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Italian Pages 278 Year 2015
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IL MARTIRE NECESSARIO GUERRA E SACRIFICIO NELL'ITALIA CONTEMPORANEA È TC }
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LE RAGIONI DI CLIO
Collana di storia contemporanea diretta da Massimo Baioni e Fulvio Conti
Comitato scientifico Daniela Luigia Caglioti, Università di Napoli “Federico II” John A. Davis, University of Connecticut Marco De Nicolò, Università di Cassino
Filippo Focardi, Università di Padova Monica Galfré, Università di Firenze Oliver Janz, Freie Universitàt di Berlino Marie-Anne Matard-Bonucci, Université Paris 8 Daniela Saresella, Università di Milano Anna Tonelli, Università di Urbino “Carlo Bo”
I volumi della collana sono sottoposti alla valutazione preventiva di referees anonimi.
In copertina
Alberto Magri, I/ soldatino morto, 1915, tempera su cartone, coll. priv. In bandella Artemisia Gentileschi, Clio musa della Storia, dettaglio (Palazzo Blu, Pisa).
© Copyright 2015 by Pacini Editore SpA ISBN 978-88-6315-920-2
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Pacini Editore
Via A. Gherardesca
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Responsabile di redazione Valentina Bàrberi
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INDICE INTRODUZIONE Infatuazioni belliche e identità nazionale
I. LINGUAGGI DI GUERRA . . . .
Guerrieri, eroi, fondatori L'esercito spettacolare Le guerre d’oltremare e il soldato che scrive di sé Magistra vitae
. Il giubilo, il lutto e i linguaggi di guerra . Tutto il gran tempo che verrà . Libia di sangue . Armi e lettere . Christus patiens DINT VT 00: XDI
. LA GRANDE VERTIGINE . I giorni radiosi . I rituali bellici collettivi . Il soldato felice e altre maschere . L'odore dei morti . La bellezza del guerriero .I cantori del male . Puer-miles . Il tributo DD KANSNUpN 0 . Sul Golgota 10. Discorsi castrensi 11. Oratori-sciamani e morti che vivono
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.IL SANGUE LUSTRALE 1. Il ritorno dei corpi gloriosi 2. Sepolcri e cenotafi 3. Scuola di guerra 4.1 giannizzeri del duce 5.I caduti del littorio
6. Contrappasso
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173 IA 137
7.Il sangue dei giusti 8. I sette santi e altre storie della terra sacra
190 199.
EPILOGO L'ultima festa al Vittoriano
NOTE Introduzione Capitolo I Capitolo Il Capitolo II Epilogo
INDICE DEI NOMI
RINGRAZIAMENTI
ZII
INTRODUZIONE Talvolta il dovere dell'individuo è semplicemente quello di vivere, lavorare, produrre, consumare; talaltra può essere quello di morire (Michel Foucault, Ommes et singulatim, 1981)
Infatuazioni belliche e identità nazionale 1. Nell'estate del 1914 tanti europei accolsero l’inizio della guerra inscenando pubblici festeggiamenti: a Pietroburgo, a Berlino, a Parigi folle straripanti invasero piazze e strade cantando a squarciagola i loro inni nazionali e dando vita ad uno spettacolo senza precedenti. Anche se furono tanti a pensare alle conseguenze e alle devastazioni che essa avrebbe comportato, al rumoreggiare dei primi cannoni, la guerra diventò un valore supremo, un traguardo verso il quale correre felicemente e quasi spensieratamente!. Neppure le donne sfuggirono al suo incanto: come ci testimonia Virginia Woolf, quando le armate britanniche si avviarono al fronte, molte tra le figlie degli uomini più istruiti del paese si precipitarono, «alcune accompagnate dalle cameriere, a guidare autocarri, a lavorare nei campi o nelle fabbriche di munizioni, e ad «usare le loro inesauribili riserve di fascino e di simpatia per convincere i giovani che combattere era eroico, e che i feriti
sul campo di battaglia erano degni di tutte le loro cure». In quella effervescenza collettiva crebbero pensieri e desideri di gloria, oltre alla convinzione che la grande prova cui la guerra sottoponeva singoli e nazioni era un tributo necessario per entrare in una
nuova età dello spirito: Ernst Jùnger la definì «un’orgia furiosa», von Clausewitz «un gioco attraente», altri la paragonarono allo «sfarzo» e allo «strepito delle grandi collere della natura». Da allora pochi si sono interrogati però sul significato da dare a quei frastuoni degli inizi e a quelle manifestazioni di entusiasmo: c'è chi in proposito ha parlato in modo riduttivo di «comunità d’agosto» e, per quanto riguarda il festoso consenso alla guerra manifestato nel 1915 dagli italiani, di un «maggio radioso», dando ad intendere che si trattava di infatuazioni passeggere. Ma si trattò davvero di fenomeni effimeri, di brevi esplosioni? O non furono invece l’epifania di senti menti profondi che grazie alla generale mobilitazione bellica trova-
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Il martire necessario
rono l’occasione di manifestarsi? La guerra, scrisse Giuseppe Antonio Borgese, fu «un gioco grandioso» in cui milioni di uomini scalarono «scellerati calvari per avere finalmente il panorama di se stessi®. Peraltro non era la prima volta che ciò accadeva, non era cioè la prima volta che gli uomini, in occasione di un evento bellico, mostravano cambiamenti profondi del loro essere, del loro modo di pensare e di agire. Nella sua Antologia militare, che aveva visto la luce nel 1870, Cesare Cantù — l’erudito poligrafo amico del Manzoni — aveva sottolineato proprio questo aspetto: «i caratteri più dolci» — aveva annotato — finiscono per infatuarsi essi stessi della guerra, finiscono per desiderarla e infine anche per farla «con passione. Ci sono giovani «amabili» che, per quanto educati ad «esecrar la violenza e il sangue», al sopraggiungere del «primo segnale» corrono «coll’arme a cercare il nemico, senz’ancora sapere che cosa sia un nemico. C'erano individui, scrisse il Cantù, che, mentre appena ieri avrebbero rabbrividito «al pensiero di schiacciare un canarino, ora li si potevano osservare mentre salivano senza timore» sopra un mucchio di cadaveri per veder più lontano, come rianimati davanti al sangue che d’ogni parte inonda, per giungere «a grado a grad» fino «all’entusiasmo della strage” E c'è un fatto da tenere presente: su e giù per l’Italia i decenni successivi alla conquistata unità nazionale erano stati contrassegnati da festose celebrazioni delle vittorie e da gioiose evocazioni delle grandi battaglie patriottiche in cui il sangue versato dai soldati aveva sacralizzato ogni zolla di terra®. Era dunque naturale che la nuova guerra che si annunciava fosse considerata — escluso il fronte neutralista — con occhio benevolo, occasione per scrivere un nuovo capitolo della esuberante mitografia nazionale.
2. Ai rituali di guerra e alle loro derive orgiastiche ha dedicato pagine importanti Roger Caillois, studioso tra i più negletti della storiografia italiana, anche se le sue riflessioni sulla vertige de la guerre?
ancora ci offrono, a distanza ormai di più di cinquant'anni anni dalla loro prima pubblicazione in Francia, una lettura che può aiutare a comprendere alcuni tra i più inquietanti aspetti della guerra come festa, gioco, ordalia e prova mistica.
intesa
Che la guerra avesse un fondo religioso era ben evidente: i teologi vi avevano speso più di una parola spiegando che essa era un castigo di Dio, e non abbagli in proposito la tardiva presa di posizione critica di Benedetto XV sull’«nutile strage» che si andava compiendo. Dal canto
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loro molti pensatori laici avevano sostenuto che era una ‘necessaria’ legge di natura e motore del divenire storico. Cosicché la guerra non appariva mai come
un incidente, quanto piuttosto come
una norma
dell’universo, un ingranaggio essenziale del cosmo. Qualcosa di religioso e meccanico insieme. Non tanto barbarie e tralignamento dall’umano, piuttosto sorgente di civiltà in forma di parto doloroso; essa esprimeva la legge della formazione delle nazioni tutte nate in seguito a uno «spargimento di sangue»!°. Risuonano le parole di André Gide: des plus belle oeuvres des hommes sont obstinément douloureuses»!!. Ma le pagine di Caillois sulla deriva orgiastica e mistica della guerra mostrano anche che l'incanto che essa esercita sugli individui e l’infatuazione che suscita nelle masse non può essere circoscritta soltanto ad alcuni momenti: all'annuncio e alla preparazione, o a quelli clou dello scontro e della mischia e infine agli stati di euforia per una qualche vittoria, cioè alla guerra intesa in senso stretto, ma che il tem-
po della guerra è un tempo esteso che va ben oltre i brevi momenti delle vigilie, perché include le lunghe fasi dell’attesa e, a battaglia conclusa, i giorni del ricordo. Il tempo della guerra non coincide cioè con i tempi stabiliti dalle diplomazie e dai governi allorché la dichiarano aperta o chiusa: è un tempo dilatato nel corso del quale, allo scuotimento iniziale, segue un sovvertimento profondo e stabile delle abitudini di vita e dei modi di pensare degli individui i quali, a guerra finita, non tornano mai quelli che erano prima. Quella bellica è dunque una esperienza profonda che funziona con i tempi di un apprendistato verso una vita nuova. E poiché è caratterizzata non solo da una mobilitazione materiale, ma anche da un
sommovimento ed ebollizione di anime, essa non può spegnersi in un attimo e a comando: la paura o l’odio per il nemico, una volta che abbiano preso il sopravvento nelle popolazioni sulle preoccupazioni personali e familiari, rimangono a lungo soggiacenti. La guerra non è che una categoria, in certo senso non è che una
parola: dietro ad essa si cela un mondo
composito dove corrono
molti fenomeni, ma ciascuno con una sua velocità, cosicché non tutto
quello che si chiama guerra appartiene ai tempi stretti del conflitto‘. 3. In Italia, a parte la precoce prova di Piero Melograni che nella sua Storia politica della grande guerra (1969) portò in scena il soldato con i suoi comportamenti
e i suoi sentimenti, le sue infatuazioni
e le sue superstizioni!, tra i primi a sondare in modo
specifico la
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Il martire necessario
questione è stato Franco Cardini con uno studio precorritore — siamo.
nel 1982 — sulla guerra e la cultura della guerra dall'età feudale alla grande rivoluzione". Verso la metà degli anni Ottanta le prospettive di studio di Caillois furono riprese nel corso di un convegno, i cui risultati vennero poi raccolti in un volume nel quale, per la prima volta, la Grande guerra fu analizzata come «evento in primo luogo mentale, intessuto di miti, immagini, esperienze visive e sonore». La svolta che si produsse in quell'occasione dipese soprattutto dalle idee di Eric Leed (già apparse nel suo No Man's Land. Combat and Identity in World WarI nel 1979) il quale attingeva da Caillois più di quanto non lasciassero trasparire le sue annotazioni bibliografiche!°. La questione della brutalità della guerra fu invece ripresa e approfondita in modo particolarmente acuto da Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker che nel 2000 pubblicarono un saggio intitolato 1418. Retrouver la guerre. Due anni dopo esso fu tradotto in Italiano con un titolo mutatoe senza più traccia del termine più significativo dal punto di vista storiografico: retrouver!. Il libro era dedicato alle rappresentazioni mentali - o meglio alle représentations collectives!8 — della violenza bellica, incentrato cioè su quella brutalità plurale e pervasiva che negli anni del conflitto aveva coinvolto tutti: soldati e civili, vecchi e bambini; una brutalità al. tempo stesso subita e inflitta con frequenti cambi di ruoli tra carnefici e vittime!?, e tutti accomunati
da un odio intenso, generalizzato e introiettato°%, che aveva spazzato via gli ideali patriottici di stampo ottocentesco e quelli cavallereschi del combattimento che avevano sempre riconosciuto dignità e onore al contendente. Retrouver la guerre poneva dunque sul tappeto la questione del consenso alla guerra — un aspetto che lo storico inglese John Keegan non si è peritato dal definire «misterioso» — perché esso non appariva più come un sentimento passivo, inculcato dall’esterno, ma si manifestava,
al contrario,
come
un
aspetto
del vissuto
individuale
dei protagonisti, molti dei quali si mostravano perfino estimatori del massacro?!. E se Caillois aveva parlato di vertigine e di trasporto, ora si prendevano in esame piuttosto le dimensioni del coinvolgimento, ma la sostanza non cambiava poi molto, se non per il fatto che con quest'ultima declinazione si aprì un dibattito sulla partecipazione e.sul consenso alla guerra?. E benché nel corso di questi ultimi anni gli studi sui significati della guerra e i suoi riverberi sulla mentalità collettiva
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si siano fatti più approfonditi e raffinati’, nondimeno le generazioni della guerra sono rimaste, con poche eccezioni”, del tutto intrappolate entro le panie di una discussione che ha oscillato tra i teorici della costrizione e quelli del consenso generalizzato”. Tanto che Vittorio Foa acutamente richiamava la necessità di indagare ulteriormente il fenomeno. Il problema del consenso molto da approfondire sul fermare con certezza: che teggiamento attivo, se non
popolare alla guerra — scriveva Foa — è ancora piano storiografico, ma una sola cosa si può afnon si trattò di una mistificazione. All’inizio l’atentusiasta, rispetto alla guerra dimostrò quanto
il nazionalismo fosse interiorizzato a livello di massa, con un meccanismo
mentale inedito che studiosi, poeti e scrittori avrebbero avuto un secolo per cercare di descrivere, e che gli uomini politici seppero invece, con prontezza, intuire”.26
4. Alcuni hanno addossato agli intellettuali del primo Novecento la responsabilità della formazione di una propensione popolare alla guerra. Ma è poco realistico ancorare questi entusiasmi solo a certe «follie dei chierici invasati di bellicismo»”, cioè alla sola azione «di guida, di stimolo e di esempio» svolta da alcuni intellettuali con i loro
scritti. Prima di tutto perché non si deve sopravvalutare l'influenza esercitata dagli intellettuali in un paese nel quale la cultura e l’abitudine alla lettura erano assai scarse. Val la pena ricordare che, per esempio, nel 1906 solamente 46 bambini su cento, fra i sei e gli undici anni, seguivano le lezioni scolastiche e che nel 1911 gli analfabeti erano il 37,9% della popolazione italiana, che ammontava a circa 37 milioni di unità, cifre che nelle regioni meridionali sfioravano il 70%?. E in secondo luogo perché la letteratura bellica — cronache, lettere, racconti — era un genere nato ben prima della Grande guerra: difatti i soldati che scrivevano dalle trincee lo facevano secondo moduli consolidati che non dipendevano certo dalla luccicante prosa elaborata dai letterati per l'occasione? Essi continuarono a credere nei sacrifici, negli sforzi silenziosi, negli eroismi, perché di questi argomenti erano intessuti i discorsi da sempre ascoltati: chi nelle aule scolastiche, chi nelle parrocchie o sulle piazze. La guerra faceva parte dell’educazione, e non tanto di quella scolastica — peraltro poverissima di contenuti — ma di una diffusa modalità di rappresentazione del corpo nazionale come corpo mistico in cui i martiri costituivano un essenziale
fattore testimoniale attorno ai quali fu elaborata tutta una complessa
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iconografia incentrata sulla sofferenza e sul sacrificio cristomimetico. Certo la guerra nella sua fase più avanzata comportò pesanti interventi di tipo propagandistico, tra cui quelli martellanti dei giornali: ma sulla massa dei soldati-contadini, come su quella dei soldati-operai giocavano da tempo fattori di medio e lungo periodo, suggestioni, parole d’ordine, scrupoli morali, credenze: insomma svariati elementi derivanti da una cultura — per così dire — ‘già data’ e legata alla tradizione, all’oty6s familiare, alla comunità di villaggio, persino ad una ripresa di importanza della comunicazione orale? e all’abitudine a tessere un certo tipo di rapporti interpersonali del tutto prevalenti rispetto alla — tardiva — propaganda imbastita dall’apparato militare. Per questo, pur non esistendo affatto un ‘ufficio propaganda’ fino alla guerra di Libia o addirittura tale ufficio non funzionando a pieno regime fino al 1916%, i discorsi di guerra ebbero comunque un grande peso: essi appartenevano già tutti alla cultura civica del paese, alle sue retoriche patriottiche, alla religione della patria e agli ideali risorgimentali — e prima ancora bonapartisti — della nation armee. Allo scoppio della Grande guerra il sangue versato per la redenzione nazionale, il sacrificio sopportato in nome di quell’alto ideale facevano già parte della mitologia ufficiale della nazione?. E la propaganda bellica* si basò sulla ripresa, l’accentuazione e la divulgazione di questa ben delineata cultura di guerra*°. Anche dal punto di vista prettamente politico il paese fu avviato alla guerra da un ceto dirigente. che guardava ancora alle tradizioni risorgimentali come ad un bacino da cui attingere principi-guida sia politici che morali: potremmo dire che i membri della rulirgg class erano educati a quegli stessi ideali che circolavano nelle caserme, e anche per questo si affermò un frasario retorico socialmente condiviso. Si deve inoltre tenere presente che tra Risorgimento e Grande guerra sussiste una profonda linea di connessione rappresentata dalle esperienze coloniali. Fu infatti con la conquista delle colonie che gli italiani proseguirono quell’esercizio delle armi che era iniziato con le guerre di indipendenza. Quella coloniale fu infatti una avventura ‘di mezzo’ che, per prima, e decenni
avanti la Grande guerra, produsse un linguaggio bellico (giornalistico, letterario, iconografico) che scatenò negli italiani sentimenti e speranze profonde, che coinvolse i cuori e le menti dei soldati, che allungò le liste dei martiri nazionali con tutte le loro palinodie. Non a caso proprio in quegli anni, cioè tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, prese corpo in Italia un accattivante e creativo
Introduzione
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linguaggio sulle armi e sugli armati, un lessico che rese possibile la sublimazione della sofferenza, l'esaltazione dello scontro combattentistico, l'accettazione della morte, la degradazione del nemico e che, infine, dette adeguato spessore alla boria dei vincitori oscurando tutte le peggiori brutalità commesse nei confronti dei perdenti. Si impose allora un coerente cumulo di immagini e di stereotipi, di frasi fatte e di retoriche: un vocabolario di base — si direbbe — o un filtro attraverso il quale noi ancor oggi rappresentiamo la guerra. Poi allo scoppio del primo conflitto mondiale le scritture sul tema assunsero nuovo vigore, l'immenso cataclisma bellico con la sua lunga preparazione durata quasi tutto il 1914 complicò enormemente il linguaggio che si era costituito nei decenni delle guerre africane. Fu allora che si cominciò a pensare alla grandeur nazionale, che divenne poi una corrente impetuosa che fluttuò a lungo nella storia italiana‘ nutrendosi di già ben formati linguaggi bellici nelle loro più diverse articolazioni formali, dalla narrativa alla memorialistica,
dall’arte figurativa alla musica. Essi non scaturirono dall’occasione, sebbene quella della guerra mondiale fosse a tutti gli effetti una grande occasione”
e una
fucina
identitaria, come
ebbe
a osservare,
a
giochi fatti, Benedetto Croce. La «Grande guerra combattuta da tutto il popolo italiano», scrisse il filosofo, è da considerare come il punto di svolta della storia nazionale perché è stato grazie ad essa che si è realizzato quel «coinvolgimento» e quella «partecipazione emotiva» che ha reso del tutto «viva l’idea della patria», in quanto «prima vera esperienza nazionale vissuta collettivamente»‘. Gli italiani in effetti, benché avessero discusso appassionatamente sulle ragioni di quel conflitto, avevano tutti convenuto su un punto: che la guerra non si era parata loro dinanzi «all’improvviso», al contrario essa era sempre stata una ‘presenza’ che aveva avuto un grande ruolo «nella vita morale del paese già da tempo»"!. Il fatto che la guerra fosse una presenza costante nella nuova Italia chiamava in causa un’altra questione che da lungi aveva appassionato il ceto intellettuale, quella della identità nazionale, una questione
sulla quale, come è noto, il fascismo ricamò fitte trame mitologiche. Ma come non era stato il primo a farlo, non fu nemmeno l’ultimo. Anche la stagione resistenziale, che pur volle accreditarsi come «una rottura decisiva della vicenda storica del paese dagli stessi suoi attori o apologeti», non esitò ad autodefinirsi «secondo Risorgimento»! e ad inanellare nuove serie martirologiche. L’insistenza sulla guerra era del
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Il martire necessario
tutto comprensibile, anche alla luce della ferita dell’8 settembre con lo sfaldamento della compagine militare nazionale che determinò una condizione di totale anomia, e per alcuni segnò addirittura la morte stessa della patria. La quale fu fatta risorgere dalle ceneri come un’araba fenice proprio grazie alle nuove gesta militari e al sacrificio dei combattenti. Fu grazie al sacrificio e ad un ennesimo spargimento di sangue che fu riaccesa qualche fiammella patriottica, ora sotto nuovi cieli e davanti a nuovi altari. Quella rivivescente retorica neo-bellica mise allo scoperto una certa inquietante linea di continuità con la passata storia nazionale, con il regime fascista e più indietro con la stagione risorgimentale. La patria dunque non morì del tutto dopo l°8 settembre, e tra le molte cose che sopravvissero al fascismo ci fu proprio il linguaggio del sangue e l’ideologia del martirio. Non tanto come frastagliatura retorica, quanto piuttosto come vena identitaria profonda del paese. Non a caso, attorno alle bare dei caduti di Nassiriya, emblematicamente commemorati come ossimorici paladini della pace e della guerra internazionale, all’altare della patria nel novembre 2003, tutto l’imponente armamentario martirologico elaborato in cent'anni di vita nazionale tornò a farsi palpitante e condivisa marca identitaria della nazione.
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I. LINGUAGGI DI GUERI
1. Guerrieri, eroi, fondatori Delle molte feste celebrate nei decenni successivi all’Unità quasi tutte riguardavano fatti di guerra, rievocavano battaglie e celebravano i caduti e i martiri. Se a Marsiglia nel 1831 Mazzini, nel redigere lo statuto della Giovine Italia, dettò la formula per gli adepti che, da quel momento, avrebbero dovuto giurare «nel nome di tutti i martiri della santa causa italiana, fu però l’anno successivo che Silvio Pellico ne Ze mie prigioni lanciò l’idea che l’impegno patriottico non poteva che passare attraverso la porta stretta del martirio personale: un ideale ripreso da quel Canto degli italiani di Mameli-Novaro che ancor oggi rappresenta la nazione col suo inquietante «stringiamoci a coorte!l/ Siam pronti alla morte». Durante tutta la stagione risorgimentale il sacrificio cruento rappresentò il più alto ideale della politica perché i patrioti uccisi © mandati al patibolo avevano «spars@» il loro sangue che, come ricordò Mazzini, espiava le colpe di tutti; «da quel sangue, come dal sangue di un Cristo», scrisse Mazzini, sarebbe uscita «un dì o l’altro» una «seconda vita», anzi «la vita vera» del popolo!. La guerra fu al centro del discorso risorgimentale italiano: mediante la guerra si raggiunse l’indipendenza nazionale e la libertà dall’invasore e si restituì l’onore perduto alla comunità nazionale. Una comunità, come è stato notato, «di parenti e consanguinei», nella quale i maschi dovevano sentire l'obbligo della protezione e della tutela dei più deboli e delle donne. Significative furono le discussioni su che cosa dovesse intendersi per guerra, guerra per bande e guerra partigiana (Mazzini); per esercito permanente (Carlo Pisacane); per esercito di volontari (Garibaldi). Significativo lo sforzo di innestare il tema dell’addestramento bellico nei programmi scolastici (Carlo Cattaneo)*. Alla fine risultò però vincente l’idea meno ‘movimentista’ di tutte, basata sul Piemonte: ‘provincia guerriera’ e sull’esercito ‘di mestiere’ propugnato dal La Marmora, che ebbe per conseguenza il fatto che l’esercito fu inteso come corpo separato dalla società civile, e la caserma come mondo a parte, con le sue regole e i suoi rituali?. Pochi però intesero questa trasformazione tanto che gli italiani non mutarono atteggiamento, anzi la paideia nazionale, talvolta inge-
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Il mertire necessario
Fig. 1 G Induno, Il racconto del garibaldino, 1860 circa, olio su tela, coll. priv. part.
nua e rozza, fece riferimento e continuò a richiamarsi a unificanti — e
inesistenti — ideali militari, esaltando a volta a volta eroi di guerra della più diversa ascendenza: con una certa prevalenza dei combattenti dei corpi volontari e dei loro comandanti eponimi: di tutta evidenza il fatto che i garibaldini si prestavano all’oleografia perché erano giovani che la guerra destinava a restare senza moglie, ma fortificati «da un comun sentimento» e «pieni di entusiasmo e fervore». Forse anche poi con qualcosa di più: quando Luciano Manara muore tra le braccia di Dandolo lasciando questi in preda ad un dolore inconsolabile, sembra di leggere di Achille e Patroclo”. Ma il vero cemento dell'esperienza risorgimentale che permise alla massa della popolazione italiana di non avvertire grandi scarti tra le
I. Linguaggi di guerra
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diverse componenti — anche militari - dei partecipanti alla lotta indipendentista fu la religione. Nel senso che tale impegno fu considerato alla stregua di un impegno religioso tant'è che, da un lato, la militanza politica fu effettivamente
vissuta
come
una
testimonianza
di fede;
dall'altro; gli scritti dei patrioti furono redatti seguendo modelli di derivazione agiografica*. Prese infatti corpo un poderoso amalgama di vicende costruite attorno a figure esemplari, a maieuti e ad eponimi, narrazioni apologetiche, florilegi e martirologi che ebbero come implicazione la nascita di una evenemenzialità colma di prodigi. Tale impostazione si diffuse soprattutto — ma non solo - tra le popolazioni illetterate e finì per accentuare i tratti tragici e sanguinosi della lotta, con una predilezione per storie e immagini che sottolineavano l’alterità — quasi la sovrannaturalità — dell’azione bellica. Certo benché la triade Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele II avesse dominato — almeno a partire dagli anni crispini — il racconto encomiastico nazionale?, dei tre solo Garibaldi fu il vero eroe popolare!°; il personaggio che non ebbe mai confronti, il vero uomo inarrivabile», l'eroe romantico dalla voce «calda come un bramito»!! e dalla parola che produceva incantamento: «da sua voce suonò numinosa nelle mie orecchie; era la prima volta che l’udivo, e sin d’allora
compresi il fascino potente di quell'uomo, al cui cenno le masse sollevavansi e lo seguivano con entusiasmo inenarrabile»!?. Come riconosce un altro testimone: Senza tanta potenza di sentimento, che affascina, cinquantamila giovani non lascerebbero al cenno di un uomo gli agi della famiglia e le lusinghe della vita per vestire una camicia di sacrifizii; non correrebbero sì lieti incontro alla morte, se non fosse l’idea di assomigliarsi almeno in parte a Garibaldi, all'uomo che rappresenta l’ideale della devozione alla patria".
Giustamente si è detto che nell’ avventuroso romanzo del Risorgimento, Garibaldi sta tra lvanboe (1820) di Walter Scott e Sandokan di
Emilio Salgari, che è l’uomo delle guerre e che rappresenta la divinità degli scontri armati dell’Italia, è un po’ Achille, Leonida, Epaminonda, Aroldo o anche il Cid e Bajardo!!. Non accomunabile all’eroe romantico tipo Novalis, o Caspar David Friedrich o Schubert, quanto piuttosto all’eroe ribelle byroniano che dà forma ad un romanticismo ‘orgiastico’ e frenetico dove l’attrattiva della morte «diventa vertigine e sbocca nel massacro»!.
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nie. PIG, inddasi Bivacco di garibaldini nelle vicinanze di Capua, 1862, DEI priv., part.
tela, coll.
Garibaldi rappresentò il combattente impavido, il vertice supremo dello svolgimento del genere umano, il condottiero impassibile nel pericolo! una sorta di ‘prescelto’ capace di imprimere il suo marchio di coraggio e di fiducia ai suoi compagni d’arme: ecco che i suoi Cacciatori delle Alpi ci vengono narrati come presi da una sorta di vitalistica spensieratezza giovanile!”, come combattenti felici e talvolta persino ilari!. Ed ecco che si racconta della totale serenità e dell’allegria dei Mille in procinto di partire per l’avventura siciliana che pur sapevano essere ricca di insidie," o mentre marciano da Marsala verso il cuore dell’isola’. I volontari dalle camicie rosse non furono solo genericamente dei coraggiosi, furono dei guerrieri che risposero alla morte con sprezzante giocondità, con
quei sentimenti
gioiosi che furono
un vero e
proprio luogo comune della letteratura risorgimentale: come annotò
I. Linguaggi di guerra
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un memorialista, l’esperienza di morte, ovvero «il castigo», appariva a tutti costoro, cioè a tutti «quei demoni», come «una festa». Possiamo intraprendere letture più colte del personaggio Garibaldi riconoscendogli quella serenitas, attribuita non a torto dai biografi, che era un tratto che contraddistingueva il potere e i condottieri nell'antichità classica; e lungo questa linea non ci si potrà stupire che gli fossero attribuiti caratteri semidivini. Sono infatti giunte a noi storie in cui si racconta che egli fosse stato chiamato all’impresa da una voce divina, la stessa voce del comando che, si diceva, risuonasse
nelle menti degli imperatori, dei sapienti, dei santi e dei mistici come Giovanna d'Arco. Scrisse un memorialista: «egli è l’Araldo di Giove che strappa il Dardanide dai molti talami della Cartaginese, e gli rammenta il grande fato di Roma; è l’Angiolo del Signore che scuote in sogno il pio Goffredo e gli addita il Sepolcro di Cristo». Non si trattava soltanto di retoriche astrattamente concepite per nutrire propositi di propaganda: tutta la vicenda eroica di Garibaldi e dei garibaldini è accompagnata dal desiderio del sacrificio e dall’idea di compiere una offerta votiva alla patria. Scrisse il Guerzoni: «tutti come lui diedero alla loro terra natale il meglio di se stessi: il sangue, la vita, gli averi, la gioia del domestico focolare»??.
Il «fiero spettacolo» della guerra era contrappuntato anche di brutalità, e nelle memorie garibaldine l'orrore si confonde con la gioia e l'entusiasmo: «tutti si aveva un non so che di selvaggio nel volto» scrisse l’Abba”, e nei tre giorni di «bufera infernale» su Palermo,
il
contingente garibaldino era irriconoscibile rispetto a quando era partito da Gibilrossa felice e spensierato, quasi che si fosse incamminato ad una festa”. Il mito di Garibaldi era nato nel 1849 durante le battaglie in difesa della Repubblica romana, quando venne tracciata una idea di patria combattente e andò prendendo forma una vera «comunità di eroi in lotta per il riscatto della patria». Da allora in poi il comandante fu oggetto di numerosi
componimenti
parenetici’” fino a che, special-
mente dopo l'impresa dei Mille del 1860, Garibaldi diventò davvero il personaggio prediletto di una religiosità di stampo popolare: l’eroe dai capelli lunghi e fulvi ‘alla nazzarena’, simile ad un Cristo fautore del riscatto dei più derelitti, talaltra come un santo che si staglia «fra i raggi del sole nascente o «avviluppato in un nimbo d’oro»?! Molte stampe votive lo ritrassero in atteggiamenti benedicenti, con
le mani segnate dalle stigmate come
la diffusa iconografia di San
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Il martire necessario
Fig. 3 Anonimo, Ritratto di Giuseppe Garibaldi come un Cristo, 1849 circa, matita e tempera su carta, Bologna, Museo del Risor-
Fig. 4 Anonimo, Ritratto di Giuseppe Garibaldi benedicente con le stigmate, Litografia, Roma, Museo Centrale del Risorgimento,
gimento, part.
part.
Francesco”. Il garibaldino Filippo Zamboni nei suoi Ricordi del battaglione universitario romano rammenta di Garibaldi che, recatosi in visita all'ospedale della trinità dei Pellegrini, «quando vedea uno
oppresso dai dolori gli dicea: Viva l’Italia! e quelle parole, dette da quella bocca benedetta, erano balsamo a tutto», Ci fu anche chi descrisse un commiato dai compagni d’arme come se egli fosse un inviato divino, un figlio della luce: «egli ci abbracciò [...] poi fra i raggi del sole nascente, che lo avviluppavano come un nimbo d’oro, ci si dileguò dai nostri occhi». In certe stampe popolari ci viene mostrato tra le nubi dalle quali osserva certi episodi di guerra e i combattimenti delle sue truppe; in alcuni casi furono inventate anche storie che sembrano tratte dalla Bibliotheca Sanctorum, come quella raccontata da Cletto Arrighi ne / misteri della Compagnia delle Indie*. Vi si narra di un garibaldino che, dopo essere caduto in mano nemica — quella dei Borboni — viene prima deriso, poi spogliato nudo e quindi messo alla tortura del fuoco, attanagliato alla lingua e martoriato nel corpo in vari modi prima di essere ucciso con gli occhi trafitti dai chiodi. Dalla seconda metà dell’Ottocento in Sicilia anche i cantastorie confezionarono un'immagine di Garibaldi quale eroe invincibile e carico di mistero, come un prescelto che conosce tutti i modi per dominare il destino e scrivere il futuro con la sua spada fiammeggiante. Per molti religiosi — frati e suore — che si unirono ai garibaldini
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per liberare la loro terra dagli odiati Borboni, Garibaldi venne tramandato come il fratello di Santa Rosalia patrona di Palermo. Secondo alcuni egli sarebbe stato in possesso di una correggia che, come un talismano, sarebbe stata capace di proteggerlo nelle battaglie. Alcune versioni popolaresche contaminarono poi le due ‘notizie’. Ei non è fatto di tempra mortale E non c'è piombo che nel cor lo tocchi E me lo ha detto una monaca pia, Ch’egli è fratello di Santa Rosalia! La Santa gli ha mandato un talismano Tessuto in cielo colla propria mano*.
Altri se lo immaginarono come un San Michele o un Cristo oppure addirittura come un nuovo Carlo Magno. Ch’è beddu Caribardu ca mi pari San Micheluzzo arcancilu daveru La Sicilia la vinni a libbirari E vinnicari a chiddi ca mureru,
Quannu talia, Gesù Cristu mi pari, Quannu cumanna Carlu Magnu veru?.
Garibaldi è il guerriero che sfida gioiosamente il nemico, è il taumaturgo, il protettore capace di miracoli: E quannu lu cumannu
iddu dava
Tuccava trumma e prima si mittia,
Cu iddu cavaddu lu primu marciava, Mmezzu li scuppittati cci ridia?°.
Il tema cristologico nella vicenda di Garibaldi ci è testimoniato anche da fonti di parte clericale, seppure questa volta con intenti denigratori dell’eroe. Ne La mano di Dio nell'ultima invasione contro Roma? le vicende garibaldine vengono infatti riferite come episodi pieni di oltraggiose empietà; la battaglia di Mentana (3 novembre 1867) viene per esempio
ora riproposta quasi fosse una nuova
Le-
panto, dove orde di garibaldini — i nuovi infedeli — sono i protagonisti di una orgia dissacratoria. L'autore di questa cronaca cattolica delle guerre risorgimentali ci racconta di una sorta di carnevale di sangue allestito dalle camicie rosse che si dettero a parodiare la messa, ad addobbare gli altari con oggetti empi, armi e palle di cannone, im-
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Fig. 5 Calendario dell’anno tarelli, part.
Il martire necessario
1863, Litografia a colori., Milano,
Civica
Raccolta
Stampe
Ber-
provvisando poi delle vere e proprie processioni durante le quali benedicevano le folle. D'altra parte anche il funerale di Garibaldi fu accompagnato da segni numinosi: un temporale improvviso con lampi e tuoni il cui rumore fece tutt'uno con quello dei cannoni che spararono a salve’. E non solo Garibaldi, ma molti martiri del Risorgimento furono anch'essi oggetto di religiosa devozione. Dopo la fucilazione dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera alcuni del popolo si misero in cerca delle pallottole «che li avevano uccisi per conservarle come sacre reliquie», e ci fu chi si contese perfino «da parrucca del povero Attilio caduta a terra» In altri casi le «ossa dei martiri» furono oggetto di venerazione nelle chiese‘; è quanto accadde per i martiri di Belfiore le cui spoglie furono traslate nel famedio di San Sebastiano di Mantova, dopo essere state trovate intatte — come quelle di certi santi — a quattordici anni dalla morte. Non solo, ma si raccontava pure che sul luogo della prima sepoltura ogni anno,
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Fig. 6 M. Moretti, part.
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/ martiri di Belfiore, 1898 circa, olio su tela, Museo della città di Mantova,
all’alba del 9 dicembre, apparissero miracolosamente «alcune coroncine di fiori». I democratici, soprattutto nel decennio ’60-’70, in polemica con le feste monarchiche dello Statuto sfruttarono appieno questo lato religioso dell’epopea risorgimentale: Mazzini e Garibaldi non solo furono festeggiati il giorno del loro onomastico, ma, prendendo spunto dalla concordanza del nome con san Giuseppe, eponimo del 19 marzo, furono anch'essi esaltati come santi e rappresentati con tanto di nim-
bo attorno alla testa. Occorre ricordare che in Italia prima del Novecento ci fu solo un altro caso di un culto simile a quello garibaldino, e fu quello del capo degli Schiitzen, Andreas Hofer, l’eroe della Val Passiria protagonista della lotta anti-italiana, la cui immagine, tenuta appesa nelle case, veniva talvolta anche ornata di fiori. Di Hofer circolarono anche delle immaginette, dei veri e propri santini, nei quali era mostrato nell’atto di affacciarsi benevolo dal cielo a custodia dei suoi montanari". Talvolta frammenti
di capelli, di ossa, falangi delle mani, braccia
di generali valorosi, altri svariati frammenti anatomici furono imbalsamati o essiccati, mentre una congerie di stoffe sanguinose, schegge
di bare, resti di cibo furono variamente conservati ed esposti alla venerazione del pubblico. Il garibaldino Lodovico Boschieri di Crocetta
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Fig. 7 L'onomastico dei due Giuseppe. 19 marzo 1871. Litografia, Roma, Muso Centrale del Risorgimento, part.
di Montello in provincia di Treviso, dopo essere stato gravemente ferito ad un occhio, inviò alla famiglia una lettera sull'accaduto e una scheggia di osso quale sua personale reliquia’. Subito dopo la morte di Mazzini, annunciata anch'essa da strani fenomeni naturali’, fu prima eseguito il calco della faccia per la maschera mortuaria, poi il corpo fu imbalsamato e deposto in una bara nella cui parte superiore, per non privare il pubblico della visione di «quella testa che in sé racchiuse tanta vastità di sapere, venne fissata una lente di cristallo‘°. Con il passare del tempo le feste in onore di Garibaldi e Mazzini diradarono e lentamente questo tipo di cliché celebrativo ricalcato su quello dei santi patroni scomparve, lasciando spazio a più austere commemorazioni
a carattere funebre’.
E se i socialisti come,
ad
esempio Antonio Labriola, stigmatizzavano l’immagine di un Garibaldi troppo guerriero‘, i militari di formazione accademica disprezzavano non poco il troppo rude generale che si preferì ricordare nelle pose consuete dei comandanti: in piedi, spesso appoggiato alla spada, rarissime volte con indosso la camicia rossa”.
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2. l’esercito spettacolare Il tema della guerra fu il cardine delle cerimonie indette per celebrare la carta statutaria, che rappresentò, eccezion fatta per quelle originate dai plebisciti e quelle della presa di Porta Pia, la sola festa della giovane nazione italiana’. Fu tutto un proporre messinscene belliche e pantomime militari nelle quali le spade dei soldati assursero a simbolo centrale della difesa dell’ordine regale dello Stato sabaudo. Gli spettacoli che evocavano la guerra proposero il vigore delle soldatesche, la disciplina dei reggimenti, il lussuoso fiammeggiare di colori delle divise. Talvolta, come nel caso del secondo centenario del reggimento Piemonte Reale Cavalleria, fu organizzato a Torino un gran carosello ‘medievale’ con centocinquanta cavalieri vestiti della «brillante uniforme» che si esibirono sulle note delle marce tipiche del corpo militare: minuetti, gavotte, sarabande e gighe con un gran sfoggio di retorica sui felici clamori della guerra e il «dieto tuonare delle artiglierie». In quei giorni di festa e di parata le caserme si svuotavano creando nelle città un clima allegro e spensierato”; nelle località dove la rappresentanza della Guardia Nazionale — emblema del popolo in armi — era più organizzata, era tutto un «abbracciarsi, tutto un esibirsi di «bella e ardita gente: a Firenze i bersaglieri parmigiani, i corazzieri e i granatieri piemontesi si offrirono all'’ammirazione popolare; «quelle mille volontà — annotava nel suo diario Alessandro Guiccioli nel settembre 1878 — che si piegano ad una sola in vista di un solo scopo mi rappresentano il concetto tipico dell’unità e dell’azione oltre ad affievolire in me «da fede nel principio della libertà individuale». Lo stesso transfert ludico lo si poteva ritrovare nelle rievocazioni della presa di Porta Pia, il 20 settembre. In alcuni paesi la festa cominciava con il suono a distesa della campana maggiore della torre civica, poi seguita dal suono di altre campane e da varie sarabande popolari che potevano durare anche alcuni giorni nelle strade pavesate a festa, come nelle feste religiose”. Accanto a queste feste prese forma anche un Risorgimento in chia-
ve didattico-favolistica indirizzato ai ragazzi invitati a imitare, nei giochi, le imprese epiche della più recente storia nazionale, nella quale i garibaldini venivano sempre presentati come protagonisti di avventure e storie di guerra. Nel libro Cuore di De Amicis (un libro che vendé in venti anni dalla sua prima uscita nel 1886, 330.000 copie) già però la vicenda bellica veniva proposta nel suoi aspetti più trucu-
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lenti e mortuari: «ogni volta che senti gridare in una festa: viva l’esercito, viva l’Italia, — spiega il padre del protagonista — raffigurati, di là dai reggimenti che passano, una campagna coperta di cadaveri e allagata di san-
gue». Anche in alcune opere di pittori, I piccoli garibaldini (1862) e i Piccoli patrioti (1862) di Gioacchino Toma, per esempio, la guerra diventò oggetto di gioco e di imitazione, non senza messinscene crudeli di ragazzini che giocavano a fare i mutilati”. Il fatto è che fin dalla prima guerra d’indipendenza diversi pittori
si erano
fatti
interpreti
delle istanze patriottiche, con-
-
-
..
Fig. 8 Augusto Benvenuti, Monumento in ono-
dea NT
.
sea 3 SEE XID, 12 aprile 1885.
tribuendo ad alimentare una visione passionale dell’impegno politico «intrecciando il proprio cammino con quello dei volontari garibaldini» e dei soldati dell'esercito dei Savoia’, come ben dimostrano le opere dei fratelli Induno, di Carlo Ademollo, di Odoardo Borrani e diversi altri??. Una produzione artistica che fu spesso sostenuta da teorici del settore che insistettero sulla necessità di rappresentare il «sentire civile», Pietro Selvatico, per esempio, nel suo Sull’educazione del pittore storico odierno italiano non mancò di ricordare la lungimiranza di Napoleone prima, e di Luigi Filippo poi, nell’aver voluto allestire Versailles come un museo «ove fossero raccolte le glorie della colossale nazione e «su vaste tele [...] le imprese più gloriose di Francia» e di come tutto questo mancasse
all'Italia. I giovani crebbero dunque con il mito del soldato protettore cui erano affidate, «in deposito», ricchezze ed affetti di una
intera nazio-
ne‘, persino il suo ordine e la sua coesione interna. Il generale Mazè de la Roche
dichiarava
convintamente
di sentirsi «sindaco,
giudice,
comandante dei carabinieri», ovvero detentore di una «autorità pressoché sovrana su quei quindici paesi sottoposti alla sua giurisdizione. E
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non aveva torto poiché fra il 1861 e il 1863 furono concentrati nell’Italia meridionale oltre 120 mila uomini®, tra essi 4.733 carabinieri con il preciso obiettivo di mantenere l’ordine pubblico; fatto questo che contribuì a dare l'impressione di trovarsi in presenza di una mobili tazione militare senza fine, in una patria «in armi», in uno stato di continua
allerta: «noi siamo la sola nazione,
scrisse Cattaneo
su «dl
Politecnico», «alla quale ogni pace è guerra». In queste condizioni lo specchio più significativo della nazione non fu quindi il parlamento che, in quanto cassa dei partiti, rappresentava «da divisione della nazione», ma l’esercito, che qualcuno stimava dovesse contare non
meno di un milione di coscritti®8. De Amicis, che tracciò un quadro di vita militare per bozzetti, dedicò le pagine conclusive della sua opera alla morte sul campo, cioè allo «spettacolo delle artiglierie». Sotto la penna dello scrittore era tutto un continuo evocare la bella morte, i bei gesti; è un conti-
nuo parlare di soldati feriti che nonostante tutto spingevano cannoni o che si immolavano per la patria, cui facevano immancabilmente da contrasto piagnistei delle famiglie borghesi, e delle fidanzate, delle madri, delle mogli, o le trepidazioni dei vecchi padri”. Le pagine di Edmondo De Amicis non furono le sole, per anni il bel soldato»?! ebbe ruoli sacralizzati, fu l’officiante della «religione della patria, il «sacerdote della religione civile». E l’esercito era una scuola, un collegio, un seminario dove anche il soldato più zotico avrebbe potuto imparare a vivere civilmente. do vado volentieri a soldato», proclamava un giovane appena richiamato alle armi di fronte alla famiglia evidentemente costernata, perché non solo «i soldati d’Italia [...] si amano fra di loro, e rispettano il Re com’un padre, ma anche perché «essi imparano [...] a leggere e a scrivere»’?. Come non ricordare, per esempio, l’orfano Scurpiddu nella omonima novella di Capuana, che viene istruito da un ex soldato il quale si era portato dalla caserma un opuscoletto di istruzioni militari e un sillabario”. Esempio romanzesco di un modo di concepire il servizio militare come una opportunità per imparare a vivere volitivamernte e a lavo-
rare con senso di dedizione e di obbedienza”. Anche la scuola inclinò decisamente verso l'istruzione militare: dal 1860 i programmi ministeriali previdero esercitazioni militari nei giorni di festa, marce con tanto di esibizione di bastoni di ferro presi come dei veri fucili che servivano ad abituare gli scolari al maneggio delle armi”,
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Tanti educatori italiani posero altresì il dolore al centro del sistema scolastico, dominò per costoro il principio che i giovani non fossero che dei «principianti» i quali avrebbero dovuto passare attraverso la sofferenza per diventare veri uomini. Era convinzione diffusa che nei primi anni di vita scolastica il fanciullo non fosse «ancora toccato» dal «vero dolore, grazie al quale si potevano risvegliare in lui «pensieri» e «affetti nuovi», irrobustirsi la «fibra morale». Il dolore si solennizzò
e si elevò a strumento pedagogico e del pari l’idea di patria che nel dolore e nel sangue era stata edificata. Essa, in quanto mater dolorosa assunse un potere suggestivo sconfinato, in suo nome tutto poteva essere richiesto all’individuo, il sacrificio, il patimento e finanche la vita”. In alcuni casi pur di esaltare il soldato che muore, e che muore senza rimpianti, si tratteggiavano scene di crudo realismo, come nel caso di quel fante di cui si parla nel Libro del soldato italiano che morì stoicamente, quasi senza manifestare sofferenza, nonostante avesse avuto «portate via le gambe e stracciati gli intestini da una
scheggia di bomba»?. Una simile pedagogia della carne e della sofferenza si ritrova in molti cantori della guerra che scrivono testi per la scuola: tra essi ci fu chi solennizzò un soldato che, dopo che i chirurghi gli avevano amputato una gamba, afferrò quel moncherino appena reciso gettandolo nel fiume gridando: «evvivab® In molti scrissero anche poesie ad uso scolastico sulla celebrazione della violenza nella guerra®!. Il sacrificio del sangue dei più giovani ebbe i suoi massimi esempi deamicisiani con La piccola vedetta lombarda (guerra franco-sabauda del 1859) uccisa a fucilate mentre sta appollaiata su un albero, e con // tamburino sardo (battaglia di Custoza del 1848) che ebbe una gamba amputata. Sono solo due esempi che però anticipano le tante storie
narrate, per esempio dal «Corriere dei Piccoli» o dal «Giornalino della Domenica, sulla stessa linea degli apologhi di guerra presenti in tanta letteratura per la scuola”. In questi racconti non c'erano semplicemente vittime e uccisioni, il soldato assumeva qui una sua dignità specifica, un «valore» peculiare, la sua non era una vera professione quanto piuttosto un ideale che si nobilitava grazie allo sforzo, alle privazioni e al sacrificio”. Col passare dei decenni questo punto di vista sulla guerra si andò precisando, coagulandosi attorno ad alcuni fatti bellici che assunsero valore paradigmatico e che l’editoria scolastica contribuì a diffondere e a rendere sempre più popolari. Sul mercato finirono così molte opere che fornirono ai giovani lettori un'immagine
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del Risorgimento frantumata in decine di piccoli episodi bellici, che limitarono quella complessa vicenda politica entro il quadro della sola epopea armata. Un libro dello Schiaparelli (Quello che banno fatto i nostri soldati) è da questo punto di vista assai emblematico: vi si elencano, da Goito a Porta Pia*, tutte le imprese eroiche — una
quindicina — degne di menzione e vi si ribadisce la funzione strutturale dell’esercito per la formazione nazionale. Moltissimi sono gli esempi che balzano in primo piano: nel capitolo intitolato all’«epopea italica» Jolanda Bencivenni — una insegnante della Scuola normale femminile di Modena — presenta un parterre di personaggi le cui storie edificanti tratteggiano la millenaria vicenda italica. Tra le molte quella di Pietro Micca, del balilla, di Emanuele Filiberto, di Ciro Menotti, di Mazzini, di Anita Garibaldi; vicende
oleografiche che, nell’abile montaggio editoriale del libro — significativamente intitolato Grazia e forza — precedono un capitolo finale dedicato al varo di una nave (la Lepanto) avvenuto in un tumultuare di fanfare militari e un infuriare di fremiti nazionalisti e bellicisti?°. In un agile volumetto di Racconti di storia patria per la terza classe elementare raccolti seguendo i programmi ministeriali del 1905, ancora una volta ci viene presentato un Garibaldi quale «vero Messia della libertà» in una scenetta in cui accoglie tra le sue file un frate francescano che proclama di voler seguire i suoi «passi gloriosi» con «da croce in una mano e la spada nell’altra», per sollevare «i popoli nel nome santo della patria». Il libro si chiude poi con una esortazione ai «fanciulletti» affinché siano «devoti alla memoria dei martiri e degli eroi, perché da quell’esempio imparino «ad amare la Patria, a difenderla dai nemici, a renderla sempre più grande e potenteb”. Talvolta le radici della nazione vengono rintracciate più indietro nelle vicende
dei Guelfi e dei Ghibellini,
negli accadimenti
dei ve-
spri siciliani, che fanno da sfondo ideale alle storie garibaldine e al racconto delle memorabili Cinque giornate di Milano o alla difesa di Roma e di Venezia del 1849*. In una delle più celebri disposizioni catalografiche, / martiri della libertà italiana (1887) di Atto Vannucci, il pantheon eroico pre e post unitario, trovò infine definitiva
sistemazione,
basata
sull’idea
dello
spargimento di sangue e della sofferenza come elementi coesivi della nazione. Per il Vannucci è infatti la traditio sanguinis a dare un senso alla storia italiana che è «un’Iliade di sciagure pubbliche e private, di pene crudeli, di sacrifizi inauditi, di tentativi audaci, di sommosse
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sempre soffocate nel sangue». Che è il «frutto di tanti dolori e di tanto sangu@, dove il «culto dei martiri» è scuola di emulazione per le future generazioni®, le quali potranno trovare in quelle pagine tutte le più crude descrizioni delle violenze del nemico”: ci fu chi «ebbe una palla in bocc«, chi fu ferito al petto o all'inguine, chi ebbe «portato via un braccio da una palla di cannon® e languì in preda ad «acerbi dolori»?!. Nella concezione del Vannucci, ampiamente tributaria dei topoî della martirologia cattolica, il sacrificio aveva evidenti connotazioni lustrali e un valore di rigenerazione morale. Scrive ad un certo punto: «dl sangue dei martiri santificò tutta la nostra dilettissima terra, e l’idea per cui essi morirono divenne feconda di eroi e di gloriose vittorie»”. Fino a quegli episodi milanesi che costituivano l’esempio massimo di tutte le epopee. Milano fece prodigii che non hanno paragone in nessuna storia del mondo. Il 18 marzo un popolo inerme si levò tutto concorde contro il nemico straniero forte di ventimila soldati ferocissimi e di innumerabile artiglieria, e lottando eroicamente per Cinque Giornate, lo cacciò dalla città. Tutte le campane suonarono a stormo: dapprima fu battaglia di bastoni e di sassi, e ogni contrada divenne un terribile campo di guerra. Ogni casa divenne una fortezza, ogni petto di uomo un baluardo inespugnabile. Ognuno aveva l’entusiasmo nel cuore, il valore nel braccio. Il coraggio era grande in tutti, quanto l’amore della libertà. [...] ma il memorando trionfo non poteva ottenersi senza grandi dolori, senza grandi sacrificii: il sacro tempio della libertà non si fabbrica senza sangue, senza ossa di martiri. E grande fu il numero dei martiri, che conquistarono e resero più preziosa la libertà di Milano: molti caddero perché grande era la forza dei nemici, e più grande la loro ferocia. [...] fanciulli crocifissi alle porte, famiglie intere abbruciate nei forni; violazioni orrende, mutilazioni crudelissime: fu detto
anche che nelle giberne dei Croati si trovassero mani di signore da essi tagliate per non perdere il tempo a levarne gli anelli preziosi”.
Tali scene di orrori proseguirono in quell«antro della tirannide» rappresentato dalle segrete del Castello sforzesco dove si misero in atto «scelleratissime contaminazioni», ma anche nelle strade si verificarono episodi raccapriccianti. Vedevansi qua e là sparsi sul suolo corpi trucidati, gambe, braccia e teste divise dal busto; vi erano cadaveri di donne che i barbari avevano trucidate e denudate per servirsi delle loro vesti alla fuga; alcuni affogati nella calce, altri abbrustoliti, altri uccisi di baionetta o di fucile, altri spenti in diversi orribili modi. [ci furono casi di] donne mandate a sconcio strapaz-
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zo, di bambini infilzati sulle baionette, sventrati, cotti: di uomini mutilati,
inzuppati di acqua ragia, arsi; di famiglie intere inchiodate alle pareti; di seni, di inguini, di natiche recise; di carboni ardenti messi sulle denuda-
te viscere. [Gli austriaci non si fermarono davanti a niente] nell’osteria dell'Angelo presso la strada ferrata di Treviglio si trovarono sette cadaveri bruciati, fra cui due ragazzi di dieci e dodici anni. Fuori di Porta Tenaglia fu arrestata una diligenza che partiva per Saronno; il postiglione fu ucciso a colpi di fucile, e i passeggeri in numero di nove furono trascinati in un campo vicino e sepolti vivi. Nel vicolo del Sambuco all’osteria della Palazzetta un’orda di assassini austriaci, dopo aver mangiato e bevuto, legò l’oste colla moglie e la figlia e fattone un fascio li gettarono sul fuoco e li arsero. E prima di partire aprirono le botti e ne fecero uscire tutto il vino [...] né i soli Croati facevano tali immanità:
Austriaci, Boemi e Tedeschi
gareggiavano di ferocia, e i loro ufficiali li conducevano e li incitavano a queste nefandità cannibali”.
Alla metà del secolo aveva preso avvio anche la costruzione dei grandi ossari per i caduti delle battaglie del 1849 di Novara, del 1859 di Palestro, Magenta, Melegnano e del 1860 del Volturno, oltre all’ossario di Montebello (maggio 1882) e quelli di Solferino e San Martino
(1870)”. Una grande ara votiva per il culto degli eroi fu eretta nel 1877 a Mentana, mentre una serie innumerevole di colonne — colonne
spezzate, piramidi e obelischi — già segnavano il territorio italiano”. Si trattò di uno dei più pervasivi programmi di totemizzazione del territorio dell’età contemporanea, che indicava nelle gesta guerresche l'elemento caratterizzante di una nazione ricondotta a unità territoriale grazie al sacrificio umano. Questo programma di figure e di costruzioni forniva alla massa dei cittadini, anche degli strati più incolti, fortissime suggestioni nate da un evidente sincretismo tra iconologie cristiane e iconologie araldico-politiche sì da far apparire l’eroismo militare come il fulcro etico degli italiani. Ben presto sorsero anche luoghi di culto della nazione i quali, se per un verso furono meno strettamente connessi alla celebrazione del culto dei morti, per l’altro rimasero comunque intimamente legati ai temi bellici. Il più importante e ufficiale tra questi, propriamente chiamato «tempio del Risorgimento», fu allestito nel cosiddetto padiglione storico dell’esposizione di Torino del 1884, dove «furono fissate le linee essenziali della filosofia espositiva e dei criteri di organizzazione dei musei storici». Essi si costituirono come luoghi sacri dove si conservavano le maggiori reliquie del paese; lì «bandiere annerite dal fumo delle battaglie», «brandelli di abiti indossati dai combattenti»,
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«proiettili arrugginiti» e poi statue, quadri, documenti scritti dai padri della nuova patria raccontavano «a storia memorabile delle sofferenze, del martirio, delle battaglie, della risurrezione del popolo italiano», cercando di dare vita ad uno spettacolo maestoso e di conservare il mana degli eroi. Vi furono esposti, per esempio, gli occhiali di Silvio Pellico, il fazzoletto usato da Cavour al Congresso di Parigi, la zappa di Garibaldi, la chitarra di Mazzini, la sbarra di ferro segata dall’Orsini per evadere dal castello di Mantova. Era quella che il direttore del museo del Risorgimento di Milano volle chiamare la nostra dolorosa e gloriosa via crucis”. Le prerogative magiche possedute dalle reliquie ricavate dai corpi ‘santi’ dei martiri e degli eroi della patria contribuirono a fissare in una dimensione immobile i fatti di quella storia. Ecco apparire nelle teche resti corporei, oggetti di proprietà, oggetti entrati in contatto con il defunto! Ma tra le moltissime reliquie che si raccolsero se ne scelsero di preferenza alcune, come ad esempio le camicie insanguinate dei fucilati, addirittura la mano mozzata di una ragazzina morta in difesa della Repubblica romana, le armi appartenute all’onnipresente Garibaldi, il suo stivale indossato in Aspromonte e la calza macchiata con gli spurghi della sua celebre ferita, il mantello e il fazzoletto indossati nell’entrata in Palermo, la spada impugnata a Digione!®. E ancora mani o dita di guerrieri, proiettili — in particolare quelli che avevano procurato la morte di qualcuno -, la corda con la quale si era impiccato un patriota, catafalchi mortuari, strumenti di tortura o
di prigionia. Nel museo del Risorgimento di Trento, per esempio, si conserva anche una piccola miniatura di madonna che fu baciata dai 21 volontari dei corpi franchi fucilati nella fossa del castello del Buon Consiglio! In quello di Venezia, come risulta dalla sistemazione del 1885, oltre alla falange del dito medio della mano destra di Attilio Bandiera, l’urna che servì al trasporto delle salme dei due fratelli giustiziati e una serie di reliquie e cimeli di Daniele Manin, al quale fu tributato un culto pari a quello di un santo con tanto di preghiere e pellegrinaggi al sepolcro! Nel museo veneziano, secondo l’allestimento del 1899, fu esposto anche l’avambraccio destro che il generale Antonini aveva perso durante i combattimenti attorno a Vicenza nel 1848, ed inoltre vi trovarono sistemazione la sella del cavallo di Gari-
baldi, alcune ciocche dei suoi capelli e di quelli di Gioberti!®, Il Museo del Risorgimento di Como conserva tra l’altro lo scialle adoperato dal conte Federico Confalonieri al ritorno dalla prigionia
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allo Spielberg, l’anello della ‘Compagnia della morte’ di Milano, varie maschere mortuarie in gesso di Cacciatori delle Alpi, la tazza usata da Garibaldi la sera del 27 maggio 1859 in un caffé del Borgo S. Bartolomeo di Como, e la cioccolatiera servita per preparargli lo ‘zabaglione’ la sera del 27 maggio 1859!%. A Mantova tra innumerevoli oggetti anche due bottoni staccati dal «tabarro» di Tito Speri al momento della carcerazione, la camicia indossata da Angelo Scarsellini al momento dell’esecuzione, le bretelle e il portafoglio di Felice Orsini, le tre pipe appartenute a Clementino, Clemente e Domenico Fernelli, una ciocca di capelli di P.F. Calvi!®. Ricco il museo di Genova, dove si conserva il bicchiere a calice utilizzato abitualmente da Giuseppe Mazzini in casa Dagnino, il suo «bocchino figurato», la bottiglietta di medicinale che stava sul comodino
accanto
al letto dove morì, il calamaio
di
porcellana, una ciocca di capelli chiusi in una piccola busta e un’altra ciocca «recisi dal suo fido amico Felice Dagnino che ne raccolse l’ultimo respiro a Pisa, i capelli di Goffredo Mameli tagliati dopo la morte e quelli di quando era fanciullo autenticati dal fratello e la sua maschera mortuaria, un cappello nero floscio con nastro di velluto che il Mazzini portava al suo ritorno dal forte di Gaeta, la cassa metallica entro cui fu collocata la salma di Nino Bixio «trovata assieme ai gloriosi avanzi dalle autorità olandesi sulla costa di Atchin»!”, Nel 1917 fu pubblicato un catalogo di autografi, documenti e cimeli su Garibaldi e il Risorgimento italiano, della collezione Curàtulo: anche in questo caso una intera sezione del volume è dedicata ai cimeli che evocano direttamente o indirettamente le vicende belliche,
oggetti e parti anatomiche, abiti impregnati di sangue!. Un cospicua raccolta di reliquie era stata ordinata in occasione delle iniziative della Esposizione Generale Italiana di Torino del 1884 anche se fu allocata a Roma!®; a Torino, infatti, il Museo del Risorgimento espose solo alcuni abiti di Cavour tra cui la camicia che indossava al momento della morte, e ciò per «disposizioni» del Consiglio Direttivo, che aveva scartato «quella confusa varietà di reliquie e di gingilli di poco valore che in molti musei fanno mostra non bella e di nessuna efficacia educativa»!!9. Anche le caserme furono sacralizzate dalla presenza di reliquie di guerra, che diventarono col tempo i primi nuclei di veri e propri musei, come quello del Risorgimento di Parma inaugurato nel 1893!"!. Benché la collezione, la conservazione e il culto delle reliquie cristiane abbia costituito il modello del collezionismo reliquiario risorgimentale, al fondo esso non esprimeva tanto un bisogno di legame
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Il martire necessario
tra cielo e terra quanto piuttosto tra passato e presente. Dal punto
di vista della ricezione popolare del messaggio, tuttavia, fenomeni di particolare devozione, come quelli tributati a Daniele Manin a Venezia, mostrano che il livello di differenziazione tra i due approcci era quanto mai sfumato e confuso. Certo ci fu anche chi guardò in modo sprezzante queste manifestazioni di pietà definendo questi musei «santuari di pinzochere»!!2. Ma nel complesso le voci contrarie non solo al culto delle memorie, ma alla guerra furono poco numerose; una tra le più significative fu quella di Iginio Ugo Tarchetti, che ne scrisse con echi che forse gli erano giunti dalle pagine sulla battaglia di Waterloo nella Certosa di Parma (1839) di Stendhal e forse da quelle che, alla stessa battaglia, aveva dedicato William M. Thackeray nel suo Vanity fair (1847-1848). Il Tarchetti dedicò alla terribile guerra di Crimea (185356) il suo libro più celebre, Una nobile follia, bollando quella impresa voluta da Cavour e comandata da La Marmora senza mezzi termini come
«un inganno, un incantesimo, una cosa orribile», un «spettacolo
da incubo», costellato di atrocità e dove, nella battaglia della Cernaia, si
erano visti soldati rimasti con le vertebre spezzate «a spenzolare dagli alberi, dibattendosi, come serpi rotte nella schiena»!!5.
3. Le guerre d'oltremare e il soldato che scrive di sé Nel febbraio del 1885 la guerra tornò ad incombere sulla nazione, e con l’occupazione di Massaua l'Italia compì quello che i fascisti qualche decennio dopo avrebbero esaltato come «il primo balzo verso l’impero»!!. Fu quella l'occasione in cui la guerra cominciò ad essere divulgata in grande stile da settimanali e giornali quotidiani. Con alcune sottolineature che cercavano di accreditare l’idea di una raggiunta modernità italiana dal punto di vista bellico. «L'Illustrazione italiana», con i suoi servizi sugli armamenti e con le sue biografie eroiche dei capi militari, aveva da tempo contribuito ad alimentare l’interesse per l’esercito sui ‘nuovi’ sistemi di difesa che erano entrati in dotazione, sulla organizzazione delle forze combattenti e sulla preparazione dei soldati!!. Cominciò a delinearsi allora tra i giornalisti e anche tra il pubblico dei lettori uno spiccato apprezzamento per la bellezza delle armi, un certo gusto per la rappresentazione delle navi da guerra, dei cannoni, delle mitraglie nonché dei giovani soldati che — immancabilmente — erano colti dall’obiettivo del fotografo mentre sorridevano sornioni davanti a cataste di bombe. Tra le novità tecnologiche più
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Fig. 9 // saluto ai soldati in partenza per l’Africa alla stazione di Cassino, da L’Illistrazione Italiana», n. 51 (a. XIV), 4 dicembre
1887.
fotografate, c'erano i moderni sistemi di avvistamento, le infrastrutture
dei ‘genieri’, le basi militari razionalmente organizzate, le vie di comunicazione aperte per far passare le truppe con i loro equipaggiamenti,
gli ospedali da campo e i servizi di vettovagliamento. Tutto quell’insieme di apparati e di strumentazioni alimentò la fiducia e il consenso degli italiani i quali, da Massaua in poi, convintamente proiettarono sullo «schermo dell’Africa» le loro nascenti fantasie coloniali!!°, soste-
nute anche da forti sentimenti di superiorità razziale e nazionale!”. Ciò non significa che il dibattito sulla guerra non risultasse acceso: al contrario, tra i socialisti, per esempio, per un certo tempo prevalsero
le voci ostili alla guerra: «né un uomo né un soldo», fu il celebre slogan di Andrea Costa che fece breccia in larghi settori dell'opinione pubblica. La propaganda antimilitarista cercò pure di evocare Garibaldi, asserendo che la sua inimitabile epopea personale era più che sufficiente a garantire la dignità militare della nazione, senza bisogno di altre superfetazioni belliche che si annunciavano come un fenomeno di «brigantaggio collettivo», come «una febbre» malefica!!8. In varie parti d'Italia si accesero anche proteste e manifestazioni di piazza contro la partenza delle truppe per l'Africa!” che interessarono soprattutto il nord, in particolare a Pavia e a Milano la folla tumultuò sotto la prefettura e, per alcuni giorni, dette vita a pubbliche dimostrazioni!”
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Il martire necessario
Certo fece allora scalpore la fiera lettera inviata da Carducci alla fine del maggio 1887 al «Resto del Carlino» - poi rilanciata dalle colonne del «Corriere della Sera» — con la quale egli prendeva le distanze dalle avventure italiane in terra d’Africa, negando la sua partecipazione all’inaugurazione del monumento ai caduti di Dogali. Ciò che io sento degli italiani morti in Dogali, non è bisogno dire. Dico che io non approvo il rumore ed il fasto che si continua a menare ed a fare su quella sventura. Mi dà da pensare lo sfoggio delle memorie classiche a questi giorni che l’amore per i classici studi è tra noi si basso e oscuro [...]. Ahimé a considerare questa, dirò eccitazione nervosa che ha preso l’Italia dopo la recente sventura, quasi direbbesi [...] che ella s'inebbriò del suo
sangue quando lo vide rosso, e sentì il bisogno di gridare alle genti che anch'essa ha il sangue rosso. Codesta eccitabilità nervosa, cotesta mobilità fantastica, che travaglia da un pezzo non il popolo italiano ma le classi così dette dirigenti. [...] a cotesta amministrazione [responsabile di Dogali]
per scrollarsi dal capo il giusto giudizio del sangue di Dogali, non parve vero cotanta accensione negli italiani di pietà e entusiasmo; e vi soffiarono dentro, tanto che gran parte di noi si condusse a vedere in quei poveri morti non più le vittime di una politica fallace, insipiente e colpevole, ma gli eroi della nazione chiamanti vendetta e segnanti all'esercito vie nuove di gloria!
Per quanto il paese risultasse sedotto dall'idea coloniale, il profilo di Garibaldi che aveva ora maggior credito era quello del pater patriae, sebbene il monumento romano del Gianicolo, opera del Gallori inaugurato il 20 settembre 1895, entrando in consonanza col Marco Aurelio capitolino, consacrasse
già una visione precipuamente
mar-
ziale del personaggio". E anche lo scoprimento della statua era avvenuto in una cornice del tutto speciale costituita dalle pubbliche feste organizzate per il cosiddetto ‘giubileo di Roma’, la «settimana delle nozze d’argento di Roma con l’Italia», nel corso della quale, curiosamente, «la colonia Italiana di Marsiglia donò addirittura un anello alla città». Si trattò, come
scrisse «d’Illustrazione Italiana», di un fatto «sin-
golare ed apprezzato», anche se qualcuno fece malignamente notare che trattandosi di «an matrimonio tra due personificazioni femminili» era una «metafora un po’ azzardata»!5. Furono però i primi racconti che cominciarono ad arrivare dai fronti di guerra a dare corpo ai sentimenti degli italiani che si sentivano lanciati alla conquista coloniale! Fu in seguito a tali narrazioni che si manifestò l'orgoglio per la nazione sorto dalle coraggiose
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imprese dei suoi soldati, dalle gloriose battaglie e dalle onorevoli sconfitte. Certo quelle suggestioni di guerra facevano leva su temi che a molti italiani erano già noti dalle epopee risorgimentali, che ora infatti furono nuovamente evocate dagli organi di stampa. Gli editori dei giornali erano convinti che i lettori, abituati ai cammei eroici del Risorgimento, cercassero ancora storie come quelle, tutte costellate di azioni portate a termine da piccoli gruppi di ardimentosi o da isolati eroi. Le corrispondenze di Edoardo Ximenes per «L’Illustrazione Italiana offrono un quadro eloquente di questa tendenza a riverberare nelle guerre coloniali quelle risorgimentali. Con tanto di celebrazione — ora del tutto incongrua e fuori tempo — dell’esercito come «il parafulmine [...] che garantisce l’incolumità della casa»!. Tuttavia era utile che si continuasse a pensare alla guerra in termini risorgimentali e all'esercito come ad uno strumento indispensabile per l'educazione delle masse!. La pedagogia militare fu considerata la base dell'educazione soprattutto per coloro i quali non avevano
ricevuto prima nessuna
altra istruzione, una pedagogia basata
sull’obbedienza, al tempo stesso fulcro della vita militare e chiave di ogni percorso di apprendimento! «Siamo convinti che i capitani non potranno mai soddisfare al compito loro imposto della educazione senza un codice veramente educativo che attragga il soldato, s’insinui piacevolmente nel suo animo, gli riveli la patria, la famiglia, l’esercito, connaturandogli l’amore operoso per tutti quei beni supremi, anche col sacrificio di se stesso»!??. Alla funzione totalizzante ed educativa dell’esercito si sommava poi quella derivante dai legami istintivi — e feticistici — tra i soldati e le armi. Le armi erano infatti gli strumenti mediante i quali si raggiungeva la gloria e la salvezza, ed erano alla base della forza nella mischia, tanto che relativamente ad esse si sviluppavano senso di orgoglio nel possederle e senso di paura dell’esserne eventualmente privati. Tant'è che non vi è quasi mai la celebrazione del sacrificio senza una esaltazione degli strumenti tecnici — delle armi — che l’avevano reso possibile. L'esibizione delle armi sulla bara dei soldati morti, nei pressi dei tumuli o fin dentro i cimiteri e i sacrari rientra proprio in questa logica. La forza del soldato, la sua capacità di sopravvivere o di uccidere il nemico risiedevano infatti quasi interamente nella forza e nel funzionamento degli strumenti offensivi che aveva in dotazione. In questo quadro il grande tema romantico dell'erotismo del sangue si spostò agevolmente su quello dell'erotismo delle armi.
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II martire necessario
È difficile stabilire quanto tutto ciò fosse determinato da suggestioni estetiche: certo è che — almeno per il pubblico dei quadri medi ed alti dell’esercito — l'influenza esercitata da talune opere letterarie è del tutto evidente, nel cliché dell’irsuto «guerriero-morte», nelle sue armi — la baionetta, la mitragliatrice — come
morbide
veneri!. Così un giovane della 2° Compagnia del 35° fanteria, in partenza per Massaua nel maggio 1887, «impugnando il fucile», lo chiamava con affetto la «sua sposa». Anche i giornali militari non mancarono di sfruttare tale argomento, utile peraltro alla incorporazione del soldato nella struttura bellica, anche a costo di scivolare
verso i terreni ambigui !5°. Come non ricordare, per esempio, la pubblicazione (maggio 1888), su «La caserma», di uno stralcio di un racconto del poeta e narratore polacco Adam Mickiewicz (1798-1855) dal titolo Za settimana
di miele di un
coscritto,
che
narrava
una
sorta di iniziazione erotica — e poi un amplesso — di un soldato alle prese per la prima volta con le sue armi, la sua «settimana di miele, ovvero la prima settimana di «matrimonio» con il suo «bel pezzo da otto» durante la quale la sua anima fu «interamente concentrata nel calibro del... cannone»!. Tutta la stampa
militare si mosse
entro un solco di convinzioni
ideologiche ben delineate che contribuirono a creare un racconto nazionale dell’esercito sufficientemente coerente e logico anche senza bisogno di un apparato propagandistico specifico. L'esercito poté usufruire di una immagine positiva, di un insieme organizzato e ben disciplinato; allo scoccare dell’ora della guerra tutti gli organi di informazione reagirono allo stesso modo per non far mancare il sostegno della patria ai combattenti, e correlativamente per trasmettere ai soldati l’entusiasmo della nazione che li sosteneva, per convincerli della necessità della lotta, della certezza, della bellezza e della gioia dell'impresa. L'efficacia di questa operazione informativa di massa dipese in larga misura non solo dalle capacità suggestive della prosa giornalistica, ma dalla omogeneità del pubblico dei lettori, esiguo e molto livellato dal punto di vista culturale, e quindi facile da soddisfare dal punto di vista del gusto. Fu dunque su questi giornali, grazie alla loro prosa retorica e ‘liceale’, che prese forma in Italia un primo, organico lessico di guerra che riuscì a compendiare i linguaggi risorgimentali e garibaldini con le più recenti infatuazioni della conquista. Così alle esemplari e care memorie dei martiri di San Martino e
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Solferino finirono per sommarsi le battaglie nuove, come ben ci mostra l’editoriale del giorno dei morti del 1888, de «La caserma»: Le più care e sante rimembranze patrie si trovano negli e Solferino là dove si combatterono le due più eroiche stra indipendenza. [...] La narrazione de’ fatti di guerra eroi desta negli animi forti il vivo desiderio di imitarli, parte una voce che ci suggerisce: ‘tutto per la patria!”!5
ossari di S. Martino battaglie della nocompiuti da quegli e dalle loro tombe
In molte altre occasioni il giornale batté su questo tasto della continuità dello spirito bellico degli italiani, ormai avvezzi alla guerra e da essa gioiosamente infatuati. Ben pochi miei lettori — si legge in un articolo uscito nell’estate del 1887 — possono avere per avventura assistito agli entusiasmi degli italiani all’a-
prirsi delle campagne nazionali del 1859 e del 1866, quando era in giuoco l'indipendenza e l’unità della nostra patria. [...] Ma se quei tempi son passati non è detto che non debbano ritornare; e sappiate che in Italia ci si commuove e ci si accende di ‘nobile zelo per molto meno; basta per esempio il sangue di poche centinaia di nostri fratelli trucidati per infiammarci, spronandoci a nobili imprese di vendette!5.
A più riprese vennero testimoniati gli entusiasmi della popolazione per l’esercito. Tutta la nazione tiene fisso il pensiero ai figli prediletti che vanno a far bello di nuova gloria il nome italiano! [...] A Napoli l'entusiasmo della cittadinanza è stato schietto, clamoroso, rispondente in tutto all’indole degli
abitanti di quella incantevole città. Al Piliero, sulle banchine del molo e nell’interno dell’arsenale una miriade di persone di ogni età, sesso e condizione, è accorsa il 2 novembre a salutare i partenti!.
Non fu però soltanto la stampa militare a suonare la grancassa degli entusiasmi popolari e del trasporto nazionalistico. Gran parte degli organi di informazione dell’epoca insistettero su questi episodi di ardore collettivo: «L’Illustrazione Italiana», per esempio, eccelse nei resoconti ad effetto!”. Allo stesso modo quadretti di comportamenti patriottici vennero offerti a più riprese dal «Corriere della Sera», che quasi ogni giorno proponeva ai lettori dettagliati ed enfatici resoconti delle partenze felici dei soldati: Brescia, Verona, a Padova, Mestre: a
Udine, si legge in una di queste cronache, alcune signore «offrirono
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Il martire necessario
delle sciarpe agli ufficiali» mentre «per sottoscrizione privata ai soldati furono offerti due barili di marsala». La dimensione gioiosa dell'impresa non oscurò comunque del tutto l'aspetto più drammatico dell’evento!. Era del tutto evidente che la forza della patria aveva bisogno della morte dei soldati, e se questo destino di morte non poteva essere nascosto del tutto, poteva però essere reso accettabile se fosse stato visto come una immolazione collettiva, come un ‘debito’ pagato da tutti i cittadini indistintamente. Era quindi indispensabile che tutta la nazione apparisse compatta nel sostegno ai combattenti, unanime nel cordoglio e soccorrevole verso i più sfortunati. E appagata dalle narrazioni più attraenti, come questa, pubblicata dal «Novelliere Militare Illustrato: «piovono fitte fitte le palle intorno a loro senza interruzione, ed il terreno ne è rigato come se vi fosse passato sopra un immenso rastrello. Nuvole di fumo salgono al cielo e offuscano l’aria, mentre il piombo infuocato tronca tante vite»! E che quindi la morte del soldato si trasfigurasse in senso estetico: «bello è morire per la patria con la spada in pugno, sublime il soldato crivellato dalle ferite, che, presso a morte, sorride dolcemente
e saluta con la mano la vittoriosa bandiera»!'!. La celebrazione della bella morte, uno dei temi tra i più ricorrenti sui giornali militari, dette luogo a un profluvio di poesiole, canzoni, marcette: Noi siamo giovani ed i nostri petti Son per la patria ferrea muraglia. Marciam sicuri dinanzi ai proietti,
Impavidi dinanzi a la mitraglia. Marciam marciamo; al rombo del cannone
O fra la dolce musica dell’armi Noi canterem la bellica canzone E degli eroi ripeteremo i carmi. Noi siam giovani, sulle nostre fronti Brillan le gemme del più bel sudore, Noi siam soldati ed a morir siam pronti. Viva la patria e chi per essa muore!"
In un
suo
articolo
che comparve
su «La Caserma»
un
sedicen-
te «allievo macchinista» — forse troppo colto per essere davvero un ferroviere — si diceva convinto che persino le cerimonie funebri dei soldati e le loro agonie nelle corsie degli ospedali militari erano uno spettacolo «sublime, come i «fiori nati sui campi irrigati dal sangue dei morti»!*. Sempre più spesso ormai il sangue del soldato assurgeva
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a simbolo di rinascita, quasi fosse linfa vitale che scorresse vigorosa nelle primavere delle nazioni!. Non vi era quasi numero del «Novelliere Militare Illustrato» o de «La Caserma» che non insistesse su questi argomenti e proponesse una
visione romanzesca e cavalleresca della guerra con tutti i suoi prevedibili corollari di onore, obbedienza, lealtà e magnanimità!*. Ma non è tutto, perché i racconti di guerra, intesi non solo come la cronaca delle partenze e della mobilitazione, ma anche del combattimento e della vita al fronte, per essere più incisivi avrebbero dovuto basarsi il più possibile sulle dirette testimonianze degli ufficiali al fronte". Fu a costoro che fu dunque ‘chiesto’ — per la prima volta e in modo certo ancora discontinuo — di contribuire alla scrittura dell’impresa. Furono infatti le lettere di questi soldati e le loro cartoline postali che contribuirono a validare il discorso bellico, trasformandolo in
un incontrovertibile dato di esperienza. Gli ufficiali diventarono così i rapsodi degli eventi e i loro cliché narrativi furono accolti per veri resoconti testimoniali: «vidi morti e feriti mutilati sconciamente; udii certi lamenti che andavano giù fino in fondo al cuore; udii chiedere un po’ d’acqua per misericordia [...] allora pensai»!!”. Nel giro di poco cominciarono poi a comparire anche lettere scritte — ma sulla loro autenticità è legittimo dubitare — da soldati semplici, che furono pubblicate soprattutto nei giornali militari come «La Caserma» in rubrichette 44 hoc! mescolate alle lettere e alle memorie dei
reduci. Anche quella del reduce era una figura di testimone di grande importanza: il reduce era infatti unanimemente ritenuto un individuo speciale, uno che aveva visto in faccia la morte, un individuo — come aveva scritto Mickiewicz — che aveva scorto «le anime» dei soldati allontanarsi dai corpi per «correre attaccate alla punta delle lance» della cavalleria‘, e che spesso portava sul corpo lo stigma tremendo del combattimento. Nelle prime guerre coloniali combattute in terra d’Africa, dunque, vecchi cliché e nuovi approcci ideologici ancora convivevano. Ma certe novità tendevano ad imporsi con forza: per esempio, si comin-
ciava ora a combattere con armi nuove e le baionette erano diventate certo più efficaci delle antiche e gloriose sciabole. Si veda il resoconto della battaglia di Domokos riportata dall’«4IIlustrazione Italiana», tutto costellato di annotazioni sugli effetti degli obici, delle granate, su chi «ha la testa fracassata da una palla», chi ha «da testa asportata da una scheggia di schrapneb, chi riceve «una palla al fianco destro e stra-
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mazza la suolo», chi cade subitaneamente «morto colpito da una palla al cuore»!, Su questo sfondo caratterizzato dalle novità tecnologiche presero avvio anche certe discussioni di tipo ‘teorico’; si discettò, per esempio, se fosse più auspicabile la morte per sciabola o quella per arma da fuoco. La spada, dicevano alcuni, «ha maggiori virtù» ed è più bella perché essa richiede più perizia e più coraggio, e perché quando si usa la spada si può vedere e sentire il momento in cui entra nel corpo del nemico e lo dilania provocando grande e ravvicinato spargimento di sangue. E sul punto altri ritenevano invece che fosse più elegante la morte silenziosa provocata dai proiettili che, inoltratisi quasi inavvertitamente nei corpi, li sventravano dal di dentro in modo più rapido e più indolore delle vecchie armi da taglio. Nulla impressiona tanto gli animi gentili quanto lo spettacolo truce e sanguinoso delle lame che penetrano nelle viscere, nel costato e che squarciano, dilaniano e fanno sgorgare torrenti di sangue. E la nostra società moderna che tanto si preoccupa delle forme esteriori, è soddisfatta di questo allontanamento dal passato, dalla tattica che aveva per base la lotta corpo a corpo all’arma bianca. Perché si ha un bel dire, le palle si sentono soltanto fischiare; nessun occhio si cura di seguirne la traiettoria, e quando colpiscono, si addentrano nelle carni e nelle cavità senza rumori, senza grande spargimento di sangue; saranno là mille volte più micidiali; il loro effetto mortale è rapido, istantaneo, non è lo strazio sanguinolente
di chi si sente recidere i nervi o la carotide, o cavar fuori le budella; ma il
lamento fioco di chi cade esanime senza fracasso e con la morte composta ed in sé stesso racchiusa. [in passato] la soddisfazione era maggiore, ci si guardava in viso, ci si misurava col campione
più degno, e quando si
colpiva in pieno petto, si sapeva con chi si era avuto a che fare, come si sapeva chi fosse il feritore, quando si soccombeva 151 Vecchio e nuovo, tradizione e invenzione, antichi e rinnovati eroi-
smi: le suggestioni del passato rapidamente si sommarono prodotte da nuovi e più moderni tipi di morte in battaglia.
a quelle
4. Magistra vitae Ad imprese coloniali aperte la questione della guerra trovò spazio nelle riflessioni dei primi scienziati sociali. Nel 1898 «d'Illustrazione Italiana segnalò infatti l'uscita di un libro, di evidente ispirazione lombrosiana, sulla vita militare in guerra. Si trattava di un saggio scrit-
to da Guglielmo Ferrero, antropologo criminale amico di Scipio Si-
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ghele e allievo del Lombroso; il titolo dell’opera era esplicito! Ma già qualche tempo prima - nell’anno di Adua — lo stesso Ferrero si era interessato al tema della guerra intervenendo, sempre su quel giornale, con un lungo articolo sulle Sensazioni di guerra!. Secondo Ferrero la guerra era una esperienza che modificava nel profondo le menti dei soldati, era un evento che, una volta realizzatosi, diventava dominante e incancellabile nella vita degli individui. Ben prima degli studi sui traumi di guerra compiuti dai medici militari durante e dopo la Grande guerra, già allora ci si cominciò ad interrogare sugli effetti psicologici e psichiatrici del combattimento
sui soldati. Un tema sul quale diverrà poi dominante l'approccio di padre Agostino Gemelli. Ma quello che pare interessante in questi primi tentativi di studiare la ‘fisiologia psichica’ della guerra è che si pose attenzione al soldato che raccontava e scriveva di sé, al guerriero che narrava il suo coinvolgimento. In questo Ferrero fu preveggente, intuì gli sviluppi futuri di quella che era allora una-nuova, nascente forma di letteratura testimoniale. È possibile — scrive il Ferrero — rappresentarci bene le impressioni, i sentimenti dell'uomo moderno in guerra, senza aver giuocata almeno una partita di questo terribile giuoco d'azzardo? Pare di no; perché nulla mi ha mai sorpreso tanto come la moltitudine di cose inaspettate che vien fatto di apprendere quando si parla con uomini di guerra o che hanno vista la guerra!.
Vedere la guerra, valutare l'impronta che lasciava, riflettere sulla esperienza estrema dell'uccisione e della morte di massa, dei cadaveri, dei patimenti; per la società tutto questo era, secondo Ferrero, una straordinaria scoperta — sovente rimossa — legata proprio al tempo di
guerra. Un tempo nel quale gli uomini si trasformano!. Come
aveva
scritto Edmondo
De Amicis, «n guerra
uno
non
è
più lo stesso uomo che in pac®, e questo perché «il sentimento del proprio pericolo è così intenso che ogni simpatia o compassione per i pericoli o i dolori scompare»!?7. L'uomo che va in battaglia subisce automaticamente una metamorfosi, tutti quelli che combattono si sottopongono ad un esercizio che trasforma inesorabilmente i corpi e le anime. «Non c’è bisogno, per essere un uomo di guerra, di avere la dura anima di una tigre né il cuore di metallo; anche con un cuore formato di muscoli teneri, si può essere un intrepido soldato, perché
le fibre si metallizzano rapidamente sotto le prime atroci impressioni
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Il martire necessario
della strage e del sangue». Dopo aver sperimentato il «soldato che ha resistito ai disagi della guerra», non sarà più l’uomo che era in precedenza!. Ci sono personaggi eroici, ricorda Ferrero, che corrono da un’avventura ad un’altra come presi da una grande smania di dissipazione di sé, come se nessuna esperienza esistenziale avesse valore, se priva-
ta dell’elemento di sfida alla vita stessa; c'è infatti chi passa di guerra in guerra, di battaglia in battaglia senza volersi fermare mai in questa corsa volontaria verso il nulla. Perché in ciò egli prova «piacere», è pervaso da «qualche cosa di inebriante e di voluttuoso che ingrandisce la personalità ai propri occhi e a quella degli altri». E tutto ciò «può esser così dolce per certi esseri, da attirarli verso la morte con una certa spensierata allegria»!”. Le parole di Ferrero non gemmavano dal nulla, in Italia erano infatti quelli gli anni in cui la diffusione delle dottrine social-darwiniste!® si era fatta più massiccia, con tutto quanto
ciò comportava
in termini di predilezione degli argomenti di studio e di dibattito sui temi della superiorità sociale, la conquista, il declino, l’aggressività!%. Una politica poco incline alla guerra sembrava allora a molti un controsenso, una miseria, forse perfino un polveroso ed elitario affaire per vecchi addetti alle scartoffie ministeriali. Non a caso con una lettera «sulla guerra» un giovane deputato — così si definiva — rivendicò dalle colonne dell'«Illustrazione Italiana proprio la legittimità di sperimentare questa dimensione della vita politica proiettata all’azione. E già si sentono vibrare nelle sue parole — e siamo appena al 1897 — certe corde sulla fiacchezza della politica di palazzo messa a confronto con le eroiche peripezie del combattimento. «Un veterano delle nostre guerre nazionali — si legge in quell'articolo — mi narrò, un giorno, quello che aveva provato nel momento in cui aveva impugnato per la prima volta il fucile; era partito fremente e delirante d’entusiasmo, sognando i grandi sogni di lotta e della vittoria, l’ebbrezza dei pericoli, i clamori della battaglia, le musiche, le fanfare, le bandiere, le ore sublimi di disperazione e di gioia, trascorse vertiginosamente sul campo in faccia al nemico ostinato, forte, feroce. Al posto di tutte queste grandi imprese egli aveva invece trovato la miseria della politica militare: da prosa della disciplina, il peso tormentoso del comando, le cure minute ed abbiette della caserma prima, dell’accantonamento e del campo poi; le lunghe giornate passate nell’inazione e nell’ozio; indi marcia su marcia, nella polvere, nel fango: un andare avanti, un
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ritrarsi che pareva senza scopo per paesi o sconosciuti o che non si conoscevano più: nessuna notizia, stanchezza profonda. Alla guerra degli ideali si era sostituita ora una guerra grigia, combattuta sì coral-
mente, ma senza fantasia, senza il guizzo dell'impresa memorabile. Quella del presente era una guerra «dei contadini» che non sapevano nulla «di patria, d'indipendenza, di libertà» che perciò produceva una «noia sconfinata». Era una guerra dove il cannone tuonava sì, ma «da lontano», mentre in primo piano salivano sempre le «volgari necessità
della vita»!9, Anche questo giovane, come il Ferrero, non parlava nel vuoto: nella società italiana l’idea di ‘nazione forte’ cominciava ad essere assai diffusa: gli stessi romanzi di Emilio Salgari erano in certo senso la testimonianza dell’esistenza di una aggressività nuova. In moltissimi libri per ragazzi si parlava sempre più spesso, e in modo aperto, dell’Italia come potenza, e già negli anni di scuola gli scolari imparavano dai libri di lettura gli ideali dell’ardimento. Noi della scuola
Siam la falange, Siam la coorte che si fa forte Su, fanciullini,
Come gli alpini! Su, alziamo il tacco,
Montiam leggeri: Bello è il bivacco
Dei bersaglieri Ed è stupenda La lor merenda!!
Sul tema edificante del sacrificio e della guerra furono compilate svariate antologie scolastiche: nelle pagine introduttive di quella intitolata Esempi storici di virtù morali e civili proposte alla gioventù italiana l’autore, Giancarlo De Simoni, un insegnante genovese, indicava alle famiglie come instradare i figli verso la vita militare, come farne dei novelli «spartani» che consacravano alla patria «da possa del braccio» e persino la vita. E che sapevano celebrare quel dolore benefico che accompagnava ogni sacrificio e che serviva a redimere e
a plasmare! Il dolore, non sottaciuto emblema della virilità nonché elemento indispensabile in grado di accrescere la forza complessiva di ogni compagine statale'. Non a caso un libro all’epoca molto
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diffuso come Cuoricini d’oro esortava i fanciulli
Il martire necessario
a non lamentarsi e
a resistere ai mali. Il «dolore dei denti è acuto e terribile — vi si legge - ma bisogna imparare a sopportare quello», così come «tutti gli altri», trasparente allusione agli scenari di battaglie, dove l’uomo vero, cioè il soldato, avrebbe dovuto «serbarsi imperterrito e sereno»!°, Un ruolo non marginale nella esaltazione della guerra ebbe anche la diffusione della pittura di genere ‘africanista’ che altro non fu che una continuazione di certa pittura risorgimentale adattata a scenari esotici. Nell’ambito di questa corrente, un ruolo fondante e quasi archetipico ebbe la rappresentazione della battaglia di Dogali (1887). Grazie a Michele Cammarano che ricevette l’incarico dal governo italiano di raffigurare le imprese africane dell’esercito, la guerra coloniale trovò allora — siamo sul finire degli anni Ottanta — anche una sua linea iconologica in continuità anche formale con tutte le epopee prodotte dalla pittura storica dell’Ottocento!. Il Cammarano, già autore della Carica dei bersaglieri alle mura di Roma (Napoli, Pinacoteca di Capodimonte), de // 24 giugno a San Martino (Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna), si recò infatti in Eritrea, a Massaua, rimanendovi dieci anni. Il compito ricevuto dal ministro dell'Istruzione Paolo Boselli — lo stesso committente a cui si deve la grande raccolta di pitture sulla prima guerra mondiale del museo del Risorgimento di Roma — era quello di portare a termine un quadro di grandi dimensioni che raffigurasse «il glorioso fatto di Dogali» per la Galleria d’Arte Moderna. Nella richiesta del ministro era evidente l’intenzione di incaricare un pittore che mettesse in continuità le imprese risorgimentali e queste delle colonie; aveva infatti scritto il Boselli: «sono persuaso che la sua ispirazione patriottica unita al valore del suo pennello, faranno sì che la tela parli al cuore della nostra gioventù»!98, E una volta ultimato, il Dogali del Cammarano parlò al cuore degli italiani scandendo quella differenza tra l'Africa e l'Europa, tra eritrei e italiani, che si caratterizzava per essere una differenza culturale esplicitata soprattutto nel modo di combattere. Un modo caotico e primitivo quello dei negri colti nella brutalità delle loro smorfie, un modo ordinato e moderno quello del battaglione italiano guidato dal comandante De Cristoforis, un attimo prima che i cinquecento italiani venissero «schiacciati» dall’«onda di Abissini»!®, Sul finire dell'Ottocento circolarono in Italia anche diverse altre opere su Dogali di pittori che non avevano mai visitato direttamente lo scenario africano della battaglia, come, per esempio, Augusto
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Valli (l’opera è nota solo grazie a riproduzioni a stampa) o Cesare Biseo (Palermo, Galleria di Arte Moderna). Anche lo scultore Ettore
Ximenes, che aveva riportato dall'Africa — dove si era recato nel 1896 — una serie di disegni di guerra, rappresentò l’episodio per conto dell«Illustrazione Italiana». Congiuntamente cominciarono a circolare anche alcune immagini fotografiche. Si trattava di immagini ‘da souvenir che non si riferivano quasi mai ad episodi bellici — se si eccettuano quelle di Luigi Naretti presente a Massaua e ad Asmara, dal 1895 -!70, ma che fissavano scene di vita dei militari!”, fornendo quadretti quieti di militari attorniati, in buon ordine gerarchico, dai loro attendenti.
