Il passato: istruzioni per l'uso. Storia, memoria, politica 8887009899, 9788887009897

L'industria culturale, i musei, le commemorazioni, i programmi educativi contribuiscono a fare della memoria del pa

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Italian Pages 143 [148] Year 2006

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Il passato: istruzioni per l'uso. Storia, memoria, politica
 8887009899, 9788887009897

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Enzo Traverso

Il passato: istruzioni per l’uso Storia, memoria, politica

Cartografie / 35

ENZO TRAVE’RSO insegna Scienze politiche all’Università della Picardia “Jules Verne”. Tra le sue pubblicazioni, tradotte in varie lingue, ricordiamo: Gli ebrei e la Germania. Aare/3witz e la simbiosi ebraico-tedesca (Il Mulino, 1994), Il totalitarismo. Storia di un dibattito (Bruno Mondadori, 2002), La violenza aazirta. Una genealogia (Il Mulino, 2002) e fiaschwitz e gli intellettuali (Il Mulino, 2004). E per i nostri tipi: Cosmopoli. Figure dell’esilio ebraico-tedesco (2004).

Enzo Traverso

Il passato: istruzioni per l’uso Storia, memoria, politica

umbre corte

Pubblicato con il contributo del Ministero degli Afiari Esteri/iamrere

Titolo originale dell’opera: Le passé, modes d’emploi. Histoire, me'moire, politique @ la Frabrique éditions, 2005

Traduzione dal francese di Gianfranco Morosato Prima edizione: settembre 2006 umbre corte via Alessandro Poerio, 9 — 37124 Verona Tel./fax: 045 8301735; e—mail: [email protected]

www.ombrecorteit Immagine di copertina: Holocaust Malmmal, Berlino, 2005. Monumento in memoria agli ebrei d’Europa uccisi dal nazismo (progetto di Peter Eisenman) Progetto grafico copertina: Rosie e ombre corte

ISBN 88—87009-89-9

Indice

9 17

Introduzione. L’emergere della memoria 1. Storia e memoria: una coppia antinomica?

Rammemorazione, 17 — Separazioni, 22 — Empatia, 28

40

2. Il tempo e la forza

Tempo storico e tempo della memoria, 40 “forti” e memorie “deboli”, 51

63

Memorie

3. Lo storico tra giudice e scrittore Memoria e scrittura della storia, 63 Memoria, storia e diritto, 76

70

79







Verità e giusrizia,

4. Usi politici del passato

La memoria della Shoah come religione civile, 79 — L’eclisse della memoria del comunismo, 87

93

5. |dilemmi degli storici tedeschi

La scomparsa del fascismo, 93 — La Shoah, la Repubbli— ca democratica tedesca e l’antifascismo, 99

106

6. Revisione e revisionismo Metamorfosi di un concetto, 106 — La parola 110

117 l 19

141

Nota bibliografica c ringraziamenti Note Indice dei nomi

e

la cosa,

Alla memoria di Roland Lew (1944—2005)

La storia è sempre contemporanea, cioè politica… Antonio GRAMSCI, Quaderni dal carcere

|NTRODUZIONE

L’emergere della memoria

“Memoria” e un termine inflazionato, al quale si ricorre in modo non sempre appropriato e coerente. La sua dif-. fusione è ancor più sorprendente se si pensa che il suo uso nel campo delle scienze sociali è relativamente recenteî Nel corso degli anni Sessanta e Settanta era praticamente assente dal dibattito intellettuale, infatti non figura né nel-

l’edizione del 1968 della International Encyclopedia of the Social Sciences, pubblicata a New York a cura di David L. Si.lls, né nell’opera collettiva intitolata Faire de l’histoire, pubblicata nel 1974 a cura di Jacques Le Goff e Pierre Nora, e nepppure in Keywords di Raymond Williams, uno dei pionieri della storia culturale 1. Qualche anno dopo, tuttavia, aveva già invaso il terreno e quasi monopolizzato il dibattito storiografico. La parola “memoria” è spesso usata come sinonimo di storia, che tende singolarmente ad assimilare, diventando una sorta di categoria metastorica. La memoria abbraccia e raccoglie il passato con una rete dalle maglie più larghe di quelle della disciplina tradizionalmente chiamata storia, depositandovi una dose ben più grande di soggettività, di “vissuto”. Detto altrimenti, la memoria appare come una storia meno arida e più “umana” 2. Oggi essa invade lo spazio pubblico delle società occidentali: il passato accompagna il presente e si insedia nel

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Il. PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

suo immaginario collettivo come una “memoria” fortemente amplificata dai media e spesso orientata dai poteri

pubblici. Essa si trasforma in “ossessione commemorativa” e la valorizzazione, talvolta la sacralizzazione dei “luoghi della memoria” produce una vera e propria “topola— tria” 3. Tutto ormai può essere oggetto di memoria. Il pas— sato si trasforma in memoria collettiva dopo essere stato selezionato e reinterpretato secondo le sensibilità culturali, gli interrogativi etici e le convenienze politiche del presen— te. Così prende forma il “turismo della memoria”, con la trasformazione dei siti storici in musei e mère per visite organizzate, dotati di adeguate strutture d’accoglienza (hotel, ristoranti, negozi di souvenir, ecc.) e promossi presso il pubblico con strategie pubblicitarie mirate. I centri di ri— cerca e le società di storia locale sono incorporati nei dispositivi di questo turismo della memoria, dal quale traggo— no talvolta i loro mezzi di sussistenza… Da un lato, questo fenomeno nasce indubbiamente da un processo di reificazione del passato, cioè dalla sua trasformazione in oggetto di consumo, estetizzato, neutralizzato e reso redditizio, pronto per essere recuperato e

utilizzato dall’industria del

turismo e dello spettacolo, in particolare dal cinema. Lo storico è spesso spinto a partecipare a questo processo, nella sua qualità di “professionista” e di “esperto” che, se— condo i termini di Olivier Dumoulin, rischia di vedere il suo mestiere trasformato in un “prodotto di mercato” alla stregua dei beni di consumo che invadono le nostre società. La Public History americana, con i suoi storici che lavo— rano per istituzioni o imprese private e sono sottoposti alla logica del mercato, ci indica la strada sulla quale ci stiamo

avviando 5. Dall’altra parte, questo fenomeno assomiglia

per molti aspetti a ciò che Eric]. Hobsbawm chiama “l’invenzione della tradizione” 6: un passato reale o mitico at-

al quale si costruiscono delle pratiche ritualizzate che mirano a rafforzare la coesione di un gruppo o di una comunità, a legittimare alcune istituzioni, a inculcare alcu—

torno

INTRODUZIONE. L’EMERGERl-Î DELLA MEMORIA

]

l

ni valori all’interno della società. In altre parole, la memoria tende a diventare il vettore di una religione civile del mondo occidentale, con un suo sistema di valori, creden— ze, simboli e liturgie? Ma da dove nasce questa ossessione commemorativa? I suoi impulsi sono molteplici, ma essa dipende innanzi tutto da una crisi della tradizione all’interno delle società contemporanee. Si potrebbe ricordare a questo proposito la distinzione, suggerita da Walter Benjamin, tra l’“esperienza trasmessa” (Erfabrung) e l’“esperienza vissuta” (Erlebnisi. La prima si perpetua quasi naturalmente da una ge— nerazione all’altra, forgiando le idee dei gruppi e delle so— cietà nella lunga durata; la seconda è il vissuto individuale, fragile, volatile, effimero. Nel suo Passagen-Werb, Benja— min considera l’“esperienza vissuta” come un tratto tipico della modernità, con il ritmo e le metamorfosi della vita urbana, gli sbocbs elettrici della società di massa, il caos ca: leidosdcopico dell’universo mercantile. L’Erfabrung è tipica delle società tradizionali, l’Erlebnis appartiene invece alle società moderne, ora come contrassegno antropologico del liberalismo, dell’individualismo possessivo, ora come prodotto delle catastrofi del XX secolo, con i traumi che ne sono seguiti e che hanno colpito generazioni intere senza poter diventare un’eredità inscritta nel corso natura— le della vita. La modernità, secondo Benjamin, è appunto caratterizzata dal declino dell’esperienza trasmessa, un de— clino segnato simbolicamente dall’avvento della prima guerra mondiale 3. Durante questo terribile trauma europeo, diversi milioni di persone, soprattutto giovani contadini che avevano imparato dai loro padri a vivere secondo i ritmi della natura, governati dalle leggi del mondo rurale, furono brutalmente strappati al loro universo sociale e mentale e improvvisamente gettati “in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo” 9. Le migliaia

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il. PASSATO: ÎS'I'RLMIONI PER L‘USO

di soldati tornati dal fronte muti e amnesici, sconvolti dagli sbell sbocbs dell’artiglieria pesante che cannoheggiava senza sosta le trincee nemiche, incarnavano questa cesura tra due epoche, quella della tradizione forgiata dall’esperienza ereditata e quella dei cataclismi, che si sottrae ai meccanismi naturali di trasmissione della memoria. Le di— savventure dello smemorato di Collegno — un ex combat— tente colpito da amnesia e dalla doppia identità, a un tempo filosofo di Verona e operaio tipografo di Torino — che hanno appassionato gli italiani nel periodo tra le due guerre e ispirato le opere di Luigi Pirandello, José Carlos Mariàtegui e Leonardo Sciascia, si inscrivono in questa tra— sformazione profonda del paesaggio memoriale europeo “’. Ma in fondo, la Grande guerra non faceva che completare, in modo convulso, un processo le cui origini sono state magistralmente studiate da Edward P. Thompson in un saggio sull’avvento del tempo meccanico, produttivo e di— sciplinare della società industriale “. Altri traumi segne— ranno l’“esperienza vissuta” del XX secolo, spesso sotto forma di guerre, genocidi, epurazioni etniche o repressioni politiche e militari. Il ricordo che ne è derivato non è né effimero né fragile — è anzi fondante per diverse generazio— ni incapaci di percepire la realtà se non nella forma di un universo frantumato — ma non si dà affatto come esperien— za del quotidiano, trasmissibile a una nuova generazione”. Una prima risposta alla nostra domanda iniziale potrebbe dunque essere formulata in questo modo: l’ossessione commemorativa dei nostri giorni è il prodotto del declino dell’esperienza trasmessa, in un mondo che ha perso i propri punti di riferimento, sfigurato dalla violenza e atomiz— zato da un sistema sociale che distrugge le tradizioni e frantuma le esistenze. Ma è necessario interrogarsi sulle forme di questa os— sessione. La memoria — ossia le rappresentazioni collettive del passato quali si forgiano nel presente — struttura le identità sociali inscrivendole in una continuità storica e at—

INTRODUZIONE. I.’I:LMERGIÉRE DELLA MEMORIA

13

tribuendo loro un senso, cioè un contenuto e una direzio— ne. Sempre e ovunque, le società umane hanno posseduto una memoria collettiva e l’hanno conservata attraverso riti, cerimonie, e anche pratiche politiche. Le strutture elementari della memoria collettiva risiedono nella commemorazione dei morti. Tradizionalmente i riti e i monumenti fu— nerari celebravano la trascendenza cristiana — la morte co— me passaggio verso l’aldilà — e, nello stesso tempo, riaffermavano le gerarchie sociali su questa terra. Nella moderni— tà le pratiche commemorative si trasformano. Da un lato, con la fine delle società di Antico regime, esse si democra— tizzano investendo la società nel suo insieme; dall’altro, si secolarizzano e funzionalizzano, veicolando nuovi messag— gi indirizzati ai vivi. A partire dal XX secolo, i monumenti commemorativi consacrano valori laici (la patria), difen— dono princìpi etici (il bene) e politici (la libertà), 0 celebrano eventi fondatori (guerre, rivoluzioni). Iniziano in-’ somma a divenire i simboli di un sentimento nazionale vis— suto come una religione civile. Secondo Reinhart Kosel— leck, “Il declino dell’interpretazione cristiana della morte lascia così campo libero a interpretazioni puramente politiche e sociali” ”. Avviato dalla Rivoluzione francese, la culla delle prime guerre democratiche del mondo moderno, il fenomeno si è esteso dopo la Grande guerra, quando i monumenti ai soldati caduti in combattimento hanno co— minciato a ridisegnare lo spazio pubblico in ogni villaggio. Oggi, l’elaborazione del lutto cambia oggetto e forme. In questo inizio secolo, Auschwitz diviene la base della memoria collettiva del mondo occidentale. La politica della memoria — commemorazioni ufficiali, musei, film, ecc. — tende a fare della Shoah la metafora del XX secolo come epoca di guerre, di totalitarismi, di genocidi e di crimini contro l’umanità. Al centro di questo sistema di rappre— sentazioni si colloca una figura nuova, quella del testimone, il sopravvissuto dei campi nazisti. Il ricordo di cui è portatore e l’ascolto che gli viene riservato (dopo decenni

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il,

PASSATO: ISTRUZIONI. PER L’USO

di indifferenza) hanno turbato lo storico, creando un po’ di disordine nel suo cantiere e modificando il suo modo di lavorare. Da un lato, egli ha dovuto arrendersi all’evidenza dei limiti dei suoi procedimenti tradizionali di storicizzazione, dei limiti delle sue fonti e dell’apporto indispensabi— le dei testimoni per cercare di ricostruire esperienze estre— me come l’universo concentrazionario e lo sterminio. Il testimone può fornirgli degli elementi di conoscenza fattuale inaccessibili attraverso altre fonti, ma anche e soprattutto può aiutarlo a restituire la qualità di una esperienza, che acquista una nuova consistenza una volta arricchita dal vissuto dei suoi attori. Dall’altro lato, con l’arrivo del testi— mone, e dunque con l’ingresso della memoria nel cantiere dello storico, questi è costretto a rimettere in discussione alcuni paradigmi ben consolidati. Quelli, per esempio, di una storia strutturale concepita come un processo d’accumulazione, nella lunga durata, di più strati (territorio, demografia, scambi, istituzioni, mentalità) che permettono di conoscere le coordinate globali di un’epoca ma lasciano ben poco spazio alla soggettività degli uomini e delle donne che fanno la storia “. Siamo entrati così, per riprendere le parole di Annette Wieviorka, nell’“era del testimone”, posto ormai su un piedistallo, incarnazione di un passato il cui ricordo e prescritto come un dovere civico 15. Altro segno dell’epoca, il testimone è sempre più identificato con la figura della vittima. Ignorati per decenni, i sopravvissuti dei campi di sterminio nazisti divengono oggi, nella maggior parte dei casi loro malgrado, delle icone viventi. Essi sono collocati in una posizione che non hanno scelto e che non sempre corrisponde al loro bisogno di trasmettere la loro esperienza vissuta. Altri testimoni un tempo proposti come modello — ad esempio i partigiani che presero le armi per combattere il fascismo — hanno perso la loro aura o sono chiaramente caduti nell’oblio, inghiottiti dalla “fine del comunismo”, la cui eclisse ha oscurato non solo i miti, ma

1NÎI'RODUZIONE. L’I-ZNIERGERI5 DELLA |\-‘IILIVIORIA

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anche le utopie e le speranze che aveva incarnato. Pochi sono ancora interessati alla loro memoria, in un’epoca di umanitarismo in cui non vi sono più vinti ma solo vittime, in cui sono le vittime a occupare il posto un tempo riservato agli eroi. Questa asimmetria del ricordo la glorifica— zione delle vittime prima ignorate e l’oblio degli eroi un

tempo idealizzati — mette in luce il profondo legame della memoria collettiva con il presente, con le sue trasforma— zioni e i suoi capovolgimenti paradossali. La memoria si declina sempre al presente, il quale ne determina le modalità: la selezione degli eventi di cui biso— gna conservare il ricordo (e dei testimoni da ascoltare), la loro interpretazione, le loro “lezioni”, ecc. Essa si trasforma in una sfida politica e assume la forma di un’imperativo etico — il “dovere della memoria” — che spesso diventa fonte di abusi“. Gli esempi non mancano. Tutte le guerre del— l’ultimo decennio, dalla prima alla seconda guerra del Gol-’ fo, passando per quelle del Kosovo e dell’Afghanistan, so— no state anche guerre della memoria, giustificate cioè dal richiamo rituale al dovere di ricordare ”. Saddam Hussein, Miloéevic' e George \W. Bush sosno stati paragonati a Hitler negli slogan dei cortei, sui manifesti, sui media e nei dis— corsi di alcuni leader politici. L’islamismo politico è spesso assimilato al fanatismo nazista. Lo storico israeliano Tom Segev ricorda che Menahem Begin aveva vissuto l’invasione israeliana del Libano nel 1982 come un atto riparatore, come se un esercito ebraico avesse cacciato i nazisti da Ver— savia nel 1943 18. Più recentemente, nel 2002, il Consiglio generale degli ebrei di Francia dichiarava che il paese era di fronte a un’ondata antisemita paragonabile a quella dilagata nella Germania nazista all’epoca della Notte dei cristalli, nel novembre 1938 ”. Per lo scrittore portoghese José Saramago, al contrario, l’occupazione israeliana dei territori palestinesi sarebbe paragonabile all’Olocausto”. Du— rante la guerra nell’ex Jugoslavia, i nazionalisti serbi vedevano le epurazioni etniche contro gli albanesi del Kosovo

l6

Il. PASSA'IÎO: IS'I'RLJZIONI [’I—ZR L'USO

come una rivincita contro l’antica opresssione ottomana, mentre in Francia i professionisti dell’anticomunismo sa— lutavano le bombe su Belgrado come una difesa della li— bertà contro il totalitarismo. La lista potrebbe continuare. La dimensione politica della memoria collettiva (e gli abusi chela accompagnano) non può che influire sul modo di scrivere la storia.

