Il gruppo '63. Istruzioni per la lettura 8896487234, 9788896487235

A cinquant'anni ormai dalla sua data di fondazione, il "Gruppo'63" continua a suscitare grandi discu

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Italian Pages 224 [228] Year 2013

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Il gruppo '63. Istruzioni per la lettura
 8896487234, 9788896487235

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Istruzioni per la lettura .. Francesco Muzzioli

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Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation

https://archive.org/details/ilgruppo63istruz0000muzz

Il Gruppo

63

Istruzioni per la lettura

Francesco Muzzioli

Axl oDRADEK

In copertina, composizione di citazioni.

© 2013 ODRADEK edizioni s. r. 1. via san Quintino 35 - 00185 Roma tel. /fax 06 70451413 e mail: [email protected] - sito Internet: www. odradek.it

ISBN 978-88-96487-23-5

Indice TEORIA

1. La contestazione del testo ovvero La nozione di avanguardia e il Gruppo ‘63 2. Margini dell’utopia 3. Sanguineti teorico della letteratura POESIA

4. Undici testi sperimentali 5. La modernità radicale di Pagliarani 6. Spatola di ritorno dall’America

105 121

NARRATIVA

7. L'orizzonte di Carla Vasio 8. Un Arbasino in vena,

131 lo

tra avanguardia e postmodernismo 9. Germano Lombardi e l’antiromanzo 10. Malerba, i salti mortali della scrittura 11. Forma e deformazione nelle tendenze narrative

Laz 173 187

della nuova avanguardia CRITICA

12. Critica e criticità nel Gruppo ’63

197

Nota Cronologia Bibliografia

dl 216 221

CAPITOLO

1

La contestazione del testo ovvero La nozione di avanguardia e il Gruppo ’63 1. Al di la del nuovo

La prima cosa da fare, per ragionare in modo non pregiudicato sulla nozione di avanguardia, è di strapparla al mito nel Nuovo, in cui viene di solito incasellata e ridotta. Secondo tale versione essa consisterebbe nella scoperta di un ritrovato affatto originale, mai visto prima, di volta in volta nel corso del tempo destinato a essere riassorbito e a diventare normale. Il Nuovo dovrebbe essere tale da determinare uno stacco epocale (il Futurismo: «Le parole in libertà spaccano in due la storia del pensiero e della poesia umana, da Omero all’ultimo fiato lirico della terra»!); ma nello stesso tempo la sua durata è fatalmente breve destinata a una rapida obsolescenza. Lo stesso Futurismo, che può essere CONSI-

derato a ragione la matrice dell’equazione tra l'avanguardia e il Nuovo a tutti i costi, tuttavia già all’atto della sua fondazione, nel manifesto del 1909, prevede l’avvento dei SUCCESSOTri: Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, dan-

zando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori. e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche.®

Chi di Nuovo ferisce, di Nuovo perisce. Che poi le avanguardie innovative (e il Futurismo in primis) non si arrendano facilmente alla loro stessa logica e abbiano spesso stanchi strascichi, è altro discorso. Di fatto, la vicenda novecentesca può essere descritta come una serie di sorpassi:

il Futurismo sorpassa il simbolismo, ma è superato dal Dadaismo che

e in poco tempo è superato a sua volta dal Surrealismo; il Gruppo ‘47

Il Gruppo ‘63

il Gruppo ’63 superano le avanguardie storiche, ma esaurita la loro fase propulsiva, arriva sul traguardo il postmoderno che supera tutte le avanguardie in blocco, superando la nozione di superamento. Sarebbe un po” come il destino dei record sportivi. È però uno schema di comodo che, se pure è servito ai rispettivi movimenti per confezionare qualche sgargiante bandiera, oggi fa comodo soprattutto ai detrattori, al senso comune avverso all’avanguardia; in quanto: 1) se l'avanguardia consiste nella sua novità, è facile dimostrare che la novità è sempre relativa (quanti residui carducciani e dannunziani nei futuristi!); e comunque è

facile dimostrare che i procedimenti di rottura, anche a prenderli per buoni, arriverebbero quasi subito “al termine della parola” (rotta la frase, rotta l’unità verbale, rotta la lettera cosa resta da rompere?), e a quel punto non resterebbe altro che ricostruire e recuperare; 2) se l’avanguardia consiste nell’invenzione del Nuovo, essa sarà momentanea,

strettamente legata alla sua evenienza storica, non produrrà opere durevoli, ma si brucerà nel tempo, né potrà ripetersi se non scadendo a epigonismo di se stessa. Inoltre, il mito del Nuovo schiaccia l'avanguardia su un meccanismo che sappiamo bene essere quello della moda; allora, però, non si capisce perché, mentre alla moda concediamo benissimo il ritorno ciclico e la ripresa del rewval, questo non sia consentito all’avanguardia. Capisco che l’applicazione matematica del principio del ritorno darebbe un esito eccessivamente semplicistico e un tantino consolatorio (1909, Futurismo — 1963 Neoavanguardia: una analoga distanza darebbe la prossima scadenza nel 2017...). In realtà il fatto è che l'avanguardia e la moda si diversificano su un punto decisivo e drastico, e cioè l’istanza contestativa. Vedremo più avanti la cosa con maggiore attenzione, ma già si può anticipare che, mentre nella moda si ha una serie di scelte concorrenziali in un sistema sostanzialmente omogeneo, l’istanza contestativa impone all'avanguardia di scartare rispetto all’evoluzione, perché non aggiunge o cambia qualcosa, ma spinge a spiazzare l’intero campo a partire da una diversa logica costitutiva. C'è un punto importante da precisare. Le diverse avanguardie non hanno lo stesso rapporto con il tempo. Mentre il Futurismo ufficiale marinettiano impone una taglio netto con il passato (la distruzione di musei e biblioteche come indice eclatante), già non è così per l’“altro Futuri-

I. La contestazione del testo

smo”, quello dei russi o, da noi, di Palazzeschi e Lucini. Senza compli-

menti, il Dadaismo si occupa di buttare giù nello sberleffo la retorica trionfalistica dell’innovazione, attraverso l’uso di una autoironia che non promette alcuna “promozione” vittoriosa (esemplare il mago di Entr'acte,

che alla fine fa scomparire se stesso). I surrealisti, poi, non tagliano i ponti con l’eredità, più di quanto non ritrovino passaggi segreti verso la tradizione alternativa degli autori messi all’indice e costretti al silenzio (Sade, Lautréamont, ecc.). Nel Gruppo ’63 — anche questo sarà oggetto del mio libro — la collaborazione della critica servirà a tracciare le linee e le coordinate di una mappa di posizioni anomale che si prolungano e sì allacciano a diversi livelli storici. Insomma, la questione non si può risolvere con il semplice battere degli orologi, c'è sempre una “simultaneità del non contemporaneo”, per dirla con Bloch, che chiama in causa scelte culturali e in senso lato politiche, ad esempio il recupero di forze dimenticate, giocate contro le egemonie costituite. Per altro l’originalità assoluta viene smentita proprio da quella avanguardia iniziale che è il Futurismo, e proprio dal suo prorompente “zar” Marinetti. Perché se è vero che il Futurismo opera diversamente dalla letteratura che trova sul campo, tuttavia il suo Nuovo non nasce dal nulla, niente affatto, deve essere trovato dove già esiste, non nelle parole, ma nelle cose, ovvero nelle meraviglie tecnologiche delle macchine, nei prodigi straordinari della modernità. In pratica, si tratterebbe di aggiornare una letteratura rimasta indietro e il mito della velocità, checché se

ne dica, è legato a un inseguimento del presente, ben più che del futuro. Di qui, di conseguenza, tutto il residuo mimetico (cioè di imitazione di una realtà data) che è stato notato nella prassi delle parole che sì volevano “in libertà”. Se correre è sempre un correre dietro alla lepre dell’attualità, forse la stessa metafora militare, che il termine avanguardia contiene, va riveduta e corretta. L’“avanti”, così posto, si addice molto

di più all'ambito agonistico-sportivo. Stando all’ambito militare, infatti, il drappello di avanguardia è quello che precede il grosso dell’esercito: ma l’esercito che lo segue è precisamente il suo, stando il nemico dalla parte opposta. Invece, spostandoci al modello della gara sportiva, il nemico è il grosso (il “gruppone”) che si avvicina minacciosamente ai fuggitivi. Si consideri il grafico:

IT Gruppo ‘63

Nel modo usuale in cui vengono considerate le avanguardie, la posizione del nemico viene rovesciata, il modello agonistico non per-

mette più di capire bene la pulsione antagonista. Ma proviamo a riprodurla correttamente, la metafora militare, anche a costo di sentirsi ripetere la solfa sulle pecche militariste dell’avanguardia (non bastasse il pacifismo convinto di Lucini, Palazzeschi, Dada). L’avanguardia al-

lora non dovrebbe essere vista come un drappello trionfalmente avanzante nel vuoto di nemici ormai in rotta, bensì come

un piccolo

gruppo infiltrato nel territorio ostile, da cui manda frammentari e fortunosi messaggi a un “grosso” da cui non riceve notizie e può anche darsi che sia in grande ritardo, se pure esiste ancora. Il grafico sarebbe questo:

10

1. La contestazione del testo

Quindi una conflittualità forte, fondata su un riferimento ipotetico rivolto al futuro. È sintomatico che il manifesto futurista si apra per l’appunto su di uno scenario di questo tipo: Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’eser-

cito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che s’agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con un incerto batter d’ali, lungo i muri della città.*

Una scena notturna, la riunione clandestina di una compagine isolata, che svolge compiti di controllo e di rilevamento, magari di disturbo, in una condizione palese di difficoltà e incertezza, avendo contatto solo con figure di consimili dispersi, gli emarginati sociali, lavoratori o reietti, che sì aggirano ai bordi del mondo dei normali. Dopodiché certamente,

nel Manifesto la condizione è vissuta con connotati “muscolari” ed è temporanea, destinata a rovesciarsi subito nell’arrembante corsa ferina

e vittoriosa delle automobili. Ma intanto il modello antagonista è comparso e sarà ripreso con più rigore da altri. Di contro a quanti le reputano cordate di concorrenza sleale o addirittura terrorismi culturali con tendenze aggressivamente totalitarie, le avanguardie si configurano un ruolo di assaggio del terreno e prova di contrattacco decisamente scomodo. In questo quadro, insieme ai gruppi riconosciuti, possono entrare senza problemi anche singoli autori (che fanno, per così dire, gruppo da soli), gli eretici o gli esclusi dai movimenti ufficiali, magari attivi “fuori stagione” o al di fuori delle eclatanti promulgazioni e degli organi grammi. Ciò che conta, insomma, non è la novità, ma l’estraneità al do-

minio culturale vigente e il progetto di riscrivere su basi alternative l’intero campo.

2. La politica: con gli stessi o altri mezzi

L'istanza dell’antagonismo chiama in causa la questione politica. Questa potrebbe essere risolta facilmente pensandola come “politica letteraria”, riferendosi al lato pragmatico delle avanguardie, a tutto l’insieme

Il Gruppo ‘63

di contatti organizzativi, proselitismo, obiettivi strategici, alleanze e attacchi, aggregazioni ed espulsioni. Questi aspetti, però, in fin dei conti, non sono peculiari, incentivano solo le manovre comuni a tutti 1 gruppi, alle poetiche e alle riviste. La differenza sta nel fatto che nella pratica letteraria “normale” ci si muove per conquistare le posizioni migliori di un settore autocentrato (si tratta cioè di stabilire chi c'è e chi non c’è, chi

vale e chi non vale, chi occupa il centro e chi è ai margini dello spazio). Sì lotta accanitamente, sì, ma per conseguire una differenza di grado, ciò che è bello (il valore estetico) dev'essere bello per tutti. Manca il dsaccordo politico che consiste, o dovrebbe consistere, in un diverso progetto di gestione del campo?. L’avanguardia, invece, è essa stessa la linea di quel disaccordo che divide l'ambito settoriale e lo attraversa conflittualmente, che sia provocatoria o meno. Il campo letterario non è più omogeneo, perde i connotati comuni. In quello stesso momento diventa necessario appoggiarsi ad un conflitto più ampio, un dissidio generale, che rende impossibile al settore di rimanere neutrale. Questo allargamento di orizzonte può, certo, essere ancora interpretato con i semplici dati storici, della confluenza dei gruppi in questo o quel partito. Ad esempio, sarà gioco facile mostrare, a partire dagli esiti opposti dei Futurismi italiano e russo, come la ribellione finisca sempre per intrupparsi nelle dittature, di destra o di sinistra che siano. A sua volta, l’arco del Surrealismo

metterà in evidenza 1 rischi contrari e coincidenti del mettersi alla testa (La révolution surréaliste) oppure del seguire la linea (Le surréalisme au service de la révolution). Non si può negare che nella prima metà del Novecento le avanguardie, spesso con argomenti sommari ed ingenui, siano ben invischiate nelle aporie della rivoluzione (per capirci, il nodo irrisolto di libertà e violenza); e che patiscano sovente proprio una carenza di “collettivismo”, cioè un certo vassallaggio al potere carismatico e all’autoritarismo del leader. Tuttavia non sì può ugualmente passare sotto silenzio il fatto che, in ogni caso, siano portatrici di una autentica pulsione utopica e anarchica che non si concilia mai (0 mai del tutto, neppure nel Marinetti in feluca) con l’imbracamento dei regimi. Vocazione libertaria che andrà oltre le avanguardie “provocatorie” e sarà ereditata dalle avanguardie “conoscitive”? della seconda Ondata, come vedremo in un apposito capitolo (il prossimo), soprattutto in corrispondenza della contestazione del Sessantotto, con acuminati dibattiti. 12

1. La contestazione del testo

Che l'avanguardia non sia allineata è chiaro; non per niente è stata per un lungo periodo la diretta alternativa all’engagement di partito, e in particolare alla nozione di realismo. A un impegno risolto nella scelta di contenuti immediatamente politici e in una mitizzazione spesso retorica dell'avvento messianico delle classi oppresse, si contrappone una prospettiva che, considerati attentamente i legami delle sublimazioni letterarie con le disuguaglianze sociali, comprende che l’unico modo di “cambiare il mondo” è quello di cominciare a cambiare i “valori simbolici” della letteratura, responsabilizzandola in tal senso. Ciò comporta, già in Brecht, una nozione aperta di realismo, rendendovi possibile le forme dell’irrealtà, il fantastico, l’allegorico, il satirico: Nulla impedisce anche realisti come Cervantes e Swift di vedere cavalieri che lottano contro i mulini a vento e cavalli che fondano stati. Non il concetto di ristrettezza bensì quello di ampiezza si addice al realismo. La realtà stessa è ampia, varia, piena di contraddizioni; la storia crea e respinge modelli. (...) Non sono le forme esteriori a fare lo scrittore realista. E non esiste neppure una profilassi infallibile: un vigoroso senso dell’arte può trapassare in fetido estetismo, una fiorente fantasia nella squallida astrattezza dell’acchiappanuvole e ciò, spesso, nello stesso poeta;

non per questo possiamo mettere in guardia contro il senso artistico e la fantasia. Così il realismo scende continuamente al livello di meccanico naturalismo, anche nei realisti più significativi. (...) «Scrivete come Balzac!» Chi accettasse tali consigli ora si esprimerebbe servendosi di immagini tratte dalla vita di persone già defunte, ora punterebbe su reazioni psichiche che non hanno più corso. Se però vediamo in quanti modi è possibile descrivere la realtà, ci rendiamo anche conto che il realismo non è una questione di forma. Quando si fissano dei modelli formali, non c’è niente di peggio che fissarne troppo pochi: è pericoloso collegare il grande concetto di «realismo» a un paio di nomi, per quanto famosi, e mettere assieme un paio di forme, per quanto utili esse possano essere, desumendo da esse l’unico metodo creativo all'infuori del quale non c’è salvezza. A proposito delle forme letterarie bisogna interrogare la realtà, non l’estetica, neanche quella realistica. La verità può venir taciuta in molti modi e in molti modi può essere detta. Noi deduciamo la nostra estetica, come pure la nostra moralità, dai bisogni della nostra lotta.”

Fino ad arrivare all’equazione di Sanguineti, per cui il realismo sì riconosce proprio nell’avanguardia. È inutile trasferire il vino nuovo dei contenuti negli otri delle vecchie forme (l’deologia della forma non perdona) o pensare di incensare il potere proletario con gli stessi turiboli innografici che omaggiavano il potere borghese. L'impresa, difficile quant’altre mai, è di attivare insieme

Il Gruppo ‘63

due rivoluzioni, del cosa e del come. Ed è impresa indispensabile, perché altrimenti, pensando che poi le cosiddette “sovrastrutture” culturali cambieranno da sole, la conquista della base economica si porterà dietro la palla al piede di modi di vedere retrivi e sarà da questi condizionata e infine dominata e stravolta. L’avanguardia, anche se sorta sul terreno della cultura borghese, anche se fosse “ribellismo piccolo-borghese” come l’accusavano i marxisti ortodossi, è, in quanto particella deviante,

l’alleato giusto contro le resistenze del senso comune. È ciò che vide con grande chiarezza Gramsci a proposito del Futurismo, nell’articolo non firmato su “L'Ordine Nuovo”, 5 gennaio 1921, dal titolo Mannetti rivoluzionario?: Il campo della lotta per la creazione di una nuova civiltà è invece assolutamente misterioso, assolutamente caratterizzato dall’imprevedibile e dall’impensato. (...) In questo campo nulla è prevedibile che non sia questa ipotesi generale: esisterà una cultura (una civiltà) proletaria, totalmente diversa da quella borghese; anche in questo campo verranno spezzate le distinzioni di classe, verrà spezzato il carrie-

rismo borghese; esisterà una poesia, un romanzo, un teatro, un costume, una lingua, una pittura, una musica caratteristici della civiltà proletaria, fioritura e ornamento dell’organizzazione sociale proletaria. Cosa resta a fare? Niente altro che distruggere la presente forma di civiltà. In questo campo «distruggere» non ha lo stesso significato che nel campo economico: distruggere non significa privare l’umanità di prodotti materiali necessari alla sua sussistenza e al suo sviluppo: significa distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite, significa non aver paura delle novità e delle audacie, non aver paura dei mostri, (...).8

La cosa interessante dell’articolo è che l’“azione parallela” nell’abito culturale e artistico è vista lucidamente come una contestazione critica ra-

dicale e non come un innocuo e comodo trasferimento di valori. E viene lasciato convenientemente cadere il criterio estetico (Benjamin direbbe la “qualità”) e il suo risvolto conservativo, giungendo ad ammettere la mostruosità, come si è visto. Il che vuol dire negare il principio dell’unità e della sintesi: la somma di parti disomogenee essendo fin dall’Ars poetica il limite invalicabile (guai si mostri come le “sirene”, donne che finiscono in una coda di pesce, puah!). Ricordo che fare “il brutto” in letteratura resta uno dei punti più qualificanti del Manifesto tecnico futurista. Ma non c'è soltanto il recupero del represso e del proibito. L'istanza politica si può precisare ancora meglio prendendo il Benjamin degli anni Trenta, 14

1. La contestazione del testo

quel finale precisissimo chiasma dove contrappone alla «estetizzazione della politica» la «politicizzazione dell’arte». Ancora oggi la prima sembra andare alla grande, tra i miti del grande comunicatore e gli spin doctors dell’immagine; la seconda è sparita (o parrebbe) dal nostro orizzonte. Come accennavo, inserire la logica politica del disaccordo vuol dire andare “oltre la letteratura”, — per usare qui un titolo di Di Marco? — ma non abbandonandone il terreno, piuttosto trasformandone le basi ope-

rative. La benjaminiana “politicizzazione” indica chiaramente questa via. Potrebbe significare l’inserimento di elementi politico-prosaici a far da contraltare alle elevazioni sublimanti del lirismo, e questo già sarebbe un corretto strantamento, una apertura di contraddizione interna in un testo reso eterogeneo e costellato di interruzioni in cui — me ne occuperò nell’ultimo capitolo del libro — la critica non si applichi soltanto dall’esterno e a posteriori, come tradizionalmente fa, ma accompagni passo

per passo la scrittura al modo di una “parabasi permanente”. Ma potrebbe significare il muoversi “creativamente” con la coscienza estesa e completa della politicità di ogni forma letteraria, da cui la calibrata disfunzione e transfunzionalizzazione di tutte le norme canoniche (metriche, narrative, ecc.); si potrebbe anche parlare di una concettualizzazione

estrema di ogni procedimento o argomento ricollocato diversamente in base al ripensamento che l’accompagna (e forse qui, ancora, tornerebbe

utile la nozione di allegoria rielaborata da Benjamin). Invece di abbandonare lo specifico per fare direttamente politica, l’avanguardia della seconda Ondata evidenzia la politicità dello specifico nel momento stesso di praticarlo. È necessario, per questo, uno scatto di autocoscienza e di autocritica di cui è sintomo la presenza di critici all’interno del gruppo e il privilegiamento della forma convegno come vero e decisivo spazio di esperienza collettiva. Rispetto alle prime avanguardie, si nota un evidente passaggio dalla promulgazione di manifesti,

fantasiosi ma spesso ingiuntivi, volenti o nolenti autoincensatori, verso la cifra saggistica di taglio analitico-argomentativo. Un passaggio, altresì,

dalla forma-serata in cui l'avanguardia sale sul palco a cercare lo scontro con il pubblico, alla forma-laboratorio, in cui il pubblico può essere tran-

quillamente tenuto in disparte e ci si confronta senza remore su indirizzi, strumenti ed esiti. Ora, il laboratorio suggerisce una operatività di tipo scientifico. Allo stesso ambito semantico appartiene il termine “speri-

Il Gruppo ‘63

mentalismo”, che non esisteva nelle avanguardie precedenti. Ma sulla metafora scientifica sì addensano altrettanti equivoci che sulla metafora militare, e occorrerà un po’ di spazio per disperderli.

3. Sperimentalismo, perché

Con la metafora scientifica è peggio che andar di notte. Con l’avanzare degli heideggerismi vari, la scienza sì fa invisa pratica di un intelletto freddo, inadatta allo sprizzare degli ‘“arrischianti”, ancora più detestata, se si può, della aggressività militante. Negli anni del nuovo divaricarsi delle scienze dell’uomo dalle scienze della natura e di arrembante revanchismo dei fautori della creatività artistica, di intuizione con-

trapposta all’intelligenza, di anima messa contro il “senza cuore” delle cifre, per lo sperimentalismo la cancellazione dall’ordine del giorno è segnata, con sorte non dissimile dalla “politicizzazione” (e tale sorte comune la dice lunga sulla loro parentela). Ma ragioniamo con calma. Intanto dovrebbe essere chiaro che nell'esperimento di scrittura non si tratta di verificabile esattezza, né di calcolo matematico, e neppure di un controllato percorso da ipotesi a risultati oggettivi. Anche se certamente vi è in gioco la progettualità della scrittura in dosi più massicce che nella ordinaria poetica, per sperimentalismo si intende spirito di ricerca e quindi l’apertura ad una molteplicità di soluzioni non garantite, proprio perché devianti rispetto alle plausibili previsioni. L'idea di una meccanicità di procedimenti decisi a tavolino può essere in taluni casi giustificata, e però non è mai fine a se stessa. Anche nel caso delle contraintes dell’Oulipo, siano esse pure assunte a pron, sì deve sempre tener presente che regolamentazioni apparentemente neutre (per esempio il lipogramma) servono nella sostanza come strumenti per scansare il banale e non abbandonarsi alle formule ovvie che per prime venissero in mente. In realtà lo sperimentalismo, così come si sviluppa negli anni Sessanta e come vedremo dalle analisi del capitolo 4, non si serve mai di un unico procedimento, semmai si muove in una rete, in una serie di relazioni intrecciate. Non si tratta di mero formalismo, ma della contestazione, ap-

punto, del rapporto equilibrato (medio, moderato, mediocre) tra forma 16

1. La contestazione del testo \

e contenuto, contro il presupposto idealista che l’arte consista nel dare al contenuto la sua propria forma, quella che gli è destinata ab origine e che naturalmente e spontaneamente gli compete. Ma come potrebbe essere equilibrata l’arte nel mondo della contraddizione costitutiva? Lo sperimentalismo dunque è lo scavo delle discrepanze tra forme e contenuti, moltiplicandone le possibilità di connessione, ma anche di attrito. Da questo, sebbene distanziamento in effetti vi sia, non deriva tanto un iter di tipo strettamente consequenziale, quanto piuttosto ci si concentra sul problema della tecnica. La tecnica — come ben sapeva Benjamin -— è la cartina di tornasole, la domanda è: “cosa succede alla tecnica”?

Ecco, sperimentare significa che ogni preventivo “saper fare” viene tenuto in sospeso. Ci si muove nell’ambito di una patafisica, di una scienza delle soluzioni immaginarie, assurde e inverosimili, “fuori sistema”. Le attuali

scuole di scrittura non saprebbero insegnarla neanche volessero. Ora, la declinazione dell’avanguardia nel modo dello sperimentalismo ha suscitato discussioni assai interessanti. Infatti, si è teso a rompere questo accoppiamento da più parti, anche di segno opposto. I fautori dell’estremismo avanguardistico, in quanto lo sperimentalismo risulta ai loro occhi una diminuzione, un tornare a rinchiudersi nello steccato letterario

e ad accontentarsi di percorsi individuali (a partire da un soggetto operativo), perdendo i punti di forza della azione di gruppo. Da parte, invece, degli avversari dell'avanguardia, lo sperimentalismo viene distinto allo scopo di dimostrare che i risultati migliori li ottengono gli autori meno condizionati dai programmi — per cui gli elaborati strategici sarebbero inutili e controproducenti. Personalmente sono favorevole, al contrario, a tenerli vicini: mi pare che gli sperimentatori isolati possano rafforzare le proposte dell’avanguardia, allargandone l’orizzonte. Autori come Brecht o Beckett sono portatori di progetti forti anche se non hanno preso parte ad alcuna riunione, come pure — negli anni Cinquanta-Sessanta, in parallelo con il Gruppo ’63 — lo sono stati Emilio Villa, Cacciatore, Pizzuto, il Bene dei romanzi, Volponi, Toti. Nessuna ripresa della tendenza (se mai ci sarà) potrà fare a meno di loro. Dirò di più: anche ad attenersi agli aderenti al Gruppo ’63, come conto di fare in questa occasione, sono autori che continuano a scrivere anche dopo che le bandiere collettive sono state ammainate. E allora? Se di avanguardia, propriamente parlando, non sono più per una buona parte della loro opera, 17

Il Gruppo ‘63

come li chiameremo, se non sperimentali? Quindi, visto che la nozione

di sperimentalismo diventa necessaria nel loro caso, nulla ci impedisce di adoperarla anche per altri, non coperti da sigle ufficiali e costituite. Ma il dibattito è davvero ingente, sì svolge anche al di fuori dell’am-

biente nostrano. In Germania coinvolge su posizioni antitetiche due teorici del calibro di Adorno ed Enzensberger. Enzensberger è contro lo sperimentalismo che gli appare un concetto «assurdo e inutilizzabile», inadatto a descrivere la produzione artistica. Se è diventato “popolare” è per la sua comodità di formula-paravento, buona a nascondere rotte di piccolo cabotaggio, la metafora scientifica messa a favorire l'atteggiamento neutrale e asettico degli osservatori, quindi senza assunzione di vere responsabilità. L'esperimento «mette al riparo dai rischi che ogni produzione estetica comporta. Esso serve, nello stesso tempo, come marca di fabbrica e come formula magica che rende invisibili».!" Adorno invece accoglie lo sperimentalismo nel contesto magmatico della sua Zeorta estetica, come l’unica strada che rimane quando si siano perdute tutte le certezze, anzi arriva a dichiarare che «Di fatti non è quasi più possibile un’arte che non sia anche esperimento». Con alcuni correttivi dialettici, però: per un verso, l’esperimento è libero, «indica cioè che il soggetto artistico pratica modi di cui non può prevedere il risulto oggettivo», nello stesso tempo, la libertà soggettiva non può essere del tutto libera senza diventare equivoca, il

fatto che «l’artista venga sorpreso dalle sue creazioni» rischia di ricadere in antiche visioni “ispirative”. Gli è che, per Adorno, ogni impegno è sospetto in quanto l’arte deve evitare qualsiasi prassi o servitù utilitaria e perciò non può far altro che esibire la propria “separatezza”, salvo poi viverla con sensi di colpa autodistruttivi. Dello sperimentalismo Adorno vede soprattutto alleato dell’arte pura («gli esperimenti, che quasi per concetto sono anticipatamente interessati ai mezzi, si compiacciono di lasciar attendere invano il fine»'!), ma avrebbe potuto ugualmente sottolinearne l’aspetto “legato” (le regole processuali del procedimento). Il Gruppo ’63, dal canto suo, sarà animato da una spinta propulsiva tale da tenere saldamente insieme avanguardia e sperimentalismo. Non per nulla, uno degli interventi di apertura del convegno fondativo, sarà proprio Avanguardia e sperimentalismo, proposto da Angelo Guglielmi. Lo

1. La contestazione del testo

sperimentalismo vi appare progettato come la versione dell’avanguardia adatta ai nuovi tempi: «ciò di cui oggi abbiamo bisogno — argomentava Guglielmi — è di una maggiore consapevolezza critica, tale che ci aiuti a individuare (e sfruttare) le indicazioni positive o più semplicemente gli avvertimenti che ci sono forniti dalle avanguardie letterarie del primo Novecento».!? L'ammissione della non fungibilità dell’avanguardia così come la sì è conosciuta nella prima metà del secolo somiglia solo in apparenza alle giubilazioni successive da parte dei postmoderno; era chiaro infatti come lo sperimentalismo costituisse la variante tattica del medesimo progetto strategico. Il cambiamento intercorso è quello del “muro di gomma”, la contestazione non si trova più di fronte una tradizione rigida e conservatrice, ma un mercato neocapitalista molto flessibile, pronto ad assorbire le provocazioni, ad assumerle in proprio svuotandole delle finalità, ridotte a mero exploit concorrenziale. Mantenere la carica polemica significa, allora, assumere la cautela e la circo-

spezione degli “sminatori””: Le armi necessarie sono un maggiore esercizio dell’intelligenza e lo sviluppo della consapevolezza critica. La situazione della cultura contemporanea è simile a quella di una città dalla quale il nemico, dopo averla cosparsa di mine, è fuggito. Il vincitore che è alle porte della città cosa farà? Invierà delle truppe d’assalto a conquistare una città già conquistata? Se lo facesse aggraverebbe il caos, provocando nuove inutili rovine e morte. Piuttosto farà arrivare dalle retrovie i reparti specializzati che avanzeranno nella città abbandonata non con le mitragliatrici ma con gli apparecchi Geiger. E grazie alle nuove strade da essi aperte (strade naturalmente straordinarie, costruite su sedi impreviste e non tradizionali) la circolazione nella città potrà ricominciare. Si tratterà indubbiamente di una circolazione ardua, faticosa, incerta. Avrà bisogno di “provare” passi e vie sempre diversi. Si tratterà di una cir-

colazione sperimentale. È indubbio che lo sperimentalismo è lo stile della cultura attuale. È la sua forma

più propria e sincera."

Questo fa sì che anche il rapporto con il passato non sia uno stacco netto, ma consista nella ricerca dei fili che raggiungono il presente (le diverse linee e gli “abbinamenti” che propone Barilli tra i nuovi e ìloro antecedenti nell’altro intervento introduttivo). All’avanguardia che aboliva le accademie e le biblioteche si sostituisce una avanguardia di professori. Una generazione di Nettuno, scrive Eco in appendice all’antologia

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del gruppo, contrapponendo il lavoro sotterraneo (il “nettunismo”’) alla esplosione superficiale (il “vulcanismo”). Ma attenzione, non è che sia venuto meno l’impulso della politicità: Eco fa l’esempio della brechtiana “Jenny dei pirati”, colei che prepara l’arrivo della rivolta. Lo stesso Eco, in un intervento del ’62, quindi immediatamente precedente all’anno fatidico, affermava il radicalismo degli esperimenti in corso e poneva l’esplicito collegamento con l’impulso del “rivoluzionario”: In questo senso allora il termine di «sperimentale» — usato in senso analogico — ci permette di distinguere l’artista contemporaneo da quello delle altre epoche, e proprio in musica possiamo trovare delle esemplificazioni piuttosto elementari. Infatti il musicista tradizionale che componeva tra il XVII e il XIX secolo, ad esempio, poteva tentare le più ardite ed inedite innovazioni formali, ma per lo meno non metteva in dubbio alcuni principi basilari su cui si fondava la possibilità stessa della comunicazione musicale, ad esempio il principio della tonalità. E quando poneva i germi di una crisi della tonalità, o ne allargava i confini, lo faceva con cautela, in una dialettica di innovazione e rispetto per il portato tradizionale; con l’atteggiamento, se è permesso un paragone politico, del riformista e del conservatore illuminato, e non del rivoluzionario.

L'artista contemporaneo si comporta invece come il rivoluzionario; distrugge completamente l'ordine che gli è stato consegnato, e ne propone un altro. Ma nel senso che ogni opera che egli intraprende ha per lui il valore di un evento storico che in politica si verifica invece una volta ogni secolo. L'artista contemporaneo si avvia sempre più a «debuttare nel vuoto» ogni volta che prende in mano un pennello o sì appresta a comporre in una maniera qualsiasi.!*

(Sarebbe interessante conoscere come la pensi oggi Eco, affermato narratore).

Né lo sperimentalismo era ignorato dal lato più “a sinistra” della neoavanguardia. La teoria di Sanguineti (che prenderò in esame nel capitolo 3), se pure teme le sfumature di neutralità del termine, tuttavia lo coinvolge nelle sue rigorose dialettiche tra “momento cinico” e “momento eroico-patetico”, tra “mercato” e “museo”. Nella fase più calda del decennio Sessanta, quando le contestazioni extraletterarie ravvivano il “vulcanismo”, tuttavia proprio Sanguineti su «Quindici», in Per una letteratura della crudeltà, assegnava alla scrittura un compito fondamentale di verifica culturale e politica come «spazio sperimentale dove si decide la dialettica, come si ama dire oggi, delle parole e delle cose» e «sperimentazione critica delle gerarchie del reale, quale è vissuta nelle parole».

