Il paradosso della morale 8877570032, 9788877570031


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Il paradosso della morale
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3

VLADIMIR JANKELEVITCH

IL PARADOSSO DELLA MORALE

Titolo originale LE PARADOXE DE LA MORALE

Traduzione e prefazione di Ruggero Guarini

"7 l

© 1981. © I 986.

Editions. du Seui! Paris. H opeful M onster editore Firenze.

ISBN 88-7757-003-2

INDICE

PREFAZIONE 11

In cammino verso l'Altro I. L'EVIDENZA MORALE È. AL TEMPO STESSO INGLOBANTE E INGLOBATA l . Una problematica onnipresente e preveniente.

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2. Il pensiero supera la valutazione morale.

E viceversa! 3. Una "vita morale". Continua o discontinua? Il foro interiore. Circolo della temporalità. 4. Dalla negazione al rifiuto. Negazione del piacere, rifiuto del rifiuto. 5. L'interdizione. Interdizione d ell'interdizione.

21 23 30 38

II. L'EVIDENZA MORALE È A L TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA l. Ambiguità del massimalismo, eccellenza

51

dell'intermediarietà. 2. Vivere per l'altro, chiunque sia questo altro.

Al di là di ogni "quatenus", di. ogni prosopolessia. 3. Vivere per l'altro, fino a morirne. Amore, dono e dovere. Al di là di ogni "hactenus". 4. Tutto o niente (opzione), dal tutto al tutto (conversione), il tutto per tutto (sacrificio). Con tutta l'anima.

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55 66

69

5. I tre esponenti della coscienza. Contrasto o

6. 7. 8. 9. 10.

coincidenza dell'interesse e del dovere: il chirurgo insostituibile. Doveri verso gli esseri cari. La buona media. Neutralizzazione reciproca. Fino al quasi-niente. Il meno-essere. Il battito oscillatorio. Racchiudere il più possibile d'amore nel meno possibile di essere.

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III. IL MALE M INORE E IL TRAGICO DELLA CONTRADDIZIONE l . Lo slancio e il trampolino. Rimbalzo. L'effetto di rilievo. P ositività della negazione. 2. Uno dopo l'altro. Mediazione. Il dolore. 3. L'uno con l'altro. Ambivalenza. Di due intenzioni, l'una. 4. L'uno nell'altro: paradossologia dell'organo-ostacolo. L'occhio e la visione secondo Bergson. Il benché è la molla del perché. 5. Quel battito di un cuore indeciso. Una mediazione imprigionata in una struttura. 6. La puntura della spina, la bruciatura della favilla, il morso del rimorso. Lo scrupolo. 7. L'anti-amore (minimo ontico), organo-ostacolo dell'amore. Per amare bisogna essere (e occorrerebbe non esserlo!), per sacrificarsi bisogna vivere, per donare bisogna avere. 8. L'ostacolo e il fatto dell'ostacolo (origine radicale). Perché in generale bisogna che . . . 9. Essere senza amare, amare senza essere. Interazione dell'egoismo minimale e dell'altruismo massimale. Contraccolpo afferente dello slancio efferente.

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l O. L'essere preesiste all'amore. L'amore previene

l'essere. Causalità circolare.

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11. Dono totale: come svellersi dai cardini

dell'essere-proprio? Abnegazione.

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12. L'apparizione dileguante fra l'ego e la viva

fiamma d'amore . . . La soglia del coraggio. 13. L'unzione. Il sentire minimale dell'abnegazione (afferenza dell'efferenza). Il piacere di far piacere. 14. L'orizzonte del quasi. Dal quasi-niente al non-essere. Instabile risultato dell'ambizione e dell'abnegazione.

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IV. I COMPLOTTI DELLA COSCIENZA. COME PRESERVARE l'INNOCENZA l . Pletora e sporadicità dei valori. L'assoluto 2. 3.

4. 5.

6.

7. 8.

plurale: caso di coscienza. Tutti hanno dei diritti, dunque anch'io. La rivendicazione. Tutti hanno dei diritti, tranne me. I o ho soltanto dei doveri. A te tutti i diritti, a me tutti i carichi. Reificazione e obiettività dei diritti. Disuguaglianza e irreversibilità del dovere. La prima persona diventa ultima, la seconda diventa prima. Io sono il difensore dei tuoi diritti, non il gendarme dei tuoi doveri. Apertura degli occhi. La perdita dell'innocenza è il prezzo che la canna pensante deve pagare in cambio della sua dignità. I tuoi doveri non sono il fondamento dei miei diritti. Il prezioso movimento dell'intenzione.

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193

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P RE FAZIONE

In c ammino verso l' Altro.

Prima viene

s empre

l'Altro,

prima c'è sempre

la presenza

d'Altri: questo - e quasi nient'altro che questo - dice da sempre l'etica. Non già, dunque, come vuole l'antologia nelle sue varie formu­ lazioni, l'essere o l'ente, il mondo o l'io, l'oggetto o il soggetto , l a materia o l o spirito, l e cose o l e idee, l'essenza o l'esistenza, bensì proprio l'Altro come tale: termine di un rapporto irridu­ cibile allo schema della relazione teoretica, conoscitiva, ade­ guativa e proposizionale che nella filosofia occidentale si è im­ p osto fin dall'origine come il modello ideale della "verità" in generale. Questo

enunciato

originario

dell'etica

(ma

già

chiamarlo

"enunciato" è improprio, giacché si tratta piuttosto di una "ve­ rità" anteriore a ogni possibile discorso, nonché fondatrice di ogni discorso ulteriore), abitualmente e per lo più sembra che ci raggiunga e ci interpelli nella forma di un "co m andamento". Qui però il " c omandamento" viene sempre dopo la "rivelazione". In questo caso, infatti, esso non fa altro che prescriverei qualcosa che corrisponde al disvelamento di un fatto, dopo tutto, manifesto e incontrovertibile: l'assoluta priorità dell'Altro nell'ambito della concreta esperienza umana, ossia la circostanza fin troppo evidente che l'Altro - prima di ogni nostra p ossibile riflessione sulla realtà, sul mondo , sulle cose, su noi stessi, e ovviamente anche sugli altri - è già da sempre lì: presso di noi, accanto a noi, dietro di noi, di fronte a noi. D i più: nella relazione con l'Altro, il dato primordiale della sua priorità rispetto a tutto ciò che potrebbe porsi come puro c ontenuto di un cògito, mero correlato di un atto conoscitivo, s emplice oggetto di un'apprensione sensibile o intellettiva, è

11

qualcosa in cui la rivelazione del "fatto" coincide col "coman­ damento" in cui quel fatto consiste e si esprime nell'atto stesso di verificarsi. Ciò che in questa relazione si disv, e la, fin d all'ini­ zio e congiuntamente con l'Altr o ,

è infatti appunto quella

priorità che aderisce all'Altro come una pelle dalla quale è im­ possibile estrarlo. Sicché si p otrebbe dire che questo evento la rivelazione dell'Altro congiunta a quella della sua priorità -

è al tempo stesso un fatto e un ordine, un'apparizione e un comando, una manifestazione e un'ingiunzione. Tutto accade, insomma, come se la relazione con l'Altro fosse il luogo in cui la legge umana può finalmente manifestare la stessa implacabile efficacia della legge naturale - e quest'ultima, lo stesso orientamento soprannaturale di quella umana -,--- e come se quindi Natura e Storia, simili a due cgni convergenti o divergenti dai loro vertici, si incontrassero in un punto che, coincidendo con la fine della prima e con l'inizio della secon­ da, consentirebbe all'una di perpetuarsi nell'altra nel momento stesso in cui l'altra se ne distingue e se ne svincola.

E poiché il tratto formale precipuo della relazione con l'Altro è quello dell'apertura, ne consegue che se l'etica è ancor sem­ pre naturale per la forma

della sua apertura, la natura, a sua l'apertura della sua

volta, preannuncia fin dall'inizio l'etica con

forma ... M a non precipitiamo. Chiediamoci, piuttosto, c o s a può esserci di vincolante in questo comando dell'Altro, a che cosa può obbligarci questo suo ordine, che cosa insomma può imporci questa sua ingiunzione primordiale. Se il contenuto di questo comand o non

è nient'altro, appunto,

che la rivelazione dell'evidente priorità del luogo da cui pro­ viene, non ne consegue, forse, · che esso, dopo tutto, ci lascia perfettamente liberi di regolarci, nei confronti di questo Altro da cui l'ordine scaturisce, a nostro piacimento, e di assumere al riguardo una serie praticamente illimitata di posizioni antite­ tiche e di atteggiamenti contrastanti? Infatti

è proprio così: quest o Altro che non fa che segnalarci

la sua insuperabile presenza, noi siamo liberi di amarlo o di detestarlo, di venerarlo o di disprezzarlo, di concupirlo o di perseguitarlo, d i supplicarlo o di ingiuriarlo, di soccorrerlo o di

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tradirlo, di consolarlo o di minacciarlo ; possiamo persino uc­ ciderlo; di più: con un gesto di rifiuto forse più radicale del­ l'o micidio, possiamo, addirittura, decidere di ignorarlo,

come se non ci fosse .

.

fare

. Nulla sembra insomma limitare, nei

suoi confronti, il libero esercizio della nostra spontaneità, ov­ vero del nostro arbitrio . . . Una cosa però non ci è data: non po­ tremo mai far sì che lui - prima di ogni nostro atto o decisio­ ne nei suoi riguardi - non sia già lì; ed è appunto questa ov­ via, manifesta impossibilità a costituire la sua radicale separa­ tezza, ossia il carattere irreversibile della relazione di cui esso , come s i è detto , è i l termine irriducibile. . Giacché la relazione con l' Altro non è dell'ordine della rappre­ .

sentazione. Nella relazione rappresentativa, che è una relazione irreversibile, i termini di possono leggere, indifferentemente, d a sinistra a destra e da destra a sinistra: essi poss ono, cioè, ac­ c oppiarsi

l'uno con l'altro

e viceversa, e in tal modo comple­

tarsi - come o sserva Lévinas - in un sistema visibile dal di fuo­ ri. Ma così l'alterità di ciascun termine si risolve e si dissolve nell'unità del sistema, mentre nella relazione con l'Altro, es­ sendo strutturalmente impossibile porsi al di fuori di essa per registrare l'accordo o il disaccordo dei due termini, l'Altro non può che mostrarci . - ed è proprio questo, paradossalmente, il suo modo di rivelarsi - la sua assoluta eterogeneità. L'alterità dell'Altro non è inso m ma un semplice roverscio del­ l'identità dell' I o , né si riduce alla serie delle resistenze che esso può opporre al Medesimo, ma è piuttosto radicata in quell'ass oluta, inestirp abile anteriorità che come tale non può che precedere ogni iniziativa del Medesimo, ogni sua pretesa imperialistica di annessione, ogni suo progetto t otalitario di superamento, ogni suo disegno sintetico di mediazione, ogni suo sogno erotico di godimento, ogni sua brama mistica di identificazione ... Anteriorità dell'Altro, ossia: rottura originaria dell'identità del­ l'Io . .. Eterogeneità dell'Altro, ovvero: apertura , originaria del­ l'Io all'Altro . . . Irriducibilità dell'Altro, e dunque: movimento senza fine del Medesimo verso l'Altro . . . Detto più semplice­ mente: l'uomo è quell'essere che - prima di fare o pensare, bramare o decidere alcunché, e perciò al di qua di tutto ciò

13

che si può pretendere di ascrivere alla sua supposta libertà non può non essere votato all'Altro, destinato e ordinato al­ l'Altro, perennemente aperto e in cammino verso•l'Altro. Così quello che resta il primo (e forse ultimo) c omandamento dell'etica - "prima viene l'Altro" - non c'impone che di essere sempre pronti a metterei in cammino; giacché uscire da noi stessi,

evadere

da noi stessi,

andare

fuori

da

noi stessi è

un'esigenza alla quale, per quanto inesauribile e al limite in­ adempibile, non ci si può sottrarre se non ci si vuole preclude­ re ogni possibilità di un rapporto di giustizia. L'esigenza del distacco, l'affermazione di una verità

nomade,

distinguono per­

ciò l'etica da ogni forma di paganesimo. Esser pagani vuoi dire infatti fissarsi, quasi infiggersi nella terra, insediarsi in virtù di un patto con la permanenza che autorizzi il s oggiorno e sia certificato dalla certezza del suolo, mentre l'etica (e il noma­ dismo che ne scaturisce) è la risposta a un rapporto al quale il possesso non basta. Quando l'etica compare nella storia, sorge insomma l'appello al movimento. Abramo, felicemente insedia­ to nella città sumera, a un certo punto rompe con essa e ri­ nuncia alla dimora. Più tardi l'esodo farà degli ebrei un popo­ lo. E dove sono condotti, tutte le volte, dalla notte dell'esodo che si rinnova? In un luogo che non è un luogo, in tin luogo in cui non è p ossibile risiedere. Il deserto trasform a gli schiavi d'Egitto in un popolo, ma

è un popolo senza terra, legato sol­

tanto da un libro, ossia da una parola: quella parola, appunto, che scopre e rivela, con l'assoluta priorità dell'Altro, la stessa umanità dell'uomo. In questa prospettiva, l'etica cessa d i essere una mera - provvi­ da o sciagurata secondo i punti di vista - possibilità dell'uomo, uno dei suoi possibili attributi, l'esaltante o deprecabile inven­ zione di un essente (l'uomo, appunto) che sarebbe comunque tale anche senza di essa, e che quindi potrebbe accedervi o sbarazzarsene senza nessun serio pregiudizio per ciò che do­ vrebb'essere, secondo l'antologia, la sua essenza o la sua natu­ ra; cessa di essere tutto questo per rivelarsi piuttosto come il fondamento della stessa condizione umana, e perciò come l'u­ mano in quanto tale. Fin qui non si è mai fatto il nome di Jankélévitch. Sarà super-

14

fluo aggiungere che queste succinte annotazioni non hanno al­ tro scopo che quello di introdurre alla lettura di questo libro fin troppo amabile e capriccioso, ironico e conversevole sui paradossi della morale gettando un po' di luce su alcuni (solo alcuni) presupposti di un discorso che tra le pieghe di una

causerie

confidenziale e a tratti virtuosistica (si sa che i corsi

universitari di Jankélévitch erano spesso emozionanti come un

recital),

non cessa mai d'essere rigoroso . R . G.

15

L L'E VIDENZA MORALE

È A L TEM P O

STESSO INGLOBANTE E INGLO BATA

Ci assicurano dovunque che la filosofia morale è tenuta attual­ mente in grande onore. Poiché una morale onorata dall'opi­ nione pubblica è a priori soggetta a cauzione, bisogna acco­ gliere con qualche diffidenza queste rassicuranti affermazioni. È lecito innanzi tutto dubitare che i crociati di questa nuova crociata sappiano effettivamente di che cosa parlano. Al centro della filosofia, già tanto controvertibile in se stessa, la filosofia morale appare come il colmo dell'ambiguità e dell'inattingibile; essa è l'inattingibile dell'inattingibile. La filosofia morale è in effetti il primo problema della filosofia: prima di difendere la sua causa occorrerebbe quindi chiarirne il problema e interro­ garsi sulla sua ragion d'essere.

l. U na p roblematica onnipresente e preveniente.

Della filosofia m orale è più facile, in realtà, dire che cosa non è e con quali prodotti sostitutivi si rischia di scambiarla. Dobbiamo perciò incominciare da questa "filosofia negativa" o apofatica. Evidentemente, la filosofia morale non è .affatto la scienza dei costumi, se è vero che la scienza dei costumi si accontenta di descrivere i costumi al modo indicativo e come uno stato di fatto, senza prendere (all'inizio) partito , né formulare preferenze, né proporre giudizi di valore: essa espone senza proporre se non indirettamente, di contrabbando e per sottintesi; riti, tradizioni religiose, consuetudini giuridiche o usanze sociologiche - tutto può servire da documento preparatorio, in vista d d vero e proprio discorso morale. Ma come passare

19

dall'indicativo al normativo - e,

a fortiori,

all'imperativo? Nel­

l'immensa collezione di assurdità, pregiudizi barbarici o stram­ bi di cui la storia e l'etnologia ci proiettano

Ìl

film pittoresco,

come scegliere? Davanti a questo oceano di possibilità ipoteti­ che e alla fin fine equivalenti in cui tutte le aberrazioni della tirannia sembrano giustificabili, potremo mai trovare un prin­ cipio di scelta? una sola ragione per agire? E perché l'uno

tosto che

l'altro? un concetto

piut­

l'altro? Il principio

p iuttosto che

della preferibilità, nella sua forma elementare, p otrebbe riuscire

!f

a spiegare il tropismo dell'azione e a calam �are la volontà: ma non trova a che cosa applicarsi in un mondo fondato sul ca­ priccio, sull'arbitrio e sull'isostenia dei motivi. M a ecco che il nostro imbarazzo, proprio sul punto di volgersi in disperazione davanti all'incoerenza delle prescrizioni e alla stupidità delle proibizioni, ci lascia intravedere una luce; e più procediamo a tentoni, più ciò che intravediamo si precisa, proprio in e attraverso l'equivoco. La

p roblematica morale, in a p riori, sia in quello di p resupp osi­ nel senso di zione logica. Detto in altre parole, la p roblematica morale è al tempo stesso p reveniente e inglobante; precorre spontaneamen­ p roblemi, svolge il p riorità cronologica che

rapporto agli altri

ruolo di un

te la riflessione critica che finge di contestarla; ma non al mo­ do in cui il p regiudizio precede in effetti il giudizio; e ancor meno col pretesto che la presa di posizione morale, nei suoi interventi espliciti, supererebbe in velocità e agilità la riflessio­ ne critica: paradossalmente, ognuna delle due è più rapida del­ l'altra ! Più rapida a turno, ossia all'infinito . . . D'altra parte - e questo torna con ciò che si è detto -: la moralità è coessenziale

j·: è interamente immersa nella mora­ lità; a cose fatte risulta che l'a p riori morale non era mai

alla coscienza, la coscienza

scomparso, che era già là, sempre là, apparentemente assopito, ma in ogni momento sull'orlo del risveglio; la morale, per dirla nel linguaggio della normatività, o addirittura del partito pre­

p reviene la speculazione critica che la contesta, reesisteva tacitamente. E non soltanto l'avviluppa p so,

poiché l e nella sua

luce diffusa, ma altresì, in un'altra· dimensione, e per usare al­ tre metafore, impregna l'insieme del problema speculativo; essa è la quintessenza e il foro interno di questo problema.

20

!.'EVIDENZA MORALE

Il AL 'lliMI•O Sli\SSO INOI.OIIANTE

l! INGLOBATA

2. Il pensiero supera la valutazione morale. E viceversa! Il pensiero, secondo Descartes, è sempre anch'esso là - esso soprattutto -, implicito o esplicito, immanente e continuamente pensante, anche se non se ne ha esplicitamente coscienza; ma si scopre presente in atto a se stesso, in un ritorno riflessivo su di sé, col favore di un'interrogazione o in occasione di una cri­ si. Il pensiero pensa l'assiologia, il pensiero pensa i giudizi di valore, così come pensa ogni cosa: l'assiologia, infatti, non as­ � n logos, ossia una certa forma di razionalità? Il "giudizio di valore" non valuta forse

socia forse alla valutazione

(al;wuv)

sotto la forma di un giudizio? Nell'ambiguità del "giudicare", l'operazione logica e la valutazione assiologica stingono l'una sul­ l'altra. Senza dubbio quella "logica" è una logica senza rigore e di bassa lega: s embra avere alcunché di parziale, di appros­ simativo, e persino di un po' degènere. Tuttavia, è pur sempre la ragione a determinare, qui, lo statuto speculativo della valu­ tazione . . . Ricordiamoci che Spinoza volle dimostrare l'etica al­ la maniera dei geometri ! Ma la reciproca non è meno vera: la morale, che si esprime al modo normativa, e anche all'imperativo, convoca a sua volta la ragione speculativa davanti al suo tribunale, come se la ra­ gione e la logica potessero dipendere da una siffatta giurisdi­ zione e dovessero renderle conto di alcunché. Di più: la mora­ le s'interroga sul valore morale della scienza! Non è il colmo? il colmo dell'impertinenza e della derisione? Insistiamo ancora: quando la morale chiede conto di qualcosa alla ragione, non lo fa in virtù di un privilegio esorbitante o di una prerogativa regale che essa si arrogherebbe arbitrariamente . . . Chissà, forse ne ha il diritto. Pasca!, considerando l'irrazionalità d ella morte e il nulla a cui siamo votati, si chiedeva se vale la pena di filosofare. Certamente sì, ne vale la pena, a patto però di non eludere il problema radicale della peculiare ragion d'essere della filosofia, che in qualche modo è sempre morale. Il problema può essere posto meglio in questa forma: la verità è altrettanto buona che vera? Dato che l'uomo è un essere de­ bole e passionale, ci sarà sempre una deontologia della veracità e un misterioso rapporto fra la verità e l'amore. Questa deonto-

21

·

logia e questo mistero non sono il meno inquietante dei para­ d ossi della problematica morale. Tutto ciò eh � è umano, prima o poi, da un lato o dall'altro, in una forma o nell'altra, pone

è competente dovun­

un problema morale. Giacché la morale

que, anche. . . e soprattutto nelle faccende che non la riguarda­ no; e quando la prima parola non spetta a lèi, è perché avrà l'ultima.