5. Il giubilo, il lutto e i linguaggi di guerra I soldati che erano partiti tra le acclamazioni ritornarono accolti da trionfi e da manifestazioni di gioia. Ecco che balzarono in primo piano le ventimila persone che accolsero gli alpini a Verona; ed ecco la grande folla di Milano che attese i soldati alla stazione «malgrado il tempo cattivo»!7?. Ma fu però soprattutto a Napoli che le liturgie del rientro assunsero un’alta valenza simbolica. Nel porto della città le navi con i feriti e i moribondi attraccarono in un clima di forte partecipazione popolare specialmente dal momento in cui cominciarono a passare, in lunga processione, i carri che trasportavano i soldati verso
gli ospedali. Il selciato delle strade fu cosparso di foglie odorose, le bandiere sventolarono a centinaia, mentre il popolo guardava commosso e silenzioso chi aveva compiuto, in nome della comunità, il grande sacrificio. L'epilogo della guerra era stato — e molti l'avevano previsto — un mezzo disastro politico ed umano, ma i giovani guerrieri erano tornati sanguinanti e menomati e la nazione aveva ricevuto da essi una scos-
sa positiva. Gli italiani che lessero le cronache di questi non poterono non percepire l’aura di sacralità che circondava quegli uomini. Da ogni strada si rovescia nella piazza una folla immane febbrilmente agitata. Nessuno ride, nessuno parla. [...] Una gran pompa gloriosa di colori smaglianti che continua non interrotta nelle due ali di folla [...] lo stradone immenso è tutto sparso di foglie di quercia e di lauro dalle quali emana un odore acuto inebriante [...] Moltissima gente piange |...] Dieci furgoni sfilano uno dietro l’altro con le tendine rialzate circondati da piccoli drappelli di soldati infermieri. Tutti si scoprono il capo, altri mandano baci [...] In via Toledo par di vedere uno spettacolo addirittura fantastico!”
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Fig. 10 Un seppellimento al cimitero di Asmara, da «L'Illustrazione Italiana», n. 20 (a. XXI,
17 maggio 1896.
Le discussioni e le divisioni sorte in seno alla classe politica italiana, soprattutto a seguito della disfatta di Adua (1896), finirono per radicalizzare le posizioni, ma instillarono in buona parte dei ceti borghesi l’idea che i soldati al fronte, anche nei momenti delle «difese disperate e orrende, non avrebbero dovuto essere lasciati senza un fotte e convinto sostegno morale!”. E se i politici erano divisi e incerti, non vi furono tentennamenti nei religiosi che, chiamati a celebrare esequie e commemorazioni dei caduti, senza mezzi termini riconobbero gli alti meriti dei soldati che avevano combattuto «colla fede in Dio e col nome d’Italia sulle labbra»!?. In questo quadro aveva fatto notizia la cerimonia religiosa seguita alla sconfitta di Amba Alagi che si era tenuta a Roma nella chiesa dei Santi Apostoli. Lì, al centro della chiesa «s'ergeva un maestoso tumulo a tre ordini, coperto da una coltre funebre e attorniato da moltissimi ceri ardenti. Immensa folla. Sacerdoti, ufficiali e soldati, deputati e senatori, consiglieri comunali, signore, signorine, operai
[...] tutti erano uniti in uno stesso sentimento: rendere un tributo di venerazione ai prodi caduti»!”°. Negli anni seguenti la memo-
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Fig. 11 Funerali per i caduti di Amba Alagi nella chiesa dei Santi Apostoli in Roma, da L'Illustrazione Italiana», n. 52 (a. XXII), 29 dicembre
1895.
ria di quel conflitto si stemperò però rapidamente e rimase viva quasi soltanto tra i militari, nelle caserme e nelle pubblicazioni ‘di settore’. Ma già verso il primo quinquennio del nuovo secolo il tema africano tornò in auge nel dibattito politico. Erano quelli gli anni in cui si verificò una crescita delle tendenze nazionalistiche nonché della penetrazione economica del Banco di Roma in Libia e in Egitto, e anche gli anni in cui i militari potevano ormai guar-
dare avanti senza più il fardello delle memorie nefaste di Adua e delle colpevoli scelte strategiche nella conduzione della guerra
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passata!”. Per questo l’approdo verso il convinto sbocco colonialbellicista del 1911 si consumò come un evento se non proprio annunciato, certo vagheggiato da tempo!?. Al ritorno dall'Africa Edoardo Ximenes aveva scritto e illustrato un libro dal titolo Su/ campo di Adua. Si trattava di un diario complesso e dettagliato dal quale filtrava la giustificazione ideologica della presa di possesso di un territorio grazie al sangue versato. L’Africa dello Ximenes era un paese esotico e tragico, con i suoi eroi e i
suoi cimiteri, un luogo — scrisse — «di contrasti stranissimi, di gaiezze e di malinconie, nel quale «il nostro sangue [...] abbevera tutte queste zolle selvagge»; e dove, sui campi di battaglia lo Ximenes trova «scheletri», e «bianche membra
sparse, e «teschi dalle occhiaie sca-
vate e dai capelli biondi, che conserveranno fino al dissolvimento l’espressione dell’estremo strazio»!??. Tra coloro i quali l'Africa costituiva motivo di accesa ispirazione letteraria
e motivo per tornare a
celebrare la guerra di conquista ci fu Alfredo Oriani. «Nella vita, alla quale tutti parteciperanno, il calore fonderà gli egoismi più duri», scrisse Oriani: «accendete dunque tutte le fiaccole, perché la marcia è già cominciata nella notte, e non temete del fumo: l’alba è vicina. Il suo rossore somiglierà forse a quello del sangue, ma è sorriso di porpora che balena dal manto del sole»!5. Le prove guerresche non sarebbero arrivate subito, ma Oriani anticipò tutti gli scrittori di guerra con la sua sublimazione estetica delle morti di Dogali, con la sua celebrazione del sangue versato e dell’azione bellica come azione spiritualmente redentrice. In netto anticipo con i tempi + scrisse infatti queste pagine nel 1906 e le pubblicò due anni dopo - elaborò una mistica della guerra che vibrava di abili risonanze religiose; il guerriero di Oriani avverte «in se stesso qualche cosa che non è della sua vita quotidiana, e nell’atto di donare la sua vita sperimenta una sorta di «rivelazione». Egli è una specie di giustiziere, un prescelto, quasi un Cristo che sta per andare davanti al sinedrio
nella consapevolezza che solo i deboli, pur non comprendendolo a fondo, possono amarlo pienamente!8. Dunque possiamo ben considerare che alla fine della prima campagna africana fossero già delineate tutte le espressioni necessarie per descrivere le evenienze del quadro bellico: l’entusiasmo, la gloria, il sangue, il sacrificio, il dovere, la morte, il nemico ed il patimento.
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6. Tutto il gran tempo che verrà Il primo decennio del Novecento fu un periodo cruciale per l’'Italia, le sue classi dirigenti, le principali forze economico-finanziarie, nonché consistenti porzioni dell’establispbment militare: tanti erano
convinti che fosse giunto il tempo che la nazione giocasse un nuovo e più grande ruolo strategico soprattutto nel Mediterraneo orientale!*?, Il tema della guerra affiorava continuamente nei dibattiti politici e, anche se era un dibattito a tratti assai confuso, ancora immancabilmente si tornava continuamente ad evocare il passato risorgimentale e certe
pagine mazziniane sulla emancipazione delle masse nazionali e il «culto della nazione»!5. Nel movimento che si riconobbe attorno alla «Voce fondata dal Prezzolini, per esempio, tali questioni furono continuamente tenute in primo piano: rinnovamento interno, educazione civile degli italiani, riscatto delle plebi meridionali, moralizzazione
della vita pubblica, modernizzazione dello Stato e della società sul modello delle democrazie europee. Per raggiungere tali obiettivi in molti ormai erano convinti che l’Italia dovesse fare quello che facevano le grandi potenze, e cioè «lanciarsi subito alla conquista di territori e di mercati», ciò avrebbe consentito che anche dal punto di vista della politica interna si desse corso ad una più vigorosa «disciplina sociale mediante la riscossa della borghesia produttiva contro il socialismo e la democrazia»!8. Cioè una politica che mettesse in mora quelle masse il cui protagonismo aveva alterato il quadro sociale tradizionale e indotto dinamiche nuove e pericolose nella società!*. Queste aspettative andarono in un certo senso deluse perché quell’Italia che guardava lontano alle terre di conquista e che mirava a portare sempre più in alto l'orgoglio nazionale, non esorcizzò affatto le ‘masse’. Al contrario i lampi di guerra ravvivarono un certo patriottismo populista e misticheggiante del quale furono interpreti — ciascuno a suo modo — molti intellettuali, primi tra tutti Gabriele D'Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti con le loro coorti di sodali interventisti, futuristi e nazionalisti il cui richiamo alle folle fu costante. Essi infatti intuirono che «da politica di massa poteva essere una dimensione nuova per l’azione dell’artista nella società», e che era indispensabile inventare una muova tecnica politica» che si ispirassse «ad una particolare intuizione della natura umana e ad una realistica valutazione dell'importanza del sentimento e del mito nella politica di massa». Sentimenti e miti che per D'Annunzio ruotarono - come è noto — sulle suggestioni belliche
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e sulla religione della patria, della quale si fece interprete inimitabile. La parola di Farsaglia (1895), Le vergini delle rocce (1896) avevano già messo in versi emozioni e passioni che, a ben vedere, erano peral-
tro già largamente emerse nella memorialistica militare, nei resoconti giornalistici, nelle storie di soldati e di imprese narrate agli scolari!”. Il primo marzo 1911, giorno dell’anniversario di Adua, cominciò le sue pubblicazioni, e la sua campagna a favore della guerra, «L’Idea Nazionale, il foglio più rappresentativo del nuovo movimento nazionalista, con collaboratori di pregio quali Maraviglia, Federzoni, Coppola, Forges Davanzati: la sua linea editoriale fin dall’inizio collimò con quella portata avanti dalla «Stampa», dal «Giornale d’Italia» — nella cui redazione lavorava Luigi Federzoni — oltre che dalla «Tribuna», dal «Corriere d’Italia». Enrico Corradini, alla testa del movimento nei primi mesi del 1911 si dette a girare per l’Italia, da Milano a Firenze, da Genova a Bologna a Roma, tenendo conferenze sui temi del proletariato, dell'emigrazione, della Tripolitania; e nel mese di luglio partì lui stesso per la Libia!*, Dal canto loro anche i socialisti avevano faticosamente cercato, pur senza cadere nella celebrazione della guerra, di farsi portatori di un loro ‘sentimento’ di patria. Avevano provato infatti di sostituire il sentimento di patria al nazionalismo, recuperando così per questa via anche quel patriottismo umanitario che era stato una invenzione del Mazzini. Quella dei socialisti fu però una operazione che non riscosse molto successo: la posizione massimalista allora dominante nel partito, anche a causa della /eadersbib di Mussolini, derideva l’idea di patria, da lui definita un'idea borghese» e un «feticcio». In caso di guerra nessun elogio era dovuto all’esercito, nessun appoggio alla nazione: i socialisti dovevano puntare infatti alla insurrezione popolare!”. Un deciso impulso al dibattito giunse in Italia con le Réflexions sur la violence di George Sorel, tradotto e pubblicato nel 1909 da Laterza con una introduzione di Benedetto Croce!” Personaggio molto noto in Italia, il Sorel, in un intervento sul «Matin» del maggio del 1908 si era dimostrato abile prosatore della guerra!" La guerra fucina di idee e motore della civiltà, la violenza necessaria e inevitabile, l’esercito come alto strumento di moralizzazione trovano nel pensiero sorelia-
no una sistemazione che fu considerata da molti istruttiva ed apprezzabile. Al punto che quel sindacalismo rivoluzionario soreliano fu preso sotto la protezione del movimento vociano del Prezzolini, così come costitui una potente suggestione per Corradini e Marinetti i qua-
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li non fecero mai mistero di voler gettare un ponte tra il sovversivismo del pensiero, che avrebbe dovuto essere la bandiera innalzata dagli intellettuali, e il sovversivismo delle braccia tipico del sindacalismo rivoluzionario!?. Era stato Marinetti, che era un frequentatore delle assemblee socialiste e dell’Università Popolare di Milano, a invitare Sorel a tenere una conferenza nel gennaio del 1907 che ebbe un titolo inequivocabile: La necessità e la bellezza della violenza, cui seguirono molte altre pubbliche prolusioni sullo stesso tema di fronte ad un pubblico costituito perlopiù da operai!?. Non è tuttavia del tutto corretto insistere solo su quanti si riconobbero nel pensiero soreliano, perché i veri strumenti che diffusero l’idea della guerra — prima possibile, poi vicina, quindi inevitabile — furono altri, quelli delle produzioni editoriali minori, degli articoli di giornali, delle immagini nelle riviste; si pensi, per esempio, a quanto scriveva Mario Morasso, eclettico intellettuale sensibile ai temi della sociologia criminale e soprattutto alle suggestioni stirneriane!”. Per Morasso la conquista coloniale rappresentava una delle migliori manifestazioni collettive dei popoli!”, e l'ideale coloniale era diventato ormai «d’ideale politico delle grandi civiltà dominanti e, per l’Italia, occasione irripetibile per celebrare il «genio» nazionale!®, Un genio che si esprimeva anche sul piano letterario. Così quando i primi contingenti di soldati si imbarcarono alla volta della Libia, come era ben prevedibile, per tutti i retori del sangue giunse l’ora di dedicarsi alla scrittura!”. All’inizio del 1910 Marinetti dette alle stampe il più visionario romanzo di quegli anni: Mafarka ilfuturista, opera dagli echi omerici ma dagli intenti scopertamente e provocatoriamente razzisti e fallocentrici. Con questo roman africain — come recita il titolo completo — il superomismo nicciano!* trovò stabile ospitalità presso il pubblico che si abbeverava alle fonti futuriste; ma si trattò in larga misura di un superomismo semplificato e di maniera (si pensi alla disinvolta traduzione, peraltro invalsa in Italia di ‘Ubermensch’ come ‘superuomo’), il riverbero ‘letterario’ di una filosofia che, nei suoi tratti profondi, restò del tutto estranea agli intellettuali italiani!”. Nel complesso i futuristi rimasero sempre e solo degli intellettuali engagé e, per quanto latori di entusiastici messaggi inneggianti alla guerra, non ebbero la possibilità di confrontarsi davvero con la realtà bellica — l’Africa rimase per loro una terra lontana — se non con il sopraggiungere del primo conflitto mondiale. Perfino per le autorità di polizia essi non furono nient'altro che degli «esaltati» politicamente
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innocui, «né rivoluzionari, né repubblicani, ma solo amanti «del ru-
more e del disordine, degli esuberanti che avevano in odio la tranquillità borghese e invocavano la guerra?”. L'invocazione della forza non era d’altra parte una novità, così come non lo era l’invocazione della guerra, e i loro manifesti apparivano perlopiù come i proclami di una élite sparuta e un po’ visionaria. Le riviste d’avanguardia che costituirono il cuore del movimento (in vario modo: «Leonardo», «La
Voce, «Lacerba», «Il Regno») ebbero certo un loro pubblico affezionato, ma niente a paragone con quanto si andava in quegli stessi anni
scrivendo sui giornali dell’esercito, con quanto appariva sulle pagine di ‘letteratura militare’, o sulle corrispondenze giornalistiche che giungevano dalle zone di guerra nelle colonie. Di sicuro lo sforzo di divulgazione da parte degli esponenti del movimento futurista fu intenso ed ebbe aspetti di geniale inventività, ma rimase al fondo legato agli ambiti dei circoli colti delle più grandi città: molti dei libri futuristi erano recapitati
a mano e avevano come
lettori un esiguo circolo di intellettuali che furono i primi e gli esclusivi interlocutori del movimento?°. Le posizioni di acerba» possono essere considerate affatto esemplari con le sue incitazioni alla creazione di una giovanile e fresca milizia impegnata sul fronte della distruzione e del rinnovamento culturale. Esse furono dichiaratamente volte a insinuare l’idea che lo scontro armato era il grande strumento della palingenesi sociale. Fu in quelle pagine che si celebrò la temerarietà, il furore distruttivo, la battaglia come gioco magnifico e come esercizio rivelatore di mondi e di dimensioni inusitate; è da ricordare che fu su quelle pagine che Papini fece stampare il suo sconcertante La vita non è sacra°°. Ma menti
non
solo «Lacerba:
violenti,
persino
quasi ovunque
la scoperta
si auspicavano
di sconosciute
energie
rinnovanaturali,
chimiche, fisiche, elettriche, faceva baluginare l’esistenza di potenze smisurate celate nella materia; convinzioni che svariati scrittori, al traino degli scienziati, rigurgitarono spesso con linguaggi neo-alchemici
fantasticando di nuove aristocrazie che sarebbero nate dal dominio di quelle nuove potenze naturali. Per una certa parte anche talune letture di Wilfredo Pareto poterono determinare spinte e atteggiamenti elitisti, antidemocratici e antisocialisti; ma più di Pareto il modello ispiratore ebbe carattere socialdarwiniano basato sulla lotta selettiva. «Noi dobbiamo combattere fra noi e contro gli altri — Scrisse Papini nel 1912 — se vogliamo che la
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civiltà vada innanzi [...] vittime, vittime e vittime. Vittime assolutamen-
te necessarie. Il sangue è il vino dei popoli forti; il sangue è l’olio di cui hanno bisogno le ruote di questa macchina che vola dal passato al futuro».?°* E Boccioni di rincalzo: «ci vuole del sangue, ci vogliono dei morti. Il Risorgimento italiano è stato fatto alla chetichella, da persone per bene, con troppo poco sangue». La forza vitale del guerriero, che tante volte era stata nominata in passato a proposito dell’eroe romantico, riaffiorava ora in modo prepotente come forza generatrice tout court, non come un elemento
raro ed eccezionale, ma come un onnipresente «sostrato naturale», un «principio sostanziale» del tutto condiviso e resistente a qualsiasi altra artificiale superfetazione?®. In questo quadro parlare di democrazia non aveva alcun senso, e parimenti parole quali dibertà» e «Italia» nel lessico futurista assunsero connotati guerreschi: così si poteva leggere che la parola libertà «aveva il suo valore assoluto di violenza e di rigenerazione, e che la parola Italia» assumeva «il suo massimo fulgore e il suo massimo valore dinamico e combattivo». Con la guerra la nazione otteneva «dagli dèi, con la prova della vittoria o della perdita, un verdetto con validità consacrata». Infatti il proposito originario dei futuristi era e restò sempre di stampo teurgico: non è forse vero
che essi facevano dipendere la loro ‘missione culturale’ da una «visione iniziale? Raccontavano infatti che era stato durante una numinosa notte di vigilia che avevano concepito il disegno che li avrebbe portati a costituirsi «come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito di stelle nemiche occhieggianti dai loro celesti accampamenti», e come cantori dell’«amor del pericolo». E se ancora le marcette e le fanfare avevano costituito la traccia sonora delle battaglie risorgimentali, da quel momento in avanti esse furono sostituite dal rumore. Le macchine sonore del Russolo (1913) pensate per riprodurre le vibrazioni di treni, delle auto, delle saracinesche, ben presto si ritrovarono a riprodurre i rumori della guerra: il sibilo delle pallottole, il mugghiare dei cannoni, gli scoppi delle granate e il secco martellio delle mitraglie. Ma a ben vedere queste ‘invenzioni’, così come la prosa arrogante dei nazionalisti e dei futuristi non furono che la roboante estensione dei racconti sulla guerra, delle testimonianze che i giornalisti da anni stavano facendo pervenire dal continente nero; in definitiva i contenuti di guerra erano già abbondantemente noti ad un vasto pubblico e il castello di immagini da incubo di matrice papiniana era fatto con materiali di riporto. No-
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nostante possa apparire paradossale, fu per questo che certi proclami un po’ altisonanti parvero descrizioni realistiche?!, e fu per questo che non poté essere avvertita la distanza tra realtà e superfetazione letteraria?!!. Certo emersero anche alcuni aspetti nuovi: all'idea ottocentesca della renovatio spirituale prodotta dalla guerra, si sommò allora l’idea che tale rinnovamento coinvolgesse il lato virile dei soldati. Gli individui che passavano attraverso l’esperienza del sangue e del combattimento diventavano latori di una virilità rinvigorita: solo i «gloriosi mutilati» erano capaci di dare dei «baci futuristi» e alle donne digli d’acciaio»?!?, «acerba lanciava dunque accesi proclami, ma restava lontana dalla lotta politica organizzata; anche perché le posizioni anti socialiste e anti clericali lasciavano ben pochi spazi di manovra nell'opinione pubblica, se non in quella fetta di popolazione che non era schierata né da una parte né dall’altra. Sicché Papini cercò riparo dalla obiezione di poca fattività in campo politico facendo pubblicare da acerba» nel 1913 un intervento intitolato Freghiamoci della politica: ma resta il fatto che, con i suoi toni vaneggianti, egli metteva nero su bianco il solito esercizio di stile, da letterato evanescente; egli parlava sì di sangue, armi e mortai, ma si capiva subito che il campo di battaglia che veniva evocato era una costruzione di maniera, una finzione, un luogo di commedia. Anche lo scritto Amiamo la guerra era una ri-
capitolazione sintetica di quasi tutto il ‘furioso’ dibattito letterario del quale egli era stato partecipe e niente più?!. La stessa polemica sull’immiserirsi degli ideali risorgimentali infervorò quasi soltanto le élite colte. La musealizzazione dei cimeli del Risorgimento, definiti cimiteri «di anticaglie»,?!* coinvolse i tutori ufficiali del passato risorgimentale raccolti attorno alla Società nazionale per la Storia del Risorgimento e al suo antiquato «Bollettino»?!. Certo quelle polemiche chiusero per sempre l’antica stagione romantica al posto della quale allora — bisogna darne atto — non restava che un noioso folklore «mummificato nelle croste dei musei e nei polverosi scartafacci delle biblioteche»?!°. In effetti a quel Risorgimento falsificato e conservatore — ‘liberale’ lo chiamavano in senso dispregiativo i nazionalisti - mancava la vita, ovvero l’assenza di propositi di formazione di una volontà guerresca?!. L'Italia infatti aveva ancora il nemico sul suo territorio e fu questo l'argomento comune — più dell’Africa —- che rese possibile l’incontro tra i patriottici, i nazionalisti e i futuristi; ciascuno di essi, pur con una
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sua peculiare declinazione tematica e flessioni di vario genere, finì per dare corpo ad una elaborata Roinè bellicista, che parlava continuamente
del nemico e dei modi per liberarsene, della guerra, della
grandezza — perduta o non raggiunta ancora — della nazione?!8, La guerra divenne dunque il soggetto in grado di motivare le azioni di tutti questi attori sulla scena.
7. Libia di sangue Il coinvolgimento dell'opinione pubblica non passò dalla porta troppo stretta dei letterati e degli artisti, ma da quella dell’informazione giornalistica, che a partire dalla guerra di Libia dominò incontrastata la scena politico-sociale italiana. Non a caso il sonniniano «Giornale d’Italia» insistette sulla necessità di preparare l'opinione pubblica in modo che non si opponesse ad una politica estera «energica e fattiva»; lo stesso fece «La Stampa con le ardenti note del suo inviato in loco?!. Dal canto suo «La Tribuna agitò lo spauracchio di un rapido avvicinamento del valì di Tripoli ai tedeschi a tutto discapito degli interessi italiani: secondo il giornale, alla ostilità verso i connazionali faceva da contrappeso «’amabilità squisita verso i tedeschi» del governo libico? Il giornale aveva cominciato a battere massicciamente la grancassa della guerra nel 1910 e, sotto la direzione del giolittiano Olindo Malagodi, fu il primo a mandare in Tripolitania un inviato speciale?. Ci furono poi i cattolici «Corriere d’Italia», il Momento» di Torino e l'«Avvenire d’Italia» di Bologna che compattamente si schierarono a favore della guerra e della conquista??. L'ultima testata ad unirsi al fronte interventista fu il «Corriere della Sera di Luigi Albertini che scese in campo nel settembre del 1911, anno in cui cominciò a pubblicare anche una serie di componimenti di D'Annunzio (pubbli cazione che proseguì fino al gennaio successivo), del tutto in tema col nuovo clima bellico, ovvero Ze Canzoni delle gesta d'oltremare (poi raccolte in Merope, la parte quarta delle Laudì). Seppure con sfumature e con interventi molto differenti nei toni e nei tempi, questi giornali furono in grado di raccogliere e moltiplicare il consenso penetrando a fondo in vasti settori della popolazione e creando un clima di adesione??, che si nutrì di anche della speranza di ottenere della buona terra da coltivare per i contadini meridionali? Scrisse un corrispondente: «coloro fra i nostri soldati che sono agricoltori, decantano la straordinaria feracità della terra: la prendono in mano, la pal-
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pano, la magnificano. Senza arature profonde, senza concimi chimici, su di un ettaro di terreno vive benissimo una numerosa famiglia». La conquista di Tripolitania e Cirenaica sarebbe stato il cruento, ma indispensabile rito di passaggio che avrebbe sancito l'ingresso della nazione nel gruppo delle «grandi potenze». Sarebbe stata, scandì la «Rivista coloniale», la nascita di «un’altra più grande Roma». Avrebbe dovuto essere il «risveglio italico», l'occasione per far riemergere tutte le «energie della stirpe» nazionale — così proclamava Scipio Sighele — con echi vistosi della tedesca ideologia VO/kRisch. Con la guerra l’esercito veniva riportato al centro della scena per udirne finalmente il canto e vederne l’«ardore, il «valore» e la «bellezza». La mobilitazione
nazionale richiesta da questa guerra assunse, agli occhi di molti articolisti, i tratti di uno scuotimento popolare completo e coinvolgente. Scrive in un editoriale «L’'Illustrazione Italiana: Mogali [1887] ci atterrì; Amba Alagi [1895] ci ha addolorati: ma la espressione del dolore è stata seria e virile. A centinaia s’inscrivono i volontari per andare in Africa; le nuove reclute accorrono con entusiasmo; e con entusiasmo il popolo assiste al loro imbarco»?8. Secondo Roberto Michels, all’epoca di fede socialista, con la guerra di Libia gli italiani furono gettati dalla stampa in uno «scompiglio», in una «sovreccitazione mentale», e da un generico patriottismo il pa-
ese scivolò, mese dopo mese, verso un nazional-imperialismo che prima non escluse la guerra, poi la incluse come possibilità, quindi ne ammise via via la ineluttabilità?. Qualcuno perfino si sorprese, 0 finse di sorprendersi, della partecipazione popolare alle vicende belliche; ma non vi è dubbio che nell’estate del 1911 l’Italia fu investita da
una ondata di nazionalismo guerrafondaio che contagiò, più o meno intensamente, quasi tutti gli ambienti politici e culturali del paese?, D'altro canto, quella guerra capitava proprio quando l’Italia celebrava il cinquantenario dell’unità. A Torino fu stampato il Catalogo completo dei documenti e dei cimeli della collezione del museo del Risorgimento che aveva sede nella Mole Antonelliana,?! a Roma si progettò uno stadio nazionale al Circo Massimo,
per «i solenni con-
vegni» della nuova gioventù italiana’, e ovunque in Italia ci furono scoprimenti di lapidi, di cenotafi e monumenti?, feste culminate con la solenne inaugurazione, il 4 giugno 1911, del monumento
a Vittorio
Emanuele II ai piedi del colle capitolino. Come ha osservato Gioacchino Volpe, «sarebbe disconoscere l’indole degli italiani dire che tanto susseguirsi di cerimonie e di discorsi
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li disponesse solo a religioso raccoglimento». Infatti voci impazienti ed eccitate di frange dell'opinione pubblica si unirono a quelle del nazionalismo nel reclamare una decisa azione governativa che concretasse il sogno di un'Italia non più negletta tra le potenze europee, ma padrona anch’essa di una colonia mediterranea. La celebrazione di Garibaldi in quanto eroe eponimo della nazione idealmente trovava compimento e si continuava nelle gesta italiane nell’oltremare: Con garibaldina impazienza, — con fermezza incrollabile — con gesti veramente italiani di eleganza e di giocondità, l’Italia prese Tripoli. La miracolosa avventura dei Mille si ripeteva nella storia, perché noi imparassimo che la nostra razza non muta per lo sparire di uomini e l’ingrigirsi dei tempi. Venti giorni più tardi dovevamo, anche, imparare che l’armata di terra nulla aveva da invidiare all’armata di mare, e che se Umberto Cagni richiamava il leone di Caprera, Gustavo Fara e Spinelli brandivano degnamente la spada di Tommaso di Genova e di Alfonso Lamarmora??.
Se con la ‘appropriazione’ romana di Garibaldi si completò un ciclo della iconografia risorgimentale, proprio in quegli anni i musei del Risorgimento accolsero nelle loro sale una nuova documentazione relativa alle recenti imprese belliche? I conservatori e gli storici di questi istituti agirono sotto l’impulso di una opinione ben diffusa relativa alla necessità di ‘continuare’ il Risorgimento, ospitando in bell’ordine reliquie garibaldine insieme ai nuovi cimeli eritrei e libici??”. Ci si è chiesti che ruolo abbia avuto Giolitti nel correre lungo questa
china:
secondo
Salvemini
(Come si è andati in Libia, 1911),
benché avesse deliberato in tal senso, è assai probabile che avesse assunto posizioni interventiste a causa delle pressioni del Banco di Roma con palesi interessi a Tripoli, e che nella svolta bellica vi fosse lo zampino fomentatore de «La Stampa e de «La Tribuna» che da tempo davano notizie, forse con esagerato rilievo, sulle frequenti frizioni diplomatiche con i Turchi in acque Adriatiche*#. Certamente un ruolo primario nell’indirizzare in un certo modo la politica estera italiana lo ebbero i socialisti, considerato che né quelli di sinistra di Turati, né quelli della corrente di Bissolati posero seriamente in discussione l'andamento della politica estera giolittiana. Le astensioni dal lavoro, che pur furono proclamate, non ebbero grande spazio sui giornali, anche se nelle regioni dell’Italia centrale e settentrionale si registrarono episodi di occupazione delle stazioni e dei binari ferroviari, invasi soprattutto dalle donne che cercavano di ostacolare la partenza
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dei richiamati. Al re che sul finire del settembre 1911 gli chiese con inquietudine a che cosa avrebbe portato la reazione dei socialisti, Giolitti rispose in modo tranquillizzante con un telegramma. «Bissolati che vidi oggi» scrisse il Primo ministro, «mon considera scioperi proclamati come seri». Ciononostante l’orientamento generale dell'opinione pubblica doveva essere tenuto in attenta considerazione, una generale disposizione a raccontare l'impresa secondo i cliché con i quali erano state già narrate le eroiche guerre degli italiani richiedeva che venissero controllate certe fonti di informazione e che su.di esse vigilassero le autorità militari. E infatti a Tripoli furono attivati vari filtri per il vaglio delle notizie che i cronisti, giunti al seguito delle truppe, mandavano in patria. Essi dovevano infatti sottoporre i loro dispacci ad una triplice revisione: la prima era effettuata direttamente negli uffici del Governatore, l'ammiraglio Borea Ricci, la seconda revisione avveniva presso il Centro Telegrafico Italiano di Tripoli e una ultima era di solito compiuta a Roma da un ufficio apposito che aveva preso a funzionare presso la sede del governo?’ Ma i giornalisti erano ben lungi da usare toni critici sulla conduzione del conflitto: anche dopo la sanguinosa débacle di Sciara Sciat del 23 ottobre 1911 con l’annientamento dell’11° bersaglieri, sbarcato a Tripoli poco più di dieci giorni prima, tutte le cronache batterono sul tasto dell’eroismo delle truppe. La censura colpì soltanto alcuni termini, come per esempio ‘sconfitta’, che fu parola mai usata. Anzi il caso di Sciara Sciat fu considerato come una ennesima dimostrazione del valore dei nostri soldati secondo i moduli delle narrazioni encomiastiche risorgimentali. Piuttosto che di censura è necessario porre attenzione alla creazio-
ne di un contesto di sensibilità e di linguaggio del quale fu certo protagonista l’editoria militare?*!. Un linguaggio che ben presto fece presa e si diffuse in seno a quelle frange di popolazione che erano abituate a leggere. Anche alcuni canali istituzionali dettero il loro contributo in tal senso e dagli sforzi, tutto sommato generici, nei quali si erano trovati impegnati fino a quel momento i cosiddetti giornali militari, si passò ad azioni più incisive, per esempio si cercò di dotare l’esercito di un «servizio di propaganda»?! per mantenere un adeguato clima di guerra. Le testimonianze epistolari dal fronte, per esempio, furono reputate molto utili a questo fine°'. Teorici come Nicola Marselli, Giulio Douhet e Agostino Ricci sottolinearono a più riprese il fatto che la vera forza dell'esercito era rappresentata dalle masse popolari, anche
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quelle non combattenti. Agostino Ricci insisté sull'importanza della mobilitazione nazionale nel sostegno dei soldati al fronte?, Alcune testate antimilitariste, come la socialista «La pace», stampata a Genova nel 1903, o l’anarchico «Rompete le file» del 1909 ebbero vita difficile. Ad esse furono contrapposti alcuni fogli di giornalismo militante come «Il Giornale del soldato» (1899-1940)? fondato e diretto dal capitano (poi generale) Giuseppe Lo Monaco Aprile. Il Lo Monaco, che si firmava come // capitano della 10°, adottò pienamente la regola base dell'editoria militare, concentrandosi nella produzione di mitologemi guerreschi per un pubblico di caserma. Si trattò di una operazione efficace che poté valersi di una abitudine alla lettura dei quadri dell'esercito che già poteva contare su una certa circolazione libraria nei circoli ufficiali, come si può ben vedere nel catalogo collettivo del 1911 dei libri dell'Istituto Nazionale per le biblioteche dei soldati: in uso presso tutti i dodici Corpi d’Armata e presso le più importanti Stazioni dei Carabinieri Reali, esso comprendeva circa 40.000 testi suddivisi in 750 piccole biblioteche. Nel complesso, per quanto si trattasse di una continuazione di un esperimento nato decenni prima, il linguaggio che nacque da questa nuova guerra fu meno gergale del consueto e meno deformato dalle rigidità formali e dai cliché della società militare entro cui aveva germogliato. Cosicché riuscì a trovare ampi spazi di apprezzamento anche al di fuori della ristretta cerchia militare, intercettando il gusto di quei lettori borghesi attratti dalle eccitanti storie di sangue, di morte e di fidanzate in attesa presso il focolare. Con perfino qualche tocco di ‘gotico’ sul ritorno dal mondo dei morti degli spettri dei caduti e vasti cenni alle devozioni — spesso superstiziose devozioni — dei soldati. Molti di loro, d’altra parte, erano partiti con in tasca dei santini di guerra e negli occhi le suggestive cerimonie della benedizione delle armi?‘ Fin dai primi mesi di guerra voci autorevoli, come quella di padre Giuseppe Balestreri, si erano levate a sostegno dei soldati con accenti infiammati: L’anima francescana freme di un palpito più vigoroso, oggi che la Grande Madre Latina rimanda in Africa le sue aquile conquistatrici per farvi aleggiare lo spirito della sua forza purificata dall’onda cristiana [...]. Prima di appartenere alla loro terra, alla loro famiglia, alla loro patria, questi prodi, caduti negli aspri combattimenti di Tripoli e di Cirene, appartengono a Dio
ed alla cristiana Religione. È Dio che ne creò l’anima ardente e generosa; è Dio che fece fluire nelle loro vene il latin sangue gentile; è Dio che per
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o
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primo fece sentire in fondo alla loro coscienza il sentimento del dovere; è Dio che per il Cristianesimo li rigenerò alla vita di grazia e col carattere del battesimo e della cresima li associò al regno ed alla milizia di Cristo prima che attivamente potessero far parte del regno o della milizia della nazione; è Dio ancora che infuse nel loro petto la forza di affrontare la morte posponendo gli anni più floridi della vita al sentimento dell’onore e del dovere; è Dio finalmente che nella violenza e atrocità dell’uccisione ne accolse l’anima ardimentosa purificata nel sangue [...] Oggi [...] il sacerdote di Dio, elevando il sacrificio del Nuovo Patto, ha nella medesima coppa dello stesso calice, come mescolato al purissimo sangue del Martire Divino il sangue dei
martiri della nazione e ne ha fatta un’unica offerta all’Eterno?!.
La guerra evidenziava lo sviluppo di una forte spiritualità tra i combattenti e la nascita di quel sentimento religioso che già in questi anni appare come un tratto saliente della mentalità dei soldati al fronte, con qualche tendenza a singolari sincretismi. Scrive infatti un soldato: «il Dio di Garibaldi e di Victor Hugo e di Mazzini è qui: e noi sentiamo la sua presenza ad ogni crocevia». Anche nelle pubbliche perorazioni si ritrovano gli stessi argomenti, così non stupisce che l’o-
ratore, di fronte al pubblico della Reale Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Reale di Napoli, proclamasse a gran voce che la guerra è «divina», colma di «segni arcani» nonché circonfusa di una «gloria misteriosa. E che gli eroi venivano «di rado colpiti nelle battaglie» e che se ciò talvolta era accaduto, era perché la loro missione poteva dirsi compiuta e «ormai niente avrebbe potuto più accrescere
la loro fama»?!. Ma più che tutto grande spazio sui giornali ebbero le cronache della mobilitazione e delle partenze dei soldati, nacque allora il fopos dell’entusiasmo che diventò poi la cifra di tutti gli 772cipit guerreschi. Si trattò di una scelta che giocò un ruolo importante in quanto definì una cornice di condivisione popolare della guerra. In una delle prime apparizioni di una rubrica denominata diario di guerra — che poi diventò rubrica fissa del «Giornale del soldato» — si dette ampio conto delle entusiastiche dimostrazioni a favore dell’esercito e della marina «per l’energico atteggiamento del governo». Un entusiasmo che, riportava con rilievo il giornale, si traduceva concretamente in una corsa all’arruolamento. Sottufficiali e truppa dei corpi destinati alla spedizione, mostrano il più vivo entusiasmo, l’ardente aspirazione di salpare al più presto alla conquista della nuova terra italiana. In molti reggimenti si sono verificate
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addirittura scene di commovente
esaltazione marziale. Dopo il sorteggio
si sono visti ufficiali e sottufficiali lacrimare perché non favoriti dalla sorte a far parte della spedizione?”.
Abbondarono le testimonianze di entusiasmi condivisi, delle popolazioni plaudenti, delle folle docilmente sottomesse al giogo dell’emozione
patriottica,
di chi si accalcava
per vedere
i partenti, per
ascoltare le fanfare, per ammirare i bersaglieri, come accadde, per esempio, in una fredda mattina del 2 dicembre del 1911 nelle strade attorno e poi dentro la stazione ferroviaria di Ancona. La fanfara in testa lanciava al vento le sue squillanti note. Dietro, aggruppati, scomposti dalla folla dei compagni, sollevati, sballottati dall’entusiasmo marciavano i parenti. [...] Le finestre, i balconi si gremivano di gente che gridava auguri di buona fortuna, di un felice e prossimo ritorno. A poco a poco, il passo della folla aveva preso la cadenza delle note della fanfara, e quando essa taceva si udiva il cadenzato avanzare, per le vie oscure, della folla nereggiante. Erano vecchi che ritrovavano l’antico vigore, che ricordavano il tempo nel quale essi pure erano stati soldati e che si sforzavano di rinfrancare il passo, sorridenti
e commossi,
e marciavano a
lato dei giovani. Erano ragazze che ridevano, motteggiavano, allungavano le gambe, nascondendo
le lacrime nel sorriso. Erano mamme
che, a testa
bassa, camminavano al fianco dei figli??.
Persino una voce aspramente critica verso queste avventure belliche africane come quella di Renato Serra non poté non registrare lo scuotimento del paese, e quel senso acuto, quasi fosse una premonizione collettiva, del sopraggiungere di tempi nuovi che colse gli italiani di fronte ai soldati che marciavano; schierati in ordine, verso
gli imbarchi per l’oltremare. Un fragore improvviso di musica e voci e grida e scalpiccio di folla ha oscurato la strada che dormiva nel sole, abbagliante e vuota. Si sente il lastricato vibrare sotto i passi che vanno
pesanti in cadenza.
E le porte
si aprono e le finestre si sbattono e la gente è assorbita dal risucchio del fiotto; anche noi usciamo e ce ne andiamo con gli altri, portati come
rot-
tami giù per la corrente. Andiamo lietamente nella pressura [...]. Ancora una colonna di soldati parte per la Libia [...]. Certo è un bello spettacolo. Dieci anni fa non si sarebbe sognato [...]. Il suono è falso. Ma la cosa, in qualche modo, non si può dir che non sia vera. C'è un cambiamento nell'aria. Mi sono profondamente
antipatici, ma hanno ragione, in parte, i
giovani monarchici, gli studenti nazionalisti, i soci dell’agraria che agitano in mezzo alla folla i loro visi soddisfatti e la loro arroganza faccendiera.
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Li guardo cacciarsi avanti, sbracciarsi, dimenarsi, cercando le posizioni più vistose con la vanità ingenua del trionfo; si ammiccano, si sorridono, danno il segno degli applausi, si credono in diritto e in dovere di dirigere, di dominare quella specie di entusiasmo caloroso e rumoroso che emana dalla moltitudine. [...] Tutte le folle si somigliano. Ma quella d’oggi non è quella d’ieri. Neanche nella materia, se guardate bene; che oggi è più ricca, più grossa, più confusa. Ritrovo insieme col pubblico di tutte le occasioni anche delle qualità più speciali, distinte; il pubblico dei teatri (un po’ più signorile, quieto, ordinato; signore, professionisti, gente che non si muove senza ragione) insieme col pubblico dei comizi, e con quello delle chiese; le squadre dei facchini in berretto, e gli operai, i muratori ingessati, i meccanici in blouse, facce dure, serie, avvezze a scendere in piazza quasi per dovere, con la gravità di un rito; e poi preti, e donnicciuole, e poveri vecchietti; insieme con le pettegole e con gli avari anche la buona gente, che non esce mai di casa, mamme e artigiani e borghesucci modesti, con visi scoloriti e meravigliati. E il mormorio di tutta questa gente ha una risonanza più profonda del solito. Sentono forse in confuso essersi mossi per una ragione più seria? [...] La partenza di questi settecento giovani, imbandierati e urlanti, che vanno a compiere un dovere, fra la fatica e il dolore, grava su migliaia di cuori [...]. E tutto quello che c’è da fare si farà;
e le grandi forze degli uomini, l'ira e il dolore e la morte arriveranno come un turbine non avvertito e se ne andranno senza esser conosciute. E così
sarà fatta la guerra. E la gloria. E la storia?”.
Quello dei soldati verso la Libia fu una partenza, un viaggio e un arrivo gioiosi, così almeno
l'alfa e l’omega be caratterizzate
raccontavano
dell'impresa, la partenza da uno
stesso
le cronache
dei giornali:
e l’arrivo erano
atteggiamento,
da un
entram-
rassicurante
plauso. «Appena le zattere hanno toccato terra — scrisse «l giornale del soldato» — tutti i nostri marinai presenti, tutti gli italiani rimasti a Tripoli e i giornalisti e perfino gli arabi si sono affollati intorno ai primi arrivati applaudendoli, abbracciandoli, gridando continuamente:
Viva l’esercito! L'accoglienza è stata frenetica, commovente,
indimenticabile. Tutti hanno invaso la banchina, gesticolando per la gioia come folli»??. Tra i testimoni dell'impresa c'erano anche nomi di spicco del giornalismo e della cultura, lo stesso Scipio Sighele era arrivato insieme ai soldati munito della sua Kodak per fotografarli in azione? e per darne poi testimonianza scritta, come poi puntualmente fece, sui suoi due volumi di Pagine nazionaliste, dove inneggiava alla festa bellica: «belli, fieri e allegri giovani che andavano alla guerra come a una festa perché intuivano che quella guerra era una festa della patria”,
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La letteratura di guerra era stata una
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invenzione
risorgimentale,
essa aveva mosso i suoi primi passi con il romanzo storico la cui forma archetipica fu, tra il 1825 e il 1848, l’Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta (1833) di Massimo Taparelli d’Azeglio. Aveva compiuto ulteriori passi con la memorialistica di guerra, grazie ad un anello di congiunzione rappresentato dalle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo (1858). Ma ora essa giungeva ad una svolta epocale. Una svolta che risiedeva, più che nei temi e nei moduli narrativi ancora del tutto tradizionali e basati sull’epica risorgimentale”, nella identità degli autori, nella loro provenienza sociale e nel fatto che la scrittura era per costoro uno sfogo necessario, un modo per restare uniti alla famiglia. Erano ora i soldati a scrivere dando forma a quel ‘racconto coloniale’ a carattere epistolare che tanta fortuna avrà negli anni a venire, un racconto che si costituì — al di là dei fopoî che lo infarcivano — come la vera testimonianza degli eventi, rispetto alle esagerazioni dei giornali e alla ‘loro’ guerra vissuta embedded, e non mancarono casi in cui fece la sua comparsa una narrazione dai toni intimi e qualche volta persino critici??7. Ciononostante anche gli inviati dei giornali si trovarono talvolta nella necessità di descrivere situazioni del tutto nuove: «ucilazioni di massa, rastrellamenti e perquisizioni a tappeto; e per quanto riguardava la situazione in patria, a dare conto dei lutti che si susseguivano e dei disagi della popolazione per lo stato di mobilitazione e per l'incremento delle spese militari. Cominciò talora a farsi strada anche la preoccupazione per l’assuefazione e per un calo di attenzione riservata ai soldati al fronte. I racconti pubblicati dal «Giornale del soldato», per esempio, tendevano in gran parte a rassicurare le truppe sul fatto che il servizio militare non avrebbe rotto il filo delle relazioni affettive con le famiglie e con gli amici. Molte di queste prove narrative — racconti della spada vengono così etichettati dal giornale —, stampate con una certa evidenza editoriale, insistevano proprio sui temi dell’attesa, e sulle donne (spose, madri, figlie) che restavano fedeli e fiduciose nel ritorno del guerriero. In questi racconti spesso le fanciulle e le madri piangevano sì, ma di un pianto sommesso; soffrivano e al tempo stesso non disperavano, sul modello religioso dello stabat mater. In questi racconti la tristezza e la pena erano mostrate con misura, con modestia, le donne venivano raffigurate mentre se ne stavano pensose nella solitudine delle loro camere fredde, còlte con la mente che vagava su visioni edulcorate della morte in guerra del loro congiunto: l’evento luttuoso era quasi
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Il martire necessario
sempre stemperato, assumeva i toni morbidi di un sospiroso abbandono. Sulle pagine scritte da Ettore Bastico compare una giovane fanciulla — Serenella — che ‘vede’ in sogno l'amato che muore. Nel silenzio riudiva le parole del morente, nell’ora del delirio: All’assalto! All’assalto! Alla trincera! Serenella dove sei?... Dammi la mano... Qui nel petto... L’arsura... Un colpo... L’ombra.... Serenella avvicinati... Oh mia buona!... Ti voglio bene... tanto bene... Avanti! Avanti per il Re... per la bandiera! ... Così nel vespro fioco, era spirato col sorriso sul labbro e
nello sguardo la radiosa visione degli eroi??.
Se ai congiunti dei caduti era chiesto un devoto trattenimento del dolore, ai soldati era invece soprattutto ricordata la benevolenza divina. Il sangue del soldato era celebrato come il sangue del Cristo, rigeneratore e salvifico. Così nelle omelie durante le messe al campo,
così sui risvolti dei santini che i soldati ricevevano in dono?°, Del tutto diversi erano i toni quando si doveva descrivere la morte del nemico: il soldato che uccide descrive l'evento con una sorta di gioconda levità. Con l’impersonalità di chi ha compiuto un atto in tutta fretta e con naturalezza: il nemico viene neutralizzato mediante la cancellazione quasi completa delle sue fattezze umane. È perlopiù un nemico senza sguardi, senza voce, senza pensiero, un essere regredito all’animalità dei suoni di una lingua incompresa, o muto manichino nell'atelier della guerra. Un soldato scrive ai genitori raccontando come ha ucciso i nemici. Io mi sono trovato solo e tutto ad un tratto accerchiato da tre soldati turchi colla baionetta in canna, che non avevano più munizioni. Io, invece, ne
avevo molte e ho cominciato il fuoco, ed infatti, dopo aver sparato quattro colpi, ne ho visto uno cadere in terra. Allora non ho capito più nulla: mi sono fatto sotto sempre sparando colpi, e ne è caduto un altro. Il terzo me lo sono trovato a pochi metri, e sono ricorso alla baionetta come lui. Dapprima, l’ho prese io; ma nulla di grave. Non mi sono perduto di coraggio e glie ne ho tirata una al petto tanto che è stramazzato?”.
Quasi dello stesso tenore il racconto del sergente allievo ufficiale Manfredo Nicelli del 68° Reggimento fanteria, di guarnigione a Milano, che scrive da Bengasi. Jeri finalmente avemmo il battesimo del fuoco. [...] Arrivati dopo l'assalto sull’altura dove erano appostati i nemici, la trovammo seminata di cavalli e
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cavalieri morti e feriti. Uno di questi tirò un colpo al nostro capitano ma, fortunatamente non lo colpì; un altro ad un caporale che gli sfiorò un orecchio. Dovemmo finirli, quei briganti! Mi impossessai di un fucile turco, che poi diedi al mio tenente. Terminato il fuoco ci guardammo in faccia: eravamo irriconoscibili, sporchi, laceri, molti avevano traforato il berretto, i pantaloni, le giubbe dalle palle; uno ebbe la baionetta asportata dal fucile. Avemmo parecchi morti e feriti, ma li vendicammo bene perché i beduini ebbero 80 morti e 300 feriti: la maggior parte la facemmo noi della 12° compagnia?
Le guerre d'Africa incubano tutte le immagini di raccapriccio di quelle che, dopo non molti anni, saranno combattute sul continente
europeo. L’ebbrezza della morte, lo scherno dei cadaveri, l’odio inesausto, la disinvoltura nella rendicontazione dei danni prodotti dalle armi suoi corpi feriti, trafitti in vari modi diabolici. Il giorno 24 mi trovavo ancora in trincea — scrive il caporale Luigi Abbona del 26° fanteria al fratello Giacinto, a proposito del combattimento del 17 gennaio a Derna — e, dopo aver passata tutta la notte di guardia, nella ridotta B verso il mattino suonò la sveglia a colpi di cannone [...]. Alle ore 10 sempre i cannoni tuonavano allegramente, con felicissimi risultati, e sulla nostra estrema sinistra [...] dopo qualche ora che avevano aperto il fuoco, divennero furiosi come belve, e non v'era più ufficiale che li
sapesse frenare: avanzarono così rapidamente fino a poche centinaia di metri da un forte dei turchi [...]. Durante questo scompiglio, un alpino dalle spalle quadre vede un beduino che, disperso, gli veniva incontro all'impazzata, ed appena questi gli fu a tiro, con uno sbalzo gli conficcò la baionetta nel petto, caricandoselo poi sulle spalle come un sacco; ed un altro alpino, scorgendo un beduino che fuggiva solo armato di pugnale, lo rincorse e, impugnato il fucile per la canna gli fece assaggiare il sapore del calcio, riducendogli la testa a brandelli. [...] Mi scordavo di dirti che, siccome a Derna gli arabi dicono che a fucilate non muoiono, ma che rinascono 7 volte, furono caricati 17 dei loro morti per traverso sui muli, e discesi dal monte, furono fatti passare nel centro di Derna: offrivano uno spettacolo raccapricciante; tutti ridotti in uno stato incredibile??.
Talvolta balza in primo piano la figura del conquistatore coloniale «che svergina» quelle lande desolate con la sua «Fiab, e lo fa con la foga di chi è in cerca di un risarcimento personale. Voglio parlarvi della mia gita di ieri nel deserto, che mi riempì di impressioni indimenticabili. La nostra gita, cioè il nostro ‘raid’ di ieri (16 dicembre) sarà, e lo dicono tutti, memorabile perché era la prima automobile (ed era proprio la mia ‘Fiat’) che sverginava codesti villaggi africani, codeste strade?2204
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Anche la cosiddetta letteratura per ragazzi ripropose, per anni, le stesse scene che avevano animato cronache e pagine di invenzione letteraria; così il quindicinale illustrato per ragazzi da piccola tribuna presentava ai suoi giovani lettori gli entusiasmi delle partenze e il dovere della mobilitazione?. Ma la paideia bellica, che era iniziata in grande stile con De Amicis, si arricchì di lati inediti. Le narrazioni si fecero
infatti più esplicite, e quella fiaba nostrana — qual era stata, in definitiva la narrativa per ragazzi di matrice risorgimentale — diventò sempre più avventura di soldati in una terra di nemici assetati di sangue. La guerra di Libia fece compiere un balzo nel linguaggio narrativo rivolto ai giovani; nelle descrizioni delle battaglie non si espungono particolari macabri e non si evitano dettagli su sadismi di varia specie°°. I ragazzi impararono così che l’Africa era al di là della linea di confine di ogni civiltà, un luogo abitato da genti primitive e feroci che lottavano senza nessuna regola. Anche per questo la guerra che si combatteva in Libia poteva pure consentire l’uso di ogni arma, e l’esercito poteva concedendosi ogni licenza. In quest'Africa che sembrava vivere in modo del tutto incosciente il suo presente meschino, i soldati italiani potevano ben catapultare tutta la loro violenza di maschi trionfatori, di uomini favoriti dal destino?7.
8. Armi e lettere Le voci di guerra si fissarono, maggiore frequenza sulle pagine giro di poco tempo richiamarono terario. Così si cominciò a parlare raria, dei soldati come scrittori sì creatori di una vera nuova
come abbiamo detto, con sempre dei principali giornali italiani e nel l’attenzione di qualche critico letdi capolavori, di «rivelazione» lette«inconsapevoli» e «improvvisati», ma
poesia «vissuta, ora per ora, tra suoni di
guerra, fra sacrifici duri e perigliosi»®8, Sono piccole povere pagine, talune stracciate a mezzo per dividere la carta con qualche compagno, son poche righe nervose e irregolari, dove a volte la sintassi procede sgangherata equilibrandosi sopra la grazia ingenua di errori adorabili, dove l'ortografia è alcune volte affidata alla sagacia del lettore. E sono capolavori. Sulle trincee, dietro ai congegni dei cannoni navali ancora odorosi dell’acre odore della polvere, i nostri soldati, i nostri marinai si sono affinati, hanno sentito sorgere dal loro intimo delle qualità di osservazione, di Sintesi, di poesia, che probabilmente non sospettavano. E tutti scrivono, Scagliati al limite del deserto, con l’occhio, con l'orecchio sempre pronti all'avviso di una insidia essi sentono il bisogno di ricordare e d’amare?”,
I. Linguaggi di guerra
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La pubblicazione delle lettere dei soldati, che era rimasta fino a questo momento semi-pubblica ed ancorata interamente al modesto ambito dell'editoria controllata dalle strutture militari, cominciò a trovare nuovi spazi e nuovi lettori. Queste lettere, scrisse un critico introducendo uno dei primi volumi in cui erano state raccolte molte missive dal fronte, «sono intuitivamente sincere. Non sono scritte per
la platea, non si rivolgono ad un pubblico imponente di lettori. Il soldato è libero di ogni preoccupazione: scrive così, come gli viene nell’ora incalzante». E ancora: «le lettere che i soldati italiani scrivono alle loro famiglie in questi giorni di guerra, dal campo e dalle navi, sono una meraviglia e una rivelazione». Questi soldati, scrisse un letterato, «sono la parte migliore del nostro paese, essi mostrano un «ardore,
un «entusiasmo»
che sembra
trasfondersi
direttamente,
genuinamente e senza filtri deformanti?”?. Il soldato italiano di cui si parlava era una figura ideale, il prodotto di una logica di potere che guardava solo verso l’alto. ‘Soldato’ era una definizione idealizzata che aveva le sue basi prototipiche nella altrettanto astratta definizione di ‘garibaldino’, o di ‘patriota’ o anche di ‘italiano’. La tendenza a trasformare le parole in categorie sociologiche non era certo un prodotto di quegli anni, ma proprio per questo i lettori — e in particolare quelli dei giornali e delle riviste — erano ben abituati alle elucubrazioni degli elzeviristi di professione. Così deve leggersi questa pagina su Za scoperta del soldato, al tempo stesso piena di affermazioni arbitrarie, ma anche evidentemente così evocativa
e veridica agli occhi dei lettori dell’epoca?”??. Le esperienze dei soldati al fronte apparivano come delle schegge minute di una guerra lontana e gloriosa, dei piccoli frammenti di una epopea nazionale che si rinnovava. La modesta pedagogia di guerra che aveva fino ad allora definito i margini ideologici della espressione consentita ai militari basata sulla sublimazione del sacrificio, della sofferenza,
dell’obbedienza e della morte, era ulteriormente riproposta in nuove forme editoriali con in più lo stigma della veridicità esperienziale. Il processo di oggettivazione sociale di queste pagine di letteratura dipendeva dal fatto che il prodotto agiva sul lettore, il quale riteneva che l’autore avesse registrato la realtà nella sua portata reale. Molti pensavano infatti che «quelle pagine vergate sui campi di battaglia» fossero «uno dei documenti più preziosi della nostra storia contemporanea»?*. La guerra diventò una sorta di luccicante motore della creazione artistica in linea con le ubbìe letterarie dei futuristi, e quasi l’invera-
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mento di quelle. L’evocazione di quadri esotici scaturiti da una certa perdurante moda orientalista — che certo da un punto di vista prettamente cronologico si presentava come affatto epigonale — contribuì a rinsaldare quel legame tra guerra e bellezza che altri avevano da tempo elaborato e contribuito a radicare nella cultura europea. Le notti sono lunghe ai confini dell’oasi, sotto il cielo africano. Nella chiarità lunare le mute figure insonni che scrutano le lontananze e sobbalzano in armi ad ogni rumore
ci appariscono
enormi.
Come
sono
cresciuti i
piccoli soldatini! Essi non sanno che cosa è la gloria. [...] Se essa passerà su di loro rombando, non illuminerà i loro visi, non griderà i loro nomi;
avvolgerà in un rapido bagliore la loro massa oscura e palpitante??.
Baccio Bacci, scrittore e pittore, nell’introdurre una raccolta epistolare in un volume nel 1912, li immagina felici, belli nelle divise impolverate, soddisfatti dei compiti portati a termine, sbalorditi, certo della morte eppure spensierati e intenti alla scrittura di coscienziose lettere alle famiglie. Essi combattevano
un nemico
selvaggio e morivano,
senza
rimpianto,
©
lasciavano brandelli di carne senza lamento. L’allegria e la spensieratezza latine, che ci fanno immaginare gli eroi sorridenti, li spronavano e li sorreggevano. Dopo la zuffa i superstiti tornavano alle tende, sporchi di polvere, di fango, di sangue, ma fieri della loro fatica eroica, celiando e cantando, pur sapendo di dovere più tardi, forse subito, affrontare nuovamente la fu-
ria, e il tradimento del nemico. Riuniti dalla stanchezza, agitati dall’eco della battaglia, sbalorditi dalla sparizione di tanti compagni, i nostri soldatini, © sotto la tenda, o appoggiati su di un sasso, o sdraiati su di un ciglio di un fosso, o rannicchiati nel fondo della trincea, scrivevano a casa”.
Nello specchio della letteratura il soldato è un poeta che ammanta di bellezza i suoi ideali di dominazione”; è un uomo cambiato, migliorato e purificato dalla guerra, persino affascinato dallo spettacolo cui sta partecipando”. «Per me — scrive un soldato di Carmignano in provincia di Firenze allo zio — la guerra è un cinematografo»??. Un altro usa lo stesso paragone, scrive: «dovete immaginare che noi viviamo tranquilli qui a Tripoli, restandoci molto simpatici i casi di guerra [...] Tutto ciò non rappresenta davanti alla nostra memoria che un divertimento cinematografico», Per alcuni la battaglia è una «sinfonia», un momento da vivere senza pensare ad alcunché?*, una parentesi di contentezza?*, «ina agitazione, una ubriacatura»?.
: I, Linguaggi di guerra
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Oppure un gioco: «mi pareva di essere alla fiera al tiro a segno. Si vedevano tre o quattro che si avanzavano e si faceva a chi riesciva a buttarli giù»?. Ci fu anche chi paragonò le battaglie ad appostamenti di caccia, similitudine che doveva giungere facile a molti giovani campagnoli: «noialtri stiamo sempre pronti, o famo come chi sta alla posta a un lepre»; e ancora: «qui ci pare di essere a caccia e non in guerra ed uccidendo un nemico ci pare di schiacciare una mosca»?7, Un soldato ai genitori: «speravo che fossero come uccelli già che voi mi sapete che io sono appassionato da piccola età con le armi, e poi gli arabi sono come gli animali, uccidevo uno di loro come se fosse una serpe, per cui mi veniva un coraggio terribile a vederli svenuti a terra. Un altro è ancor più esplicito: La caccia è aperta e siamo in un luogo di caccia grossa. Stando alle feritoie delle trincee col fucile pronto, mi sembra di essere al capanno. Oggi mi sono divertito un mondo. Stavo in trincea e da tempo si sentivano fischiare le pallottole che un nostro avversario sparava non troppo lontano da noi. Ma non lo potevamo vedere. Guarda che ti guarda, striscia a destra e sinistra, finalmente te lo scovo sopra un palmizio distante 300 metri da noi. Prendo una lunga mira e premo sul grilletto. Il colpo non fu giusto. Ne tiro un secondo e il bellimbusto cade dall’alto della palma facendo uno splendido capitombolo. Dopo un cinque minuti un altro arabo va per prendere, come al solito, il morto e per portarlo via. Ma un altro mio... saluto lo manda accanto al primo nel regno di Allah?®.
Non molte di queste lettere lasciano percepire una visione critica
della guerra, la censura e l’autocensura filtrano la realtà con grande efficacia, soltanto in qualche raro caso nelle missive si può leggere qualche accenno per le sofferenze del nemico: «confesso e con dispiacere che pure io ho ucciso degli uomini, e quantunque stenti a chiamarli tali, ho provato emozione»? Un altro capisce che la guerra aveva alterato, in senso negativo e violento, l'indole dei suoi compagni d’arme. Siamo
veramente
divenuti
sanguinari
ed
insensibili.
Di
fronte
ai morti,
prima si piangeva; adesso si ride di gioia. Da borghesi si prodigavano tante cure a un ferito; adesso si va per finirlo, per dargli l’ultimo colpo di
grazia. Questa è la guerra. Nel combattimento l’odore del fumo, il grido di comando degli ufficiali, il lampo del fucile ed il lamento dei feriti fanno dimenticare perfino i nostri cari. Siamo tutti diventati nervosi e questo si
attribuisce alla perdita del sonno ed alla grande quantità di caffé che ci
danno la mattina??!.
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Il martire necessario
Ma la crudeltà fa parte del gioco e l’abominio per l’omicidio non appartiene ai soldati. Uno di loro, di Poggibonsi in provincia di Siena, scrive all'amico parroco raccontando una scena tremenda alla quale ha assistito: Caro Lucesio, per la prima volta ho ucciso, per la prima volta sono stato assassino [...]. In un momento me ne capita uno a tiro e do subito il mio colpo, esso aveva il coltello, ma la mia baionetta è più lunga lo colpisce nel braccio, egli però non cede, allora un’altra in pieno petto, cade, si rialza spicca un salto spara un colpo e fora il polso a un caporale vicino a me, ma un ascolese certo Franini Giuseppe gli salta dietro e gli pianta la sua baionetta nel collo, non lo crederesti egli non voleva morire e si dibatteva come un leone subito gli vo davanti e con la mia baionetta lo infilo per sei sette volte finché muore??,
Molto frequenti sono le testimonianze mico
come
un
animale
assetato
che ci mostrano
di sangue,
il ne-
«a tratti misterioso
e
impressionante che nella notte urla in modo «incomposto e rauco, come l’urlo di bestie strane». È un nemico demonizzato e barbaro quello che ci viene raccontato da un ‘barelliere’ sopravvissuto ad uno scontro. Si udivano lamenti, imprecazioni. Un momento terribile! Raccogliemmo bersaglieri che avevano quaranta o cinquanta ferite di coltello o di pugna-
le. Molti sono i morti per la via. Credi ... mi viene voglia di piangere! Han fatto loro spregi e oltraggi di ogni genere. [...] Il giorno 26, però, si ebbe 294 la rivincita [...]. Fu un vero sterminio”.
Tante pagine di letteratura insistettero su particolari macabri e sulle atrocità commesse dagli africani e dai turchi. Furono denudati i bei bersaglieri d’Italia, furono sputacchiati e battuti, derisi per la loro impotenza, svergognati [...] e poiché ancora tutto il sangue onde erano intrisi non impediva che + nell’oscurità del nascondiglio — la loro carne sublime di eroi tuttavia irradiasse di un divino fulgore, così come è narrato dei Corpi Santi nelle antiche leggende della Chiesa di Cristo, ancora furono, ferocemente, l’uno presso l’altro sepolti fino al
collo nella sabbia già inzuppata del loro sangue. Ed altri furono crocifissi, occhi che aveva veduto troppe fughe nemiche, e furon che avean gridato troppe volte Savoia! È inchiodate le e sfigurato il bel volto italiano che mai si era rivolto per o di fuga. E così agonizzarono lentamente, per la fame,
e furono cuciti gli mozzate le lingue braccia fortissime, una via di salvezza
I. Linguaggi di guerra
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per la sete, per gli stenti, per le ferite, nelle allucinazioni più mostruose, nella ridda infernale del sadismo arabo e turco”.
Frano molte le lettere che insistevano su questi aspetti di degradazione del nemico; un fante si confidava col padre: «le scariche della nostra fucileria» facevano «una completa strage di Turchi-Arabi, non risparmiando le case circostanti dove loro abitano nell’interno dell’oasi, che vennero messe sul terreno come un mucchio di fango [...]. Ma con . tutto questo non è mai abbastanza fatto a questa gente selvaggia». E la bestialità del nemico rendeva spesso del tutto normali certe espressioni di compiacimento, o di indifferenza per la sua uccisione, perfino per lo scempio dei corpi. Sono andato a vedere, davanti alle nostre trincee ed ho contato una grande quantità di cadaveri turchi e arabi: a molti mancava la testa. Erano sfracellati dalle nostre granate». Alcuni esplicitamente si compiacevano di avere la divisa lordata di sangue: «attaccammo [...] e la peggio toccò a loro, perché ben novantasei di essi furono traforati dalle nostre baionette e ne portiamo il ricordo sulla montura, dove si vedono grosse macchie di sangue». Diventa evidente il piacere che i soldati provano alla vista della morte del nemico. Benché bestie, li vedemmo
in quel momento
piangere, e implorare [...].
Li accerchiammo e finché ne rimase uno, non cessammo di combattere. Il
giorno dopo, la cavalleria uscì dalle trincee
e andammo a vedere l’opera
che fecero i cannoni. Cosa orribile a vedersi! In una buca, trovammo
180
morti, ammassati
che
e mutilati e per lo più con la testa scoperchiata
sembrava una scatola di cartone vuota, a cui uno avesse dato un pugno sopra. Dei cadaveri nemici, parte sono stati bruciati, e parte sotterrati. Si
calcola che abbiano avuto 1000 morti e 1500 feriti. Tra i soldati c'è una contentezza speciale?”,
Anche i corrispondenti dei giornali ebbero un certo peso nella estetizzazione e sublimazione della guerra: «quei giorni di perigliosa bellezza che io ho vissuto» — scrisse un giornalista presente sul campo — io li «rimpiangerò sempre assai più che ogni giorno di festa»??? Rimpianto non per una realtà truce, ma per ricordi nei quali anche la morte più atroce assumeva, al massimo, i contorni di una fiaba tragi-
ca, e le narrazioni erano colme di aggettivi politi, di verbi rari, di parole luminose. Uno scannamento diventava così «purpureo gorgoglio» di sangue, un proiettile conficcato nel cranio un «segno rossastro» su un volto giovane e superbo?”.
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Il martire necessario
Poi, così come era stato per le prime guerre africane, anche stavolta il ritorno a casa dei feriti era caratterizzato dall’abbraccio festante e riconoscente degli italiani, sebbene spesso l'avventura si chiudesse con una nave ospedale, anche se i soldati sbarcavano mutilati e in barella e dovevano essere avviati con urgenza negli ospedali. Sempre si trovarono degli argomenti per interpretare in chiave aulica il vootoc doloroso. A Napoli il passaggio dei feriti fu contrassegnato da un rispettoso silenzio sotto tralci di edere, rami di querce e di palmizi, addobbi che festeggiavano quella «santa» processione di eroi e di moribondi, come una processione del Corpus Domini, Atteggiandosi a gran letterati anche certi retori d’occasione — curati di campagna, maestri, avvocati, insegnanti di scuola superiore, esponenti politici locali —, chiamati a commemorare i caduti per la patria, riprodussero tutti i luoghi comuni che avevano caratterizzato le cronache dei giornali. Ma la loro importanza fu grande, ben più grande della loro mediocrità. Infatti grazie a queste celebrazioni la guerra ruppe — per così dire — il guscio della scrittura entro la quale era stata confinata, per diffondersi in forma di autorevole racconto orale?®. La guerra diventò cioè discorso pubblico delle autorità, rendicontato e reso ancor più autorevole dal luogo in cui veniva pronunziato, nelle chiese, sulle piazze, di fronte ai monumenti ai caduti, nei
cimiteri. Ciò accadde con maggior frequenza nelle principali città della penisola, ma fu tra le popolazioni di provincia e delle campagne che queste cerimonie ebbero la loro importanza: gli analfabeti, gli abitanti dell’immensa periferia italiana poterono solo allora accedere, e in taluni casi si trattò della prima volta, alla narrazione bellica e alla sua retorica?°. Le pubbliche commemorazioni diventarono occasioni di bilancio e, insieme, occasioni di apprendimento grazie ai comizianti che di frequente declamarono diligenti resoconti dei fatti; non era vera propaganda, semmai era l’eco, il riverbero di tutte quelle parole sullo Stato, sulla guerra, sulla nazione, sul coraggio e sul sacrificio che da decenni comparivano sui giornali e che rappresentavano
il lemmario
politico delle classi medie. Nel suo Discorso commemorativo
per un concittadino bersaglie-
re, l'avvocato Ignazio Giambalvo, segretario del Comune di Santa Margherita Belice, tenne una vera e propria lezione sulla guerra e sulle sue motivazioni. Gli astanti appresero così che, seguendo l'insegnamento di quel «titano del pensiero» che era stato Giuseppe
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Mazzini, e «principalmente» il «titano della guerra Giuseppe Garibaldi», la nazione si stava impegnando per «abbattere la barbarie del popolo arabo dell’Africa Settentrionale, ritenendosi assurdo che potesse tuttora perdurare a vivere nello stato selvaggio un popolo tanto vicino alle nazioni civili». Per questo — sostenne l’oratore — V'Italia «non poteva, né doveva sfuggire [...] all’obbligo di apportare la civiltà», sebbene ciò implicasse lutti e spargimento di sangue. Un obiettivo talmente nobile che aveva portato «il popolo italiano» ad un subitaneo «scoppio frenetico d’entusiasm® e in questa sacra lotta
«S. Margherita» ad avere la «fortuna» di vedere «qualcuno dei suoi figli sull'altare della patria». Gli oratori di provincia, benché traessero dalle cronache dei giornali tutti i temi con i quali infarcivano le loro pubbliche perorazioni, contribuirono ad accentuare con toni retorici le cronache di guerra con una esasperata ricerca delle parole ad effetto, con un lessico antico e l’espressione esclamativa?. E quell’armamentario linguistico un po’ polveroso che — proprio in quegli stessi anni — nelle città, gli intellettuali più d'avanguardia mettevano alla berlina, trovava nuova vivescenza. All’inaugurazione di un monumento ai caduti in Libia a Ripi, paesino dell’agro pastorale del frusinate, l’oratore raccontò così le gioiose partenze dei soldati per la guerra. Ne’ fumidi
treni avvolti da palpiti d'amore,
da plausi, da inni, da fiori,
migliaia di figli nostri, la migliore messe de’ campi, partivano a la morte, a la gloria e lieti andavano come a danza. Sotto un cielo ridente trapunto di stelle con luna alonata, sopra una canzone di onde, volavano blanditi da’ raggi delle vigili pupille insonni delle navi?°.
La lunga coda della guerra africana — si ricordi che ancora nel 1914 nelle caserme il rendere onore ai caduti nella guerra libica faceva parte del solenne cerimoniale del giuramento: — finì col saldarsi infine con i sorgenti nazionalismi e con il mito della grandezza di Roma già affiorato sulle labbra di molti oratori di paese. Sulla terra da Voi consacrata
italiana col sacrificio, con
l’eroismo, col san-
gue, sulla terra da Voi strappata alla ferocia turca e donata all'umanità ed al vivere civile, Vi seguì il palpito del nostro cuore, Vi seguirono i baci delle anime nostre. Avete scossa la polvere de’ secoli dalla nostra storia, avete rinnovato sulle coste africane le antiche vittorie di Roma
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9. Christus patiens In questo clima di acceso bellicismo anche la Chiesa si avviò lungo quella strada che l'avrebbe portata in poco tempo alla piena legittimazione religiosa del martirio bellico. Si trattava di una scelta non facile, in primo luogo perché ciò avrebbe significato fornire un aperto sostegno? ad uno Stato che aveva ridotto i possedimenti di Pietro a poco più di un quartiere cittadino; in secondo luogo perché non poche erano state le voci — quella del Rosmini, per esempio — che già durante le guerre risorgimentali si erano levate contro la guerra. Ma il fatto è che essa era una occasione molto propizia per avvicinare larghe masse di popolazione alla religione. Più che tutto però le imprese africane fornirono l'occasione di rientrare nei giochi della politica del nuovo Stato italiano. Dal punto di vista del governo i religiosi potevano giocare un ruolo non indifferente nel sostenere il morale delle truppe: non per caso il Baratieri, governatore dell’Eritrea dal 1893 al 1896, già aveva appoggiato i religiosi Cappuccini missionari in Africa dei quali ammirava il patriottismo per il fatto — così si narrava da più parti - che nonostante vestissero il saio francescano, non avevano esitato ad impugnare le armi durante la battaglia di Amba Alagi?°. I diplomatici locali, per esempio, non facevano mistero del fatto che i missionari sarebbero potuti tornare molto utili: «in verità il missionario — scrive il console italiano a Beirut alla fine dell'Ottocento — è un soldato. La tonaca che veste gli impone gravissimi doveri, lo espone ad infiniti pericoli, che lo accompagnano per tutta la vita. Nel caso attuale diventa un elemento di influenza e potenza del nostro paese, e l’opera sua individuale più che l’opera individuale del soldato è feconda all’Italia»!!. Da molte parti cominciarono a fioccare le testimonianze del clero a favore dell’impresa. Nel gennaio del 1888 il giornale «La Caserma aveva dato conto dell'appoggio di monsignor Scalabrini, vescovo di Piacenza, e aveva pubblicato anche uno stralcio di una lettera pastorale — che risaliva al novembre dell’anno precedente - di Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, in sostegno dei soldati. Dio, il buon Dio, li accompagni sempre e dovunque benedica ogni loro impresa, e se sui suoi passi troverà il nemico, lo volga in fuga o lo disperda come la polvere del deserto. Oh! La guerra non dovrebbe aver luogo sulla terra (perché tutti siamo fratelli), ma pure è necessaria alcune volte
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e pur troppo le grandi fasi della civiltà e le vie del progresso sono aperte dal ferro e irrigate dal sangue. È una legge provvidenziale anche questa, ed amo sperare che il soldato italiano, il quale porta sulla sua bandiera la bianca croce di Savoia, rammenterà sempre che quello è segno di vittoria, emblema di civiltà vera, di santa fratellanza, e se ne mostrerà degno?"
E tutto ciò nonostante il fatto che i cappellani tra il 1865 e il 1878 fossero stati gradualmente esentati dal servizio, con la motivazione della necessità di attuare risparmi di bilancio. Soltanto in caso di conflitto aperto si prevedeva un certo impiego dei ministri di culto cattolici, anche se solo nelle sezioni di sanità, negli ospedali da campo e negli ospedali militari, mentre nulla era stato previsto per quanto riguardava l'assistenza spirituale ai soldati impegnati nelle operazioni belliche®!. Anche in Italia i religiosi, grazie ai loro giornaletti parrocchiali e a tanti opuscoli stampati all’occasione, si fecero promotori dell’impegno a fianco dell'esercito, diffondendosi in spiegazioni catechetiche. Si legge su «Religione e Patria» di Cassano Ionio: Noi abbiamo promesso nel S. Battesimo di dover essere veri soldati di Gesù Cristo, e fedeli fino alla morte alla nostra santa religione, per poter essere poi i fedeli soldati della patria. Le nostre armi spirituali sono, preghiera — azione — carità e sacrificio. Queste armi ci rendono forti ed eroici nel maneggiare quelli materiali a difesa della nazione?"!.
In Africa, poi, sui campi di battaglia, sulle pietre che segnavano le fosse comuni, nei cimiteri improvvisati, ovunque venivano alzate croci con corone appese, come fossero tanti piccoli e suggestivi Golgota
ai piedi dei quali i cappellani militari — soprattutto i frati Cappuccini — celebravano messe e intonavano litanie mortuarie. Il «Corriere della Sera a più riprese dette notizia delle celebrazioni di messe funebri in ricordo dei caduti: la battaglia di Dogali, per esempio, fu uno degli episodi che ricevette il maggior numero di messe commemorative: È un effetto strano quello di quel prete là sulla cima della collina che officia in mezzo ai soldati, con un soldato che gli fa da chierico — [...] ma
il momento più solenne, più commovente fu quando finita la messa il cappellano seguito a qualche passo dal generale col suo stato maggiore, e da tutti gli ufficiali, fece un piccolo giro ne’ pochi metri di spianato che
v'è sulla collina, per benedire le quattro o cinque tombe modeste segnate appena da rozze croci di legno circondate da quattro sassi?!.
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Il martire necessario
La Chiesa cattolica assieme all'impegno concreto, certo ancora timido e semi-ufficiale, aveva tenuto in grande considerazione il tema dell’apostolato presso i soldati oltre che sul piano dottrinario su quello della pratica. Un ponderoso volume dal titolo Primo sangue cristiano pubblicato a inizio secolo e scritto dal padre barnabita Giovanni Semeria — che durante gli anni della Grande guerra sarà un personaggio tra i più rilevanti del clero castrense — richiamava i cristiani a riflettere sulla legittimità, rispondente al dettato evangelico, del sacrificio di sangue, ricordando che «il liquore prezioso che l’umanità versò sulla semente del Vangelo fu il sangue dei martiri»3!°. Altri, nel considerare il sacramento della Cresima, si erano ugualmente espressi sul dovere del cristiano di combattere negli eserciti. In un libriccino di Istruzioni per la Santa Cresima, si ricorse all'esempio del cristiano che doveva saper morire per la religione avendo «giurato fedeltà a Dio», come il soldato doveva saper morire «per il re» al quale aveva giurato fedeltà?”. I doveri del buon cristiano si andavano sempre più legando a quelli del buon cittadino dello Stato. «Per chi si avvia alla carriera militare e agli ordini religiosi — si legge in un libro di precetti e esempi offerti ai giovanetti — il collegio e il seminario sono una necessità fisica e morale per preparare il corpo e lo spirito mediante una serie di esercizi e di abitudini specifiche, alla vita di sacrifici che aspetta il soldato e il sacerdote nel gran campo della vita»?!8. Come non ricordare, per esempio, che a Torino, già nel luglio 1895 era sorta una Associazione di preghiere per l’esercito e per l'armata
sotto l’invocazione di Nostra Signora della Salute che ebbe per esplicito compito statutario quello di far recitare mensilmente una messa e le preghiere per la salute dell’esercito e dell’Armata?! A Venezia, per esempio, i caduti di Dogali furono commemorati nella Basilica di San Marco. «Pietoso, gentile e patriottico insieme — si legge nella cronaca di un giornale dell’epoca — fu il pensiero che, inspirando il clero di San Marco, [...] promosse
la grandiosa commoventissima
cerimonia
che si
è compiuta la mattina alle 11 in quel tempio, in suffragio dei gloriosi caduti a Saati e Dogali»®. Nei pressi del portale maggiore tutto parato a lutto, era stato apposto un cartello, circondato da bandiere tricolori con in mezzo lo stemma di casa Savoia, sul quale si inneggiava Ai prodi fratelli Che nell’adusto suolo africano
Stretti all’italico vessillo
I. Linguaggi di guerra
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Contro innumere torme Pugnando ritrovarono
I prodigi delle Termopili
Nell’interno del tempio, davanti all’altare maggiore, era stato alzato un catafalco con ai quattro lati gruppi di fucili e rami di palma, “mentre tutto intorno «sciabole e spade deposte a croce, alcune delle quali spezzate»; mentre «una ventina di carabinieri in alta tenuta stava-
no, quali guardie d'onore, ai due lati del catafalco, su cui pendeva il velario, scendente fin dalla cupola della chiesa». In quella occasione il direttore dell’Istituto per Ciechi tenne un discorso. Sono caduti; ma la Nazione, in una morte così eroica, ebbe come
la co-
scienza della propria forza [...]. E la religione? La religione che ci associa in questo momento nel Tempio al solenne sacrificio ed alle sue preci, non poteva rimanere indifferente a questo fatto sublime: la religione, che benedice tutte le opere del dovere e del sacrificio, che anzi essa stessa è scuola severa dello spirito di abnegazione, non poteva non commuoversi, non portare la sua attenzione ed il suo conforto ad un atto, nel quale il dovere e il sacrificio insieme associati toccarono i confini dell’eroismo. [...] in qualunque giorno la patria richieda l’opera vostra, sappiate che essa è S22) benedetta non soltanto dalla terra, ma è benedetta anche da Dio?*.
Durante i mesi di guerra le omelie a favore dei soldati divennero via via più numerose e più esplicito l’impegno patriottico degli uomini di chiesa: «il mio accento - scrisse l’abate di Camisano - [...] è rivolto a quei prodi, che sulle arene infuocate dell’Africa [...] sacrificarono la vita a decoro dell’italiana bandiera»?5. Cominciò allora a fiorire una omiletica di guerra che forniva una vivida testimonianza dell'impegno dei religiosi a fianco dei soldati e delle famiglie dei caduti. Patria e religione, guerra e sacrificio, imitazione del Cristo e, per le madri, emulazione del dolore mariano diventarono sempre più ricorrenti e comuni. I soldati caduti ricevettero
in Italia gli onori religiosi e civili meritando agli quel posto di onore in seno alle comunità che ricevuto gli eroi del Risorgimento. Come è stato parte di questi scritti il linguaggio della nazione
occhi dei concittadini avevano a suo tempo notato, nella maggior e quello cattolico non
entravano in conflitto ma, anzi, trovarono accenti simili ed elementi di
cospicua convergenza, come nella preghiera sulle navi da guerra del Fogazzaro nella quale si invocava la protezione divina «della nostra bandiera affinché il nemico avesse «il terrore di lei» e ottenesse, difesa
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Il martire necessario
da «petti di ferro più forti del ferro», la vittoria?”*. Il nesso decisivo tra i due piani del discorso, nazionale e religioso, era rappresentato dal tema del sacrificio, ovvero della immolazione volontaria in nome di un ideale più grande. Fede e nazione finirono per somigliarsi in quanto entrambe richiedevano uno spargimento di sangue. «La semantica del sacrificio permette entro certi limiti una simbiosi di etica nazionale e cristiana che, astraendo dalle differenze
di contenuto, conferisce alla morte in guerra il valore etico e la carica santificatrice della morte subita dai martiri cristiani. I caduti non muoiono per la fede cristiana, ma immolandosi per una fede muoiono come martiri cristiani, ottenendo così il diritto alla vita eterna». Una
delle più celebri preghiere del soldato recitava: Tu, magno e terribile, hai lavata la bandiera nel sangue del nostro martirio; [...] Tu gridi: All’armi! E noi ti stiamo innanzi come muro di rocca; le nostre lance si abbassano sitibonde del sangue de’ nostri nemici [...] Nudate
i petti ché li protegge il Signore, ché vi fortifica dentro la robustezza di un cuore inebriato di vendetta [...]. Moviamo, ché il sangue si cancella col
sangue, la vita si redime con la vita. Sferza, o Signore, i cavalli della tua
quadriga, e benedici i ministri delle tue vendette [...] Oh beati i morenti per Dio e per la patria! Le vostre ossa, quasi erba, germineranno il fiore della immortalità, e su di quelle si assiderà la patria imperatrice del mondo. Oh beato il tornante dalla battaglia, che imporpora il seno della cara donna con le sue ferite! Egli sarà padre di forti, ed il suo nome risplenderà come un sole nel cielo dell’eternità?0,
La conquista cattolica del mito nazionale si basava anche sull'idea che la dottrina e l’etica cristiana non sviluppavano alcuna idiosincrasia con l’etica del cittadino e con la generale aspirazione che questi nutriva di vivere in una grande nazione. La guerra coloniale fu dunque la prima occasione che ebbero i cattolici per riavvicinarsi alla nazione dando prova di aver già accettato lo Stato unitario. E non fu certo solo la «Civiltà Cattolica», seppure dall'alto della sua autorevolezza, ad imporre una sorta di «sano patriottismo» come paradigma unico
di tutto l’agire della chiesa italiana”: tutta l’editoria che faceva capo alla Chiesa svolse in proposito un ruolo fondamentale anche perché essa poteva disporre di un insieme fortemente differenziato di offerte editoriali, ciascuna con un suo linguaggio e con un suo pubblico, e tra queste quelle dedicate alle masse popolari furono tra le più numerose e diffuse. Ma non v'è dubbio che furono soprattutto le cerimonie funebri a
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fornire l'occasione per rivendicare un ruolo, per ricordare la funzione insostituibile della Chiesa in grado di superare ogni altra pubblica e ufficiale celebrazione laica. «L'Italia rizzerà sui luoghi memorandi ricordi marmorei ed are votive, veri monumenti nazionali. Così — sia detto a sua gloria — Ella avrà fatto tutto». Spiegava l'oratore salito al pulpito del Duomo di Cefalù nel gennaio del 1912: «dove si esaurisce il compito della Patria, lì si inaugura e si dispiega la missione della Chiesa. La Chiesa con ammirabile sapienza non ha bandito né predicato la guerra santa. Ella ha visto partire con tenera emozione per i lidi fortunosi i figli frementi». La Chiesa ha però «gradito l’olocausto volontario di forti cuori di apostoli, di dolci anime di suore che ne le aspre vicende del conflitto hanno recato una nota squisita di benedizione, di candore e di pietà eroica. Ma ora che i generosi sono passati, in un’onda cruenta, dal terreno de la pugna ne’ regni della Morte [...] ora la Chiesa tutto dischiude il suo cuore materno, e prega, prega». Nel bel mezzo della avventura libica venne poi reso noto anche il nuovo Catechismo della dottrina cristiana, di Pio X, che a proposito della Cresima ricordava — con maggior enfasi che in passato — che il leggero schiaffo che il Vescovo dava al cresimato poco dopo l’unzione, significava che da quel preciso istante egli avrebbe dovuto «essere disposto a soffrire per la Fede ogni affronto e ogni pena»??. Fu in quegli anni che la Chiesa si rivolse in più occasioni e con accresciuta attenzione ai giovani, affrontando in modo molto esplicito il tema della morte come giusto epilogo dell'impegno che ogni cristiano deve sia alla patria che alla Chiesa. Infatti, le prime vere prove di quella che potremo definire come gestione religiosa dei conflitti si ebbero sui campi di battaglia libici dove, grazie ad una esplicita autorizzazione governativa, alcuni cappellani militari poterono seguire le operazioni belliche. Più di quanto era stato per la prima impresa africana, la conquista della Libia aprì ampi spazi alla Chiesa cattolica. 4 nostri soldati in gran parte ci affermavano — scriveva in proposito un religioso — di essersi accostati ai Sacramenti prima di scendere sui
campi di Libia [...]. Primo loro atto pubblico dopo la conquista fu il ringraziamento fervido e solenne a Dio». E proseguiva: quanta com-
mozione in «chi assisteva allo spettacolo di un esercito che, rimessa appena nel fodero la spada insanguinata, innalzava a Dio l’inno del ringraziamento [...]. Nessuno
dei caduti con gravi ferite, nessuno
dei
colpiti dal morbo rifiutò i sacramenti e i conforti della religione»? Fu infatti in Tripolitania e in Cirenaica che troviamo al seguito dell’eser-
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i
Il martire necessario
cito molti padri cappuccini e salesiani giunti ad affiancare i francescani! La guerra libica convogliò in Africa molti religiosi: nel novembre del 1911 le suore di S. Vincenzo de’ Paoli, nel settembre 1912 quelle del Cottolengo e dell’Immacolata Concezione di Ivrea. Si trattava di religiosi che erano in massima parte abituati ad una vita costellata di piccoli impegni quotidiani e di una attività pastorale limitata e che ora improvvisamente furono proiettati nella bolgia delle operazioni militari e nell'animazione affannata degli ospedali dove far fronte ai feriti di guerra, ma anche a casi di colera e ad altre malattie infettive che furono causa di parecchi decessi nel corpo di spedizione. «Ma per i frati l'evento bellico fu in una certa misura anche esaltante. Nei diversi contingenti impegnati nelle operazioni, così come
negli ospedali, continua era la richiesta di assistenza religiosa da parte dei soldati. [...] Rossetti, il prefetto, all’inizio delle ostilità sembra che
esclamasse: “Io non parto! Mi abbraccio al crocifisso e muoio!”. Un suo collaboratore, parroco a Tripoli e cappellano militare, diceva di “amare i soldati, di amarli perché gli erano fratelli, perché eroi, perché pieni di fede”. Un altro a Derna, quando giunsero i marinai italiani esclamò: “mettetevi intorno a me, voglio respirare in mezzo a voi. Io mi sento dieci volte italiano”»55. L'azione dei religiosi ebbe portata ampia, essi offrirono infatti non soltanto assistenza spirituale, ma dettero vita ad una vera e propria organizzazione per favorire lo scambio epistolare tra i soldati e le loro famiglie: anche grazie alla collaborazione del clero i soldati ricevettero qualche copia di giornali, immaginette votive, lettere. In alcuni casi — non molti sono tuttavia quelli documentati — i sacerdoti conti-
nuarono a svolgere anche la loro funzione di consiglieri spirituali a distanza. Giuseppe Inverardi scrisse da Derna il 2 dicembre 1912 al parroco del suo paese: Carissimo
e Reverendo Signor Curato, non può certamente credere con qual piacere e contentezza, io ricevetti la sua cara lettera, giuntami il gior-
no 29. Con grande entusiasmo mi fu caro il sapere, tante belle cose, della nostra bella borgata, e lo ringrazio infinitamente, che si è preso l’incomo-
do, di farmi sapere tante belle cose, e di più ancora dell’affezione, che Lei nutre per il mio riguardo e nell'essere immancabile di rispondere a tutte le misere notizie. Si vede Signor Curato, che gli stanno molto a cuore, i poveri soldati della libica terra. [...] Bonassi è da giorni che si trova ammalato con febbre Lo prego di non dir niente ai suoi di famiglia,
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Un altro, un certo Paolo Lancini, sempre da Derna, il 14 dicembre 1912, spedì una breve lettera. Reverendissimo Signor Curato, [...] È un gran conforto per noi sapere che al nostro modesto paesello, che nell’umile chiesetta nostra si prega per noi. Sono felice a trovarmi anch'io in Libia. Sono contento di trovarmi qui, esposto a mille pericoli, sacrificare le mie forze e la mia vita, se occorre per salvare l'onore dell’Italia e lenire colla mia mano le pene dei gloriosi
caduti per la sua grandezza?”.
