Il dito e la luna. Riflessioni su filosofia, fede e politica

Antologia di articoli dell'autore pubblicati sul Corriere dal 1979 alla morte. Spettatore partecipe e protagonista

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Il dito e la luna. Riflessioni su filosofia, fede e politica

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Maestro di pensiero, straordinario oratore, ispiratore per schiere di studenti: Emanue­ le Severino ha raggiunto cime vertiginose della riflessione filosofica con una propo­ sta radicale, essenzialmente distante dalla filosofia così come è nata e si è sviluppata storicamente. Di questa tradizione Severi­ no conserva gli aspetti formali e segue in maniera rigorosa l'opposizione parmenidea dell'essere al nulla, estendendo l'eternità a ogni essente, senza paura delle conseguen­ ze, in armonia con le parole di Platone per cui in filosofia «si deve osare tutto». Se nella celebre definizione che ne dà Hei­ degger la filosofia è uno sguardo dentro a ciò che è, nel caso di Severino potremmo dire che quello sguardo si è appuntato anche su tutto ciò che nel frattempo gli scorreva intorno, affrontando le questioni salienti del nostro tempo per coglierne il vero significato. Questo atteggiamento si rileva in particolare nei testi pubblicati sul «Corriere della Sera», una collabo­ razione lunghissima e fedele, tanto che a buona ragione si può dire che il «Corrie­ re» è stato il suo giornale. Un lavoro, in parte raccolto da questa antologia, in cui la sua riflessione sfiora la superficie - così come la intendeva Nietzsche, non strato primario del reale ma apparenza che è in­ vece massima espressione di profondità di numerosi ambiti. Spettatore partecipe e protagonista intellettuale di un secolo in cui emergeva il dominio della tecno­ scienza quale forma di coerente realiz­ zazione dell'antologia greca, Severino ha ravvisato proprio qui il luogo di origine di quella filosofia che nasce grande e insieme

ferita, perché tratta come evidenza supre-

ma quella che è in verità una convinzione senza fondamento: che le cose nascano e muoiano, oscillando tra l'essere e il nulla. Tutto questo lo consegna alla storia della filosofia come uno dei nostri pensatori più audaci, veri e profondi, in un'ideale costel­ lazione in cui, tra Giacomo Leopardi e Gio­ vanni G entile, la sua produzione speculati­ va ci appare oggi più illuminante che mai.

Emanuele Severino (Brescia, 1929-2020) è stato uno dei più importanti filosofi del

Novecento. Dopo la laurea a Pavia con Gustavo Bontadini, col quale discute una tesi su Heidegger e la metafisica che sarà oggetto d' interesse da parte dello stesso filosofo tedesco, insegna Filosofia teore­ tica prima alla Cattolica di Milano e poi all'Università Ca' Foscari di Venezia, dove rimane fino al 1989. Conclude la carriera accademica collaborando, a partire dal

2002, con l'Università Vita-Salute San Raf­ faele di Milano. Accademico dei Lincei, è autore di numerose opere, tradotte in

molte lingue. Tra le più rilevanti ricordia­ mo La struttura originaria (1958), Essenza del nichilismo (1972), che contiene anche il fondamentale saggio Ritornare a Parme­ nide, Il destino della tecnica (1998), Storia, Gioia (2016). Ha collaborato al «Corriere della Sera» per quarant'anni.

COIUUEBE MT.l,A SEllA

Il dito

e

la luna

Riflessioni su filosofia, fede e politica A cura della Redazione Cultura

Emanuele Severino, Il dito

e

la luna

a cura della Redazione Cultura © 2021 RCS MediaGroup S.p.A., Milano

I SAGGI DEL CORRIERE DELLA SERA n. 1 del15 gennaio 2021 Direttore responsabile: Luciano Fontana RCS MediaGroup S.p.A. Via Solferino, 28-20121 Milano Sede legale: Via Rizzoli, 8-20132 Milano Reg. Trib. n 66 del 7 febbraio 2017 ISSN: 2532-1072 Responsabile area collaterali del Corriere della Sera: Luisa Sacchi Editor: Martina Tonfoni In copertina: Fotografia di Leonardo Cendamo ©Hulton Archive/Getty Images Redazione e impaginazione: Leksis, Milano

Il dito

e

la luna

Introduzione

I l 17 gennaio 2020 moriva a Brescia Emanuele Severino. Prima della malattia che lo aveva costret­ to al ritiro e al silenzio per diversi mesi, ricevette una vera e propria incoronazione ufficiale dalla fi­ losofia contemporanea: l'ultimo assistente di Martin Heidegger, Friedrich-Wilhelm von Herrmann, rivelò che il suo maestro si era interessato in più occasio­ ni al pensiero di Severino, a cominciare dalla tesi di laurea. Partiamo da qui per introdurre questa rac­ colta di articoli, pubblicata in segno di omaggio e affetto nel primo anniversario della sua scomparsa dal « Corriere della Sera», di cui fu u no dei grandi collaboratori per un quarantennio. L'anno in cui Severino inizia a scrivere periodi­ camente per il quotidiano è i l 1 9 79. Un suo artico­ lo di carattere politico, tuttavia, uscì nella rubrica 9

IL DITO

E LA L U N A

«Tribuna aperta)) il 22 settembre 1 975. La fi rma, apparsa in seconda pagi na, era segu ita da questa in­ dicazione: « Direttore del l'Istituto di Studi Filosofici del l'Università di Venezia)) . La sua cacciata dall'U­ niversità Cattolica ( per i contrasti rilevati dalla ge­ rarchia con la dottrina della Chiesa) era già avve­ nuta da un lustro ed era ormai consolidato il suo magistero a Ca' Foscari. L'invito a fa r parte in ma­ niera orga nica dei collaboratori del quotid iano di via Solferino, durante la direzione di Piero Ottone , nasce dall'accordo tra Giulio Nascimbeni (che dal 1 974 ebbe la responsabil ità , come caporedattore, della Terza pagi na e del supplemento « Libri/Arte )) ) e il vicedi rettore vicario, Gaspare Ba rbiellini Ami­ dei . Quest'ultimo influenzò notevol mente il rin novo di presenze e ruoli delle firme nel « Corriere » , so­ prattutto dopo la dipartita di Indro Monta nel li e la fonda zione del « Giornale nuovo )) nel giugno 1 974. D 'altra parte, nel più gra nde quotidiano ita liano, nelle pagine cultura li e non solo, negli anni Setta nta si leggevano gli interventi di intellettu ali come Pier Paolo Pasol ini, di scrittori qua li Alberto Moravia e di poeti come Eugenio Montale. Severino debutta con testi di riflessione, com'era allora la caratteristica dell'elzeviro, non necessaria­ mente legati a un libro o a un fatto; comunque, le considerazioni del filosofo registrano il tempo, la ten­ denza , la questione che sta emergendo. A volte sono articoli che presentano un pensatore, altre volte analO

I N T RO D UZI O N E

lizzano un concetto o una tematica, sempre ponen­ done in evidenza caratteristiche attuali. Da quel momento, anche per sua ammissione, ini­ zia un nuovo periodo di comunicazione delle idee che ne contraddistinguono il pensiero. Gli articoli per il « Corriere » , insieme a testi occasionali, nati per con­ ferenze, incontri o altro, saranno periodicamente raccolti dalla casa editrice Rizzoli; da Adelphi, in­ vece, egli pubblicherà o riproporrà (con ulteriori in­ terventi) le opere teoretiche nella collana « Bibl ioteca Filosofica» che egli stesso inaugura nel 1 980 con il libro Destino della necessità, che ha come primo og­ getto il nichilismo. Non è il caso di elencare qui tutti gli editori pre­ cedenti di Severino, comunque - e lui stesso lo ri­ cordava - i due testi fondamentali su cui si basava il suo pensiero erano La struttura originaria ( La Scuo­ la, Brescia 1 95 8 ) e Ritornare a Parmenide, saggio apparso sulla «Rivista di Filosofia neo-scolastica» (marzo-aprile 1 964 vol . 56, n. 2 , pp. 1 3 7-175 ) . En­ trambi furono ristampati in diverse occasioni. Gli articoli pubblicati sul « Corriere )) ' al momento dell'inclusione in raccolte, venivano rielaborati : era­ no sistemati dettagli, termini, c'era qualche aggiunta e non soltanto. Nel 2 0 1 8 era nata i nvece l'idea di un libro che restitu isse i suoi i nterventi per il « Corriere » nella forma in cui erano stati pubbl icati sul quotidiano. I l progetto includeva a nche una grande intervista 11

I L D I T O E LA L U N A

che toccasse i temi sal ienti di quello che era ormai il suo sistema fi losofico. Martina Ton foni , ed itor della saggistica del « Corriere del la Sera » , e Arman­ do Torno, che aveva lavorato per un qui ndicennio a l quotid iano di via Solferino come responsabile delle pagine della Cultura e ed itorial ista , e cono ­ sceva il fi losofo da lu ngo tempo (anzi, per oltre un trentennio ne aveva seguito le pubbl icazioni), erano andati a trovarlo nella sua casa di Brescia per parlarne con lui. Severino e Torno aveva no un rapporto specia le, come era chiaro ogni volta che c'era da mettere in pagina la recensione di un suo libro . All'uscita , il giornal ista lo riceveva sempre in anteprima, lo leggeva e poi s'incontrava o telefona­ va a l filosofo; questi aggiu ngeva , correggeva, indi­ cava , collegava e solta nto dopo il chiari mento era vergata la recensione . I vi rgolettati erano di nuovo sottoposti al giudizio del l 'autore , e il più delle vol­ te Severino interveniva a ncora . Insomma, un per­ corso complesso che è stato cod i ficato, appu nto, in quei decenni. Durante l'ultimo incontro «editoriale » con Seve­ rino, avvenuto nella tarda estate del 2 0 1 8 , Tonfoni e Torno avevano messo a punto un programma per l'anno successivo che avrebbe dato vita a un volume contenente un'ampia intervista e a un altro con una raccolta di articoli originali del « Corriere » . Severino aveva chiesto tempo per riflettere e impostare il lavo­ ro; periodicamente, com'era sua abitudine, aggiorna12

I N TRODUZI O N E

va i suoi interlocutori. Ma i l tempo, almeno in que­ sto caso, non è stato galantuomo: nell'estate del 201 9 l'ormai novantenne filosofo veniva colpito dal male che non g l i avrebbe lasciato scampo. L'intervista, che si sarebbe dovuta realizzare in settembre, non fu pos­ sibile e di quel progetto restò la raccolta degli arti­ coli, alcuni perfettamente ricordati, a ltri accennati, altri a ncora espressamente i ndicati dal filosofo tra i numerosi apparsi. La collaborazione tra Severino e il «Corriere » ha infatti prodotto circa cinquecento interventi: la scelta per un'antologia è stata partico­ larmente ardua . Inoltre, nella prima metà del 201 9, Severino si tro­ vò al centro di u n autentico evento culturale che ora cercheremo di riassumere con le testimonianze dei diretti interessati, giacché il filosofo non ebbe il tem­ po di consegnare l'accaduto a una memoria scritta degna del caso. In breve: tra la fi ne dell'inverno e la primavera di quell'anno si conobbero dei giudizi di apprezzamento che Martin Heidegger aveva dedicato a Severino. Padre Francesco Alfieri, vicino alla fami­ glia e ai discepoli del pensatore tedesco, si affrettò a tradurli, diffonderli, presentarli, anche se essi non ebbero a llora nei media quel rilievo che meritavano . Per tale motivo, e come ultimo omaggio a Severino, desideriamo qui riassumere fatti e momenti; immagi­ niamoci, insomma, una sorta di a rticolo su di lui, da aggiungere a questa raccolta, scritto dalla cerchia di Heidegger. 13

I L D ITO E LA L U N A

Innanzitutto: una prima nota del filosofo tedesco sull'italiano reca la data 1 958 . A ltre annotazioni ri­ salgono agli anni Sessanta ( 1 96 8 - 69). Di tutto ciò si è venuto a sapere solo nel 201 9; lo stesso Severino lo ignorava . La notizia è stata resa pubblica in una con­ ferenza stampa a Milano il 10 maggio di quell'anno, ded icata appunto alle Nuove scoperte nei manoscrit­ ti inediti di Martin Heidegger. A ltro emerse in occa­ sione del convegno di Brescia, tenutosi dal 13 al 1 5 giugno, intitolato Heidegger nel pensiero di Severino. Per essere più precisi, diremo che i periodi in cui il filosofo tedesco si occupò dell'italiano seguirono la pubblicazione dell'opera Heidegger e la metafisica, tesi di laurea di Severino (prefata da Gustavo Boma­ cli ni , suo maestro all'Università di Pavia), pubblicata dall' Editrice Giulio Va nnini di Brescia nel 1 950; e poi quella del menzionato saggio Ritornare a Par­ menide ( 1 964). Del resto, in quel tempo va tra l'altro ricordato il viaggio che Heidegger intraprese in Asia Minore: nel 1 965 visitò le rovine di Troia, Efeso, Per­ gamo, fino a raggiungere Istanbul . A questi due testi di Severino h a fatto dunque ri­ ferimento Heidegger; inoltre, in una lettera che Friedrich-Wilhelm von Herrmann, ricordato assisten­ te del pensatore, ha scritto al filosofo italiano e di cui si è fatta pubblica lettura all'incontro del 10 maggio, si rammenta con precisione quanto accadde. Ecco le parole di von Herrmann: « Posso affermare che il no­ me di Emanuele Severino era costantemente presente 14

I N T RO D U ZI O N E

nella mente di Martin Heidegger, quando negli an­ ni Sessanta fui l'assistente di Eugen Fink prima e di Mar tin Heidegger poi )) . E ancora, insieme ad altri ri­ cordi: «Le visite di lavoro settimanali a casa di Martin Heidegger mi permisero non solo di conoscere le sue opere non ancora pubblicate, ma anche il suo modo di rapportarsi con le opere di altri pensatori. Il fatto che Heidegger abbia inserito nelle sue A nnotazioni tre osservazioni sul percorso di pensiero di Emanuele Se­ verino è secondo me eloquente. Inoltre, durante i suoi incontri con il fratello Fritz, Heidegger parlava spes­ so di Emanuele Severino - e anche il figlio di Fritz, il reverendo Heinrich Heidegger, ricorda molto precisa­ mente quelle menzioni, perché partecipava spesso agli incontri tra i due fratelli)) . Ma non è tutto. Von Herrmann in questa lettera aggiunge precisazioni che provano la stima della filo­ sofia tedesca nei confronti del pensatore italiano. Ec­ co le sue parole: «Ma il nome di Emanuele Severino era ben noto anche nella cerchia attorno al filosofo Hans - Georg Gadamer, con cui intrattenni un contat­ to molto confidenziale sino alla morte di Gadamer. Poiché fui scelto da Martin Heidegger qua le respon­ sabile scientifico dell'edizione integrale delle sue opere, intrattenevo una fitta corrispondenza con Gadamer e lo incontravo spesso personalmente . Tra i fenomenologi di Friburgo le opere Heidegger e la metafisica e Ritornare a Parmenide erano ben note, e Heidegger era molto impressionato da entrambe. 15

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Ciò significa che l'originalità del percorso di pensiero di Emanuele Severino s'inserisce a pieno titolo nella serie dei grandi pensatori del XX secolo, assieme a Husserl, Heidegger, Fink e Gadamer » . Heinrich Heidegger (sacerdote, menzionato figlio del fratello Fritz) , i n una missiva inviata a Severino, resa nota nelle ricordate occasioni, aggiunge ulte­ riori conferme: «Mio padre, che aiutava suo fratello trascrivendo a macchina i suoi manoscritti, ripeteva spesso il Suo nome e non si stancava di evidenziare quanto era impressionato Martin Heidegger del mo­ do in cui Lei interpretava i suoi testi)) . Per tornare alla nostra antologia, è il caso di ricor­ dare che Severino sul « Corriere)) intervenne in nu­ merose occasioni per ribadire l'importa nza del pen­ siero heideggeriano e nelle pagine qui raccolte si tro ­ veranno sue considerazioni sul filosofo tedesco, che considerava un maestro . Il rapporto con Heidegger è uno dei temi che caratterizzano la collaborazione con il « Corriere))' che si inserisce in un percorso in­ dicato dal medesimo Severino e terminato, seguendo la traccia delineata dall'autore, dall'editore. Questa raccolta diventa , per le ragioni elencate , un itinerario nel suo sistema filosofico e, allo stesso tempo, ci re­ stituisce il ritratto di un maestro. Del resto, è bene aggiungere, con buona pace di quanto a volte è stato scritto o congetturato, che Se­ verino mai conservò rancore, nemmeno per quelle 16

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vicende che causarono il suo allontanamento dalla Cattolica. Lui, semplicemente, credeva nella filosofia più che nelle passioni accumulate dalla cronaca. Lo dimostrano gli incontri pubblici che ha tenuto negli ultimi anni con due illustri cattolici: il cardinal Gian­ fra nco Ravasi e l'amico Giovanni Reale (memorabi­ le un loro dibattito su Dio, svoltosi in Sala Buzzati, al « Corriere », il 28 ottobre 2010). Due momenti nei quali ha ammesso, parlando di fede, che non ha mai dubitato della « Gioia» che attende gli uomini dopo la vita .

La Redazione Cultura

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I maestri, la filosofia

In questa sezione sono stati raccolti articoli riguar­ danti i maestri del pensiero e le grandi questioni fi­ losofiche. Oltre Marx, Platone, Nietzsche (e la morte di Dio), Heidegger, Gentile e numerosi altri, le sue riflessioni hanno toccato argomenti come la verità o la violenza, il nulla o l'eternità delle cose . Tra essi si noterà un articolo sull'origine della musica che meri­ ta una piccola spiegazione (L'origine della musica e il detto del Sileno, 29 giugno 1 9 82). Emanuele Severino pensò, nella sua giovinezza, di dedicarsi alla composizione. Vero è che nel 1 947 il filosofo diciottenne scrisse l'opera Zirkus Suite, per fiati, marimba e timpani (è stata eseguita per la pri­ ma volta in pubblico il 17 aprile 20 1 8 , al Conserva­ torio di Milano, e presentata sulla « Lettu ra)) del 14 aprile; A lessandro Bombonati ha cu rato la revisio­ ne critica della partitura). La defin iva «un peccato 21

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di gioventÙ>> . Sovente egli notava l'importanza del la musica nel pensiero di Platone: « Per lui era costitu­ ita dal suono e dalla parola; e la parola è la verità, per cui il suono diventa inseparabile dal senso ve­ ro del mondo» . Quest'arte era anche onorata nelle a ntiche cosmogonie . Secondo una di esse, la Terra nasce qua ndo un coro composto dagli dèi canta; e ca ntando si consegna alla morte. Così, ogni dio si trasforma in un suono addormentato e si rifugia in una caverna . Per tal motivo, se si crede a questo mito, ogni cosa del mondo è possibile pensarla come una caverna in cui è presente un suono assopito. Va detto inoltre, anche se non desiderava parlarne, che era un buon pianista . Aveva conosciuto Arturo Benedetti Michelangeli, anch'egli bresciano, e questi, qua ndo gli si ponevano domande di carattere lettera­ rio o filosofico, non dimenticava mai di citare Seve­ rino. Da parte sua il filosofo fu sempre discreto nel parlare di questo rapporto e, a nostra conoscenza, l'unica volta che disse qualcosa in proposito fu il 25 gennaio 2012 in un incontro a Mendrisio (nella sala del Museo d'Arte della cittadina svizzera) . Lo fece a conferenza finita, incalzato dalle domande di alcuni conoscenti di M ichelangeli, che era vissuto negli ul­ timi anni poco distante da lì, a Pura, nel distretto di Lugano. In questa sezione si trova inoltre una riflessione attenta sulla violenza . Severino scrisse nel 1 979 un libro, pubblicato da Rusconi, dal titolo Téchne. Le 22

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radici della violenza, in cui analizza tra l'altro temi qua li la guerra fredda, il socialismo reale, il terrori­ smo, l'evoluzione del partito comunista e la presenza della Chiesa in Italia. Lo fa per risalire alle « radici della violenza» , presenti già nel pensiero greco, ma soprattutto per giungere a delineare gli sviluppi futu­ ri di storia e politica. Una curiosità . Quando Severino cita Platone , lo fa sempre utilizzando l'edizione con testo greco e lati­ no (che traduceva all'ista nte) delle opere del filosofo pubblicate da Firmin-Didot, a Parigi, a metà Otto­ cento. Va detto che il latino riportato era la quat­ trocentesca traduzione di Marsilio Ficino. Severino ebbe questi due volumi con tutte le opere del filosofo ateniese - gli mancava il terzo uscito più tardi con gli indici - grazie a un bibliotecario della Cattolica. In ogni caso, egli leggeva Aristotele in greco, la Bib­ bia in latino, Descartes in fra ncese, Kant, Nietzsche e Heidegger in tedesco, Hume in inglese.

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Ragione e forza contro la violenza

Ogni giorno, la violenza fa il suo giro sulla terra . E ogni giorno si levano contro di essa le voci della civil­ tà. Per quanto diversamente intonate - dallo sdegno al cinismo - esse hanno tutte un tratto comune. Credono che la loro condanna della violenza sia sostenuta da «ragioni>>. Credono, cioè, che le «ragioni» della loro condanna siano qualcosa di diverso e di autonomo dalla capacità della condanna di divenire sanzione e punizione dei violenti, e, anche, che la sanzione abbia in tali «ragioni» il proprio fondamento e la propria giustificazione. Ma quelle voci dimenticano che la ci­ viltà è del tutto priva di «ragioni» contro la violenza . È la civiltà stessa, oggi, ad avvertire di essere com­ pletamente priva di « ragioni». Si trova quindi nella condizione di sapere che l'unico senso del suo « aver ragione » contro la violenza non può essere altro che

« Corriere della Sera ))' 28 novembre 1979. 25

I L D I TO E LA L U N A

la forza di arrestarla e distruggerla . La civiltà « ha ra­ gione contro» la violenza, solo se riesce ad essere una violenza più potente , cioè se riesce ad « aver ragione della» violenza. L'espressione italiana « aver ragione di uno» indica con chiarezza il senso che le « ragioni» della condanna della violenza possono avere nella nostra civiltà . La seconda delle Tesi su Feuerbach di Marx di­ ce: « La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica, ma pratica. È nella prassi che l'uomo deve dimostrare la verità , cioè la realtà e il potere del suo pensiero» . C i ò significa che l a « verità » (le «ragioni») non è altro che la potenza della prassi, la capacità di prevalere sull'avversario. Ma questo significa a nche che là, dove il movi­ mento operaio non prevale, esso non ha verità. Si può ribattere che oltre al prevalere esistono anche le tendenze che spingono verso di esso. Ma se non si vuole daccapo trasformare in una questione teorica l'af fermazione della realtà delle tendenze, allora, che esse esistano, e che, ad esempio, nei paesi capitalisti il movimento opera io sia ancora una tendenza al pre­ valere e non un preva lere effettivo, significa soltanto che chi è nel torto - appunto perché ancora non pre­ vale effettivamente - ha tuttavia la possibilità di aver ragione in futuro dell'avversario. Anche se l'accostamento può sembrare anomalo, quando Einaudi affermava, nelle Prediche inutili, che 26

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la democrazia, intesa come sovranità della maggioran­ za, è un « mito», ossia non è un principio « evidente », «logicamente dimostrabile », e che questo mito «ha un nemico», cioè «coloro i quali reputano di aver scoperta la verità e ritengono dover attuarla», Einaudi ripeteva il concetto di fondo della seconda Tesi su Feuerbach. Anche per lui, le > , che in Italia sta tornando alla luce. In questo modo, Moravia regredisce al giudizio di valore , alla condanna che crede di essere sostenuta da « ragioni». Testori si domanda perché i giornali si occupino sola mente della violenza e non del bene che tan­ ta gente compie ogni giorno. Sennonché Testori e i giornali (e Moravia e tutte le «voci dissonanti» ) sono completamente d'accordo. Ritengono infatti che , ri­ spetto alla civiltà, la violenza sia una anomalia, una 30

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novità imprevedibile dal punto di vista della strut­ tura della civiltà. E allora è i nevitabile che i giornal i parlino dell'anomalo, del nuovo , dell'imprevedibile e non della normalità del « bene » . L a « civiltà » , di c u i abbiamo parlato, è l a civiltà occidentale. Essa è la civiltà perché ormai domina su tutta la terra e tutta la storia del non- Occidente è divenuta la preistoria dell'Occidente. Ma l'Occidente è l'unico occhio ? Oppure un altro occhio vede che l' Occidente è il deserto (un altro oc­ chio, che non è il deserto) ? Il deserto è l'abbandonato. Da che cosa l'Occidente è abbandonato? Da che cosa che però non sia una delle miriadi - dio e uomo, ra­ gione e negazione della ragione, filosofia e scienza, fede e pensiero poetante, individuo e stato, amore e violenza - che l'Occidente ha evocato lungo la sua storia ?

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L'occhio di Platone sulla nostra vita

« Non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita che determina la coscienza», scrive Marx. La « coscienza» è l'insieme delle formazioni culturali: re­ ligione, mora le, rapporti giuridici, filosofia, tutto ciò che per Marx è « ideologia)). È dunque la «vita», cioè il modo in cui l'uomo agisce e trasforma il mondo a determinare in ultima istanza il modo in cui egli riflette sulla propria esistenza - e a determinare quin­ di anche quel genere di riflessione i n cui consiste la filosofia. Questo atteggiamento di Marx, che mira a scoprire nella vita concreta e immediata dell'uomo le condizioni da cui si genera il pensiero filosofico, è lar­ gamente presente nella cultura contemporanea . Ba­ sta pensare a Nietzsche, a Freud, alla sociologia della conoscenza. Ma già l'ideal ista Fichte, cinquant'anni

« Corriere della Sera >> , 10 maggio 1980. 32

I MA E S T R I , LA F I L O S O F I A

prima di Marx, affermava che la scelta di una filoso­ fia dipende da quello che uno è come uomo. Eppure, gli occhi con i quali Marx guarda la «vita » sono gli occhi di Platone, cioè del luogo attor­ no a cui si raccoglie tutto il pensiero greco. Invece di presentarsi nella sua purezza e indipendenza da ogni costruzione ideologica, la «vita» sta dinanzi a Marx con i tratti che una volta per tutte il pensiero greco le ha assegnato. E ciò è accaduto a tutta la cultura occidentale che ha tentato di scoprire la « vita» nella sua immediata e incontaminata purezza. Ma è anche accaduto qualcosa di ben più decisivo: un poco alla volta , gli occhi con i qual i la «vita» stessa guarda sono diventati gli occhi di Platone. Tut­ ti i popoli della terra guardano ormai con questi oc­ chi. Lo spettacolo che ormai sta dinanzi alle masse è greco - anche se le masse non hanno mai sentito parlare della filosofia greca. Giacché, anche per Marx, la «vita» guarda. Non è soltanto guardata dai filosofi ; essa è a sua volta un guardare. Marx usa la parola «lavoro» per indicare l'essenza della «vita». Il lavoro è « attività conforme allo scopo », attività che mira a trasformare le cose in modo da renderle usabili. In quanto «conosce » lo sco­ po, il lavoro è coscienza, e anche per Marx la coscienza dello scopo è la «legge » che determina il modo in cui il lavoro si realizza. Questa coscienza che dall'interno determina il lavoro non è la «coscienza» che, come so­ vrastruttura ideologica, è determinata dal lavo ro . Essa è la «vita)) che, come «vita)) guarda le «cose» . .B

I L D I T O E LA L U N A

Dinge («cose » ) ·è appunto il termine usato da Marx, quando nel libro primo de Il Capitale egli mostra che il lavoro ha una « natura genera le»» che è « i ndipendente da tutte le forme della società»» e che, presente identicamente in ognuna di esse, è «condi­ zione naturale eterna della vita umana>> . Una cond i­ zione, quindi, che precede e rende possibile il costitu­ irsi di ogni ideologia. Nella sua « natura generale»» il lavoro è l'attività che « scioglie» > le «cose»» dal « nesso immediato»» che le tiene originariamente unite alla terra . Tale scioglimento è la stessa produzione della cosa come bene usabile. Marx esempl ifica così: il ta­ glialegna abbatte l'a lbero separandolo dal bosco; i l pescatore cattura i l pesce separandolo dall'acqua; i l minatore strappa il minera le dalla s u a vena. L'albero, il pesce, il minerale sono «cose» > . Una « cosa» > è, per Marx, ciò che si lascia separare dal suo legame ori­ gina rio con la terra . Una cosa è cosa proprio perché è così separabile. Come sciolta dal suo legame originario con la ter­ ra , la cosa appare inizialmente al lavoratore come lo scopo che egli vuole « realizzare » , « produrre ». E re­ alizzare lo scopo significa, per Marx, « consumare » , ossia distruggere quel legame (cioè l'unione dell'al­ bero a l bosco, del pesce all'acqua, del minerale alla vena). Sciogliendo le cose dal loro legame originario, il lavoro conduce le cose dal non-essere all'essere: dal non-essere che convien loro quando non sono solo « presenti idealmente » nella mente del lavoratore co­ me lo scopo non ancora realizzato, all'essere che con34

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vien loro realizzandosi. Alle cose il lavoro conferisce appunto, scrive Marx, «la forma dell'essere » . Per Marx, dunque, nell'affermazione che i l la­ voro è produzione perché è la causa che fa passare una qualsiasi cosa dal non-essere all'essere, si affer­ ma qualcosa che appartiene alla « natura generale» del lavoro e quindi si costituisce come « condizione naturale eterna della vita umana» indipendente da ogni sovrastruttura ideologica. Eppure nel Convito Platone scrive: « Ogni causa che faccia passare una qualsiasi cosa dal non-essere all'essere è produzione, cosicché sono produzioni anche le azioni che ven­ gono compiute in ogni arte, e tutti i lavoratori sono produttori » . A partire da Platone u n a cosa è ciò che si mantiene in provvisorio equilibrio tra l'essere e il non-essere. Queste due espressioni esistono già nella l ingua di Omero; ma è solo con la comparsa della fi losofia che il « non-essere » viene pensato come negazione del tut­ to e il tutto viene pensato come essere, ossia come ciò che ha niente fuori di sé. A partire da Platone una cosa è ciò di cui si dice che è ma non era e non sarà, ossia era niente e tornerà ad essere niente. Quando il pesce è nell'acqua, l'unione del pesce col fuoco che lo cuocerà è ancora niente (sebbene l'unione del pesce con l'acqua esista e magari il fuoco è già acceso). E quando i l pesce vien messo sul fuoco, la sua u nione con l'acqua è diventata niente (sebbene l'unione del pesce col fuoco esista e l'acqua continua a scorrere). Solo col pensiero greco viene condotta nel linguaggio 35

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questa rete di rapporti che unisce in modo determi­ nato l'essere e il niente ai colori, ai suoni, alle qualità del la terra , e da questa unione ottiene ciò che noi , uomini dell'Occidente, intend iamo per « cosa». Ed è proprio perché la « cosa>> è pensata come equilibrio provvisorio tra l'essere e il niente , che il proposito di dominarla, producendola e distruggendola, acquista una radicalità mai prima posseduta . La civi ltà occi­ dentale guarda il senso della «cosa>> con gli occhi dei Greci, ma crede di aver dinanzi qualcosa di > . Così come il capitalismo crede che i rapporti di produzione capita listici siano « naturali>> e non il risultato di un accadimento storico. Proprio perché Marx intende la « natura genera le >> del lavoro come indipendente da ogni sovrastruttura ideologico-culturale, egli mostra di non avere alcun dubbio sul significato della parola « cosa>>, (Questa · sua sicurezza è cond ivisa da tutti i pensatori dell'Oc­ cidente - anche da coloro che, come Heidegger, met­ tono in questione il senso della « cosa>> . ) Il lavoro si costituisce infatti come relazione a l le cose, sì che il significato dell'esser cosa ( la separabi lità cioè della cosa dal suo legame origina rio con la terra) si pre­ senta anch'esso nel discorso di Marx, come «cond i­ zione naturale eterna della vita umana » . Marx non sospetta neppure che questo significato possa esse­ re apparso solo ad u n certo punto del l'accadere del mondo. Ma le cose con cui il lavoro ha che fare appaio­ no come cose non soltanto al pensatore che riflette 36

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sull'essenza del lavoro: appaiono come cose anche al lavoratore. Quando il taglialegna lavora, è perché egli ha che fare con alberi e non con pesci che egli compie certe azioni e non altre. Il senso che l'albero ha per lui sta­ bilisce e determina le azioni che egli compie quando lo taglia. E soltanto quelle. E il senso che per lui ha il pesce stabilisce e determina le azioni che egli compie qua ndo lo cattura. E soltanto quelle. Orbene, al taglia legna l'albero appare diverso dal pesce, dal torrente, dal sentiero di casa. Ma l'albero, il pesce, il torrente, il sentiero, la casa gli appaiono, ognuno, come una delle cose con cui egli ha che fa­ re. Ognuno appare nel suo non-essere gli altri, ma appunto per questo ognuno appare al taglialegna co­ me un che , una cosa. Ognuno, ad esempio l'albero, non gli appare semplicemente come a lbero, ma anche come una cosa. Come l'albero mostra al taglialegna il proprio senso, cioè il suo esser albero, così la co­ sa gli mostra il proprio senso, cioè il suo esser-co­ sa (quell'esser-cosa che è un a lbero) . E ogni cosa del mondo del tagl ialegna è, appunto, una cosa. Anche nella lingua italiana la parola «cosa» conserva quel significato estremamente ampio, che ci consente di chiamare « cose » anche gli uomini e perfino Dio. Ma proprio perché tutte le cose del suo mondo ap­ paiono al taglialegna come cose, ne viene che il senso che per lui ha l'esser-cosa stabilisce e determina tutte le azioni che egli può compiere durante la sua vita. Non solo, ma addirittura tutte le azioni e le opere 37

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di un popolo, se il senso che per questo popolo ha l'esser-cosa è lo stesso di quello che si mostra al ta­ glialegna . Se in fatti l'apparire dell'albero, del pesce, del sentiero determina quelle certe azioni che di volta in volta si rivolgono ad ognuno di essi, allora il senso dell'esser-cosa, presente in ognu no di essi, stabil isce e determina non solta nto questo o quel lavoro, que­ sto o quel modo di vivere, ma tutto il lavoro , tutta la « vita» che guarda quel senso. L'intero operare di un'epoca storica è stabilito dal senso che ha per essa l'esser-cosa da parte delle cose. Il senso di ciò che chiamiamo «cosa» non è infatti costante. Crediamo che lo sia perché un u nico senso della cosa è giu nto ormai a dominare i popoli della terra: il senso greco della cosa. La R epubblica non è semplicemente un grande dialogo dove Platone ha vagheggiato l'utopia di u no stato governato dai fi­ losofi: la civiltà occidenta le - la giga ntesca vicenda di fatti e di eventi che costituiscono la civ iltà oggi dominante sulla terra è la Repubblica fondata da Platone. Egli è il seminatore dell'Occidente . Non è mai apparso nulla che come la Repubblica (Res publica, «cosa pubblica») da Platone sia riusci­ to ad essere così lontano dall'utopia e così presente e dominante nella vita dell'uomo: appunto perché il senso dell'esser-cosa , stabilito dal pensiero greco, è lo spazio all'interno del quale un poco alla volta si sono portate tutte le azioni e le opere dei popol i. La civiltà della tecnica è il modo in cui oggi domina il senso greco della cosa. Qui è il lavoro stesso, il lavoro dei -

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popoli, che non si limita ad esser guardato dagli oc­ chi dei Greci, ma guarda esso stesso con questi occhi e vede ovunque il senso greco della cosa. Domandare quale sia la verità di questo senso non è allora domandare quale sia la verità della nostra civiltà ?

