Il mito greco nell'opera di Pasolini 8884202302, 9788884202307


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Italian Pages 208 [194] Year 2004

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Il mito greco nell'opera di Pasolini
 8884202302, 9788884202307

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Atti del Convegno ‘Il mito greco nell’opera di Pasolini’ (Udine-Casarsa della Delizia, 24-26 ottobre 2002).

La presente pubblicazione è stata realizzata con il sostegno di Università degli Studi di Udine Comune di Casarsa della Delizia Fondazione Cassa di Risparmio di Udine e Pordenone

Progetto grafico della copertina cdm/associati

© Forum Editrice Universitaria Udinese Srl Via Palladio, 8 33100 Udine – Tel. 0432.26001 www.forumeditrice.it

Udine, 2004

ISBN 88-8420-230-2

A CURA DI ELENA FABBRO

IL MITO GRECO NELL’OPERA DI PASOLINI

FORUM

INDICE

Tavola delle sigle

pag.

7

»

9

»

13

Anna Panicali Il teatro di parola mito e rito

»

43

Laura Vitali La colpll, il sacn/icio tmgico di Pasoli//1

»

55

»

69

Premessa

IDEA DEL TRACLCU: lDEOLOC;IA E POCTICA

Gualtiero De Sami

Mito e tragico in Pasolini

Luca D'Ascia Poeta zn un'et,ì dz della tragedia

pc111n·i11

Pier Paolo Pasolm1 ili l'>6 . Il ritorno alla tragedia greca, del resto, non poteva essere imitazione neo-

5

6

Ivi, pp. 148-149 [SLA, II, pp. 2498-2499]. Ivi, p. 136 [SLA, II, 2484].

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classica: la sua dimensione inattuale doveva apparire esplicita e cosciente7. Il teatro pasoliniano è caratterizzato dalla rottura costante della finzione scenica. La forma più evidente di Ent/remdung è il commento scenico esplicito agli eventi drammatici. Di tale commento si fanno carico personaggi simbolici come lo speaker di Calder6n, l'ombra di Sofocle (A/fabulazione) e il filosofo Spinoza (Porcile), proiezioni della coscienza culturale del drammaturgo. Spinoza, in particolare, svolge una funzione essenziale nell'architettura di Porcile. È lui a riconoscere una forma di amor mistico nella passione di Julian per i maiali. Lo spettatore viene così a conoscenza del paradigma mitico (il sacrificio di Dioniso, il dio smembrato) che soggiace alla tematica contemporanea (la mancanza di comunicazione nella Germania postnazista, posta in evidenza da una specie di teatro dell'assurdo). Questo paradigma fa sì che Porcile trascenda il dramm a per tornare trage dia: l"eroe' Julian è ancora una volta 'maschera di Dioniso' in un mito moderno brutalrnente decontestualizzato. Sopprimendo nel film il personaggio simbolico di Spinoza, Pasolini condanna la versione cinematografica (in antitesi a quella teatrale) a restare aneddotica. D'altro canto, la scenografia del 'teatro di parola' si sforza di evocare la tradizione iconografica classica e moderna con artifici illusionistici. I personaggi del dramma Calder6n, ispirato da La vida es suefio, riproducono la distribuzione spaziale delle figure de Las meninas. La citazione figurativa assicura una specie di 'transistoricità' ai personaggi contemporanei di un dramma ambientato nella Spagna franchista, che si riflettono negli sdoppiamenti ambigui e barocchi del celebre quadro di Velazquez. Vi è però un terzo elemento che, più di ogni altro, trasforma la restaurazione della forma tragica in esperimento di taglio avanguardista: l'impiego straniante del principio di ripetizione. In Calder6n la stessa azione drammatica (l'incesto, proibito da una provvidenziale agnizione) si ripete tre volte con personaggi diversi e in un ambiente diverso. Le azioni si riducono a varianti stilistiche di una stessa struttura fondamentale: il risveglio nel reale e la presa di coscienza che questa realtà convenzionale, con il suo tessuto di automatismi, costituisce un tradimento al sogno regressivo con i suoi ricordi utopici. Il riferimento (autodistruttivo) alla realtà del sogno viene ad essere, così, la sola opposizione possibile alla logica regia del potere e del suo buiiuelesco rappresentante, Basilio. La possibilità e addirittura la necessità della ripetizione (tutto avviene più di una volta sotto vesti diverse e con diverse motivazioni) assume in 7

Quanto esposto in seguito si accorda con le considerazioni di L. VITALI, Il personaggio femminile) la (dissoluzione) del personaggio e il recupero del tragico nel teatro e nel cinema di Pasolini, in «Quaderni del '900», 1 (2001), pp. 87-102, secondo cui si può effettivamente parlare di forma tragica nel senso dell'immobilità e dello sdoppiamento determinati dalla soggezione del personaggio al Destino-Potere.

POETA IN UN'ETÀ DI PENURIA

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Pasolini un significato preciso: l'aneddoto drammatico diventa evento tragico grazie alla ripetizione scenica, che lo ritualizza come è proprio del mito. Il carattere artificioso di questo procedimento, che ostacola la progressione della/abula e la comprensione dello spettatore, esclude in partenza un'interpretazione convenzionalmente naturalista della realtà rappresentata. Gli stilemi metateatrali del 'teatro di parola', insomma, garantiscono una fusione di classicità e di avanguardia adatta alla natura complessa del fenomeno mitico. L'esperienza drammaturgica del 'teatro di parola' permise a Pasolini di definire un insieme di mezzi stilistici che trovarono la loro applicazione più felice in film come Edipo e Medea. D 'altra parte, la transizione dal teatro al cinema significò in questo caso (a differenza di Porcile) un autentico salto di qualità. Per innalzarsi alla dimensione mitica, Pasolini doveva prendere le distanze dalle limitazioni del linguaggio simbolico (che continuava ad essere la base della sua concezione del dramma, dal momento che rifiutava espressamente il «teatro del gesto e del grido»). Lo strumento di questa emancipazione fu l'iconismo, l'energia primitiva dell'immagine che sostituisce quasi del tutto la parola in uno stile cinematografico singolarmente arcaico. Il cinema, secondo Pasolini, era «la ]lingua scritta della realtà». La realtà, in altre parole, si configurava ai suoi occhi quale flusso continuo di immagini dalle molteplici connotazioni culturali e artistiche, che non potevano essere rappresentate se non per mezzo di sé stesse. Il cinema, come forma estetica, sopprimeva il dualismo saussureano di rappresentante e rappresentato. Il dualismo semiotico fondamentale (assenza del significato in presenza del segno) diventava coesistenza di passato e presente all'iJr1terno della stessa immagine, realistica, ma anche complessa ed eterogenea (cosll come, nella Medea, l'esterno della rocca di Corinto coincide con l'interno del Camposanto di Pisa). In altre parole, per Pasolini il linguaggio delle immagini era intrinsecamente mitico8• Tale linguaggio coincideva con un certo tipo di linguaggio filmico: il 'cinema di poesia' liberato dalle pastoie del racconto cinematografico tradizionale. Pasolini riconobbe e rivendicò la sua passione per questo tipo arcaico di 'semiotica realista', alternativa utopica al convenzionalismo della parola e del concetto: ecco, a questo punto si può indovinare il rapporto della mia nozione grammaticale del cinema con quella che è, o almeno io credo essere, la mia filosofia, o il

8

Coincideva, inoltre, con la semiologia regressiva del sogno individuata da Freud e sviluppata, con più decisa insistenza sulla dimensiol[le linguistica dell'inconscio, da Lacan: cfr. F.

Il cinema per Pasolini e la psicanalisi per Freud: l'approdo di una comune necessità linguistica, ivi, pp. 21-30. CRISPINO,

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mio modo di vivere: che non mi sembra altro, poi, che un allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà. Religioso in quanto si fonda in qualche modo, per analogia, su una sorta di immenso feticismo sessuale9.

Il regista italiano venne cercando nel cinema un vero e proprio 'barbarismo formale' di tradizione decadente, che gli permetteva di avvicinarsi a un mondo mitico ormai irraggiungibile per la letteratura (incluso il teatro) e per l'ideologia. La modernità estrema della tecnica cinematografica diventava regressione. Il barbarismo della forma, in Medea e in Edipo re, corrisponde a un relativo barbarismo del contenuto. La regressione desiderata da Pasolini implicava l' evocazione del sostrato mitico e rituale anteriore ali' origine della fabula tragica. Per attualizzare la tragedia senza narcisismo neoclassico né nostalgie romantiche, il regista italiano doveva andare oltre la forma discorsiva codificata dai drammaturghi ateniesi. Doveva identificare il conflitto tragico con una forma di «disagio nella civiltà» (S. Freud) tipica dell'individuo borghese. Occorreva esprimere la fragilità della coscienza e del controllo razionale ottenuto occultando la dinamica del desiderio e la sua espressione indiretta nell'immaginario. L'equilibrio garantito dalla repressione e dalla rimozione poteva rompersi da un momento all'altro in seguito a un ritorno del represso. Il sogno regressivo segna una cesura. Tale cesura può rappresentare l'inizio di un processo autodistruttivo: attivismo artistico d'avanguardia, perversione erotica, ricerca 'nirvanica' della santità come forme diverse di una stessa volontà di sacrificio, rifiuto di una individualità alienata e inautentica. Questa problematica psicoanaliticR, presente in Teorema e in Edipo re, si fondeva con una problematica antropologica ed etnologica. Oggetto di repressione e soggetto di regresso onirico eira la sacralità di una società primitiva, oscuramente conservata nell'inconscio degli individui 'civilizzati'. Tornare alla tragedia significava per Pasolini esprimere la latente presenza del sacro nel mondo contemporaneo. Questo compito estetico, dopo la crisi politica ed espressiva dei primi anni sessanta, era per lui anche la sola forma valida di critica ali' alienazione. Il regista italiano non teme di proclamare questo principio in forma provocatoria e quasi reazionaria: «La parola barbarie - lo confesso è la parola al mondo che amo di più [ .. .]. È semplicemente l'espressione di un rifiuto, dell'angoscia davanti all'autentica decadenza generata dal binomio Ragione-Pragma, divinità bifronte della borghesia»10. Il tema della barbarie era già presente nel modello classico. Il dramma greco era fondato sui concetti di colpa ancestrale (Edipo re, Orestiade, Medea) e di 9

10

Cfr. P ASOLINI, Il sogno ... cit., p. 120 [ora in SLA, I, p. 1544]. Ivi, pp. 83-84 [SPS, pp. 1485-1486].

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autodistruzione come conseguenza del sapere tragico (Edipo re). Questi elementi entravano in contrasto con il pragmatismo del posteriore razionalismo ellenico. In Eschilo le divinità materne e telluriche (le Furie) si contrappongono agli dèi della città e dello spazio pubblico (Atena e Apollo). In Sofocle Edipo rimprovera a Tiresia di aver predisposto un complotto politico contro di lui servendosi della religione come pretesto. In Euripide, Giasone cerca di giustificare il proprio tradimento ai danni di Medea con argomenti ripresi dall'oratoria sofistica. Anche per i Greci la vicenda tragica rappresentava una sfida per la sophrosyne. Ma la cultura greca era abbastanza 'forte' (in termini nietzscheani) per trasformare il suo confronto con la dismisura in un rito sociale e politico. Teatralizzando il conflitto tragico, i Greci evocavano le loro origini pre-elleniche in una sorta di onirismo collettivo. Nei suoi film Pasolini cercò di offrire un equivalente moderno di tale onirismo. Il confronto con il passato e con la barbarie assume forme assai distinte nei tre film mitologici. In Edipo re il bambino che scopre il proprio complesso edipico e perviene così all'individualità sogna sé stesso nei panni del mitico sovrano di Tebe sullo sfondo di una Grecia barbara. In Medea l'uomo occidentale, Giasone, trova nella donna barbara l'oggetto di un amore inconscio che non può confessare neppure a sé stesso. Fa violenza a lei e al suo popolo, la priva della sua identità per poi tradirla e condannarla a un'esistenza marginale. Un sogno regressivo introduce la feroce vendetta di Medea. Questa catastrofe simbolizza l'impossibilità di una riconciliazione (la Versohnung della tradizione hegeliana respinta da Pasolini), la scissione permanente fra presente e passato, fra il sacro e la modernità pragmatica. Nell' Orestiade, in cambio, il regista si fa sedurre dal miraggio di una sintesi: la democrazia africana. La trasformazione delle Furie in Eumenidi, con cui si conclude la trilogia di Eschilo, avrebbe dovuto simbolizzare la conservazione dei valori tradizionali in una nuova forma di democrazia, meno formale di quella occidentale e, forse, possibile soltanto in Africa. Ma quel film non venne mai realizzato, se non come insieme di 'appunti': il mito terzomondista restò semplice ipotesi di lavoro. Questa ipotesi si concretò in un'esposizione problematica: il documentario Appunti per un Orestiade africana. Non produsse un' opera, per quanto aperta e sperimentale, come nel caso di Medea e di Edipo re. In realtà, il limite artistico del concetto di 'Orestiade africana' è lo stesso che caratterizza la pièce Pilade: Pasolini interpreta Eschilo in forma troppo esplicitamente politica. In Pilade il regista italiano rappresenta gli eventi successivi alla conclusione della trilogia: l'avvento della democrazia borghese, personificata da Oreste; la rivolta dell'intellettuale rivoluzionario Pilade, l'alleanza di Oreste con la reazionaria Elettra, che simbolizza il culto fascista dell'irrazionale, e, infine, la vittoria insperata del neocapitalismo. Questa pesante allegoria tende a 1

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ridurre il mito classico a pretesto per una dialettica concettuale. Negli Appunti per un'Orestiade africana, il tema politico è integrato dalla ricerca di uno stile rituale nella recitazione, che si affida al realismo elementare della vita contadina. Ma, in linea di massima, l'attualizzazione politica del mito riuscì fragile: Pasolini adottò la prospettiva di una società veramente arcaica (o supposta tale) e, di conseguenza, non riuscì a descrivere il fascino dell'arcaico come espressione di un conflitto dialettico all'interno dell'uomo occidentale. In Edipo re e in Medea, al contrario, il regista italiano seppe applicare alla tematica mitica uno stile moderno e sperimentale, capace di enunciare concretamente l'inattualità del mito e la sua forza di provocazione. L'esperienza teatrale, che erarimasta al margine degli Appunti per un'()restiade africana, si compenetra nei due grandi film con la forza sintetica dell'inr1magine. Come si è già osservato a proposito del 'teatro di parola', il Pasolini degli anni 1966-69 elabora una serie di tecniche di straniamento. Applicando queste tecniche, si schiude la possibilità di concepire un 'meta-Edipo'. Edipo re descrive il mito come rappresentazione simbolica di una psicologia moderna, come sogno di un bambino che assomiglia molto allo stesso Pasolini. L'attualità del mito è garantita dalla stessa alterità contestuale: l'individuo Pasolini, con i suoi tratti biografici concreti, è l'autentico Edipo universale. «Edipo re si presenta dunque [scrive il regista italiano] in questa seconda parte, come un enorme sogno del mito che termina con il risveglio, con il ritorno alla realtà» 11 • Per rappresentare il mito, dunque, occorre rappresentare allo stesso tempo il processo psicologico attraverso cui ciò che è stato dimenticato torna a manifestarsi a livello cosciente. Nell'individuo sorge la memoria storica nella misura in cui diventa consapevole della scissione originaria (fra sogno e realtà, universalità mitica e peculiarità biografica moderna). Questo dualismo è il fondamento della sua stessa identità. Mal' anacronismo temporale non si riduce alla giustapposizione esplicita fra gli scenari italiani dell'infanzia e della rr1aturità di Pasolini e la Grecia mitica. In realtà, l'Ellade è rappresentata dai deserti di Marocco, ambiente 'barbaro' che autorizza una lettura del mito espressionista ed arcaizzante. La prima metà del film è dedicata agli antecedenti della tragedia di Sofocle: l'esposizione di Edipo, la sua infanzia a Corinto, l'incontro con la Sfinge, la profezia del parricidio e dell'incesto, la peste a Tebe. Per rappresentare la dimensione pre-tragica, Pasolini ricorre a un primitivismo antitetico allo stile tragico. Il dialogo si riduce al minimo: la recitazione in senso naturalista è sostituita dall'intensità quasi ieratica dello sguardo, esaltata dai frequenti stacchi di montaggio. Le citazioni etnologiche (la Sfinge e la sacerdotessa di Apollo sono rappresentate da masche11

Ivi, p. 98 [SPS, p. 1500].

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re africane) sottolineano lo stretto legarne che intercorre fra il mondo classico e una cultura più antica e ritualizzata. 1:Africa si affaccia al di là della Grecia. Il primitivismo della prima parte del film entra in contrasto con il dialogo fortemente elaborato della seconda, che corrisponde (con leggere modifiche) all'azione rappresentata da Sofocle. Si potrebbe dire, in linguaggio freudiano, che Pasolini concepisce la tragedia come formazione di compromesso, in cui la cultura razionale e retorica dei Greci dà voce al sostrato pre-ellenico dell'incosciente collettivo. La dimensione tragica è inseparabile dal mito pre-tragico (gli elementi 'barbari' e africani) e dalla riflessione post-tragica (l'interpretazione psicoanalitica del mito). Perde, di conseguenza, la sua assolutezza apollinea, di matrice classicista, ma anche l'opposta assolutezza dionisiaca, su cui si basa il «teatro del gesto e del grido» condannato nel Manifesto del teatro di parola del 1968. Liberata dalle opposte e complerr1entari unilateralità del classicismo senza profondità e dell'enfasi ditirambica senza riflessione, la tragedia diventa lo strumento essenziale di una autoanalisi della modernità. Risponde così alle esigenze dell'estetica di Pasolini che, malgrado i suoi 'barbarismi' espressivi, tiene fermo al valore della distanza critica:, dello straniamento e dell'ironia. Ancor più che in Edipo re, in Medea la rappresentazione del mito presuppone la figura dello straniamento, già messa alla prova nella produzione teatrale pasoliniana. La riflessione post-tragica non compare esplicitamente. Si manifesta, al contrario, attraverso l' anato1nia della dialettica fra mito e ragione considerata come origine dell'alienazione occidentale. Uno dei personaggi del film enuncia tale dialettica in un linguaggio teorico astratto, simile a quello dello stesso Pasolini. Si tratta del Centauro Chirone, figura metafilmica che viene ad arricchire la serie delle invenzioni m,etateatrali di Pasolini (come lo speaker in Calder6n, l'ombra di Sofocle in A/fabulazione, Io Spinoza di Porcile). Questo personaggio è il vero protagonista del film. Possiede una nobile ascendenza classico-umanistica come educatore dell'eroe greco: ottimistica e pedagogica in Giuseppe Parini, realistica e pessimistica in Niccolò Machiavelli. Pasolini non ignorava davvero tali precedenti: eroe 1nachiavellico, vero discepolo del Centauro razionale che insegna a servirsi senza pregiudizi dell'uomo e della bestia a seconda delle circostanze, è Giasone con il suo uso strumentale della ragione a fini di dominio. Ma se l'avventuriero greco può seguire la propria stella, la stella della scoperta e della conquista, il merito (o demerito) è tutto di Chirone che gli ha insegnato a emancipare la sua ragione dal culto irrazionale, a «razionalizzare e sconsacrare tutto ciò che aveva dato prima come ontologico e sacro»12. In tono didattico, il Centauro fornisce a Giasone una lezione di storia

12

Cfr.

PASOLINI,

Medea cit., p. 483 [PC, I, p. 1211].