Quando poi le ostilità ebbero fine il piccolo drappello dei cappellani militari — in tutto quattordici: sette francescani, cinque chierici regolari, due cappuccini —, non smobilitò perché il rapporto tra esercito italiano e Chiesa cattolica era andato rapidamente mutando e già si prefigurava, come qualcuno scrisse, un nuovo modo di pensare “la religione fra le armi”,
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II. LA GRANDE VERTIGINE 1. I giorni radiosi Quanto avvenne nel 1914 sulla scena politica italiana favorì la consacrazione di D'Annunzio presso il grande pubblico, ma la scelta della guerra attingeva a vene profonde del pensiero nazional-patriottico, e per quanto egli si ponesse.come vivente emblema di luccicante modernità, il suo altro non fu che un abile rébechage dei miti garibaldini. Del tutto garibaldina fu in lui la fiera scelta per la guerra; e dal poemetto su La notte di Caprera ai più diversi carmi storici, allegorici e politici dell’E/ettra D'Annunzio, con profusione, rieditò «da mistica del garibaldinismo come giovinezza eterna della patria che si riscopre». Al tempo stesso si fece «cultore del Foscolo dei Sepolcri e delle “egregie cose”, il celebratore dei naviganti, degli avventurieri e dei guerrieri, degli uomini d’azione e dei ribelli!. Dell’eroe dei due mondi, D'Annunzio ebbe poi la passione per il bel gesto e un certo proclamato dispregio per la vita quieta: nel 1914 egli, come è noto, si trovava a Parigi, da dove scriveva di sentirsi annoiato per una guerra che i francesi stavano vivendo perlopiù sulla falsariga di scialbi bollettini governativi, mentre — rammentava — la guerra era bella per chi combatteva davvero, o almeno per chi riusciva a «sentire da vicino la voce dei cannoni». Nel corso di una serata di dimostrazioni interventiste a Milano, oltre a registrare i consueti «violenti conflitti coi neutralisti» e «una sassaiola in via Dante, i comizianti di turno — cioè Peppino Garibaldi e Benito Mus-
solini — evocarono più volte il gran guerriero e capostipite della nazione. Parlò per primo Peppino Garibaldi che scandì: Milanesi mi sia permesso in questa sera, ai piedi del monumento del mio eroico avo, davanti a una così imponente adunata di popolo, di formulare la speranza che voi tutti così uniti, collo stesso entusiasmo patriottico e la stessa incrollabile fede nei destini della Patria, varcherete quella frontiera che segna l'aspirazione del nostro sogno». Poi prese la parola Mussolini, già convertito all’interventismo e convinto assertore del carattere rivoluzionario della guerra, che invitò «l popolo ad affermare ai piedi del monumento dell’Eroe dell'umanità la sua fiera volontà per la guerra». Alla passione per la storia maestra di condotta politica continuavano a sommarsi le elucubrazioni sull’età nuova e sui ringiovanimenti
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Il martire necessario
della società di cui da tempo ormai avevano parlato futuristi e nazionalisti. Sulla «Voce» l’intervento di Prezzolini dal titolo Facciamo la guerra, uscito il 28 agosto 1914, si apriva con una potente immagine
di un'Italia partoriente. Forze oscure scaturite dalle profondità dell’essere sono al travaglio ed il parto avviene tra i rivi mostruosi di sangue e gemiti che fanno fremere: Noi non guarderemo soltanto al dolore. Salute al nuovo mondo! [...] L’animo è calmo di fronte alla totalità del fato che si compie e non possiamo dubitar del domani. rinvigorirsi*.
La civiltà non muore
[...] si tuffa nella barbarie per
Di fronte alle cronache che giungevano dal fronte francese e che il «Corriere» ospitava sulle sue pagine con un certo rilievo, l'opinione pubblica reagiva senza alcuno spavento. Pur con variazioni notevoli da una regione all’altra della penisola, sembrava che dominasse il neutralismo, con gli ufficiali di grado più elevato disposti a seguire e ripetere le parole d’ordine imparate, quelli di grado più basso che nutrivano sentimenti più variegati e, nel complesso, del tutto simili a quelli della truppa?. Tra i soldati vi fu anche chi lamentò l’assenza di entusiasmo e il fatto che l’Italia si stava preparando a condurre una guerra «a freddo, in cui il comportamento dei soldati restava una grande incognita. Notava un ufficiale: «chissà come si comporteranno i nostri soldati! Come faremo noi a spingerli, a trascinarli, ad impedire che ci scappino°. Al contrario la narrazione della guerra eccitava gli animi dei lettori dei giornali; su quelle pagine tornavano parole antiche: onore, patria, destino, poco importa che esse non giungessero dall’oltremare o si riferissero a terre lontane, ma provenissero ora dal cuore stesso dei territori della vecchia Europa. Una corrispondenza giunta da Londra della fine di aprile del 1915 venne mandata in stampa dal «Corriere della Sera» con il titolo La battaglia della collina ‘'60. Si trattava del resoconto di un episodio bellico registratosi nelle Fiandre che veniva esemplarmente riproposto seguendo collaudati schemi narrativi usati per le guerre coloniali africane. Compreso l'incipit costruito appositamente per rendere l’e-
pisodio ancora più grandioso e cataclismatico: Quando alle sette di sera del 17 aprile sette mine esplosero simultaneamente sotto le trincee tedesche [...] sembrò che un terremoto avesse scossa la
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collina e che si assistesse, come
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dicevano
i soldati,
a un mutamento
di
scena. I parapetti delle trincee tedesche e i sacchi di sabbia scomparvero e tutta la superficie del terreno assunse strane forme; [...] La fanteria inglese si precipitò quindi sul nemico alla baionetta, penetrando nel labirinto delle trincee [...] ma poi cominciò allora la lotta vera poiché i tedeschi si erano rapidamente rimessi dalla loro sorpresa. [...] La sera mentre cadeva la notte era grandiosa, da molti punti lungo la linea, da nord a sud della collina 60, si potevano vedere le vampe dei proiettili, mentre quelle dei cannoni erano così vicine e continue da rassomigliare ad un fuoco di mo-
schetteria [...]. Nonostante le gravi perdite — i fianchi della collina erano coperti di cadaveri — i tedeschi continuarono la loro pressione durante tutta la domenica”.
La guerra creava e distruggeva, assemblava e scomponeva: aveva in sé qualcosa di portentoso e al tempo stesso di tremendamente autentico come l'inevitabile dolore che produceva; e quando poi la calma che seguiva la tempesta faceva tornare un certo chiarore sui volti dei soldati, ecco che si potevano anche talvolta udire i loro canti di vincitori che rientravano nelle trincee «allegri e entusiasti» perché erano «perfettamente consapevoli che il loro sacrificio non era stato inutile. La Domenica del Corriere insisté spesso su queste curiose esplosioni di gioia, su quelle situazioni di spensieratezza, pur in un conte-
sto così cupo, anche con immagini che i redattori dovettero giudicare eloquenti, come quelle di un reggimento scozzese che dava la carica ridendo, o come quelle di un soldato russo colto mentre ballava di fronte ai soldati nemici che l’avevano catturato. Oppure alcune istantanee di reclute inglesi che si divertivano mentre aspettavano il giorno in cui sarebbero state mandate a combattere sul fronte francese?. Gli italiani furono dunque in più modi preparati alla guerra, furono abituati ad ascoltare discorsi roboanti incentrati sulla necessità di ingaggiare una qualche «suprema battaglia» nazionale per la «santa riconquista» di territori!°. E quando finalmente D'Annunzio, rientrando dall’esilio francese, mise piede in Italia, le infatuazioni di guerra già erano frequenti. Mancava tuttavia ancora un /eader che fosse in grado di prendere su di sé l'eredità eroica degli antichi combattenti, che rimaterializzasse Garibaldi, che desse corpo e voce alle increspature di entusiasmo degli animi di quelli che volevano combattere. D'Annunzio aprì questo canale di viva comunicazione tra la storia nazionale passata e gli italiani viventi, tra i combattenti di ieri e quelli che aspettavano di diventarlo. Egli non assunse mai la facies del vero capo politico, ma fu certo la più potente figura di mediatore tra pas-
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sato e futuro di quegli anni. Fu la voce, l'interprete di quello «spirito» garibaldino che, come egli stesso affermò, era capace di trasfigurare «le terre e le genti». D'Annunzio seppe essere una guida efficace per quelle folle che sarebbero rimaste altrimenti anonime e vocianti. La sua fu la parola dotata di senso di fronte al rumore. Al suo arrivo a Genova lo aspettava una folla «trepidante» che, secondo il «Corriere della Sera», rappresentava tutta l’Italia «giovane, «disciplinata», «severa, la nazione per un momento riunita «allo scoglio di Quarto»!!. E il suo primo discorso ebbe la forma di un giuramento collettivo; il poeta chiese agli astanti: «che volete voi genovesi? Che volete, italiani? Menomazre o crescere la nazione? Voi volete un'Italia più grande, non per acquisto ma per conquista, non a misura di vergogna ma a prezzo
di sangue e di gloria». E la folla rispose: Fiat! Fiat! Si faccia, Si compia Viva San Giorgio armato! Viva la giusta guerra!
Viva la più grande Italia!!
Gli italiani, grazie a D'Annunzio, poterono vedere la guerra trasfigurata nel corpo bronzeo di Garibaldi, nelle «braccia d’artiere terribili», nelle sue «grandi vene», nelle mani che, come quelle di un dio «stringono la folgore». Così descritta essa parve a molti un fulgido obiettivo, un «rilievo sublime» una «balenante» seduzione. Verso la guerra-divinità che giunge da oriente, come da oriente giungeva
il potere degli antichi imperatori, si volgono tutti i morti eroici, essi risorgono [...] dalle loro tombe, delle loro carni lacerate si rifasciano, dell’arme
onde perirono si riarmano, della forza che vinse si recingono [...]. Delle lor bende funebri noi rifaremo il bianco delle nostre bandiere".
Giunto all’Università, il terzo giorno della sua permanenza genovese, il poeta invocò Omero e prefigurò già l'accensione dei fuochi di vittoria che, come nel più antico passato greco, rimandavano «di monte in mont© le notizie sulle battaglie vittoriose; e ai giovani ricordò la consacrazione romana alla guerra per concludere in un crescendo di esaltazione: «voi siete le faville impetuose del sacro incendio. Appiccate il fuoco! Fate che domani tutte le anime ardano! Fate che tutte le voci sieno un solo clamore di fiamma: Italia! Italia! A Roma D'Annunzio chiese — e ottenne — grande partecipazione di
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popolo, quella che in più occasioni egli chiamò la «milizia vigilante»; ancora una volta inneggiò a Garibaldi, il Garibaldi che si ergeva sul piedistallo del monumento al Gianicolo, visto come «il liberatore, il giudice delle gesta che stavano per compiersi, il nume tutelare di una capitale che stava per assumere di nuovo il volto guerriero. Ma durante la sua permanenza nella capitale nei suoi discorsi affiorarono riferimenti religiosi e suggestioni misticheggianti, echi escatologici, cristologici. Le parole di D'Annunzio assunsero talvolta il tono calamitoso di un Savonarola o di qualche ispirato predicatore medioevale, con tanto di aspri toni di riprovazione per quei ‘peccatori’ che si fossero sottratti al sacro dovere cui la patria stava per chiamare. Citò a man bassa, per confezionare i suoi discorsi politici - che l'editore Treves, fiutando l’affare, stampò in gran carriera già nel 1915 — soprattutto dai Salmi, e poi dai libri liturgici. Beati quelli che hanno vent'anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa. Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza ma la custodirono nella disciplina del guerriero. Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per esser vergini a questo primo e ultimo amore [...]. Beati i giovani che sono assetati e affamati di gloria, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere
un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore. Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia!°.
Nella capitale un vasto e composito pubblico accorse a vedere il cantore della guerra che stava per sopraggiungere e alla stazione
ferroviaria,
come
raccontarono
i giornali,
i centomila
che
erano andati ad accoglierlo vissero l'evento come una parusia. La cronaca del «Corriere» — che titolò: Centomila persone accolgono d'Annunzio a Roma inneggiando alla guerra — rese con dovizia di particolari il delirio di massa: «da tutte le finestre si applaude, mentre il corteo tenta di comporsi [...]. Un corteo magnifico, solenne, indimenticabile. La folla, una folla mai veduta, è preceduta da una selva di bandiere, ed è tutta fiancheggiata da grandi fiaccole che punteggiano d’oro le due piazze». Furono quelli i giorni in cui si celebrò in Italia la festa della guerra, mentre a Roma il clima diventava giorno dopo giorno parossistico come traspare dalle pagine del Diario dannunziano.
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La folla enorme — brulicante, urlante — il cavallo verde di Marco Aurelio
— Le risse delle rondini — La salita — il delirio della folla — il discorso. La voce risonante — I volti innumerevoli — Le grida — il balcone del davanzale coperto di piombo. La spada di Nino Bixio, ricurva come una scimitarra. La lama con suvvi i nomi delle vittorie. Il bacio su la sciabola sguainata. La perorazione + il delirio — il ricevimento nelle grandi sale del Campidoglio. Il bicchiere d’acqua. Il sindaco. Le donne che mi baciano le mani — L’uscita — L’automobile quasi portata dalla folla. I giovani ardenti che si gettano contro le ruote. Le risse delle rondini. Il tramonto di fiamma. Il respiro immenso di Roma. A un tratto, lo squillo della grande campana capitolina. La folla ammutolisce.... poi un grande urlo. Viva la guerra! I fiori, i nastri, le bandiere, gli occhi lampeggianti. I visi degli operai. La plebe sublimata!8.
Non era solo Roma ad essere attraversata da manifestanti che inneggiavano alla guerra; nelle maggiori città italiane si tennero numerose e rumorose manifestazioni a favore dell'intervento. A Milano, per esempio, il 14 maggio la città fu percorsa «da una fiumana di cittadini d’ogni ordine, d’ogni partito, d’ogni età raccoltisi per «affermante una sola volta: la guerra». Scrisse il «Corriere: «nulla ha potuto impedire, frenare il libero, spontaneo, ardente manifestarsi dell'entusiasmo popolare. Nessuna voce discorde, nessun tentativo di opposizione [...]. Non c'è bisogno di organizzare queste manifestazioni: basta un richiamo, basta una bandiera per radunare, per trascinare»!?.
A fronte di questo crescere di emozioni popolari per la guerra, nella complessa geografia politica e sociale italiana, gli interventisti non rappresentavano, dal punto di vista quantitativo, la maggioranza dei cittadini, come dimostra la cosiddetta inchiesta segretissima avviata dalla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del ministero degli Interni nell’aprile del 1915. Secondo quel dossier le posizioni degli intellettuali non avevano fatto veramente breccia e, sia a livello popolare sia a livello borghese, si era ancora molto restii ad abbracciare le idee di guerra. D'Annunzio era ben conscio della posizione della maggioranza degli italiani, per questo tuonò a più riprese contro il nemico interno, contro il quale egli esortava a combattere anche a costo di spargere del sangue, perché anche quel sacrificio sarebbe stato «benedetto» come un vero sacrificio di guerra?” Tuttavia, come lasciava prevedere il rapporto di polizia, le polemiche e perfino gli scontri di piazza che contrassegnarono
in alcuni casi la lotta tra interventisti e neutralisti,
finirono per non interessare più tanto l'opinione pubblica del paese, e la nazione, presa nel suo insieme, restò sostanzialmente neutralista?.
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È indubbio che i desideri degli italiani fossero certo meno ardenti di quanto non volessero rappresentare i nazionalisti e le cronache giornalistiche; ma è fuorviante analizzare le folle disordinate ed entusiaste che precedettero l’entrata in guerra in senso troppo riduttivo. Esse infatti non facevano capo a dei movimenti ben organizzati, come, ad esempio, i sindacati o i partiti politici, non erano che assembramenti spesso mal organizzati ed effimeri. Erano folle cittadine divise per fazioni che tendevano a collidere ed a scontrarsi, che sbandavano qua
e là per le vie, erano formate da persone che sciamavano o si raccoglievano dietro qualche bandiera; solo una minima parte di manifestanti faceva capo a qualche organizzazione nazionalista. Per questo controllarle fu quanto mai complicato, perché le folle del cosiddetto ‘maggio radioso’ erano più spettacolo che movimento: somigliavano un po’ al carnevale e a una jaquerie d’ancien régime. Su queste folle che tumultuavano aleggiavano poi i discorsi dei comizianti, degli apologeti della forza e della grandezza, come D’Annunzio, per esempio, o il giovane e — come abbiamo visto — già agitatissimo Mussolini. Ma nel complesso esse ebbero una identificazione
e una etichettatura politica quasi soltanto grazie ai titoli comparsi sulle pagine dei giornali e forse nei rapporti scritti delle forze dell’ordine. La stampa schierata per l’intervento usò poi argomenti di sicura efficacia: «La Patria» di Torino nel fondo di apertura del 23 maggio del 1915 lanciò il suo Viva la guerra salutandola «come la cresima di sangue della nostra gioventù nazionale». Anche Giovanni Boine, intellettuale reazionario che ben echeggia pensieri che andavano da De Maistre a Gobineau, adottò un linguaggio religioso. «Non diremo che la patria debba sostituire Dio nella coscienza di ognuno, ma può se mai esser concepita come la umana incarnazione del pensiero divino, giacché dà corpo alla astratta coscienza morale nostra». Un vero movimento di massa, più compattamente schierato per il combattimento, comparve infatti solo nell’ottobre 1917 come conseguenza del disastro di Caporetto e dell'invasione del territorio italiano; solo allora si formò un fronte compattamente schierato a fianco dell’esercito come evidente reazione difensiva della nazione. Fino a quel momento solo chi era rimasto contrario alla guerra poteva contare sulla forza di un qualche movimento davvero organizzato nel senso novecentesco del termine, avendo dalla loro parte alcuni importanti organi di informazione; non solo «L’Avantib e tutta la composita galassia dell’informazione socialista, ma ad esempio, an-
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che «La Stampa di Torino. Su quest’ultimo giornale, molto autorevole, si parlò a più riprese, e con preoccupazione, di un eventuale conflitto e si pose l’accento su quello che veniva apertamente definito come un preoccupante velo di reticenza che andava circondando la guerra, della quale si oscuravano in particolare gli orrori e il sangue. Un velo denso di silenzio e di mistero è teso da un capo all’altro d'Europa, dall’occidente all’oriente, da Pietroburgo a Parigi. Oltre quel velo è la guerra. [...] Se oggi cadesse il velo che nasconde i campi insanguinati, le trincee di cadaveri ammucchiati, i cortei di feriti, le sale degli ospedali rigurgitanti di moribondi, le famiglie desolate, i poveri impazziti e i morti di fatica, di fame, di sete, noi, che non siamo i soldati del kaiser, né i fantaccini della Repub-
blica, che non difendiamo la Monarchia degli Asburgo, né affermiamo l’avanzarsi del mondo slavo; noi che siamo fuori dell’azione e della passione, che non siamo legati a quei doveri di cittadini e di sudditi, che non siamo obbligati ad offendere perché non offesi, noi che volgiamo gli occhi verso la strage, nella nostra pura qualità di uomini, certo avremmo della guerra un orrore più profondo d’ogni qualunque possibilità di espressione”.
Ma non era ancora giunto il tempo delle carneficine, e ora, agli spasimi dell'attesa seguì un momento di estremo raccoglimento: ancora D'Annunzio dettò le regole dello spettacolo e affidò alla suggestione della parola il compito arduo di superare ogni indugio. Compagni, è l’alba. La nostra vigilia è finita. La nostra ebbrezza incomincia.
In questa prima notte di guerra, sotto un cielo tumultuante di nuvoli e di chiarori, il popolo non ha gridato, non ha ingombrato le vie, non ha agitato le bandiere, non ha minacciato né ingiuriato il nemico, non ha danzato intorno alle colonne venerande e alle statue illustri. È rimasto in una gravità silenziosa che sembrava fare di lui una massa più compatta [...] O compa-
gni, questa guerra, che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la più feconda creatrice di bellezza e di virtù apparsa in terra. Chi stanotte ha veduto
Roma,
bella
indicibilmente,
può partirsi dalla
vita beato.
[...]
Domine, exaudi nos!°
Chi non voleva la guerra e chi la desiderava così tanto intensamente, i favorevoli e i contrari si divisero anche dal punto di vista delle scelte narrative; chi fu favorevole alla guerra fece una scelta che si rivelò azzeccata, parlò di essa testimoniandone il valore da un'ottica interna, ponendosi dentro l’evento, e raccontandolo come un fatto, 0
una serie di fatti, scaturiti dalla diretta testimonianza se non addirittura dall’esperienza.
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La lezione nata dalla letteratura epistolografica coloniale era stata ben compresa. Il gioco del valore testimoniale del linguaggio, che tanto era ritenuto autorevole se scaturiva dalla esperienza diretta, finì per confrontarsi ora con quello di chi parlava di argomenti che non praticava. Renato Serra, per esempio, scrisse di certo righe penetranti su quei
momenti, ma fu un intellettuale che continuò a guardare alla guerra standone fuori; Serra non accolse veramente la prospettiva del fronte, né quello della battaglia, né quello dello scontro, non guardò alla guerra facendosi — o fingendosi — un combattente egli stesso. Fu più onesto, ma meno efficace per il grande pubblico. Ebbe la capacità di guardare intorno a sé con profondità, ma mantenne una prospettiva individuale che non gli permise di attingere al nuovo vocabolario descrittivo. Certo egli seppe guardare lontano e vide in quei giorni prevalere negli italiani un senso molto forte di speranza, una speranza quasi mistica, un senso di apertura verso tempi nuovi, una percezione
di un mutamento in atto dopo una lunga parentesi di stasi. Avvertì un diffuso senso di apocalisse, una sensazione di un passaggio che stava per essere compiuto. Secondo lui «c’era stata nei primi giorni un'impressione indicibile; come se fosse tornato il tempo delle grandi alluvioni, per cui una razza può prendere il posto di un’altra». Ed era stato un fenomeno che «l’Europa non aveva più veduto» almeno da «duemila anni». Nel suo intimo egli non condivideva questi sentimenti ed era convinto che in nulla la guerra avrebbe prodotto qualcosa di nuovo,
ma
che avrebbe
solo distrutto.
La guerra,
scrisse, liquiderà
una situazione che già esisteva, non ne creerà affatto una nuova, essa non rappresenterà una fine dei tempi, l’inizio di tempi nuovi o la fine della storia fout-court. da storia non sarà finita con questa guerra, e neanche modificata essenzialmente; né per i vincitori né per i vinti. E forse, neanche per l’Italia». Essa «non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati». Serra non fu cérto il solo ad adottare questa linea prospettica di basso profilo, che alla lunga si rivelò del tutto errata, ma le ragioni della scarsa considerazione che ebbero le sue parole non dipese dall’errore di prospettiva che allora era difficilmente valutabile, quanto piuttosto dall'aver adottato un punto di osservazione tradizionale e in certo senso antiquato per quei tempi. Egli infatti non comprese quanto fosse grande la seduzione volontaristica.
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Al contrario Romolo Murri optò proprio per questo punto di vista, quello della forza che nasce dalle cose, la guerra come un concreto atto di distruzione mediante il quale «da storia spirituale del mondo si rifà e noi stessi siamo quindi costretti a rifarci; poiché vivere vuol dire con-vivere, il vivere di noi nel tutto e del tutto in noi; ed agire significa venir costruendo, per sé ed intorno a sé, un nuovo mondo di rapporti umani e di valori e di diritto». La guerra è «a crisi, la tragedia della nostra stessa coscienza, nazionale e religiosa; e guerra e religione e nazione non sono più che una cosa sola, la concreta ed intiera realtà della storia, ma di una storia che si sta rifacendo oggi». Chi era favorevole allo scontro adottò un lessico più schietto — e anche più crudele — ma proprio per questo più efficace e più ‘vicino’ all'’animo dei combattenti. Quando nel 1915 uscirono a Firenze per i tipi della Libreria della Voce i Discorsi Militari di Giovanni Boine, scritti che per il vero risalivano a vari anni prima, e che egli stesso considerava come «cose di quand'ero ragazzo», fu del tutto evidente la differenza prospettica adottata tra chi sosteneva e chi ripudiava la guerra. Era come se i primi scendessero — pur con una certa dose di
avventatezza o di cinismo — tra i soldati, e rimanessero nei loro paraggi nei lunghi momenti della preparazione alla battaglia, o in quelli più crudeli dello scontro. Esemplare fu, in questo senso, l’occhio di Boine quasi perennemente fisso sui soldati: Giacché la condizione di soldato in cui ora siete non potete considerarla ©
come una formalità a cui vi siete come a tante altre nella vita, sottoposti, o peggio come un duro inutile giogo. È una condizione privilegiata in cui il distacco da ogni altro personale interesse, l’esser fuori dalle consuetudini famigliari, le cessate preoccupazioni sociali e mondane, vi offrono il mezzo di darvi interi a l'ideale più alto che possa animare un cuore d'uomo. Ogni ideale, ogni onore mantenuto è, soldati, sacrificio. Voi non terrete alto il vostro onore particolare, l'onore della vostra famiglia, comunque l'onore della vostra posizione sociale, senza sacrificio e rinuncia”.
La fortuna che il pubblico decretò ai racconti di guerra dipese dalla illusione che essi creavano, dal senso di vicinanza e di coinvolgimento che furono capaci di produrre. L'adozione di una prospettiva ravvicinata rese questi racconti più veritieri, più audaci, più crudi, e
perciò più consoni al momento. Fra accaduto già per le guerre d’Africa, ora il fenomeno si amplificò. Il 27 maggio 1915 il «Giornale d'Ttalia» pubblicò un resoconto memorabile di una delle prime battaglie:
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lo scritto, che giungeva da Cormons, parlava di una notte di guerra, dell’allarme dei soldati schierati sulle prode dei torrenti, sparpagliati per i campi e lungo il confine sinuoso. Parlava dei «bersaglieri audaci e snelli», dei «fucilieri baldanzosi e forti», dei primi rombi dei cannoni,
dell’afa estiva e infine «dell’impeto magnifico» con cui si videro de nostre truppe slanciarsi, di qua, di là, guadando l’Judrio, passandolo sui ponti, inerpicandosi sulle pendici verdeggianti»*!.
2.Irituali bellici collettivi Come
ebbe
ad osservare
Erich Ludendorff
nei suoi Ricordi,
la
guerra impose subito, e in una misura del tutto sconosciuta rispetto al passato,
il dovere
di radunare
anche
le ultime forze umane
e di
renderle effettive per la lotta o per impiegarle dietro il fronte, per l'’amministrazione della guerra, o per altri servizi nell'esercito e nello Stato. In qualsiasi luogo si trovasse, qualsiasi mansione svolgesse ogni singolo uomo poteva servire la patria, ma era necessario utilizzare presto e bene la sua forza*. Soprattutto — ovviamente — quella dei soldati, motore di quella trasformazione a lungo agognata, i soldati, i dispensatori di energie virtuose. Non accadeva solo in Italia: George Simmel già nel 1914 aveva osservato come nella società tedesca, allo scoccare
della guerra, fosse intervenuta una mutazione
generale, si
fosse affermato un «sentire» nuovo. Un nuovo tipo completamente diverso di unità [...] d’un tratto, il singolo è rifluito nel tutto, sono nati un nuovo sentimento e un nuovo concetto di totalità sovra individuale. Questa totalità non è solo l’intreccio dell'essenza
e delle forze individuali, ma non è neppure qualcosa al di là dei singoli, come sublimi dottrine sociali la rappresentano con una correttezza parziale. Invece, nell’esperienza odierna risplende da questo nuovo livello, da questo nuovo modello di responsabilità e di sacrificio anche una nuova
relazione tra individuo e totalità, [...] in certo modo l'ambito [...] della vita individuale è riempito dal tutto.
Anche Ernst Jiinger aveva messo in luce il realizzarsi, Grande guerra, di una particolare trasformazione nella zione degli Stati belligeranti, nei quali sia il fronte della quello della produzione industriale e del lavoro tesero ad sempre
più e ad assomigliarsi.
Le nazioni
durante la organizzaguerra che assimilarsi in guerra formavano un
unico tessuto bellico, una specie di unitario e immenso &yv senza
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più né centro né periferia. Una sorta di «mobilitazione del mondo» 0 più propriamente, una «mobilitazione di ogni essere». Anche in Italia i lettori ebbero abbondanti razioni di suggestione bellica giocata su una doppia polarità: la tradizione da una parte e la novità dall’altra, ovvero la storia epica. In effetti l'intensità e la grandezza degli eventi furono tali tale che essi inevitabilmente finirono presto per fissarsi in pagine e pagine di letteratura e in versi poetici. Non si trattava di una novità, la letteratura di guerra era un fenomeno —- come abbiamo detto — ben conosciuto fin dalle guerre africane, tuttavia esso ebbe ora dimensioni ed intensità prima impensabili. A Milano Antonio Monti? raccolse una serie di poesie per i soldati (poi diventata Quadri e suoni di guerra) la cui prima edizione fu inviata in dono ai militari al fronte. Ciò non accadde solo in Italia, anche in Germania vi fu una «mobilitazione poetica», con un milione e mezzo di canti di guerra (50.000 al giorno) prodotti nel solo mese di agosto del 19148. Ovunque si sviluppò un desiderio di bruciare le tappe, e tutti i toni si alzarono: i giornali parlarono di svolta, di una «diga che si era aperta, di una «fiumana vivente che irrompeva, del «giorno del distacco», della «patria alla frontiera». Si parlò allora della gioia delle donne, della tenerezza degli addii, della disci-
plina virile del popolo, si rispolverò tutto l’armamentario didascalico che era entrato nell'uso con le guerre precedenti”. Pareva che tutti volessero partecipare all'evento, e si inneggiò alla nuova fraternità dei richiamati, fossero essi «giovanotti eleganti» o quelli «dall’aspetto dimesso o rozzo». E alla loro bellezza fisica e virile nel momento in cui, n mutand®, si andavano provando le nuove divise, o si scambiavano con naturalezza gli «indumenti» per trovare quelli della taglia giusta. Moltissimi cronisti magnificarono i primi sudori, sottolinearo-
no le prime allegrie, dettero conto della «clamorosa accoglienza dei parenti che, talvolta in attesa fuori dalle caserme, quasi «non riconoscevano più» i loro ragazzi, già trasformati in soldati con il fucile a tracolla e pronti per salire sui treni per il fronte”. Scrisse un giornale nel suo fondo di prima pagina che con la guerra accadeva «come nei tempi antichi» quando «tutta la nazione in armi, fusa in una moltitudine infinita» si lanciava e prorompeva «al di là dei confini» mentre il re, capo di questa compatta moltitudine guerriera, tornava ad essere davvero «il mitico “pastore di popolo”, il pontefice romano»0, Nella sua declinazione retorica la nazione assunse i contorni di un corpo mistico, di entità idealizzata;, quintessenziale e imperitura, posta
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al di sopra e al di là di ogni mutamento della storia. Una unione degli animi, oltre che dei corpi, quasi una anticipazione della mistica statale fascista. Dominarono dappertutto scritture inneggianti alla scontro: da guerra è la vita di un popolo, di una nazione, ed il secolo ventesimo, passerà alla storia come il secolo più vivo di tutti gli altri, che ha sentito fino nelle ossa la voluttà feroce di vivere e di vivere nel sangue»"!. La guerra «bruciava il sangue come una bevanda attossicante trangugiata in fretta», perché essa non era solo un fenomeno esterno ma era un sentimento che prendeva gli individui dal di dentro, era come una bevanda che una volta assaporata produceva una «agitazione consumante, e come una droga ottenebrava le menti «di una foschia, che non era terrore e pietà, ma poteva chiamarsi sbigottimento almeno». Il vecchio Carrà, esaltato alla vista dei giovani chiamati alla prova «del pericolo», inneggiò alla raggiunta «unità spirituale» degli italiani richiamandosi anch'egli all'idea di uno Stato quale proiezione massima e «prolungamento del nostro io, ingigantimento del nostro io». Molti altri sostennero che grazie alla guerra, la nazione si era «devata come un sol uomo, e forte, e pieno di fede», e si era fatta ascoltare con una voce sola, con «un urlo che ha scosso l’organismo intero». Papini parlò di «“mmenso e bel corpo italiano» indirizzandogli una
Dichiarazione d'amore”. Come ebbe ad osservare Pierre Teilhard de Chardin, d’uomo del fronte» agisce in funzione dell’intera Nazione e di tutto ciò che si nasconde dietro le Nazioni. La sua attività e la sua passività particolari erano «direttamente utilizzate a favore di un ente superiore al suo come ricchezza, durata, avvenire». Il combattente non è più che secondariamente se stesso». Egli è, «in primo luogo, una particella dell'attrezzo che fora, un elemento della prua che fende le onde. Lo è, e sente di esserlo. Una coscienza irresistibile e pacificante accompagna, infatti, nella sua funzione nuova e piena di rischi, l’uomo che la Patria ha votato al fuoco. Questuomo ha l'evidenza concreta di non vivere più per sé, di sentire in sé un’altra cosa che vive in lui e lo domina». L'uomo che attraversa l’esperienza della guerra è come se passasse «attraverso il fuoco» per diventare «un uomo di un’altra razza». Quest'uomo è come se avesse vissuto nella luce, come
se avesse avuto il privilegio di affacciarsi ad una «finestra aperta sui «meccanismi segreti e gli strati profondi del divenire umano»‘”. Le caserme — si disse con insistenza — rappresentavano la meravi-
gliosa realizzazione di una comunità di eguali, di confratelli, perché le gerarchie militari spazzavano via d’un colpo quelle della ricchezza
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e dell’istruzione, mentre la disciplina e l'addestramento trasformavano il corpo dei soldati. Divise sgargianti — così le descrivevano i giornalisti - davano forma, visibilità e una nuova dignità sociale a chi andava a combattere. Secondo un redattore de «La lettura», la divisa
militare aveva «il potere di assopir rancori, di mitigar tendenze, di . modificar opinioni». Secondo l’opinione maggiormente circolante sugli organi di informazione, fin dalle prime settimane al fronte, tra i soldati si sviluppavano sentimenti di altruismo e solidarietà’, quegli stessi sentimenti di bonaria autorità che avrebbero contraddistinto l'operato dei comandanti?. Molti insisterono sulla sublimità di quella folla «partorita dalla nostra terra», del «fante infangato» quale rappresentante del «grande popolo minuto [...] che va a battersi senza nulla sapere», diventando forte come una furibonda tempesta dove «le onde lo abbracciano e lo catturano»’”. Anni dopo padre Agostino Gemelli ancora ricordava la profonda impressione che gli avevano fatto quei giovani che, chiamati per andare in guerra, avevano
improvvisamente
«cominciato
a
muoversi a comando» come se fossero stati colti tutti insieme da «una specie di febbre psichica». Tra i volontari ci fu chi scrisse a casa con enfasi: «papà mio, che momenti, che gioia, quale ridestato fervore di patriottismo in questa nostra Italia che si credeva imputridita dai diversi Giolitti»”. Erano queste le parole di Roberto Sarfatti, figlio di una coppia illustre e tribolata, mentre nella notte bolognese aveva deciso, pur non avendo ancora compiuto la maggiore età, di farsi avanti come volontario. Il tono era patetico, il linguaggio era quello che vigeva tra padri e figli in una famiglia bene educata; ma a ben vedere il giovane non faceva che ripetere slogan antigovernativi forse sentiti nei comizi e nel com-
plesso la sua prosa non esalava che vapori corradiniani”. Invasato di bellicismo era il giovane Jacopo Novaro, che scrisse ai genitori del «fremito di elettricità» che avvolse il treno carico di soldati che partiva dalla stazione”. Il treno era una specie di cordone ombelicale, la cinghia di trasmissione tra la nazione e i suoi soldati. Scrisse Arturo Bau: Sulle lucide rotaie passa l’onda della guerra. L'estrema stazione ferroviaria segna il punto d’innesto tra l’esercito che combatte e quello che lavora. La strada d'acciaio cessa dove principia il dominio del cannone. Dà soldati, cibi, foraggi, cannoni, materiale guerresco; riceve feriti, ammalati, prigionieri, batterie consunte dal lungo uso, bossoli di granate. Tutti i rifiuti umani e meccanici della battaglia. Treni imbandierati là vanno a
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morire. Treni che hanno attraversato l’Italia tra auguri, benedizioni, portano vicino alle linee i voti e le preghiere che hanno raccolto. I prodotti di cento, mille officine, là si scaricano. [...] Odo un fischio di locomotiva; mi
volto. Arriva lento lento un treno. Porta delle truppe fresche, delle nuove energie, nuovi proiettili umani da scagliare negli assalti, per un glorioso reggimento rinforzato quindici o sedici volte. I freni gemono gli uomini
scendono e guardano il treno che inesorabile li ha portati fino all’ultima stazione. Ora non c’è più nulla. Qualche chilometro di marcia, la trincea,
il fuoco... l'assalto. Gli ultimi carri del treno portano dei cannoni, belli e terribili come belve dormienti”.
La retorica coprì tuttavia una realtà complessa e ricca di sfumature: si sa bene che molti giovani che ricevettero la cartolina-precetto per l’esercito non condividevano gli entusiasmi di cui si leggeva sui giornali, come ben si vede da molte missive scritte al re dai soldati o dalle loro famiglie di aperta riprovazione della guerra’. Ma furono ben poca cosa, anche perché, non solo le notizie erano ormai filtrate
ad arte, ma già nel 1915 erano state poste in atto misure repressive di carattere poliziesco, grazie alla legge sulla sicurezza dello Stato voluta dal ministro della giustizia Orlando. E si pensi alla durissima campagna di stampa svolta contro i socialisti e i pacifisti da alcuni giornali. Col passare delle settimane gli organi di stampa insistettero sempre di più sull’ebbrezza dei soldati, ma non più quella dei partenti colti nella loro beata incoscienza, ma delle truppe al fronte. Invenzioni e cronache mistificanti, alcuni cronisti riferirono che sulle strade i conducenti dei mezzi militari erano «tutti infiorati», e che molti di loro cantavano
«con la divina poesia della loro giovinezza gioconda». Una madre scrisse così al figlio anch'egli al fronte, riferendogli quel che aveva saputo sulla morte del padre, una lettera emblematica e, per certi aspetti, archetipica della comunicazione epistolare in tempo di guerra. deri — scrisse la donna — venne il maggiore Longagnani e mi disse che [gli avevano riferito che] papà fu colpito sul primo combattimento; un proiettile [...] alla gola, strozzandogli la carotide, ledendone la spina dorsale e che la sua morte fu istantanea [...]. Un soldato [...] che passò a Sulmona, ferito, disse di aver visto papà al principio del combattimento, che era animatissimo, felice come se fosse andato a una festa». Anche le immagini fotografiche seguirono le stesse logiche narrative, ribadendo una consolidata iconologia bellica largamente tributaria della precedente pittura storica risorgimentale; così nelle scene dei
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soldati che riposano, che scrivono alla famiglia, che leggono o che si dedicano alla toeletta si ritrovano scene e pose che il pubblico aveva già tanto spesso potuto vedere. Dal canto suo D'Annunzio sentenziò: «tutto quel popolo che ieri tumultuava nelle vie e. nelle piazze, che ieri a gran voce domandava la guerra, è pieno di vene, è pieno di sangue; e quel sangue comincia
a scorrere, quel san-
gue fuma ai piedi d’una gran-
dezza invisibile». In queste condizioni di sovreccitazione ufficiali e soldati cominciarono — ricominciarono — a scrivere j
9
lettere. }
/
Furono
le
prime avvisaglie di un fenomeno che assunse nei mesi e anni
ted Fig. 12 F. Depero, Guerra-festa, 1924-25, arazzo,
part.
Roma,
Museo
di Arte
Contemporanea,
successivi proporzioni gigantesche. Le voci dei soldati che abbiamo già incontrato nelle primordiali guerre italiane prima, e africane poi, tornarono ora a farsi sentire con insistenza maggiore: sono documenti talvolta di toccante disperazione, di speranze, di gioie, di addii e di fiduciosi propositi di ricongiungimento. Talvolta queste voci dei soldati sono improntate all’entusiasmo, proclamano la fede nella patria e testimoniano lo spirito di abnegazione, altre volte asseriscono di voler accettare il martirio in nome dell’Italia. È legittimo chiedersi quanto, in questi primi mesi di guerra, fosse coscientemente vissuto con consapevole felicità, e quanto invece fosse una sorta di sopravvivenza di quei sentimenti bellicosi formatesi nei lunghi mesi di vigilia; quanto fu riverbero, eco degli entusiasmi e ripetizione di cliché, piuttosto che sentimento vero. Certo, una volta adottato un certo linguaggio di guerra — abbiamo visto quanto esso fosse ricorrente nella cultura politica della giovane nazione italiana — non era ipotizzabile che lo si potesse abbandonare in tutta fretta in conseguenza della disastrosa gestione delle operazioni belliche. Infatti gli entusiasmi scemarono a poco a poco con il
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protrarsi della guerra, con il sopraggiungere dell’inverno e con i rovesci militari, ma non si spensero mai del tutto. La ‘gloriosa’ tradizione militare sabauda resistette all’usura: d’altra parte la epistolografia di guerra, i racconti e le cronache pubblicate sui giornali nei decenni delle prime guerre africane avevano fornito ai soldati dei buoni argomenti per descrivere la loro vita militare, e anche un buon lessico. Senza dimenticare che dalla scuola i quadri militari avevano ricevuto in dote quella retorica che, seppure con indeterminabili variazioni, aveva fornito tutti gli strumenti del camuffamento letterario, che permise a molti di tacere della vera guerra, o di accennarvi solamente. Potremo dire che la guerra subì uno ‘spostamento’ verso narrazioni preordinate. Alcuni intellettuali e ufficiali ne ebbero chiara coscienza: «quante volte — scrive ad esempio Pietro Jahier — il soldato che, oltre a fare la guerra, gli capita anche di rileggersela sui giornali, s'è trovato a dire, alla descrizione di una battaglia che pareva una premiazione, o vedendo, in una figurina i plotoni correre come in una rivista: “che bellezza davvero, a potercisi ritrovare”. Ma la maggior parte di costoro non poteva non riflettere una diversa visione della esperienza bellica direttamente influenzata dall’educazione che avevano ricevuto, dalle letture che avevano fatte sui libri trovati
nelle biblioteche di caserma. Infatti prima ancora di ricevere l’incarico dal ministero della Guerra di fornire all’esercito i libri, l’Istituto Nazio-
nale per le Biblioteche dei Soldati — fondato e funzionante dal 1908 — aveva agito autonomamente organizzando una cospicua raccolta di volumi e invitando gli editori a fare le loro donazioni. Da ogni parte erano affluiti a Torino ben novecentomila volumi di ogni specie che, opportunamente vagliati e catalogati, furono destinati alle bibliotechine dei soldati al fronte. Nel primo anno di guerra ammontarono a 651.574 i volumi distribuiti insieme a 2.130.846 opuscoli di propaganda patriottica. Non tutti i libri donati da associazioni e privati furono spediti al fronte, perché alcuni non vennero considerati adatti: al contempo furono stampati dei sillabari per i soldati analfabeti e altri opuscoli ad uso pratico sulle più svariate materie, e non soltanto con finalità di addestramento militare, tra questi erano presenti anche vari manualetti
per istruire alla scrittura di lettere e cartoline. In molti casi l’Istituto editò in proprio e alla fine del 1915 risulta che avesse stampato 28 titoli, perlopiù di consigli igienici e di suggerimenti logistici”, e si calcola che alla fine della guerra avesse fatto circolare un milione e 31 mila volumi, più tre milioni e 320 mila esemplari di scritti di propaganda patriottica”.
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Le liste dei titoli dei volumi presenti nel catalogo per l’anno 1917 ci mostrano una perdurante vitalità delle storie degli eroi e dei martiri: tra i titoli che ricorrevano maggiormente c’era infatti Giuseppe Mazzini. I precursori, gli apostoli e i martiri del Risorgimento italiano di Cesare Schiaparelli, nel quale si illustravano i sacrifici e le morti da Santorre di Santarosa a Confalonieri, a Mazzini, ai fratelli Bandiera, ai
martiri di Belfiore, e fino a «gli ultimi martiri» rappresentati da Guglielmo Oberdan, Cesare Battisti, Antonio Bergamas, Umberto Gaspardis, Ezio De Marchi, Giuseppe Vidali, Annibale Noferi, Nazario Sauro,
Edgardo Macrelli e Alfredo Sarzetti®. Come ebbe a riconoscere con franchezza Giuseppe Prezzolini sull«Archivio Storico Italiano» in un breve saggio uscito nel 1918, in conseguenza della guerra si era risvegliato tra gli italiani un grande desiderio di lettura, sebbene la maggior parte di loro si fosse accontentata di pagine di minor qualità rispetto al passato, perché — notava il Prezzolini — le «letture di svago e gli opuscoli d'occasione» avevano ormai conquistato porzioni via via crescenti di lettori prendendo il sopravvento
sopra gli «studi seri e i volumi organici»; e ciò a causa
di «quel curioso sentimento generale» per il quale non vale la pena di «studiare sul serio durante questi anni di guerra». È un fatto che in quelle circostanze anche tra i soldati si leggesse di più che in passato perché «a vita attiva della guerra, stagnando con la trincea» aveva creato «una certa disposizione, se non proprio alla meditazione, certo
alla lettura». Ormai c'erano due pubblici diversi e interagenti tra loro: «quello dei civili e quello dei guerrieri» e tutti cercavano romanzi e poesie quali strumenti per «fuggire» dalle opprimenti condizioni del presente”. Ma gli Stati maggiori organizzarono le letture dei soldati puntando soprattutto alla celebrazione degli episodi eroici e dei sacrifici dei padri risorgimentali. In tema di guerra si poteva parlare dunque più di cultura e di educazione che non di propaganda. Infatti, benché fin dal giorno prima dell’intervento, cioè dal 23 maggio, un decreto avesse vietato la pubblicazione di notizie militari che non fossero «di provenienza ufficiale», durante i primi mesi di guerra non c'era alcun ufficio veramente funzionante che si occupasse della propaganda. Anche presso il Comando Supremo, piuttosto che pianificare azioni di propaganda ci si concentrò sui modi più efficaci per ‘sostenere il morale’ delle truppe, con una serie di provvedimenti vòlti a rinforzare e irrigidire il palinsesto disciplinare dell’esercito. Solo dal 1916 cominciò a funzio-
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nare. a pieno regime un Ufficio Stampa - poi Stampa e Propaganda
— con finalità di orientamento dell'opinione pubblica nazionale con la costituzione, per esempio, dell’Unione Insegnanti, dell'Ufficio Doni e delle Case del Soldato”. Ma anche dopo la nascita di questi organismi di sostegno alla vita militare non si avvertirono mutamenti significativi dal punto di vista della comunicazione di guerra, precipuamente e tradizionalmente legata al controllo di certi toni eccessivamente trionfalistici usati dalla stampa: ma si trattò di ben poca cosa, che non incise sul linguaggio dei racconti di guerra. La realtà della morte, la scomparsa di migliaia di soldati non intaccò i cliché celebrativi, anche perché, nei primi anni del conflitto, non esistendo alcuna commemorazione pubblica dei lutti di guerra, non furono quasi mai approntate liturgie specifiche per i soldati morti, il cui lutto rimase del tutto privato”. L'unico vero spettacolo collettivo restò quello dell’arruolamento e della partenza dei battaglioni, il resto della vita di guerra rimase nell’ambito del non detto. Ed è possibile che i lettori non avessero inteso che si trattava di un inganno. Essi non avevano che labili prove che questa letteratura fosse il frutto di interessate fantasticherie. I soldati ed i marinai scrivevano seguendo collaudati stereotipi, i giornali si appropriavano giorno dopo giorno, come era accaduto in passato,
di queste scritture, che poi in parte pubblicavano. Gli Stati maggiori dal canto loro favorirono questo conveniente gioco di rimbalzi, mentre i lettori esterni al sistema bellico vero e proprio ritennero quelle testimonianze del tutto sincere. E furono per la nazione la più chiara dimostrazione che fin dai primi giorni di mobilitazione l’esercito aveva sviluppato un senso di appartenenza e di coesione ammirevole. E
quando, con gran rilievo, la stampa dava notizie di quei soldati che chiedevano ‘per lettera’ di essere per sempre sepolti tra i confratelli, ritenendo di appartenere all'esercito anche «in morte, era normale che l'emozione si sommasse all’emozione”?.
3. II soldato felice e altre maschere I soldati che scrissero della guerra lo fecero ricorrendo a metafore ed eufemismi”': ci fu, per esempio, chi la paragonò ad uno spettacolo, chi a una tempesta, alcuni furono impressionati dai suoni dei proiettili di vario calibro che andavano dal miagolio al soffio all’ansimare diabolico, e non mancò chi la mise a confronto con l’opera di un ar-
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tista, o chi la vide e la descrisse come una tragedia liberatoria”.
Un testimone annotò: «lo spettacolo» è stato «terribilmente superbo» perché «tutte le postazioni nemiche
sono
state
bombardate da una gragnola di proiettili d'ogni calibro. Tutte le trincee degli avversari sono state sconvolte ad una ad una [...] e due soldati sono stati sca-
gliati in aria come fuscelli» ed io «sono tranquillo, perfettamente sereno». E un aviatore, al termine di una spedizione con-
pen
templando la sua opera ben riuscita, vergò sul suo diario: ;
:
«data l'ora tarda, ed il caso
e
Fig. 13 B. Fattori, Canti di guerra di un capo-
di
rale, Senigallia, tip. A. Manoni, 1919 [Coper-
essere uno degli ultimi rimasti sul bersaglio, ebbi campo di osservare
benissimo
——s
;
gli incendi
tinal. provocati
nei baraccamenti
[...] fu
uno spettacolo impagabile». Di giorno la guerra era un frastuono, mentre di notte era tutto un chiarore di granate che arrivavano, di raz-
zi luminosi, di riflettori e di vampate misteriose. Presso certi comandi ci fu addirittura chi prendeva l’automobile e si portava in qualche punto panoramico per godere dello spettacolo dei bersaglieri??. Lo stereotipo più frequente fu certamente quello del combattente felice e del giovane soldato che se ne andava lieto incontro alla morte e le cui imprese rilucevano di inusitata bellezza: «la vittoria si inazzurra nel cielo», scrisse con tono lirico un giornalista della «Domenica del Corriere»?. Anche molti intellettuali che avevano fatto l’esperienza della guerra al fronte — seppure occupando gradi di comando — spesero parole di elogio per la guerra. Come Carlo Emilio Gadda, che, al solo sentire il rumoreggiare della battaglia o l'urlo dei cannoni era assalito da «ina specie di commozione
sovrumana»,
cosicché
«d’ardore della
lotta» gli moltiplicava le «energie della volontà», il «vigore fisico», la «spensieratezza» e «’entusiasmo»”, Lo stesso capitò a Paolo Monelli, per il quale la grandiosità del fenomeno faceva sì che la guerra fosse percepita come un fatto «tra-
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sumanante», che la rendeva una sorta di «dievito di giovinezza», capace
di far «danzare» tutti quanti «sul filo del rischio con ebbrezza acuta»*. Secondo Bontempelli, per esempio, la battaglia non era affatto un «disordinato frastuono d’inferno», come alcuni avevano detto, ma «una
magnifica musica, piena di varietà, di solidità, di ordine e di esaltazion®; e «gli schianti ininterrotti» erano «come note d’un accompagnamento sempre più rapido», e il boato dei cannoni più lontani «come una larga armonia continua». Anche Antonio Borgese faceva calare nella mente di Rubé quelle stesse sensazioni: «il boato corale ed ottuso delle batterie più lontane non somigliava alle acque e al vento dentro il castagneto? La mitragliatrice simulava la gaiezza presuntuosa delle ranocchie nelle sere di luna, e qualche fucilata rammentava il secco battere del picchio. Ma di tanto in tanto una granata più prossima pareva lo sbatacchiare di una colossale porta di bronzo, spinta da una colossale mano iraconda: la porta del cielo basso e vuoto». Gli ufficiali più colti attinsero a piene mani al repertorio che la letteratura aveva offerto loro negli anni di scuola o grazie alle letture che avevano potuto fare in caserma. La cultura romantica, si pensi ad esempio
a Edmund Burke o a John Ruskin, aveva offerto metafore guerresche a profusione: la tempesta, il terremoto, ogni tipo di sconquasso poteva fare al caso se non altro perché suggeriva l’idea di una natura né morta né muta,
ma
al contrario
animata
da forze sovrumane
che facevano
sentire la loro voce solo nell’immane soqquadro”. «La nostra generazione pacifica è stata sorpresa da un temporale, scrisse, per esempio, un giornalista colto come Alfredo Panzini*. Niente di più consueto, infatti, che il ritrovare in quella letteratura sul tema, la guerra assimilata al «mugghiare» e al picchiare dei macchinari dell'artiglieria, oppure ritrovarla accomunata alle «eruzioni vulcaniche» nonché assimilata ad una qualche inusitata creatura animale dotata di un «artiglio» spietato!” Pareva anche che le persone vivessero più intensamente prima di
morire e che, proprio a causa del cataclisma, affiorasse nella gente una sorta di vitalità profonda, un senso conturbante di novità e persino di purezza*, tanto che furono in molti a sottolineare che era «dalle macerie» che sorgeva «la nobile forza della Redenzione»? Era anche per questo suo lato religioso che ogni qual volta che scoccava l'ora della guerra si vedevano tanti giovani che andavano gioiosamente incontro alla morte, cantando a squarciagola vari inni di battaglia. Una contentezza che non si registrava solo nel momento delle partenze,
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ma anche in seguito e proprio tra quei battaglioni di soldati che, dopo aver «intaccato il ferro e il cemento con le unghie e con i denti» ed aver «coperto i reticolati di cadaveri» infine erano rientrati «decimati, senza ufficiali»; anche allora incredibilmente c’era chi cantava”, perché, come
aveva detto Ruskin, nessuno si lascia andare ad un rischio così grande
come quello dell’annullamento di sé, se non avendo preventivamente accettato la morte, e avendola accettata non ne ha più gran timore. Le grandi guerre ci si presentano dunque come delle feste dove, all'annuncio che sarebbe scorso del sangue e che molti si sarebbero dovuti sacrificare ci si alzava felici in piedi, come successe al Teatro Metropolitan di New York, quando, alla notizia dell'entrata in guerra della nazione, il pubblico balzò dalle sedie e si produsse in un «prolungato e appassionato applauso»?. La vertigine della guerra, infatti, non nasce necessariamente nella partecipazione diretta alle azioni belliche, non dipende dal coinvolgimento diretto degli individui nella disputa armata, ma da una forma di immedesimazione sul tipo di quella teatrale, con i suoi momenti di dramma, i suoi cambi di scena, i suoi colpi a sorpresa; il piacere può risiedere anche solo nell’osservare gli altri che si divertono, perché si può intimamente partecipare ad una festa anche standosene un po’ ai margini a guardare.
Fede e allegria si intitola un articolo pubblicato con gran rilievo tipografico dalla Domenica del Corriere», a sottolineare proprio quegli ingredienti del successo facile e persino indolore dei primi fanti italiani sul fronte di guerra. «Come sarebbe possibile meravigliarsi dei prodigi di valore e abnegazione che compiono le nostre truppe, insensibili alle fatiche, ai rischi, alle intemperie, scrive l’articolista, «quando vediamo che ufficiali e soldati sono animati dalla più solida fede e vanno incontro ai pericoli come a una festa». E un sottotenen-
te medico citato dal giornale ci tiene a far sapere a tutti che; «quassù sui nostri monti, baluardi di nostra difesa mi trovo bene: la vita della tenda non mi spaventa per nulla; il pericolo mi esalta; i nostri alpini, baldi e robusti
giovani,
mi spronano
all’emulazione».
Quassù,
tra i
monti, dice, «da nostra vita pulsante di sana energia, pregna di sentimenti non mai provati, neppure in noi sognati; la nostra personalità
qui ci si svela in tutta la sua sincerità! [...] lo spirito è sempre alto [...] l'allegria in noi regna sovrana! I giornalisti infinite volte batterono su questo tasto, testimoniando
che i soldati, «per la maggior parte meridionali», sia al fronte che nelle
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retrovie, riempivano «d’aria della loro attività allegra e chiassosa» grazie a certe «canzonette di Piedigrotta». E gli alpini di un reparto che viveva «da quattro mesi a circa 2800 metri», conducendosi con «sacrificio indicibile» - come notò un corrispondente dal fronte — cercavano, «con deliziosa ingegnosità tutta italiana», di rendersi «passabilmente lieta la loro esistenza in trincea»
tant'è che, qualche volta, qualcuno «ride anche quassù»”. In un brano di una corrispondenza di un giornalista della Domenica del Corriere, compaiono tutti gli ingredienti di quella che fu la narrativa dei fatti bellici della Grande guerra: c'é il tema della spensieratezza giovanile del combattente, che fa contrasto con il suo difficile compito, lo spiccato senso del dovere del soldato, lo spettacolo delle esplosioni, nonché l’inventiva dei soldati italiani che riescono sempre a cavarsi dagli impicci. Siamo nella regione delle Dolomiti, oltre il confine del Cadore. E la asprezza di questa guerra combattuta in alta montagna, fra i duemila e i tremila metri, appare di una grandiosità sovrumana. [...] I duelli delle artiglierie hanno poche soste quassù. Le valli rintronano di colpi. Fiocchi fumosi di shrapnels sbocciano sulle cime delle montagne, colonne di terriccio e di fumo si levano dalle rocce al picchiar delle granate. I soldati non se ne occupano. È la musica quotidiana. [...] Se i proiettili nemici tempestano troppo da vicino, i soldati si rifugiano in piccole nicchie scavate nella roccia, aspettano
la tregua,
come
si aspetta
sotto un portico che cessi
l’acquazzone. Poi riprendono, tranquilli, gridandosi saluti allegri”. Quella stessa allegria la ritroviamo in tante testimonianze, probabilmente era un modo per raccontare in modo velato del disagio dei soldati? O quelle strofe erano piuttosto invocazioni e «canti larghi come preghiere, come scrive,
con una finezza che spesso manca Locchi, ‘poeta’ di Figline Valdarno?
nei letterati di professione, Vittorio
Tutti cantavano i fanti,
stesi lungo i due cigli, come ragazzi presi
da un’indicibile gioia. Passò uno squadrone al trotto, colle lance Basse; e tutti tra risa
E grida gli cantarono, facendogli ala,
colle mani per trombe, la fanfara, come matti ragazzi
che uscissero da scuola”,
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Il Refrain della allegria dei soldati era mille altre volte ripetuto, anche autorevolmente. Padre Agostino Gemelli, il capo del laboratorio psicofisiologico di Udine per la selezione degli aviatori, l'intimo amico di Cadorna, ribadì in più di una occasione che il combattente italiano era in grado di sopportare «ogni avversità e ogni fatica, e anche se portato a combattere «senza sapere bene il perché, egli obbediva al suo superiore con dedizione, addirittura con «giocondità»”. Il battaglione non appare né stanco, né scosso, si legge in una corrispondenza che porta notizie dalla zona di Pinerolo nel maggio del 1916, ma resta «fermo sotto il fuoco» assistendo al passaggio dei feriti senza che nessuno batta un ciglio”. Gli Stati Maggiori, confortati da certe voci di scienziati e di esperti, insisterono sull’aspetto corale del comportamento
del soldato, come
aveva avuto modo di sottolineare tante volte padre Agostino Gemelli. Il soldato non era quasi mai un eroe isolato, ma viveva e combatteva grazie ai compagni della truppa”. Il potere della guerra, secondo Gemelli, era tale che plasmava gli individui e li trasformava fino a farli sentire diversi e migliori di prima! Negli anni della guerra l’idea del ‘soldato gioioso’ non fu cancellata dalle più crude cronache belliche, né dai lutti infiniti che la nazione dovette registrare: il tema resisté ad ogni evento, anche il più critico che avrebbe potuto offuscarlo, persino episodi come la rotta di Caporetto o le notizie sulla terribile ‘giustizia’ di guerra messa in atto da Cadorna con stile da aguzzino. L'idea del combattente felice era un elemento del quale la nazione non avrebbe potuto né saputo fare a meno, in qualche modo esso garantiva anche le coscienze di chi aveva applaudito i soldati mandati al massacro. Le maschere gioiose nascondevano volti di morti. Per anni si continuarono a leggere testimonianze ormai leziosamente
edulcorate e fintamente dolenti. Ti riveggo ancora, con gli occhi della mia fantasia e con quelli della mia anima, o biondo Brunelli, fratello di trincea! Fri presso un ciglione conteso, difeso aspramente, tenacemente. E sorridevi, sorridevi, mentre attorno a te infuriava l'ira nemica [...] molti proiettili ti avevano sfiorato il viso, e tu eri sempre sorridente [...] E ti rivedo biondo Rolando, in quel giorno di bombardamento; ti rivedo ancora sorridente, mentre tra i rantoli e i gemiti dei morenti, una scheggia ti aveva colpito al volto. [...] E fosti il primo, poi il solo ad arrampicarti per camminamenti scoperti, su per la roccia aspra e arida, finché una seconda scheggia, più crudele ti colpì! [...] e cadesti
[...] mentre il tuo esanime corpo martoriato da altri colpi, divenne una poltiglia sanguinolenta!!®!
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Poi dall’estate del 1917 ecco al fronte comparire i nuovi cavalieri della guerra, degli «uomini coraggiosi e calmi»!®, truppe scelte di fanteria, un corpo misto formato da volontari e da cooptati dai comandi;
era il corpo degli Arditi cui una enorme fortuna memoriale sarà tributata negli anni successivi. Nato per cercare di dare una svolta tattica alla guerra di trincea, e addestrato con metodi che avevano come modello — almeno inizialmente - le Sturmtruppen austro-ungariche!®. Queste nuove truppe d’assalto avevano tra l’altro anche il compito di dimostrare «alla massa la gioia di provarsi ai rischi maggiori, di precedere, di condurre verso il certo morire i fratelli meno temprati»!®. Ricorda uno dei fondatori della Associazione Arditi nell’immediato dopoguerra: «gli Arditi della 2° Armata partivano ogni volta per l’azione [...] con esplosioni di gioia barbarica che spargevano odore di orgia carnevalesca [...] Partivano in camion, tra nugoli di polvere e di esultanza, salutando i compagni e giurando, sulla punta del pugnale, di vincere»!0. Gli Arditi furono la personificazione della vera guerra, del lato di essa più arcaico e nobile della lotta ancora condotta basandosi sulla prestanza fisica e sull'uso di un’arma che, come il pugnale — l’emblema del corpo — costringeva ad avvicinare il nemico, a battersi con lui direttamente e a viso aperto. Gli Arditi si facevano esplicito vanto del
sangue del nemico ucciso cosicché furono i grandi mitopoieuti della guerra. Prima ancora che le storie belliche si orientassero a descrivere le gesta dei cavalieri del cielo, e al pari delle storie marinaresche, furono certamente gli Arditi a suggestionare i lettori grazie alle loro fabulae di sangue. Anche se essi furono pure tristemente celebri per il trattamento che riservavano ai prigionieri. La testimonianza di un tenente al comando del LII reparto della 6° armata (fine ottobre 1918) è emblematica: «gli arditi erano feroci, pugnalavano ferocemente, selvaggiamente, con voluttà e divertimento!.
4. L'odore dei morti Negli anni del conflitto una certa discrezione per gli aspetti più crudi della guerra stese un velo di pietà su uno dei lati più oscuri e tremendi della vita del fronte, quello della morte fisica e del disfacimento delle salme. Eppure era stato un aspetto che aveva grandemente impressionato i soldati, soprattutto per il fatto che molti cadaveri erano rimasti spessissimo ben in vista di tutti e non avevano
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ricevuto una adeguata sepoltura!. Un letterato come Monelli ricordava con raccapriccio di «quell’odore di cimitero sotto al naso» che esalava da una ventina di morti in un crepaccio, e la faccia di un ufficiale medico morto che mutava «adagio adagio quotidianamente, sotto la decomposizione», cosicché dal suo naso che ad un certo punto s’era «spaccato», andava colando «una sanie verde», mentre «i suoi occhi» erano rimasti «sempre vivi e sbarrati»!®8, Lo stesso orrore si coglie nelle parole di Emilio Fusari, un semplice fante mandato a combattere sui Carpazi. Un corpo umano
cioe per primo un braccio ci quardiamo senza proferir
parola e tiriamo per veder meglio era un soldato Austriaco stato sepelito non da tanto tempo. Si poteva ancora distincuer la filosimia di giovane. Di nuovo lo metemo al suo posto, e dopo averlo quertato li faciamo con due pezzi di legno una croce e ci alontaniamo. Mentre stavo mangiando poi, pensavo a questi casi che forse fra breve me pure selierò un posto simile mi sembrava un sogno ma era più che realtà!°.
La consuetudine con i morti, la vita vissuta vicino a cadaveri putre-
scenti, l’odore della decomposizione: le testimonianze sullo spettacolo macabro si susseguono, dalle celebri pagine di Jinger che si attardano sui particolari dei «dembi insanguinati di uniformi e brandelli di carne o sul cavallo sventrato con le interiora fumanti, sull’odore dolciastro dei morti, sulle carni che sembravano «di pesc®, sulle orribili danze macabre che sembrano inscenate dai soldati improvvisamente mummificati, rattrappiti, calcificati mentre erano ancora in piedi!'°, Il piemontese Enrico Conti, della brigata Alessandria, in linea sul San Michele, venne còlto da sentimenti ambigui, una mescolanza tra l’orrido e il grottesco offerta da certe estreme situazioni di morte. Annotava infatti nel suo diario che, trovandosi «alla distanza di dieci metri dal nemic® ucciso, i soldati morti avevano sì tutti una «faccia nera»,
ma spuntavano da essa dei «denti bianchissimi» cosicché sembrava che dormissero!!!. Qualche volta dai nemici uccisi si ricavavano trofei, come si legge in una lettera inviata dal fronte: «an caporal maggiore di Montepulciano, che ha ucciso un alpino austriaco sulla montagna, e l’ha portato a spalla al campo, mi ha regalato la penna di fagiano di monte che ornava il cappello del morto; è un ricordo bellissimo della guerra»!!?. Uno studente torinese scrisse invece alla mamma una lettera tremendamente realistica.
I. La grande vertigine
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[Nella notte c’era stata battaglia e] Quando venne la mattina, qualche spiacevole sorpresa ci fu: un braccio, tre dita di un piede, un elmetto spaccato dal quale usciva qualche grumo di cervello sporco di terra. Riparati alla meglio si stette lì tutto il giorno sotto un furioso bombardamento ad aspettare. [...] sull'imbrunire ecco l’ordine di cambiar posizione. Una marcia di due ore verso il passo [...] giungemmo a notte. Qualche cadavere straziato sulla neve, urla di feriti gravi nostri ed austriaci, non trasportabili. Urla che finivano col divenire lunghe nenie, indicibilmente tristi. [...] Alla mattina un mio collega ebbe la sorpresa di constatare che i suoi vicini di destra e di sinistra erano morti, morti, di tre giorni e quattro. Che pose macabre quei corpi! Che impressioni nei visi! Ne vidi uno che non dimenticherò più. Gli occhi aperti perduti nel cielo. Il corpo disteso, quasi placidamente e un braccio alzato e irrigidito in un gesto di conclusione come dicesse “così”! Doveva essere stato fulminato da una mitragliatrice. Il lezzo soffocava!!8,
C'è chi ha visto il campo di sterminio — luogo di disumanizzazione massima e di seriale
e meccanizzato esercizio di macellazione umana
— come il termine di una lunga catena di eventi che hanno ad un capo la ghigliottina e come suo anello forte il mattatoio —- Chicago o La Villette poco importa!!;) ma come non vedere nessi nell’assuefazione per la morte di massa, nelle cataste di morti abbandonati allo sfacelo
sui campi di battaglia della Grande guerra, e come non vedere l’assuefazione alle gesta di Cadorna, il discusso comandante militare!! dell’Italia pre-fascista? O come non ritrovare i semi di quelle nefandezze nelle idee sprezzanti sulle trasformazioni chimiche di cui sono passibili i corpi umani nell’ineffabile Marinetti? Nel 1916 sull'Italia futurista» egli pubblicò un articolo dal titolo Un bollito di cadaveri prussiani, secondo
il quale in Germania
e in Giappone
erano state
realizzate delle vere e proprie industrie per la trasformazione della carne dei morti in sapone o in polvere da sparo!!°. La guerra comportò, come ho detto, una inedita contemplazione della morte e una pubblicizzazione del disfacimento della carne. Gli spettacoli macabri furono infiniti e rappresentarono un aspetto della brutalizzazione prodotta dalla guerra, ma dettero avvio anche a quella riflessione su di sé, sulla fine della vita e sull’aldilà che troviamo
in tante pagine scritte dai militari appartenenti alle classi più colte e scolarizzate. E molti di questi fenomeni sublimi produce la guerra, questa epopea barbara che idealizza, straziando la materia, l’azione degli spiriti che vi
112
Il martire necessario
partecipano e fa passare sui mucchi orridi, fetidi, dei suoi cadaveri le visioni più pure e più alte, alte così che sembrano attingere e confondersi col cielo. Umano e divino si fondono. Gli antichi attribuivano agli Dei come la somma bontà e l’immenso ardore anche il sommo della barbarie e della crudeltà. A ogni eccelso le cose eccelse!!.
Soprattutto gli ufficiali e i sottufficiali raccontarono che la guerra aveva offerto loro la possibilità di conoscersi meglio e di comprendere i misteri dell’esistenza. Fu per questo suo lato particolare, come notò Ernst Jinger, che «subito dopo la guerra» apparvero «sciami di uomini impegnati a migliorare il mondo» che andavano gridando «ai quattro venti le loro nuove conoscenze»! Per molti di loro era come se il combattimento fosse stato in grado di suscitare processi di introspezione e di elevazione, quasi come una confessione religiosa che, disancorando l’individuo dalle zavorre del peccato, sollevandolo da ogni tabù lo predisponesse al divino. Scrisse Walter Benjamin che il soldato in battaglia giocava tanto con l’alto quanto col basso!!, con la vita e con la morte con totale disincanto. Non pochi notarono che il sangue perduto in combattimento e la visione della morte erano capaci di indurre una «sensibilità stranamente chiara e viva», che provocava nel combattente «d’alto godimento di una visione impersonale del mondo» e gli faceva «vedere le cose [...] come attraverso un cristallo sfaccettato»'°. Come se grazie alla sofferenza e al sangue si entrasse in una nuova dimensione dell’essere: «allora mi portai una mano
al costato, sotto il cuore, e la ritrassi viscida e molle; e rosse di
sangue erano la camicia e ogni cosa. [...] E allora mi pareva di aver fatto il primo passo nella nuova vita; certo avevo varcato la soglia»!!. Lo stesso Giani Stuparich, irrisolto tra esaltazione e riprovazione della guerra, scrivendo a Prezzolini non poteva fare a meno
di notare che,
grazie alla guerra, ormai viveva e vedeva il mondo in modo diverso, quassù sul Carso, ammise «si sente ormai altrimenti»!??, Fra questo un tema antico del quale avevano parlato in tanti; Adam Mickiewicz, in pieno Ottocento, aveva sottolineato che in guer-
ra «in un’ora si prova un mondo di sensazioni; si raccoglie un bottino di ricordi per tutta la vita»'8. Ed erano ricordi ed esperienze impossibili nella regolata vita di tutti i giorni, dove l’esperienza della morte era addomesticata dalle liturgie del lutto. Invece in guerra era tutto diverso, qui la massa dei cadaveri che si decomponevano e si confondevano in poltiglie orrende dalle quali più non si distingueva carne
II. La grande vertigine
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da carne, erano immagini a cui pagine di letteratura avevano abituato l'opinione pubblica, specialmente quella più colta, fin dalle guerre combattute in terra d’Africa. Ed infatti dalle disgustose pagine del Rkobilek di Soffici!? alle non meno stomachevoli rime di Lussuria di Bontempelli!® la morte e il disfacimento divengono esercizio estetico, motore di estenuazioni sensoriali estreme che sfociano nell’erotismo oltre che in una sorta di mistica percezione delle profondità dell’essere, cosicché era normale che il guerriero ritenesse di poter e saper condurre «una vita a parte»!?0. In assenza
di confini, la guerra,
presentandosi
come
una
pura
forma di comportamento senza più regole e limiti etici poteva con facilità trasformarsi in esperienza che varcava le soglie dell'umano e che poteva essere osservata con una sorta di superiore indifferenza e quasi di ieratica tranquillità. In una lettera dal fronte Enzo Valentini confida a un amico: «quassù [...] nelle pause dei cannoneggiamenti si respira «un’aura satura di misticismo francescano»!?”. In un paese nel quale le persone che avevano ricevuto un certo grado di istruzione erano in possesso di una formazione liceale dominata dalla cultura classica — o di una formazione seminariale non poi molto diversa dalla precedente —, i temi del soldato eroe che combatte inseguendo il suo «sogno di martire e che, in virtù del coraggio che la sfida gli richiede, ricavava sia plauso sociale grazie al «canto dei vati», sia l’immortalità nel ricordo, erano temi ben coltivati!8. Gli uffi-
ciali che avessero alle spalle anche una qualche formazione religiosa non potevano non essere sensibili al tema dei dolori della guerra e alla loro moralizzazione, che voleva dire saper guardare ai lati positivi del male e alla sua forza redentrice. Ma anche un mezzadro istruito aveva potuto percepire la guerra come occasione positiva di cambiamento: «ho fatto quello che ho potuto — scrive — e l’ho fatto volentieri. Forse sarà una mia illusione: ho
fiducia che questo labirinto di una miriade di patimenti possa e debba essere stato un grande bagno purificatore per l’umanità»!?. Ancora una volta l’intreccio di culture realizza il ‘miracolo’ della omogeneità di atteggiamenti tra la guerra intesa come parto doloroso dal quale inizia nuova vita!, e il «martirio di uomini» in cui le vite vengono offerte «per la grandezza e l'avvenire della benedetta terra» sulla quale «ogni goccia del sangue versato, ogni lacrima che spunti dall'occhio di madre, di sorella, di consorte, di figlia» è «come seme che fruttifichi»!8'. Il soldato poté facilmente essere assimilato ad un
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Il martire necessario
agricoltore che lavora la terra predisponendola alla rinascita primaverile; e il combattimento ad una mietitura che, per quanto faticosa, produceva ricchezza e si concludeva con una qualche felice sagra contadina, ovvero con una festa di sangue, come scrive Corrado Alvaro. C'era gran sole Pel campo, e tanto grano Che mi pareva il mio piano; [...] c'era tante cicale Che cantavano; e a mezzo giorno Pareva che noi stessimo a falciare,
Con gioia, gli uomini intorno!.
In un senso o nell’altro il soldato svolgeva comunque una attività positiva, sia per se stesso che per la collettività. Nel suo lavoro egli era un artefice, anche se era chiamato a produrre dei cadaveri o a distruggere e frantumare, piuttosto che a produrre o a creare. Il soldato Croci è corso a riattizzare il fuoco in una casa che brucia. Ritorna, le mani nere, il viso infuocato, felice. E gli altri gli fanno festa. Noto, nel soldato, questo bisogno di distruggere. Egli, era alacre nel costruire: fossero una casa, una trincea, un ridotto, egli aggiungeva mattone a mattone, con
schietto
zelo; ma
poi che ora
deve
abbandonare
tante
cose
(ch’egli considerava sue) al nemico, gli pare che nessuna legge dovrebbe vietargli di bruciare!.
Ogni atto di distruzione e di morte viene visto come un mirabile atto creatore:
ogni smembramento,
ogni incendio, ogni uomo
morto
non è più una fine, ma il suo opposto: un incipit, da qui una sorta di beata noncuranza per la morte, il mondo in pezzi diventa silloge del mondo che si rinnova e i cavalieri che smembrano e atterrano vengono presi dalla gioia per l’opera costruttiva della quale sono iniziatori partecipi e testimoni".
5. La bellezza del guerriero Fra stato tutto sommato
facile raccogliere
i suggerimenti
prove-
nienti da tanti intellettuali e guardare alla guerra come fosse un’opera d’arte! in Italia un personaggio come Nicola Maria Campolieti rilanciò questi stereotipi.
Il. La grande vertigine
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La guerra è essenzialmente un'arte. L'arte s'impone all’ammirazione uma-
na ad una sola condizione: che essa procuri un godimento sovrano all’anima contemplatrice. Ma questa condizione importantissima è l’effetto di un’altra causa, senza della quale non avremmo l’opera d’arte: è l’espressione di godimento che l’artista provò nell’eseguire la sua opera. [...] Se tutto ciò può dirsi d’ogni arte, a più ragione deve dirsi dell’arte della guerra, così speciale!30,
E al pari di quanto accadeva un po’ ovunque nei principali paesi europei, anche in Italia i cosiddetti pittori di guerra proliferarono, non raramente sostenuti da lucrose committenze: l'onorevole Boselli, poi presidente del Consiglio tra 1916 e 1917, che già aveva finanziato il Cammarano per far produrre opere d’arte risorgimental-coloniali, proseguì nella sua opera di sostegno degli artisti. E fu grazie a lui che il Museo Centrale del Risorgimento di Roma può a tutt'oggi contare su un cospicuo deposito di opere sulla prima Guerra mondiale!”. Ma a parte le grandi iniziative del governo, un po’ ovunque nella penisola prese di nuovo avvio la raccolta dei cimeli della guerra grazie ai quali i musei accrebbero le loro dotazioni e soprattutto si incrementarono le collezioni ospitate nelle strutture militari, nelle accademie e nei vari centri di addestramento militare!*. Grazie agli artisti di guerra ed ai fotografi, il corpo del soldato cominciò a conquistare la scena che poi tenne indefinitamente fino ai giorni nostri!5. Benché non si cessasse mai di dipingere scene collettive di battaglia o di celebrare i gesti eroici all’interno di quadri complessi, il soldato, colto nella sua solitudine, ma anche nella sua
specificità fisica, diventò il pretesto per illustrare le storie di guerra; sullo sfondo di campi devastati dalle esplosioni, immerso in vapori e nuvole di polvere, fu il suo fisico, la sua forza muscolare unita all’in-
canto delle sue doti morali ad essere messa in scena. La guerra richiedeva infinite doti di sopportazione e di pazienza, ma imponeva anche una attenta disciplina e cura del corpo; il guerriero doveva aumentare la sua forza e moltiplicare le sue risorse fisiche oltre a dominare le sue passioni. Tutto questo doveva però rispecchiarsi sul suo corpo, che, in un certo senso, era un corpo pubblico, nel quale la nazione ritrovava le sue migliori qualità. Grazie alla armonia delle sue forme egli lasciava intravedere la bellezza della sua anima, grazie alla possanza dei suoi muscoli egli lasciava che si indovinasse la saldezza della sua mente e del suo cuore. Molti guardarono dunque con infinito trasporto alla luminosa
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Fig. 14 Tullio Crali, Battaglia Danzata di paracadutisti, derna.
Il martire necessario
1942, Roma, Galleria di Arte Mo-
aspirazione del guerriero per una morte eroica, essa finiva sempre per riflettersi in positivo su tutto il popolo. Anche per questo i meravigliosi portenti del combattimento continuarono a sollecitare artisti e intellettuali: la contesa bellica fu una costante fonte di emozioni percepita in modo collettivo, mentre un eroe combatteva tutta la nazione si sentiva di pugnare insieme a lui. Tra i protagonisti di questo ammaliamento non ci furono soltanto artisti e poeti décadents, ma schiere di cittadini comuni che guardavano ormai con ammirazione a quelle nuove e tragiche utopie politiche basate sull'idea della forza e del rinnovamento razziale della società!‘ Col passare del tempo, però, non fu soltanto il guerriero ad essere posto al centro del pubblico teatro della guerra; lentamente sulle tele dei pittori cominciarono ad affiorare visioni più mosse e più umbratili, più dolorose e meditate. Soprattutto emerse quella che molti
Il. La grande vertigine
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riconoscevano essere la più seducente, voluttuosa e faustiana delle aspirazioni, ovvero l’attrazione per l'annullamento di sé e per il riscatto attraverso il dolore. Certo il nuovo spettacolo della guerra produsse anche esperienze e percezioni che non si erano mai realizzate in precedenza e che contribuirono anch'esse a rendere il fenomeno molto attraente. Il potenziamento della balistica, la possibilità di utilizzare fotoelettriche o razzi illuminanti, la stanzialità dei soldati e i lunghi periodi di attesa, le scene di morte, nonché l’intensità dei rumori e degli odori determinarono l’acuirsi e il fissarsi di certe immagini. Tutta la notte gli austriaci hanno lanciato una quantità di bombe illuminanti, che non si vedevano, nella nebbia folta, ma illuminavano l’atmosfe-
ra di una luce diffusa e verde di un aspetto fantastico; e tutta la notte su per il ghiacciaio hanno rimbombato i colpi di fucile, e la caccia all'uomo nella tenebra folta ha commosso il silenzio delle nevi eterne!"
E infatti le visioni notturne illuminate dai fulgòri delle bombe oppure dalle fotoelettriche e dai bengala rimasero impresse a molti artisti, si prenda ad esempio Anselmo Bacci o Giulio Aristide Sartorio e Tommaso Cascella!. Boccioni ne fu letteralmente impressionato, almeno a stare a quanto scrisse in una lettera: «ogni notte vado a montare la guardia a un forte che guarda direttamente i tedeschi [...]. Tutta la notte i fasci luminosi dei riflettori nostri percorrono il cielo traendo delle visioni di notte guerresca bellissima»!.
6. Icantori del male Pochissimi furono alieni dalle lusinghe della guerra e del potere di vita e di morte che essa conferiva, e non pochi furono i suoi convinti cantori". Alcuni erano scrittori di professione, altri soltanto autori di libri scritti per l'occasione, o semplici epistolografi, ma tutti erano accomunati dall’entusiasmo per il sangue, il combattimento e lo scontro bellico. L’Antologia degli scrittori morti in guerra ebbe molte ristampe nel 1918, poi nel 1920 e quindi nel 1968. In questa edizione reca una nota di avvertenza nella quale Prezzolini — che ne era uno dei curatori — si poneva una domanda drammatica: Oggi ho i capelli bianchi — scrive Prezzolini — e mi domando: “valeva la pena?” Ma subito dopo: “potevamo farne a meno”? Ed anche mi domando:
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Il martire necessario
“Avevo diritto di spinger tanti italiani a morire per Trento e Trieste che non sapevano cosa fossero, e per un'Italia più grande quando loro non sapevano nemmeno che era piccola”? Al che rispondo: “E che cosa avrebbero fatto di meglio nella vita, tanti di quelli che morirono senza sapere perché
morivano”?!5.
Senza la prova della guerra nessuno di loro, secondo Prezzolini, avrebbe fatto di meglio nella vita. Ma come non notare che la massa oscura dei soldati, a cui Prezzolini sembra dare una chance, in realtà
è solo una evocazione retorica, un riflesso letterario; egli parla di soldati, ma non gli dà mai voce, piuttosto si rivolge alla componente istruita dell’esercito, agli ufficiali soprattutto, e in quel bacino di testimonianze egli cerca e trova conferme alle sue idee. È del tutto evidente che qui la bellezza della guerra — e la sua vertigine — non tocca mai davvero le masse oscure dei fanti, quanto piuttosto va a sondare gli animi dei soldati istruiti che avevano potuto affidare alla carta tutti i loro sentimenti, le loro bramosità maschili e le
loro gioie. Il catalogo delle espressioni e delle frasi è lo stesso che si può incontrare nella pagine dei giornali. L’amalgama è qui completo: giornalisti, scrittori, ufficiali, poeti e pittori parlano tutti la stessa lingua, usano le stesse metafore, si convincono delle stesse ubbìe. C'è la
guerra — cerimonia: «è il dodici giugno e nevica. Nevica grosso e soffia un vento che sconquassa le tende. Oh che bella festa! Oh che bella festa»!‘°. E c’è la guerra-dovere e la guerra — voluttà: un soldato si dice sicuro che sia comunque
una gioia poter «dare la vita per un sogno,
anche per un sogno vano, anche per un sogno che non vedremo realizzato, anche per un bene che non ci apparterrà»!!. Ripubblicata dal Prezzolini, la testimonianza
di Adolfo Vigili, ori-
ginariamente stampata a Siena nel 1917, segue la falsariga della infatuazione gioiosa, come del resto quella di Pietro La Rosa, tenente del 19° fanteria che inneggia «al sacrificio lieto» capace di inebriare!*S, Dal canto suo la lettera di Paolo Marconi dal Monte Cengello, datata 6 giugno 1916, non faceva mistero della sua volontà di votarsi «dietamente al sacrificio!!, Del tutto simile negli esiti a quella di Prezzolini — se non proprio nei propositi — è la silloge di Adolfo Omodeo, Momenti della vita di guerra (1934) nella quale non mancano le testimonianze di entusiasmi bellici. Anche in questo caso si tratta di una raccolta di lettere sulla quale il gravame ideologico dell'autore gioca un ruolo determinante. Omodeo
Il. La grande vertigine
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è uno storico crociano osservante, la sua guerra in chiave liberal-nazionale si compone di parole d’ordine irrinunciabili quali Risorgimento, patria, nazione, guerra giusta, Trento e Trieste ecc. Secondo l'illustre studioso i protagonisti della guerra — le fonti a stampa significativamente vanno dal 1917 al 1930 — si dividevano in due categorie nate da due «formazioni spirituali diverse: l'ufficiale e il soldato. E mentre il primo — non senza contraddizioni — era giunto «ad accettare e a volere la guerra e l’impegno bellico, il secondo aveva seguito altre strade: in lui «il sentimento guerriero» si era ridestato attraverso «un altro processo, più elementare» fatto «di passioni e di istinti primigenii», che secondo l'Omodeo avevano un che di «omerico», come se nel fante contadino si
sommasse «Marte e insieme il dio delle messi»!?, Così, un poco ripuliti dal sangue e un poco dimenticato il dolore dei simplices, non sono mai presi in considerazione quei rustici che non avevano lasciato una qualche memoria scritta di sé: anche tra le dita dell’Omodeo rimasero impigliate solo le pagine di maggior letteratura. Le pagine con gli aggettivi rotondi e i verbi al posto giusto, tra le quali quelle che testimoniavano i begli assalti e la «gioia guerriera» che «umultua in cuore nel mezzo dei rischi» insieme alla «morte» che in questi casi è «circonfusa da una strana bellezza»!?!. Ma non è per questo suo aver portato acqua ad un regime che i
Momenti della vita di guerra possono essere considerati del tutto privi di attendibilità: gli ufficiali dell’esercito italiano, infarciti di retorica bellicista, rilanciarono in queste pagine il loro messaggio di guerra che continuarono sempre a sentire come genuino e del quale si consideravano, se non proprio degli inventori, almeno degli ispiratori. Gli scritti di questi ufficiali istruiti - e delle loro famiglie che spessissimo vollero e finanziarono la pubblicazione di opuscoli di ricordi e lettere — non sono né veri né falsi, quanto piuttosto il risultato di una complessa situazione socio-culturale e di organizzazione editoriale, nella
quale tradizione e propaganda, convinzioni personali ed educazione letteraria, mito del Risorgimento, aggressività nazionalista e colonialista si sommano
in un insieme composito e al tempo stesso organico.
Se prendessimo quei documenti al di fuori di questa silloge abilmente
orchestrata
dall’Omodeo,
quasi tutti continuerebbero
comun-
que a testimoniare ciò che leggiamo in quelle pagine. Ovvero che la luce martirologica con la quale si illuminano le guerre italiane da mezzo secolo a questa parte, così come i grandi temi della bellezza della tenzone e del gioioso morire in combattimento, sono già, ben
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j
Il martire necessario
prima che il fascismo vi aggiungesse del suo, il fondamento ideologico profondo dell’Italia contemporanea. L'idea del virtuoso spargimento di sangue è già tutt'altro che una artificiosa invenzione propagandistica destinata a dissolversi nel breve giro di qualche anno, al venir meno delle ragioni contingenti create dalla guerra. Ci sono anche autori che scrissero della guerra con distacco vestendo la divisa di ufficiali dell'esercito. Pietro Jahier di Con me e con gli alpini (1916), per esempio, è uno di questi ufficiali che parteciparono alla guerra con spirito paternalistico!”. E anche Emilio Lussu in Un anno sull’altibiano mostra lo stesso atteggiamento verso i soldati: li hanno chiamati interventisti democratici!, perché non mostrano aperti segni di esaltazione bellicista. Ma basta questo per situarli su un piano ideologico diverso? Essi certo non pronunciarono mai espressioni roboanti sul sangue e sul coraggio, ciononostante il modello di obbedienza che chiesero alle loro truppe fu identico a quello di tutti i comandanti militari di Cadorna: assalti suicidi, ritirate e marce. Essi in definitiva esercitarono il potere che era stato loro conferito in
modo niente affatto diverso da tutti gli altri: il maggiore Emilio Lussu!’ non aveva pietà dei suoi alpini, e fu sempre pronto a mandarli nella fornace del combattimento. I comandanti erano padri e padroni dei soldati!. Lo ricorda un mezzadro toscano. Il 30 [agosto 1915] dovevamo portarci nuovamente a Monfalcone, ma questa volta in prima linea. Prima di partire il mio capitano comandante 111° Compagnia, a cui appartenni, ci arringò e, fra le altre cose, disseci: “questa sera partiremo per andare in prima linea sopra Monfalcone. Vi raccoman-
do a tutti di fare il vostro dovere, e ricordate che, da oggi in avanti, non sono più il vostro capitano, il vostro fratello maggiore, ma il vostro padrone: ho diritto su di voi di vita e di morte”!,
Sono invece rare le pagine di limpida onestà, come quelle scritte dall’italo-ungherese Eugenio Vaina De Pava, colme di angoscia per i suoi soldati: To non potevo più seppellire quei cadaveri, come non potevo sfuggire al quesito personale che m’inchiodava [...]. Non son essi un poco le mie vittime? Non li venivo io, per un mio vacuo sogno, lentamente assassinan-
do da dieci mesi? Non sono stato io a spezzare colle mie mani, col mio pensiero, con tutto il mio sforzo di questi ultimi tempi tante soavi trame
di vita, a disseccare tante fonti di attività umile e buona per non so che mania morbosa di grandezza?!”
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7. Puer-miles Il tema edificante del martirio felice e produttivo del soldato continuò inevitabilmente a riverberarsi anche sulla letteratura per ragazzi, perpetuando uno dei più caratteristici luoghi comuni della pedagogia dell’età risorgimentale. I Piccoli eroi della grande guerra pubblicato nel 1915 da Térésah Ubertis Gray trasferiva sui bambini tutti i valori bellici degli adulti, come quando, per esempio, tesseva gli elogi dei cosiddetti «piccoli esploratori», cioè dei bambini impiegati nelle operazioni belliche dall'esercito belga e morti in servizio. Tante volte la scrittrice esortava le madri affinché avviassero lietamente i loro figli alla guerra: «dite ai fanciulli: “terra nostra”, “fratelli nostri”, “glorie nostre”, e capiranno subito; commoveteli, agitate in essi ciò che di più puro e ardente cova nel loro spirito, e sapranno giungere al sacrificio con fede e semplicità, addirittura vi andranno incontro con giocondità. Di un bambino alsaziano accusato di tradimento dai tedeschi la Ubertis descrive nel dettaglio la fucilazione: il bambino «si diresse con passo fermo verso un palo del telegrafo, vi si addossò, e ricevette la scarica del plotone d’esecuzione con un calmo sorriso sulle labbra». Era un episodio che doveva insegnare, secondo la romanziera, come «la vita» fosse «tutta una guerra» perché «gli elementi ostili, le avversità, la sventura anche sotto le forme più
terribili» sono «sempre in agguato sulla nostra via» e «fanno della vita umana un perpetuo travaglio». La guerra fu massicciamente presente nella letteratura e sui giornali per i ragazzi. Luigi Bertelli (Vamba), cui si deve ascrivere il celebre «Giornalino di Gian Burrasca, dopo l’entrata in guerra dell’Italia si era spostato su posizioni fortemente nazionaliste, e nel suo / bimbi d'Italia si chiaman Balilla si potevano leggere istruzioni per la mobilitazione dei più giovani «soldati della patria»! Nel 1915 anche «Il Corriere dei Piccoli» diretto da Luigi Albertini, dopo essersi schierato per l'intervento, cominciò a pubblicare amene storielle e illustrazioni di giochi e passatempi che avevano per oggetto la guerra. La guerra
avventurosa fu, per esempio, anche il filo rosso del Piccolo Alpino di Salvator Gotta scritto in riverbero della Piccola vedetta lombarda di alcuni decenni prima. In questo libro, infatti, il protagonista si esalta alla vista del primo soldato caduto, di fronte al quale esclama: «Era un soldato caduto compiendo il dovere più puro e più alto! Era un eroe [...] Com'è dolce la morte degli eroi!
