Il mio e il vostro Sacrificio: Il liturgista risponde (Italian Edition) 9887851493, 9789887851493

Troppo spesso si ritiene che il dibattito liturgico sia questione di competenti in ambiente accademico, ma in realtà la

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Table of contents :
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IL MIO E IL VOSTRO SACRIFICIO
Indice dei contenuti
Prefazione
Un vero Natale
La nascita di Cristo a mezzanotte
L'albero di Natale
I fiori in Quaresima
Il suono delle campane nella notte di Pasqua
L'altare nei riti di 'offertorio'
Gli altari laterali
La balaustra
I candelabri classici
Il gruppo liturgico?
L'omelia ai laici?
L'omelia in mezzo ai fedeli
‘Andate’ o ‘Andiamo in pace’?
La lampada perenne
Il conopeo
Dove deporre la pisside
Vasetto delle abluzioni
Il velo omerale
Comunione in ginocchio
Questa è la parola di Dio?
Formula dopo il Vangelo
L'ambone
Liturgia della parola drammatizzata?
Cartelloni e manifesti in chiesa
Avvisi parrocchiali
Commenti
I doni offertoriali
Etichetta per concerti
Azione liturgica in assenza del presbitero
Leggio davanti alla sede
La sede
Ancora sulla sede
Sul battesimo
Sul microfono
La riforma nella continuità
Confusione nella liturgia
Cosa ha detto il Concilio?
Riti catecumenali
Catecumenato e Anno liturgico
Iniziazione cristiana dei fanciulli
Catechesi sulla Pentecoste
Novena dello Spirito Santo
Veglia di Pentecoste
Celebrazione della Confermazione
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Il mio e il vostro Sacrificio: Il liturgista risponde (Italian Edition)
 9887851493, 9789887851493

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Enrico Finotti

IL MIO E IL VOSTRO SACRIFICIO

il liturgista risponde

Copyright © 2018 Chorabooks, a division of Choralife Publisher Ltd.

All rights reserved.

4/F, Hong Kong Trade Center

161-167 Des Voeux Road

Central

Hong Kong

Visit our website at www.chorabooks.com

First eBook edition: January 2018

ISBN: 9789887851424

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Indice dei contenuti

Prefazione Un vero Natale La nascita di Cristo a mezzanotte L'albero di Natale I fiori in Quaresima Il suono delle campane nella notte di Pasqua L'altare nei riti di 'offertorio' Gli altari laterali La balaustra I candelabri classici Il gruppo liturgico? L'omelia ai laici? L'omelia in mezzo ai fedeli ‘Andate’ o ‘Andiamo in pace’? La lampada perenne Il conopeo Dove deporre la pisside Vasetto delle abluzioni

Il velo omerale Comunione in ginocchio Questa è la parola di Dio? Formula dopo il Vangelo L'ambone Liturgia della parola drammatizzata? Cartelloni e manifesti in chiesa Avvisi parrocchiali Commenti I doni offertoriali Etichetta per concerti Azione liturgica in assenza del presbitero Leggio davanti alla sede La sede Ancora sulla sede Sul battesimo Sul microfono La riforma nella continuità Confusione nella liturgia Cosa ha detto il Concilio? Riti catecumenali

Catecumenato e Anno liturgico Iniziazione cristiana dei fanciulli Catechesi sulla Pentecoste Novena dello Spirito Santo Veglia di Pentecoste Celebrazione della Confermazione

Prefazione

Troppo spesso si ritiene che il dibattito liturgico sia questione di competenti in ambiente accademico, ma in realtà la liturgia è vita quotidiana dell’intero popolo di Dio e soprattutto dei fedeli semplici che vi si accostano con stupore di fede e umiltà di cuore. Proprio da loro vengono fatte le domande più impensate, non prive di profondità spirituale, che rivelano l’azione misteriosa dello Spirito Santo nelle membra del Corpo mistico di Cristo. A queste domande la nostra rivista Liturgia: culmen et fons ha sempre riservato una attenzione particolare nella rubrica: Domande del lettore . Un grazie cordiale al maestro prof. Aurelio Porfiri, che ha voluto raccogliere una parte di tali interventi per offrirli ad un pubblico più vasto interessato all’approfondimento della liturgia in vista di una più cosciente e fruttuosa partecipazione. La raccolta rispetta il carattere di occasionalità ed immediatezza delle domande/risposte pubblicate nei vari numeri a tema monografico della rivista Liturgia: culmen et fons . Si dovrà quindi tener presente la loro non organicità tematica e la diversa estensione delle risposte a seconda degli argomenti. Si noterà la spontaneità di interventi che vanno da una semplice informazione funzionale per lo svolgimento decoroso di un qualche servizio liturgico, alla richiesta di sorprendenti chiarificazioni di natura teologica e spirituale espresse dai normali fedeli delle nostre comuni parrocchie. Una maggiore comprensione del senso e del contesto delle singole domande/risposte, qui raccolte, si potrebbe avere leggendole nel contesto del tema monografico trattato nel numero specifico della nostra Rivista in cui furono originariamente pubblicate. Auguro che questo strumento susciti sempre più l’interesse per una vera ed autentica conoscenza della liturgia della Chiesa nell’umile popolo di Dio.

Un vero Natale

Le nostre liturgie e le tradizioni cristiane sono oggi disturbate da tante distrazioni commerciali e da tanto clamore. E’ ancora possibile vivere un vero Natale? Il Natale è diventato cultura mondiale. Anche i popoli non cristiani hanno inconsciamente assunto, nell’attuale fenomeno della globalizzazione, mentalità e costumi propri del Natale cristiano. Questo fatto in sé è buono ed è in qualche modo profezia del giorno in cui il Vangelo sarà annunziato a tutto il mondo. Anche la nostra società, ormai secolarizzata, non rinuncia a impostare il Natale su simboli e tradizioni che sono di origine cristiana. Le luci, i regali, i pasti, l’albero, i canti, ecc. sono tutte tradizioni che storicamente nascono sul ceppo della cultura cristiana. Vi è tuttavia un singolare attrito nell’odierna cultura: da un lato l’impiego delle tradizioni natalizie come fatto ormai diffuso della cultura occidentale e opulenta, dall’altro un rifiuto della loro anima, che si manifesta nella eliminazione, almeno pubblica, di quei segni natalizi che direttamente e inequivocabilmente rimandano all’evento cristiano, come il presepio. Si vuole il Natale, ma lo si vuole addomesticato ai valori dominanti dell’ateismo pratico. Si direbbe un natale ‘politicamente corretto’. Di qui un subdolo tentativo di cambiare i contenuti e mutare l’origine storica della stessa festa, ricondotta a festa cosmologico-stagionale del solstizio d’inverno. Come agire da cristiani in questo contesto? Occorre innanzitutto evitare una contestazione radicale del natale consumistico-commerciale, fino al punto anche di invocare da parte della Chiesa un mutamento di data. Sarebbe incorrere nel medesimo errore, che si fece negli scorsi decenni, quando in ambienti cristiani si invocava la caduta della societas christiana in nome di un cristianesimo minoritario ed ininfluente nelle istituzioni pubbliche ed educative. Il movimento ha provocato grandi danni all’evangelizzazione, ha incrinato il concetto di missione ed ha privato le giovani generazioni di un proficuo incontro col vangelo nelle istituzioni scolastiche e pubbliche in genere. Si è teorizzato inoltre il principio erroneo dello Stato agnostico, o comunque estraneo alla dimensione religiosa dei cittadini. La strada da percorrere è invece un’altra. Si tratta di ridare al Natale e ai suoi

simboli la loro idealità cristiana, ossia ricondurli alle sorgenti da cui sono scaturiti e all’evento evangelico che li ha generati. Tale operazione non si compie cancellandoli o abbandonandoli alla corruzione del mondo, senza più speranza, ma piuttosto animandoli dall’interno con una coraggiosa, motivata e capillare testimonianza di fede. Ecco allora la missione, umile e tenace, che attende i cristiani. Sacerdoti, genitori, insegnanti, politici, giornalisti, operatori dei mezzi di comunicazione, commercianti, ecc. devono manifestare la loro fede intervenendo da cristiani nell’educazione, nel folclore, nelle manifestazioni culturali e commerciali, nella gestione dei ‘progetti natale’, facendo scelte mirate negli addobbi urbani, negli spettacoli natalizi, nei concerti, nei dibattiti televisivi, in modo che il Natale parli di Cristo e non lo emargini con stratagemmi inconsistenti e contrari alla verità storica. Pur dovendo riconoscere che il mysterium iniquitatis è sempre all’opera fino alla fine e insidia senza tregua l’opera della Chiesa, tuttavia, se i cristiani non sono in grado di realizzare una simile opera, significa anche che la crisi del Natale non sta nel mondo, che ne distorce il significato, ma nei cristiani stessi che non sono più l’anima della società e della cultura. Assicurare la celebrazione della notte di Natale con la fedeltà all’ora di mezzanotte è un mezzo idoneo ed efficace per non concedere ulteriormente alle lusinghe e falsificazioni del natale mondano e così immettere in esso l’ossigeno vitale della sua vera identità.

La nascita di Cristo a mezzanotte

L’ora di mezzanotte come ora della nascita di Cristo è indicata anche in alcuni mistici. E’ vero? Non sono da escludere alcune testimonianze mistiche, che dichiarano la ‘mezzanotte’ come l’ora della nascita del Salvatore. * Teresa Neumann. La visione della notte di Natale avveniva sempre per Teresa in tempi reali, cioè verso la mezzanotte del 24 dicembre. « Verso le undici di sera Maria entra in estasi. Si solleva in ginocchio e incrocia le braccia sul petto. Il bambino divino lascia verso mezzanotte il grembo materno, che si richiude subito intatto e incontaminato; non ci sono dolori né prima né dopo…». La visione dell’annunzio ai pastori della nascita di Cristo iniziava una mezz’ora circa dopo la mezzanotte (GIOVETTI, PAOLA, Teresa Neumann, Una grande mistica del nostro tempo, ed. San Paolo, 1994, p. 162-163). « Mezz’ora dopo la mezzanotte, dopo che Teresa ebbe assistito alla nascita del Redentore, si vide trasportata davanti ad una capanna che distava una ventina di minuti dalla stalla e si trovava su una collina. Lì otto pastori avevano il loro riparo notturno…. » (cfr. PENNA AURELIO, Gli Angeli, De Vecchi Editore, Mi, 1996, p. 80). * Caterina Emmerick nelle sue visioni scrive: « Giuseppe ricondusse Maria al suo rifugio, poiché Ella gli diceva che la nascita del divin Bambino sarebbe avvenuta a mezzanotte, poiché si adempivano allora nove mesi trascorsi dall’annunciazione dell’Arcangelo Gabriele… A mezzanotte Maria era rapita in estasi…». * Mediugorie nel messaggio del 23 dicembre 1981: La messa di Natale sia celebrata a mezzanotte e non alla sera. * Anche il noto Renè Laurentin in I vangeli del Natale, Piemme, 1987, p. 180, afferma : «Il contrasto tra la notte dei pastori e la luce di gloria ha contribuito, con la stella di Matteo, a far celebrare il Natale con veglie notturne, e messa di mezzanotte (che la pigrizia moderna anticipa spesso), e a fissare la festa al solstizio di inverno».

L'albero di Natale

Ho letto che anche l’albero di Natale ha un’origine cristiana. Potrebbe essere proposto come un segno di fede accanto al presepio? L’albero di Natale ha radici cristiane e può avere ancor oggi una adeguata interpretazione cristiana. Storicamente debbono essere considerati vari elementi: la festa dei Progenitori, celebrata nella liturgia orientale il 24 dicembre e il tenore di taluni testi liturgici orientali; nella liturgia latina l’inno dell’ufficio di Natale « fiorì il germoglio di Jesse, l’albero della vita ha dato il suo frutto». Infatti l’albero sempre verde ben interpreta la vita immortale dell’ albero della vita e i suoi addobbi richiamano il frutto della conoscenza del bene e del male. Allora i nostri Progenitori vollero diventare come Dio e conoscere il bene e il male, ma senza Dio e contro di Lui e ne ottennero la morte. Nella pienezza dei tempi il nuovo Adamo, obbedendo al Padre, cancellando l’antica disobbedienza, ottenne per tutti noi sia la vita divina immortale e l’adozione a figli, sia la conoscenza del bene e del male, avendo ricevuto in noi « il pensiero di Cristo» e « l’ebbrezza dello Spirito». Veramente il desiderio antico dell’uomo di ‘diventar come Dio’, in Cristo, si è realizzato. Infatti: Dio si è fatto uomo, perché l’uomo divenga Dio. Ecco perché proprio sotto l’albero natalizio vi è il presepio, nel quale è offerto a tutti gli uomini il vero frutto dell’albero della vita: Cristo Gesù, fatto cibo per noi nella santissima Eucaristia e reso disponibile già nella mangiatoia di Betlemme, la casa del pane. Inaugurare l’albero di Natale sul sagrato della chiesa con un rito di illuminazione, celebrato in uno dei giorni che precedono il Natale nel contesto dei vespri maggiori, potrebbe essere alquanto significativo per disporsi alla grande solennità. Il giorno più idoneo per l’inaugurazione dell’albero di Natale potrebbe essere il 21 dicembre, solstizio di inverno. In questa data, infatti, l’aumento della luce cosmica simboleggia il crescere della luce vera che sta per venire nel mondo. Anche l’antifona maggiore del 21 dicembre fa riferimento alla luce del sole, che riprende calore e, nell’astro visibile, contempla e invoca il Cristo, vero Sole di giustizia: « O Astro che sorgi, splendore della luce eterna, sole di giustizia: vieni, illumina chi giace nelle tenebre e nell’ombra di morte». L’accensione

dell’albero, al termina dei vespri maggiori del giorno, potrebbe così interpretare la partecipazione e la gioia del creato nella ormai prossima nascita del Redentore e così rinvigorire l’attesa degli ultimi giorni di Avvento, secondo il monito di un’altra bella antifona di questo giorno: « Non abbiate timore: il quinto giorno il Signore verrà».

I fiori in Quaresima

Il Calendario liturgico prescrive che nel tempo di Quaresima non vi siano fiori sull’altare, ma in molte chiese non si osserva questa regola e non è facile osservarla, perché basta un funerale per riempire la chiesa di fiori e lasciarceli per parecchi giorni. Come si deve comportare un buon sacrista ? Per osservare con convinzione e con frutto una disposizione liturgica è necessario comprenderne le motivazioni. La Quaresima è il tempo del ‘deserto’. In esso si celebra sia il digiuno del Signore nei quaranta giorni, sia il faticoso cammino del popolo eletto nei quarant’anni verso la terra promessa. Così anche il popolo cristiano intraprende ogni anno un nuovo itinerario penitenziale, salendo ‘il santo monte della Pasqua’. Il ‘deserto’ è quindi l’ ‘icona’ della Quaresima. Per questo la tradizione liturgica dispone di creare visibilmente l’austerità del tempo, togliendo i fiori dalla chiesa. Occorre naturalmente operare il passaggio dal simbolo visibile allo spirito interiore: dal ‘deserto’ dell’ambiente, all’austerità di un regime di vita penitenziale. Purtroppo oggi vi è una mentalità ‘spiritualista’, che non dà sufficiente attenzione alla corporeità e in tal modo la liturgia è ridotta alla sola parola, senza il supporto vario e ancor più eloquente dei simboli. Bisogna ritornare a dar credito al linguaggio simbolico e ridurre l’eccessiva pressione della parola che sta travolgendo le nostre liturgie. Certo, non basta togliere materialmente i fiori, occorre al contempo far ricorso al buon gusto e all’intelligenza creativa. Vi è una eliminazione solo rubricistica, e vi è una disposizione dell’altare e di tutta la chiesa, che pur senza ornamenti floreali, sa far risplendere l’ambiente sacro di una nobile semplicità e sa suscitare il fascino dell’essenzialità. Non si tratta allora di applicare freddamente delle regole, ma di interpretare al meglio la ‘lettera’ e lo ‘spirito’ delle disposizioni liturgiche. In caso di esequie o altre occasioni in cui si portano in chiesa molti fiori, questi si possono trasferire, terminato il rito, al cimitero o in altri luoghi sacri, dove normalmente non si celebra. Comunque le soluzioni si trovano sempre, a condizione di essere determinati ad offrire alla propria parrocchia una chiesa mantenuta sempre conforme alle esigenze dei diversi tempi dell’Anno liturgico. L’appropriata osservanza dell’assenza dei fiori consente di dare risalto alla domenica mediana, la IV domenica di Quaresima,

detta Laetare. In essa l’avvicinarsi della Pasqua suscita una speciale letizia, che si esprime nel colore liturgico rosaceo, nel suono dell’organo e in un misurato addobbo floreale dell’altare. Questa ‘mistica aurora’, che si scorge all’orizzonte ed è espressa da un ambiente liturgico realizzato con intelligente amore, infonde nei fedeli, educati al linguaggio della liturgia, un dolce sollievo spirituale, che fa’ già pregustare la finalità pasquale della penitenza. Solo con questo impegno e a prezzo di questa cura diuturna un sacrista può trovar nuovo entusiasmo nel suo servizio. Invece, nel grigiore anonimo di un perenne ‘ordinario’, il sacerdote, il sacrista e l’intera comunità si espongono ad un tono spirituale spento e si trascinano in un cammino liturgico incolore.

Il suono delle campane nella notte di Pasqua

Si avvicina la Pasqua e si programmano i suoi riti. Siccome la Veglia pasquale si svolge sul tardi, il suono delle campane al ‘Gloria’, per alcuni collaboratori, si fa problematico. Ma sembra che in tanti altri casi le campane facciano problema. Non è sempre facile rispondere alle contestazioni. Qualche aiuto? Grazie! Storicamente la campana scandiva per tutti le ore principali del giorno. Oggi ci sono gli orologi e le stesse campane, almeno in città, si perdono nel rumore del traffico. Hanno ancor senso? Proprio per questa situazione nuova le campane assumono un ruolo più specifico, esse sono oggi più che mai la voce della fede e il richiamo alla preghiera. Si è così passati ad un impiego civile ad un uso esclusivamente religioso. Le campane, almeno loro, elevano a Dio il triplice tributo della lode giornaliera: si preghi al mattino, a mezzogiorno e alla sera, come ci esorta la Sacra Scrittura: “ Di sera, al mattino, a mezzogiorno mi lamento e sospiro ed egli ascolta la mia voce” (salmo 55, 18). È il suono dell’ Angelus. Nella società secolarizzata, quando in famiglia, nelle istituzioni pubbliche e nella vita personale di tantissime persone, la preghiera giornaliera sembra essere scomparsa, almeno le nostre campane vigilano e il loro suono è fedele. Un po’ come il cristiano frettoloso, che accende una candela e fugge via veloce dalla chiesa: quel cero interpreta la sua preghiera. Così le campane sui nostri campanili. Travolti dai ritmi della vita esse ci rappresentano e i loro rintocchi regolari ci richiamano la nostra infedeltà. Esse poi descrivono con gradi diversi di solennità il valore delle feste e ritmano la marcia nell’Anno liturgico. L’osservanza di precise regole, codificate nella tradizione secolare delle nostre comunità, assicura un approccio diversificato ai vari giorni liturgici e ai diversi riti della Chiesa. Così si distingue il giorno feriale dalla domenica, la festa dalla solennità, le solennità minori da quelle maggiori. Uno è il suono della gioia altro quello del lutto, i rintocchi della festa si distinguono da quelli della penitenza. Lo scampanio festoso al tramonto del sabato annunzia il giorno del Signore e quello solenne delle vigilie introduce nel gaudio delle grandi solennità. Il suono austero della campana maggiore annunzia la morte del Signore nell’ora nona di ogni venerdì e chiama all’adorazione i cuori degli infermi al momento

della consacrazione nella Messa principale della domenica. Un ricco concerto di campane e un campanile artistico è sempre stato un vanto per una comunità. Un buon programma campanario costituisce una tradizione non solo liturgica e religiosa, ma anche culturale, storica e sociale. Le campane sono allora la voce pubblica della Chiesa. Ma è proprio questo che oggi alcuni combattono: non si vuole più che la Chiesa abbia una valenza pubblica e incida nel sociale. Per questo le campane disturbano. Silenziare le nostre campane significa accettare la logica del riflusso nel privato della nostra fede e contribuire all’emarginazione di essa nel tessuto sociale. Sembra che ogni opinione abbia diritto di cittadinanza, eccetto l’annunzio cristiano, che invece è accusato di intromissione indebita e di lesione della libertà altrui. Difendere la nostra tradizione campanaria è in fin dei conti affermare la dimensione pubblica della Fede, conquistata in tanti secoli di storia cristiana, oggi purtroppo misconosciuta. Occorre pure affermare che le campane sono state benedette, ossia sono un sacramentale. Questo significa che il loro suono, per un accordo fatto dalla Chiesa col Signore nell’atto della benedizione, ha un richiamo soprannaturale nell’animo di tutti coloro che lo odono. Per questo il cristiano buono e retto gioisce quando sente le campane e il suo animo si eleva volentieri ad un pensiero orante. Diversamente si può capire il perché di un pervicace e inconsulto rifiuto del suono delle campane da parte di coloro che non sono ben disposti nella loro coscienza. Via quindi ogni senso di inferiorità e ogni scrupolo infondato. Il suono delle campane, nel dovuto equilibrio si intende, deve poter tener alta la voce della fede e la supplica orante del popolo cristiano, che non vuol cadere nell’anonimato culturale e sociale di una mentalità secolaristica. E per concludere le due notti sante, quella di Natale e quella di Pasqua, hanno pieno diritto di ospitare il suono solenne delle campane, che annunziano rispettivamente la nascita e la risurrezione del Signore. Non è possibile giustificare lo scoppio dei botti nella notte di capodanno fino a tardissima ora e incriminare il suono delle campane, molto più armonioso e contenuto, nelle due notti più sante dell’anno liturgico.