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Ferita a morte da quando è nata

Che cos'è la fi losofi a ? Le risposte son così nume­ rose e dispa rate che passa la voglia di saperlo. Eppu­ re, c'è un pu nto di osservazione privilegiato. Se ci si apposta, si sente subito un grande abbaiare e subito si scorge una gran muta di cani che corrono tutti nella stessa direzione. Alcuni sono forti e ben fatti , altri gracili, altri ancora guerci e sciancati. Forse a molti di loro c'è bisogno di ricordarlo, ma è chiaro che stan tutti inseguendo la belva ferita . Mai come nel la nostra cultura si è scritto ta nto e con tanto ac­ canimento contro la « verità defin itiva e incontrover­ tibile » . Opere di pensatori, scienziati, uomini di fede e di azione, artisti , storici, politici. Una gran muta che è all'inseguimento non di un fa ntasma, ma di una belva , nata in Grecia qua lche secolo prima di

« Corriere della Sera » , 24 m a r zo 198 1. 40

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Cristo, che fino a ieri era la regina della selva . Innan­ zitutto questo, intatti, è stata la fi losofia, da Platone a Hegel: il tentativo di scoprire la verità assoluta, non modificabile e incontrovertibile, ossia ciò che è come è, non perché si crede , si ha fede, si è certi, si vuole, si spera, si teme che esso sia come è, ma per­ ché è impossibile che esso sia diversamente da come è, e quindi ciò che è impossibile negare in qualsi­ asi modo, da parte di chiunque, uomo o dio, per qualsiasi ragione, in qualsiasi tempo, per qualsiasi scopo. Questo significa « verità» per la filosofia. Un tentativo, il suo, che non ha riscontri in a lcun altro momento della storia dell'uomo. La belva, si è detto, è ferita. Anzi, ferita a morte. I cani, correndo, si dicono: « Sono stato io a ferir­ lab > . «No, sono stato io ! » . « Siamo stati tutti insie­ me ! » . E invece, a ferirla a morte non è stato nessu­ no di loro. Non è stata la scienza moderna, non la società borghese, non il cristianesimo. Questi hanno solo mostrato di esser capaci a vivere senza filosofia e che anzi la filosofia è un impaccio per il modo in cui essi intendono la vita . Quando si rifiuta ogni ve­ rità incontrovertibi le, il rifiuto non può essere una verità incontrovertibile: è solo la capacità pratica di organizzare l'esistenza senza di essa. I cani fiutano il sangue, e gli sanno correre dietro, ma nonostante il vanto che menano non capiscono che i loro denti non son mai stati un pericolo per la belva . Essa è ferita a morte da quando è nata. Essa stessa, sin da allora , si è inferta questa ferita . Perché diciamo questo? 41

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Sin dall'inizio, la filosofia ha voluto scoprire la ve­ rità del mondo. Certamente, il mondo era già noto prima della filosofia; ma essa gli conferisce un senso inaudito. Per la prima volta, infatti, essa esprime la contrapposizione estrema, quella tra l'essere e il nien­ te, e concepisce il mondo come il luogo in cui le cose escono dal niente, approdano alla sponda dell'essere e ritornano nell'abisso del niente . Anche qui: le paro­ le « essere » e « n iente » esistono già nella lingua gre­ ca, prima del la filosofia. Ed anche nelle lingue più antiche dell'Oriente . Ma il loro senso è avvolto da ombre, ambigu ità . Ma proprio perché la filosofia esprime la contrap­ posizione estrema tra l'essere e il niente e intende il mondo come luogo in cui essi si contendono le co­ se, proprio per questo il senso tragico dell'esistenza raggiunge il suo acme. Nietzsche si è posto di cer­ to il problema del rapporto tra i Greci e il dolore , e della trasformazione storica di questo rapporto. Ma anch'egli è rimasto sostanzialmente insensibile alla circostanza singolare che la fi losofia (come espres­ sione del senso dell'essere e del niente) e la grande poesia tragica dei Greci nascono insieme. La filosofia apre lo spazio in cui si muove la tragedia. Quando Nietzsche afferma che « ogni diven ire porta con sé il dolore » , intende soltanto che «affinché » esista il divenire creatore deve esistere il dolore ( « le sofferenze della partoriente )) ): non si avvede che il dolore guar­ dato da Eschilo e da Sofocle non è la condizione, ma la conseguenza dello sguardo con cui già all'inizio la 42

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filosofia vede il divenire come un uscire dall'abisso del niente e un ritornarvi. È infatti il niente da cui escono le cose che rende del tutto imprevedibili gli eventi ed estremamente violento e terrificante il loro urto contro quanto già esiste. Generati dal niente si presentano sciolti da ogni patto con l'ordine dell'esi­ stenza e ne sono quindi l'estrema minaccia. Ma come volontà di scoprire la verità del mondo, cioè del divenire dove l'essere e il niente si conten­ dono le cose, la filosofia è anche la difesa dalla mi­ naccia che essa stessa ha suscitato evocando quella contesa. E tra la difesa e la minaccia incomincia su­ bito una lotta mortale. La verità è infatti come un re, alle cui leggi sono sottomessi non solo i viventi , ma anche quanti non sono a ncor nati. Le leggi raggiun­ gono i non ancor nati e dicono loro: «Voi cammina­ te già sulla nostra strada, a noi già siete sottoposti . Perché a voi, noi già questo imponiamo, che quan­ do vi toccherà di nascere voi abbiate ad essere a noi sottoposti>> . Le leggi dissigillano le orecchie dei non ancor nati e si fanno udire da essi. Ed essi stanno lì ad ascoltarle . Cioè si comportano come dei già nati. Qua ndo nasceranno, la loro nascita sarà così un'ap­ parenza, una finzione. Le leggi rendono impossibile la nascita. Nello stesso modo, la verità assoluta e incontrover­ tibile sta al centro dell'universo e si impone su tutto. Nulla può sfuggire alla sua legge. Nemmeno le cose che ancora non sono uscite dal niente. Essa raggiun­ ge anche queste e parla loro come le leggi di quel 43

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re parlano ai non ancor nati . Togliendo i sigilli del niente alle orecchie di ciò che ancora è un niente, la verità gli parla così: «A nche tu, sterminata estensione di ciò che ancora è niente, sei già nel mio dominio, pu r non esistendo ancora . Perché quando uscirai dal niente non potrai anda rtene dove vuoi, ma dovrai es­ sere sottoposta alle leggi del mio regno, che reggono tutto e alle qua li non si può sfuggire ». Prima anco­ ra di uscire dal niente, ciò che ancora è niente sente du nque l'appello della verità . L'appello lo attraversa, riempie le sue vene vuote, lo costituisce e lo consacra suddito del la verità . Ud itore e sudd ito della verità, il niente si comporta come un essente . La voce della ve­ rità è così alta che non consente di dormire a ciò che ancora è niente . Non gli consente di rimanere niente. Quando le cose, cui la verità non consente di dormire nel niente, usciranno dal niente, esse faranno finta di svegliarsi. Erano già tenute sveglie da sempre . Il loro uscire dal niente, cioè il loro divenire, sarà così una fi nzione e un'appa renza. Esse non erano mai sta­ te niente. La verità tradisce il niente da cui le cose del mondo divengono: voleva essere la verità del divenire del mondo e invece rende impossibile e tradisce il di­ venire . Voleva essere il grembo che custodisce le uova del divenire e invece il grembo schiaccia le uova. O le schiaccerebbe, se esse non resistessero ad ogni stretta . La volontà che il divenire sia, la volontà di non tradire il divenire si rivela infatti incrollabile. E la verità assoluta stessa, volendo essere padrona del divenire, ne riconosce l'esistenza . 44

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Ma la verità trad isce e soffoca il d ivenire. Dun­ que è necessq.rio che affinché il d ivenire sia, la veri­ tà muoia. L e uova del divenire sono di serpente, e i serpenti del d ivenire mordono a morte il grembo che li cova. Essi producono la ferita mortale; non sono, essi, i cani che la fiutano. La filosofia è la belva che sin dalla nascita si è in­ ferta una ferita mortale, proprio perché v uoi essere la verità assoluta del divenire del mondo. È cioè, dentro se stessa, la lotta tra due nemici mortali. L'antica pa­ rola con cui la filosofia esprime il carattere assoluto della verità è epistème. Alla lettera , significa lo stare (stème) che si impone su (epì) tutto, e primariamente sull'irrequietezza minacciosa del divenire. La parola epistème esprime la volontà di dominio che è propria della fi losofia. Per questo, l'immagine della belva non è artificiosa. Prometeo, che ha rubato il fuoco agli dèi e insegnato agli uomini le arti, è terrificante per­ ché impersona la minaccia all'ord ine dell'esistenza , incarna l'imprevedibilità del divenire. Soprattutto a lui s'addice quanto il coro dell'Antigone d i Sofocle, nel primo canto intorno all'ara, dice dell'uomo: che molte sono le cose terribili e sconvolgenti, ma nessu­ na lo è più del l'uomo. Nessuno più imprevedibile di lui, dove il divenire ha il suo acme. Nessuno più di lui attinge dal niente l'invenzione del mondo. L'epistème, che difende dalla minaccia dell'imprevedibile, corri­ sponde all'immagine di « Prometeo incatenato » , evo­ cata da Eschilo. La catena e l'aquila che gli rode il fegato stanno su di lui, dominandolo. 45

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Ma non riescono ad ucciderlo. Anzi, già si prean­ nuncia la liberazione e la catastrofe degli dèi. Cioè la catastrofe dell'epistème e della verità . E la nascita dell 'uomo nuovo che si lascia alle spal le il vecchio terrore del divenire. Nella prefazione del suo primo libro Nietzsche parla di « Prometeo liberato » . Ma non è lui a liberarlo. Nemmeno la civiltà contempo­ ra nea, nel suo rifiuto di ogni verità assoluta . Questa civiltà è la muta dei cani che hanno fiutato il sangue della filosofia. I nvece, proprio perché Prometeo, no­ nostante i l suppl izio, sopravvive, proprio per questo le catene e l'aqu ila di Zeus sono destinate a dissol­ versi: proprio perché la volo ntà che il divenire sia, vuole che esso sia }'« evidenza» suprema e inelimina­ bile che sopravvive ad ogni tentativo di soffocarla, proprio per questo è necessario che svanisca ogni verità assoluta , nella quale il divenire del mondo ri­ sulta impensabile. Q uesta volontà è la ferita per cui, sin dall'inizio, la filosofia è destinata alla morte. Ma che accadrebbe se il divenire del mondo - l'uscire e il ritornare nel niente - dovesse apparire appunto come qualcosa di voluto, cioè non come l'evidenza suprema, ma come la volontà che esso sia l'«evidenza» suprema ? E che accadrebbe se questa volontà dovesse apparire come la follia estrema ? Non si dovrebbe dire, innanzitutto, che la verità desti nata alla morte è la verità che la filosofia sin dal principio ha legato alla fol lia estrem a ? E che invece, 46

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sciolta dalla follia, immune dalla ferita mortale, la verità - cioè il destino che né uomini né dèi possono smuovere - attende di essere testi moniata, lungo un cammino che è ancora tutto da percorrere?

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L'origine della musica e il detto del Sileno

Il grido. Sta al l'inizio della vita dell'uomo sulla ter­ ra. Il grido di caccia, di guerra, d'amore, di terrore, di gioia, di dolore, di morte . Ma anche gli animali gridano; e per l'uomo primitivo grida anche il vento e la terra , la nube e il mare, l'albero, la pietra , il fiu­ me. Ma solo l'uomo si raccoglie attorno al proprio grido, in assenza degli eventi che l'hanno provocato. Al grido sono legati gli aspetti decisivi dell'esistenza e nel la rievocazione del grido le più antiche comuni­ tà umane non solo scorgono la trama che le forma , ma annodano stabilmente i fili della trama, cioè si stabiliscono e confermano nel loro essere comunità umane. L'i ntera vita dei popoli più antichi si racco­ glie attorno alla rievocazione del grido, cioè attorno « Corriere della Sera », 29 giugno 1982. 48

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al canto: e il ca nto avvolge i viventi ben più stretta­ mente del calore dei fuochi attorno a cui essi stanno. La rievocazione del grido non è ambigua, solo se gli astanti adattano reciprocamente le loro voci, ren­ dendole simili nel suono e nel ritmo. La rievocazione del grido è la musica originaria dei mortali. In molte popolazioni primitive le danze incominciano con un grido selvaggio di tutti i cantori, che a poco a poco conducono la dissonanza delle voci a un canto uni­ sono. Nel modo di cantare del sol ista , attorno a cui il coro forma un cerchio magico protettivo, rimane sempre avvertibile l'asprezza di quel grido iniziale. Solista e coro non danno vita a uno « spettacolo », ma alla « festa�� alla quale partecipa tutta la comunità . L a musica è il cuore della festa. Ossia è il cuore della società . Oggi tutto questo ci è completamente estraneo. La musica è divenuta un'evasione provvisoria dai nostri problemi reali. Anche quando gli stadi sostituiscono i teatri e le sale da concerto. Come la relig ione: do­ , po la funzione religiosa, o dopo che anche un papa ha affollato gli stadi, ognuno ritorna ai suoi tra ffici. La scissione tra musica e società è netta ; o almeno lo si ritiene tale. I musicologi sono intellettuali che, quando non stanno a mezzo tra il sentimentalismo e !'«estetica» e fanno seriamente il loro mestiere, sono più incomprensibili dei matematici. La musica con­ temporanea, non solo per il popolo, è un enigma. Da quando appare (agli inizi del 1872), La nascita della tragedia dallo spirito della musica di Nietzsche 49

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va incontro alle critiche più feroci. Il grande fi lologo Wilamowitz-Moellendorff invita Nietzsche a lasciare la cattedra universitaria per incompetenza. Lo stesso Nietzsche pubblicherà più tardi un'impietosa « auto­ c ritica» (che porterà fuori strada gli interpreti). Ben visibili gli errori di quest'opera . Eppure viene in essa affrontato un compito gigantesco. All'oscuro dei contributi che la musicologia comparata avrebbe dato dopo pochi decenni, Nietzsche crede che esista­ no le condizioni storiche per supera re la separazione tra musica e popolo, cioè per superare la forma stes­ sa della civiltà occidentale: il dominio della scienza sulla società . Le condizioni storiche di questo supe­ ramento sono per lui la musica tedesca ( Beethoven e Wagner) e la filosofia tedesca (Kant e Schopenhauer) : il modello cui rifarsi, la grande tragedia greca (Eschi­ lo e Sofocle), intesa appunto non come « spettacolo» o come fenomeno «estetico» regolato dalla categoria del « bello))' ma come partecipazione del popolo alla vita sofferente dell'Eroe tragico; il dio Dioniso che si presenta di volta in volta con la maschera di Edipo o di Prometeo. Lo stesso Nietzsche si accorgerà che il suo tentativo era destinato a fa llire: « La presente musica tedesca)) e ora Nietzsche pensa a Wagner che un tempo egli ave­ va posto accanto a Eschilo e a Sofocle «va sempre più rivelandosi come romantica, come la meno greca di tutte le possibili forme d'arte )). Ma egli non sembra mai accorgersi che, nonostante ogni differenza, la forma concentrica del teatro greco, che « arieggia una 50

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valle solitaria aperta in un anfiteatro di montagne », non differisce sostanzialmente dal tempio wagneria­ no di Bayreuth: in entrambi i casi ci si trova in un luogo di evasione provv isoria, nel cui «incantesimo)) appare sì la «verità >> della vita , ma che lascia fuori di sé quella « menzogna della civiltà» nel la quale l'uomo ha tuttavia la sua abituale dimora . Se nei primitiv i il tempo sacro della musica (cioè della rievocazione del grido) non lascia quasi spazio alle azioni irrilevanti del tempo profano, nel la tra­ gedia greca, invece, e nella stessa orgia dionisiaca che sta all'origine della tragedia, il tempo sacro della musica è contenuto e controllato all'interno del breve periodo che gli è consentito dalle istituzioni civili che riempiono e si stendono nel grande spazio del tempo profano. Eppure La nascita della tragedia tocca il nodo decisivo che lega la musica alla vita dell'uomo. Per Nietzsche la musica è il linguaggio originario che esprime la verità essenziale della v ita . La verità es­ senziale è quella che il saggio Sileno; maestro di Dio­ niso, rivela al re Mida che, dopo averlo catturato, lo costringe a dirgli quale sia la cosa migl iore per gli uomini. È irraggiungibile, risponde il Sileno: non essere nati, non essere, essere niente. Ma subito dopo questa, irraggiungibile, la cosa di gran lunga miglio­ re è morire presto. L'uomo è « stirpe miserabile ed effimera , figlio del caso e della pena» . Questa, la ve­ rità essenziale che la musica dice e che si riflette nel la sentenza del Sileno e nella tragedia greca (e nella fi 51

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losofia dell'epoca tragica dei Greci, che termina con l 'avvento del razional ismo socratico, in cui ha la sua pri ma incarnazione lo spirito del la scienza). La musica, dunque, non solo è il linguaggio ori­ gina rio, la « simbolica un iversale » che non può mai essere esau rita da alcun altro linguaggio, ma dice la verità essenziale della vita: che «il vero ente » - «l'Uno primigenio», « Dioniso », la vita vera che si nasconde sotto l'uomo civile - è l'« eterno sofferente pieno di contraddizioni», «l'eterno contrasto, padre delle co­ se» che scontano con la morte la colpa di essere nate, che cioè col loro annientamento rendono giustizia all'ingiustizia del loro essere state come cose deter­ minate e individuate. L'« eterno contrasto » è cioè lo stesso divenire, dove il terrore e l'orrore della morte si unisce alla «gioia dell'annullamento » di ogni indivi­ duo, perché proprio questo annullamento garantisce «l'eternità della vita » . In una delle sue ultime ope­ re, ria ffermando il tema centrale della nascita della tragedia, Nietzsche scrive che «ogni divenire porta con sé il dolore » e che nel « sacrificio� � di ogni cosa «l'eterno piacere del divenire comprende in sé anche il piacere dell'annienta mento » . Nel 1854 Eduard Hanslick aveva pubblicato u n libro rivoluzionario e aspra mente antiwagneriano, Il bello musicale, dove veniva radicalmente negata la possibilità che la musica sia un linguaggio espri­ mente un qualsiasi contenuto determinato, quale i sentimenti dell'uomo o le forme della natura. Da al­ lora la contrapposizione di Hanslick a Schopenhauer, 52

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Wagner, Nietzsche è divenuto un luogo comune. Ep­ pure Hanslick ha in comune con Nietzsche l'essen­ ziale, perché se l'anima della musica è falsata e de­ gradata quando la si intenda come rappresentazione del mondo, tuttavia Hanslick riconosce che la musi­ ca è rappresentazione del divenire, ossia di ciò che è proprio l'anima della sapienza dionisiaca del Sileno. Anzi, proprio la tesi di Hanslick che pone la musi­ ca come dissolv imento di ogni immagine avvalora il principio nietzschiano che vede nella musica la sim­ bol ica universale del dissolv imento di ogni indiv iduo. Ma ancora più decisiva è la singolare affinità tra Nietzsche e gli antichi miti cosmogonici, per i quali il mondo è creato da un dio o da un coro di dèi (gli antenati totemici), che, compiuta l'opera , muoiono in una caverna - ogni cosa del mondo è una. loro caver­ na - e si trasformano in un suono addormentato o sognante . La morte del dio: come l'eterna sofferenza di Dioniso e del l' Eroe tragico, ossia di ciò che l'uomo è veramente, al di sotto del velo il lusorio della sua indiv idualità. E come nell'« incantesimo » dionisiaco, così la musica è, in quei miti , la pratica magica che risveglia il suono addormentato in cui è imprigionata l'energia creatrice, e non solo rappresenta , ma ripete il sacrificio originario della creazione. La tesi centrale de La nascita della tragedia ha molte più ragioni di qua nto non si sia disposti a ri­ conoscere (e su queste ragioni dov remo ritornare). La sentenza del Sileno traduce la parola originaria della musica. Ciò che invece Nietzsche non riesce a scor53

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gere è che la « sapienza)) di Dioniso è la « sapienza)) stessa della scienza e della tecnica, che hanno spi n­ to al culmine la nascita e la morte , il divenire delle cose . Da tempo nei miei scritti si mostra che questa « sapienza)) è la follia estrema, l'errore estremo della civiltà. Ci si prepari allora a riflettere su questa possi­ bilità : che la musica stessa stia alla radice della follia estrema in cui cresce la nostra epoca. Anche Lucifero è il più bello degli Angeli. Ma non si dice forse che la sua è la luce della follia ?

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Il verbo « decidere »

Eppure il linguaggio è trasparente: nelle lingue in­ doeuropee sono molti i casi in cui la stessa parola indica, insieme, il «decidere » e il « recidere » (sepa­ rare, troncare, spezzare) . Da tempo immemorabile il nostro linguaggio dice: Chi decide separa . La lin­ gua ita liana, poi, eredita dal latino un'allusione così insopportabile da riuscire incredibile: la vicina nza tra « decidere » e « uccidere » . Queste due parole sono entra mbe formate sul verbo latino «caedere » , che si­ gnifica « colpire » e anche « spezzare » . Il colpi re non è infatti semplicemente un toccare: colpire è sempre spezzare qualcosa. In « decidere », la preposizione « de >> indica il distacco, la frantumazione prodotta dall'urto: in «uc-cidere » (il latino dice « oc-cidere » ), la preposizione « oh» rinforza e rende ancora più

« Corriere della Sera » , 8 ottobre 1 98 3. 55

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esplicito il senso del « muover contro », già presente in « caedere » . E chi non decide ? Noi continuiamo a decidere - a nche se la maggior parte delle nostre decisioni son diventate abitudini. Anzi - si dice - la salvez­ za dell'uomo dipende dal modo in cui egli decide . Si tratti della sa lvezza terrena o di quel la dell'anima. E si continua a ripetere che il nostro è un tempo di grandi decisioni, perché da esse dipende se la razza umana potrà sopravvivere o dovrà andare distrutta . E allora , da ogni parte, si consigliano gli uomini su come debbano decidere. È vero che se c'è qualcosa di cui non son mai stati poveri, questo sono le decisioni. Ma poiché sembra ovvio che le decisioni possano essere buone o cattive, i consigli li si dà per far decidere bene. Non c'è tempo per pensare che la Follia può consistere proprio nel fatto che l'uomo decide ( bene o male) . Il tempo serve a decidere. Facciamola finita con i pensieri inutili! Eppure sulla terra non si è mai fatto altro (anche da parte dei poeti ! ) che costruire pensieri utili. Aristotele credeva di poter dire che la filosofia non serve perché non è una serva; eppure la fi losofia greca continua a servire nel modo più possente . Il pensiero inutile con­ tinua a rimanere inaccessibile (e se sopraggiu nge, non sopraggiunge perché si abbia deciso di possederlo) . Gli uomini decidono le cose più diverse: grandi imprese e umili gesti, costruzioni e distruzioni, de ­ cidono di amare e di odiare. Ma per quanto diverse e opposte, tutte le decisioni sono, appunto, decisio56

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ni; hanno cioè in comune l'essenza del decidere. In ogni decisione questa essenza è presente. Ma se essa viene alla luce, le nostre abitudini mentali restano sconvolte . In qualsiasi decisione, chi decide è convinto che una certa regione del mondo (grande o piccola) di­ penda soltanto da lui. Il contadino decide di vangare il suo campo. Certo, confida nell'aiuto di Dio. Ma non per questo lascia a Dio il compito di lavorargli la terra . È sicuro che il terreno sia buono e il gelo an­ cora lontano. Ma è anche sicuro che tutto questo - e altro ancora che possa essergli favorevole - non basta perché il terreno venga a trova rsi dissodato. Sa che occorre il suo lavoro. Sa dunque che il suo lavoro non basta, che tante e tante altre cose occorrono perché esso vada a buon fine; ma sa anche che il suo lavoro è insostituibile. Certo, può credere che Dio abbia il potere di far­ gli trovare dissodato il suo campo; ma, in questo ca­ so, egli non decide nemmeno di lavorarlo. Quando prende questa decisione, è convinto che una parte del mondo - cioè la propria opera - dipenda totalmente, assolutamente, esclusivamente da lui. È convinto di questo, anche se è del tutto incapace ad esprimerlo e anche se dice che tutto dipende dalla volontà di Dio. Là dove crede che nella stessa sua opera ci sia la ma­ no di Dio o il favore della natura, là il contadino non decide, ma attende e riceve. Ma, daccapo, se fosse convinto di ricevere tutto, non deciderebbe niente. Se decide, crede di essere il signore assoluto di un regno 57

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- sia pur grande , questo regno, come il lavoro di un contadino che dissoda il suo campo. Inoltre, in quanto crede che la sua opera dipenda solamente da lui, crede anche di avere in sé qualcosa che non dipende da a ltro. Se sentisse di dipendere to­ talmente da altro, non potrebbe credere che qualcosa dipende solamente da lui. Chi prende anche la più umile, la più tenera delle decisioni, non solo crede di essere il signore assoluto di un regno, ma crede anche di essere il signore assoluto di sé stesso - di quella parte di sé che è protagonista del decidere . An­ che nella più umile e nella più mite delle decisioni la coscienza s' impadronisce di una parte della potenza di Dio o dell'Universo; anche se con le labbra ci si inchina dinanzi ad essi. Nel profondo del cuore, chi decide è ateo. E oltre a rubare la potenza di Dio, si contende il mondo con gli altri ladri di potere . Ma tutto questo significa che chi decide « separa >> . Credendo che u n a parte del mondo dipenda sola­ mente da lui, egli è convinto che tutti i legami che uniscono questa parte al mondo possano essere sciol­ ti. Se li vedesse indissolubili, crederebbe che la parte dipende dal mondo e non potrebbe credere che essa dipende unica mente da lui. E poiché noi continuia­ mo a decidere, le parti che andiamo via via separan­ do dal mondo diventano sterminati territori, piane­ ti, galassie di continuo contesi dalle decision i degli altri uomini. Chi si crede padrone di una parte del mondo, non solo separa questa parte dal mondo, ma separa sé dagli altri uomini che decidono il mondo. 58

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Agli occhi di chi decide, il mondo appare disponibile alle decisioni e quindi appare già frantumato in una miriade di parti che stanno unite tra loro con lega­ mi che le decisioni si inca ricano di volta in volta di sciogliere. Il linguaggio mostra l'identità del decidere e del re­ cidere. E chi uccide recide la vita. Ma se il mondo è un'infinità di parti giustapposte - tali cioè che nessun legame indissolubile le unisce -, ogni reci sione e ogni uccisione, ogni omicidio e ogni genocidio rispetta­ no l'intima costituzione delle cose e la loro autentica vocazione. Se le cose sono decise, e cioè in sé stesse separate, il reciderle non viola l'inviolabile. Inviola­ bile è solo l'indissolubile. Chi recide i lega mi che si lasciano sciogliere, chi viola le leggi che si lasciano trasgredire, non « nuoce » dunque alle cose, ossia è « in-nocente )); appunto perché si limita a scioglierle dai legami precari che di volta in volta le tengono unite . Ogni violenza è innocente, se il mondo è ciò che nel decidere si crede di vedere. E se decidere significa credere nella precarietà e accidentalità di quei lega mi, cioè nella separazione originaria delle cose, chi decide di rifiutare ogni vio­ lenza chiude la porta dell'ovile dopo aver lasciato entrare il lupo. Ciò che egli decide - ossia il rifiuto della violenza , la chiusura della porta dell'ovile - è smentito, vanificato, negato dal fatto che esso è, ap­ punto, qualcosa di deciso, cioè qualcosa che esiste come contenuto dell'estrema violenza del decidere. La decisione di rifiutare la violenza è incoerente . Una 59

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volta che ci si trova a decidere, la coerenza a questo stato esige che si accresca all'infinito il dominio del mondo, recidendo ogni limite e ogni legame che vi si opponga . L'i mmagine del mondo proposta dalla cultura con­ temporanea è essenzialmente identica all'immagine che del mondo possiede chi decide . La cultura espri­ me e coltiva la decisione e crede quindi che il mondo sia un aggregato di parti precariamente unite. Que­ sta stessa cultura, poi, si straccia le vesti constatando che la volontà di dominio non si arresta davanti ad alcun limite e tanto meno è fermata dalle esortazioni e dagli incitamenti mora li. In questa prospettiva, la « questione morale )) , di cui si parla oggi in Italia, è un modesto esempio dell'inconsapevole malafede della cultura mondiale. L'immagine del mondo cui è pervenuta la nostra civiltà, e che da sempre è presente in chi decide, sta al culmine della potenza . Ma non è indiscutibile. (Si camminerebbe però subito su una strada sbagliata, se, mettendo in questione il decidere - ché appunto di questo si tratta -, si decidesse di non decider più nulla. La strada sbagliata dell'Oriente. )

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Il dolore e la gioia nella trama della vita

Il dolore , soprattutto quello dei bambini e degli innocenti, può servire da «concime » per preparare }' l'affer­ mazione dell'eternità e della non annientabil ità di ogni cosa, facciano pure (se si vuole, si può convenire di chiamar « nero >> il bianco); ma ciò che qui importa chiarire è che Dostoevskij non aveva e non poteva avere in alcun modo previsto e tanto meno superato ciò a cui, nei miei scritti , ci si riferisce . Certo, ne I demoni, Kirillov afferma che vi sono istanti, soprattutto quello in cui un uomo si uccide per dimostrare di non aver paura della morte, in cui «il tempo a un tratto si arresta ed ecco l'eternità» e «la felicità». Da Kiril lov, oltre al resto, può venir fuori tutta la filosofia di Carlo Michelstaedter; ma l'« eternità» di Kirillov riguarda soltanto un istante destinato a precipitare nel n iente (e la sua « felicità» è effimera come l'istante); laddove l'eternità autentica è propria di ogni istante, sì che nessun istante ha bi64

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sogno di un Faust che gli dica: « Fermati, sei bello ! » . Nessun istante fugge nel nulla, perché ogni « i-stan­ te » « sta>> nell'essere, senza pentimenti. Ad Ivan, Alesa risponde: « Fratello, tu hai chiesto prima se esista in tutto il mondo un essere che possa perdonare e abbia il diritto di farlo. Ma questo essere c'è, e lui può perdonare tutto, tutti e per tutti, perché lui stesso ha dato il suo sangue innocente per tut­ ti e per tutto». Nella prospettiva che sopra abbiamo richia mato e che vede in Dostoevskij il culmine del pensiero filosofico, queste parole di Alesa conterreb­ bero la risposta risolutiva al nichilismo. Ivan, si dice, nega l'esistenza di Dio; e questo è per Dostoevskij il nichilismo. Ma Ivan nega Dio, inteso come «armonia suprema» in cui è spiegata la neces­ sità del dolore, Dio come fondamento e ragione del mondo, come Dio « metafisica » . Ma questo non è il Dio della fede cristiana, che può perdonare tutto e tutti e per conto di tutti perché «ha preso su di sé » tutte le sofferenze del mondo: Dio non spiega la sof­ ferenza: Dio soffre . E più volte, in quella prospettiva , si ripete: « Chi, se non Dio » , può prendere su di sé tutte le sofferenze del mondo ? Ma in quel « Chi, se non Dio ? >> non si nasconde forse proprio quel Dio « metafisica » , dal quale si vorrebbe tener lontano il Dio della fede cristiana? Se infatti Dio non è l'Onnipotente - e quindi fonda­ mento e ragione e armonia suprema e conclusiva del mondo -, il suo prender su di sé il dolore del mondo è soltanto una velleità, da cui chiunque degli umani 65

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può essere preso. Se Dio non è l'Onnipotente, che senso ha chiedersi : « Chi, se non Dio ? » . Se Dio è solo un grande sofferente, egli può pati re anche la soffe­ renza di constatare il fallimento del suo tentativo di prendere su di sé tutta la sofferenza del mondo. Ha invece senso chiedersi: « Chi, se non Dio ? » , solo se Dio è lo splendore dell'Onnipotenza - come appunto afferma l'ortodossia della Chiesa cattol ica , che anco­ ra (ma per quanto ?) non ha in sospetto il Dio del la metafisica, ma lo unisce al Dio della fede.