La

presa

di posizione

morale

non

tollera

alcuna

astensione, nessuna neutralità; almeno al limite e in via teori­ ca. L'uomo

è un essere virtualmente etico chs: esiste come tale,

ossia come essere m orale, ogni tanto e di quando in quando molto di quando in quando ! Poi ché qui le intermittenze sono anormalmente frequenti, le eclissi di coscienza smisuratamente prolungate: durante queste lunghe pause la coscienza, apparen­ temente vuota di ogni scrup olo, sembra colpita da anestesia o adiaforia morale, ossia incapace di distinguere fra il "bene" e il

O, per esprimerci col linguaggio tradizionale della teo­ logia morale: la vox conscientiae, finché dura l'incoscienza mo­

"male".

rale della coscienza speculativa, rimane silenziosa. Che fine ha fatto la voce della coscienza, in genere - a detta dei teologi co s ì loquace? È diventata muta e àfona - si è fermata, la voce della coscienza; i suoi oracoli infallibili tacciono. Vivere un'esi­ stenza autenticamente morale e pertanto

incessantemente

mora­

le in quanto tale è forse alla p o rtata dei santi e degli asceti in odore di santità, ed concepibile,

è possibile, posto che questa chimera sia

soltanto grazie a

delle

risorse s oprannaturali . . .

Tolstoj aspirava a una "vita" cristiana e si disperava di non p oterla raggiungere, o, se riusciva a raggiungerla per un istan­ te, di non p otervisi mantenere. Che cosa fanno l'austero e il mistico nell'intervallo fra due o sservanze? Quali sono i loro ri­ p osti pensieri? Lungo la successione dei giorni l'uomo medio che possiamo chiamare

homo ethicus

si occupa dei suoi impor­

tantissimi affari, rincorre i suoi piccoli piaceri e non si p o ne nessun problema; non è neanche un cristiano "della domenica mattina" ! L'essere pensante è ben lontano dal pensare tutto il temp o. A maggior ragione l'istinto, nell'animale morale, dorme soltanto con un occhio: le rivincite della naturalità, sensualità e voracità s o n o frequenti; non meno frequenti le ricadute nel-

22

I.'HVmENZA MORALE

Il AL TEMJ>O STI!SSO INOI.OJIAN'J'Ii

E INOLOilATA

l'amor proprio; quanto alle sonnolenze e alle distrazioni della coscienza morale, esse occupano la maggior parte della nostra vita quotidiana.

3. Una "vita morale". Continua o discontinua? Il foro interiore. Circolo della temporalità. Ciò premesso: tutto il problema consiste nel sapere, quando si tratta dell'essere morale, quale senso bisogna dare all'aggettivo qualificativo, epìteto o predicato . L'essere m orale è morale nel senso antologico - morale dalla testa ai piedi e da un lato al­ l'altro? M orale per tutto il tempo e in ogni istante di questo tempo? M orale anche quando mangia la sua zuppa o quando gioca a dòmino? Si può credere, con Aristotele, alla perennità di un modo d'essere

(el;tç) che sarebbe cronico, come ogni è morale, esso

modo d'essere: quando questo modo d'essere

meriterebbe il nome di virtù. Benissimo! Ma in nessun caso l a virtù

è un'abitudine: giacché, m a n mano che esso d iventa abi­

tuale il modo d'essere morale si dissecca e si svuota di ogni intenzionalità; esso diventa tic, automatismo e v aneggiamento di un pappagallo virtuoso; ed

è allora perfino peggio del gesto

dell'acqua benedetta, che almeno non si rivolge a nessuno su questa terra:

è piuttosto come il gesto del devoto che, senza

neanche guardare il mendicante, lascia cadere un soldo nella sua ciotola. A maggior ragione non si può parlare di una seconda natura che verrebbe a sostituirsi alla prima, alla natura naturale, e che sarebbe la natura soprannaturale dei superu omini (o degli angeli! ) . Anche Aristotele ne conviene: una disposizione morale d iventa virtuosa soltanto se esiste in atto

(f:vtpycta); detto di­

versamente, essa si attualizza in occasione di un avvenimento o di un crisi. S ono i pericoli della guerra, sono le circostanze eccezionali della vita a rilevare il coraggio e l'uomo coraggio­ so; senza l'invasione tedesca, senza le prove dell'occupazione, della deportazione, dell'umiliazione, non si sarebbe mai saputo , forse, che quel giovane resistente era u n eroe; nessuno viene

23

giudicato un eroe semplicemente in base al suo aspetto e ai suoi discorsi (salvo quando la stessa parola implica un impe­ gno di tutto l'essere) : non si concede alcun credito a un eroe virtuale ave egli non sia mai stato altro che un .candidato all'e­ roismo; questo non si lascia leggere in anticipo sul volto o nel passo di quel piccolo operaio, di quel modesto funzionario, del quale si scoprirà a cose fatte che fu capace dell'abnegazione più sublime di fronte a un nemico implacabile. Giacché fatte e al futuro anteriore che

è a cose

come la vocazione e il

l'eroismo,

merito in generale, sarà stato una "virtualità";

è retrospettiva­

mente che esso afferma la sua atroce, misteriosa evidenza nel sacrifico suprem o . Quando il patriota �caduto sotto il fuoco del plotone d'esecuzione, una voce in noi grida, più forte dei fucili degli assassini: era un giusto ! La virtù non

è dunque né una potenzialità inerte e semplice­

mente logica, suscitata fortuitamente da un incidente di per­ corso, né un'attitudine immutabile, predestinata e inscritta in anticipo nel carattere: la congiuntura aggiunge qualcosa, sinte­ ticamente, e c ontemporaneamente non aggiunge niente a ciò che si poteva già sapere dell'eroe; bisogna dire, simultaneamen­ te, che i soprassalti del coraggio, . come gli slanci della sinceri­ tà, hanno

bis ogno di un'occasione o di una difficoltà per

esistere in atto , losamente,

e che

ossia meritoriamente, costosamente, perico­ ciò

nondimeno

un

modo

d'essere

corag­

gioso conserva tutta la sua sublime evidenza. La virtù rimane paradossalmente cronica pur sorgendo e scomparendo nel me­ desimo istante . Di più: il senso m o rale

è virtualmente presente

in tutti gli uomini pur sembrando che in tutti resti in letargo. Quando si prendono in esame forme meno eccezionali, meno iperboliche della vita morale, non si sa mai se occorre serbare fiducia nell'uomo o disperare di lui: si

è piuttosto rimandati

indefinitamente dalla fiducia alla misantropia. Gli slanci della

pietà

più sincera e spontanea in un essere apparentemente in­

sensibile ci riconciliano a volte con l'umanità dell'uomo; non ci si aspettava affatto quelle felici s o rprese; ricominciamo a cre­ dere al "fondo buono" della natura umana, o meglio oscillia­ m o , su questo tema, fra due tesi opposte.

E nello stesso modo

la possibilità permanente di una violenta insurrezione morale,

24

1.'1\VIliENZA

MORALI\ li Al. 'l'HM l'O HTI\NHO INtll.lllt/\1'1 Il'.

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capace di esplodere in ogni momento e di oltrepassare così la soglia dello scandalo, attesta, benché in modo sempre un po' ambiguo, il nostro bisogno di giustizia; la fiamma della collera e dell'indignazione morale non era affatto spenta: essa era sol­ tanto assopita. È qui, nella vampata passeggera dell'emozione, nell'intenerimento della pietà e nell'impeto della collera, che si manifesta una vita morale improvvisamente risvegliata dalla sua apatia. Ma accade anche che questo risveglio si compia senza accessi di febbre, nella passione cronica del rimorso e della vergogna. Il rimorso è una persecuzione morale che insegue il colpevole in ogni luogo e in ogni momento, senza !asciargli un attimo di respiro. Caino ha un bel fuggire in capo al mondo, barricarsi a mille leghe sotto terra, egli resta inesorabilmente faccia a faccia col ricordo ossessionante della sua colpa: la vita morale, anziché concentrarsi nell'esplosione della collera, di una collera sempre pronta a scolorire, s'immobilizza nell'idea fissa del ri­ morso . Ma la bruciatura del rimorso è un tormento ecceziona­ le. Più comunemente il rimorso brucia a rilento, e allora si chiama cattiva coscienza: nascosto sotto la cenere dell'indiffe­ renza e dei sordidi interessi, la piccola brace infinitesimale del­ la cattiva coscienza si ravviva di quando in quando : l'uomo è allora tormentato da rimproveri interiori che nelle notti d'in­ sonnia non hanno mai cessato di ossessionarlo. La cattiva co­ scienza è una brava sentinella: perciò la teologia antica la chiamava ouv-rr\pllatç: fedele vestale, la "sintèresi" veglia sul fuoco sacro diventato latente e può in ogni momento riaccendere la fiamma. Una vita morale che s'identificasse con la cattiva coscienza potrebb'essere detta retrospettiva o conseguente, giacché essa è rivolta verso il passato della colpa; conviene quindi contrap­ porle una coscienza morale anticipata che al contrario sarebbe rivolta verso l'avvenire dei problemi da risolvere, e segnata­ mente verso il "caso di coscienza": qui il problema morale non è vissuto nel ristagno della sofferenza e nella persistenza del­ l'angoscia da una coscienza infelice, ma nell'esitazione e nella perplessità da una coscienza inquieta che non è sempre stazio­ naria. Coscienza morale e cattiva coscienza formano così la

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trama di una vita irreale: la vita morale è come il rimorso del­ la vita elementare o "primaria"; e il suo oggetto non è né la conservazione dell'essere proprio né la pleonessìa. Quell'orfa­ nello nerovestito in cui il poeta ci invita a riconoscere la soli­ tudine, ci si consentirà di chiamarlo coscienza. La coscienza è un dialogo senza interlocutore, un dialogo a bassa voce, che è in realtà un monologo. E in effetti quale nome possiamo dare a quel doppio che mi accompagna dappertutto , seguendomi e precedendomi, e che tuttavia mi lascia solo con me stesso? Quale nome dare a colui che è insieme me stesso e un altro, e che tuttavia non è l'alter ego , I'allos autos aristotelico? Che è sempre presente, dovunque assente, onnipresente, onniassente. Giacché l'io non sfugge mai a questo faccia a faccia con se stesso .. Questo oggetto-soggetto che mi guarda col suo sguardo assente, lo si può chiamare soltanto con un nome al tempo stesso intimo e impersonale: la "Coscienza" 1• N o n soltanto l' a priori della valutazione morale precorre e im­ pregna tutti i passi della coscienza, ma sembra addiriftura che, grazie a un'ironica astuzia, il rifiuto di ogni valutazione morale ne accentui il carattere appassionato: come se, nella clandesti­ nità, l'assiologia avesse recuperato le forze e acquistato una nuova vitalità; repressa, braccata, perseguitata, essa non fa che diventare più fanatica e intransigente; scacciata dalla porta, ri­ entra dalla finestra, o dal camino, o dal buco della serratura; o meglio, non se ne era mai andata; aveva fatto soltanto finta: era rimasta seduta tranquillamente alla nostra tavola, sotto la lampada. . . Dubito ergo cogito. Il pensiero si afferma nella sua presenza e pienezza all'interno stesso del dubbio che pretende di negarlo. Il dubbio ci rinvia immediatamente e di colpo al pensiero, a questo pensiero di cui esso è la funzione essenziale, se è vero che la contestazione, o piuttosto la problematizzazio­ ne, è il pensiero stesso, il pensiero in esercizio , il pensiero in atto: questo stesso pensiero costituzionalmente inerente all'atto di dubitare smentisce il dubbio e ristabilisce la verità origina­ ria; ancor p iima che si sia potuto esprimerlo , o soltanto prenI.

È il titolo dato da Victor Hugo al dramma di Caino ne La

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légende des

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derne coscienza, il dubbio ha già ricostituito la verità indistrut­ tibile di cui sperava di liberarsi. Il pensiero che dubita non può più, a meno di contraddirsi, essere a sua volta dubbioso: e così il dubbio, risparmiando per definizione il pensiero che è la sua armatura speculativa, avrà involontariamente ristabilito una verità originaria; e su questa verità originaria, come acca­ de in Descartes, si riedificheranno tutte le verità! Il dubbio si era contraddetto pensando. Ora bisogna forse te­ mere che il pensiero non si contraddica dubitando: il pensiero, temprato dalla prova e divenuto cosciente di sé in questa prova, è tentato di smentirsi e di rinnegarsi da sé, di applicare a se stesso gli argomenti e strumenti supplementari di uno scetti­ cismo dottrinale; l'uomo si serve adesso delle proprie facoltà critiche per dubitare ancora più a fondo. Ma forse basterebbe distinguere accuratamente un circolo vizioso da un circolo onesto. Il circolo febbricitante, diallelo o petizione di principio, ci rinvia indefinitamente dal dubbio al pensiero e dal pensiero al dubbio: questo circolo è un sofisma, ossia un gioco clandesti­ no con la logica, che gioca d'astuzia con questa logica come il contrabbandiere coi doganieri. Il sofisma di Epimenide, che condanna lo spirito a girare in tondo fino alla fine dei tempi in un cerchio stregato, deriva in qualche modo da una logica malevola, da una logica confusa, da una logica nera. Questo cerchio maledetto non fa forse pensare al supplizio eterno di lssione s otto la sua ruota? Se il cerchio maledetto somiglia a una macchinazione del genio maligno, il circolo onesto sarebbe piuttosto una specie di maliziosa astuzia. È forse questo genio malizioso, trincerato nel cogito, a opporre un'invincibile resistenza alle imprese dissolutrici del genio maligno. Anziché negare diabolicamente ogni verità, ivi compreso il pensiero pensante se stesso, noi ci atteniamo al pensiero e torniamo a lui incessantemente; a tal segno è lui l'istanza suprema; tutto sfocia in lui, tutto ne deriva, tutto rimbalza su di lui; è lui l'alfa e l'omega, il primo e l'ultimo . . . La negazione della negazione non è più una dialettica negatrice e distruttrice; essa è rivolta verso la positività del senso, la pienezza dello spirito e il continuo arricchimento del pensiero. Il pensiero è l'istanza suprema e noi teniamo fermo a questa istanza... N o n lo lasceremo ·

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più! Orbene, a cose fatte, si scopre che non l'avevamo mai la­ sciato ! . . . Tale è la benevola malizia, la malizia benefica del cir­ colo onesto. Ricapitoliamo questo movimento di va-e-vieni, che non è una semplice oscillazione intorno allo stesso punto, ma anche un approfondimento. Più dubito, più penso; e reciprocamente: più penso, più dubito; ma poi penso di nuovo ricominciand o a dubitare, e sempre più attivamente: il cerchio si chiude, si apre, si richiude continuamente, ma ogni volta a una potenza superiore; la domanda non cessa di crescere, l'offerta di salire; il dubbio e il pensiero rivaleggiano a vicenda, si riformano l'un l'altro a gara. . . Ma in ogni caso le fratture si risalderanno, le soluzioni di continuità saranno colmate. E il pensiero avrà l'ul­ tima parola. L'onnipresenza della valutazione morale, nonostante la sua ac­ centuata e apparentemente molto suggestiva semplicità qualita­ tiva, non è priva di qualche analogia con l'onnipresenza del Cogito. Più la nego, più essa si esalta appassionatamente. M a d'altra parte l a valutazione morale è, come l a temporalità, una specie di categoria del linguaggio: l'assiologia aderisce così strattamente al logos che non si può diss ociarlo da esso. Prima di dirigere lo sguardo sull'impalpabilità del suo foro interiore, scopriamola innanzi tutto nel discorso. N on è p ossibile caratte­ rizzare il tempo, se non con parole già temporali: la definizio­ ne, in questi campi, presuppone inevitabilmente il definito ! Non è forse il tempo un'istanza ultima, irriducibile, che rinvia sempre a se stessa e si definisce, circolarmente, mediante se stessa? L'analisi non può procedere oltre. Il signor J ourdain, per definire la prosa, si esprime in prosa, e presuppone tacita­ mente che il problema sia risolto. Ma quand o si tratta del tempo la petizione di principio è a fortiori legittima, giacché il tempo è un "a priori". Impossibile parlare del tempo senza che il discorso stesso prenda del tempo, senza ragionare nel tempo , senza impiegare le parole del tempo, verbi e avverbi, senza che una temporalità preveniente abbia furtivamente oltrepassato la nostra stessa analisi e riflessione. Quando si definisce il tempo come la successione dell'anteriore e dell'ulteriore, l'indivisibile e variegata temporalità è già rifluita in ciascuno di questi tre .

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concetti, e p01 m ciascuno degli istanti infinitesimali del pre­ sente in cui il filosofo pretenderà di braccarla e raggiungerla. E la regressione prosegue all'infinito . . . N oi diciamo: è alla logica della proposizione che i giudizi di valore devono il loro statuto. N o n si tratta certamente di ri­ trovare l'assiologia, ancorché s otto la forma di tracce imper­ scrutabili, e sia pure in dosi omeopatiche, in un trattato di geo­ metria. E tuttavia il principio di finalità consente a Leibniz di parlare in fisica il linguaggio della morale. Del resto, è il di­ scorso speculativo in generale che è impastato di normatività, impregnato di assiologia. Quando noi diciamo assiologia, non si tratta affatto di tavole, scale o giudizi di valore ispirati ai bisogni e ai desideri dell'uomo. La preferenza resta antropo­ centrica e relativa fintantoché il principio della preferibilità re­ sterà moralmente indeterminato; e il "principio" del meglio, lungi dall'essere un principio di scelta, non sarà mai altro che un tropismo fisico indifferente, vale a dire un'inclinazione na­ turale, ove non se ne scopra il principio "soprannaturale", o le molle ideali o i motivi razionali; certo la "monade", avendo (come dice Leibniz) un punto di vista · unilaterale, preferisce questo o quello, è attratta qua o là, in balia delle ineguali ten­ sioni dell'ambiente in cui si sviluppa e secondo gli squilibri fra le attrazioni che la sollecitano . Ma se si parla di questo lin­ guaggio, dove sono l'attività morale e l'autonomia morale della volontà? E che cos'è qui il "meglio"? Meglio per chi o per co­ sa? Meglio da quale punto di vistà? Meglio per la salute? O più utile e conforme al mio interesse generale? O raccomandato dall'amministrazione? Il desiderio viene considerato in quanto desiderabile o come fonte di un piacere più grande? Desiderabile, preferibile . . È molto difficile non giustificare l'attrazione di fatto mediante una priorità di diritto , una legittimità normativa che resta sottintesa e che è la consacrazione del­ l'attrattiva. Ma si può temere, inversamente, che la valutazione morale, con le sue gerarchie, i suoi dislivelli, i suoi comparativi e i suoi avverbi di modo, venga recuperata dalla logica a titolo di modalità formale ... Ora la modalità è una forma dell'asserzione, mentre il giudizio di valore appartiene a un ordine affatto diverso; né basta dire che questa modalità, nel caso che .