L'altare nei riti di 'offertorio'

Nella nostra chiesa, terminata la Messa, si toglie la tovaglia dell’altare, che rimane sempre spoglio. All’offertorio della messa domenicale si porta la tovaglia, le candele, i fiori, le coppe, il calice, le ampolline e il messale. E’ possibile? Perché non si fa così anche altrove? La domanda contiene due problematiche: l’altare sempre spoglio fuori della celebrazione e la vestizione dell’altare nel rito della preparazione dei doni. Certamente nella storia della liturgia si ritrovano anche queste due modalità, soprattutto nell’epoca antica. Quando, ad esempio l’altare era ancora di legno veniva introdotto, posto davanti all’assemblea liturgica e rivestito con la tovaglia proprio nei riti offertoriali; poi era rimosso. Il suo rimanere nobilmente spoglio, a celebrazione terminata, perdurò anche quando si ebbe l’altare fisso e monumentale. Attualmente la vestizione solenne dell’altare, portandovi la tovaglia, i candelieri e la croce, è ritualmente prevista nel rito della Dedicazione dell’altare, quando il medesimo deve prima essere asperso con l’acqua benedetta, unto col Crisma e poi rivestito e inaugurato. Stabiliti questi elementi storici e liturgici, si deve considerare come agire oggi in proposito. La liturgia si deve celebrare così come l’attuale disciplina della Chiesa prevede. Infatti è la Chiesa il soggetto e la ‘proprietaria’ della liturgia. Da ciò si deve escludere che i privati, singoli o gruppi, dispongano arbitrariamente delle leggi liturgiche. La comunità locale si inserisce in un azione di culto, la liturgia, che la supera ed è più grande delle esigenze locali dell’assemblea convocata a celebrare. Si tratta di entrare in atti che sono, a diverso titolo, di Cristo e della Chiesa in quanto tale, ed è appunto in questo universale orizzonte che la liturgia emerge in dignità ed efficacia su qualsiasi altro atto di culto personale e soggettivo. Su questa base teologica indispensabile è possibile comprendere e accettare di celebrare in modo conforme ai riti stabiliti e definiti dalla Chiesa. Non sono infatti gli atti nostri che ci salvano, ma quelli di Cristo e della Chiesa a noi offerti per purificare ed elevare un culto personale che da solo non avrebbe alcuna possibilità di penetrare nei cieli e di ottenerci la salvezza. Questo vale non solo per la sostanza degli atti sacramentali, ma per tutto il complesso rituale della

liturgia, in quanto tutto l’insieme ha come soggetto Cristo e la sua Chiesa. Su questa base teologica essenziale, oggi largamente disattesa, possiamo delineare la domanda posta. Nei riti della presentazione dei doni non si parla di preparazione dell’altare, ma di disposizione delle oblate sulla mensa. In tal senso si esprimono le rubriche del Messale e la Congregazione per il culto divino si è pure ufficialmente pronunziata: CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Risposta al dubbio Utrum in offertorio circa i doni che si possono portare all’altare, 31 ottobre 1999, in Enchiridion Vaticanum, vol. 18, n. 1727: Nell’offertorio, alla processione dei doni, si possono portare all’altare le tovaglie per il medesimo e i candelieri? R. No. Quanto alla preparazione della celebrazione, l’istruzione Principi e norme per l’uso del Messale romano (n. 79) stabilisce quanto segue: “L’altare sia ricoperto da almeno una tovaglia. Sull’altare, o vicino ad esso, si pongano almeno due, anche quattro, o sei candelieri con i ceri accesi; se celebra il vescovo della diocesi, i candelieri saranno sette”. Se ne deduce che questi preparativi non si devono differire all’offertorio. All’offertorio (cf. il n. 49 della medesima istruzione) “Si prepara anzitutto l’altare, o mensa del Signore, che è il centro di tutta la liturgia eucaristica, ponendovi sopra il corporale, il purificatoio, il messale e il calice, a meno che quest’ultimo non si prepari alla credenza. Poi si portano le offerte: è raccomandabile che siano i fedeli stessi a presentare il pane e il vino; il sacerdote, o il diacono, li riceve nel luogo opportuno, e li depone sull’altare, recitando le formule prescritte”. Si noti che qui nulla si dice della tovaglia da stendere. Si fa presente che soltanto nella celebrazione del Venerdì della Settimana santa l’altare, in via eccezionale, deve essere senza ornamenti all’inizio della celebrazione (cf. Messale Romano, Venerdì nella Passione del Signore, n. 2): “L’altare sia completamente spoglio: senza croce, senza candelieri, senza tovaglie”. Dopo l’adorazione della croce, “sull’altare viene stesa la tovaglia, e viene posto il corporale e il libro ( ivi, n. 21). La cosa è comprensibile: infatti l’altare significa la ‘presidenza’ di Cristo in tutto

l’arco della celebrazione, dai riti di inizio a quelli di congedo. Non avrebbe senso venerare l’altare con l’incensazione durante il canto introitale se esso si presentasse privo delle sue insegne. Ogni rito si svolge totalmente sotto la presidenza dell’altare e anche quando si dirige lo sguardo all’ambone e alla sede, non deve mai eclissarsi la centralità dell’altare, ‘icona’ di Cristo presente e agente. L’altare, infatti, è il solo dei tre luoghi celebrativi ad essere consacrato e costituisce in tal senso un ‘sacramentale’.

Gli altari laterali

Gli altari laterali in genere sono ormai abbandonati. Molti di essi comunque hanno un grande valore e fanno parte della storia e dell’arte, ma, disadorni e nudi, sono ridotti a pezzi museali, muniti anche di accurate didascalie storicoartistiche. Domando: Hanno finito la loro funzione liturgica? Gli altari laterali delle chiese cattoliche hanno certamente una storia gloriosa e costituiscono un patrimonio di immenso valore teologico, spirituale e artistico. Di fatto, però, dopo il Concilio Vaticano II hanno subito i danni di una lettura riduttiva e imprecisa della normativa liturgica, che praticamente li ha del tutto esautorati dalle loro funzioni relegandoli, nel migliore dei casi, ad un ruolo museale. E’ allora necessario riprendere con serenità e serietà la giusta visione del problema. Gli altari laterali hanno origine fin dall’antichità, quando si trattò di ospitare nelle basiliche dell’Urbe i corpi dei Martiri, tolti dalle catacombe durante le razzie barbariche. Fu allora che la ‘statio’ ai loro sepolcri per celebrarvi il divin Sacrificio avvenne dentro la basilica stessa, lì dove il Martire aveva trovato la sua nuova e protetta tumulazione. Nel Medioevo poi, soprattutto nelle grandi Abbazie, l’erezione di molti altari laterali era richiesta per la celebrazione della Messa dei numerosi monaci, che, anche per l’assenza della concelebrazione, dovevano celebrare individualmente. Tuttavia in questo sviluppo secolare la Chiesa non perse mai, né l’unicità dell’altare, mediante il primato e la dignità sempre riconosciuti all’altar maggiore; né l’ideale unicità del divin Sacrificio, mediante la Messa solenne domenicale nelle parrocchie e la Messa conventuale nei monasteri. La Chiesa d’Oriente, invece, non rinunciò mai al costume antico rigoroso di erigere un solo altare e celebrare un’unica Divina Liturgia. Alla luce della storia, quindi, dobbiamo riconoscere senza indugi l’identità e il valore degli altari laterali. Essi, infatti, si devono considerare sotto tre importanti aspetti: liturgico, spirituale, storico-artistico. 1. L’altare laterale mantiene intatta la sua funzione liturgica ed è alquanto dannoso trasmettere ai fedeli l’idea che l’insorgere degli altari laterali sia il

segno di una fase decadente e scorretta dello sviluppo liturgico. Gli altari laterali celebrano con le splendide espressioni dell’arte i mirabili frutti dell’unico Sacrificio di Cristo: i Santi e le loro opere. La loro memoria eretta in connessione con l’altare afferma che dal Sacrificio di Cristo essi attinsero la grazia della loro santità e l’efficacia della loro testimonianza. Voler privare della mensa tali monumenti è scardinarli teologicamente dalla loro sorgente divina. La molteplicità degli altari laterali è la manifestazione visiva del prisma infinito dei frutti dell’unico Altare e dell’unico Sacrificio, Cristo Gesù. Per questo gli altari laterali non possono essere museificati, ma devono restare ‘vivi’ con tutte le insegne loro proprie, aperti all’esercizio della loro funzione liturgica. Recarsi processionalmente presso l’altare del Santo di cui si celebra la festa e poter celebrarvi il Sacrificio, quando condizioni di spazio e di dignità lo consentono, è un uso liturgico del tutto ammesso. Ciò avviene quotidianamente nelle grandi basiliche della cristianità, che offrono cappelle e sacelli per la celebrazione eucaristica. Qualora non fosse possibile o conveniente celebrare su un altare laterale, sarà sempre opportuno recarsi in processione per un atto di venerazione a conclusione della Messa celebrata sull’altar maggiore. In tal modo si vede come il ruolo liturgico degli altari laterali non sia abrogato, ma possibile e arricchente. Certo in tutto ciò occorre sempre intelligenza, misura e buon gusto, per non decadere in forme devozionali eccessive, che minerebbero l’equilibrio della fede e della liturgia, non raramente condannate dalla Chiesa lungo i secoli. 2. L’altare laterale è luogo di orazione e di contemplazione. Presso di esso i fedeli entrano in comunione spirituale con la Vergine e i Santi. Per questo gli altari non possono essere lasciati desolati, senza calore e senza vita. Essi devono portare i segni della devozione: ceri, fiori, ecc. Certo senza indulgere al cattivo gusto, che si ritorcerebbe contro una buona educazione alla vera devozione. Per questo non si può abbandonare l’addobbo dell’altare a chiunque, ma deve essere costantemente monitorato da un pastore vigilante che cura veramente l’educazione alla pietà autentica dei fedeli. Ma al contempo una drastica museificazione priva totalmente gli altari laterali della loro vita, li rende estranei ai fedeli e li debilita nel loro ruolo di mediazione spirituale. 3. Infine gli altari laterali sono spesso dei capolavori d’arte. Essi vanno rispettati e tutelati. Sono un patrimonio non solo della Chiesa, ma dell’intera società. Si deve evitare abusi gravissimi, ben conosciuti in un recente passato: rimozione degli altari laterali in nome dell’unicità dell’altar maggiore; privazione della loro mensa o della predella marmorea, rendendoli mutili e inaccessibili; alienazioni delle loro croci e dei loro candelabri e di altri arredi talvolta veramente artistici e

preziosi, ecc. Per quel che riguarda la costruzione delle nuove chiese il Messale ricorda “ Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare che significhi alla comunità dei fedeli l’unico Cristo e l’unica Eucaristia della Chiesa” (OGMR, 303). Naturalmente tale disposizione non esclude che vi siano altre cappelle, collegate e distinte dalla navata della chiesa, nelle quali possono essere eretti altri altari, ben definiti nella loro posizione e nel loro uso liturgico. E’ il caso della cappella feriale o quella del SS. Sacramento o di una insigne reliquia di un Santo, ecc.. Come si vede, forse è necessario ripensare alquanto l’operato dell’immediato postconcilio e, su basi teologiche, spirituali e culturali migliori e più solide, intraprendere un’opera di risanamento e di maggior equilibrio, per l’edificazione del popolo di Dio.

La balaustra

In moltissime delle nostre chiese la balaustra non esiste più e il presbiterio si presta all’accesso di tutti, che non sempre rispettano l’altare, rendendolo supporto delle cose più varie: spartiti nei concerti, indumenti nelle pulizie, proiettori nei recitals, ecc. Ogni osservazione in merito dà fastidio e si subisce l’ironia anche di qualche sacerdote. E’ giusto? Uno degli abbagli più estesi del post-concilio è stata l’eliminazione della balaustra. Un errore considerevole sul piano storico, liturgico, dottrinale, artistico e pastorale. La distinzione tra la navata e la zona sacra dell’altare è sempre stata presente in tutta la tradizione liturgica sia orientale come occidentale: la pergula, i plutei, i cancelli, le transenne in epoca paleocristiana, l’iconostasi nell’oriente. La balaustra è l’ultima espressione di tale elemento resa universale dal Concilio Tridentino. È assolutamente falso sostenere la sua eliminazione ricorrendo al Concilio Vaticano II, infatti anche la recente introduzione alla terza edizione del Messale Romano (2000) al n. 295 afferma «(Il presbiterio) si deve opportunamente distinguere dalla navata della chiesa per mezzo di una elevazione, o mediante strutture e ornamenti particolari…». La balaustra è pure ‘la mensa’ a cui i fedeli in ginocchio si accostavano a ricevere il SS. Sacramento. Ora tale modo di accostarsi alla comunione è sempre stato previsto dalla Chiesa ed è riproposto pure nella 3° edizione (2000) del Messale Romano, n. 160: «I fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi…»; così anche nella Istruzione della Congregazione del culto divino Inestimabile donum (1980) n. 11: «la comunione può essere ricevuta dai fedeli sia in ginocchio, che in piedi». Quindi togliere la balaustra implica una lesione su diversi piani: 1. Liturgicamente l’altare deve essere protetto e difeso per non consentire un accesso facile e banale e deve venire adeguatamente tutelato il senso della sua sacralità ( Cerimoniale dei Vescovi, ed. 1984, n.50). Deve essere aperta per di più la strada ad altri modi di ricevere la santa comunione come quello sempre previsto di porsi in ginocchio alla balaustra. 2. Storicamente le chiese devono mantenere le caratteristiche delle varie epoche e dello sviluppo successivo delle varie modalità del celebrare la liturgia,

evitando di distruggere i segni della espressione storica della liturgia, imponendo sul vuoto realizzato visioni attuali non sufficientemente sperimentate, rivedibili e prive ancora di una adeguata maturazione. 3. Artisticamente molte balaustre sono state progettate in composizione armonica con l’altare, riproponendo marmi e stile identici all’altare che circondano, costituendo un insieme di alto livello artistico monumentale. La loro rimozione implica spesso una alterazione grave della spazialità e dei diversi piani architettonici. Molte realizzazioni in chiese storiche sono di dubbio valore e rivelano fretta sconsiderata e impreparazione: questi presbiteri ingombrati da forme e masse indefinibili attendono solo la loro futura rimozione. 4. Teologicamente deve essere evidente nell’architettura della chiesa la natura gerarchica della celebrazione liturgica: il ministero ordinato sta in modo essenzialmente diverso dall’assemblea dei fedeli davanti al Mistero, agendo in persona Christi Capitis. Quindi non solo mediante l’abito liturgico si devono distinguere i ministri ordinati, ma, secondo la tradizione, anche mediante un luogo loro proprio (il presbiterio), evidentemente distinto dalla navata. Ridurre tale espressione architettonica significa regredire nell’identità dottrinale della fede e rendere meno intelligibile agli occhi dei fedeli la natura gerarchica del popolo di Dio.

I candelabri classici

Sono un sacrista e vorrei qualche idea sull’uso dei candelieri che un tempo adornavano tutti i nostri altari. Ora da molti anni sono in deposito e qualche servizio è purtroppo stato già venduto. Sugli altari della mia chiesa al posto dei candelieri vi sono delle ciotole con dei grossi ceri, che il parroco fa accendere in certe feste. Non si potrebbero usare ancora, visto che ci sono, ed evitare che finiscano venduti quelli che ancora rimangono? Occorre considerare anche la dimensione dei candelabri e della croce dell’altare. Non è definitivo fissarsi sulle recenti piccole dimensioni, oggi divenute usuali. Infatti la croce e i ceri bassi, poco sopra il livello della mensa, esprimono certamente la sacralità dell’altare e insieme permettono la visibilità del sacerdote e dell’azione eucaristica, tuttavia non possiamo escludere la tradizione precedente dei grandi candelabri che, posti sulla mensa si slanciano insieme alla croce molto alti verso il cielo. Un altare sul quale vi è al centro la croce con ai lati i candelabri monumentali, magari ascendenti verso di essa, esprime con un’efficacia visiva e permanente la dimensione ascendente del Sacrificio eucaristico. L’altare è riscattato dalla sua esclusiva forma orizzontale di mensa e diviene, nella sua spinta verticale, ara sacrificale, scala ad Patrem. Anche il sacerdote, durante la celebrazione si sente adombrato da quella monumentalità ascendente e viene attratto verso l’alto, mantenendo in lui il senso ascensionale dell’azione sacrificale, atteggiamento che non può assolutamente eclissarsi per la verità del mistero che si celebra. Credo che tale recupero possa essere fatto senza venir meno alle esigenze della celebrazione verso il popolo e così potrebbero essere rivalorizzati splendidi servizi di candelabri preziosi e storici. Si osservi inoltre che l’uso di porre la croce e i grandi candelabri sul pavimento nei pressi dell’altare, come avviene in alcuni casi, non sortisce quell’effetto di spinta verticale che si realizza solo se essi sono posizionati sulla mensa secondo la tradizione. Fatte queste considerazioni di principio, sarà necessario tener presente il pericolo dei ladri e perciò si dovrà fornire l’altare di impianto di sicurezza o esporre questi candelabri soltanto nelle grandi feste. Certamente non si devono vendere,

né confinarli per sempre in un polveroso magazzino.

Il gruppo liturgico?