La Memoria Ancora : quando si dice che Dio, prendendo su di sé il male del mondo, « si fa scandalo e follia», si pensa daccapo a Dio come Perfezione, Sapienza, Beatitudi­ ne assolute, cioè, daccapo, si pensa al Dio metafisica, giacché follia e scandalo è che Dio, così inteso, pren­ da su di sé il peso del male, sino a farsi « maledizio­ ne » , come dice l'apostolo Paolo. Ché se Dio non è così inteso, allora la parola «Dio» non significa altro che il portatore della follia e dello scandalo; e allora non è né folle né scandaloso che tale portatore sia fol­ le e scandaloso. Volendo liberarsi dal Dio della meta­ fisica, il Dio della fede cristiana diventa un mostro di sofferenza, che non può far nulla per salvare l'uomo, o riesce a dare una salvezza che consiste soltanto nel­ la « memoria della vita offesa irreparabilmente e per sempre » . 66

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Ma se la Memoria è il luogo dove tutte le cose ri­ mangono eternamente, allora non solo la vita offesa, ma ogni forma di vita e ogni cosa e firmamenti e affetti eternamente rimangono. E la Memoria non si limita a tenere eternamente raccolte le cose: risolve da sempre ogni loro contraddizione e quindi ogni dolore . Il dolore - questo mio e tuo dolore - è eter­ namente oltrepassato dalla Gioia - cioè dall'essenza nascosta dei morta li. Il dolore puro (contro il quale si rivolta lvan) non esiste: non esiste il dolore che è soltanto dolore e che è in rapporto soltanto con sé stesso. Il dolore è già da sempre l'ordito della Gioia, come la notte lo è del giorno. Ma può mostrarsi la Gioia? Può il dolore mostr�re il proprio esser già da sempre passato (oltrepassato) ? Se si vuol parlare di carattere tragico della nostra esistenza, esso trova in queste domande la propria espressione autentica.

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Sono eterne tutte le cose

Il pensiero più inquieta nte dice che tutto è eterno. Non nel senso tradizionale, per cui è eterno il mondo nel suo insieme, o eterni sono gli elementi costitu­ tivi della materia, o la legge della realtà , o la realtà in qua nto conosciuta da una mente divina. Non in questo senso. «Tutto è eterno » significa che ogni mo­ mento della realtà è ossia non esce e non ritorna nel nulla; significa che anche alle cose e alle vicende più umili e impalpabili compete il trionfo che si è soliti riservare a dio. Eterno ogni nostro sentimento e pensiero, ogni for­ ma e sfumatura del mondo, ogni gesto degli uomini; e tutto ciò che appare in ogni giorno e in ogni istante: il primo fuoco acceso dall'uomo, il pianto di Gesù appena nato, l'oscillare della lampada davanti agli -

« Corriere della S era » , 11 luglio 1985. 68

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occhi di Galileo. Hiroshima viva e il suo cadavere. Eterna la coscienza che vede le cose e la loro eternità e vede la fol lia della persuasione che le cose escano dal niente e vi ritornino - la follia che domina il mon­ do. Eterna anche questa follia; e il suo esser già da sempre oltrepassata nella verità e nella gioia. Ma l'eternità del tutto non è un mito - ed è anzi il pensiero essenziale - solo in quanto mostra la propria innegabilità e verità (e mostra insieme che cosa signifi­ ca « innegabilità», «verità» , « mostrare», « significare », ecc.). Da trent'anni i miei scritti tentano di parlare dell'eternità del tutto. Trent'anni, un'inezia. Ma una delle teste più forti della cultura filosofica attuale ha finito col dare ascolto, certo non a me, ma al pensiero essenziale cui si rivolgono i miei scritti. Mi riferisco al­ la testa di Gustavo Bontadini, di cui in altra occasione ho scritto che vale più di tre Maritain messi insieme. Parlo di Maritain, perché Bontadini è cattolico, un grosso cattolico, figl io devoto della Chiesa apostolica romana, decano dei professori dell'Università Catto­ lica . Ma anche filosofo. E la sua testa gli ha consen­ tito di «darmi ascolto » sul punto decisivo. Che però, per un cristiano, e per gli altri, è anche il più perico­ loso. E lo ha fatto - lui che era stato il mio maestro con straordinaria umiltà. Più di vent'anni fa , su «Rivista di filosofia neo­ scolastica», Bontadini diceva che il proprio discor­ so filosofico aveva una « forma piuttosto embriona­ le, reticente, allusiva>> - ed era una delle forme più rigorose e profonde della cultura cattolica ! - e che 69

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quindi era « bisognoso di parecchie esplicitazioni», e si diceva «grato » a me che gli avevo dato l'occasione di chiarirlo. Il chiarimento consisteva appunto nel ri­ conoscere che tutto è eterno, ossia che l'affermazione dell'eternità del tutto è incontrovertibi le. Certo, per diversi motivi, Bontadini non poteva seguirmi fino in fondo - da quasi trent'anni ne discutiamo -, ma il passo decisivo (e scandaloso per molti intellettuali cattol ici) l'aveva compiuto. È a un cattolico e a un fi losofo come Bontadini che penso, quando leggo le osservazioni che mi vengono via via rivolte da questa e altre parti . Per esempio da un cattolico come Gaspa re Barbiellini Amidei, che su queste colonne ha scritto recentemente (23 maggio) che la mia filosofia « ha bisogno di una incrinatura nella certezza, di una sfilacciatura nella logica, ha bisogno di un dubbio, di un ripensamento, di un pic­ colo ripensamento » . Queste affermazioni, però, hanno senso solo s e si dà per scontato che sia meglio stare nel dubbio che nella certezza . Certo, meglio il dubbio che la certezza mal riposta . Ma Ba rbiellini poteva pur darmela una mano per farmi capire come ho mal riposto le mie certezze; e invece non l'ha fatto, e io le mie certezze me le son dovute tenere. Perché, in sostanza, quel che egli rimprovera al mio discorso è di non essere cristiano, e che c'è nel cristianesimo un traboccare di sentimenti e di vita che la mia filosofia lascerebbe da parte. «La pietà è una realtà non filosofica» , scrive . 70

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Ma la fi losofia non ha fatto altro che pensare la vita (e i sentimenti). Anche nei miei scritti non si fa al­ tro che pensare il senso della vita . O Barbiellini vuole che il pensiero abbia i caratteri delle cose alle quali esso pensa ? E che esami nando, poniamo, il male e lo sterco, il pensiero debba essere un po' maligno e stercorario ? Buona parte della cultura contempora­ nea ama credere che il pensiero, come le rose, cresca nel letame. Ma non so se sia questa la posizione di Ba rbiellini. A parte il fatto che anche la tesi che il pensiero cresce nel letame è costretta anch'essa - se è pensiero - a vivere nel letamaio. Ma quando il pensiero pensa la v ita, l'amore, la pietà non dovrà essere forse v itale, amoroso, pietoso? Tuttav ia, se è avventato dire che il pensiero è sterco­ rario quando pensa lo sterco, è altrettanto azzardato sostenere che esso è vitale e pietoso quando pensa v ita e pietà. Pensando a quei tre crocifissi sul Golgo­ ta, si dovrà forse dire, in nome della vita, dell'amore e della pietà, che di crocifissi non ce n'erano o erano soltanto due ? Penso di no, anche se è crudele che fos­ sero in tre invece che due o nessuno. Il pensiero non ha da essere né maligno, né pietoso, ma vero; e mostra re le radici della violenza e della pietà. Dice allora che ogni odio e violenza scaturisco­ no dalla convinzione che le cose escono e ritornano nel niente - giacché solo se sono oscillanti tra essere e niente ci si può proporre di dominarle, padroneggiar­ le, spingendole nel niente e sull'essere. Dice inoltre, il pensiero vero, che anche ogni amore e ogni pietà si 71

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muovono all'interno di quella convinzione e quindi il loro tentativo di vincere odio e violenza è destinato a fa llire. Anche l'amore vuole intervenire nel l'essere e ca mbiarlo. Non sa che l'essere - ogni cosa - ha già tutto quello che vorremmo dargli . Se l'essere potrà mostrare il volto della gioia, invece di quello del do­ lore, non dipenderà dunque dall'azione trasformatri­ ce dell'uomo o di dio. Kierkegaard - che a Barbiellini potrebbe essere pi ù utile di Si mone Weil - non ch iedeva alla filosofia di essere amorosa , ma sosteneva che chi vuole amare in modo autenticamente cristiano deve abbandonare la fi losofia. E tuttavia, a chi gli avesse chiesto in che consista il vero amore cristiano, egli avrebbe risposto rinvia ndo alla propria interpretazione del cristianesi­ mo, cioè alla propria filosofia. A Barbiellini, che mi domanda « Come si può amare un prossimo che è sogno ? » , debbo rispondere che se l'è sognato lui che per me il prossimo è sogno. Il vero pensiero dice inve­ ce di non essere ancora capace di affermare in modo incontrovertibile che le « menti altrui» esistono: l'esi­ stenza del prossimo è ancora un problema. Se il buon Sama ritano non ha una mente, è un robot, quindi non è prossimo. Ma che, al di là del suo comporta­ mento, egli abbia una mente, questo è appunto un problema. Ancora un momento con Bontadini, che nello scritto summenzionato mi diceva : « Come non si può prescindere da Parmenide . . . così non si può prescin­ dere dalla tua valorizzazione di Parmenide » . (Lo 72

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ringrazio.) Essa consiste appunto nel dire che tutto è eterno. Ma per il grande Parmenide il « tutto )) è il puro «essere )) ' che lascia al di fuori di sé le cose de­ terminate e concrete. Per lui, le cose sono niente. Egli è anche il padre della follia che avvolge la terra - la follia che , a ffermando che le cose escono e ritornano nel niente, afferma che le cose sono niente . Ritornare a Parmenide significa riuscire ad andare oltre Parme­ nide, senza perdere di vista l'eternità di tutte le cose, cioè senza imboccare il sentiero percorso dalla nostra civiltà, dove le cose sono prodotte e distrutte, odiate ed amate .

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Chi bussa ? La scienza

La scienza incomincia a chiedere aiuto alla morale e si trova di fronte a un'ombra che va scomparendo. Cresce la sensibilità per gli aspetti distruttivi della scienza e della tecnica - si ha l'impressione che la na­ tura dell'uomo stia per essere alterata e stravolta in modo irreparabile - e non è stato mai così incerto in che consista la natura dell'uomo e perché la distru­ zione sia qualcosa di negativo. Se si lascia da parte la retorica del la «dignità» e del «valore » dell'uomo, perché i più forti, per sopravvivere, non devono sot­ tomettere e distruggere i più debol i ? Non è accaduto sempre questo nella storia dell'uomo ? Perché ciò che accade « non deve )) accadere ? Più il comportamento morale si diffonde sulla terra più decresce la capacità di giustificarlo.

« Corriere della Sera», 5 luglio 1987. 74

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Da più di duemila anni l'etica appa rtiene alla filo­ sofia. La crisi della filosofia è crisi dell'etica. Sono in circolazione vari tentativi di sa lvare l'etica dal naufra­ gio della filosofia. Uno di questi, diffuso soprattutto nei Paesi anglosassoni e in Germania, è sostenuto da nomi di . tutto rispetto: R . S . Peters, K.O. Apel , A.J .. Watt, J. Habermas. Nel loro intento di purificare l'etica dalla tradizione filosofica, si muovono, senza rendersene conto, all'interno di uno dei temi più cen­ trali e più antichi di tale tradizione . Ma proprio per questo il loro tentativo ha un peso ri levante , anche in rapporto alla situazione in cui la scienza sente il bisogno di rivolgersi all'etica e resta forse abbastanza delusa se le si propone un'etica scientifica .

Chiodi inutili C 'era una volta un uomo chè passava la sua vita a condannare il mangiare e il bere. E c'era anche u no specchio, appeso a u n chiodo, che riteneva comple­ tamente inutili i chiodi. C 'era anche un fuoco che pensava a quanto la sua fiamma si sarebbe levata più alta e più pura se non avesse avuto Pimpaccio della legna. Variante del fuoco, la colomba, convinta che senza la resistenza dell'aria avrebbe volato meglio. Che cosa hanno in comune quest'uomo, lo specchio, il fuoco, la colomba ? Che muovono contro qualco­ sa, senza di cui non potrebbe esistere questo stesso loro movimento. E cioè sono costretti ad accettare 7S

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quel che vorrebbero rifiutare e che dunque non rie­ scono a rifiutare per davvero. Solo se mangia e beve, quell'uomo può avere la forza di condannare il bere e il mangiare. Solo se il chiodo lo regge, lo specchio può star lì a pensare al l'inutilità dei chiodi. Solo se la legna arde e l'aria fa resistenza, il fuoco può va­ gheggiare l'assenza della legna e la colomba quella dell'aria. Il vecchio Aristotele diceva (ma lo sapevano anche Socrate e Platone) che per mandare al diavolo la fi lo sofia bisogna fare filosofia - appu nto perché chi fosse capace di prova re che non si deve fare filo­ sofia sarebbe lui il vero filosofo. Chi rifiuta la filoso­ fia è come l'uomo, lo specchio, il fuoco, la colomba di cui abbiamo parlato. Parte per la guerra contro la fi losofia, ma è la filosofia a fornirgli le armi e il fiato. Ebbene, gli studiosi sopra menzionati mirano a fondare le leggi più generali dell'etica non deducen­ dole da certi primi principi (che si troverebbero nelle cond izioni del barone di Miinchhausen quando, vo­ lendo tira rsi fuori dall'acqua, tirava su la coda del proprio cavallo), ma mostra ndo che chi nega tali leg­ gi si trova costretto ad accetta rle . Quelle leggi si tro­ verebbero cioè, rispetto a chi le nega , nelle condizioni in cui si trova il chiodo rispetto allo specchio che ha antipatia per i chiodi (e che se riuscisse a eliminarli fi nirebbe col cadere a terra in mille pezzi). Vogliamo seguire i nostri studiosi ? Chi nega una qualsiasi legge morale - essi dicono partecipa a una discussione con altre persone, si in­ serisce cioè nell'ambito di quella discussione pubblica 76

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che coincide con la società stessa. Ma questa parteci­ pazione non ha senso se non rispetta certe regole. Ec­ cone alcune. Quello che nella discussione uno dice, lo dice perché ne è convinto e non perché è preso a bot­ te . Ch iunque sia in grado di farlo può prendere parte alla discussione. Si può discutere tutto, cioè non esi­ stono dogmi intoccabili. Ma queste regole non sono altro che i grandi principi morali del la condanna del la violenza, della libertà di opinione e dell'eguaglianza tra gli uomini. Chi dunque, per negare ogni morale, partecipa alla dimensione pubbl ica della discussione, è costretto ad accettare le regole del la discussione e cioè quei fondamenta li principi mora li che invece egli vorrebbe togliere di mezzo. Essi sono «presupposti inevitabili» di ogni discussione. Rispetto a chi li vuo­ le negare sono come il ch iodo rispetto allo specchio. Il vecchio argomento contro lo scettico dice: « Se neghi la verità, sostieni la verità » (sostieni la verità consistente nell'esclusione della verità). I nostri filoso­ fi anglo-germa nici mirano a mostrare che in questa situazione si trova anche chi nega quei fonda mentali principi della morale. Tentativo molto interessante, ma senza successo. E al di sotto del livello in cui si era portato Aristotele. Perché questi filosofi, in sosta nza, vorrebbero mo­ strare che chi nega i principi fondamentali della mo­ rale si contraddice; mentre Aristotele andava più in là e mostrava perché non ci si deve contraddire - e lo mostrava (ma i nostri filosofi non lo ricordano mai) facendo appunto vedere che chi nega il principio 77

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di non contraddizione è costretto ad accettarlo. Un gra nde tema della filosofia, questo, che forse qualcu­ no da noi incomincerà a trovare importante, perché all'estero (sia pure indirettamente) se ne stanno ora interessando.

Evitare lo scacco Habermas ha osservato che lo scettico della mora le può evitare lo scacco rifiutandosi di partecipare alla discussione pubblica. Se vi partecipa ha scacco matto (appunto perché presuppone inevitabilmente quello che vuole nega re). Ma, appunto, può decidere di non partecipa rvi, sostenendo così con forza , tacendo, la propria posizione . Habermas crede di superare l'o­ stacolo (Etica del discorso, Laterza, 1985), osservan­ do che solo apparentemente lo scettico può evitare di discutere con gli altri . Infatti egli non può evitare di vivere nella società, a meno che non « cerchi rifugio nel suicidio o in una grave ma lattia mentale » . Ma vivere nella società significa accettare (più o meno esplicita mente) i rapporti sociali di comunicazione, cioè significa inserirsi nell'ambito della discussione pubblica e quindi accettare le regole che presiedo­ no lo svolgersi della discussione e che sono i principi stessi della morale. Eppure lo scettico può fare un'altra mossa, non prev ista da Habermas, per evitare di far la fine dello specchio. Egli può dire, o anche solo pensare, che 78

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tutta questa faccenda di un io, di un tu, di un noi tra i qua li si svolge la discussione - insomma l'esi­ stenza stessa di una molteplicità di esseri umani che discutono fra loro e formano la società - è tutt'altro che pacifica. Abbasso i dogmi! Bene ! Ma che esista la dimensione pubblica e la società - può pensare lo scettico - è per i nostri studiosi il più indiscutibile e intoccabile dei dogmi. Dopotutto, bisogna che essi siano capaci di smontare il solipsismo! È vero - può continuare lo scettico - che io sono costretto ad ac­ cettare i rapporti sociali. Ma ciò non mi impedisce di mettere in dubbio il loro valore, come chi è legato al­ la catena può sensatamente pensare che forse domani potrà liberarsene . In altri termini, lo specchio può replicare al chiodo: non darti tante arie, perché se è vero che ora senza di te non potrei stare appeso alla parete, posso tuttavia pensare che oltre a i chiodi vi siano tanti altri modi che consentono di stare appesi. Se si vuole fondare l'etica si devono dunque battere a ltre vie. E sembra che la scienza, dopo avere bussato alla porta dell'etica, debba aspettare ancora prima che qualcuno le apra .

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L'orrendo volto della nuda verità

« C 'è un solo mondo, ed è fa lso, crudele, contrad ­ dittorio, corruttore , senza senso » . Se ancora si vuoi usare la pa rola « vero » , si può dire che «un mondo così fatto è il vero mondo » . E tuttavia «noi abbia­ mo bisogno della menzogna per vi ncere questa "ve­ rità", cioè per vivere » . In queste affermazion i, che compaiono in uno dei fra mmenti postu mi più tard i , s i esprime uno d e i temi centrali di Nietzsche (Op e ­ re, Adelph i, vol . V I I I , tomo 2). Per > , 8 gen naio 1988. 80

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Ma il mentitore per eccellenza è !'«artista». Lo di­ ceva già Platone: «l poeti mentono molto » . Ma men­ tre per Platone questo era i l motivo per il quale gli ar­ tisti devono essere cacciati dallo Stato, per Nietzsche invece questo è il motivo per cui dobbiamo tenerci stretti ad essi: « La verità è brutta: abbiamo l'arte per non perire a causa della verità» . Sessant'anni prima d i Nietzsche, Leopardi scrive che «l'esistenza, per sua natura ed essenza, è un'imperfezio­ ne, un'irregolarità, una mostruosità» (Pensieri, 4174) e che non si possono ignorare «le contraddizioni palpabi­ li che esistono in natura» (op. cit., 4099). Con quest'ul­ tima parola Leopardi si riferisce a ciò che Nietzsche chiama « mondo ». E anche il termine «esistenza» ha lo stesso significato. «Esistenza», dice Leopardi in questo contesto, è «tutto quello che è». Cioè, daccapo, «esi­ stenza» indica ciò che Nietzsche chiama « mondo». Al mondo e all'esistenza Nietzsche e Leopardi asse­ gnano gli stessi caratteri negativi: mancano di senso e sono irregolari, mostruosi e crudeli, contraddittori e falsi, corruttori e imperfetti. Che il mondo sia così è il vero; e dunque Leopa rd i, nel Dialogo di Timandro e di Eleandro parla del «misero e freddo vero » e delle «verità dure e triste )) alle quali egli si rivolge nei suoi scritti filosofici. La fi losofia, cioè la conoscenza della verità , si dice nel Dialogo, è quindi «dannosissima)) ' perché mostra ndo il volto duro, triste, misero, freddo della verità, porta alla «disperazione )) e non produce «altro frutto)) negli uomini « che prostrarli d'animo )) e toglier loro la voglia di vivere. 81

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Mezzo secolo prima di Nietzsche, Leopardi pensa dunque che per vivere si debba vincere la verità. Si tratta del rovesciamento più netto e consapevole del modo in cui la grande tradizione filosofica intende il rapporto tra verità e v ita. Ma proprio per questo si deve incominciare a riconoscere che la grandezza del pensiero filosofico di Leopardi sta molto più in alto di quanto si sia comunemente disposti ad ammette­ re. È una delle grandi voci dell'Occidente (della fol­ lia dell'Occidente). Sta alla svolta che conduce fuori della tradizione della nostra civiltà . Non si limita ad osservare il curvarsi della strada: appartiene a coloro che producono la curvatura. A partire dai Greci si afferma il principio che la ve­ rità rende possibile la v ita, cioè rende sopportabile il dolore che scaturisce dal divenire della v ita. La verità un isce l'uomo alla felicità. La verità possiede questa potenza, perché essa svela il Senso di tutto ciò che esiste: ogni imperfezione e irregola rità , mostruosità e crudeltà, ogni corruzione e morte, ogni apparen­ te mancanza di senso e ogni assurdità della vita so­ no ricondotti e superati in quel Senso supremo, cioè nell'Ordine, nel Principio, nella Legge da cui dipende tutto ciò che esiste. La conoscenza del Senso supremo - e quindi divino - che domina il mondo rende sop­ portabile la sofferenza, è il rimedio contro di essa. La filosofia è la prima grande forma di rimedio predisposta dall' Occidente . Ma quando non si crede più che quel Senso esista e domini il mondo, la forma 82

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tradizionale della nostra civiltà tramonta e il volto della verità diventa brutto, freddo, misero, triste, du­ ro. E quindi, se prima, per vivere, per vincere la sof­ ferenza della vita, bisognava conoscere la verità , ora per vivere bisogna vincere la verità, allontanarla dai propri occhi. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, Leopardi parla della propria «intolleranza di ogni simulazione e dissimulazione >> . A quegli «enti fantastici, adorati già lungo tempo addietro » - e innanzitutto Dio - e alle qualità morali che essi producono nell'uomo, or­ mai non crede più nessuno nel proprio intimo: sono « maschere e travestimenti » che non ingannano più nessuno. Molto prima di Nietzsche, Leopardi scor­ ge la morte di Dio nell'anima dell'uomo moderno e la riduzione della fede cristiana a « maschera». Nella Genealogia della morale, Nietzsche chiama appun­ to « maschera» , « tartuferia», « malattia» quel mondo fantastico. Ma - dice Eleandro - qua ndo la verità , dissolven­ do la fantasia, mostra che il suo volto è orrendo, si dovrà riconoscere che «dunque s'ingannano grande­ mente quelli che dicono e predicano che la perfezione dell'uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dall'igno­ ranza, e che il genere umano allora fi nalmente sarà felice, quando ciascuno o i più degli uomini conosce­ ranno il vero, e a norma di quello solo comporra nno e governeranno la loro v ita. E queste cose le dicono poco meno che tutti i filosofi antichi e moderni » . Co83

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noscere la verità , dice Eleandro, significa infatti ve­ dere «l'infelicità necessaria» dell'uomo; e questa, che è la « più manifesta e palpabi le » delle conoscenze, è anche «la sostanza di tutta la fi losofia» vera . La conclusione di Leopardi è allora che « quelle verità che sono la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare alla maggior pa rte degli uomini » . Anzi, se fosse possibi le, debbono «essere ignorate e dimenticate da tutti : perché sapute, e ritenute nell'a­ nimo, non possono altro che nuocere . Il che è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dal mondo>> e che « l'ultima conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta è che non bisogna filosofare >> : la verità deve essere dimenticata, vinta dal l'oblio, dalla men­ zogna e dalle illusioni. E tuttavia, per chi è pervenuto alla « filosofia ve­ ra e perfetta» l'abolizione della filosofia « non si può mettere in opera, non essendo in arbitrio degli uomi­ ni di menticare le verità conosciute » . Tra i primi nella cu ltura europea, Leopardi comprende che la filosofia, come conoscenza della verità , intende essere il rimedio contro il dolore della vita; che questo rimedio fallisce - Nietzsche dirà che esso è stato peggiore del male -, e che la coscienza di questo fallimento pone l'uomo in una situazione tragica, perché «la filosofia, sperando e promettendo a principio di medica re i nostri mali, in ultimo si riduce a desiderare invano di rimediare a se stessa» . Leopardi vede già la strada - percorsa nel No­ vecento da Wittgenstein - della filosofia come terapia contro la filosofia; ma la vede bloccata . 84

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Solo in relazione agli altri, ai non fi losofi, la fi­ losofia può desiderare non vanamente di rimediare a se stessa. Solo i non filosofi possono soddisfare il bisogno che l'uomo ha della menzogna per vincere la verità, cioè per vivere. Infatti, se nei suoi libri - scrive Leopardi - egli non fa che «distogl iere, sconsigliare e riprendere » lo studio della filosofia, che getta nel­ la disperazione e nell'inerzia, all'opposto egli non fa che « lodare ed esaltare quelle opi nioni, benché false, che genera no atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed uti li al ben comune o privato; quelle im­ maginazioni belle e fel ici, ancorché vane, che danno pregio alla vita ; le illusioni naturali dell'animo » . Il grande tema nietzschiano del la necessità della men­ zogna, per vivere, è integral mente ed esplicitamente anticipato da Leopardi. Per Nietzsche Leopardi è « il maggior prosatore del secolo» . Non si tratta sempli­ cemente di un giudizio estetico. Al rapporto tra que­ sti due pensatori si dovrà prestare un'attenzione che si nora è mancata .

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Dov'è l'anima dell'omicidio

Il volto dell'omicidio è palese. Ma la sua anima è nascosta . Si tratta di comprendere che essa guida e alimenta non solo le forme visibili della devastazione dell'uomo, ma anche quelle della solidarietà umana e della giustizia. Che cosa c'è di più solidale con l'uo­ mo del comandamento di non uccidere ? Eppure, ci azzardiamo a dire che anche e perfino questo coman­ damento, nel suo cuore, consente l'omicidio, accon­ sente ad esso, cioè «proibisce ciò che esso consente, proibisce in superficie ciò che esso consente nel pro­ fondo » (come ho scritto in un articolo sul « Corriere » del 3 0 agosto scorso) . Certo, sembra una pazzia . Ma il vantaggio che si otterrebbe smascherando l'anima dell'omicidio, cioè l'approvazione di esso, non sareb­ be forse infinitamente maggiore del disinga nno per aver trovato il lupo sotto le spoglie dell'agnello ?

essere ? Perché la

« Corriere della Sera » , 11 febbraio 1989. 92

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realtà «deve » essere diversa da come è - per quanto orrendo e sofferente sia il suo volto ? Deve essere diversa - a volte si risponde - perché «vogliamo» che la violenza e il dolore non esistano. In questo modo, il dovere è ricondotto alla volontà (che oggi vuole così, ma ieri così non voleva e diver­ samente potrebbe volere domani). Ma noi vorremmo capire che cosa è il «dovere » quando non lo si intende come espressione del volere - visto che anche chi si propone di devastare e massacrare dice spesso a sé e a chi lo segue: noi «dobbiamo» farlo, è un « sacro dovere » . D'altra parte, il principio di Kant, che dice di trat­ tare l'uomo come fine e mai come semplice mezzo, è un «imperativo», un pensiero che prescrive, daccapo, quel che « non deve » essere: la violenza. Sulla scia di Spinoza, Hegel prende le distanze dalla contrapposi­ zione di « essere » e «dover essere >> . Ma oggi Spinoza e Hegel non godono di molte simpatie . La violenza è violazione di una legge, oltrepassa­ mento del limite indicato da una prescrizione umana o divina. Ma se una legge è « realmente >> violata - se la sua violazione riesce a essere «veramente reale » -, tale «legge » è solo una forza che ha tentato i nvano di opporsi ad altre forze. Delle quali non si può nemme­ no dire che siano «violenza» o, se lo si dice, lo si deve anche dire della legge che le proibisce. Appunto per questo la legge, umana o divina, pre­ vede sempre la punizione del trasgressore: la puni­ zione intende « togliere realtà» alla violazione della 93

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legge. Alla resa dei conti - in questa vita o nell'altra si toccherebbe con mano che la colpa è inseparabile dalla pena e che quindi la violazione della legge - la violenza - non riesce a essere veramente reale, ma è violazione provvisoria, limitata nel tempo. Veramen­ te reale sarebbe, se avesse la capacità di evitare la pena . L'inevitabilità della pena sign ifica che la violen­ za « non deve >> essere, perché, da ultimo, « non può» essere. E la legge « deve » essere rispettata, perché è rispettata . Ma questa interpretazione della vita (che tenta a sua volta di ricondurre il dover essere all'essere) non convince più gli uomini del nostro tempo. Essa è plausibile solo se non si guarda come vanno le cose a questo mondo, ma si crede nella giustizia divina. Sul­ la Terra le colpe non sono quasi mai punite, la viola­ zione del la legge riesce a essere veramente reale. Ma anche quando si crede nella giustizia divina, non si riesce a togliere ogni realtà alla violazione della leg­ ge. La giustizia divina impedisce che possano esistere colpe non punite; ma non impedisce che la colpa e la violenza siano reali; non riesce a far sì che la violenza accaduta non sia accaduta . Inoltre, se uno si propone di violare «su questa Terra » la legge divina e non si cura della punizione che gli verrà inflitta, non si do­ vrà dire che costui non è sottoposto ad alcun dovere e che dunque per lui la legge divina è solo una forza che tenta invano di opporglisi? Comunque, se qualcuno ottenesse « vera mente » ciò che vuole - anche la più orrenda delle cose - perché 94

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dovremmo chiamare «v iolenza» la sua volontà ? Per­ ché egli dov rebbe fare altro da ciò che fa ? È « riusci­ to » ! Perché non avrebbe dovuto ? Se l'uomo «riesce » a uccidere Dio, perché non av rebbe dov uto ucciderlo ? Ma se la legge che proibisce la violenza è «veramen­ te inviolabile » , allora ciò che consideriamo violenza reale è v iolenza « apparente », apparente violazione della legge. In questo caso, i vincitori non ottengo­ no veramente ciò che vogliono e credono di ottenere. Si illudono di aver vinto. In questo caso, per quan­ to orrenda possa apparire la storia dell'uomo, essa non può mai essere la dimensione in cui la v iolazione della legge inviolabile diventa rea ltà . La violazione dell'inviolabile non può esistere, è impossibile. La vera v iolenza è appunto la volontà che vuole !'« impossibile ». Una «violenza» che vuole il possibile - ossia ciò che essa è capace di trasformare in real­ tà - non è violenza, per quanto atroce sia ciò che essa vuole e ottiene. Oltrepassa, infatti, limiti che si lasciano oltrepassare. In questo caso, la parola «vio­ lenza» è solo l'ingiuria del vinto, contro il vincitore. La vera violenza è la follia che vuole l'impossibile. La follia, essa, non è qualcosa di impossibi le. Impossibi­ le è il mondo che essa vuole. Se esiste l'inviolabile, anche il più orrendo degli eventi non è il prodotto reale di una volontà che riesca a v iolare l'inviolabile e a rendere reale l'im­ possibile, ma è la realtà che appare qua ndo si v uole l'impossibile, è lo sconcerto della realtà di fronte alle pretese impossibili della follia. 95

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Ma quello « sconcerto )) è il dolore reale dell'uomo ! Che sollievo può avere chi soffre realmente dal sapere che la violenza non riesce a violare l'inviolabile ? Qui, si può solo accennare alla risposta . Se esiste l'inviolabile (e l'inviolabile esiste! ) bisogna dire che come la violenza si illude di essere vittorio­ sa e di dominare il mondo, così la disperazione del sofferente scaturisce da questa stessa illusione, cioè dalla convinzione che la violenza domina il mondo realmente e che si è stati vinti da essa. Ma, poi, la sofferenza non esiste separata dalla gioia. È avvolta dalla gioia come nella fiamma la parte scura più vi­ cina al lucignolo è avvolta dal chiarore . L'inviolabile custodisce la gioia di chi soffre . Il quale dunque non può mai essere preda della disperazione , nemmeno qua ndo egli crede di essere un disperato. Ma può credere per davvero di essere disperato chi è sempre unito alla gioia? Ma, certo, non basta affermare tutto questo. Oc­ corre vederne la verità . Altrimenti tutto questo è sol­ tanto un mito. Peggio: è un alibi che serve a ras.§içtJ..-:­ rare le anime sensibili, dicendo loro che, dopo tutto, il dolore di chi soffre non è mai così atroce come si crede.