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Nel 1917 Francesco Abba pubblicò un libro di memorie di martiri appositamente scritto per «far palpitare i cuori dei giovani italiani e per «dare un contributo alla guerra santa, ultima che stiamo combattendo nel nome dei nostri martiri, per compiere finalmente l’opera loro, per assicurare in modo indistruttibile, quella libertà, quella indipendenza e quella giustizia, per le quali essi non esitarono a far getto della propria felicità, della propria vita»!*. Si tratta di un’opera nella quale si ricapitolano tutti i temi bellici già sperimentati e adattati all’insegnamento nelle scuole; l’anno seguente fu ancora Térésah Ubertis Gray a pubblicare una raccolta di racconti, tra i quali Il saccapelo — con il quale si insisteva sul tema del martirio dei cristiani — oppure l’Idillio fra terra e cielo, nel quale si esaltava l'obbedienza verso gli ufficiali, o anche il drammatico Classe Novantanove sui più giovani soldati chiamati a combattere. Come spiegava nella prefazione, l’autrice non aveva voluto raccontare dei fatti puramente
inventati, ma si era attenuta scrupolosa-
mente a certe cronache perché era nella guerra che si potevano rintracciare casi veramente meritevoli di essere narrati, storie di eroismo
e di altruismo delle quali erano stati protagonisti dei ragazzi: «ragazzi? Eroi», si chiedeva la Ubertis, che prontamente rispondeva che essi erano l'uno e l’altro. Essi erano «belli, indicibilmente, con quella loro verginità di coraggio più pura del vecchio eroismo leggendario degli anziani!°?, In tutte le pubblicazioni per ragazzi si coniugavano sentimenti di coraggio e di gioia nel combattere a crudi richiami al dovere, allo spirito di sacrificio, all'abbandono fiducioso nelle mani degli adulti e dei maestri; insegnamenti nei quali par di riconoscere la peculiare vena autoritaria imposta all’organizzazione militare da Cadorna. Basti pen-
sare che l'Ufficio Storiografico della Mobilitazione annesso dal 1917 al Ministero delle Armi e Munizioni — come allora veniva chiamato il ministero della guerra — aveva dato incarico a vari esperti di esaminare il comportamento dei fanciulli «di fronte e per causa della guerra»!®8, Ma era da tempo assodato che il modello disciplinare dell’esercito italiano, con tutto il suo carico di esaltazione dei buoni sentimenti filiali verso la famiglia, era perfettamente adatto a diventare il frame educativo dei più giovani, dai quali ci si aspettava ottemperanza agli ordini e spirito di sacrificio!%. Alcune opere si presentano come vere e proprie sillogi di luoghi comuni sulla guerra del tutto ricalcate su quelle degli adulti. Il libro
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Resistere per esistere, che uscì nel 1917, era proprio dedicato «alla gioventù delle nostre scuole mentre sul confine d’Italia si decide forse la lotta tra la civiltà e la barbarie: esso metteva in risalto il martirio dei soldati e il debito che la nazione contrae nei loro confronti e che deve ‘ripagare mobilitandosi. Ogni cittadino — scriveva l’autore — in casa e fuori, deve avere sempre dinanzi la figura del nostro soldato combattente [...] così e fuor della trincea tra il bagliore di una mischia terribile con quell’occhio aperto e acceso dal quale vien fuori tutta l’anima combattente di amore immenso e di sublime
sacrificio!9,
In questo contesto pedagogico
e disciplinare l’eroismo rientrava
pienamente nelle strategie di assuefazione alle angustie che doveva condurre i giovani a condividere precocemente le responsabilità degli adulti. Molti racconti, infatti, offrivano storie piene di avventure e di
giovani che fuggivano da casa per correre ad unirsi ai battaglioni di combattenti. In un libretto dal titolo Piccolo tenente italiano si raccontava di un ragazzo giovanissimo che aveva partecipato alla presa di Gorizia, dove era morto compiendo un gesto che ricalcava quello degli eroi del Risorgimento, il bacio della bandiera!°. Durante gli anni del conflitto, alle prime storie piene di entusiasmi sembrarono poi subentrare toni meno trionfalistici e un più largo spazio fu attribuito all'idea del sacrificio, dell’abnegazione e della morte. Nei libri per ragazzi che parlano di guerra, nelle pagine dei sussidiari scolastici si cercò in effetti «di favorire l’abitudine alle atrocità». La narrazione di episodi di grande brutalità non fu affatto episodica, anzi, a partire dal 1917 la violenza bellica diventò un tratto pressoché costante di questa produzione editoriale. Mutilati e feriti, piccole bare, bambini malati, rondini funeste di pascoliana memoria si accalcarono nelle pagine dedicate ai lettori più giovani!”. Ancora nell’immediato dopoguerra Olga Visentini, una autrice di successo nel campo della letteratura per l'infanzia, riproponeva l’idea del gioioso sacrificio dei ragazzi in guerra, dando corpo narrativo ad una serie «orrifica di piccole morti», tutte giustificate ed esaltate alla luce della lunga marcia risorgimentale. Il suo Bimbi e tricolori, per esempio, si apriva e si chiudeva con la descrizione di due piccole morti sulle barricate milanesi durante le fatidiche Cinque giornate. Come nell’episodio di un ragazzo il quale, nonostante avesse ricevuto
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«una palla austriaca» che gli era penetrata nella fronte e che gli aveva completamente squarciato la testa, aveva continuato a sorridere felice
«sotto il velo di sangue»!®8. 8. Il tributo I soldati agivano in guerra con un delle costrizioni dell'apparato militare qualche infatuazione bellicista, ma in zione morale. Cioè in base all'idea che un debito con la comunità nazionale vettovagliamento,
certo slancio non solo per via cui erano vincolati, o per una base al principio della obbligaciascuno di loro aveva contratto la quale elargiva mezzi tecnici,
armi; un debito che richiedeva
di essere
onorato.
Scrisse un combattente: «compresi che vi era un sacrificio di lacrime, lontano dalla guerra, che valeva il nostro sacrificio di sangue di fronte al nemico»! Il sacrificio è l’atto che più di ogni altro rappresenta la sanatoria di un debito, di restituzione!” è, come dice Jinger, l’offerta più alta che cancella ogni pretesa. Un ecclesiastico, che parlò dal pulpito di Santa Maria del Fiore a Firenze, imbastì un cupo ragionamento dal titolo: J/ soldato è figlio delle lacrime tutto incentrato sul debito che i soldati avrebbero contratto verso una nazione premurosa. In questi momenti trepidi tutta la Nazione palpita per voi, lavora per voi,
piange per voi. A voi la scienza e l’arte consacrano i loro mirabili ritrovati; al vostro vantaggio deve cedere il pubblico commercio, tutte le economie
per voi, tutte le energie a voi [...]. Ebbene, che la Nazione non abbia a pentirsi d’aver fatto tanto per voi. Le costate lagrime di sangue, che domani possa versar sopra di voi lagrime di dolce consolazione!”.
La guerra non è un’attività gratuita perché essa impone compensi incrociati e reciproci. Come aveva osservato Edward Burnett Tylor, il sacrificio era un dono che determinava una qualche forma di compensazione che poteva trovare soddisfacimento anche a distanza di più generazioni!” e del quale avrebbero potuto usufruire soggetti sociali anche molto diversi, come la famiglia del caduto o l’intera comunità nazionale. Il sacrificio non è infatti puro dispendio - come lo sono il gioco, le pratiche erotiche o certe esperienze religiose di tipo estatico dove non conta il calcolo dei costi e dei ricavi - ma è una attività di scambio!. Quando il soldato è rappresentato nell’atto di morire, oppure è già cadavere, la morte, colta come un atto di un rito bellico, appare
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più che altro come dono poiché - come fa notare Georges Bataille — tutti i culti esigono uno spreco sanguinoso di uomini!”. Sono celebri le pagine in cui Von Salomon racconta della guerra come di un tempo di pura dissolutezza e di dispendio: «passavamo tutte le notti a bere, chi non beveva andava a puttane, gli altri perdevano il loro denaro alle carte»!?. Ugualmente famose quelle scritte da Thomas Mann che situa la guerra nel campo dell’insensato consumo generale: questi soldati, scrive, «sono tremila affinché possano essere ancora duemila quando raggiungeranno i villaggi dietro le colline»!7°. Ma queste ‘gratuità’ sono solo apparenza: nessuna delle azioni che a tutta prima sembrerebbero spontanee, soprattutto quelle che implicano distruzione ed elargizione di ricchezze, hanno le caratteristiche della pura generosità, esse sono come il potlàc degli scandinavi studiati da Marcel Mauss!7, sono cioè atti obbligatori di consumo e di dissipazione rappresentati al suo livello più alto dalla morte del soldato-donatore!*. Il sanguinoso potlàc di guerra serve a rafforzare i legami sociali e, in senso
esteso, serve
per creare
nella nazione
belligerante una particolare forma di coesione sociale, il sentimento di un obbligo tra le due popolazioni, quella dei combattenti e quella degli usufruttuari, nonché il senso di una profonda riconoscenza: «si muore per quelli che verranno, come ieri morirono per noi quelli che giacciono e fremono»!?.I soldati erano i capri che si sottomettevano al sacrificio consapevoli del merito che ne avrebbe ricevuto il popolo nel suo insieme, le loro famiglie, e loro medesimi, seppure post mortem in termini di sopravvivenza memoriale. Egregio Signor Arciprete so che il popolo di Fara ci Ricorda da lontano, pensando alla concordia di noi, all’ospirito colletivo che il sacrificio cinpone il congiunto de’ suoi compaesani che al fronte combattiamo, io andrò orgoglioso, poiché so che tante persone ed amici pensano amé che per la Patria combatto [...] Suo Divotissimo Luigi Volpi!”
D'altra parte la comunità nazionale riceveva in termini di sicurezza ciò che spendeva
sui teatri di guerra, essa acquistava
in termini di
fama ciò che all'apparenza era solo dissipazione e carneficina. Essa infatti metteva in moto un poderoso meccanismo di sostituzione di beni
materiali,
cioè uomini
e mezzi,
con
beni
immateriali,
quali il
senso di potenza, e il senso di grandezza. Si trattava di un processo continuo, o una sorta di cinghia di trasmissione che collegava i poli
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Il martire necessario
produttivi della nazione e i suoi centri di reclutamento militare alle zone di battaglia dove essi venivano per così dire ‘consumati’. Non c'era soluzione di continuità tra produzione e distruzione dei beni, tra costruzione e decostruzione. E nemmeno tra il desiderio di vincere e quello di veder morire i propri soldati in vista della vittoria. Il corpo nazionale si aspettava che i soldati morissero per circondarli poi di ammirazione e di pianti orgogliosi. Tutti erano convinti che dalla guerra sarebbe loro venuto un grande utile, sebbene più o meno posticipato. E questo modo di vivere la condizione bellica come fatto corale si era ancor più acuito con l'introduzione di nuove armi che avevano enormemente dilatato il campo di battaglia inglobando grandi masse di popolazione. Ecco perché il tema della diserzione e dello scambio tra esercito e nazione diventa un tema molto rilevante e discusso ai più vari livelli: in un contesto caratterizzato da sensibilità collettive sovraeccitate, tutti si sentivano traditi dai disertori!*!. Saranno spesso le donne, scrive Ada Negri, ad avere acuto il senso del pagamento del pegno grazie all’immolazione dei figli! i quali, nel Vangelo del soldato italiano di Nicola Campolieti, vanno al sacrificio per ripagare quello dei loro padri secondo una indefinita catena di obbliganze generazionali". Di «restituzione» parlarono gli studenti dell'Isola d’Elba riuniti in un comitato costituito in memoria del sacrificio di Cesare Battisti e in presenza della nuova guerra! E ovviamente del sacrificio lasciato in «beneficio» alle future generazioni parla Prezzolini!®. La trasformazione della vita in dono è un meccanismo che funziona con precisione; anche dal punto di vista personale l’idea dell’elargizione produce piacere, come una esperienza erotica in cui la dissipatio è presupposto di vita nuova. «Ormai sono innamorato
pazzo
della mia Italia — scrive Vincenzo Raineri sergente nel 147° fanteria — se essa mi ha voluto donare la vita, io lho data tutta a lei»!5°, Il rinnovamento della ricchezza distrutta è equivalente al rinnovamento della fertilità attraverso la distruzione dei beni o il sacrificio di sangue. La sparsio del sangue giovane è un dono rigeneratore, una sorta di copula sociale dalla quale si trae piacere. C'è della magia in questo gesto, come in quello del seminatore che sparge il grano, che è azione preordinata per ottenere un nuovo e più abbondante raccolto: la dispersione di ricchezza produce nuovo afflusso di ricchezza!9. In questa macchina che distrugge il danno che si produce è anche il prodotto migliore che si possa.ricavare da essa, il soldato cede a
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ogni distruzione, di sé e dell’altro, come donativo alla sua patria, per questo si dedica con passione a questa attività. Egli sa che i suoi gesti (anche se sono gesti di morte e di rovina) sono pieni di significato perché volti a colmare di doni la cornucopia della comunità. Ciò che egli esprime con questo suo atto di morte non è la forza bruta e disordinata ma, al contrario, una energia ordinata, logica, benefattrice.
In una prospettiva ‘nazionale’ la perdita, al pari dell’acquisto, ha un uguale significato positivo, in qualche modo egli anche da morto sa che non scomparirà, ma si sente di entrare a far parte dell’insieme, come fosse una sua parte costitutiva fondamentale. Ciò che viene offerto — cioè la vita — è solo in apparenza alienato perché fa parte di uno processo di scambio, è un momento di una fase che ne prepara un’altra analoga, seppure di segno diverso, quella della restituzione. È in questo suo darsi e disperdersi che risiede quel senso di voluttà che prende i combattenti: non si era forse sempre detto che, dopo la mischia furibonda, il guerriero era abituato a scaricare le sue aggressività residue attraverso l’attività erotica? Nel Manifesto futurista della Lussuria Valentine de Saint-Point aveva ribadito tale concetto fino alla brutalità, e l’aveva unito a più o meno espliciti fondamenti social-darwinisti: aan essere forte deve realizzare tutte le sue possibilità carnali e spirituali. [...].. Dopo una battaglia nella quale sono morti degli uomini, è normale che i vincitori, selezionati dalla guerra, giungano fino allo stupro nel paese conquistato, per ricreare della vita. Dopo le battaglie, i soldati amano le voluttà, in cui si snodano, per rinnovarsi, le loro energie incessantemente assaltanti»!*. Accomunati
da un senso
erotico
prorompente,
il guerriero, nel-
la sua doppia veste di distruttore e creatore, ha più di un punto in comune con l’artista, e nel caso in specie con l'artista futurista che distrugge per creare. Poiché creare è un atto di forza, è l’imposizione di una forma, creare e distruggere appaiono singolarmente speculari: da una parte il tremendo e affascinante cannone distrugge, dall’altra, suggestionato dalla maceria, l’artista provvede e ripara, inventa e ricrea. Guerrapittura di Carrà — in una sezione dal titolo guerra e arte — insisteva sul distruggere e sul creare come atti complementari, favoriti,
appunto, dall'opera del cannone!”. Molti altri futuristi furono pervasi da questa vis erotica, special mente quelli che sperimentarono davvero il fronte, come Marinetti, che ebbe fantasie di dominio
fallico: «sono nella valle di [...] sotto i
mandorli in fiore 2 contadine-braccianti puttanelle [...] colla madre
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Il martire necessario
Fig. CRSEE Bucci, L'Uomo nudo e cannone, da Pittura di guerra pro scaldarancio, Milano, Berchieri e Vanzetti 1918, part.
contadina. Tutte e tre armate di zappa e di culo. Slovene zappano energicamente come se masturbassero il manico d’un membro gigante». Sono numerose le pagine dei Taccuini marinettiani in cui si fa esplicito riferimento all’erotismo delle armi e del combattimento, perché — si spiega — «l'umanità è una massa d'’istinti erotici sanguinari, sopraffattori e rapaci dolorosamente mal ingabbiati nella paura»! . Certo quella di Marinetti sulle armi come simboli sessuali non era una novità, ma in questo caso la sua foga sull’argomento è il frutto evidente e drammatico dell’esperienza bellica: «il tiro del cannone è come l’amore epistolare. Non si vede né sente la lontanissima bocca baciata. Il tiro delle bombarde è invece un amplesso radiotelegrafico»!. E di nuovo: «de bombarde non sono caffettiere ranocchi,
macchine
da cucire.
Sono
dei membri
virili in erezione.
Simboleggiano e sono l’improvvisazione geniale italiana di guerra, il genio improvvisatore italiano. Come le bombarde che sparano erette come membri virili sotto tutto un orizzonte di batterie austriache controbattente — l’Italia deve resistere sparare — eretto membro virile — sotto tutto un orizzonte di batterie di scetticismo pessimismo stanchezza fisica (donne affari amori ecc.)»!. Nel marzo 1917, mentre si trovava a letto ammalato, gli si affollavano alla mente stralunate im-
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magini di guerra e di sesso che annotò diligentemente nei Taccuini: «descrivere ampiamente e persuasivamente le notti tormentate dalle battaglie lontane, le notti di lussuria dilaniate invase devastate dalle orde russe urlanti, dai bombardamenti [...] e le notti gelate nel fango della trincea coi torrenti di corpi femminili nudi nudi aperti accesi liquefatti dal piacere. Guerra lussuria»!%, Alcuni giorni dopo ancora figurazioni a sfondo erotico-blasfemo: «sono eccitato carnalmente da una madonna vestita di rosso azzurro,
il dolce viso serrato in una mantiglia gialla chiara. Ha gli occhi abbassati sul mio letto e fissi sul mio piacere aspro atroce»!”. Poi ancora torna sul tema: «molti mistici immaginarono il cuore di Gesù e quello della Madonna fuori della carne e fiammeggiante sul petto, in un delirio di lussuria visionaria ebbro di penetrare aprire squarciare le carni mostrare l'interno, caldo e odoroso»!, Alla sua autoblinda — l’autoblinda 74, per la precisione — Marinetti dedica pagine notissime. Siamo nel tempo in cui l’esercito italiano cerca di scatenare la controffensiva post-Caporetto, è un momento di ritorni all’infatuazione bellicista di massa tanto che dalla narrazione spariscono le trincee e i loro orrori, mentre tutto è trasformato in mo-
vimento, inseguimento, fuga, spettacolo e forza violenta che si esprime sotto forma di un esasperato erotismo, in un misto di riferimenti
che vanno dai marchingegni del Marchese De Sade al gusto circense e freak per il mostruoso. Poi sentiamo la danza furibonda e il ta-ta-ta-tà capriccioso, spietato, ironico e femminile della mitragliatrice Saint-Etienne che, sei metri a destra, sputa come un’andalusa fuoco di passione e garofani rossi dal suo balcone mascherato di fogliami. [...] Non si inceppa mai se è servita e accarezzata dal suo amico mitragliere Buco, un pugliese magrolino, olivastro, dagli occhietti furbi pieni di lampi che si mescolano ai lampi d’una risata bianca continua. Meccanico provetto. Non ha mai bisogno di smontare la sua amante per pulirne il cuore. La domina impugnandone la schiena flessuosa, la pizzica, la solletica. E la Dama elegante in nero si curva giù sugli abissi dove fervono le serenate austriache.... Buco mi dice: «come è bella la mia dama!... Mi dà tutto il suo spirito e il suo ingegno... Gode, veramente gode quando io la olio di baci». E ancora: «Mentre visito con lo sguardo zelante l’interno della mia alcòva d’acciaio sento la tiepida pressione lattea del suo corpo. Ecco il suo profumo di caprifoglio [...]. Così l’Italia, amore fatto di mille amori entrò abbandonandosi con morbidi scatti fra le mie braccia. La prendo, la stringo e i miei baci affannosi la svestono per meglio goderla!”.
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In queste pagine dove si intrecciano morti e rinascite, distruzioni e rifondazioni, l’oscenità del corpo abbandonato alla consunzione, nonché lo spargimento del sangue sono operazioni eseguite senza preclusioni o freni inibitori, anche perché la spinta erotica, nella sua implicita vis creatrice, compensa tante distruzioni e rassicura sulla
continuità della vita. Non furono soltanto i più scalmanati tra i futuristi a provare questo
senso di piacere nell’esercizio del dominio e delle armi. Bontempelli, per esempio, in una poesia di lancinante brutalità propose crasi esplicite tra il suo eros agitato e un po’ dannunziano e il lerciume cadaverico del fronte dove i soldati sono immaginati mentre stanno nelle loro trincee «come in mezzo al mestruo»!?.
9. Sul Golgota Chi muore in guerra muore tra le braccia del Cristo. Chi sacrifica la propria vita per la patria è un paptuvpec, testimone della fede e campione di amore. Non aveva forse detto San Bernardo che «il soldato di Cristo uccide senza timore, e senza timore muore,
visto che
«morendo egli serve il proprio interesse, e serve l’interesse di Cristo uccidendo»? Le stesse parole le avevano ripetute infinite volte intere schiere di teologi fin dal lontano Medioevo!” Per tutti era sempre valsa una annotazione tremenda: sic oportuit Christum pati et ita intrare
in gloriam suam, gli altri seguivano. Negli anni della Grande guerra il cardinale Jacques BenigneBossuet veniva spessissimo chiamato in causa con il suo prezioso capolavoro dal titolo Politique tirée des propres parole de l’Ecriture Sainte (Bruxelles 1710), così come era spesso citato Patriottismo e pazienza dell’influente cardinale e primate del Belgio Desiré Mercier?%, Quest'ultimo, per esempio, sosteneva che così come le leggi degli Stati imponevano che si preservassero le madri «dall’insulto dei nemici, allo stesso modo era richiesta la difesa della terra in quanto madre, infatti «amor di patria» era una virtù «della pietà» e per questo poteva considerarsi come «una parte del culto figliale. Un religioso italiano sulla scorta di San Tommaso ribadîì che «come appartiene alla religione il prestar un culto a Dio, così appartiene in grado secondario alla pietà il prestar culto ai genitori e alla patria» poiché «da fonte di questo amore è Dio stesso, in quanto la patria è lo strumento della potenza, della bontà, della provvidenza divina». Dunque «Cristo incorona il
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coraggio militare», non solo «la morte, cristianamente
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accettata, assi-
cura al soldato la salute della sua anima [...] il soldato che muore per salvare i suoi fratelli, per proteggere i focolari e gli altari della patria, realizza questa superiore forma di carità. E i nostri fratelli combattenti ebbero questa coscienza e fede cristiana, obbedendo ciecamente al comando ricevuto dalle Autorità legittimamente costituite», Tutti i sostenitori cattolici della guerra ribadirono l’idea che chi combatteva per la fede e per essa versava il suo sangue si trasformava in vero martire? E ciò valeva per tutti i combattenti, istruiti e meno istruiti, consapevoli delle implicazioni comportamentali della propria fede religiosa o meno. È vero che non sempre e non tutti i soldati nostri avranno esattamente fatta l’analisi del valore del loro sacrificio; ma si dovrà mai pensare che Iddio esiga dal valoroso, che si butta nel fuoco della mischia, le precisioni metodiche del moralista o del teologo? [...] Sarebbe mai possibile che Iddio non lo apprezzasse, non gli sorridesse e non lo accogliesse con amore?
Il discorso tenuto in apertura del nuovo anno di studi di Antonio Bertolo di fronte ai giovani studenti del Seminario Metropolitano di Torino nell’ottobre del 1914, quasi interamente su un piano prettamente teologico, fu incentrato sul tema del martirio cristiano°”. Premesso che «alla smagliantissima luce dell’eroismo ferve e s’'aderge ogni cuore, affermò il teologo, è grazie allo «smisurato cozzo di guerra» che gli uomini riescono a scrivere «mmortali pagine di bravura preparata e improvvisa, audace e costante, temeraria e spaventosa, brillante e fulgida, negli eserciti, negli individui, nei duci, nei semplici soldati, nei mille
luoghi, negli aspri cimenti, nelle zuffe titaniche e immani?®, Nonostante il fatto però che questo fascio di sofferenze e questo bagno di sangue siano positivi dal punto di vista spirituale, ciò non toglie — secondo il teologo — che essi dipendano da una condizione di peccato in cui versa l’umanità. Citando a sostegno delle sue parole il De Maistre delle Serate di Pietroburgo, il Bertolo ricordava che la «terribile legge del sangue e della morte» era stata inflitta da Dio quale punizione divina contro Adamo e la sua progenie. Si trattava di una interpretazione che era stata a suo tempo autorevolmente richiamata anche da papa Benedetto XV nella sua Hortatio prima ad Universos Orbis Catbolicos. Ora, benché essa avesse per causa lo sdegno divino per i peccatori, la punizione della guerra implicava dei tormenti così
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crudeli che non dipendevano dalla volontà del cielo perché essa si limitava a consentirli, a permetterli «soltanto»?”. Sgombrato quindi il campo dall'ipotesi che Dio potesse essere animato da un sentimento di rivalsa sugli uomini, il Bertolo spiegò ai suoi seminaristi riuniti che, per godere del beneficio del martirio, era necessario che la vittima si disponesse alla morte «da penitente». In tal modo la teologia apriva spazi indefinitamente grandi all’azione pastorale e catechetica del clero castrense e sanciva in modo non equivoco la opportunità e la bellezza della morte in guerra. Più in generale essa tendeva a stagliare l’episodio bellico su un orizzonte teleologico trasformando la guerra in uno di quei segni dei tempi nei quali, al massimo della «dissoluzione umana e contaminazione di molti membri della chiesa, Dio intima ai martiri di salire sul patibolo sul modello di quanto compiuto dal Cristo?®. Il martire, simile
a Gesù, e suo imitatore, aveva dunque una fun-
zione pedagogica, infatti insegnava alle genti la grandezza del Dio padre?, Il Bertolo poi nel suo discorso forniva anche istruzioni sul comportamento pubblico del combattente cristiano che avrebbe dovuto essere contraddistinto da una fiduciosa serenità, da un sentirsi parte di una collettività di devoti che trovano nella guerra la ragione del loro riscatto dal peccato individuale e collettivo. Per questa via la dottrina cattolica si adattava perfettamente ai tempi di guerra: tempi di riscatto dal peccato e di rinnovamento di tutta la comunità. Anche pensatori di tutt'altra formazione e prospettiva culturale avevano ribadito che effettivamente la guerra aveva un lato spiritualereligioso: «la guerra» aveva scritto ad esempio Proudhon, è «per noi cosa divina: [...] sottratta fino ad oggi all’impero del nostro volere, e impenetrabile alla nostra ragione, come una teofania; essa si circonda di una «gloria misteriosa» che ci attrae e che «ci porta a lei»?!°, Velenosamente Scipio Sighele aveva annotato in proposito: «Quando [Proudhon] parla della guerra [...] egli parla con tutto il suo cuore oltre che con tutto il suo cervello. Egli sente nella guerra la necessità e la bellezza suprema del mondo»?!!. In tanti avevano parlato della guerra come di quello sfondo che favoriva l’innalzarsi dell’uomo verso il cielo delle divinità, Beati coloro che la morte avrà colto nell'atto e nell'atmosfera stessa della guerra — scrive il padre gesuita Teilhard de Chardin -, quando erano
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investiti, animati da una responsabilità, da una coscienza, da una libertà
superiore alla loro, quando erano esaltati sino all’estremo lembo del Mondo, vicinissimi a Dio?!
In Italia ci furono due ‘religioni’ che concorsero a sostenere l’idea della sacralità nazionale. La prima fu la ‘religione risorgimentale’, sia nella sua versione intellettuale di stampo mazziniano sia nella declinazione popolaresca di matrice garibaldina, e sia pure nella rappresentazione ‘savoiarda’ reificata nel pantbeon dei caduti e martiri dell’esercito del re. La seconda fu la religione cattolica la quale velocemente, radicandosi nelle compagini dell'esercito, e attraverso una capillare opera di catechesi martirologica svolta tra le popolazioni, si appropriò definitivamente della vita religiosa dei soldati inoculando in tutti quanti la convinzione che l’Italia, pur nata contendendo alla Chiesa più di una prerogativa, non solo temporale, non poteva non essere considerata intrinsecamente cattolica. Non poteva cioè non essere posta sotto la croce, simbolo di redenzione e di sofferenza, di accettazione del de-
stino e di fiducia nell’avvenire. Ciò accadeva sia per una scelta politicamente ragionata da parte delle gerarchie cattoliche sia per volere e per convenienza da parte dello Stato savoiardo. Infatti, sebbene la questione romana non fosse del tutto chiusa, moltissimi religiosi presero attivamente parte alle operazioni belliche e si rivelarono elementi indispensabili dello Stato nel sostegno morale e psicologico delle truppe. Dal punto di vista istituzionale la Chiesa di Roma, nelle figure di Pio X e poi di Benedetto XV, avrebbe voluto mantenersi su una posizione di rigida neutralità, anche perché si sperava che la guerra sarebbe stata di breve durata. E non fu affatto estemporanea la definizione di massacre inutile nella celeberrima lettera indirizzata ai capi dei popoli belligeranti e fatta seguire da insistiti sforzi diplomatici, da iniziative caritatevoli e di assistenza ai giovani colpiti dal conflitto?!. Il papa infatti non trascurò di intervenire sull'’immane carneficina nella ‘quale egli vedeva rosseggiare il sangue italiano; anche se, dopo l’ingresso dell’Italia al fianco dell’Intesa, il ruolo più significativo non fu giocato dal papa, ma furono più che altro i vescovi ed il clero locale a determinare il coinvolgimento della chiesa — delle chiese locali — nella guerra?!" E sebbene tra i religiosi si andassero sviluppando convinzioni molto differenziate (ci fu per esempio, chi assunse atteggiamenti
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pacifisti, e chi si schierò per una Chiesa ferma su spalti nazionalisti), furono le decisioni prese per dare vita ad un servizio di assistenza spirituale militare a determinare, ipso facto, una discesa in campo della Chiesa. Fin dall’estate del 1915 furono circa 700 i cappellani militari entrati nei ranghi dell’esercito, e furono ben quindicimila i sacerdoti che, pur vestendo la divisa, non cessarono di essere ‘anche’ dei preti. Già presenti sul campo in Africa sia nel 1885 che nel 1911-12, i religiosi non avevano mai ricevuto alcuna ufficiale investitura sui compiti da svolgere nei ranghi dell’esercito, e avevano agito senza un preciso status giuridico, anche se la loro attività era generalmente già ritenuta indispensabile, sia per dare sicurezza e serenità alle truppe, sia per rispondere ad una domanda di cura religiosa ben vista dalla opinione pubblica cattolica. Era stato con una circolare di Luigi Cadorna, emanata nell'aprile del 1915, che a ciascun reggimento fu associato un cappellano militare. È probabile che alcuni ecclesiastici - don Giuseppe Rinaldi, per esempio — particolarmente influenti e vicini al Cadorna, avessero fatto pressioni e che alla fine avessero ottenuto una soluzione di questo tipo?!°. Cadorna fece richiamare in Italia anche un esiliato illustre, cioè padre Giovanni Semeria, che era stato, come è noto, allontanato dall'Italia con l’accusa di sostenere posizioni moderniste, e che divenne un elemento di spicco del Comando Supremo?!°. Dal canto loro le gerarchie cattoliche furono particolarmente sollecite nel rispondere ai provvedimenti presi ‘unilateralmente’ dall’esercito italiano, procedendo alla nomina, riconosciuta dal governo già nel giugno del 1915, di un vescovo ‘di campo’ con giurisdizione su tutti i cappellani dell’esercito, carica che, per tutta la durata del conflitto, fu ricoperta da monsignor Angelo Bartolomasi?!”, In quanto vescovo castrense, Bartolomasi ebbe il compito di coordinare e istruire nell’azione religiosa i venticinquemila preti presenti nell’esercito, fossero essi cappellani militari o svolgessero altre mansioni. Infatti il 90% dei sacerdoti sotto le armi erano «soldati come tutti gli altri cittadini italiani sottoposti ad obblighi militari, ma ebbero il diritto — che diede loro la fama di ‘imboscati’ — di chiedere il passaggio alle ‘compagnie di sanità’ dove svolsero mansioni di infermieri, portaferiti, ecc. Risulta, fra l’altro, che ben 1582 religiosi ottennero anche il grado di ufficiale e che più di una volta vi furono dei reparti comandati da preti che avevano regolarmente frequentato i corsi allievi ufficiali ed erano diventati tenenti o capitani del regio esercito»?!8. Del pari, anche il mondo cattolico, almeno quello che non rimase su posizioni di ‘indif-
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321 ferenza”?!°, reagì con tempestività alla mobilitazione bellica. A Milano, per esempio, si segnalò, e fin dai primi giorni di guerra, l’attività di sostegno ai soldati portata avanti dal Circolo giovanile cattolico e molti fedeli rivendicarono con orgoglio questo impegno. «La voce di guerra passò ovunque come ardore di febbre per tutte le vene d’Italia», si legge in una pubblicazione curata dal circolo medesimo, «i cattolici
con fermezza e con entusiasmo presero il proprio posto. I sacerdoti
benedissero il soldati partenti, le chiese si apersero ad accogliere in solenni funzioni le madri, le spose, i figli imploranti da Dio il ritorno vittorioso dei loro cari. Tutte le società cattoliche aderirono ai vari comitati per la organizzazione civile; innumerevoli scuole, collegi, episcopii, teatri, seminari e saloni cattolici furono dovunque offerti per divenire ospedali, sale da lavoro, cucine, ricoveri pei combattenti e per le loro famiglie»? Già allo scoppio della guerra troviamo — da una parte e dall’altra del fronte — preti, pastori, intellettuali che «imploravano l’aiuto divino per la vittoria dei rispettivi eserciti»??!. E l’ora nostra è questa: si chiama e si chiamerà: “mezzanotte, 24 maggio 1915”. Ora santa è questa, perché giusta, necessaria, la nostra guerra; e sante 222
sono le sue armi, perché solo nelle armi è oggi salvezza della Patria???.
Molti speravano che questo tributo di sangue, che questa passio collettiva avrebbe riempito i cuori di meraviglia e avrebbe riavvicinato molti cittadini agli altari delle chiese. Monsignor Angelo Bartolomasi, rivolgendosi ai cappellani militari, spiegò con franchezza e con una certa dose di ottimismo questo assunto: do sapete, disse, «in trincea non ci sono atei»°?. In effetti, specialmente negli ospedali militari e tra gli agonizzanti, tutti si mostravano devoti, come racconta un ufficiale medico: «tra questi poveri soldati; dai loro letti di dolore, tutti volgono la testa verso l’altare: una grande calma si stende sui loro volti, come se da quell’altare improvvisato si irradiasse qualcosa di luminoso»?! Anche «la stampa cattolica vide nella guerra una purificazione dal clima malsano del tempo di pace, dalla vita libera e dalle letture empie??. Tuttavia il panorama delle posizioni espresse a vari livelli e a vario titolo dai cattolici fu amplissimo e difficilmente riassumibile in una formula. In generale i vescovi si mantennero entro schemi di approccio indicati dalla Santa Sede, anche perché ‘oltre Tevere? si fu molto solleciti a chiedere spiegazioni a chi si fosse schierato troppo apertamente per la guerra.
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Ciononostante non furono pochi i religiosi di spicco la cui condotta in tema di coinvolgimento nelle vicende belliche non rispondeva pienamente alla posizione vaticana? Il cardinale di Verona Sante Bartolomeo Bacilieri, per esempio, si distinse nell’ascrivere il flagello della guerra all’ateismo montante, all’incredulità, all’abitudine al turpiloquio. Al tempo stesso il Bacilieri, come Ferdinando Ridolfi vescovo di Vicenza, Pietro La Fontaine Patriarca di Venezia, il patriottico Andrea Giacinto Longhin Vescovo di Treviso, si adoperarono anche in senso istituzionale, cercando di attenuare i conflitti e di fugare le diffidenze nate in seno all’esercito nei confronti dei cappellani militari. Soprattutto si sforzarono di organizzare in modo razionale l’assistenza religiosa alle truppe e, in gran parte, il loro sforzo fu coronato dal successo. I preti al fronte svolsero una ampia, articolata, flessibile attività caritativa, sacerdotale, di pietosa assistenza alle truppe e alle popolazioni vittime delle invasioni. L’opera straordinaria prestata da parroci, cappellani, suore, appartenenti agli ordini regolari, fu un fattore importante della ripresa e del successo dell'esercito dopo Caporetto. Mantenere alto lo spirito di collaborazione e di profonda e ramificata solidarietà cristiana con le truppe combattenti, pur nelle fedeltà allo spirito delle direttive pontificie, fu una impresa di grande lungimiranza?”. Questa attività di sostegno, nella quale si distinse il patriarca di Venezia, consistette anche nel sollecitare le funzioni di suffragio per i soldati defunti. Benché di solito durante queste cerimonie religiose il clero non entrasse mai nel merito della guerra, tuttavia la presenza nei luoghi di culto delle autorità politiche e militari - dai sindaci ai carabinieri — rafforzò l’idea di una convergenza di fatto tra Chiesa e Stato sul piano della politica nazionale. Per le popolazioni meno colte furono queste le circostanze pubbliche nel corso delle quali si manifestava visibilmente e concretamente l’idea della concordia e dell’unità nazionale, entrambe giocate sulla scena ecclesiastica. La Chiesa in quegli anni si preoccupò anche di ribadire che quella che si stava combattendo era una guerra giusta? La croce e la spada di Romolo Murri, pubblicata nel 1915, era un’opera che nasceva da questa esigenza. È probabile che l'orientamento dei cattolici italiani fosse in quel momento anche fortemente influenzato da quanto stava accadendo in Belgio, e dai riflessi che quegli avvenimenti stavano avendo sul clero francese. Più che inserire la guerra in una prospettiva teologica, le vicende del Belgio e la discesa in campo a difesa della
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sua patria da parte del cardinale Mercier condussero Murri ad abbracciare posizioni di caldo patriottismo. Egli mise in rilievo che i preti e i cattolici nel loro insieme sarebbero stati complici del nemico se non si fossero schierati e avessero mancato di «segnare l’ingiusto» poiché il compito primario di ogni cattolico — scrisse — era quello di «scegliere» ovvero di entrare «nel merito» dei conflitti??. In secondo luogo, secondo Murri, la partecipazione alla guerra avrebbe manifestato il vero volto religioso di una nazione, tutta la sua civiltà, tutti i suoi valori. Sarebbe stato grazie alla «preparazione spirituale, remota e vicina, di un popolo alla guerra e nella condotta di questa» che si sarebbe espressa tutta la concezione che esso «aveva e praticava della vita, dei suoi valori, dei suoi ideali, dei beni che l’umanità doveva conquistare e invocare; e la patria anche, in quanto era umanità storicamente concreta,
strumento, per i suoi e pel mondo di civiltà e di cultura. In un significato più vasto, si può quindi anche dire che la nazione, o la patria, era spiritualmente, per un popolo, quello che era la sua religione. Il valore che la patria aveva, essa era la vera religione in atto». Ma il nazionalismo religioso italiano non si declinò soltanto su questi piani culturalmente ‘alti’: anzi, più che altro ripeté cliché abbondantemente usati come la celebrazione dell'«istinto» dei giovani che andavano «cantando» a combattere, quello delle donne che mescolavano l'orgoglio al dolore per il figlio o per il marito morti sul campo, coltrando linee di spiritualità di carattere crepuscolare che sfociava in credenze di tipo superstizioso legate all'idea che cerie anime dei morti vagassero nottetempo sui campi di battaglia e tra gli acquartieramenti dei soldati, e che si sentissero talvolta bisbigliare delle voci il cui senso risultava comprensibile solo a chi sapeva tendere «l'orecchio al gorgogliare della polla nascosta». Si trattava di una sorta di «orribile e grandiosa sinfonia delle patrie in guerra»? che risuonava come una musica dei morti i quali non avevano mai lasciato il terreno sul quale erano caduti. Certe credenze popolari legate all’uso di amuleti, al culto delle reliquie e ai poteri apotropaici dei corpi dei morti in battaglia, convergevano nel sostenere il soldato nella sua azione combattente, giustificandone appieno gli entusiasmi e gli slanci. Si narravano storie che accreditavano l’idea che i morti continuassero a «combattere tra i vivi» poiché il loro spirito «non esulato interamente dal corpo» avrebbe manifestato ancora «il desiderio ardente della battaglia. Tra gli alpini — lo annota lo stesso Jahier —, «era diffusa la credenza che quei soldati valorosi, pur colpiti dalla morte, rispondessero sempre all’appello e
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proseguissero a combattere in aiuto dei commilitoni viventi,
ripetendo sette volte almeno dopo la morte, gli assalti furiosi contro il nemico». Questa peculiare declinazione del sentimento religioso non si risolse in uno sforzo da parte dei religiosi — come probabilmente sarebbe stato in tempo di pace — di riconduzione di queste credenze ad una più ossequiosa religiosità allineata con il corrente catechismo della Chiesa. Al contrario si manifestò indulgenza e comprensione
per questo tipo
di pratiche. Non c'erano soltanto le croci, ma una congerie di immagini sacre, dalla madonna di Pompei
a Sant'Antonio,
da
San Gennaro agli scapolari con
il sacro cuore di Gesù in funzione protettiva contro le pallottole. In alcuni si potevano leggere su piccoli cartigli frasi rivolte
alle schegge
delle
bom-
be: «fermati il cuore di Gesù è meco»,
e proprio
. 16 Cappellina votiva in miniatura ricavata“or interno di un obice, da C. Caravaglios, L'anima religiosa della guerra, Milano, Mon-
dadori, 1935.
nell’inverno
tra il 1916 e il 1917 furono consacrati due milioni di soldati al Sacro Cuore di Gesù per iniziativa della Opera della Regalità?*. Nel complesso la Chiesa si produsse in una molteplicità di atteggiamenti che vediamo ben riflessi in una miriade di iniziative editoriali. Tra esse particolarmente rilevante risulta essere «Il prete al campo, un bollettino quindicinale diretto da don Giulio de’ Rossi, e stampato dall’ufficio romano della Curia castrense, nel quale affluirono anche alcuni scritti del problematico barnabita padre Semeria e di Pirro Scavizzi. Con «dl prete al campo» si realizzò un abile compromesso tra il sostegno alle ragioni politiche della guerra — significativo in proposito l’intervento
Il. La grande vertigine
Usi
da
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ent:
Fig. 17 Il «Prete al ca mpo» [Frontespizio della rivista].
sulla guerra in un articolo dal titolo / profanatori?" — e la necessità di dare ad essa una cornice evangelico-dottrinaria come più volte riaffermato dallo stesso direttore de’ Rossi già nel corso dei primi mesi di conflitto, con costanti richiami alle virtù cristiane dell’obbedienza e
dello spirito di sacrificio’. Fin dalle prime settimane il giornale adottò una linea fortemente comprensiva verso i cappellani che si erano arruolati volontari e, in un editoriale del settembre 1915 intitolato Zo
slancio iniziale, mostrò di accogliere appieno tutti i luoghi comuni del linguaggio nazionalista di esaltazione della guerra. Lo so, al primo squillo di guerra, correste tutti volenterosi, pieni di entusiasmo per il bene dei fratelli combattenti. La visione della battaglia affascinò le vostre anime sacerdotali; qui, in patria nella tranquillità delle chiese i sacerdoti più vecchi avrebbero potuto sostituirvi [...] ma là era il fragore delle armi, là il rombo del cannone, lo serosciare della mitraglia e là sopra tutto era il fiore della nostra giovinezza d’Italia, esposta a tutti i pericoli, a tutte le malattie, a tutte le tristezze, a tutti i sacrifici anche in mezzo a uno
sfondo luminoso di gloria”,
Nel complesso «Il prete al campo» fu una testata che suggerì la linea di sostegno al profilo della santificazione dei combattenti attraverso il martirio e le virtù cristiane del dolore salvifico. La gioia del soffrire si intitolava proprio uno degli articoli apparsi nel secondo numero del giornale, incentrato sulle vite sacrificali dei santi secondo un modello che ora era del tutto consono a spiegare i motivi per i quali
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i soldati avrebbero dovuto impegnarsi anche a rischio della vita. d santi» si leggeva in questo articolo, hanno sempre accettato il dolore, anzi lo hanno chiesto, lo hanno cercato e perfino se ne sono inebriati. E nel dolore hanno trovato la loro felicità. Infatti solo la fede sa renderlo «dolce e desiderabile» e persino «meno grave e pieno di pace per le anime buone». La trasfigurazione spiritualizzante della guerra aveva per modello l'estasi dei santi martiri, i corpi straziati dal cilicio o consumati dal digiuno o rattrappiti dal freddo o essiccati dal troppo sole e già oggetto di una più che consolidata iconografia. Fu grazie a questo recueil di immagini e di argomenti che si produsse quella metamorfosi estetica della guerra rintracciabile nelle sacre immaginette stampate e diffuse, per motivi di devozione, tra i soldati a cura di varie
organizzazioni sorte ad hoc come la Santa Lega Fucaristica o l'Opera per la Regalità di Nostro Signor Gesù Cristo a Milano, il Comitato per l'Assistenza Religiosa ai Militari con sede a Bologna. L'argomento martirologico rendeva plausibile lo strazio dei corpi dei mutilati, corpi resi gloriosi proprio dalle menomazioni, come ebbe a dire Giovanni Sodini nel suo discorso pronunciato per la consegna dei distintivi ai mutilati di guerra, nel Chiostro di Santa Chiara dell’ospedale Militare Principale di Perugia, nel giugno 1917. Per ciò il tuo moncherino ti fa più amato, o soldato fratello, e il tuo occhio, per sempre senza fondo, cela, nelle sue buie profondità, più luce che non l’altro da cui traspare ancora
il fuoco della tua anima brava. [...] Ma
ogni paese, ogni borgo avrà in voi, feriti e mutilati di guerra, un ricordo da venerare. E più amati e più venerati sarete, quanto più l’ira nemica fu implacabile con voi [...]. Sollevate la spenta fronte al cielo, avvicinate
i
moncherini voi che non avete più palme da congiungere alla preghiera, e non maledite; benedite piuttosto, sempre all'Italia che tanto sacrificio vi domandò?9,
Un linguaggio, quello delle piaghe del Cristo, che i fedeli avevano a lungo ascoltato nelle prediche domenicali, nelle lezioni di catechi-
smo, nel linguaggio figurato dei tanti crocifissi trafitti e sanguinanti esposti nelle chiese. Il martirio del figlio di Dio suona qui come una particolare applicazione discorsiva di una fabula sacra sentita e introiettata dal pubblico fin dalla più giovane età?. Con il passare dei mesi il clero castrense costituì all’interno dell’esercito una gerarchia affine e parallela a quella dei militari, al punto che la messa al campo era diventata un appuntamento quasi obbli-
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Fig. 18 Z/ cappellano nel suo ufficio intento a ordinare le lettere dei soldati, da C. Caravaglios, L'anima religiosa della guerra, Milano, Mondadori, 1935.
gato — e talvolta comandato — per le truppe, mentre le dame della Croce Rossa erano solerti nel rifornire i soldati di immaginette devote, santini e piccole croci da portare addosso. Molte voci si levarono per segnalare questi fatti’, ma gli anticlericali dell’epoca non compresero che queste pratiche religiose erano sinceramente attese dai soldati, perché erano per loro estremamente utili per superare l'angoscia della morte, mentre ciò che, su questo piano, offriva l’esercito era risibile
e inefficace. Come è noto Cadorna
cercò sempre di coprire il disagio dei soldati, nonché la sua stessa inettitudine di comandante, con il man-
to del terrore del plotone di esecuzione e delle decimazioni?!!. Al contrario i sacerdoti seppero darsi anche delle strutture di sostegno, non si affidarono alle sole omelie: furono aperte centinaia di ‘case del soldato’, quali luoghi di ristoro morale e psicologico nonché di disciplinamento della vita religiosa dei combattenti, costituite come delle specie di parrocchie con annessi educativi tipo scuola di dottrina e sala di ricreazione, ricavate rapidamente nelle estreme retro-
vie dei fronti. Gli ecclesiastici aiutavano i soldati in più modi: li sostenevano nelle sofferenze, li incitavano alla preghiera, infondevano speranza, favorivano la scrittura e la spedizione di lettere e cartoline a casa, mantenevano aperto un indispensabile canale di comunicazione tra
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i soldati e le famiglie. E non in ultimo controllavano lo stato di salute delle reclute e la loro condotta morale e sessuale. Ci fu anche chi, come ad esempio Giovanni Minozzi, pur nel
suo strenuo impegno nella organizzazione delle case del soldato, si distinse per certi toni critici verso quei religiosi che si erano lasciati trasportare «nell’esaltazione morbosa del
momento»,
che
avevano
parlato di «odio del nemico, predicarlo addirittura, scervellatamente», che avevano innal-
zato «con folle orgoglio grazie ed inni che abomina il ciel, di-
mentichi, con orribile improntitudine, d’ogni insegnamento evangelico».
_
ve
|
Le iniziative del Minozzi |ME 19 Cena pozioni prio
cercarono
di porsi
«al riparo
guerra, Milano, Mondadori, 1935.
delle perfide strombazzature esasperanti», le sue ‘case del soldato’ rappresentarono delle «oasi» per gli animi di soldati «sconvolti dalla tempesta implacata e implacabile»?’. Qui esistevano piccole biblioteche, ed era possibile V'ascolto della musica e l'allestimento di spettacolini teatrali di spirito faceto, iniziative minime che comunque
davano un ordine al biso-
gno di evasione dei soldati raccordandosi alla cultura di ciascuno. Anche la religiosità tendeva a costituirsi localmente, legandosi ai santi dei luoghi, riprendendo spunti e devozioni popolari e non astrattamente come tendevano a fare — proponendo soluzioni di tipo protocollare — molti oratori religiosi e successivamente anche militari. E così, quegli stessi contenuti, tutti strutturati attorno alla colonna ideologica portante dell’esercito dell’epoca — dovere e sacrificio — venivano non certo alterati o misconosciuti, ma riproposti in modo più efficace e comprensibile. La devozione alla Madonna traspare come una delle più diffuse tra la truppa. Una preghiera-
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Fig. 20 Soldati scampati al bombardamento aereo , Ex voto, da C. Caravaglios, L'anima religiosa della guerra, Milano, Mondadori, 1935.
filastrocca dedicata alla Madonna della Difesa del Cadore mostra questi sentimenti di abnegazione e di sacrificio, di speranza e di patriottismo. Oh Madonna nel periglio Tutti i voti son per te;
Colle lacrime sul ciglio Tutti cadono al tuo pie’. O Maria, che tutto puoi Quanto chiedi al tuo Signor. Deh tu salva i figli tuoi Deh tu salva il mio Cadorl?!
10. Discorsi castrensi La ‘cristianizzazione’ della guerra assunse caratteri progressivamente
più evidenti col passare del tempo e con il crescere delle carneficine, ma questo radicamento profondo cambiò anche i caratteri della predicazione. I discorsi tenuti dai cappellani militari definirono una minuta,
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accessibile morale che essi fecero uso attorno al modello la nuova croce che
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guerresca, alle lambiccate argomentazioni teologidi più semplici linguaggi di speranza che ruotavano del sacrificio salvifico del Cristo, dove la guerra era gli uomini erano chiamati a portare. Tutti i sacerdoti
italiani, non solo il clero castrense, riversarono sui fedeli un fiume di parole sul sacrificio e sulla sofferenza. Ma i discorsi tenuti dai cappellani militari nelle zone di guerra, guardati spesso con sospetto dalle gerarchie militari perché talvolta vi risuonava la parola pace, ebbero in realtà un impianto patriottico bellicista molto marcato, quasi indistinguibile dai discorsi pronunciati dai militari del servizio di propaganda, se non per qualche accenno alla salvezza religiosa?!!. Fino alla istituzione del servizio di propaganda, svolto da ufficiali specificamente incaricati della mansione dal 1918, essa venne esercitata in continuità e in parallelo con il sostegno alle truppe offerto dai religiosi. La prima vera e propria attività di propaganda bellica in Italia fu di matrice religiosa: furono i preti che, al fronte, si resero partecipi di esaltanti discorsi per indurre i soldati a compiere il loro dovere sul campo, furono i cappellani militari a convincere i soldati sulle necessità tattiche e strategiche dello scontro armato, al punto che tenere separati i piani della propaganda degli Stati Maggiori dell'esercito e quella messa in pratica dai cappellani militari risulta assai difficile e, forse, addirittura improprio. La partecipazione alla liturgia della messa dei comandanti militari, posizionati sempre in prima fila e vicinissimi all’officiante, rendeva tali cerimonie al tempo stesso militari e religiose e accomunava simboli e parole della religione e dello Stato in un amalgama linguistico che eccitava insieme la nazionalistica speranza dei soldati e il loro sentimento religioso?'. Non era infrequente ascoltare i cappellani militari che spiegavano tattiche e strategie di guerra; alle truppe essi offrivano parole che rasserenavano, alle famiglie dei caduti facevano giungere informazioni rassicuranti sulla morte serena e cristiana dei loro congiunti. Il martirio diventò anzi argomento efficace sulle labbra dei confortatori perché grazie ad esso il soldato attirava su di sé l'ammirazione dei familiari?’ Ai soldati più istruiti offrivano la sponda di argomentazioni che traevano linfa dalle vicende storiche, con richiami alle antiche epopee degli eroi medievali,
a Carlo Magno,
al Barbarossa
e a Legnano”.
I
religiosi sapevano ben scegliere linguaggi e argomenti secondo quelle regole retoriche apprese nei seminari e basate sulle circostanze: così don Facibeni, che aveva in cura il 7° Corpo d’Armata di stanza
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in Ancona, si rivolgeva ai soldati rimasti feriti e ricoverati all'ospedale con omelie dai titoli significativi del tipo: Anche in ospedale si può continuare ad essere combattente, oppure i Vantaggi dell’ospedale; o ancora: La voce dei nostri morti gloriosi. Mentre per i militari acquartierati teneva in serbo argomenti più consoni, come quelli sul ‘dovere’, sulla ‘vergogna della disfatta’ e sulla necessità di salvare la patria?*. I Sermoni alle truppe di Rodolfo Ragnini, che fu uno tra più facondi predicatori del tempo di guerra, costituirono un corpus significativo degli argomenti portati a sostegno dell'impegno militare dell’uomo di fede?*. In occasione della benedizione della cappella del Revellino a Cassano d’Adda il 17 giugno 1915 si celebrò una messa e si tennero vari discorsi commemorativi per i «giovani Savojardi, prigionieri di guerra» che morirono in quel luogo nel 1704. Ma poiché il fatto era troppo remoto e poco conosciuto dall’uditorio, il prete nell’omelia si riferì a guerre più prossime, come ad esempio alla guerra di Libia i cui soldati, — rientrati secondo lui — «senza alcuna perdita», erano stati accolti «in un turbine di entusiasmo, in un nembo di plausi, nel rombo
caldo e possente di acclamazioni che uscivano da petti patriottici». Ma soprattutto insisté sulla guerra che si stava combattendo in quel momento chiedendo preghiere per i soldati??. Come nel corso delle celebrazioni liturgiche doveva risultare difficile disgiungere la figura del sacerdote da quella dell'ufficiale, così nelle omelie risultava inestricabile il groviglio di rinvii — di echi, propriamente — tra Sacre Scritture e regolamento di disciplina militare. La bandiera dei Savoia e la croce erano simboli che si sovrapponevano, si mescolavano e si rinforzavano l’un l’altro: da croce di Gesù — si legge in una omelia composta per la domenica di Pasqua — è anche il più valido eccitamento ad ogni forte impresa. La croce è infatti anche segno di combattimento. Fu appunto su di lei che si combatté la più grande battaglia che possa registrare la storia, la battaglia fra il cielo e l'inferno per la conquista dell'umanità». Poco dopo lo scoppio della guerra, con grande tempestività, fu dato alle stampe un manualetto (Brevi discorsetti ai soldati. Dedicati ai R.R. Cappellani dell'esercito italiano) che raccoglieva svariate ‘tracce’ per lo svolgimento dei sermoni rivolti alle truppe, tutti ben ordinati per argomento dalla religione alla patria, dalla bandiera all’obbedienza e persino indicazioni utili su come trattare il tema della morte in battaglia??? e il «santo sacrificio» richiesto da Dio ai soldati «per tramite del re», Un libro di preghiere, che si presenta diviso in due sezioni, la prima dedicata alle orazioni
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adatte al soldato, mentre una seconda parte di istruzioni forniva alcuni accorgimenti pratici per mantenere un comportamento obbediente e coraggioso”. Il convergere di aspirazioni educative e di attenzioni patriottiche, di spinte disciplinari e di cure propagandistiche compose un quadro — se non organico dal punto di vista delle coerenze e delle corrispondenze teologiche acclamate presso i dottori della Chiesa — certamente unitario nello spirito di una solida collocazione dell’attività bellica entro il quadro della teleologia cristiana, dell’esaltazione religiosa della sopportazione del sacrificio, del vangelo e della vita di guerra. «I nostri soldati — si legge in occasione di una celebrazione religiosa per i soldati — sono partiti colla medaglia dell’Immacolata, coll’orazione del soldato combattente»?”. Difficile valutare gli orientamenti dell’opinione pubblica e il grado di incidenza di questa attività di apostolato bellico: tutti i mezzi di comunicazione
ripetevano temi tradizionali e non vi è ragione di
pensare che essi non fossero creduti per veri da larghe fasce della popolazione. Certo vi furono episodi che ci testimoniano una scollatura tra gli obiettivi politici e della guerra e quelli delle popolazioni, ma si tratta di casi di rivolta isolati, o soltanto di propositi di rivolta? Il fatto è che fino a Caporetto le uniche voci di una propaganda al fronte furono quelle dei cappellani militari o di altri esponenti della Chiesa?”, perché avevano agito per primi e l’impronta propagandistico-ecclesiale che dettero alla loro azione fu il tratto più stabile e significativo del linguaggio di propaganda. Solo dopo la grande sconfitta e lo sbando di quasi tutti i reparti dell’esercito il Comando Supremo provvide a mettere in campo anche una attività di sostegno e incitamento alla guerra di più schietta matrice militare, con l'invenzione dei cosiddetti giornali di trincea e la definizione dei principi cardine di una nuova pedagogia per i soldati centrata sull’idea della guerra giusta e sulla superiorità — fisica e morale — sul nemico. Si trattò di una speciale editoria di guerra che affiancò le strutture per i soldati e li sostenne ideologicamente, ma resta da dimostrare la diffusione presso le truppe di questi fogli di propaganda tra i quali: «Signor sì. Armata degli altipiani», «La Giberna, «Il Montello», «I Grigio Verde, «Il Giornale di trincea, «La trincea, «Savoia, «da Ghirba. Giornale dei soldati della 5* armata», «San Marco. Giornale dell’Ottavo Corpo D’armata, «La tradotta. Giornale settimanale della 3° Armata».
Infatti essi furono quasi sempre dei «fogli civili di retrovia, simboli di
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bandiera e cassa di risonanza di componenti già persuase, o pronte a dichiararsi fedeli, all’interno dei gruppi dirigenti locali, categoriali ecc., oppure segno di decisione, dichiarazione di consenso di fasce sociali e politiche più ai bordi, ovvero già separate e polemiche, che anche esibendo tale effervescenza patriottica contrattano la propria disponibilità contro il nemico comune, la messa tra parentesi delle precedenti frizioni di parte, la ricomposizione prudenzialmente unanimista»?*. Furono allora chiamati a dare un contributo anche una variegata serie di conferenzieri tratti dal seno dell’esercito stesso? Tra costoro ci fu Ardengo Soffici, il colonnello Gatti (che era anche articolista del «Corriere») e Filippo Tommaso Marinetti, al quale il generale Capello — un uomo «Grasso, tondo» che «sembra un uovo di Pasqua», lo descrisse Marinetti — chiese di tenere dei discorsi alle truppe affinché d’impeto delle fanterie sia travolgente» e «feroce», Certo la costruzione di una rete militare di propaganda nell’ultimo anno di guerra e a partire dalla disfatta di Caporetto comportò una riduzione degli spazi di manovra dei cappellani militari, almeno in senso istituzionale. Come è stato notato, «subito dopo l'avvento di Diaz i cappellani si avvidero che l’atteggiamento delle più alte autorità militari nei loro confronti cominciava a mutare. Ci fu allora chi retrospettivamente mise in dubbio la condotta patriottica dei cappellani proprio nei giorni di Caporetto, e chi avanzò l'ipotesi che nelle case del soldato si fosse fatto del disfattismo. Don Minozzi fu retrocesso a vicedirettore di quelle ‘case’, sostituito da un maggiore dei Carabinieri. I cappellani furono addirittura accusati di scarsa «italianità bellica» e in molti casi gli ufficiali del Servizio P. dettarono liste di argomenti da trattare nei discorsi da parte dei religiosi’. Tuttavia l’attività dei cappellani militari richiede che si tenga in seria considerazione il fatto che si trattava di religiosi che formavano un corpo assai composito, nel quale erano presenti atteggiamenti e modi di condurre l’apostolato bellico molto diversi gli uni dagli altri?°, svolgendo un ruolo rilevante non solo per quanto riguarda la propaganda quanto piuttosto per l’attività umanitaria svolta in contesti difficilissimi. Diversamente dai religiosi che erano comunque umanamente vicini ai soldati e alle loro angustie, i militari del Servizio P. — dove
abbondavano i professori di scuola e di università, i letterati, i giornalisti, i poligrafi, i disegnatori e i pittori — non furono mai umanamente vicini alle truppe”. Anche dopo Caporetto furono sempre i religiosi ad essere più sensibili ai bisogni spirituali e psicologici dei combat
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tenti. Pur ponendosi in contrapposizione, la propaganda imbastita dagli ufficiali del Servizio P. e quella portata avanti dai cappellani militari non sempre si caratterizzò per una difformità di linguaggi e di suggestioni, al contrario i due approcci propagandistici mostrano
evidenti sovrapposizioni sul piano del lessico e ampie zone di contaminazione tematica?”. E al linguaggio nazional-bellicista dei religiosi corrispose un fraseggio spiritual-religioso degli ufficiali. Significativamente il colonnello Nicola Maria Campolieti del 39° Reggimento di Fanteria pubblicò una serie di opuscoli che avevano per scopo quello di fondare l’impegno bellico degli italiani alla luce dell’insegnamento evangelico (ne nacque anche un volumetto dal titolo: 1 Vangelo del soldato italiano, 1916)°9. Il Vangelo del soldato evidenziava i quattro doveri cardinali del combattente (ubbidienza, valore, noncuranza per la propria vita, fiducia nel sacrificio salvifico), facendoli dipendere dal volere del Cristo. Era stato Gesù a volerli e la Chiesa per questo era chiamata a confermarli nell’apostolato: «chiunque avrà sofferto per il bene altrui, ed avrà seguite le leggi divine, nei più difficili momenti della vita e della guerra, avrà la grazia di Dio, la gloria tra gli uomini,
e tutta la dolcezza della vita eterna»?%. Tra i pochi a nutrire più di un dubbio sulla utilità del sacrificio ci fu don Primo Mazzolari con la sua dolorosa constatazione delle folle che si erano lasciate irretire negli entusiasmi della prima ora e convincere da parole usate con sommo «spreco», quali giustizia, redenzione dei popoli, epoca nuova. E neppure la prova della guerra di trincea, «questa agonia di attacchi feroci e di soste opprimenti», che lasciava certo il tempo alla coscienza dei soldati d’interrogarsi a pochi metri dal nemico, il cui cuore, nel silenzio, si sentiva battere vicino come fosse il proprio, neppure quella prova — scrisse il sacerdote — aveva creato dei «veri sussulti negli animi». Ma certo i morti, secondo Mazzolari, ponevano domande: «morimmo per la verità o per l’errore? Per la giustizia dei popoli o per la follia degli Imperi? Perché lo spirito di vita si manifesta sulle migliaia e i milioni rimangono inerti contemplatori»? E con questi interrogativi nel Mazzolari si insinuava il dubbio che
tanto sacrificio fosse stato del tutto inutile e che «il domani sarebbe ancora come ieri e come l’oggi, senza nessun miglioramento mai»?97, Le ragioni religiose dell’obbedienza, infatti, non furono solo un argomento che fu fatto valere per i soldati combattenti nelle trincee, ma fu continuamente richiamato anche lontano dai campi di battaglia in occasione delle commemorazioni civili dei caduti. Anche in quel
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caso la dimensione martirologica, che certo si riconnetteva a quella risorgimentale, diventò un ricorrente argomento d’oratoria e termini come ‘martire’ ed ‘olocausto’, oppure ‘sangue’ e ‘consacrazione’ si ripeterono
con frequenza ossessiva?98. Pubblicato
nel 1922, Le vit-
torie di Dio. Note ed episodi della trincea del cappellano degli Arditi, il domenicano padre Reginaldo Giuliani, fu il riconoscimento, neppure troppo tardivo e neppure troppo deformato da un contesto socio-politico che già era nuovamente in ebollizione, di questa ampia, duttile e pd > ineliminabile azione confortatri- | rig. 21 Il sacrificio dei cappellani militari, da ce svolta dai religiosi cattolici. Il 4
;
;
Carroccio Novissimo,
Milano,
Tipografia
S.
Lega Eucaristica, 1918.
libro certo si pone come l’epitome di ciò che ormai piaceva all'opinione pubblica e agli Arditi del Ventidue, almeno per quella parte che celebrava il combattente, ma al tempo stesso è la più significativa immagine che la Grande guerra lasciava al dopoguerra nella sua variante cattolica: l’immagine di un alto Golgota, di un lungo supplizio e di un Cristo, di quel «martire divino» unica voce capace di soccorrere i sofferenti del flagello bellico, come qualcuno ebbe a scrivere: «i doloranti figli delle trincee venivano ad abbeverarsi alla stessa sorgente a cui attingevano la forza sovrannaturale i primi cristiani, negli oscuri ambulacri delle catacombe»?”. Il lirismo compiaciuto di certi passaggi, le iperboli immaginifiche, e i toni che tradiscono un’ansia mistica un po’ di maniera, non possono mettere in secondo piano che si trattava di argomenti che erano risuonati in lungo e in largo nelle trincee e che avevano trovato ospitalità su una innumerevole quantità di fogli giornalistici.
Nella propaganda di guerra come nelle più oneste parole di conforto dei religiosi, il martirio di guerra, come ben si vede nella prosa di Reginaldo Giuliani, si cristallizzò come uno dei grandi temi della futura mitologia fascista 270
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Al termine della guerra, i cattolici e le gerarchie ecclesiali nelle loro varie diramazioni risultavano infatti del tutto integrate in seno alla società italiana. Anche se nei confronti dei religiosi che avevano combattuto come ‘regolari’ nell’esercito si fecero strada dubbi sulla loro condizione spirituale. Il Provinciale fiorentino dei Frati Francescani in una lettera ai suoi confratelli reduci, dopo aver esternato la sua gioia perché, «dopo quarantadue lunghi mesi di penose trepidazioni e di dolorosissime ambascie» l'animo era ora «alleggerito dal tremendo incubo della guerra», si preoccupava di far «recuperare» ai confratelli «quello spirito serafico, quella soda pietà, quel sereno raccoglimento» che secondo lui i religiosi avevano perduto durante le battaglie. Perciò ordinò pratiche di penitenza e di raccoglimento e un nuovo e severo «tirocinio religioso»?”!. In un quadro siffatto resta da chiedersi che cosa restasse dell’oratoria religiosa sviluppatasi con il conflitto. Sarebbe riuscita la Chiesa cattolica a liberarsi da quel linguaggio? : 11. Oratori-sciamani e morti che vivono
Nel 1915 l’Orfanotrofio di Como dette vita ad una piccola attività editoriale tutta basata sulla stampa a pagamento di opuscoletti con le biografie e le foto dei soldati caduti in guerra?” Negli anni che seguirono molte congregazioni religiose fecero altrettanto. La Chiesa Valdese, poi, fece circolare un ponderoso volume di profili - anch'essi con foto — dei fedeli che erano morti nel corso del conflitto???. In Italia si contano più di duemila pubblicazioni che ebbero questo carattere commemorativo. La stragrande maggioranza (il 60%) vide la luce grazie a enti pubblici o associazioni combattentistiche, mentre un 15% circa per volere dei congiunti o degli amici di qualche caduto?”. Dal punto di vista dei contenuti non si registrano particolari novità: tutte ripetevano i temi e gli argomenti consueti, in particolare insistevano sulla letizia del soldato che muore nel compimento del suo dovere. Come il sottotenente Giuseppe Spatafora, che «con la cassa cranica spezzata sorride alla morte, e il capitano Triolo che muore tranquillo, «reciso come un fiore. Di costui nel paese di Corleone si conservò, secondo l’uso che era invalso per i martiri del Risorgimento, un fazzoletto tricolore intriso di sangue appositamente raccolto dal cappellano militare, il quale ne scrisse pure alla famiglia: «di tasca gli estrassi i piccoli gingilli fra cui una pezzuolina di seta tricolore ed io
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pensai di intingere la parte bianca nel sangue che lungo il collo gli decorreva per prezioso ricordo»??. In mancanza di vera esperienza del fronte, la guerra che si riflesse nei discorsi degli oratori nelle commemorazioni nei cimiteri e di fronte ai monumenti ebbe gli stessi toni e usò gli stessi argomenti che aveva avuto sui giornali e nelle memorie pubblicate dai soldati. Nonostante ciò, come le storie dei santi e dei martiri, anche tutte queste narrazioni
a carattere parenetico assunsero il punto di vista che potremo definire della ‘vera narrazione’, cioè del racconto di fatti realmente accaduti.
Furono cioè tutte vicende il cui nucleo di solito era costituito dalla descrizione circostanziata — il luogo, il giorno, l’ora — di un testimone le cui parole venivano riprese, talvolta virgolettate, per essere più compiutamente narrate. In molti casi la stampa dell’opuscolo commemorativo riportava la perorazione tenutasi in un luogo pubblico, una piazza, la sala consiliare di un municipio o qualche chiesa. Si tratta di un fatto rilevante perché, nel trasferire il testo delle perorazioni per iscritto, si creò un sedimento memoriale sulla guerra che è il solo, si
può esserne certi, ad essere stato effettivamente condiviso da un ampio ventaglio di popolazione, anche quella analfabeta?”, I racconti encomiastici e quelli delle celebrazioni furono formidabili strumenti per la formazione dell'immaginario bellico. E gli esempi potrebbero essere innumerevoli. A conflitto ormai chiuso il sindaco di Urbino Luigi Renzetti raccolse in un piccolo libricino i suoi discorsi tenuti durante le cerimonie di commemorazione
colmi dei più consueti Renzetti
non aveva
luoghi comuni
dei caduti, che sono
sulla guerra, che peraltro il
mai vista da vicino. Ma soprattutto, con il sigillo
dell’ufficialità derivatagli dalla carica di sindaco, il Renzetti fornì la versione — per così dire — definitiva e veritiera sulle morti dei concittadini, fingendosi testimone diretto del loro trapasso: ‘vede’ Luigi Seraghiti, «an povero colono, figlio del nostro popolo», cadere «da valoroso, bagnando di sangue la terra, la terra che egli, nel paese nativo, era uso bagnare col sudore della fronte. ‘Ode’ un altro, un certo Bruno Gasperini, chiamare la mamma dal suo «detto di morte», e così per svariati altri che — asseriva — «cadendo» avevano avuto «da suprema visione dei cari lontani e del focolare». Un po’ ovunque le commemorazioni furono occasione per ricordare gli atti di eroismo guerriero dei caduti?” in questo modo, grazie alla voce dell’oratore, era come se i soldati tornassero in vita nella completezza delle loro vite??9, perché tenendo «i morti tra i vivi», essi avrebbero placato le
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anime dei sopravvissuti restituendo a ciascuno «il giusto senso del dovere e della vita»°. Ci fu addirittura chi ammise e giustificò queste invenzioni romanzesche che avevano per oggetto i soldati morti, dicendo di averlo fatto per «commuovere e suggestionare il pubblico, per renderlo più partecipe, ma spesso assumendo un vero e proprio carattere medianico tra i vivi e i morti. Venite dunque, o morti, caduti sull’Alpe, caduti sul piano, sul mare e sulle
terre nemiche, venite, o morti di Urbino, levatevi voi che qui riposate, provenienti da altre contrade, venite, che l'amor nostro egualmente vi chiama
per render omaggio alla virtù e al sacrificio vostro?!!.
Molti di questi oratori-sciamani asserivano che quei morti erano presenti alla cerimonia: «e oggi son qui tutti presenti», proclamò il celebrante a Mazzarino di Caltanissetta. Il parroco di Brozzi (piccolo paese della cintura suburbana fiorentina), al culmine della sua perorazione, esclamò: «ecco i loro nomi santi. Rileggiamoli tutti. [...] O cari morti, noi vi sentiamo vivi e presenti, ora e sempre con noi». Un insegnante di
Brescia in un suo discorso affermò: «vi giuro che dal sangue rimpianto Vi germinerà presto supremo conforto. A Testimoni del giuramento chiamo i vivi e i morti, la terra e il cielo»?. Un certo Enrico Dehò da
Senigallia era convinto che i suoi compagni morti fossero lì presenti mentre lui parlava e, come una «dunga teoria di ombre», essi marciavano «con ritmo uguale e sicuro, di trionfo, come se andassero a festa»??? Nel piccolo paese di Montichiari, nel secondo anniversario della dichiarazione di guerra all'Austria, il locale Comitato di Assistenza Civile pubblicò una memoria, che poi mise in commercio per finanziare
la costruzione di un monumento
marmoreo
in onore dei caduti nel
cimitero. L’opuscolo, intitolato Aî martiri nostri, ricapitolava e narrava gli ultimi momenti di vita dei caduti del paese, anche qui arricchendo i racconti con le frasi «pronunciat®, i «sospiri» e gli «sguardi» dei morenti. Onde imprimere a queste pagine un'efficacia più suggestiva e commovente, ho immaginato che ognuno dei nostri morti per la Patria risvegli sotto
l'impulso dei ricordi e parli di sé, della sua morte, de’ suoi cari, dell'arma cui appartenne, de’ suoi sentimenti e di ciò che vide a sé d’intorno prima di morire, quasi come lasciasse alla sua famiglia e al suo paese un testa1280 mento morale che conforti e che infiammi?8°,
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Il volume, dando voce ai morti e riportando poi queste ‘voci’ nel loro paese di origine, si appropriava di loro, localizzava negli spazi sociali di villaggio quelle morti lontane e anonime, riconducendo al noto l'ignoto, placando il bisogno di lutto che la piccola comunità complessivamente doveva nutrire. Al tempo stesso, non avendo a disposizione delle testimonianze (altre volte gli opuscoli di celebrazione dei caduti ricorrono alla pubblicazione di testimonianze - di solito lettere — di compagni del caduto), l’autore si valse qui del principio della verosimiglianza e di un largo spettro di luoghi comuni. Zeffiro Travagliati: «ho baciato morendo il suolo redento dal mio sangue; ho veduto morendo il cielo redento della mia anima». Pietro Signorini: «la terra rossa feconda d’eroi, come quella de’ miei campi è feconda di biade. O madre, sii fiera e serena; non è un cimitero il Carso,
è un altare». Bernardo Biasi: «non morte gloriosa sui contrastati campi; un morbo vio-
lento e un lettuccio d’ospedale. Ma fu infecondo forse il sacrificio? Non soltanto colle armi in pugno si paga il debito alla Patria». Dionigi Morandi: «ma venne a chiamarmi la Gran Madre. Potevo io forse negare d’essere sangue suo? E corsi a renderle ciò che m’avea dato». Pietro Zanacchi: «ma allor che il maggio tutto ci scoperse un orizzonte di gloria e di vendetta, tutto compresi e fui un altro anch'io; fui di quei fanti meravigliosi, che a novembre fecero balzi di prodigio». Giovanni Battista e Bortolo Nicolini: «E quando, baldi, abbronzati, le ali ai
piedi e le iridescenti piume al vento, tu vedi i soldati di Lamarmora percorrere le nostre vie, getta loro e fiori e baci e alza altera la fronte: i bersaglieri al Campo sono onda ed uragano, che travolge e che atterra, vanto d’Italia e della madri. Noi non siam morti, riviviamo in loro».
Primo Ceratelli: «ma la guerra non lorda gli animi vergini di colpe, quando santa è la causa e luminoso
l’avvenire; li innalza sull’ara della Patria e li
santifica col martirio. Anch'io fui l'agnello che col suo sangue ha bagnato l’altare». Isidoro Rodella: «intravidi nella nebbia del pensiero i comici dei cappellani e le candide vesti dei medici, simili ad ombre vaganti di angeli eroici, e mi si dipinse, supremo conforto, l’immagine diletta de’ miei cari lontani. Tutto era dolore, ma d’una grandezza di Golgota». Serg. Pancrazio Treccani: «Ed ecco che il bronzo tace di colpo. Nella trincea, solenni e muti, pallidi e fremebondi, viviam secondi di secondi. “Su,
ragazzi, è l’ora! La trincea nemica
è sconvolta;
un balzo e ci siamo! Sa-
voja!” E l'onda eroica straripa, magnifica, sublime, irrefrenabile e superba,
col’anima lontana e il cuore in tumulto [...]. Là, dal lettuccio candido, ove rinvenni per morire, vidi come in un sogno la vittoria e l’anima se ne partì con UN Sorriso». Lattanzio Panarotto: «Come la corona di spine divenne aureola sulla fronte
di Cristo, così le Alpi, che acute e nevose ti cingono il capo, o Italia, sono
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la tua ghirlanda di lauri. E come eran sorridenti e sereni i martiri di Cristo, così sono i tuoi difensori, o Italia. Dal mio letto di dolore io vidi delle cose sublimi, più grandi ancora degli eroismi nelle battaglie, perché chi ha sfiorato la morte sul campo e vuol ritornarvi merita d’essere santificato. E mentre morivo mi parve di sentire il profumo dell’incenso». Ernesto Zaniboni: non moriron forse per noi i primi martiri della libertà
italiana? Come immortali dunque e sacri sono quelli, perché ogni goccia del loro sangue ha redento uno di noi dalla vergogna, così i nostri figli benediranno la memoria dei nuovi Martiri, perché dal loro sangue è sorta
la nuova Italia».
Ciascun morto risulta dunque depositario di un insegnamento, di un pensiero, di un gesto incisivo che deve potersi conservare presso la sua comunità di appartenenza. Occorre considerare che l’efficacia di quel linguaggio dipendeva ovviamente dalla consuetudine con la quale esso veniva praticato. Gli stereotipi sulla morte in battaglia, ripresi dalle infinite storie di guerra che andavano circolando, l’immagine del dolore salvifico, l'esaltazione nazionalistica del dovere, il tributo alle madri ecc. costituiscono il ricchissimo vocabolario che estende il tempo della guerra ai tempi della pace e del lutto, portando i caduti lontano dal fronte, facendoli ascoltare ‘in voce’ anche a chi
non sapeva leggere. Le commemorazioni
funebri non presentano novità di contenuti
effettivamente rilevanti rispetto alla prosa bellica e commemorativa dei decenni precedenti, ma situano stabilmente — certo non sempre, ma con frequenza — quel linguaggio anche nell’ambito dell’oralità. In questo senso apprestano una rivoluzione nella trasmissione del sapere di portata immensa: la guerra, nella sua forma di racconto orale e cerimoniale, diventa davvero patrimonio comune della nazione. Di fronte ad ogni lapide affissa in ricordo dei caduti, di fronte ad ogni monumento di guerra, si tennero cerimonie e discorsi che ci sono pervenuti in forma scritta, ma che sono il riadattamento editoriale di orazioni pubbliche recitate davanti ad un pubblico spesso con intenzioni più di performance teatrale che non di informazione”, Si trattava di discorsi che attualizzavano la morte militare, ne fissavano il ricordo, e che, soprattutto grazie al nome scritto sulla lapide, riannodavano quel filo spezzato dei giovani soldati - sepolti lontano o dispersi — con le loro comunità di appartenenza. Il nome-simulacro affisso sulle lapidi svolse un compito di restituzione simbolica del corpo del soldato, il cui nome diventò vera reliquia e il suo monu-
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mento un cenotafio attorno al quale sviluppare il culto pubblico dei concittadini, Attraverso il pronunciamento dei nomi — «leggiamoli con commo-
zione esortava il senatore Paolo Boselli invitato a tenere un discorso commemorativo
a Varazze — sono le anime stesse che tornano a far
parte integrante della comunità, nella forma dei beati custodi del luogo natio. «Non siete morti! — esclama il parroco in quell'occasione — «voi vivrete ancora». Altri, pur non nascondendosi che quella della presenza dei morti era una sorta di «dolce illusione», nondimeno consideravano i monumenti funebri come altari dove era possibile realizzare quello speciale ‘ritorno’ dei morti nelle «native borgate, dove più facilmente affluivano alla mente quegli «episodi in cui essi lasciarono impresse le note salienti delle rispettive personalità» e sì da «suscitare» la speranza di «scorgerli, rimirarli, ascoltarne ancora le parole». Così il sindaco di Caraffa di Catanzaro parlò in onore di un caduto di guerra, peraltro suo congiunto. Egli non è morto, no, ma vive ancora [...] guardalo [...] egli adorno di un cuore e di un animo generoso è là in mezzo all’infuriare della tremenda lotta. Egli combatte [...] si slancia con bellico furore ove maggiormente fischiano le fucilate [...] cade da eroe colpito in modo irreparabile da una perfida granata che gli staccò dal busto, frantumandogliela, tutta intera la coscia sinistra [...] ed allora, in quella travagliata posizione, il pensiero di Giuseppe Sinatora vola alla sua sposa adorata, vola ai suoi teneri figli [...] forse avrà pensato a me, suo cognato lontano?”.
In occasione di una cerimonia molto solenne tenutasi a Perugia,
i nomi dei caduti furono letti ad alta voce dal segretario del Collegio dei Ragionieri, traendoli dall’A/bo d'oro dei ragionieri di tutta PUmbria?9: «e voi o spiriti eletti dei nostri morti, che in questo momento mi par di veder aleggiare gloriosi intorno a noi, deh! Vegliate dal cielo sui vostri cari che sono qui fieri ed orgogliosi di voi, vegliate»?. Lo stesso tema del ‘ritorno’ alla terra natale attraverso la mediazione cerimoniale si ripeté in tanti casi: Vengano, pertanto, al nostro odierno convegno, di vivi e di morti, di vicini
e di lontani, tutti i compagni vostri di sventura e di gloria da tutti i campi della nostra guerra liberatrice: quelli caduti sull’erta nell'ora dell’assalto, quelli stritolati dalla mitraglia, quelli precipitati nei burroni, quelli piombati dalle macchine aeree, quelli travolti dalle valanghe, quelli sfiniti d’inedia, di freddo, d’orrore nelle trincee??,
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Spesso, grazie a queste cerimonie, anche alle popolazioni rurali — e tra esse la triade delle madri, delle spose e degli orfani — veniva riconosciuto un ruolo ed una funzione importante: esse entravano a far parte di quelli che avevano contribuito con un ‘dono’ ad arricchire la vita sociale: le pubbliche orazioni svolsero la funzione di integrazione delle varie componenti della società attorno a questi monumenti sui quali aleggiava lo spirito dei morti», servirono alla causa della pacificazione locale dei conflitti e situarono la guerra tra quei fenomeni dai quali, in definitiva, si erano tratti frutti positivi. Le commemorazioni pubbliche trasformarono la guerra muta dei documenti e dei monumenti in una guerra raccontata in forma orale, pronunciata, celebrata in modo vivo e vero; i soldati ‘richiamati’ alla vita delle comunità dalle cerimonie e dai discorsi ebbero, nei decenni
a venire e soprattutto nelle cerimonie fasciste, un ruolo centrale. La condivisione-riappropriazione della guerra e dei suoi morti proseguì infatti negli anni successivi al conflitto, costituendosi come una delle più persistenti tracce identitarie della recente storia nazionale italiana.
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HI. IL SANGUE LUSTRALE 1. Il ritorno dei corpi gloriosi Al termine del conflitto ad alcuni sembrò d’aver lasciato dietro le spalle «la baldoria di un mondo impazzito», mentre gli italiani si concedevano ora a spettacoli gioiosi cantando, ballando, acclamando ai reduci e distribuendo «onori e laudi»!. Da allora prese anche avvio un infinito gioco di accaparramento e di interpretazione delle vicende belliche: quasi ogni italiano poteva dire infatti di disporre di una sua guerra, vissuta o anche soltanto letta da qualche parte e sentita raccontare. Non solo i superstiti che potevano narrare o dipingere le trepidazioni e gli scontri effettivamente vissuti, non soltanto la variegata congerie di coloro i quali erano stati ‘mobilitati’, fossero essi laici o religiosi, industriali
o commercianti,
medici o scienziati, ma
i con-
giunti, gli orfani, le vedove ebbero allora spazi di visibilità e di protagonismo sociale ‘come se’ essi stessi avessero veramente combattuto.
Nel corso delle cerimonie pubbliche si continuarono a teatralizzare quegli episodi di guerra basandosi soprattutto sugli scoprimenti di lapidi e di monumenti, e soprattutto durante quelle — numerosissime — di impronta propriamente religiosa che confermarono il ruolo svolto dai cattolici e dalla Chiesa. Ma soprattutto subito dopo la fine delle ostilità la guerra si frantumò in tanti episodi memorabili, in una miriade di avvenimenti grandi e piccoli, fino a ripiegarsi su scritture di conservazione memoriale di impianto localistico?. Fu grazie a questa frantumazione
tematica che si determinò una
qualche apertura verso argomenti e problematiche nuovi, come per esempio: il trattamento e la gestione dei feriti e dei mutilati, degli amputati, dei paralizzati, dei ciechi, sui corpi dei quali si reificavano quelle sofferenze delle quali fino a quel momento si era quasi soltanto narrato‘. Furono questi corpi ad essere ora posti al centro dell’attenzione: dalla morte eroica in battaglia, che era stata il clou di quasi tutte le narrazioni di guerra, si passò a considerare la morte ‘tardiva’ dei soldati ricoverati in ospedale,
le loro orrende
menomazioni e il
bisogno delle protesi per i mutilati. Tutto questo allargò il ventaglio degli argomenti che direttamente o indirettamente si legarono alla guerra. Il corpo del mutilato, nonché il suo destino sentimentale e
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familiare, fu portato in primo piano e finì per catalizzare l’attenzione del pubblico e anche quella degli scrittori e dei poeti. Sono passati da poco i feriti Scarniti sfiniti Cantavano Un fante col braccio spezzato Gridava a gran voce AI soldato la guerra non nuoce Il soldato Vive di bombe e di terra?.
Questi corpi segnati dalla guerra, ma ancora in vita, non solo resero il conflitto più vicino e vero — proposito che scientemente si
perseguì — ma ne fecero un evento non del tutto concluso. La violenza che già contrassegnava la battaglia politica — nacquero nella primavera del 1919 i Fasci di Combattimento — gravò su una popolazione del tutto assuefatta alla morte e alla rovina. I tre socialisti assassinati a Lodi dai fascisti in quell'anno perché avevano osato fischiare il loro candidato, il ‘fascistissimo’ Enzo Ferrari — poi osannato personaggio dell’automobilismo — non ebbero che una blanda tutela istituzionale e una scarsa eco nell'opinione pubblica. Quello stesso anno un primo manipolo di squadristi si organizzò in una struttura di tipo paramilitare: proprio a Milano sotto la guida esperta di un ex ufficiale del glorioso corpo degli Arditi, Ferruccio Vecchi, il gruppo si dette la funzione di guardia personale di Mussolini, allora direttore de «Il Popolo d’Italia. Seguendo una logica bellicista, il dilagare della violenza fascista fu una sorta di continuazione della guerra appena passata, sebbene ora sviluppata sul fronte e contro un nemico interno. Come è noto l’offensiva fu particolarmente forte in Toscana e in Emilia Romagna, dove il 4 novembre fu occupata la Camera del Lavoro di Bologna. E se la violenza dei socialisti ebbe il carattere dell’agguato a colpi di fucile contro colonne di fascisti e si dispiegò soprattutto in concomitanza con le manifestazioni di piazza, quella fascista ebbe al contrario carattere organizzato di tipo militare, con tanto di pratiche degradanti e oscene sui corpi dei nemici uccisi? Al contempo ci fu una esaltazione dei morti fascisti, che furono celebrati
e ricordati come dei veri soldati caduti in battaglia e alla cui memoria, specialmente al di fuori dei grandi centri urbani, venivano consacrati i nuovi fasci di combattimento che si andavano costituendo; al punto
HI. Il sangue lustrale
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che quasi sempre il caduto fascista divenne l’eponimo del gruppo del quale aveva fatto parte, e il suo sangue costituì l'elemento coesivo delle squadre sorte per vendicare il sangue col sangue”. Furono dunque i martiri, l’impegno parabellico e lo spargimento del sangue che cementarono gli squadristi all’interno e contribuirono alla loro legittimazione politica avvenuta nel 1921, con l’inclusione dei fascisti nell’alleanza elettorale capeggiata da Giolitti, il cosiddetto blocco nazionale. Fu un momento di svolta fondamentale: da quel momento in poi la forza del fascismo si basò sull'azione violenta dei capi locali e delle squadre. La guerra — ovvero quello stato di permanente e violenta conflittualità contro il nemico politico — divenne il tratto dominante della pratica e della ideologia fascista. E nonostante la crisi che si registrò in quell’anno, con Mussolini preoccupato degli effetti eccessivi sull’opinione pubblica dell’azione delle ‘squadre’, il sistema delle spedizioni punitive si generalizzò. Quadri e militi delle squadre d'azione mussoliniane trovarono in quella guerra il loro orizzonte ideale di riferimento, e per molti di essi fu come proseguire la militanza nell’esercito. Quasi ciascuno, poi, era portato a riproporre nel suo comportamento quelle gestualità e quella ‘educazione’ appresa durante il servizio presso l’esercito di Cadorna: l'obbedienza
attraverso
la dura coercizione,
e la fede nell’avvenire,
nonché l'orgoglio per l’immolazione di séì, Non è per caso che proprio dai martiri della ‘vera’ guerra varie squadre fasciste mutuassero il nome: alcune si chiamarono Enrico Toti, altre Cesare Battisti o Filippo Corridoni; e non fu certo per caso che nelle storie dei caduti fascisti si riproducessero con grande frequenza quegli stilemi espositivi della morte eroica ben noti alla letteratura. Il combattente fascista moriva quasi sempre pronunciando qualche frase a effetto o qualche nome di eroe, ma se in passato le frasi celebri dette in limine vitae erano dedicate all’amata patria, ora il riferimento preferito in punto di morte era spesso quello del Duce, il cui simbolo, il fascio littorio, appariva, in certe illustrazioni, stagliandosi in cielo e tra le nuvole, come la croce a Costantino o come la
Madonna di Loreto dopo Lepanto. Anche lo stesso movimento dei reduci, pur nella sua eterogeneità?, contribuì tenere vivo quel linguaggio di guerra che abbiamo visto formarsi prima e durante la Grande guerra e che fu alla base del coagularsi del fascismo come partito-milizia!. Nell’annosa questione del rivoluzionarismo mussoliniano — la sua essenza e la sua durata — il
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tema della guerra dette certamente un contributo rilevante, facendo percepire il movimento come una eredità del passato. Il movimento fascista si basò su una continuità generazionale rappresentata dai reduci, ma soprattutto si fece forte di due tradizioni, quella dell’arditismo e quella del legionarismo di matrice dannunziana: grazie a quelle celebrate élite di guerrieri, accenti, toni, iperboli espressive — quella che riduttivamente in tanti hanno considerato vuota retorica di regime — basati sui morti, sul sangue, sul sacrificio e sui martiri, il fascismo
poté fare breccia nell’opinione pubblica. Dagli anni della prima guerra mondiale il fascismo mutuò anche una certa propensione a produrre pedagogie, regole di vita, etichette sociali le cui radici certo andavano ancor più lontano nel secolo precedente, in quella pedagogia militare nata in seno all’esercitoeducatore di matrice risorgimentale. Molto del linguaggio relativo alla importanza di forgiare il cittadino restò infatti come deposito nel linguaggio fascista, poi estesosi alla necessità di forgiare una nuova razza di italiani. Anche se, come è stato notato, all’aprirsi del secondo
grande conflitto mondiale, il regime cercò di svincolarsi dalla tradizione risorgimentale, la guerra fascista, come riconobbe lo stesso Mussolini in uno scritto del 1929 echeggiando il Mazzini, non avrebbe dovuto essere soltanto una guerra per conquistare ultimi lembi di terra italiana ancora in mani altrui, ma una «vera e propria crociata
religiosa, una alternativa di civiltà, un vero “giudizio di Dio”»!!. Anche la rivista teorica culturale ufficiosa del regime, nata nel gennaio del 1922, cioè «Gerarchia, ebbe la guerra come filo rosso dei suoi vent'anni di esistenza. La guerra fu l'autentica cartina di tornasole
dell’ideologia e della spiritualità del fascismo, e fino all’ultimo non mancarono gli uomini di cultura pronti ad esaltare la guerra". Tra il 1939 e il 1943, tutta la politica della menzogna portata avanti dal ‘Minculpop’, con la complicità dei direttori di giornali e dei cronisti, determinò una accentuata esaltazione propagandistica della guerra, con l’esplicita richiesta agli uomini di penna di trasformarsi in «bersaglieri dello spirito», per combattere sia con la parola che col pensiero assieme ai soldati italiani". Fu grazie alla idea della continuità — capziosa o reale che fosse — di argomenti e di immagini, con la ripetizione di antichi miti, che la guerra continuò ad essere al centro della vita nazionale; e con essa proseguì l'apprezzamento del sangue versato in sacrificio da parte: dei giovani combattenti a beneficio del corpo sociale. Per una parte questa atten-
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zione alla guerra dipendeva dalle vicende del momento e dal clima di scontro nato nel paese, ma per l’altra si legava certamente alla memoria del conflitto mondiale, costruita e affidata alla letteratura e alle sistema-
zioni museografiche che operarono una scelta ben precisa, quella della quasi esclusiva evocazione del conflitto come un momento di felice riscontro della natura intrinsecamente eroica del popolo italiano. Tutti gli aspetti negativi del conflitto, il suo lato oscuro e dolente, tutte le disperazioni generate, il ruolo di quadri dell’esercito inetti, la cattiva gestione logistica, tutto restò in secondo piano. Le voci critiche furono impedite da una censura, per così dire, indiretta: gli editori, infatti, in quel momento guardavano altrove e stampavano ‘letterature’ di orientamento diverso. E non per provvedimenti coercitivi diretti, ma per opera di schiere di critici letterari che vedevano nella letteratura bellica e nella memorialistica dei reduci un sicuro porto nel quale ancorare i loro successi verso il pubblico e dunque le loro carriere di consulenti delle case editrici!!. Per quanto riguarda le opere di narrativa, memorialistica o saggistica, a parte i titoli usciti prima della conclusione del conflitto, la maggior parte — più della metà — di essi videro la luce nel quadriennio 1918-1922 e in gran numero nel biennio 1920-1922, per diradarsi progressivamente fino al 1930 ma ancora occupando il panorama editoriale a lungo, con diversi nuovi titoli dal 1923 al 1926, e poi ancora con varie presenze dal 1927 al 19305. Gran parte dei letterati era schierata per la guerra e quindi le opere che ebbero una impronta critica furono assai poche, tra queste si devono ricordare le pagine di Clemente Rebora, Corrado Alvaro, Fausto Maria Martini, Giuseppe Ungaretti. Ma tutte le voci più critiche si levarono assai tardi, Corrado Alvaro pubblicò il suo Vent'anni nel 1930. Ettore Serra riscrisse di guerra nel 1936, Jahier nel 1946, Sergio
Solmi, a più riprese, nel 1939, 1957, 1973, 1926, Sbarbaro due anni più tardi, Noventa tato Rebora pubblicò le Poesie nel 1947, Carlo Della Corte nel 1969, Rigoni Stern
Montale nel 1925, nel 1939, e il già Antonio Delfini nel 1985. Anche
Saba nel rammennel 1961, Un anno sull’altibiano di Emilio Lussu — che non può certo dirsi un libro contro la guerra — vide la luce nel 1945 dopo la Liberazione, così come il Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda fu edito per la prima volta nel 1955!°. Bisogna anche considerare che quando cominciarono ad uscire le memorie critiche sulla guerra, esse calarono su un mercato editoriale ormai sovraccarico di libri sull'argomento, cosicché tali opere
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rimasero quasi del tutto prive di effetti socialmente rilevanti: tra i bei libri scritti contro la guerra e i brutti libri scritti a suo favore, furono i secondi che si imposero sul mercato editoriale e con essi si ribadì — ovviamente — un certo tipo di argomentazione e una certa ideologia di guerra. D’altro canto, come si può pensare che tutti quei libri fatti circolare dall'Istituto Nazionale per le Biblioteche dei Soldati e conosciuti tramite il suo «Bollettino» di aggiornamento bibliografico si estinguessero, scomparendo dal mercato?
