La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio 8882483193, 9788882483197

Il caso Moro è (sempre stato) un labirinto, nel quale ci si perde tra le pieghe di una variopinta letteratura dedicata:

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Italian Pages 380 [320] Year 2014

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La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio
 8882483193, 9788882483197

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Bietti Heterotopia | 12

la recita della storia Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio Anton Giulio Mancino

Collana diretta da Claudio Bartolini, Ilaria Floreano, Giulio Sangiorgio Design e AD: Panaro Design Srl Impaginazione: Studio Caio Robi Silvestro Editing: Nina Leroveri © 2014 Edizioni Bietti – Società della Critica Srl, Milano www.edizionibietti.it ISBN: 978-88-8248-319-7



Indice

Prefazione 7 di Giorgio Galli La recita della Storia Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio Retroduzione 13 1. Buongiorno, morte 21 2. Moro, matto da slegare 93 3. Io, Chiara e il Passoscuro 171 4. Epilogo 257 Bibliografia 285 Indice dei film

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Indice dei nomi

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Indice delle opere

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Prefazione



di Giorgio Galli

Nell’ammirare Buongiorno, notte per la sua poeticità, mi sono chiesto se fosse proprio indispensabile, per ottenere tale poeticità, un finale così lietamente contro-fattuale, con Moro in libertà per le strade di Roma (contro-fattualità non attenuata dalle scene realistiche con la vittima bendata e da quelle documentaristiche del funerale). Il libro di Anton Giulio Mancino è anche una risposta a questo mio dubbio: una risposta brillante e minuziosamente documentata, che prende in considerazione non solo i film di Marco Bellocchio, ma quanto il caso Moro abbia colpito e influenzato gran parte della sua carriera come regista non solo cinematografico, ma anche teatrale, televisivo e di opera lirica. L’autore definisce «Moroteca di Babele» l’enorme e labirintica quantità di materiale dedicato allo studio e all’analisi (più o meno puntuali) di quei cinquantacinque giorni del 1978, e la utilizza per organizzare, attraverso un insieme di riferimenti, rimandi, coincidenze e citazioni, una struttura di indizi convergenti atti non a fornire una nuova spiegazione dell’accaduto, ma a tracciare un possibile filo che conduca fuori dal labirinto chi abbia la capacità di utilizzarlo. Mancino non è convinto della versione ufficiale sulla quale concordano magistratura e Brigate rosse, diffida della dietrologia, raccoglie tramite Bellocchio suggestioni e suggerimenti che, per quanto mi riguarda, sono del tutto compatibili con le conclusioni alle quali ero giunto in Piombo Rosso, testo nel quale collocai l’omicidio Moro all’interno di una storia della lotta armata di sinistra in Italia, della quale vengono qui citati alcuni passaggi cruciali. La complessa trama degli indizi, dispersi in tutte le pellicole realizzate dal regista bobbiese dopo il 1978 (non solo in quelle espressamente dedicate al caso Moro) rileva l’importanza decisiva degli orologi (fissati

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spesso sulle 8.55, ora dell’agguato di via Fani). Sottolinea il ricorrere, nelle diverse sceneggiature, di nomi sempre significativi come Giulia, Nina, Anna (la “carceriera” Anna Laura Braghetti, che in Buongiorno, notte diventa “Chiara”, indice di “chiarezza”) o evocativi come Passoscuro (nome di una località balneare laziale dato a un personaggio chiave del film, l’autore della sceneggiatura che Moro tiene in borsa). Mette insieme Enrico IV, il finto pazzo inventato da Luigi Pirandello e il caso Eluana Englaro, i richiami manzoniani al Cinque maggio (data di una delle lettere più commoventi di Moro alla moglie) e quelli napoleonici a Sant’Elena, nome della via nel Ghetto di Roma, a due isolati da via Caetani, dove le BR fanno ritrovare il corpo del presidente del consiglio nazionale della DC. L’epilogo del libro conferma la mia motivata convinzione «che Moro sia stato detenuto nel centro di Roma, presso il Ghetto, in condizioni accettabili e in località vicina a via Caetani». In La recita della storia, che è anche una dettagliata rilettura di atti giudiziari, si cita un enigmatico testimone di nome “Anna” che parla del luogo di detenzione definendolo “di massima sicurezza”, mentre un’altra Anna (la brigatista Braghetti) parla della “fortuna” che avrebbe favorito il successo dell’assalto di via Fani. In realtà l’uso capovolto del linguaggio ufficiale («carcere di massima sicurezza») e il riferimento alla fortuna sembrerebbero sottintendere agevolazioni, finora insospettate, fornite alle BR da chi intendeva provocare una crisi provvisoria che stabilizzasse definitivamente un sistema politico a matrice democristiana, messo in difficoltà dalla spinta a sinistra del decennio 1968-1978. Lo stesso fratello di Aldo Moro, Alfredo Carlo (magistrato che, tra l’altro, ha redatto la sentenza di primo grado su un altro caso oscuro, il delitto Pasolini, imputandolo a più persone), segnala che la vittima, che soleva camminare molto, il 9 maggio (giorno del ritrovamento del cadavere) aveva una muscolatura normale, incompatibile con cinquantacinque giorni di immobilità, come era inverosimile che un uomo che si fosse lavato per tanto tempo solo con l’acqua di una bacinella, come attesta la versione ufficiale, potesse essere così pulito. I quasi due mesi trascorsi nel cubicolo di via Montalcini sono evidentemente un’invenzione, anche perché il corpo di Aldo Moro non avrebbe potuto essere trasportato con tanta facilità per più di dieci chilometri lungo le strade di una Roma super presidiata e senza che questo corpo, colpito a morte poco tempo prima del ritrovamento (al contrario di quanto detto nella versione ufficiale) rimanesse immobile nel bagagliaio. E ora vi è anche chi testimonia che Cossiga giunse sul luogo ben prima di quanto a suo tempo affermato. L’epilogo della tragedia indica dunque una “prigione del popolo” in un palazzo romano vicino a via Caetani, un luogo “di massima sicurezza” fornito alle BR da simpatizzanti mai identificati.

Nella sua prima lettera da prigioniero, Moro scrive la famosa frase «Mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato». Leonardo Sciascia, in L’affaire Moro, suppone volesse indicare la sua detenzione in un luogo insospettabile e che non si pensava di controllare («incontrollato», non “incontrollabile”). Nel libro Mancino rievoca l’appunto di Moretti su una marchesa e la strana vicenda coinvolgente l’attrice Anna Bonaiuto. Dall’esistenza di legami tra Moretti e la nobiltà, segnalati dal senatore Sergio Flamigni nel suo libro-inchiesta La sfinge delle Brigate Rosse, quest’ultimo deduce che l’operazione delle BR fosse manovrata dai servizi segreti. Io ritengo invece che si sia svolta in totale autonomia, anche se con qualche aiuto esterno, e penso che le BR godessero di sostegni tuttora non valutati appieno. A questo proposito è utile quanto dice lo stesso Moretti nell’intervista rilasciata a Rossana Rossanda e Carla Mosca in Brigate Rosse. Una storia italiana (e concordo che sia una storia italiana: CIA e KGB non si preoccupavano di Moro, che peraltro non voleva portare il PCI al governo, ma solo far “passare la nottata” della DC). Quando gli si ricorda la frase «Si disse che forse conteneva indicazioni per farlo trovare», Moretti spiega: «Si sono dette cose strane. Moro voleva dire: dietro a questi non c’è nessuno, non li controlla nessuno». Può essere. Ma è valida anche l’ipotesi di Sciascia, così corretta: non un con-“dominio”, ma un luogo confortevole, che nessuno pensa di controllare. Più in generale, la risposta di Moretti su via Montalcini è illuminante. Rossanda e Mosca chiedono: «L’appartamento di via Montalcini, dove Moro sarebbe stato tenuto prigioniero, l’avete comprato?». Moretti risponde: «Non dove Moro “sarebbe” stato tenuto, ma dove “è” stato tenuto. Da lì non è mai stato spostato». Il condizionale usato dalle intervistatrici indica che anche loro condividono i dubbi, già molto diffusi, circa il luogo di detenzione. La perentoria risposta di Moretti presuppone, per contro, che il tema sia intoccabile e che se avessero insistito nel voler chiarire la scelta del “sarebbe”, l’intervista non sarebbe proseguita. Quindi Rossanda e Mosca sorvolano, limitandosi ad accertare un fatto insignificante: le BR hanno comprato molti appartamenti, certamente anche quello di via Montalcini. Ma davvero Moro era lì? C’è un altro passaggio significativo da un’altra lettera: all’ipotesi avanzata dai suoi amici che Moro scriva sotto costrizione, il presidente della DC replica: «Non ho subìto nessuna costrizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia». L’accenno alla calligrafia è inusuale. Sempre il fratello dirà che Moro aveva una brutta calligrafia, ma che le lettere inviate dalla prigione erano scritte meglio del solito. Elemento, questo, che riconferma una volta di più le con-

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dizioni di “normalità” della detenzione, per cui Moro non sarebbe stato costretto a scrivere sul letto, tenendo i fogli appoggiati sulle ginocchia. Mancino accenna inoltre all’ipotesi che Moro disponesse addirittura di una biblioteca. Moretti aveva spiegato: «Non c’è spazio per un tavolo vero e proprio. È un vano angusto, non è stato costruito per farci passeggiate. Sappiamo di obbligare Moro a un grosso disagio, ma sappiamo anche che nei tempi brevi è sopportabile, non sono queste le cose che contano per uno che è sequestrato. Per quanto possiamo, diamo a Moro ogni cosa che chiede o di cui pensiamo che abbia bisogno: lo trattiamo, in questo, meglio di come trattiamo noi stessi… Abbiamo il dovere di trattarlo come la persona più cara al mondo». Mi pare eccessivo, una excusatio non petita, accusatio manifesta, ammissione implicita delle troppe contraddizioni della versione brigatista. Insomma, la “prigione” vicino a Sant’Elena è il filo da seguire per uscire dal labirinto della «Moroteca di Babele» e capire la storia italiana delle Brigate rosse al punto più alto della sua parabola. Una storia italiana per comprendere, anche attraverso il cinema di Marco Bellocchio, la storia d’Italia, insieme di enigmi pirandelliani e, per chi si accontenta, di consolazione manzoniana.

A Rosa, che mi ha insegnato a vedere i film di Bellocchio in modo più istintivo, e a Samira, cui ho sottratto ore preziose di gioco, e che mi ha spesso suggerito di riscrivere frasi incomprensibili.

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Retroduzione



«Gli eventi si generano in una storicizzazione primaria, in altri termini la storia si fa già sulla scena dove la si reciterà una volta scritta, nel foro interno come nel foro esterno.» Jacques Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi

Come spesso accade paradossalmente con le introduzioni, anche questa è stata concepita a cose fatte, cioè a libro quasi terminato. La ragione è semplice. Una volta giunti al sospirato traguardo è possibile individuare con maggiore cognizione di causa il filo conduttore dell’intero percorso. Chiamare dunque “introduzione” una cosa scritta dopo ci è sembrato poco appropriato. Data la specificità di questo viaggio nella filmografia di Marco Bellocchio, alla ricerca di ogni possibile segnale riconducibile al caso Moro, abbiamo optato per una Retroduzione: ecco la dicitura per molti versi più opportuna. Tecnicamente parlando, perché l’abbiamo scritta ex post e perché il suo contenuto riflette una consapevolezza retrospettiva, distanziata, serena. Ma è altresì chiaro che qui con l’espressione “retroduzione”, inteso come classico «ragionamento dal conseguente all’antecedente» che «peraltro non dà certezza»,1 ci stiamo rifacendo a uno dei momenti centrali dell’opera di Charles Sanders Peirce, in modo particolare a uno dei motori del ragionamento abduttivo che tanta parte ha sempre avuto nella sua filosofia.2 In modo particolare per quel che riguarda l’espressione «enquiry», intesa come “indagine” o “inchiesta” in tutte le sue possibili varianti e applicazioni «detective»,3 in cui è giocoforza che l’abduzione e la retroduzione siano processi inscindibili, quasi completamente sovrapponibili. Come funzionerebbe del resto un’abduzione, se non per retro-duzione?

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Uno dei fondamentali vantaggi che comunque sia una retroduzione offre è quello di dare spazio da subito ai ringraziamenti. Che non sono una formalità o un atto di cortesia. Questo libro non esisterebbe o non avrebbe trovato la sua forma definitiva senza un confronto continuo con tanti colleghi, amici ed esperti interpellati per ricevere pareri, suggerimenti, incoraggiamenti, ma soprattutto obiezioni su ogni singolo aspetto riguardante la stesura del testo, l’uso delle fonti, la verifica delle stesse, la forma del discorso da adoperare, che ci auguriamo possa risultare sufficientemente rigorosa, ma nella giusta misura scorrevole, a chi avrà la pazienza di affrontare la lettura. Insomma la sintesi di una metodologia di ricerca (che crediamo vada più nella direzione di una proposta, di un inizio, di un auspicio) e di un esercizio concreto di scrittura entro certi limiti didatticamente efficace e leggibile. Verso quale migliore orizzonte allargare la prospettiva di un libro di cinema che in fondo, dati gli argomenti concomitanti e a nostro giudizio inseparabili (il caso Moro e il caso Bellocchio) prova a fare i conti non soltanto con l’immenso e incontenibile «piacere del testo»,4 ma anche, ove si renda necessario, con i fatti storicamente accertati e le ipotesi e le analisi politiche a essi connessi? Qualora un simile obiettivo abbastanza pragmatico fosse stato qui raggiunto, anche solo in percentuale molto ridotta, sarebbe di per sé motivo di profonda soddisfazione. Ovviamente non sta a noi stabilirlo, per giunta con effetto retroattivo. Quindi, come non esprimere tutta la gratitudine, da subito, come premessa organica di quanto seguirà, a coloro i quali hanno accompagnato la lunga gestazione di un libro come questo, che contrae sin dal titolo un piccolo e immodesto debito con Lacan? Innanzitutto è con affetto e riconoscenza che va ricordato il contributo prezioso ricevuto da storici e studiosi del caso Moro: Paola Magnarelli, Giuseppe De Lutiis, Giovanni Sabbatucci, Giovanni Pellegrino, Filippo Ceccarelli, e, naturalmente, Sergio Flamigni e Ilaria Moroni, cui devo la consultazione di documenti provenienti dall’Archivio Flamigni. Un ringraziamento particolare va anche al sempre cortese e disponibile Marco Bellocchio, cui ci siamo rivolti con discrezione proprio perché questo è un libro che si proponeva di portare avanti un approccio di tipo interpretativo ai testi e aveva, di conseguenza, bisogno di mantenere una certa autonomia. Né vanno dimenticati cari amici e colleghi estremamente competenti sul fronte sia cinematografico che storiografico, consultati direttamente o indirettamente, occasionalmente o per confronti puntuali, bontà loro, come Gianni Canova, Carla Capetta, Francesco Casetti, Goffredo De Pascale, Giorgio De Vincenti, Beppe Ferrara, Peppino Ortoleva, Tatti Sanguineti, Piero Spila, Dario Edoardo Viganò. Né a quest’elenco, per scontate ragioni approssimativo per difetto, possono mancare Danilo Arona, Giovanni Berardi, Adele Cambria, Mario Canale, Anna Di Martino, Tino Franco, Claudio Gaetani, Mauro Gervasini, Sebastiano Gesù, Giuseppe Ghigi, Gabriele Giuli, Hans-Georg

Grüning, Paola Malanga, Toni Mira, Pierfranco Moliterni, Pietro Montani, Emiliano Morreale, Cristiana Paternò, Luigi Maria Perotti, Barbara Perversi, Adriano Piccardi, Patrizia Picciacchia, Marina Piperno, Patrizia Pistagnesi, Angela Prudenzi, Andrea Raffaele Rondini, Maurizio Sciarra, Pasquale Scimeca, Filippo Silvestri, Lucrezia Viti. Che dire già in questa introduzione? O ancora, in chiave retroduttiva? Bisognerebbe accennare non tanto al libro, che può dirsi concluso dopo quattro anni di incessanti riscritture e revisioni, tra slanci e ripensamenti fisiologici, pause e riprese cicliche. Il pensiero corre piuttosto al libro che avrebbe dovuto essere in partenza. Questo libro nasce all’incirca nel 2010 (da non credersi) come rielaborazione di interventi già pubblicati in precedenza (e che all’occorrenza vengono citati nell’apparato) e dedicati a diversi film o questioni-chiave bellocchiane. L’idea originaria era di raccoglierli secondo un ordine non cronologico né tematico, ragionando piuttosto sulla filmografia del regista bobbiese muovendo da alcune figure emblematiche attorno alle quali si organizzava un “sistema operativo”: Marlon Brando, Giuseppe Verdi, William Shakespeare, Franco Basaglia, Anton Čechov, Massimo Fagioli, Luigi Pirandello, Alessandro Manzoni, Giovanni Pascoli, Dante Alighieri, Benito Mussolini… A grandi linee, esisteva materiale sufficiente per ogni capitolo. Mancava una sistemazione generale che fornisse una dimensione organica a questi suggestivi, inusuali medaglioni e, a completare il disegno d’insieme, un capitolo dedicato ad Aldo Moro. Capitolo doveroso, dato che nel 2003 Bellocchio gira un film che racconta con insospettabile “linearità” la dolorosa parabola del suo sequestro. Possibilmente non troppo lungo ed equilibrato rispetto agli altri. Prima di arrivare a Moro diventava allora necessario rivedere in ordine tutti i film di Bellocchio, stavolta sì in ordine cronologico, annotando qualsiasi spunto, in assoluta libertà. E così è stato: i film degli anni Sessanta, degli anni Settanta, quindi degli anni Ottanta. Arrivati a Enrico IV, cioè al 1984, è successo qualcosa. Poiché nel frattempo concomitanti occasioni di studio e di analisi comparate avevano richiesto un approfondimento sul delitto Moro, comincia a insinuarsi in me l’impressione che in questo film, apparentemente basato sul dramma di Pirandello, ci fossero elementi indiziari o allusivi proprio al caso Moro. Quindi, che la filmografia di Bellocchio giocasse d’anticipo e avesse un significato strategico in grado di investire con maggiore o minore intensità tutti i suoi film dal 1978 in avanti. In altre parole, il film esplicitamente dedicato al caso Moro era sempre uno, quello del 2003, ma probabilmente il fantasma di Moro aleggiava su un intero corpus filmografico. Questa ipotesi interpretativa doveva fare i conti però con una serie di riscontri puntuali e richiedeva la disponibilità a lasciarsi andare a numerosi elementi fattuali che avrebbero reso alquanto impegnativa la sfida non pregiudiziale dell’estensione del senso, senza quindi cercare la totale e subalterna conferma

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da parte dell’autore. Il progetto era già in corso, e cresceva su se stesso, a dismisura, prima che diventasse chiara l’impossibilità di attenersi al “vecchio” impianto di partenza, ormai improponibile. Era arrivato il momento di accantonarlo, non senza un certo rammarico. Il caso Moro nel cinema di Bellocchio, come si è scelto alla fine di sottotitolare La recita della storia, era diventato un fatto compiuto, specifico, centrale. Un punto di non ritorno. Non restava che accettare il corollario immediato e metodologico di questa scelta di campo, di cui avremo modo di dare conto (o piuttosto di cui abbiamo già dato conto in questo libro, per quanto ci riguarda giunto al traguardo): la completa autonomia rispetto al confronto diuturno con Bellocchio, peraltro molto disponibile, onde evitare l’insidioso e fuorviante meccanismo di assenso/dissenso cui spesso gli studiosi incorrono quando si occupano di un autore. Le dinamiche di accordo/disaccordo avrebbero comportato un’improduttiva logica di gratificazione e mortificazione, apertura e censura, approvazione e disapprovazione, conferma e smentita, convalida e invalidazione di un’indagine che necessariamente – avventurandosi lungo percorsi testuali e intertestuali, linguistici, inconsci e partendo dal presupposto che l’inconscio si strutturi come un linguaggio – non poteva e soprattutto non doveva dipendere dal grado di autoconsapevolezza nell’autore cinematografico della meccanicità o della procedura del senso. In fondo questo libro, innestando il caso Moro nel cinema di Bellocchio e viceversa, smetteva di essere una monografia su un autore particolare per farsi analisi culturale e stilistica di un avvenimento storico-politico determinato e determinante (specialmente nella prospettiva allargata che chiama in causa valide opportunità di circolazione e negoziazione dei saperi e dei discorsi sociali, secondo le migliori intenzioni dei cultural studies,5 donde il ripensamento dei film studies anche in ambito accademico nazionale).6 Il corpus filmico di Bellocchio crediamo si presti molto bene a questa prova. La resistenza alle classificazioni di molti suoi film, gli scantonamenti e l’incostanza dell’autore hanno messo spesso in seria difficoltà i critici, e talvolta anche gli storici del cinema, nel momento in cui reclamavano schemi ideologici consentiti, esistenti, pratici. In Bellocchio invece sono importanti le fratture, cioè l’effetto di una discontinuità persistente (la «piega», direbbe Deleuze),7 il corrugarsi di una superficie che non è mai completamente liscia, piatta e uniforme. Né tantomeno percorribile, chiusa, circoscritta. Non si tratta di cercare l’unità nell’opera – come una volta la si cercava invano nell’Orlando Furioso a dispetto della sua irriducibile, perfetta, immaginativa varietà – quanto di registrare e seguire con maggiore profitto gli strappi, le inversioni di rotta, gli apparenti ritorni. Collocarli su un asse storico, cosa che forse offre una sponda più solida e non comporta alcun impegno di sintesi. Anche se una coerenza c’è: principalmente una coerenza storica, appunto. Ancora meglio, una coerenza di rapporto con la storia, fondato su

un principio di insofferenza, spinto alla ribellione e al gesto antiautoritario che, in questo caso, si rivela indispensabile. Dopotutto di quale storia parliamo? Per usare una metafora un po’ greve, possiamo dire che la storia italiana che conosciamo è come un dispositivo informatico che funziona poco e male. Ci sono file danneggiati dappertutto, lo stesso sistema operativo appare assai poco aggiornato e soprattutto sovraccarico, invaso da una miriade di virus di ogni ordine e provenienza, con un sistema di protezione che non riesce a farvi fronte o addirittura sembra essere stato installato in modo sbagliato o, peggio ancora, proprio per consentire ai virus di fare danni, quasi fosse un virus camuffato da antivirus. Una storia da cui si ricava, specialmente dopo forti scosse e stravolgimenti, peraltro momentanei, l’impressione ingiustificata e sempre più precaria e insostenibile che tutto possa prima o poi riprendere e andare per il verso giusto. Purché non la si sforzi troppo, come un computer affaticato e non di ultima generazione, e si venga incontro alle sue disfunzioni, ai suoi tempi, alle sue modalità d’impiego convenute. In questo contesto il cinema di Bellocchio si colloca di traverso. Obbedisce da sempre a un processo scandito da dipendenze che cambiano di volta in volta e si rigenera andando da una (in)fedeltà ideologica, politica, psicologica e culturale all’altra. L’autore nei suoi film non ha mai rinnegato l’impronta della realtà politica circostante e dominante, sin dal principio, trattata secondo regole proprie, interne, chiaroscurali. La politica, intesa come posizione rispetto alla quale collocarsi, rappresenta un riferimento fondamentale e irrinunciabile. Ancorché malvolentieri voluto o dispettosamente eluso, c’è sempre. E il caso Moro in questo senso diventa la cartina di tornasole attorno alla quale abbiamo tentato di costruire un progetto di analisi e interpretazione globale e non, come potrebbe sembrare, monotematico e rigidamente contenutistico. Perché è proprio la forma dei film, il nudo e dinamico significante, a fare la differenza tra il dicibile insufficiente e l’indicibile spinto alle estreme conseguenze. Sebbene, rispetto a tutto ciò che nei film di Bellocchio accade prima del 1978, aumenti il bisogno di marcare le distanze dal discorso politico, di affrontare il sistema delle relazioni umane in una chiave più ampia: una chiave anche politica ma non esclusivamente politica. Come per ritrovare, dalla seconda metà degli anni Settanta e soprattutto dagli anni Ottanta, una prospettiva e uno stile di relazione audiovisiva con il mondo, un sistema di immagini liberate dove l’elemento autobiografico diventa essenziale per costruire un paradigma sia filmico che autoreferenziale, in cui la componente privata e psicanalitica arricchisce e dissimula anziché snaturare o invalidare (come si sarebbe detto una volta, in accezione molto ideologica) quella strettamente e pedissequamente politica. Il superamento della politica non c’entra, specialmente nella cornice del caso Moro. Al contrario: senza il vincolo univoco e condizionante della

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politica, ovvero senza il “dover essere” politico imposto da un contesto di lotte e di militanza attiva, prima, e da una progressiva istituzionalizzazione di queste antiche e rimosse vocazioni, poi, il cinema di Bellocchio acquista una valenza politica consapevolmente più disinvolta, emancipata, lucida. Non più assoggettata o assoggettabile. Ogni film, riconducibile inequivocabilmente a un preciso momento storico-politico, con il quale interagisce proprio in virtù della sua intrinseca politicità, prende le mosse dal bisogno apparentemente inconscio, invero molto nitido, di esprimere disagio, malessere, opposizione nei confronti dell’autorità costituita o di assetti convenzionali, di canali di comunicazione ufficiale o di modelli culturali ed ideologici egemoni: i bersagli possono via via differire – essere di tipo familiare, religioso, politico o istituzionale in genere – ma assai più spesso coincidere. Il caso Moro, nella sua ufficialità e massima, involuta espansione mediatica, è uno di questi. Eppure è da qui che prende le mosse un mosaico di segnali sparpagliati in varie pellicole spesso insospettabili, ora diretti ora allegorici, dove i fantasmi psichici, privati, politici, psicanalitici delineano una perfetta, reiterata “recita della storia”: che non è solo la storia del cinema italiano, ma, senza soluzioni di continuità, quella dell’Italia tout court, dietro la quale si agitano ombre, rifiuti, rievocazioni. Una contro-storia alla maniera di Bellocchio, una “storia recitata” segnata dalla “macchina-cinema” e dagli effetti di lunga durata sulla psiche e sull’immaginario di questo dispositivo. Una storia attraversata da dipendenze politiche individuali e collettive, dunque ideologiche, psichiatriche, o da altrettante tensioni religiose eterogenee destinate a riprodursi all’infinito e ad essere nei suoi film sistematicamente smontate. Sul versante più cinematografico si va dall’eredità viscontiana contesa al confronto imposto dall’esterno con Bernardo Bertolucci, mentre su quello della storia implicita interna/esterna le tappe salienti sono il fascismo più o meno involontario e perdurante, il Sessantotto, la strategia della tensione, la militanza attiva, l’utopia antipsichiatrica, l’analisi collettiva, il cattolicesimo domestico e nazionale, il marxismo, il marxismo-leninismo e il maoismo. Cioè l’egida della chiesa cattolica onnipresente, il magistero nazional-popolare del PCI, la stretta osservanza dei dogmi di “Servire il Popolo”, poi la lotta armata che conduce al delitto Moro dai contorni molto oscuri. A proposito del caso Moro e dell’ampia documentazione utilizzata ci limitiamo a un’ultima avvertenza di carattere bibliografico. Si è preferito, ove i documenti siano poi stati pubblicati e commercializzati, evitare di fare riferimento direttamente alla fonte parlamentare. Il ricorso agli Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia (d’ora in avanti Commissione Moro, per quanto riguarda la Commissione specifica, e ACM, per gli atti e i documenti da essa prodotti e pubblicati), Senato della

Repubblica, VIII Legislatura, Tipografia del Senato, Roma 1984, è circoscritto solo ai documenti inediti nella loro integralità. Almeno per quel che ne sappiamo. Lo stesso principio vale per i documenti e i materiali provenienti dagli Atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulla mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Senato della Repubblica, XIII legislatura (d’ora in avanti Commissione Stragi, per la Commissione, e ACS, per gli atti e i documenti da essa prodotti e pubblicati), Tipografia del Senato, Roma 1991. I libri sul caso Moro che hanno (avuto) la precedenza nel nostro apparato sono quelli dichiaratamente adoperati da Bellocchio o realisticamente disponibili prima e durante la realizzazione dei film citati. Eventuali confronti, cui non ci siamo sottratti, con libri pubblicati in seguito dovrebbero essere invece materia di attenta riflessione. Detto altrimenti: i testi successivi al 2003 sono presi in considerazione in ragione dell’effetto anticipatore o del valore documentale dello specifico film di Bellocchio sul caso Moro o degli altri, al plurale, che crediamo vi facciano riferimento. Non c’è altro. Il libro, almeno dal nostro punto di vista, può ri-cominciare.

Note 1 C. S. Peirce, The Collected Papers, Harvard University Press, Cambridge (Massachusetts) 1960 (tr. it. Opere, Bompiani, Milano 2003, p. 1246). 2 In N. Rescher, Peirce’s Philosophy of Science, University of Notre Dame Press, Notre Dame (Indiana) 1978, p. 3: «Peirce gave the name of retroduction to this process of eliminating hypotheses by experential/experimental testing. Qualitative induction is thus the collaborative meshing of abduction and retroduction, of hypothesis conjecture and hypothesis testing». 3 Cfr. M. A. Bonfantini, G. Proni, To Guess or Not to Guess?, in U. Eco, T. A. Sebeok, The Sign of Three. Dupin, Holmes, Peirce, Indiana University Press, Bloomington (Indiana) 1983 (tr. it. Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, Bompiani, Milano 1983; 2004, pp. 137-155); M. A. Bonfantini, Peirce e l’abduzione, in C. S. Peirce, Opere, cit., pp. 289-307. Per una specifica applicazione del paradigma al cinema italiano, cfr. anche A. G. Mancino, Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano, Kaplan, Torino 2008 e Id., Schermi d’inchiesta. Gli autori del film politico-indiziario italiano, Kaplan, Torino 2012. 4 Cfr. R. Barthes, Le plaisir du texte, Éditions du Seuil, Parigi 1973 (tr. it. Il piacere del testo, Einaudi, Torino 1975). 5 Cfr. W. Uricchio, Cultural studies: una visione d’insieme, in G. P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale. Teorie, strumenti, memorie, vol. V, Einaudi,

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Torino 2001, pp. 542-560; D. Forgacs, Cinema e cultural studies, in E. De Blasio, D. E. Viganò (a cura di), I film studies, Carocci, Roma 2013, pp. 65-70. 6 Cfr. G. De Vincenti, L’“impegno” e i nuovi scenari per lo studio del cinema e degli audiovisivi, in E. De Blasio, D. E. Viganò (a cura di), I film studies, cit., pp. 17-40. 7 Cfr. G. Deleuze, Le pli. Leibnitz et le Baroque, Éditions de minuit, Parigi 1988 (tr. it. La piega. Leibnitz e il Barocco, Einaudi, Torino 1990).

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Buongiorno, morte



«Io affermo che la Biblioteca è interminabile» Jorge Luis Borges, La biblioteca di Babele

La Moroteca di Babele Può lo spirito di un defunto dirigere un film, seriamente? Magari per interposta persona, dando le indicazioni necessarie di regia durante una seduta spiritica? Sembra uno scherzo, un’assurdità, ma non lo è. Uno spunto farsesco? In un certo senso. Magari una follia, visto che di follia vera o di comodo si parlerà spesso in questo libro che adopererà un apposito filtro bellocchiano per tornare sulla scena del caso Moro. Qualunque cosa sia, farsa o follia, non sarebbe la sola nella storia italiana molto recitata, altamente improbabile, ineffabile e ipotetica. Che ricavandone linfa vitale si avvita sui suoi misteri, le sue trame, le sue leggende, le tante, troppe, ripetitive coincidenze veritiere, verosimili e inverosimili. Nei labirinti vertiginosi del caso Moro si è addirittura perso il conto della variegata e variopinta letteratura: storiografica, politica, processuale, d’inchiesta, romanzesca, fantapolitica. Addirittura, come vedremo, fantascientifica. Insomma di ogni tipo: logica o per ovvie ragioni dietrologica, talvolta para-logica. Non manca ricorrenza in cui, come nel 1988, per il decennale, o specialmente nel 2003 e nel 2008, rispettivamente in occasione del venticinquennale e del trentennale della morte del presidente democristiano, le posizioni in campo e le chiavi di accesso, le letture e le riletture non si moltiplichino, accavallandosi, scontrandosi, correggendosi a vicenda.

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Da un lato, persisterebbe la scelta di ribadire a oltranza, prontamente, la perfetta equazione tra verità storica e verità giudiziaria, minimizzando ogni intemperanza critica o interpretativa di segno opposto. Vale a dire gettando sistematicamente acqua sul fuoco alimentato dai cosiddetti dietrologi.1 Un fronte nemmeno così omogeneo come si potrebbe credere quello dei dietrologi, i quali non marciano neppure sempre uniti, divergendo su singoli aspetti dell’intricata e modulare vicenda,2 rendendo non meno impervia e discontinua la prassi del ribaltamento di verità giudicate all’unisono fragili, incongruenti e accomodanti. Dall’altro, accanto alle divaricazioni prevalenti, prende forma una galassia spesso scomposta di angolazioni prospettiche e di percorsi paralleli, alternativi, ora analitici, ora sintetici, ora parziali. In questo sconcertante alveo segmentato confluisce praticamente tutto e il contrario di tutto, materiali svariati e personaggi maggiori o minori, rendendosi quindi necessari strumenti e approcci enciclopedici.3 Senza contare modalità di intervento contestuali e contemporanee che, coniugando accurati presupposti filologici e conclamati obiettivi storiografici,4 puntano a mantenere prudenti e dotte distanze di sicurezza dalle due principali, inconciliabili scuole di pensiero dei dietrologi e degli spiegazionisti. Non è escluso che in questo complicato e insidioso intrecciarsi e diramarsi di strade, giri di vite, posizioni rigide, suggestioni univoche o deterministiche sottoposte a smussamento, serpeggi, inconfessabile o scientificamente mimetizzato, un cauto, ambiguo, benpensante desiderio di compromesso. Un compromesso indolore, inimmaginabile anche solo qualche anno fa. A quanto pare il caso Moro si adegua ai tempi e ai cambiamenti sociali, politici, economici. Come se, sulla scorta del lento logoramento multilaterale delle parti in commedia e di un’esigenza di normalità ad ampio spettro, si volessero creare i presupposti normalizzanti per l’elaborazione di un “provvidenziale” minimo comune denominatore di verità. All’occorrenza puntellato da piccole ma rassicuranti argomentazioni certosine, sostenute con competenza a margine dei testi. Non è facile prevedere dove andrà a parare un giorno questa tentacolare Moroteca di Babele, da quarant’anni cresciuta su se stessa, incontrollabile e incontrollata, che ha trasceso i confini nazionali sin dal principio: una specie di sottogenere, non soltanto letterario, capace di accorpare libri, atti parlamentari, documenti secretati e de-secretati, interviste e deposizioni di testimoni che vanno e che vengono, voci di corridoio, leggende metropolitane, fumetti, supplementi di informazione, periodici satirici di controinformazione o per soli uomini, programmi televisivi, film destinati al circuito cinematografico, film per la televisione, siti Internet, blog, spettacoli di ogni tipo, origine e attendibilità, che si richiamano a vicenda, si contraddicono, si smentiscono, sgomitano a ritmo frenetico inseguendo

anniversari, opportunità di mercato, metodologie di studio vero o presunto. A torto o a ragione la matassa morotea dimostra con peso specifico, quantità e mole sempre crescenti in quale misura l’Italia è disposta a sopportare o persino a capitalizzare la propria verità storica deficitaria, discutibile, incongruente. E a stare al gioco, tra le pieghe di quell’oggetto insidioso di ricerche, supposizioni, immaginazioni, ora trascritto e invocato con l’iniziale maiuscola: la Storia, o con la minuscola: la storia. Ad ogni modo un oggetto del contendere sempre possibile, parallelo, altro. Che a un tratto si incapriccia, si attorciglia, si rende inestricabile come nel caso Moro, resistendo al tempo e nel tempo, al di qua o al di là della soglia degli avvenimenti. Un dato è incontrovertibile: che l’Italia sembra starci alle sintomatiche farse, e alle pretese follie crede e non crede. Con uguale passione, uguale pigrizia, uguale noncuranza. Uguale rassegnazione. Poiché di sicuro si finisce per credere a tante cose a forza di vederle orchestrare, promuovere, dimenticare, tornare in auge. Si può scegliere di credere anche per quieto vivere. Oppure plausibilmente non se ne può proprio più. Non è che sia vietato insistere su come e perché le cose siano o non siano andate in un certo modo, rincarando la dose. Ma, di fronte a ogni nuovo capovolgimento clamoroso destinato a ingrossare le fila degli esperti o dei bene o male informati, decennio dopo decennio, come vale la pena di reagire? E che differenza fa? Cosa cambia o può ancora cambiare? L’Italia oltretutto continua a essere un soggetto poco adatto a reggere una qualsiasi proposizione di senso compiuto. Meglio servirsene come complemento di luogo: in Italia. L’Italia di ieri, di oggi, contemporanea, estemporanea, intesa come soggetto (per quanto improbabile, generico, qualunquista) o come complemento di luogo (almeno per ragioni di sostenibilità del discorso), non fa che legittimare la voglia di restare aggrappati ad alcune certezze o di perseverare nella ragione del dubbio. Di accettare in un preciso istante una versione dei fatti, salvo convincersi dopo un po’ dell’esatto contrario, diventando a un tratto opportuno sospendere ogni giudizio. O magari di voltare pagina. Comunque sia di smettere insistentemente di riannodare fili troppo lunghi e aggrovigliati, talvolta per eccesso di conoscenza, tal altra per difetto.

Il caso Bellocchio Anche la filmografia di Marco Bellocchio, dal 1978, come cercheremo di spiegare, si addentra nei meandri del caso Moro. Ne riflette da oltre trent’anni gli snodi principali, vi fa cenno a più riprese, prendendo di petto o cercando di liberarsi di questo gravoso fardello nazionale. Lo fa interfacciandosi dichiaratamente e direttamente o nei modi più impensati e indiretti con un coacervo di contributi di varia provenienza che spesso

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inducono a reagire quasi con sufficienza all’insufficienza congenita e inossidabile di verità che ne pervade e mina il decorso. E che con il tempo ha generato un effetto comprensibile di sazietà e di congestione diffusa, da cui sarebbe opportuno, bello, bellocchianamente liberatorio all’improvviso liberarsi. Come dalla sovraesposizione o dalla sottoesposizione ai fatti stessi: tanti microscopici, pochi macroscopici. Concentrati nell’arco di decenni, o di pochi anni, mesi, giorni, ore, minuti che si rincorrono. Interamente o in parte quasi tutti i film che Bellocchio dirige dal 1978 rievocano e cronometrano in diverse occasioni e circostanze lo svolgimento del delitto Moro, fino a trascenderne l’arco cronologico reale: dalle 8.55 del 16 marzo alle 12.10 circa del 9 maggio 1978, dall’ora e dal giorno in cui il presidente esce di casa per non farvi mai più ritorno all’ora e al giorno in cui giunge la telefonata con cui le Brigate rosse indicano dove poter recuperare il cadavere, ecco che i cinquantacinque giorni estenuanti del sequestro rimbalzano da un film all’altro, tra fiction e non-fiction, contraendosi per adattarsi alla durata della proiezione/trasmissione oppure dilatandosi a dismisura per proiettarne l’ombra sul presente e sul passato. Con Bellocchio questo piccolo frammento temporale acquista sullo schermo (che ne restituisce la singolarità e ne accresce l’istanza interpretativa) i contorni di un’esperienza collettiva virtuale i cui effetti collaterali di lunga, interminabile durata postulano all’orizzonte l’augurale scatola nera del maggiore “pasticciaccio brutto” della storia repubblicana. Ma non impediscono che un abisso in perenne buono stato di salute continui a connotare un interminabile, resistente periodo buio che addirittura prospera sotto la luce accecante dei riflettori, ai quali non basta irradiarne bruscamente ogni controverso, sconosciuto o mal conosciuto recesso perché si arrivi prima o poi a far pienamente luce. A questa luce che manca, subissata dal buio dei processi celebrati nelle sedi giudiziarie, se ne aggiunge un’altra, consueta, complementare, tutt’altro che metaforica: quella della sala cinematografica in cui il buio per antica consuetudine spinge lo spettatore, prigioniero immobilizzato, consenziente e desiderante, a convogliare completamente la propria attenzione sul grande schermo illuminato dal film che si proietta: È quindi la loro [degli spettatori] paralisi motoria, l’impossibilità di lasciare il posto dove si trovano che, rendendo loro impraticabile la prova di realtà, favorisce il loro errore e li porta effettivamente a scambiare per reale il feticcio, o forse la sua rappresentazione, la sua proiezione sullo schermo formato dalla parete visibile della caverna, dal quale non possono distogliere lo sguardo, né possono volgersi altrove. Sono legati, avvinti, incatenati allo schermo – una relazione, un prolungamento reciproco che dipende dalla loro incapacità di allontanarsene. Ultima visione prima di addormentarsi [corsivo nostro].5

La riflessione sul dispositivo e sull’immaginario cinematografico degli anni Settanta, che è di sicuro un «tragico modo di considerare il cinema»,6 attraversa e ipoteca del resto numerosi film di Bellocchio. In particolare Buongiorno, notte (2003) sulla cui manifesta configurazione intermediale7 avremo modo di tornare. Detto altrimenti alla base di quest’unico film interamente dedicato dall’autore al caso Moro c’è il cinema. Perché è al cinema, in cui le tecniche di ripresa e di proiezione determinano le traiettorie e le relazioni degli sguardi coinvolti, predisposti e interpellati8 (del regista e dell’attore, prima, e dello spettatore, dopo), che si riallaccia anche l’utilizzo coerente e costante in Buongiorno, notte di immagini di altri film esterni/interni, in grado di innescare e strutturare in autonomia ulteriori processi: processi psichici (quelli della brigatista Chiara) accanto a terribili processi concreti assai simili a pratiche psichiatriche (il farneticante processo “proletario” delle Brigate rosse ad Aldo Moro). Ma anche perché al cinema inteso come luogo fisico deputato a veicolare la tensione continua tra luce e buio (Buongiorno/notte), tra realtà e immaginazione (ugualmente cinematografica), rimanda il covo brigatista in cui Chiara, dopo aver a lungo spiato Moro, può permettersi alla fine di prendere sonno. «Ultima visione prima di addormentarsi», appunto. Al cospetto di Moro il cinema secondo Bellocchio, tragicamente, non può essere che questo. La conferma arriva con Bella addormentata (2012), che con Buongiorno, notte intrattiene un rapporto di emblematica continuità. E in cui ci accorgiamo di quali e quanti siano i potenziali luoghi equivalenti o sostitutivi della sala cinematografica predisposti per accogliere soggetti dormienti che forse non potranno/vorranno mai più risvegliarsi. Non sorprende infatti che Chiara (di nome, non di fatto) alla fine di Buongiorno, notte sprofondi nel sonno, sognando (forse) il suo prigioniero finalmente libero per strada, all’alba. Né sorprende che il sogno e la speranza si siano trasformati in incubo e disperazione se nove anni dopo – gli anni che separano le uscite dei due rispettivi film bellocchiani sul caso Moro e all’apparenza sul caso Englaro – questa ex brigatista “rossa” diventa la tossicodipendente, autolesionista Rossa (almeno di nome). A interpretare i due personaggi allusivamente corrispondenti, legati da un sonno profondo e intertestuale, è la stessa attrice: una delle principali figure femminili bellocchiane a cominciare da La balia (1999). Un passaggio di consegne, un unico sembiante femminile, consentono alla prima “rossa” di addormentarsi alla fine di un film (Buongiorno, notte) per risvegliarsi in un altro (Bella addormentata), nei panni di un’altra “rossa”, di cui ignoriamo il passato: la nuova, principale “bella addormentata”. Scelta inequivocabile: il titolo del film appare in sovraimpressione a destra proprio mentre la misteriosa donna, dapprincipio anonima, dorme indisturbata sulla panca di una chiesa. Qualche

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inquadratura più tardi si risveglia, ma sembra ignara del luogo in cui si trova. Automaticamente estrae un coltellino e, dopo aver assaporato per un istante il sangue della lieve ferita che si è procurata per piacere, abitudine, pulsione di morte, cerca di forzare la serratura di una cassetta per le elemosine. Non sa di essere spiata, probabilmente dall’inizio: a lanciare l’allarme e a costringere Rossa a fuggire è un’altra donna, una mendicante cieca che cieca non è, come è logico aspettarsi in Italia dove sono in molti a vedere o ad aver visto molto bene (chiara-mente), pur fingendosi all’oscuro di (quasi) tutto. Dalla chiesa buia Rossa si sposta in un altro luogo chiave della filmografia di Bellocchio: l’ospedale, ennesimo spazio pieno di stanze di degenza e di sale operatorie che rimanda ancora alla sala, in tutti i sensi, buia. Il perno del discorso bellocchiano resta la sala cinematografica o i suoi surrogati istituzionali, chiese, ospedali, scuole, caserme, prigioni, tribunali, persino le stanze del Senato che l’autore di Bella addormentata ha reinventato riempiendole di teleschermi e subissandole di videoproiezioni. Persino la parabola autoreferenziale del Benito Mussolini di Vincere (2009) ha origine e si corrobora nei vecchi cinematografi dove l’unica sorgente luminosa serve a far vedere le immagini dei film di propaganda fascista. La luce in sala è dunque al servizio dell’Istituto cinematografico di Stato, il Luce. Anche stavolta, con effetto retroattivo, è facile abbandonarsi al sonno della ragione e del desiderio, chiudere gli occhi o mantenerli bene aperti a patto che vengano rivolti verso l’imponente, sovrastante schermo illuminato, chissà quanto illuminante. Che dire? «Luce, Duce, pagaci la luce. Re, re, pagaci il caffè!» scherza il protagonista di Enrico IV (1984), fingendosi prima sorpreso poi divertito dalla rivelazione macchinosa di una verità a lui ben nota da decenni. Luce, la luce, il Luce, luci trasversali, ombre contigue, rivelazioni di ogni tipo squarciano e infestano il caso Moro rivisto e corretto da Bellocchio. Dall’aldilà, dall’aldiquà (al di qua, non per niente, anche della macchina da presa),9 manifestazioni eterogenee si contendono il campo. Forze naturali e sovrannaturali, entità normali e paranormali, onnipresenze mediatiche e presenze medianiche, senza soluzioni di continuità, concorrono a delineare uno spazio rappresentativo in cui si dicono, si fanno, succedono cose da pazzi. Bellocchio non si fa sfuggire l’occasione di trasformarle in testi e pretesti per la sala cinematografica, dove lo spettatore guarda i film immerso nel buio rischiarato da un fascio luminoso unidirezionale, seduto, narcotizzato e sedotto come coloro i quali interpellano assorti gli spiriti dei defunti. Perché sorprendersi se le scienze occulte e la fantascienza entrano di diritto o intervengono di proposito già nella cronistoria del caso Moro?

Percorsi antiautoritari Se non è semplice fare i conti con il vasto, insidioso e contraddittorio indotto moroteo, figurarsi quando ai meandri del caso Moro si sommano ulteriori sentieri cinematografici. Sentieri non sempre tracciati o tracciabili in maniera netta, lungo i quali occorre tuttavia avventurarsi se si vuole accedere ai territori ambigui, non dichiarati di un autore, Bellocchio, stilisticamente molto nitido e consapevole, estremamente lontano dalla trasparenza, cioè dal realismo. Indubbiamente il caso Moro costituisce una premessa storico-politica fondamentale per tentare un approccio più circostanziato e concreto al cinema di Bellocchio. Un approccio non esaustivo, ma di sicuro molto pertinente. Ma è anche vero il contrario: che la chiave cinematografica bellocchiana, così complessa, restituisce la misura, anzi la dismisura di una complessità storica e politica di cui il caso Moro diventa il sintomo maggiore, longevo ed eclatante. Questo non vuol dire che i problemi connessi all’analisi e all’interpretazione di una tragedia nazionale siano minimamente paragonabili a quelli della prassi filmica. Bensì che sussiste un rapporto di proporzionalità, forse anche di causalità. In altre parole il grado di difficoltà dei film di Bellocchio dalla fine degli anni Settanta è direttamente proporzionale al grado di connessione dichiarata o segreta a vicende, personaggi, questioni che ruotano attorno al caso Moro. Si instaura dunque un rapporto molto stretto tra questi film e i fatti cui essi rimandano o che sottintendono. Un rapporto di reciprocità interpretativa. Esercitarsi interpretando gli uni equivale insomma ad affinare l’interpretazione degli altri, e viceversa. Omologa risulta perciò sia la struttura problematica dei film sia quella del contesto preciso cui fanno anche solo vagamente riferimento. Sono oltretutto film particolarmente adatti a veicolare la complessità e l’inenarrabilità del caso Moro: Bellocchio respingendo significati univoci o letture statiche esprime testualmente, cioè mediante l’autonomia e la libertà delle immagini e dei suoni, la propria forte resistenza all’autorità. L’insofferenza verso percorsi, figure, paradigmi autoritari non è meno acuta rispetto a pratiche interpretative ugualmente percepite in chiave autoritaria, non importa se autorevole o meno. Nessuno può dire (a lui, a proposito dei suoi film) cosa stia a significare un’immagine o un suono, l’immagine di un suono o il suono di un’immagine. Con il passare del tempo, in nome di un’idiosincrasia rivolta anche contro i propri attrezzi del mestiere, appare chiaro che persino un concetto chiave come quello dell’immagine, rimodellato a partire dall’«immagine interiore»10 o interna, al centro dell’eresia teorica dello psichiatra Massimo Fagioli, viene provocatoriamente ridimensionato, quasi accantonato. Di più: svilito, depotenziato o svuotato di valore, nelle parole dell’esasperato senatore Beffardi di Bella addormentata, per quanto riferite all’immagine

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pubblica: «Mi avete rotto il cazzo con l’immagine! Ma che significa? Una parola completamente priva di significato». La sola parola «immagine», un tempo volentieri rivendicata («Sento di aver raggiunto una maggiore libertà. Ho seguito delle immagini, più che delle tesi. […] Questa costruzione di immagini è una leggerezza conquistata a partire da La Balia»)11 come elemento centrale e alternativo di una presenza artistica non confezionata né subalterna, è divenuta ora impronunciabile? Quella che poteva essere una conquista personale, sul piano estetico e rappresentativo, si è ridotta, con il concorso delle pratiche d’attuale società dello spettacolo allo sbando, a una cosa vuota, degenerata: un bersaglio contro cui indirizzarsi, un fardello pesante dal quale dichiaratamente sganciarsi per preservare la propria autenticità di autore-contro. Stesso discorso per il cosiddetto “caso Moro”, che gli si presenta, dopo averlo a lungo (in)seguito, come un argomento talmente consolidato e preconfezionato da indurlo a cercare una via di fuga. Come? Sbarazzarsene a parole o per iscritto, specialmente con l’uscita di Buongiorno, notte e in concomitanza con le polemiche che l’hanno accompagnata, in ogni occasione si sia presentata, dissimulando l’oggetto inconfessabile che pure l’ha a lungo irretito. Perché, a suo dire, in Buongiorno, notte «in modo del tutto infedele si parla di una vicenda storica»?12 Per una ragione molto semplice e comprensibile: concepire anche solo questo film, per non parlare degli altri abbastanza contigui di cui ci occuperemo, come un qualcosa di molto definito, riconoscibile, convenzionale, è a dir poco inaccettabile. La remota ipotesi che si tratti banalmente di un semplice, comune film sul caso Moro (o più tardi sul caso Englaro, probabile simulacro aggiornato e di copertura di quello Moro) suscita in Bellocchio un atteggiamento di rifiuto automatico. Una simile connotazione così scontata implicherebbe per lui la sistematica restrizione di uno spazio espressivo, diversamente creativo ed euristico. Per certi versi anche il caso Moro, per le dimensioni assunte, per la suggestione che continua a suscitare e per l’ampiezza di materiali spesso di consumo che ha prodotto, sembra sfuggire a se stesso, sottrarsi alla sua prevedibile divulgabilità. La sintonia bellocchiana con il caso Moro, sintonia continuata e continuativa tutt’altro che a caso, frutto quasi di una strana coazione a ripetere, sempre dissimulata e diversificata, deriva da un’inclinazione personale e professionale per il divenire, il ribaltamento, il superamento. Inclinazione quindi congenita per la perpetua riformulazione dei propri strumenti e oggetti di lavoro. L’istinto antiautoritario, alimentato e stimolato di volta in volta da pretesti concreti e cangianti, è maturato parallelamente nel corso di decenni attraverso lo strappo consumato da una suggestione esterna o un assoggettamento all’altro. Ogni nuova passione viene vissuta, etimologicamente, come condizione di passività.13 Quindi come preziosa circostanza di dipendenza improvvisa(ta) o calcolata, di sbandierata o taciuta fede(ltà),

di volontario o involontario ideale politico, culturale e psicologico. Tutte cose servite nel corso del tempo a sostituire e scalzare le passioni e le occasioni immediatamente precedenti. In pieno sodalizio con Fagioli, preparando Diavolo in corpo (1986), Bellocchio provvede ad archiviare come “fallimentare” l’intero repertorio politico-culturale precedente, confessando addirittura di aver covato il segreto desiderio di veder “finire” quegli stessi seminari di analisi collettiva ai quali invece da pochi anni stava partecipando, di cui Gli occhi, la bocca (1982) sarebbe stato la pietra tombale e Enrico IV (1984) l’auspicato, acerbo, viatico (invero molto interessante): Era scattato un preciso ordine interno: ritirarmi, abbandonare il campo. Rientrare nell’ordine. Pensavo nel mio delirio che i seminari non mi servissero più. Potevo non farmi più vedere, sparire fisicamente, nessuno sarebbe venuto a cercarmi. E invece ritornai ai seminari con la precisa intenzione di contribuire attivamente alla loro fine (io non ero cosciente di partecipare a un complotto eppure gli indizi erano innumerevoli. Una ragazza sognò che puzzavo di cadavere). Dovevano fallire, come era fallito il ‘68, e poi il ‘69, e poi i marxisti-leninisti, e poi Basaglia, e l’analisi individuale, e il ‘77, e Lotta Continua, e il terrorismo… Bisognava rispettare una continuità nel fallimento, una specie di dolorosa solidarietà con tutti quelli che non ce l’avevano fatta. Invece no, i seminari andavano avanti. E allora mi inventai la loro fine in un film, Gli occhi, la bocca, che nelle mie intenzioni doveva essere una grande storia d’amore, ma che nella realtà era soltanto una storia di fantasmi […]. Solo, fuori dai seminari da più di un anno, provai a ricominciare con l’Enrico IV di Pirandello (primavera 1983). Fu una decisione affrettata, forse per cancellare subito lo smacco precedente.14

È proprio questo «ordine interno», tradotto in atteggiamento apparentemente irrazionale e distruttivo, ad aver invece consentito a Bellocchio in modo piuttosto razionale e lucido nell’arco di quarant’anni di pregustare volta per volta l’imminente e inevitabile opportunità liberatoria. Di andare oltre il presente, individuale e collettivo, considerandolo una fase contingente. Dunque imperdibile si conferma per lui, ancora oggi, l’opportunità di rigettare o irridere con costante, astuto spirito dissacratorio memorie pubbliche e private, monumenti e maestri appunto molto autoritari ma proprio per questo non abbastanza autorevoli per un autore determinato a restare tale. Lo dimostra, semmai ce ne fosse bisogno, la scelta di rimettere mano nel 2011 al montaggio di uno dei suoi titoli più noti e paradigmatici, Nel nome del padre (1972), approntandone un curioso director’s cut. Un autentico congedo definitivo, sulla falsariga del documentario post-verdiano e

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post-viscontiano intitolato per l’appunto Addio del passato (1999). Si tratta, attenzione, non di una versione più lunga dell’originale, ma di una più breve e liberatoria.15 Sciolta cioè dal vincolo di vecchie paternità obsolete e remoti sedimenti ideologici, destituiti di fondamento autoriale.

Anello matrimoniale

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La scommessa consiste nel cercare, sempre e comunque, progetti ad hoc sulla scorta dei quali fondare uno stile, un’indagine, un pensiero adeguati a circostanze private e pubbliche da scandagliare. Ciò che conta è sottrarsi con maggiore determinazione a ogni condizionamento esterno. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, con rinnovato impulso dopo Il gabbiano (1977), sulle ceneri dell’antipsichiatria (di lì a poco, nel 1978, recepita dalla legislazione vigente), Bellocchio non ha esitato a prendere in contropiede spettatori o studiosi, classificatori estetici e ideologici. Un ruolo chiave in questo gioco di spiazzamento, come spiegheremo più avanti, l’ha avuto il paranormale, con i suoi fantasmi personali, familiari e nazionali, mentali e sentimentali. Fantasmi simulati, molto italiani. O assimilati al dispositivo cinematografico adoperato e perciò (d)enunciato all’interno dei film stessi. Pensiamo a Vacanze in Val Trebbia (1980), Gli occhi, la bocca, Buongiorno, notte. Spesso a partire dagli stessi titoli, come nel caso del collettivo La macchina cinema (1978) e Il regista di matrimoni (2006). Immagini, sì immagini: dense, nette e impenetrabili, più o meno oniriche al servizio di un passato fin troppo presente, di un presente deliberatamente passato, ingiudicato, lo predispongono e lo espongono allo scandalo (scandalo che comporta – come vedremo – puntuali processi o accuse autoreferenziali nei film seguenti). In che modo in un certo senso “cerca” lo scandalo? Esibendo in Diavolo in corpo all’occorrenza da vicino un rapporto orale e consolatorio per distrarre sfrontatamente lo spettatore (maschile, per tradizione). E metterlo nell’impossibilità di ascoltare la rievocazione fiabesca e improbabile del mito rivoluzionario degenerato in terrorismo. Poi in La visione del sabba (1988) inventando uno stravagante quanto indecifrabile episodio di magia nera fin troppo contemporanea e allusiva. L’arte dello scandalo o più propriamente lo scandalo dell’arte sovente si consuma nel presente ma ha origini lontane, autoreferenziali. Prendiamo L’ora di religione (2002). Qui troviamo un caso non meno bizzarro di beatificazione che prende le mosse da un antico, imbarazzante matricidio, sulla falsariga di quello di I pugni in tasca (1965). E che prontamente viene trasformato, complice un’Italia eternamente bigotta e trasversalmente segreta e consociativa, in business politico-religioso: quale migliore, perfetto e provvidenziale “affare” di famiglia? Di caso in caso, ma mai per caso, l’autore arriva al cuore del

problema. A chiamare fatti e personaggi direttamente con il proprio nome. Con Buongiorno, notte prende di petto il sequestro Moro, il caso per eccellenza che da vari film serpeggiava, si insinuava, ne ipotecava l’andamento. Un caso di parricidio simbolico e di delitto politico vero, in cui una giovane terrorista dal nome emblematico, Chiara, e dalle molteplici facce, assemblata unificando vari prototipi reali di cui diremo tra breve, scongiura fino all’ultimo l’assassinio non simbolico di Moro, padre costituente e putativo. Dieci anni dopo, con Bella addormentata, Bellocchio passa a un altro caso: quello costruito sulle vicende di Eluana e di suo padre Beppe Englaro. Un caso privato-pubblico, privato della sfera privata, dove l’eutanasia significa tante cose assieme: dissacrazione, fenomeno mediatico, opportunità politica, attentato all’istituzione familiare (la donna che in uno dei segmenti narrativi tiene in vita ossessivamente la figlia con le macchine non ha un nome proprio, si chiama Divina Madre e tanto basta). Da una figlia che imprigiona il padre putativo e in extremis si oppone alla sua condanna a morte (Buongiorno, notte) l’autore si sposta sul chiasso scatenato dalla morte annunciata e decisa questa volta da un padre reale per una figlia in stato vegetativo (Bella addormentata), passando per il matrimonio/funerale di convenienza imposto dal padre aristocratico alla figlia indocile (Il regista di matrimoni). Gli anelli della catena matrimoniale nella filmografia di Bellocchio si sprecano, come quelli che rilucono in modo inquietante nel caso Moro. Alla lista dei matrimoni già citati se ne aggiungono altri: quello borghese che un altro padre, operaio, vorrebbe sempre per la figlia, magari con il fratello gemello del promesso sposo suicida (Gli occhi, la bocca); quello che la madre di un brigatista pentito vuole a tutti i costi venga celebrato con rito cattolico con la figlia dell’ufficiale dei carabinieri vittima di un attentato terrorista (Diavolo in corpo). Andando a ritroso, troviamo il matrimonio simulato, siglato dall’omicidio all’interno di un film molto amatoriale (La macchina cinema). Su simili riti coniugali, combinati e funestati, che si susseguono e si incrociano, come in Bella addormentata o nel finale di La Cina è vicina (1967), incombe fatalmente la morte, tragica o irridente, merce di scambio reversibile tra genitori e figli (dai tempi non sospetti di I pugni in tasca). Una morte inesorabile e inappellabile, ancora, è quella decretata dal Grande Elettore per lo sventato e irregolare figlio in Il principe di Homburg (1997). Una morte che ci riporta per altra via al caso Moro, poiché il sonnambulo giovane principe kleistiano, sprofondando nella completa disperazione dopo essere stato condannato alla pena capitale senza possibilità di intercessione da parte di nessuno, ci riporta ai ripetuti appelli dalla prigione del popolo lanciati da Aldo Moro (Buongiorno, notte) o alle lettere che invano dal manicomio-prigione l’irriducibile moglie non riconosciuta del Duce cerca di far pervenire alle autorità civili ed ecclesiastiche (Vincere).

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Come si può notare, le coincidenze e i matrimoni perseguiti e mancati si accavallano nell’opera di Bellocchio, forieri di disgrazie domestiche e di Stato. Specialmente nel 1978 o negli anni successivi. Insomma, per una (s) ragione o per l’altra ruotano attorno all’anno tragico del delitto Moro. Per non parlare della fantascienza. Che c’entra la fantascienza? Pensiamo per un attimo al delirio fantascientifico di un matto vero, immaginato a servizio in un istituto religioso retrodatato (Nel nome del padre), il quale torna a esibirsi nel 1978 sul piccolo schermo (La macchina cinema). E chiediamoci come mai la fantascienza rispunti in sordina, indicibile, nel cruciale evento del 1978, quando da un apparecchio televisivo perennemente accesso nel covo brigatista ricostruito in studio giungono segnali di questo genere letterario particolarmente in voga in Italia e nella politica italiana nella seconda metà degli anni Settanta (Buongiorno, notte). Vale anche la pena chiedersi, procedendo di matrimonio in matrimonio, imposto o disconosciuto, pur sempre dall’alto, come mai l’autore di cui ci stiamo occupando ricorra direttamente ai tipici paradossi temporali del repertorio fantascientifico (Il regista di matrimoni, Vincere). Sono tutti modi per allungare sul presente l’ombra, lo spettro, l’immagine del caso Moro. Soprattutto quando i collegamenti oggettivi, gli “anelli”, meno incoscienti di quanto si creda, risultano allentati, mimetizzati o sconfessati. Cioè resi invisibili e insostenibili con sistematica precisione. O con sintomatica ostinazione.

Lo spettatore insostenibile Interrogarsi sulla sintomatologia di un autore cinematografico non è una cosa tanto inusuale. La medicina non c’entra questa volta. C’entra l’analisi del film spinta sul versante ermeneutico, che riguarda di solito autori in ottimo stato di salute stilistica. Una pratica abbastanza diffusa. Niente di eccentrico. Conoscere un artista significa innanzitutto imparare a conoscerlo, per leggerlo e rileggerlo secondo precise attitudini, esigenze di studio, adoperando mezzi appropriati e individuando angolazioni originali, proficue. La costruttiva «coabitazione di regimi interpretativi»,16 pur portandoci oltre la stagione dorata del testo, non impedisce che con inclinazione, perché no, artistica,17 si riconosca la mano, il tocco dell’artista all’occorrenza esaminato. Quindi che si riesca ad avere confidenza dettagliata con i testi e con lo stile personale che li attraversa. Del resto un approccio testuale e stilistico quale quello che proponiamo non esclude un impiego allargato, aperto, che eccede il testo o coglie del testo la propensione a introiettare e organizzare i fatti esterni. In concreto, per orientarsi nei recessi del caso Moro, afferrarne sfumature vagamente inedite, è utile in continuazione anche entrare e uscire dai testi cinematografici di Bellocchio, la cui struttura

complessiva o solo singoli frammenti eccentrici eccedono in modo capillare la misura del racconto esteriore immediatamente recepibile. Né potrebbe essere diversamente. Tutto qua. In buona sostanza è questione di guardarsi attorno, respirare l’aria del contesto storico e dei fatti connessi alla sconcertante vicenda del presidente democristiano rapito e ucciso, con tutto ciò che essa ha comportato sul piano culturale, politico e storico nel corso di oltre trent’anni di vita italiana. E riconnettere tali fatti senza tregua alle dinamiche interne e coerenti del testo filmico. Niente di più. Niente di meno. Senza mai perdere di vista la questione fondamentale: impegnarsi, meglio preoccuparsi di saper individuare «motivi formali» e «investimenti libidici», presupponendo nei film analizzati e interpretati quelli che Lacan ha definito sinthomi.18 Di cui è ricca ad esempio la filmografia hitchcockiana.19 Ebbene, un’analoga attenzione alla filmografia di Bellocchio rivelerà una rete molto fitta di segnali, indizi, sintomi (o sinthomi) che si ripresentano in concomitanza con il caso Moro. Donde, chissà, l’esigenza dell’autore, culminata in Diavolo in corpo, L’ora di religione e soprattutto Buongiorno, notte e Il regista di matrimoni, di mettersi al riparo dagli stessi destinatari delle sue continue allusioni, dei rimandi incrociati e degli indizi audiovisivi. Funziona così: Bellocchio designa un certo tipo di spettatore. Uno spettatore ideale, sostenibile, su misura, che con i suoi film egli auspica, solletica, provoca. E che poi abbandona al suo destino ermeneutico. Ossia rende a un tratto insostenibili le pratiche spettatoriali pure abilmente innescate. Specialmente quando è in ballo, più di frequente di quanto sembri, l’argomento su cui abbiamo scelto di concentrarci: il caso Moro. Sono infatti molte le strade, le modalità rappresentative e le situazioni narrative che riportano in continuazione nella vertigine di questo terribile caso italiano il “nostro” Bellocchio. Il quale obbedisce a una necessità profonda, bisogna ammettere non facilmente sondabile, di disseminare il suo percorso creativo di acute e inconfondibili associazioni di idee e avvenimenti significativi. Bellocchio invoca temerariamente un soggetto-spettatore perspicace, non necessariamente reale. Meglio se virtuale, meglio ancora assente. Un’entità da interpellare come ci si aspetterebbe da uno spettatore possibile, concreto ed effettivo (quello insomma cui si richiamano gli assertori della “post-teoria”,20 muovendo da presupposti cognitivisti), ma che si compenetra, anzi coincide con le risultanze testuali. Questo, tra le pieghe del caso Moro, è l’identikit dello spettatore bellocchiano per eccellenza. Un siffatto spettatore non deve limitarsi ad assistere al film, come un soggetto anonimo (lo spettatore comune) che guarda un oggetto come tanti (un film qualsiasi), ma di farsi carico dello sguardo stesso. Intendiamo dire lo sguardo lacaniano, in questa sede molto pertinente. Uno sguardo che ri-guarda infatti con impertinenza chi (lo) guarda ora sullo schermo, ora sul set come fa appunto il regista dietro la macchina da presa, finendo così con le spalle al

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muro. Questo sguardo è inseparabile dallo spettatore, non importa se reale o mitico, mancante o fantasmatico. Sfacciato quanto basta per porre senza mezzi termini il problema dello sguardo reattivo, lo sguardo che offre una prospettiva di ritorno riflessiva, imbarazzante. Lo sguardo che non appartiene a chi guarda ma alla cosa/persona guardata, rendendo perciò la pariglia.21 Cioè contraccambiando con la stessa moneta scopica lo spettatore o il regista del film, o nel film. Ecco perché il regista, primo spettatore del suo film, quanto più è sottinteso tanto più si scopre impudente. Più di ogni altro film bellocchiano Buongiorno, notte non fa che mettere in scena lo sguardo filmico e le dinamiche spettatoriali con il proposito di portare allo scoperto spettatori interni ed esterni al film, regista e carcerieri, inchiodandoli alle loro responsabilità di testimoni oculari, mettendoli a disagio, generando inquietudine, compromettendoli. Altrimenti perché l’autore dovrebbe interpellare lo spettatore, il “suo” spettatore, nel contempo desiderandolo e respingendolo? Un autore, non dimentichiamo, che fa di tutto per esserci, in prima persona, marcando la propria presenza sia come regista al di qua della macchina da presa, fuori quadro, sia davanti, in veste fugace ma non occasionale di attore. Dentro il film, Bellocchio non sembra accontentarsi, specie dopo il 1978, del proprio sicuro ruolo registico che osserva/filma dal di fuori. Si spinge oltre, entra in campo, condivide il gioco: da regista/spettatore implicito del film diventa, lo ripetiamo, un regista-attore implicato in prima persona anche nel film. Non abbandona la posizione e il privilegio della regia, di un solo uomo al comando del film. Semplicemente lascia fare alle componenti impersonali dell’enunciazione presenti nel testo.22 Attraverso queste attiva la strategia della reciprocità, ossia la reattività dello sguardo. Solo che a questo punto è tenuto suo malgrado ad accettare fino in fondo le regole del gioco e la contropartita dell’analisi testuale. Se come regista e come privato cittadino accoglie la psicanalisi e sperimenta diverse tecniche e metodologie di analisi, approdando all’analisi collettiva di Fagioli, nondimeno Bellocchio svia e sfugge l’analisi testuale, soprattutto quando si fa ermeneutica e non puramente descrittiva. Ricapitoliamo: lo spettatore migliore, cui rivolgersi, non deve alla fine spuntare dal cilindro, né esserci. In quanto autore dai molteplici ruoli, legittimamente assunti e ostinatamente incarnati, impliciti ed espliciti, Bellocchio attiva testualmente questo processo analitico/interpretativo nello spettatore, innescando domande, salvo provvedere a inibirlo e scoraggiarlo a film finito, ogni qualvolta si presenti l’occasione. Un meccanismo per certi versi kafkiano. Come dichiara infatti il guardiano della porta della Legge allo sventurato uomo di campagna nella parabola narrata nel penultimo capitolo del Processo: «Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo».23 Un’assurdità non priva di logica e di metodo. Comprensibile in Bellocchio che riconosce a questo spettatore

insostenibile (nel senso che lui per primo a cose fatte non lo sostiene) l’onore delle armi in una sconfitta giudicata inevitabile. La legittimità interpretativa o l’intelligibilità del testo non vengono messe in discussione. Semmai è l’eventuale risultato parziale, possibile, ipotetico che deve diventare l’occasione perduta, di cui (si) preannuncia il fallimento, ma di cui (si) invoca l’improbabile benché paradossale sostenibilità (quindi la non impossibilità). In gran segreto, un segreto non negato all’istanza interpretativa, Bellocchio costruisce i suoi film, certuni film, pungolando l’attenzione dello spettatore. Ad esempio Buongiorno, notte in cui di continuo indirizza lo sguardo di questo speciale spettatore, facendolo coincidere con il suo e/o con quello di un personaggio in campo. Ad esempio di Chiara. Molto spesso mette lo spettatore nella condizione e nella posizione di seguirne correttamente la traiettoria ottica. Fino a un certo punto però. All’improvviso questa traiettoria smette di essere univoca. Si passa cioè dal senso unico al doppio senso di marcia visiva, annullando la linea di demarcazione tra il guardante e il guardato, tra il soggetto e l’oggetto. Accade durante gli interrogatori di Moro, condotti all’interno dal brigatista Mariano e spiati dall’esterno da Chiara (o, occasionalmente, anche dai restanti due brigatisti dell’appartamento/prigione Enzo e Primo), che si verificano passaggi abbastanza spiazzanti e irrituali, di cui ci occuperemo in seguito affrontando nello specifico i “frammenti” interessati da questo procedimento. Ci limitiamo qui a far notare come venga così compromessa la concatenazione delle inquadrature che serve a dissimulare il dispositivo della ripresa. In Buongiorno, notte, contravvenendo al principio di linearità e di trasparenza del racconto filmico classico, si passa dalla singolarità alla collegialità del punto di vista, quindi alla sua (im)motivata reversibilità (non uno sguardo, ma lo sguardo, nell’accezione lacaniana). Moro, sebbene non sia in condizione di permetterselo, poiché costretto a vivere come ostaggio (cioè oggetto di attenzione da parte della/dei brigatista/i) si fa sguardo. Rimanda al mittente le occhiate indiscrete: senza preavviso si dimostra in grado di ri-guardare chi lo tiene d’occhio di nascosto, in modo maniacale, da uno spioncino. Di conseguenza anche lo sguardo dello spettatore, convogliato in quello dei personaggi, viene ribaltato, spogliato e messo in crisi: nel film. Né se la passa meglio il vero spettatore, non quello «comicamente chiamato reale»,24 quando a posteriori prova a far domande inopportune, ragionevoli o irragionevoli, suggerite dal film. Queste domande vengono sabotate dal regista in persona. Il quale, non più mimetizzato da «soggetto linguistico» o «marca dell’enunciazione»,25 sa come farle naufragare con risposte evasive. Non si fa fatica a capire perché uno spettatore simile, indisponente, venga scongiurato. Tale spettatore, inesistente come il cavaliere immaginato nel romanzo di Italo Calvino, che non era rimasto indifferente al fascino di I pugni in tasca,26 non è esattamente quello con cui del resto Bellocchio accetterebbe una piena

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confidenza. Ammesso e non concesso che un dialogo e una sintonia possano instaurarsi, è solo con se stesso o con uno spettatore potenziale, in cui l’autore si riflette: uno spettatore che del testo filmico da lui concepito è appena un surrogato, un corollario. Ma se per fortuna o calcolata disgrazia questo lettore/spettatore (ir)reale d’un tratto dovesse davvero risultare qualcosa di più concreto di un elemento linguistico, e insomma incarnarsi davvero, egli non esiterebbe a far scattare il piano di emergenza. Lo spettatore dunque, nel momento in cui la sua mera possibilità iscritta in un sistema testuale dovesse invece compiersi, destarsi dalla sua immaterialità, sa cosa aspettarsi. Nessuno gli impedisce di uscire dall’ombra o dallo stato puramente intenzionale, teorico, testuale in cui si è trovato inspiegabilmente confinato dopo essere stato convocato, evocato, provocato, come uno spirito durante una seduta semiseria e incauta. Ma va incontro a una sanzione non esplicativa, abbandonato all’estasi del significante, sprovvisto di significato. Incorre cioè in una garbata misura di respingimento frontale da parte dell’autore, un’ermetica chiusura camuffata da eccessiva semplificazione: contro l’interpretazione. Quella dell’autore del film e creatore dello strano e insostenibile spettatore di riferimento è una posizione di rendita, ancorché di ambiguità necessaria. L’ambiguità del resto è la condizione preliminare dell’interpretazione.27 Bellocchio ha quindi tutto il diritto di tentare di invalidare o non incitare più di tanto questa ipotesi di spettatore costruito a propria immagine e somiglianza conoscitiva. Può addirittura eluderlo dopo averlo illuso, in tutti i modi e con ogni mezzo, lungi dal preferirgli neanche per un istante lo spettatore «reale» dei cognitivisti post-teorici. L’«io» testuale corrispondente al disegno dell’autore,28 accentuato e raddoppiato dall’insistente «io» ancora una volta dell’autore, nei panni ulteriori dell’attore, dentro il testo, si disimpegna spesso e volentieri a film finito. Fuori dal testo filmico, questo «io» in carne e ossa erige un muro per bloccare l’avanzata dell’istanza analitica e interpretativa dell’eventuale, benvenuto, malaugurato spettatore. Spettatore coinvolto, se concreto, in un gioco estremamente insidioso. Dare prima del «tu», dentro il testo, a questo precario interlocutore genera l’impressione di un rapporto strettamente riservato, quasi familiare. Solo dopo, fuori dal testo, lo spettatore/amico immaginario diventa un potenziale avversario da affrontare con gli strumenti cortesi di una sistematica opera di dissuasione. Che è poi una forma di auto-persuasione ordita dall’«io» bellocchiano polifunzionale, pienamente rivendicato, ostentato, rilanciato. L’uso del pronome personale in funzione deittica è del resto consona a una circostanza come questa, dove molto marcata è l’istanza soggettiva. Il suo «io» infatti non si esaurisce nella dimensione del testo, pur trovando in essa riparo e slancio, non è affatto metaforico, né tantomeno discreto o invisibile. Al contrario: è piuttosto ingombrante, indiscreto, come quando in Enrico IV il protagonista ripete

diligentemente la battuta pirandelliana «Voi dovete implorarmi questo dal papa che lo può: di staccarmi da lì! Di lasciarmela vivere questa mia vita! Non si può sempre avere ventisei anni!». Gli anni cioè che Bellocchio ha quando realizza il film d’esordio nel quale si ritrova ogni volta ingabbiato, I pugni in tasca. L’Enrico IV storico, nato a Goslar nel 1050, dovrebbe avere quell’età secondo le indicazioni del testo di Pirandello. Nel primo atto Landolfo dice: «Puoi farti il conto: se il 25 gennaio del 1071 siamo davanti a Canossa…». Non tornano invece i conti nel film di Bellocchio, in cui il marchese esclama: «Ricordatevi che mio zio è convinto di vivere nel 1064 e quindi di avere ventisei anni». Tornano, invece, se quel 1064 viene accostato al 1964 in cui l’autore comincia a lavorare al progetto di I pugni in tasca, che esce l’anno successivo. In estrema sintesi, quando a cose fatte censura garbatamente lo spettatore esistente, Bellocchio sembra voler innanzitutto censurarsi o persuadere se stesso dell’insostenibilità dell’impresa interpretativa. Quantunque tale impresa sia stata avallata dal film, nel film, attraverso il film con destrezza e precisione. 39

Stato interessante La questione che stiamo affrontando, insistendo sulle premesse teoriche e anche un po’ post-teoriche che ci aiutano a capire come mai l’autore si comporti con lo spettatore come il gatto che gioca con il topo in trappola, non è marginale. Ci siamo soffermati su questi aspetti per così dire preliminari per afferrare meglio la logica del discorso che soggiace al rapporto tra i film di Bellocchio e il caso Moro. La cautela metodologica non è mai troppa. Infatti, se partorire un film, stando così le cose, non è esattamente un esercizio di innocua affabulazione e intrattenimento, non lo è neanche l’impresa interpretativa, per quanto legittima e organica. Questo strano parto gemellare, il caso Moro nel cinema di Bellocchio, non può che essere faticoso. Richiede una pazienza e uno sforzo di attenzione supplementari. Nella speranza che nel corso di questo libro tale impostazione, spinta alle estreme e disinvolte conseguenze sul piano dell’interpretazione, possa dare i suoi frutti. Quali che siano i risultati, comunque li si voglia giudicare, è impensabile affrontare una sfida raddoppiata senza incrociare strumenti di indagine storiografica e filmica, inseparabili e complementari, di cui occorre dar conto. Riprendiamo dal punto in cui ci siamo fermati per riorganizzare forze e argomenti e procedere. L’analisi anche solo di singoli frammenti, e l’isolamento all’interno di essi di elementi verbali molto pronunciati, viene di solito assicurata dallo stesso contenitore testuale, il film, che consente

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a Bellocchio di lanciare il sasso e nascondere la mano. O i pugni, ovviamente in tasca. Egli si rende conto del resto che quando ci si avvicina con attenzione ai fili scoperti del sequestro Moro, senza pregiudiziali di alcun tipo, meno che mai ideologiche, di appartenenza o di convenienza, ci sono ottime probabilità di vedersi assegnati all’area della dietrologia. Basta poco. Questo rischio non vuole correrlo. Magari perché non teme tanto di essere frainteso quanto di essere (troppo) inteso. E interdetto, anche solo simbolicamente o per ragioni altre, sessuali. Non va dimenticato a questo riguardo il processo in cui è imputato di stupro l’architetto Lorenzo Colaianni di La condanna (1991), il film che Bellocchio gira dopo Diavolo in corpo, storia d’amore e di Brigate rosse alla sbarra, e La visione del sabba, incursione in un fantastico dalle segrete risonanze morotee. E che ugualmente Il regista di matrimoni, subito dopo Buongiorno, notte, comincia con l’assurda quanto (auto)ironica messa in stato d’accusa dell’alter ego-regista cinematografico Franco Elica, per presunti ricatti di natura sessuale, con i carabinieri che fanno irruzione nella sede della sua casa di produzione per perquisire e interrogare. Coincidenze. Ad ogni modo, in quanto autore potenzialmente a rischio (di interpretazione, sia chiaro) si limita a immettere nei film indizi qua e là, prefigurando una catena indiziaria. Organizza con cognizione di causa significanti in libertà e autonomia espressiva, accavallando i livelli di lettura. Quindi, come si è detto, non esita a fugare o sminuire a posteriori i significati, distribuendoli tra spazio pubblico e sfera privata, sovrapponendo e confondendo ordine reale, immaginario, simbolico. Li sovrasta di fattori oggettivi e soggettivi, elementi fisici e psichici indistinguibili gli uni dagli altri. Per non cedere alle lusinghe del determinismo dell’inchiesta, allenta le maglie della potenziale rete interpretativa e dimostrativa. Favorisce l’ingresso immediato dello spettatore convocato di nascosto, assecondandone la visione, l’ascolto, l’impatto emotivo e irrazionale del testo. Ma non esita a blindarne la lettura logico-razionale. Prepara un sistema illogico di entrate di sicurezza, testuali, e uno logico di uscite di insicurezza, contestuali. E si capisce perché. Ridimensiona o disattende sforzi interpretativi inopportuni onde evitare di passare per uno che vede – tanto peggio se a ragion veduta – cose ufficialmente inesistenti. O che tali sembrano, anzi devono restare. Cose inimmaginabili o talmente impalpabili da trovare un corrispettivo nelle pratiche dell’invisibile cinematografico, a partire dallo sguardo in macchina e dall’al di qua della macchina da presa.29 Insomma, cose inimmaginabili o impalpabili, appunto. Inesistenti, e perciò discriminatorie, assolutamente no. Bellocchio, pur offrendo chiavi d’accesso per il sistema operativo dei suoi film, non presta aiuto né sostegno personale. Ama far sì che certe scelte restino implicite, senza che se ne calcolino gli effetti, ossia che ad esse vengano assegnati significati espliciti, eccessivamente vincolanti. Può permettersi di raggiungere questo obiettivo

solo destituendo pubblicamente di fondamento analisi che puntino a far emergere il concreto retroterra fattuale. Le consente, eccome, ma non dà il suo assenso. Il messaggio è chiaro: chi affronta questi film lo fa a proprio rischio e pericolo (di smentita). Le mosse dell’autore cinematografico sono importanti. Guai a non renderle prevedibili. Le lusinghe, come i premi, dai tempi di I pugni in tasca, pur non dispiacendogli, lo preoccupano e impacciano. Ciò nonostante, non vuole essere messo nell’angolo, classificato come un dietrologo. I riconoscimenti pubblici, quelli sì ci stanno. Come è importante essere riconosciuto per quel che prova a dire. Non saprebbe starsene in disparte, ai margini, in una delle tante “periferie” impietosamente mostrate in La macchina cinema. Era chiaro sin dalle posizioni assunte in questo curioso film-inchiesta, che prevedeva anche un dibattito interno rimasto inedito, emblematico delle diverse direzioni di marcia che lui e i colleghi Silvano Agosti, Sandro Petraglia e Stefano Rulli avrebbero in seguito imboccato. Racconta Agosti: Marco ad esempio aveva un atteggiamento molto dubbioso, tanto che esiste quella famosa bobina in cui noi quattro riuniti ci siamo filmati mentre discutevamo le diversità esistenti al nostro interno. Siamo anche partiti bene, ma c’erano già tre modi di concepire il cinema: io, che avevo e ho un’avversione viscerale per la promiscuità tra cinema industriale e cinema d’autore, tendevo a privilegiare il cinema clandestino; Marco s’interrogava sul recupero di un cinema industriale, magari da parte di un autore prestigioso, un po’ all’americana; Rulli e Petraglia pensavano a un cinema dalla sceneggiatura robusta.30

Stare nel sistema, negoziare con il sistema. E dall’interno sposare in pieno il registro visionario (come Fellini, né potrebbe essere diversamente). In che modo? Moltiplicando i piani dell’immagine, facendoli interagire, essendo autentici i fatti e le circostanze di base riportati o reinventati sullo schermo, quali che siano le fonti, i formati, i supporti audiovisivi. Sul versante del documentario, dell’inchiesta di gruppo o del film di montaggio Bellocchio procede a una sorta di veridizione dell’inverosimile, inanellando paradossi storici e psichici, oggettivi e soggettivi. Una prassi discorsiva la sua, che tra corsi e ricorsi storici o autobiografici trova nel caso Moro un crocevia obbligato, un centro di gravità permanente, su cui convergono o da cui ripartono La macchina cinema e Sogni infranti. Ragionamenti e deliri (1995), Vacanze in Val Trebbia e La religione della storia (1998). Sul versante molto contiguo della finzione si limita invece a rappresentare ironicamente, fantasiosamente, diciamo pure poeticamente ciò che già è stato dichiarato attendibile o supportato da atti ufficiali e fatti più o meno

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di pubblico dominio. Questa sovrabbondanza e l’effetto di saturazione che materiali di varia provenienza producono aiuta a comprendere la struttura di Buongiorno, notte. In cui viene restituita in forma mista, ibrida, ambigua, attraverso un perpetuo scivolamento della fiction nella non-fiction e viceversa, l’ingarbugliata consistenza degli avvenimenti rappresentati. L’autore lo fa con programmatica reticenza e sottile lavoro di sottrazione, quasi sfidando la prosaica enormità del caso Moro, su cui definitivamente ha rotto ogni indugio per cercare un confronto diretto. Non ha sciolto però ogni riserva sul caso in sé, che più complicato, paradigmatico, magmatico di così non potrebbe essere. La premessa di tutto ciò naturalmente è cinematografica. Deve esserlo, perché il cinema o la televisione, occasionalmente anche il teatro, sono i suoi canali di riferimento. Quelli a lui permessi, allora come oggi, per comunicare l’incomunicabile, enunciare il disagio materiale. Torniamo dunque alla domanda iniziale. È mai possibile che si possa dirigere un film per procura? E che questa procura venga addirittura dallo spirito di un defunto? Siccome i mezzi audiovisivi non prevedono di norma alcuno scambio alla pari tra autore e spettatore come nella conversazione orale,31 è giusto che spetti a essi rispondere a questa domanda a dir poco folle. Ma che folle non è, nell’Italia subissata dagli spiriti veggenti molto comunicativi del caso Moro. Bellocchio ci prova. In televisione (La macchina cinema), prima ancora che al cinema (Buongiorno, notte), attivati i necessari accorgimenti di copertura, mescolando le carte, documentando prima, immaginando successivamente, gli è dato seguire le fasi della realizzazione di un singolare film concepito direttamente dall’aldilà: l’opera prima abbastanza amatoriale di uno spirito, proprio così. Un film che non sarebbe però concepibile senza l’aiuto dell’improvvisato regista occultista, comico involontario, cui spetta esclusivamente il compito di invocare l’autore defunto e immateriale, decifrarne ed eseguirne le direttive. Roba da pazzi? Cose che succedono solo al cinema o in televisione? Deliri di improbabili registi improvvisati? Al contrario: al riparo da vincoli di verosimiglianza o di buon senso, in un’Italia in cui è successo e succede di tutto, un’enormità così è permessa. È permesso persino a un altro spirito, ben più insigne, reggere nei giorni del rapimento Moro le fila di dovuta e devota sacra rappresentazione. Cose del genere, de-generi, di genere o sui generis, mettiamola come vogliamo, non succedono soltanto sullo schermo, piccolo o grande che sia. La cronistoria del caso Moro, ripercorsa a mente sgombra come fa Bellocchio, restituisce alla memoria cose non meno incredibili, stravaganti o inquietanti. Dove anche le convocazioni spiritiche hanno contato. Il cinema italiano non ha fatto altro che tenerle in debito conto. Coincidenza vuole infatti che nell’anno in cui Bellocchio esordisce nel lungometraggio con I pugni in tasca e in Italia accadono tanti

altri fatti “collaterali”, esca un film molto particolare come Giulietta degli spiriti (1965), il più esoterico dei capolavori di Fellini, il quale peraltro già in 8 ½ (1963) aveva investito molto anche sul sovrannaturale, consentendo in una scena a Rossella, cognata del sedicente regista in crisi Guido Anselmi, di consigliarlo per bocca di spiriti saggi e ispirati. Con gli spiriti aveva confidenza non solo la Giulietta del film omonimo, ma lo stesso Fellini. O almeno ne era incuriosito. In un paese in cui la verità manca o viene fatta mancare in caso di necessità, è giocoforza rivolgersi agli spiriti o ai medium per tentare di avere qualche risposta o qualche buona dritta da seguire. Cinematograficamente parlando, non c’era niente di strano se mentre si profilavano le prime elezioni politiche nazionali, uno sfortunato attacchino veniva derubato della bicicletta. Non trovando altro modo di recuperarla, essendosi già inutilmente rivolto alla Questura, troppo occupata a star dietro ai comizi “pericolosi”, ripiegava su una santona a pagamento, la quale in fondo ci aveva visto giusto. La bicicletta, diceva, «O la trovi subito o non la trovi più!». Come non dar credito a quel surrogato di realtà scritta, recitata e filmata che aveva fatto di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica e Cesare Zavattini un classico del neorealismo cinematografico? Quanto a Fellini, che al neorealismo aveva dato il suo piccolo contributo come sceneggiatore di gruppo per conto di Roberto Rossellini e Pietro Germi, era rimasto molto impressionato sia dagli arcani prodigi del sensitivo Gustavo Rol (tanto da averli raccontati a Dino Buzzati)32 sia dagli incontri con lo psicoterapeuta junghiano Ernst Bernhard,33 e dal suo magistero mito-biografico. Sembrerà eccentrica, ma non impraticabile la strada che da Fellini, ugualmente destinato ad approdare al caso Moro, molto a modo suo e per vie traverse non del tutto chiarite, con Prova d’orchestra (1979) e La città delle donne (1979), conduce a Bellocchio. Un Bellocchio a nostro avviso pronto ad alludere a Moro quand’anche sembra parlare d’altro, da La macchina cinema in poi. Uscendo relativamente allo scoperto almeno una volta: in Buongiorno, notte.

Stato paranormale Il contesto fa testo. Al punto che non c’è da sorprendersi se, con o senza i cinquantacinque giorni del rapimento Moro a indicarle, le sedute con le presunte entità occulte tornano nei film di Bellocchio: nel 1978 e quasi di riflesso nel 2003. Prima in un film per la televisione poi in uno per il cinema le sedute spiritiche bellochiane seguono di pari passo i primi venticinque anni dal caso Moro. Si va dalla prefigurazione sia pure accidentale (La macchina cinema) alla replica non identica (Buongiorno, notte) di un insolito e balzano evento, consumatosi per quel che si sa a trenta

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chilometri da Bologna nella piovosa domenica del 2 aprile 1978. Una cosa seria, quest’ultima. In un preciso momento in cui tra l’altro va in stampa I misteri d’Italia di Buzzati e l’Italia si appassiona particolarmente ai fenomeni paranormali (in)controllabili. La raccolta di scritti di Buzzati, per lo più apparsi nell’estate del 1965 sul «Corriere della Sera» nella rubrica In cerca dell’Italia misteriosa, viene pubblicata nell’aprile del 1978. L’11 dello stesso mese la nota inchiesta televisiva a puntate della Rai a cura di Piero Angela, Indagine critica sulla parapsicologia,34 che raccoglie pro e contro, informazioni, testimonianze e perplessità (in quanto «indagine critica»), mette in subbuglio scienziati e ricercatori che prontamente intervengono per denunciare il modo non troppo ortodosso in cui sui media si vanno affrontando questioni pseudoscientifiche, con conseguente ricaduta sul piano collettivo. Preoccupazione più che fondata. Poiché simili suggestioni stanno già avendo conseguenze immediate e incredibili sul terribile, concreto destino di Aldo Moro. La trasmissione di Piero Angela diventa a sua volta un libro, Viaggio nel mondo del paranormale, stampato il 5 maggio 1978. Fa un po’ specie associare a questa circostanza editoriale le lettere di Moro recapitate nello stesso giorno alla moglie, contenenti «qualche esile speranza»35 o «esilissimo ottimismo».36 Giorno in cui viene inoltre diffuso il nono comunicato brigatista che dichiara “esecutiva” la condanna a morte («Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato»).37 Una considerazione elementare: «la caratteristica sconcertante di rendere allucinatorio il reale e di rendere realistico l’incredibile», come si legge nella seconda di copertina del libro-inchiesta di Buzzati, potrebbe comodamente calzare al progetto dell’inchiesta televisiva di Bellocchio e compagni La macchina cinema. E a distanza di un quarto di secolo a Buongiorno, notte. Spieghiamoci meglio: l’interesse successivo, non sappiamo se politico o antropologico, dell’autore di Buongiorno, notte per un’indagine altrettanto critica sugli strani eventi paranormali che accompagnano il caso Moro si sincronizza e si sintonizza con la divulgazione catodica. Piero Angela, per ironia della sorte, vede pubblicati in volume i testi trasmessi nella sua inchiesta televisiva in quel 5 maggio di manzoniana memoria, che Bellocchio stesso in Buongiorno, notte, presenziando una segretissima seduta spiritica (sulla falsariga di quella del 2 aprile), evoca salmodiando i versi «Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza». Già, perché? Per provare a rispondere a questa domanda occorrerà inoltrarsi nel ventre molle del delitto Moro e delle dinamiche che ne regolano l’approccio bellocchiano. Limitiamoci per il momento a far notare come il noto giornalista televisivo nella versione cartacea del suo programma dedicato al paranormale ceda alla «tentazione», così la chiama, di suggerire un’idea «comprensibile» alla «politica». Ignora o no le concomitanze di quei giorni convulsi?

La scienza, invece, cosa offre? […] La scienza non sembra concedere all’uomo neppure quelle facoltà meravigliose che la parapsicologia invece gli regala: vedere a distanza, comunicare col pensiero, guarire coi fluidi, muovere la materia con la mente, leggere nel futuro ecc. […] È comprensibile che in queste condizioni sia molto forte la tentazione di seguire la strada più facile, anziché quella più difficile, così come avviene spesso anche in politica.38

Sono in molti in questa fase a «vedere a distanza». Non solo i partecipanti alla semiseria seduta spiritica di Zappolino, che come i loro spiriti ben informati hanno molto a cuore l’individuazione del luogo di detenzione di Moro. L’allora ministro degli Interni Francesco Cossiga manda «per ben due volte, il commissario Augusto Bellisario dell’Ucigos, l’Ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali della polizia di Stato, in missione in Olanda a interpellare le facoltà extrasensoriali del noto sensitivo Gérard Croiset».39 Il ministro, non c’è che dire, prende sul serio il paranormale: Utilizzammo anche le informazioni di cui conoscevamo la particolarità della fonte, non vorrei dire una stravaganza, medianica e/o parapsicologica. Debbo dire che quanto sto per dire è per esporre un modello. Le fonti dichiarate di origine medianica e parapsicologica erano davvero [corsivo nostro] di origine medianica e parapsicologica perché alcune aiutai io stesso, su richiesta di alcuni esponenti politici, ad acquisirle.40

Assurda quanto si vuole – oggi, non all’epoca dei fatti – la testimonianza di Cossiga resa nel 1980 di fronte alla Commissione Moro non sarebbe sfigurata nel libro di Buzzati o nella trasmissione e nel libro di Angela. Film come La macchina cinema o Buongiorno, notte non fanno altro che colmare questa occasione mancata. Sempre in tema di Stato (sensibile al) paranormale non dimentichiamo che il ministro Cossiga si rivolge anche al capo della Digos perché non venga trascurata questa “pista”. Agnese Moro sulla «Repubblica» del 21 luglio 1982 ricorda che «le indagini andavano avanti in modo a dir poco discutibile; il Viminale ci mandava dei veggenti che ci chiedevano dei vestiti indossati da papà. Così, dicevano, avrebbero scoperto la prigione». Anche gli esiti “sorprendenti” della seduta spiritica del 2 aprile vengono fatti pervenire a Roma e sottoposti alle autorità “competenti”. Niente di più “normale” nel delirio “paranormale” trasformato in fenomeno culturale, accademico, politico e istituzionale in quei giorni. Tanto che Alberto Clò, il giovane professore di economia che ha messo a disposizione dei colleghi e amici quel 2 aprile 1978 la sua casa di campagna a Zappolino spiega cosi la trovata della seduta spiritica: «In quel periodo i

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giornali parlavano di queste cose, si parlava del parapsicologo olandese che era venuto in Italia». Poi: «Questa volta ne parlavano i giornali, vi erano servizi su queste cose, lo spiegarono su giornali di tiratura nazionale, come si svolgesse: “Panorama” e “l’Espresso” parlavano di queste cose, per cui capitò di parlarne».41 Perché no? Ma vediamo chi sono i principali protagonisti della seduta spiritica, economisti dell’ateneo bolognese, destinati nel tempo a ricoprire incarichi istituzionali di vertice. Troviamo infatti, come tutti sanno, in ordine di apparizione Romano Prodi, che qualche mese dopo subentra come ministro dell’Industria a Carlo Donat-Cattin42 (ironia della sorte, esattamente il 28 novembre 1978, cioè il giorno prima della messa in onda dell’ultima puntata di La macchina cinema), per poi presiedere l’Iri, la commissione europea di Bruxelles, due volte il Consiglio dei ministri, e anche la Repubblica (se ad aprile del 2013 non fossero mancati poco più di 100 voti al quorum previsto). A seguire Mario Baldassarri, futuro senatore di Alleanza Nazionale poi confluito nel Popolo delle Libertà, ex viceministro dell’Economia nel secondo e nel terzo dei governi Berlusconi; Alberto Clò, anch’egli futuro ministro dell’Industria nel governo tecnico Dini; infine Fabio Gobbo, futuro sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel secondo governo Prodi.