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si dia modalità, è apprezzativa: essa esprime un'esigenza nor­ mativa del soggetto di fronte a certi comportamenti, parole, modi di vivere o di sentire - di più: è un gesto allo stato na­ scente, l'abbozzo del rifiuto o d ell'accettazione che è il suo modo drastico e militante di partecipare a una lotta. Ma l'a­ zione stessa non avrebbe nessun senso etico se non potessimo dare un nome ai valori che restano sottintesi nella valutazione e che giustificano tacitamente la normatività assiologica del "valore". In ogni caso, questo carico impalpabile e invisilille di valoriz­ zazione si insinua nella parola, e a volte addirittura vi si ina­ bissa; e tutto il nostro rigore obiettivo non basta a arginare questo straripamento. Viste dall'alto e da lontano, ossia in modo approssimativo, le innumerevoli sfumature della modali­ tà si riassumono nella polarità drammatica e un po' manichea della benevolenza e della malevolenza; ma in genere è sempre il linguaggio a rivelare a un certo livello una presa di posizio­ ne, un partito preso infinitesimale, una parzialità impercettibi­ le. L'indicativo, senza neanche scivolare nell'imperativo, sugge­ risce -indirettamente una scelta normàtiva, una preferenza che non osa dichiarare il proprio nome. I giudizi di valore denun­ ciati dallo spirito scientifico si ricostituiscono all'infinito.

4. Dalla negazione al rifiuto. Negazione d el p iacere, rifiuto del rifiuto.

Ma ecco il colmo dell'ironia: l'esigenza morale è tanto pm pressante quanto più si finge di trattarla negligentemente; la perorazione si trovava già nella requisitoria, e dunque essa non ha bisogno di argomenti supplementari. Ironica è appunto questa economia di prove: giacché la rivincita era implicita nel­ la stessa contestazione! Ricordiamoci qui che il pensiero, presso Descartes, ha annien­ tato la negazione quasi senza muoversi, senza fare neanche un passo oltre se stesso, e in qualche modo restando fermo. Di più: l'uomo pretende a volte di essere materia, nient'altro che

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materia, macchina pensante, gelatina desiderante; ma pm si ostina in questa affermazione, non di altro armato che delle ri­ sorse della riflessione e del ragionamento, più egli prova la so­ vranità di uno spirito che è il solo capace di conferire il senso. Giacché la negazione del pensiero è ancor essa un pensiero ... E quanto complesso ! E quanto pensante! La negazione, diceva Bergson ne L'évolution créatric�, è un'af­ fermazione di secondo grado (noi diciamo: un'affermazione con esponente), un'affermazione su un'affermazione che rimane sottintesa, un'affermazione pronunciata a proposito di un'altra affermazione non pronunciata. Al di là dell'affermazione pura e semplice, che è tautologica, e indipendentemente da ogni successione, distinguiamo tre gradi nella negazione, secondo l'intensità del passato: l . La negazione è un'affermazione indiretta, complessa, secon­ daria che si esprime attraverso una deviazione, o nel pudore di una perifrasi embrionale ("la neve non è nera"); essa può esse­ re dello stesso ordine della litote; l'affermazione si scompone in due tempi, ma la seconda parte è tanto più energica quanto più rimane silenziosa. Bergson lo ha mostrato bene: questa complicazione nelle parole, che sembrerebbe superflua o in­ utilmente aggressiva, conferisce loro un carattere pedagogico e talvolta persino polemico: l'enunciato negativo, per prevenire un errore poco verosimile e difendere un'evidenza che non ha affatto bisogno di essere difesa, si erige anticipatamente contro il paradosso e ne fa esplodere l'assurdità. Indubbiamente avevo le mie ragioni per esprimermi così . . . In ogni caso, qui la negatività implica una protesta del senso comune che per questa o quell'altra ragione si sente minacciato dal non-senso. 2. La negazione dell'apparenza, rifiutando l'apparenza come erronea, si situa sul piano del paradosso: essa protesta contro una falsa evidenza, contro un'apparenza speciosa, contro una · rassomiglianza superficiale che nasconde una profonda dissimi­ glianza. 3. Ed ecco la negazione della negazione. Sì: la neve è davvero bianca. Lo spirito ritorna all'apparenza, ma professando un empirismo consapevole di se stesso. Lasciando da parte l'adesione ingenua all'istinto e alla naturali-

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tà, che giace al di qua dell'etica, ritroveremo nella vita morale il secondo e il terzo stadio s opra indicati: sòlo ·che la negazio­ ne si chiamerà ormai rifiuto. Ma perché "rifiuto" anziché "ne­ gazione"? Perché la vita morale mette in questione certe ener­ gie biologiche, tumultuose, emozionali, contraddittorie, con le quali la volontà si trova alle prese nell'esperienza del dovere; è allora il piacere che è in gioco: il piacere, il desiderio e l'af­ fermazione vitale. La negazione, operazione logica, dunque no­ zionale e platonica non basterebbe ad annientare queste forze orgiastiche! Negare, significa dire che... non . . . , e rimettersi per il resto a una speranza platonica o a un incantesimo; ma rifiu­ tare, significa dire no, con una parola perentoria; e questa pa­ rola è un atto; e questo atto, indipendentemente da ogni ra­ zionalità, può essere un accesso di collera; poiché il monosilla­ bo "no" è un atto effettivo, un atto apposito e decisivo all'in­ terno dell'azione, o meglio il gesto drastico di qualcuno che, battendo il pugno sul tavolo, pone fine alle transazioni e alle tergiversazioni; è il gesto brutale del puro e semplice rigetto; e questo rigetto è un'aggressione allo stato nascente. Raccoglien­ do i membri sparsi della negazione (dire che ... n on . . . ), il rifiuto se ne serve come di un'arma per meglio colpire e ferire. Io ri­ spondo no a chi ha avuto la pretesa di sedurmi, l'insolenza di tentarmi. Il p assaggio alle vie di fatto non è lontano ! Il no è una specie di magia. l . Il primo rifiuto si situa al livello delle morali soprannatura­ listiche, siano esse intellettualistiche, ascetiche o rigoriste. Su questo piano, il no di Platone, contrapposto al sì. . . ma di Ari­ stotele, si ricongiunge al no incondizionato di Kant contrappo­ sto all'indulgente ottimismo del XVIII secolo. Le stesse parole segnalano tutta la distanza che intercorre fra la negazione (o la semplice contestazione) dell'apparenza e il rifiuto categorico del piacere: lo scetticismo nei confronti dell'apparenza ammette volentieri differenze di sfumature, di grado, di punto di vista, insomma di più o meno; e, d'altra parte, esso non ha sempre necessariamente delle conseguenze pratiche: è la terra che gira, e tuttavia gli uomini, pur sapendolo, continuano ad agire come se fosse il sole a sorgere e a tramontare, e regolano la loro condotta in base a questa apparenza antropocentrica. Al con__

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trario, il ripudio del piacere corrisponde all'alternativa del tut­ to-o-niente . . . È un ultimatum passionale. E per intimidire e far fremere coloro che nonostante tutto sarebbero tentati dalla so­ luzione malvagia, i teologi inventano le parole più abominevo­ li; essi parlano di una concupiscenza della carne. L'apparenza non è la verità, quantunque possa parteciparne; ma il piacere non è assolutamente il Bene, in nessun caso, in nessun grado, in nessun modo, anche quando ne abbia l'aria ... Che dico mai? Soprattutto se ne ha l'aria! Inoltre l'apparenza può essere in par­ te falsa o speciosa, ma non è affatto, per parlare con proprietà, fallace o ingannatrice; essa non mi vuole alcun male; del resto non è né malevola, né benevola è quello che è, ecco tutto, e di per sé piuttosto indifferente; a prestarle delle intenzioni è l'interpreta.zione dell'uomo abbagliato o sbalordito . Al contra­ rio , l'attrazione del piacere è più che un errore: è un inganno. Intorno a questa attrazione si è formato il complesso della bel­ lezza perfida, accanita nel nuocermi; intorno a questo comples­ so è sorto il mito della seduttrice. Nei confronti della seduttri­ ce noi non proviamo sfiducia quanto piuttosto s ospetto: non una sfiducia fondata, misurata, motivata nei confronti di in­ formazioni soggette a cauzione o di istituzioni dubbie che do­ vremmo controllare e rettificare, interpretare con l'aiuto degli abituali riduttori - ma una differenza infinita e irreprimibile. L'oggetto supremamente sospetto della nostra diffidenza si chiama cattiva volontà. È questo il primo rifiuto . Questo pri­ mo rifiuto è in noi l'abbozzo del primo complesso e della prima ambivalenza: la repressione istituita dalla legge che trasformò il piacere ingenuo in tentazione vergognosa, la voluttà senza complessi in desiderio più o meno torbido. La tentazione è tutto ciò che resta del piacere dopo la censura. L'uomo morale . . . e tentato prova avversio ne per ciò che è naturalmente attraente, e di cui ha voglia. Questa situazione di un essere lacerato, attratto in seconda istanza dalla ragione e trattenuto dal desiderio, noi la diciamo passionale; questa situazione indecisa, in cui il movimento-verso, ossia l'attrazione, contrasta il movimento volto a evitare, ossia l'avversione, si chiama fobia. Due voci ognuna delle quali è, secondo i casi, il rimorso o la nostalgia dell'altra, due voci ognuna delle quali è subordina-

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ta all'altra, sono in qualche modo associate nella polifonia del complesso; quando si tratta del primo compl'esso, è la voce del desiderio a costituire, se non proprio il pensiero riposto, quan­ to meno il retrogusto, e ad esprimersi in sordina; e sarà conse­ guentemente il piacere ad essere represso, interdetto, condan­ nato a un'esistenza illegale e sotterranea; il desiderio dovrà vi­ vere in regime di clandestinità con poveri piaceri di contrab­ bando e qualche soddisfazione immaginaria. L'ambivalenza del primo grad o, tormentata dalla contraddizione interiore che la lacera, genera la violenza del primo grado. È una violenza in­ dotta . . . Poiché il piacere proibito non è del tutto annientato, e d'altra parte non è annientabile, l'ascetismo sterminatore, non contento di soffocarlo, s'accanisce contro il suo cadavere, inse­ gue dappertutto la sua ombra, perseguita persino il suo ricor­ do, e addirittura il ricordo di quel ricordo . Il piacere propria­ mente detto, sì può privarsene, cancellarlo, rinunciarvi . . . Ma la tentazione, che è un gioco mentale con la possibilità, un affio­ ramento dell'immaginario , appena un flirt, come fare a meno di pensarci? Il tentato non ha p resa su una volontà che civetta con la subvolontà contraria e che è segretamente velleità o ad­ dirittura nolontà; egli s'impegna in un'impossibile lotta contro un'inafferrabile impalpabile, imponderabile ipocrisia dissimula­ ta nel più profondo di lui stesso. È questa ipocrisia infinitesi­ male a fare la nostra impotenza; ed è questa impotenza a mo­ tivare la rabbia quasi disperata dell'ascetismo, il suo santo fu­ rore, il supplizio infinito a cui incessantemente sottopone il corpo. Esso resusciterebbe, se potesse, la sua vittima, soltanto per il piacere di tornare a ucciderla. . . Perché sono dei morti quelli che bisogna uccidere! 2. Il rifiuto numero due è il rifiuto del rifiuto, vale a dire (al­ meno in apparenza) il rifiuto della morale "idealista". Prima di dimostrare come la stessa antimorale restauri la più fanatica delle morali, tentiamo di sdipanare i densi e complessi pensieri riposti del rifiuto con esponente. Poiché il rifiuto del rifiuto implica un complesso come il primo rifiuto, ma i termini del­ l'ambivalenza sono invertiti. In realtà, poiché la stessa ambiva­ lenza varia secondo il d osaggio rispettivo dei due termini che costituiscono la sua ambiguità, fra il complesso semplice (pri-

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m o rifiuto) e il ''complesso complicato" (secondo rifiuto), fra il N o assoluto, intransigente e incondizionato, e il rifiuto sfuma­ to, annunciatore di un Sì, si ripresentano innumerevoli transi­ zioni. Si scivola, quasi senza avvedersene, dall'estremismo fa­ natico all'ascetismo lubrico che moltiplica gli ammiccamenti in direzione del peccato; ma già (o ancora) nell'ascetismo estremi­ sta l'attrazione si mescola al disgusto e compone con esso una specie di orrore sacro. A un'estremità della catena, l'ascetismo vomita i succhi e gli sciroppi nauseanti del piacere; a metà strada fra questo soprannaturalismo e il naturalismo radicale, accade che la coscienza sorrida timidamente alle soavità e le sogguardi di sbieco; nella linea del Filebo piuttosto che in quel­ la del Pedone, Baltasar Graciàn, al tempo stesso fedele e infede­ le a Platone, accetta di mescolare il piacere con la verità. La compiacenza verso il piacere è un primo passo in direzione dell'edonismo. Convertito dal primo complesso, l'asceta prova­ va un'avversione contro natura verso ciò che è naturalmente attraente; convertito una seconda volta, ma dalla complicazio­ ne della complicazione, il voluttuoso, inversamente, riconosce l'attrattiva della naturalità e misconosce il valore soprannatura­ le della norma. Tuttavia, la seconda conversione non è una perversione simmetricamente inversa alla prima. Le due ambi­ valenze favoriscono entrambe il brulichio dei paradossi e l'esu­ beranza dei mostri, ma non sono affatto paragonabili fra di loro: la prima ambivalenza era la duplicità clandestina dell'a­ sceta tentato dalle immagini lascive - sant'Antonio nel deserto! La seconda è invece quella del voluttuoso che ha delle pretese moralizzatrici; dopo il virtuoso-vizioso e le sue complicità libertine, ecco il vizioso-virtuoso che recluta i suoi complici nel campo dei puritani. Tali sono le due generazioni di mostri, tale la doppia teratolo­ gia, generate non proprio dal raddoppiamento del rifiuto, ben­ sì dal suo sdoppiamento: giacché rinnegare, non è affatto ne­ gare due volte rincarando la negazione ed estendendola ad al­ tri oggetti negabili dello stesso ordine, ma è al contrario nega­ re gli stessi effetti dell'atto di negare annullando quasi sempre al cento per cento, · e a volte soltanto in parte, gli effetti diri­ menti di questo atto; il rinnegamento non è una seconda nega-

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zione che verrebbe ad aggiungersi aritmeticamente alla prima: un ripiegamento riflessivo, e che nega all'indietro o a ritroso; in una parola, la negazione della negazione non è ripetizione, ma riflessione. La negazione della negazione, essendo sfociata nell'emancipazione del desiderio, rende superflue le proteste del corpo: la passione non ha più bisogno di sfogo; tuttavia il complesso con esponente è altrettanto orgiastico e passionale che il primo complesso: ma i termini della cohtraddizione che li abitano sono invertiti. Il piacere, ridotto alla clandestinità della tentazione, era il retrogusto dell'idealismo austero: l'idea­ le, ovvero la legge, sarà il pensiero riposto e l'intenzione segre­ ta della voluttà sfrenata. . . - l'intenzione segreta e, chissà? forse il rimorso; se si osa dire, in modo figurato , che il piacere per­ seguitato è lo scrupolo dell'asceta, a maggior ragione l'ideale sbeffeggiato è lo scrupolo del libertino, e questo in senso pro­ prio. Ciascuna delle due volontà prolunga così in se stessa la riper­ cussione e l'eco della propria retro-volontà. Giacché la coscien­ za ha buona memoria: convertita all'ascetismo, non aveva di­ menticato il gusto del piacere; riconvertita al piacere, ha trat­ tenuto le lezioni della ragione. L'ascetismo aveva creduto di sterminare il piacere, ma il piacere respirava ancora; in esso sussisteva un filo di vita, una sensibilità, un resto di calore . . . Rianimarlo era fin troppo facile. Allorquando l'orgia del pia­ cere, come un irresistibile maremoto, ha sommerso tutto, tocca a sua volta. alla legge protestare: ma, beninteso, l'ideale testi­ monia a bassa voce, e la sua debole voce si fa sentire appena nella tempesta dei desideri. La negazione della negazione non disfa completamente ciò che era stato fatto dalla prima nega­ zione. La grammatica dice che due negazioni, la seconda delle quali annulli la prima, equivale a un'affermazione - un'affer­ mazione in due tempi. Ma - ecco ciò che la grammatica non dice - la seconda negazione può lasciare benissimo intatte certe acquisizioni positive della prima e, specialmente, l'ideale al quale le denigrazione del piacere sarà servita da scacciachiodi; se la negazione con esponente annulla la prima negazione, e conseguentemente restaura il piacere, non annulla necessaria­ mente né totalmente l'affermazione correlativa che le faceva da è

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contrappeso; dell'ideale può ben restare qualcosa . . . a meno che, beninteso, questa affermazione non contraddica formalmente la sovranità del piacere; all'infuori di questa incompatibilità, non è affatto assurdo che un residuo della normatività, che una specie di aureola non continui a idealizzare la vita dell'istinto. In ogni caso, la negazione della negazione, alla fine del suo circuito, non avrà affatto restaurato "tale e quale" il mondo del senso comune: il suo mondo è un altro mondo, il suo piacere un altro piacere, e chi, come il figliuol prodigo, tiene il conto delle prove subite, porta il marchio delle avventure vissute, e ne ricorda la lezione. La presenza insolita del dovere nel pieno del furore sensuale, così come, reciprocamente, la presenza inconfessabile della ten­ tazione nelle pieghe più ascose dell'intimità morale, genera promiscuità esplosive, contraddizioni spasmodiche, e innanzi tutto violenze scandalose. Qui la violenza indotta è una violen­ za di secondo grado, una violenza rilanciata. Il sacrilegio pro­ va una parvenza di rispetto e anche un residuo di gratitudine verso quei valori che egli calpesta, sputa, rinnega adesso rab­ biosamente; e questa pietà che non vuol confessare il suo no­ me è condita da un vago retrogusto di rimorso. La sopravvi­ venza del rispetto complica ancora di più il secondo complesso rincarandone la complessità e moltiplicandolo per se stesso . Tuttavia la bizzarra nostalgia di una legge attualmente rinne­ gata non fa altro che rimbalzare appassionatamente dal rimor­ so dell'avversione e rinviarci beffardamente dalla venerazione all'odio. La liberazione degli istinti non è soltanto il segnale della liberazione: essa annuncia una tensione estrema. L'aggressività austera rivolta contro il corpo non è più che un ricordo, ma essa adesso esalta l'aggressività inversa, profanatrice e sacrilega; io continuo ad avercela coi valori anche dopo la loro caduta, nonostante il loro fallimento, e a volte proprio a causa di questo fallimento - e questo instancabilmente; io me ne voglio a causa del mio stesso rimorso e del mio inconfessato rispetto; e più sono rispettoso, più me ne voglio. Questa passeggera debolezza attizza ancora di più il rancore del sacrilego contro i vecchi interdetti e contro l'impostura ipocrita che frustrò così a lungo i nostri piccoli piaceri; i pie-

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coli piaceri così a lungo perseguitati ora si prendono la rivin­ cita sugli obblighi e le privazioni. Grazie alle dissolutezze vendicatrici, grazie alle orge provocatorie, il tempo della peni­ tenza sarà presto dimenticato. Alla provocazione ascetica fa eco la provocazione cinica, alla violenza ascetica che calpesta il corpo e malmena i piaceri del corpo risponde la contro-vio­ lenza cinica che sputa sui valori; l'accanimento ascetico è fatto soprattutto di maledizioni, mortificazioni e supplizi - l'accani­ mento cinico, soprattutto di bestemmie, sarcasmi e insulti, ma l'uno e l'altro sono abitati da un'acuta ambivalenza. Nel senso ambiguo e ambivalente della parola "orrore", il lussurioso ha orrore della morale come l'asceta ha orr ore della voluttà: . eso­ tericamente il dovere fa orrore al lussurioso, ma le costruzioni del dovere, essotericamente, gli fanno gola; la legge morale è per lui qualcosa di intoccabile; questo orrore, orrore "sacro", orrore amoroso, è dunque fra i più sospetti, come è sospetta la fobia che ci allontana da un tabù e che è un'attraente avver­ sione, ossia il risultato irrazionale del terrore e dell'attrazione.