Le biblioteche militari continuarono infatti ad esistere e a funzio| nare, soprattutto quelle allocate nelle caserme più grandi e sulle navi. L'Istituto per le Biblioteche dei Soldati di Torino continuò la sua attività a pieno ritmo, distribuendo anche per le scuole un catalogo di libri e un elenco di ‘diapositivi’ didattici sulla guerra con tanto di proiettori. Nella sezione storica erano presenti 278 titoli, quasi tutti (circa tre su quattro) giocati sui registri encomiastico-militari delle figure del Risorgimento, sull’eroismo e sul martirio!” Fu perciò all’interno di questo bacino di letture che possiamo ritenere si formassero molte sensibilità e furono queste opere ad influenzare grandemente l'insegnamento della storia nelle scuole elementari e medie. Tale «consorzio, nell’approntare materiali sia per i soldati sia per gli scolari, di fatto perpetuò l’idea, molto radicata e di matrice risorgimentale, della vita di caserma come occasione per continuare la tardeta iniziata nelle scuole. Sen-
za dimenticare che la più importante e completa antologia di letture belliche per la scuola, quella di Pietro Gorgolini, cioè Pagine eroiche della grande epopea 1915-1918 - che è uno straordinario concentrato di stralci di racconti, di lettere di articoli di giornali — dispiegò tutti i luoghi comuni sulla guerra, attorno al fulcro ideologico rappresentato dal dovere sacro di combattere". Nell’Italia non combattente le voci più insistenti furono soprattutto quelle degli intellettuali e degli scrittori d'occasione i quali, pur non avendo mai preso direttamente parte alla guerra — o forse proprio per questa ragione — si profusero in elaborazioni sul tema e furono molto
schierati a sostenere la grandezza della nazione armata: come era già capitato durante e subito dopo il conflitto, parlarono i presidi di scuola, gli insegnanti, i sacerdoti con le omelie, gli esponenti politici delle città e dei paesi, furono loro gli interpreti e i narratori della guerra. E i più efficaci tra essi furono quelli che si fecero promotori di iniziative di sostegno alle famiglie dei soldati e gli organizzatori dei comitati per le celebrazioni dei caduti. A questo sforzo poderoso gli italiani
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si associarono volentieri e in massa, esso non richiedeva atti pratici particolarmente onerosi, ma la sola presenza alle cerimonie, la chia-
mata per nome di un congiunto, o il prender parte anche solo come socio sostenitore ad un qualche comitato per le onoranze di guerra: tutto ciò costituiva un sistema per sentirsi parte attiva di un evento fondatore. A Bari, per esempio, furono organizzate «gite premio sui
campi sacri della Patria» con «alti fini educativi e patriottici». Si trattava di viaggi funebri con tanto di messaggi affidati dalle madri dei caduti agli studenti affinché portassero loro lacrime e preghiere con cui la guerra diventava il proclamato tratto unificante della nazione. Il cordoglio per la guerra si declinava così, non solo come elemento di congiunzione tra i vecchi e i giovani, tra il tempo di guerra e il tempo di pace. In una sua cronaca nell’agosto 1921, il «Giornale delle Puglie, a proposito di una gita organizzata dalle autorità scolastiche per portare gli studenti cittadini a visitare i sacrari del Carso, mette bene
in luce questa assimilazione
e questa continuità
tra guerra e
fascismo: «appena la nave Gallipoli ornata di grandi festoni, tolse gli ormeggi, un lungo caloroso applauso salutò i partenti, mentre la marcia del 10° Reggimento Fanteria e l’orchestrina della nave intonavano la marcia reale, e i fascisti salutavano col grido dannunziano»!?. Frede dei combattenti, o almeno suoi interpreti privilegiati, la classe politica non fece qui altro che riproporre le sue consolidate strategie commemorative fatte di parate, discorsi, pellegrinaggi e anche feste. Con due novità: la prima consisteva nel fatto che ora esse venivano designate come «dannunzian®, e la seconda che avevano come entusiasti partecipanti dei nuovi attori politici, cioè i fascisti. Essi però seppero trovare argomenti che non vertevano tanto su una generica esaltazione della guerra, quanto piuttosto si basavano sulla sottolineatura degli aspetti più drammatici e mortuari di essa. Ci si è spesso chiesti con quale forza di penetrazione e di articolazione il fascismo-Stato si fosse correlato con la società civile, l'avesse interpretata e indirizzata°”. A tal proposito si può rispondere che uno dei meccanismi di radicamento fu proprio la riorganizzazione delle idee e delle mitologie del più recente passato nazionale, che aveva il vantaggio di non sprofondare fino ai lontani tempi della romanità o del medioevo — argomenti peraltro ampiamente utilizzati - ma di essere ancora un caldo crogiuolo di eventi direttamente testimoniati dai loro vivi protagonisti. Furono i sopravvissuti e i reduci a validare con la loro presenza ciò che altri — cioè i fascisti — andavano proclamando a gran voce. Non fu
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retorica, quella fascista, nel senso che non fu allora percepita come tale, perché essa in gran parte trattava di e con gli ‘uomini dell’esperienza’. I fascisti non si affidarono a memorie morte o scritte: la guerra era ancora stampata sui corpi dei soldati che l'avevano combattuta, era impressa nei menomati e invalidi, così come sulle vedove luttuose e sugli orfani macilenti. Si pensi al valore in termini di suggestione-fruizione degli affreschi per la Casa madre degli Invalidi e Mutilati di Guerra di Roma degli anni Trenta. La validazione del pensiero fascista derivò da questo diverso e vivo rapporto con la guerra che sanò la storica frattura tra il sapere profano della politica e il sapere sacro degli ex combattenti. Si impose così una nuova graduatoria morale di tipo verticale tra gli individui ora raggruppati in relazione alla maggiore o minore loro prossimità ai passati combattimenti. Per questo la guerra fu un argomento del tutto speciale, in quanto tranche de vie, episodio esperienziale, essa, pur nella pluralità di soggettivizzazioni cui aveva dato luogo, rappresentò un sistema del tutto particolare di presa sociale.
2. Sepolcri e cenotafi I morti e i martiri si placarono definitivamente nel fascismo, che li
evocò in continuazione moltiplicando centri di culto e cenotafi, ponendoli al centro delle scene pubbliche, e tributando loro tutti quegli onori che il debitore riconoscente di solito elargisce al creditore. Una logica economica e di scambio legò il fascismo alla guerra e per tramite di essa unì gli italiani tra loro. Questa encomiastica bellica produsse un reticolo iconografico molto orientato alla esaltazione del martirio,
e del martirio bellico in
particolare, che non si localizzò solo nei centri urbani maggiori: già abituati a celebrare un eroe vagante e pellegrino come Garibaldi che aveva toccato, nei suoi viaggi, quasi ogni landa della penisola, e che veniva ricordato da migliaia di lapidi sparse anche nei più insignificanti paesi, si procedette ora ad aggiungere
a questa marcatura
sto-
rica del territorio nazionale anche quella derivante dalle sanguinose vicende delle guerre successive. La morte non fu allontanata dalla società?!, al contrario monumenti fu-
nebri e cenotafi la resero un elemento costitutivo del tessuto sociale della nazione e posero i presupposti perché il sacrificio bellico costituisse un elemento imprescindibile in tutte le mitologie politiche fino alla più recente contemporaneità. Un lungo romanticismo mortuario abbraccia la storia
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d'Italia sul cui territorio il soldato caduto rappresenta gli snodi identitari del reticolo storico nazionale. Nel 1919 fu inaugurato il grande Monumento all’artigliere a Torino e nel 1920 si tenne a Gorizia il concorso per il monumento al fante sul Monte San Michele. L’anno seguente, con l’invenzione del milite ignoto si sancì, sebbene a posteriori, il consenso massiccio che gli italiani avevano tributato alla guerra. Al passaggio del «treno sacr®» si ripeterono innumerevoli scene di pietà popolare: alla stazione di Firenze, per esempio, «madri e vedove di caduti coi loro piccini» circondarono «in ginocchio il glorioso sarcofago recitando le preghiere dei morti», e don Giulio Facibeni (ex cappellano militare e fondatore della Madonnina del Grappa per l’assistenza all'infanzia) celebrò messa in piazza Santa Croce alla presenza di Cadorna. Gli operai chiesero e ottennero infatti di sospendere il lavoro in fabbrica in segno di rispetto, mentre le sirene di molte fabbriche, con fischi acuti, salutarono lo sconosciuto eroe. «A San
Giovanni Valdarno oltre duemila operai, come un sol uomo, s'inchinarono riverenti davanti al simbolo della Patria, del Dovere, del Sacrificio», Con la collocazione della salma, quale sineddoche di tutte le imarzialità italiane, al centro del monumento
costruito
a Roma
in onore
del pater patriae Vittorio Emanuele TI (morto nel 1878), e sotto la Dea Roma, il soldato caduto divenne ougar6g della capitale d'Italia. Da quel momento tutti i combattenti fecero parte di un unico, accomunante, onnicomprensivo, sincronico corpus mysticum nazionale.
Il monumento
a Vittorio Emanuele divenne lo specchio di tutte le
guerre e di tutte le vittorie, divenne, come dissero i fascisti, l’altare della
patria, epiteto che ancora oggi è rimasto invariato. Esso fu lo sbocco iperbolico della logica del sacrario in cui la molteplicità delle ossa dei soldati morti vengono ricomposte all’interno di una unitaria massa — architettonica — il cui scopo è quello di rendere la morte concettualmente accettabile ed esteticamente spettacolare. Il sacrario teatralizzò la morte dei soldati, si pensi per esempio al monumento ai caduti di Erba Incino del 1930 (Como), a quello del 1931 di Como e soprattutto al sacrario di Redipuglia, inaugurato nel 1938 con le sue centomila salme di caduti”. Anche i monumenti ai caduti confermano quanto gli italiani potevano non solo conoscere, ma anche ‘dire’ della guerra: essa era stata una guerra giusta combattuta per la libertà e a compimento del percorso risorgimentale. Soprattutto essa era stata una guerra gloriosa e
benché la maggior parte dei monumenti fosse stata eretta tra il 1919 e il 1930, decennio di passaggio politico e di discontinuità istituzionale, nella maggior parte dei casi ciò avvenne all’insegna della continuità
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tematica e della tradizione. Una prova non tanto della ibridazione delle ideologie, ma della capacità di permanenza e della lentezza nella velocità di trasformazione dei linguaggi che fino ad allora avevano caratterizzato il discorso bellico nel suo insieme’. Con però un elemento di novità costituito dal passaggio da una rappresentazione «dolorante» del combattente, ad una più freddamente «eroica»? Nella disseminazione dei monumenti fin nei più piccoli borghi della penisola, i richiami al «sacrificio sublime» espressi dalle epigrafi dedicatorie si incentrarono su frasi del tipo: In gloria virescunt; Dulce et decorum est pro patria mori; Sanguine-laboribus-lacrimis victoria fulget; oppure agli eroi che caddero e vinsero e che perciò furono monito, disciplina, esempio. In diversi casi si esprime la convinzione che ai piedi di quei monumenti sarebbero venute le madri con i loro figlioli per «mostrare le belle orme» del sangue dei caduti. A Modena si ricorda che i caduti «gittarono le anime di là di ogni ostacolo, di là del prodigio, incontro alla morte». A Muro Lucano il monumento ai caduti rammenta che i nomi riportati sono quelli degli «eroi che combattendo nella guerra mondiale caddero per la grandezza e la gloria d’Italia» essendo essi «nati da questa antica terra e di sua stirpe guerriera [...] furono degni dei loro padri» e dunque ora i figli «siano degni di essi». A Urbania il monumento, in guisa d’altare sul quale posa una lampada votiva, reca in alto l'iscrizione scopertamente sacrificale: «da vostra tomba è un’ara»””. A Feltre la continuità tra le narrazioni e le cronache della guerra e la sua rappresentazione monumentalizzata è diretta: la figura del caduto ricorda in modo esplicito la crocefissione, in altri casi l'esposizione dell’arma, la baionetta, il pugnale, la lancia, sottolinea la natura arcaica del combattimento e ancora ripropone l’idea della lotta corpo a corpo - l'attore è quasi sempre un fante, raramente un alpino — quale elemento che misura la forza d’animo e la bellezza del torneo nel quale i contendenti misurano la loro potenza muscolare e morale. In taluni di questi casi il soldato ci si mostra a torso nudo nella sua poderosa muscolatura di ginnasta, futuro modello di quel nudo monumentale che sarà parte integrante delle forme architettoniche elaborate dal regime. Assieme a questi elementi ricorrono svariate simbologie araldiche i cui adattamenti e rivisitazioni (fossero esse evocatrici di una certa romanità o di un certo medioevo) divennero assai agevoli in particolare durante gli anni del fascismo”. Un ruolo del tutto speciale fu quello giocato dai tanti musei del
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Risorgimento, che continuarono a celebrare la comunità dei martiri delle guerre nazionali; il collezionismo museale, già visto all'opera nel proporre una peculiare linea di lettura della storia nazionale, continuò a esporre cimeli e reliquie di grandi martiri che ora furono il Battisti, il Filzi e il Chiesa che erano stati giustiziati nell'estate del 191690. Di Cesare Battisti fu raccolta ed esposta una scheggia del legno staccata dalla forca alla quale era stato appeso prima che essa fosse segata e bruciata, il cucchiaio che aveva adoperato quando era in carcere, il berretto che calcava il giorno del supplizio, la sua cassetta militare con zaino e vestito, la nota della spesa del vitto consumato l’ultimo giorno in cella, gli abiti borghesi indossati sul patibolo e, infine, i nastri delle corone deposte sui cippi nella ‘fossa della Corvara’. Di Fabio Filzi furono esposti i resti di abiti indossati al momento della impiccagione, in particolare il suo cappotto, e poi la borraccia dalla quale bevve l’ultimo sorso di caffé prima di avviarsi al patibolo, ed il berretto militare. Di Damiano Chiesa si collezionarono tre tavole del pavimento della cappella sulle quali fu deposto per alcune ore il suo cadavere dopo la fucilazione, con ancora visibili tre tacce di sangue, nonché una delle pallottole sparate per la fucilazione e pezzi di abiti indossati al momento della morte. Dei volontari trentini caduti al fronte nel 1915-16 si conservarono: un fazzoletto tricolore bagnato nel sangue della ferita mortale di Carlo Ciurcentaler (Dall’Elmo), falciato da una bomba mentre si recava all'inseguimento del nemico sul Mizli, il 2 dicembre 1915; un braccialetto d’argento, con l’effigie della Madonna, cosparso di tracce di sangue di Pio Scotoni di Trento, sottotenente del 5° Alpini caduto a quota 617; il portasigarette forato dal proiettile che uccise il bersagliere Silvio Divina di Borgo Valsugana. Ed inoltre si conservarono due ampolle con l’acqua del Piave e la terra di Montello, offerte ai legionari trentini dai combattenti della Nervesa e di Piano della Sernaglia nel novembre del 1916. Furono questi musei con le loro raccolte di cimeli a dettare il gusto mortuario a gran parte delle mostre fasciste, si pensi alla grande raccolta di oggetti sacrificali che interessò tutta l’Italia attuata in preparazione della Mostra del decennale. E se in una sala di quella mostra era esposto il primo fascicolo della edizione originale della Giovine Italia (1832) aperto allo stupendo brano sui doveri e sulle prerogative della gioventù — ovvero sulle righe dedicate al sublime sacrificio e al sangue
dei patrioti martiri -, in quella contigua fu esposto parte del cappio con il quale era stato impiccato Nazario Sauro, mentre altrove faceva mostra
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di sé la stampella di Toti. Complessivamente furono più di diciottomila i pezzi-reliquie raccolti in preparazione dell’evento, in varie parti d’Italia e censiti da un apposito ufficio-archivio aperto in via della Cernaia. Tra essi, esempio massimo della mitologizzazione dell'origine del movimento, e del bagno di sangue sacrificale che aveva richiesto ai primi testimoni, un pezzo — opportunamente smontato — del ponte fiorentino
dal quale era stato gettato in Arno Giovanni Berta, violento squadrista della prima ora, subito assunto tra i capostipiti del movimento con tanto di spoglie riesumate e traslate nel sacrario dei martiri ricavato nei sotterranei di Santa Croce in Firenze nel 1934. E se vorrai parlare col grande spirito di Giovanni Berta, o Balilla, dì al babbo che in premio alla tua bravura nello studio, dopo la meritata promozione, ti conduca a visitare la “Mostra della Rivoluzione Fascista”,
a Roma.
Ti sembrerà di entrare in un mistico tempio ove tutte le cose sfumanc, e
sembrano incorporee, in una mite luce ultraterrena. Negli angli in ombra, i pallidi profili dei martiri gloriosi ti sorrideranno dalle loro cornici, e tu vedrai le loro camicie nere ancora intrise di sangue,e gli strumenti del loro martirio. Vedrai il pezzo del “ponte sospeso” a cui Giovanni si aggrappò disperatamente ancora segnato dal sangue dell’Eroe3.
Quella romana fu eminentemente una mostra sulla morte e sull’orizzonte ultramondano del militante. Anche la guerra era considerata nella sua particolare declinazione di prova dolorosa, di lotta e di sacrificio, di morte fisica come «momento esaltatore della vitalità spirituale di una nazione». La sala cosiddetta “sacrario dei martiri” (sala UV), allestita dagli architetti Valente e Libera al piano terreno5, rappresentava il Sancta sanctorum dell’interno complesso mnemonico-sacrale?°. L’élite del fascismo rappresentata dai suoi caduti-martiri viene posta in un effimero 6ugpaA0c nazionale ad affiancare il Vittoriano. Nella mostra si celebrava senza rimpianti e si commemoravano senza dolore ma con orgoglio i caduti del fascismo, così come avvenne in tutti i sacrari nazionali, in primo luogo a quello di Redipuglia, che fu infatti ricostruito nel 1938. Per volere esplicito di Mussolini, la collina di fronte al vecchio cimitero nel quale i depositi di armi e di attrezzature belliche erano sottoposti alle ingiurie delle intemperie e ormai trasformati in un indecoroso deposito di ferraglie rugginose, fu coperta di eterne strutture marmoree”. La mostra romana propose una lettura cristomimetica della militanza fascista in cui l’impegno e il rigore scaturivano in un sacrificio
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Fig. 24 E. Ambrosi, Squadrismo Eroico: Giovanni Berta, Milano, Carroccio, 1936 [copertina].
che non era solo esemplare, ma validante. Al centro del cubiculum sacro che la guida ufficiale alla mostra chiamava «cripta», era stata innalzata una croce il cui Golgota era «color rosso sangue, si trattava di
una «croce guerriera nella sua struttura metallica». Due scritte delineavano poi l’interpretazione che il visitatore poteva dare all'insieme: la prima chiariva le ragioni del sacrificio fascista avvenuto «per la Patria immortale», mentre la seconda — centinaia di volte ripetuta — ricordava che erano i martiri stessi a proclamare, dal cielo degli eletti, la loro perdurante presenza, con un ossessivo «presente ripetuto sulle pareti
di quella specie di abside. L'immortalità del caduto fascista assumeva
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dunque carattere transustanziale, il martire santificato era presente ed attivo, protettore e guida, affatto spento nella morte ma capace di tutela dei vivi e di azione nella storia.
3. Scuola di guerra La mostra fu una sorta di cifrario simbolico del regime, una illu-
strazione pedagogica delle sue caratteristiche salienti: l'abbondanza di didascalie, di immagini e di carte geografiche la rese del tutto simile ad un sussidiario scolastico. I fascisti si accreditarono come maestri di vita e sperimentatori del futuro, il regime come un immenso laboratorio didattico nel quale tutti i sudditi tornavano ad essere oggetto di attenzioni educatrici e di addestramento. La disciplina che doveva essere introiettata dagli italiani non era però una invenzione fascista. Già gli italiani che erano andati ‘a catechismo’, o che avevano calcato le aule ginnasiali o le piazze d’armi, avevano ascoltato termini come obbedienza e sottomissione. Le affermazioni contenute nel Libro e moschetto — quasi un répechage del mazziniano pensiero e azione —
riproposero antichi schemi ideologici del civismo risorgimentale. In questo quadro era del tutto naturale che la guerra fosse al centro dell’organizzazione scolastica e parascolastica del regime che, come è noto, nell'agosto 1924 stabilì che la neonata Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale si dovesse occupare dell’addestramento pre-militare dei giovani, un provvedimento che alcuni anni dopo fu corroborato dalla istituzione del Libretto dello stato fisico e della preparazione militare del cittadino. Anche le palestre degli Avanguardisti furono dotate di mitragliatrici e moschetti e dal 1934 la cultura militare fu inserita stabilmente fra le materie di studio della scuola media, mentre la Gioventù Italiana del Littorio ebbe come missione sociale quella della preparazione sportiva e premilitare degli italiani?. La centralità della guerra fu sostenuta in ogni campo per quanto riguarda le giovani generazioni e soprattutto essa fu presente nella narrativa per ragazzi. La gran fiamma di Guido Fabiani + uno tra le decine di libri che si potrebbero richiamare — offriva ai giovani lettori un affresco di vita agreste intrisa di ideali patriottici e di scene di guerra e sacrificio sul Monte Grappa dove, secondo l’autore, gli alpini avevano sentito « lo spirito di Battisti aleggiare intorno a loro al punto che «l’anima del martire pareva essersi trasfusa in essi come in tutti gli altri soldati».
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Se i ragazzi che sapevano leggere nel 1910 avevano trovato in libreria un racconto di Filiberto Scarpelli, già pubblicato a puntate l’anno precedente sul «Giornalino della Domenica», e
— 18 lì
inserti
cioè Guerra! Guerra!!, ora i loro
figli, a distanza di quasi vent’anni potevano ritrovarsi a leggere lo stesso racconto, sebbene con
il titolo variato in Za banda del ciuffo rosso. Ciò significa che i moduli della narrazione di guerra erano rimasti invariati in più
di due decenni: la guerra per i giovani era descritta come gioco e come evento di iniziazione alla vita adulta. Circolarono an-
_ Fig. 23 Sacrario dei martiri. Sala U, da Mostra della Rivoluzione fascista. Inventario, a cura di G. Fioravanti,
Roma,
Pubblicazioni
dell’Ar-
che riduzioni della più recente chivio Centrale dello Stato, 1990. storia patria per ragazzi che rappresentavano sintesi perfette (ma quante di queste letture furono compiute anche dagli adulti meno istruiti e incapaci ad affrontare pagine più complesse?) della storia italiana che inneggiavano all’annientamento del nemico, «un’orda decisa a sovvertire tutto: focolare domestico, scuola, memorie, tradizione, fede, patria».
Un cappellano militare pubblicò nel 1928 un libro che cercava di tenere viva la memoria della guerra nei ragazzi e che era colmo di esempi di immolazioni e di sacrifici e che fu scritto per unire passato e presente dell’Italia nel momento in cui la patria, grazie a quegli ideali di sangue, ritrovava se stessa‘. Anche nel corposo volume di Leo Pollini intitolato Guerra e fascismo spiegati ai ragazzi le storie di guerra si susseguono
e gli atti memorabili della Grande guerra si intrecciano a quelli destinati anch'essi a segnare col sangue l’avvento del nuovo regime, gli anni della «guerra tra i fascisti e i sovversivi, cioè tra l'avvenire glorioso e il passato imbelle»,
e dei martiri come
il Berta, i morti dell’eccidio di Empoli, del
teatro Diana di Milano. Furono storie inculcate nelle scuole assieme all'insegnamento della cultura militare, come ci testimoniano vari manuali redatti ad boc e in particolare il corposo Libro di cultura militare dedicato all’addestramento del cittadino all’esercizio delle armi" qua-
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Fig. 25 La formazione dei fasci da Il libro fascista del balilla, Firenze, la Nuova Italia, 1936.
le «fonte del bene nazionale, e «prova classica, suprema, irrefragabile dell'amore verso gli altri»x'’. La letteratura per ragazzi rilanciò anche il mito degli Arditi, ripropose il loro spirito combattentistico e ne fece un modello valido per tutta la gioventù italiana permeata dagli ideali marziali’. Questo modello educativo, inizialmente lasciato a iniziative disparate, fu oggetto, soprattutto a partire dagli anni Trenta, di una più precisa organizzazione istituzionale. Con l’entrata in uso dal 1930-31 dei cosiddetti «testi unici di Stato» si creò «una continuità e una contiguità» tra il mondo della scuola e i suoi testi di riferimento didattico e quell’insieme di libri di lettura e di sussidiari che da tempo si andava rivolgendo ai giovani inquadrati nelle organizzazioni del regime — Balilla, Avanguardisti, Figli della Lupa, Giovani italiane —, cosicché irreggimentazione scolastica e para-scolastica (o para-militare) divennero l’una specchio dell’al-
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tra”. Anche iconograficamente la scuola fu considerata spazio espositivo per la celebrazione figurativa della guerra e dei suoi eroi' con tanto di dedicazioni a qualche eroe delle aule e di visite ai monumenti ai caduti. A partire dal 1928 poi l’insistenza sulla data del 24 maggio come anello di congiunzione tra Risorgimento e Rivoluzione fascista rilanciò pure tutti gli entusiasmi patriot-
tici di quel tempo”. E nelle aule delle scuole elementari risuonarono i canti patriottici forniti dal Canzoniere Nazionale con gran richiami alla morte in battaglia, si pensia Giovinezza, al canto BaÈ
5
;
a
lilla, all’inno O giovani ardenti,
x
si
peg
CS rosea rea
e
Fig. 26 A. Lodolini, Cappuccetto Rosso nell’A-
frica Orientale, Bologna, Cappelli, 1936 [Co-
oppure al drammatico L'addio pertinal. del volontario (questi ultimi sul 1848), fino a giungere a quell’inno a Garibaldi (anno di composizione 1859) di impronta gotico-cimiteriale. Si scopron le tombe, si levano i morti I martiri nostri son tutti risorti,
Le spade nel pugno, gli allori alle chiome, La fiamma ed il nome d’Italia nel cor?
4.]Igiannizzeri del duce Alla divulgazione della guerra come elemento portante della nazione fascista corrispose una sua declinazione in chiave elitaria con una accentuazione del ruolo e della funzione del guerriero e della retorica del bel gesto”. Così durante gli anni del regime la guerra di massa progressivamente diventò una guerra di pochi, di prescelti, tutta costellata di sacrifici aristocratici. Si parlò allora spesso di un nuovo tipo di guerriero, di un ‘guerriero-atleta’ che avrebbe primeggiato sia negli stadi in tempo di pace, sia sui campi di battaglia nei tempi di guerra. d'uomo comune, l’uomo medio più non basta, si legge in
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Il martire necessario
un libro uscito nel 1925 e significativamente intitolato Gli sports di guerra: «ora ci vuole l’eroe dell’età nuova, ritto al vertice della vita e tranquillo in mezzo al turbine della battaglia; ci vuole un semidio che sappia fondere in una sintesi perfetta all'energia elettrica le sue energie fisiche, l’industria meccanica alle forze psico-organiche, i motori e la dinamo al motore cuore e al dinamismo umano»”. Secondo questo «trattato di educazione fisica militare» ogni sport praticato in tempo di pace ha un suo corrispettivo in tempo di guerra, ogni esercizio ginnico abilita ad un tipo di combattimento o di impiego nell'esercito, al ciclismo corrispondono i bersaglieri, allo sci le truppe di montagna, al lancio del disco o del giavellotto il lancio delle bombe, al salto con l’asta lo scavalcamento dei reticolati’5. La guerra in quanto rivalità e competizione aveva bisogno dei suoi atleti e delle sue squadre — ‘compagnie’ si chiamarono quelle dell'esercito — che scendessero nell’agon. Come quella degli esploratori della morte creata da Cristoforo Baseggio nel 1916, che fu il primo reparto militare d’assalto”. Ma ‘vittoria o morte’ — o meglio ‘vincere .0 morire’ — era già stato un motto celebre perché era quello cucito sulla bandiera della Legione Anfossi che aveva sventolato a Milano durante le Cinque giornate”. Lo stesso D'Annunzio aveva pensato le sue imprese come un estremo
azzardo, nello stile, appunto, di ‘vincere o morire’, tanto che nella sua impresa più celebre e romanzesca rappresentata dal volo su Vienna al comando della squadriglia Serenissima, si era portato appresso un astuccio di madreperla al cui interno era contenuta una fiala di veleno, un «farmaco liberatore, come lo ebbe a chiamare. Arditi d’Italia — aveva scritto D'Annunzio da Fiume nel 1919 — venire a Voi è come penetrare nella fornace ardente, è come respirare lo spirito della fiamma senza scottarsi, senza consumarsi. Ardore. Ardire è una parola sola, è una sola essenza
mistica”.50
La missione salvatrice del fascismo collimava perfettamente con la missione — o nella sua declinazione plurale — con le missioni che si diceva fossero state compiute da una élite dell'esercito nella guerra appena passata, quella degli Arditi. Il corpo degli Arditi era stato creato per compiere le missioni più temerarie e le imprese ritenute impossibili, tutte giocate al limite dell'avventura. Più che corpo specializzato,
sebbene i militari si vantassero di aver addestrato ed equipaggiato al meglio questi soldati, fu costituito da un manipolo di temerari. L’ardito
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era «il futurista della guerra, l'avanguardia scapigliata e pronta a tutto»7, con la sua divisa inconfondibile e il suo corpo d’acciaio fiamme al bavero, giubba aperta, maglione con teschio, tascone pieno di petardi, un pugnaletto affilato, un piccolo corpo muscoloso di belva, due occhi neri e decisi, poche parole. Egli era disposto a suicidarsi «con una buona pugnalata nel ventre piuttosto che a cedere, era la «fusione perfetta di pensiero, bellezza, azione». Gli Arditi si sentivano «acrobati» e «avventurieri» e rispetto alla «moltitudine grigia» degli altri combattenti, fiamme e «scintille che meravigliavano il mondo». Alla fine della guerra avevano conosciuto un declino di popolarità®, ma ora, grazie ad una svariata serie di iniziative editoriali, tornarono prepotentemente in auge per dar vita, come qualcuno scrisse, «coraggiosamente e con animo risoluto ad un nuovo armonico assetto sociale e politico», Mussolini considerava gli Arditi come la vera avanguardia della nazione, ai suoi occhi essi apparivano come i veri rinnovatori-rivoluzionari che avevano saputo trasporre lo spirito nato negli anni della guerra fin dentro l’età successiva. E fu proprio Mussolini a voler dare a questi ex-combattenti lo status di soggetto politico in quanto latori di una peculiare idea della guerra. Se una prima associazione degli Arditi ebbe innocui scopi di mutua assistenza ai reduci, quelli tra loro di inclinazioni più radicali furono quelli che piacevano a Mussolini — la loro sede era a casa di Marinetti a Milano e il loro presidente era il capitano Ferruccio Vecchi + e che furono ben appoggiati dal «Popolo d'Italia». La loro azione fu da subito contrassegnata
dalla violenza, non a
caso si distinsero per la partecipazione alla cosiddetta battaglia di piazza Duomo e per essere tra i protagonisti della devastazione della sede dell«Avanti». Questo loro ‘attivismo’ li rese del tutto diversi dagli altri ex-combattenti, perlopiù organizzati nella Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, o nella Associazione Nazionale Combattenti, entrambi sodalizi di ispirazione liberal-democratica. Infatti dal gennaio 1920 l'Associazione degli Arditi fu assorbita nel movimento
dannunziano,
con
D'Annunzio
proclamato
presidente
onorario, e con un nuovo statuto che permise di accogliere nella Associazione non solo i legionari fiumani, ma «tutti gli arditi del mare e del cielo», nonché tutti quelli che avessero mostrato di «aver meritato l'epiteto». Ma l’anno dopo il grosso di essi passò tra le file del fascismo” con un inequivocabile programma che tornava, ancora una volta, ad evocare martiri e resurrezioni, sangue e palingenesi®. Temi che già abbondantemente erano stati trattati dal loro primo giornale,
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il periodico «L’Ardito» diretto dal capitano Mario Carli e da Ferruccio Vecchi, e poi infinite volte ripetuti negli anni finali del regime — dal 1932 al 1943 — da «L’Ardito d'Italia».
Fu anche grazie a questa attività editoriale che gli Arditi poterono innestare, precisare e ridefinire le loro ‘idee originarie’ all’interno del nuovo assetto politico-ideologico fascista, non senza coltivare certi atteggiamenti di ribellismo di stampo anarcoide e il mito della unica degna discendenza dagli eroi del Risorgimento, cioè come coloro che venivano da lontano, avendo combattuto «a stessa battaglia» contro gli austriaci nel 1917-18 e contro socialisti e democratici nel 1919”. Chi è un ardito? Si chiese retoricamente Ferruccio Vecchi, ex capitano delle fiamme nere in un suo scritto: «ardito — rispose — è un fante sbocciato, un seme diventato pianta, un uomo comune valorizzato eroe e che, uscito in mille ramificati assalti, ha dato i frutti più
copiosi di sacrificio», Si tratta di una interpretazione dell’arditismo che non è isolata: la ritroviamo, per esempio, seppure in forma un poco mitigata, nello stesso padre Reginaldo Giuliani e in forma molto netta in un altro dei più diffusi libri scritti all'epoca sul movimento, e cioè Fiamme Nere. Note di Gloria e di passione, di Paolo Giudici®.
Ma a regime ormai radicato l’Ardito fu soprattutto modello e prototipo sul quale costruire forme e pedagogie dell’obbedienza di una società militarizzata e avviata a concepire — almeno a livello popolare — etica e impegno sociale sotto una particolare declinazione ‘da caserma’. Erede di una indiscussa tradizione militare intrisa di sangue, l’Ardito divenne il guerriero per antonomasia cui avrebbe dovuto ispirarsi ogni giovane avanguardista: sul suo corpo fisico appuntarono la loro attenzione in molti nel tentativo di definirne proporzioni e funzioni, col proposito di stabilire una esatta corrispondenza tra ordine fisico e ordine morale, tra saldezza del corpo e saldezza etica tale da far pensare ad una sorta di vita consacrata, ad una condizione sacerdotale, quasi ad un giannizzero del fascismo. Non per niente l’ardito fascista avrebbe dovuto leggere di «preferenza» i sacri libri fascisti, meditare di «preferenza sulla vita del Duce» perché egli era il «Santo tra i Santi», «il Dotto tra i Dotti, «il Costruttore tra i Costruttori”. Questi combattenti fecero un progressivo maggior sfoggio di te-
schi e di pugnali mentre le loro sedi cominciarono ad essere chiamate ‘covi’, che spesso erano difesi da reticolati e sacchetti di sabbia collocati a bella posta con funzione scenografica. Gli Arditi ebbero parte attiva nelle mobilitazioni di massa del regime e poterono svol-
III. IT sangue lustrale
177
gere compiti di polizia al pari della ‘milizia’. Svolsero anche attività dopolavoristica e sportiva — si pensi alle primavere ardite — e anche assistenziale. In occasione del ‘Natale ardito’ i membri del corpo distribuivano regali e pacchi dono, così anche per la Pasqua, in diversi casi giunsero a vendevano gadget (spille, gemelli, distintivi vari) attraverso la pubblicità sul giornale. Ma a parte questi aspetti ‘leggeri’ della presenza del corpo degli assaltatori, con i loro cimeli e i loro. ricordi, la facies vera del gruppo restava legata ad aspetti molto crudi e di esaltazione dell’immolazione personale. Infatti durante tutto il ventennio il fascino degli Arditi dipese in gran parte dal modello del duello, cioè dallo scontro corpo a corpo in cui l'arma per eccellenza era il pugnale, l'arma che permetteva di veder scorrere il sangue del nemico e di sentire il suo ansito di morente. Nella nostra visione iconografica del mondo — ha scritto Carlo Mazzantini — la mistica e il rituale del pugnale avevano un posto centrale. Sull’altare dei martiri fascisti un pugnale conficcato nella pietra sostituiva la croce. [...] E lame di pugnale stavano infisse in cima ai gagliardetti, come una sfida, una minaccia contro il cielo. Era virile. Anzi, fallico. Lo stringevi nella mano quel piolo che spuntava dal tuo fianco: lo sentivi duro e forte. Lo ‘snudavi’, ti slanciavi al ‘corpo a corpo’. Tutti i reparti lo avevano adottato, appeso alla cintura. Niente a che fare con la spada, distante e aristocratica. Col pugnale devi affrontarlo il nemico, respirare il suo alito, guardarlo negli occhi, sporcarti del suo sangue. [...] C'era chi vi aveva intagliato sul manico il nome della fidanzata, e uno addirittura il vezzeggiativo della madre”.
5. Icaduti del littorio Si diceva che il Duce portasse impressi sul suo corpo i segni del combattimento: quelle quarantadue cicatrici delle ferite di guerra che, secondo Margherita Sarfatti, lo rendevano simile ad un San Sebastiano trafitto dai dardi, al più perfetto dei martiri secondo D'Annunzio”. Non era solo Mussolini a mostrarsi «ombattente e ferito»: molti altri militanti e reduci portavano con orgoglio i segni della guerra impressi sul loro corpo, fastigi di un tempo che pareva che molti volessero rapidamente — troppo rapidamente + lasciarsi alle spalle”?. Con conseguente e ben nota reazione avversa tant'è che le prime storie del movimento fascista sottolinearono questo tentativo di nascondere la guerra e i suoi protagonisti depotenziandone la portata
e sminuendo
il valore di chi aveva combattuto ed era morto per la patria.
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Il martire necessario
I pochi amanti della Patria furono disprezzati; furono schiaffeggiati i volti incisi e martoriati dal piombo nemico, sputacchiati i moncherini ancora sanguinanti, i petti spregiati, gli occhi spenti che avevano improvvisamen-
te fissato la morte. Il reduce eroico fu sgozzato da mano fraterna nell’ombra del crocicchio?.
In realtà i martiri di cui si celebrava ora la memoria, e dei quali si invocava la presenza, non provenivano, se non in parte, dalla Grande guerra, bensì da quella guerra, popolarmente raccontata come vera e propria continuazione della precedente, che fu combattuta dai fascisti tra il 1919 e il 1922. I martiri gloriosi ebbero certo un peso grandissimo nella vita pubblica, ma al vertice della piramide dell’apprezzamento pubblico si cominciarono a porre anche i fascisti che erano caduti ‘in combattimento’ contro socialisti e sovversivi. Erano loro le nuove vittime sacrificali, i nuovi soldati morti — come recitava // primo libro del fascista — mei continui scontri con gli avversari, nelle imboscate, negli” agguati che questi rinnovavano con crudele accanimento»”. Fu allora che si produssero quegli eroi dell'età nuova, i primi, e dunque i più osannati testimoni della nuova e palpitante fede politica fascista, capaci di cadere e di sorridere di fronte alla morte”, ai quali furono prontamente dedicati molti altari e cappelline votive nelle case del Littorio. A Palazzo Venezia arse una fiamma di fronte ad un’ara di marmo delle Alpi Giulie sovrastata da un cartiglio molto eloquente: «Il sacrificio delle camicie nere consacra la Rivoluzione del Littorio, nella certezza del futuro, nella gloria della patria». A Firenze i martiri fascisti — compresa la salma di Giovanni Berta - furono ospitati in una cripta in Santa Croce”. In varie altre parti d’Italia sorsero altari e monumenti e videro la luce numerosi opuscoli in memoriam dei fascisti morti in combattimento o a causa degli agguati del nemico socialista. Si formò così una nuova e polimorfa rete memoriale” ? che si sovrappose a quella — già fitta — rappresentata dagli opuscoli funebri per i caduti della Grande guerra, e anche delle guerre risorgimentali precedenti. Assieme alle cronache dei giornali e alle cerimonie di commiato e alle lapidi, questo tipo di memorialistica raccolse interi cataloghi di violenze contro i militanti del nuovo movimento politico. Fino a giungere alla definitiva sistemazione della martirologia fascista ad opera di Arturo Marpicati sull’Enciclopedia Italiana, che fornì un elenco ufficiale dei caduti, dal caso di Torino del 4 dicembre 1919 dove fu ucciso Pierino del Piano in poi, con una lunghissima enume-
HI. Il sangue lustrale
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razione di casi presi da ogni parte d’Italia e rubricati sotto il segno della «parentela fra guerra e fascismo»80, La pretesa continuità guerra-fascismo e il parallelismo tra nemico esterno e nemico
interno costituirono
la cornice ideologica entro la
quale si mossero questi gruppi di violenti. Essa peraltro dava anche un senso alle loro scelte di carattere logistico e di tecnica di scontro che furono, come è noto, di tipo strettamente militare. Ma l’attività degli squadristi fascisti poté contare anche su una proiezione esterna e pubblica delle loro azioni giocata sulla evocazione delle imprese e delle battaglie: le memorie belliche si accrebbero ulteriormente, e in continuità, di quelle relative alle azioni fasciste con tanto di morti e di martirizzazioni. Fu questo secondo aspetto a dare forza particolare alle attività paramilitari squadriste che, usando moduli ben collaudati,
riuscirono a parlare e a far parlare di sé come i nuovi soldati impegnati in una guerra sanguinosa. Il quadro bellico che si delineò fu reso credibile perché esso rivisitava e riprendeva tutti i più caratteristici luoghi comuni della guerra, non ultimo quello della degradazione del nemico. Quello di collocare l'avversario su un piano di inferiorità morale era stato un ingrediente tipico ben documentabile nella storia italiana, dalla descrizione degli austriaci alle Cinque giornate, ai racconti sugli orribili crimini dei beduini africani, fino alle grevi vignette sui nemici circolate durante la Grande guerra. Così gli scontri che si accesero più violenti nel 1921, quando «tutta l’Italia era percorsa da bagliori sanguigni» e la lotta era «a coltello», furono pubblicamente raccontati come una lotta tra civiltà e barbarie, come un «canto e ruggito contro sberci e bestemmie». Episodi e scontri sanguinosi furono gli ingredienti di un nuovo florilegio martirologico che andava dai fatti della «turbolentissima e bolscevica Toscana,
alla rivolta anarchica
nelle Marche
e nella Ro-
magna, alle «follie bolsceviche» in Veneto, a Bologna, in Sardegna, a Minervino di Bari, a Torino. Una geografia di scioperi, violenze e morti fu compilata da Giorgio Alberto Chiurco e costituì il punto di partenza della successiva Storia del partito fascista, la cui origine fu dunque sacrificale, costruita sul sangue dei martiri: «i fasci di combattimento impegnano eroicamente la battaglia consacrando le vittorie quotidiane col sangue di mille morti»®?. Il grande tema del sangue dei caduti che feconda e sacralizza la terra su cui cade è un tema
riproposto
in modo
quasi ossessivo.
A
proposito della morte di un militante toscano ucciso in seguito ad una «spedizione» in quel di Fucecchio (Pisa) si sottolinea: «dalla ferita e
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Il martire necessario
dalla bocca fiotti di sangue andarono a inumidire il lastrico e la terra,
ora fecondata». E se sulle pietre di via Tornabuoni a Firenze, nel punto in cui cadde Carlo Menabuoi furono lasciati dei fiori come su una tomba, ovunque si cercò di onorare i fascisti caduti in combattimento essendo il loro sangue «lavacro insuperabile a tutte le sozzure»*. Gli incidenti più ricordati dalla pubblicistica fascista furono quelli che causarono i tre morti a Casale nel torinese avvenuti nel marzo del 1921, che — come si proclamò allora — sarebbero sopravvissuti incastonati nel gran libro dei precursori, e insieme a loro i caduti di Sarzana, di Mantova e di Empoli”. A Firenze, a seguito di violenti scontri avvenuti «all'ombra del bel San Giovanni, rimasero uccisi due giovani fascisti, Gino Bolaffi e Guido Fiorini, ma fu un terzo martire, il giovane industriale Giovanni Berta, ucciso nel febbraio 1921 dai comunisti di San Frediano a Firenze, a
godere di maggior fama. Il suo sangue, scriverà un suo apologeta, «fu rugiada benefica che fece fiorire l’ideale ardentemente sognato dagl’italiani. Il Berta era un fascista che aveva partecipato a molte azioni violente come, per esempio, l'assalto alla sede del giornale socialista da difesa»: i fascisti raccontavano con orgoglio che fosse stato il primo a forzare le serrande ed a penetrare nei locali della redazione devastando tutto. O come anche alla spedizione a Bologna del 21 ottobre 1920, organizzata per reazione al cosiddetto eccidio di Palazzo d’Accursio”, Il nemico era dipinto come ottuso, sordo ai richiami dell'amore e della misericordia, la sua azione era inutile perché volta in ogni caso alla sconfitta, il danno che produceva era più che altro nell'ordine degli affetti che non su quello della realtà bellica; il nemico bestiale privava una madre, una moglie di un congiunto, ma ciò inutilmente perché comunque egli
sarebbe stato un perdente. Era la bestia in gabbia che ghermiva tanto più crudamente perché vedeva prossima la sua fine. A togliere la vita a Giovanni Berta il 28 febbraio 1921 fu «una turba incosciente che si accanì contro un fascista dalla «fede purissima» e «decentemente vestito», essa agì contro un uomo che non volle far uso per primo delle armi sperando in un qavvedimento dei nemici «famelici», a causa della sua «bontà non volle sacrificarli, e fu sacrificato. Come Cristo». I nemici erano infatti dei «per-
vertiti nell'animo» che non conoscevano altro ideale che il sangue. Le fasi della cattura, della morte e dell'espulsione del cadavere gettato nel fiume, furono dunque particolarmente crudeli. E dopo avergli tolta l’arma, contuso e ferito, gettato al di là della Spalletta del Ponte Sospeso ebbe ancora la forza di aggrapparsi ai sostegni. Male
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femmine incitavano quegli esseri infernali, e incitavano con le loro urla la pena [...] l’Arno silenzioso scorreva, inconsapevole di dovere essere l'Arca funebre di una giovinezza italica. Vedendosi sfuggire la primavera, mentre si sfogavano rabbiosamente su lui, coll’occhio semi spento, guardava il cielo pallido, il verde li presso, e in tutta quella poesia rivolse il pensiero al nome supremo e invocò disperatamente con la speranza l’ultima Dea [...] Delusione [...] Dagli squarci sgorgava sangue che si univa all’altro dei martiri d’Italia per formare un lago, in cui un giorno si sommergeranno gli assassini di questa. E Berta le unghie conficcate nei sostegni, contratto il volto, rattrappito in un unico sforzo, suprema volontà non voleva la morte. Scarpe calzate da maledetti, premettero sulla mano che sosteneva il corpo e la sua vita [...] Talloni infami batterono furiosamente quelle membra ormai irriconoscibili e sulla fronte un più potente colpo lo fece precipitare.
Negli anni seguenti altri racconti riferirono particolari ulteriori vòlti a incrudire la scena*. L’uccisione del giovane fiorentino ebbe ovunque onoranze e riconoscimenti: non solo gli fu intitolato lo stadio comunale cittadino, ma anche alcune colonie marine in varie parti d’Italia e diverse scuole da Ravenna a Roma a Palermo. Alcuni si spinsero a vedere in quella vicenda una sorta di ineluttabile necessità guidata dal fato: «il sangue di Giovanni Berta, e quello dei Mille Martiri del primo tempo della Rivoluzione, scrisse Ernesto Ambrosi nel suo Squadrismo eroico, «era indispensabile, doveva essere versato! Perché da quel sangue innocente doveva nascere la nuova, invincibile Italia fascista. Perché nell’epoca tragica in cui Giovanni Berta patì il martirio, tante e tante altre balde giovinezze s'immolarono per lavare col loro purissimo sangue l’onta che un’orda di rinnegati faceva all'Italia». La sua morte portò altro spargimento di sangue: un altro fascista che, nei giorni successivi al fatto di sangue, si trovava a passare per San Frediano, avendo udito un calzolaio che intonava una filastrocca
canzonatoria sul Berta, volle reagire ma fu ucciso da questi con «do strumento del lavoro mutato in arme omicida, strinto convulsamente dalla mano
runa di pece. Il ciabattino infatti aveva colpito «una, due,
tre volte» con «il trincetto» il «ventre» del fascista facendogli uscire «gli intestini dalle ferite». Contribuirono a tenere viva la memoria del Berta gli insegnanti elementari:
nel tredicesimo
anniversario
della
morte
del martire,
il
15 gennaio 1934, per esempio, fu indetto un «concorso tra gli alunni delle scuole di vario grado del rione San Frediano. Il primo componimento vincitore fu quello di Michelino De Rosa, alunno del IV anno della Scuola Giuseppe Garibaldi di via Goito.
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Il martire necessario
Giovanni Berta è il martire fascista più glorioso e che desta più ammirazione nel mio cuoricino. [...] Giovanni Berta, per l’idea fascista, patì sul ponte sospeso gli insulti della gentaccia comunista, patì le bastonate ed infine fu gettato nel fiume. Il povero Giovannino tutto pesto e sanguinante, si era
aggrappato alla spalletta del ponte e gridava: Mamma! Mamma! Mamma! [...] Così morì il più bello, il più gentile e il più giovane dei martiri fascisti. Il mio più che caro maestro signor Carbocci, tiene, sotto il quadro della Madonna un piccolo ritratto di Giovanni Berta e ci insegna ad amarlo e venerarlo come un martire di guerra. Quando nel luglio scorso fui a visitare la Mostra della Rivoluzione fascista in Roma, quello che maggiormente mi colpì fu il pezzo di spalletta del ponte sospeso. Ci fermammo in raccoglimento e due lacrime mi scesero per il viso, perché mi pareva di vedere sempre aggrappate alla spalletta due mani insanguinate e di sentire una voce disperata gridare: -f Mamma! Mamma! Mamma! -??,
Il secondo vincitore fu un certo Scapezzi del IV anno della scuola magistrale, dell'Istituto Frascani-Signorini, di piazza Cavour. Erano i tristi tempi in cui le teorie bolsceviche venute dall’oriente avevano fatto breccia nell’anima del nostro popolo deviato e duplicato da miraggi utopistici: erano i tempi in cui una cricca di avventurieri e politicanti in
cattiva fede, avevano portato la Nazione sulla via della rovina morale e materiale: erano i tempi dolorosi in cui si vedevano offendere, bastonare, uccidere, coloro che, pochi anni prima, sui campi di battaglia avevano lasciato sangue e membra per difendere il nome d'Italia. [...] ed il martirio ebbe il suo barbaro epilogo. Aggrappato convulsamente all’ultima traversa del ponte con le mani sanguinanti, sospeso il corpo nel vuoto sotto al quale scorreva pauroso il fiume in piena, il giovane martire esausto di forze invocava ancora il nome della mamma. [...] le mani del martire furono ancora più aspramente colpite, finché il tonfo cupo del suo corpo ormai affranto aprì nel fiume un gorgo”.
Il terzo vincitore fu Raffaele De Belo del Liceo Scientifico ‘Leonardo da Vinci. Era nato all'ombra della cupola del Brunelleschi, era pure vissuto nella città di Dante. Spirito libero, desideroso di vita movimentata; aveva sentito il soffio dei venti atlantici sulle tolde delle navi e aveva udito il frastuono della battaglia in Africa [...]. Lì sul ponte sospeso l’uomo indegno di portare questo nome compì uno dei più grandi delitti che ricorda l'umanità. Giovanni fu insultato, battuto, colpito con pietre, gettato dal ponte, calpestato sulle povere mani aggrappate-al parapetto ed infine il suo nobile corpo trovò solo requie nelle acque dell'Arno. [...] Noi studenti che cerchiamo oggi di rivivere la vera rivoluzione fascista restiamo in un misto di
IH. Il sangue lustrale
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raccoglimento e di religiosa ammirazione davanti a costui già cinto dalla radiosa aureola dei martiri?.
Alla ordinata vita del militante fascista, alla organizzazione militare delle sue azioni nate da una precisa strategia e basate sull’addestramento all'uso delle armi facevano da contrasto i modi e gli strumenti utilizzati dai sovversivi. Essi non usavano armi, ma utensili di lavoro trasformati in mezzi per uccidere: forconi, frullane, badili, a testimoniare il predominio dell’istinto primitivo sulla ragione”. Le storie fasciste sui caduti e gli opuscoli in memoriam che furono stampati per celebrare i militanti sono in proposito ricchi di particolari; ecco che di Luigi Demichelis, coinvolto nei fatti di Lumellongo, si disse che fosse stato
assassinato «a colpi di tridente»; Giovanni Nini morì «colpito alle spalle da tre pugnalate» e Mario Sonzini «fu ucciso a sangue freddo e abbandonato sull’orlo di una via”. Dei martiri fascisti dell’aretino si ricorda la vicenda di Tolemaide Cinini, ucciso dopo una spedizione a Foiano della Chiana, cittadina «avvelenata dall'odio» nell’aprile del 1921. Nel risalire in autocarro a Fojano, [...] la scarica omicida [...] lo abbatté rantolante [...] la sua agonia fu lunga; durò quasi tre ore! [...] furono riscontrate in diverse parti del corpo duecentotrentacinque ferite di arma da fuoco [...] ed una ferita da punta nel labbro superiore a destra [...] a giudizio dei periti, la ferita al labbro superiore e inferiore fu prodotta con arma o strumento pungente come rastrello o forcone?.96
Anche Aldo Roselli, prima di essere ucciso con un fucile da caccia fu seviziato con un punteruolo e da altri attrezzi da lavoro che gli procurarono una ferita «nel padiglione dell’orecchio sinistro con strappamento di tutto il lobulo, una ferita da taglio estendentesi dalla mandibola alla regione del sottomento, una ferita circolare di arma da fuoco nella regione temporale destra, la quale ferita avendo quasi totalmente distrutta la massa cerebrale fu, a giudizio dei periti, causa unica e immediata di morte». A Borgo Sansepolcro trovò la morte Dante
Rossi «meccanico,
ex combattente,
tra i primissimi
fascisti di
Firenze che subì un «Orribile scempio del corpo», ferito da trentasei scariche di un fucile da caccia e poi finito «da un colpo dato con l’occhio di una scure alla fronte”. Scene simili furono narrate anche per la zona del mantovano: lì si rammenta la morte di Arrigo Caleffi «colpito da una pugnalata alla schiena, quindi irriso e «sputacchiato» e poi finito «con bastoni e con
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li martire necessario
pugnali». Anche un altro giovane fu assalito nella zona da una «orda inferocita» e, dopo essere stato «circondato a tradimento, venne «colpito da più colpi di pugnale» a quel punto, mentre era «agonizzante» sull’orlo di un fossato che fiancheggiava la strada: mentre «con sforzi paurosi cercava disperatamente di aggrapparsi al margine erboso per non cadere nell’acqua», fu notato da una donna o meglio da una «furia sitibonda di sangue che di un balzo fu sopra al giovinetto e con un colpo di randello gli spaccò il cranio uccidendolo». Anche un altro giovane fu «finito a bastonate» e poi «miseramente sconciato e i resti del suo cranio furono più volte trafitti da una lima a triangolo”. Gli scontri avvenuti nella zona di Sarzana furono ancora più violenti e degradanti per le vittime. La grande ala nera della morte avvolse tutto il ridente territorio della Lunigiana. I giovani fascisti sparsi nella campagna furono marmorizzati [sic] in mille torture. E chi ferito, fu avvolto dalla fiamma omicida e carbonizzò lentamente negli orrendi strazi della carne morsa dal fuoco. E chi fu ucciso a colpi di randello. E chi senz'altro sgozzato con le roncole!0%,
Spesso, quando i rapporti di forza lo consentivano, non ci furono soltanto «da riscossa e la vendetta» a giungere «implacabili», con tanto di case di sovversivi date alle fiamme, ma furono allestite solenni cerimonie
funebri studiate fin nei minimi dettagli scenografici e dal forte impatto emotivo. Nel foianese, per esempio, i morti furono portati nella piazza del paese e fu organizzata una infiorata in onore dei feretri dei caduti!%, Le cerimonie religiose in memoria dei caduti furono di particolare importanza perché costituirono un efficace trait-d'union tra la visione
popolare della guerra e la auto-rappresentazione del fascismo come servizio e milizia. Prima ancora di trasmutarsi in religione di Stato, il novimento seppe far proprio il linguaggio religioso della guerra. Poiché «oggi l’anima del combattente non risente della purezza vergine di cui la guerra la circonfuse — spiega un reduce in un libro di ricordi uscito nel 1926 — è necessario «purificare l’anima risalendo il Calvario [...] da buoni fanti, come quando, nel tempo passato risalivamo i conosciuti cammi-
namenti della trincea che ci conducevano alla morte ed alla gloria». Le pagine di Reginaldo Giuliani (cappellano nell’associazionismo di regime e volontario in Africa Orientale, dopo essere stato ucciso
con un colpo di scimitarra fu insignito della medaglia d’oro alla memoria) sono emblematiche di questa continuità e di questa peculiare
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declinazione verso la celebrazione degli eroismi e dei sacrifici; così come lo sono gli scritti di Angelo Salza e quelli di Angelo Bartolomasi. Altri ex-cappellani militari svolsero ugualmente ruoli importanti, tra essi Giovanni Mazzoni, Michelangelo Rubino, Vittorio Genta!®, A seguito dell'istituzione dell’Ordinariato Militare d’Italia nel 1926 furono immessi sul mercato editoriale svariati opuscoli a carattere catechetico dedicati ai soldati: tra questi, per esempio, il Manuale religioso del soldato!” e fu progettato — e poi solo parzialmente realizzato nel 1933 — un monumento vivente al cappellano militare consistente in una cripta scavata nella chiesa romana di Santa Caterina a Magnanapoli con tanto di altare ricavato da una pietra del monte Grappa!. Per quanto vi siano state delle eccezioni, dal 1928, con l’istituzione della assistenza spirituale alla milizia, il clero in servizio ‘militare’ si accodò ideologicamente al fascismo presentandosi nelle sue pubbliche cerimonie con tanto di benedizioni dei gagliardetti, partecipazione alle sfilate, messe al campo e inaugurazioni varie, con una accentuazione significativa sulle qualità religiose del duce per il quale fu redatta persino una preghiera!°%. La traccia più significativa di tutto l’outillage religioso-militare fu quella dell’elogio dell’ardimento nonché della vita vissuta pericolosamente e coraggiosamente. Al San Sebastiano trafitto dai dardi quale divino patrono della milizia, si sostituì il più adatto San Michele Arcangelo, armato di lancia e di scudo!”. Nel complesso il sentimento religioso assunse con il passare del tempo quel carattere marziale derivato dalle utopie fasciste in materia, cosicché i cappellani divennero i sostenitori «dell’eroismo dei combattenti» pronti «a rendersi strumento della provvidenza dischiudendo all’eroe morente le porte della vita eterna»!. Essi certamente alimentarono il ricordo della Grande guerra lungo le consuete linee argomentative del canovaccio interpretativo in materia e sul quale trovavano ampie pagine di ben formata pubbli cistica che esaltava eroismi e martiri e virtù sacrificali. Una chiave di lettura che trovava ampio consenso tra le masse popolari così come in spessi strati della popolazione borghese istruita. L’opera di interpretazione eroico-sacrificale della guerra ovviamente
proseguì con la impresa etiopica, vista come
l'occasione per
riprendere l’apostolato armato, la crociata in terra di infedeli con coloriture apertamente razziste. Il 3 ottobre 1935 si alzò una nuova ondata di entusiasmo!” Tutta la guerra etiopica fu inquadrata religiosamente: il libro di Preghiere
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per il soldato fu distribuito in molte migliaia di esemplari tra i militari, introdotto da padre Gemelli che riesumava le ben note esortazioni al sacrificio patriottico posto sotto protezione religiosa!!°. Nel marzo 1936 una icona della Madonna di Pompei, dopo aver ricevuto il saluto solenne della popolazione nel corso di un lungo giro processionale attraverso tutti i comuni del vesuviano, fu benedetta dal vescovo di Nola e da quello di Napoli e quindi imbarcata su un piroscafo, posta su un altarino e spedita a proteggere le truppe in Africa. Di lì a poco fu seguita da un’altra Madonna, quella di Faenza, poi da un S. Antonio dalla romana Madonna della Salute e infine da numerose altre effigi di santi!!. La polemologia fascista demarcò il territorio ideologico del regime e ne definì, per così dire, il suo perimetro più esterno: la guerra — tema di ravvicinata ascendenza nazionalista — il motore della nazione, e il suo più generale laboratorio dove si mettono alla prova tutte le conquiste tecniche e sociali. Tutte le risorse furono mobilitate «in un supremo gioco di vita o di morte, dal quale ne scaturisce o la potenza o la schiavitù». Il mondo fascista aveva un centro di comando rappresentato dal suo capo guerriero e un territorio sul quale dominare che
era il risultato di una serie di conquiste belliche sul quale vigilavano i suoi militi, ovvero tutti i giovani maschi della nazione i cui doveri militari presupponevano come sola finalità la guerra. Per un milite fascista tutti gli atti, tutti i pensieri avrebbero dovuto essere dominati dal «destino che governa tutti i popoli», cioè «il destino della guerra nella quale essi ritrovano l'origine della loro potenza, della loro indipendenza e in una parola del loro avvenire»!!2. Ma la guerra è — come ho detto altre volte — una parola troppo generica. Per il vero fascista l'ideale non era solo vagamente bellicistico, ma eroico. D'altra parte, quasi tutti i monumenti della nazione traevano la loro ragion d’essere dalla evocazione e celebrazione di qualche memorabile atto di sangue che aveva comportato in moltissimi casi il sacrificio personale. Come si legge nel Breviario di morale eroica fascista, da storia insegna che senza sacrificio e senza sangue nessuna causa è pura e si fa santa. La Rivoluzione fascista ha popolato di martiri e di fedeli le contrade d’Italia»!!. Così tornano gli scritti sulla dimensione spirituale della guerra, sulla convinzione che Dio protegga gli eserciti e avvii il soldato che muore verso la gloria celeste. In un misto di suggestioni derivate dalle note psicologiche a suo tempo elaborate da Gemelli, andò in libreria
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nell’anno della guerra d’Etiopia (1935) l’opera di Cesare Caravaglios (musicista, capitano nella Grande guerra, seguace del Pitré per lo studio delle tradizioni popolari e fascista della prima ora) dal titolo emblematico: L'anima religiosa della guerra, in cui il fascino per il combattimento è visto come motore religioso!" Nell'anno del conflitto in Etiopia il mercato editoriale si accrebbe di molti altri titoli adatti alle circostanze, e anche in grado di soddisfare certi rinati interessi per la guerra di dominio coloniale!!. La mescolanza di temi eroici e religiosi che aveva informato la letteratura per ragazzi fin dall’epoca risorgimentale tornava ora con accenti ancor più marcati!!°. La formazione dell’ideale virile-patriottico retrodatata di fatto da un pervasivo balillismo si basava ancora sul grandioso potere di suggestione della spada e dell’altare. Il sacrificio mistico si prestava perfettamente alla sua ripetizione effettiva sulle are della patria, e il sangue salvifico era adatto, in una perdurante ottica cristomimetica, a corrispondere al sacrificio sul campo di battaglia africano!!”,
6. Contrappasso Nella tarda estate 1943 il crollo dello Stato parve mandare in frantumi la stessa unità della nazione dilaniata da una lotta intestina e dalla presenza sul suo territorio di due eserciti stranieri in guerra tra loro. Tuttavia, nonostante queste gravi minacce l’equilibrio profondo che reggeva l’edificio nazionale non venne meno completamente! la fede nella ‘vera patria’ non era affatto svanita, pur nelle opposte accezioni — totalitaria
o democratica —, anzi essa costituiva un fortissimo
elemento di coesione popolare. Solo dopo la scomparsa fisica del grande capo carismatico una delle due patrie sparì dalla vista, e se la patria dei vinti scese allora nelle profondità carsiche della società, quella che rimase a festeggiare nelle strade l’avvento dell’ennesima età nuova continuò ad utilizzare linguaggi e a nutrirsi di mitologie del tutto improntate alla tradizione. Il passaggio dal vecchio al nuovo, infatti, non fu che una ricapitolazione, una riformulazione di quel ‘discorso nazionale’ mai davvero interrotto e al cui centro ancora si posero eroi e spargimenti di sangue. Anzi, fu proprio
in quei mesi di sdoppiamento nazionale e statuale che sui campi di battaglia tornarono a risuonare gli antichi discorsi sulla gloria, sugli ideali luminosi e sanguinosi della fede nell'Italia da una parte e dall’altra. Mo-
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rire per la patria, più che immolarsi per il fascismo, è la vocazione che echeggia dalle lettere dei caduti della Rsi, specialmente dei giovanissimi: tuttavia ciò non fu così per tutti, per molti di essi educati a identificare la patria con il fascismo e il fascismo con la patria, una distinzione era allora impossibile. Nel patriottismo della Rsi permaneva l'adesione fideistica ai miti fascisti di potenza e il culto religioso della patria che assorbiva in sé ogni altra idealità!!. Tale dedizione assunse spessissimo i contorni del sacrificio di sangue, si pensi per esempio al giovane milite di Salò, Pino Mazzoni (nato a Zara) descrittoci da Carlo Mazzantini,
un «giovanotto di poco più di venti anni, così bello e chiuso come un cupo angelo vendicatore. Un ragazzo «che non sorrideva mai», ammiratore de JIproscritti di Von Salomon, che aveva trascinato con il suo
linguaggio seduttore altri giovani combattenti verso lo scontro mortale e l’altrettanto mortale sconfitta. Cosa diceva il giovane Mazzoni? Egli «parlava del sangue e diceva che l’Italia «aveva bisogno di quel sangue»; e anche che la «vita, la vita di un uomo, non contava più niente, che gli italiani dovevano morire» per lavare l’onta di quel tradimento e riscattarsi. Diceva: «da terra deve essere rifecondata col sangue!»!20. Le parole del giovane di Salò avevano una loro logica, il fatto è che esse valevano, allo stesso modo e con la stessa forza, per entrambe le fazioni in lotta. Anche i vincitori ‘ragionavano’ allo stesso modo, anch’essi avevano bisogno di sangue. Perché potesse compiersi il passaggio da un’età politica ad un’altra e affinché si rendesse irreversibile il processo era necessario che fosse versato del sangue, pubblicamente e ostentatamente e che il nemico ucciso fosse segnato dal marchio dell’infamia!. Emblematica da questo punto di vista l'uccisione e la esposizione del corpo di Mussolini a piazzale Loreto secondo un rituale tutto giocato sulle inversioni di senso: il dittatore detronizzato e ormai cadavere appeso a testa in giù ed esposto al vilipendio. Tutto secondo un rituale che doveva sancire l'avvento di un tempo nuovo rispetto a quello della dittatura! Proprio nella piazza dove, nell’agosto 1944, erano stati passati per le armi quindici partigiani dai fascisti della ‘Muti’, si inscenava ora il rito riparatorio. Certo i comandi partigiani tesero a razionalizzare l'episodio in un quadro di legittimità procedurale e giuridica, deprecando la violenza che era affiorata in certi comportamenti della folla. Come osserva Claudio Pavone, a esecuzione avvenuta, il Clnai deprecò soltanto «d’esplosione di odio popolare che è trasceso in quest'unica occasione a eccessi», imputabili peraltro anch'essi «al clima voluto e creato da Mussolini»!?,
Ut. Il sangue lustrale
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Anche l’uccisione di Clara Petacci ebbe valore simbolico in quanto servì a sanzionare pubblicamente e a punire la «lussuria del tiranno e la dissacrazione del mito, tanto coltivato, della sua virilità»! Da molte parti fu osservato come l’evento fosse unico ed irripetibile in quanto epilogo liberatore di una tragedia. Un modo di disfarsi del fascismo con tecnica teatrale, mettendo in scena una tragedia liberatrice. Alcuni non concordarono sul comportamento delle folle che fu giudicato improprio, se non addirittura «infantile» o voyeuristico, mentre «l’Avantib parlò a favore dello spettacolo definendolo «necessario come tanti orribili supplizi»!?. Nelle settimane seguenti anche i momenti della morte del dittatore al cancello di villa Belmonte di Giulino furono raccontati con intenzioni infamanti: già allora Mussolini si sarebbe comportato come «uno straccio umano, primo atto affabulatorio di un processo di damnatio memoriae cui fece da corona la voce insistente che voleva fosse stato il figlio di Matteotti a uccidere il dittatore come atto risarcitorio per la morte del padre! Peraltro anche la vicenda di Nicola Bombacci, che era stato fondatore del Partito comunista, nonché membro del Comintern e amico di Lenin, anche lui fucilato a Dongo insieme ad altri 14
fascisti nel pomeriggio del 28 aprile 1945 e poi appeso con Mussolini a piazzale Loreto, non solo ribadiva quanto fosse ritenuto necessario lo spargimento del sangue a seguito di una lotta rivoluzionaria, ma confermava che l’ideale del sacrificio di sé accomunava vincitori e vinti in un misto di romanticherie e di velleità politiche!?. Sul fronte resistenziale sia l'uccisione del nemico che la morte dell'eroe partigiano furono anch'esse oggetto di una organizzazione narrativa ricca di stereotipi da tempo presenti nel linguaggio politico e parapolitico nazionale. Tra essi balza in primo piano il tema della seduzione del sangue, della fascinazione dello scontro e della redenzione nazionale attraverso prove ordaliche. Benché quella partigiana fosse una «guerra giusta» e una «vera guerra», ciononostante si trattava di un fenomeno bellico dalle caratteristiche del tutto peculiari, anche, e forse, soprattutto, per la cornice umana e sentimentale entro la quale veniva a inserirsi. Come ha notato con elegante finezza Claudio Pavone, «se il partigiano non era più protetto dall'anonimato morale garantito a priori al soldato regolare nel momento in cui uccide un nemico altrettanto anonimo, dall'anonimato usciva però anche il nemico. Sia in quanto tedesco sia, e ancor più, in quanto fascista, il nemico veniva ad acquistare una fisionomia concreta e molto più
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Il martire necessario
individualizzata: il nemico cessava di essere “soltanto un'identità col-. lettiva”. L'atteggiamento emotivo e morale di fronte a esso diventava perciò a sua volta più personale e coinvolgente»!?.
7. Il sangue dei giusti Per quanto fosse stata importante, sia sul piano politico che su quello simbolico, la doppia morte del tiranno a Dongo e a Milano, fu però la guerra partigiana a costituirsi come il momento del passaggio da una società ad un’altra. La guerra partigiana fu un elemento assiale della lunga trasformazione socio-politica e antropologica dell’Italia nel momento del tramonto della dittatura mussoliniana. Infatti man mano che la lotta di liberazione assumeva contorni più definiti, e si svolgeva all’interno di sempre più definiti paradigmi bellici, essa prendeva della vera guerra tutte le caratteristiche: fu mobilitazione, sospensione delle regole, festa, dissipazione e incanto. Fu cioè un fenomeno che rappresentò effettivamente, nello sconquasso e nello spargimento di sangue, il momento di passaggio', la fine di un’epoca e l’inizio di un’età nuova. Essa fu la fucina di formazione dell’uomo nuovo antifascista e della emersione di una nuova classe politica alla quale si giunse per via bellica e non rivoluzionaria; e fu soprattutto la riconduzione al centro della scena sociale del nuovo maschio italiano, formatosi — ancora una volta, potremmo dire — nello scontro cruento, nonché messo alla prova nell’agone, ristabilito nei suoi contorni morali dalle tremende
occasioni
di morte
in cui si era trovato
coinvolto.
D’al-
tronde, sui partigiani di formazione marxista il fascino della rinuncia alla vita individuale faceva parte di quella ammirazione diffusa per il rivoluzionario di professione, una figura uscita direttamente dalla Terza Internazionale, che aveva potentemente rilanciato l’idea della militanza totale di cui fu interprete André Malraux di Les conquérants (1928), scritto contro l’imperialismo britannico in Cina e così amato da Trotzkij!. I fondatori Marx e Lenin, i capi del partito, venivano continuamente proclamati come perennemente «viventi» e costantemente «presenti», come
morti che «vivono ancora:
una impostazione
che in Italia poteva trovare più di una conferma nel tradizionale linguaggio politico, senza pressoché distinzione di orientamento. Una prospettiva martirologica che aveva riscontri ovunque nella imposta-
zione celebrativa della seconda guerra mondiale in Unione Sovietica
HI. Il sangue lustrale
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dove i caduti erano ricordati come i salvatori della vita sulla terra. Per non parlare dei combattenti della guerra di Spagna che — secondo quanto riferisce Michail Koltsov (poi vittima delle purghe di Stalin) nel suo Diario — venivano portati in corteo funebre nelle bare «tenute non orizzontalmente ma in senso verticale», perché non dovevano essere considerati ‘caduti’, ma ancora dei combattenti «che, in piedi
invitavano i vivi a proseguire la lotta» insieme a loro!8?. | Il combattente partigiano - anche se non di matrice marxista — esplicitamente o meno, fu al centro di tutte le narrazioni della ‘nuova’ guerra e la sua centralità, la sua icasticità sono sempre state poste più in risalto man mano che ci si è allontanati dall’evento trasformato — da metà degli anni Sessanta — in vera epopea di fondazione nazionale. Egli ha progressivamente conquistato la pagina nelle narrazioni sulla guerra di liberazione, mentre il resto della popolazione italiana, non solo quella ostile ai partigiani, ma la massa grigia dei non schierati ha finito per svolgere un ruolo di comparsa o di sfondo scenico!8. Con la celebrazione narrativa dei resistenti o del loro sacrificio di sangue si è progressivamente affievolita, nelle more del discorso, la ‘terza Italia’, cioè quella porzione di popolazione — peraltro del tutto maggioritaria — che era composta da chi aveva atteso la liberazione dagli eserciti alleati «cercando di salvare ad ogni costo la vita, sotto l’unico impulso di un innato ed elementare istinto di sopravvivenza. Non vi è dubbio che «dietro la retorica dell’entusiastica unità di popolo, che sorreggeva le forze della nuova Italia democratica, vi era la realtà di una popolazione frammentata, disorientata, disposta a cancellare nel modo più rapido possibile l’esperienza della catastrofe dalla propria memoria e dalla propria coscienza». Per questo l’amnistia voluta da Togliatti nel 1946, indispensabile per promuovere la pacificazione nazionale, comportò una alterazione memoriale di portata immensa perché riguardava l’esercizio della ‘vera guerra’ appena combattuta, e dei suoi aspetti di saccheggio, violenza e rappresaglia. La violenza fu tramandata così nei decenni a venire in forme moralizzate! e secondo gli schemi di linguaggio — ben noti in Italia nelle narrazioni belliche e negli epinici militari - mediante accorte liturgie celebrative dell’eroismo virtuoso e del salvifico spargimento di sangue. Una simile retorica giunse a maturazione nel corso del tempo e andò affinandosi per quasi un quindicennio. Proprio per questo risulta infondata l’idea che si era fatto Italo Calvino a proposito della cosiddetta
letteratura
della Resistenza,
come
di un
insieme
unitario
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Il martire necessario
di linguaggi accordati tra loro in base a non si sa quale principio di convergenza e maturati in un tempo brevissimo, ovvero nei mesi della lotta di liberazione. Calvino, si sa, aveva inseguito l’idea di un
libro dai «mille padri, un libro nato sulla spinta di una suggestione generale dovuta alla esperienza unitaria e indimenticabile della guerra antifascista. Egli credeva, in definitiva, che l’esperienza della guerra fosse la grande levatrice della letteratura neo-espressionista!5. In realtà non è mai esistita una unitaria narrativa della Resistenza,
infatti quella produzione letteraria a cui lo scrittore faceva riferimento ha sempre avuto carattere, per così dire, plurale. Più che di letteratura sarebbe più consono parlare di letterature resistenziali. Le somiglianze di stile e di lessico sono certo elementi da tenere in considerazione e testimoniano le filiazioni, le influenze e una certa unitarietà di ispirazione. Non si può certo dire, come curiosamente ha di recente scritto un critico, che i fopoi siano riconducibili a pura «coincidenza»!”. Certo è necessario usare mille cautele e distinguere autore da autore,
ideologia da ideologia, così come è indispensabile tenere conto della sempre diversa interazione tra avvenimenti e luoghi in cui sono am-
bientati!5. Tuttavia non possiamo nascondere il fatto che la letteratura non può fare a meno della tradizione, la lunga e profondissima tradizione — letteraria e memorialistica — relativa alle scritture di guerra, che continuò infatti ad avere un peso determinante. Bilenchi e Vittorini, per fare un esempio, avevano esordito durante gli anni del fascismo ed erano già scrittori noti al momento della guerra; per molti altri, come Calvino, Fenoglio, Rigoni Stern, Venturi, Fortini, Levi, Meneghello, la seconda guerra mondiale era capitata nel momento della loro formazione letteraria. Nella stragrande parte dei casi quando costoro scrissero delle loro esperienze belliche già erano circolanti le sillogi di lettere dei partigiani; si pensi, per esempio, alle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana uscito agli inizi degli anni Cinquanta, da alcuni subito definito «un libro sacro», 0 si guardi a quelle cassette colme di epistolografia resistenziale, così influenzata dalla più o meno antica tradizione delle scritture militari dal fronte. Anche volendo saltare a piè pari tutto quanto era stato detto e scritto in tema di guerra, eroismo e sacrificio durante gli anni del fascismo, bollati spesso come anni ‘inautentici’, restava pur sempre la lectio originaria del Risorgimento eroico e quella della Grande guerra, seppur deprivata delle incrostazioni retoriche. Per non dire, per esempio, della origine fascista dei canti partigiani!‘ o delle forme
Hi. Il sangue lustrale
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di espressione artistica, non esclusa la monumentalistica
sui martiri
partigiani, fino alle aggiunte di cimeli resistenziali esposti ‘in coda’ alle collezioni dei musei del Risorgimento, peraltro già allargate alle esperienze belliche africane e della prima guerra mondiale. Dagli anni Cinquanta la lotta partigiana e la Resistenza diventarono argomento centrale della costruzione della memoria pubblica a carattere apologetico, con accentuazioni e oblii del tutto funzionali a conferire organicità e struttura razionale alla narrazione, così da disporre di un racconto dal quale erano assenti tutte le violenze diverse da quelle tipiche della ‘dialettica’ tra nazifascista e partigiano!, per esempio le violenze degli alleati e le stragi provocate dai loro bombardamenti, o gli stupri di donne perpetrati dalle truppe di liberazione!*. Alle prese con la narrazione delle sue e delle altrui gesta, anche il combattente partigiano rimase impigliato nella rete del linguaggio bellico. Egli in questo senso non fu un separato, né un originale, né fu un novatore della lingua italiana!*: echi antichi si riverberavano ancora nelle sue lettere, nelle sue pagine di cronaca, nelle sue memorie. In definitiva il partigiano specchiava se stesso in espressioni che non erano sempre del tutto sue, anche se ciò non significa che egli non sentisse come autentiche le cose che scriveva. Non mancano
cronache
di quei tempi che ripropongono
ancora
l’espressione dannunziana delle ‘radiose giornate’, seppure ora nelle versioni insurrezionali e antifasciste relative alla fase conclusiva e vittoriosa della lotta partigiana!”. E come sarebbe stato possibile — almeno per i combattenti più istruiti delle formazioni garibaldine — obliare del tutto il valore positivo della guerra affermatosi nella storia d’Italia anche e soprattutto grazie all’eponimo dal quale traevano il nome di battaglia? Come ha notato Pavone: vi erano tratti di linguaggio «che germogliavano dalla comune matrice della cultura risorgimentale»'. E la corsa all’appropriazione del Risorgimento si realizzò da una parte e dall’altra degli schieramenti. Tutti si contesero Garibaldi, ma il mito garibaldino e risorgimentale finì per fare da traino al linguaggio politico, nonché a trasferire nel drammatico contesto della caduta di una dittatura e della lotta per la libertà, uno degli argomenti tra i più cospicui dell’invenzione mitografica di guerra: il sacrificio di sangue. Come annota un cultore della letteratura della Resistenza, la lotta partigiana ebbe non solo un generico «carattere religioso» tanto da far parlare di un secondo Risorgimento, ma ebbe nei suoi migliori esponenti i difensori di una idea «testimoniata e sofferta fino al sacrificio supremo»!!°,
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Il martire necessario
Tanta letteratura resistenziale usò i linguaggi propri della letteratura di guerra — linguaggi utilizzati in senso quasi fissamente modulare — a cui si congiunsero anche spunti inconsapevolmente
provenienti
dalla letteratura risorgimentale. Gli anni di prigionia furono raccontati avendo in mente il modello del Pellico allo Spielberg, con la cattività che diventava occasione per affinare gli studi e darsi alle scritture. Il tempo della sofferenza si trasformava in tempo della maturazione e della creazione culturale, di cui fu trasparente esempio, tale da oscu-
rare gli antecedenti ottocenteschi, il Gramsci che studiò in carcere dal 1926 fino quasi alla morte!??, Anche per questa via si odono echi risorgimentali, dunque, ma i nessi tra la lotta per l’unità-indipendenza nazionale e la nuova lotta per la libertà sono del tutto espliciti anche nelle più modeste — anzi sono molto più espliciti tanto più sono modestamente congegnate — rievocazioni resistenziali: Risorgimento e Resistenza, i due «momenti
fondamentali della vita democratica, il primo perché fu capace di riunire un «volgo disperso senza nome, la seconda perché ha «vinto e disperso le ideologie autoritario-totalitarie!*. Questa insistenza sul Risorgimento ebbe anche una funzione controversistica, fu cioè del tutto funzionale a controbattere una del-
le più significative mitologie costruite attorno al fascismo e a Mussolini in quanto legittimo erede capace di impersonare i grandi eroi del Risorgimento. E nonostante l’insistenza con la quale si parlò di ‘rivoluzione’ fascista nel ventennio,
tale ascendenza
non venne
mai
negata". Ora, al mutare dei destini politici della nazione si tornava a battere sullo stesso tasto tematico nel tentativo di individuare delle radici —. solo in parte compromesse dall’accaparramento fascista — al moto resistenziale che non fossero troppo direttamente ascrivibili ad un qualche partito politico. Ecco che l'Associazione Nazionale delle Famiglie dei Martiri Caduti per la Libertà della Patria promosse la stampa di un opuscolo dal titolo assai significativo: Celebrazioni del Primo e del Secondo Risorgimento. Ardeatine:
rievocato il sacrificio
dei 335 martiri nel primo centenario dell’epopea garibaldina". stessa
associazione,
molto
attiva
soprattutto
negli
anni
La
Cinquanta,
finanziò svariate serie di opuscoli cerimoniali dove tornava con insistenza il tema, assai calcato nelle pubbliche perorazioni degli antifascisti, della continuità risorgimental-resistenziale, con il salto ovvio dell’età fascista.
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Alla nostra Resistenza, che dalla lunga vigilia va alla spasimata liberazione ed ai nuovi ordinamenti democratici, punto di arrivo e sintesi di tutto il movimento insurrezionale, è stato attribuito il titolo, l'onore di II° Risorgimento per le strettissime analogie che ha col I° [...] l'esempio dei Martiri di Belfiore è, in proposito, più convincente di qualsiasi discorso!”
Tale traccia narratologica è stata molto persistente e sono migliaia le occasioni in cui ci si è richiamati alla lotta risorgimentale parlando di guerra di liberazione. Ancora di recente un libricino — uno dei tanti — scritto perché «i giovani e i giovanissimi [...] riscoprano, attraverso le storie dei protagonisti, quei valori che la Resistenza ora pone nelle loro manp, è tutto basato sul parallelismo tra Risorgimento e Resistenza. Spiega: «deggendo questi racconti s'incontra spesso la parola ribelle. Nella lotta partigiana, ‘ribelle’ è colui che si oppone con tutte le sue forze, conscio del pericolo a cui va incontro, alla violenza, ai soprusi, alla tirannia dei nazifascismi: costoro «avevano dalla loro parte il coraggio e l’audacia», e furono chiamati «banditi» come in passato i Borboni «avevano definito i volontari di Garibaldi»!?. La seduzione del sangue continuava così a segnare le tappe più importanti del cammino politico della nazione italiana post-fascista e repubblicana. La guerra nella sua complessa declinazione di guerra civile, patriottica e di classe, secondo l’ormai classica definizione datane da Claudio Pavone, mostrava, per ciascuna di queste fenomenolo-
gie, una sua peculiare narratologia che rinviava, pur nel diverso ‘uso’ che ora veniva proposto, ad una unica matrice tradizionale che si era venuta delineando nel corso della storia italiana post-garibaldina. Le specie diverse di guerre e di combattimenti, di violenze e di motivazioni non intaccarono la sostanziale uniformità di una solidissima ideologia nazionale che trovava in esse il suo vitale fondamento. La pluralità di condizioni storiche e sociali infatti non avevano determinato, pur nel trascorrere di decenni fatidici, la formazione di contenuti veramente nuovi e alternativi alla precedente polemologia. Semmai si registrava il persistere di un insieme magmatico di riferimenti che rimasero
concordemente
attivi
e ricorrenti,
seppure
con
accentua-
zioni di volta in volta diverse. Si pensi alla evidente somiglianza nei modi di concepire il combattimento tra Arditi e Gappisti, quest'ultimo corpo specializzato nella soppressione a sangue freddo del nemico. L'edificio sacrificale della nazione rimase sempre intatto, così come non furono scalfiti i miti della guerra come atto creatore e occasione
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Il martire necessario
lustrale della compagine sociale. Il disprezzo per il nemico mutò di segno, così come tutti gli argomenti ben noti del dileggio: si raccontavano storie di fascisti che se la facevano sotto per la paura! e di scene popolari di violenza!”. Secondo Calvino i tedeschi avevano «voci disumane»!”; mentre per Giorgio Caproni un tenente fascista, durante uno scontro a fuoco,
avrebbe esclamato: «carne di partigiano. Stasera si mangia carne di partigiano»! Anche secondo Andrea Zanzotto le SS, mentre andavano ad incendiare un villaggio, lanciavano «urli» che ricordavano gli animali; un contadino disse che i tedeschi quando attaccavano qualche casa o qualche villaggio urlavano faier, cioè fuoco, che ai suoi orecchi era «un suono inarticolato, soprannaturale e bestiale» come una «formula che mobilita l’inferno»!?7. Ecco nelle pagine di un’Estate che mai dimenticheremo di Marcello Venturi, che cosa pensa un contadino di un soldato tedesco che si era fermato vicino alla sua casa a riparare l’auto in panne. Cristo, non sono uomini come tutti gli altri, qui, no [...] anche se ride è in
un’altra maniera». Chissà se aveva capito già che avrebbe voluto approfittare della bella moglie? E tutti i tedeschi che passavano «avevano addosso
nastri di cartucce che portavano con piacere, come una donna può portare ricami quando si reca ad una festa!,
Ricordano certe tracce di descrizioni delle violenze delle lettere dei soldati nella prima guerra libica, o le pagine di Jinger, quelle scritte da Romano
Bilenchi sui tedeschi che, seduti al caffé fiorenti-
no Paszkowski, pianificavano le offensive in montagna, progettando saccheggi, stupri e uccisioni di donne e bambine che usualmente venivano infilzate con le baionette prima di essere gettate «sui rovi, le braccia e le gambe aperte e i vestitini chiari, di cotone, cenciosi, dove restavano, ridotte a «tenere farfalle che si essiccavano al sole»!59, L'idea che quella di Liberazione fosse stata una «particolare guerra»
perché non condotta da uomini o da soldati ma da un tipo di uomo ferino scatenato, in preda agli istinti eccitati», la si ritrova nella stampa partigiana, dove si dipinge una Italia ferita dominata dalla lamentazione popolaresca, l’orrore “gotico” delle torture e delle detenzioni, le tombe profanate e i cadaveri esposti! Lo stesso registro espressivo si trasferisce subito nei discorsi di commemorazione dei caduti. Il nazista non è un uomo, ma un «lupo, un essere affetto da «pazzia crudele» e
It. Il sangue lustrale
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da «sadismo»!°!, Nel celebre memoriale di Antonietta Benni si parla frequentemente di «belve umanate e si ricordano veridiche scene orrende di stragi in cui i morti venivano abbandonati allo scempio di certi maiali randagi che ne rosicchiavano i corpi. In alcuni casi il sangue degli eccidi eccitava alla licenza, in quei frangenti infatti «i carnefici gozzovigliavano» oppure «suonavano l’armonium come fosse festa» o si davano a consumare il cibo in modo smodato o lo «cospargevano di porcherie, buttavano» a terra tutto ciò che non potevano mangiare:
grano, riso, fagioli», oppure arraffavano «carte, libri e documenti [...] tutto buttato all’aria con la frenesia dei vandali»; in alcuni casi i tede-
schi tagliavano i piedi agli abitanti perché non fuggissero, in altri casi li bruciavano vivi cospargendoli di benzina!°. Nell’eccidio di Fornelli, nell’alto Molise, i tedeschi, al momento dell’impiccagione degli otto partigiani fecero sonare un vecchio grammofono e si misero a mangia-
re, poi per giorni impedirono che i cadaveri venissero sepolti!9. Se il nemico corrisponde a determinati tratti fisiognomici che ne sottolineano la poca umanità, specularmente si ripropone il parallelismo tra bellezza e moralità, la convergenza tra l'ordine corporeo del partigiano e il suo ordine morale. Del partigiano idealizzato si fa risaltare la bellezza fisica, che spesso sfocia in trasporto erotico ed anche omoerotico. Ecco che Moretto, il protagonista di Un ragazzo delle nostre contrade di Mario Rigoni Stern, «aveva un fisico forte ed era alto e ben fatto» e poi «era sempre allegro e gentile, e tutte le ragazze delle contrade erano innamorate di lui»!. Ed ecco il partigiano Franchi che somiglia a un antico guerriero che, con una ferita che gli aveva spezzato il femore, «si agitava seminudo sul letto, scuotendo il suo corpo muscoloso da atleta»; un atleta che doveva suscitare una qualche attrazione sull’amico Bobby che, nel vederlo in quello stato, scoppiò in lacrime tra le braccia di una suora!%. I giovani partigiani spiccavano per la leggiadria dei lineamenti, la profondità degli sguardi e anche una certa timidezza: Pietro Chiodi in più di una occasione resta rapito dal giovane Danilo che — ricorda — era sempre «tutto impacciato» e non riusciva a «darmi del tu; un ragazzo
che, per quanto fosse sempre armato di mitra, pur tuttavia non aveva niente a che spartire con i più rudi guerrieri, con quel suo «volto pallido» dove spiccavano «bellissimi i due grandi occhi neri», poi «spenti per sempre da qualche assassino fascista. Ugualmente si nota la finezza di lineamenti di Leone con i suoi «grandi occhi scuri» e gli sguardi dimpidi e puri»!. Emerge spesso la fascinazione erotica del guerriero.
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Il martire necessario
Dappertutto — si legge in un rac-
conto di Fortini — una eccitazione, una partecipazione, le donne
fiutando una libertà violenta. e precaria, gli uomini godendo l’aria della retrovia; il tu militaresco,
nelle conversazioni; [...] gli animi sospesi ad eventi incerti e perciò facili allo sbaraglio [...] la cameriera dell'albergo Genova, che si mangiava
con
gli occhi
quei
ragazzi violenti e indemoniati che invadevano il quieto albergo provinciale e ne portava poi sot-
to le pupille sfrontate, le occhiaie violati
Anche
il
letterariamente
modesto Scarpe rotte di Attilio Camoirano
—
detto 7
LD
‘ta
ARS
i.
La
“il biondo”
Fig. 27 R. Birolli, Esposizione per tre giorni, in-
ri
chiostro su carta, da “Italia 1944”. 86 disegni
NRE
— accenna alla libertà licenziosa
della Resistenza, Torino, s.e., 1965, part.
delle partigiane: «ho visto una giovane partigiana, davvero bella. Camminava col caratteristico incedere di ogni donna [...] fingendo d’aggiustare la sua veste con gesti impacciati e pentiti scopriva il suo magnifico corpo perché lo ammirassi. Il volto, un bellissimo volto bronzeo e gentile era quello di una creatura sana e ardente. Un mezzo sorriso scopriva i denti bianchissimi, mentre due occhi neri e profondi mi saettavano tra timidi e incuriositi» 108 Anche Fenoglio evidenzia il miscuglio tra amore e morte, seduzione del sangue e seduzione erotica. Dozzine di partigiani scendono calmi al prato dove Caminito scava la fossa, sorridendo e cantando che adesso lo scorciamo. Anche borghesi ci vanno ma pochi e con un andare da contrabbandieri. C'è anche il comandante di Divisione [...]. Quella porca di Olga gli si strofina sul petto e gli chiede quanto aspetta ad accendere la sigaretta. Vengono su i due armigeri Giulio e Napoleone, armati come nessun altro all’intorno. Napoleone dice forte che l’ultima fucilazione è stata sua di Giulio, e che oggi questa goduria è sacrosantamente sua di lui Napoleone 3169
IH. Il sangue lustrale
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Il rapporto giocoso con le armi, la loro esibizione davanti agli obiettivi fotografici e le pose sorridenti dei partigiani sottolineano d’altra parte il giovanile vigore fisico dei resistenti - anche delle don‘ne — spesso descritte come bellissime e sensuali! Secondo Italo Calvino la guerra veniva talvolta vissuta dai più giovani — si veda a esempio il caso di quel «ragazzotto montanaro con la faccia a mela», che compare nel suo Ultimo viene il corvo - come una forma di drammatico gioco!” Il sorriso sul volto dei partigiani è uno dei tratti tra i più frequenti nelle immagini fotografiche: certo in gran parte erano pose, stilemi che dipendono dal mezzo di ripresa e dal fotografo, ma forse tali immagini hanno anche qualche lato effettivamente veridico e documentario!”2. Anche tra i partigiani, come tra i soldati, il sangue del nemico ucciso raramente imbarazza, nella maggior parte dei casi suscita soddisfazione e muove al riso. L'uomo dormiva [...] vidi un letto e oltre la striscia bianca del lenzuolo rimboccato, sul bianco del cuscino, una tonda macchia scura. [...] Avan-
zai rapido e risoluto. Quando sentii sulla mano fredda il calore del fiato, premetti il grilletto. La macchia scura ebbe un sussulto e si reclinò leggermente su un lato. Alla fiammata dello sparo avevo intravisto un viso rosso inespressivo. Marco accese la lampadina tascabile. Non disse una parola. Era pallido e aveva uno strano sguardo nei suoi sereni occhi ridenti. Uno sguardo crudele [...] Strano, non provare nessuna impressione né di ribrezzo né di rispetto per il morto. Una macchia nerastra si stendeva dall'occhio alla tempia destra. Marco mi batté una mano sulla spalla e le sue labbra si apersero al sorriso. [...] Nello zaino del morto c’era una grossa collana d’oro con pietre preziose. Era rotta in due punti. Doveva
essere stata strappata dal collo di una donna italiana o di qualche statua di Madonna!.