Voci dall’aldilà L’effetto contagio del paranormale si estende dal ministero degli Interni alla Commissione Moro, i cui componenti nel 1981, di fronte a questi testimoni eccellenti, si sforzano di verificare, apprendere e discutere tecniche e modalità di una seduta spiritica. Le trascrizioni integrali delle audizioni, che avremo modo di esaminare, potrebbero tranquillamente essere trasformate in un atto unico teatrale per la logica, l’ironia e la sagacia delle domande, specialmente quelle dello scrittore Leonardo Sciascia (allora deputato radicale e membro della Commissione) e per la comicità non intenzionale delle pronte, pacate e circostanziate risposte. Questo gioco di razionale «irragionevolezza» ci riporta ancora una volta a Bellocchio, il quale, dopo i congeniali allestimenti teatrali dello Zio Vanja di Anton Čechov nel 2013 e dell’opera lirica Pagliacci di Ruggero Leoncavallo nel 2014, potrebbe sbizzarrirsi con una versione teatrale o cinematografica anche di questa involontaria pièce parlamentare, il cui “copione” è negli Atti della Commissione Moro.43 In questo paragrafo occorre intanto sottolineare come la “pista” paranormale sia talmente “realistica” da essere testata anche dagli studiosi più increduli del caso Moro. Prendiamo Roberto Martinelli e Antonio Padellaro, che per primi si erano occupati della seduta spiritica nel loro articolo

sul «Corriere della Sera» del 17 ottobre 1978 intitolato “Dov’è il leader DC?”, chiesero allo spirito di La Pira. E la risposta arrivò col posacenere: “Gradoli… 095”. L’articolo, in cui si fa riferimento a un «professore bolognese» ancora anonimo (che a breve si saprà essere Romano Prodi),44 sarà di supporto l’anno successivo al loro Il delitto Moro, un libro-inchiesta («L’inchiestaverità che il Parlamento non ha fatto»,45 si legge in basso sulla copertina, non essendo la Commissione Moro stata ancora istituita).46 Tornando a parlare della seduta spiritica e del ruolo svolto da Prodi, non più avvolto nell’anonimato, gli autori si sono stavolta premurati di consultare lo «psicologo e studioso di parapsicologia» Emilio Servadio.47 Oltre a Martinelli e Padellaro, anche Sergio Flamigni, non meno perplesso, tenta un’incursione nella «sfera dei fenomeni extra-sensoriali. […] Nel resoconto di una seduta medianica pubblicato dal Centro italiano di parapsicologia di Napoli ci sembra di aver trovato la spiegazione razionale di quanto è avvenuto a Zappolino quel 2 aprile 1978».48 Con le voci oltremondane anche Bellocchio, come Fellini, intrattiene un dialogo che si sviluppa nel corso del tempo, film dopo film, procedendo per gradi e per curiose combinazioni che vale la pena di ripercorrere e approfondire. Alla fine del 1978 una seduta spiritica alla buona, come quella di Zappolino, trova spazio nel documentario-inchiesta La macchina cinema prodotto dalla seconda rete Rai, che segna anche la fine dell’esperienza del collettivo registico inaugurata da Matti da slegare. Il primo episodio, dal titolo Era San Benedetto, presenta due bizzarri personaggi molto sopra le righe, tali Tony De Bonis e Pietro Bartoli. È quest’ultimo che, preparando un film in super 8, organizza una seduta spiritica per ricevere direttive di regia dall’alto, nientedimeno che dall’aldilà. Sia una che l’altra seduta spiritica sono avvenimenti ridicoli, di nessuna importanza, destinati a restare isolati e sperduti, senza le rispettive casse di risonanza. Ciò che accade nelle campagne bolognesi investe o finisce per essere investito dal tentacolare caso Moro. Il secondo avvenimento medianico invece viene trasmesso per televisione, inaugurando La macchina cinema. L’ambiente da cui provengono i partecipanti alle rispettive performance sovrannaturali cambia, ci mancherebbe, ma la sostanza è la stessa: a Zappolino troviamo alcuni accademici bolognesi in compagnia di amici e familiari, a Ceccano un manipolo di velleitari cinematografari ammattiti, circondati da compaesani entusiasti e consenzienti. Non cambia neanche l’humus religioso. In tutti e due i casi un gruppo di cattolici praticanti, desiderosi di inoltrarsi in territori sconosciuti, si dilettano con lo spiritismo con maggiore (La macchina cinema) o minore convinzione (Prodi, Baldassarri, Clò, Gobbo e gli altri). Dalla presunta realtà al cinema raccontato e preso in giro dalla tv, e viceversa, due sedute spiritiche localizzate, non molto dissimili, sembrano interfacciarsi a distanza nell’arco di un anno tragico, concitato e

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pieno di sorprese. In tempi piuttosto ravvicinati, diversamente divulgati, questi rituali o giochi di società occasionali trovano credito presso i vertici delle istituzioni dello Stato o finiscono sulla Rai. Le riprese di Era San Benedetto, la prima delle cinque puntate di La macchina cinema contenente l’innocua, delirante e incompetente seduta spiritica, finalizzata cinematograficamente, viene girata nel piccolo centro di Ceccano, in provincia di Frosinone, nel 1977, a marzo.49 Una volta terminate le cinque puntate l’intero programma, documentario, film o come vogliamo chiamarlo, viene presentato in anteprima ad agosto del 1978 al festival di Locarno, nel 1978, ad agosto. E infine trasmesso in tv tra l’1 e il 29 novembre dello stesso anno. L’altro appuntamento con l’aldilà è invece successivo: il 2 aprile 1978 è la data indicata per la seconda seduta spiritica. Secondo le notizie che cominciano a giungere tra ottobre e dicembre, la location si sposta dal centro di Bologna alla campagna circostante. Gli spiriti onniscienti di Ceccano precedono quelli di Zappolino. Eppure questa consecutio temporum non tiene conto né del passaggio festivaliero, ad agosto, né della messa in onda di La macchina cinema, a novembre. Circostanze queste ultime che in un certo senso, provocano un capovolgimento cronologico destinato a modificare il gioco di reciproche implicazioni. In altre parole, se oltre alla successione dei fatti reali o presupposti tali guardiamo ai fatti mediatici ci accorgiamo di come sia l’avvenimento bolognese a precorrere e quasi suggerire, ispirare, connotare quello ciociaro. Il che ci riporta al punto di partenza. Cioè alla effettiva possibilità che lo spirito di un defunto abbia diretto un film. Come? Per procura extrasensoriale o per interposto regista, un “regista di matrimoni” (che gira anche un finto matrimonio in Era San Benedetto, non dimentichiamolo). Questa sovrannaturale modalità di fare un film, sul finire del 1978 appare tuttavia meno sconclusionata di quanto sia logico aspettarsi. Trova una sua legittimazione logico-razionale e storico-politica tutta italiana nella circostanza insolita di un altro “spirito” eccellentissimo, quello del defunto Giorgio La Pira, spesosi tanto dall’aldilà (o più ragionevolmente dall’aldiquà) per far sapere a chi di dovere il luogo in cui si troverebbe l’ostaggio Aldo Moro.

La «macchina» degli spiriti L’approccio al paranormale dei vari personaggi scovati da Agosti, Bellocchio, Petraglia e Rulli per avviare La macchina cinema è decisamente velleitario e artigianale. Almeno quanto l’approccio al mezzo cinematografico. In modo precario, improvvisato e improbabile, questa incompetenza “liberata” rispecchia su scala ridotta il mondo e lo stato delle cose perennemente critico del cinema italiano ufficiale, destinato a rimanere uguale

a se stesso senza soluzioni di continuità per decenni (trent’anni dopo La macchina cinema Bellocchio gira Il regista di matrimoni, in cui lo spazio per un cinema cosiddetto d’autore sembra ulteriormente mortificato). Forse è anche per questa ragione che Era San Benedetto, la puntata che fa da apripista all’intero film, si concentra su due sedicenti registi a dir poco principianti. Due perfetti “idioti” del cinema. Specialmente il secondo, Pietro Bartoli, l’impiegato pubblico e sacerdote mancato, che a tempo perso, ma con orgoglio, compone canzoni. Circondato da ragazzini e adulti del paese raccolti attorno al tavolo tocca a lui invocare lo spirito di un suicida. Le istruzioni del defunto Luigi, «al di sopra del regista» Pietro, vanno seguite alla lettera. Luigi è pronto dall’oltretomba a contribuire a questo film medianico e autobiografico a passo ridotto, e Pietro ad attenersi scrupolosamente a questo contributo. Ovviamente Luigi non può comparire nel film con il suo vero nome. Occorre un nome di copertura: Loris. Lo ha scelto per lui Pietro, che ha deciso anche il titolo del film, Era San Benedetto, già utilizzato per una canzone del suo repertorio, un cui verso recita: «Questi fantasmi del passato sempre ritornano da me». Basta dunque un titolo, Era San Benedetto, ad accomunare e a far coincidere un insignificante, improponibile film amatoriale, una canzone e l’intera puntata di La macchina cinema ad essi dedicata. Inoltre Era (di) San Benedetto (del Tronto) Roberto Peci, il fratello minore del brigatista “pentito” Patrizio Peci. Della condanna mortale di Roberto Peci, “giustiziato” nel 1981 dalle Brigate rosse dopo un delirante processo proletario filmato con un’attrezzatura molto rudimentale (una telecamera vhs Telefunken) Bellocchio nel documentario televisivo Sogni infranti recupera le immagini, girate direttamente da Giovanni Senzani.50 Ed è nella chiesa di San Benedetto che il protagonista di Il regista di matrimoni, partito, forse fuggito in Sicilia, si prepara a girare il “film” delle nozze della figlia del principe di Gravina, un principe siciliano post-viscontiano. Sono molti i fantasmi, soprattutto questi fantasmi del passato/presente, ad affiorare in superficie. La superficie della filmografia bellocchiana, da quando il prode Pietro Bartoli ha abbracciato con impegno i sentieri del sovrannaturale, come dopo di lui, per «gioco», il professor Romano Prodi: è «questo – dice Bartoli – l’unico mezzo che [gli spiriti] hanno per comunicare». L’unico mezzo a Ceccano nel 1977. L’unico mezzo anche a Zappolino durante il sequestro Moro. Come Amleto, Bartoli possiede anche un teschio. Gli serve per stabilire un contatto con l’altro ineffabile spirito guida della seduta: quello di tale Antonio, nato due secoli prima, che pur non sapendo nemmeno cosa sia il cinema viene ugualmente reclutato sull’erigendo, improbabile, reale set ciociaro. Perché no? Gli spiriti evocati da Pietro Bartoli non sono fasulli. Né scherzano. Come non scherza la protagonista di La visione del sabba quando sostiene – lo vedremo - di essere una strega che nel corso dei tre

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secoli e mezzo di vita ha incontrato tanta gente, persino Napoleone: un Napoleone che ricorda molto da vicino il presidente democristiano sequestrato e ucciso nella primavera del 1978. Non scherza neanche il verdiano Monterone, accusato da Rigoletto di essere «matto», quando lancia la sua maledizione nel primo atto dell’opera verdiana: Ah sì, a turbare, ah sì, a turbare sarò vostr’orge… Verrò a gridare fino a che vegga restarsi inulto di mia famiglia l’atroce insulto; e se al carnefice pur mi darete, spettro terribile mi rivedrete, portante in mano il teschio mio, vendetta a chiedere, vendetta a chiedere al mondo, al mondo, a Dio.

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Bellocchio porta in scena Rigoletto (storia di maledizione e rapimento che fatalmente si conclude con l’uccisione della vittima, tenuta dentro un sacco) al teatro Municipale di Piacenza tre volte, il 19, 21 e 23 marzo 2004, l’anno dopo Buongiorno, notte. E lo ripropone in diretta mondiale in tre tempi su Raiuno il 4 e 5 settembre 2010 con il titolo Rigoletto a Mantova. I versi appena citati sono appunto quelli di Monterone, colpito nel vivo degli affetti familiari, il quale, prima di essere interdetto, si scaglia duramente contro il Duca e soprattutto contro Rigoletto: «Ah, siate entrambi voi maledetti! […] Slanciare il cane a leon morente/ è vile, o Duca… e tu, serpente,/ tu che d’un padre ridi al dolore,/ sii maledetto!». Questo Monterone è molto shakespeariano, perché ricorda l’Amleto quando si proclama «spettro terribile mi rivedrete, portante in mano il teschio mio, vendetta a chiedere». Come Monterone, seguendo il filo delle coincidenze bellocchiane, si comporta anche Moro durante i terribili cinquantacinque giorni precedenti l’esecuzione. Come Mo(nte)ro(ne), anche il presidente della DC si preoccupa della sua famiglia e sfida, con i ragionamenti lucidi affidati alle lettere, la convinzione diffusa di aver perso il lume della ragione. Era perciò indispensabile che in Buongiorno, notte anche Moro, il Moro di Marco Bellocchio, «potesse risultare incorporeo, un puro spirito o un fantasma persecutorio (come nelle tragedie shakespeariane)».51 La “solennità” e la “formalità” del linguaggio si addicono all’ostaggio, costretto a trovarsi su un’altra tragica “scena”, quella della prigione brigatista. Da cui non smette di ammonire con veemenza e decisione in particolare il segretario Benito Zaccagnini, pur parlando «innanzitutto della DC».52 Cioè, a ragion veduta, «nel modo più formale e, in un certo modo, solenne [corsivi nostri] all’intera Democrazia Cristiana, alla quale mi permetto di indirizzarmi ancora nella mia qualità di presidente del partito». Quindi a «ciascuno degli amici

che sono al vertice del partito e con i quali si è lavorato insieme per anni nell’interesse della DC».53 Moro, già prima di diventare il “personaggio” di cui si sarebbero nutriti giornali, libri, fumetti, spettacoli, trasmissioni e film, si prepara – da vivo – a parlare da morituro. Da uomo cioè già morto. Questa è la “forma” drammatica adottata nelle tre lettere indirizzate (anche) a Zaccagnini e recapitate la prima il 4 aprile, due giorni dopo la presunta seduta spiritica, la seconda e la terza il 20 aprile, due giorni dopo la scoperta del covo di via Gradoli a Roma. Le sue parole, scritte, pesano: «Altrimenti non potrai perdonare te stesso».54 Sembrano quelle di un “solenne” spirito veggente: un prematuro, consapevole «spettro», come viene definito prematuramente dal molto informato Mino Pecorelli nei titoli di due emblematici numeri del sibillino settimanale «OP». Nel primo, del 18 aprile, La lettera segreta di Moro. Uno spettro s’aggira per i corridoi repubblicani, si rende noto con largo anticipo del contenuto della lettera a Eleonora Moro dell’8 aprile («E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro»);55 e quello del 13 giugno, Uno spettro s’aggira per l’Italia, viene infine resa pubblica la lettera.56 Mentre scrive o viene descritto come un «fantasma», Moro si trova condannato anzi tempo a considerarsi forzatamente una presenza del passato. Da presidente e profeta infelice della sentenza di morte incomprensibile che sta per colpirlo, continua infatti a vivere in quel presente che intanto amici e nemici su tutti e due i fronti gli stanno sottraendo, costringendolo ad allungare la propria ombra smaterializzata sul futuro: Se così non sarà, l’avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco.57 Se questo crimine fosse perpetrato, si aprirebbe una spirale terribile che voi non potreste fronteggiare. Ne sareste travolti. […] Io lo dico chiaro: per parte mia non assolverò e non giustificherò nessuno. […] Se voi non intervenite, sarebbe scritta una pagina agghiacciante della storia d’Italia. Il mio sangue ricadrebbe su di voi, sul partito, sul Paese. Pensateci bene cari amici. Siate indipendenti. Non guardate al domani ma al dopodomani. Pensaci soprattutto tu Zaccagnini, massimo responsabile […]. Tu hai dunque una responsabilità personalissima. Il tuo sì o il tuo no sono decisivi. Ma sai pure che, se mi togli alla famiglia, l’hai voluto due volte. Questo peso non te lo scrollerai di dosso più.58

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Farse e tragedie dell’aldiquà

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Le sedute spiritiche o in generale le scienze dell’occulto dialogo con soggetti vivi o preferibilmente morti in Italia hanno fatto storia, seriamente. Non occorre attendere sette mesi perché vada in onda La macchina cinema. La “macchina” della realtà italiana basta a se stessa. Romano Prodi, recandosi a Roma per motivi professionali forse già all’indomani della seduta spiritica del 2 aprile, approfitta per informare il capo ufficio stampa della Democrazia Cristiana, Umberto Cavina, del nome «Gradoli» (dopo «Bolsena» e «Viterbo») emerso in quella circostanza atipica. Cavina comunica l’informazione a Luigi Zanda Loy, attuale capogruppo dei senatori del Partito Democratico, all’epoca addetto stampa del ministro dell’Interno Cossiga. Zanda Loy a sua volta la passa al capo della Polizia Giuseppe Parlato. Ne consegue, a quanto pare, un intervento della Polizia nell’omonimo paesino in provincia di Viterbo, ma si tralascia la via Gradoli romana dove il 18 aprile sarà invece scoperto il covo brigatista in cui avevano abitato fino a qualche ora prima Mario Moretti e la sua compagna Barbara Balzerani. Questa, per sommi capi, la sequenza dei fatti, arcinoti. Ma per coglierne in pieno l’enormità ripercorriamo alcuni passaggi della deposizione davanti alla Commissione Moro di Prodi del 10 giugno 1981 che qui si riportano fedelmente. I principali interlocutori dell’allora ministro dell’Industria sono il senatore del Partito Comunista Italiano Sergio Flamigni e l’onorevole del Partito Radicale Leonardo Sciascia: Flamigni: Dopo la seduta spiritica… Prodi: No, veramente era un gioco. Flamigni: Non si può chiamare seduta spiritica. Prodi: Non me ne intendo, mi dicono che ci vuole un medium. Flamigni: Comunque il risultato, la conclusione è che almeno quando viene fuori la parola «Gradoli» le si attribuisce importanza perché lo si comunica alla segreteria nazionale della Democrazia Cristiana, al capo della Polizia; poi, si muove tutto l’apparato. Prodi: Quando l’ho comunicato a Cavina […] m’ha detto che ce ne sono state quarantamila di queste cose. Fino al momento del nome, non era stato molto importante; per scrupolo (non esiste sulla carta geografica) lo comunichiamo… Una cosa è quando è uscita via Gradoli…

Flamigni: Capisco bene… è uscita via Gradoli. Ma se dopo un gioco del genere se ne dà comunicazione e arriva al tavolo del capo della Polizia, indiscutibilmente un minimo di importanza gli è stato attribuito. Prodi: Il perché l’ho spiegato. Razionalmente, avrebbe agito anche lei. Flamigni: Sì, non lo so. Non me ne intendo di queste cose. Fra l’altro vi è un particolare (lo leggevo prima sul verbale); lo impara anche la Digos di Bologna tramite un vostro collega. Prodi: Il giorno dopo avevamo il consiglio di Facoltà e raccontavamo a tutti la cosa. Glielo confermo. Flamigni: Risulta agli atti il professor [Augusto] Balloni che parla e riferisce al dottor [Umberto] Iovine. Prodi: Perché lui conosceva in questura, direttamente. Flamigni: Quindi, per la verità, non è il solo che attribuì importanza alla notizia perché anche il professor Balloni, pur non avendo partecipato al gioco (non era tra i partecipanti al gioco)… Prodi: No, lo raccontavo; era fuori, in attesa del consiglio di Facoltà. […] Flamigni: Quindi, fu un incontro casuale che lei ebbe con Balloni; non lo cercò per dirgli questo. Prodi: No, ero in attesa del consiglio di Facoltà. Flamigni: Lei venne appositamente a Roma per riferire a Cavina? Prodi: No, c’era un convegno… non ricordo su che cosa, e dovevo venire a Roma. Flamigni: E quanti giorni dopo il “giochetto”? Prodi: Due-tre non ricordo, non so se il consiglio di Facoltà si tenne lunedì o martedì o viceversa, ma sostanzialmente, subito.

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Flamigni: Risulta perché il 2 aprile è la data del “gioco” e le forze di Polizia si muovono per le perquisizioni a Gradoli il giorno 4. Prodi: Su questo posso andare a controllare l’agenda e penso di poter dire quali impegni avevo a Roma, se importanti o no. Ero comunque a Roma per altri motivi, glielo assicuro.59 […]

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Prodi: […] Tra i partecipanti alla seduta vi ero io, che sono un economista, il professor [Fabio] Gobbo, che ha la cattedra a Bologna di politica economica, il professor [Alberto] Clò, che ha l’incarico di economia applicata all’Università di Modena e che si interessa di energia, ma di petrolio, non di fluidi. Vi era anche suo fratello [Carlo Clò] che è un biologo (non so di quale branca, anche se mi pare genetica) e vi era il professor [Antonio] Baldassarri che è economista, ha la cattedra di economia politica all’Università di Bologna. Tra le donne vi erano mia moglie [Flavia Prodi], che fa l’economista, la moglie del professor Baldassarri [Gabriella Baldassarri], laureata in economia, ed altre che non so cosa facciano professionalmente. Sciascia: Nella lettera che è stata mandata alla Commissione, firmata da tutti voi,60 si dice che la proposta di fare il gioco è partita dal professor Clò. Prodi: Perché era il padrone di casa. Sciascia: Nella lettera si aggiunge che tutti vi parteciparono a puro titolo di curiosità e di passatempo, che la seduta si svolse in un’atmosfera assolutamente ludica. Prodi: Vi erano cinque bambini al di sotto dei dieci anni! Sciascia: Si dice anche che nessuno aveva predisposizione alcuna di tipo parapsicologico o, comunque, pratica di queste cose. Ma una certa pratica di queste cose qualcuno doveva pure averla! Prodi: Certo, a livello di gioco, la tecnica era conosciuta; però pratica di queste cose direi che non vi fosse. Ripeto, a posteriori, mi sono reso conto che vi è gente che tutte le sere lo fa! Sciascia: Tra i dodici, qualcuno aveva pratica di queste cose?

Prodi: Intendiamoci sulla parola pratica, onorevole Sciascia. Se qualcuno lo aveva fatto altre volte voi lo potrete sapere chiedendo agli altri, ma nella nostra lettera abbiamo detto che non vi era nessuno che, con intensità, si dedicava a questo. Naturalmente vi era qualcuno che, altre volte, l’aveva fatto. Sciascia: Francamente, io non saprei farlo. Prodi: Anche io non sapevo farlo! Non ne avevo la minima idea e, infatti, mi sono incuriosito moltissimo. Sciascia: La contraddizione che emerge è questa: se c’è una seduta di gente che crede negli spiriti o, comunque, nella possibilità che si verifichino fenomeni simili, se c’è una seduta di questo genere – ripeto – e ne viene fuori un certo risultato del quale ci si precipita a informare la Polizia e il ministero dell’Interno lo posso capire benissimo, ma che si svolga tutto questo in un’atmosfera assolutamente ludica, presenti i bambini, per gioco, e che poi si informi di ciò la Polizia attraverso la mediazione di uno che non era presente al gioco, e se ne informi quindi il ministero dell’Interno, a me sembra eccessivo e contraddittorio. Prodi: Ma è venuto fuori, onorevole, un nome che nessuno conosceva! Anche se ci siamo trovati in questa situazione ridicola, noi siamo esseri ragionevoli. Ci siamo chiesti tutti: Gradoli nessuno di voi sa se ci sia? Se soltanto qualcuno avesse detto di conoscere Gradoli, io mi sarei guardato bene dal dirlo. È apparso un nome che nessuno conosceva, allora per ragionevolezza ho pensato di dirlo. Sciascia: Direi per irragionevolezza. […] Sciascia: Chi ha deciso di comunicare all’esterno il risultato della seduta? Prodi: L’ho fatto io perché ero l’unica persona che conoscesse qualcuno a Roma. Ho parlato con tutti, con Andreatta eccetera. Non è che ho telefonato di urgenza; ho detto vado a Roma e lo comunico. Questo è stato deciso una volta che si è saputo che esisteva questo paese [Gradoli] che nessuno conosceva. Sciascia: Ora le farò una domanda che farò a tutti. Lei ha mai conosciuto nessuno accusato o indiziato di terrorismo?

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Prodi: Mai. […] Flamigni: Avevo fatto la domanda se lei era venuto a Roma appositamente perché nel verbale di interrogatorio del giudice al dottor Cavina, lo stesso Cavina riferisce: «Per quanto riguarda la notizia concernente la località Gradoli, essa mi fu fornita dal professor Romano Prodi, attualmente Ministro. Il professor Prodi m’incontrò nei pressi dell’ingresso della sede della DC in piazza del Gesù. Preciso che egli era venuto appositamente per riferirmi la notizia». Prodi: Appositamente per riferire la notizia; non c’è alcun dubbio. Flamigni: «Manifestò un certo imbarazzo nel riferire la notizia, perché, come mi disse, era il risultato di una seduta spiritica». 56

Prodi: Io sono andato apposta da Cavina, non a Roma. Voi mi avete chiesto se ero venuto appositamente a Roma. Posso guardare nella mia agenda e dirvi esattamente, ma sapevo che dovevo venire a Roma e ne ho approfittato. Flamigni: Qui Cavina precisa: «Manifestò un certo imbarazzo nel riferire la notizia, perché, come mi disse, era il risultato di una seduta spiritica tenuta a Bologna e alla quale aveva partecipato con alcuni professori». Prodi: Quello è il linguaggio di Cavina, non mio: tutti i giornali hanno parlato di una seduta spiritica. Io ho raccontato i fatti: non si fa spiritismo con cinque bambini che fanno confusione!61

Si potrebbe commentare questa come le successive audizioni riguardanti la famosa seduta spiritica, usando una battuta di Bellocchio: «Certamente tragedia e farsa convivevano in quegli anni».62 Chiediamoci allora: nel 1978, nel caso Moro come in La macchina cinema, è possibile distinguere il serio dal faceto, la logica dal delirio, la verità dalla farsa, la sanità mentale dalla follia? Certo, Bellocchio, consapevole di «com’era delirante il clima di allora»,63 a metà degli anni Novanta ne dà conto in Sogni infranti. Ragionamenti e deliri, sin dal titolo. Ma già alla fine del 1977, in qualche modo con cognizione di causa e sostanziale effetto rimandato all’anno successivo, tra autoironia, sete d’inchiesta e autocritica, offre un assaggio di questo clima: con la complicità di Agosti, Rulli e Petraglia si interessa alle imprese cinematografiche di quei “matti da slegare” ciociari che vogliono

fare il cinema interrogando i defunti. Una locandina del loro precedente film-inchiesta Matti da slegare è affissa sulla parete durante la «Prima edizione della rassegna cinematografica “La ciociara”» organizzata da De Bonis e Bartoli. I quali sono di sicuro due “matti” a piede libero, ma a posteriori si può dire che involontariamente il caso Moro li abbia predestinati a trovarsi in buona compagnia. In compagnia anche dei “ragionevoli” economisti bolognesi, a loro volta “slegati”, entro certi limiti. Quanto basta per entrare in contatto con occulte entità piuttosto informate sulla possibile ubicazione della prigione di Moro: Flamigni: Sarebbe dunque importante quantificare [e stabilire] quali furono le domande. Prodi: Questo non ha niente a che fare con la tecnica del gioco ed è evidente che me lo ricordi. Le domande erano: dov’è Moro? Come si chiama il paese, il posto in cui è? In quale provincia? È nell’acqua o nella terra? È vivo o no.64 57

Audizioni pirandelliane Ogni commento è superfluo. E scontato anche il calembour su come per “occultismo” si possa intendere un bizzarro “occultamento” delle non improbabili fonti molto terrene. Meno scontato è accorgersi di come il dilemma sulla presunta scientificità di un “intrattenimento” paranormale, foriero di una verità altrimenti indicibile, forse salvifica per il condannato Moro ma puntualmente disattesa, possa trasformarsi con Bellocchio in motivo di profonda riflessione sulla credibilità complessiva e sulla complessità di ciò che rende credibili vicende imbarazzanti e protagonisti imbarazzati. Drammaticamente “ridicoli”, per usare uno degli aggettivi più ricorrenti nel corso delle deposizioni davanti alla commissione Moro dei partecipanti alla seduta spiritica. Lo usa il senatore comunista Salvatore Corallo durante l’audizione di Prodi, come premessa: Per farla sentire meno ridicolo, dato che questa sensazione è un po’ comune a tutti… Mi scusi professore, vorrei dirle che la scrupolosità della Commissione parte da un’ipotesi che dobbiamo accertare essere inesistente, e cioè – non credendo molto agli spiriti – se ci possa essere stato qualcuno capace di ispirarli. Questa è la ragione per la quale la Commissione si è permessa di incomodarla; al fondo c’è una ipotesi e noi dobbiamo poterla escludere ed arrivare alla conclusione che si trattò di un gioco e di una coincidenza.65

Congedato Prodi, con Clò il “copione”, se ci è permesso chiamarlo così, si ripete: Sciascia: Dal momento che avete scoperto che Gradoli esisteva sulla carta geografica, quelle località stavano a parità di merito. Moro poteva trovarsi a Viterbo, a Bolsena come a Gradoli. Perché avete privilegiato proprio Gradoli? Clò: Perché ci aveva colpito il fatto di riscontrare l’esistenza di un paese con un nome che nessuno di noi conosceva. […] Perché tutti si meravigliarono di fronte a quel termine. Nessuno dei dodici disse di sapere cosa significava quel nome. Era pertanto evidente che si sottolineasse di più questo termine, che riscontrammo essere una località geografica, proprio perché non lo conoscevamo.

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Sciascia: In Italia ci sono ottomila comuni. Il nome di quattromila di questi non lo conosciamo. Non c’era quindi da stupirsi che non si conoscesse Gradoli. Clò: Non è che ci meravigliammo perché esisteva un comune che non conoscevamo, ma perché era venuto fuori un termine che non conoscevamo, che successivamente riscontrammo esistere. Sciascia: Voi non lo conoscevate, ma il piattino sì. Non c’era alcuna differenza agli effetti del sospetto che l’onorevole Moro potesse trovarsi nascosto in queste località. Clò: Una prima ragione per cui a mente c’è rimasto Gradoli è perché su Gradoli si è verificato il riscontro tra una indicazione ignota e l’esistenza sulla cartina. In secondo luogo, raccontando non parlammo prima di Gradoli, ma dicemmo anche di Viterbo e di Bolsena. Anche raccontando agli amici, nei giorni successivi, abbiamo detto che erano usciti tre nomi. Sciascia: In effetti, è stato preferito Gradoli. […] Un’ultima domanda, che io [ho] rivolto a tutti: lei conosce qualcuno indiziato o imputato di terrorismo?66

Per vie contorte, imperscrutabili, parapsicologiche, farsesche, come quelle intraviste da Fellini e Bellocchio – più romanzesche dei romanzi, più stravaganti dei sospetti di una moglie timidamente gelosa e sottomessa (Giulietta degli spiriti), più sgangherate dei film amatoriali girati a Ceccano (La macchina cinema) – ma meno paradossalmente di quanto si possa ri-

tenere, sono passati e continuano con ogni probabilità a passare scorci impressionanti di ciò che in Italia chiamiamo per antica, un po’ pirandelliana abitudine, “verità”. Se uno scrittore, un commediografo, uno sceneggiatore o un regista cinematografico si limitassero a trascrivere queste audizioni, metterle in scena o in quadro, dovrebbero solo capire a chi rivolgersi per i diritti d’autore. Ai personaggi stessi, che entrano ed escono di scena uno dopo l’altro, o al Parlamento italiano? Comunque sia, a proposito di scrittori, in quest’occasione le circostanze hanno voluto che sia spettato proprio a Sciascia, attento lettore ed esegeta di Pirandello, accorgersi subito di come il tragico e il grottesco nel caso Moro siano andati di pari passo. Se è stato per lui necessario ricorrere al paradosso per cercare di far luce sulle contraddizioni, c’era da aspettarsi, in quanto scrittore, che non avrebbe votato la Relazione di maggioranza DC-PCI della Commissione Moro. Per scriverne appunto una tutta sua, di minoranza, di appena venti pagine, il 22 giugno 1982. Dove potersi dedicare diffusamente alla seduta spiritica con stile e raziocinio letterario: Ma il nome Gradoli era già corso nelle indagini, e vanamente, grazie a una seduta spiritica tenutasi nella campagna di Bologna il 2 aprile. E non meravigli che negli atti di una Commissione parlamentare d’inchiesta si parli, come in una commedia dialettale, di una seduta spiritica: ma dodici persone, come si suol dire, degne di fede, e per di più appartenenti al ceto dotto della dotta Bologna, sono state sentite una per una dalla Commissione e tutte hanno testimoniato della seduta spiritica da loro tenuta e da cui è venuto fuori il nome Gradoli. Non una di loro si è dichiarata esperta o credente riguardo a fenomeni del genere; tutte hanno parlato di un’atmosfera «ludica» che attorno al «piattino» e agli altri elementi necessari all’evocazione, si era stabilita in un pomeriggio uggioso: di gioco, dunque, di passatempo. E non solo tutti sembravano, nel riferire alla Commissione, credere alla semovenza del «piattino»: ma di fatto ci credettero, se l’indomani ne riferirono alla Digos di Bologna e, successivamente, al dottor Cavina, capo dell’ufficio stampa dell’onorevole Zaccagnini. Tra i farfugliamenti del «piattino», un nome era venuto fuori nettamente: Gradoli. Poiché c’è in provincia di Viterbo un paese di questo nome, la polizia vi si recò in forze, presumibilmente facendovi le solite perquisizioni a tappeto; e senz’alcun risultato, si capisce. Il suggerimento della signora Moro, di cercare a Roma una via Gradoli, non fu preso in considerazione; le si rispose, anzi, che nelle «Pagine gialle» dell’elenco telefonico non esisteva. Il che vuol dire che non ci si era scomodati a cercarla quella via, nemmeno nelle «Pagine gialle»: poiché c’era. All’appartamento di via Gradoli […] si arriva finalmente, e per caso, alle 9.47 del 18 aprile: a tamponare una dispersione d’acqua, non a sor-

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prendervi dei brigatisti. E qui è da notare che una specie di fatalità idrica incombe sulle Brigate rosse, non essendo quello di Via Gradoli il solo caso in cui un covo viene scoperto per la disfunzione di un condotto. E del resto abbiamo parlato di spiriti, potremmo anche parlare di veggenti che nella vicenda hanno avuto un certo ruolo: perché non parlare della fatalità? […] Insomma, tutto quel che intercorre dal 18 marzo al 18 aprile intorno al covo di via Gradoli attinge all’inverosimile: spiriti (che in una lettera inviata dall’onorevole Tina Anselmi alla Commissione appaiono molto meglio informati di quanto poi riferito dai partecipanti alla seduta), provvidenziale dispersione d’acqua (la Provvidenza aiutata, per distrazione o per volontà, da mano umana), assenza della più elementare professionalità, della più elementare coordinazione, della più elementare intelligenza.67

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Quando l’«inverosimile» diventa inversamente proporzionale all’«intelligenza» poco importa che la seduta spiritica di Era San Benedetto, dentro La macchina cinema, sia anteriore a quella di Zappolino, di cui ugualmente si viene a sapere in un secondo momento. Nell’illogicità che sommerge ogni sana considerazione, è persino sintomatico che le risultanze del «gioco» bolognese diventino di pubblico dominio solo a metà di ottobre. E che ciò avvenga un paio di settimane prima della messa in onda di Era San Benedetto: in fondo i due avvenimenti non molto dissimili, presentati, teletrasmessi in differita o resi noti a posteriori, bastano a rendere paradossale la necessità di distinguere il prima dal dopo o l’effetto dalla causa. Almeno non serve granché una simile distinzione nel caso Moro, stante la trasmissione di notizie sensibili giunte al ministero degli Interni direttamente dall’aldilà, a riprova di come la supposta realtà storico-politica non sia meno eccentrica di una trasmissione televisiva in vena di riflessioni sul cinema o del cinema (La macchina cinema). Quel che si va generando in quel frangente drammatico, anche abbastanza tragicomico, è un cortocircuito o un’esemplare coincidenza, non necessariamente voluta o pilotata. Comunque sia coerente o perlomeno sensata se collocata nell’incontenibile mole di testi e sottotesti che compongono la Moroteca di Babele. Dove l’evento fortuito e involontario (il caso) partecipa della vicenda eccezionale, clamorosa, che fa scalpore a livello nazionale e internazionale (il caso Moro). Detto ciò, le sorprese di La macchina cinema non sono finite. Spostiamoci nella puntata successiva, dal titolo Periferie, girata a novembre del 1977, a Bobbio, città natale di Bellocchio. Nella parte finale della puntata un ex capo partigiano, intervenendo nel dibattito improvvisato a tavola sulla crisi del cinema italiano, muove un preciso rimprovero proprio all’illustre concittadino e ai suoi colleghi registi di La macchina cinema:

Oggi dovreste essere […] dove ci sono i fatti, insomma. Perché domani mattina apriamo il giornale e troviamo dei fatti. […] Però [per] ricercare le verità, col cinema che è un arma potente per cercarla, voi dovreste essere – non so – in un covo – se vi accettano, che non vi sparino nelle gambe – di Brigate rosse, o nere, quel che siano, insomma. Ecco, allora lì, quel cinema può esser vivo se rispetta, cioè se ricerca ‘sti fatti, se va alla ricerca di queste verità.

Rimprovero che assume una connotazione ben diversa, nuova, illuminante a un anno esatto dalle riprese, l’8 novembre 1978, quando va in onda la puntata. Accade così che le strade estemporanee che intendono condurre – e conducono – in un covo brigatista si intersecano: le indicazioni provenienti dalla seduta spiritica dei cattedratici bolognesi si saldano all’estemporanea provocazione di un ex partigiano. Provocazione puntualmente recepita dall’autore di Buongiorno, notte, pronto dopo un quarto di secolo a prendere alla lettera l’invito/rimprovero e a rendere «‘sti fatti» molto funzionali al suo discorso registico. Nel senso che non li rievoca semplicemente, ma se ne serve come di pretesti per poter dire ben altro. Da un lato li scavalca, ne fa emergere la contraddittorietà, li dota di valenza significativa insospettabile, dall’altro li colloca in una dimensione dove conta l’onnipresenza e il contributo esplicativo del medium televisivo: Ma oltre i fatti, già scrivendo, io incominciavo a vedere lo spazio chiuso e “sconfinato” dell’appartamento, vero palcoscenico della rappresentazione, prigione della prigione, con tutte quelle inferriate e le tende e le tapparelle, la televisione sempre accesa, l’occhio di Dio, il grande, democratico fratello. Insomma la cronaca fu il punto. La sceneggiatura nella borsa, il libro sui partigiani, i canarini, le minestre di verdura eccetera eccetera furono gli spunti iniziali, poi cambiò tutto nella sceneggiatura.68

Ecco elencati in perfetto ordine tutti i punti sensibili della segreta corsa a ostacoli di cui ci stiamo occupando: 1) «La sceneggiatura nella borsa»; 2) «il libro sui partigiani»; 3) «i canarini»; 4) «le minestre di verdura». Non manca niente. Perché a modo in un covo, quel covo (per usare il suo stesso ossimoro: «lo spazio chiuso e “sconfinato” dell’appartamento»), Bellocchio si è infine recato. Lo ha reinventato, figurandoselo e facendolo ricostruire a Cinecittà, come set prevalente di Buongiorno, notte. Prestando daccapo attenzione a La macchina cinema, cioè anche alla seconda puntata dedicata alle Periferie velleitarie del cinema, vediamo sfumare il confine tra realtà e immaginazione. E prevalere la logica non sempre cronologica e lineare sottesa agli eventi. Logica imperscrutabile, indicibile, immaginaria. Perciò non riducibile né riconducibile all’esatta corrispondenza tra i «fatti», «‘sti

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fatti», «queste verità» e la loro esatta collocazione nel tempo. Un tempo segnato sul quadrante di un orologio che alle volte reclama evidenza, altre volte si rivela ambiguo e ingannevole. Un tempo perduto e rivelato con strana insistenza dalle inquadrature ricorrenti, sconcertanti, incongruenti delle lancette ferme dell’orologio sulla parete esterna del castello/manicomio/prigione di Enrico IV, uscito nelle sale nel 1984, un anno dopo la conclusione dei lavori della Commissione Moro. Un tempo altresì esasperato in Il regista di matrimoni dalle lancette dei tanti orologi non sincronizzati che Elica si sofferma a guardare perplesso in una stanza del palazzo principesco. Come La macchina cinema anche Il regista di matrimoni, immediatamente successivo a Buongiorno, notte, è un film sul cinema. Deve esserlo, per ovvie ragioni. Un film sul senso del non (poter) fare cinema e non poter adeguatamente dire con il cinema in Italia, se non decidendo di farlo a livello amatoriale, senz’arte né parte. Amatoriali sono quindi le immagini dei film girati nella prima puntata di La macchina cinema o altrettanto amatoriali, tragicamente sporche e crudeli sono le riprese video che documentano il criminale e delirante «processo proletario» a Roberto Peci. Bellocchio ci tiene a riproporle quattordici anni dopo in Sogni infranti. A conferma di come il tempo si sia fermato a La macchina cinema e di come dal 1977-1978 (La macchina cinema, tra riprese e messa in onda) al 2005 (Il regista di matrimoni), dal 1978 al 2003 (gli eventi reali e la loro oscura trasposizione in Buongiorno, notte) scatti un sistema di corsi, ricorsi, retroazioni televisive e interferenze cinematografiche. Un sistema dove i conti, per quanto assurdi e insensati, tornano sempre e, in mancanza di logica, le analogie prevalgono. O le concordanze si moltiplicano. Ogni strada nella successiva filmografia bellocchiana sembra riportare a questo film “minore” e non (completamente) suo: La macchina cinema. Qui tutto sembra essere cominciato. Qui, volenti o nolenti, con un anno d’anticipo o pochi mesi di ritardo, a seconda delle prospettive cronologiche mai a senso unico, i demenziali personaggi di Era San Benedetto hanno precorso gli economisti di professione che per diletto domenicale o per necessità dialogano con l’occulto. Riassumendo questa suggestione provocata dai film di Bellocchio dal 1978 in poi se ne ricava una serie di proposizioni consecutive ai limiti del paradosso logico-temporale. Proviamo a ripercorrerle in rapida successione, d’un fiato: se il cinema riflette la realtà, e se questi militi ignoti o neo “matti da slegare” di un sottocinema concepito a esclusivo uso e consumo di una piccola comunità laziale che i film li fa come può e come crede, riflettono provocatoriamente le dinamiche anche del cinema ufficiale (la prima puntata, Era San Benedetto, rimanda alla quinta, Una vita per il cinema, così come la seconda, Periferie, con i suoi riferimenti ai covi brigatisti rimanda a Buongiorno, notte) o rimandano ai processi filmati dalle Brigate rosse e al panorama del cinema d’autore o

amatoriale odierno senza soluzioni di continuità (da La macchina cinema a Sogni infranti e Il regista di matrimoni), può darsi che persino la seduta spiritica di Ceccano, differita ma non troppo differente rispetto a quella di Zappolino, rifletta la seriosa messa in scena della ricerca della verità sul caso Moro. Portandone allo scoperto l’effetto parodistico, spietato. Una burla? Forse. Ma più che una burla, una situazione da “Bulla”, il cognome assegnato al conte bullo/burlesco di L’ora di religione circondato di sodali vagamente massonici (tra cui lo stesso Bellocchio guarda caso in veste di attore), pronto a sfidare a duello l’ilare e irrispettoso pittore Ernesto Picciafuoco. Sui cognomi bellocchiani, meno metaforici di quanto appaiano, occorrerà intendersi una volta per tutte. Però più avanti.

Il montaggio (del) principe Smarrita nel girotondo dei giorni del sequestro la linea di demarcazione tra vero e falso, realtà e finzione, prima, durante e dopo, il cinema e la televisione in preda a una coazione a ripetere tornano a prendere il sopravvento. E con essi il montaggio. «Il cinema è montaggio»69 dichiara solennemente il principe di Gravina a colloquio con il povero Baiocco in Il regista di matrimoni. Quest’idea del cinema non può certo trovare d’accordo né un regista come Franco Elica, rimasto in disparte ad ascoltare, né tantomeno Bellocchio, il quale cerca di fissare il più a lungo possibile un’immagine forte, determinante, epifanica, focalizzando e isolando spesso e volentieri i protagonisti al centro di un contesto estraneo ed ostile, psicologicamente lontano, troppo frenetico e convulso. Di esempi in questo senso se ne possono trovare tanti. Basti pensare all’interminabile, estenuante scena iniziale di Marcia trionfale (1976), in cui il giovane marmittone Passeri è costretto a ripetere in continuazione e a voce sempre più alta «Soldato Paolo Passeri, seconda compagnia, secondo plotone, terza squadra, comandi!», mostrando i progressivi segni dello sforzo psichico eccessivo cui è sottoposto (e con lui lo spettatore, costretto a una visione prolungata e senza stacchi di montaggio). O al viaggio in macchina che apre Enrico IV con il paesaggio, i pensieri e i ricordi dei passeggeri assorti lasciati scorrere all’esterno, oltre il finestrino. Una soluzione visiva che torna in Diavolo in corpo, mentre Giulia si sta recando in tribunale e più volte Andrea, seguendola in motocicletta, si accosta al finestrino dell’automobile. O che connota di continuo l’insistenza con cui i due amanti di questo film cercano di ritagliarsi un provvisorio spazio di piena intimità fisica e sentimentale, in barca, a letto, ovunque sia loro concesso appartarsi. Ritroviamo questa soluzione visiva nelle scene di battaglia molto stilizzate di Il principe di Homburg, in cui il giovane impulsivo principe va alla carica e cerca la mischia. E in La balia negli sposta-

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menti in carrozza della giovane puerpera analfabeta e del dottor “Mori”, a proposito di cognomi (in questo caso di diretta derivazione pirandelliana, non tanto da impedire però di far pensare al ricorrente caso “Moro” nella filmografia di Bellocchio). O ancora mentre attorno impazzano i velleitari tumulti di piazza di matrice socialista. Persino in Vincere viene sottolineata con le stesse modalità la singolarità della coppia Dalser-Mussolini che celebra il battesimo del sangue e del fuoco passionale nel bel mezzo di una manifestazione di protesta di giovani socialisti rivoluzionari messi in fuga dalle forze dell’ordine. Bellocchio indubbiamente non può certo dirsi un assertore del «montaggio come concretamente sovrano»,70 caro invece ai cineasti sovietici degli anni Venti o – chissà perché – anche al principe siciliano di Il regista di matrimoni. Questa idea della centralità del montaggio, che svolge una funzione sia estetica che ideologica decisiva nella prassi e nella teoria dei capolavori sovietici di una certa epoca del cinema, non appartiene all’autore di Il regista di matrimoni, che pure sa di doverci fare i conti. In Vincere si intravedono le immagini di Ottobre (Okiatbr’, 1927) di Sergej M. Ėjzenštejn, come in Buongiorno, notte ci si è imbattuti in frammenti di Tre canti su Lenin (Tri pesni o Lenine, 1934) di Dziga Vertov, accostati e opportunamente contrapposti a quelli di Paisà (1946) di Roberto Rossellini. Il motivo è semplice: se almeno dalla fine degli anni Cinquanta una nuova concezione ontologica ed evoluzionistica del cinema propone l’etica della realtà e del montaggio addirittura «proibito»,71 condivisa nel 1959 inevitabilmente da Rossellini (il quale era stato innanzitutto «l’autore di Paisà»,72 motivo in più per inserirlo nel tessuto intermediale di Buongiorno, notte), è anche vero che in Italia l’eredità teorica del «montaggio sovrano» resta salda negli anni Sessanta, e oltre. Quando Bellocchio esordisce con I pugni in tasca in Italia c’è chi sostiene che altrettanto ontologicamente «il film ci mette di fronte a una successione di “questo + questo + questo ecc.”, una successione di rappresentazioni di un presente, gerarchizzabili solo in fase di montaggio».73 Ciò non toglie che il montaggio abbia i suoi meriti. Consente di assemblare spazi e tempi apparentemente lontani, liberamente e senza condizionamenti. Consente di agire sulla dimensione temporale del film riposizionando inquadrature e scene secondo diverse e rinnovate prospettive narrative, storiografiche e filmologiche. È grazie a un montaggio poco ortodosso sul piano storico che Bellocchio può permettersi in Buongiorno, notte di lasciare Moro libero di andarsene in giro all’alba per le strade del quartiere romano della Magliana immediatamente dopo l’annuncio della condanna a morte da parte delle Brigate rosse. Ed è sempre grazie al montaggio che in questo film intere scene guadagnano posizione in contrasto con la cronologia ufficiale del caso Moro. Il potere suggestivo di contraddire e rifare la storia, ipotizzarne percorsi alternativi, cioè di sovrapporre e so-

stituire il discorso filmico al corso storico degli eventi non può che indurre l’autore emiliano a fare del principe di Il regista di matrimoni un convinto assertore del valore assoluto del montaggio cinematografico. Ecco che Bellocchio, dopo aver “rimontato” il caso Moro in Buongiorno, notte, elaborando un tessuto magmatico, per niente lineare o statico, in Il regista di matrimoni affronta la questione sul piano teorico. Per interposta persona. Meglio, per interposto personaggio. L’assunto categorico del montaggio, di lunga tradizione, si presta molto bene a rappresentare i recessi inconfessabili del caso Moro. Ma il cineasta preferisce dichiararlo apertamente e metterlo ancora in pratica nel film seguente. E lo fa per bocca del principe di Gravina, affidato al francese Samy Frey. Non potrebbe del resto che essere francese l’attore scelto (per interpretare anche – e in misura relativa e contingente – Bellocchio), come unica e insostituibilmente francese è la nozione generale di découpage, distinta in due fasi: quella delle riprese («découpage nello spazio») e quella appunto del montaggio propriamente detto («découpage nel tempo»).74 Un principe è il degno portavoce del principio stesso del montaggio, di una concezione del montaggio principe (o «sovrano»). Il rango dello strano personaggio da solo basta a giustificare una dichiarazione così perentoria, saccente, ai limiti dell’insolenza intellettuale. Giocando ancora un po’ con le parole, diciamo pure che a un principe, eccentrico ed enigmatico, si confà una boriosa affermazione di principio. Non priva di efficacia.

Onorati, onorevoli, preferibilmente morti Il caso Moro in Bellocchio comporta sempre una riflessione sul cinema. Forse anche per questo ci piace credere che La macchina cinema sia un’opera molto paradigmatica, da cui è divertente ogni volta riprendere il filo del discorso. Un’opera a più mani in cui si moltiplicano episodi, piccoli e grandi, che riportano sempre l’attenzione su strumenti, luci e ombre del mestiere. E, per Bellocchio, anche sul proprio ambiente di appartenenza: Facevo anch’io il moralista nei confronti del cinema o almeno di un certo cinema, però a modo mio perché ero un cineasta e non potevo non riconoscermi in una serie di persone che venivano criticate (tant’è vero che nella scena dei premi al cinema premiavano anche me, io prendevo il premio e poi si criticava insieme questo fatto – la scena poi è stata tagliata perché venuta male tecnicamente).75

Fare cinema vuol dire effettuare riprese, riprendere la realtà, qualcosa e qualcuno. Le varie accezioni del verbo “riprendere” in qualche modo si prestano abbastanza all’operazione di La macchina cinema. “Riprendere”

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vuol dire filmare, ma anche afferrare di nuovo qualcosa (magari qualcosa di nuovo), infine muovere un rimprovero. Ricapitoliamo: alla fine della puntata Periferie Bellocchio e i suoi colleghi sono stati “ripresi” dall’ex partigiano perché perdevano tempo a “riprendere” cose e persone poco interessanti e non “riprendevano” in mano realtà più scottanti, ad esempio un covo brigatista. L’esperienza di La macchina da cinema, in cui si riprendono gli altri, si ri-prende coscienza del proprio compito dietro la macchina da presa tramite gli altri e si viene ripresi (“rimproverati”) da altri consente a Bellocchio di interrogarsi sul significato di essere o sentirsi autore. E – si sarebbe detto una volta – di criticare il sistema e fare nel contempo autocritica dall’interno del sistema. I rimproveri mossi in questo film sono perciò autoreferenziali. Racconta Stefano Rulli:

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In quel periodo Marco s’interrogava seriamente sul ruolo del regista. Vedendo a posteriori La macchina cinema, nei personaggi che lui cercava e nelle domande che poneva emerge il Leitmotiv legato all’ansia del ruolo: come il successo e l’immagine che gli altri ti danno finiscono per integrarti e ti impediscono di cercare. C’è da dire che Marco ha sempre avuto la capacità di fare agli altri domande che prima ha fatto a se stesso, c’è sempre una dimensione positivamente autobiografica in quello che chiede…76

A giudicare dai successivi Diavolo in corpo, Sogni infranti e Buongiorno, notte, è servito vedersi rimproverare, quindi rimproverarsi ciò che allora non si è voluto filmare (i luoghi inaccessibili del terrorismo). È servito a interrogarsi sulla situazione urgente e possibile in cui la (sua) macchina da presa allora non si è trovata. In quel lontano 1977, che assume una ben diversa connotazione nel 1978, Bellocchio, coautore di La macchina cinema, partecipa a una ricognizione sul campo e in campo di un mondo al quale non può dichiararsi del tutto estraneo, prendendo le mosse dal cinema amatoriale, minoritario, fatto da registi mancati, mancanti o in definitiva “di matrimoni”, finti, veri, simbolici. Un cinema scadente, impegnato sul fronte mistico e su quello umilmente auto-promozionale, tra sedute spiritiche e premiazioni fatte in casa. Un cinema molto naïf che in quel momento ha il potere di scatenare associazioni di idee a largo spettro. Un cinema folle e compulsivo, fin troppo underground che si riallaccia per vie molto traverse tanto ai risvolti più bislacchi del caso del Moro prigioniero (le sedute spiritiche e l’intero indotto paranormale) quanto alle pratiche del cinema italiano mainstream, concepito a immagine e somiglianza di una nazione non meno folle, tragica, prigioniera di rappresentazioni farsesche. A tal riguardo sorprende in misura molto relativa una battuta del film di Petri Todo modo: «Se gli esercizi spirituali sono condotti bene qualcosa succede sempre. Non lo sapeva? E’ come nelle sedute spiritiche».

Ecco, il cinema italiano trascorso (La macchina cinema) o quello attuale (Il regista di matrimoni) non smettono mai di essere ostaggio consenziente di mortificanti riconoscimenti e di appuntamenti mondani. La prima puntata di La macchina cinema, Era San Benedetto, e soprattutto l’ultima, Una vita per il cinema, anticipano i David di Michelangelo/Donatello di Il regista di matrimoni, prendono di mira siffatti rituali di casta, di corporazione, smaccatamente autocelebrativi. Provano a sovvertirne l’andamento con presenze (l’intervento sgradito di un noto attore comico) o assenze impreviste (la scomparsa simulata di un regista, che viene quindi premiato postumo). Sono colpi di scena, nella finzione come nella realtà, senza soluzioni di continuità, sia l’espediente del suicidio escogitato dal regista umiliato Orazio Smamma (Il regista di matrimoni) che l’inaspettato discorso di Ciccio Ingrassia (Una vita per il cinema) il quale, come Monterone in Rigoletto, viene subito ridotto al silenzio. Una vita vera o una morte finta che poi diventa anch’essa vera, sempre per il cinema, che differenza fa? Per il cinema, italiano, si fa questo e altro. Soprattutto altro. Nello strapaesano palmarès che conclude l’esemplare Una vita per il cinema chi altri, se non l’ex matto felliniano di Amarcord (1973), poteva scegliere di essere fino in fondo un personaggio? Solo Ciccio Ingrassia, personaggio in cerca d’autore, maschera tragicomica. Proprio lui, Ciccio senza più Franco, che era stato un anno prima l’interprete dell’ex politico democristiano scomodo, l’«invertito» penitente, masochista e minaccioso, soprannominato «culetto allegro» dal presidente M[oro] di Todo modo (1976). La realtà questa volta gioca d’anticipo, supera l’immaginazione, diventa occasione imperdibile per costruire percorsi interpretativi che conducono molto lontano. Poiché il Ciccio Ingrassia che non ride, non fa ridere e non vuole far ridere, reduce dal film di Elio Petri che ha preannunciato il delitto Moro oltre le stesse intenzioni di Sciascia nell’omonimo romanzo originale, è un perfetto personaggio, prima ancora che un attore: un siciliano verace la cui forzata marginalizzazione prelude all’anziano regista Smamma che trent’anni dopo in incognito vaga tranquillamente in riva al mare proprio in Sicilia, dopo l’iniziale quanto fatale messa in scena del suicidio. Il regista di formazione cattolica Smamma è un morto che cammina liberamente come già il cattolico Moro alla fine di Buongiorno, notte. Il principe di Palagonia era stato già molto chiaro con Elica: «In Italia sono i morti che comandano». Smamma perciò, sempre parlando con Elica, si limita a ribadire il concetto espresso dal principe, aggiungendo qualcos’altro: Elica: Ma tu non sei Orazio Smamma? Ma non eri morto un mese fa? (Riportandolo di peso sul bagnasciuga) Usciamo. Vieni. (Seduto in riva al mare) Smamma. Orazio Smamma. Perché questa messa in scena… strabiliante? Perché?

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Smamma: Vedi, Franco Elica, anche il nome non va. Come il mio, Smamma, non vanno. Smamma, Elica… Noi siamo finiti perché non siamo capaci di vivere. E di conseguenza non siamo capaci di raccontare per immagini il mondo che ci circonda, il mondo di oggi. E del nostro vecchio mondo non gliene frega più un cazzo a nessuno, a noi per primi. Il mondo dell’oratorio… del cinema dei preti, dove vidi con dieci anni di ritardo I promessi sposi. Elica: Mario Camerini! Smamma: Bravo. Ricordi? Gli appestati, Don Rodrigo che si sente soffocare… Elica: Lo scampanellio dei monatti

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Smamma: Lo scampanellio dei monatti! Tutte immagini che mi hanno accompagnato per tutta l’infanzia. E mi hanno terrorizzato, perché per me, Elica, erano vere! Ora quel mondo non c’è più. E tu? Ateo rincoglionito, vai in giro a cercare l’immagine di una Lucia Mondella, t’angosci perché non la trovi, ma cosa vuoi che gliene freghi al pubblico che va al cinema oggi di vedere I promessi sposi o – che cazzo ne so? – la Divina Commedia? Meglio scomparire. Da morti contiamo molto di più. No, tu no: tu sei ancora vivo quindi non conti un cazzo! (Elica ride) Cominci a capire? Elica: (pur annuendo) No. Smamma: Ah, intuizione zero. Vuoi i fatterelli, il raccontino, la cronaca? Elica: Sì. Smamma: Bene. Io quest’anno ho fatto un film su Giuda Iscariota, La madre di Giuda, per vincere il David. Film che tu non hai visto. Elica: Ma che ho votato. Smamma: Tu l’hai votato? Elica: Sì. Smamma: Ah, ma allora funziona.

Elica: Cosa? Smamma: Funziona! I miei produttori quest’anno mi avevano assicurato che dopo tante ingiustizie, dopo tanti torti subiti, quest’anno avrei vinto. Quest’anno il cinema italiano mi avrebbe riconosciuto, ma… (Elica scuote la testa non capendo) Ma… (Invita Elica a riflettere indicando la propria testa) Ma? Elica: Il film su… Togliatti. Smamma: Bravo. Film mediocrissimo. Elica: Non lo so, io non l’ho visto. Smamma: Neanche loro. Però… le parrocchie del cinema italiano, le parrocchie della sinistra, del centro, la destra no, la destra non conta un cazzo nel cinema, le parrocchie cominciano a cercarsi. (Allarga le braccia) Partono le telefonate. E io comincio a capire… che non vincerò un cazzo neanche quest’anno. Mi acceco, sono furibondo. Ma non posso mica uccidere nessuno. D’altra parte è tutto fatto nella più perfetta legalità. I regolamenti sono rispettati. Le bande si cercano, si contattano, si accordano, si scambiano i voti. Non c’è niente di criminale, è la democrazia! (Mimando le telefonate con la mano destra all’orecchio) Il Migliore,77 Il Migliore, Il Migliore, Il Migliore, Il Migliore, (cambiando mano) La madre di Giuda, (di nuovo con la destra) Il Migliore, Il Migliore… Un mio amico, un ex frate che vive qua, per paura che io potessi uccidermi o fare una strage, o tutt’e due le cose!, mi fa una proposta: «Invece c’è un solo modo per vincere: morire». Morire? «Sì, ma non devi morire realmente. Tutti devono credere che sei morto. In Italia i morti comandano. Eh, penso a tutto io. So come fare». Io accetto con entusiasmo. E subito i necrologi parlano di ingiustizia, risarcimento. I grandi intellettuali fanno autocritica in pubblico. I professori universitari – quelli che fino a qualche giorno prima mi consideravano zero, zero, hai capito? Elica, hai capito? Zero – quei professori oggi obbligano i loro studenti a laurearsi su di me! (Portandosi le mani alla fronte) Ma poveracci, cazzo! Poveracci! (Dopo una lunga pausa per riprendere fiato sta per andarsene) Devo andare. Elica: Aspetta. Aspetta. (Mentre Smamma si accende una sigaretta) Allora perché volevi ammazzarti? Smamma: Ma era per finta. Immaginavo la scena di un film, tanto per passare il tempo. Scherzavo.

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Elica: Bona non scherza. Smamma: La principessa? Elica: La conosci? Smamma: Beh, io devo andare (si alza e si allontana). Non seguirmi.78

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Su questo lungo dialogo avremo modo di ritornare, poiché riteniamo contenga altri messaggi abbastanza in codice, come il richiamo dantesco accostato a quello manzoniano. O il riferimento improvviso, sganciato dal senso del dialogo fino a quel momento, a Bona, la principessa, che «non scherza». L’abbiamo trascritto interamente per non interromperne l’andamento, ma anche per metterne in evidenza le possibili contraddizioni logiche, l’ampia gamma di riferimenti incrociati. Il discorso sul cinema diventa, nell’Italia odierna, un paradigma contestuale. Smamma si è fatto credere morto per ottenere, da vivo, riconoscimenti tardivi: “smamma” al momento giusto, si toglie di mezzo, assurge al rango di onorato artista defunto da monumentalizzare. Esattamente come l’onorevole Aldo Moro onorato da morto, ritenuto invece da vivo non padrone di se stesso nelle lettere scritte dalla prigionia. Il Moro postumo di se stesso negli ultimi cinquantacinque giorni di vita è un uomo in procinto di “smammare”, che pure (come l’infelice protagonista di Vincere, la consorte disconosciuta dal Duce) scrive a tutti perché non si rassegna a un destino già scritto. Su questo fronte all’apparenza cinematografico Bellocchio si serve del personaggio Smamma per descrivere il meccanismo tutto italiano di quella che egli stesso definisce «la logica della gloria postuma. Se muori non dai più fastidio dunque ti possiamo riconoscere, celebrare, ricordare, ormai non fai più paura. Questo vale ancor più poi se la morte è di un certo tipo. Se muori a novant’anni è una cosa, ma se ti ammazzano o ti suicidi…».79 Difficile credere che anche stavolta l’autore di Il regista di matrimoni stia parlando di cinema, soltanto di cinema. Difficile credere, come dice il suo Smamma, che «era per finta. Immaginavo la scena di un film, tanto per passare il tempo. Scherzavo». Ci sia concessa ora una piccola divagazione, che a ben guardare tale non è. Si resta infatti in argomento ricordando ciò che scrisse Oreste Del Buono sul «dannoso Bene», all’indomani del premio veneziano assegnato a Nostra signora dei Turchi (1968): D’accordo, allora: abbiamo un genio in Italia, e non ce lo meritiamo. Il problema seguente, tuttavia, è questo: dato che lo abbiamo, sia pure senza meritarcelo, cosa ne facciamo? Un genio è inutile, ingombrante, preoccupante nella nostra stupida società. Magari dannoso. Infatti, non rispetta

il sacro dei luoghi comuni di destra e di sinistra. La soluzione più indicata per contenerlo, questo genio, paralizzarlo, neutralizzarlo, il dannoso Bene, è tributargli un grande successo, decretargli un successo veramente popolare.80

Bene, Bellocchio e Bertolucci La divagazione si spiega in tanti modi. Ad esempio ricordando che Carmelo Bene era uno dei candidati, assieme a Franco Nero e Gianni Morandi, per il ruolo di Ale in I pugni in tasca, oppure facendo notare che, come all’autore di Nostra signora dei turchi, anche a Bellocchio sia toccata in sorte la condanna inappellabile al «grande successo». Chissà se l’autore di I pugni in tasca e Nel nome del padre, i suoi maggiori “successi” vincolanti in termini di riconoscibilità e di dover essere permanentemente “giovane”, “sessantottino” e “in rivolta”, conosce lo scritto di Del Buono.81 Con ogni probabilità sì. Di sicuro riconosce a Nostra signora dei Turchi una peculiarità: «Del Sessantotto potrebbe esserne il manifesto, ma di un Sessantotto diverso dal Sessantotto che in realtà è stato, pieno di contenuti, pieno di proclami, pieno anche di logiche per le quali gli artisti dovevano anche essere dei protagonisti».82 Motivo in più per decidere di sfoltire, rimontare e in pratica intaccare Nel nome del padre, e presentare la nuova versione alla Mostra di Venezia che nel 2011 gli assegna un prematuro Leone d’oro alla carriera: quello che Del Buono chiamerebbe un «grande successo». Oltretutto doppio. Una doppia celebrazione: per la sua opera in generale e per uno dei più noti film in particolare, quasi a esorcizzarne l’antico fantasma antiautoritario. Bellocchio il tributo lo accetta, come sempre, come ai tempi della scena tagliata di La macchina cinema, sapendo di poter confidare nel montaggio principe (o del principe) per “liberare” e “sconvolgere” l’ex Nel nome del padre, il suo film più legato a una precisa temperie politica. La nuova versione del suo film del 1972 sembra dettata dall’insofferenza nel continuare a essere classificato come un autore del Sessantotto, prima (I pugni in tasca) e dopo (Nel nome del padre) il Sessantotto: Per un sentimento, per quella inconsapevole disperazione volli dire tutto. Troppe parole. Concetti, messaggi… Immaginare liberamente allora era proibito, inconcepibile, per cui oggi, che sono molto più libero di allora, tante immagini piene di parole che giudicavano, che spiegavano, ripetevano le spiegazioni, citavano, sono cadute. Molta cultura figlia di quegli anni in quest’ultima versione è stata almeno contenuta a favore della storia, dei personaggi, dei loro rapporti sentimentali… Ho tagliato, accorciato, non ho aggiunto nulla.

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Ho voluto liberare le immagini cercando di privilegiare quanto di lieve, di caldo, di paradossale, di surreale anche di crudele – senza essere gratuitamente sadico – di sarcastico, di raramente affettivo c’era nel film.83

Ma a colpire di più, per logica e coerenza, sono le associazioni d’idee. Sul palco della Sala Grande del Palazzo del Cinema la sera del 9 settembre 2011 Bellocchio collega l’impulso «a liberare le immagini» di Nel nome del padre al finale dissacrante di Buongiorno, notte: Non sono più il rivoluzionario e il ribelle di I pugni in tasca, i protagonisti delle mie storie non sono più assassini o suicidi, ho rinunciato alla violenza, la mia vita è cambiata. Ciò che non è cambiato è stare dalla parte degli oppressi, di chi è vittima di violenza. Credo nella libertà, la cosa più preziosa per un artista. Non la libertà civile che è garantita in questo paese, ma la libertà d’immaginazione. Il devo o il non devo paralizza l’artista. L’artista ha bisogno di libertà. Immaginare Aldo Moro che cammina mi è stato contestato come un falso storico, la sinistra mi ha rimproverato. 72

Gli dà manforte Bernardo Bertolucci, consegnandogli il Leone: «Invece vedendo quell’immagine mi ha sollevato dai sensi di colpa che avevo verso Moro». I due ex enfant prodige del cinema italiano continuano a scambiarsi allusioni misteriose su Moro. Da tempo non sono più rivali. Molta acqua è passata sotto i ponti anche sul terreno culturale. Sono abbastanza lontane le polemiche, le tensioni, le competizioni. Un pallido ricordo diventano le riserve del ventiquattrenne Bellocchio84 sul film d’esordio del ventunenne Bertolucci, La commare secca (1962) o il dissapore incautamente alimentato dallo stesso Pier Paolo Pasolini che aveva assegnato Prima della rivoluzione (1964) del suo ex aiuto regista Bertolucci alla categoria privilegiata del «cinema di poesia»,85 a differenza di I pugni in tasca dell’esordiente Bellocchio, uscito l’anno successivo, relegato in quella del «cinema di prosa» (salvo l’attenuante «che spesse volte sbava e sfuma quasi nella poesia»).86 Si perde nell’aneddotica persino l’insistenza nel far vestire il protagonista di Gli occhi, la bocca non come in un film qualsiasi di Marlon Brando (figura chiave per comprendere meglio la personalità artistica, privata e politica di Bellocchio),87 ma precisamente come in Ultimo tango a Parigi (1972). Con la complicità della costumista Lia Morandini: Il cappotto cammello di Lou Castel, fondamentale per la definizione del personaggio, secondo le indicazioni di Marco doveva rifarsi a quello di Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi. Girammo molti negozi dell’usato per trovarlo, anche perché, pur condividendo la scelta di Marco, ci tenevo a svincolarlo nei dettagli dall’icona che era diventato nel film di Bertolucci.

L’autonomia dal quel modello si giocava sul taglio, perché alla fine ciò che resta sullo schermo, oltre al colore, è proprio l’elemento grafico. Così il cappotto di Castel rispetto a quello di Brando risultò più aperto: in Ultimo tango era di taglio dritto, col bavero rialzato, anche se nella memoria di alcuni, anche registi, per altre suggestioni è diventato cappotto “avvolgente”. Quello di Castel era tagliato a sbieco, decisamente più ampio, quasi svolazzante se non teneva le mani in tasca. Era fondamentale per caratterizzare Castel non solo in riferimento a Ultimo tango ma proprio come personaggio bellocchiano in quel film: uomo provvisorio, sempre in fuga, è come se indossasse sempre il cappotto anche quando non ce l’ha.88

C’è infatti qualcosa di più profondamente bellocchiano nel desiderio di vestire i panni di Marlon Brando, che merita approfondimento. Così come c’è (stata) con il pluripremiato, internazionale Bertolucci un testa a testa per aggiudicarsi il primato del magistero verdiano, che passa inevitabilmente attraverso l’impronta e il fantasma viscontiano, di cui resta traccia in Addio del passato.89 Su un punto infatti Bellocchio e Bertolucci sembrano convenire: l’immagine eretica di Aldo Moro libero. Un’immagine liberatoria (Bellocchio) o risollevante (Bertolucci). Da condividere. Insomma, la tensione è acqua passata, ma l’immagine indelebile di Moro resta, li unisce ancora. Lo dimostra inequivocabilmente la scena della seduta spiritica opportunamente posticipata in Buongiorno, notte, in cui si allude al film La luna (1979) di Bertolucci. Lo dimostra anche il fatto che sia poi Bertolucci alla Mostra di Venezia a chiudere il cerchio, ricambiando la cortesia, premiando Bellocchio e citando Buongiorno, notte. Prima di cercare di comprendere meglio cosa c’entri La luna con Buongiorno, notte, occorre però mettere nuova carne al fuoco. Riprendere cioè il filo del discorso nel punto in cui l’abbiamo lasciato per far posto a quest’ampia divagazione sul «dannoso» eppur «grande successo» di Bene, Bellocchio e Bertolucci. «Successo» che, per dirla con Carmelo Bene, «è il participio passato del verbo succedere».

Pagliacci, suicidi e sogni altrui Eravamo arrivati alla convinzione di Orazio Smamma circa le paradossali opportunità che in Italia offre l’essere morti: conta molto il morire ammazzati o suicidi. I vantaggi, a posteriori, possono essere tanti. Tanto per un regista cinematografico poco apprezzato (Il regista di matrimoni) quanto per uno spirito che pretende di fare il regista mediante una seduta spiritica (Era San Benedetto) si tratta in concreto di capitalizzare la morte, trasformarla in un viatico. Per il presidente democristiano Moro, dal mo-

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mento in cui ha cominciato a rivelare segreti ai suoi carcerieri e a scrivere il memoriale, le cose non sono andate altrettanto bene: si è candidato suo malgrado al ruolo di emblematico spirito “suicida”. Una tragica “vocazione” sottolineata dal settimo comunicato brigatista che il 18 aprile annuncia con macabra ironia «l’avvenuta esecuzione del presidente della DC Aldo Moro, mediante “SUICIDIO”».90 Questo settimo comunicato, come è noto, è falso. Un curioso “falso”, che precede di due giorni la seconda, drammatica, già citata lettera indirizzata da Moro a Zaccagnini.91 Sempre il 20 aprile viene fatto ritrovare anche il “vero” settimo comunicato, contenente anche una foto di Moro ancora vivo, non più “suicida(to)”. Il suicidio nella filmografia di Bellocchio si mescola a dolorose circostanze familiari e private, convogliate e trasfigurate poi in Gli occhi, la bocca. Se però si guarda al suicidio del Luigi/Loris di Era San Benedetto, possibilmente alla luce di quello “eseguito” su Moro, secondo la perversa formula adoperata nel comunicato menzognero, esso assume una diversa, insidiosa valenza storico-politica. Assume in sostanza una valenza non più autobiografica, o non soltanto autobiografica, di cui i suicidi (simulati o autentici non fa differenza) che si consumano in Il regista di matrimoni e Sorelle Mai (2011) assicurano ulteriori, puntuali, decisivi giri di vite. Gli effetti collaterali, indesiderati o indesiderabili di Era San Benedetto sembrano insomma moltiplicarsi. L’insieme delle puntate che compongono La macchina cinema è ricco di spunti che funzionano effettivamente a scopo ritardato. Innescano ex post connessioni impensabili e ardite, tutte generate dalla continua interferenza di due ambiti a prima vista distanti e incompatibili: il cinema di Bellocchio e il caso Moro. Il povero Pietro Bartoli nel remoto entroterra laziale elabora a tempo perso immagini, storie, film con candida serietà e bonaria innocenza. Si trasforma in un personaggio umoristico. Pirandellianamente, tuttavia, non se ne accorge o non ci bada più di tanto. L’autore dei successivi Enrico IV, L’uomo dal fiore in bocca (1991) e La balia invece sì. Avendo ben presente la componente pirandelliana dei suoi personaggi, reali o inventati, da quel momento li concepisce e immagina in prospettiva. In pratica mette a punto l’enorme potenziale umoristico-pirandelliano di La macchina cinema, il «sentimento del contrario» intuito in personaggi perfetti, involontariamente «in cerca d’autore», già nella vita vera. L’impressione si rafforza a un anno di distanza dalle riprese dei primi due episodi di La macchina cinema, nel 1978, quando è ormai chiaro che «da slegare» non sono più i disadattati, presunti folli protagonisti di Matti da slegare, vittime di un apparato manicomiale repressivo. Quando cioè è ormai chiaro che a rubare loro la scena sono soggetti ragionevoli, normali e rispettabili, perciò già “slegati”, a fronte del gesto folle dei terroristi e della follia troppo conclamata del prigioniero che insiste nel

proporre una via d’uscita istituzionalmente corretta. Il momento non potrebbe essere più propizio, come viene sottolineato in Buongiorno, notte: mentre è in corso il rapimento Moro sta per essere approvata la legge 180 del 13 maggio 1978 che prevede anche la chiusura dei manicomi. Eppure si assiste a una serie di crudeli o bizzarre contraddizioni: in un clima così ragionevolmente irragionevole, in cui si segue ogni pista paranormale concepibile, in cui i vertici dello Stato danno ascolto e credito a un gruppo di cauti accademici cattolici, destinati poi ad alti incarichi istituzionali, evocatori degli spiriti di Giorgio La Pira (più collaborativo) e di don Luigi Sturzo, e in cui matura infine il disegno della cosiddetta Legge Basaglia, è mai possibile che Aldo Moro, novello Enrico IV, creduto o fatto credere matto, non venga liberato/slegato dalla prigione (manicomiale) del popolo? Non è forse questo che intende dire Bellocchio quando lascia che in Buongiorno, notte da un televisore acceso giunga l’eco del dibattito parlamentare sulla benemerita Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori? Con il senno di poi, il “senno” che mancò allora, l’umoristica sarabanda di La macchina cinema finisce per restituire, magari inconsapevolmente, un quadro vasto e attendibile di un’Italia da “matti”, ancorché molto “ragionevoli”. In un quadro pieno di beati o dannati, figuranti di ogni rango e professione in vena di “pagliacciate” ove si perde di vista il buon senso, l’atmosfera “delirante” prende il sopravvento e si assottiglia fino a smarrire il confine tra dramma della verità e dramma recitato. Proprio come nell’opera di Leoncavallo, che Bellocchio prima di allestirla a teatro, ha già fatto ascoltare in Vincere: Recitar! Mentre preso dal delirio, non so più quel che dico, e quel che faccio! Eppur è d’uopo, sforzati! Bah! sei tu forse un uom? Tu se’ Pagliaccio!

I versi iniziali di Canio/Pagliaccio in Vesti la giubba, l’aria più nota che conclude il primo atto di Pagliacci, precedono in Vincere la scena dell’incontro tra Ida e lo psichiatra convinto dell’assoluta necessità storica di “recitare a soggetto”. In un clima di dittatura di lunga durata, in cui vige la menzogna camuffata da (s)ragione di Stato permanente, è inevitabile che spetti al melodramma il compito di preparare storicamente il terreno pirandelliano. Ed è altrettanto inevitabile che il canto di Canio nel film preannunci il discorso molto in tema con cui questo psichiatra mite, dissenziente ma pragmatico cerca di far capire a Ida quanto sia me-

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glio rinunciare a esternare la verità. Altrimenti, dati i tempi, si rischia di essere internati. Per sembrare sani di mente, “normali”, occorre accettare insomma la follia collettiva e non far capire che si sta recitando una parte ingrata:

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Psichiatra: Adesso le dico quello che penso. E lei mi lasci parlare. Sediamoci. (Si siedono) Vede, lei va all’assalto. Lei esce dalla trincea e va all’assalto. La guerra l’ho fatta anch’io, purtroppo. Però in guerra c’erano due eserciti che si scannavano a vicenda, ad armi pari, direi. Invece lei qui è sola, contro tutti: i Carabinieri, la Milizia, l’Esercito, le Guardie regie… Troppi. Perciò lei sbaglia gridando continuamente la verità. Non che la verità non vada gridata, eh. Però… è il modo, è il metodo, è il tempo che non vanno. Questo è il tempo di tacere, il tempo di essere attori. Io faccio il medico, curo i pazienti. Lei mi ha mai sentito dire «Abbasso il Duce»? Oggi, non dico sempre, oggi bisogna essere dei grandi attori. Ma la sua parte, il personaggio che lei deve interpretare per salvarsi non è della ribelle sempre in agitazione, ma della donna normale…. la massaia, ubbidiente, remissiva, amante dell’ordine: la donna fascista, che sa stare al suo posto. Cioè in casa. Anche per suo figlio. Ida: Mio figlio? Psichiatra: Sì, Benito Albino Dalser. E basta. Mi ha capito? Ida: Sì, sì. Ma se io muoio, chi si ricorderà di noi? Se nessuno mi ascolta io devo continuare a gridare. A gridare. Psichiatra: Ma scusi, perché lei dovrebbe morire? Lei è ancora giovane, sana. Bella. Ma perché lei continua a pensare al passato e non guarda un po’ al futuro? E al presente… Ida: Ma quale futuro? L’uomo che ho adorato, a cui ho dato tutto, mi ha cancellata. Come se non fossi mai esistita. Come un fantasma. Ma nemmeno un fantasma. Psichiatra: Ma lei è qui. Noi stiamo parlando. (Pausa) Lei crede che il fascismo durerà in eterno? (Dopo un’altra pausa, con tono risoluto) Signora Dalser, io voglio dimetterla. Non subito, facciamo passare un po’ di tempo. Subito sarebbe troppo… pericoloso. Però lei intanto vada in chiesa, si confessi, si comunichi. Legga Pascoli, guardi, lo impari a memoria. La superiora lo adora. (Ancora una pausa) La Chiesa è la sola madre che i fascisti ancora temono.

Dunque è una vera, grande, lirica pagliacciata quella che dapprincipio ha tenuto banco nel ventennio fascista (Vincere), generando i caratteristici impianti filosofici, teatrali e letterari di Pirandello («Oggi, non dico sempre, oggi bisogna essere dei grandi attori. Ma la sua parte, il personaggio che lei deve interpretare…»): una consuetudine di comportamenti, un sistema permanente di pensiero e azione continuato e continuativo, chiamiamolo come vogliamo, che modella analogamente anche il caso Moro (da Enrico IV, che precorre Buongiorno, notte, a L’uomo dal fiore in bocca e La balia), sul quale con effetti diuturni non meno pirandelliani viene rimodulato da Bellocchio poi il caso Englaro (Bella addormentata). Da un’epoca all’altra, da un film all’altro, da un dispositivo pirandelliano all’altro, da un fascismo all’altro, un unico imperativo impone alla ragione civile e morale di fare da “bella addormentata” nel bosco delle imposture. E che i congegni sul cinema che rimanda a se stesso di La macchina cinema, Vacanze in val Trebbia o Gli occhi, la bocca e Il regista di matrimoni, tra verità e finzione, fanno intravedere o rilanciano. Il risultato a ben guardare è lo stesso, sia che sfilino attori e registi di mestiere, sia che la scena e il campo se la contendano in pubblico e in privato attori e registi forse non si rendono conto di esserlo. O, come loro, se la contendano altri impensabili personaggi più o meno consapevoli di una tragicommedia nazionale quale in particolare è stato il caso Moro. Disposti, ciascuno nel proprio cielo di riferimento o nel triste girone assegnato, alla maniera di tante figure dantesche, a fare la parte che compete. Tutti «prigionieri» sintomatici di sogni, incubi o deliri altrui, pregressi e incontrollabili. Sembra di stare nei film di Vincente Minnelli in cui la gente sogna, tutti sognano, è banale dirlo. La gente sogna, in certi momenti. Ma Minnelli pone una questione molto strana, che credo gli sia propria: che cosa significa essere imprigionati nel sogno di qualcuno? E va dal comico al tragico, all’abominevole. Cosa vuol dire ad esempio essere presi nel sogno di una ragazza? Possono venir fuori delle cose terribili dall’essere presi nel sogno di qualcuno. Essere presi nel sogno di qualcuno: forse è l’orrore allo stato puro. […] Cosa significa essere prigionieri di un incubo? Cosa significa essere presi nel sogno di una ragazza? Sono le sue opere musicali, le sue famose opere musicali […]. Essere presi nel sogno di qualcuno: direi che questa è un’idea. Eppure non si tratta di un concetto. Se Minnelli avesse proceduto per concetti avrebbe fatto della filosofia, ma ha fatto del cinema [corsivi nostri].92

Pensandoci bene, anche il coautore di Matti da slegare e La macchina cinema, come Minnelli, «ha fatto del cinema» concentrandosi criticamente su una più vasta rappresentanza di «prigionieri». Da un certo momento in poi, dal 1978, punto irreversibile di un progetto filmografico, personale e

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storico, Bellocchio ha incominciato a fare cinema sul cinema, intervistando, interrogando e soprattutto interrogandosi. Questione amletica quella che La macchina cinema pone: «Essere o non essere» un regista? E, se sì, a quali condizioni? Non in veste di comune «regista di matrimoni», ma di ispirato metteur en scène di matrimoni altri. In questo piccolo film non completamente personale, che coincide con una fase critica della sua carriera e con un momento storico ancora più critico e devastante, la riflessione sull’attività svolta e sui dispositivi adottati non ha comportato uno stallo. L’impasse è stata transitoria. Un preludio alla svolta. Non un blocco, dunque, ma uno sblocco annunciato, fatto recitare a terzi, intimamente recitato e rappresentato sullo schermo. Come quello di Amleto, anche il monologo interiore/esteriore di Bellocchio nel 1978 non sigla un’indecisione, ma prelude a scelte molto precise. Scelte che non consentono di smettere o fare marcia indietro, date le circostanze esterne. Tanto che l’indagine individuale viene in un certo senso trasferita e dissimulata. Di più: delegata a La macchina cinema. Dove le apparenze documentaristiche e l’impianto inchiestale contribuiscono a rafforzare Bellocchio nelle proprie segrete convinzioni. Anziché cambiare strada, è stato da quel dì necessario trovare la volontà consapevole di imboccarne di nuove, risolutive e definitive. È stato necessario compiere scelte drastiche, andare avanti con maggiore cognizione di causa. L’analisi collettiva, la macchina dello spettacolo e il processo della verità, di pari passo con il caso Moro, convergono e proseguono. L’immaginazione sulla scena si traduce immediatamente in azione: si fa espressione viva di una realtà finalmente svelata e liberata. Per Bellocchio come per Amleto.

Ex cathedra Da La macchina cinema a Buongiorno, notte e oltre, si assiste a un’esemplare parabola di matti a vario titolo. E di prigionieri di vario tipo. Prigionieri di sogni confusi come di inattendibili carcerieri, imprigionati a loro volta in sogni di ignota e occulta provenienza. Ci sono tutti: i cinematografari di mestiere che operano da decenni davanti e dietro la macchina da presa, gli altri cinematografari che invece il mestiere se lo sono inventati lontano da Roma. Ci sono i professori disposti a trascorrere una normale domenica di primavera “giocando” con il paranormale, per ritrovarsi impelagati con la storia italiana che si sta compiendo in quei giorni. Storia italiana, ma anche po’ all’italiana, come il genere nostrano per eccellenza: la commedia. Che spesso in Bellocchio diventa quella di Dante, ma come proveremo a spiegare più terrena e divinatoria che “divina”. Se della sola gente di cinema Bellocchio si è già occupato assieme ad Agosti, Petraglia e Rulli tra il 1977 e il 1978, il turno dei professori arriva

venticinque anni dopo, quando si presenta l’occasione di occuparsi direttamente del caso Moro. Ha ragione infatti l’autore a dire che per comprendere meglio Buongiorno, notte è «forse il caso di partire, con ordinato buon senso, dalle origini di questa storia […]. E cioè dalla proposta da parte di Rai Cinema, nella persona di Carlo Macchitella, di un film sul sequestro Moro».93 Il “suo” caso Moro prende forma ex cathedra. L’idea della prima sceneggiatura ruota attorno alla figura del giovane accademico Franco Tritto al quale le Brigate rosse recapitano lettere come quella già citata dell’8 aprile, ma soprattutto per comunicare a mezzogiorno del 9 maggio il luogo dove trovare il cadavere: Il professor Tritto, assistente di Moro, divenne in quella prima elaborazione quasi il protagonista del film, largamente inventato (avrei dovuto cambiargli il nome), perché io non ho mai conosciuto e visto il prof. Tritto (ricordo soltanto, come tantissimi italiani, la famosa telefonata finale). Il film avrebbe cercato la sua forma, il suo stile nella rappresentazione di un professor Tritto sempre in casa, in attesa che il telefono squilli, prigioniero in qualche modo come il presidente, ma, a differenza del presidente, volontario. Mi attraeva particolarmente la vita in interni, al chiuso di un professore, a cui venivano a far visita i famigliari di Moro, ma anche personaggi bizzarri che non c’entravano col sequestro, o lo nascondevano, e una donna molto misteriosa. La prigione di Moro era la prigione di Tritto. Tritto, eroe mansueto, depresso, un po’ pauroso… Ero io?94

Certo, la versione definitiva di Buongiorno, notte si allontana molto da questo proposito iniziale. Tuttavia è di grande importanza la registrazione telefonica della conversazione tra Tritto e il “postino” brigatista Valerio Morucci, dal momento che Bellocchio ha avuto modo di farla riascoltare ben due volte: sia in Sogni infranti che in La religione della storia. Senza contare che in questa «prima elaborazione» di Buongiorno, notte sembra voler proiettare se stesso («Ero io?») nell’emblematica figura del professore «coscienzioso prigioniero volontario […] eroe mansueto, depresso, un po’ pauroso». Il «prigioniero volontario» viene insomma concepito immediatamente a sua immagine e somiglianza, forse non soltanto personale ma anche professionale. Con l’idea non solo della casa-prigione ma della prigione come spazio mentale tout court Bellocchio mantiene una costante confidenza, sin dai tempi relativamente lontani di Nel nome del padre: «Ritornare in prigione era la dichiarazione della mia sconfitta [consistente nel] richiudermi volontariamente in un’istituzione mediocre, violenta a cui avevo cercato di ribellarmi negli anni precedenti».95 Una confidenza che oltretutto scandisce le tappe fondamentali della sua intera filmografia. E lo spinge al momento propizio a riformulare l’idea di Buongiorno, notte usando come testo di

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riferimento principale, accreditato nei titoli di testa, il libro Il prigioniero della brigatista Anna Laura Braghetti. Salvo poi trascenderlo, contaminarlo, contraddirlo tra le righe servendosi di due dei più noti libri dell’ex senatore, membro della Commissione Moro e Stragi Sergio Flamigni: Ricominciai a leggere, e la mia attenzione, orientata dalla mia fantasia, si fissò su tre libri: La tela del ragno, Il mio sangue ricadrà su di voi, entrambi di Sergio Flamigni e Il prigioniero di Anna Laura Braghetti-Paola Tavella. Come se in quei tre libri vi potesse essere la materia cosciente per scrivere la sceneggiatura del film: la cronaca dei fatti, prendendo per buona la cronaca della Braghetti (e alcuni “fatti esterni” descritti da Flamigni).96

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L’immagine, materiale e psichica, della prigione si rinnova e si adatta ai tempi e alle circostanze. Investe non solo il montaggio alternativo di Nel nome del padre, ma anche l’impianto claustrofobico prestabilito nella stesura originaria di quello che sarebbe poi diventato sullo schermo il film definitivo, intitolato Buongiorno, notte. In dirittura d’arrivo si riconferma centrale l’azione all’interno delle mura domestiche. Sul set complesso, ampio e segreto di un dramma reale. Un set sistematicamente circoscritto e misurato, se possibile, al buio, lontano da occhi indiscreti. Diversamente da quanto si legge nella sceneggiatura definitiva,97 il solerte brigatista Ernesto nel film durante il primo sopralluogo si preoccupa di calcolare di nascosto l’ampiezza dell’imminente spazio di detenzione: senza farsi vedere dall’agente immobiliare che gli sta mostrando l’appartamento, Ernesto intravede, stima e prefigura un set casalingo e psichiatrico. Un luogo da adibire a casa-prigione, che tra l’altro ricorda l’appartamento opprimente di Salto nel vuoto. O cui si addice molto la definizione di «area manicomiale», usata da Belcredi in Enrico IV, riservato alla recita permanente e pluridecennale di un pazzo di riguardo, da non sottoporre ad alcun regime restrittivo o a umilianti vincoli di coercizione. Un pazzo da assecondare, lasciare libero e “slegato”, concessione fatta anche a Moro solo nel finale immaginario e controverso di Buongiorno, notte. Un’analoga, emblematica «area manicomiale» è quello di La condanna, nel cui palazzo/castello/museo98 si consuma la liberatoria, inevitabile violenza sessuale, consensuale, di un uomo e di una donna convinta di non avere alcuna possibilità di uscire. La singolare «prigione di Moro» coincide quindi con l’iniziale «prigione di Tritto», che era già uno spazio aperto e accessibile a vari «personaggi bizzarri che non c’entravano col sequestro, o lo nascondevano». In tale spazio si moltiplicano le «visite». Tra cui quella di «una donna molto misteriosa». A film concluso, riscritto, girato e montato cambia il protagonista, cambiano quindi le circostanze, ma non la prospettiva scelta nella prima sceneggiatura. Il punto di vista non predominante ma di sicuro più ardito di Buongiorno,

notte diventa quello di un artista immaginifico, uno sceneggiatore con il dono della preveggenza, Enzo Passoscuro. Il quale cerca di decifrare il comportamento, i pensieri, il portamento di una giovane donna altrettanto misteriosa: Chiara. Chiara solo di nome, poiché di fatto è una protagonista abbastanza “oscura”, almeno per Enzo, ma non per lo spettatore a cui è nota la doppia vita della brigatista carceriera di Moro. La Chiara, proprio in quanto figura “oscura”, riassume sul piano onomastico l’ossimoro dickinsoniano del titolo Buongiorno, notte. Sia Enzo Passoscuro che Chiara hanno il dono di vedere più di chiunque altro dentro il film. Molte delle inquadrature soggettive coincidono con la loro prospettiva diretta, oculare. La macchina da presa elegge Enzo e soprattutto (la camera) Chiara a soggetti privilegiati della visione. Come dire che da loro dipende la comprensione e la restituzione immaginaria (Enzo) e fotografica (Chiara) di quella terribile realtà. Ma a Bellocchio due punti di vista vicari non bastano. La sua stessa posizione implicita di regista onnisciente non è sufficiente. Sente perciò la necessità di raddoppiare se stesso, calandosi fisicamente nel testo filmico, facendone parte, esponendosi all’obiettivo della cinepresa: si ritaglia così, senza mediazioni, un ruolo molto particolare e molto simile a quello già assunto in L’ora di religione al fianco del conte Bulla. In Buongiorno, notte recita la breve, ma significativa parte di un membro della eletta comunità di personaggi altolocati, anch’essi dal vago aspetto massonico, impegnati a scoprire mediaticamente l’ubicazione della prigione di Moro. Ovverosia con una seduta spiritica, che ovviamente è una replica di quella del 2 aprile. L’identità di questi personaggi, seduti attorno al tavolo a evocare gli spiriti o appena più in disparte (come Bellocchio) nel film resta ignota. Si riconosce appena un ufficiale dei carabinieri con il grado di maggiore, essendo l’unico in divisa. Assegnandosi questa parte comica, Bellocchio ottiene allusivamente ciò che desidera(va), forse, dal 1978: l’opportunità di essere finalmente presente alla seduta spiritica. Seduta spiritica spostata temporalmente, nell’artificiosa ed evanescente struttura temporale del film, rispetto a quella per così dire “vera”, officiata dagli economisti dell’ateneo bolognese. Resta da chiedersi perché l’abbia collocata fuori posto e fuori tempo. Una simile scelta, apparentemente immotivata in Buongiorno, notte, sortisce un effetto di déjà-vu, conforme e difforme rispetto all’avvenimento di Zappolino del 1978. La cui spiegazione va cercata nelle parole pronunciate da Bellocchio in persona, nella veste occasionale di insospettabile, mimetizzato insider negli anfratti del caso Moro. L’autore fa una comparsata, tutt’altro che invisibile o silenziosa, nel suo film. Ripete a voce bassa, tra sé, come già detto: «Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza». Probabilmente per trasformare due semplici versi di Il cinque maggio in un’indicazione cifrata, debitamente sussurrata. Quelli scelti sono infatti versi talmente noti

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da rendere subito riconoscibile l’intera ode manzoniana. Il cui titolo indica appunto anche una data precisa: il 5 maggio. Data che, trasferita nella cronologia del sequestro, trova una collocazione diversa ed effettivamente posteriore a quella “ufficiale” della seduta spiritica del 2 aprile 1978. Attenzione: dentro la cronologia provocatoria, visionaria e antistorica del film, tale data è posteriore anche all’appello di papa Montini del 21 aprile visto nella scena immediatamente precedente. Bene. Fermiamoci al solo riferimento temporale. Tralasciamo momentaneamente l’altro significato, relativo al luogo, che sempre Il cinque maggio comporta. E che crediamo vada associato a quest’anomala ma non incomprensibile consecutio temporum a uso e consumo di un denso e suggestivo testo filmico qual è Buongiorno, notte. Prima che la pista manzoniana ci indichi anche il luogo suggerito della seduta spiritica bellocchiana servono ulteriori elementi interpretativi. In attesa del nuovo giro di vite proviamo, per quanto possibile, a raccoglierli e disporli in maniera coerente.