Questo libro si propone di esplorare le relazioni che in— memoria e di analizzare alcuni aspetti dell’uso pubblico del passato. La materia che si offre a tale riflessione è inesauribile. Mi sono quindi basato su alcuni temi conosciuti e sui quali ho lavorato nel corso degli ultimi anni. Altri, altrettanto importanti, sono esclusi o solo accennati in questo saggio, che spera di poter contribuire a un dibattito ben più vasto e sempre aperto. tercorrono tra storia e

1. Storia e memoria: una coppia antinomica?

Rammemorazione

Storia e memoria nascono da una stessa preoccupazione e condividono uno stesso obiettivo: l’elaborazione del passato. Ma esiste una gerarchia tra le due. La memoria, si potrebbe dire con Paul Ricoeur, è una sorta di matrice’. La storia è una narrazione, una scrittura del passato secondo le modalità e le regole di un mestiere — di un’arte e, con molte virgolette, di una “scienza” — che cerca di rispondere alle domande poste dalla memoria. La storia nasce dunque dalla memoria, ma poi si emancipa, mettendo il passato a

distanza, considerandolo, secondo le parole di Oakeshott,

come “un passato in sé” 2. Alla fine essa è pervenuta a fare della memoria uno dei suoi terreni di ricerca, come prova la storia contemporanea. La storia del XX secolo, detta an—

che “storia del tempo presente”, analizza la testimonianza degli attori del passato e include l’oralità tra le sue fonti al— lo stesso titolo di quelle archivistiche e di altri documenti materiali o scritti. Quindi, la storia nasce dalla memoria e ne rappresenta una dimensione; poi, assumendo una posizione autoriflessiva, la trasforma in uno dei suoi oggetti. Proust rimane un riferimento obbligato per ogni rifles— sione sulla memoria. Nei suoi commenti sulla Recbercbe,

18

Il. PASSATO: TSTRUZIONI PER L'USO

Walter Benjamin sottolinea che il romanziere francese “non ha descritto una vita così come è stata, ma una vita quale la ricorda colui che l’ha vissuta”. Prosegue parago— nando la “memoria involontaria” di Proust — che egli tra— duce con “lavoro di rammemorazione spontanea” (Eingedenken), in cui il ricordo è l’involucro e l’oblio il contenu— to — al “lavoro di Penelope”, nel quale “il giorno disfà ciò che aveva fatto la notte”. Ogni mattina, al nostro risveglio, “teniamo in mano per lo più debolmente, solo per qualche frangia, il tappeto dell’esistenza vissuta, quale l’ha tessuto in noi l’oblio” ’. Attingendo all’esperienza vissuta, la memoria è eminentemente soggettiva, resta ancorata ai fatti cui abbiamo assistito, di cui siamo stati testimoni o protagonisti, e alle impressioni che essi hanno scolpito nella nostra mente. La memoria è qualitativa, singolare, poco attenta alle comparazioni, alla contestualizzazione, alle generalizzazioni. Non ha bisogno di prove per il suo detentore. Il racconto del passato narrato da un testimone — salvo il caso in cui questi menta consapevolmente — costituirà sempre la sua verità, cioè una parte del passato depositata in lui. Per il suo ca— rattere soggettivo, la memoria non è mai fissa; assomiglia piuttosto a un cantiere aperto, in continua trasformazione. Non solo, secondo la metafora di Benjamin, “la tela di Pe— nelope” si trasforma ogni giorno a causa dell’oblio sempre in agguato, per riapparire più tardi, a volte molto più tardi, tessuta in una forma diversa da quella del primo ricordo. Non è solo il tempo a erodere e affievolire la memoria. La memoria è una costruzione: è sempre filtrata da conoscen— ze acquisite successivamente, dalla riflessione che segue l’evento, da altre esperienze che si sovrappongono alla pri— ma, modificandone il ricordo. L’esempio classico è, ancora una volta, quello dei sopravvissuti ai campi nazisti. Il rac— conto del soggiorno ad Auschwitz da parte di un deportato ebreo e comunista spesso non è lo stesso, prima o dopo la sua rottura con il partito. Prima, nel corso degli anni

S'I'ORIA I3' MEMORIA: UNA COPPIA ANTINOMICA?

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Cinquanta e Sessanta, emerge principalmente la sua identità politica, il fatto di essere stato un deportato antifascista; dopo, a partire dagli anni Ottanta, egli si presenta in primo luogo come un deportato ebreo, perseguitato in quanto ebreo e testimone dell’annientamento degli ebrei d’Europa. Sarebbe evidentemente assurdo distinguere tra queste due testimonianze date dalla stessa persona in due momenti diversi della sua vita, la vera e la falsa. Entrambe sono vere e autentiche, ma ciascuna illumina una parte di verità filtrata dalla sensibilità, dalla cultura e anche, si potrebbe aggiungere, dalle rappresentazioni identitarie, a volte ideologiche, del presente. In breve, la memoria, sia individuale che collettiva, e sempre una visione del passato filtrato attraverso il presente. In questo senso, Benjamin definiva il procedimento di Proust come una “presentificazione” (Vergegenwdrtigungfi Sarebbe illusorio conside— rare “l’accaduto” (das Gewesene) come ima sorta di “punto fisso” al quale ci si potrebbe avvicinare attraverso una ricostituzione mentale a posteriori. L’“accaduto” e in larga misura modellato dal presente, in quanto è la memoria che “stabilisce” i fatti: si tratta, secondo Benjamin, di una “rivoluzione copernicana nella visione della storia” 5. II con— cetto è riaffermato nelle “riflessioni teoriche” del Passa— gen-Werb, quando considera “l’incrocio [Telescopage] del passato con il presente”, aggiungendo che “è il presente che polarizza l’evento [das Gescbeben] in storia anteriore e storia posteriore”, La storia, prosegue Benjamin, “non è solo una scienza, ma anche e non meno una forma del ricordo [Eingedenben] ” 6. Con spirito analogo, Frangois Hartog ha coniato recentemente la nozione di “presentismo” per descrivere una situazione nella quale “il presente è diventato l’orizzonte”, un presente che, “senza futuro e senza passato”, genera in permanenza entrambi secondo i suoi bisogni? Anche la storia, che in fondo non è che una parte della memoria, come ricordava Ricoeur, si scrive sempre al pre-

20

Il. PASSATO: ISTRUZIONI PER L'USO

sente. Per esistere come campo

del sapere, tuttavia, essa

deve emanciparsi dalla memoria, non respingendola ma mettendola a distanza. Un cortocircuito tra storia e me— moria può avere conseguenze nefaste per il lavoro dello storico.

Un esempio importante di questo fenomeno è dato dal dibattito di questi ultimi anni intorno alla questione della “singolarità” del genocidio degli ebrei 8. L’irruzione di questa controversia nel cantiere dello storico dipende ine— vitavilmente dai percorsi della memoria ebraica ed europea, dal suo porsi al centro della sfera pubblica e dalla sua interazione con le pratiche tradizionali della ricerca che si sono dovute confrontare con le autobiografie e agli archivi audiovisivi che raccolgono le testimonaianze dei sopravvissuti dei campi nazisti. Benché questa “contaminazione” della storiografia ad opera della memoria si sia rivelata estremamente fruttuosa, non bisogna dimenticare una constatazione metodologica tanto banale quanto essenziale: in quanto modalità di ricostruzione del passato profon— damente soggettiva, selettiva, spesso irrispettosa delle scansioni cronologiche, indifferente alle ricostruzioni d’insieme, alle razionalizzazioni globali, la memoria singolariz— za la storia. La sua percezione del passato è inevitabilmente molto singolare. Là dove lo storico vede solo una tappa di un processo, un aspetto di un quadro complesso e mobile, il testimone può cogliere un avvenimento cruciale, lo stravolgimento di una vita. Lo storico può decifrare, ana— lizzare e spiegare le fotografie conservate del campo di Auschwitz: sa che quelli che scendono dal treno sono dei deportati ebrei, che l’uomo in uniforme che li osserva è un ufficiale 58 che parteciperà alla selezione e chela gran par— te dei personaggi di questa foto hanno davanti a sé solo qualche ora di vita. A un testimone la stessa foto dirà molto di più. Gli ricorderà sensazioni, emozioni, rumori, voci, odori, la paura e lo spaesamento dell’arrivo al campo, la

STORIA E MI'ZMORIA: UNA COÎ’PÎA ANTINOMICAP

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fatica di un lungo viaggio effettuato in condizioni orribili, probabilmente la visione del fumo dei crematori, in altri termini un insieme di immagini e di ricodi del tutto singolari e completamente inaccessibili allo storico, se non sulla base di un racconto a posteriori, fonte di un’empatia in— comparabile con quella rivissuta dal testimone. Agli occhi di uno storico, la foto di un Haftlz'ng indica una vittima anonima; ma per un parente, un amico, un compagno di detenzione, la stessa foto evoca invece un mondo assoluta— mente unico. Per l’osservatore esterno, questa foto rappre— senta soltanto — come direbbe Siegfrid Kracauer — una realtà “irredenta” (unerlò'st) ". L’insieme di questi ricordi forma parte della memoria ebraica, una memoria che lo storico non può ignorare e deve rispettare, analizzare e comprendere, ma alla quale non deve sottomettersi. Egli non ha il diritto di trasformare la singolarità di questa me— moria in un prisma normativo di scrittura della storia. Il suo compito consiste piuttosto nell’inserivere la singolarità dell’esperienza vissuta in un contesto storico globale, cercando di chiarirne le cause, le condizioni, le strutture, la dinamica generale. Tutto questo significa imparare dalla memoria, ma anche sottoporla a una verifica oggettiva, empirica, documentale e fattuale, sciogliendone se neces— sario le contraddizioni ed evitandone le trappole. Ciò può aiutare il ricordo ad essere più preciso, ad assumere dei contorni più chiari, a diventare più esigente, e anche a mettere in luce ciò che, nel ricordo, non è riducibile agli elementi fattuali “’. Se c’è una singolarità assoluta della me— moria, quella della storia sarà sempre relativa ”. Per un ebreo polacco, Auschwitz significa qualcosa di terribilmente unico: la scomparsa dell’universo umano, sociale e culturale nel quale è nato. Uno storico che non arriva a ca— pire questo non potrà mai scrivere un buon libro sulla Shoah, ma il risulato non sarebbe molto migliore se ne traesse la conclusione — come fa per esempio lo storico americano Steven Katz — che il genocidio degli ebrei sia

IL PASSA'I'O: ISTRUZIONI PER L'USO

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l’unico della storia ”. Secondo Eric ]. Hobsbawm, lo storico non deve sottrarsi a un dovere di universalismo: “Una storia scritta solo per gli ebrei (o per gli afroamericani, i greci, le donne, i proletari, gli omosessuali, ecc.) non può essere una buona storia, anche se può confortare coloro chela praticano” ”. È spesso molto difficile, per gli storici che lavorano sulle fonti orali, trovare il giusto equilibrio tra empatia e distanza, tra riconoscimento delle singolarità e messa in prospettiva generale. Separazioni

Storia e memoria formano una coppia antinomica so— prattutto a partire dall’inizio del XX secolo, quando i paradigmi dello storicismo classico sono entrati in crisi, rimessi

in discussione simultaneamente dalla filosofia (Bergson), dalla psicoanalisi (Freud) e dalla sociologia (Halbwachs). Fino a quel momento, la memoria era considerata come il sostrato soggettivo della storia. Per Hegel, la storia (Ge— scbicbte) possiede due dimensioni complementari, l’una oggettiva e l’altra soggettiva: da un lato gli avvenimenti (res gestae), dall’altro il loro racconto (bistoria rerum gestarum) ; in altri termini, i “fatti avvenuti” (das Gescbebene) e la loro “narrazione storica” (Gescbicbtserzà'blung) “. La memoria accompagna lo svolgimento della storia come una sorta di ancella protettrice, in quanto ne costituisce il “fondamento interno” (lnbalt), ed entrambe trovano il lo— ro compimento nello Stato, di cui la storia scritta (“la pro— sa della Storia” ”) riflette come uno specchio la razionalità intrinseca. Hegel presenta questo controllo del passato da parte dello Stato nella forma allegorica del conflitto tra Cronos, il dio del tempo, e Zeus, il dio della politica. Cronos uccide i propri figli. Inghiottisce tutto ciò che trova sul suo cammino, non lasciando tracce dentro di sé. Ma Zeus riesce a dominare Cronos, perché ha creato lo Stato, capa-

STO RIA E MEMORIA: UNA COPPIA ANTINOMICA?

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di trasformare in storia tutto ciò che Mnemosine, la dea della memoria, ha potuto raccogliere dopo il passaggio devastante del tempo. Nella Fenomenologia dello spirito, la memoria definisce la storicità dello Spirito (Geist), che si manifesta a un tempo come “ricordo” (Erz'nnerung) e co— me “movimento di interiorizzazione” (Er-lnnerung), mentre lo Stato ne costituisce l’espressione esteriore ”’. Per Hegel, solo i popoli che hanno uno Stato, che si sono quindi dotati di una storia scritta, possiedono una memoria. Gli altri — i popoli “senza storia”, cioè il mondo non europeo sprovvisto di un passato statale e del suo racconto codificato dalla scrittura — non possono superare lo stadio di una memoria primitiva, fatta di “immagini” ma incapace di condensarsi in coscienza storica ”. Ne deriva una duplice visione della storia come prerogativa occidentale e co— me dispositivo di dominio. Non soltanto essa appartiene esclusivamente all’Europa, ma non può esistere altrimenti che come racconto apologetico del potere 18, ciò che Benja— min denunciava come l’empatia storicista con i vincitori '9. La crisi dello storicismo, la messa in discussione del paradigma eurocentrico all’epoca della decolonizazione e poi l’emergere delle classi subalterne come soggetti politici hanno tuttavia separato storia e memoria. La storia si e de— mocratizzata, infrangendo le frontiere dell’Occidente e il monopolio delle élite dominanti; la memoria si è emancipata dalla sua sudditanza nei confronti dello scritto. La relazione tra storia e memoria si è riconfigurata come una tensione dinamica. La transizione non è stata né lineare né rapida e, per certi versi, non è ancora terminata. Da una trentina d’anni a questa parte, gli storici hanno allargato il campo delle loro fonti, ma continuano a privilegiare gli archivi, che restano il deposito delle vestigia di un passato conservato dallo Stato. Non è da molto tempo che i “su— balterni” sono riconosciuti come soggetti di storia e sono diventati oggetto di studio, ed è ancora più recente il tentativo di ascoltare la loro voce. Nel 1963, Francois Furet ce

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Il. PASSATO: ISTRUZIONI I’I-lli L’USO

pensava di poter integrare le classi subalterne nella storia

soltanto da un punto di vista quantitativo, prendendole in considerazione sotto il segno del “numero e dell’anonima— to”, come elementi “perduti nello studio demografico o sociologico”, cioè come entità condannate a restare “silenziose” 2°. In fondo, per questo ammiratore di Tocqueville, le classi lavoratrici rimanevano sempre dei “popoli senza storia”. La trasformazione avviene precisamente nel corso degli anni Sessanta. La prima grande opera di storia socia— le delle classi subalterne, Tbe Mak-ing of the Englisb Wor— leing Class di Edward P. Thompson, è proprio del 1963; L’Histoire de la folie a l’dge classique di Michel Foucault è del 1964; e l’inizio della microstoria, Ilformaggio e i vermi di Carlo Ginzburg, che ricostruisce l’universo di un mugnaio del Friuli nel XVI secolo, è del 1976“. Analogamente, per la storiografia, le donne hanno una storia solo da una trentina d’anni”. In precedenza ne erano escluse, allo stesso titolo dei “popoli senza storia” di Hegel. Per quanto riguarda i Subaltern Studies, essi sono nati in India all’ini— zio degli anni Ottanta… Il loro obiettivo è di riscrivere la storia non più come “l’opera dell’Inghilterra in India”, né come quella delle élite indiane formate sotto il dominio coloniale, ma come storia dei “subalterni”, il popolo di cui si tratta di ascoltare la “piccola voce” (small voice) che la “prosa della contro—insurrezione” depositata negli archivi di Stato non può restituirci, perché il suo compito consiste esattamente nel sommergerla”. E in questo contesto di allargamento delle fonti della storia e di rimessa in discussione delle sue gerarchie tradizionali che si inscrive l’emergere della memoria come nuovo cantiere per la scrittura del passato.

Il primo a codificare la dicotomia tra le fluttuazioni emozionali del ricordo e le costruzioni geometriche della narrazione storica è stato Maurice Halbwachs, nella sua opera ormai classica sulla memoria collettiva. Egli denun—

STORIA Ii MEMORIA: UNA COPPIA ANTINOMICA?