8. I sette santi e altre storie della terra sacra Il tema del martirio definisce il campo proprio entro il quale, ancora una volta, si definiscono tutte le memorie politicamente legittime. Le città medaglie d’oro della Resistenza, i luoghi delle esecuzioni e le prigioni compongono una geografia della nuova ideologia politica, costituiscono i punti di sopravvivenza memoriale attraverso specifiche operazioni di scrittura-riscrittura del passato che si mascherano sotto forma di esortazione continua alla buona memoria dell’evento salvifico. Per questo le continue esortazioni al ricordo: «il dovere dei protagonisti, si è detto innumerevoli volte, è appunto quello di dare pub-
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Il martire necessario
blicità a quegli atti di fondazione affinché risulti a tutti chiaro quanto « costata» in termini di «sacrifici di sangue e volontà» la impresa della Liberazione. Così scrisse Luciano Bolis nella introduzione alla prima edizione de 7 mio granello di sabbia, un libro che fu tra i più precoci del filone memorialistico, uscito nel 1946. Le pagine dell’opera del Bolis stabilirono una interpretazione della Resistenza tutta incentrata sul dato martirologico e sul racconto dei supplizi che si spingevano talvolta fino alla descrizione di esplicite brutalità. Una versione della lotta antifascista che, non a caso, già nel 1946 fu elogiata da Ferruccio Parri, uno dei padri della patria, con tutto il peso della sua firma apposta alla prefazione di quella prima stampa einaudiana. Il libro era stato scritto, come apertamente dichiarò l’autore, «per l'urgenza di verità» ed era una sorta di narrazione dei supplizi strutturata per gradi di crescente intensità di dolore inferto agli antifascisti; infatti vi trovavano spazio, in sequenza, i pugni, le scudisciate, il bagno di soffocazion®, gli strascinamenti sulla ghiaia dei prigionieri. Fino al momento in cui molti prigionieri decidevano di ‘sottrarsi’ alle torture uccidendosi, con un atto di estremo coraggio patriottico provato dall’autore stesso ad un certo momento della sua prigionia. Un suicidio che, nella lucida progettazione che lo precedette, aveva i suoi presupposti e i suoi antecedenti nelle mirabili ed estreme gesta dei martiri del Risorgimento rappresentati da Garibaldi, Ruffini, Foscolo. Quegli eroi + «gli amori letterari e risorgimentali» li definì ad un certo punto il Bolis - che avevano costituito per lui prigioniero motivo di riflessione e di conforto, come se quelle vite emblematiche fossero motivo per una meditazione — una sorta di attualizzata sequela Cristi — sulle piaghe e sul dolore. Non vi è quasi rievocazione resistenziale che non accenni alla sopportazione della sofferenza, un tema di trasparente ascendenza cattolica!”!. Si trattava peraltro di un ‘modello’ che dovette avere dei riflessi nel comportamento stesso dei prigionieri, peraltro ben conosciuto dagli stessi aguzzini i quali, ad un certo momento, invitarono il prigioniero a non darsi «tante arie da martire»!?. Le storie partigiane erano zeppe di descrizioni di torture ‘medievali’: si andava dalle percosse, al tormento della sete, dal supplizio dell’acqua salata da bere forzatamente, all'impiccagione colle mani legate dietro la schiena, alla evulsione delle unghie, alle scariche con la corrente elettrica. Qualche volta si raccontava di certi bracciali dotati all’interno di punte di acciaio che si conficcavano nella carne, oppure di ferri arroventati con i quali si marcavano i prigionieri!”,
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Sia nella sua forma esplicita dello scontro a fuoco sia nella particolare declinazione della violenza praticata sui prigionieri, lo spargimento di sangue e il martirio rimasero sempre al centro di quella architettura simbolica sulla quale si andavano legittimando i nuovi soggetti politici; tant'è che il richiamo al sacrificio fece sempre parte delle formule di giuramento da pronunciarsi al momento dell’aggregazione
di un nuovo
membro
ad una formazione
partigiana. La
formula solenne approntata per la Brigata Fontanot, costituitasi nel dicembre 1944 in seno al VII° Corpo d’Armata dell’Esercito di liberazione nazionale della Jugoslavia, recitava: Nel nome degli eroici fratelli Spartaco e Tiberio Fontanot — nel simbolo della stella rossa partigiana — nella fede per la comune causa della libertà e della democrazia popolare — i volontari italiani della nuova brigata promettono di combattere fino all'ultimo respiro contro l’occupatore e contro i fascisti, assieme ai fratelli jugoslavi e sotto la guida del maresciallo Tito!”.
Il martirio di tre partigiani apriva le pagine più dense di Vecchi partigiani miei del Carmagnola, che così vengono descritti: ano giovanissimo ha il volto squarciato da una raffica, un altro è seminudo gambe tutte scorticate e spolpate da colpi di baionetta, il terzo martire ha il capo fasciato: era stato ferito [...] l’hanno assassinato con una raffica nella schiena»!?8. Ma tutta la memoria è fitta di «gesta leggendarie e di eroi caduti, come il comandante Berto salutato nell’omelia del sacerdote al cimitero come colui che si è immolato «per una causa giusta e santa»!?, Una ‘vita da martire’ ci è descritta da Primo Levi in Fine del Marinese!®, come è pure riferibile allo stesso obiettivo di immolazione quella del contadino, di cui ci parla il Venturi, che si uccise dandosi
una coltellata al cuore pur di In alcuni casi la punizione mento estatico — motivo altre non soltanto in quella — con
non passare dalla parte dei tedeschi!*!. fu l'occasione per una sorta di innalzavolte trovato nella letteratura futurista e il dolore che finì per sublimarsi trasfor-
mandosi in piacere sessuale. Carlo se ne stava diritto, cercando di guardare avanti, teneva le mani incrociate sulle ginocchia, reagendo con fortissima volontà all'immane desiderio di ripararsi il volto da quella crescente onda di percosse; e intanto si sentiva leggero, agile, un essere tutto anima che veleggiava in un largo
cielo brillante pieno di armonia e di tenui colori, e in questo nuovo e
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comprendibile universo continuò a navigare e a godere fino al punto di sentirne un acutissimo brivido di piacere quasi sessuale!*.
L’antifascista Bartolomeo Meloni, morto a Venezia, viene ricordato
in un opuscolo in memoria proprio in virtù del suo martirio che — spiegava il panegirista in quelle brevi pagine — era «da sua eredità migliore», poiché era stato anche grazie a quello spargimento di sangue che siamo stati «fatti salvi». Il modello del Gesù che soffre, tante volte
richiamato nella apologetica sulla guerra e sulla sofferenza edificante, si congiunge in questa testimonianza all’abitudine — anch'essa altre volte incontrata — di attribuire delle visioni ireniche e certi pensieri esemplari ai morenti. Qui — scrive l’autore dell’opuscolo — al morente «deve essersi fatto incontro il più bello e il più buono dei figli dell’uomo, il divino martire del Golgota, Gesù, anche lui verberato e piagato solo perché aveva insegnato agli uomini l’amore [...]. Capì allora che soffrire perché l’ideale suo non morisse, sentirsi l’anima attanagliata dal dolore perché altri dolori fossero risparmiati ai propri fratelli e all'umanità tutta era una grande missione»!8. Per la celebrazione dei partigiani caduti nel comune di Priola il tema del sacrificio assunse valenza apertamente cristologica. 1 partigiani che si sacrificavano lo facevano «per redimere il mondo»! Nella rievocazione dei martiri di Castro, l'assessore di quel Comune pronunciò un discorso nel quale riassumeva le fasi finali della vita dei caduti, citando stralci dalle loro lettere di commiato scritte alle famiglie, nelle quali tutti si dichiaravano «contenti» dell’epilogo che era toccato loro in sorte, il tutto in una cornice di largo spessore religioso!9. Da parte cattolica si rivendicò sempre il ruolo di preti partigiani, compresa l’onnipresente esaltazione del sacrificio di sangue. «Le opere furono impastate anche col sangue, scrisse il sacerdote Mino Martelli, aan sangue emblematico di fiumane sgorgate da tutto il popolo in divisa militare e senza divisa, sui fronti di guerra e nelle città bombardate. E ancora: «’immolazione suprema dei preti delle retrovie, come dei cappellani militari sul fronte [...] fu spesso l’anello finale, saldato a una catena di abituale generosità, che traeva forza da un sacerdozio vissuto in tensione per anni. La pennellata di sangue rap-
presentò solo l’ultimo tocco al grande affresco d’amore [...] il sangue che il sacerdote non chiamato a uccidere ha versato per difendere gli altri, non per difendersi emana il bagliore del più vero e più sconvolgente eroismo»!9,
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Dal canto loro i partigiani della Osoppo avevano stampato un cartoncino in occasione del Natale con una loro preghiera dal titolo Signore facci liberi. Signore che fra gli uomini drizzasti la Tua Croce segno di contraddizione, che predicasti la giustizia e la carità e soffristi per le perfidie [...] facci liberi e sorreggi il nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della tua armatura [...] sostentaci e dacci la Tua vittoria; sii nell'indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nella amarezza: quanto più infierisce l'avversario, tanto più facci limpidi e diritti. Nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci non lasciarci piegare [...] Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti ad accrescere al mondo giustizia e carità. Tu che dicesti: “Io sono la resurrezione e la vita” rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa [...] Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore!”
D'altra parte, il complesso istoriale dei martiri si basava sull’idea della fiducia nell’esistenza di un aldilà glorioso, sulla conseguente letizia-tranquillità per la morte imminente, nonché sull’orgoglio di essere stati capaci di resistere ai tormenti inflitti dagli aguzzini, una capacità di sopportazione resa possibile dal superiore convincimento che essi facevano parte della schiera dei giusti nel «cielo della gloria»!88. Spessissimo traspare in costoro addirittura la convinzione di rientrare in un progetto di salvezza cristiana entro cui la morte dolorosa non era altro che un viatico che avrebbe favorito l'assunzione al più alto regno celeste. Con un linguaggio che riprendeva tutti i topoi della esaltazione della morte eroica in guerra e delle sue virtù redimenti e salvifiche, furono spesso richiamati i valori dell’olocausto, dello spar-
gimento di sangue e del tributo alla patria. La Divina Provvidenza — scrive per esempio Franco Balbis, fucilato nei pres-
si di Imperia nel Novembre 1944 — non ha concesso che io offrissi all'Italia sui campi d'Africa quella vita che ho dedicato alla Patria il giorno in cui vestii per la prima volta il grigioverde. Iddio mi permette oggi di dare l’olocausto supremo di tutto me stesso all'Italia nostra ed io ne sono lieto, orgoglioso e felice! Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana
e per riportare la nostra Terra ad essere onorata e stimata nel mondo intero [...] Prego i miei di non voler portare il lutto per la mia morte; quando si è dato un figlio alla Patria, comunque
ricordare col segno della sventura!”
esso venga offerto, non lo si deve
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Questo libro dei martiri si apre con un catalogo di prove dolorose inflitte ad un prigioniero poi condannato a morte. Il giorno 31 mi fu fatto la prima tortura ed è questo: mi hanno strappato le ciglia e le sopracciglia. Il giorno I la seconda tortura: mi hanno strappato le unghie, le unghie delle mani e dei piedi e mi hanno messo al sole che non puoi immaginare, ma portavo pazienza e alla mia bocca non usciva
parola di lamento. Il giorno 2 la terza tortura: mi hanno messi ai piedi delle candele accese ed io mi trovai legato su una sedia mi son venuti tutti i capelli grigi ma non ho parlato ed è passato. Il giorno 4 fui portato in una sala dove c’era un tavolo sul quale mi hanno teso in un laccio al collo per dieci minuti la corrente e fui portato per tre giorni fino al giorno
6 alla sera alle ore 51%,
Come scrisse Dino Pieraccioni presentando le Lettere di studenti condannati a morte per la Resistenza, 1943-1945: «a quindici anni circa da quel tempo [la Liberazione] non sarebbe vana meditazione il domandarci fin dove la ragione del loro sacrificio sia ancora viva e valida per noi uomini del 1957: un chicco di grano — fu detto una volta per tutte — appena caduto sulla terra umida, deve per forza marcire e morire perché ne nasca la spiga rigogliosa»! Un prigioniero aveva scritto alla moglie prima di essere fucilato con la lucida consapevolezza di essere un giusto che stava per versare il suo sangue per la redenzione politica e morale del popolo italiano: «l mio sangue lo offro per la vostra felicità e per l'avvenire della nostra Patria»!??. Un altro condannato nella sua ultima missiva ‘suggeriva’ addirittura quella che avrebbe dovuto essere la spiegazione della sua morte da consegnare ai posteri. Alla eventuale domanda: «perché Toni è morto» La risposta doveva essere: «perché ha sempre voluto dal primo all’ultimo giorno partecipare alla guerra partigiana [egli] aveva in sé il senso religioso della redenzione. Gli italiani dovevano redimersi e ogni uomo doveva combattere e lui Toni combatteva, doveva forse morire»!?, La questione della memoria è stata una delle maggiori preoccupazioni sorte curante e dopo la Resistenza e ha rappresentato un impegno costantemente ribadito in tutte le occasioni celebrative pubbliche e in molte iniziative editoriali. L'inserimento una volta per tutte delle gesta resistenziali in un yavey accettato e condiviso, è stato considerato
come un elemento fondamentale per la costruzione della nuova repubblica!”. Essa, come è noto, ancora confusamente si rivolgeva al passato
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risorgimentale, ma le correva l’obbligo di distinguersi nettamente da altri segmenti di passato dando forma ad una mitologia altrettanto imponente di quella che per decenni — dalla fine dei governi liberali in poi — aveva costituito la traccia identitaria dell’Italia dei Savoia. Da qui una costante ricerca e aggiornamento di quel catalogo di eventi luminosi e di quella infinità di episodi e fatti e personaggi che dovevano soccorrere nella strenua ricerca delle fondamenta di quel tempo nuovo che andava dischiudendosi. La memoria dei caduti della Resistenza è passata dalla dimensione familiare, amicale o del gruppo combattentistico di appartenenza del caduto, ad un progressivo incapsulamento nelle liturgie pubbliche e municipali con sempre maggior frequenza officiate dai sindaci nel corso di cerimonie sempre più standardizzate — soprattutto dalla fine degli anni ’60 — e uniformi nel linguaggio celebrativo. La Resistenza si dissemina e si generalizza, fino ad includere forme nuove di richiamo a protagonismi di genere se non anacronistici, certo spropositati dal punto di vista ‘cliometrico’. Negli anni più recenti, anche in tal caso tuttavia con una prosecuzione di una tendenza verificatasi fin dalla loro nascita, con un affastellamento memoriale nelle
sale dei musei del Risorgimento. A Venezia, per esempio, il Generale Filipponi, esponente di spicco della Resistenza in città, e il suo assistente Pignatti vollero aggiungere, in via temporanea, una sala dedicata alla Resistenza nel museo del Risorgimento entro il Correr rimasta fino al 19795. In taluni casi - non molti a dire il vero — si costituirono anche dei musei della Resistenza, che conservarono reliquie dei martiri e anche strumenti di tortura usati dai nazifascisti per infierire sulle vittime! Il Museo Civico del Risorgimento e della Resistenza di Mantova, per esempio, aprì il suo catalogo riportando per intero un breve testo composto per una epigrafe (la lapide su cui compare è murata nella sala del Consiglio Provinciale della città) che definisce in modo chiaro quelli che avrebbero dovuto essere — e che furono a lungo - i cardini di tutte le retoriche e le encomiastiche resistenziali. Sulle fosse del vostro martirio, negli stessi campi di battaglia, o suppliziati di Belfiore, o volontari di Curtatone e Montanara, dopo un secolo Mantova
vi affida questi suoi caduti della guerra partigiana a fronte alta, con passo sicuro, senza voltarsi indietro. Accoglieteli ombre fraterne: sono della vostra famiglia; mutano i volti dei carnefici Radetzky o Kesserling, variano i nomi delle liberazioni: Risorgimento o Resistenza, ma l’anelito dei popoli è uno nella storia dove i secoli sono attimi".
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Questo processo, per quanto non ancora del tutto concluso, ha tuttavia contribuito a protrarre nel tempo certi luoghi comuni, non li ha completamente sostituiti, ha anzi ripreso le vecchie storie sul sangue versato e la pedagogia della sofferenza, l’antico mito degli eroi frugali come Garibaldi e Mazzini. In tutta la complessa geografia degli episodi e dei personaggi della Resistenza e dei caduti per la libertà, la vicenda dei ‘sette fratelli Cervi’, i «sette purissimi eroi» come li definì Sandro Pertini!*, ha costituito l’episodio più significativo, sia per l’esemplarità del dramma, sia per la sua rinomanza popolare. La storia della passione e della morte di quei giovani fratelli rappresentò, per decenni, la sintesi di tutta la martirologia resistenziale, alla cui formazione non fu certo estranea quella singolare cabala numerica che rese i protagonisti simili ai personaggi della celeberrima leggenda siriaca dei Sette dormienti della caverna o alla vicenda dei sette fratelli nel Libro dei Maccabei. Un riferimento che peraltro si ritrova in una ballata di quel piccolo vate di Cadice, Rafael Alberti. I sette fratelli non dormono mai Sotto la terra che ora li culla. Vive il loro sangue, canta quel sangue, Eretto sempre ogni mattina.
Il poeta intercettava qui peraltro anche un tema che era stato vivissimo nella ideologia martirologica fascista — ancora un esempio di continuità di linguaggio tra stagioni politiche — e che tante volte era ricorso nella letteratura resistenziale. Come era accaduto durante il fascismo, anche ora il sangue dei caduti risultava infatti indispensabile nell’accreditamento morale e storico dei nuovi soggetti politici emergenti. Ma la storia dei fratelli Cervi servì non solo allo scopo di celebrare l’atto eroico dei giovani martiri, quanto anche ad esaltare la matrice contadina
della lotta armata antifascista mediante la evocazione di un torog del cattolicesimo popolare, ovvero quello della «vita arcaica e solitaria dei campi» che «racchiudeva in sé puri ideali di giustizia e di fede»!”. Tutto quel singolare nucleo familiare contadino sussume complessivamente questi valori riassunti in quella strana figura catalizzatrice di virtù rappresentata dal geronte della comunità, il vecchio padre Cervi che non cedette mai alle avversità e al quale toccò il crudele destino non solo di sopravvivere ai figli, ma di decretare la loro fine in virtù delle sue scelte etiche e politiche, secondo un copione tragico quasi di stampo sofocleo. Posto al vertice di un rinnovato stoicismo politico, quella vecchia
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querci», lo stipite della famiglia Cervi, non solo sopravvisse alla decimazione familiare, ma trovò motivi di riscossa nel culto della memoria dei figli caduti e nella convinzione che il loro sangue era servito a prefigurare un futuro migliore, era stato «an dono pensando al futuro». Perché oggi i ragazzi italiani sopra il tuo tronco nodoso in uno squarcio libero di cielo vedano sette stelle d’argento?%,
Quei morti erano stati necessari non solo nello svolgersi di una competizione agonistica, quanto piuttosto nel quadro dell’affermazione di un generale ideale pacificatore: essi avrebbero dovuto rappresentare una sorta di ultimo episodio, o di avvenimento finale e definitivo dopo il quale la guerra sarebbe stata per sempre allontanata dal quadro delle evenienze umane come fatto non più tollerabile e insensatamente doloroso. Con un richiamo implicito a quella superiore moralità e virilità che erano state le caratteristiche fondanti dell’uomo nuovo socialista gia all’inizio del secolo?”, un ideale che si era eclissato per decenni e che ora, alla fine del conflitto sanguinoso, poteva essere ripreso come imperativo morale della nuova repubblica. Non a caso furono diffuse immagini di partigiani sorridenti e felici, non quelle dei guerrieri duri e talvolta spietati: si accredita l’immagine del combattente buono e generoso, del pacifista costretto dagli eventi ad impugnare le armi fatidiche. Si chiamano eroi i fratelli Cervi, e tutti coloro che subirono lo stesso martirio, ma li sentiamo come eroi del popolo senza orpelli guerreschi, eroi che hanno combattuto perché gli uomini non dovessero più uccidersi tra loro [...] eroi a cui è stata tolta la vita perché volevano un mondo in cui la
vita degli uomini fosse libera e felice?*. 202
Dopo la morte del patriarca, nel 1956 fu costituito un Istituto Cervi, mentre la cascina fu trasformata in un museo i cui lavori di allesti-
mento andarono avanti per lunghi anni, dal 1975 al 2001. Ma già Piero Calamandrei aveva elevato il luogo a santuario della nuova stagione politica e la casa dei Cervi a luogo della memoria: «quello che più commuove
oggi — disse in una commemorazione
che si tenne al Tea-
tro Eliseo di Roma nel gennaio 1954 — come io sono andato tre giorni fa, a visitare quel grande casamento patriarcale in mezzo alla pianura
alberata. È il ritrovare»,
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Gli ambienti della cascina furono in gran parte mantenuti integri e furono destinati a raccogliere quello che viene definito nella web page dell’istituzione «uno straordinario patrimonio di valori rappresentato dalla figura di Alcide Cervi, insieme alla memoria dei suoi sette figli martiri». Una posizione che rispetta la volontà del padre dei martiri, che esplicitamente aveva spesso affermato che la storia della sua famiglia era tout court da storia del popolo italiano combattente e forte». Il museo dei Cervi rappresenta il più cospicuo coagulo della mitologia resistenziale entro la quale si vedono celebrati temi diversi, dal lavoro dei campi — già peraltro moralizzato dai fascisti — in quanto espressione di modestia, onestà, fermezza d’animo e fede, alle tradi-
zioni popolari alla vita delle cosiddette classi subalterne. D'altra parte tutto il circondario aveva ricevuto un positivo influsso dalla presenza della casa-santuario dei sette martiri, tant'è che lì precocemente incubò quell’opposizione politica al regime destinata a dare frutti cospicui nei tempi seguenti. Nelle sale si allineano gli «oggetti sopravvissuti alla rappresaglia fascista», le testimonianze di chi aveva «conosciuto» i sette uccisi, gli ambienti in cui i fratelli avevano vissuto — le cosiddette «stanze dei Cervi» — ma anche le camere da letto di Alcide e Genoveffa, quelle di Gelindo e Iolanda. Infine sono esposti gli «oggetti ricevuti in dono, conservati come altrettanti ex-voto, lasciati dai visitatori-pellegrini ad incremento della memoria degli eroi e a loro maggior gloria. Si tratta di un complesso sistema reliquiario che, di fatto, ha trasformato il museo
in un luogo sacro, una dimensione, quest’ultima, che ebbe la sua definita sanzione quando, nell’ottobre 1945, furono esumate dal camposanto di Reggio le spoglie dei fratelli, poi deposte, con una solenne cerimonia pubblica, nel cimitero della comunità
di origine; da quel momento
il
luogo divenne il centro totemico resistenziale?, Sovrapposto alla rete delle santità cattoliche, anche la geografia parenetica resistenziale disegnò i suoi percorsi sul territorio con tan-
to di tappe e snodi simbolici più o meno significativi, a seconda dell'entità del martirio patito o della rilevanza del sangue versato dai giusti combattenti della libertà. Questa parcellizzazione delle vicende resistenziali non comportò alcuna frantumazione o indebolimento di quel tessuto di riferimenti etico-sacrali; al contrario, la sostanziale
omogeneità dei ‘sistemi di ricordo’ e di significazione degli eventi rese ciascuna ‘santità locale’ e ciascun eponimo resistenziale simile ad ogni altro. Da Marzabotto ai fratelli Cervi, da Sant'Anna di Stazzema alle Ardeatine, ovunque i martiri furono descritti ricorrendo alle stesse
III. I sangue lustrale
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strategie celebrative. Le Lettere di condannati a morte della resistenza italiana? sono da leggersi come delle testimonianze fondanti di una nazione costruita sulla medesima ed omogenea funzione testimoniale del sacrificio: come scrissero i curatori dell’opera, esse erano lettere tutte scritte «in punto di morte»?!0, La memoria monumentale e pubblica della Resistenza ebbe carattere essenzialmente
eroico-marziale
e fu, più o meno
direttamente,
ispirata alle esperienze belliche del primo conflitto mondiale, ma con forme che variarono di molto sul territorio anche in relazione a più o meno marcati episodi di coinvolgimento locale alla guerra di liberazione. Per un verso i monumenti ai caduti del 1940-45 furono una replica di quelli del 1915-18, con tanto di innesti e di riconsacrazioni mediante l'aggiunta nominativa dei caduti nuovi a fianco dei vecchi e con epigrafi che passano dalla celebrazione degli eroi della guerra 1915-18 a quella degli eroi di tutte le guerre, con iscrizioni del tipo: a «tutti i caduti che con il loro sacrificio hanno permesso la rinascita della patria»?!!. Invece nel caso dei monumenti alla Resistenza si nota una differente strategia simbolica. Nel caso della monumentalistica resistenziale si tese a sottolineare la particolarità dell’avvenimento. Nella maggior parte dei casi si ricordava, per esempio, un determinato episodio mettendolo in diretta relazione con il raggiungimento della libertà e della democrazia. Piuttosto che alla grandezza della patria, entità politica la cui fama risultava largamente compromessa, si cercò di porre in rilievo l’elemento di rinnovamento e di fiducia nella nazione nuova. I partigiani vollero infatti essere rappresentati come i prototipi dell'italiano democratico?!?. Ma nonostante questi aspetti di novità, il linguaggio celebrativo mantenne un solido spessore derivato dalla tradizione eroico-encomiastica nel ricordo del «sacrificio», del «sacrificio estremo», del «fulgido eroismo». Una epigrafe ammonisce: dibertà è sacrificio»?!5, mentre non fu particolarmente frequente il richiamo agli aspetti più truci della guerra e rare furono le espressioni che ricordavano la morte e lo «scempio orrendo delle membra»?! Alcune volte si ricordava il dovere della memoria e «il prezzo» pagato per il raggiungimento della libertà e della pace. Sono state proposte forme di classificazione dei monumenti della Resistenza e sono state notate generali tendenze nel passaggio da una disseminazione di steli memoriali secondo una precisa individuazione dei luoghi del sacrificio, verso una più complessa articolazione documentaria costituita da lapidi e monumenti di diverso impatto spaziale
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Il martire necessario
nei centri abitati o in alcuni punti nevralgici della ‘storia’ gloriosa dei resistenti svolta dall’inizio degli anni Sessanta con la costruzione del paradigma antifascista. Stagione monumentale che occupa le piazze della città tra ventennale e trentennale?! In questo periodo l’accumulo di gesta e di tradizioni scritte ha prodotto dei veri e propri sacrari e dei poli di attrazione per i pellegrinaggi popolari. In taluni casi pellegrinaggi e ricorrenze si sono sovrapposti — o hanno cercato di
sostituirsi — ai santi e protettori locali, fenomeno non nuovo fin dai primi decenni dell'unità nazionale. Oggi si dispone anche di una precisa ‘carta della violenza’, un percorso dei luoghi del sangue, una mappa delle martirizzazioni è stata deposta sul piano geografico della nazione in modo tale da ridisegnare, con le sue densità e le sue radure, un nuovo
quadro di
sacralità politiche. Il territorio della nazione, già segnato da varie entità totemiche, si distingue ora per regioni contraddistinte da un più o meno alto grado di rispettabilità politica in base al sangue versato in loco dai partigiani, dai resistenti o dai martiri della popolazione civile passata per le armi dai nazisti. Nell’allestire recentemente questo percorso della memoria, strutturato come un vero e proprio baedeker turistico — infatti si parla di Guida ai luoghi della violenza — si segue il principio del luogo del crimine come luogo della memoria e del compianto, e se ne fa meta di pellegrinaggio, così come era accaduto per Matteotti sul lungotevere Arnaldo da Brescia o il cancello di Villa Belmonte di Giulino per Benito Mussolini?!°. Come taluni scrissero sulle pagine di quell’atlante resistenziale, il territorio fu disseminato di luoghi della memoria, di spazi ‘attrezzati’ affinché si potesse apprendere la ‘vera’ storia martirologica della nuova nazione, peraltro seguendo una graduatoria per importanza: ecco il gran ruolo giocato dal campo di concentramento di Ferramonti, dalle Fosse Ardeatine, da Sant'Anna di Stazzema, da Marzabotto e Monte Sole, dal Campo di Fossoli, dalla
Risiera di San Sabba a Trieste, fino a quel nucleo mnestico primigenio rappresentato da Boves, culla della resistenza, zona di Cuneo?!, che conobbe per primo l'orrore della rappresaglia nazista e dal quale sgorgò quel gran fiume di sangue che andò ad irrigare l’Italia nuova.
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EPILOGO L'ultima festa al Vittoriano Il sangue versato dai soldati americani sul suolo italiano non ha ricevuto in Italia un riconoscimento adeguato, rari sono i processi di eroizzazione dei liberatori!. Fino ad oggi gli eroi della Resistenza hanno monopolizzato tutti gli spazi dell’encomio e hanno consentito di sanare rapidamente in termini politico-memoriali quel vulnus dell’onore marziale che fu l’armistizio dell'8 settembre 1943?. Fuori di quel racconto edificante non vi è stato quasi alcun interstizio lasciato libero?. Per lunghi decenni l’ultimo bellicismo moralmente consentito è stato quello resistenziale, gli ultimi morti eroici erano stati quelli che avevano avuto una qualche diretta relazione con il tempo mitico della fondazione della Repubblica. La ripresa costituzionale post-fascista ha cancellato, com’è ovvio, ogni possibilità di dar vita a comportamenti esuberanti, estremi, non regolamentati o al di fuori delle istituzioni legittimate. La dialettica ammessa
tra posizioni avverse
è rimasta esclusivo appannaggio
del
linguaggio che esprimeva le rivendicazioni sociali sindacali. Ma nessuna di queste fenomenologie della violenza ha mai prodotto dei veri e propri eroi, o ha determinato l’uso di un linguaggio apologetico della violenza. Per lunghi decenni si è osservata una sorta di eclisse della guerra, corrispondente alla impossibilità di praticare forme di contesa marziale in un quadro di superpoteri e di superarmi poste del tutto al di fuori dalla disponibilità del governo nazionale. A tale eclisse ha forse contribuito l’affermarsi di una cultura pacifista che si è spesso confusa con irenismi ecologisti e con ideali religiosamente orientati dopo il Concilio Vaticano II, entro cui si annoverano voci di un qualche rilievo come don Lorenzo Milani, Dossetti e La Pira!. Il bisogno di mitologia nazionale — che taluno ha chiamato bisogno di patria’ — è stato variamente soddisfatto, sia dal perdurante clima celebrativo della resistenza sia dalle proiezioni ideologiche — le speranze di redenzione sociale — di natura cattolica 0 marxista. Soltanto episodicamente si sono aperti spiragli di martirizzazioni di diversa ascendenza, come nel caso dei morti di Reggio Emilia del 7 luglio 1960°. Anche il sangue dei terroristi degli anni Settanta fu di gran lunga giudicato un tra-
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lignamento dalla gran corrente ideale dell’eroismo di matrice marxista. Ma ciò era corretto fino ad un certo punto: la formidabile difesa antiterroristica messa in campo dal Partito Comunista Italiano ha comportato approssimazioni e dimenticanze culturali. Per quanto per rintracciare le ascendenze dell’idealtipo di ‘rivoluzionario puro’ ci sia da risalire al secondo Ottocento, al Che fare? di Nikolaj CernySevskij (1863), e poi a Bakunin e a quel singolare personaggio del quale il famoso ideologo si era prestamente invaghito e altrettanto prestamente si era distaccato, cioè a Serghiei Netaev e al suo famoso Catechismo rivoluzionario (1869). Ma perché richiamare questo scritto per l’Italia dell’ultimo trentennio del Novecento? Il motivo è presto detto: si legge nel Catechismo, al punto: atteggiamento del rivoluzionario verso se stesso: Il rivoluzionario è un uomo perduto in partenza. Non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome [...]. Nel suo intimo, non solo a parole, ma nei fatti, egli ha spezzato ogni legame con l'ordinamento sociale e con l’intero mondo civile, con tutte le leggi, gli usi, le convenzioni sociali e le regole morali [...] conosce un’unica scienza, la scienza della distruzione
[...]. Il rivoluzionario è un
uomo perduto, spietato verso lo Stato e verso la società istruita in genere; da essa non deve dunque aspettarsi nessuna pietà. [...] Egli deve imparare a sopportare la tortura [...]. Giorno e notte, deve avere un unico pensiero, un unico scopo: la distruzione spietata. Aspirando freddamente e instan-
cabilmente a questo scopo, deve essere pronto a morire, e a distruggere con le proprie mani tutto ciò che ne ostacola la realizzazione®.
Come si vede, si tratta di un linguaggio nel quale si riverbera quella ideologia politica derivata al fascismo dalla tradizione risorgimentale italiana?. Si tratta inoltre di un linguaggio che ha avuto la capacità di esprimere tutte le infatuazioni al tempo stesso totalitarie e antitotalitarie; lo vediamo modulato nelle biografie eroiche di tanti miliziani di ogni specie, e soprattutto degli Arditi, sia prima che durante il fascismo. Ora questo profilo di militante, in cui si odono persino echi di Monsieur De La Trappe, è precisamente richiamato dai teorici delle Brigate Rosse medesime, i quali si spingono fino ad individuare chiaramente in Necaev il loro ideologo di riferimento. La prima condizione cumento — potremo non ha né interessi prietà e neppure un
della militanza clandestina — scrivono le BR in un dodescriverla con le parole di Neciaiev. Il rivoluzionario personali né affari, né sentimenti, né legami, né pronome. Nel profondo del suo essere, non solo a parole
Epilogo
213
ma nei fatti egli ha spezzato ogni legame con l'ordine civile e con tutto il mondo civilizzato, con le leggi, con le usanze, la morale e le convenzioni
generalmente riconosciute in questo mondo!°.
Ma nella pratica la scelta di sottoporre le loro vittime ad una serie di ‘processi’, se da una parte serviva ad incanalare-legittimare la violenza, dall'altra toglieva ogni parvenza guerriera alle loro azioni. I martiri di via Fani fecero in parte eccezione, ma in quel caso l’etichetta suonava generica, e veniva a seguito di una azione di tipo paramilitare. Forse per non caricare gli eventi di un valore marziale, non si
parla di caduti e martiri. Piuttosto di vittime, ovvero di epifenomeni violenti dalla eziologia non precisata con protagonisti incolpevoli. Dal canto suo la cultura di destra è stata più che neofascista, incline alla malinconica celebrazione dei venti mesi di Salò, dove a certa
prosaicità di conduzione politica dello Stato fascista nel Ventennio tornano a brillare i sacrifici e gli eroismi di un manipolo di veri uomini che si batterono da soli contro tutti. Il mito di Salò è l’anti-mito nella temperie politica della nuova repubblica a sua volta anti-fascista. Essa ebbe come prassi condivisa quella «dell’isolamento del guerriero», ovvero quella dei neofascisti reduci da Salò, come «educi in patria»!!. Non si trattava affatto di una novità: l’accentuazione degli ideali sacrificali!? e del simbolismo mortuario era solo una ripresa di quelle simbologie già così presenti nel tempo originario della consacrazione del movimento fascista nel sangue dei caduti. Nel dopoguerra l’Italia non ha avuto coinvolgimenti militari particolarmente significativi!5, e comunque tutti inseriti in una logica di distanza che pare abbia coinvolto governanti e governati, entrambi ben rappresentabili dalle parole di Massimo D'Alema — ministro degli Esteri durante la guerra in Kosovo nella primavera 1999 — rispetto ai fatti bellici. La guerra aerea, nella distanza che crea tra l'arma che attacca e l’obiettivo che viene attaccato, genera un senso di impalpabilità dell’evento, fin quasi a rubricarlo nel campo dell’inesistente o nell’onirico. Le bombe diventano luci, le superfici terrestri sulle quali cadono, delle mappe. Quasi senza coinvolgimento fisico, la guerra perde tutte le sue caratteristiche, persino la mobilitazione è inavvertita, e si disperde in un elemento rumoroso attorno a qualche base militare da dove partono gli aerei. Peraltro i soldati italiani furono descritti dagli organi di stampa come elementi di sostegno addetti alla logistica, per niente coinvolti nelle
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Il martire necessario
azioni belliche. Benché alcune componenti pacifiste fossero scese in strada manifestando contro la guerra, perlopiù l'orizzonte della preoccupazione rimaneva legato alla eventualità di un conflitto nucleare ‘definitivo’, rispetto al quale ogni altra manifestazione marziale risultava poco più che un gioco limitato e sostanzialmente poco doloroso. Ragioni ‘geopolitiche’ — termine recentemente invalso — inducono peraltro alla sua accettazione, considerando che i rischi inerenti a tale coinvolgimento sarebbero sempre e comunque stati assai limitati e, in ogni caso, circoscritti all'ambito strettamente militare al di fuori
del territorio patrio. Come affermò il primo ministro dell’epoca in un libro-intervista: quella guerra aveva una sua ragione dipendente direttamente dalla necessità che la nazione aveva di autorappresentarsi sullo scenario dei poteri europei. «Il rischio peggiore — affermò D'Alema — è stare in un paese che non conta niente, espulso dai luoghi dove si decide. Questo è un caso in cui l'eccesso di democrazia apparente ti preclude la democrazia vera, perché ti emargina dalle sedi dove si decide anche per te». Lo stesso esponente del governo en passant notò tra l’altro che la cultura di sinistra non era mai stata «pregiudizialmente» contraria alla guerra: richiamo del tutto insufficiente dal punto di vista teorico, ma i nuovi dirigenti dei partiti di quell’area da tempo vanno mostrando evidenti evanescenze teoriche e disinteresse per la cultura. In effetti per gli italiani quella del Kosovo fu una guerra senza eroi e con ben poche emozioni, se non quelle di natura cinematografica e visuale riversate dai canali informativi. Per la classe politica fu un aspetto della catena decisionale sovranazionale stabilita da accordi segreti, e dunque sottratta alla pubblica discussione come previsto dalla carta costituzionale. Soprattutto fu una guerra senza: morti e feriti, senza vittime e senza cordoglio, un impegno bellico del tutto inerziale per la nazione, che non alterava minimamente
il corso nor-
male della vita dei cittadini, che non incideva, più di quanto avrebbe potuto farlo una banale catastrofe naturale che avesse comportato qualche centinaio di morti. Anche la partecipazione militare non aveva, per l’Italia, una sua fisicità: i guerrieri erano assenti, dunque non ci si valse di alcuna estetizzazione del corpo dei soldati, i quali rimasero anonimi, come era rimasto anonimo e senza corpo quel manipolo di ‘arditi» che a Sigonella nel 1985, con la piena copertura del primo ministro Bettino Craxi, respinse gli americani che avevano provato a scendere in terra di Sicilia.
Epilogo
215
Solo i fatti di Nassiriya del novembre 2003 ricondussero lo spargimento di sangue ad una dimensione nuovamente tangibile, riportando la guerra al centro della vita vera della nazione. Anche se ciò non accadde immediatamente dopo i tristi fatti: ancora nel suo teso intervento alla Camera sul tragico avvenimento, il ministro della difesa Martino parlò per dieci minuti leggendo un discorso di sei cartelle ma — come annotò un cronista — senza mai pronunciare la parola ‘guerra’, sostituita con «missione di pace» e «spedizione umanitaria»!. Furono le cronache dei giornali a parlare invece di guerra senza troppi pudori. Quello stesso giorno il «Corriere della Sera» dedicò una intera grande pagina alla pubblicazione di Lettere al fronte, una inversione di senso particolarmente significativa, non solo rispetto alle antiche celebri rubriche di missive inviate dai soldati alle famiglie, ma perché si trattava di necrologie nelle quali tornava in tutta evidenza a rifulgere la viva «ammirazione per il sacrificio», come recitava l’occhiello del titolo del giornale. Una lettera — I/ seme della speranza pareva addirittura scritta quasi un secolo addietro in onore dei caduti della Grande guerra: Come fiori spezzati dal temporale giacete nella terra sconvolta. Ma il seme della speranza irrorato dal vostro sangue germoglierà rendendovi immortali!°.
Non ci furono solo i giornali a fare da grancassa al cordoglio nazionale: migliaia furono i biglietti lasciati sulle gradinate del Vittoriano in onore dei soldati, ora paragonati a «missionari» ora a martiri, ora a santi. Oppure ad «angeli», o «angeli caduti», oppure anche, singolarmente, «angeli della pace», «del sacrificio», «dell’olocausto». Un cartello
esposto tra la folla dei funerali evocava il Piave, un altro E-Alamein!. Disse un parente di un caduto che quel tipo di missioni era per quel giovane guerriero «il suo vizio virtuoso, la sua privata mania umani-
taria» che consisteva nel traghettare dei bambini dalla guerra alla vita, come il San Cristoforo della leggenda medievale che traghettò Gesù
bambino sulle spalle!. Altri rammemoravano le. virtù di una vittima «come carabiniere, come marito, come padre»!?. Un generale, pur provato dal dolore personale per la perdita del figlio, non mancò di far riaffiorare un certo
rude machismo
da caserma,
affermando:
«a noi
militari crescono le palle più dure». Anche «La Repubblica» insisté sul registro dell’eroismo, titolando il giorno dei funerali: «l’Italia si abbraccia ai suoi eroi»’!.
216
Il martire necessario
La cerimonia funebre per i militari caduti passò dall'essere una mera rievocazione, come d’abitudine ormai per le retoriche cerimonie resistenzial-militari, ad una liturgia compiuta in praesentia delle vittime. Questa riacquistata ontologia dell’orrore suscitò nuovamente ammirazioni e strepiti, e il clima di festa funebre ancora una volta fu capace di incidere sulla vita comunitaria della nazione. Già quasi una settimana prima dell’arrivo delle bare dei caduti il comando dei Carabinieri della capitale era stato meta di un pellegrinaggio incessante. La dimensione corale del fenomeno celebrativo dipese però soprattutto dalla cornice scelta con abilità: il Vittoriano, la culla nazionale del soldato, dell’umile
combattente senza gradi e medaglie, morto sul campo di battaglia. Ora, si fece notare da più parti, per la prima volta da quando il sacello marmoreo dell'ignoto militi era stato sigillato, tornavano delle bare. E con esse le folle commosse, orgogliose e piangenti. Dal centro alla periferia si rinnovarono testimonianze diffuse di commozione che il più delle volte ebbero forma religiosa: nelle messe domenicali si ricordarono i caduti, così come si osservarono minuti di silenzio sia negli stadi che nelle pubbliche biblioteche. La suggestione del milite ignoto giocò ancora un ruolo di modello edificante. Un cartello recitava: «siete eroi sconosciuti, ma siete caduti per la patria». A Roma tra le persone che si assieparono attorno all’altare della patria cerano anche cinquanta cappellani militari che, ogni mezz'ora, a turno, recitavano il rosario, e molti tra il pubblico tenevano in mano
le coroncine a grani che erano state all'uopo distribuite. In prossimità della cerimonia di commiato si moltiplicarono i messaggi eroizzanti, uno diceva: «eravate grandi, ora siete grandi eroi», e un altro: «ci avete ricordato cosa vuol dire essere italiani: vuol dire essere altruisti e pronti ad ogni sacrificio». Il paese sembrò sorpreso della sua stessa ebollizione emotiva, il più diffuso quotidiano italiano pubblicò un assurdo editoriale affidandosi alla penna di André Glucksmann, che da Parigi prese a parlare a casaccio inventandosi ‘teorie’ che partivano dall’Umanesimo per dimostrare che «tutta la storia testimonierebbe «del disdegno italiano per le avventure guerresche»', con una riedizione grottesca del mito degli italiani brava gente. Al contrario il tema mortuario e sacrificale, la seduzione per la sofferenza cristomimetica, il tema del sangue come lavacro e della morte individuale e collettiva come fattore di salvezza e di rinascita sono
i solchi che ininterrottamente
e continuamente
vengono
incisi
Epilogo
217
Soldati di pace soldati di Dio
Fig. 29 Opuscolo celebrativo della strage di Nassiriya.
sul terreno della nazione italiana, la quale non misconosce affatto la religione della patria. Si tratta di tracce, di sentieri tortuosi, di ritorni
indietro, di prese di distanza, di passaggi a volta a volta più esigui o più larghi, ma al di là delle più diverse temperie politiche, se solo se ne presenta l'occasione, ci sono moltitudini di italiani che si dicono pronte a ripercorrere quelle vie di sangue. Non per niente, con Nassiriya,
e dopo una lunga parentesi, la guer-
ra tornò a farsi udire, e la sua voce era più seducente che mai; alcuni
dissero allora che si sarebbe dovuto combattere una guerra per la pace. Ma il piacere provato nell'osservare la spettacolare esibizione del dolore messa
in atto dalle folle, la spettacolarizzazione dell’evento, la celebra-
zione dell’orgoglio per il dono supremo che la nazione aveva ricevuto dai soldati che si erano immolati all'ombra della sua bandiera, mettevano a nudo il fatto che le masse, grazie a quei morti, si ricongiungevano
finalmente ai loro eroici padri fondatori. E si ritrovavano festosamente e luttuosamente bagnate dal sangue sacrificale di quei loro giovani martiri.
219
NOTE
Introduzione I 2
3
4
R. Caillois, La vertigine della guerra, Roma, Città Aperta, 2002. V. Woolf, Le tre ghinee [1938], Milano, Feltrinelli, 1979, p. 6. Jùnger, Der Kampf als inneres Erlebniss, cit. in Caillois, La vertigine, cit., p. 102. Obbligato il riferimento a R. Otto, Z/ sacro. L’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale [1936], Milano, Feltrinelli, 1966. C. von Clausewitz, Della guerra, Milano, Mondadori, 1974, vol. 1, p. 35; cfr. J. Huizin-
ga, Homo Ludens. Il gioco come funzione sociale [1938], Torino, Einaudi, 1972. Caillois, La vertigine, cit.; Id., L’uomo e il sacro [1939]. Con tre appendici sul sesso, il gioco e la guerra nei loro rapporti con il sacro e la guerra e la filosofia del sacro di Georges Bataille, a cura di U.M. Olivieri, pp. 157-177; cfr. anche J. Starobinski, A piene mani. Dono fastoso e dono perverso [1994], Torino, Einaudi, 1995; G. Bataille, La parte maledetta. Preceduto da La nozione di dépense 1967), Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 39-59. G.A. Borgese, Rubé [1921], Milano, Mondadori,
1974, p. 81.
C. Cantù, Antologia militare. Premiata dal Ministero della guerra, parte HI-NI [narrazioni; dottrine strategiche e morali; Descrizioni, parlate, rapporti, lettere, poesie], Savona, Tipografia della Reclusione Militare, 1870, p. 22. E. Gentile, La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo
secolo, Milano, Mondadori, 1997, pp. 16-18. Cfr. inoltre S. Lanaro, Patria. Circumnavigazione di un'idea controversa, Venezia, Marsilio, 1996; Guerre e culture di guerra 13)
nella storia d'Italia, a cura di P. Del Negro, E. Francia, Milano, Unicopli, 2011. Scritto contenuto in Be/lone ou la peinte de la guerre [1963], ora pubblicato in italiano
in Caillois, La vertigine, cit. Roger Caillois (1913-1978) fu assiduo all'École pratique des hautes études alle lezioni di Georges Dumézil e Marcel Mauss, tra i fondatori del Collège de Sociologie, legato a Bataille, a Leiris e a Klossowski, fondatore di Inquisition. Si veda in proposito U.M. Olivieri, La traccia del sacro [introduzione], in Caillois, L'uomo e il sacro, cit., p. XIX. Cenni biografici e inquadramento generale dell’autore e dell’opera in O. Felgine, Roger Caillois. Biographie, Paris, Stock, 1994. Sul Collegio di Sociologia, cfr. // Collegio di Sociologia (1937-1939), a cura di D. Hollier, Torino, Bollati Boringhieri, 1991. In riferimento al pensiero di Caillois, cfr. R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980; J. Sèmelin, Purificare e distrug-
gere. Usi politici dei massacri e dei genocidi, Torino, Finaudi, 2007, pp. 105-108. Un profilo critico della idea di festa in M. Ozouf, La festa rivoluzionaria (1789-1799), Bologna, Pàtron, 1982. E. Jùnger, A/ muro del tempo, Milano, Adelphi 2000, p. 94; cfr. Id., Scritti politici e di guerra 1919-1933, Trieste, Libreria Editrice Goriziana, 2005; Id., L’operaio, dominio
. e forma, Milano, Longanesi, 1984. Sulla estetica della guerra e l’antimaterialismo di Jinger, cfr. J. Herf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Bologna, Il Mulino, 1988, in part. pp. 116-
117, 125-141 e 177. Cfr. M. Praz, La carne,
la morte e il diavolo
nella letteratura
romantica,
Firenze,
Sansoni, 1976, pp. 19-26. S. Bertelli, Velocità storiche, in Velocità storiche. Miti di fondazione e percezione del tempo nella cultura e nella politica del mondo contemporaneo, a cura di S. Bertelli,
220
Il martire necessario
Roma, Carocci, 1999, in part. pp. 27-30. Sui mutamenti paradigmatici della contemporaneità in conseguenza della Grande guerra cfr. E. Gentile, L’apocalisse della modernità. La grande guerra e l’uomo nuovo, Milano, Mondadori, 2008; Sulla prima guerra mondiale come evento fondante della memoria moderna, P. Fussell, La Gran-
de guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1984. P. Melograni, Storia politica della grande guerra 1915-1918, Bari, Laterza, 1969; cenni a questi temi anche in F. Jesi, Cultura di destra, Milano, Garzanti, 1979, pp. 30-38.
F. Cardini, Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dall'età feudale alla grande Rivoluzione, Firenze, Sansoni, 1982.
? A. Gibelli, L'esperienza di guerra. Fonti medico-psichiatriche e antropologiche, in La Grande guerra: esperienza, memoria, immagini, a cura di D. Leoni - C. Zadra, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 51. 1 (I
E.J. Leed, Terra di nessuno, Bologna, Il Mulino, 1985. Leed semplificava molto le idee
di Caillois, e forse le aveva riviste alla luce delle esperienze dei soldati reduci dal Vietnam, concentrandosi soprattutto sulle psicosi di guerra. Sull’Italia cfr. A. Gibelli, L'officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazipni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; G.L. Mosse riprende con vigore tale idea, cfr. Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza 1990. Più di recente, con un problematico approccio comparativo, J. Bourke, Seduzioni della guerra: miti e storie di soldati in battaglia, Roma, Carocci, 2001. S. Audoin-Rouzeau - A. Becker, La violenza, la crociata, il lutto. La Grande guerra e la storia del Novecento, Torino, Einaudi, 2002.
20
Per una ricognizione sull’uso di tale espressione in ambito storiografico si fa riferimento a R. Chartier, La rappresentazione del sociale. Saggi di storia culturale, Torino, Bollati Boringhieri, 1989. Sulla genesi sociale dell'immaginario di onnipotenza e di distruzione si vedano le osservazioni in Sémelin, Purificare e distruggere, cit., p. 59. Audoin-Rouzeau - Becker, La violenza, la crociata, il lutto, cit., p. 78. Si fa riferimento a P. Chaunu, La France. Histoire de la sensibilité des francais à la France, Paris, Laffont, 1982. Audoin-Rouzeau - Becker, La violenza, la crociata, il lutto, pp. 87 sgg. Persino il prefatore alla edizione italiana ci tiene a precisare, in palese contraddizione con gli autori del libro, che «non possiamo dare per scontata la coincidenza tra la rappresentazione dell’odio [...] e la sua realtà» (vi, pp. XXII-XXIV). Oltre a J. Keegan, 77 volto della battaglia Milano, Il Saggiatore, 2001. Il dibattito si è poi allargato al tema del consenso popolare al fascismo. Cfr. P.G. Zunino, L'ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Il Mulino, 1985, cfr. tutta l'introduzione e in particolare le pp. 11-62.
’ R. Koselleck, Futuro Passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, Marietti,
1986, in particolare pp. 300-322. In Italia Mario Isnenghi, che pur ricorda di aver subito l'etichetta di «avvocato dei Vinti di Caporetto» |M. Isnenghi, Postfazione a Id., Il mito della Grande guerra, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 394], quindi di essere stato ‘simpateticamente’ attratto da una certa parte della società belligerante, non ha mai negato l’esistenza del consenso alla guerra, dell'entusiasmo bellico, della partecipazione popolare alla mobilitazione — 0, meglio, alle mobilitazioni che la Grande guerra richiese alla nazione —, sottolineando come il consenso sia stato un sentimento dall'andamento ondivago. Quegli stessi
sentimenti, quella stessa seduzione della violenza che Claudio Pavone ha potuto rinvenire perfino tra i partigiani della guerra di liberazione (C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991 p. 422). Cfr. inoltre S. Peli, La Resistenza difficile, Milano, Franco Angeli, 1999, pp. 112 Sgg.; A. Ventura, Sugli intellettuali di fronte al fascismo negli ultimi anni del regime,
Note
(SIdi
221
in Sulla crisi del regime fascista. La società italiana dal ‘consenso’ alla Resistenza, a cura di A. Ventura, Venezia, Marsilio, 1996, in part. pp. 371-372). Sul potere irresistibile dell'apparato si vedano le brevi pagine di sintesi di A. Caracciolo, L'ingresso delle masse sulla scena europea, in Il trauma dell'intervento. 1914-1919, Firenze, Vallecchi, 1968; sul rifiuto della guerra: E. Forcella - A. Monticone, Plotone d’e-
secuzione, Bari, Laterza, 1968; Cfr. l’opera di Frescura, Stanghellini e Scortecci in particolare: A. Frescura, Diario di un imboscato [1919], in A. Frescura - A. Stanghellini - G.
Scortecci, Tre romanzi della grande guerra, Milano, Longanesi & C., 1966, pp. 43-276; più di recente sulle strategie per sottrarsi alla guerra: Gibelli, L'officina della guerra, cit. p. 122 sgg., e Id., La grande guerra degli italiani (1915-1918), Milano, Sansoni, 1998; B. Bianchi, Delirio, smemoratezza e fuga. Il soldato e la patologia della paura, in La Grande guerra, cit. Sulla provenienza sette-ottocentesca della retorica bellica e sul suo riaffiorare nei discorsi commemorativi e nelle celebrazioni dei caduti (con uno sguardo privilegiato a Inghilterra, Germania e Francia) cfr. J. Winter, JI lutto e la memoria. La
Grande Guerra nella storia culturale europea [1995], Bologna, Il Mulino, 1998. In un libro di più recente compilazione si sostiene che la Grande guerra avrebbe costituito uno spartiacque nella «tradizione millenaria» delle culture di guerra europee a causa della sua «insensatezza». E che dopo tale fossato sarebbe stato «il pacifismo dei romanzi degli anni Venti» il «solo prodotto della prima Guerra mondiale che sia arrivato fino a noi». Un’affermazione a dir poco stupefacente che l’autore prospetta ai lettori dopo aver analizzato le testimonianze «di alcune coscienze avanzate capaci di esprimere il disagio di generazioni ancora ignote a loro stesse»: A. Scurati, Guerra. Narrazioni e culture nella tradizione occidentale [2003], Roma, Donzelli, 2007 p. VIII e p. IX. Sul
mito del ‘bravo italiano’ che fa la guerra senza volerla ma per via di imposizione cfr. FE. Focardi, // cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe nella seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013. V. Foa, Questo Novecento, Torino, Einaudi 1996, p. 15. A. D'Orsi, / chierici alla guerra, La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a
28 29
Baghdad Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 23; cfr. tutto il saggio di A. Gibelli, Nefaste meraviglie. Grande guerra e apoteosi della modernità, in Storia d'Italia, Annali 18, Guerra e pace, a cura di W. Barberis, Torino, Einaudi, 2002, pp. 547 sgg.; G. Sabbatucci, Le generazioni della guerra, in Parolechiave», 16 (1998), p. 117; F. Caffarena, Lettere dalla Grande guerra. Scritture del quotidiano, monumenti della memoria, fonti per la storia. Il caso italiano, Milano, Unicopli, 2005. Cfr. Sabbatucci, Le generazioni, cit., p. 117 et passim. Cfr. G. Ragone, La letteratura e il consumo: un profilo dei generi e dei modelli nell’editoria italiana (1845-1925), in Letteratura Italiana, vol. Il: Produzione e consumo,
Torino, Einaudi, 1983, pp. 684-772. E se, ad esempio, in Germania l’attività del movimento giovanile ebbe un ruolo fondamentale nella nascita del nazionalismo, in Italia il ruolo degli studenti universitari fu minimo. Cfr. Mosse, Le guerre mondiali, cit. e Id., Le origini culturali del Terzo Reich, Milano, Il Saggiatore, 1968. 30
Cfr. P. Bourdieu - J.C. Passeron, La reproduction. Elements pour une théorie du système d’enseignement, Paris, Minuit, 1970; sulla letteratura di guerra cfr. M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi (1848-1945), Milano, Mondadori, 1989; Le notti chiare erano tutte un'alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, a cura di A. Cortellessa, Milano Mondadori, 1998; G. Alfano,
Un orizzonte permanente: la traccia della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Torino, Aragno, 2012; G. Capecchi, Lo straniero nemico efratello: letteratura
italiana e Grande guerra, Bologna, Clueb, 2012; alcune osservazioni in U. Rossi, // secolo di fuoco. Introduzione alla letteratura di guerra del Novecento, Roma, Bulzoni, 2008; Scrittori in trincea. La letteratura e la Grande guerra, a cura di F. Senardi, Roma, Carocci, 2008.
222
i
Il martire necessario
31 Cfr. Forme del politico tra Ottocento e Novecento: studi di storia per Raffaele Romanelli, a cura di E. Betta - D.L. Caglioti - E. Papadia, Roma, Viella, 2012; E. Papadia, Di 3N
padre in figlio. La generazione del 1915, Bologna, Il Mulino, 2013. Fondamentali le riflessioni di Marc Bloch sulla esperienza della guerra; cfr. Metodo storico e scienze sociali. La Revue de Synthèse Historique (1900-1930), a cura di B. Arcangeli - M. Platania, Roma, Bulzoni, 1982; cfr. inoltre Id., La guerra e le false notizie, Roma, Donzelli, 2004 con uno scritto al quale specificamente si rinvia di M. Aymard, Introduzione, pp. VI-XII; cfr. inoltre Cfr. M. Halbwachs, La memoria collettiva, a cura di P. Jedlowski, Milano, Unicopli, 1987; e P. Jedlowski - M. Rampazzi, Il senso del passato, Milano, Angeli, 1991.
3.(sy)
Cfr. N. della Volpe, Grande guerra e propaganda, in L'arma della persuasione. Parole e immagini di propaganda nella Grande guerra, Gorizia, Edizioni della Laguna & Cooperativa Mitt, 1991; A. Sema, ‘Cose piccole’e ‘piccole cose’. Momenti e concetti della propaganda di guerra italiana nel primo conflitto mondiale, ivi. Più in generale cfr. Cfr.J.Ellul, Storia della propaganda, Napoli, E.S.I., 1983; G. Busino, Propaganda, in Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi, 1980, vol. II, pp. 281 sgg.
3 Sulla derivazione di questi ideali dalla Rivoluzione francese cfr. G.L. Mosse, L'îmma-
gine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’Epoca moderna, Torino, Einaudi, 1997, p. 67; R. Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla Grande guerra alla marcia su Roma, vol. I, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 48. 3o
36
A proposito di propaganda vale quanto affermato da Pierre Bourdieu nel suo Ce que parler veut dire: da relazione dialettica, che si stabilisce tra l’interesse espressivo e la censura, impedisce di distinguere nell’opus operatum la forma e il contenuto, ciò che è detto e il modo in cui è detto o anche la maniera in cui è percepito. [...] La censura determina anche la forma della ricezione» (P. Bourdieu, La parola e il potere. L'economia degli scambi linguistici [1982], Napoli, Guida Editori, 1988). Cfr. inoltre G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933) [1974], Bologna, Il Mulino, 1975. Se ne veda un riflesso «attraverso la lente intima e soggettiva di un nucleo di scritture private» dall'Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e pubblicate in Patria mia. Scritture private nell'Italia unita, a cura di M. Baioni, Bologna, Il Mulino 2011, pp. 11 e 53-133. Al testo si rinvia per ulteriori approfondimenti bibliografici. E per le «tempeste emotive» che essa scatenava nell'intimo degli individui più colti, e sui codici retorici elaborati da intellettuali di grido si rinvia alle osservazioni di A.M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita, Torino, Einaudi, 2000, p. 33 et passim.
Cfr. R. Romeo, Il Risorgimento:
realtà storica e tradizione morale, in Id., Dal Pie-
monte sabaudo all'Italia liberale, Torino, Einaudi, 1963; B. Vigezzi, L'Italia di fronte
SO(ss)
alla prima guerra mondiale, I, in Id., Politica estera e opinione pubblica in Italia dall'Unità ai nostri giorni, Milano, Jaka book, 1991. Per una rivisitazione critica dei criteri di alto e basso cfr. S. Bertelli, L'alto e il basso ovvero la storia e il suo rovescio, in «Archivio Storico Italiano», CXXXIX, 50 (1981), pp. 551-579.
Sui temi della costrizione al combattimento 0, al contrario sulla induzione al consenso (per patriottismo difensivo, per conformismo, per rassegnazione o per spirito di cameratismo), id
cfr. A. Prost - J. Winter, Penser la Grande Guerre.
Un essai d’historio-
graphie, Paris, Seuil, 2004. Cfr. G. Simmel, Sulla guerra, a cura di S. Giacometti, Roma, Armando
Editore, 2003.
Gli scritti in questione risalgono al periodo 1914-1916. Per uno sguardo sulle ideologie di guerra elaborate dall’intelligenisija tedesca del Novecento cfr. D. Losurdo, La comunità, la morte, l'Occidente. Heideggere l'ideologia della guerra’, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.
Note
; 223
G. Galasso, Gli intellettuali italiani e la guerra alla vigilia del 1914, in Gli intellettuali e la Grande guerra, a cura di V. Calì - G. Corni - G. Ferrandi, Bologna, Il Mulino, 42
2000, pp. 22-23. B. Croce, Il dovere della borghesia nelle provincie napoletane (1923), ora in Id., Cultura e vita morale: intermezzi polemici, a cura di M.A. Frangipani, Napoli, Bibliopolis, 1993, p. 315. Per un panorama su filosofia e guerra e sulla distinzione tra Rriegsideologie e kriegserlebnis cfr. F. Masini, Ideologia di guerra. Temi e problemi, Napoli, Bibliopolis, 1987. Gentile, La Grande Italia, cit., p. 81; Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, me-
moria dal Risorgimento ai nostri giorni, vol. I. Fare l'Italia: unità e disunità nel Risorgimento, a cura di M. Isnenghi — E. Cecchinato, Torino, Utet, 2009. Su un aspetto particolare della guerra come momento in cui nasce la biopolitica, le riflessioni in G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, Einaudi, 1995, in
part. cap. III: // campo come paradigma biopolitico del moderno; R. Esposito, Biòs: biopolitica e filosofia, Torino, Einaudi, 2004. Galasso, Gti intellettuali, cit., pp. 24-25. E. Galli della Loggia, La morte della patria. La crisi dell'idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica, Roma, Laterza, 1996, p. 42 et passim.
Capitolo I 1
G. Mazzini, Della Giovine Italia, ora in Scrittori politici dell'Ottocento, tomo I., Giuseppe Mazzini e i democratici, a cura di F. Della Peruta, Napoli, Ricciardi, 1969, p. 349. Cfr. R. Balzani, Alla ricerca della morte “utile”. Il sacrificio patriottico nel Risor-
gimento, in La morte per la patria: la celebrazione dei caduti dal Risorgimento alla Repubblica, a cura di O. Janz - L. Klinkhammer, Roma, Donzelli, 2008, pp. 3-21. A.M. Banti, L'onore della nazione: identità sessuale e violenza nel nazionalismo europeo dal XVIII secolo alla grande guerra, Torino, Einaudi, 2005, p. 153; più in generale L. Riall, // Risorgimento italiano. Storia e interpretazione, Roma, Donzelli, 1997. Cfr. C. Pisacane, La rivoluzione, Torino, Einaudi,
1970. S. Visciola, Il problema’ del
volontario nel Risorgimento e il mito di Garibaldi condottiero della nazione, in «Archivio Storico Italiano», CLXV, 613 (2007), pp. 543-547. C. Cattaneo, La nuova legge del pubblico insegna, mento, in Id., Scritti politici, a cura di M. Boneschi, Firenze, Le Monnier, 1965, vol. IV, p. 146. In generale cfr. P. Pieri, Guerra e politica. L'evoluzione dell’arte militare dal Rinascimento alla Seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori,
1975, pp. 190-196; G. Conti, I/ mito della “nazione
armata”, in «Storia Contemporanea», XXI, 6 (1990), pp. 1149 sgg. M. Isnenghi, / due volti dell'eroe. Garibaldi vincitore vinto e vinto vincitore, in Tracce
dei vinti, a cura di S. Bertelli - P. Clemente, Firenze, Ponte alle Grazie, 1994, pp. 128129 e 431. E. Dandolo, / volontari e i bersaglieri lombardi, Milano, Brigola, 1860, p. 177. Sul tema dell’omoerotismo militare cfr. Mosse, L'immagine dell'uomo, cit.
E. Irace, Jtale glorie, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 144; Cfr. R. Ugolini, Garibaldi. Genesi di un mito, Roma, Edizioni dell'Ateneo,
1982; L. Riall, Storie d'amore, di libertà
e d'avventura: la costruzione del mito garibaldino intorno al 1848-49, in Immagini della nazione nell'Italia del Risorgimento, a cura di A.M. Banti - R. Bizzocchi, Roma, Carocci, 2002, pp. 157-174; D. Mengozzi, Garibaldi taumaturgo. Reliquie laiche e politica nell'Ottocento, Manduria, Lacaita, 2008, pp. 15-44; Id., Corpi posseduti. Martiri ed eroi dal Risorgimento a Pinocchio, Manduria, Laicaita, 2012; A.M. Banti, Sublime madre nostra, La nazione italiana dal Risorgimento al Fascismo, Roma-Bari, Laterza,
2011.
224
Il martire necessario
Isnenghi, I due volti dell'eroe, cit., p. 298. Ciò non riguardò soltanto le masse popolari più incolte, anche la cultura accademica fu incline a questa eroizzazione, si pensi al Garibaldi di Giosuè Carducci, sia in Juvenilia che in Levia Gravia; R. Macchioni Jodi, Il mito garibaldino nella letteratura italiana, Caltanissetta-Roma, G. Sciascia, 1973, p. 8; cfr. G.C. Abba, Scritti Garibaldini,
Edizione Nazionale delle opere di Giuseppe Cesare Abba, a cura di L. Cattanei - E. Elli - C. Scarpati, Brescia, Morcelliana, 1983. G. Guerzoni, Garibaldi (1807-1859), Firenze, G. Barbèra, 1889, vol. I, p. 60.
F. Brancaccio di Carpino, Milazzo: ricordi, Napoli, A. Branca, La compagnia sori Le Monnier, 1876, p.
Tre mesi nella Vicarìa di Palermo nel 1860. Le barricateTip. P. Ruggiano, 1940, pp. 201-202. dei volontari italiani nel Tirolo, Firenze, Tipografia succes12.
Guerzoni, Garibaldi, cit., vol. I., pp. 371-72 e le osservazioni in proposito di Mac-
chioni Jodi, I mito, cit., pp. 61 sgg. M. Vovelle, La morte e l'Occidente. Dal 1300 ai giorni nostri, Roma-Bari,
Laterza
1993, p. 519. Difforme da questa interpretazione quella fornita da P. Ginsborg, Romanticismo e Risorgimento: l'io, l'amore e la nazione, in Storia d'Italia, Annali 22, 16
Il Risorgimento, a cura di A.M. Banti - P. Ginsborg, Torino, Finaudi, 2007, pp. 62-67. Cfr. G.C. Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d'uno dei Mille [1891], in Memorialisti dell'Ottocento, a cura di G. Trombatore, Napoli, Ricciardi, 1953, tomo
1, pp.
761-763. A. Asor Rosa, L’epopea tragica di un popolo non guerriero, in Storia d'Italia, Annali 18, Guerra e Pace, cit., p. 853; e, con poche varianti significative rispetto a Asor Rosa,
L. Riall, Eroi maschili, virilità e forme della guerra, in Storia d'Italia, Annali 22, Il
Risorgimento, cit., pp. 263-264. Cfr. Le memorie di Garibaldi [redazione 1872], in Edizione Nazionale degli Scritti, Bologna, L. Cappelli, 1932, p. 376.
Ivi, p. 416. Guerzoni, Garibaldi, cit., vol. II, p. 66; lo stesso topos in G.A. Barrili, Con Garibaldi alle porte di Roma, in Memorialisti dell’Ottocento, cit., vol. II, p. 112. G. Bandi, /Mille, a cura di L. Russo, Messina-Firenze, G. D'Anna, 1960, pp. 313 e 318;
cfr. Ginsborg, Romanticismo e Risorgimento, cit. Guerzoni, Ivi, vol. I, Abba, Da Ivi, vol. I,
Garibaldi, cit., vol. II, p. 70. p. 1089. Quarto al Volturno, cit., vol. I, p. 813. p. 811.
Banti, La nazione del Risorgimento, cit., p. 57. Cfr. In generale Garibaldi e il suo mito, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1984; A. Lyttelton, Creating a National past: history, myth and image in the Risorgimento, in Making and Remaking Italy. The cultivation ofnational identity around the Risorgiment, a cura di AR. Ascoli - K. Von Henneberg - O. Berg, Oxford, Oxford U.P., 2001, pp. 25-54. G. Bertoldi, A/ colonnello Giuseppe Garibaldi ed alla Legione Italiana in Montevideo, in Macchioni Jodi, I/ mito garibaldino, cit., 1973, p. 30. 28
G. Adamoli, Da San Martino a Mentana.
Ricordi di un volontario, Milano, Treves,
TSOZNPAZ0] O. Calabrese, Garibaldi.
Tra Ivanhoe e Sandokan,
Milano, Electa, 1982, pp. 98 sgg,;
cfr. inoltre Isnenghi, / due volti dell'eroe, cit., pp. 265-300. FE. Zamboni, Ricordi del battaglione universitario romano (1848-1849), Trieste, Parnaso, 1926, p. 16.
Adamoli, Da San Martino, cit., pp. 383-384.
C. Arrighi, [Carlo Righetti], / misteri della Compagnia delle Indie, in da Cronaca grigia», 28 agosto 1864.
Note
225
3 E. Dall’Ongaro, Stornelli poemetti e poesie, Treviso, L. Zoppelli, 1913; cfr. la trasposizione letteraria della leggenda popolare in L. Capuana, Garibaldi. Leggenda drammatica in tre atti [1861], ora in Id., Semiritmi, Napoli, Guida, 1988, pp. 129-151; cfr.
N. Puccioni, Garibaldi nei canti dei poeti suoi contemporanei e del popolo italiano, Bologna, Zanichelli, 1912. *" Poeti minori dell'Ottocento,
a cura
di L. Baldacci - G. Innamorati,
Milano-Napoli,
Ricciardi, 1963, vol. I, pp. 1102-1104. © C. Di Mino, // Risorgimento italiano nei canti del popolo siciliano, in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», IX (1935), p. 13. Questi documenti recano anche tracce di un atteggiamento esplicitamente antimilitarista, in proposito cfr. G. Oliva, Esercito,
paese e movimento operaio. L’antimilitarismo dal 1861 all’età giolittiana, Milano, Angeli, 1986, pp. 29-41. Ma non tutte le testimonianze ivi riportate sono da riferire
all’antimilitarismo. 36
G. Pitré, Cartelli, pasquinate, canti del popolo siciliano, Palermo, A. Reber, 1913, p. 7%,
#7 P. Mencacci, La mano di Dio nell'ultima invasione contro Roma. Memorie storiche per Paolo Mencacci romano, Roma, Salviucci, 1868-69. 3. Ivi, vol. II. p. 302. Cfr. L. Riall, Garibaldi, l'invenzione di un eroe, Roma-Bari, Laterza, 2007, Inoltre C. Brezzi, La “mano di Dio”a Mentana, in Garibaldi condottiero, Storia,
teoria, prassi, a cura di F. Mazzonis, Milano, Angeli, 1984, pp. 425 sgg. Circolarono all’epoca anche delle specie di santini che ritraevano sacre are in piena regola con una completa iconografia degli strumenti che avevano permesso l'assunzione del guerriero tra gli immortali, fucili e bombarde prima di tutto: M. Ridolfi, Feste civili e religioni politiche nel “laboratorio” della nazione italiana (1860-1895), in Memoria
e Ricerca», 5 (1995), pp. 88-89 5° Cit. in G. Massobrio, Introduzione a L'Italia per Garibaldi, Milano, Sugarco, 1982, p. 12. ‘0 A. Vannucci, / martiri della libertà italiana dal 1794 al 1848 [1848] Milano, G. Prato Editore, 1887, vol. 2, p. 291.
STUDIA 2 Il ‘miracolo’ fu riportato una prima volta su «La voce di Mantova nel 1866, e poi fu riproposto in P. Giacometti, Come vennero salvate all'amore degli italiani — imperando ancora l’Austria — le spoglie sacre dei Martiri di Belfiore, Mantova, Tipografia Editoriale de «La voce di Mantova», 1930, pp. 6 e 27. Nell’introduzione si giustifica la devozione verso i martiri della nazione con questa argomentazione: come «da i sepolereti
dei Martiri Cristiani germogliò la Religione — della quale oggi indarno cerchereste le tradizioni nelle stragi di Perugia e nell’obolo di S. Pietro — [allo stesso modo] il sangue dei Martiri politici, dal 1821 al 1853 cementò l’opera del Risorgimento italiano». Sul tema cfr. G. Sartori Borotto, / martiri di Belfiore: carme, Padova — Verona, Fratelli Druker, 1904; P. Giacometti, / martiri di Belfiore: cronache patrie, Tipografia Eredi Segna, Mantova, 1890; F. Verdinois, / martiri di Belfiore, Società Editrice Partenopea,
Napoli, 1915. Per la traslazione avvenuta nel settembre del 1930, cfr. T. Urangia Tazzoli, La traslazione delle salme dei Martiri di Belfiore ed il museo mantovano del Risorgimento, in «Rassegna Storica del Risorgimento», XVII, n. 1 (1931), pp. 195-196. U. Corsini, Andreas Hofer e la guerra di liberazione tirolese del 1809 nella storiografia e nella pubblicistica italiana,
Roma,
Istituto per la Storia del Risorgimento
Italiano,
1984; G. Sessa, 1809. Andreas Hofer in cartolina/auf Ansichtskarten, Lavis, Arca, 2008. Cfr. S. Narduzzo, Crocetta del Montello e il Canapificio Veneto Antonini e Ceresa, Treviso, Grafiche Antiga, 1989, pp. 205-206. Ringrazio il mio studente Manuel Baù per avermi segnalato il caso. 5_Cfr. FE. Gasperetti, Appunti per l’Istoria. Onoranze funebri a Giuseppe Mazzini dal 10 marzo al 29 maggio 1872, Pisa, Stamperia Valenti 1872, pp. 5-6.
226
46
Il martire necessario
La maschera funeraria di Mazzini fa parte della collezione Mario e Paolo Guerrini ed è conservata nel Museo del Risorgimento di Ravenna. Cfr. 7radizione risorgimentale e collezionismo privato. Mostra antologica di cimeli e documenti dalle raccolte di Mario e Paolo Guerrini, Ravenna, Longo, 1987; S. Luzzatto, La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato 1872-1946, Milano, Rizzoli, 2001. Sul valore
della imbalsamazione dei personaggi politici e nel suo uso invalso in Francia in età rivoluzionaria, cfr. A. Corbin, Doleurs, souffrances et misère du corps, in De la Révolution à la Grande guerre, Histoire du corps, vol. 2, a cura di A. Corbin, Paris, Seuil,
2005. Ridolfi, Feste civili, cit., pp. 91 sgg. A. Labriola, Scritti vari, cit. in B. Croce, La letteratura della Nuova Italia, vol. II, Bari, Laterza, 1945, p. 40.
Cfr. il censimento dei monumenti
e lapidi garibaldine italiane, Massobrio, L'Italia
per Garibaldi, cit.; P.G. Franzosi, Garibaldi tra mito e storia nell'Italia umbertina e
giolittiana, in Garibaldi condottiero, cit., pp. 523-531. Ridolfi, Feste civili, cit., p. 95; cfr. U. Levra, Fare gli italiani. Memoria e celebrazione
del Risorgimento, Torino, Comitato di Torino dell'Istituto per la storia del Risorgimento
italiano, 1992; M. Baioni, Rituali in provincia. Feste
e commemorazioni
civili
a Ravenna (1861-1975), Ravenna, Longo, 2010. s
I. Porciani, La festa della nazione. Rappresentazione dello Stato e spazi sociali nell'Ttalia unita, Bologna, Il Mulino, 1997, p. 68; W. Barberis, Le armi del principe: la tradizione militare sabauda,
Torino,
Einaudi,
1988: Celebrare la nazione.
Grandi
anniversari e memorie pubbliche nella società contemporanea, a cura di M. BaioniF. Conti - M. Ridolfi, Cinisello Balsamo, Silvana, 2012. Cfr. M. Isnenghi, L'Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Milano, Mondadori, 1994. Cfr. Tabarrini, Diario, cit. in Porciani, La festa della nazione, cit. p. 79. A. Guiccioli, Diario di un conservatore,
cit. ivi, p. 81.
Cit. in Ridolfi, Feste civili, cit., p. 101. E. De Amicis, Cuore. Libro per ragazzi, Milano, Garzanti, 1963, p. 34. Sul tema dell’infanzia abbandonata, ma con poco rilievo alla situazione italiana, S. Polenghi, Fanciulli Soldati. La militarizzazione dell’infanzia abbandonata nell'Europa moderna, Roma, Carocci, 2003. ST
Gioacchino Toma 1836-1891, a cura di B. Mantura - N. Spinosa, Napoli, Electa, 1995; sul tema cfr. Mosse, Le guerre mondiali, cit., pp. 139-172.
58
C. Maltese, Storia dell’arte italiana: 1785-1943, Torino, Einaudi, 1969, p. 114.
Da rammentare Onorato Carlandi, Ippolito Caffi, Giovanni Fattori, Michele Todesco, Giuseppe Abbati, Adriano Cecioni, Federico Zandomeneghi. Cfr. M Pizzo, / pittori-
00
61
soldato dal Risorgimento alla prima Guerra mondiale, in Venezia fra arte e guerra 1866-1918. Opere di difesa, patrimonio culturale, artisti, fotografi, a cura di G. Rossini, Milano, Mazzotta, 2003, pp. 153-154. D. Sacchi, Intorno all’indole della letteratura italiana nel secolo XIX, ossia della letteratura civile, con un'appendice intorno alla poesia eroica, sacra e alle belle arti, Pavia, L. Landoni, 1830, pp. 150-151. P. Selvatico, Sull'educazione del pittore storico odierno italiano. Pensieri, Padova, Coi Tipi del Seminario 1842, p. 486 et passim. A. Alfani, Il carattere degli italiani, Firenze, Barbera, 1878, p. 251. A Venezia un monumento eretto in onore dell'esercito nel marzo del 1885 richiama direttamente l’idea del soldato soccorritore dei bisognosi ricordando la sua «opera utilissima» in occasione della terribile inondazione del 1882. Mostra «un robusto soldato in tenuta di fatica» mentre trasporta «una giovane donna» la quale «gli si avvinghia fortemente al collo con il suo bambino
(in «Ilustrazione
Italiana», XXII, 15, 12 aprile 1885, p.
Note
227
226). Cfr. Venezia Quarantotto. Episodi, luoghi e protagonisti di una rivoluzione 1848-49, Milano, Electa, 1998, pp. 199-202. G. Rochat - G. Massobrio, Breve storia dell'esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino,
Einaudi, 1978, p. 49. Cfr. G. Oliva, Storia dei carabinieri. Immagine e autorappresentazione dell'Arma (1814-1992), Milano, Leonardo, 1992. C. Mariani, 7/ Plutarco italiano, Milano, Treves 1869, p. 1.
C. Cattaneo, La nuova (1860), p. 122.
legge del pubblico insegnamento,
in «Il Politecnico», VII
F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 24-25.
G. Sacchi, Dio, la famiglia e la patria, Milano, Tipografia Arcivescovile Giacomo Agnelli, 1861. Giuseppe Sacchi era un intraprendente pedagogo di orientamento liberale. 69
E. De Amicis, La vita militare. Bozzetti, Milano, A. Barion, 1925, p. 211. Cfr. inoltre P. Del Negro, De Amicis versus Tarchetti. Letteratura e militari al tramonto del Risor-
gimento, in Id., Esercito, Stato, Società. Saggi di storia militare, Bologna, Cappelli, 1979, pp. 125 sgg.: per l’opera di mediazione della cultura militare in ambito popolare, cfr. Isnenghi, Ze guerre degli italiani, cit., p. 213 et passim. Cfr. De Amicis, I/ mutilato, in La vita militare, cit., pp. 124 sgg. I. Bencivenni, // libro completo per gli alunni e le alunne della 5° elementare, Torino, Tipografia G. Tarizzo e figlio, 1892, p. 19. G. De Castro, I libro del soldato italiano. Doveri e affetti del soldato italiano, Milano, Francesco Pagnoni, 1862, p. 124.
G. Tarra, Secondo libro delle letture graduate al fanciullo italiano, Milano, Giocondo
Messaggi Tipografo Editore, 1886, p. 54. Cfr. L. Capuana, Scurpiddu, Torino, G. B. Paravia, 1968. Mosse, L'immagine dell’uomo,
cit., p. 61 et passim;
C. Cantù, Sulla guerra,
in Id.,
Documenti alla storia universale, tomo II: Guerra. Legislazione. Religione. Filosofia, Torino, Unione Tipografico Editrice, 1863, p. 9.
Cfr. S. Soldani, L'alfabeto morale delle scuole per il popolo e il risorgimento della nazione, in Rileggere l’Ottocento: Risorgimento e nazione, a cura di M.L. Betri, Roma, Caroc-
ci, 2010; A. Scotto Di Luzio, L’appropriazione imperfetta: editori, biblioteche e libri per ragazzi durante ilfascismo, Bologna, Il Mulino, 1996; Oliva, Esercito, paese, cit. ? T. Castronovo, Pagine educative, Girgenti, Stamperia C. Formica, 1916, pp. 13-16. P. Thouar, Letture graduali. Grado primo, Firenze, F. Paggi, 1869, p. 121. De Castro, // libro del soldato, cit., p. 84.
a)
82
Abba, Uomini e soldati, cit., p. 9. Per uno sguardo allargato al panorama europeo sulla pedagogia della sofferenza e sulla educazione agli ideali virili legati al controllo di sé, cfr. Mosse, L'immagine dell’uomo, cit., pp. 25 Sg8. Una poesiola recitava: «È bello, è divino per l’uomo onorato/Morir per la patria; morir da soldato/Col ferro nel pugno, col foco nel cor (G. Banfi, Libro di lettura per gli alunni della 3a e 4a classe delle scuole rurali, Milano, FE. Pagnoni 1861, p. 37). Cfr. C. Carabba, Corrierino, Corrierone. La politica illustrata del Corriere della Sera, Rimini-Firenze, Guaraldi, 1976, pp. 50-51. Si veda ora Papadia, Di padre infiglio, cit. A. Alfani, In casa e fuor di casa. Libro di lettura proposto al popolo italiano [1880], Firenze, Barbera, 1883, pp. 251-252. C. Schiaparelli, Da Goito a Porta Pia (1848-1870). Quello che hanno fatto i nostri
soldati. Fatti e detti memorabili, Torino, I.N.B.S, 1858. ? G. Chiosso, Un catalogo scolastico di metà Ottocento. La tipografia Sebastiano Fran-
co, in Il libro per la scuola tra Sette e Ottocento, a cura di G. Chiosso, Brescia, La Scuola, 2000, pp. 109 sgg. Cfr. inoltre W. Fochesato, La guerra nei libri per ragazzi, Milano, Mondadori, 1996, in part. pp. 7-31.
228
Il martire necessario
80 J. Benicivenni, Grazia e Forza. Antologia della letteratura italiana per le scuole medie femminili di primo grado, vol. III (per la IM? classe), Milano-Palermo-Napoli, San-
dron, 1909, rispettivamente pp. 256-326 sgg. e p. 329. 87 ER. De Maria, Eroi e martiri. Racconti di storia patria per la terza classe elementare. Secondo iprogrammi ministeriali 29 gennaio 1905, Aci Reale-Aci San Antonio, 1905,
pp. 21-22.
8 J. Gooch, Army, State and Society in Italy. 1870-1915,
Houndmills,
Basingstoke,
Hampshire, MacMillan, 1989; P. Del Negro, L'esercito italiano da Napoleone a Vittorio
‘ Veneto: fattore d’identità nazionale? in La chioma della vittoria. Scritti sull'identità degli italiani, a cura di S. Bertelli, Firenze, Ponte alle Grazie, 1997, pp. 53 sgg. °C. Siciliani, [prefazione] a A. Vannucci, I martiri della libertà italiana, cit. Nell’epigrafe di apertura della prima scheda del primo volume, dedicata ai «primi martiri della libertà italiana nell’età moderna, i napoletani Emanuele de Deo, Vincenzo Vitaliani,
Vincenzo Galiani, si legge: «Dei tre l’atroce scempio/Segno d’onor poi fu,/E generoso esempio/Ad emula virtù» ( p. 1). 9 Ivi, vol. 1 p. 43. A proposito dei «ventiquattro furibondi» che uccisero Giovanni Andrea Serrao, il Vannuccci scrive: «trascinandolo nella strada, gli ruppero la persona di molte ferite, mentre egli, negli estremi momenti, sollevando la mano benediceva
gli empi carnefici. Poi gli recisero il capo, e infittolo sopra una picca lo portarono in trionfo per la città» (ivi, pp. 15 e 38). 2 Ivi, vol. 1, pp. 305, 334, 342, 350. CMIDIIVOVEZA
ARIVIAVO % Ivi, vol. Journal meland. Modern
925:
2A PPIIZINSSI=S32I 2, pp. 354 e 364. Cfr. L. Riall, Martyr cults in nineteentb-century Italy in of Modern History», 82 (2010), pp. 255-287; F. Conti, 7be Religion of the HoThe Cult of “Martyrs of Freedom” in Nineteentb-century Italy, in Journal of European History», vol. 12, 3 (2014), pp. 398-417.
9 Montebello fu completato nel 1906. La torre monumentale di San Martino, con le più
celebri battaglie patriottiche dipinte sulle pareti interne, fu inaugurata solo nel 1893. Cfr. B. Tobia, Unapatria per gli italiani. Spazi, itinerari, monumenti nell'Italia unita (1870-1900), Roma-Bari, Laterza, 1991.
% L'obelisco di Quarto è del 1861, quello di Villafranca del 1880, quello dedicato ai
martiri del ’49 a Palermo è del 1866. 97 M. Baioni, La “religione della patria”. Musei e istituti del culto risorgimentale (18841918), Treviso, Pagus, 1994, p. 62; Cfr. P. Del Negro, Da Marte a Clio. I musei militari italiani dalle origini alla Grande guerra, in Museo Storico Italiano della Grande guerra. Annali», 3 (1994), pp. 5-24. In particolare sulle reliquie garibaldine cfr. Mengozzi, Garibaldi taumaturgo, cit., pp. 72-81. * G. Tempia, Guida al visitatore del Tempio del Risorgimento Italiano, Torino, Petrini,
1884, p. 17. ” L. Corio, Il museo milanese del Risorgimento nazionale, in dl Risorgimento Italiano», 1 (1908), p. 11; su questi temi cfr. Baioni, La “religione della patria”, cit., pp. 82 sgg. 10 F. Sbardella, Antropologia delle reliquie. Un caso storico, Brescia, Morcelliana 2007, p. 157 sgg.
!©! Baioni, La “religione della patria”, cit., p. 62. 12 Cfr. G. De Manincor, Guida del Museo del Risorgimento trentino, Castello del Buon Consiglio di Trento, Trento, Grafiche A. Scottoni, 1930.
16 Il corpo di Daniele Manin, riportato in città il 22 marzo 1868 dalla Francia (in proposito si vedano le tele di Giambattista Dalla Libera sul solenne corteggio funebre dalla stazione a piazza San Marco), allarmò il Patriarcato che pretese che la sepoltura nella Basilica nel sarcofago del doge Bartolomeo Gradenigo fosse solo provvisoria. Dal 1875 un monumento
fu eretto in suo onore
in campo
san Paternian, per l'occasione
Note
229
rinominato Campo Manin; brevi cenni in proposito in Venezia Quarantotto, cit., pp.
192-197; Per gli artisti che si dedicarono ad immortalare l'episodio, cfr. Guida al Museo Civico e Raccolta Correr di Venezia, Venezia, Tipografia Emiliana, 1885.
1 Museo Correr e raccolta Correr in Venezia. Elenco degli oggetti esposti, Venezia, Stabilimento tipografico C. Ferrari, 1899. © Como. Museo Civico Storico Risorgimentale ‘G. Garibaldi’. Sezione Risorgimento. Testimonianze e Cimeli, a cura di M. Belloni Zecchinelli, Como, Tipografia C. Nani,
1963, pp. 83-124. 106
Comune di Mantova. Museo del Risorgimento. Catalogo, Mantova, Tipografia Alce,
1959. Il museo del Risorgimento cui si riferisce l'allestimento si trova allocato nelle sale del Capitano in Palazzo Ducale e corrisponde alla sistemazione curata da R. Giusti nel 1954. !07 Municipio di Genova. Ufficio di Belle Arti e Storia, Museo del Risorgimento. Catalogo compilato da A. Neri, Milano, Alfieri & Lacroix, 1915, in particolare pp. 401-432. 108 Autografi, Documenti storici e Cimeli riguardanti Garibaldi e il Risorgimento italiano raccolti da Giacomo Emilio Curàtulo. Catalogo, Roma, Tiber, 1917, in part. pp.
183-185. Tra gli oggetti elencati si annoverano: una candela fabbricata da Garibaldi nel 1850 alle Staten Islands, una ciotola in legno da dove egli beveva il matbe che era la sua bevanda preferita, alcuni peli della barba e dei capelli tagliati negli ultimi mesi di vita a Caprera, il berretto, gli speroni, quattro sigari, uno dei quali fumato a metà e, tra le molte fotografie, quella della sua mano destra eseguita nel 1867, pezze di tela macchiate del sangue di Garibaldi che servirono ad asciugare la ferita riportata dall’eroe nell'agosto del 1862 in Aspromonte, una stampella usata dopo la ferita, una palla di fucile che nel 1849, durante il combattimento di Velletri, colpì Garibaldi nella placca metallica del cinturino, rimanendovi schiacciata, una sciabola usata nel 1859 e 1860, una spada d’onore dono dei cittadini di Newcastle nel 1854, un frustino di
cuoio usato nel 1867. !© In proposito si veda il Catalogo della Esposizione romana per la storia del Risorgimento politico italiano, Roma, Tipografia Nazionale, 1884, pp. 173-176. Qui, sotto la voce «oggetti diversi» si annoverano
la mano
imbalsamata di una giovane donna
colpita da mitraglia nell’assedio di Roma del 1849, la borraccia con cui il generale Garibaldi si dissetò presso la porta del castello di Monterotondo la sera del 3 novembre 1867 dopo il combattimento di Mentana, una borsa d’ambulanza raccolta sul campo di Mentana la sera del 4 novembre
1867, un’urna rossa, la camicia che indos-
sava l'ufficiale Paolo Narducci, quando fu ferito mortalmente nella difesa di Roma del 1849, una collana con medaglia recante la iscrizione «Maria Concetta senza peccato pregate per noi che ricorriamo a voi» tolta dal collo del cadavere di Andrea Aghiar, moro di Garibaldi, nella chiesa di santa Maria della Scala il 30 giugno 1849; una ciocca di capelli tolta dalla salma di Goffredo Mameli, quando fu esumata nel 1872, un brandello di tunica di Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, ritrovato nell’esumazione fattane nel 1867 in Ca’ Tiepolo. Oltre a queste varie altre reliquie dei soldati dell’8° reggimento di fanteria rimasti vittime dei briganti nel 1882; e poi la calza e lo stivale di Garibaldi quando fu ferito in Aspromonte. 110 Museo nazionale del Risorgimento Italiano. Catalogo Guida, Torino, Tipografia Ernesto Schioppo, 1911, p. 190 e pp. X-XI dell’Introduzione. tl scuola d'applicazione difanteria, Museo del Risorgimento. Catalogo del materiale, Parma, Officina Fresching, 1931. In particolare nella Sala A: epopea garibaldina, pp. 1-27 e anche pp. 61-129, si elencano, oltre alla maschera mortuaria di Cavour, vari cimeli di Garibaldi come il mantello che portava nella spedizione dei Mille, varie foto autografate, alcune camicie, una ciocca di capelli con fiori raccolti sulla tomba della madre dell’eroe, un pezzo di pietra della sua casa di Nizza, quattro pezzi di roccia della tomba, dei fiori e foglie raccolte a Monterotondo, a Mentana e a Caprera. Un
230
Il martire necessario
cappello con una lettera che spiega che i cappellai di Parma, in cambio di quello che il generale regalò loro, vollero offrirgliene uno nuovo. !l? Così Alessandro Luzio, cit. in Baioni, La ‘religione della patria”, cit., p. 65. !31.U. Tarchetti, Una nobile follia. Drammi della vita militare, Milano, Sonzogno 1910, p. 113; Cfr. Oliva, Esercito, paese, cit.