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Questi fantasmi In Bellocchio, specialmente quando decide di mostrarsi in campo, questo gioco di destini incrociati99 funziona egregiamente. Come un “protocollo fantasma” che interessa fatti reali e atti cinematografici all’apparenza mancati, nella misura in cui «ogni atto mancato è un discorso riuscito, piuttosto ben girato, e che il lapsus è il bavaglio che gira sulla parola, e solo di quel tanto che basta perché il buon intenditore intenda».100 Lo abbiamo detto e ripetuto a proposito del regista non improvvisato, ma timorato di Dio, che fa da intermediario con le entità occulte che popolano l’aldilà. E da buon personaggio pirandelliano suo malgrado, non cerca l’autore, lo trova. Ne trova addirittura quattro: Agosti, Bellocchio, Rulli e Petraglia. Grazie a loro il misconosciuto regista di provincia di Era San Benedetto, senza accorgersene, spiana la strada ad altri interlocutori privilegiati di fantasmi e di trapassati eccellenti, in cerca anche loro, mentre è in atto il sequestro, di qualcosa o di qualcuno: non di valide istruzioni per un film da fare, né di un autore trapassato, ma dell’indicibile luogo in cui si trova lo statista democristiano sequestrato, che forse è ancora vivo, ma di fatto è candidato ad essere spedito all’altro mondo, tanto da adoperare già il linguaggio di un trapassato non meno illustre di La Pira e Sturzo. Con o senza la cornice psichiatrica, l’autore collettivo o il collettivo di autori, che dir si voglia, destinato a sciogliersi dopo La macchina cinema, non ha cambiato l’obiettivo del proprio “fare inchiesta” condiviso. Dal 1976, l’anno di Matti da slegare, al 1978, l’anno del sequestro Moro e della messa in onda di La macchina cinema, la follia, vera o presunta, creduta

o simulata, con buona pace di varianti geografiche, culturali e politiche, è una condizione generale. Nessuno o tutti era il titolo dell’edizione integrale, in 16 millimetri, di Matti da slegare, che ben si adatta anche al progetto di La macchina cinema di non escludere proprio nessuno, estendendo il proprio raggio d’azione a tutti i personaggi del cinema, di ogni ordine e grado. Una grande famiglia di “matti” slegati, come si è detto, che nel 1978 per effetto di circostanze e di fattori contestuali diventa una famiglia allargata dove non sfigurerebbero uomini dello Stato, dirigenti di partito, esponenti delle istituzioni, delle forze dell’ordine, del mondo accademico, delle Brigate rosse, in un girotondo che da Fellini conduce a Bellocchio, molto attento anche alla zona grigia, all’area sommersa della contiguità. La macchina cinema prosegue insomma il viaggio di Agosti, Bellocchio, Petraglia e Rulli nel sempre più vasto sottomondo manicomiale incominciato con Nessuno o tutti/Matti da slegare. Un viaggio ispirato dall’antipsichiatria o dal movimento Psichiatria Democratica fondato da Basaglia nel 1973 che prepara il terreno della Legge del 13 maggio 1978, votata a maggioranza. Pochi giorni dopo l’uccisione di Moro. Una coincidenza ironica, che Buongiorno, notte – come accennato poc’anzi – non si lascia sfuggire. Questione di destini incrociati, appunto. Che dimostrano, dentro e fuori dal cinema, dentro e fuori dai manicomi, come la follia o il dibattito sulle misure per contenerla o liberarla condizioni tutto, dal maggiore evento tragico, che segna e ipoteca indelebilmente il corso della storia repubblicana seguente, all’attività parlamentare ordinaria. Questa coincidenza su cui sarà opportuno tornare, viene recepita chissà quanto involontariamente nell’azzardo intermediale su cui si regge Buongiorno, notte,101 dove di contro Moro è l’unico assennato: «un uomo, personaggio in carne e ossa, poco realistico ma ben reale e molto più umano, concreto, sano di mente dei suoi quattro carcerieri, monaci del terrore…».102 Bellocchio non ha dubbi. Infatti, già prima di Buongiorno, notte, l’impatto di un 1978 spietato, folle e demenziale trova in La macchina cinema, a completamento di Matti da slegare, un terreno molto fertile e ricettivo. Nel cinema la follia è di casa, fa parte della consuetudine e delle regole del gioco, scritte o non scritte, con o senza vincoli contrattuali: un mondo di professionisti così prossimo al sostrato di dilettanti allo sbaraglio le cui performance incuriosiscono Bellocchio e compagni. Un ambiente trasversale e paradigmatico dove il solo fare, credere di fare cinema o restare, possibilmente, dentro l’ingranaggio, a qualsiasi condizione, con tutti i pro e i contro diventa una crudele, ridicola, tragica ragione di vita: un’autentica malattia mentale, contagiosa e inguaribile, pronta per un trattamento filmico antipsichiatrico. Il cinema inteso come macchina inarrestabile che per vie traverse e imperscrutabili fa il verso alla follia dell’anno terribile e cruciale per eccellenza, il 1978, altrettanto macchinoso, spinge quel collettivo sempre meno omogeneo di autori

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a indagare solo sui modi di produzione del cinema italiano, senza trascurare alcun livello, includendo qualunque sottolivello. Ma basterebbe spostare l’obiettivo un po’ più in là, oltre il mondo e il sottomondo del cinema per scoprire un’ovvia verità: l’esemplare sintomatologia o la patologia del cinema di allora che opera, si esibisce, si riproduce e si rimodula dal centro alla periferia e viceversa, non può bastare. Bellocchio un quarto di secolo più tardi va ben oltre il cinema, continuando a fare cinema, spesso anche sul cinema. Accoglie le obiezioni mossegli dal concittadino di Bobbio che ha fatto la Resistenza nel finale di Periferie. Trasferisce l’epica della Resistenza dalla farsa involontaria allestita poveramente in Era San Benedetto da Tony De Bonis nel suo film in super 8 Il partigiano al pranzo-matrimonio in campagna di Buongiorno, notte. L’orgoglio partigiano e il mito della Resistenza, complice il “sonno della ragione” e l’esercizio di una memoria perversa, hanno partorito le Brigate rosse. E le Brigate rosse, anziché festeggiare all’aperto, brindare agli sposi, cantare Fischia il vento, si rinchiudono, si nascondono, agiscono nell’ombra, simulano matrimoni di copertura, impongono ai componenti del nucleo che deve vigilare sul prigioniero Moro la recita quotidiana del matrimonio, con tanto di anelli nuziali da infilare al dito all’occorrenza. Per dare riparo a questi sedicenti nuovi partigiani, orfani della Resistenza e in guerra contro padri veri o putativi, espressione di uno Stato ora paternalistico ora tiranno, Bellocchio si impegna in Buongiorno, notte a fare ricostruire come set cinematografico un covo brigatista. Questo perimetro irrazionale e angusto appartiene però più alla finzione che alla verità storica, ancora pungolata da dubbi e incredulità. Specialmente sulla possibilità che la prigione di Moro possa non essere stata o non soltanto quella di via Montalcini, bensì più di una:103 questione non di poco conto che ha finito per dividere non solo spiegazionisti e dietrologi ma – come si è detto – il fronte stesso di questi ultimi. Bellocchio sembrerebbe con il suo film accreditare la versione ufficiale della prigione unica di via Montalcini, sostenuta nel libro della Braghetti104 da cui il film è dichiaratamente desunto. Una versione tornata oltretutto d’attualità in una luce di segno opposto persino più inquietante.105 Tutto filerebbe liscio se l’autore per primo non dotasse il testo filmico di un sottotesto politico-indiziario, che trova riscontro nelle sue stesse affermazioni: «Io incominciavo a vedere lo spazio chiuso e “sconfinato” dell’appartamento, vero palcoscenico della rappresentazione, prigione della prigione».106 O già nella sceneggiatura: «Covo come prigione della prigione».107 Il ricorso scritto e opportunamente virgolettato da parte dell’autore all’ossimoo «chiuso e “sconfinato”» serve affinché «lo spazio […] dell’appartamento» (via Montalcini) lasci intravederne un altro, «sconfinato» (quale?). Ossimoro che ricorda quello adoperato da Moro rivolgendosi al primo destinatario epistolare, il ministro Cossiga: «mi trovo sotto un

dominio pieno e incontrollato».108 E che per estensione riflette l’ossimoro contenuto nel titolo stesso del film di Bellocchio, o della sceneggiatura non proprio inventata di Enzo Passoscuro: Buongiorno, notte. Ne consegue, sullo schermo, la coesistenza, semantica o verosimile, comunque sia ben in evidenza di due prigioni propedeutiche, metonimiche, una nell’altra: la controversa scena cinematografica della macro-prigione brigatista include infatti quella che potremmo chiamare una sotto-scena, la scena primaria della micro-prigione di Moro. A ospitare la maggior parte delle scene109 di Buongiorno, notte non è soltanto un luogo filmico o uno spazio psichiatrico. Secondo una logica modulare, su scala ridotta la prigione nella prigione funge anche da teatro molto circoscritto di un’esperienza iniziatica, filiale, di non ritorno: tanto che la segregazione del padre Moro spiato senza sosta da Chiara e dagli altri brigatisti prelude al possibile, imminente, annunciato parricidio. Ebbene, questo «spazio […] dell’appartamento» equivalente a un «palcoscenico della rappresentazione», che poi diventa «covo come prigione della prigione», è organizzato su due livelli. Proprio per serrare a doppia mandata, contenere e garantire l’espressione della follia: quella vera (dell’ideologia religiosa dei brigatisi prigionieri di se stessi) circoscrive quella presunta (di Moro). Con la differenza che Moro è un “matto” speciale, molto sui generis, che non può facilmente essere “slegato” visto che insiste nel voler convincere i colleghi di partito, gli esponenti dell’intero arco istituzionale, persino il Vaticano dell’esistenza di una soluzione praticabile, di una via d’uscita ragionevole dall’«area manicomiale» (alla Enrico IV). Non si rende abbastanza conto di essere una vittima designata, sacrificale.

Note 1 La contrapposizione, come è noto, ha avuto come principale esponente della linea dietrologica l’ex senatore del Pci Sergio Flamigni, già membro della Commissione Moro (istituita con la legge 597 del 23 novembre 1979) e della Commissione stragi (istituita con la legge 1972 del 17 maggio 1988). E come maggiore assertore della linea spiegazionista l’ex documentarista della Commissione stragi Vladimiro Satta, che si considera «allievo del professor Giovanni Sabbatucci, al quale sono debitore di insegnamenti, consigli e sostegno» (www.letteratura.rai.it/articoli/vladimiro-satta-e-il-caso-moro/1471/default.aspx, ultima consultazione 10 dicembre 2013). Sabbatucci dal canto suo ci ha confermato di concordare sostanzialmente con le posizioni di Satta. Per un riscontro bibliografico cfr. di S. Flamigni, fino al 2006, in particolare La tela del ragno. Il delitto Moro, Edizioni Associate, Roma 1988; Kaos, Milano 2003; «Il mio sangue ricadrà su di loro». Gli scritti di Aldo Moro

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prigioniero delle BR, Kaos, Milano 1997; Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro, Kaos, Milano 1998; Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro, Kaos, Milano 1999; La sfinge delle Brigate Rosse. Delitti, segreti e bugie del capo terrorista Mario Moretti, Kaos, Milano 2004; Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, Kaos, Milano 2006. Di Satta, sempre fino al 2006, Odissea nel caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione della Commissione Stragi, Edup, Roma 2003; Il caso Moro e i suoi falsi misteri, Rubettino, Soveria Mannelli 2006. 2 Se ad esempio si prende il caso nel caso della presunta prigione “unica” di via Montalcini, come vedremo determinante anche sul versante cinematografico bellocchiano che qui ci riguarda, i più recenti libri dell’ex giudice istruttore dei primi processi Moro, Ferdinando Imposimato, La Repubblica delle stragi impunite, Newton Compton, Roma 2012; 2013, pp. 205-230, e soprattutto I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, Newton Compton, Roma 2013, pp. 154-293, punterebbero a capovolgere i dubbi avanzati in A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro, Editori Riuniti, Roma 1998; S. Flamigni, La tela del ragno, cit., ed. 1988, pp. 153-164, ed. 2003, pp. 217-238; Id., La prigione fantasma. Il covo di via Montalcini e il delitto Moro, Kaos, Milano 2009. 3 Emblematico in questo senso è il monumentale volume apparso in occasione del trentennale del delitto: S. Grassi, Il caso Moro. Un dizionario italiano, Mondadori, Milano 2008. 4 Cfr. A. Moro, Lettere dalla prigionia, Einaudi, Torino 2008; M. Gotor, Il memoriale della repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, Einaudi, Torino 2011. 5 J.-L. Baudry, Le dispositif: approches métapsychologiques de l’impression de realité, in «Communications», n. 23, 1975, poi in Id., L’effet Cinéma, Albatros, Parigi 1978, p. 32. Cfr. Anche F. Casetti, Teorie del cinema. 1945-1990, Bompiani, Milano 1993; 1994, pp. 177-179, 213-214. 6 T. Elsaesser, M. Hagener, Filmtheorie. Zur Einführung, Junius Verlag, Hamburg 2007 (tr. it. Teoria del film. Un’introduzione, Einaudi, Torino 2009, p. 94). Sull’applicazione kleiniana al cinema, inteso quindi come oggetto buono/cattivo, cfr. C. Metz, Le significant imaginaire, UGE, Parigi 1977 (tr. it. Cinema e psicanalisi. Il significante immaginario, Marsilio, Venezia 1980; 1993, pp. 9-23). 7 Cfr. il paragrafo Realtà storica e azzardo testimoniale. Buongiorno notte, in P. Montani, L’immaginazione intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 27-33. 8 Cfr. F. Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano 1986. 9 Cfr. il capitolo L’al di qua o lo sguardo della macchina da presa, in M. Vernet, Figures de l’absence. De l’invisible au cinéma, Cahiers du Cinéma-Editions de l’Etoile, Parigi 1988 (tr. it. Figure dell’assenza. L’invisibile al cinema, Torino, Kaplan 2008, pp. 34-62).

10 Tale concetto trova spazio e definizione già in M. Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, Armando, Roma 1972; L’asino d’oro, Roma 2010, p. 307. 11 M. Bellocchio, Buongiorno Marco, intervista di A. Mammì, in «l’Espresso», 18 settembre 2003. 12 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, intervista di L. Bandirali, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte. Le ragioni e le immagini, Argo, Lecce 2004, pp. 40-41. 13 «Nell’accezione comune, inclinazione esclusiva verso un oggetto, sentimento intenso e violento (di attrazione o repulsione) che può turbare l’equilibrio psichico e la capacità di discernimento e di controllo. Nel linguaggio filosofico, in rapporto al corrispondente termine greco πάϑος (“sofferenza, passività”), p.[assione] si contrappone ad azione e indica la condizione di passività da parte del soggetto che si trova sottoposto a un’azione o impressione esterna e ne patisce l’effetto sul piano sia fisico sia psichico. Il termine p.[assione] designa, in particolare, l’esperienza in cui l’animo si sente dominato dalla tendenza affettiva, pratica». Cfr. www.treccani. it/enciclopedia/passione. 14 M. Bellocchio, C’est impossibile que d’en finir… / Impossibile finirla…, in O. Calabrese (a cura di), L’Italie aujourd’hui/Italia oggi. Aspetti della creatività italiana dal 1970 al 1985, La Casa Usher, Milano 1985, p. 271. 15 Per un confronto molto dettagliato tra l’edizione originale e quella del 2011, cfr. M. Nardin, Nel nome del padre di Marco Bellocchio. Dalla sceneggiatura, al film, alla nuova edizione, «Cabiria», n. 170, gennaio-aprile 2012. 16 R. Bellour, in G. Carluccio, F. Villa (a cura di), La post-analisi. Intorno e oltre l’analisi del testo, Kaplan, Torino 2005, p. 139. 17 Cfr. F. Casetti, Una affettuosa provocazione a proposito dell’analisi filmica, in G. Carluccio, F. Villa (a cura di), La post-analisi, cit., p. 11. 18 S. Žižek, Hitchcock: è possibile girare il remake di un film?, Mimesis, Milano 2011, pp. 18-19. Cfr. anche J. Lacan, Livre XXIII. Le sinthome, in «Ornicar?», n. 2-5, 1976-1977; Editions du Seuil, Parigi 2005 (tr. it. Libro XXIII. Il sinthomo, 1975-76, Astrolabio, Roma 2006); J.-A. Miller, Pièces detachées, in «La cause freudienne», n. 60-61, 2004-2005 (tr. it. Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XXXIII. “Il sinthomo”, Astrolabio, Roma 2006). 19 Cfr. S. Žižek, In His Bold Gaze My Ruins Is Writ Large, in «Lacanian Ink», n. 6, 1992 (tr. it. L’universo di Hitchcock, Mimesis, Milano 2008). 20 Cfr. D. Bordwell, N. Carroll (a cura di), Post-Theory. Reconstructing Film Studies, The University of Winsconsin Press, Madison 1996. 21 S. Žižek, Hitchcock: è possibile girare il remake di un film?, cit., pp. 19-26. Cfr. anche R. Salvatore, La distanza amorosa. Il cinema interroga la psicanalisi, Quodlibet, Macerata 2011, pp. 99-100. 22 Cfr. C. Metz, L’énunciation impersonnelle, ou le site du film, Editions Klincksieck, Parigi 1991 (tr. it. L’enunciazione impersonale o il luogo del film, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995, pp. 8-9).

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23 F. Kafka, Der Prozess, Die Schmiede, Berlin 1925 (tr. it. Il processo, Frassinelli, Torino 1933; Mondadori, Milano 1971; 1986, p. 221). 24 C. Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film, cit., p. 9. 25 F. Casetti, Soggettività, senso e emozione: alcune possibili chiavi di analisi, in G. Carluccio, F. Villa (a cura di), Dentro l’analisi. Soggetto, senso, emozioni, Kaplan, Torino 2008, p. 26. 26 Cfr. I. Calvino, I pugni in tasca, «Rinascita», 9 aprile 1966. 27 Un principio su cui insiste P. Ricoeur, De l’interprétation. Essai sur Freud, Seuil, Parigi1965 (tr. it. Dell’interpretazione. Saggio su Freud, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 20). In ambito cinematografico, cfr. P. Bertetto, L’analisi come interpretazione. Ermeneutica e decostruzione, in P. Bertetto (a cura di), Metodologie di analisi del film. Dieci capolavori della storia del cinema, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 179223. 28 Sui criteri per una corretta applicazione della deissi filmica si rimanda ancora ai già citati F. Casetti, Dentro lo sguardo e C. Metz, L’enunciazione impersonale o il luogo del film. 29 Cfr. M. Vernet, Figure dell’assenza, cit., pp. 16-62. 30 S. Agosti, in P. Malanga (a cura di), Marco Bellocchio. Catalogo ragionato, Olivares, Milano 1998, p. 173. 31 Cfr. G. Bettetini, La conversazione audiovisiva, Bompiani, Milano 1984. 32 Cfr. il capitolo Fellini per il suo nuovo film ha fatto incontri paurosi di D. Buzzati, I misteri d’Italia, Mondadori, Milano 1978, pp. 37-47. 33 Cfr. E. Bernhard, Mitobiografia, Adelphi, Milano 1969. 34 Le puntate di circa un’ora ciascuna della trasmissione di Angela sono andate in onda nei primi mesi del 1978, ogni sabato sera in seconda serata. 35 A. Moro, lettera a Eleonora Moro (recapitata dal parroco della chiesa di Santa Lucia a Roma, don Mennini, il 5 maggio 1978), in S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., p. 201. 36 A. Moro, lettera a Eleonora Moro (recapitata anch’essa da don Mennini il 5 maggio), in S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., p. 202. 37 Cfr. il testo integrale del comunicato in M. Clementi, La “pazzia” di Aldo Moro, Odracek, Roma 2001, p. 205. I testi dei comunicati brigatisti sono stati infatti in più occasioni pubblicati e citati. Si è però scelto per comodità questo libro, perché la sua pubblicazione è anteriore all’uscita di Buongiorno, notte e perché il titolo riassume uno dei concetti chiave molto consono alle corde di Bellocchio, che perciò stiamo portando avanti. 38 P. Angela, Viaggio nel mondo del paranormale, Garzanti, Milano 1978, p. 405. 39 S. Flamigni, Il covo di Stato, cit., p. 33. 40 F. Cossiga, in ACM, vol. III, p. 194. Cfr. anche i paragrafi Chi ha ispirato lo spirito?, in S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 1988, cit., pp. 119-123, e i paragrafi Informazioni paranormali e Lo spirito ispirato, in S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 2003, cit., pp. 162-164, 172-174.

41 A. Clò, audizione di A. Clò (10 giugno 1981), in ACM, vol. VIII, pp. 305, 310. 42 Una stretta sequenza temporale collega il rapido cambio della guardia ministeriale alla pubblicazione su «Panorama» del 24 ottobre 1978 dell’articolo Dal telefono di Donat Cattin che reca «la notizia che la telefonata di rivendicazione a nome delle Brigate Rosse fatta all’agenzia Ansa il 10 marzo 1978 alle 8.35, dopo l’assassinio del maresciallo di polizia Rosario Berardi, è partita dall’apparecchio telefonico installato nell’appartamento del ministro Carlo Donat-Cattin, in via Romagnano 27 a Torino» (C. Stajano, L’Italia nichilista. Il caso Marco Donat-Cattin, la rivolta, il potere, Mondadori, Milano 1982, p. 146). Del resto dell’attività sovversiva di Marco Donat-Cattin erano informati gli organi di sicurezza e l’autorità giudiziaria da prima di tale data (Ivi, pp. 19-21, 99-102, 106, 143-152). 43 Cfr. ACM, vol. VIII, pp. 295-324. 44 In M. Gotor, E il piattino indicò: “Gradoli”, «Diario», n. 19, 17-30 ottobre 2008, si sottolinea inoltre la discrepanza tra il luogo indicato nel suddetto articolo di Martinelli e Padellaro del 17 ottobre 1978 («a Bologna in un appartamento del centro storico») e la casa di campagna di Clò a Zappolino, come invece dichiarato il 22 dicembre 1978 dallo stesso Romano Prodi ai magistrati. Quando Prodi, assieme agli altri partecipanti alla seduta spiritica, viene ascoltato quella prima volta è appena diventato ministro dell’Industria. Da un mese, esattamente dal 28 novembre. 45 Cfr. R. Martinelli, A. Padellaro, Il delitto Moro, Rizzoli, Milano 1979. 46 Martinelli e Padellaro nel loro libro finito di stampare a marzo del 1979 non sono i soli a lamentare la mancanza di un’apposita Commissione parlamentare d’inchiesta. Il 2 giugno 1979, data della stampa della prima edizione di L. Sciascia, Nero su nero, Einaudi, Torino 1979, la fonte dell’«indicazione» Gradoli è ancora ufficialmente «anonima». Annota infatti Sciascia a p. 220: «Non si farà sul caso Moro, almeno per ora, l’inchiesta parlamentare. […] C’è però nel paese – nella parte migliore del paese – una esigenza di sapere, di conoscere, di giudicare che si dovrebbe tenere in gran conto e in qualche modo soddisfare. Per esempio: la faccenda di Gradoli. Il capo della polizia pare abbia detto al giudice che una segnalazione anonima portasse questa indicazione senza specificare se il nome fosse quello del paese o della via romana. […] Si vorrebbe, ecco, tanto per cominciare, conoscere il testo della segnalazione anonima. Non porterebbe alcun nocumento allo svolgimento dell’inchiesta, la pubblicazione di un simile documento: e i cittadini potrebbero, in concreto, farsi un’idea dei metodi e dei tempi che alla loro polizia son propri». 47 Cfr. R. Martinelli, A. Padellaro, Il delitto Moro, cit., pp. 117-118. 48 Di questa chiave di lettura l’autore di La tela del ragno, ed. 1988, cit., pp. 121-122, è così poco convinto da evitare di conservarla, anche solo ipoteticamente, nell’edizione successiva del volume. Cfr. S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 2003, pp. 162-164. 49 Il periodo delle riprese è indicato in A. Aprà (a cura di), Marco Bellocchio. Il cinema e i film, Marsilio, Venezia 2005, p. 245, sebbene Ceccano venga erroneamente collocata in provincia di Roma.

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50 Lo sostiene Luigi Maria Perotti, originario di San Benedetto del Tronto, autore di due documentari sul delitto di Roberto Peci: L’infame e suo fratello (2008) e La via di mio padre (2011). 51 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, Marsilio, Venezia 2003, p. 8. 52 A. Moro, lettera a Benigno Zaccagnini, scritta qualche giorno prima dell’avvenuto recapito, il 4 aprile, e pubblicata dai giornali il 5 aprile. Cfr. S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., p. 69. 53 A. Moro, lettera A Benigno Zaccagnini, recapitata il 20 aprile assieme alla lettera al pontefice. Ivi, pp. 110, 112. 54 Ivi, p. 109. 55 A. Moro, lettera a Eleonora Moro, recapitata l’8 aprile. Ivi, p. 81. 56 Gli interventi di Pecorelli su «OP» sul caso Moro sono stati pubblicati in S. Flamigni, Le idi di marzo. Il delitto Moro secondo Mino Pecorelli, cit. 57 Ivi, p. 14. 58 Ivi, p. 74. 59 Giovanni Galloni, all’epoca del sequestro Moro vicesegretario della DC, racconta durante la sua audizione del 22 luglio 1998 alla Commissione Stragi: «Romano Prodi con la vicenda di via Gradoli non c’entra nulla: fu Paolo Prodi, allora professore all’Università di Trento, a venire a Piazza del Gesù, durante i 55 giorni, per riferire della segnalazione». Paolo Prodi, successivamente, smentisce Galloni, anche precisando di fronte alla stessa Commissione che, durante il sequestro Moro, non era più professore a Trento da un anno. Cfr. la voce Paolo Prodi, in S. Grassi, Il caso Moro, cit., pp. 589-590. 60 Il 4 febbraio 1981 Romano Prodi aveva inviato al senatore Dante Schietroma, primo presidente della Commissione Moro, una lettera collettiva del 3 febbraio 1981 protocollata il 18 febbraio ove si descriveva l’episodio medianico. Cfr. F. Imposimato, S. Provvisionato, Doveva morire, Chiarelettere, Milano 2008, p. 387-390. 61 S. Flamigni, R. Prodi, L. Sciascia, audizione di R. Prodi (10 giugno 1981), in ACM, vol. VIII, pp. 297-298, 300-301, 303-304. 62 M. Bellocchio, in F. Ventura, Il cinema e il caso Moro, Le Mani, Recco 2008, p. 169. 63 Ibidem. 64 S. Flamigni, R. Prodi, audizione di R. Prodi, in ACM, vol. VIII, cit. p. 299. 65 S. Corallo, ivi, p. 296. 66 L. Sciascia, A. Clò, audizione di A. Clò, in ACM, vol. VIII, cit., pp. 311-312. 67 L. Sciascia, Relazione di minoranza del deputato Leonardo Sciascia del gruppo parlamentare radicale in L. Palazzolo (a cura di), Leonardo Sciascia deputato radicale, 1979-1983, Kaos, Milano 2004, pp. 129-130. 68 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 7. 69 La specifica battuta non è prevista nella sceneggiatura originale. In M. Bellocchio, Il regista di matrimoni, Marsilio, Venezia 2006, p. 65, si legge soltanto: «Baiocco è a colloquio con un uomo molto particolare. […] È il principe Ferdinando

Gravina di Palagonia che è venuto ad affittare e restituire delle cassette di film importanti, classici. Il colloquio è molto tecnico…» [corsivo nostro]. 70 C. Metz, Essais sur la signification au cinéma, Éditions Klincksieck, Parigi 1968 (tr. it. Semiologia del cinema. Saggi sulla significazione nel cinema, Garzanti, Milano 1972; 1980, p. 63). 71 Cfr. A. Bazin, Qu’est- que le cinéma?, Éditions du Cerf, Parigi 1958; 1962 (tr. it. Che cos’è il cinema, Garzanti, Milano 1973; 1979, pp. 63-74). 72 C. Metz, Semiologia del cinema, cit., p. 63. 73 U. Eco, Cinema e letteratura: la struttura dell’intreccio, contributo a una discussione collettiva su L. Chiarini, Arte e tecnica del film, poi in U. Eco, La definizione dell’arte, Garzanti, Milano 1983, p. 204. 74 Cfr. N. Burch, Praxis du cinéma, Editions Gallimard, Parigi 1969 (tr. it. Prassi del cinema, Pratiche, Parma 1980, p. 12). 75 M. Bellocchio, in F. Faldini, G. Fofi (a cura di), Il cinema italiano d’oggi 19701984, Mondadori, Milano 1984, p. 53. 76 S. Rulli, in P. Malanga (a cura di), Marco Bellocchio, cit., p. 173. 77 Gli avversari politici usavano chiamare Togliatti “Il Migliore”, riconoscendone la statura intellettuale. 78 Questo dialogo è abbastanza conforme a come era stato previsto in sede di sceneggiatura. Le uniche varianti sostanziali riguardano i riferimenti di Smamma: 1) all’«esercito dell’Azione cattolica (comincia a cantare “… siamo arditi della fede, siamo araldi della croce…” e Franco lo segue)», inserito tra il «piccolo mondo dell’oratorio» e «il cinema parrocchiale» (nel film invece «il cinema dei preti»); 2) al film su cui stanno convergendo i voti delle «parrocchie del cinema», che non è quello su Togliatti, che pure resta come alternativa tra parentesi, ma su De Gasperi, cadendo «il cinquantesimo della morte»; 3) alla Mostra del cinema di «Venezia [che] prepara la retrospettiva completa» su Smamma; 4) al «mondo [che] è pieno di aspiranti suicidi», tra cui la stessa Bona. Cfr. M. Bellocchio, Il regista di matrimoni, cit., pp. 94-97. 79 M. Bellocchio, In Italia comandano i morti, intervista a cura di F. Ferzetti, ivi, pp. 16-17. 80 O. Del Buono, Il male del Bene, in Id., Il comune spettatore, Garzanti, Milano 1979, p. 27. 81 Brani del testo di Del Buono Il male del Bene vengono letti da Federico Zevi il 23 ottobre 1995 nel corso della seconda puntata che il Maurizio Costanzo Show dedica a Carmelo Bene. E che Bellocchio cita in Era un gigante, ottobre 2005, in A. Riccini Ricci (a cura di), libretto allegato a Nostra signora dei Turchi. Hermitage, dvd, Raro Video/Fondazione l’Immemoriale di Carmelo Bene, Roma 2006, pp. 16-17. 82 Ivi, p. 16. 83 M. Bellocchio, Sulla nuova versione di ‘Nel nome del padre’ (dal press-book del film, settembre 2011, p. 5). 84 M. Bellocchio, Bertolucci: ben ti sta, «Quaderni piacentini», n. 7/8, febbraiomarzo 1963.

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85 Cfr. P. P. Pasolini, Il “cinema di poesia” (1965), in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972; 2000, pp. 167-187. 86 P. P. Pasolini, carteggio con M. Bellocchio, in G. Gambetti (a cura di), I pugni in tasca. Un film di Marco Bellocchio, poi in P. Malanga (a cura di), Marco Bellocchio, cit., pp. 39-40. 87 Cfr. A. G. Mancino, Privato, psicanalitico, politico: il cinema della complessità, «Cinecritica», n. 46/47, aprile-settembre 2007. 88 L. Morandini, in P. Malanga (a cura di), Marco Bellocchio, cit., p. 187. 89 Sull’eredità di Verdi e di Visconti nel cinema italiano partendo dall’asse Bellocchio-Bertolucci, cfr. A. G. Mancino, Me(ga)lomanie verdiane, in S. Gesù (a cura di), Il melodramma al cinema. Il film-opera croce e delizia, Giuseppe Maimone, Catania 2009, pp. 65-75. 90 Cfr. il testo integrale del comunicato in M. Clementi, La “pazzia” di Aldo Moro, cit., p. 199. 91 Cfr. S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., pp. 110-113. 92 G. Deleuze, Idée, in C. Parnet (a cura di), L’Abécédaire de Gilles Deleuze, Édition Montparnasse, Parigi 1996 (tr. it. Abecedario di Gilles Deleuze, DeriveApprodi, Roma 2005). 93 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 5. 94 Ivi, p. 6. 95 M. Bellocchio, Sulla nuova versione di “Nel nome del padre”, cit., p. 5. 96 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 7. Cfr. anche F. Ventura, Il cinema e il caso Moro, cit., p. 169. «Il mio sangue ricadrà su di loro» viene citato inoltre come fonte dall’attrice principale. Cfr. M. Sansa, commento al film, in Buongiorno, notte, dvd, 01 Distribution Home Video, Roma 2006. 97 Cfr. M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., pp. 13-14. 98 In M. Bellocchio, M. Fagioli, La condanna, Nuove Edizioni Romane, Roma 1999, p. 91: «L’ambientazione immaginata in sede di scrittura, ovvero Castel Sant’Angelo, non essendo stato concesso il permesso di effettuarvi le riprese, viene sostituita da Palazzo Farnese a Caprarola». È inoltre interessante notare il titolo scelto per l’intervento di Bellocchio che apre il volume: Memorie di un condannato (pp. 9-19). 99 Cfr. A. G. Mancino, Destini incrociati #1. “Andare al cinema”, «Cineforum», n. 529, novembre 2013. 100 J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi, relazione del Congresso tenuto presso l’Istituto di Psicologia dell’Università di Roma il 26 e il 27 settembre1953, in Id., Écrits, Éditions du Seuil, Parigi 1966 (tr. it. Scritti, vol. I, Einaudi, Torino 1974; 2002, p. 261). 101 Cfr. P. Montani, L’immaginazione intermediale, cit., pp. 27-33. 102 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 8. 103 Dubbi riguardo a quella di via Montalcini come unica prigione di Moro durante i cinquantacinqueossim giorni del sequestro affiorano in numerosi libri

successivi o contemporanei all’uscita di Buongiorno, notte. Cfr. in particolare il capitolo I misteri della segregazione di S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 2003, cit., pp. 217-238; G. De Lutiis, Il golpe di via Fani, Sperling & Kupfer, Milano 2007, pp. 99124; la voce Via Montalcini, in S. Grassi, Il caso Moro, cit., pp. 445-448; S. Flamigni, La prigione fantasma, cit. 104 Cfr. A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, Feltrinelli, Milano 1988; 2008. 105 Cfr. F. Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, cit., pp. 154-293. 106 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 7. 107 Ivi, p. 100. 108 A. Moro, lettera a Francesco Cossiga recapitata nel contempo anche agli organi di informazione, contrariamente alle disposizioni del mittente, il 29 marzo 1978, in S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., p. 58. 109 In R. Bellour, Les oiseaux: analyse d’une séquences, «Cahiers du Cinéma», n. 216, 1969, poi in L’analyse du film, Albatros, Parigi 1979; Calmann-Lévy, Parigi 1995 (tr. it. Sistema di un frammento, in L’analisi del film, Kaplan, Torino 2005, p. 66): «È questa [“scena”] la parola che suona più corretta: la sua semplicità impone uno spazio chiuso dove i personaggi si affrontano. E, inoltre, riguarda il mito che Freud, dal profondo della prima infanzia, chiamò “scena primaria”».

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Moro, matto da slegare



«D’altra parte fino al momento nel quale non avrò imparato a distinguere nettamente quel che è accidentale da ciò che è necessario, che altro si potrebbe chiedere alla mia penna se non esattezza e rigore?» André Gide, I sotterranei del Vaticano

Spazi manicomiali Buongiorno, notte propone come luogo unico e polisemico della detenzione un appartamento corrispondente, almeno sulla carta,1 a quello di via Montalcini 8 a Roma. Ciononostante nel film emergono ordinatamente tracce molto circostanziate e suggestive anche sulle ipotetiche altre prigioni di Moro. Addirittura, tra un’allusione e l’altra, da vagliare con estrema perizia, sembra venga offerta una soluzione condivisa e non semplicistica ai problemi sollevati dall’ubicazione o dal numero delle prigioni, riuscendo a conciliare percorsi interpretativi aperti e ancora oggi molto divaricati. Ma prima di tirare le fila di molte affermazioni fatte e di discorsi fin qui lasciati spesso in sospeso, o almeno di cominciare a farlo in modo sistematico, è sempre bene cercare ulteriori elementi di supporto in diversi film di Bellocchio che sembrerebbero non riguardare il caso Moro. Tra questi il più emblematico resta Enrico IV, su cui torneremo più volte, perché trascende sovente l’originale pirandelliano, premendo sui suoi confini spaziali e temporali con inquadrature ricorrenti, situazioni e battute arricchite di riferimenti insistiti. Troppi per essere casuali e involontari.

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Prendiamo ad esempio questo breve scambio di battute tra il marchese e lo psichiatra appena arrivati al castello: Psichiatra: Marchese, ci sono mica pesci rossi? Marchese: No, è acqua stagnante. Psichiatra: Infatti non ne vedo.

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A quali «pesci rossi» allude il film attraverso lo parole “inoffensive” di questi due personaggi, se non alle forze politiche di sinistra sedicenti rivoluzionarie, parlamentari o extraparlamentari? La constatazione dell’autore Bellocchio, oltre Pirandello, sembrerebbe abbastanza pungente: di simili «pesci rossi» d’acqua dolce, in grado cioè di svolgere un ruolo attivo e determinante in quell’ambito molto ristretto, simile a un acquario o a una vasca, che è il panorama stagnante della politica italiana, è difficile accorgersi nelle vicende storico-politiche di quegli anni. Il caso Moro ne è un esempio lampante. L’azione pirandelliana nel primo atto si svolge già all’interno del salone della villa che ospita la messa in scena pluridecennale del protagonista creduto pazzo. Il film bellocchiano parte invece dall’esterno. Alla guida dell’automobile diretta al castello c’è il marchese Di Nolli, alla sua destra lo psichiatra, dietro il marchese Belcredi e sua moglie Matilde. Una volta giunti a destinazione i quattro scendono dall’automobile e si avvicinano a quello che Belcredi ironicamente chiama «area manicomiale», riferendosi agli ambienti del castello destinati alla “recita della storia” medievale/contemporanea. Come è noto, l’atteggiamento scettico e indolente di Belcredi cela un segreto inconfessabile: sua, in quanto ex rivale in amore, è la responsabilità dello stato mentale in cui vive da tempo l’uomo che si crede, o fa credere di credersi Enrico IV di Franconia, imperatore del Sacro Romano Impero.2 Durante un torneo in maschera Belcredi ha infatti causato molti anni prima l’incidente fatale a cavallo in seguito al quale sembrerebbe essere impazzito il giovane aristocratico che goffamente corteggiava Matilde. Fin qui, sia pure per sommi capi, Pirandello. Ora, nella logica parallela del film, è indubbiamente significativo che vengano rappresentati in flashback, come già in Enrico IV (1943) di Giorgio Pastina, e mescolati al presente i ricordi dei protagonisti “mascherati”. A Bellocchio l’insorgere della follia interessa proprio da un punto di vista fenomenologico, immediato, fisico, non soltanto verbale e distanziato temporalmente. Ragion per cui non va trascurato un dettaglio strettamente consequenziale. Se c’è stata una “mascherata”, è giocoforza che i costumi di allora si vedano. E si vedono, eccome. Già durante il viaggio in auto lo psichiatra sfoglia un album fotografico in cui presta attenzione alle immagini dei protagonisti con indosso i costumi di allora. Belcredi, che ha

messo il sedicente Enrico IV nella condizione di vivere “ricoverato” in quella remota «area manicomiale», spicca con il suo degno costume medievale con l’immagine dello “scudocrociato” sul petto. Bellocchio insomma lo mostra in abiti che alludono allo stemma del partito dello scudocrociato, la Democrazia Cristiana. Come dire che il dramma di questo celebre protagonista, ereditato ineccepibilmente dal repertorio pirandelliano, rinchiuso e creduto pazzo, quindi perfetto facsimile dell’Aldo Moro prigioniero delle Brigate rosse, ha una precisa, crudele matrice democristiana. Quanto ai partiti d’opposizione, il Partito Comunista o il Partito Socialista, almeno tradizionalmente rossi, vengono presentati come forze ininfluenti sulla “scena”: assenti, esattamente come i «pesci rossi» di cui sopra. Questa è una delle ipotesi interpretative possibili. L’altra sarebbe persino più radicale: i suddetti «pesci rossi» potrebbero essere le Brigate rosse, all’occorrenza mute come “pesci” (In silenzio è il titolo della versione teatrale della Balia pirandelliana cui Bellocchio ha attinto quindici anni dopo). Diciamo pure assenti dall’altro «area manicomiale» del 1978 o comunque poco decisive nel quadro generale del sequestro Moro. Quelli «rossi» sarebbero dunque soltanto pesci? O la particolare specie “ittica” di Enrico IV allude piuttosto a partiti o forze di opposizione storicamente “rosse”, addirittura alle Brigate rosse? Sta di fatto che, come Moro, l’Enrico IV voluto da Bellocchio vive in un luogo privilegiato sotto costante vigilanza. In questo luogo circoscritto ma tutt’altro che angusto, un castello appunto, quotidianamente va in scena lo spettacolo della sua (finta) follia. E uno dei numeri che si ripete ogni volta è quello del sorvegliato speciale che invoca un perdono salvifico e un’intercessione liberatoria presso la Santa Sede, puntualmente e obbligatoriamente respinti. Storicamente, teatralmente, politicamente le cose sono andate per molti versi così: a Enrico IV come ad Aldo Moro. Su questo nucleo provocatorio si basa il progetto pluridecennale e sfaccettato di Bellocchio sul caso Moro, in cui vanno esplicitandosi poco alla volta le premesse di quell’«area manicomiale» del 1984 (Enrico IV) che nel 2003 diventa «prigione della prigione» (Buongiorno, notte). Ogni film di cui proveremo a dare puntualmente conto offre un giro di vite.

Scene da un manicomio Per capire come funzionano effettivamente le cose e perché (specialmente in Buongiorno, notte) bisogna accettare l’idea che la «prigione della prigione» di cui Bellocchio parla e che ha realizzato rimanda e coincide con la posizione irrinunciabile assegnata agli spettatori dal dispositivo cinematografico. Posizione da cui è difficile svincolarsi o prescindere: così come gli

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spettatori dallo schermo «non possono distogliere lo sguardo, né possono volgersi altrove»,3 anche Chiara, più degli altri brigatisti-spettatori, non riesce a interrompere la sua visione privata di Moro. Esiste un nesso molto preciso tra l’atto del guardare e la morte. Un nesso che riporta il discorso sullo sguardo di Bellocchio sui binari del cinema di Alfred Hitchcock, con particolare riferimento a Psyco (Psycho, 1960).4 Del resto non è la prima volta, né l’ultima, che in tema di spazi manicomiali domestici Bellocchio ricorre a modelli hitchcockiani, a partire appunto da Psyco. Ha già scelto nel suo film d’esordio di inquadrare Ale, che ha appena spinto giù dalla rupe la madre, esattamente com’è inquadrato Norman in Psyco quando Sam lo chiama e lui resta impassibile su un’altura, senza nemmeno degnarsi di rispondergli.5 Il matricidio che accomuna i due protagonisti maschili di I pugni in tasca e Psyco si è convertito, in Buongiorno, notte, in patricidio. Il fantasma di Psyco torna anche in Vincere, evocato dalla scelta della protagonista Ida Dalser, anche lei fatta internare come presunta pazza, di nascondere il prezioso certificato dell’effettivo matrimonio contratto con Benito Mussolini sotto l’ala di un uccello scuro impagliato. Scelta che rimanda ovviamente anche a Gli uccelli (The Birds, Alfred Hitchcock, 1963). Così come uno dei motivi principali della colonna sonora composta da Carlo Crivelli per lo stesso film “cita” la testa del tema6 di Intrigo internazionale (North By Northwest, Alfred Hitchcock, 1959), rielaborandola con una diversa orchestrazione. Bellocchio insomma – quando può, specialmente se desidera (dis)simulare bene qualcosa al sicuro da letture e sguardi indiscreti – ricorre a questi perfetti sistemi testuali hitchcockiani. Con un “occhio” di “riguardo”, è proprio il caso di dire, per Psyco, che ha stabilito inequivocabilmente un legame forte tra psicosi, scopofilia e omicidio. Quindi tra l’esercizio della visione cinematografica e il regime visivo che conduce alla morte violenta. Ecco perché in Buongiorno, notte il doppio carcere (doppio anche sotto il profilo psichiatrico: per i veri insani di mente e per il pazzo “sano”), ricavato nell’appartamento e costruito materialmente dagli stessi brigatisti falegnami, porta alle estreme, tragiche conseguenze l’istituzione di un regime visivo, le cui rigide misure disciplinari sono sì restrittive ma non completamente illiberali.7 Misure che non hanno impedito il consumarsi di strappi liberatori: quello del personaggio di Moro, il quale con impertinente rassegnazione o con pudore, a seconda degli stati d’animo, può ri-guardare chiunque lo guardi dallo spioncino. La prima volta tocca a Chiara, la seconda a Mariano e a Primo. In due situazioni distinte. Nella prima si è appena concluso un interrogatorio molto ideologico di Moro, condotto come sempre da Mariano da solo e con il viso coperto da un passamontagna scuro. Sopraggiunge Primo, a sua volta con il passamontagna. Bussa. Sentendolo, Moro si volta fino a trovarsi frontale rispetto allo

spioncino che lo incornicia nell’inquadratura: guarda così chi è al di qua, prima ancora che la porticina venga aperta da Mariano, il quale esce subito. Chiara, che dall’esterno del vano-prigione ha come di consueto seguito l’interrogatorio attraverso lo spioncino (molte inquadrature opportunamente incorniciate sono infatti soggettive, le sue), si fa da parte. Aspetta che Mariano si sia allontanato per tornare a guardare Moro. A questo punto succede qualcosa di cinematograficamente, e non solo, rilevante e inaspettato. Il frammento restante della scena si articola in quattro inquadrature indicative. Proviamo a descrivere almeno queste più in dettaglio, nei limiti del possibile: 1) lo spazio vuoto circolare al di là dello spioncino, ripreso dall’interno del vano prigione, viene immediatamente occupato dal primissimo piano di Chiara che entra in campo da sinistra e si avvicina per guardare meglio. 2) In controcampo, ritagliata dal consueto mascherino circolare dai contorni sfocati, una minima correzione panoramica verticale dal basso verso l’alto della macchina da presa mostra in soggettiva (è Chiara che guarda) una porzione molto ridotta del vano prigione: la bandiera rossa sul fondo che reca incompleta e altrettanto sfocata la scritta «brigate rosse» viene coperta completamente dal dettaglio degli occhi di Moro il quale, entrato in campo da destra, di profilo, scompare quasi del tutto a sinistra, dopo essersi assestato in posizione frontale. 3) Come nell’inquadratura precedente, dopo uno stacco brusco che spezza la linearità, marcando piuttosto la discontinuità, la soggettiva ugualmente mossa di Chiara salta al dettaglio sempre frontale degli occhi di Moro, il cui volto ancora incorniciato dallo spioncino sfocato è coperto per metà (la metà destra). Si vede (perché è sempre Chiara che vede) solo l’occhio destro di Moro. Il cui sguardo è rivolto alla sua destra, in basso. A un tratto la pupilla di Moro scatta verso l’alto, fissando ora centralmente l’obiettivo della macchina da presa (quindi Chiara, quindi lo spettatore).8 4) D’istinto Chiara, in primissimo piano frontale come nell’inquadratura 1, vistasi “scoperta”, si sottrae allo sguardo di Moro. Tlae inquadratura è concepita infatti, a differenza della 1, come una soggettiva di quest’ultimo su Chiara. La quale retrocede ed esce rapidamente di campo a sinistra lasciando vuoto lo spazio circolare oltre lo spioncino. Cosa si evince da questa scena in cui Moro si immette direttamente sull’asse visivo di Chiara, che coincide con la visuale dell’obiettivo della macchina da presa? Rivolgendosi idealmente all’implicito regista, il personaggio di Moro intercetta al di qua dello schermo anche lo spettatore accomodato in sala. Lo spettatore infatti, posto che esista o non sia piuttosto una pura istanza testuale, viene a trovarsi nella stessa condizione dei carcerieri che sullo schermo spiano, spiati, il prigioniero. In altre parole egli, a suo modo incarcerato fisicamente e visivamente, diventa un loro complice potenziale. Non ha scelta, del resto. Sono le regole dello spettacolo cinematografico. Bellocchio lo sa benissimo. E se ne serve per costruire il cortocircuito dello

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sguardo su cui si fonda la sottile ambiguità di un film come Buongiorno, notte che dice, facendo vedere e ascoltare, più di quanto è dato sapere. Scene da un crimine, scene da un manicomio cinematografico o da un matrimonio politico perfettamente riuscito, sull’altare del quale Moro viene in un certo senso sacrificato. Passiamo ora alla seconda sequenza chiave di scene interconnesse, fin qui solo accennata, complementare alla singola scena appena descritta. Stavolta ad alternarsi sono più personaggi e inquadrature relative a diversi spazi dell’ambiente esterno dell’appartamento (la stanza in cui Chiara legge l’ultima lettera inviata da Moro alla moglie, l’intercapedine davanti alla porta della cella di Moro in cui sostano e da cui guardano ora Primo e Mariano). Inquadrature che a loro volta si interfacciano a quelle dell’ambiente interno in cui Moro è visto sempre in soggettiva dallo spioncino. Mariano ha da poco terminato la lettura dell’assurda, folle sentenza di morte, sprofondando il prigioniero nella disperazione e scatenando l’acceso dissenso dentro la cellula brigatista. A opporsi alla turpe decisione, a quanto pare irrevocabile, di cui Mariano si fa solenne portavoce, sono in due. La prima è Chiara, che dopo aver ascoltato in televisione l’allora ministro della Sanità, l’onorevole Tina Anselmi, spiegare il testo della Legge Basaglia («Questa legge che abbiamo presentato [...] concepisce l’ammalato mentale come l’ammalato che abbia altre malattie. Non lo segrega, lo inserisce negli ospedali») si precipita d’istinto nella sua postazione preferita, davanti alla porta della cella, per guardare ancora Moro con silenziosa commiserazione. Come abbiamo già spiegato, il richiamo di Bellocchio alla Legge Basaglia che di lì a pochi giorni sarà approvata, filtrato da due singolari personaggi femminili (la prima donna ministro in Italia e l’unica donna del covo brigatista), serve a sottolineare una situazione paradossale: neanche la tanto conclamata “pazzia” di Aldo Moro basta, in ottemperanza ai principi del provvedimento legislativo appena dichiarati dalla Anselmi, a sottrarlo al regime di “segregazione” nel quale si trova dal giorno del rapimento. Né tantomeno a salvargli la vita. Al termine delle trentuno inquadrature della sequenza che ci accingiamo a descrivere interviene l’altro brigatista dissenziente, Ernesto, che a Mariano cerca disperatamente di fare capire l’effetto controproducente della risoluzione mortale: «Ragiona: tutti lo vogliono morto. Se noi lo ammazziamo, gli facciamo un gran servizio. Noi lo ammazziamo per loro, ti rendi conto?». Ernesto parte da un presupposto sbagliato: far “ragionare” chi si prepara a dare corso a un’azione disumana, a un gesto “folle”. Sta sprecando tempo, senno e parole. Per lo spettatore però è tutto senso politico guadagnato: «Tutti – dice il personaggio – lo vogliono morto». E le Brigate rosse «eseguendo la sentenza» (5 maggio), rendono a questi «un gran servizio». Lo starebbero in pratica facendo «per loro». Come si può negare a Buongiorno, notte un proposito, condivisibile o meno, di lettura storico-politica diretta del caso Moro?

Questi brigatisti al servizio di altri soggetti non meglio precisati somigliano tanto ai pupi in onda sulla rete di Stato prima che l’edizione straordinaria del telegiornale con la notizia del sequestro interrompa la programmazione ordinaria. Spiega Francesca Calvelli che questo “teatro dei pupi” andava in onda veramente, la mattina del sequestro, sul secondo canale della Rai. Fu proprio il programma dei burattini ad essere interrotto per dare l’annuncio del rapimento di Moro. Questa cosa, poi, ci piaceva molto, a Marco piacevano i pupazzi colorati, e poi ho inserito il rumore delle spade… c’è stata una costruzione lunga ma credo potente nell’effetto finale.9

Indubbiamente nella realtà si tratta di un caso. Ma nulla vieta che nella logica del film e del caso Moro i pupi possano assumere carattere di causalità altrettanto sensata. Lo stesso discorso, sempre prestando attenzione al denso tessuto «intermediale» assecondato dal montaggio «sovrano» della Calvelli, vale per un altro programma, stavolta radiofonico, con i canti dei cosacchi: «Diciamo che alcune di queste cose sono state scritte e pensate da Marco prima delle riprese. Altre sono state realizzate strada facendo, per esempio la radio che trasmette I coraggiosi cosacchi del Don è una totale invenzione, perché la radio nella casa non si vede mai».10 Cosa c’entrano i cosacchi rievocati musicalmente dall’Orchestra e Coro dell’Armata rossa? Servono a rispolverare l’immagine cara alla propaganda della Guerra fredda dei cavalli dei cosacchi che si sarebbero «abbeverati nelle fontane di San Pietro» se il Partito Comunista avesse vinto alle elezioni. Né tuttavia, a proposito di quella scuola sovietica che aveva fatto del montaggio il principio attivo del cinema, va dimenticata l’altra immagine, cinematografica, dei cosacchi che sopraggiungono per reprimere la rivolta popolare nella celeberrima scena della scalinata di Odessa: la più “montata” e studiata di La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin, Sergej Ejzenštejn, 1925). L’autore di Buongiorno, notte sembra non avere nulla da eccepire sulla nozione di cinema molto “sovietica” propugnata al principe del successivo Il regista di matrimoni. Ad ogni modo, con o senza i brigatisti da intendere come “pupi” manovrati da forze occulte o come “cosacchi” a uso e consumo del fantasma sovietico o ancora strumenti del potere reazionario, per caso o per necessità politico-semantica, un dato è certo, almeno sul fronte psichiatrico, politico e istituzionale: neanche la Legge Basaglia (sul cui significato provocatorio nel testo del film non possono sussistere dubbi) costituisce per Moro una soluzione alla segregazione sorvegliata e punitiva. Quindi alla punizione definitiva ugualmente sottoposta al regime disciplinare dove il soggetto segregato non può eludere il dispositivo di sorveglianza.11 L’impostazione del discorso cinematografico ormai la conosciamo. Da un lato la scena di

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Moro che ri-guarda Chiara dimostra come nessuno spettatore, nel film o del film, regista incluso, possa dirsi davvero al riparo dagli sguardi indiscreti al e del condannato; dall’altro una parete artificiale separa un settore esterno, l’appartamento/macro-prigione, relativamente ampio, in cui si aggirano i carcerieri, da quello interno, cioè il vano artificiale/micro-prigione di Moro, invece molto stretto. Consideriamo ora le conseguenze estreme di tale impostazione. Notificata a Moro la condanna a morte, cosa accade quando dalla macro-prigione due brigatisti su quattro, Mariano e Primo, lo osservano intensamente mentre se ne sta costipato nella micro-prigione? Cominciamo con il dire che all’appello dello spioncino fatale manca Ernesto il quale, in un’inquadratura sfocata di questa sequenza di scene, gesticola e folleggia a sua volta. Ma ciò che più colpisce è la mancanza di Chiara, la quale più di tutti gli altri non era riuscita fino a quel momento a staccarsi dallo spioncino, né a smettere di controllare Moro dal suo cantuccio fuori dalla cella. Qualcosa è cambiato da quando Moro, percependo questa pressione visiva, a sorpresa ha infranto con uno sguardo di ritorno la quarta parete invisibile dello schermo. Sguardo che ha costretto Chiara a ritrarsi, spaventata da una mossa inaspettata e tecnicamente impraticabile. E che ha investito automaticamente la macchina da presa, cogliendola in fallo, inchiodandola alla responsabilità della sua ineludibile presenza “tecnica” sulla presunta scena del crimine. Fino ad allarmare l’ideale spettatore inerte, ritrovatosi di colpo spalle al muro. Moro, non dimentichiamo, possiede una vista e un intuito speciali. Indovina persino che la persona rimasta sempre nell’ombra, oltre la porta-parete, è una giovane donna. Ne parla, la chiama in causa come se l’avesse ri-guardata davvero, e in pratica identificata, sanzionata. Senza contare che, sulla base delle decisive soluzioni di montaggio adottate, Chiara neanche in questa circostanza estrema avrebbe perso di vista Moro, pur restando sul letto a leggerne l’ultima, affettuosa lettera da condannato a morte. Un condannato a morte non della Resistenza, come in Italia durante la Seconda guerra mondiale, bensì un condannato a morte dalla sedicente “resistenza” di quelle Brigate rosse che hanno puntato a “colpire al cuore” lo Stato richiamandosi solo nominalmente alla lotta armata partigiana.

Cronaca di una morte enunciata Cosa ha spinto una che ha scelto la lotta armata e la clandestinità come Chiara (poco o solo in parte corrispondente al personaggio della carceriera Anna Laura Braghetti) a guardare con tanta costanza e insistenza il prigioniero? È presto detto. La risposta la dà lei stessa, nel film: «per assicurarmi che ci sia». Cosa intende dire? Che non riesce a credere (se non) ai suoi occhi? Ma da dove le deriva tanta insicurezza? Dalla possibilità che non sia tutto vero

quello che vede? Che Moro sia soltanto un’allucinazione, una proiezione del suo delirio, un brutto sogno? O che Moro potrebbe davvero non essere lì, nell’appartamento (di via Montalcini)? O ancora che, se c’è, potrebbe sparire, essere spostato altrove, da un momento all’altro? Ma se lei, personaggio del film, guarda senza sosta dentro la «prigione della prigione» bellocchiana è ragionevole chiedersi se l’insicurezza o incredulità non riguardi, in tutti i sensi, la posizione conoscitiva mediata dalla macchina da presa. La posizione cioè dell’autore, istanza del racconto e del senso, nondimeno figura intellettuale e persona fisica, senza soluzioni di continuità. Autore che a sua volta, a dispetto della personale riluttanza verso il senso imposto, l’analisi e l’interpretazione dei suoi film, proprio attraverso le modalità dell’enunciazione riesce a trasferire intatta l’insicurezza/incredulità di Chiara allo spettatore, sia esso reale o ideale. Preoccupazione che Ernesto, l’equivalente nel film di Germano Maccari, invece non ha, proiettato com’è verso l’esterno dell’appartamentoprigione dove lo attende una fidanzata chissà quanto ignara della sua doppia vita. Bellocchio ha scelto infatti di chiamarla Giulia come la protagonista di Diavolo in corpo, promessa sposa di un brigatista “pentito” sotto processo. Mariano e Primo, i personaggi che rimandano invece a Mario Moretti e a Prospero Gallinari, al fatidico spioncino si affacciano. Le loro inquadrature sganciate dalla progressione narrativa sono state recuperate in fase di montaggio, sulla falsariga dell’effetto Kulešov. Bellocchio, per decidere di dare poi voce al nobile siciliano di Il regista di matrimoni («Il cinema è montaggio»), deve aver avuto in mente anche questa fitta sequenza di Buongiorno, notte che accorpa e mescola tre ambienti psichiatrico-sacrificali-carcerari adiacenti. In cui le inquadrature sganciate dei brigatisti trovano la loro pertinente, ineccepibile destinazione d’uso. Racconta ancora la montatrice che i primi piani stretti sui personaggi facevano parte di una sequenza che chiamavamo per scherzo “jolly”. Marco si era messo con la macchina da presa dietro lo spioncino della porta della cella di Moro e aveva ripreso tutti e quattro i personaggi dei brigatisti. Poi nella sequenza della lettera abbiamo utilizzato tutti questi piani tranne quello di Chiara, perché lei in quel momento si trova sul letto. Al momento di girarli, Marco aveva detto «Voglio fare una cosa da usare non so bene quando, e neanche so bene se la userò, una serie di piani in cui tutti si avvicendano a questo occhiello come se guardassero con un’aria da pazzi verso Moro». Le riprese sono state fatte e messe da parte. Quando siamo andati a costruire la sequenza con The Great Gig in the Sky, in un primo tempo abbiamo messo solo Chiara con i prigionieri della Resistenza. Poi a un certo punto non mi ricordo chi, se io o Marco, ha detto «Proviamo a vedere se ai piani di lei che ricorda si possono alternare gli altri brigatisti che guardano Moro, e Moro stesso». Perché neanche Moro era previsto in quella sequenza che riguardava in sceneggiatura

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esclusivamente Chiara e le immagini dei partigiani, con la sola voce di Moro che legge la lettera. Questa sequenza è stata poi montata sulla musica ma non è che la musica ci ha dettato la sequenza. Abbiamo cercato un’associazione forte tra immagini e suono, e certamente la sequenza risultava molto potenziata dal pezzo dei Pink Floyd. Ma non ha semplicemente un ritmo musicale, ha anche un scansione affettiva interna molto marcata.12

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Questa la genesi della sequenza in cui Chiara, per una volta, non sta incollata allo spioncino, ma resta sul letto. Chiara, o più correttamente la “camera-Chiara”, perché fino ad allora ha monopolizzato quel «piccolo foro» nella porta della cella di Moro,13 corrispondente in tutto e per tutto al mirino della macchina da presa, si comporta ancora come la regista/montatrice dell’intero costrutto. Un costrutto denso di associazioni di idee, suoni e immagini, in perfetto equilibrio tra ritmo e senso, dove nell’ordine compaiono lei, gli altri brigatisti, Moro, i veri partigiani condannati a morte, brani cinematografici di repertorio non meglio identificati accanto a clip celebri di Tre canti su Lenin di Dziga Vertov (il principe di Gravina insegna) e Paisà di Roberto Rossellini. Il tutto commentato da un preciso “strappo” emotivo, ossia dall’effetto potente e a più livelli allusivo del brano chiave dell’album The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd: The Great Gig in the Sky. La chiave di volta della sequenza è sempre lo spioncino che infatti collega, consentendo una doppia traiettoria visiva, l’esterno dell’interno (l’appartamento o macroprigione) con l’interno dell’interno (il vano artificiale o micro-prigione). Si tratta di una trovata vecchia quanto il cinema. Anzi è il principio su cui si fonda il cinema stesso, che qui si dà a vedere in quanto tale e fa vedere «qualcosa [che] è passato davanti a quello stesso piccolo foro».14 Insomma, il classico buco della serratura o quello praticato nel muro attraverso cui si consuma a distanza il desiderio del personaggio/regista/spettatore voyeur. Per questo l’esempio più prossimo a Buongiorno, notte, in cui cioè uno spioncino artigianale traduce il duplice dispositivo ottico utile a fare il cinema, sia in fase di ripresa (guardare dentro il «piccolo foro») sia in fase di proiezione (la fuoriuscita del fascio luminoso che disegna l’immagine sullo schermo),15 è sempre quello di Psyco in cui è il soggetto psicotico maschile, Norman, a spiare quello femminile nevrotico, Marion. Ovviamente, con il nostro silenzio-assenso di spettatori compulsivi. Insomma: «Tre pratiche (o tre emozioni, o tre intenzioni): fare, subire, guardare».16 L’analogia molto importante consiste in questo: in Psyco Norman, cioè colui che guarda attraverso il buco praticato nella parete che dall’ufficio rende visibile nella stanza numero 1 la scena erotica/delittuosa del bagno, è indotto sotto spoglie femminili/materne a uccidere la persona desiderata perché guardata, appunto Marion; in Buongiorno, notte ai carcerieri di Moro, cui spetta custodirlo e non perderlo di vista, tocca in sorte il compito di ucciderlo.

Per questo se il film insiste a mostrarci l’affollamento e il via vai davanti alla minuscola fessura circolare (che dovrebbe rendere accessibile alla vista, unicamente dall’esterno, lo spazio in cui è rinchiuso il prigioniero), è giusto che se ne traggano con altrettanta insistenza le dovute conseguenze: attraverso questo elemento sostitutivo del mirino della macchina da presa, l’autore cinematografico fuori quadro, astratto quanto si vuole, simula l’atto di filmare la scena mentre la guarda. E delega l’atto grave del guardare, dall’esterno, a personaggi-spettatori effettivamente presenti sulla scena del crimine, con cui successivamente scatta la condivisione prospettica degli spettatori nella sala buia, i quali, per quanto riconducibili a una nozione astratta e di dubbia esistenza materiale, non possono fare altro che fissare lo schermo immobili, passivi e distanti. Come tanti indifferenziati voyeur, anonimi e oscuri. Mal comune, mezzo gaudio? Proviamo però a dire le cose senza troppi giri di parole. La questione di uno strumento di ripresa audiovisiva nella prigione di Moro non è soltanto una suggestione ricavata dai modi con cui il film enuncia la propria rete di traiettorie visive e di soggetti guardanti/guardati. È un argomento preciso che si incontra spesso tra le pieghe del caso Moro. Ne parla nel 1986 il brigatista Roberto Buzzati nel terzo processo Moro, attribuendo questa frase a Mario Moretti: «Per Moro avevamo una telecamera a circuito chiuso».17 Benché nel quarto processo Moro la Braghetti stessa neghi l’uso di registrazioni sia audio che video degli interrogatori del prigioniero,18 già nel 1985 due articoli apparsi su un noto periodico di destra come «Il Borghese», Censurati19 e Dov’è il film di Aldo Moro?,20 a firma del giornalista Francesco Caridi, menzionavano «le videocassette dell’interrogatorio di Moro [che] erano scomparse» e la circostanza «che quel filmato probabilmente esistesse e che i servizi segreti ne fossero tuttora in possesso. Tanta segretezza e tanto silenzio dovevano significare che esso conteneva materiale dannoso allo Stato».21 Queste fonti, rilanciate al terzo processo Moro22 dall’ex capogruppo democristiano alla Camera e successore di Moro alla presidenza del partito, assieme alla conferma dello stesso direttore della testata Mario Tedeschi «di aver sentito di quel film», incuriosiscono anche il politologo Giorgio Galli, contrario peraltro alla teoria del complotto, ma non indifferente ai «misteri» o «più esattamente, [ai] punti oscuri mai chiariti» del caso Moro.23 Si aggiunga il finale oltremodo incredibile di un romanzo per così dire “fantapolitico” pubblicato per la prima volta nel 1985 in cui si racconta che l’esecuzione di Olmo (cioè Moro) venga non soltanto ripresa con una telecamera ma addirittura mandata in onda sulla rete nazionale da un programmista-regista fiancheggiatore dei terroristi.24 Questa intemperanza fantasiosa contenuta in I giorni del diluvio, scritto allora in veste anonima da Franco Mazzola, nel 1978 sottosegretario alla Difesa e nel 1981 alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi di informazione e sicurezza,

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serve anche a ricordarci come la Moroteca di Babele sia bella perché varia. Ciò non toglie però che l’ex presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino parli anche lui di «videocassette»: La possibilità che Moro avesse rivelato alle BR segreti sensibili aveva creato una situazione sicuramente più complessa e pericolosa dal punto di vista dello Stato. Per cui poteva essere opportuno non forzare la situazione con un blitz. Se avessero fatto irruzione in via Gradoli e avessero catturato Moretti, quale sarebbe stata la reazione degli altri brigatisti? La Braghetti, Gallinari e Maccari, i carcerieri di Moro, che istruzioni avevano per una eventualità del genere? Di uccidere il prigioniero? Di rendere pubblici i verbali e le videocassette del suo interrogatorio?25

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È dunque in questa cornice di ipotesi e di affermazioni che si accavallano, tutte relative alla possibilità che Moro sia stato filmato durante la sua detenzione, che si inserisce la strategica pratica enunciativa di Buongiorno, notte. I suggerimenti che ricaviamo dalle dinamiche proprie di un’ideale messa in quadro di Moro, passato dinanzi al «piccolo foro» in questo film di Bellocchio, sono in fondo gli stessi del precedente Sogni infranti. Perciò, accennando al documentario in uno dei paragrafi precedenti, abbiamo voluto mettere in risalto l’attrezzatura adoperata per filmare il delirante e criminoso “processo” a Roberto Peci. La scelta che Bellocchio compie di riproporre le immagini audiovisive di quella successiva condanna a morte in qualche modo comporta una deduzione abbastanza elementare. Se per il fratello di un pentito è stata usata la telecamera, figurarsi se un’analoga procedura tecnologica non è stata seguita per il “processo proletario” nientedimeno che al presidente della Democrazia Cristiana fatto prigioniero. Seguendo percorsi paralleli, criptici, ma non impraticabili, Bellocchio, non sappiamo se o con quanta cognizione di causa, non soltanto si serve del mezzo che gli compete, ma arriva a interrogarsi sul concreto ruolo che la macchina-cinema potrebbe avere svolto nel caso Moro. Non è poco.

Gruppo di famiglia in un interno brigatista Veniamo dunque alla sequenza che ora ci interessa, in cui la reazione all’annuncio della condanna a morte diventa collettiva, risuona da un ambiente all’altro della macro/micro prigione, genera connessioni imprevedibili non soltanto tra i personaggi diversamente dislocati, ma anche tra voci e volti, immagini in scena e fuori scena, di questo film e di altri film. E si articola attraverso un mosaico sonoro e spaziale di materiali originariamente eterogenei. La combinazione e l’alternanza di immagini interne (anche nel

senso in cui le intende Fagioli, quindi Bellocchio) e di immagini esterne (perciò anche di repertorio), di parole e musica di varia provenienza, rende l’intera sequenza alquanto indecifrabile. Ciò nonostante molto emotiva, compatta, dinamica e soprattutto orecchiabile. La sequenza comincia con la lettura quasi integrale della lettera di commiato dai vivi e dalla vita, affidata non alla voce di Chiara, che è in campo e legge in figura intera la minuta che Mariano le ha consegnato, ma alla voce fuori campo del personaggio Moro. A seguire, mentre la lettura prosegue fuori campo, Moro viene ripreso in mezzo primo piano frontale, in silenzio. L’inquadratura lo ritrae incorniciato dallo spioncino, dunque in soggettiva. L’inquadratura soggettiva di chi? Non si tratta stavolta di una soggettiva di Chiara, la quale si trova nella stanza da letto, e al massimo può limitarsi a immaginarlo così. Questa soggettiva così esplicita le può appartenere, sì, ma solo psicologicamente, non sotto il profilo strettamente ottico. Infatti subito dopo un’inquadratura ci mostra che è Mariano, ripreso frontalmente, a guardare ciò che ha davanti a sé: a guardare cioè la macchina da presa o lo spioncino, non fa ormai più differenza. Quello di Moro risulta dunque un controcampo di Mariano? Indubbiamente sì, ma si tratta di un controcampo molto particolare, visto che l’inquadratura in cui lo vediamo è stata ripescata solo in sede di montaggio. Di chi sarebbe dovuto essere allora il controcampo, senza l’inquadratura cosiddetta «jolly» di Mariano (o di Primo)? Nessun personaggio presente nella sequenza può rivendicarne la proprietà, il dominio. L’inquadratura di Moro è stata girata a prescindere dall’uso del mascherino circolare, inserito solo in post-produzione, connotandola così come soggettiva. E in funzione delle inquadrature inizialmente “fuori testo” di Mariano e di Primo. Resta però il fatto che l’immagine di Moro raccolto dopo che gli è stata notificata la condanna (sulla falsariga dei vari La condanna, Il principe di Homburg, L’uomo dal fiore in bocca…) è stata girata senza prevedere nessun preciso soggetto candidato al ruolo di spettatore. Proprio nessuno? Quando manca nel film uno spettatore diegetico, si sa, la palla passa all’autore assente/sempre presente, la cui migliore garanzia è proprio la nozione astratta che lo designa. Senza le inquadrature di Mariano, poi di Primo, ci troveremmo di fronte a una carenza strutturale del testo, priva di un rimedio, donde la necessità di suturare26 la “ferita” visiva in tempi e con piani narrativi ragionevoli. Come si spiega che nella sequenza non ci sia un personaggio in grado di essere anche ri-guardato da Moro. Un’anomalia? Non in un film di Bellocchio sul caso Moro. La cui presunta mancanza di un’inquadratura da contrapporre a Moro trova un senso compiuto non soltanto «nel circuito della pulsione», secondo il principio lacaniano dello «sguardo come oggetto a», come accadeva con Hitchcock in Marnie (Id., 1963),27 ma in Bellocchio stesso. E anche noi qui, ove non fosse sufficientemente chiaro, innanzitutto quando diciamo Bel-

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locchio «intendiamo il regista, l’uomo con la macchina da presa, l’occhiomacchina: l’autore-enunciatore»,28 l’unico candidato possibile a guardare Moro dallo spioncino. Cioè l’unico soggetto, per quanto virtuale, in grado di colmare questa casella lasciata deliberatamente vuota.29 In presenza di inquadrature, sottoposte sia pure a posteriori a un trattamento che le marca inequivocabilmente come generatrici di altrettante soggettive, la logica sotterranea non soltanto testuale che governa Buongiorno, notte suggerisce di cercare altrove, fuori quadro, neanche più fuori campo nell’inquadratura immediatamente precedente o immediatamente successiva. In una logica interpretativa, ecco che la soluzione al problema può essere trovata in qualcosa o qualcuno di preesistente, ancora prima che al montaggio, in funzione del film finito, giungano in soccorso le provvidenziali inquadrature adoperate come controcampi di Mariano e di Primo. Senza le loro inquadratura riciclate in controcampo, ci saremmo chiesti verso chi (altro, l’Altro) Moro ritorcerebbe lo sguardo, poiché Chiara al momento non è lì. Ernesto di sicuro no. A questo punto l’unico sospetto rimasto, poi sostituito a turno, ex machina (cinema) da Mariano e da Primo, è quel particolare spettatore privilegiato dietro la macchina da presa: l’autore virtuale. In pratica da questo specifico film, come da alcune risultanze emerse dal caso Moro di cui abbiamo già dato conto, si evince la presenza di una macchina da presa nella «prigione della prigione» di Moro. Perché il Bellocchio fuori quadro è, come (la camera) Chiara in campo o fuori campo, espressione implicita della macchina da presa. Di più: le immagini finte di Aldo Moro nella sua cella in Buongiorno, notte assomigliano a quelle vere di Patrizio Peci processato/filmato da Giovanni Senzani in Sogni infranti. Ancora di più: l’impianto intermediale di Sogni infranti, esibendo la pratica audiovisiva delle Brigate rosse, non soltanto precede Buongiorno, notte di otto anni, ma ne anticipa le mosse. Non per niente lo sceneggiatore preveggente di Buongiorno, notte, Enzo (dal cognome geograficamente molto indicativo: Passoscuro), che guarda di nascosto Chiara con sempre maggiore insistenza, proprio come la guarda e ri-guarda Moro, può permettersi di dirle poco dopo: «L’immaginazione è reale». Ci arriveremo. Intanto andiamo avanti con la sequenza. Eravamo rimasti alla voce di Moro che legge un brano della triste e commovente lettera di commiato dalla moglie e dal mondo. Ne trascriviamo i passaggi recitati direttamente dal libro di Flamigni utilizzato da Bellocchio,30 in modo da poter fare notare anche gli interessanti tagli effettuati: Mia carissima Noretta, […] siamo ormai, credo, al momento conclusivo. […] Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi. Per carità, vivete in un’unica casa […]. Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi

[…]. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Sono le vie del Signore. […] Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo. Amore mio, sentimi sempre con te e tienmi stretto. Bacia e carezza Fida, Demi, Luca (tanto tanto Luca) […].31

A questo punto della lettera, prima che venga pronunciato il nome della secondogenita Anna, la voce di Moro/Herlitzka si interrompe. Un’altra voce maschile fuori campo, non riconducibile ad alcun personaggio presente del film,32 si inserisce leggendo l’inizio della lettera di un partigiano condannato a morte ai tempi dell’occupazione nazifascista: «Amore mio, domani mattina all’alba un plotone di esecuzione della guardia repubblicana fascista metterà fine ai miei giorni…». La voce smette, soppiantata dal lungo vocalizzo femminile di The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd. Al termine della canzone la lettura della lettera del partigiano ricomincia da capo e arriva fino alla fine della sequenza: Amore mio, domattina all’alba un plotone di esecuzione della guardia repubblicana fascista metterà fine ai miei giorni. Ciò che voglio dirti in punto di morte è che tu sei stato il mio primo e unico amore. E che se fossi vissuto ti avrei chiesta in sposa. E ti avrei fatta felice. In queste ore, le più tragiche della mia vita, tutto il mio passato si para dinanzi come sullo schermo di un film.33

La sequenza è estremamente complessa, come abbiamo più volte detto. Possiamo provare a decostruirla per gradi, isolando di volta in volta componenti visive e sonore. Componenti peraltro non omogenee. Quella visiva interessa ben tre ambienti separati (quello di Chiara, quello di Mariano, Ernesto e Primo, quello di Moro) e due livelli delle immagini (quelle principali di Buongiorno, notte intercalate con filmati vari, alcuni dei quali tratti da Paisà e Tre canti su Lenin). La componente sonora si sviluppa lungo due direttrici, quella musicale (la canzone dei Pink Floyd) e quella verbale, sdoppiata (la lettera di Moro, la lettera del partigiano). Se fin qui abbiamo riportato la parte verbale e accantonato momentaneamente quella musicale, è per far notare come i passi della lettera di Moro alla moglie selezionati da Bellocchio insistono molto sul tema degli occhi e dell’atto del vedere («occhi per occhi […]. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo»). La lettera del partigiano alla promessa sposa chiosa il procedimento: rivedere la propria vita passata equivale a un’esperienza cinematografica («tutto il mio passato si para dinanzi come sullo schermo di un film»). Dai piccoli occhi mortali, che hanno

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bisogno di luce anche ultraterrena, si passa alla luce dello schermo di un film. Buongiorno, notte, costruito su un cortocircuito visivo, sonoro, conoscitivo continuo tra giorno e notte, luce e buio, realtà e finzione, cinema e televisione, non poteva trovare sintesi migliore di questa coerente successione di parole e di concetti estrapolati da due testi epistolari così lontani, così semanticamente ed emotivamente vicini. Dalla lettera di Moro sono stati espunti, nell’ordine: 1) l’«esilissimo ottimismo, dovuto forse a un mio equivoco circa quel che mi si veniva dicendo», legato cioè alla possibilità ventilata di un’imminente liberazione, di cui fanno testo anche alcuni passaggi chiave del suo memoriale34 (che riaprono la questione delle possibili prigioni di Moro, di cui riparleremo a tempo debito); 2) i vari richiami alla «ben chiara responsabilità della DC»; 3) alcune frasi di contenuto familiare; 4) il rimprovero finale mosso al pontefice («Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo»). Questi tagli ovviamente obbediscono a necessità di ritmo e di economia narrativa. Nessun intento omissivo. Il film del resto trova il modo di concentrarsi su tali questioni ora accantonate in altre scene. Ad esempio, l’immagine onirica/verosimile, comunque sia liberatoria, di Moro all’aperto ipoteca provvede di per sé a ipotecare il doppio finale. Riguardo alle gravi responsabilità dei vertici della Democrazia cristiana, esse vengono spesso stigmatizzate, e non soltanto in questo film (pensiamo al Belcredi “scudocrociato” di Enrico IV). Quanto al ruolo del Papa, la lettera in questa fase di Buongiorno, notte non può farvi assolutamente riferimento, poiché proprio nella scena successiva Moro decide di scrivere al Santo Padre. Questione pratica: in Buongiorno, notte si è infatti scelto di anteporre la citata lettera di Moro alla moglie Eleonora del 5 maggio a quella inviata a Papa Montini del 20 aprile.35 Resta soltanto da capire perché la lettura di Moro/Herlitzka si interrompa prima che sia pronunciato il nome «Anna». La prima cosa a cui si pensa è la classica dimenticanza freudiana dei nomi causata dal disturbo dell’argomento successivo ad opera del precedente.36 Chiara, che legge mentalmente la lettera (ragion per cui quella di Moro diventa la sua voce interiore, pungolata dalla coscienza) non riesce a pronunciare un nome equivalente a parte del suo: Anna (il personaggio di Chiara, grosso modo, è infatti ispirato a quello di “Anna” Laura Braghetti). Perciò il film, seguendo il flusso della coscienza di Chiara/Anna lo omette. In senso freudiano, se ne “dimentica”. Ma questa è appena una delle possibilità, di certo la più semplice da condividere. Può essercene anche un’altra. Il perché non ci si possa accontentare di questa spiegazione immediata è presto detto: perché anche lo psichiatra Massimo Fagioli si è posto e ha posto la stessa domanda, a proposito dell’omonimo personaggio interpretato da Gisella Burinato in Salto nel vuoto: «Ma Anna, chi è?».37 Cosicché Marco Bellocchio, riferendosi più tardi a Buongiorno, notte

E parafrasando la domanda finale di Massimo Fagioli nel saggio Una storia una ricerca un film, su Salto nel vuoto (1980): «Ma Anna chi è?» mi domando oggi anch’io, alla fine: Ma Moro chi è?38

Ecco, sarà il caso di chiederselo ancora. Più tardi, però. La suggestiva risposta è bene rimandarla a uno dei prossimi paragrafi. La tentazione di perdersi nei meandri del caso Moro/Bellocchio è sempre in agguato. Ma il prosieguo della sequenza di cui ci stiamo occupando reclama intanto con prepotenza la nostra fragile attenzione.

La «prigione della prigione» di Via Montalcini Torniamo quindi alle lettere. Poiché anche il discorso sulla voce merita un approfondimento. Se quella di Moro che legge è una voce fuori campo, ma con un corpo, la seconda voce è totalmente priva di corpo oltre che di campo visivo di appartenenza. Questa voce senza fonte visibile, quindi acusmatica,39 fa rivivere e adatta alla tragica circostanza della primavera del 1978 i pensieri estremi di un fantasma acustico in attesa della fucilazione. Una voce generata da un libro, Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana,40 destinato in Buongiorno, notte a circolare molto e a svolgere un ruolo attivo nel racconto, passando di mano da Enzo a Chiara e da Chiara a Moro. Moro per un attimo prende in mano il libro che Chiara aveva con sé prima di addormentarsi, sembra scettico e commiserevole, si siede. Osserva la ragazza, libero di potersi ora muovere e accomodarsi nella stanza in cui lei frattanto (lo) sta sognando. Facciamoci caso: Moro non ha più bisogno di guardare di nascosto i suoi carcerieri da quando il tabù dello sguardo che ri-guarda è stato infranto. Perciò si comporta come un’immagine interiore, affrancata, presente. Ha violato il confine della cella, la micro-prigione, prigione nella prigione. Eppure non può ancora uscire dall’appartamento-covo, la macro-prigione, «prigione della prigione» (Bellocchio). Se si va un po’ più avanti con il film scopriamo che la solita (camera) Chiara, guardando attraverso l’altro spioncino strategico, quello della porta di casa, vede in soggettiva il pianerottolo presidiato da numerosi poliziotti, che sembrano così conoscere esattamente questo posto “introvabile”. La scena viene girata grosso modo come la numero 43 della sceneggiatura: Scena 43 Appartamento – Int. – Notte

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Chiara a letto, apre gli occhi Primo le dorme accanto, lei in camicia da notte, lui in pigiama (la riaffermazione delle abitudini coniugali). Accanto al letto Moro (ritorna il fantasma…) sta leggendo il libro su cui lei si è addormentata… La guarda, la giacca del pigiama è sempre macchiata di sangue… Il sogno continua Moro esce dalla stanza attraversa il soggiorno cerca un libro negli scaffali della libreria rientra nella sua prigione. Ernesto dorme col mitra imbracciato… Chiara entra nella cella ed esce trascinando Moro, che resiste o fa finta, per il braccio verso l’ingresso guarda, prima di aprire, dallo spioncino e vede tanti poliziotti sul pianerottolo come se facessero la guardia ai sequestratori e al prigioniero… (il covo come prigione della prigione). La casa è piantonata, ma nessuno entra a liberare il sequestrato? È tutto incomprensibile… Moro torna indietro come se volesse ritornare in cella…41

Poi, sempre in sceneggiatura succede una cosa curiosa, che concorre a dare ragione a Enzo Passoscuro quando proclama a Chiara: «L’immaginazione è reale». Qualcosa che però nel film manca: Improvvisamente suonano il campanello, nessuno si è svegliato, l’ha sentito solo lei, Chiara si appoggia con entrambe le mani alla porta, guardando allo spioncino: è Enzo… Il ragazzo attende, senza suonare, poi va via…42

Con o senza Enzo dietro la porta di quell’appartamento a chiusura della scena, trova spazio una tesi molto inquietante su via Montalcini, destinata a sparigliare a torto o a ragione le posizioni dei dietrologi, ma che all’epoca del film non aveva ancora preso forma in maniera tanto esplicita: quel covo sarebbe stato noto alle forze dell’ordine per l’intero periodo del sequestro e costantemente presidiato all’esterno, anche con un sistema di telecamere.43 Non sta a noi stabilire la veridicità di questa nuova tesi che ribalta completamente anche l’impianto dietrologico delle diverse prigioni di Moro,

oltre l’eventuale via Montalcini. Semplicemente preme far notare che il film precorre dichiaratamente tale “novità”. L’espressione «prigione della prigione» adoperata due volte da Bellocchio assume così un significato tutt’altro che limpido e rassicurante, che trascende persino la pertinente ma non esclusiva interpretazione psichiatrica. Che sia una la prigione, o più di una, sta di fatto che in forma onirica e fantasiosa essa si presenta nel film come luogo noto a chi di dovere. Addirittura piantonato all’esterno. Anche i brigatisti, che tengono in ostaggio Moro, sono in pratica “ostaggi” a loro volta. Buongiorno, notte è così: sottotono, buio, apparentemente lineare, ma pieno di sorprese e di intuizioni forse involontarie, comunque strabilianti. Ma torniamo alla sequenza delle lettere di Moro e del partigiano, condannati paralleli e sovrapponibili, che sembra innescare questa dinamica. Prima che Chiara accettasse psichicamente la presenza di Moro in giro per casa come un discreto e notturno coinquilino, come stavano le cose? Torniamo alla sequenza della lettera, in cui solo la voce di Moro pare poter varcare la soglia della stanza proibita. E solo il suo sguardo oltrepassare lo spioncino. Chiara può evocarne appunto la voce, fuori campo, leggendo la sua lettera, seduta sul letto, di profilo, in figura intera. Occorre aspettare l’inquadratura successiva perché la voce di Moro si ricongiunga alla sua mezza figura. La voce è sì di Moro, ma Moro non sta leggendo la sua lettera. Forse la rimugina, ma di sicuro appare silenzioso a chiunque attraverso lo spioncino lo stia guardando (non sappiamo ancora chi). Appena ascoltiamo la frase «Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo» arriva il controcampo “postumo” di Mariano, in primissimo piano al di qua dello spioncino. Ancora Moro, dall’altra parte, sempre stretto nella cornice circolare in piano americano/mezza figura, viene seguito attraverso una panoramica verticale soggettiva dall’alto verso il basso (ora inequivocabilmente di Mariano). Così facendo, presenzia di fatto il passaggio di consegne dalla propria voce fuori campo, interiore, a quella del personaggio esclusivamente acustico del partigiano, siglata anche dal lento insinuarsi della canzone. Ma tocca a Chiara, stravolta, porre fine al primo ciclo verbale. È lei nell’altra stanza, con il rapido avvicendarsi del primo piano, del mezzo primo piano, poi di nuovo del primo piano, ad accompagnare visivamente il crescendo strumentale di The Great Gig in the Sky scandito via via dal prolungato, sofferto vocalizzo femminile. Nonostante cerchi di allontanarsi, Chiara viene immediatamente raggiunta e fissata dalla macchina da presa. Non si tratta di un’unica inquadratura, bensì di due inquadrature consecutive montate in asse. Lo scarto è impercettibile ma significativo. Da questo momento la canzone, priva di parole, diventa colonna sonora prepotente che armonizza e incita il susseguirsi drammatico delle inquadrature. Dai contigui primi piani frontali di Chiara, raccordati bru-

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scamente, si passa al primo piano fuori fuoco di Ernesto che, come si è detto, dissente e agita i pugni. Poi vediamo la prima delle due coppie di primissimi piani frontali di Mariano e di Primo, i quali guardano in macchina rischiarati dalla luce che filtra dallo spioncino. Fanno, lo ripetiamo, da controcampo improvvisato all’inquadratura seguente di Moro disteso sul lettino della cella, ripreso in piano americano. Moro parla da solo, finché non si accorge di essere spiato. Per un istante ri-guarda chi lo guarda (nel montaggio definitivo: Mariano e Primo, a turno), quindi si copre parzialmente il viso in cerca di intimità. Sopraggiunge un nuovo primo piano frontale di Chiara, cui fa seguito la seconda coppia di primissimi piani contigui di Mariano e Primo. Di nuovo Moro in piano americano. Infine il penultimo e l’ultimo primo piano di Chiara in lacrime che all’improvviso si ridesta sentendo litigare fuori campo Ernesto e Mariano. Tra queste inquadrature a colori dei brigatisti e del prigioniero descritte abbastanza sommariamente troviamo, nel seguente ordine: 1) cinque inquadrature in bianco e nero tratte da film d’archivio non specificati nei titoli di coda, dove due diversi prigionieri dall’espressione afflitta vengono interrogati da un ufficiale repubblichino (inserite tra quelle di Chiara e quelle di Ernesto, Mariano e Primo); 2) altre cinque tratte dal finale del sesto e più cupo episodio di Paisà, in cui vengono gettati a mare legati e ancora vivi i partigiani e ucciso l’agente ribelle dell’OSS (i servizi segreti americani) inserite tra quella di Primo e la successiva di Chiara; 3) un’altra inquadratura, sempre di repertorio, non identificata (inserita tra la terzultima inquadratura di Chiara e la seconda coppia di inquadrature di Mariano e Primo); 4) tre inquadrature tratte da Tre canti su Lenin, infine, che ritraggono altrettanti giovani volti femminili in primo e primissimo piano.

Il lato chiaro/scuro della luna Fin qui la sequenza visiva. Torniamo invece alla canzone dei Pink Floyd che in gran parte la commenta. Subissando e spezzando la lettera del partigiano, il doloroso frammento strumentale e vocale di The Great Gig in the Sky che Bellocchio ha scelto serve a supportare il senso di ciò che stiamo vedendo e rafforzare quello delle parole ascoltate all’inizio e riascoltate alla fine. In pratica la musica non si oppone né alle parole né alle immagini. Si traveste fisiologicamente di sensi rinnovabili: «Nulla di più stabile di una statua, nulla di più instabile della musica. Essa trascorre e fluisce col tempo o, piuttosto, lo rende palpabile. Nella ripetizione, essa differisce, secondo l’interprete».44 Il che tradotto nel linguaggio polifonico e intermediale di Bellocchio, quindi nelle pratiche discorsive che ne derivano, vuol dire che nemmeno il breve testo mancante di questa canzone

viene eluso. Al contrario, proprio perché molto noto, viene maggiormente messo in risalto ancora di più dalla memoria istintiva dello spettatore/ ascoltatore: And I am not frightened of dying, any time will do, I don’t mind. Why should I be frightened of dying? There’s no reason for it, you’ve gotta go sometime. I never said «I was frightened of dying». [Ed io non ho paura di morire, in qualsiasi momento accadrà Non mi importa. Perché dovrei aver paura di morire? Non c’è ragione, prima o poi devi andartene. Non dissi mai «Ho avuto paura di morire»]

In questi versi rimossi, quindi rimarcati, trova amplificazione il bisogno di farsi coraggio di fronte all’umana e fin troppo ragionevole «paura di morire». La stessa che prova Moro e che condivide con uno, anzi due emblematici “predecessori” provenienti dalla fitta galleria bellocchiana: il principe colonnello Arthur Friedrich von Humburg condannato a morte ne Il principe di Homburg, tratto dall’omonimo dramma di Heinrich von Kleist,45 ma anche Massimo, il giovane attore che nella seconda scena di Il sogno della farfalla (1994) interpreta sul palcoscenico proprio Homburg mentre implora nottetempo l’Elettrice di intercedere affinché la condanna gli sia risparmiata e la vita salvata. Trascriviamo due volte questo dialogo (corrispondente nell’originale teatrale alla quinta scena del terzo atto) direttamente dai rispettivi film. Lo scopo è quello di coglierne varianti e vaghe, possibili allusioni al personaggio di Moro messe a frutto nella filmografia di Bellocchio, in particolare in Buongiorno, notte. Per maggiore evidenza sottolineiamo in corsivo queste varianti. Cominciamo da Il sogno della farfalla che nella sceneggiatura originale di Massimo Fagioli46 prevedeva il Re Lear di Shakesperare anziché Il principe di Homburg: Elettrice: Che posso fare per voi, sventurata che sono? Homburg: Oh, madre mia, non parleresti così, se sentissi, come me, il brivido della morte! Elettrice: Tu sei fuori di te [corsivo nostro]. Che cosa è successo? Homburg: Mentre io correvo per venire qui, ho visto alla luce delle torce scavare la fossa che accoglierà domani il mio cadavere Tu immagina: questi occhi che ti guardano vogliono spegnerli nella notte, questo cuore

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che batte vogliono fermarlo con le pallottole [corsivo nostro]. E fin da ora sulla piazza del mercato le finestre sono state prenotate per lo spettacolo. Lo stesso uomo che al culmine della sua vita può ancora oggi guardare all’avvenire come a un mondo di favola, comincerà da domani a decomporsi in una stretta cassa e una pietra sulla sua tomba dirà: non c’è più. Elettrice: Figlio mio, se questa è la volontà del Cielo, dovrai armarti di fermezza [corsivo nostro] e di dignità. Homburg: Oh, madre cara, il mondo è così bello, non lasciare, ti scongiuro, che io discenda tanto presto in quel buio regno delle ombre [corsivo nostro]! Mi punisca se ho osato disobbedirgli, ma perché scegliere la fucilazione? Può togliermi ogni incarico, può anche degradarmi, se la legge lo vuole mi allontani pure dall’esercito. Per Dio Padre onnipotente, dopo che ho visto scavare la mia fossa non desidero nient’altro che la vita, e poco mi importa se ciò dovrà avvenire senza gloria! [corsivo nostro]. 116

Elettrice: Alzati, figlio mio, alzati. Che cosa stai dicendo! Tu sei sconvolto! Calmati! Homburg: Rinuncio per sempre alla felicità. E Natalie, non scordarti di dirglielo, non è più niente per me. È libera di nuovo, come se non fossi mai esistito. Elettrice: Bene. Ma adesso vai, torna alla tua prigione [corsivo nostro]. È la prima condizione che ti impongo, se vuoi la mia benevolenza. Homburg (a Natalie): Tu piangi, sventurata fanciulla. Il sole illumina oggi il sepolcro di tutte le tue speranze. È a me che hai scelto di donare il tuo amore. Ti guardo negli occhi e so che il tuo cuore è schietto come l’oro. Non sarà mai più di un altro. Per la morte di tutte le tue speranze. Il tuo cuore mi ha scelto, e ora che ti guardo negli occhi, capisco che non sarai mai di un altro. Ma io, nella mia disgrazia, cosa posso inventare per consolarti? Natalie: Va’, giovane eroe, torna nel tuo carcere, e lungo la strada guarda ancora una volta, senza sgomento, la fossa che hanno scavato per te. Non è minimamente più buia né più larga di quella che mille volte ti ha prospettato la battaglia. Io frattanto, fedele a te sino alla morte, cercherò di dire allo zio una parola che ti possa salvare. Chissà che non riesca a toccare il suo cuore e a liberarti dalle tue pene!