Ha senso un gruppo liturgico in parrocchia? E, se lo ha, qual è il suo compito? Indubbiamente un gruppo o una commissione, che curi la dignità delle celebrazioni liturgiche, è uno strumento importante in parrocchia. Tuttavia si deve intendere bene, sia il suo ruolo, sia, soprattutto, il suo modo di procedere. Il ruolo, come il metodo del gruppo liturgico sono analoghi agli altri due fondamentali gruppi: quello catechistico e quello pastorale. Infatti, annunzio, liturgia e pastorale sono i tre ambiti essenziali della vita della Chiesa. L’azione delle tre commissioni deve essere basata su tre tappe successive e concatenate. La commissione catechistica: 1. Si deve iniziare con la conoscenza corretta e oggettiva della Parola di Dio, ascoltandola con umiltà e docilità, senza inquinarla con le nostre categorie ideologiche. 2. L’ascolto pieno e completo della Parola di Dio implica anche l’accoglienza altrettanto sacra della Tradizione orale, intesa nell’interpretazione autentica del Magistero vivo della Chiesa. Tale complemento si trova soprattutto nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che offre un panorama completo della nostra fede contenuta nella Sacra Scrittura, nella sacra Tradizione e garantita dal Magistero. Solo in questa seconda tappa l’ascolto della Parola di Dio è completo, integro ed efficace. 3. A questo punto si deve considerare l’analisi della situazione e della vita di coloro che devono ricevere l’annunzio, in modo tale che le leggi della psicologia, della didattica, della sociologia, della gradualità, ecc. possano contribuire al massimo grado possibile ad offrire un annunzio efficace ed adatto ad ogni categoria di persone. La commissione liturgica:

1. Si deve prima di tutto conoscere bene i riti stabiliti dalla Chiesa ed editi nei libri liturgici ufficiali. 2. La loro conoscenza tuttavia è veramente profonda se si meditano attentamente le Premesse ( Praenotanda) contenute negli stessi libri liturgici. Esse motivano teologicamente e pastoralmente il senso e la tipologia dei vari riti. Anche gli altri documenti del Magistero relativi alla liturgia devono concorrere a fornire una formazione liturgica ben calibrata e completa negli operatori. La sola conoscenza del rito senza la teologia e le indicazioni delle Premesse rituali potrebbe portare al rubricismo, mentre la sola teologia senza la precisa conoscenza e osservanza dei riti porta alla creatività soggettiva e libera dei medesimi. 3. Assolta questa preparazione si può legittimamente procedere alla realizzazione rituale nella concreta assemblea liturgica, operando gli adattamenti necessari senza tuttavia tradire la lettera e lo spirito del rito della Chiesa. I riti potranno essere adattati con gradualità, ma mai alterati, decurtati o amplificati oltre la loro identità costitutiva. La commissione pastorale: Per completezza osserviamo che anche il processo dell’attività pastorale in genere è analogo a quello sopra descritto per la catechesi e per la liturgia. 1. Il primo passo consiste nella sufficiente conoscenza delle leggi canoniche della Chiesa. Il Codice di Diritto Canonico ha come suprema legge la salus animarum e non deve essere considerato pregiudizialmente un peso e un legame, ma un servizio per una pastorale di qualità, ispirata dalla sapienza e dall’esperienza secolari della Chiesa. 2. Alla legge universale si devono aggiungere tutte quelle leggi e disposizioni particolari che reggono la diocesi, la parrocchia e le istituzioni ecclesiali nella varietà delle loro espressioni e finalità. 3. Ed ecco che solo ora è possibile analizzare la concreta realtà di una comunità cristiana, ascoltarne le esigenze, i problemi, i desideri e, alla luce delle leggi della Chiesa, trovare la giusta risposta e formulare un adeguato piano pastorale. Se le tre commissioni si attengono a questo triplice modo di procedere non possono che essere efficaci nella loro azione ecclesiale e promuovere un’autentica opera di evangelizzazione, di santificazione e di vita cristiana nella

carità. Purtroppo in una mentalità diffusa e in un costume ormai generalizzato, tale procedimento viene del tutto capovolto. Anziché partire dal mistero, ascoltando la Parola di Dio, conoscendo i riti della Chiesa e accogliendo le sue leggi canoniche, si parte dall’uomo e dalla sua situazione esistenziale. Si fanno con grande cura indagini, ricerche e sondaggi di ogni genere. Si ascolta quasi con venerazione e attenzione meticolosa ogni brezza che soffia nel tessuto sociale a tal punto che tale impegno assume quasi i caratteri del sacro, come se Dio fosse rintracciabile solamente nei fatti e nella cronaca quotidiana e tra le pieghe delle opinioni così fluttuanti degli uomini. Ammagliati da questa contemplazione quasi estatica del contingente e totalmente impegnati a dovervi dare una risposta il più possibile condivisa e accettata, la risalita alle fonti del Mistero ne è alquanto frenata, ritardata e talvolta abbandonata. Si cercano le risposte ai problemi nei problemi stessi e ci si fissa su di essi alla maniera di chi non ha fede e speranza soprannaturale, condividendo col mondo la problematicità, senza soluzioni e senza meta. Così una ‘pastorale’ eccessivamente prona sull’uomo ha intrappolato il cristiano nell’asfissia del materiale, contagiandosi della malattia del secolarismo, ormai privo di ogni trascendenza e rinunciando così alla sua missione salvatrice, che avrebbe dovuto consegnare all’uomo, svilito e ansimante, la luce e la grazia del mistero che salva, solleva e consola nell’orizzonte ossigenante delle realtà eterne. Una simile pastorale, ormai secolarizzata, è compromessa dal sospetto, diffuso e condiviso, sulle sorgenti stesse del mistero, soprattutto quelle offerte dalla Chiesa: il Catechismo, il Codice, gli atti del Magistero, la sacra Tradizione, sono oggetto di critica, di vaglio illegittimo, di emarginazione. Fa eccezione la Sacra Scrittura, che, col pregiudizio protestante della ‘ sola Scriptura’, ancora resiste, ma isolata dal suo necessario contesto: Tradizione, Magistero, Chiesa, sono piegati e interpretati dalle ideologie imperanti, offerte dalla società che si vuole, si dice, evangelizzare. Da questo stato di cose, in cui le tre tappe sopra descritte, sono radicalmente capovolte, ne scaturisce una contraffazione dei pilastri portanti della vita della Chiesa: - la catechesi diventa uno scambio di opinioni e un permanente dibattito sui problemi del momento e sulle fasi dello sviluppo dei catechizzandi o un esercizio di come ben inserirsi nel clima culturale, politico e sociale in cui si vive;

- la liturgia si trasforma in una recita prodotta dal gruppo che la celebra, con le evidenze, le sensibilità, i simboli e il linguaggio, che sono propri di coloro che la creano, la gestiscono e alla fine la impongono; - la pastorale, in tutte le sue svariate modalità ed obbiettivi, si risolve fondamentalmente in un’attività socializzante, di natura culturale, solidaristica, folcloristica, economica e, perciò stesso, difficilmente estranea a posizioni politiche e visioni ideologiche di parte. Tutto questo perché si è partiti male, mancano i presupposti della formazione teologico-spirituale e ci si abbandona, senza difese, senza progetto e senza verifica, ad un servizio umanitario, subito affascinante, ma ben presto deludente. Questo è un problema concreto in cui oggi versano gran parte delle nostre parrocchie e taluni gruppi ecclesiali. Questo processo patologico afferma in fin dei conti l’assenza di Dio e proclama che la salvezza dipende dall’uomo stesso e dalle sue capacità. Occorre invertire il procedimento e partire dal Mistero, accoglierlo, conoscerlo, contemplarlo, esserne impregnati e, solo dopo, andare verso l’uomo con la volontà sincera e determinata di introdurlo nell’evento della grazia, senza timore nell’ affrontare l’uomo, che giace nelle tenebre e nell’ombra di morte. Il mondo attende la salvezza in Cristo, ma noi non possiamo perderla in un contatto buonista col mondo. Concludendo possiamo allora affermare la bontà di un gruppo liturgico, ma alle condizioni sopra stabilite. Infine occorre riconoscere che ogni attività nella Chiesa ha in Dio il suo inizio, la sua fecondità e il suo fine, secondo l’espressione della nota orazione Actiones nostras: “Signore, previeni le nostre azioni con la tua grazia, sostienile col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera come ogni nostro lavoro trovi in te il suo principio ed il suo compimento. Amen” (in Manuale delle Indulgenze, Libreria Editrice Vaticana 1968, p. 46). Per questo ogni riunione ecclesiale deve iniziare e concludersi con la fervente preghiera, altrimenti tutto è commisurato col criterio aziendale dell’efficienza, del successo e del semplice rapporto umanitario.

L'omelia ai laici?

Nella nostra parrocchia, quando in alcune occasioni vengono ospiti importanti (missionari, suore o altre personalità) il parroco affida a loro l’omelia, anche se sono laici o religiosi non ordinati. E’ una cosa possibile? Bisogna capire cos’è l’omelia. Essa è l’annunzio del Vangelo compiuto con l’autorità di Cristo. Il ministro sacro, infatti, agisce nel nome di Cristo capo della Chiesa e in tale veste esercita il munus docendi (l’Ufficio di insegnare), secondo il grado proprio dell’Ordine ricevuto. Un simile atto quindi esige che colui che tiene l’omelia sia rivestito dell’autorità del Signore stesso e ne abbia l’abilitazione ontologica, ossia impressa nel proprio essere stesso. Questa si riceve mediante il sacramento dell’Ordine sacro, che imprime un carattere indelebile nelle facoltà spirituali dell’ordinato in gradi e intensità diverse: pieno nel Vescovo, subordinato nel Presbitero, iniziale nel Diacono. Ed ecco allora che l’omelia può veramente essere tale soltanto si viene tenuta dal Vescovo, dal Presbitero e dal Diacono. Essi hanno il mandato e quella grazia speciale che sono necessari per parlare al popolo di Dio nel nome e con l’autorità stessa del Signore. Ora se l’omelia, tenuta dal ministro sacro che ne ha facoltà, è in linea di principio sempre valida in quanto compiuta da chi ne ha la capacità ontologica, non sempre sortisce anche la dovuta fruttuosità spirituale. Questa, infatti, è condizionata dalla preparazione dottrinale, dalla santità, dalla comunione gerarchica nella Chiesa e dalle varie altre capacità dell’omileta e non dispensa mai il ministro sacro da una continua purificazione e approfondimento della Parola di Dio, insieme all’acquisizione delle modalità migliori del linguaggio, della esposizione e della comunicazione. Si comprende allora perché un laico o un religioso non ordinato non possono in alcun modo tenere l’omelia. Essi sono in grado di offrire magari una splendida riflessione o dare una credibile testimonianza di vita, ma il loro atto è del tutto privato e non conforme alla natura teologica dell’omelia quale proclamazione della Parola con l’autorità del Signore e attuazione, qui ed ora, del suo magistero. In qualche modo succede che, proclamato il Vangelo, la Chiesa

sospende la liturgia e concede a privati di intervenire in essa. Ma così l’omelia è del tutto omessa e viene sostituita con una riflessione privata, per quanto possa essere nobile, preparata ed anche spiritualmente incisiva. Si capisce tuttavia che tra l’annunzio autoritativo del Vangelo e un suo commento privato vi è un notevole scarto e un livello ben diverso di qualità soprannaturale e di impegno magisteriale. I fedeli hanno bisogno soprattutto della sicurezza di un annunzio autoritativo che li aiuti a discernere tra le molteplici e talvolta contrastanti interpretazioni dei dati della fede, che, oggi in particolare, rischiano di travolgere le convinzioni di fede dei semplici. Certamente è un dono di Dio che i religiosi e i laici sempre più siano formati anche con gradi accademici nelle varie scienze teologiche e siano perciò preparati sia agendo nelle istituzioni pubbliche sia intervenendo come docenti nelle scuole di formazione teologica. Ma il loro servizio deve conoscere bene i limiti interiori ad esso, quali il senso del Magistero, il rispetto di chi lo esercita e, nella liturgia, il loro posto specifico, che non consente confusioni ibride col munus docendi dei ministri ordinati.

L'omelia in mezzo ai fedeli

Qualche sacerdote tiene l’omelia scendendo in mezzo ai fedeli e circolando per la chiesa col microfono in mano. Soprattutto interpella sovente i bambini. Egli dice che così la ‘predica’ è più viva e più ascoltata. Vorrei un parere in proposito. E’ sempre necessario partire dalla natura teologica dell’omelia quale atto compiuto con l’autorità stessa di Cristo, Capo e Maestro. Questa investitura deve essere evidenziata anche all’esterno mediante adeguati simboli liturgici. In tal senso la tradizione secolare della Chiesa ha creato specifici luoghi adibiti proprio per la proclamazione e il commento autoritativo della Parola di Dio. Si tratta in primo luogo dell’ambone, segno permanente di Cristo Maestro e luogo dal quale il mistero di Dio che parla al suo popolo si realizza nell’Assemblea convocata. Tenere l’omelia da questo preciso luogo significa riconoscere e manifestare visivamente che il ministro parla in nome del Signore, per suo mandato e rivestito della sua autorità. Stare degnamente all’ambone lega il ministro ad un ruolo che lo sovrasta e lo spoglia di un protagonismo individuale che non deve sostituire il mistero di cui è investito. Scendere dall’ambone e circolare con un moto libero e con espressioni del tutto soggettive, ispirate alla conduzione di programmi televisivi, produce, prima nel ministro e poi nel popolo, un senso di protagonismo umano in cui la capacità e la simpatia del sacerdote travolgono o comunque oscurano la presenza del Maestro interiore, che il ministro sacro in realtà dovrebbe render presente nell’atto di insegnare nel Suo nome. Immediatamente un simile modo sembra efficace ed è accolto dal plauso della gente che è attratta dal modo apparentemente coinvolgente ed interessante, ma ben presto si farà sentire la noia di trovate originali e continuamente da inventare per destare l’interesse. Certamente su questa strada il Cristo sarà sempre più emarginato e il senso sacro della sua presenza svanirà, mentre la personalità dei singoli ministri diverrà primaria ed esclusiva, ma poi anche sempre più ingombrante e noiosa. Si intende che diversa è la situazione negli ambienti esterni alla liturgia, come la catechesi e i gruppi di formazione o anche gli incontri privati di preghiera e di riflessione.

Ecco perché, secondo le norme liturgiche, il Vescovo tiene l’omelia stando alla Cattedra, il luogo dal quale ammaestra, santifica e guida la sua Chiesa; il Presbitero tiene l’omelia o all’ambone oppure anche alla sede, secondo l’opportunità; il Diacono invece unicamente all’ambone. In particolare quando il Vescovo esercita solennemente il suo magistero dovrebbe stare seduto sulla sua Cattedra (Cerimoniale dei Vescovi, 1984, nn. 52 e 142) e così mostrerebbe con ancor maggior nobiltà l’esercizio del suo magistero episcopale, che è azione intimamente connessa col magistero stesso del Signore, unico Vescovo della Chiesa e delle nostre anime.

‘Andate’ o ‘Andiamo in pace’?

‘Vi benedica’ o ‘Ci benedica Dio onnipotente’; ‘Andate’ o ‘Andiamo in pace’. Quando si finirà di discutere questa questione? C’è una risposta? Dietro ogni espressione liturgica vi è sempre una teologia e per risolvere questo tipo di problemi è necessario individuare la base teologica sottesa ad ogni specifico elemento rituale. Il ministro sacro (Vescovo, Presbitero e Diacono) assume ruoli diversi nel corso della celebrazione liturgica. Quando agisce nella persona di Cristo-Capo che associa a sé la Chiesa suo mistico corpo, nel rivolgersi al Padre dice ‘ Preghiamo’: Cristo e Chiesa, intimamente uniti come il Capo alle sue membra, si rivolgono nel moto adorante ed ascendente al Padre. Quando, invece, Cristo-Capo si volge alla Chiesa, sua Sposa, per infonderle la grazia divina come nei sacramenti, egli dice: ‘Io ti battezzo, io ti assolvo, prendete e mangiate questo è il mio corpo, ecc. : è Lui da solo che può dare alla sua Chiesa questi doni di grazia e la Chiesa li riceve con fede e amore. Talvolta il ministro sacro personifica la Chiesa, che si prostra davanti a Cristo, suo Dio e Signore e per questo l’orazione esordisce con ‘ Signore Gesù Cristo che…’, come nella prece del rito della pace. Altre volte il ministro si prepara personalmente con preghiere silenziose per disporre sé stesso ad una celebrazione degna e fruttuosa: sono le cosiddette apologie, disseminate in vari punti del rito (prima del Vangelo e nei riti di offertorio e di comunione). Infine, il ministro sacro può dare delle indicazioni rituali o degli stimoli spirituali all’assemblea concreta, mediante brevi monizioni in punti nodali del rito. Interventi vari, quindi, con un grado evidente di diversa autorità, che va dalla formula sacramentale che lo identifica assolutamente col Cristo-Capo, alla libera monizione che lo impegna soltanto come guida e animatore dell’assemblea contingente e locale. In questo contesto si configura la risposta alla domanda posta. Quando il ministro imparte la benedizione agisce nel ruolo di Cristo-Capo, che benedice la sua Chiesa e quindi deve dire: Vi benedica…; e così quando conferisce alla Chiesa, qui radunata, il mandato missionario deve dire Andate… . Infatti, sia la benedizione come il mandato missionario, la Chiesa non se lo può dare da se

stessa, ma sempre lo riceve da Cristo, che la riempie di grazia e continuamente la invia nel mondo per annunziare il suo Vangelo. E’ inoltre evidente che tale forma vale per i soli ministri sacri, che tengono il posto del Signore di fronte alla Chiesa, non per gli animatori laici della liturgia, che in assenza del ministro sacro invocano essi stessi su di sé la benedizione con formule specifiche.

La lampada perenne

La lampada perenne: perché e come …? «Davanti al tabernacolo nel quale si custodisce la santissima Eucaristia, brilli perennemente una speciale lampada, mediante la quale venga indicata e sia onorata la presenza di Cristo» (Can. 940). La lampada perenne, ossia che arde sempre, giorno e notte, indica ai fedeli la presenza del Signore nel santissimo Sacramento e insieme è segno permanente dell’ onore e dell’ adorazione che la Chiesa sempre rivolge al Dio che ha posto la sua tenda in mezzo a noi. In qualche modo la lampada perenne continua la tradizione dell’antica Alleanza quando il candelabro dalle sette braccia, per ordine divino, doveva sempre ardere nel tempio proprio davanti al luogo più sacro, il Santo dei Santi. Ancor oggi gli Ebrei nelle loro sinagoghe tengono accesa una lampada davanti al tabernacolo che conserva i rotoli della Legge: “ Nella parete orientale si contiene l’Arca Santa coi rotoli manoscritti, della Torah davanti a cui arde la lampada perpetua. Due candelieri stanno alla parete orientale, verso la quale si recitano le preghiere” (FEDERICI, T., Israele vivo, in Quaderni Missionari, Edizioni Missioni Consolata, Torino, 1962, p. 96). La lampada perenne viene spenta quando il tabernacolo è vuoto. Nel Sabato Santo, quando il Santissimo è conservato fuori della chiesa, la sua lampada lo segue e così pure ogni volta che il Sacramento viene temporaneamente trasportato in altro luogo. Per la verità del segno si deve accuratamente evitare una luce artificiale, ma deve ardere sempre una fiamma viva, alimentata ad olio o cera: “ Secondo una consuetudine tramandata, presso il tabernacolo rimanga sempre accesa una lampada particolare, alimentata da olio o cera, con cui si indichi e si onori la presenza di Cristo” (OGMR 316). Oltre che essere più degna e in grado di creare un ambiente più caldo e autentico la lenta consumazione dell’olio e o della cera è il simbolo della nostra unione al Sacrificio del Signore e della vita interiore del nostro cuore che si consuma nell’amore adorante e nell’offerta sacrificale: “…L’olio e la cera ardendo si struggono e consumano in onore della Divinità, e così rappresentano un vero

sacrificio di luce: Eucharistia lucernaris… la lampada elettrica invece è un espediente molto sbrigativo, che non richiede alcun pensiero di manutenzione; perciò, anche per tale ragione l’elettricità non simboleggia troppo fedelmente la devotio, cioè il servizio assiduo e amoroso del levita nel mantenere vivo innanzi all’altare di Yahvé il fuoco sacro della fede” (SCHUSTER, vol. I, p. 164-165). Essa deve essere in un rapporto visivo immediato col tabernacolo in modo che tutti comprendano che è relativa alla presenza del Sacramento, quasi un indice puntato si di esso e deve ben distinguersi dagli altri eventuali ceri devozionali. Può essere posta su un candelabro prossimo al tabernacolo a guisa di sentinella adorante, oppure vicino al tabernacolo sulla sua mensa o anche scendere pendula dall’alto. In alcune chiese, soprattutto nella cappella del Santissimo, vi è l’uso di scortare l’altare del Sacramento con due grandi e artistici candelabri di marmo o di bronzo sui quali arde la fiamma perenne. Il sacrista deve curare che questa lampada sia sempre pulita e decorosa, evitando che sia un lucignolo fumigante e insignificante e talvolta il residuo di un piccola combustione. Nell’itinerario dell’Iniziazione cristiana, soprattutto i bambini della prima Comunione, devono essere introdotti al senso della Presenza eucaristica anche mediante il segno visibile della lampada perenne, in modo che sappiano subito riconoscere in ogni chiesa il tabernacolo e sostarvi in breve adorazione. Il clima secolarizzato largamente diffuso, che ha tolto il silenzio dalle nostre chiese, lede alquanto il senso della Presenza e il rispetto adorante del SS. Sacramento, in modo che diventa difficile non solo poter pregare prima o dopo una celebrazione, ma anche fare la genuflessione e accorgesi che c’è il tabernacolo. Si dovrà riconsiderare seriamente questa irruzione del profano per non incrinare ulteriormente la crescita e la profondità spirituale del popolo cristiano.