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ciava il carattere contraddittorio dell’espressione “memoria storica”, che unisce due termini ai suoi occhi antinomici. Per Halbwachs, la storia comincia là dove finisce la tradizione e “si decompone la memoria sociale” 24, perché tra le due vi sarebbe un’irriducibile soluzione di continuità. La storia presuppone uno sguardo esterno sugli eventi del passato, mentre la memoria dei protagonisti implica una relazione d’interiorità con i fatti narrati. La memoria per— petua il passato nel presente, mentre la storia lo fissa in un ordine temporale chiuso, ordinato e organizzato in base a procedimenti razionali che si collocano agli antipodi della sensibilità soggettiva del vissuto. La memoria attraversa le epoche, mentre la storia le separa. Infine, Halbwachs oppone la molteplicità delle memorie — legate agli individui e ai gruppi che le trasmettono e sempre elaborate all’interno di quadri sociali dati 25 al carattere unitario della storia, che si declina in storia nazionale o in storia universale, ma esclude la coesistenza in una stessa narrazione di diversi regimi di temporalità 26. In breve, Halbwachs oppone una storia positivista — lo studio scientifico del passato, senza interferenze con il presente — a una memoria soggettiva



fondata sul vissuto degli individui e dei gruppi. Radicalizzando la prospettiva, egli paragona la divisione che separa storia e memoria a quella che oppone il tempo matematico al “tempo vissuto” di Bergson ”. La storia ignora le perce— zioni soggettive del passato privilegiando le periodizzazio— ni convenzionali, impersonali, razionali e oggetive (per questo egli cita come esempio storiografico la Cbronologie universelle di Dreyss pubblicata a Parigi nel 1858) 28. Questa dicotomia è stata ripresa in tempi recenti da Yosef Hayim Yerushalmi che, nella sua qualità di storico, si presenta come un parvenu in seno al mondo ebraico. In una comunità cementata dalla religione, l’immagine del passato si è forgiata attraverso i secoli grazie a una memo— ria ritualizzata che fissa le modalità e i ritmi di una temporalità ebraica separata dal mondo circostante. Di conse-

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Il. PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

guenza, la storiografia ebraica nasce da una rottura con la memoria ebraica, la sola che in precedenza aveva assicurato agli ebrei una continuità, in termini di identità e di auto— rappresentazione, all’interno del mondo ebraico. Questa rottura e stata segnata dall’Emancipazione, che ha innescato un processo di assimilazione culturale verso l’esterno e causato, all’interno della comunità, il crollo dell’antica organizzazione sociale incentrata sulla sinagoga. Inserita in un mondo secolarizzato e adattata alle scansioni temporali della storia profana, la storiografia ebraica — di cui la scuola della VVissensc/aaft des ]udenturns, nata a Berlino all’inizio del XIX secolo, ha segnato la nascita — non poteva che operare una rottura, per le sue modalità, le sue fonti e i suoi obiettivi, con la memoria ebraica”. L’antinomia tra storia e memoria è stata riaffermata dal— lo studioso francese Pierre Nora, al quale si deve il rinnovamento, a partire dain anni Ottanta, del dibattito storio— grafico sulla memoria. Egli ha fatto propria la tesi di Halbwachs pur presentando una visione più problematica dei procedimenti di scrittura della storia. Memoria e storia, spiega Nora, non sono affatto sinonimi, perché “tutto le oppone”. La memoria è “la vita”, e questo la espone “alla dialettica del ricordo e dell’amnesia, incosciente delle sue deformazioni successive, vulnerabile a tutti gli usi e a tutte le manipolazioni, suscettibile di lunghe latenze e improvvise rianimazioni”. E questo “legame vissuto all’eterno pre— sente” non può essere assimilato alla storia, una rappresentazione del passato che, per quanto problematica e sempre incompleta, si vuole oggettiva e retrospettiva, fon— data sulla distanza. La memoria è “affettiva e magica”, portata a sacralizzare i ricordi, mentre la storia è una visio— ne laica del passato, sul quale costruisce “un discorso criti— co”. La memoria ha una vocazione singolare, legata alla soggettività degli individui e dei gruppi, mentre la storia ha una vocazione universale. “La memoria è un assoluto e la storia conosce soltanto il relativo” 30. Partendo da questa

STORIA E MEMORIA: UNA COPPIA AN'I'INCZWIICA?

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constatazione, Nora può concepire una sola relazione tra storia e memoria: quella di un’analisi e di una ricostruzio-

ne della memoria secondo i metodi delle scienze sociali, alle__ quali appartiene la storia. In questa prospettiva, egli ha aperto un cantiere storiografico estremamente ambizioso: ricostruire la storia nazionale intorno ai “luoghi della me—

moria”, dal territorio ai paesaggi, dai simboli ai monumen— ti, dalla gastronomia alle istituzioni, da Giovanna d’Arco

alla Torre Eiffel. Ma lungi dall’essere esclusivo appannaggio della me— moria, i rischi di sacralizzazione, mitizzazione e amnesia stanno sempre in aguato e minacciano anche la scrittura della storia, e larga parte della storiografia moderna e contemporanea è caduta in questa trappola. L’impresa di Nora non sfugge a questa regola, riservando per esempio un posto assai modesto al passato della Francia coloniale tra la sua moltitudine di “luoghi della memoria”. Secondo Perry Anderson, il più severo tra i suoi critici, l’impresa editoriale di Nora riduce le guerre coloniali francesi, dalla conquista dell’Algeria alla sconfitta in Indocina, “a una messa in mostra di cianfrusaglie esotiche che avrebbero potuto essere presentate all’Esposizione universale del 1931. Cosa valgono dei luoghi della memoria che tralasciano Dièn Bièn Phiì?” “.

Non solo la storia ha le sue lacune, come la memoria, la sua ragion d’essere nella cancellazione di altre storie, nella negazione di altre memorie. Come ha sottolineato Edward Said, l’archeologia israeliana che mira a riportare alla luce le tracce millenarie del passato ebraico della Palestina (alcuni vi hanno visto un’“archeo-religione nazionale”) ha scavato il suolo con lo stesso accanimento con cui i bulldozer hanno de— molito le tracce materiali del passato arabo-palestinese ”. D’altra parte, bisognerebbe considerare l’influenza della storia sulla memoria stessa, perché non esiste una memoria letterale, originaria e incontaminata: i ricordi sono coma può anche costruirsi e trovare

IL PASSATO: ISTRUZlONI PER L’USO

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stamemente elaborati attraverso una memoria inscritta in uno spazio pubblico,sottoposta ai modi di pensare collettivi e influenzata dai paradigmi scientifici dominanti di rappresentazione del passato. Ciò ha dato luogo a delle ibridazioni — alcune autobiografie rientrano in questa ca—

tegoria — che permettono alla memoria di rivisitare la storia, sottolineandone i punti oscuri e le generalizzazioni ap— prossimative, e alla storia di correggere gli inganni della memoria, obbligandola a trasformarsi in analisi autorifles— siva e in discorso critico. Un’opera come ] sommersi 6 mlvatz' di Primo Levi” articola storia e memoria in una narra— zione di tipo nuovo, incatalogabile, fondata sul continuo passaggio dall’una all’altra. Nella sua autobiografia, Pierre Vidal—Naquet racconta i propri ricordi con il rigore dello storico che verifica le proprie fonti e sottopone la memo— ria all’obbligo di fornire delle prove, pur conferendogli la forma di un bilancio restrospettivo, spesso critico. Non si tratta soltanto del racconto della sua vita, come precisa nella postfazione, perché prende in considerazione il car— teggio dei suoi genitori, ma anche e soprattutto perché si fonda sulla sua conoscenza di tutta un’epoca in qualità di storico. “È in questo senso — egli scrive che si tratta di un libro sia di storia che di memoria, urilibro di storia di cui sono a un tempo l’autore e l’oggetto” “. Questi due esem— pi non rientrano, in tutta evidenza, nella dicotomia stabilita da Halbwachs, Yerushalmi e Nora, perché appartengo— no allo stesso tempo al registro della memoria e a quello della storia.



Empatia

La stessa opposizione tra storia e memoria è fortemente presente anche nella storiografia del nazionalsocialismo,

come ha chiaramente messo in luce, intorno alla metà degli anni Ottanta, il carteggio tra due grandi storici, Martin

STOR1A li MEMORIA: UNA COPPIA AN'1’lNOMlCAP

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Broszat e Saul Friedlànder ”. Argomentando in favore di una storicizzazione del nazismo capace di rompere la tendenza persistente a voler “isolare” il periodo 1933-1945 per ragioni morali, Broszat ha rivendicato un metodo scientifico in grado di affrancarsi dal “ricordo mitico” del— le vittime “‘. La memoria dei sopravvissuti della Shoah su— scita evidentemente il suo rispetto, ma dovrebbe a suo av— viso rimanere esclusa dalle fonti dello storico e non interferire con il suo lavoro. Di fronte al positivismo radicale di un simile approccio, ci si chiede se esso non nasconda la parte di memoria vissuta e affettiva presente nella storio— grafia tedesca del dopoguerra, in particolare la storiografia del nazismo elaborata dalla “generazione della Gioventù hitleriana” ”. Al di. là del giudizio sui suoi risultati — peral— tro spesso considerevoli — una constatazione si impone: un tratto comune ai lavori della grande maggioranza degli storici tedeschi risiede precisamente nell’esclusione delle vittime del nazismo dal loro campo di indagine, per non dire dal loro orizzonte epistemologico. Un tratto che si è del resto conservato nei lavori di una nuova generazione, spesso centrati sull’analisi della macchina omicida del na— zismo ma raramente interessati alla testimonianza delle vit— time. In questa storiografia, le vittime rimangono sempre sullo sfondo, anonime e silenziose ””. Questo problema potrebbe essere affrontato anche a partire da un’altra prospettiva. La rimozione degli anni bui nella Germania del dopoguerra — rimozione della Sclmldfmge e dei crimini nazisti — non ha forse avuto, tra i suoi effetti, quello di trasformare in una sorta di tabù i bombardamenti che hanno distrutto le città tedesche, un tema ignorato sino a non molto tempo fa sia dalla letteratura sia dalla cinematografia e dalla storiografia? È l’ipotesi suggerita da Winfried Georg Sebald, per il quale l’assenza di ogni dibattito pubblico e di opere letterarie su questo trauma

collettivo dipende dal fatto

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iL PASSA'I'O: IS'I'RUZIONI I—’I-ZR L’USO

che un popolo che aveva assassinato e torturato a morte milio-

ni di esseri umani nei suoi lager, non poteva certo chiedere alle potenze vincitrici di rendere conto della logica politico-militare che aveva imposto

la distruzione delle città tedesche ”’.

Contrapporre radicalmente storia e memoria è dunque un’operazione pericolosa e discutibile. I lavori di Halb— wachs, Yerushalmi e Nora hanno contribuito a mettere in luce le profonde differenze che esistono tra storia e memo— ria, ma sarebbe sbagliato dedurne una loro incompatibilità o considerarle irriducibilmente separate. La loro interazio— ne crea pittosto un campo di tensioni all’interno del quale si scrive la storia. Amos Funkenstein ha probabilmente ragione di indicare nel punto di incontro tra storia e memo— ria l’emergere di una terza istanza, che chiama coscienza storica”. Il carteggio con Broszat è stato del resto per Saul Friedlànder il punto di partenza per una riflessione feconda'sulle condizioni di scrittura della storia. Lo storico non lavora rinchiuso nella classica torre d’avorio, al riparo dai rumori del mondo, e non vive neppure in una stanza refrigerata, protetto dalle passioni del mondo. Egli subisce i condizio— namenti di un contesto sociale, culturale e nazionale, e non può neppure sfuggire all’influenza dei suoi ricordi personali, né a quella di un sapere ereditato, dai quali può cercare di emanciparsi non negandoli, ma sforzandosi di stabilire nei loro confronti la necessaria distanza critica… In questa prospettiva, il suo compito_non consiste nell’abbando— nare la memoria — personale, individuale e collettiva —, ma piuttosto nel metterla a distanza e nell’inserirla in un contesto storico più ampio. Nel lavoro delloftorico c’è quindi una parte di transfert che orienta la scelta, l’approccio (: il trattamento del suo oggetto di ricerca, ed è bene che egli ne sia consapevole. Friedllainder definisce dunque la scrittura della storia, ispirandosi al lessico della psicoanalisi, come un atto di “perlaborazione” (egli usa il concetto di working through, traduzione di Durc/mrbez'turzg). La di—

STORIA E MEMORIA: UNA COPPIA ANTINOMICA?‘

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cronologica che separa lo storico dall’oggetto della sua ricerca crea una sorta di schermo protettivo, ma l’emozione che, spesso in modo imprevisto e repentino, risorge nel corso del suo lavoro non può che rompere questo diaframma temporale“. Questa empatia legata al vissuto individuale dello storico non produce necessariamente degli effetti negativi. Essa può anche rivelarsi fruttuosa, a condi— zione però che lo storico ne sia consapevole e la sappia “dominare ” 42. L’opera di Friedlèinder costituisce un buon esempio di “perlaborazione”. In Nazi Germany and the ]ews, egli ha incluso una costellazione di “destini individuali” in una narrazione storica complessiva della Germania degli anni che precedono la Seconda guerra mondiale. E stato dun— que capace di superare la tradizionale separazione degli studi sul nazismo: da un lato le ricerche, condotte essen— zialmente negli archivi, che focalizzano l’attenzione sull’ideologia e le strutture del regime; dall’altro una ricostruzione del passato esclusivamente fondata sulla memoria delle vittime, sia depositata in una vasta letteratura di testimonianza sia conservata in archivi visivi o sonori. Fried— lànder ha cercato di integrare queste due prospettive al fi— ne di ottenere una ricostruzione globale del processo storico, introducendo la voce delle vittime in una narrazione che altrimenti si ridurrebbe all’analisi delle decisioni poli— tiche e dei decreti amministrativi ‘”. Nonostante il loro atteggiamento positivistico, anche gli storici tedeschi della generazione della Gioventù hitleriana, cioè coloro che sono nati tra il 1925 e l’inizio degli anni Trenta (Martin Broszat, Hans Mommsen, Andreas Hillgruber, Ernst Nolte, Hans-Ulrich Wehler, ecc.), tendono a stabilire una certa empatia con i protagonisti del passato che implica dei ricordi personali. Le ricerche sulla storia della vita quotidiana sotto il nazismo (Alltagsgescore/ate) tracciano, nella maggior parte dei casi, un quadro sociale nel quale le vittime semplicemente scompaiono 44. stanza

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iL. PASSATO: ISTRUZIONI PER L'USO

Altri lavori non sono sfuggiti alle trappole del racconto apologetico. Per Andreas Hillgruber, giovane soldato della Wehrmacht nel 1945, nel descrivere l’ultimo anno della Seconda guerra mondiale, lo storico deve identificarsi col destino della popolazione tedesca dell’Est e con gli sforzi disperati e costosi dell’Ostheer [...] che miravano a difendere questa popolazione contro le vendette dell’Armata rossa, gli stupri collettivi, le esecuzioni arbitrarie e le innumerevoli deportazioni, e a mantenere aperte le vie di terra e di mare che permettevano ai tedeschi dei territori orientali di fuggire verso Ovest”.

Ma, come gli ha ricordato Habermas, durante l’ultimo di guerra l’accanita resistenza della Wehrmacht era anche la condizione per il proseguimento delle deportazioni verso i campi nazisti, dove le camere a gas continuavano a funzionare. anno

Tradizionalmente, la storiografia non si presenta nella forma di un racconto polifonico per la semplice ragione che le classi subalterne ne sono escluse, con il risultato di ridurre la narrazione del passato al racconto dei vincitori. E lo storicismo che denunciava Benjamin cogliendone il metodo nell’empatia unilaterale cOn i vincitori ‘“”. Per la ve— rità, questa “empatia” — l’Ez'rrfr'iblung dello storicismo classico — non sempre è sinonimo di apologia. Alcuni la rifiutano, come Ian Kershavv nella sua biografia di Hitler, che presenta come il lavoro di uno storico “strutturalista” ‘”. La sua scelta è motivata tanto dall’inconsistenza-della vita privata del Fti/9rer, che ridurrebbe ogni empatia a un’adesione ai suoi disegni politici, quanto dalla preoccupazione di distinguere la sua biografia da quella anteriore di Joachim Fest. Affascinato dalla “grandezza demoniaca” di Hitler, Fest ha finito, benché non ne avesse probabilmente l’intenzione, per insediarlo “in buona posizione nel panthéon degli eroi tedeschi” 48. Altri hanno adottato un atteggia—

STORIA E MEMORIA: UNA COPPIA A N’J'INOMICA?

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critica — fonte di turbamento più che di (si identificazione potrebbe parlare di avvicinamento “eteropatico” più che di empatia) ”” — che aiuta a “comprendere” i comportamenti protagonisti della storia senza per questo giustificarli. E lo sforzo compiuto da Hannah Arendt per penetrare nell’universo mentale del tenente colonner SS Adolf Eichmann, sforzo che non fu compreso e che non le fu perdonato all’epoca della pubblicazione del suo saggio sulla “banalità del male” 50. Di questo tipo è mento di empatia

dei

anche il lavoro microstorico di Christopher Browning, che ha cercato di comprendere con quali mezzi e attraverso quali tappe degli “uomini comuni” come i membri del centunesimo battaglione di riserva della polizia tedesca in Polonia, nel 1941, abbiano potuto trasformarsi in una squadra di professionisti del massacro-”. Le derive di un’empatia a senso unico, priva di distanza critica nei confronti del suo oggetto, sono tanto più frequenti quanto più la polifonia dei protagonisti si spegne, soffocando l’interazione tra memorie antagoniste nello spazio pubblico e rendendo udibile una sola voce. Se in Algeria l’indipendenza ha rapidamente dato luogo a una storia ufficiale della guerra di liberazione, in Francia l’o— blio non poteva continuare in eterno. Prima o poi, doveva lasciare il posto a una scrittura della storia nutrita dalla molteplicità delle memorie. La memoria della Francia co— loniale, quella dei pz‘eds—rzoz'rs, degli harkz's, degli immigrati algerini e dei loro figli, e anche quella del movimento nazionale algerino, del quale molti rappresentanti incarnano oggi l’eredità in esilio, si intrecciano in una memoria della guerra d’Algeria che impedisce una scrittura della storia fondata su un’empatia unilaterale, esclusiva. La ricostruzione di questa storia si fa inevitabilmente sotto gli occhi vigili e critici di molte memorie parallele, che si esprimono nello spazio pubblico. Questa interazione di memorie ha perfino costretto i torturatori a uscire dal loro silenzio e a consegnare la loro versione del passato 52. In breve, storia e

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

memoria interagiscono qui, per riprendere un’espressione assai pertinente di David N. Myers, come “categorie fluttuanti all’interno di un campo dinamico” ”.