La particolarità di questo singolare attore, sintomatico Homburg, di Il sogno della farfalla la spiega direttamente il padre: «Aveva quattordici anni e decise di non accettare più il linguaggio normale. […] Ha scelto la carriera d’attore, così può parlare senza parlare». Viene in mente Sciascia in L’affaire Moro quando spiega le contorte modalità comunicative del presidente democristiano sequestrato, il quale analogamente ha dovuto tentare di dire col linguaggio del non dire, di farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire. Doveva comunicare usando il linguaggio dell’incomunicabilità. Per necessità: e cioè per censura e per autocensura. Da prigioniero. Da spia in territorio nemico e dal nemico vigilata.47

In Il sogno della farfalla il padre di Massimo/Homburg fa inoltre riferimento alla figura di Ulisse, l’Ulisse caro all’immaginario oltremondano di quel Dante Alighieri che a sua volta per traversi sentieri ci riporterà sui binari del caso Moro: «Egli – dice nella terza scena del film – fugge dai mostri di quanto ora si chiama inconscio. Vuole ritornare alla rassicurante casa e alla altrettanto rassicurante moglie. Occorreranno millenni prima che l’uomo ritrovi il coraggio quanto nell’uomo non è ragione». La “follia” di recitare soltanto e di smettere definitivamente di parlare, o di comunicare diversamente non è dunque così irragionevole. Nei film di Bellocchio, specialmente quelli che crediamo gravitino nell’orbita del caso Moro, questo tipo di follia è “metodologica” (ancora Amleto, Shakespeare). Ed è altrettanto significativo che, in procinto di essere fermato «con le pallottole», il protagonista di Il principe di Homburg, preannunciato da quello di Il sogno della farfalla, preferisca vivere a tutti i costi. Ciò nonostante viene severamente rispedito nella «prigione» da cui è irresponsabilmente evaso proprio dall’amata Elettrice, che gli consiglia la (linea della) «fermezza» cui lei stessa di fatto si sta attenendo. Precisiamo che il termine «fermezza» adoperato ne Il sogno della farfalla, che traduce correttamente l’originale kleistiano «Fassung» («Mein Sohn! Wenns so des Himmels Wille ist, Wirst du mit Mut dich und mit Fassung rüsten!»), viene tradotto diversamente nella corrispondente scena del successivo Il principe di Homburg. Proviamo dunque a ripercorrerla, seguendo cioè la volontà di Bellocchio di ripeterla a sua volta, raddoppiando le coincidenze con il caso Moro. Se insiste l’autore con ben due film consecutivi possiamo farlo anche noi: Elettrice: Principe, siete agli arresti e venite qui? Perché aggiungere colpa a colpa?

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Homburg: Sai che m’è accaduto? Elettrice: So tutto. Ma che posso fare per voi, oltre a soffrire. Homburg: Oh, madre, non parleresti così, se sentissi, come me, il brivido della morte! Sono solo, su tutta la faccia della terra, inerme, abbandonato, incapace d’agire! Elettrice: Tu hai perso la testa [corsivo nostro]. Che t’è successo?

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Homburg: Ah, mentre venivo qui da te ho visto, alla luce delle fiaccole, scavare la fossa che domani dovrà accogliere il mio cadavere. Pensa, zia: questi occhi che ora ti guardano vogliono seppellirli nella notte e questo mio petto crivellarlo di pallottole [corsivo nostro]. Sulla piazza del mercato sono già prenotate le finestre da cui si potrà assistere a quel macabro spettacolo. L’uomo che oggi, al culmine della vita, può ancora guardare al suo futuro come a un regno di fiaba, domani comincerà a decomporsi dentro una stretta cassa e una pietra tombale dirà di lui: fu. Elettrice: Figlio mio, se questa è la volontà di Dio, dovrai armarti di coraggio [corsivo nostro] e di dignità. Homburg: Ma questo mondo è così bello! Prima che batta la mia ora, ti supplico: non permettere che finisca nelle tenebre! Se ho mancato, mi punisca in qualche altro modo: perché deve essere proprio la fucilazione? Mi destituisca dal comando; se così vuole la legge può radiarmi dall’esercito. Da quando ho visto la mia tomba non voglio altro che vivere, e non mi importa se non è dignitoso! [corsivo nostro] Elettrice: Alzati, cosa stai dicendo! E calmati un po’, sei troppo sconvolto! Homburg: Rinuncio a ogni diritto alla felicità. Quanto a Natalie, non dimenticarti di dirglielo, non la desidero più e ogni affetto che provavo per lei si è spento. È di nuovo libera, come se non fossi mai esistito. Può concedere la sua mano e la sua parola a chi vuole, fosse anche il re di Svezia, bene, ha la mia approvazione. Elettrice: Ma ora torna alla tua prigione [corsivo nostro] se vuoi il mio favore, è la prima cosa che ti chiedo. Homburg (a Natalie): Tu piangi, povera fanciulla. Per la morte di

tutte le tue speranze. Il tuo cuore mi ha scelto, e ora che ti guardo negli occhi, capisco che non sarai mai di un altro. Ma io, nella mia disgrazia, cosa posso inventare per consolarti? Natalie: Va’, giovane eroe, torna nel tuo carcere, e lungo la strada guarda ancora una volta, senza sgomento, la fossa che hanno scavato per te. Non è più buia o meno ospitale di quella che mille volte ogni battaglia ti teneva pronta. Io intanto, fedele a te fino alla morte, cercherò di dire allo zio quella parola che ti possa salvare. Chissà che non riesca a toccargli il cuore! Elettrice: Ora va’! Il momento propizio passa in fretta! Homburg: Addio, addio! Qualunque risposta tu abbia, ti prego, fammelo sapere subito!

Un Homburg chiama l’altro, non esattamente lo stesso Homburg. È infatti curioso accorgersi di come, a distanza di pochi anni Il sogno della farfalla e Il principe di Homburg seguano due traduzioni del testo originale lessicalmente divergenti. Nel secondo film il termine «Fassung» diventa in italiano «coraggio», anziché «fermezza». Cambia qualcosa? Nella vicenda del rapimento Moro la linea della «fermezza» non è stata esattamente una prova di «coraggio» da parte dello Stato. In compenso, recuperando l’intero testo kleistiano, Il principe di Homburg, che segna anche la fine della collaborazione tra Bellocchio e Fagioli, può permettersi di far pronunciare all’afflitto protagonista, «pazzo» e nottambulo come Moro: «Dicono che nell’aldilà splende una luce come quella del sole che rischiara campi più incantevoli dei nostri. Ci credo. Che peccato che l’occhio destinato a vedere tanto splendore vada in putrefazione». Sembra proprio di riascoltare uno dei passaggi chiave della lettera del 5 maggio di Moro alla moglie Eleonora: «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Un passaggio recepito e letto in Buongiorno, notte che a sua volta, come l’esperimento del prisma di Newton, prova a “scomporre” la (poca) luce, ma anche a indagare sulle (molte) ombre. Scherzi del caso o del caso Moro? Ecco come lo stato d’animo prostrato al cospetto di una morte annunciata e inderogabile trascorre dal dramma di Kleist ai pochi versi inaugurali di The Great Gig in the Sky, la cui forza evocativa e metaforica è inversamente proporzionale alla sibillina eliminazione dei versi in Buongiorno, notte. Versi che, date le circostanze, ricordano i tormenti del giovane Homburg. E perciò non possono che riferirsi al morituro Moro. Ma in questo brano dei Pink Floyd c’è di più, molto di più. C’è il prolungato urlo carico

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di passione e disperazione dell’occasionale vocalist Claire Torry, il secondo personaggio acustico/acusmatico della sequenza. Il primo, lo abbiamo detto, è stato il partigiano. Il cui cuore i fascisti «si preparano a fermarlo con le pallottole» o «a crivellarlo di pallottole», come è previsto dai diversi/ simili plotoni di esecuzione anche nel caso di Homburg o di Moro, sempre per una diversa/simile, disumana (s)ragione di Stato. La Claire Terry di The Great Gig in the Sky suggerisce un’associazione con Chiara, rafforzata dalla non trascurabile coincidenza onomastica e semantica (Claire/Chiara). Entrambe in questa sequenza non parlano, versano lacrime impotenti (Chiara) o gemono in forma di musica (Claire). Entrambe, ciascuna a suo modo ma con un nome in comune, riflettono l’angoscia mortale di Moro. Un Moro condannato alla parola scritta affidata alle lettere, che non ha però voce in capitolo sulla propria morte annunciata. Come lui, non ha voce in capitolo Chiara nelle decisioni prese dal nucleo brigatista egemonizzato da Mariano. Né ce l’ha la semplice musicista d’appoggio di nome Claire in una band completamente maschile come i Pink Floyd. La collaborazione di Claire Terry con i Pink Floyd si consuma nell’arco di quella sola, straordinaria canzone, nel 1973. Canzone che trent’anni dopo, dentro il dispositivo intermediale di Buongiorno, notte, concorre a restituire e a far sentire altrimenti la voce dissenziente e interdetta di Chiara, la Chiara poco “chiara”, la Chiara/Claire, la “camera Chiara”. Insomma un personaggio prismatico, vicario anche dell’autore cinematografico, di cui continueremo strada facendo a esplorare le molteplici facce. A tal riguardo non sfugga la simbologia adoperata per il design della famosa copertina dell’album The Dark Side of the Moon (ispirata all’appena citato esperimento di Newton sulla decomposizione/ricomposizione dei colori della luce solare) da cui Bellocchio ha selezionato The Great Gig in the Sky. Il raggio luminoso che su sfondo nero raggiunge e attraversa il prisma e da questo si dirama in vari colori per associazione di idee (e di immagini) ci riporta alla luce evocata contestualmente da Moro nella lettera privata del 5 maggio. Luce disperata e di speranza che attraversa anche la coscienza infelice e traslucida di Chiara. Le varie traiettorie cromatiche che fuoriescono dal prisma/Chiara rimanderebbero invece ad altrettante tracce audiovisive, o piste interpretative. Lo scorcio luminoso proveniente da un aldilà molto terreno, l’esigenza di far luce sugli eventi, diffondere molti colori là dove regna il buio pesto (della conoscenza), rendere tutto chiaro e luminoso (come si augura Moro a un passo dalla morte), sono alla base del progetto di Buongiorno, notte. In questo senso fa testo persino il retro della copertina dell’album originale dove il prisma, piramide, triangolo o delta della facciata viene riproposto capovolto, suggerendo un’analogia con uno dei classici simboli dell’esoterismo usati dalla massoneria: il delta sacro o triangolo massonico che indica geometricamente il ternario, la perfezione.

I due triangoli di The Dark Side of the Moon, fronte/retro, fanno perciò pensare non soltanto al prisma di Newton. Ma anche, forse soprattutto, all’immagine di una prima piramide congiunta a una seconda, ribaltata. In questo modo i vertici delle due, uno rivolto verso l’alto, l’altro verso il basso, si toccano. Il punto di congiunzione della piramide inferiore italiana, cioè della loggia massonica segreta Propaganda 2 o P2, ha come vertice il «maestro venerabile» Licio Gelli. E a Gelli è toccato fare «da anello di raccordo con la piramide “superiore” atlantica».48 Questa immagine della doppia piramide, ricavata dalla giustapposizione dei due lati della copertina di The Dark Side of the Moon, che crediamo Buongiorno, notte abbia tenuto in debito conto, si trovava già nella quinta e ultima puntata dell’inchiesta televisiva di Giuseppe Ferrara P2 Story (1985), basata sugli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2 che quell’anno terminava i suoi lavori. E a presiedere la quale era stata nominata nel 1981 Tina Anselmi. Potrà sembrare un azzardo questo ennesimo tentativo di collegare l’orizzonte simbolico di Buongiorno, notte a discorsi storico-politici assai impegnativi e mirati, compreso il puntuale riferimento alla P2, cui risultarono essere peraltro affiliati molti personaggi istituzionali di spicco che ebbero ruoli chiave nel fronteggiare il rapimento di Aldo Moro.49 Ma è pur vero che proprio in Buongiorno, notte da un televisore rimasto acceso vediamo l’onorevole democristiano Anselmi illustrare i contenuti della Legge Basaglia. Difficile credere che sia soltanto l’ennesima coincidenza. Lo stesso collegamento tra l’autore di Buongiorno, notte e quello di Il caso Moro (1986), film radicalmente diverso per impostazione e stile, è assai meno impraticabile di quanto si creda. Specialmente se si provano a cogliere tra le righe alcune insospettabili rime. Una per tutte la decisione di mostrare i carcerieri di Moro sempre a faccia scoperta, anche in sua presenza (Ferrara). Decisione non dissimile da quella di indurli per una volta a smascherarsi nel corso di una scena visionaria concepita da Chiara e mostrata al rallentatore (Bellocchio). Né è detto che un simile errore storiografico, ammesso dallo stesso, intraprendente, fiero dietrologo Ferrara,50 sia tale. O che sia poi così grave, se non altro alla luce delle successive immagini interiori proposte da Bellocchio. Vero è che per ben due volte quest’ultimo ha fatto vedere e si è circondato, in tutti i sensi, anche come personaggio interno, di confraternite dall’aria piuttosto “massonica” (L’ora di religione e Buongiorno, notte). Come è vero che per Buongiorno, notte egli stesso ha detto di aver attinto anche come contraltare ai libri dell’ex senatore Flamigni, libri di segno decisamente opposto a quello della Braghetti. Ma diciamola tutta, anche a proposito della “luna” che dà il titolo all’intero album The Dark Side of the Moon, in cui spicca The Great Gig of the Sky e che rimbalza nell’album successivo Wish You Were Here (1975) in Shine On You Crazy Diamond. È una luna che rischiara molto gli scenari

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notturni di Bellocchio. Non solo nei brani dei Pink Floyd che assecondano il progetto di Buongiorno, notte sul caso Moro, ma già, è bene ricordarlo, in Enrico IV («A me, quand’ero bambino, sembrava vera la luna nel pozzo»), Diavolo in corpo (la scena di Andrea che raggiunge nella notte di luna piena Giulia mentre dorme nel suo appartamento) e Il principe di Homburg («Ancora una volta, senza saperlo, sono andato in giro al chiaro di luna»). Questa ossessione “lunare” ricorre anche nell’opera prima di Massimo Fagioli, Il cielo della luna (1998), presentata al festival di Locarno, ottenendo così la stessa opportunità dell’ormai leggendario e impegnativo lungometraggio d’esordio di Bellocchio, I pugni in tasca, nel 1965. C’è poi l’autobiografia Compagna luna di Barbara Balzerani,51 che condivideva con Mario Moretti l’appartamento di via Gradoli 96. O ancora l’ultimo film di Fellini, La voce della luna (1990), tratto da Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni.52 Naturalmente in cima alla lista c’è il già citato La luna di Bernardo Bertolucci che ispira lo «spirito burlone» incaricato di comunicare il luogo della prigione di Moro nella seduta spiritica alquanto “massonica” di Buongiorno, notte. Volendo, ci si potrebbe anche sbizzarrire notando come nel film di Bertolucci spunti un’altra Chiara, Clare Peploe, da allora cosceneggiatrice e moglie del regista. Esordisce nel cinema a ventiquattro anni come assistente del suo compagno Michelangelo Antonioni in Zabriskie Point (1970). Lo diciamo più che altro perché ci piace l’idea di iniziare il prossimo paragrafo proprio da Antonioni.

Controcampi pericolosi Accantoniamo per la seconda volta la questione della luna, così da poter tornare sulla Terra, magari un po’ più con i piedi per terra. Non perché, come vedremo, il caso Moro non c’entri anche con la fantascienza, oltre che con la fantapolitica (o almeno con quella che pare fantapolitica ma non sempre lo è). Ma perché Moro, dopo la lunga sequenza che ci siamo lasciati alle spalle, cioè dopo avere ri-guardato Chiara, si direbbe aver preso piede nell’intero appartamento. Oramai entra ed esce dai sogni ad occhi aperti, molto reali(stici) e verosimili, della sua solerte, addolorata carceriera. Il personaggio di Moro, come si è detto, sembra insomma più sereno e a suo agio da quando è passato dal regime (anche visivo) del “carcere duro” agli “arresti domiciliari”, da scontare in compagnia dei componenti brigatisti della «sacra famiglia»,53 molto devota al culto rivoluzionario e residenti nella «prigione della prigione». Moro guarda i libri dei suoi “coinquilini” e si sofferma spesso a osservare, premuroso, tentennante e malinconico, la “visionaria” Chiara la quale mentre dorme (lo) sta sognando. Scena che ricorda molto quella di Identificazione di una donna (1982) di Antonioni in cui

regista Niccolò Farra, guardando la sua provvisoria “bella addormentata” Mavi (cioè Maria Vittoria), si chiede: «Chissà se qualcuno ha mai guardato me mentre dormivo?». Anche Bellocchio si affida agli occhi vigili dei suoi personaggi. Il regime dello sguardo che vige sul set/prigione di Buongiorno, notte riflette la precisazione del vero Moro, quando da prigioniero scrive al ministro e amico Cossiga – lo abbiamo già fatto notare – «mi trovo sotto un dominio pieno e incontrollato».54 La controversa espressione usata nella prima lettera a Cossiga del 29 marzo calza a pennello al «dominio» visivo brigatista delineato nel film. La sorveglianza speciale, ossessiva, insistente si confà molto a chi, come Chiara, sogna ancora e probabilmente i sogni a qualcuno li racconta, per ragioni terapeutiche e liberatorie. O a chi di conseguenza fa i film, immaginandoli, scrivendoli, girandoli e montandoli. Non come Ernesto, che a differenza di Chiara si è opportunamente imposto di non cedere alla tentazione onirica: Ernesto: Ma sei andata a guardarlo cinque minuti fa! Sembri mia madre col rubinetto del gas. Chiara: È che devo sempre assicurarmi che ci sia. Che non è tutto un sogno. Quando lo vedo mi rassicuro. Ernesto: Perché vorresti che fosse tutto un sogno? Chiara: Non lo so, una cosa o l’altra... Ernesto: Io ho già risolto: non sogno più.

Il Moro cinematografico concepito da Bellocchio è al centro di un complicato intrigo di sguardi dominanti e dominati. Da ostaggio di riguardo, in ogni senso, che saltuariamente ricambia le attenzioni ricevute, esiste sullo schermo a condizione che la distanza venga mantenuta e connotata attraverso l’uso del mascherino (la marca cinematografica/televisiva del «piccolo foro»: lo spioncino/mirino), disciplinando l’avvicendarsi delle soggettive esplicite e implicite dei terroristi. Al “mascherino” spesso fa da contraltare la “maschera” indossata esclusivamente da personaggi maschili. Anche il passamontagna usato da Mariano, durante gli interrogatori, e da Primo, che provvede alle esigenze ordinarie, provvede a circoscrivere il campo visivo, filtra le immagini relative all’uomo custodito in quel microcosmo carcerario. Con o senza il mascherino, ogni apparizione di Moro sullo schermo corrisponde a un’immagine vista, mirata: a un’inquadratura che può venir connotata in svariati modi. O non connotata affatto, nel rispetto di una visione costantemente “mascherata” (anche dal passamontagna, perciò

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emblematico). Ogni regola trova però conferma nelle eccezioni. La visione proveniente dall’esterno, secondo la regola che il film si è imposto, non impedisce all’autore l’applicazione di deroghe sventate, spiazzanti ed eloquenti. Si tratta di controcampi pericolosi, alquanto imprudenti, in cui a Moro, quindi a tutti gli spettatori, è concesso di ri-guardare i brigatisti in volto. Quand’anche al sicuro dietro uno spioncino o un passamontagna. Come nel caso di Mariano/Mario, l’inquisitore:

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Il film vuole anche essere abbastanza libero nel suo stile generale. Perché, se uno volesse seguire rigorosamente uno stile, allora, se lo sguardo del regista è solo dall’esterno, dovevo precludermi, dovevo non utilizzare le inquadrature per esempio di [Luigi] Lo Cascio [che interpreta Mariano] di fronte, perché sono un ribaltamento. Mentre invece il film – secondo me – le sopporta, ecco, e non diventa uno sgarbo, una stonatura stilistica. […] Era stato concepito, era stato scritto come se il regista o gli attori guardassero senza essere visti, o per lo meno come se la macchina da presa guardasse dentro ma non fosse all’interno. Ora, vedendo di controcampo Lo Cascio, è come se improvvisamente la macchina da presa fosse al posto di Moro.55

Anche in virtù di questa preziosa, insostituibile «stonatura stilistica», è lecito supporre che la stessa scelta di racchiudere il tragico avvenimento del sequestro quasi interamente nello spazio ristretto della presunta prigione unica non sia un pedissequo tributo alla versione ufficiale dei fatti (o una sua estremizzazione in senso ultra-dietrologico),56 quanto il frutto di specifiche esigenze cinematografiche. A riprova di come, anche secondo Bellocchio, il caso Moro risulterebbe in parte incomprensibile o comunque incompleto se si tralasciasse la funzione assunta sulla scena del crimine dalla macchina da presa. Solo così si spiega perché Moro appaia nel film rinchiuso in esplicite soggettive e in inquadrature simili o corrispondenti a soggettive, prima ancora che dentro una cella di pochi metri o in quell’appartamento di un centinaio di metri quadri, che Ernesto all’inizio ha misurato preventivamente (come un regista che effettua le location prima di iniziare le riprese). Detto Meglio, il Moro del film, con o senza qualcuno in controcampo, appare sempre un personaggio spiato, pronto a infrangere il più classico dei tabù cinematografici con il suo imprevisto sguardo in macchina. Motivo in più per Chiara ed Ernesto di temere di essere colti alla sprovvista dallo sguardo ritorsivo di Moro, e per Mariano e Primo di non mostrarsi al suo cospetto a viso scoperto. Lo ripetiamo: tanto la parete munita di spioncino (che però non assicura il senso unico dello sguardo), quanto i passamontagna (che solo nella già citata inquadratura visionaria di Chiara, i brigatisti si tolgono in presenza del prigioniero) servono a proteggere identità indicibili. Proteg-

gerle da cosa? Anche dall’obiettivo di una macchina da presa in loco, sul set o nel covo. Una “macchina-cinema” o una telecamera indiscreta, rimossa, preposta a registrare le immagini e le parole. Dunque molto informata dei fatti e introvabile. Come lo spettatore del film.

Ascensore per il patibolo Ma non basta. La conferma di questo fattore filmico permanente, che ipoteca il sistema testuale di Buongiorno, notte, e dei “fatti” cui fa riferimento, arriva da un altro personaggio determinante: l’aspirante sceneggiatore di film Enzo Passoscuro. Chiara infatti ha una preoccupazione in più degli altri brigatisti. Deve guardarsi anche dallo sguardo interrogativo di Passoscuro, alter ego e portavoce di Bellocchio dentro il film. Passoscuro le sta sempre addosso, come l’inquilina della palazzina di fronte, sempre alla finestra o pronta ad avvicinarla all’edicola. Se quella donna misteriosa sembra sapere tutto di lei, sbagliando (o non sbagliando), Passoscuro sa davvero tutto. Forse perché non smette di osservare Chiara, pur conoscendola solo negli abiti “antiquati” della bibliotecaria comunque irrequieta. O forse perché non teme lo sguardo di ritorno della macchina da presa fuori quadro. Lo dimostra un’altra scena molto emblematica del film, in cui lo spauracchio dei personaggi e degli spettatori diventa la macchina da presa stessa che idealmente occupa l’inquietante quarta parete di un ascensore dell’ufficio ministeriale dove lavora Chiara. Quando le porte dell’ascensore si aprono ogni impiegato, guardando all’interno, frontalmente, cioè diritto nell’obiettivo della macchina da presa (quindi verso lo spettatore ignaro), si ritrae imbarazzato, si spaventa, scappa. A differenza della morale della favola di un classico comico con Harold Lloyd, Safety Last (Preferisco l’ascensore, 1923), in Buongiorno, notte Chiara e tutti i suoi colleghi preferiscono le scale. Loro, spettatori dell’inguardabile, rifuggono l’interno dell’ascensore. Enzo Passoscuro no. Una volta entrato nell’ascensore, non si accorge nemmeno di essere ri-guardato da ciò che tutti con timore hanno guardato. Quando si accorge di questo sguardo di ritorno, che fa? La misteriosa “cosa” che nessun altro (Chiara compresa, e a maggior ragione) ha avuto il coraggio di fissare, se non per qualche istante, non lo turba né lo intimorisce. Il giovane Passoscuro non teme lo sguardo insostenibile nella/ della macchina da presa, né quello dello spettatore assente. Solo attraverso la sua disponibilità visiva anche allo spettatore è dato finalmente vedere, a questo punto della scena, la stella rossa a cinque punte appena disegnata con vernice ancora fresca sulla parete frontale dell’ascensore. Tutto qua. Eppure l’emblema delle Brigate rosse è bastato scatenare la paura collettiva e l’immediata interdizione («Ferma! Chiamate la polizia! E

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fate bloccare questo ascensore!»). Enzo Passoscuro non ha motivo di preoccuparsi. Lo dice chiaramente: non l’ha fatta mica lui, dunque che problema c’è? Ma il problema c’è. Come sempre in Buongiorno, notte, è un problema di sguardi: un problema cinematografico. Un problema di cose che si vedono, di cose che si sanno, di cose che non si devono vedere, di cose che si vorrebbe non sapere o non aver visto, di cose che non si possono dire esplicitamente. Lo spettatore ideale ora vuole sapere, vuole soprattutto capire, essendo stato interpellato in modo a dir poco indiscreto dai personaggi che si sono susseguiti al di là delle porte automatiche dell’ascensore che si aprivano e si chiudevano come palpebre verticali dell’occhio umano. Gli occhi aperti/chiusi, sulla falsariga di Eyes Wide Shut (Id., 1999) di Stanley Kubrick, sussultano umanamente e meccanicamente in Buongiorno, notte di fronte a uno spettacolo così inconfessabile, così irripetibile, così vero. Non si tratta soltanto di un ascensore imbrattato con una sigla terrorista, nel pieno del rapimento Moro. In quell’ascensore c’è molto di più, se si presta attenzione al procedimento allusivo attivato dal film. La stella brigatista porta direttamente al presidente sequestrato. Indica cioè Moro e il luogo in cui si trova segregato. Soluzione estrema e insostenibile per l’atto stesso del guardare e di conseguenza per l’assunzione di responsabilità connessa all’evidenza conoscitiva del mistero assoluto, inviolabile e pericoloso. Ancora una volta basta un simbolo per creare un’associazione visiva tra due ambienti/contenitori molto angusti e transitori di fatto equivalenti, con una stella a cinque punte disegnata sul fondo, su una bandiera o su una parete metallica. Non fa differenza. Questi ambienti, colti/visti sempre dall’esterno, fanno spavento a chi non si sente con la coscienza a posto o teme ritorsioni (anche solo dello sguardo). Risultano dunque inguardabili tanto l’interno dell’ascensore dentro l’edificio ministeriale, quanto l’interno della cella di Moro dentro l’appartamento-prigione brigatista. Basta una sigla terrorista, di sciagurata, inappropriata ascendenza partigiana, a collegare e penalizzare i personaggi di Moro e di Passoscuro. Una sigla necessaria, visibile, riconoscibile, per attestare fotograficamente e pubblicamente ben due volte nel corso dei cinquantacinque giorni l’ambiguo «dominio pieno e incontrollato» sul prigioniero e il suo stato di salute dopo il falso comunicato che lo aveva dichiarato morto. Moro e Passoscuro, Moro come Passoscuro, convivendo per sventura o per caso quasi due mesi o pochi secondi al chiuso con la stella a cinque punte incombente alle loro spalle, marchio indelebile di una condanna implacabile, non hanno scampo: ucciso il primo, arrestato il secondo (pochi giorni dopo, proprio sullo stesso pianerottolo dell’edificio ministeriale in cui sta svolgendo il servizio civile). La prigione, l’ascensore, luoghi claustrofobici equivalenti, sovrapponibili e sostituibili, veicolano il senso cinematografico dell’operazione Buongiorno, notte. Senza preavviso tali luoghi possono generare «sensi di colpa», così come l’immagine finale di

Moro libero di camminare per strada può dare sollievo (donde la suddetta dichiarazione di Bertolucci il giorno della consegna a Bellocchio del Leone alla carriera). In quanto piccoli, ma accessibili allo sguardo e alla macchina da presa questi non sono luoghi qualsiasi. Sono invece impegnativi, sinistri, condivisi. Scatenano effetti collaterali in gran parte indecifrabili, incontrollabili e rischiosi meccanismi di destini incrociati. A tal proposito non va dimenticato, né trascurato ciò che Bellocchio, prima di ideare il personaggio molto autoreferenziale del giovane Enzo Passoscuro, ha scritto a proposito del progetto originale del film, in cui il protagonista era il giovane assistente universitario del presidente democristiano rapito: «La prigione di Moro era la prigione di Tritto. Tritto, eroe mansueto, depresso, un po’ pauroso… Ero io?».

Dietrologia, fantascienza Mettiamo un po’ da parte quella «ricerca storica e saggistica usualmente bollata come dietrologia e additata al pubblico ludibrio. Ma non è azzardato prevedere che il tempo lavori per i “dietrologi”».57 E occupiamoci di fantascienza. Sì, nel caso Moro e nella Moroteca di Babele c’è posto anche per la fantascienza. Lo dice lo stesso Presidente “M” al Procuratore nel film Todo Modo: Dottore, io devo prospettarle un’ipotesi. Dura, dolorosa, amara ipotesi ma credibile dato il momento che la nostra vita politica sta attraversando da qualche anno e i legami che sempre più tenacemente la avvincono alla cronaca nera, alla malvivenza, alla fantascienza, anche. […] Attraverso i morti qualcuno, non so chi – mi intenda: non so chi – vuole farci pervenire un messaggio, un avviso, un segnale. [...] I fatti avvenuti negli ultimi dieci anni nel nostro paese hanno mai avuto una spiegazione plausibile, secondo lei?

Il punto di partenza in Bellocchio è una delle principali “caselle mancanti” di Buongiorno, notte: il mai nominato appartamento-covo brigatista di via Gradoli, scoperto secondo modalità che hanno dell’incredibile58 la mattina del 18 aprile 1978. Tradendo invece i fatti e rivendicando nelle dichiarazioni sul film o attraverso il film stesso la piena “infedeltà” storica, Bellocchio utilizza una superficie fin troppo lineare per inabissare allusioni e indizi di accidentata verità, evitando di impelagarsi nelle pieghe più rocambolesche del caso Moro. Mimetizzare le perplessità o aggirare le trappole conoscitive non vuol dire però rinunciare all’impresa. Via Gradoli, uscita dalla porta principale del film, rientra dalla finestra. La fantascienza ad esempio

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si colloca in un cantuccio della complicata e a quanto pare incongruente vicenda che ruota attorno all’interno 11, scala A, del secondo piano del civico 96 di via Gradoli, divenuto dal 1974 un autentico porto di mare. Qui per un certo periodo hanno abitato anche Valerio Morucci e Adriana Faranda.59 C’è anche chi, sulla base di una serie di testimonianze convergenti, ha di recente rilanciato l’ipotesi che quella di via Gradoli possa essere una delle prigioni in cui Moro sarebbe transitato prima del 18 aprile.60 Ad ogni modo gli inquilini ufficiali nell’aprile del 1978 sono l’ingegner Mario Borghi (Moretti) e la sua compagna Barbara Balzerani. Il 18 aprile all’interno, come è noto, viene trovato di tutto. In questo bazar brigatista, «imponente “vetrina” di prove»,61 contenente oltre mille reperti di ogni genere, vale magari la pena di soffermarsi sulle cose meno necessarie. Ciò che è superfluo spesso può rivelarsi molto importante, se osservato in prospettiva. Una prospettiva “fantascientifica” che conduce poi al cinema di Bellocchio, da Nel nome del padre a Buongiorno, notte. Prendiamo i libri, anzi l’intera biblioteca «polimorfa» in cui non passano inosservati «romanzi di fantascienza da Asimov a intere collezioni di Urania»: benché di scarso valore probatorio, questo genere letterario ha persino suggerito a uno psicologo junghiano «una relazione fra la struttura simbolica del romanzo di fantascienza e l’utopia politica delle Brigate rosse».62 Di questo genere di letture si parla inoltre nella (quasi) autobiografia di Adriana Faranda, Nell’anno della tigre, scritta dalla giornalista di «la Repubblica» Silvana Mazzocchi: Venne tutto repertato e sequestrato, compreso il materiale usato da Moretti per falsificare la documentazione delle auto rubate e decine di libri di fantascienza, un genere per il quale il capo delle BR aveva una vera passione. Una predilezione che “Maurizio” condivideva con Adriana che, traslocando in via Chiabrera, aveva lasciato al vecchio indirizzo una discreta collezione di Urania e tutti i suoi volumi di Isaac Asimov, di cui ambedue erano grandi estimatori.63

Non è secondario ricordare che Bellocchio aveva in progetto di ricavare un film dal libro sulla/della Faranda. Progetto al quale nel 1995, dopo Sogni infranti, rinuncia per divergenze con l’ex brigatista.64 Basandosi su quella particolare tipologia di materiale repertato nel covo di via Gradoli l’autrice del libro, seguendo i ricordi della Faranda, sottolinea la «vera passione» e la «predilezione» per la fantascienza che accomuna la Faranda e Moretti. Come fa a stretto giro, anche Anna Laura Braghetti nel consimile libro scritto a quattro mani con la giornalista di «Il Manifesto» Paola Tavella, da cui Bellocchio trae ufficialmente Buongiorno, notte: «Poi mi fermai all’edicola e comperai qualche romanzo di fantascienza, della serie Urania, il genere preferito di molti militanti delle Brigate rosse».65 A Bellocchio que-

sta circostanza non interessa. Preferisce piuttosto dedicarsi all’atmosfera molto “fantascientifica” che avvolge il tutto, riallacciandosi ai deliri utopici del matto Tino di Nel nome del padre. Atmosfera che prende spunto dal genere letterario “prediletto” da quei due o da più brigatisti. Dunque dai libri trovati, tra le tantissime altre cose, nella via rimossa dal film. Addirittura sul retro della copertina di un libro di fantascienza della collezione del covo di via Gradoli è stato annotato, probabilmente da Moretti, il nome di una marchesa e quello di un tranquillante, cioè uno dei medicinali necessari al prigioniero, quindi un numero di telefono e una data, che riconducono inquirenti e studiosi, principalmente i dietrologi di cui sopra, a un palazzo nobiliare nei pressi di via Caetani e a una società immobiliare.66 Tralasciamo la pista che porta al Ghetto ebraico, dal momento che la svilupperemo in uno dei prossimi paragrafi. Limitiamoci a tener ben presente come in quegli anni si stesse registrando una ripresa, in un certo senso sintomatica, della fantascienza: «Sull’esistenza o meno di un vero boom fantascientifico in Italia si potrebbe discutere, ma il proliferare di libri (novità e ristampe), nuove collane, case editrici non specializzate che aprono a questo settore è un dato di fatto più che evidente che non ha bisogno di conferme».67 E a far caso a come in Buongiorno, notte la fantascienza non venga del tutto cancellata, né passi senza lasciare traccia. Forse non si vede abbastanza, ma si sente. Dopo la scena della scoperta della stella a cinque punte nell’ascensore che ha gettato nel panico molti impiegati ministeriali, Chiara torna nell’appartamento e trova i suoi compagni variamente indaffarati, mentre in sottofondo giunge dal televisore una voce udibile solo a tratti, dato il volume basso: Ecco, prima di parlare del primo filmato, una constatazione: come sapete, come tutti sappiamo, questo è il migliore dei mondi possibili. […] È questo il motivo per cui, forse, si è diffusa questa moda, possiamo dire, […] di fantascienza, di incontri ravvicinati, […] di letteratura fantascientifica… la volontà, insomma, di evadere da un mondo, sì è anche il migliore dei mondi possibili, però... qualche volta viene voglia di scappare un pochettino. Il filmato che vedremo è una specie di testimonianza sugli Ufo…

Sono molte anche le forme tipicamente fantascientifiche, o fantapolitiche, cui Bellocchio ricorre per costruire da molti anni le trame dei suoi film. Non è cosa di poco conto. Non c’è più solo l’utopia distorta o la distopia ad alimentare l’ideale abbastanza indesiderabile di rigenerazione sociale di Angelo e Tino alla fine di Nel nome del padre, il film che l’autore ha in un certo senso riprogrammato nel 2011. Ad esempio in Buongiorno, notte, Il regista di matrimoni e Vincere ci si imbatte spesso in tipici casi di frammenti, episodi temporali, singole scene che si distaccano dal corso lineare

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degli eventi o che vengono spostate dalla posizione ad esse assegnata dalla cronologia ufficiale. Per restare nei dintorni della fanta-scienza/politica, con una più marcata connotazione psichica, si potrebbe insomma parlare di “discronia”, vale a dire la compresenza di più temporalità, percepite simultaneamente nel presente emozionale […]. Possiamo dire che il presente discronico è simile a una manifestazione allegorica nella quale la molteplicità dei tempi non segue mai lo schema diacronico del “prima-dopo”, ma si succede irregolare per sovrapposizioni, accavallamenti, interferenze, dislocazioni, parallelismi, convergenze e divergenze, e così via. Il presente diacronico è capace di contenere in sé contemporaneamente linearità, ciclicità, ritmi e regressioni, tutte reversibili. Vi rientrano le componenti più complesse del nostro essere, le elabora la nostra psiche […].68

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Una modalità temporale “eretica” che caratterizza ad esempio il finale sdoppiato e molto dibattuto di Buongiorno, notte in cui assistiamo alle immagini di repertorio dei funerali del Moro reale, mentre parallelamente il Moro di Bellocchio passeggia indisturbato per una strada di Roma. O il finale immediatamente successivo di Il regista di matrimoni in cui nuovamente il corso più o meno lineare degli eventi e delle possibilità narrative si biforca. O ancora l’episodio di Vincere che inaugura e conclude la parabola ascendente/discendente di Mussolini, in cui ad essere provocato è addirittura Dio. Un Dio estremamente severo il quale, si comprende alla fine, sembra aver davvero accettato la sfida «teologica» del giovane Mussolini, distruggendolo in quel “lasso” di tempo che può durare pochi secondi o essere durato alcuni decenni, non fa differenza: Sacerdote: Prego, prego. Signori, un po’ di silenzio. In questo agone, in questa singolar tenzone di carattere teologico, dopo la dotta esposizione di don Moretti cedo la parola al signor Benito Mussolini, sindacalista, nonché esponente del Partito Socialista. Benché di opinioni opposte, diverse, credo sia giusto sentire la sua esposizione e che possa esprimersi liberamente. Prego. Mussolini: Sarò molto breve. Qualcuno di voi ha un orologio? (Un signore in prima fila glielo dà) Non si preoccupi, non sono un ladro. Sono le cinque e dieci. Io sfido Dio! (Voci di sconcerto tra gli astanti) Gli do cinque minuti di tempo per fulminarmi. Se non mi fulminerà sarà la dimostrazione che non esiste. Sono pronto. (Resta immobile, ad attendere, nel silenzio generale) Il tempo è scaduto: Dio non esiste!

L’ultima scena del film ci riporta alla situazione iniziale. I cinque minuti, orologio alla mano, non sono ancora scaduti. Il Duce è ormai finito. I cinegiornali dell’epoca mostrano in rapida successione l’infausta dichiarazione di guerra, i bombardamenti, la caduta del regime. E il suo busto monumentale schiacciato da una pressa. La sorte di Mussolini è iscritta nella brevissima/lunghissima attesa della scena di apertura e chiusura o parallelamente in tutto l’arco temporale e narrativo del film. Quale che sia l’opzione temporale, il destino non cambia. Come non cambia il nome del prete nella «singolar tenzone di carattere teologico» che con la sua «dotta esposizione» ha preceduto l’intervento autolesionista di Mussolini: si chiama guarda caso «don Moretti», come l’altro Moretti, Mario Moretti, il capo brigatista che ha abitato nell’appartamento di via Gradoli 96 fino alla mattina del 18 aprile 1978. E che in Buongiorno, notte si chiama Mariano.

La religione di Mariano Siano essi di fantascienza, di fantapolitica o di tutt’altro genere, i libri nei quali ci imbattiamo nel caso, del caso e sul caso Moro fanno il caso Moro. La babelica Moroteca che si è andata accrescendo e consolidando per decenni, irreversibilmente, dà l’esatta (dis)misura di un caso oramai tentacolare, al quale non ci si può più accostare procedendo lungo una traiettoria continua, lineare e cronologica. O a prescindere dalle strane piste, verosimili e inverosimili, credibili e incredibili, logiche e dietrologiche, concrete e mistiche, realistiche e fantascientifiche. Piste che pur contraddicendosi o invalidandosi a vicenda convergono da più fronti e direzioni sempre negli stessi punti. Uno dei più inflazionati è appunto la via Gradoli che Buongiorno, notte, come per una dimenticanza non casuale, esclude a priori. Un pezzo mancante tanto più degno di nota poiché funziona da perfetto «atto mancato», perciò tanto significativo e veritiero. Nel tralasciarlo o nel disinteressarsene, almeno apparentemente, Bellocchio contravviene allo spazio abbastanza consistente69 che invece la Braghetti gli dedica nel suo libro fin troppo orientato a smontare sistematicamente impianti dietrologici e a far piazza pulita di misteri e zone d’ombra intervenendo su ogni punto critico sensibile del caso Moro. Ma torniamo a Mario Moretti, anzi a Mariano, per restare nel perimetro di Buongiorno, notte. Torniamo a questo ineffabile capo brigatista che coltiva «una vera passione» per la fantascienza, ma nel film parla «nella lingua degli abitanti di Mongo» degna del personaggio di Nel nome del padre e nella realtà annota contatti, medicinali e numeri sul retro della copertina di un libro della sua preziosa collezione di fantascienza. Perché Bellocchio lo ha ribattezzato Mariano, come il Mariano Rumor cinque volte presidente

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del Consiglio in anni tra i più bui della storia repubblicana, dal 1968 al 1970 e dal 1973 al 1974, e ministro dell’Interno nel 1972? Forse questo nome così impegnativo è la conseguenza di un atto di fede marxista. Una fede “religiosa”, donde il titolo La religione della storia del documentario in cui Bellocchio sceglie di far ascoltare la drammatica telefonata del “postino” Morucci al professor Tritto sull’ubicazione del cadavere di Moro. Quella di Mariano è una religione a tutti gli effetti. Fin troppo rigida. Lo stesso Moro lo fa notare nella scena già descritta all’interlocutore incappucciato Mariano che compare in un improprio o diversamente coerente controcampo: Mariano: Hai paura di morire? Moro: Perché me lo chiede? Mariano: Eppure tu credi nell’Aldilà. Moro: Anche Cristo nell’orto del Getsemani ha avuto paura. 132

Mariano: Mi ricordo che da bambino ero talmente infervorato dalla religione che mi auguravo di morire per andare in Paradiso più presto. Che assurdità. Moro: Lei non ha paura di morire? Mariano: Ogni uomo un giorno deve morire, ma non tutte le morti hanno lo stesso significato. Io credo che la nostra superiorità consista in questo: noi siamo disposti a morire per le nostre idee. I comunisti sono così. Moro: Anche i primi martiri cristiani. In fondo la sua è una religione, come la mia. Anzi è molto più severa. Per esempio disprezza il corpo più di quanto non facciamo noi cattolici. Un tempo anche il cristianesimo era così. Ma ora non più. L’ultima crociata è del 1270. L’ultima strega è stata bruciata in Svizzera, pensi, alla fine del Settecento.

Il Medioevo è lontano, e con esso le crociate in Terrasanta, ma non lo scudo crociato democristiano cui Moro invano rivolge i suoi appelli per una soluzione diplomatica o una trattativa con le Brigate rosse affinché gli sia risparmiata la vita. Né è lontana l’eco di un altro emblema crociato, quello di Belcredi, che in qualche modo ha condannato in Enrico IV il protagonista alla recita della storia (medievale) e della “follia” a tempo indeterminato. Può darsi inoltre che risalga a due secoli prima l’ultimo rogo riservato a

una presunta strega. Ciò non toglie però che sia in circolazione un’altra sedicente “strega” dal vivido e interessante passato: quella alquanto più pericolosa perché in La visione del sabba insiste nel rivendicare la propria sanità mentale, assieme a qualche ricordo molto nitido su un Napoleone per tante ragioni più moroteo che napoleonico. Intanto, da soggetto molto “religioso” di una rivoluzione proletaria completamente fuori dal mondo, il leader brigatista in Buongiorno, notte conduce l’interrogatorio nell’assurda convinzione di poter costringere il penitente a una piena e spontanea «veridizione di sé»,70 verbalizzata e su misura. Appunto, come nel remoto cristianesimo primitivo evocato da Moro. Magari spera di ottenere una verità sincera dal paziente “accomodato” sul lettino, come nell’analisi freudiana. Il Mariano cinematografico è sorretto da una ortodossia ideologica, fin troppo “religiosa” e feroce come quella dichiarata dai due ex brigatisti intervistati in Sogni infranti. Il primo, arrestato nel 1981 assieme a Mario Moretti, è Enrico Fenzi, ex professore di Letteratura italiana all’Università di Genova e cognato di Giovanni Senzani (lo ricordiamo: il “regista” della condanna filmata di Roberto Peci), il secondo è lo psichiatra anconetano Massimo Gidoni, anch’egli condannato per l’omicidio di Peci: Fenzi: Allora questa fede in questa realtà c’era. Penso che quando si fa della storia una specie di divinità e si pensa di immaginare dove vada e dove deve andare è una forma secolarizzata di religione. Gidoni: Io parlavo con una suora di clausura [...]: «Cioè, ti ritiri dal mondo, come puoi parlare d’amore per il prossimo?». Una cosa che lei mi diceva: «Io ho lasciato anche il mio fidanzato che amavo tantissimo. Ora non amo più lui soltanto, amo tutto il mondo, amo l’amore». [...] Questo è un aspetto che non coincide con la scelta delle BR, però in realtà ciò che in comune c’era era una – secondo me – una, per così dire una dedizione totale alla società, al prossimo. Certo, dal punto di vista religioso era una dedizione di carità, inteso al di fuori della violenza, totalmente (anche se sulla violenza c’è molto da discutere, nel caso nostro non si può parlare di essere al di fuori della violenza). Però è comune il volersi dare totalmente, era comune questo. E non è poca cosa.

A questa affermazione fa eco quella di Buongiorno, notte del giovane Passoscuro che di soppiatto dice a Chiara: «Sai che potresti essere molto più bella, ma che ti vesti come una suora?». Questa prospettiva che, spiega Vittorio Foa sempre in Sogni infranti, «ti dà l’idea della militanza vista come attività trascendente di carattere fin quasi miracoloso», già prima del segno della croce che in Buongiorno, notte i brigatisti fanno meccanicamente precedere alla cena, era dopotutto già presente in Bellocchio ai tempi dell’a-

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desione incondizionata all’Unione dei comunisti marxisti-leninisti e della realizzazione di “servizio” nel 1969 dei film di propaganda Il popolo calabrese ha rialzato la testa e Viva il 1° maggio rosso proletario: Per quanto mi riguarda è proprio la dimensione religiosa che si era completamente spostata in quell’esperienza. Non so gli altri, ma di me stesso sono sicuro: in fondo non era la lotta di classe, la lotta dei contadini, che mi interessava, era proprio la dimensione utopico-religiosa, era “servire il popolo” in quanto penitenza del borghese che deve mettersi a disposizione dei diseredati.71

Del resto, sempre attingendo al prezioso serbatoio di testimonianze con il senno di poi di Sogni infranti, è lo stesso inflessibile leader dell’Unione, Aldo Brandirali, a riconoscere la religiosità inalterata del proprio “credo” politico. Anche dopo l’abbandono dell’ispirazione maoista di

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allora [quando] la continua domanda sotto era: come poteva permanere qualcosa che era certamente vero, bello, importante, ma che tutte le volte che ci ho provato non ha resistito alla prova del tempo? Allora, questo mi ha portato progressivamente fuori dalla mia struttura culturale, insomma, e a pormi domande religiose, insomma. Alcuni santi li ho visti, insomma. Allora la cosa mi ha interessato molto e ho cominciato ad andar dietro alcuni santi, cioè alcuni capaci di vivere fino in fondo la cosa per cui credevano. Questo dopo, per tutta una serie di ulteriori vicende, a un certo punto, siamo ormai in tempi recenti, quattro anni fa circa, è diventata conversione per me. Questo mi ha permesso di ritornare a far politica, nel senso che avevo di nuovo gli strumenti di interpretazione, delle ragioni, insomma. Della proposta. Combinazione, questa cosa ha corrisposto con l’esplosione della DC e il fatto che veniva commissariata, che si dava il compito di far fuori tutti i corrotti e di cambiare. A me m’han chiesto se ci andavo a fare questa operazione di pulizia e ci sono andato.

Un “credo” permanente, di lunga durata, restituito anche in un film di montaggio come La religione della storia, ha investito e continua a investire trasversalmente senza soluzioni di continuità la filmografia di Bellocchio. Un credo che procede di pari passo con la centralità assunta dalle istituzioni apparentemente incompatibili che l’hanno di volta in volta capitalizzato, canalizzato: ora il marxismo, ora la chiesa cattolica, ora la psichiatria più o meno “democratica”. Da un lato, in Buongiorno, notte ci sono la persecuzione, i processi “proletari” e i corpi bruciati degli eretici e dei cultori dell’occulto dei primi tempi del Cristianesimo rievocati da Moro, dall’altro la commissione di psichiatri “inquirenti” che non esitano a contrassegnare/

condannare in epoca fascista la Ida di Vincere e nel presente, sempre in nome della scienza medica, l’orgogliosa “strega” Maddalena di La visione del sabba, la quale nel suo scandaloso (s)ragionare non sembra affatto vivere fuori dalla realtà italiana. Sa benissimo che il presidente della Repubblica nel 1988 è Cossiga, proprio l’ex ministro degli Interni sensibile durante i giorni del sequestro Moro alle ragioni irrazionali dell’occulto. E sa rimproverare all’occorrenza il povero psichiatra che ha fatto innamorare di sé: «Lui cerca ancora la verità!». Perché la “verità” nel caso Moro è una pia illusione. Quando non addirittura un terribile atto di fede: la fede religiosa e dogmatica del capo brigatista di Buongiorno, notte, in ottima compagnia nel contesto di religiosità contigue che si rincorrono, si sommano, si avvicendano nei giorni del rapimento. Una fede più che sufficiente a fare di lui un perfetto “Mariano”. Cioè un cultore della lotta armata, della segregazione forzata dell’avversario politico, dell’inquisizione ideologica, dell’omicidio. Con l’hobby della fantascienza.

La via intermedia(le) La sola fantascienza, in cima alle pratiche del culto (di) “Mariano”, non è che uno dei canali insospettabili attraverso cui Buongiorno, notte costruisce la sua fitta trama di riferimenti. I media coinvolti in questa struttura testuale sono numerosi e concorrono assieme a delineare un quadro del caso Moro che si spinge ben oltre la narrazione, la cronologia, la trasparenza e la linearità. Si è detto del televisore che diffonde per l’appartamento immagini e voci o solo voci su temi come la fantascienza o la Legge Basaglia. Si è detto anche di quegli altri programmi televisivi, sul teatro dei pupi o i cosacchi del Don. Ci sono poi i telegiornali, naturalmente, i festeggiamenti di capodanno, le sigle che concludono la programmazione. E ancora i film d’archivio, quelli di Vertov, di Fellini. E i libri, ovunque. Ai contributi sonori mimetizzati nel racconto si aggiungono quelli di cui non esiste sorgente sonora, come The Great Gig in the Sky e la prima parte di Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd. O quelli di cui si fanno garanti la radio o il medium televisivo, come l’Aida di Verdi di cui non a caso ascoltiamo la Marcia trionfale (con cui Bellocchio può permettersi di citare il suo film omonimo interpretato da Michele Placido). C’è di tutto insomma. La funzione strategica di questa orchestrazione multimediale è inequivocabile. Prendiamo il riferimento alla fantascienza. Ecco, la scelta di restituire in sordina, forse proprio per questo, ai limiti della vanificazione uditiva, l’eco di un medium di supporto che si fa carico, inequivocabilmente, del discorso fantascientifico, rientra nella strategia complessiva del film. Se questo inserto sonoro non avesse davvero alcun senso, non

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ci sarebbe nemmeno. Invece c’è. Ed è al servizio di una «esplicita intermedialità», determinante affinché venga favorita in maniera più sottile la comprensione storica: Buongiorno, notte si muove in piena libertà nel tessuto storico della vicenda, intrecciando numerosi piani dell’espressione […] e lasciando che l’immagine audiovisiva sconfini dall’uno all’altro senza soluzione di continuità, oppure incroci e sovrapponga differenti regimi della rappresentazione […]. Ma a dispetto di questa conclamata infedeltà al dato storico, la visionarietà del film riesce a configurare i termini di un’istanza testimoniale più profonda, il cui punto di forza consiste […] precisamente in un complesso movimento di “autenticazione” dell’immagine. I piani espressivi che interagiscono nel film sono essenzialmente quattro: la cronaca dei fatti, la loro assunzione pubblica, gli inserti documentari, l’allucinazione liberatoria.72

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In questa cornice intermediale il semplice richiamo alla fantascienza precedentemente trascritto non è che la punta dell’iceberg in Buongiorno, notte. Non perché perfettamente udibile, ma proprio in quanto coperto dalle voci degli inquilini dell’appartamento, dunque efficace come presenza vocale acusmatica, fantasma sonoro, rigorosamente complementare a un’immagine televisiva stavolta negata. Di cui si sottolinea in continuazione non la veridicità ma l’onnipresenza, quand’anche fuori campo, invisibile, spesso neanche completamente alla portata dell’udito. L’«assunzione pubblica» della «cronaca dei fatti» nasce dalla constatazione dell’impossibilità di procedere se non secondo modalità parziali ed elusive, all’interno di un ambiente audiovisivo saturo, reale, immaginario o simbolico, di fonti e stimoli mediali che interagiscono. E che così facendo rendono fin troppo sensibile, denso e suscettibile di interpretazioni lo spazio fisicamente “chiuso” del covo-prigione. Spazio in realtà mediaticamente molto “aperto”, pervaso da trasmissioni e inserti musicali di ogni tipo. Ovunque è lecito inseguire tracce di verità, intrecciare segnali codificati, rendersi conto delle sollecitazioni puntuali: a questo scopo vengono mobilitati a turno i telegiornali, le notizie date o commentate dai giornalisti del Tg2, come Giancarlo Santalmassi che la mattina del 16 marzo 1978, nell’edizione straordinaria delle 10 e un minuto, annunciò per primo, in televisione, il rapimento di Moro, o come Emmanuele Rocco che parla delle lettere giudicate «non moralmente ascrivibili» a Moro; le rubriche di approfondimento; le dichiarazioni pubbliche di Tina Anselmi, gli appelli alla società civile di Giulio Andreotti; i varietà, Raffaella Carrà che canta e balla Tango, gli auguri di fine anno fatti con ironia da Enrico Montesano; il finale e i titoli di coda dello sceneggiato Madame Bovary (1978) di Daniele D’Anza con Carla Gravina (stesso cognome tra l’altro dell’anomalo

principe di Il regista di matrimoni). Insomma, di tutto di più. Bisogna quindi stare molto attenti a questa vasta gamma di “segni” sparsi e disarticolati, per niente fortuiti e accidentali, perché indicati con annotazioni a margine delle tavole dipinte dall’autore73 o perché previsti già nel primo progetto o in sede di sceneggiatura, quella definitiva, magari tra parentesi,74 in scene conservate, in scene eliminate. O ancora perché catturati durante le riprese. Infine perché “montati” in fase di post-produzione. A questo si presta la struttura prismatica, intermediale e intertestuale di Buongiorno, notte che non dà tregua a chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire. Dove anche il parlar di altro – lo si è detto e ripetuto: di fantascienza o della Legge Basaglia, persino di fumetti, di canarini, di gatti, andando quindi deliberatamente fuori tema o fuori traccia – trova una precisa collocazione nella fitta rete indiziaria di questo strano, ordinario luogo compresso dove Moro è detenuto, pur concedendosi insolite passeggiate, forse non solo come fantasma onirico. Comunque sia, questo perimetro concentrato, unico o multiplo, non importa qui stabilirlo, funziona da perfetta e sintonizzata cassa di risonanza del mondo esterno, sovraccarico di informazioni, controinformazioni, piste false, ipotesi verosimili. Bastano pochi metri quadrati isolati, presidiati, claustrofobici in cui vivono, mangiano, pregano, litigano, guardano la tv, leggono libri i brigatisti asserragliati con il prigioniero, e il gioco è fatto. Questa osmosi tra dimensione interna/interiore/psichica ed eco esterna insistita, fatta di relazioni, rispecchiamenti e influssi reciproci, predispone il film estremamente stratificato a una serie di letture concomitanti che si potenziano a vicenda. L’effetto di irrealtà o di strenua insofferenza verso la banale realtà di pubblico dominio che il film fa trasparire con ogni mezzo e ogni medium può scaturire da qualsiasi cosa. Anche dal dettaglio più (in)significante. Anche dal cenno fugace e quasi irricevibile alla fantascienza. Non potrebbe essere diversamente in questa opera labirintica «che deroga continuamente dal rispetto di ciò che sappiamo dei fatti».75 Bellocchio, nel momento in cui «si affida a uno sconfinamento clamoroso della realtà dei fatti alla visionarietà dell’immagine»,76 vanifica appositamente la stessa impressione di realtà sul caso Moro. L’irrealtà portata alle estreme conseguenze, a contatto con «una materia che più ingarbugliata non si potrebbe»,77 diventa una delle chiavi di accesso più accreditate per fare i conti a distanza con la complicata vicenda. L’importante è contrassegnare l’oscurità, sfiorare e irridere l’incredibile, palesare ciò che è plausibile, conciliare tutto e il contrario di tutto per carità di patria: fatti, personaggi veri o inventati, spettacoli, immagini, suoni, inferenze. Si stende così su questa tragedia nazionale – in Buongiorno, notte più rappresentata che raccontata – un velo pietoso, sul piano umano, morale e intellettuale, a fronte di un quadro d’insieme straniante, puntellato da suggerimenti discreti, nascosti, camuffati che potrebbero però rimettere ogni tassello in discussione e scoperchiare il vaso di Pandora.

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L’unica consolazione per una progettualità così incline a rendere più alienante che familiare il caso Moro, anche perché gestito a più livelli o condizionato da soggetti “alieni” o “alienati”, veri o finti, è quella di essere in buona compagnia. In questo senso è persino possibile individuare nel lontano, già citato Identificazione di una donna una prefigurazione di Buongiorno, notte. Proviamo un po’ a seguire questa curiosa relazione intertestuale, alla ricerca di un protocollo fantasma tra Bellocchio e Antonioni. Non si tratta di certificare alcunché, sia ben chiaro. Vediamo solo dove conduce questa strada poco battuta. Il film di Antonioni parla di un regista, Niccolò Farra, il cui cognome suona come quello richiamato dal film muto Le avventure straordinarissime di Saturnino Farandola (1913) di Marcel Fabre, un frammento del quale concorre a irrobustire l’apparato metafilmico di Vincere. Per ragioni professionali e sentimentali il protagonista di Identificazione di una donna sta cercando una donna. Una donna reale per la sua vita privata, un’immagine femminile per il suo film. Una donna-immagine da decifrare, con cui compenetrarsi come regista di film e come uomo. Tra le sue fonti di ispirazione c’è l’attrice Louise Brooks, di cui conserva una fotografia in bella vista sulla sua bacheca di lavoro. Come è in bella vista anche un ritaglio di giornale dove sono ritratti due non-attori, perciò ancora più interessanti: Adriana Faranda (Farra/Faranda/Farandola) e Valerio Morucci arrestati il 29 maggio 1979: Ida: E tutte quelle foto cosa sono? Niccolò: Donne, come vedi. Ida: Per un film? Niccolò: Sto cercando una faccia. Ida: Come la vuoi? Niccolò: Saperlo… (Indicando la foto della Faranda ritagliata dal giornale con a fianco quella di Valerio Morucci arrestato insieme a lei) Bella, eh? Ida: Anche lui è un tipo. Ha due occhi molto vivi. Niccolò (dopo un breve silenzio in cui hanno continuato a osservare le foto): Sono due terroristi, due vite coerenti. Sì, perché in un contesto come il loro che ha a che fare con la virilità, il coraggio, e con la viltà anche, non può che nascere una relazione violenta. Pensa, quella ragazza ha abbandonato il marito per divergenze ideologiche. Se ne andò via lasciandogli

il figlio e si è messa a vivere con quello lì (indica Morucci). E col marito si ritrovano sui giornali. Ida: Anche il marito è in prigione? Niccolò: Sì. Ida: Che romanzo. Niccolò: Hanno tutto in comune, quei due. Ideologia, fanatismo, clandestinità, rischio… Per forza stavano bene.

Alla fine, dopo quella con l’aristocratica Mavi, termina anche la relazione di Niccolò con Ida, l’attrice di teatro. E il discorso torna sui due brigatisti: Ida: Ti ricordi quel giorno che mi hai mostrato le foto dei due terroristi? Mi hai detto: «Hanno tutto in comune, quei due. Ideologia, fanatismo, clandestinità, rischio… Per forza stanno bene insieme». (Dopo una pausa sofferta) Il mio ragazzo… se lo vedi, e più ancora se lo conosci… anche noi stiamo bene insieme.

Questa doppia istanza di «identificazione», cinematografica e intima, rivolta a una figura concreta/astratta dai contorni comunque femminili si intreccia con un altro bizzarro progetto sul paranormale, intitolato, guarda caso, «Voci dall’aldilà», che si avvale anche di un preciso «Elenco di persone che hanno comunicato con l’ignoto»: tutta gente cui Niccolò può telefonare tranquillamente qualora decidesse di andare avanti su questa strada. Ma il fallimento è doppio, perché si consuma tanto sul piano artistico quanto su quello affettivo e perché sono due le donne difficili da “identificare” e amare. Questo scacco creativo e personale porta anche Niccolò sul sentiero della fantascienza. In linea con i gusti della brigatista di cui ha conservato la foto apparsa sul giornale, cioè l’Adriana Faranda su cui anche Bellocchio ha pensato a un certo punto di fare un film. Nell’ultima scena di Identificazione di una donna vediamo Niccolò immaginare, visualizzare questo suo prossimo film di ripiego. La soluzione alla sua ansia di sapere, conoscere, capire sarà di necessità un film di fantascienza molto concettuale, immateriale, ascetico, indeterminato, raccontato fuori campo al nipote Lucio, mentre si vede un asteroide argenteo con i motori sul retro entrare in una zona cosmica verde. Un finale alla Antonioni: Voce Niccolò: È la storia di un’astronave che va verso il sole. Vicinissima al sole.

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Voce Lucio: Ma non si brucia? Voce Niccolò: Non si può mai dire, nella fantascienza, che cosa è verosimile e che cosa no. La mia astronave è un asteroide catturato nello spazio e trasformato in astronave. È fatto di un minerale rarissimo che resiste fino a un milione di gradi. Voce Lucio: E perché si avvicina al sole? Voce Niccolò: Per studiarlo. Il giorno in cui l’uomo riuscirà a capire com’è distribuita la materia all’interno del sole, e la sua dinamica, forse capirà com’è fatto l’intero universo… e la ragione di tante cose. Voce Lucio: E dopo?

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A seconda dei casi, i misteri possono riguardare la luna (Bertolucci, Fellini, Bellocchio) o il sole (Antonioni). Cercare «la ragione di tante cose» vuol dire indagare (con) la fantascienza. Proprio il genere (predi)letto di Adriana Faranda o di Mario Moretti. La curiosità che lega il regista “in cerca di ispirazione per un film da fare” Niccolò Farra alla vera Faranda non è tanto dissimile da quella che spinge lo sceneggiatore Enzo Passoscuro di Buongiorno, notte a scrutare, indagare il personaggio “in ombra” di Chiara, corrispondente alla altrettanto vera Anna Laura Braghetti desunta dall’autobiografia Il prigioniero. Tenendo ben presente che Chiara, come si comincia a intuire, trascende la sola Braghetti. In lei c’è qualcosa anche della Faranda, la quale, in questo modo, è “reintegrata” sullo schermo dopo il mancato film del 1995 che Bellocchio avrebbe voluto trarre dal quasi equivalente Nell’anno della tigre.

Una Gradiva tira l’altra In Identificazione di una donna troviamo molti ingredienti relativamente indispensabili per imbastire un film sul caso Moro sui generis: la coppia di brigatisti legati sentimentalmente, contrari all’uccisione del prigioniero, il mistero femminile, il fattore filmico, l’occultismo, la fantascienza... Gli stessi utilizzati per l’audace, ostico schema discorsivo di Buongiorno, notte. Anche quello che può essere considerato un alter ego dello stesso Bellocchio (Enzo Passoscuro), come il protagonista vicario di Antonioni (Niccolò Farra) al quale abbiamo voluto accostarlo, si direbbe completamente assorbito da un personaggio femminile che non riesce a decifrare, di cui indovina alcune cose, mentre altre probabilmente le sospetta. La sua ricerca in veste di per-

sonaggio dentro un film, Buongiorno, notte, coincide con quella di Bellocchio film dopo film dalla fine degli anni Settanta. Ma c’è di più. Il tentativo reiterato e ossessivo di «identificazione» di una figura mutevole di «donna» ha molto a che fare con la Gradiva di Wilhelm Jensen, riletta da Freud come «studio psichiatrico perfettamente esatto».78 All’immagine scolpita dell’istante senza tempo in cui si consuma l’azione lieve e lieta del mutare fa da contraltare l’immagine irriverente, provocatoriamente antistorica che ha tanto suggestionato anche Bertolucci: l’immagine liberata di Moro in strada, lontano dalla prigione, indifferente alla “cronaca” della sua “morte annunciata”. Così la riassume l’autore, di cui conviene qui recuperare una dichiarazione precedentemente trascritta solo in parte: Libero, alla fine, col suo passo leggero, quasi “saltellante”, mi ricorda ora il passo armonioso e leggero della Gradiva. Immagine femminile scolpita nella pietra, movimento immaginario. Immagine maschile impressionata nella pellicola, doppio movimento visibile e invisibile. E parafrasando la domanda finale di Massimo Fagioli […] su Salto nel vuoto […]: «Ma Anna chi è?» mi domando oggi anch’io, alla fine: Ma Moro chi è?79

Non è facile tenere il conto e stare dietro alle varie, consimili, cangianti “immagini femminili”, convertite all’occorrenza in “immagini maschili”, che accendono la fantasia di Bellocchio. Così come non è facile in Buongiorno, notte per lo sceneggiatore Passoscuro avvicinarsi più di tanto a Chiara, penetrarne l’indicibile segreto, fare i conti con i nodi irrisolti della sua personalità tormentata. Sono tante le Gradive di Bellocchio a prendere vita di volta in volta, ad acquistare consistenza filmica, a liberarsi dalla pietra come quella letteraria reinterpretata da Freud. Non si spiegherebbe diversamente la scelta in L’ora di religione di offrire una vistosa riproduzione del bassorilievo, ribattezzato con il nome femminile Gradiva, che ha innescato il delirio descritto nel celebre, omonimo racconto di Jensen. Questa immagine riconoscibilissima della Gradiva nell’appartamento del protagonista Ernesto Picciafuoco interpretato da Sergio Castellitto ha un seguito. Ernesto la digitalizza e la utilizza graficamente per abbattere sullo schermo del computer il più imponente monumento della Capitale e della nazione: il Vittoriano. Un gesto eversivo, ancorché poetico: un «attacco» frontale «al cuore» monumentale «dello Stato» neanche poi tanto fantasioso, visto che in L’ora di religione un architetto ospite di una clinica psichiatrica sostiene di aver progettato l’attentato al Vittoriano e che – come è noto – nella storia italiana contemporanea ha avuto un suo grave precedente nella prima delle due bombe fatte esplodere a Roma un’ora dopo la strage di Piazza Fontana del 12 dicem-

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bre 1969. Le 17.20 di quel terribile giorno di lutto nazionale in cui deflagra anche l’ordigno collocato a Roma davanti all’Altare della Patria sembrano sincronizzarsi con i pochi minuti immediatamente successivi alle 17.10 che il giovane Mussolini in Vincere concede a Dio per farsi fulminare. Ma soprattutto l’orario dell’esplosione presso il Vittoriano combacia perfettamente, e inequivocabilmente, con uno degli orari più ricorrenti fissati sui vari quadranti che ancora un personaggio interpretato da Castellitto in un film di Bellocchio, il Franco Elica di Il regista di matrimoni, resta a contemplare sbalordito: nella strana stanza del palazzo del principe di Gravina, infatti, ben cinque inquadrature soggettive sempre più strette mostrano un vecchio orologio con le lancette ferme esattamente alle 17.20. In L’ora di religione, spiega l’autore, anziché l’«aspetto dinamitardo, che a livello di visione finale non c’entrava niente, […] abbiamo aggiunto la Gradiva in movimento».80 Il Vittoriano, l’antiestetico monumento patriottico per eccellenza di una religione laica dello Stato, viene così sottoposto a un distruttivo, virtuale «gesto dell’artista». Che «può essere più rivoluzionario di quello terroristico».81 Un «gesto» catartico, estetico e politico, anche molto realistico, concretamente terroristico, storicamente localizzabile. Non per niente connotato al femminile, in quanto compiuto dalla Gradiva in perpetuo movimento. Una Gradiva tira l’altra. La catena di donne nuove, libere o liberate che attraversa la filmografia di Bellocchio dagli anni Ottanta è interminabile. Procede non per addizioni ma per moltiplicazioni. Come dimostra l’infelice Violetta della Traviata che intona il suo Sempre libera degg’io, moltiplicata in Addio del passato per il numero di volte e di interpreti femminili dell’infelice eroina verdiana. Una, tante Violette, come le tante Gradive che arricchiscono il campionario di donne pronte da un film all’altro, nello stesso film, nella stessa serie di scene o nella stessa scena o persino nella stessa inquadratura a succedersi ed equivalersi. Una sequenza femminile che converge su un modello di donna o forse su una donna assai reale in continuo divenire, che può darsi anche come opzione sia femminile che maschile di un «divenire-donna»82 testato nella sequenza corale di scene/inquadrature di personaggi femminili che si avvicendano e si sostituiscono al fianco del giudice alla fine di La condanna. O come nel finale del cecoviano Sorelle (2006), scomparso nella successiva versione estesa, Sorelle Mai. Infatti Sorelle e Sorelle Mai, destinati a diventare uno il work in progress dell’altro, sono identici fino a quando Giorgio parte e sua sorella Sara, rimasta sola, si unisce al coro delle donne che cantano Partire. A questo punto in Sorelle scatta l’avvicendamento di inquadrature di volti di diverse/analoghe donne desunte dalla filmografia di Bellocchio: Giulia in I pugni in tasca, Nina in Il gabbiano, Anna in Il sogno della farfalla, Annetta in La balia, Giulia in Diavolo in corpo. In Sorelle Mai tale rapida successione autoreferenziale di immagini femminili invece viene espunta e sopraggiunge direttamente

una scena successiva contrassegnata dalla didascalia «2006», in cui Giorgio sta guardando in televisione l’epilogo e i titoli di coda di La Balia. Il procedimento consente a Bellocchio di applicare, in anticipo sulla versione alternativa di Nel nome del padre del 2011, un esercizio di ripetizione differenziata di un testo filmico, sempre partendo da una premessa intertestuale. Premessa che si salda idealmente alla strategia intermediale di Buongiorno, notte, ma già sperimentata in Nel nome del padre prima maniera con le immagini veicolate dall’apparecchio televisivo dei funerali di Papa Pacelli (le stesse immagini che nel recente director’s cut vediamo invece a tutto schermo, liberate, non più contestualizzate o condizionate dal medium domestico). Seguendo questa linea si arriva così alle immagini di repertorio dei comizi missini, delle manifestazioni e degli scontri di piazza che precedono quelle di finzione in Sbatti il mostro in prima pagina (1972). Con un accentuarsi della pratica dell’autocitazione, accanto alle immagini delle trasmissioni televisive o di altra provenienza, in Gli occhi, la bocca si assiste alla proiezione in sala, peraltro giustificata dalla trama, di I pugni in tasca. La pratica intermediale diventa totalizzante in La religione della storia, in cui lo svolgimento delle tradizionali immagini d’archivio viene intercalato da brani tratti da I pugni in tasca, Nel nome del padre, Il gabbiano e Diavolo in corpo. Finché da Buongiorno, notte in poi il montaggio intermediale prende definitivamente il sopravvento. E questo intreccio di strati mediali contigui, variegati e coesistenti diventa sistematico, essenziale ai fini della comprensione globale del testo multiforme. Se in questo sistema del discorso tutto al femminile che Bellocchio istituisce prestiamo attenzione in particolare alla successione di auto-citazioni che chiude Sorelle, in cui si affinano le selezioni antologiche già compiute in La religione della storia, ci accorgiamo che il principio non è cronologico ma onomastico. I personaggi di Giulia, Nina, Anna, Annetta, Giulia formano una specie di chiasmo in cui c’è un nome, Giulia, all’inizio e alla fine, mentre un altro, Anna, occupa il centro, estendendosi simmetricamente alle due postazioni contigue. A destra e a sinistra di Anna troviamo infatti la variante Nina (che, al di là della sua origine ebraica, derivando infatti da Ninus, cioè “bella”, è un diminutivo di Anna) e il vezzeggiativo Annetta.

«Ma Anna, chi è?» Questa Nina di derivazione cecoviana è una “Anna” ante litteram che da Salto nel vuoto, cioè a partire dal personaggio su cui si interroga Fagioli («Ma Anna, chi è?») – interpretato dall’attrice e allora moglie del regista, Gisella Burinato – diventa una presenza onomastica ricorrente. La Nina di Il gabbiano insomma è l’unica “Anna” a comparire in un film di Bellocchio

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precedente al 1978 (iniziato nell’autunno del 1976 e terminato nella primavera dell’anno seguente). Una Nina, potenziale Anna, la cui comparsa coincide con l’inizio dell’analisi collettiva, alla quale l’autore partecipa con sua moglie:

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All’inizio del 1977, quando ancora ero in analisi individuale (con una crescente insofferenza al lettino, a cui per viltà restavo fedele), un amico mi parlò di certi seminari di analisi collettiva tenuti dal dottor Fagioli, nei quali si guariva. Non sapevo bene cosa volesse dire guarire. Se qualcuno me lo avesse chiesto così, a bruciapelo (poiché mi immaginavo spesso, e lo temevo, di trovarmi in questa situazione) non avrei saputo rispondere. Naturalmente, sbagliando avrei cercato di farlo, per giustificarmi di non essere ancora guarito. Andai con mia moglie a Villa Massimo (alla fine del 1976 avevo accompagnato mia moglie a un altro seminario tenuto dal dottor Calabresi, con un ragionamento classico: guarisca e sarà in grado di lasciarmi dal momento che non ho il coraggio di lasciarla io. Avevo anche immaginato che potesse sostituirmi dallo psicanalista, subentrare al mio posto, col fine di liberarmi contemporaneamente sia della moglie che dell’analista). Ho segnato sull’agenda di martedì 15 febbraio 1977: 11.30 via di Villa Massimo, Istituto di Psichiatria, dottor Fagioli. […] A settembre i seminari erano diventati due e mia moglie passò all’altro. Prima della fine dell’anno (1977) liquidai anche l’analisi individuale (fingendo, complice l’analista, che fosse arrivata alla sua conclusione naturale. Avevo sempre paura di fronte all’istituzione di ammettere il fallimento). L’analisi collettiva mi prendeva, anche se mi sforzavo di trovarle dei difetti, di svalutarla, paragonandola a ricerche o imprese che erano esistite prima di lei… Per esempio avevo molti dubbi sulla teoria, sui libri, non approvavo che Fagioli desse dell’imbecille a Freud ogni cinque minuti, ero molto conformista verso i grandi personaggi istituzionali e non capivo che importanza avesse “insultare” un morto (come se fosse un problema di gusto). Ma erano tutti ragionamenti fuori di sbarramento, perché poi ogni martedì ero sempre lì a fare la fila. […] C’erano dei momenti in cui la ribellione era così spontanea così giusta che mancava completamente di violenza, travolgeva, non c’era niente che la fermasse e non si aveva più paura di perdere la propria normalità, la sicurezza della propria identità sociale, a quel punto la fantasia incominciava a dare realtà ai sogni e per brevissimi momenti si aveva l’impressione che potesse non finire mai… Ma il Sessantotto, è storia, ebbe paura dei propri sogni, di essere andato troppo in là e si mise nelle mani del marxismo-leninismo che non dava importanza ai sogni perché non erano la realtà.

I seminari dicevano proprio il contrario, che i sogni sono più reali della realtà, vanno più avanti, perché sono più liberi, non devono rispettare nessuna legge, nessuna norma, nessuna convenzione, sono maleducati, dicono la verità. Ma bisogna saperli interpretare. Ai seminari c’era di tutto: studenti, professori, professoresse, maestri, psichiatri, mamme, aviatori, pazzi manifesti, pittori, muratori, disoccupati… Molti di loro erano dei reduci del Sessantotto o di sconfitte politiche più recenti. [….] Ma ai seminari si potevano incontrare anche personaggi noti (in quei primi anni i giornali ne parlavano spesso): attori, registi, scrittori, giornalisti, anche politici, tutta gente con un certo potere. In fondo io appartenevo più a questa categoria che all’altra. Di solito venivano una o due volte e poi non si facevano più vedere. Io ritornavo.83

In questo lungo brano che abbiamo voluto riportare l’intreccio di pubblico e privato – e aggiungeremmo psicanalitico, cinematografico e politico – offre una serie di tracce preziose che meritano di essere vagliate e recepite. Troviamo ad esempio l’analisi individuale, tradizionale, freudiana vista nella sua dimensione istituzionale, e perciò associata al matrimonio, inteso, al di là della sfera personale, come vincolo ugualmente istituzionale da cui sganciarsi. L’analisi collettiva, ancorché destinata in un secondo momento a essere anch’essa superata, diviene lo strumento e lo spazio idoneo in cui elaborare questo bisogno di smettere di essere «molto conformista verso i grandi personaggi istituzionali», quindi anche verso il baluardo storico-ideologico del Sessantotto che «ebbe paura dei propri sogni, di essere andato troppo in là e si mise nelle mani del marxismo-leninismo che non dava importanza ai sogni perché non erano la realtà». Invece, come dimostra inequivocabilmente Buongiorno, notte a proposito del caso Moro, i sogni assumono a partire dalla fine degli anni Settanta, in concomitanza con l’esperienza determinante dell’analisi collettiva, contorni «più reali della realtà, vanno più avanti, perché sono più liberi, non devono rispettare nessuna legge, nessuna norma, nessuna convenzione, sono maleducati, dicono la verità. Ma bisogna saperli interpretare». Così come bisogna “interpretare” anche l’ampia varietà di tipologie psicologiche e professionali che Bellocchio ricorda ai seminari di Fagioli: «C’era di tutto», dice. Dunque non solo «attori, registi, scrittori, giornalisti, anche politici, tutta gente con un certo potere», di per sé molto importanti per il discorso che stiamo portando avanti alla luce del caso Moro, ma anche «studenti, professori, professoresse, maestri, psichiatri, mamme, aviatori, pazzi manifesti, pittori, muratori, disoccupati». È quantomeno curioso notare come in questo «tutto» egli abbia voluto indicare tra i tanti esempi possibili di eterogeneità mestieri molto particolari come «aviatori» e «muratori». Non foss’altro perché viene immediatamente da pensare a quegli «aviatori» molto particolari

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che danno tragicamente il via al caso Moro, ossia i terroristi che il 16 marzo 1978 in divisa da avieri aprono il fuoco in via Fani contro le auto in cui viaggiano il presidente democristiano e la sua scorta. Quanto ai «muratori», non occorre una grande immaginazione per mettere da parte gli edili propriamente detti e sospettare che il riferimento riguardi piuttosto i «liberi muratori», cioè letteralmente i membri della massoneria.84 Una “interpretazione”, anche quest’ultima, che oltre ad essere stata suggerita tra le righe, trova conferma nella passione per le consorterie rappresentate sia in L’ora di religione che in Buongiorno, notte, in cui lo stesso Bellocchio si mescola scegliendo di ritagliarsi piccoli ruoli come attore. L’importanza assunta dai seminari è perciò fondamentale, anche sul versante onomastico richiamato giustamente da Fagioli. Versante che ci aiuta infatti a comprendere meglio come funzionano i nomi/volti su cui termina Sorelle: Giulia e Anna (quest’ultimo nome assegnato anche alla giovane professoressa di latino e greco delle scene nuove di Sorelle Mai) ricorrono spesso nella filmografia bellocchiana. Rispondono al nome di Giulia le protagoniste di due opere ugualmente epifaniche come I pugni in tasca e Diavolo in corpo, nonché la compagna del brigatista Ernesto di Buongiorno, notte. Un altro Ernesto, dopo l’Ernesto Picciafuoco di L’ora di religione. Ma a chi fa riferimento il secondo Ernesto predisposto da Bellocchio in Buongiorno, notte per confessare a Chiara: «Mi manca Giulia. Vorrei fare quelle cose che si fanno normalmente. Invece non posso neanche chiamarla al telefono»? Come è noto, il “quarto uomo” del covo-prigione, rimasto ignoto fino al 20 ottobre 1993, quando a fare il suo nome è la Faranda85 e il giorno successivo Morucci, è Germano Maccari, cioè l’ingegner Altobelli con cui la Braghetti aveva affittato l’appartamento di via Montalcini. L’Ernesto del film è dunque Maccari, che morirà d’infarto il 25 agosto 2001 a quarantotto anni nel carcere di Rebibbia dove stava scontando la pena. Bellocchio fa del “suo” Ernesto un “combattente” armato talmente innamorato da allontanarsi dal covo senza autorizzazione. Sfida il capo Mariano pur di poter incontrare la sua lontana Giulia. Per delineare il personaggio l’autore si attiene abbastanza alle indicazioni della Braghetti: «Germano non sopportava più di stare chiuso, voleva uscire, vedere la sua ragazza, Adelaide».86 Cambia però anche a lui il nome. Lo chiama come il protagonista di L’ora di religione, Ernesto, che guarda caso aveva un fratello terrorista pentito, Ettore. Ricapitoliamo: Germano Maccari diventa Ernesto e la sua fidanzata Adelaide diventa Giulia. Questa Giulia «manca» molto ad Ernesto. Ma se manca molto anche al film Buongiorno, notte (salvo un’apparizione in un’inquadratura così fugace da essere stata rallentata in post-produzione) è perché l’abbiamo già conosciuta. Dove? In Diavolo in corpo, nell’analoga, omonima e modulare veste di fidanzata (ir)ridente di un brigatista dissociato. L’incontenibile, incontrollabile, trasgressiva protagonista di Diavolo in corpo non poteva

avere nome più appropriato di quella pressoché assente, ma equivalente di Buongiorno, notte. A dimostrazione di come il sistema di vasi comunicanti, corrispondenze e reciproche compensazioni, storicamente rilevante (non soltanto per ragioni onomastiche) istituito da Buongiorno, notte con Diavolo in corpo, attraverso L’ora di religione, funzioni benissimo e non faccia una piega. Primo nome in codice: Giulia. Passiamo al secondo: Anna. La prima, lo abbiamo detto, è stata la Nina di Il gabbiano, l’appassionata attrice giovane, “irriducibile” a suo modo a ogni principio di realtà. Ma la vera prima Anna ufficiale è quella ben più semplice e pragmatica di Salto nel vuoto, non per niente affidata a Gisella Burinato, madre anche nel film del piccolo Piergiorgio Bellocchio, il quale a sua volta con evidenti accenti mimetici e autobiografici è divenuto nel corso degli anni il principale attore di riferimento di molti film e regie teatrali del padre Marco (pensiamo a Zio Vanja).87 Chi altri se non lui avrebbe potuto interpretare/essere il giovane apprendista psichiatra rivoluzionario di La balia che si innamora della “pazza” rivoluzionaria Maddalena (altro nome femminile molto ricorrente e sibillino, su cui faremo tra breve il punto), il protagonista aspirante attore di Sorelle/Sorelle Mai, l’Ernesto/Altobelli/ Maccari di Buongiorno, notte, il dottor Pallido (ancora un medico, oltretutto pressoché omonimo dei fratelli Pallidissimi di Nel nome del padre) che a tutti i costi vuole salvare la vita alla tossicodipendente suicida Rossa di Bella addormentata? Insomma, basta inseguire un nome nella filmografia di Bellocchio e subito vien fuori una catena onomastica che si intreccia a un’altra e così via. È bastato provare a ricostruire l’ordine cronologico delle varie Anna e la rete di riferimenti si è infittita. Anche stavolta, come da una Gradiva all’altra e da una Giulia all’altra (o come vedremo da una Maddalena all’altra) ecco che si va da un’Anna all’altra. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Dopo la Nina di Il gabbiano e la Anna di Salto nel vuoto troviamo l’Annetta di La balia (Annicchia nella novella pirandelliana), quindi la vera Anna Laura Braghetti che in Buongiorno, notte diventa Chiara, fino ad arrivare alla professoressa Anna che in Sorelle Mai non vuole assolutamente far bocciare uno studente. Come? Dopo un’iniziale distrazione, Anna ci ha ripensato. Una bocciatura decisa a maggioranza dai docenti riuniti in consiglio ai suoi occhi appare una vera e propria inesorabile, spietata “condanna”, prontamente nel film amplificata da una cupa visione desunta dal teatro greco classico: per l’esattezza da Le Eumenidi della trilogia di Eschilo. Anna si figura infatti il processo delle Erinni a Oreste, celebrato nel tribunale dell’Areopago. È il voto benevolo di Atena, come quello di Anna nel collegio docenti, a salvare la vita a Oreste, reo di aver ucciso sua madre Clitennestra (nella precedente tragedia Le Coefore dell’Orestiade). Un richiamo al matricidio simbolico di I pugni in tasca e L’ora di religione? Sicuramente, ma anche il

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riproporsi di una situazione precisa: la potenziale vittima di un’esecuzione capitale da tentare di salvare in extremis. Occorre chiedersi anche stavolta chi ci ricorda quest’anomalo innocente per il quale un’altra Anna reclama grazia, giustizia, clemenza?

Ma Chiara, chi è?

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È proprio vero che da un certo momento in poi in Bellocchio matura e prende forma, principalmente femminile (come il «sentimento che ha forme femminili» del protagonista-regista di Identificazione di una donna), un bisogno inedito, dirompente, eretico di esplorare, sapere, rendersi conto. La molla è la volontà di capire un io-donna assoluto e magmatico. Individuarlo, come una Gradiva libera(ta), con il volto ora di una o più donne dallo stesso nome (Giulia, Anna, Maddalena), ora con l’«immagine maschile [di Moro] impressionata nella pellicola». Poco importa se in Buongiorno, notte la protagonista non si chiama Anna ma Chiara. Anzi, è proprio questo nome di copertura, che trascende quello della sola Anna Laura Braghetti, a garantire la dinamica combinazione di figure femminili e di aspetti non marginali del caso Moro. Chiara è o vuol dire tante cose. Innanzitutto si comporta nei confronti del prigioniero che ha in custodia come una figlia pentita. Non dimentichiamo che la lettura della lettera di Moro del 5 maggio nel film si interrompe proprio prima che venga pronunciato il nome della figlia Anna (un escamotage che in modo elusivo torna a far pesare nel film questo nome). Il nome Chiara naturalmente è lo stesso della santa cui è intitolata la chiesa romana in Piazza dei Giochi Delfici, dove Moro ogni mattina alle 9 si recava, tanto che inizialmente i brigatisti avevano progettato di rapirlo proprio lì.88 Chiara allude anche alla convinzione espressa dal prigioniero alla fine della lettera alla Democrazia Cristiana, scritta il 27 aprile: «Le cose saranno chiare, saranno chiare presto».89 Inoltre l’infelice e dissidente coscienza femminile di Chiara si trasforma in un perfetto e plurivalente emblema dai contorni molto letterari, cosa che spiegherebbe come mai nel film il suo mestiere sia quello di bibliotecaria, mentre la Braghetti nel libro si (rap)presenta come «contabile e segretaria».90 Questa decisione di farne una funzionaria di biblioteca, per di più ministeriale, si riallaccia all’immagine del covo-prigione in cui ci sono libri dappertutto, alludendo con ogni probabilità anche alla vastissima letteratura sul caso Moro, compresa la collezione di fantascienza di Moretti e della Faranda ritrovata in via Gradoli. Del resto come non fare svolgere un’attività del genere alla Chiara/Braghetti, dato l’eccesso di “letterarietà” del libro, in netto conflitto con l’attendibilità storica? Chiara, nella misura relativa in cui corrisponde alla Braghetti descritta in Il prigioniero, resta un personaggio cartaceo. Concepibile in un libro auto-assolutorio, che

Bellocchio adotta come base narrativa principale, rivedendolo, integrandolo e correggendolo alla luce di quelli di Flamigni. Il prigioniero non è un libro qualsiasi, ma una delle tante, tipiche autobiografie di ex brigatisti, quasi sempre a tesi, costruite come difese d’ufficio dissimulate, mimetizzate solitamente da ricordi precedenti o successivi abilmente dislocati nel tempo e nello spazio, che si alternano al “racconto” personale, su misura, troppo lineare del caso Moro di cui il filo mai si interrompe. Un manuale di autodifesa legale da maneggiare con estrema cautela, scritto da una donna da cui Bellocchio sullo schermo prende le distanze, diversificandola e reinventandola come personaggio multiplo. Un libro che ricostruisce la cronistoria del sequestro Moro a fasi alterne, dilazionandola, collocandola solo nei capitoli dispari, e che è quindi un congegno narrativo a orologeria. Di quelli che compaiono in occasione di anniversari o di precise svolte nelle indagini e nei processi in corso. Dove si insiste con apparente casualità nel rimarcare i vari esiti probatori al fine di neutralizzare deduzioni non consone all’impianto esemplificativo scelto e organizzato. Donde la gran quantità di spiegazioni riduttive, però minuziose, non richieste, a schema fisso, che non si fanno attendere: Per come erano andate le cose quella mattina [in via Fani] dovevamo rendere merito più alla fortuna che alla nostra preparazione meticolosa, lo capivamo tutti. Era un caso, infatti, che si fosse riusciti la prima volta che si era provato. Non era sempre così. […] Alla lettera per Cossiga [Moro] lavorò a lungo, ponderando ogni parola, cancellando e riscrivendo, e strappammo via via le minute. La leggemmo e la rileggemmo, per controllare che non contenesse informazioni in codice. Probabilmente Mario [Moretti] ne discusse con lui il contenuto, ma una volta che fu pronta non mi risulta che gli sia stato chiesto di cambiarla, neppure in parte. È sua. […]. Con una frase rimasta celebre il presidente comunicò a Cossiga di trovarsi “sotto un dominio pieno e incontrollato”. Questo venne interpretato dai giornali e dagli inquirenti come un cripto messaggio a proposito dell’ubicazione della prigione. Ma il significato era ben altro, e chiaro come il sole [corsivo nostro]: dietro le Brigate rosse non c’erano potenze nazionali o internazionali che potessero influire sulla situazione, o aprire canali coperti di comunicazione e di trattativa. La valutazione di tutti questi elementi spiega perché tenere segreta quella lettera fosse privo di senso, per le Brigate Rosse. […] Alberto Franceschini, nella sua autobiografia, scritta quando non era ancora arrivato al punto di sospettare i suoi ex compagni di essere spie o giù di lì, dice chiaramente che dei compagni di Roma, per quanto simpatici, non si fidò mai. […]

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Ho sempre attribuito quelli che vengono chiamati misteri a semplici inefficienze di un sistema non ancora attrezzato ad affrontare la guerriglia metropolitana. […] Si affacciava sulla scena mediatica un personaggio inesistente che perfino i giudici furono indotti a cercare, quello del “Grande vecchio” delle Brigate rosse, fantomatico intellettuale alla testa di un esercito di rozzi e docili bestioni, incapaci di fare altro che uccidere, uccidere, uccidere. Ma il “Grande vecchio” non c’è mai stato. […] Si è detto che fosse l’esecutivo brigatista a decidere se far recapitare o meno le lettere di Moro, ma non è vero. […] I rapporti tra Mario [Moretti], [Renato] Curcio e [Alberto] Franceschini si erano già fatti difficili, ma le ragioni del loro dissenso e del loro rancore affondavano e affondano ancora oggi le radici in vicende lontane nel tempo, parzialmente incomprensibili persino a coloro che li conoscono da sempre.91

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Nel brano seguente l’ex affittuaria di via Montalcini, intenzionata a essere “chiara” su se stessa e su tutto, parla anche del memoriale,92 con valutazioni non dissimili da quelle di chi fu oggetto del «duro giudizio» degli scritti di Moro prigioniero: Si stabilì di continuare a registrare, ma che non avremmo conservato le bobine: era troppo pericoloso. […] I nastri, dunque, furono bruciati. Chi ancora li cerca si dia pace. A quel tempo scorsi distrattamente i fogli scritti a mano dall’ostaggio […]. Oggi, leggendoli con attenzione, trovo conferma di un’opinione che mi feci allora, e cioè che Moro stese il testo che va sotto il nome di “memoriale” anche per sé […]. Il memoriale è dunque anche un diario emotivo, che in qualche modo rispecchia le fasi che Moro attraversò durante i 55 giorni […]. Allora non comprendemmo che Moro alludesse a Gladio nelle pagine dedicate ai rapporti con gli Stati Uniti e con la Nato, e ritengo che non fosse possibile né a noi né a nessuno che già non sapesse. Quanto agli scandali o al finanziamento occulto del suo partito, o al duro giudizio su Andreotti che Moro disprezzava, tutto questo non rappresentava per noi novità alcuna, erano informazioni che costituivano addirittura senso comune, cultura popolare. Il memoriale sarebbe stato certamente pubblicato, come avevamo garantito nei comunicati, se non fosse caduta, nell’autunno del ‘78, la base di via Montenevoso, a Milano, in cui era custodito da Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Nadia Mantovani. Non pensavamo proprio di avere di avere in mano materiale di grande interesse. […] Solo chi non ha la minima idea di che cosa sia un’organizzazione clandestina può ancora domandarsi perché

mai non ci affrettammo a pubblicare quel manoscritto che ci sembrava profondamente deludente. A proposito dei due ritrovamenti di via Montenevoso, a undici anni uno dall’altro, sui quali sono state fatte dalla stampa e anche da noi molte congetture, Franco Bonisoli mi ha detto di essersi formato la convinzione che non ci sia nulla di misterioso. […] A suo parere quello che c’era è stato trovato, e pubblicato. Non gli sembra che manchi nulla, anche se, a sua volta, ammette di aver letto quegli scritti piuttosto sommariamente.93

Anche da questi passaggi è possibile comprendere la difficoltà di Bellocchio nel gestire la trasposizione del testo della Braghetti. Era infatti forte il rischio di restare “prigioniero” a sua volta di questa lettura/interpretazione ordinata e a senso unico del caso Moro, dove c’è una risposta per tutto. Anche per la strana circostanza di non aver reso noto da parte dei brigatisti il contenuto degli interrogatori o il memoriale del prigioniero condannato a morte: Quanto ai suoi risultati, a proposito dei quali si fecero molte congetture e che invece noi sapevamo inferiori alle aspettative, per il momento ce la cavammo con una domanda retorica: “Quali misteri ci possono essere nel regime DC da De Gasperi a Moro che i proletari non abbiano già conosciuto e pagato con il loro sangue?”. Ci impegnavamo a rendere noto tutto in un secondo tempo, “attraverso i mezzi di divulgazione clandestina delle organizzazioni combattenti”.94

Né sorprende che in Buongiorno, notte manchi qualsiasi accenno diretto alla plateale scoperta del covo di via Gradoli, che invece la Braghetti non si lascia sfuggire, come non dimentica la seduta spiritica che l’ha preparata o sventata, a seconda dei punti di vista: Non potevamo certo immaginare che la scoperta dell’Appartamento di via Gradoli sarebbe stata ricordata come uno dei “misteri” del caso Moro, anzi il “mistero dei misteri”. [….] È stupido chiedersi perché non venne sfondata la porta […]. Infine, è certo che il professor Prodi si trovò ad essere destinatario di una soffiata, che lui attribuì allo spettro di Giorgio La Pira manifestatosi nel corso di una seduta spiritica. Lo spettro indicava il nome “Gradoli” come possibile luogo di detenzione di Aldo Moro. La polizia perquisì il paesino di Gradoli, in provincia di Viterbo, e non la strada di Roma che portava quel nome. [….] Questo, come è ovvio, sembra strano anche a me. Ma non è certo alle Brigate rosse che bisogna chiedere una spiegazione.95

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Si può essere legittimamente scettici, anche blasé su molti interrogativi della vicenda. Ciò non vuol dire automaticamente condividere l’impostazione troppo schematica e revisionista della brigatista scrittrice di se stessa. Perciò l’autore di Buongiorno, notte taglia le numerose circostanze su cui l’autrice fornisce spiegazioni su spiegazioni. La stessa dimensione “privata” del covo, mutuata dal libro della Braghetti, simile a quello precedentemente accantonato della Faranda, funge, alla lettera, anche da participio passato del verbo “privare”. Il “privato” della Braghetti, o della Faranda, non fa differenza, è il frutto di una verità “pubblica” che viene sistematicamente “privata” nel momento in cui la si (ri)costruisce in chiave domestica, lirica, affettiva. Le trappole dell’autobiografia “spontanea” Bellocchio le conosce, le pratica dai tempi di I pugni in tasca. Tutto il suo cinema ruota attorno a un forte nucleo autobiografico, dove tuttavia la soggettività non costituisce affatto uno strumento per nascondere e rifuggire il presente. Lo spazio interiore, puntellato di immagini altrettanto interiori, funziona da cassa di risonanza di fatti e questioni di rilevanza “pubblica”. I suoi film sono (il frutto di) analisi collettive, specialmente da quando anche sul piano strettamente terapeutico egli ha rinunciato definitivamente all’analisi individuale. La restrizione o costipazione del campo visivo al perimetro prevalente della prigione di Moro in Buongiorno, notte costituisce una strategia di “dissimulazione onesta” utile a smontare l’impianto discorsivo brigatista, a decostruirne le tesi minimaliste, con puntuali innesti esterni, visivi, verbali e sonori. Come l’immagine antistorica di Moro vivo e libero, che conclude un percorso fitto di segnali presi in prestito da ogni testo collaterale, supplementare, contiguo. Tra cui l’altra canzone dei Pink Floyd adoperata per commentare le scene di repertorio finali dei funerali di Moro. Ci riferiamo alla prima delle due consecutive Shine On You Crazy Diamond contenute nell’album Wish You Were Here. Anche in questo caso l’autore di Buongiorno, notte adopera il solo segmento musicale, tralasciando il testo della canzone. Che però, data la sua notorietà, come già accaduto con The Great Gig in the Sky, risalta di più e meglio fuori testo: Remember when you were young You shone like the sun. Shine on you crazy diamond. Now there’s a look in your eyes Like black holes in the sky. Shine on you crazy diamond You were caught on the cross fire of childhood and stardom, Blown on the steel breeze. Come on you target for far away laughter Come on you stranger, you legend, you martyr, and shine!  You reached for the secret too soon.