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Essere . O

non

essere

Nella colonna dedicata a « l classici del pensiero » , d i Rusconi, appare ora il Poema della natura d i Par­ menide. Una nuova presentazione dei « frammenti» e delle « testimonianze indirette » (con testo greco dei frammenti a fronte) proposta da Giovanni Reale, che ha curato traduzione e note, con un ampio saggio introduttivo e un commentario filosofico di Luigi Ruggiu. Un testo straordina rio. Di altissimo livello il lavoro dei due curatori. Nietzsche riteneva di essere i l solo filosofo che in due millenni e mezzo fosse riuscito a sottrarsi alla plumbea seduzione di Parmenide - il pensatore di Elea che Platone chiamava «venerando e terribile » . M a il rapporto tra l a filosofia - e, anzi, la cultura e la civiltà stessa dell'Occidente - e Parmenide è estrema-

« Corriere della Sera » , 30 giugno 1 9 9 1. 97

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mente più complesso e ambiguo. Siamo forse dinanzi al nodo e all'enigma più profondi della nostra storia. Tanto che potremmo azzardarci ad affermare che il messaggio di Pa rmenide è più decisivo di quello di Buddha e di Cristo, e della stessa scienza moderna. Ma che cosa si dice in quel massaggio ? Non sem­ bra una domanda particolarmente complessa : si limi­ ta a ch iedere che cosa ha affermato Pa rmenide . Ep­ pure è già estremamente difficile darle una risposta. Anzitutto, perché di Pa rmenide ci sono giunti solo pochi frammenti citati nelle opere di antichi autori. E si tratta di versi, scritti nel greco di cinque secoli prima di Cristo. Inoltre - e proprio all'opposto di qua nto potrebbe sembrare - il problema dell'interpretazione dei fram­ menti è complicato dal fatto che lungo l'intera storia del pensiero filosofico, dai discepoli di Parmenide a Platone, da Aristotele a Tommaso d'Aquino a Hegel (e si può aggiungere anche il nome di Heidegger), il pensiero di Parmenide è stato interpretato in modo sostanzialmente omogeneo: per questo pensiero, che per la prima volta nel la storia dell'uomo si rivolge a un senso rad icalmente nuovo dell'«essere >>, l'«essere » non è le cose, ma, se si vuole usare una similitudine, è come la luce rispetto alle cose colorate; una luce, tuttavia, così accecante che non le illumina, ma le arde e le dissolve . Ossia il mondo è illusione e solo la pura luce dell'« essere » è. Eternamente . Parmenide non si limita ad affermare questa tesi: con lui incomincia quel procedimento del pensiero 98

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che poi verrà chiamato « dimostrazione » . Appunto per questo tutta la filosofia dopo Parmenide vuole salvare il mondo dalla distruzione perpetrata dal pensiero pa rmenideo. E Platone riterrà indispensabile il «parricidio » , cioè l'uccisione del padre Parmenide. Il quale - rileviamo - è sì l'estrema minaccia per il mondo, ma, così interpretato, suggerisce anche una soluzione grandiosa del problema del dolore: poiché il mondo è i llusione, è illusione anche il nostro dolo­ re, perché ciò che noi veramente siamo non è qual­ cosa del mondo, ma è la pura luce dell'« essere)) . Il « sé)) di ognuno di noi , l'Atman - dice l'Oriente - è il Brahman, la rea ltà universale. Permenide e l'Oriente : così lontani e insieme così vicini! A partire dal secolo scorso ci si rende sempre più conto della complessità del Poema di Parmenide: fi no a che punto la luce dell'« essere)) illumina le cose e fino a che punto le annienta ? Quasi trent'anni fa ho pubblicato uno scritto inti­ tolato Ritornare a Parmenide. Si allude al compito prima rio della filosofia, in cui è coinvolto il desti­ no stesso della civiltà . Non si tratta però di essere di nuovo parmenidei, ma di ripetere in modo essenzial­ mente diverso il «parricidio)) . Si tratta di riuscire per davvero ad andare oltre Parmenide - il Parmenide che lungo l'intera storia della fi losofia si presenta con un volto sostanzialmente costante. E perché parlare di «ritorno)) ? Perché Parmeni­ de indica qualcosa di essenziale, che lungo la storia dell'Occidente è andato perduto: l'eternità dell'« esse99

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re » . Per Parmenide, eterno è l'« essere » , inteso come pura luce . Si tratta di comprendere che eterno è tutto ciò che è. I n quel mio scritto si rileva anche che nei fram­ menti di Parmenide è presente un'ambiguità di fon­ do, forse insuperabile. Il mondo in cui i « mortali» credono di vivere è illusione, dice l'Eleata . Ma questa affermazione può avere due significati profondamen­ te diversi. Si intende dire che il mondo, fatto di molte cose che cambiano, è illusione; oppure che è illusione il modo in cui i « mortali» interpretano il cambia­ mento delle cose del mondo ? Sono convinto anche oggi, come ieri, che i fram­ menti che ci rimangono lasciano senza risposta que­ sta domanda. Questo, anche se G. Reale e soprattutto L . Ruggiu si sforzano con grande acume di mostrare che invece a quella domanda si può rispondere e pre­ cisamente nel secondo dei due modi qui sopra indica­ ti. Se così fosse, }'«essere » di Parmenide non sarebbe la pura luce, ma la totalità delle cose; già lui avrebbe affermato che il divenire non è l'uscire e ritornare nel nulla, ma è il comparire e scomparire delle cose, che sono eterne. Del proprio lavoro interpretativo Rug­ giu scrive che « senza le sollecitazioni impresse dalla lezione di Severino, non sarebbe stato possibile ». Lo ringrazio, affettuosa mente. Anche se debbo ripeter­ gli che la sua tendenza è di attribuire al grande padre Parmenide quello che non può appartenergli e che invece costituisce il contenuto determinante del mio pensiero filosofico. 100

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Infine, se Parmenide avesse detto quello che Rug­ giu e Reale ritengono che abbia detto, come si spiega che tutto il pensiero filosofico posteriore a Parmenide (a incominciare dai suoi discepoli Melissa e Zenone) ha capito l'opposto di quello che egli aveva voluto dire ?

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Come vivere (e bene) le contraddizioni

Mi hanno riferito che la sera del premio Campiel­ lo uno dei finalisti ha detto che stiamo lasciando il vecchio mondo e stiamo andando verso un mondo nuovo. Dal mondo « a ristotelico» diceva, regolato dal « principio di non contraddizione », al mondo nuovo, dove invece la contraddizione è accettata . Recente­ mente, un mio critico ha scritto che, nonosta nte le peripezie a cui oggi il pri ncipio di non contraddizio­ ne va incontro, « c'è chi, su di esso, ha costruito un pensiero coerente fino all'estremo. Mi riferisco, natu­ ralmente , a Emanuele Severino » (Sergio Givone, La questione romantica, Laterza, 1 992). Debbo sentir­ mi relegato al vecchio mondo « aristotelico >> ? In un celebre dialogo di Platone, Socrate dice a Te­ eteto che « nessuno, e non solo chi è sano di mente,

« Corriere della Sera » , 22 settembre 1992. 102

l

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ma nemmeno chi è pazzo» , e « nemmeno in sogno », «ha il coraggio di dire sul serio a se stesso, e con l'in­ tenzione di persuadersene, che il bove è il cavallo � che il due è uno » , che il bianco è nero, l'uomo è un sasso, e date due cose, che l'una è l'altra . Qualcosa non può essere l'altro da sé . Aristotele, sostanzialmente, di­ ce che questa affermazione di Platone è « il principio più saldo di tutti » . E più tardi questo principio verrà chiamato « principio di non contraddizione » . A partire dagli inizi del secolo scorso tale princi­ pio è andato incontro alle critiche più radicali: da Leopardi e Nietzsche a Freud, Dewey, Wittgenstein, Heidegger; da Dostoevskij a certe diffuse interpreta­ zioni della dia lettica hegeliana e del marxismo, alle ricerche sulla menta lità primitiva , sul mito, sull'arte; da certe interpretazioni della fisica quantistica e del principio di indeterminazione all'intuizionismo ma­ tematico e alle logiche non aristoteliche, e alle loro appl icazioni non solo nell'ambito delle scienze natu­ ra li, ma anche in quello delle scienze sociali. Il prin­ cipio di non contraddizione è rifiutato come incarna­ zione suprema della pretesa dell'uomo di toccare il fondo delle cose - quel fondo che nemmeno un Dio onnipotente potrebbe dissolvere. Il rapporto del mio discorso filosofico a questo principio è invece diverso. Non si tratta di seguire il pensiero degli ultimi due secoli che ne nega il valore, e di affermare che la realtà e l'essere sono contraddi­ zione e dunque qualcosa che si sottrae alla ragione. Si tratta invece di comprendere - sono trent'anni che lo 1 03

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dico in modo esplicito, ma implicitamente lo dicevo già sin dagli anni '50 che il principio di non con­ tradd izione non riesce ad essere quello che intende essere, cioè D-On riesce a liberarsi dalla contraddizio­ ne, è un principio contraddittorio. Lungi dall'essere una pretesa smodata della ragione umana, è tragi­ camente modesto, arrendevole e disperato. Infatti il bave, il cavallo, il due, l'uno, l'uomo, il sasso, che tale principio ha cura di non confondere tra di loro, sono poi tutti da esso confusi col nulla, perché tale principio dà per scontato che le cose sorgano prov­ visoriamente in mezzo al nu lla, per risommergervisi . (In modo analogo: mentre la cu ltura contemporanea ritiene che Dio sia qua lcosa di eccessivo, un'iperbole che la rea ltà non può contenere, si tratterebbe invece di comprendere che Dio è troppo poco, e cioè è esso stesso un'immagine prodotta dal pensiero modesto, disperato di fronte al nulla da cui Dio trae e in cui risospinge le cose.) Dice Amleto che ci sono più cose in cielo e in terra di tutte quelle che la filosofia riesca a sognare. Ecco: là gli spazi infiniti e gli insondabili abissi del cielo e della terra; qui i piccoli sogni della filosofia. Con altra metafora si può dire che il cielo e la terra di A mleto corrispondono al mare, e i piccoli sogni della filosofia alle reti. Come possono le reti afferrare l'in­ sondabile profondità e l'infinita mobilità del mare ? E tutto ciò che riescono ad afferrare della vita marina, non lo trasformano in qualcosa di morto ? La vita, l'inconscio, il caos, il divenire si sottraggono anche -

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alla più solida delle reti. Anche a quella che dice che il bove non è il cavallo e il due non è l'uno. La cul­ tura tradizionale, « aristotelica)) , è amica delle reti; la cultura contemporanea è amica del mare. Eppure . . . Il mare - si dice - sfugge alle reti. Ma, anche se la domanda può sembrare strana, chiediamoci: ciò che sfugge, sfugge, oppure il suo sfuggire è un non sfug­ gire alle reti ? Il suo sfuggire è il suo essere irretito ? Chi crede che al di là delle reti c'è il mare aperto non ha dubbi nel rispondere: ciò che sfugge, sfugge; il suo sfuggire non si confonde col non sfuggire; il suo sfug­ gire non è il suo essere irretito. · Chiediamoci ancora : chi crede che il mare sfugga alle reti può credere che il mare sia una rete ? No, ri­ sponderà tutta la cultura contemporanea nemica del pri ncipio di non contraddizione: no, il mare è ma­ re, non è rete , il libero caos del divenire è il libero caos del divenire, non è il carcere degli ordinamenti immutabili sognati dagli uomi ni: lo sfuggire alle reti non è l'essere irretiti ! Ma che sta accadendo? Quanto più forte risuona questa esclamazione negativa , quanto più forte si gri­ da che il mare non è la rete, questo grido non dà forse voce alla rete contro di cui esso vorrebbe gridare ? Gridare che il mare non è l a rete non sign ifica forse trovarsi all'unisono con chi dice che il bove non è il cava llo e che qualcosa non è il suo altro ? Non signifi­ ca forse gettare la rete del principio di non contraddi­ zione e parlare in suo nome ? È solo un sogno credere di essersi portati al di là di essa, nel mare aperto. 1 05

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Essa è più resistente di quanto la cultura contempo­ ranea non pensi. Ed è estesa come il mare. La riflessione sul senso del « principio più sa ldo di tutti» è ancora ben lontana dall'essere conclusa . Non si tratta di abbandonare il vecchio mondo « aristote­ lico » per andare verso quello nuovo della contraddi­ zione. Ma non si tratta nemmeno di ritornare al vec­ chio mondo. Si tratta di pensare al di là di entrambi.

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Quale condizione umana dopo la «morte di Dio »

« Dio è morto». Oggi si tende a ridurre la forza di questa affermazione di Nietzsche . Non mi riferi­ sco tanto ai suoi avversari, qua nto piuttosto a colo­ ro che procedono lungo la sua scia. Si sostiene che Nietzsche non abbia voluto « dimostrare » o «fonda­ re » qualcosa come l'inesistenza di Dio, ma soltanto «constatare » che gli uomini non hanno più bisogno di. Dio e non credono più nella sua esistenza . Ma, si aggiunge , l'apparente limitatezza di questo atteggia­ mento è estremamente preziosa, perché una filosofia che, come quella di Nietzsche, nega ogni verità in sé, non può poi pretendere che l'inesistenza di Dio sia una verità in sé. Nietzsche ha fornito qualche occasione a questo modo di interpretarlo. Ma ha anche pensato qualcosa « Corriere della Sera », 26 novembre 1994. 107

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di essenzialmente più decisivo. Ha lasciato emergere la punta della montagna di ghiaccio che vaga nelle acque profonde della filosofia contemporanea e che è capace di far naufragare tutte le imbarcazioni di Dio. La voce sommersa e potente della montagna parla così: Il divenire del mondo, che nella sua forma più radi­ cale coincide con la creatività dell'uomo, è l'evidenza e la verità suprema e indubitabile. Ma si tratta di ca­ pire che, se, al di là del divenire, esistesse un Essere im mutabile - un Dio eterno, una verità definitiva -, il divenire sarebbe solo un'apparenza, cioè non potreb­ be esistere. Ma il divenire e la creatività umana sono la suprema evidenza : dunque non può esistere alcun Essere immutabile: dunque Dio è morto; è un morto che per millenni è stato creduto vivo. In Così parlò Zarathustra Nietzsche scrive appun­ to: « Che cosa mi resterebbe da creare se gli dèi esi­ stessero ? » : la creatività e il divenire dell'uomo non potrebbero esistere. «Dunque non vi sono dèi » , con­ clude Zarathustra . Questo « dunque » conclude la Di­ mostrazione che porta all'affermazione della morte di Dio. Non ci si è mai resi conto che anche la dottrina dell'« eterno ritorno » di tutte le cose (molti amici di Nietzsche vorrebbero espungerla dal suo discorso o, come Heidegger, rimangono incerti di fronte ad es­ sa) ha lo stesso intento della dottrina della morte di Dio: escludere, in nome dell'evidenza della creativi­ tà dell'uomo e del divenire, ogni Essere immutabile che smentirebbe e ridurrebbe a semplice apparenza 108

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tale evidenza. Lungi dall'essere un corpo estraneo nel pensiero di Nietzsche, la dottrina del l'eterno ritorno appartiene alla voce che qui sopra abbiamo sentito, e anzi le aggiunge un timbro di straordinaria potenza. Quando le cose diventano un passato, si crede che non siano più modificabili dalla volontà umana e sfugga no al suo potere. Irrevocabile e intoccabile, il passato, che pur sembrerebbe regno di ombre e di fuochi fatui, diventa la massa più pesante e oppri­ mente: incombente e immutabile come i mmutabi­ le è Dio che i ncombe sul divenire e sulla creatività dell'uomo. « " Ciò che fu": così si chiama il macigno che la vo­ lontà non può smuovere » - dice Zarathustra - quan­ do essa si crede incapace di «Volere a ritroso >> . Il ma­ cigno del « Così fu» grava sulla volontà come il ma­ cigno di Dio; è un Essere immutabile come lo è D io; rende impossibile il divenire della volontà , come Dio lo rende impossibile. E, dunque, come è necessario affermare che Dio è morto, così è necessario affer­ mare la morte del macigno del « Così fu» , appeso al collo dell'uomo. La dottrina dell'« eterno ritorno » ha appunto l'in­ tento (come ho mostrato in un recente convegno su Nietzsche a Napoli) di indicare le condizioni che con­ sentono alla volontà di liberarsi dall'irrevocabilità e immutabilità del passato. La volontà è creazione. (Questa è l'evidenza suprema.) Non può essere quindi qualcosa che si lasci sfuggi­ re di mano il passato, consentendogli di formare un 109

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regno intoccabile. Anche il passato deve cioè conti­ nuare ad , essere qualcosa di voluto. Non solo per un certo tempo, e poi non più; ma in eterno. Ma la vo­ lontà non può nemmeno chiudersi in eterno nell'atto che vuole una certa cosa particolare, non può diven­ tare essa stessa un macigno immutabile: è necessario che voglia anche altro, dopo ciò che essa dapprima ha voluto; dopo la veglia, il sonno, il cibo, l'amore e il dolore che si deve patire per ottenere ciò che si vuole. Si può dunque continuare eternamente a volere quel che dapprima si è voluto, e, insieme, a volere altro ancora , solo se quel voluto (e ogni voluto) ri­ torna eternamente, solo se infinite volte lo si rivuole così come era stato voluto. Se la volontà non volesse eternamente questo « a nello dell'eternità», e non fosse essa stessa questo anello, il passato le si ergerebbe contro come quel Dio eterno che rende impossibile la volontà e il divenire del mondo. Ta nto poco, dunque, la dottrina della morte di Dio è la semplice constatazione che la gente non crede più in Dio, qua nto poco ha senso ritenere che la dottrina dell'eterno ritorno sia la semplice constatazione che la gente non crede più nell' immutabilità e irrevoca­ bilità del passato. Queste due dottrine sono invece appoggiate sul Fondamento ultimo del pensiero occi­ denta le: la fede nel divenire. A differenza di quanto molti dei suoi stessi espo­ nenti ritengono, il pensiero contemporaneo non è uno scetticismo ingenuo che nega indiscriminatamente ogni verità e quindi, per essere «coerente » , debba 110

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avere l'accorgimento di non presentare se stesso co­ me verità , e quindi debba ev itare di intendere come qua lcosa di « fondato » e di « dimostrato » la dottrina della morte di Dio e dell'eterno ritorno. Chi non crede più di essere impotente verso il pas­ sato è l'uomo che ha oltrepassato l'uomo ( «super-uo­ mo >> ), perché sa che il divenire e la creativ ità del volere sono il Fondamento, la verità originaria che esclude quel la impotenza così come esclude ogni impotenza nei confronti di Dio.

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L'ingiuria , nobile arte. Purché chi la esercita abbia un po' di perfidia

Ancora non sono stato insultato come Spinoza, Kant, Fichte, Schelling, Hegel, Nietzsche, Heidegger e Gentile, ma sono sulla buona strada. Resisto alla vanagloria, ma sembra che in genere venga insultato chi disturba. Certo, con quel che succede nel mondo, che qualcuno tenti di acquistare benemerenze presso certi ambienti , sforzandosi molto di denigrare il mio pensiero filosofico, è cosa di secondaria importanza. Però c'è di mezzo la filosofia italiana contemporanea . C 'è chi si mette a giocare con attrezzi complicati e delicati di cui non conosce il senso anche se insegna storia della logica o filosofia della scienza. Qualche preoccupazione me la dà anche la nobile arte dell'ingiuria, che nel mio caso ho visto alquan­ to svilita, perché, tentando d'insultarmi, lo si è fatto « Corriere della Sera » , 3 1 agosto 1997. 112

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in modo grigio, fiacco, scontato, quando invece lo si potrebbe fare con quell'efficace e magnanima perfi­ dia che solo l'intelligenza può dare. Certo, a volte capita di dover bocciare qualcuno nei concorsi universitari. Agli autori dei libri che si rice­ vono non si può sempre scrivere che sono buoni libri; a volte è meglio non rispondere affatto. Fatto sta che negli ultimi tempi, con una frequenza superiore alla media, qualcuno ha pensato di farsi un po' di réclame e di crearsi benemerenze scrivendo che il mio discorso filosofico è ben poca cosa, o che il sottoscritto non conosce le regole più elementari della logica. L'importanza culturale della logica è ovvia. E della logica, ovv iamente, mi son sempre occupato. Tan­ to che, ad esempio, una trentina d'anni fa ho tra­ dotto La costruzione logica del mondo di Rudolf Carnap, ora ripubblicato dall'Utet con un'introdu­ zione rielaborata. In Legge e caso (Adelphi, 1979) - mi si consenta un secondo esempio - ho considerato alcuni aspetti fondamenta li della logica della probabilità (e a que­ ste pagine si riferisce più volte il saggio di Giampie­ ro La ndenna e Donata Marasini, Uno sguardo alle principali concezioni probabilistiche, Giuffrè, 1 986 ). La logica e il sapere scientifico moderno sono in­ terlocutori inevitabili de lla filosofia. Ma la filosofia, nella sua forma autentica, non è un riflesso della scienza e della logica, non desume da esse i propri metodi, i propri princìpi e il proprio rigore. La filoso­ fia come scienza rigorosa, dice Husserl. Ma quest'e113

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spressione non può significare semplicemente che la filosofia deve essere rigorosa come la scienza, ma che la forma estrema, essenziale, insuperabile del «rigo­ re » si trova in qualcosa che è essenzia lmente diverso dalla scienz� e dalla logica e che è appunto la forma autentica della filosofia. La filosofia mette in questione tutto, anche la scienza, la logica e la tecnica, non perché , vivendo, non ci si debba servire di esse, ma perché - per dirla molto alla buona - nemmeno il sapere scientifico più rigoroso s'appoggia (né ormai vuoi più appoggiarsi) a un fondamento assolutamente incontrovertibile, cioè alla « struttura originaria>> del sapere. Le persone di cui parlavo sopra, che si dedicano con incompeten­ za all'arte dell'insu lto, hanno invece intelligenza così acuta da credere che quando la filosofia mette in que­ stione qualcosa si trovi semplicemente in uno stato d'ignoranza rispetto a ciò che essa mette in questione. Come se a Galilei, che affermava che il Sole sta fermo, i suoi colleghi tolomaici avessero detto: « O che t u dici ! Non vedi a l mattino che il Sole spu nta a Oriente, e poi sale su nel cielo, e a sera va giù dall'al­ tra parte ? O che incompetentissimo tu sei! Suvvia, alzati di buon'ora e mettiti a guardare verso il chiaro ché vedrai montar su il Sole e muoversi sotto i tuoi occhi e attraversare il cielo in tutta la sua lunghezza ! Ignorante ! Ma chi mai t'ha fatto professore ? ». In questi termini m'è stato recentemente «spiega­ to» il significato della copula « è » , che nei miei scritti è messa in questione relativamente al modo in cui 1 14

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la logica la concepisce. (È capitato anche che il pro­ fessore di logica mi spiegasse, difendendo Russell dalle critiche che rivolgo alla « teoria dei tipi» , che l'identità non costituisce « una situazione nella quale si predica una proprietà d'un soggetto » . Sfortunata­ mente per il professore, Russell scrive giustamente che «una delle proprietà di x è quella d'essere identica a x; cfr. Introduzione ai "Principia mathematica "», La Nuova Italia, 1977, p. 117 - dove x è appunto il soggetto di cui si predica la proprietà di essere x, e cioè di essere identico a x.) Sostengo da tempo che il futuro è nelle mani della tecnica, guidata dalla scienza moderna. Ma pensata non da stupidi o in modo stupido, cioè separata dalla sua origine, la filosofia. Si continua a parlare del do­ minio indefinitamente crescente della tecnica . Ma la tecnica può voler aumentare indefinitamente il pro­ prio dominio solo se è consapevole che non esistono e non possono esistere limiti insuperabili, immutabi li, invariabili. Ma chi insegna tutto questo alla scienza se non la filosofia del no s tro tempo ? Senza quest'in­ segnamento, la tecnica e la scienza sono come un in­ dividuo che vorrebbe muoversi ma che è privo della vista e non sapendo in quali ostacol i avrà a imbatter­ si finisce col ridurre i propri movimenti o addirittura con lo star fermo. La filosofia del nostro tempo tiene aperto e illuminato lo spazio che consente il movi­ mento della tecn ica . Già questa circostanza mostra come la filosofia contemporanea, pur non essendo la forma autentica 115

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della filosofia, non funziona come rispecchiamento delle procedure scientifiche, ma è la condizione del­ la loro possibilità, sta al loro fondamento. Ma poi quale verità compete alla filosofia del nostro tempo ? E perché la tradizione filosofica deve tramontare ? E com'è possibile capire il suo tramonto se non se ne capisce l'abissale profondità ? A queste domande non risponde la scienza , ma la forma autentica del pensie­ ro filosofico.

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Tutta la verità per Heidegger

In tedesco, Abendland significa «Terra del la sera»: «Terra del tramonto » . Noi diciamo: « Occidente » , e l'Occidente è appunto l'occaso, il luogo dove il So­ le cade nella notte, rendendosi invisibile. Heidegger ha sempre sostenuto che l'Occidente è, nel senso più essenziale, la Terra del tramonto e del l'errare. Vi tra­ monta il fondamento di ogni opera umana e divina, della Terra e cielo, e dunque della stessa totalità degli enti. Tale fondamento è il senso autentico dell'« esse­ re » , intrav isto dai primissimi pensatori greci e subito dimenticato. Non è mai stato facile stabi lire in che senso per Heidegger l'Occidente sia un « errore >> , anzi l'« erro­ re >> - in che senso, ad esempio, sia «errore » il cristia­ nesimo, la scienza moderna, il nazionalsocialismo.

« Corriere del la Sera » , 10 settembre 1999. 1 17

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Il corso universitario da lui tenuto a Friburgo nel 1 942-'43 - pubblicato nel 1982 col titolo Parmenide e ora in edizione ita liana (edizioni Adelph i, a cura di F. Volpi, traduzione di G . Gurisatti) - offre impor­ tanti chia rimenti. Nonostante il titolo, il libro è una delle presentazioni più chiare, oltre che suggestive, che il fi losofo tedesco abbia offerto del proprio pen­ siero nel suo insieme. L'«essere», per Heidegger, non è nessuno degli enti; non è nemmeno quel Super-ente che è il Dio della tra­ dizione occidentale. È invece ciò che si manifesta nel «disvelamento ». Nell'antica lingua greca è presente la parola alétheia, che viene solitamente tradotta con la parola «verità», ma la cui traduzione più appropria­ ta, e anche più letterale, è appunto «dis-velamento » (dove il prefisso «dis» corrisponde all'alfa privativa di a-létheia). Per i Greci la «verità» è un trar fuori dal «vela mento», ossia dalla léthe - dalla latenza. Il «disvelamento » non è un atto umano. Heidegger lo interpreta come una luce che sorge dall'oscurità (a cui è quindi essenzialmente unita) e che illumina le cose; e aggiunge, spi ntov i dal senso greco di quella parola, che tale luce , ancor prima di illuminare le co­ se, quindi ind ipendentemente da esse, apre una « ra­ dura» luminosa che non è costituita da alcun ente e non rappresenta alcun ente , ma è, appunto, l'«essere » di ogni ente . Per i primi pensatori greci la verità non padroneg­ gia dunque e non domina gli enti, ma, disvelandoli, li « lascia essere >> nella luce. La volontà di potenza 118

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appartiene al tramonto del senso greco ongmario dell'« essere » . Qui non si tratta di mettere in rilievo la profonda arbitrarietà di questa interpretazione, ma di richiamare l'attenzione sulla chiarezza con cui in queste pagine Heidegger mostra il legame che unisce il velamento dell'« essere » , alla volontà di potenza, al nuovo senso della verità, affermato dal mondo « ro­ mano-cristiano» , e all'errore - il legame che porta al tramonto la grecità originaria e da cui sarà guidata l'intera storia dell'Occidente. Ancora una volta è fondamentale, nel discorso di Heidegger, l'analisi del linguaggio. Noi diciamo «verità»; la lingua tedesca dice Wahrheit; entrambe provengono dal latino verum; e tutte queste parole risalgono alla radice indogermanica ver, che indica lo sbarramento, la barriera contro ciò che è ostile, e insieme la barriera che ripara, chiude, e dunque copre e nasconde. Ecco lo stravolgimento essenziale: il ve­ rum « romano» è proprio ciò che i Greci chiamano il velamento, il latente, ossia, il non vero! La barriera, poi, è affidabile solo se resta al proprio posto, cioè re­ sta in piedi, stabile, eretta, senza cadere (tutti signifi­ cati, anche questi, contenuti nella radice ver), sì che il verum «romano-cristiano » è « ciò che sta saldamente diritto», domina l'uomo e le cose. Esso è volontà di potenza, « comando» («Il comandare in quanto fon­ damento essenziale del potere implica "l'essere al di sopra"»). Heidegger trascura a nche questa volta che lo stare saldamente diritto è il significato più proprio di ciò 119

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che i Greci chiamano sin dall'inizio epistème e che noi traduciamo impropria mente con la parola « scienza»; ma inta nto egli può affermare che nel mondo «ro­ mano » , «imperia le » , «curiale » , « cristiano » il senso autentico della verità come «disvelamento » è andato perduto. Quando Cristo dice: « lo sono la via, la veri­ tà, la vita», in queste parole, di greco è rimasto ormai soltanto la lettera. La romanità stabilisce il volto del cristianesimo e l'imperium statale diventa «l'impe­ rium» ecclesiastico, cioè il sacerdotium ( « L"'imperia­ le" viene ad assumere la forma del curiale della curia del Papa romano, il cui potere si fonda anch'esso sul comando»). Mentre gli dèi greci sono il risplendere di enti, anzi sono «l'essere stesso che guarda entro l'ente » , e non sono « persone » (come la psyche greca non è l'« anima>> cristiana), invece il «Dio creatore e redentore . . . pad roneggia e calcola ogni ente >> , Anche l a scienza moderna è per Heidegger «un pa­ droneggiamento conoscitivo» dell'ente, che non ha più nulla a che vedere con il «disvelamento » dell'« es­ sere » . Nella storia dell'Occidente anche la politica - che nella polis greca è il luogo stesso del «disvela­ mento» - viene ad essere concepita in modo romano. Sebbene Heidegger non lo dica esplicitamente, anche il nazionalsocia lismo è dunque (come Simone Weil aveva sostenuto) nella sfera della romanità. La ve­ ritas è il velamento dell'«essere » , la dimenticanza e il tramonto del senso autentico della verità . Questo velamento è la radice dell'errore: « La dimenticanza dell'essere . . . induce in errore la storia dell'umanità» . 1 20

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Un discorso chiaro, dunque, che giudica negativa­ mente quella storia - e quindi anche il cristianesimo. Ma perché, allora, proprio in quegli anni Heidegger scriveva che il suo pensiero lasciava impregiudicati i problemi dell'esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima, che il cristianesimo risolve positivamente ?