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della religione e di critica del mito. Da questo punto di vista, simbolizza la distanza temporale che intercorre fra il rr.Lito e l'autore contemporaneo che cerca di attualizzarlo e non può evitare di ricorrere a categorie razionali di tipo etnologico. La citazione, implicita nel film, è invece esplicita nella sceneggiatura e implica una sottile rottura della finzione cinematografica. Quando Medea critica i Greci perché non si preoccupano di «cercare il centro», lo spettatore colto riconosce un riferimento a Mircea Eliade13 . Il Trattato di storia delle religioni di Eliade è anche la fonte dell'affermazione paradossale secondo cui per i primitivi «non c'è niente di naturale nella natura»14. Ma Chirone non è solo un pedagogo illuminista o uno studioso contemporaneo. La sua natura è duplice: mitica e razionale. Se nella prima parte 'dissacra', nella seconda esprime invece il sottile rimorso e l'inconfessata simpatia di Giasone per tutto ciò che il suo razionalismo ha travolto. Risulta, pertanto, una doppia proiezione: della coscienza di Giasone, ma anche della riflessione di Pasolini. Come portavoce dell'autore, gli viene permesso di enunciare la morale del film: «Ma ciò che è sacro si conserva accanto alla sua nuova forma sconsacrata»15. Compagna e antagonista di Giasone è Medea, che rappresenta, come Oreste negli Appunti per un'Orestiade africana, l'individuo del Terzo Mondo diviso fra comunità e società, cultura tradizionale e 'linguaggio del Pragma' (per servirci di una pregnante locuzione pasoliniana). Medea è abbastanza moderna per avvertire la perdita delle radici, ma troppo antica per agire come soggetto e superare così la contraddizione. Il suo popolo si muove lentamente, con una pesante dignità ieratica scossa da brevi esplosioni orgiastiche. Si ripromette la vita dalla morte (il sacrificio umano) e intravvede il futuro nel regresso ciclico del passato. Come molte culture primitive, presente il proprio tramonto quando sarà giunto dal mare un uomo empio e divino, bello e terribile. La morte annunciata del popolo barbaro si compendia nel dramma della guida carismatica della comunità, la regina e sacerdotessa Medea. Costei, affascinata da Giasone, scambia la sottomissione a Dio con la soggezione al maschio, restando, prima e poi, «vaso pieno di un sapere non suo»16, secondo l'espressione di San Paolo citata da Pasolini. Per lei, come per i personaggi borghesi di Teorema e del 'teatro di parola', l'esperienza onirica comporta un ritorno del sacro che risulta essere tanto distruttivo come autodistruttivo. Come individuo, come moglie di G-iasone, Medea è umiliata e offesa nella società greca. Solo come sacerdotessa di un popolo ancora vicino agli dèi può 13

Ivi, p. 504 Ivi, p. 544 15 Ivi, p. 514 16 Ivi, p. 552 14

[PC, I, p. [PC, I, p. [PC, I, p. [PC, I, p.

1234]. 1274]. 1245]. 1281].

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cercare di ottenere il riconoscimento della sua dignità di essere umano in forma di una barbara vendetta. Il mito classico diventa allegoria antropologica della relazione fra Occidente e Terzo :Mondo, critica spietata della falsa coscienza colonialista: «ma io, anche se forse senza molta fatica e magari, lo ammetto, non volendolo, ti ho dato, infine, molto più di quello che ho ricevuto»17, proclama ipocritamente Giasone. Come in Edipo re, la dimensione tragica si salda alla riflessione post-tragica del Centauro, ma anche al sostrato pre-tragico: il lungo prologo antropologico, quasi muto, si distingue nettamente dal teso dialogo, ricalcato sul testo di Euripide, che domina la seconda parte. Medea non è però, come Appunti per un'Orestiade africana, un film essenzialmente politico, ma si può considerare piuttosto, come Edipo re, la proiezione allegorica del dramma dell'individualità contemporanea. Essere individuo significa infatti essere personaggio. Il film di Pasolini, con i suoi elementi pre-tragici e post-tragici, sposta l'accento dall'azione di Medea come personaggio tragico, oggetto del dramma euripideo, al processo psicologico attraverso cui la donna barbara, sciogliendosi dal legame ancestrale con la comunità, viene a essere precisamente quel determinato individuo tragico, che sfida la società con la sua dismisura. La tendenza all'anacronismo delle tragedie pasoliniane prolunga nel presente questa problematica dell'emergere dell'individualità: se Edipo era una controfigura di Pasolini, in Medea «donna antica», al contempo fragile e carismatica:, si ritrovano tratti caratteristici dell' attrice protagonista, Maria Callas. Il dramma della cantante che diventa celebrità artistica a prezzo di una scissione fra presente e passato, fra le sue radici greche e la sua cittadinanza americana, con le sue implicazioni insieme biografiche ed estetiche, corrisponde al dramma di Medea. Il regresso della cantante a una forma di recitazione pre-espressiva, quasi di maschera tragica, simbolizza il regresso del melodramma alle sue origini 'dionisiache', un'immedesimazione totale (non naturalistica) dell'attore nel personaggio che esclude qualsiasi virtuosismo belcantista. Su un altro piano, il gioco di specchi del regista italiano (in certo senso, Edipo 'interpreta' Pasolini e Medea 'interpreta' Maria Callas) sottolinea l'incompatibilità fra il tempo mitico e il tempo lineare della razionalità ordinaria. Il fatto mitico non 'avviene', ma si ripete in un contesto rituale. La sua temporalità eterogenea costituisce un'alternativa alla filosofia della storia hegeliana e marxista. Come scrive Pasolini nella poesia Callas (1969): «La tesi I e l'antitesi convivono con la sintesi: ecco / la vera trinità dell'uomo né prelogico né logico, / ma reale»18 . 17 18

Ivi, p. 557 [PC, I, p. 1286]. Ivi, p. 585 [cfr. TP, II, p. 262].

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Per esprimere questa concezione della temporalità, Pasolini applica sistematicamente il principio di ripetizione. Questo principio (come abbiamo osservato a proposito del 'teatro di parola') costituisce l'artificio privilegiato dello straniamento. In Medea, come in Ctilder6n, tutto si ripete: l'apparizione di Chirone sdoppiato in Centauro mitico e Centauro razionale; il sacrificio del corpo smembrato (nella scena rituale della festa di primavera e nell'assassinio del fratello da parte di Medea); la vestizione del corpo femminile (quello di Medea in vista della preghiera, quello di Glauce nella prospettiva del matrimonio); la crisi isterico-epilettica (di Medea sacerdotessa dopo la profezia apocalittica; di Medea divenuta compagna di Giasone quando gli Argonauti si dimenticano di 'cercare il centro'; di Glauce che riconosce nello specchio la prefigurazione della propria morte); la scena stessa della vendetta (la prima volta sognata da Medea, la seconda eseguita nella realtà). Queste ripetizioni presentano una vistosa affinità: le diverse azioni che abbiamo enumerato si danno una prima volta in forma rituale e sacralizzata per poi ripetersi in versione profana e dissacrata. Il principio strutturale del film, per così dire, è la secolarizzazione di sé stesso. L'evocazione del mito coincide con la ricostruzione di quel processo di affermazione della razionalità illuministica che lo ha spogliato della sua dimensione sacra. Questa coincidenza garantisce al cinema mitologico pasoliniano la sua paradossale attualità. È inevitabile, a questo punto, interrogarsi sulle ragioni dell'abbandono di questa forma tragica straniata che aveva permesso al regista italiano di emergere dalla sua crisi espressiva, producendo due opere di grande livello estetico. Beninteso, la dinamica politica degli anni sessanta smentì l'utopia terzomondista di Appunti per un'Orestiade a/ricanti. Ma le cause dell'abbandono della tematica mitologica furono più profonde. Il pessimismo politico pasoliniano degli anni sessanta era stato motivato da un giudizio negativo sul cosiddetto miracolo economico e le sue conseguenze sociali e culturali. Ma al principio degli anni settanta, come è noto, la crisi sociale e ideologica fu accompagnata da una perdita di legittimità del sistema politico. Pasolini visse la crisi come un incubo kafkiano: il potere venne profilandosi a:i suoi occhi come una forza opaca e pervasiva, che sfidava qualsiasi tentativo cli analisi razionale. Il concetto di fascismo perse il suo fondamento storico-politico per trasformarsi in pura allegoria della Herrscha/t. Questo radicalismo apocalittico produsse coerentemente un'estetica negativa. Fino al 1971 (cioè fino alla Trilogia della vita) Pasolini conservò la sua fiducia nella forma tragica, cioè nell'opera chiusa la cui unità estetica era garantita dalle leggi del confronto fra personaggi e destino. Gli artifici di straniamento consentivano di riflettere sull'inattualità di quella forma senza perciò abbandonarla, anzi assicurando allo spettatore il piacere di un'immersione nel passato

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(o inconscio) individuale e collettivo. Per essere all'altezza del 'nuovo potere', peraltro, Pasolini si sentì obbligato a rinunciare alla tragedia e a frantumare la linea melodica in un caos di acuti dissonanti: la Trilogia della vita e anche Salò (per non parlare di Petrolio) si configurano come una serie potenzialmente illimitata di episodi. In questo carattere seriale si manifesta la coazione a ripetere propria di un erotismo nichilista. Il nuovo stile implicò l'abbandono della temporalità tragica, caratterizzata dalla coesistenza di presente e passato. In Salò tutto si riduce al presente: un presente intemporale e antistorico in cui si è insinuata una profonda anomia. I protagonisti del film violano e uccidono perché sono ormai incapaci di ricordare: la sola mitologia ancora possibile per loro è il culto della violenza tipico della tradizione dell'avanguardia, che aspira a sopprimere brutalmente la tradizione. Ormai è stato partorito l" uomo a una dimensione', senza passato mitico e senza possibilità di riscatto. Oreste, Edipo e Medea, gli eroi dell'individualità tragica, tornano definitivamente all'Ade.

IL TEATRO DI PARanicali

Tutte le tragedie poetiche portano nel loro nucleo un sogno che si trascina da lontano, fin dalla notte dei tempi, e che finalmente si rende visibile M. Zambrano, Il sogno creatore

asolini abbozza e addirittura scrivi::: sei tragedie nel 1966, in pochissimo tempo, durante la convalescenza da un'ulcera che lo costringe a letto. Leggenda? Verità? L'una e l'altra insieme. 1Quel che mi preme sottolineare, tuttavia, è che l'idea di un teatro in versi programmaticamente rivolto a un'élite, matura alcuni anni prima. Molti indizi lasciano supporre che la sua simpatia per il teatro greco sia contemporanea al rifiuto della comunicazione corrente. Intanto quel modello (già dal '60 aveva tradotto l'Orestea di Eschilo) gli consente di evitare ogni forma di teatralità. Le sei tragedie, costruite sull'esempio greco, sono prive di didascalie, che costituiscono, in genere, l'unico spazio da cui lo scrittore parla. E sono prive di azione scenica e di messa in scena, data l'insofferenza di Pasolini verso la spettacolarità. Il suo teatro è 'mentale' e non ha bisogno dei «lenocini dello 'spettacolo', della scenografia, della musica da palcoscenico, dei giochi di luce, cioè di tutte le squisitezze della regia di convenzione»1 . A mostrare quale importanza attribuisca a un teatro di idee fondato sul mito analizzerò A/fabulazione, ma prima, risalendo agli inizi degli anni sessanta, mi soffermo su tre motivi che in questo torno di tempo ricorrono con frequenza nella sua opera e s'intersecano e si scambiano tra loro: la cosiddetta irrazionalità; la poesia; la lingua. In una lettera del 12 maggio 1963 ad Alfredo Bini, alludendo a Il Vangelo secondo Matteo, Pasolini dice:

P

1

F. ANGELINI, A/fabulazione di Pier Paolo Pasolini, in Letteratura italiana, Le Opere, IV, Il Novecento, II, La ricerca letteraria, Torino 1996, pp. 843 -844.

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per tutti gli Anni Cinquanta il mio lavoiro ideologico è stato verso la razionalità, in polemica coll'irrazionalismo della leueratura decadente (su cui mi ero formato e che tanto amavo). L'idea di fare un film sul Vangelo, e la sua intuizione tecnica, è invece, devo confessarlo, frutto dli una furiosa ondata irrazionalistica. Voglio fare pura opera di poesia ...2 •

Da un lato, dunque, l'impegno ideologico (marxista) e la razionalità; dal1' altro l'irrazionalismo e la poesia. Contemporaneamente però, mentre sta ultimando la raccolta Poesia in/orma di rosa (dal '62 al '64), già pensa di chiudere con il 'genere' poesia. Vuol fare opere di pura poesia, ma in forma diversa: di cinema o di teatro. E ciò che lo spinge verso entrambi è, sia il suo amore per la poesia, sia il sentimento di una minacda: l'incombere della 'lingua segnaletica' e della cultura di massa. Difatti nel '63 allestisce La Rabbia, un film di montaggio, ideologico e polemico contro l'irrealtà del mondo borghese che, pur essendo di repertorio, ha il commento in versi. Al tempo stesso è uno sfogo intellettuale contro le «minacce della cultura di massa, dell'industrializzazione totale, del benessere che dà egoismo, stupidità, incultura... »3 ed esprime l'idea, ancora indeterminata e confusa, di una nuova preistoria: E cioè i miei sottoproletari vivono ancora nell'antica preistoria, nella vera preistoria, mentre il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico va verso una nuova preistoria4 •

La sua acuta percezione, vivissima anche nella raccolta Poesia in /orma di rosa, Io fa avvertito: lo sviluppo tecnologico viene elaborando un nuovo tipo di cultura che investe «come una nuova spiritualità, dalle radici, la lingua in tutte le sue estensioni, in tutti i suoi momenti e in tutti i suoi particolarismi»5; lanascente tecnocrazia borghese trionfa; «la completa industrializzazione dell'Italia del Nord, a livello ormai chiaramente europeo, e il tipo di rapporti di tale industrializzazione col Mezzogiorno, ha creato una classe sociale realmente egemonica, e come tale realmente unificatrice della nostra società»6• Con qualche «titubanza, e non senza emozione» Pasolini si sente «autorizzato ad annunciare, che è nato l'italiano come lingua nazionale»7 ; che il centro da cui s'irradia non è più né la Firenze, letteraria e u1nanistica, né la Roma burocratica, ma il 2

Lettere II, p. 514. Ivi, Cronologia p. LXXVIII. 4 Ivi, Cronologia p. LXXIX [cfr. PC, II, p. 28:54]. 5 P.P. PASOLINI, Nuove questioni linguistiche (1964), ora in SLA, I, pp. 1245-1270. Il passo citato è a p. 1264. 6 Ivi, p. 1265. 7 Ibid., corsivi nel testo. 3

IL TEATRO DI PAROLA: MITO E RITO

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Nord; «non sono più le università, ma le aziende»8 , perché la lingua della borghesia moderna è la lingua dell'industria internazionale: «una lingua ciecamente pragmatica». Contro questa nuova realtà linguistica che accentuerà sempre più lo spirito comunicativo sull'espressività (perché quando il «principio omologatore e direi creatore è la tecnologia» si ha la prevalenza assoluta della comunicazione) ogni letterato dovrà combattere. Si tratta di una battaglia etica, per non dire politica: «Mai come oggi il problema della poesia è un problema culturale, e mai come oggi la letteratura ha richiesto un modo di conoscenza scientifico e razionale, cioè politico»9 . Quando Pasolini comincia a occuparsi del teatro è tutto preso da questa lotta per l'espressività linguistica che identifica «con la libertà dell'uomo rispetto alla sua meccanizzazione»10 • E la sente come una battaglia di 'politica indiretta'11 che passa attraverso il linguaggio. l)ifatti, nel 1965, in un articolo su «Vie Nuove» intitolato L'italiano 'orale' e gli attori s'interroga sulla lingua del teatro italiano e sulla sua pronuncia, falsa e convenzionale. E si domanda come garantire l'espressività rispetto alla «mostruosa lingua media parlata» che, a dire il vero, nessuno spettatore parla12. I primi anni sessanta sono ricchi di fermenti teatrali: dal 1964 il Living è in tournée; nel maggio del '65 si apre un'inchiesta su «Sipario», intitolata Gli scrittori e il teatro; nell'ottobre del 1966 Sergio Moravia, Enzo Siciliano, Dacia Maraini e lo stesso Pasolini fondano Il Porcospino, una compagnia di scrittori e attori, con il regista Roberto Guicciardini. Nel primo numero di «Nuovi Argomenti» del '67 uscirà il breve intervento di Moravia, La chiacchiera a teatro; nell'ultimo, la tragedia pasoliniana Pilade e nel '68 il famoso Manifesto per un nuo-

vo teatro. Durante la convalescenza, durata più di un mese, Pasolini legge i Dialoghi di Platone. In particolare, La Repubblzài (il libro VII, sul mito della caverna) e il Pedone, da cui, in un saggio del '66, riprenderà il passo sulla misologia: «Non fa differenza» diceva Socrate, «bensì dobbiamo prima di tutto star attenti che non ci capiti un certo caso poco piacevole». «Quale?» dico io. E lui rispondeva: «Diventar misologi, cioè che sorga in noi avversione e antipatia per

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Ivi, p. 1262, corsivi nel testo. Ivi, p. 1270. 10 Ivi, p. 1269. 11 Si sentono qui gli echi delle discussioni francesi e italiane sulla 'politica indiretta' cui Pasolini partecipa. Si veda ora 'Gulliver'. Progetto di una rivista internazionale, a cura di A. Panicali, Milano 2003. 12 P.P. PASOLINI, I:italiano 'orale' e gli attori, in «Vie Nuove», 11 (18 marzo 1965), in P.P. PASOLINI, I dialoghi, a cura di G. Falaschi, Roma 1992, p. 391 [ora in SPS, p. 1056]. 9

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ogni discussione. Allo stesso modo altri diviene misantropo e ha avversione e antipatia per i propri simili. Oh! davvero non e'è sventura più grande di questa antipatia per ogni discussione» 13 .

Per il teatro pasoliniano possiamo parlare di dialoghi o di semplici discussioni? Facciamo un passo indietro. Pasolini aveva tenuto una rubrica intitolata Dialoghi sul settimanale comunista «Vite Nuove», instaurando con i lettori un vero colloquio. Vi collaborò per cinque anni, dal 1960 al 1965, ed affrontò temi anche spinosi: l'omosessualità, le passioni in rapporto all'ideologia, la condanna di Pasternak e del suo romanzo Il dottor Zivago da parte del potere sovietico. Spesso, nei Dialoghi, torna il rnotivo della 'irrazionalità', per lui molto importante fin dai tempi dell' Orestea d~ Eschilo, dove si mostrava che le forze della ragione (Atena) e quelle irrazionali (le forze arcaiche, istintive, naturali, ineliminabili) possono coesistere; che le Erinni possono essere trasformate da Maledizioni in Benedizioni. L'ultin10 anno della sua collaborazione al rotocalco comunista, verso i primi mesi del '65, pubblica la sceneggiatura di Uccellacci e uccellini, perfetta immagine della crisi del marxismo che discute anche su «Nuovi Argomenti», la rivista che dirigerà dal gennaio 1966 con ~v1oravia e Carocci per gli Editori Riuniti. I lettori protestano perché invece di un dialogo va conducendo un monologo: «E questo, gli dice un lettore, per varie ragioni: innanzi tutto perché tratti argomenti che spesso sono estranei agl:i interessi dei lettori di un settimanale a rotocalco di diffusione popolare; poi perché usi un linguaggio che [.. .] spesso è inaccessibile ai più»14 • Infine, nella r1L1brica del 30 settembre 1965 appare la sua lettera ili congedo, in cui confessa: «Stavolta, in un certo senso, con Uccellacci e uccellini, continuo altrove, in altra sede e con altri mezzi, il mio dialogo con i lettori di 'Vie Nuove'» 15 . Il dialogo successivo avverrà attraverso il cinema. Ma anche attraverso il teatro che, rispetto a qualsiasi altra forma di letteratura (ormai in crisi) pone l'opera a contatto diretto con il proprio pubblico. Per questo, più che un dialogo, avvierà una discussione alla pari. Agli inizi di giugno del '65 Pasolini partecipa alla prima mostra internazionale del nuovo cinema a Pesaro, presentando la relazione introduttiva Il cinema di poesia e conosce il semiologo francese Roland Barthes, sulle cui analisi ri-

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P.P. PASOLINI,

La lingua scritta della realtd, ora in SLA, I, pp. 1503-1540. Il passo è a

p. 1503, corsivi nel testo. 14 P.P. PASOLINI, in «Vie Nuove», 22 (3 giugno 1965), in ID., I dialoghi cit., p. 417 [SPS, p. 1066]. 15 P.P. PASOLINI, in «Vie N uove», 39 (30 settembre 1965), in ID., I dialoghi cit., p. 450 [SPS, p. 1086].