You cried for the Moon.  Shine on you crazy diamond. Threatened by shadows at night, And exposed in the light. Shine on you crazy diamond. Well you wore out your welcome with random precision, Rode on the steel breeze. Come on you raver, you seer of visions, Come on you painter, You piper, you prisoner, and shine! [Ricorda quand’eri giovane Splendevi come il sole Splendi pazzo diamante Adesso c’è uno sguardo nei tuoi occhi Come buchi neri nel cielo Splendi pazzo diamante Sei stato preso nel fuoco incrociato di infanzia e celebrità Soffiato nella brezza d’acciaio Vieni, bersaglio di una lontana risata Vieni, sconosciuto, leggenda, martire e splendi! Hai cercato di afferrare il segreto troppo presto. Avevi un bisogno disperato della luna. Splendi pazzo diamante Minacciato dalle ombre di notte, Ed esposto alla luce Splendi pazzo diamante.  Hai consumato bene il tuo benvenuto con precisione casuale, Portato dalla brezza d’acciaio. Vieni delirante profeta di visioni, Vieni pittore Pifferaio, prigioniero, e splendi!]

Non serve neanche uno sforzo interpretativo eccezionale per constatare l’attinenza di questi ulteriori versi dei Pink Floyd sapientemente dismessi, evocati, elusi da Buongiorno, notte con la condizione di un Moro «martire», «profeta di visioni», «prigioniero» e con un «bisogno disperato della luna». Bellocchio, così facendo, asseconda responsabilmente fin dove gli conviene il resoconto minuzioso e letterariamente abbastanza fuorviante della Braghetti. Può dunque permettersi un “privato” scenico/filmico che gli risparmi il prosaico, fragile dovere dei tempi di mostrare a ogni costo i principali luoghi comuni spiegazionisti e dietrologici, più o meno di “pub-

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blico” dominio, dell’intricata vicenda ancora poco “chiara” (nonostante alla Braghetti del caso Moro ogni passaggio risulti «chiaro come il sole»). Come non chiedersi a questo punto, parafrasando la domanda posta da Fagioli sulla Anna di Salto nel vuoto, quindi quella di Bellocchio su Moro in Buongiorno, notte:96 ma Chiara, chi è? Di sicuro, non la sola, pericolosa ex inquilina di via Montalcini che il 12 febbraio del 1980, prima dell’arresto, partecipa all’omicidio del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Vittorio Bachelet. La Chiara immaginata da Bellocchio è altresì un personaggio a più facce, immerso in più dimensioni, che ad esempio assume su di sé anche il dissenso della Faranda, la quale a differenza della Braghetti si era dissociata dalla lotta armata beneficiando immediatamente di apposite misure legislative. Quelle sottolineate durante il processo in Diavolo in corpo: le «consistentissime riduzioni di pena riservate loro dalle legge del ‘79 e la L. 304 dell’‘82». La Chiara di Buongiorno, notte eredita idealmente dalla Faranda, appassionata di fantascienza come Moretti e custode di una piccola “biblioteca” di romanzi di questo genere (genere che diventa paradigmatico anche di bizzarre modalità operative dello Stato), anche la professione di bibliotecaria, per l’appunto ministeriale. In Chiara confluiscono poi non una, ma ben tre figure di brigatiste scrittrici-memorialiste: la Braghetti, la Faranda e la Balzerani, che nel capitolo Colpo di stato del suo Compagna Luna cita in esergo una poesia di Emily Dickinson: The Missing All, prevented Me From missing minor Things. If nothing larger than a World’s Departure from a Hinge Or Sun’s extinction, be observe ‘Twas not so large that I Could lift my Forehead from my work For Curiosity. [La mancanza del tutto mi impedì Di sentire la mancanza delle cose minori. Fosse stato lo scardinarsi di un mondo O l’estinguersi del sole, Nulla era così importante da farmi alzare il capo, Dal lavoro, Per curiosità.]97

Non è irrilevante far notare che la Balzerani scelga di dare alla singola poesia il titolo dell’intera raccolta italiana da cui l’ha desunta: Silenzi. Ad ogni modo è un fatto che anche Bellocchio intitoli il suo film, Buongiorno,

notte, come il primo verso «Good Morning – Midnight» (letteralmente «Buongiorno – Mezzanotte») di un’altra poesia della Dickinson: Good Morning – Midnight – I’m coming Home – Day – got tired of Me – How could I – of Him? Sunshine was a sweet place – I liked to stay – But Morn – didn’t want me – now – So – Goodnight – Day! I can look – can’t I – When the East is Red? The Hills – have a way – then – That puts the Heart – abroad – You – are not so fair – Midnight – I chose – Day – But – please take a little Girl – He turned away! [Buongiorno, mezzanotte. Torno a casa. Il giorno si è stancato di me: 
come potevo io – di lui? Era bella la luce del sole. Stavo bene sotto i suoi raggi. Ma il mattino non mi ha voluta più, E così, buonanotte, giorno! Posso guardare, vero, L’oriente che si tinge di rosso? Le colline hanno dei modi allora Che dilatano il cuore. Tu non sei così bella, mezzanotte. Io ho scelto il giorno. Ma, ti prego, prendi una bambina Che lui ha mandato via.]98

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Tuttavia con Buongiorno, notte Bellocchio preferisce una traduzione non letterale, mutuata esclusivamente dal titolo (come nel caso della Balzerani) di un’intera, diversa raccolta italiana di liriche dickinsoniane: semplicemente Buongiorno notte, senza la virgola tra le due parole. Tradurre insomma non vuol dire riprodurre pedissequamente. Al contrario può servire a marcare una sottile quanto sostanziale differenza. Un’autonomia d’azione rispetto al testo di partenza, che diventa così un perfetto, inconfessato pretesto. Non c’è da meravigliarsi se questo metodo relativamente “riproduttivo” venga due volte dichiarato proprio in Nel nome del padre. Prima come infantile stratagemma scolastico: Bestias: Quel rompiballe continua a ripetere che devo esprimermi con parole mie. Ma cosa devo fare? Inventarle. Camma: Ma è facile. Dici le stesse cose che hai lette nel libro. Ma con altre parole. Tu invece le impari a memoria, ripeti a pappagallo… Per esempio, invece di dire frumento, tu puoi dire grano. 156

Bestias: Ah. Camma: Se nel libro c’è scritto mais, dici granoturco. Bestias: Invece di ortaggi, foraggi. Camma: Invece di dire agrumi, dici aranci, mandarini… Bestias: Bergamotti. Può andare bergamotti? Camma: Anche bergamotti, perché no? Bestias: E i legumi? Camma: Te lo spiego cosa sono i legumi: fagioli, piselli, ceci…99

Poi come condizione esistenziale permanente, da cui Franc – inutilmente edotto dall’inerte e mortificato Matematicus – non riesce a sua volta a liberarsi, così come non riesce a farlo dall’ingerenza materna: «Citazioni, citazioni, nient’altro. La mia vita è tutta una citazione! Padre, mi dispiace, oggi la cura non ha funzionato!».

Recitare a soggetto Buongiorno, notte, sin dal titolo significativo e problematico, porta a compimento un contorto meccanismo di virtuose ripetizioni differenziate.100 Meccanismo che dei brigatisti riflette, scoperchiandola, la collaudata «tecnica di non rivelare alcuni aspetti del sequestro e poi di aderire subito alla tesi degli investigatori, cercando di chiudere le polemiche».101 Parallelamente alle «tesi semplicistiche»102 di costoro, Bellocchio, in quanto abituato ad accettare onde poter poi sciogliere dipendenze o sodalizi necessari ma ingombranti, mai però definitivi, ha le sue buone ragioni per ricorrere spesso e volentieri a opere letterarie, specialmente teatrali,103 ma anche cinematografiche anteriori. Cioè giocando sul presupposto che esse siano o paiano immodificabili, consolidate. Una prassi ostentata sin dalla scena dei titoli di testa. Può accadere ad esempio che un cartello riporti simultaneamente il titolo del film e in basso l’inseparabile nome dell’autore teatrale («IL GABBIANO – di – ANTON CECHOV»), oppure che al titolo faccia seguito a stretto giro, con lo stesso carattere e nel medesimo cartello, il nome ugualmente inseparabile dell’autore teatrale («IL PRINCIPE – DI – HOMBURG – di HEINRICH VON KLEIST»). Uno solo in Il gabbiano («Regia di – MARCO BELLOCCHIO» alla fine). Due in Il principe di Homburg («un film di – MARCO BELLOCCHIO» subito dopo il titolo, e «Sceneggiatura e regia – MARCO BELLOCCHIO» alla fine).104 Abbiamo voluto così sottolineare come l’indissolubilità del titolo e del drammaturgo indichino una volontà precisa di considerare il testo originale un oggetto a sé stante, immobile e lontano, separato dall’intervento del regista del film. Un procedimento che non segue peraltro uno schema fisso. Come si può notare, in Il gabbiano Bellocchio figura come regista, mentre nel successivo Il principe di Homburg sia come autore assoluto del film che come unico sceneggiatore e regista. Nell’analisi di un film d’autore molto consapevole e padrone del suo progetto testuale la questione dei titoli di testa non è di poco conto.105 Specialmente dal 1977 la solidità inoppugnabile di un «classico», della letteratura (Diavolo in corpo, La balia), del teatro (Timone d’Atene, Il gabbiano, Enrico IV, Il sogno della farfalla, L’uomo dal fiore in bocca, Il principe di Homburg, Macbeth, Sorelle/Sorelle Mai, Rigoletto, Rigoletto a Mantova, Bella addormentata, Zio Vanja, Pagliacci) o del cinema (Diavolo in corpo, Buongiorno, notte, Il regista di matrimoni, Vincere, Bella addormentata), fornisce a Bellocchio una base insospettabile per poter mimetizzare le proprie autonome scelte discorsive, un paravento strategico dietro il quale sviluppare coincidenze, scatenare suggestioni, ipotesi, provocazioni di ogni tipo. Un «classico» necessita infatti di un processo successivo, rigeneratore di differenziato. Deve poter essere infinitamente «leggibile», interpretabile all’infinito:

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Rispetto al testo scrivibile si definisce così il suo contro-valore, il suo valore negativo, reattivo: ciò che può essere letto, ma non scritto: il leggibile. Noi chiamiamo classico ogni testo leggibile. […] Ma i testi leggibili? Sono dei prodotti (e non delle produzioni), formano una massa enorme della nostra letteratura. Come differenziare di nuovo questa massa? Occorre un’operazione seconda, conseguente alla valutazione che ha una prima volta suddiviso i testi, più fine di questa, fondata sull’apprezzamento di una certa quantità, del più o meno che ogni testo può mobilitare. Questa nuova operazione è l’interpretazione (nel senso che Nietzsche dava a questa parola). Interpretare un testo non è dargli un senso (più o meno fondato, più o meno libero), è invece valutare di quale pluralità sia fatto. Cominciamo col porre l’immagine di una pluralità trionfante, che nessuna costrizione di rappresentazione (di imitazione) viene a impoverire. In questo testo ideale, le reti sono multiple, e giocano fra loro senza che nessuna possa ricoprire le altre; questo testo è una galassia di significanti, non una struttura di significati; non ha un inizio; è reversibile; vi si accede da più entrate di cui nessuna può essere decretata con certezza come la principale; i codici che mobilita si profilano a perdita d’occhio, sono indecidibili (il senso non vi si trova mai sottoposto a un principio di decisione, che non sia quello di un colpo di dadi); di questo testo assolutamente plurale i sistemi di senso possono sì impadronirsi, ma il loro numero non è mai chiuso, misurandosi sull’infinità del linguaggio. L’interpretazione che richiede un testo direttamente scrutato nella sua pluralità non ha niente di liberale: non si tratta di concedere alcuni sensi, di riconoscere magnanimamente ad ognuno la sua parte di verità; si tratta, contro ogni in-differenza, di affermare l’esigenza del plurale, che non è quella del vero, del probabile oppure del possibile.106

Questo approccio ai testi altrui pregressi, rigorosamente “classici”, avvantaggia Bellocchio nel momento in cui non incoraggia ma accetta, segretamente sollecita, suggerisce percorsi ermeneutici molto disinvolti come lo sono gli snodi non narrativi, involuti, immaginifici dei suoi film. Dunque, non gli serve neanche stravolgere l’originale. Il rispetto, la fedeltà quasi maniacale sono persino più efficaci: in Il gabbiano il cartello successivo a quello del titolo principale riporta addirittura il nome e il cognome del traduttore A[ngelo]. M[aria]. Ripellino, quindi dell’editore Giulio Einaudi. E in basso, di dimensioni pari a quelle del traduttore, troviamo per esteso accreditati i nomi e i cognomi di quelli che non vengono definiti “sceneggiatori” ma “adattatori”. Nell’ordine (non alfabetico): Sandro Petraglia, Stefano Rulli, Lu’ Leone, Marco Bellocchio. In Il principe di Homburg la preminenza dell’autore cinematografico invece, come abbiamo visto, aumenta. Bellocchio da solo totalizza due interi cartelli, accentrando nelle sue mani il ruolo di sceneggiatore (non di adattatore) e quello di regista, oltre che di produt-

tore assieme a suo figlio Piergiorgio. Questa maggiore rivendicazione del proprio essere autore, rispetto a Il gabbiano o anche a Enrico IV, assume una valenza doppiamente liberatoria. Con Il principe di Homburg esce definitivamente dalla sfera d’influenza di un’altra figura preesistente, dominante, quindi altrettanto “classica”: Massimo Fagioli. Il rapporto stretto e letterale con i “classici” implica quindi un debito di riconoscenza verso le provvisorie maschere testuali o autoriali indossate. Ne deriva una sorta di comodato d’uso cinematografico, con effetti di transitività sul delicato scenario storico-politico italiano. In particolare sul caso Moro. È in questa cornice che il valore assoluto di un “classico” coincide con il valore aggiunto di «un presente perpetuo».107 I (pre)testi letterari, teatrali, musicali, cinematografici, televisivi offrono a Bellocchio una sorta di avallo, di sigillo, di deresponsabilizzazione. La fedeltà apparente e appariscente alla “legge” del significante originale si trasforma in sottile complicità. E il via libera che un lontano autore, espressione compiuta della «metafora paterna»108 (Eschilo e Dante, Shakespeare e Leopardi, Manzoni e Čechov, Kleist e Dumas, Verdi e Leoncavallo, Pascoli e Pirandello, Radiguet ed Ėjzenštejn, Vertov e Camerini, Rossellini e Bolognini) involontariamente dà a quello odierno (Bellocchio), fa del cinema stesso un crocevia di astute repliche, similitudini e riscritture, omaggi, commemorazioni. Anche per questo nei suoi due film specificamente sulle Brigate rosse e il caso Moro l’autore in persona, neanche più travestito da istanza astratta del testo, rivolge il suo pensiero ai padri vecchi e nuovi, biologici o putativi. L’ultimo cartello dei titoli di testa di Diavolo in corpo aggiunge al nome del regista la funzione simbolica, lacaniana di «Nome-del-padre», esemplificata nella persona dell’analista anti-freudiano Fagioli: «regia di – MARCO BELLOCCHIO – che dedica personalmente – il film a Massimo Fagioli». Analogamente in Buongiorno, notte la consueta scritta in sovraimpressione sulle immagini «regia di – MARCO BELLOCCHIO» cede il posto alla dedica, in basso a destra «a mio padre», suggerendo perciò due opzioni genitoriali: il padre defunto del regista e quello immaginario imprigionato e condannato a morte dai giovani terroristi carcerieri, Aldo Moro. Date le circostanze, Diavolo in corpo e Buongiorno, notte non potevano che essere trasposizioni di opere pregresse. Quindi accomunate, oltre che dal tema, anche da una matrice maschile, doppia, letteraria e cinematografica (Radiguet/Autant-Lara in Diavolo in corpo) o esclusivamente femminile, letteraria, raddoppiata (Braghetti/Dickinson in Buongiorno, notte). Il rapporto con l’autorità paterna, reale o metaforica, e in generale familiare, ambientale, sociale e culturale può assumere carattere di rifiuto (a volte sin dai titoli: Abbasso il zio, Nel nome del padre, Sorelle/Sorelle Mai) o di recupero/omaggio mediante esercitazioni mimetiche, onomastiche, pronte ad aprirsi a scenari nuovi, altrimenti indicibili, potenzialmente proibiti.

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In riferimento al caso Moro, quindi dal 1978, la scelta meditata di appoggiarsi a opere pregresse, con buona pace degli “addii” enunciati (Addio del passato), possibilmente capolavori ufficializzati dal sistema e dal consumo culturale, permette a Bellocchio di far dire a terzi, cioè di far ri-dire ad altri o dire diversamente, con maggiore facilità, ciò che sarebbe invece più difficile, forse pericoloso dire. Una pratica di ripensamento e revisione che investe direttamente i suoi stessi film, mai lasciati intatti, o considerati unici e non riscrivibili. Ciò spiega perché Bellocchio sia stato disposto a tornare sui suoi passi, a rimettere in discussione in Gli occhi, la bocca, addirittura I pugni in tasca, e con essi il proprio statuto d’autore identificato, classificato e ingabbiato. Fare i conti con l’acclamato film d’esordio, il suo impegnativo «capolavoro» accettato come tale anche dal flemmatico zio Giovanni, vuol dire poi non lasciar stare neanche Sorelle, che diventa nel giro di quattro anni un prodotto più lungo, già dal titolo Sorelle Mai, il cui cognome Mai, più che al Leopardi,109 quello eroico-civile del canto Ad Angelo Mai, indica una negazione (mai, riferita oltre che alle sorelle anche all’Angelo di Nel nome del padre). Oppure, seguendo una coincidenza foneticamente efficace, ribadisce un preciso senso di appartenenza (my): “le mie sorelle”. Insomma, «mie» in quanto sorelle vere dell’autore, protagoniste del film, Maria Luisa e Letizia Bellocchio, nonché le zie della brigatista Chiara di Buongiorno, notte. Ma anche «mie» in quanto «sorelle» femminili rimosse che attraversano in Sorelle Mai la scena fantasmatica simulando attentati e recitando parti delittuose, dall’anonima attrice che al provino spara provocatoriamente al regista con una pistola a salve (dice: «Ma è finta. Solo per fargli un po’ di paura. Non l’hai vista la paura?») a Sara Mai che invece ha appena ottenuto il ruolo della protagonista in un allestimento del Macbeth.110 E che sulla riva del fiume Trebbia ripete le battute del suo personaggio: «Non pensavo che il vecchio avesse così tanto sangue nelle vene. Via, maledette macchie. Via! Via! Non verranno mai pulite queste mani. C’è ancora l’odore del sangue. Tutti i profumi d’Arabia non basteranno per profumare questa piccola mano». La nuova protagonista di Sorelle Mai ovviamente preannuncia la Divina Madre di Bella addormentata la quale, come la Lady Macbeth impazzita, compie nel sonno ripetutamente il gesto di tergersi con l’acqua le mani lorde del sangue indelebile del sovrano ucciso. Inutile dire che il senso di colpa femminile, per il turpe regicidio consumato, rimodellato in chiave shakespeariana, è un’altra delle strade che riportano i film di Bellocchio al caso Moro, culminando in un momento preciso di Buongiorno, notte in cui Mariano, incappucciato al termine di un interrogatorio, prospetta la morte al prigioniero: «L’obiettivo della scena, però, non è introdurre il tema della morte, ossia non c’è un legame immediato tra le immagini dei carabinieri uccisi e l’argomento di cui parlano Moro e Mariano. Quelle immagini sono come i fantasmi del Macbeth».111

Dire “mai” per Bellocchio è comunque un’esigenza fondamentale. Suona come un invito propiziatorio innanzitutto rivolto a se stesso: invito a non restare in territori già esplorati, a essere/non essere il Bellocchio degli inizi e di sempre, a non vivere di rendita, a non diventare l’istituzione di se stesso, confermando troppo facilmente le aspettative generate da I pugni in tasca o Nel nome del padre. A un anno di distanza da Sorelle Mai, l’autore mette perciò mano al director’s cut del celebrato Nel nome del padre, film-capolavoro di quarant’anni prima per molti versi ideologicamente eterodiretto,112 di conseguenza intoccabile. Dunque da ritoccare, violare, modificare a mente libera, sgombra da vecchi diktat, senza tuttavia stravolgerlo. La fedeltà ai testi “classici”, compresi i propri, comporta grande rigore e piccole rivincite personali o regolamenti di conti a posteriori.

Le “vie” di fatto Una cosa è certa: che pur “replicando” il libro della Braghetti Bellocchio fa in modo che “salti” qualcosa. In Buongiorno, notte arriva a escludere deliberatamente passaggi critici e luoghi oscuri del caso Moro: si potrebbe dire che, in quanto inaccettabili, non sono rappresentabili. In particolare non lo sono alcune vie della Capitale che sono state teatro poco trasparente degli avvenimenti. Scompare quindi qualsiasi riferimento diretto a via Gradoli, compresa la “soffiata” (para)normale della seduta spiritica, che viene opportunamente posticipata, secondo la consuetudine discronica della fantascienza. La ritroviamo infatti non in un punto qualsiasi, ma dopo l’appello alla liberazione lanciato dal Papa, che pure si mostra insofferente dell’indicazione manoscritta ricevuta: «Semplicemente senza condizioni», su carta intestata «Presidenza del Consiglio dei Ministri». E dove trova (nuovo) posto questa seduta spiritica? Guarda caso immediatamente dopo l’arresto di Enzo Passoscuro. Alla rimozione peraltro non assoluta di via Gradoli e allo slittamento in avanti della seduta spiritica va ad aggiungersi il rifiuto di mostrare, se non a cose fatte e per televisione, il luogo o più precisamente la “scena” dell’attentato. Fedele all’infedeltà verso la poco attendibile sequenza storica ufficiale, anche via Fani esce di scena e viene recuperata dal/sul quadrante televisivo. Strana, legittima sorte per la via della strage e del sequestro in cui, a un’ora precisa (ripresa con insistenza, come si vedrà, da Enrico IV) ha avuto inizio la tragedia della follia, sia essa vera, presunta o simulata, al singolare o al plurale: «Pensai subito di non partire dalla strage, anzi di non farla proprio vedere, ma dalle reazioni alla strage da parte di chi non vi aveva partecipato direttamente».113 Di via Fani insomma Bellocchio, secondo la logica interme-

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diale adottata in cui la verità sembra scaturire piuttosto dall’intersezione di immagini e suoni provenienti da diversi media, lascia in questa circostanza che siano le dirette televisive a farsene carico, nel bene e nel male. Lo scopo è quello di restituire, a distanza, sotto forma di rappresentazione della rappresentazione, o di rappresentazione nella rappresentazione, le conseguenze dell’attentato. E non, facciamoci caso, la dinamica. Bellocchio si astiene dal ricostruire, rimettere in scena e in quadro la «geometrica potenza dispiegata in via Fani»114 sostenuta invece, chissà se o con quanta cognizione di causa, già da Franco Piperno, cofondatore di Potere operaio e leader dell’Autonomia romana. La stessa «geometrica potenza» citata testualmente, attribuita a tale Piantanida, nel processo di Diavolo in corpo. Che di rimando la Faranda chiama «freddezza militare»115 e la Braghetti «un’azione “troppo militare”…».116 Come dar torto a Piperno, al suo equivalente Piantanida di Diavolo in corpo, quindi alla Faranda e alla Braghetti se dello stesso parere era stato a suo tempo il procuratore della Repubblica Giovanni Di Matteo? 162

Certamente un delitto così perfetto, preparato al minuto, preparato con le chiusure delle linee telefoniche – che non mi pare possano essere una coincidenza occasionale – è un delitto che è stato preparato lungamente, eseguito con l’abilità dei tiratori scelti, e con l’abilità di persone che sanno sparare, sanno sparare da vicino, sanno sparare da lontano. Quindi è una cosa di una organizzazione perfetta, che fa pensare, che voi stesso [sic] pensate.117

Diversamente da come si comporta Bellocchio con Buongiorno, notte, la Braghetti, onnisciente ancorché assente sulla “scena” di via Fani, non rinuncia a esprimersi. Descrive l’attentato dimostrando un’improvvisata competenza tecnica in materia di telefonia. A beneficio della “semplicità”: I giornalisti sembravano particolarmente affascinati dal fatto che le linee telefoniche nella zona di via Fani, dove era avvenuta l’azione, erano saltate, e si diceva che i rapitori le avessero interrotte. Ma nessuno di noi aveva interrotto nulla: semplicemente [corsivo nostro], appena sentiti gli spari, le sirene, gli elicotteri, tutti in quel quartiere si erano attaccati al telefono, e la centralina non aveva retto.118

Bellocchio però non ci sta. Con ammissioni, omissioni, slittamenti mirati, fusioni, rimescolamenti e accorpamenti, si ribella alla cronistoria del caso Moro, forse anche al “caso” inteso come evento fortuito, all’oggettività invocata e alla verità deterministica della mole di scritti da accettare, come sa chi se ne intende, «con beneficio d’inventario e certo rischio di

saturazione».119 Rilegge a suo modo il caso Moro, convertendo la casualità in causalità. Lo rivede e lo fa rivedere ai suoi personaggi, quindi anche a se stesso spettatore/personaggio/regista, e agli spettatori ideali, in sala, come corollari del testo o come soggetti astratti confinati nel limbo delle intenzioni. Per diffidenza e rigore metodologico ha lasciato che fosse il piccolo schermo a occuparsi di via Fani, ignorando o disattendendo quasi completamente l’indiretto ma fin troppo preciso resoconto fornito dalla Braghetti.120 Poi ha provveduto a riunire in un unico spazio carico di risonanze interne ed esterne l’ipotizzata prigione di via Gradoli e quella ufficializzata di via Montalcini, peraltro nominata solo in sceneggiatura. 121 Infatti, se da un lato il covo del film fa pensare al profilo dell’appartamento di via Montalcini, sebbene mai pienamente identificabile topograficamente, spesso esso accoglie inequivocabili indizi provenienti anche da piccoli avvenimenti derivati piuttosto dall’appartamento di Moretti in via Gradoli. Pensiamo ad esempio al tentativo di furto prontamente sventato nel film da Ernesto: Ernesto (a Chiara): Un ladro. Mariano: Chi era? Ernesto (dopo un istante di silenzio): Soltanto un ladro. Mariano: Un ladro? (Sospira sollevato e sorride) Incredibile.

Una circostanza, questa, riferibile alle strane e misteriose effrazioni, con conseguente violazione dei sigilli, nell’interno 11 di via Gradoli 96, segnalate l’8 ottobre 1978. Proprio il giorno prima del dissequestro dell’appartamento da parte della DIGOS.122

Le sue prigioni Il Mariano di Buongiorno, notte ha ragione a ritenere «incredibile» questo tentativo di furto nel covo-prigione, ovunque esso sia ubicato o si sia verificato. Molti episodi reali del caso Moro hanno dell’«incredibile», ma sono veri o come tali vanno presi fino a prova contraria. Pensiamo alla sceneggiatura rinvenuta in una delle due borse di Moro di cui ci occuperemo nella terza parte di questo libro. Che Bellocchio ragionevolmente ci creda o meno, con la medesima ironia e il medesimo scetticismo di Mariano, sta di fatto che si rende conto di non poter rappresentare le cose facilmente o realisticamente. Dovendo ricostruire una base o una

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prigione brigatista, qualunque sia stata l’effettiva funzione dell’appartamento di via Montalcini o di quello di via Gradoli, l’autore di Buongiorno, notte sceglie di combinare elementi che inducono a non distinguerne uno dall’altro, a far sì che uno escluda/includa l’altro. Comunque sia l’invito è a non concepirli separatamente. È importante notare come le “mancanze” siano tante. E che perciò vadano interpretate, anche in senso lacaniano. Proviamo a elencare qualcos’altro che del caso Moro manca nel film: tra i tantissimi riferimenti al covo o prigione di via Gradoli non viene in alcun modo menzionata la clamorosa scoperta avvenuta il 18 aprile. Circostanza abbastanza curiosa, o neanche tanto, come cercheremo di spiegare a tempo debito. Perché l’eco di quel 18 aprile in Buongiorno, notte non viene fatta mancare del tutto. Ecco perché in una scena udiamo, sempre in sottofondo, la telecronaca delle assurde ricerche del cadavere del “suicida” Moro compiute nel lago ghiacciato della Duchessa. L’indicazione, come direbbe Mariano: «incredibile», proveniva dal falso comunicato brigatista del 18 aprile. Insomma lo stesso giorno in cui l’appartamento di Moretti in via Gradoli viene scoperto. Perché nel film non si approfitta di questa concomitanza per recuperare l’importante «casella mancante» di via Gradoli? O forse questa concomitanza viene recepita e rilanciata, ma con uno stratagemma diverso? Considereremo questa seconda concreta possibilità più avanti, parlando di canarini e gatti nell’appartamento dei carcerieri di Moro in Buongiorno, notte. Fatto sta che all’interno di questo non-luogo sintetico e onnicomprensivo ricostruito a Cinecittà, cioè di conseguenza, l’autore del film sente di non potersi muovere in modo realistico. Quindi ricorre a una serie di inquadrature puntuali, per lo più fisse, molto meditate e sorvegliate, in cui rinchiudere ugualmente spazi o fatti ufficialmente accertati che alla prova dei fatti passati, presenti e futuri, però, risultano ancora irti di contraddizioni, con un alto tasso di improbabilità. In pratica si chiede: a chi credere o non credere in un Paese dove si finisce per credere a tutto, sedute spiritiche comprese? Un Paese dove ciò che maggiormente sorprende non sono tanto le contraddizioni, né le piste giuste indicate per vie traverse o quelle sbagliate imboccate con estremo clamore e rapidità. Dove a destare sconcerto non è nemmeno l’insostenibile ordine logico del discorso, o quello cronologico altrettanto incongruente degli eventi per così dire accertati. Bellocchio non crede opportuno far vedere ciò che non lo convince né convince gli analisti del caso Moro, non necessariamente o non troppo dietrologi. Un’eventuale, sia pure ardita, ricostruzione di eventi avvolti nella più assoluta oscurità o incredulità sulla base di testimonianze e rilievi discordanti, oggi sostenibile, sarebbe automaticamente suscettibile, un domani, di stravolgimenti radicali che si ripercuoterebbero sul film stesso, sul suo coefficiente di realismo superato da nuove possibili acquisizioni, rendendolo quindi

non più proponibile e presentabile. Nessuna reticenza, revisione o addomesticamento della verità. Semmai la rivendicazione di una posizione critica verso la e di un realismo velleitario, di un’ortodossia su fatti che forse altro non sono che finzioni organizzate, spesso anche male, soggette quindi ad essere capovolte da un momento all’altro. Bellocchio, rifiutando categoricamente di rappresentare eventi o combinazioni causali e temporali che forse sono stati concepiti parzialmente o integralmente già come rappresentazioni della verità a uso e consumo o a dispetto dell’opinione pubblica, provvede a farli scomparire da/in Buongiorno, notte per poi farli riaffiorare/mimetizzare in questo o in un altro suo film sotto diversa forma. Una forma onirica, visionaria, immaginifica, altrimenti mediata, mediale e premeditata. Può accadere anche che si diverta, diciamo così, a spostare un episodio, quindi la scena che lo prevede, da un punto all’altro dell’asse cronologico ufficiale, invalidandone la causalità. Per questo fa slittare, come abbiamo accennato, la scena della seduta spiritica, molto teatrale già nella realtà, quindi predisposta per un utilizzo pro-filmico. Se in Buongiorno, notte tale seduta spiritica finisce “fuori posto”, cioè nei giorni immediatamente precedenti l’uccisione di Moro, è perché la scena in sé risulta talmente bellocchiana da non necessitare più di tanto del tocco di Bellocchio. Una “scena” che perciò reclama direttamente la presenza di Bellocchio, in veste di attore di passaggio, esattamente come egli è di passaggio nell’analoga “scena” di L’ora di religione del ricevimento affollato da alti prelati, aristocratici laici, critici e altri personaggi in aria di massoneria, tutti untuosi e pronti a genuflettersi. Questo rituale della società alta, occulta (anche dello spettacolo) non poteva prescindere dalla discreta performance in campo di Bellocchio in persona e attore. Proprio lì, per ben due volte, in L’ora di religione e in Buongiorno, notte, l’autore non poteva (farsi) mancare, neanche in senso lacaniano. A Bellocchio piace presenziare circostanze tragicomiche, dove un pittore come Picciafuoco o uno spirito di nome Bernardo (Bertolucci, va da sé) possono prendersi allusivamente gioco di astanti fin troppo seri e concentrati nelle loro farse mondane dalle possibili conseguenze serie. Da sempre attento a vicende, situazioni e personaggi che eccedono la misura e l’equilibrio mentale e che si collocano in un’area psichiatrica capace anche di incidere sulla vita nazionale, Bellocchio non perde occasione per mescolarsi e confondersi tra individui di rango elevato o appartenenti alle istituzioni, specialmente se dall’aria farsesca. Sentendosi in diritto di riappropriarsi di una certa follia, in Buongiorno, notte specialmente ha sentito di poterlo fare a maggior ragione e con maggiore cognizione di causa.

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1 «Via Montalcini deserta» è l’unico riferimento presente in sceneggiatura. Cfr. M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 21. Nel film invece la via e il civico non vengono mai nominati. 2 All’altro Enrico IV, il francese Enrico IV di Borbone, è invece intitolato il liceo frequentato dal protagonista del romanzo di Raymond Radiguet da cui, dopo Le diable au corps (Il diavolo in corpo, 1947) di Claude Autant-Lara, anche Bellocchio trae il suo personale Diavolo in corpo. Cfr. R. Radiguet, Le diable au corps, Grasset, Parigi 1923 (tr. it. Il diavolo in corpo, Einaudi 1989, pp. 6, 14-16). 3 Cfr. ancora J.-L. Baudry, L’effet cinéma, cit., p. 32. 4 Cfr. R. Bellour, Psychose, névrose, perversion, «Ça», n. 17, 1979, poi Psicosi, nevrosi, perversione, in L’analisi del film, cit., pp. 244-264. 5 In Psyco Norman, ripreso in figura intera, di tre quarti, viene raggiunto da una carrellata in avanti con leggere correzioni panoramiche orizzontali, prima da sinistra a destra poi in senso inverso. La carrellata hitchcockiana si arresta sulla mezza figura di profilo di Norman (poi stretto da una leggera zoomata finale diventa mezzo primo piano). Allo stesso modo in I pugni in tasca Ale, ripreso in piano americano, di tre quarti, viene raggiunto da una carrellata in avanti con correzione panoramica orizzontale da destra a sinistra. Anche la carrellata bellocchiana si arresta sul primo piano frontale dell’equivalente protagonista matricida Ale. 6 Emblematico in questo senso l’impiego in particolare di questo salto intervallare che accomuna i due soundtrack proprio nella scena appena citata in cui Ida nasconde il certificato nell’uccello impagliato, determinando un doppio omaggio a Hitchcock (cioè sia a Intrigo internazionale che a Psyco). 7 Cfr. in particolare il paragrafo La disciplina dell’occhio di F. Casetti, L’occhio del Novecento, Bompiani, Milano 2005, pp. 278-284. 8 Questo blocco di inquadrature in cui Moro ri-guarda chi lo guarda è talmente emblematico che nell’home page del già citato dvd sono state selezionate proprio le inquadrature cui abbiamo qui assegnato i numeri 2 e 3. Sempre nell’home page del dvd troviamo anche altre due inquadrature precedenti, che non abbiamo numerato ma riassunto solo sommariamente, in cui Moro rivolge all’esterno lo sguardo, verso Primo, incappucciato e appena sopraggiunto, prima attraverso lo spioncino, poi a porta spalancata. Cfr Buongiorno, notte, dvd, cit. 9 F. Calvelli, in L. Bandirali (a cura di), The final cut. Conversazione con Francesca Calvelli, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 190. 10 Ivi, p. 189. 11 Cfr. M. Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Parigi 1975 (tr. it. Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976). 12 F. Calvelli, in L. Bandirali (a cura di), The final cut, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 191.

13 R. Barthes, La chambre claire. Note sur la photographie, Cahiers du CinémaGallimard, Seuil 1980 (tr. it. La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980; 2003, p. 11). 14 Ivi, p. 79. 15 Cfr. R. Bellour, L’analisi del film, cit., p. 251. 16 R. Barthes, La camera chiara, cit., p. 11. 17 R. Buzzati, deposizione al processo Moro-ter (9 ottobre 1986), poi in R. Drake, Il caso Aldo Moro, Marco Tropea, Milano 1996, p. 159. 18 Ivi, p. 263. 19 F. Caridi, Censurati, «Il Borghese», 28 gennaio 1985. 20 F. Caridi, Dov’è il film di Aldo Moro?, «Il Borghese», 17 febbraio 1985. 21 R. Drake, Il caso Aldo Moro, cit., p. 201. 22 Cfr. ivi, pp. 200-204. 23 Cfr. in particolare il capitolo Operazione Fritz, in G. Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2004; 2007, pp. 106-132, che termina curiosamente con un riferimento a Buongiorno, notte (pp. 128, 132). 24 Cfr. F. Mazzola, I giorni del diluvio, Rusconi, Milano 1985; poi F. Mazzola, I giorni del diluvio, Aragno, Torino 2007, pp. 447-465. 25 G. Pellegrino, in G. Fasanella, C. Sestieri, G. Pellegrino, Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro, Einaudi, Torino 2000, p. 180. 26 Cfr. J. P. Oudart, La suture, «Cahiers du Cinéma», n. 211, aprile 1969, e La suture II, «Cahiers du Cinéma», n. 212, maggio 1969. 27 Cfr. R. Bellour, Hitchcock: The Enunciator, «Camera Obscura», n. 2, autunno 1977, poi Enunciare, in L’analisi del film, cit., pp. 228-243 (le specifiche citazioni tra caporali provengono da p. 229). 28 Ivi, p. 229. 29 Cfr. G. Deleuze, À quoi reconnaît-on le structuralisme?, in F. Châtelet (a cura di), Histoire de la philosophie. Le XXe siècle, vol. VIII, Hachette, Parigi 1973 (tr. it. Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, in Storia della filosofia. La filosofia del XX secolo, vol. VIII, Rizzoli, Milano 1976; poi in Lo strutturalismo, SE, Milano 2004, p. 61). 30 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 7. 31 A. Moro, lettera a Eleonora Moro, recapitata il 5 maggio 1978, in S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., pp. 202-203. 32 La voce dell’anonimo e incorporeo partigiano condannato è di Fabio Camilli. 33 Pedro Ferreira (Pedro), lettera scritta dalle carceri di via Asti, Torino, 22 gennaio 1945, ore 24, in P. Malvezzi, G. Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943-25 aprile 1945), Einaudi, Torino 1952; 2002, p. 108. 34 Cfr. G. Pellegrino, in G. Fasanella, C. Sestieri, G. Pellegrino, in Segreto di Stato, cit., pp. 194-196.

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35 Cfr. A. Moro, lettera a Papa Paolo VI, recapitata il 20 aprile 1978 da don Mennini, in S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., p. 108. 36 Cfr. S. Freud, Zur Psychopathologie des Alltagslebens. Über Vergessen, Versprechen, Vergreifen, Aberglaube und Irrtum, Karger, Berlin 1901 (tr. it. Psicopatologia della vita quotidiana. Dimenticanze, lapsus, sbadataggini, superstizioni, Newton Compton, Roma 1973; 1988, pp. 21-55). 37 M. Fagioli, Una storia una ricerca un film, in M. Bellocchio, Salto nel vuoto, Feltrinelli, Milano 1980, p. 38. 38 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 9. 39 Cfr. M. Chion, La voix au cinéma, Editions de l’Etoile, Parigi 1982 (tr. it., La voce nel cinema, Pratiche, Parma, 1991); Id., Un art sonore, le cinéma. Histoire, esthétique, poétique, Cahiers du Cinéma, Parigi 2003 (tr. it. Un’arte sonora, il cinema. Storia, estetica, poetica, Kaplan, Torino 2007). 40 Cfr. P. Malvezzi, G. Pirelli (a cura di), Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, cit. 41 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., pp. 100-101. 42 Ivi, p. 101. 43 Cfr. F. Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, cit., pp. 153-201. 44 M. Serres, L’hermaphrodite. Sarrasine sculpteur, Flammarion, Parigi 1987 (tr. it. L’ermafrodito: Sarrasine scultore, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 63). 45 Prima della trasposizione cinematografica di Bellocchio c’è stato Il principe di Homburg (1983), film d’esordio di Gabriele Lavia ricavato dal suo stesso allestimento teatrale. 46 Cfr. M. Fagioli, Il sogno della farfalla, «Il sogno della farfalla», n. 1, gennaio 1992. 47 L. Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio, Palermo 1979, p. 16. 48 S. Flamigni, Trame atlantiche. Storia della Loggia massonica segreta P2, Kaos, Milano 1996; 2005, p. 367. Cfr. inoltre l’intero capitolo La piramide superiore, pp. 339-382. 49 Limitandosi ai soli testi adoperati dall’autore di Buongiorno, notte, cfr. in particolare il paragrafo La P2 preme per lo stato di guerra, in S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 1988, cit., pp. 45-51, quindi il capitolo Esperti piduisti al Viminale, in Id., La tela del ragno, ed. 2003, pp. 127-156. 50 Cfr. G. Ferrara, intervista, in Il caso Moro. Collector edition, dvd, Cecchi Gori Home Video, Roma 2005. 51 Cfr. B. Balzerani, Compagna luna, Feltrinelli, Milano 1998. 52 Cfr. E. Cavazzoni, Il poema dei lunatici, Guanda, Parma 1987. 53 La prima edizione italiana di La sacra famiglia di Karl Marx e Friedrich Engels è il libro provocatoriamente più in bella vista nell’appartamento-covo brigatista. Cfr. K. Marx, F. Engels, Die Heilige Familie oder Kritik der Kritischen Kritik. Gegen Bruno Bauer und Consorten, Literarische Anstalt, Frankfurt a M. 1845 (tr. it. La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1969).

54 A. Moro, lettera a Francesco Cossiga recapitata nel contempo anche agli organi di informazione, contrariamente alle disposizioni del mittente, il 29 marzo, in S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., p. 58. 55 M. Bellocchio, commento al film, in Buongiorno, notte, dvd, cit. 56 In questa seconda, estrema ipotesi il film di Bellocchio anticiperebbe di dieci anni, come si è detto, l’impressionante convinzione maturata dell’ex giudice istruttore Imposimato contenuta nel più volte citato I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia. 57 G. De Lutiis, I servizi segreti in Italia, Editori Riuniti, Roma 1998; Sperling & Kupfer, Milano 2010, p. 273. 58 Per limitarsi a uno dei libri consultati da Bellocchio per il film cfr. S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 1988, cit., pp. 185-189; ed. 2003, pp. 267-287. 59 Cfr. S. Flamigni, Il covo di Stato, cit., pp. 9, 14, 19. 60 S. Limiti, L’Anello della Repubblica, Chiarelettere, Milano 2009, pp. 191-202. Cfr. anche il documentario molto dietrologico Sequestro Moro. Sentenza di morte (2011) diretto da Franco Fracassi e scritto dai giornalisti Lorenzo Fiorillo, Giulia Migneco e Carla Sollazzo. 61 R. Martinelli, A. Padellaro, Il delitto Moro, cit., 122-123. 62 V. Caretti, in R. Martinelli, A. Padellaro, Il delitto Moro, p. 128. 63 S. Mazzocchi, Nell’anno della tigre. Storia di Adriana Faranda, Baldini & Castoldi, Milano 1994, p. 114. 64 Cfr. Anonimo, Film sulle BR, lite Bellocchio Faranda, «Corriere della Sera», 9 novembre 1995. Cfr. anche P. Malanga (a cura di) Marco Bellocchio, cit., p. 233. 65 A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., p. 27. 66 Cfr. S. Flamigni, La tela del ragno, cit., pp. 354-355, S. Flamigni, Il covo di Stato, cit., pp. 117-121. 67 G. Spagnul, La critica, in AA.VV., Nei labirinti della fantascienza, Feltrinelli, Milano 1979, p. 245. 68 G. M. Chiodi, La coscienza liminare. Sui fondamenti della simbologia politica, Franco Angeli, Roma 2011, p. 161. 69 Cfr. A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., pp. 150-152. 70 Cfr. M. Foucault, lezione del 29 aprile 1981, in Id., Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice. Cours de Louvain, 1981, Presses Universitaires de Luvain/ University of Chicago Press, Louvain-Chicago (tr. it. Mal fare, dir vero. Funzione della confessione nella giustizia. Corso di Lovanio [1981], Einaudi, Torino 2013, pp. 86-118). 71 M. Bellocchio, Conversazione 1998 dall’utopia al presente, in Paola Malanga (a cura di), Marco Bellocchio, cit., pp. 119. 72 P. Montani, L’immaginazione intermediale, cit., pp. 28-29. 73 Cfr. T. Masoni (a cura di), Marco Bellocchio. Quadri. Il pittore, il cineasta, Falsopiano, Alessandria 2003. 74 Un esempio per tutti, su cui peraltro torneremo, è quello della scena della

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farmacia, la n. 12, non girata, «dove è accesa una radio (“Radio Città Futura”), che manda la diretta dal luogo dell’attentato…» (M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 32). 75 P. Montani, L’immaginazione intermediale, cit., p. 28. 76 Ivi, p. 32. 77 F. Ceccarelli, Il Papa trattò per liberarlo, «la Repubblica», 10 marzo 2005. 78 S. Freud, Der Wahn und die Traume in W. Jensens «Gradiva», in Schriften für angewandten Seelenkunde, Heller, Leipzig-Wien 1907 (tr. it. Deliri e sogni nella «Gradiva» di Jensen, in Il sogno e Scritti su Ipnosi e Suggestione, Newton Compton, Roma 1991, p. 111). 79 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 9. 80 M. Bellocchio, commento al film, in L’ora di religione, dvd, Elleu Multimedia, Roma 2002. 81 S. Castellitto, commento al film, in L’ora di religione, dvd, cit. 82 Cfr. G. Deleuze, C. Parnet, Dialogues, Flammarion, Parigi 1977; 1996 (tr. it. Conversazioni, Ombre corte, Verona 1998). 83 M. Bellocchio, Impossibile finirla, in O. Calabrese (a cura di), L’Italie aujourd’hui/Italia oggi, cit., pp. 268-270. 84 La definizione di «massoneria», su www.treccani.it, è la seguente: «s. f. [abbrev. di frammassoneria, dal fr. franc-maçonnerie, der. di franc-maçon “libero muratore”]. L’associazione segreta dei cosiddetti “liberi muratori”, che ha avuto la sua prima manifestazione storica nel sec. 16° […]. Il termine si usa talvolta, in senso fig., per indicare una consorteria, un gruppo esclusivo di persone che, esercitando collettivamente il proprio potere o la propria influenza, sul piano politico, finanziario, ecc., agiscono in modo da curare e proteggere gli interessi dei singoli componenti del gruppo». 85 Uno stralcio del verbale dell’interrogatorio dei magistrati Franco Ionta e Antonio Marini ad Adriana Faranda è riportato in S. Mazzocchi, Nell’anno della tigre, cit., pp. 214-215. Cfr. anche L. Granelli, Relazione sugli sviluppi del caso Moro, 28 febbraio 1994, in ACS, poi in S. Flamigni (a cura di), Dossier delitto Moro, Kaos, Milano 2007, pp. 367-369. 86 A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., p. 120. 87 Ricordiamo che i cui due protagonisti (pugliesi) dello Zio Vanja bellocchiano, Sergio Rubini e Michele Placido, hanno interpretato anche film sul sequestro del (pugliese) Aldo Moro. Rubini è Giovanni Moro in Il caso Moro di Giuseppe Ferrara e Placido è direttamente Aldo Moro in Il presidente (2008) di Gianluca Maria Tavarelli. 88 Cfr. S. Mazzocchi, Nell’anno della tigre, cit., p. 104. 89 A. Moro, lettera alla Democrazia cristiana, prima di tre versioni, recapitata il 28 aprile 1978 e pubblicata sul «Messaggero» il 29 aprile, in S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., p. 171. 90 A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., p. 16.

91 Ivi, pp. 9, 71-73, 93, 102, 107, 138. 92 Il memoriale di Moro è stato pubblicato in S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., pp. 207-410, libro adoperato da Bellocchio per Buongiorno, notte. 93 A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., pp. 108-110. Cfr. anche p. 147. 94 Ivi, p. 135. 95 Ivi, pp. 151-152. 96 Cfr. M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 9. 97 E. Dickinson, 985 (1865), in Silenzi, Feltrinelli, Milano 1986; 1996, pp. 144145, citata direttamente in italiano in B. Balzerani, Compagna Luna, Feltrinelli, Milano 1998, p. 34. 98 E. Dickinson, 425 (1862), in Buongiorno notte, Crocetti, Milano 2001, p. 161. 99 Il dialogo era già previsto in sceneggiatura, in versione succinta, come nota di regia trascritta in G. Fofi (a cura di), Nel nome del padre di Marco Bellocchio, Bologna, Cappelli, 1971, p. 57: «Bestias: Ma quello continua a dirmi di ripetere con le mie parole… Camma: …e allora tu invece di dire mais dici granturco, invece di grano frumento, invece di ortaggi foraggi, invece di insalata cicoria, eccetera eccetera e via dicendo». 100 Cfr. G. Deleuze, Différence et répétition, Presses Universitaries de France, Parigi 1968 (tr. it., Differenza e ripetizione, Raffaello Cortina, Milano 1997). 101 G. De Lutiis, Il golpe di via Fani, cit., p. 100. 102 Ivi, p. 101. 103 Cfr. M. Pellanda, Schermo e scena nell’opera di Marco Bellocchio, «Cinecritica», n. 64, ottobre-dicembre 2011; Id., Marco Bellocchio tra cinema e teatro. L’arte della messa in scena, Marsilio, Venezia 2012. 104 Il carattere usato per il titolo dell’opera o del film e per il nome dell’autore teatrale è diverso da quello riservato al regista cinematografico. 105 Cfr. ancora il discorso sui titoli di testa rispettivamente di Marnie e di Psyco nei capitoli consecutivi Enunciare e Psicosi, nevrosi, perversione, in R. Bellour, L’analisi del film, cit., pp. 228-264. 106 R. Barthes, S/Z, Editions du Seuil, Parigi 1970 (tr. it. S/Z, Einaudi, Torino 1973, pp. 10-12). 107 Ivi, p. 10. 108 J. Lacan, Écrits, Seuil, Parigi 1966 (tr. it. Scritti, vol. II, Einaudi, Torino 1974; 2002, p. 571). 109 Un fugace richiamo a Leopardi era presente già in I pugni in tasca, in cui si definisce Bobbio «natìo borgo selvaggio». 110 Bellocchio porta in scena Macbeth nel 2000, al Teatro India di Roma. 111 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 52. 112 Che un ruolo guida abbastanza determinante e gravoso in Nel nome del padre l’abbia svolto Goffredo Fofi, si evince chiaramente dall’introduzione che lo stesso Fofi scrive per la pubblicazione in volume da lui curata della sceneggiatura.

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Cfr. G. Fofi, Il dottor Mabuse contro l’onorevole Fanfani, in Id. (a cura di), Nel nome del padre di Marco Bellocchio, cit., pp. 11-20. Si notino in particolare gli apprezzamenti per i brani relativi al presente compiuti dall’autore, evidentemente caldeggiati da Fofi, il quale suggerisce anche un parallelo con il romanzo di Raymond Radiguet (p. 13), poi recepito in Diavolo in corpo. O i continui riferimenti al cinema di Fritz Lang, sulla cui falsariga si cercherà invano di impostare il successivo Sbatti il mostro in prima pagina, alla cui sceneggiature Fofi collabora direttamente, dissociandosi però dal risultato finale. Non è escluso che il director’s cut del 2011 di Nel nome del padre sia stato anche un modo per Bellocchio di riprendersi il “suo” film, allora condiviso troppo a livello ideologico con il coautore-ombra Fofi. 113 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 5. Scelta quantomeno oculata, dato che sui fatti di via Fani non si finisce mai di scoprire qualche novità che potrebbe ogni volta concorrere a ridisegnarne scenari, logiche, dinamiche. L’ultima in ordine di tempo viene battuta dall’ Ansa alle 13.50 del 23 marzo 2014 nel comunicato dal titolo Moro: ex poliziotto, anche 007 in via Fani, dove si legge in rapida sintesi «Un poliziotto in pensione, Enrico Rossi, ha raccontato all’ANSA le sue indagini riguardo ai due misteriosi uomini che erano a bordo di una moto Honda, in via Fani, a Roma, durante il rapimento di Aldo Moro. Le indagini sono nate da una lettera anonima con l’autodenuncia post mortem del presunto passeggero della Honda, che ha fornito elementi per risalire al conducente della moto (anche lui morto, nel 2012) e ha riferito che erano “uomini dei servizi con il compito di proteggere l’azione delle BR”» (www.ansa. it/web/notizie/rubriche/topnews, ultima consultazione 23 marzo 2014). Cfr. anche sul sito della stessa agenzia di stampa, a partire dalle 18.29, l’articolo non firmato e più dettagliato dal titolo Omicidio Moro: “Sulla Honda a via Fani due 007 dovevano proteggere le BR” (www.ansa. it/web/ notizie/rubriche/cronaca, ultima consultazione 23 marzo 2014). 114 F. Piperno, Dal terrorismo alla guerriglia, in «Pre-print», L’autonomia possibile, 1/4, supplemento al periodico dell’Autonomia operaia «Metropoli», n. 0, dicembre 1978. 115 A. Faranda, in S. Mazzocchi, Nell’anno della tigre, cit. p. 109. 116 A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., p. 91. 117 G. Di Matteo, intervista di repertorio riproposta nella prima delle tre puntate dal titolo La tragedia di Aldo Moro dell’inchiesta televisiva di Sergio Zavoli La notte della Repubblica (1989). 118 Ivi, p. 10. 119 F. Ceccarelli, Il Papa trattò per liberarlo, cit. 120 Cfr. A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., pp. 9-11. 121 Cfr. M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 21. 122 Cfr. il paragrafo Due strani furti in R. Martinelli, A. Padellaro, Il delitto Moro, cit., pp. 124-126, quindi S. Flamigni, Il covo di Stato, cit., pp. 153-156.

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Io, Chiara e il Passoscuro



«Non vi posso dire quello tutto che ho visto, perché ho anche visto crimini contro i quali la giustizia è impotente. Insomma, tutti gli orrori che i romanzieri credono di inventare sono sempre inferiori alla realtà.» Honoré de Balzac, Il colonnello Chabert

Moro, Borges e Sciascia Il caso Moro è l’«unico per cui sono stati scritti decine di libri, una letteratura che si arricchisce ogni anno, ricostruzioni storiche e saggi di fantapolitica. Giovani artisti hanno inventato installazioni, si sono fatti film e spettacoli teatrali».1 Dunque consta di «una vasta pubblicistica sviluppatasi a più livelli di approfondimento, dalla mera memorialistica di protagonisti della vicenda ad approfondite indagini storiografiche».2 Un caso che, se si esclude tutto il resto, con la sola mole di libri ha invaso ogni angolo possibile delle case di chi, non senza malinconica autoironia, ha scelto di collezionarne ogni esemplare esistente: I libri su Moro occupano più di tre scaffali della mia libreria, nel senso che gli ultimi arrivati – e ne arrivano di continuo – s’infiltrano in altre zone, su altri scaffali, pure in orizzontale e di traverso, inoltrandosi fino ai tubi del riscaldamento, con il risultato che la consultazione invernale li fa tiepidi. Ho sempre pensato che fosse una collezione ragguardevole nella sua eccentricità. Ricordi, sogni, descrizioni. L’affaire Moro di Sciascia con la sua carta velina ormai sbrindellata, e poi testimonianze dei familiari e memorie dei brigatisti, biografie, studi sul linguaggio moroteo, com-

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memorazioni di politici, pubblicistica proveniente da Bari, testi teatrali, romanzi a chiave, finte lettere, fantapolitica malaccorta e ingannevole, ritratti di figure di contorno, falsari per esempio, collegamenti internazionali del terrorismo.3

Di librerie se ne incontrano molte tra le pieghe del caso Moro. Anche se guardiamo alla scenografia e all’arredamento di Buongiorno, notte, salta agli occhi la quantità di libri che trasformano il covo di via Montalcini in un facsimile di quello di via Gradoli. Dopotutto la prigione nella prigione del film viene ricavata dietro una libreria costruita appositamente in «questo ambiente totalmente finto»4 che è l’appartamento affittato dalla brigatista “bibliotecaria” Chiara assieme al finto marito ingegnere Ernesto. Ascoltiamo cosa dice a questo proposito direttamente Piergiorgio Bellocchio, che interpreta Ernesto:

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Ho sempre notato […] in questa scena qua si vede una quantità di libri […] che ritengo assolutamente smisurati rispetto al volume di libri che poi si vedono distribuiti nella casa una volta che è arredata. Ho sempre pensato: dove hanno messo il resto dei libri, quella metà che non c’entrava nella libreria? Stava da qualche altra parte?5

Ripercorrendo in lungo e in largo la cronaca, i fatti e i misfatti, le opinioni e le ipotesi, le testimonianze e le leggende collegate a quei cinquantacinque giorni e a tutto ciò che hanno prodotto nel corso del tempo, c’è da chiedersi dove finiscano gli atti parlamentari e processuali. E dove invece cominci la letteratura vera e propria, complici le circostanze, filtrate anche dall’arguzia di Leonardo Sciascia, spettatore privilegiato, spettatore suo malgrado in prima fila, onorevole radicale, membro di diritto della Commissione Moro, specialmente in seguito alla pubblicazione di L’affaire Moro. Sebbene in questo caso i fatti soggiacciano alla letteratura, c’è letteratura e letteratura, per giunta teatrale, così come c’è cinema e cinema. Ovunque, parlando del caso Moro, è possibile incappare in doppioni, raddoppiamenti, copie conformi di testi, di avvenimenti, di inferenze. Cominciamo dalla letteratura. Cioè da Sciascia. In L’affaire Moro, finito di stampare il 4 ottobre 1978, il fantasma dell’inenarrabile “affare” storico e di quello letterario si intrecciano, come negli appunti non tanto sparsi di Nero su nero dell’anno successivo. E si fa strada una precoce consapevolezza anche dei relativi vantaggi connessi a quest’intreccio, a condizione di trovarsi in presenza di una «letteratura» che ripetendo metodicamente «dice una verità che i libri di storia non dicono».6 Per parlare di una Moroteca di Babele siamo partiti dall’immagine borgesiana della Biblioteca di Babele. Tocca quindi a Jorge Luis

Borges e al suo Pierre Ménard, autore del “Chisciotte”, chiudere il cerchio. Questo racconto costruito sull’effetto di differenza che produce una riproduzione esatta, addirittura pedissequa di un testo preesistente, preso ad esempio già da Deleuze,7 consente a Sciascia in L’affaire Moro di filtrare la superficie del caso Moro e di affinare un preciso paradigma interpretativo. Donde l’«invincibile impressione che l’affaire Moro fosse stato già scritto, che fosse compiuta opera letteraria, che vivesse ormai in una sua intoccabile perfezione. Intoccabile se non al modo di Pierre Ménard: mutando tutto senza nulla mutare».8 Come Borges, Sciascia trascrive due volte i fatti del tragico 16 marzo 1978, confrontando il significato che essi assumono ora in presenza, ora in assenza di Moro. Sono gli stessi fatti, prima e dopo il rapimento. L’ordine delle parole resta inalterato. Cambia però il «centro di gravità». Senza più Moro in circolazione, secondo Sciascia, tutto si semplifica: Si è come spostato il centro di gravità: dall’onorevole Moro, che usciva di casa ignaro dell’agguato, alla camera dei deputati dove l’assenza dell’onorevole Moro avrebbe rapidamente prodotto quel che la sua presenza difficoltosamente avrebbe conseguito: e cioè quell’acquietamento e quella concordia per cui il quarto governo presieduto dall’onorevole Andreotti veniva approvato senza discussione alcuna. Al dramma del rapimento si è come sostituito – per quel che volgarmente è detto “il senno di poi” – il dramma che l’assenza dell’onorevole Moro al Parlamento, dalla vita politica, è più producente – in una determinata direzione – della sua presenza. E direbbe Pirandello: «il dramma, signori, è tutto qui».9

Attenzione: anche Pirandello, oltre a Borges, serve a Sciascia per spiegare la premessa fondamentale del caso Moro. Lo stesso Pirandello che Bellocchio utilizza come sistema di ragionamento ben tre volte (Enrico IV, L’uomo dal fiore in bocca, La balia) per costruirne uno non dissimile, basato sempre su un’istanza di riproduzione abbastanza conforme e dichiarata di un testo originale inoppugnabile. Sciascia, saldando Borges a Pirandello, dunque la scrittura al palcoscenico della storia, la finzione alla realtà, giunge alla constatazione che è grazie al rapimento di Moro – grazie cioè all’improvvisa, brusca e “provvidenziale” assenza di Moro dalla “scena” politica – che viene varato con maggiore facilità e coesione, superando qualsiasi ostacolo della vigilia, il IV governo Andreotti. Quella che potrebbe sembrare una lettura troppo suggestionata da un meccanismo letterario e teatrale trova però conferma sul piano storiografico e politologico nella successiva analisi di Giorgio Galli, al quale ugualmente non sfugge l’effetto di accelerazione tragicamente positiva che l’operazione denominata “Fritz” (Moro) potrebbe aver sortito sulla decisione definitiva del PCI di appoggiare il nuovo governo di solidarietà nazionale. Diversamente, il PCI di

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Berlinguer, venute meno abilmente le promesse della controparte democristiana, avrebbe potuto smarcarsi, cioè rinunciare all’ultimo momento a prendere una decisione tutt’altro che scontata, appesa a quel voto di fiducia parlamentare al governo Andreotti che tanto preoccupava Zaccagnini. E di cui fino all’ultimo, fino al pomeriggio del 15 marzo,10 si stava ancora occupando il principale artefice del “matrimonio”: Aldo Moro, il maggior “regista di matrimoni” politico-istituzionali di quella delicata fase storica. Non per modo di dire, o per volontà di agganciare sempre il discorso su Moro ai film di Bellocchio. È stato Alfredo Carlo Moro, magistrato e fratello del presidente democristiano, a usare quest’espressione, poiché incredulo circa la sceneggiatura trovata nella borsa prelevata durante il rapimento (invece al centro di Buongiorno, notte, già dal titolo): «Moro poteva anche essere ritenuto il “regista” della politica italiana ma non certo un “regista cinematografico o teatrale” che accumula e porta con sé in macchina copioni e scenografie [sceneggiature, ndr]».11 Alfredo Carlo Moro alla storia della sceneggiatura non crede, ma Marco Bellocchio sì. Né si può ignorare il dinamico rapporto tra letteratura, storiografia e cinema, in riferimento al caso Moro, che Sciascia stesso istituisce nel momento in cui porta avanti la sua riflessione scaturita dal racconto di Borges, e «ragionevolmente inorgoglito, compiaciuto»12 cita un brano della Storia della Democrazia Cristiana di Giorgio Galli,13 pubblicata proprio qualche mese prima di L’affaire Moro, in cui vengono nominati i suoi brevi romanzi Il contesto e Todo Modo e, in particolare, l’omonimo film di Petri tratto da quest’ultimo.14 A sua volta Galli, anni dopo, sceglie di concludere il capitolo dedicato al caso Moro del suo libro Piombo rosso con un richiamo a Buongiorno, notte.15 Ma non perdiamo di vista Pirandello, dal momento che Sciascia non è l’unico a evocarlo per ripercorrere e far capire la logica occulta che domina la sorte infausta degli ultimi giorni di vita di Moro. Dopo Gli occhi, la bocca, Bellocchio accetta di realizzare un film all’apparenza più classico, tratto appunto da un testo del drammaturgo siciliano. Dalla Rai, in vena di trasposizioni pirandelliane come Kaos (1984) di Paolo e Vittorio Taviani e Le due vite di Mattia Pascal (1985) di Mario Monicelli, gli arriva la proposta di portare sullo schermo Sei personaggi in cerca d’autore. Bellocchio però non è d’accordo. Preferisce Enrico IV. La sua è una «scelta precisa».16 La dimensione teatrale, non solo pirandelliana, gli è diventata congeniale dopo Il gabbiano. Ancora una volta si tratta di ricorrere a una fonte intoccabile, cristallizzata: a un testo specifico, preesistente, già scritto. Pirandello va benissimo. Ma in un’Italia in cui si fa credere che Moro sia “impazzito” sotto il «dominio pieno e incontrollato» brigatista non basta un qualsiasi testo di Pirandello, ma uno che metta al centro la pluridecennale rappresentazione della follia: Enrico IV, inevitabilmente.

Anche in Bellocchio, come in Sciascia, l’esercizio del raddoppiamento diventa un insospettabile, prezioso strumento di verità possibile, non allineata, e di ricerca avanzata.17 Tutto ciò che c’era prima, prima del 1978, per effetto di una ripetizione differenziata, produce un dopo immediato destinato a perdurare. Questo affaire reale, che Sciascia affronta in un libro, lo rende un libro, sin dal titolo, restituisce alla «letteratura la verità». Quella «verità», scrive, di cui è stata deprivata la «realtà». Un primato, una peculiarità, una «perfezione» propria, per quanto trascurata, «dell’immaginazione, della fantasia»: Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità – quando dura e tragica apparve nello spazio quotidiano e non fu più possibile ignorarla o travisarla – sembrò generata dalla letteratura. Dagli uomini politici del potere, o al potere vicini, gli uomini di lettere (preferibile «uomini di lettere» – di Voltaire e del suo tempo – a «intellettuali», termine di generica e imprecisa massificazione) ne furono accusati: e con una certa buonafede, con una certa innocenza, considerando che gli stessi uomini di lettere avrebbero ad un certo punto avuto l’allucinazione di aver generato quella realtà.

Quindi: L’impressione che tutto nell’affaire Moro accada, per così dire, in letteratura, viene principalmente da quella fuga dei fatti, da quell’astrarsi dei fatti – nel momento stesso in cui accadono e ancora di più contemplandoli nel loro insieme – in una dimensione di conseguenzialità immaginativa o fantastica indefettibile e da cui ridonda una costante, tenace ambiguità. Tanta perfezione può essere dell’immaginazione, della fantasia; non della realtà.18

«L’immaginazione è reale» E veniamo a Bellocchio. Anche perché a questo punto il collegamento con i suoi film scatta direttamente. Dopo le suggestioni anticipatrici di La macchina cinema la scelta nel 1984 di cimentarsi con Enrico IV costituisce un giro di vite inequivocabile. Tanto che nel 2003 può addirittura permettersi di far dire al personaggio del giovane sceneggiatore dall’emblematico cognome Passoscuro: «L’immaginazione è reale». Ecco, Enzo Passoscuro è certamente uno scrittore, uno scrittore in erba, velleitario, come rivela a Chiara: «A me ad esempio piace scrivere. Non lo so se ho talento, però mi piace. Scrivo dei racconti, delle poesie. Ho scritto anche una sceneggiatura. Si chiama Buongiorno, notte: “buongiorno” virgola “notte”. È un

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verso di Emily Dickinson. Ti va di leggerla?». Dunque, da giovane e incauto esponente della categoria degli «uomini di lettere», per dirla con Leonardo Sciascia, a Passoscuro spetta di diritto «l’allucinazione di aver generato quella realtà». Sciascia ha poi scritto: «Tanta perfezione può essere dell’immaginazione, della fantasia; non della realtà». La conferma di ciò in Buongiorno, notte giunge non casualmente nel più acceso, stringente, ambiguo scontro verbale tra Enzo e Chiara. Enzo dovrebbe quanto meno ignorare la doppia vita di Chiara, impiegata-bibliotecaria del ministero di giorno e brigatista-carceriera di notte. La ragazza, benché ostile, sfuggente e diffidente, si mostra turbata e incerta. Pretende risposte nientedimeno che da uno sceneggiatore “dilettante” il quale, forse non così incredibilmente, sa troppo, tutto. Lei che sa, o dovrebbe sapere, coinvolta com’è in prima persona, rivolge domande. Lui, che non sa, o non dovrebbe, invece dà risposte molto circostanziate. Parla da profeta, come il Cacciaguida dantesco su cui agli esami di Stato viene interrogato Andrea alla fine di Diavolo in corpo, o come lo stesso Dante in Paradiso facendosi portavoce del nobile trisavolo. Chiara, cui stranamente le cose non sono abbastanza “chiare”, interroga Passoscuro, colui cioè che dovrebbe essere all’(o)scuro dei fatti. Lui le tiene testa come un indovino con il dono, per così dire, di indovinare il presente e divinare il futuro: Enzo: Che c’è? Chiara: Pensavo alla lettera che ha scritto Moro alla moglie. L’ho letta stamattina sul giornale. Mi ricorda un libro che mi leggeva sempre mio padre: Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Enzo: Moro è ancora vivo. Chiara: Che vuoi dire? Enzo: In quel libro, i condannati a morte sono stati tutti ammazzati. Ma Moro è ancora vivo. Chiara: Pensi che lo ammazzeranno? Enzo: Certo, se loro non ammazzassero la gente, non sarebbero niente. Sono pazzi. E stupidi. Questo mi fa paura. Chiara: Io non ti capisco. Anzi mi fai rabbia! Enzo: Chiara, Chiara fermati. Fermati.

Chiara: Parli dei brigatisti come se fossero dei dementi! Dei ragionieri che si masturbano con «Playboy» e poi vanno in giro ad ammazzare la gente! Ma gli altri non li vedi? Le facce del potere democristiano e tutti i loro servi, la loro ipocrisia! Enzo: I brigatisti sono peggio. Perché li vogliono imitare. Ma pensa al delirio dei loro comunicati. Pensa se gente che scrive così ci dovesse governare. Chiara: Perché tu come scrivi? La tua sceneggiatura è falsa, dall’inizio alla fine. Assurda. Inverosimile. Enzo: Allora l’hai letta? Perché falsa? Chiara: L’immaginazione non ha mai salvato nessuno. La realtà è tutta un’altra cosa. Enzo: L’immaginazione è reale. È reale immaginare che nel gruppo dei sequestratori ci sia una donna. Questa idea mi piace, mi convince. Chiara: Ma che dici? Che c’entra? Come una donna? Enzo: Sì, ho cambiato tutto il finale. Io ho immaginato una ragazza. Molto giovane. Una che è entrata nella lotta armata non perché si è letta tutto Il capitale. Un po’ una come te. Chiara: Che c’entro io? Enzo: Una come te, me la sono immaginata un po’ come te: giovane, bella, ma che fa di tutto per nasconderlo. Questa ragazza vuole salvare il prigioniero, però non vuole tradire i suoi compagni. Se chiamasse la polizia tradirebbe, sarebbe un tradimento troppo grande. Non sei d’accordo? Chiara: Non lo so, vai avanti. Enzo: Comunque deve prendere dei rischi, altrimenti sarebbe tutto troppo facile. Forse il rischio della sua vita. Chiara: Ma perché dovrebbe farlo? Come può una terrorista che ha partecipato al sequestro convincersi in meno di due mesi… Enzo: Ma tu perché vuoi sempre una spiegazione logica? Perché di colpo ha orrore per l’assassinio! Perché non ci crede più! Anzi, lei si infuria

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con se stessa per essere stata così cieca, e così stupida! Deve fare qualcosa! Deve assolutamente farlo, per non impazzire! Chiara: Che fai? Allora pensi che lo ammazzeranno?

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Le metodiche deroghe alla più elementare logica poliziesca del racconto che emergono da questo stringente dialogo non impediscono di notare come, diversamente da Chiara, Enzo Passoscuro sia convinto, con la propria “previdente”, per non dire “chiaroveggente” sceneggiatura, di poter salvare il prigioniero da «gente che scrive così» e mai sia «ci dovesse governare». Questione non di fatti certi o accertati, ma di testi scritti. Che però, come quello di Sciascia, fanno “testo” nel caso Moro. Questione di «letteratura», insomma. In questo caso, che è tutt’uno con il caso Moro, «letteratura» cinematografica, per vari motivi riscrivibile. Primo perché ogni sceneggiatura non è di per sé il prodotto finito. Secondo perché abbiamo scoperto che ad avere scritto la sceneggiatura trovata nella borsa di Moro da Mariano, intitolata Buongiorno, notte come il film che stiamo vedendo, è proprio l’Enzo in servizio civile in una spaziosissima biblioteca. Quella in cui Chiara lavora assieme alla collega Annalisa: una Anna-Lisa, come Anna Laura (Braghetti), che tra l’altro va a ingrossare la schiera delle tante Anna di cui Bellocchio si/ci circonda nella sua filmografia dal 1977. Lasciamo un attimo stare però i nomi e concentriamoci sui cognomi. Su uno in particolare: Passoscuro. Questo cognome così pregnante in pratica risulta solo dalla copertina della sceneggiatura che Mariano sfoglia di sfuggita. Nessuno nel film lo chiama per cognome, né lui lo pronuncia mai. L’ineffabile Enzo Passoscuro, a giudicare da quel che dice a Chiara, deve avere poi cambiato la sua impressionante sceneggiatura/film Buongiorno, notte, magari riadattandola ai continui sviluppi del sequestro. Una «letteratura» del genere, anche molto “di genere”, poiché incline al fantastico, alla “precognizione” cinematografica, procede parallelamente ai fatti, li inventa. Forse li invera. Lo sceneggiatore/regista Passoscuro/Bellocchio di Buongiorno, notte è persona/ggio informata/o dei fatti? O semplicemente questi fatti riesce a immaginarli, cercando perciò di scongiurarli? In che modo potrebbe farlo? Ad esempio raddoppiandoli, così da poter influenzare gli eventi, trasformarli, modificarli. Passoscuro, quindi Bellocchio, continua a immaginare Moro vivo, a rappresentarselo. Soprattutto a rappresentarlo agli altri: a Chiara, agli spettatori. Non nasconde a Chiara di immaginare le cose che scrive o che dice. E ciò che va elaborando, in quanto scrittore di cinema, forse testimone oculare, o semplicemente per sentito dire, in pratica se lo augura. Le sue immagini, proprio in quanto augurali (come la sua «immaginazione» in

delega), nascono in previsione di un film, un prodotto destinato alla fruizione collettiva, alla pubblica e immediata conoscenza, che si sarebbe potuto realizzare, chissà come, chissà quando, chissà da chi. O essere sostituito direttamente da un evento reale, la liberazione di Moro, purché ci fosse stata la volontà effettiva di compierlo. Perciò tocca a Bellocchio, cui non resta che attenersi alla circostanza della sceneggiatura, indubbiamente “strana”, ma non inventata, dar manforte a Passoscuro, suo predecessore funzionale, anche nello svolgimento del racconto. Sigillare questo progetto realistico vuol dire né più né meno che riversare su pellicola, concretizzare il frutto potenziale dell’immaginazione. L’immagine come azione materiale, filmica, diventa preminente e si fa azione reale. Per dirlo con la linguistica, immagine e azione stabiliscono ora un rapporto paradigmatico, virtuale, costituendo una l’alternativa dell’altra: immagine o azione, immagine/azione. Ora un rapporto sintagmatico, di concatenazione, procedendo una accanto all’altra: immagine e azione, immagine-azione. O infine generare una completa sovrapposizione di termini, che così si rendono inseparabili: immagine come azione preventiva. In una parola, quella pronunciata da Passoscuro e voluta da Bellocchio: «immaginazione». Semplice gioco di parole? Oppure atto poetico e fatto concreto nello stesso tempo dentro un progetto artistico a doppia mandata? La sceneggiatura di Passoscuro, come il film di Bellocchio che la contiene, non poteva che intitolarsi Buongiorno, notte, ricalcando proficuamente il verso iniziale della già citata poesia della Dickinson.

«Buongiorno, mezzanotte» Buongiorno, notte come libera traduzione del verso/titolo originale Good Morning – Midnight, anziché quella letterale «Buongiorno, mezzanotte», nasce sicuramente dalla necessità di giocare sull’antitesi giorno/notte. Anche questa volta però l’apparente, incompleta ripetizione rafforza e convalida la differenza, dando risalto alla parola mutilata «Midnight», cioè alla «mezzanotte» dickinsoniana. Pur trasformandola, sfumandola, riducendola alla sola ma molto allusiva «notte» (un po’ sulla falsariga del titolo della nota trasmissione di Zavoli La notte della Repubblica), Bellocchio evoca a maggior ragione l’importanza dell’idea stessa della «mezzanotte». Che si presta molto bene a essere intesa come emblematico «luogo di mezzo»: Quando preannunciate il vostro arrivo col treno o l’aereo di mezzanotte, non trascurate di specificare la data e di fare qualche altra precisazione, giacché in questo punto ambiguo coesistono due cifre, la fine di un giorno legale e l’inizio del giorno successivo, due numeri, zero e ventiquat-

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tro, occupano il medesimo luogo; se i vostri corrispondenti avessero mal compreso il telegramma, eccovi soli nella sala d’attesa deserta, disorientati. Mezzogiorno esatto, mezzanotte equivoca. Il vecchio detto: «Mezzanotte, l’ora del crimine» dischiude la via ad un alibi raffinato, visto che la parola «crimine» proprio come il termine «critica» esprime ciò che può essere giudicato o sentenziato, mentre quest’ora, sola, elude invece la decisione. I dodici colpi risuonano, lo ieri oscilla verso l’oggi, mezzanotte appartiene all’uno o all’altro?19

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Una scelta forte o un’innocua, parziale sottrazione lessicale? Difficile stabilirlo con assoluta sicurezza. Specialmente in un film sempre in bilico tra il giorno e la notte, la luce e il buio, date ufficiali e date plausibili, fatti e ipotesi, ordine cronologico e ordine del discorso. Dove contano anche le minime variazioni o i particolari più insignificanti. Un film, insomma, disseminato di segnali contraddittori, pieghe incongruenti, simboli che innescano un vortice di opzioni interpretative e destabilizzano il senso compiuto di quei punti del caso Moro più vistosamente transennati che fermi. Anche il finale del resto obbedisce a questa doppia verità, vertiginosamente traballante, che restituisce l’immagine senza appello di un Moro nel buio dell’appartamento consegnato dai brigatisti al suo destino storico, poi le immagini del funerale, alternando a questi due segmenti contigui e coerenti l’immagine “eretica” di Moro, un altro, lo stesso Moro, che alle prime luci del nuovo giorno passeggia indisturbato per le vie di Roma. Questa ambivalenza, come si è detto, si riflette nel film anche in una sistematica irriverenza nei confronti del tempo, della cronaca, della fedeltà storica. Tra discronia e utopia di ascendenza fantascientifica, l’ambigua, indiretta evocazione della «mezzanotte» assume un peso non indifferente in un titolo astutamente allusivo/elusivo come Buongiorno, notte. Solo che basta la singola parola «notte» a sostenere non uno, ma due, anzi tre titoli che si rincorrono da un (con)testo all’altro: tre Buongiorno, notte corrispondenti ad altrettante istanze di conoscenza, due delle quali di verità contemporanea irrisolta. Una «notte» cui danno ugualmente il «buongiorno» la Dickinson, Passoscuro e Bellocchio, ben tre volte, come tre rintocchi che preannunciano l’ora atemporale per eccellenza. Buongiorno, notte insomma si fa in tre. Come l’altro titolo su cui ci siamo soffermati in precedenza: Era San Benedetto, cui corrispondono 1) una canzone, 2) il film amatoriale girato dal suo compositore, guidato dallo spirito aspirante regista di un suicida, quindi 3) l’intera puntata di La macchina cinema. Anche Buongiorno, notte si richiama 1) a un testo poetico pregresso, che diventa poi 2) il pretesto per il titolo di una sceneggiatura, quindi 3) quello dell’intero film in cui tale sceneggiatura compare. La sceneggiatura scritta, come vedremo tutt’altro che fittizia, condiziona lo sviluppo per immagini e suoni del film. Quella di Enzo Passoscuro, adottata da Marco Bellocchio, a

sua volta sceneggiatore e regista dell’omonimo film, diventa a tutti gli effetti la “sceneggiatura” del sequestro Moro. Nel senso che quanto succede nel Buongiorno, notte di Bellocchio sembra provenire direttamente dal Buongiorno, notte cartaceo e pre-filmico di Passoscuro. Il destino di Moro si direbbe essere stato previsto e già scritto da Passoscuro, in sceneggiatura. Non per niente Moro stesso la porta sempre con sé in una delle sue preziose e inseparabili borse anche il giorno in cui viene rapito. Una sceneggiatura non immaginaria, ma reale. Che nel suo perpetuo divenire, di stesura in stesura, cioè nell’incessante lavoro di riscrittura in costante vantaggio sugli eventi concreti e sul loro scarso potenziale di cambiamento, prelude al film omonimo, in virtù del ricco contenuto immaginativo: essa funge, insomma, da palinsesto dattiloscritto rigorosamente esibito, in grado di governare pienamente e a distanza l’evoluzione dei “passi oscuri” del caso Moro. La sceneggiatura di Enzo Passoscuro è la prova materiale, tangibile della grande “recita della storia”. Il rapporto di reciprocità che collega la sceneggiatura al film, l’ipotesi di realtà concepita per iscritto a quella realizzata sullo schermo, Passoscuro a Bellocchio, saldati da un unico titolo che rende sovrapponibili i due (autori dei rispettivi) prodotti artistici, non lascia spazio a equivoci. Tra la sceneggiatura non inventata ma rinvenuta nella borsa di Moro e recepita dal film di Bellocchio, quindi tra il contenuto verosimile e il contenitore del dramma reale, tra il significato e il significante, scatta la scintilla che provoca il cortocircuito spazio-temporale degno di un racconto di fantascienza. E che invece partecipa delle dinamiche interne, imperscrutabili del caso Moro. Se non può dirsi innocuo e trascurabile il materiale cinematografico che giunge nella prigione brigatista, accendendo di conseguenza l’«immaginazione» molto realistica di Passoscuro/Bellocchio, non lo è nemmeno il racconto borgesiano adoperato da Sciascia come chiave privilegiata di accesso al sistema operativo del caso Moro. Suscettibile quindi di possibili sue riletture non allineate (L’affaire Moro come Buongiorno, notte), situate sul crinale che unisce e accumula anziché separare tipi contigui e complementari di «letteratura» a pieno titolo: quella del vero Borges che confluisce nel testo di Sciascia, quella della vera Dickinson che confluisce parallelamente nel testo cinematografico del fantomatico Passoscuro. Letteratura da Biblioteca/Moroteca di Babele in cui, tra un’insidia e l’altra, si trova tutto e il contrario di tutto: un “tutto” molto relativo, parziale, riscrivibile senza sosta come la volonterosa verità storica, sempre e comunque in vantaggio su quella giudiziaria. Lo stesso vantaggio di cui gode l’altrettanto “storica” sceneggiatura acquisita da Bellocchio nel suo film, che da sola connota l’intraprendente, inesperto, sventato Enzo Passoscuro. La cui funzione nel film coincide con la funzione insostituibile del film medesimo. Chi come Passoscuro, tirando a indovinare, scopre come stanno/vanno le cose, in virtù di una «immaginazione» rivendicata, trasferita sulla carta e destinata allo

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schermo, non può non essere al servizio di quel dispositivo immaginifico che è il film. In quanto personaggio-pedina, pirandellianamente «in cerca d’autore», Passoscuro recita la parte che il regista gli assegna demandandogli il delicato compito di prevedere, forse semplicemente di vedere. Detto meglio, Passoscuro riesce più di qualunque altro personaggio o soggetto inquirente, interno o esterno alla finzione, a controllare il tracciato degli eventi reali e cinematografici, senza distinzioni. Forse è per questo che a sorpresa viene arrestato dalla polizia. Come se fosse lui, portatore sano e neutrale di verità immaginate, e non Chiara, cioè la suddetta entità femminile una e trina (composta dalle commutabili, concordanti, contigue Braghetti/Faranda/Balzerani), la principale minaccia per lo Stato o per la conoscenza piena del caso Moro nel film. In virtù di un cognome e di una sceneggiatura, che Bellocchio replica, amplifica, riassorbe, operando una mise en abîme, Enzo Passoscuro si trasforma nell’asse onnisciente della scena e del quadro. La sceneggiatura del giovane protagonista ricopia i fatti, li riflette, li mette nero su bianco prima che essi accadano, ne segue gli sviluppi, passo(scuro) dopo passo(scuro), come un’ombra tutt’altro che sinistra. Come una ripetizione illuminante che squarcia il buio (appunto: Buongiorno, notte). Un surplus di immagini in azione? Un’esercitazione di “pazzia” artistica molto simulata, non meno “metodica” di quella contestata ad Aldo Moro? Se anche fosse, si tratterebbe comunque di una “pazzia” non meno preoccupante dello spettacolo allestito a posteriori da Amleto, o della provocazione scenica dei velleitari convittori di Nel nome del padre: un tentativo di esternare, liberare e recitare i propri fantasmi come quello fatto poi dal giovane Kostantin Gavrilovic in Il gabbiano. Del resto anche il pittore Ernesto Picciafuoco di L’ora di religione, alle prese con un progetto grafico sul Vittoriano, scopre solo in un secondo momento che proprio quel monumento è stato individuato come bersaglio di un progetto di attentato dinamitardo da un architetto “folle”. Non un “folle” qualsiasi, ma uno che ha avuto in mente il Vittoriano prima di Ernesto, come Passoscuro che scrive il film prima/per/di Bellocchio. E se lo sceneggiatore di Buongiorno, notte viene in seguito, chissà perché arrestato, l’architetto attentatore in pectore di L’ora di religione, non così paradossalmente, è in cura da Ettore Picciafuoco, fratello del protagonista Ernesto ed ex terrorista e psichiatra redento dalla (madre) Chiesa.

Anniversari, onomastici Buongiorno, notte, estremizzando questa specifica, curiosa circostanza del precedente L’ora di religione, finisce per essere l’epicentro dell’ultratrentennale progetto bellocchiano per lo più sommerso ma non nascosto

sul caso Moro. Progetto cominciato in sordina, forse per pura coincidenza, con La macchina cinema, e proseguito a ritmo sostenuto incorporando sovra-scrizioni, appropriazioni, rimedi depistanti smascherati da «ri-mediazioni».20 E di simili rimedi(azioni) Bellocchio se ne intende, dal verso della Dickinson alla sceneggiatura accreditata dai brigatisti e attribuita nel film al Passoscuro di turno. Questo passaggio di consegne dà il via a una concatenazione di congetture e di dati concreti, come dotato di concretezza, per quanto suggestivo, è ad esempio il cognome stesso Passoscuro. Indubbiamente un cognome assai metaforico, uno tra i tanti nomi e cognomi della filmografia di Bellocchio. Non c’è che l’imbarazzo della scelta: Malvezzi in La Cina è vicina, Angelo Transeunti, Corazza o Diotaiuti in Nel nome del padre, Ponticelli e Sciabola in Salto nel vuoto, Pallidissimi in Gli occhi, la bocca, Pulcini in Diavolo in corpo, Malatesta nella Condanna, Picciafuoco, don Pugni (da I pugni in tasca) o Baldracchi in L’ora di religione. E ancora Elica, Smamma o Baiocco (come Bellocchio) in Il regista di matrimoni. Ciò non toglie che alcuni di questi o di numerosissimi altri nomi e cognomi, efficaci a livello fonico o emblematici sul piano semantico, possano persino essere presi alla lettera: Ci sono dei percorsi anche solo di suono. Non può essere solo di significato. Però c’è anche il significato. Picciafuoco poi mi hanno detto che era un famoso terrorista nero, non rosso. Però Picciafuoco mi piaceva per Ernesto Picciafuoco […]. Eppoi alcune volte si prendono i nomi propri per esclusione. Se nel film prima uno si chiama Carlo o Giovanni, dici: va be’, questo come lo chiamiamo? Ernesto. […] In Picciafuoco c’è anche un pochino di significato.21

Un conto sono però i nomi, comunque importanti e tutt’altro che estemporanei per Bellocchio, un altro sono i cognomi, specialmente in casi eccezionali. Come quello del «terrorista nero» quasi omonimo del pittore di L’ora di religione: cioè il Sergio Picciafuoco condannato in primo grado per la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, poi assolto con sentenza definitiva. A quest’altro Picciafuoco i giudici Vito Zancani e Sergio Castaldo nella sentenza-ordinanza depositata presso il Tribunale di Bologna il 14 giugno 1986 hanno dedicato un intero paragrafo dal titolo L’enigma Picciafuoco.22 Un cognome non qualsiasi il suo, impegnativo e a rischio come pochi. Non foss’altro perché il Picciafuoco in questione non aveva esitato nel 1990, a dieci anni dalla strage, mentre era in corso il processo d’appello, a denunciare la casa editrice Rizzoli e lo scrittore Loriano Macchiavelli (che allora si celava dietro lo pseudonimo Jules Quicher) per l’uso esplicito del suo vero nome e cognome nella prima edizione del romanzo Strage. Dove leggiamo: «In realtà si chiama Piccia-

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fuoco Sergio, un delinquente comune. Latitante».23 Macchiavelli, allora sotto pseudonimo, del Picciafuoco “enigmatico” aveva usato anche i due nomi e cognomi di copertura, Enrico e Eracli[t]o Vailati, acquisiti dagli atti processuali. Tanto che nella nuova edizione del 2010 del romanzo tutti questi nomi e cognomi sono stati per ovvie ragioni in toto o in parte cambiati: il Picciafuoco Sergio del 1990 è diventato Victor Floriani, gli ex Enrico e Eracli[t]o Vailati usati durante la latitanza da Picciafuoco sono stati cautamente trasformati in Enrico ed Eracli[t]o Valloni. Insomma, a scherzare con il (Piccia)fuoco si rischia di bruciarsi. Il Sergio Picciafuoco accusato, condannato e poi scagionato dall’accusa di concorso nella strage di Bologna, che con tanto di nome e cognome «compariva nell’opera e si riteneva diffamato», ha ottenuto il ritiro del libro a soli pochi giorni dalla sua uscita in libreria.24 L’impertinente sfida all’evidenza lanciata quindi in L’ora di religione da Bellocchio, che tra l’altro gira interamente a Bologna il suo film immediatamente successivo alla strage, Gli occhi, la bocca, cominciando proprio con l’arrivo in stazione del protagonista, risulta non solo estremamente sottile, ma anche abbastanza trasversale. Perché non va dimenticato che uno dei quattro fratelli di Ernesto proviene dalla lotta armata. L’Ettore Picciafuoco cinematografico è un ex terrorista, come si è detto. E tanto per non perdere di vista i nomi, accanto ai cognomi, bisogna anche ricordare, per restare in tema di onomastica, che in L’ora di religione non solo il cognome di Ernesto rimanda al suddetto Picciafuoco, ma il nome stesso dell’attore scelto per interpretarlo: Sergio Castellitto. Senza contare che condividono l’iniziale “E” proprio i nomi dei cinque fratelli picciafuoco: Ernesto, Ettore, Erminio, Eugenio e un Egidio di manzoniana memoria che si vorrebbe trasformare in «matricida pentito» (come il protagonista, quindi l’autore di I pugni in tasca). La stessa vocale con cui cominciano i nomi usati dal «famoso» Sergio Picciafuoco all’epoca della latitanza: Enrico ed Eraclio (Vailati). Gli unici riferimenti onomastici diretti sopravvissuti nell’aggiornata edizione del controverso e a suo tempo censurato romanzo di Macchiavelli. Ne consegue che siccome il Sergio Picciafuoco della realtà «era un famoso terrorista nero, non rosso», opportunamente quello di L’ora di religione diventa «un famoso terrorista rosso, non nero». Ripetizione non indifferente, né pedissequa. Come quella che prima Deleuze poi Sciascia desumono filologicamente da Borges. E che sempre Sciascia in L’affaire Moro restituisce a chi di dovere: «E direbbe Pirandello: “il dramma, signori, è tutto qui”». Se da Pirandello a Sciascia, passando per il caso Moro, il passo è breve, lo è anche quello che da Pirandello, lungo la via crucis di Moro, conduce a Bellocchio.