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Gentile, un filosofo antifascista per il regime di Mussolini

Va sfatato un pregiudizio ca rico di conseguenze: che di Gentile possano interessare oggi i rapporti col fascismo, conclusisi con la tragica uccisione del fi losofo, ma non la sua filosofia, acqua passata che avrebbe poco da dirci. La fi losofia di Gentile non è né acqua né passata . Ciò non vuoi dire che in essa abiti la verità. È anzi una delle forme più radicali e coerenti dell'errare . Ma quanto profondo e decisivo può essere l'errare ! Per molti motivi il pensiero di Gentile è sconcertante. Egli scrive spesso in modo appa rentemente piano, a volte retorico. Si crede al­ lora di capire. Dietro quelle pagine c'è però sempre una delle concezioni filosofiche più ardue e rigorose, che egli tenta di rendere comprensibile a un pubblico più ampio. Ma c'è ben altro. Gentile aderisce al fa« Corriere della Sera » , 11 settembre 2006. 122

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scismo. Eppure nessun antifascismo è più antifascista della filosofia genti liana . Ancora : Gentile i ntende il proprio pensiero come l'espressione più pura del vero cristianesimo; eppure, figura di spicco del fascismo, si oppone come nessun altro al Concordato tra Sta­ to italiano e Chiesa cattolica, fortemente anche se ambiguamente voluto da Mussolini. Non si tratta di contraddizioni. Nessun dubbio che Gentile si presenti come un liberale. Prende però le distanze dai liberali come Missiroli, De Ruggiero, Gobetti, Mosca . Prima che liberale è filosofo. Una filosofia, la sua, che, con una potenza quasi unica nel pensiero degli ultimi due se­ coli, mostra la necessità di rifiutare l'intera tradizio­ ne culturale, politica, religiosa dell'Occidente. Il suo è come l'arco di Ulisse. Se si è Proci non lo si sa nem­ meno tendere - e lo si appende al muro. In una conferenza del 1923 Gentile dice che il suo liberalismo « non è la dottrina che nega, ma quella che afferma rigorosamente lo Stato come realtà etica. La qua le è, essa stessa, da realizzare, e si realizza rea­ lizzando la libertà, che è come dire l'umanità di ogni uomo [ . . . ]. Questo Stato liberale non assorbe in sé e non annulla l'individuo, come teme il pavido libera­ le dell'individualismo » , o il « vecchio liberalismo, che conosceva soltanto lo Stato opposto all'individuo », e ognuno dei due pensava, dell'altro, mors tua vita mea. Lo « Stato etico non è esterno all'individuo; an­ zi è l'essenza stessa della sua individualità»: volontà « senza limiti né ostacoli di cui non abbia a trionfare ». 123

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Qui e ovunque, Gentile dice che, sì , lo Stato è real­ tà, ma realtà che è « essa stessa, da rea lizzare » . Que­ ste espressioni sign ificano: la realtà vera n o n è quella ferma, morta , ma quella storica che diviene, e che appunto perciò è «da realizzare»; e non è nemmeno quella presupposta al di là del la nostra esperienza e del nostro pensiero, in un altro mondo, ma è questa di cui facciamo esperienza e che è anzi la nostra stes­ sa essenza e la nostra «libertà», perché libera da ciò che è già rea lizzato. Queste non sono semplici asseverazioni, « idee )) più o meno arbitrarie di un « filosofo )) ; ma sono la conse­ guenza inevitabile del modo in cui l'Occidente ha in­ comi nciato a manifestarsi sulla terra . Non è possibile mostrare qui, in concreto, tale inevitabilità - a cui per altro si riferiscono spesso i miei interventi sul « Cor­ riere )) -, come non sarebbe possibile mostrare qui le ragioni della teoria della relatività. Accontentandoci di uno schema, potremmo dire così: il divenire - na­ scita e morte - della realtà visibile è stato sempre, per l'intera civiltà occidentale, l'evidenza originaria e innegabile. Ma se esistesse, esterna a essa , una realtà immutabile e divina che contenesse già tutto quel che diviene, allora divenire e storia, nascita e morte, sa­ rebbero mere apparenze. Ma apparenze non possono essere, essendo esse, appunto, l'evidenza originaria. Dunque quella realtà esterna e immutabile e i valori e costumi a essa connessi sono impossibil i . Questo, l o schema della frana gigantesca d a c u i la tradizione occidentale è travolta . Oggi si ignora l'ine1 24

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vitabilità di questo discorso, ma che l'unica realtà sia quella che nasce e muore è la convinzione dominante del mondo occidentale. Da quel passo di Gentile risulta chiaro che l'etica dello « Stato etico » non è un decalogo fermo e morto, ma è appunto realtà da realizzare, divenire, « rivolu­ zione» continua. Se qualcosa è divenire, tutto è dive­ nire; e solo il divenire è eterno e dunque è il vero D io, il Dio cristiano che non resta nell'alto dei cieli, ma si fa uomo, nasce e muore e dice di esser venuto a por­ tare la spada. Dio, Stato, essenza vera dell'individuo sono lo stesso. Gentile lo chiama « spirito » . Genesi e struttura della società, scritta da u n Gentile che ha aderito alla repubblica di Salò, dice che lo Stato è « eterna autocritica e eterna rivolu­ zione » . Come coscienza del rea lizzarsi dello Stato, la fi losofia è la coscienza che lo Stato ha di sé ed è quindi critica dello Stato, ossia di tutto ciò che in esso « sta» (come suggerisce la parola), fermo, mor­ to. Se non c'è critica dello Stato c'è, dice Gentile, « statolatria». E - sappiamo - i l fascismo è stato una delle nega zioni più perentorie dell'autocritica dello Stato. Dunque la filosofia è critica anche della Chie­ sa cattolica come organismo dogmatico che non intende mutare e rinnovarsi e perta nto è anch'essa « stato » , qua lcosa di statico che lo « Stato » finisce col negare e col supera re . Gentile si sente cristiano, ma proprio per questo si oppone, in nome dello Sta­ to spirituale, a l Concordato tra Stato e Chiesa, ossia tra cose morte . 1 25

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Anche lo « statista» è cosa morta. Nel 1 944 lo sta­ tista per eccellenza, agli occhi di Gentile, non può essere che Mussolini: « Lo statista , che è una perso­ na fisica, oltre che un indirizzò politico, un regime [ . . . ] rappresenta sempre [ . . . ] qualche cosa di statico e astratto, che la vita dello spirito [ . . . ] deve negare e superare » . Nella sua forma più alta , tale vita è la filosofia . Se il fascismo ( « i l recente movi mento po­ litico italiano») non è critica e autocritica dello Sta­ to ed « esigenza di una rappresentanza organica» in senso democratico e libera lconservatore , quelli del fascismo, scrive Gentile, sono solo « esperimenti costituzionali [ . . . ] viziati nelle forme provvisorie di appl icazione dalle necessità transitorie del momento politico » . L'individuo che vede l a propria appartenenza al di­ venire della realtà, cioè allo Stato, «vuoi essere » , dice il passo riportato per primo, « senza limiti né ostacoli di cui non abbia a trionfare » . Solo l'inevitabilità di un pensiero come quello di Gentile può fondare il do­ minio della tecnica, cioè mostrare, appunto, che essa non ha davanti a sé né limiti né ostacoli . All'opposto di quanto si crede, la solidarietà tra idealismo gen­ tiliano e civiltà della tecnica è profonda . Per questo Gentile non è acqua passata .

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Perché non siamo figli del nulla

In ambito scientifico cresce l'insofferenza per la fi­ losofia. Vi sono buone ragion i. Quanto vi è oggi di decisivo nel pensiero filosofico, infatti , tende a rima­ nere sullo sfondo. Accade anche, però, che insieme all'insofferenza cresca anche , nella scienza, l'interes­ se per i problemi che sono sempre stati propri del pensiero fi losofico. Relativa mente ai quali essa crede di poter andare molto più a fondo. Ad esempio, la scienza si propone di giungere final­ mente a una « teoria del Tutto» . Connesso alla quale è il problema del nulla. Il Tutto è infatti la regione al di là del la quale resta , appunto, nulla. È recente l'accesa discussione , suscitata in ambito scientifico e filosofico all'estero ma anche in Italia, dal libro del fisico statunitense Lawrence Krauss Un universo

« Corriere della Sera>> , 9 aprile 20 14. 1 27

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dal nulla. Perché c'è qualcosa piuttosto che il nulla ? Krauss sostiene che il concetto di nulla è scientifico e non fi losofico. Ma questo importa poco: il problema resta, qualunque nome gli si voglia dare. Tutt'al più si potrà dire che Krauss non conosce la filosofia e la sua storia (ma lo si può dire anche di certi filosofi, non pochi, del nostro tempo). Il problema è presente i n ogni ambito della scienza e della cultura . E innanzitutto nella vita dell'uomo. Egli è desiderio della vita e timore della morte . In che rapporto sta la morte _ col nulla ? La morte è l'an­ nullamento di ogni nostra esperienza ? Per vivere oc­ corre cibo e riparo. Per attenerl i si sono sperimentate diverse tecniche e forme economiche . Il capitalismo è divenuto quella dominante. L'economista Joseph Schumpeter ha definito il capitalismo « distruzione creatrice » . (Crea nuovi mezzi di produzione, quindi nuovi rapporti sociali, e distrugge i vecchi . Ma poi ogni tecnica è distruzione creatrice. ) E in che rappor­ to stanno la «distruzione » e la «creazione » col nulla ? Hanno senso queste pa role se non si pensa il nulla ? Ancora. Per le religion i monoteistiche, le «religioni del libro » , il mondo è creato «dal nulla)) ex nihilo, dice la teologia cristiana. Il cristianesimo perderebbe gran parte della propria anima e del proprio signifi­ cato se volesse prescindere dal nulla che tutte le cose sono prima della loro creazione. Da gran tempo la matematica ha introdotto lo zero tra i numeri. Lo zero è una forma di assenza . I Greci lo chiamavano « nulla)) (oudén). Come è una forma di assenza l'«in-

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sieme vuoto » . Zero e insieme vuoto sono i modi più visibili in cui le matematiche pensano il nulla. E l'ar­ te ! Dove l'aspetto minaccioso e insieme ineliminabile del nulla e d�l « silenzio nudo » si mostra nel modo più vivido. Non solo nella poesia e nella narrativa, ma anche nelle arti figurative la precarietà dell'esistenza e delle sue forme positive, desiderabili, sta al centro. E l'intreccio del suono e del silenzio - della vita e del­ la morte - è il fondamento stesso della musica. Assenza , privazione, mancanza, vuoto, perdita, estinzione, silenzio: non sono forse essi gli stati in cui il mondo si trova quando i suoi contenuti e le sue forme diventano nulla ? Diciamo continuamente che «qualcosa non esiste ancora» e « non esiste più» . Lo si dice ovunque, in ogni campo. Ovvio che queste espressioni siano presenti nella biologia, nella pale­ ontologia, nella storia - la stessa biologia molecolare parla di « storicità» dei fenomeni -, nella fisica e così via. Ma quelle due espressioni non significano forse, rispettivamente, che « qualcosa è ancora nulla» ed «è ormai nulla » ? Della filosofia non c'è bisogno d i parlare: è essa a portare alla luce il significato radicale del nulla: - il nulla come nulla assoluto, l'assolutamente altro dalla totalità degli enti - e a continuare a rivolgersi ai pro­ blemi suscitati da tale significato. Il rivolgersi ad esso è l'inizio della storia dell'Occidente, ossia di ciò la cui essenza domina il Pianeta. Il fisico Luke Barnes, delle tesi del collega Lawrence Krauss, ha criticato soprattutto quella per la quale, 129

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essendo pensabile che l'universo provenga da uno sta­ to privo di materia, di particelle, di spazio, di tempo, di leggi, è possibile pensare che esso e le cose in esso contenute provengano dal nulla. Barnes abbietta che se si può concedere che le particelle provengano da stati senza particelle, esse però non provengono dal nulla. Lo stesso si dica per lo spazio e il tempo. Ari­ stotele l'aveva detto più di duemila anni fa : all'inizio del generarsi delle cose non c'è il nulla, ma qualcosa; «le cose si generano da qualcosa a qualcosa» . Ma chiediamoci (una domanda che faccio d a gran tempo) : ammesso che una casa sia costruita col ma­ teriale di costruzione, col progetto dell'architetto e il lavoro degli opera i, - tutte cose che esistono già prima della casa -, questo vuol forse dire che tutto ciò che la casa ora è preesisteva alla sua costruzio­ ne ? No! altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di costruirla. C 'è dunque un residuo che prima della costruzione della casa non esisteva ancora . E che significa que­ sto suo non essere ancora ? Diciamolo: questo residuo era nulla. Non in qualche senso nulla e in qualche altro no, ma era assolutamente nulla. Se le parti­ celle provengono da stati senza particelle - ossia da qualcosa -, ciò non significa che tutto ciò che le costi­ tuisce esisteva già, prima della loro esistenza; quindi c'è un residuo che prima che esse incominciassero ad esistere era nulla, assolutamente nulla. Che le cose vengano da qualcosa e che, insieme, vengano dal loro nulla non sono dunque affermazioni i ncompatibili, 130

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ma l'una implica l'altra . Appunto perché all'inizio del divenire c'è il loro esser nulla, non la nullità di tutte le cose. Ma una volta detto che l'uomo continua a pensare al nulla e a parla rne, il problema del nulla si presenta in tutta la sua potenza. Il nulla è la fonte dell'a ngoscia più profonda dell'uomo. (Agostino è arrivato a dire che gli uomini preferirebbero la dannazione eterna al loro definitivo annullamento.) Tuttavia, sin dall'i­ nizio del pensiero filosofico si sa che, proprio perché pensiamo il nulla e ne parliamo, proprio per questo il nulla ci sta dinanzi e ci dà da fare, così potente da esser la fonte della nostra a ngoscia. Accade cioè che il nulla sia qualcosa. Ciò che non è un « qualcosa» è « qualcosa». E poiché ovunque noi abbiamo a che fare col nu lla, ovunque noi ci troviamo nell'oscurità più profonda - giacché la più profonda radice di ogni oscurità è credere, appunto, che il nulla, l'assoluta­ mente nulla, sia qualcosa, e vivere conformemente a questa convinzione. L'i ntero universo è sbilanciato, spaesato, sfigurato e noi viviamo in esso, sbilanciati, spaesati, sfigurati, per quanto grandi e belle e potenti siano le cose da noi fatte e pensate . Nel l'oscurità, che senso possono avere la salvezza, la felicità, il piacere ? Infatti , anche se non vogliamo riconoscerlo, noi, in fondo - un fondo che spesso si lascia vedere -, siamo sempre scontenti di ciò che siamo ed abbiamo. Ma non è questa l'ultima parola. L'assurdo non ha partita vinta. Bisogna però sa­ perla giocare. La si gioca male quando, ad esempio, 131

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si crede di vincerla decidendo che la parola « nulla» è assoluta mente priva di senso. Qui si gioca male, perché l'espressione «ciò che è assolutamente privo di senso » è un sinonimo della parola « nulla » . Gettato dalla finestra, il nulla rientra dalla porta . La mag­ gior parte dei saggi del l'ultimo numero della rivista « I l pensiero», diretta da Vincenzo Vitiello, si riferisce appunto al modo in cui nei miei scritti si mostra per­ ché l'ultimo orizzonte - come chiamarlo altrimenti, in questa sede ? - ci rende liberi dalla minaccia e dall'as­ surdo del nulla, (E ringraziando tutti i collaboratori mi congratulo per le loro riflessioni.) A questo tema si è riferito anche lo storico della psicologia Gabriele Pulii, nel suo libro Freud e Severino (Moretti e Vitali Editori). In queste pagine interessanti il discorso sul nulla si allarga e si unisce alla tesi, sostenuta da Pulii, del carattere complementare degli scritti d i Freud e dei miei . Anche in questo caso c'è da discutere. Comunque , è inevitabile che, qui, il mio discorso sul nulla rimanga in sospeso, e forse fin troppo peri­ colosamente in sospeso. Si tratta di scorgere il senso autentico del l'ambiguità del nulla. Giacché soprattut­ to di esso è necessario dire : Nec tecum, nec sine te.

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La fede

In questa sezione sono stati raccolti alcuni inter­ venti che trattano della fede. Quando fu allontanato dall'Università Cattolica di Milano, mezzo secolo fa, non pochi fedeli tradizionalisti concordavano su un punto: la filosofia di Severino porta all'ateismo. Que­ sto non soltanto si rivelò u n errore, ma non rendeva nemmeno giustizia alla visione che il filosofo aveva dell'aldilà e che si conobbe meglio in seguito. Certo, egli credeva che la fede debba essere sempre verifica­ ta dal dubbio e che la ragione non possa restare ina­ scoltata . Un passo di questa raccolta è eloquente ed è tratto dall'articolo Ma la ragione dei filosofi illumina la verità della Chiesa? ( 1 2 luglio 1 9 94), dove risulta chiaro che Severino concorda con Kant su una que­ stione essenziale, in cui la ragione prevale sulla fede. Scrive: « Quando il Dio biblico appare in conflitto con la legge morale della ragione - ad esempio il Dio che impone ad Abramo di uccidere il proprio figlio -, la ragione deve escludere che quel Dio sia il vero Dio. 1 35

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Abramo, scrive Kant, avrebbe dovuto gridargli: "Che io non debba uccidere il mio buon figlio è assoluta­ mente certo; ma che tu che mi appari sia Dio, non ne sono convinto e non posso nemmeno diventarlo"». Questa distanza non è ateismo, ma potrebbe essere considerata parte di una fede meditata . Così come i l fatto che l'orga nizzazione religiosa possa term inare o sia al tramonto, anche se tale estinzione non si­ gnifica la fi ne della fede. Un altro passo ci aiuta a chiarire l'aspetto. Lo ricaviamo dall'articolo La fine annunciata del cristianesimo. È il caso di nota re la data : 21 febbra io 1 999. Scrive tra l'altro Severino: «Il cattolicesimo si crede dunque ed è creduto vincente proprio nel momento storico in cui la sua vita rea­ le è finita - sebbene continui rigogliosa la sua vita apparente » . Aggiunge con un'osservazione degna di meditazione: «Nell'apparenza, la Chiesa raccoglie l'eredità del comunismo, dà speranza alle masse dei diseredati, si leva contro il profitto capita listico fi­ ne a se stesso. Prigionieri dell'apparenza, non ci si avvede che anche il comun ismo era morto ben pri­ ma del crollo del muro di Berlino e che anche la sua era una vita apparente. Giacché anche il comunismo ma rxista si è presentato come verità definitiva, come affermazione delle leggi immutabili che regolano il processo storico del supera mento del capitalismo )), Nel 2016 Severino pubblicava da Adelphi Storia, Gioia, uno dei suoi libri più densi. Qui egli ricordava, con un linguaggio che sarebbe parso ermetico a chi 1 36

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non lo avesse segu ito attentamente sino a quelle pa­ gine, come «la totalità infinita degli eterni è la Gioia, la Pia nura che dà s pa z io all'infinito». Era giu nto a definire ciò che sta oltre le cose. O, almeno, aveva elaborato con il suo pensiero quanto aveva asserito l'antico Eracl ito di Efeso in un suo frammento, quello che i filologi catalogano con il numero 27: « Attendo­ no gli uomini, quando sian morti, cose che essi non sperano, ne suppongono )) . Severino credeva in u n a felicità che è possibile raggiungere con la filosofia, disciplina cui dava un compito fondamentale. Il suo non era propriamente il paradiso delle religioni , anche se non è difficile in­ dividuarne delle affinità .

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Gli eterni dubbi di colui che crede

Un lungo articolo de « L'Osservatore Romano» (25 aprile) sostiene che « per Severino ogni credente è uno sprovveduto e fa la figura del babbeo o di un Gervasio qualsiasi . . . : fosse pure un Agostino, Tom­ maso, Dante, Galilei, Volta , Manzoni». Non ho mai pensato o scritto una cosa del genere . Né avrei usato questo linguaggio triviale per parlare del credente . Si tratta invece di capire che cos'è la fede cristiana. Il gran problema è se le fedi - religiose, scientifiche, pol itiche - che oggi tentano di salvare l'uomo non si­ ano animate da quella stessa violenza che esse inten­ dono combattere. Tommaso d'Aquino dice che per mostra re l'errore dei non credenti «è necessario ri­ correre alla ragione naturale, a cui tutti son costretti a dare il proprio assenso » (Summa contra gent. ). La Chiesa cattolica afferma anche oggi l'esistenza della

« Corriere della Sera » , 22 giugno 1989. 1 39

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«ragione naturale » , incontrovertibile e immodifica­ bile, e in relazione ad essa definisce la fede. Anche l'articolo de « L' Osservatore » ricorda i cele­ bri versi di Dante - « Fede è sostanza di cose sperate l e argomento delle non pa rventi» -, che traducono fedelmente un passo della Lettera agli Ebrei. Le co­ se « non parventi» (non apparentia) sono le cose che « non appaiono » agli occhi della « ragione naturale» e che quindi essa non può affermare. Per la « ragione naturale» il contenuto della fede non è « evidente » . Questo è il modo in c u i anche Tommaso intende il passo evangelico. Rifacendosi a Ugo di S. Vittore, egli rileva che «la fede è una certezza dell'anima intorno a lle cose assenti, che è al di sopra dell'opinione e al di sotto della scienza ». ( «Assenti» sono appunto le cose che non appa iono agli occhi della «ragione naturale)) e la « scienza )) è ciò che la « ragione natura le)) conosce .) La fede «è al di sotto della scienza)) ' appunto perché, pur essendo certezza, e quindi « argomento ))' non è « evidente )) . Proprio per questo, l'intelletto umano, da ndo il proprio assenso ai contenuti della fede, ri­ mane « inquieto )) (nondum quietatus), « non rimane soddisfatto di essi)) (non est eis satisfactum). È anco­ ra Tommaso a dirlo (Quaest. de fide). Per questa « inquietudine )) e « insoddisfazione » l'in­ telletto, anche quando «in modo fermissimo )) dà il proprio assenso ai contenuti della fede, mantiene un atteggiamento di «ricerca)) intorno ad essi. E chi cerca qualcosa è in dubbio se essa esista o meno. Ad esem140

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pio, che Gesù sia il Figlio di Dio, può essere creduto in modo fermissimo dal credente, e ciononostante il suo intel letto rimane inquieto e insoddisfatto, conti­ nua a porsi domande sulla divinità di Gesù, rimane in dubbio se Gesù sia veramente il Figlio di Dio. Da parte mia ho sempre indicato dove porta lo svi­ luppo coerente di questa impostazione - e ho mo­ strato, insieme, che tale coerenza è assente nei testi di Tommaso e nella dottrina della Chiesa cattolica . Se quanto è detto nelle Scritture non è « evidente » , visi­ bile agli occhi della « ragione naturale», che rimane insoddisfatta , inquieta , ricercante, dubbiosa, questo significa che, dallo stesso punto di vista di Tommaso e della Chiesa, il contenuto della rivelazione cristiana può essere negato senza che ciò implichi la negazione della «ragione naturale » , « a cui tutti sono costretti a dare il loro assenso » . Tutto il conoscibile s i divide cioè in due grandi cam­ pi: quello innegabile e incontrovertibile della « ragio­ ne naturale » , e quello negabile, controvertibile, non evidente, problematico, dubitabile . Il cristianesimo appartiene a questo secondo campo. Non sono io ad affermarlo: è la coerenza stessa del discorso di Tom­ maso ad esigerlo - anche se, certamente , Tommaso e la Chiesa evitano di riconoscerlo (anche perché, fa­ cendo un altro passo lungo la strada della coerenza , si deve riconoscere che per la «ragione naturale)) il cristianesimo può essere errore). Rispetto alla « ragione naturale» l'intelletto d i chi crede compie dunque un salto infinito: accetta il non 141

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evidente, l'invisibile, il dubitabile; e a fargli compie­ re questo salto, aggiunge Tommaso, è la «volontà » . Della rivelazione cristiana la « ragione naturale» dice: « Non vedo; forse è così, ma forse no » . La volontà dice invece: « È così, perché voglio che sia cosÌ >> . L'intelletto · del credente «è fatto prigioniero >> (cap­ tivatus) dalla volontà . Così Tommaso interpreta il passo dell'apostolo Paolo - i cristiani «hanno fatto prigioniero ogni intelletto >> (in captivitatem redigen­ tes omnem intellectum). Prigioniero della volontà, l'intelletto del credente assume come incontroverti­ bile il controvertibile, come indubitabile il dubita­ bile, come certo l'incerto, come visibile l'invisibile, come chiaro l'oscuro. Anche per questo motivo nei miei scritti si sostiene che la fede - ogni fede (e oggi tutto è diventato fede) - è violenza e che l'essenza della violenza è la volontà che vuole l'impossibile, la contraddizione. I credenti possono certo discutere queste conclu­ sioni . Ma chi ama pensare amerebbe che i propri in­ terlocutori fossero all'altezza della situazione, e, an­ che, che « L'Osservatore Romano>> mostrasse serietà e non usasse un linguaggio da strada, qualificando come «presunzione >> , « boria» , « sufficienza», « spudo­ ratezza» il discorso di chi pensa . Il credente non è uno « sprovveduto» . Ma ogni fede è violenza . E nella nostra cultura ogni certezza non è altro che una fede . Indubbiamente, nei Vangeli, oltre al tema della « prigionia» in cui la volontà conduce l'intelletto «in ossequio a Cristo», c'è anche il tema 142

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della « ragionevolezza » dell'ossequio. Rationabile ob­ sequium, dice l'apostolo. Nella fede cristiana la volontà costringe l'intel­ letto all'assenso, presentandogli alcune motivazioni « ragionevoli» - «criteri oggettivi » , « non campati in aria», « solidi argomenti » , mi ricorda « L'Osservato­ re » . Lo so bene . Senonché, dallo stesso punto di vista di Tommaso e della Chiesa, la «ragione » che è pre­ sente nella « ragionevolezza» dell'ossequio al Dio di Gesù, non è e non può essere la «ragione naturale >>. Tommaso chiarisce infatti che la ragionevolezza di quelle motivazioni « è sufficiente a muovere la volon­ tà, ma non a muovere l'intelletto»; non ha quell'evi­ denza che costringe tutti all'assenso. Per quanto so­ lidi e non campati in aria, gli «argomenti» della fede mancano pur sempre di quell'evidenza che costringe all'assenso e la fede rimane, appunto, « argomento di cose che non appaiono », e quindi dubitabili e proble­ matiche. Il sa lto infin ito del la fede rimane, secondo Tommaso, anche se chi lo compie si appoggia a certe forme di ragionevolezza e di verosimiglianza. E , col salto infinito, la violenza (non la « sprovvedutezza» ). (Chi ha scritto l'articolo de « L'Osservatore Roma­ no » ? Pu rtroppo, l'amico Padre Cornelio Fabro, ex definitore del Sant'Uffizio, benemerito filosofo to ­ mista che ha avuto sempre grande stima del mio di­ scorso filosofico, sul quale ha scritto a nche u n libro di grande impegno. Ma in questo articolo, stra na­ mente, sembra che di mio non abbia letto nemmeno una riga .) 143

Ma la ragione dei filosofi illumina la verità della Chiesa ?

La Chiesa cattol ica intende certamente difendere l'autonomia della ragione , e quindi la sua indipen­ denza dalla stessa rivelazione soprannaturale e dalla fede. Ma questa difesa rimane appunto un'intenzio­ ne, per qua nto profonda. Un'intenzione smentita in realtà dal pri ncipio - che sta al centro della dottrina della Chiesa - per il quale ogni conoscenza che si trovi in conflitto con i contenuti della fede cristiana non appartiene alla ragione autentica, ma ne è una degenerazione . Il principio che la Chiesa eredita dal pensiero di Tommaso d'Aquino. Come invece si debba intendere il rapporto tra ragione e fede, quando si tenga ferma per davvero l'autonomia della ragione, viene indicato con po­ tenza da Kant, prima ne La religione entro i limiti « Corriere della Sera » , 12 luglio 1994. 144

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della sola ragione ( 1 793) e poi ne Il conflitto delle facoltà ( 1 79 8 ) , di cui appare ora una nuova traduzio­ ne italiana (Morcelliana, 1 994, a cura di Domenico Venturelli). Il l ibro parte dal conflitto tra le facoltà universitarie, ma il tema di fondo è il rapporto tra ragione e fede. Nella « Prefazione » Kant riporta il testo della let­ tera inviatagli nel 1794 da Federico Guglielmo re di Prussia («Al nostro degno e dottissimo professore , caro e fedele Kant » ), nella quale si rimprovera i l fi lo­ sofo di aver «travisato )) e « svalutato )) la Sacra Scrit­ tura e la religione cristiana, e gli si ordina di «giustifi­ carsi)) e di recedere dalla « disobbedienza>> per evitare « provvedimenti spiacevoli )>. Nella risposta , anch'essa riportata nella « Prefazione » , Kant dichiara la propria «grande stima» per la Bibbia, ma aggiunge che «il migliore e più duraturo elogio » che si possa fare della religione cristiana consiste nel rilevare l'accordo che quel Libro mostra tra la religione cristiana e la ragio­ ne. Infatti, scrive, « solo dalla ragione scaturiscono l'universalità, l'unità, la necessità delle dottrine del la fede che costituiscono sempre la parte essenziale di una religione, quella pratico-morale, che consiste in ciò che dobbiamo fare » . La ragione è capace di dire all'uomo che cosa egli deve fare . E ciò che la ragione dice è la « parte es­ senziale» , il cuore, il centro di ogni fede e di ogni religione . L'essenza del Cristianesimo non è la rive­ lazione divina, l'incontro con Cristo, ma ciò che vi è di universale e di necessario, ossia ciò che scaturisce 145

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solta nto dalla ragione. Alla rivelazione divina, os­ serva Kant, possiamo credere « i n base ad argomenti storici», in base cioè al l'assicurazione che la Bibbia, cioè un docu mento storico, dà di se stessa, di essere ispirata da Dio. Ma proprio perché questi argomenti sono storici, cioè privi di un valore assoluto, la rive­ lazione è un contenuto «in sé contingente » ed « extra­ essenzia le » del la fede cristiana; certo non « inutile » né « superfluo», ma che non può esser posto sul piano della « parte essenziale » della religione. Esso c'è, ma potrebbe non esserci, ossia è « contingente )), La ragione con cui la fede deve confrontarsi è, per Kant, quella che dice che cosa l'uomo debba fa re: la «ragione pratica)) ' o « pratico-mora le )), Ora, la ragio­ ne non dice all'uomo di far questo o quello, ma gli impone di agire con la convinzione di fare ciò che in ogni tempo, in ogni luogo e senza condizioni e da ogni essere razionale - e dunque « universalmente )) e « necessariamente » - deve essere fatto. Chi possiede questa convinzione può certamente ingannarsi; ma la forma originaria della ragione consiste nella volontà di aver a che fare con i tratti essenziali della verità, cioè l'un iversalità e la necessità ; e quindi consiste nel­ la volontà di essere guidati da essa nell'agire. Appunto con questa volontà la filosofia incom in­ cia il suo cammino storico, cinque secol i prima di Cristo, in Grecia . Kant rende completamente esplici­ to ciò che la filosofia ha inteso essere fin dall'inizio. I Greci chiamano lògos la ragione . Già Eraclito dice che « bisogna segu ire il /ògos ))' che è «il giudice della 146

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verità>>. Anche il poema di Parmenide è interamente attraversato dal grandioso comando di seguire il sen­ tiero della verità . Nel carcere, a Critone che lo esor­ ta a fuggire e ad evitare la morte, Socrate risponde di « non voler fa rsi persuadere da nient'altro che dal

lògos >> . D a nient'altro: s e Socrate avesse visto nel messaggio di Gesù qualcosa di contrastante con il lògos - cioè con la volontà di non farsi persuadere da nient'altro che dalla ragione -, Socrate avrebbe respinto anche Gesù. Che è appunto quanto accade nel pensiero di Kant. Esso scorge nel Cristianesimo la tendenza a sollevare al rango del contenuto essenzia le del la re­ ligione gli aspetti «extraessenziali>> e «contingenti >> della Bibbia, ossia ciò che il Cristianesimo considera rivelazione divina. In questo modo, il Cristianesimo si trova costret­ to ad avallare dottrine che sono in conflitto con la coscienza morale in cui la ragione si esprime e che costitu isce l'essenza del Cristianesimo stesso. L'« Illu­ minismo» è per Kant la difesa della ragione, e innan­ zitutto in campo rel igioso. (Si veda in proposito l'an­ tologia di scritti kantiani ora pubblicata da Laterza, Kant, a cura di Giuseppe Bedeschi.) Kant non esclude che possa esserci bisogno di una «cooperazione esterna di Dio» perché l'uomo possa conformarsi alla legge morale che la ragione gli pre­ senta indipendentemente da ogni rivelazione; ma con­ sidera una « temerarietà» la pretesa di vedere proprio nella vita di Gesù, nella sua incarnazione e in tutte le 147

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parti del suo insegna mento, il modo in cui quella coo­ perazione si è realizzata . La ragione lascia certamente uno spazio infinito al di fuori di sé, ma non può accet­ tare che il Cristianesimo se ne proclami il padrone e l'abitatore naturale. Anche perché tutte le prescrizioni e le dottrine che nelle Scritture trascendono la legge morale della ragione sono qualcosa di «indifferente >> per la coscienza mora le, sono degli « adiaphora>>, La « fede ecclesiastica>> è appunto, per Kant, quel travisa mento della religione autentica, che pretende di attribuire i caratteri della ragione - l'universalità e la necessità - a quanto nelle Scritture vi è di contin­ gente e di inessenziale, e che pretende che la sa lvezza del l'uomo sia riposta in una Chiesa. Il Cattolicesimo è per Kant la forma maggiore della « fede ecclesiasti­ ca>>: catholicismus hierarchicus (« dominio dei preti » , Pfaffenthum), dove l a «cattol icità » , ossia l'«universa­ lità» è qualcosa di « contraddittorio » , stante il carat­ tere storico della rivelazione che la fede ecclesiastica intende assumere come verità assoluta . Qua ndo il Dio bibl ico appare in conflitto con la legge mora le della ragione - ad esempio il Dio che impone ad Abramo di uccidere il proprio figlio -, la ragione deve escludere che quel Dio sia il vero Dio. Abramo, scrive Kant, avrebbe dovuto gridargli : « Che io non debba uccidere il mio buon figlio è assoluta­ mente certo; ma che tu che mi appari sia Dio, non ne sono convinto e non posso nemmeno diventarlo » . Se c'è conflitto tra ragione e fede, quel che v i è d i inautentico e d i degenerato non è dunque, per Kant, 148

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la ragione (come invece pensa Tommaso) , ma la fede. Si può discutere il modo in cui Kant delimita i confi­ ni della ragione, ma questo è il modo in cui la ragione deve intendere il proprio rapporto con la fede.