!l Cfr. G. Pescosolido, 77 dibattito coloniale nella stampa italiana e la battaglia di Adua, in «Storia Contemporanea», 4 (1973), pp. 675-711; Id., Assab nella stampa italiana dal 1882 al 1885, in Nuovi Annali della Facoltà di Magistero dell’Università di Messina»,
1 (1983), pp. 523-544. 15 Il tema della modernità degli apparati militari era vivo anche all’estero, basti pensare al successo editoriale di un’opera come The Future of war and its tecnical economic and political relations di Jean De Bloch (1836-1902). 16 Per uno sguardo generale indispensabili N. Labanca, Discorsi coloniali in uniforme militare, da Assab via Adua verso Tripoli, in Storia d'Italia, Annali 18, Guerra e
pace, cit., pp. 505 sgg.; Id., In marcia verso Adua, Torino, Einaudi, 1993; L. Mangoni, L'interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1974, pp. 5-7; cfr. S. Patriarca, Italianità. La costruzione Roma-Bari, Laterza, 2010.
del carattere nazionale,
1! Labanca, In marcia verso Adua, cit., pp. 66-67. 1!8 M. Degl’Innocenti, // socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 61 et passim; cfr. R. Rainero, L'anticolonialismo italiano da Assab ad Adua,
Milano, Comunità, 1971. 119 R. Battaglia, La prima guerra d'Africa, Torino, Einaudi, 1958, p. 804. 120 Labanca, In marcia verso Adua, cit., pp. 364-365; cfr. M. Pieretti, Ribercussioni interne ai fatti di Sabati e Dogali dalle carte della Questura di Roma (gennaio-febbraio 1887), in Fonti e problemi della politica coloniale italiana, Roma, ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1996, vol. I, pp. 334 348. e! Una lettera di Giosuè Carducci sulle cose d'Africa, in «Corriere della Sera», 20-21 maggio
1887 [prima pagina]. Anche
in campo
europeo
si segnalarono
alcune ini-
ziative volte a favorire la pace: come non ricordare, per esempio, che Nicola II fu il promotore di due conferenze per la pace a l’Aia (1899 e 1907), e che in quegli stessi anni Nobel si stava muovendo per organizzare un premio per la pace. 122 «L'Illustrazione Italiana», XXII, 38 (22 settembre 1895), p. 182. Cfr. Tobia, Una patria per gli italiani, cit., pp. 143-148; Bertelli, Piazza Venezia. La creazione di uno spazio rituale per un nuovo Stato-nazione, in La chioma della vittoria, cit., pp. 170-187; Banti, La memoria degli eroi, in Storia d'Italia, Annali 22, Il Risorgimento, cit., pp. 659 sgg.; Id., Sublime madre nostra, cit., pp. 66-69. 123 «L'Illustrazione Italiana», XXII, 38 (22 settembre
1895), p. 178.
2 Labanca considera il fenomeno del tutto marginale e liquida tutti costoro come «cantori da ricorrenza» e «lirici degli anniversari», ‘n marcia verso Adua, cit., p. 392.
!5 E. Ximenes, L'Ilustrazione Italiana in Africa. La marcia su Adigrat (Cherseber, 6 maggio 1890), in Illustrazione Italiana», XXIII, 23 (7 giugno 1896), pp. 355 e 358. ‘© E. Spinola, / soldati non sono mangiapane a tradimento, in «La Caserma. Letture per i soldati», II, 9 (maggio 1887), p. 2. 127 N Dalla metà dell'Ottocento i militari cominciano a disporre di una certa variegata gam-
ma di riviste quali dl Corriere dell’esercito» (1868-1871), «L'esercito della domenica» (1886), «Il Novelliere militare illustrato» che successivamente muta in «Armi e lettere,
e «La caserma» (1886-1893). Su questi temi' cfr. N. Labanca, Una pedagogia militare
per l'Italia liberale. I primi giornali per il soldato, in «Rivista di Storia Contemporanea, XXVI, 4 (1988), pp. 546-577. 1:* Disciplina [editoriale], in «La Caserma. Letture per i soldati», IV, 12 (luglio 1889), p. 3.
Note
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1° L'Educazione del soldato, in «d’Italia militare e marina», I, 48 (21 luglio 1890), p. 1; inoltre cfr. E. Bozzi, La moralità nell'istruzione, in da Caserma. Letture per i soldati,
II, 5 (aprile 1887), pp. 13-14.
15°]. Hillman, Un terribile amore per la guerra, Milano, Adelphi, 2005, p. 133 et passim.
Ricorda Hillman che quando i Sudisti sconfitti si schierarono per l’ultima volta a Appomattox per la solenne resa finale, «nel deporre i loro fucili sulle cataste, li baciavano, dicevano loro addio, li chiamavano ‘mia moglie fedele» (ivi, p. 155). Su questi aspetti della sessualità sotto le armi, in particolare per la seconda guerra mondiale, cfr. P. Fussell, Tempo di guerra. Psicologia, emozioni e cultura nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 1991, pp. 139 sgg. «Corriere della Sera», 20-21 maggio 1887 [prima pagina. Corrispondenza da Padova]. 4° M. Bettini, // ritratto dell'amante, Torino, Einaudi, 1992, pp. 152 sgg.; cfr. W. Burkart, 131
La religione greca in epoca arcaica e classica, Milano, Jaca Book, 2003; Mosse, L’im-
magine dell’uomo, cit. passim. 133
O. Roux, La settimana di miele di un coscritto da Mickiewicz, tradotto da O. Roux,
in «La caserma. Letture per i soldati», INI, 14 (15 maggio 1888), p. 6. 154 Il dì dei morti (2 novembre 1888) [Editoriale], in «La Caserma. Letture per i soldati», II, 31 (5 novembre 1888), pp. 1-2.
!5 Giberna [pseud.], La guerra, in da Caserma. Letture per i soldati», II, 19 (luglio 1887), pp. 11-14. 150 La partenza dei soldati [editoriale] in da Caserma. Letture per i soldati», II, 31 (5 novembre 1887), p. 1. 157 «Per ogni nuova partenza, è stato un accorrere in migliaia, lungo le strade, che i nostri bravi soldati dovevano percorrere, un accorrere di migliaia di persone acclamanti, festanti, allegre e giulive, tutte. [...] Essi sono
passati ilari, animosi, sereni,
fidenti nelle proprie forze, nella loro volontà, nel loro animo, sono passati a testa alta, fieri della loro divisa bruna, color terreo, senza che si rivelasse sul loro volto e sulla loro fronte un pensiero di tristezza, un cruccio interni che li turbasse»: V. della
Sala, La partenza dei nostri soldati per l'Africa, in L'Illustrazione Italiana», XIV, 51 (4 dicembre 1887), p. 410. 15 [dispaccio: entusiasmo a Udine], in «Corriere della Sera», 6-7 marzo 1887, p. 2.
15° Cfr. Bozzi, La moralità nell’istruzione, cit., pp. 2-3. 1°C. Cognetti, A/ Fuoco, in dl Novelliere Militare Illustrato», I, 14 (luglio 1891), p. 173. lil Un reduce, Il soldato! (Pensieri), in da Caserma. Letture per i soldati», III, 26 (settem-
bre 1888), pp. 4-5. i pP. Bussa, Marcia d'Estate. Al signor Cesare Praga, Tenente nel 6° Reggimento Fanteria, in «La Caserma, Letture per i soldati», IV, 11 (giugno 1889). 13 D. Martinengo, Allievo macchinista. Se Scoppiasse la guerra!, in da Caserma. Letture militari bimestrali», VII, 11 (giugno 1892), pp. 10-12.
ti Scrive uno che si firma allievo sergente: «Sio potessi versar solo una stilla/Del sangue mio, per l’italo paese,/sarei superbo di me stesso e pago»: F. Vazzana, Alla patria. Cantica, in dl Novelliere Militare Illustrato», I, 19 (ottobre 1891), p. 236. 5 Cfr. Giberna [pseud.], Ala Carica/, in «La Caserma. Letture militari bimestrali», VII, 12 (luglio 1892), pp. 7-8; per un quadro generale di queste questioni cfr. A. Triulzi, La costruzione dell'immagine dell’Africa e degli africani nell'Italia coloniale, in Nel
nome della razza. Il razzismo nella storia d'Italia 1870-1945, a cura di A. Burgio, Bologna, Il Mulino, 1999; G. Tomasello, La letteratura coloniale italiana dalle avan-
guardie al fascismo, Palermo, Sellerio, 1984. 6 Per un confronto tra scrittura dei soldati e scrittura giornalistica cfr. quanto scrive
Edoardo Ximenes su Dogali in L’'Illustrazione Italiana», XIV, 11 (13 marzo 1887), p. 207.
7 Sul finire del marzo di quel fatidico 1887 il «Corriere della Sera» ripubblicò una let-
232
il martire necessario
tera, che era comparsa per la prima volta su «dL’Esercito Italiano» all’inizio del mese e immediatamente ristampata anche da «La Caserma, di un capitano di Artiglieria proveniente da Massaua con data 4 marzo 1887 sulle fasi della disfatta, sui feriti rimasti
sul campo, sui moribondi mutilati per spregio, dai soldati di Ras Alula, come se la esibita brutalità dei dettagli fosse di rinforzo alla verità della scrittura. L'originale, dal quale si trae la citazione, è su «La Caserma. Letture per i soldati», II, 9 (marzo 1887),
pp. 1-2. Furono infatti questi sminuzzati racconti a tenere alto l’onore dell’esercito così di frequente offuscato dall’onta della sconfitta, non a caso fu l’immane carneficina di Dogali a trovarsi specchiata in queste scritture. Dogali fu forse il primo grande evento bellico ad essere narrato anche ‘per lettera’. Cfr. in proposito quanto pubblicarono la «Tribun® e il «Corriere della Sera» il 13 febbraio 1887 in prima pagina, sotto un grande titolo: / combattimenti di Saati e di Dogali. I Rapporti degli ufficiali. Lettere da Massaua, per ‘chiarire’ il quadro degli eventi bellici. 148 Cfr. «La Caserma. Letture per i soldati», II, 8 (marzo 1887), pp. 14-15. "Torna a proposito questa immagine in Roux, La settimana, cit., p. 6. 150 / Garibaldini in Grecia, in d’Illustrazione Italiana», XXIV, 23 (6 giugno 1897), p. 365. Sulla spedizione cfr. G. Oliva, Mlusioni e disinganni del volontariato socialista: la legione ‘Cipriani’ nella guerra greco-turca del 1897, in Movimento Operaio e Socialista», 3 (1982), pp. 351 sgg.; sulla figura di Garibaldi reinterpretato alla luce delle contingenze storico-ideologiche, cfr. M. Isnenghi, Usi politici di Garibaldi dall’interventismo alfascismo, in «Rivista di Storia Contemporanea», XI, 4 (1982), pp. 513-522; Id., Garibaldi fu ferito. Storia e mito di un rivoluzionario disciplinato, Roma, Donzelli, 2007. >! FS. Stampa, Il combattimento all’arma bianca, in «La Caserma. Letture militari bime152
strali, VII, 13 (luglio 1892), pp. 8-9. Il volume era stato pubblicato a Milano da Treves; in proposito cfr. «dIlustrazione Italiana», XXV, 7 (13 febbraio 1898), p. 110.
!55G. Ferrero, Sensazioni di guerra,
in d'Illustrazione
Italiana», XXIII, 41 (11 ottobre
1896), pp. 251-254. 154 Cfr. Gibelli, L'officina della guerra, cit., pp. 122-163. 155 Ferrero, Sensazioni di guerra, cit., p. 251.
15° «Se il caso non lo porta ad assistere a una di quelle spaventevoli catastrofi — scrive il Ferrero — che di tempo in tempo succedono qua e là per il mondo, è difficile che un uomo dei nostri tempi abbia occasione di vedere molti cadaveri [...]. La morte è diventata
misteriosa,
silenziosa
e discreta, batte sommessamente
ad un uscio e
porta via delicatamente la vittima designata [...]. Ma ecco che nella guerra la morte v’infuria di nuovo, come nei tempi barbari, con una violenza inaudita di procella tra gli uomini — spettacolo terribile e nuovo ai cuori degli uomini del secolo XIX, che dovrebbe
commuoverli
e atterrirli; ma che invece per una bizzarria psicologica li
lascia tranquilli» (ivi, p. 252). 157 De Amicis, La vita, cit., p. 251.
«La maggioranza degli uomini civili è ancora, nonostante le apparenze, preparata di tutto punto a questa esistenza antica; è ancora intatta nel suo fondo di barbarie atavica. Quindi essa può facilmente imbarbarirsi per qualche mese sui campi di battaglia e ritornare poi tranquillamente in seno alla civiltà. Se di qualche cosa egli
può soffrire è del conflitto ideale tra queste due condizioni che può sorgere dopo il suo spirito. Ma per il momento
no: anzi per il momento, specialmente per uomini
di carattere un po’ avventurosi, i rischi e le fatiche della guerra possono finire per diventare una gradevole eccitazione morale, a cui si prende passione come alle emozioni del gioco. La guerra diventa un gioco, dove si rischia non del denaro, ma la vita» (Ferrero, Sensazioni di guerra, cit., p. 252).
TUO
NZOA
Note
233
160 M. Nani, L’immaginario razziale di un ufficiale della “Nuova Italia”: Nicola Morselli, in Nel nome della razza, cit., pp. 63 sgg. 1° G. Strafforello, Le battaglie per la vita e la scelta di una professione. Precetti, esempi ed aneddoti, cit. in Lanaro, // Plutarco italiano: l’istruzione del “popolo” dopo l’unità, in Storia d'Italia, Annali 4, Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi,
1981, p. 567. !62 Lettera di un giovane deputato sulla guerra, in «L'Illustrazione Italiana», XXIV, 17 (1716.
25 aprile 1897), p. 263. 3 E. Fiorentino, Il Canzoniere della prima età, Milano, Vallardi, 1926, p. 56 [erano can-
zoni già circolanti alla fine dell'Ottocento]. !G. De Simoni, Esempi storici di virtù morali e civili proposti alla gioventù italiana, Genova, Tipografia del Regio Istituto Sordo-Muti, 1876, pp. 16, 17. !9 Cfr. M. Foucault, La tecnologia politica degli individui, in Tecnologie del sé, a cura di L.H. Martin - H. Gutman - P.H. Hutton, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.
16 E. Perodi, Cuoricini d’oro. Letture educative per le scuole elementari maschili e femminili, Palermo, G. Biondo, 1906, p. 143. Tantissimi furono gli autori di libri per ragazzi che ripetevano il cliché animati da medesime logiche educative che elaborano espressioni del tipo: chi sopporta una febbre quando è piccolo saprà un giorno «esporre il suo petto «alle nemiche mitraglie» (I. Baccini, Manfredo. Libro di lettura e di poesia, Milano, Libreria Editrice P. Carrara, 1884, et passim). 197 In quegli anni i curatori dei musei del Risorgimento riorganizzarono gli spazi espositivi per accogliere i nuovi cimeli delle guerre africane: cfr. Como. Museo Civico Storico Risorgimentale, cit., pp. 125-127. 168 Cit. in M. Biancale, Michele Cammarano. ma, Arti Grafiche Bertarelli, 1936, p. 84.
Cento tavole e una tricromia, Milano-Ro-
169-Tvi, p. 90. 170 M.T. Sega, M. Magotti, L'immagine coloniale nella stampa illustrata del bel paese:
1882-1913, in Rivista di Storia e Critica della Fotografia, 5 (1983), p. 3 et passim; N. Della Volpe, Fotografie militari, Roma, Presso Stato Maggiore dell’Esercito, Ufficio Storico, p. 23. 7! Cfr. N. Labanca, Uno sguardo coloniale. Immagine e propaganda nelle fotografie e nelle illustrazioni del primo colonialismo italiano (1882-1896), in «AFT», IV, 8 (1988),
p. 44 et passim; Triulzi, La costruzione dell'immagine dell’Africa, cit., p. 172; cfr. A. Angrisani, Immagini dalla guerra di Libia. Album africano, a cura di N. Labanca - L. Tomassini, Manduria, Lacaita, 1997.
!7? Dimostrazione di simpatia ai reparti di ritorno dall'Africa, in 4a Caserma. Letture per i soldati, III, 13 (maggio 1888), p. 7. 13 L'arrivo dei feriti d’Africa a Napoli. Lo sbarco, in «Corriere della Sera», 23-24 febbraio 1887 [prima pagina]. 4 T. Ubertis Gray, J/ libro de li eroi, Torino, 6 dicembre
1895.
5 B. Anzalone, Elogio Funebre ai soldati italiani caduti in Africa nella giornata 7 dicembre 1895 in Amba Alagi, recitato il 18 gennaio 1896 nel duomo di Termini Imerese, nei solenni funebri onori a cura degli Ufficiali in congedo, Termini Imerese, Tipografia Fratelli Amore, 1896, pp. 12-13. Del tutto simili le espressioni usate per l’olocausto di Dogali negli opuscoli funebri sull’episodio: cfr. E. Nastasini, Parole pronunciate nella chiesa collegiata di Sant'Agata Feltria il giorno 17 marzo 1887, giorno consacrato alle funebri onoranze pei valorosi soldati italiani caduti vittime del proprio dovere in Dogali, s.l., Tipografia Battistini, 1887. 176 L’Illustrazione Italiana», XXII, 52 (29 dicembre 1895), p. 415. 177 Labanca, Discorsi coloniali, cit., pp. 533-534.
178 Ivi, pp. 506 sgg. 179 E. Ximenes, Sul campo di Adua. Diario marzo giugno 1896, Milano, Treves, 1897, p. 262.
234
Il martire necessario
180 A. Oriani, Gli eroi, gli eventi, le idee, Bologna, Cappelli 1940, p. 149 [lo scritto è del 21 settembre 1906, fu pubblicato con il titolo L'appello in A. Oriani, La rivolta ideale, Napoli, Ricciardi, 1908]. !81 Oriani, La rivolta ideale, cit., p. 265.
18° Cfr. Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 97-98. !85 Cfr. G.L. Mosse, Futurismo e culture politiche in Europa: una prospettiva globale, in Futurismo e cultura politica, a cura di R. De Felice, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1988, pp. 13-31; E. Gentile, // mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1982, pp. 5-7. 184 Ivi, p. 8; ed inoltre cfr. Gaeta, I/ nazionalismo, cit. passim.
!8 Guglielmo Ferrero aveva previsto che questa nuova «vita moderna» che si andava prospettando per l’Italia sarebbe stata foriera di sofferenze e di guerre: G. Ferrero, L'Europa giovane. Studi e viaggi nei paesi del Nord; Bismarkismo e socialismo; l’amore nella civiltà latina e germanica; Londra; Mosca; l’antisemitismo; la lotta di due razze e di due ideali; la società dell’avvenire, Milano, Treves, 1897.
186 Gentile, // mito dello Stato nuovo, cit., pp. 10-11 e 15. Cfr. M. Nordau, Degenerazione [1892], Milano, Fratelli Dumolard, 1893. 187 Scritti politici di Gabriele D'Annunzio,
a cura di P. Alatri, Milano, Feltrinelli, 1980,
le citazioni sono tratte dalla sezione L’esaltazione della bellezza e del superuomo [Le vergini delle rocce |, p. 101. 1# Tali scritti furono poi da Corradini accolti nel volume L'ora di Tripoli, Milano, Treves, IGIHL
18 La disfatta di Caporetto modificò poi in parte queste posizioni; Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 135-140. 19° G. Sorel, Considerazioni sulla violenza, con una introduzione di Benedetto Croce, Bari, Laterza, 1909; su questo le osservazioni di Isnenghi, /7 mito della Grande guer-
ra, cit., p. 34. 121 E la sua influenza aumentò dopo che, su invito del direttore Mario Missiroli, divenne
assiduo collaboratore del «Resto del Carlino». 192 Sorel, Apologia della violenza, in Matin», (18 maggio 1908), ora in Id., Considerazio-
ni sulla violenza, cit., pp. 363 e 364. Sorel fu l’ispiratiore anche di Luigi Goglia che su «Pagine Libere» incitava le masse all’azione violenta ed eroica quale strumento, tra gli altri, per la produzione della bellezza. I sindacalisti rivoluzionari non seguiranno però del tutto Sorel e nemmeno Marinetti sulla strada delle avventure belliche coloniali, tuttavia all’interno del movimento operaio italiano rimasero assi diffuse rivendicazioni di ‘spirito futurista’. W. Gianinazzi, Intellettuali in bilico: “Pagine Libere” e sindacalisti rivoluzionari prima del fascismo, Milano, Unicopli, 1996, pp. 170-172. Per la citazione del Goglia (tratta da La bellezza della violenza, in Pagine Libere», 1 febbraio 1911, pp. 152-153), cfr. ivî, p. 172. 13 In questo contesto una personalità come Ernesto Teodoro Moneta, che pure proprio nel 1907 ebbe il Nobel per la pace, non poteva trovare ormai un vero e convinto ascolto. Cfr. M. Combi, Ernesto Teodoro Moneta premio nobel per la pace 1907, Milano, Mursia, 1968; ed inoltre cfr. E.T. Moneta, Le guerre, le insurrezioni e la pace nel secolo decimo nono, Milano, Società Tipografica Editrice popolare, 1903. !% In Italia nel 1897 era apparsa la traduzione de L'unico di Stirner. Mario Morasso era redattore de «La Gazzetta di Venezia, e fondatore del periodico «Motori, Aero, Cicli & Sporb. Tra i suoi titoli: Uomini e idee del domani. L'egoarchia (Torino, Bocca, 1898);
L'imperialismo artistico (Torino, Bocca, 1903); L’imperialismo del secolo XIX. La conquista del mondo (Milano, Treves, 1905). ! Cfr. Gaeta, Il nazionalismo italiano, cit., p. 98; basti ricordare La grande proletaria si è mossa di Giovanni Pascoli del 1911. °°M. Morasso cit. in Gaeta, // nazionalismo italiano, cit., p. 99; cfr. G. Are, La scoperta
Note
235
dell’Imperialismo. Il dibattito sulla cultura italiana del primo Novecento, Roma, Edizioni Lavoro, 1985, pp. 87-93; Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 108-112.
!97 Gentile, I/ futurismo e la politica. Dal nazionalismo modernista al fascismo (19091920), in Futurismo e cultura politica, cit., p. 107. Com'era accaduto in Germania dal primo decennio dell’Ottocento dove vari poeti si erano specializzati sul tema della Lira e della spada che era stato il titolo di una raccolta di versi di Theodor Kérner del 1814, musicati da Carl Maria von Weber; cfr. M. Menges, Idea di patria e coscienza di popolo nelle poesie di guerra dal 1817 al 1914, in Ideologia della guerra. Temi e ‘problemi, a cura di E. Masini, Napoli, Bibliopolis, 1987, pp. 47 sgg.; Anche in Italia si
affermarono definitivamente i cantori del sangue e delle armi. Sulle differenti varietà di nazionalismo, cfr. Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 83-85.
!°5 Il Così parlò Zarathustra era stato pubblicato nel 1899; Mafarka ilfuturista nel 1910 dalle Edizioni Futuriste di Poesia, e in contemporanea in francese. 19 Cfr. D.M. Fazio, Il caso Nietzsche: la cultura italiana di fronte a Nietzsche, 17821940, Milano, Marzorati, 1988. 2° Gentile, Il futurismo e la politica, cit., p. 107. 20 Prezzolini definì «dl Regno» «antimassonico, antidemocratico, antisocialista; rivendicò
il valore della guerra, della conquista coloniale, della lotta sociale; combatté gli umanitari, i pacifisti e i concordisti sociali» (G. Prezzolini, Prefazione [datata aprile 1914] a Giovanni Papini, Un programma nazionalista, in G. Papini - G. Prezzolini, Vecchio e nuovo nazionalismo, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1914, p. ID. 202 ET. Marinetti, Guerra sola igiene del mondo, Milano, Edizioni Futuriste di Poesia,
1915, pp. 153-154 [il testo era stato pubblicato la prima volta a Parigi nel 1910). 20 Cfr. Jacerba», I, 20 (1913). Non tutti i lacerbiani furono sulle stesse posizioni e con-
divisero in egual misura e con i medesimi toni sulla guerra, non per esempio Aldo Palazzeschi e nemmeno il patriottico Jahier. 2 G. Papini, La vita non è sacra, in acerba,
15 ottobre 1913, p. 45.
20 In U. Boccioni, Opere Complete, Foligno, Campitelli, 1927, p. 8.
2% Cfr. Esposito, Bîos, cit., in part. pp. 6-10. 20? Grande serata futurista, in acerba», 15 dicembre 2 Huizinga, Homo ludens, cit., p. 137.
1913, p. 2.
29 ET. Marinetti, Fondazione e Manifesto del futurismo, in I manifesti del futurismo, Firenze, Edizioni di «Lacerba» 1914, pp. 3, 6. 210 E. Raimondi, // testimone come attore, in F. T. Marinetti, Taccuini (1915-1921), a cura
di A. Bertoni, Bologna, Il Mulino, 1987, p. XLVII. 211 Cfr. Il testo del Manifesto del Partito Futurista Italiano, scritto da Marinetti in d'Italia Futurista», II., 39 (11 febbraio (1918). 212 ET Marinetti, Donne, dovete preferire i gloriosi mutilati, in L'Italia Futurista», I, 2 (15
giugno 1916), p. 1. V. de Saint-Point [pseud.] Manifesto futurista della Lussuria (Gennaio 1913), in.I manifesti del futurismo, cit., pp. 119 e 122.; cfr. J.-P. Morel, Valentine, Eva futura, Lilith rediviva [postfazione], in V. de Saint-Point, Manifesto della donna futurista seguito da Manifesto della Lussuria, Amore e Lussuria. Il teatro della Donna. Il mio esordio coreografico. La Metacorìa, Genova, Il Melangolo, 2006, pp. 71-80. 21 G. Papini, Amiamo la guerra!, in dacerba», II, 20 (1 dicembre 1914), pp. 274-275. 2 E. Corradini, Stato liberale e Stato nazionale, discorso tenuto a Roma il 14 febbraio ‘14, ora in Id., Il nazionalismo italiano, Milano, Treves 1914, p. 123.
215 Baioni, La “religione della patria”, cit., pp. 162-163. 216C. Carrà, Guerrapittura, Milano, Edizioni futuriste di ‘poesia’, 1915, p. 103. 27 E. Corradini, La vita estetica [ 1903], in Id., Scritti e discorsi (1901-1914), a cura di L. Strappini, Torino, Finaudi, 1980, pp. 64-65. 218 Cfr. I. Pizzetti, / canti di guerra del popolo italiano, in «La Lettura», XV, 9 (settembre
195) APAZIO!
236
Il martire necessario
219 Le corrispondenze per «La Stampa» primavera-autunno 1911 si possono leggere nella raccolta di G. Bevione, Come siamo andati a Tripoli, Torino, Bocca, 1912 (il volume
è dedicato a Giolitti). 220 Cit. in M. Pincherle, La preparazione dell'opinione pubblica all'impresa di Libia, in
«Rassegna storica del Risorgimento», LVI, 3 (1969), pp. 452 e 453. 22! Cfr. P. Giordani, Sui campi d'Africa. A Tripoli e a Bengasi, Roma, Tipografia Editrice Nazionale, 1912.
222 Altrettanto fecero le testate napoletane: «Il Mattino» e il «Rom. Furono filo interventiste anche la «Rassegna Nazionale» (di orientamento cattolico conservatore con sede a Firenze) e «La Nuova Antologia». Cfr. FE Malgeri, La guerra libica (1911-1912), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1970, pp. 60 sgg. Per uno sguardo generale cfr. A. Del Boca, Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d'amore 1860-1922,
Roma-Bari,
Laterza,
1986. 225 L. Del Fra, Sciara Sciat. Genocidio nell’oasi. L'esercito italiano a Tripoli, Roma, Datanews, 1995, p. 16; Pincherle, La preparazione, cit.; Galasso, Gli intellettuali, cit., pp. 22-23; Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 73-78.; G. Belardelli, IZ mito della “nuova
Italia”: Gioacchino Volpe tra guerra e fascismo, Roma, Lavoro, 1988, pp. 19 sgg. 22 G. Mosca, Italia e Libia. Considerazioni politiche, Milano, Treves, 1912, p. 2; Malgeri,
La guerra libica, cit., p. 64; Del Fra, Sciara Sciat, cit., pp. 17 sgg. Un quadro dei pro e dei contro della conquista anche dal punto di vista dello sfruttamento delle ricchezze libiche è in Mosca, Italia e Libia, cit., pp. 15-37. 25 A. Chierici, A Tripoli d'Italia. Diario di un corrispondente di guerra, Pistoia, Stabili mento Grafico O. Simonti, 1912, vol. I, p. 200. 26 R. Paoli, Tripoli nostra, in «Rivista Coloniale», 6 (1911), p. 6. 227 $. Sighele, Risveglio italico, in Id., Ultime pagine nazionaliste, Milano, Treves, 1912, pp. 27-50. 228 L’'Illustrazione Italiana», XXII, 51 (22 dicembre 1895), p. 390.
22 D’Orsi, / chierici alla guerra, cit., pp. 103-104. Cfr. inoltre Malgeri, La guerra libica, cit., passim. 2 Ivi, p. 48; G. Bordoni, Il valore Italiano. Sciara-Sciat ed Henni, Milano, Bietti, 1912,
PPS: 21 A. Colombo, Prefazione, [al Il Museo del Risorgimento, cit., pp. X e XII. 2 B. Amante, Lo Stadio Nazionale nel Circo Massimo. Progetto per le feste giubilari di Roma nella 50° ricorrenza della proclamata Unità d’Italia, Roma, Tip. dell’Unione
Coop. Editrice, 1908, pp. 59-61. 25 Iniziò Palermo dove nella primavera del 1910 fu inaugurato il monumento alla Libertà. 2 Per le cit. cfr. Malgeri, La guerra libica, cit., pp. 48-49. 25 E.M. Gray, La bella guerra. Con 30fotografie dell'autore, Firenze, Bemporad, 1912, pp. 910. 25° Cfr. IL Catalogo dei cimeli della guerra d'Africa 1896 accorpato al Museo del Risorgimento di Milano, in G. Bologna, Musei del Risorgimento e di Storia Contemporanea, Milano, Electa, 1975, p. 77.
27 2 2 2° ?!!
Cfr. Baioni, La “religione della patria”, cit., pp. 153-154. Pincherle, La preparazione, cit., p. 451. Del Fra, Sciara Sciat, cit., p. 21. Cfr. Chierici, A Tripoli, cit., p. 45. Cfr. M. Rovinello, Disegnare la naja. Rappresentazioni della leva in Italia fra nationbuilding e antimilitarismo (1861-1914), in Memoria
e Ricerca», 44 (2013), n.s.
della Volpe, Grande guerra e propaganda, cit., p. 20. 25S. Bono, Morire per questi deserti. Lettere di soldati italiani dal fronte libico 1911242
1912, Catanzaro, Abramo,
1992, p. 14; Id., Lettere dal fronte libico (1911-1912),
in
Note
237
«Nuova Antologia», 513 (1971), pp. 528-540. B. Bacci, La guerra libica descritta nelle lettere dei combattenti, Firenze, Bemporad, 1912, p. VIII. Solo con l'emergere di espressioni troppo realistiche o disinvolte, o anche all’affiorare di critiche velate all’operato dei comandanti sul campo, agli Stati Maggiori si pose l’esigenza di mettere un
freno a quei canali informativi. Cfr. Angrisani, Immagini della guerra, cit. 2" Sema, ‘Cose piccole’, cit., p. 41. L’opera di Ricci cui ci si riferisce è Introduzione allo studio dell’arte militare, Torino, 1863. Cfr. anche N. Marselli, La guerra e la sua storia, Milano, Treves, 1881.
°° Cfr. P. Dogliani, La “scuola delle reclute”. L'Imternazionale giovanile socialista dalla fine dell'Ottocento alla prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 1983; M. Isnenghi,
Giornali di trincea (1915-1918), Torino, Einaudi, 1977, p. 34; Labanca,
Una pedago-
gia, cit., p. 568. %‘°La prima delle quali tenuta dal cardinale Pietro Maffi di Pisa nell'ottobre del 1911. Non tutti i vescovi furono ugualmente inclini al sostegno all’esercito dello Stato italiano, ma furono comunque stampati diversi libretti di devozione ad uso militare, tra
i più noti: G. Morando, Manuale del soldato cattolico con istruzioni, consigli, esercizi di pietà, Roma, Vera Roma Fditrice, 1904.
27 G. Balestrieri, OFM, Ai caduti di Tripoli e Cirenaica Il saluto della religione, della patria e della pietà. Discorso letto nella madre chiesa di S. Giuseppe Iato l’11 Dicembre 1911 nei solenni funerali celebrati a cura e spese del Municipio, Palermo, Tipografia G. Tringali, 1912, pp. 4-5. 28 C. Menio, Dal mio diario di guerra, in dl giornale del soldato», 7 (18 febbraio 1912), p. 59; cfr. C. Massaruti, Manuale del soldato, Roma, Presso il Collegio Americano, ISEde
2° I. Petrone, La piccola morale della pace e la grande morale della guerra e dell’effusione del sangue. Memoria letta alla R. Accademia di Scienze Morali e Politiche della Società Reale di Napoli, Napoli, E.Sangiovanni & figlio, 1911, pp.9 e 17-18. 250 [titolo e occhiello di prima pagina] in «Il giornale del soldato», 41 (8 ottobre 1911),
pp. 462 e 467. Persino le madri dei soldati spronavano all’impresa bellica. // contributo delle donne italiane è la vita dei loro figli [Lettera al tenente degli alpini Alfredo Balzarini dalla mamma
Lina (Treviso 2 novembre
1911)], ivi, 50 (10 dicembre
p. 597. 2! [titolo di prima pagina] Una partenza, ivi, pp. 598-599. 22 R. Serra, Partenza, ora in Id., Scritti morali e politici, 1915, a cura di M. Isnenghi, Torino, Finaudi, 1974, pp. del 1912. Fu pubblicata su «da Stampa per la prima volta nel 1927. 253 Il primo scaglione delle truppe a Tripoli. Lo sbarco, in dl ottobre 1911), p. 477.
1911),
saggi e articoli dal 1900 al 279, 280-283, 284. L’opera è nel 1923 e poi su «I Baretti»
giornale del soldato», 42 (15
24 G. Castellini, Nelle trincee di Tripoli, Bologna, Zanichelli, 1912, p. 40.
255 Sighele, Ultime pagine nazionaliste, cit., p. 32. 256 La Battaglia di Bengasi nelle pagine de «Il giornale del soldato» fu narrata come fosse un esemplare racconto di ‘guerra garibaldina’: La battaglia di Bengasi, in dl giornale del soldato», 44 (29 ottobre 1911), p. 503. 27 Cfr. E. Guerrieri, Lettere dalla trincea (Libia, Carso, Trentino, Macedonia). Ordinate
ed annotate da E. Guerrieri, Vallagarina (Trento), Arti Grafiche R. Manfrini, 1969, in
part. pp. 25-67, la cit. è a p. 38. 258 Ivi, pp. 29-30 et passim. 259E. Bastico, Serenella [fa parte della collana de / racconti della spada) in «Il Giornale del Soldato», 50 (18 dicembre 1911), p. 463. 20Tna poesia sul beneficio del sangue versato, di evidente
intonazione
religiosa, fu
anche pubblicata con il titolo Comunione Pasquale, Tripolitania Cirenaica, 1912: «O
238
I{ martire necessario
ridenti colline, o verdi prati,/campi di messi scintillanti al sole,/quanto sangue in quel dì v’ha fecondati!/Raccontateci voi dei mutilati/L’estrema angoscia e l’ultime parole;/voi, che del sangue loro foste bagnati: L. Bardi, La battaglia narrata dal 26
fante, in dl giornale del soldato», 48 (26 novembre 1911), p. 572. I genitori poi, per ragioni che rimangono ignote, spediscono la missiva a «Il giornale del soldato», che la pubblica come un racconto a lieto fine: Le lettere dei nostri soldati
[rubrica:], Lettera di Guglielmo Piccirilli ai genitori, in dl giornale del soldato», 45, (5 novembre 1911), p. 512.
2 Il 68° al fuoco, in «Il giornale del soldato», 51 (17 dicembre 1911), pp. 609-610. Il padre del soldato che ricevé la lettera era giudice di tribunale a Bobbio. 26 Lettera di Luigi Abbona al fratello Giacinto,
ivi, 5 (4 febbraio (1912), p. 42; cfr. in
proposito la raccolta di lettere di Guerrieri, Lettere dalla trincea, cit., in part. pp. 32SY 20 Il soldato Guglielmo Castagneri [addetto al parco automobilistico di Tripoli scrive alla famiglia], in «1 giornale del soldato», p. 33. 25 R.A. Censori, Per Tripoli!/, in da Piccola Tribuna. Quindicinale illustrato per ragazzi», II, 20 ( 15 ottobre — 1 novembre 1911), p. 2. 20 A. Faeti, Guardare le figure. Gli illustratori italiani dei libri per l'infanzia, Torino, Einaudi, 2001, p. 95.
%? Era questo il messaggio contenuto in un libro, uscito significativamente nel 1914, ormai a distanza di qualche anno dalla guerra libica, di Ildebrando Bencivenni, Ze strepitose avventure di Pistacchio alla guerra di Libia, Firenze, Salani, 1914, pp. 211ZA
208 A. Fraccaroli, Lettere di soldati [introduzione], in B. Chiara, Epistolario eroico. Lettere di combattenti.
Ottobre novembre
1911, vol. I, Lanciano,
Carabba,
1912, p. 37. AL
cune generali osservazioni sono in O. Bergamini, Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 46-50. 2° Fraccaroli, Lettere di soldati, cit., p. 38.
270 Ivi, pp. 37-38. 2! R. Simoni, / nostri soldati [introduzione], in B. Chiara, Epistolario Eroico, cit., pp. 30-
31; cfr. anche G. Gigli, Moderni Eroi. Il soldato italiano nella guerra Libica, Vicenza,
Rodondi, 1912 [si tratta perlopiù di una riedizione di alcune testimonianze già pubblicate in B. Chiara]. 7° Chiara, La scoperta del soldato [introduzione], in Id., Epistolario eroico, cit., vol. Il, pp. 15-17. 773Su questa questione della società come realtà oggettiva, cfr. P.L. Berger, Th. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino,
1969, pp. 73-178,
in particolare p. 92; G. Turnaturi, Immaginazione sociologica e immaginazione
let-
teraria, Roma Bari, Laterza, 2003, in particolare pp. 16-27. 7 L'anima dei nostri soldati, in In onore dei caduti e reduci della guerra di Libia, Legnago 22 settembre 1912. Numero Unico. Legnago, Tipografia E. Mercati, 1912, p. 2. 2° Simoni, / nostri soldati, cit., p. 31. #° Bacci, La guerra libica, cit., p. VI. 27 D. Santoro, Ai martiri di Sciara-Sciat, Sassari, pe’ tipi di Giuseppe Dessì, 1912. 78 Cannoniere Iginio Brunelli, di Licciana,
alla madre,
ivi, p. 15. F. Guerrieri, [Lettera
spedita ai genitori Da Derna, 19 novembre 1912], in Guerrieri, Lettere dalla trincea, cit., p. 51. Si noti che altrove ha accenti anche molto critici nei confronti della guerra. 27? Ivi, p. 149. * Ulderico Scarpini, del Servizio della Sanità Militare ai genitori, in Chiara, Epistolario eroico, cit., vol. II, p. 55. 2! Umberto Giovacchini del 2° granatieri, di Orentano, ad un amico, in Bacci, La guerra libica, cit., p. 51.
Note
239
°° Tenente Lorenzo Bucalossi, Massa Carrara, al padre, ivi, pp. 132-133. Giulio Giannoni dell’84° fanteria, di Lamporecchio, ai genitori a Firenze, ivi, p. 27. 5 G.C. Ferrari, Collodi, alla madre, ivi, p. 138. Onorato Corsi, blicato in «La Nazione», 27 novembre 1911, ivî, p. 28.
9 novembre 1911. Pub-
284
Soldato Settimo Galassini, fiorentino alfratello, ivi, pp. 162-163. Soldato Angiolo Ciardini di Fucecchio, al padre, ivi, p. 29. °° Giuseppe Sieroni fanteria 11° Compagnia, ai genitori, in Chiara, Epistolario eroico, 285
287
cit., vol. II, p. 78. S. Erogeni di Trescare Balneario,
a Carlo Campana da Tripoli il 5 novembre 1911. Pubblicata in «l’eco di Bergamo», 13-14 novembre 1911, p. 79. 8 Vincenzo Bovino da Bengasi, 4 novembre 1911, ai genitori, in Chiara, Epistolario eroico, cit., vol. II, p. 187.
°® Caporal maggiore Luigi Brini, del 2° granatieri, di Prato, al padre, in Bacci, La guerra libica, cit., pp. 48-49; Cfr. sullo scherno che prende a pretesto la religione: P. Giordani, L’aspra marcia dei granatieri su Henni,
Tripoli, (26 novembre,
notte), in
Sui campi d'Africa. A Tripoli e a Bengasi, Roma, Tipografia Editrice Nazionale, 1912,
pp. 135-136. 29° Guido Crescioli, fiorentino dell’84° fanteria alla famiglia, in Bacci, La guerra libica, CIEIPS9%
2 Antonino Massa, 82° fanteria, al padre; Schiatti [senza nome], ai familiari, Luigi Tomanio, 8° bersaglieri, al fratello, in Chiara, Epistolario eroico, cit., vol. Il., pp. 80, 149, 148. 292
A. Pacini, da Derna, 29 novembre
1911, al parroco Lucesio Morelli. Sul Corriere
d'Italia 14 dicembre 1911, ivi, vol II, p. 48. 2% Sottotenente Giulio Pastore, fiorentino, 8° bersaglieri, alla famiglia, ivi,, p. 154.
2° Ernesto Dugini, fiorentino, milite della Croce Rossa, ad un amico, ivi, pp. 37-38.
25 Ivi, pp. 25-26. 2% Giuseppe Mattei dell’89° Battaglione Fanteria, di Saturnana, alla sorella, ivi, p. 164.
297 Mariano Cassigoli, Borgo San Lorenzo, allo zio, ivi, p. 52. 29 Gino Bucciarelli, fiorentino, ai genitori, ivi, p. 138. 2° Gray, La bella guerra, cit., p. 33. 39 L. Airaghi, [soldato ferito nel combattimento del 26 ottobre e ricoverato nell’Ospeda-
le di Palermo], in «Il giornale del soldato», 48 (26 novembre 1911), p. 578 e pp. 43-44. 301 ]] San Gottardo con 45 feriti entrò nel porto di Napoli alle 7,30 dl mattino del 22 febbraio. L'arrivo dei feriti a Napoli, in «Illustrazione Italiana», XIV, 10 (6 marzo
1887),
p. 186. 392 Cfr. W.J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola [1982], Bologna, Il Muli-
no, 1986. 308 Per un esempio di un discorso sulla guerra tenuto da un sacerdote in occasione di una cerimonia
di commemorazione
in chiesa, cfr. D. Dicomani,
Onore e gloria agli
eroi italiani caduti in Tripolitania nella guerra italo-turca. Commemorazione letta il 13 dicembre 1911 nella Chiesa Maggiore di Pontedera, Firenze, Tipografia Collini e Cencetti, 1912: 3 Gaspare Ferraro era caduto a Sciara-Sciat il 23 ottobre 191. Discorso commemorativo pronunziato dall'Avv. Ignazio Giambalvo segretario del Comune di Santa Margheri-
ta Belice nel giorno 2 gennaio 1912 pel valoroso bersagliere Ferraro Gaspare caduto vittima dell’insidia turco-araba a Sciara-Sciat il 23 ottobre 1911, Sciacca, Tipografia Editrice B. Guadagna,
1912, pp. 3, 7, 4-5,9.
35A. Croce, L'impresa di Libia ed il valore italiano. Conferenza tenuta al Teatro Comunale di Aquila la sera del 4 maggio 1912, pro famiglie ei morti e feriti in guerra,
Aquila, Officine Grafiche B. Vecchioni & figli, 1912, pp. 28-31. 306A. Trovini, Jo, Triumphe. Discorso tenuto in Ripi per l'inaugurazione di un ricordo
240
Il martire necessario
marmoreo ai prodi caduti in Libia, Frosinone, Tipografia C. Stracca, 1914, pp. 9-10.
307 56° Reggimento Fanteria. 20 novembre 1913. Giuramento dei nuovi soldati ed onore ai prodi caduti in Libia, Belluno, Tipografia F. Cavessago, 1914. 308 C. Coccio, Libia Italiana. Canti marziali. Ai soldati del mandamento di Carrù com-
battenti in Tripolitania, Carrà, Tipografia Casarico 1912, pp. nn. [si cita dalla dedica]. 30 R. Bellarmino, / catechismi. Breve dottrina cristiana e Dichiarazione della dottrina
cristiana. Composte per ordine del Papa Clemente VII, a cura di G. Lazzati, Milano, La Favilla, 1941, p. 123, cit. in F. De Giorgi, // soldato di Cristo (e il soldato di Cesare),
in Chiesa e guerra. Dalla “benedizione delle armi” alla “Pacem in terris”, a cura di M. Franzinelli, R. Bottoni, Bologna, Il Mulino 2005, p. 144. 310 [lettera del 15 gennaio 1896] cit. in Fonzi, La Chiesa cattolica e la politica coloniale, in Fonti e problemi della politica coloniale italiana, cit., vol. I, p. 460.
SENIOR AS: 312G.Bonomelli, Lettera pastorale, in La Caserma», II, 1 (5 gennaio 1888), pp. 5-6; Cfr.
G. Gallina, Il problema religioso nel Risorgimento e il pensiero di Geremia Bonomelli. Con documenti inediti, Roma, Università Gregoriana, 1974.
313 R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (19151919), Roma, Studium, 1980, p. 7.
314 s.t., [editoriale] in «Religione e patria. Rivista bimestrale», I, 1 (gennaio febbraio 1896), paolo 315 La Pietosa commemorazione di Dogali, in «Corriere della Sera», 11-12 febbraio 1888, pp. 1-2.
310G. Semeria, // primo sangue cristiano [1900], Roma, F. Pustet, 1907, pp. 28-29. 37 Cfr. E Maccono, La Santa Cresima. Istruzioni, preghiere, consigli, Milano, Libreria Salesiana Editrice, 1905, p. 258 et passim.
5!8E. De Marchi, L’età preziosa. Precetti ed esempi offerti ai giovinetti [1887], Milano, Hoepli, 1894. 319 Associazione di preghiere per l’esercito e per l’armata nella chiesa di N.S. della Salute in Torino (Borgo della Vittoria), Torino, Baravalle e Falconieri, 1895.
30 Pei Morti di Dogali, in «La Perseveranza, [Venezia] 27 febbraio 1887, ripubblicata integralmente in L. Vitali, Patria e religione. Commemorazioni, Milano, Tipografia Editrice L.F. Cogliati, 1903, p. 427. 521 Pei Morti di Dogali, cit., pp. 427-428; cfr. anche O. Ricci, Nel primo anniversario della Patria Risorta, in In memoria di Luigi Guetta.
Volontario 11° Bersaglieri caduto
valorosamente il 23 ottobre 1911 a Sciara-Sciat, [Livorno], Tipografia della Gazzetta Livornese, 1912.
®2 Pei Morti di Dogali, cit., pp. 430-432. 53 Parole dette dal M.R. Don Luigi dr. Palezza abate di Camisano nel giorno 17 marzo 1896 nell’occasione delle solenni esequie funerarie pei nostri caduti in Africa nel giorno 1 marzo 1896 nel combattimento Abba Carima, Vicenza, Tipografia Brunello e Pastorio, 1896. 34 A. Fogazzaro, Preghiera sulle navi da guerra [1902], in Istruzioni religiose e preghiere per l'Esercito e l'Armata, Roma, Libreria Editrice Ferrari, 1915, p. 95.
35 Non omnis moriar. Gli opuscoli di necrologio per i caduti italiani nella Grande guerra. Bibliografia analitica, a cura di F. Dolci, O. Janz, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2003, p. 16.
36 L. Tosti, La preghiera del soldato, in Id., Il salterio del soldato, Milano, Edizioni di Vita e Pensiero, 1915, pp. 78-86. La prima edizione risaliva addirittura al 1848 — in tutt'altro contesto ideologico — ma fu continuamente ristampato fino al 1915. #27 Su queste posizioni è Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 129-131. 38 G. De Maria, Ancora una parola sui caduti di Libia (Nel Duomo di Cefalù il 30 gennaio 1912), Cefalù, Tipografia S. Giusto, 1912, pp. 10-11.
Note
241
°° Catechismo della dottrina cristiana pubblicato per ordine di Sua Santità Papa Pio X, [1912], Città del Vaticano, Libreria Vaticana, 1946, p. 67, cit. in De Giorgi, // soldato di Cristo, cit., p. 152.
350 Catechismo della dottrina cristiana, cit., p. 34. 31 francescani erano presenti dal XVIII secolo, prima sotto protezione dei francesi e poi, dal 1905, sotto quella degli italiani. Cfr. V. Ianari, Chiesa, coloni e islam. Religione e politica nella Libia italiana, Torino, SEI, 1995.
CAVO 52: 388 Cit. ivi, pp. 45-46. 3 Dalla Libia all’Isonzo. Diari e lettere dei caduti di Calino e Cazzago, a cura di G. Belotti, G. Santi, s.e [ma Fondazione Civiltà Bresciana], Brescia 1998, pp. 38-39 [Archivio
di Stato di Brescia, Carteggio Prima Guerra Mondiale].
35 Ivi, p. 45. ®° C. Flocchini, La religione fra le armi, in In onore di Monsignor Lodovico Antomelli, Milano, s.e., 1913. Lodovico Antomelli fu il primo vicario apostolico della Libia, ebbe dimora a Tripoli dall'ottobre del 1913.
Capitolo II Isnenghi, Usi politici di Garibaldi, cit., p. 516. Cfr. A. Andreoli, Il vivere inimitabile, Milano, Mondadori, 2000, p. 509. UO N
®
Una serata di dimostrazioni interventiste, in «Corriere della Sera», 1 aprile 1915, p. 6. G. Prezzolini, Facciamo la guerra, in da voce, VI, 16 (1914), p. 2.
? A. Monticone, Gti italiani in uniforme. 1915-1918. Intellettuali, borghesi e disertori, Roma-Bari, Laterza, 1972; L. Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani. 19151918, Torino, Bollati Boringhieri, 1976. © G. Denti, Siamo qui come lefoglie. [lettera da Sala Braganza 10 maggio 1915 ore 9 mattino], in Lettere, immagini e note dal fronte e dalla prigionia. 1915-1918, a cura di R. Anni, Brescia, Grafo Edizioni, 1997, p. 40. La battaglia della collina ‘60°. La violenza dell'attacco. Il terreno sconvolto dalle esplosioni, in «Corriere della Sera», 27 aprile 1915, p. 3. SII ? Cfr. «La Domenica del Corriere», XVII, 21 (23-30 maggio 1915), pp. 10 e 13. Sull’immenso
movimento
della mobilitazione bellica e sugli entusiasmi che ne derivarono,
cfr. le pagine fondamentali di Audoin-Rouzeau - Becker, La violenza, la crociata, il lutto, cit., pp. 78-157. !0 Scritti politici di Gabriele D'Annunzio, cit., p. 133. Cfr. M. Mondini, La guerra italiana: partire, raccontare, tornare 1914-1918, Bologna, Il Mulino, 2014.
!! [titolo di prima pagina] «Corriere della Sera», 5 maggio 1915, p. 5. !? Parole dette al popolo di Genova nella sera del ritorno. IV maggio MCMXV in Per la più grande Italia. Orazioni e messaggi di Gabriele D'Annunzio, Milano, Treves, LO15:
!3 Orazione per la sagra dei Mille. V Maggio MDCCCIX-V Maggio MCMXV, in Per la più grande Italia, cit., pp. 16-17. li Parole dette nell’Ateneo genovese il VII di Maggio, ricevendo in dono dagli studenti una targa d’oro, in Per la più grande Italia, cit., p. 52.
15 Arringa al popolo di Roma accalcato nelle vie e acclamante, la sera del XII maggio MCMXV, in Per la più grande Italia, cit., pp. 68-70.
16 Ivi, pp. 32-33 e 62-63. 7 Centomila persone accolgono D'Annunzio a Roma inneggiando alla guerra, in «Corriere della Sera», 13 maggio 1915, p. 2.
242
18
19
20
Il martire necessario
G. D'Annunzio, Diari di Guerra 1914-18, Milano, Mondadori, 2002, p. 113. Un grandioso corteo patriottico attraversa Milano tra scene d’entusiasmo, in «Corrie-
re della Sera», 14 maggio 1915, p. 5. D'Annunzio, L'accusa pubblica pronunziata nell'adunanza di popolo, la sera del XIV Maggio MCMXV, in Per la più grande Italia, cit., p. 83. B. Vigezzi, Un’inchiesta sullo stato dello spirito pubblico alla vigilia dell'intervento, in Id., Da Giolitti a Salandra, Firenze, Vallecchi, 1969, pp. 320-342.
[titolo di prima pagina] Viva la guerra, in «La Patria, 23 maggio 1915, p. 1. G. Boine, Discorsi militari, Firenze, Libreria della Voce, 1915, p. 60.
Cfr. M. Isnenghi, La tragedia necessaria: da Caporetto all’Otto settembre, Bologna, Il Mulino, 2013. L. Ambrosini, Oltre il velo, in 4a stampa, 13 settembre 1914, p. 1.
G. D'Annunzio, Parole dette in una cena di compagni, MCMXV, in Per la più grande Italia, cit., pp. 117-121.
all'alba del XXV maggio
R. Serra, Esame di coscienza di un letterato [La Voce, 30 aprile 1915], in Id., Scritti
morali e politici, cit., pp. 533-534, 526, 530. In proposito M. Biondi, Il Novecento di Renato Serra, in Id., Renato Serra. Storia e storiografia della critica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, pp. 1-79; cfr. inoltre la pur datata antologia di M. Schettini, La prima guerra mondiale. Storia-letteratura, Firenze, Sansoni, 1965.
R. Murri, La croce e la spada, Firenze, Bemporad, 1915, pp. 40-41. La lettera è del 24 settembre, cit. in D. Puccini, Prefazione a G. Boine, Il Peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, Milano, Garzanti, 1983, p. XXI.
Boine, Discorsi Militari, cit., pp. 21-22. Sulla convergenza ideologica tra Croce, Mosca, Pareto, Sorel e Boine cfr. Isnenghi, // mito della Grande guerra, cit., pp. 83-87. Mentre romba il cannone, in «Il Giornale d’Italia», 27 maggio 1915. E. Ludendorff, / miei ricordi di guerra (1914-1918), Milano, Treves, 1920, vol. 1, p. 208. G. Simmel, Sulla guerra [1914], ed. it. a cura di S. Giacometti, Roma, Armando EditoN,
re, 2003, p. 52. Per esempio «La Lettura», il rotocalco mensile del «Corriere, ripropose le gesta dell’eroe Garibaldi messe a paragone con quelle del cristiano Tancredi della Gerusalemme del Tasso. A. Fradeletto, Rileggendo la Gerusalemme, in «La Lettura», XVI, 4 (aprile 1915), p. 302. La stessa operazione di interpretazione alla luce dell’attualità di un classico della letteratura italiana era stata già proposta per l’Orlando Furioso nel numero de «La Lettura» dell’ottobre 1914. Cfr. inoltre G. Capra-Boscarini, La mobili tazione scientifica. La reazione alla barbarie, in dAllustrazione Militare Italiana», X, 8
(agosto 1915), p. 10. ? A. Monti, Quadri e suoni di guerra: poesie per i soldati, Milano, Treves, 1915. W. Flex, Das Volk in Eisen, cit. in Menges, Idea di patria, cit., p. 41. La patria alla frontiera, in «Corriere della Sera», 23 maggio 1915, p. 1; Cfr. Bergamini, Specchi, cit., pp. 58-59. G. Cucchetti, / cittadini soldati, in «La lettura», XV, 4 (aprile 1915), p. 374. Giornata di mobilitazione a Milano, in «Corriere della Sera, 25 maggio 1915, p. 5; cfr. G. Comisso, Giorni di guerra [1930], Milano, Mondadori 2002, p. 329. Il nostro Re [editoriale], in «Illustrazione della Guerra e la Stampa Sportiva», XIV, 4 luglio 1915, p. 7. A. Del Massa,
Viva la guerra, Firenze, s.e., 1915, p. 11.
Borgese, Rubò, cit., pp. 13-14. C. Carrà, Elasticità dinamica dello spirito futurista, in Guerrapittura, Milano, Edizioni Futuriste di Poesia, 1915, p. 46. L. Marinoni, Ci siamo, in «Illustrazione della Guerra e la stampa sportiva», XV, 22 (30 maggio 1915), p. 2.
Note
45
|
243
G. Papini, Dichiarazione d'amore, da «Il resto del Carlino», 1916, ora pubblicata in
G. Prezzolini, Tutta la guerra, cit., p. 358. Nel giugno del 1915 si arruolarono Carlo Erba, Luigi Russolo, Antonio Sant'Elia, Filippo Tommaso Marinetti che furono aggregati al Battaglione Lombardo dei Volontari Ciclisti Automobilisti, poi sciolto alla fine di quell’anno. Molti altri artisti (Umberto
Boccioni, Anselmo Bucci, Mario Buggelli,
Achille Funi, Ugo Piatti, Mario Sironi) prestarono invece servizio presso il Battaglione San Marco. Altri volontari futuristi furono Felice Casorati, Arturo Martini, Aldo Carpi, Lorenzo Viani, Luigi Cominetti, Domenico Valinotti, Giuseppe Manzone. Cfr. E. Cri-
spolti, Zarg Tumb Tuum. I futuristi vanno alla guerra, giochi, burle e travestimenti dei futuristi del Battaglione Ciclisti, in Bolaffiarte», 79 (1978), pp. 9-11. P. Teilhard de Chardin, La nostalgia del fronte, in Opere di Teilhard de Chardin, La vita cosmica. Scritti del tempo di guerra (1916-1919), Milano, Il Saggiatore, 1971, p. 244.
Ivi, pp. 246 e 249. G. Carignano, La divisa del soldato, in «La lettura», XV, 4 (aprile 1915), p. 384. Cfr. G. Borsi, Lettere dal fronte, Torino, Libreria Editrice Internazionale, 1916, p. 127; cfr. La retroguardia, in «dL'Illustrazione della Guerra e la stampa sportiva», XV, 1 (2
gennaio 1916), p. 6. G. Cucchetti, / cittadini soldati, in «La lettura, XV, 4 (aprile 1915), p. 375. G. Civinini, Ifanti [dal «Corriere della sera», ottobre 1916], ora in Prezzolini, Tutta la
guerra, cit., p. 377. Herf, I! modernismo, cit., p. 119. A. Gemelli, // nostro soldato. Saggi di psicologia militare. Con prefazione di Giovanni Semeria Cappellano del Comando Supremo, Milano, Treves, 1917, p. 20; cfr. M. Franzinelli, Padre Gemelli per la guerra, Ragusa, La fiaccola, 1989. Roberto Sarfatti [alla famiglia] Bologna 23 maggio, ore 2 del mattino, in Prezzolini, Tutta la guerra, cit., p. 251. Ivi. ]J. Novaro, Lettere ai suoi genitori [Roma, 5 novembre
1915], Firenze, L'arte della Stam-
pa, 1917, lettera pubblicata in Prezzolini, Tutta la guerra, cit., p. 195. Jacopo Novaro era figlio del poeta Angiolo Silvio che ne scrisse nel Fabbro armonioso. A. Bau, / ragazzi. Visioni di guerra, in Prezzolini, Tutta la guerra, cit. R. Monteleone, Lettere al re. 1914-1918, Roma, Editori Riuniti, 1973.
A. Fraccaroli, Alla guerra del Cadore, in «La Lettura», XV, 9 (settembre 1915), pp. 78460
785. La mamma a Peppino [Giuseppe Dellorto]. Sulmona, 16 agosto 1915, in Lettere del tempo di guerra. 1915 1918, a cura di D. Dellorto Ramella, Torino, s.e., 1972, p. 60. Cfr. Mondini, La guerra italiana, cit., pp. 36-48. D'Annunzio, Parole dette in una cena di compagni, cit., p. 125. Particolarmente interessante la rubrica / nazionalisti al fronte de «La Patria», che pubblica lettere di soldati dal fronte, si veda per esempio: Impressioni scritte sullo zaino, in «La Patria», II, 31 (1 agosto 1915), p. 3. P. Jahiet, 1918 L’Astico. Giornale della trincea; 1919 Il Nuovo Contadino [Antologia
n
66
e saggio introduttivo di M. Isnenghi], Padova, Edizioni del Rinoceronte, 1964, p. 187. Alcune veloci considerazioni in M. Cortelazzo, Le parole della guerra, in Guerra e Mass Media. Strumenti e modi della comunicazione in contesto bellico, a cura di P. Ortoleva e C. Ottaviano, Napoli, Liguori, 1994, pp. 173-178. L'Istituto aveva tra i suoi compiti istituzionali anche quello di provvedere di libri, riviste e altri scritti educativi l’esercito e i soldati degenti negli ospedali. Un esempio è dato da V. Turletti, Lettere da casa. Dono ai soldati italiani in campo
promosso da una Associazione di gentildonne, Torino, Tipografia Baravalle e Falconieri, 1915. Sulla gestione e organizzazione della posta per i soldati cfr. A. Molinari,
244
67
Il martire necessario
La buona signora e i poveri soldati. Lettere a una madrina di guerra (1915-1918), Torino, Scriptorium-Paravia, 1998, pp. 8 sgg. Rendiconto morale e finanziario dell'esercizio 1915, in dstituto Nazionale per le Biblioteche dei Soldati», Torino, s.e., 1916, pp. 8-14; cfr. Quello che ha fatto e fa l'Istituto nazionale per le Biblioteche dei soldati dall'inizio della guerra, Torino, Istituto
6:do
Nazionale per le Biblioteche dei Soldati, 1916, pp. 3 sgg. Istituto Nazionale per le Biblioteche dei soldati. Catalogo, Torino, Tipografia degli Artigianelli, 1917, p. 11. Su 196 titoli quasi interamente relativi ai temi guerreschi, gli aspetti di esaltazione dell’eroismo e del sacrifico di sangue sono oltre il 50%. Nel gennaio 1916 la direzione dell'Istituto rese note alcune cifre sui libri distribuiti nei canali dell’esercito, essi ammontavano a 31.658 (e di questi 20.000 distribuiti gratuitamente), mentre ai naviganti ne furono fatti pervenire, su un canale distributivo autonomo, circa 5.000.
69
70
y
C. Schiaparelli, Giuseppe Mazzini. I Precursori, gli apostoli, i martiri nel Risorgimento italiano, Pubblicazione dell'Istituto Nazionale per le Biblioteche dei soldati di terra, di mare e dell’aria, Torino, Tipografia San Giuseppe degli Artigianelli, 1926. G. Prezzolini, La produzione libraria italiana durante la guerra, in «Archivio Storico Italiano», 1 (1918), pp. 122-123. Cfr. Sema, ‘Cose piccole’, cit.; contraddice queste posizioni, ma pare carente dal punto di vista bibliografico e sostanzialmente generico, Bergamini, Specchi, cit., pp.
59-61. NI N)
L. Fabi, La guerra quotidiana. Propaganda, consenso e memoria nel primo conflitto mondiale, in La guerra nella testa. Arte popolare, esperienze e memoria nel primo conflitto mondiale, Trieste, Lint, 1998, pp. 12-17; cfr. inoltre N. Marchioni, ‘L'arte della
=;
o
3
guerra’ in Italia nel primo conflitto mondiale: alcuni sondaggi, in La Grande guerra degli artisti. Propaganda e iconografia bellica in Italia negli anni della Prima guerra mondiale, a cura di N. Marchioni, Firenze, Pagliai Polistampa, 2005, pp. 11-60. Alessandro Buscaroli, sottotenente nel 3° alpini, Batteria Susa, lettera pubblicata in Prezzolini, Tutta la guerra, cit., pp. 338-339. Sulla esclusività dei sentimenti sorti in trincea, le osservazioni di Jahier, 1918 L’Astico, cit., pp. 73-74. Cfr. Bourdieu, La parola, cit., pp. 137 sgg.. In proposito, una fonte di probante valore è F. Guerrieri, Lettere dalla trincea, cit.
Cfr. Caillois, La vertigine, cit., p: 81. Cfr. Cardini, Quell’antica
festa crudele, cit., pas-
sim. G. Borsi, Giosue Borsi alla madre, in Prezzolini, Tutta la guerra, cit. Archivio Privato Famiglia Cominotti, Lettera di Antonio Cominotti al padre, 28 maggio 1917, in Prezzolini, Tutta la guerra, cit. 78
Cfr. M. Puccini, Davanti a Trieste, Milano, Sonzogno,
1919; Denti, Siamo qui, cit.
[lettera spedita da una zona di guerra mercoledì 14 luglio 1915], pp. 81-82. Al fronte. La guerra in Carnia. Dal nostro inviato speciale al campo. Alta Carnia, settembre, in Domenica del Corriere», XVII, 40 (3-10 ottobre 1915), p. 10. 8(
8
C.E. Gadda, Giornale di guerra e di prigionia |1955) Torino, Einaudi, 1965, p. 253. Carlo Emilio Gadda originariamente è un interventista, ma rapidamente le illusioni passano e la guerra gli si para davanti soprattutto per la stupidità dei comandanti. P. Monelli, Le scarpe al sole. Cronaca di gaie e tristi avventure d’alpini di muli e di vino [Treves, 1921] Vicenza, Neri Pozza, 1994, pp. 22 e 134.
M. Bontempelli, Dallo Stelvio al mare, Firenze, Bemporad, pp. 130-131. Il volume raccoglie i servizi scritti al fronte da Bontempelli tra agosto e settembre 1915 come corrispondente di guerra: furono pubblicati in volume nel 1919. Cfr. U. Piscopo, Massimo Bontempelli. Per una modernità dalle pareti lisce, Napoli, Esi, 2001. 8 Borgese, Rubé, cit., p. 76. 84 Edmund Burke, il grande teorico del romanticismo, nella celebre 7he philosophical
Note
245
Inquiry into the Origin of our ideas of the Sublime and the Beautiful (1756) aveva richiamato il fatto che i suoni che imitavano «e voci naturali e inarticolate di uomini o di animali» erano tra i più adatti a «suscitare grandi idee» o «sensazioni» grandi e terribili»: E. Burke, Inchiesta sul bello e sul sublime [1757], a cura di G. Sertoli, G. Miglietta, Palermo, Aesthetica, 1985, p. 159; cfr. J. Ruskin, La corona di olivo selvatico [1866], Torino, Paravia, 1923. 85
86
87
g
Cfr. W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi, 1955, pp. 170ZA A. Panzini, Il romanzo
della guerra nell’anno 1914, Milano, Studio Editoriale Lom-
bardo, 1914, p. 37. E. Jiinger, Boschetto 125 [1924], Parma, Guanda, 1999, pp. 119 e 13.
Cfr. Cfr. K. Kerényi, Vom Wesen des Festes. Antike Religion und Etnologische Religionsfoschung, in Paideuma», 1 (1938), pp. 59-74; Caillois, L'uomo, cit., p. 165.
ca)9
90
A. Lisciarelli, Da! cuore delle donne italiane durante il diluvio di sangue della guerra mondiale. Terzo anniversario della nostra guerra, 24 maggio 1918, Bologna, Stabili mento Tipografico L. Parma & C., 1918, p. 49. Cfr. inoltre G. Gozzano, La bella preda, in da Lettura, XV, 8 (agosto 1915), p. 681. M. Mariani, Da Gorizia al mare, in Sulle Alpi e sull’Isonzo. Dalla fronte nei primi quattro mesi di guerra. 23 maggio-26 settembre 1915, Milano, SEI, 1915, p. 252. Hillman, Un terribile amore, cit., p. 173.
Fede e allegria, in La Domenica del Corriere», XVII, 30 (25 luglio — 1 agosto 1915), PpRO=lae
94
Gli episodi della guerra. Lo spirito di nazionalità, in d'Illustrazione della Guerra e la stampa sportiva», XIV, 28 (11 luglio 1915), p. 11. Anche padre Gemelli aveva autorevolmente sostenuto che i soldati cantavano di frequente e volentieri, ma aveva evitato di riferire questo comportamento ad un qualche sentimento di felicità o di spensieratezza: cfr. A. Gemelli, / canti del nostro soldato. Documenti per la psicologia militare, in «Vita e Pensiero», III, 41 (maggio 1917), pp. 374-393. Al Fronte. Sotto ilfuoco (Dal nostro inviato speciale al campo). Verso Monte Croce Car-
nico, settembre, in «La Domenica del Corriere», XVII, 38 (18-25 settembre 1915), p. 12. 95 Al fronte. La guerra sulle Dolomiti (dal nostro inviato speciale sul campo). Sull’Averau, settembre, in «La Domenica del Corriere», XVII, 39 (26 settembre — 3 ottobre
1915), p. 10. In un editoriale «L’Illustrazione della Guerra e la stampa sportiva» insisté su questo medesimo punto: «il nostro soldato sa essere allegro sempre, prender tutto per ischerzo, sta in guerra come fosse a una scuola di tiro. Anche sotto il fuoco delle artiglierie pesanti da 151 o 210 sa prendere in giro i proiettili che sbagliano di qualche poco la direzione: / nostri soldati, in d'Illustrazione della Guerra e la stampa
sportiva», XIV, 29 (18 luglio 1915), p. 6. V. Locchi, Dalla sagra di Santa Gorizia, in Antologia degli scrittori morti in guerra, a cura di C. Padovani, Firenze, Vallecchi, 1929, pp. 196-197. 7 Gemelli, /l nostro soldato, cit., p. 12. v8
Cfr. la corrispondenza in Illustrazione della Guerra e la stampa sportiva», XV, 22 (28 maggio 1916), p. 3.
99
Gemelli, // rostro soldato, cit., pp. 13-14.
19° Cfr. su questo anche E. Valentini, Lettere e disegni, XV luglio-XXI ottobre MCMXV, Perugia, Arti grafiche V. Bartelli, 1930, p. 93. 101 8.M. De Marco, Martirio di Guerra, Napoli, Casa Editrice Il Mutilato, 1928, p. 15.
!02G.C. Ferrari, Osservazioni psicologiche sulla nostra guerra,
Bologna,
Stabilimento
Poligrafico Emiliano, 1916, pp. 10-12. ! 1] corpo fu una ‘invenzione’ dei generali Capello e Grazioli e del tenente colonnello Bassi (approvato il 29 luglio 1917). A questo primo reparto di Arditi ne seguirono vari altri. Per un profilo istituzionale del corpo, cfr. G. Rochat, Gli Arditi della Grande
246
Il martire necessario
Guerra. Origini, battaglie e miti, Gorizia, Editrice Goriziana, 1990, p. 36 e n. 4 e pp.
15-16. 10 G. Borelli, Linee per una storia italiana degli Arditi e dell’arditismo, in «Esercito e Nazione. Rivista per l’Ufficiale Italiano», aprile 1927, p. 304. 19 M. Carli, Arditismo, Roma-Milano, Augustea, 1929 [ed orig. Noi Arditi, Milano, 1919], pp. 26-27. Cfr. A. Baldini, Nostro Purgatorio. Fatti personali del tempo della guerra italiana 1915-1917, Milano, Treves, 1918, pp. 56-57.
106 Cit. in Rochat, Gli Arditi, cit., pp. 106-107. 197 Cfr. Todero, Morte e trasfigurazione. Il soldato caduto dalla realtà alla mitizzazione, in La guerra nella testa, cit., p. 44 et passim; cfr. Scritture di guerra - 1, a cura di G. Fait, Trento, Museo Storico della Guerra di Rovereto, 1994, p. 59 sgg. 1° Monelli, Ze scarpe al sole, cit., p. 94. 109 Scritture di guerra - 3, a cura di Q. Antonelli, Trento, Museo Storico della Guerra di Rovereto, 1994, p. 63. !!° E. Jinger, Nelle tempeste d'acciaio, [1920], Parma, Guanda, 1990, pp. 27-29; Cfr. von Salomon, / proscritti, cit., p. 117; e J. Romains, Les Hommes de bonne volonté, XV: Prélude à Verdun, Paris, Flammarion, 1938.
!!! Cit. in L. Fabi, Morire sul San Michele, in «Il territorio», 1 (giugno 1994), n.s., p. 14.
1° Valentini, Lettere e disegni, cit., pp. 75-76. !D. Concone [studente di legge a Torino, lettera alla mamma, 24 giugno s.a.], in Università degli Studi di Roma. Lettere e scritti di caduti per la patria nella guerra 1915-1918, a cura di M. De Benedetti, Roma (sic), Treves, 1926, p. 285. 1! E. Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 4454. !5 Si vedano i giudizi di Ardengo Soffici che, pur non avendo lesinato entusiasmi bellici nel suo Kobilek, poi si rende conto della inadeguatezza della classe dirigente: A. Soffici, La ritirata dal Friuli: note di un ufficiale della seconda armata, Firenze, Vallecchi, 1919. © E.T. Marinetti, Un bollito di cadaveri prussiani, in d'Italia Futurista, I, 4 (25 luglio
1916), p. 1. !!7 Orsi, Modena, 25 luglio 1915 [lettera ai familiari], in Università degli Studi di Roma, CIEPRZISI !!8 E. Jùnger, Prefazione a F. Schauwecker, La pista di fuoco, Lipsia, 1926, in Id., Scritti politici e di guerra (1919-1933), vol. II (1926-1928), Gorizia, LEG, 2004, p. 24. 1° Cfr. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 171. von Salomon, / proscritti, cit., p. 132.
2! C. Pastorino, La prova del fuoco [1926], Foggia, Bastogi, 1982, p. 37. 122 G. Stuparich, Guerra del ‘15. Dal Taccuino di un volontario, Milano, Treves, 1931; e Id., Ritorneranno, Milano, Garzanti, 1941, che può essere considerato come se fosse
l’ultimo dei romanzi patriottici dell'Ottocento. Sullo Stuparich, cfr. A. Vinci, Gli intellettuali e la guerra: l'esempio giuliano, in Sulla crisi del regime fascista 1938-1943, cit., pp. 387-420. Tra chi resta sostanzialmente sordo alle sirene della guerra, ci sono: Emilio Lussu di Un anno sull'altipiano (1938 in Francia e 1945 in Italia), Carlo Salsa, Trincee (1919), Attilio Frescura, Diario di un imboscato (1919), Arturo Stanghellini,
Introduzione alla vita mediocre (1920). !3 La settimana di miele di un coscritto, cit., p. 6.
121 Soffici, Kobilek, cit., pp. 118-119. !5 M. Bontempelli, Lussuria, in // puro sangue, l’ubriaco: poesie nuove di Massimo Bontempelli, Milano, Facchi, 1919.
von Salomon, / proscritti, cit., p. 133. 17 Prezzolini, Tutta la guerra, cit., p. 315. 8 Cfr. C. Tegon, Irruenza nuova, agli Eroi insepolti, ai Caduti ignoti, in «Virtus». Nu126
Note
247
mero unico pubblicato in occasione dell’anniversario della istituzione della Scuola Allievi Ufficiali della 3° Armata (XII c. d’A.). Zona di guerra, 1° marzo 1917, s.e. !2 A. Ceccotti, In Libia e sul Carso. Memorie Pontedera, Tagete Edizioni, 2004, p. 92.
di guerra di un mezzadro
cascianese,
15°N. Loraux, // femminile e l'uomo greco, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 5-47. Ancora il paragone esplicitamente torna nel Dizionario di politica in epoca fascista, cfr. G. Bosco, Guerra, in Dizionario di Politica, a cura del Partito Nazionale Fascista, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1940, ad vocem.
15! Polvere d’eroi, in d'Illustrazione della Guerra e la stampa sportiva», XV, 26 (25 giugno 101) IPNSÌ 132
C. Alvaro, A un compagno, in Id., Poesie grigio-verdi, Roma, B. Lux, 1917.
15M. Puccini, Sulla linea degli abitati. La ritirata del Friuli, in Prezzolini, Tutta la guer-
ra, cit.
4 Cfr. Marinetti, Taccuini, cit., pp. 125-127 [23 settembre 1917]. 15 Caillois, La vertigine, cit., p. 82. 6 N.M. Campolieti, La teoria della massa e la guerra attuale, Roma, Tipografia E. Vo137
ghera, 1916, pp. 21-23 [Estratto da «Rivista Militare Italiana», 1916, dispensa X]. D. Ponziani, L'attività di Paolo Boselli e la costituzione del Museo Centrale del Risorgimento, in Pittori-Soldati della grande guerra, a cura di M. Pizzo, Roma, Gangemi,
2005, p. 22.
La scuola di applicazione di fanteria di Parma, per esempio, riunì ed espose una gran quantità di materiale e ne compilò un dettagliato catalogo che poi dette alle stampe. Scuola d’Applicazione di Fanteria, in Parma, Museo del Risorgimento, cit., pp. 28-60. 15° Cfr. in proposito le osservazioni in C. Bertelli, La fedeltà incostante. Schede per la fotografia nella storia d'Italia fino al 1945, in Storia d'Italia, Annali 2, L'immagine fotografica 1845-1945, a cura di C. Bertelli, G. Bollati, Torino, Einaudi, 1979, p. 136; Mosse, L'immagine dell’uomo, tomo I, cit., pp. 143-176.
0 Herf, Il modernismo reazionario, cit., pp. 115 sgg. 14! Valentini, Lettere e disegni, cit., p. 147. 1? M. Cascella, Dipinti dal 1905 al 1987, a cura di G. Bonini, Milano, Torcular, 1992, in
part. Tav. 18, p. 52.
143 Lettera spedita da Malcesine il 10.9.1915, in U. Leonzio, La grande guerra vista dagli artisti, Roma, Canesi, 1974, p. 30; V. Corti, Ottone Rosai, la guerra e l’arte. Intorno a
tre lettere inedite di Ugo Tommei, in «Nuova Antologia, luglio — settembre
1993, pp.
310-318. ll Tra costoro i più noti sono certamente Giuseppe Prezzolini, Cesare Padovani e Adolfo Omodeo (Antologia degli scrittori morti in guerra, cit.). Sulla violenza bellica interessanti riflessioni in M. Flores, Tutta la violenza del secolo, Milano, Feltrinelli 2004; Traverso, La violenza nazista, cit.; Id., A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2007.
15 Prezzolini, Tutta la guerra, cit., p. 18. © P. Marconi, Monte Cengello, 12 giugno, ivi, p. 116. «Ho riso finalmente senza ritegno. Ho gustato, sorseggiato i minuti con voluttà, senza perdere una briciola di sole. Ho bevuto come un’ape il miele di tutte le persone e di tutte le cose che la mia sensibilità sente (cfr. G. Bellini, ivi, p. 118). 147 E. Ciarlantini, ivî, p. 368.
VIA PPT 19P.Marconi, Monte Cengello (6 giugno 1916), ivi, p. 188. 150A.Omodeo, Momenti della vita di guerra (dai diari e dalle lettere dei caduti), Bari, Laterza, 1934, pp. 17-18. 51 Lauri di gloria. Epistolario d’un eroe. Lettere del Ten. Angelo Campodonico, Genova
248
Il martire necessario
1918, p. 82 [la pagina risale al dicembre del 1915], cit. in Omodeo, Momenti della vita di guerra, cit., pp. 75-76; cfr. la raccolta epistolare in Lisciarelli, Da/ cuore, cit.,, pp. 10-18; cfr. Isnenghi, 77 mito della Grande guerra, cit., pp. 262-264. 152 Cit. in Omodeo, Momenti della vita di guerra, cit., pp. 188-189, 281. .
153 Tra gli altri, Gaetano Salvemini ed Emilio Lussu.
154 E. Lussu, Un anno sull’altipiano [1945], Torino, Einaudi, 1974. Lussu fu volontario,
ufficiale nella Brigata Sassari. 15 Il quadro repressivo militare dell’esercito di Cadorna è sufficientemente rappresentato da cifre ormai ben note: tra la primavera del 1915 e l'autunno del 1918 furono aperti 470.000 fascicoli processuali per renitenza alla chiamata, ci furono 170.000 condanne, con 100.000 casi di diserzione e 4.000 condanne a morte, 3.000 delle quali in contumacia. Cfr. G. Procacci, La società come una caserma: la svolta repressiva nell'Italia della Grande Guerra, Bologna, Il Mulino, 2005; Id., Dalla rassegnazione
alla rivolta: mentalità e comportamenti popolari ni, 1999. 150 Ceccotti, Ir Libia, cit., p. 53. 17 E. Vaina De Pava, Sette morti, in Antologia degli [tratto da «L'azione, 15 luglio 1915). 158T. Ubertis Gray, Piccoli eroi della grande guerra, 21; cfr. A. Fava, La guerra a scuola, in «Materiali
nella Grande guerra, Roma, Bulzo-
scrittori morti in guerra, cit., p. 39 Firenze, Bemporad 1915, pp. 7, 10, di lavoro», 3-4 (1986), n.s., pp. 53-
126.
5° L. Bertelli (Vamba), / bimbi d'Italia si chiaman Balilla. I ragazzi italiani nel Risorgimento
nazionale,
Firenze,
Bemporad,
1915, p. 215. Dello
stesso
autore
ctr. Un
secolo di storia italiana, e i versi de L’epitaffio di Francesco Giuseppe. Cfr. A. Gibelli, II popolo bambino. Infanzia e nazione dalla Grande Guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005. 1608. Gotta, Piccolo alpino, Milano, Mondadori,
1926, p. 86. Cfr. anche A. Pons, Piccole
storie della storia grande 1915-1916, Milano-Roma-Napoli,
Società Editrice Dante
Alighieri, 1916. 101 E. Abba, Narrano i martiri, Torino, La Crociata Contro la Tubercolosi Editrice, 1917, pp. Ve XII.
162 T. Ubertis Gray, Soldati e marinai: racconti, Firenze, Bemporad, 1918, pp. 3-48 e 71; cfr. Id., Nelle case degli eroi. Cesare Battisti. Nazario Sauro, Firenze [ed ante 1918].
165 Su questo argomento cfr. A. Gemelli, La guerra nei giuochi deifanciulli, in «Vita e Pensiero», IV, 49 (gennaio 1918), pp. 31-51 in part. p. 32. Cfr. B. Bracco, Memoria e identità dell’Italia della Grande guerra. L'Ufficio storiografico della mobilitazione (1916-1926), Milano, Unicopli, 2002.
! A. Gibelli, Allarmi siam bambini. La mobilitazione dell'infanzia nella Grande guerra, in La guerra nella testa, cit., pp. 33-34; Id., Il popolo bambino, cit., passim.
!©© L. Bertelli (Vamba), Resistere per esistere, Firenze, Bemporad, 1917, pp. 3 e 10. !6© Per questo e per moltissimi altri riferimenti cfr. Gibelli, All'armi siam bambini, cit., PIXS5:
‘07 Ivi, p. 40 et passim. ‘6 L'episodio è riportato da Q. Antonelli, Piccoli Eroi. Bambini, ragazzi e guerra nei libri italiani per l'infanzia, in Museo Storico Italiano della Guerra. Annali», 4 (1995),
p. 69. !©° Lisciarelli, Dal cuore delle donne, cit., pp. 13-27.
1° H. Hubert, M. Mauss, Saggio sul sacrificio, Brescia, Morcelliana, 2002, p. 89 (la prima edizione in «L’Année sociologique», è del 1989). FE. Da Porretta, Discorsi ai soldati. Recitati nel Duomo di Firenze nel 1916. Schemi raccolti e pubblicati da Vincenzo Messeri, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1917,
p. 70; inoltre sul tema del dono, cfr. Bataille, Za parte, cit., passim.
Note
249
!? N. Spineto, Introduzione a H. Hubert, M. Mauss, Saggio sul sacrificio, cit., pp. 8-9. !è G. Leghissa, Le scienze diagonali di Roger Gaillois, in R. Caillois, L'occhio di Medusa. L'uomo, l’animale, la maschera, Milano, Raffaello Cortina, 1998, p. XIV.
!7 Bataille, La parte maledetta, cit., p. 45. !> von Salomon, / proscritti, cit., p. 133. UT. Mann, La Montagna incantata, vol. Il p. 404. In proposito cfr. Ideologia della guerra, cit., pp. 169-186. 177 Cfr. M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche [1923-24], ora in Id., Teoria generale della magia e altri saggi [1950], Torino, Einaudi, 2000, pp. 157-173. Cfr. inoltre le osservazioni di Caillois, L'uomo, cit., pp. 163-164.
‘78 Sulla guerra come sacrificio generalizzato cfr. Bataille, La nozione di dépense, in Id., La parte, cit., p. 45. !? E. Macrelli, Un cavaliere dell'ideale, in Prezzolini, Tutta la guerra, cit., pp. 176-177. !80 [Lettera spedita] Da/ Monte Piano Val dell’acqua, 15 ottobre 1915 [Dolomiti di Sesto, Bolzano], in C. Stiaccini, Trincee di carta. Lettere di soldati della Prima guerra mondiale al parroco di Fara Novarese [don Gaudenzio Manuelli], Novara, Interlinea
Edizioni, 2005, p. 45. !8! Cfr. in proposito C. Salsa, Trincee. Confidenze di un fante, Milano, Sonzogno, 1924. 182A. Negri, L'offerta, in La lettura», XV, 7 (luglio 1915), p. 601. 185 N.M. Campolieti, I! Vangelo del soldato italiano, Milano, R. Ghirlanda, 1916, p. 48.
!8! Pel martirio di Cesare Battisti. Numero unico ad iniziativa del Comitato degli Studenti Elbani, Portoferraio, Tipografia Popolare, 1916. !5 Campolieti, IZ Vangelo, cit., pp. 150-151. !5©V. Raineri, Sergente nel 147° fanteria, in Prezzolini, Tutta la guerra, cit., pp. 337-338. 87 Su sparsio e largitio cfr. J. Starobinski} A piene mani. Dono fastoso e dono perverso [1994], Torino, Einaudi, 1995, pp. 13-15. !88 de Saint-Point, Manifesto futurista, cit., pp. 119 e 122. !8° Cfr. Carrà, Guerrapittura, cit., pp. 100-102. 190 Marinetti, Taccuini, cit., p. 79 [27 aprile 1917). 191 Ivi, p. 495.
192 Ivi, p. 76.
195 Ivi, p.114.
194 Ivi, p. 65.
ISNVI p.i65. 196 Ivi, p. 69. 197 ET. Marinetti, L’alcova d’acciaio: storia vissuta, Firenze, Vallecchi, 2004, pp. 35-36 e p. 324.
!%8 Bontempelli, Armonia, cit., p. 247. 19 E.K. Kantorowicz, Mourir pour la patrie (pro patria mori) dans la pensée politique médiévale, in Mourir pourla patrie et autres textes, Paris, P.U.F., 1984, pp. 105 sgg. 200 Cfr. il redazionale firmato con lo pseudonimo di Miles Christianus, ma ascrivibile a padre Gemelli: L'arma della vittoria, in Vita e Pensiero», IV, 54 (giugno 1918), pp. 252-254. 20! C. Semeghini, L'esaltazione religiosa dei caduti in campo (guerra 1915-1918), Asola (Mantova), Stabilimento Tipografico Scalini-Carrara & C., 1919, p.9.
202 Ipi, p. 12.
205 Cfr. E. Martire, Soldati
e martiri. Guerra santa e guerra giusta, in «Vita e Pensiero»,
INIL, 39 (aprile 1917), pp. 287-299. 204 Ipi, p. 14. 205A. Bertolo, Riflessioni Filosofiche, teologiche, morali sul martirio cristiano, Discorso inaugurale nel Seminario Metropolitano di Torino, 13 Ottobre 1914, Torino, Tipografia Palatina di Bonis e Rossi, 1914. 2007 p:10)
250
Il martire necessario
207 Ivi, pp. 859.
298 Ivi, p. 10. Sui flagelli che sono inviati da Dio per punire gli uomini Cfr. E. da Cesena, La guerra e i preti, Forlì, Stabilimento tipografico Valbonesi, 1916, pp. 10-16. SENO. SV 210 P.J. Proudhon, La guerra e la pace. Pagine scelte, a cura di P. Jahier, Lanciano, Carabba, 1932, pp. 22-23; Cfr. A. Gobbicchi, / meandri della ragione. La guerra nel pensiero sociale del XIX e XX secolo, Milano, Angeli, 2002, pp. 17-18 e 25-49.
211 Sighele, Ultime pagine, cit., pp. 206-207 [il capitolo si intitola Proudhon e l'apologia della guerra).
21 Teilhard de Chardin, La nostalgia del fronte, cit., p. 248; in proposito cfr. anche Audoin-Rouzeau - Becker, La violenza, la crociata, il lutto, cit., pp. 113-114. 213 Cfr. Enchiridion della pace [da Pio X a Giovanni XXIII], Bologna, Edizioni Dehoniane, 2004. 214 Cfr. A. Monticone, / Vescovi italiani e la guerra, in Benedetto XV, i cattolici e la prima Guerra mondiale, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1963; Morozzo della Rocca, La fede e
la guerra, cit.; La Chiesa e la Guerra. I cattolici italiani nel primo conflitto mondiale, a cura di D. Menozzi, in Humanitas», 6 (2008).
215 Sull’influenza avuta dal sacerdote Giuseppe Rinaldi su Cadorna cfr. G. Auletta, Bonus miles Christi: Giuseppe Rinaldi sacerdote del clero secolare di Roma, Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1952. 2° Cfr. M. Franzinelli, La coscienza lacerata. Padre Semeria e la grande guerra, in Italia Contemporanea», 197 (1994), pp. 719-746. 2! Cfr. per gli aspetti politico-istituzionali: Melograni, Storia politica della grande guerra, cit., pp. 124 sgg. e Morozzo della Rocca, La fede e la guerra, cit., pp. 8-9; Chiesa e guerra. Dalla benedizione. delle armi alla “pacem in terris”, cit. Auto celebrativo invece il volume In pace e in guerra sempre e solo pastori. Contributi per una storia dei Cappellani Militari Italiani, Roma, Edizione dell’Ordinariato Militare per l’Italia,
1986. 218 Melograni, Storia politica, cit., p. 126. SUINA:
220 Nella benedizione della cappella del Revellino. Pubblicazione fatta a cura del Circolo Giovanile Cattolico “Religione e patria” a beneficio delle famiglie dei militari, Milano, Tipografia Pontificia e Arcivescovile $. Giuseppe, 1915, p. 15. 22! I] sincretismo tra sentimenti religiosi e patriottici è presente lungo tutti gli anni della guerra anche in Francia, dove le «unioni sacre« tra le diverse fedi — particolarmente impegnate furono le comunità ebraiche — fu un elemento importante della mobilitazione pubblica: J.-J. Becker, Les Francais dans la Grande Guerre, Paris, Laffont, 1980. 22 G. Sodini, La Diana!, 24 maggio 1915, in Dal Patimento alla gloria. Preghiere, iscrizioni, discorsi e commenti del tempo di guerra e di pace, Perugia, G. Donnini,
1926,
DAZO!
2 Melograni, Storia politica, cit., p. 136. 2°! Lettera del 5 dicembre 1916, zona di guerra a Romans, in G. Soldani, Dal fronte del sangue e della pietà, Udine, Gaspari, 2000, p. 33.
25 R. Morozzo Della Rocca, Benedetto XV e la sacralizzazione della prima guerra mondiale, in Chiesa e guerra, cit., pp. 168-169.
22° Anastasio Rossi, per esempio, fu tra coloro che si mostrarono più inclini ad assecondare le posizioni del governo su questo tema; in generale la quasi totalità dei vescovi delle diocesi del Veneto fu incline a sostenere la guerra. 27 G. De Rosa, Presentazione a I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918,
a cura di A. Scottà, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, Vol. 1, pp. X-XI. 228 Il cardinal Pietro Maffi, per esempio, nella sua prefazione ad un volume di omelie di un cappellano militare, colse l'occasione per spiegare, pur all’interno di un libro Ù
Note
251
divulgativo, una questione teologicamente complessa come la conciliazione tra inse-
gnamento evangelico e guerra. «Guai all’umanità — scrisse il cardinale — se lo spirito di mansuetudine del Vangelo non fosse venuto a temperare gli istinti iracondi e feroci che imperversavano tra gli uomini e nelle società umane» (P. Maffi, Prefazione a R. Ragnini, / sermoni della messa festiva detti ai soldati di mare e di terra negli anni 1915-16, Roma, Libreria Salesiana, 1917, pp. 3- 4). ?° Alcune osservazioni molto generali su questi temi sono in C. Pellucci, Religione, patriottismo e guerra. Le contraddizioni di un compromesso, Verona, Libreria Editrice
Universitaria, 1992, p. 68 et passim. 25 Murri, La croce e la spada, cit., p. 98. LUI
PRZO]
°° G. Bellucci, / vivi ed i morti d'Italia nell’ultima guerra d'Italia, Perugia, Unione Tipografica Cooperativa, 1920, pp. 48-49. °° Cfr. Il volto religioso della guerra. Santini e immaginette per soldati, a cura di M. Franzinelli, Faenza, Edit, 2003, pp. 22-23. 2 Profanatori?, in: dl prete al campo. Bollettino religioso quindicinale», 3 (1 ottobre 1015) NPA 2 G. de’ Rossi, I sintomi del male, ivi, 6 (15 novembre
1915), p. 8.
2 Lo slancio iniziale, ivi, 2 (15 settembre 1915), p. 2. dl prete al campo» cessò le pubblicazioni nel febbraio 1919; cfr. R. Murri, Profili di Guerra, Milano, Istituto Editoriale
Italiano, 1916.