Il segno della croce Molte strade nella filmografia di Bellocchio, dopo il 1978, portano a Roma. E riportano agli anni di piombo in generale e al martirio “cristologico” di Moro in particolare. Pensiamo naturalmente al segno della croce che i brigatisti di Buongiorno, notte al rallentatore immaginariamente si fanno prima di consumare l’inequivocabile “ultima cena” del condannato a morte. Un Moro novello Cristo crocifisso suggerito tra l’altro nel precedente L’ora di religione dall’immagine ugualmente al rallentatore di un giovane figurante con la croce sulle spalle travestito da Cristo che procede, davanti alla libreria Rinascita, in via delle Botteghe Oscure. Di cui via Cateani è «la seconda traversa a destra», come tiene a precisare Morucci nella drammatica telefonata, inserita da Bellocchio sia in Sogni infranti che in La religione della storia, all’assistente di Moro in lacrime, Franco Tritto, originario protagonista del primo abbozzo del progetto di Buongiorno, notte. Spulciando nella Moroteca di Babele viene spontanea l’associazione di idee, e di immagini, con la copertina del numero del 18 aprile 1978 di «OP» diretto dal giornalista piduista Mino Pecorelli recante la macabra caricatura di Cossiga e Zaccagnini sotto un Moro crocifisso, mentre nel successivo numero del 2 maggio, pochi giorni prima che la sentenza di morte divenisse “esecutiva”, il titolo scelto è addirittura Processo, crocifissione, morte, resurrezione di Aldo Moro.25 Un Moro equiparato a Cristo lo troviamo anche nell’allusivo, anomalo, informato reportage diaristico sul caso Moro, Christ in Plastic di Pietro Di Donato, pubblicato alla fine del 1978 sul mensile americano «Penthouse»26 e vincitore dell’Overseas Press Club Award. Poi è la volta di Bellocchio che in Vacanze in Val Trebbia mostra, anticipando quello di L’ora di religione, un Cristo esausto. Un Cristo che dalla croce implora ripetutamente, fino all’ultimo, di essere slegato ed essere restituito all’affetto dei cari: «Aiuto! Fatemi scendere da qui. Non voglio restar qui in cima per sempre. Aiuto! fatemi scendere. Aiuto! Tra poco viene notte, non voglio stare qui. Aiuto! Fatemi scendere. Mia madre mi aspetta. Aiuto! Non potete lasciarmi qui, tornate indietro!». Come coincidenza, un’altra, non c’è male. Del resto anche lo statista democristiano, lontano dalla famiglia che lo aspettava, crocifisso a suo modo o comunque lasciato solo, non ha fatto che chiedere accoratamente o con indignazione la stessa cosa nelle sue tante – spedite, non spedite, vane e inascoltate – missive. A tutti questi vanno aggiunti due ulteriori richiami “cristologici” rintracciabili ancora in Buongiorno, notte. Dove, se non in questo film, avremmo potuto vedere il Cristo in croce in sovraimpressione al termine della telecronaca dei funerali di Stato dei cinque agenti della scorta di Moro? E dove altro avremmo potuto sentire parlare di «Cristo nell’orto del Getsemani» se non nell’incipit di uno dei più importanti e già trascritti dialoghi tra Moro e Mariano, in

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cui – lo abbiamo sottolineato spesso – qualcosa non torna o torna fin troppo nell’alternanza tra campo (di Moro, a volto scoperto) e controcampo (di Mariano, coperto dal passamontagna)? Mariano: Hai paura di morire? Moro: Perché me lo chiede? Mariano: Eppure tu credi nell’Aldilà. Moro: Anche Cristo nell’orto del Getsemani ha avuto paura.

Abbiamo parlato del film, giustamente. Ma non possiamo tralasciare la sceneggiatura originale, quella effettiva di Bellocchio, in cui dopo l’unico, fulmineo accenno diretto a una via Montalcini riconoscibile dall’esterno, poi rimosso nel film, leggiamo tra parentesi: 188

Chiara avanza nel giardino fino alla ringhiera Via Montalcini deserta (Il manifesto pubblicitario che cosa propaganda? Un detersivo? Un film? O la via Crucis del Colosseo col Papa che porta la Croce? O un film tipo Gesù di Zeffirelli, Pasqua è vicina e Natale è da poco trascorso, rimando simbolico alla Nascita, alla Morte e alla Resurrezione…).27

Ma quella del 26 marzo del 1978 non fu una Pasqua di «Resurrezione». Non per Moro almeno. Perciò non va trascurata nemmeno una delle tavole disegnate da Bellocchio per la scena 29 in cui vediamo un Cristo che trasporta la croce, preceduto da donne coperte, circondato da un soldato romano con la spada e da giornalisti armati di microfoni e macchine fotografiche che chiedono: «Gesù! Gesù! Ci dica… Ci dica…». Nell’appunto in alto a destra: «Cristo come Moro, la Pasqua è proprio durante la sua prigionia e vi abbiamo alluso spesso nella sceneggiatura».28 Né soltanto a Vacanze in Val Trebbia, L’ora di religione e Buongiorno, notte spetta l’esclusiva del Moro cristologico o del Cristo moroteo. Persino in Vincere il giovane Mussolini convalescente, dopo essere stato ferito durante la Grande Guerra, assiste sul soffitto dell’ospedale da campo, adibito a schermo, alla proiezione del film muto Christus (1916) di Giulio Antamoro. Cognome quest’ultimo che potrebbe (ir)ragionevolmente anche essere letto “Anta-Moro”. Così come, sempre in Vincere, l’altro film muto italiano (Le avventure straordinarissime di Saturnino Farandola) consente di sfruttare con ogni probabilità l’allitterazione Farandola/Faranda. Suggerita in precedenza, un po’ decontestualizzata, quest’ultima allitterazione sarà parsa un

po’ forzata. Ora invece sembra aver trovato buona compagnia, guadagnandoci forse in verosimiglianza. L’equazione Cristo-Moro potrebbe dirsi ampiamente declinata in tutte o quasi le sue occorrenze bellocchiane, tra cui forse non sarebbe fuori luogo aggiungere quelle di Bella addormentata. Ma nella sostanza non c’è molto altro da aggiungere al discorso fatto fin qui. Ci sia concessa appena una breve postilla che esige un piccolo supplemento di attenzione. Il discorso su L’ora di religione, prefigurando il successivo Buongiorno, notte, non può infatti dirsi concluso. Di ognuno dei cinque Picciafuoco, figli della donna da beatificare, la benemerita «Congregazione pontificia per le cause di canonizzazione» ha provveduto a redigere una scheda on-line. In quella di Ettore, che Ernesto legge tra sé, scuotendo la testa, c’è scritto: «Imputato per concorso in banda armata nel 1981. Convertitosi alla dottrina cattolica nel 1999». Scelta fatta, come Ettore ammette: «Per sopravvivere». Una scelta di conversione religiosa e redenzione cristiana dettata dunque dal puro e molto italiano istinto di sopravvivenza. Sulla falsariga, potremmo aggiungere, della decisione presa dal terrorista dissociato Giacomo Pulcini di Diavolo in corpo, assistito da sacerdoti cattolici alquanto persuasivi e influenti. Fin qui Bellocchio, e per così dire la finzione. Si dà però il caso che «L’immaginazione è reale». Non avrebbe tutti i torti a reclamarlo Enzo Passoscuro, visto che l’ex terrorista psichiatra Ettore Picciafuoco di L’ora di religione, complice quel cognome compromettente, equivale sia allo psichiatra ex terrorista di Ancona Massimo Gidoni, intervistato da Bellocchio in Sogni infranti, sia all’innominabile Sergio Picciafuoco, originario di Osimo, in provincia di Ancona.

L’enigma Passoscuro Abbiamo visto come i cognomi, ma anche i nomi nei film di Bellocchio non obbediscano a istanze esclusivamente metaforiche. Spesso accade che nelle situazioni più intricate le cose possono essere invece estremamente semplici. Picciafuoco ad esempio è un cognome che vanta una lunga storia e deriva dall’unione delle parole “(ap)piccia” (o “appicca”, cioè “accende”) e “fuoco”. Nella cornice di L’ora di religione e in generale in quella di ogni film di Bellocchio indicherebbe non tanto un antico mestiere tramandato di generazione in generazione, secondo l’uso dei cognomi, ma legittimamente un tipo di personaggio incline ad “accendere” ben altri “fuochi”: siano essi conflitti, scontri, tensioni, ordigni esplosivi. Un provocatore, insomma, o un eversore. Tanto un terrorista come Ettore Picciafuoco quanto un artista non allineato come Ernesto Picciafuoco possono in L’ora di religione rivendicare la pertinenza di un cognome, che suonerebbe piuttosto come un

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appellativo o un soprannome di sicuro molto appropriato. Eppure, come ha ammesso anche Bellocchio, resta innegabile l’esistenza di «un famoso terrorista nero, non rosso» di cognome Picciafuoco. Importa relativamente che Bellocchio sostenga di essersene reso conto solo in un secondo momento. Importa piuttosto far notare come quello da lui scelto in L’ora di religione non sia esattamente o soltanto un traslato, bensì un cognome proprio di una persona reale, dal passato impressionante e assai suscettibile sul fronte giudiziario. Uno con cui non conviene tanto scherzare o che non è bene nominare senza la necessaria copertura legale. Ma questo è il minimo se si considera il caso successivo di Buongiorno, notte. Qui un discorso analogo va fatto per un cognome di gran lunga più gravoso come Passoscuro. Più volte e per le più svariate ragioni abbiamo menzionato il Passoscuro di Buongiorno, notte giocando volentieri con un doppio senso fin troppo palese: “passo oscuro”. Si sa che nel caso Moro i “passi oscuri” si sprecano, quindi è scontato associare tale cognome al suo significato più appariscente. Quantunque anche stavolta secondario. Infatti se ci si immerge nell’aggrovigliata matassa di piste e di materiali della smisurata Moroteca di Babele si scopre che di Passoscuro si parla in senso tutt’altro che metaforico. Non come di un cognome, né di un soprannome, ancorché suggestivo. Bensì come di una località ben precisa. Probabilmente gli studiosi o anche gli appassionati di cinema ricorderanno la spiaggia di Passoscuro, la frazione del comune di Fiumicino situata sul litorale a nord di Roma, dove è stato girato il finale di La dolce vita (1959) di Fellini. Anche gli studiosi del caso Moro, specialmente i dietrologi, come loro stessi accettano di farsi chiamare senza alcun complesso di inferiorità, conoscono bene Passoscuro. Ma persino questi ultimi forse ignorano una bizzarra circostanza che collega direttamente tale località, Fellini e le indagini sul delitto Moro. Negli Atti della Commissione Moro si trova una nota dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Roma del 4 dicembre 1978 in cui il consigliere istruttore Achille Gallucci incaricato del «Proc.[edimento] penale» nei confronti di «ALUNNI Corrado29 ed altri» chiede al Comando della IX Legione della Guardia di Finanza di Roma di redigere, tramite indagini presso locali uffici di Conservatoria, completo elenco degli atti di compravendita stipulati nel periodo gennaio 1977-maggio 1978, di immobili compresi nella zona costiera tra le frazioni di Focene e Passoscuro del Comune di Roma, indicando, oltre la data dell’atto generalità dei contraenti e prezzo dichiarato, sommaria descrizione degli immobili ed ogni altro utile dato ai fini della nota ricerca.30

L’esito dell’esame compiuto dalla Guardia di Finanza arriva il 3 marzo dell’anno successivo e contiene alcuni atti di compravendita di immobili

tra cui uno in cui a vendere è «la Signora Giulia (o Anna) MASINA in FELLINI nata a San Giorgio di Piano il 22 febbraio 1921 a Roma, e domiciliata a Roma, in via Margutta nr. 110».31 Questa qui riportata non è soltanto una banalissima curiosità. Aiuta a far capire nel complesso come e quanto gli organi inquirenti si stiano effettivamente occupando di Passoscuro, non certo per motivi di cinefilia. Attorno a questa località ruota fuor di metafora uno dei principali “passi oscuri” dell’intera vicenda. A dimostrazione di come il cognome del giovane sceneggiatore di Buongiorno, notte non corrisponda a una figura retorica, peraltro molto efficace, ma a un toponimo, proviamo a ripercorrere le tappe salienti. A cominciare dalla perizia dei professori Valerio Giacobini e Gianni Lombardi sul «materiale sabbioso e vegetale rinvenuto su alcuni indumenti e nella autovettura dove fu trovato il cadavere [di Moro]»: 1) La sabbia nel risvolto del pantalone sinistro dell’on. Moro e quella rinvenuta sul lenzuolo incerato sul quale poggiava il cadavere hanno mostrato caratteri di completa sovrapponibilità. 2) La sabbia è riferibile come provenienza da un’area di spiaggia del litorale tirrenico compresa tra il settore nord di Focene e Marina di Palidoro (provincia di Roma)… 3) Materiale del tipo di quello esaminato si rinviene, per i luoghi sopra menzionati, a una distanza dal bagnasciuga molto ridotta, variabile da pochi metri a un massimo, solo per limitatissimi settori del litorale indicato, di più di un centinaio di metri… 4) La presenza di bitume fresco sotto la suola delle scarpe e tracce analoghe rinvenute nel materiale repertato all’interno della vettura confortano quanto affermato al punto 3. Inoltre alcune peculiarità lasciano presumere che, entro due settimane prima del ritrovamento dell’auto, la vittima abbia camminato in una zona molto prossima al bagnasciuga ove massima è la frequenza del bitume. 5) Anche gli elementi vegetali rinvenuti sugli indumenti sono specifici dell’ambiente del litorale tirrenico e indicano che essi sono stati raccolti in un’epoca compresa tra la fine di aprile e il maggio 1978. 6) Parte del materiale rinvenuto sotto la suola delle scarpe indica che la vittima, in epoca anteriore a quella in cui è transitata sulla sabbia del litorale, ha camminato su un terreno vulcanico tipico delle zone interne e peri-tirreniche del Lazio; detto [materiale], per alcuni caratteri, è simile a quello osservato nelle incrostazioni dei parafanghi della Renault 4.32

La provenienza di tale «materiale» ritrovato sui vestiti di Moro e nell’auto parcheggiata in via Caetani il 9 maggio 1978, è stato e continua a essere uno degli elementi più discussi del caso Moro, proprio perché rimet-

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terebbe in dubbio l’unicità della prigione di via Montalcini. Con buona pace delle opposte letture degli esiti di questa perizia fornite da dietrologi da un lato e spiegazionisti dall’altro, fa riflettere semmai il pronto intervento dei brigatisti, ad esempio della Faranda e della Balzerani, che ovviamente anche di questa incongruenza danno una spiegazione “plausibile”. Entrambe infatti «affermano incredibilmente»33 di avere provveduto a recarsi sul litorale «per depistare» gli inquirenti. Per eccesso di zelo, addirittura, nei rispettivi libri L’anno della tigre e Compagna Luna, sia la Faranda che la Balzerani dichiarano di avere compiuto di persona l’azione, contraddicendosi a vicenda. Nel primo libro si legge che «qualche giorno prima Adriana era perfino andata sulla spiaggia di Ostia per prelevare la sabbia, le cui tracce, trovate nel risvolto dei pantaloni della vittima, avrebbero dovuto depistare le indagini su dove fosse ubicata la prigione».34 Nel secondo: «Andai a prendere della sabbia sul lungomare. Serviva per depistare le indagini. Perché l’avremmo fatta trovare addosso al corpo senza vita del prigioniero. Nel viaggio di andata verso la spiaggia più vicina mi muovevo come un automa. Cosa stavo facendo? Ah, sì, sotto le scarpe e nei risvolti dei pantaloni».35 Occorre a questo punto che qualcun altro, o meglio qualcun’altra intervenga per dirimere la questione. La palla passa alla terza brigatista, la Braghetti, che conferma quanto detto dalle precedenti due, ma si guarda bene dallo specificare chi di loro esattamente sarebbe andata in giro lungo le spiagge a nord di Roma a raccattare sabbia: «Per depistare le indagini, nel risvolto dei pantaloni di Moro si mise della sabbia presa sul litorale laziale, e tutti gli abiti furono cosparsi con acqua di mare».36 In un modo o nell’altro le tre donne, ripetendo parola per parola espressioni come «per depistare le indagini», «nel risvolto» o «nei risvolti dei pantaloni», intendono invalidare le inferenze derivanti dalla perizia scientifica circa il luogo o i luoghi di detenzione del leader democristiano. Bellocchio, già interessato a Nell’anno della tigre, poi alle prese con Il prigioniero, risolve le cose definendo l’appartamento-prigione uno «spazio chiuso e “sconfinato”». L’ossimoro è una figura retorica importante e reiterata per comprendere, a partire dal titolo stesso, la strategia di Buongiorno, notte. Ovviamente nel film non si parla affatto di sabbia e di detriti vegetali sugli indumenti di Moro o nella Renault 4. Anche stavolta la logica sembrerebbe quella strutturalista della «casella vuota» deleuziana: È sempre in funzione della casella vuota che i rapporti differenziali sono suscettibili di nuovi valori o di variazioni, e le singolarità capaci di distribuzioni nuove, costitutive di un’altra struttura. E poi occorre che le contraddizioni siano «risolte», ossia che il posto vuoto sia liberato dagli avvenimenti simbolici che lo occultano o lo riempiono, che sia restituito al soggetto che deve accompagnarlo su dei nuovi cammini, senza occuparlo né disertarlo.37

Ciò che comunque ci preme sottolineare, al di là di ipotesi o congetture, è che Passoscuro, come località (nei pressi della quale, a Palo Laziale, è stata peraltro girata la lunga scena del sabba38 di La visione del sabba), scompare almeno da Buongiorno, notte per rientrarvi sotto forma di cognome. Un cognome mai pronunciato, mai udito, che troviamo soltanto messo nero su bianco, dattiloscritto, affinché venga visto e letto inequivocabilmente sulla copertina della singolare, discronica sceneggiatura. Preso atto della molto probabile macro-allusione bellocchiana ai fatti connessi all’enigma (del luogo) denominato Passoscuro, chiediamoci anche perché l’uccisione materiale del prigioniero resti fuori dal film. L’autore a tal proposito si limita a mostrare un prima (i brigatisti che conducono fuori Moro bendato) e un dopo (le immagini televisive dei funerali), incorniciati in un’ipotesi liberatoria (la controversa passeggiata di Moro all’alba, scandita in due tempi). Ipotesi che però potrebbe persino non risultare del tutto alternativa o incompatibile con i due segmenti contigui e intermedi in cui vediamo Moro avviarsi verso l’uscita scortato fuori dalla «prigione della prigione» dai carcerieri maschi e, a seguire, i suoi assurdi funerali pubblici. Riflettiamo: se Moro fosse stato condotto dai brigatisti fuori dal covo, ovunque si trovasse, e consegnato a soggetti terzi non meglio identificati, ebbene, stando a ciò che si vede nel film, cioè all’ordine del discorso presente nella sequenza conclusiva, potrebbe aver davvero goduto di un momento di libertà o a memoriale concluso di una ragionevole speranza di libertà,39 magari solo nella propria mente o in un reale spazio aperto in cui gli era comunque concesso passeggiare. Se a questo punto dovessimo chiederci dove, tornerebbe in pista l’opzione Passoscuro. Cioè quella di una prigione collocata nel tratto costiero tra Marina di Palidoro e Focene da dove, secondo la citata perizia, provengono i materiali indizianti sull’ubicazione del prigioniero nei giorni immediatamente precedenti la sua morte. Nei pressi di Passoscuro, a Palo Laziale, futura location di La visione del sabba, si trova una villa sporgente sul mare, originariamente una stazione di posta seicentesca edificata su ruderi romani appartenuta, come la tenuta circostante, al principe Odescalchi e divenuta nel 1960 residenza del petroliere miliardario Paul Getty, deceduto nel 1976. Getty, dopo il sequestro del nipote nel 1973, l’aveva lasciata. Una volta venduta dagli eredi alla società svizzera Cobajar, nel 1980 viene trasformata nell’albergo molto esclusivo La Posta Vecchia. Durante i cinquantacinque giorni del rapimento Moro l’ampia e invalicabile villa Odescalchi, con annessa oasi protetta e pista per consentire l’atterraggio a elicotteri, viene indicata da più parti40 come luogo particolarmente adatto a occultare una prigione che poteva rimanere ignota perfino ai custodi. Ricapitolando: nel 1978 il magnate americano è morto da due anni e la transazione immobiliare è ancora molto lontana. E le coincidenze che hanno condotto la Commissione Stragi in questa residenza esclusiva, rimasta in quel periodo zona franca, a poca distanza da Passoscuro, aiuta a capire il

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senso dell’omonimo personaggio del film di Bellocchio, la cui «sceneggiatura con uno strano titolo: «Buongiorno, notte»,41 si direbbe piuttosto un’ineccepibile mise en abîme. Così, tanto per restare in tema, c’è un’ultima coppia di nome e cognome da aggiungere alla lista: quello di tale Giulia Baiocchi,42 che nel caso Moro fa da trait d’union tra via Gradoli e Passoscuro:

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Ma nel covo BR di via Gradoli il 18 aprile 1978 venne trovato un secondo reperto che portava a Manziana: tra le pagine di un libro (La dittatura del proletariato in Cina) c’era un appunto manoscritto col nome di Giulia Baiocchi, nata a Manziana, e gli estremi della patente di guida della donna. La polizia accerterà che la Baiocchi, militante dell’Autonomia operaia, era insegnante presso una scuola di Manziana, ma nel 1977 aveva insegnato nella scuola “Bruno Buozzi”. In quella stessa scuola romana “Bruno Buozzi” lavorava la brigatista Marina Petrella, anche lei sottoposta a tardive indagini in seguito a reperti trovati nel covo di via Gradoli. Verrà arrestata ai primi di gennaio del 1979 insieme al marito Luigi Novelli e al fratello Stefano Petrella, poiché i tre facevano parte del Fronte logistico della colonna romana delle Br.43

E per chi non lo sapesse, Manziana, dove ha insegnato quella che la polizia chiama la «nota Baiocchi Giulia»,44 è un piccolo centro della provincia di Roma nella zona collinare dei Monti Sabatini non distante da Focene, Marina di Palidoro, Palo Laziale. In pratica, senza bisogno di sfogliare una mappa, siamo sempre nei paraggi di Passoscuro. Quindi anche in quelli di Buongiorno, notte. Con i nomi e i cognomi dei film di Bellocchio dovremmo aver cominciato ormai a familiarizzare. Delle varie Giulia che vi compaiono si è ormai perso il conto, come delle numerose Anna. Quanto a questo Baiocchi è fin troppo semplice accorgersi di come anche il quasi omonimo Baiocco di Il regista di matrimoni abbia poco a che fare solo con la fantasia, il doppio senso o l’assonanza onomastica Baiocco/Bellocchio. La realtà ancora una volta supera di gran lunga l’immaginazione. O più probabilmente ha daccapo ragione l’infallibile Passoscuro di Buongiorno, notte a ricordarci: «L’immaginazione è reale». Lui sì che se ne intende.

Una sceneggiatura al buio Di tutti i film di Bellocchio Buongiorno, notte è quello che più si presta ad asseverare l’ineccepibile impianto borgesiano del Pierre Ménard, già sperimentato da Sciascia e prima ancora così descritto da Deleuze:

Si sa che Borges eccelle nel resoconto di libri immaginari. Ma egli si spinge più avanti quando considera un libro reale, per esempio il Don Chisciotte, come se fosse immaginario, anch’esso riprodotto da un autore immaginario, Pierre Ménard, che egli considera a sua volta come reale. Allora la ripetizione più esatta e più stretta ha per correlato il massimo di differenza.45

Ora, se sostituissimo 1) allo scrittore Borges il regista Bellocchio, 2) al «libro reale» la sceneggiatura altrettanto reale (e nel film intitolata come il film stesso, Buongiorno, notte) trovata nella borsa di Moro, infine 3) all’«autore immaginario» del racconto, Pierre Ménard, l’autore di questa sceneggiatura ugualmente immaginaria, Enzo Passoscuro, cosa se ne ricava? La trascrizione, e la sottoscrizione dell’assunto deleuziano: “Si sa che Bellocchio eccelle nel resoconto di film immaginari. Ma egli si spinge più avanti quando considera una sceneggiatura reale, per esempio Buongiorno, notte, come se fosse immaginaria, anch’essa riprodotta da un autore immaginario, Enzo Passoscuro, che egli considera a sua volta come reale. Allora la ripetizione più esatta e più stretta ha per correlato il massimo di differenza”. Non fa una piega. Quello che potremmo dunque chiamare il “metodo” Borges-DeleuzeSciascia funziona a meraviglia se applicato a Buongiorno, notte. Deleuze riprende Borges nel 1968, Sciascia nel 1978 e Bellocchio, seppure non dichiaratamente, nel 2003. Per Sciascia il banco di prova è stato il caso Moro. Stesso dicasi per Bellocchio. Tanto che, a proposito della sceneggiatura di un quarto di secolo prima (la cui paternità non è mai stata reclamata dall’ignoto autore) finita anche nel film tra le mani del dirigente dell’esecutivo brigatista, egli scrive nella sua, di sceneggiatura, che ha uno «strano titolo»: Mariano si toglie di tasca un orologio e un portafoglio, li appoggia sul tavolo, poi comincia a vuotare le borse [di Moro], tre-quattro paia di occhiali, documenti, medicine, una fiaschetta di whisky, la foto di un bambino (Luca), una sceneggiatura con uno strano titolo: Buongiorno, notte. Mariano la sfoglia un attimo, poi la richiude…46

Il «titolo» è omonimo del film che egli stesso si accinge a realizzare. Più «strano» di così! Inoltre i puntini di sospensione, assai frequenti nel testo, fanno intendere uno sviluppo appena accennato, suggerito, il cui compimento viene rimandato all’esito finale sullo schermo. Cioè all’inquadratura in dettaglio che rende tra l’altro non più anonimo l’autore della “storica” sceneggiatura parallela, modulare e propedeutica:

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“Buongiorno, notte” sceneggiatura di: Enzo Passoscuro Febbraio 1978

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C’è dunque una bella ripetizione/differenza tra la sceneggiatura Buongiorno, notte per un film da fare (scritta dal finto Passoscuro) e il film Buongiorno, notte (scritto e diretto dal vero Bellocchio). In questo secondo caso non è «strano» neppure il solo «titolo», ma anche l’autore, come abbiamo spiegato nel paragrafo precedente. E più «strano» ancora sembra il riferimento cronologico, «Febbraio 1978», anteriore al rapimento. Di questa precisazione temporale non esiste traccia nemmeno nella sceneggiatura di Bellocchio, a parte i suddetti puntini di sospensione, che non sono comunque cosa da poco. Sappiamo però che ogni casella mancante in Bellocchio acquista importanza primaria, in virtù di ulteriori coincidenze suggerite. Vale quindi la pena di approfondire la questione della data indicata nel/ dal film. Ma prima cerchiamo di capirci di più sulla sceneggiatura che realmente sembrerebbe aver fatto parte del contenuto di una delle due borse di Moro prelevate dai brigatisti. Non c’è da sorprendersi se questa, per quanto eccentrica, sia una circostanza tutt’altro che immaginaria. Sebbene vada considerata con la dovuta cautela, date le fonti che ne accreditano l’esistenza, un dato è certo: non è un’invenzione di Bellocchio, il quale, anzi, sembra crederci, o almeno lo ritiene un elemento cartaceo più che valido. Ripetiamo: non soltanto da inserire nel film, ma da intitolare come il film. Potremmo dire che questa sceneggiatura di cui parlano i brigatisti in carcere è per Bellocchio importante quanto il film, tutto il film. Per metterne in risalto la copertina, l’autore sceglie di riprendere e montare l’inserto (del) particolare della copertina. In questo modo convergono semanticamente e tecnicamente l’aggettivo e il sostantivato “particolare”: la peculiarità e l’inquadratura, o meglio la peculiarità del contenuto molto circostanziato dell’inquadratura stretta. Lo stile del film diventa così un riflesso condizionato del problema concreto, con i suoi effetti collaterali, i suoi aspetti logici e metodologici. La “particolarità” del “particolare” della sceneggiatura corrisponde quindi alla “parte” non trascurabile per il “tutto” intricato (il singolo film rispetto all’intero caso Moro): una sineddoche audiovisiva. Ragion per cui neppure l’aspetto sonoro va trascurato. Bellocchio si mette al riparo da obiezioni sulla verosimiglianza dell’accaduto attribuendo a Mariano/ Moretti un’espressione precisa, di incredulità, mentre sfoglia rapidamente e distrattamente il dattiloscritto: «Una sceneggiatura? Strano». L’aggettivo «strano» trascorre così da ciò che in sceneggiatura era stato soltanto annotato (ricordiamo: «una sceneggiatura con uno strano titolo: Buongiorno, notte») alla battuta quasi equivalente pronunciata dal personaggio («Una

sceneggiatura? Strano»). Di strano, a rigor di logica, ci sarebbe il dettaglio del frontespizio che, oltre al titolo Buongiorno, notte, rende leggibili il nome e il cognome dell’autore e la data, riconducibili ad altrettanti “passi oscuri” del caso Moro. Ma Bellocchio non sembra dello stesso avviso: Ma si legge perché tu forse hai fermato il fotogramma… Io limito al massimo queste comunicazioni di cui in fondo mi disinteresso, anche durante le riprese, tant’è che al montaggio riconosco che si sarebbe potuto fare di più, in questo senso. Mi capita di dare questi segnali ma con un calcolo a volte elementare, proprio da… esercente! L’informazione sulla sceneggiatura, con il titolo “Buongiorno, notte” e il nome Enzo Passoscuro ha la funzione di un piccolo aiuto allo spettatore, che però non compromette lo stile generale.47

Insomma, tanta esattezza per niente? E poi che vuol dire, in un film così puntuale e sorvegliato come Buongiorno, notte, minimizzare una visione attenta, analitica, in cui un comune videoregistratore o lettore rende non solo possibile ma fisiologico mettere in pausa la riproduzione e isolare il singolo fotogramma? Ci sarà un motivo se, per iscritto, questo «piccolo aiuto allo spettatore, che però non compromette lo stile generale» consente di memorizzare un titolo, un nome e cognome, una data. Magari mandando avanti e indietro il film, rallentando la velocità dell’esecuzione, arrestando l’inquadratura. Del resto, la prassi di fermare le immagini – neanche più delle videocassette, bensì dei supporti digitali – consentita dagli appositi dispositivi di riproduzione domestica (che peraltro risale alla primigenia vocazione per l’analisi scientifica e tecnica del movimento, più che alla sua rappresentazione spettacolare e artistica),48 si è talmente normalizzata da avere trasceso il problema centrale dell’analisi del film, così riassunto: «Nel caso del cinema, molto più chiaramente che in letteratura, si crea una demarcazione a seconda se si infranga o no la legge dello scorrimento che è il suo principio, a seconda se si decida o no di fare dell’arresto sull’immagine la condizione del proprio discorso».49 Buongiorno, notte viene invece concepito già dentro una prospettiva artistica e un contesto culturale in cui l’interesse per il freeze frame è stato metabolizzato dalla fruizione ordinaria del film, indipendentemente o persino a detrimento dall’analisi: Innanzitutto c’è un gesto imprescindibile: il fermo immagine. Non si potrà mai dire abbastanza quanto resti un gesto magico per eccellenza. Paradosso: il videoregistratore, strumento ideale per l’analisi, è anche quello che l’ha uccisa. Generalizzazione eccessiva, passaggio all’infinito, oggi si possono ormai possedere, fermare tutte le immagini.50

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In questo senso il dvd accelera il processo, ma epistemologicamente non cambia l’orizzonte aperto dalla possibilità di fermare l’immagine.51

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Buongiorno, notte nel 2003, a differenza di un film del 1965 come I pugni in tasca, non può più minimamente sottrarsi alla consuetudine dell’arresto e dell’impossessamento delle immagini da parte di uno spettatore minimamente “attrezzato”. E Bellocchio è il primo a saperlo, perché già da prima del 2003 ha concepito i suoi film come coerenti organismi intermediali. La comprensione di Buongiorno, notte in particolare, anche per lo strano rapporto di “(in)fedeltà” con il caso Moro, implica improvvisi cambi di registro, dettagli eloquenti evidenziati quasi involontariamente nel testo, accensioni visionarie, innesti soggettivi paralleli alla realtà ma presentati in continuità con quelli oggettivi, puntualizzazioni incongruenti o comunque non immediatamente funzionali al semplice racconto: «In Buongiorno, notte, in cui in modo del tutto infedele si parla di una vicenda storica, è chiaro che il discorso della Storia, filtrato dall’immaginazione, dalle fantasticherie o dalle connessioni tra il personaggio del film e la Storia stessa, è molto importante».52 Ciò che dovrebbe restare confinato nell’ombra o ai limiti della visibilità finisce fin troppo in luce, troppo in evidenza, sia pure per poco tempo, per non essere notato, ricordato e opportunamente considerato. Inutile negarlo. La logica del film viene riassunta sin dal titolo, il cui ossimoro serve a enunciare una contraddizione soltanto apparente. Dietro la quale si intravede e trova conferma non soltanto lessicale un principio di non contraddizione tra «giorno», cioè sovraesposizione alla luce, mera evidenza dei fatti, e «notte» intesa come ricorso obbligato a una sottoesposizione ribelle, diffidente, criticamente consapevole dell’oscurità che avvolge la rappresentazione: A prescindere dalle scelte narrative, nella notte puoi personalizzare maggiormente le immagini. Hai un potere limitato sulla macchina da presa, perché la macchina da presa riprende tutto. Nel momento in cui chiudi, oscuri, usi una serie di focali – io non sono mai stato e non sarò mai un virtuoso, però tutte le volte che ho cercato di mettere a fuoco o sfocare l’ho fatto intenzionalmente – ecco, nel momento in cui cerchi di occupare il fotogramma in modo personale, la notte è molto meglio del giorno [corsivo nostro]. Questa è una ragione stilistica, evidentemente. L’altra, profonda, è quella dell’inconscio: anche se poi ho attribuito un’importanza diversa alla notte a seconda dei periodi, è chiaro che il vero motivo è questo. Nei limiti e nei risultati, sono un autore anomalo nel cinema italiano anche perché non ho fatto film realisti, nemmeno quando sembravano tali.53

In pratica, non solo sotto il profilo dello stile, della tecnica in sé, ciò che la luce del giorno facilita, il buio notturno complica, introducendo alla dimensione inconscia ove tutto acquista una diversa, nuova, rivelatrice evidenza. Questo accade poiché proprio la semplificazione imposta dal giorno tende a inibire il contributo di verità ingrata e scomoda che invece la notte consente. Positività e negatività, luce e buio, giorno e notte insomma sono termini inseparabili, equivoci e commutabili. Lo si evince del resto dalla pronta risposta della protagonista di Vincere di fronte alla commissione psichiatrica preposta, sulla falsariga di quella di La visione del sabba, a valutarne la sanità mentale, ovvero la disponibilità a mentire. A domanda banale ma insidiosa, «È giorno o notte?», alla Ida di Vincere, come già alla Maddalena di La visione del sabba, non resta che dare risposte su misura, articolate però in due fasi. La prima risposta, «Il giorno comprende anche la notte», le consente di ribadire la propria lucidità, il suo essere razionale ma non ipocritamente “normale”, cioè complice della falsificazione disonesta che il regime pretende. La seconda risposta serve invece a dimostrare di non essere neanche comunemente pazza: «È mattino». Detto altrimenti, nella cornice del caso Moro: Buongiorno, notte.

Lo sceneggiatore e il colonnello Possiamo dedicarci ora con maggiore cognizione di causa alla effettivamente “strana” faccenda delle vere borse di Moro e del suo presunto contenuto cinematografico. Su cui si dice incredulo non solo il Mariano/Moretti del film di Bellocchio ma anche, come abbiamo accennato, il fratello dello statista rapito: Anche perché i documenti che erano nelle borse non dovevano essere di scarso rilievo se Moro se ne preoccupava tanto, come risulta dalle lettere se, come ha detto al processo Corrado Guerzoni – all’epoca capo dell’ufficio stampa di Moro – nella borsa ci dovevano essere i documenti più delicati… che portava sempre con sé […]. È vero che la Braghetti – in una sua intervista televisiva – per giustificare la distruzione delle borse ha affermato che esse non contenevano nulla di importante ma solo «lettere di raccomandazione, copioni di film, scenografie» (sic). L’affermazione è non solo contrastante con quanto ha detto Guerzoni e quanto fa intuire Moro con la sua ripetuta preoccupazione delle borse, ma è anche del tutto fantasiosa. Moro poteva anche essere ritenuto il “regista” della politica italiana, ma non certo un “regista cinematografico o teatrale” che accumula e porta con sé in macchina copioni e scenografie (sic).54

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Sarà, ma non è detto che quella della sceneggiatura sia solo un modo per nascondere altro materiale sensibile trovato nelle borse del prigioniero. Forse una sceneggiatura c’era davvero. L’atteggiamento concorde, degli studiosi e degli inquirenti oltre che dei brigatisti, nel ritenere irrilevante, se non addirittura fuorviante, tutto ciò che appartiene all’ambito strettamente cinematografico, o teatrale, deriva probabilmente da un errore di valutazione. Tra tutte le cose prive di valore che i brigatisti avrebbero potuto inventarsi pur di “alleggerire” il contenuto delle borse di Moro, sviandolo da oggetti documentali eventualmente ben più “consistenti”, una sceneggiatura sembrerebbe la meno credibile. È invece talmente “fuori posto”, un oggetto diciamo pure altamente improbabile, da meritare credibilità. Il fratello di Moro alla sceneggiatura infatti non ha creduto, ritenendolo un pessimo diversivo, convinto che i «documenti» di quelle borse «non dovevano essere di scarso rilievo». Anche la Braghetti sembra confondere cinema, teatro, spettacolo in generale. Nulla però impedisce che proprio un simile testo potrebbe essere stato un perfetto e insospettabile travestimento, veicolo di ben altra, insospettabile importanza. In fondo i brigatisti quando parlano della sceneggiatura sono i primi a sminuirne il valore. Dunque, perché mai includerla nel consueto, lungo, provvisorio repertorio di oggetti o addirittura adoperarla come ricordo di copertura, se l’obiettivo è quello di risultare credibili? Bellocchio invece, proprio perché ci crede, sfidando il disinteresse generale per questo «strano» e decontestualizzato oggetto afferente alla macchina-cinema, organizza l’effetto del “particolare” nel film, consentendo la leggibilità indiziaria storicamente e logicamente rilevante di quel titolo, di quell’autore, di quella data. Un “particolare” che ne contiene tre incolonnati: tre suggerimenti ugualmente criptici, “strani”, perciò tanto più degni di nota. Se “inventa” lo fa in senso etimologico: trova qualcosa che esiste già. In qualche luogo. Tutto sta a cercare. In una borsa o nell’altra: Nella seconda [borsa c’erano] pratiche ministeriali, il testo del progetto di riforma della polizia, lettere di raccomandazione e di ringraziamento e, particolare che mi colpì moltissimo, la sceneggiatura di un film. Eravamo esterrefatti: possibile che fosse quello il materiale di lavoro di uno degli uomini più potenti d’Italia? Nei giorni successivi ci dedicammo a una lettura minuziosa. Restammo delusi.55

Abbiamo spesso precisato che l’autore di Buongiorno, notte, più che seguire il libro della Braghetti, cui si è «liberamente ispirato», sceglie di servirsene: la coautrice di Il prigioniero, dal canto suo, ribadisce la posizione nella citata intervista a Speciale Tg1 del 12 novembre 1993. Posizione che non diverge da quella di Morucci, il quale per primo aveva menzionato tale sceneggiatura: «una borsa era quella dei medicinali, mentre l’altra conte-

neva solo tesi di laurea, lettere di raccomandazione, il copione di un film e un progetto di unificazione delle forze di polizia, materiale quest’ultimo assolutamente non sensibile».56 Viceversa Bellocchio nel suo film restituisce valore al cinema, restituisce al cinema ciò che gli spetta di diritto o gli è consono. Fa insomma un’operazione filologicamente, semanticamente e storicamente pertinente. Si riappropria di quella che altrimenti resterebbe una sceneggiatura «assolutamente non sensibile» per Morucci, addirittura «deludente» per la Braghetti, per quanto il «particolare» la «colpì moltissimo». Il Mariano del film, memore del Moretti lettore e cultore di sciencefiction, quindi di tutto ciò che implicitamente è fiction, finzione, non sembra invece tanto “deluso”. Al massimo sorpreso. Ma per quanto «strano» sia per lui trovarsi tra le mani «una sceneggiatura» in un simile frangente, ecco che Bellocchio con il suo inevitabilmente omonimo titolo dickinsoniano la colloca in primo piano e la elegge a centro di gravità del capillare progetto significante. A condizione che i “diritti d’autore” siano detenuti dall’autoreferenziale e sibillino Enzo Passoscuro. Andando avanti, possiamo a questo punto occuparci più diffusamente del mese di febbraio indicato sul frontespizio della sceneggiatura nel/del film. Perché è proprio nel mese precedente a quello del rapimento che si moltiplicano i possibili campanelli d’allarme.57 Da febbraio 1978 i servizi segreti francesi sarebbero stati a conoscenza dell’organizzazione in atto di un attentato ai danni di un leader democristiano. Io ricordo – racconta il giudice istruttore Rosario Priore – che con Imposimato, quando andammo una delle prime volte in Francia, a Parigi, ci dissero che essi sapevano di una grossa operazione di sequestro di persona, nel febbraio, cioè un mese prima, più o meno, di un uomo politico molto importante appartenente al partito di maggioranza. Quindi disegnavano probabilmente la figura di Moro. Abbiamo saputo – aggiunge Imposimato – attraverso la lettura di un documento, che però non ci venne consegnato da parte di un funzionario dei servizi segreti francesi, che già nel febbraio del 1978 sapevano del probabile sequestro di Aldo Moro.58

È del 18 febbraio l’informazione proveniente da un militante del Fronte per la Liberazione della Palestina di un’imminente operazione terroristica in Italia di notevole portata. Infine è sempre nel mese di febbraio di quell’anno, a pochi giorni dal sequestro, che l’Istituto linguistico parigino Hyperion apre anche a Roma un ufficio, episodio che allarga il caso Moro a un ipotetico scenario terroristico internazionale.59 Ma senza oltrepassare i confini nazionali, basterà ricordare che nello stesso «Febbraio 1978» dattiloscritto in Buongiorno, notte esce in Italia il primo numero «in attesa di

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registrazione» del già menzionato quattordicinale satirico «Il Male», dove si annuncia che il presidente democristiano «dopo alterne vicende, farà una brutta fine». Inoltre: «La mano di costui, forse ripresa in un carcere» rivela da vicino «il reticolo sull’indice, segno certo di carcerazione».60 Per non parlare dell’immancabile, supplementare, irriverente riferimento lunare: «La linea dell’intelligenza ha una curvatura modesta che conduce a mezza strada tra il monte di Marte e quello della Luna».61 Febbraio non è perciò un mese qualsiasi per avallare una precognizione, un avvertimento, un messaggio come quello affidato alla sceneggiatura su cui il film di Bellocchio investe molto, così come investe sull’altrettanto «strano» autore che di cognome fa Passoscuro, come la località del litorale romano nella zona di Palo Laziale nei cui pressi, secondo quanto testimoniato da Alfredo Carlo Moro e Giovanni Moro alla Commissione Stragi, «le forze dell’ordine avevano individuato una possibile prigione di Moro e stavano preparando un blitz per liberarlo».62 «Ma, per misteriose ragioni, tutto si era fermato».63 Molteplici e spesso convergenti tracce vengono inoltre disseminate da Bellocchio non solo in Buongiorno, notte ma anche in Diavolo in corpo, che precede La visione del sabba, girato in parte a Palo Laziale. Tracce che portano direttamente a uno dei personaggi chiave dell’intera vicenda: il colonnello dei carabinieri Antonio Varisco, comandante del Nucleo Traduzioni del Tribunale di Roma, crocevia e depositario di molti “passi oscuri” del caso Moro. È infatti Varisco a scrivere il 15 marzo 1979 al giudice istruttore Gallucci che «l’on. Moro sarebbe stato prigioniero in una casa abitata di Focene», almeno secondo «uno sconosciuto, probabile informatore».64 Ed è sempre Varisco a chiedere «ricerche riservatissime» su una Renault bordeaux sospetta poco dopo le 17 del giorno stesso dell’attentato in via Fani.65 È ancora lui ad avere ricevuto anzitempo segnalazioni su via Gradoli, disattese fino al 18 aprile, in cui è tra i primi a giungere nel covo appena scoperto.66 Ma soprattutto è Varisco, che aveva il suo ufficio in Piazza delle Cinque Lune (a proposito di lune e di film sul caso Moro),67 a fare da tramite fra Mino Pecorelli e il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Varisco, «amico di Pecorelli»68 e «sodale di Dalla Chiesa»,69 viene ucciso dalla Brigate rosse a Roma il 13 luglio 1979. C’è un legame tra il defunto ufficiale dell’Arma e il suddetto film di Bellocchio? In Diavolo in corpo Giulia, su cui i giornali titolano: «Il coraggio di Giulia Dozza: sposo l’assassino di mio padre»,70 depone due mazzi di fiori sulla lapide di suo padre ove è scritto: «colonnello MARIO DOZZA 3-3-1935 27-6-1979 vittima del terrorismo». Si noti come l’inquadratura realizzata sul Lungotevere delle Navi dinanzi al ministero della Marina, a differenza delle vaghe indicazioni relative al semplice «Lungotevere» contenute nella sceneggiatura originale («Giulia si ferma davanti a una piccola lapide che indica la morte violenta di qualcuno [corsivo nostro]»),71 rende ben visibile non troppo in lontananza il ponte Matteotti con l’inconfondi-

bile aquila al centro. Varisco viene infatti ucciso sul Lungotevere Arnaldo Da Brescia, all’altezza di Ponte Nenni (tanto che in un primo momento si sarebbe dovuto intitolare a Varisco), a breve distanza da Ponte Matteotti: in pratica poche centinaia di metri più avanti rispetto al punto in cui Bellocchio sceglie poi di girare la scena, mantenendo lo stesso verso e permettendo che il Ponte Matteotti sia sullo sfondo come inequivocabile punto di riferimento. Come si può notare il riferimento non dissimulato a Varisco che troviamo in Diavolo in corpo anticipa anche i testi appena citati in nota. Varisco è oltretutto l’unico ufficiale dei carabinieri ucciso dai terroristi vicino a quel ponte romano, appena un mese prima della data indicata nel film («27-6-1979»). A diciassette anni di distanza l’uno dall’altro Bellocchio realizza due film di finzione sul terrorismo per molti versi congiunti e complementari, dove il Mario Dozza/Antonio Varisco di Diavolo in corpo obbedisce alla medesima strategia onomastica/semantica dell’Enzo Passoscuro di Buongiorno, notte. Tanto che nomi e cognomi vengono rigorosamente messi per iscritto e inseriti in apposite inquadrature molto circostanziate. Quanto basta a supportare «ipotesi [che] a questo punto sfumano nel fantasmagorico»,72 alimentando pertanto la «sarabanda di elementi confusi, in cui è difficile distinguere il vero dal falso. Un intrico di messaggi e allusioni comprensibili soltanto ai destinatari. E da cui il profano può solo intuire che, nel centro del labirinto, si nasconde un nocciolo di verità».73

Dalla Luna alla Terra Cominciano a diventare sempre meno incomprensibili scelte visionarie e parentesi oniriche in cui in Buongiorno, notte, mentre tutti o quasi i brigatisti “dormono”, Moro gode di spazi, libertà e autonomia di movimento inusitati, forse non così improbabili se si procede a un continuo conguaglio con i fatti e le supposizioni che emergono dal caso Moro e ancora oggi destano sconcerto. Pensiamo anche alla seduta spiritica (beninteso, quella del film) che precede la scena in cui Chiara, svegliandosi in questa sorta di tregua inconscia, scopre Moro a zonzo per la casa come un «sonnambulo» (come il protagonista sonnambulo, poi condannato a morte, di Il principe di Homburg). Lei lo libererebbe subito, lo condurrebbe fuori, se non fosse che i poliziotti piantonano giorno e notte il pianerottolo. Una sequenza di eventi allucinatori, senz’altro. Ma dai contorni, se non reali, neppure tanto inverosimili. Perché il tentativo irrazionale di Chiara di liberare il prigioniero, tutt’altro che costretto nello spazio angusto della «prigione della prigione», giunge dopo la seduta spiritica? E perché la seduta spiritica, scavalcando la cronologia consueta, viene sganciata dal 2 aprile e va a collocarsi nella notte tra il 22 e

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il 23 aprile, tra la diffusione dell’appello di Paolo VI e la preghiera dell’Angelus in piazza San Pietro? Posticipata rispetto alla seduta spiritica domenicale di Zappolino, quella del film di Bellocchio smette di fornire l’indicazione necessaria per scoprire il covo, forse prigione di via Gradoli. Ma allo stesso tempo, un tempo perennemente fuori luogo, sfuma il confine tra lo spazio ristretto della presunta cella di via Montalcini e i diversi elementi topografici derivanti dal cognome «Passoscuro» o dalla recita dello stesso Bellocchio di Il cinque maggio. La seduta spiritica di Buongiorno, notte offre insomma spunti ulteriori per cercare altrove il prigioniero in quella precisa fase del sequestro. Lo «spirito guida» suggerisce di cercare «la luna», non sulla luna, secondo le consuetudini di una fantascienza comunque da non prendere sottogamba. Quale luna? Non una qualsiasi, ma La luna, il film di Bertolucci, che in Buongiorno, notte diventa lo «spirito burlone» di nome «Bernardo»:

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Medium: (da solo) Sei Bernardo, il nostro spirito guida? (Pausa) Noi ti ringraziamo di averci raggiunto. Come tu saprai già, l’onorevole Aldo Moro è stato condannato a morte dalle Brigate rosse. (Pausa) Allora – vorremmo sapere – intanto se il presidente è ancora vivo. (Pausa) Spirito di Bernardo, ti chiediamo – sempre che tu lo voglia – di indicarci il luogo dove in questo momento è prigioniero l’onorevole Aldo Moro. (Pausa) Qual è questo luogo? (In coro con le altre persone al tavolo) L-A-L-U-N-A. (Proseguendo da solo). La luna. Ti prego Bernardo, non scherzare, spirito burlone: il momento è tragico.

Siamo di fronte al “passo” probabilmente più “oscuro” di tutto il film, da cui possiamo tentare di smarcarci ad esempio tenendo presente che su quel tratto costiero, a Sabaudia (quindi sul tratto costiero a sud di Roma, non a nord), in una villa sul mare, si scioglie il segreto familiare del film di Bertolucci inequivocabilmente evocato. Non si può escludere, come sempre, la goliardia di Bellocchio che prenderebbe così in giro il suo ex rivale. Accettando una simile spiegazione sarebbe in fondo tutto più semplice. Anche più comodo. Ma il medium è molto eloquente in proposito: «Ti prego Bernardo, non scherzare, spirito burlone: il momento è tragico». Bellocchio o Bertolucci stanno davvero “scherzando”? Certo, con La luna Bertolucci ammette di essersi congedato provvisoriamente dal primato della realtà storica di Novecento (1976). Salvo, immediatamente dopo, con La tragedia di un uomo ridicolo (1981) e senza più indugi, prendere di petto un anomalo, emblematico sequestro di matrice brigatista: Il cinema ha avuto un progressivo sopravvento sulla realtà che con La luna è diventato totale. La tragedia di un uomo ridicolo rovescia il rapporto tra realtà e romanzo. Non è più il cinema a vampirizzare la realtà per rap-

presentarla. Mentre giravo ho sentito oscuramente la pressione irresistibile di un movimento opposto e contrario. Certe notti sentivo un suono e mi sembrava quello con cui la realtà risucchia la narrazione e frantuma il romanzo.74 Nella Luna il mio cammino è più segreto e oscuro. I miei fantasmi sono rischiarati dalla luce lunare, e ho trovato eccitante non nascondermi più dietro certi alibi sociali e politici, e andare direttamente verso l’oggetto del desiderio.75

Ma se La luna è il film «in cui la politica non è così centrale», almeno non quanto l’esplorazione dell’Edipo a partire stavolta dalla «figura materna»,76 contemporaneamente Bellocchio in Salto nel vuoto si impegna a ribaltare l’impianto edipico freudiano: Il freudismo, in generale, non ti propone altro che la sopravvivenza, insegnandoti a gestire i tuoi oggetti interni. Non mette in discussione questa società e la sua ingiustizia. Riducendo la terapia alla ricerca dei traumi, ti prepara a essere quello di “prima”, a sopportare come prima la vita. Ti fa stare un po’ meglio, cioè come prima, mentre il sintomo di solito è un segno positivo: quando si comincia a stare male, vuol dire che si comincia in realtà meglio, che si è capito che si deve cambiare qualcosa. È una pratica che non mi interessa; credo ancora che il problema sia quello di cambiare la società. E che la psicanalisi debba proporre una reale guarigione. Preso da un altro punto di vista, è il discorso sull’Edipo rovesciato. Il nodo è che bisogna rifiutare questi “padri”. In questo il ‘68 non ha saputo progettare. Ha saputo soltanto sputare in faccia ai padri; ma è stata facile profezia, quelli che contestavano sono a loro volta diventati “padri”, sono diventati a loro volta persecutori. Non si tratta di uccidere il padre e fare l’amore con la madre. Così, Edipo sostituisce sul trono Laio. Il discorso è di fare, prima, l’amore con la madre, e solo essendo capaci di fare l’amore con la madre si ha la capacità di uccidere il padre, di rifiutarlo, di disubbidirgli, di ribellarsi, senza la dannazione di ripercorrerne la strada. In questo io mi limito a riformulare con le mie parole quanto ha già scritto Massimo Fagioli proprio sul «rovesciamento dell’Edipo» in Psicanalisi della nascita e castrazione umana.77

Tra il 1979 e il 1980, da Bertolucci (La luna) a Bellocchio (Salto nel vuoto), il recupero dell’Edipo o il suo capovolgimento chiama(va) comunque in causa sintomaticamente l’atto estremo, colpevole, terapeutico o liberatorio dell’uccisione del padre. Niente di più facile che quasi un quarto di secolo dopo, tra uno «spirito burlone» (Bertolucci) e un personaggio in

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disparte (Bellocchio) intento a declamare Manzoni mentre assiste al rituale medianico/massonico, si consumi la scena di Buongiorno, notte più sfuggente. Che per giunta punta tutto, ironia inclusa, su una luna molto terrestre e cinematografica, meno irraggiungibile e fantasiosa di quanto non fosse nel secolo precedente allorché Jules Verne scrisse un classico della fantascienza come Dalla Terra alla Luna (1865). Quello di Bellocchio, attraverso Bertolucci, sembra dunque un viaggio/percorso conoscitivo à rebours: dalla Luna alla Terra. E chissà che quella di Buongiorno, notte non sia addirittura una «luna» situata al confine tra il mare e la terraferma, tra un Passoscuro geografico e uno onomastico. Una «luna» che con il trascorrere dei giorni si avvicina, e dopo il 22 aprile magari si trasferisce in pieno centro di Roma. Quante suggestioni in una sola, “burlesca” scena. L’unica certezza, allargando il campo di osservazione, è che questo topos poetico per eccellenza torna insistentemente in Buongiorno, notte, saldando la curiosa citazione di La luna di Bertolucci alle lune di The Dark Side of the Moon e Shine On You Crazy Diamond dei Pink Floyd. Se poi si esamina l’intera filmografia dell’autore, i suoi immediati dintorni o l’ampio contesto del caso Moro, l’elenco diventa interminabile. Ripercorriamolo rapidamente: da Enrico IV a Diavolo in corpo; dalla ricorrente piazza romana dove aveva l’ufficio Varisco all’omonimo film di Renzo Martinelli dello stesso anno di quello di Bellocchio; dal Compagna luna della Balzerani al «chiaro di luna» che distrae il protagonista di Il principe di Homburg, fino al titolo dell’opera prima di Fagioli, Il cielo della luna. Ma non finisce qui: nel repertorio trova posto persino la non meno sibillina «luna [che] si è incantata sorpresa impallidita» e che «pian piano scolorandosi nel cielo sparirà». Quella che «splende in cielo» proprio con il sopraggiungere della «mezzanotte». E scompare con «l’aurora». Cioè «la luna» cantata da Domenico Modugno in L’uomo in frack, che accompagna con effetto straniante l’inspiegabile “suicidio” dell’anziano Gianni Schicchi nell’ultima scena di Sorelle Mai: È giunta mezzanotte Si spengono i rumori Si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffè Le strade son deserte Deserte e silenziose […] La luna splende in cielo Dorme tutta la città 
Solo va un uomo in frack […] S’avvicina lentamente con il cedere elegante Ha l’aspetto trasognato malinconico ed assente

E non si sa da dove vien Né dove va Chi mai sarà Quell’uomo in frack? 
Buona notte Va dicendo ad ogni cosa […] È giunta ormai l’aurora Si spengono i fanali Si sveglia a poco a poco tutta quanta la città La luna si è incantata sorpresa impallidita Pian piano scolorandosi nel cielo sparirà […]


Il gesto inconsulto del personaggio di Gianni Schicchi in Sorelle Mai, che rende impossibile il ritrovamento del suo corpo nelle acque del Trebbia, potrebbe ricordare l’assurdo, allusivo «suicidio» di Moro proclamato dal falso comunicato brigatista del 18 aprile. La cui improbabile/irrecuperabile «salma» si troverebbe «immersa nei fondali limacciosi» o piuttosto ghiacciati «del lago [della] Duchessa».78 Ipotesi interpretativa che trova riscontro in Buongiorno, notte quando ascoltiamo la diretta televisiva Rai di Emilio Fede sulle inutili ricerche del cadavere di Moro nel lago della Duchessa, mentre i brigatisti del covo si stanno preoccupando degli indifesi «canarini» fuggiti dalla «gabbia», probabilmente «mangiati» dai «gatti». Della specie non di quello il cui miagolio giocano a imitare Andrea e Giulia in Diavolo in corpo, ma di una ben più preoccupante, di cui ci occuperemo nel prossimo paragrafo. Per ora, se soltanto provassimo a chiederci, seguendo l’esempio più volte citato di Bellocchio/Fagioli, «Ma Moro chi è?», la risposta potrebbe persino arrivare dai versi della canzone di Modugno in Sorelle Mai: «Solo va un uomo in frack» con «l’aspetto trasognato malinconico ed assente», di cui «non si sa da dove vien». È proprio il caso di dire: «Chi mai sarà/ Quell’uomo in frack»? Di sicuro “tutti” lo cercano, nel vano tentativo di salvargli la vita. Lo cerchiamo anche nel film di Bellocchio, tra una canzone e l’altra. Ad esempio la versione di Perduto amor (In cerca di te) cantata da Mariangela Melato (interprete della moglie del presidente “M” identico a Moro in Todo modo):79 Sola me ne vo per la città  Passo tra la folla che non sa  Che non vede il mio dolore  Cercando te, sognando te, che più non ho. 

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Ogni viso guardo e non sei tu  Ogni voce ascolto e non sei tu  Dove sei perduto amore?  Ti rivedrò, ti troverò, ti seguirò.  Io tento invano di dimenticar  Il primo amore non si può scordar. È scritto un nome, un nome solo in fondo al cuor  Ti ho conosciuto ed ora so che sei l’amor,  Il vero amor, il grande amor.  Cercando te, sognando te, che più non ho. 


 
Ineccepibile commento canoro, dato il contenuto amoroso, per il finale di Il regista di matrimoni. Ma perfetto anche per quello di Buongiorno, notte, con Moro che a sua volta “solo se ne va per la città”.

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Canarini e gatti Arriviamo così ai canarini e ai gatti. Bellocchio non ha in mente il gatto e il canarino dei Looney Tunes. Si limita a prendere più o meno alla lettera la Braghetti. La scelta originale di inserire nella circostanza drammatica del sequestro il riferimento bizzarro ai canarini di cui si prende cura Primo, cioè Prospero Gallinari, non è infatti di Bellocchio.80 L’episodio, opportunamente isolato, proviene dal libro della Braghetti: la fuga dei canarini di Primo/Prospero Gallinari, causata maldestramente dalla protagonista, inaugura uno dei tanti capitoli retrospettivi, per l’esattezza il decimo, che intercalano, spezzano, dissimulano sistematicamente un impianto rigido cronologico altrimenti troppo esplicito. Serve a interrompere e a riprendere il filo del ragionamento sui contenuti della controversa e variamente interpretata lettera “riservata” di Moro a Cossiga81 recapitata invece il 29 marzo dalle Brigate rosse anche agli organi di stampa. Nello schema dell’autrice di Il prigioniero, parallelamente al «dominio pieno e incontrollato» di cui Moro scrive, scatta il ricordo improvviso, estemporaneo, gratuito dei canarini: La gabbia era vuota, con la porta spalancata. Mi prese il panico. Come poteva essere successo? Dovevo per forza essere stata io a lasciarla aperta. Ora dovevo solo andare in cucina e dirlo a Prospero. Si sarebbe infuriato, e avrei passato un guaio, lo sapevo benissimo. E non c’era modo di correre ai ripari. A quell’ora i canarini dovevano essere chissà dove. […] Come avevo previsto, quando informai Prospero dell’incidente si arrabbiò moltissimo. Mi rispedì in guardino intimandomi di cercare gli

uccellini, ma ovviamente era impossibile. Rimase di umore pessimo per due giorni.82

Un lapsus? Una casualità? Un espediente letterario intenzionale? Certo è che in Buongiorno, notte i canarini di Primo acquistano un valore narrativo e un significato metaforico più preciso, meno occasionale. La presenza prolungata dei canarini, distribuita in due precisi momenti, e associata alla costante, infine fatale minaccia dei “gatti” in agguato, consente di orientarsi senza indugi o equivoci nella cronologia dei cinquantacinque giorni del sequestro. Il primo importante richiamo infatti giunge mentre dal televisore Mariano, Laura, Ernesto e Primo apprendono del ritrovamento, il 18 marzo, del (loro) primo comunicato con la foto del prigioniero. È in questo preciso frangente, avendo Chiara precedentemente portato fuori la gabbia, che Primo si mostra allarmato. Lui, a differenza dei compagni, sembra incurante della notizia: Primo: C’è un gatto là fuori. C’è un gatto là, sulla gabbia. Ernesto: Ma dove? Primo (a Ernesto): Dai, ti prego, vai fuori, portala dentro.

La concomitanza con un avvenimento databile, coincidente anche con la mancata perquisizione lo stesso giorno dell’interno 11 di via Gradoli 96, induce a chiedersi, nel film, se il riferimento ai canarini non sia consequenziale al duplice avvenimento. Sebbene anche stavolta di via Gradoli non si parli, è il rimando esatto al 18 marzo, marcato e coperto allo stesso tempo dalla premura di Gallinari per i canarini in pericolo, a suggerire automaticamente il collegamento. Inoltre, proprio perché in Buongiorno, notte si rende abbastanza udibile nel breve frammento televisivo il luogo in cui i brigatisti hanno fatto trovare il comunicato («Nel sottopassaggio largo Arenula – via Argentina (sic)») occorre tenere presente che si tratta di un punto di Roma non distante dal Ghetto ebraico su cui torneremo tra poche pagine. Sebbene non sia da escludere che già la Braghetti nel libro volesse relazionare la necessaria fuga dei canarini alla «interminabile scia di capziose interpretazioni e falsi allarmi»,83 Bellocchio preferisce, dopo averne creato le premesse, collocare il singolare episodio minimalista della scomparsa vera e propria dei canarini in una diversa e più avanzata, ugualmente databile fase del sequestro. In buona sostanza ci porta a prendere in considerazione un avvenimento chiave ma non isolato del caso Moro: le ricerche del cadavere nell’improbabile lago della Duchessa. Un avvenimento da un lato conseguente al falso comunicato n. 7 con cui le Brigate rosse indicano dove

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trovare il corpo del presidente “suicida”, scritto però dalla stessa testina rotante del comunicato n. 1 rinvenuto appunto nel sottopassaggio di largo Argentina; dall’altro collegato e forse complementare alla contemporanea scoperta del covo di via Gradoli. Questa nuova, simile concomitanza spiegherebbe perché i canarini di Buongiorno, notte scappino proprio il 18 aprile. Né prima né dopo. E non per colpa di Chiara, come dice il libro. Chiara, appena rientrata dall’ufficio dopo il lungo e più volte citato (e concitato) dialogo con Enzo, convinto personalmente dell’equazione immaginazione-realtà tradotta in sceneggiatura dinamica, e dopo aver intravisto Ernesto baciare Giulia in una macchina, trova Primo indaffarato a cercare i canarini sul balcone. Intanto giunge fuori campo, in sottofondo, solo a tratti, la diretta di Emilio Fede dal lago della Duchessa. Per lo stesso, collaudato meccanismo di sottrazione clamorosa dal corpo sonoro e visivo del film dell’altra notizia importante, cioè la scoperta del covo di via Gradoli, Buongiorno, notte sembra rilanciarne la centralità assoluta. È proprio il caso di parlare di «casella mancante» a proposito di via Gradoli: 210

Voce dalla tv: L’unico mezzo per raggiungere il lago, che è gelato e coperto di neve, è appunto l’elicottero. La pozza che si vede – vedete… al centro – è stata aperta dai sommozzatori che hanno compiuto le prime immersioni… Chiara: Primo, ma che fai? Rientra dentro, ti possono vedere! Voce dalla tv: …da queste immagini sembra evidente che non ci sono tracce recenti… Questo significa… Primo: I canarini sono scappati! Voce dalla tv: …prima della notte di venerdì… Come si vede, sono montagne desolate, nude… Ernesto (che intanto è rincasato): Che c’è? Chiara: Niente, che sono scappati i canarini. Ernesto: Li hai fatti scappare tu? Chiara: Ma che dici? Ernesto: Comunque quelli sono nati in gabbia. Se li saranno mangiati i gatti.

Se la Braghetti scrittrice e testimone spiegazionista non manca di occuparsi sia di via Gradoli che del lago della Duchessa, ma soltanto più in là,84 Bellocchio preferisce procedere diversamente. Cosa fa? Associa per via intermediale, cioè attraverso la notizia trasmessa dalla tv, soltanto uno degli avvenimenti, che però richiama automaticamente l’altro (la scomparsa dei canarini dalla gabbia). Questa fuga/scomparsa viene funestata dal presagio, quasi certezza, di Ernesto dell’intervento dei più che probabili “gatti” famelici. Se ne deduce che da quel momento, vale a dire dal 18 aprile, anche l’indifeso “canarino” Moro potrebbe essere uscito dalla gabbia, finendo fatalmente in pasto a “felini” non meglio specificati. Ben più pericolosi dei brigatisti che premurosamente lo avevano fino ad allora custodito nella prigione/gabbia. Come ha fatto Primo/Prospero con i preziosi canarini.

Da Napoleone e Moro Se da un determinato momento, o giorno, i canarini non si trovano più in quella gabbia, fuggiti, transitati altrove, non resta che chiedersi dove siano andati a finire. Torniamo così alla seduta spiritica che nel film, spostata in avanti di oltre un mese, alluderebbe anche a ben altro luogo. Non certo a via Gradoli. C’è da dire inoltre che la seduta spiritica riproposta in Buongiorno, notte è assai più circostanziata e ricca di particolari rispetto a come invece si presentava sulla carta: Scena 50 Vaticano – Palazzi del potere – Int./est. – Notte Intanto in un’altra sala del palazzo Un gruppo di politici gioca a carte o alla morra… Uno di loro si alza, si scrolla dalla giacca la polvere e domanda… Politico: Dove sono i maghi? E il gruppo dei maghi, più patetico che ridicolo, entra prendendo posto intorno a un tavolo per una seduta spiritica Con un medium e un tavolo che sembra sollevarsi…85

Una spiegazione di questa discrepanza tra lo scritto e il girato la fornisce il regista nella nota a margine: «Lo sguardo alla magia è solo un passaggio, esprime un’idea di sbandamento, di buio totale. Un’immagine, un appunto da considerare in fase di ripresa… Lasciamoci per ora questa possibilità».86 Ma per quanto sulla carta egli si sia limitato ad abbozzarla, per decidere in

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fase di riprese di espungerla completamente o potenziarla lontano da occhi indiscreti e da letture preventive i riferimenti al «Vaticano», ai «Palazzi del potere» e al «gruppo di politici» di turno ne dimostrano l’irrinunciabile rilevanza. In netta contrapposizione con la domenicale «atmosfera “ludica” […] attorno al “piattino” […]: di gioco, dunque, di passatempo»87 sostenuta dai partecipanti alla seduta spiritica di Zappolino. Alla scena 50 della sceneggiatura Bellocchio nel film aggiunge molto altro, cose e persone. Ad esempio, aggiunge innanzitutto se stesso, replicando il riferimento all’ode civile Il cinque maggio di La visione del sabba. Per afferrare meglio il senso del doppio rimando manzoniano (amplificato poi in Il regista di matrimoni da quello contiguo a I promessi sposi) occorre spiegare come faccia un pretesto letterario esplicito e reiterato ad avere un impatto tanto immediato sul delitto Moro. La soluzione del rebus risiede nella figura di Napoleone su cui verte il delirio non troppo inverosimile della “folle” protagonista di La visione del sabba, Maddalena. La quale oltretutto porta al dito la fede nuziale senza essere sposata (non è sua, ma dello psichiatra innamorato Davide). Proprio come Chiara in Buongiorno, notte. La rievocazione di Napoleone da parte della “fantasiosa” e inammissibile Maddalena bellocchiana sembrerebbe rientrare nei più triti luoghi comuni sui matti. Qui però ci troviamo di fronte a un caso di “pazzia” non priva di “metodo”, come quella di Amleto o quella attribuita allo sventurato Aldo Moro prigioniero tra la metà di marzo del 1978 e l’inizio di maggio, con l’arrivo della primavera. In primo luogo Maddalena si rende perfettamente conto di vivere nel presente: sa benissimo che l’anno in corso è il 1988, quando presidente della Repubblica, strano ma vero, è l’ex ministro degli Interni Cossiga, molto sensibile dieci anni prima ai fenomeni paranormali durante i giorni del sequestro Moro. A questa improbabile “pazza”, che prelude alla romantica eroina di Vincere, non manca certo la cognizione del tempo (e della storia nazionale). Avrebbe dunque sognato o completamente immaginato di essersi presa cura, nel suo “plurisecolare” passato, di Napoleone Bonaparte in persona, da «tutto l’inverno» alle soglie della «primavera»? Oppure sta semplicemente e nitidamente ricordando tra le lacrime, ancora come Chiara in Buongiorno, notte, di aver ospitato «a casa sua» ben altro «personaggio famoso», più recente, anch’egli «rimasto lì tutto l’inverno e [che] poi a primavera si è sciolto»? Professore: Signorina si ricorda della sua nascita? Maddalena: Non posso. ero troppo piccola. Professore: La data.

Maddalena: 8 gennaio 1630. Professore: No, mi scusi, non ho capito bene. 1630? Maddalena: È giusto, che c’è di strano? […] Professore: Chi è il presidente della Repubblica italiana? Maddalena: Francesco Cossiga. (Ridendo) Sono brava? Chi ha scritto la Divina Commedia? Professore: Si diverte molto, eh? […] Bene, vogliamo continuare? Allora, lei insiste a pensare di avere 357 anni, dico bene, 357? Maddalena: Non insisto a pensarlo, è la mia età, questo è tutto. Ma se non le piace scriva quello che vuole, me ne frego. Davide: Se dice di avere 357 anni non vedo qual è il problema. Professore: Non ho chiesto il tuo parere. Davide: Mi scusi professore, mica è obbligato a crederle. Se ritiene che quello che ha detto è falso, può scriverlo nel verbale. Professore: Perché, tu invece pensi che dica la verità? Mi interessa molto… Davide (alterandosi leggermente): Senta, qui non dobbiamo controllare il suo certificato di nascita, ma interpretare le sue risposte. Io potrei dirle che sono nato ieri e non sarebbe un delirio ma una chiave di interpretazione. L’ascolti meglio. Professore: Nessuno ha parlato di delirio… Maddalena: Non c’è niente da interpretare! 8 gennaio 1630: non è una nascita simbolica, è il giorno del mio compleanno. Professore: E mi dica signorina, in tutti questi anni, anzi in tutti questi secoli, cosa le è capitato? Maddalena: Cosa vuol sapere?

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Professore: Non so, lei è vissuta in anni di grandi trasformazioni sociali, ci sono state delle rivoluzioni importanti, industriali, culturali, scientifiche, storiche. Non ha incontrato per caso qualche personaggio famoso? Maddalena: Certo. Ho incontrato Napoleone. Professore: Nientemeno. Maddalena: Fuggiva dalla Russia e mi ha chiesto di cucirgli un bottone dei pantaloni. Professore (con ilarità): Sì, e dove? Voglio dire, a casa sua? Maddalena: Uhm. Professore: A casa sua? 214

Maddalena: Sì. Era un bottone d’oro. Per fortuna non l’aveva perduto. Mentre cucivo accanto al fuoco lui guardava lontano, fuori dalla finestra. Non so che cosa vedeva, oppure fissava il muro. Fingeva di vedere. Allora gli ho detto: «Napoleone, siediti un po’ vicino a me. Vieni a riscaldarti al fuoco». E lui è venuto. E lo fissava come se cercasse qualcosa che io non riuscivo a vedere. Gli ho chiesto: «Che cosa cerchi, Napoleone? Vedi qualcosa?». «Niente». «Allora sei pazzo visto che non sei cieco? Ti prego, raccontami qualcosa: una storia d’amore, una battaglia, una vittoria». «Non mi ricordo niente». «Ma come niente? Io mi ricordo tante cose! C’è anche una poesia che studiavo a scuola. Parlami di Waterloo, di Marengo…». Come se non avesse mai vissuto. Così ho deciso di raccontargli la storia della sua vita: i suoi amori, le sue sconfitte, le sue vittorie, né belle né brutte… Così lui ha cominciato a piangere. Io pure piangevo… Gli ho preso una mano per stringerla, e l’ha tirata via. È come tutti gli altri uomini Napoleone. E poi se n’è andato. Ma prima di andarsene s’è rimesso in posa davanti alla porta: la celebre posa. E l’ho visto allontanarsi sotto la neve. I passi sempre più pesanti. E poi è diventato un pupazzo di neve. È rimasto lì tutto l’inverno e poi a primavera si è sciolto. (Piange) Professore: È una bella storia. Piena di fantasia. Altro psichiatra: È abbastanza complesso. Non c’è che dire: abbiamo scoperto una nuova scrittrice. Talento innegabile. Complimenti. Perché non si mette subito a scrivere?

Professore: La fine è molto poetica. Davide: È un sogno. Professore: Scusa non sono d’accordo. I sogni non sono strutturati come il suo racconto. Sono immagini frammentarie e qui tutto combacia perfettamente.

Ogni pazzo che si rispetti crede di essere Napoleone. Lo sanno tutti. Ma Maddalena non si crede affatto Napoleone. Dice soltanto di averlo «incontrato», di ricordare «tante cose», compresa «una poesia che studiavo a scuola», cioè Il cinque maggio di Manzoni. Dice anche di averlo scambiato per «pazzo». E che «ha cominciato a piangere» essendo «come tutti gli altri uomini Napoleone». Né è rimasta indifferente al suo dramma, come Chiara con Moro in Buongiorno, notte: «Io pure piangevo… Gli ho preso una mano per stringerla, e l’ha tirata via». Maddalena è davvero pazza? Se nel caso Moro dovessimo prendere per pazzi tutti coloro che «interrogavano Napoleone», che dire del professor Clò, il padrone di casa nell’episodio di Zappolino che afferma esattamente questo spiegando da esperto «la tecnica» del «piattino» ai membri della Commissione Moro? Il piattino non è che si tocchi, bisognerebbe sfiorarlo, questa è la tecnica. […] Era una tazzina di caffè con cui avevamo bevuto il caffè prima. Sfiorandolo, essendo il piattino piccolo, non ci si stava tutti e dodici sopra. Potevano essere quattro, cinque o sei. Fatta la domanda, il piattino tendeva a muoversi. […] Chiamiamo Napoleone, e questo tende a muoversi, comincia a girare. […] Escludo che ci fosse qualcuno che facesse da medium. Posso aver fatto il gioco del piattino due o tre volte, solo che allora si interrogavano Napoleone e altri.88

Anche lui in passato avrebbe dunque comunicato con Napoleone, più di una volta, più di Maddalena. Eppure, in merito al «gioco del piattino» di quel 2 aprile 1978, è stato ascoltato come persona “ragionevole” e informata dei fatti nel caso Moro.

Memento Mori Se seguissimo il filo di un ragionamento paradossale a un tempo, come ha fatto Leonardo Sciascia durante le audizioni in Commissione Moro sulla seduta spiritica di Zappolino, dovremmo prendere un po’ più sul serio il

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Napoleone di La visione del sabba. Almeno quanto il Napoleone “interrogato” dal professor Alberto Clò. Il personaggio cinematografico di Maddalena merita insomma maggiore considerazione e approfondimento. Ha la capacità di andare a ritroso con la memoria, senza reticenze. Da lucida “visionaria” qual è, avrebbe tutto il diritto di rivendicare la sua «ragionevolezza», come Romano Prodi incalzato dalle domande dell’onorevole Sciascia. Anche la Maddalena, enigmatica e silenziosa moglie di Baiocco in Il regista di matrimoni, protesta a un certo punto: «Ma perché, io sono malata?». No, non è malata. Non lo è lei, né l’altra Maddalena, la “sovversiva” di La balia, internata nella clinica psichiatrica del professor Mori. Né sono “malate” la “strega” di La visione del sabba e l’inflessibile moglie “rimossa” da Mussolini in Vincere, entrambe impegnate a schernire e convincere gli psichiatri/inquisitori di ieri e di oggi, più o meno illuminati, della propria acutezza e sanità mentale. Del resto in La visione del sabba è lo stesso professore della commissione esaminatrice a riconoscere che quella narrata dalla Maddalena è «una bella storia». La cui «fine è molto poetica», nel senso che si richiama a una “poesia” specifica, quella composta da Manzoni per commemorare il defunto Napoleone. «Piena di fantasia», certo, il che non esclude una base di realtà sulla quale la «fantasia» si sarebbe esercitata a dovere. Maddalena potrebbe a questo punto diventare «una nuova scrittrice. Talento innegabile. Complimenti. Perché non si mette subito a scrivere?». Adriana Faranda, Barbara Balzerani e soprattutto Anna Laura Braghetti l’hanno fatto, parlando non di Napoleone ma di Moro. Ammesso che ci sia una differenza. Nel caso della fantomatica Maddalena i sogni non c’entrano: «I sogni non sono strutturati come il suo racconto. Sono immagini frammentarie e qui tutto combacia perfettamente». Appunto. Mentre il suo personale ricordo di Napoleone è nitido. Di più: «È abbastanza complesso». Le valutazioni del professore potrebbero perciò essere prese alla lettera, una per una. Solo Davide non si rende abbastanza conto, proprio perché innamorato, di come quello appena ascoltato su Napoleone che «fuggiva dalla Russia», non sia affatto un «sogno». Specialmente se si tiene conto che il linguaggio del sogno viene analizzato unicamente nella sua funzione semantica; l’analisi freudiana lascia nell’ombra la sua struttura morfologica e sintattica. La distanza tra senso e immagine viene sempre colmata, nell’interpretazione analitica, con un’eccedenza di senso; l’immagine nella sua pienezza si determina per sovradeterminazione. Viene completamente omessa la dimensione propriamente immaginaria dell’espressione significativa. Eppure non è indifferente che una certa immagine dia corpo a un certo significato […]; è importante che l’immagine abbia poteri dinamici suoi

propri […]. Il mondo dell’immaginario segue leggi e strutture specifiche; l’immagine è qualcosa di più della rappresentazione immediata del senso; ha il suo spessore e le leggi che lo governano non sono solo delle proposizioni significative. […] Per essa [la psicanalisi freudiana] il senso non si rivela mai attraverso il riconoscimento di una struttura di linguaggio; ma deve essere liberato, dedotto, indovinato a partire da una parola considerata in se stessa. […] L’analisi freudiana rinviene ogni volta solo uno dei possibili significati attraverso le scorciatoie della divinazione o il lungo cammino della probabilità: l’atto espressivo stesso non è mai riconosciuto nella sua necessità. La psicanalisi perviene solo all’eventualità.89

Per l’ennesima volta il paradigma interpretativo valido è quello di Enzo Passoscuro: «L’immaginazione è reale». Infatti c’è molta verità, arricchita dalla poesia, da una precisa poesia, nel racconto/immagine, non onirica né freudiana del Napoleone di La visione del sabba. Il quale, smessi i vestiti dell’imperatore immemore delle «sconfitte» e delle «vittorie» pregresse, un bel giorno, lo ripetiamo: «È diventato un pupazzo di neve. È rimasto lì tutto l’inverno e poi a primavera si è sciolto». Prima «pazzo» che nulla vede davanti a sé, poi «pupazzo di neve» condannato ad assumere a futura memoria «la celebre posa». Esattamente come Moro, al quale le lettere inviate dalla prigione brigatista dal 5 aprile 1978 in poi non vennero ritenute a lui “moralmente ascrivibili”, dunque frutto di un’indicibile “pazzia”, peraltro mai definita tale, ma ciò nonostante senza appello. Di quest’opinione furono molti esponenti della compagine governativa, e non solo. Persino lo psicanalista Cesare Musatti confermò scientificamente la “diagnosi” basandosi sulle lettere dello statista imprigionato.90 Dal canto suo Buongiorno, notte dà conto della “pazzia” di Aldo Moro non solo inserendo allusivamente la dichiarazione sulla Legge Basaglia del ministro Anselmi, ma anche in maniera più diretta. Attraverso il commento del giornalista del Tg2 Emmanuele Rocco: Il testo della lettera [a Cossiga, recapitata il 29 marzo] ha indotto gli esperti a ritenere che il testo è stato materialmente scritto da Aldo Moro, ma «non è moralmente a lui ascrivibile». È una frase di Andreotti che dà il senso della reazione dei politici a quanto può scrivere Moro. Qualunque cosa egli scriva, si dice nel Transatlantico, non è sua, non gli è attribuita. Perché è un uomo in uno stato di coercizione, probabilmente sotto droghe. Ci sono vari mezzi per una persona per fargli scrivere quel che uno vuole...

Immediatamente dopo, il film di Bellocchio lascia, come Enrico IV, che sia Moro stesso a smentire i suoi «amici»:

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Mariano: I tuoi amici non ti riconoscono più. Moro: Non mi riconoscono più? Neanche io li riconosco più. Credono che io sia diventato un altro. Sì, effettivamente sono un altro. Ma non come credono loro. Io sono sempre me stesso.

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Insomma a Buongiorno, notte non sfugge certo la “sentenza” parallela, quella per così dire “psichiatrica” di chi stabilì di fronte all’opinione pubblica che di fatto le lettere e più tardi il memoriale scritti durante la prigionia sarebbero stati l’opera di un triste, addolorato grafomane dissennato. Né potrebbe essere più eloquente l’immagine verbale di La visione del sabba di un Napoleone (o più probabilmente di Moro) «(pu)pazzo» ghiacciato, condannato suo malgrado al martirio. Pronto quindi per essere prematuramente commemorato, ritratto e monumentalizzato. Tornano in mente, ancora in Buongiorno, notte le malinconiche considerazioni di Moro sui «primi martiri cristiani» e sull’«ultima strega». In fondo proprio a Moro è stato assegnato il ruolo di “ultimo martire (demo)cristiano”. Mentre a Maddalena, vera «ultima strega», è stato risparmiato il rogo, questo sì, ma in sostituzione le è toccato un trattamento psichiatrico avanzato, democratico. Riassumendo, non è difficile accorgersi della metodologia che contraddistingue la follia provocatoria dei ripetuti personaggi femminili che rispondono al nome di Maddalena, dall’insana strega con cognizione di causa di La visione del sabba, alla finta “pazza”, invero una pericolosa “sovversiva”, di La balia, fino alla moglie molto defilata di Il regista di matrimoni. Ogni Maddalena rappresentata da Bellocchio, compresa la sorella di Sparafucile in Rigoletto, sembra corrispondere a questo principio e a un singolare gioco di destini incrociati. Ma se in La visione del sabba Maddalena, in quanto protagonista, possiede una esplicita identità onomastica, le contigue Maddalena di La balia e Il regista di matrimoni, figure apparentemente di secondo piano, a stento beneficiano del medesimo privilegio. Cerchiamo di affrontare la questione più nel dettaglio. Innanzitutto partendo da una constatazione abbastanza elementare. Che ogni “pazzo” presuppone un “medico dei pazzi”. Infatti nel film La balia succede proprio questo. Il protagonista Mori è uno psichiatra, anzi lo diventa. Cambia cioè professione rispetto a quella di avvocato svolta nell’omonima novella di Pirandello pubblicata su «Nuova Antologia» l’1 giugno 1903 e nel 1923 inserita nella raccolta delle Novelle per un anno intitolata In silenzio (titolo che nella cornice del caso Moro, filtrato dalle citazioni dickinsoniane della Balzerani, si presterebbe a ulteriori, inevitabili interpretazioni). Perché mai? La spiegazione va ricercata in un certo senso proprio in «Maddalena, la paziente che tace ostinatamente» [e che] «è in realtà una rivoluzionaria». La quale, spiega la sceneggiatrice Daniela Ceselli, «esisteva più o meno dall’inizio, o almeno

da quando abbiamo cambiato la professione di Mori. In parte è speculare alla balia».91 Non è da escludere che Bellocchio abbia addirittura optato per questa novella di Pirandello suggestionato dal cognome del protagonista, “Mori”, che non è soltanto simile a “Moro”, ma può suggerire l’idea stessa della sorte del presidente rapito: la locuzione latina memento mori significa “ricordati che devi morire”. Il protagonista di La balia esemplifica insomma il “memento Mori” (di Moro) e deve perciò essere/diventare lo psichiatra della situazione. Lo psichiatra, va da sé, della “sovversiva” Maddalena. Anche il Moro di Buongiorno, notte, più che il “pazzo” indicato dai vertici istituzionali e dagli organi di stampa dell’epoca, diventa un po’ lo psichiatra dei suoi stessi carcerieri brigatisti. Almeno secondo una lettura “esterna” che Bellocchio ha accolto senza riserve: Sul finale di Buongiorno, notte ci sono delle interpretazioni molto diverse. Quella che ovviamente più mi ha colpito per la mia esperienza, per la mia frequentazione, per la mia ricerca – mi riferisco all’analisi collettiva di Massimo Fagioli – si riferisce a questo finale come a una rappresentazione dell’analista, dello psichiatra che i pazienti, all’interno dei seminari di analisi collettiva – parliamo dei primi anni dell’analisi collettiva – ecco, questi a un certo punto lasciano libero l’analista. Questo lasciar libero l’analista è in qualche modo il riconoscimento, da parte loro, di avere trovato una certa autonomia. Come se loro avessero ritrovato un rapporto con la realtà, un certo tipo di sanità mentale di base. Questa interpretazione, a cui io non avevo minimamente pensato, mi è stata data da Massimo Fagioli. Naturalmente io devo tener conto di chi non conosce questo tipo di esperienza, e formulare anche questa interpretazione nel modo più generale e universale possibile. Non lo dico con una facile inconsapevolezza “da artista”, ma mi interessa quando qualcuno interpreta una mia immagine e me ne dà una chiave di lettura.92

Dunque, se Moro è lo psichiatra e i brigatisti i pazienti dell’analisi collettiva, è comprensibile che l’avvocato Mori della novella dovesse diventare lo psichiatra Mori/Moro. Ad avvalorare l’interpretazione di Fagioli c’è poi la scelta di fare interpretare sempre a Roberto Herlitzka lo scostante psichiatra e deputato di Bella addormentata, continuamente assediato da deputati depressi, cui però si limita con indolenza a prescrivere solo farmaci. Fatto sta che Bellocchio non si limita ad accettare di buon grado o a trovare interessante la lettura fagioliana. È lo stesso Buongiorno, notte ad accreditarla, quando mostra Chiara che sta pulendo i fagiolini, mentre assieme a Mariano, Primo ed Ernesto guardano in televisione, in quest’ordine: i funerali di Stato degli agenti della scorta di Moro in chiesa, Raffaella Carrà che canta e balla Tango, la dichiarazione del vicesegretario della DC Giovanni Galloni

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sollevato dall’avere rivisto, sebbene in foto, Moro «in uno dei suoi atteggiamenti malinconici e rassegnati» (non dissimile dall’«aspetto trasognato malinconico ed assente» di L’uomo in frack di Modugno). L’associazione di Chiara ai fagiolini è inequivocabile. Tanto che Mariano le chiede: «Chiara, non sei stanca?». E lei, proseguendo, risponde: «No, no». L’ulteriore sottolineatura concorre a rafforzare l’allusione al soprannome dato ai pazienti e agli estimatori di Fagioli: “fagiolini”. Senza dimenticare che i membri della «sacra famiglia» brigatista del covo, proprio mentre si occupano dei “fagiolini”, commentano a caldo le notizie televisive a loro dedicate, interagendo con i surrogati audiovisivi di quel mondo che vorrebbero/dovrebbero trasformare. Rinvigoriti dal contenuto fin troppo familiare e autoreferenziale93 del medium audiovisivo, dopo essere stati definiti da Galloni «assassini, criminali», ecco che all’unisono Mariano, Primo, Ernesto e Chiara fissano tutti assieme il piccolo schermo domestico: in tema di fantascienza, come i suscettibili bambini mutanti di Il villaggio dei dannati (The Village of the Damned, Wolf Rilla, 1960). Quindi ripetono ossessivamente «La classe operaia deve dirigere tutto»: in tema di clericalismo, come i sacerdoti “salvifici” di L’esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973). Accantoniamo Buongiorno, notte e riprendiamo La balia. Che dire ancora? Innanzitutto qualcosa della balia stessa del titolo, Annetta, vezzeggiativo che consente, sulla falsariga dell’Annicchia pirandelliana, di riproporre/ mimetizzare l’ennesima Anna, che con le stesse sembianze di Maya Sansa torna nei panni di Chiara in Buongiorno, notte, poi in quelli di Rossa in Bella addormentata. L’Ann(ett)a del terzo film di Bellocchio tratto da Pirandello, nella novella originale aveva un marito anch’egli di fede socialista. Per quei tempi un elemento “sovversivo”, destinato perciò a finire in prigione. La protagonista del film di Bellocchio ricalca quella che nel testo di Pirandello era la moglie di un “sovversivo” in prigione, rendendola consimile della Giulia di Diavolo in corpo. Poi c’è Maddalena, la ragazza prontamente accolta nel reparto psichiatrico del professor Mori. Sebbene non venga mai nominata direttamente nel film, né tale nome compaia nei titoli di testa o di coda, viene indicata nella sceneggiatura sempre come Maddalena. A riprova della centralità di un personaggio al cui spessore trasversale molto contribuisce il nome. Un’altra paziente di Mori, Elena, ulteriore nome significativo, giudica l’innominata Maddalena una «bugiarda». Cosa in effetti vera, poiché il sintomatico “silenzio” (Pirandello: In silenzio; Dickinson/Balzerani: Silenzi; Bellocchio: Il sogno della farfalla) della nuova arrivata Maddalena, cioè la sua reticenza a parlare, serve a coprire l’inconfessabile identità di “sovversiva”, di cui altrimenti dovrebbe rispondere penalmente. Il giovane collega Nardi, come il Davide di La visione del sabba, è però innamorato, quindi pronto ad abbracciarne l’ideale politico. Di questo discute con il collega

anziano Mori, interpretato da Piergiorgio Bellocchio: Mori: Che diagnosi vuoi che ti faccia? La ragazza è a posto. I riflessi sono perfetti. Nardi: Sì, ma se è normale va in carcere. Mori: Ma questo non è un rifugio per sovversivi.

Seguendo l’esempio dell’altro psichiatra, Davide, innamorato della Maddalena parallela di La visione del sabba (o del dottor Pallido, sempre interpretato da Piergiorgio Bellocchio, ugualmente protettivo nei confronti di Rossa in Bella addormentata), anche Nardi non resiste al fascino della Maddalena di turno, una che niente di meno «sembra abbia dato fuoco a un teatro». Le parla, ammettendo tuttavia che «non è sincera». Tralasciamo per ora il non irrilevante riferimento al teatro.94 E concentriamoci sul dispositivo onomastico che regola il discorso bellocchiano sul caso Moro. Per avere un quadro completo del suo funzionamento è indispensabile non perdere di vista nemmeno la Maddalena di Il regista di matrimoni, che nel film esce dall’anonimato in cui la confinano i titoli di testa e di coda del film, nonché la sceneggiatura originale.95 Quest’ultima Maddalena acquista per la prima e unica volta il nome proprio nel momento in cui sembra ingelosirsi per le parole del marito Baiocco (“regista” professionale “di matrimoni”) a Elica (“regista” di professione, occasionalmente di matrimoni). Parole che, da moglie ma non solo, la infastidiscono per il confronto impari e inopportuno con la primadonna del film, Bona: Elica: Ma Bona che genere di nome è? Baiocco: È un nome spagnolo. Elica: È bella? Baiocco: È bellissima. Ma un po’ triste. Sai, quella tipica bellezza di una volta. E colta, una gran lavoratrice, sana di corpo e di spirito. Maddalena: Ma perché, io sono malata? (Sorride incomprensibilmente) Bambini andate a lavarvi le mani. Baiocco (colto alla sprovvista): Maddalena! Ma… che dici? Elica: Ma le donne sono così!

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Maddalene, madeleine

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Un nesso è innegabile tra le due Maddalena comprimarie di La balia e Il regista di matrimoni e le rispettive protagoniste Annetta, cioè Anna, e Bona. Quanto alla Maddalena di La visione del sabba, eccola chiamare in causa non una Bona, nome femminile diciamo così spagnolo, ma un Bona-parte. Un cognome celebre: quello di Napoleone. Parafrasando ancora Fagioli, verrebbe da chiedersi: «Ma Anna/Bona, chi è?». Lasciamo per un attimo da parte la “pazzia”, che nel caso Moro si direbbe uno status alquanto ambivalente, diffuso e condiviso, anche perché non sono le condizioni mentali della strega di La visione del sabba a destare grande preoccupazione, bensì il “metodo” del suo presunto delirio recitato. O meglio, il “raccontare” e ricordare in maniera “strutturata”. Contano in pratica le “immagini non oniriche” (tali proprio perché non «frammentarie», dice lo scaltro professore che interroga Maddalena), cui Bellocchio si dedica con crescente consapevolezza nei suoi film a partire da Il gabbiano. Dal 1977, con o senza un testo teatrale alle spalle, riuscendoci in misura minore o maggiore, cerca insomma «di vedere come le parole possano essere cancellate dalle immagini».96 Per spiegare la genesi di tali «immagini» (successivamente forse demistificate in Bella addormentata) ricorre ancora a Pirandello, stavolta a I giganti della montagna: Ma come nascono le immagini? La maggior parte delle immagini che noi vediamo sono la riproduzione di altre immagini con piccole variazioni di trucco. Poi ci sono immagini veramente vive, che sono il passato dimenticato e trasformato dalla nostra fantasia interna. Esse nascono spontaneamente, come dice Cotrone nei Giganti della montagna di Pirandello: « ...a noi basta immaginare e subito le immagini si fanno vive da sé. Basta che una cosa sia in noi ben viva, e si rappresenta da sé, per virtù spontanea della sua stessa vita. Al più noi agevoliamo con qualche mezzo la nascita». Ma si capisce anche che questa «vivezza» dipende dalla «vivezza» della nostra precedente esperienza di vita.97

Le «immagini» care a Bellocchio non potrebbero trovare esempio o autore teatrale migliore. Né la loro «vivezza» risaltare senza che si frughi nei suoi film avendo ben presente il caso Moro. Questa specifica commedia di Pirandello non solo consente a Bellocchio di rivendicare la genesi riproduttiva delle «immagini» così come lui le intende. Consente anche a Fagioli, nell’intervento su Salto nel vuoto più volte citato, di risalire ancora a una Maddalena, servendosi anche lui delle parole del Cotrone di I giganti della montagna:

Una povera scema, che sente ma non parla; è sola senza più nessuno, e vaga per le campagne; gli uomini se la prendono, e ignora fino all’ultimo ciò che pur tante volte le è avvenuto; lascia sull’erba le sue creature. Eccola qua. Ha sempre così, sulle labbra e negli occhi, il sorriso del piacere che si prende e che si dà. Viene quasi ogni notte a trovare rifugio da noi, nella villa. Va’, va’, Maddalena.

Questa «Dama rossa» pirandelliana, per dirla con Fagioli, «spaventa come una fiamma».98 Ed è l’ennesima Maddalena cui tocca fare da asse di collegamento tra istanze di diversa provenienza che prendono forma all’occorrenza. Tuttavia, a rendere soprattutto la capostipite delle Maddalene bellocchiane (l’incoercibile strega di La visione del sabba) una figura non soltanto pirandelliana, o verdiana (Rigoletto e Rigoletto a Mantova), ma decisamente amletica, è il «raccontare per immagini non oniriche né frammentarie». La sua spiccata attitudine a immaginare realisticamente si riallaccia sia al discorso sulle «immagini vive» dell’autore esterno di Buongiorno, notte, Bellocchio, sia al discorso sull’«immaginazione» giudicata «reale» del suo coautore interno, Passoscuro. Del resto era stato a più riprese Sciascia a ribadire l’attinenza dei fantasmi sempiterni di Amleto con il caso Moro. Nel 1978, in L’affaire Moro: Non si vuole con ciò escludere che l’esistenza delle Brigate rosse sia appunto “pazzesca”: ma quando dalla pazzia comincia ad affiorare un metodo, è bene diffidarne: come Polonio di quella di Amleto (ma non ne diffidò abbastanza: e così non sia di noi). E il metodo è proprio dell’affaire Moro che comincia ad affiorare. Che quella delle Brigate rosse sia una follia non priva di metodo, tutti lo dicevano e lo dicono. Ma è dalla vicenda Moro, e attraverso le sue lettere, che si comincia a intravederne il disegno. Come Polonio, Moro, prigioniero e condannato a morte, ha cercato e poi seguito il filo del metodo in quello che dapprima gli sarà parso un labirinto di follia.99

Nel 1979, in Nero su nero: Possibile che in un Paese in cui tanta carta stampata quotidianamente si muove, tante analisi si fanno, tanti ingegni vi si provano, in un Paese in cui sembra tutti sappiano tutto di tutti e di tutto; in un Paese che di sé riesce ancora a dare immagine di vitalità e di intelligenza – possibile che io sia stato il solo, l’unico ad arrivare a una così semplice verità? Direbbe Amleto: «C’è qualcosa di marcio, nel regno di Danimarca». Nella Repubblica italiana. Più di qualcosa. E l’avere intuito – unico – una verità che quattro anni addietro nessuno intese e oggi tutti riconoscono, non mi inorgoglisce.