IL TEATRO DI PAROLA: MITO E RITO

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fletterà a lungo. Aveva già intuito come sarebbe stata la società del benessere; cosa avrebbero prodotto la cultura di rr.1assa e i mass-media: è a questo punto che io mi sono in parte spaventato e inalberato e non ho più voluto continuare a fare dei film semplid, popolari, perché altrimenti sarebbero stati in un certo senso manipolati, mercificati e sfruttati dalla civiltà di massa. E a quel punto ho fatto dei film più difficili, cioè ho cominciato con Uccellacci e uccellini, l'Edipo re, Teorema, Porcile, lv1edea, insomma un gruppo di film più aristocratici e difficili, tali insomma che erano difficilmente sfruttabili, ecc ... 16 .

Ancor meno sfruttabile sarebbe stato il teatro. Verso la fine di marzo del 1966, leggendo i Dialoghi di Platone, rr1atura l'idea di scrivere attraverso personaggi: un teatro in versi molto simili alla prosa. Era da tempo che non scriveva più poesie; aveva bisogno di un pretesto per ricominciare. E il pretesto era offerto dal teatro: scrivere in versi attraverso interposte persone. Perché era entrata in crisi la poesia come genere lirico, ma non il linguaggio poetico. Alla letteratura, «impotente, sterile, artificiale evocazione della realtà», aveva già contrapposto il cinema, che invece riproduce ed «esprime la realtà con la realtà»17 (se la realtà è un linguaggio, il cinema è •«la lingua scritta di tale realtà come linguaggio»). Ora contrappone il teatro. Nron a caso chiede a Garzanti di partecipare con un aiuto finanziario all'impresa teatrale del Porcospino18• Quindi, in una lettera di fine aprile 1966 gli comunica d'aver scritto Orgia e di stare terminando il dramma che prenderà il titolo di Bestia da stile. Soprattutto, divoler curare un volume di Poesie scelte da lui stesso (che uscirà nel '70): poiché «considero chiuso quel periodo del mio stile (benché, per esempio i drammi che sto scrivendo in questi giorni siano decisamente una continuazione di quel discorso), mi sembra giusto autocodificarlo»19 • E nel giugno del '66, annunciando i saggi e il teatro, aggiunge: «come vede, la scelta delle poesie sarebbe un atto conclusivo di un mio 'periodo' letterario per aprirne un altro»20• La nuova attività teatrale di fatto inizia il 27 novembre 1968, quando va in scena Orgia con la sua stessa regia. Le parole di Pasolini sono lapidarie: il teatro non avrebbe mai potuto essere un mezzo di massa, perché si riproduce ogni

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Lettere II, Cronologia p. CV P.P. PASOLINI, La fine deltavanguardia (Appunti per una /rase di Goldmann, per due versi di un testo di avanguardia, e per un'intervista di Barthes), in «Nuovi Argomenti», n.s. 3-4 (luglio-dicembre 1966), ora in SLA, I, p. 1417. 18 Lettere II, p. 607. 19 Ivi, pp. 611-612. 20 Ivi, p. 61 7. 17

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sera 'questo rito nella sua fisicità'21 . E i suoi spettatori non potranno mai coincidere con la massa. La sua protesta contro la cultura dei media sfocia in un teatro difficile, inteso come rito culturale, rivolto a una élite che discute alla pari con l'autore. Addirittura, nel '69, nella teoria dell'incomunicabilità del prodotto culturale: aristocratico, destinato a pochi colti, inconsumabile. Di fronte «al1' accelerazione artificiale della nuova società industriale che vuol distruggere il passato per instaurare solo il presente, Pasolini oppone la nostalgia del sacro, gli antichi valori, il rimpianto del passato, accettato anche come sentimento conservatore»22 • Difatti, solo la ricerca del sacro sepolto nell'uomo lo sottrae al mondo dei consumi e al suo linguaggio. Ma perché lo definisce teatro di parola? Perché è scritto in versi, «cioè nella lingua della poesia; e in esso dunque la parola è usata in un suo momento espressivo al massimo grado». Quindi, «a un livello comunicativo oggettivamente difficile». Si tratta di un teatro >, 1 (1912), ora in In., Opere, I, tr. it., Milano 1989, pp. 195-204. 61 PASOLINI, Edipo ... cit., p. 1031. 62 Nella sceneggiatura (p. 1036) era ancora ]presente la speranza razionalistica dell'Edipo sofocleo, che il racconto del superstite ribadisse la versione di Laio ucciso da una pluralità di banditi, e dunque la sua innocenza, «perché una persona sola non è lo stesso di molte» (v. 845): nel film non più. 63 PASOLINI, Edipo ... cit., p. 1039. 64 FREUD, ~interpretazione... cit., p. 245; Introduzione alla psicoanalisi, in Opere cit., VIII, pp. 488, 495. La confutazione di V ERNANT, Edipo senza complesso cit., p. 87, è a mio parere fallita (cfr. PADUANO, Lunga storia di Edipo re ... cit., pp. 66-70).

EDIPO RE DI PASOLINI E LA FILOLOGIA DEGLI OPPOSTI

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sollievo per la morte di Polibo non riesce a togliere a Edipo la paura dell'incesto, e contro questo residuo oscuro si batte Giocasta: un'intuizione dissonante e geniale li ha spostati qui, a gridare in1provvisamente l'orrore già noto e per questo più caro. Infatti, quando il racconto di Edipo si spegne nella consueta ripetizione dei gesti amorosi, lo sentiamlo mormorare «madre». Coessenziale alla metamorfosi della rassicurazione di Giocasta in avance è l'anticipazione del suo tentativo di bloccare il processo della rivelazione, e della frase sofoclea (v. 1068) che ne costituisce insieme il culmine e lo spegnin1ento: «Povero Edipo! Che tu non sappia rnai chi sei!». In risposta, anche l'Edipo di Pasolini, nonostante la precedente ri1mozione, ribadisce il bisogno di sapere e di parlare, ma non può più lanciare (se non al solito in una zona poi trascurata della sceneggiatura65) l'ultima e la più umanisticamente orgogliosa delle sue sfide: quel dichiararsi figlio della fortuna che pure aveva tanto interessato Pasolini nella ricostruzione dell'adolescenza di Edipo66 . Nella resa filmica definitiva il pastore di Corinto dà sì a Giocasta la notizia della morte di Polibo («Ho notizie che ti daranno gioia. Forse anche dolore»67), ma neppure interloquisce con Edipo, e non ha quindi la possibilità di compiere il suo sciagurato tentativo di tranquillizzare Edipo spiegandogli che non corre nessun pericolo di incesto, perché Polibo e Merope non erano i suoi veri genitori68: lo ritroviamo immediatamente dopo, assieme al re e al recalcitrante pastore di Tebe che è anche - secondo la sublime e sfrontata semplificazione sofoclea - il solo superstite dello scontro al trivio. Rivive nel protagonista di Pasolini l'affermazione violenta del conoscere, che spezza la pietosa resistenza del servo, fino al finale grandioso: Servo Edipo Servo Edipo

Era figlio di Laio ... Suo schiavo, o proprio suo figllio? Nato da lui? Ah, questa è la cosa che non sil può pronunciare! E quella che io non posso ascoltare. Ma lo devo, lo devo! 69

In questi precisi termini, o pressappoco (vv. 1167 -1 170), Sofocle ha consegnato alla cultura europea il primato inespugnabile della conoscenza; ma basta 65

PASOLINI, Edipo ... cit., p. 1041. Ivi, p. 987 (il senso è tuttavia spregiativo, equivalente a «trovatello»). 67 Ivi, p. 1037 (SOPH. w. 936-937). 68 A sua volta, viene sottratto a Edipo lo sforzo intellettuale con cui cerca di spiegare l' apparente fallimento dell'oracolo, esorcizzandone l'aspetto truce: forse l'oracolo intendeva dire soltanto che Polibo sarebbe morto per il dispiacere di avere il figlio lontano (il passo sofocleo, w. 969-970, era puntualmente rimasto in sceneggiatura, PASOLINI, Edipo ... cit., p. 1038). 69 Ivi, p. 1044. 66

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un particolare perché in Pasolini prevalga una sfinita sofferenza, e quello che egli stesso definì «l'obbligo di conoscere»70 assuma l'aspetto della violenza subita: «Io devo, lo devo!»71 • Come nell'opera lirica, o in genere nella musicavocale, la reduplicazione di un termine incrina la compattezza delle strutture (non solo quelle linguistiche e metriche!), e attraverso l'accentuazione quantitativa del pathos sposta qualitativamente la direzione del senso. Lo stesso suggerisce l'esitazione smarrita, la pausa che sola permette a Franco Citti di pronunciare quelle parole. Il resto è davvero silenzio, nel senso che la volontà autodistruttiva generata dalla rivelazione prende voce attraverso una piena negazione della conoscenza, stavolta però perfettamente condivisa con Sofocle. Il silenzio comincia ad avvolgere Edipo quando getta uno sguardo sulla città, sulle architetture, con lo stesso amore disperato e rinunciatario del protagonista di una splendida novella di Gautier, Jettatura, che, arrivato a convincersi di possedere i poteri malefici del malocchio, si acceca per sottrarre ad esso la donna amata, dopo un ultimo e vorace sguardo sul mondo. E le ultime parole di Sofocle che tornano nel film sono appunto le parole che fondano il silenzio: la giustificazione dell'accecamento grazie al quale «non scorgerò più il male ... che io ho sofferto e fatto», il desiderio di avere chiusa anche la fonte dell'udito, quello di essere gettato «in un posto dove non mi si veda più»72 . La citazione estrema riprende non più l'Edipo re ma l'Edipo a Colono, la splendida tragedia di Sofocle nonagenario che ridava a Edipo quella pace che nell'explicit di Pasolini si crea dal suono del flauto, dalla poesia, dall'identificazione con Tiresia. L'Edipo immerso nella vita del Novecento fa suo l'addio alla luce, che suonava (vv. 1549-1552): -;-Q cpwç àcpcyyÉç, rtpoo8E Jt01J JtO't'

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V'UV ò' ÈOXU'tOV OO'lJ "COÙµÒv AOLO PASOLINI.

UN MAGNIFIC() INSUCCESSO Margherita Rubino

er un curioso gioco della sorte, i filrn di Pier Paolo Pasolini ispirati alle tragedie greche ebbero, inizialmente, esiti non troppo differenti rispetto a quelli dei loro modelli antichi. Pasolini trasportò su grande schermo Edipo re (1967) e Medea (1969): nel primo caso seguì un successo importante, nel secondo fu notevole lo scacco. Una sorte simile era toccata a Sofocle per Edipo re (fama immediata, sancita poi da Aristotele, fino al Sublime 33, 5) e ad Euripide per Medea (che ottenne soltanto un terzo posto). Attacchi, stroncature, polemiche si :abbatterono come una gragnuola ininterrotta su Medea di Pasolini fin dalla ]Prima apparizione nelle sale cinematografiche, nel dicembre 1969 e poi per tutto il 1970, e oltre. Non reagì male solo la critica militante 1 (vedi tra i primi Enrico Boragli in Civiltà cattolica: «Turilevi, annoti, magari ammiri: e tuttavia non partecipi. Ti chiedi perché ed avverti che tante preziosità sono disposte a freddo, da un Pasolini compiaciutamente intellettuale, decadentemente aristocratico, scarsamente ispirato»). Anche i grecisti, compresi quelli più moderni e spregiudicati, apprezzarono poco il film. Su tutti, pesò il giudizio di Oliver Taplin: «questa Medea tocca l' antropologia, ma non tocca gli uomini; si occupa di modelli culturali ma è fredda quando giunge alle relazioni interpersonali»2 . Negli anni il dibattito fu riaperto, a partire dall'esame delle due sceneggiature approntate per il film, immediatamente edite da Garzanti (Milano, 1970 e 1991): le ½'sioni, definite dall'autore 'trattamento', preliminare rispetto all'effettivo inizio delle riprese (98 sequenze) e i Dialoghi definitivi: vale a dire la sceneggiatura finale, comprendente le 87 'scene' girate effettivamente, con le battute rimaste, prosciugate rispetto alla traccia iniziale oppure alterate proprio al1'atto della lavorazione. A partire dagli anni novanta, poi, fu messa in circola-

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M. FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Firenze 1996, p. 127. O. TAPLIN, The Delphic Idea and a/ter, in «The Times Literary Supplement», 4085 (17.7.1981), p. 812.

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zione la videocassetta, distribuita in qualche caso con i quotidiani, come !!Unità, e presente oggi in due cataloghi comuni in commercio (più difficile rinvenire Edipo re, la cui copia migliore è sottotitolata in inglese). La diffusione favorì nuovi studi, più meditati giudizi3 e, alla fine, quella fama allargata che testimonia le magnifiche sorti di quell'iniziale insuccesso. Tra i segnali recenti di tale fama sta un singolare paradosso: il film Medea di Pasolini è diventato, qualche anno fa, una pièce teatrale. A Roma, nel 1996, un raffinato autore siciliano, Aurelio Pes, ha riscritto insieme al regista, Carlo Quartucci, una Medea su misura per l'attrice Carla Tatò. Si tratta sostanzialmente di un monologo, in cui la Tatò fa tutte le parti, e nel quale si punta sul conflitto fra culture: la protagonista compie un viaggio a ritroso e rievoca la vita in Colchide, il paradiso terrestre violato dagli Argonauti, gli avventurieri provenienti da un mondo che ha perso ormai il senso del sacro. Del film di Pasolini viene usata la prima sceneggiatura, quella delle Visioni della Medea, fino alla scena 59, con alcune sequenze della seconda parte. Un esito di spettacolo quale è questo4 comprova, alla pari del dibattito critico5 , e dell'impressionante, continua quantità di interventi sui media di tutti i continenti, disponibili sui siti Internet, come, a distanza di oltre trent'anni, la valutazione iniziale vada rovesciata, e si possa parlare di magnifico successo. Non si possono negare, sia chiaro:, i sostanziali squilibri, le imperfezioni strutturali e gli algori del film: soprattutto se lo si valuta, come si fece negli anni settanta, viziati dal confronto con il dramma di Euripide. L'ottica distanziata, stranamente, consente in genere di valutare più facilmente un'opera slegandola dalla fonte e, nel caso di Medea, ha contribuito anch'essa al successo postumo di questa trasposizione. Si possono individuare, in Pasolini, una decina di azioni narrative, sei delle quali destinate ad illustrare la 'barbarie' di Medea, quattro invece la 'grecità' di Giasone; queste ultime, le sole ispirate dalla tragedia greca, sono state di recente scandite in sei sezioni 'euripidee'6 . Nella prima parte la macchina da presa indugia su luoghi sconfinati, evoca una società tribale che appare, in qualche 3

A partire da M. McDoNALD, Euripides in Cinema: the H eart Made Visibile, Philadelphia 1983, pp. 3-50. 4 Prodotto per il Teatro N uovo di Roma nel 1996, Medea di P es-Quartucci venne ospitata l'anno seguente al Magna Grecia F estival. 5 Vedi tra gli ultimi P. FoRNARO, Medea italiana, in A tti delle giornate di studio su M edea, a cura di R. Uglione, Torino 1997, sp ecie pp. 128-131; U. ALBINI, Pasolini e la storia dell'antico, in In. , Testo e palcoscenico, Bari 1998, pp. 201-207; M edea contemporanea, a cura di M. Rubino, G enova 2000, pp. 18-21; G. I ERANÒ, Tre M edee del novecento, in Medea nella letteratura e nell'arte, a cura di F P erusino, B. G entili, Venezia 2000, pp. 181-191.. 6 IERANÒ, Tre M edee... cit., pp. 183-185.

MEDEA DI PIER PAOLO PASOLINI. UN MAGNIFICO INSUCCESSO

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misura, vulnerabile. Nella seconda inquadra luoghi e tempi 'cittadini', in una Corinto fortificata , protetta e che si autoprotegge. Nel primo tempo si susseguono: 1. Sacrificio lungo e cruento di fertilità. 2. Incontro tra Medea e Giasone. 3. Furto del Vello. 4 . Fuga dalla Colchide. 5. Viaggio per mare di Medea, Giasone e Argonauti. 6. Arrivo a Iolco. Nella seconda parte: 7. Medea isolata a Corinto a meditare vendetta. 8. Sogno della morte di Creonte e Glauce. 9. Morte reale di Creonte e Glauce. 10.Infanticidio e confronto finale Giasone Medea. Ad entrambe queste macrofasi del film vengono premesse due scene simili, a mo' di prologo, ove il Centauro atrumaestra Giasone: prima bambino, poi adulto. Nel secondo prologo i centauri divengono due, a chiarire come la guida per Giasone sia cambiata, dalla giovinezza alla maturità: questa sequenza nelle Visioni della Medea era collocata rnolto più avanti, al numero 69, successiva quindi all'incontro Medea-Creonte. Pasolini la trasportò, nella versione definitiva, alla scena 61 proprio perché fosse anteposta, un po' schematicamente, ma con chiaro effetto didascalico, alla parte dove si manifesta una rinnovata e 'civilizzata' natura di Giasone, una volta arrivato a Corinto: Centauri [... ] ne hai conosciuto due: uno sacro, quando eri bambino, uno sconsacrato, quando sei diventato adulto. Ma ciò che è sacro si conserva accanto aJla sua nuova forma sconsacrata [. .. ] esso non parla naturahnente, perché la sua logica è trumente diversa daJla nostra, che non si potrebbe intendere ...