1. La contestazione del testo

4. Il linguaggio come lavoro Esperimento sulle parole, quindi, e cioè sul linguaggio. Le avanguardie del primo Novecento avevano sottolineato la questione del linguaggio, ma — per così dire — anche troppo, troppo assolutamente e fideisticamente. Le parole in libertà e ancor più la lingua transmentale (zaum) dei futuristi russi, completamente inventata, si illudevano di un facile abbandono del codice; lo stesso la pretesa di un certo surrealismo che lasciandolo parlare automaticamente senza sorveglianza (Breton diceva: «après vous mon beau langage») il linguaggio dischiudesse le porte dell’altrove. Nella seconda Ondata appare con maggiore chiarezza che il linguaggio contiene sia la liberazione che l'alienazione, è il soggetto € insieme l’oggetto del conflitto, è il campo di lotta in cui avanzare le contromosse sperimentali. Si dirà che questa impostazione è tipica degli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, di quella svolta linguistica, impressa in quel periodo a tutto l'ambito culturale e scientifico. Tuttavia, un confronto con lo

strutturalismo e la semiotica da una parte, e le nuove avanguardie dall’altra, porta in evidenza diametrali divergenze. Mentre lo strutturalismo considera il codice, a monte, come la matrice di tutti i messaggi e la storia semplicemente come una combinatoria cangiante ma sempre dipendente da quelle possibilità apriori, l'avanguardia vede nel codice una convenzione sociale, come tale trasformabile e trasgredibile. L'equazione posta da Sanguineti tra linguaggio e ideologia appare in sintonia, più che con Lévi-Strauss o Greimas, con la semiotica materialista di Rossi-Landi che sviluppa le proprie riflessioni sul capitale linguistico e il lavoro linguistico proprio in quegli stessi anni: una semiotica che traduce le merci in messaggi e viceversa, e quindi apre la prospettiva di una critica del testo verbale in chiave economico-politica. Al di là della superficie emotiva o referenziale, il testo si presenta allora esattamente come un “tessuto”, ovvero come un prodotto di un lavoro — ed eccoci spostati dalla sfera del privato a quella del pubblico. Ma il passo ulteriore dell’avanguardia è che il lavoro non deve riprodurre il capitale (simbolico) morto, ma deve contenere un risalto critico e autocritico, di critica del lavoro stesso. Per questo l’ordine, la norma, il codice non sono felicemente

bypassati (come se la libertà fosse già possibile), ma messi in

Il Gruppo ‘63

questione in un duro e difficile processo di liberazione. Si tratta di uno scavo dall’interno. Brecht diceva: “segare il ramo in cui si sta seduti”; Sanguineti ha parlato di “sabotaggio del poetese”. Il lavoro sul linguaggio basta a terremotare l’idea consueta e consunta che l’arte letteraria sia il luogo ideale cui una persona-autore affida la propria esperienza personale vissuta per comunicarla ad altri ed esservi riconosciuto. Propenda più per l’interiorità dello stato d’animo (poesia) oppure per l’esteriorità degli avvenimenti (narrativa), la cosa non cambia: entrambi i casi si risolvono nel contatto empatico sia nella confessione intima vera e propria, sia e non meno nella fiction (mediante l’immedesimazione nell’eroe/ina) perfino nell’assolutamente irreale del fantasy. Questo aggancio antropomorfo, che riporta la scrittura all’autore e al suo alter ego, viene interrotto dall’avanguardia che comunica, ossia “mette in comune” (comunicare dovrebbe voler dire ‘mettere in co-

mune”, no?) piuttosto un oggetto spaesente, defunzionalizzato, enigmatico. Non che l’autore venga eliminato, anzi, tutt'altro. Il soggetto

rimane fondamentale, ma è il soggetto dell’enunciazione a sottrarre le prerogative al soggetto dell’enunciato o, per meglio dire, a riprendersi le sue, per solito nascoste. Non per nulla, l’autore può anche essere plurale e corrispondere a più persone. Il soggetto abbandona la funzione espressiva per assumere chiaramente una funzione operativa. Ciò comporta configurazioni deraglianti su almeno due livelli: 1) la frammentarietà. Il lavoro si eserciterà su una

costruzione a tasselli, dunque la funzione operativa si manifesterà al massimo grado nel montaggio, e quest'ultimo potrà leggersi bene negli scarti tra un registro e l’altro, a partire dalla disparità, eterogeneità e distanza dei materiali, e dalla vertiginosità dell’interruzione che separandoli li collega. La discontinuità temporale che l'avanguardia ha sempre ricercato, ha il corrispettivo nella discontinuità spaziale della “contestualità disorganica”; 2) la conceltualità. La scrittura ibrida non distrugge soltanto, ma istituisce nuovi nessi. Questi sono leggibili, però, soprattutto oltrepassando i significati denotativi (che il montaggio rende incongrui) e considerando le rifrazioni, le allusioni, i rimandi connotativi. La di-

sposizione dell’insieme andrà di volta in volta in volta riportata all’intenzionalità di un progetto. Ogni collocazione, per quanto appaia illogica, andrà valutata come se fosse attentamente pensata. Il senso delle (2°)N

1. La contestazione del testo

mosse. La mancanza o la carenza del livello immediato di senso porta a incentiva il senso di secondo grado; torna utile una nozione di allegoria rivalutata seguendo Benjamin. Ma già alla fine degli anni Sessanta, ben in anticipo sul grosso del dibattito benjaminiano, il già citato intervento di Sanguineti sulla letteratura della crudeltà concludeva con un vibrante ricorso all’allegoria: Nessuna forma di esame critico della parola letteraria si sottrae, ai giorni nostri, a un sistematico (più o meno scientificamente addobbato) allegorismo. Tutta l’esegesi biblica che oggi si sviluppa, nell’immenso orizzonte della letteratura profana, risolve il giudizio — spesso implicitamente — in modo realmente profondo quanto riflessivamente immediato, nella misura del livello di allegoria (di allegorizzazione) di cui un testo dato può essere portatore, di cui un linguaggio dato è in grado di farsi (cor)responsabile. Una letteratura della crudeltà, dal punto di vista della critica (dell’esame critico delia parola letteraria), opera consapevolmente — cinicamente

per allegorie.!”

Allegoria, dunque, ma anche straniamento (punto di vista alieno), 1r0-

nia (distruggere ciò che si dice), parodia (ripetizione con segno cambiato): complessivamente si indica una disposizione metaletteraria. Ragionare sul proprio strumento mentre lo si adopera, con gli scompensi del caso. Infatti, diversamente da quanto avverrà nel postmoderno, la metaletterarietà dell'avanguardia non inclina alla blanda restaurazione del pastiche, ma produce inciampi che intralciano la scor-

revolezza. L’impersonalità operativa possiede anche un risvolto paradossale. Infatti, la “riduzione dell’io” (presentata nella introduzione di Giuliani ai

Novissimi!*) si applica perfino in quei casi in cui la contestazione del testo fa ricorso a materiali che appaiono assunti dall’inconscio personale e limitrofi allo stato del sogno. Come sarebbe: non parlano di se stessi? Ebbene no, per paradosso, dicevo, ma non poi tanto, perché appunto l’inconscio non è l'io. A dimostrare che quanto abbiamo di più profondo non ci appartiene e sfida la coscienza linguistica che ne abbiamo e a rendere ridicolo qualsiasi rassicurante autobiografismo, quindi l’avanguardia si propone in ogni caso una critica dell’identità. Ciò mette a dura prova la comprensione, all’epoca si parlò di “illeggibilità”. E già il lettore stava diventando il riferimento precostituito

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della produzione per il mercato. Ma davvero il lettore “ha sempre ragione”? Davvero il grado più basso è quello che più gli conviene? Ora, nel dibattito teorico, l'ancoraggio della comprensione è stata la missione dell’ermeneutica, che per altro si è trovata in difficoltà proprio alle prese con l’arte contemporanea, priva delle garanzie temporali del classico. L’ermeneutica dell’ascolto ci invita ad accettare l’autorità della tradizione e ad accogliere il testo con benevolenza e buona volontà, come si farebbe con un ospite di riguardo. È chiaro che l'avanguardia non rientra in un simile quadro e, rifiutando la logica della tradizione (il “si fa così perché si è sempre fatto così”), mette il proprio interlocutore in una posizione scomoda, lo tratta sgarbatamente con le cattive maniere, addirittura arriva a rigettarlo. Come accostare un ospite così ingrato? È per forza necessaria una diversa ermeneutica. È quanto suggerisce Peter Burger nella sua Teoria dell’avanguardia. Per accostare l’opera non organica” occorre un gusto radicalmente trasformato (un gusto per le disarmonie) e occorre rivolgere l’interpretazione a recepire non il contenuto umano degli stati d’animo o delle vicende, bensì il “principio costruttivo”. Si potrebbe anche dire: immedesimarsi non nel personaggio, ma nell’autore. Sentiamo Burger : Il ricettore di un’opera avanguardistica scopre che il suo procedimento di appropriazione delle oggettivazioni intellettuali, sviluppato per le opere d’arte organiche, è inadeguato al presente oggetto. Né l’opera avanguardistica crea un'impressione totale, che liberi un’interpretazione di senso, né si può chiarire l’impressione che eventualmente si crea facendo ricorso alle singole parti, dal momento che queste non sono più subordinate all’intento dell’opera. Tale rifiuto di fornire un senso viene vissuto dal ricettore come uno shock. È questo il proposito dell’artista d’avanguardia, che spera che il ricettore sia spinto da questa sottrazione di significato a mettere in discussione la propria vita pratica e a convincersi della necessità di un suo cambiamento. Lo shock viene pensato come uno stimolo a mutare atteggiamento, è lo strumento per spezzare l’immanenza estetica e promuovere un mutamento nella prassi vivente del ricettore. (58)

Ciò che resta è l’aspetto enigmatico delle creazioni, la loro resistenza ad ogni tentativo che voglia strappare loro un senso. Se il ricettore non si vuole semplicemente rassegnare o accontentare di fronte a un senso arbitrario, fissato solamente in rapporto a una singola parte dell’opera, deve allora cercare di comprendere proprio la natura enigmatica dell’opera avanguardistica. Perviene così a un altro livello interpretativo. Invece di procedere secondo il principio del circolo ermeneutic o, con

1. La contestazione del testo

l’intenzione di cogliere un significato dalla relazione delle parti con la totalità dell’opera, il ricettore sospende la ricerca di senso e rivolge la propria attenzione ai principi costruttivistici che determinano la costituzione dell’opera, cercando in essi una chiave che sciolga l’enigma della forma. Nel processo di ricezione l’opera avanguardistica provoca dunque una rottura, che corrisponde al carattere lacunoso della forma (la sua non-organicità). Tra l’esperienza dell’inadeguatezza dei modi di ricezione sviluppatisi con l’opera d’arte organica, esperienza messa in evidenza dallo shock, e lo sforzo di comprensione dei principi costruttivistici vi è una frattura: la rinuncia all’interpretazione di senso. Uno dei cambiamenti decisivi nello sviluppo dell’arte introdotto dai movimenti storici d’avanguardia consiste in questo nuovo tipo di ricezione che l’opera d’arte avanguardistica produce. L'attenzione del ricettore non sì rivolge più a un senso dell’opera comprensibile grazie ai suoi elementi, bensì al principio costruttivistico.!°

Si comincia col domandarsi perché il testo parli in modo incomprensibile. Se in questa domanda non c’è il livore di chi ha speso male i suoi soldi, ma curiosità e un pizzico di interesse, sì è già sulla strada giusta per recuperare il “senso del non-senso”. Per forza le operazioni di avanguardia, per essere contestative, producono un testo denso, internamente combattuto, difficile da decifrare (vedremo all’opera gli strumenti di analisi nel capitolo 4). E quando incontriamo per la prima volta «Composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis» non sappiamo dove trovare un appiglio. Eppure — come già mi è capitato di osservare — chi getta via il testo dicendo che “non si capisce niente”, in realtà ha capito benissimo. Ha capito che quel testo gli chiede molto, troppo. Gli chiede una lettura che è un lavoro, a forte impegno intellettuale; ma gli chiede, per soprammercato, di staccarsi dalle convenzioni abituali e dalle

conformazioni invalse, di lasciare gli approdi compensativi e consolatori e mettere in questione insieme il linguaggio con l'ideologia.

5. Attualità dell’avanguardia?

È perfino troppo facile collegare le avanguardie ai momenti di espansione economico-sociale. Soprattutto in ambito italiano, è un gioco da ragazzi: il Futurismo coincide alla perfezione con il balzo in avanti della industrializzazione di inizio Novecento, mentre il Gruppo ‘63 corrisponde agli anni del boom e dell’ingresso nella società dei consumi. Alla

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luce di questi lampanti “equivalenti sociologici”, si sarebbe tentati di concludere che l'avanguardia sia il fiore all’occhiello della sovrapproduzione che può permettersi il lusso di sprecare energie nella complicazione del proprio linguaggio artistico, insomma nel dar voce alla propria critica — Foucault direbbe: nella emissione di una resistenza sulla quale crescere. Un lusso o un surplus che le società in stagnazione o in calo — come l’odierna — non potrebbe più concedersi. Cosa manca per chiudere il cerchio di questa comoda equazione? Io credo che il problema non lo facciano tanto le eccezioni alla regola (come sì sa, l'eccezione conferma la regola), come Dada negli anni della guerra, Espressionismo e Surrealismo negli anni Venti, in momenti che sembrano

già catamoderm. Potrebbero essere presto liquidati come rimbalzi tardivi e frutti fuori stagione. Il problema, per come la vedo io, è l'equazione stessa. In primo luogo, essa non riconosce avanguardia: infatti, se avanguardia è la contestazione del testo, sarà per forza contro la propria epoca e non in sintonia con essa. Giudicarla tale, vuol dire svuotarne i presupposti. In se-

condo luogo, la storicizzazione che lega l'avanguardia a un determinato periodo con l’apparenza asettica della sistemazione a distanza, contiene un velenoso arresto della sua proiezione verso il futuro. È chiaro. Se s'insiste che l'avanguardia c’è stata in virtù di precise circostanze, è perché la si vuole dimostrare irripetibile, va da sé, non ci potrà più essere in circostanze mutate. Non per niente la riapertura ad ogni terzo anno del decennio del dibattito sul Gruppo ’63, più ancora di una riunione di reduci sempre più sparuti, assomiglia ad un esorcismo teso a controllare che il morto sia ben sepolto — e a giudicare dalle recrudescenze dei vade retro e degli scongiuri, c'è da dedurre che non sia ancora sepolto abbastanza. Ormai, tra noi e la neoavanguardia si stende mezzo secolo, una landa desolata dove ha impazzato il postmoderno con la sua dogmatica preclusione della impossibilità dell’avanguardia. In tale non possumus c’è più di un risvolto che è interessante sviluppare. Primo: nella cultura della fine della storia e quindi della ripetizione a piacere (citazionismo e quant'altro), l’unico tabù, l’unica a non potersi ripetere sarebbe proprio l’avanguardia?° Inoltre, il postmoderno sa-

rebbe l’“*equivalente sociologico”, questo sì tutto colluso con la propria epoca, di una fase economico-sociale di forte sviluppo, con tanto di rivoluzione silenziosa, la rivoluzione informatica. Come mai al contrario

I. La contestazione del testo

dell’avanguardia produrrebbe l'adeguamento, con strategie di rientro nel mercato, di allineamento e di adesione conformista, di impoverimento del pluralismo e asservimento della cultura? Forse quello sviluppo era illusorio, o forse si è arrivati a un sistema perfezionato dove la comunicazione non immediatamente produttiva dev'essere esclusa e non si scommette più sulla produttività della critica. Ed è vero che poi (soprattutto in America), il postmoderno ha avuto delle somiglianze con le nuove avanguardie, tuttavia nel complesso assorbendone alcune tecniche (ironia, parodia, metascrittura) in maniera moderata, riportandole nell’alveo, spuntate e depotenziate. Questa operazione dietro le quinte doveva essere mascherata da un netto rifiuto dell’avanguardia. Ma lo stesso decreto di impossibilità, che ci siamo sentiti tante volte ri-

petere, ha qualcosa di curioso. La sua presunta oggettività — tanto più strana in un periodo che escludeva i fatti in favore delle interpretazioni — veniva enunciata con insolito vigore, talmente senza ammissione di replica, da assomigliare nel tono a un divieto. Affermare che è inutile battersi per la ripresa dell’avanguardia, perché tanto non ce ne sono le condizioni, non varrebbe neanche la pena, basterebbe lasciare le pie il-

lusioni che andassero a vuoto. La perentorietà contiene evidentemente una volontà contraria: l'avanguardia è impossibile perché deve esserlo. Quanto più si stringono i legami tra produzione e comunicazione, tra merci e messaggi, tra valore di scambio e valore simbolico, e tanto più deve essere esclusa dall’orizzonte la scrittura deviante, quella operazione cartacea che, nel suo piccolo, dialetticamente scioglie quelle sovrapposizioni e ne indica la contraddizione di fondo. Forse l'avanguardia era, tra fine Novecento e inizio Duemila, effettivamente impossibile, ma certo

pochi hanno provato a farla. Di sicuro è stata invisibile quella poca che c'è stata: prima o poi andrà fatta la storia delle aggregazioni mancate (Gruppo ’93, Terza Ondata?') e soprattutto delle numerose sperimentazioni individuali “di nicchia” che hanno continuato pressoché clandesti-

namente a prodursi, col supporto di piccole case editrici, antologie, ecc. Ché poi l’impossibilità potrebbe anche essere accettata e rigirata in positivo. Per esempio: se l’avanguardia è impossibile, allora è l’unica cosa

che valga la pena di tentare di fare (il possibile è banale, troppo facile e così via). Oppure: l'avanguardia è impossibile? Sì, lo è, lo è sempre stata, infatti è andata sempre incontro a fallimenti, travisamenti e quant'altro,

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l'avanguardia consiste precisamente in questa sfida. Ancora: l’avanguardia è impossibile, sì, è nella sua natura, perché è impossibile nel senso in cui la mamma dice al bambino “sei proprio impossibile!”, impossibile da sopportare, quindi nel senso della riottosa indisciplina. Infine, l’avanguardia più matura e rigorosa assume la propria impossibilità lottando con essa nella sua dialettica interna di serttura della contraddizione. Tutto questo cavillare per arrivare al punto: la rilettura degli anni Sessanta e adiacenze sarà compiuta, in questo libro, con una prospettiva attualzzante. Attualità dell'avanguardia? Ma questa oggi risulta essere davvero il non plus ultra della provocazione, oppure una boutade. Tanto è progredito l’imbarbarimento della cultura e l’abbassamento di livello che io chiamo “postletterario”, che ormai anche i classici della tradizione risultano praticamente “illeggibili”, figuriamoci le scritture anomale, per le quali il cosiddetto pubblico ha perduto il minimo parametro, sembreranno messaggi provenienti da Marte. Eppure, proviamo a identificare alcune elementari esigenze attribuibili a chi voglia semplicemente riemergere a respirare un pochino dall’immaginario collettivo in cui si trova immerso. Direi: 1) poter capire che i valori vantati dal mercato non esistono e che l’emozione solitamente connessavi tanto più è strombazzata, tanto più è immessa a comando pigiando su corde stantie; 2) scrollarsi di dosso le maschere identitarie vecchie e nuove e i loro miti e simboli di appartenenza, comprese tutte le tentazioni neocomunitarie; 3) smentire con rigore la “scelta obbligata” calata dall'alto, per immaginare un diverso assetto di condivisione della penuria. Se partiamo da queste tre esigenze elementari, possiamo poi verificare quali scritture ci aiutino a soddisfarle. Allora, nessuna opzione può dirsi “superata” o “datata” e del resto varie ipotesi che si spacciano per alternative sono a ben pensarci antichissime (quelle del tipo: “la bellezza ci salverà”, per esempio). Certo, ogni ripresa dovrà essere filtrata con atteggiamento critico, non si tratterà di imitare — può darsi che oscurità gratuite o atomizzazioni confuse non si rivelino utili — ma di seguire, ossia fare altrettanto altrimenti, nel senso che le avanguardie, mostrando che si può scrivere diversamente, ci allenano alla agilità mentale e ci invitano alla dinamica testuale. Quali programmi operativi del ?63 hanno ancora qualcosa da dirci? Ecco la domanda. Magari saranno le istanze più contestative e magari proprio quelle che all’epoca non furono com-

1. La contestazione del testo

piutamente espresse, perché sono esse — a essere fino in fondo benjaminiani — che continuano a parlare per chiedere adempimento. Ma, poi, cosa servono tante argomentazioni arzigogolate? Basti questo: l'avanguardia è un valore, se non altro perché è l’unica cosa che i cinesi non sono ancora riusciti a rifare! Note ! FT. Marinetti, Teoria e invenzione futurista, Milano, Mondadori, 1968, p. 160. spo 3 Cfr. E Curi, Tra mimesi e metafora, Bologna, Pendragon, 1995; e E Bettini, Prineipio di libertà e tecnica dell’ingiunzione: un’antinomia inconciliabile del Manifesto tecnico futurista, in “Avanguardia” n. 1, 1996, pp. 69-88. * E T. Marinetti, op. cit., p. 7. ° Ha scritto Jacques Rancière: «Le strutture del disaccordo sono quelle in cui la discussione su un argomento rimanda alla contesa sull’oggetto della discussione, e sulla qualità di coloro che ne fanno un oggetto» (// disaccordo, Roma, Meltemi, 2007, p. 21). La politica nasce con un simile disaccordo. In altre parole, quando ci si domanda “ma di

cosa si sta parlando”? Nel nostro caso, quando la discussione sulla letteratura arriva al punto di accorgersi che, dicendo quella parola, non intendiamo la stessa cosa. © Tale è la distinzione proposta dagli studi di Wladimir Krysinski. ? B. Brecht, Scritti sulla letteratura e sull’arte, Torino, Einaudi, 1975, pp. 218-219.

8 A. Gramsci, Socialismo e fascismo, Torino, Einaudi, 1974, pp. 21-22. ® Che scrive, tra l’altro: «Sta di fatto che da un secolo a questa parte presso numerose e rilevanti correnti artistico-letterarie si è posta sempre più “drammaticamente” ed esplicitamente la tensione contestativa-trasformativa verso il “fuori” dell’arte-letteratura, in-

sieme ad un rigetto-rifiuto riguardo agli schemi già-dati dell’essere arte-letteratura. Talvolta con nichilismo e misticismo, si capisce, ma sovente anche o invece con una sin-

cera tensione materialistica e persino antagonistica» (R. Di Marco, Oltre la letteratura, Padova, Edizioni GB, 1986, p. 69). Il libro di Di Marco meriterebbe di essere riproposto e attentamente riletto, anche nei punti di forte critica agli anni Sessanta. ® H. M. Enzenisberger, Le aporie dell’avanguardia, in Questioni di dettaglio, Milano, Feltrinelli, 1965, pi 171, ! Nelle citazioni, spiluzzico da T. W. Adorno, Teoria estetica, Torino, Einaudi,

1977,

pp. 41-42 e 64-65. 2 A Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo, in AA. VV., Gruppo 268. La nuova letteratura, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 16.

“mo palo: ‘4 U. Eco, Sperimentalismo e avanguardia, in La definizione dell’arte, Milano, Garzanti, 1983, p..244. !5 Questo importante intervento del 1967 si legge ora in Ideologia e linguaggio, Milano,

Feltrinelli, 2001, p. 109.

Il Gruppo ‘63

!© Cfr. E Rossi-Landi, // linguaggio come lavoro e come mercato, Milano, Bompiani, 1968.

!" E. Sanguineti, /deologia e linguaggio, cit., pp.

110-111.

'* AA. VV, I novissimi. Poesie per glianni ‘60, Milano, Rusconi e Paolazzi, 1961, p. XIX.

'° P. Biirger, Teona dell'avanguardia, Torino, Boringhieri, 1990, pp. 90-91. °° Per paradosso, il rifiuto dell’avanguardia sarebbe un residuo moderno nel postmoderno... °! Perla verità la Terza Ondata, presentata nella antologia di Filippo Bettini e Roberto Di Marco (Zerza Ondata, Bologna, Synergon, 1993) è stata piuttosto una aggregazione senza seguito.

Finalmente c'è anche

l'avanguardia

per opporsi alla società del consumo Lamberto Pignotti, L'avanguardia tutta nuova, collage su cartone cm. 35x50, 1968. 30

CAPITOLO 2

I margini dell'utopia

Interrogarsi ancora una volta sulla carica utopica insita nei programmi e nelle proposte della nuova avanguardia italiana raccolta attorno alla sigla del Gruppo ’63, significa innanzitutto non accontentarsi delle risposte date all’epoca nell’ambito della critica di sinistra, e quindi non accontentarsi di un verdetto negativo emesso a partire da un engagement contenutistico o da un realismo di marca lukacsiana. Né il problema è stato approfondito in seguito: anche nelle occasioni “decennali” delle rievocazioni anniversarie il nodo della “opposizione” utopica è stato risolto con pollice verso portando a prova lo sbocco nel “sistema” di alcune carriere di intellettuali della neoavanguardia, così da passare in

giudicato, ridotto il ribellismo d’antan in cinismo rampante, qualsiasi discorso sulla “politica” dei testi (mentre è evidente che al “successo” di singoli non corrisponde minimamente l’affermazione dell'avanguardia che, come tendenza drasticamente alternativa, continua ad essere esecrata tuttora e per sempre da un ampio coro, con l’aggiunta di transfughi e pentiti).

Il problema resta: si tratta di considerare quanto e come negli anni Sessanta l’avanguardia sia riuscita a connettersi con contestazione e utopia (le quali due si danno qui come tendenzialmente sinonime, ad indicare lo scarto dall’“integrazione” nell’esistente che si fa “progetto”, forza aggregativa e produttiva, non semplice sogno 0 evasione). Per altro, tale problema era stato sollevato ancora prima della nascita del Gruppo ’63, riguardo alla ipotesi di una nuova avanguardia nel dopoguerra; alludo al saggio di Enzensberger Le aporie dell'avanguardia. In questo scritto Énzensberger poneva come propria dell’avanguardia l’anticipazione utopica e libertaria: «Non vi è programma d’avanguardia — egli scriveva — che non protesti contro l’inerzia dei fatti e non prometta, al tempo stesso,

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di sciogliere i ceppi politici ed estetici, di rovesciare i poteri tradizionali, di liberare forze represse»'. Tuttavia, come già abbiamo visto nel capitolo precedente, i movimenti più recenti (erano chiamati in causa l’informale, la “poesia concreta” e la “beat generation”) apparivano come trattenuti nelle cautele di un approccio tecnicistico, garantiti dai rischi dal «candido camice da laboratorio» dello sperimentalismo; dunque attenuando la portata contestativa e utopica o riducendola a un più comodo ricambio generazionale endoartistico. Una verifica su questo punto, all’interno delle proposte del Gruppo ’63, non sarà inutile, soprattutto oggi che abbiamo la distanza giusta per una lettura critica degli anni Sessanta serrata e priva di nostalgie, ma nello stesso tempo ben diversa dalle solite contumelie dei difensori dei rituali tradizionali di un'estetica “distinta” dal sociale e pienamente soddisfatta delle proprie pratiche ripetitive. Il riferimento all’utopia non è infrequente nei materiali proposti dal Gruppo ‘63, e se ne possono dare vari esempi. Nello stesso anno di fondazione del gruppo, «il verri» apre un dibattito su “Avanguardia e impegno”, all’interno del quale l’intervento di Alfredo Giuliani ha per titolo: Allegoria e utopia dell’avanguardia*. Dell’anno dopo lo scritto di Corrado Costa Poesia e utopia’. Il tema si intreccia saldamente con quello della “contestazione”, come si può vedere dal lungo saggio di Roberto Di Marco Ipotesi per una letteratura di contestazione, dove si identifica l'istanza innovatrice in un progetto «specificamente utopico e insieme concreto», ossia riferito alla «realtà concreta dell’Utopia; l’Utopia, s'intende, spe-

cifica, sacrosanta e fertilissima di ogni Letteratura contra Ordine»*. E in termini di «contestazione» che, generata «sul terreno estetico, mette in causa, immediatamente, la struttura tutta dei rapporti sociali» si espri-

merà in quel torno di tempo anche Edoardo Sanguineti”. Insomma, vediamo che il problema dell’utopia accompagna il decorso dell’esperienza di gruppo e investe le diverse linee di ricerca e personalità che si muovevano all’interno della sua compagine. Si tratta però di chiarire quale senso assuma, di volta in volta, il rimando all’utopia; ed

ecco che la costante si rivelerà una variante: ci sono infatti differenti “utopie” in circolazione nel dibattito del Gruppo ’63, che non possono

essere ridotte ad un unico modello, se non al prezzo di confusioni e forzature.

2. 1 margini dell’utopia

In generale, il terreno su cui la nuova avanguardia degli anni Sessanta muove i propri passi è la questione del linguaggio; anche là dove si riaffaccia la spinta dell’“impegno” resta sempre ferma la convinzione che esso vada giocato su precise scelte tecniche. Ciò non vuol dire che la tecnica letteraria venga assunta come un che di dato e di obbligatoriamente costrittivo; al contrario. È l’avvertimento della alienazione lin-

guistica e il tentativo di opporsi ad essa a comportare il distanziamento dalla tradizione, con l’introduzione di tagli, mescolanze, atomizzazioni, in una operatività esasperata da tours deforce e non disdegnosa della “este-

tica del disturbo”. Ma quello che occorre verificare, già a partire dalle intenzioni propositive, è come l’ambito delle “parole” venga a porsi in dialettica con l’ambito delle “cose”. Se e quanto l’orizzonte del linguaggio si presenti come un limite entro il quale il testo letterario sì sente motivato e realizzato, contentandosi di innovare la propria istituzione settoriale e appagandosi di una funzione di aggiornamento e di rinverginamento della percezione delle parole; oppure invece se l’universo del linguaggio alienato nei suoi vari aspetti non venga attraversato da un progetto di rovesciamento dissenziente che si lega stretto a una più ampia liberazione e “progettazione” sociale. Tra questi poli sì estende l’insieme piuttosto variegato di opinioni e di indicazioni che ci apprestiamo a passare in rassegna. Cominciamo da Renato Barilli e Angelo Guglielmi, i due critici-teorici spesso in prima fila nelle assise del gruppo, e soprattutto influenti sulle linee della ricerca narrativa. Nelle loro posizioni l’utopia risulta in certo senso “frenata”. Barilli introduce le nozioni di “normalizzazione” e di “abbassamento” delle scoperte dei padri primonovecenteschi, come se l’avanguardia nuova non avesse altra possibilità che di amministrare, gestire, allargare e diffondere il patrimonio acquisito, ma non di operare in proprio gesti di portata decisiva. Anche Guglielmi, nel sostituire all’avanguardia la formula dello “sperimentalismo” avanza l’ipotesi di una situazione ormai troppo complessa per essere combattuta da un frontale scontro eversivo. La sensazione di una “società a responsabilità limitata” è molto forte, rileggendo le pagine dei due critici in questione. Non che manchi completamente una prospettiva utopica: in Barilli sopratutto insita nel rinnovamento sensoriale del rapporto con il mondo, in Guglielmi in un vitalismo fuori dagli schemi; tuttavia entrambi si preoccu-

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pano di esentare queste istanze dalla valutazione in base alla ricaduta nel senso dell’opposizione. È vero che né l’uno né l’altro arrivano alla drasticità di un Giorgio Manganelli nel tener fuori la “finzione” da ogni contatto con il mondo dell’utile, utopia anche questa — se si vuole — ma di una “disubbidienza” completamente astorica”. Mentre è vero che Barilli dice: «Robbe-Grillet lavora a modo suo per una società futura, per una società impegnata (...) ma non immediatamente proponendo certe strutture di tipo sociale o fiancheggiandole o difendendole, ma agendo per il momento in concomitanza con strutture di tipo percettivo-gnoseologico e in quanto scrittore non può fare niente di più»”. Oppure Guglielmi, a proposito dei libri di Gadda: «da essi abbiamo appreso quel senso di irriverenza verso il costituito, l’insofferenza verso il ricatto degli adulti e il condizionamento della storia, e insomma quella sorta di libertà intellettuale, di fre-

schezza (...) e cioè quel quid che definisce in primis una coscienza rivoluzionaria». Tuttavia questo valore più ampio è contemporaneamente scontato (come a dire che l’avanguardia è naturaliter utopica) e fortuito, e quindi non deve condizionare né il giudizio del critico né i piani consapevoli della ricerca. Il fatto è che, per Guglielmi, nell’utopia, formulata in qualsiasi modo, si sente la fastidiosa presenza dell’ideologia.

In parte per reazione alla precedente stagione di impegno tutto demandato ai contenuti, in parte in omaggio alla fenomenologica “messa in parentesi”, qui l’utopia appare presa in custodia dalla letteratura: e se in essa apparentemente trova un estesissimo spazio di libertà, vi ri-

mane però alquanto chiusa e rattenuta, costretta a bruciarsi in una combustione prevalentemente estetica. Col risultato, allora, di maglie piuttosto larghe e comprensive nell’uso delle nozioni guida (ancora recentemente Barilli finiva per ammettere nella sua categoria dell’«abbassamento dell'io» anche i “nuovi narratori” e, tra essi, personaggi davvero poco sperimentali), e di una sostanziale impossibilità di valutare appieno la direzione tendenziale dei testi (ancora recentemente Guglielmi è intervenuto sulla non necessaria coessenzialità dei momenti vitali della cultura con la politica “progressista”). Abbastanza prossima a queste posizioni si trovava quella che potremmo definire l’“utopia formalista” della nuova avanguardia. Un’utopia, cioè che affida le possibilità di innovazione tutta alle strutture

2. I margini dell’utopia

(procedimenti, meccanismi, giochi del linguaggio) asserendo — in aderenza al formalismo di marca sklovskiana — l’indifferenza dei materiali. Sarà soprattutto Nanni Balestrini, nei suoi montaggi per combinazioni matematiche, a raggiungere le estreme conseguenze. C°è dietro l’idea, espressa esplicitamente da Balestrini, che il linguaggio abbia in se stesso l’energia creativa per scalzare i sedimenti dell’alienazione, le scorie dell’abitudine: «sarà il linguaggio stesso — scrive Balestrini — a generare un significato nuovo e irripetibile»®; l’autore può mantenersi in ombra, limitarsi alla funzione di stimolo esterno («stuzzicare» le parole) di una epifania del senso lasciata alla meccanica del caso. Anche Alfredo Giuliani — e penso soprattutto alla seconda prefazione della antologia dei “Novissimi” — muove dal «primato della struttura». Qui l’intervento dell’operatore è maggiore che in Balestrini: il poeta «coltiva, sceglie, manipola» la materia del linguaggio, ma lo deve fare «senza riguardo per una pre-verità che essa possa contenere», e ciò significa un rapporto più esistenziale che politico con le parole (per Giuliani — e lo si vedrà anche all’epoca della crisi di «Quindici» — la politica è essenzialmente ideologia e l’ideologia al massimo «materiale da costruzione»; dunque sottoposta alla «struttura»). Nella seconda prefa-

zione ai Novissimi — che è del ’65 — l’istanza della «contestazione» si affaccia nel momento in cui si assume in proprio «la condizione dello scrittore che opera in perenne litigio o in contestazione con la realtà della lingua, ossia con se stesso e le istituzioni»!!;ma si osservino bene i termini e soprattutto l’«ossia»: la contestazione riguarda la lingua, anzi

il soggetto e le istituzioni sono equivalenti (dunque: tutti interni) alla lingua; alla «realtà della lingua», a un passo dal dire che la «lingua» è l’unica «realtà». Si affaccia, in queste proposizioni, il panlinguismo che passerà, egemone, dallo strutturalismo all’ermeneutica, al decostruzionismo: l’essere è il linguaggio. Più complessa è l’ipotesi di Eco sul «modo di formare come impegno sulla realtà» (titolo di un suo saggio del ’62'°). Eco affronta il problema dell’alienazione, ovvero delle tecniche che l’uomo mette in moto senza

averne controllo e finendo per esserne agito; tali sono anche le tecniche artistiche ricevute dalla tradizione, le quali nascondono nella loro «struttura convenzionale» una «visione del mondo» che noi accettiamo senza rendercene conto. Dunque, l’artista che interviene sul «modo di for-

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mare» incide, sia pur indirettamente, sulla realtà sociale. «L'arte conosce il mondo attraverso le proprie strutture formative (che quindi non sono il suo momento formalistico ma il suo vero momento di contenuto): la letteratura organizza parole che significano aspetti del mondo, ma l’opera letteraria significa in proprio il mondo attraverso il modo con cui queste parole sono disposte, anche se esse, prese una per una, significano cose prive di senso»'!*. C’è dunque la prospettiva di uscire dalla “responsabilità limitata” del linguaggio letterario verso una oggettiva “esteriorità”; ma ciò non vuol dire necessariamente il rafforzamento

dell’istanza utopica. Sebbene Eco presenti i suoi casi esemplari (Joyce, Antonioni) come casi di demistificazione, la consapevolezza o l’ostensione trasparente della condizione alienata sembrano non varcare la soglia che separa la disponibilità ai fenomeni dal progetto di trasformazione. A guardar bene le forme rifiutate lo sono perché anacronistiche e l’imnovazione formale risponde soprattutto a un’esigenza di aggiornamento: di adeguamento al presente (fenomenologicamente: alla «situazione»). Se ciò è vero, la proiezione utopica verso il futuro è piegata e mantenuta dentro il riconoscimento al presente di aperture già tutte date senza bisogno di lotta, in un orizzonte di «crisi» vissuta però come già in sé liberatoria. E il presente delle nuove tecnologie sta dietro questa fiducia nelle tecniche come per propria forza salve dall’alienazione. Su questo versante l’arte può accedere alla coscienza dello sviluppo tecnologico ma non all’avvertimento critico delle contraddizioni dello sviluppo medesimo. Ecco la ragione per cui l’utopia delle forme è destinata ad adattarsi a un sistema di tecniche comunicative avanzato; moderno, o — come si

pretenderà poi — addirittura postmoderno (con un indebolimento della tendenziosità che si può misurare, in anni vicini, non solo sui best-sellers

citazionisti-ironici di Eco, ma anche sugli esiti della narrativa di Balestrini, a tutta prima estremistica, ma di fatto ambigua nei segnali direzionali, stante l’affidarsi — come nel caso de /furiosi — all’emersione “spontanea” della violenza soggettiva, nuova forma dell’insorgenza aleatoria del disordine).