27 «Jl prete al campo», 2 (15 settembre 1915), p. 12. 2 Sodini, Il marchio di gloria. 3 giugno 1917, in Dal Patimento alla gloria, cit., pp. 8890. 2 Bertolo, Riflessioni Filosofiche, teologiche, cit., pp. 71-75. 2° Melograni, Storia politica, cit., p. 137. 2! Cfr. Forcella
- Monticone,
Plotone di esecuzione,
cit.; M. Pluviano,
I. Guerrini, Le
fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Udine, Gaspari, 2004. “? G. Minozzi, Ricordi di Guerra. Le bibliotechine agli ospedali da campo. Le case del soldato alla fronte, Amatrice, Tipografia Orfanotrofio Maschile, 1956, p. 100. 25 Cit. in Minozzi, Ricordi, cit., p. 416. 2 A. Ferrara, Ai martiri della patria, Bassano, Stabilimento Lito-Tipografico A. Vincen-
zi, 1916, pp. 5-12. 25 La nostra guerra. Padre Semeria tra i soldati, in L'Illustrazione della Guerra e la stampa sportiva», XIV, 34 (22 agosto 1915), p. 11. 20 In memoria di Sesto Mochi tenente dei bersaglieri che sulla via di Trieste coronava col martirio diciotto mesi di eroismo, nel dì trigesimo della morte, 13 novembre 1916 [s.a. ma Ugo Aiuti], Urbino, Tipografia M. Arduini, 1916, p. 11. “7 C, Lolli, Carroccio Novisimo, in F. Crispolti, Carroccio Novissimo, Milano, Tipografia
Santa Lega Eucaristica, 1918, p. 16; cfr. inoltre be soldier-Priests of Italy. Translated and adapted from the ‘Carroccio Novisimo', Rome, F. Ferrari, 1919.
245 Cfr. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra, cit., p. 228. 2 Ragnini, / sermoni della messa festiva, cit., pp. 27-31.
250 Nella benedizione della cappella del Revellino. Pubblicazione fatta a cura del Circolo Giovanile Cattolico ‘Religione e patria’ a beneficio delle famiglie dei militari, Milano, Tipografia Pontificia e Arcivescovile S. Giuseppe, 1915, le citazioni sono alle pagine TESE 2 Ragnini, / sermoni della messa festiva, cit., p. 259. 2: G. Dalla Vecchia, Brevi discorsetti ai soldati. Dedicati ai R.R. cappellani dell'esercito
italiano, Vicenza, Società Anonima Tipografica, 1915; sulla incidenza della volontà delle gerarchie militari sulla editoria cattolica cfr. // volto religioso della guerra, cit., pp. 16 sgg.
23 Ivi, p. 119.
252
24 2 2° 27
Il martire necessario
Ivi, pp. 29-37. Nella benedizione della cappella del Revellino, cit., p. 16. Cfr. Procacci, La società come una caserma, cit., passim. Non mancarono critiche al loro operato per quel loro rimanere troppo vincolati alle esigenze dei comandi. Perfino i preti soldato mostrarono un certo scontento per il ‘servizio’ offerto dai cappellani. Cfr. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra, cit., pp. 69 sgg.
28 Isnenghi, Giornali di trincea, cit., p. 38.
2°B. Proceda, Strategie e tattiche del Servizio Propaganda al fronte, in L'arma della persuasione, cit., p. 102; Cfr. G.L. Gatti, Dopo Caporetto. Gli ufficiali P nella Grande guerra: propaganda, assistenza, vigilanza, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2000. 260 Marinetti, Taccuini, cit. [anno 1917], p. 63.
201 Cfr. Gatti, Dopo Caporetto, cit., pp. 487-491. 2° Morozzo della Rocca, La fede e la guerra, cit., pp. 95 sgg. D'OLSIOCHIEFICHicIT PALO: 20 P. Mattei Gentili, 7ra la cronaca e la storia. L'atteggiamento dei cattolici e il contenuto
ideale della guerra, in «Vita Pensiero», III, 40 (aprile 1917), pp. 354-357, in part. p.
356. 2 Campolieti, Il Vangelo del soldato, cit., p. 178. Ed inoltre D. Marsiglia, 7 martirio cristiano. Studio storico-critico-apologetico, Roma, Francesco Ferrari, 1918, p. 328 e
PASSA
STD DIE, 207 P. Mazzolari, Diario (1905-1926) e lettere a V. Fabrizi de Biani, a cura di A. Berga-
maschi, Bologna, Centro Editoriale Dehoniano, 1974, vol. I, pp. 543-544; cîr. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra, cit., p. 217.
2% Cfr. Il martirio di un valoroso. Alla memoria del sottotenente Arturo del Lucchese morto nel siluramento del piroscafo Perseo il 4 maggio 1917, Pisa, Tipografia Editrice E. Mariotti, 1917, pp. 3-7; e cfr. In memoria di Sesto Mochi, cit., p. 5. 29 R.M. Giuliani, Le vittorie di Dio. Note ed episodi della trincea, Torino, Società Editrice Internazionale, 1922, p. 44. 270
«Ho spesso osservato che l’anima del combattente non poteva neppur venir azionata dalla propaganda, fosse pure intensa e intelligente, con la quale i capi dell’esercito e appositi comitati cercavano di mantenere e aumentarne la resistenza. [...] Un solo balsamo lenì efficacemente la maggior parte delle piaghe: il sangue filante dal cuore del Re dei dolori intronizzato nel supplizio della croce. [...] Quando si vorrà dipingere l’anima forte e semplice del nostro popolo soldato, tale e quale l'abbiamo vista e toccata quasi con le nostre mani, attraverso alle sue carni aperte, si dovrà mettere
in rilievo che nessuna forza fu dotata di maggiore espansione consolatrice e corroborante, del Cristo Crocifisso. [...] La Croce diffuse la sua luce più viva sui campi di battaglia. Il Martire Divino parlava alle turbe dolenti dall’altare su cui il sacerdote soldato rinnovava il sacrificio cristiano: tutta la religione del campo s’imperniò in questo piccolo Calvario portatile» (Giuliani, Le vittorie di Dio, cit., pp. 16-17). 2!L. Giraldi [ministro Provinciale O/m], Miei carissimi e amatissimi fratelli efiglioli in San Francesco, Firenze, Tipografia A. Meozzi, 1918.
27? La rivista era la «Rivista Minima», che vide la luce a Como nel 1915 nella tipografia A. Volta & Corti per conto del locale Orfanotrofio Maschile nel 1915. 273 Cfr. Chiesa Evangelica Valdese, Albo d'onore ai suoi figli caduti per la patria nella grande guerra, MCMXV-MCMXVTII, Torre Pellice, Tipografia Alpina di U.C. Rastellini, 1921. 27 Janz, Monumenti di carta. Le pubblicazioni in memoria dei caduti della prima Quer-
ra mondiale, in Non omnis moriar, cit., pp. 15-31. Il lavoro minuzioso e meritorio di Janz non spiega la genesi complessa del linguaggio commemorativo. Riferirsi alla
Note
253
funzione propagandistica delle celebrazioni è assai problematico: come si può parlare di propaganda senza mettere in evidenza che la maggioranza di tali pubblicazioni
sono state stampate dopo la fine della guerra? E come dedurre la secolarizzazione della morte in Italia tra i soldati e i loro familiari a partire da questi opuscoli tralasciando il ruolo fondamentale dei cappellani militari nel corso della guerra e che andava in senso opposto? ‘° M. Patti, Tempo Vivo. Discorsi e testimonianze, Corleone, Palladium, 1986, pp. 18 e 82 [Le commemorazioni pronunciate dal 1970 al 1983 pubblicate in questo volumetto si
basano su documenti e testimonianze coeve alla grande guerra]. 7° Cfr. F. Sferra (sacerdote), Discorso Recitato nella chiesa d'Itri, nei funerali per i caduti in guerra, il giorno 4 novembre 1920, Messina, Tipografia Ditta D'Amico, 1920. Per le considerazioni sulla oralità e la scrittura cfr. P. Bourdieu, La parola e il potere. L'economia degli scambi linguistici, Napoli, Guida, 1988, in part. pp. 83-95. 277L. Renzetti, Commemorazioni di guerra, Urbino, Tipografia Melchiorre Arduini, 1918, in particolare le pp. 8-9, 13, 15, 21-22. 28 Cfr. in proposito: Ricordando i caduti di guerra della Parrocchia di Roncà Veronese il giorno 23 novembre 1919, Vicenza, Officina Tipografica Vicentina, 1919; // Collegio dei Ragionieri dell'Umbria ai suoi colleghi gloriosamente caduti nella santa guerra 1915-1918, Perugia, Tipografia Perugina già Santucci, 1920, pp. 27-47.
2°C. Bologna, Flatus Vocis, metafisica e antropologia della voce, Bologna, il Mulino, 1992; P. Zumthor, La lettera e la voce. Sulla “Letteratura” medievale, Bologna, Il Mulino, 1990, passim.
280 Orazione commemorativa detta dal Sig. prof. Natali, in Inaugurazione di una lapide commemorativa degli alunni caduti nella Guerra delle Nazioni 1914-18. 24 maggio 1921. Pubblicazione fatta sotto gli auspici e a beneficio dell’Asgg. naz. Fra Mutilati ed Invalidi di Guerra Sezione di Forlì, Forlì, Stabilimento Tipografico A.G. Rosetti,
1921, p. 13.
SUP 28M. Majenza, Caduti in guerra. Discorso commemorativo pronunziato in Mazzarino
il 24 maggio 1924, Caltanissetta, Tipografia Ospizio A. Rizzica, 1925. 283 U. Galli, ‘n onore dei caduti del Comune di Brozzi nella grande guerra 1915-19. Celebrandosene la solenne commemorazione in Brozzi il 28 settembre 1919, Peretola,
Tipografia A. Fanfani, 1919, p. 14. 284 A. Alterocca, Perché il sangue non sia vano. Parole dette in Brescia l'XI novembre MCMXTVII per solenne consegna di medaglie a famiglie di caduti in guerra, Pubblicate dal Comitato Bresciano della Unione Generale Insegnanti d'Italia, Brescia, s.e., 1917, p. 13.
285 E. Dehò, Salutiamo i morti!, in Latin sangue gentile. Numero unico pubblicato dalla sezione ‘Mutilati e Invalidi di Guerra’ di Senigallia, 21 settembre
1919, s.e., p. 2.
20 G. Bellandi, Ai martiri nostri. Nell’aprirsi del Terzo anno di guerra. Pubblicato a cura del Comitato di Assistenza Civile di Montichiari il 24 Maggio 1917, Brescia, Tipografia E. Apollonio, 1917, p. 3. 287 Bellandi, Ai martiri nostri, cit., pp. 5-11, 14, 16, 19, 22-23, 28-29.
288 Ong, Oralità e scrittura, cit.; p. 236. 289 Cfr. Discorso del Regio Commissario, in Comune di Bomporto (Modena), Onoranze ai caduti in guerra, Bologna, Stabilimenti Tipografici Riuniti, 1921, p. 31. 290 P. Boselli, Ai combattenti di Varazze [giugno 1921], in Aî suoi caduti di guerra Varazze, Varazze, Tipografia G. Botta 1921; G.B. Francesia [Primo direttore del Collegio di Varazze], Ai caduti di Varazze nella grande guerra 1915-1918. Sul bisogno di ricongiungersi ai morti e di averli e sentirli presenti, seppure in un diverso contesto
e su un differente piano di fenomenologia sociale, cfr. Winter, // lutto e la memoria, cit., passim. 2911. Gualdi, Pei conterranei morti in guerra. Discorso pronunciato in Roccasinibalda
254
Il martire necessario
il 18 ottobre 1919
in occasione dell’inaugurazione del monumento ai caduti in quel
Comune, durante la campagna italo-austriaca, Rieti, Tipografia Trinchi, 1919, p. 16.
2? G. Sciumbata [sindaco di Caraffa di Catanzaro], Elogio funebre in memoria degli eroi caduti nel campo dell'onore e del sacrificio nella guerra italo-austriaca. Commemorazione fatta in Caraffa addì 7 gennaio 1917, Catanzaro, Stabilimento Tipografico ‘La Giovine Calabria’, 1918, p. 19.
2° Cfr. Il Collegio dei Ragionieri dell'Umbria ai suoi colleghi gloriosamente caduti nella santa guerra 1915-1918, Perugia, Tipografia Perugina già Santucci, 1920. 2 D. Dal Monte, Parroco a Bagno, parole dette nella Piazza del Comune il 22 aprile 1923 per l'inaugurazione solenne del monumento ai Caduti di Sala Bolognese, in Onoranze ai caduti in guerra di sala Bolognese in occasione dell’inaugurazione del monumento ai caduti nella guerra 1915-1918, Minerbio, Tipografia Paolo e C. Bevilacqua 1923, p. 11; cfr. anche Semeghini, L’esaltazione, cit., p. 19. 295 G. Crocioni [Regio Provveditore agli Studi per la Provincia di Reggio Emilia], Discorso, in Associazione fra le famiglie dei caduti in guerra nella provincia di Reggio Emilia, Alla gloria dei caduti. Discorsi commemorativi, Reggio Emilia, Tipografa G. 296
Notari & C., 1919, p. 13. A. Breveglieri [Discorso del presidente per il Comitato
Pro Ricordo alla memoria
dei caduti in guerra], Cittadini di Sala Bolognese! Signore e Signori! In Onoranze ai caduti, cit., pp. 14-15.
Capitolo II !
Stanghellini, Introduzione alla vita mediocre, in Frescura - Stanghellini - Scortecci, Tre romanzi, cit., p. 443. Si veda l’attività pittorica di artisti oggi quasi completamente dimenticati, come Ettore Beraldini, Giuseppe Zancolli, Casimiro Iodi, Antonio Barrera, Eugenio Prati, Giusep-
pe Sancolli, Alberto Bersani, Guido Tassinari, Carlo Donati, Silvio Casagrande, Gioele Cenini e anche lo scultore Antonio Piatti. In proposito cfr. Esposizione Cispadana di Belle Arti degli artisti soldati e congedati. Auspice la Sezione Veronese dell’Associazione Nazionale dei Combattenti. Catalogo, Verona, Tipografia Officine Grafiche A. Mondadori, 1919; cfr. Mostra d’arte, dicembre 1915-gennaio 1916 a favore delle famiglie degli artisti in guerra, promossa dalla pro-cultura artistica, Genova, Tipografia Marittima, 1915. ? Sull’importanza della tradizione orale dei racconti di guerra nella conservazione popolare della memorie belliche si veda il caso del sacrificio dei fanti italiani sul monte Cengio, un episodio eroico popolarmente conosciuto come «il salto del granatiere». Devo a Francesco Girardin, che ringrazio, la segnalazione del caso. Si veda quanto scrisse Luigi Mancini, solerte animatore della sezione Mutilati e Invalidi di Guerra di Senigallia. «Voi, o Mutilati, nessuno potrà dimenticare. [...] Voi, o Mutilati, nonostante le cicatrici o il moncherino: la vostra vista sarà rampogna ai vili, sarà ammonimento
e incitamento
alla gioventù
nuova»
(Mancini,
in Latin Sangue
Gentile, cit., p. 1). Cfr. B. Bracco, La patria ferita: i corpi dei soldati italiani e la Grande guerra,
Firenze, Giunti,
2012; Il corpo violato. Sguardi e rappresentazioni
Grande guerra, a cura di T. Bertilotti e Ricerca», 38 (2011), n.s.
nella
e B. Bracco, numero monografico di Memoria
E. De Concini, Feriti, in Aeropoesie futuriste di bombardamenti, Roma, Edizioni Futuriste di Poesia, 1941, p. 53. G. De Luna, / corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra contempora-
nea, Torino, Einaudi, 2006. Su tutti questi aspetti resta fondamentale
M. Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e
Note
tecniche della violenza fascista.
255
1919-1922, Milano, Mondadori 2003, in particolare
POTE Cfr. le acute osservazioni di Franzinelli, ivi, pp. 3-9 e 45. Mi riferisco sia alla Lega proletaria fra mutilati invalidi, feriti e reduci di guerra di impronta socialista, sia alla Unione nazionale dei reduci di guerra di ispirazione cattolica. In proposito cfr. G. Sabbatucci, / combattenti nel primo dopoguerra, RomaBari, Laterza, 1974.
Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 156 sgg. Ivi, p. 198. R. Mancini, Liturgie totalitarie. Apparati e feste per la visita di Hitler e Mussolini a Firenze (1938), Firenze, Le Càriti, 2010.
Cfr. Ministri e giornalisti. La guerra e il Minculpop (1939-43), a cura di N. Tranfaglia, Torino, Einaudi, 2005.
* Cfr. quanto scrisse nella sua lunga nota introduttiva Giovanni Borelli ad un volume di poesie di Guido Fontana: G. Borelli, Poeti della guerra, in G. Fontana, Su dal Sangue, Bologna, Zanichelli, 1918. Su questa editoria di minor pregio, ma molto diffusa, cfr. Scotto di Luzio, L’appropriazione imperfetta, cit., pp. 135 sgg. Invece sulle dinamiche dei libri di consumo di argomento letterario e teatrale cfr. Ragone, Za letteratura e il consumo, cit., pp. 763 sgg. Sulla produzione scolastica cfr. M. Galfré, // regime degli editori. Libri, scuola e x
fascismo, Roma-Bari, Laterza, 2005. Fondamentali le brevi note di M. Bartoletti, Memorialistica di guerra, in Storia letteraria d'Italia, nuova edizione a cura di A. Balduino, I Novecento, a cura di G. Luti,
Padova, Piccin, 1989, pp. 623-653. Per questo tipo di letteratura cfr. anche Isnenghi, Il mito della Grande guerra, cit., passim. e Le notti chiare erano tutte un'alba, cit.
7 Sono dati del 1912. Si veda «Bollettino del Consorzio nazionale per biblioteche e proiezioni luminose dell’Istituto Nazionale per le Biblioteche dei Soldati», II (luglioagosto 1912). P. Gorgolini, Pagine eroiche della grande Epopea 1915-1918. Prefazione di A. Luzio, Torino, Eredi Botta, 1923. Cfr. G. Lembo, La gioventù studiosa barese sul Carso, sul Grappa e sul Trentino in pellegrinaggio di amore per i Caduti e di Fede per la Patria. Agosto-settembre 1921, Bari, F. Casini & Figlio Editori, 1921, pp. 16 e 47.
M. Isnenghi, /nzellettuali militanti e intellettuali funzionari. Appunti sulla cultura fascista, Torino, Einaudi, 1979, p. 5.
Molto interessanti sono le osservazioni in G. Bosco, Lo specchio frantumato: la tanatologia storica alla ricerca della morte moderna, in «Rivista di Storia Contemporanea», XV, 3 (1986), in part. pp. 400-401. Sulla questione del milite ignoto è invece del tutto non condivisibile la tesi di Enzo Traverso (che fa propria la posizione di R. Caillois) per il quale il milite ignoto avrebbe avuto la funzione di de-eroicizzare i conflitti (Traverso, A ferro e fuoco, cit., p. 141). L'analisi più convincente in proposito è quella proposta da V. Labita, // Milite Ignoto. Dalle trincee all'altare della patria, in Gli occhi di Alessandro. Potere sovrano e sacralità del corpo da Alessandro Magno a Ceausescu, a cura di S. Bertelli e C. Grottanelli, Firenze, Ponte alle Grazie, 1990, pp.
120-153. A. Tognasso, Il treno sacro, in Gorgolini, Pagine Eroiche della grande epopea, cit., pp.
452-453; cfr. Bertelli, Piazza Venezia, cit., pp. 187-189. (SI O
A Parigi il soldato ignoto era stato ospitato all’Arco di Trionfo, a Londra in Westminster, a Berlino alla Neue Wache, mentre negli Stati Uniti all’Arlington National Ceme-
tery di Washington. Sulle vicende che hanno portato alla costruzione dell’attuale sacrario, dopo il primo sito sul colle sant'Elia nel 1923, vero e proprio museo a cielo aperto, cfr. P. Dogliani,
256
Redipuglia, in I luoghi della Isnenghi, Roma-Bari, Laterza, ? Un importante repertorio di 1921 al 1925 dalla Domenica R. Monteleone - P. Sarasini,
Il martire necessario
memoria. Simboli e miti dell'Italia unita, a cura di M. 1996, pp. 377-389. questi primi monumenti, circa 1700, fu pubblicato dal del Corriere» a cadenza quindicinale. / monumenti italiani ai caduti della Grande guerra,
in La Grande guerra, cit., p. 633; Cfr. G. Isola,
/ monumenti ai caduti della prima
guerra mondiale nell’area trentina, in La memoria pia. I monumenti ai caduti della
27
I Guerra Mondiale nell’area Trentino Tirolese, a cura di G. Isola, Trento, Editrice Università degli Studi di Trento, 1997; G. Salvagnini, Za scultura nei monumenti ai caduti della prima guerra mondiale in Toscana, Firenze, Opus Libri, 1999. Cfr. Monteleone - Sarasini, [ monumenti, cit., p. 636 e P. Desideri, Parole sulla pietra, in S. Cuppini, G. De Marzi, P. Desideri, La memoria storica tra parola e immagine.
I monumenti celebrativi nella provincia di Pesaro e Urbino dal Risorgimento alla Liberazione, Urbino, Edizioni Quattro Venti, 1995, pp. 47- 62.
C. Bianchi, Il nudo eroico delfascismo, in Gli occhi di Alessandro, cit., pp. 162-163. Le figure femminili non erano affatto assenti, soprattutto nella forma della Vittoria Alata, della ‘madre-patria’ o della armata e clipeata patria-guerriera, con un certo progressivo sposarsi, man mano che il regime si afferma, verso linguaggi più convenzionali. Cfr. Monteleone - Sarasini, I monumenti, cit., pp. 631-662; Desideri, Parole
sulla pietra, cit., pp. 47-52; Tobia, Dal Milite Ignoto al nazionalismo monumentale fascista (1921-1940), in Storia d'Italia, Annali 18, Guerra epace, cit., pp. 598 sgg.
Cfr. M. Baioni, Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell'Italia fasci-
3
sta, Roma, Carocci, 2006. Uniche eccezioni in Italia sono quelle del Museo della Guerra
di Rovereto e di Gorizia, sorti per musealizzare la Grande guerra. Cfr. La Grande guerra in vetrina. Mostre e musei storici in Europa negli anni Venti e Trenta, a cura di M. Baioni e C. Fogu, numero monografico di Memoria e Ricerca», 7 (2001), n.s. Cfr. De Manincor, Guida del Museo, cit. Mancini, Liturgie totalitarie, cit., pp. 85-92.
E. Ambrosi, Squadrismo eroico. Giovanni Berta, Milano, Casa Editrice Carroccio,
1936, pp. 60-61. Bosco, Guerra, cit. ° Cfr. G. Fioravanti, Introduzione a Partito Nazionale Fascista. Mostra della Rivoluzio-
30
37
3;x
ne Fascista. Inventario a cura di G. Fioravanti, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1990, pp. 15-74. Mostra della Rivoluzione fascista. Guida storica, a cura di D. Alfieri e L. Freddi, Roma, Partito Nazionale Fascista, 1933, p. 227. L. Malvano, Fascismo e politica dell’immagine, Torino, Bollati Boringhieri, 1988; E. Gentile, // culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell'Italia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1993. A. Fiore, La monumentalizzazione dei luoghi teatro della Grande Guerra: il sacrario di Redipuglia di Giovanni Greppi e Giannino Castiglioni, in «Annali di Architettura. Rivista del Centro Internazionale di Studi di Architettura Andrea Palladio di Vicenza»,
15 (2003). Mostra della Rivoluzione fascista, cit., p. 229. Alla chiusura della mostra tutto il materiale fu trasferito alla Galleria d'Arte Moderna, e tornò ad essere visibile nel 1937, in concomitanza con l’inaugurazione dell'imponente mostra sulla romanità, ma senza il ‘sacrario dei martiri’ e con l’intento celebrativo della figura del Duce. Il tema della guerra tornò al centro della scena con le celebrazioni del ventennale, in occasione
del quale le porte della mostra riaprirono i battenti con tre nuove sale dedicate alle campagne belliche del momento. N. Zapponi, // partito della gioventù. Le organizzazioni giovanili del fascismo 19261943, in «Storia Contemporanea», XII, 4-5 (1982), pp. 569-633. 40
G. Fabiani, La gran fiamma,
Milano, Vallardi, 1921, p. 239.
Note
257
La banda del ciuffo rosso, Milano, Sonzogno, 1928. M. Del Bello, Z/ volo delle aquile giovinette. Breviario, Roma, Casa Editrice Il Libro Periodico, 1932, pp. 24-25 e 29. C. Bonini, A/la guerra. Dal mio diario di cappellano militare, Brescia, Società Editrice La Scuola, 1928, p. 6. Libro di cultura militare ad uso delle scuole medie inferiori, vol. I, Consorzio Edito-
riale per la Cultura Militare, 1937. 45
Ivi, p. 195. Cfr. anche Sodini, Rito di gloria,
2 novembre 1915, in Dal Patimento, cit.,
pp. 66-68. 6
L. Ferretti, // libro dello sport, Roma-Milano, Libreria del Littorio, 1928, p. 6.
Fochesato, La guerra nei libri, cit., p. 33 e Fava, La guerra a scuola, cit., passim. Ideologiche e prive di equilibrio le affermazioni secondo cui l’educazione ‘spirituale’ fascista si riduceva «semplicemente a piazzare i reparti ONB di fronte agli altoparlanti
dai quali a un certo punto sgorgava, fra scrosci e rumori impensabili, la voce del Duce (A. Santoni Rugiu, Presentazione a C. Betti, L’Opera Nazionale Balilla e l’educazione fascista, Firenze, La Nuova Italia, 1984, p. XX et passim). Dello stesso tenore riduttivistico sulla efficacia della educazione fascista è tutto il libro.
Fava, La guerra a scuola; cit., p. 55. 49
50
La dottrina fascista, Roma, Libreria del Littorio, 1929, ora ripubblicato in Credere obbedire combattere. I catechismi del fascismo, a cura di C. Galeotti, Roma, Stampa Alternativa, 1999, pp. 45 e 21.
Canzoniere.
Canti corali religiosi e patriottici trascritti per voci di fanciulli dal
Maestro Achille Schinelli, Roma, Libreria dello Stato, 1929.
Cfr. in proposito quanto scrivevano i giornali per ragazzi come il «Corriere dei Piccoli, «1 Balilla», o il «Gazzettino dei ragazzi».
N. Tramonti, Gli sports di guerra. Trattato di educazione fisica militare, Bologna, L. Cappelli, 1925,p. 111. Ivi.
Cfr. C. Baseggio, La Compagnia Arditi Baseggio, Venezia, Istituto Editoriale Veneto, 1929; cfr. Gandin, Reparti di Assalto, in Enciclopedia italiana, cit., ad vocem.
? Cfr. Bologna, Musei, cit., fotografia n. 101. Per un manifesto di D'Annunzio agli Arditi, cfr. «L’Ardito. Settimanale dell’associazione Arditi d’Italia», I, 22 (5 ottobre 1919), p. 1. Cit. in Cordova, Arditi e Legionari dannunziani, Padova, Marsilio, 1969, p. 211 [dallo
Statuto dell’Associazione fra gli Arditi d’Italia del 1° gennaio 1919, art. 1]. Iut, pp. 10-11-23, 28. M. Carli, Noi Arditi, Milano, Facchi Editore, 1919, p. 9.
Rochat, Gti Arditi, cit., pp. 124 e 17. M. Rèbora, // nostro programma, cit. in G. Sabbatucci, La stampa del combattentismo (1918-1925), Bologna, Cappelli, 1979, pp. 54-55. Cfr. Cordova, Arditi e Legionari, cit., p. 33. 3 Rochat, Gli Arditi, cit., p. 137.
' Quella dannunziana fu una breve parentesi foriera di una spaccatura interna nelle organizzazioni degli Arditi che si divisero, non senza ondeggiamenti. Si pensi per esempio che nel 1921 a Roma, in seno alla locale sezione dell’associazione degli Arditi, un piccolo gruppo capeggiato dal tenente Secondari dette vita alla formazione degli Arditi del Popolo di cui facevano parte anarchici e repubblicani con lo scopo di difendere con la forza le masse lavoratrici dalle aggressioni fasciste. 3 Cit. in Cordova, Arditi e legionari, cit., p. 233 [appendice]. Cfr. I. Balbo, L'ultima azione degli Alpini del Cadore. XXVI-XXXI ottobre MLMXVHI, pp. 205-214, in E. Michelini-Tocci, Fede il dovere. La patria amore. Lettere ed altri scritti, Roma, P. Ma-
glione & C. Strini, 1920.
258
Il martire necessario
«’Ardito» continuò le sue pubblicazioni fino al 1928, anche se dal 1924 furono assai irregolari. Rochat, Gli Arditi, cit., pp. 18 e 22. F. Vecchi, Arditismo civile, Milano, Edizioni dell’Ardito,
1920, p. 38. Cfr. inoltre M.
Palieri, Gli Arditi. Glorie e sacrifizi degli Assaltatori, Milano, Impresa Editoriale, 1932. 69
P. Giudici, Fiamme Nere. Note di Gloria e di passione,
Firenze, Cecconi,
1920. Re-
ginaldo Giuliani nel 1919 aveva dato alle stampe Gli arditi. Breve storia dei reparti d'assalto della Terza Armata, Milano, Treves, 1919, con il quale inquadrava l’agire del reparto entro una logica di martirio. 70
A. Marchese,
Vademecum per l’Avanguardista d'Italia. Fede, disciplina, sacrificio,
arditismo, Napoli, F. Bideri Editore, 1928, pp. 5-8. Alberto Marchese era capitano e professore di Astronomia e Navigazione al Regio Istituto Nautico di Napoli. C. Mazzantini, A cercar la bella morte, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 167-168.
M. Sarfatti, Dux, Milano, Mondadori, 1934, p. 164.
Cfr. Primo libro del fascista [1938], si cita dalla quarta edizione, 1939, ora ripubblicata in Credere obbedire combattere, cit., p. 20.
C. Gambacorta, Discorso pronunziato a Poggio S. Vittorino, in occasione dello scopri-
mento della lapide ai Caduti, Teramo, Tipografia Cioschi, 1931, p. 8. R. Ottanelli, O. Valle, Stille di sangue (fascismo fiorentino), Firenze, Stabilimento Tipografico I. Funghi & C. 1922 [il brano è tratto dall’introduzione: Per ricordare]. Cfr. Suzzi Valli, I! culto dei martiri fascisti, in La morte per la patria, cit., pp. 101-117. Il primo libro del fascista [1937], si cita dalla quarta edizione, 1939, ora ripubblicata in Credere obbedire combattere, cit., p. 86. Beltramelli, La grande Diana, in «dl Romanzo dei ragazzi», II, 5 (maggio 1943) [cit. dalla presentazione]. A. Staderini, La marcia dei martiri: la traslazione nella cripta di Santa Croce dei caduti fascisti, in «Annali di Storia di Firenze», 2008, pp. 195-214. Si veda per esempio il volumetto di A. Zoccoli, Reliquie di martiri della guerra e del fascismo, Livorno, Benvenuti & Cavaciocchi, 1924, dedicato ai due figli: il primo caduto in guerra a Castagnavizza nel 1917, il secondo caduto in uno scontro a fuoco
L
insieme ad un amico a seguito di una spedizione punitiva a San Frediano a Settimo (Fi) nel 1921. I ricordi di entrambi sono legati assieme in uno stesso opuscolo che raccoglie stralci di lettere dal fronte e cronache giornalistiche del secondo avvenimento. A. Marpicati, Martire, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1949, ad vocem.
8
Gruppo Rionale Fascista ‘Giovanni Berta’ di Firenze, Firenze, R. Bemporad & Figlio
Editori, 1934, p. 26. ? Cfr. G.A. Chiurco, Storia della Rivoluzione Fascista, Firenze, Vallecchi, 1929, vol. 3, p. 5. 8 di Ottanelli - Valle, Stille di sangue, cit., pp. 21-29. Si riportano infine nel testo anche delle brevi statistiche dei caduti: fascisti feriti circa 290 (diversi mutilati), carcerati 90
120, condannati (sino ad oggi) 37, processi penali in corso 110, mandati di cattura e
di comparizione 135. 8 Si veda in proposito l’accurata Cronologia della violenza politica 1919-1922 [in appendice) a Franzinelli, Squadristi, cit., pp. 277-403. 85 E. Ambrosi, Squadrismo eroico. Giovanni Berta, Milano, Casa Editrice Carroccio, IOSICE 10159 * Gruppo Rionale Fascista, cit., p. 24. Ottanelli - Valle, Stille di sangue, cit., pp. 14-17. * Gruppo Rionale Fascista, cit., pp. 32-35. Ambrosi, Squadrismo eroico, cit., pp. 57 e 59. 90
Ivi, p. 38.
Note
259
2 Ivi, pp. 48-49. ? Ivi, pp. 50-51. 93 Ivi, pp: 53-54. Cfr. in proposito quanto osserva J.-P. Vernant, L'individuo, la morte, l’amore [1989], 95
Milano, Raffaello Cortina, 2000, pp. 35-73. PNF. Fasci Giovanili di Combattimento. Comando Provinciale di Novara, I Martiri del Fascismo Novarese, Edito l11 ottobre 1931 a cura del Comandante
Provinciale e
del Fiduciario Provinciale Associazione Famiglie Caduti Fascisti, s.e, s.l. [ma Novara],
pp. 12, 21, 26. 96
PNEF. Fasci Giovanili di combattimento. Comando Provinciale-Siena, a cura dell’Ufficio Propaganda Rino Daus, Sisto Periccioli, Eutimio Gallinella, Alessandro Mini, Pietro Averani, / martiri del fascismo senese, Siena, Ufficio Propaganda Fascista-Tipografia Meini, 1930, pp. 9-11.
7 Ivi, pp. 13-15. % Ivi, pp. 17-19. Cfr. S. Mannino, Una domenica di sangue. I “fatti di Renzino” tra storia e mito, Bologna, Il Mulino, 2011.
” Federazione dei fasci di combattimento Mantova, I martiri del fascismo mantovano, a cura della sezione scuola media dell’A.F.S., s.l., s.e. 10 Ottanelli - Valle, Stille di sangue, cit., p. 44.
10! PNE. Fasci Giovanili di combattimento. Comando Provinciale di Arezzo. I martiri del fascismo aretino, a cura dell’Ufficio Propaganda e Stampa, Arezzo, F. Scheggi, 1931, pp. 27-28; cfr. G. Galli, Arezzo e la sua provincia nel regime fascista: 1926-1943, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 1992.
!°2 E. Palmieri, Purificare l’anima risalendo il Calvario. Diario ed impressioni di guerra, Trieste, Casa Editrice de ‘I Confini d’Italia’, 1926, pp. 3-4. 16 Cfr. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra, cit. Cfr. inoltre C. Trabucco, Preti d’oltre Piave. Pagine eroiche del Veneto invaso, Torino, Società Editrice Internazionale, 1959
[epoca della compilazione 1936] dedicato ai religiosi combattenti, come ad esempio il chierico Ferdinando
Urli, tenente
del 4° Alpini, medaglia
d’oro al valor militare
per l’impresa del Pasubio. M. Franzinelli, Stellette, croce e fascio littorio. L'assistenza religiosa a militari, balilla e camicie nere 1919-1939, Milano, Franco Angeli, 1995, pp. 15-64. !“ Ordinariato Militare d'Italia, Manuale religioso del soldato, Roma, Scuola tipografica Pio X, 1928.
‘65 Franzinelli, Ste/lette, cit., pp. 105-106.
106 Ivi, pp. 131-137.
!07 Cfr. M. Rubino, San Michele Arcangelo patrono della Milizia, Roma, Tipografia del comando
Generale della Mvsn, s.d.; R.P. Violi, Religiosità e identità collettive. I san-
tuari del Sud tra fascismo, guerra e democrazia, Roma, Studium, 1996, p. 75. La devozione a San Gabriele prosegue nel corso della seconda guerra mondiale, come testimoniano le decine di lettere inviate dai soldati al santuario di San Gabriele dell'Addolorata; ma le paure della guerra determinano una riviviscenza di altri culti, come ad esempio quello di San Nicola e della Madonna di Pompei. Cfr. ivi, pp. 93II
108 Ivi, p. 203. Cfr. S. Colonnelli, Religione e politica tra le due guerre. Immagini e propaganda religiosa, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012.
109 Cfr. Ministri e giornalisti, cit. 10A. Gemelli, [Introduzione al Soldato prega! Le preghiere del soldato, Milano, Opera della Regalità, 1936, p. 3. tl Franzinelli, Ste/lette, cit., pp. 218-220. "2G. De Sando, La spada e la croce, Milano, Casa editrice Amatrix, 1927, pp. 114 e 113.
113E. D’avila, Breviario di morale eroica fascista, Roma, Edizioni Ande, 1941, p. 5. Per
260
Il martire necessario
un panorama particolarmente istruttivo su come durante il fascismo si sia declinato il tema della guerra, si veda quanto pubblica dal 1922 al 1943 «La Rivista illustrata del Popolo d’Italia», fondata da Arnaldo Mussolini. t4C. Caravaglios, L'anima religiosa della guerra, Milano, Mondadori, 1935, pp. 39 e 47. Sull’editoria di massa / best-seller del Ventennio. Il regime e il libro di massa, a cura di G. De Donato, V. Gazzola Stacchini, Roma, Editori Riuniti, 1991.
115 Sulla specifica attività propagandistica e di mobilitazione in occasione di questa guerra cfr. P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, RomaBari, Laterza, 1975, pp. 119-130. Cfr. A. Garaventa, In guerra con gli alpini, Milano, Casa Editrice Mundus, 1935, pp. 34 e 193-195. 1° Erano temi che si sovrapponevano e si confondevano, come accadeva ormai fin dalle prime guerre africane, con i discorsi del commiato, poi raccolti in libretti ed opuscoli che circolarono a migliaia. Cfr. L.F. Pasa, Natale di sangue. Fiume 24-28 dicembre 1920. Discorso pronunciato dal legionario fiumano Luigi Pasa, salesiano, cappellano militare ausiliario Regia Aeronautica, insegnante nel Collegio Don Bosco di Pordenone, Udine, Arti Grafiche Pordenone, 1939; Id., Nel ventennale dell'Arma Azzurra, Udine, Arti Grafiche Pordenone, 1943 p. 13. 7 PA. Brasile, Breviario spirituale della Gioventù Fascista, Lanciano, Carabba, 1934, p.
21. Cfr. inoltre L. Pollini, Guerra e fascismo spiegati ai ragazzi, Torino, Utet, 1933. !!5Su questi temi restano fondamentali le pagine di Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 232 sgg.
LNVIRO 295) 120 Mazzantini, A cercar la bella morte, cit., pp. 173 e 172. Non si trattò di un caso isolato, si vedano, per esempio, le Lettere di condannati a morte della RSI, Roma,
Il Borghese & Ciarrapico, e Ho il cuore buono. Lettere di condannati a morte della Resistenza e della Repubblica Sociale Italiana, Milano, Maurizio Minchella
Editore,
N05 121 È questa, interamente, la problematica di Foucault che qui si richiama e si condivide: M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976. 122
S. Bertelli, Religio regis e media aetas, in Gli occhi di Alessandro, cit., p. 15. Ciò non
significa, ovviamente, che questo episodio avesse cancellato posizioni politiche diversissime tra loro e solo momentaneamente coagulatesi sotto l’unico stendardo deila guerra di liberazione: tra quelle dei monarchici e dei repubblicani, dei comunisti e dei cattolici democristiani, dei liberali e degli azionisti. 123 Pavone, Una guerra civile, cit., p. 512.
UVE IPPI9I2=51SI 125 Si vedano le testimonianze estesamente trattate da Pavone, ivî, pp. 513-514 e note 44-50. 126
S. Luzzatto, Il corbo del duce. Un cadavere tra immaginazione, Torino, Einaudi, 1998, pp. 43-48.
storia e memoria,
12? Per la ricostruzione della vicenda in oggetto, cfr. G. Salotti, Nicola Bombacci:
un
comunista a Salò, Milano, Mursia, 2008.
128 Cfr. Pavone, Una guerra civile, cit., pp. 419-422.
129 Ivi, p. 422.
1591 sacrifici resistenziali vengono assunti come fondanti dei partiti politici, in particolare del Partito comunista in tantissimi opuscoli stampati per ‘celebrare’ la Resistenza in varie parti d’Italia. Particolarmente indicative le pagine introduttive a Dall'antifascismo alla Resistenza. Le origini del Pci a Jesi. Lettere, documenti,
testimonianze, a
cura del Pci Comitato di Zona Media e Alta Vallesina e del Coordinamento cittadino di Jesi, Jesi, tipografia Co. A. L. A., 1984, pp. 5-7. 45! Cfr. A. Malraux, / conquistatori, Milano, Mondadori,
1954.
4: M. Koltsov, Diario della guerra di Spagna, Milano, Schwarz, 1961, p. 11.
Note
261
1° Cfr. A.R. Perry, // santo partigiano martire. La retorica del sacrificio nelle biografie commemorative,
Ravenna,
Longo,
2001; G. Gribaudi, Narrazioni pubbliche,
morie private. La costruzione dei discorsi nazionali e il caso campano,
e memorie
di guerra,
a cura
di L. Baldissara,
P. Pezzino,
Napoli,
me-
in Crimini
L’Ancora
del
Mediterraneo, 2004, pp. 209-243. Inoltre cfr. L’Italia in guerra 1940-43, a cura di B. Micheletti, P.P. Poggio, in «Annali della Fondazione L. Micheletti», 5 (1990-91); Guerre fratricide. Le guerre civili in età contemporanea, a cura di G. Ranzato, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; G. Schwarz, La morte e la patria: l’Italia e i difficili lutti della seconda guerra mondiale, in «Quaderni storici», 2 (2003), pp. 551-587;
D. Gagliani, La guerra tra storia politica e storie individuali, in Italia Contemporanea», 242 (2006), p. 91. 15 Gentile, La Grande Italia, cit., pp. 240 e 243. 15° Cfr. G. Oliva, “L’alibi” della Resistenza. Ovvero come abbiamo vinto la seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 2003.
156 Su questo le pertinenti osservazioni di G. Pedullà, Una lieve colomba [introduzione], in Racconti della Resistenza, a cura di G. Pedullà, Torino, Finaudi, 2005, pp. V-VII.
17 Ivi, p. VII. Motivo di riflessione sugli stereotipi come elementi non accidentali dell'immaginario bellico occidentale è fornito da J.-P. Vernant, Senza frontiere. Memoria, mito e politica, Milano, Raffaello Cortina, 2004; e da F. Castelli, Miti e simboli
dell'immaginario partigiano. I nomi di battaglia, in Contadini e partigiani, Alessan-
dria, dell'Orso, 1986, pp. 287-306. 15 Cfr. Pedullà, Una lieve colomba, cit., pp. X-XI.
15 F. Antonicelli, Perché questo convegno, in Convegno internazionale delle città martiri del nazifascismo (nel primo centenario dell'Unità d'Italia), Torino, Tipografia Comuni, 1962. 1° Cfr. R. Leydi, Introduzione a Canti della Resistenza italiana, raccolti e annotati da T. Romano e G. Solza, Milano, Edizioni Avanti, 1960.
"! Emblematico il libro di compilazione ad uso scolastico nella collana Quaderni di Didattica della Storia del Museo del Risorgimento di Trento, Ora, Fumo, Tempesta e gli altri. Storie di resistenza trentina e italiana proposte a studenti di scuola media superiore, Trento, Grafiche Artigianelli, 1994, pp. 168 sgg. 4 Per una ricognizione delle differenti letture della Resistenza dalla fine degli anni Quaranta ad oggi, cfr. FE. Focardi, La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2005.
15 [Il giudizio, del tutto avventato, è in G. Falaschi, La resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976, pp. 10 e 19; l’insostenibilità della tesi di Falaschi è già stata segnalata da Pavone, Una guerra civile, cit., p. 743, n. 69.
‘4 P. Bretto, La resistenza in Montanaro e dintorni. Pagine di eroismi e di sangue. 19401945, Ivrea, Tipografia Bolognino, 1971, p. 5. ‘5 Pavone, Una guerra civile, cit., pp. 169-220 e 428. 146A, Paoluzi, La letteratura della Resistenza, Milano, Edizioni Cinque Lune, 1956, p. 9.
17 Cfr. A. Pesenti, La cattedra e il bugliolo, Milano, La Pietra, 1972. Cfr. le osservazioni di G. De Luna, Introduzione a Un Filo tenace. Lettere e memorie 1944-1969. Willy Jervis, Lucilla Jervis Rochat, Giorgio Agosti, Scandicci, La Nuova
Italia, 1998, p. IX e n. 4.
‘8 M. Sipala, Una premessa, in Associazione Mazziniana Italiana. Comitato Regionale Siciliano Risorgimento, Resistenza, letteratura, Imola, Santerno Edizioni, 1995, p. 9;
sulla omologia storico-morale tra rivoluzione del 1848, imprese garibaldine e movimento resistenziale, cfr., per esempio, Primo Visentin: Masaccio, medaglia d'oro al Valor Militare, Cassola, Tipografia Moro, 1991; P. Cooke, La Resistenza come Secondo Risorgimento: un topos retorico senza fine?, in Resistenza e autobiografia della Nazione: uso pubblico, rappresentazione, memoria, a cura di A. Agosti, C. Colombini, Torino, Seb, 2012.
262
Il martire necessario
19 R. Vivarelli, Fascismo e Storia d'Italia, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 13 sgg; Baioni,
Risorgimento in camicia nera, cit. passim. Mentre non intuisce le ragioni profonde
della continuazione del linguaggio martirologico nella celebrazione resistenziale che farebbe da velo a (più oneste?) tensioni interpretative S. Peli, La resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004, p. 234.
150 Celebrazioni del Primo e del Secondo Risorgimento. Ardeatine: rievocato il sacrificio dei 335 martiri nel primo centenario dell'ebopea garibaldina, Roma, Tipografia Imperia, 1960. !! La Rievocazione storica del prof. Salvatore Morosini, in Associazione Nazionale Famiglie dei Martiri Caduti per la Libertà della Patria, La difesa di Roma nel XVI anniversario, Roma, Industria Tipografica Imperia, 1959, p. 18.
1° L. Gerla, Una mattina mi son svegliata... (fatti e personaggi della resistenza), Brescia, Edizioni Brescia Nuova, 1989, pp. 7;8. !5 B. Fenoglio, Appunti partigiani. ‘44-45, a cura di L. Mondo, Torino, Einaudi, 1994, PASTA b4I. Lorenzon, Se mi prendono m’impiccano alla corda della campana mediana. Memorie di Renato Pizzol sulle vicende della guerra partigiana, Vittorio Veneto, ISREV, 2004, p. 24; P. Chiodi, Banditi [Alba, 1946] Torino, Einaudi, 2002, p. 18. Su questi temi cfr. G. Crainz, L'ombra della guerra. Il 1945, l’Italia, Roma, Donzelli, 2007, in part.
pp. 15-19 e 69-121. !5 Cfr. Calvino, Il bosco degli animali, prima edizione in d’Unità», 20 aprile 1948, cit. da Racconti della resistenza, cit., p. 21.
15°G. Caproni, Sangue in val Trebbia, prima edizione in «Mondo Operaio», 23 aprile 1949, ora in Racconti della Resistenza, cit., pp. 77 e 79. 7A. Zanzotto, Faier: 1944, ed or. in «Il popolo di Milano», 27 settembre 1955, ora in Racconti della Resistenza, cit., p. 255.
58M. Venturi, Estate che mai dimenticheremo, prima ed. in Gli anni e gli inganni, Milano, Feltrinelli, 1965, cit. in Racconti della Resistenza, cit., p. 305. 15° R. Bilenchi, L’Attentato, ed. or. in Amici 1976, cit. in Racconti della Resistenza, cit.,
PAZZA !‘% D. Tarizzo, Come scriveva la Resistenza. Filologia della stampa clandestina 1945, Firenze, La Nuova Italia, 1965, p. 5.
1943-
!©! Antonicelli, Perché questo convegno, cit.; Lorenzon, Se mi prendono, cit., p. 59. !©L. Gherardi, Le querce di Monte sole. Vita e morte delle comunità martiri fra Setta e Reno. 1898-1944. Con un saggio di Giuseppe Dossetti, Bologna, Il Mulino, 1986, le citazioni sono tratte dall’appendice: Memoriale di Antonietta Benne. Relazione richiesta da Sua Em. Card. Nasalli Rocca, pp. 45-46; A. Martellini, Fiori nei cannoni: nonviolenza e antimilitarismo nell'Italia del Novecento, Roma, Donzelli, 2006. !5 F. Orlando, / martiri di Fornelli, Roma, Telesio, 1978, p. 142. 1 M. Rigoni Stern, Un ragazzo delle nostre contrade, in Id., Ritorno sul Don, Torino, Einaudi, 1973, cit. in Racconti della Resistenza, cit., pp. 228 e 226. Si tenga presente che egli non prese parte alla Resistenza perché internato a Innsbruck e in Polonia. 15 G.B. Lazagna, Ponte Rotto. La lotta al fascismo: dalla cospirazione all’insurrezione armata, Milano, Sapere Edizioni, 1972, pp. 126-128. 166 Chiodi, Banditi cit., 1975, pp. 23, 5, 31. !07 Fortini, Sere in Valdossola, ed or. in da Gazzetta del Nord, 21 dicembre Racconti della Resistenza, cit., pp. 163-164.
1946, ora in
‘5A. Camoirano, Scarpe rotte, Genova, Frilli, 2005. Il quaderno è del 1944, ma non sappiamo se vi sono state correzioni e interpolazioni successive. 19 Fenoglio, Appunti, cit. p. 36. !® Molto indicative le immagini poste a corredo del volume: Za provincia della Spezia, Medaglia d’oro della Resistenza. L'impegno ed il sacrificio di una provincia per la
Note
‘
263
libertà, La Spezia, edizioni Giacché, 1997, in part. pp. 27, 49, 55, 56, 84, 95, 107, 116,
HO 5
0775
I. Calvino, Ultimo viene il corvo, in d’Unità» [ed. Milano], 5 gennaio 1947, ora in Id., Romanzi e racconti, Milano, Mondadori 1991.
!? Si vedano le foto di Attilio Pelosi relative alla battaglia di Ancona e alla liberazione di Falconara ora conservate presso il Museo della Resistenza di Falconara Marittima. !P. Levi Castiglione, Guerriglia nei Castelli Romani [stesura del settembre 1943], Ge-
nova, Il Melangolo, 2006, pp. 76-77. !” Cfr. P. Gios, Clero, Guerra e Resistenza nelle relazioni dei parroci, Perugia, Edizioni Asiago, 2000; G.E. Fantelli, La resistenza dei cattolici nel Padovano, Padova, Federazione Italiana Volontari della Libertà, 1965.
!P L. Bolis, 7 mio granello di sabbia [1946], Torino, Einaudi, 1995, pp. 3, 23, 32, 43, 49
Sgg. 17° Ivi, pp. 207 e 208. !77S. Bacicchi, Perché Resistenza. Quando pace e democrazia richiedevano coraggio e sacrificio. L'esperienza della brigata Fontanot, a cura del Comitato Provinciale dell’ANPI di Gorizia, Tricesimo, Gorizia, Tipografia Saccardo Leandro, 1985, p. 28. I
nomi dei Fontanot erano in realtà Licio e Armido. !75P. Carmagnola, Vecchi partigiani miei [1945], nuova edizione a cura di A. D'Arrigo, Milano, Franco Angeli, 2005.
9 Ivi, p. 95.
!80 Levi, Fine del Marinese, pubblicata la prima volta in «dl Ponte, agosto-settembre 1949, ora in Racconti della Resistenza, cit., pp. 195-198. !8! Venturi, Cinque minuti di tempo, ed. or. 1948, cit. da Racconti della Resistenza, cit.,
p. 316. !82 C. Coccioli, Capitolo di un romanzo, in 11 Agosto, cit., p. 33. !55M. Angelini, Ricordo di Bartolomeo Meloni, in Un martire della libertà. Bartolomeo Meloni, 10 luglio 1944, Venezia, Stabilimento A. Vidotti, 1946, pp. 53 e 52.
!8! L’orazione storico-celebrativa del prof. Renzo Amedeo, in Associazione Nazionale Famiglie dei Martiri Caduti per la Libertà della Patria (ANFIM), I Comune di Priola (Cuneo) rievoca i suoi caduti nella lotta e nella guerra di liberazione della patria. 2 agosto 1959, Roma, Industria Tipografica Imperia, 1959, pp. 17-18. !85 «Così nostro Signore Iddio ci aiuta nell’altro mondo», nella richiesta di «far dire qualche messa, e ricorda che «il senso della vita è nell’obbedire alla propria coscienza» e che «ciò che ci sprona e sollecita» trova «dle sue fondamenta nel costume sano e gagliardo del nostro piccolo mondo ciociaro. Mondo chiaro e sereno, permeato di solide virtù» (G. Minnocci, / ciociari e la resistenza. Discorso commemorativo, in Per l’inaugura-
zione del monumento alla ‘mamma ciociara’ in Castro dei Volsci nel ventennale della resistenza. 3 giugno 1964, a cura dell’amministrazione provinciale di Frosinone e del Comune di Castro dei Volsci, Frosinone, La Tipografica, 1964, pp. 24-28). ‘86 M. Martelli, Una guerra e due resistenze. 1940-1946, Bari, Edizioni Paoline, 1976, pp. 67 e 73. Molti religiosi fecero rientrare la lotta degli oppositori al fascismo, dei perseguitati e dei partigiani nell'ampio alveo del martirio, usando le stesse espressioni che erano state buone anche per sostenere ‘il sacrificio’ dei persecutori. Scrisse il frate. minore padre Ruggero Cipolla — all’epoca confortatore per i condannati a morte nel carcere e cappellano delle carceri torinesi — che il muovere incontro alla morte aveva
«affinato ed esaltato» ciascun condannato alla pena capitale, sorprendentemente davanti al sacrificio la «visione delle cose» si faceva in loro «più completa, poiché «solo quel sangue che scende puro e mondo nelle viscere della gran madre, è fecondo,e scorre, nella morte, dopo gli odi e le esaltazioni [...] per rigermogliare nell'amore e
preparare la rinascita della Patria e il riscatto del suo destino» (Padre Ruggero [sic.] / “miei condannati a morte”, Torino, Editrice Il Punto, 1998, pp. 15-16).
264
{l martire necessario
187 Ivi, pp. 217-218. 188 Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943-25 aprile 1945) [1952], a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, pref. di E. Enriques Agnoletti, Torino, Einaudi, 1952, p. 38.
18° Ivi, pp. 48-49 [lettera di Franco Balbis]. 190 Ivi, pp. 33-34 [lettera di Antonio Fossati]. 19! Firenze [i sabati dello studente] 1957. Si ripubblicano le lettere dei condannati a morte uscite presso Finaudi. Cfr. Morire per vivere. Vita e lettere di Francesco Tumiati medaglia d’oro della Resistenza, Ferrara, Corbo Editore, 1997. 1° C. Gambacorta, Alberto Pepe e Renato Molinari martiri della resistenza, s..l., Edizioni BxcoM9y1hpst38:
195 1% 15 196
Enriques Agnoletti, Ultimo colloquio col comandante Toni, in 11 Agosto, cit., p. 51. Cfr. Le memorie della Repubblica, a cura di L. Paggi, Firenze, La Nuova Italia, 1999. Da Campo Formio a Vittorio Veneto: Guida, p. 35 et passim. Presso il Museo della Resistenza Reggiana si conserva un ferro da stiro con il quale fu seviziato il partigiano Gino Manfredi il 20 dicembre del 1944. Su tutto questo episodio cfr. Comitato Promotore per la erezione del monumento ai martiri di Villa Sesso, Sesso ai suoi caduti per la libertà, Reggio Emilia, Tecnostampa, 1975, p. 67 et passim.
197 Museo Civico del Risorgimento e della Resistenza ‘R. Giusti’ [catalogo] Ila parte, Età Contemporanea, Mantova, Stabilimento Grafico Publi-Paolini, 1988, p. 1.
1986. Pertini, Prefazione a A. Cervi, R. Nicolai, I miei sette figli, Roma, Editori Riuniti
[1955], 2004, p. 10. 19L. Fanti, Una storia di campagna.
Vita e morte dei fratelli Cervi, Milano, Camunia,
1990, p. 167. 200 Nel nome della libertà. Celebrazioni per il XXX anniversario del sacrificio dei sette fratelli Cervi e di don Pasquino Borghi, Roma, Editrice Cooperativa, 1975, pp. 12 e 14. 20 Mosse, L'immagine dell’uomo, cit., pp. 157 sgg. 202 Nel nome della libertà, cit., p. 16.
20 La testimonianza è riportata in Memorie dell’antifascismo in Emilia Romagna. Fra cultura e ideologia, a cura di A. Andreoli, Firenze, La Nuova Italia, 1977, p. 109. 20 Cfr. www.fratellicervi.it 20 Cervi - Nicolai, I miei sette, cit., p. 20.
29 Cfr. Istituto Alcide Cervi, Il Museo Cervi tra storia e memoria. Guida al percorso museale, a cura di P. Varesi - C. Silingardi, Reggio Emilia, Tecnograf, 2002. 207 Tra le esumazioni e traslazioni importanti anche quelle delle spoglie dei fratelli Rosselli: cfr. Tornano i Rosselli: Firenze, Palazzo Vecchio, 29 aprile 1951, a cura del ‘Circolo di Cultura Politica Fratelli Rosselli’, Firenze, Vallecchi, 1951. 2 La polimorfa presenza di eroi diversi e disseminati non dipende da «una assenza di iniziativa» da parte dello Stato italiano in grado di stabilire forme unitarie di apprezzamento resistenziale, quanto piuttosto da un modo apparentemente diverso di porsi
della questione della sacralizzazione della età nuova. Non si concorda con il giudizio di Schwarz, La morte e la patria, cit., in part. p. 554. 299 Cfr. Lettere di condannati a morte, cit.; Cfr. M. Begozzi,
muoio innocente”. Lettere di resistenti novaresi condannati tazione storica, Novara, Interlinea Edizioni, 1995.
“Non preoccuparti ... che
a morte con una presen-
2!0 Nota dei compilatori a Lettere di condannati a morte, cit., p. 29. 21! V. Calì, /! monumento
alla Vittoria di Bolzano.
Un caso di continuità fra fascismo
e post-fascismo, in La Grande Guerra, cit., pp. 663-070; Cfr. Desideri, Parole sulla pietra, cit.
2° Cfr. La memoria della Resistenza nelle iscrizioni dei cippi, lapidi e monumenti della provincia di Ravenna, a cura di G. Casadio, 2 voll., Ravenna, Longo, 1993 e 1995.
Note
265
°!° Iscrizione sul cippo dedicato a Enzo Bagnoli a Ligonchio, in Le pietre dolenti. Dopo la resistenza: i monumenti civili, il pantheon della memoria a Reggio Emilia, a cura
di N. Bugnoli, A. Canovi, Reggio Emilia, Rs Libri, 2000, p. 141. è! Cfr. Desideri, Parole sulla pietra, cit.; Cfr. Fascismo, guerra, riconquistata libertà nei fogli volanti popolari (1920-1946), a cura di G.P. Borghi, Ferrara, Cartografica Artigiana, 2005.
2! Focardi, La guerra della memoria, cit. pp. 41-55. 2!° Luzzatto, Il corpo del duce, cit., p. 8; A Torino esiste un Museo Diffuso della Resisten-
za della Deportazione e della Guerra dei Diritti e della Libertà, che sviluppa percorsi didattici dei luoghi cittadini della memoria. A Bologna il Museo della Resistenza parte dall’insegnare la «guerra subita» e termina con la «resistenza agita», anche qui con un forte incardinamento spazial-geografico organizzato lungo un percorso costituito da varie stazioni di sofferenza e di eroismo. La stessa impostazione, per esempio, nei più modesti musei di Falconara Marittima, Di Fosdinovo, di Ferrara. 217
Cfr. Un Percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, a cura di T. Matta, Milano, Electa, 1996; cfr. inoltre il ‘pieghevole turistico’ Guida ai monumenti della memoria nel comune di Pistoia, Pistoia, Edizioni del Comune
di Pistoia, 1995; sul progetto degli interventi per il recupero dei siti dell’eccidio di Marzabotto e per il settore turistico — ricreativo, cfr. Monte Sole: parco storico regionale, a cura di E. Valbonesi, Bologna, Compositori, 2003.
Epilogo ! Alcune notizie sui cimiteri di San Casciano ‘in Val di Pesa e di Nettuno in Sacrari e cimiteri di guerra. Stranieri in Italia, a cura del Commissario Generale per le Onoranze ai Caduti di Guerra, Roma, Ingraro, 1902.
? Cfr. E. Aga Rossi, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, Bologna, Il Mulino, 1993; F. Battistelli (e M.G. Galantino), Gti italiani e la guerra. Tra
senso di insicurezza e terrorismo internazionale, Roma, Carocci, 2004, pp. 73-76. Ma del volume non si condividono
le impostazioni di ricerca, non effettuate, se non in
modo sporadico, su documenti originali. 3. Cfr. Bertelli, Piazza Venezia, cit., pp. 197-202. ' A. Giovagnoli, / dossetiani dalla guerra di Corea al settimo governo De Gasperi, in L'attesa della povera gente: Giorgio La Pira e la cultura economica anglosassone, a cura di P. Roggi, Firenze, Giunti, 2005; R. La Valle, Dossetti, l’art. 11 e la pace, in Giuseppe Dossetti all'Assemblea Costituente e nella politica italiana, Roma, Camera dei Deputati, 2007; L. Milani, A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca, un
Milano, Chiarelettere, 2011. W. Barberis, // bisogno dipatria, Torino, Einaudi, 2004. Si tratta di un libro dai vaghi
propositi e dalle vaghissime prospettive a cui non si aderisce. 6 In proposito cfr. Canzoni italiane di protesta (1794-1974), a cura di G. Vettori, Roma, Newton Compton, 1974, pp. 185-186. Per questo alcuni hanno dichiarato che nel dopoguerra l’ideale della guerra è entrato in crisi. E che ciò dipese dal fatto che i partigiani sarebbero stati i «partigiani della pace», formula propagandistica efficace, alla quale è difficile ricondurre una qualche probante documentazione storica. Su questa visione irenizzante, cfr. G. Schwarz, Tu mi devi seppellir. Riti funebri e culto nazionale alle origini della repubblica, Torino, UTET, 2010, pp. 223-238; lo stesso dicasi per M. Mondini - G. Schwarz, Dalla guerra alla pace. Retoriche e pratiche della smobilitazione nell'Italia del Novecento, Verona, Cierre Edizioni, 2007, pp. 225-229,
in cui proprio nelle pagine dove sarebbe da attendersi una prova dell’irenismo postfascista e repubblicano manca qualsiasi documentazione.
266
3
Il martire necessario
M. Confino,
// catechismo
del rivoluzionario.
Bakunin
e l'affare Netaev,
Milano,
1976, p. 59. Lì una approfondita discussione sull’autore del Catechismo: Bakunin o Necaev,
Ivi, pp.125-126. Nella smania, che tocca molti, rappresentata dallo scrivere senza basi di ricerca scientifica sulle fonti documentarie, si sostengono posizioni inverosimili. Jean Bau-
drillard per esempio crede di intravedere come grande novità del terrorismo contemporaneo il fatto che «i terroristi dispongono anche di un’arma fatale: la loro propria morte: J. Baudrillard, Lo spirito del terrorismo, Milano,
Raffaello Cortina
Editore,
2002, p. 28. 1
Cit. in A. Bello, L'idea armata, Roma, Edizioni l'Opinione, 1981, p. 25.
al[SS
F. Germinario, Da Salò al governo. Immaginario e cultura na, Torino, Bollati Boringhieri, 2005, p. 20 et passim; Id., destra, Salò e la resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, patria’. Ifascisti nella Repubblica italiana, in Lo straniero Firenze, Ponte alle Grazie, 1993, pp. 185-209.
politica della destra italiaL’altra memoria. L'estrema 1999; M. Tarchi, ‘Esuli în interno, a cura di E. Pozzi,
Cfr. F. Parrino, Gino soldatino d'Italia, Castelbolognese,
L'Ultima Crociata Editrice,
1989. L’episodio più significativo si registrò nel novembre 1961 con l’uccisione a Kindu in Congo di 13 aviatori in missione con i caschi blu della Nazioni Unite. Con la fine del bipolarismo si accrebbe un certo attivismo riconducibile all’utilizzo parziale delle risorse e dello strumentario militare: prima e seconda missione in Albania 1991, 1997; Kurdistan
1991; Somalia
1992-1994; Mozambico
1993-1994;
Bosnia dal 1995, Timor
Est 1999. Dopo l’11 settembre 2001: Afghanistan nel 2002, Iraq 2003. ‘ M. D'Alema, Kosovo. Gli italiani e la guerra. Intervista a Federico Rampini, Milano, Mondadori, 1999, p. 37. «Corriere della Sera», 13 novembre 2003, p. 13. ° I. Gibertini, in «Corriere della Sera», 13 novembre 2003, p. 17. ? Cfr. A. Cazzullo, Dolore e identità nazionale. Il Vittoriano ritorna simbolo, in «Corriere della Sera, 18 novembre 2003, p. 5.
«a Repubblica», 14 novembre 2003, p. 8. Ivi. Ivi, p. 9; Cfr. Nassiriya, 12 novembre 2003. Testimonianze per i Carabinieri caduti, s.l., Ente Editoriale per l’arma dei carabinieri, Roma, 2004.
nN
L'Italia si abbraccia ai suoi eroi [titolo di apertura], in a Repubblica», 15 novembre 2003. «La Repubblica», 17 novembre 2003, p. 7. Cfr. in proposito l’omelia del cardinal Ruini pronunciata alla messa del 18 novembre in occasione dei funerali di Stato nella basilica di San Paolo a Roma, in D. Citi, Nassiriya: eroi senza medaglia, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2006; pp. 39-41; Cfr. O. Montanari, Fabio figlio dell'eroe carabiniere ... caduto a Nassiriva: 12 novembre 2003, Cavriago, tipografia Bertani & C., 2004. Ivi. In questi ultimi anni l'episodio è divenuto oggetto di elaborazione letteraria: F. Trento - A. Amadei, Venti sigarette a Nassirya, Torino, Einaudi, 2005; A. Parrillo, Nemmeno x
il dolore: storia di un amore
ucciso a Nassiriya e negato in Italia, Milano,
Mondadori, 2006. A. Glucksmann, Lettera agli italiani [articolo di fondo], in «Corriere della Sera», 19 novembre 2003.
267
INDICE DEI NOMI Abba, Francesco, 122, 248
Auletta, Giuseppe, 250
Abba, Giuseppe Cesare, 19, 224, 227
Averani, Pietro, 259 Aymard, Maurice, 222
Abbati, Giuseppe, 226 Abbona, Giacinto, 67 Abbona, Luigi, 67 Adamoli, Giulio, 224 Ademollo, Carlo, 26
Bacci, Amselmo,
117
Bacci, Baccio, 70, 237-39
Baccini, Ida, 233
Aga Rossi, Elena, 265
Bacicchi, Silvano, 263
Agamben, Giorgio, 223
Bacilieri, Bartolomeo, 136 Baioni, Massimo, 222, 226, 228, 230, 235,
Aghiar, Andrea, 229 Agosti, Aldo, 262 Airaghi, L. (soldato), 239 Aiuti, Ugo, 251
Alatri, Paolo, 234
Alberti, Rafael, 206 Albertini Luigi, 57, 121 Alfani, Augusto, 226, 227 Alfano, Giancarlo, 221 Alfieri, Dino, 256 Alighieri, Dante, 89, 182
Alterocca, Arnaldo, 253 Alvaro, Corrado, 114, 161, 247
Amadei, Aureliano, 266 Amante, Bruto, 236 Ambrosi, Ernesto, 169, 181, 256, 258, 259 Ambrosini, Luigi, 242 Andreoli, Annamaria, 241, 264
Angelini, Mario, 263 Angrisani, Alberto, 233, 237 Anni, Rolando, 241 Antomelli, Lodovico, 241 Antonelli, Quinto, 246, 248 Antonicelli, Franco, 261, 262 Anzalone, Bernardo, 233 Arcangeli, Bianca, 222
236, 256, 262
Bakunin, Michail, 212, 266 Balbis, Franco, 203, 264 Balbo, Italo, 257 Baldacci, Luigi, 225 Baldini, Antonio, 246
Baldissara, Luca, 261 Balduino, Armando, 255
Balestreri, Giuseppe, 61 Balzani, Roberto, 223 Balzarini, Alfredo, 237
Bandi, Giuseppe, 224 Bandiera, Attilio, 22, 32, 102 Bandiera, Emilio, 22, 102
Banfi, Giuseppe, 227 Banti, Alberto Mario, 222-24, 230 Baratieri, Oreste, 76 Barbarossa, Federico, 144
Barberis, Walter, 221, 226, 265 Bardi, Luigi, 238 Barrera, Antonio, 254
Barrili, Anton Giulio, 224 Bartoletti, Maria, 255
Bartolomasi Angelo, 134, 135, 185 Baseggio, Cristoforo, 174, 257
Are, Giuseppe, 234 Aroldo II d’Inghilterra, 17 Arrighi, Cletto (Carlo Righetti), 20, 224
Bassi, Giuseppe Alberto, 245
Ascoli, Albert Russel, 224 Asor Rosa, Alberto, 224
Battaglia, Roberto, 230
Audoin-Rouzeau, Stéphane, 10, 220, 241,
Battistelli, Fabrizio, 265 Battisti, Cesare, 102, 126, 159, 167, 170
250
Bastico, Ettore, 66, 237 Bataille, Georges, 125, 219, 248, 249 Battista, Giovanni,
153
268
Il martire necessario
Bau, Arturo, 98, 243 Baù, Manuel, 225
Baudrillard, Jean, 266 Becker, Annette, 10, 220, 241, 250 Becker, Jean-Jacques, 250
Begozzi, Mauro, 264 Belardelli, Giovanni, 236 Bellandi, Giovanni, 253 Bellarmino, Roberto, 240 Bellini, G., 247 Bello, Aldo, 266 Belloni Zecchinelli, Mariuccia, 229 Bellucci, Giuseppe, 251
Biondi, Marino, 242 Birolli, Renato, 198 Biseo, Cesare, 47
Bissolati, Leonida, 59, 60 Bixio, Nino, 33, 90 Bizzocchi, Roberto, 223 Bloch, Marc, 222 Boccioni, Umberto, 55, 117, 235, 243 Boine, Giovanni, 91, 94, 242 Bolaffi, Gino, 180
Bolis, Luciano, 200, 263 Bollati, Giulio, 247 Bologna, Corrado, 253
Belotti, Gianpietro, 241
Bologna, G., 236, 257
Beltramelli, 258 Bencivenni, Ildebrando, 238 Bencivenni, Jolanda, 29, 227, 228 Benedetto XV, papa, 8, 131, 133 Benigne-Bossuet, Jacques, 130 Benjamin, Walter, 112, 245, 246
Bombacci, Nicola, 189 Bonassi (soldato), 82 Boneschi, Mario, 223
Benni, Antonietta, 197
Beraldini, Ettore, 254
Bergamas, Antonio, 102
Bergamaschi, Aldo, 252 Bergamini, Oliviero, 238, 242, 244 Beroer Peter 1,235
Bersani, Alberto, 254 Berta, Giovanni, 168, 171, 178, 180-82 Bertelli, Carlo, 247 Bertelli, Luigi (Vamba), 121, 248
Bonini, Carlo, 257
Bonini, Giuseppe, 247 Bono, Salvatore, 236 Bonomelli, Geremia, 76, 240
Bontempelli, Massimo, 105, 113, 130, 244, 246, 249 Bordoni, Giovanni, 236 Borea Ricci d’Olmo, Raffaele, 60 Borelli, Giovanni, 246, 255 Borgese, Giuseppe Antonio, 8, 105, 219, 242, 244
Borghi, Gian Paolo, 265 Borrani, Odoardo, 26
Bertelli; ‘Sergio; 219; 222, 223, 228, 230;
Borsi, Giosuè, 243, 244
247, 255, 260, 265
Boschieri di Crocetta, Lodovico, 23
Bertilotti, Teresa, 254
Bosco, G., 247, 256
Berto (partigiano), 201 Bertoldi, Giuseppe, 224 Bertolo, Antonio,
131, 132, 249, 251
Bosco, Giuseppe, 255 Boselli, Paolo, 46, 115, 155, 253 Bottoni, Riccardo, 240
Bertoni, Alberto, 235
Bourdieu, Pierre, 221, 222, 244, 253
Betri, Maria Luisa, 227
Bourke, Joanna, 220
Betta, Emmanuel,
Bozzi, Enrico, 231
222
Betti, Carmen, 257
Bracco, Barbara, 248, 254
Bettini, Maurizio, 231
Branca, Ascanio, 224
Bevione, Giuseppe, 236 Biancale, Michele, 233
Brancaccio di Carpino, Francesco, 224 Brasile, Pier Andrea, 260
Bianchi, Bruna, 221
Bretto, Pietro, 261
Bianchi, Caterina, 256
Breveglieri, A., 254
Biasi, Bernardo,
Brezzi, Camillo, 225
153
Bilenchi, Romano,
192, 196, 262
Brunelli (soldato), 108
Indice dei nomi
269
Brunetti, Angelo (Ciceruacchio), 229
Carpi, Aldo, 243
Bucci, Anselmo, 128, 243
Carrà, Carlo, 97, 127, 235, 242, 249
Buggelli, Mario, 243 Bugnoli, Nicola, 265
Casadio, Gianfranco, 265
Burgio, Alberto, 231
Cascella, Michele, 247 Cascella, Tommaso, 117
Burkart, Walter, 231 Burke, Edmund, 105, 244, 245 Busino, Giovanni, 222 Bussa, P., 231
Casagrande, Silvio, 254
Casorati, Felice, 243 Castelli, Franco, 261 Castellini, Gualtiero, 237 Castronovo, Teresina, 227
Cadorna, Luigi, 108, 111, 120, 122, 134, 141, 159, 165, 248, 250 Caffarena, Fabio, 221
Cattanei, Luigi, 224 Cattaneo Raro 5272238227) Cavour, Camillo Benso di, 32-34, 229
Caffi, Ippolito, 226 Caglioti, Daniela Luigia, 222
Cazzullo, Aldo, 266
Cagni, Umberto, 59
Ceccotti, Antonio, 247, 248 Cecioni, Adriano, 226 Cenini, Gioele, 254 Censori, R.A., 238 Ceratelli, Primo, 153 CernySevskij, Nikolaj, 212
Caillois, Roger, 8-10, 219, 220, 244, 245, 247, 249, 255 Calabrese, Omar, 224 Calamandrei, Piero, 207 Caleffi, Arrigo, 183 Calì, Vincenzo, 223, 265 Calvi, Pier Fortunato, 33 Calvino, Italo, 191, 192, 196, 199, 262, 263 Cammarano, Michele, 46, 115 Camoirano, Attilio, 198, 262 Campolieti, Nicola Maria, 114, 126, 148,
247, 249, 252 Cannistraro, Philip V., 260 Canovi, Antonio, 265
Cecchinato, Eva, 223
Cervi, Alcide, 206, 208, 264
Cervi (fratelli e famiglia), 206-8 Chartier, Roger, 220 Chaunu, Pierre, 220 Chiara, Biagio, 238, 239
Chierici, Aldo, 236 Chiesa, Damiano, 167 Chiodi, Pietro, 197, 262
Chiosso, Giorgio, 227
Gantu:Cesare, 8, 219 227%
Chiurco, Giorgio Alberto, 179, 258
Capecchi, Giovanni, 221 Capello, Luigi, 147, 245
Cinini, Tolemaide, 183
Capra-Boscarini, Giulio, 242
Citi, Dionora, 266
Caproni, Giorgio, 196, 262
Civinini, G., 243
Capuana, Luigi, 27, 225, 227 Carabba, Claudio, 227
Ciurcentaler (Dall’Elmo) Carlo, 167
Caracciolo, Alberto, 221 Caravaglios, Cesare, 138, 141-43, 187, 260
Carbocci (maestro), 182 Cardini, Franco, 10, 220, 244
Carducci, Giosue, 36, 224 Carignano, Giorgio, 243 Carlandi, Onorato, 226 Carli, Mario, 176, 246, 257 Carlo Magno, 144
Carmagnola, Piero, 201, 263
Cipolla, Ruggero, 263, 264
Clausewitz, Carl von, 7, 219
Clemente, Pietro, 223
Coccio, Carlo, 240 Coccioli, Carlo, 263 Cognetti, Cesare, 231
Colombini, Chiara, 262 Colombo, Adolfo, 236
Colonnelli, Simone, 259 Combi, Maria, 234
Cominetti, Luigi, 243 Comisso, Giovanni, 242
270
Concone, D., 246 Confalonieri, Federico, 32, 102 Confino, Maria, 266 Conti, Enrico, 110
Conti, Fulvio, 226, 228 Conti, Giuseppe, 223 Cooke, Philip, 261 Coppola, Francesco, 52 Corbin, Alain, 226 Cordova, Ferdinando, 257 Corio, Lodovico, 228 Corni, Gustavo, 223
Corradini, Enrico, 52, 234, 235
Corridoni, Filippo, 159 Corsini, Umberto, 225
Cortelazzo, Manlio, 243 Cortellessa, Andrea, 221
Corti, Vittoria, 247 Costa, Andrea, 35 Costantino, Flavio Valerio Aurelio, 159
Crainz, Guido, 262 Crali, Tullio, 116 Craxi, Bettino, 214 Crispolti, Enrico, 243 Crispolti, Filippo, 251 Croce, Alfredo, 239
Il martire necessario
De De De De De De De
Belo, Raffaele, 182 Benedetti, Michele, 246 Bloch, Jean, 230 Castro, Giovanni, 227 Concini, Ennio, 254 Cristoforis, Tommaso, 46 Deo, Emanuele, 228
De Donato, Gigliola, 260 De Felice, Renzo, 234 De Giorgi, Fulvio, 240, 241 Degl’Innocenti, Maurizio, 230 Dehò, Enrico, 152, 253
De La Trappe (pseudonimo di Armand Jean Le Boutillier de Rancé), 212 Del Bello, Mario, 257 Del Boca, Angelo, 236
Delfini, Antonio, 161 Del Fra, Lino, 236 Della Corte, Carlo, 161 Della Peruta, Franco, 223 della Sala, Vittorio, 231
della Volpe, Nicola, 233, 236 Dellorto, Giuseppe, 243 Dellorto Ramella Dina, 243 Del Massa, A., 242 Del Negro, Piero, 219, 227, 228
Croce, Benedetto, 13, 52, 223, 226, 242
Del Piano, Pierino, 178
Croci (soldato), 114
De Luna; Giovanni, 254, 261
Crocioni, Giovanni, 254 Cucchetti, Gino, 242, 243
De Manincor, Giuseppe, 228, 250
Cuppini, Silvia, 256
De Marchi, Emilio, 240
De Maistre, Joseph, 91, 131
De Marchi, Ezio, 102 da Cesena,.E., 250
De Marco, Salvatore Maria, 245
Dagnino, Felice, 33
De Maria, Francesco Romeo,
D'Alema, Massimo, 213, 214, 266
De Maria, Giacinto, 240
Dalla Libera, Giambattista, 228
De Marzi, Giacomo,
Dalla Vecchia, Giacomo, 251 Dall’Ongaro, Francesco, 225 Dal Monte, D., 254 Dandolo, Emilio, 16, 223 D'Annunzio, Gabriele, 51, 57, 85, 87-92,
Demichelis, Luigi, 183 Denti, Giuseppe, 241, 244
228
256
Depero, Fortunato, 100 De Rosa, Gabriele, 250 De Rosa, Michelino, 181 De’ Rossi, Giulio, 138, 139, 251
10007475 1772422430257 Da Porretta, Felice, 248
De
Daus, Rino, 259
129
D’Avila, Elemo, 260 De Amicis, Edmondo, 25, 27, 43, 68, 226,
235, 249
22100232
De Sando, Giuseppe, 260
De
Sade,
Donatien-Alphonse-Frangois,
Saint-Point
[pseud.],
Valentine,
127,
Indice dei nomi
271
Desideri, Paola, 256, 265 De Simoni, Giancarlo, 45, 233
Ferretti, Lando, 257
Diaz, Armando, 147 Dicomani, Dante, 239
Filzi, Fabio, 167
Di Mino, Calogero, 225
Fiore, Anna Maria, 256
Divina, Silvio, 167
Fiorentino, Enrico, 233
Dogliani, Patrizia, 237, 256 Dolci, Fabrizio, 240
Fiorini, Guido, 180
Donati, Carlo, 254 D’Orsi, Angelo, 221, 236, 252
Filipponi, Giovanni, 205
Fioravanti, Gigliola, 171, 256
Flex, Walter, 242 Flocchini, C., 241 Flores, Marcello, 247
Dossetti, Giuseppe, 211 Douhet, Giulio, 60
Foa, Vittorio, 11, 221
Dumézil, Georges, 219
Fochesato, Walter, 227, 257 Fogazzaro, Antonio, 79, 240
Focardi, Filippo, 221, 261, 265
El Cid (pseudonimo di Rodrigo Diaz), 17
Fogu, Claudio, 256
Elli, Enrico, 224
Fontana, Guido, 255
Ellul, Jacques, 222
Fontanot, Armido (Tiberio), 201, 263 Fontanot, Licio (Spartaco), 201, 263
Emanuele Filiberto di Savoia, 29
Enriques Agnoletti, Enzo, 264
Fonzi, Fausto, 240
Epaminonda,
Forcella, Enzo, 221, 251
17
Esposito, Roberto, 223, 235
Forges Davanzati, Roberto, 52
Fortini, Franco, 192, 198, 262
Fabi, Lucio, 244, 246
Foscolo, Ugo, 87, 200
Fabiani, Guido, 170, 257
Fossati, Antonio, 264 Foucault, Michel, 7, 233, 260
Facibeni, Giulio, 144, 165 Faeti, Antonio, 238
Fait, Gianluigi, 246 Falaschi, Giovanni, 261
Fantelli, Giorgio Erminio, 263 Fanti, Liano, 264 Fara, Gustavo, 59 Fattori, Bruno, 104 Fattori, Giovanni, 226 Fava, Andrea, 248, 257 Fazio, Domenico
Maria, 235
Fraccaroli, Fradeletto, Francesco Francesia,
Arnaldo, 238, 243
Antonio, 242 d’Assisi, santo, 20 Giovanni Battista, 253 Francia, Enrico, 219 Frangipani, Maria Antonietta, 223 Franini, Giuseppe, 72 Franzinelli, Mimmo, 240, 243, 250, 251, PSSN2OSN25O Franzosi, Pier Giorgio, 226
Federzoni, Luigi, 52
Freddi, Luigi, 256
Felgine, Odile, 219
Frescura, Attilio, 221, 246, 254 Friedrich, Caspar D., 17
Fenoglio, Beppe, 192, 198, 262, 263 Fernelli, Clemente, 33 Fernelli Clementino, 33 Fernelli, Domenico,
33
Funi, Achille, 243 Fusari, Emilio, 110 Fussell, Paul, 220, 231
Ferrandi, Giuseppe, 223 Ferrara, Antonio, 251
Gadda, Carlo Emilio, 104, 161, 244
Ferrari, Enzo, 158
Gaeta, Franco, 227, 234
Ferrari, Giulio Cesare, 239, 245
Gagliani, Dianella, 261
Ferraro, Gaspare, 239 Ferrero, Guglielmo, 42-45, 232, 234
Galantino, Maria Grazia, 265
Galasso, Giuseppe, 223, 236
272
Il martire necessario
Galeotti, Carlo, 257 ‘Galfré, Monica, 255
Giraldi, Luigi, 252 Girard, René, 219 Girardin, Francesco, 254
Galiani, Vincenzo, 228
Galli, Giovanni, 259 Galli, Umberto, 253
Galli della Loggia, Ernesto, 223 Gallina, Giuseppe, 240 Gallinella, Eutimio, 259
Gallori, Emilio, 36 Gambacorta, Carino, 258, 264 Garaventa, Alberto, 260 Garibaldi, Anita, 29 Garibaldi, Giuseppe, 15, 17-24, 29, 32, 33, 35, 36, 59, 62, 75, 87-89,
164, 173, 193,
195, 200, 206, 224, 229, 232, 242
Garibaldi, Peppino, 85 Gaspardis, Umberto, 102 Gasperetti, Federico, 225 Gasperini, Bruno, 151 Gatti, Angelo, 147 Gatti, Gian Luigi, 252 Gazzola Stacchini, Vanna, 260
Giudici, Paolo, 176, 258 Giuliani, Reginaldo, 149, 176, 184, 252, 258 Giusti, Renato, 229
Glucksmann, André, 216, 266 Gobbicchi, Alessandro, 250 Gobineau, Arthur de, 91
Goffredo di Buglione, 19 Goglia, Luigi, 234 Gooch, John, 228
Gorgolini, Pietro, 162, 255 Gotta, Salvator, 121, 248 Gozzano, Guido, 245 Gradenigo, Bartolomeo, 228 Gramsci, Antonio, 194 Gray, Ezio Maria, 236, 239 Grazioli, Francesco Saverio, 245 Gribaudi, Gabriella, 261
Grottanelli, Cristiano, 255
Gemelli, Agostino, 43, 98, 108, 186, 243, 245, 248, 249, 259
Gualdi, Luigi, 254
Genta, Vittorio, 185
Guerrieri, Filippo, 238, 244
Gentile Emilio, 219, 220, 223, 234-36, 240,
Guerrini, Irene, 251
255, 256, 260, 261
Guerrini, Guerrini, Guerzoni, Guiccioli,
Gerla, Lucia, 262 Germinario, Francesco, 266 Gherardi, Luciano, 262 Giacometti, Paolo, 225
Guerrieri, Enrico, 237, 238
Mario, 226 Paolo, 226 Giuseppe, 19, 224 Alessandro, 25, 226
Gutman, Huck, 233
Giacometti, Simona, 222, 242
Gianinazzi, Willy, 234
Halbwachs, Maurice, 222 Henneberg, Krystyna von, 224
Gibelli, Antonio, 220, 221, 232, 248
Herf, Jeffrey, 219, 243, 247
Giberna (pseud.), 231
Hillman, James, 231, 245
Gibertini, Igino, 266 Gide, André, 9 Gigli, Giuseppe, 238 Ginsborg, Paul, 224
Hofer, Andreas, 23 Hollier, Denis, 219
Gioberti, Vincenzo, 32
Hutton, Patrick H., 233
Giolitti, Giovanni, 59, 60, 98, 159, 236 Giordani, Pietro, 236, 239 Gios, Pierantonio, 263
Ianari, Vittorio, 241
Giovagnoli, Agostino, 265
Induno, Girolamo, 16, 18, 26
Giovanna d'Arco, 19
Innamorati,
Giovanni XXIII, papa, 250
Inverardi, Giuseppe, 82
Giambalvo, Ignazio, 74
Hugo, Victor, 62
Huizinga, Johan, 219, 235
Induno, Domenico,
26
Giuliano, 225
Indice dei nomi
273
Todi, Casimiro, 254 Irace, Erminia, 223 Isnenghi, Mario, 220, 221, 223, 224, 226,
227, 232, 234, 237, 241-43, 248, 252, 255, 256
Levi, Primo, 192, 201, 263 Levra, Umberto, 226 Leydi, Roberto, 261 Libera, Adalberto, 168
Isola, Gianni, 256
Lisciarelli, Alessandro, 245, 248 Locchi, Vittorio, 107, 245
la bieriBie no S01RI 20M 3716123582431 244, 250
Lodolini, Armando, 173 Lolli, Cesidio, 251 Lombroso, Cesare, 43
Janz, Oliver, 223, 240, 252; 253
Lo Monaco Aprile, Giuseppe, 61
Jedlowski, Paolo, 222
Longagnani (maggiore), 99 Longhin, Andrea Giacinto, 136
Jesi, Furio, 220 Jiùnger, Ernst, 7, 95, 110, 112, 124, 196,
Loraux, Nicole, 247
219, 245, 246
Lorenzon, Ivo, 262
Kantorowicz, Ernst H., 249
Losurdo, Domenico, 222 Luckmann, Thomas, 238 Ludendorff, Erich, 95, 242
Keegan, John, 10, 220 Kerényi, Karoly, 245
Luigi Filippo di Borbone-Orleans, 26
Kesselring, Albert, 205
Lussu, Emilio, 120, 161, 246, 248
Klinkhammer,
Koltsov, Mijail, 191, 261
Luti, Giorgio, 255 Luzio, Alessandro, 230 Luzzatto, Sergio, 226, 260, 265
K©6rner, Theodor, 235
Lyttelton, Adrian, 224
Lutz, 223
Klossowski, Pierre, 219
Koselleck, Reinhart, 220
Macchioni Jodi, Rodolfo, 224 Labanca, Nicola, 230; 233, 237 Labita, Vito, 255 Labriola, Antonio, 24, 226 La Fontaine, Pietro, 136 La Marmora, Alfonso Ferrero de, 15, 34,
Maccono, Ferdinando, 240
Macrelli, Edgardo, 102, 249 Maffi, Pietro, 237, 250, 251 Magotti, Maria, 233
Majenza, Michele, 253
59, 153 Lanaro, Silvio, 219, 233
Malagodi, Olindo, 57 Malgeri, Francesco, 236
Lancini, Paolo, 83 La Pira, Giorgio, 211
Malraux, André, 190, 261 Maltese, Corrado, 226
La Rosa, Pietro, 118
Malvano, Laura, 256
La Valle, Raniero, 265 Lazagna, Gianbattista, 262 Lazzati, Giuseppe, 240
Malvezzi, Pietro, 264
Leed, Eric. J., 10, 220
Mameli, Goffredo, 15, 33, 229
Manara, Luciano, 16 Mancini, Luigi, 254
Leghissa, Giovanni, 249
Mancini, Roberto, 255, 256
Leiris, Michel, 219
Manfredi, Gino, 264
Lembo, Giuseppe, 255
Mangoni, Luisa, 230
Lenin, Vladimir, 189, 190
Manin, Daniele, 32, 34, 228
Leoni, Diego, 220
Mann, Thomas,
Leonida, 17
Mannino, Salvatore, 259
125, 249
Leonzio, Ugo, 247 Levi Castiglione, Pino, 263
Mantura,
Bruno, 226
Manuelli, Gaudenzio, 249
274
Il martire necessario
Manzone, Giuseppe, 243
Menio, Carlantonio, 237
Maraviglia, Maurizio, 52
Menotti, Ciro, 29 Menozzi, Daniele, 250
Marchese, Alberto, 258 Marchioni, Nadia, 244 Marco Aurelio, 90 Marconi, Paolo, 118, 247 Mariani, Carlo, 227
Mercier, Desiré, 130, 137 Micca, Pietro, 29
Micheletti, Bruna, 261 Michelini-Tocci, Franco, 258
Mariani, Mario, 245 Marinetti, Filippo Tommaso, 51-53, 111, 127-29, 147, 175, 234, 235, 243, 246, 247, 249, 252 Marinoni, Lodovico, 242
Michels, Roberto, 58 Mickiewicz, Adam, 38, 41, 112
Marpicati, Arturo, 178, 258
Minnocci, Giacinto, 263
Marselli, Nicola, 60, 237
Minozzi, Giovanni, 142, 147, 251 Missiroli, Mario, 234
Marsiglia, Domenico, 252 Martelli, Mino, 202, 263 Martellini, Amoreno, 262 Martin, Luther H., 233 Martinengo, Davide, 231 Martini, Arturo, 243 Martini, Fausto Maria, 161 Martino, Antonio, 215 Martire, Ernesto, 249 Marx, Karl, 190 Masini, Ferruccio, 223, 235
Miglietta, Goffredo, 245 Milani, Lorenzo, 211, 265 Mini, Alessandro, 259
Molinari, Augusta, 243 Mondini, Marco, 241, 243, 266 Mondo, Lorenzo, 262 Monelli, Paolo, 104, 110, 244, 246 Moneta, Ernesto Teodoro, 234 Montale, Eugenio, 161 Montanari, O., 266 Monteleone, Renato, 243, 256 Monti, Antonio, 96, 242 Monticone, Alberto, 221, 241, 250, 251
Massaruti, Carlo, 237
Morandi, Dionigi, 153
Massobrio, Giovanna, 225, 226
Mattei Gentili, Paolo, 252
Morando, Giovanni, 237 Morasso, Mario, 53, 234 Morel, Jean-Paul, 235 Moretti Foggia, Mario, 23
Matteotti, Giacomo,
Morozzo Della Rocca, Roberto, 240, 250-
Massobrio, Giulio, 227
Matta, Tristano, 265 189, 210
Mauss, Marcel, 125, 219, 248, 249 Mazè de la Roche, Gustavo, 26 Mazzantini, Carlo, 177, 188, 258, 260
52, 259
Mosca, Gaetano, 236; 242
Mazzolari, Primo, 148, 252
Mosse, George L., 220-23, 226, 227,231, 234, 247, 204 Murri, Romolo, 94, 136, 137, 242, 251 Mussolini, Arnaldo, 260
Mazzoni, Giovanni, 185,
Mussolini, Benito, 52, 85, 91, 158-600, 168,
Mazzoni, Pino, 188
175, 177, 188, 189, 194, 210
Mazzini, Giuseppe,
15; 17, 23, 24, 29, 32,
33, 52, 62, 75, 102, 160, 206, 223, 226
Mazzonis, Filippo, 225 Melograni, Piero, 9, 220, 250, 251 Meloni, Bartolomeo, 202 Menabuoi, Carlo, 180 Mencacci, Paolo, 225
Meneghello, Luigi, 192 Menges, M., 235, 242
Mengozzi, Dino, 223, 228
Nani, Michele, 233 apoleone I Bonaparte, 26 arducci, Paolo, 229 Narduzzo, Sisinio, 225 Naretti, Luigi, 47 astasini, Enea, 233
NeMaev, Sergej GennadieviX, 212, 266
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ISBN 978-88- II|l
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