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La fine annunciata del cristianesimo

Ormai sono convinzioni diffuse: la Chiesa cattol i­ ca si propone come l'unica guida spirituale del Piane­ ta; dove lo Stato è debole, come in Italia, la Chiesa ne determina i comportamenti; la morale «laica» non è i n grado di costitu ire un'a lternativa a quella cristiana. Ma qual è il rapporto tra questi fenomeni e il pro­ cesso reale della nostra civiltà ? Non ce lo si chiede. È comu nque sign ificativo che la Chiesa miri a cambia­ re il mondo. Vuoi dire che non ne è soddisfatta . Circa la propria fortuna mondana è più pessimista dei suoi avversari. Il mondo, a suo avviso, si è allontanato troppo dal messaggio di Cristo. E qui è il problema : che cos'è questa lontananza ? Giacché l'allontanamento dal messaggio cristiano si è effettiva mente prodotto. E non poteva essere evi­ tato. Quanto sanno di tutto questo i «laici» che la-

« Corriere della Sera » , 21 febbraio 1999. 1 50

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menta no o constatano il protagonismo della Chiesa ? La cultura «laica» dei nostri giorni è diventata inca­ pace di scorgere le proprie grandi e potenti radici, il terreno da cui attinge la propria forza. E dunque è una cultura debole, destinata alla sconfitta . Chi non sa di essere forte si comporta da debole. Prima o poi si fa togliere di mezzo. L'allontanamento dal cristianesimo è prodotto es­ senzialmente dalla filosofia degli ultimi due secoli . È vero: specie in campo biologico, scienza e tecnica ol­ trepassano oggi confini che per la Chiesa sono invio­ labili. Come volontà di accrescere indefinitamente la potenza dell'uomo esse hanno fiducia di avere dinan­ zi spazi illimitati , liberi da leggi che proibiscano certi percorsi e ne prescrivano altri . Ma da dove proviene questa loro fiducia se non dalla filosofia che negli ul­ timi due secoli ha aperto quegli spazi? Questa forma di fi losofia ha mostrato l'impossibilità di ogni real­ tà immutabi le e di ogni legge assoluta che prescriva all'agire umano, e dunque anche all'agire scientifico, di adeguarsi a tale realtà e ai confini da essa tracciati nel mondo. Da ultimo, è in nome della tradizione filosofica che la teologia cattolica sbarra la strada alle avven­ ture della scienza e della tecnica . Ma tanto la Chiesa quanto i suoi odierni avversari non comprendono la potenza e l'inevitabilità del processo in cui la filoso­ fia contempora nea ha distrutto la grande tradizio­ ne dell'Occidente ed è giunta alla negazione di ogni essere e di ogni sapere immutabile. Tanto la Chiesa 151

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quanto i suoi odierni avversari riducono la filosofia contempora nea a un « relativismo » invertebrato, a uno scetticismo ingenuo che negando ogni verità as­ soluta non sa nemmeno di avere la pretesa di valere esso come l'unica verità assoluta . Ma la filosofia contemporanea non ha nulla a che vedere con lo scetticismo ingenuo. Nei suoi luoghi più alti (Nietzsche, Gentile, Wittgenstein, Heidegger, e in­ nanzitutto Leopardi), essa comprende che se il mondo è divenire, creazione e annientamento delle cose e de­ gli eventi, allora è impossibile che al di là o all'interno del mondo esista una qualsiasi realtà immutabile e una qualsiasi verità definitiva, perché esse anticiperebbero tutti gli eventi del divenire, che dunque sarebbe ridot­ to a pura illusione. Per la filosofia contemporanea è quindi necessario liberarsi dal cristianesimo, che vuol essere appunto la verità definitiva e suprema in cui vie­ ne affermata la realtà immutabile di Dio. Certo, la potenza invincibile che questo discorso possiede - una volta che si riconosca l'esistenza del divenire - non è a portata di mano; né qui può essere ind icato in modo appropriato. La filosofia tende oggi a vivere di rendita, a ridursi a letteratura , a esibizione di stati d'animo, a rimasticatura di concetti scientifi­ ci, a descrizione storica: a qualcosa di imbelle rispetto a una volontà che, appoggiandosi o inscrivendosi in una grande e sperimentata istituzione come la Chiesa cattolica, sia decisa a ripristinare i vecchi valori della tradizione e a mostrare !'« armonia» tra la ragione e la fede in Cristo. 1 52

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Ma al di sotto di questi fenomeni si distende il sot­ tosuolo della filosofia contemporanea, dove l'intera tradizione dell'Occidente (filosofica, politica, giuridi­ ca, artistica, religiosa , mora le) viene inevitabilmente condotta al tramonto. Qui, l'unico immutabile è la distruzione di ogni immutabile. La mora le della tra­ dizione ha sempre mi rato a dare all'uomo la vera e maggiore potenza rendendolo alleato della suprema potenza di Dio. Con la «morte di Dio» la mora le ren­ de l'uomo potente media nte la nuova alleanza con la potenza suprema del la tecnica. In questa prospettiva devono essere oggi affrontati i problemi morali aperti dalla civi ltà della tecnica. Il cattolicesimo si crede dunque ed è creduto vin­ cente proprio nel momento storico in cui la sua vita reale è finita - sebbene continui rigogliosa la sua vita apparente. Nell'apparenza, la Chiesa raccoglie l'ere­ dità del comunismo, dà speranza alle masse dei dise­ redati, si leva contro il profitto capitalistico fine a se stesso. Prigionieri dell'apparenza, non ci si avvede che anche il comunismo era morto ben prima del crollo del muro di Berlino e che anche la sua era una vita apparente. Giacché anche il comunismo marxista si è presentato come verità definitiva , come affermazione delle leggi immutabili che regolano il processo stori­ co del superamento del capitalismo. Non si deve dire, allora, che il comunismo è morto dello stesso male che mina il cristianesimo e tutte le forze della tradizione occidentale ? e che la vittoria ap­ parente della Chiesa maschera la sua sconfitta reale ? 1 53

Senza religione non c'è Stato

L'indagine storica non può essere una semplice de­ scrizione di fatti. Basti pensare che, anche quando si rivolge a un episodio modesto, lo storico non può mai descriverlo in tutti i pa rticolari. Gli occorrerebbe una vita infinita. È costretto a sceglierne gli aspetti per lui più significativi. Ma scegliere qualcosa perché lo si giudica rilevante non è descrivere: è teorizzare, costruire la teoria in base alla quale certi eventi sono importa nti e altri no. Niente descrizione storica senza teoria più o meno consapevole di sé - e per lo più ideologica, pseudo filosofica, filosofica . Una teoria, poi, non è mai senza teorie rivali. Ogni indagine storica vive in conflitto con altre indagini. Per mille altri motivi, comunque, la descrizione storica più rigorosa è una costruzione

« Corriere della Sera » , 5 agosto 20 01. 1 54

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teorica . (Il d iscorso vale anche per quel tipo di descri­ zione storica che è il giornalismo.) La teoria più audace e profonda con cui è stata in­ terpretata la storia del mondo è probabilmente quella di Hegel; è la stessa filosofia hegeliana. L'editrice Ei­ naudi pubblica ora le lezioni di Hegel sulla Filosofia

della storia universale. Secondo il corso tenuto nel semestre invernale 1 82 2 -2 3 (a cura di K . H . Ilting, K. Brehmer, H.N. Seelmann) con una notevole in­ troduzione di Sergio Dellavalle: un testo di grande interesse che risulta da una opportuna revisione dei criteri seguiti nell'edizione di G. Lasson, tradotta nel 1 941 da G. Calogero e C . Fatta . La storia universale! Se ne può comprendere l'infi­ nita estensione ? Sì , perché la filosofia porta alla luce quel che in essa vi è di essenziale e universale. In­ nanzitutto lo Stato. Ma, dice Hegel, «la costituzione degli Stati si fonda sulla religione. La religione costi­ tuisce la base degli Stati, non nel senso che lo Stato si serva della religione come strumento, né nel senso che si presti obbedienza agli Stati per mezzo di essa, ma per la ragione che gli Stati non sono altro che la manifestazione del vero contenuto della religione » . L a storia universale è in sostanza l a storia della reli­ gione, il processo in cui la religione raggiunge il suo , nel mondo, per ritornare a sé porta ndo il mondo con sé, liberandolo cioè dalla tomba e dalla morte . Ma - pensa Hegel - non sta proprio in questo cir­ colo l'essenza del cristianesimo? Dio si è fatto uomo, è venuto nel mondo; ma non per restare uomo e mon­ do, nella morte e nella tomba, ma per ricondurli a sé. L'incarnazione di Dio è il circolo assoluto della realtà e della verità, lo Spirito che risulta dalla generazio­ ne del Figlio da parte del Padre. Lungi dall'essere un 156

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« mistero » i nesplorabile dalla ragione, la Trinità cri­ stiana è invece la stessa essenza più profonda della vera ragiOne. La « filosofia della storia universale )) non può avere dunque altro compito che rintracciare, nella sovrab­ bondante varietà e complessità dello sviluppo storico dei popoli e degli Stati, la presenza del circolo divino del pensiero. Un compito immane, che Hegel affron­ ta in modo abbaglia nte, per altro accessibile anche al non specialista . La storia non è abbandonata al caso, ma è guidata dallo Spirito, appartiene anzi al suo stesso prodursi . I popoli, come tali, non possono capire che cosa significhi il concetto filosofico di «circolo del pensie­ ro >>, ma capiscono molto bene l'immagine religiosa di questo concetto, e cioè che Dio non è rimasto lonta­ no e indifferente, ma si è fatto uomo e ha abitato tra noi per salvarci dal peccato e dalla morte, cioè per ricondurci a lui . Appu nto per questo Hegel dice che l a religione, e non la filosofia, è il fondamento degli Stati; e che la vera religione, cioè il cristia nesimo, propriamente quello protestante, non può essere un mezzo per raf­ forzare lo Stato - uno Stato che, lasciando a l di fuori di sé la dimensione religiosa, non può avere realtà e prima o poi viene « annullato )>, Le rivoluzioni nei Paesi latini erano destinate a fal­ lire perché erano soltanto politiche, miravano solo al « rovesciamento dei tron i » , mentre « senza cambia­ mento della religione non può avvenire alcun vero 1 57

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cambiamento, alcuna rivoluzione » . I Paesi protestan­ ti, invece, «hanno già fatto la loro rivoluzione » «paci­ ficamente » e con successo, perché la loro è stata una rivoluzione religiosa, ha portato il cristianesimo alla sua purezza; quindi è stata la vera rivoluzione poli­ tica. Ha portato negli Stati la « ragionevolezza», la verità, e dunque la libertà dall'errore e dal fanatismo. Al fondamento dello Stato non sta la religione tout court, ma la religione a cui la filosofia ha dato la propria benedizione. Miriadi di problemi si aprono.

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Se un giorno un beato si scoprisse infelice

Quando crescono la violenza e il dolore, cresce an­ che il bisogno di sapere che ne è della fel icità . ( Forse questa può essere la giustificazione del « festival» fi lo­ sofico « sulla felicità» che si terrà a Modena, orga niz­ zato dal Collegio S. Carlo e da altri enti, e sotto l'alto patronato del presidente della Repubblica, da oggi al 23 settembre . Anzi, è a l tempo del dolore che più si addice far festa alla felicità .) « Se potessi avere tutto quel che desidero, ecco, al­ lora sì che sarei felice ! » . Questo il pensiero che, di primo acch ito, per lo più, ci passa per la testa quan­ do ci chiediamo che cosa sia la felicità. Ma subito le cose si compl icano. Sarei felice se sapessi che dopo - presto o tardi - non lo sarò più e questa conoscen­ za invadesse l'anima? Certo, meglio che venga tardi « Corriere del la Sera » , 21 settembre 20 01. 1 59

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la fine della felicità . Sembra che i giova ni siano più felici (sembra ! ) perché per loro quella fine verrà più tardi. Però diciamo anche che sono anche spensierati; e ogni spensieratezza è rosa dal tarlo dell'angoscia. Ma supponiamo pu re che tutte le nostre inclina­ zion i e tutti i nostri desideri siano soddisfatti e che la soddisfazione non abbia limiti; supponiamo cioè che si avveri la definizione kantiana di « felicità »: « La felicità è la soddisfazione di tutte le nostre inclinazio­ ni, tanto in estensione, che in intensità , che in pro­ pensione, cioè in durata » . Si fa subito innanzi una di fficoltà ancora più aggrovigl iata : quel che desidero e, ottenuto, mi rende felice, rende spesso infelici tan­ ti altri . Spesso non è nemmeno necessario attenerlo, per renderli infelici: basta desiderarlo. E si può esse­ re un'isola felice attorniata da un mare di infel icità ? Forse si potrebbe ottenere che questo mare sprofon­ dasse nell'oblio e nel nulla. Ma come potrebbe que­ sta infinita e atroce spensieratezza essere immune dal ta rlo altrettanto infinito del dubbio che quel mare non solo riappaia, ma risucchi l'isola felice ? Guar­ data dall'esterno, l'isola appare abitata da un illuso. La religione - non solo quella cristiana e islami­ ca - promette nell'aldilà il totale appagamento dei desideri e delle incl inazioni a chi su questa terra avrà saputo desiderare ciò che non richiede l'infelicità al­ trui. Chiama « parad iso » questo appagamento - do­ ve non ottenere ciò che rende gli altri infelici non ci renderà infelici ma aumenterà la nostra felicità . La felicità non è di questo mondo, si dice, ma può essere 160

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dell'altro mondo, sia pure paradisiaco ? Certo, anche oggi si muore, in vari modi e variamente giudicati, per guadagnare la felicità del paradiso. Anche i terro­ risti dell'integralismo islamico muoiono per questo. Ma è ponderato il passo che si compie ? Supponiamo di esserci, i n paradiso. La felicità trabocca perché siamo al cospetto di Dio, che è ap­ pu nto la Realtà che soddisfa in eterno ogni nostra aspirazione . Il senso più profondo della defi nizio­ ne kantiana del la fel icità è finalmente avverato. Eppure, perché mai questa suprema esperienza di beatitudine eterna non può essere, ancora una vol­ ta, attraversata dal dubbio ? A un certo momento il beato può abbassare verso di sé lo sguardo e pen­ sare: « Sì , questo che speri mento mi conduce a una felicità infinitamente maggiore di tutte quelle che avrei potuto immaginare. Ma se tutto questo fosse i l più profondo degli i nganni, l'illusione e la beffa più atroce ? Se questa beatitud ine sontuosa fosse il preambolo del nulla o di una eterna infelicità ? Se questo Dio che mi sorride fosse un demone maligno che pregusta la mia catastrofe ? » . Ebbene, perché questi e simili pensieri non possono passare per la mente del beato ? Nella prima Lettera ai Corinti, l'apostolo Paolo scrive che «ora noi vediamo per mezzo di uno spec­ chio, in enigma, allora vedremo faccia a faccia» . «Al­ lora» , cioè in parad iso. Ma il beato nella cui mente si torcono quei laceranti pensieri, non sta forse vedendo Dio « faccia a faccia» ? Che « faccia a faccia» occorre, 161

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dunque, a ffi nché quei pensieri non trasformino il pa­ rad iso in un inferno? Ora non vediamo « faccia a faccia» perché abitia­ mo l'« enigma », cioè qualcosa che, stando alle nostre spa lle, appa re in uno specchio. Nemmeno per l'apo­ stolo la fede dissolve l'enigma e lo specchio; nemme­ no per lui la fede è uno stare « faccia a faccia » . Ma - d iciamo - anche il « faccia a faccia» è soltanto una fede, se quello che si mostra allo sguardo non è il volto della verità. La verità ! Abbiamo pronunciato la pa rola più importante. Perché l'amore è perfidia se non è, in verità, amore; e la sa ntità è empietà se non è, in verità, santità; e dunque la felicità è angoscia, se non, in verità, felicità. La felicità di cui parla la fede, o la scienza, o l'arte, non è la vera felicità, perché né la fede né la scienza né l'arte (Stendhal ogni mattina si metteva alla «caccia della felicità», come Mozart) si sono mai interrogate sul senso essenziale della ve­ rità e sul sign ificato di ciò che è il « senso essenziale » . D a sempre, questa interrogazione è stata i l compi­ to della filosofia. Per ora , richiamiamolo qui, presso la filosofia - presso l'aver cura della verità -, chi si è avventurato nella felicità del paradiso lasciandosi la verità alle spalle.

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La risurrezione non è la prova di Dio

Le religion i monoteiste sono oggi coinvolte da guerre di cui sono ispiratrici e vittime. Una guerra più profonda di queste, visibili, si combatte tra la vo­ lontà di servirsi della religione per interessi economi­ ci e la volontà di servirsi dell'economia per interessi religiosi . D'altra parte, se l'economia va incontro ai bisogni del corpo (soprattutto per i quali scoppiano le guer­ re), il supremo bisogno del corpo è di liberarsi dal­ la propria debolezza e corruttibilità e, vincendo la morte, vivere in eterno. E la fede nel la risurrezione dei corpi condivisa da tutte e tre le cosiddette reli­ gioni monoteiste (per l'ebraismo penso a Giobbe ed Ezechiele) non esprime forse questa suprema istanza «economica)) ? Sebbene Paolo condanni l'economia

« Corriere della Sera », 30 luglio 2002. 163

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che si serve della religione e la « gente che crede la pietà stru mento di guadagno», anch'egli si muove all'i nterno di quella superiore «economia». La teolo­ gia parla appu nto di « economia della sa lvezza» . Ma, quanto maggiori sono le speranze suscitate dalla fede nella risurrezione, tanto più ponderati deb­ bono essere i pensieri. Questo invito non ha nulla a che fare con l'atteggiamento, oggi sempre più diffu­ so, che intende ridurre il senso dell'uomo alla vita terrena. Al contrario, la fede nella risurrezione della carne è ancora troppo terrena e riduttiva . L'uomo sta infinita mente al di sopra della cond izione, apparen­ temente felice, di chi può risorgere dopo la morte. Per comprender questo, bisognerebbe scorgere che anche quella fede dipende dal senso che vien dato al «divenire » e alla morte degli esseri; ed è innanzitutto sul senso che l'Oriente e l'Occidente hanno assegnato al divenire e alla morte che bisognerebbe far luce. Tuttavia la ponderazione alla quale invitiamo si li­ miterà qui a un'osservazione molto più accessibile e circoscritta . Per il cattolicesimo la risurrezione di Gesù è la pro­ va definitiva e decisiva della sua divinità . Paolo dice inoltre che senza la risu rrezione di Gesù sarebbe va­ na anche la fede nella risurrezione dei morti. Anche per altre religioni il Dio (Osiride, Dioniso, Tammuz, Baal) muore e risuscita . Ma già Zarathustra e i filoso­ fi greci avevano pensato la risurrezione di tutti i mor­ ti. Tutti i viventi, dice Eraclito (fr. 8 8 ) , tramutandosi diventano i morti, e a loro volta i morti si tramutano 164

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e diventano i viventi. Il mondo stesso è un accendersi e uno spegnersi per accendersi di nuovo. Il mondo è divino, ma la risurrezione appartiene all'essenza di ogni cosa, non è il privilegio di una rea ltà particolare in cui si voglia vedere la presenza di un Dio. Da parte nostra diciamo che sulle spalle della ri­ surrezione di Gesù si è voluto caricare un peso che essa non può reggere. Si ammetta pure che Gesù sia risorto. Ma se dalla sua risurrezione segue certamen­ te che egli ha avuto una sorte eccezionale, non segue però ancora che egli sia Dio, cioè quell'Essere eterno, creatore e salvatore del mondo a cui pensa il cristia­ nesimo. Le «leggi della natura» oggi note possono cedere il passo a una diversa legislazione dove i corpi dei morti ritornano vivi sulla terra . La fede nella risurrezione di Cristo ha incontrato grande resistenza nella cultura occidentale. Ma ciò significa che anche questi avversari del cristianesimo hanno dato all'evento della risurrezione un'impor­ tanza esorbitante, vedendolo gravido di conseguenze che invece da esso non possono scaturire. La cu ltura del nostro tempo può cioè concedere che Gesù sia risorto senza trovarsi costretta a riconoscere che egli sia Dio. Per il cattolicesimo è Cristo stesso, insieme al Padre e allo Spirito Santo, a far risorgere la propria carne. Ma se questa tesi intende fondarsi sulla fede nella risurrezione di Gesù, non può trovare in essa quanto gli occorre. Sul versante opposto si suoi dire che la risurrezio­ ne dei morti è inverosimile e non ha alcun riscontro 165

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scientifico. Ma si può rispondere che la venta non ha bisogno di essere verosimile e che infinite sono le cose ignorate dalla scienza. Con obiezioni di questo tipo si rimane cioè alla superficie del problema . Si va invece verso il fondo quando si scorge che, anche se l'evento straordinario della risurrezione di Gesù (e in generale dei morti) si fosse realizzato (o si realizzasse) per davvero, rimarrebbe ancora interamente da spie­ ga re perché il protagonista di tale evento debba esse­ re Dio: perché debba essere Dio ciò che la conoscenza attuale del l'uomo non riesce a spiegare. Si ammetta pure - dicevo - che la risurrezione di Gesù sia «vera mente » accaduta, cioè sia, come vuole la teologia cattolica, una «verità storica». Per il cre­ dente tale «verità» sarà un « motivo » per aver fede nella divinità di Gesù. Non potrà tuttavia mai essere un motivo così cogente da trasformare il contenuto della sua fede in una verità assolutamente innegabile. Una «verità storica» non è infatti la verità nel senso pieno e autentico, cioè la verità come incontroverti ­ bilità assoluta. Una « verità storica» - già Agostino lo sapeva -, è soltanto un'ipotesi, un'interpretazione, una fede; sorretta sì da « motivi» che sono per lo più assenti nelle fantasie arbitrarie, ma che possono esse­ re pur sempre considerati insufficienti. Chi ammette le «verità storiche » - la «verità storica» della risur­ rezione di Cristo - non si appoggia sulla pura roccia dell'indiscutibile, ma rimane all'interno della fede - e dell'incertezza che accompagna ogni fede. 166

Due fedi, la stessa crisi

Che fare per ridurre la tensione col mondo islami­ co ? Il va lore della risposta dipende dalla capacità di capire che cosa stia accadendo. Episodi poco rilevan­ ti sono oggi il pretesto di reazioni violente nei Paesi islamici. Ma non sono poco rilevanti le guerre in Iraq e in Afghanistan, la plurisecolare dominazione euro­ pea dal Medio Oriente all'Indonesia, la globalizza­ zione, cioè l'estensione all'intero Pianeta del modello capitalistico. Ma è del tutto fuorviante condannare !'« Occiden­ te » e il capita lismo per aver dominato e sfruttato il resto del mondo. I popoli non hanno morale. Se ne è mai visto uno sacrificarsi per un altro ? Quando hanno potenza si impongono sui più debol i, come la natura riempie il vuoto. Lo ha fatto l' Occidente ma,

« Corriere della Sera » , 26 febbraio 2006. 167

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quando ha potuto, anche l'islam. La globalizzazione capital istica è l'ultima di una serie . Non sono tenta­ tivi di globalizzazione l'evangelizzazione cristiana e islamica del mondo ? La questione dello « scontro tra civiltà)) è stata male impostata . Coloro che oggi si fronteggiano - Occidente capita listico, islam, cristianesimo - sono tra loro molto più vicini di quanto non sembri. Una metafora può forse chiarirlo. Dalla cima di un mon­ te si sono staccati molti macigni. Rotolano verso il basso, si urtano. Alcuni si sono già spezzati. Il loro contrasto è ben visibi le. Ma non si possono ch iude­ re gli occhi di fronte al loro vero e comune nemico: la forza di gravità, che li fa precipitare. I macign i si chia mano trad izione occidentale (e quel che resta di quella orientale), cristianesimo, islam, capitalismo, comu nismo, democrazia, nazionalismo. Lo spirito di gravità che li spinge al tramonto è la concezione che il nostro tempo possiede della realtà. Essa non crede che il mondo abbia un senso, tanto meno un senso inviolabile e divino. Crede che, il senso del mondo, si­ ano le forze dell'uomo a produrlo. E ha dalla sua una grande potenza concettuale. Certo, tra i macigni, al­ cuni - capitalismo e democrazia moderna - sono più congeniali allo spirito di gravità; altri - cristianesi­ mo, islam, comunismo - meno. L'islam ha ereditato dall'Urss il compito di guida­ re i popoli poveri contro il capitalismo. Che ancora oggi ha molti nemici; tra i quali il capitalismo stesso, nella misura in cui diventa consapevole del proprio 168

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carattere distruttivo e si rassegna ad avere come sco­ po pri mario non più l'i ncremento del profitto ma la salvezza della Terra . Tra i nemici del capitalismo l'i­ slam si è portato in prima fila; vede il cristianesimo compromesso con il capitalismo stesso; pur essendo l'islam sostanzialmente solidale con il cristianesimo nel rifiuto del profitto privato come scopo primario della società . L'islam conduce cioè una guerra di re­ troguardia: è il canto del cigno del sacro. Tuttavia il capitalismo è destinato al tramonto per gli stessi motivi che hanno fatto tramontare il comunismo e il sacro. Anche capitalismo e democrazia sono for­ me di teologia che affermano il valore assoluto del denaro, dell'individuo, del mercato, della libertà, dell'eguaglianza. Parlare di « scontro tra civiltà» o volerne ridurre la portata significa non vedere che oggi lo scontro è ben più profondo di qua nto non ritengano i pessimisti. Al di sotto dello scontro visibile tra i macigni, agi­ sce quello più profondo, dove essi stanno tutti dalla stessa parte, per resistere allo spirito di gravità , tutti in lotta contro di esso. Il cristianesimo dalla stessa parte dell'islam, dunque . Gli scontri visibili sono di retroguardia e di super­ ficie - e i più vicini alla nostra pelle. Si vogliono di­ fendere «l'identità cristiana e occidentale » o quella islamica, col dialogo oppure col polso fermo oppure, come sta accadendo, col massacro. Ma sono colpi o strette di mano dati da ciechi a ciechi - dunque de­ stinati al fallimento - se non ci si accorge che la vera 169

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lotta si combatte altrove e che ogni intesa raggiunta nel la cecità è provvisoria ed equivoca. Certo, la po­ litica deve dare risposte immediate. Ma ha anche il compito di guardarsi attorno, e più lontano, per evi­ tare che esse siano fa llimenti. Questo non è tuttavia un consiglio patetico alla politica: la gestione dei pro­ blemi politici è destinata a quella maggiore ampiezza di visuale, perché anche la politica - dove tutti sono così sicuri di quel che dicono - è uno dei macigni che stanno rotolando verso il fondovalle. La gente oggi è allo sbando perché ha perso la sta­ bilità del passato e non sa ancora come afferrarsi e affidarsi alla potenza del tempo che viene. Ma se lo spirito di gravità determina l'estrema gravità del no­ stro tempo, esso è anche il processo storico in cui vien fatto, irrevocabilmente, ciò che noi vorremmo sapere quando ci chiediamo che cosa fare.

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Quel relativista di Ratzinger

Alcuni popoli si sono orma i assicurati la capacità di sopravvivere. Hanno ricchezza e potenza. Tutti gli altri - i più - tentano di rendere meno incerto il loro futuro. Non possono farlo senza minacciare i privi­ legi dei ricch i e potenti . Lo scontro non è solo econo­ mico. Fame e sofferenza non sono soltanto fenomeni biologici. Sono «interpretate » , cioè vissute all'interno di una coscienza che denuncia l'origine della miseria. Durante il secolo appena trascorso, il comunismo, volendo liberare i popoli dallo sfrutta mento capita­ listico, è stato l'interpretazione più visibile (e più o meno in buona fede) della loro miseria. Con il crollo dell'Unione Sovietica l'i nterpretazione religiosa, cri­ stiana e soprattutto islamica, si è posta alla testa del­ le rivendicazioni dei diseredati. E in modo ambiguo,

« Corriere della Sera», 9 giugno 2006. 171

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perché in entrambi i casi forze economiche intendono servirsi della rel igione e la religione dell'economia. La religione è perta nto ridiventata uno dei tratti centrali dello stato politico-economico del Pianeta. E poiché il rapporto con la filosofia sta a sua volta al centro degli interessi del cristianesimo e soprattutto della Chiesa cattolica ( lo stesso avviene, sia pure i n modi diversi per la cultura islamica), è ingenua ogni riflessione sullo stato attuale del mondo, che ponga la filosofia in seconda o terza fi la. Hanno dunque un valore anche «pratico » - cioè economico-politico le cosiddette « astrazioni» fi losofiche che compaiono nel linguaggio della Chiesa e dei suoi pontefici. C'è ad esempio un'osci llazione di grande interesse nella catechesi dell'attuale Pontefice . E c'è una critica a l « relativismo » - ritenuto dalla Chiesa i l suo più radi­ cale avversario - che ha proprio i caratteri essenziali del relativismo che tale catechesi intende combattere. Nel 1 9 8 6 Giovanni Paolo II affida all'allora cardi­ nale Ratzinger la supervisione del Catechismo del­ la Chiesa cattolica, dove si afferma (con la Humani Generis di Pio XII) che «la ragione umana con le sole sue forze e la sua luce natura le può realmente pervenire ad una conoscenza vera e certa di un Dio personale » . Si tratta della ragione filosofica, e pro­ priamente di quella che nel pensiero di Tommaso d'Aquino ha trovato, secondo la Chiesa, la sua più fedele espressione. Dopo l'enciclica Aeterni Patris di Leone XIII, che invitava alla riflessione su quel pensiero, la « filosofia neoscolastica» si è proposta in 1 72

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tutto il mondo di accogliere tale invito. In questo cli­ ma è sorta in Italia l'Università Cattolica, con filosofi come Masnovo, Olgiati, Gemel li, Ch iocchetti, Zam­ boni, Va nni Rovighi, Cornelio Fabro e soprattutto Gustavo Bontad ini. Ma quando il cardinale Ratzinger espone la pro­ pria concezione teologico-filosofica scrive qua lcosa di molto diverso. Ad esempio: « Ritengo che il razio­ nalismo neoscolastico sia fallito nel suo tentativo di voler ricostruire i Preambula Fidei con una ragione del tutto ind ipendente dalla fede » ( « L'Osservatore Romano » , 1° novembre 1 996, La fede e la teologia ai nostri giorni) dove i Preambula Fidei sono, in­ nanzitutto, proprio quella «conoscenza vera e certa di un Dio personale » a cui, secondo il Catechismo, la ragione umana «con le sole sue forze e la sua luce naturale può realmente pervenire )) . È, questo di Ratzinger, un giudizio negativo nei con­ fronti della filosofia neoscolastica, dunque di Tomma­ so e della Aeterni Patris (mai citata nel Catechismo). È anche vero che, appena eletto Papa, e ritornando nuo­ vamente sui suoi passi, egli ha invitato a non dimenti­ care San Tommaso. Vorrei quindi invitare il Pontefice a non liberarsi così alla svelta della filosofia neoscola­ stica e soprattutto del pensiero di Bontadini (sempre mio indimenticabile maestro, anche se siamo venuti a trovarci così profondamente lontani). Un invito, questo, all'interno di uno ben più ampio: che la Chiesa faccia seria mente i conti con la filosofia moderna e contemporanea . È uscito in questi giorni -

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un bel libro di Leonardo Messinese, docente pres­ so la pontificia Università Lateranense (Il cielo della metafisica, prefa zione di Virgilio Melchiorre, Rub­ bettino, pp. 178 , € 1 2), che mostra appunto quanto accurati fossero i conti che Bontadini faceva con la filosofia moderna (Cartesio, Kant) e con quella con­ temporanea (Gentile e il sottoscritto) . . Ratzinger rileva giustamente che il relativismo del­ le principali teologie da cui dissente - quelle di Hick e di Knitter è fondato sul criticismo kantiano, per il quale la conoscenza umana non può raggiu ngere la rea ltà in se stessa - con gravi conseguenze per la fede cristiana. Bene. Ma basta questo per metter da parte Kant? Certo, esistono molte critiche a Kant, ma basate su prospettive - ad esempio l'ideal ismo - che la Chiesa non può accettare. Infine, definito nel modo più rigoroso, il « relati­ vismo >> è la negazione che la ragione possa conosce­ re in modo autonomo qualcosa di incontrovertibile. Il relativismo dice che «la ragione umana non è per nulla autonoma>> e «vive sempre in particolari con­ testi storici>>. Ma queste, tra virgolette, sono frasi di Ratzi nger. Appunto per questo dicevo sopra che la critica rivolta dal Pontefice al relativismo è essa stessa, in pieno, relativismo. Vado poi mostra ndo da gra n tempo che il relativismo è il fenomeno di una potenza ben più radicale, di cui il pensiero filosofi­ co del nostro tempo d ispone . La si vorrà guardar in faccia una buona volta, tale potenza ? E questo è un invito rivolto anche ai «la ici>>. -

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Lo Stato, la politica

Quest'ultima sezione del libro raccoglie gli inter­ venti di Emanuele Severino dedicati alla politica in senso lato. Si è fatta una scelta cercando di essere fe­ deli alle sue osservazioni, sempre puntuali e coerenti, senza includere in queste pagine quegli articoli che si riferivano a fatti contingenti, orma i dimenticati. Sa­ rebbe stata necessaria una ricostruzione di quanto è avvenuto, soprattutto nella politica italiana negli ul­ timi quarant'anni, di notevole ampiezza . Non è que­ sto lo scopo della raccolta. Per ironia della sorte, è stato ricordato nell'Intro­ duzione, il primo articolo di Severino ha carattere pol itico: esce nel settembre 1 975 in quello spazio chiamato «Tribuna aperta» - un distico ricordava che lì erano ospitati interventi « autorevoli» di diver­ sa tendenza, il cui giudizio « non sempre rappresenta quello del "Corriere"» - e ha come titolo Proposta 177

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per il Pci. È l'anno in cui la sinistra conquista con le regiona li Piemonte, Liguria e Lazio, e la coalizione rossa Pci-Psi otterrà la forza per ch iudere anticipata­ mente la legislatura l'anno successivo. Per intender­ ci, è anche il momento in cui la corrente moralistica dei comunisti, dopo la vittoria elettorale, scandisce con più convinzione lo sloga n (oggi dimenticato) : «Il Pci ca mbierà questa sporca società» . Severino scri­ ve tre mesi dopo il successo rosso, ricorda ndo che i comu nisti ita liani stavano intensificando i rapporti con gli Stati Uniti , « per mettere le carte in tavola>> e mostrare che «l' Occidente non ha nulla da temere >>. Severino semplicemente commenta ribadendo che quelle «carte non sono rassicuranti>> e che « i l Pci sta sbagliando >> . Il crollo annunciato del comunismo sarà oggetto di diversi articol i di Severino, così come il problema della violenza che diventa fisiologica in un sistema politico traballante . Inoltre le analisi del filosofo si concentrano su temi allora di grande impatto come la solidarietà, evocata in molteplici modi negli anni Novanta , e lui lo farà sempre con osservazioni lo­ giche ineccepibili. Lo prova un articolo del 7 aprile 1 994 nel quale Severino conclude ricordando: « La solida rietà non entra dunque nella definizione di "ca­ pitalismo" » . Prende corpo per interesse: «Affinché esista l'efficienza, ci si può servire [corsivo dell'auto­ re] della solidarietà » (La legge del profitto e l'idea di

solidarietà). 178

LO STATO, LA P O L I T I C A

Un articolo del 20 settembre 1 998 parla dell'« jllu­ soria sicurezza dei nostri politici», i quali « tendono oggi a identificare la loro attività con la democrazia». Insomma , osservazioni che nascono da un pensatore che aveva la vista lunga. Inoltre Severino, a nche se ricevette omaggi e visite da esponenti di governo o da dirigenti di partito, non ebbe u n'attività politica nel senso pratico del term ine. Fu un osservatore atten­ to, lucido, non parziale, ma guardò sempre vittorie, sconfitte o governi con gli occhi del filosofo. Di cer­ to, rileggendo queste pagine, si scopre che egli aveva annunciato la fine del comunismo ben prima della caduta del muro di Berlino e che non ha fatto scon­ ti nemmeno al capitalismo. Per chiudere: egli amava osservare che dietro ogni sistema politico c'è una te­ ologia e che ogni teologia cela un disegno politico.