Nell’area di ricerche e di progetti degli anni Sessanta, un posto a parte spetta ad Elio Pagliarani e in particolare al suo contributo sulla nozione di avanguardia. Pagliarani riprende da Pound l’idea che il compito della

2. I margini dell’utopia

letteratura è di mantenere «in efficienza» la lingua; una sorta di igiene linguistica che a prima vista sembrerebbe limitare il testo nel suo settore, sotto la cura di una tecnicità specializzata. Sennonché, Pagliarani articola la «funzione dell’operatore» su più livelli, in modo tale che la «critica dei mezzi espressivi», ossia lo scarto dell’innovazione nei confronti della tradizione, sia subito collegato al versante «extraletterario», sul quale la novità è chiamata a manifestarsi come «opposizione». Dunque «il diverso, il di più, che caratterizza imovimenti di avanguardia rispetto agli altri movimenti artistico-letterari, è un di più extrartistico, è un

di

più sociale, di critica sociale»!*. L'operazione sul linguaggio, quindi, non è neutrale; né si arresta al momento di avere ammodernato e rinnovato

gli strumenti tecnici, sostituendoli con altri più funzionali: piuttosto, secondo Pagliarani, deve essere toccato il nucleo culturale-ideologico delle parole, o — per usare i suoi stessi termini — quello dei «significati precostituiti, che lo scrittore trova nella lingua». Per questa via si giunge alla formulazione della «contestazione» dei significati (non una semplice libertà dei significanti, perciò); pars destruens la cui corrispondente pars construens sarà la «progettazione di nuovi significati». Qui si intravede la necessità dell’utopia come progetto culturale alternativo non consegnato alla sola creatività letteraria, ma in cui la letteratura si trovi coinvolta

con i suoi strumenti specifici. Tenuta in conto va anche la linea parasurrealista portata avanti dal Spatola, Celli, Adriano (Giorgio di «Malebolge» gruppo problema Il Porta). Antonio anche avvicinare può si Corrado Costa; cui dell’utopia si connette, qui, al riscatto dell’immaginazione. La letteratura si offre come il terreno di un possibile recupero e rilancio di ciò che la repressione culturale ha tolto di mezzo. È chiaro allora che un’avanguardia del genere non mira a un semplice obiettivo di ricarica settoriale, ma tende a oltrepassare gli steccati disciplinari per investire le proprie chances in un rinnovamento globale, culturale e antropologico. Quello che accomuna ai discorsi precedenti è la diffidenza per un “messaggio” già dato per deciso in partenza. Porta, ad esempio, afferma che l’«impegno» deve nascere non prima, ma «con e durante il fare poetico», e in tal modo potrà essere, invece che un passivo riflesso, uno stimolo «prospettico, utopico, ipotetico»!?. Dal canto suo Spatola, nel mentre parla di «poesia come opposizione», precisa che «per il poeta,

Il Gruppo ‘63

la realtà storica e sociale non sta dietro ma davanti alla poesia, alla realtà

del linguaggio, non è un prima ma un dopo, è un obiettivo méta»!®. È confermato dunque il «lavoro nel linguaggio», che sì estrinseca nell’ammodernamento, quanto piuttosto in un dell’immaginario necessariamente rivolto anche all’indietro:

non una però non risveglio non per

niente, in questa area di «Malebolge», si guarda all’avanguardia storica

ed anzi, prima ancora, ai grandi padri Sade e Lautréamont. Questo scavo nel passato preserva l'utopia dalle connessioni con il trionfalismo del presente tecnologico, mentre si fa forte, piuttosto, del ricorso per via immaginativa ad una base antropologica, fondata sulla corporeità e

l’animalità (identificata, soprattutto in Celli!”, con la sfera biologica). Il rischio che tocca ad un simile indirizzo è quello di una assolutizzazione dello scontro tra immaginazione e dominio, che può far assumere al radicalismo coloriture arcaiche e magiche (si veda l’apparentamento tra scrittore e sciamano in Spatola).

Se prendiamo lo scritto che affronta più direttamente il problema dell’utopia, cioè Poesia e utopia di Costa, vediamo che il rifiuto della totalità oppressiva non può non prendere tonalità “apocalittiche”: là dove l’uniformità è sovrana ed emette dal suo seno le magnificate “novità”, l'immaginazione non deve prefissare il futuro, ma rovesciare il presente:

«Non si tratta — scrive Costa — di annunciare nessun regno futuro, né di credere che si viva a una svolta definitiva della storia, né che si sta creando “un nuovo tipo di uomo”. (...) Avere un'utopia significa ribellarsi

al fatto che non si possa più credere a nessuna utopia, vivendo in condizione di mero strumentalismo. Ripetere il mito libertario significa ribellarsi nei confronti di coloro che rinunciano a ribellarsi per conformismo politico, o per integrazione rinunciano a riconoscere il costante verificarsi dell’oppressione»!9. Nessun “libero gioco”, quanto piuttosto la spietatezza è di casa, qui; e lo stesso riaggancio con la tradizione dei grandi trasgressori stabilisce un nesso con un penstero negativo, che non è di certo tranquillamente utopistico (come Sade, per esempio). E ciò vale a dimostrare che, anche là

dove è più esplicitamente nominata, l’utopia resta problematica. Il discorso condotto dagli intellettuali e scrittori di «Malebolge» ha costituito una linea di ricerca che, pur minoritaria in seno al gruppo, Sl dimostrerà capace di evoluzione; all’altezza di «Quindici» trovandosi a

2. I margini dell’utopia

suo agio nell’estremizzarsi delle posizioni e nel riemergere delle istanze di avanguardia “forte” e “vulcanica” (mentre l’ala fenomenologica di Barilli e Giuliani si dissociava dalla troppa politicizzazione). Certo, non senza semplificazioni teoriche: e si potrà notare una ancor maggiore enfasi sulle proprietà rivoluzionarie dell’immaginario; vale a dire un utopismo totalizzante e svincolato dal “principio di realtà”. Resta il fatto che ancora, più avanti, negli anni del riflusso, Spatola con le sue iniziative presso il Mulino di Bazzano (le edizioni Geiger, «Tam tam», «Baobab») costituirà un nucleo di resistenza delle pratiche letterarie sperimentali contro la sconfortante marea del ritorno nella confessione

lirica e nella narrazione a tutto tondo. Il confronto con il surrealismo verrà ad affacciarsi anche nelle riflessioni teoriche di Edoardo Sanguineti e soprattutto nella sua proposta di una «letteratura della crudeltà» (con esplicito riferimento ad Artaud e

alle «idee che hanno la forza della fame») proprio sul numero iniziale di «Quindici»!°. Sanguineti vi asserisce che il surrealismo, in quanto

tendenza ad «uscire fuori della letteratura» in una direzione politicamente antagonista, «è guardia ulteriore e le più restio a ragionare zione del futuro come reno della situazione

il fantasma che giustamente perseguita ogni avannega pacifico sonno». È tuttavia Sanguineti è 1l in termini di utopia: poiché per lui ogni costruogni «contestazione» letteraria si valuta sul terstorica su cui riesce o no ad avere incidenza.

Ciò non vuol dire che la prospettiva sanguinetiana neghi la possibilità di un rinnovamento antropologico, ed anzi — nel convegno fondativo del gruppo, a Palermo ’63 — egli volgeva la sua stessa dichiarazione di

marxismo verso la ricerca di una «nuova razionalità» inglobante anche ciò che apparentemente risiede nella sfera dell’«immaginazione sfrenata e privata»%; con altrettanta chiarezza, però, il lavoro teorico di Sangui-

neti respingeva l’idea di un ribaltamento in favore di un’immaginazione assolutamente indipendente da vincoli?! o grande serbatoio estraneo alla corrente della storia: solo contestualmente assume senso parlare di una portata contestativa oppure, in caso contrario, di un esito solidale con le formazioni culturali e politiche egemoni. Anche sul piano critico, a partire dall’equazione tra ideologia e linguaggio, Sanguineti non ricerca negli autori soltanto il riscontro della crisi culturale, ma sottolinea proprio quei momenti in cui la scrittura «sarà caratterizzata, in primo 39

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luogo e comunque, dalla radicale aspirazione, e radicalmente eversiva, e assai sovente francamente anarchica, a porre in crisi l’orizzonte stesso della crisi: con un sicuro punto di storico acquisto, ad ogni modo, che è la precisa coscienza storica dell’orizzonte, del limite, come orizzonte storico, come limite storico»??, Come non si può pensare a una forma letteraria estranea tout court all'ideologia, che non sia a sua volta «mitopoiesi», ideologia sia pure altra (ciò valeva a contrastare polemicamente l'impostazione di Angelo Guglielmi), così il momento «eroico-patetico» dell'avanguardia, che contiene il “progetto” di antitesi alla società esistente, si trova a fare i conti — secondo Sanguineti — con il momento «cinico», ovvero con la “rugosa realtà” della sorte museale che attende qualsiasi novità quantunque provocatoria, stante il regime che lega a filo doppio mercificazione e tradizione (mercato e museo). Certo, con la «letteratura della crudeltà», impiantata com’essa è sulla «categoria del cinismo violento», si accentua la portata oppositiva del-

l’intervento letterario, al di là di ogni prudenziale discorso di «attenuazione» della radicalità utopica. Sul finire degli anni Sessanta (e l’ipotesi sanguinetiana si basa certamente sulla percezione di una stagione di forti conflitti), il testo di avanguardia esce decisamente da una cerchia di responsabilità puramente estetiche. La «crudeltà», qui (come del resto nello stesso prototipo artaudiano), non vale ad indicare una tematica, dell’orrore o della tra-

sgressione che sia, quanto un approccio rigoroso e lucido al linguaggio: Sanguineti, dunque, non tarda mai nel sottolineare i condizionamenti

e ilimiti ideologici di uno «spazio sperimentale» come quello letterario. Ma, nello stesso tempo, ricavando tensione dalla contraddizione dialettica tra lo stare dentro la letteratura eppure puntare fuori di essa, conta l’obbligo di rifiutare qualsiasi remissività all’esistente. Se da un lato solo con il cambiamento delle «istituzioni» e dello «stato» si potrà accedere all’utopia, dall’altro lato l’«esperienza della parola» deve situarsi «già fuori, obiettivamente, delle istituzioni e dello stato». Di colpo spiazzando sia il formalismo (l’aggiornamento delle tecniche) che il potere assoluto dell’immaginazione, Sanguineti forniva al gruppo una via di politicizzazione non dimissionaria (cioè non consistente in una “dimissione” delle scelte direzionali della letteratura, demandata ogni guida a una 40

2. 1 margini dell’utopia

istanza politica cui accodarsi) nei termini di una avanguardia materialista: il gruppo però non reggerà all’urto della politicità, e finirà per sciogliersi in percorsi individuali. All’altezza di «Quindici» andava radicalizzandosi anche la posizione di Fausto Curi che, in particolare, pubblicherà sulla rivista un saggio dal significativo titolo Presa politica della parola*. In esso la compagine del gruppo veniva descritta proprio alla luce del binomio «anarchia e utopia»: una poetica anarco-utopica era stata, secondo Curi, la piattaforma comune su cui si erano innestate le discrepanze e le divergenze delle diverse linee, determinando un ventaglio dalla destra alla sinistra dello schieramento. Nell’esplosione sessantottesca, però, quell’orizzonte condiviso e quell’omogeneità sia pur sfrangiata entravano in crisi. Curi avvertiva sempre più viva la consapevolezza di quanto la tensione anarco-utopica non fosse di per sé dirompente nei confronti della cultura borghese, ma anzi interna ad essa (in quanto «infantilismo rivoluzionario» con «l’illusione di un “superamento” soggettivo della condizione

borghese»), e fosse da vivere, quindi, correttamente come «limite» e «destino storico», col che non si diminuiva ma s’aumentava la carica oppositiva: infatti, scrive Curi, «mutare un destino in una scelta è già in

certo modo scegliere»?!. Non per nulla si accentuava la mozione di “politicità” del linguaggio letterario. Se nel °63 Curi non aveva dimenticato la “politicità”,

ma le aveva assegnato un ruolo aggiuntivo rispetto all’«impegno di funzionalità» e di «efficienza tecnica»”, ora l’«uso politico» sì affermava invece prioritario sull’uso semplicemente tecnico. Fugato esplicitamente e senza esitazioni di sorta l'equivoco di un ritorno all’impegno di tipo umanistico, Curi proponeva di «politicizzare la parola letteraria», stringendo il legame tra le «autonome richieste» di quella e la «concreta base strutturale e politica su cui esse sorgono». Anche in questo caso, l’utopia non era considerata un ideale fuori della storia, in cui coltivare una «chiaroveggenza» gratificante ma inutile, quanto piuttosto come un impulso «in grado di trasformare

l’anarchia in negazione rivoluzionaria»; Curi proponeva pertanto un «lavoro di cultura politica», da misurare nel proprio «significato pratico», esattamente sulla scorta della «carica ideologica» operante sulla situazione in atto: e dunque nella prospettiva non di uscire miracolosa-

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mente dall’ideologia ma di rendere l’ideologia il più possibile “produttiva”. Collegando in una costellazione teorica di forte impatto la crudeltà artaudiana con il gioco dadaista, lo straniamento brechtiano con il grottesco sanguinetiano??, Curi procedeva ad implicare l’utopia in una concezione della testualità conflittuale su tutti i livelli.

È dalla “ala sinistra del gruppo”, dai siciliani della “Scuola di Palermo”, che veniva un deciso impulso all’estremismo dell’immaginazione e, di conseguenza, all’istanza utopica. In alcuni suoi interventi

teorico-propositivi, Michele Perriera parlava dell’avanguardia come «luogo asfissiante dell’immaginazione», luogo investito dalla violenza della «trance maniacale» e della «rissa mentale», del testo che si apre

all’«interferenza» tra vita e cultura”. Di fronte alle richieste di schieramento politico, Perriera ribadiva l’ “utilità” dell’arte proprio nel quanto di invenzione e di imprevedibilità che «ripropone all’umano il suo diritto a ricominciare». Dunque, l'utopia: «il rapporto fra avanguardia e realtà

sembra porsi oggettivamente come strategia della finalità ipotetica dell’utopia. (...) Il campo di forze dell'avanguardia è naturalmente l’utopia e la sua pratica congiura riguarda elettivamente la proscrizione dei processi mentali che ritardano e allontanano la realtà dell’utopia»°. Una stimolazione che porterà Perriera verso l’energetica del testo, la scrittura in vibrazione e l'avanguardia come «accelerazione strategica» e forza «centrifuga».

Con attenzione va inoltre considerata la posizione di un altro palermitano, Roberto Di Marco, autore di un intervento, “nodale” nella limea materialistica della nuova avanguardia, assai articolato per ampiezza e solido nell’argomentazione: la /potesi per una letteratura di contestazione®®. Quella che Di Marco propone è un’avanguardia che sappia contrastare l’ordine stabilito e trasformarne l’assetto: un’avanguardia,

dunque, tutt'altro che in stato di “responsabilità limitata”, pienamente cosciente (non meno, semmai più dell'avanguardia storica) del suo grado di «eccentricità» e «alterazione della norma». Un'avanguardia,

ancora, che faccia proprio un coerente progetto di «contestazione», giocando le sue carte secondo le opportunità offerte dal divario tra il codice-istituzione e il codice-testo 0, seguendo i termini adottati da Di Marco, tra «processo costitutivo» (quello avviato dall’autore facendo

2. I margini dell’utopia

la sua opera in un modo piuttosto che in un altro) e il «processo di costituzione» (quello del sistema in cui l’opera cade e inevitabilmente s’inserisce): «Il ‘processo costitutivo’ dell’opera avviene sempre anche, in qualche misura, in disaccordo dall’interno rispetto al ‘processo di costituzione’ (...). Si pone, cioè, come rottura, in qualche modo, del suo equilibrio interno (...), il ‘processo costitutivo’ dell’opera (...) si pone come contestazione specificamente ‘indeterminata’, nei confronti della ‘costituzione-già-data’, ri-formando le strutture di fisiologia interna della Letteratura e portando più innanzi in misura propriamente nwvoluzionania rispetto alla ‘costituzione’ precedente il ‘processo di costituzione’ (...) e, tutto ciò operando, il ‘processo costitutivo’ è sempre in/erno ed insieme in disaccordo rispetto al ‘processo di costituzione». «Contestazione» e «dissenso» rappresentano una delle vie possibili (l’opposta e avversaria è quella del ribadimento passivo della «‘costituzione’ patologica e logora») lasciate all’operazione testuale dalla dialettica di alienazione e utopia. Secondo Di Marco, nessuno dei due poli può essere posto assolutamente: né un’alienazione totale (di fronte alla quale non reste-

rebbe che affidarsi alle insorgenze spontanee e inconsce del linguaggio), né un'utopia totale (che si illudesse di avere superato, tirandosi su per

i capelli, il condizionamento sociale); piuttosto una doppiezza contraddittoria tocca al testo di avanguardia, in quanto esso appartiene sempre a una specifica “istituzione” (quindi, in ciò è separato dalla prassi) e tuttavia, nello stesso tempo, rimane anche una «possibile coscienza del mondo», dunque in diretto rapporto con esso. L’Ipotesi di Di Marco evita, grazie a questa impostazione teorica, sia il rischio di un impegno in diretta dipendenza da indicazioni politiche, che anzi tale dipendenza cadrebbe sotto al principio di «determinazione» contro il quale deve agire, invece, l’«indeterminazione» immaginaria e creativa dell’avanguardia; sia il rischio di attenersi a un puro «gioco combinatorio», a un formalismo che faccia della “specificità” soltanto un riparo dove proseguire senza troppi problemi esperimenti asettici e perciò depauperati. La «de-formazione delle strutture» deve avere la capacità — sostiene Di Marco — di espandersi fino a partecipare tendenzialmente al «Progetto della Storia». La spinta propulsiva dell’utopia è qui particolarmente viva; non a caso alla nozione di “rispecchia-

mento”, invalsa in una certa linea marxista, si oppone esplicitamente —

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e a tutte maiuscole — la «IPOTIZZAZIONE DEL NUOVO E DEL DOPO»; e nel

concetto di «indeterminazione», Di Marco raccoglie le istanze migliori dell’immaginazione surrealista”, pur sempre tenuta in vista di una analisi socio-economica e dunque saldamente connessa al “concreto”. Una concretezza dell’utopia che Di Marco ha perseguito nel suo lavoro teorico, mettendola infine a disposizione, anni dopo, per una nuova e “Terza” ondata dell’avanguardia**. Tirando le somme del nostro percorso attraverso le avanguardie degli anni Sessanta, mi pare che l’utopia della contestazione si presti come efficace cartina di tornasole per verificare le differenti le posizioni, che — a distanza di tempo — appaiono ben più articolate di quanto non sembrasse allora (e ancor oggi, troppo spesso il “gruppo” viene preso come un fenomeno affatto omogeneo); e per sondare le tendenze che continuano a riguardare il dibattito presente. Abbiamo potuto constatare modi profondamente diversi di estrinsecarsi della tensione utopica. Se ciò dimostra, per un verso, che l'avanguardia, nel suo guardare in avanti, è sempre connessa all’“utopia in senso lato”, per un altro verso diventa chiara la necessità di scavare dentro la nozione genericamente intesa di utopia, e di comporre al suo interno una nozione più ristretta e insieme più complessa, mediante opportune specificazioni (ad esempio attraverso l’aggiunta di un attributo: utopia concreta). L’utopia come proiezione verso un futuro sicuramente a venire o come vaga speranza non ha più corso di validità, ma deve affrontare le forche caudine del dominio imperante; un

passaggio stretto, condotto — come abbiamo visto in particolare nella linea materialistica della neoavanguardia — in un ravvicinato confronto con la prassi politica, o meglio con le “conseguenze pratiche” del proprio discorso “immaginario”. Una utopia che il rigore costringe ad essere storicamente localizzata (topica) e dialettica sia nel senso di una presa di distanza dall’esistente (antitopica), sia nel senso della contestazione di se stessa quale nebulosa compensazione della durezza del tempo (antiutopica, infine, anche).

Se il dibattito promosso utilmente dal Gruppo ’63 contribuisce a riconfermare il luogo comune del legame naturale tra letteratura e utopia, tuttavia proprio dall’interno di questo dibattito (e segnatamente dal suo lato “sinistro”) viene l'esempio di una considerazione strin-

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2. I margini dell’utopia

gente dell’utopia che, nello stesso momento in cui si fa carico del terreno letterario e interessa i generi di discorso della poesia o della prosa narrativa, si applica a togliere alla proiezione verso il futuro ogni ri-

vestimento di sognante illusione, annullandone precisamente quei tratti letterari o poetici che la confinerebbero nel limbo delle buone intenzioni inoperanti.

Note ! H. M. Enzensberger, Questioni di dettaglio, cit., p. 164. 2 In «il verri» n. 10, ottobre 1963, pp. 54-56.

3 Pubblicato sul n. 2 di «Malebolge», 1964. * Il saggio uscì in varie puntate su «Marcatré», tra il 1964 e il 1966; la citazione è dal

n. 23-24-25, 1966, p. 37. 5 In Avanguardia, società, impegno, saggio del 1966 (ora in /deologta e linguaggio, cit.). © L’utopia è riconosciuta da Manganelli non già nel farsi progetto di innovamento culturale e politico, ma nell’atteggiarsi a «diserzione» infungibile dalla società. Nondimeno di utopia intende parlare: «Anarchica, la letteratura è dunque un'utopia; (...). Come è proprio delle utopie, essa è infantile, irritante, sgomentevole» (G. MANGANELLI, La letteratura come menzogna, Milano, Feltrinelli, 1967, p. 174).

? Cito dall’intervento al convegno di Palermo del 1963, compreso in AA. VV., Gruppo 63. La nuova letteratura, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 393.

8 A. Guglielmi, Gadda progressista, in Vero e falso, Milano, Feltrinelli, 1968, p.63; già apparso in «Quindici» n. 4, ottobre 1967. 9 N. Balestrini, Linguaggio e opposizione, apparso su «La fiera letteraria» 3-10-1960, poi raccolto in appendice a AA. VV., / Novissimi. Poesie per gli anni 60 (1961; 2. ed. Torino, Einaudi, 1965, p. 197).

Erp SIVIDAZA

!? Apparso su «Il menabò» 5 e poi incluso in Opera aperta, 2. ed., Milano, Bompiani, LO 678 “IVp.2Q0E + E. Pagliarani, Per una definizione dell’avanguardia, relazione del 1965 pubblicata su «Nuova corrente» n.37, 1966; ora in Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di R. Barilli e A. Guglielmi, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 341.

5 A. Porta, Correlativo oggettivo, in «Malebolge» n. 2, 1964; poi in Gruppo 63. Critica e teona, cit., p. 117. © A. Spatola, Poesia a tutti i costi, in «Malebolge» n. 1, 1964, p. 48.

Il Gruppo ‘63

' Si veda in particolare G. Celli, // grande trasparente, in «Marcatré», nn. 26-27-28-29,

1966, p. 240. '# C. Costa, Poesia e utopia, in «Malebolge» n. 2, 1964, pp. 50-51. '‘° Cfr. E. Sanguineti, Per una letteratura della crudeltà, su «Quindici» n. 1, giugno 1967, poi in Ideologia e linguaggio, cit. “° Dal resoconto del convegno palermitano, in Gruppo 63. La Nuova letteratura, cit., p. 384. ©! Nel convegno sul “Romanzo sperimentale” (Palermo ’65), Sanguineti polemizzerà in tal senso con Giuliani: «è qui forse il vero punto di dissenso perpetuo fra me e te, Giuliani, (...) quello di intendere l'immaginazione come libero gioco, che non cresce più in un concreto orizzonte di storia, ma si propone proprio, e immediatamente, come il regno della libertà. Questa posizione mi fa paura» (in AA. VV., Gruppo 63. Il romanzo sperimentale, Milano, Feltrinelli, 1966, p. 150). © Qui Sanguineti sta raffrontando la «poetica rivoluzionaria» di crepuscolari e futuristi alla «poetica riformistica» di Pascoli (Attraverso è Poemetti pascoliani, saggio del 1962, in /deologia e linguaggio, cit., p. 15). °° Presa politica della parola uscì su «Quindici» n. 17 del maggio 1969, e venne poi raccolto in E Curi, Metodo storia strutture, Torino, Paravia, 1971.

°° Cfr. E Curi, esi per una storia delle avanguardie, apparso su «il verri» n. 8, giugno 1963, poi in Ordine e disordine, Milano, Feltrinelli, 1965, ja Sera

°° Si veda, in quello stesso giro di anni, F. Curi, // sogno, la crudeltà, il gioco, apparso su «il verri» n. 29, dicembre 1968, e anch'esso confluito in Metodo storia strutture, cit. 2? Cito sparsamente dai testi introduttivi premessi a M. Perriera, Faluc, Roma, Ellegi,

LO722 dvi palo. °° Si veda M. Perriera, Con quelle idee da canguro, Palermo, Sellerio, 1997, p. 35. A di-

stanza di tempo, Perriera rievoca, dell’esperienza del Gruppo 63, soprattutto la sostanza gestuale, la procedura («il gesto non è intervento, ma enunciazione di un vuoto da riempire», ivi, p.102). Oppure, la coscienza delle contraddizioni unita alla «tensione alla congiura» (Id., La spola infinita, Palermo, Sellerio, 1995, p. 102). Negli ultimi anni, Perriera si è fatto portatore di una avanguardia “problematica” che sfidi sul loro terreno la tragicità della “perdita di senso” e la superficialità dell’“evento spettacolare”: «Si tratta di sondare coraggiosamente il carattere tentacolare della nostra crisi e l’effetto rigenerante della nostra indifesa malinconia di giustizia. È questo che bisogna chiedere allo spirito dell’avanguardia più generoso e libertario» (questo dice Perriera nel suo intervento // doppio specchio della differenza, al convegno Avanguardia vs. postmodernità, Roma, Bulzoni, 1998, p. 150).

‘0 È un saggio assai lungo, in quattro puntate, che comparve su «Marcatré» tra il 1964 e il 1966. ?® R. Di Marco, Ipotesi per una letteratura di contestazione, in «Marcatré» nn. 14-15, maggio-giungo 1965, p. 131.

# In questo senso può essere consultata l’introduzione di Di Marco a Lautréamont, Poesia, Bologna, Sampietro, 1966; e anche il suo intervento al convegno di Palermo sul

46

2. I margini dell’utopia “Romanzo sperimentale” agita il tema del rapporto tra immaginazione e prassi (in AA. VV., Gruppo 63. Il romanzo sperimentale, cit., pp. 157-159). 5 R. Di Marco è stato curatore, insieme a F. Bettini dell’antologia Terza Ondata. Il

Nuovo Movimento della Scrittura in Italia, cit., che ha riaperto in Italia il dibattito sull’avanguardia e sull’utopia della contestazione letteraria.

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Nanni Balestrini, Sì alla violenza operaia, 1972, coll. privata, Carpi (Modena). 47

Il Gruppo ‘63

Edoardo Sanguineti.

CAPITOLO 3

Sanguineti teorico della letteratura

Un “aspirante materialista storico” ha voluto definirsi Sanguineti, in uno dei suoi lapidari epifonemi, in rigorosa “riduzione dell’io”. Ma noi gli riconosciamo il diritto a un ruolo di “maestro”: un punto di riferimento, in molte occasioni il principale, e una fonte continua di indicazioni, prospettive e — perché no? — conforti, per noi “apprendisti” materialisti. Si dirà che non ce n’erano molti altri: è vero, il materialismo

non era frequente incontrarlo, dalle nostre parti, in una cultura — la dicano pure egemonizzata a sinistra gli epuratori odierni — che ha preferito imbottirsi di umanesimo, di esistenzialismo, di strutturalismo, di socio-

logismo, poi di moralismo debolista, ora di blando liberal-buonismo, piuttosto che frequentare le “materie” (le “economie” psichiche e sociali) fino a conseguenze radicali. Ma tanto più ci è stato prezioso Sanguineti. E tanto più perché il suo materialismo è stato aperto, in tutti i sensi: sia in quanto è stato enunciato apertamente a chiare lettere, attraverso più di mezzo secolo, scontrandosi sempre con le dominanti culturali e le mode che si sono succedute al centro della scena. Di qui la posizione scomoda degli interventi sanguinetiani, disposti come essi sono sempre stati ad assumere la parte del superato che non si lascia rimuovere, della voce fuori del coro, pervicacemente controcorrente rispetto alle seduzioni intellettuali del momento. Una “diabolica” capacità di rifiuto; magari da “Diabolus Vetus”', come egli si è denominato, invertendo la forse troppo “celeste” versione del-

l’Angelus novus di Benjamin. E sia in quanto è stato sempre un materialismo aperto, € cioè di specie critica. Sempre in ricerca e mai soddisfatto di approdi o soluzioni raggiunte, sarà anche un materialismo pronto a combinarsi in congiunzioni inedite e sorprendenti, a buon bisogno: non solo quelle “tradizionali”

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Il Gruppo ‘63

con la storia e la dialettica, ma anche — per quante scintille avesse fatto sprizzare il contatto nel corso del Novecento — con l’anarchia, ad esempio, o con il nichilismo, nonché, sul piano più strettamente letterario,

con l'avanguardia (che l’ortodossia marxista non ebbe a digerire, di solito) o con l’allegoria (il “realismo allegorico”: un ossimoro dei migliori). In ciò non è soltanto l’opera di una ragione antidogmatica; sulla teoria influisce l’istanza di una prassi altrettanto antidogmatica, ossia sperimentale. La teoria di Sanguineti non può essere separata dalla sua attività di critico e di scrittore. C'è, ogni volta, un problema “militante” che la teoria è chiamata ad affrontare. Le idee si lasciano toccare dalla prassi. Tanto che — in anni in cui il discorso teorico si affermava di contro alla storia (al massimo, come in de Man, dopo essersi annessa la storia, la teoria si mordeva la coda facendo “resistenza” a se stessa, ma non mol-

lava la presa, anzi volgeva a maggior gloria le proprie difficoltà) - Sanguineti propone di fare perno sulla storia, secondo lo “storicismo assoluto” della linea Vico-Marx-Gramsci

(ancora chiamata in causa

nella raccolta di saggi // chierico organico”). Non posso, quindi, parlarne qui come un teorico senza precisare subito che si tratta di un teorico della «critica della teoria»?, così come, in poesia, è il poeta dell’anti-poe-

sia, della “lotta al poetese”*. Vista nell’ambito di un conflitto, la teoria non è più una sistemazione del campo (nel caso il campo letterario), ma consiste in una prospettiva “straniata”, dalla quale emergono gli aspetti del campo, proprio quelli nascosti dall’ottica disciplinare. Così negli anni Sessanta, in relazione ai convegni e alle pubblicazioni del Gruppo ’63, Sanguineti riformulava la stessa nozione di avanguardia spogliandola di ogni mito romantico e sottraendola anche al semplice valore (endoletterario) dell’innovazione: suo punto di partenza l’endiadi di ideologia e linguaggio che — nel confronto di allora — significava, da un lato, la rivendicazione della “forma” come qualcosa di non tecnicamente neutrale, ma come il portato di una precisa “tendenza” (altri, poi, la chiamerà “ideologia della forma”), e in-

sieme la rivendicazione del contenuto come qualcosa di intrinseco ai modelli psichici e di comportamento che non può essere risolto con il

decreto di imposizione di generici ideali. Sicché, da un lato, ne veniva

smentito ogni formalismo autosufficiente (fosse vetero-crociano 0 neostrutturale) con l’additare, mediante l’ideologia, il terreno sociale, “in-

3. Sanguineti teorico della letteratura

teressato”, antropologicamente “basico” delle formazioni poetiche; dall’altro lato, ne usciva battuto l’engagement fondato sul “messaggio” ed era aperta la strada alle vie della politicizzazione “indiretta” della letteratura, quali l’allegoria di Benjamin e lo straniamento di Brecht. Ed erano intaccate anche, aggiungo, le idee fenomenologiche (predominanti nello stesso Gruppo ’63) dell’epifania estetica promessa dal letterario,

con

il rimandare

l’invenzione

creativa

alle strettoie

della

produzione per il mercato e della incombenza del museo. In due aspetti la posizione

sanguinetiana

mi appare,

anche

adesso, a distanza

di

tempo, veramente incisiva: il primo sta nell’aver staccato l'avanguardia da una rigida attribuzione in termini di classe (quella marxista corrente la voleva espressione del “ribellismo piccolo-borghese”, con immediato effetto di censura), spiegando invece lo strato intellettuale come “pseu995,

doclasse”?, e quindi mobile sul fronte dello scontro sociale, gramsciana-

mente egemonizzabile con le opportune alleanze, soprattutto nelle istanze più radicali. Il secondo aspetto, ancora più importante, sta nell’aver avvertito in pieno tutta la contraddittorietà

dell’avanguardia, stretta nella dialettica tra mercato e museo, e quindi mai interpretabile

come immediata garanzia di libertà extra-sistemica. Non solo “avventura” (che ne farebbe, alle somme, una tra le forme della “differenza” lirica), ma anche “ordine”, ovvero la distanza ironica derivante dalla

consapevolezza del limite sovrastrutturale del letterario. Una avanguardia, allora, critica (dell’ideologia dominante) ma anche autocritica (della

ideologia letteraria), magari secondo quei modi di intertestualità polemica che Sanguineti non ha smesso di proporre (e di praticare) nella forma della parodia, anche quando sembrava venire soppiantata, nella vulgata postmoderna, dal più arrendevole pastiche. Per quanto ci arrivi dispersa nei mille rivoli di interventi, articoli, interviste, che si è costretti a rintracciare, nel migliore dei casi, in Giornalini

e Gazzettini e Scribilli vari, sempre comunque con la condanna allo “scartabellare”, la produzione teorico-critica sanguinetiana offre però — per chi, non a torto, li volesse — dei punti consuntivi: uno certamente sl trova

nella relazione che Sanguineti lesse alla metà degli anni Ottanta (1986), in un convegno romano, tra gli Eco e gli Asor Rosa, non senza un qualche scalpore. Intendo parlare de La missione del critico”; la quale, non c'è bisogno di dirlo, demoliva ogni aflato umanistico (collocato, con mirata

Il Gruppo ‘63

plaisanterie, nel ricalco fichtiano) a forza di consistenti dosi di critica e di negatività, pervenendo inevitabilmente al flagrante boicottaggio della “dimissione”. È soprattutto nella parte finale di quel discorso, che il critico “dimissionario” si riconosce “storico” sans phrases e materialistico “scriptor rerum”, scrittore di cose. Sanguineti lo “epigramma”, in breve, «dicendo che egli non è un decostruttore di testi, ma un decostruttore di storia, tout courb»”. Ecco qui ripreso, ma radicalmente spostato, il termine del metodo in voga, la decostruzione (trainante il poststrutturalismo, il postmodernismo e quant’altre posture della Metafisica dell’Equivocità). La decostruzione si era affermata come analisi del testo così brillante e sofisticata da invalidare ogni significato, provando che non è mai possibile fissarne uno solo, facciano pure gli ingenui che si affannano a voler comprendere o spiegare. Ma, proprio in quel torno di tempo, la decostruzione cercava di disincagliarsi dalle secche dell’analisi letteraria per passare — teste la Spivak, la migliore alunna di de Man — a “decostruire la storiografia””. Vede ognuno la diametrale differenza: la decostruzionista di oltreoceano (pur avendo letto un suo Gramsci e trattane l’attenzione al “soggetto subalterno”) vuole decostruire /a stonografia (segno che la storia è un testo: e che il testo si annette ogni altrove a dimostrare trionfalmente l’assunto derridiano che “non c’è extratesto”, perché tutto è testo); il nostro decostruzionista materialista intende invece decostruire la storia, cioè riportarci verso un livello di prassi concreta che, pur essendo conoscibile solo attraverso testi, non è riducibile ad essi o meglio è qualcosa che preme sui segni e che spinge a mettere in discussione la “testualità” (l’ordine simbolico, se così si vuole dire) da cui siamo costituiti. È chiaro? Se non lo fosse abbastanza, sì può ricorrere a un passo della lunga intervista a Fabio Gambaro, che già mi è capitato di citare per la sua felice sintesi di antropologia materialista: l’uomo «vive nel linguaggio. Naturalmente quella che vive nel concreto non è una realtà linguistica, al contrario è una realtà dura e materiale, ma la sperimenta mediata attraverso il linguaggio e la coscienza. (...) DI fronte al mondo della cultura, prima ancora che della letteratura, il problemaè cercare di decifrare il sistema di segni entro cui viviamo, capire come agisce e quali effetti produce. È in questo senso che secondo me tutto è politica»*. All’opposto dei decostruzionisti che rinviano il “fare” al “dire”, Sanguineti rinvia il “dire” al “fare”. Continua, insomma, a DZ

3. Sanguineti teorico della letteratura

porre problemi di “base materiale” o, in altre parole, a cercare la produzione sotto la comunicazione, il bisogno sotto al desiderio, l’interesse

sotto l'ideologia (anche se nessuno ci garantisce di avere la chiave del “sapere reale”; e infatti Sanguineti preferisce riformulare la critica dell’ideologia nei termini della “lotta tra false coscienze”). Tutto, in definitiva, come

dice La missione del critico, si riduce a un interrogativo di

“attribuzione” — chi è l’autore? da che parte sta? che effetto persegue o consegue? — e infine a un fatto molto semplice e banale, un “fatto empirico”. Qui il richiamo, oltre che esplicitamente ai classici del materialismo, è implicitamente a Vico (di cui l’autore altrove si professa «indegno nipotino»!°) e alla relazione del “vero” col “fatto”. Sanguineti vi insiste a costo di essere preso per “rozzo e terraterroso”: il critico sia «scrittore di fatti empirici», «storico di cose»!!. La decifrazione, il “disambiguamento dell’ambiguità” (che per 1 decostruzionisti di testi equivale al sacrilegio) avrà per fine il raggiungimento di un “senso” soprattutto direzionale, non il “valore umano ideale” di cui va in cerca l’ermeneutica, piuttosto una valenza, un effetto pragmatico da ricondurre al cw pro-

dest (Sanguineti ha ripetutamente accostato la sublimità dell’estetica alla volgare “persuasione occulta”; e una volta ha anche recuperato, delle funzioni di Jakobson, quella “conativa”, che impone di rispondere con un'azione). La “funzione conativa”? Ma come? Stando a Jakobson, non era la “funzione poetica” quella da attivare trattando di poesia? Qual'è — una volta affidato al critico un compito da “storico” senza ulteriori aggettivi — la sorte dell’estetica e della specificità letteraria? Bisogna precisare che Sanguineti non trascura lo specifico e che anzi lo riconosce proprio in quel principio di ambiguità che gli assegnava Jakobson (e con lui tanti altri, fino ai recenti decostruzionisti). «Dicesi testo letterario — sentenzia una delle vichiane “degnità” de La missione del critico — un testo che si presenta nella forma dell’enigma. Dove c’è la poesia lì c'è un indovinello»; e poco oltre: «Dove c’è la poesia, lì c'è un equivoco»!?. Il testo letterario è sempre ambiguo, anzi, Sanguineti direbbe, sempre “ambiguato”. Qui sta il punto: l’ambiguità è il punto di arrivo di un processo (complessivamente sociale; guidato quindi da fini esterni allo specifico) che provvede a “ritagliare” il testo come “ambiguabile”, per inserirlo nella particolare casella (nel particolare “siuoco”) del letterario; in una parola, N (0)

Il Gruppo ‘63

per “letteraturizzarlo” — e fin qui, additando il processo di “testualizzazione”, Sanguineti potrebbe corrispondere all’idea, oggi dominante nella voga culturalista, che tutto è testo fino al “social text”. Ma se l’am-

biguità è il punto d’arrivo del processo costituente il testo letterario come tale, allora, per la ricerca, diventa il punto di partenza: non possiamo più accontentarci — come avviene in Jakobson & c. — di scoprirla e di rilevarla, ma dobbiamo interrogarci sul suo “perché”. Si torna alla “fat-

tualità pratica”: alla semiotica della «nuda segnicità» della «prassi sociale in atto». Il che vuol dire, seguendo per la discesa i neologismi sanguinetiani, “disambiguare”, “disenigmatizzare”, infine “deletteraturizzare”.