In Italia, il paesaggio memoriale e storiografico è molto diverso. George L. Mosse, uno dei più fecondi storici del fascismo del dopoguerra, poco prima della morte aveva fatto l’elogio del suo collega Renzo De Felice, noto per la sua monumentale biografia di Mussolini. Secondo Mosse, il merito principale di De Felice risiede precisamente nella sua empatia con il fondatore del fascismo, nel fatto di aver “cercato di procedere dall’interno, immaginando come lo stesso Mussolini concepisse le proprie azioni” 54. Nella sua autobiografia, Mosse racconta un episodio della propria adolescenza in cui ebbe l’occasione di avvicinare il dittatore italiano. Era il 1936 ed egli si trovava a Firenze con la madre. L’Asse tra l’Italia fascista e la Germania nazista era appena stato proclamato, diffondendo un certo turbamen— to tra i rifugiati ebrei tedeschi nella penisola, che temevano di essere riconsegnati alle autorità naziste (minaccia che si concretizzerà con una espulsione di massa nel 1938, al momento della promulgazione delle leggi razziali)… La madre del giovane Mosse decise pertanto di scfivere a Mussolini per chiedere la sua protezione, dopo avergli ri— cordato l’aiuto economico che suo marito, potente editore berlinese durante la repubblica di Weimar, gli aveva fornito prima del suo arrivo al potere. La breve telefonata che il Duce fece a sua madre per rassicurarla rivelerebbe, secondo George L. Mosse, il “carattere di Mussolini, o almeno il suo senso di gratitudine” 55. Diversamente da Mosse, De Felice non aveva aneddoti da raccontare sul conto del dittatore italiano, ma ha cercato di sondarne la personalità nei vari volumi della sua biografia, un enorme lavoro scritto con una Et'rrfz'i/alurrg sempre crescente nel corso degli anni. Poco prima della sua morte, De Felice ha pubblicato un’opera fortemente controversa, Rosso e nero, nella quale interpreta l’ultima tappa dell’itinerario di Mussolini, il suo

STORIA E Ì\-*IEI\«IORIA: UNA COPPIA

ANTINOMI(ÌÌAP

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ruolo nella guerra civile italiana degli anni 1943-45, A suo avviso, “Mussolini, piaccia o non piaccia, accettò il progetdi Hitler spinto da una motivazione patriottica: un vero e proprio ‘sacrificio’ sull’altare della difesa dell’Italia” 5°. Gli storici francesi hanno familiarità con questa tesi, un tempo difesa da Robert Aron, che presentava il regime di Vichy come uno “scudo” protettivo contro le sciagure di un’occupazione totale del paese (evitando così un destino simile a quello della Polonia). to



Gli storici del colonialismo fascista hanno portato alla luce documenti che le vaste ricerche d’archivio di De Feli— ce avevano ignorato. In essi, il dittatore italiano mostra un altro aspetto del suo carattere, e forniscono un’altra tonalità sia al suo senso di gratitudine che al suo spirito di sacrificio. L’8 luglio 1936, Mussolini telegrafava a Rodolfo Graziani, uno dei principali responsabili militari durante la guerra d’Etiopia, una direttiva nella quale lo autorizzava “ancora una volta a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici. Senza la legge del taglione al decu— plo non si sana la piaga in tempo utile” 58. Con notevole devozione patriottica, Graziani non esitò a utilizzare le ar— mi chimiche per venire a capo della resistenza etiopica, ed è con gratitudine che Mussolini riconoscerà i suoi meriti, tanto da nominarlo, nell’autunno del 1943, ministro della Difesa della repubblica di Salò. E attraverso lo spoglio di una moltitudine di documenti di questo genere che alcuni ricercatori italiani hanno potuto ricostruire la storia del genocidio fascista in Etiopia, nel 1935-36. Ma il riconoscimento di questo genocidio resta un’acquisizione (relativamente recente) esclusivamente storiografica. Essa non ha mai veramente penetrato la me— moria collettiva degli italiani. Nel complesso, il ricordo della guerra d’Etiopia rimane quello di un’avventura inge— nua e innocente, ben riassunta dalle parole di una celebre canzone dell’epoca che tutti conoscono, Faccetta nera, in-

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Il. PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

farcita di stereotipi coloniali. Un insieme di circostanze

storiche (le crisi, le guerre e le dittature conosciute dall’E— tiopia sino a oggi, così come l’esiguità dell’immigrazione etiope in Italia, che non fu mai il luogo di formazione di una élite intellettuale e politica africana) hanno impedito che la voce delle vittime trovasse un posto nella narrazione

Nella sua ultima opera, History. The Last Things Before the Last, Siegfried Kracauer ricorre a due metafore per definire lo storico. La prima, quella dell’ebreo errante, chiama in causa la storiografia positivista. Come “Funes il memorioso”, l’eroe del celebre racconto di Borges, Assuero, che ha attraversato i continenti e le epoche, non può di— menticare nulla ed è condannato a spostarsi continuamente, gravato del suo fardello di ricordi, memoria vivente del passato di cui è custode infelice. Oggetto di compassione, non incarna nessuna saggezza, nessuna memoria virtuosa o edificante, ma soltanto un tempo cronologico omogeneo e vuoto 6“. La seconda metafora, quella dell’era/e — si potrebbe dire anche dello straniero, secondo la definizione di Georg Simmel — fa dello storico una figura dell’extraterritorialità. Come l’esule è lacerato tra due paesi, la patria e la terra d’adozione, così lo storico è conteso tra il passato che esplora e il presente in cui vive. E quindi obbligato ad ae-

.,—:>

italiana di questo genocidio. Nonostante i suoi sforzi, la storiografia non potrà mai colmare le lacune di una memo— ria mutilata. Nel migliore dei casi, essa diventerà, come in Germania, una storia nella quale vi saranno “crimini senza vittime”, o vittime completamente anonime, senza identità e senza volto. Noi non conosciamo il racconto della guerra attraverso i compagni di Hailù Chebbedè, uno dei capi della resistenza etiope; di lui conosciamo soltanto le foto— grafie nelle quali la sua testa viene esibita come un trofeo dai soldati italiani ”. Bisogna sperare che gli studi postco— loniali arrivino presto a spezzare questa dialettica asfittica tra storia e memoria.

STORIA

|". MEMORIA:

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UNA COPPIA ANTINOMICA?

quisire uno statuto “extraterritoriale”, in equilibrio tra il passato e il presente“. Come l’esule & sempre un outsider nel paese che lo accoglie, così lo storico è un intruso nel passato. Ma come l’esule può acquisire familiarità con il paese di residenza e portare su di esso uno sguardo critico, al tempo stesso interno ed esterno, fatto insieme di adesione e di distanza, così lo storico può — non è la norma, ma una possibilità — conoscere in profondità un’epoca passata e ricostruirne i tratti con una chiarezza maggiore di quella data ai contemporanei, in virtù di uno sguardo retrospetti— vo. La sua arte consiste nel ridurre al minimo gli ostacoli dovuti alla distanza e nello sfruttare al massimo i vantaggi epistemologici che ne derivano. In quanto “passatore” (Grenzgiiager) extraterritoriale, è debitore nei confronti della memoria, ma agistorico lo sce a sua volta su di essa, dal momento che contribuisce a fermarla e a orientarla. Proprio perché non vive rinchiuso in una torre ma partecipa alla vita della società civile, egli contribuisce alla formazione di una coscienza storica, quindi di una memoria collettiva (plurale e inevitabilmente conflittuale, che attraversa l’insieme del corpo sociale). In altre parole, il suo lavoro contribuisce a modellare ciò che Habermas chiama l’“uso pubblico della storia” "2. Si tratta di una constatazione sulla quale non c’è bisogno d’insistere: i dibattiti tedeschi, italiani e spagnoli sul passato fascista, i dibattiti francesi su Vichy e sul colonialismo, quelli argentini e cileni sull’eredità delle dittature militari, i dibattiti europei e americani sulla schiavitù la lista sarebbe inesauribile —, superano ampiamente le frontiere della ri— cerca storica. Invadono la sfera pubblica e chiamano in causa il nostro presente. Il libro di Ludmila da Silva Catela, No hahra’flores era la tamha del pasado, dedicato al ricordo delle vittime della dittatura militare argentina, e un buon esempio di ricerca storica che fa della memoria il suo oggetto, pur inserendo— si in un contesto sensibile dove, inevitabilmente, partecipa —

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

a un uso pubblico della storia 63. Si tratta in primo luogo di

una storia orale, perché l’autrice ha

condotto un’inchiesta

presso familiari (genitori, figli, fratelli e sorelle) dei desaparecidos di La Plata, città nella quale la repressione della dittatura militare argentina è stata particolarmente feroce ed estesa. E il racconto della loro paura, della loro speran— za, dell’attesa, della rabbia, del coraggio, del bisogno di agire, del loro senso di sollievo dopo ogni piccola azione pubblica. Si tratta, poi, di una storia politica: come hanno cominciato a organizzarsi, trovato la forza di agire pubblicamente, inventare nuove forme di lotta (di denuncia, di controinformazione) e nuovi simboli (il pafiaelo, ecc.). Come queste azioni rispondessero a un imperativo morale, a un bisogno personale, e come esse abbiano dato origine a un movimento politico con un forte impatto sull’insieme della società civile. Come delle madri e a volte delle nonne, che erano sempre state delle casalinghe, siano diventa— te dirigenti di un movimento della società civile contro la dittatura militare. Accanto alla storia orale e a quella politica, c’è l’antropologia e la psicologia: uno studio sulla sofferenza e sull’impossibilità del lutto a causa della sparizio— ne. I familiari sanno che i desaparecidos sono morti, ma non possono considerarli tali perché i loro corpi non sono mai stati ritrovati; da qui la specificità, o meglio la creatività diuna memoria che accompagna questo lutto a un tempo impossibile e inesauribile (i cortei delle Madres, l’apparizione dei pariaelos, le fotografie degli scomparsi sulla stampa, la pressione assillante sulle autorità, l’apertura degli archivi, i processi, la ricerca dei corpi delle vittime, gli escraches, cioè le denunce pubbliche, trasgressive e insolenti, davanti alle case dei torturatori, ecc.). Una memoria profondamente ancorata al presente, come dimostra la lotta delle madri e degli hijos — i figli degli scomparsi — a sostegno dei picchetti dei disoccupati, perché la lotta dei piaaeteros per la “dignità umana” continua quella dei loro figli e dei loro genitori uccisi dalla dittatura. Ecco allora

STORIA. F. MEMORIA: UNA COPPIA ANTINOMICA?

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un libro di storia fondato su un’empatia critica che ridà un volto e una voce a coloro che la dittatura militare aveva voluto cancellare senza lasciare tracce, esplorandone la memoria, attraverso i loro familiari, nell’Argentina di oggi.

2. Il tempo e la forza

Tempo storico e tempo della memoria

La storia e la memoria hanno loro proprie temporalità che tendono costantemente a intrecciarsi, senza tuttavia coincidere. La memoria possiede una temporalità qualitativa che mette in discussione il continuum della storia. Walter Benjamin ne ha dato un esempio nelle sue tesi “Sul concetto di storia”. Nella tesi XV, egli evoca un episodio della rivoluzione francese del luglio 1830: a sera, dopo gli scontri, in molti quartieri di Parigi, simultaneamente, gli insorti sparavano contro gli orologi, quasi volessero ferma— re il tempo 1. La temporalità della rivoluzione — quella del 1789 aveva introdotto un nuovo calendario — non è quella meccanica e vuota degli orologi, precisa Benjamin, ma quella della “rammemorazione”, quella della rivoluzione come atto che riscatta la memoria dei vinti. Commentando le tesi di Benjamin, Michael Lòwy ricorda un’altra immagine straordinariamente simile a quella degli insorti del 1830. E una fotografia più recente, porta la data dell’aprile

2000, che mostra alcuni indigeni mentre sparano all’orolo-

gio delle commemorazioni ufficiali del quinto centenario della scoperta del Brasile? La memoria degli oppressi non rinuncia a protestare contro il tempo lineare della storia.

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IL TEMPO E LA FORZA

Essa presuppone, secondo Benjamin, “un

presente

che

non è passaggio, ma nel quale il tempo è in equilibrio ed è giunto a un arresto” 3. La storiografia esige un distanziamento, una separazio— ne, a volte una rottura con il passato, quanto meno nella coscienza dei contemporanei. Ciò costituisce una premessa essenziale per procedere a una storicizzazione, cioè all’adozione di una prospettiva storica nei confronti del passato. Da questo punto di vista, le cesure simboliche (per esem— pio, in Europa, 1914, 1917, 1933, 1945, 1968, 1989, ecc.) sono più importati del semplice allontanamento temporale. A questa distanza prodotta da una rottura corrisponde

normalmente l’accumulazione di determinate premesse materiali della ricerca, tra cui, in primo luogo, la costituzione e l’apertura di archivi, privati e pubblici. Ma questa condizione e secondaria e derivata. Age of Extremes di Eric ]. Hobsbawm o l’opera collettiva Le siècle des communismes non sarebbero state concepibili prima della caduta del muro di Berlino e il crollo dell’Urss 4. Un lavoro pionieristico come Le Bréoiaire de la haine di Léon Poliakov (1951) — la prima storia dell’Olocausto — presupponeva non soltanto la fine della guerra e la caduta del nazismo, ma anche la possibilità di consultare gli archivi del processo di Norim— berga? Infine, per scrivere un libro di storia che non sia soltanto un lavoro isolato di erudizione occcorre una do— manda sociale, pubblica, e ciò rimanda all’intersezione del— la ricerca storica con i percorsi della memoria collettiva. E per questo che The Destruction of the European ]ews di Raul Hilberg ebbe un impatto molto limitato all’epoca della sua prima edizione, nel 1960, per diventare invece un’o— pera di riferimento a partire dagli anni Ottanta (’. La memoria, dal canto suo, tende ad attraversare diver— se tappe che si potrebbero descrivere, riprendendo il mo— dello proposto da Henry Rousso nel suo libro Le ryndrome de Vichy, nel modo seguente: prima un evento importante, un punto di svolta, spesso un trauma; poi una fase di rimo—

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

zione, che prima o poi sarà seguita da una inevitabile “anamnesi” (“il ritorno del rimosso”) e che può, a volte, trasformarsi in ossessione della memoria’. Nel caso del re-

gime di Vichy, questo schema corrisponde alla fine della

guerra e alla Liberazione, alla rimozione degli anni Cin-

quanta e Sessanta, all’anamnesi a partire dagli anni Settanta, e infine all’ossessione attuale. Nel caso della Germania:

alla Schuldfrage di Jaspers nel 1945, alla rimozione dell’era Adenauer, all’anamnesi a partire dal 1968 e, infine, a un ossessione del passato che ha raggiunto il suo punto più alto con l’Hirtoriherstreit, l’affare Goldhagen, la polemica Bubis—Walser e la mostra sui crimini della Wehrmacht dell’Institut fiir Sozialforschung di Amburgo. Durante la fase di rimozione, la rivendicazione del “di— ritto alla memoria” assume un’aspetto critico, se non di una rivolta etico—politica contro un silenzio complice. Quando il governo di Adenauer include tra i suoi ministri alcuni ex nazisti, tra cui uno degli autori delle leggi di Norimberga come Hans Globke, Adorno considera l’espres— sione allora di moda, “elaborazione del passato” (Vergan— genheit Bewiiltingung), come una mistificazione che mira a “chiudere definitivamente col passato cancellandone probabilmente la stessa memoria”. Parlare di riconciliazione significa riabilitare i colpevoli, in un’epoca in cui “il per— durare del nazionalsocialismo nella democrazia” appare ai suoi occhi “potenzialmente più pericoloso della sopravvivenza di tendenze fasciste contro la democrazia” 8. Jean Améry rivendica il proprio “risentimento”, quando “il tempo ha compiuto la sua opera, silenziosamente”, e “la generazione degli annientatori” veglia tranquillamente, circondata dal rispetto generale. In questo contesto, egli conclude, è su di lui che “grava la colpa collettiva”, non su di loro, “il mondo che perdona e dimentica” ”. Al contra— rio, durante la fase dell’ossessione, come quella che attra— versiamo oggi, il “dovere di memoria” tende a divenire una formula retorica e conformista.