Lo spostamento intende, con tutta evidenza, creare due cornici che separino l'Oriente asiatico, credente, animista, dall'Occidente mediterraneo, cittadino, scettico-calcolatore, convenzionale .... Il dualismo, dunque, è assai chiaro e volutamente, ulteriormente chiarito dall'autore nel film; al punto da ispirare, di recente, il titolo Un conflitto di culture per il saggio a tutt'oggi più esaustivo dedicato a Medea di Pasolini7. Il conflitto tra culture, l'isolamento impotente cui la società 'evoluta' costringe chi viene da altra comunità, le possibili reazioni

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La Grecia ... cit., pp. 127-179. Vedi, dello stesso, le ultime considerazioni su La vendetta di Medea, in «Dioniso», n.s. 2 (2003), pp. 112-117. FUSILLO,

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violente di quegli emarginati appaiono oggi temi genialmente anticipatori del problema forse più dirompente, negli utltimi trent'anni, in Europa. Soprattutto è chiaro, nel film, l'antagonismo tra quelle diverse forze: viceversa, a cavallo tra fine anni sessanta e per tutti gli anni settanta, si accusò il film di Pasolini di tematica affastellata, non decantata, quas:i che, alle spalle della riscrittura da Euripide, non vi fosse null'altro se non solipsistica compiacenza8• Il recente recupero di oltre millecinquecento metri di tagli dal film Medea ha proposto all'attenzione, per ora di pochi9, altre otto sequenze girate ma non montate nell'edizione definitiva del film: cinque 'tagli' appartengono sicuramente alla fase 'barbarica', due sono di collocazione incerta, uno, il più bello a nostro parere, proviene dal finale (Trattamento, scena 76: Maria Callas lentamente e fieramente sale verso il carro del sole, con i due figli per mano. L'inquadratura riprende dall'esterno il palazzo e Medea, che si svela con gradualità, in ascesa, alla mdp. Poi i tre vengono ripresi dal basso, come sotto vetro, in movimento su una superficie trasparente, in direzione di un carro). Viene rafforzata l'idea di una sproporzione tra prima e seconda parte del film e con quella, quindi, l'impressione di una più forte affezione di Pasolini per il mondo barbarico e passionale da lui reinventato in Colchide: a contare anche solo cinque sequenze, la durata complessiva dei tagli provenienti dalla prima parte del film è di trentacinque minuti. Nel complesso, le inquadrature non inserite nel montaggio definitivo della pellicola durano circa quarantacinque minuti e sono mute, prive di qualsiasi accompagnamento vocale o sonoro. Non è questa, poi, l'unica novità in sede critica relativa alla Medea pasoliniana. Durante la Mostra del Cinema di Venezia, in data 16 settembre 2002, veniva proiettata per la prima volta la versione del film con il doppiaggio in lingua italiana effettuato dalla stessa Maria Callas. La ' divina' aveva effettuato la prima versione in lingua inglese; risentendo la propria voce nella versione in lingua italiana, vi aveva scoperto qualche inflessione ven◄eta che l'aveva indotta, alla fine , a man dare nelle sale il doppiaggio di Rita Savagnone. Da oltre trent'anni gira per le sale italiane e circola in homevideo una versione del film in cui la voce del 'mito' Maria Callas non ha assolutamente parte. È noto che l'intervento di Pier Paolo Pasolini sui tragici greci, si tratti di traduzioni come quella di Orestea o si tratti di trasposizioni cinematografiche, si-

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Una recente, sdegnata, forte rivalutazione d ell'intera opera di Pasolini, un rivoluzionario del gusto e dello stile sminuito per decenni a favore della letteratura 'facile' di Calvino e di altri si deve a C. BENEDETTI, Pasolini contro Calvino, Torino 1998; il volumetto ha innescato nuovissime e autorevoli polemiche. 9 Vedine la descrizione in Cento anni di cinema da Pasolini a Lumière, a cura di S. Baracetti, Grado 1999, e in M. R UBINO, I tagli e la Médea, in «Nickelodeon», 102 (2002), p. 10.

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gnifica in genere alterazione profonda. Medea non fa eccezione, rientrando in un più vasto e articolato ripensamento :sul mito condizionato da impulsi intellettuali e personali autentici, sofferti, e già benissimo analizzati e studiati. Come viene restituita, invece, la protagoni:sta della tragedia di Euripide? Il film ribalta completamente il sit M·edea /erox della drammaturgia antica10, vale a dire quella norma di efferatezza che perfino la versione 'innocentista' della Lunga notte di Medea di Corrado Alvaro conserva. Vedi il dialogo tra le ancelle: Nosside Layale N osside Layale N osside

Medea non può essere che vendicativa Superba Pericolosa Prodigiosa Maligna e infida

Tra le centotrentacinque riscritture importanti catalogate in cinque continenti dopo quella di Alvaro, datata 194911 , l'unica eccezione nota a questa 'norma', e di qualche importanza, è costituita dalla Medea incolpevole e perseguitata di Christa Wolf. Il cinema in particolare, dalla seconda metà del secolo scorso, punta regolarmente su protagoniste estremamente violente: tale è l'americana Brenda di Dream o/ Passion di Jules Dassin (1978), la nera madre di Dea/ man Glance di Bob Wilson (1987), la Medea di Lars von Trier (1988) e quella senecaneggiante di Asz' es la vida di Arthur Ripstein (2000) 12 • In conformità e perfino al di là delle stesse intenzioni di Pier Paolo Pasolini, Maria Cal-

las intese interpretare una Medea di nobili sentimenti: «anche se non è facile, cerco sempre di mettere in luce dei sentimenti nobili. Credo questo si addica alla mia natura. Spero di essere riuscita a far venire fuori l'umanità di Medea il più possibile ... forse sono un po' in contrasto con Pasolini, ma io voglio più la bontà del personaggio, vado oltre i suoi aspetti più sgradevoli. L'aggressività non esiste nella mia natura» 13 . In realtà, la profondità espressiva del volto di Maria Callas nel film si impone soltanto nella prima parte, dove «contribuisce a creare quel senso di sacralità che Pasolini persegue nelle fasi di lavorazione del film [. ..] (egli) è affascinato dalla carica umana che la Callas lascia trasparire dal suo volto: 10

H oR., A rs poetica 123.

11

Medea contemporanea cit., pp. 228-232 .

12

Sulle Medee cinematografiche per ultima v1edi la rassegna di G. M AcHì, Medea e il cinema, in Medea, Teatro di Messina, Messina 2002, pp. 36-53. 13 M. CALLAS, Sono per una Medea non aggressiva. Conversazione con Giacomo Gambetti, in P.P. P ASOLINI, Medea, Milano 1970, pp. 13-14; poi in Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Milano 1991, pp. 464-476.

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MARGHERITA RUBINO

Questa barbarie che è sprofondata dentro di lei, che vien fuori nei suoi occhi, nei suoi lineamenti, ma non si manifesta direttamente, anzi, la superficie è quasi levigata [... ]. Lei viene fuori da un mondo contadino, greco, agrario, e poi si è educata per una civiltà borghese. Quindi, in un certo senso, ho cercato di concentrare nel suo personaggio quello che è lei, nella sua totalità complessa>>14 •

Una cosa, però, sono le intenzioni registiche e interpretative, un'altra i risultati di spettacolo. Così, la Medea della Callas soltanto nella sezione 'barbarica' del film corrisponde a quell'idea di alterità, di fascino arcaico che l'autore aveva 1n mente. Nella sezione 'euripidea', dove continua e prevale la dimensione frontale del personaggio, l'espressività di Medea-Callas non è così diversa da quella del campione sportivo Giuseppe Gentile-(:;.iasone, e risulta francamente inferiore a quella di Massimo Girotti-Creonte. La più grande Medea del XX secolo, Maria Callas, risulta qui, all'atto della vendetta e dell'infanticidio, presenza puramente iconica. Non donna ma simbolo, le cui algide fissità rispondono ai dettami della regia. Tutti i personaggi del film hanno volti immobili, tratti poco mutevoli, da teatro giapponese in certi casi, come se già fossero maschere: Medea più degli altri, a segnare proprio in questo il distacco massimo dal personaggio euripideo, individuo di articolate, progressive, profonde emozioni. Qui Callas è più simbolo che interprete. Inquadrata dalla macchina da presa costantemente in dimensione frontale, risponde alla natura generalmente iconica della filmografia di Pasolini. Non porta sul volto il mutamento, la fierezza della vendetta, il tentativo di una /acies civile, nessun sinistro fulgore infine. Contro dichiarazioni di intenti e intese preliminari, la caratterizzazione del personaggio è esclusivamente, frontalmente, monotonamente visiva. Sta dunque nella presenza} e non certo nell'interpretazione di Maria Callas, la forza e la poeticità di uno spettacolo in cui quasi nulla conta, neppure il dialogo. La costante del film è quella del silenzio, la costante sonora è il grido o la musica «con abbondanza di cori, pianti, grida rituali che tendono sempre a trovare una soluzione o un contrappunto in altri elementi 'vocomorfi' della colonna sonora, rumori assordanti, suoni vibranti di sitar o lira»15 . Il film ha poco parlato e quel poco soprattutto nella parte finale; via via che scorrono le sequenze, tuttavia, ci si trova coinvolti in questa scelta. Medea non ha alcuna fi14

Cfr. la splendida analisi di R. CALABRETIO, Pasolini e la musica, Pordenone 1999, pp. 438442 e le pagine 551-553 della bibliografia finale. La citazione pasoliniana è tratta da N. NALPasolini~ una vita, Torino 1989, p. 338. G. MANZOLI, Voce e silenzio nel cinema di Pier Paolo Pasolini, Bologna 2001, specie pp. 125-146. La citazione è a p. 145.

DINI, 15

MEDEA DI PIER PAOLO PASOLINI. UN MAGNIFICO INSUCCESSO

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ducia nel potere della parola, quello che conta per lei, i riti in Colchide, o l'infanticidio, rito anch'esso, a Corinto, avvengono tutti in assoluto silenzio. Questi silenzi paiono scelta tanto artistica1nente ineludibile quanto vincente negli effetti: esprimono una distanza incolmabile, sono metafisici piuttosto che psicologici. Vale anche per Edipo re, naturalmente. Nel caso di Medea, è noto, non si trattò di una scelta a priori. Nelle ½·sioni era previsto che la 'divina' cantasse, vedi i numeri 56 e 95. Alla sequenza 56 si legge che la donna avrebbe dovuto cantare, in una gara di intensità e cli acuti forse, con le sirene: Allora Medea, come un automa si alza, e comincia a cantare la stessa canzone delle sirene (in ritardo - come si dice? - di una frase) ma più forte e terribile, tanto da soverchiarle, e renderle appena percettibili, secondarie. La scena cessa con l'ultima nota del lunghissimo canto.

Alla sequenza 95, quella dell'infanticidio, doveva cominciare a cantare «una vecchia ninna nanna popolare [ .. .] restando inespressiva, perduta nella melodia»; si intende che la ninna nanna avrebbe dovuto durare qualche minuto, poiché il figlio più grande non si addormenta subito, e marcare una precisa scansione temporale poiché «spentosi il canto di Medea, un profondo silenzio è ripiombato nella casa». Entrambe le soluzioni vennero scartate all'atto di girare il film, dal quale venne così totalmente eliminata la più bella voce del secolo. Pasolini diventa «celui qui ne fit pas chanter Maria Callas»16. Non siamo certi che non siano sopraggiunti impedimenti tecnici; il risultato però dimostra che «il silenzio della Callas è, se possibile, più penetrante ed espressivo perfino della sua voce» 17 . Questa Medea pasoliniana acquista senso e coerenza, trae forza dall'immagine stessa di sé, e quel silenzio della protagonista, oltre che poetico, pare esito di un certo vissuto e di rinnovate scelte interiori. Su altro versante vengono largamente riconosciuti, e non da ieri, i meriti formali del film, l'assoluto fulgore figurativo dovuto alle idee e alle soluzioni del poeta. Occorre però ricordare come vada attribuito a Medea anche un merito storico, che solo oggi si constata e che appare indubitabile: il film capovolse per sempre quegli elementi figurali di gusto rigidamente, o prevalentemente, neoclassico imperanti fino a metà degli anni sessanta negli spettacoli ispirati alla drammaturgia antica. Nel caso di Medea, era rimasta immutata l'icona creata (e fotografata) della 'divina' Sarah Bernhardt nell'interpretare la tragedia di Catulle Mendès: peplo bianco, ricco di pieghe, corona di orchidee in testa, brac-

16

Cfr. la citazione e la discussione riportate in CALABRETIO, Pasolini e la musica cit., pp. 443-

445. 17

MANZOLI,

Voce e silenzio ... cit., p. 169.

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cio levato. Simili appaiono tutte le protagoniste della prima metà del Novecento, ivi compresa la celebrata Medea di Tatiana Pavlova della già citata Lunga notte di Corrado Alvaro (1949). Due anni dopo, la Medea di Robinson Jeffers, affidata a Judith Anderson (Londra, 1951), indossa ancora pepli chiari ed esibisce rigide gestualità. La rottura avviene al tempo della Médée di J ean Anouilh, messa in scena da Giancarlo Menotti al teatro Quirino di Roma nel 1966. Menotti abbigliò l'attrice Anna ~v1agnani con vesti lunghe e nere, capelli sciolti ed enormi gioielli di gusto etnico: si trattava però di una zingara e la scelta figurale era innovativa, ma del tutto logica. Pasolini aveva appena diretto la Magnani in Mamma Roma (1962) ed assistette certamente all'allestimento di Menotti: basta confrontare le immagini di Medea-Magnani (1966) con quelle di Medea-Callas (1969) per scoprire comle Pasolini si sia ispirato, per i costumi realizzati da Piero Tosi, a quella icona tanto più moderna e differente rispetto a tutte le altre18. Quell'icona domina la prima parte del film e rispecchia il tempo arcaico, barbarico; ma è presente, .attraverso la Callas, anche nel secondo tempo, quello della vita civilizzata. Per certi versi, anzi, esiste nel film una sorta di continuità tra i due tempi e i due mondi. In apparenza, era più caro a Pasolini il tempo arcaico, rituale: si è appena verificato come, per oltre due terzi, i 'tagli' or ora recuperati filmano scene della vita in Colchide. Di certo la macchina da presa accarezza in maniera più accattivante le pianure immense, i luoghi di un Oriente che pare non avere nessun confine, contro le mura, le fortificazioni che chiudono l'occidentale e civile Corinto. Ed è ben noto come agisca fortemente su Pasolini la spinta verso il passato contadino, materno, sentito come un 'prima' rassicurante: qui tale mito coinciderebbe con l'Oriente credente e animista di Medea. Ma la cultura dell'età del mito, in questo film, non pare positiva contro una cultura del progresso che si dimostra negativa. Non esiste una Colchide-Turchia equivalente ad una età dell'oro, oggetto di nostalgia. Se in un primo momento il Centauro aveva detto che in quell'età, in una natura sconfinata, «tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo [. .. ]. In ogni punto in cui i tuoi occhi guardano è nascosto un dio! E se per caso non c'è, ha lasciato lì i segni della sua presenza sacra» (scena 7 dei Dialoghi definitivi della Medea); in seguito svela invece che «non c'è nessun dio» (scena 15a), come era stato spiegato già alla scena 15 delle Visioni («Gli dei sono fole, i culti follie»). Se non c'è nessun dio, i sacrifici urnani che occupano circa 15 minuti del film sono violenza gratuita, non motivata da principi o credenze profonde. Ed anche l'epoca della civiltà della tecnologia, ove «il centauro ha subito una ulteriore trasformazione in tecnico: le sue case sono diventate una officina, in cui 18

Cfr. le quattro fotografie riportate in Medeti contemporanea cit., p. 25.

MEDEA DI PIER PAOLO PASOLINI. UN MAGNIFICO INSUCCESSO

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ai suoi ordini lavorano degli operai. Sono pronte le armi» (scena 15) è destinata a generare violenze. Gli uomini nuovi, i Greci, sono altrettanto spietati di quelli delle organizzazioni tribali. Le due civiltà, contadina e tecnologica, sono comunque abnormi e generano entrambe sangue: le membra fatte a pezzi del giovane sacrificato, quelle sanguinolente di Absirto, i quattro morti della sequenza finale. Ad un tipo di crudeltà fideistica se ne sostituisce un'altra, lucida e diretta; ma il mito non risulta per niente rassicurante. Da una cultura ad un'altra progresso dunque non c'è. Pasolini devalorizza, smonta, nega in sostanza l'idea di progresso; negandola, attenua di fatto la distanza tra i due mondi. Se mai, del mito e della tradizione si dice che non possono essere gettati via senza che vi siano ripercussioni. Giasone rinnega Medea, e con lei rinnega il passato ed il proprio passato. Progresso, si è detto, non esiste, ma se anche vi fosse, se mai potesse esserci, potrebbe funzionare: a patto però che non vengano tagliate via le radici. Infine, per quanto riguarda la sceneggiatura e l'impostazione iniziale di Medea, va riconsiderata la questione dei rapporti tra Cari Theodor Dreyer, Pier Paolo Pasolini e Lars von Trier. Nel 1962 il grande maestro del cinema danese aveva pronte 46 cartelle con la sceneggiatura di una Medea da girare in Grecia (scritte con l'aiuto del prete-poeta Preben Thomsen), per la cui protagonista Dreyer aveva pensato a Maria Callas. Interpellata, la cantante rifiutò la parte, e questo dovette incidere non poco sulla mancata produzione del film 19. Nel 1988, lo scarno 'scenario' di Dreyer venne usato per realizzare una magnifica Medea ad opera di Lars von Trier, che programmaticamente vi si attenne; nella realtà fece un film assolutamente nuovo e differente20 . Ma Dreyer era sempre stato indicato da Pasolini come il prop1rio cineasta ideale, maestro di un cinema cui egli si ispirava. Soltanto oggi, però, su segnalazione di Massimo Fusillo, si è appreso che tra le carte del fondo Pasolini è stata ritrovata la versione inglese dello 'scenario' di Dreyer, tradotta da Elsa Gress21 • Non vi è più dubbio, dunque, che Pasolini abbia letto quelle 46 cartelle. In almeno tre punti, inoltre, vi si è ispirato: 1. La sequenza 12 dello scenario di Direyer prevede riti della fertilità; come quelli che occupano la scena 20 e dintorni del nostro film. 2. Nello scenario viene raffigurata una 1\1edea sensuale, seduttiva, davvero inedita nella lunga storia del personaggio; soprattutto, è fuor di tradizione che

19

La cantante stessa ricorda, a suo modo, l'episodio nell'intervista premessa alle Visioni e ai Dialoghi definitivi di Medea; cfr. PASOLINI, M edea, in Il Vangelo ... cit., p. 475. 20 M edea contemporanea cit., pp. 38-41. 21 Cfr. il dibattito sul mio libro più volte citato in «Primafila», 71 (2001), pp. 4-26; l'intervento di Fusillo è a p. 14.

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faccia ancora l'amore con Giasone dopo il secondo incontro, come si vede in Pasolini e in Von Trier, che su Dreyer si è basato. 3. Con tutta evidenza, deriva da Dreyer la scena dell'infanticidio, figurato come una eutanasia. Tanto in Dreyer che in Pasolini, i bambini vengono addormentati con una dolce ninna nanna, che Medea canta sia in Dreyer («Ti sto cullando verso un dolce sonno [ .. .] possano le mani della notte accarezzare teneramente la tua fronte, come ora ti accarezzo io. Delicatamente scende il buio, ed il giorno perde i suoi colori, come ora li perde il tuo visino») che, secondo la sequenza 95, in Pasolini. Nei Dialoghi definitivi: come si è detto, si rinunciò alla fine a far cantare a Maria Callas «una dolce ninna nanna popolare». Nel film, comunque, la Callas culla con dolcezza estrema i bambini, nella stessa posizione suggerita nello scenario di Dreyer. Manca ancora un confronto sistematico tra i tre film, tra i quali esiste una interessantissima interdipendenza. Per ora ci si può limitare a segnalare una suggestione, due singolari parallelismi, come quelli che a volte si autogenerano tra scene pure non derivate da fonte co1mune. Tanto Pasolini che Lars von Trier usano una sola volta la sovrimpressione nel loro film, allo stesso identico punto, quando è in atto la vendetta di Medea. Lei stessa appare in sovrimpressione su Creante morituro nel film italiano, mentre Creante dilaniato dalle fiamme appare in sovrimpressione su Medea, vicina alla vendetta, nel film danese. Dei rapporti ricorrenti, e ricorrentemente additati, tra Pier Paolo Pasolini ed una idealizzata immagine femminile,. materna, mitica, primigenia, il film Medea rappresenta, alla fine, soprattutto il fallimento. Evidente nella battuta finale: «No, non insistere ancora, è inutile! Niente è più possibile ormai!». Anche più dolorosa qui, rispetto a tanta produzione del passato, la rinuncia definitiva a qualsiasi possibile rapporto, conciliazione o convivenza con il femminile. Ma è questo l'unico fallimento del film Medea.