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Mi abbatte, piuttosto. Mi dà il senso di aggirarmi nella realtà italiana non come un veggente, ma come un fantasma.100

Nel 1982, alla radio: I fantasmi appaiono come in Amleto quando i colpevoli non sono stati puniti, e quando il mistero persiste... Fino a quando questo nodo, questo mistero non si scioglierà, Moro sarà un fantasma terrorizzante per alcuni. E per gli altri sarà il fantasma della giustizia che dovrà arrivare.101

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Niente di più logico che successivamente anche il regista bobbiese scelga di far sua la strategia della messa in scena veritiera e accusatrice di Amleto, sulla falsariga delle recite e degli spettacoli provocatori o ineffabili già allestiti dentro Nel nome del padre, Il gabbiano e Il sogno della farfalla. Il proverbiale paradigma shakespeariano dell’Amleto, sintetizzato da Polonio («Benché questa sia pazzia, pure c’è un metodo in essa»), si riallaccia ai ricordi estemporanei attivati dalla Maddalena di La visione del sabba, efficiente come le madeleine proustiane di Alla ricerca del tempo perduto. L’attribuzione del nome Maddalena a una serie coerente di “femmine folli” vere o presunte (La visione del sabba e La balia), oppure discrete, gelose, permalose al punto da non tollerare paragoni con altre (Il regista di matrimoni), procede di pari passo con le sempre più frequenti ricorrenze onomastiche femminili Anna e Giulia. Ma chi è questa Maddalena che trascorre spontaneamente dal presente al passato, dai territori della mente alle lusinghe del corpo, dalla visionarietà alla previsione della realtà, dall’irrazionalità liberatoria alla presunta «ragionevolezza» o alla ragion di Stato che imprigiona uomini e donne, individui e istituzioni? La strega Maddalena non ha bisogno di farsi pregare per dichiarare le proprie generalità e la data di nascita. Ma se lo fa è sempre in veste di strega: una strega di lungo corso, “irriducibile” al principio di realtà e a ogni legge degli uomini. Si comporta come una novella Antigone, figura di grande richiamo nell’immaginario teatrale femminile. Ed è anche per questo che l’interrogazione sottotono di Andrea in Diavolo in corpo si conclude con la lettura, la traduzione e il commento dei versi con cui Creonte, straziato, si prepara a invocare per sé la morte: Andrea: «Oh, portatelo via questo povero folle. Io che t’ho ucciso, figlio, e non volevo. E ucciso anche te che mi stai avanti, donna mia». Professoressa: Ancora una domanda. E secondo te, in questo contrasto drammatico tra Antigone e Creonte quale opposizione si configura?

Andrea: Be’, fondamentalmente si scontrano in tutta la loro diversità le posizioni di chi si fa difensore delle leggi umane, svincolate dalle leggi non scritte delle divinità, Antigone, e di chi invece onora le leggi degli dei e dei padri, ne fa il fondamento della propria esistenza e vita sociale, Creonte.

A questi versi dell’Esodo con cui si chiude l’Antigone di Sofocle, pronunciati fuori campo, fa da contraltare l’ininterrotto mezzo primo piano frontale di Giulia, novella Antigone commossa, che pronuncia parole inascoltabili, poi comincia a piangere. La relazione stretta tra Giulia e Antigone non era prevista nel finale della sceneggiatura originale, forse più didascalico ma non meno interessante per chiunque voglia cogliervi riferimenti persino più diretti alle opere successive di Bellocchio. Sulla carta l’interrogazione verteva invece 1) sul «padre» di Pascoli «ammazzato»; 2) sull’«impegno politico, la rivoluzione, servire il popolo e via dicendo»; 3) quindi su «Pirandello… la moglie pazza… [che] è un personaggio che ricorre in tanti suoi drammi… per esempio Il berretto a sonagli»; 4) su «D’Annunzio [che] diventa fascista come Marinetti e i futuristi»; infine 5) sull’essere «marxista» o «di Comunione e Liberazione», a differenza che nel film, come un imprecisato collega del professore stesso.102 Inutile dire che dei numerosi richiami nel tempo destinati ad assumere una connotazione molto autoreferenziale (La balia, Vincere) il più impressionante è il primo, quello pascoliano: Professore: Secondo lei c’è una relazione tra la rinuncia pascoliana alla vita e alla qualità, e la novità della sua poesia? Non voglio essere deterministico, ma se per assurdo il padre non fosse stato ammazzato, Pascoli sarebbe diventato lo stesso un grande poeta? Andrea: Non credo che siano state le disgrazie a farne un artista… Sarebbe stato un artista diverso… È certo che la vita determina l’arte. Forse una vita più normale, più comune, ci avrebbe privato di quella straordinaria rivoluzione formale.103

In questa logica secondo cui, come dice Andrea, «è certo che la vita determina l’arte» troviamo l’allusione forse più scoperta al genitore della protagonista e sposa ribelle, che ugualmente «è stato ammazzato» dalle Brigate rosse. Allusione estendibile ovviamente allo speculare colonnello Antonio Varisco, ma anche all’immaginario Aldo Moro che nel finale di Buongiorno, notte appare «per assurdo [come] il padre [se] non fosse stato ammazzato». Fin qui la singolare situazione edipica in senso più freudiano che sofocleo, invero molto circostanziata e storicamente determinata nel quadro degli avvenimenti del 1978 e 1979. Donde l’Antigone che in Diavolo in

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corpo risponde al nome di Giulia, il cui modello anti-autoritario potrebbe nel sistema intertestuale bellocchiano essere tranquillamente esteso alla Maddalena del film successivo La visione del sabba. Una Maddalena/Antigone che funge da raccordo tra un Cossiga reale e un Napoleone/Moro allegorico. Questo valore assoluto e teatrale dell’essere donna nei film di Bellocchio, incarnando le prerogative di un’Antigone moderna, fisiologicamente antagonista e in rivolta, spiega perché il nome Maddalena e la sua funzione di autrice/coreografa del sabba finale coincidano non soltanto con una concezione totalmente femminile e militante del teatro, ma con il nome stesso dell’ex noto teatro romano delle femministe: il Teatro della Maddalena, così chiamato per la vicinanza alla Chiesa di Santa Maria della Maddalena sita nell’omonima piazza. In questo teatro ritroviamo una delle figure su cui molto si è concentrato un preciso filone delle indagini della Commissione Stragi: la scrittrice femminista di origini ebraiche e militante di estrema sinistra Laura Di Nola,104 morta per cause naturali l’8 luglio 1979, pochi giorni prima dell’assassinio di Varisco. Dagli elementi in possesso della Commissione Stragi risulta che la Di Nola, coniugata con Raffaele De Cosa, già documentarista diplomata al Centro sperimentale,105 «in rapporto organico con una rete Wiesenthal», forse persino con il servizio segreto israeliano Mossad,106 era locataria con suo marito di un appartamento di via sant’Elena 8, interno 9, nel Ghetto ebraico, nonché proprietaria di una casa sul lago di Bracciano, a Trevignano Romano. Proprio a Trevignano, come precisato dal consulente della Commissione Stragi Stefano Bonfigli nella sua relazione, abitavano anche i fratelli Osvaldo e Settimio Cecconi, cognome vero, a differenza di quello della Maddalena interpretata da Anna Magnani in Bellissima (1951) di Luchino Visconti, dove provocatoriamente si demistificava già l’impianto realistico dei film neorealisti: Di particolare interesse risulta la figura di Settimio CECCONI: egli vive nel paese di TREVIGNANO, è fratello di Osvaldo CECCONI (arrestato nel 1980 con l’accusa di banda armata) legato sentimentalmente alla terrorista Nunzia FRANCOLA (condannata con sentenza definitiva alla pena di 20 anni di reclusione per banda armata ed altro), detenuta per un certo periodo insieme ad Anna Laura BRAGHETTI. È opportuno ricordare come nel 1994 la brigatista BRAGHETTI, dovendo fruire di un permesso premio, fornì come recapito proprio quello dell’abitazione di Settimio CECCONI in TREVIGNANO.107

Sorvolando su un’altra interessante coincidenza attinente alla vicenda,108 ma che in parte esula dai film di Bellocchio, e stando invece alla sola perizia di Giacobini e Lombardi, Moro «in epoca anteriore a quella in cui è transi-

tato sulla sabbia del litorale a nord di Roma, ha camminato su un terreno vulcanico tipico delle zone interne e peri-tirreniche del Lazio». Cioè nella zona dei Monti Sabatini vicino Bracciano, proprio dove hanno abitato i coniugi Di Nola e De Cosa e i fratelli Cecconi. La coincidenza, come si può notare, ha interessato molto la Commissione Stragi, concentratasi soprattutto sulla pista investigativa che collega il delitto Moro al Ghetto ebraico. Per comprendere quest’ulteriore passaggio è però indispensabile potenziare il richiamo mirato e reiterato a Manzoni in La visione del sabba e Buongiorno, notte. Richiamo che non si esaurisce nell’ipotetica relazione tra Napoleone e Moro, ma ripropone il problema dell’ubicazione di eventuali altre prigioni di Moro. Ancora un giro di vite.

Cinque maggio Giunti quasi in dirittura d’arrivo, crediamo sia opportuno riprendere la traccia manzoniana. Il che vuol dire, nella cornice di Buongiorno, notte, tornare nuovamente alla seduta spiritica reinventata nella quale compare per primo l’autore stesso. E solo successivamente viene invocato l’allegro «spirito Bernardo» (Bertolucci), al quale sembra volersi affidare, forse con esagerata fiducia, la congregazione di oscuri, importanti personaggi che compone la catena medianica. Tra questi troviamo anche un alto ufficiale dei carabinieri. Bellocchio viene prima, forse perché il primo ha da dirci qualcosa in più e di meno “scherzoso” di Bertolucci. Vediamo di che si tratta. Bellocchio, come abbiamo già spiegato, entra in campo nel film solo dopo che il suo “vicario” più giovane, Passoscuro, è uscito di scena (arrestato dai poliziotti che hanno fatto incursione nell’edificio ministeriale). Se a un certo punto l’autore in persona decide di metterci la faccia, di mimetizzarsi, di enunciare la propria presenza senza più delegarla, lo fa in concomitanza di una data, il 5 maggio, corrispondente al titolo dell’ode manzoniana da lui parzialmente declamata. Cioè quanto basta perché si colga il riferimento, non più o non solo poetico, ma essenzialmente cronologico. In questo modo “egli” si assume una responsabilità conoscitiva diretta davanti alla macchina da presa: non si sottrae, anzi reclama un tale primato. Sceglie di incarnare un punto di vista interno, un sapere di prima mano, in loco. Cerca di rendersi relativamente (in)visibile, presentandosi seduto in disparte. Si estranea dalla pratica spiritistica che altri si apprestano a consumare. Se ne resta per conto suo con sguardo assente, per poco tempo: sullo sfondo, come un dettaglio pregnante in un dipinto rinascimentale. Sembra di sentire l’infingarda, improbabile, bella insegnante di religione che in L’ora di religione lusinga Ernesto Picciafuoco: «Lei è un grande pittore. Anche quando deve rispettare un soggetto lei recupera sempre negli

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sfondi. Un po’ come i maestri del Rinascimento che inventavano nel poco spazio che Gesù, la Madonna e i santi lasciavano libero. E anche lei fa la stessa cosa: negli spazi inutili e secondari libera tutto il suo talento». E non solo. La ragazza dice inoltre di sé: «dipingo un po’, scrivo un po’, studio un po’, tutto mediocremente». Lo dice dopo aver recitato a Ernesto una «poesia russa» che sembra «scritta apposta» per lei, dove si parla di «quel che poteva essere una foglia dalle cinque punte», una foglia che fa venire in mente una “stella a cinque punte”. Comunque sia, Bellocchio fa tesoro di questo riappropriarsi proficuamente degli «spazi inutili e secondari». E lo applica direttamente su se stesso in Buongiorno, notte prima che si svolga la seduta spiritica inconcludente, come se fosse lui il “libero” dettaglio significativo sullo “sfondo”. Quindi pronuncia qualcosa di molto importante: due versi di una poesia, la stessa di La visione del sabba, che segnala attraverso il semplice titolo il giorno del film nel quale si svolge la bizzarra ricerca medianica del luogo di detenzione di Moro: Il cinque maggio. Ciò di cui la scena ci informa succede, nella cronologia alternativa e pregnante di Buongiorno, notte, non in un giorno qualsiasi, né in quello della seduta spiritica di Zappolino (il 2 aprile 1978). Succede in un giorno di manzoniana memoria: il 5 maggio. Del 1978. Non resta perciò che stabilire cosa esattamente si dovrebbe acquisire in questa singolare, differente, ripetuta seduta spiritica cinematografica. Le date in Buongiorno, notte riconducono ai luoghi, e viceversa. Abbiamo visto come la domenica del 2 aprile reale (per quel che può valere parlare di “realtà” nel caso Moro) venga fuori un luogo di cui, nonostante l’incomprensibile attenzione dedicata all’avvenimento in sé nei palazzi del potere, non si tiene adeguatamente conto: Gradoli. Possibilmente non il paesino, ma l’omonima via romana dove solo due settimane dopo, il 18 aprile, si scopre un covo brigatista. L’autore però, lo si è detto varie volte, rimuove dal film relativamente ogni richiamo palese a via Gradoli. Nel senso che al covo o ipotetica prigione di via Gradoli spesso allude, ma altrimenti. Di certo non attraverso la seduta spiritica in questione, che infatti viene spostata in avanti per esigenze, diciamo così, di diversa organizzazione e comunicazione interna. Comunicazione di cui “egli” si fa portatore, cinematograficamente parlando: in (prima) persona ci dice così, senza mezzi termini, quando tutto ciò sta avvenendo. Lo dice con Manzoni, ma lo dice. La prassi di Marco Bellocchio di capitare fisicamente seppure en passant nei suoi film – escludendo i personaggi a cui presta appena la propria inconfondibile voce in I pugni in tasca (il prete al funerale) e La Cina è vicina (il padre rettore del collegio) – risale al suo episodio Discutiamo, discutiamo del collettivo Amore e rabbia (1969). Di solito si ritaglia qualche ruolo marginale: veste i panni di chi sta dall’altra parte, avversa i protagonisti o rappresenta la conservazione e le istituzioni. In Discutiamo, discutiamo infatti si ritaglia il

ruolo autoironico del professore barboso e con tanto di barba posticcia. Poi interpreta il cronista che cerca di mediare in Sbatti il mostro in prima pagina (1972). Quindi, saltando i documentari o i quasi documentari dove la sua presenza è esplicita o implicita davanti o dietro la macchina da presa (Matti da slegare, La macchina cinema, Vacanze in Val Trebbia, Sogni infranti), lo vediamo comparire tra i fedelissimi amici che assecondano il conte Bulla in L’ora di religione. Copione che si ripete in Buongiorno, notte, quando lo ritroviamo ancora tra coloro che, pur non prendendo parte, presenziano all’esperimento occulto da cui ci si aspetterebbe di venire a sapere dove si trova Moro. Il giorno, secondo il calendario immaginario parallelo e alternativo del film, ormai lo conosciamo: il 5 maggio, quattro giorni prima dell’uccisione di Moro. Lo stesso giorno in cui: 1) giunge l’ultima e irrevocabile proclamazione dell’esecuzione capitale contenuta nel comunicato numero 9 che si conclude con il tristemente celebre «Concludiamo quindi la battaglia iniziata il 16 marzo, eseguendo la sentenza a cui Aldo Moro è stato condannato»; 2) viene recapitata la lettera estrema e rassegnata del prigioniero alla moglie Eleonora, con l’altrettanto memorabile e perciò (re) citato/recepito espressamente dal film «Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». La presenza/assenza di Bellocchio, mediante attori/personaggi altri o nei panni di se stesso, dunque non più «figura dell’assenza» collocata per prudenza «al di qua della macchina da presa»,109 gli permette di dire, vedere e sentire, senza essere visto o facendosi vedere, a seconda del caso e della necessità. Quello di Il cinque maggio, o se si preferisce del 5 maggio, è di sicuro un caso di assoluta necessità. Tale da giustificare l’ennesima “scappatella” da attore provvisorio nel film: una fugace intrusione che gli consente di assistere personalmente a ciò che accade e fa in modo che accada a futura memoria («Ai posteri l’ardua sentenza»). Lo scopo è quello di ribadire, da testimone simulato o effettivo, nonché da artista, il funesto principio della piena “intelligenza” dei fatti già sostenuto da Pasolini: Io so. Ma non ho prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero.110

Seguiamo il ragionamento. “Egli”, cioè Bellocchio autore e attore, persona e personaggio, si chiede: a chi spetta o spetterebbe l’insostenibile «vera gloria», cioè la responsabilità materiale e politica del sequestro e del suo im-

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minente, tragico esito? La «gloria» è una parola presa in prestito da Manzoni e perciò immodificabile, sebbene per certi versi suoni molto emblematica, almeno se rapportata al clima culturale e ideologico dell’epoca. Pensiamo all’inconfessabile “soddisfazione” provata lì per lì da molti appartenenti alla vasta e ormai sommersa area della contiguità o a quella dei semplici “simpatizzanti”, attestata in Buongiorno, notte dall’incauta reazione di gioia di Chiara, immediatamente auto-repressa, alla notizia del rapimento andato a “buon” fine. Ecco, in questo senso l’uso in un celebre verso interrogativo manzoniano del sostantivo «gloria» (poi motivo per molti di conseguente rimozione e interminabile rimorso), associato all’aggettivo «vera», suggerisce l’ambigua, impegnativa, controversa assunzione di completa responsabilità dei brigatisti, i quali hanno sempre dichiarato di aver gestito da soli ogni fase del sequestro fino al tragico epilogo. Senza dubbio la risposta a questa domanda è problematica. Anzi «ardua», per usare l’aggettivo manzoniano pregresso, ma persino più pertinente. Come dire che è difficile stabilire chi abbia fatto esattamente cosa nel caso Moro. In particolare è ancora oggi abbastanza difficile (“arduo”) stabilire con assoluta certezza, date le contraddizioni degli stessi brigatisti, chi abbia “eseguito” materialmente quella che in Il cinque maggio viene direttamente chiamata con il termine usato nel definitivo comunicato brigatista del 5 maggio: «sentenza». Chi è che parla? Manzoni o Bellocchio? Indubbiamente il secondo, sebbene per interposta persona o poesia.

Letture dantesche Nel paragrafo precedente abbiamo provato a leggere i due versi campione che rimandano all’intera ode civile manzoniana, privilegiando il fattore strettamente temporale, comprendendo cioè che l’anonimo, sibillino personaggio occasionale interpretato da Bellocchio si sta riferendo con ogni probabilità al 5 maggio. Bene. Non rimane ora che individuare il luogo, sempre secondo quella che riteniamo essere la logica testuale di Buongiorno, notte. Anche stavolta la risposta non andrebbe cercata più di tanto in La luna, sembra volerci dire (il film di) Bellocchio, che elegge sì Bertolucci a «spirito guida», però lo definisce «burlone», quindi maldestro o poco attendibile (con o come il film da quest’ultimo realizzato immediatamente dopo il delitto Moro). La risposta andrebbe invece scovata là dove la suggerisce, a inizio sequenza e per primo, lo stesso Bellocchio, sgombrato ormai il campo da ogni possibile, artificioso personaggio intermediario. In pratica in un luogo piuttosto inequivocabile e omonimo dell’isola di Sant’Elena, l’ex possedimento francese dove terminò i suoi giorni l’esule, deposto imperatore Napoleone Bonaparte commemorato da Alessandro Manzoni in Il

cinque maggio, da Maddalena in La visione del sabba, da Marco Bellocchio in Buongiorno, notte. Prima però occorre soffermarsi sulla via Caetani del Ghetto ebraico dove Moro termina i suoi dolorosi e sconcertanti cinquantacinque giorni di “esilio” coatto dalla politica e dalla vita pubblica. In tema di metafore letterarie continuate, lasciamo un po’ decantare l’indizio manzoniano, in modo da riprendere e sviluppare quello dantesco, non meno rilevante. Come si ricorderà, il magistero di Dante viene chiamato spesso in causa nella filmografia bellocchiana. Si è già detto del mito di Ulisse richiamato dal padre professore di Massimo in Il sogno della farfalla. Ancora più esplicitamente l’eco dantesca torna a farsi sentire durante l’interrogazione che Andrea sostiene nel corso degli esami di Stato per il conseguimento della maturità classica nella scena finale di Diavolo in corpo. L’esame comincia infatti dall’italiano, con l’analisi in chiave profetica dell’esperienza poetica oltremondana di Dante,111 esemplificata nell’episodio di Cacciaguida. E prosegue, lo si è visto, con il greco, cioè con il conflitto tra Antigone e Creonte. Cambia la materia, ma non la sostanza. La commissione d’esame chiede infatti ad Andrea di leggere e commentare i versi dal 37 al 42 delle terzine che introducono la dolorosa profezia del XVII canto del Paradiso: La contingenza, che fuor del quaderno de la vostra matera non si stende, tutta è dipinta nel cospetto etterno: necessità però quindi non prende se non come dal viso in che si specchia nave che per torrente giù discende.112

Nonostante la «contingenza tutta» sia «dipinta nel cospetto etterno», e dunque l’esilio di Dante sia segnato, l’illustre trisavolo aggiunge che «necessità però quindi non prende». La «teoria del libero arbitrio» cui fa meccanicamente riferimento il giovane protagonista di Diavolo in corpo, preparato ma senza particolare entusiasmo o voglia di approfondire, capire, cogliere il senso riposto della sua lettura della Divina Commedia, riflette la diversa convinzione di Enzo Passoscuro in Buongiorno, notte di poter agire per via “immaginifica” sulla “realtà”. Probabilmente preavvisato, come Dante Alighieri da Cacciaguida nella terza cantica del poema dantesco, anche Moro deve fare i conti con la profezia del giovane Passoscuro, la cui omonima, riscrivibile sceneggiatura è un facsimile di quella misteriosa, a tutt’oggi anonima, non rivendicata, contenuta in una delle borse del presidente democristiano prelevate dai brigatisti dall’auto assaltata in via Fani. Nel rapporto Passoscuro e Moro, sulla falsariga di quello tra Cacciaguida a Dante, è possibile accorgersi di come Bellocchio, autore, personaggio e creatore di per-

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sonaggi autoreferenziali, esprima la forte convinzione di poter aggiornare un testo cinematografico “visionario”. Cioè riadattarlo continuamente agli sviluppi del sequestro in corso, trasformarlo in uno strumento per cambiare gli eventi quantunque segnati, partendo dalla convinzione della sua veridicità. La profezia di Cacciaguida non si farà attendere nel prosieguo del canto XVII, nei versi dal 124 al 135 che Bellocchio lascia come di consueto fuori dal film e affida alla buona memoria dello spettatore letterato:

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Coscienza fusca o de la propria o de l’altrui vergogna pur sentirà la tua parola brisca. Ma nondimen, rimossa ogni menzogna, tutta tua vision fa manifesta; e lascia pur grattar dov’è la rogna. Ché se la voce tua sarà molesta nel prim gusto, vital nutrimento lascerà poi, quando sarà digesta. Questo tuo grido farà come vento, che le più alte cime pur percuote; e ciò non fa d’onor poco argomento.

Mimetizzata perciò tra le pieghe del racconto, tale profezia, accennata ed elusa, consente di richiamare allusivamente l’attenzione del potenziale spettatore/lettore (magari meno indolente del giovane maturando, il quale ha studiato quanto basta solo per superare dignitosamente l’esame orale) sul paradigma visionario dantesco giunto a compimento nel quadro consolidato della cultura, della filosofia e della teologia medievale: Non artificio letterario, ma vera visione profetica ritenne Dante quella concessa a lui da Dio, per una grazia singolare, allo scopo preciso che egli, conosciuta la verità sulla cagione che il mondo aveva fatto reo, la denunziasse agli uomini, manifestando ad essi tutto ciò che aveva veduto e udito. […] La differenza che v’è tra una finzione poetica, poema o romanzo che sia, e la visione dantesca, è questa, che chi narra le avventure d’Ulisse, d’Enea o di Renzo e Lucia, ha coscienza che quello che narra è finzione poetica, cioè «bella menzogna»: Dante invece tratta gli oggetti della sua visione come realtà.113

Ecco insomma saldati in un unico disegno i rimandi letterari di Bellocchio: l’Ulisse e il Cacciaguida di Dante, al fianco dei manzonian Renzo e Lucia. Cosicché anche a Moro non resta che accettare con profondo smar-

rimento l’ingrata sorte, non potendo neanche essere incoraggiato come Dante dal vecchio Cacciaguida a proseguire nella missione di poeta. Egli è come l’Ulisse ugualmente dantesco: Perduta la speranza di ritornare nelle sue case colla forza delle armi, vilipeso dai suoi stessi compagni d’esilio dei quali disapprovava gl’insani disegni, «fatta parte per se stesso», solo, ma non senza la buona compagnia d’un’incorrotta coscienza e d’un’incrollabile fede, povero ma provvisto della francescana facoltà concessa ai poeti e ai credenti di scoprire ovunque ignote ricchezze, s’era dato a peregrinare, quasi mendicando, per le parti quasi tutte d’Italia, e mostrando contro voglia la piaga della fortuna. Pur col desiderio di rivedere, quando che fosse, il suo bel San Giovanni, e pur dichiarando che nessun altro luogo sotto il sole era al suo cuore più grato e più dolce di Firenze, sentiva ormai che sua patria era il mondo, come ai pesci il mare. «Legno senza vela e senza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertade», divenne ben presto anch’egli, come il suo Ulisse, «del mondo esperto e de li vizi umani e del valore».114

Basterebbero pochissimi ritocchi al brano appena riportato per aggiornarne il contenuto ai fatti del 1978. Insomma, con un minimo di differenza e un massimo di ripetizione, esso sembra chiosare il discorso sulla profezia che collega al caso Moro il discorso di Passoscuro/Bellocchio, i quali immaginano di mutare il corso della tragica «contingenza». Non è forse questa la funzione del regista che persino il principe di Gravina di Il regista di matrimoni riconosce, pur con sdegno, a Franco Elica? Sebbene non lo stimi granché («È un piccolo, un piccolo tra i grandi, e in Italia. Potrebbe essere appunto un regista di matrimoni»), si rivolge proprio a lui, possibile, involontario «regista di matrimoni», affinché accetti di dirigere le nozze della sua Bona. Non sceglie Baiocco, «regista di matrimoni» vero, di professione, dunque privo di autentico talento: Principe: Lei ha senza alcun dubbio un vero talento visionario. È così. E perciò vorrei affidarle… la regia del film del “funerale” di mia figlia. (Elica sorride) Ho detto una cosa spiritosa? Elica: Ha detto “funerale”. Principe: Ah, è vero. Dopotutto non c’è una grande differenza. Si dice anche che il matrimonio è la tomba dell’amore. Chiusa la parentesi. Un vero film. Come quelli di una volta.

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Elica: Baiocco? Principe: No, lasci fuori Baiocco. Io mi rivolgo a lei, all’artista, che spesso è una specie di idiota, ma vede ciò che i comuni mortali non vedono. Ha, senza alcun merito, questo dono. Elica: Posso dirigere. Ma se non posso improvvisare, se non posso cambiare nulla, d’altra parte un matrimonio è pur sempre lo stesso copione che si ripete, o no? Principe: Non questa volta. Non sarà un matrimonio qualunque. La cosa importante è che sia lei a dirigere… tutto. Assolutamente tutto.

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Qui, per bocca del principe, Bellocchio ironizza su se stesso e sul proprio «dono»: si fa definire, o meglio lascia che il suo Elica venga definito un «vero talento visionario […] senza alcun merito». Eppure, seguendo l’esempio del Dante profeta e visionario, è proprio in virtù di questo essere «una specie di idiota, ma [che] vede ciò che i comuni mortali non vedono» che Elica, alter ego di Bellocchio, ottiene l’incarico. A Elica in fondo spetta la mansione più facile: la regia del matrimonio/funerale della figlia del principe. A Moro invece è toccato il compito più gravoso, dove appunto il confine tra un complicato «matrimonio» tra DC e PCI, e un contiguo «funerale» non è stato un lapsus, ma una circostanza concreta. Dopotutto un simile «matrimonio» politico, in vista di un governo da varare in Parlamento il 16 marzo 1978, sembra proprio che «non s’ha da fare, né domani, né mai». È questo che vogliono gli efficienti Br(avi) e i loro eventuali mandanti/manipolatori, secondo le chiavi di lettura proposte dai dietrologi? Oppure vogliono esattamente il contrario, come abbiamo visto nelle analisi di Sciascia (a proposito della pirandelliana «assenza dell’onorevole Moro dal Parlamento, dalla vita politica […] più producente»)115 e naturalmente di Galli?116 Sta di fatto che in Il regista di matrimoni una coppia aggiornata di “bravi” esecutori del don Rodrigo/principe di Palagonia ci sono. E che quest’ultimo, al di là dei luoghi comuni, non trova «una grande differenza» tra un «matrimonio» e un «funerale». Anche Alfredo Carlo Moro era convinto che suo fratello Aldo non potesse essere equiparato a un modesto «regista cinematografico», ruolo indegno per uno statista (come per un grande autore cinematografico italiano essere declassato al rango di «regista di matrimoni»), pur ritenendolo «il “regista” della politica italiana».117 Il ruolo di «regista» molto sui generis, è stata una iattura per Moro, che infatti paga con la vita il tentativo di portare a compimento un «matrimonio» d’interesse tra una storica forza di governo in declino di consensi e una altrettanto storica forza di opposizione in crescita elettorale. Un altro «matrimonio» combinato, non dissimile da quello

dell’aristocratica spiantata Bona con l’avvocato palermitano capellone e benestante, ma più rischioso. Scrive Galli: Conclusione: […] dalla fine del ‘74 al 16 marzo ‘78 Moro era stato il regista [corsivo nostro] di tutte le operazioni politiche per tenere il Pci lontano dal governo e per logorarlo nel periodo dei suoi maggiori successi elettorali […]. Un regista [corsivo nostro] che aveva la fiducia della maggioranza della DC, dei poteri forti, degli Stati Uniti e che nessuno nell’establishment poteva aver interesse a eliminare attraverso un complotto con elevato rischio di destabilizzazione.118

Dal canto suo Bellocchio di matrimoni mancati, fatti saltare poiché difficilmente gestibili, ha spesso dato conto nei suoi film dopo il 1978. Come già in Gli occhi, la bocca, in Diavolo in corpo va a monte il matrimonio “riparatore” anche sul piano storico-politico tra il brigatista pentito e la figlia di una vittima del terrorismo. In Buongiorno, notte viene invece favorito quello tra comunisti e democristiani dall’assenza forzata dello stesso artefice, Moro, dalla scena parlamentare e civile. In Il regista di matrimoni viene compromesso, forse, quello tra una Lucia Mondella non di umili condizioni ma aristocratica, non lombarda ma piemontese, con il suo “promesso sposo”. In Vincere diventa invece improponibile quello di Ida Dalser nientedimeno che con il Duce, per la ragion di Stato e l’immagine pubblica coniugale da preservare onde non compromettere i rapporti di buon vicinato con il Vaticano. Come si può notare, si fa presto a incominciare un ragionamento con Dante per trovarsi all’improvviso a doverlo concludere con Manzoni, o viceversa. Un Manzoni peraltro già convocato sulla scena del caso Moro da Sciascia sempre in L’affaire Moro. Due volte. La prima, a proposito dell’appello di Paolo VI alle Br, che anche Bellocchio in Buongiorno, notte mostra come soggetto a pressioni da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri: Per gli uomini che rappresentano la chiesa di Cristo, per colui che sommamente la rappresenta [il Papa], non dovrebbe esserci che quello che il conte Attilio chiama supposto impossibile, e cioè il «debole parere» di padre Cristoforo: «il mio debole parere sarebbe che non vi fossero né sfide, né portatori, né bastonate» (I promessi sposi, capitolo V).119

La seconda, a proposito della nota sostanzialmente conforme nei contenuti all’appello papale, con cui il governo replica al comunicato della famiglia ai giornali, dopo l’ultima lettera di Moro alla Democrazia Cristiana del 27 aprile:

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Il governo risponde […] con una nota, dicono i giornali, «scritta di pugno d’Andreotti». E sarebbe da portare anche questo all’attenzione dello psicanalista: il fatto che i giornalisti tengano al particolare di Andreotti che scrive «di pugno» il comunicato del governo. È un’immagine: di un uomo che scrive una sentenza. […] Un’ulteriore e più libera traduzione della nota, e più realistica, suonerebbe dunque così: «Il governo, altrimenti impotente, può mostrare la sua forza, e in qualche modo attenuare le critiche e i risentimenti che alla sua impotenza si rivolgono, soltanto lasciando che le Brigate rosse procedano a una soluzione egualitaria del caso Moro. Se poi l’Innominato che le comanda sarà, per le preghiere del Santo Padre, toccato dalla Grazia come l’Innominato del Manzoni, il governo non potrà che dirsi lieto della restituzione alla famiglia dell’onorevole Moro».120

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Pur mettendo da parte Manzoni, quale altro fattore urgente potrebbe avere spinto l’autore di Buongiorno, notte a servirsi di Dante, prima in Diavolo in corpo, poi durante l’interrogatorio della sedicente strega in La visione del sabba, infine in Il regista di matrimoni dove, a turno, Franco Elica e Orazio Smamma alludono alla Divina Commedia? Come si è detto, nella sceneggiatura originale Elica pronuncia una battuta poi scomparsa nel film, poco dopo aver incontrato sul bagnasciuga il collega creduto morto: «Permettimi la domanda più ovvia, più banale ma ammetterai giustificata, intanto sei vivo, non siamo mica nell’inferno di Dante».121 Poco più avanti è Smamma a ribattere, nella sceneggiatura: «E tu, vecchio ateo rincoglionito, ti sforzi di trovare l’immagine di Lucia Mondella e ti angosci di non trovarla, ma cosa vuoi che gliene freghi oggi al pubblico che va al cinema dei Promessi sposi o della Divina Commedia?».122 Quindi nel film «E tu, ateo rincoglionito, vai in giro a cercare l’immagine di una Lucia Mondella, t’angosci perché non la trovi, ma cosa vuoi che gliene freghi al pubblico che va al cinema oggi di vedere I promessi sposi o – che cazzo ne so – la Divina Commedia?». Indubbiamente i reiterati, insistiti rimandi danteschi offrono sistematicamente l’opportunità a Bellocchio, come l’«idiota», «visionario», «senza merito» Elica, di ritagliarsi uno spazio conoscitivo molto personale e di delicata, difficile divulgazione. Il suggerimento di ricorrere a Dante per dire, come Moro, non dicendo direttamente proviene proprio dalla scena del crimine, via Caetani. La via romana del Ghetto intitolata all’aristocratico Michelangelo Caetani (1804-1882) reca una targa marmorea in cui costui viene ricordato non per l’impegno politico che lo portò tra il 1846 e il 1848 a ricoprire l’incarico di ministro della polizia nello Stato Pontificio, ma come «noto dantista». E chissà che non sia un richiamo al Michelangelo di via Caetani la decisione altrimenti generica dell’autore di Il regista di Matrimoni

di ribattezzare i prosaici premi cinematografici David di Donatello, pur così ambiti nella ristretta comunità cinematografica nazionale, in «David di Michelangelo». Comunque sia, chiudiamo qui l’intermezzo dantesco, poi manzoniano. È giunto il momento di tornare là dove muore Napoleone, a Sant’Elena.

Sant’Elena Il caso Moro in simili circostanze ci ha insegnato a non cercare troppo lontano un luogo. Specialmente se salta fuori durante il bizzarro modo di intendere una seduta spiritica come innocuo passatempo domenicale. Perché recarsi in località Gradoli il 6 aprile 1978 esistendo una via Gradoli, a Roma? Lo stesso principio potrebbe valere per la Sant’Elena di manzoniana memoria. Volendo dare credito alle parole della Maddalena di La visione del sabba, anche lei coerentemente visionaria anziché pazza, quindi alle parole dello stesso Bellocchio che introducono la seduta spiritica parallela di Buongiorno, notte, sembrerebbe più opportuno e proficuo concentrarsi su via Sant’Elena, a Roma. Per l’esattezza sull’interno 9 del civico 8 di questa strada e sui suoi immediati dintorni. Cioè sull’intera zona del Ghetto nelle vicinanze di via Caetani. È qui che fa capolino ripetutamente anche un nome femminile ormai familiare, Anna, cui molto si dedicano non soltanto i dietrologi, ma anche magistrati, funzionari di polizia, carabinieri, vigili urbani e servizi segreti, membri o consulenti di commissioni parlamentari d’inchiesta, giornalisti e studiosi. Si direbbe che si stiano chiedendo tutti la stessa cosa di Fagioli nel 1980: «Ma Anna, chi è?». Anche perché chiederselo non costa niente, magari su tutti e due i fronti (quello storico-politico e quello cinematografico), ammesso che essi siano davvero contrapposti, divergenti, completamente scollegati. Che male c’è, dopotutto? Le risposte non si sono fatte attendere nell’arco di decenni, sin dal 1978. Attorno a questo nome, Anna, e a questo civico 8 di via Sant’Elena nasce e si dipana una vicenda abbastanza ingarbugliata, che forse in molti conoscono già. Ma che in questa sede occorre ripercorrere, sebbene per sommi capi, seguendo i documenti originali resi pubblici della Commissione Moro e della Commissione Stragi. Un po’ di linguaggio burocratico non guasta, ogni tanto. In ordine di tempo, la prima «Anna» a comparire negli atti ufficiali, non ancora nel Ghetto ebraico, la segnala tale Elfinio Mortati, arrestato il 2 luglio 1978. Il 5 luglio il questore aggiunto Andreassi dell’ufficio della Digos della Questura di Roma scrive all’Ufficio Istruzione e alla Procura della Repubblica del Tribunale di Roma, e per conoscenza alle Questure di Firenze e Pavia, che avevano già interrogato Mortati,

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colpito da ordine di cattura emesso dalla Procura della Repubblica di Prato, perché indiziato dell’omicidio a scopo di rapina in persona del notaio SPIGHI Gianfranco, avvenuto a Prato il 10/2/1978. Il delitto fu rivendicato con volantino dal gruppo “Lotta Armata per il Comunismo – Dante Di Nanni” Nel corso dei primi interrogatori avvenuti in Pavia e Firenze, emergeva che il Mortati, prima dell’omicidio del notaio Spighi, fu avvicinato, quale esponente di primo piano del “Collettivo Contropotere”, sia da elementi di “Prima Linea” che da quelle Brigate rosse di Firenze. Successivamente all’omicidio, dopo altre vicende, fu portato a Roma in un appartamento in via dei Bresciani n. 4, da tale “Anna”, di origine siciliana e da certo “Massimo”. Tale appartamento […] costituiva una specie di base di indottrinamento delle Brigate rosse ed era frequentato da diverse persone, fra cui anche il noto TRIACA Enrico. […] attualmente detenuto perché imputato, in concorso con altri, dei gravi fatti per cui si procede.123

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Gli «altri» imputati, «dei gravi fatti per cui si procede», oltre a Triaca (titolare della tipografia in via Foà 31 usata dalle Brigate rosse per la pubblicazione dei loro comunicati e perciò arrestato il 19 maggio 1978) sono Teodoro Spadaccini, Gabriella Mariani, Antonio Marini e Giovanni Lugnini. I «gravi fatti» sono quindi quelli relativi all’«Omicidio dell’on.le Moro e della sua scorta». Intanto: «Non sono stati ancora identificati il “Massimo” e la “Anna”» di cui sopra. In una nuova comunicazione della Digos romana dell’8 luglio 1978, inviata al solo ufficio Istruzione del Tribunale di Roma, si aggiunge: Per quanto attiene ai già nominati “Anna” e “Massimo”, il Mortati ha riferito che costoro ricevettero l’incarico di trasferirlo a Roma presso l’appartamento di via dei Bresciani, ed ha fornito di costoro una descrizione fisica piuttosto precisa. In seguito ad una crisi ideologica, il Mortati rifiutò poi la proposta di “Anna” di essere inserito nella colonna romana delle Brigate rosse e perciò venne organizzato il suo trasferimento a Pavia, ove, come è noto, di recente è stato tratto in arresto.124

Dettaglio che merita attenzione, vedremo tra breve perché. Di «Anna» e «Massimo», intanto Mortati avrebbe «fornito […] una descrizione fisica piuttosto precisa», cioè già prima della deposizione integrativa del 10 luglio, rilasciata presso l’ufficio della Digos della Questura di Firenze alla presenza del giudice istruttore Francesco Amato. Confermando preliminarmente «quanto dichiarato al Giudice Istruttore di Prato in data 4.7.1978», Mortati risponde a domande non riportate nel verbale: torna così a dichiarare di essere «stato a Roma dalla metà di febbraio ai primi di giugno 1978». Subito

dopo parla di «Anna [che] studiava giurisprudenza e frequentava i primi anni all’Università di Roma, forse era iscritta al secondo anno. Anna mi disse che era nata a Roma nel novembre del 1958; i suoi genitori abitavano ad Ostia e lei era figlia unica».125 Questa «Anna», di cui Mortati indica la presenza nel secondo dei tre appartamenti in cui si è rifugiato grazie al soccorso brigatista durante la latitanza a Roma, situato in una zona del Ghetto ebraico, sembrerebbe non conforme a quella Anna che troviamo invece nella seconda nota investigativa della Digos romana citata (lì «di origine siciliana», qui «nata a Roma», sebbene le due cose non siano necessariamente incompatibili). Di sicuro però il latitante toscano si riferisce a una donna («era iscritta», «era nata», «lei era figlia unica»), stante la «descrizione fisica piuttosto precisa» dei giorni precedenti. L’intera deposizione del Mortati del 10 luglio – di cui abbiamo creduto opportuno, per il discorso che stiamo portando avanti, selezionare esclusivamente i non pochi brani relativi alla misteriosa «Anna» – continua così: A Roma pernottavo in Via dei Bresciani, dico meglio ho pernottato in quell’appartamento, nello stesso vivevano Renzo [Filippetti] e Lina [Carmela Della Rocca], di cui ho già detto sì G.[iudice] I.[struttore] di Prato. Fu Anna a portarmi nell’appartamento su indicato, in quanto era amica, dico meglio conoscente, di entrambi i conviventi […]. Qualche volta ho pernottato in un appartamento che si trova al terzo piano di un fabbricato alto in una traversa di una strada che, partendo da Via Arenula, prosegue ed arriva, mi sembra, fino al Portico di Ottavia. […] Vi abitavano Anna, Mario e Cristiano [...]. Si capiva dai discorsi che facevano con Anna che comunque avevano a che fare con le Brigate rosse. […] Qualche volta ho pernottato anche in un altro appartamento che si trovava nei pressi e precisamente nella traversa successiva […]. Anche per i due conviventi di cui ho parlato [a proposito del terzo appartamento] vale lo stesso discorso che ho fatto per Mario e Cristiano e cioè che, tenuto conto dei loro rapporti con Anna e delle conversazioni che facevano, trassi la convinzione che avessero a che fare con le Brigate rosse. […] Per quanto concerne il sequestro Moro, Anna mi disse che lo Onorevole Moro era prigioniero a Roma e che non sarebbe mai stata trovata la sua prigione, perché era un luogo di massima sicurezza. Quando lessi sui giornali che era stato scoperto il covo di Via Gradoli e domandai ad Anna che cosa sarebbe successo, lei rispose che non era una cosa preoccupante. Comunicò la comunicazione concernente il lago della Duchessa dicendo che non era una loro iniziativa, ma di avversari che volevano squalificare le Brigate rosse. [….] Negli appartamenti suindicati non ho avuto modo di vedere tale Triaca Enrico, la cui fotografia è apparsa sui giornali, però ho riconosciuto

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nelle […] fotografie un individuo che vidi in una vineria sita nella zona tra piazza Navona e via del Governo Vecchio. Ero in compagnia con Anna quando entrai nella vineria ed al banco c’era lo individuo di cui ho parlato, con altre persone. Anna si avvicinò a queste persone, parlando con qualcuno di loro. […] L’altra vineria, quella di cui ho parlato nell’interrogatorio al G.[iudice] I.[struttore] di Prato, si trova invece in piazza Campo de’ Fiori di preciso nell’isolato d’angolo tra la piazza e la strada che conduce a Palazzo Farnese. […] Aggiungo che Anna, quando i giornali riferirono che il commando di via Fani era composto da stranieri esclamò che era tutta una invenzione perché era possibile che anche gli italiani si potessero organizzare in maniera efficiente come loro si erano organizzati.126

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Sebbene Mortati escluda la presenza di Triaca da via dei Bresciani, lo collocherebbe nella vineria nei pressi di via Navona collegandolo ugualmente alla figura centrale di «Anna». Abbiamo tralasciato in questa ampia trascrizione la parte relativa al secondo appartamento. È storia nota, almeno agli studiosi e agli inquirenti del caso Moro, che su disposizione del giudice istruttore Achille Gallucci dell’11 settembre 1978, prima,127 e su disposizione del giudice istruttore Rosario Priore del 2 novembre, dopo,128 gli esiti di due accertamenti effettuati dal Nucleo di polizia giudiziaria dei Vigili Urbani di Roma datati 16 settembre129 e novembre 1978 (il giorno esatto sul documento non è chiaramente leggibile),130 porterà a individuare con esattezza questo secondo alloggio. L’alloggio cioè di cui ha parlato Mortati e che risulta infatti essere l’interno 9 al terzo piano di via Sant’Elena, abitato dai coniugi Raffaele De Cosa e Laura Di Nola. Eccoci dunque arrivati nella via in cui, altrimenti, ci ha già introdotti Bellocchio attraverso la pista manzoniana di Il cinque maggio: 1) per interposto personaggio, in La visione del sabba; 2) personalmente, in Buongiorno, notte. Una via in cui contemporaneamente ritroviamo la «Anna» onnipresente nel resoconto di Mortati, la cui identità inequivocabilmente femminile resta a tutt’oggi sconosciuta o comunque nell’ombra. Se dovessimo a questo punto prendere ancora in prestito il quesito fagioliano, «Ma Anna, chi è?», e trasferirlo dal cinema alla realtà, l’unica risposta sicura al momento dovrebbe essere: una donna. Magra consolazione, si potrà dire. Un’ovvietà? Non proprio. Non sempre le cose che sembrano ovvie in Italia lo sono. Ciò che a rigor di logica, anche grammaticale, sembra evidente, dovrà invece fare i conti con le nuove dichiarazioni di molti anni dopo. Del colpo di scena, all’italiana, si legge nell’importante e già citata Relazione sulla figura del musicista russo Igor Markevich del 27 febbraio 2001 scritta dal magistrato Silvio Bonfigli, consulente della Commissione Stragi presieduta dal senatore Giovanni Pellegrino:

Dalle recenti dichiarazioni rese dagli ex brigatisti Elfino MORTATI e Alessandro MONTALTI ai CARABINIERI del ROS di Roma su delega del presidente della C.[ommissione] S.[tragi] è emersa la vera identità di “Anna e Massimo” persone che, secondo quanto ebbe a riferire MORTATI già nel 1978, lo avevano accompagnato durante la sua latitanza in alcune abitazioni situate nel centro di ROMA e nel Ghetto ebraico, abitazioni frequentate anche da terroristi e fiancheggiatori delle BRIGATE ROSSE. Una di queste abitazioni, secondo il racconto del MORTATI, era situata in via dei BRESCIANI n. 4. La recente escussione del MORTATI, incrociata con le dichiarazioni sul punto rese dall’ex brigatista Alessandro MONTALTI, ha permesso – finalmente dopo più di vent’anni – di accertare la vera identità di “Anna e Massimo”: si tratterebbe infatti di Massimo CARLONI e Marco TIRABOVI (noto nell’ambiente con il soprannome di “Anna” per la lunghezza della sua capigliatura).131

Insomma, Mortati – il quale, nonostante i riscontri inequivocabili delle sue dichiarazioni, il 12 luglio, cioè due giorni dopo la deposizione fiorentina, aveva deciso di non collaborare più con gli inquirenti a causa di una grave e mirata fuga di notizia con conseguente minaccia di morte appresa per mezzo stampa132 – a vent’anni di distanza arriva a sostenere che la persona descritta come una donna, a tutti gli effetti, fisicamente e a parole, non soltanto nominalmente, è in realtà un uomo: Marco Tirabovi, il cui soprannome femminile «Anna» semplicemente gli sarebbe stato assegnato, allora, «per la lunghezza della sua capigliatura». Avere i capelli lunghi, che negli anni Settanta vanno tanto di moda tra uomini e donne, ed essere scambiato per una donna o vedersi per questo appioppato un (sopran)nome di donna, figurarsi poi negli ambienti dell’ultrasinistra, è cosa che desta meraviglia. Purtroppo Tirabovi,133 su cui convergono queste presunte, tardive certezze di Mortati, non ha potuto confermarle personalmente, essendosi suicidato «mediante asfissia da gas di scarico della propria autovettura»134 il 6 febbraio 1990 a Chieti, come segnalato dalla sezione Anticrimine dei Carabinieri di Chieti. Né le ha confermate lo stesso Carloni, benché «indicato da una fonte confidenziale della Polizia di Firenze, come il “MASSIMO” che, unitamente a “ANNA”, portò MORTATI in Via dei Bresciani».135 Il 22 novembre del 2000 Carloni viene ascoltato in seguito ad accertamenti chiesti dal presidente Pellegrino. Risultato: «Non gli risultava che quest’ultimo [Tirabovi] utilizzasse il nominativo ANNA».136 Né risultava allo stesso Mortati nel 1978, a meno che non avesse confuso un uomo con una donna o trascurato di riferire a magistrati e forze dell’ordine il particolare non indifferente che «Anna» e «Massimo» erano entrambi maschi. Ci sembra quindi, sebbene non

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spetti a noi stabilirlo, più che ragionevole continuare a credere, oggi come nel lontano 1978, a un dato di fatto abbastanza elementare e scontato: «Anna», chiunque essa sia (stata), è una donna.

Anna B. Dimentichiamo per un attimo che sono stati i film di Bellocchio a portarci fin qui. E seguiamo il corso delle indagini ufficiali, che dopotutto ci riporteranno in ambito cinematografico. Il bandolo della matassa è sempre quello onomastico femminile. Nel paragrafo precedente ci siamo fermati alla «Anna» spesso chiamata in causa da Mortati. Ebbene, ancora di una «Anna» in questa vicenda dove non sono poche le coincidenze e le ricorrenze, dai nomi ai luoghi che vanno a sovrapporsi, dalle date alle circostanze che si accavallano, riferisce «in forma omissoria»137 una prima volta il SISMI, il servizio segreto militare. La Commissione Moro nel 1980 viene dunque a sapere che 242

il 14 ottobre 1978 fonte del Servizio segnalava che un certo IGOR, della famiglia dei duchi CAETANI, avrebbe avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione delle BR e che, in particolare, avrebbe condotto tutti gli interrogatori di MORO, della cui esecuzione sarebbero stati autori materiali certi “ANNA” e “FRANCO”.138

La data del 14 ottobre risulterà però essere stata posticipata rispetto al periodo effettivo delle indagini. Dalla già citata relazione di Bonfigli, da cui prende le mosse la nota e controversa pista sul direttore d’orchestra russo Igor Markevitch che conduce nuovamente gli investigatori nel Ghetto ebraico, diventando di conseguenza il documento fondamentale cui attingono i principali studi successivi sull’argomento, emerge invece che «l’attività di intelligence svolta dal SISMI […] fu […] compiuta SEQUESTRO MORO DURANTE, cioè con il presidente democristiano in vita ed ancora nelle mani delle BRIGATE ROSSE!».139 Senza entrare troppo nel merito del caso Markevitch, che per anni è stato una vera e propria branca del caso Moro, ampiamente affrontata e dibattuta, basti avere ben presente come per i servizi segreti già dai primi del mese di maggio del 1978 il nome «Anna», stavolta associato a quello di tale «Franco», assuma una valenza particolare. Ma, come soprattutto i dietrologi sanno, «Anna» e «Franco» sono anche i nomi dei due brigatisti che avrebbero seguito da vicino gli interrogatori di Moro condotti dal fantomatico «Zucor» (figura che per molte ragioni autorizza a far pensare a Markevitch), incaricati infine di ucciderlo. Questo almeno è quanto è scritto nel già citato, stravagante articolo, a metà strada

tra il reportage e la fantapolitica, Christ in Plastic, dell’italoamericano Di Donato. Nell’articolo, oggetto però di molte attenzioni anche da parte della Digos e dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Roma,140 tra le tante altre cose, leggiamo: In some ways “Anna” – that is not her real name – the one female member of Zucor’s cell (who wore the blonde wig at Via Fani) reminded Moro of Eleonora. She had her strength. Anna was part of the Trento University political larva of 1967-69 that evolved from the dialectical “Universita Negativa” into the BR. Anna had been Margharita (“Mara”) Cagol’s bridemaid when she married Renato Curcio. Anna, Mara, Curcio, Mauro Rostagno and the German student leader Peter Schneider where the prenatal BR.141

Ovviamente, non si tratta di stabilire il grado di veridicità di simili affermazioni, piuttosto di non trascurarle completamente. Non foss’altro perché l’articolo di Di Donato, lo ripetiamo, fu sottoposto a numerosi e approfonditi accertamenti. Asteniamoci dall’esprimere una valutazione sul testo in sé, sulla sua attendibilità e i non pochi riscontri oggettivi assieme alle clamorose inesattezze. Ma non si può non tenerne minimamente conto. Né si può trascurare un’altra «Anna» che spunta dal fumetto apparso nel 1979 sul numero di giugno del periodico di Autonomia Operaia «Metropoli». E non termina qui l’elenco dei richiami a questa «Anna» che indurrebbe anche a pensare, per ovvie ragioni, ad Anna Laura Braghetti. Sempre in compagnia di «Franco», come nella relazione del SISMI o nel Christ in Plastic di Di Donato, ritroviamo nella prigione di Moro l’ennesima «Anna». Stavolta a nominarla è il poeta e critico letterario fiorentino Vittorio Vettori, anche lui dantista, in un eccentrico libro intitolato Diario apocrifo di Aldo Moro prigioniero (1982), secondo cui il presidente rapito aveva accesso a una vasta e raffinata biblioteca.142 Particolare, quest’ultimo, che ci riporta all’atmosfera libresca e al significato della protagonista bibliotecaria di Buongiorno, notte. O, per estensione, alla curiosa rappresentazione nello spazio e nel tempo dell’intero affaire come borgesiana Moroteca di Babele. E proprio in questo crocevia onomastico a schema pressoché fisso, dove cambiano i comprimari ma resta «Anna», che si inserisce (nel secondo punto, che di seguito stralciamo) una più circostanziata nota del SISMI datata 9 dicembre 1978. La nota è redatta dall’allora colonnello dei carabinieri Demetrio Cogliandro. La novità è che oltre al nome c’è un cognome. Un cognome che oltretutto torna spesso nella documentazione e nella pubblicistica sul caso Moro. La «Anna» in questione, non più anonima, né ridotta all’esclusivo, emblematico nome proprio, viene localizzata nel solito appartamento di via Sant’Elena 8. Secondo la nota del SISMI si chiama, per esteso, «Anna Buonaiuto»:

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Una fonte molto attendibile143 riferisce: […] 2. Presso il comune di Roma sono stati assunti molti fiancheggiatori delle Brigate rosse, che suddivisi successivamente in piccoli gruppi hanno dato vita a vere e proprie cellule eversive. A conforto di tale affermazione, ha citato la Balzerani e la Mariani Gabriella (inquisite per la vicenda Moro), e ha riferito che in via Gradoli fu trovata la chiave dell’autovettura “Jaguar”, targata H… via Aurelia n. 701. L’auto era appartenuta originariamente a tale Sermoneta, amico di una brigatista residente in via di S. Elena n. 8. A tale indirizzo è stata notata Buonaiuto Anna facente parte del gruppo in argomento. Al tempo della vicenda Moro, gli occupanti dell’appartamento si allontanarono da Roma per evitare perquisizioni e lasciarono il recapito di un bar di Trevignano sito in via Garibaldi. Accertamenti – Gli occupanti dell’appartamento sono stati identificati nei coniugi [Laura] Di Nola [e Raffaele De Cosa, suo marito], residenti in via di S. Elena 8, e i corrispondenti di Trevignano sono: Cecconi Settimio, professore di filosofia; Franchini Antonio, coniugato Gerometti, al momento non meglio identificato.144 244

La nota di Cogliandro, se non le indagini specifiche condotte su Markevitch nel Ghetto, che come si è scoperto risalivano agli ultimi giorni della prigionia di Moro, è contemporanea alla pubblicazione del fantasioso e sibillino reportage di Di Donato. Inoltre segue di due mesi il breve periodo di collaborazione di Mortati, e di appena un mese il nuovo «Esito di ulteriori accertamenti»» effettuati ancora dall’Ufficio di polizia giudiziaria dei vigili urbani comandato da Francesco Russo. Il quale, a proposito dell’appartamento di via Sant’Elena di proprietà della Di Nola, al giudice Priore scrive: Per quanto invece concerne la BUONAIUTO Anna è stato accertato che essa risiede di fatto in Via dei Banchi Nuovi n. 49 int. 1 […], ove convive con tale DI JORIO non meglio identificato. Quanto all’aspetto fisico della succitata BUONAIUTO può dirsi che essa è alta mt. 1,60 circa, corporatura esile, capelli castano scuro di taglio medio, occhi castani. La stessa non risulta essere iscritta presso lo schedario anagrafico comunale e sembra che svolga l’attività di “attrice teatrale”.145

L’allora quasi trentenne «Anna» della nota informativa dei vigili urbani, all’anagrafe «Buonaiuto»,146 di cui stiamo parlando non è una sconosciuta. Al contrario, con il cognome Bonaiuto, è di una delle maggiori attrici italiane di teatro e di cinema degli ultimi decenni che si sta parlando: Anna Bonaiuto, la quale all’epoca dei fatti di cui ci stiamo occupando, dopo Una spirale di nebbia (1977) di Eriprando Visconti, sembra aver interrotto momentaneamente l’attività cinematografica inaugurata da Teresa la ladra

(Carlo Di Palma, 1973) e soprattutto Film d’amore e d’anarchia (1973) di Lina Wertmüller, per poi riprenderla con Sciopèn (1984) di Luciano Odorisio. La minore visibilità, almeno al cinema, alla fine degli anni Settanta spiegherebbe quindi la generica professione di «attrice teatrale» riportata negli accertamenti dai vigili urbani. Il nome e cognome di nascita dell’attrice era peraltro già comparso in un’informativa della Digos romana, datata 7 settembre 1978, inviata all’Ufficio istruzione del Tribunale di Roma per le seguenti ragioni: Si trasmette fotocopia di un volantino, stampato dalla tipografia “Quindici Giugno”, sita in questa via dei Magazzini Generali n. 30, nel quale si denuncia il comportamento delle Autorità nei confronti di TRIACA, SPADACCINI, MARIANI, MARINI e LUGNINI, tratti in arresto da questo ufficio nel corso delle indagini sul sequestro dell’on.le Moro. L’originale del volantino trovavasi nel portafogli, smarrito ad Udine e successivamente rinvenuto in quella città, di proprietà di BUONAIUTO Anna, nata a Latisana (UD) il 28/1/1950, ivi residente in via Crosere n. 3, ma da circa 5 anni abitante a Roma in via dei Banchi Nuovi n. 49. La stessa, nubile, di professione attrice, è immune da precedenti giudiziari.147

Confrontando le fonti documentali fin qui riprodotte testualmente, si nota come sia il SISMI che i vigili urbani quasi contemporaneamente ritengano di associare la B[u]onaiuto al presunto covo brigatista di via Sant’Elena. O di come la «fonte confidenziale» del SISMI sostenga «a conforto di tale affermazione, […] la Mariani Gabriella», la militante delle BR romane, amica di Barbara Balzerani, condannata a trent’anni per il sequestro e l’omicidio di Moro, ovvero una delle persone riconducibili con Enrico Triaca alla tipografia di via Foà. La Mariani peraltro è fatta oggetto della rivendicazione contenuta nel volantino dal titolo Contro il sequestro di cinque compagni a firma del sedicente «Comitato di Controinformazione per i Compagni Arrestati Triaca, Spadaccini, Mariani, Marini, Lugnini»,148 trovato nel portafoglio smarrito a Udine dalla B[u]onaiuto. L’attrice ha però spiegato queste strane circostanze e concomitanze in più di una occasione. Nel 1978 viene interrogata dalla Digos udinese e romana, che ne fornisce gli estremi, poi dall’Ufficio dei vigili urbani, vista anche la dettagliata descrizione fisica fatta nell’informativa appena citata. Inoltre, secondo le sue stesse affermazioni riassunte da Bonfigli, «forse nei primi anni ‘80 era stata interrogata dal Dr. SICA circa un volantino che era contenuto in un borsellino che aveva smarrito». La data è generica, ma dovrebbe essere la stessa o una immediatamente successiva a quella dell’omicidio del colonnello Varisco, che ancora una volta ritroviamo lungo il nostro percorso, dopo esserci imbattuti in lui

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attraverso l’indizio colto in Diavolo in corpo. Tra gli interrogati figura Rosa Nicoli, già comparsa nell’ultimo degli accertamenti citati dei vigili urbani a proposito di via Sant’Elena.149 Inoltre: Nel corso degli accertamenti effettuati in relazione all’uccisione del colonnello Antonio Varisco – assassinato a Roma il 13 luglio 1979 in un attentato rivendicato dalle Brigate rosse – i carabinieri si recarono proprio nel palazzo Antici Mattei. […] In quell’occasione, tra le persone identificate e a carico delle quali venne effettuata una perquisizione c’era proprio Enrico Cassia […]. Nell’elenco delle persone identificate e perquisite nel palazzo Antici Mattei c’erano inoltre Raffaele De Cosa e Anna Buonaiuto, coinvolti a vario titolo nella vicenda relativa a Igor Markevitch e alle ricerche del covo BR nella zona del Ghetto di Roma.150

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«Premesso che tutti risultarono poi estranei al delitto Varisco»,151 l’audizione più significativa di Anna Bonaiuto, la cui versione integrale è allegata alla «annotazione GIRAUDO» del 7 febbraio 2001, avviene l’8 agosto del 2000, su richiesta del presidente della Commissione Stragi Pellegrino.152 È in questa occasione che l’attrice dichiara che il volantino “compromettente” trovato nel settembre 1978 nel suo portafogli smarrito a Udine «le era stato consegnato, così come ad innumerevoli altre persone, di fronte al Bar NAVONA nell’omonima piazza, da un giovane sul quale non era stata in grado di fornire particolari. Aveva conservato il volantino per la ricchezza di errori di ortografia che lo caratterizzavano».153 La Bonaiuto, che aveva tutto il diritto di conservare un volantino ricevuto casualmente da una persona sconosciuta, senza per questo dover motivare una simile circostanza, invece sceglie di fornire una spiegazione: l’avrebbe «conservato – dice – per la ricchezza di errori di ortografia che lo caratterizzavano». La fotocopia dell’originale del volantino in questione154 è allegata alla suddetta informativa del 7 settembre 1978 della Digos romana, però non risulta il benché minimo errore di ortografia. La deposizione del 2000 di Anna Bonaiuto prosegue con una serie di smentite. Scrive Bonfigli: – non aveva mai fatto parte del movimento femminista ma rivendicava la simpatia e la condivisione delle tesi femministe alle quali aveva comunque dato il suo consenso, così come rivendicava il suo pensiero di sinistra; – non aveva mai visto i volti della DI NOLA e del DE COSA e i nomi nulla le dicevano; – nel 1978 viveva in Via dei Banchi Nuovi a ROMA; – non aveva amici a TREVIGNANO, non aveva mai conosciuto CECCONI SETTIMIO e FRANCHINI ANTONIO;

– non si era mai tesserata a nessun partito politico; – aveva conosciuto a Campo de’ Fiori tale UGO BEVILAQUA, inizialmente arrestato per il caso Moro e poi prosciolto; – non aveva mai conosciuto né la NICOLI né il VACCARO; – non aveva conosciuto BRUNO SERMONETA.155

Il magistrato consulente della Commissione Stragi aggiunge: La BUONAIUTO afferma di non conoscere né la DI NOLA né il DE COSA, ma quest’ultimo, pur non potendo fissare temporalmente il ricordo, ne rammenta il nome (vds. Verbale DE COSA ai CARABINIERI del ROS); La BUONAIUTO svolge professione del tutto simile a quella svolta dalla DI NOLA; la donna ha tenuto a “rivendicare” il suo passato di sinistra e la condivisione delle tesi femministe (quest’ultimo dato ha interesse in relazione alle affermazioni del DE COSA sulla consorte Laura DI NOLA); La BUONAIUTO ha sostenuto di aver frequentato l’unica caratteristica vineria di CAMPO de’ FIORI a ROMA. Tale vineria compare nel verbale reso da ELFINO MORTATI il 04-07-1978, che la indica come luogo frequentato, evidentemente insieme a lui, dall’ANNA che, unitamente al MASSIMO, lo prelevò a FIRENZE per portarlo in Via dei BRESCIANI n. 4; sempre a CAMPO de’ FIORI, la BUONAIUTO ha dichiarato di aver conosciuto Ugo Bevilacqua, inizialmente arrestato per il sequestro MORO e poi rilasciato perché risultato estraneo.156

Tra quelli disponibili, gli elementi per una valutazione autonoma dei fatti crediamo ci siano tutti. Basta leggere e rileggere queste carte per farsene un’idea circostanziata. Non spetta a noi tirare le somme su una vicenda più che contorta e ambigua, che inizia e si conclude peraltro con Elfino Mortati, il killer che nel 1978 segnala l’esistenza di una donna sospetta e a sorpresa, nel 2001, sostiene trattarsi invece di un uomo. Neanche l’avesse scoperto un quarto di secolo dopo, con un ritardo superiore a quello del finale di A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, Billy Wilder, 1959), siglato dalla celebre battuta «Nessuno è perfetto». Un equivoco anche cinematograficamente ricorrente, se pensiamo a Mona Lisa (Id., Neil Jordan, 1986) o a M. Butterfly (Id., David Cronenberg, 1993). A riprova di come le vicende più controverse italiane facciano concorrenza al cinema. È questo cortocircuito tra realtà e finzione che rende i film di Bellocchio così sensibili al caso Moro. Quanto ad Anna Buonaiuto, in arte Bonaiuto, per quel che ci risulta se ne sono occupati dettagliatamente o incidentalmente otto libri,157 senza contare la documentazione della Commissione Moro pubblicata nel 1984 o

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quella della Commissione Stragi, in particolare la relazione di Bonfigli del 2001. Eppure sembra che nessuno se ne sia mai accorto nell’ambiente del cinema, donde l’incredulità di numerosi addetti ai lavori da noi interpellati in questi anni.158 Ma tant’è. Dal canto suo Bellocchio, da cui siamo partiti, non ha mai lavorato con la Bonaiuto. E quasi certamente ignora che sia nata il 28 gennaio 1950 a Latisana in provincia di Udine, dove inizia e si conclude la parabola di Bella addormentata. Restano tuttavia interessanti alcune suggestioni, come altro chiamarle? Suggestioni, sia chiaro, puramente linguistiche e onomastiche. Come quella del Bona-parte di cui ciarla la strega Maddalena di La visione del sabba, o l’inusuale nome “spagnolo” Bona dato alla protagonista di Il regista di matrimoni. C’è poi il personaggio di Antigone evocato nel finale di Diavolo in corpo che affascina particolarmente la Bonaiuto, come del resto molte attrici teatrali di lungo corso:

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A me piace molto mettermi alla prova con delle cose molto lontane, perché ci sono delle distanze da riempire; nondimeno amo Antigone, dove è presente una pulsione di morte continua e dove la giustizia non ha più a che fare con la legge. La tragedia greca ha ancora molto da dirci: il sacro, dio, la giustizia, tutti temi che sono diventati oggi per noi purtroppo solo parole.159

Il caso vuole che in Donna d’ombra (1988) di Luigi Faccini la Bonaiuto ottenga uno dei suoi primi ruoli da protagonista nei panni di Carla, la quale sta preparando una coreografia ispirata all’Antigone.160 Successivamente interpreta ancora il ruolo di una nota attrice scelta per la parte di Antigone sia nello spettacolo I sette contro Tebe, che debutta a Napoli al Teatro Nuovo il 19 dicembre 1996, sia nel consequenziale film Teatro di guerra (1998), diretti entrambi da Mario Martone. C’è infine la coincidenza della data di nascita della Ida Dalser di Vincere, il 18 gennaio, della fittizia Maddalena di La visione del sabba, 8 gennaio, con quella vera della Bonaiuto, che è il 28 gennaio e nel 1987 aveva 37 anni. Più o meno come i 3(5)7 di Maddalena, quando appunto La visione del sabba viene girato. Ovviamente tutto questo rientra nel “gioco” delle libere interpretazioni. «Bona?... che nome, non l’ho mai sentito…» puntualizza Elica nella sceneggiatura originale di Il regista di matrimoni.161 Nel film, invece, si limita a chiedere: «Ma Bona, che genere di nome è?». Anche Fagioli si è chiesto una volta «Ma Anna, chi è?». Se lo sono chiesto in tanti. Ce lo siamo chiesto anche noi.

Note 1 G. Galli, Piombo rosso, cit., p. 106. 2 G. Pellegrino, Introduzione all’edizione italiana di E. Amara, Nous avons tué Aldo Moro, Patrick Robin Editions, Parigi 2006 (tr. it. Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra, Cooper, Roma 2008, p. 7). 3 F. Ceccarelli, La suburra. Sesso e potere: storia breve di due anni indecenti, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 143-144. Cfr. anche F. Ceccarelli, La biblioteca della grande cospirazione, in R. Polese (a cura di), Il complotto. Teoria, pratica, invenzione, Almanacco Guanda, Guanda, Parma 2007, pp. 9-15. 4 M. Bellocchio, commento al film, in Buongiorno, notte, dvd, cit. 5 P. Bellocchio, commento al film, in Buongiorno, notte, dvd, cit. 6 L. Sciascia, Nero su nero, cit., p. 212. 7 Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 4. 8 L. Sciascia, L’affaire Moro, cit., p. 25. 9 Ivi, p. 26. La «parodia» borgesiana funziona alla lettera, poiché a p. 25, come Ménard, Sciascia riscrive quasi alla lettera anche la già citata premessa del suo ragionamento, che funge così anche da conclusione replicata: «Questo racconto, questo apologo, mi si è riacceso nella memoria appena ho finito di dare un sommario e un ordine alle cronache e ai documenti dell’affaire Moro. Si adeguava all’invincibile impressione che l’affaire Moro fosse già stato scritto, che fosse già compiuta opera letteraria, che vivesse ormai in una sua intoccabile perfezione». 10 Cfr. G. Galli, Piombo rosso, cit., pp. 110-111. 11 A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 37. 12 B. Pischedda, Scrittori polemisti. Pasolini, Sciascia, Arbasino, Testori, Eco, Bollati Boringhieri, Torino 2011, p. 127. 13 Cfr. G. Galli, Storia della Democrazia cristiana, Laterza, Roma-Bari 1978. 14 Cfr. L. Sciascia, L’affaire Moro, cit., p. 27-28. 15 Cfr. G. Galli, Piombo rosso, cit., pp. 128, 132. 16 F. Callari, Pirandello e il cinema, Marsilio, Venezia 1991, p. 417. 17 Sul ruolo della letteratura e dei letterati sul caso Moro cfr. in generale anche M. Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001, che oltre al contributo di Leonardo Sciascia include quello dell’articolo di Italo Calvino, Le cose mai uscite da quella prigione, apparso sul «Corriere della Sera» il 18 maggio 1978. 18 L. Sciascia, L’affaire Moro, cit., p. 28. 19 M. Serres, L’ermafrodito, cit., pp. 60-61. 20 Cfr. J. D. Bolter, R. Grusin, Remediation. Understanding New Media, MIT Press, Cambridge 1999 (tr. it. Remediation. Competizione e integrazione fra vecchi e nuovi media, Guerini e Associati, Milano 2002). 21 M. Bellocchio, commento in L’ora di religione, dvd, cit. 22 G. De Lutiis (a cura di), La strage. L’atto d’accusa dei giudici di Bologna, Roma, Editori Riuniti, 186, pp. 64-76.

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23 J. Quicher [L. Macchiavelli], Strage, Rizzoli, Milano 1990, p. 386. 24 L. Macchiavelli, Strage, Einaudi, Torino 2010, p. VI. A differenza dell’edizione sequestrata nel 1990, a p. 6 di quella del 2010 si marca l’aspetto finzionale dell’operazione, come in un giallo comune. Cioè richiamando preventivamente l’attenzione, forse non solo del semplice lettore, sull’«Elenco dei personaggi principali (in ordine di apparizione sulla scena del crimine)» di quello che a tutti gli effetti così si presenta in veste di rassicurante romanzo. Nell’elenco è perciò compreso anche il “personaggio” più delicato, indicibile e intoccabile, il quale fa la sua prima comparsa con il proprio nome e cognome, opportunamente modificati, a p. 416 (corrispondente alla già citata p. 316 della versione pregressa). 25 Cfr. S. Flamigni, Le idi di marzo, cit., pp. 63, 291. 26 P. Di Donato, Christ in Plastic, «Penthouse», dicembre 1978, acquisito anche in ACM, vol. XXXIV, pp. 659-670. Per restare in ambito cinematografico, è importante ricordare che lo scrittore e giornalista italoamericano Pietro Di Donato è stato l’autore del celebre romanzo-inchiesta in parte autobiografico Christ in Concrete, Bobbs-Merrill Company, New York 1939 (tr. it. Cristo tra i muratori, Bompiani, Milano 1941) da cui è stato tratto dieci anni dopo il film Give Us This Day/Christ in Concrete (Cristo fra i muratori, 1949) di Edward Dmytryk. 27 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 21. 28 Le tavola in questione, intitolata La Pasqua, è l’ultima dell’inserto di pagine plastificate non numerate. Precede la p. 65 di M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit. 29 Corrado Alunni compare tra i 18 terroristi o latitanti di cui il Ministero degli Interni il pomeriggio del 16 marzo 1978 diffonde le relative foto. Come è noto, l’elenco comprende anche Prospero Gallinari e Mario Moretti. 30 ACM, vol. XXXV, p. 900. 31 Ivi, p. 903. 32 Il brano della perizia qui trascritto è riportato in S. Flamigni, La prigione fantasma, cit.. pp. 32-33. Cfr. anche A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 68; S. Bonfigli, La seconda [suggestione]: “Sabbia e tessuti”, in Relazione sulla figura del musicista russo Igor Markevich (d’ora in avanti Relazione Bonfigli) per conto della Commissione Stragi, Collaborazioni 15/3, 28 febbraio 2001, pp. 63-70, consultabile presso l’Archivio Flamigni - Centro Documentazione Onlus, via Lazio 76, Oriolo Romano (VT), poi divenuta il paragrafo Sabbia e filamenti di S. Bonfigli, J. Sce, Il delitto infinito. Ultime notizie sul sequestro Moro, Kaos, Milano 2002, pp. 202-210. Cfr. infine S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 2003, pp. 221-222; S. Flamigni, I. Moroni, Via Caetani, 9 maggio 1978, in AA.VV, Il sequestro di verità, Kaos, Milano 2008, pp. 163-164. 33 G. Galli, Piombo rosso, cit., p. 126. 34 S. Mazzocchi, Nell’anno della tigre, cit., p. 11. 35 B. Balzerani, Compagna luna, cit. p. 74. 36 A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., p. 183. 37 G. Deleuze, Lo strutturalismo, cit., p. 61.

38 La conferma giunge personalmente dal regista di documentari Mario Canale ed ex redattore del quattordicinale satirico «Il Male» pubblicato dal 1978 al 1982. Canale ha realizzato sul set un backstage inedito di La visione del sabba. 39 È quanto lo stesso ex presidente della Commissione stragi Giovanni Pellegrino non esclude. Cfr. G. Fasanella, C. Sestieri, G. Pellegrino, Segreto di Stato, cit., pp. 194-196. 40 Sulle ipotesi relative all’ex Villa Odescalchi convergono S. Bonfigli, Relazione Bonfigli, cit., p. 68, quindi S. Bonfigli, J. Sce, Il delitto infinito, cit., p. 208; G. Fasanella, G. Rocca, Il misterioso intermediario, Einaudi, Torino 2003, pp. 192-193 e il paragrafo Villa Odescalchi, la prigione sul litorale di R. Di Giovacchino Il libro nero della Prima Repubblica, Fazi, Roma, 2003; 2005, pp. 230-235. A queste fonti parlamentari o bibliografiche, la cui pubblicazione precede di un anno (Bonfigli), due anni (Bonfigli e Sce) o pochi mesi (Fasanella, Rocca e la Di Giovacchino) l’anteprima veneziana di Buongiorno, notte, si aggiunga il successivo S. Flamigni, La prigione fantasma, cit., pp. 10-13. 41 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 30. 42 Cfr. anche la succinta voce Giulia Baiocchi, in S. Grassi, Il caso Moro, cit., p. 59. 43 S. Flamigni, Via Gradoli 96 e il delitto Moro, in AA.VV., Il sequestro di verità, cit., pp. 142-143. 44 Ivi, p. 143. 45 G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 4. 46 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 30. 47 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 35. 48 Cfr. N. Burch, Charles Baudelaire vs. Doctor Frankenstein, «Afterimage», n. 8-9, primavera 1981, poi in Id., La Lucarne de l’infini, Nathan, Parigi 1991 (tr. it. Il lucernario dell’infinito. Nascita del linguaggio cinematografico, Pratiche, Parma 1994; Il Castoro, Milano 2001, pp. 13-27). 49 R. Bellour, D’une histoire (tr. it. Di una storia, in L’analisi del film, cit., p. 20). 50 R. Bellour, L’analiyse flambée, «Cinémaction», n. 47, 1988, poi in Id., L’EntreImages. Photo, cinéma, video, La Différence, Parigi 2002 (tr. it. Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, Bruno Mondadori, Milano 2007; 2010, p. 14). 51 R. Bellour, Analisi ed emozione, in G. Carluccio, F. Villa (a cura di), La postanalisi, cit., p. 120. 52 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., pp. 40-41. 53 M. Bellocchio, Conversazione 1998 dall’utopia al presente, in P. Malanga (a cura di), Marco Bellocchio, cit., p. 122. 54 A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., pp. 36-37. 55 A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., p. 12. 56 F. Imposimato, S. Provvisionato, Doveva morire, cit., pp. 61-62. 57 Cfr. S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 2003, cit., pp. 73-74.

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58 Testimonianze raccolte nel già citato documentario Sequestro Moro, sentenza di morte. 59 S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 2003, cit., p. 359. 60 Cfr. anche Vincino, in collaborazione con F. Giubilei, P. La Forgia, Il Male. 1978-1982. I cinque anni che cambiarono la satira, Rizzoli, Milano 2007, p. 12. 61 Ibidem. 62 R. Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, cit., p. 235. 63 G. Fasanella, G. Rocca, Il misterioso intermediario, cit., p. 192. 64 Cfr. S. Flamigni, I. Moroni, Via Caetani, 9 maggio 1978, in AA. VV., Il sequestro di verità, cit., p. 163-164. Cfr. anche S. Flamigni, La prigione fantasma, cit., p. 37. 65 Cfr. S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 2003, cit., p. 158. 66 Cfr. S. Flamigni, Il covo di Stato, cit., pp. 31-32. 67 Piazza delle Cinque Lune (2003) è il titolo del film fin troppo d’azione diretto da Renzo Martinelli che rilegge il caso Moro seguendo più da presso le ipotesi avanzate nei suoi libri da Flamigni, accreditato come consulente. Se ne parla sui giornali già dall’agosto del 2002 ed esce nelle sale a maggio del 2003. Cioè quattro mesi prima del film di Bellocchio, girato invece nel gennaio-marzo 2003 e uscito immediatamente nelle sale dopo la partecipazione in concorso alla 60ª Mostra di Venezia. Cfr. A. Aprà (a cura di), Marco Bellocchio, cit., p. 263. 68 S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 2003, cit., nota 46, p. 296. 69 M. Gotor, Il memoriale della Repubblica, cit., p. 244. 70 M. Bellocchio, Diavolo in corpo, Le Mani, Recco 2011, p. 52 71 Ivi, p. 50. 72 R. Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, cit., p. 230. 73 G. Fasanella, G. Rocca, Il misterioso intemediario, cit., p. 190. 74 B. Bertolucci, Noi ultimi figli dell’età impressionata cui è dato di copiare dal vero, in E. Ungari, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Ubulibri, Milano 1982; 1987, p. 216. 75 B. Bertolucci, presentazione registrata a Roma il 7 marzo 2006 di La luna, dvd, cit., ora in B. Bertolucci, La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), Garzanti, Milano 2010. 76 B. Bertolucci, in La luna, dvd, intervista, Dolmen, Milano 2006. 77 M. Bellocchio, Salto nel vuoto, cit., p. 142. Cfr. anche M. Fagioli, Psicanalisi della nascita e castrazione umana, Armando, Roma 1975. 78 Per il testo integrale del falso comunicato brigatista del 18 aprile cfr. sempre M. Clementi, La “pazzia” di Aldo Moro, cit., p. 199. 79 Il personaggio della Melato nel film di Petri pronuncia tra l’altro una battuta tragicamente premonitrice: «Forse desidero che muoia. Tutti i miei desideri sono di morte. Ecco, io desidero che lui diventi un monumento. Cioè un morto». 80 M. Bellocchio, in Buongiorno, notte, dvd, commento, cit. 81 Cfr. A. Moro, lettera a Francesco Cossiga, cit., in S. Flamigni, «Il mio sangue ricadrà su di loro», cit., pp. 57-60.

82 A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., pp. 78-79. 83 M. Gotor, in A. Moro, Lettere dalla prigionia, cit., p. 203. 84 Cfr. A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., pp. 149-154. 85 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit. p. 114. 86 Ivi, pp. 114-115. 87 L. Sciascia, Relazione di minoranza, in L. Palazzolo (a cura di), Leonardo Sciascia deputato radicale, cit., p. 129. 88 A. Clò, audizione di A. Clò (10 giugno 1981), in ACM, vol. VIII, cit., pp. 308, 310. 89 M. Foucault, Introduction, in L. Binnswanger, Le rêve et l’existence, Desclée de Brouwer, Parigi 1954, poi in M. Foucault, Dits et écrits. 1954-1988, Gallimard, Parigi 1994 (tr. it. Il sogno, Raffaello Cortina, Milano 2003, pp. 9-11). 90 Cfr. il capitolo Le lettere di Moro di C. Musatti, Chi ha paura del lupo cattivo?, Editori Riuniti, Roma 1987; 1997, pp. 258-261. 91 D. Ceselli, intervista a cura di P. Malanga, in M. Bellocchio, La balia, Gremese, Roma 1999, p. 9. 92 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 59. 93 «Nel 1978 venne chiesto a Marshall McLuhan se ci fossero strumenti mediatici contro il terrorismo. Rispose: smettere di parlarne. La sua risposta venne interpretata come una boutade, per di più censoria. Si trattava di un’idea più ovvia ma anche più lucida. Il terrorismo vive di notizie ben più che di forza militare. La sua forza sta nel sovvertire l’ordine della cronaca, non in una potenza di fuoco che di per sé è ridotta. Non dovrebbe anche questo essere un motivo di riflessione, non in favore della censura, ma in materia di modelli di informazione?» (P. Ortoleva, Il secolo dei media. Riti, abitudini, mitologie, il Saggiatore, Milano 2009, p. 273). 94 Nel romanzo “fantapolitico” del cofondatore delle Brigate rosse, Alberto Franceschini, si segue una pista collegata alla borsa di Moro prelevata durante il rapimento. Pista che prende le mosse da uno spettacolo teatrale intitolato O coelicolae e da un teatro, l’Agorà. Cfr. A. Franceschini, A. Samueli, La borsa del presidente. Ritorno agli anni di piombo, Ediesse, Roma 1997. 95 Cfr. M. Bellocchio, Il regista di matrimoni, cit. Il nome di Maddalena compare invece nel press-book, come forse anche nel caso di La Balia, cui però non è stato possibile risalire e verificare. 96 M. Bellocchio, Il principe di Homburg, Baldini & Castoldi, Milano 1997, p. 164. 97 Ivi, pp. 176-177. 98 M. Fagioli, Una storia una ricerca un film, in M. Bellocchio, Salto nel vuoto, cit., p. 30. 99 L. Sciascia, L’affaire Moro, cit., pp. 130-131. 100 L. Sciascia, Nero su nero, cit., pp. 234-235. 101 L. Sciascia, Il fantasma di Moro, intervista trasmessa su Radio Radicale l’11 marzo 1982, in L. Palazzolo (a cura di), Leonardo Sciascia deputato radicale 19791983, cit., p. 221.

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102 M. Bellocchio, Diavolo in corpo, cit., pp. 106-107. 103 Ivi, p. 106. 104 Per contestualizzare la figura della Di Nola nel contesto investigativo del caso Moro che precede l’uscita di Buongiorno, notte, cfr. i capitoli Il nodo del Ghetto ebraico e Il presunto covo brigatista di via S. Elena n. 8 della Relazione Bonfigli, cit., pp. 26-56, quindi i capitoli La musica del Ghetto e Il nodo del Ghetto ebraico di S. Bonfigli, J. Sce, Il delitto infinito, cit., pp. 169-209. 105 La Di Nola ha frequentato il Centro Sperimentale negli stessi anni dell’autore di Il caso Moro, Giuseppe Ferrara, come lui stesso ha ricordato. Cfr. www. utopiarossa.blogspot.it/2012/10/il-regista-giuseppe-ferrara-aderisce.html, ultima consultazione 15 febbraio 2014). 106 Cfr. Relazione Bonfigli, cit., pp. 42-43. Valga inoltre la pena di ricordare che l’ex dirigente democristiano Giovanni Galloni, mostrato in tv anche in Buongiorno, notte, nel 2005 ebbe a dichiarare in proposito, nel corso della trasmissione televisiva Next andata in onda su Rai News 24: «Io non posso dimenticare un discorso che ebbi con Moro poche settimane prima del suo rapimento. Discutevamo con Moro delle BR, delle difficoltà di trovare i covi delle BR. E Moro mi disse: “La mia preoccupazione è questa: che io ho per certo la notizia che i servizi segreti sia americano [la Cia] sia israeliano [il Mossad] hanno degli infiltrati all’interno delle BR. Però non siamo stati avvertiti di questo, perché se fossimo stati avvertiti probabilmente i covi li avremmo trovati”». 107 Relazione Bonfigli, cit., p. 46. Si è scelto qui, come in altri brani tratti da documenti ufficiali, di mantenere l’uso delle maiuscole per cognomi e toponimi. 108 Sulla sceneggiatura dell’ex brigatista Annunziata Francola si basa fedelmente il film L’uscita (1988) di Marco Leto, in cui troviamo un personaggio, Giulia, corrispondente a Barbara Balzerani. Il personaggio invece di Giulio, che nel finale dice di aver voluto invitare a Trevignano la protagonista, corrisponderebbe a Osvaldo Cecconi, fidanzato della Francola e residente in tale località. Nel film di Leto recita anche Francesca Pirani, co-sceneggiatrice e aiuto regista di La visione del sabba, poi aiuto regista di Il sogno della farfalla. Stranamente, questo film di Leto, coprodotto dalla cooperativa Cine 2000 di Giuseppe Ferrara e dalla Rai (che però non l’ha mai mandato in onda) è stato proiettato in pubblico solo nel settembre 1988, al festival Europa Cinema di Bari. Ed eccezionalmente all’interno della rassegna Schermi di piombo. Il terrorismo nel cinema italiano, al cinema Trevi di Roma, il 22 maggio 2008. È uscito solo in vhs nel 1990, mai in dvd. 109 Cfr. M. Vernet, Figure dell’assenza, cit., pp. 34-62. 110 P. P. Pasolini, Che cos’è questo golpe?, «Corriere della Sera», 14 novembre 1974, poi con il titolo Il romanzo delle stragi, in Id., Scritti corsari, Garzanti, Milano 1975; 2006, p. 88. 111 Cfr. in particolare il capitolo Dante profeta di B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Laterza, Bari 1942; 1985, pp. 265-326. 112 Il protagonista del film di Bellocchio legge dall’edizione del Paradiso a cura di N. Sapegno, La Nuova Italia, Firenze 1957; 1985, p. 220.

113 B. Nardi, Dante e la cultura medievale, cit., pp. 295, 311. 114 Ivi, p. 267. Le citazioni dantesche riportate tra caporali provengono dal De vulgari eloquentia, I, VI, 3, e dal Convivio, I, III, 3-5. 115 L. Sciascia, L’affaire Moro, cit., p. 26. 116 Cfr. G. Galli, Piombo rosso, cit., pp. 110-112. 117 A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato, cit., p. 37. 118 G. Galli, Piombo rosso, cit., p. 112. 119 L. Sciascia, L’affaire Moro, cit, p. 98. 120 Ivi, pp. 113, 115. La nota governativa, riportata da Sciascia a p. 114, recita: «L’invito del governo rivolto dalla DC di approfondire il contenuto della soluzione umanitaria adombrata dal PSI, avrà un seguito in una riunione del Comitato interministeriale per la sicurezza che avrà luogo nei prossimi giorni. Si osserva tuttavia fin d’ora che è nota la linea del governo di non ipotizzare la benché minima deroga alle leggi dello Stato e di non dimenticare il dovere morale del rispetto del dolore delle famiglie che piangono le tragiche conseguenze dell’operato criminoso degli eversori». 121 M. Bellocchio, Il regista di matrimoni, cit., p. 93. 122 Ivi, p. 94. 123 ACM, vol. LXII, pp. 531, 536. 124 Ivi, p. 577. 125 Ivi, vol. CXVI, p. 303. 126 Ivi, pp. 303-305. 127 Ivi, vol. VXII, p. 823. 128 Ivi, p. 856. 129 Ivi, pp. 824-825. 130 Ivi, p. 857. 131 Relazione Bonfigli, cit. pp. 54-55. Nella nota 22 a p. 54 si precisa inoltre che la versione integrale delle suddette deposizioni di Mortati e Montalto è allegata alla «annotazione GIRAUDO» del 7 febbraio 2001. 132 Cfr. S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 2003, cit., p. 356. 133 In S. Bonfigli, J. Sce, Il delitto infinito, cit., p. 202, è scritto: «Massimo Carloni ha precisato che Tirabovi era uno di coloro che avevano dato vita all’attività del circolo culturale “Il cielo”, curandone materialmente le attività. Per singolare coincidenza, nel 1997 l’ex brigatista Alberto Franceschini ha pubblicato un libro sul delitto Moro in forma romanzata, dove ha menzionato lo spettacolo teatrale O coelicolae allestito dalla compagnia Agorà, indicandola come punto di riferimento di un gruppo di estremisti di sinistra implicato nella vicenda Moro». Nella Relazione Bonfigli, cit., n. 24, p. 56, la suddetta coincidenza è segnalata in modo più netto: «CARLONI specificava che il TIRABOVI era uno di coloro che avevano dato vita all’attività e uno dei tanti che curavano l’attività di IL CIELO [in grassetto], circolo culturale indicato dall’ex brigatista Alberto Franceschini nel suo libro LA BORSA DEL PRESIDENTE [in grassetto]». Cfr. quindi A. Franceschini, A. Samueli, La

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borsa del presidente, cit., pp. 11-12, 31, 45-54, 75-77. Anche la protagonista del già citato, invisibile, L’uscita di Marco Leto, ricorda a un’amica detenuta il marxiano «assalto al cielo» della Comune di Parigi. Senza contare il titolo dell’opera prima di Massimo Fagioli, Il cielo della luna. 134 Relazione Bonfigli, nota 25, p. 56. 135 Ivi, nota 24, p. 55. 136 Ivi, nota 24, p. 56. 137 S. Bonfigli, J. Sce, Il delitto infinito, cit., p. 174. Questo libro che spesso abbiamo richiamato per molti versi non è che una trasposizione in forma meno tecnica e burocratica della più volte citata Relazione Bonfigli. Ricordiamo che anche Jacopo Sce è stato consulente della Commissione Stragi. 138 ACM, vol. CVI, p. 85. 139 Relazione Bonfigli, cit. p. 6. 140 Cfr. ACM, vol. XXXIV, pp. 243-244, 609-612, 651-654, 658-675, 833-840. 141 P. Di Donato, Christ in Plastic, cit. 142 V. Vettori, Diario apocrifo di Aldo Moro prigioniero, La Palma, Palermo-San Paolo del Brasile 1982. Cfr. anche G. De Lutiis, Il golpe di via Fani, cit., pp. 176-177. 143 Cfr. il secondo paragrafo, La fonte “molto attendibile” di Cogliandro della Relazione Bonfigli, cit., pp. 17-21, e l’equivalente paragrafo di S. Bonfigli, J. Sce, Il delitto infinito, cit., pp. 174-177. 144 Anche la nota del SISMI è riportata in S. Bonfigli, J. Sce, Il delitto infinito, cit., pp. 174-175. 145 ACM, vol. LXII, p. 867. 146 Cfr. la scheda completa di filmografia, a lei dedicata da A. Orbicciani, in R. Chiti, E. Lancia, A. Orbicciani, R. Poppi, Dizionario del cinema italiano. Le attrici, Gremese, Roma 1999, pp. 38-39. Cfr. anche www.it.wikipedia.org/wiki/Anna_Bonaiuto, ultima consultazione 17 febbraio 2013. 147 ACM, vol. XXXIII, p. 539. 148 Cfr. ACM, vol. XXXIII, p. 540. 149 Cfr. Relazione Bonfigli, cit., p. 48. 150 S. Bonfigli, J. Sce, Il delitto infinito, cit., p. 166. 151 G. De Lutiis, Il golpe di via Fani, cit., p. 172. 152 Cfr. Relazione Bonfigli, cit., p. 50. 153 Ibidem. 154 Cfr. ACM, vol. XXXIII, p. 540. 155 Relazione Bonfigli, cit., p. 51. 156 Ivi, pp. 52-53. Alla figura di Ugo Bevilaqua, nella nota 21 di p. 53, si dà ampio spazio partendo da una domanda del senatore Flamigni nel corso dell’audizione davanti alla Commissione Moro di Domenico Spinella, responsabile della Digos romana durante il sequestro Moro. 157 Come «Anna Buonaiuto» cfr. S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 2003, cit., pp. 357-359; S. Flamigni, Il covo di Stato, cit., pp. 131-132, S. Bonfigli, J. Sce, Il

delitto infinito, cit., pp. 166, 175, 187, 194-197; S. Flamigni, La sfinge delle Brigate rosse, cit., pp. 244, 247; S. Flamigni (a cura di), Dossier delitto Moro, cit., p. 366; S. Flamigni, I. Moroni, Via Caetani, 9 maggio 1978, in Il sequestro di verità, cit., pp. 180, 182. Come «Anna Bonaiuto» invece cfr. R. Di Giovacchino, Il libro nero della Prima Repubblica, cit., p. 228, 240; G. De Lutiis, Il golpe di via Fani, cit., pp. 172, 276; la specifica voce Anna Bonaiuto, in S. Grassi, Il caso Moro, cit., p. 90. 158 In S. Flamigni, Il covo di Stato, cit., p. 132 (dove già sono stati riportati, sulla base della documentazione degli ACM, dettagliatamente gli estremi della Buonaiuto/Bonaiuto, nell’ordine: il comune di nascita, la via e il civico della residenza romana, la professione) e in G. De Lutiis, Il golpe di via Fani, cit., p. 276, inoltre, si parla in modo esplicito, di «Anna Buonaiuto […] di professione attrice» (Flamigni) e «dell’ipotesi che potesse trattarsi dell’attrice Anna Bonaiuto (ma l’artista ha smentito)» (De Lutiis). Lo spazio maggiore resta quello a lei dedicato nella Relazione Bonfigli in cui, oltre a vari richiami sparsi (pp. 15-16, 47), a riguardarla specificamente è un intero blocco di pagine (pp. 49-53). Blocco che di conseguenza torna in S. Bonfigli, J. Sce, Il delitto infinito, cit., pp. 194-197 159 A. Bonaiuto, Una sfida continua, intervista a cura di F. Sepe, «Drammaturgia.it», 17 maggio 2004. Il nome della testata scientifica on-line della Firenze University Press attualmente è cambiato in «Drammaturgia». Cfr. www.drammaturgia. fupress.net/recensioni, ultima consultazione 18 febbraio 2014. 160 La sceneggiatura originale del film, cui risale l’idea altrettanto originale dell’Antigone, appartiene però al regista stesso Faccini. Il personaggio di Carla è basato su quello della coreografa Elsa Piperno, che nel film interpreta appunto Antigone. 161 M. Bellocchio, Il regista di matrimoni, cit., p. 68.