IL TEMPO E LA FORZA

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La storiografia ha seguito grosso modo il percorso della memoria. Non sarebbe difficile dismostrare che la produzione storica su Vichy e sul nazismo ha conosciuto uno sviluppo nel periodo dell’anamnesi e raggiunto un apice nella fase dell’ossessione. E stata alimentata da queste tappe e, a sua volta, ha contribuito a costruirle. Basti pensare alla Germania Federale, che oggi domina nel campo della ricerca sul genocidio degli ebrei, mentre invece, negli anni Cinquanta, i lavori pionieristici di Joseph Wqu e Léon Poliakov erano trattati con diffidenza come “non scientifi— ci” “’. Ma questa corrispondenza non e lineare: le temporalità della storia e della memoria possono anche entrare in collisione tra loro, in una sorta di “non-contemporaneità” o di “discordanza dei tempi” (la Ungleichzeitzlgheit teorizzata da Ernst Bloch “). Gli esempi di coesistenza di temporalità diverse sono innumerevoli. La letteratura, il cinema e un’immensa produzione sociologica hanno analizzato il conflitto fra tradi— zione e modernità, che, soprattutto nelle grandi città, assume la forma di uno scontro generazionale tra padri immigrati e figli nati nei paesi di residenza. Gli ebrei polacchi di New Y0rk descritti da Isaac Bashevis Singer, i pakistani di Londra raccontati da Hanif Kureishi, gli italo-americani rappresentati da Martin Scorsese nei suoi primi film, con— trappongono all’interno di una stessa famiglia visioni del mondo e modi di vita distinti che rimandano a percezioni del tempo e a memorie molto diverse, a volte incompatibili. Gli zapatisti del Chiapas fanno coabitare il tempo cicli— co delle comunità indigene con un progetto politico di liberazione che si inscrive in una narrazione marxista della modernità (anche se priva delle mitologie progressiste) e nel “presente perpetuo” del mondo contemporaneo, quello della globalizzazione neoliberale che essi combattono 12 Un esempio significativo e paradossale di discordanza dei tempi, di collisione tra lo sguardo storico e la memoria collettiva, e dato dalla ricezione del saggio di Hannah

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Arendt sul processo Eichmann a Gerusalemme, il cui sottotitolo, la “banalità del male”, suscitò scandalo ”. Questo processo costituì appunto una svolta che mise fine a un lungo periodo di occultamento e oblio del genocidio ebraico, avviando la fase dell’anamnesi. Per la prima volta lo sterminio degli ebrei diventava un tema di riflessione per l’opinione pubblica internazionale, ben al di là del mondo ebraico. Fu anche un momento catartico di libera— zione della parola, poiché un gran numero di sopravvissuti si presentò al processo per testimoniare. E proprio nel mo— mento in cui il mondo intero prendeva conoscenza delle dimensioni del genocidio ebraico, che appariva ormai co— me un crimine mostruoso e senza precedenti, Hannah Arendt fissava il suo sguardo su Eichmann, un tipico rappresentante della burocrazia tedesca che incarnava ai suoi occhi la “banalità del male”. Arendt, i cui scritti degli anni Quaranta provano che fu tra i primi, in un mondo cieco, a capire cosa significasse questo crimine, non rivolgeva più la sua attenzione alle vittime, ma ai carnefici. Essa adottava quella che Raul Hilberg, molto tempo dopo, avrebbe definito la “prospettiva dell’esecutore” “, un esecutore che fi— nalmente poteva guardare in faccia, in carne e ossa. Adottando questa prospettiva si trovava di fronte a un crimine mostruoso perpetrato da individui che non erano dei mo— stri abitati dall’odio e dal fanatismo, ma persone comuni, banali burocrati. Gli osservatori e i commentatori del pro— cesso, al contrario, avevano adottato un’altra prospettiva, quella della memoria dei sopravvissuti che rivivevano la lo— ro sofferenza nel presente. La ferita era ancora aperta, era soltanto stata nascosta e ora appariva alla luce del sole. La loro attenzione era calamitata dalle testimonianze dram— matiche fornite al processo dai sopravvissuti, di fronte ai quali Eichmann non era più che un simbolo. In tali circo— stanze, la banalità del male evocata dalla Arendet non sembrò un concetto utile a cogliere i movimenti e le categorie mentali degli esecutori ma, molto semplicemente, un

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tentativo di banalizzare un crimine tra i più orrendi della storia dell’umanità ”. Lo schema di Rousso, tuttavia, è passibile di numerose varianti. In Turchia, per esempio, la memoria e la storia del genocidio degli armeni non hanno mai potuto essere elaborate né scritte nello spazio pubblico. Si sono costituite altrove, nella diaspora e nell’esilio, con tutte le conse— guenze che questo comporta ”’. Da un lato, la memoria è stata eretta non solo contro l’oblio ma soprattutto contro un regime politico che nasconde e nega il crimine nel pre— sente; dall’altro, la scrittura della storia è stata intralciata, perché l’occultamento passa attraverso la chiusura degli archivi e la moltiplicazione degli ostacoli alla ricerca ". Ma la rimozione si può perpetuare anche sotto altre forme. La memoria dello stalinismo è profondamente eterogenea, perché è a un tempo memoria della rivoluzione e del Gulag, della “grande guerra patriottica” e dell’oppresione burocratica. Essa ha accompagnato, per lunghi decenni, un regime al potere. In questo contesto, la sua espressione pubblica appariva come una forma di lotta — così furono considerati i libri di Gustav Herling, di Aleksander Solzenicyn, Vassili Grossman e Varlam Chalamov — contro un regime che non si poteva né catalogare nel passato né mettere a distanza. Oggi, a dieci anni dalla caduta dell’Urss, questa memoria è soffocata. Il processo di integrazione del ricordo dello stalinismo nella coscienza collettiva è iniziato nel corso degli anni Ottanta, sotto Gorbaciov, quando cominciarono a moltiplicarsi le associazioni di ex deportati e le richieste di riabilitazione delle vittime. Questo movimento e stato bruscamente interrotto durante la presiden— za di Eltsin, che ha segnato un punto di svolta. L’elabora— zione del lutto e l’appropriazione di un passato rimosso hanno lasciato il posto a una pesante riabilitazione della tradizione nazionale. Alla vergogna legata alla presa di coscienza di ciò che fu lo stalinismo si è sostituito l’orgoglio per il passato russo (al quale appartengono sia gli zar che

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Stalin) ”“. Un fenomeno analogo caratterizza i paesi dell’ex impero sovietico, dove l’introduzione dell’economia di mercato e l’emergere di nuovi nazionalismi ha completamente emarginato il ricordo delle lotte per un “socialismo dal volto umano”. In Italia, dove l’antifascismo è stato il

pilastro delle istituzioni repubblicane nate alla fine della Seconda guerra mondiale, l’interpretazione storica del fascismo è stata per una buona trentina d’anni indissociabile dalla sua condanna etica e politica. A partire dalla fine degli anni Settanta è iniziata una nuova lettura del passato, molto più preoccupata di mettere in luce il consenso sul quale si fondava il regime di Mussolini e, allo stesso tem— po, fermamente decisa a emanciparsi dai vincoli della tra— dizione antifascista. Durante gli anni Novanta, questa svolta storiografica si è accentuata con la fine dei partiti che avevano creato la repubblica (il Partito comunista, la Democrazia cristiana e il Partito socialista) e la legittimazione degli eredi del fascismo come forza di governo (l’at— tuale Alleanza nazionale). Questo mutamento è stato accompagnato da un ritorno del rimosso (il fascismo) nello spazio pubblico, dagli effetti inattesi e paradossali. Da un lato, si è tradotto nella fine dell’oblio delle vittime del genocidio ebraico (in precedenza sacrificare sull’altare della guerra di liberazione nazionale, nella quale tuttii deporta— ti diventavano automaticamente dei martiri della patria, e dunque dei deportati politici) e, dall’altro, nella riabilitazione del fascismo, cioè dei loro persecutori. La crisi dei partiti e delle istituzioni che incarnavano la memoria antifascista ha creato le condizioni per l’emergere di un’altra memoria, fino a quel momento silenziosa e stigmatizzata. Il fascismo è ora rivendicato come un pezzo di storia nazionale, l’antifascismo respinto come una posizione ideologica “antinazionale” (l’8 settembre 1943, data della fir— ma dell’armistizio e dell’inizio della guerra civile, è stato presentato come il simbolo della “morte della patria” 19). Il risultato è stato, nell’autunno del 2001, un discorso uffi-

IL- ’1'.|amro |;:LA FOR/.A.

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ciale del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, teso a commemorare indiscriminatamente “tutte” le vittime della guerra, cioè ebrei, soldati, resistenti e miliziani fascisti, ormai soprannominati affetuosamente “i ragazzi di Salò” ":°. In altre parole, una commemorazione congiunta di coloro che sono morti nelle camere a gas e di coloro che li hanno perseguitati, arrestati e deportati. Come se, nel rendere omaggio alla loro memoria, lo Stato non dovesse pronunciarsi sui valori e le motivazioni dei loro atti, o peggio, come se potesse mettere sullo stesso piano car— nefici e vittime, oggetti di memorie “simmetriche e comparabili” 21. In questa prospettiva, l’istituzione per decreto gover— nativo di una “giornata della memoria” (27 gennaio) per commemorare le vittime della Shoah è stata logicamente seguita da altre due: la “giornata del ricordo” (10 feb— braio) e la “giornata della libertà” (9 novembre). La prima vuole ricordare gli italiani cacciati dall’Istria nel 1947, sulla base di un trattato internazionale, e quelli che sono stati uccisi dalla resistenza jugoslava tra il 1943 e il 1945, getta— ti nei crepacci delle montagne che sormontano Trieste (foibe). La seconda giornata celebra il ricordo delle vitti— me del comunismo, che hanno simbolicamente ritrovato la libertà il giorno della caduta del muro di Berlino. La simmetria antitotalitaria è ora perfetta, anche se la sua conseguenza, come ci ricorda giustamente Claudio Magris, consiste nel trasformare l’uguaglianza delle vittime — tutte degne di memoria e di pietà — in “eguaglianza delle cause per le quali esse sono morte” 22, mescolando crimini di natura completamente diversa. Ma questa simmetria antitotalitaria coincide ora con una dissimetria della memoria nazionale, che conserva il ricordo delle vittime ita— liane della resistenza titina, ma dimentica tranquillamente le vittime jugoslave dell’occupazione italiana, la cui violen— za ha spesso assunto tratti simili a quella dei nazisti sul fronte orientale 23. E scontato poi che le vittime del colo-

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nialismo italiano sfuggano

antitotalitaria.

IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L'USO

a questa

logica della memoria

In Spagna, il ricordo della Guerra civile è stato espropriato e strumentalizzato dalla propaganda del regime franchista che, per trentacinque anni, ha organizzato la cancellazione delle tracce della sua violenza, stigmatizzan— do invece quella dei repubblicani. Alla morte del dittatore, nel 1975, la scelta di una transizione pacifica verso la de— mocrazia nel quadro delle istituzioni monarchiche è stata accettata dall’insieme delle forze politiche, sia di destra che di sinistra, che condividevano la preoccupazione di evitare una nuova guerra civile (il che prova come, anche se sotterraneo, il suo ricordo restasse particolarmente vivo) 2“. Ma, contrariamente al Sudafrica degli anni Novanta dove, grazie al lavoro della commissione “Verità e giustizia”, la transizione pacifica alla democrazia post-apartheid ha potuto accompagnarsi a un riconoscimento della verità e a un’elaborazione del lutto, la Spagna ha scelto una transizione amnesica, con il risultato di prolungare la rimozione ufficiale per più di una generazione. E solo a partire dalla fine degli anni Novanta che la memoria della guerra civile è tornata in primo piano. Mentre la storiografia rivolge la propria attenzione alla violenza del regime franchista ristabilendo una contabilità delle vittime fino a quel momento lacunosa 25, o ad altri fenomeni in precedenza ignorati come l’esilio repubblicano 26, nella società civile inizia un’elaborazione del lutto delle vittime della dittatura che l’amnistia e le forme politiche della transizio— ne democratica avevano reso impossibile. Si riesumano le salme di migliaia di militanti repubblicani, anarchici 0 co— munisti che erano stati fucilati in modo sommario, senza processi, senza constatarne il decesso, e dunque rimasti senza sepoltura legale, fuori dai cimiteri. Il lutto clandestino dei famigliari ha potuto finalmente diventare pubblico, determinando un’anamnesi collettiva e suscitando un vasto dibattito sul rapporto della Spagna contemporanea

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con il suo passato ”. In questo contesto sorge la tentazione illusoria e mistificatrice di una memoria riconciliata super partes, ben illustrata dalla decisione governativa, nell’ottobre 2004, di far sfilare assieme, durante una festa nazionale, un anziano esule repubblicano e un ex membro della Division Azul che Franco aveva inviato in Russia nel 1941 per combattere a fianco delle armate tedesche. E sorge anche un inevitabile dibattito sul destino degli innumerevoli monumenti eretti in onore del Caudillo che decorano le città e i paesi spagnoli: bisogna conservarli come luoghi di memoria (una memoria che, per una parte della società, si tinge di nostalgia)? Oppure demolirli, come hanno fatto tutti i paesi dell’Europa centrale al momento della caduta dei dittatori stalinisti, con un gesto emancipatore che sarebbe ora piuttosto (troppo) tardivo? Dopo una dozzina d’anni questi dibattiti irnperversano in Spagna, paese in cui la memoria è lungi dall’essere tranquilla. In Argentina, invece, la memoria dei crimini della dit— tatura militare ha cominciato a manifestarsi sulla scena pubblica prima della fine della dittatura stessa, contri— buendo fortemente a isolarla e a delegittimarla (si può par— lare di “memoria” perché i cortei con le foto degli scomparsi erano già delle forme di commemorazione). A causa delle modalità proprie della criminalità del regime — la scomparsa di decine di migliaia di persone i cui corpi non sono mai stati ritrovati —, la fase del lutto e dell’afflizione si è prolungata, non vi è stato oblio. Nello stesso tempo, per le forme assunte dalla transizione verso la democrazia, senza rottura radicale, senza vera epurazione delle istitu— zioni militari, con qualche processo seguito da leggi di am— nistia che hanno dato luogo all’impunità dei carnefici, la memoria non ha fatto posto alla storia 28. La dittatura militare non è crollata come il fascismo in Europa nel 1945, si è soltanto ritirata discretamente dalla scena. In breve, non si è potuta stabilire una distanza nei confronti del passato: c’è stato un allontanamento cronologico, ma non una sepa—

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

razione segnata da forti rotture simboliche. Siamo qui di fronte a ciò che Dan Diner ha chiamato un… “tempo com— presso” (gestante Zeit) che rifiuta di darsi come passato 2". Una delle condizioni fondamentali per la nascita di una storiografia delle dittature del Cono Sud, della cilena co-

me dell’argentina, rimane assente. Tutto questo ci riporta ancora una volta a Israele. Se il processo Eichmann è un esempio di collisione tra memoria e scrittura della storia, l’itinerario del sionismo offre al— tri esempi di incontro (tardivo) tra le due. E il caso della rilettura della guerra del 1948 da parte dei “nuovi storici” israeliani (Benny Morris, Ilan Pappe e altri). A partire da una ricerca d’archivio — ma ignorando la storiografia palestinese e le testimonianze dei profughi —, questi storici

hanno radicalmente rimesso in discussione l’antico mito sionista della “fuga” palestinese e presentato la guerra del 1948 se non come una espulsione pianificata, per lo meno come un conflitto che, di fatto, è diventato l’occasione per realizzare il progetto sionista di uno Stato ebraico senza arabi. Alcuni, come Ilan Pappe, hanno scorto in questa guerra i tratti di una campagna di epurazione etnica. Que— sta storiografia conferma i racconti della Nahhah (la “catastrofe”), il ricordo dell’esodo trasmesso dalla memoria dei profughi e ricostruito da una storiografia palestinese nata in esilio sotto l’impatto del trauma”. Questa memoria e questa scrittura della storia erano rimaste fino ad oggi relegate al mondo arabo, scontrandosi così sia con il racconto sionista (la storia come epopea nazionale ebraica), sia con la coscienza storica del mondo occidentale. Poiché lo Sta— to di Israele è stato creato come atto di riparazione in se— guito al genocidio subito dagli ebrei in Europa, era difficile ammettere chela sua nascita avesse coinciso con un atto di oppressione. Questa convergenza tra il racconto palesti— nese della Na/ehah e la revisione del racconto della “guerra di liberazione” da parte della storiografia ebraica è la pre— messa indispensabile perché due memorie possano un

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giorno coesistere in uno spazio comune (nella forma di due Stati, di una federazione o di uno Stato binazionale). Si avrebbe così una convergenza tra il “tempo compresso” della memoria palestinese — la Nahhah come eterno presente — e un’anamnesi israeliana, sollecitata dal lavoro degli storici. Memorie "forti ” e memorie "deboli”

La sola differenza tra una lingua e un dialetto, dice un aforisma diffuso tra i popoli minoritari, sta nel fatto che la lingua è protetta dalla polizia e il dialetto no. Si potrebbe estendere questa constatazione alla memoria. Vi sono memorie ufficiali, istituzionalizzate, protette dagli Stati, e memorie sotterranee, nascoste o perseguitare. La “visibilità” e il riconoscimento di una memoria dipendono anche dal— la forza di coloro che la portano. In altre parole, vi sono memorie “forti” e memorie “deboli”. In Turchia, la memoria armena continua a essere vietata e repressa. In America latina, la memoria indigena si è espressa durante le celebrazioni del quinto centenario della scoperta del continente come una memoria antagonista, direttamente opposta alla memoria ufficiale degli Stati nati dalla colonizzazione e dal genocidio. Forza e riconoscimento non sono dati fissi e immutabili, si trasformano, consolidano o affie— voliscono, contribuendo a ridefinire in permanenza lo sta— tuto della memoria. La memoria comunista è stata forte, settaria e arrogante, in un’epoca in cui l’Urss era una gran— de potenza e il movimento operaio disponeva di una forza sociale e politica considerevole. Oggi, sembra ricaduta nella clandestinità. Si perpetua come ricordo di una comunità di vinti, stigmatizzata se non apertamente criminalizzata dal discorso dominante. La memoria armena resta de— hole, perché i suoi negatori dispongono di uno Stato riconosciuto sul piano internazionale, al quale gli altri Stati

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Il. PASSATO: ISTRUZIONI PER L'USO

spesso preferiscono non ricordare il passato per ragioni di convenienza economica o geopolitica. La memoria omosessuale comincia appena a esprimersi pubblicamente. Per

decenni, le associazioni. che rappresentano gli omosessuali deportati nei campi di concentramento nazisti sono state espulse manu militari dalle celebrazioni ufficiali, come portatori di un ricordo che la doxa conformista impediva di evocare. Le leggi che avevano permesso la loro deportazione — il paragrafo 75 del codice penale della repubblica di Weimar — furono abrogate molto tardivamente nel do— poguerra, quando gli altri ex deportati erano già stati in—

dennizzati.