5. L'interdizione. Interdizione dell'interdizione.

Accade che, rinviato dall'uno all'altro, e poi dall'altro all'uno, e questo indefinitamente, l'uomo sia preso dalla vertigine e non sappia più a quale santo votarsi; poiché questa oscillazione in­ definita fra i due poli lo ha privato di ogni sistema di riferi­ mento, l'uomo è consegnato anima e corpo alla contraddizione travolgente, alla confusione orgiastica, al caos dell'assurdità. È proibito proibire: è ciò che la contestazione infinita ha scrit­ to recentemente sui muri a lettere nere - nere come la nera bandiera dell'anarchia. Così come la negazione di una nega­ zione equivale a un'affermazione e il rifiuto di un rifiuto a un'accettazione, l'interdizione di un'interdizione equivale a un'autorizzazione: essa è la perifrasi in qualche modo pudica di un'autorizzazione che non vuole dichiararsi come tale. Se l'accento verte sulle stesse proibizioni, dopo che queste sono state revocate una dopo l'altra, il rifiuto di tutte le proibizioni

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L'EVIDENZA MORALE È AL TEMPO STESSO INGLOBANTE E INGLOBATA

sfocia da ultimo nella licenza universale, e conseguentemente nel capriccio, nell'arbitrio, e in fin dei conti nell'indifferenza quietista: il piuttosto-che (potius quam) non ha più corso; la libertà si definisce soltanto attraverso il rapporto a certe cose p roibite: un senso vietato, un passaggio interdetto, un ingresso vietato; ciò che non è espressamente proibito è tacitamente permess o; e in effetti il permesso, a questo pro p osito, ha un senso determinato. Ogni determinazione è negazione, implica una limitazione che consacra l'avvento all'esistenza del finito. Ma quando tutto è lecito , non c'è più posto che per la licenza, e questa non è affatto preferibile alla paralisi totale. Tutto è permesso, anche le contraddizioni che si distruggono e smenti­ scono a vicenda. La liceità generale, e il baccanale che ne con­ segue, impedisce che si formi un ordine, fosse anche l'ordine del disordine, e che si instauri un regno, fosse anche il regno dell'anarchia. Ma si può forse parlare di "instaurazione"? La situazione non è meno bloccata allorquando, anziché sfociare per estrapola­ zione o generalizzazione nella liceità universale lasciando cadere uno dopo l'altro tutti i divieti, si comincia dalla stessa asser­ zione proibitiva: ciò che ora viene proibito, non è questa o q uell'altra cosa proibita; non si tratta di proibire questo o quello - interdizione al dettaglio la cui revoca estenderebbe man mano la latitudine del nostro agire - no! quel che è proi­ bito, in qualche modo alla seconda potenza, è in generale e globalmente il fatto di proibire, e l'intenzione stessa di proibire. Ogni velleità di proibire, anche allo stato nascente, viene repressa a priori. È proibito proibire è un'asserzione generale, e questa asserzione con esponente non cade a sua volta sotto i colpi di una nuova proibizione che potrebbe renderla facoltativa: questa sarebbe un'assurda regressione all'infinito e forse un circolo vizioso come quello in cui il sofisma di Epimenide ci fa girare in tondo; è proibito proibire è dunque un veto a senso unico, un'asserzione irreversibile; nessun divieto di senso inverso p otrebbe risorgere dal luogo di questa proibizione generale per annullarla o fagocitarla; nessuna proibizione regressiva p otrà neutralizzare la proibizione di p roibire. Del resto , se tutto in definitiva è permesso, sarà permessa an-

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che la proibizione di proibire; non è proibito , è al contrario molto utile, ossia persino raccomandato, ricordarsi che la proibizione è in linea di principio sistematicamente proibita: questa proibizione viene affermata senza possibilità di appello, ma l'affermazione di questo divieto del divieto sfugge essa stes­ sa al divieto. Eccezione necessaria affinché il discorso abbia un senso. Se non ci viene concessa questa aerazione, il nostro solo rifugio è il silenzio. È proibito proibire: voi non potete impe­ dirmi di professarlo, di giustificare il diritto di proibire qual­ siasi proibizione e alla fine, in nome di una filosofia pericolo­ samente dogmatica della libertà, di far rispettare questo diritto e, all'occorrenza, di reprimere ogni infrazione al divieto dei di­ vieti; è proibito pensare diversamente, proibito opporsi alla fi' losofia delle liceità universale, sabotarla con l'astuzia, !imitarla con l'ipocrisia. Questa proibizione di proibire alcunché si for­ mula anch'essa in termini minacciosi; la permissività assoluta, assicurante l'esercizio di tutte le libertà senza limiti e senza ostacoli di sorta, viene garantita, se occorre, a randellate. La libertà ci viene dunque imposta autoritariamente, e in un lin­ guaggio intimidatorio atto a convincere gli indecisi. La libertà del tutto è permesso e il terrorismo virtuoso dunque si ricon­ giungono, o meglio fanno tutt'uno. La proibizione di proibire, ridotta all'impotenza dalla sua interna contraddittorietà, trova almeno il suo fondamento in una filosofia morale libertaria. La proibizione nasconde sempre, più o meno, una tentazione terrorista. Ora la proibizione che non è soltanto proibizione diretta delle cose proibite, ma proibizione dello stesso prop9si­ to di proibire, e non soltanto proibizione di questo proposito, ma radicale proibizione di ogni proibizione - questa proibi�io­ ne infinita apre la strada al rilancio del fanatismo moralizzato­ re. Tuttavia, la restaurazione di un terrorismo virtuoso si può attuare in modo molto più semplice e in qualche modo mec­ canico. Dal momento in cui la morale è diventata per il pro­ fanatore una specie di piacere proibito (giacché ogni virtù è im­ pura e ogni disinteresse sospetto}, è il piacere a fare la legge. ' Ci sarà un d overe del piacere, e anche una religione del piace­ re, e persino una teologia del piacere! A tal punto il "rove­ sciamento" dei valori si riduce in generale a un trasloco del va•

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L'EVIDENZA MORALE È AL TEMPO STESSO INGLOBANTE E INGLOBATA

lore, trasferito d a un estremo all'altro. Questo rovesciamento, d'altra parte irreversibile (giacché esso non implica affatto l'in­ versione che, al termine del movimento di andata e ritorno, ri­ stabilirebbe lo statu qua), è piuttosto un'inversione, una sem­ plice permuta dei ruoli. Scambiare i ruoli, non è affatto tra­ _ sformare intrinsecamente il senso dei valori; invertire i carcerieri e i prigionieri, non significa abolire i carcerieri e le carceri, né sopprimere lo stesso principio di ciò che oggi si chiama "uni­ verso carcerario". In galera il divieto ! In galera il dovere e la legge morale! Mentre le sfrenatezze del piacere dòminano la scena, il divieto è diventato a sua volta martire! Gli ultimi sa­ ranno i primi, dato che i primi sono stati retrocessi.. . Ma ci saranno ancora dei primi e degli ultimi. Questa rivoluzione, che consiste nel cambio dei carcerieri, non è una beffa sinistra? La morale è essenzialmente rifiuto . . . quantunque non ogni ri­ fiuto sia necessariamente morale! Tutto dipende d a ciò che si rifiuta. . . In particolare, la morale è rifiuto del piacere egoista. E conseguentemente il rifiuto che rifiuta la morale è molto spesso il rifiuto del rifiuto morale, il rifiuto di rinunciare al proprio piacere, al proprio interesse e al proprio amor-proprio: in questo caso, il primo rifiuto (il rifiuto di rifiutare) non si deduce dal secondo per sottrazione - esso lo annulla, lo can­ cella di colpo e con un solo tratto. Tale è il No degli egoisti nella sua desolante aridità. Ma accade anche che questo rifiuto del rifiuto sia il rifiuto di un'austerità compiaciuta, il rifiuto dei digiuni inutili e delle penitenze sospette. È in queste privazioni interessate che Fénelon riconobbe i sintomi d ell"'avarizia spirituale". L'anti-morale diventa dunque anch'essa un capitolo della morale. Giacché la morale ha un così grande p otere assimilativo che essa recupera all'infinito tutti gli anti capaci di rifiutarla. Nella dialettica di Pascal, tutto prova Dio e torna a sua gloria, il contro come il per, le obiezioni come gli argomenti: e allo stesso modo l'anti-morale è molto spesso un o maggio che l'immoralismo rende alla morale. I descrittori di costumi che nel XVII e nel XVIII secolo dipin­ gono i "caratteri" e i tipi sociali del loro tempo, sono chiamati "i moralisti francesi" - e questo non è senza motivo : La Bruyè­ re e Vauvenargues non sono affatto spettatori disinteressati e

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divertiti della commedia umana; non sono

dei dilettanti

o

amatori intenti a contemplare dalla loro p ol't rona, col binocolo da teatro, lo spettacolo del mondo. E Teofrast o , il discepolo di Aristotele, al quale essi si richiamano, non è più di loro uno spettatore distaccato: la galleria dei ritratti s atirici e dei qua­ dretti pittoreschi presuppone in Teofrasto un'altra galleria di cui essa è in qualche modo il rovescio o il negativo; tutte le forme della meschinità umana, adulatori, sicofanti, ricattatori, poltroni, ipocriti e imbroglioni di tutti i generi, si sono dati convegno in piazza e al p orto : ma esse rinviano a un' tipo d'uomo migliore, che generalmente resta anonimo - poiché la perversione sembra sempre variata, molto caratterizzata e rigo­ gliosa rispetto all'ideale. Per dire propr'io tutto, la "carattero­ logia" o, meglio, la "caratterografia" di Teofrasto e di La Bru­ yère è abbastanza normativa, e tracciata su uno sfondo di ma­ nicheismo: resta inteso (e s ottinteso) che la lealtà è preferibile all'ipocrisia; il delatore e il calunniatore servono da scaccia­ chiodi all'uomo veritiero. Secondo i moralisti cristiani dell'età classica, in particolare La Rochefaucauld e Pascal, questo modello dell'uomo veritiero e puro è stato sfigurato dalle conseguenze del peccato originale, ossia dalla caduta, ma è facile ritrovarlo sotto la maschera contratta in

una

smorfia

dell'ipocrisia e dell'egoismo.

San

Francesco di Sales denuncia lucidamente il veleno della devota concupiscenza nei collezionisti di penitenze che tesaurizzan o le perfezioni in vista della loro salvezza. A questi accaparratori egli rimprovera la loro

avarizia sp irituale!

Una professione di

fede squisitamente morale si esprime dunque ugualmente bene sia nella misantropia che nella filantropia. Lo stesso relativi­ smo antrop ologico, pur escludendo ogni dogmatismo, ammette una sorta di sistema di riferimento virtuale: esso districa e sventa gli innumerevoli piccoli espedienti e raggiri che costitui­ scono la strategia della malafede. Persino Graciàn tiene conto della miseria dell'uomo quando propone al cortigiano, come ripiego, una b elligeranza basata sulla finta, e sul buon uso delle false parvenze. Rassegnarsi al minor male non è, necessariamente, fare dell'immoralism o ! A maggior ragione smontare i meccanismi economici dell'impo-

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L'EVIDENZA MORALE È AL TEMPO STESSO INGLOBANTE E INGLOBATA

stura è un'impresa altamente morale. È questa l'impresa di Marx: ecco diss olte le sublimi sovrastrutture che mascheravano interessi sordidi o bassamente alimentari .. A che cosa si ridur­ .

rebbe il marxismo senza l'opposizione radicalmente morale del­ la giustizia all'ingiustizia e senza il concetto di un'alienazione che è sfruttamento, ossia espropriazione, e che

è fondata sullo

scandalo del plusvalore? L'espropriazione non sarebbe, nel caso peggiore, che una truffa ingegnosa. Per avere il coraggio di fa­ re la rivoluzione e scendere in piazza, per passare dalla specu­ lazione all'ordine completamente diverso dell'azione militante, per oltrepassare questa soglia vertiginosa, occorre un'idea-for­ za, e questa idea-forza può nascere s oltanto dall'indignazione morale. Senza l'elemento intenzionale della cattiva volontà e dell'impostura, l'espropriazione ridotta al puro e semplice fatto del medesimo salario sarebbe soltanto una semplice meccanica, un meccanismo da smontare, mentre si tratta invece di un im­ broglio rivoltante. In tutti questi moralisti la presa d i posizione è discreta e a vol­ te priva di influenza, se non di

humour,

ma è veemente e vio­

lenta nell'immoralismo dottrinario dei cinici. Nei "moralisti", la verità delle innumerevoli perversioni suggerisce indirettamente e in modo allusivo lo schizzo di un modello ideale. Nel cini­ smo (qui, beninteso, parliamo soltanto della

dottrina

cinica),

non si tratta affatto di un gioco allusivo, ma di un contrasto aggressivo. Il cinico, per principio, non gioca affatto:

è fra i

più seri, o almeno lo pretende. Il contrasto brutale fra l'immoralismo e le virtù non è affatto riconducibile a un'antitesi di carattere estetico o a un effetto di contrasto. La morale del­ l'anti-morale si può qui interpretare in tre modi diversi:

l . Una scabra ironia ci autorizza a concludere tranquillamente, automaticamente, con una fredda insolenza, da un termine del­ la contraddizione all'altro e dalla contro-morale alla morale; la stessa ironia cinica ci invita a prendere di contropiede le sue pretese; attraverso una lettura diretta e una trasposizione im­ mediata, possiamo leggere la virtù nel vizio e il buon senso m orale nel non-senso immorale: la contraddizione in questo caso è soltanto la forma estrema e scandalosa della correlazio­ ne. Le ingiurie ciniche essendo una finta, la traduzione di que-

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sto testo trasparente si fa a libro aperto.

2. Ed ecco il nostro secondo approccio: non' c'è niente da tra­ sporre. N o n c'è nessuna dialettica. Il male è veramente il bene (o viceversa) . . . e per sempre. L'inversione, la pervers ione cini­ ca, non evoca a sua volta nessuna inversione capace di rad­ drizzare ciò che è rovesciato, di rendere un senso al non-senso , d i risituare i l controsenso nel buon senso. Ecco l'estremismo della sfida cinica. Possiamo giudicare l'assurdissima assurdità cinica come quella "logica del peggio" di cui Clément Rosset 2 analizza i meccanismi in mod o così

originale e penetrante.

Tutti dopo Platone e con Platone ripetono: il bene è, per defi­ nizione, ciò che è supremamente desiderabile; questo è un giu­ dizio analitico o più semplicemente una tautologia impostaci dal principio d'identità; ed è la stessa cosa se dico che ciò che è supremamente preferibile si chiama il Male: vuol dire che chiamo Bene un male, e che di conseguenza il M ale è un bene. Niente dunque è cambiato! Colui che pretende di "volere il male" vuole il male come un bene: così si esprimeva l'ottimi­ smo di Leibniz. Nel nostro secondo approccio, il mostro di una volontà del male può dunque sembrare un effetto retorico, e il peggio come un male minore o come un male necessario. Quanto all'estremismo dell'assurdo, esso è qui soprattutto ver­ bale. Una specie di

bluff !

Il Bene è ciò a cui si risponde sì; e

se si risponde no, vuol dire che il preteso Bene è un male ca­ muffato: la paradossologia è libera di invertire i due poli, ma in realtà non fa che spostare la polarità, che s oltanto importa: soltanto i segni e i nomi dei due poli sono invertiti; la para­ dossologia crede di professare il non-senso, ma questo non­ senso ha ancora un senso, al quale l'insolenza oratoria conferi­ sce un aspetto scandaloso . Nessuno può indurre il principio di identità a smentirsi.

E similmente la morale ci dà la forza del

rifiuto e dell'abnegazione, ma essa non è fatta per essere a sua volta rifiutata o sinceramente rinnegata, né a maggior ragione contraddetta. Ciò che viene respinto è una falsa morale, ipocri­ ta e puritana, dunque un'impostura alla quale si preferisce

tra morale

l'al­

e altri "valori": quelli dell'istinto, d ell'espansione vi-

2. Presses universitaires de France, 197 1.

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L'EVIDENZA MORALE

È AL TEMPO STESSO INGLOBANTE E INGLOBATA

tale e della naturalità. Né il fanatismo né lo stesso rigorismo difetteranno a questa morale !

3. La cattiva volontà non è meno evasiva e fugace della buo­ na, e tuttavia la volontà perversa esiste: essa si chiama malevo­ lenza o malvagità; la coscienza, lungi dal rimbalzare dal catti­ vo volere a quello buono, appare lacerata, squartata fra i due voleri: essa è abitata dalla nostalgia dell'abnegazione, ma è tentata dall'esistenza egoista; e più grande è la nostalgia, più la tentazione è irresistibile. E viceversa. E

sempre di più.

Questa

legge paradossale del rilancio, che presiede a tutte le sregola­ tezze passionali, spiega da sola il furore inesplicabile, spropor­ zionato, smisurato del sacrilegio: la legge morale è rinnegata, schernita e ingiuriata, calpestata, torturata, trascinata nel fan­ go, massacrata! La stessa esagerazione di questo rifiuto e di queste invettive ha qualcosa di sospetto e preannuncia l'ambi­ valenza: "sospetto" è infatti un pensiero che implica un pensie­ ro riposto dietro o sotto il pensiero dichiarato, è un primo proposito che nasconde un prop osito segreto . Il cinismo oppo­ ne alla morale lo stesso rifiuto che la morale oppone all'immo­ ralismo: non già per rovesciare semplicemente i ruoli, ma per farsi male da

sé;

il

profanatore

porta così

all'estremo la

tensione che risulta dall'attentato sacrilego. Questa mistura di tormento e di gioia diabolica non è priva di rapp orti col masochismo. Il cinico sente a modo suo l'ango­ scia del parricidio . Ovvero, in circostanze meno tragiche: fa del­ le scenate alla morale come l'amante alla sua donna. . . La rabbia demenziale di Nietzsche è forse una rabbia innamorata, innamorata della morale. La violenta reazione di rifiuto verso i valori normativi non è una collera morale rovesciata, né una caricatura dell'indignazione morale; è piuttosto la frenesia di una coscienza s d oppiata, crocifissa, lacerata dalla sua insolubile contraddizione. Più il valore è apparentemente sacro e riverito come tale, più triviali e scandalose sono le manifestazioni del disgusto cinico: sputare, vo mitare e rigettare ! Nessun gesto è abbastanza energico per esprimere il disgusto cinico, la volontà cinica di espellere dalla no stra vita, dalla nostra sostanza, di eliminare dal nostro essere i valori giudicati più santi: i valori morali sono ora visti come se andassero in senso inverso

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rispetto alla vita. Il cinico pretende di essere pm cattivo di quanto non sia. Nella sua incapacità di sOffocare completa­ mente l'irreprimibile bisogno morale, di far tacere la "voce del­ la coscienza", copre col baccano delle sue imprecazioni e dei suoi anatemi quella debole voce che, con un impercettibile sus­ surro, persiste a

rimormorare

d entro di noi. Come se potesse

esorcizzare o, quanto meno, disattivare il male p rofessandolo ad alta voce . . . o piuttosto a squarciagola. Si direbbe che egli si immunizzi da solo magicamente proprio attraverso gli eccessi del linguaggio e le abominevoli ingiurie. I bestemmiatori dimo­ strano sperimentalmente che Dio non ha amor-proprio, che Dio non è "suscettibile", che Dio non è irascibile, che Dio non può sentirsi né sfidato né offeso, che il divino è al di là dei nostri ridicoli e impotenti antropomorfismi. Il discorso cinico è insomma suo malgrado una specie di alibi; la sua stessa m­ temperanza è rivelatrice. N o n è dunque il caso di attribuire troppa imp ortanza alla re­ torica della bestemmia e della parolaccia. Parlando di Eudosso di Cnid o 3 , che era al tempo stesso un teorico dell'edonismo dottrinario e un sapiente dai costurni molto austeri, Aristotele si esprime pressappoco come si esprimerà Bergs on4: non state a sentire quello che dicono, osservate quello che fanno. Niente è più convincente, decisivo o rivelatore di un'intenzione sincera dell'impegno nella concretezza del fare; quel che conta è sol­ tanto l'esempio che il fil osofo ci dà con la sua vita e le sue azioni s . Non c'è nessuna testimonianza più autentica e probante di questa ! Orbene, tale - secondo gli antichi - era il caso di Antistene, filos ofo sdoppiato, cinico nella dottrina e ascetico nella vita; e tale è indubbiamente l'ambiguità del cinismo in generale, dottrina anti-dottrina che preferiva l'esercizio e la pe­ na alla speculazione e che, al di là di tutti i conformismi poli­ tici, sociali o verbali, sognava forse un'impossibile, invisibile purezza.