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Fine del comunismo. Un crollo annunciato

Che qualcuno avesse previsto il crollo del marxi­ smo ha poca importanza. Quando dico che l'avevo previsto vent'anni fa , intendo richiamare l'attenzione sulla «logica» di questa previsione . Essa , infatti , non si è esaurita , ma consente di prevedere anche altre cose. Che non abbia fallito in relazione al comuni­ smo è un segno della sua capacità di dirci; ora, dove stiamo andando. La «logica» per la quale si doveva afferma re che il comu nismo sa rebbe crollato spinge infatti anche ad affermare che le grandi forze rimaste in campo dopo la fine del socialismo reale sta nno avviandosi a .loro volta, in modi e tempi diversi, al tramonto. M i riferisco al cristianesimo, al capita­ lismo, alla democrazia, all'organizzazione politica della società . Ognuno di questi grandi fenomeni sta cambiando sotto i nostri occhi . « Corriere della Sera)), 2 1 giugno 1992. 181

I L D I T O E LA L U N A

Il problema fondamentale riguarda dunque la «lo­ gica» di quella previsione. Che non è la logica della scienza moderna. È qualcosa di più rigoroso e di più rad icale, anche se non dice a che ora sarebbe finita l'Un ione Sovietica. So bene che, oggi, parlare di una «logica» più rigorosa e radicale di quella scientifica è una bestemmia imperdonabile. Ma che la scienza moderna sia la forma più alta del sapere è tutt'altro che un pu nto fermo. Recentemente, comunque, si è detto che Benedet­ to Croce, il crollo del marxismo, l'aveva previsto ad­ dirittura 60 anni fa , nell'« Epilogo » della sua Storia d'Europa. Anche Ruggero Guarini me lo ricorda in un articolo sul « Corriere ». È una pagina interessante, quel la di Croce, ma non certo « stupefacente » . Dirò poi perché Croce non abbia responsabil ità di questo suo calo di tono. Il comu nismo, scrive, che sognava il « regno della libertà» (l'espressione è di Marx) si è realizzato in Russia come «una forma di autocratismo >> che ha tol­ to al popolo russo anche quel poco di libertà che era riuscito ad avere « sotto il precedente autocratismo czarista>> . I rivoluzionari russi non hanno cioè risolto « i l problema fondamentale dell'umana convivenza che è quello della libertà>> . E aggiunge - e questa dovrebbe essere l a s u a «pre­ visione >> -: « E , se mai in futuro lo affronteranno», quel problema, « rovi nerà il fondamento materia­ listico della loro costruzione, e questa costruzione dovrà essere diversamente sorretta e grandemente 182

LO STATO, LA P O L I T I C A

modificata; e, come ora il puro comunismo non si è attuato, così non si attuerà nemmeno allora». Se i rivoluzionari russi affronteranno quel problema, se cioè vorranno far spazio alla libertà , il materia lismo in cui hanno legato la vita svanirà. La libertà spezza le catene. Ma per Croce questa forza trasformatrice della libertà non è qua lcosa che sarebbe potuto accadere solo in Russia: è la forza che anima « t utta la sto ­ ria » . C 'è storia perché c'è libertà . Ne La storia come pensiero e come azione Croce pa rla appunto della « storia come storia della libertà » : nel senso che la libertà è «l'eterna formatrice della storia , soggetto stesso di ogni storia)) , La realtà è libertà, storia, di­ venire dello spirito; e qua ndo lo spirito affronta il problema della libertà e prende coscienza della pro ­ pria essenza , distrugge ogni costruzione rigida che impediva il suo libero svi luppo. Così accadrà anche in Russia, « se mai in futuro )) i rivoluzionari vorran­ no affrontare quel problema . Ogni fatto è un « fatto storico, u n d iveniente, un processo in corso, perché fatti immobili non si trova no né si concepiscono nel mondo della realtà)) , Anche il comun ismo è un fatto storico che, come tutti gli altri, sarà superato dal­ la storia. Con questo discorso, Croce non prevede specifica mente il crollo del comunismo, ma enuncia il pri ncipio del crol lo di tutti i possibili fatti storici . Non esistono « fatti immobi l i )) , Principio non solo di Croce, ma di tutta la fi losofia contemporanea, Marx incluso. 1 83

I L D I T O E LA L U N A

A parte il fatto che altro è, nei primi anni Tren­ ta, « prevedere » tale crollo, quando il comunismo in Russia era ancora in fase speri menta le , altro è averlo previsto vent'anni fa , quando l'Unione Sovietica era una superpotenza mondiale al culmine della potenza. In quell'« Epilogo» Croce parla poi della sorte del comu nismo fuori del la Russia, sottoscrivendo la tesi di M ilj ukov che Lenin «in Russia stava fabbricando sul saldo suolo della buona antica tradizione auto­ cratica, ma che per quel che riguardava altri paesi, disegnava castelli in aria» . Portato fuori della Russia, aggiunge Croce, il comunismo diventerà «tutt'altra cosa» , oppure la libertà tornerà a germogl iare. Ma il nostro problema riguarda ciò che sarebbe accaduto al comunismo nell'Unione Sovietica - anche se nel cli­ ma degli anni Trenta Croce, giusta mente, non vedeva elementi favorevoli alla diffusione del comu nismo. Ma veniamo, infine, al punto più importante per quel che concerne la « previsione » di Croce. Ebbene, al centro del suo pensiero sta , ben visibile, la tesi che « ogni previsione storica è impossibile » . Proprio per­ ché la realtà è libertà , libero divenire dello spirito, ogni previsione è costitutivamente impossibile. E an­ che questo è uno dei temi dominanti della filosofia contemporanea . Anche nell'« Epilogo » della Storia d'Europa questa tesi è più volte richiamata . Poco dopo l'inizio si parla di coloro che « si perdono in congetture e previsioni»; e nell'ultimo capoverso si legge: « Queste, rapidamente qui accennate, non so­ no previsioni, a noi e a tutti vietate », perché «vane » , 184

LO S TATO, LA P O L I T I C A

ma sono « indicazioni di vie tracciate dalla coscienza morale » e dall'«osservazione del presente » . Quando scorge che il presente è il risu ltato dell'azione della libertà, l'uomo può assumere la libertà come « ideale » del proprio agire. Che il comunismo sarebbe dovu­ to crol lare non era dunque per Croce una previsio­ ne, ma un'aspirazione e una decisione, cioè volontà e azione fondate su quell'« ideale morale » . Appunto per questo l'« Epilogo )) può permettersi di essere così generico sul futuro del comunismo: è generico solo se lo si considera come previsione; ma Croce esclude categoricamente che lo sia. Per questo, dicevo sopra, egli non è responsabile di questo suo apparente calo di tono. Quanto alla mia « previsione )) ' è chiaro che se es­ sa non è una previsione scientifica essa prende anche le distanze dal tipo di cultura filosofica a cui Croce appartiene. La libertà (e la schiavitù) è un principio essenziale dell'Occidente. Ma è proprio l'essenza dell'Occidente che vien messa in questione dalla «lo­ gica)) di questa previsione.

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Sistema traballante . Violenza fisiologica

Anche dopo i recenti atti terroristici in Italia, la «prudenza» e la « serietà» si son fatte avanti e han­ no rilevato che sono solta nto ipotesi non controllate tutte le connessioni che si son volute stabilire con i possibili mandanti. Un rilievo corretto, questo, ma unilatera le che finisce col cancellare la situazione sto­ rica in cui viviamo, che sta sotto gli occhi di tutti e non si presenta come semplice ipotesi, incerta e inde­ cifrabile, ma piuttosto come « evidenza» - nel senso conferito a questa parola dal linguaggio comune. Chi ha il potere e lo mantiene con la forza non in­ tende perderlo: usa la forza appunto per non perder­ lo. Questa affermazione è generalmente considerata non come una semplice ipotesi, ma come un'«eviden­ za». Ma non è nemmeno un enunciato astratto che « Corriere della Sera», 3 settembre 1993. 186

LO STATO, LA P O L I T I C A

non abbia nulla a che vedere con la situazione storica presente. Durante lo scontro col socialismo reale i l sistema democratico-capitalistico ha dovuto usare la forza per sopravvivere e vincere, per combattere i nemici esterni e interni. Ma l'uso della forza non è una pro­ cedura democratica. La democrazia non può combat­ tere democraticamente i propri nemici, perché l'esito di un combattimento non è deciso dalla volontà della maggioranza ma dalla volontà più forte. Nemmeno il capitalismo può combattere i propri avversari rispet­ tando le regole della legalità capitalistica. La guerra non ha regole. Di fronte al comunismo, e a qualsiasi altro nemico, il sistema democratico-capitalistico è costretto, non solo in Italia, ad adottare procedure che dal punto di vista della legalità democratico-ca­ pitalistica sono devianti, cioè violenza. È costretto ad essere in contraddizione con se stesso. Non avendo affidato e non affidando la propria so­ pravvivenza alla legalità del gioco democratico e alle regole del libero mercato, ma alla propria volontà di sopravvivenza, il sistema si perpetua indipendente­ mente dal modo in cui la volontà della maggioranza si sarebbe e si è di fatto orientata. Il potere dominante del nostro tempo si perpetua con la forza anche se gode del consenso dell'elettorato. D'altra parte il sistema de­ mocratico-capitalistico è il potere oggi dominante an­ che perché produce consenso - più ampio e profondo di quello prodotto dal socialismo reale; anzi, la forma più elevata di consenso esistente nelle società avanzate. 187

I L D I TO E LA L U N A

Ciò nonostante, con la vittoria sul comunismo non sono finiti i pericoli per tale sistema. Sono forse au­ mentati. Le sue due componenti - democrazia, capita­ lismo - accentuano la conflittualità reciproca rimasta latente durante lo scontro col comu ne nemico. Il capita­ lismo mira di per sé all'incremento incondizionato del profitto; la democrazia, invece, a condizionarlo con i valori della tradizione illuministico-liberale. E la gente può rivendicare i propri diritti contro l'invadenza del profitto senza che questa rivendicazione si presenti - a differenza di quanto accadeva durante la guerra fred­ da - come un movimento eversivo di sinistra appog­ giato dall'Unione Sovietica; sì che mentre in passato la repressione dei fattori destabilizzanti avveniva in no­ me dei superiori interessi della democrazia e del libero mercato, ora questa giustificazione non ha più valore. Da parte sua, la Chiesa cattolica osteggia sia la li­ bertà senza verità del la democrazia moderna, sia il profitto capita listico fine a se stesso; condanna l'egoi­ smo che il sistema dominante dimostra verso i popoli poveri. Questi ultimi, infine, premono in modo sem­ pre più minaccioso sull'area del benessere . Il sistema dominante, dunque, se era costretto ieri a usare la violenza per sopravvivere, per lo stesso motivo è co­ stretto a farlo anche oggi . La violenza non appartiene alla patologia, ma alla fisiologia del sistema demo­ cratico -capitalistico reale (come a quella di ogni altro sistema e di ogni organismo vivente). Se, dunque, ogni connessione tra la violenza ter­ roristica e i suoi presunti mandanti è solta nto un'i188

LO STATO, LA P O L I T I C A

potesi, non è invece ipotetico, o lo è in misura più ridotta, il quadro storico che abbiamo tratteggiato. L'ind ividuazione dei mandanti del terrorismo rima­ ne ipotetica fi no a che non sia comprovata dalla lo­ gica giud iziaria; ma nessuna logica giudiziaria po­ trà mai ricostruire i l signi ficato globale del nostro tempo, la cui « evidenza» consi ste nel fatto che essa è costituita da convinzioni genera lmente condivise anche da pa rte di chi vuoi fa rsi guidare dalla logi­ ca giudiziaria o dalla « prudenza» o dalla « serietà » . Stando così l e cose, è certa mente un'ipotesi, e anche molto azzardata, che la volontà di sopravvivenza del sistema democratico-capita listico sia la responsabi­ le della violenza terroristica là dove , come in Ita lia, tale volontà si sente minacciata troppo da vici no; ma non è un'ipotesi (e anzi è stato anche un fatto re­ ale) che tale sistema abbia dov uto usare la violenza per sopravvivere . Ci si chiede di solito quali siano i mandanti e « a c h i giovi)) il terrorismo; e poiché tutte l e ipotesi sono soltanto ipotesi, si chiudono gli occhi su quanto acca­ de nel mondo e si fanno sparire le evidenze che stan­ no sotto gli occhi di tutti. Ma questo atteggia men­ to va rovesciato: non si deve risa lire dal terrorismo ai mandanti - e vedendo che il percorso è ipotetico mettersi a sedere senza guardare il panorama; bensì, guardando ciò che accade nel mondo e ricordandosi di principi come quello che chi ha il potere non in­ tende farselo portar via, si deve tentare, all'interno di questo quadro, di interpretare il terrorismo. 189

La legge del profitto e l'idea di solidarietà

La destra italiana dichiara oggi di mirare, insieme, all'efficienza e alla solidarietà (affrontare, ad esem­ pio, il problema dell'occupazione). Ma questo è an­ che l'i ntento delle sinistre e dei cattolici. L'unione di efficienza e di solidarietà è uno dei temi centra li del­ la dottrina sociale della Chiesa. E la Confindustria parla della « circolarità virtuosa» che deve alimentare questi due fattori. Per quasi tutti, l'efficienza coinci­ de con la forma capitalistica del la produzione della ricchezza . Tutti d'accordo ? Ovviamente no. La differenza è data dal posto che si assegna all'efficienza e al­ la solidarietà. Si può promuovere la solidarietà per realizzare l'efficienza e, viceversa, ci si può servire dell'efficienza per realizzare la solidarietà . Due atteg« Corriere della Sera » , 7 aprile 19 94. 1 90

LO STATO, LA P O L I T I C A

giamenti molto diversi . Anzi, opposti . Così come chi mangia per vivere va in direzione opposta a chi vive per mangtare. Si illudono quanti credono che la produzione eco­ nomica è quello che è, indipendentemente dalle in­ tenzioni dei produttori . Essi confondono lo scopo « oggettivo» di un'azione con le intenzioni « soggetti­ ve » di chi agisce - che possono convergere o diverge­ re da tale scopo. Ad esempio un industriale può servirsi dei propri guadagni per divertirsi. Il divertimento può stare in cima ai suoi pensieri; ma non è lo scopo ogget­ tivo della sua attività economica, perché uno scopo siffatto è quello che determina il modo in cui sono organizzati i mezzi per realizzarlo, e a determinare l'attività imprenditoriale non è la volontà di divertir­ si, ma è la volontà di incrementare il profitto, ossia è l'efficienza. Quando invece lo scopo oggettivo che determina l'attività economica non è l'efficienza, ma la sol ida­ rietà (e, anche qui, le intenzioni soggettive possono essere le più disparate), l'attività economica non è più attività capitalistica, anche se le procedure adottate possono sembrare, a un osservatore disattento, le stesse - così come gli può sembrare che chi mangia per vivere e chi vive per mangiare facciano dopotutto le stesse cose, visto che entrambi vivono e mangia­ no. C 'è dunque una profonda contrapposizione tra il capitalismo, che vuole la solidarietà per realizzare l'efficienza, e le sinistre- e la Chiesa che vogliono l'ef191

I L D I T O E LA L U N A

ficienza per realizzare la solidarietà . Si sarebbe miopi se si dicesse che, dopotutto, entrambi gli schiera men­ ti vogliono sia la solida rietà sia l'efficienza. Ma si può replicare, dicendo che questi due fattori non stanno per forza in un ordine gerarchico - l'uno sopra e l'altro sotto -: possono stare tutti e due sullo stesso piano e, per così dire, disporsi in circolo. A questo pensa la Confindustria quando parla di «cir­ colarità virtuosa» di efficienza e solidarietà. Sembra che a questo pensino anche quei cattolici popolari che oggi si volgono verso la destra . In questo senso si è espresso anche Mario Monti su questo giornale. Ta le formula può trovare consensi anche nelle sini­ stre. Inoltre va tenuto presente che il capitalismo e il mercato sono stati quasi sempre vincolati da rego­ le sociali, politiche, religiose, morali, e quindi non è quasi mai esistito un capita lismo, amo dire, sibi per­ missus, che persegua al di fuori di ogni limite l'effi­ cienza e l'incremento del profitto. E dunque sembra che il capita lismo non possa essere ridotto alla sola efficienza . Ma c'è miopia anche in questa conclusione . Perché, in ogni sua forma, un'azione non può limitare e vin­ colare se stessa, contraddire la propria essenza. Chi vuol liberarsi dalla sofferenza non vuol farlo sino a un certo punto e non oltre. La liberazione dalla sof­ ferenza non vuole vincolare se stessa, anzi vuol essere sempre più libera da ogni vincolo che le impedisca di vincere la sofferenza. Così, la volontà che ci sia giustizia, che venga il regno di Dio, che l'uomo sia 1 92

LO S TATO, LA P O L I T I C A

padrone della natura , che si realizzi la bontà, la bel­ lezza, l'amore. Ogni azione vuole render sempre più reale il proprio scopo, al di là di ogni limite e vinco­ lo. E appunto questo vuole anche la forma di azione economica che mira all'efficienza e all'incremento del profitto. E come la volontà di liberarsi dalla sofferen­ za non è definita dai vincoli a cui essa è sottoposta e che essa intende anzi superare, così il capitalismo non è definito dai vincoli e dai limiti a cui esso è stato sottoposto lungo la sua storia, ma è definito dal suo scopo, cioè dalla volontà di efficienza e di profitto. La solidarietà non entra dunque nella definizione di «capita lismo )). Dal fatto che in natura non esiste mai un bianco così puro da non essere anche un po' scurito o annerito, cioè limitato dal nero, non segue che il nero debba entrare nella definizione del bianco. Per il capitalismo (il bianco) la solidarietà (il nero) è un vincolo che proviene dall'esterno. Il capitalismo tende a liberarsene sempre di più, anche se in certi momenti storici l'abolizione di esso potrebbe essere controproducente ai fi ni dell'efficienza. A volte, per cancellare le macchie nere, si corre il rischio di bu­ care il foglio. E quindi è conveniente, affinché ci sia il bianco, che ci sia anche un po' di nero. Ma da ciò non segue che il bianco sia nero e che tra il bianco e il nero ci sia una sorta di «circolarità virtuosa)) . Per esistere come bianco, il bianco si serve ( più o meno virtuosamente) del nero. Affinché esista l'efficienza, ci si può servire della solidarietà. Anche in questo caso la gerarchia è inevitabile. 1 93

IL D I T O E LA L U N A

Votando a destra, gli Ita liani possono aver deside­ rato tante cose, ma in realtà (né sto dicendo che sia stato un bene o un male) essi hanno ra fforzato un sistema economico e sociale che ha come scopo l'ef­ ficienza e si serve della solidarietà per raggiungerla. Certo, si può dire di volere una società in cui effi­ cienza e solidarietà si limitino a vicenda e che in linea di principio tronchi la volontà di entrambe di porsi come scopo primario dell'azione sociale. Ma, come vorrei illustrare in altra occasione, in questo tipo di società il capitalismo non circolerebbe virtuosamente con la solida rietà, ma, semplicemente, non esistereb­ be più perché avrebbe rinunciato al proprio scopo.

1 94

Lo Stato è un'impresa ma non può correre rischi

« Lo Stato è un'azienda. Chi è capace di risanare e rafforzare una grande azienda sa anche guidare lo Stato. Anzi, è il solo veramente capace di guidarlo ». Un discorso, questo, che sta acquistando credito nel mondo industrializzato. Anche in Italia. Alla sua ba­ se si trova l'immagine tradizionale del l'imprenditore, che per energia, abilità, scaltrezza, spirito di iniziati­ va, prontezza di riflessi e sangue freddo è capace di quello che la maggior parte delle persone non è in grado di fare . Un'immagine tradizionale, di cui già agli i nizi degli anni Quaranta un economista come Joseph A. Schumpeter intravvedeva l'eclissi: ma che negli ul­ timi decenni si è rifatta viva - anche perché nell'on­ nipotente messaggio televisivo la personalità dell'uo« Corriere della Sera )) , 23 maggio 1996. 1 95

I L D I T O E LA L U N A

mo politico ha ormai un peso determinante e quella dell'imprenditore di successo è ancora tra le più ido­ nee a colpire l'immaginazione della gente . L'« uomo forte » di cui oggi si parla è per molti versi l'imprendi­ tore capace, che decide di utilizzare la propria espe­ rienza per risolvere i problemi dello Stato. Ma se si fa rivivere l'immagine tradizionale dell'im­ prenditore, non si può dimenticare quel tratto essen­ ziale dell'intrapresa capitalistica che è il rischio. L'im­ prenditore mette a rischio il proprio capitale. Se non rischia, fa dell'ordinaria amministrazione, non esce da una routine che per la sua prevedibilità e calcolabilità è praticabile da gran parte della concorrenza e non dà profitto. Il profitto cresce dove cresce il rischio. Ri­ schio, azzardo, scommessa, avventura formano il ter­ reno in cui si muove l'iniziativa imprenditoriale. Un imprenditore che non rischia è fallito in partenza. E dunque è capace solo se insieme ai requisiti summen­ zionati ha anche quello di essere fortunato. D'altra parte, se l'intrapresa è liberata dal rischio (e dalla connessa fortuna e sfortuna) ed è resa total men­ te calcolabile e prevedibile, l'azienda si trasforma in un laboratorio scientifico, cioè in un'organizzazione della routine che rende superflua la presenza dell'im­ prenditore: la razionalità scientifica non controlla più soltanto le tecniche utilizzate per la produzione del profitto, ma finisce con il controllare anche il volume di decisioni in cui si esprime la personalità dell'im­ prenditore e da cui dipendono le sorti dell'azienda. La presenza dell'imprenditore richiede che l'intrapre1 96

LO S TATO, LA P O L I T I C A

sa economica non divenga un calcolo scientifico ac­ cessibile a tutti in linea di principio e quindi tale da dissolvere ogn i opportu nità di i nvestimento. Ma se l'intrapresa capital istica è costretta a muo­ versi nell'elemento del rischio, che cosa accade quan­ do si concepisce lo Stato come u n'azienda e la si mette nelle mani dell'imprenditore ? Se questa operazione è compiuta per davvero e non è uno sloga n elettorale, è inevitabile che si dia vita a uno Stato a rischio, come è sempre a rischio anche l'azienda che vada mietendo i più lusingh ieri successi. O l'azienda si ferma, oppu �e è sempre messa a repentaglio. E il successo sarà tanto maggiore quanto più la si sarà messa in pericolo. So­ no ben note le analogie (ovvia mente inscindibili dal­ le differenze) tra l'intrapresa capitalistica e il gioco d'azzardo. L'azzardo economico è consentito perché l'impren­ ditore, quando è corretto, mette a repentaglio la pro­ pria ricchezza e se stesso. Ma se l'azienda è lo Stato, il capitale messo a repentaglio è la ricchezza di tutti i cittadini. Essi sono costretti a rischiare il proprio capitale e devono augurarsi che l'imprenditore alla guida dello Stato continui ad avere fortuna. Possono vincere molto, ma possono anche perdere tutto. Sem­ bra che lo Stato moderno abbia il compito di evitare questi due casi estremi praticando una via mediana, che lasci pera ltro aperta la possibilità di quei casi nell'ambito dell'iniziativa privata. Lo Stato è la di­ mensione pubblica che non può mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini e che dunque non può esse1 97

I L D I TO E LA L U N A

re un'azienda privata , la quale si muove per essenza nell'ambito del rischio. Certo, in democrazia i cittadini sono liberi di sce­ gl iersi uno Stato-azienda e uno Stato a rischio, spe­ rando nella fortuna di chi lo guida e loro. Sembra inoltre che il modello da noi considerato sia molto astratto, perché l'imprenditore capace alla guida del­ lo Stato sarà circondato da un team di tecnici e di scienziati con il compito di ridurre il più possibile l'a­ leatorietà delle decisioni, i rischi dell'azienda statale e la connessa possibilità di esiti sfortunati. Tuttavia rimane vero che una maggioranza che vo­ glia uno Stato a rischio impone il rischio alla mino­ ranza, la costringe all'azzardo in modo affine a quel­ lo con cui in uno Stato democratico la maggioranza decide, attraverso gli organi di governo, di entrare in guerra . Tutto questo può essere lecito, ma non può essere nascosto, cioè va detto come va detto che uno Stato-azienda è uno Stato a rischio. Si tratta poi di vedere se il team di tecnici-scienziati che assiste l'im­ prend itore alla guida dello Stato gli lascia o no spa­ zio. Se sì, la guida dello Stato viene affidata da ultimo a chi opera in condizioni di rischio sperando nella fortuna . Se no, lo Stato si trasforma in u n apparato tecnologico che si propone metodicamente l'elimina­ zione del rischio e della fortuna dall'amministrazione della cosa pubblica . Cioè si propone di non essere un'azienda. È quanto sta in effetti accadendo su scala planetaria, nonostante la reviviscenza dell'immagine tradizionale dell'imprenditore e dell'« uomo forte » . 198

L'illusoria sicurezza dei nostri politici

I mass media dedicano un'eccessiva attenzione ai politici. Credono che la gente si interessi di quel che fanno costoro. Ma vi sono ragioni più profonde che spiegano questo eccesso. In primo luogo i politici ostentano una straordinaria sicurezza circa la bontà dei propri progetti . In effetti, per agire bisogna esser sicuri delle proprie capacità. A maggior ragione, quan­ do l'agire consiste nel comandare o nel proporre un piano di azione. A un politico indeciso non vanno voti. Ma la sicurezza dovrebbe indicare che la persona sicura è guidata da un giudizio vero sulle cose. I nve­ ce il nostro tempo si è reso conto che in u n mondo continuamente fluente e cangiante non può esistere alcuna verità definitiva e immutabile. Di uomini si­ curi ne esistono ancora; ma ormai la nostra cultura

« Corriere della Sera » , 20 settembre 1998 . 1 99

I L D I T O E LA L U N A

sa bene che la loro sicurezza non ha a lcun fonda­ mento. I fi losofi e gli scienziati riconoscono i limiti

della filosofia e della scienza (e comunque la «Verità»

non potrà mai abitare nelle opinioni e nei princìpi con cui gli individu i affrontano i problemi della vita quotid iana). La prassi giuridica sa che ogni sentenza è fa ll ibile, e pertanto impugnabile. Gli artisti non ri­ tengono più di essere gli autentici custodi della verità. Per la psicologia chi crede di aver sempre ragione è un malato mentale. La morale si adatta ai tempi. I capi economici si affidano alla scienza e alla tecnica, ossia a quelle incertezze che si sono mostrate ben più potenti delle antiche certezze. Solo i politici tendono a mantenere e a mostrare l'atteggiamento dell'uomo religioso, che non deve avere alcun dubbio intorno alla propria fede. Sebbe­ ne accada che qua nto più un politico si mostra con­ vinto di possedere la verità intorno alle questioni più o meno banali dell'amministrazione pubblica , tanto più i suoi avversari lo considerano un illuso o un di­ sonesto. Una situazione , questa, che è la caricatura di quanto capita alle non banali discussioni che con­ trappongono tra di loro i filosofi tradizionali. In ef­ fetti, la grande politica della tradizione occidentale, ormai al tramonto, è stata figlia legittima della filo­ sofia classica. Cosicché il politico del nostro tempo è sì, spesso, un sopravvissuto a un mondo che non esiste più; ma se tutto questo non lo si sa, è compren­ sibile che la sicurezza da lui ostentata in una società sempre più insicura trovi ancora credito. 200

LO STATO, LA P O L I T I C A

Sembra inoltre che sia i politici del nostro tempo sia i mass media siano vittime di un grosso abbaglio. Su scala planetaria, i mezzi stanno diventando gli scopi . Ad esempio, la tecnica , che nei Paesi dell'Est doveva essere il mezzo per realizzare il comunismo, è diventata lo scopo del comunismo; e il comunismo è morto. Qualcosa di simile, ma in modo meno appa­ riscente, sta avvenendo anche per il capitalismo. Sino a che gli scopi dell'uomo si presentavano come il suo adeguarsi al « vero » ordinamento del mondo, questo rovescia mento, in cui il mezzo diventa scopo, non era possibile. A sua volta, la democrazia è il grande mezzo che si è rivelato insostitu ibile per realizzare gli scopi, tra loro contrastanti, che la gente si propone. Ognuno di questi scopi dice : « Purché io sia realizzato, adottia­ mo pure la democrazia». Nelle democrazie occiden­ tali sta invece prendendo piede l'atteggiamento che parla in quest'altro modo: « Purché la democrazia sia realizzata e sopravviva, si voti pure per qualsiasi partito che assicuri tale sopravvivenza)) . Nel primo caso la democrazia è il mezzo; nel secondo diventa lo scopo, e le diverse posizioni pol itiche sono ridotte a mezzo. Esse sono quindi destinate, come ogni altro mezzo, a logorarsi . Ora, i politici tendono oggi a identificare la loro attività con la democrazia . Tendono cioè - ecco il loro abbaglio - a confondere il rapporto tra la loro attività e gli scopi che essa si prefigge, col rapporto tra la democrazia e i contrastanti scopi politici che 201

I L D I T O E LA L U N A

intendono servirsi di essa come mezzo (e che sono invece essi a diventare dei mezzi logorabili). La de­ mocrazia sta diventando lo scopo dei valori politici; ma i politici si illudono che sia la loro attività , che ha come scopo quei valori, a dover diventare lo scopo della vita sociale. Un sogno. E i mass media lo pren­ dono sul serio. I mezzi non si consumano e diventano scopi quan­ do sono (relativamente) insostituibili. Così la tecnica; così la democrazia. Ma oggi l'attività dei politici è so­ stituibile per definizione: ha attorno a sé una moltitu­ dine di progetti politici alternativi che si proclamano più idonei e più veri e che con la loro stessa esistenza si indeboliscono a vicenda e si consumano. Ma la du­ rezza delle cose farà uscire dai sogni.