La memoria della Shoah, il cui statuto è oggi così universale da fungere da religione civile del mondo occidentale, illustra bene questo passaggio da una memoria debole a una memoria forte. Lo storico americano Peter Novick ha studiato questa trasformazione all’interno della società americana “, individuando quattro tappe fondamentali. Innanzitutto gli anni della guerra, quando per gli Stati Uniti il nemico principale era il Giappone. In quel momento la preoccupazione maggiore di Roosevelt era di evi— tare che l’intervento americano in Europa potesse apparire come “una guerra per gli ebrei”. Durante questo perio— do, lo sterminio degli ebrei non fu mai l’oggetto di un’attenzione particolare, e il paese non era affatto ossessionato dal rimorso di non aver potuto o voluto impedire questo crimine. Gli ebrei non mostravano all’epoca una maggiore consapevolezza o sensibilità riguardo agli avvenimenti tragici del vecchio mondo rispetto agli altri cittadini americani; alla fine del conflitto, essi erano piuttosto fieri del loro paese che aveva contribuito alla disfatta del nazismo. Nel corso del secondo periodo — gli anni Cinquanta e la prima metà dei Sessanta — il genocidio degli ebrei sarà assente dallo spazio pubblico. Il ricordo dell’Olocausto e le esi— genze della lotta contro il “totalitarismo” non andavano

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d’accordo tra loro. Nel momento in cui la guerra fredda faceva dell’Urss il nemico totalitario contro il quale dovevano essere dispiegate tutte le energie del “mondo libero”, il ricordo dei crimini nazisti rischiava di disorientare l’opi— nione pubblica e di ostacolare la nuova alleanza con la Re— pubblica Federale Tedesca. Gli ebrei americani erano sospettati di simpatia per il comunismo — Julius e Ethel Rosenberg furono tra i pochi a parlare di Auschwitz nell’America degli anni Cinquanta, all’epoca del processo che li condannò a morte — e le istituzioni ebraiche si opponevano all’erezione di monumenti o siti commemorativi del massacro hitleriano. Era il tempo della valorizzazione degli eroi e dell’esibizione della forza come virtù nazionale; gli ebrei americani volevano identificarsi (e integrarsi) con questa America liberatrice e, soprattutto, non apparire co— me una comunità di vittime. La transizione inizia, scondo Novick, nel corso degli anni Sessanta. Innanzitutto con il processo Eichmann, che fu la prima apparizione pubblica della memoria dell’Olocausto. Poi, con la guerra dei Sei giorni, nel 1967, punto di svolta dopo il quale il termine “Olocausto”, fino a quel momento poco usato per definire il genocidio degli ebrei, entrò nel lessico corrente. Questa guerra produsse una frattura singolare, che persiste ancora oggi: una larga parte degli ebrei della diaspora percepiva questo conflitto come la minaccia di un nuovo antisemitismo, mentre l’opinione pubblica araba considerava Israele come un potere neocoloniale. Da allora, la memoria di Auschwitz resterà intimamente intrecciata all’evoluzione del conflitto israelo-arabo, con tutti i cortocircuiti ideologici e gli usi politici che ne derivano. Qui risiede una delle fonti del negazionismo dif— fuso nel mondo arabo, la cui cultura è estranea alla storia dell’antisemitismo europeo. Per una parte dell’opinione pubblica araba, la Shoah sarebbe un “mito” ebraico utilizzato, se non costruito, per legittimare una politica di op— pressione dei palestinesi. Israele, invece, tende a guardare



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il rifiuto arabo attraverso il prisma della Shoah, a tal punto che i responsabili di Tsahal avevano l’abitudine di chiamare i confini del 1967 “la frontiera di Auschwitz” 32. Per gli uni, la nascita di Israele è il simbolo di una resurrezione, per gli altri di una catastrofe, la Nahhah: ecco uno scontro violento tra memorie che non riescono a trovare la via di un dialogo. Nel 1982, indignato per i crimini commessi durante l’occupazione israeliana del Libano, il direttore dell’Istitu— to di storia delle scienze dell’università di Tel-Aviv, Yehuda Elkana, sopravvissuto di Auschwitz, pubblicava nel quotidiano “Haaretz” un articolo provocatorio nel quale prescriveva ai suoi concittadini le virtù dell’oblio: “Noi... dobbiamo dimenticare”. Bisogna costruire il futuro, egli scriveva, e non “occuparsi da mattina a sera di simboli, ce— rimonie e insegnamenti dell’Olocausto. Il giogo della me— moria deve essere estirpato dalla nostra vita” ”. Egli risco— priva così le virtù civiche dell’oblio, che gli antichi greci avevano prescritto come una politica di riconciliazione, nel 406 a.C., dopo l’oligarchia dei Trenta Tiranni “. Il senso della riflessione di Elkana è chiaro: se l’oblio è colpevo— le, trattandosi dei persecutori e di coloro che ne hanno raccolto l’eredità, la memoria non è sempre virtuosa e può essere anche fonte di abusi da parte delle vittime. L’ultima fase si è aperta con la diffusione della serie te— levisiva Holocaust (1978), che ha avuto un forte impatto sia negli Stati Uniti che in Europa (e in particolare in Germania). Il genocidio ebraico è diventato un prisma di lettura del passato e un elemento essenziale di definizione sia della coscienza storica occidentale, sia soprattutto dell’identità ebraica. Oggi è diventato un campo di ricerca scientifica e di insegnamento (gli Holocaust Studies sono ormai una ve— ra e propria disciplina nelle università), di commemorazione pubblica (con la creazione di monumenti, memoriali, musei, cerimonie ufficiali) e anche di reificazione commer— ciale per i media e per l’industria culturale (Hollywood).

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L’Olocausto ha conosciuto allora, sottolinea Novick, un processo di americanizzazione, in altre parole è entrato nella coscienza storica degli Stati Uniti, e di sacralizzazione, fino a trasformarsi in una sorta di religione civile accompagnata dai suoi dogmi (il suo carattre unico e incomparabile) e incarnata dai suoi “santi secolari” (i sopravvissuti eretti a icone viventi). La costruzione di questa memoria ufficiale si inscrive in un contesto culturale segnato dall’ab— bandono, presso gli ebrei americani, dell’ethos integrazio— nista degli anni Cinquanta e Sessanta a favore di un nuovo ethos particolatista. La formula di Wiesel — l’Olocausto co— me evento insieme unico e universale — riassume bene questa americanizzazione dell’Olocausto e allo stesso tempo la sua trasformazione in pilastro dell’identità etnico-culturale ebraico-americana. Questa identificazione con le vittime, spiega Novick, è resa possibile dalla forza degli ebrei in seno alla società americana, vale a dire dalla loro profonda integrazione nelle sue istituzioni economiche, politiche e soprattutto culturali. Da cui il suo scetticismo: la sacralizzazione dell’Olocausto èuna cattiva politica della memoria. Se il riconoscimento del carattere unico del genocidio degli ebrei, sottolinea ancora, ha svolto un ruolo importante per la formazione della coscienza storica europea, negli Stati Uniti esso favorisce invece una “evasione dalla responsabilità morale e politica” ”. Si arriva così al paradosso della creazione di un museo federale dell’Olocausto, dedicato a una tragedia consumata in Europa, quando nulla di paragonabile esiste per due esperienze fondatrici della storia americana: il genocidio degli indiani e la schiavitù dei neri. E mentre si inaugurava il museo dell’Olocausto, nel 1995, le Poste emettevano un francobollo che celebrava l’anniversario del bombardamento atomico di Hiroshima @ Nagasaki come l’evento fausto che aveva messo fine alla Seconda guerra mondiale 3“. Nella sua ultima opera, Davanti al dolore degli altri, Susan Sontag ha puntato il dito su questo uso fortemente selettivo della memoria. L’Olo-

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L‘USO

causto, essa scrive, è stato “nazionalizzato” e trasformato in veicolo di una politica della memoria singolarmente dimentica dei crimini nei quali l’America non ha svolto il ruolo del liberatore ma piuttosto quello del persecutore. “Istituire un museo che racconti quel grande crimine che è stata la schiavitù africana negli Stati Uniti sarebbe come riconoscere che il male era qui. Gli americani preferiscono invece immaginare il male che era là, e da cui gli Stati Uniti una nazione unica, la sola che nel corso della sua intera storia non ha avuto leader di provata malvagità — sono esenti. Il fatto che questo paese, come ogni altro, abbia un tragico passato non si accorda con la fiducia fondante, e tuttora onnipotente, nell’eccezionalità americana” ”. Negli Stati Uniti, aggiunge Novick, “la memoria dell’Olocausto è così banale, così inconseguente, neppure una vera memoria, proprio perché è consensuale, slegata dalle divisioni reali della società americana, apolitica” 38. Novick non è il primo a fare questa constatazione. Dieci anni fa, Arno J.



Mayer denunciava un “culto del ricordo” presto trasformato in “settarismo esagerato”, grazie al quale il massacro degli ebrei veniva staccato dalle circostanze storiche del tutto profane che l’avevano generato per essere isolato in una memoria sacralizzata, “da cui non è permesso deviare e che si sottrae al pensiero critico e contestuale” ”. Le manifestazioni esteriori di questa memoria forte ri— cordano il narcisismo compassionevole denunciato da Gilbert Achcar a proposito del rituale commemorativo delle vittime dell’11 settembre 2001 (iniziato già un mese dopo l’attentato e ossessivamente mediatizzato su scala internazionale) “. Una volta che le vittime sono incorporate nel suo immaginario, nella sua coscienza, nella sua memoria, e trasformate così in elementi costitutivi della sua identità, l’Occidente si autocelebra commemorandole. Ciò non sarebbe stato possibile subito dopo la guerra, quando le vittime dell’Olocausto, lungi dall’apparire come dei rappresentanti tipici del mondo occidentale, erano percepite in-

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nanzitutto come degli “ebrei dell’Est”, incarnazione di una alterità negativa e mal tollerata all’interno delle diver—

se comunità nazionali. Il silenzio della cultura occidentale su Auschwitz nel 1945 si inscrive nella stessa logica che presiede all’indifferenza o alla fredda compassione con la quale, nei nostri giorni, essa guarda alle vittime delle sue guerre “unamitarie”.

Un contro-esempio di “memoria forte” merita tuttavia di essere menzionato. L’impressionante’ “Memoriale agli ebrei d’Europa assassinati” (Den/emal fit'r die ermordeten Jaden Europas), inaugurato nel maggio 2005 a Berlino, rivela un uso pubblico del passato assai diverso da quello denunciato negli Stati Uniti da Peter Novick e Susan Son— tag. Eretto nel cuore della capitale tedesca, a fianco alla porta di Brandeburgo, tra il Reichstag e la Potsdamer Platz, questo gigantesco monumento sobrio e freddo ricopre uno spazio di quasi 20 mila metri quadrati con migliaia di steli in cemento di altezza irregolare“. Il suo architetto, l’americano Peter Eisenman, non ha voluto conferire alla sua opera una simbologia esplicita, lasciando il pubblico libero di dare la sua interpretazione. Ipareri sono molto diversi: alcuni vi hanno visto un cimitero, altri un labirinto, un campo di grano, un mare, altri ancora una spaventosa caricatura dell’architettura totalitaria del Terzo Reich o il trionfo dell’“ornamento della massa” (nel senso indicato da Kracauer) in una immensa costruzione senza contenuto. Sulla scia di Régine Robin, lo si potrebbe con— cepire come una di quelle “costruzioni sconcertanti” la città di Berlino ne ospita diverse — che “trasmettono qualcosa del passato nella sua z'lleggihilitcì, non nella sua ine— splicahilitrì” 42. Questo monumento è il risultato di un in— tenso dibattito intellettuale e politico che si è svolto per più di dieci anni in seno alla società civile e al Bundestag. Accompagnato da un centro di documentazione, questo memoriale unico nel suo genere svolge diverse funzioni: è a un tempo un monumento al ricordo degli ebrei stermi—

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L'USO

nati (che non manca di ricordare le altre vittime del nazismo) e un monumento di ammonimento nei confronti del— la nazione tedesca. In altre parole, un atto di pietà perle vittime e un ricordo del crimine rivolto alla nazione che ha generato i suoi responsabili e che ne ha ricevuto l’eredità. Alcuni, come lo scrittore Martin Walser, vi hanno visto un

inaccettabile “monumento alla vergogna” (Schandmal); al— tri, come il filosofo Jiirgen Habermas, la prova che la Ger— mania ha integrato Auschwitz nella sua coscienza storica. In un certo senso, questo monumento ha raggiunto il suo scopo ancora prima di vedere la luce, se si considerano i dibattiti appassionati che ha suscitato. Esso testimonia an— che delle trasformazioni che hanno fatto della Shoah una memoria forte, alla fine di una controversia che non escludeva, all’inizio, altre opzioni. Tra la proposta di Helmut Kohl, cancelliere al momento in cui la discussione e inizia— ta, che auspicava un monumento a “tutte le vittime della guerra e della tirannia”, e la scelta finale di un Holocaust Denhmal, la distanza è grande. Il progetto di Kohl mirava a stemperare i crimini nazisti in una commemorazione generale delle vittime della guerra includendo gli ebrei, i ci— vili e i soldati tedeschi, le vittime di un genocidio e quelle dei bombardamenti alleati, i deportati e i loro persecutori caduti nel conflitto. Qualche anno prima, il cancelliere Kohl si era distinto per la sua visita, in compagnia del presidente americano Ronald Reagan, al cimitero militare di Bitburg dove sono seppellite numerose SS. Subito dopo la riunificazione, era riuscito a raccogliere l’adesione della Spd alla sua posizione inaugurando a Berlino, nel 1993, un nuovo memoriale della Germania federale (Zentrale Cedenhstc'itte der Bundesrepuhlih Deutschlands). Accolto nella Neue Wache, eretta nel cuore di Berlino all’inizio del XIX secolo dall’architetto Karl Friedrich Schinkel, questo monumento è stato, per due secoli, interprete fedele delle po— litiche della memoria dei diversi regimi che si sono succeduti in Germania. Nato come luogo di ricordo dei patrioti

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caduti contro l’oppressione napoleonica, si è trasformato durante la repubblica di Weimar in monumento ai morti della Grande guerra, e poi, nella Rdt, in memoriale dedica— to alle vittime del fascismo. Con la sua pietà scolpita da Kàte Kollwitz tra le due guerre, esso commemora ormai tuttte le “vittime” della Seconda guerra mondiale (la parola tedesca Opfer indica allo stesso tempo le vittime inno— centi e i martiri) 43. E del tutto evidente che l’Holocaust Denhmal rappresenta una rottura rispetto a questa memoria ambigua ed esplicitamente apologetica. Tuttavia, la scelta… finale di un memoriale dell’Olocausto (e non di tutte le vittime del nazismo) si espone al richio che minaccia ogni memoria “forte”: quello di schiacciare le memorie più deboli. Dallo storico Reinhart Koselleck allo scrittore Giinter Grass, passando per il filosofo Micha Brumlik, nu— merose personalità hanno criticato il carattere ebreocentri— co di questo monumento. “Accettare un monumento esclusivamente per gli ebrei scrive Koselleck — significa legittimare una gerarchia fondata sul numero delle vittime e sull’influenza dei sopravvissuti, accettando alla fine le stesse categorie dello sterminio adottate dai nazisti. In quanto nazione degli esecutori, dovremmo interrogarci sulle conseguenze di una simile logica” 44. Ein proponeva dunque di erigere un “monumento di ammonimento (Mahnmal)” rivolto ai tedeschi, e dedicato al ricordo dell’insieme delle vittime del nazismo. Habermas, che ritiene legittima la scelta di un memoriale dell’Olocausto, in considerazione del ruolo svolto dagli ebrei nella storia della Germania, ha implicitamente ammesso la fondatezza di questa critica, scrivendo che questo monumento considera gli ebrei come pars pro toto “"5 . Ciò non toglie che, di fronte alle rivendicazioni delle altre vittime, il governo federale ha deciso di creare altri due monumenti supplementari, uno dedicato agli zingari e l’altro agli omosessuali deportati (i quali vedranno la luce accanto all’Holocaust Denhmal). —

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L' USO

Poiché memoria e storia non sono separate da barriere insormontabili ma interagiscono continuamente, ne deriva una relazione privilegiata tra le memorie “forti” e la scrit— tura della storia. Più la memoria è forte — in termini di ri— conoscimento pubblico e istituzionale —, più il passato di cui essa è veicolo è suscettibile di essere esplorato e riletto in una prospettiva storica. L’esempio di Raul Hilberg, cita— to sopra, illustra bene questo fenomeno. Alla fine della guerra, quando la memoria dell’Olocausto era “debole”, Franz Neumann gli consigliava di cambiare argomento per la sua tesi di dottorato, dicendogli apertamente che con una tale ricerca non avrebbe mai potuto intraprendere una carriera universitaria (in effetti, Hilberg rimase per molto

marginale nel mondo accademico americano, terminato la sua carriera all’università del Verdove ha mont) 4“. Oggi, la costruzione della memoria della Shoah nello spazio pubblico si accompagna a uno sviluppo parallelo degli Holocaust Studies. In modo analogo, è quasi batempo un

nale interpretare l’emergere degli studi postcoloniali e del multiculturalismo come una conseguenza a lungo termine della decolonizzazione, con l’accesso degli ex popoli coloniali allo statuto di soggetti storici e l’apparizione, in seno alle istituzioni scientifiche, di una classe intellettuale di ori— gine indiana o afroamericana. Non si tratta evidentemente di stabilire una relazione meccanica di causa e effetto tra la forza di una memoria di gruppo e l’ampiezza della storicizzazione del suo passato. Non è la forza istituzionale né la visibilità mediatica dei bororo che ha spinto Lévi-Strauss a scrivere Tristi tropici. Questa relazione non è dunque meccanica, perché si definisce all’interno di contesti diversi e rimane sottoposta a molteplici mediazioni, ma sarebbe assurdo negarla. La memoria delle vittime del massacro di Nanchino, la capita— le della Cina nazionalista, perpetrato dall’esercito imperiale giapponese nel momento dell’occupazione della città nel dicembre 1937 47, o quella delle “donne di conforto”