Eth. Nic. , X, 2, I J 72b, 1 5- 1 6. Deux sources de la morale et de la religion, pp. 26, 1 49, 1 72, 193. 5. SENOFONTE, Memorabilia, IV, 4, I l : "ij ou 8oxf:i oot à.l;taTEX�tapTon:pov 3.

4.

Tou Myou 1:ò 8pyov El vat".

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L'EVIDENZA MORALE

È AL TEMPO STESSO INGLOBANTE E INGLOBATA

Per evitare le pericolose tentazioni dell'ambivalenza, e affinché la morale non ne sia minimamente lesa, l'edonismo si preoccu­ pa a volte di riconoscere in linea di principio e

de iure

il valore

normativa del piacere; piacere e istinto non sono soltanto ri­ abilitati: essi sono direttamente sacralizzati; la naturalità non semplicemente giustificata: essa

è è addirittura santificata; un'i­

niezione di valore ha anticipatamente trasfigurato e moralizza­ to quell'oggetto attraente che fu oggetto d'avversione. L'edo­ nismo diventa così una specie di religione di cui il voluttuoso non esita a celebrare le messe nere. "Gli amplessi proibiti,

è

Dio che li ordina". Gabriel Fauré ha messo in musica nel suo

Shylock

queste parole apparentemente sacrileghe.

S ade, quando invoca l'istinto,

Lo stesso

ha trovato indubbiamente il

modo di sacralizzare il sacrilegio, di valorizzare l'anti-valore e la naturalità di ciò che è contro natura, di conferire una mo­ struosa legalità al nichilismo dell'assurdo. Ma soprattutto, che si consideri il culto del piacere sensibile o il provocatorio im­ moralismo dei cinici, si può affermare senza rischio : sono tutti moralisti, e quelli che meno lo sembrano lo sono di più. Im­ possibile trovare una dottrina filos ofica che possa s ostenere ri­ g orosamente la scommessa dell'indifferenza nei confronti di ogni presa di p osizione morale: sarà sempre possibile notare una differenza, ancorché infinitesimale, fra bene e male, una parzialità impercettibile, un'invisibile polarità, ossia un partito preso; senza il principio elementare della preferenza nascente, senza un minimale piuttosto-che, non sarebbero possibili né la scelta, né la vita, né il movimento. L'immoralismo assoluto ha pertanto qualcosa di cadaverico. Livellando al tempo stesso le decisioni drastiche e le disuguaglianze drammatiche dell'emozione, l'immoralismo non si riv olge a degli esseri umani appassionatamente coinvolti, ma a delle mummie. Il cardiogramma morale

p

è piatto e la carica af-

fettiva cade a zero. La morale, vili esa e assassinata dai sedicenti gruppi amorali, si rifugia sotto altre forme nei "codici" delle categorie sociali! I teppisti hanno un "onore'' e le prostitute osservano gratuitamente certe regole di cameratismo disinteressato o di pietà filiale. La morale ha sempre l'ultima parola: braccata e perseguitata dall'immoralismo, ma non annichili-

47

ta, essa conosce o gni specie di rivincita e di alibi; si rigenera all'infinito, rinasce dalle sue ceneri, per nostra salvezza. Poiché senza di lei non si può vivere.

48

I I . L'EV IDENZA MORALE

È A L TEM P O

STESSO EQUI VOCA E UNI VOCA

l . Ambiguità d e l massimalismo, eccellenza d ell'intermediarietà.

La morale è inafferrabile non soltanto perché, sfidando l'alter­ nativa spaziale del dentro-fuori, è al tempo stesso i nglobante e inglobata, e il suo posto non potrebb'essere quindi né localiz­ zato né determinato , ma perché è al tempo stesso equivoca e univoca. Questa doppia ambiguità, che rende sfuggente la sua natura intrinseca, aggrava gli effetti della prima.

etica paradossale:

Saggio di

è questo il sottotitolo che Nicolas Berdiaev

ha dato alla sua opera

Sul destino dell'uomo 1 •

Ma è forse pos­

sibile concepire un'etica che non sia paradossale, e la cui unica vocazione sarebbe quella di giustificare le idee ricevute, i pre­ giudizi e il tran-tran dell'etica "dossale"? Forse il rovesciamen­ to paradossologico non è altro che una scappatoia verbale . . . Esso risponde alla domanda c on la ripetizione d i questa do­ manda, cioè con lo stesso enunciato del mistero di cui fa pro­ fessione. Esso indulge allo scandalo e alla sfida. L'alternativa lacerante, l'alternativa insolubile, non potendo essere risolta, viene troncata con decisione "gordiana". Tale è la "follia" del sacrificio. Sarebbe tuttavia errato considerare questo dilemma come

una

congiuntura

esclusivamente

teorica:

esso

appare

quando non posso salvare contemporaneamente la mia vita e la tua, e quando un caso di coscienza mi obbliga, ma con un'obbligazione esclusivamente morale, ossia con un'o bbliga -

zione facoltativa,

a sacrificare la mia. Come che sia, non è cer-

to alla trascendenza platonica che occorre chiedere una giustificazione del conformismo ! L'etica di Platone, proprio come la sua dialettica, o bbedisce allo slancio ascensionale che lo trascina nella sublime regione in cui risplende il sole del Bene. l. Editions "Je sers", trad. francese 1 935.

51

·

Eppure, se l'intento dell'uomo morale non è d i sistemarsi al centro della zona temperata che Aristotele ' chiama il giusto mezzo, esso non è neanche quello di elevarsi fino alla vetta della perfezione o di raggiungere il vertice del valore. Che ne è, del resto, della culminazione? Baltasar Graciàn parla di un eroe nel quale si riassume il massimo della perfezione, nel qua­ le s'incarna la perfezione delle perfezioni; egli è il colmo della pienezza; in lui tutte le virtù sono all'apogeo, egli stesso ne è il prototipo; egli è grandezza eccelsa e meraviglia delle meravi­ glie; il mazzo dei fiori più rari, dei profumi più squisiti, dei co­



lori più splendidi rendono manif sta ed evidente la sua eccel­ lenza. Quando tutti gli elementi della saggezza, senza escludere neanche una perfezione, sono riuniti sotto la stessa corona, come, per esempio, nell'uomo d abbene, o nel vegliardo alla fi­ ne della sua vita, l'esperienza del saggio si effonde in saggi consigli, in sentenze ragionevoli e serene, come un fiume tran­ quillo; il saggio perfetto in tutto allo

zerzith

della sua eccellen­

za lascia scorrere un flusso di parole benefiche e rassicuranti. Tale è anche la saggezza stoica in cui tutte le virtù non sono che un'unica e medesima virtù. Eppure, in questa eccellenza è già sottintesa la negatività, così come il termine (tÉÀ.oç) è già implicito nella perfezione: la perfezione dice a v o lte sì e a volte no a seconda che si guardi al di qua o al di là, ossia secondo il versante considerato. Baltasar Graciàn, discorrendo sul suo eroe z , definisce in questo

k

modo, o pressappoco, la settima "Eccellenza": l'eroe è il primoi'

in tutto, il primo dappertutto ; esso merita insomma il premio di eccellenza; è il più grande di tutti e batte tutti i

records:

non si può salire più in alto, né andare più lontano; si tratti di priorità o di primato (è il linguaggio di Plotino), di maestà o di "massimità" (è. il linguaggio di Niccolò da Cusa), una tacita limitazione

è

implicita dialetticamente nella

supremazia del

superlativo relativo; o più semplicemente: il superlativo relativo è il limite estremo e supremo del comparativ o . Il limite è dun­ que essenzialmente ambiguo: in rapporto alle grandezze del­ l'empiria, esso è l'apogeo, ma in rapporto alla meta-empiria è 2. El Héroe, VII: "Excelencia de primero".

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L'EVIDENZA MORALE È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA

ciò che non s i può né superare né oltrepassare; è un

record

insuperabile, ma con ciò stesso allude a un'impossibilità. Tale è la debolezza della sua forza! Nel massimo del come negli estremi

massimalismo ,

c'è una duplicità costitutiva

dell'estremismo,

in cui risiede tutta la miseria e l'impotenza dei rilanci pura­ mente quantitativi. L'uomo della contiguità si accontenta fa­ cilmente d i un massimo legittimato dal destino: egli è adattato in anticipo a questo superlativo così relativo! Il superlativo relativo è il limite estremo del comparativo, ma è dello stesso genere e della stessa specie di questo comparati­ v o : ne differisce semplicemente per un più o un meno nella se­ rie ordinale, scalare e continua delle grandezze. Similmente, secondo la terminologia di Aristotele, i contrari, lungi dal­ l'escludersi l'un l'altro come i contraddittori, sono i due poli estremi di una stessa regione mediana: gli es tremi opposti fan­ no anch'essi parte dell'al di qua. Che si considerino i contrari, i grad i della comparazione o la temporalità generale, ogni cosa

resta nei limiti della intermediarità: la contrarietà, che è una

differenza estrema, una differenza acuta, ma pur sempre una semplice differenza di grado; l'altro, che è un altro me stesso e resta sempre, qualunque cosa si faccia, un'alterità egomorfica; il superlativo empirico, che è insomma un estremo comparati­ vo; il terminale empirico, che fa ancora parte della continua­ zione, e che è una maglia nella concatenazione dell'intervallo . . . Ogni perfezione - s e c'è perfezione - si inscrive fatalmente nel registro dell'immanenza e delle grandezze medie. La cosa perfetta è cosa compiuta o conclusa, nel senso statico del participio passato passivo. Il dogmatico ha decretato arbitrariamente che converrebbe attenersi a questo:

L'idolatra

ha designato il suo idolo come il

ogni con-

àvayx11 a'tflvat! nec plus ultra di

fronto e ricerca; la ricerca è dunque finita prima ancora di essere incominciata; e contemplando l'idolo, l'idolatra dice a se stesso: non diamoci più da fare; c'è n'è abbastanza ! Persino al suo modello, fra tutti ammirato, come il fotografo durante la p osa, egli osa dire: soprattutto non muoverti più, sei perfetto. Ma è fin troppo evidente che un massimo ricondotto alle dimensioni di un

quantum

definito, determinabile e univoco, non

ha nessun significato morale! Ciò che cerchiamo non è una to-

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talità chiusa, una totalità in atto al termine di una totalizza­ zione: ciò che cerchiamo è infinitamente evasivo . Poiché il no­ stro bersaglio è situato al di là di ogni orizzonte. In un'ottica antropocentrica, gli estremi

(rà axpa)

fanno ancora

parte dell'al di qua e il mezzo, reciprocamente, può essere a suo modo un apogeo assai relativo. Se il primato al quale am­ bisce l'estremismo semplicista è molto spesso, in effetti, un su­ perlativo dei più borghesi, la mediocrità professata e in cui si installa la filos ofia della "medietà" può essere in certi casi un culmine e una specie di vertice . Ma mentre il massimo ' del massimalismo è apparentemente , situato in cima alla scala, la filosofia del giusto mezzo scorg

� l'ottimo al centro,

e professa

l'ottimismo che è la filosofia d i questo ottimo . Così la vita media smussata e ottusa nel suo tran-tran sfuma nel punto sottile del giusto mezzo. In opposizione al massimo, superlati­ vo

quantitativo, l'ottimo, superlativo assiologico, implica la

qualità e il valore. Il mezzo raccomandatoci da Aristotele non è forse un giusto mezzo? La giustizia, dopo tutto, è una virtù, e perciò stesso, in qualche modo, lo è anche la giustezza; il giusto mezzo (J.lWO"t"llç) è dunque normativo . Con uno sguardo acuto lo spirito misura, valuta, determina l'equidistanza del punto mediano in rapporto ai due estremi - eccesso e difetto situati da un lato e dall'altro. Questo sguardo acuto, alla ricer­ ca di una determinazione univoca, non è forse la forma ottica dello spirito intuitivo? L'equidistanza, implicante l'uguaglianza dei rapporti, e la stessa proporzione, sono simboli di giustizia. Qui dunque si manifesta l'ambiguità di questo giusto mezzo. Certamente la moderazione greca non

è affatto, come l'inter­

mediarità di Pascal, perduta tra due infiniti, ma al contrario è armoniosamente adattata alla sua finitezza, perfettamente in­ stallata nel suo giusto mezzo, a metà strada fra il troppo e il non-abbastanza, perfettamente in equilibrio sulla punta del suo

optimum...



così sembra -

Perfettamente - o, meglio,

passabilmente ! "Perfettamente" e "mediamente" tendono qui a confondersi. L a virtù centrista è in equilibrio, m a questo equilibrio è instabile; è un'opportunità continuamente differita; ed è minacciato dai due lati, dalle due opposte indeterminazioni dell'insufficienza e

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L'EVIDENZA MORALE È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA

dell'abuso che debordano su di lui. A questa doppia tentazione essa oppone una doppia resistenza che è, come l'btoxr1 negli scettici, riservatezza e pudore. Il peggio è nemico del bene, questo è ovvio, ma lo è anche il meglio, e questo è paradossa­ le e per nulla ovvio. In questa regione dell'al di qua e dell'im­ manenza inframondana prosperano ogni specie di virtù: è que­ sta la regione della medietà o, se ci si può esprimere così, delle perfezioni medie. In primo luogo della

modestia:

in opposizio­

ne all'estrema umiltà, all'umiltà mendicante di colui che, nella sua infinita abnegazione, rinucia a tutto il suo essere e si anni­ chila da sé, la m odestia conserva la sua modesta razione. Tale è soprattutto il rapporto della

giustizia

rispetto alla carità: la

lacerante, assurda carità riconosce il diritto degli altri sacrifi­ cando ingiustamente il proprio; il giusto non dimentica se stes­ so e si considera legittimamente uno di quegli altri che rispet­ ta. In opp osizione a un'impossibile purezza meta-empirica, a una purezza limite che sarebbe qualcosa come la forma spiri­ tuale dell'asepsi, la

sincerità

si accontenta di essere seria: non

pretende di essere letteralmente, chimicamente pura, o sincera al cento per cento, pura di ogni reticenza e di ogni pensiero riposto, ma tiene conto nella misura del possibile delle circo­ stanze e dell'insieme del dato psicologico. Ma in questa valle dell'esistenza media c'è ancora una massa di altre virtù, di perfezioni minori: la discrezione e la riserva­ tezza che ci risparmiano la gelosia di Nemesi; la timidezza, in­ fine il pudore; e soprattutto la misura, che è al tempo stesso media e sovrana - f.!É-rpov aptcrwv, dice Cleobulo -; giacché essa fonda, pres s o Platone, una metrica, e in questo senso è normativa; ma al tempo stesso dice quanto, fino a che punto, fino a quale grado: e questo grado si esprime con un numero definito o determinabile. La condizione che rende possibile la metrica non è infatti la finitezza?

2. Vivere per l'altro, chiunque sia questo altro. Al di là di ogni "quatenus", di ogni prosopoles sia. Nel foro intimo della vita morale c'è una contraddizione segre­ ta che il tran-tran della continuità e della intermediarità quoti-

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diane lascia emergere di rado , ma che esplode di quando i n quando all'apice incandescente d elle situazioni tragiche. Questa contraddizione interna e, quasi sempre invisibile, possiamo for­ mularla mediante un doppio assioma che è al tempo stesso un'evidenza indimostrabile e il colmo del non-senso, che è in­ somma un impossibile-necessario :

fino a morirne,

vivere per te, vivere per te

morte compresa.

Questo dilemma del tutto-o-niente, che è nel sacrificio iperbo­ lico l'ultimatum irrazionale per eccellenza, al limite e in via d i principio sfocia i n un'esigenza assurda e d esorbitante. Esigènza - sembra - puramente gratuita . . . Vivere per te, vivere per te fi­ no a morirne - questi due paradossi formano insieme un solo e identico imperativo:

giacché l'offer�a che

quando si vive per lui, fino

in fondo,

si fa a qualcuno

senza riservarsi niente per

se stessi, sacrificandogli tutto, implica che si c onsenta tacita­ mente a morire per questo qualcuno, e al posto suo, se tale è la condizione della sua s opravvivenza. Questo imperativo al tempo stesso duplice e semplice esige da me non già una ri­ sposta platonica, ma un atto; io sono personalmente interessa­ to, insistentemente interpellato dalla drastica urgenza di una richiesta in cui s'impegna immediatamente e appassionatamente l'intera mia vita. Incominciamo dal vivere-per-te (senza morirne). Anche astra­ endo dalla morte, anche se il paradosso non è meta-empirico, questo vivere-per-l'altro è già d i per sé paradossale. La preferi­ bilità incondizionata dell'altro non può essere razionalmente giustificata. La vita dell'altro ha un valore infinito,

sia questo altro,

chiunque

indipendemente dalle qualità, dalle doti d i

questo altro; i o devo dunque v otarmi a lui unicamente perché è un altro: perché non è me. Ma p osso ugualmente dire, in generale:

perché?

Come vedremo, è questo inesplicabile a spie­

gare l'inesplicabile del secondo paradosso, l'assurdità del vive­ re-fino-a-morirne. Ecco davvero il colmo dell'arbitrio! Il fatto dell'alterità non è neanche, propriamente parlando, la ragione astratta che spiega l'amore. S e l'esistenza del mio prossimo fosse preziosa al di sopra di tutto, non ci sarebbe nessun pa­ radosso nell'amore incondizionato che nutro p er lui; se la tua vita valesse più della mia, il mio sacrificio renderebbe sempli-

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L'EVIDENZA MORALE È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA

cemente giustizia alla verità e non differirebbe per nulla da una constatazione ragionevole saggiamente motivata. Ora un imperativo razionale, giustificabile e dimostrabile può essere moralmente soltanto condizionato: amo deliberatamente dopo aver soppesato i pesi, valutato il valore, apprezzato il merito dell'amato.

È

la conclusione logica di un ragionamento. Ma al�

lora dov'è la soprannaturalità miracolosa, la sublimità e divina follia del sacrificio? Bisogna dunque dire proprio il contrario: p oiché l'imperativo d'amore è radicalmente immotivato , esso è categorico ! Ti amo perché sei tu. . . Il che, evidentemente, non è affatto "una ra­ gione"! Al massimo, è una cattiva ragione! O più semplice­ mente: amo senza ragione. E ancora meglio : amo contro ogni ragione! Amo perché amo. . . N o n ci sono dei "per questo". Il "per questo" è la pura e semplice ripetizione del "perché" ? In genere riconosciamo la sublimità del sacrificio dal fatto deriso­ rio che l'amato non merita affatto un simile amore . . . : è allora che la pietà diventa più lacerante. A meno che (c'è sempre un

a meno che)

questa preferenza per un amato indegno del no­

stro amore non sia essa stessa una suprema affettazione e una falsa umiltà, qualcosa come un sospetto rilancio dell'ascetismo; talvolta perfino una sfida e una provocazione, il desiderio di battere un record - il record del disinteresse! Aristotele, che tuttavia considera l'amico come "un altro me stesso" e si chiude volentieri nella

clausura

xenòfoba dell'elle­

nocentrismo, trova per l'amicizia un linguaggio paradossalmente "altruista" : bisogna amare l'altro, bisogna essere giusti verso l'altro . . . L'altruismo predica la virtù d ell'amicizia senza specificare la nazionalità dell'amico, né la sua religione, né la sua razza. Il principio di un'apertura infinita è stato già intravisto. Esso emergerà in piena luce soltanto nell'universalismo e nel "totalitarismo" della filantropia stoica. La "filantropia" è para­ d ossologica perché è "paradossale" amare l'uomo

in generale

e

unicamente per la ragione che è un uomo. Poiché questa ragione, nei concetti della morale chiusa, non è affatto "una ragione".