Se la si vuole forte e chiara: «L'oggetto della critica letteraria sarebbe insomma la critica della letterarietà come istituzione pratica e storica»!3. La “letterarietà”, che tanto intrigava i formalisti, non è la soluzione,

ma fa parte del problema. Cosa dice un testo? Per rispondere dobbiamo decifrarlo in base a un codice, e va bene; ma non basta: dobbiamo pol,

ancora, “decifrare il codice” — ed eccoci fuori, vivaddio, da ogni autonomia e autoriflessività poetica, e pure dal condiscendente dialogismo ermeneutico che intende l’opera juxta propria principia. Non si può rimanere né nell’orizzonte delle articolazioni squisitamente tecniche né in quello dell’ascolto che “lascia parlare”. Le scelte metodologiche non sono a sé stanti. Continuare a domandarsi quale metodo funzioni meglio, significa accettare lo steccato (accademico) di una discussione ovattata e alla fine ininfluente, dove la «tempesta dei conflitti» si stempera giocoforza sotto una «copertura rasserenante»!!. Quella che Sanguineti ci propone è invece la prospettiva di un conflitto ideologico e dunque una pratica del sospetto. E qui è sollevata di solito l’obiezione del piacere. Se devo stare sempre sul chi vive, in “assetto di guerra” quasi, dove finisce il piacere della lettura? La vita ha così poche gioie e il mondo è così brutto... perché allora privarsi dell’intervallo di un buon libro e del suo “sollievo” (fosse quello da “grandi anime” di Bloom o Steiner, riservato a pochi eletti, o quello, più accessibile e ammiccante, dei postmoderni)? E qui, certo, Sanguineti non si è mai fatto troppo sedurre dai più reclamizzati plaisirs du texte: perché «esistono i piaceri, appunto pattuiti e addomesticati del testo, ma esi-

stono soprattutto, per fortuna, i veleni del testo»!9 (cito dall’intervento,

anch'esso volutamente provocatorio, al convegno di «Alfabeta» del

54

3. Sanguineti teorico della letteratura

1984). Dove il “per fortuna” la dice lunga sulla positività possibile dei “veleni”: ci dice, a volerlo leggere fino in fondo, che ci sono veleni e veleni, e contravveleni anche (l’ideologia e la critica dell’ideologia; 0, con

Gramsci: l'egemonia e la contro-egemonia); come ci sono, probabilmente, allora, piaceri e piaceri. Sulla questione fa ancora aggio il Brecht teorico del “godimento critico”, che resta, per il nostro autore, una guida a un non corrivo “uso dei piaceri”!°. È da mettere in conto, per stare appunto a Brecht, il “premio di piacere” dello “straniamento”, ovvero la soddisfazione non poca di sottrarsi ai modelli imposti, cioè all’«ido-

latria», e quindi alle identità fisse, e alla loro cogente imitazione che

passa in forma morbida nella suadente e inavvertita immedesimazione della letteratura: «Lo straniamento brechtiano, — scrive il nostro autore in uno dei suoi scridilli — tra le tante cose che ha significato, conteneva

anche la promessa, mi pare, della fine dell’idolatria spettacolare, in scena e fuori scena: non mi immedesimo, ergo non sono quell’idolo, quella figura, quel personaggio. Ergo, non imito»!”. Movenze cartesiane, come

si vede; che sembrerebbero quasi riformulare il cogito in un: “critico ergo sum”. Ma non è semplicemente una critica dall’esterno, un giudizio di

ideologicità da comminare al testo avendone l'autorevolezza (di tipo accademico o politico), ma di una lotta dentro il testo stesso — una critica

nel testo — e quindi intrinsecamente legata ai processi cosiddetti creativi. Che complica la scrittura, come tensione così forte da ingenerare eterogeneità e disorganicità e intoppi; non solo però a deludere e deprimere e disturbare, cosa che farà pur sempre con piacere, stante la sua propensione al «sabotaggio», ma anche, tuttavia, in quanto vira verso l’eccesso

(e il grottesco) iperbolico e acrobatico, del «supplemento di letteratura»!!. Questa letteratura contraddittoria, internamente contraria a se stessa,

è ancora l’avanguardia. In mezzo ai decreti postmoderni di non viabilità e agli avvisi di decesso e di seppellimento, Sanguineti non ha mai perso l'occasione di rilevare la necessità dell’avanguardia, d’abord et toujours. Ce lo siamo sentiti ripetere allo sfinimento che l’avanguardia non è possibile (ogni antiletteratura essendo riassorbita nella letteratura, al postutto) e per soprammercato non è più possibile, perché adesso avanti ci sarebbero le meraviglie della tecnica che cambiano più in fretta del nostro stesso pensiero. E dunque, che cosa abbiamo qui: un nostalgico, rimasto affe-

Il Gruppo ‘63

zionato alle follie di gioventù; o un riottoso che per dispetto resta immobile dove tutto cambia? Nessuna delle due. Al contrario dei difensori del classico, loro sì dav-

vero ripiegati verso il passato, Sanguineti parte da un’analisi spietata della situazione attuale, che guarda in faccia l’avvento della mercificazione e, anzi, ne decreta il definitivo “compimento”. Penso soprattutto all’inizio della conferenza Per una critica dell’avanguardia poetica in Italia, dove sì certifica che «la letteratura sta andando, e non da oggi soltanto, per via direttissima, verso la sottoletteratura, e meglio, e con più efficace nomenclatura, verso la Yriwvialliteratun»!*; e per quanto si possa cercare di frenare o modificare il percorso, non si può evitare, principalmente e per intanto, di guardarlo lucidamente e di fare i conti con esso. Gli è che Sanguineti sta tuttora — dovremmo saperlo perché ne ha pregevolmente introdotta una nuova edizione — sotto il segno del Manifesto comunista di Marx-Engels?", e dunque sotto il segno di una critica al capitalismo che, per prima cosa, gli riconosce un carattere drasticamente rivoluzionario e proprio nell’aver dissipato dalla cultura tanta aura sacrale. Un punto importante si tocca qui: occorre togliere il monopolio della critica agli avversari retroguardanti, cioè al buono (e falso) umanesimo borghese, malato del “pathos dell’autenticità” e proclive a lamentare gli effetti del proprio sistema (e del proprio stesso sotterraneo cinismo) come barbarie che inopinatamente mette a repentaglio 1 Valori immarcescibili. Essere “apocalittici” è, per Sanguineti, solo un altro modo di essere “integrati”. Il piagnisteo culturale, un esercizio vano e scadente (non a caso un suo intervento in dibattito, un po’ di anni fa,

esortava: Non venite a piangere??).

Né ciò significa, d’altra parte, l’apologia dell’esistente. Basti pensare che, se un addebito tocca anche a un nume tutelare come Walter Ben-

Jamin, è quello di avere sottovalutato — per forza di cose, nei suoi anni il riformarsi, dietro alla crisi dell’aura prodotta dai nuovi media, di una nuova e più sottile aura, della «anche più sacrale e rituale, e più miracolistica aura tecnologica, con correlato e congiunto recupero dell’aureola

massmedianica»?,

con

l’inflazione

di nuovi

idoli

e nuove

immedesimazioni e imitazioni nuove. L'ammissione del “compimento implacabile” della logica della merce non prevede nessun cedimento alla dilagante Metafisica dell’Eterno Presente; non suona da apologia 56

3. Sanguineti teorico della letteratura

di quel capitalismo attuale, che Sanguineti — rinunciando ai termini più soft del “tardo” o del “maturo” (a meno che non sia «maturo marcio») — denomina senza meno «capitalismo impazzito». Nel “mondo a pezzi” del passaggio di millennio, percorso da curiose anomte del potere e da caotici flussi finanziari, Sanguineti è tornato sempre più spesso a parlare di “anarchia” come base positiva e propositiva; una anarchia diversa e opposta al “sovversivismo dall’alto” delle concorrenze selvagge e del toboga delle borse. Una «pulsione anarchica» che starebbe alla base non solo dell’intervento letterario delle avanguardie, che pure ne hanno data chiara testimonianza, ma anche dell’inter-

vento politico trasformativo del comunismo (ecco termine ormai tabù si completa il glossario “inattuale”’ sanguinetiano). Il comunismo — affermava Sanguineti quindi in era già post-sovietica — vale se è vissuto «come

che con questo del materialismo nell’anno 1994, vera espressione

del sogno dell’anarchia», come «risposta realistica» ad esso; e su questo

metro è possibile valutare, parimenti, il fallimento del comunismo “reale” del Novecento, in quanto ha «lasciato cadere nel fango» le «ban-

diere dell’anarchismo»??. E però, affidarsi a una “pulsione” non sarebbe un ricorso a una risorsa “naturale”? Ugualmente: quando Sanguineti, parafrasando Vico, confidava in una «avanguardia ideale eterna»?*, nel senso che è sempre possibile operare scelte divergenti, sia pur nei limiti di ciascuna situazione (come la chance rivoluzionaria di Benjamin, per quanto debole...) non era in qualche modo rassicurante? Che comunque, magari poco, magari d’un niente, siamo sempre all’avanguardia (e non sarebbe neanche tanto difficile se gli altri, come accade, tornano sempre più indietro)? Negli ultimi interventi Sanguineti prende per le corna il toro della questione fino all’ipotesi più radicalmente infausta: la caduta del comunismo rischia di influire anche sulla «pulsione anarchica» che, da sola, potrebbe disperdersi; e se «i giovani del pianeta si convincono — secondo me a torto — che la prospettiva della conversione dell’utopia anarchica in comunismo è impraticabile, il contraccolpo è che l’anarchia stessa perde

ragion d’essere»?. Siamo di fronte a interrogativi ultimi e decisivi: «È

superabile il capitalismo? Il comunismo è ancora un obiettivo valido? Se rispondo sì, trovo dell’energia; se non ho questa convinzione, allora c'è il rischio che la merce trionfi per sempre: c’è il rischio che la storia

Il Gruppo ‘63

finisca davvero»?”. Solo in apparenza questo aut aut si affida alla soggettività di un ottimismo volontaristico (se si decide per il sì) e a un puro incentivo dell’“energia” vitale. La chiamata a scegliere contiene, piuttosto, Il rifiuto di assumere per risultanze certe lo schermo delle opinioni correnti, per altro contraddittorio (ci si dice che la società è troppo complessa per capirla; e poi si afferma perentoriamente che non ha spazi di cambiamento...), e l’istanza di richiamare in servizio non già la fiducia

in una realtà “benevola” che starebbe al di qua delle apparenze ingannevoli, quanto piuttosto la gramsciana “lotta per l’oggettività” — che Sanguineti ha ritagliato varie volte da un luogo fondamentale dei Quaderni del carcere — ovvero il riconoscimento dei nodi dell’antagonismo reale. AI contrario delle posizioni postmarxiste in cui la storia si è trasformata in un orizzonte insuperabile e perciò definitivamente monocromo (come in Jameson, nel suo periodo di totale fiducia nel postmoderno come unica “logica culturale” del capitalismo in questa epoca), il materialismo di Sanguineti si declina come un materialismo dell’alternativa. Il principio dell’anarchia lo induce a oltrepassare la raggiera delle differenze compatibili (anche quelle della nuova ideologia del “politicamente corretto”), fino a indicare i punti dell’opposizione: il problema della distruzione («Sul terreno culturale la distruzione è altrettanto dif-

ficile della costruzione, perché non si tratta di abbattere cose materiali, ma mondi culturali, ideologie; e far sì che le masse abbandonino pigre abitudini per modificare la loro esistenza»”’); la difesa della negazione («Credo che si debba continuare a difendere il momento della negazione, che è il più importante»?9); l'educazione allo scarto («È un problema di pedagogia sociale, quello di un’educazione al senso dello scarto»?°); l'elogio dell’antitesi (il «momento centrale è l’antitesi; e l’antitesi dev'essere, oggi, il momento centrale dell’attività artistica e critica»3!). Questo ci insegna l’«aspirante materialista» Sanguineti. L'analisi e l’intervento hanno da trovare il «memico giusto», che è anche il pucntum dolens della situazione, il punto di rottura, ovvero ‘“l’anello debole”, in

cui il pluralismo e l’eclettismo, che oggi costituiscono la facciata “rosea” del mondo, gettino la maschera e non siano più in grado di compiere la mossa consueta dell’inglobamento morbido. Si tratta di far riemergere la “lotta di classe”. Tutto qui.

3. Sanguineti teorico della letteratura

Note

' Cfr. E. Sanguineti, Diabolus Vetus, in Ghirigori, Torino, Marietti, 1988, pp. 186-188. è E. Sanguineti, // chierico organico. Scritture e intellettuali, a cura di E.Risso, Milano, Feltrinelli, 2000.

* Cfr. E. Sanguineti, /deologia e linguaggio. Ipotesi e problemi di una “teoria materialistica della letteratura” (intervista a cura di F. Bettini), in «L'ombra d’Argo» n. 4, 1985, p. 128.

! Con particolare rilevanza nel contributo al convegno di «Alfabeta» su “Il senso della letteratura”, tenutosi a Palermo nel 1984: E. Sanguineti, Un giuoco sociale, ora raccolto in AA. VV, Gruppo ’93. La recente avventura del dibattito teorico letterario in Italia, a cura di F. Bettini e FE Muzzioli, Lecce, Manni, 1990, pp. 36-37. ° Penso soprattutto a E. Sanguineti, “Avanguardia, società, impegno”, in /deologia e linguaggio, p. 59. 6 Si trova ora inserita nel volume con lo stesso titolo, in E. Sanguineti, La missione del critico, Torino, Marietti, 1987.

Ivi, p:214, 8 Penso al saggio di G. C. Spivak, Subaltern Studies: Decostructing Historiography, in In Other Worlds, New York and London, Routledge, 1988.

° E Gambaro, Colloquio con Edoardo Sanguineti. Quarant’anni di cultura italiana attraverso 1 ricordi di un poeta intellettuale, Milano, Anabasi, 1993, pp. 148-149. !0 «Da indegno nipotino di Vico, io credo nella immortale “degnità” xiv, onde “natura di cose”, ivi comprese le animate, “altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise”» (E. Sanguineti, // chierico organico, cit., p. 16). Vedi anche: «l’idea, mettendomi all’ombra di Vico e di Marx, ad un tempo, che si conosce quel che si fa, che il vero è il fatto, che il fatto è il vero, che l'essenza dell’uomo è il lavoro, che la prassi è tutto» (E. Sanguineti, Gazzettini, Roma, Editori, Riuniti, 1993, p. 93).

!! E, Sanguineti, La missione del critico, cit., p. 214. Ivi, p: 210. !3 Ivi, p. 208. SICiivia pazzi: !5 E. Sanguineti, Un giuoco sociale, cit., p. 37.

!é Anche di recente, Sanguineti ha scritto: «Il piacere capitalistico è il piacere della merce. Quando Brecht faceva l’elogio del godimento e del piacere, dei buoni piatti e del sano erotismo, non intendeva mica esaltare le prostitute, nel senso del commercio borghese. Credo che tenere ferma l’apologia dei principi vitali, come orizzonte da raggiurigere, non abbia nulla in comune con l’uso che ne fa il capitalismo» (Elogio dell’antitesi. Il significato dell’avanguardia oggi, intervista a cura di G. Mazzoni, in «Allegoria» nn. 2930, maggio-dicembre 1998, pp. 224-225. !7 E. Sanguineti, Seridill, cit., pp. 66-67. !8 Perfino nel “sabotaggio”: «Quello che mi pare importante — affermava Sanguineti al convegno palermitano di «Alfabeta» — è il sabotaggio della letteratura, dicevo avvertendo però subito una cosa: che ai miei occhi il paradosso è che questo sabotaggio per

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riuscire efficace richiede proprio un supplemento di letteratura, come un supplemento di coscienza rispecchiati in un supplemento di artificio» (Un giuoco sociale, cit., p.37). !° E. Sanguineti-J. Burgos, Per una critica dell’avanguardia poetica in Italia e in Francia, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, p. 7.

‘' Cfr. K. Marx-E Engels, Manifesto del Partito comunista, introduzione di E. Sanguineti, Roma, Meltemi, 1998.

?! «Da vecchio scrittore esorto i giovani scrittori, non venite a piangere (...) La vostra marginalità, se è il prodotto di una dolorosa congiuntura, ben vi sta, se invece è il prodotto di una volontà di tenersi fuori dai banchi della merce, allora ha un senso forte,

ma allora deve anche essere ostentata, ben sapendo che se una cosa non esiste come merce in questa società non esiste affatto» (E. Sanguineti, Non venite a piangere, in d’immaginazione» n. 115, novembre 1994, p. 18). 2° In Per una critica dell’avanguardia poetica in Italia e in Francia, cit., ZA,

°° E. Sanguineti, Nel dibattito, in «l'immaginazione» n. 115, novembre 1994, 2* E. Sanguineti, /deologia e linguaggio. Ipotesi e problemi di una “teoria materialistica teratura”, cit., p. 129. °° E. Sanguineti, Elogio dell’antitesi, cit., p. 225. “yi, 32208 27 Ibidem. 22Tvi, p. 228. Tv p222 ivi 91020: ?! «Io credo che il problema della critica e dell’avanguardia oggi sia quello di i nodi del potere, di scegliere il nemico giusto» (ivi, p. 223). # Lo ribadisce ancora l’ultimo libro: «La coscienza di classe, non nei soli

paz della let-

cogliere intellet-

tuali naturalmente, ma anche in tutti gli uomini dei diversi Nord del mondo, e al-

meno del primo mondo, e del secondo, può benissimo ottenebrarsi, anche per lunghi e lunghissimi tempi, sino a estinguersi affatto, persino. Ma la lotta di classe, quella invece, piaccia o dispiaccia non importa niente, quella continua» (E. Sanguineti, // cherico organico, cit., p. 21).

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CAPITOLO 4

Undici testi sperimentali

NANNI BALESTRINI

Il motivo consueto per cui lo sperimentalismo viene “guardato di traverso” e oggi quasi cancellato dal vocabolario letterario è l'addebito di eccessiva meccanicità, di un progetto apriori che annullerebbe l’aspetto creativo. Un autore che potrebbe rientrare in questo schema è certamente Balestrini: infatti, non è possibile negare che la sua operazione sì affidi ad un procedimento prestabilito “a tavolino” e meccanico al punto da disinteressarsi della sorte del messaggio e addirittura da consegnarsi — nelle pionieristiche poesie scritte con il computer — alla macchina stessa. Tuttavia, una volta ammesso questo, occorre specificare subito che tale atteggiamento è solo in apparenza neutro, ma rimanda a discorsi molto seri e per nulla giocosi, e addirittura che, alla fine dei conti,

è un metodo per raggiungere una creatività ancora maggiore dei lirici di stampo emotivo. Che la poesia abbia qualcosa del meccanismo è evidente da sempre e in questo non ci sarebbe nulla di nuovo e basterebbe pensare alla tradizione e alla sua norma letteraria, fondata su regole presupposte, principalmente metriche, schemi vuoti che fanno del testo poetico una scrittura diversa dalla lingua d’uso. Di recente, dopo l’affermazione novecentesca del verso libero, l’assunzione delle regole è cambiata di segno, non è più stata una ovvietà insita nella stessa parola poesia, ma una deliberata e volontaria autoprescrizione di contraintes, una restrizione del campo linguistico in cui mostrare la propria abilità tecnica. Vedi il caso dell’Oulipo, per esempio quando scrive lipogrammi, escludendo l’uso delle parole contenenti una determinata vocale. Per i francesi si tratta di un condizionamento, di un ostacolo da superare, in altre parole la scom61

Il Gruppo ‘63

messa di esprimersi con la contrainte. Per Balestrini, invece, in particolare

nei testi composti nella temperie della neoavanguardia, si tratta di esprimere la contrainte. La regola non viene fissata per mostrare l’abilità di riuscire ad esprimersi lo stesso, ma viene messa in evidenza come la vera e

principale sostanza del testo. Il significato è secondario rispetto all’organizzazione del significante, il contenuto diventa mero materiale, come volevano i formalisti. Di più: il silenzio della parole (poiché la scrittura non dice nulla a proposito dell’individuo che scrive) serve a far emergere la langue, nella sua specificità strutturale. Questa “indifferenza” si fa evidente con il procedimento del taglio della frase: se la frase può essere troncata in qualsiasi momento, il disinteresse per il significato è palese. Nella fase calda della fine degli anni Sessanta, con Ma nor facciamone un’altra (1968) il taglio (il cosiddetto cut-up) si farà indiscriminato e sen-

z’argini, l’azione convulsa di una macchina impazzita sfuggita al controllo che non guarda più alla sostanza del discorso, ma va a capo con la massima noncuranza, anche a dispetto della divisione in sillabe. Una pratica crudele, una delusione ironicamente sistematica della convenzione “iperprotetta” per cui il lettore si accosta a una poesia sforzandosi sempre di comprendere cosa dice. Ma la cosa, se non un significato, ha però un senso, come del resto perfino il ready-made di Duchamp. È richiesta non meno, ma più riflessione. Infatti, la poetica dell’interruzione e della frammentarietà costituisce una modalità nello stesso tempo di contestazione e di mimesi. Contestazione della logosfera e del linguaggio dominante, perché ne prende a casaccio dei brandelli verbali e ne fa a pezzi la presunta valenza comunicativa. E mimesi però anche, perché si tratta di indicare, nella tecnica del montaggio, la condizione precipua della modernità, le nuove dimensioni della percezione, la realtà franta che è possibile registrare solo in un flusso frenetico, desultorio e discontinuo. Non solo, ma — per Balestrini — il montaggio come corrispettivo della catena di montaggio, l’autore divenuto operaio del testo. Alienazione e disalienazione (non a caso nel tedesco di Brecht è sem-

pre lo stesso termine Verfremdung, alienazione e straniamento). Infatti, se la realtà linguistica appare in frammenti, queste particelle, questi elementi staccati, possono diventare gli oggetti di una nuova disposizione, il che produce un effetto visivo e un effetto sonoro. Su lato visivo sì pongono gli esiti del collage e della poesia concreta, le tavole dei cronogrammi

4. Undici testi sperimentali

dove i ritagli di scritture con corpi diversi si mischiano e si sovrappongono in una sorta di ammasso o di area grafica. Ma la stessa poesia “lineare” può assumere un valore visivo, per la particolare disposizione sulla pagina: i procedimenti di ritaglio della frase potrebbero essere giustificati dal senso visivo di una estensione considerata sufficiente e intonata all’insieme. Vediamo un esempio da Come st agisce, in cul pezzi verbali strappati al loro contesto vengono gettati come dadi e mescolati a capriccio: prima con la sinistra e poi con sì mise di nuovo a mentre nel cielo grigio prese in mano il più in basso ne versai metà lunga e liscia ncoperta da che nel suo resoconto e i polverosi uccelli che non si rendeva conto adeguate contrazioni sotto controllo che si mantiene liquida con formazione di’

In realtà, se guardiamo attentamente, tutti 1 lacerti sono collocati in

rapporto alla fine o all’inizio di uno dei precedenti, per cui la pagina sembra percorsa da linee costruttive. Quanto al significato, possiamo segnalare diversi aspetti: 1) i verbi d’azione sono attribuiti a un soggetto di terza persona e ciò paradossalmente rende il brano narrativo. Invece l’andare in pezzi del discorso potrebbe essere plausibile come disturbo psichico di un soggetto di prima persona che esprime una esperienza dissociata. Balestrini, al contrario, secondo il suo progetto di wmpersonalità, ci offre un racconto dall’esterno — anzi, per l’esattezza: il racconto di un

“resoconto” assai lacunoso — la cui spezzatura pare si debba mettere nel conto non del soggetto, ma proprio della macchina trasmittente. Come dire: non sono io, è la lingua che non ce la fa, che raschia e gracchia come

una radio mal funzionante; 2) le operazioni sembrano proprio

quelle di un esperimento: un esperimento ripetuto («Sì mise di nuovo a») c che dovrebbe portare ad una conseguente «formazione». Come si vede il brano si interrompe bruscamente sottraendo alla curiosità del lettore proprio l’oggetto della “formazione”. Questa sorta dì “punizione” che l’autore infligge al lettore, costituisce però una chiarissima comunicazione:

l’enunciato non fornisce un senso spiattellato, sempli-

cemente perché il senso è dappertutto, è il risultato del lavoro della let63

Il Gruppo ‘63

tura; inoltre: 2bis) nell’ultimo intervento della prima persona, che tut-

tavia appare così casuale da figurare soltanto come un ritaglio tra gli altri, l’io dice dunque: «ne versai la metà». Se si trattasse, allora, di un esperimento con soluzione liquida, l’operatore si mostrerebbe davvero incauto e sbadato. È vero che, poco dopo, si dichiara tutto «sotto controllo», però proprio al centro del testo si manifesta un incidente. 3) vi sono anche due spunti che rimandano alla natura, sono il «cielo grigio» e 1 «polverosi uccelli». Qui entra in ballo la questione della creatività: la creatività di Balestrini è tutta affidata alla contiguità dei brani che, grazie proprio al loro differenziale, sprigionano associazioni inedite. Questa scoperta degli accostamenti di solito preclusi alle regole del linguaggio comunicativo dovrebbe associarsi a una inventività felice: come mai, in-

vece, gli sprazzi di natura sono evidentemente infelici, il cielo “grigio”, gli uccelli “polverosi”’? Potremmo interpretare questo fatto in senso critico: infatti, le immagini della natura sono quelle che la lirica ha predilette fin dall’inizio della tradizione occidentale; e poiché Balestrini (come dimostra il suo romanzo Tristano, ugualmente composto di brani discordanti) vuole portare all’estinzione la tradizione, ecco allora che si può comprendere l’intristirsi delle immagini. Ma c’è ancora qualcosa di più, pensiamo ai «polverosi uccelli». Gli uccelli non sono mai polverosi, che si sappia. Allora è una immagine surrealista come il «cadavere squisito» o la «rugiada dalla testa di gatta»? Può darsi, però anche un’altra interpretazione si avanza: gli uccelli sono “polverosi” perché la loro immagine è stata scritta e riscritta da un fottio di poeti. Se questa interpretazione funziona, allora bisogna ammettere che la casualità — pure in questa poesia messa al primo posto e assolutamente trionfante — forse ha ricevuto qualche piccola spinta da parte di una intenzione critica, anch’essa per altro debitamente impersonale.

CORRADO COSTA

Corrado Costa ha partecipato alla neoavanguardia facendo parte del gruppo emiliano raccolto attorno alla rivista «Malebolge», i cosiddetti parasurrealisti. In lui c’è il richiamo al potenziale immaginativo delle culture extraoccidentali, ma anche a quello che si può ottenere attra64

4. Undici testi sperimentali

verso il gioco. Il testo che qui si presenta, / due passanti, fa parte di questo versante (più dadaista, che surrealista, forse), e si può mettere in parallelo con quella esilarante performance sonora, in cui Costa registra il retro di un nastro, ripetendo continuamente «retro, retro, siete nel retro...».

Il testo de / due passanti, apparve nella raccolta Pseudobaudelatre (1964), ma il suo rapporto con la passante di Baudelaire, se c'è, è soltanto uno spunto. Infatti: I due passanti: quello distinto con il vestito grigio e quello distinto con il vestito grigio, quello con un certo portamento elegante e l’altro con un certo portamento elegante, uno che rideva con uno che rideva uno però più taciturno e l’altro però più taciturno, quello con le sue idee sulla situazione e quello con le sue idee sulla situazione: i due passanti: uno improvvisamente con gli attrezzi e l’altro improvvisamente nudo uno che tortura e l’altro senza speranza una imprecisabile bestia una imprecisabile preda: i due passanti: quello alto uguale e quello alto uguale, uno affettuoso signorile l’altro affettuoso signorile, quello che si raccomanda e quello che si raccomanda?

Il testo sembra molto semplice e quasi più umoristico che sperimentale. Ma, attenzione: dietro al riso, Costa costringe a una riflessione non

poi tanto scontata. I due passanti, infatti, non hanno la regalità della passante di Baudelaire, sembrano piuttosto degli omini di Magritte; essi comunque consentono a Costa di esplorare la folla moderna, il gioco che in essa si instaura di uguaglianza e di differenza. Nella folla che passa, tutti sono uguali e anonimi (non ci sono i nomi, infatti), eppure tutti sono diversi, tanto che la folla si muove con movimenti caotici e

imprevedibili. Il livellamento dell’uomo comune è indicato con forza attraverso l’espediente della ripetizione: mentre la struttura logica (i passanti sono due: quello... e quello...) è tipica della diversificazione, le frasi che dovrebbero contenere i particolari diversi sono esattamente identiche. È interessante anche l’uso del termine «distinto» (lo sono entrambi),

che indica la peculiarità del singolo, poi negata dal testo, ma indica

Il Gruppo ‘63

anche una qualità sociale: sono signori “distinti”, insomma vestiti come si deve e appartenenti a un ceto di riguardo, entrambi “raccomandabili”. Il gioco potrebbe fermarsi qui: mostrando l’uniformazione del tessuto di classe nella massa, il passaggio verso una società “senza classe”, oppure verso la “piccola borghesia universale”, dove i rapporti di produzione si cancellano nella genericità falsamente affratellante (il popolo, la gente, ecc.). Una regressione nel “qualunque”, accompagnata da ironia e iperbole. C’è però, a metà del testo, una svolta, che fa perno sui due punti: un passaggio discordante in cui si dilatano vere e profonde differenze. I due, adesso, sono gerarchicamente posizionati nei ruoli del potente e del subalterno: «uno improvvisamente / con gli attrezzi e l’altro improvvisamente nudo / uno che tortura e l’altro senza speranza / una imprecisabile bestia una imprecisabile preda». Dopo aver aperto questa finestra sulla perversità del reale, il testo la richiude, riprendendo a litaniare la sua tautologica riflessione speculare del 2=1. Si potrebbe analizzare questo brano proprio come indice della contraddizione capitalistico-borghese, magari seguendo la matrice ideologica di Juan Carlos Rodriguez; dice dunque Rodriguez che il capitalismo sostituisce il rapporto gerarchico Signore/servo, con la creazione del “soggetto libero”, anche se la sua libertà consiste solo nella libertà di vendere la vita, in forma di forza-lavoro.* Il soggetto che si vende è altrettanto libero del soggetto che lo compra, entrambi sono “individui”; la matrice ideologica, allora, diventa soggetto/soggetto; senonché, la loro identità contiene la disparità delle posizioni e la matrice deve dunque essere modificata in «Soggetto (con la maiuscola)/soggetto (con la minuscola)». Costa non ha bisogno di poderosi impianti sociologici. Gli basta il paradosso di una filastrocca, ecolalica ma non del tutto, per mettere il dito, con ironia e sarcasmo, sulla scena segreta della cerimonialità sociale: l'identità che descrive è talmente identica, da mostrare, in fili-

grana, la sottile schizofrenia del mimetismo psicologico.

ALFREDO GIULIANI

In quanto curatore della antologia dei Novissimi, nonché (con Balestrini) della prima raccolta del Gruppo ’63, Alfredo Giuliani ha un ruolo 66

4. Undici testi sperimentali

di primo piano nelle vicende della nuova avanguardia. Proprio nella prima introduzione ai Novissimi, Giuliani fa menzione dello sperimentalismo, sottolineando le direzioni dell’impersonalità, della moltiplicazione delle varianti scrittorie, La [nostra] coerenza sta nell’essere passati in tempo dall’esercizio ormai inaridito di uno “stile” alle avventurose ricerche e proposte di una “scrittura” più impersonale e più estensiva. Il famoso «sperimentalismo». Pochi anni e tutto è cambiato: il vocabolario, la sintassi, il verso, la struttura della composizione. È cambiato il tono, è

oggi altra da ieri la prospettiva implicita nell’atto stesso del fare poesia. Sembrava che le possibilità di “parlare in versi” si fossero ristrette: le abbiamo invece ampliate, adoperando, sì, anche quella «abilità» di cui alcuni di noi sono talvolta accusati.

(...) sfidando il silenzio che sempre consegue, insieme con le chiacchiere, al deperimento di un linguaggio, esasperando l’insensatezza, rifiutando l'oppressione dei significati imposti, raccontando con gusto e con amore storie pensieri e bubbole di questa età schizofrenica.'

Bisogna però considerare che Giuliani aveva esordito un poco prima della stagione sperimentale e quindi aveva dovuto compiere un percorso che, partito dall’entourage del postermetismo, dell’eredità montaliana e della poetica degli oggetti, è poi arrivato a bruciare la presenza esistenziale del soggetto, avanzando via via specialmente sulla strada del gioco e del nonsense, fino ad eliminare l’aspetto emozionale nell’ironico e nel

grottesco. Ho scelto, per rappresentare la sua ricerca, proprio un testo della fine del decennio-Sessanta, un momento in cui — per contraccolpo con la contestazione sociale, studentesca e operaia — anche gli autori dell’avanguardia si radicalizzano al massimo (si possono confrontare le scritture di tutti e cinque novissimi in quegli anni) e raggiungono 1 risultati più estremisti. Per quanto lo riguarda, Giuliani pubblica nel 1969 /( tautofono, premettendovi questo corsivo esplicativo: Il tautofono è un test psicologico l’equivalente auditivo delle macchie di Rorschach: al paziente viene fatto ascoltare un disco che reca incisi simulacri di frasi, suoni che somigliano a sequenze di parole ma che non possiedono nessuna connotazione semantica. Come la macchia è indifferente al l’interpretazione (può essere, poniamo, un pipistrello 0 una vulva) così la frase imintelligibile non può identificarsi in questo 0 quel significato: persuade ironicamente a trovargliene uno, ma tutti sono “buoni” e patologici in diversa misura. Interpretando l’oracolo decifriamo noi stessi: il tautofono è il rumore che fa la nostra musica.