RAPPRESENTARE L' ARCAICiO: PASOLINI ED ESCHILO NEGLI APPUNTI PER Ul\T)0RESTIADE AFRICANA Enrico _Medda

Eschilo in Africa

Concepito a quasi un decennio di distanza dall'esperienza della traduzione dell'Orestiade, il 'film da farsi' Appunti per un)Orestiade africana riprende la lettura politica della trilogia di Eschilo delineata da Pasolini nella Lettera del Traduttore che accompagnava il testo dell'()restzade del 19601 . Decisive appaiono in questo senso le coincidenze fra quelle pagine e quanto Pasolini scrive nella Nota per l'ambientazione dell'Oresttade in Africa, un breve appunto dattiloscritto risalente al 1968, pubblicato solo dopo la morte dell'autore2 • In entrambi i testi Pasolini individua come nucleo essenziale dell' Orestiade il passaggio da una società primitiva, dominata dai sentimenti primordiali, oscuri, irrazionali, simboleggiati dalle Erinni, a una nuova comunità statale democratica, guidata dalla Ragione (Atena) e fondata su moderne istituzioni umane ed elettive: il tribunale, l'assemblea, il suffragio. Culmine di questo processo appare a Pasolini la trasformazione delle Erinni in Eumenidi, che simboleggia la necessità di non far scomparire del tutto dalla nuova società le radici dell'antico mondo, per quanto paurose e oscure esse possano essere. Cito dalla Nota del 1968: «Le Erinni, che hanno dominato tutta la parte prima della tragedia in quanto Dee della Tradizione - una tradizione, appunto, selvaggia, grondante sangue e pervasa dal terrore - alla fine non sono distrutte dalla Dea della Ragione, ma sono trasformate: esse restano sì divinità irrazionali, arcaiche, ma anziché presiedere

1

Cfr. EscmLo, Orestiade, tr. it. di P.P. Pasolini, Torino 1960, pp. 1-3 [ora in TE, pp. 10071009]. 2 La Nota per Fambientazione dell'Orestiade in Africa fu pubblicata per la prima volta in «La città futura», 23 (7 giugno 1978), e successivamente riproposta in Pier Paolo Pasolini. Il cinema in/orma di poesia, a cura di L. De Giusti,, Pordenone 1979, pp. 79-81. La si legge adesso in PC, I , pp. 1199-1201 da cui cito.

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a sogni atroci, ossessi, degradanti, presiedono alle opere della poesia, della fantasia, del sentimento»3 • La Nota prosegue esplicitando le ragioni che hanno fatto germogliare nel regista l'idea di istituire un collegamento fra il testo di Eschilo e l'Africa degli anni sessanta, impegnata nel faticoso processo di fuoruscita dal periodo coloniale. «eOrestiade sintetizza la storia dell'.A. frica di questi ultimi cento anni: il passaggio cioè quasi brusco e divino, da uno stato 'selvaggio' a uno stato civile e democratico: la serie dei Re, che nell'atroce ristagnamento secolare di una cultura tribale e preistorica, hanno dominato - a loro volta sotto il dominio di nere Erinni - le terre africane si è come di colpo spezzata. La Ragione ha istituito quasi motu proprio istituzioni democratiche»4 . In un secondo scritto risalente anch'esso al 1968, un breve soggetto per l'Orestiade africana intitolato J;Atena bianca5 , Pasolini mette ulteriormente a fuoco la sua riflessione: «Atene (modello di forme democratiche) è il mondo bianco progressivo: e Atena, la Dea che ha insegnato a Oreste la democrazia, istituendo il primo tribw1ale umano e l'istituzione della votazione, è una dea bianca»6. Agli occhi di Pasolini l'Africa degli anni sessanta appare come w1 luogo privilegiato, dove si sta attuando il passaggio tra un periodo storico 'medioevale' e uno 'democratico', un cambiamento che le culture europee hanno già vissuto lasciando che il contatto con le antiche radici si perdesse irrimediabilmente. In Africa quel passaggio «è il tema centrale della storia di oggi»7 e l'arcaica cultura magico-rituale è ancora presente a fianco della moderna cultura razionale, anche se in rapido declino. Là soltanto, dunque, è ancora possibile inseguire il sogno di una sintesi vitale fra le due civiltà, e ritrovare l'opportunità ormai irrimediabilmente perduta per gli europei: •«la civiltà arcaica - detta superficialmente folclore - non deve essere dimenticata, disprezzata e tradita. Ma deve essere assunta all'interno della civiltà nuova, integrando quest'ultima, e rendendola specifica, concreta, storica. Le terribili e fantastiche divinità della Preistoria africana devono subire lo stesso processo delle Erinni: e divenire Eumenidi»8 . L'Africa è per Pasolini un simbolo di speranza, in quanto luogo «dove le antiche divinità primordiali coesistono con il nuovo mondo della ragione e della 3

Nota per l'ambientazione... cit., p. 1199. Ivi, pp. 1199-1200. 5 Il testo dattiloscritto del soggetto I:Atena bianca, anch'esso rimasto inedito in vita dell'autore, è stato pubblicato per la prima volta in Le regole di un'illusione. Il cinema, ifilm, a cura di L. Betti, M. Gulinucci, 'Fondo Pier Paolo Pasolini', Roma 1991, pp. 219-220; lo si veda ora anche in PC, I, pp. 1202-1204, da cui cito. 6 PASOLINI, I:Atena ... cit., p. 1202. 7 PASOLINI, Nota per l'ambientazione ... cit., p. 1199. 8 Ivi, p. 1200. 4

PASOLINI,

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libertà» e il popolo, divenuto almeno formalmente padrone di se stesso, si avvia lentamente e non senza problemi verso un futuro che «è nella sua ansia di futuro», come recita la voce del regista nella bella chiusa del film9. Siamo, come si vede, al cuore della poetica pasoliniana di quegli anni, che sviluppa una mitologia terzomondista da contrapporre alla nuova barbarie della società industriale e consumistica.

È sulla base di questi presupposti che Pasolini fra il dicembre 1968 e il febbraio 1969 si reca in Africa per realizzare, in varie località dell'Uganda e della Tanzania10, una serie di riprese preparatorie, alla ricerca di luoghi, situazioni e personaggi adatti per la trasposizione africana del mito di Oreste. Nelle intenzioni originarie del regista, il film avrebbe dovuto essere parte di un più vasto progetto, dal titolo Appunti per un poema sul Terzo Mondo, comprendente altri quattro episodi, ambientati in India, nei Paesi Arabi, nell'America del Sud e nei ghetti negri degli Stati Uniti; e ancora nell'autunno del 1968, poco prima dell'inizio delle riprese, Pasolini in una intervista rilasciata a Lino Peroni si dichiarava incerto se utilizzare per l'episodio africano il soggetto de Il padre selvaggio, risalente al 1962, o se puntare sull'Orestzade a/ ricana11 • Successivamente, tramontato il progetto a episodi per problemi di produzione, il materiale girato in Africa fu montato assieme ad altre immagini, parte di repertorio (sulla sanguinosa guerra del Biafra), parte girate in Italia: un incontro/intervista con

9

In assenza di una sceneggiatura scritta, per gli A ppunti per un'Orestiade africana disponiamo soltanto della trascrizione del sonoro del film, pubblicata in P.P. PASOLINI, Appunti per un'Orestiade africana, a cura di A. Costa, Quaderni del Centro Culturale di Copparo, Copparo (Ferrara) 1983 e riprodotta in PC, I, pp. 1177-1196, da cui si cita (il passo ricordato è

a p. 1196). P asolini effettuò riprese in Tanzania spostandosi tra Dar-es-Salaam e il lago Tanganika, attraverso i centri di Dodoma e Kigoma, in una regione prevalentemente abitata dal gruppo etnico dei Wagogo, appartenenti alla famiglia Bantu, e dai Masai. Visitò inoltre la regione del Lago Vittoria e la capitale dell'Uganda, Kampala, che assieme a Dar-es-Salaam dovrebbe rappresentare nel film «l'antica moderna città di Atene»: PASOLINI, A ppunti... cit., p. 1190. 11 «Inquadrature», 15-16 (autunno 1968), ora in PC, II, pp. 2931-2936 (si vedano in particolare le pp. 2935-2936). Il padre selvaggio fu ispirato a Pasolini dal suo primo viaggio africano, in Kenia, nel 1961. Il soggetto fu scritto nel 1962, ma la realizzazione del film fu abbandonata, per dichiarazione dello stesso regista, a seguito del processo intentatogli per La ricotta. Il soggetto fu pubblicato da Pasolini prima in «Cinema e film», 3-4 (estate-autunno 1967), e poi presso Einaudi nel 1975. Nell'intervallo fra le due edizioni il progetto dell'Orestiade africana era maturato, soppiantando la prima idea di un film africano. Tuttavia, come dirò più avanti, qualche traccia del Padre selvaggio riaffiora negli Appunti per un'Ore10

stiade africana.

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studenti africani dell'Università di Roma, ai quali il regista sottopone il suo progetto, sollecitandoli ad esprimere opinioni in proposito, e la registrazione di una session di /ree ja:a. nella quale i cantanti Yvonne Murray e Archie Savage, accompagnati dal sassofonista Gato Barbieri e dal suo gruppo, interpretano la scena di Cassandra dall'Agamennone. Le immagini sono commentate in prima persona dalla voce fuori campo del regista, che spiega le ragioni e il metodo della sua ricerca. L'opera fu presentata alle 'Giornate del cinema italiano' a Venezia il 1° settembre del 1973.

Una sintonia pro/onda Non spetta a me, che affronto l'opera muovendo dalla prospettiva dello studioso del teatro antico, avventurarmi nell'analisi delle specifiche caratteristiche e del linguaggio di questo film pieno di poesia, che autorevoli interpreti hanno annoverato - con piena ragione, credo -- fra i vertici espressivi del regista. Il mio intento è soltanto quello di sviluppare qualche riflessione sul rapporto problematico e fecondo di Pasolini con la tragedia di Eschilo, l'autore che apre e chiude il ciclo del suo incontro con il teatro antico. Mi chiedo in sostanza quali siano i reali punti di contatto fra l'opera antica e la moderna, e se sia possibile ricostruire almeno in qualche caso il percorso creativo di Pasolini a partire dagli spunti offerti dal dramma eschileo. Innanzitutto, è opportuno sottolineare che, nel caso dell' Orestea di Eschilo, l'approccio filmico di Pasolini si realizza successivamente all'esperienza della traduzione e al serrato confronto che essa aveva comportato con il testo antico sul piano verbale12 • La cosa è rilevante perché, a differenza di quanto avviene per Edipo re e Medea, nel caso dell' Orestiade af ricana Pasolini aveva in mente di mantenere come filo conduttore il testo originale, naturalmente nella sua traduzione, limiti e pregi della quale sono stati chiaramente messi a fuoco dalla critica13 . 12

«Mi sono gettato sul testo, a divorarlo come: una belva, in p ace: un cane sull'osso, uno stup endo osso carico di carne magra, stretto tra lle zampe, a p roteggerlo» scriveva Pasolini nella Lettera del traduttore [TE, p. 1007]. 13 Il severo punto di vista di un grecista di prim'ordine è espresso nella recen sione che dell'Orestiade pasoliniana diede E. Degani in «Rivista di filologia e di istruzione classica», n.s. 39 (1961), pp. 187-193. Degani individuò una serie di fraintendimenti anche gravi, dimostrando che Pasolini aveva tenuto presente la itraduzione francese di P aul Mazon, su cui aveva lavorato, assai più dell'originale di Eschi]lo. D egani rimproverava inoltre al traduttore l'introduzione indebita nel testo di concetti e termini estranei alla cultura dell'autore antico. Alcuni studi successivi hanno cercato di valorizzare le ragioni poetiche del tradurre p asoliniano: si vedano in p articolare N. F AGIOLI,, 'L:Orestiade di Pasolini, in «Resine», 3 (1980), pp. 9-18, e la raffinata analisi di M. FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini. Mito e cinema, Fi-

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Nel film alcuni brani della traduzione del 1960 sono effettivamente recitati dalla voce fuori campo del regista14 , che li accosta a persone e situazioni che gli sembrano prestarsi al suo scopo. Si crea così un articolato gioco di sovrapposizione e di arricchimento reciproco fra lla dimensione orale del testo teatrale e l'atmosfera magico-rituale delle immagini. L'effetto è duplice. Da una parte le parole di Eschilo fungono come una sorta di test, in grado di verificare l'effettiva capacità delle immagini di suscitare emozioni e risonanze comparabili con quelle delle parole antiche; dall'altra le immagini, con il loro autonomo valore visuale, aggiungono nuovi livelli di senso al testo, facendo in qualche modo rivivere il contesto rituale nel quale in origine esse affondavano le loro radici. Come esempio, a mio parere assai riuscito, di questa feconda interazione si può citare l'appunto relativo all'arrivo di Elettra alla tomba del padre. Mentre la voce di Pasolini recita la dolorosa preghiera che nelle Coefore Elettra rivolge agli dèi sotterranei e al padre (Ch. 124a-139): Dio dell'Inferno, re dei vivi e dei morti, fa' che ascoltino questa mia preghiera gli spiriti che stanno sotto terra, testimoni terribili dell'assassinio di mio padre, e la Terra stessa, madre di tutti noi, che ci ha nutriti e in sé ci riaccoglie, a germinare nuove vite - mentre versando quest'acqua sacra ai morti, io prego mio padre: «Padre, pietà di me, e di tuo figlio Oreste! Fa' che torniamo padroni della nostra casa! Ora non siamo che due diseredati senza speranza: così ci ha ridotti la stessa nostra madre che ha sposato Egisto, complice del suo omicidio. Io sono viva e schiava, Oreste vivo, e in esilio, e quei due trionfano, ricchi della tua ricchezza. Che un caso divino riconduca qui Oreste, questo ti chiedo, dammi ascolto, padre! [. .. ]»

renze 1996, pp. 190-214, che individua un meccanismo di 'appropriazione' per cui Pasolini ai concetti e alle polarità presenti nel testo di Eschilo ne sovrappone altri appartenenti al suo sistema di pensiero, con un risultato poetico che riscatta ampiamente le debolezze filologiche. 14 In qualche caso, ad esempio per quanto riguarda la scena di Cassandra, Pasolini introdusse lievi modifiche e tagli rispetto alla traduzione del 1960. Siti e Zabagli, in PC, II, p. 313 6, danno notizia dell'esistenza, nell'Archivio Pasolini (presso l'Archivio Contemporaneo Alessandro Bonsanti del Gabinetto Vieiusseux di Firenze), di un dattiloscritto contenente i brani del Coro e di Cassandra con le modifiche dell'autore.

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sullo schermo scorrono le itnmagini degli abitanti di una povera capanna che con umile dignità compiono arcaici gesti rituali versando libagioni su una tomba, una semplice zolla di terra smossa di fresco, che il regista fantasticamente equipara al sepolcro di Agamennone. 11 senso del contatto fra vivi e morti, l'idea del viaggio che la preghiera compie sottoterra per giungere alle orecchie del padre, e la stessa invocazione alla Terra, madre di tutti i viventi, trovano e1nozionante espressione visiva nel genuflettersi di w1a giovane donna sulle zolle ancor fresche della tomba a versare una tazza di latte, in un' atn1osfera di dolorosa quanto dignitosa povertà, che appare in sintonia anche col tema della perdita dei beni paterni, presente nelle parole di Elettra. La scelta di recuperare ampiamente il testo originale è il segno di una particolare sintonia di Pasolini con l'opera di Eschilo. Tale sintonia trova la sua ragion d'essere, io credo, nella natura particolare della trilogia, e soprattutto del1' ultima tragedia, le Eumenidi. In questo dramma Pasolini non trovava soltanto, come nel caso di Edipo e Medea, una crudele vicenda mitica da assumere quale espressione del conflitto fra il rnondo primitivo e il mondo razionale. Nell'Orestea egli aveva davanti agli occhi la drammatizzazione del principio stesso di quel conflitto, ipostatizzato nelle figure delle Erinni, le dèe della Tradizione, che nella sua prospettiva africana si sovrappongono naturalmente alle «fantastiche Divinità della Preistoria africana». Il testo di Eschilo si prestava dunque ad una ripresa diretta, giacché «il problema veramente scottante e attuale, ora, negli anni Sessanta - gli Anni del Terzo Mondo e della Negritudine - è la 'trasformazione delle Erinni in Eumenidi': e qui il genio di Eschilo ha tutto prefigurato»15 . Ma torniamo alla domanda cui accennavo sopra, e cioè in che misura e in quali forme si realizzi - al di là della ripresa testuale - il contatto fra l'autore antico e il moderno. A chi guardi la questione a partire dal testo di Eschilo non può non risultare evidente che la parte più fragile dell'approccio pasoliniano consiste nella lettura ideologico-politica che egli fa della trilogia, lettura che com'è noto risente non poco della discutibile interpretazione proposta da G. Thomson nel libro Eschilo e Atene, apparso in traduzione italiana nel 1949 16 . Tale fragilità si ripercuote su buona parte di quelle che Pasolini individua come le «ragioni strutturali» della trasposizione del mito di O reste nel mondo africano. Mi limiterò in proposito a poche osservazioni. L'Orestea di Eschilo non è riducibile senza serie forzature interpretative ad una metafora del passaggio da un arcaico regime tirannico ad un nuovo e più giusto regime democratico, fi1

15 P ASOLINI, Nota per l'ambientazione ... cit., p . 1200. 16 G. T HOMSON, A eschylus and A thens. A Study in the

don 1941 (tr. it., Torino 1949).