Il

più delle volte un uomo ama il proprio prossimo quan-

do questo prossimo è il suo correligionario, il suo concittadino o il suo compatriota, o a rigore il suo "collega" ! Il più delle

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volte un uomo ama gli altri uomini a patto che essi apparten­ gano - loro e lui - allo stesso gregge; o ancora a patto che facciano parte dello stesso clan, della stessa tribù, della stessa casta. Colui che ama il suo prossimo se questo prossimo è un parrocchiano della sua stessa parrocchia, non ama affatto gli uomini; colui che ama una donna in quanto essa appartiene al­ la stessa casta, non sa che cos'è l'amore. Il paradosso filantro­ pico è dello stesso tipo del paradosso cosmopolita; i due para­ d ossi sono legati l'un l'altro nella stessa paradossia, e la sag­ gezza stoica li professava entrambi. Il cosmopolita è cittadino del mondo. Cittadino di una città, e non di un'altra città: que­ sto ha un senso. Ma come si può essere cittadini Cittadino del pianeta, cittadino del in nessun modo una

città:

glbbo

dell'universo ?

terrestre - che non è

questi sono dei modi di dire che,

per un orecchio greco, suonano piuttosto come contraddizioni o assurdità. Lo stesso sia detto del patriottismo galattico ! E tuttavia, è questa estensione infinita, ai limiti dell'assurdo e del derisorio, ciò che misura l'impensabile dismisura della fraterni­ tà umana. Il profeta Isaia dice che Dio non discrimina gli stranieri: giac­ ché non ci s o no stranieri.

Il Nuovo Testamento esprimerà

un'idea analoga servendosi della parola greca

npocrronoÀl]\jfta3;

la prosopolessia è l'inganno che consiste nel dare importanza alla maschera

(npocrronov), nel p rendere in considerazione l'a­

spetto e il colore della pelle, i n altre parole il personaggio .

Prosopon

è insomma un'apparenza superficiale. D i ciò che è

inessenziale e accidentale, di ciò che è smorfia o appartenenza "aggettivale", Dio non tiene conto: Dio tiene conto soltanto dell'essenza, dell'umanità dell'uomo, senza considerare la pig­ mentazione della sua pelle o la forma del suo naso. Essendo al di sopra di ogni piccineria, di ogni prosopolessia, Egli conside­ ra la sostanza e non gli epiteti più o meno pittoreschi e folclo­ ristici. Il rifiuto della pros opolessia inserisce nel Vangelo un profonda indifferenza per tutti i

distinguo

sociali, professionali o etnici,

3. Oppure n:pocrron:oÀ:ru.nvia: in particolare, Rom. 2, I l ; Gv. 2, 1 .9; At. I O, 34; Ef. 6, 9; Col. 3, 25.

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L'EVIDENZA MORALE

È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA

e perciò stesso il d oppio massimalismo della carità - estremi­ smo, universalismo - che è all'origine di questa indifferenza. Ma il paradosso morale potrebb'essere formulato ugualmente bene in altri linguaggi filosofici, anche se esso non fosse fatto per ioro . Potremmo, per esempio, ad ottare il linguaggio del relati­ vismo monadico: amare qualcuno da questo o quel punto di vista, per questo o quell'altro aspetto e sotto certi rapporti, e, correlativamente, non amarlo sotto altri rapporti, e addirittura detestarlo sinceramente sotto quegli altri rapporti; orbene, que­ sto non è amore, è una derisione; amare a certe condizioni, odiare ad altre, l'odio essendo sottinteso nell'amicizia come un effetto di rilievo , significa indubbiamente amare amicalmente, ma al massimo vuol dire assicurare l'amico della sua particola­ re considerazione; l'amicizia è

amore

condito di

restrizioni

circostanziali che lo motivano e lo giustificano !imitandolo. Amare condizionatamente,

mediante certe precisazioni e di­

scriminazioni, non significa forse asservire l'amore? Possiamo spingerei fino a dire che il paradosso morale è virtualmente implicito

nell'idea

razionalista

d ell'universalmente

umano.

L'uomo che funge da soggetto morale dei

dell'uomo,

non è

questo o quello,

diritti e dei doveri affatto l'uomo così e così, l'uomo in quanto insomma l'uomo in quanto che, ma l'uomo

puro e semplice, l'uomo senza altra precisazione o specifica­ zione; l'uomo senza

quatenus. E

in primo luogo, l'uomo dei

doveri dell'uomo è essenzialmente il portatore della legge mo­ rale e dei valori in genere, responsabile di questi valori e di questa legge - cosa che non può meravigliarci, giacché il do­ vere ci parla di p er sé di sforzi e di pene, di austerità e di pri­ vazioni. Ciò che mi riguarda non sono soltanto i miei obblighi professionali o certi bisogni limitati nel tempo dall'orario e dal calendario, ma un compito infinito e sempre inadempiuto; e questo compito indeterminato e senza limiti di tempo dura quanto la mia vita, e può esigere il sacrificio di questa vita. L'assistenza a un uomo in pericolo mi riguarda n o n

in quanto

professore, vigile del fuoco o bagnino, o rappresentante di una certa specifica categoria sociale, quella dei salvatori: essa in­ combe su di me perché sono un uomo e l'annegato è un uomo come me. Tali sono i doveri più urgenti e imperativi. Io non

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tento di verificare, prima di tuffarmi in mare, se l'uomo in pe­ ricolo è un mio correligionario o soltanto un • mio collega, se è della mia tribù, se appartiene al mio stesso club o clan . . . N o ! I o m i lancio seduta stante in soccorso dell'uomo i n pericolo d i morte perché abbiamo entrambi la stessa essenza e l a stessa origine. Colui che chiede spiegare

per questo

o

perché e colui che si crede tenuto a per quello sono altrettanto pietosi quan­

do cavillano sull'assistenza da dare o non dare agli esseri in pericolo. Certo non lascerei annegare l'uomo in pericolo di morte col pretesto che una miserabile prosopolessia, una me­ :i schineria criminale, mi dissuade dal dargli aiuto e assistenza! E similmente : il militante dei diritti dell'uomo non si s offerma a specificare le categorie sociali o professionali riguardanti la sua battaglia: l'uomo dei diritti dell'uomo non è l'uomo in

quanto che;

in altre parole, i diritti di quest'uomo non sono i

diritti di un uomo considerato come cittadino, elettore o con­ tribuente, o come viaggiatore, inquilino, abbonato al telefon o o utente dei trasporti pubblici - e non è neanche l a somma di tutti quei diritti parziali che nel loro insieme costituirebbero i diritti dell'uomo. I diritti dell'uomo iri generale non sono i pri­ vilegi che un gruppo umano più o meno chiuso può rivendica­ re nei confronti di un altro gruppo . . . Ma sono poi realmente dei "diritti" ? Il "diritto" di vivere, il "diritto" di esistere e di respirare, il "diritto" alla libertà sono diritti elementari così evidenti da non avere neanche gusto e sapore; essi vanno da sé, e io non vi debbo nessuna particolare riconoscenza per il d ono che voi credete di farmi concedendomeli. Ecco una biz­ zarria parado ssale e, proprio per questo, eminentemente mora­ le! I o sono quanto meno uno di quegli "altri" in favore dei quali vengono rivendicati la giustizia e il diritto. Anche se essa mi favorisce, non faccio eccezione alla legge comune! Bisognerà credere che la giustizia sia tale soltanto quando si applica a spese mie ? Che il diritto mi raggiunga di sbieco attraverso i d overi altrui ? Sarebbe peggio che un'opportunità derisoria: sa­ rebbe un'assurdità! Io non ammetto di essere escluso perso­ nalmente dalla comunità giuridica e morale che abbraccia tutti i soggetti morali. Anche io, dopo tutto, sono un rappresentan-

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L'EVIDENZA MORALE

È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA

te della grande comunità umana. N on c'è motivo (in senso ra­ zionale) per scomunicarmi. Ebbene, qui occorre parlare davve­ ro di un mistero. . . Questa sconvolgente ineguaglianza che la ragione si rifiuta d i ammettere, il pessimismo morale la rende plausibile: il mio prossimo ha su di me tutti i diritti, e questi d iritti sono per me altrettanti d overi, senza che anch'io possa prevalerne, né dedurne direttamente i miei propri d iritti e la mia propria sfera d'azione; se i tuoi diritti disegnano in rilievo i mei doveri, la reciproca è lungi dall'essere vera e la proposi­ zione è ben lontana dall'essere reversibile: i tuoi d overi non sono

affatto automaticamente i miei diritti;

comunque non

spetta a me applicare a me stesso una simile regola. Tale è dunque la doppia paradossologia che g overna i diritti e i dove­ ri dell'uomo. Questo amore che ama

l'ominità

dell'uomo - e l'ama per amo­

re, non per ragione - che ama il genere umano come si ama qualcuno,

che

ama

inesplicabilmente la persona-in-generale,

che ama il genere umano incarnato nella persona e la persona estesa alle dimensioni dell'umanità, questo amore è evidente­ mente paradossale. P oiché sul pianeta non esistono altri sog­ getti morali oltre gli uomini, un amore filantropico è necessa­ riamente un amore ecumenico; e se nel cosmo ci fossero altri pianeti abitati oltre il globo terrestre, la filantropia si estende­ rebbe anche ad essi, e io incomincerei ad amarli fraternamen­ te. Ogni comunità, rinchiudendosi su se stessa, può diventare un clan in mezzo agli altri, una tribù fra le altre. Ma la "comunità" umana è per definizione un superlativo; essa è la più vasta che si possa concepire, e offre all'amore l'apertura massima, quella dell'universalità: giacché essa è onnilaterale e coestensiva al genere umano. E di genere umano ce n'è uno solo ! Qui è valida la legge del tutto-o-niente. L'universalismo è veramente universale solo a patto di non tollerare la minima eccezione. Non c'è nessun'altra eccezione che il tranne-me, l'in­ giustificabile eccezione a spese mie, il mistero impenetrabile del sacrificio !

È

questo, al tempo stesso, lo scandalo della teodicea

e l'aporia insolubile dell'antrop o dicea. Questa eccezione conferma misteriosamente l'universalità che dovrebbe l ogicamente contraddire. Tranne l'unica, paradossale, irrazionale eccezione

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della prima persona, l'universalismo non tollera alcuna ecce­ zione; e ciò per definizione: p oiché se nella pretesa universalità assoluta c'è un'eccezione, essa non è più universale, né lo è mai stata. Un'unica, minuscola eccezione, una soltanto e non più di una, basta ad aprire la p rima crepa dell'universalità: la minuscola eccezione è in effetti la crepa attraverso la quale la discriminazione razzista s'insinua dapprima in modo insidioso per poi riversarsi irresistibilmente; la fessura s occhiusa lascerà passare il torrente del razzismo abbietto.

È

quindi a priori, e

senza aver bis o gno di enumerare i casi particolari, che l'univer­ salismo morale esclude ogni discriminazione, dicendo "no" in anticipo a ogni embrionale

distinguo,

a ogni velleità discrimi­

natrice; su questo punto la più fugace eccezi one viene respinta come assurda e contro-natura; es



è un grave insulto all'uo­

mo, una minaccia mortale per tutti gli uomini. Anche presso gli esseri apparentemente convinti dell'uguale d ignità, confra­ ternità, concittadinità di tutti gli uomini, avviene che trapeli una sfumatura impercettibile di disprezzo, un'impalpabile diffe­ renza di trattamento: differenza tanto più urtante quanto più imponderabile e tanto più ingiuriosa quanto più si esprime in termini moderati. Una certa condiscendenza appena percettibile nel linguaggio o nelle maniere esprime a volte un razzismo in­ finitesimale molto più perfido e velenoso del razzismo grosso­ lano; la discriminazione razziale potrà presto d egenerare in se­ gregazione razzista. La minima riserva, una restrizione presso­ ché invisibile, una brevissima esitazione, o al contrario un'amabilità un p o' affrettata, una sollecitudine s ospetta, non s o quale premura esagerata c i procurano u n disagio inesplicabile; quelle persone condiscendenti s ono indubbiamente dei razzisti guariti male. . . E ci vien voglia di chiedere loro: a che scopo questo rilancio? Smettetela di affannarvi e di darvi tanto da fare: niente può sostituire la naturalezza e la spontaneità. La preferibilità incondizionata dell'altro in rapporto a me stes­ so si riassume in un primo paradosso che è anche il primo aspetto del disinteresse: l'abnegazione non ha né causa né mo­ tivazione razionale. Ma il per-questo fa così intimamente parte dei meccanis mi del pensiero e d ella spiegazione, che esso ri­ spunta, in una forma o nell'altra, per restituire un equilibrio

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L'EVIDENZA MORALE

È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA

rassicurante, offrire una compensazione, una legalità, un senso decifrabile ai movimenti gratuiti del cuore; la decisione del sa­ crificio non resterà a lungo immotivata, non reciproca e arbi­ traria.

Irresistibilmente il

nostro

incurabile

razionalismo,

o

piuttosto il nostro bisogno di intelligibilità, rigenera il legame causale che potrebbe giustificare, o almeno spiegare, l'amore senza cause: così difficilmente il nostro linguaggio rinuncia alla categoria della causalità! l . A una filantropia indeterminata, e in definitiva immotivata, alcuni preferirebbero forse una "filadelfia" fondata sulla consan­ guineità e su una solidarietà motivata molto vagamente: io amerei gli altri u o mini

perché

sono miei "congèneri"; perché

sono miei fratelli o cugini in umanità. La ragione dell'amore sarebbe dunque questa parentela biologica o generica! Ecco una ragione che ha tutta l'aria d'essere un pretesto . . . Ragione simbolica e piuttosto metaforica. Si dice: è la voce del sangue a parlarmi nella miseria dei miei simili, dei miei fratelli e sorel­ le, creature come me . . . Ma questo sangue non è il sangue delle pretese razze superiori, è il sangue della vita umana in genera­ le, è il sangue che scorre nelle vene di tutti gli uomini. No! Un tale amore non deve niente alla formula del sangue !

2. Ma la casualità , per far valere i suoi diritti, rispunta sotto un altro travestimento, ancor più sottile: noi ameremmo la persona amata

anche se non ne vale la pena, benché non ne precisamente perché non ne vale la pena, e soprattutto perché non ne vale la pena! Tuttavia, una causalità concessiva è pur sempre una causalità, e il benché equivale qui a un semplice perché invertito. Eccoci così rimandati alla sfida valga la pena, e

cinica! Mostrare di amare i più abominevoli furfanti per la ragione che non lo meritano, preferire a bella posta zsemplice i '

la furfanteria dei furfanti, preferire in virtù di una p redilezione sistematica gli e sseri più ripugnanti, per esempio un carnefice nazista, non è una forma d'amore gratuito: è esattamente il contrario; è al massimo un rilancio provocatorio, e più proba­ bilmente una vergognosa perversione.

3. Possiamo almeno dire: amo l'altro perché non è me pur es­ sendo come me? p erché è come me senza essere me? perché è il mio simile-diverso? In rapporto all'altro, il

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benché

e il

per-

ché

coincidono !

Questa interpretazione dialettica e riflessiva

degli ambigui rapporti fra identità e differenza potrebbe forse spiegare l'inesplicabilità dell'altruismo. Ma allora, perché l'a­ more? Il perché è di nuovo di troppo!

4. Vivere per l'altro, chiunque sia l'altro, e u nicamente perché esso è un altro - certo, quando è decisamente impossibile evi­ tare il perché, p ossiamo dirl o . . . giacché l'eziologia è dura a morire!

È

lo stesso disinteresse a diventare allora una motiva­

zione . . . la m otivazione di un altruismo immotivato e l'interesse di un amore disinteressato ; ed è infine la stessa gratuità a esse­ re diventata la risorsa di un'insolita specie di eziologia! in altri termini: è la stessa assenza di causa a valere qui come causa . . . Questa assenza d i causa p ossiamo chiamarla l'Altro, nome per così dire anonimo che implica un infinito rinvio, l'apertura sul­ l'avvenire e l'incognito: la causa sarebbe allora il fatto inespli­ cabile dell'alterità, o almeno la nuda alterità dell'altro. Resta però inteso che l'alterità non è di per sé una ragione per ama­ re; non è una ragione, e ancor meno un motivo! L'alterità del­ l'altro può essere per me altrettanto bene una ragione per te­ mere, o addirittura per odiare. Non esiste forse, dopo tutto, u n odio "disinteressato" ? A l limite estremo della gratuità, indub­ biamente non c'è nient'altro che il puro amore. Dobbiamo concludere: la prima persona si slancia verso l'altro con uno slancio preveniente, s pontaneo, che lungi dal farsi at­ trarre da un valore antecedente, fonda esso stesso questo valo­ re, indipendentemente da ogni considerazione utilitaria sociale, da ogni motivo razionale, da ogni preferibilità obiettivamente fondata : · fondatore in effetti è l'amore stesso, p o iché è esso la fonte zampillante di ogni legalità. Perché questo amore dell'u­ no per l'altro? Sì, perché ? Perché è l'uno, perché è l'altro; per­ ché è lei, perché sono io; Perché. . . perché . . . Questo caparbio

perché

non è evidentemente una ragione; né una relazione cau­

sale in cui la causa e l'effetto, ben distinti fra di loro, si artico­ lerebbero l'uno sull'altro logicamente e cronologicamente. Qui si comprende meglio come il

perché

rimandi a se stesso, come

la causalità si ripieghi su se stessa, come la causa ripeta se stessa nell'effetto: il rapporto circolare dall'effetto-causa alla causa-effetto è, se non proprio una tautologia, quanto meno una

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L'EVIDENZA MORALE È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA

circonferenza finalmente ridotta a un punto; l'antica teologia dava a questo punto il nome di

causa sui,

causa-di-sé, e vi

scorgeva il mistero centrale della creazione divina. Il

quatenus (in-quanto-che)

di cui parliamo qui è circolare co­

me la reciprocità causale. L'uomo dei diritti e d overi dell'uo­ mo, l'uomo dell'amore filantrop oico, è un uomo al di là dei

quatenus;

la sua d ignità di uomo egli non la p ossiede come un

privilegio speciale conferito al suo merito o come una distin­ zione accordata a titolo di ricompensa per servizi resi; le di­ stinzioni che sottolineano il discriminazione,

derivano

distinguo, dalla

simili in questo a ogni

pros opolessia;

e

anche

gli

"onori" vengono conferiti (o rifiutati) in funzione d ella proso­ polessia: ma l' "onore" di essere un uomo è onorifico soltanto per modo di dire; questo onore esclude qualunque prosopoles­ sia, e nessuno può rifiutarlo a un altro senza distruggere se stesso e senza ridiventare una bestia.

È

dossale, ossia conforme

al senso comune, amare il prossimo in quanto è questo o quel­ lo, e amarlo tanto più quanto maggiori sono i suoi meriti, e quanto più ricco di titoli è il suo stato di servizio; ma è para­ dossale amarlo senza riferimento ai suoi titoli e ai suoi meriti. Il paradosso risiede nell'amare l'uomo non già in quanto così o così, perché questo o perché quello, ebreo o greco, ma in quanto niente del tutto, o piuttosto senza nessuno in-quanto­

i ' �

che, ovvero - il che è lo stesso - nell'amare l'uomo in quanto uomo. Come la

Causa sui,

al di là della quale non è possibile

risalire, la circolarità annuncia qui l'ultimo ricorso e l'istanza suprema. Amare l'uomo senza

court

quatenus

vuoi dire amare

tout

e in modo assoluto, amare e basta.