Il conopeo

Il conopeo si deve ancora usare? “La presenza della santissima Eucaristia nel tabernacolo venga indicata dal conopeo o da altro mezzo idoneo, stabilito dall’Autorità competente…”(RCCE11). A differenza della lampada perenne il conopeo non è assolutamente comandato e questo è certamente uno dei motivi che ne hanno segnato la scomparsa. Ma vi sono anche altre motivazioni, come il valore di alcuni tabernacoli insigni per arte, che esigono di essere ammirati, oppure i nuovi stili di tanti tabernacoli moderni, pensati senza conopeo. Non è comunque saggio considerare ormai del tutto superato il conopeo. Oggi infatti, si tende a non valorizzare adeguatamente l’uso dei tessuti nell’arredo liturgico delle chiese, creando spesso ambienti piuttosto freddi, dovuti all’uso esclusivo dalla pietra e dei metalli. Il tessuto, invece, riscalda l’ ambiente e lo rende più abitabile e accogliente. Una casa priva di tendaggi e tappeti è desolata e quasi spenta. Il conopeo, nobilmente fluente, conferisce calore al tabernacolo e lo configura meglio come dimora del «Dio con noi». La sua assenza rimanda a quell’impressione austera che emana dai nostri tabernacoli vuoti e disadorni nel Sabato santo. Non si dovrà perciò escludere l’uso del conopeo in tutti i casi, ma riconsiderarlo fin dalla progettazione di un nuovo tabernacolo, in modo che sia ben inserito nella sua struttura, evitando una sovrapposizione imprevista e inadeguata allo stile. Il conopeo consente anche di mettere in evidenza le varie «stagioni» liturgiche, quando lo si dovesse opportunamente variare secondo i colori delle feste e dei tempi sacri. In tal modo sarebbe un ulteriore ponte tra l’Eucarestia celebrata e l’Eucarestia conservata, tra l’altare e la custodia eucaristica. Comunque nelle chiese storiche il conopeo dovrebbe essere normalmente usato anche per conservare manufatti veramente ragguardevoli e preziosi non raramente confezionati come parte di un apparato liturgico completo.

Dove deporre la pisside

Dove deporre la pisside senza una mensa? Non è infrequente che sacristi e ministri straordinari della Comunione lamentino la poca funzionalità di taluni tabernacoli privi di un minimo di supporto per svolgere decorosamente talune necessarie operazioni connesse al SS. Sacramento. La richiesta va accolta in quanto un’azione liturgica decorosa esige anche spazi sufficienti e funzionali. Se il tabernacolo si trova su di un altare nella cappella del SS. Sacramento o sullo stesso altare maggiore antico, la sua mensa potrà assolvere degnamente alle funzioni indispensabili per la cura della santissima Eucarestia. Ma altre volte il tabernacolo è del tutto privo di una mensola e consente solo di estrarvi o riportarvi la pisside, senza possibilità di appoggio. Occorre allora riflettere. Una mensa sufficiente, coperta con la tovaglia e con possibilità di stendervi il corporale, è necessaria davanti al tabernacolo. Su di essa si devono poter compiere alcuni atti necessari: - deporre la pisside quando la si leva o la si riporta nel tabernacolo, evitando di aprirlo e chiuderlo tenendo in mano il Sacramento e consentendo una degna genuflessione; - travasare le particole, purificare le coppe e riordinare i vasi sacri; - fuori della Messa immettere nella teca le particole per i malati e purificare la medesima; - amministrare la s. Comunione fuori della Messa a singoli fedeli o a piccoli gruppi; - esporre il SS. Sacramento, anche con l’ostensorio, soprattutto quando l’adorazione è fatta nella cappella del Sacramento con pochi fedeli. E’ evidente che se il tabernacolo è nel presbiterio molti di questi servizi si compiranno agevolmente sull’altare. Tuttavia, una sufficiente mensa non dovrebbe mai mancare davanti al tabernacolo, almeno per assicurare i servizi più

immediati.

Vasetto delle abluzioni

Il vasetto delle abluzioni è soppresso? E’ del tutto conveniente che presso il tabernacolo vi sia un piccolo recipiente con l’acqua per l’abluzione e vicino ad esso il purificatoio. E’ infatti, quanto mai opportuno, per la maggior dignità dell’atto, che il ministro, dopo la distribuzione della santa Comunione, si purifichi le dita, secondo la tradizione liturgica. Il sacerdote e il diacono lo possono fare nell’atto stesso di purificare i vasi sacri dopo la comunione. Fuori della Messa, però, tale purificazione sarà possibile usando il vasetto dell’abluzione presso il tabernacolo. Soprattutto i ministri straordinari della Comunione, sia nella Messa come fuori di essa, se ne serviranno per la purificazione delle dita. Il vasetto va regolarmente pulito e l’acqua, versata nel sacrario, deve essere cambiata frequentemente, conforme a ciò che è stabilito: «Si conservi la tradizione di costruire in sagrestia il sacrario per versarvi l’acqua per l’abluzione dei vasi sacri e della biancheria»(OGMR334).

Il velo omerale

Il velo omerale è facoltativo? “Per impartire la benedizione al termine dell’adorazione quando si è fatta l’esposizione con l’ostensorio, il sacerdote o il diacono indossano anche il piviale e il velo omerale di colore bianco; quando si è fatta l’esposizione con la pisside, indossano il velo omerale” (RCCE100). Come si vede il velo omerale è ancora contemplato. Tuttavia questo indumento liturgico sembra scomparso dall’uso liturgico. E’ allora necessario capire il suo significato e la sua efficacia educativa. Una mentalità alquanto diffusa tende alla riduzione dell’abbigliamento sacro in nome della semplicità e della autenticità e così si manifesta un’altra un’occasione di protagonismo del sacerdote, che ritiene di esibire davanti al popolo la sua umiltà e la sua maturità, si dice, che rifugge da inutili rubricismi. In tal modo, però, la liturgia si impoverisce e tutto diventa ordinario e feriale, privo di ogni elemento di solennità e di dignità. Lo stesso SS. Sacramento viene così trasportato, esposto, distribuito e normalmente trattato con i modi della più usuale funzionalità. In questo ribasso stilistico non vi è più stimolo per percepire il senso sacro della presenza del Signore e tempo sufficiente per esprimere atti di adorazione. Anche la stessa Comunione viene così amministrata senza previa devozione e si riduce alla distribuzione veloce di un ‘pane benedetto’. Ormai pochi oggi si inginocchiano o si inchinano al passaggio del Santissimo essendo abituati a vedere transitare ministri con le coppe in ogni luogo e senza alcuna forma rituale. Ma su questa strada il dogma rimane solo un’affermazione intellettuale, senza una coerente espressione liturgica e di conseguenza senza una incisività spirituale. Il velo omerale in realtà si usa per suscitare il senso del mistero racchiuso nella santissima Eucarestia e il suo uso è per se stesso un segno di venerazione e di somma attenzione a ciò che si ha nelle mani e che passa davanti allo sguardo supplice dei fedeli. Fin dall’antichità vediamo nei mosaici l’uso di veli per coprire le cose sacre, come l’evangeliario, la croce e soprattutto le specie sacramentali. La velazione ha un immediato impatto psicologico nel richiamare l’attenzione e nel guardare con circospezione a ciò che in tal modo viene conservato o trasportato. Ecco allora la

necessità di una decisa ripresa di ciò che già la Chiesa ha stabilito: l’uso del velo omerale. Esso si deve assumere: - nell’ esposizione eucaristica quando vi è un percorso significativo tra la cappella del SS. Sacramento e l’altare; - nelle processioni eucaristiche l’ostensorio viene portato con le mani coperte dal velo omerale e sotto il baldacchino; - nella benedizione eucaristica semplice la pisside viene interamente coperta con i lembi del velo omerale, mentre in quella solenne si usa sempre l’ostensorio e lo si regge con le mani avvolte dal velo omerale; - nella reposizione la pisside o la teca con l’ ostia magna viene normalmente portata al tabernacolo sotto il velo omerale: nella Messa in cena Domini del Giovedì santo tale processione assume una particolare solennità. Sarebbe conveniente, che dopo la Comunione, almeno nella Messa stazionale del vescovo o anche in quella domenicale del parroco, il diacono raccogliesse sulla mensa dell’altare in un’unica pisside le sacre specie e, coprendola col velo omerale, la riponesse nella cappella del SS. Sacramento scortato da due ceri. In tal modo l’assemblea coglierebbe la grandezza del SS. Sacramento e la necessità dei dovuti onori liturgici. Nel caso tuttavia, che il tabernacolo sia sul presbiterio e quindi prossimo all’altare della celebrazione, la reposizione non potrà che essere semplice e immediata. Sebbene le norme liturgiche prevedano sempre per il velo omerale il colore bianco, tuttavia, in analogia con i diversi colori degli abiti liturgici e in considerazione del notevole patrimonio dei paramenti sacri storici, potrebbe essere alquanto conveniente che anche il velo omerale seguisse il canone dei colori liturgici, in modo che l’Eucaristia, conservata e adorata fuori della Messa, sia visibilmente correlata al Sacrificio divino e intonata allo svolgersi dell’Anno liturgico. E’ del tutto da evitare che il velo omerale, soprattutto se prezioso, sia impiegato per coprire l’ambone. In questo modo sono stati rovinati non pochi e preziosi veli, privandoli della loro funzione specifica di velare la SS. Eucaristia.

Comunione in ginocchio

E la comunione in ginocchio? E’ ancora possibile? E’ necessario che nella cappella del Santissimo vi sia una balaustra, stabile e adatta, per consentire ai singoli fedeli di inginocchiarsi per adorare il SS. Sacramento e anche per ricevere la s. Comunione fuori della Messa. Bisogna ricordare che, anche se le Conferenze Episcopali hanno consentito di accostarsi alla s. Comunione in piedi e di riceverla sulla mano, la norma della Chiesa universale continua ad ammettere il modo tradizionale della Comunione, ricevuta in ginocchio e in bocca, come stabilito dall’Ordinamento Generale del Messale Romano: “…i fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi, come stabilito dalla Conferenza Episcopale…(OGMR160) “…si riceve il sacramento in bocca o, nei luoghi in cui è stato permesso, sulla mano, come preferisce…” (OGMR161). E’ perciò conveniente che i fedeli, che chiedono la s. Comunione fuori della Messa, la possano ricevere lodevolmente in questo modo.

Questa è la parola di Dio?

Perché qualche lettore, tra quelli più impegnati, termina la lettura dicendo: E’ parola di Dio, oppure: Questa è la parola di Dio ? Vi è libertà di formulazione? Già il mutare la formula stabilita è un procedimento sbagliato, in quanto la Chiesa ha pensato le sue formule e per qualcuna di esse ha impiegato secoli di riflessione e dibattiti teologici non piccoli. Si pensi ad alcuni passaggi nella professione di fede. Quindi occorre sempre tener presente la mente della Chiesa, che ha scelto una specifica formulazione preferendola ad altre. La coscienza che il rito liturgico è della Chiesa e non è creazione di privati deve sempre renderci attenti alla facile tentazione di modifiche e sostituzioni soggettive. Non raramente espressioni ritenute inocue rivelano impostazioni teologiche profonde e, superficiali varianti fatte con tono di sufficienza, possono incrinare la retta dottrina e il modo giusto di celebrare. In particolare il Verbum Domini con cui il lettore conclude la lezione biblica ha carattere di acclamazione e non di dichiarazione. Non si tratta di dichiarare davanti all’assemblea che ciò che è stato letto è la parola di Dio, ma di suscitare nella medesima assemblea una acclamazione di fede e di amore in risposta alla parola di Dio proclamata. Per questo sarebbe più consono con la natura dell’espressione qui considerata la sua esecuzione in canto con la risposta melodica di tutto il popolo: Deo gratias / Laus tibi, Christe. In tal senso la lingua latina unita alla melodia gregoriana offre una modalità perfetta di esecuzione, che nella sua semplicità evidenzia il graduale crescendo verso il vertice della liturgia della parola, la lettura evangelica. Dal tono basso previsto per la lezione profetica, passando a quello più elevato della lezione apostolica, si raggiunge il culmine nel tono proprio del testo evangelico. La breve acclamazione in latino è così elementare e da tutti comprensibile, che non avrebbe bisogno di traduzioni e potrebbe costituire quel patrimonio di elementi universali, che arricchirebbero la liturgia. Tuttavia non dovrà comunque essere abbandonato l’intento di proporre melodicamente le acclamazioni terminali delle letture, almeno nelle celebrazioni solenni.

Formula dopo il Vangelo

Non tutti i sacerdoti, ma il nostro sacerdote anziano, dopo aver baciato il lezionario dice sempre questa invocazione: La parola del vangelo cancelli i nostri peccati. Ho controllato e ho visto che è effettivamente presente nell’ordinario della Messa. Qual è il significato? La lingua latina si esprime con un ritmo facile da ritenere e semplice da capire: Per evangelica dicta, deleantur nostra delicta. La breve preghiera che il sacerdote recita a voce sommessa, subito dopo aver letto il santo vangelo, fa parte di quella devozione personale, che la liturgia prevede in vari punti dei riti per tenere desta l’attenzione spirituale del sacerdote. Queste orazioni sono particolarmente frequenti nella presentazione delle Oblate e come preparazione alla santa Comunione. Sono dette ‘apologie’ in quanto invocano ripetutamente quella dignità interiore, che è tanto necessaria per celebrare con frutto il divin Sacrificio. In particolare questa invocazione postevangelica ci rimanda a ciò che avvenne dopo la prima omelia pronunziata nella Chiesa, il discorso di san Pietro nel giorno di Pentecoste. Allora, a Gerusalemme, molti si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: Che cosa dobbiamo fare, fratelli? E Pietro disse: Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati (At 2,37-38). Quindi, l’ascolto della parola di Dio produce la conversione e la conversione ottiene la remissione dei peccati. Ebbene con questa formula stringata si invoca quel perdono dei peccati, che è conseguente alla conversione provocata dall’ascolto fruttuoso della parola di Dio. Si passa direttamente dal termine iniziale - la parola del vangelo - al termine finale - cancelli i nostri peccati - supponendo il passaggio mediano - la conversione - che è il frutto più autentico dell’ascolto della parola di Dio e che è indispensabile per ottenere la remissione dei peccati. Una formulazione più discorsiva ed esplicita dovrebbe dire: La parola del vangelo susciti in noi la conversione, perché, mediante la conversione e la penitenza, siano cancellati i nostri peccati. In qualche modo nella breve apologia il sacerdote invoca per se stesso e, di riflesso, anche per tutto il popolo, i medesimi effetti di grazia, che seguirono con tanta abbondanza sulla piazza di Gerusalemme, dopo la prima predicazione di Pietro. Quell’evento quindi continua nella Chiesa, ogni volta che

nell’assemblea liturgica sono proclamate le Scritture e che per la potenza dello Spirito Santo è offerto il dono della penitenza, che cancella i peccati. E’ evidente che qui non si tratta di una forma di assoluzione in senso stretto, ma di una pia prece alla stregua dei sacramentali.

L'ambone

E’ vero che l’ambone è il luogo riservato alla parola di Dio. Tuttavia è anche l’unico luogo pratico dal quale dare comodamente altre comunicazioni. Infatti, nella nostra parrocchia ormai tutti coloro che devono parlare vengono all’ambone: commenti, saluti, canti, ecc. Anche il sindaco parla dall’ambone… . L’altare, l’ambone e la sede sono i luoghi santi nei quali si compie il mistero della salvezza sotto il velo dei segni. La sacralità di questi luoghi deve con ogni cura essere tutelata, per non perdere il senso soprannaturale e la fruttuosità spirituale dei misteri che lì si attualizzano. E’ allora necessario evitare ogni forma di profanazione, che subentra tutte le volte che in questi luoghi sacri si compiono atti non conformi alla natura e alla funzione propria di ciascuno di essi. Ciò può avvenire dentro o fuori della celebrazione. All’altare accedono con la dovuta circospezione i ministri idonei a compiere il Sacrificio e a trattare il Sacramento. Alla sede il presbitero presiede a nome del Signore, guidando l’assemblea con interventi sobri e pensati, secondo le indicazioni liturgiche. All’ambone il diacono e i lettori proclamano la parola di Dio, il cantore esegue il salmo responsoriale, il sacerdote vi può tenere l’omelia (che può essere tenuta anche alla sede) e si proferiscono anche le intenzioni della preghiera universale. Ogni altro intervento compromette la natura e la funzione dell’ambone stesso. Così si esprimono le normativa liturgiche vigenti: Dall’ambone si proclamano unicamente le letture, il salmo responsoriale e il preconio pasquale; ivi inoltre si possono proferire l’omelia e le intenzioni della preghiera universale o preghiera dei fedeli. La dignità dell’ambone esige che ad esso salga solo il ministro della Parola (OGMR 309). Poiché l’ambone è il luogo dal quale viene annunciata la parola di Dio dai ministri, esso dev’essere riservato per sua natura alle letture, al salmo responsoriale e all’annunzio pasquale. Tuttavia l’omelia e la preghiera dei fedeli possono essere proferite dall’ambone, per la stretta connessione di queste parti con tutta la liturgia della parola. Ma è meno opportuno che altri ascendano all’ambone, per esempio il commentatore, il cantore o direttore di canto [1] .

Anche fuori della celebrazione i tre luoghi sacri devono essere rispettati. Non si può usare l’altare come tavolo al quale seggono i relatori di conferenze e convegni tenuti in chiesa, né renderlo supporto di oggetti impropri, come proiettori, spartiti musicali, indumenti, ecc. Non è conveniente occupare la sede da parte di chiunque, né salire su di essa per dare comunicazioni estranee e tenere discorsi alieni dal culto divino. E così non si deve usare l’ambone per commemorazioni, testimonianze, discorsi di circostanza, commenti ai brani musicali di un concerto, discorsi delle autorità civili, ecc. Senza una adeguata formazione liturgica e un convinto senso del sacro non sarà possibile uscire con determinazione dalla situazione attuale di crisi. Ma l’operazione potrà avere efficacia duratura soltanto se una rinnovata percezione, più sensibile al linguaggio dei simboli, unirà gli intenti pastorali del clero e di riflesso educherà la mentalità dei fedeli. Anche la rimozione di elementi classici nelle chiese storiche e talune scelte architettoniche nell’edificazione delle nuove chiese compromettono alquanto la capacità dei sacerdoti e dei fedeli nel percepire con facilità il carattere sacro dei luoghi in cui il cielo discende sulla terra e Dio si accosta agli uomini. Questo è il motivo per cui nei secoli fu realizzata sempre una qualche forma di distinzione tra l’altare e la navata della chiesa, mediante una molteplicità di strutture: la pergula, i plutei, i cancelli, l’iconostasi, la balaustra, ecc. (OGMR 295). L’accesso facile al luogo santo, consentito a chiunque e in ogni momento, è un fatto recente e deve essere ripensato se si intende rieducare la comunità cristiana al senso sacro dell’area presbiteriale e dei luoghi celebrativi che in essa sono custoditi.

[1] CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI, Risposta a dubbi proposti: Luogo dell’annunzio della Parola di Dio, 28 febb. 1998 in Enchiridion vaticanum vol. 17, n. 480.

Liturgia della parola drammatizzata?

In alcune occasioni la liturgia della parola viene drammatizzata con i ragazzi della catechesi e in certe celebrazioni si proiettano immagini e filmati. Le opinioni tra di noi sono alquanto divergenti. Che dire in proposito? La Chiesa ha sempre celebrato la liturgia della parola in modo che sia proclamata dalla viva voce del lettore e ascoltata da tutto il popolo convocato. Tale modalità ebbe i suoi primordi nella liturgia sinagogale, come ben si attesta nelle sacre Scritture e nelle fonti antiche. Le sacre rappresentazioni ebbero certo origine dalla liturgia cristiana, ma non la sostituirono mai. Indubbiamente la Chiesa assunse talune espressioni drammatiche per impreziosire la proclamazione liturgica, ma queste sono molto sobrie e del tutto funzionali ad una proclamazione liturgica ancor più nobile ed efficace. Il caso più evidente è quello della lettura della Passione con i tre diaconi e la schola per gli interventi corali. Anche la cantillatio può dar maggior forza e colore alla proclamazione delle letture, in particolare al testo evangelico. Tale modalità dovrebbe essere più conosciuta e praticata, secondo le proposte recepite anche nei vigenti libri liturgici (cfr. Appendice al Messale Romano). Ora la drammatizzazione con i suoi personaggi e le loro movenze teatrali tende ad indebolire il senso della presenza di Dio e ad oscurare la percezione del mistero di Lui che parla al suo popolo. L’attenzione dell’assemblea, infatti, è fortemente attratta dai protagonisti umani e dalla loro gestualità. Svanisce in tal modo il clima della preghiera e della concentrazione spirituale, che sono elementi indispensabili della liturgia. Anche i contenuti della parola di Dio vengono alquanto condizionati dall’interpretazione degli attori e la loro oggettività resa precaria. La proclamazione liturgica invece aderisce con più precisione al testo sacro e lo espone con sobrietà ed essenzialità. Analoga alla drammatizzazione teatrale è la proiezione di filmati e di immagini. In realtà la ritualità liturgica ha caratteristiche di nobiltà e di misura che non ricorrono nella teatralità delle sacre rappresentazioni e i moduli rituali della liturgia hanno leggi e strutture loro proprie, affinate dalla esperienza secolare della Chiesa. Diverso è il caso della drammatizzazione realizzata fuori della liturgia nel contesto della catechesi e della pastorale in genere nell’ambito dell’oratorio.