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Il Gruppo ‘63

Possiamo quindi prepararci a una serie di libere associazioni. E infatti, ecco il testo che chiude la raccolta, intitolato Poi stfa l’esperienza: se volete un po’ di piombo eccolo se vi occorre un palo basta spostare con un piede il tappetino di ciniglia nel corridoio a destra si parla in fretta alle quattro il gatto sul marciapiede di fronte non è più percepibile questa è una grande città dove le ascelle dei negozi si levano verso il mare l’ho capito fin dal primo momento disseminando i grigi spilli imballati negli occhi della vecchia ragazza nell’aria rosa della stanza senza prestare attenzione alla siepe rabbrividita sulla moquette uncinano il naso guizzante sotto i calzoni in curva pronto a tirare il freno o la tosse © poi nient'altro da fare che discorrere eccitato di anarchie croccanti e aspirare l’estasi della telefonista era un buon lavoro tuffato nel bavero di un altro le unghie alla finestra sbiadiscono sul giornale maestro di vita tracce di sensibilità ci tolgono l’aspetto dello sfruttamento la sedia girevole porta intorno lo strazio della fuga l'immersione monumentale non tornerà più su per dirci ma non è così giù nella sabbia®

Giuliani opera qui tutta una serie di connessioni incongrue, mantenendo però la regolarità di superficie della frase (un po’ come nell’esempio di Chomsky: “incolori idee verdi dormono furiosamente”...). I negozi hanno le “ascelle”? Gli occhi hanno gli “spilli” e gli spilli possono essere “imballati” come dei voluminosi colli da spedire? La moquette ha una “siepe” e per giunta questa può sentire freddo al punto da “rabbrividire”? E via di questo passo, fino al «buon lavoro tuffato nel bavero di un altro». Possiamo sostenere che si tratti di automatismo e che quindi non ci sia niente da capire o sia semplicemente materiale per lo psicoanalista. Ma l’autore potrebbe benissimo sostenere che le immagini del testo non gli appartengono, tanto che all’inizio si rivolge a noi, al pubblico, al “cliente che ha sempre ragione”, e ci chiede addirittura cosa vogliamo che “ci sia” («se volete un po’ di piombo eccolo», l’attacco iniziale). Sebbene il tono sia affermativo («eccolo»...; «questa è una grande città»; «e poi nient’altro da fare che»), tuttavia tutto quanto viene

“posto” ha una presenza ipotetica, sembra sul punto di sparire, di metamorfosarsi in altro, secondo la regola dello slittamento. Sebbene si ritrovino tracce di pulsioni erotiche, la «ragazza», il naso «sotto i calzoni», e anche (come vedremo in Porta) crudeli (gli spilli negli occhi), non solo queste tracce sono contraddittorie (la ragazza è «vecchia»), ma vengono

riassorbite in un insieme in cui sulla “sostanza del significato” sembra 68

4. Undici testi sperimentali

prevalere l’effetto della sorpresa. Semmai si potrebbe parlare di una ambientazione quotidiana (un corridoio, una stanza) nella cui aura rosea

si insinuano particolari inquietanti: gli spilli, certo, ma soprattutto, all’inizio il «piombo» e il «palo» che — se pure funzionano di colpo come presenze indebite — tuttavia potrebbero ingenerare una isotopia “western” di spari e torture. La seconda strofa diventa però decisiva: vi insorgono stati euforici (le «anarchie croccanti», l’«estasi della telefonista») e tuttavia questa “ebrezza” vitale è subito investita dallo stigma dell’inautentico: la quotidianità del vissuto è sostituita dal quotidiano, nel senso del giornale, il cui potere è quello di trasformare l’esistenza in notizia (nella società dell’informazione, quanto non fa notizia non esiste). Ciò che non viene detto è invece proprio il nucleo centrale del sistema (lo «sfruttamento») accuratamente depurato, in modo tale che la fuga, come la libertà (ridotta allo snack dell’“anarchia croccante”) diventa impossibile. Nel finale le immagini si fanno nette e, sia pur per la via indiretta dell’allegoria, assai eloquenti: «la sedia girevole porta intorno lo strazio della fuga», dice che i tentativi di deragliare per la tangente non fanno altro che girare in tondo, e la sedia girevole è un simbolo chiaro del lavoro dei quadri intermedi, impiegati e tecnici. Ma ancora più efficace è il verso ultimo, «l'immersione monumentale non tornerà più su per dirci ma non è così giù nella sabbia», che dice — deludendo l’attesa del lettore — che il Senso con la maiuscola, il senso profondo che andiamo cercando nella Poesia altrettanto con la maiuscola, lo attenderemo invano. Tutto il testo è impostato sull’incongruenza e sul “non senso”, quindi assume una tonalità ironica e giocosa, però questo “scherzo”, alla fine, come già dicevo per Balestrini, porta con sé delle conseguenze molto serie. Se riflettiamo sulla partenza poetica di Giuliani, vicino alla “fenomenologia” e quindi interessato al momento della percezione, anche come alternativa alle ideologie troppo invasive e troppo rigide, in questo testo, scritto negli anni “caldi” sessantotteschi, sembra che proprio la percezione si sia perduta o rimanga interdetta. Nel panorama metropolitano, in cui domina la «fretta» e tutto dura quanto un colpo di «tosse», in cui domina l’indifferenza («senza prestare attenzione») oppure la reazione stimolo-risposta delle attività pratiche («pronto a tirare il freno»), lo spazio per la presenza concreta del soggetto che coglie le 69

Il Gruppo ‘63

cose si cancella. È detto esplicitamente: «il gatto sul marciapiede di fronte non è più percepibile» (I strofa); e: «sbiadiscono (...) tracce di sensibilità». Il titolo stesso ci avverte da subito che Pi sifa l’esperienza, quindi l’esperienza viene dopo, non è un impregiudicato pus, bensì una costruzione secondo collaudati “programmi” di comportamento. Subito dopo il titolo, il primo verso che avevo già commentato, offre al lettoreconsumatore quello che vuole: non si tratta più, quindi, di comunicare un'esperienza, ma di regolarsi secondo la domanda e l’offerta, anche se poi è chiaro (secondo il progetto dell’avanguardia) che la domanda sarà presa a sberleffi. Se il giornale (e il «piombo» iniziale potrebbe essere proprio non quello delle pallottole ma quello che delle nuove armi comunicative, la stampa), se il giornale, dicevo, è assurto a «maestro di

vita», si è mangiato lo spazio del mondo-della-vita. La vita non può sussistere che a livello “sperimentale” nel tentativo di operare accoppiamenti linguistici sintatticamente corretti, ma semanticamente abnormi.

GIUSEPPE GUGLIELMI

Giuseppe Guglielmi è il fratello, il maggiore, dei due critici Angelo e Guido. È stato autore di poesia e molto attivo traduttore dal francese. Pur essendo incluso nell’antologia fondativa del Gruppo 63, Guglielmi è rimasto abbastanza ai margini del movimento, ed è stato sostanzialmente dimenticato. La sua figura è invece importante nel panorama dello sperimentalismo italiano che stiamo tracciando. In particolare Guglielmi si segnala per la carica polemica dei suoi versi che vanno a colpire, con grande lucidità, la questione nodale della mercificazione del linguaggio. Ma cominciamo a riportare un suo testo-campione che s’intitola La lingua rubata, datato 1962 e compreso in Panglosse: Si va dal niente al niente passando dal niente albero scure coltello in tutto ubbidiente al buio abbietto all’io che c’ingola della poetica della parola. De aestu libidinis dal fuoco il sacro e l'osso duole. Potere indurci a ragione potere come si vuole

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4. Undia testi sperimentali negare ogni spessore d'errore, suono e sintassi nei sargassi del mio e vostro sotto,

romper di scatto l’antica prigione l’interior vitae il buio l'occasione che ci fa macro il corpo del reale e poi mortale il sacro l’accesso privato alla vuota dipintura del foro insensato,

fu dura impasse degli anni cinquanta. Qui il morto decennio in tutto ci agguanta a un nulla in pugno di ben pochi poemi ancor nell’ottica questi del sublime, vedi un corto libello in rime scarse con l’e commerciale ma consapevole questo il commerciale e amaro quello il libello come l’abbraccio professionale alla decima ora salariale (riportato da Marx per gli ouvriers del ’44, l’ora della prostituzione dicevano quella da cui le mogli e le figlie...); il cielo della mente a solo obbietto è l’eros osceno dell’intelletto. Con l’e commerciale ma ancor viscerale senza passar in eresia, senza passare andare o tornicare per figura nessuna di storia o sociale, il vuoto significava significar la poesia. Poi infine il trapasso e fu il decesso per molto ancora illegale, quasi un cadavere virtuale,

immoto lo sfondo intellettuale nel tutto tondo dell’antico complesso. Franar di lingua è dire di non dire sciolta che sia in teologico fasto d’agonia (sacre strutture fioriscon nel segno).

Oscuro servivo il mito e in puro sdegno il vero il capitale per la mia lingua che l’impingua il capitale, in condizione di sempre maggior dipendenza da tutte le oscillazioni di prezzo e di mercato

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(c'è una lingua e anche per lei un mercato),

io inconscio buio tribale per numero d’anni non male io sull’orlo annientato del niente. Non ero per servire che lo stesso nemico quale qui tutto contraddico per la mia morta vita che è morta e non è morta per la mia vita in buone stampe andata per la mia povera lingua rubata, commento dolente del ragazzo non male di giusta afasia, buon custode del niente buono all’etica della poesia.”

La polemica di Guglielmi si rivolge contro un'intera epoca: gli anni cinquanta, gli anni dell’«impasse», il «morto decennio». Quindi contro l’immobilismo culturale, il moderatismo e la conservazione. L'uso del

latino e la conseguente assunzione di un tono sacrale vuole ironizzare appunto la persistenza del dogma e di una casta intellettuale sopraelevata, oltre che, naturalmente, della ideologia religiosa (che l’autore affronterà direttamente in un altro testo, Proverbi romani, prendendo di

mira la «folla cristiana ororinante» ). Di questo decennio depresso fa parte, per forza di cose, anche la letteratura, in cui persiste la vecchia tendenza alla elevazione nel «sublime», sebbene non manchi il rileva-

mento dell’aura tecnologica delle nuove semiotiche: non a caso Guglielmi scrive — tra parentesi, ma qui la parentesi è un indicatore di importanza, perché lo sperimentalismo dà rilievo al tassello inserito a forza — scrive, dunque: «(sacre strutture fioriscon nel segno)», modificando le sacre scritture in ironico elogio dello strutturalismo avanzante. Insomma, parola diretta, invettiva che stigmatizza pesantemente (il «buio abietto», l’«eros osceno», il male, l'agonia, ECC.) e insieme parola camuffata (sia pure in modi abbastanza decifrabili) dell’ironia e della parodia. La polemica di Guglielmi si pone come risentimento etico («etica della poesia», enunciata nell’ultimo verso), ma soprattutto espone il desolato panorama di una consapevolezza radicale, ossia la consapevolezza dell'invasione del mercato e della logica del capitale fin dentro ai

4. Undici testi sperimentali

gangli della vita quotidiana. Da cui lo “sdegno” per la prostituzione, reale e metaforica, ribadito anche in un altro componimeto-chiave della raccolta, La coscienza infelice. Di questa consapevolezza è indice anche la ripetuta autocitazione del «libello» con la «e commerciale» che è la prima pubblicazione dell’autore, Essere & non avere, del 1954. La «e commerciale» nel titolo è appunto l’indice di una ormai avvenuta economicizzazione del mondo, nonché la negazione di qualsiasi illusoria contrapposizione dell’essere all’avere (e viene preventivamente stoppata la domanda retorica di Fromm). Quando scrive — ancora tra parentesi, ma in lapidaria sentenza — «(c’è una lingua e anche per lei un mercato)», Guglielmi è in anticipo (a meno di contatti a voce che non conosciamo, oppure a meno di ritocchi sulla data di composizione) anche sulla teoria di Ferruccio Rossi-Landi del linguaggio come lavoro e come mercato, che farà la sua prima comparsa solo nel 1965. La semiotica materialista di Rossi-Landi, cui ho accennato nel primo capitolo, nel suo corto circuito di produzione e discorso è assai vicina a questa lingua rubata di Giuseppe Guglielmi, “rubata” nel senso di espropriata, o meglio sfruttata, in un meccanismo che, volendolo paragonare al pluslavoro dell’operaio, potremmo chiamare di “plusparola”. Del resto, basterebbe il nome di Marx in una poesia a consentirci di indicare una tendenza prosaica e antilirica. Domandiamoci però adesso: quale sperimentalismo? La consapevolezza del fatto che la comunicazione è in mano al capitale, porta in un vicolo cieco: non si può parlare, infatti, senza impinguare il capitale linguistico e quindi senza soggiacere all’alienazione linguistica. L'unica soluzione è ridurre a zero il senso, cioè il valore del prodotto. Ecco perché il testo si apre e si chiude sul tema del «niente». «Romper di scatto» i serrami della prigione vuol dire sconfinare nella «giusta afasia». L'unica soluzione è l'annullamento del significato, lo svuotamento della comunicazione. E il “niente” può essere prodotto anche attraverso l’uso di una vuota forma. Si comprende, allora, la pratica della rima: questo uso delle rime, sebbene non regolare, tuttavia insistito, che ha un valore prettamente parodistico. E parodistico tanto più quanto più ravvicinata è la rima, come nelle frequenti rime baciate (niente/ubbidiente; ingola/parola; prigione/occasione; cinquanta/agguanta; perfino sublime/rime; ecc. ecc.); o addirittura nelle ravvicinatissime rime interne: TO

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«negare ogni spessore d’errore, / suono e sintassi nei sargassi» (dove per giunta la rima con «sargassi» serve a ridurre la «sintassi», ovvero la costruzione stessa del periodo, a una buffa eco sonora). La metaletterarietà è qui diffusa e profonda, in quanto il poeta non può più dire altro che la mercificazione della poesia e quindi l'impossibilità del suo stesso dire: perciò è esplicitamente provocatoria. Non rimane che esibire la propria contraddizione, anche in questo caso con ossimori basilari: « qui tutto contraddico / per la mia morta vita che è morta / e non è morta». Ma del resto, la contraddizione funziona da allegoria di un sistema economico e simbolico intrinsecamente contraddittorio.

GIULIA NICCOLAI

Questa autrice, che era presente inizialmente nel gruppo come fotografa, è partita dalla prosa (il romanzo // grande angolo è del 1966) per poi passare alla poesia visiva e procedere anche oltre l’esperienza del gruppo continuando l’avanguardia in compagnia di Adriano Spatola con le edizioni Geiger del Mulino di Bazzano, e poi ancora performer di grande intelligenza e ironia, per giungere a inventarsi una forma particolare, il frisbee, contraddistinta dalla brevità e dal fulmineo accostamento, colto direttamente dalla vita.

Per esemplificare il suo sperimentalismo, scelgo un suo testo “classico”, esilarante ed efficacissimo, che s'intitola Harry Bar Ballad: è datato settembre 1977 e dedicato a Marcello Angioni. Si tratta di un testo tutto giocato sul plurilinguismo, ma precisamente sugli effetti “babelici”, cioè equivoci della confusione delle lingue. È sempre imbarazzante per un tedesco chiedere zwei dry martini potrebbe chiedere zwei martini dry ma se chiede zwei martini dry gli danno i martini senza il gin. E costretto a berseli? No

perché lui e sua moglie vogliono zwei dry martini

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4. Undici testi sperimentali e NON zwei martini dry. Potrebbe chiedere zwei mal dry martini che tradotto in italiano diventa due volte tre martini. Allora gliene danno sei. Sei un bevitore di dry martini? Fanno diciotto. Sei, sel dry martini? Sei più sei dodici sel per sei trentasei? Non voglio né dodici né trentasei martini voglio del gin perché sono G. N. Giulia Niccolai. Des dry martini! Neuf! Pas des vieux bien sùr madame... Anche un americano che chiede nine dry martini corre il rischio di non riceverne neanche uno se il barman lo prende per un tedesco. Dix dix dry martini!

Non je dis pasje dis pasje dis pas!"

Anche qui l'umorismo non è così «liscio». Si potrebbe dire che è un umorismo oggettivo. Nello stesso periodo, la Niccolai lavora con gli oggetti (in Poema & Oggetto, dove l’immagine di alcuni spilli prevede l’inserimento nella pagina di uno spillo vero); e si pensi anche alle poesie della serie Greenwich, elaborate prendendo pari pari dei termini geografici (sicché la canzone di Aznavour è trasformata in «Como è trieste Venezia»).

Anche la ballata dell’Harry's Bar potrebbe essere partita da un episodio colto al volo nel famoso locale veneziano, noto per essere luogo d’incontro di scrittori e di clientela internazionale. È quindi il posto ideale per questa sarabanda che interseca il tedesco, l’inglese, il francese e l’italiano, un plurilinguismo che possiamo solo in parte addebitare alla biografia dell’autrice, figlia di madre americana. Insomma, qui siamo in un crocevia dell'Europa (tanto che il locale fu sospetto ai tempi del fascismo). Un crocevia, va bene, sì, però forse meglio un ingorgo. Infatti le lingue, invece di tradursi felicemente l’una nell’altra, semmai interfe-

riscono, per via delle equivoche somiglianze delle loro parole. I “falsi amici” l’hanno vinta. E l’equivoco maramaldeggia in amplificazione

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progressiva, con il moltiplicarsi di martini chiesti dal poco accorto avventore, via via nel crescendo rabelaisiano di un gran bevuta. Una escalation che nessuno sembra in grado di arrestare, se non fosse l’autrice in persona a cambiare l’ordinazione, passando al martini al gin, anche in questo caso in forza del significante e della equivalenza sonora: gin somiglia in spelling a g. n., le iniziali del suo nome. L'inserimento dell'identità anagrafica — è interessante notarlo — funziona da spezzatura; inoltre, se posso permettermi a mia volta una battuta, costituisce un motto davvero di spinto... E bellissimi sono i successivi puns, quello francese tra nove e nuovo (i due significati di nev/) e quello ancora di nove in inglese (mine) con la negazione tedesca (nein) che gli è omofona. Tornando al francese con l’ultima omofonia tra dix (dieci) e dis (di?) il testo perviene in fine al silenzio (“non dico, non dico, non dico”). Il numero è preso per un imperativo che viene ripetutamente e vigorosamente rifiutato. Anche in questo caso il gioco scava nella cerimonialità della vita quotidiana. Nel rapporto tra il cliente e il barman che dovrebbe corrispondere al blandimento allettante dell’offerta verso la domanda, si insinua

una molesta incomprensione e con essa il sadismo per concludersi infine in una dispettosa sottrazione di parola. Il reiterato rifiuto di dire non è altro che il grado zero dell’avanguardia che occupa la sede della parola per cancellarla e sottrarla. In questo caso però lo fa dopo averci sorpresi e deliziati (quindi con un “premio di piacere” direbbe Freud) con gli shit tamenti progressivi delle lingue europee.

ELIO PAGLIARANI

Parlerò tra breve, in un capitolo apposito, di questo autore. Qui mi limito a riportare l’analisi di un segmento della Ballata di Rudi, elabora ta già negli anni Sessanta, ma pubblicata per intero solo nel 1995. Leggiamo Il testo: A tratta si tirano le reti a riva è il lavoro dei braccianti del mare la squadra sono rimasti i vecchi vecchi che hanno sempre fatto quel lavoro perché una volta non ce n’era molto di lavoro

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4. Undici testi sperimentali da scegliere e vecchi che gli è rimasto soltanto quello di lavoro che dormono in piedi che mangiano in piedi tirando la corda Baiuchela se piove che abbia vicino la sposa a tenergli l’ombrello intanto che è scalzo nell'acqua di mare si tendono i nervetti delle gambe si indietreggia ancheggiando in ritmo corale ci sì posta di fianco la corda tesa come un elastico il fianco legato al crocco il tempo di ballo la schiena tira da sola legati col crocco alla corda si mangia si dorme al lavoro sì balla una danza notturna di schiavi legati alla corda propiziatoria del frutto dopo la corda la rete dove il raccolto guizza nel fondo dice che è possibile ogni volta pescarne quintali, che l’ostinazione è quella, quella pescata quella notte a Classe che rinnova delusione senza rassegnazione che non ha senso pensare che s’appassisca il mare rassegnazione al peggio non è rassegnazione è prepotenza se hai la coscienza di figurarlo il peggio c’è la diga che taglia la corrente cambia l’ordine ai depositi di sabbia perciò quando Nandi dice butta giù bisogna buttarle giù subito le reti e girare quando dice gira e scendere quando dice di scendere e fare l’arco quel numero preciso di metri che dice lui c’è la speranza che li tiene in gabbia di pescare tutte le sbornie dell'inverno in una sola volta c'è la matematica di Nandi, piuttosto, che fa le medie con la luna Carlo insiste che hanno gusto a guardare nella rete ogni volta quando si accosta a riva e fanno luce nervosa intermittente i pesci con i salti presi dentro ma non va creduto Nandi i proverbi dei vecchi è tutto niente si tratta di sequenze il cielo la marina non [gli importa niente dice e passa in rassegna il mare mattina e sera per nove chilometri dall’Ottocento senza fare mai previsioni sul tempo adesso che si affoga nella roba e Togna che dirà che disse mangiala te Signore lassù che io sono stufo buttando in aria un piatto di minestra d’erbe, che dirà se vivrà sotto terra

so che non vive, stia calma non sorrida, ma che grida è certo

dalla mia bocca finché ancora campo. Tutte le notti ancora degli uomini si conciliano il sonno

Vl,

Il Gruppo ‘63

lustrando coltelli che luccicano dormono coi pugni stretti si svegliano coi segni sanguigni delle unghie sulle palme delle mani. E invece ha senso pensare che s’appassisca il mare.®

Tralascio in questa sede le vicende del testo, passato attraverso varie stesure e esito della sommatoria di due pezzi inizialmente distinti. E comincio dal genere: abbiamo qui un poemetto narrativo, quel tipo caro a Pagliarani che ne teorizza sui Novissimi. È una poesia che ha per tema il lavoro, tema prosaico quant’altri mai. Tutta la prima parte è rivolta al passato, il passato del lavoro di una volta, un lavoro “povero” — la pesca alla “tratta” — un lavoro che si svolge nell’acqua bassa, ed è un po’ buffo, assomiglia a un balletto, anche se poi l’immagine si fa più cupa (assomiglia a una compagnia di forzati). Un lavoro molto ritmico e molto ci sarebbe da dire sul ritmo di questo testo. Ora, il passato viene ricordato con l’uso del presente, un presente iterativo, di gesti compiuti mille volte. Ed è riferito da un testimone nascosto che parla attraverso le parole degli amici pescatori, Nandi, Carlo, ecc. È già un Pagliarani in qualche modo citazionista, non però di marca postmoderna, come vedremo, piuttosto portato a dare la parola ai “senza voce”, e così accosta un sapere strambo, le loro esagerazioni mitiche (come «quella pescata quella notte a Classe»), le frasi memorabili e caratterizzanti, elevate

ad opinione dal fatto di essere ripetute con successo. Il lavoro, dicevo, che sì svolge tra la terra e il mare, a metà strada. Ed ecco allora che vi coincide il lavoro della metafora: l’intermediarietà spaziale giustifica l'accostamento della pesca all’agricoltura, che scatta immediatamente (si parla dei «braccianti del mare»), e procede con una sfumatura positiva di fertilità: la danza «propiziatoria del frutto», il «raccolto» che «guizza nel fondo». Inevitabilmente la contiguità di terra e mare comporta che gli scambi metaforici risultino da uno scambio metonimico;

a sua volta la metonimia quando si presenta, nell’esempio eccellente del «pescare tutte le sbornie dell’inverno in una volta», opera una completa inversione delle marche semantiche tra i prodotti della terra e del mare: al posto del pesce — prodotto solido dell'ambiente liquido — si trova il vino — prodotto liquido dell’ambiente solido. Di questa metonimia “a 78

4. Undici testi sperimentali

cannocchiale” ho già parlato in altre occasioni, sottolineandone il percorso, passin passino secondo la logica della contiguità, per almeno tre passaggi: pesca dei pesci > ricavato della vendita > acquisto del vino > sbornia. Naturalmente i passettini potrebbero aumentare con tutte le specifiche del caso (aggiungendo “vendita” davanti a “ricavato”, “bevuta” prima di “sbornia” e via così). Ma la “pesca delle sbornie”, al di là della sua acrobazia tecnica, possiede internamente la molla di una fantastica dilatazione temporale. Il testo aggiunge: «in una sola volta». Questa sarebbe la “speranza”: una pesca talmente copiosa, “miracolosa” quant’altre mai, da potersi poi sfruttare per un tempo lunghissimo. Una notte di lavoro contro un’intera stagione (quella invernale, quando 1 pescatori non possono uscire in mare) di pieno godimento. Dunque la

metonimia, per solito ovvia e convenzionale, arriva qui ad essere al contrario altamente inventiva e addirittura utopica. E però la figura è strettamente realistica: pedagogicamente (e eticamente, ancora) lo scambio semantico della “metonimia prolungata” non fa altro che ripercorrere le stazioni dello scambio economico.

Quei passaggi (pesca > vendita

> reimpiego o spreco) non sono altro che la realizzazione ineludibile dello schema produzione-scambio-consumo. Cè tutto un “sistema”, dunque, in una metonimia? Sì, e anche qualcosa di più, che riguarda lo

stadio finale: la catena degli effetti, si badi, non sì ferma al reimpiego del denaro ma sottolinea — talmente tanto che quello è poi l’ultimo, l’unico termine che compare in praesentia nel testo — la dissipazione e lo spreco, il godimento puro e l’annullamento della coscienza nella “sbornia”. Il ciclo si chiude in perdita; ma anche con una forma di rivalsa. In fondo si potrebbe scorgere nell’ebrezza indotta dal vino una rivincita della liquidità, che, sfruttata dal lavoro dei pescatori, li riconquista poi, totalmente, nel tempo vuoto delle serate invernali. È chiaro che la sintonia con i lavoratori del proprio ambiente, cui viene restituito il nome e la parola, non è senza un sovrappiù di coscienza critica da parte dell’enunciatore del testo. Ha detto chiaramente che la «speranza» stessa è cieca e finisce per essere una regressiva pastoia («c’è la speranza che li tiene in gabbia»), in un circolo infinito di aspet-

tativa e di delusione che ha per risultato di conservare le gerarchie e le disparità economiche. Quando poi si avanza addirittura l’opinione di un piacere connesso al lavoro («Carlo insiste che hanno gusto / a guar19

Il Gruppo ‘63

dare nella rete ogni volta...», vv. 30-1), che trasformerebbe la parvenza del dionisismo danzante in una sostanziale gratificazione dell’arretratezza sociale, ecco che scatta la molla della smentita: «ma non va cre-

duto». Il punto nodale di questo rapporto a due facce si ha quando si arriva a Togna. Tra l’altro è quello il punto di giunzione tra i due testi preesistenti e lì la voce si rivolge a un interlocutore (o meglio: interlocutrice: in origine era nominata come Mafalda) distaccato e scettico («stia calma, non sorrida»). Il tempo del “dire” di Togna non può più essere il presente, ma uno strano cortocircuito tra futuro e passato: «e Togna che dirà che disse mangiala». La battuta è confinata nel passato, perché la morte inesorabilmente impedisce al suo “autore” di continuare a ripeterla. Il futuro perciò («e Togna che dirà») interviene a ipotizzare una parola impossibile: l’unico modo per dar voce a questa parola è quello di assumersene su di sé l'adempimento, e questa presa in carico fa tutt'uno con la presa di coscienza dell’irreversibilità della storia e della caducità della vita: «So che non vive, stia calma non sorrida, ma che grida

è certo / dalla mia bocca finché ancora campo». Il carattere “bivoco” della «bocca» che restituisce e amplifica la parola altrui assume un deciso valore programmatico, ed oltrepassa il singolo componimento per porre in generale il problema della citazione. Qui citare significa concitare: non “lasciar parlare” la parola, secondo una nostalgica pietas, ma “farla parlare” — che vuol dire sottrarla al silenzio e metterla in grado di scalfire le barriere della comunicazione istituita che vi facevano impedimento. L'inserimento di Togna corrisponde all’irruzione dell’attualità e al vertiginoso passaggio dalla società di poveri pescatori alla società dell’affluenza. La funzione di auspicio d’abbondanza connessa allo scambio semantico (vedi il «frutto», il «raccolto») si interrompe in corrispondenza dell’aggancio con la parte finale, che fa perno, non a caso, su una metafora dove l'elemento “liquido” assume un risvolto assai negativo: «adesso che si affoga nella roba». L’abbondanza è arrivata, ma è altrettanto invivibile della penuria; qui è il campo semantico del marino che sì sposta verso il terrestre, portando però con sé un eccesso di riempimento, fino alla sommersione dell’affogare. Nel finale, un altro inserto molto eterogeneo è l’immagine allegorica degli uomini che dormono contratti tanto da ferirsi le mani e, prima di dormire, puliscono minacciosì coltelli. Coltelli, pugni stretti (molto prossimi ad essere “pugni 80

4. Undici testi sperimentali

chiusi”), e segni sanguigni che connotano quali innaturali stimmate una porzione di umanità non disposta all’acquiescenza. A questo punto i personaggi della memoria personale lasciano il posto a una voce impersonale che parla degli atti compiuti da «degli uomini» in prossimità del sonno, atti ripetuti secondo una consuetudine quasi coatta, «tutte le

notti». Il partitivo «degli» ci informa che non si tratta di un atteggiamento universale; l’«ancora» allude ad una forma di resistenza (parafrasando: “ci sono ancora degli uomini che...”’). I gesti che accompagnano la conciliazione dell’assopimento e del risveglio non sono affatto concilianti: vi troviamo «coltelli che luccicano», «pugni stretti», l’incisione crudele dei «segni sanguigni» — bisticcio fonico accompagnato dallo stridore delle «unghie» — che ledono l’integrità delle «mani», organo principale di ogni agire strumentale. La valenza allegorica della scena vuole significare un tipo umano che non abbandona la lotta all’oppressione presente, anche se non può fare di più che preparare una belligeranza («lustrando coltelli») e tenerla viva spietatamente a proprie spese. La tensione della conflittualità compressa o introvertita produce, posta com'è in sovrimpressione al momento ottundente e pacificatorio del sonno, la contraddizione di un ossimoro concettuale, con notevole carica espressionistica. Infine l’ultimo verso, aggiunto in un momento successivo, costituisce l’estrema smentita. A contrasto di quanto detto nella zona mediana della poesia (dove si sostiene «che non ha senso pensare / che s’appassisca il mare») dalla voce dei pescatori, adesso invece si ammette che «ha senso pensare che s’appassisca il mare». L’appassimento del mare con la sua evidente connotazione di “vegetalità” fa battere l’attenzione sullo scambio tra universo terrestre e universo marino, nodo o groppo semantico che scorre sotto tutto il testo. Se la fertilità (terrestre) funzionava da be-

naugurante auspicio della pescosità del mare, adesso l’appassimento rappresenta il processo precisamente opposto, della aridità (e della consunzione) terrestre trasportata nell’elemento marino. Dove era scambio e compensazione, prende piede un’invadenza reciproca: a spezzare la fiducia nella circolarità inesauribile della natura, l’arco storico di una

progressiva estinzione per “appassimento” viene a colpire il mare e con esso il mito-simbolo (non è il mare l’archetipo per eccellenza indefinito e onnicomprensivo?). Che il verso contenga un’allusione realistica al de81

Il Gruppo ‘63

grado ecologico della riviera romagnola dove si ambienta la Ballata è plausibile, ma non necessario: ciò che è in questione è il «senso» di un «pensare» che non tanto patisca la caducità, quanto si scrolli di dosso le consolazioni dell’eterno, rassicurante sì, ma portatore di asservimento

nella reclusoria «gabbia» da «schiavi». L'aggiunta dell’ultimo verso specifica e dichiara, a tutte lettere proprio, l’istanza di ribellione che già si era affacciata nel gesto di Togna («mangiala te Signore lassù che io son stufo / buttando in aria un piatto di minestra»), rifiuto del cibo e con ciò interruzione della iteratività riproduttiva, abiezione (etimologicamente) della liquidità materna, cui si aggiunge l’apostrofe blasfema che antropomortizza, sfidandola, la divinità. E in questo punto già si inalberava la consapevolezza storica contro le illusioni sulla rinascita e sulla comunione con la natura, sfatando seccamente l’uso — si direbbe ilozoi-

stico — del verbo “vivere”: «che dirà se vivrà sotto terra? / So che non VIVE...». Consapevolezza del negativo e vis polemica non sono affatto inconciliabili in questa poesia, anzi. Pagliarani riprenderà l’appassimento del mare proprio a conclusione della Ba//ata, nella sezione XXVII, con una importante variante dialettica: Ma dobbiamo continuare

come se non avesse senso pensare

che s’appassisca il mare.!0 LAMBERTO PIGNOTTI

Parallelamente e in dialogo con il Gruppo ’63 si svolge l’attività dei poeti verbovisivi, raccolti attorno al Gruppo ’70 (anch’esso sorto, malgrado la sigla, nel decisivo 1963). Di questa corrente Pignotti è il rappresentante principale. Egli è anche autore di poesie lineari. Anche nel suo caso si può parlare di citazionismo, perché — come nel collage visivo utilizza e ritaglia materiali preesistenti — così nella poesia verbale l’autore capta o imita il linguaggio delle comunicazioni di massa. Il risultato è quello di una impassibilità ironica. La lingua del consumo è lasciata parlare proprio perché si denunci da sola. Naturalmente la presenza dell’autore 82

4. Undici testi sperimentali

nascosto si rivela nella direzione del montaggio e nelle sottili manovre di spostamento che dislocano i materiali. Essi, quindi, sono ripresi parola per parola e però diversamente. Proprio così, Parola per parola, diversamente, s'intitola la raccolta da cui vado a trarre un breve campione della operazione di Pignotti negli anni Sessanta. E lo prendo dalla sezione Un mondo competitwo, che reca la data del 1966. Sono testi bilingui che sì presentano innanzitutto nella stesura inglese. Evidentemente già in quegli anni Pignotti era convinto di dover affrontare un linguaggio internazionale, ma non mancano, come sì vedrà, i precisi accenni all’incubo del

nuovo dominio. Il testo è il n. 2, e il suo tema è la guerra: — Where” all this smoke coming from? The picture postcard Italy — all sun and sea with picturesque countryside and centuries old artistic treasure — is still here for tourist and romantic. But also here is another Italy. Against the background from the Atomic Molecular Series: the ivory silk dress with the cutaway top-cleaving to the newly loosened skirt. The missile is launched by remote control and cannot destroyed by action from the ground once, it blasts off. — Da dove viene tutto questo fumo? L'Italia delle cartoline illustrate — tutta sole e mare con le vedute pittoresche e i secolari tesori artistici — è ancora qui. Ma qui vi è anche un’altra Italia. Sullo sfondo ricavato dalla Serie Atomica Molecolare: la veste di seta color avorio con il bustino aderente sulla gonna nuovamente ampia. Il missile è telecomandato e una volta lanciato non può essere distrutto da alcuna azione da terra."!

Si avverte immediatamente di avere a che fare con un verso prosaico non preoccupato della metrica e nemmeno del ritmo, che non ha bisogno neanche di estendersi molto a lungo (come avviene però nel secondo verso, del tutto smisurato rispetto agli altri, e nell’ultimo) per distendersi in un tono pacato, direi proprio un tono distensivo, dove però risalta ancora di più un’inquietudine sottesa e in certo senso repressa.

Il Gruppo ‘63

L'assetto, a partire dalla domanda di apertura, è di tipo dialogico, anche se poi la domanda non riceve risposta e il dialogo è piuttosto un intreccio di voci. Più avanti nello stesso libro il medesimo tema verrà svolto attraverso gli stralci di una vera e propria conversazione; qui, comunque,

è ugualmente realizzata una atmosfera ovattata, potremmo dire il campo di un eufemismo generalizzato. In questo senso funziona ottimamente l’inserto tratto da una rivista di moda; non per niente questo ambito è sempre stato importante nel lavoro di Pignotti, fino alle più recenti esperienze della sua poesia visiva. Perché? Perché certamente la moda propone un mondo di bellezza esclusiva che sta agli antipodi degli orrori e delle brutture della guerra. Nel nostro caso la «veste di seta», il «bustino» e la «gonna» delineano una invitante mise femminile, un richiamo

sessuale però morbido e non aggressivo, dunque un rifugio accogliente. Tuttavia sappiamo bene che la moda e la guerra non sono così agli antipodi come sembra: non solo c’è la guerra della moda (la concorrenza spietata), ma c’è un sotterraneo collegamento che recentemente Rodriguez esemplificava nel nome del “bikini”, il costume da bagno “esplosivo” che deriva dall’atollo in cui si conducevano esperimenti nucleari. Dunque, la guerra non c’è. Però c'è il suo sintomo, un fumo piuttosto ingente tanto da costringere alla domanda iniziale. È proprio questo sintomo che viene poi ricoperto dalle “belle apparenze” dell’abito, per ritornare a galla — vero ritorno del rimosso o del represso — nell’ultimo verso. La moda funge allora da diversivo, ma anche, altrettanto certamente, da stramiamento. E lo straniamento c’è anche nella prospettiva del testo che, essendo scritto in prima stesura in inglese vede l’Italia come la vedono gli stranieri, luogo solare e pittoresco detentore dei maggiori tesori dell’arte. Già in quel punto (in quel verso lungo fatto di due frasi e di un inciso), l’espressione convenzionale si scontra con una avversativa («Ma vi è anche un’altra Italia») che apre uno spiraglio critico e demistificante. Per arrivare alla constatazione finale sul funzionamento del missile, che propriamente non risponde all’interrogativo di partenza, ma che certo afferma una condizione belligerante. Potrebbe essere semplicemente la spiegazione tecnica di un esperto su di un’arma non ancora impiegata, però quella esposizione non è per niente tranquillizzante, poiché ci dice che il missile «una volta lanciato» non si può fermare. È l’incubo atomico, il famoso pulsante rosso che potrebbe 84

4. Undici testi sperimentali

produrre reazioni a catena. Il discorso è impersonale e questo aggiunge la preoccupazione per un mondo di macchine che sembrano ormai agire da sole, senza bisogno e anzi senza consentire interventi umani. E importante sottolineare l’ironia. Nel senso che l’autore non si esprime negli enunciati del testo, come vorrebbe il mito della poesia-confessione individuale. L'autore sì esprime attraverso gli enunciati. Non ci parla allora della sua anima e della sua interiorità, nemmeno del suo vissuto, ma parla al secondo grado, utilizzando parole di altri e toccando problemi comuni. Ha nondimeno certamente una posizione che deve essere desunta con attenzione dalla disposizione degli elementi.