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FORZA

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prostituirsi dalle autorità giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, sono per molto tempo rimaste circoscritte ai loro discendenti, senza trovare espressione nello spazio pubblico“. E l’emergere della Cina e della Corea del Sud in quanto grandi potenze economiche che ha trasformato questa memoria in elemento delle relazioni diplomatiche tra questi due paesi e il Giappone, obbligando quest’ultimo a riconoscere i propri crimini e a presen— tare delle scuse ufficiali. Queste considerazioni valgono, in larga misura, anche per la memoria della guerra d’Algeria. Si può certo parla— re, in relazione al recente riconoscimento dei crimini dell’esercito francese tra il 1954 e il 1962, di un “ritorno del rimosso” legato alle tappe dell’elaborazione del passato coloniale francese. Ma non c’è dubbio che questo riconoscimento è anche legato all’emergere di una memoria alge— rina — più propriamente heur — che si esprime ora all’interno della società francese, dove i discendenti dei colonizzati costituiscono una minoranza importante. Il riconoscimento del massacro del 17 ottobre 1961, nel centro della capitale, non è stato negoziato tra il governo francese e le autorità algerine (contrariamente a quello del massacro di Sétif del maggio 1.945 49). Esso resta essenzialmente simbolico, riducendosi a qualche dichiarazione di responsabili politici, a una sentenza giudiziaria e a una lapide commemorativa posta in presenza del sindaco della capitale, ma ha fatto il suo cammino nella società francese. Si tratta so— prattutto della conseguenza di un vasto movimento nel quale le lotte di una generazione di franco-maghrebini per l’eguaglianza e per riappropriarsi del proprio passato si sono unite con gli sforzi di una storiografia postcoloniale suscettibile di integrare la voce dei colonizzati nel raccon— to del passato 5”.E anche, si potrebbe aggiungere, con la resistenza di una piccola minoranza di archivisti che, entrati in guerra contro le gerarchie della loro corporazione da sempre al servizio della ragion di Stato, hanno posto la costrette a

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II. PASSATO: ISTRUZIONI PER L'USO

delle loro carriere (comunicando ai ricercatori documenti “sensibili” in linea di principio non accessibili). L’emergere di questa memoria postcolo— niale ha capovolto la memoria della sinistra francese che aveva sempre ignorato il massacro dell’ottobre del 1961, eclissato dalla commemorazione dei propri martiri: le nove vittime della manifestazione anticolonialista di Charon— ne dell’8 febbraio 1962. Essa è stata anche messa di fronte ai suoi buchi di memoria, che rivelano la sua sottomissione a un immaginario coloniale, con le sue gerarchie che danno più valore alla vita degli anticolonialisti francesi che a quella dei nazionalisti algerini “. Questo dibattito ha conosciuto negli ultimi tempi svi— luppi imprevedibili e interessanti. L’interazione fra storia e memoria del colonialismo ha tratto impulso, nel febbraio 2005, dall’approvazione da parte del Parlamento di una legge stupefacente che sottolineava il “ruolo storicamente positivo” della presenza francese nei territori d’oltremare. In altri termini, una legge di riabilitazione del coloniali— smo. Come spesso avviene, una provocazione o una legge ignobile possono innestare dei processi fecondi di ripensa— mento, riflessione critica e risveglio della memoria. Analogamente a quanto era avvenuto qualche decennio fa in seguito alle dichiarazioni di Robert Faurisson sull’inesistenverità storica al di sopra

za delle camere a gas, la legge votata dal Parlamento francese ha avuto l’effetto di un colpo di frusta che ha dato luogo a un dibattito estremamente fruttuoso sul passato coloniale, come non si era più visto dai tempi della guerra

d’Algeria. Questo risveglio della memoria nello spazio pubblico — la legge è stata infine modificata — ha inevitabilmente creato una domanda sociale di conoscenza del passato alla quale la storia come disciplina è chiamata a rispondere. Uno degli effetti positivi di questa crisi nazionale èla nascita di una scuola francese di studi postcoloniali che dà impulso e un’inaspettata visibilità a ricerche finora relegate ai margini delle università ”.

3. Lo storico tra giudice e scrittore

Memoria e scrittura della storia

La “svolta linguistica” (linguistic turn) — etichetta sotto la quale si raccoglie convenzionalmente un insieme di correnti intellettuali nate negli Stati Uniti, verso la fine degli anni Sessanta, dall’incontro dello strutturalismo francese con la filosofia analitica e il pragmatismo anglosassone — ha avuto un impatto fecondo sulla storiografia contemporanea 1. Essa ha permesso di spezzare la dicotomia che separava fino ad allora la storia delle idee dalla storia sociale, come pure di superare i limiti simmetrici di una storia del pensiero autoreferenziale e di uno storicismo fondato sulla illusione secondo la quale l’interpretazione storica si ridurrebbe al semplice riflesso di un approccio rigoroso di oggettivazione e di contestualizzazione degli eventi del passato. Il linguistic turn ha sottolineato l’importanza della dimensione testuale del sapere storico, riconoscendo che la scrittura della storia è una pratica discorsiva che incorpora sempre una parte di ideologia, di rappresentazioni e di codici letterari ereditati che si rifrangono nell’itinerario individuale di un autore. Così facendo, esso ha permesso di stabilire una dialettica nuova tra realtà e interpretazione, testo e contesto, ridefinendo le forme della storia intellet—

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II-. PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

tuale e interpellando in modo salutare lo statuto dello sto— rico, di cui non si può più ignorare l’implicazione multi— forme nel suo oggetto di studio. Questa corrente ha tuttavia conosciuto sviluppi discutibili molte volte denunciati (sui quali si è concentrata in modo quasi esclusivo la sua ricezione in Europa continentale). La più diffusa di queste derive metodologiche è stata, secondo Roger Chartier, la tendenza alla “pericolosa riduzione del mondo sociale a una pura costruzione discorsiva, a puri giochi di linguag— gio” 2. Isostenitori più radicali del linguistic turn hanno così espunto la ricerca della verità che presiede alla scrittu— ra della storia, dimenticando che “il passato che essa si dà come oggetto è una realtà esterna al discorso, e che la sua conoscenza può essere controllata” ’. Spingendo all’estremo alcune premesse di questo movimento, essi sono arrivati a difendere una sorta di “pantestualismo” che Dominick LaCapra definisce “creazionismo secolarizzato” 4: la storia non sarebbe che una costruzione testuale, costantemente reinventata secondo i codici della creazione lettera— ria. Il fatto è che la storia non è assimilabile alla letteratura, perché la “messa in storia” del passato deve rispettare il reale e la sua argomentazione non può fare a meno, se necessario, dell’esibizione di prove. E per questo che l’affermazione di Roland Barthes secondo la quale “il fatto ha soltanto un’esistenza linguistica” 5 non è accettabile. Non più del relativismo radicale di Hayden White che, conside— rando i fatti storici come artefatti retorici riconducibili a un “protocollo linguistico”, identifica la narrazione storica con l’invenzione letteraria, poiché le due si fonderebbero ai suoi occhi sulle stesse modalità di rappresentazione. Se— condo White, “le narrazioni storiche [sono] delle fiction verbali i cui contenuti sono tanto inventati quanto trovati ele cui forme sono più vicine alla letteratura che alla scienza” “. Barthes e White eliminano entrambi il problema del— l’oggettività del contenuto del discorso storico. Se la scrittura della storia assume sempre la forma di un racconto,

LO S'I'ORICO "IRA GIUDICI-L Ii SCRITT(Î)RE

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quest’ultimo e qualitativamente diverso da una fiction ro— manzescaî Non si tratta di negare la dimensione creativa della scrittura storica, dal momento che l’atto creativo implica sempre, come ricorda Michel de Certeau, la costru—

zione di una frase “percorrendo un luogo supposto bian— co, la pagina” ”'. Ma de Certeau si preoccupava di aggiun— gere che essa deve avere un rapporto con il “dato fattuale” (donna’): “Il discorso storico pretende di dare un contenu— to vero (che risulta verificabile) ma nella forma di una narrazione” ". White ha ragione di mettere in guardia contro l’illusione positivista consistente nel fondare la storia su una pretesa autosufficienza dei fatti. Noi sappiamo per esempio che gli archivi — le principali fonti dello storico — non sono mai un riflesso immediato e “neutro” del reale ed esigono un lavoro di decifrazione e di interpretazione ”’. L’errore di White consiste nel confondere la narrazione storica (la “messa in storia” attraverso un racconto) e lafiction storica (l’invenzione letteraria del passato) “. A rigore si potrebbe considerare la storia, secondo le parole di Reinhart Koselleck, come una “fiction del fattuale” ”. Certo, lo storico non può evitare il problema della “traduzione testuale” della sua ricostruzione del passato ”, ma non potrà mai, se vuole fare storia, strapparla al suo irriducibile zoccolo fattuale. Sia detto per inciso: qui sta tutta la differenza trai libri di storia sul genocidio degli ebrei e la let— teratura negazionista, perché le camere a gas rimangono un fatto prima di divenire oggetto di una costruzione discorsiva e di una “messa in intrigo della storia” (historical emplotment) “. E proprio il negazionismo che ha spinto Frangois Bédarida a ritornare, nel corso degli anni Novan— ta, su “un certo disprezzo” che gli storici tendevano a manifestare nei decenni precedenti nei confronti della nozione di fatto, “esortandoli con forza a non gettare il bambino-oggettività con l’acqua sporca positivista” ”. La rimessa in discussione dello storicismo positivista con il suo tempo lineare “omogeneo e vuoto”, la sua causalità deterministi—

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Il. PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

ca e la sua teleologia che trasformano la ragione storica in ideologia del progresso, non implica tuttavia il rifiuto della nozione di oggettività fattuale nella ricostruzione del pas— sato. Pierre Vidal—Naquet ha posto il problema in termini molto chiari, scrivendo che “se il discorso storico non si ricollega, attraverso tutte le mediazioni che si vogliano, a ciò che chiameremo, finché non si troverà una definizione migliore, il reale, rimarremo sempre nel discorso, ma questo discorso cesserà di essere storico ” “’. Il relativismo radicale di Hayden White sembra coinci— dere in modo abbastanza paradossale con il feticismo della memoria, in opposizione a ogni archivio del reale, instan— cabilmente difeso da Claude Lanzmann, il regista di Shoah. Questo film straordinario è stato un momento essenziale, verso la metà degli anni Ottanta, sia per l’integrazione del genocidio degli ebrei nella coscienza storica del mondo occidentale che per l’inclusione delle testimonianze tra le fonti della conoscenza storica. Ilavori sulla memoria han— no ricevuto da questo film un impulso importante e non sarebbe probabilmente esagerato affermare che lo statuto del testimone per la ricerca storica non è più lo stesso dopo quest’opera. Ma ciò non ha soddisfatto Lanzmann, che è giunto a considerare il suo film come un evento, sosti— tuendolo a poco a poco all’evento reale, fino a rifiutare il valore degli “archivi”, cioè delle prove fattuali che restano di questo evento (per esempio le fotografie dello sterminio realizzate dal Sonderkommando di Auschwitz nell’agosto 1944) ”. Lanzmann ha difeso questo punto di vista a più riprese, in particolare nel 2000, in occasione di una nuova uscita nelle sale del suo film:

Shoah non è un film sull’Olocausto, un derivato, un prodotto, ma un evento originale. Che piaccia o meno a un certo numero di persone [...], il mio film non fa solo parte della Shoah come evento: contribuisce a costruirla come evento 13.

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LO STORICO TRA GIUDICE E SCRITTORE

Così, Lanzmann ha prima eretto a “monumento” — è proprio la sua espressione — le testimonianze raccolte in Shoah; poi ha contrapposto il suo “monumento” all’“archivi‘o”, definendo un’“insopportabile pedanteria interpretativa” lo sforzo fatto dagli storici per analizzare alcuni documenti ereditati dal passato; e infine ha sostituito il suo film all’evento reale, del quale ha anche rivendicato il di— ritto di distruggere le prove. E proprio questo il senso di una sua iperbole provocatoria che aveva fatto gran rumore all’uscita del film di Steven Spielberg, Schindler’s List:



E se avessi trovato un film esistente un film segreto perché era strettamente vietato — girato da un SS, il quale mostrasse come tremila ebrei, uomini, tlc-une. bambini. morivano insie— me, asfissiati in una camera a gas del crematorio 11 di Auschwitz. se l’avessi trovato, non solo l’avrei mostrato, ma l’a— vrei distrutto. Non so «;iirc perché. E cosi "’.

non

Affermare in modo perentorio che Shoah è la Shoah significa semplicemente ridurre quest’ultima a una costru— zione discorsiva, a ur. racconto modellato dal linguaggio nel quale il testimone non rimanda più a una realtà fattua— le originaria e fondatrice, ma dove, al contrario, la memoria basta a se stessa, costituendosi come evento. E poiché Shoah si dipana come una successione di dialoghi il cui soggetto resta Lanzmann, queste dichiarazioni rivelano anche l’atteggiamento egocentrico del suo autore, che si considera, in ultima analisi, consustanziale all’evento. Va aggiunto che Lanzmann non si limita a sostituire la memoria all’evento, ma la oppone alla storia, cioè alla ricostruzione del passato che mira alla sua interpretazione. “Non capire” (ne pas comprendre), come egli scrive, è stata la sua “legge ferrea” durante gli anni di preparazione di Shoah: un “accecamento” che rivendica non solo come condizione dell"‘atto di trasmettere” implicito alla sua creazione, ma anche come posizione epistemologica che egli oppone “alla questione del perché, con la successione

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L'USO

indefinita degli accadimenti futili o triviali che essa non cessa di indurre” 2”. Questa posizione rimanda alla regola che i nazisti avevano imposto ad Auschwitz: “Hier ist kein Warum” (“Qui non c’è perché”), una regola che Primo Levi trovava “ripugnante” 21 ma che Lanzmann ha deciso di interiorizzare e di erigere a propria “legge”. E difficile non vedere in questa proibizione del “perché” una sacralizzazione della memoria (alcuni dicono una forma di “re— ligiosità secolare” 22) dal tono discretamente oscurantista. Si tratta di una proibizione normativa della comprensione che colpisce al cuore l’atto stesso di scrittura della storia come tentativo di interpretazione, ciò che Levi chiamava “la salvazione del capire” e che costituiva ai suoi occhi lo scopo di ogni sforzo di rammemorazione del passato”. Un’altra forma di sostituzione della memoria alla realtà storica è suggerita da un filosofo tra i più originali di que— sti ultimi anni, Giorgio Agamben. In Quel che resta di Auschwitz egli interroga l’“aporia” che sta al centro dello sterminio degli ebrei, “una realtà tale che eccede necessa— riamente i suoi elementi fattuali”, creando così una “non— coincidenza fra fatti e verità, fra constatazione e comprensione” 24. Per uscire da questa impasse, egli ricorre a Primo Levi che, inIsommersi e i salvati, presenta il “musulmano” — il detenuto di Auschwitz giunto all’ultimo stadio di esaurimento fisico e di annientamento psicologico, ridotto a uno scheletro e ormai incapace di pensiero e di parola —— come il “testimone integrale”. E lui, scrive Levi, il vero testimone, colui che ha toccato il baratro e non è sopravvis— suto per raccontarlo, e di cui i sopravvissuti dei campi sarebbero in fondo i portavoce: “Noi parliamo al loro posto, per delegazione” 25. Mentre Levi, evocando la figura del “musulmano”, voleva sottolineare il carattere precario, soggettivo, incompleto dei racconti fatti dai testimoni realmente esistenti, i sopravvissuti, coloro che non hanno visto “la Gorgone”, in altre parole coloro che sono sfuggiti alle

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camere a gas, Agamben trasforma il “musulmano” in para— digma dei campi nazisti. La prova inconfutabile di Ausch— witz @ dunque la confutazione ultima del negazionismo, scrive in conclusione della sua opera, risiede precisamente in questa impossibilità di testimoniare. Secondo Agamben, Auschwitz è “ciò di cui è impossibile testimoniare” e i sopravvissuti dei campi della morte, prendendo la parola al posto del “musulmano”, colui che non può parlare, so— no i testimoni di questa impossibilità di testimoniare? Ai suoi occhi, il nodo profondo di Auschwitz non si trova nello sterminio ma nella “produzione” dei “musulmani”, questa figura ibrida tra la vita e la morte (non-uomo) 27. E per questo che ne fa un’icona (prendendo a pretesto la modestia di cui dà prova Levi quando indica i limiti della propria testimonianza). Ma questa visione dei campi nazi— sti come luoghi di dominio biopolitico su detenuti ridotti a “nuda vita” manca singolarmente di spessore storico. Agamben sembra dimenticare che la grande maggioranza degli ebrei sterminati nei campi nazisti non erano dei “musulmani” perché non sono stati inviati alle camere a gas quando erano al limite delle loro forze ma il giorno stesso del loro arrivo al campo 28. Se Agamben ha potuto trascurare un fatto così evidente, è proprio perché esso non co— stituisce, ai suoi occhi, il cuore del problema. Tutta la sua argomentazione parte dal postulato secondo cui la prova di Auschwitz non risiede nel fatto dello sterminio — una verità che sarebbe squalificata ai suoi occhi dal fossato che separa l’evento dalla sua comprensione — ma nell’impossi— bilità della sua enuciazione, incarnata dal “musulmano”. Se Auschwitz è esistito, non è tanto perché vi sono state le camere a gas, ma perché i sopravvissuti hanno potuto ridare voce al “musulmano”, il “testimone integrale”, strappandolo al suo silenzio. Ancora una volta, la storia è ridotta a una costruzione linguistica di cui la memoria — dissociata dal reale — costituisce la trama. Fondare la critica del negazionismo su una tale metafisica del linguaggio (d’ispi—

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razione esistenzialista e strutturalista a un tempo) 29 è un’operazione pericolosa che rischia di conservare inalterata l’“aporia” di Auschwitz togliendo alla sua verità ogni base materiale. E si può comprendere dunque il di—sagio con il quale i sopravvissuti di Auschwitz, i testimoni realmente esistenti., hanno accolto Quel che resta di Auschwitz. Phi-

lippe Mesnard e Claudine Kahan hanno sottolineato opportunamente questo aspetto del problema a conclusione della loro critica:

L’ascolto di ciò che possono dire questi sopravvissuti, e come possono dirlo, cede il posto [nel libro di Agamben] a una glossa sul silenzio che a loro è così impartito. Al posto di questi ultimi, Agamben presenta il musulmano, il solo testimone che valga ai suoi occhi, essere senza riferimento — a partire dal qua— le Agamben può precisamente costruire il proprio riferimento —, abbandonato dall’identità, la cui esistenza si riduce allo spa— zio che occupa, nel linguaggio, la sua immagine quasi trasparente”.