Quando due uomini reciprocamente estranei e sconosciuti si incontrano nell'immensa solitudine di un deserto o nel silenzio

delle montagne, questi due solitari si guardano e si sa­ deterno i lutano; essi entrano in rapporto senza sentire il bisogno di pre­ l'sentarsi l'un l'altro; si stringono la mano senza altra forma di ! l '

r �i ; · ; l

protocollo. Sono soli nella natura ostile, ma si conoscono già,

pur non essendosi mai visti prima; si scambiano una prima pa­ rola e il vento, le rocce, la natura elementare rimandano loro

, ,

·i • ; : '

l'eco di questa parola. Essa è già di per sé un benvenuto. Tale è la parola che il viaggiatore solitario, perduto nella notte, ri-

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volge a un altro viaggiatore solitario; tale è la parola che al di là di ogni meschina prosopolessia l'uomo rivolge a un altro uomo sul cammino della vita. In un mondo inumano questo saluto attesta la fraternità di due volti e celebrerà l'incontro di due sguardi.

3. Vivere per l'altro, fino a morirne. Amore, dono e dovere. Al di là di ogni "hactenus".

Vivere-per-te allude implicitamente, in modo indiretto, alla possibilità della morte. Ma vivere-pe�te-fino-a-morirne, il se­ condo paradosso, evoca esplicitamente il sacrificio mortale e la propria morte. È un impegno che ci impegna, teoricamente, fi­ no all'ass oluto. Questo secondo paradosso mette in gioco il grado d'amore. È evidente che vivere fino a morirne non avrebbe senso se il vivente fosse imperituro per la sua costitu­ zione antologica, se esso fosse a priori incapace di morire (il che è assurdo) e, conseguentemente, condannato all'immortali­ tà obbligatoria: egli vivrebbe allora per i suoi fratelli senza sforzo, senza merito e senza rischi, e potrebbe votarsi a loro anima e corpo con la stessa facilità con cui respira; l'abnega­ zione sarebbe una funzione della vita, proprio come la circola­ zione del sangue nelle vene; il sacrificio sarebbe un atto sem­ plice come dire buon giorno, buona sera e buona notte. Le parole "sacrificio", "eroismo", "coraggio", "virtù", non avrebbero dunque più senso . . A meno che il supplizio della vita perpe­ tua, incomprensibilmente, non fosse appunto questa morte, questa tormentosa eternità, questa dannazione nella luce meri­ diana - questo inferno ! "Io muoio di non morire" diceva Santa Teresa. Noi diremmo, allora, come Emilia Makropulos, l'eroi­ na di Capek e di Janacek, condannata alla vita perpetua dal­ l'elisir di suo padre: "Siete fortunati, voialtri: state per morire". Ora l'uomo è un essere debole e vulnerabile nel quale la morte può entrare attraverso tutti gli interstizi dell'organismo, insi­ nuarsi nel più piccolo poro dei tessuti... Questa precarietà della vita umana si chiama finitezza. Ed è la sproporzione fra la fi.

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L'EVIDENZA MORALE

È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA

nitezza dell'essere e l'immensità del dovere ciò che spiega il se­ condo paradosso. C'è nella morte una dimensione che ci sfugge e ci sfuggerà sempre. Questa aporia ci rimanda alla misteriosa, insolubile contraddizione che oppone il pensiero e la morte: il pensiero ha ragione contro la morte giacché ne ha coscienza, ma la morte ha ragione del pensiero perché annienta l'essere pensan­ te. Un essere pensante-mortale, mortale in quanto essere, im­ mortale per il suo pensiero, non è in se stesso una specie di ibrido non vitale, un paradosso incarnato? Il pensiero, in una certa misura, ingloba la morte, ma il nulla opaco della morte ingloba l'essere pensante nella sua notte. Come spiegare questa reciprocità contraddittoria? E similmente neanche il dovere, il valore e l'azione morale si richiamano a un annientamento de­ finitivo, essi non dispongono di concetti, e neanche di un lin­ guaggio, per render conto di questo non-essere; conoscono sol­ tanto la pienezza e la continuazione indefinita dell'essere oltre la morte. E tuttavia l'agente, ossia il soggetto dell'azione, è de­ risoriamente mortale! Come può un essere finito, limitato nel tempo e nei suoi poteri, assumere un dovere infinito? Questo còmpito smisurato è un còmpito impossibile a priori, un peso che le spalle umane non possono reggere. N o, questo non è un programma realmente serio e realistico per gli uomini. L E sullo stesso slancio: come può un essere finito amare di un n! infinito? Si risponderà: gettando nell'amore tutte le sue jamore risorse .. Colui che ama senza riserve, intensamente, durevol­ l mente, instancabilmente, quegli ama forse alla follia, ma non certo all'infinito: poiché è soltanto un uomo ! E se diventa folle d'amore, è perché il suo cuore è troppo piccolo e stretto per un'ebbrezza infinita. Le risorse dell'amante, non sono forse li­ mitate? Si può morire d'amore, morire di amare . . . Colui che n,ama all'infinito incontra la morte sulla sua strada. L'amore è j forte come la morte: il che vuol dire che è al tempo stesso più forte e più debole - soprattutto più debole . . . giacché, in defi­ nitiva, l'amante non sopravviverà. L'ambiguità pende dal lato della miseria ... E infine: come può un essere finito darsi infinitamente? Dio, sì. Egli lo può. È in qualche modo la sua definizione secondo ' '

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Platino: l'Vno, ossia l'Assoluto, dona senza conteggiare: ciò che ha donato, egli lo possiede ancora - e'd è un paradosso; più dona, più è ricco - ed è un miracolo; un racconto di fate! La sua generosità è inesauribile. Egli è dunque al di là dell'al­ ternativa: come dire che ignora ogni meschinità, ogni penuria, ogni avarizia. Come Jean-Louis Chrétien ha m ostrato con s ot­ tigliezza, questa paradossologia ha quasi lo stesso senso nelle Enneadi e nel cristianesimo 4• Comunque sia, l'uomo non è Dio: ciò che egli ha dato, non lo possiede più: ciò che ha da­ to, ora gli manca: le sue imprudenti prodigalità devono essere prelevate o trattenute sul suo avere, sottratte al suo credito, dedotte dalle sue ricchezze. L'essere finito, sottomesso alle tri­ sti leggi della miseria e di una aritmetica spietata, sa di non poter contare né su un'eterna giovineiza né sul rinnovamento indefinito dei suoi tesori. Si dovrà rassegnare al razionamento; spia nell'angoscia il prosciugarsi delle sue risorse, il lacrimevole esaurimento delle sue forze vive. C'è tuttavia nel cuore dell'uomo un'ambizione morale che pro­ testa follemente, disperatamente contro l'evidenza della debo­ lezza e della finitezza. Sfidando ogni verosimiglianza, l'agente morale non esita a dichiarare: volere è potere. È un paradosso, o l'attesa di un miracolo che renda possibile l'impossibile? L'imperativo del sacrificio infinito e del disinteresse assoluto non riconosce in via di principio (ossia teoricamente) nessun limite, non ammette nessuna restrizione. Enunciando il primo paradosso (vivere per l'altro, ma senza morirne), dicemmo che la paradossia di questo paradosso consiste nell'esclusione di ogni "per questo", di ogni causalità o motivazione; il disinte­ resse filantropico volta le spalle alle parzialità e disprezza sia la prosopolessia che il folklore; il suo unico oggetto è l'austera nudità dell'uomo; in opposizione all'amore chiuso, che si com­ piace soltanto del giardino della sua piccola p arrocchia o della sua minuscola confraternita, il disinteresse filantropico è essen4. Jean-Louis Chrétien ci invita a distinguere una donazione veramente ge­ nerosa, che sacrifica il suo bene più prezioso, e una generosità in qualche modo indifferente che, come la diffusione della luce, è un irradiarsi imper­ turbabile e sovrabbondante, ma ignora la tragedia del sacrificio. (''Le Bien donne ce qu'il n'a pas", A rchives de ph ilosophie 1 9 80, t. 43, pp. 263-277).

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L'EVIDENZA MORALE È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA

zialmente l'amore aperto. Il secondo disinteresse è disinteressa­ to anzitutto in rapporto all'essere proprio del soggetto. Di qui la prova lacerante e spesso sanguinosa, di qui quell'iniziazione violenta che si chiama sacrificio . Il sacrificio non è semplice rinuncia a questo o a quello: è lo sradicamento di tutto l'essere dalla totalità del suo essere. Dire sì al non-essere, ecco Una de­ cisione inconcepibile che la volontà, in qualche modo, assume a volte estaticamente. Alla prima estasi, attraverso la quale l'io spalancava le porte del suo cuore e si espandeva estensivamen­ te fino ai confini dell'universo , contrapponiamo la seconda, at­ traverso la quale l'anima si svelle dolorosamente dai cardini del proprio essere. La generosità del primo disinteresse era quella di un cuore ecumenico che accoglie tutti gli uomini sen­ za chiedere loro il passaporto, dicendo loro: entrate tutti, nella mia casa c'è posto per tutti e che non conosce neppure l'uso della congiunzione quatenus. Per quanto invece riguarda il dis­ interesse lacerante, ciò che esso ignora è piuttosto l'avverbio hactenus, che significa: fin qui, ma non oltre; fino a questo punto, ma non più lontano. �

4. Tutto o niente (opzione), d al tutto al tutto (conversio­ ne), il tutto per tutto (sacrificio). C on tutta l'anima.

Le determinazioni circostanziali - grado o "percentuale", inten­ sità, durata, posologia e cronologia - alle quali si riferisce l'av­ verbio "hactenus", queste determinazioni e categorie, se si trat­ ta di morale, non hanno più corso; esse non hanno bisogno di 'essere . né specificate né stipulate: al contrario , una simile sti­ pulazione sarebbe alquanto offensiva e derisoria dal momento che sono in gioco l'imperativo categorico del dovere o l'esigen­ za imprescrittibile dell'amore. Noi diciamo: l'uomo è un essere finito sul quale incombe un còmpito infinito, e che ama il· suo, prossimo di un amore infinito. M ostriamo dunque come l'uo­ mo morale, obbedendo a questo imperativo radicale, si impegni nel tutto-o-niente, si converta dal tutto al tutto, giochi il tutto per tutto. � ; .

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La legge del tutto-o-niente, secondo lo Stoicismo, governa il regno delle virtù, che risiedono tutte in ognuna, e governa la stessa saggezza, che regna in questo reame. La legge estremista del tutto-o-niente ha come immediata conseguenza l'uguaglian­ za degli errori, che nei Paradoxa di Cicerone è il terzo dei sei "paradossi" storici: 'icra •à xa•op8roJ.W"ta. Un peccatuccio è un grande peccato, e viceversa: colpa veniale o colpa mortale, è sempre la stessa cosa; colui che è arrivato il più vicino possibi­ le allo scopo e colui che ne è rimasto più lontano, hanno mancato entrambi lo scopo: non c'è via di mezzo; si tròvano entrambi nella stessa barca. Tutta un'aritmetica stravagante, svalutatrice del progresso morale, gioca con l'intransigenza del tutto-o-niente: i rapporti fra il grande e il piccolo, fra il più e il meno, sono invertiti, rovesciati; le categorie di tempo, di spazio e di quantità sono messe sottosopra. M a il paradosso dell'uguaglianza delle colpè, . come il "contrappasso" delle Bea­ titudini nel Vangelo, può anche avere un significato intenziona­ le: giacché nel mondo delle intenzioni, del dovere e dell'amo re, questo paradosso, lungi dall'essere un gioco, è la verità quoti­ diana del nostro vissuto. Innanzi tutto, la grande legge sempli­ cista e semplificatrice del tutto-o-niente rende oziose e caduche le gradazioni del più-o-meno. Fin quando si tratta dei còmpiti, dei bisogni e della loro retribuzione, il poco e il molto posso­ no essere d osati, pesati, misurati, confrontati, scaglionati; ma rispetto a quel movimento del cuore, a quello slancio indiviso che chiamiamo intenzione, il poco e il molto appaiono equiva­ lenti o piuttosto indifferenti. Il principio del tutto-o-niente, di­ radando la quantità, annette importanza soltanto alla qualità intenzionale; per esso occorre prendere o lasciare! Esso non ha il tempo di pesare e soppesare i motivi, non si preoccupa di contare le gocce, i granelli e i centimetri. Non entra nei detta­ gli! In materia di posologia, si mostra splendidamente negli­ gente. N o n è uno speziale, ma un gran signore. Si attiene alle approssimazioni e alle grandi opzioni essenziali. L'intenzione amorosa, non è · forse sempre intera e completa? Sempre indivi­ sibile? Il principio del tutto-o-niente vuole sapere soltanto se il cuore c'è o non c'è. "Ama, et fac quod vis". N ell'estremismo del tutto-o-niente c'è dunque sempre un elemento manicheo .

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Ciò che qui è in questione è l'intrinseca purezza del movimen­ to intenzionale. Fénelon, fenomenologo avanti lettera, su que­ sto punto non transige: nel puro amore non c'è nessun miscu­ glio di interesse personale, o non è tale: la purissima purezza di questo amore-limite è necessariamente un superlativo assoluto di cui ci si può chiedere se l'uomo in genere, essere carnale, ottuso e sensuale, sia capace di provarlo in questo mondo: come un granello di polvere basta, secondo il Filebo, a far sì che la bianchezza assoluta tenda al grigio, così un milligram­ mo di sordida mercenarietà, un piccolissimo calcolo egoistico, un sospetto di interesse personale, un infinitesimale secondo fine bastano ad appannare questa trasparenza e questo disinte­ resse; del puro amore non resta niente - nient'altro che un'indefinibile mistura - : giacché la mescolanza del puro e dell'im­ puro è manifestamente impura; di colpo la goccia di ipocrisia ha fatto di questo beveraggio un veleno. L'uomo dunque può scegliere soltanto fra l'amore perfettamen­ te amoroso e l'ipocrisia. L'uomo frammentato e smarrito ha perduto il giusto mezzo. Una sola bollicina d'aria in quel bloc­ co di cristallo trasparente che si chiama amore, un solo errore, una minuscola opacità in quella trasparenza, un'ombra d'amor proprio in quella luce, la minima piega o la minima complica­ zione nella semplicità, la minima doppiezza in questa semplici­ tà - e il preteso amore non è più sincero (sine cera), ossia di buona lega. Appena uscito dalla semplicità, l'uomo frammen­ tato si è impantanato di colpo nella doppiezza. P oiché una piccola impurità è già una grande, una mortale impurità ... La più piccola riserva in questo campo, la restrizione più fuggitiva, proietta un grave dubbio sulla sincerità del sentimento: la ma­ nia del distinguo non è forse già il camuffamento di una reti­ icenza i sospetta e l'alibi di una cattiva volontà, di una volontà incrinata? Queste meschinerie e queste sottigliezze esprimono le precauzioni di un amatore piuttosto che gli slanci di un aman­ te appassionato. L'amore partitivo e parziale ama soltanto con una parte dell'anima così come le promesse verbali e superfi­ promettono a mezza voce . . . L'intransigenza amorosa è ca­ �ciali . ratteristica del dovere come dell'amore: amore e dovere non ammettono alcuna restrizione né di tempo né di luogo; né di .

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grado né di termine. In linea di princ1p10 o in teoria, ossia prescindendo dal problema di sapere se sia •possibile, l'amore e il dovere conoscono un solo grado: il superlativo; una sola grandezza: il massimo; una sola tendenza: l'estremismo. Questo impegno di tutta la persona nell'amore o nel sacrificio si attua nella forma, ancor più sorprendente, dell'iniziazione e della conversione: l'imperativo del tutto-o-niente diventa allora una conversione dal-tutto-al-tutto. In linea di massima e al li­ mite, il Bene riassume l'esigenza superlativa del dovere, così come l'amato incarna l'imperativo estremo, assolutista dell'a­ more; e gli altri valori hanno valore soltanto in rapporto al­ l'amato; senza di lui niente vale la pena. Egli, l'infinitamente esigente, esige che lo amiamo con tutto , il nostro cuore e non ' con un cuore diviso, non con un quarto (li cuore, con una sua sola orecchietta o un suo solo ventricolo. Ma possiamo davve­ ro parlare di un rapporto dell'amante con l'ass oluto? L'idea del rapporto implica il punto di vista, ossia l'unilateralità del qua­ tenus o dello hactenus. La conversione dell'anima totale, p re,. dicata da Platone nel settimo libro della Repubblica, e succes­ sivamente da Platino, più che istituire un rapporto unilaterale o partitivo, suggerisce un'identificazione essenziale: lo stesso Vangelo conferma la parola tante volte pronunciata nel Deute­ ronomio, e che esso considera come il primo comandamento di tutta la Legge. Bergson ne rinnova il senso quando nel pa­ radosso della libertà ritrova questa relazione irrelativa della coscienza con se stessa. L'avvento rivoluzionario di una vita nuova implica il rinnegamento della vecchia, e anzi fa tutt'uno con questo rinnegamento . Il prigioniero non volge verso la lu­ ce del sole s oltanto il suo sguardo, soltanto la sua testa, ma tutto il suo corpo; e non si gira soltanto di qualche grado o di un angolo acuto, come il membro di una setta che diverga un poco dagli altri membri di essa, ma fa una giravolta e un voi- · tafaccia completi, e prende la direzione diametralmente oppo­ sta: è una virata radicale; né si limita a recitare, come un fan­ farone che immagina di essere a teatro, grida "bravo !" e "avanti!" e poi, dopo aver reso omaggio con una grande scap­ pellata alle verità immortali, resta immobile, inchiodato al suo­ lo come un paletto - ma, facendo seguire l'atto al proposito, si

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alza davvero in piedi e avanza effettivamente verso la grande luce, incontro ai pericoli e al cospetto della verità: non si ac­ contenta di dire che cosa farà, alle calende greche o in una se­ conda vita, ma semplicemente lo fa, seduta stante. Analoga­ mente, l'uomo appassionato della verità si converte a questa verità, e si converte di una conversione (èmcr-rpocpt1) che è in­ versione radicale, o meglio inversione dal tutto al tutto, che è insomma accesso alla vita nova: questa nuova vita, egli non la sfiora con un bacio frettoloso e negligente, ma la adotta e la abbraccia come si abbraccia la sposa. Giacché tale è la diffe­ renza fra l'amatore frettoloso e l'amante appassionato! Il pri­ gioniero liberato non si converte al Bene con un piccolo frammento del suo spirito, come, ad esempio, la conoscenza, o a fortiori con una particella di questo frammento, come il ra­ gionamento, ma con tutta la sua anima, !;uv oÀ.lJ -rij 'l'uxfj s, con H tutta l'estensione del suo sapere, con tutta la tensione della sua volontà, con tutte le forze del suo potere, con tutte le fibre della sua sensibilità. In una parola: con tutta l'anima e con ' .t tutto l'essere. "Con tutta l'anima ": tali sono le parole platoni­ f' con cui Gabrielle Ferrières conclude il libro da lei dedicato che a! suo fratello Jean Cavaillès, "filosofo e combattente". l ' Se i lo traduciamo nelle categorie della quantità o della tempo­ l ralità, il paradosso m orale appare ancora più radicale. Il prin­ i cipio ! t del tutto-o-niente e la svalutazione del progresso graduale L erano per gli stoici un solo e identico paradosso. Quando si l··..r' ': tratta di bisogni materiali, la volontà gradua, dosa e fraziona il (: t:. .:! sforzo in funzione delle circostanze, delle possibilità fisiche suo H e dell'impiego del tempo: le mezze misure, il lavoro a metà tempo, i compromessi e i distinguo, - ecco il suo pane quoti­ li \ �q ·: diano; nell'orario giornaliero, un còmpito succede all'altro; il f.l i lavoro si presta agevolmente all'intermittenza e alla periodicità: giacché esso è sempre quantificabile; in questo campo l'unico scopo è il rendimento e l'unica legge è l'economia. Ma tutti questi concetti, quando si tratta dell'obbligazione morale, di­ l' f ventano derisori. Essi bastano, tuttavia, a coloro che Kierke­ l f! gaard chiamava i cristiani della domenica mattina . . . Una volta 11

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. j i Resp. , VII 5 1 8 5.