ANTONIO PORTA

Antonio Porta, al momento della inclusione nella antologia dei Novissimi, era uno degli autori più giovani. La sua prima poesia è fortemente legata all’emersione dei materiali inconsci e questo rimanda alla poetica del surrealismo. Si può parlare, come vedremo tra poco, di tematica erotica e di una particolare crudeltà delle immagini, coinvolte in un ritmo ossessivo e avvolgente. Presenterò qui un testo ben esemplificativo di Porta che è il componimento intitolato Aprire. Questo testo, inserito nei Novissimi (dove viene annotato dal curatore Alfredo Giuliani), è databile tra 11 1960 e il 1961, x

poi si legge sia in Aprire (1964), che in / rapporti (1966). E articolato in sette sezioni: I Dietro la porta nulla, dietro la tenda,

l’impronta impressa sulla parete, sotto, l’auto, la finestra, si ferma, dietro la tenda, un vento che la scuote, sul soffitto nero

una macchia più oscura, impronta della mano, alzandosi si è appoggiato, nulla, premendo, un fazzoletto di seta, il lampadario oscilla, un nodo, la luce, macchia d’inchiostro,

sul pavimento, sopra la tenda, la paglietta che raschia, sul pavimento gocce di sudore, alzandosi, la macchia non scompare, dietro la tenda,

N

Il Gruppo ‘63

la seta nera del fazzoletto, luccica sul soffitto, la mano sì appoggia, il fuoco nella mano,

sulla poltrona un nodo di seta, luccica, ferita, ora il sangue sulla parete,

la seta del fazzoletto agita una mano.

II Le calze infila, nere, e sfila, con i denti, la spaccata, il doppio salto, in un istante, la calzamaglia,

all’indietro, capriola, poi la spaccata, i seni premono il pavimento, dietro i capelli, dietro la porta, non c'è, c'è il salto all’indietro, le cuciture,

l'impronta della mano, all’indietro, sul soffitto, la ruota, delle gambe e delle braccia, di fianco, dei seni, gli occhi, bianchi, contro il soffitto,

dietro la porta, calze di seta appese, la capriola.

II Perché la tenda scuote, si è alzato, il vento, nello spiraglio la luce, il buio, dietro la tenda c’è, la notte, il giorno, nei canali le barche, in gruppo, i quieti canali, navigano, cariche di sabbia, sotto i ponti, è mattina, il ferro dei passi, remi e motori,

ì passi sulla sabbia, il vento sulla sabbia, le tende sollevano i lembi, perché è notte,

giorno di vento, di pioggia sul mare, dietro la porta il mare, la tenda si riempie di sabbia, di calze, di pioggia, appese, sporche di sangue.

IV La punta, la finestra alta, c’era vento, sì è alzato adagio, stride, in un istante, ovale, un foro nella parete, con la mano, in frantumi, l’ovale del vetro, sulle foglie, è notte, mattina, fitta, densa, chiara,

di sabbia, di diamante, corre sulla spiaggia, alzato e corso, la mano premuta, a lungo, fermo, contro il vetro, la fronte, sul, il vetro sulla mattina, premette, oscura, la mano affonda, nella terra, nel vetro, nel ventre,

4. Undici testi sperimentali la fronte di vetro, nubi di sabbia, nella tenda, ventre lacerato, dietro la porta.

V Ruota delle gambe, la tela sbatte nel vento, quell'uomo, le gambe aderiscono alla corsa, la corda si flette, verso il molo, sulla sabbia, sopra le reti, asciugano, le scarpe di tela, il molo di cemento, battono la corsa,

non c’è che mare, sempre più oscuro, il cemento, nella tenda, sfilava le calze con i denti, la punta, ha premuto un istante, a lungo, le calze distese sull’acqua, sul ventre.

VI Di là, stringe la maniglia, verso,

non c'è, né certezza, né uscita, sulla parete,

l’orecchio, poi aprire, un’incerta, non si apre, risposta, le chiavi tra le dita, il ventre aperto, la mano sul ventre, trema sulle foglie,

di corsa, sulla sabbia, punta della lama,

il figlio, sotto la scrivania, dorme nella stanza.

VII Il corpo sullo scoglio, l'occhio cieco, il sole, il muro, dormiva, il capo sul libro, la notte sul mare,

dietro la finestra gli uccelli, il sole nella tenda,

l’occhio più oscuro, il taglio nel ventre, sotto l'impronta, dietro la tenda, la fine, aprire, nel muro,

un foro, ventre disseccato, la porta chiusa,

la porta si apre, si chiude, ventre premuto, che apre, muro, notte, porta.!

La prima cosa da rilevare è il ritmo incalzante di questa poesia ottenuto attraverso l’unica punteggiatura delle virgole, che dà al testo intero l’andamento dell’elencazione: un accostamento continuo di elementi che sembrano avere tutti la medesima importanza. In realtà, alcuni elementi risaltano di più in quanto vengono ripetuti nel corso del testo, che quindi si basa sulla tecnica della ripresa. Si potrebbe fare una statistica:

Il Gruppo ‘63

se non sbaglio, “tenda” ritorna 11 volte, “porta” 8, “sabbia” 8, “ventre”

7. Questi ritorni, però non sono affatto preordinati e regolari. Semmai, Porta tende a far tornare le sue parole-chiave in fine di verso (la statistica qui dice: “tenda” 4 volte, “porta” 3, “sabbia” 3, “mano” 3, “soffitto” 3,

ecc.): e questo ritornare in fine di verso ricorda, sia pur molto vagamente in assenza di sedi prestabilite, la tradizione della sestina, con le sue parole-rima. Aprire è dunque un testo adattissimo a mostrare quell’aspetto dello sperimentalismo che sta nella costruzione di una costellazione semantica. Dobbiamo infatti cercare di stabilire dei rapporti (del resto il primo libro di Porta si intitolerà / rapporti) tra diverse linee o suggestioni verbali che si intrecciano. È evidente, intanto, che i materiali “interni” che il poeta in questo caso recupera, portano all’emersione del rimosso erotico: forse in questa «stanza» si è svolta una scena di seduzione, «uno strip-tease», commenta Giuliani, come farebbero pensare quelle calze della II strofa,

messe e tolte, addirittura con i denti. Ma uno spogliarello accompagnato da una danza molto acrobatica, con tanto di «capriola» e «spaccata». E forse un Eros accompagnato dal suo contrario, Thanatos, nella forma di un delitto, suggerito dal «sangue» (il «sangue sulla parete» della I strofa; poi le calze «sporche di sangue», nella III) e ancora dalla dama» e dal «taglio nel ventre».

A meno che, ancora, non si tratti di un parto,

da cui sarebbe nato quel figlio che — altrimenti altamente incongruo — dorme «sotto la scrivania», nella VI strofa. Per qualsiasi soluzione si opti, è sicura la crudeltà di questo primo Porta che seziona il corpo nelle sue parti: «mano», «seni», «gambe», «braccia», «capelli», poi il «ventre», in una riduzione dell’umano alla sua sineddoche.

Dove l’unico

modo per raggiungere l’altro sembra il tatto, o meglio la “pressione” (il premere, l'impronta: questa potrebbe ricondurci all’isotopia “delitto”). Oppure, non resta che rimanere a distanza con la fissità allucinata dello sguardo. Infatti molto di questo testo riconduce alla École du regard e al voyeurismo della società-spettacolo. Naturalmente, quanto più incentivato lo sguardo e tanto più risulterà problematico: lo si vede dagli «occhi bianchi» (II strofa) «l’occhio cieco» (VII) «l'occhio più oscuro» (sempre VII). Se da una parte ci sono evidenze fin troppo visibili (subito alla I strofa, quella maledetta macchia che «non scompare»), i protagonisti della poesia sono proprio loro, i diaframmi che ostacolano il raggiungi88

4. Undici testi sperimentali

mento dell’oggetto: la «tenda», il «vetro», il «muro». C’è un problema di come accedere “dietro” le cose, di come penetrarle (insieme nell’eros e nella conoscenza) ossia — se interpreto bene — di come raggiungere il loro senso. Ecco allora spiegato il rituale della ripetizione: le cose sono segnali oscuri e solo ripetendole in nuovi apparentamenti è possibile sperare di “aprire” il loro involucro e di carpirne il segreto. Di qui l’esigenza di rompere la superficie (lo «spiraglio», III strofa; il «foro», VII strofa); e di qui anche l’importanza assunta dai terminichiave «tenda» e soprattutto «porta», come passaggi tra gli ambienti che possono concedere accesso. Ma si noti che «porta» è poi proprio lo pseudonimo assunto dall’autore come cognome: è dunque un passaggio attraverso se stesso, oppure soltanto una allusione ironica? Alla fine predomina la dialettica tra la prigione e l'apertura, lo «spiraglio», il «foro». In ciò vari punti di incertezza: tra il buio e la luce; nell’ora del giorno tra la notte e la mattina; nello spazio, tra l’ambiente della stanza e la scena marina accennata da diversi particolari. Per altro con inquietanti corrispondenze: le «reti» che trovano pacificamente stese al sole nella V strofa, potrebbero collegarsi, per associazione, con le provocanti «cuciture» della calze nella II strofa (viene il sospetto che siano calze “a rete”...) — del resto la rete non è altro che la costellativa struttura del testo sperimentale, che si costituisce di una trama fittissima di richiami. Rimane un flessibile e sfrangiato impianto onirico, in cui possiamo anche pensare che la chiave («le chiavi tra le dita») stia nel particolare che non viene ripetuto come ad esempio il figlio addormentato «sotto la scrivania» e che potrebbe essere l’effetto dell’atto sessuale, forse desiderato, anticipato in contemporanea con la scena. Qual è il senso? Fin dall’inizio, Porta mette in gioco la parola «nulla»; poi, dalla II strofa, fa entrare in campo il «vento»; infine, proprio quando la «maniglia» sembrerebbe garantire l’accesso alla verità, ecco allora che dice «non c'è, né certezza,

né uscita» e aggiunge, mettendoci a zeppa un iperbato negativo: «un’incerta, non si apre, risposta». Potremmo segnalare gli ossimori e le contraddizioni: infila/sfila; non c’è/c’è; la luce/il buio; è mattina/è notte:

si apre/si chiude — che potrebbe anche soltanto mimare il ritmo di un atto sessuale, ma che certamente mette in crisi il corretto regime di senso.

89

Il Gruppo ‘63

AMELIA ROSSELLI

Amelia Rosselli ha partecipato solo tangenzialmente alla attività del Gruppo ‘63 e il suo sperimentalismo potrebbe essere definito “spontaneo”, non derivando da assunti programmatici, ma piuttosto da una

grande attenzione e sensibilità per gli sviluppi della poesia moderna, non solo italiana (molti influssi anche dall’area anglosassone). Se però volessimo confrontare la scrittura della Rosselli con le linee sperimentali dovremmo concentrarci sulla domanda: in cosa consiste lo sperimentalismo della Rosselli? È uno sperimentalismo in cui lo stato di incertezza della poesia è spinto al massimo: in Amelia Rosselli, a trovarsi in stato di instabilità non sono soltanto gli ambiti e i registri linguistici, ma so-

prattutto l’ethos, lo stigma positivo o negativo delle immagini verbali. Ciò che fa riconoscere questa poesia è proprio la rapidità dell’escursione (detto in senso analogo a “escursione termica”) tra l’accendersi e l’oscurarsi dell’immagine. Nascita e morte delle immagini si succedono quasi istantaneamente. Si potrebbe parlare di un processo di decadimento fulminante. A modo suo, la Rosselli partecipa al periodo dello sperimentalismo e della nuova avanguardia degli anni Sessanta, nel senso che partecipa alla “negazione della comunicazione”. Ma, ripeto: a modo suo. Il che vuol dire senza una preconcetta dichiarazione di falsità delle immagini poetiche. Anzi, al contrario, attraverso una attribuzione di fiducia: sennonché le immagini “positive” (portatrici di valori di pienezza e di felicità) sono talmente investite di senso da non reggere al peso; e si ritrovano perciò — solo un attimo dopo — oscurate e opache, caricate di connotazioni “negative”. Nessuna immagine resiste a questo “ritmo sterminatore”. L'esempio che esamino adesso è un testo dei primi anni Sessanta, tratto dal volume Vanazioni belliche, precisamente dalla sezione Variazioni (datata 1960-1961): Tutto il mondo è vedovo se è vero che tu cammini ancora tutto Il mondo è vedovo se è vero! Tutto il mondo è vero se è vero che tu cammini ancora, tutto il mondo è vedovo se tu non muori! Tutto il mondo è mio se è vero che tu non sei vivo ma solo

90

4. Undici testi sperimentali

una lanterna per i miei occhi obliqui. Cieca rimasi dalla tua nascita e l’importanza del nuovo giorno non è che notte per la tua distanza. Cieca sono ché tu cammini ancora! cieca sono che tu cammini e il mondo è vedovo e il mondo è cieco se tu cammini ancora aggrappato ai miei occhi celestiali.!*

La struttura di questa poesia presenta ripetizioni di interi blocchi con minime

variazioni:

«tutto il mondo

è...», «se tu cammini»,

«cieca

sono»... Da un lato queste sequenze reiterate servono a garantire il ritmo del testo; si tenga conto che la Rosselli sperimenta una metrica rigorosamente “spaziale”, ossia legata non al numero delle sillabe, ma allo spazio disponibile nella pagina (come teorizza nel suo scritto di poetica Spazi metrici ); quindi per distinguere il testo poetico dalla mera prosa, la ritmicità deve, allora, essere assicurata per un’altra via, che è quella delle

strutture sintattiche. Ciò produce una sorta di schema, i cui punti di avvio non è detto che debbano coincidere con l’inizio del verso (poiché il verso è obbligato ad arrivare al margine del foglio, la sua fine è sempre casuale rispetto al periodo), ma comunque condannato a continue e reiterate ripartenze. Mentre vari altri testi della stessa raccolta sì basano sullo schema “se”... “allora”, qui lo schema è leggermente diverso, del tipo “questo è, se...”, trasformato nel corso del testo in “questo è (penché...?. Tanto più, qui, sovrapponendosi il motivo di un rapporto con un “tu”, quale ci aspetteremmo di trovare in una poesia d’amore: senonché, invece, l’amore sembra venir messo davvero al contrario. La frase ritornante «Tutto il mondo è vedovo», indica immediatamente

uno stato universale di vedovanza, quindi di perdita dell'oggetto amato. E però, questa “vedovanza globale” è motivata esattamente al contrario di come ci si potrebbe aspettare: la versione plausibile sarebbe “il mondo è vedovo se tu non ci sei”, invece è il fatto che «tu cammini ancora» a

rendere privativa l’esistenza. Si potrebbe riflettere che non si tratta di “esserci”, ma di “camminare” e quindi questo potrebbe diventare (cammina, cammina...) la causa di una mancanza. Tuttavia la mia impressione è che piuttosto la Rosselli voglia rovesciare come un guanto 1 rapporti tra positivo e negativo: «tu cammini ancora» e quindi il mondo dovrebbe essere felice, invece è miseramente cupo! I passaggi successivi non sono meno anti-logici. «Tutto il mondo / è 91

Il Gruppo ‘63

vero se è vero» tiene molto della tautologia; «tutto il mondo è vedovo se tu non muori» sembra pervenire nei dipressi dell’ossimoro (e sembra proprio aver gettato lì quel “non” come una sorta di lapsus). Troviamo poi una variante che fa finalmente quadrare il senso, o almeno sembrerebbe: «Tutto il mondo / è mio se è vero che tu non sei vivo», arrivando

a un tale punto di antagonismo che (o io o tu) solo l’estinzione fa dell’intero mondo una proprietà del soggetto, quasi il dualismo fosse un ostacolo che andasse rimosso. E però tutto ancora si ribalta, perché quel negativo (e proprio necativo) tuttavia positivo, si trasforma di nuovo e il tu” prende il ruolo di guida, e pure luminosa (una «lanterna»): il motivo della luce è accompagnato da quello degli occhi, che in questa prima comparsa sono tuttavia «obliqui», sfuggono, forse deragliano dallo stesso percorso assegnato loro. Ma ecco il rovesciarsi del positivo nel negativo: dagli occhi alla cecità. «Cieca rimasi», «cieca sono», la visione del soggetto è sbarrata ed è destinata a contagiare tutto l’universo, che diventa «cieco». Le congiunzioni ossimoriche si sprecano, a questo punto del testo: la «nascita» dell’altro (la nascita è un “venire alla luce”) coincide con la cecità dell’io; il «muovo giorno» coincide con la «notte»; nella im(43

magine finale, sono ancora gli occhi, divenuti molto grandi, forse come

lanterne, a occupare l’intera scena, mentre recano il povero “tu” «aggrappato» faticosamente («ancora aggrappato ai miei occhi celestiali») e ancora camminante, per oltraggio alla verosimiglianza (come si fa a camminare aggrappati a degli occhi?). A parte l'elemento di verità addirittura autobiografica, investito però di una valenza fin troppo sublimante (gli occhi celesti di Amelia, divenuti “celestiali”, paradisiaci, in un testo che addensa alquante inquietudini), bisognerebbe soppesare per bene quell’“aggrapparsi”: il “tu” aggrappato infatti indicherebbe un tentativo disperato di non essere abbandonato, oppure una malevola volontà di danneggiamento? Ovviamente l'ambiguità è indecidibile e voluta. Sperimentalismo, dunque, non fosse altro che per la strutturazione ritmica e la difficoltà del significato. Ma soprattutto, direi, per l’impianto: infatti, il testo sembra negare diritto di sussistenza all’altro, si

mette in contatto e si rivolge a un “tu” la cui continuità (il suo “passo” che nulla riesce ad arrestare) è registrata come deleteria. E non solo per chi parla, ma per l’intero mondo! E tuttavia, il “tu” rimane tale per tutto 92

4. Undici testi sperimentali

il testo e non viene mai trasformato in un “egli”, tanto che — formalmente — noi lettori non siamo che gli spettatori di un dialogo doloroso che non ci riguarda. I rovesciamenti del positivo nel negativo e viceversa, fanno sì che a un certo punto non riusciamo più bene neppure ad assegnare le parti, non siamo più in grado di decidere in maniera stabile e certa se sia un bene o un male per il mondo “essere vedovo” (anzi, tutta la poesia sembrerebbe dimostrare che “vedovo è meglio”!), oppure se sia un bene o un male per il “tu” continuare a camminare, senza troppo preoccuparsi né del mondo, né della vista dell’io. Insomma, il grande tema romantico (e poi portato alla base teorica della decostruzione di de Man) di visione e cecità, si applica in questa poesia della Rosselli non più come prerogativa di un atteggiamento sopraumano, ma come l’esito di una assoluta convertibilità del linguaggio poetico che, nel mentre si appoggia su modelli sintattici insistiti, non trova però il modo di conservare la propria tonalità semantica, senza trovarla ad oscillare nel rimbalzo continuo delle antitesi.

EDOARDO SANGUINETI

Certamente Edoardo Sanguineti è il teorico più importante del Gruppo ’63, e di questo ho già parlato in un intero capitolo. Fondamentale per la poesia novissima che ha il suo punto di avvio nel suo Laborntus, l’esemplarità della operazione di Sanguineti sta nell’aver portato avanti, nello stesso gesto, la massima apertura all’inconscio e la massima sorveglianza della autoconsapevolezza, in un testo dove il personale e l’impersonale, il privato e il pubblico, si intersecano continuamente con un effetto critico, ben calibrato verso il sabotaggio del linguaggio poetico costituito. Per quanto riguarda il testo da analizzare, la mia scelta è caduta su un brano abbastanza recente (è datato

1996) e quindi distante dalle

esperienze dei Novissimi e del Gruppo ’63. Mi interessava far emergere, nel caso di questo autore ormai consolidato nella storia della letteratura,

il fatto che la sua “sperimentazione” non è limitata ad una sola stagione, ma si è prolungata nel tempo, senza pentimenti, semmai portando

Il Gruppo ‘63

avanti e adattando alle nuove situazioni i motivi di fondo. In un modo quanto mai evidente, la poesia di Sanguineti, dopo la mescidazione psico-culturale di Laborintus, ha progressivamente riportato il suo obiettivo sull’io dell’autore, però assolutamente senza alcun rientro nei parametri consueti della lirica. Ma come, si dirà, un testo che parla di un

“io” preso nelle sue situazioni quotidiane non è il modello più ovvio di poesia? Fatto è che Sanguineti vuole fare i conti proprio con quanto di più scontato ha il “poetese” (come lui lo chiama) per colpirlo alle radici, e perciò passa attraverso gli episodi di un suo reiterato diario o epistolario in versi: ma in maniera tale da sfigurare, dirompere e stravolgere — come avanguardia comanda — i tratti che siamo soliti attribuire ai termini in questione. Non è soltanto per il procedimento “formale” che immette i frammenti del vissuto in una costruzione desultoria, in una sintassi della discontinuità. È anche affare della “forma del contenuto”, che vede il

materiale aneddotico ricondotto alla riflessione “larga” di una analisi materialistica e 1°“10”° medesimo investito dagli scoronamenti della parodia. Ci troviamo dunque a che fare con una operazione a più versanti, che presenta da un lato un aspetto iperletterario, articolato in una retorica della ripetizione (accelerata e sovraccarica), che si scontra con una

retorica dell’interruzione (basata su un uso abnorme dell’inciso); dall’altro lato, un contenuto “cosale” che si articola in una retorica del

“dato”, ovvero della precisione meticolosa del particolare (sarebbe, a ben vedere, una non-retorica) che si scontra con una retorica del giudizio, di continuo rivolta verso l’‘“io” stesso, vale a dire una retorica del-

l’autocritica. Sanguineti ha messo tutto in chiaro, fino dalla metà degli anni Settanta, in un componimento delle Postkarten (il n. 49, datato 1976), dove

è depositata una esplicita poetica in versi, in forma di ricetta: «per preparare una poesia, si prende “un piccolo fatto vero” (possibilmente / fresco di giornata)», ecc. Una partenza che si focalizza su un elemento oggettuale e oggettivo, ma “piccolo” e nello stesso tempo però capace di farsi segno di qualcosa che interessa tutti (dunque un frammento disponibile all’allegoria proposta da Benjamin). Un elemento, poi, da trattare con un corredo di accorgimenti retorici (anche abbondanti, in eccesso), che lo distraggono da quella normalità in cui subito il “fatto” 94

4. Undici testi sperimentali

aneddotico verrebbe a scomparire in quanto catturato nella giustificazione soggettiva (il vissuto che racconto perché è successo a me, proprio a me, e che quindi fa capire cosa sono io: invece, in Sanguineti, serve al contrario, per decostruire la soggettività data). Serve all’elaborazione di uno spostamento: «questa specie di lavoro: mettere parole come / in COTSIVO, e tra virgolette: e sforzarsi di farle memorabili, come tante bat-

tute argute / e brevi (....) / (come sono gli a capo, le allitterazioni, e, poniamo, le solite metafore): / (che vengono a significare, poi, nell’in-

sieme: / attento, o tu che leggi, e manda a mente):». Il “fatto” per essere “vero” ha da essere esperito direttamente e appartenere perciò alla sfera dell’‘“i0”, e tale “o” è quindi la “cosa nel testo”, ma proprio per questo non si salva dall’essere fatto a pezzi, sia nel senso che sì compone-scom-

pone di una miriade di contingenze sempre rinnovabili (e dunque la poesia che lo riguarda sarà ininterrotta), sia nel senso che l’identità consolidata è quel che ci vuole per la critica, convergendovi al buon bisogno insieme critica marxista dell’ideologia e psicoanalisi. Il testo che prendo ora in esame è il 12° della raccolta Cose (datato novembre 1996): penso che accadde a Vieste, la prima volta, a cena (ma era già forse una replica, invece), quando, esibendo ai convitati la mia carta d’identità (AA3004276), ho

[pronunciato l’encomio (un po’ luttuoso) della borghesia capitalistica, spiegando che quella, in sostanza (che pure, va bene, d’accordo, ci scheda), ci assicurò la patente dell’ego: e da allora, da quando sono un citoyen bourgeois, i0, come tutti, 10 sono un [io me stesso (io che ero un niente, un tempo, un accidente): così è che ho avuto un’anima civile, laica, per cui possiamo noi tutti, individuati individui individuabili, avanzarci ulteriori pretese argomentate bene (con qualche immortale principio formale): lo so, però, che è la sostanza che mi manca (ci manca): (e a me mi manca, così, anche all’io, e all’es mio, mio superio);

Insomma, qui davvero la poesia è andata a stanare l’io là dove si sente

più al sicuro, nel documento personale della “carta d’identità”. I dati sono estremamente precisi, c'è tanto di numero, anche se poi — come

spesso avviene nella sanguinetiana poesia-diario, che ci sono particolari esattissimi e altri omessi — la circostanza è in qualche modo dubbia, e

Il Gruppo ‘63

forse l’aneddoto aveva avuto già un precedente. Però l’aneddoto è certo e certificato: posso testimoniare personalmente che Sanguineti è stato a Vieste e proprio in occasione di un incontro sul tema dell’avanguardia e che l’incontro si è concluso con un’ottima cena. Durante la cena, ma-

terialisticamente mischiato con il cibo, il discorso può essere caduto sull'identità. L’io dunque c’è, nella sua situazione concreta e individualizzata, nel suo vichiano ‘fatto vero”, però il testo non si oc-

cupa per niente delle risonanze interiori: il testo invece, attraverso l’immagine del “documento” e il gesto teatrale della sua esibizione, si trasforma nel quadro tutto teorico di una “nozione di identità”. L’idea, cioè, decisamente costruttivistica, che il nostro “io” è un prodotto so-

ciale; che la nostra più propria interiorità non ci appartiene o non del tutto; a spremere bene si incontra non la cosiddetta “essenza”, ma ciò che qui si chiama “mancanza di sostanza”. L’“io” si compone di parti solo parzialmente accordate e accordabili (e qui ancora Marx e Freud sì alleano). Ma l’argomentazione si allarga; essa diventa addirittura un paradossale “elogio della borghesia”, e paradossale perché invece, data la collocazione dell’autore a sinistra, ci si aspetterebbe una critica severissima. Ma non tanto paradossale, però. L'argomento di Sanguineti è esattamente quello del Manifesto comunista di Marx e Engles: va dato atto alla borghesia di avere messo in moto un processo liberatorio, e tutto quello che la borghesia ha scardinato non va affatto rimpianto o restaurato, sì tratta, semmai, di spingere il processo più avanti possibile, per ancora più libertà, fino all’ulteriore rovesciamento. Nel testo di Cose, viene riconosciuto il progresso del passaggio dalla dipendenza del corpo stesso dal Potere (divino o umano) al riconoscimento della persona, che si materializza nel documento, nella «patente dell’ego». Naturalmente, non c'è nessun pentitismo e nessun opportunismo dell’ultim’ora: l’«encomio» è dialettico e contempla accanto a sé la critica (il documento perviene, dall’altro lato, alla pratica di controllo, che limita quella libertà che il sistema aveva concesso con l’altra mano); l’«encomio» è «un po

luttuoso», perché la stessa classe dominante oggi non se la passa bene, alle prese con la macchina da lei creata, che le sta sfuggendo di mano. Il testo ha dunque un sostenutissimo tenore argomentativo (una di quelle “grandi narrazioni” che il postmoderno sconsigliava) sia pur attuato al modo di un gestus brechtiano. Tuttavia il suo andamento non 96

4. Undici testi sperimentali

corrisponde affatto alla trasparenza del contenuto, ma possiede un “alto tasso di figuralità”, un impianto di sperimentazione formale rilevante. Le sonorità dei significanti, la frammentazione della sintassi (i più noti “sanguinetemi”, compreso l’uso dei due punti) collaborano a anatomizzare il significato. Il materialismo teorico si riflette nello scatenamento della materia delle parole, nella linea di fuga della sonorità rimbalzante e (secondo vuole l’autore) “acrobatica”. Rime interne (sia pure, qui, un

po’ meno del solito, e però: niente/accidente; immortale/formale); as-

sonanze (sostanza/manca); figure etimologiche, come quella triplice «individuati individui individuabili». Nella parte finale, la questione dell’identità, declinata, sì, secondo la famosa tripartizione della topica freudiana (10/es/superio), viene accompagnata da alcuni fenomeni linguistici: dal linguaggio basso-parlato di «a me mi» (che già funge da raddoppio, nel mentre conduce in una zona meno controllata del sesso dell’identità) nient'altro che una sorta di eco («anche all’i0, e all’es mio, mio superio»). Quanto alle parentesi, oltre a contenere 1 risvolti del discorso, oppure addirittura la massima delle prove (il numero della carta), tendono poi a identificarsi proprio nel finale, con il caso, persino,

di una parentesi dopo parentesi — proprio nel momento in cui ci aspetteremmo dal discorso argomentante la sua bella frase di chiusura. Ma poiché la chiusura è precisamente l’accorgersi della scissione interna, niente meglio di una scissione sintattica può andar bene in tale situazione. La conclusione, come è ormai di prammatica in questo autore,

spetta ai due punti: i due punti sono il segno di un discorso che non conclude, sono un rinvio al prossimo testo, quello che ancora non è stato scritto. Il testo ha la sua verità “fuori di sé”. Per questo la poesia dovrà ogni volta, ricominciare di nuovo. Il due punti sono il segnale di uno sperimentalismo ininterrotto.

ADRIANO SPATOLA Adriano Spatola, anch’egli appartenente al gruppo parasurrealista di «Malebolge», si avvicina alla pratica dell’avanguardia storica per il suo verso lungo o lunghissimo, che sembra generato in stato di trance. In se-

Il Gruppo ‘63

guito, poi, Spatola continuerà a portare avanti la sperimentazione, anche dopo la fine ufficiale del Gruppo ’63, allargandosi in altre dire-

zioni, dalla poesia sonora e performativa alla poesia concreta e visiva. Negli anni Sessanta, l’opera principale di poesia (Spatola scrisse anche un romanzo sperimentale, L’oblò), è L'ebreo negro, che contiene diversi testi

interessanti. Tra questi, ho scelto L'ora dell’aperitvo, per ragioni di spazio (è uno dei più brevi), ma non solo: infatti, questo testo ci dà il polso della scrittura di Spatola, con il verso “lungo come un respiro”: Il questa immagine di pianeta disabitato del cavallo impazzito con le zampe affondate fino ai garretti nella crosta terrestre che bruca la faccia del cadavere affiorante dalla gelatina immagine a colori nel vecchio cimitero di montagna in luce di tramonto fiume giù nella valle sugli alberi lo strepito le larve nelle radici succhiano la terra granulosa la linfa granulosa dalla spina dorsale ecco come stridono lì contro i denti questi frammenti di corteccia cerebrale di conio del ventricolo di cornea

DA la mano è il peso vivo al termine del braccio in musica di teste che battono e risuonano e il talamo le fibre ossute dita sopra la tastiera ossute, nude come ossuti nuraghi, colore triturato sopra l’acqua e vele — punte di coltello che fendono la tela

ah spasimo dell'angelo che danza sopra i carboni ardenti ah mimica di ruote che triturano i denti al suicida in stazione ma, giorni dentro giorni, slittava d’ala il gabbiano ferito dal fumo dei forni

per la numerazione il conto che non torna l’etichettamento dei cadaveri — lascito per il museo, testi da consultare gli storici, li vedi: con gli occhiali, le maschere sul viso: anestetizzati

compiendo con gesti misurati le ovvie operazioni, sacchi vuoti dentro il camice bianco

98

4. Undici testi sperimentali 10 sono questa storia, carne inscatolata, cerebro dipinto esposto sulla cattedra, con le mie zone corticali e i segni del pensiero e la memoria e il tempo e la violenza della compressione

3ì se questo che tu vedi qui seduto è uomo carne spirito pesce dentro terra ciò che il suo corpo contiene si vede alla luce del sole è vetro che si calpesta

e linguaggio e funzione. Wernicke! la sua regione lesa ma silenzio e rigide strutture, la spina che trafigge — il colore del mare è la materia che vedi evaporare e il vento è la fiamma che divampa nel pallido e giallo cortile, il vento ritmicamente viene col vento da occidente il suono del tamburo percosso, dello schiaffo che il viso ripetuto ricevendo si gonfia viene col vento il deficit, l’errore nel bilancio: col fuoco nella stiva tradire la bandiera

zampe stecchite della nave gabbiano alla deriva sughero rosso che vigila la preda stando in superficie

Li già, che l’ora che segna l’orologio è l’ora dell’aperitivo: lo riceviamo nel fuso bicchiere dal barman carbonizzato all’ora che segna l’orologio che è l’ora del grande aperitivo, del grande comune preludio all’ultimo pasto spezzaci il pane, rimescola il grano bruciato al giro del sole: al giro del sole girano i fiori dentro la serra

far dell’umana humanitas il fiore acceso la perduta speranza il giro sbagliato della roulette

jo tutto così messo per traverso, una ragione sopra l’altra e in mezzo: «deciditi, decidi»!°

Il discorso su Spatola verrà ripreso nel capitolo 6. Sì, ma intanto vediamo come procede questa proposta di ripresa distanziata e aggiornata del surrealismo: allora diciamo che, secondo una tecnica di montaggio 99

Il Gruppo ‘63

che fa susseguire stringhe fortemente disomogenee, Spatola mette in opera vari livelli dell’immaginario. In primo luogo, è evidente fin da subito l’immaginario nero della distopia, rappresentato in questo periodo dall’incubo della bomba atomica. Non a caso, la raccolta ospita un altro testo esplicitamente intitolato A/amogordo 1945, dal luogo e dalla data del primo esperimento nucleare. Qui, è proprio l’ora dell’aperitvo a essere falcidiata dall’esplosione se, nella sezione 4, la bevanda è servita da un «bar-

man carbonizzato». Ma è già subito all’inizio un «pianeta disabitato», animali morti, cadaveri qua e là, di cui si perde il conto. Forse addirittura, l’aperitivo non è tanto un gesto di ripetizione quotidiana, bensì il preludio di un definitivo «ultimo pasto» (sezione 4). Le immagini “peggiorative” interferiscono dunque con il benessere borghese promesso dal titolo; l’aperitivo, infatti, è rito concesso agli abbienti, allo scopo di predisporre lo stomaco a una migliore digestione del cibo — ma qui il cibo va decisamente per traverso. Dove ci siano immagini idilliache (come la «luce di tramonto» della sezione 1) vengono subito sostituite ed erose dal negativo. Le figure dell’establishment borghese hanno tratti caricaturali e grotteschi alla Ensor: così gli intellettuali della sezione 2, gli storici, i cui tipici «occhiali» si convertono in intere «maschere», e i cui gesti «misurati» diventano una sorta di “anestesia” della realtà, i camici fattisi «sacchi

vuoti». Un altro livello dell'immaginario è l'immaginazione del proprio corpo, la mano, le dita, soprattutto il cervello, in particolare l’area dell’emis-

sione linguistica (l’area di Wernicke, citata con tanto di esclamativo nella sezione 3). Si tratta anche qui di una immaginazione negativa, di spossamento e di esproprio: nella sezione 2, appare un «cerebro dipinto esposto sulla cattedra, con le mie zone corticali», come esposto in una lezione di anatomia; poi, nella sezione 3, si esamina come «regione lesa»

proprio quella preposta al linguaggio. Dalla parte opposta di questa auto-estroflessione cerebrale, troviamo i messaggi paurosi del mondo esterno, tra cui la forza dirompente del vento, che porta la sostanza radioattiva, ma anche gli accidenti più normali del mercato-mondo (come «il deficit, l'errore nel bilancio»), nonché «un tamburo percosso», che fa pensare a ritmi tribali di società extra-occidentali. Tamburo=ritmo;

e la sequenza lunga spatoliana è collegabile con forme di espressione “primitiva”. 100

4. Undici testi sperimentali

Da notare, ancora, la sorte di alcuni esseri “volanti”: l’angelo (che po-

trebbe rappresentare un certo “angelismo” del surrealismo di marca bretoniana) si ritrova malcapitato a danzare sui «carboni ardenti», nella contrazione dello «spasimo»; dal canto suo il gabbiano (che potrebbe discendere direttamente dall’albatros di Baudelaire, in tal caso allegorema della poesia stessa) è per ben due volte in situazioni d'emergenza, prima «ferito» dalle esalazioni dei «forni» (nazisti?), poi successivamente «alla deriva». Non vola, dunque, questa immaginazione di secondo No-

vecento? Il poeta è un «manipolatore del fantasma» ormai ridotto a sua volta a spettro o anche solo a pagliaccio? Per la verità, la metafora di strada ne fa, ma non sembra arrivare in posti raccomandabili; là dove

troviamo metafore ardite sembrano rimandare a materie minerali e rigide, come le dita «nude come ossuti nuraghi» (tra l’altro qui con una sfumatura di pietrificazione ancestrale), oppure l’identificazione del corpo con il «vetro che si calpesta» (trasparenza asettica, ma soprattutto fragilità). Quando l'immaginazione si impenna in utopia, come nella sezione finale, dove in mezzo a luci solari ci scappa persino una evocazione evangelica («spezzaci il pane»), la metafora “euforica” de «l fiore acceso», che dovrebbe conchiudere l’ipotesi di un “umanesimo” sostenibile, viene subito accompagnata, per così dire “chiosata”, da correlati delusivi («la perduta speranza il giro sbagliato della roulette»). «La poesia può diventare una tensione pura», ha scritto Spatola. Effettivamente, qui, la tensione, il dislivello tra i diversi lacerti, la loro col-

lisione va alla grande. Per di più, nell’Ora dell’aperitvo, alcuni segnali metapoetici possono essere estratti dalle bizze dell’immaginazione: ad esempio, nella sezione 2, le «punte di coltello che fendono la tela» (forse

riprese dai “tagli” di Fontana) servono a indicare il procedimento di messa in crisi di qualsiasi immagine “rosea” e sublimante possa emergere dall’inconscio. Ma più ancora significativo è il finale: «io tutto così messo per traverso, una ragione sopra l’altra e in mezzo: “deciditi, decidi”». Questa frase ci conferma che è l’incertezza la cifra comune delle operazioni sperimentali. Ci notifica, però, anche, la posizione del soggetto: l’io non è più al centro, come nella poesia lirica tradizionale, ma non è neppure stato espunto dal testo; si trova, piuttosto messo “in mezzo”, quindi sottoposto alle opposte trazioni del linguaggio, 0, ancora meglio espresso, si trova messo «per traverso», posizione in cui si fa ca101

Il Gruppo ‘63

rico della lingua e della stessa rappresentazione di sé, ma nello stesso tempo le sente estranee (abbiamo visto quel cervello squadernato). Ed è da presumere che la sua operazione vada “per traverso” a qualcun altro. Infine, forse quell’invito a “decidersi” è rivolto particolarmente a noi: siamo noi a doverci decidere ad agire per far sì che le immagini apocalittiche non diventino realtà.