Cartelloni e manifesti in chiesa

Vorrei capire l’abitudine ormai così diffusa di riempire le chiese di cartelloni e manifesti. Non è piuttosto indecoroso, almeno in certe chiese tanto belle? I molti cartelloni che invadono le nostre chiese sono ormai un costume dilagante e non è facile resistere a questa spinta. Da un lato gli uffici pastorali nazionali e diocesani offrono un materiale esorbitante con un gettito quasi settimanale di manifesti relativi alle ormai continue giornate a tema; dall’altro la catechesi e i vari gruppi parrocchiali vogliono mostrare la loro attività con cartelloni, disegni, fotografie di vario genere e di diversa qualità compositiva. Tutto questo materiale poi viene disposto in ogni luogo della chiesa, anche negli stessi luoghi celebrativi, quali, l’ambone, l’altare, la balaustra, il battistero, gli altari laterali, ecc. In tal modo le nostre chiese assumono l’aspetto di una sala dell’oratorio e poco importa se si oscurano luoghi ad alto valore sacro o monumenti di considerevole rilievo artistico. Le nostre chiese si presentano disordinate, simili alla stanza da gioco dei bambini o al deposito delle cianfrusaglie. Soprattutto le chiese d’arte sono offese da questo costume improprio e, non solo i fedeli, ma anche i visitatori ne ricevono un esempio di basso profilo e di cattivo gusto. Il costume non è che l’estensione visiva del continuo parlare nella liturgia e mentre le eccessive monizioni rivelano la malattia della sermonite col linguaggio verbale, la cartellonistica la esprime con quello visivo. Si tratta sempre di infarcire un linguaggio semplice, nobile e incisivo come quello della liturgia con ingredienti inutili ed eccessivi che la appesantiscono e la snaturano. Occorre certo reagire e iniziare un cambiamento di mentalità e di prassi a tal proposito, fissando alcuni principi di fondamentale importanza. Anzitutto nell’aula della chiesa non si deve applicare la logica e la prassi della pubblicità propria della piazza. L’ambiente della chiesa ha un proprio linguaggio che è quello dell’arte e della sacralità: ogni elemento parla da se stesso e non può essere offeso da un linguaggio alternativo e banale che lo oscura e lo svilisce. La bellezza propria dei luoghi sacri, come l’altare, l’ambone, il tabernacolo, il battistero, le immagini sacre, le cappelle laterali e le stesse pareti della chiesa, deve essere rispettata e deve potersi esplicare con la forza stessa dell’arte che li

riveste, senza bisogno di integrazioni così povere e talvolta indegne quali sono i cartelloni, le fotografie, gli striscioni, ecc. Questa invasione impropria declassa la forza dei simboli e la bellezza dell’arte e compromette del tutto il senso sacro della chiesa e dei suoi luoghi santi. Occorre saper distinguere gli ambienti. Il ruolo del sagrato o dell’atrio a questo punto diventa importante. Ma anche qui è necessario tanto buon gusto e sobrietà. In particolare va rispettata la porta della chiesa, come un simbolo di non poco conto, messo in luce anche nel rito della Dedicazione. Essa non può essere una permanente bacheca di esposizione, ma deve rimanere pulita e decorosa quale simbolo di Cristo che disse “ Io sono la porta”. Si tratterà allora di trovare la giusta disposizione dei cartelloni e degli avvisi, di non mitizzarli a tal punto da assumere la logica insistente e impattante della pubblicità commerciale e di non indulgere ad una pressione visiva sui fedeli, che sono quasi spinti per forza a dare attenzione al cumulo talvolta eccesivo dell’attivismo pastorale. Tutto questo toglierebbe importanza ed efficacia alla contemplazione propria del luogo sacro.

Avvisi parrocchiali

Gli avvisi parrocchiali spesso sono eccessivi e noiosi. Si devono proprio fare? Le rubriche permettono che nei riti di congedo, prima di impartire la benedizione, possano essere dati brevi avvisi (OGMR 90). L’indicazione è della massima sobrietà, sia nel valutare l’effettiva necessità, sia nel richiamare la loro brevità. Gli avvisi parrocchiali non devono diventare una regola, ma un’eccezione e le comunicazioni devono essere brevi e incisive. Spesso, invece, tali avvisi diventano una prolissa esposizione, non raramente priva anche di uno stile che rispetti la sacralità e la sobrietà della liturgia. Gli avvisi, se intesi come sempre necessari e regolari, provocano una caduta del clima contemplativo, che dovrebbe perdurare come alone spirituale nell’assemblea che si scioglie. L’aula della chiesa infatti deve conservare il silenzio sacro per consentire ai fedeli di proseguire a livello individuale la meditazione e la preghiera. La comunicazione fraterna e quindi anche il luogo proprio per trasmettere gli avvisi parrocchiali è il sagrato o l’atrio. Qui si devono trovare le modalità più opportune ed incisive per dare informazioni sulla vita pastorale della comunità cristiana. Se non si distinguono gli ambienti si finisce per sacrificare in modo indebito proprio lo spazio riservato alla liturgia, efficace incontro col mistero che trasforma, eleva e che rende possibile una fraternità vera, radicata su base soprannaturale. Senza il primato del mistero, accolto, contemplato ed assunto interiormente, ogni comunicazione reciproca decade in un superficiale e fragile rapporto filantropico, che non attinge sufficientemente alla forza propria del Sacramento ricevuto e non adeguatamente interiorizzato. Alla luce di questa considerazione gli operatori liturgici dovranno valutare seriamente il momento adeguato per gli avvisi parrocchiali e saper offrire con tatto spirituale comunicazioni rispettose dei valori insopprimibili, propri dell’azione liturgica e della sua piena efficacia educativa. Dovrebbe essere sempre più condiviso che la celebrazione liturgica e la chiesa non sono il contenitore di ogni attività parrocchiale, ma il luogo proprio della preghiera, del silenzio orante, della meditazione e dell’incontro anche personale con Dio (come recita il Salmo “ la mia casa è casa di preghiera”): dimensione che deve essere quanto più possibile favorita. In tal senso sembra opportuno superare sempre più la prassi degli avvisi, in nome di forme

alternative quali il foglietto settimanale, ecc., educando i fedeli ad un minimo impegno, ad interessarsi di quello che succede nella loro parrocchia, senza volere a tutti i costi raggiungerli con estenuanti e ripetitive comunicazioni, che qualche volta li annoiano e indispettiscono. È infine del tutto assodato che gli avvisi non possono essere dati dall’ambone, riservato esclusivamente alla proclamazione della Parola di Dio.

Commenti

Vi sono diversi sacerdoti che premettono la spiegazione delle letture prima della loro proclamazione. Altre volte il commentatore introduce le singole letture. Che pensare al riguardo? Occorre distinguere tra l’omelia anticipata e i commenti alle letture. Spiegare la Parola di Dio prima che essa venga proclamata è in antitesi con la prassi secolare della Chiesa, che solo dopo aver ascoltato la Parola di Dio, procede ad una sua spiegazione mistagogica mediante l’omelia. I commenti, distribuiti in vari punti della celebrazione e anche prima delle singole letture, hanno bisogno di una specifica argomentazione. Certamente ebbero una loro utilità negli anni immediatamente successivi alla riforma liturgica, in quanto si doveva spiegare al popolo il significato delle varie parti del rito, la composizione del lezionario e il valore di gesti e modalità comportamentali che erano nuovi rispetto alla liturgia precedente. Tuttavia essi dovevano essere gradualmente superati mano a mano che l’assemblea era resa capace di partecipare con sicurezza alle nuove forme rituali. A cinquant’anni dalla riforma liturgica i commenti dovrebbero essere del tutto superati: difatti la forza e l’efficacia dei riti e delle letture non sta nella loro spiegazione, ma nella loro stessa esecuzione, fatta con competenza, gusto, proprietà e partecipazione interiore. Tale superamento è già previsto nel dettato della costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium, quando afferma: I riti… non abbiano bisogno di molte spiegazioni… (SC 34). Occorre evitare che tutto sia sempre e subito capito e spiegato, ma lasciare che un margine di mistero e di inafferrabilità pervada sempre la liturgia nelle sue espressioni. In tal modo si crea il fascino e la maestà delle cose di Dio e si stimola un certo sforzo interiore per un itinerario spirituale che richiede ricerca, riflessione e impegno personale. In particolare bisogna evitare alcuni condizionamenti sul modo di intendere, sia la Parola di Dio, sia il senso generale dell’intera celebrazione. Indurre l’assemblea a leggere la liturgia del giorno alla luce di un’unica prospettiva imposta allo sguardo di tutti non rispetta la libertà dello Spirito, che offre a ciascuno sottolineature, approfondimenti personali e

specifici, che una proclamazione completa e incondizionata della Parola assicura da sempre. Al contempo un apparato di commenti che infarcisce soprattutto le celebrazioni eucaristiche delle domeniche dei tempi forti e di talune solennità, ispirato a visioni parziali e insufficienti, tende a strumentalizzare l’intero complesso liturgico di un tempo sacro, come l’Avvento o la Quaresima, asservendolo a obiettivi di parte e a finalità pastorali, certo buone, ma non sempre in sintonia col mistero celebrato. Un’autentica arte del celebrare, esercitata da ciascun ministro, offre da se stessa la migliore modalità espressiva e la più efficace forza comunicativa, senza bisogno di ingombranti didascalie.

I doni offertoriali

Molte volte quando si fa la processione offertoriale i vari doni sono commentati. E’ da farsi? I doni offertoriali devono rispettare il primato delle oblate (pane, vino ed acqua), uniche necessarie per il divin Sacrificio, che mai devono apparire come appendici scontate e quasi insignificanti. Eventuali altri doni devono essere curati nella loro sobrietà e qualità, per non indulgere ad inutili distrazioni e banalità. La processione offertoriale è accompagnata dal canto o da un intervento dell’organo e mai si deve interferire con commenti e ancor meno con applausi. La presentazione delle offerte non può scadere in un protagonismo personalistico, né in una passerella da mercatino. L’intento essenziale della processione offertoriale è quello di suscitare in tutti il moto interiore dell’offerta di se stessi in unione al Sacrificio eucaristico. Tale intima oblazione, propria di tutti i presenti, non può avvenire se non nel silenzio, nel clima sacro, nella proprietà delle forme, nel rifiuto degli eccessi teatrali. Il messaggio di una processione offertoriale di qualità traspare con efficacia dalla semplice forza di un rito nobile, sacro, degno e solenne, che si impone allo sguardo e non sopporta chiose e intrattenimenti di alcun genere. Basterebbe pensare alla bellezza e sacralità della solenne processione con gli Oli santi nella Messa del Crisma del Giovedì santo. Purtroppo attualmente sembra essere scomparso uno dei significati originali della processione offertoriale, ossia quello di introdurre le oblate nella santa assemblea con sommo onore, dovendo esse diventare il Corpo e il Sangue sacramentali del Signore. Tale ingesso onorifico è analogo a quello riservato all’Evangeliario, alla Croce processionale e ai Ministri sacri.

Etichetta per concerti

E’ possibile in occasione di concerti o recite far sedere la gente sui sedili del presbiterio e anche sulla sede con il motivo di una grande folla? Vale per la sede ciò che si è detto per l’altare e l’ambone. Sono luoghi sacri tutti e tre e la loro dignità deve essere tutelata riservandoli esclusivamente per i servizi liturgici loro propri. E’ evidente che un uso scorretto della sede porta ad attenuare quel senso sacro del luogo della presidenza liturgica di cui la sede deve permanentemente essere circondata. Come l’altare non può diventare il supporto di oggetti e atti profani e l’ambone di discorsi di circostanza, così la sede – e in modo del tutto eminente la cattedra del vescovo – deve apparire come il segno nobile e degno di Cristo pastore e guida della Chiesa. Evidentemente se la sede è priva della dovuta dignità ed è svilita in un comune sedile senza decoro e bellezza non può suscitare nei fedeli il richiamo simbolico del mistero che dovrebbe trasmettere. Già la zona presbiteriale tuttavia dovrebbe proteggere i luoghi santi in esso contenuti (altare, tabernacolo, ambone, sede) e assicurare la loro sacralità. Il rispetto per il presbiterio è espresso anche nella norma del Cerimoniale dei vescovi che afferma: Non entri in presbiterio durante le sacre celebrazioni qualunque ministro che non indossi la veste sacra o la talare e la cotta o altra veste legittimamente approvata (CE 50). Il presbiterio comunque, anche fuori della celebrazione, dovrebbe sempre rimanere estraneo a persone e azioni improprie e conservare con cura la sua sacralità. L’eliminazione della balaustra o delle altre strutture tradizionali a custodia del presbiterio non ha certamente favorito la necessaria tutela del senso sacro dell’area presbiteriale.

Azione liturgica in assenza del presbitero

Molti operatori liturgici chiedono spiegazioni sul loro ruolo di guida nell’azione liturgica in assenza del presbitero e riguardo al luogo che devono occupare nella celebrazione. La domanda si presta ad una risposta più ampia in ordine alla presidenza dei vari ministri secondo la loro identità teologica. a. Il vescovo usa la cattedra soltanto per presiedere la liturgia, normalmente rivestito degli abiti pontificali. Quando, invece, assiste ad una celebrazione non sta alla cattedra, ma, indossando l’abito corale, si pone in un seggio diverso appositamente predisposto: “Qualora il vescovo non presieda nel modo più sopra descritto (CE 175-185), partecipi alla messa rivestito di mozzetta e rocchetto, tuttavia non alla cattedra, ma in un luogo più adatto per lui preparato” (CE 186). La norma evidenzia l’alta considerazione che la tradizione liturgica riserva alla cattedra e quanto sia importante la tutela del suo simbolismo: il vescovo per primo è chiamato ad avere un particolare rispetto verso il luogo nel quale esercita il suo magistero e ad usarlo con competenza e venerazione. b. In analogia col vescovo anche il presbitero deve usare la sede nel modo dovuto e nei riti stabiliti, alimentando innanzitutto in se stesso il senso sacro della sede e curando che tale luogo sia adeguato e circondato di rispetto. c. Il diacono: Quando il diacono presiede la celebrazione, si comporta nei modi richiesti dal suo ministero, nei saluti, nelle orazioni, nella lettura del Vangelo e nella omelia, nella distribuzione della comunione e nel congedo dei partecipanti con la benedizione. Egli indossa le vesti proprie del suo ministero, e cioè il camice con la stola, e secondo l’opportunità, la dalmatica, e usa la sede presidenziale ( Christi ecclesia, 38). Al diacono, in assenza del presbitero, è concesso l’uso della sede presidenziale in quanto è investito del sacramento dell’Ordine e perciò sta davanti all’assemblea liturgica sul versante dei ministri ordinati, che hanno il compito di

presiedere la preghiera pubblica e comune della Chiesa. Su questa base anche per il diacono, come per il presbitero, si usa il termine presiedere. Al contempo si deve dire che se il diacono è insignito della dignità del primo grado dell’Ordine sacro, non agisce propriamente in persona Christi capitis. In tale prospettiva l’uso della sede presidenziale da parte del diacono potrebbe costituire un tema di dibattito: come in cattedrale il presbitero non usa la cattedra, riservata unicamente al vescovo, così il diacono non dovrebbe usare la sede, riservata al presbitero e guidare invece la celebrazione da un suo seggio nel presbiterio. d. Le molte comunità, ormai senza un servizio liturgico quotidiano a causa dell’assenza del ministro ordinato, si impegnano lodevolmente a celebrare alcuni atti liturgici e pii esercizi con la guida di religiosi e laici a ciò preparati. La normativa è adeguatamente descritta nel Direttorio sulle celebrazioni domenicali in assenza del presbitero (Christi ecclesia): « Il laico che guida i presenti si comporta come uno tra uguali, come avviene nella liturgia delle ore, quando non presiede il ministro ordinato, e nelle benedizioni, quando il ministro è laico (“Il Signore ci benedica…”, “Benediciamo il Signore…”). Non deve usare le parole riservate al presbitero o al diacono, e deve tralasciare quei riti, che in un modo assai diretto, richiamano la messa, ad es. : i saluti, soprattutto “Il Signore sia con voi” e la forma di congedo che farebbe apparire il laico moderatore come un ministro sacro. Porti una veste che non sia disdicevole a questo ufficio, o porti la veste eventualmente stabilita dal vescovo. Non deve usare la sede presidenziale, ma venga piuttosto preparata un’altra sede fuori del presbiterio . L’altare, che è la mensa del sacrificio e del convito pasquale, sia usato solamente per deporvi il pane consacrato prima della distribuzione dell’eucaristia» ( Christi ecclesia, 3940). Il laico (o religioso/a) quindi non presiede, ma anima l’azione liturgica e si comporta come uno tra uguali. Ciò deve chiaramente risultare dalle formule usate e da un seggio che viene predisposto fuori dal presbiterio: il presbiterio è infatti riservato ai ministri ordinati, così come la sede presidenziale: In mancanza del sacerdote o del diacono, colui che presiede l’Ufficio è soltanto uno tra uguali; non entra in presbiterio, non saluta, né benedice il popolo (PNLO 258).

Leggio davanti alla sede

Il leggio davanti alla sede: un problema o una necessità? Se si considera il valore simbolico della sede, il leggio che normalmente si pone davanti ad essa suscita alcuni problemi: a. il leggio appare non raramente come un secondo ambone, soprattutto quando si adottano per l’ambone e per la sede due leggii identici; b. il leggio nasconde la persona del sacerdote quando è seduto, costituendo una barriera tra lui e l’assemblea e impedendo ai fedeli di vedere assiso con dignità colui che presiede nel nome del Signore. E’ anche vero che, in assenza di ministranti, senza il leggio il sacerdote si reca all’altare per leggere sul messale le orazioni, oppure sostiene lui stesso il messale, impedendosi però di elevare le mani e compiere i gesti liturgici stabiliti. La cosa non è di poco conto se si vuole curare la dignità delle azioni liturgiche che si compiono alla sede. Si vede qui quanto sia opportuno il servizio degli accoliti, che almeno nelle Messe domenicali e festive non dovrebbero mai mancare. Tuttavia rimane la difficoltà per le Messe feriali nelle quali gli accoliti sono perlopiù assenti. Come superare la difficoltà? Sembra che l’unica via di uscita sia la formazione di un gruppo di ministranti che garantiscano in ogni Messa il servizio minimo alla sede e all’altare. Infatti il problema si ripropone per la preparazione della mensa all’ ‘offertorio’: senza almeno un ministrante si è costretti a porre sulla mensa dell’altare il calice e la patena fin dall’inizio della Messa con quella povertà celebrativa che fa scadere al contempo sia i riti presso la sede, sia quelli presso l’altare. Comunque se il leggio non potesse assolutamente essere evitato si dovrebbero attuare alcuni accorgimenti: prevedere una forma di leggio poco impattante, evitando ad esempio che sia coperto con veli e che riproduca la struttura dell’ambone; togliere sempre il leggio dopo la celebrazione in modo che la sede appaia nella sua dignità di segno eloquente e libero da ogni

sovrastruttura.