Socia! Origins o/ Greek Tragedy, Lon-

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glio delle forze della ragione che vincono su quelle dell'irrazionalità. Nella trilogia c'è piuttosto la drammatizzazione di un importante nucleo conflittuale della società ateniese del tempo di Eschilo, generato dal permanere, all'interno di istituzioni sociali e giuridiche democratiche già sviluppate, di forti componenti arcaiche, risalenti a un livello pre-giuridico, che si manifestavano in concetti quali la contaminazione dell'assassino e il senso della responsabilità oggettiva e della responsabilità collettiva della famiglia. Si trattava di elementi in grado di evocare paure ataviche, che si ponevano in attrito con la nuova concezione di un diritto fondato sulla responsabilità personale. Il sovrapporsi e l'interagire di questi due livelli culturali, evidentemente non riconducibili ad una opposizione tirannia/democrazia, è una delle molle più potenti della tragicità antica, non soltanto di Eschilo. Il tentativo che Eschilo opera nell'Orestea è quello di mostrare - attraverso l'evocazione del passato mitico, di una storia paurosa come quella dei delitti a catena commessi nella famiglia degli Atri di, e delle terribili divinità che tutelavano i diritti del sangue - come la sopravvivenza dei residui arcaici, simboleggiati dalle Erinni, sia vantaggiosa per la coesione del corpo sociale, rispetto al quale assolve a una funzione stabilizzante17 • Per sancire la validità di questo principio, il drammaturgo proietta all'indietro, nel passato mitico, la fondazione dell'istituto giuridico, l'Areopago, che meglio rappresentava all'interno della polis - con la sua specifica competenza sui delitti di sangue - il permanere delle paurose ombre pregiuridiche, imbrigliate e disciplinate in un nuovo contesto politico. Difficilmente però Eschilo avrebbe potuto presentare quel tribunale agli ateniesi del suo tempo come simbolo della democrazia elettiva. Esso era piuttosto trad~zionalmente visto come il baluardo del potere aristocratico; e proprio negli anni immediatamente precedenti all' Orestea un politico democratico, Efialte, aveva cercato di limitarne i poteri. Vana1nente, del resto, si cercherebbe nel testo di Eschilo una 'elezione' dei giudici, anzi «leprime elezioni della storia, rappresentate fantasticamente dalle prime elezioni dell'Africa indipendente», di cui parla Pasolini nel commento del film 18. Nelle Eumeni-

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Sulla prospettiva etico-didattica entro la quale Eschilo cercava di riportare gli elementi culturali arcaici a vantaggio della coesione sociale della polis sono fondamentali i numerosi scritti eschilei di V. Di Benedetto: si vedano im particolare V. Dr BENEDETTO, Eschilo e l'ideologia del potere, Torino 1978, e In., Eschilo e lo sviluppo delle forme tragiche, in ESCHILO, Orestea, con introduzione di V. Di Benedetto, tr. it. di E. Medda, L. Battezzato, M.P. Pattoni, Milano 19992 • 18 PASOLINI, Appunti... cit., p. 1191; cfr. anche PASOLINI, I.;Atena ... cit., p. 1203, dove si parla dell'«istituzione del tribunale umano, del diritto di voto ecc.». Si osservi nei due brani il lieve ma significativo slittamento rispetto alla formulazione più moderata che Pasolini aveva adottato nella Lettera del traduttore del 1960: «Atena istituisce la prima assemblea democratica della storia» (ivi, p. 1009).

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di i giudici di Oreste sono scelti da Atena che dice con tutta chiarezza (vv. 487488): «Kpivaoa ù' (XCJ'tWV 'tWV ȵfuv 'tà ~ÉÀ'ta'ta / iisw ùLaLpdv 'tOtho Jtpciy µ' È'tYj'tUµwç», «io ritornerò dopo aver scelto i migliori fra i miei cittadini, perché decidano rettamente questa causa». La traduzione che riporto è di Maria Pia Pattoni, e rende con fedeltà il senso dell'originale. In quella di Pasolini il dato della scelta appare comprensibilmente attenuato: «io tornerò, portando con me i migliori / della città»19 . Sostanzialmente estranea ad Eschilo appare anche la presentazione del personaggio di Oreste come il giovane che, proveniente da una città (Argo) tribale, feudale, tirannica, grazie all'incontro con Atene, la città nuova della Ragione, scopre la de111ocrazia e la riporta con sé in patria20 . Nell'Orestea l'Argo di Agamennone è presentata come una monarchia non certo oscura né tirannica, fatta salva la parentesi di usurpazione del potere da parte di Clitemestra ed Egisto; ed Oreste, dopo essere stato assolto nel processo, torna in patria a riprendere leprerogative regali che erano di suo padre, senza alcun mutamento di regime (cfr. Eum. 764). Di riflesso, risulta forzato anche il tentativo operato nel film di assimilare Oreste ai giovani africani che, lasciati i loro arcaici villaggi, vengono nelle città per confrontarsi con il mondo occidentale. In effetti, alcune delle risposte di giovani studenti sollecitati dal regista con la domanda scherzosa «vi sentite un po' Oreste?» fanno affiorare le contraddizioni di questa prospettiva21 • Riconoscere tutto questo non significa riproporre la questione, alla fin fine sterile, della 'fedeltà' o del 'tradimento' dell'autore moderno rispetto all'antico. Si deve soltanto prendere atto senza infingimenti del fatto che sul piano ideologico Pasolini utilizza Eschilo come un substrato sul quale innestare istanze politiche e poetiche sue proprie. La sintonia con il testo antico va cercata altrove, e in particolare, a mio parere, nella tensione che i due autori din1ostrano verso la ricerca di linguaggi atti a rappresentare lo strato culturale primitivo che entrambi sentono così vital-

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Cfr. ESCHILO, Orestiade cit. [TE, p. 985]. Nel testo greco è discusso se -rà ~ÉÀ.-ra.-ra. indichi i 'migliori' in senso morale (e cioè 'i più saggi' e quindi competenti nel giudicare) o se il termine abbia specifica valenza politica ('i più nobili'). Questo non cambia i termini della questione in relazione a Pasolini; tuttavia, se s.i assume come valido il secondo significato, la natura aristocratica e non elettiva dell'Areopago ne esce ulteriormente sottolineata. 2 Cfr. PASOLINI, I:Atena ... cit., p. 1203: «Infine c'è il ritorno di Oreste, redento dal terrore, al suo mondo tribale, al suo villaggio. Vestito in abiti moderni, con una 'nuova mentalità' egli si ripresenta ai vecchi della sua 'città medievale' in preda al terrore e all'idillio, come un riformatore, il portatore di un messaggio di democrazia». Pasolini aveva qui in mente lo sviluppo che aveva dato alla trilogia eschilea, in termini esplicitamente politici e allusivi all'esperienza del fascismo e della resistenza, nel dramma Pilade del 1966. 21 Cfr. PASOLINI, Appunti... cit., pp. 1192-1194.

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mente presente nella realtà. VOrestea è indubbiamente esemplare da questo punto di vista. Eschilo ricorre a tutti i mezzi messigli a disposizione da una drammaturgia ancora giovane, ma da lui stesso portata a traguardi considerevoli. Sul piano dell'espressione verbale, la lingua raggiunge vette di tensione espressiva altissima, soprattutto nelle parti dell'Agamennone in cui affiora l'inquietudine del coro, resa da immagini di grande potenza. A questo si assomma una magistrale capacità di far interagire parola, musica e danza nelle scene in cui con più forza affiora la suggestione del primitivo e del magico: ho in 111ente brani come l' «uµvoç ùÉCTµLoç EpJtÉ1:W VOOOç

«non soffi rovina che devasta gli alberi - è del nuo favo re che sto parlando - sì che l'arsura che priva le piante delle gen1me non oltrepassi il confine del paese, e non si insinui rovinoso morbo che distrugge i frutti»36 . Ma, soprattutto, è notevole come la bella i1nn1agine pasoliniana del vento 'erinnico' che batte le piante riprenda fedelmente quella del greco :rtVELV, 'soffiare', che, oltre che nel passo appena citato, si associa all'azione delle Erinni in Eum. 13 7 (aù oatµa-r17pòv JtVEDµa b1coupiaaaa -rcp, «fagli sentire addosso il tuo fiato sanguinoso», trad. Pasolini) e 840. In questo secondo passo il coro, adirato per l'assoluzione di Oreste, reagisce con lo splendido verso JtvÉw -roL µÉvoç a.Jtav-rci 'tE K6-cov, «la mia collera io spiro, e tutto il nuo rancore» (trad. Pattoni) 37 . Pasolini trasforma dunque in elemento visivo quella che nel testo greco è immagine metaforica. la scena tragica da Eschilo in due tragedie perdute, gli Epigoni e l'Eri/ile, e poi da Sofocle, da Euripide e da numerosi altri poeti tragici. 35 Cfr. PAUS., VIII 34, 1. 36 La traduzione è mia ed è intesa soltanto a rendere fedelmente il senso del testo originale. 37 La traduzione di Pasolini rende meno felicemente µÉvoç con «disperazione».

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Nel caso specifico, poi, credo si possa andare ancora oltre, fino a individuare con precisione la genesi lontana di questo elemento del film. Le Coefore si concludono con la fuga di Oreste, sconvolto dalla vista delle Erinni che gli turbano la mente. Le ultime parole della tragedia sono pronunciate dal coro, che introduce l'immagine, tipicamente eschillea, della tempesta che per la terza volta si abbatte sulla casa (Ch. 1065-1067): OÒE "COL µEÀa0pou; 1:oi:ç ~aOLÀELOLç; 1:pi1:oç; aù XELµwv nvEuoaç yoviaç; È1:EÀÉ0811

«per il palazzo regale questa è la terza tempesta che ancora una volta soffiando si compie, ed affligge la stirpe» (trad. Battezzato). Fin qui, nulla di particolare. Il dato che colpisce è che nel 1960, traducendo questo brano della tragedia, Pasolini aveva introdotto di sua iniziativa un'alterazione, tale da potenziare, a scapito della lettera del testo, proprio l'imrnagine del vento. Là dove Eschilo scriveva, con riferimento a Oreste (Ch. 1073-1074) vuv 8 aù 1:pi1:oç ~À0É no0Ev oorc11p, 17 µ6pov dnw;

«ed ora per terzo da qualche luogo è venuto il salvatore - o morte è il non1e da dargli?» (trad. Battezzato), Pasolini traduceva: «ed ora per la terza volta ci travolge il vento ... ma è speranza o disperazione?», sostituendo all'immagine del «salvatore» quella del vento, presa dai versi precedenti, quasi a significare che il nuovo delitto porta inesorabilmente con sé la prospettiva di un ritorno della tempesta delle Erinni, pronta a turbare ancora w1a volta la vita della casa di Atreo. L'associazione fra il delitto, le Erinni e il vento doveva aver colpito particolarmente la sensibilità di Pasolini già allora e, dopo un lungo periodo di latenza, germoglia piena1nente nella scena degli Appunti.

Il coro Un altro elemento della tragedia di Eschilo cui Pasolini dedica un'articolata sequenza di riflessioni è il coro. Fin dalle prime battute del commento, la voce fuori campo di Pasolini sottolinea la vollontà di dare al film un carattere popolare, e dunque di dedicare ampio spazio alla componente corale: «Vorrei che il mio film sull'Orestiade in Africa, fosse un film il cui carattere fosse essenzialmente popolare. Quindi, vorrei dare un'enorme i1nportanza al coro, al coro che nelle tragedie greche parla all'unisono, ferino sotto il palcoscenico,

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mentre qui vorrei naturalmente distribuirlo nelle sue situazioni reali, realistiche, quotidiane»38 . Anche in questo caso, non è sul piano della precisione filologica che si deve cercare la sintonia fra Eschilo e Pasolini. L'idea del coro tragico espressa dal regista risulta infatti piuttosto approssimativa rispetto alla realtà di un fenomeno che nel teatro antico appare ben più complesso. L'immagine di un coro fermo sotto il palco non risponde certamente alla pratica drammatica di Eschilo, che assegna ai suoi cori movimenti anche rnolto articolati, ad esempio nelle Supplici e nelle stesse Eumenidi. Inoltre, la stessa esistenza di un palco rialzato in grado di separare lo spazio degli attori da quello del coro è quanto mai dubbia per la tragedia del V secolo a.C. E soprattutto, l'identificazione del coro con il 'popolo' corrisponde solo a una delle molte possibilità che si realizzano nella tragedia attica sul piano dell'identità corale, un dato che può variare ampiamente in relazione alle necessità specifiche dei singoli drammi39. Nell'Orestea, in particolare, non si può certo dire che rappresentino il popolo i cori delle Coefore (serve della casa di Elettra, che per la loro condizione non potevano tendenzialmente identificarsi con la comunità dei liberi cittadini) e delle Eumenidi (le dèe stesse, che vengono poi accolte dal popolo ateniese). Nell'Agamennone le cose vanno un po' 111eglio, ma neppure degli anziani di Argo si può dire che impersonino senz'altro «il popolo di Argo», visto che del popolo riferiscono talora le opinioni come distinte dalle proprie (cfr. ad esempio Ag. 427-457, 1612-1615). E tuttavia, l'idea popolare del coro proposta dal regista recupera una funzione essenziale della voce corale antica: la capacità del coro di farsi portavoce della memoria collettiva, di essere depositario di una saggezza tradizionale che rinsalda il senso dell'unità del gruppo, di portare in gioco il remoto passato mitico perché esso si faccia sfondo su cui proiettare la vicenda tragica facendone affiorare il senso più profondo. La strada che Pasolini intraprende nel film per cercare di ricreare il senso di questa voce collettiva è quella del dissolvimento del gruppo corale in una serie di situazioni e personaggi distribuiti in tutto il corso dell'opera. Le situazioni che Pasolini filma in quanto utili al fine di rendere l'elemento corale sono la vita quotidiana in una povera capanna, un traghetto che attraversa il Lago Vittoria, carico di contadini che vanno a scambiare merci, una donna che attinge acqua da un pozzo, alcuni bambini, due piccoli mercati cittadini, sorti dove fino a poco tempo prima non e' era che un pie-

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PASOLINI,

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Sulla natura e le funzioni del coro tragico rimando in generale a V. Dr

Appunti... cit., pp. 1178-1179.

E. MEDDA, La tragedia sulla scena. La tragedia greca in quanto spettacolo teatrale, Torino 20022 , pp. 23 3-265. L'identità dei cori tragici è al centro, da alcuni anni, di particolare attenzione critica: il contributo più recente è quello di H. FoLEY, Choral Identity in Greek Tragedy, in «ClasBENEDETTO -

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colo luogo di riunione nella campagna aperta; e poi - per ricomprendere l' elemento moderno - donne all'uscita di una fabbrica, ragazzi che frequentano una scuola. Ed ecco l'idea che il regista ha della loro partecipazione al film: «I personaggi del coro, chiacchiereranno intorno ai benzinai, con i loro clienti, i bambini curiosi, i sarti. I sarti e i loro clienti, naturalmente, fanno grandi chiacchiere. Parlano di potenti, parlano di politica. Non trascureremo, naturalmente, il barbiere, dove, come in tutto il mondo, si fanno grandi chiacchiere. [. .. ] Questa gente colta nel suo daffare quotidiano e nella sua umile vita di ogni giorno, dovrebbe essere la protagonista del film l'Orestiade africana. Sono loro che, appunto perché così realistici, così veri, hanno dentro di sé quel n1omento mitico e sacrale che fa loro dire, per esempio frasi come questa: 'Dio, se questo è il tuo nome, se con questo nome vuoi che ti invochi, ho soppesato ogni cosa: io non conosco che te, a sciogliermi veramente dall'incubo che mi pesa sul cuore'»40 . Anche in relazione al coro, come nel caso delle Erinni, la scelta espressiva di Pasolini non è frutto di una intuizione immediata, ma piuttosto di una riflessione che matura progressivamente a partire dallo spunto offerto dall'esperienza antica. La Nota per l'ambientazione dell'Orestiade in Africa affrontava infatti l'argomento in una prospettiva diversa rispetto ai passi tratti dal sonoro del film appena citati: «Basta pensare a che stupenda funzione possono avere i cori in un film africano: basta prendere della gente di qualche villaggio (direi senz'altro dell'Africa cosiddetta 'sudanese', le cui istituzioni monarchiche, sotto la veste dell' arabizzazione, conservano elementi della monarchia faraonica egiziana, discesa in tutta l'Africa equatoriale del Nord, attraverso la Nubia) e dire a questa gente: 'cantate e ballate', ed ecco che i cori greci sembreranno rivivere: basterà stampare come didascalila sotto quelle voci selvagge che cantano le parole chiarificatrici e evocatrici del Coro»41 . In questa fase Pasolini ha in mente la possibilità di realizzare l'elemento corale come un gruppo di cantori/danzatori, in w1a dimensione dunque più vicina alla realtà della tragedia di Eschilo; e anche in questo caso, come per le Erinni, Pasolini arriva a distaccarsi dallo spunto originario in direzione di una resa più astratta, meno realistica. L'idea originaria della Nota, tuttavia, non va del tutto perduta nella realizzazione del filnr1. Essa subisce uno spostamento e riaffiora nella parte finale degli Appunti per un'Orestiade africana là dove Pasolini pone il problema della rappresentabili1tà della trasformazione delle Erinni in Eumenidi.

sical Philology», 98 (2003), pp. 1-30, che offre anche ampia informazione bibliografica.

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Il regista presenta in successione akune situazioni che gli sembra possano essere utilizzate a questo scopo. La prima è la gioiosa danza di un gruppo di Wagogo, che ripete ormai solo per divertimento i movimenti che in origine appartenevano a un rituale dal preciso significato religioso (forse cosmogonico, come ricorda la voce del regista fuori campo). Poi Pasolini filma una festa di matrimonio, a proposito della quale osserva che «queste acconciature, questo modo di camminare, questi cenni di danza, questi gesti, questi tatuaggi nei visi sono tutti segni di un antico mondo magico. [ .. .] Ma questo mondo magico si presenta qui, come vedete, come tradizione, come un antico spirito autoctono che non vuole andare perduto»42 . Si noti in questo commento il riaffiorare del motivo dei tatuaggi di cui si è discusso in precedenza a proposito della rappresentazione delle Erinni. Qui però esso è collegato non più alla terribilità delle Erinni, ma all'affiorare della loro presenza positiva nei gesti della gente comune, nei membri cioè del grande coro della tragedia. Infine, mettendo ulteriormente a fuoco l'appunto, Pasolini individua un gruppo di donne prezzolate che svolgono una danza rituale, nelle quali vede «le depositarie, evidentemente più ancora degli altri, di quell'antico spirito di cui parlavo. Ecco, queste potrebbero essere benissimo nel mio film le Furie trasformate in Eumenidi»43 . Riportando ancora una volta in gioco personaggi umili appartenenti al popolo, Pasolini giunge dunque a fondere le due modalità di rappresentazione del coro, e risolve, forse senza averlo programmato, anche una questione rilevante posta dal terzo dramma della trilogia eschilea, nel quale il coro non rappresenta la comunità cittadina ma un elemento estraneo e potenzialmente ostile rispetto alla collettività ateniese. In Eschilo, le dèe si uniscono, nel finale della trilogia, con la popolazione che le accoglie e le festeggia; in Pasolini, la fusione si fa ancora più stretta, e la coralità del popolo, protagonista del film, assorbe direttamente le dèe, che si trasformano «in voglia di felicità, di festa; in grazia, in leggerezza, in spensieratezza che sono tratti molto tipici dello spirito africano»44_ Una grazia che ha arriso anche al regista nel suo partecipe accostarsi alla magica terra d'Africa con un film di cui mli sento di dire che, come per i protagonisti dei suoi Appunti, le Erinni di una vita difficile si sono trasformate e, anziché presiedere a sogni atroci, ossessi, degradanti, hanno presieduto a un'opera di poesia, di fantasia, di sentimento. 4

o P ASOLINI, Appunti... cit. , pp. 1179-1180.

41

Nota per l'ambientazione ... cit., p . 1200. A ppunti... cit. , p. 1195. Ivi, p. 1195. Ivi, p. 1196.