No te

' N. Balestrini, Come si agisce, Milano, Feltrinelli, 1963, p. 146. ? Ora in C. Costa, Cose che sono, parole che restano, Reggio Emilia, Diabasis, 1995, p. 21.

? Di questo importante teorico si può vedere, tradotto in italiano, il saggio Lezioni di sertttura, in AA. VV., Costellazioni, Roma, Lithos, 2006, in particolare p. 23.

*A. Giuliani, Introduzione a AA. VV., I novissimi, poesie per gli anni ’60, cit., p. XVI. ° A. Giuliani, // tautofono, Milano, Feltrinelli, 1969, p. 9. © Ivi, p. 73-74. G. Guglielmi, Panglosse blandimetis oramentis coeteris meretriciis, Milano, Feltrinelli, 1967 pp. 7-9. ® G. Niccolai, Harry

Bar e altre poesie 1969-1980, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 137-8.

° E. Pagliarani, La ballata di Rudi, Venezia, Marsilio 1995, pp. 22-4. (vi Ypxso: !! L. Pignotti, Parola per parola diversamente, Venezia, Marsilio, 1976. !° Vedi La guerra e la pace, ivi, p. 89. !5 A. Porta, / rapporti, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 87-93. '* A. Rosselli, Variazioni belliche, Roma, Fondazione Piazzolla, 1955, p. 187. ‘° E. Sanguineti, Cose, Napoli, Pironti, 1999, p. 31.

‘© A. Spatola, L’ebreo negro, Milano, All’insegna del Pesce d’oro, 1966, pp. 77-82.

E)

4. Undia testi sperimentali

Dall'alto e da sinistra: Alfredo Giuliani, Amelia Rosselli, Giulia Niccolai e Antonio Porta.

Il Gruppo ‘63

Elo Pagliarani.

104

CAPITOLO 5

La modernità radicale di Pagliarani

C'è una logica corrente che considera l'avanguardia come una lotta della forma contro il contenuto, e su questa base, cerca di strappare all’ambito avanguardistico quegli autori nei quali è riscontrabile e riconoscibile un trattamento dei contenuti: così accade spesso a Pagliarani di essere tirato fuori dalla poetica “novissima”, quasi depuratone e fattone salvo, riassorbito in più calme acque. Ma se s’intende l’avanguardia, come ho indicato nel primo capitolo, come lotta doppia nelle forme e nei contenuti, quella operazione di elisione viene a cadere e si tratta piuttosto di considerare dove e quanto il “senso comune” (formale e contenutistico insieme) venga intaccato e deformato. È quello che mi propongo di accertare riflettendo sul senso di una tecnica come quella del “montaggio”, che mi pare essenziale a caratterizzare il versante della modernità radicale, nozione ampia e alternativa al postmoderno, che corrisponde per molti versi a quella di avanguardia. È vero, Pagliarani può anche essere con ragione caratterizzato da altri fattori: ad esempio, dall’atteggiamento del narratore in versi che, nella poesia-racconto, costruisce un intreccio, una continuità di personaggi e vicende, e, almeno nel caso della Ragazza Carla, una sorta di percorso di maturazione della coscienza, si potrebbe dire di itinerario di formazione.

Ed è altrettanto vero che alcuni suoi testi sono carichi di rabbia, e dun-

que di un sentimento non a torto attribuibile all’espressione dell’interiorità dell’autore. Tuttavia, questi aspetti della testualità di Pagliarani, siano essi di tipo oggettivo (personaggi e relazioni tra essi) 0 soggettivo (esplosione della insoddisfazione personale), non possono accamparsi come centri decisamente unificanti o comunque non sono messi in grado di omogeneizzare il testo per intero. Perché, come minimo, sì crea

uno scarto proprio tra di loro, ossia tra il racconto dei personaggi e l’in-

Il Gruppo ‘63

tromissione della voce autoriale, tra il registro narrativo e quello lirico (o antilirico che sia; come vedremo). Il principio del montaggio soprintende appunto alla giunzione di prospettive scrittorie di genere diverso e denota quindi un gusto particolare e nuovo per le mescolanze e per gli attriti. Un gusto, diciamolo subito, che va contro proprio al presupposto classico che voleva l’opera “organica”, unitaria e dunque sottoposta al governo di uno e un solo elemento. Non a caso i classici aborrivano il “mostruoso” e, per bocca di Orazio, bandivano dal regno del bello le creature polimorfe, come l’essere con la criniera di cavallo o la donna con la coda di pesce: fuor di metafora, rifiutavano l’unione di moduli prelevati da contesti allotri, abusivamente messi in comunicazione. Quella combinazione che all’antica ars poetica sembrava assomigliare ai “sogni d’un malato” (“aegri somnia”), a noi torna, adesso chiamata “montaggio”, come la migliore espressione delle nostre patologie contemporanee. Magari Pagliarani non tratta di donne con la coda di pesce (anche se ci sono pesci, e pescatori nei suoi versi), né di teste cavalline. Presenta, tuttavia, in un brano della sua Lezione di fisica, un animale che sembre-

rebbe proprio “undique collatis membris”. È il «conigliopollo», razza bizzarra, che spunta fuori — non senza sorpresa — nel cuore più profondamente economico della questione, e vi si inserisce con l’aria apparentemente divagante di un esercizio di logica. E la soluzione, così tortuosa da risultare surreale, di un problema matematico: in un cortile che contiene conigli e polli si contano in totale 18 teste e 56 zampe — quanti animali ci sono? L’attento scolaro (Pagliarani dichiara in nota di citare da un libro umoristico francese ispirato a sua volta agli svarioni studenteschi) parte presupponendo l’esistenza di un animale misto, davvero anti-oraziano, il «conigliopollo», cui alla fine si deve sottrarre un curioso ce speculare animale negativo, il «coniglio spollato» («Si sottrae / un pollo da un coniglio l’animale che avanza è il coniglio spollato»!), per arrivare dopo questo percorso di mirabilia alla soluzione giusta, «otto polli e dieci conigli». Ora, il «conigliopollo» («una specie di animale / a sel zampe e due teste») è per l’appunto il frutto di un montaggio, sebbene di tipo solo “mentale” e non di architettura genetica. Se si pensa che questa formazione di un anfibio abnorme costituisce la parte di una sequenza in cui viene alternata con pezzi assai diversi (ad esempio, brani della semiotica di Rossi-Landi), ci troviamo davvero in un montaggio doppio: un montaggio “tematizzato”, nella figura della buffa mistura 106

5. La modernità radicale di Pagliarani

animale, e un montaggio — nello stesso tempo — “eseguito” nella concatenazione testuale. Ma, si dirà, questo è ovvio. Proprio la Lezione di fisica, al centro degli

anni Sessanta, è infatti il testo maggiormente contagiato da e compromesso con le esperienze dell’avanguardia e non c’è da stupirsi che in questo periodo di collages e di patchworks, il montaggio venga a caricarsi della più forte intensità eversiva. In Lezione difisica possiamo addirittura rinvenire due tipi di montaggio, che andranno addebitati, rispettivamente, ai due versanti soggettivo e oggettivo. Il primo montaggio è quello che intercala al testo le riflessioni dell’autore, con esito sostanzialmente autocritico; si potrebbe anche parlare di inserto metapoetico, che comporta il giudizio interno sulla costruzione stessa, nel mentre sì va facendo. Questa occorrenza appare soprattutto nella prima parte della raccolta, e costituisce la chiave di volta dell’abbassamento del tono

lirico; ad esempio, ne La pietà oggethva: (...) Lo vedi anche tu

siamo in un ottocento d’appendice, non si può cavarne una storia nemmeno da mettere in versi (...).

E verso la fine, un nuovo scarto: Non è lo stesso? Ho scantonato? Dovrei insistere coi trofei di Lucia irridenti nel mio bagno? Meglio sciupare la composizione : 2 con un brutto commiato. (...)°

per concludere sull’impossibilità della “salvezza” per via poetica («qui non si salva la tua né la mia faccia»), l’impossibilità della “catarsi”. Così, in quel libro più lungo che largo, la figura dell'autore interviene con funzione di correzione e di negazione. Più che un montaggio, abbiamo, in questi casi, una “ferita nel testo”, una sorta di “grande iperbato”, un décalage della voce che scende di tono, come del resto avviene con 1 frequenti cambiamenti di pedale nel ritmo di Pagliarani, ottenuti a volte con le parentesi, a volte con i corsivi — e diciamolo pure, tentando una prima sintesi, che il montaggio e lo straniamento sono funzioni, in definitiva, di quel senso ritmico della dissonanza, dello scarto nel tono della voce, una specie di ribellione corporea all’armonia, essenziale nella scrit-

tura del nostro autore. 107

Il Gruppo ‘63

Il secondo tipo di montaggio (che è montaggio vero e proprio) si intensifica soprattutto nella seconda parte della raccolta, il Fecaloro. È il collage di frammenti provenienti da contesti diversi e in particolare dai linguaggi scientifici (la cui presenza è già annunciata da un titolo come Lezione di fisica). Si tratta, in questi casi, di un linguaggio-oggetto, prelevato così com'è, e posto a fare da variazione e contrasto con il linguaggio tipico della poesia. Qui conta il grado di differenza dei brani accostati e le linee di interruzione tra gli uni e gli altri. Vediamo alcuni esempi, a partire da questo mix di avvertimenti di don ton, storia finanziaria e polemica anti-atomica (da Casa Serena): (...) e se capitate all’ora di cena evitate per favore di esaminare troppo insistentemente i piatti degli ospiti essi non hanno la minima [intenzione di invitarvi a sedere con loro Abbiate insomma un’aria sazia, disinteressata, televisiva

il 13 gennaio dell’anno 1845 veniva fondata la Cassa [di Risparmio di Lugo L'uomo avrà la meglio sulla bomba: operativamente che vuol dire?3

O ancora la commistione, in Zecaloro, tra un brano di psicoanalisi sul rapporto merda-denaro (tratto da Fachinelli), visuali sui pesci e su una giornata marittima inquietante («Scirocco sui quaranta, tira scirocco sulla bocca dilatata dello stomaco / dei quaranta mi accarezzo la pancia e Il significato»). Basti vedere questa cerniera: (...) il denaro quasi il contrario dello scorrevole “visibile Dio” da noi conosciuto

cominciare a distinguere i denti: i denti centrali superiori ampiamente triangolari, seghettati ai margini; il colore non ha particolari nero grigiastro scuro sul dorso, sfumature bianche sulla parte inferiore larghe carene ai lati della coda, due pinne dorsali: (...).!

e così via. La prima riflessione da fare su questi inserti di tipo scientifico o storico-politico è che attraverso di essi entra nella poesia, che di suo si rivolge al quotidiano-individuale, una sorta di “principio di realtà” che porta il discorso dal livello personale al collettivo. Dopo tutto, allora, i due tipi di montaggio che ho descritto, quello del commento dell’autore e quello del prelievo citazionale hanno la stessa funzione, che è di 108

5. La modernità radicale di Pagliarani

abbassamento e quasi di ancoraggio della sublimazione poetica. Fin troppo la poesia si propone come linguaggio “unico”, superiore agli altri per facoltà rivelativa, catafratto nel suo “stile” elevato e ineffabile: ecco allora che l’inserimento degli altri linguaggi vale — qui, proprio pedagogicamente, sta la lezione — come apertura verso la pluralità delle espressioni verbali possibili. Non per nulla, il brano con cui si interseca quel problema di «coniglipolli» di cui sopra è ripreso dalla semiotica materialista di Rossi-Landi che tratta del “linguaggio come lavoro”, e insiste sul meccanismo del valore basato sulla “separazione” di un elemento (La merce esclusa, appunto). Il testo, dunque, sottolinea il problema della separazione e della astrazione (nella produzione di merci o di parole è lo stesso), nel mentre contravviene alla norma spiritualizzante con l’accostamento indebito dei linguaggi separati, usando in funzione creativa quella lingua tecnica e razionale che dovrebbe servire, al massimo,

nella sede del commento esterno. Né si tratta di una mescolanza omogeneizzante o indifferente. Vi sono invece evidenziate — è lo stacco del ritmo che lo vuole, innanzitutto —

le linee di rottura, i differenziali agli estremi, i gradini e i dislivelli. Ciò carica il montaggio della istanza dello straniamento (non casuale l’incontro con Brecht in posizione di clausola forte: «Ma se avessi soltanto bestemmiato / allora Brecht ai vostri figli ha già lasciato detto / perdonateci a noi per il nostro tempo»?). Straniamento, in quanto è certamente strana e incongrua, e quindi sorprendente, la consecuzione di frammenti eterogenei; ma straniamento anche nel senso di una erica implicita, che demistifica la sostanza poetica, troncando il suo anda-

mento normale e immettendo livelli “prosaici” di discorso, allusivi di una base materiale che sta fuori, ma torna continuamente con l’assillo

del rimosso. A differenza dell’impegno, che pretendeva di tradurre integralmente il mondo della vita politico-storica nel linguaggio della poesia, mantenendo quindi intatta l’a/lure poetica (e questo limite è scontato anche in poeti “scandalosi”, come Pasolini), Pagliarani sì rende conto che anche la forma normativa della poesia deve essere modificata dall’interno e non può esserlo altrimenti che accogliendo la “differenza realmente esistente”, come una irruzione nel suo proprio contesto. I brani del montaggio, allora, devono essere costituiti da rapporti di scarto e di conflitto. Quella di Pagliarani è una poetica dello “stridore”, che percorre la sua opera dalle Cronache (dove si parla di «pubblico stridore») alla Lezione difisica, che così indica il rapporto tra famore”e “intelletto”;

109

Il Gruppo ‘63

amore e intelletto nemmeno

servono

a definire se stessi, ma per quant'altro poco sappia della vita

quanto attrito che brucia, assieme come sono stridenti!®

Il procedimento del montaggio non è solamente intellettuale, ma è connesso a una “passione” resa acuta, estremizzata, sempre inclinata nella protesta e nella carica dinamica della rabbia («andrò avanti a bile e umori a me non mi occorre inventare rancori»; è la conclusione del £e-

caloro) e dunque è il percorso di una linea corrosiva che si ripercuote su tutti 1livelli testuali. L'importanza della “attività politica” e della “ricerca scientifica”, che Pagliarani sostiene anche in sede teorica’, non viene di-

minuita, ma anzi è accentuata dal fatto che queste istanze devono farsi strada, come voci escluse che entrano improvvisamente nel dibattito 0 come fughe per la tangente del discorso, in mezzo al materiale della instabilità e della crisi esistenziale e psicologica. Ora, non sarà inutile fare un passo indietro e uno avanti, per vedere come questa disposizione al montaggio straniante non sia presente solamente della fase più legata alla attività del Gruppo ’63, ma si imponga, sia pur in vario modo, lungo tutto l’arco della produzione poetica di Pagliarani. Vorrei trarre ulteriori testimonianze da La ragazza Carla (un

testo in buona quantità compreso nei Novissimi, quindi da intendere come leggermente precedente alla formazione della neoavanguardia) e da La ballata di Rudi (testo a più fasi, che l’autore ha continuato a riela-

borare in un lungo arco temporale, fino agli anni Novanta). La Carla e il Rudi sono due “romanzi in versi” e con questa dizione sono stati per altro riuniti in volume”. La loro ossatura narrativa dovrebbe garantire un filo di progressione, quindi una coerenza opposta alla frammentarietà dispersiva del montaggio. Questo è vero soprattutto per la Ragazza Carla, incentrato com'è quel poemetto sulla vicenda del personaggio della giovane segretaria e della sua iniziazione-educazione alla implacabile logica del nuovo mondo lavorativo aziendale. Partita in precise coordinate di spazio umano: Di là dal ponte della ferrovia una traversa di viale Ripamonti c'è la casa di Carla, di sua madre, di Angelo e Nerina?;

e conclusa, secondo la parabola del romanzo di formazione, con il com-

promesso dell’adeguamento al “trucco”:

110

5. La modernità radicale di Pagliarani

(...) Carla ha la faccia seria mentre provano

allo specchio, mentre Nerina insegna e Carla impara a mettere il rossetto sulle labbra: (...)!%;

tuttavia, la storia — riguardando un ambiente collettivo di apprendimento e di lavoro, insomma un intero milieu sociale — si presta non solo alla coralità, ma anche all’inserzione di materiali bruti, che si intercalano

al racconto vero e proprio come blocchi erratici di linguaggio oggettivato. Sarà la barzelletta del collega, ma sarà anche il manuale di dattilografia, che si intrufola tra le righe degli aneddoti goliardici della scuola: Qui di gente un campionario: sei uomini e diciotto donne, più le due che fanno scuola Nella parte centrale del carrello, solidale ad esso ecco il rullo C'è poca luce e il gesso va negli occhi Nel battere a macchina le dita devono percuotere decisamente 1 tasti e lasciarli liberi, immediatamente Come ridono queste ragazze e quell’uomo anziano che fa steno!!,

dove i diversi piani devono essere “recitati” (sono poesta da reata, lo sap-

piamo) diversificando i toni di voce; e ancor di più si inarca nella narrazione il brano, parzialmente tradotto, di un interlocutore che afferma, con tranquillo cinismo, l'avvento della “terza guerra mondiale”: A third world war FONDAMENTO DELLA

GUERRA

DEL DIRITTO È ANTICO

LE CONTROVERSIE

DELLE GENTI

QUANTO

, L'ISTITUTO

GLI UOMINI:

TRA GLI STATI, SIA PURE

A DIRIMERE

COME

EXTREMA

RATIO

(...) A third world war Is nécessary, né-ces-sa-ry, go on translate my friend sporgendo il petto in fuori come un rullo e fronte dura e io certo ho tradotto, che faccio il traduttore,

che ce ne vuole un’altra, un’altra guerra".

In questi passi, Pagliarani immette proprio quel plurilinguismo che caratterizzerà l’esperienza delle nuove avanguardie: un plurilinguismo

sincronico, nel senso che attinge dal ventaglio della proliferazione dei lin-

guaggi, da lingue straniere vere e proprie (portate non a caso, nella storia

111

Il Gruppo ‘63

raccontata, dalla commistione degli affari con l'estero: la globalizzazione

ineunte), e da quelle parole straniere che si sono ormai diffuse nei linguaggi tecnici e tecnologici. Il fatto è che il poemetto narrativo ha nel suo epicentro il nuovo problema della modernità urbana, ovvero l’alienazione. Ed è per questo, allora, che il racconto non solo patisce soprassalti nel ritmo dei versi e delle strofe, ma patisce (o sfrutta, perché se ne giova, alla fine) effetti di scorcio e sovrapposizione, dove discorsi e fatti,

affastellati nell’intreccio comunicativo, prevalgono sull’unità psicologica dei personaggi: è logico, perché l’alienazione è proprio la perdita di sé come personaggio. Gli inserti si infilano in questi scompensi, in queste fratture dell’unità narrativa, e costituiscono la punta d’iceberg di una tensione (di una “mancanza a essere”) che continuamente inquieta la trama. Ma c'è di più. Alienazione significa coscienza insufficiente. Perciò il foro interiore del personaggio deve essere di continuo abbandonato e guardato dall’esterno, interpretato e sospeso nelle sue prime motivazioni (ad esempio: «Solo pudore non è che la fa andare / fuggitiva nei boschi di cemento»). La necessità di oltrepassare i paraocchi dell’ “io” porta ad aggiungere a quella limitata dell’attante una prospettiva generale, un punto di vista collettivo sostenuto dalla voce di un narratore anonimo. Nascono allora i corsivi che costellano il poemetto di Carla, veri e propri cori che costituiscono il commento della vicenda, il suo straniamento

su di un piano etico-sociale. A volte si tratta solamente di squarci lirici dentro l'esposizione narrativa — e in questo caso sarebbe la lirica (sebbene non si possa mai dire quanto semplicemente lirica sia) nel ruolo straniante e la narrativa in quello straniato. Prendiamo questo sbalzo: forse dice fra i denti almeno questo le facesse la guardia l’impiegato

Autour des neiges quest ce qu'ily a? Colorati licheni, smisurate impronte, ombre liocorni laghi cilestri, nuvole bendate (...)!*;

certamente un passaggio dal pratico-strategico dei convenevoli al “poetico astratto”: tuttavia lo stretto accostamento porta a domandarsi il “perché?”, e il brano acquista allora una sfumatura allegorica. Come dire: di fronte alla costrizione dell’ambiente e all’obbligo della maschera sociale non resta che allontanarsi mentalmente nello scenario di purezza 12

5. La modermtà radicale di Pagliarani

e di freddezza dell’alta montagna, con i suoi connotati di inaccessibilità e dismisura. Ma, accanto al richiamo analogico (l’invasività dell’eros evoca immagini cinematografiche: «Sagome dietro la tenda / Marlene con il bocchino sottile»), la funzione propria dei cori-corsivi è quella di enunciare la morale che percorre l’intero testo, vale a dire la morale dell’adattamento («Necessità necessità verbo dei muti»), che non significa però rinuncia all’opposizione, piuttosto vuol dire che per fare vera opposizione bisogna guardare in faccia alla realtà e evitare le vie d’uscita e di compensazione illusoriamente individuali. L'opposizione non è una facile pretesa “ideale”, ma un pesante lavoro “nelle cose” sociali e storiche, una politica viva che deve fare i conti con la materialità e caducità dell’uomo. Così il corsivo finale: Quanto di morte noi circonda e quanto tocca mutarne in vita per esistere è diamante sul vetro, svolgimento concreto d’uomo in storia che resiste solo vivo scarnendosi al suo tempo quando ristagna il ritmo e quando investe lo stesso corpo umano a mutamento."

Per cui si può dire che il montaggio, ne La ragazza Carla, contribuisca a sbalzarci fuori della vicenda e del suo esito, fuori dall’adesione ai personaggi, per cogliere il problema complessivo in cui essì sono IMmmersi

e noi con loro. La rappresentazione del quotidiano vale a mostrare nel suo corpo vile la “sostanza” profonda della politica (che non farà nulla se non convincerà la “vita privata”); ma nello stesso tempo il quotidiano deve essere salvato dalla mera riproduzione “minimalista” che lo chiuderebbe nella gabbia limitante del patetico. Quanto a La ballata di Rudi, si presenta anch'essa come un poema narrativo che mette in scena personaggi e situazioni, e arriva fino a punti fortemente prosaici. Tuttavia, mentre la storia di Carla aveva una sua continuità, aperta sì da scorci e ellissi, interruzioni e approfondimenti,

ma legata ad una crescita, la storia di Rudi è un insieme caotico e dalle linee contorte: intanto, non è la storia solo di Rudi (fin dal primo verso,

abbinato ad altri: «Rudi e Aldo l’estate del ’49...»), si interseca con la storia di Nandi, l’altro amico strambo, con quella di Armando il tassista clandestino e i suoi traffici con pazzi e affaristi, è la storia della zia Camilla che si mette a giocare in borsa, è insomma una storia che si sfilac-

cia in tante storie. È una poesia di lavoro, con tutto il passaggio epocale

113

Il Gruppo ‘63

da un lavoro povero come quello della pesca alla tratta («A tratta si tirano le reti a riva», è la sezione IX), alla pressione del ritmo industriale marcato da un “ritmatore” luminoso (nella sezione XVIII, che è quasi una pura prosa con tagli assai insensibili all’armonia poetica), alle facili fortune del sottobosco o del miracolo economico; forse per venire a capo di questa aggrovigliata “sostanza umana”, a un certo punto, Pagliarani ha deciso di fare dei suoi contenuti la base di una serie di variazioni formali, costruite sul ritorno dello stesso schema sintattico, la serie del «pro-

viamo ancora», tanto particolare da diventare volume a sé stante, con il titolo Rosso corpo lingua (pubblicato dalla Cooperativa scrittori nel 1977). Accade cioè che, dai luoghi “realistici” iniziali l’autore parta per la tangente e arrivi a realizzare uno dei suoi testi in assoluto più astratti, in cui davvero sembra prevalere quel “primato della struttura” che Giuliani aveva collocato a caratterizzare la poetica “novissima”. Uno schema sperimentale, che precederebbe quasi, prefissato com'è, la realizzazione in parole. Sennonché, per Pagliarani, le parole non sono mai

un significante puro, vuoto e fungibile in modo arbitrario; le parole sono sempre “pesanti” e infatti i termini che vengono trattati e messi alla “prova” nello schema sono di quelli ad alta gradazione simbolica, il colore «rosso» (colore del sangue e della rivoluzione), il «corpo», la «lingua», l’«oro», il «pope» (cioè la religione) e la «scienza» — tutti i termini-chiave del conflitto capitalistico. Poi Pagliarani ha ricollocato la sequenza dei «proviamo ancora...» nel contesto della Ballata; come a dire che quella era, non già l'esito esterno, ma soltanto una delle possibilità della sua scrittura in ricerca. Sicché, nella sua veste definitiva, la Ballata nel suo complesso davvero le “prova” tutte e nel farlo si presenta come un “poema a pezzi”, che non a caso è completato dall’aggiunta di ulteriori frammenti tratti da un’altra opera dell’autore, La della addor-

mentata.

ù

Operazioni di taglio interno sono ancora presenti: intervengono le parentesi e i corsivi, blocchi di testo vengono spostati nello spazio della pagina (la quale pagina, data la lunghezza dei versi, deve ancora una volta essere stampata in verticale) per sottolineare la loro autonomia, diversità e natura difforme. Vediamo questo passaggio dal dialogato a una strofetta ironica e dissacrante (dalla sezione XIX; il tema è quello finanziario della borsa): [...] ma c'è il Toro ora in Borsa, non c’è Orso, spiegava l’altra sera Rudi al night

dove non so se lo vedremo ancora, dice Marco sottovoce, perché anche lui ora

[lavora in Borsa

114

5. La modernità radicale di Pagliarani

fa il remisier per sua eccellenza Coccia il rappresentante del Vaticano sulla piazza [di Milano

Cè il Toro e non c’è l’Orso avanti a tutto spiano chi seguirà il mio gioco sarà re di Milano come Sindona, Calvi e tutta la compagnia la più bella che sia

la più ricca che ci sia!°.

E significativo il fatto che anche nella sperimentazione ritmico-sintattica dei «proviamo ancora...», e precisamente nella parte — la più importante? — incentrata sull’«oro» (numerata con la sigla A 1), la ripetizione del modello viene sospesa, a un certo punto, per lasciare il posto alla pubblicità di una banca, di nuovo quindi con notazioni prelevate da testi a/r: (da linguaggi propriamente non poetici), e per tornare

solo successivamente all'andamento dello schema. Si tratta di una vera e propria vanazione della variazione, o meglio di dialettica tra variazione € non-variazione, che non a caso interviene in concomitanza con il termine-chiave dell’intero sistema. Qui anche il titolo è leggermente mo-

dificato da un cambio di persona, dalla prima alla terza: non più il collettivo onnicomprensivo e in accordo del “proviamo”, ma un «provano», che vale da messa a distanza e da rifiuto a collaborare con l’ideologia e il feticismo dominanti. Leggiamo il brano: provano ancora con l’oro: oro, un nugolo di dollari carta, poi oro su oro in [lingotti avessero Nandi oro su oro sbarrato dall’oro, un punto sette punti dell’oro se avessero il punto di fusione dell’oro, dell’oro che cola in un angolo, mobile oro su sbarre d’oro intasate dall’oro, che segue i bordi dell’angolo, deborda oltre l'angolo d’oro si sparge sul tempo dell’oro fin dentro il midollo dell’osso del tempo UN NUOVO

FUSIONE

SERVIZIO

E SAGGIO

DELLA CASSA

DI METALLI

DI RISPARMIO

DI ROMA

PREZIOSI

le operazioni di fusione e saggio dei Metalli Preziosi sono compiute nell’ambito [del Laboratorio Scientifico di Ricerche fisiche del Servizio Credito su Pegno da personale qualificato con l'ausilio di Apparecchiature modernissime di alta precisione in Piazza Monte di Pietà. [Il riccio campione i metalli vili e trascina ossida si piombo il rovente: piombo nella sua lastrina di [il globulo

d’oro, e provano ancora con l’oro: non sì dà oro sgomento dall’oro!”.

Il Gruppo ‘63

Non è l’incrinatura locale di una continuità di fondo, ma il montaggio diventa criterio strutturale che si ripercuote sui singoli pezzi. L'ultima fase poetica del nostro autore", caratterizzata da una forma breve, fram-

mentaria e violentemente epigrammatica, opererà proprio attraverso il prelievo citazionale, il bruto ritaglio, ma non con innocente giocosità e neppure con gusto della “contaminazione”, quanto piuttosto con modi di “attualizzazione” forzata del linguaggio del passato, scagliato contro la blanda fruizione dell’“eterno presente” postmoderno. In conclusione: il montaggio in Pagliarani non è un gioco e neppure un'abilità tecnica fine a se stessa. E il portato di una istanza etica, beninteso di un’etica senza ideali e senza illusioni. Sta qui il suo carattere di modermtà radicale, nel mettere in questione qualsiasi abbellimento spirituale (“poetico”) e qualsiasi facile promessa di redenzione a buon mercato.

Se lirica

c'è, è una

lirica

di tipo “duro”,

materiale,

non

consolatorio, capace di rinunciare anche alla dignità della forma “alta”, come invece non hanno saputo fare fino in fondo neppure le figure pur ragguardevoli della Tradizione del Novecento, quella modernità moderata che è andata a costituire la linea centrale del nostro Canone recente. Nella modernità radicale, invece, la poesia rifiuta di presentarsi come compensazione o sublimazione dei mali del mondo. Fin dall’inizio, Pagliarani compie una operazione abrasiva sul patetico e sul “compatetico”; fin dalle Cronache (e siamo all’esordio, nei tardi anni Quaranta): «Non ho avuto pietà di questa gente / che mi offende negli occhi ogni mattina»!; passando poi per Inventario privato (tardi anni Cinquanta), dove rintracciamo questa folgorante sentenza: «lo spirito umano ha più

bisogno / di piombo, che di ali»?°. E ancora duramente pedagogica sarà

La ragazza Carla, persino spietata nell’invocare il “principio di realtà” della lotta per la vita, rispetto al comodo “principio del piacere” che alletta e inganna con i suoi “specchietti da allodole”. Mentre, Ecco ti rendo i due sciocchi ragazzi che si trovano a casa tutto fatto, il piatto pronto Non ti dico risparmiali Colpisci, vita ferro città pedagogia I Germani di Tacito nel fiume li buttano nel fiume appena nati la gente che s’incontra alle serali?!.

È ad espellere qualsiasi precostituito valore universale, Lezione di fisica 116

5. La modernità radicale di Pagliarani

rinuncia alla stessa “nozione di uomo”, troppo pretenziosa e “antropocentrica”; e lo fa con una di quelle intrusioni riflessive della voce autoriale («E un essere solo / non è mai forte, né può amare e misurare l’intelletto. // Pensa che avevo scritto un uomo solo / poi con rigore ho

cancellato l’uomo / per un essere»?°). Ecco, ritengo che sia proprio da questo “rigore” che nasce l’uso della tecnica del montaggio e lo stesso autore lo suggerisce in alcuni passi. Il primo, nel corsivo-coro finale de La ragazza Carla: non c'è risoluzione nel conflitto storia esistenza fuori dall’amare altri, anche se amare importi amare lacrime, se precipiti in errore o bruci infolle 0 guasti nel convitto la vivanda, 0 sradichi dal.fitto pietà di noi e orgoglio con dolore",

con quella bellissima (e quanto significativa) rima equivoca, quella poetica dell'amore però non garantito ma esposto a tutti i guasti, € quello “sradicare” che comporta strappo e frantumazione (dunque la premessa di parti disgiunte e di accostamenti repentini). Ma ancora più esplicita è Lezione di fisica, quando ferma le immagini delle rivolte anarchiche su questa parentesi: «(Però guarda come al lamento / il verso si fa compiacente, niente è più facile di questo ma io lo

spezzo)»?!. E “facile” lenire le sconfitte storiche con la blandizie del verso: anche il ritmo (in cui Pagliarani è maestro) ha bisogno di scontrarsi con l’antiritmo, di produrre quella dissonanza che, ora lo vediamo

bene, è il portato dell’urto dell’etica sull’estetica. Un'altra “finestra” decisiva si apre nella sezione del “proviamo ancora”, ne La ballata di Rudi, là dove è messa alla prova la “lingua”; e si dice: lingua rossa del corpo del rosso, lingua del cerchio creato da lingua e da lingua spezzato mistica lingua del rosso mistica lingua del corpo mistica lingua del cazzo (se è mistica è del privato, Nandi non sa che farsene, se nel codice è già incastrata, Nandi ti abbiamo fregato)”.

La lingua della poesia proviene dal corpo, ma in quanto pura “’espressione” di un soggetto, rischia di sacralizzarlo, in quanto lingua “mistica”,

che esaurendo in se stessa, nel proprio “cerchio”, tutte le energie, finisce ira

Il Gruppo ‘63

per rientrare nel “codice”. In quanto sciolta dalla vita concreta, serve esattamente alle esigenze del sistema che governa quella vita (per questo colui che lotta per “cambiare la vita” «non sa che farsene»). Per portare davvero la lingua della poesia fuori del codice — sembra dirci qui Pagliarani — occorre oltraggiare il suo “corpo mistico”, il suo “corpo lirico” (in altre parole: mettere in questione il suo “valore simbolico”). Là dove

la lingua crea attorno a sé un “cerchio magico”, occorre “spezzare” il cerchio, uscire fuori dalla passività del fascino e — con lo sguardo obliquo dello straniamento — guardarsi dall’esterno e “sradicare” faticosamente il condizionamento oggettivo delle nostre parole e delle nostre immagini. L’avanguardia, al di là dei ritratti stereotipi e dei confini delle comode storicizzazioni, ha da insegnarci soprattutto questo.

il menabò

\ ragazza Carla racconto in versi di Elio Pagliarani

IL MARE

DELL'’OGGETTIVITÀ

di Italo Calvino

Vittorio

Giulio

Sereni

Einaudi

editore

UNA

l'orino

NOTIZIA

1960

2

5. La modernità radicale di Pagharani

Note

1 E. Pagliarani, Lezione difisica e Fecalsro, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 56. 2 yi, pp. 17-19. *Jyi, p. 63. ‘Ii, p. 09. ? Ivi, p. 24. *Ksi, pp. 11-12. ? Cfr. Pa una definizione dell'avanguardia (1965), in AA. VV., Gruppo 63. Critica e teona, cit, 1976. E, Pagliarani, 1 romanzi in vasi, Milano, cit,1997. "ivi, p9 Kyi, p. 34. 1 yi, p.14. 2 Ivi, p. 23-24. 1? fsi, p. 10. * ivi, p. 29. 19 Iyi, p.35. * Kyi, p.93. 17 Kyi, pp. 107-108. 4 Mi riferisco agli Esanizi platonici (Palermo, Acquario, 1985) e agli Epigrammi ferraresi Tecce, Manni, 1987); si veda ora E. Pagliarani, Epigrammi, Lecce, Manni, 2001, che

contiene anche i brani più recenti. 4 In E. Pagliarani, La ragazza Carla e altre poesie, cit, p. 73. 2 Iyi, p. 105. % E, Pagliarani, / romanzi in vara, cit., p. 17. 2 E. Pagliarani, Lezione di fisica e Fecalsro, cit. pp. 14-15. © E, Pagliarani, I romanzi in vara, cit., p. 35. % E. Pagliarani, Lezione difisica e Fecaloro, cit., p. 37. % E, Pagliarani, | romanzi in vasi, cit., p. 107.

119

Il Gruppo ‘63

Adriano Spatola.