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Epilogo



«Quando non si vede bene cosa c’è “davanti”, viene spontaneo chiedersi che cosa c’è “dietro”» Norberto Bobbio, replica a Francesco Cossiga

La recita della storia Abbiamo visto fin qui come le ipotesi investigative e i fatti legati al caso Moro possano trovare riscontri, anticipazioni, allusioni volontarie o involontarie nei testi filmici di Bellocchio o in generale in un più ampio contesto cinematografico, televisivo e teatrale. Motivo in più per non sottovalutarne l’impatto, l’azione parallela o incrociata. In fondo è bastata una fugace citazione di Il cinque maggio manzoniano per giungere in Buongiorno, notte, dopo La visione del sabba, a Sant’Elena, che non solo è l’isola in cui muore Napoleone Bonaparte, ma anche la via romana a due isolati da quella via Caetani in cui viene fatto ritrovare il cadavere di Aldo Moro. Circostanza che ha spinto inquirenti e studiosi, sin dal 1978, a «ritenere che Moro sia stato detenuto al centro di Roma, presso il Ghetto, in condizioni accettabili e in località vicina a via Caetani, ove fu trovato il corpo».1 Potrà sembrare curioso, ma non insensato, che a una simile ipotesi – peraltro molto verosimile per i dietrologi – si arrivi anche tramite un film la cui irriverenza verso l’evidenza storica, soprattutto nel finale, è stata sottolineata da Bellocchio: Proprio perché volevo fare un racconto che fosse profondamente libero. E infine, come estrema infedeltà, addirittura rappresentare il falso storico maggiore, che è la liberazione di Moro.

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E guarda caso questa immagine, per coloro che sono ancora legati a una fede politica, o sono ottusamente obbligati a vedere solo la cosiddetta fedeltà storica, ha costituito una specie di bestemmia, una specie di blasfemia. Mentre al contrario è un’immagine – Moro libero – che ha suscitato in altri reazioni opposte, proprio perché rappresenta una possibilità che non è stata colta: non soltanto Moro libero, ma proprio il fatto della possibilità di non subire l’ineluttabilità catastrofica della storia. E immaginare che la storia poteva non finire così. Ma facendola immediatamente seguire, quella immagine scandalosa, ai funerali di Moro con tutta la classe politica schierata per ricordare agli spettatori che nella realtà storica, poi, Moro è stato ammazzato.2

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Certo, proprio quel finale ambivalente ha la capacità di prestarsi a letture diverse che oltretutto non si escludono a vicenda. E pensare che sulla carta i finali erano addirittura due. Dei due è prevalso quello la cui piena “libertà” antistorica deriva sia dal suo effetto “liberatorio”, sia da un’aderenza probabilmente più profonda alla storia, specialmente se si considera che il funerale solenne e istituzionale, con la bara vuota, fu a suo tempo di per sé una grande, impeccabile “recita”. Una “recita” pubblica, nazional-popolare, testimoniata anche dalle immagini televisive delle esequie in chiesa il cui eventuale utilizzo viene già annotato nella sceneggiatura originale, quando ancora sono in predicato entrambi i finali. Il primo dei quali, poi divenuto definitivo, secondo l’autore necessitava a sua volta di «un post-finale». In cui, tra l’altro, «ci potrebbero essere le immagini della cerimonia religiosa in San Giovanni in Laterano, il funerale del presidente, senza il corpo del presidente, negato dalla famiglia, alla presenza di Paolo VI gravemente malato e di tutta la classe politica italiana».3 Insomma, tutto torna in una prospettiva “media-storica” di stretta osservanza ove il rituale della morte e l’elaborazione del lutto hanno subito ormai sostanziali stravolgimenti: La tendenza che oggi si va diffondendo, a introdurre nella celebrazione del rito funebre elementi tratti proprio dai costumi dello spettacolo (gli applausi alla bara, l’introduzione del colore e in particolare del ritratto a colori di stile televisivo nei manifesti pubblici) è forse l’indice di una diffusa tendenza a cercare nel grande repertorio sociale dei mezzi di comunicazione di massa, e nelle loro regole di comunicazione, una nuova risposta nel disagio che accompagna la comunicazione interpersonale in circostanze luttuose.4

Non per niente l’autore di Buongiorno, notte, per assecondare la rielaborazione audiovisiva del lutto, oltre a inserire in sottofondo il brano

dei Pink Floyd Shine On You Crazy Diamond, decide di intervenire sul materiale di repertorio con accorgimenti in post-produzione in grado di ottimizzarne la completa resa filmica. Soprattutto quella delle carrellate traballanti che accompagnano la processione del papa sulla portantina: «Il carrello è stato rallentato. Nella realtà è un carrello più sbadato, un pochino più approssimativo. Noi rallentandolo gli abbiamo dato un carattere più forte».5 In pratica, nulla vieta al diretto interessato, da morto, e tuttavia assente all’imponente e recitato funerale di Stato in suo onore, di fare paradossalmente altro. E contemporaneamente di starsene altrove, da vivo. Nel primo finale girato e conservato di Buongiorno, notte, come da copione, vediamo quindi Moro che cammina di buon passo nella città deserta non si ferma cammina, cammina…6

Quello scelto è in pratica un finale dilazionato, scandito in due tempi paralleli, sincronici/diacronici. Ci siamo già occupati in precedenza di questo perfetto finale da «matti», quindi «da slegare» dalla cronaca, dalla veridicità frammentaria, insostenibile, fragile: Tutto è piuttosto inverosimile. La passeggiata di Aldo Moro è forse l’immagine che in Italia ha più colpito. Evidentemente questo ulteriore salto di verosimiglianza però porta alla rappresentazione di una libertà che in qualche modo fa rimontare una passione, una disperazione, una speranza, tante cose che si sintetizzano in quei pochi secondi della passeggiata. Che comunque fu scritta da me in alternativa a un altro finale che non è stato poi girato. Un finale in cui lei [Chiara] non faceva addormentare loro [Mariano, Primo, Ernesto], ma loro facevano addormentare lei, e lei risvegliandosi si accorgeva, praticamente come nella cronaca della Braghetti, che la prigione era già stata smantellata. Tra le due alternative, alla fine abbiamo scelto di presentare la libertà di Moro e poi la verità storica.7

Questo però non vuol dire che «la libertà di Moro» non abbia coinciso, almeno per un lasso di tempo, anche con «la verità storica», come lascerebbe intendere, in tema di «matti» improbabili e a maggior ragione «da slegare», Moro stesso nella densa e definitiva lettera alla moglie del 5 maggio parlando di un «momento di esilissimo ottimismo» sfumato. Ipotesi questa che, come già detto in precedenza, non appartiene solo allo spiraglio lasciato aperto dal finale di Buongiorno, notte, ma anche alla lettura che di tale passo della lettera e di altri passi presenti nel memoriale ha proposto a suo tempo l’ex presidente della Commissione Stragi Pellegrino.

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Purtroppo, se il comprensibile «esilissimo ottimismo» proveniva dalla notizia di una benemerita trattativa in corso, non è escluso che persino quest’estrema ancora di salvezza potrebbe essere stata un’operazione di facciata e di rendita politica. Non è una nostra opinione, ovviamente. Il suggerimento stavolta non va ricercato in Buongiorno, notte, in tema di caso Moro, ma in Bella addormentata, che dirotta la riflessione sul caso Englaro. Questo spiegherebbe tra l’altro come mai Bella addormentata cominci esattamente dove finisce Buongiorno, notte, con Maya Sansa che dorme. Seguendo la traccia intertestuale che ci viene offerta, come intendere altrimenti l’allusione agli ex socialisti confluiti nel partito berlusconiano che in Bella addormentata fingono di voler salvare la vita a Eluana? Lo dice chiaramente il personaggio dell’onorevole chiamato il “Persuasore” al collega Beffardi (a proposito di cognomi): «Devi stare tranquillo: non si farà in tempo. Ammesso che la legge passi in Senato, dovrà andare alla Camera. E Napolitano, probabilmente, potrà fare delle modifiche, dare dei suggerimenti. A questo punto Eluana sarà già bella e morta». Come è noto, furono ugualmente i socialisti nell’ultima fase del sequestro a percorrere la via della trattativa per salvare la vita di Moro. In Bella addormentata il testimone della perpetua, ripetitiva “recita della Storia” parrebbe essere passato ai parlamentari berlusconiani – compresi gli ex socialisti salvati dalle secche di Tangentopoli, chi in crisi di coscienza (Beffardi), chi no (il “Persuasore”) – i quali guarda caso non fanno ugualmente in tempo, in modo molto calcolato, a salvare la vita della ragazza in stato vegetativo (quindi tecnicamente già morta, come Moro). Donde il cronometrico e provvidenziale annuncio dell’avvenuta interruzione dell’attività della macchina che per così dire la teneva in “vita”. Si direbbe una strategia cinematograficamente retroattiva e storicamente retrospettiva quella che proietta provocatoriamente il “calcolo” politico inscenato dai post-socialisti di Bella addormentata sulla scena parallela di Buongiorno, notte, cioè sull’epilogo del caso Moro, quando in casa socialista si decise di tentare il tutto per tutto per avviare la linea della trattativa con le Brigate rosse finalizzata alla liberazione del presidente democristiano prigioniero. Questo almeno è ciò che si evince da una comparazione ragionata, testuale dei due suddetti film. Non sono forse questi i corsi e i ricorsi della “recita storica” cui abbiamo voluto intitolare il nostro libro? Affermare infatti sia della psicanalisi che della storia che in quanto scienze sono scienze del particolare, non vuol dire che i fatti con i quali hanno a che fare siano puramente accidentali, se non fittizi, e che il loro valore ultimo si riduca all’aspetto bruto del trauma. Gli eventi si generano in una storicizzazione primaria, in altri termini la storia si fa già sulla scena dove la si reciterà una volta scritta, nel foro interno come nel foro esterno.8

La questione in fondo è sempre la stessa, quella dell’analisi che non può soltanto ridursi a semplice scomposizione/ricomposizione indifferente del testo. Ce la stiamo portando dietro sin dalle prime pagine e trova continuamente, anche nelle indicazioni dell’autore, segnali di apertura e di chiusura che si compensano a vicenda. In questo senso proprio il problema della prigione, della sua ubicazione e della controversa unicità viene di volta in volta, specialmente a parole, sul film, o a prima vista, nel film, confermata, ma nel contempo, sempre nel film, sottilmente smentita o piuttosto integrata. Accade infatti che Bellocchio abbia dichiarato di avere «scelto di riprodurre l’appartamento come nella realtà era quello di via Montalcini».9 Ciò nonostante le allusioni agli indicibili altri spazi fisici della prigionia di Moro in cui ci imbattiamo in Buongiorno, notte sono almeno tre: 1) l’appartamento di via Gradoli, richiamato dalla presenza dei tanti, troppi libri, o dall’incursione notturna di un ladro. Una prigione non ufficiale che nel film sembrerebbe reggere fino alla fuga dei canarini coincidente con il 18 aprile, giorno delle ricerche vane quanto insensate nel lago della Duchessa del prigioniero “suicidato”. 2) La zona del litorale a nord di Roma, corrispondente alla località Passoscuro, enunciata dal cognome molto emblematico e relativamente metaforico dello sceneggiatore, il quale chissà come immagina, scrive, sa con eccessiva lungimiranza. Anche questo ulteriore ipotetico sito, dove potrebbe esserci stata un’altra prigione temporanea di Moro, terminerebbe di essere “attivo” in un momento preciso: l’arresto appunto di Enzo Passoscuro, che si consuma nella scena immediatamente precedente quella della seduta spiritica. 3) Il Ghetto ebraico, esemplificata dalla (isola/via) Sant’Elena poco napoleonica e molto morotea. Nulla vieta di pensare che anche il riferimento a Sant’Elena in quanto isola potrebbe alludere proprio alla porzione del Ghetto, l’Insula Mattei, dove si trovano sia via Caetani che via Sant’Elena. Quindi l’ultima ipotetica prigione di Moro in ordine di tempo, plausibilmente il 5 maggio 1978, giorno evocato contestualmente alla seduta spiritica dallo stesso Bellocchio in Buongiorno, notte, come già da Maddalena in La visione del sabba. Siamo a soli quattro giorni e a due isolati dalla data e dal luogo dove viene rinvenuta la Renault rossa contenente il corpo senza vita di Moro. Persino via Montalcini, così come ci viene presentata nel film, è un luogo tutt’altro che innocuo. Favorisce ogni sorta di interpretazione dietrologica. Innanzitutto perché si dà a vedere come “scena”, cioè covo-teatro. Cosa che non si evince solo dal nostro percorso interpretativo, perché è Bellocchio per primo ad ammetterlo: «Ciò corrisponde ad una visione, ad uno stile, e l’idea è quella di un “teatro da camera”. È come se ogni inquadratura potesse rappresentare un palcoscenico».10 Più chiaro di così.

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Ma c’è di più. Abbiamo a più riprese sottolineato come la visione della via Montalcini, unica prigione o no, che emerge da Buongiorno, notte non sia troppo rassicurante. Nel complicato sistema di immagini oniriche, reali e inconsce la vediamo presidiata dall’esterno da soggetti di ogni tipo, più di quanto non potesse essere il covo di via Gradoli: forze dell’ordine o figure di vicine ora molto espansive e invadenti, ora molto curiose e informate. Per non parlare del sacerdote sopraggiunto per benedire la casa, che ovviamente costituisce un riferimento neanche eccessivamente mascherato al parroco di Santa Lucia, don Antonello Mennini. Il quale, secondo il film, avrebbe incontrato Moro nella prigione brigatista. Per confortarlo e “benedirlo”, dargli cioè l’estrema unzione. O cercare invano di allontanare da quell’appartamento il Maligno. Sta di fatto che anche in Bella addormentata un sacerdote cerca di entrare nella stanza di Rossa per “benedirla” o lasciare un santino, ma bruscamente il dottor Pallido lo manda via. Occhio al parallelismo: 1) in Buongiorno, notte Chiara sviene durante la benedizione ed Ernesto, nella veste di finto marito, deve soccorrerla; 2) in Bella addormentata Rossa dorme e Pallido la assiste. Chiara ed Ernesto in Buongiorno, notte sono interpretati dagli stessi attori che in Bella addormentata interpretano (di conseguenza) Rossa e Pallido: Maya Sansa e Piergiorgio Bellocchio. Che dire ancora del sistema di controllo dell’appartamento-covo esercitato dall’esterno dalle forze dell’ordine, mostrato in Buongiorno, notte in una chiave deliberatamente visionaria? Una visionarietà che però troverebbe paradossalmente conferma nelle recentissime ipotesi avanzate dall’ex magistrato Imposimato e destinate – lo si è accennato più volte – a mettere scompiglio persino nell’area dietrologica. Certo è che in questa estrema prospettiva comparatista diventerebbe addirittura sensata la definizione di Bellocchio del covo del suo film come di una vera e propria «prigione della prigione». Ma vediamo fino a che punto le immagini del film sul covo presidiato si avvicinano o per assurdo collimano con le ipotesi investigative più sconvolgenti, condivisibili o meno, in parte o per intero (non sta a noi stabilirlo). Partiamo da uno dei punti più impressionanti della ricostruzione de relato compiuta da Imposimato, sulla base cioè delle rivelazioni del 2008 dell’ex brigadiere della Guardia di Finanza Giovanni Ladu. Si tenga presente che Ladu sarebbe anche l’autore delle mail inviate a Imposimato nel gennaio 2013, in cui ha però usato un nome di copertura, “Oscar Puddu”, dichiarandosi all’epoca del sequestro un “gladiatore”. All’inizio di novembre del 2013 Ladu è finito nel registro degli indagati del sostituto procuratore di Roma, Luca Palamara. Al momento, l’ipotesi di reato formulata dalla magistratura romana è la calunnia. Ebbene, nelle “rivelazioni” di Ladu, decisamente tardive, fatte a oltre trent’anni di distanza dai fatti e al vaglio della magistratura, vengono menzionate anche alcune telecamere che sarebbero

state installate nientedimeno che dagli uomini della struttura paramilitare segreta della Nato, denominata Gladio, per controllare durante i giorni del sequestro Moro l’appartamento via Montalcini 8 sia dall’esterno che dall’interno: Puddu aggiunse pure che «un sopralluogo lo abbiamo fatto, di notte, scalzi per non fare rumore con le scarpe». Parlava al plurale perché con lui c’era anche il già citato collega, celato sotto lo pseudonimo di “Silvestro”: fu più o meno una settimana dopo il rapimento, quando già il militare sapeva chi c’era all’interno 1. Lo scopo era quello di verificare il punto più conveniente per installare la microcamera nell’edificio e alla fine decisero di piazzarla nel corridoio di fronte all’appartamento-prigione. […] In merito alle telecamere che erano state installate in via Montalcini, disse che «erano state assemblate a Forte Boccea, ma erano state montate a Forte Braschi perché lì c’erano le attrezzature necessarie» e per piazzarle si era atteso il secondo sopralluogo. «Le microtelecamerine servivano per monitorare l’interno dell’appartamento», spiegò. «La funzione (…) era esclusivamente quella di controllare cosa accadeva dentro il covo e di vedere quanti sequestratori si alternavano di volta in volta (nella prigione di Moro). I filmati delle riprese con le telecamerine venivano consegnati all’ufficiale responsabile di Forte Braschi», ovvero [Pietro] Musumeci.11

Se abbiamo trascritto questo stralcio delle “rivelazioni” di Ladu è stato per l’effetto che esse fanno nel momento in cui si prova ad accostarle alla spiegazione data da Bellocchio delle inquadrature di Buongiorno, notte all’interno dell’appartamento-covo: «In questo film ci si muove su un piano di apparente realismo e di comprensione di primo livello – dando peraltro piena libertà di accesso agli altri livelli – e si raggiunge un grado di rappresentazione oggettiva, come se nell’appartamento vi fossero delle telecamere a circuito chiuso». Ancora una volta il discorso sulla prigione, applicato a Buongiorno, notte, finisce per collocare l’ottica cinematografica di Bellocchio in una posizione tutt’altro che negazionista, minimalista e riduttiva, specie se calata nella cornice complessa e contraddittoria del caso Moro. Molte soluzioni stilistiche possono inoltre essere ritenute “indiziarie” solo accettandone la componente parimenti “contraddittoria” rispetto a spiegazioni esterne vantaggiosamente più lineari e semplicistiche. È anzi il poter mettere a profitto simili «elementi di contraddizione» a rendere opportuno l’approccio ermeneutico. Ancora una volta non siamo soltanto noi a crederlo, ma l’autore stesso a dirlo: Ci sono tanti modi di fare cinema, a me interessa trovare in pochi elementi una forza, e di creare immagini senza dotarle prima di significato.

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Significati che poi in qualche maniera io stesso in qualche modo riconosco, ritrovo e scopro, ma senza imporli o svelarli. […] Mi è capitato spesso di pensare inizialmente ai miei film come se fossero composti su una sola nota, fondati su un unico tipo di immagine, costruiti con uno stile in cui nulla può dirsi incoerente. Invece poi mi interessano molto gli elementi di contraddizione.13

Una rapida postilla: a voler dar credito al soprannome “Silvestro” contenuto nella testimonianza fatta pervenire a Imposimato, bisognerebbe riconsiderare addirittura l’intera faccenda dei «canarini» di Prospero Gallinari raccontata dalla Braghetti. Come si è detto, Bellocchio l’ha prontamente recepita, aggiungendoci di suo i «gatti». Poteva mai immaginare che altrove c’è stato chi ha avuto effettivamente l’idea di farsi chiamare come il gatto “Silvestro” dei Looney Tunes, nel 1978 o nei decenni successivi? Mettiamola così: l’unica differenza semmai è che allora, nel 1978, i «canarini» in gabbia non ebbero la meglio sui «gatti». 266

Dial “Moro” for murder Volendo proseguire con i soprannomi, bisognerebbe anche tenere presente – durante la scena della festa di matrimonio all’aperto, subito prima che l’ex partigiano intoni Fischia il vento – la singolare battuta pronunciata da Enzo Passoscuro: «Ho letto su un giornale che un brigatista tra un assassinio e l’altro leggeva “Tex Willer” e si masturbava con le riviste porno». Passoscuro, o chi per lui, sbaglia sulla fonte. L’immagine del generico terrorista che «si masturbava con le riviste porno» non proviene da un giornale, ma da un bizzarro film a basso costo uscito l’anno prima del delitto Moro, Italia: ultimo atto? (1977) di Massimo Pirri, scritto dal regista con Morando Morandini Jr. e Federico Tofi, in cui vediamo l’«attacco al cuore dello Stato» tradursi nell’attentato al ministro degli Interni da parte di una cellula eversiva (la cui matrice ideologica non viene meglio specificata). C’è però da dire che Passoscuro, in virtù anche del suo significativo cognome, non sbaglia affatto quando parla di «Tex Willer». Poiché ad aver guadagnato sul campo il soprannome del celebre protagonista dell’omonimo giornalino a fumetti è il misterioso uomo che avrebbe sparato il 16 marzo 1978 in via Fani dal lato opposto a quello del bar Olivetti. La presenza, negata dai brigatisti, di questo provetto tiratore sulla scena del crimine, dall’altro lato della strada, trova conferma in particolare nella testimonianza del benzinaio Pietro Lalli, sedicente esperto di armi da fuoco.14 E avvalorerebbe così la «geometrica potenza dispiegata in via Fani» dichiarata da Franco Piperno e attribuita a un certo Piantanida nel processo che si celebra in Diavolo in corpo. Anche

Alberto Franceschini nel suo romanzo fantapolitico sul delitto Moro insiste abbastanza sul «Tex Willer» di via Fani.15 Soprannome che trova riscontro anche spostandosi sulla scena di via Montalcini secondo le più recenti, controverse testimonianze giunte a Imposimato nel 2013: «Il militare [il sedicente gladiatore “Puddu”] disse di avere conosciuto altri nomi in codice di persone che avevano partecipato all’operazione, come “Pippo, Archimede, Tex, Mefisto e il comandante si chiamava zio Paperone”».16 Insomma, non manca niente nel caso Moro, o meglio nella Moroteca di Babele. Nemmeno cartoni animati, fumetti e riviste vietate ai minori. Infatti in Buongiorno, notte Chiara non esita a rinfacciare al giovane sceneggiatore la suddetta battuta, evidentemente poco gradita, sui “passatempi” dei terroristi: «Parli dei brigatisti come se fossero dei dementi! Dei ragionieri che si masturbano con “Playboy” e poi vanno in giro ad ammazzare la gente! Ma gli altri non li vedi? Le facce del potere democristiano e tutti i loro servi, la loro ipocrisia!». Non dimentichiamo che la scena in cui Chiara pronuncia quest’altra battuta è sempre quella in cui Passoscuro quasi la mette con le spalle al muro sviluppando i suoi esercizi immaginativi molto realistici. Scena la cui soggettiva iniziale viene spiegata direttamente da Bellocchio: «Nel primo piano di Chiara guardata da Enzo c’è un classico ribaltamento. […] Lui la osserva, come lei ha sempre osservato Moro».17 Qualcosa però non torna. Nella scena precedente Enzo aveva parlato di «riviste porno», in questa Chiara dimentica il riferimento a «Tex Willer», ma parla di «Playboy»: fa lo stesso? Quasi. «Playboy» non rientra esattamente negli standard delle «riviste porno» cui si riferisce Enzo, essendo più vicina al modello patinato di «Penthouse», la rivista dove viene pubblicato alla fine del 1978 il racconto-reportage di Pietro Di Donato Christ in Plastic. Se quella su «Tex Willer» è una dimenticanza, magari di tipo freudiano, chissà se il richiamo a «Playboy», cioè a «Penthouse», non sia a sua volta un lapsus. Ma francamente come si fa a distinguere una cosa dall’altra in una vicenda così ingarbugliata, sedimentata, con molti accessi e poche uscite di sicurezza conoscitiva? Basti pensare che già nel 1978 L’affaire Moro, tra i primi libri scritti sull’argomento, era stato per ammissione dell’autore anche uno dei suoi più difficili e tormentati: Mi viene il sospetto, insomma, che quello che io ho scritto sul caso Moro va lasciato a cuocere nel brodo del «mistero dell’arte», e che nulla ha a che fare con la realtà. Pericolosissimo canone, direi. Perché il vero mistero non è quello dell’arte: è quello del come e del perché Moro è morto. […] Finito il 24 agosto il pamphlet sul caso Moro, ho passato quattro giorni a rileggerlo, correggendo e ritoccando quasi meccanicamente. Senza che lo volessi, la mia mente svolgeva una meditazione sulla letteratura: ansiosa,

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febbrile, come sdoppiata, come dialogata. Anche stanotte, insolitamente: ché non riuscivo, forse per eccessiva stanchezza, a prender sonno (espressione usuale ma errata: è il sonno che prende noi, noi non vorremmo mai dormire, è terribile pensare che passiamo un terzo della nostra vita in preda al sonno e visitati da maleducatissimi sogni). Ogni anno, qui in campagna, scrivere un libro – un piccolo libro – è per me riposo e divertimento: quale ne sia l’oggetto, la materia. Il riposo e il divertimento della scrittura, il piacere di fare un testo (e questo piacere è, per un autore, la sola misura di quello che sarà per il lettore e per il critico – ma per il critico che riuscirà a non perdere la cognizione del lettore – il piacere del testo). Ma questo su Moro mi ha dato una inquietudine che sconfinava nell’ossessione. E ne esco stanco: però con l’impaziente voglia di mettermi ad altra scrittura, ad altro testo. Comunque: nell’insonnia, con frammentaria e incandescente perspicuità, mi pareva di essere arrivato a una risposta sulla letteratura, su che cosa è la letteratura.[...] E allora: che cos’è la letteratura? Forse è un sistema di oggetti eterni […] che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità. Come dire: un sistema solare.18

Nell’insieme dell’opera di Bellocchio si prova un po’ la stessa sensazione guardando Salto nel vuoto, uno dei film su cui ci siamo soffermati di meno, invero importante poiché è il primo di finzione che egli realizza dopo il delitto Moro. Un film che si fa carico di un’ambiguità e di una opacità che non agevolano la percezione della cornice storico-politica. E che contiene i «sintomi del correre verso il vuoto» descritti da Sciascia in L’affaire Moro (o già in Todo modo), non soltanto «di quel potere democristiano»,19 ma di un’intera nazione allo sbando, annichilita, svuotata dopo i terribili fatti della primavera del 1978. Di questo clima si ha il sentore nel corso dell’intero film, che culmina nell’indolente “suicidio” finale, autentico “atto gratuito” per molti versi istituzionale di un giudice istruttore, Mauro Ponticelli (da “ponte”): un uomo grigio, dell’apparato, che ha vissuto fino a quel momento in un appartamento adibito ad «area manicomiale» anch’esso, a labirinto, prigione domestica avvolta nell’oscurità permanente: «Nella penombra costante dell’appartamento, gli unici punti di luce vengono da fuori. Questa specie di sepolcro è circondato da luce».20 Un giudice che però giudica male la sorella Marta, ritenendola una specie di “pazza”. E non si accorge della propria, di “pazzia”, non riuscendo a concepire una via d’uscita da questo stato mentale o dalla dimora in cui sembra essersi asserragliato: «Intravede, ma non la vita: di ciò è assolutamente incapace. Intuisce la propria fine e reagisce col fascismo manifesto.

E neanche pensa Ponticelli, per un solo attimo, di fare come la sorella. Infatti è convinto che Marta finirà male (“… la rovina economica, la degradazione sociale, le BR, l’eroina…”)».21 All’inizio il caso che gli viene assegnato riguarda emblematicamente proprio un suicidio dai contorni oscuri, quello di una donna, Nora Piatti. Ovviamente non capisce, non può. Eppure è un giudice, teniamolo sempre presente. Un giudice che evoca lo spettro delle Brigate rosse, diciamo pure “di sfuggita”, come mortificante, potenziale deriva della sorella giudicata, appunto, “insana” di mente. Intanto elabora un piano scellerato: servirsi di un uomo, forse responsabile del suicidio di cui si sta occupando. Un uomo, interpretato da Michele Placido, che di cognome fa Sciabola e di mestiere l’attore. Dunque perfetto perché sia nelle sue mani una duttile e ricattabile “arma recitante”: in pratica lo strumento del proprio oscuro desiderio di far sì che la “pazza” Marta si “suicidi”. Uno come Sciabola, «un dopo-‘68. Un arrabbiato già corrotto»,22 fa esattamente al caso suo. È colui che ha indotto già una donna, Nora, a togliersi la vita. Perciò non lo arresta, non ci sono gli estremi per un’imputazione formale. Ma Ponticelli, da giudice, ne ha la “certezza (im)morale”. Nel senso che pensa addirittura di approfittare del potenziale omicida di Sciabola, o, più correttamente, della sua capacità di (far) “suicidare” gli altri. Perciò lo ingaggia, cioè fa conoscere Sciabola a Marta. Desidera che questo pericoloso sconosciuto specialista in “suicidi” altrui faccia con lei, proprio perché presumibilmente “malata”, quello che ha già fatto con l’ex compagna Nora. Vediamo di capirci qualcosa. Senza necessariamente ricordare per l’ennesima volta il “suicidio” evocato nel falso comunicato brigatista del 18 aprile, è assodato ormai che il verbo “suicidare” – nel disilluso gergo giornalistico legato al clima cupo e infido della strategia della tensione in cui peraltro Bellocchio si è inserito con Sbatti il mostro in prima pagina – è divenuto, in accezione polemica o tristemente realistica, da riflessivo a transitivo. In breve, si sarebbe “suicidata” cadendo da una finestra, come l’anarchico Pinelli il 15 dicembre 1969, anche la Nora di Salto nel vuoto (omonima di Eleo[nora] Moro, l’inaugurale «carissima Noretta» delle lettere dalla prigione brigatista, adoperata come tramite della possibile allusione indiretta al “suicidio” di Aldo Moro). Può darsi che Hitchcock non sia l’autore più facile da accostare a Bellocchio, almeno sul fronte della suspense (di Buongiorno, notte egli stesso ha detto: «Non è comunque un film hitchcockiano, ecco»). 23 Ma è proprio dal repertorio di Hitchcock (di cui Bellocchio ha già letteralmente citato Psyco in I pugni in tasca, rendendone poi determinanti anche in Buongiorno, notte le dinamiche dello sguardo omicida, lo si è detto) che deriva il proposito di Ponticelli di affidare a Sciabola un lavoro sporco e compromettente: il “suicidio” di Marta. Per intenderci, come in Il delitto perfetto (Dial M for Murder 1954):

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Ponticelli: Non ci pensa mai alla morte? Io sì. Specialmente a quella degli altri. La vedo per immagini, e anche nei minimi dettagli, per abitudine. […] Far saltare qualcuno da una finestra è un delitto facile, tranquillo, non lascia tracce. […] E poi c’è uno che non scherza, che va fino in fondo: uno come lei. […] Perché uno come lei ha bisogno di vivere, di agire, non è un contemplativo come me. Io sono preparato a tutte le disgrazie, a qualsiasi imprevisto. Sono anni che immagino la morte di tutti quelli che conosco; anzi, più di una morte per ciascuno. Lei è tutto il contrario… Lei guarda la gente in faccia. Non ha sensi di colpa. Se deve passare sui cadaveri, ci passa. E poi non ha nessuna reputazione da difendere. […] Sciabola: No, scusi. Mi tolga una curiosità. Ma è così che si istruiscono i processi?

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Ponticelli: Io procedo sempre così. La prima intuizione non tradisce mai. E poi lei ha una carriera penale molto incoraggiante […]. Comunque… sì, sì, comunque sì, la invidio perché lei a un certo punto… a un certo punto è intervenuto nella realtà, scegliendo il momento, il tempo, sapendo aspettare e restando in agguato. Io non riesco, mi confondo… eh… vorrei ucciderla, ma cinque minuti dopo le compro i cioccolatini. Dovrebbe fare tutto da sola… un po’ troppo comodo. Bisogna correre qualche rischio, anche minimo. Darle almeno una piccola spinta… Sciabola: Ma lei mi ha fatto conoscere sua sorella perché vuole che io l’ammazzi? Ponticelli: Io non le ho chiesto assolutamente niente. È lei che si è offerto… e poi, mai sarei capace di fare una proposta simile. Vede, io… mi limito a immaginare…

Anche Ponticelli “immagina”, a suo modo. Gli farebbe comodo che questa perversa, violenta e delittuosa «immaginazione» fosse «reale», come quella invece salvifica e non-violenta di Passoscuro in Buongiorno, notte. È una fattispecie inquietante e storicamente determinata di “suicidio” quella che sta “immaginando” il protagonista di Salto nel vuoto: la prefigurazione di un atto concepito non soltanto come omicidio dissimulato, ma commissionabile, compiuto materialmente da terzi. Alla Hitchcock, senza mezzi termini. Con un giudice, se stesso, un esponente delle istituzioni, come mandante e come esecutore un potenziale sovversivo, un contestatore, attore di teatro. Ebbene, se si esce dal perimetro della finzione e ci si rituffa nel caso Moro, un vero assassino reo confesso c’è: Mario Borghi, nome di battaglia “Maurizio” (quasi come il Mauro di Salto nel vuoto), alias Mario Mo-

retti, che in Buongiorno, notte si chiama Mariano. Il leader brigatista, pur ammettendo in circostanze eccezionali l’omicidio “politico”, lo considera allo stesso tempo una cosa “inimmaginabile”. E si rammarica solo di non essere «neanche un attore». Appunto: «Una vicenda politica non ammette questi rimpianti. Io non ucciderei mai una persona. Io lo reputo una cosa… perlomeno, insomma, mi si creda o no, non mi interessa… cioè, voglio dire: non riesco ad immaginarlo, insomma. Però questa è stata la mia vita. Non posso averne un’altra. E purtroppo non sono neanche un attore». Questo stralcio dell’intervista che chiude la seconda delle tre puntate intitolate La tragedia di Aldo Moro del programma televisivo La notte della repubblica di Sergio Zavoli viene riproposto in Stessa rabbia, stessa primavera (2003) di Stefano Incerti, realizzato dalla Filmalbatros, cioè la casa di produzione di Bellocchio. Documentario che è anche un puntuale backstage di Buongiorno, notte, film sul cui contesto storico Bellocchio stesso si è «orientato leggendo, ricordando. Poi – con un salto nel vuoto [corsivo nostro], a rischio – ho seguito il mio istinto».24 E Salto nel vuoto – modo di dire o titolo specifico, non fa differenza – introduce in pieno 1980 un’idea complessa di “suicidio”, leggibile a vari livelli, che investe per estensione non solo linguistica, ma anche semantica e contestuale, la comunicazione, la ragione, la compartimentazione dei gruppi sociali, l’antipsichiatria, le utopie del movimento studentesco e i «sogni» del Sessantotto trasformatisi per alcuni in «deliri» e incubi terroristici, quindi l’ampia, indefinita e sommersa area della contiguità. Non c’è da sorprendersi se su questo film in particolare, di svolta, che per molti versi e analogie preannuncia ulteriori svolte successive, intervenga per la prima volta Fagioli, ai cui seminari di analisi collettiva da qualche anno Bellocchio ha cominciato a partecipare: C’è qualcosa di orrendo nella società legale e positivistica. E per questo qualcosa, per tenere sempre rimosso un pericolo terrorizzante, bisogna spendere tutte le energie per tenerlo rimosso, perché può sempre affiorare: la pazzia del fratello [del giudice, ndr]. La pazzia di alcuni fratelli (quanti?)… «i manicomi sono stati aperti… cioè chiusi…». Ma non c’è soltanto la pazzia del fratello.25

Senza ombra di dubbio il «salto» definitivamente spiccato «nel vuoto», cioè la scelta di prendere di petto il caso Moro in Buongiorno, notte, è stato un esperimento «a rischio». Anche a distanza di tempo, che in Italia non è mai troppa. Come la prudenza. Donde gli accorgimenti stilistici e immaginifici dei film di Bellocchio, in concomitanza con gli avvenimenti o in seguito a essi. Accorgimenti che riflettono quelli adoperati in tempo reale nel tipico, inconfondibile «linguaggio di Moro», di cui anche «Pasolini aveva

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parlato» (non solo Sciascia in L’affaire Moro). E lo aveva fatto «in articoli e note di linguistica (e si veda il libro Empirismo eretico)»,26 cioè la raccolta nella cui prima parte, tra l’altro, di Moro e della sua speciale lingua scritta e parlata si parla molto.27 E da cui, due anni dopo Salto nel vuoto, scaturisce il titolo del film Gli occhi, la bocca. Facciamoci caso. Nella seconda parte di Empirismo eretico dedicata alla nascente semiologia del cinema Pasolini contribuisce al dibattito anche con la nota poesia Res sunt nomina già pubblicata l’anno precedente:

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Ci fu, va bene, un essere che mai-sempre ieri-domani è. Esso non ha bisogno di nulla: non ama! L’amore non è che una piccola esigenza umana fuori di ogni realtà. Ordunque: l’essere è al di là di ogni essere. Ma veniamo al bivio dove la libertà è nata. C’è al mondo (!) una macchina che non per nulla si chiama da presa. Essa è il « Mangiarealtà», o l’«Occhio-Bocca», come volete. Non si limita a guardare Joaquim con suo padre e sua madre nella Favela. Lo guarda e lo riproduce. Lo parla per mezzo di lui stesso e dei suoi genitori. Nella riproduzione – su schermetti o schermi – io lo decifro (meticcio? portoghese? indio? olandese? negro?) come nella realtà. Non altri sono gli occhi, la bocca, gli zigomi, il mento, la pelle; risalgo alla sua provenienza dal Nord del Brasile e ai suoi avi… Voi mi capite. Egli sullo schermo o schermetto da laboratorio è linguaggio. S’io lo decifro come linguaggio in tal schermo o schermetto e se non altrimenti lo decifrai in quella realtà, giorno reale della fine di Marzo 1970 nella Favela sulla strada di Barra – Dunque il linguaggio del «Mangiarealtà» è un linguaggio fratello A quello della Realtà. Illusione, sì, illusione, qui e là: ché chi parla attraverso quel linguaggio è un Essere che c’è e non ama.28

Come si può notare, il settimo verso che descrive la «macchina [cinema]» come «Mangiarealtà» oppure «Occhio-Bocca», non soltanto si ricollega a un passaggio fondamentale di La lingua scritta della realtà («La lingua scritta è una convenzione che fissa tale lingua orale, o che sostituisce il canale bocca-orecchio col canale riproduzione grafica-occhio»),29 ma preannuncia letteralmente il bellocchiano Gli occhi, la bocca, che è appunto un film sul cinema, come il precedente, collettivo La macchina cinema.30 Motivo in più perché un simile dispositivo di vorace «riproduzione» (Paso-

lini) o «immaginazione» (Bellocchio) della «realtà» venga maneggiato con estrema cautela, specialmente se ad essere, all’occorrenza, “fagocitati” sono avvenimenti italiani particolarmente inestricabili e di lungo corso.

La corda sana Forse è per questo che il primo discreto, ma non meno deciso e allusivo passo nella direzione del caso Moro, Bellocchio lo compia solo nel 1984, con Enrico IV, il film successivo a Gli occhi, la bocca, indossando, dopo l’exploit di Il gabbiano, un’ulteriore, ineccepibile maschera teatrale: Uno dei limiti dell’Enrico IV è stato quello – ci ho riflettuto dopo – che era necessaria una ribellione al testo, e quindi al padre in un certo senso, ancora più accentuata, perché, pur avendo lì tagliato molto, sono rimaste alcune situazioni che avrebbero dovuto emanciparsi maggiormente dal teatro. Proprio perché è un’idea sbagliata quella del rispetto verso la bellezza del testo. È indubbio che la pièce di Pirandello sia molto bella, molto complessa, però mi ricordo che una serie di battute, di riferimenti storici o di riflessioni culturali avevano, hanno una loro potenza, ripeto, nel contesto di una rappresentazione teatrale mentre a livello cinematografico no. Per cui nell’Enrico IV è stata fatta un’operazione, in cui si sono aggiunte alcune situazioni nuove puramente cinematografiche, mentre altre scene del testo teatrale sono state sufficientemente trasformate. Col risultato di uno scompenso nel senso che le situazioni inventate qualche volta non sono all’altezza dell’originale. Nel Principe di Homburg non è stato aggiunto quasi nulla all’originale, eppure è stato fatto un lavoro cinematografico più interno al testo. E quindi con un risultato, credo, superiore all’Enrico IV.31

Nonostante l’insoddisfazione dell’autore, questa prima «operazione» di copertura in chiave pirandelliana ha un suo perché. Persino più di uno. Il film esce nel 1984. Il momento è propizio. I primi due processi Moro sono arrivati a sentenza nel gennaio dell’anno precedente. Sempre nel 1983, a giugno, la Commissione Moro termina i suoi lavori.32 Nell’agosto del 1984 viene intanto completata anche l’imponente istruttoria del giudice Priore per il terzo processo Moro.33 L’istinto protettivo/mimetico nella prima metà degli anni Ottanta sta, per così dire, lavorando a pieno regime per Bellocchio, che forse sottovaluta quella che in un simile, drammatico frangente è la sua eccessiva fedeltà a Pirandello. E che ci riporta automaticamente al discorso già affrontato da Sciascia sul valore aggiunto della copia (non) conforme foriera di ve-

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rità insospettabili, precognitive, attraverso il modello unico e insostituibile del racconto Pierre Ménard di Borges. Questo Enrico IV è fisiologicamente una replica dell’originale scenico, dove basta inforcare un moderno paio di occhiali da sole con lenti scure come fa il protagonista interpretato da un pacato, normale Marcello Mastroianni34 per evidenziare l’anacronismo del passato finto rispetto al presente oscuro, o del presente altrettanto finto al cospetto di un passato dai contorni oscuri. Perché l’Enrico IV da cui l’autore cinematografico prende le mosse è “originale” nella doppia, ambivalente accezione del termine (riconducibile a una “origine” pregressa, generatore di una nuova “origine”). Cosicché rispecchia in maniera provocatoria l’«inveterata e continua doppiezza» italiana, «vasto e inesauribile giuoco della doppia verità».35 Ma l’esigenza di una quasi invisibile differenziazione nella ripetizione, traduzione, dunque tradimento e reinterpretazione della tradizione, non è la sola idea guida cui obbedisce la neonata vocazione pirandelliana di Bellocchio, proseguita con L’uomo dal fiore in bocca (tratto, guarda caso, dall’omonimo atto unico intitolato in origine Caffè notturno e poi, definitivamente, La morte) e La balia. Come si è detto, Enrico IV offre l’imperdibile opportunità di (ri)mettere in scena e soprattutto in quadro un pazzo, quantunque finto, che costringe gli altri a fargli da comprimari e da comparse nell’illusione di assecondarlo. «Ma il giardino fa parte dell’area manicomiale?», chiede giustamente il barone Belcredi appena arrivato al castello/clinica. Bella domanda. È come chiedere fin dove si estende lo spazio della prigione psichiatrica. Il tema dell’estensione, o del numero degli spazi destinati alla detenzione dell’altro improbabile e più recente “pazzo”, vale a dire Moro, lo abbiamo abbastanza sviluppato. Resta semmai da comprendere la configurazione di questa parallela «area manicomiale» della primavera del 1978. Cioè se assomigli di più a una «prigione della prigione», piccola, claustrofobica, o a un più ampio e confortevole «giardino». O ancora se possa avere le prerogative di uno spazio creativo, performativo, ad esempio essere un «teatro» o qualcosa del genere: Il luogo terapeutico riconosciuto era in primo luogo la natura, poiché essa costituiva la forma visibile della verità; essa aveva in sé il potere di dissipare l’errore, di far svanire le chimere. Le cure che i medici ordinavano erano quindi il viaggio, il riposo, la passeggiata, il luogo appartato, il distacco netto col mondo artificioso e vacuo della città. Esquirol se ne rammenterà quando nel progettare un ospedale psichiatrico si raccomandava perché ogni cortile si aprisse ampiamente sulla vista di un giardino. L’altro luogo terapeutico utilizzato era il teatro, natura capovolta: si recitava al malato la commedia della propria follia, la si portava sulle scene, le si prestava un attimo di realtà fittizia, a forza di scenografie e travestimenti

la si presentava come vera ma in modo tale che l’errore, messo alle strette, finisse per balzare agli occhi perfino di colui che ne era la vittima. Neppure questa tecnica era del tutto scomparsa nel XIX secolo […].36

Certo è che un Pirandello su misura, per il quale «l’aver scansato l’ora di Freud è stato un bel colpo di fortuna»,37 fa al caso di Bellocchio, quindi al caso Moro. Sciascia in questo senso è il maggiore esegeta del caso Moro attraverso Pirandello. A proposito della lettera indirizzata al segretario della DC Benigno Zaccagnini, giunta ai giornali nel pomeriggio del 10 aprile, scrive infatti che «Moro comincia, pirandellianamente, a sciogliersi dalla forma, poiché tragicamente è entrato nella vita. Da personaggio a “uomo solo”, da “uomo solo” a creatura: i passaggi che Pirandello assegna all’unica possibile salvezza».38 Lo scrittore siciliano già in L’affaire Moro39 è fermamente convinto dell’insostenibilità della “pazzia” di Aldo Moro. Come Bellocchio, esplicitamente in Buongiorno, notte e implicitamente in Enrico IV. Di conseguenza non si contano le occasioni, da L’affaire Moro in poi, nelle quali Sciascia rincara la dose sottolineando l’«interesse [...] di buttarsi subito sulla devastazione psichica e morale», descrivendo «Moro [come colui che] ha sopportato questo senza impazzire», i «lettori [che] non potevano comprendere perché si dovesse giudicare “fuori di sé”, non in condizione di intendere e di volere, un uomo che non voleva morire e che si rivolgeva al proprio partito affinché lo riscattasse con mezzi che, per quanto elettoralisticamente rischiosi, non attingevano all’impossibile». Sciascia entra nel merito della lettera di Moro del 4 aprile sempre inviata a Zaccagnini che «non sembrava delirante».40 Parla della «lettera, che a noi dà fastidio quanto quella in cui gli amici di Aldo Moro dichiaravano di non riconoscerlo nelle lettere inviate dalla prigione delle Brigate rosse (e in effetti si tratta di operazioni, a rovescio, analoghe: a promuovere un riconoscimento, l’inconnu; un disconoscimento, gli amici di Moro, non poteva che alimentare l’inquietudine, l’angosciosa incertezza e l’ansioso desiderio di una nuova, più accurata e probante verifica)».41 Si delinea poco per volta il raddoppiamento coatto dell’involontario “personaggio” Moro: Io sono di quelli che credono che le lettere che Moro manda dalla sua prigione non siano di un altro Moro. E in ciò mi conforta l’atteggiamento della famiglia, giustamente irritata dal fatto che si voglia accreditare l’immagine di un Moro fuori di sé, plagiato, ridotto a chiedere quel che in condizioni diverse, in libertà e in sicurezza, non solo non chiederebbe ma si vergognerebbe di aver chiesto. Ma il fatto è che, una volta accettata la coerenza e la lucidità delle lettere che Moro manda dalla «prigione del popolo» bisogna fare un’operazione retroattiva e rivedere, alla luce dell’oggi, la coerenza e lucidità delle operazioni su cui poggiò la sua fortuna politica. Ed è appunto questa operazione che non si vuol fare.42

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Finché non si arriva all’immagine definitiva: «E abbiamo così, pirandellianamente, Aldo Moro uno e due».43 Immagine letteraria e teatrale perfezionata nella sua relazione di minoranza per la Commissione Moro. Qui, nel 1983, Sciascia definisce precisamente anche come, perché e quando (persino l’orario) sia stata “decisa” dall’alto l’ingenerosa scissione di Moro il 16 marzo 1978:

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Ma crediamo che l’impedimento più forte, la remora più vera, la turbativa più insidiosa sia venuta dalla decisione di non riconoscere nel Moro prigioniero delle Brigate rosse il Moro di grande accortezza politica, riflessivo, di ponderati giudizi e scelte, che si riconosceva (riconoscimento ormai quasi unanime: appunto perché come postumo, da necrologio) era stato fino alle 8.55 del 16 marzo. Da quel momento Moro non era più se stesso, era diventato un altro e se ne indicava la certificazione nelle lettere in cui chiedeva di essere riscattato, e soprattutto per il fatto che chiedeva di essere riscattato. Abbiamo usato la parola decisione: formalmente imprecisa ma sostanzialmente esatta. [...] Possiamo anche ammettere che gli effetti non furono a livello di coscienza e di consapevolezza – e insomma di malafede; ma non si può non riconoscere – e basta rivedere la stampa di quei giorni – che si era stabilita un’atmosfera, una temperie, uno stato d’animo per cui in ciascuno e in tutti (con delle sparute eccezioni) si insinuava l’occulta persuasione che il Moro di prima fosse come morto e che trovare vivo il Moro altro quasi equivalesse a trovarlo cadavere nel portabagagli di una Renault. Si parlò dapprima, a giustificare il contenuto delle sue lettere, di coercizioni, di maltrattamenti, di droghe; ma quando Moro cominciò liberamente a rivendicare la propria lucidità e libertà di spirito («tanta lucidità, almeno, quanta può averne chi è da quindici giorni in una situazione eccezionale, che non può avere qualcuno che lo consoli, che sa che cosa lo aspetti»), si passò a offrire compassionevolmente l’immagine di un Moro altro, di un Moro due, di un Moro non più se stesso: tanto da credersi lucido e libero mentre non lo era affatto. Il Moro due in effetti chiedeva fossero posti in essere, per salvare la propria vita, quegli stessi meccanismi che il Moro uno aveva, nelle sue responsabilità politiche e di governo, usati o approvati in deroga alle leggi dello Stato ma al fine di garantire tranquillità al paese [...]. Si preferì invece sminuire, invalidare e smentire i suoi argomenti da un punto di vista clinico invece che politico, relegandoli alla sua delirante condizione di prigioniero. Da ciò nessuna importanza conferita dagli investigatori alle sue lettere. [...] Non si è fatto alcun credito, insomma, alla intelligenza di Moro: da valutarla quanto meno superiore a quella dei suoi carcerieri. Si poteva venir

meno a posizioni di fermezza, continuare a dialogare con lui: sia pubblicamente – nell’opporre ragioni alle sue: che erano ragioni e non farneticazioni – sia segretamente cercando nelle sue lettere quei messaggi che era probabile e possibile nascondessero.44

Ci sarebbero dunque un Moro «uno», prima del rapimento, e «due», dopo il rapimento. Il secondo Moro è però ancora vivo, dunque non può essere beatificato come in L’ora di religione tocca alla madre defunta del protagonista (in un certo senso “divina” come l’impassibile, intimamente colpevole attrice di Bella addormentata). Il Moro “pazzo”, proprio perché vivo, e finché rimane vivo, non può diventare il monumento inerte di se stesso – onde poter essere risarcito, celebrato e commemorato come l’anziano autore finto suicida di Il regista di matrimoni. Il problema è che il Moro di prima non c’è più. E per quello di dopo non c’è posto45 nella «maggioranza deviante» di quei giorni. Ma quand’è insomma che il precedente Moro entra fatalmente nella delirante condizione successiva? Esattamente a che ora? 277

Accordare gli orologi scordati Se confrontiamo la relazione di Sciascia con l’Enrico IV di Bellocchio salta agli occhi l’ora in cui il Moro numero «uno», lasciando casa sua, diventa il Moro numero «due»: le 8.55. L’ora esatta del mattino in cui, secondo l’analisi sferzante dello scrittore siciliano, comincerebbe l’incredibile “pazzia” del presidente democristiano, nell’Enrico IV bellocchiano è la stessa, sebbene notturna, che troviamo segnata e mostrata insistentemente sull’orologio a muro, all’esterno del castello, rimasto fermo per vent’anni. Scelta molto accentuata, reiterata e perentoria che l’autore cinematografico compie in piena autonomia rispetto al testo teatrale pirandelliano, e riaffermata nell’unico suo film di ambientazione anche metaforicamente siciliana, Il regista di matrimoni. In Enrico IV sono varie le inquadrature che evidenziano l’ora segnata dalle lancette di quell’orologio, la stessa che resta scolpita nella memoria collettiva come punto tragico e irreversibile degli eventi storici legati al sequestro Moro. Come il protagonista “impazzito” del film di Bellocchio ereditato dal dramma di Pirandello, da quel preciso momento, da quell’ora fatale, le 8.55, si è voluto (far) credere che Moro avesse smesso di essere se stesso. Dunque segna le 8.55, per vent’anni, l’orologio in bella vista di Enrico IV, inquadrato a lungo ben otto volte. Tre sono le inquadrature in dettaglio leggermente oblique, in cui le lancette vengono riprese da destra; quattro sono quelle in campo lungo in cui la ripresa è ugualmente obliqua, una infine è quella, ancora in dettaglio, dove la ripresa

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è dal basso. Indicano tutte un orario abbastanza anomalo, incongruente, aperto. Dove in pratica la lancetta delle ore non si accorda completamente con quella dei minuti. I numeri romani sul quadrante sono sbiaditi, specialmente il IX e il X. Rispetto alla lancetta lunga dei minuti, ferma sull’XI, che segna inequivocabilmente 55, quella corta delle ore indica un punto leggermente più in alto del IX, indicando quindi le 9 appena trascorse. La lancetta delle ore è dunque al di sopra e non al di sotto del numero IX, ma è altresì troppo distante dal numero X. Non potrebbe in alcun modo segnare le 9.55. Insomma, le 8.55 e non le 9.55 sono l’unico orario possibile e coerente cui talvolta si avvicina, talaltra risulta inequivocabile, la disposizione delle lancette del vecchio orologio, anch’esso metodicamente impazzito. Le prime sette inquadrature suggeriscono questa lettura, mentre l’ottava, cioè l’unica dal basso, mostra palesemente la lancetta delle ore al di sotto del IX. A giudicare dall’evidenza, pur leggermente cangiante – forse per determinare nello spettatore un deliberato effetto di disorientamento temporale, logico e interpretativo, perfettamente in linea con la profonda incertezza che permea le pieghe dei passaggi chiave del caso Moro. Da nessuna delle otto inquadrature suddette, specialmente l’ottava, è dato comunque intendere un orario diverso dalle 8.55. Detto altrimenti, ossia ragionando al contrario, non c’è verso di leggere su quell’orologio molto bellocchiano le 9.55. In tal caso sarebbe la lancetta delle ore a risultare decisamente fuori posto. In conclusione, al netto della lieve e tuttavia significativa sfasatura tra le lancette – emblematica di quella visione diacronica che caratterizza l’approccio dell’autore al caso Moro – l’orario più “ragionevole” (affidato, lo ripetiamo, più alle inquadrature in dettaglio, specialmente quella finale dal basso) risulta senza ombra di dubbio quello delle 8.55. Abbiamo insistito nel descrivere e contemperare ogni dubbio riguardo all’orario più accettabile indicato in questa serie di inquadrature di Enrico IV non solo per dimostrarne l’attinenza con la “pazzia” ufficiale di Aldo Moro, così come ironicamente è stata cronometrata da Sciascia. Ma anche per fare comprendere come questo elemento supplementare rispetto al testo di Pirandello non sia affatto casuale, insensato, gratuito. Un conto è aggiungere qualcosa, un altro è sottolineare questo qualcosa in modo concordante, coordinato e continuativo. Se fosse stata appena una licenza creativa del film, diciamo pure una piccola e innocua “follia” priva di valore, difficilmente l’autore avrebbe fatto di tutto per renderla così particolare, eccentrica, degna di nota. Continuiamo. Il malfunzionamento “a orologeria” del dispositivo e dello stato mentale del protagonista dovrebbe concludersi allorché vengono riportate le lancette in avanti, vorticosamente verso il presente, secondo uno scorrere del tempo al quale il protagonista ha fino ad allora soltanto finto di sottrarsi. Quelle lancette, già poco in armonia cronologica tra di

loro (quanto basta comunque per non nascondere completamente l’orario che crediamo si volesse far leggere) non possono restituire la ragione al presunto “pazzo”. Proprio perché egli tale non è, né è mai stato. Non poteva essere più demenziale e controproducente di così la messa in scena orchestrata dallo psichiatra interpretato dal felliniano Leopoldo Trieste, singolare “medico dei pazzi”. Il quale, ovviamente, teme i suoi potenziali pazienti, specie se “armati”: Psichiatra: Non sarà mica armato? Belcredi: Dottore, fa lo psichiatra e ha paura dei pazzi? Psichiatra: Per questo faccio lo psichiatra.

L’orologio, rimesso in funzione e restituito allo scorrere in senso orario del tempo cronologico della storia e del tempo mentale del protagonista, potrebbe suggerire persino altro, senza vanificare quanto già detto: che quel singolare orario immobile, a riprova di un tempo scolpito storicamente, su cui si concentra espressamente Enrico IV, segnerebbe con il suo margine di errore, la sua lieve sfasatura, anche un intorno temporale, dalle 8.55 alle 9.10, all’incirca.46 Ma soprattutto un preciso numero di giorni: la sola lancetta dei minuti segnerebbe i cinquantacinque, indelebili giorni del sequestro. Di sicuro c’è che gli orologi, a partire da Enrico IV, diventano una presenza costante nei film di Bellocchio.47 In Il regista di matrimoni, lo abbiamo accennato, gli orologi raggiungono addirittura livelli ossessivi. Una delle scene più appariscenti è quella in cui Franco Elica scopre in una stanza della dimora principesca una serie di orologi, daccapo tutti fermi. Ci sono circa venti inquadrature che a turno ce li mostrano ora assieme, ora singolarmente. Ora con i quadranti ripresi per intero, ora stringendo sempre di più sul dettaglio dei numeri e delle lancette. Alcuni orologi, e rispettivi orari (esattamente cinque) vengono mostrati appena una volta. Facile in tal caso notare gli orologi, difficile memorizzarne gli orari segnati. Ce ne sono poi due mostrati solo due volte per i quali vale lo stesso discorso. Infine altri due mostrati cinque volte ciascuno, con inquadrature che s stavolta rendono man mano più visibili i rispettivi orari: le 8.50 uno, le 5.20 l’altro. Nel primo caso siamo pressoché di fronte a un’esplicita ripetizione dell’orario chiave di Enrico IV. Nel secondo le ipotesi potrebbero essere diverse. Una l’abbiamo già ventilata nel corso del libro, a proposito di L’ora di religione, parlando dell’attentato virtuale al Vittoriano (l’orario serale, le 17.20, sarebbe quello dell’attentato non immaginario al monumento avvenuto il 12 dicembre 1969). La seconda, più consona alla vicenda di Moro, riguarderebbe l’inizio della fine

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del sequestro, ancora siglato inevitabilmente dal sangue, come nella tauromachia di Impressions d’un Italien sur la corrida in France o nell’immagine dei bovini al mattatoio in La storia vera della signora delle camelie (1981) di Mauro Bolognini, il film con Isabelle Huppert, la “divina” madre/attrice, intravisto in Bella addormentata. Secondo la Braghetti, l’omicidio del prigioniero sarebbe stato compiuto alle prime ore dell’alba del 9 maggio 1978. La brigatista parla all’incirca delle 6. Bellocchio potrebbe averne tenuto conto in maniera vaga, a prescindere dall’attendibilità dell’intero resoconto.48 In questo modo il secondo orologio di Il regista di matrimoni potrebbe perciò indicare approssimativamente anche quest’altro orario storicamente rilevante, benché controverso, che chiuderebbe la dolorosa parabola del prigioniero Aldo Moro. Senza impelagarci in un vicolo cieco, anzi prediligendo di gran lunga la prassi del «senso ottuso»49 al determinismo univoco, quindi relativizzando ogni risultato interpretativo pur soddisfacente, diciamo solo che anche in Il regista di matrimoni ci sono troppi orologi in giro per passare inosservati o restare confinati nel limbo dell’insignificanza. Troppo senso viene insomma enunciato attraverso dispositivi, oltretutto così costipati e invadenti in questo film immediatamente successivo a Buongiorno, notte per escluderli completamente da un orizzonte dove «l’immaginazione» si riconferma «reale». Specie quando l’oggetto reale prevalente, ancorché criptico, inaccessibile e latente in larga parte della filmografia di Bellocchio, a partire dal 1978, è il caso Moro. Dove è possibile di tutto a livello temporale, persino che la notizia del rapimento venga data “in diretta” da Renzo Rossellini, il figlio di Roberto Rossellini, sull’emittente di estrema sinistra Radio Città Futura che Bellocchio esplicitamente annota nella sceneggiatura originale di Buongiorno, notte in una scena, peraltro poi mai girata, in farmacia.50 Sempre in tema di incongruenze temporali, chiamiamole così, rispetto alla cronologia ufficiale, ci sarebbe poi da annotare l’inserto televisivo dell’elicottero che l’autore inserisce mentre Chiara aspetta di sapere se l’agguato e il rapimento sono andati a “buon” fine: In questo punto, molto rossellinianamente, al montaggio mi sembrava che l’idea di guardare con gli occhi di Chiara potesse essere potenziata inserendo non tanto un elicottero girato da noi, quanto utilizzando un frammento televisivo dell’epoca con un elicottero. Per cui in qualche modo il corpo dell’immagine può essere riferito alla tv accesa.51

Un dettaglio di routine? Una semplice inquadratura di raccordo, un inserto che aiuta a risolvere un comune problema pratico di montaggio? Forse l’elicottero che vediamo in Buongiorno, notte suggerisce qualcosa di più. Tale incongruenza temporale, assoggettata alla logica intermediale che regge le fila del discorso insinua ancora una circostanza mai chiarita rela-

tiva proprio alla presenza di questo velivolo che avrebbe sorvolato la zona di Monte Mario e «poco dopo le nove»52 persino quella di via Montalcini, come ricorda anche la Braghetti. In pratica questo avverrebbe mentre l’azione di via Fani è in corso o si è appena conclusa. Un po’ troppo presto. Dunque da dove arriva il misterioso elicottero, ammesso che fosse uno solo, avvistato da più testimoni, cui fa riferimento a suo modo anche Mino Pecorelli, che si sarebbe alzato in volo per trovarsi almeno su due posti chiave dell’intricata mattinata del 16 marzo 1978 con così largo anticipo? Altro che orologi. Poniamola in questi termini: nel caso Moro è l’intero asse cronologico a essere spesso “disfunzionante”. Ecco perché alla fine di Il regista di matrimoni, con fare quasi liberatorio, il servitore del principe ridà la corda a tutti gli orologi fermi, consentendo alla vicenda pseudomanzoniana di avviarsi alla conclusione. E magari all’autore di liberarsi di quei fantasmi collettivi morotei sparpagliati ovunque nella sua filmografia e che gli stanno molto a cuore. Preziosa opportunità di cui approfittiamo volentieri anche noi. Poiché con quest’ultima divagazione sugli orologi di Enrico IV e Il regista di matrimoni è giunto il momento di concludere il libro. Va da sé, senza la pretesa di aver esaurito davvero tutti gli spunti che i film di Bellocchio offrono allo spettatore che accetti e non sottovaluti la sfida dell’analisi del testo. Analisi finalizzata in primo luogo a costruire un percorso di ricerca che non poteva che procedere in assoluta autonomia, anche o forse soprattutto rispetto all’eventuale consenso dell’autore stesso. Diversamente, non sarebbe un’analisi ma un commento, un resoconto più o meno strutturato delle intenzioni dichiarate di chi i film li ha immaginati, scritti e materialmente realizzati. L’analisi dei film di Bellocchio, così come l’abbiamo voluta proporre e sviluppare, non avulsa dal mondo, intrecciandosi di necessità all’analisi di uno specifico e debordante avvenimento di portata storica non soltanto nazionale, dovrebbe poter godere di un’apertura di vedute assoluta, gravata e supportata semmai da una responsabilità nell’argomentare altrettanto assoluta. Ove un simile progetto cercasse il conforto costante, diciamo pure l’autorizzazione dell’autore di cui si è esaminata l’opera alla luce di un singolo evento di enorme entità storico-politica, l’istanza di piena libertà intellettuale ad esso sottesa verrebbe compromessa. Un’analisi condotta con il benestare di chi ha realizzato gli oggetti da analizzare sarebbe pressoché inutile. Sotto certi aspetti l’autore non è il solo e più consapevole proprietario dell’orizzonte culturale e semantico dei discorsi sociali, storici e politici che le proprie opere attivano e mettono in circolo o riflettono. Alla luce di quanto affermato in questo libro è importante quantomeno aver preso atto di come nel caso Moro/Bellocchio agisca in luce o al buio un «inconscio sano».53 Questa, se non altro, è l’unica convinzione che ha reso possibile e ci auguriamo anche un minimo divertente il lavoro fin qui svolto.

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Note

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1 G. Galli, Piombo rosso, cit., p. 126. 2 M. Bellocchio, in F. Ventura, Il cinema e il caso Moro, cit., p. 168. 3 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 117. L’autore sempre in questa nota scrive di voler riproporre anche «la famosa telefonata dei brigatisti al professor Tritto» già adoperata in Sogni infranti e La religione della storia. 4 P. Ortoleva, Mediatoria. Comunicazione e cambiamento sociale nel mondo contemporaneo, Pratiche, Parma 1995; Milano 1997, p. 154. 5 M. Bellocchio, commento al film, in Buongiorno notte, dvd, cit. 6 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 115. 7 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 59. 8 J. Lacan, Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicanalisi, in Scritti, vol. I, cit., p. 254. 9 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 31. 10 Ivi, p. 34. 11 F. Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, cit., pp. 190-191. Per completezza d’informazione precisiamo che nel brano riportato sono state eliminate le note dell’autore corrispondenti alle mail ricevute a gennaio del 2013 dal fittizio “Oscar Puddu”. L’unico taglio effettuato da parte nostra si è scelto di contrassegnarlo come di consueto con i tre puntini tra parentesi quadre, mentre il taglio compiuto da Imposimato si è scelto di differenziarlo adoperando le parentesi tonde. L’ex colonnello dei carabinieri Pietro Musumeci, vicecapo del SISMI, membro del Comitato di crisi presso il Viminale, è risultato iscritto alla loggia P2. La caserma “Forte Braschi” è il centro operativo dell’intelligence militare nazionale. Per la notizia dell’accusa di calunnia a Ladu cfr., tra gli altri articoli apparsi negli stessi giorni, quello redazionale, “Non vollero salvare Moro”. Indagato per calunnia ex finanziere, 5 novembre 2013, su www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/05/non-vollero-salvare-moro-indagato-per-calunnia-ex-finanziere/766991, ultima consultazione 23 marzo 2014, e quello di I. Cimarrusti, Caso Moro, perquisizioni a Roma. In corso le verifiche dei Ros su Giovanni Ladu, ex sottufficiale della Gdf, indagato per calunnia, 6 novembre 2013, www.ilsole24ore. com/art/notizie/2013-11-05/caso-moro-perquisizioni-roma-corso-verifiche-rosgiovanni-ladu-ex-sottufficiale-gdf-indagato-calunnia. 12 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 34. 13 Ivi, pp. 46, 55. 14 Cfr. le voci Pietro Lalli e Tex Willer, in S. Grassi, Il caso Moro, cit., pp. 380, 710-711; R. Bianco, M. Castronovo, Via Fani ore 9.02. 34 testimoni oculari raccontano l’agguato ad Aldo Moro, Nutrimenti, Roma 2010, pp. 58-60. 15 A. Franceschini, La borsa del presidente, cit., pp. 25-26, 39, 84.

16 F. Imposimato, I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia, cit., nota 232, p. 200. 17 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 58. 18 L. Sciascia, Nero su nero, cit., pp. 224-225, 228-229, 231. 19 Ivi, p. 15. 20 M. Bellocchio, Salto nel vuoto, cit., p. 139. 21 Ivi, pp. 140-141. 22 Ivi, p. 140. 23 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 51. 24 M. Bellocchio, Il coraggio di andare oltre la storia, «Repubblica», 15 settembre 2003. 25 M. Fagioli, Una storia una ricerca un film, cit., p. 33. 26 L. Sciascia, L’affaire Moro, cit., p. 15. 27 Cfr. P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972; 2000, pp. 17-18, 34, 45, 47-48. 28 Cfr. P. P. Pasolini, La «gag» in Chaplin come metafora dell’azione come linguaggio, «Bianco e Nero», n. 3/4, marzo-aprile 1971, poi in Id., Empirismo eretico, cit., p. 257. 29 P. P. Pasolini, La lingua scritta della realtà, in Id., Empirismo eretico, cit., p. 205. 30 Sandro Petraglia, coautore di La macchina cinema, che un anno prima con Stefano Rulli aveva anche collaborato alla sceneggiatura di Il gabbiano, scrive una delle prime monografie su Pasolini regista cinematografico, sottolineando il discorso sulla «macchina» cinematografica: «La prima necessità sarà quella di “far sentire la macchina”, cioè rendere visibile l’operazione tecnica che genera l’immagine e la allontana dalla piattezza della rappresentazione usuale». Petraglia conclude inoltre il breve capitolo Teoria riportando integralmente la suddetta poesia Res sunt nomina in cui tale «macchina» viene ribattezzata «Occhio-Bocca». Cfr. S. Petraglia, Pasolini, La Nuova Italia, Firenze 1974, pp. 75, 78-79. 31 M. Bellocchio, Da Čechov a Kleist. Una conversazione con Marco Bellocchio di Giovanni Spagnoletti, in M. Bellocchio, Il principe di Homburg, Baldini & Castoldi, Milano 1997, pp. 165-166. 32 Cfr. R. Drake, Il caso Aldo Moro, cit., pp. 55-149. 33 Ivi, p. 153. 34 In M. Bellocchio, intervista a cura di C. Biarese (11 aprile 1984), «Immagine & Pubblico», n. 2, aprile-giugno 1984, si legge: «Mastroianni esprime la sua grandezza soprattutto nella “discrezione”. Ha una bellissima voce, può parlare splendidamente sottovoce senza bisogno di alzarla o di impostarla. Mi è sembrato quindi che potesse rappresentare la follia in maniera molto originale […]: una follia apparentemente tranquilla, con tre o quattro momenti urlati, che non sono però i più folli. Attraverso un’apparente assenza di giuoco, in realtà una recitazione calibratissima, coglie l’Imperatore nel suo tran-tran quotidiano».

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35 L. Sciascia, Nero su nero, cit., p. 14. 36 M. Foucault, La casa della follia, in F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro (a cura di), Crimini di pace. Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione, Einaudi, Torino 1975, p. 160. 37 L. Sciascia, Alfabeto pirandelliano, Adelphi, Milano 1989, poi in C. Ambroise (a cura di), Opere 1984-1989, Bompiani, Milano 2002, p. 492. 38 L. Sciascia, L’affaire Moro, cit., pp. 72-73. 39 Si legge in L. Sciascia, «Ho fatto quello che ho potuto». 25 maggio 1983, in L. Palazzolo (a cura di), Leonardo Sciascia, deputato radicale 1979-1983, cit., p. 247: «Io sono stato in Parlamento portato da un libro. Praticamente, se non avessi scritto L’affaire Moro non sarei venuto al Parlamento. Ora ci sono stato, ho fatto parte della Commissione Moro, ho trovato che tutto quello che avevo scritto sull’affaire Moro era esatto, vero, oltre ad essere giusto. Non ho mai dubitato che fosse giusto». 40 L. Sciascia, L’affaire Moro, cit., pp. 49, 53, 58. 41 L. Sciascia, Il teatro della memoria, Einaudi, Torino 1981, p. 12. 42 L. Sciascia, Nero su nero, cit., p. 194. 43 L. Sciascia, Prefazione a M. F. Moro, La casa dei cento natali, Rizzoli, Milano 1982, p. 6. 44 L. Sciascia, in L. Palazzolo (a cura di), Leonardo Sciascia deputato radicale, 1979-1983, cit., pp. 135-138. 45 Cfr. F. Basaglia, F. Basaglia Ongaro, La maggioranza deviante. L’ideologia del controllo sociale totale, Einaudi, Torino 1971. 46 Alle 9.10 dalla Sala operativa della Questura di Roma viene diramato a tutte le volanti il messaggio relativo alle automobili in fuga dopo il sequestro. Cfr. S. Flamigni, La tela del ragno, ed. 1988, cit., p. 12. 47 All’elenco degli orologi che ipotecano la struttura dei film bellocchiani naturalmente non può mancare quello con cui a sfidare direttamente Dio è il giovane Benito Mussolini in Vincere. Ma senza contare tutte le circostanze in cui il fattore temporale diventa centrale nel racconto, vale la pena di far notare che anche in un film para-bellocchiano, vale a dire il documentario diretto da Lourenco De Almeida su Bella addormentata, gli orologi costituiscono un elemento fisso, maniacale della spoglia scenografia alle spalle degli intervistati. Cfr. Making of, in Bella addormentata, dvd, 01 Home Video, Roma 2013. 48 Cfr. A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., pp. 183-185. 49 Cfr. R. Barthes, L’Obvie et l’Obtus. Essais critiques III, Éditions du Seuil, Parigi 1982 (tr. it. L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino 1985). 50 M. Bellocchio, “Buongiorno, notte”, cit., p. 32. Sull’episodio reale cfr. invece il paragrafo L’annuncio in diretta di M. Scarano, Il mandarino è marcio. Terrorismo e cospirazione nel caso Moro, Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 104-107. 51 M. Bellocchio, Il teatro dei reali possibili, in L. Bandirali, S. D’Amadio (a cura di), Buongiorno, notte, cit., p. 35.

52 A. L. Braghetti, P. Tavella, Il prigioniero, cit., p. 7. Cfr. inoltre R. Di Giovacchino, Il libro nero della prima Repubblica, cit., p. 149 e soprattutto il paragrafo Un elicottero in volo di R. Bianco, M. Castronovo, Via Fani ore 9.02, cit., pp. 126-129. 53 G. Cavaggioni, Ipotesi di un rapporto: Bellocchio e l’analisi collettiva, in A. Aprà (a cura di), Marco Bellocchio, cit., p. 42.

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Indice dei film

A Addio del passato 30, 71, 140, 158 Amarcord 65 Amore e rabbia 226 A qualcuno piace caldo 245 Avventure straordinarissime di Saturnino Farandola, Le 136, 186

B Balia, La 25, 28, 61, 72, 75, 140, 141, 145, 155, 214, 216, 217, 218, 220, 222, 223, 251, 272, 286 Bella addormentata 25, 26, 27, 31, 75, 145, 155, 158, 187, 217, 218, 219, 220, 246, 260, 262, 275, 278, 282 Bellissima 224 Buongiorno, notte 7, 8, 25, 28, 30, 31, 32, 33, 34, 35, 38, 40, 41, 42, 43, 48, 59, 60, 62, 63, 64, 65, 70, 71, 73, 75, 76, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 85, 86, 88, 90, 91, 93, 95, 96, 98, 99, 101, 102, 104, 106, 107, 108, 109, 111, 113, 117, 118, 119, 120, 121, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 131, 132, 133, 134, 135, 136, 138, 139, 141, 143, 144, 145, 146, 149, 150, 151, 152, 154, 155, 157, 158, 159, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 172, 174, 175, 176, 178, 179, 180, 181, 182, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 198, 199, 200, 201, 202, 204, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 213, 215, 216, 217, 218, 221, 223, 225, 226, 227, 228, 229, 233, 234, 235, 238, 241, 247, 248, 249, 250, 251, 252, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 263, 265, 267, 268, 269, 273, 278, 280, 281, 282, 285, 286

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C Cielo della luna, Il 120, 204, 254 Città delle donne, La 41 Commare secca, La 70 Condanna, La 38, 78, 90, 105, 140, 286 Corazzata Potëmkin, La 99

D Delitto perfetto, Il 267 Diavolo in corpo 29, 30, 31, 33, 38, 61, 64, 101, 120, 140, 141, 144, 145, 152, 155, 157, 160, 164, 170, 176, 183, 187, 200, 201, 204, 205, 218, 222, 223, 229, 233, 234, 244, 246, 250, 252, 264, 286 Dolce vita, La 188 Donna d’ombra 246 Due vite di Mattia Pascal, Le 174 300

E Enrico IV 15, 26, 29, 36, 60, 61, 72, 73, 75, 78, 83, 93, 95, 108, 120, 130, 155, 157, 159, 164, 173, 175, 204, 215, 271, 272, 273, 275, 276, 277, 279 Enrico IV (1943) 94 Esorcista, L’ 218 Eyes Wide Shut 124

F Film d’amore e d’anarchia 243

G Gabbiano, Il 30, 140, 141, 145, 155, 156, 157, 174, 182, 220, 222, 271, 281 Giulietta degli spiriti 41, 56

I Identificazione di una donna 120, 136, 137, 138, 146 Intrigo internazionale 96, 164 Italia: ultimo atto? 264

K Kaos 174

L Ladri di biciclette 41 La luna 71, 120, 202, 203, 204, 228, 250

M Macchina cinema, La 30, 31, 32, 39, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 47, 50, 54, 56, 58, 59, 60, 61, 63, 64, 65, 69, 72, 73, 75, 76, 80, 81, 175, 180, 183, 227, 270, 281 Marnie 105, 169 Matti da slegare 45, 55, 72, 75, 80, 81, 227 M. Butterfly 245 Mona Lisa 245

N Nel nome del padre 29, 32, 69, 70, 77, 78, 85, 89, 90, 126, 127, 129, 141, 145, 154, 157, 158, 159, 169, 170, 182, 183, 222, 290, 293 Nostra signora dei Turchi 68, 69, 89, 294 Novecento 202

O Occhi, la bocca, Gli 29, 30, 31, 70, 72, 75, 141, 158, 174, 183, 184, 233, 270, 271 Ora di religione, L’ 30, 33, 61, 79, 119, 139, 140, 144, 145, 163, 168, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 225, 227, 247, 275, 277 Ottobre 62

P Paisà 62, 102, 107, 112 Popolo calabrese ha rialzato la testa, Il 132 Preferisco l’ascensore 123 Prima della rivoluzione 70 Prova d’orchestra 41 Psyco 96, 102, 164, 169, 267

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Pugni in tasca, I 30, 31, 35, 37, 39, 40, 62, 69, 70, 86, 90, 96, 120, 140, 141, 144, 145, 150, 158, 159, 164, 169, 183, 184, 196, 226, 267, 288

R Regista di matrimoni, Il 30, 31, 32, 33, 38, 46, 47, 60, 61, 62, 63, 65, 68, 71, 72, 75, 88, 89, 99, 101, 127, 128, 135, 140, 155, 183, 192, 206, 210, 214, 216, 219, 220, 222, 231, 232, 233, 234, 246, 251, 253, 255, 275, 277, 278, 279, 286 Religione della storia, La 39, 77, 130, 132, 141, 185, 280

S

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Salto nel vuoto 78, 108, 109, 139, 141, 145, 152, 166, 183, 203, 220, 250, 251, 266, 267, 268, 269, 270, 281, 286, 289 Sbatti il mostro in prima pagina 141, 170, 227, 267 Sciopèn 243 Sogni infranti. Ragionamenti e deliri 39, 47, 54, 60, 61, 64, 77, 104, 106, 126, 131, 132, 185, 187, 227, 280 Sogno della farfalla, Il 113, 115, 117, 140, 155, 166, 218, 222, 229, 252, 290 Sorelle 140, 141, 144, 145, 155, 157, 158 Sorelle Mai 72, 140, 144, 145, 155, 157, 158, 204, 205 Stessa rabbia, stessa primavera 269 Storia vera della signora delle camelie, La 278

T Teatro di guerra 246 Teresa la ladra 242 Todo modo 64, 65, 125, 205, 305 Tragedia di un uomo ridicolo, La 202 Tre canti su Lenin 62, 102, 107, 112

U Uccelli, Gli 96 Uomo dal fiore in bocca, L’ 72, 75, 105, 272

V Vacanze in Val Trebbia 30, 39, 185, 186, 227 Villaggio dei dannati, Il 218

Vincere 26, 31, 32, 62, 68, 73, 75, 96, 127, 128, 133, 136, 140, 155, 186, 197, 210, 214, 223, 233, 246, 282 Visione del sabba, La 30, 38, 47, 131, 133, 191, 197, 200, 210, 214, 215, 216, 218, 219, 220, 221, 222, 224, 225, 226, 229, 234, 235, 238, 246, 249, 252, 257, 261 Viva il 1° maggio rosso proletario 132 Voce della luna, La 120

Z Zabriskie Point 120

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Indice dei nomi



A Agosti, Silvano 39, 46, 54, 76, 80, 81, 86 Alighieri, Dante 15, 115, 229, 285 Altobelli, ingegnere (vedi Maccari, Germano) 101, 104, 144, 145 Alunni, Corrado 188, 248 Andreotti, Giulio 134, 148, 173, 174, 215, 234 Angela, Piero 42, 43, 86, 285 Anselmi, Tina 58, 98, 119, 134, 215 Antonioni, Michelangelo 120, 136, 137, 138 Azzolini, Lauro 148

B Baldassarri, Mario 44, 45, 52 Balzerani, Barbara 50, 120, 126, 152, 154, 166, 169, 182, 190, 204, 214, 216, 218, 242, 243, 248, 252, 285 Bartoli, Pietro 45, 47, 55, 72 Bellisario, Augusto 43 Bellocchio, Letizia 158 Bellocchio, Maria Luisa 158 Bellocchio, Piergiorgio 145, 157, 172, 219, 262 Berlusconi, Silvio 44 Bernhard, Ernst 41, 86, 287 Bertolucci, Bernardo 18, 69, 70, 71, 89, 90, 120, 125, 138, 139, 163, 202, 203, 204, 225, 228, 250, 286, 287, 294

305

306

Bevilacqua, Ugo 245 Bolognini, Mauro 157, 278 Bonisoli, Franco 148, 149 Borges, Jorge Luis 21, 171, 173, 174, 181, 184, 193, 272 Borghi, Mario (vedi Moretti, Mario) 9, 10, 50, 84, 101, 103, 104, 120, 126, 127, 129, 131, 138, 146, 147, 148, 152, 161, 162, 194, 197, 199, 248, 268, 290 Braghetti, Anna Laura 8, 78, 82, 91, 100, 103, 104, 108, 119, 126, 129, 138, 144, 145, 146, 149, 150, 151, 152, 157, 159, 160, 161, 167, 168, 169, 170, 178, 182, 190, 197, 198, 199, 206, 207, 209, 214, 224, 241, 248, 249, 251, 259, 264, 278, 279, 282, 283, 287 Brandirali, Aldo 132 Brooks, Louise 136 Buonaiuto, Anna (vedi Bonaiuto, Anna) 9, 242, 243, 244, 245, 246, 254, 255 Burinato, Gisella 108, 141, 145 Buzzati, Dino 41, 42, 43, 86, 287 Buzzati, Roberto 103, 165

C Camerini, Mario 66, 157 Camilli, Fabio 165 Caridi, Francesco 103, 165, 288 Carrà, Raffaella 134, 217 Cassia, Enrico 244 Castaldo, Sergio 183 Castellitto, Sergio 139, 140, 168, 184 Cavazzoni, Ermanno 120, 166, 288 Cecconi, Osvaldo 224, 225, 252 Cecconi, Settimio 224, 225, 242 Čechov, Anton 15, 44, 155, 157, 281 Ceselli, Daniela 217, 251 Clò, Alberto 43, 44, 45, 52, 56, 87, 88, 213, 214, 251 Corallo, Salvatore 55, 88 Cossiga, Francesco 8, 43, 49, 50, 82, 86, 91, 121, 133, 147, 167, 185, 206, 210, 211, 215, 224, 250, 257 Crivelli, Carlo 96 Croiset, Gérard 43 Cronenberg, David 245 Curcio, Renato 148, 241

D Dalla Chiesa, Carlo Alberto 200 D’Annunzio, Gabriele 223 D’Anza, Daniele 134 De Bonis, Tony 45, 55, 82 De Cosa, Raffaele 224, 225, 238, 242, 244 De Gasperi, Alcide 89, 149 Deleuze, Gilles 16, 20, 90, 165, 168, 169, 173, 184, 192, 193, 247, 248, 249, 289, 293 De Sica, Vittorio 41 Dickinson, Emily 152, 153, 157, 169, 176, 179, 180, 181, 183, 218, 289 Di Donato, Pietro 185, 241, 242, 248, 254, 265, 289 Di Matteo, Giovanni 160, 170 Dini, Lamberto 44 Di Nola, Laura 224, 225, 238, 242, 244, 245, 252 Di Palma, Carlo 243 Dumas, Alexandre 157

E Ėjzenštejn, Sergej Michailovič 62 Englaro, Beppe 31 Englaro, Eluana 8, 25, 28, 31, 75, 260 Enrico IV di Borbone 164 Eschilo 145, 157

F Fabre, Marcel 136 Faccini, Luigi 246, 255 Fagioli, Massimo 15, 27, 29, 34, 85, 90, 105, 108, 109, 113, 117, 120, 139, 141, 142, 143, 144, 152, 157, 166, 203, 204, 205, 217, 218, 220, 221, 235, 246, 250, 251, 254, 269, 281, 286, 289, 290 Faranda, Adriana 126, 136, 137, 138, 144, 146, 150, 152, 160, 167, 168, 170, 182, 186, 190, 214, 285, 292 Fellini, Federico 39, 41, 45, 56, 81, 86, 120, 133, 138, 188 Fenzi, Enrico 131 Ferreira, Pedro 165 Filmalbatros 269 Flamigni, Sergio 9, 14, 45, 50, 51, 52, 54, 55, 78, 83, 84, 86, 87, 88, 90, 91, 106, 119, 147, 165, 166, 167, 168, 169, 170, 248, 249, 250, 253, 254, 255, 282, 287, 290

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Foa, Vittorio 131 Fofi, Goffredo 89, 169, 170, 290 Franceschini, Alberto 147, 148, 251, 253, 265, 280, 291 Franchini, Antonio 242, 244 Francola, Annunziata (Nunzia) 224, 252 Friedkin, William 218

G

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Galli, Giorgio 7, 103, 165, 173, 174, 232, 233, 247, 248, 253, 280, 291 Gallinari, Prospero 101, 104, 206, 207, 248, 264 Gallucci, Achille 188, 200, 238 Gelli, Licio 119 Germi, Pietro 41 Giacobini, Valerio 189, 224, 225 Gide, André 93 Gidoni, Massimo 131, 187 Gobbo, Fabio 44, 45, 52 Gravina, Carla 134 Guerzoni, Corrado 197

H Herlitzka, Roberto 107, 108, 217 Hitchcock, Alfred 85, 96, 105, 164, 165, 267, 268, 295 Huppert, Isabelle 278

I Imposimato, Ferdinando 84, 88, 91, 166, 167, 199, 249, 262, 264, 265, 280, 281, 291 Incerti, Stefano 269

J Jensen, Wihlelm 139, 168, 291 Jordan, Neil 245

K Kleist, Heinrich von 113, 117, 155, 157, 281 Kubrick, Stanley 124 Kulešov, Lev Vladimirovič 101

L Lacan, Jacques 13, 14, 33, 85, 90, 169, 280, 291 La Pira, Giorgio 45, 46, 73, 80, 149 Leoncavallo, Ruggero 44, 73, 157 Leopardi, Giacomo 157, 158, 169 Lloyd, Harold 123 Lo Cascio, Luigi 122 Lombardi, Gianni 189, 225 Luce, Il 26

M Macchitella, Carlo 77 Magnani, Anna 224 Mantovani, Nadia 148 Manzoni, Alessandro 15, 157, 204, 213, 214, 225, 226, 228, 229, 233, 234 Marinetti, Fillippo Tommaso 223 Martinelli, Roberto 44, 45, 87, 167, 170, 204, 250, 292 Martone, Mario 246 Mazzocchi, Silvana 126, 167, 168, 170, 248, 292 Mazzola, Franco 103, 165, 292 Melato, Mariangela 205, 250 Mennini, don Antonello 86, 166, 262 Modugno, Domenico 204, 205, 218 Monicelli, Mario 174 Montesano, Enrico 134 Montini, Giovanni (vedi Papa Paolo VI) 80, 108, 166, 233 Morandini, Morando Jr. 70, 90, 264 Moro, Alfredo Carlo 8, 174, 200, 232 Moro, Eleonora 49, 86, 88, 106, 108, 117, 165, 227, 267 Moro, Giovanni 168, 174, 200 Mortati, Elfino 235, 236, 237, 238, 239, 240, 242, 245, 253 Morucci, Valerio 77, 126, 130, 136, 137, 144, 185, 198, 199 Mosca, Carla 9 Mussolini, Benito 15, 26, 62, 96, 128, 129, 140, 186, 214, 282

N Nicoli, Rosa 244

309

O Odorisio, Luciano 243

P

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Pacelli, Ascanio (vedi Papa Pio XII) 141 Padellaro, Antonio 44, 45, 87, 167, 170, 292 Parlato, Giuseppe 50 Pascoli, Giovanni 15, 74, 157, 223 Pasolini, Pier Paolo 8, 70, 90, 227, 247, 252, 269, 270, 281, 293 Pastina, Giorgio 94 Peci, Patrizio 47, 106 Peci, Roberto 47, 60, 88, 104, 131 Pecorelli, Mino 49, 84, 88, 185, 200, 279, 290 Pellegrino, Giovanni 14, 104, 165, 238, 239, 244, 247, 249, 259, 290, 293 Peploe, Clare 120 Petraglia, Sandro 39, 46, 54, 76, 80, 81, 156, 281, 293 Petri, Elio 64, 65, 174, 250 Pink Floyd 102, 107, 112, 117, 118, 120, 133, 150, 151, 204, 259 Pirandello, Luigi 8, 15, 29, 37, 57, 75, 94, 157, 173, 174, 184, 216, 217, 218, 220, 223, 247, 271, 273, 275, 276, 288 Pirani, Francesca 252 Pirri, Massimo 264 Placido, Michele 133, 168, 267 Priore, Rosario 199, 238, 242, 271 Prodi, Romano 44, 45, 47, 50, 51, 52, 53, 54, 55, 56, 87, 88, 149, 214

R Radiguet, Raymond 157, 164, 170, 294 Radio Città Futura 168, 278 Rilla, Wolf 218 Rocco, Emmanuele 134, 215 Rossanda, Rossana 9 Rossellini, Renzo 278 Rossellini, Roberto 41, 62, 102, 157, 278 Rulli, Stefano 39, 46, 54, 64, 76, 80, 81, 89, 156, 281 Rumor, Mariano 129

S Sansa, Maya 90, 218, 260, 262 Santalmassi, Giancarlo 134

Sciascia, Leonardo 9, 44, 50, 52, 53, 56, 57, 65, 87, 88, 115, 166, 171, 172, 173, 174, 175, 176, 178, 181, 184, 192, 193, 213, 214, 221, 232, 233, 247, 251, 253, 266, 270, 271, 273, 274, 275, 276, 281, 282, 293, 294 Senzani, Giovanni 47, 106, 131 Sermoneta, Bruno 242, 245 Shakespeare, William 15, 115, 157 Sturzo, don Luigi 73, 80

T Tavella, Paola 78, 91, 126, 167, 168, 169, 170, 248, 249, 251, 282, 283, 287 Taviani, Paolo 174 Taviani, Vittorio 174 Tedeschi, Mario 103 Tofi, Federico 264 Torry, Claire 118 Tritto, Franco 77, 78, 125, 130, 185, 280

V Vaccaro, Fulvio 245 Varisco, Antonio 200, 201, 204, 223, 224, 243, 244 Verdi, Giuseppe 15, 90, 133, 157 Verne, Jules 204 Vertov, Dziga 62, 102, 133, 157 Visconti, Eriprando 242 Visconti, Luchino 90, 224

W Wertmüller, Lina 243 Wilder, Billy 245

Z Zaccagnini, Benigno 48, 49, 57, 72, 88, 174, 185, 273 Zancani, Vito 183 Zanda Loy, Luigi 50 Zavattini, Cesare 41 Zavoli, Sergio 170, 179, 269

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Indice delle opere



A Aida 133 Alla ricerca del tempo perduto 222 Antigone 223, 246, 255

B Balia, La 95, 173 Berretto a sonagli, Il 223 Biblioteca di Babele, La 21 Brigate Rosse. Una storia italiana 9 Buongiorno, Mezzanotte 153, 179

C Christ in Plastic 185, 241, 248, 254, 265, 289 Coefore, Le 145 Compagna luna 120, 152, 166, 169, 190, 204, 248, 285

D Dalla Terra alla Luna 204 Dark Side of the Moon, The 102, 118, 119, 204

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E Empirismo eretico 90, 270, 281, 293 Enrico IV 8, 174, 272 Eumenidi, Le 145

F Fischia il vento 82, 264

G Giganti della montagna, I 220 Giorni del diluvio, I 103, 165, 292 Gradiva 139, 168, 291 Great Gig in the Sky, The 101, 102, 107, 111, 112, 117, 118, 119, 133, 150

I 314

Il poema dei lunatici 120, 166, 288 Impressions d’un Italien sur la corrida in France 278 In silenzio 95, 216, 218

L Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana 109, 166, 176, 292 Lingua scritta della realtà, La 270, 281

M Macbeth 155, 158, 169 Madame Bovary 134

N Nell’anno della tigre 126, 138, 167, 168, 170, 190, 248, 292 Notte della Repubblica, La 170, 179, 269 Novelle per un anno 216

P P2 Story 119 Pagliacci 44, 73, 155 Perduto amor (In cerca di te) 205

R Rigoletto 48, 65, 155, 216, 221 Rigoletto a Mantova 48, 155, 221

S Sei personaggi in cerca d’autore 174 Sempre libera degg’io 140 Sette contro Tebe, I 246 Shine on You Crazy Diamond 119, 133, 150, 204, 259 Sotterranei del Vaticano, I 93 Strage 183, 248, 292

T Timone d’Atene 155 Todo modo 174, 266, 300 Traviata, La 140

U Uomo dal fiore in bocca, L’ 155, 173 Uomo in frack, L’ 204, 218

V Viaggio nel mondo del paranormale 42, 86, 285 W Wish You Were Here 119, 150

Z Zio Vanja 44, 145, 155, 168

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Bietti Heterotopia

Volumi pubblicati 1. Thomas Elsaesser, Warren Buckland Teoria e analisi del film americano contemporaneo 2. Giacomo Ioannisci Lo spettatore immobile. Ennio Flaiano e l’illusione del cinema 3. Alessandro Aronadio Lo strano caso del Dr. David e di Mr. Cronenberg 4. Giuseppe Carrieri Le voci del silenzio. Scene dal cinema dei cantastorie africani 5. Ilaria Floreano Concerto per macchina da presa. Musica e suono nel cinema di Krzysztof Kieslowski 6. AA.VV. The Fincher Network. Fenomenologia di David Fincher 7. David Carradine Kill Bill Diary 8. Alberto Spadafora In cielo, in terra. Terrence Malick e Steven Spielberg 9. Claudio Bartolini Videocronenberg 10. Andrea Fontana La bomba e l’onda. Storia dell’animazione giapponese da Hiroshima a Fukushima 11. Stefano Locati & Emanuele Sacchi Il nuovo cinema di Hong Kong. Voci e sguardi oltre l’handover 12. Anton Giulio Mancino La recita della storia. Il caso Moro nel cinema di Marco Bellocchio

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Finito di stampare nel mese di maggio 2014 da Prontostampa, Bergamo