P ASOLINI,

42 P ASOLINI, 43 44

RECITARE I CLASSICI: LA POESIA ORALE NEL CINEMA DI PIER PAOLO PASOLINI Giacomo Manzoli

l Vangelo , Edipo re, Medea, Orestiade (sia pure in forma di appunti), Decameron, Racconti di Canterbury, Mille e una notte (sia pure in antologia), Le centoventi giornate di Sodoma. Se c'è una cosa che davvero non può essere imputata al cineasta Pasolini è la scarsa fiducia nel mezzo filmico, il timore che il mezzo - il cinema come espressione della modernità - non possieda le caratteristiche, gli strumenti, la natura adatta a fare proprio qualunque testo letterario. Basta scorrere i titoli della sua filmografia per rendersi immediatamente conto di due cose: Pasolini concepisce il cinema anche in funzione della letteratura, come il luogo privilegiato di uno dei suoi innumerevoli dialoghi, quello con i grandi autori del passato. D 'altro canto, egli concepisce anche il cinema come una sfida testuale, quanto meno un confronto diretto, con se stesso (Accattone, Mamma Roma, La ricotta, Teorema, Porcile) o con altri autori. E se confronto dev'essere, tanto vale che sia con i monumenti della letterat1L1ra (e, più in generale della cultura) per quanto problematico e impervio possa essere questo confronto. San Matteo, Sofocle, Euripide, Eschilo, Boccaccio ... Ora, la distanza temporale e culturale, l'intreccio infinito di discorsi che sono stati prodotti su questi autori e le loro opere, in una parola la complessità della relazione intertestuale che si viene a creare fra questi 'oggetti' letterari (usiamo un termine che consenta di considerare il fenomeno letterario nell'accezione più ampia e generica, quella che comprende anche i testi teatrali nella loro forma scritta) e il loro corrispettivo filmico, costringe qualunque studioso che voglia occuparsene a compiere un percorso in salita, in bilico fra due voragini. Al rischio, in pratica, di passare dall'ovvio all'ottuso senza soluzione di continuità. Come ha osservato nel corso di questo stesso convegno Maria Grazia Bonanno, si rischia di restare come paralizzati dall'incomparabilità di oggetti così diversi come una tragedia greca antica e un film realizzato nella seconda metà del XX secolo, a meno di non utilizzare - come lei ha fatto - il filtro, la media-

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zione di un comune denominatore. Nel caso specifico si trattava della traduzione eschilea commissionata da Gassrr1an all'inizio degli anni sessanta. Ma per gli altri film? Già, perché, anche ammettendo di poter scavalcare le epoche e i secoli, come tutte le forme di strutturalismo hanno preteso di fare (spesso con troppa disinvoltura), resta pur sempre da considerare la differenza fra un testo letterario, scritto in un linguaggio scritto/parlato e un testo filmico, ovvero - utilizzando il termine che proprio Pasolini contribuì ad introdurre in Italia - audiovisivo. Ecco che allora, per lo studioso di cinema, anche nell'analisi dei film pasoliniani tratti dalle tragedie greche, è impossibile prescindere dalla questione preliminare, che riguarda il problema della trasposizione letteraria. E il problema terminologico è, qui più che altrove, una ottima base di partenza. Io ho usato con leggerezza il sostantivo 'trasposizione', ma, come osserva giustamente Antonio Costa1, avrei potuto usarne molti altri e ciascuna scelta avrebbe comportato delle conseguenze. Quindi, prima di tutto, la questione si pone in questi termini: come possiamo definire i film di Pasolini in relazione ai testi cui si ispirano? Si può parlare infatti di 'messa in scena cinematografica' del Gattopardo di Tornasi di Lampedusa, implicando un certo automatismo, una prassi di lavoro su un testo che sarà poi possibile ritrovare (con analogie e differenze) nel film. Per essere estremamente sintetici e cornprensibili, possiamo dire che la messa in scena è quell'operazione che - seguendo determinate regole fissate dalla consuetudine - aspira alla realizzazione di un testo filmico dopo aver visto il quale si può 'fare a meno' di leggere il romanzo (uso l'espressione provocatoriamente, per rendere l'idea). Ebbene, sappiamo tutti benissimo che un lettore dell'Edipo o di Medea, un eventuale studente che debba essere interrogato sul testo originale, non troverebbe certo materiale sufficiente nei film di Pasolini per sostenere la sua interrogazione. Si troverebbe di fronte a profondissime lacune e verrebbe fuorviato da aggiunte che propongono una lettura di quei testi assolutamente personale. Del resto, risulta difficile anche solo immaginare Pasolini impegnato in un'operazione di routine, nell'esercizio di una prassi consolidata e meccanica di sceneggiatura derivata da un romanzo, secondo quel modello che François Truffaut2 imputava a 'mestieranti' qualit Aurenche e Bost. Difficile usare anche un altro termine, comunemente utilizzato per definire

1

Nel corpo dell)immagine) la parola: la citazione letteraria nel cinema, in Cinema e letteratura: percorsi di confine, a cura di I. Perniola, Venezia 2002, pp. 33-48. 2 F TRUFFAUT, Una certa tendenza del cinema francese (l 954), in ID., Il piacere degli occhi, Venezia 1989 (Paris 1987), pp. 179-194. Si veda A.

COSTA,

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il film in funzione del testo letterario di partenza, quale 'riduzione'. Sebbene le fonti dei film di cui ci occupiamo siano dei veri e propri monumenti fondativi dell'intera cultura occidentale, pensare a Pasolini (un «energumeno della cultura italiana novecentesca» per dirla alla Benigni) che riduce qualcosa nell' atto di farlo proprio può suonare persino imbarazzante. Più pertinente, forse, il termine 'adattamento', che suggerisce l'idea di collocare un oggetto (magari un mito) in 1L1n ambiente che non è il suo. Pasolini adatta a se stesso, forse, sia Sofocle che gli altri autori classici. E, similmente, non scarteremmo a priori il termine 'trasposizione su pellicola' che implica un passaggio (sebbene su un supporto che lo stesso poeta/regista definisce «fragile come le ali di una farfalla»). La parola trasposizione, infatti, contiene in sé quell'elemento di transitorietà, quell'idea di passaggio non completato e non completabile che molto piaceva a Pasolini. E somiglia parecchio alla parola 'traduzione', riutilizzata dalla semiotica per cercare di indagare il fenomeno della trasformazione dal letterario al cinematografico. Sulla scia di un concetto elaborato da Umberto Eco, infatti, vi è ormai una scuola che imposta la questione considerandola come 'traduzione intersemiotica' (o trans-semiotica)3, ponendo l'accento sul fatto che il testo passa da un linguaggio ad un altro linguaggio, diverso non per il tipo ma per la sostanza dei suoi segni. Il tema è caro a Pasolini. Infatti, se si va a leggere l'introduzione alla sceneggiatura (si fa per dire) dell'Edipo4, ci si trova di fronte ad uno scritto che per due terzi risulta dedicato ad argomenti di tipo semiotico che in quel momento (sono gli anni dei convegni pesaresi) ossessionano l'autore. Si parla di equivalenza fra semiologia del cinema (e del teatro, eventualmente) e semiologia della realtà. Senza addentrarsi in un territorio che ci porterebbe lontani dalla strada maestra, possiamo però osservare che quanto Eco chiama 'sostanza semiotica' pare essere assai simile a ciò che per Pasolini è, più semplicemente, un 'sistema di segni' e che il tempo pare aver dunque ravvicinato due studiosi che alla fine degli anni sessanta si trovavano su posizioni contrapposte. Fino ad ora, tuttavia, le considerazioni che abbiamo fatto chiamano in causa i segni, il codice, le differenze strutturali che si possono individuare tra cinema e letteratura. Queste, per quanto debbano sempre essere tenute presenti, non sono certo sufficienti alla comprensione del legame che i due testi stabiliscono,

3

Si veda, ad esempio, N. Dus1, Il cinema come traduzione, Torino, 2003. P.P. PASOLINI, Perché quella di Edipo è una storia (pubblicato come introduzione alla sceneggiatura in Edipo re. Un film di Pier Paolo Pasolini, Milano 1967), in In., Il Vangelo secondo Matteo, Edipo re, Medea, Milano 1991, pp. 315-324 [PC, I, pp. 1055-1059].

4

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direttamente o indirettamente, deliberatamente o involontariamente, fra loro. Dal codice, infatti, si scivola fatalmente ad una relazione testuale propriamente detta, quella che solitamente viene considerata sul piano dell'analisi comparata, quella che si sviluppa attorno all'elenco delle varianti, delle aggiunte e delle sottrazioni, delle sostituzioni, delle modificazioni, con le cause e le intenzionalità che possono averle determinate. Fra il segno e il testo, nel centro, si colloca il medium, il mezzo corr1unicativo attraverso il quale i due testi vengono appunto trasmessi, la modalità specifica del loro manifestarsi. Al vertice ultimo, poi, si colloca l'autore. Ovvero, la comparatistica mira, in ultima analisi, ad un confronto fra autori, presupponendo che il testo sia formato da segni e composto da una serie di elementi eterogenei (i personaggi, le motivazioni, gli eventi, gli ambienti, l'intreccio e così via) che assumono una forma precisa attraverso una messa in discorso (e un'enunciazione) che dipende direttamente da colui che la esegue. Ovvero, nel momento in cui l'analisi pretende di comprendere i film pasoliniani dedicati alla tragedia classica a partire da quest'ultima, si propone in realtà di considerare il legame (fatto, come ogni legame, di somiglianze e differenze) che ha riguardato, di volta in volta, Pasolini e Sofocle, Pasolini e Euripide, Pasolini e Eschilo (non necessariamente in quest'ordine, non necessariamente con Pasolini come polo privilegiato: si veda, ad esempio, l'analisi di Paduano5 ). Qui la faccenda si fa davvero complicata perché, attraverso un testo, un autore mette in scena contemporaneamente se stesso e un mondo, sicché il raffronto fra i due autori si risolve in un raffronto complessivo fra mondi (in questo caso lontanissimi). E allora - tanto per fare qualche esempio - bisogna considerare che, per quanto l'Edipo di Sofocle possa essere :senza complesso6, l'Edipo di Pasolini (o meglio l'Edipo/Pasolini) quel complesso non poteva non averlo, essendo filtrato da una prospettiva fortemente freudiana. Bisogna considerare che Medea somiglia necessariamente alla Mamma Roma di Anna Magnani perché ne rappresenta in qualche modo l'archetipo. E, ancora, si deve tenere presente che il cinema (come la letteratura e il teatro) è un fatto sociale, qualcosa che pretende di influire sul suo contesto, di far fare o almeno pensare qualcosa di specifico al suo fruitore, tanto più che anche queste sono opere a tesi, per quanto a canone sospeso, aperte.

5

G. PADUANO, Lunga storia dell'Edipo re, Torino 1994, pp. 204-215. Ci riferiamo ovviamente al celeberrimo saggio di J.-P. VERNANT, Edipo senza complesso, in J.-P. VERNANT - P. VIDAL-NAQUET, Mito e trt'igedia nell'antica Grecia, Torino, 1976 (Paris 1972), pp. 64-87. 6

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Resta quindi da rispondere alla dornanda: che cosa sono, per il Pasolini di Edipo re, Medea, Orestiade africana, le corrispettive opere di Sofocle, Euripide, Eschilo? Come sempre è lui stesso a suggerire possibili soluzioni. Nel descrivere operazioni e procedimenti che l'hanno portato a realizzare l'Edipo non utilizza mai termini quali adattamento, riduzione, tirasposizione, messa in scena cinematografica o altre formule analoghe. L'atteggiamento è il medesimo che un autore ha solitamente per un testo proprio in tutto e per tutto. Non è neppure un'interpretazione: Pasolini non parla mai, neppure un momento della propria versione dell'Edipo di Sofocle. Coerentemente con questa posizione non si preoccupa assolutamente di stabilire o - peggio - giustificare equivalenze o differenze rispetto al testo d'origine. Gli interessa, insomma, non tanto il testo in se stesso quanto ciò che quel testo significa (tanto è vero che non proclama mai amore particolare per Sofocle e la sua opera, giungendo a definire l'Edipo a Colono «la meno bella tragedia di Sofocle, anzi, una cosa decisamente non bella»7). Un atteggiamento analogo lo si può riscontrare nelle numerose interviste relative a Medea e Orestiade. Se ne può allora dedurre che Pasolini non ha tanto interesse per le opere quanto per il mito che - complice la psicanalisi - ne è scaturito. D 'altra parte, l'interesse pasoliniano per il mito e le sue interpretazioni è ampiamente attestato. È nota la sua 'infatuazione' per Levi-Strauss, il cui Pensiero selvaggio, che funge in fondo da presupposto ideologko per almeno due dei tre film in questione, viene testualmente citato nell'episodio dell'Aquila, poi tagliato dalla versione definitiva di Uccellacci e uccellini. Il mito, dunque, come «verità psicologica», secondo la folgorante definizione dell'antropologo francese8 • Edipo e gli altri sarebbero pertanto verità psicologiche. Cose vere, concrete proprio in quanto miti, stando alle parole del centauro. La natura del mito e la sua struttura, inoltre, tengono banco nel dibattito culturale di quegli anni. Sono anni in cui, per esempio, il prefisso 'meta' viene utilizzato con estrema disinvoltura. E lo stesso Pasolini non lo usa certo con parsimonia: parla infatti spesso del meta-linguaggio della poesia, mentre un altro meta-linguaggio è quello godardiano del meta-cinema che si basa sull'istituzione di una mitologia cinematografica9 • Anche quello del mito, del resto, sarebbe a sua volta una specie di meta-linguaggio, in linea con le teorie di Mircea Eliade e di Roland

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PASOLINI, Perché quella di Edipo... cit. , p. 319 [PC, I, p. 1057]. C. LEVI-STRAUSS, Il pensiero selvaggio, Milano 1964 (Paris 1962). 9 P.P. PASOLINI, Premessa, in J.-L. GoDARD, Il cinema è il cinema, Milano 1971 [ora in SLA II, pp. 2597-2599]. 8

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Barthes, il quale in Miti d'oggi aveva parlato dei segni del mito come «sistemi di segni» dalla natura più complessa, segni di secondo grado10• Da qui, forse, prende l'avvio il discorso pasoliniano relativo alle «strutture che vogliono essere altre strutture», le sceneggiature che sono composte di parole particolari, parole «di uno sceno-testo caratterizzate dall'accentuazione espressiva di uno dei tre momenti di cui sono costituite: segno, segno in quanto cinèma, significato»11• A questo proposito, senza troppo addentrarci in uno dei tanti aspetti periferici del discorso, vale la pena sottolineare come, anche qualora si volesse individuare una forma canonica di intertestualità, secondo lo schema genettiano di ipotesto e ipertesto, fra i film di Pasolini e le tragedie che li ispirano non sarebbe possibile prescindere dalle fasi intermedie attraverso le quali il legame prende forma. Parliamo del soggetto e della sceneggiatura dei film, testi di passaggio fondamentali per comprendere le dinamiche della relazione fra il testo di origine e quello di arrivo. Fermandosi sulla soglia del copione, è già curioso notare come quello che nella prima edizione (Milano 1970) viene specificato come 'trattamento', nei ciak del film era indicato solamente col suo effettivo titolo: ½sioni della Medea12. Ma ancor più interessanti sono Le dichiarazioni che riguardano L'Edipo. Dopo aver espresso il suo disappunto per l'Edipo a Colono, infatti, concede che in esso vi siano «dentro due o tre framrnenti sublimi», da selezionare e inserire nel film. E siamo, finalmente, nel vivo della questione. I.;Edipo di Sofocle non è un vero e proprio ipotesto, bensì un mito che, attraverso un'infinità di passaggi e interpretazioni viene ripreso, anche da Pasolini, per costruirvi attorno un film. Quindi Sofocle, come poi Eschilo ed Euripide, ricompaiono nell'opera cinematografica solo nella forma frammentaria dell'inserto o, meglio ancora, della citazione (peraltro letterale). Bisogna precisare che chiamare in causa il concetto di citazione non significa assolutamente sminuire il rapporto di intertestualità che lega il film alla tragedia. Da un lato, anzi, sarebbe davvero avvilente, perfino improbabile, poter immaginare Sofocle o Eschilo ridotti a ipotesti, minus-testi di qualcos'altro, ed

R. BARTHES, Miti d'oggi, Torino 1974 (rist.) (Paris 1957), in particolare pp. 191-238. P.P. PASOLINI, La sceneggiatura come 'struttura che vuol essere altra struttura (1965), in ID., Empirismo eretico, Milano 1972, p. 191 [ora in SLA, I, p. 1493]. 12 Nella citata edizione Garzanti, a p. 477, il titolo è accompagnato, fra parentesi, dalla specifica 'Trattamento'. In quell'inestimabile documento costituito dal girato non montato del film, conservato presso il Fondo Pier Paolo Pasolini, abbiamo la prova incontrovertibile che Pasolini ha concepito e realizzato un film intitolato Visioni della Medea. Titolo poi semplificato in fase di distribuzione. 10 11

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è difficile pensare un Pasolini che ingenuamente ritiene di poter fornire una propria lettura, per di più attraverso il cinema, di opere stratificate come quelle di cui parliamo (non avendone, peraltro, neppure gli strumenti). Dall'altro lato, bisogna invece tenere presente che, sempre per Genette, la citazione è «la forma più esplicita di intertestualità», forse la più pura, in quanto «presenza fisica di w1 testo in un altro testo»13 (e sappiamo quanto la presenza fisica fosse importante per Pasolini). Ricapitolando, possiamo a questo p1Linto dire che la citazione letterale dell'Edipo, della Medea e dell'Orestiade significa che queste tragedie sono direttamente e fisicamente presenti nei film, dunque - etimologicamente - 'messi in movimento' e 'chiamati in causa'. Non spetta naturalmente allo studioso di cinema stabilire quale parte delle tragedie è messa in movimento e se la direzione del moto è conforme a quella che le stesse tragedie indicavano. Ma la comprensione dei film, del loro funzionamento, non può prescindere da un'indagine sul regime specifico, sulle modalità e le funzioni di questa citazione all'interno dell'opera nel suo complesso. Tanto più che, almeno dalla Ricotta, Pasolini si è proposto come formidabile sperimentatore nel campo della citazione, letteraria, pittorica e musicale. Lì avevamo Bassani che interpretava il corpo dell'attore Orson Welles impegnato nella lettura di alcune poesie dello stesso regista, citate con tanto di note (il libro in mano di cui è visibile la copertina, col titolo e il nome dell'autore) e virgolette (l'apertura della pagina al punto voluto). È ovvio che ogni citazione andrebbe isolata e analizzata nella sua singolarità, per vedere come realmente si struttura. :Nel caso dell'Orestiade, per esempio, le citazioni da Eschilo vengono lette direttamente dalla voce del regista/ poeta, a commento del flusso (audio) visivo deUle immagini che scorrono14. Pasolini in persona cita e re-cita Eschilo, con un preciso registro e una precisa intonazione, diversissimi entrambi da quello che domina il rimanente commento over screen, tendenzialmente colloquiale, illustrativo, ma del tutto simile a quelli con cui egli era solito leggere i propri versi nei documenti registrati (lettura aulica e declamatoria, certo solenne). Più in generale, lo statuto di questa citazione è davvero particolare, quasi unico nella storia del cinema. Non scordiamoci che gli A ppunti per un)Orestiade africana sono in prima istanza un documentario; addirittura, tecnicamente, appartengono a quel sottogenere del documentario che risponde alla qualifica di film etnografico, dove il cinema si mette al servizio dell'antropologia. 13

G. GENETTE, Palimpsestes, Paris 1982, p. 8. Per un elenco dei brani citati si veda A. COSTA, Pier Paolo Pasolini: la scrittura tragica, in P.P. PASOLINI, Appunti per un)Orestiade africana, a cura di A. Costa, Quaderni del Centro Culturale di Copparo, Copparo (Ferrara) 1983, pp. 5-15. 14

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Ebbene, come la semiologia, anche l'antropologia pasoliniana è en poète, sicché i versi di Eschilo servono ad illustrare immagini di africani impegnati nelle loro comuni mansioni. Ma sono proprio quelle immagini, col senso che l'autore sceglie di attribuire loro, a fornire la chi:ave necessaria a comprendere la chiamata in causa, la direzione del movimento del brano eschileo che viene letto. Letto, appunto, e non scritto, altro elemento per nulla casuale che si inscrive in un quadro progettuale più ampio. Siamo sempre nel 1969 quando Pasolini, in un intervento pubblicato sulla rivista Cinema Nuovo, sostiene che il cinema è il luogo ideale dove tentare di far resuscitare la magnifica tradizione della poesia orale15 . In più, come nota ]\1assimo Fusillo, la polarità fra oralità e scrittura è una di quelle su cui si costruisce tutta l'opera letteraria, teatrale e cinematografica di questo autore, anche nel suo rapporto con i testi classici16 • Aggiungiamo, inoltre, che nel suo ricollegarsi al mito dell'oralità e della fisicità della parola incarnata si potrebbe aprire un capitolo ulteriore negli studi che affrontano il legame fra Pasolini e la cultura antica. Si pensi all'amore- spesso dichiarato - per Platone, alla sua conoscenza di quelle opere platoniche - dal Fedro alla VII Epistola - in cui, come ricorda Giovanni Cerri, si tratta della contraddizione insanabile (ossimoro, sinec:iosi) fra una grafomania irrefrenabile e l'amore viscerale (e il privilegio) accordato alla parola o rale 17 . Siamo però già nel campo di quella che non è più citazione ma comunanza di interessi, magari allusione implicita, citazione senza virgolette, riferimento sul piano tematico o filosofico, un territorio estremamente scivoloso che richiederebbe competenze che eccedono nettamente quelle dello studioso di cinema e sono quindi da affidare allo specialista. Ci limitiamo perciò a queste poche :indicazioni di fondo, che speriamo possano servire come spunto di partenza per un lavoro analitico su un rapporto di parentela fra tre capolavori della tragedia classica e tre piccoli, bellissimi, film sperimentali. E se le direttrici di tale rapporto ci sono state fornite dallo stesso autore delle pellicole, lo schema resta articolato e pieno di nodi irrisolti. E per questo, a maggior ragione, straordinariamente stimolante.