120

CAPITOLO 6

Spatola di ritorno dall'America

Adriano Spatola, ovvero la resistenza dell'avanguardia. Emerso subito dopo i Novissimi, Spatola ha proseguito la sua ricerca anche oltre la vita del gruppo, senza defezioni e abiure, a costo di utilizzare strumenti semiclandestini (piccole riviste, edizioni stampate in proprio), con intatta spinta di invenzione e di contestazione fuori del coro. Me lo ricordo, alla fine degli anni Settanta, nei festival poetici romani del cosiddetto “effimero”, portare una ventata di anticonformismo improvviso in mezzo ai rigurgiti di lirismo e di emotività in versi: arrivava con la sua prorompente fonesi (le raffiche ironiche di «Aviation/aviateur»), oppure con la performance del battito del cuore ritmato dal microfono, e la parola “poesia” perdeva la maiuscola nonché l’aureola e s’incamminava, scartata la soggettività a buon mercato di quegli anni e la banalità della vibrazione interiore, verso l’essenza materiale del gesto. Diversità radicale: erano degli alieni lui, Giulia Niccolai, Arrigo Lora-Totino (a Piazza di

Siena, Lora-Totino fece alla lettera il marziano, con tanto di “bip” che ricevettero dal pubblico neo-romantico

seccate bucce di cocomero).

L’avanguardia è continuata, con Spatola, anche “fuori stagione”, dimostrandosi produttiva nelle condizioni più difficili e anche quando ha dovuto sfidare una evoluzione storica che sembrava darle torto. Oltre all’opera poetica, va ricordata l’attività di Spatola come promotore, organizzatore, editore. E, ancora prima, come critico. Sì, questo

autore così estroso e creativo è stato anche un critico di prim'ordine, proprio sulle pagine del “verri”, dove si occupava di estetica — straordinario, in abbrivio, il suo saggio dove dimostra i residui crociani di Lukacs e la sotterranea convergenza del realismo con l’idealismo, in quanto gli «elementi rilevati da Lukécs sono rilevati anche da Croce: e sono i medesimi elementi a rendere per entrambi Balzac un grande artista»! — e dove pub-

Il Gruppo ‘63

blicò nel tempo una serie di recensioni su Novissimi» e viciniori che comprendono l’intero panorama della poesia della neoavanguardia, dimostrando una capacità davvero poco comune di entrare nelle pieghe del linguaggio complesso e di coglierne la tendenza teorico-culturale. Da rileggere, del pari, gli interventi di Spatola sulla rivista «Malebolge», sede del parasurrealismo emiliano, e decisamente pregnante la sua presenza

su «Quindici», il periodico che affrontò le acque agitate del ’68, quando la scrittura e la politica tornarono a congiungersi con tale forza da mettere in crisi gli sperimentalismi “da camera”. Seguì l’arroccamento artigianale presso il Mulino di Bazzano, un modo per continuare l'alternativa in un’avventura ancora più eroica: la rivista «Tam Tam» e le edizioni Geiger, che furono in quegli anni un punto di riferimento e di attrazione, «l’unico spaccio di poesia rimasto aperto» (come attesta oggi Luigi Ballerini”), «un vero e proprio faro per poeti nomadi» (come dice Giovanni Fontana?). E poi ancora, dal 1979, «Baobab», la rivista-video.

Il nostro autore non poteva mancare di esserci nella sede dell’ultimo dibattito di tendenze che si sia tenuto in Italia, intendo parlare del convegno di “Alfabeta” su // senso della letteratura, a Palermo nell’autunno 1984

— me ne lampeggia un altro ricordo: Adriano che danza nel salone dell'Hotel delle Palme, leggerissimo nella sua corposità.

Avanguardia, dunque, senza pentimenti. La stessa formula del parasurrealismo, elaborata insieme a Corrado Costa e Giorgio Celli, implica un ripensamento dell’esperienza passata, che non ne dismette le pulsioni di fondo, ma le reinventa in una diversa situazione e con un sovraccarico di

consapevolezza critica. “Para-surrealismo”: si tratta di ripercorrere “di lato” un’avanguardia storica tuttora essenziale (secondo Sanguineti, «il surrealismo è il fantasma che giustamente perseguita ogni avanguardia ulteriore, e le nega pacifico sonno»), che offre l’automatismo come prin-

cipale fonte di acquisizione di materiale linguistico garantito come “ritorno del represso”, nonché la grammatica dell’incongruo come procedimento di “sorpresa” e diversione dal senso comune. In questa chiave il “parasurrealismo” preferisce, invece del citazionismo dei lacerti della grande tradizione, rivolgersi alle tradizioni “altre” delle culture nonoccidentali. Postcoloniali prima del postcolonialismo, ma senza la mitizzazione € l’identitarismo neocomunitario che oggi caratterizza molto spesso il recupero della marginalità, invece con un uso dell’irrazionale doN

6. Spatola di ritorno dall’America

privo di misticismo e usato come straniamento e decostruzione della ragione anchilosata e ciecamente economicocentrica. Vale la pena di rileggere l'intervento di Spatola su «Quindici» 1968, intitolato ironicamente Va’ pensiero (coro). Esso contiene un movimento di negazione: Se alla base dell’idea di progresso noi troviamo il pensiero, l’unica azione anarchica che possa portare a qualche risultato sulla strada della liberazione dell’uomo da se stesso è quella dell’autoabolizione del pensiero, nel tentativo di realizzare una forma di regressione verso una realtà mentale primitiva ed elementare in cui il mondo e il mondo immaginario ridiventino la stessa cosa, e al pensiero-merce venga sostituito il pensiero-sogno;?

accompagnato da un riposizionamento del pensiero: (...) 11 pensiero deve oggi farsi clandestino: il pensiero che circola liberamente è un pensiero venduto, nel momento stesso in cui gli si concede libertà di circolazione gli si dà una patente, una carta d’identità, un passaporto, uno stipendio, e un valore

in moneta, un prezzo: bisognerà riuscire ad abolire la proprietà privata del pensiero, e a mettere in crisi il mercato internazionale (la mozione Castro rappresenta soltanto il primo passo), creando dei focolai rivoluzionari dovunque si mettono in vendita idee; il pensiero dovrebbe poter diventare un bene collettivo, ed esistere, un giorno, come creazione collettiva pura.°

Senza contare l'abbassamento ironico contenuto nel prefisso “para-”, che allude al burocratismo “parastatale”: esso indica non solo che si è condannati ad agire nello spazio ristretto della pagina letteraria (anche se manca affatto la soddisfazione della resa, propria del postmoderno), ma pure che la ripresa parallela si appoggia sul “fare” concreto della tecnica. Da questo punto di vista, il verso di Spatola si caratterizza per una sperimentazione metrico-ritmica (la cosa ha un che di sciamanico) senza gli apici propri dell’endecasillabo, ma sostanzialmente resa libera dall’ade-

sione al respiro del corpo, finendo a cadenzarsi sul verso lungo di una tetrapodia che varia sulla misura base del doppio settenario. Tale impianto tecnico non è per nulla in contrasto con la spontaneità dell’automatismo, anzi al contrario è proprio uno strumento euristico che attraversa gli strati più superficiali dell’individuo. Nell’intervento al convegno di «Alfabeta», alla metà degli anni Ottanta — ricordo che, nell’occasione di quel dibattito, alcuni poeti si scagliarono contro i critici definendoli “bancari dell’anima” - Spatola precisava, in deroga alle nozioni semplicistiche della poesia:

Do

Il Gruppo ‘63

L'attenzione del soggetto si sposta sull’attrezzatura tecnica come metodo di invenzione di regole arbitrarie, come scoperta della meraviglia e della fatalità della trasformazione dell’energia; attorno allo strumento si solidifica un progetto di scrittura, altrimenti labile e fallimentare.”

Un aspetto autoriflessivo sulla materia del porein si nota nei titoli stessi delle sue poesie, La composizione del testo, Diversi accorgimenti, La piegatura del foglio. E vi coincide la cocciutaggine artigianale di seguire il testo in tutte le fasi della produzione, condotta fino alla ricerca della completa autonomia e indipendenza tipografica nel Mulino di Bazzano. Ripeto: Spatola, ovvero la resistenza dell'avanguardia. Che consiste anche nell’identificazione logistica di uno spazio liberato, da costituire come “centrale operativa”, che sia anche punto d’incontro e di scambio,

e — perché no? — di festa, fuori dei condizionamenti e delle logiche dominanti. L’avanguardia come avamposto, non già come corsa all’aggiornamento alla moda o alla novità eclatante. Davvero l’obiezione che si fa comunemente alla neoavanguardia additando l’esito carrieristico di alcuni suoi rappresentanti, non trova con Spatola il benché minimo appiglio. La sua avanguardia si ispira, semmai, all’utopia della produzione in senso ampio, che si spinge ad operare su tutti i fronti creativi. È la prospettiva della “poesia totale”. Non solo 1 versi, ma anche la prosa (L’oblò, che portò il suo contributo alla configurazione del romanzo sperimentale); non solo il libro ma anche la perfomance; non solo la poesia

sonora, ma anche la poesia visiva e concreta (condotta fino alle anatomie di segni dello (a)

Il Gruppo ‘63

CRONOLOGIA 1956 Esce a Milano «il verri», diretto da Luciano Anceschi. Nel suo intervento in

apertura del primo numero (intitolato Discorso generale), Anceschi propone «un sentimento della letteratura che vuol essere aperto, largo, confortato»; afferma

che i lavori in corso dimostrano «un'epoca in buona salute letteraria»; senza atteggiamenti eclatanti, è vero, «ma in un modo di discrezione in cui vive la consapevolezza che dietro la rottura si scopre presto la continuità, e che la continuità opera proprio attraverso la rottura. Una discrezione che non esclude affatto la violenza». La rivista ha tra i redattori Nanni Balestrini; Leo Paolazzi

(alias Antonio Porta) entrerà nella redazione nel 1958.

Sempre nel ‘56, nella collana “Oggetto e simbolo” dell’editore Magenta esce Laborintus di Edoardo Sanguineti.

1961 Il primo nucleo della futura neoavanguardia sì forma con l’antologia / novissimi. Poeste per gli anni ‘60 (Rusconi e Paolazzi). Vi sono compresi 5 poeti: Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti. Giuliani cura l’introduzione e le note ai testi. Nell’introduzione, Giuliani enuncia il

distacco dalla poesia precedente, affermando di puntare all’effetto dinamico («la poesia agisce direttamente sulla vitalità del lettore, allora ciò che conta è la sua

efficacia linguistica») e di mirare al reale attraverso una “visione schizomorfa” («tipici caratteri la discontinuità del processo immaginativo, l’asintattismo, la violenza operata sui segni»). In coda, l’antologia presenta, per ognuno dei 5 autori, una dichiarazione di poetica; in quella di Sanguineti si legge il progetto di «attraversare l'avanguardia» e «fare dell’avanguardia un’arte da museo». Vengono pubblicati: N. Balestrini, // sasso appeso (Scheiwiller); E Leonetti, Conoscenza per errore (Feltrinelli); E. Villa, Heurarium (EX).

Nella saggistica: E. Sanguineti, ra liberty e crepuscolarismo (Mursia). 1962 Con il n. 5, il «menabò» di Vittorini si apre alla collaborazione degli autori sperimentali. Vengono pubblicati: E. Pagliarani, La ragazza Carla e altre poeste (Mondadori); A.

Pizzuto, Ravenna (Lerici); E. Sanguineti, Ae altre cose (Scheiwiller).

Nella saggistica: U. Eco, Opera aperta (Bompiani).

Cronologia

1963 Nasce a Firenze, con un convegno sul tema “Arte e comunicazione”

(24-26

maggio), il Gruppo 70, per opera degli autori verbovisivi, tra cui Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti. In giugno, il n. 8 de «il verri» è dedicato a Avanguardia e impegno, con interventi di Curi, Barilli, Guglielmi, Leonetti ed Eco. Nella primavera, Feltrinelli pubblica, con la prefazione di Giuliani, i testi del gruppo siciliano, formato da Roberto Di Marco, Michele Perriera e Gaetano Testa (La scuola di Palermo). Il 3-8 ottobre si svolge a Palermo (località Solanto) il primo convegno del Gruppo ‘63. Il convegno è aperto da un dibattito teorico, poi seguito da letture di testi, incontri con il pubblico e rappresentazioni teatrali. Nel dibattito, dopo gli interventi introduttivi di Luciano Anceschi e Alfredo Giuliani, spiccano le tre posizioni di Angelo Guglielmi, Edoardo Sanguineti e Renato Barilli. Guglielmi è sostenitore della linea “viscerale” di una avanguardia «a-ideologica, disimpegnata, astorica», attiva nella forma del pastiche demistificante: Sanguineti, al contrario, sulla base dell’equazione ideologia-linguaggio e citando Benjamin, si esprime per un aumento di consapevolezza “politica” (l’avanguardia «è null’altro che la coscienza effettiva del suo rapporto con la società borghese»); Barilli assume una posizione di “centro”, indicando la valenza dell’arte non nella «ragion pratica» ma nel momento conoscitivo, nei «momenti psicologici, antropologici in genere». L’anno seguente questo dibattito sarà inserito nell’antologia fondativa, Gruppo ’63. La nuova letteratura (Feltrinelli), a cura di N. Balestrini e A. Giuliani. L’antologia contiene molti altri materiali: aperta dai saggi di L. Anceschi, A. Guglielmi, R. Barilli, È Curi, G. Bertolucci e G. Dorfles, comprende i testi di 34 scrittori ed è chiusa dai contributi di U. Eco, L. Gozzi, A. Giuliani, P. A. Buttitta. A novembre esce la rivista «Marcatré»” che durerà fino al 1970, ospitando nu-

merosi testi e saggi critici della neoavanguardia. Eco e Sanguineti sono nel comitato direttivo. In questo anno vengono pubblicati: N. Balestrini, Come st agisce (Feltrinelli); G. Lombardi, Barcelona (Feltrinelli); G. Marmori, Lo sproloquo (Feltrinelli); A. Rosselli, Variazioni belliche (Garzanti); E. Sanguineti, Capriccio italiano (Feltrinelli).

1964 Il secondo convegno del Gruppo 63 si svolge a Reggio Emilia, 1 1-3 novembre. Vi partecipano anche alcuni osservatori stranieri e si fa notare la presenza di Elio Vittorini. Sempre a Reggio Emilia esce la rivista «Malebolge» in cui opera il gruppo dei

Il Gruppo ‘63

parasurrealisti Celli, Costa e Spatola con la collaborazione di Antonio Porta; durerà fino al 1967. Apre anche l’altra rivista «Grammatica» (redazione: Giuliani, Novelli, Manganelli e Perilli).

Vengono pubblicati: A. Arbasino, La narcisata (Feltrinelli) e Fratelli d’Itaha (Feltrinelli); N. Balestrini, 7ristano (Feltrinelli); E Colombo, Le donne matte (Feltrinelli); C. Costa, Pseudobaudelaire (Scheiwiller); A. Giuliani-E. Pagharani, Pelle d’asino (Scheiwiller); E Leonetti, L’incompleto (Garzanti); E Lucentini, Notizie degli scavi (Feltrinelli); G. Manganelli, Farotragoedia (Feltrinelli); L. Pignotti, Nozione di uomo (Mondadori);

A. Pizzuto, Paginette (Lerici); A. Porta, Aprire (Scheiwiller); E. Sanguineti, Zriperuno (Feltrinelli); A. Spatola, L’oblò (Feltrinelli); C. Vivaldi, Dettagli (Rizzoli). Nella saggistica: A. Arbasino, Cert romanzi (Feltrinelli); R. Banilli, La barriera del

naturalismo (Mursia); A. Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo (Feltrinelli); U. Eco, Apocalittia e integrati (Bompiani).

1965 Il Gruppo ‘63 ritorna a Palermo per il terzo convegno dedicato alla prosa narrativa. L'incontro si svolge dal 3 al 6 settembre ed è accompagnato da proiezioni cinematografiche e spettacoli teatrali. È il convegno di cui rimane il resoconto più completo, pubblicato, l’anno seguente, col titolo Gruppo ‘63. Il romanzo sperimentale (Feltrinelli). In questo anno, Einaudi ripubblica l'antologia dei Novissimi, con una nuova prefazione di Giuliani, in aperta polemica con la poesia contemporanea. Nel ritratto ironico del poeta neo-crepuscolare par quasi di riconoscere Pasolini: «Era pur bravo nel descriverci i paesaggi periferici in cui viveva, gli inverni del suo cuore, gli autobus su cui saliva la mattina, la mamma che gli spolverava la scrivania; assai più reticente e verecondo si mostrava verso le sue effettive esperienze economiche e sessuali (sulle quali, forse, avrebbe avuto qualche cosa da dire)». Vengono pubblicati: N. Balestrini, Alt? procedimenti (Scheiwillwer); M. Ferretti, Il Gazzarra, (Feltrinelli); A Giuliani, Povera Fuhet e altre poesie (Feltrinelli); A. Porta,

I rapporti (Feltrinelli);

E Curi, Ordine e disordine (Feltrinelli); A. Giuliani, Immagini e mamere (Feltrinelli); G. Lombardi, L’occhio di Heinrich (Feltrinelli); G. Marmori, Storia di Vous (Feltrinelli); P. Volponi, La macchina mondiale (Garzanti); G. Toti, L'uomo scritto (Sciascia).

Nella saggistica: E. Sanguineti, /deologia e linguaggio (Feltrinelli): 1966

Il convegno del Gruppo ‘63 si svolge a La Spezia dal 10 al 12 giugno. Nella lettura dei testi compaiono nomi nuovi, tra i quali Amelia Rosselli e Patrizia Vicinelli, Cesare Milanese e Renato Pedio. Presenzia Calvino.

Cronologia Vengono pubblicati: A. Spatola, L’ebreo negro (Scheiwiller); R. Di Marco, Fughe (Feltrinelli); A. Pizzuto, Sinfonia (Lerici); L. Malerba, / serpente (Bompiani); G. Niccolai, // grande angolo (Feltrinelli); C. Vasio, L'orizzonte (Feltrinelli).

1967 Il gruppo si riunisce a Fano, 26-28 maggio. Tra gli autori presentati esordiscono Celati e Vassalli. Nello stesso mese esce il primo numero di «Che fare», fondata da Leonetti e Di Marco (inizialmente con Scalia) che assumono una posizione

di sinistra marxista. Nel giugno esce il primo numero di «Quindici», rivista politico-letteraria diretta da Alfredo Giuliani in cui sono coinvolti tutti gli autori del gruppo. Si tratta di un periodico destinato ad un ampio pubblico, inizialmente quindicinale, poi uscito con cadenza mensile. L’editoriale di apertura annuncia che “ «Quindici» non ha nulla da dichiarare perché si ripromette di essere parziale e contraddittorio. «Quindici» spera di diffondere dei dubbi e di rovinare alcune certezza: d’essere, insomma, un sano elemento di disordine”.

Vengono pubblicati: E. Cacciatore, Dal dire alfare (Argalia); G. Celli, I parafossile (Feltrinelli); G. Guglielmi, Panglosse (Feltrinelli); G. Lombardi, La linea che si può vedere, (Feltrinelli); L. Pignotti,

Una forma di lotta Mondadori); A. Pizzuto, Nuove

paginette (Scheiwiller); A. Porta, Partita (Feltrinelli); E. Sanguineti, // giuoco dell’oca (Feltrinelli). Nella saggistica: R. Barilli, L’azione e estasi (Feltrinelli); G. Manganelli, La letteratura come menzogna (Feltrinelli).

1968 «Quindici» si apre ai contributi sulle lotte operaie e studentesche. Vengono pubblicati: N. Balestrini, Ma noi facciamone un’altra (Feltrinelli); G. Celli, Il pesce gotico (Geiger); R. Di Marco, Zelemachia (Einaudi); L. Malerba, Salto mortale (Bompiani); E. Pagliarani, Lezione difisica e Fecaloro (Feltrinelli); M. Perriera, // romboide (Lerici); G. Testa, 5 (Feltrinelli); M. Spinella, Sorella H, libera nos (Mondadori). Nella saggistica: U. Eco, La struttura assente (Bompiani); A. Guglielmi, Vero e falso

(Feltrinelli); E. Pagliarani-G. Guglielmi, Manuale di poesia sperimentale (Monda-

dori); L. Pignotti, Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia (Lerici).

In seguito a disaccordi sulla politicizzazione della rivista, Giuliani lascia la direzione di «Quindici», che viene assunta da Balestrini. Ma l’incalzare delle

spinte rivoluzionarie finisce per disgregare il gruppo: la rivista chiude nell’agosto, dopo 19 numeri.

Il Gruppo ‘63

Vengono pubblicati: A. Arbasino, Super-Etiogabalo (Feltrinelli); A. Porta, Cara (Feltrinelli); A. Giuliani, // tautofono (Feltrinelli); G. Manganelli, Nuovo commento (Einaudi); G. Niccolai, Humpy Dumpty (Geiger); A. Pizzuto, Testamento (Il Sag-

giatore); A. Rosselli, Serze ospedaliera (Il Saggiatore); E. Sanguineti, Zeatro (Feltrinelli); G. Toti, Penultime dall’al di qua (Sciascia).

Nella saggistica: E. Sanguineti, Poesia italiana del Novecento (Einaudi); A. Spatola, Verso la poesia totale (Rumma).

1970 Esce «Periodo ipotetico», sotto la direzione di Elio Pagliarani. Nel primo numero un intervento di Guido Guglielmi intitolato Letteratura e/0 rivoluzione. Viene pubblicato S. Vassalli, Zempo di màssacro (Einaudi). 1971 A Pesaro (16-18 ottobre) il convegno organizzato da «il verri» e «Il caffè» col titolo “Innovazioni e ritardi nella letteratura italiana oggi”, ospita ancora la questione dell’avanguardia. Vengono pubblicati: N. Balestrini, Vogliamo tutto (Feltrinelli); G. Celati, Comiche (Einaudi); A. Porta, Metropolis (Feltrinelli). Nella saggistica: E Curi, Metodo, storia, strutture (Paravia); U. Eco, Le forme del contenuto (Bompiani).

1972 Esce il primo numero di «Tam Tam», la rivista di Spatola e della Niccolai, trasferitisi al Mulino di Bazzano.

1976 c 1984 Gli incontri e i progetti non si fermano qui. Una ripresa collettiva del discorso sulla letteratura d’avanguardia si può considerare il convegno “Scrittura /Lettura” (Orvieto 1-4 aprile 1976) organizzato dalla Cooperativa Scrittori. Vi interverranno quasi tutti: da Balestrini a Malerba, Pagliarani (presidente della Cooperativa), Barilli, Arbasino, Eco, Guglielmi, Vassalli, Pedullà, Manganelli

e anche Cacciatore e Scalia. Ma il clima è cambiato e fioccano pittoresche contestazioni da parte di femministe e studenti. Fine di un’epoca? Mica tanto: in fondo, altri anni dopo, al convegno di «Alfabeta» su “Il senso della letteratura” (ancora a Palermo, 8-10 novembre 1984) saranno ancora Leonetti e Porta (gli organizzatori), Malerba, Guglielmi, Spa-

Bibliografia tola, Arbasino, Sanguineti, Celli, Di Marco, ad animare il dibattito. E nel di-

battito finale di quel convegno, ancora Sanguineti darà una bellissima zione dell’avanguardia, una definizione rimasta agli atti ma assai poco per cui è bene rileggerla: «l'avanguardia è semplicemente quel tipo di zione letteraria che sa che la tradizione non c’è: è questa l’avanguardia,

definicitata, operanon è

il conflitto contro la tradizione. È quella macchina che sa che la tradizione se la fabbrica lei, si fabbrica i suoi nemici, si sceglie amici e nemici, stabilisce rete di alleanze con i cadaveri e a questo punto comincia a mettersi in movimento e di fronte all’ingenuità della linearità conflittuale sa di essere in conflitto non

solo nel presente, ma anche che sta rimettendo in causa tutto il proprio passato, sta inventandosi delle radici e sa che in sostanza questo albero è un albero dotato dunque di relativa autonomia, le sue radici le ha nel futuro, e cioè (come

dicevo nel punto primo, in cui ne deprecavo la carenza o l'assenza) nella sua forza di progettazione» («Alfabeta» n. 69, 1985, p. XXI).

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE AA. VV., Avanguardia e neoavanguardia, Milano, Sugar, 1966.

AA. VV., Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di R. Barilli e A. Guglielmi, Milano, Feltrinelli, 1976; poi Testo & Immagine, 2003.

AA. VV., Il Gruppo 63, quarant'anni dopo, a cura di R. Barilli, E Curi, N. Lorenzini, Bologna, Pendragon, 2005. AA. VV., Neoavanguardia, a cara di P. Chirumbolo, M. Moroni e L. So-

migli, Toronto, University of Toronto Press, 2010. AA. VV, Sulla neoavanguardia, a cura del gruppo “Quaderni di critica”, Foggia, Bastogi, 1983. AA. VV., Quindici. Una rivista e il Sessantotto, a cura di N. Balestrini, Milano, Feltrinelli, 2008.

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2003. 22

Il Gruppo ‘63

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L. Weber, Con onesto amore di degradazione. Romanzi sperimentali e d’avanguardia nel secondo Novecento italiano, Bologna, Il Mulino, 2007.

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DI LETTERATURA DA

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ANCESCHI UN'EDIZIONE MOLTO ACCURATA LUCINI MARINET TI TEIGE INEDITI E DOCUMENTI MARTIN IL PRIMO MANIFE

STO E L'ESTETICA GERMANIA

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LUCINI TRA SIMBOLISMO

PER UNO STRANIAMENTO

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6 GIORNALE ® ANGELO GUGLIELMI / UNA FAVOLA PRIMITIVA ® GIANNI CELATI / AL BIVIO DELLA LETTERATURA FANTASTICA ® FRANCO CORDELLI / DI UNA LETTERATURA SENZA QUALITA' ® GIORGIO PATRIZI / IL CORPO E LA PAROLA NELLE ‘STORIE NATURALI” ® PAOLO VALESIO / STORIA DELLA LINGUA E STORIA DEI LINGUAGGI ® LIBRO ® ALBERTO GOZZI / IL FRUTTO E IL FIORE ® ROSSANA OMBRES POESIE ® SALVATORE MANNUZZU DA EXTRA STRONG - Ill ® BRUNO GAROFALO / MINIME DIDASCALIE FAUSTIANE ® CATALOGO ® LORETTA CAPONI / LA LOTTA DEL FRONTE DI LIBERAZIONE IN ERITREA ® FRANCESCO E LOIS MAURO SITUAZIONE DELLE MINORANZE ETNICHE

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CoLLana VERDE di Storia orale, storia dal basso

diretta da C. Bermani

® SALVATORE CAPOGROSSI, Storia di antagonismo e resistenza * CESARE BERMANI, Spegni la luce che passa Pippo, Voci, leggende e miti della storia contemporanea * AA. Vv., Una sparatoria tranquilta. Per una storia orale del 77 * SANTE NOTARNICOLA, L'evasione impossibile * CESARE BERMANI (a cura di), Introduzione alla storia orale. Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, vol. I; Ricerche, vol. I

* GIANNI Bosro, | conti con i fatti. Saggi su Cafiero, Musini e l'occupazione delle fabbriche

* ALFONSO ETXEGARAI, Ritornare a Sara Testimonianza di un deportato basco * ANTONIO JELMINI, La prima Brigata lombarda. Memorie del comandante “Fagno”, * * * *

CESARE BERMANI, “Guerra, guerra ai palazzi e alle chiese... “. Saggi sul canto sociale ARRIGO BOLDRINI, Diario di Bulow CESARE BERMANI, “Filopanti”. Anarchico, ferroviere, comunista, partigiano

MAURO VALERI, Negro, ebreo, comunista. Alessandro Sinigaglia, vent'anni di lotta contro il fascismo

* SASA BOzovIC, A te, mia Dolores. Ne/la tempesta della guerra col fucile e lo stetoscopio * UMBERTO TOMMASINI, Il fabbro anarchico. Autobiografia fra Trieste e Barcellona

DI * * ® * * * * * * * ® * * *

CoLLaNa BLU di Storia e politica

CESARE BERMANI, Il nemico interno. Guerra civile e lotte di classe in Italia (1943-76), I° ed. SILVERIO CORVISIERI, Il re, Togliatti e il Gobbo. /943: la prima trama eversiva SILVERIO CORVISIERI, Il mago dei generali. Poteri occulti nella crisi del fascismo e della monarchia SILVERIO CORVISIERI, Bandiera Rossa nella resistenza romana. AA. Vv., Le Brigate Matteotti a Roma e nel Lazio. CESARE BERMANI, Storie ritrovate. RAFFAELE D’AGATA, Disfatta mondiale. Motivi ed effetti della guerra fredda DAVIDE CONTI, L'occupazione italiana dei Balcani. Crimini di guerra e mito della “brava gente” .(1940-1943) LEO GORETTI, |“neri bianchi”. Mezzadri di Greve in Chianti tra lotte sindacali e fuga dalle campagne (1945-1960) CLARA CONTI, Servizio segreto. Cronache e documenti dei delitti di Stato DAVIDE CONTI, | criminali di guerra italiani. Accuse, processi e impunità nel secondo dopoguerra VALERIO LAZZARETTI, Valerio Verbano. Ucciso da chi, come, perché ROBERTO CAROCCI, Roma sovversiva. Anarchismo e conflittualità sociale dall'età giolittiana al fascismo GIACOMO SCOTTI, “Bono taliano”. Militari italiani in Jugoslavia dal 1941 al 1943: da occupatori a “disertori”

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FUORILINEA

* WALTER DE CESARIS, La borgata ribelle. // rastrellamento del Quadraro e la resistenza popolare a Roma * Filippo MANGANARO, Senza

patto né legge. Antagonismo operaio negli Stati uniti

* MASSIMO ZUCCHETTI (a cura di), Il male invisibile sempre più visibile. La presenza militare come tumore sociale che genera tumori reali. Scienziate e scienziati contro la guerra

* * * * *

C. CANCELLI, G. SERGI, M. ZUCCHETTI (a cura di),Travolti dall'Alta Voracità Luigi CORTESI, L'umanità ai bivio. // Pianeta a rischio e l'avvenire dell'uomo AA. Vv., Modello Roma. L'ambigua modernità SERGIO GIUNTINI, Pugni chiusi e cerchi olimpici. // lungo ‘68 dello sport italiano MAURO VALERI, Stare ai giochi. Olimpiadi tra discriminazioni e inclusioni

dk

COLLANA ROSSA di CULTURE SUL MARGINE

* EDOARDO DE FALCHI, Non è vero. Disordinazioni: un’avanguardia subliminale di massa, con adesivi * ANDREA COSENTINO, La scena dell'osceno. A//e radici della drammaturgia di Roberto Benigni

e SILVERIO CORVISIERI, Badernào.

La ballerina dei due mondi

* FELICE ACCAME, Dire e condire. Scampoli di ideologia nel linguaggio e nella comunicazione

* BeNOÎT NOEI, L'assenzio. Un mito sempre verde è CESARE BERMANI (a cura di), Parole che ridono. A proposito di Ernesto Ragazzoni. Con un'appendice di poesie inedite e scritti dimenticati

e * * e e * * e

ARMANDO GNISCI, Biblioteca interculturale. Via della Decolonizzazione europea n. 2 DAVIDE PINARDI, Il partigiano e l'aviatore. Vite troppo brevi di vincitori e vinti ugualmente dimenticati FELICE ACCAME, Antologia critica del sistema delle stelle. ERNESTO SCREPANTI, Un mondo peggiore è possibile. Sei perle dalla triste scienza. NikoLaJ KosTOMAROV, Storie di Ucraina VALERIA PALUMBO, Le figlie di Lilith. Vipere, dive, dark ladies, femme fateles. L'altra ribellione femminile FELICE ACCAME, Firma altrui e nome proprio. Un saggio di sociologia di se stessi NEVIO GAMBULA, Qui si vende storia. Una farsa proletaria, o un aborto di teatro epico. Con un saggio di FRANcesco MuzzioLi, Per una parodia rossa nell’epoca del ridicolo e ANDREA ALBINI, L'autunno dell'astrologia. // declino scientifico del discorso sulle stelle da Copernico ai giorni nostri.Con una nota di Giorgio Galli

AZIMUT * SEBASTIANO TIMPANARO, Il Verde e il Rosso. Scritti militanti 1966-2000, a cura di Luigi Cortesi * AA. Vv., Olocausto/olocausti. Lo sterminio e la memoria, a cura di F. Soverina * ARNOLD TOYNBEE, La rivoluzione industriale, a cura di Michele Nobile * Marco CLEMENTI (a cura di), Stalinismo e Grande terrore

* AMADEO BORDIGA, Mai la merce sfamerà l'uomo. La questione agraria e la teoria della rendita fondiaria secondo Marx

IDEOLOGIA E CONOSCENZA dk

* HEINZ VON FOERSTER, ERNST VON GLASERSFELD, Come ci si inventa. Storie, buone ragioni ed entusiasmi dell’eresia costruttivista * ALEXSANDR A. BoGpANOVv, Quattro dialoghi su scienza e filosofia, a cura di Felice Accame, con scritti di E. von Gla-

sersfeld, Massimo Stanzione, Silvano Tagliagambe * FELICE ACCAME, Le metafore della complementarità. ® FELICE ACCAME, CARLO OLIVA, (a cura di), Methodos. Un'antologia

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SAGGI E STUDI

* ROBERTO BIANCHI, Pace, pane, terra. // 19/9 in Italia MARCO CLEMENTI, Storia del dissenso sovietico. /953-/99/ STEFANO COCHETTI, La metafora secondo la teoria della differenza MARCO CLEMENTI, Storia delle Brigate Rosse JAN REHMAN, | nietzscheani di sinistra. Deleuze, Foucault e il postmodernismo: una decostruzione ALBERTO GIANQUINTO, Sul senso della storia WALTER PERUZZI, Il Cattolicesimo reale. VANDANA SHIVA, Semi del suicidio. / costi umani dell’ingegneria genetica in agricoltura ANDREA MARTOCCHIA, | partigiani jugoslavi nella resistenza italiana. Storie e memorie di una vicenda ignorata

DI

FUORI COLLANA

* E. DI GIOVANNI-M. LIGINI-E. PELLEGRINI, La strage di Stato. Controinchiesta, 1999/ 2002/ 2006

* CARLO COLLODI, Le avventure di Pinocchio, illustrazioni di G. Montelli, prefazione di M. Lunetta * M. LUNETTA, F. MuzzioLI, M. PALLADINI (a cura di), Almanacco Odradek 2007 di Scritture antagoniste. * G. MONTELLI - V. PALUMBO, Dalla Chioma di Athena. Donne oltre i confini.

Finito di stampare nel mese di febbraio 2013 ad opera di Stamperia Romana, Via Panaro 16/18, Roma

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La ripresa dell'avanguardia negli anni Sessanta è stato un fenomeno diffuso in molti i paesi occidentali, ma in Italia ha trovato un luogo particolarmente fertile, arrivando alla formazione di un movimento numeroso, organizzato e combattivo più

che altrove. A cinquant'anni ormai dalla sua data di iz il Gruppo '63 continua a suscitare grandi discussioni sia per le sue teorie che per le sue proposte operative; segno che quella “invasione di campo”, quella radicale affermazione di diversità, nonche l’idea dell'autore come elaboratore del linguaggio collettivo. non dt SESSO di portare sconcerto, squilibrio e conflitto. Questo libro fornisce le informazioni e le nozioni necessarie per adr la neoavanguardia italiana nelle sue coordinate storiche e letterarie, fornendo i ritratti dei principali protagonisti, da Sanguineti a Pagliarani, da Arbasino a Spatola, da Lombardi alla Vasio e a Malerba, oltre a indicazioni su Balestrini, Giuliani, Porta, Rosselli, Niccolai, Pignotti, Manganelli, Di Marco, Perriera, e molti altri autori, interni od esterni al Gruppo, dando altresì ragione di come per la prima volta sono accolti a far parte del movimento creativo e inventivo anche i critici e iteorici in dibattito tra loro, come ad esempio Barilli, Guglielmi, Curi ed Eco sviluppando un vero e proprio lavoro attorno al linguaggio. Così che le istanze del Gruppo ’63 continuano a essere pressanti e urgenti

ancora nella situazione attuale per chi non si accontenti della riduzione della letteratura a fictionevada alla ricerca di scritture che “facciano pensare”, alimentando l’intelligenza e allenandola per essere pronta alle sfide del futuro.

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Francesco MuzzioLi (Roma, 1949) insegna Critica letteraria presso l’Università “La Sapienza” di-Roma. Si è occupato principalmente degli autori del Novecento e delle linee di ricerca dell’avanguardia e dello sperimentalismo; nell’ambito della teoria letteraria si è interessato al dibattito delle tendenze e dei metodi. Tra i suoi volumi più recenti: Letteratura come produzione (Guida, 2010); Come — smettere di scrivere poesia (Lithos, 2011); L'analisi del testo letterario (Empiria, 2012); Verbigerazioni catamoderne (Tracce, 2012). Per Odradek, Qui si vende storia (con Nevio Gambula, 201 (0) Con Mario Lunetta, ha diretto gli Almanacchi Odradek dal 2003 al 2007.

€ 18,00

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