202

Appendice

Viaggio intorno alla qualità della vita di Sergio Zavoli

Un filosofo «inattuale>> , si è detto di lui: il giudi­ zio pare in contrasto con il suo affrontare problemi, invece, attualissimi, sia pure con radici antiche . In realtà, pur dibattendo questioni di oggi, Severino si colloca fuori del presente, ma anche del passato e del futuro: contesta, infatti, la stessa idea che abbiamo del tempo e la nostra persuasione che le cose emer­ gano dal nulla e ritornino nel nulla. Così il diveni­ re fu concepito dal pensiero greco, agli albori della nostra civiltà . Il prodotto estremo di questa visione dell'esistente è per Severino la scienza moderna, che egli considera la forma più potente della volontà di produrre e di distruggere, di trarre le cose fuori dal niente e di risospi ngerle in esso. Nella civiltà occiden­ tale, in tutte le sue manifestazioni, politiche, econo-

« Corriere della Sera », 4 ottobre 1992. 205

I L D I T O E LA L U N A

miche, scientifiche, religiose, Severino vede un nichi­ lismo rad icale, che come conseguenza inevitabile ha avuto la caduta degli Dei e di tutte le certezze via via costruite dall' Occidente per aggrapparvisi e sfuggire al dissolvimento nel nulla. Ma egli non si ferma, co­ me vedremo in questo colloquio, alla descrizione di ciò che appare, cioè dei fenomeni: cerca una via non ancora percorsa, una verità più profonda, un nuovo senso dell'esistente .

So che per lei la filosofia «è stata messa fuori gio ­ co » . Sarà la scienza, afferma, a dominare il mondo. Ma la scienza ultima, sintesi e superamento di tutte le altre, non è proprio la filosofia ? Tutta la sua storia millenaria è giunta davvero all'epilogo ? Siamo alla resa definitiva ? «Nella civiltà occidentale la parola "verità" man­ tiene un sign ificato profondamente costante. Al di sotto delle di fferenze, la verità è sempre, per la fi lo­ sofia occidentale, la potenza che più o meno radical­ mente domina il divenire delle cose . Se tale potenza è massima - se cioè è la legge che il divenire non può in alcun modo violare - la verità è "assoluta". Se è minima, non esiste alcuna legge che riesca ad imporsi definitivamente al divenire del mondo, cioè al proces­ so in cui le cose sporgono dal nulla e vi ritornano, e si dirà allora che non esiste alcuna "verità assoluta". In ogni caso la verità è potenza, forza, dominio. Ebbe­ ne, è in relazione a questo senso della verità che ogn i "verità assoluta" è inevitabilmente destinata a l tra206

APPENDICE

monto e la filosofia, come ricerca della "verità asso­ luta", è inevitabilmente messa fuori gioco dalla scien­ za . La scienza moderna è il modo più radicale in cui oggi si presenta il senso della verità che la filosofia ha portato alla luce e che guida la storia dell'Occidente. La scienza è potenza. Nella scienza, la filosofia fini­ sce e, insieme, trova il proprio compimento. Ed eccoci al punto decisivo. In relazione al senso della verità che sta al fondo e guida l'Occidente, l' Oc­ cidente è destinato alla civiltà della scienza e della tecnica . Questo esito è inevitabile. Ma non c'è a lter­ nativa a quel senso? L'Occidente non si è mai posto questa domanda. (Tanto meno l'Oriente.) È proprio al senso essenzialmente diverso della ve­ rità che si rivolgono i miei scritti. La verità non è la potenza che con maggiore o minore intensità domina i l divenire delle cose. La cosa - ogni cosa - sta al di là di ogni potenza e di ogni divenire. Al di qua delle cose rimane soltanto l'illusione che le cose appartengono alla dimensione della potenza e del divenire. L'Occi­ dente è la storia di questa illusione; è la cosa che si illude intorno alla verità delle cose. Il pensiero che si mantiene libero dalla dominazione dell'Occidente è libero anche dalla filosofia e anche dalla scienza in cui la filosofia giunge al proprio compimento. » -

Come mai, dunque, si fa ancora filosofia? E si col­ tiva, per esempio, la filosofia del diritto, la filosofia del linguaggio, la filosofia della scienza? Per un bi­ sogno insopprimibile? Per ossequio alla tradizione? 207

I L D I T O E LA L U N A

Oppure siamo testimoni di una battaglia di retro­ guardia per salvare qualche frammento di certezza ? « Nella cultura occidentale, essenzia lmente in con­ trasto con la scienza è la filosofia della tradizione, come ricerca della verità assoluta. Ma la fi losofia contemporanea è, nella sua essenza, del tutto con­ gruente al sapere scientifico. Fare filosofia, oggi (e filosofia del linguaggio, del­ la scienza ecc.), non significa soddisfare un bisogno che, estraneo al tempo presente, verrebbe da lontano, ma sign ifica essere in piena sintonia con il tempo del­ la scienza e della tecnica anche quando si criticano la scienza e la tecnica. Ciò non esclude che esistano battaglie di retroguardia in cui si tenta ancora , nella filosofia e nella scienza, di sa lvare la verità assoluta. Ma - vogliamo dirlo ancora una volta ? - al di là della filosofia e della scienza e di ogni forma della cultura occidentale è già da sempre aperto il senso della verità che è radicalmente diverso da quello al cui interno l'Occidente si mantiene . Se si vuole con­ tinuare ad usare la parola " filosofia" per indicare la testimonianza di questo senso inaudito della verità , allora la filosofia non è il canto del cigno, ma del gallo - e la luce del giorno appena si intravvede - e questo ca nto è quanto vi è di più estraneo ai suoni del nostro tempo. »

Nel suo libro L a guerra lei scrive: «Se la verità non esiste, la condanna della guerra non ha verità. R imane unicamente lo scontro tra le forze sociali, 208

APPENDICE

economiche, ideologiche, biologiche, psichiche, tec­ nologiche - e la loro capacità di prevalere sulle altre. In questa situazione, il valore della condanna della violenza non può consistere in altro che nell'esisten­ za di una violenza più forte della violenza condan­ nata; e la parola verità - se ancora la si vorrà pro­ nunciare - non può designare altro che la violenza vincente». Ma non è la condanna senza appello della pace universale? «Il passo da lei riportato si riferisce alla vicenda in cui l'Occidente distrugge ogni verità assoluta e ogni realtà immutabile . D ato il modo in cui l'Occidente incomincia , le conseguenze sono quelle indicate in quel passo: se vuoi essere coerente con le proprie pre­ messe l'Occidente è la condanna senza appello del sogno della pace universale - posto che "pace" si­ gnifichi l'assenza di una violenza vincente. Ma spes­ so l'Occidente si spaventa della propria coerenza , la trattiene nell'inconscio, invoca la pace . Ma è la pace che dovrebbe costituirsi all'interno della convinzione che le cose oscillano tra l'essere e il nulla. Ma que­ sta convinzione è la matrice della guerra, nel carat­ tere radicale che la guerra presenta lungo la storia dell'Occidente. Così accade che la guerra sia la culla della pace invocata . »

Sempre nel saggio sulla guerra s i legge questo giudizio: «Se il mondo non ha un senso definito e incontrovertibile ciò che rende valore un valore non è altro che la sua forza di valere contro altri valori. 209

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Vale perché vin ce. Soltanto perché vince. La vittoria e il dominio sono la violenza riuscita» . E, dopo aver chiarito che la violenza non è semplicemente «forza bruta», aggiunge: «La forza che oggi si p redispone a dominare ogni altra forza sulla terra . . . è l'orga­ nizzazione scientifico-tecnologica della vita uma­ na. Essa è la violenza suprema ». Le chiedo: stando così le cose, possiamo ancora parlare di un proget­ to di «società giusta» ? O invece dobbiamo accon­ tentarci di una società ordinata, efficiente, senza dolore, come quella del Mondo nuovo di Huxley ? Accadrà mai che l'uomo tragga da ciò che mette in moto soprattutto ciò che gli serve, a cominciare dalla felicità ? La generazione nuova, assistita dalla scienza e dalla tecnologia, potrà raggiungere quello che la filosofia non è stata fino ad oggi in grado di dare ? «Anche il passo che ora lei ha ricordato, come quello precedente, indica il modo di pensare al qua­ le è inevitabile che l'Occidente - il padrone della Terra - pervenga. Per l'Occidente le cose escono dal nulla e vi ritornano. Quindi ogni verità assoluta e ogni senso definitivo e immutabile del mondo sono impossibili. Quindi ogni valore coincide con la sua forza di valere, e vale perché vince. La filosofia, nascendo, evoca il divenire delle co­ se, intendendolo appunto come il loro oscillare tra l'essere e il niente: e insieme ritiene, fino a Hegel, che la verità assoluta abbia la potenza di imporre se stes­ sa al divenire del mondo e della vita . Quando, nella 210

APPENDICE

tradizione occidentale, si pensa che anche i l divenire della società sia regolato e guidato dalla legge in cui la verità assoluta consiste, si chiama "società giusta" la società così regolata e guidata . La "società giu­ sta" è cioè una forma della verità assoluta . Appunto per questo il marxismo è l'ultimo grande tentativo di realizzare la "società giusta". Il marxismo è infatti l'ultimo grande tentativo della tradizione filosofica di mostrare come la verità assoluta abbia la potenza di determinare la società rendendola giusta. La tra­ dizione democratico-liberale non pensa alla "società giusta", ma alla società meno ingiusta . Ma oltre alla società che il marxismo, il liberalismo, la democra­ zia, il cristianesimo e le varie forme di umanesimo intendono realizzare c'è, e con la maggiore probabi­ lità di avverarsi, la società a cui sta conducendo la civiltà della scienza e della tecnica . Già si profila il paradiso della tecnica. Esso può lasciarsi alle spalle le ingenuità dello scientismo e del fisicalismo contem­ poranei. Può includere gli stessi " valori dello spirito" e lo stesso bisogno di "trascendere " ogni chiusura e crista llizzazione della vita. Il paradiso della tecnica è il culmine verso il quale l'Occidente sta portandosi - il culmine dell'anima che guida l'Occidente e che crede nella verità come poten­ za e nel divenire delle cose. Il paradiso della tecnica può soddisfare tutte le aspirazioni spirituali, filosofi­ che, religiose, umanistiche del nostro tempo. La no­ stra cultura può vederne i limiti solo dopo averne im­ poverito e alterato il senso. E tuttavia, per il pensiero 211

I L D I T O E LA L U N A

che si mantiene al di fuori dell'anima dell'Occidente, il paradiso della tecnica è il culmine dell'estrema aliena­ zione della verità. E il culmine della follia.

Non si era detto che questa sarebbe stata l'epoca in cui l'uomo avrebbe rifatto l'uomo? « E infatti esistono tutte le premesse perché la no­ stra epoca riesca nel suo intento. A breve e medio termine si presentano i problemi dello scontro tra il Nord e il Sud del Pianeta; del conflitto tra le forze che hanno sconfitto il comunismo - capitalismo, demo­ crazia liberale, cristianesimo -; della crisi di queste forze; del la devastazione della Terra, operata dal­ la forma attuale del la produzione economica ; della progressiva subord inazione di tali forze all'appa rato scientifico -tecnologico. Ma più in là si profi la il para­ diso della tecnica , dove l'uomo riesce a rifa re l'uomo, e produce l'uomo massimamente felice - e dunque timoroso di perdere la propria felicità - e dunque massimamente infel ice. Quello sarà il tempo in cui l'unico e fondamentale problema per l'uomo diven­ terà , in modo corale, il senso autentico del la verità . Si potrà ritornare alla verità assoluta della tradizione (e ripetere la storia del l'Occidente). Ma potrebbe anche farsi innanzi il senso inaudito della verità. ))

E se l'uomo fallisce malgrado Dio, il fallimento non è anche di Dio ? «All'interno della vicenda dell'Occidente, "Dio" e l"' Uomo" sono le forme in cui incomincia a ma212

APPENDICE

nifestarsi la Tecnica. Tramontando nella Tecnica, a cui oggi spetta il ca rattere di Sommo Fattore, Dio e l'Uomo non falliscono, ma giungono al loro compi­ mento, alla loro "perfezione ". Le recriminazioni teo­ logico-umanistiche contro la disumanità e mancanza di sacral ità della Tecnica vanno fuori bersaglio. Nel loro significato essenziale, Dio e l'Uomo sono, per l'Occidente, la capacità di disporre mezzi in vista del­ la produzione di scopi . E questa , prima a ncora del carattere matematico, è l'essenza della Tecnica . »

Perdoni la stravaganza: s e Dio dovesse intervenire nel progetto di uomo bionico, che cosa gli aggiunge­ rebbe o gli sottrarrebbe? « Dopo il peccato di Adamo, la condizione uma­ na è trasformata da Dio. Progettando l'uomo nuovo, che deve espiare il peccato, Dio teme che egli abbia a vivere in eterno, e per evitarlo mette un Cherubino a guardia dell'albero della vita. Ma anche l'uomo, co­ struendo Dio, si è lasciata aperta la strada per evitare che Dio vivesse in eterno e per poterlo distruggere . »

Perché l'uomo continua a chiedersi qual è il punto di vista di Dio ? Un uomo nuovo non dovrà avere un 'idea nuova anche di Dio ? « D istruggendo Dio, cioè i l contenuto immutabile del la verità assoluta, l'uomo moderno distrugge il punto di vista di Dio, cioè la visione in cui la veri­ tà assoluta appare senza limiti. La tecnica è appunto l'idea nuova che l'uomo moderno ha di Dio. L' Oc213

I L D I T O E LA L U N A

cidente, comunque, crede che l'esistenza del fare sia l'evidenza suprema . Una cosa - un essere - è, per l'Occidente, un fare e un esser fatto. Un fa r uscire e un esser fatto uscire e ritornare nel nulla. La follia estrema sta in queste parole. È estrema , anche perché si nasconde in ciò che si crede che sia la piena luce dell'evidenza. L'Occidente è avvolto dalla follia. Non può scorgerla. Ma ogni Dio e ogni verità assoluta dell'Occidente sono oltrepassati in un senso essen­ zialmente più rad icale di quello indicato dal pensiero filosofico contemporaneo. Infatti, se Dio e la verità assoluta esistono, essi anticipano ciò che esce dal nul­ la, e dunque trasformano il nulla in qualcosa di po­ sitivo: trasformano il nulla in un ascoltatore di Dio e della verità . Ma per l'Occidente l'evidenza suprema è che le cose escono dal nulla; e quindi il nulla è nulla e non può essere trasformato in un essente; e quindi non può essere anticipato né da un Dio né da una verità assoluta . La distruzione di ogni Dio e di ogni verità immutabile è il destino dell'Occidente . Ma l'Occidente rimane lontano dal senso autenti­ co del destino. Nei miei scritti , questa parola indica ciò che sta (de-stino) , già da sempre manifesto, e nel­ la cui luce già da sempre l'uomo si trova. Il destino si mantiene libero dalla dominazione del l'Occiden­ te . È dunque entrato nel nostro dialogo qualcosa di infinitamente più decisivo di Dio, dell'Uomo e della Tecnica. Si è fatto innanzi il destino. Il linguaggio si è portato al suo cospetto. Il destino è il senso inaudito della verità - il senso che l'Occidente (e a maggior 214

APPENDICE

ragione l'Oriente) non è riuscito a udire. Il destino - lo stante - è l'incontrovertibile. Se esiste l'uscire e il ritorna re nel nulla, da parte delle cose - se esiste il divenire , così come una volta per tutte nella storia dell'Occidente è stato inteso dalla filosofia greca -, la verità assoluta e l'incontrovertibile sono i mpossibili. Ma il destino è lo sguardo in cui appare l'impossibili­ tà che le cose sorgano e ritornino nel nulla; e dunque il destino non richiede, come invece deve accadere nella storia dell' Occidente, la distruzione della verità assoluta e dell'incontrovertibile, ma è il loro autenti­ co senso. Nel suo sguardo appare l'impossibilità che la verità sia la potenza suprema che domina il venire e l'andare nel nulla da parte degli essenti; e innan­ zitutto appare il senso autentico dell'impossibil ità e della necessità .

Il destino vede che ogni essente è ed è impossibile che non sia. Vede che ogni essente è eterno: ogni istan­ te e il contenuto determinato di ogni istante, ogni co­ sa, situazione, aspetto, forma, sfumatura, relazione, sostanza, ogni materia e ogni pensiero, ogni gesto, ogni verità e ogni errore, e la stessa follia estrema dell'Occidente, ogni gioia e dolore, e la presenza stes­ sa, l'apparire, il manifestarsi di tutti gli essenti. Ogni essente è eterno: non come è eterno Dio, rispetto alla non eternità delle cose divenienti del mondo e nem­ meno come è eterna la . potenza della verità assoluta che domina il divenire delle cose. L'eterno non è la potenza sovrastante del padrone; perché tutto è eter­ no. Non vi sono servi; non c'è nemmeno un Padrone. 215

I L D I T O E LA L U N A

Il destino vede infatti che pensare che l'essente esce e ritorna nel niente significa pensare che l'essente è niente. Il destino pensa l'impossibilità che l'essente sia niente. Questo stesso pensiero, che pensa l'eternità di tutte le cose, è eterno. Circonda la storia della follia dell'Occidente e dei mortali, come il cielo circonda anche tutti coloro che non lo guardano. Nella nostra essenza più profonda noi siamo il cielo. Noi siamo il cielo che crede di essere un astro errante che dovrà perdersi e finire. Ma anche tutti gli astri del cielo so­ no eterni. La più umile delle cose è un astro eterno del cielo. Il divenire del mondo non è la creazione e l'annientamento degli essenti, ma il loro apparire e scomparire - l'apparire e lo scomparire degli eterni. Ma non vorrei proseguire su questa strada. Deside­ ravo solo avvertire che la verità autentica sta al di là della vicenda in cui la "verità" è andata incontro lungo la storia della civiltà occidentale. »

Nella grande morìa dei «dinosauri storici», co­ minciata col marxismo, lei suppone la fine anche del capitalismo e persino della democrazia. Il loro de­ stino, dopo aver assunto nuovi volti, sarà quello di estinguersi. Può dirci attraverso quali prove e quali sconfitte? E a vantaggio di chi, e di che cosa ? «Nel tempo della morte della verità assoluta dell'Oc­ cidente, capitalismo e democrazia debbono presentar­ si come procedure scientifiche. Eppure la loro identifi­ cazione con la scienza non può essere totale. Il modo di pensare della scienza è maggiormente presente nel 216

APPENDICE

capitalismo e nella democrazia che nel marxismo e nel comunismo; e tuttavia che quello perseguito dal capi­ talismo e dalla democrazia sia il mondo oggi preferì­ bile non è un'affermazione scientifica. La scienza può dire che è il mondo attualmente preferito nel Nord del Pianeta. Capitalismo e democrazia sono anch'es­ si - peraltro tra loro in conflitto - delle " ideologie". Anche queste due forme sociali intendono servirsi dell'Apparato scientifico-tecnologico per realizzare i loro scopi. Si tratta di comprendere che anche tale Apparato ha un proprio scopo, cioè l'incremento in­ definito della capacità di realizzare scopi; e che è ine­ vitabile che a questo scopo dell'Apparato finisca per essere subordinata la realizzazione degli scopi specifi­ ci del capitalismo e della democrazia. Inevitabile che le ideologie rimaste in campo dopo il crollo del comu­ nismo, e in conflitto tra loro, rafforzino sempre più la porzione di Apparato che esse controllano e che fini­ scano col sacrificare i loro scopi (come è già avvenuto per il socialismo reale) al rafforzamento della potenza dell'Apparato, cioè dello strumento che dovrebbe rea­ lizzarli. L'Apparato è il fulcro del paradiso della tecni­ ca. È in questo paradiso che capitalismo e democrazia sono destinati a tramontare. Il processo è già in atto. ))

Fra i «dinosauri» lei colloca addirittura «il cri­ stianesimo, con la punta di diamante della Chiesa Cattolica ». Due millenni per entrare nello spirito di mezzo mondo. Verrebbe da domandarsi: e quanto per uscirne? A causa di che? Per far posto a che cosa ? 217

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« Rispetto alla tecnica, il cnstlanesimo si trova nella stessa situazione del capitalismo e della demo­ crazia . Oggi, anche la carità cristiana, che non è più qua lcosa di semplicemente individuale, ma si rivolge a tutti i popoli poveri del mondo, è irrealizzabile sen­ za l'Apparato della tecnica . »

Dopo avere modificato il mondo con la forza, non riuscendovi con la ragione, è ragionevole continua­ re ad affidarci alla forza, semplicemente perché la ragione non può dare di più ? O abbiamo abusato persino della ragione? « Nella nostra tradizione culturale, la ragione in­ tende scoprire la verità assoluta in cui prende sen­ so il diven ire del mondo. Ma, proprio per questo, la ragione è la radice della forma estrema della forza, ossia della volontà di potenza. Innanzitutto, perché la ragione può voler scoprire la verità assoluta che dà senso al divenire del mondo, solo in quanto essa è fede nell'esistenza del divenire. E solo se si crede che le cose vengono dal nulla e vi ritornano è possibile l'insieme gigantesco dei progetti con i quali, lungo la storia dell'Occidente, la volontà di potenza si propo­ ne di far uscire e ritornare le cose nel niente . Questa volontà vuole l'impossibile. Ma la volontà che vuole l'impossibile domina l' Occidente. Non già perché es­ sa riesca ad ottenere l'impossibile - il destino vede che tutti gli essenti sono eterni e che quindi non sono qualcosa di voluto -, ma perché l'Occidente ha fede in essa, crede che il divenire e la volontà di far dive218

APPENDICE

nire le cose sia l'evidenza suprema. In secondo luo ­ go, sulla base della fede nel divenire la ragione tenta, nella tradizione occidentale, di dominare il divenire, prima ancora che con l'azione, con l'indicazione della verità assoluta alla quale il divenire deve sottostare. La ragione stessa - la stessa verità assoluta che la ragione assume come proprio contenuto - è forza, potenza, volontà, violenza. Sino a che il pensiero si mantiene all'interno della fede fondamentale del l'Oc­ cidente - la fede che crede che le cose siano state e tornino ad essere niente - ogni rifiuto della scienza e della tecnica fallisce, perché si fonda sull'anima stessa di cui la scienza e la tecnica sono l'espressione più radicale. Ma è quest'anima, ossia è la fede fonda­ mentale dell'Occidente, che infine va messa in que­ stione . A metterla in questione, a vederne l'essenziale instabilità, non può essere uno di noi , o u n popolo, una classe sociale, u n'istituzione, un'epoca storica, un Dio; ma solo ciò che, incontrovertibile, riesce a stare, e a cui, per questo, si addice di esser chiamato " i l destino" dell'uomo e del tutto. »

219

Indice dei nomi

Abramo, 1 3 5 - 1 3 6 , 148 Adamo, 2 1 3 Agostino, Au rel io, santo, 1 3 1 , 1 3 9, 1 6 6

Alfieri, Francesco, 1 3 Apel , Karl O tto, 75 Aristotele, 2 3 , 5 6 , 76 -77, 9 8 , 103, 130

Baal, 1 6 4 Barbiellini Amidei, Gaspare, 10, 70 -72

Barnes, Luke, 1 2 9-1 3 0 Bedesch i, Giuseppe, 147 Beethoven , Ludwig van, 50 Benedetti M ichela ngel i, Arturo, 22 Benedetto XVI (Joseph Rat­ zi nger), papa emerito, 1 7 1 1 74

Berdj aev, Ni kolaj , 62 Bombonati, Alessandro, 2 1 Bontad ini, G ustavo, 1 4 , 6 9 -

Buddha, 9 8 Calogero, Guido, 1 55 Carnap, Rudolf, 1 1 3 Cartesio ( René Descartes), 23, 174

Chiocchetti, Emilio, 1 73 Critone, 147 Croce, Benedetto, 1 8 2 - 1 8 5 Dante Alighieri, 1 39 - 1 4 0 Del lava lle, Sergio, 1 55 De Ruggiero, G u ido, 1 2 3 Dewey, John, 1 0 3 Dioniso, 5 0 -54, 1 6 4 Dostoevskij , Fedor, 6 2 - 6 5 , 1 03

Edipo, 50 Einaudi, Luigi, 2 6 -27 Eraclito, 1 3 7, 1 4 6 , 1 6 4 Eschilo, 42 , 45, 5 0 Ezechiele, 1 6 3

7 0 , 72, 1 73 -1 74

Breh mer, Karl, 1 55

Fabro, Cornelio, 143, 1 7 3 223

I L D I T O E LA L U N A

Fatta, Corrado, 1 55 Federico Guglielmo I I , re di Prussia, 145 Fichte, Johann Gottlieb, 32,

Hume, David, 2 3 Husserl, Edmund, 1 6 , 1 1 3 Hux ley, Aldous, 2 1 0 Ilting, Karl-Hei nz, 1 55

112

Ficino, Marsilio, 23 Fi nk, Eugen, 1 5 -16 Firmin-Didot, Ambroise, 23 Freud, Sigmund, 3 2 , 1 0 3 , 1 32 Gada mer, Hans- Georg, 1 5 - 1 6 Galilei, Gali leo, 6 9 , 1 14, 1 3 9 Gemelli, Agostino, 1 73 Gentile, Giovanni, 2 1 , 1 1 2 , 1 22 - 1 2 6 , 1 52 , 1 74

Gesù Cristo, 41, 62 , 6 8 , 98, 1 20, 141-143, 145-147, 1 50, 1 52 , 164-166 Giobbe, 1 6 3

Giovanni Paolo II (Karol Woj tyla), papa, sa nto, 172 Givone, Sergio, 63, 102 Gobetti, Piero, 1 2 3 Guarini, Ruggero, 1 8 2 Gurisatti, Giovanni, 1 1 8 Habermas, Jiirgen, 75 , 78 Hanslick, Eduard, 52-53 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 4 1 , 93, 9 8 , 1 1 2 , 1 55 1 5 7, 210

Heidegger, Fritz, 1 5 -16 Heidegger, Heinrich, 1 5 - 1 6 Heidegger, Martin, 9 , 1 3 -1 6 , 2 1 , 23, 36, 98, 103, 1 0 8 , 1 1 2 , 1 1 7- 1 2 1 , 1 52

Herrmann, Friedrich-Wilhelm von, 9, 14-15 H ick, John, 1 74

Kant, Immanuel, 23, 50, 93, 1 1 2 , 1 35-1 3 6 , 144-149, 1 56, 174

Kierkegaard, Seren, 72 Knitter, Paul F. , 1 74 K rauss, Lawrence, 1 27-1 29 Landen na, Gia mpiero, 1 1 3 Lenin, Nikolaj ( Vladi m i r I l'ic Ul'janov), 1 8 4 Leone X I I I ( Vincenzo Gioac­ chino Pecci), papa, 172 Leopardi, Giacomo, 8 1 - 8 5 , 1 0 3 , 1 52

Lucifero, 54 Manzoni, Alessandro, 1 3 9 Marasini, Donata, 1 1 3 Ma rita in, Jacques, 69 Marx, Karl, 2 1 , 2 6 , 32-36, 182-183

Masnovo, Amato, 173 Melchiorre, Virgi lio, 1 74 Melisso, 1 0 1 Merton, Robert K . (Meyer R . Schkolnick ), 2 9 - 3 0 Messinese, Leonardo, 1 74 Michelstaedter, Carlo, 64 M i ljukov, Pavel, 1 8 4 M issirol i, Ma rio, 1 2 3 Montale, Eugenio, 1 0 Montanelli, I ndro, 1 0 Monti , Ma rio, 1 92

224

I N D IC E D E I N O M I

Moravia, Alberto (A. Pincher­ le), 1 0, 29-30 Mosca, Gaetano, 1 2 3 Mozart, Wol fgang Amadeus, 162

Mussol ini, Benito, 1 22 - 1 2 3 , 126

Nascimbeni, Giulio, 1 0 Nietzsche, Friedrich, 2 1 , 2 3 , 32 , 42 , 4 6 , 49-53 , 8 0 - 8 5 , 9 7, 1 03 , 1 0 7-109, 1 1 2 , 1 52

Olgiati, Francesco, 173 Omero, 35 Osiride, 1 6 4 Ottone, Piero ( Pierleone M i ­ gna nego), 1 0

Schopenhauer, Arthur, 50, 52 Schumpeter,JosephAlois, 1 2 8 , 1 95 Seelmann, Hoo Nam, 1 55

Sileno, 4 8 , 5 1 , 53 Socrate, 76 , 102, 147 Sofocle, 42 , 45, 50 Spinoza, Baruch, 93, 1 1 2 Stendhal ( Henri Beyle), 162 Tammuz, 164

Teeteto, 102 Testori, Giovanni, 30 Tommaso d'Aquino, santo, 98, 1 39-144, 149, 1 72-173

Tonfoni, Martina, 1 2 Torno, Armando, 1 2 Ugo d i San Vittore, 140

Paolo di Tarso, santo, 66, 142 , 1 6 1 , 163-164

Parmenide, 72-73, 97-101, 147 Peters, Richard Stanley, 75 Pio X I I ( Eugenio Pacelli), papa, 172 Platone , 2 1 -2 3 , 32-33, 35, 3 8 , 4 1 , 76 , 8 1 , 97-99, 1 02 - 1 03

Prometeo, 45 - 4 6 , 50 Pulli, Gabriele, 1 32 Ratzinger, Joseph, v. Benedet­ to XVI, papa emerito Ravasi, Gianfranco, 1 7 Reale, Giovanni, 1 7, 97, 1 0 0 101

Ruggiu , Luigi, 97, 1 0 0 - 1 0 1 Russell, Bertrand, 1 1 5 Schelling, Friedrich, 1 1 2

Va nni Rovighi, Sofia, 173 Venturel li, Domenico, 145 Vitiello, Vincenzo, 1 3 2 Volpi, Franco, 1 1 8 Volta, Alessandro, 1 3 9 Wagner, Richard, 5 0 , 5 3 Watt, A l a n J., 75 Weil, Simone, 72 , 1 20 Wilamowitz-Mollendorff, Ulrich von, 50 Wittgenstein, Ludwig, 84, 103, 1 52

Zamboni, Giuseppe, 17� Zarathustra, 1 0 8 - 1 09, 164 Zavoli, Sergio, 205 Zenone, 1 0 1 Zeus, 46 225

Indice

INTRO DUZIONE

7

l M A E S T R I , LA F I L O S O F I A

19

Ragione e forza contro la violenza

25

L' occhio di Platone sulla nostra vita

32

Ferita a morte da quando

è nata

40

L'origine della musica e il detto del Sileno

48

Il verbo « decidere »

55

Il dolore e la gioia nella trama della vita

61

Sono eterne tutte le cose

68

Chi bussa ? La scienza

74

L'orrendo volto della nuda verità

80

Dov'è l'anima dell'omicidio

86

La vera violenza vuole l'impossibile

92

Essere. O non essere

97

Come vivere (e bene ) le contraddizioni

1 02

Quale condizione umana dopo la «morte di Dio »

1 07

L'ingi uria, nobile arte. Purché chi la esercita abbia un po' di perfidia

1 12

Tutta la verità per Heidegger

117

Gentile, un filosofo antifascista per il regime di Mussolini

1 22

Perché non siamo figli del nulla

127

LA F E DE Gli eterni dubbi di colui che crede

133 1 39

Ma la ragione dei filosofi illumina la verità della Chiesa ?

1 44

La fine annunciata del cristianesimo

150

Senza religione non c ' è Stato

1 54

Se un giorno un beato si scoprisse infelice

159

La risurrezione non è l a prova d i Dio

1 63

Due fedi, la stessa crisi

1 67

Quel relativista di Ratzinger

171

Lo STATO, LA POLITICA

1 75

Fine del comunismo. Un crollo annunciato

181

Sistema tra ballante. Violenza fisiologica

186

La legge del profitto e l'idea di solidarietà

1 90

Lo Stato è un'impresa ma non può correre rischi

1 95

L'illusoria sicurezza dei nostri politici

1 99

APPENDICE

Viaggio intorno alla qualità della vita

203 205

di Sergio Zavoli

I N D I C E D E I NOMI

22 1

F i n ito di sta mpare nel mese di gen n a i o 2 0 2 1 a c u ra d i R C S M e d i a G roup S . p. A . presso

R...

Gra fica Veneta, Tre baseleghe ( PD ) P r i n ted i n Italy