La sede

La sede davanti all’altare? La risposta richiede una previa considerazione sulla centralità e preminenza dell’altare quale segno liturgico della presidenza di Cristo. L’altare è, infatti, il simbolo di Cristo, sommo sacerdote, sempre presente nella sua Chiesa ed è il punto di riferimento permanente in ogni azione cultuale. L’intera liturgia - ogni singola parte di un rito e ogni genere di riti - ha nell’altare il suo centro visivo e spirituale: esso non viene mai oscurato o emarginato, ma, vestito a festa o spoglio, è sempre il principe dei segni liturgici. L’ambone e la sede sono certo importanti, ma rispetto all’altare rimangono laterali, tanto più che l’altare è insignito di una speciale dedicazione che l’ambone e la sede non hanno. Nell’assemblea liturgica quindi tutti, ministri e fedeli, volgono il loro sguardo all’altare, come il segno sacro di Cristo e del suo Sacrificio pasquale: lo si saluta all’inizio e al termine di un rito e lo si venera in ogni tipo di celebrazione; i suoi ceri vengono sempre accesi ogni volta che il popolo si raduna per la preghiera. L’altare è veramente il perno simbolico dell’intero complesso liturgico della Chiesa. Si comprende allora come porre la sede in modo stabile davanti all’altare implichi che il sacerdote volga le spalle all’altare in ampie parti (riti di inizio, liturgia della parola e riti di congedo) o anche per l’intera estensione di un rito (es. liturgia delle Ore), mentre dovrebbe poter sempre guardare all’altare insieme a tutti i fedeli. In tal modo si crea un protagonismo ministeriale indebito trasformando l’assemblea sacra in una relazione chiusa tra il sacerdote e i fedeli col pericolo di una facile riduzione sociologica. Lo sguardo all’altare e alla croce per l’intero svolgimento di una celebrazione non è cosa di poco conto per suscitare la sacralità e il senso soprannaturale nei ministri e nell’intera assemblea liturgica. E’ quindi evidente che una sede fissa non può essere localizzata a ridosso della mensa dell’altare e neppure davanti ad esso, anche se una distanza adeguata permettesse una comoda circuizione dell’altare. Qualsiasi scelta in tal senso oscurerebbe in modo stabile la centralità, la visibilità, la dignità e il primato

assoluto dell’altare nella liturgia e il ministero stesso della presidenza subirebbe i danni di una visione riduttiva che non evidenzierebbe a sufficienza l’azione del Preside invisibile di cui l’altare è il rimando più classico e più efficace. Occorre, tuttavia ricordare che la tradizione liturgica ammette nella liturgia pontificale l’uso del faldistorio che, posto sulla predella dell’altare, consente al Vescovo di celebrare in quel luogo alcuni riti. Si deve comunque notare come il faldistorio, senza schienale, sia nella sua stessa struttura rispettoso della mensa davanti alla quale è posto e sia immediatamente rimosso dopo l’uso. Nell’ordinamento liturgico attuale, con la riscoperta dell’importanza della cattedra (e della sede), il ricorso al faldistorio è ancora possibile, ma si raccomanda che la cattedra (e la sede) possa assolvere il più possibile le sue funzioni senza dover ricorrere a un seggio alternativo.

Ancora sulla sede

Come star degnamente seduti alla sede? E’ necessario partire dal principio che star seduti alla sede non è semplicemente un atto funzionale di pausa o riposo, ma un atto liturgico di rappresentanza a nome del Signore stesso, che qui ed ora presiede la santa assemblea. Da tale convinzione deriva il sereno impegno ad assumere gli atteggiamenti più nobili, che uniti alla semplicità e scioltezza proprie della personalità di ciascun ministro, conferiscono al gesto quella serietà e sacralità che devono sempre caratterizzare ogni azione liturgica. E’ bene fare in proposito alcune osservazioni: a. La posizione del corpo deve essere eretta, non accasciata in avanti piegandosi sulle ginocchia o sui lati poggiandosi sui braccioli o sostenendosi il mento. b. Le gambe non si tengono distese, intrecciate, sovrapposte o allargate, ma unite e composte. Si devono portare anche calzature adeguate che non sviliscano la proprietà dell’abbigliamento liturgico. c. Le braccia non si tengono conserte, o penzoloni, o in altri modi, ma secondo l’indicazione liturgica si pongono le palme sopra le ginocchia: “ Quando il vescovo invece è seduto, se è parato con le vesti liturgiche pone le palme sopra le ginocchia, a meno che non tenga il pastorale” (CE 109). L’atteggiamento del ministro che presiede alla sede è pure quello che devono assumere tutti gli altri ministri quando stanno seduti (concelebranti, diaconi, accoliti, ecc.). Chiunque sia animato da buon senso capirà che queste indicazioni non possono essere liquidate come rubricismo, ma sono semplicemente norme di galateo liturgico necessarie per assicurare la dignità e la proprietà delle azioni sacre. Si deve ribadire che l’ autenticità di una postura non sta in uno spontaneismo soggettivo, ma in scelte convinte supportate da una formazione competente e

motivata.

Sul battesimo

Battezzato o bacinellizzato ? Il parroco nella scorsa Pasqua ha invitato le famiglie a far visita al battistero dove ricevettero il battesimo i loro figli. La proposta è certamente interessante ed in piena continuità con la tradizione liturgica antica che prevedeva una processione quotidiana dei neofiti al battistero nei giorni della settimana pasquale in segno di lode e ringraziamento. Sarebbe quindi quanto mai eloquente che le famiglie trovassero il tempo per far visita al battistero della loro rinascita in Cristo. Ma aimè. Molti bambini sono stati ‘bacinellizzati’ e il fatto risulta anche dalle immancabili fotografie. “Dov’è il mio battistero?”, domanda il bambino alla mamma. Ma il battistero non c’è, o meglio, c’è, “ma non sei stato battezzato lì” risponde la mamma. Conduce il bambino vicino a quel battistero nuovo nella navata laterale e dice: “Qui io sono stata battezzata”. “Anche la nonna?”, incalza il bambino. Allora la mamma porta il suo bambino al vecchio fonte presso la porta grande della chiesa dove tutti i suoi erano stati battezzati, ma era chiuso e il sacrista spiega che è diventato il deposito delle scope per la pulizia della chiesa. Troppi commenti durante il battesimo... “Raccontaci il battesimo del tuo fratellino”, dice la catechista ad un suo bambino. E quello rispose: “Il parroco continuava a parlare, ogni tanto faceva qualche segno, poi ci ha fatto anche ridere”. E’ proprio necessario spiegare tutto, prima durante e dopo? I gesti liturgici potrebbero da soli dare un messaggio oppure debbono essere spiegati in lungo e in largo? Le preci se ben dette sono in grado di comunicare o è proprio necessario far la battuta? Ecco i problemi di tante e ordinarie celebrazioni battesimali. Non si vedono più i confini tra il rito e la sua spiegazione, né si distinguono più le preghiere della Chiesa dai commenti del sacerdote. Tutto è precario e tutto è fatto e rifatto dalla creatività del momento. Non sarà il caso di rivedere il concetto di liturgia, di conoscerla meglio nelle sue leggi e nella sua struttura e soprattutto di rispettare il rito stabilito dalla Chiesa celebrandolo con rispetto, fiducia e senso sacro? Forse i fedeli anche i più estranei potrebbero esserne veramente edificati. E’ proprio

sicuro che la noia è suscitata dal rito e dalla fedeltà alle rubriche (chiamata rubricismo), oppure potrebbe essere frutto di trovate libere senza capo né coda che non offrono nulla al mistero, al silenzio, alla domanda e al senso della mistica presenza di Dio? E’ stato bello passare dall’atrio al battistero, entrare poi in chiesa e raggiungere l’altare! “Il battesimo di un mio nipotino è stato interessante. In nessun’altra parrocchia si fa così! Il parroco ci ha raccolti in una piccola chiesa molto vicina alla parrocchiale e lì ha accolto i genitori con i loro bambini, ha letto il vangelo e lo ha spiegato. Poi cantando le litanie dei Santi ci ha guidati nell’atrio della chiesa grande, dove presso il battistero ha celebrato il battesimo; quindi con un bel canto ci ha portati tutti all’altare dove abbiamo recitato il Padre nostro; dopo la benedizione ci siamo tutti trasferiti presso l’altare della Madonna dove il sacerdote ha affidato a Lei i neobattezzati”. Questa semplice e spontanea testimonianza afferma la bellezza di un rito battesimale celebrato nella completezza delle sue parti e nei luoghi idonei ad ognuna di esse. Purtroppo la fretta e la funzionalità tende a cancellare la natura processionale tipica del rito del battesimo e la diversità dei luoghi celebrativi per la stessa verità dei segni che sono posti. Infatti non ha senso raccogliersi fin dall’inizio attorno all’altare ancor prima che il mistico ingresso nella Chiesa sia avvenuto attraverso l’acqua e lo Spirito; né essere rigenerati ai piedi dell’altare luogo dove i figli di Dio ricevono o almeno già annunziano per il ministero dei genitori e dei padrini la Comunione al Pane eucaristico. Sarà allora necessario prevedere i luoghi adatti e i percorsi processionali necessari perché il grande evento battesimale abbia tutta la sua forza ed efficacia. Un battesimo senza canto…perché? “Il battesimo del mio ultimo figlio è stato un battesimo speciale: un piccolo complesso di giovani ha intervallato con canti piacevoli il rito. Io non avevo mai assistito ad un battesimo con canti. E’ stato interessante”. Perché il battesimo deve scadere in un totale recitativo? Non si potrebbe impegnare il coro parrocchiale per solennizzare il battesimo con canti adatti e ben inseriti negli snodi rituali? Non è forse un evento importante della comunità cristiana e non solo un fatto privato delle famiglie interessate? Ma ecco che

aperta la via al canto non poche volte esso si rivela inetto al suo ruolo liturgico e sacro: si canta ciò che piace senza alcun rapporto col mistero che si celebra. Succede anche che qualcuno propone di diffondere musica incisa, come quel fedele che chiese di ascoltare Pavarotti durante le esequie del padre, perché gli piaceva tanto. Ecco la sfida: celebrare il battesimo con la solennità e la dignità del canto, ma non ritenere che basti cantar quel che piace. Si tratta allora di prospettare canti liturgici che per testo, musica e conformità alle varie sequenze rituali siano veramente al servizio del mistero che nel battesimo si compie. Quando celebrare il battesimo solenne: a Pasqua o all’Epifania? Il rapporto tra battesimo ed Eucaristia in relazione al Mistero pasquale, spiega la convenienza della Pasqua come data annuale del battesimo solenne. Infatti, come per l’Eucaristia la Chiesa non ha scelto il giovedì, giorno della sua istituzione sacramentale, ma la domenica, giorno del suo pieno compimento mistericoesistenziale mediante la risurrezione, così per il battesimo la Chiesa (latina) non ha scelto la festa del battesimo del Signore (in antico l’Epifania) per la sua celebrazione solenne annuale, ma la Pasqua, giorno del battesimo mistericoesistenziale del Signore. La stessa ragione per cui la domenica è scelta come il giorno proprio dell’Eucaristia, istituita il giovedì santo, motiva anche, riguardo al battesimo, la scelta della Pasqua in luogo dell’Epifania, come giorno della sua celebrazione solenne. In questa luce e in questo rapporto si comprende il costume antico-romano di insistere affinché il battesimo solenne sia celebrato non all’Epifania (come in oriente), ma esclusivamente a Pasqua. Evidentemente è pienamente legittima anche la tradizione orientale che considera con somma venerazione nell’Epifania il mistero del battesimo del Signore e in questo giorno benedice solennemente le acque. L’una e l’altra festa (Pasqua ed Epifania) sono quindi legittime e conformi alla natura del mistero, con sottolineature diverse di aspetti differenti, ma complementari: nella Pasqua si celebra il sacramento nel giorno dell’evento, all’Epifania si celebra l’evento nel giorno del sacramento. In tal senso è opportuna la scelta della liturgia papale che assegnando alla Veglia pasquale l’Iniziazione cristiana degli adulti secondo l’antica tradizione romana, conferisce invece il battesimo ai bambini nella festa del battesimo del Signore. Perché la scena del battesimo del Signore è l’icona preferita nei battisteri? Il riferimento al battesimo del Signore nel fiume Giordano risulta fin

dall’iconografia dei primi battisteri e in particolare di quello più ufficiale: il battistero lateranense. Infatti le fonti evidenziano che in esso vi erano tutti i simboli propri della teofania al Giordano: il Cristo, l’ Agnello, il Battista, la Colomba. E’ anche interessante notare la presenza nel centro della vasca del candelabro col cero. «L’imperatore volle inoltre regalare il fonte battesimale di porfido dove aveva ricevuto il Battesimo. La vasca era rivestita d’argento, e nel mezzo vi era collocata una colonnina di porfido con in cima un sostegno d’oro dove era inserita una candela. Alla estremità della vasca era collocato un agnello d’oro del peso di trenta libbre che gettava acqua e accanto era modellato il Salvatore scolpito in argento del peso di centosettanta libre, e a sinistra un san Giovanni Battista alto cinque piedi del peso di centoventicinque libbre» [1] . «Al centro della piscina si innalzava un grande candelabro di porfido, portante alla sommità un vaso d’oro pieno di olio di balsamo, nel quale bruciavano lucignoli di asbesto dando luce e profumo. Al margine della piscina, stavano due statue, Cristo e il Battista, aventi in mezzo un agnello d’oro colla scritta: Ecce agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi. Ai piedi dell’agnello usciva il getto principale dell’acqua; sette teste di cervi disposte ai lati vi mandavano nello stesso tempo i loro zampilli» [2] . «In antico, era uso comune di appendere sul Fonte il simbolo della colomba, che rammentava lo Spirito Santo, apparso sotto questa forma al battesimo di Cristo, e misticamente presente a fecondare le acque del sacro Fonte. Si legge nel Liber Pontificalis, che Pp. Ilaro (+ 468), ne regalò una al Battistero lateranense, columbam auream, pensantem libras duas; e nel 518 il clero d’Antiocchia accusò l’eretico Severo d’aver rubato le colombe d’oro e d’argento, aventi la forma dello Spirito Santo, appese sopra i sacri lavacri ed altari» [3] . Questa antica e costante tradizione fu codificata nel rituale tridentino che afferma:… dipingatur imago sancti Joannis Christum baptizantis (cfr. RITUALE ROMANO, Tit. II, 1, 30). Il fatto che universalmente fin dall’antichità, si scelga la scena del battesimo del Signore al Giordano come icona centrale nel battistero (cfr. battistero degli ortodossi e degli ariani in Ravenna e la maggior parte dei battisteri anche a noi contemporanei) afferma che il sacramento che lì si celebra fu istituito in quel evento e quel medesimo evento anche oggi si attualizza nel rito battesimale.

Infatti, se il battesimo del Signore fosse soltanto profetico di un battesimo successivo alla sua risurrezione, non avrebbe senso porre una profezia in un posto così centrale come ad esempio l’intera cupola di un battistero. In realtà nei battisteri sono descritte molte scene profetiche relative al battesimo, ma queste sono localizzate lateralmente come tappe e descrizioni del mistero battesimale, che hanno tuttavia il loro apogeo nell’evento del Giordano. Possiamo quindi affermare che la centralità e la continuità della rappresentazione del battesimo al Giordano nei battisteri, afferma che al Giordano termina la profezia e si inaugura la realtà nuova e sacramentale del battesimo cristiano.

[1] PIETRANGELI, CARLO, La Basilica di san Pietro, ed Cardini, Firenze, 1995, p. 308.

[2] RIGHETTI, M. Storia liturgica, ed. Ancora, 1998, vol. I, p. 479.

[3] RIGHETTI, M. Storia liturgica, ed. Ancora, 1998, vol. I, p. 480.

Sul microfono

Mi ha colpito l’affermazione di un amico sacerdote: “Sai chi ha fatto la riforma liturgica”? – mi disse – “Il microfono” – mi rispose. Può essere? Questa è una domanda interessante. Proviamo ad immaginare di ritornare improvvisamente nel passato prima che vi fossero i microfoni e prima ancora, quando non c’era la luce elettrica. Con questo ideale ritorno al passato potremmo comprendere più facilmente il significato di riti e disposizioni liturgiche che a noi oggi potrebbero sembrare insignificanti o superate. L’avvento dei microfoni ha costituito un notevole impatto nella celebrazione liturgica. In particolare: - Quando i ministri celebravano in luoghi e posizioni diverse all’interno della chiesa si udiva la loro voce provenire da quei luoghi e spontaneamente i fedeli si orientavano verso di essi. Bastava il suono della voce per capire se il sacerdote stava all’altare o se parlava dal pulpito o se si muoveva in processione; così per gli altri ministri e per il coro. Con l’uso del microfono la voce viene diffusa dovunque in modo uniforme al punto che non è più percepibile la posizione logistica di chi parla: può parlare dall’altare, dall’ambone, dalla navata, dall’atrio, dalla sagrestia o anche dall’esterno della chiesa e tutti ovunque si trovino odono con la stessa intensità la voce di colui che parla. Il luogo liturgico, dal punto di vista uditivo, è diventato indifferente: il Preconio pasquale anche se cantato dall’ambone monumentale non subisce alcuna variazione acustica e non dà alcuna indicazione logistica. Subentra allora solo l’aspetto visivo: salire sull’ambone non ha più una funzione fisica di trasmissione della voce, ma simbolico-visiva di luogo della Parola. - Anche l’impiego della voce ne è alquanto influenzato. Infatti, la cantillatio delle letture, ma anche delle orazioni, aveva nel passato anche un ruolo di efficacia comunicativa, in quanto la voce assumeva potenza e raggiungeva i lontani. In tal senso si poteva comprendere l’arte oratoria del predicatore. Anche la musicalità dei testi liturgici, la ripetizione e una certa cadenza erano orientati ad una più efficace comunicazione. Il microfono, invece, consente la diffusione

della voce senza necessità di particolari accorgimenti e chiunque può leggere in tono normale. In questo modo certamente viene rispettano il modo di porsi e di comunicare di ciascun lettore, tuttavia vi è il pericolo di ridurre le orazioni e le letture al livello di una comunicazione sempre identica e feriale. Se si coglie soltanto l’opportunità della comunicazione fisica offerta dal microfono, tutto l’aspetto simbolico e solenne della liturgia svanirebbe. Questa è una tentazione continua: i fedeli odono e quindi – si dice - non ha più senso alcuna forma di cantillatio. In realtà sia il canto delle orazioni, come quello dei testi biblici ha subito una larga incomprensione e una drastica riduzione nell’immediato postconcilio. Si tratta allora di usare il microfono senza cancellare sia la diversità logistica dei luoghi celebrativi, sia la ricchezza e la varietà delle espressioni linguistiche nell’annunzio della Parola di Dio e nell’orazione sacerdotale. Anzi il microfono, se di qualità e usato con professionalità, favorisce una migliore trasmissione di un testo cantato, che può essere percepito nelle sue sfumature dalla totalità dell’assemblea liturgica. In tal senso la liturgia viene arricchita dall’uso del microfono piuttosto che impoverita, proprio a causa di un uso funzionalistico dello strumento, che la dovrebbe elevare, potenziare e trasmettere con maggior efficacia. Una simile argomentazione si deve fare anche a proposito della luce elettrica nelle chiese. I libri liturgici vigenti non hanno ancora assunto adeguatamente le indicazione necessarie per regolare l’illuminazione elettrica nel contesto dei riti. E’ tuttavia quanto mai opportuno che l’impianto elettrico di una chiesa non sia fatto con i criteri della comune funzionalità e neppure col solo criterio di valorizzare la chiesa come ambiente artistico e museale. E’ necessario assumere un criterio liturgico, per cui l’illuminazione risponde alle esigenze dei vari riti e tiene presente l’intero ciclo festale della Chiesa. Si tratta di evidenziare la solennità, la festa, il giorno feriale e quello penitenziale. Un criterio interessante potrebbe certamente essere la Veglia pasquale nella quale proprio le luci hanno un ruolo simbolico fondamentale. I tre gradi di intensità, che potremo denominare: lucernale, vigiliare e solare e che interessano momenti diversi della Veglia (liturgia della luce – liturgia della Parola – liturgia eucaristica) potrebbero essere una indicazione interessante per impostare un criterio di illuminazione a servizio della liturgia nelle tante sue espressioni distribuite nell’intero Anno liturgico.