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Cfr. IV,

436 b. ARISTOTELE, Eth. Nic. IX.

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alla settimana: non è forse una periodicità delle più ragionevoli e una promessa di equilibrio per la gentilezza benpensante? Ma, per l'appunto, le soddisfazioni procurate da una buona media giornaliera alla buona coscienza soddisfatta e benpen­ sante sprigionano un forte odore di ipocrisia, ossia di muffa; e non hanno con la virtù più rapporto di quanto non ne abbia con l'ascetismo una ginnastica ben temperata. Quando l'uomo del dovere è l'uomo di un'obbligazione delimitata, cronometri­ ca e amministrativa, si può immaginare che egli, in questo o quell'altro momento, decreterà: basta così! Fin qui, ma nori ol­ tre! Giacché, varcato un certo limite, l'uomo di un simile do­ vere non è più in debito e il responsabile non ha più alcuna responsabilità; per la sua rigidezza, o quanto meno per il suo rigore, può sembrare che l'obbligazione chiusa sia compatibile con una simile suddivisione. Ma il dovere morale non lo è, e an­ cor meno lo è l'amore! Il nost{o prossimo vuole essere amato il più durevolmente, fedelmente e intensamente possibile, per quanto lo consentano le risorse e le forze dell'amante; e anche al di là di quelle risorse e di quelle forze! Un amore che piani­ fichi in anticipo il suo progetto e i suoi progressi amorosi, che ami l'amato a partire da questo o quel grado fino a un certo punto (!), ossia che cessi di amare al di là di quel punto, un tale amore fa solo mostra di amare, e dunque non ama nessu­ no; costui è necessariamente un'anima tiepida e di poca fede. Come qualificare l'amante frettoloso che, avendo stasera un appuntamento con l'amata, annuncia in anticipo: la aspetterò fino alle 10, ma non oltre? Colui che, vivendo l'eterno presente del suo amore, si pone subito al di fuori e allegramente si prefigura la propria disaffezione, non è un amante sincero. L'amante appassionato, situato nel cuore di quell'eterno presente il cui centro è dappertutto e la circonferenza in nessun luogo, aspetterebbe piuttosto, se fosse necessario, fino alla fine del mondo, e, se p otesse, anche al di là della fine dei tempi. La sua pazienza è infinita. Egli non sa che cos'è un rinvio. Non guarda l'orologio, l'amante appassionato. L'amore non conta né i centimetri né i minuti; non lesina né mercanteggia. Tolstoj lo sa altrettanto bene che Kierkegaard: essere un cristiano del­ la domenica - della domenica mattina fra le I l e mezzogiorno

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- è soltanto l'ambizione dei borghesi della parrocchia. Ma Leo­ ne Tolstoj non rinunciò a diventare un cristiano della vita cristiana, ossia un cristiano della continuità cristiana... Siano santificati e benedetti non soltanto i giorni feriali, ma tutti i giorni lavorativi, e tutte le ore di ogni giorno, e ogni minuto di ogni ora, e ogni istante di ogni minuto; che tutta la vita nella sua pienezza e nei più umili particolari della sua durata sia una festa perpetua; che la temporalità sia tutta festiva nella sua quotidianità e fin dentro l'infinita piccolezza dei pasti giornalieri, fin dentro il vuoto del sonno! Contrariamente ad Aristotele, Tolstoj avrebbe ammesso volentieri una santifica­ zione dell'incoscienza notturna e dell'innocenza infantile. Orbe­ ne, una festa continua è spossante, e una santificazione di tutti gli istanti è chimerica; e la disperazione di Tolstoj è perciò straziante. Tolstoj non si affida ai metodi della Philocafia 6 per assumere nel suo cuore la serenità e la continuità della pre­ ghiera ininterrotta. L'estremismo è sistematico per professione, ma l'amore e il dovere sono estremi per vocazione. L'estremismo professionale si insedia borghesemente nei suoi eccessi, come se ne facessero commercio, ma l'amore estremo guarda l'orizzonte e, al di là dello stesso orizzonte (ÈnÉxctva), verso l'infinito . . . E Platone dice, dal suo canto, che il Bene non soltanto ci presentifica (napdvat) la conoscenza dei conoscibili, ma che esso, per giunta, fa essere (npocrdvat) i conoscibili conferendo loro l'es­ sere e, con l'essere, l'essenza di questo essere ('tò dvai 'tE xai 'tTJV o òcriav) , giacché il Bene stesso , per la sua dignità morale e la sua potenza creatrice, è infinitamente al di là dell'essenza (ÈnÉxnva Tfjç oùcriac; npw�dq. xai òuvptxovwc; 7). lperbole demoniaca, grida Gualcone nel sesto libro della Repubblica invocando Apollo dio del sole. Ma questa esclamazione non è soltanto umoristica, p oiché Platone, in quello stes,.. s o sesto libro, istituisce la corrispondenza analogica fra il sole

6. Cfr. in particolare SYMEON "Le nouveau théologien", in Petite philocalie · de la prière du coeur, éd. J. Gouillard, Cahier du Sud, pp. 173- 1 74 e pp. 1 1 8, 1 36. 7. Resp., VI, 509 b.

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75

e il Bene, fra la luce e la verità: almeno su questo punto, Pla­ tone non si associa affatto alla condann.a della dismisura (u �p tç), condanna in cui concordano unanimemente la trage­ dia attica, la poesia gnomica e la saggezza greca in generale: ma la mediocre dismisura dei tiranni non ha niente in comune con la divina iperbole platonica . . . Platone, in questo, sarebbe egli stesso il primo dei neoplatonici, o piuttosto degli ultra-pla­ tonici, giacché egli ci rimanda, come Platino 8, a una trascen­ denza sovraessenziale (ònsp6vtroç a(rc6ç); e Platino dice anco­ ra: il Bene è più che bello (onÉp:xaÀoç) e regna nel mondo in­ telligibile al di là delle cose più eccelse (I:nhcwa 'tWV àpicnrov �acrtÀ�::orov f:v •0 VOTJ't0 9 ) . Tentando di esprimere l'inesprimibi­ le, la teologia negativa dello Pseudo-Dionigi imboccherà la strada paradossologica della contraddizione e ci parlerà del te­ nebroso raggio della superessenza divina, e addirittura (qui la contraddizione si sdoppia con p oetica incoerenza) ci lascia in­ travedere la Tenebra ultraluminosa del silenzio . È così che Ni­ cola Cusano, teorico della dotta ignoranza, ci propone una col incidenza dei contrari: l'identità del Massimo e del Minimo è allora incomprensibilmente compresa! . Tra la finitezza di un potere limitato dalla morte e l'insormon­ tabile infinità del dovere morale o dell'amore, la paradossale contraddizione si acuisce fino al parossismo dell'assurdo e del­ l'insostenibile. È dunque nel percorso della temporalità e al termine di questo percorso che la vocazione infinita dell'uomo incontra il muro opaco della morte e della finitezza. Il dovere morale ci detta un compito estenuante perché inesauribile, il do­ vere esige una tensione e una volontà instancabili a misura di uno sforzo sempre ripreso e sempre incompiuto. Il dovere, come tale, non tiene conto della morte. Fra il dovere e il pote­ re c'è una sproporzione che il volere cerca follemente di com­ pensare: l'esistenza morale, proprio in virtù di questa infinita disparità, sarà sempre controvertibile. Così le religioni fanno del loro meglio per adattare a un impiego del tempo gli obbli­ ghi e le pratiche dei loro fedeli. Hactenus! diciamo parlando il 8. Enn. , I, 7,

1:

vorjcrEcoç. Cfr. I, 6 , 9

È1tÉXEtva Tffiv ovnov,. ..

e V I , 8, 1 4.

9. Enn. , I, 8, 2.

76

oùcriaç,...

ÈvEpyEiaç, ...

voli, . . .

L'EVIDENZA MORALE

È AL TEMPO STESSO EQUIVOCA E UNIVOCA

linguaggio di una coscienza economizzatrice delle sue risorse e delle sue forze. Fin qui, ma non oltre ! Ecco la decisione arbi­ traria del sa,ggio e del prudente gestore del dovere chiuso. Hactenus appartiene in effetti al vocabolario delle società commerciali e dei commercianti avvezzi a mercanteggiare. Il lavoratore coscienzioso, per rassicurarsi, mostra di non scorge­ re nessuna differenza fra il dovere, che è infinito , e i bisogni che possiamo programmare o graduare. Ma il dovere non è un bisogno. Qui occorre scegliere fra tutto e niente. A maggior ragione, il dovere che incombe su di me in nome dei valori in­ temporali non tiene conto della morte, ossia dell'ostacolo per eccellenza: giacché la morte, a prima vista, somiglia a una con­ tingenza fisica e letteralmente indifferente; la morte, contingen­ za naturale, pone fine di colpo nel tempo, e senza nessun'altra spiegazione, al progetto infinito della volontà morale; mentre al contrario il d overe, esigenza ideale, ignora a buon diritto quella cieca limitazione che la morte impone di fatto alla no­ stra vocazione; il dovere ci offre lavoro per l'eternità! Il suo compito non è di metterei in guardia contro il pericolo di esaurimento e di morte. Ma se la legislazione morale, se i va­ lori morali sono eterni, come può essere che il portatore di questi valori, il soggetto di questa legge, sia mortale? Comun­ que sia, precisiamo: la stessa morte non è un mero accidente empirico, un impedimento fortuito; la morte è il nostro desti­ no; ... un destino che non ci destina a niente, che ci destina a qualcosa di inconoscibile, e che crediamo di intravedere chiamandolo destin o. La morte è un mistero, il nostro misterioso destino; l'incomprensibile collisione di un dovere infinito e di una morte assurda è indubbiamente, in qualche modo, la sub limità del sacrificio. M a se lo hactenus è già sordido e meschino quando costituisce la legge di una coscienza economa sempre ansiosa di regolare il proprio lavoro e sempre incline a scioperare e a mercanteg­ giare il suo sforzo, esso è a maggior ragione una buffonata quando l'amore lo applica a se stesso . . . Di più: hactenus è una scusa e un pretesto della malafede. Questo fin qui è infatti un sofisma spaziale. L'amore - quello, naturalmente, che è "figlio di Boheme" - ha come sola legge la spontaneità; la spontaneità

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e la generosità inesauribile; e, bizzarramente associato a questa generosità, il desiderio insaziabile. Così come l'essere non im­ plica analiticamente la cessazione dell'essere (giacché non v'è alcuna ragione, al di fuori della violenza, per cui l'essere debba cessare di essere !), anche il fatto di disamare non è mai impli­ cato direttamente nell'amore; l'amore puro non trova in sé e d a sé la ragione di disinnamorarsi: esso trova questa ragione in fattori estrinseci. Tuttavia, precisiamo: c'è una grande diffe­ renza fra la continuazione dell'essere e uno slancio d'amore; l'essere è tenace, l'amore è vivace. Più semplicemente: l'essere è indistruttibile; l'annientamento dell'essere-in-generale è un non­ senso e una contraddizione, ed è assurdo pretendere di conce­ pirla; l'essere , essendo intemporale, non implica, ma al contra­ rio esclude a priori e logicamente la negatività del non-essere e della morte; l'essere, per perseverare nel suo essere, ossia per ' "conservarsi", non ha bisogno di sforzi: gli basta il principio di identità; al nulla esso oppone staticamente la sua indistruttibile pienezza in atto e la sua inespugnabile inerzia: giacché l'essere non chiede altro, nella sua "tautousia", che di continuare a es­ sere. Là dove c'è l'essere, non c'è posto per il non-essere: così esige l'assurdità della contraddizione . . . Ma è, se non contrad­ dittorio, almeno contro natura che un amore sincero consideri freddamente la sua futura disaffezione: questo rinnegamento non è tanto un'assurdità quanto uno scandalo! Volto verso la pienezza della positività vitale, verso l'affermazione e la perpe­ tuazione della vita, l'amore protesta violentemente, disperata­ mente, contro ciò che lo rinnega; l'amore si aggrappa all'esi­ stenza con tutte le sue forze: · giacché il suo cosiddetto dina­ mismo non ha alcun limite; l'essere nega la negazione chiamata non-essere, ma l'amore, appassionatamente, rifiuta l'odio an­ nientatore. Esso non vuole morire. Scalpita dunque per l'impa­ zienza. Affronta la morte fino al punto di andare incontro, per sfidarla, alla propria perdizione. O più precisamente: l'amore si rivolta contro lo scandalo della morte e contro la minaccia che la morte fa pesare sull'essere amato, ma tuttavia lo slancio del­ l'amore non è in effetti abbastanza impetuoso da oltrepassare la morte. L'amore è più forte della morte, ma la morte è più forte dell'amore: l'amore e la morte non sono dunque ugual-

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mente forti - poiché essi sarebbero allora in equilibrio e si neu­ tralizzerebbero a vicenda, ma più forti l'uno dell'altro - il che è contraddittorio e genera una situazione instabile e lacerata, drammatica e letteralmente insolubile; non già, propriamente parlando, una situazione dialettica, ma piuttosto una specie di reciprocità incomprensibile; un'alternanza convulsiva ed esaspe­ rata; un conflitto appassionato portato al parossismo della ten­ sione: l'amante muore d'amore, ma l'amore trionfa soccom­ bendo. L'amore e la morte tirano ognuno dalla sua parte la nostra carne squarciata e palpitante. L'amore non detiene il potere magico di strappare l'anima agli artigli della morte, ma soprattutto non immunizza l'amante contro l'esaurimento e ne­ anche contro la semplice stanchezza. La sua onnipotenza è dunque abbastanza metaforica. L'amore è al tempo stesso più forte e più debole della morte. Quale dei due avrà l'ultima pa­ rola? E c'è soltanto un'ultima parola? Può darsi che la parola della fine sia all'infinito la penultima. . . I poeti e i mistici si fermano a volte a questa interrogazione, che è anche una spe­ ranza, e che ci addita un orizzonte lontano. Certo il dato della finitezza è lì, e questo dato prima o poi lascerà che avvenga il letale avvenire. Ma il differimento sempre possibile della morte e l'indeterminatezza della fatidica data sembrano mantenere, se non eternamente aperte, almeno indefinitamente s occhiuse le porte della sopravvivenza e il cammino dell'amore. Mors certa, Hora incerta: tale è la formula della semiapertura . . . Il Quod resta socchiuso; e questa umile possibilità basta e far sì che l'amore agisca come se la necessità di morire non fosse an­ ch'essa certa: l'indeterminatezza della data stinge sulla quoddi­ tà. L'amore utilizza innocentemente questa ambiguità e la se­ mi-indeterminatezza che ne deriva. La possibilità di un aggior­ namento sine die non autorizza forse le più folli speranze? Niente è perduto o consumato fin quando il giorno e l'ora re­ stano sospesi . . . I l dovere e l'amore sono dunque, almeno a questo riguardo , analoghi e confrontabili: essi vogliono sempre più di quel che vogliono, essi vogliono sempre qualche altra cosa. E poiché .n· niente li soddisfa, si è tentati di dire: essi non sanno quello che (vogliono. i 1 . .

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Applichiamo adesso al dovere, e soprattutto all'amore, la pa­ radossologia dell'iperbole divina. Un amore• che decidesse in anticipo di "tagliare i fondi", qualunque cosa accada, in questo o quell'altro momento, non è affatto amore: è un calcolo sor­ dido e una contraffazione disgustosa. Chi può mai dire: è troppo, o: basta cosi ? Il motto dell'amore è al contrario: Mai abbastanza! "fermarsi ... " Ma con quale diritto, dì grazia? L'a­ more stesso non ci ha mai detto se convenga fermarsi, né quando occorra fermarsi, in quale momento, in quale ora e in quale punto, e perché in quel momento piuttosto che in quel­ l'altro, e a partire da quale grado di fervore sia preferibile in­ terrompere il crescendo amoroso . Fermarsi? Ma non bisogna fermarsi mai! Neanche per respirare, neanche per sopravvive­ re . . . Cessare di amare è un delitto. L'amore ignora le due pa­ role ùv6.yxT) cn:fjvat, due parole che sulla bocca di un innamo­ rato sarebbero le parole dell'abdicazione; egli non può ammet­ tere esplicitamente la necessità di fermarsi, e neanche ne tiene conto. Quantunque prima o poi sia necessario (abbassando gli occhi) fermarsi, la determinazione anticipata e univoca di un massimo, da parte dell'uomo troppo frettoloso, è un indizio di cattiva volontà; una propensione clandestina alla disfatta; una capitolazione. Il testimone e lo spettatore - sociologo, educato­ re responsabile o terapeuta - hanno indubbiamente il diritto e persino il dovere di predicare la "moderazione", nella misura in cui essi si p ongono come terzi in rapporto al conflitto dei doveri; ma nella misura in cui io stesso sono impegnato in pieno nel conflitto, e proprio io in persona sono l'agente mora" le, ma devo usurpare l'ottica dell'arbitro. La sola misura dell'amore, diceva sant'Agostino, è di amare senza misura; meglio ancora: a costituire la misura è la stessa assenza di misura. Applicato all'amore, il J.lTJÒÈv ayav di Solo­ ne e di Teognide è una beffa; occorre dire piuttosto: mai ab­ bastanza, mai troppo ! sempre di più ! I saggi e gli gnomici non se ne adontino, ma la parola "eccesso" non ha senso quando si tratta d'amore: come l'amore, l'imperativo morale trabocca in­ definitamente dalla sua letteralità attuale. Quando dunque si tratta d'amore, la dismisura non può essere l'oggetto di un di­ vieto. Ed è per questo che la fobia di un amore "smodato"

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implica già una restrizione ingiuriosa, un'avarizia ridicola, una specie di sordità da speziale. A partire dal momento in cui l'amore deve essere dosato, esso non è più un imperativo ani­ patetico, ma una prescrizione condizionata; non è più la legge morale, ma dipende, come i farmaci prescritti mediante ricetta, dalla sua posologia. In materia d'amore la domanda "quante gocce" non ha senso, e. le prescrizioni quantitative in genere sono del tutto oziose. Syméon, il mistico già citato, dice della preghiera ciò che noi diciamo dell'amore: "N o n vi mettete in testa di aver superato il limite della stanchezza, e di potervi sottrarre alla preghiera Io Le parole stanchezza, eccesso, ol­ tranza qui non hanno corso: l'amore le abbandona alla pavidi­ tà piccolo-borghese; esso non teme di superare la misura o di infrangere un limite: il limite indietreggia progressivamente da­ vanti al suo slancio. L'impetus amoroso non vuol saperne del regolatore che al momento giusto potrebbe compensare i suoi straripamenti; la sua unica legge è il sempre-di-più, che si esal­ ta e si inebria da solo, come un furore sacro: la sua sola legge è il crescendo frenetico e l'accelerando, e il precipitando che arriva alla vertigine, e infine rischia di far saltare tutto . Infatti il sempre-di-più non può estendersi all'infinito, poiché l'amore infinito, con la sua abnegazione infinita, ha come sog­ getto, necessariamente, un essere finito: molto prima di aver raggiunto il limite estremo dell'abnegazione, l'essere dell'aman­ te è già annientato; la morte, che è il termine ultimo della mortificazione, ha immolato l'amante, e con l'amante anche l'amore. Per parlare il linguaggio paradossale della prima lettera ai Corinzi: la saggezza del mondo è follia per Dio e viceversa: 'tÒ J.u.opòv 'toli 8wu ao