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P.P. PASOLINI, Il cinema e la lingua orale> in «Cinema nuovo», 201 (settembre-ottobre 1969), in Io., Empirismo eretico, Milano 1972, pp. 266-268 [ora in SLA, I , pp. 1596-1599]. 16 M. FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini: mito e cinema, Firenze 1996. 17 G. CERRI, Platone sociologo della comunica2:ione, Milano 1991, pp. 78-81.

>. LA MUSICA NELLA 'TRILOGIA CLASSICA DI PIER PAOJLO PASOLINI

Roberto ( ~alabretto

Ebbene, ti confiderò, prima di lasciarti, che io vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo che non riesco a comprare, nel paesaggio più bello del mondo, dove l'Ariosto sarebbe impazzito di gioia nel vedersi ricreato con tanta innocenza di querce, colli, acque e botri, e lì comporre musica l'unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà 1.

« Vorrei essere scrittore di musica»

«L'unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà»: così Pasolini ha cercato di definire la mlUsica in Poeta delle ceneri con un vero e proprio adagio finale dove si può cogliere il fascino che il mondo dei suoni ha sempre esercitato nel suo immaginario. Un fascino enorme, profondamente suggestivo, che ha condizionato la propria poetica cinematografica e che ha lasciato il segno, anche se in maniera meno evidente ma pur sempre importante, nella sua narrativa e poesia. Un fascino:, va infine aggiunto, passionale dato da fortissimi impulsi e folgorazioni nei cuil confronti la riflessione razionale, pur sempre viva e interessantissima, resta comunque ancillare e subordinata. Nella parabola artistico-esistenziale di Pasolini, pertanto, la musica non costituisce 1

P.P.

Poeta delle ceneri, in «Nuovi argomenti», 67-68 (luglio-dicembre 1980), p. 26, poi in Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di G. Chiarcossi, W. Siti, IV, Milano 1996 (1993), pp. 921-922 [TP, II, p. 1288]. PASOLINI,

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un semplice oggetto d'indagine, come in altri registi o scrittori, ma risulta essere una delle chiavi d'accesso per accedc~re al suo universo e al suo pensiero. Pasolini scrive Poeta delle ceneri nell 1966-67. L'anno precedente, nel 1965, egli aveva ultimato Il cinema di poesia e gli altri saggi sul cinema poi contenuti in Empirismo eretico (1972). In uno di questi, Il non verbale come altra verbalità, egli si avvicina ad uno dei luoghi a lui maggiormente cari e scrive: «Il non verbale, dunque, altro non è che un'altra verbalità: quella del Linguaggio della Realtà»2 • L'idea di una possibile semiologia della realtà - allora ritenuta eretica dalle voci più autorevoli della cultura italiana degli anni settanta ma profetica nei confronti della cosiddetta 'testualità del reale' ipotizzata anche da Derrida - lo porta così ad attribuire una privilegiata valenza espressiva alle forme linguistiche atte a cogliere il mistero ontologico, la sua sostanziale ambiguità che l'arte dei suoni sembra essere in grado di cogliere. La musica, nell'essere linguaggio totale, epifanico, scevro da forme di asservimento referenziale, o ancor più onorr1atopeico, e da banali espedienti mimetici, risulta così essere spesso al centro della sua riflessione, nonostante sia l'unico linguaggio artistico con cui Pasolini non si è confrontato direttamente nel corso della propria vita3 . Già negli anni giovanili, prima del celebre incontro con Bach maturato nella primavera friulana, egli si era avvicinato alla musica di Beethoven in termini 'assoluti'. Folgorato dall'ascolto delle Sinfonie del musicista tedesco, in una lettera a Franco Farolfi del 1941 egli scrive: ... Ho innalzato la musica da un concetto puramente edonistico, casuale, labile, a una visione che potrei definire 'spettacolare'. Ed ho mutato radicalmente certe convinzioni: per esempio, non più, come ti dicevo una volta, cerco nella musica la musica oggettiva, descrittiva, ma la musica vivente per se stessa: spettacolo non di figure o caratteri umani, né di bellezze della natura, ma spettacolo vivente per la contrapposizione di sentimenti puramente musicali. [. .. ] Ora mi sono accorto che, mentre prima per stare ad ascoltare una musica e capirla, dovevo ricorrere ad immagini e sentimentalismi, non ce n'è invece affatto bisogno: c'è in noi senz'altro qualcosa dli musicale che diviene sentimento direttamente, senza bisogno di sentimentalismo, rimanendo musica, senza bisogno d'immagini. Tutto ciò lo puoi collaudar,e ascoltando Beethoven: ascolta un tem-

P.P. PASOLINI, Il non verbale come altra verbczlità, da un'intervista epistolare con S. Arecco, Ancora il linguaggio della realtà, in «Filmcritica», 214 (marzo 1971), in ID., Empirismo eretico, 2

Milano 1991 (1972), p. 264 [ora in SLA, I, p. 1594]; il maiuscolo è presente nell'originale. Gli anni trascorsi a Casarsa, com'è noto, hanno visto il giovane Pasolini alle prese col violino e con gli amati repertori bachiani. A nostro avviso, però, questa è stata un'esperienza breve e sostenuta dall'amicizia con Pina Kalz, a testimonianza che «quella della musica fu una brevissima avventura», E. SICILIANO, Vitai di Pasolini, Milano 19812 , p. 57. 3

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po qualunque di una sua qualunque Sinfonia: sentirai una tal forza di sentimento, una tal passione che ti commuove e non sai perché. (Tu non immagini certamente fanciulle sedotte e abbandonate, o un amante geloso, o un fanciullo maltrattato, o una madre amorosa), eppure sei commosso da quel susseguirsi di domande e risposte, da quel rincorrersi di suoni, sei commosso benché tu non veda descrivere niente (descrivere s'intende nel senso comune della parola). Il fatto è questo che il dolore, il problema, l'anelito (chiamalo come vuoi) dell'anima beethoveniana si è espressa in musica, e la musica fa rivibrare in te (per mezzo di quel quid puramente musicale che in noi esiste, e deve solo essere coltivato), quel dolore, quel problema, quell'anelito. Ecco perché la musica semplicemente descrittiva non è grande musica, ma solo mediocre o medio edonismo: ecco perché nulla c'è di più brutto della musica onomatopeica, che imperversa nei concerti di musica varia e leggera, organizzati dall'EIAR con esasperante frequenza. Ecco anche perché la Sesta Sinfonia di Beethoven è, fra quelle che ho sentito, quella che mi piace meno: infatti, checché si dica, c'è in lei qualche rimasuglio descrittivo, non trasformato puramente e pienamente in 'musica in sé stessa' (il cucù, il tuono, un albero rovesciato dal temporale ecc.); mentre quella che fra tutte, finora, preferisco è la Settima, l"aJpoteosi della danza', la più equivoca, la meno definibile: tutto vi è unicamente rnusica e ritmo (il secondo tempo è per me la più grande pagina musicale che si:a mai stata scritta) 4 •

Questa interessantissima lettera - che rivela delle inconsapevoli affinità con l'estetica maturata nel corso del Romanticismo5 , soprattutto con l'autorevole riP.P. PASOLINI, Vita attraverso le lettere, a cura di N. Naldini, Torino 1994, pp. 17-19 [Lettere I, pp. 23-25]. I corsivi sono presenti nell'originale.

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In questa lettera Pasolini rivela infatti la sua sensibilità classico-romantica che tanto ricorda, da un lato, le sottili metafore fiabesche della letteratura musicale dei vari Hoffmann, Novalis e Wackenroder e, dall'altro, la riflessione estetica operata dalle voci maggiormente significative dell'universo filosofico coevo. La rr1usica, infatti, agli inizi del XIX secolo era divenuta oggetto privilegiato d'indagine nella speculazione dell'area tedesca. Fra il 1790 - anno di pubblicazione della Critica del giudizio di Kant - e il 1818- anno in cui Schopenhauer scrive Il mondo come volontà e rappresentazione - assistiamo ad un capovolgimento totale dell'estetica musicale. Un vero e proprio ribaltamento che, grazie al ristretto arco di tempo in cui si compie, rappresenta uno dei fenomeni più interessanti della sua storia. La mancanza di tematizzazioni concettuali determinate e il non favorire il processo razionale, due connotazioni che rendono il linguaggio musicale un gradevole oggetto di piacere, portano Kant ad una generale diffidenza verso tale arte. L'ostilità alla razionalità e alla riflessione diviene, invece, proprio il motivo della sua esaltazione e sopravvalutazione da parte dell' estetica romantica. Un primo motivo anticipatore della teorizzazione schopenhaueriana è rappresentato dalla novellistica di Hoffmann e w·ackenroder, dove assistiamo alla messa a fuoco di alcune categorie del linguaggio musicale tanto care all'estetica romantica, quali l' asemanticità del mondo dei suoni e il loro esser voce del sentimento. Mentre la parola nomina l'interiorità umana, la profonda essenza della musica consiste invece nella presentazione immediata dello spirito, senza l'ausilio di qualsiasi referente esterno. La musica risale, pertan-

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flessione di Robert Schumann6 - mette in luce il modo con cui il poeta si rivolge al linguaggio musicale ed è una significativa premessa al nostro percorso dove prenderemo in esame un preciso momento della sua produzione cinematografica a partire dal commento sonoro7 • La 'svolta' nell'allestimento delle colonne sonore

Secondo Bertini, la seconda fase del cinema pasoliniano, solitamente definita come 'cinema d'élite', segnerebbe una perdita d'interesse da parte del regista nei confronti della musica. L'intuizione felice e illuminante delle sue prime opere (per ciò che riguarda la musica) [scrive Bertini] cede il passo a una più banale routine, il cui concetto guida to, vertiginosamente la scala dei valori del mondo delle arti e, dall'estrema posizione in cui era stata confinata dalla critica kantiana, giunge ad essere posta al vertice supremo di positività. Schopenhauer esalta queste tematiche .. Quando infatti assegna alla musica una funzione gnoseologica, egli la pone non solo come prima fra tutte le arti ma la colloca su un gradino superiore rispetto a queste. Essa infaitti non si limita a rappresentare le idee o i gradi di obiettivazione della volontà - capacità questa che misura le altre arti - ma rappresenta la volontà stessa. La musica ora è il luogo della verità, la sua dimensione ha il potere magico di simbolizzare il mondo dell'interiorità. Molti anni dopo, nel 1871, il Nietzsche de La nascita della tragedia dallo spirito della musica, sarà pronto a raccogliere questa preziosissima eredità apportandovi degli ulteriori contributi personali. In questo clima culturale era così nata l'apoteosi della 'musica assoluta', considerata voce dell'assoluto inesprimibile, che ben si prestava a venire associata all'immagine del tempio dell'arte tanto cara ai romantici. Il tempio come luogo in cui l'artista è solo con se stesso, lontano da qualsiasi forma di contatto con la realtà circostante. Un'immagine che aveva associato i prodotti della creazione umana al piano idealistico della produzione inconscia, per cui l'artista appariva come un essere funambolico e le cui opere si presentavano come una salvezza dalla rovina e dalla corruzione del mondo. Per quanto riguarda questi problemi, si veda C. DAHLHAUS, I.:idea di musica assoluta, Firenze 1988. 6 In uno dei suoi aforismi maggiormente noti il compositore tedesco dirà: «Il tuo detto, Florestano, per cui tu ami di meno la Pastorale e 1'Eroica perché Beethoven stesso le ha così denominate, ponendo in tal caso dei limiti alla famtasia, mi sembra che si basi su un sentimento sincero. Se me ne chiedi però il perché, non saprei darti risposta», R. CALABRETTO, Robert Schumann. Chopin e il virtuosismo romantico, Venezia 1989, p. 50. Alla nostra introduzione di questa raccolta di scritti ci sia consentito rimandare per un approfondimento dei problemi relativi sopraccitati. 7 Sulla base delle medesime considerazioni va anche contestualizzato il rifiuto, meglio le perplessità, di Pasolini nei confronti del teatro d'opera, dove la musica è costretta ad assecondare le esigenze del verso poetico. Per quanto riguarda quest'ordine di problemi, con tutte le oscillazioni nelle relative prese di posizione, ci sia consentito rimandare al nostro Pasolini e la musica, Pordenone, 1999, pp. 161-164.

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è [...] la rielaborazione o la creazione di rnusica 'illustrativa' secondo il costume o l'epoca del film. La musica, per quanto impeccabilmente appropriata, si limita per usare la formulazione pasoliniana - a un'applicazione 'orizzontale'8.

Quest'affermazione è molto discutibile. È vero, infatti, che in alcuni film del 'cinema d'élite', basti pensare a Porcile, Pasolini ridimensiona fortemente la presenza della musica, in gran parte diegetica, all'interno del racconto cinematografico9, ma sarebbe più corretto dire che ne ripensa le funzioni, senza che questo comporti una perdita del suo interesse. Contrariamente a quanto accadeva in Accattone, Mamma Roma e il Vangelo secondo Matteo, dove i repertori bachiani affollavano molte sequenze per lunghi tratti del racconto cinematografico e con una funzione didascalica10:, ora la musica si presenta con modalità molto differenti e, nonostante le mutate parvenze, è pur sempre importantissi-

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A. BERTINI, Teoria e tecnica del film in Pasolini, Roma 1979, p. 68. Quando Bertini parla di 'applicazione orizzontale' si riferisce all'interessantissimo e lungimirante saggio di Pasolini sulla musica da film, dove il regista distingue, appunto, fra un' 'applicazione orizzontale' e un' 'applicazione verticale'. «L'applicazione orizzontale [scrive Pasolini] si ha in superficie, lungo le immagini che scorrono: è dunque una linearità e una successività che si applica a un'altra linearità e successività. In questo caso i 'valori' aggiunti sono valori ritmici e danno una evidenza nuova, incalcolabile, stranamente espressiva, ai valori ritmici muti delle immagini montate. L'applicazione verticale (che tecnicamente avviene allo stesso modo), pur seguendo anch'essa, secondo linearità e successività, le immagini, in realtà ha la sua fonte altrove che nel principio; essa ha la sua fonte nella profondità. Quindi più che sul ritmo viene ad agire sul senso stesso. I valori che essa aggiunge ai valori ritmici del montaggio sono in realtà indefinibili, perché essi trascendono ill cinema, e riconducono il cinema alla realtà, dove la fonte dei suoni ha appunto una profondità reale, e non illusoria come nello schermo. In altre parole: le immagini cinematografiche, riprese dalla realtà, e dunque identiche alla realtà, nel momento in cui vengono impresse su pellicola e proiettate su uno schermo, perdono la profondità reale, e ne assumono una illusoria, analoga a quella che in pittura si chiama prospettiva, benché infinitamente più perfetta. Il cinema è piatto, e la profondità in cui si perde, per esempio, una strada verso l'orizzonte, è illusoria. Più poetico è il film, più questa illusione è perfetta. La sua poesia consiste nel dare allo spettatore l'impressione di essere dentro le cose, in una profondità reale e non piatta (cioè illustrativa). La fonte musicale - che non è individuabile sullo schermo e nasce da un 'altrove' fisico per sua natura 'profondo' - sfonda le immagini piatte, o illusoriamente profonde, dello schermo, aprendole sulle profondità confuse e senza confini della vita». Questo testo si trova nelle Note di copertina dell'LP di E. MoRRICONE, La musica nel cinema di Pasolini (GM73001) 1984 [ora in PC, II, pp. 2795-2796] ed è riportato anche in BERTINI, Teoria e tecnica... cit., pp. 114-115. 9 Non a caso, la colonna sonora di questo film è di soli 1403 ", come riportato dal programma musicale della S.I.A.E. 10 In questo caso adoperati per la «sacralizzazione del sottoproletariato» come egli stesso dirà.

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ma nel perseguire delle ben precise finalità 11 • Il 'cinema d 'èlite' vede, innanzitutto, dei significativi mutamenti nella scelta dei repertori, per cui quelli bachiani e vivaldiani del 'cinema nazional-popolare' ora vengono sostituiti da quelli di Mozart, dalle cui opere Pasohni dice di aver imparato a conoscere la «leggerezza mortuaria»12; le situazioni danzanti, vera e propria cifra stilistica di tutto il suo cinema, ora si presentano sotto diverse movenze, e il silenzio spesso s'impone come cifra stilistica determLinante. Ciò che va maggiormente sottolineato, in quanto vero e proprio comun denominatore delle colonne sonore di Edipo re e Medea, è però la presenza delle culture musicali extraeuropee, quelle che Roberto Leydi significativamente definisce come 'l'altra musica', mentre negli Appunti per un'Orestiade africana, compare il jazz di Gato Barbieri.

'L'altra musica' nella trilogia tragica L'interesse di Pasolini verso le culture musicali extraeuropee, coltivato con grande attenzione e ancor più sorprendente profondità, non deve stupire. L'autore del Canzoniere italiano e di tanti scritti polemici in cui denw1ciava la scomparsa in Italia delle culture popolari, anche musicali quindi 13 , non poteva non 11

Lo stesso Pasolini, nelle note conversazioni con Duflot, dichiara la sobrietà musicale di questi suoi film. «In Teorema la musica è religiosa, ma su uno sfondo molto attenuato; in Porcile non esiste quasi più, e in Medea mi sito chiedendo se non farne del tutto a meno». Egli poi chiarisce le motivazioni di questa sobrietà.