La riforma nella continuità

Recentemente si assiste ad una crescente discussione sul Concilio e sulla sua interpretazione. Il papa Benedetto XVI ha proposto il motto “riforma nella continuità”, ma il dibattito continua. Vorrei capire di più . L’espressione usata da Benedetto XVI nel ormai famoso discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 non è una novità rispetto al Magistero dei Sommi Pontefici postconciliari. Essi, infatti, hanno sempre spiegato che il Concilio Vaticano II realizzò certamente un progresso dottrinale e una riforma pastorale, ma nella continuità, ossia nella coerenza di uno sviluppo organico nell’alveo della perenne Tradizione della Chiesa. Certo Benedetto XVI volle riproporre con lucidità e determinazione il problema distinguendo le due espressioni contrapposte: l’ ermeneutica della discontinuità e della rottura oppure l’ermeneutica della riforma nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa. Egli vuole sollecitare il superamento di ogni estremismo, sia di destra (tradizionalismo) che non riconosce i ‘nuovi’ apporti del Concilio, sia di sinistra (modernismo) che vorrebbe una rottura con la Tradizione precedente. Già il papa Paolo VI si espresse con chiarezza: “… una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa «nuova», quasi «reinventata» dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto” (Paolo VI, Discorso al Sacro Collegio del 23 giugno 1972, in Insegnamenti, vol. X (1972), pp. 672-673). L’ermeneutica della rottura è ben descritta dagli stessi suoi fautori: “ Volendo sintetizzare, descriverei così il nodo del contrasto che grava sulla Chiesa cattolica da decenni: per Wojtyla e Ratzinger il Vaticano II va visto alla luce del concilio di Trento e del Vaticano I; per noi, invece, quei due Concili vanno letti, e relativizzati, alla luce del Vaticano II. Dunque, data questa divergente angolazione, i contrasti sono ineliminabili. E a cascata, ogni giorno, noi vediamo giungere dalla cattedra romana norme, decisioni, interpretazioni che, secondo noi, confliggono radicalmente con il Vaticano II”. (Franzoni, Relazione tenuta il 18 settembre 2011 in un Congresso teologico a Madrid, in “Adista”, 8 ottobre

2011). Questa ermeneutica della rottura è pure assunta, nel senso opposto, dal tradizionalismo: il Concilio, o almeno alcune parti dei suoi documenti, viene respinto in quanto ritenuto uno sviluppo illegittimo ed estraneo alla precedente tradizione dottrinale della Chiesa. Questi due estremismi furono descritti con lucido discernimento da Paolo VI, che ribadì a più riprese la loro inadeguatezza: “Da una parte, ecco coloro che, col pretesto di una più grande fedeltà alla Chiesa e al Magistero, rifiutano sistematicamente gli insegnamenti del Concilio stesso, la sua applicazione e le riforme che ne derivano, la sua graduale applicazione a opera della Sede Apostolica e delle Conferenze Episcopali, sotto la nostra autorità, voluta da Cristo. Si getta il discredito sull’autorità della Chiesa in nome di una Tradizione, di cui solo materialmente e verbalmente si attesta rispetto; si allontanano i fedeli dai legami di obbedienza alla Sede di Pietro come ai loro legittimi Vescovi; si rifiuta l’autorità di oggi, in nome di quella di ieri… Dall’altra parte, in direzione opposta quanto a posizione ideologica, ma ugualmente causa di profonda pena, vi sono coloro che, credendo erroneamente di continuare nella linea del Concilio, si sono messi in una posizione di critica preconcetta e talora irriducibile della Chiesa e delle sue istituzioni”. ( Paolo VI, Discorso in occasione del Concistoro segreto, lunedì 24 maggio 1976). E’ bene anche distinguere i termini progresso e riforma. Il primo lo si potrebbe usare in riferimento al legittimo sviluppo della dottrina nella sua sostanza sempre identica e perenne, il secondo alle scelte pastorali per loro natura contingenti. Tuttavia una completa obbedienza di fede implica sia l’accettazione del progresso dottrinale, sia quella delle riforme pastorali: occorre evitare sia l’adesione parziale o erronea o selettiva delle dottrine formalmente dichiarate nei documenti autentici (eresia), sia l’indisciplina verso le leggi giuridicamente codificate a norma dei decreti conciliari (scisma). Ed ecco allora la necessità di mantenere la via media, quella che è conforme al Magistero e che garantisce il due aspetti inscindibili: da un lato il reale e legittimo sviluppo dottrinale e la riforma pastorale operate dal Concilio Vaticano II rispetto ai precedenti Concili, dall’altro la sostanziale continuità con la Tradizione dogmatica, liturgica e pastorale dell’unico soggetto-Chiesa, mai venuto meno nei secoli. La composizione dei due termini - sviluppo e continuità – , intesi nel dovuto equilibrio, è in ultima istanza garantita dal Magistero della Chiesa.

Confusione nella liturgia

Perché tanta confusione nella liturgia, nonostante tanta chiarezza nei documenti del Magistero? E’ necessario innanzitutto riconoscere l’immenso bene portato dalla riforma liturgica lì dove venne attuata con gradualità e fedeltà alle leggi stabilite dalla Chiesa. Il Magistero poi ha sempre accompagnato con frequenti ed opportuni documenti l’itinerario dell’attuazione concreta dei riti nel contesto vitale delle comunità cristiane. Non possiamo, tuttavia, negare anche l’influsso di forti derive abusive, che continuano a condizionare ancor oggi, sia l’interpretazione, sia la celebrazione dei nuovi ordines liturgici. Le cause sono molteplici e di natura diversa. Possiamo comunque fare alcune considerazioni: 1. Chi ha percorso il cammino ecclesiale postconciliare ed è attento ad una lettura oggettiva dei fatti potrà riconoscere che, soprattutto nell’immediato postconcilio, era diffuso nella Chiesa un vasto fenomeno di ‘profetismo’, che penetrava ogni ambiente come una patina sottile, ritenuta necessaria per essere accreditati come interlocutori nel dibattito pubblico. Tutti erano ‘profeti’: i leaders religiosi, sociali e politici, le comunità ecclesiali e le parrocchie di punta, i nuovi movimenti di opinione, gli ecclesiastici più ‘sensibili’, gli intellettuali più ‘aperti’, i teologi più gettonati e il clero più ‘avanzato’, ecc. Un coinvolgimento mediatico a forte carattere giovanilistico, unito a manifestazioni di massa, assicurava a questo ‘profetismo’ rivoluzionario, ormai dirompente, un forte fascino e una prospettiva di futuro ormai inarrestabile. 2. Tutti questi ‘profeti’ così rumorosi e in contrasto reciproco, ebbero, tuttavia, un comune nemico: la Chiesa come istituzione e il suo Magistero. Tutti si dichiaravano ‘profeti’ ed avevano diritto alla ‘profezia’, eccetto la Chiesa e il Magistero, gli unici esclusi in modo pregiudiziale dal ‘carisma profetico’. Si creò in tal modo un sospetto endemico e trasversale in tutte le ‘realtà vive’ della Chiesa: Roma è la nemica della ‘profezia’, l’istituzione ecclesiale è lo strumento della sua continua estinzione e occorre essere ‘profeticamente’ critici verso i suoi pronunciamenti. Anche l’affermazione “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5, 29 ) veniva interpretata come giustificazione alla

disobbedienza ecclesiale in nome di una migliore obbedienza allo ‘Spirito’, inteso però come l’ascolto acritico e mitico delle tante idee soggettive e relativistiche, funzionali alle ideologie imperanti dei leaders e dei movimenti di opinione più in vista, che si contendevano il panorama culturale, sociale ed ecclesiale, 3. Conseguenza logica di questo visione fu il rifiuto del principio classico secondo il quale la verifica di un carisma doveva passare attraverso il vaglio del Magistero della Chiesa in un’umile e sincera, anche se sofferta, obbedienza di fede. Questa fu la via percorsa dai Santi e ha sempre costituito uno dei fondamentali criteri di santità e di autenticità carismatica, nella luce della partecipazione alla passione del Signore, come purificazione interiore e sicura garanzia di verità e di autentica individuazione della volontà di Dio. Vi si sostituì, invece, il principio di un’azione abusiva pratica, talvolta violenta, mettendo l’autorità davanti al dato di fatto e così forzarla ad emanare disposizioni giuridiche di compromesso per evitare il peggio. All’atteggiamento di un sereno confronto e di una paziente attesa nella carità subentrò quello della lotta e della rivendicazione in un rapporto conflittuale ed ideologico. Se applichiamo questa analisi alla riforma liturgica si comprende come essa sul piano concreto poté divaricare dalle normative stabilite nell’edizione tipica dei libri liturgici e dalle direttive dei documenti del supremo Magistero e imboccare la via di una creatività libera nella quale ognuno faceva ciò che credeva in un soggettivismo a tutto campo. In conclusione non suonano forse vere le parole del Signore per bocca del profeta Geremia quando dice: “Io non ho inviato questi profeti ed essi corrono; non ho parlato a loro ed essi profetizzano” (Ger 23-21) ?

Cosa ha detto il Concilio?

Ho avuto molti parroci e tutti si dichiaravano d’accordo sul Concilio, ma ciascuno poi faceva il contrario del predecessore. Cosa il Concilio ha veramente detto? E’ un fatto che tutti si dicono d’accordo col Concilio, ma poi ognuno discorda su ciò che il Concilio avrebbe detto. Il Papa, a tal proposito, parla di un vago spirito del Concilio slegato dalla lettera dei suoi documenti. Egli, infatti, afferma: “ In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità” (Discorso alla Curia romana del 22 dic. 2005) E’ certamente vero che tutti parlano del Concilio, ma quanti hanno letto integralmente i suoi documenti? E, se si sono letti i documenti, a quali interpreti si è dato credito? “I teologi, infatti, invece di esercitare la loro vocazione ecclesiale mediante un sincero e motivato ‘sentire cum Ecclesia’, non rare volte preferiscono manifestare un cordiale ‘dissentire ab Ecclesia’”. (A. Amato, in OR, 16 novembre 2006, p. 7). Occorre allora un rinnovato ascolto di ciò che il Concilio ha effettivamente detto: “Non ciò che vorremmo che il Concilio avesse detto deve determinare la nostra vita, ma ciò che esso ha detto veramente” (J. Ratzinger, Il sale della terra, p. 294). Una lettura attenta dei documenti conciliari rivela come alcuni temi del Concilio furono passati sotto silenzio e diverse sue disposizioni rimasero lettera morta, a tal punto da suscitare l’idea che il Concilio o non ne avesse parlato, oppure avesse dovuto tollerare ancora alcune questioni per un compromesso tra le parti controverse. A titolo di esempio possiamo ricordare: - il riconoscimento e la promozione del canto gregoriano (SC 116) e dell’organo (SC 120); - l’uso della lingua latina (SC 36); - il carattere sacro della liturgia (SC

7); - l’autorità competente per regolare la liturgia (SC 22); - la necessità della filosofia perenne e lo studio di S. Tommaso d’Aquino (GE 10; OT 16); - la natura gerarchica della Chiesa (LG III); - il primato e l’infallibilità del Sommo Pontefice (LG 18); - l’unicità della Chiesa cattolica (LG 8); - il carattere gerarchico della comunione ecclesiale hierarchica communio (LG 22); - la necessità della Chiesa cattolica in ordine alla salvezza (LG 14); ecc. Chi ribadisce in modo anche minimale queste ed altre tematiche finisce per essere considerato anticonciliare, mentre chi realizza una creatività slegata da ogni norma, aperta ad ogni sorpresa, riceve una considerazione e una benevolenza totale. In altri termini essere conciliari significherebbe indulgere ad ogni estrosità e non avere alcuna soggezione verso la dottrina tradizionale e la normativa giuridica vigente, in nome della ‘pastorale’. Il Concilio allora inaugurerebbe una stagione di ampia ‘libertà’, che tuttavia subisce ben presto l’inevitabile condizionamento dell’ ideologia emergente nell’ambiente in cui si vive. Ma così si è subito travolti da una dittatura di sostituzione, quella del relativismo e del soggettivismo di chi a turno esercita il ‘potere’, chiamato rigorosamente ‘servizio’. J. Ratzinger scrive: “La disinvoltura con la quale quasi comunemente si fa appello ‘al Concilio’ per giustificare le personali preferenze tradisce il grande mandato che ci è stato lasciato in eredità dall’assemblea dei Padri” ( Opera omnia, XI, p. 771). Cosa è veramente successo? «Ciò che è avvenuto dopo il Concilio Vaticano II potrebbe quasi essere definito una ‘rivoluzione culturale’, se si pensa al falso eccesso di zelo con cui vennero spogliate le chiese e con cui il clero, come gli ordini religiosi, mutarono il loro aspetto. Oggi molti si pentono di tale precipitazione»(J. Ratzinger , Opera omnia, XI, p. 289). E’ allora di estrema urgenza superare una ancor troppo diffusa visione ideologica del Concilio, come ben si esprime R. Pane: « Il fatto è che oggi il termine ‘preconciliare’’ ha assunto un significato nuovo, che tutti accettano senza discutere: se indosso una casula in poliestere, celebro messa con calice di legno, interrompo la liturgia con frequenti didascalie, evito il più possibile di fare il segno della croce e mi compiaccio di far partecipare i

fedeli con l’ultima melodia orecchiata al festival di Sanremo, allora sono un perfetto figlio del concilio. Siccome invece mi ostino a preferire l’organo alla chitarra, il canone romano alla preghiera eucaristica V e oso persino di tanto in tanto cantare il prefazio, in tal caso sono proprio un esempio deleterio di disadattato preconciliare!» ( Liturgia creativa?, p. 13) .

Riti catecumenali

Quali riti catecumenali possono essere assunti nell’Iniziazione dei fanciulli già battezzati? Occorre distinguere con chiarezza tra i Catecumeni veri e propri, che ancora non sono stati battezzati, dai bambini già battezzati ai quali manca ancora la catechesi di iniziazione cristiana. Questi non sono propriamente catecumeni, ma fedeli sotto ogni aspetto, in quanto già rigenerati nel battesimo. E’ altrettanto vero che ad essi manca la catechesi di base, che devono intraprendere appena subentra in loro l’uso di ragione. La distinzione è opportunamente espressa dal Direttorio Generale per la catechesi che afferma: “ Occorre, tuttavia, premettere che tra i catechizzandi e i catecumeni e tra catechesi post-battesimale e catechesi pre-battesimale, che vengono rispettivamente loro impartite, vi è una differenza fondamentale. Essa proviene dai sacramenti di iniziazione ricevuti dai primi, i quali ‘sono già stati introdotti nella Chiesa e fatti figli di Dio per mezzo del battesimo” [1] . Quindi possiamo dire che i bambini già battezzati sono ontologicamente fedeli cristiani, ma psicologicamente ancora catecumeni, in quanto privi della formazione di base alla fede che portano già impressa nel carattere battesimale come virtù teologale infusa. Inoltre la loro iniziazione sacramentale non è ancora completa mancando dei due sacramenti che la integrano in pienezza: la confermazione e l’eucaristia. Anche sul piano sacramentale quindi i bambini già battezzati si avvicinano in qualche modo ai catecumeni. Occorre allora saper discernere tra i riti catecumenali quelli esclusivi rivolti ai veri catecumeni e quelli che per analogia possono essere impiegati nell’iniziazione postbattesimale dei fanciulli. Possiamo escludere gli esorcismi in quanto col battesimo i bambini sono già diventati tempio di Dio e figli di Dio liberi dal potere del demonio. Anche il rito dell’Effeta in quanto apertura alla grazia soprannaturale va escluso essendo essi già in grazia. Invece le Consegne del Credo, del Pater, dei Vangeli possono essere adattate al loro itinerario catechistico in quanto essi vengono gradualmente introdotti alla conoscenza delle verità della fede, abilitati alla preghiera cristiana e alla vita morale

evangelica. Questa possibilità è già prevista dal rituale dell’Iniziazione cristiana degli adulti: “Per significare l’azione di Dio in questo lavoro di preparazione, opportunamente si potranno usare alcuni riti propri del catecumenato che rispondono alla condizione e all’utilità spirituale di questi adulti come le consegne del Simbolo, della Preghiera del Signore (Padre nostro) o anche dei Vangeli” [2] . Sostanzialmente i fanciulli già battezzati devono ricevere la catechesi organica di base e le Consegne non fanno che esplicitare quell’educazione graduale ai contenuti della fede che essi stanno effettuando sia per completare la loro iniziazione sacramentale mediante la confermazione e l’eucaristia, ma anche per approfondire quella grazia che già hanno già ricevuto nel santo battesimo. Come la Quaresima è il tempo adatto per i riti catecumenali degli adulti, così lodevolmente può essere il tempo adeguato anche per la preparazione liturgica mediante le Consegne ai fanciulli dell’iniziazione cristiana: “Il tempo della catechesi sia opportunamente inserito nell’anno liturgico, specialmente l’ultima parte, che abitualmente coinciderà con la Quaresima…” [3] . Inoltre come per i neofiti il tempo pasquale è il tempo della mistagogia, così per fanciulli è il tempo più opportuno per completare la loro iniziazione sacramentale ricevendo in esso la prima Comunione e il sacramento della Confermazione. L’analogia tra Catecumenato e catechesi post-battesimale è bene espressa dal Direttorio generale della catechesi: “… la concezione del Catecumenato battesimale, come processo formativo e vera scuola di fede, offre alla catechesi post-battesimale una dinamica e alcune note qualificanti: l'intensità e l'integrità della formazione; il suo carattere graduale, con tappe definite; il suo legame con riti, simboli e segni, specialmente biblici e liturgici; il suo costante riferimento alla comunità cristiana... La catechesi post-battesimale, senza dover riprodurre mimeticamente la configurazione al Catecumenato battesimale, e riconoscendo ai catechizzandi la loro realtà di battezzati, farà bene ad ispirarsi a questa « scuola preparatoria alla vita cristiana », lasciandosi fecondare dai suoi principali elementi caratterizzanti” [4] .

[1] CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio Generale per la Catechesi, 15 agosto 1997 , in Enchiridion Vaticanum, vol. 16°, n. 866-872.

[2] RICA n. 302

[3] RICA n. 303

[4] CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio Generale per la Catechesi, 15 agosto 1997 , in Enchiridion Vaticanum, vol. 16°, n. 866-872.

Catecumenato e Anno liturgico

Il Catecumenato non sarebbe più ricco e completo se fosse esteso all’intero Anno liturgico e non ristretto soltanto alla Quaresima? Il Catecumenato nasce in un contesto ecclesiale precedente alla formazione dell’Anno liturgico vero e proprio (tra l’anno 150 e 350 circa). Nell’epoca antica (prima del sec. IV) nella serie indifferenziata delle domeniche emergeva soltanto la Pasqua. Ed è proprio in preparazione ai sacramenti dell’Iniziazione, conferiti nella notte pasquale, che si va formando gradualmente il tempo di Quaresima, come l’ultimo tratto del percorso catecumenale, che immetteva direttamente alla celebrazione sacramentale nella notte di Pasqua. L’Anno liturgico riceve quindi dalla prassi catecumenale un contributo originale e consistente: da esso si sviluppa l’intero ciclo pasquale in cui la quaresima prepara i catecumeni mentre nel tempo successivo alla Pasqua essi fanno la mistagogia ai misteri ricevuti. Soltanto nel IV secolo con la libertà religiosa l’Anno liturgico si sviluppa ulteriormente con l’istituzione delle altre feste cristiane e dei tempi sacri ad esse collegati: in particolare il Natale e il tempo di Avvento. Il rituale vigente trasmette a noi il modello antico e classico del Catecumenato, ma non è da escludere che si possano integrare nell’ Iniziazione cristiana quelle parti dell’Anno liturgico, che sono subentrate nei secoli successivi, in modo che l’intero Anno liturgico possa costituire un completo itinerario catecumenale. In tale prospettiva il rito di ingresso nel catecumenato, che si terrà in giorni stabiliti nel corso dell’anno secondo la situazione locale [1] , potrebbe essere celebrato all’inizio dell’Avvento, quando tutto il popolo di Dio inizia un nuovo cammino di fede. In questo caso verrebbe messo in luce come il primo capitolo della formazione cristiana deve partire dall’incontro con Cristo nei Vangeli compresi alla luce delle pagine bibliche dell’Antico Testamento [2] . Il tempo di Avvento, infatti, espone ai catecumeni le pagine profetiche e il mistero globale dell’antica storia della salvezza, mentre il tempo di Natale manifesta loro come il Messia promesso sia venuto in Gesù Cristo, Verbo eterno nato nel tempo dalla vergine Maria. Accolto nella fede il Salvatore, i catecumeni si mettono alla scuola di Lui, il Maestro divino, che si esplica in modo organico soprattutto nel tempo sacro della Quaresima con i riti simbolici delle Consegne. Inoltre, nell’antichità,

l’Iscrizione del nome, ad esempio, veniva sollecitata fin dall’Epifania, festa a carattere battesimale [3] . In relazione a tale tradizione il rito della Elezione potrebbe essere anticipato nella domenica del battesimo di Gesù, che già realizza nell’evento del Giordano quel battesimo sacramentale che i catecumeni riceveranno nella notte di Pasqua. Non vi è alcun dubbio che anche la seconda parte dell’Anno liturgico (da Pentecoste a Cristo Re) dovrà offrire ai neofiti quelle integrazioni ai contenuti della fede che sono connesse ad altre importanti feste e solennità cristiane. Naturalmente questa prospettiva estensiva è materia di dibattito e di valutazione ponderata e per il momento non è applicabile immediatamente nella prassi pastorale, senza il necessario approfondimento teologico e l’intervento della competente autorità della Chiesa.

[1] RICA, n. 69.

[2] Fa parte del Rito di ammissione al catecumenato proprio la consegna dei Vangeli, quasi testo-base per l’itinerario formativo (cfr. RICA n. 93).

[3] RIGHETTI, vol. IV, p. 56.

Iniziazione cristiana dei fanciulli

Qual è l’itinerario più idoneo per l’Iniziazione cristiana dei fanciulli già battezzati, e quale il momento più adatto per la prima Comunione e la Confermazione? E’ necessario ribadire ancora la differenza tra il Catecumenato vero e proprio di coloro che non sono ancora battezzati e quello analogo dei fanciulli già battezzati fin dalla nascita. Nel primo la preparazione precede la recezione dei sacramenti, nel secondo, invece i sacramenti della prima Riconciliazione e della prima Comunione precedono la parte preponderante della catechesi di Iniziazione, che in genere viene conclusa col sacramento della Confermazione verso i dodici anni [1] . L’anticipo dei sacramenti rispetto alla catechesi successiva è stabilito dalle disposizioni attuali della Chiesa, che vuole tutelare al più presto i fanciulli conferendo loro i sacramenti celesti, in modo che, appena raggiunto l’uso di ragione, venga subito rispettato il loro diritto di avere l’aiuto della grazia soprannaturale per il combattimento spirituale. Tale disciplina è stata stabilita dal papa S. Pio X che nel decreto Quam singulari (1910), citando importanti affermazione di Santi, aveva dichiarato: “ Il fanciullo, giunto che sia a quest’uso della ragione, immediatamente e per diritto divino, contrae tal obbligo, da cui non può essere affatto liberato dalla Chiesa” (S. Tommaso D’Aquino). “Quando il fanciullo è capace di malizia ossia quando può peccare mortalmente allora è obbligato al precetto della Confessione e per conseguenza della Comunione” (S. Antonino). In tal modo l’Iniziazione dei fanciulli esordisce con una catechesi breve, ma sufficiente per accedere alla Riconciliazione e alla prima Comunione; seguono poi dagli anni veri e propri della catechesi organica in cui i fanciulli approfondiscono il mistero di Cristo sostenuti dalla grazia dei suoi sacramenti; infine l’itinerario si conclude col sacramento della Confermazione. Il decreto Quam singulari afferma: “ Per la prima confessione e per la prima comunione non è necessaria la piena e perfetta conoscenza della dottrina cristiana. Tuttavia il fanciullo deve in seguito gradualmente imparare l’intero catechismo, secondo la capacità della sua intelligenza”.

Possiamo allora comprendere come la Chiesa intenda l’Iniziazione cristiana dei fanciulli già battezzati: da una recezione sollecita dei due sacramenti della Riconciliazione e della prima Comunione si percorre il cammino organico e completo della catechesi di base, che viene normalmente conclusa verso i dodici anni col sacramento della Confermazione. La questione dell’ordine dei sacramenti, connessa a questa problematica, richiederebbe ulteriori e più complesse indagini, che qui non possiamo esporre. In questa materia vi è un dibattito ancora vivace e aperto, tuttavia la disciplina vigente, come può essere desunta dal Magistero attuale della Chiesa, poggia su precise basi teologiche e pastorali.

[1] CEI, Decreto del 23 dicembre 1983, in Enchiridion CEI, EDB, vol. III, n. 1596: “L’età da richiedere per il conferimento della cresima è quella dei dodici anni circa”.

Catechesi sulla Pentecoste

L’estensione dei sussidi per la catechesi e l’abbondante antologia non facilitano l’apprendimento di una sintesi sulle diverse questioni di fede. E’ possibile avere una catechesi breve che dia ai ragazzi gli elementi essenziali delle varie parti del catechismo? Ecco una proposta di breve catechesi sulla Pentecoste (ad esempio): 1. Quali sono le più grandi feste della Chiesa? Pasqua, Natale e Pentecoste sono le tre solennità maggiori dell’Anno liturgico e nessun’ altra può competere con la loro eminente posizione. 2. Perché sono le feste più grandi? Perché celebrano i tre momenti fondamentali della nostra Redenzione: l’Incarnazione del Figlio di Dio (Natale), la sua Morte e Risurrezione (Pasqua), il dono dello Spirito Santo (Pentecoste). 3. Come si celebrano? La tradizione liturgica della Chiesa sottolinea queste tre grandi feste con modalità specifiche: le ferie preparatorie, la veglia notturna e l’ottava seguente. Le ferie maggiori preparano la festa con elementi propri nella messa e nell’ufficio; la veglia celebra con solennità il mistero che continua poi nella Messa dal giorno; l’ottava estende per otto giorni il clima festivo della grande solennità. 4. Ma vi sono anche differenze tra queste tre grandi feste? Certo. Mentre il Natale e la Pasqua sono precedute da un tempo preparatorio (Avvento e Quaresima) e seguite da un tempo festivo (Tempo natalizio e pasquale), la Pentecoste ne è priva, in quanto è la festa di chiusura del tempo di Pasqua. Con la riforma liturgica è pure stata soppressa l’ottava di Pentecoste per

chiudere effettivamente il tempo pasquale col giorno stesso di Pentecoste (il cinquantesimo giorno dalla Pasqua), mentre è stata valorizzata la sua preparazione caratterizzando i giorni che intercorrono tra l’Ascensione e la Pentecoste (la novena). 5. Come celebrare oggi la Pentecoste secondo le indicazioni liturgiche della Chiesa? La disciplina liturgica vigente raccomanda: - la celebrazione solenne dei Vespri nei giorni fra l’Ascensione e la Pentecoste, nei quali risuona l’inno Veni, creator, Spiritus: “ In realtà nel Messale e nella Liturgia delle Ore, soprattutto nei Vespri, tale «novena» è già presente: testi biblici ed eucologici richiamano, in vario modo, l’attesa del Paraclito. Pertanto, quando è possibile, la novena della Pentecoste sia fatta consistere nella celebrazione solennizzata dei Vespri”; [1] - la celebrazione della Veglia di Pentecoste, secondo il lezionario e i formulari previsti per la messa di vigilia della solennità: “ Sia favorita la celebrazione protratta della messa della vigilia di Pentecoste, che non riveste un carattere battesimale, come nella veglia pasquale, ma di intensa preghiera sull’esempio degli apostoli e dei discepoli, che perseveravano unanimi in preghiera, con Maria, madre di Gesù, nell’attesa dello Spirito Santo”; [2] - la celebrazione della Messa del giorno di Pentecoste con grande solennità, nella quale risuona la bellissima ‘Sequenza aurea’ [3] : Veni, Sancte Spiritus; - la eventuale celebrazione della Confermazione: è questo, infatti, il giorno più adatto nel quale il mistero celebrato coincide perfettamente con l’evento sacramentale che si attualizza nel sacramento della Cresima. 6. Come comporre i pii esercizi relativi alla Pentecoste con le celebrazioni liturgiche? Vi è il costume diffuso di preferire, sia nella Novena come nella Veglia di Pentecoste, celebrazioni di creazione privata ad opera di gruppi ecclesiali o attinte da vari opuscoli acquistati in libreria. Pur essendo vero che attualmente la

Chiesa non impone gli atti liturgici previsti, ma li raccomanda, è bene attenersi al meglio orientandosi verso una graduale, ma convinta e determinata assunzione delle azioni liturgiche della Chiesa. In particolare i Vespri delle ferie maggiori e la Veglia col lezionario e l’eucologia previsti dal messale rivestono un carattere più nobile ed offrono contenuti più sicuri in ordine alla realizzazione del mistero della Pentecoste. Vale anche la classica raccomandazione: “Bisogna che i pii esercizi, tenendo conto dei tempi liturgici, siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo” (SC 13). Con la celebrazione di un rito liturgico classico si crea una tradizione che, invece, con riti avventizi, lasciati alla creatività soggettiva, rischia di non aver stabilità e qualità, consegnando la Pentecoste alla fluidità di contingenze sempre mutevoli.

[1] Congregazione per il Culto Divino, Direttorio su pietà popolare e liturgia - Libreria Editrice Vaticana, 2002, p. 130, n. 155.

[2] Congregazione per il Culto Divino, Preparazione e celebrazione delle feste pasquali - Libreria Editrice Vaticana, 1992, p. 67, n. 118.

[3] RIGHETTI, vol. II, p. 315.

Novena dello Spirito Santo

La “Novena dello Spirito Santo” un tempo era celebrata con grande partecipazione. Oltre alla Messa quotidiana con breve omelia si potrebbe proporre qualche forma più tipica che caratterizzi maggiormente i giorni di preparazione alla Pentecoste? La riforma liturgica ha certamente arricchito la Pentecoste sul piano rituale e in particolare assumendo, ciò che il popolo di Dio già faceva da secoli, la novena dello Spirito Santo. Essa entra ufficialmente nella liturgia delle ferie che intercorrono tra l’Ascensione e la Pentecoste, colorando ogni elemento sia nella Messa come nell’Ufficio divino. Quella intensa preghiera, che Maria e i discepoli realizzarono chiusi nel cenacolo nei giorni che seguirono all’Ascensione del Signore, oggi è entrata ufficialmente nella liturgia della Chiesa e offre al popolo cristiano una grande ricchezza biblica, patristica ed eucologica. Possiamo riconoscere in questo il frutto della sofferta scomparsa dell’Ottava. Infatti, ciò che costituiva il contenuto dei giorni dell’Ottava è passato nelle ferie precedenti alla Pentecoste, educando in tal modo gli animi ad una intensa, pertinente ed efficace preparazione spirituale alla grande solennità. Il canto dei classici inni dell’Ufficio, si pensi al Veni Creator, si ritrovano quanto mai al loro posto potendo assolvere con coerenza la funzione che è loro propria: invocare la discesa dello Spirito Santo. Questo è un caso tipico di come l’intuito di fede del popolo cristiano non raramente preceda le stesse scelte ufficiali della Chiesa, sia nella maturazione del dogma, come nella determinazione dei riti liturgici. Ciò è riconosciuto dalla Chiesa stessa che nel Direttorio su pietà popolare e liturgia afferma : “Dalla riflessione orante su questo evento salvifico è sorto il pio esercizio della novena di Pentecoste, molto diffuso nel popolo cristiano” [1] . Queste scelte liturgiche della Chiesa hanno certamente aperto la strada ad una esplicitazione rituale più qualificata in preparazione alla Pentecoste, tuttavia resta ancora molta strada da percorrere in vista di una composizione sempre più adeguata tra i contenuti della liturgia e le forme partecipative del popolo di Dio. La libertà che attualmente la Chiesa consente nell’impostare queste ferie, usando

convenientemente dell’ abbondante materiale liturgico, offre l’opportunità per celebrare, ad esempio, dei Vespri che possano veramente colpire l’attenzione del popolo di Dio con elementi rituali e simbolici adatti a richiamare l’importanza di queste ferie tanto importanti. La composizione dei Vespri con elementi desunti e purificati della pietà popolare potrebbe realizzare una celebrazione fortemente evocativa del mistero e adatta a portare il popolo cristiano ad una specifica ed efficace preparazione alla Pentecoste. L’uso del lucernale e il simbolo del fuoco che arde nel braciere potrebbe dare una sapore del tutto intonato al mistero della Pentecoste e offrire una caratteristica singolare a questi solenni vespri che trovano nell’inno Veni creator un elemento di grande solennità e di intensa invocazione da tutti ormai tradizionalmente condivisa. Si tratta di evitare due pericoli: l’assenza di ogni celebrazione e la sostituzione facile con celebrazioni mediocri, effimere e spesso commerciali, comunque di privata composizioni e quindi estranee al carattere liturgico.

[1] Congregazione per il Culto Divino, Direttorio su pietà popolare e liturgia - Libreria Editrice Vaticana, 2002, p. 131, n. 155.

Veglia di Pentecoste

La Veglia di Pentecoste sembra trovare un consenso crescente, ma succede di tutto con totale creatività: si va da una celebrazione, ad uno spettacolo, ad una conferenza, a delle testimonianze, ecc. Cosa ci offre oggi la liturgia della Chiesa? Una raccomandazione ricorrente in vari libri liturgici e documenti della Chiesa è quella relativa alla Veglia di Pentecoste, fatta ad immagine della Veglia pasquale e celebrata nelle ore serali della vigilia. Le indicazioni della Chiesa sono esplicite: “Sul modello della Veglia pasquale, si introdusse nelle diverse chiese la consuetudine di iniziare con una veglia altre solennità: tra queste primeggiano il Natale del Signore e la Pentecoste” [1] . “…Significativa importanza ha assunto, specie nella chiesa cattedrale ma anche nelle parrocchie, la celebrazione protratta della Messa della Vigilia, che riveste il carattere di intensa e perseverante orazione dell’intera comunità cristiana, sull’esempio degli Apostoli riuniti in preghiera unanime con la Madre del Signore…” [2] . Si sa che la Chiesa fin dalla più remota antichità ebbe una Veglia anche a Pentecoste e che essa era fondamentalmente una riduzione di quella pasquale, una sede supplementare per conferire i sacramenti dell’Iniziazione cristiana per coloro che non avevano potuto riceverli nella notte di Pasqua. Tale Veglia, celebrata in seguito al mattino della vigila di Pentecoste, come del resto avvenne per la Veglia pasquale, fu soppressa con la riforma delle rubriche del 1960. La riforma liturgica riprende l’invito a celebrare questa Veglia, naturalmente in tempi e con criteri del tutto rinnovati in analogia alla Veglia pasquale. L’attuale Messa vigiliare, infatti, offre un ricco lezionario (quattro lezioni dall’antico Testamento con relativi salmi e orazioni) per celebrare un’autentica Veglia di Pentecoste, non più al mattino, ma nell’ora più consona dopo i primi vespri. E’ vero che si tratta al momento di un’offerta di materiale utile e di una raccomandazione, ma la strada è aperta e coloro che desiderano curare la liturgia di Pentecoste ne hanno mezzi e indicazioni opportune [3] . Anche se non viene esplicitamente affermato, la Veglia potrà essere arricchita da un adeguato lucernale, essendo celebrazione notturna e, in analogia con la

liturgia battesimale della Veglia pasquale, si potrà pensare ad una liturgia crismale, che mediante una solenne professione di fede rinnovi nei fedeli il dono dello Spirito Santo ricevuto nel sacramento della Confermazione. Le classiche quattro parti della Veglia pasquale possono così rispecchiarsi anche nella Veglia di Pentecoste: liturgia della luce, liturgia della parola, liturgia crismale, liturgia eucaristica. La libertà che attualmente la Chiesa permette con indicazioni alquanto generali potrebbe offrire l’occasione per determinare con più precisione e competenza una Veglia di Pentecoste che possa stare all’altezza qualitativa della Veglia pasquale ed edificare così i fedeli con una ritualità degna della solennità del mistero celebrato. Il pericolo che può insidiare la pastorale odierna è quello, da un lato di lasciar perdere queste indicazioni liturgiche abbassando la Pentecoste ad una normale domenica priva della tipicità dei riti previsti dalla tradizione, dall’altro lato di sostituire alla Veglia celebrazioni fragili di composizione privata e continuamente variabili secondo gli umori del momento, che sarebbero prive del valore e dell’efficacia propri di un’azione liturgica. L’impegno serio e qualificato di alcune comunità-pilota potrebbe offrire nel tempo una forma liturgia più determinata e degna della nobiltà e caratura di un vero atto liturgico, che la Chiesa potrebbe in futuro assumere e approvare per l’edificazione dell’intero popolo di Dio.

[1] PRINCIPI E NORME PER LA LITURGIA DELLE ORE, n. 71

[2] Congregazione per il Culto Divino, Direttorio su pietà popolare e liturgia - Libreria Editrice Vaticana, 2002, p. 131, n. 156.

[3] Congregazione per il Culto Divino, Direttorio su pietà popolare e liturgia - Libreria Editrice Vaticana, 2002, p. 130 - 132, n. 155 – 156.

Celebrazione della Confermazione

La celebrazione della Confermazione nel giorno stesso di Pentecoste è certamente l’ideale, ma questa coincidenza è da noi rara. Talvolta il sacramento è celebrato in feste per niente adatte al mistero suo proprio e si sente il disagio. Cosa dire? E’ bene fare una premessa ricordando le famose parole di Tertulliano: “Ogni giorno è del Signore, ogni ora e ogni tempo è buono per il battesimo: la differenza riguarda la solennità, non la grazia” (Tertulliano, Sul battesimo, 19, 13). Come la notte di Pasqua è, secondo l’antica tradizione della Chiesa, la sede più opportuna per conferire i sacramenti dell’Iniziazione cristiana e in particolare il battesimo, così il giorno di Pentecoste è quello più consono per impartire la Confermazione ai fanciulli già battezzati fin dalla nascita. Ciò è espresso proprio nel rituale vigente della Confermazione, quando nell’interrogazione rivolta ai cresimandi si dice: Credete nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e che oggi, per mezzo del sacramento della Confermazione, è in modo speciale a voi conferito, come già gli Apostoli nel giorno di Pentecoste? Il giorno di Pentecoste è quindi il giorno storico nel quale si compì quell’evento di grazia che è la discesa con potenza dello Spirito Santo e che viene reso attuale per ciascuno mediante il sacramento della Confermazione. La Pentecoste è la festa naturale e la cornice più appropriata per la celebrazione della Confermazione in quanto vi è la perfetta corrispondenza tra il ricordo del mistero pentecostale e la sua attuale realizzazione nell’evento sacramentale celebrato. Anche il Catechismo Tridentino aveva stabilito: “Vige nella Chiesa di Dio la consuetudine, scrupolosamente rispettata, di amministrare questo sacramento soprattutto nel dì di Pentecoste, perché proprio in questo giorno gli apostoli furono rafforzati e confortati dall’effusione dello Spirito santo. Così ricordando il grande fatto, i fedeli potranno riflettere meglio sui grandi misteri, che a proposito di questa sacra unzione vanno considerati” perciò: “I fedeli dovranno essere istruiti intorno alla natura, all’efficacia, alla nobiltà di questo sacramento (cresima), sia nel giorno di Pentecoste, specialmente designato per la sua

amministrazione, sia in altri giorni, che ai Pastori appariranno adatti” [1] . Si tratta di superare quella mentalità pragmatica che tende a celebrare i sacramenti, eccetto il caso di necessità, slegati dai giorni liturgici propri stabiliti nell’Anno liturgico. In particolar il Battesimo solenne, la Confermazione e la prima Comunione [2] hanno un legame naturale col tempo pasquale e si dovrebbe superare decisamente il costume superficiale di celebrare tali sacramenti in feste o giorni completamente estranei al mistero proprio di questi sacramenti. Si pensi alla Confermazione o alla prima Comunione celebrate in feste mariane o feste di Santi o anche in tempi liturgici con tematiche fortemente caratterizzate e non idonei ad accogliere e commentare adeguatamente il mistero di questi sacramenti. Per quanto riguarda la Confermazione potremo dire che - eccetto il caso della presenza del Vescovo, ministro originario di questo sacramento, che per necessità visita le parrocchie in diversi momenti dell’Anno liturgico - la Confermazione venga conferita dai suoi Vicari il più possibile nello stesso giorno di Pentecoste o almeno nel tempo pasquale.

[1] CATECHISMO TRIDENTINO, ed. Cantagalli, Siena, 1981, p. 233 e 246.

[2] Congregazione per il Culto Divino, Preparazione e celebrazione delle feste pasquali - Libreria Editrice Vaticana, 1992, p. 65, n. 114: “E’ opportuno inoltre che i fanciulli facciano in queste domeniche la loro prima comunione”.