Verità e giustizia

Nella complessa relazione che la storia stabilisce con la memoria si inscrive il legame che entrambe intrattegono con la nozione di verità. Questo legame diventa sempre più problematico con la tendenza oggi crescente a una lettura giudiziaria della storia e a una “giuridicizzazione della memoria” “. Ormai al centro della nostra coscienza storica, la visione del XX secolo come secolo della violenza, ha spesso condotto gli storici a lavorare con categorie analitiche tratte dal diritto penale. Gli attori della Storia sono cosi, sempre più spesso, ricondotti al ruolo degli esecutori, delle vittime e dei testimoni 32. Gli esempi. più conosciuti che illustrano questa tendenza sono quelli di Daniel J. Goldhagen e di Stéphane Courtois. Il primo ha interpretato la storia della Germania moderna come il processo di

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costruzione di una comunità di esecutori ”. Scambiando gli abiti dello storico con quelli del procuratore, il secondo ha ridotto la storia del comunismo allo sviluppo di una im— presa criminale per la quale ha richiesto un nuovo processo di Norimberga “. In fondo, il rapporto tra giustizia e storia è una vecchia questione (si vedano gli interventi degli storici francesi all’epoca del processo Zola, nel 1898 35), oggi riportata all’ordine del giorno da una serie di processi nel corso dei quali numerosi storici sono stati convocati in qualità di testimoni. Sarebbe difficile comprendere i processi Barbie, Touvier e Papon in Francia, il processo Priebke in Italia, il processo Irving a Londra 0 i tentativi di istruzione di un processo a Pinochet, in Europa e in Cile, senza metterli in relazione con l’emergere, nella società civile di questi paesi e nell’opinione pubblica mondiale, di una memoria collet— tiva del fascismo, delle dittature e della Shoah. Questi processi sono stati dei momenti di rammemorazione pubblica della storia in cui il passato è stato ricostituito e giudicato nell’aula di un tribunale. Nel corso delle udienze, alcuni

storici sono stati convocati per “testimoniare”, in realtà per chiarire, grazie alle loro competenze, il contesto storico dei fatti contestati. Davanti alla corte, essi hanno prestato giuramento dichiarando, come ogni testimone: “Giuro di dire la verità, nient’altro che la verità, tutta la verità” 36. Questa “testimonianza” sui generis solleva senza dubbio problemi di ordine etico, ma rinnova anche interrogativi più antichi di ordine epistemologico. Essa rimette in di— scussione il rapporto della giustizia con la memoria di un paese e quello del giudice con lo storico, con le loro rispettive modalità di trattamento delle prove e il diverso statuto della verità a seconda che sia prodotta dalla ricerca storica o enunciata dalla sentenza di un tribunale. Preoccupato di distinguere i rispettivi campi della giustizia, della memoria e della storia, Henry Rousso ha rifiutato di testimoniare al processo Papon motivando la propria scelta con argomen—

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

ti rigorosi e per diversi aspetti illuminanti. “La giustizia — egli afferma — si pone la questione di sapere se un individuo è colpevole o innocente; la memoria nazionale è la ri— sultante di una tensione esistente tra ricordi memorabili e commemorabili e oblii che permettono la sopravvivenza della comunità e la sua proiezione nel futuro; la storia è un’impresa di conoscenza e di delucidazione. Questi tre registri possono sovrapporsi, ed è ciò che è accaduto nei processi per crimini contro l’umanità. Ma in questo modo sono gravati da un onere insopportabile: essi non possono rispondere in egual misura alle sfide della giustizia, della memoria e della storia” ”. Questa mescolanza di generi sembra riassumere l’antico aforisma di Schiller, ripreso da Hegel, sul tribunale della Storia: Die Weltgeschichte ist das Weltgericht (La storia del mondo è il tribunale del mondo), aforisma che secolarizza la morale e l’idea di giustizia, collocandola nella temporalità del mondo profano e facendo della storia il suo custode”. Ci si può interrogare sulla pertinenza di questa sentenza a proposito di processi che, lungi dal giudicare un passato trascorso e ormai esaurito, suscettibile di essere guardato da lontano, sono momenti importanti di elabora— zione di “un passato che non vuole passare”. Per le parti civili, tuttavia, essi hanno assunto i tratti di una Nemesi ri— paratrice della Storia. Contro questo adagio hegeliano, era inevitabile opporne un altro: lo storico non è un giudice, il suo compito non consiste nel giudicare ma nel compren— dere. Nel suo Apologia della storia, Marc Bloch ne ha dato una formulazione classica: Quando lo studioso ha osservato e spiegato, il suo compito è finito. Al giudice tocca ancora emettere la sentenza. Facendo tacere ogni simpatia personale, egli la pronuncia secondo la legge? Allora si reputcrà imparziale. E lo sarà, in effetti, dal punto di vista dei giudici. Ma non da quello degli studiosi. Infatti non si può condannare o assolvere senza schierarsi in base a una ta— vola di valori che non deriva più da alcuna scienza positiva”.

LO ST(Î)RICO 'I RA GIUDICE E SCIUT'I'ORI-L

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Ma bisognerebbe anche ricordare che, in La strana dis— fatta, Bloch non si asteneva dal giudicare e che, a meno di riproporre una visione obsoleta (e illusoria) della storia co— me scienza “assiologicamente neutra”, si è ben costretti a riconoscere che tutto il lavoro dello storico veicola anche,

implicitamente, un giudizio sul passato. Sarebbe sbagliato vedere solo dell’arroganza dietro l’aforisma hegeliano sulla storia come “tribunale del mondo”. Pierre Vidal-Naquet ricorda nelle sue memorie l’impressione che gli fece un passo famoso delle Memorie d’oltretomha di Chateaubriand che attribuisce allo storico, “quando, nel silenzio dell’abiezione, non si sente risuonare nient’altro che la catena dello schiavo e la voce del delatore”, il nobile compi— to della “vendetta dei popoli”. Prima di essere la fonte di una vocazione, ricorda Vidal-Naquet, questo desiderio di riscatto e di giustizia fu per lui “una ragione di vita” “I°. Il contributo più lucido su questa spinosa questione rimane quello di Carlo Ginzburg, in occasione del processo Sofri in Italia“. Lo storico, sottolinea Ginzburg, non deve ergersi a giudice, non può emettere sentenze. La sua verità — risultato della sua ricerca — non ha un carattere normativo ma resta parziale e provvisoria, mai definitiva. Solo i regimi totalitari, dove gli storici sono ridotti al rango di ideo— logi e propagandisti, possiedono una verità ufficiale. La storiografia non è mai fissata in modo definitivo, perché in ogni epoca il nostro sguardo sul passato — interrogato a partire da nuovi quesiti e sondato con l’ausilio di categorie d’analisi differenti — si modifica. Lo storico e il giudice, tuttavia, condividono uno stesso scopo: la ricerca della verità, e questa ricerca di verità ha bisogno di prove. La verità e la prova, ecco le due nozioni che si trovano al centro del lavoro del giudice e dello storico. La scrittura dello storico, aggiunge Ginzburg, implica d’altronde un procedimento argomentativo — una selezione dei fatti e un’organizzazione del racconto — il cui paradigma rimane la retorica di matrice giudiziaria. La retorica è “un’arte di per-

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Il. PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

suadere nata nei tribunali” 42; è qui che, davanti a un pubblico, si è codificata la ricostruzione di un fatto attraverso delle parole. Non è cosa trascurabile, ma qui si ferma l’af— finità. La verità della giustizia è normativa, definitiva e vincolante. Essa non mira a comprendere ma a stabilire responsabilità, ad assolvere gli innocenti e punire i colpevoli. Confrontata con la verità del giudice, quella dello storico non è soltanto provvisoria e precaria, ma anche molto più problematica. Risultato di una operazione intellettuale, la storia è analitica e riflessiva, in quanto cerca di mettere in luce le strutture soggiacenti agli eventi, le relazioni sociali nelle quali sono implicati gli uomini e le motivazioni dei loro atti "”. Insomma, è un’altra verità, indissociabile dall’interpretazione. Essa non si limita a stabilire i fatti ma tenta di contestualizzarli, di spiegarli, formulando ipotesi e cercando cause. Se lo storico adotta, per riprendere anco— ra la definizione di Ginzburg, un “paradigma indiziario” "4, la sua interpretazione non possiede la razionalità implacabile, misurabile e incontestabile, delle dimostrazioni di Sherlock Holmes. Gli stessi fatti danno origine a verità diverse. Laddove giustizia compie la sua missione indicando e condan— la nando il colpevole di un crimine, la storia inizia il suo lavo— ro d’inchiesta e di interpretazione, cercando di spiegare come un uomo sia divenuto un criminale, il suo rapporto con la vittima, il contesto nel quale ha agito, così come l’at— teggiamento dei testimoni che hanno assistito al crimine, che hanno reagito, che non hanno saputo impedirlo, che l’hanno tollerato o approvato. Queste considerazioni pos— sono confortare la decisione degli storici che non hanno accettato di “testimoniare” al processo Papon. Si tratta di una scelta legittima come quella di coloro che si sono presentati alla convocazione dei giudici. Essi l’hanno fatto per non sottrarsi, in quanto cittadini, a un dovere civico che il loro mestiere, ai loro occhi, rende ancor più imperativo. Da un lato, la loro “testimonianza” ha contribuito a me-

LO S'I'(Ì)RIC(Î) TRA GIUDICE I-l SCRI'I'I'ORE

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scolare i generi e a conferire a un verdetto giudiziario lo statuto di una verità storica ufficiale, trasformando una corte in “tribunale della Storia”; dall’altro, ha potuto far luce su un contesto e ricordare fatti che rischiavano altri— menti di rimanere assenti sia dagli atti del proceso che dal— la riflessione che ne ha accompagnato lo svolgimento in seno all’opinione pubblica. “Moralizzare la storia” 45 : questa esigenza avanzata da Jean Améry nelle sue cupe meditazioni sul passato nazista è all’origine dei processi appena ricordati. Le vittime e i loro discendenti li hanno vissuti come atti simbolici di riparazione. Altrove, essi si battono affinché questi processi abbiano luogo, come fanno oggi in Cile i superstiti della dittatura di Pinochet e i loro familiari. Non si tratta di identificare giustizia e memoria, ma spesso fare giustizia significa anche rendere giustizia alla memoria. La giustizia è stata, per tutto il XX secolo — almeno dopo Norimberga se non dopo l’aflaire Dreyfus — un momento importante nella formazione della coscienza storica collettiva. Lo storico può operare le distinzioni necessarie ma non negare questo intreccio; deve assumerlo, con le contraddizioni che ne derivano. Charles Péguy ne aveva avuto l’intuizione all’e— poca dell’affaire Dreyfus, quando scriveva che lo storico non pronuncia sentenze penali; egli non prommcia giuridiche; si potrebbe quasi dire che non pronuncia nemmeno giudizi storici; egli elabora costantemente giudizi storici; &: continuamente al lavoro 46. sentenze

Si potrebbe vedere qui una professione di relativismo; in realtà, si tratta del riconoscimento del carattere instabile e provvisorio della verità storica che, al di là dell’accerta— mento dei fatti, contiene la sua parte di giudizio indissociabile da una interpretazione del passato come problema aperto piuttosto che come inventario chiuso e definitivamente archiviato.

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PER L'USO

Memoria, storia e diritto

Il rapporto tra diritto e storia è reso ancor più intricato dalla tendenza sempre più forte — vedremo nel prossimo capitolo come essa si manifesti in Italia — alla legiferazione dei poteri pubblici nella sfera della memoria. Igoverni e le autorità locali promuovono le loro politiche della memoria e definiscono il ruolo di istituzioni -— dalla scuola ai musei — che contribuiscono alla gestione del rapporto di una società col suo passato. Gli Stati hanno una storia e sono quindi tenuti a rispondere dei loro atti e ad assumere le loro responsabilità. Ciò richiede talvolta una codificazione legislativa di cui difficilmente si potrebbe contestare l’utilità o perfino la necessità. La “ley de memoria” di cui oggi si richiede l’approvazione in Spagna è indispensabile per riconoscere le vittime del franchismo che,,a differenza di quelle della violenza repubblicana, non hanno mai avuto diritto a una memoria pubblica né a un risarcimento. Questa legge permetterebbe di procedere legalmente alla ri— esumazione dei corpi di migliaia di vittime della repressio— ne franchista uccise senza processo e sepolte fuori dai ci— miteri, al di là di ogninorma giuridica. Permetterebbe inoltre di procedere alla trasformazione di alcuni luoghi di memoria come il santuario della “Valle de Caidos”, vicino a Madrid, che costituisce oggi un sito turistico e una meta di pellegrinaggio per i nostalgici del franchismo, introdu— cendo un riferimento esplicito alle migliaia di prigionieri repubblicani che vi furono deportati e sottoposti ai lavori forzati per edificarlo”. In altri paesi, tuttavia, questa tendenza alla legiferazione sul passato ha assunto dimensioni tali da suscitare legittime perplessità e messe in guardia. Il Parlamento francese ha votato nel maggio del 1990 una legge che prevede sanzioni penali contro il negazionismo; nel gennaio 2001 una legge che riconosce il genocidio degli armeni ad opera delle autorità ottomane; nel maggio

LO STORICO TRA GIUDICE E SCRITTORE

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dello stesso anno, un’altra legge che definisce la tratta dei negri ela schiavitù come un crimine contro l’umanità; infine, nel febbraio del 2005 , un’ultima legge che riabilita il colonialismo, sollecitando i programmi scolastici a “ rico— noscere in particolare il ruolo positivo della presenza francese oltremare, soprattutto nel Nord Africa”. Ispirata da intenzioni lodevoli, la prima legge ha avuto l’effetto perverso di trasformare i negazionisti in vittime e di mediatizzare ogni loro presa di posizione. La seconda e la terza so— no nate per lenire le sofferenze di una memoria negata (quella degli armeni) e portare una riparazione simbolica a una minoranza ancora discriminata (i discendenti degli schiavi). La quarta semplicemente allo scopo di consolidare alcune clientele elettorali. Le contraddizioni e i paradossi grotteschi che risultano da questa accumulazione di leggi — la Francia è così disposta a riconoscere i crimini messi in atto nell’impero ottomano durante la Grande guerra, non a riconoscere quelli nelle proprie colonie, di cui al contrario rivendica il “ruolo positivo” — sono così evidenti che alcune modifiche si sono rivelate indispensabili (i passaggi più indecenti della legge del febbraio 2005 sono stati eliminati). In questo contesto, alcuni importanti storici, da Pierre Vidal—Naquet a Jacques Le Goff, da Marc Ferro a Saul Friedlànder, hanno lanciato un appello per mettere un argine a questa irrazionale e sconcertante legiferazione. Dopo aver ricordato che la storia è il prodotto di una ricerca il cui svolgimento richiede un confronto libero di idee, questo appello ristabilisce una distinzione di fondo tra la verità della storia e quella del diritto. “La storia conclude l’appello — non è un oggetto giuridico. In uno Stato libero, definire la verità storica non è compito né del Parlamento né dell’autorità giudiziaria. La politica dello Stato, anche animata dalle migliori intenzioni, non è la politica della storia” “. In tutta coerenza, il loro appello richiede l’abrogazione delle leggi sopra citate. Portata alle sue estreme conseguenze, la logica inerente a queste leggi —

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Il. PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

trasformerebbe il mestiere degli storici e perfino degli in— segnanti, costringendoli a fare lezione usando non un ma— nuale di storia ma il codice penale. Il tono perentorio di questo appello può irritare e lascia trapelare le intenzioni di alcuni suoi firmatari — nostalgici di una visione positivi— stica della storia come “scienza” al di sopra dei conflitti che attraversano la società — ma le sue linee generali sono valide. Le società, tanto più quelle moderne, hanno bisogno di memoria. Le politiche pubbliche possono orientarla e gli storici possono contribuire a costruirla, a problematizzarla, a conferirle una dimensione critica, a volte a “sorvegliarla”. Se le politiche della memoria possono essere utili e feconde, la prescrizione normativa della memoria pre— senta dei rischi e il ricordo imposto per legge è spesso inefficace, se non controproducente. Il passato codificato dalla legge e trasformato in verità ufficiale costituisce infine una minaccia per la libertà della ricerca e del dibattito pubblico 4”.

4. Usi politici del passato

La memoria deila Shoah come religione civile

Si può fare un uso critico della memoria? Le commemorazioni del sessantesimo anniversario della liberazione del campo di Auschwitz ci offrono, da quesro punto di vista, un’abbondante materia di riflessione. L’ampiezza stessa di queste celebrazioni, alle quali hanno partecipato vari capi di Stato, è di per sé un fenomeno notevole. In primo luogo, essa rivela il posto che occupa il genocidio degli ebrei nel nostro paesaggio mentale di questo inizio del XXI secolo e la sua integrazione nella nostra coscienza storica. Le differenze tra queste commemorazioni e quelle del cin— quantenario sono anch’esse rivelatrici. Molto più modeste, quelle di dieci anni fa erano state dominate dal timore del— l’oblio. La recentissima riunificazione della Germania 501— levava degli interrogativi legittimi quanto al posto che la memoria dei crimini nazisti avrebbe occupato in un paese ridiventato “normale” e, dicevano alcuni, liberato dai suoi fantasmi. Si credeva che la fine di questa divisione — una sorta di ricordo permanente del passato edel nazismo secondo Giinter Grass, uno dei più tenaci critici della riunificazione — diventasse il pretesto per una nuova rimozione. Oggi dobbiamo constatare che questa rimozione non c’è

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IL PASSATO: ISTRUZIONI PIER L’USO

che la memoria del nazismo, benché sempre conflittuale, rimane viva in Germania come nel resto del mondo occidentale. L’oblio non ha vinto. Se c’è un timore, esso riguarda piuttosto, come molti commentatori hanno sottoli— neato, gli effetti negativi di un “eccesso di memoria”. In— somma, il rischio non è quello di dimenticare la Shoah, ma di fare un cattivo uso della sua memoria, di imbalsamarla, di rin-chiuderla in un museo e di neutralizzarne il potenzia— le critico, o peggio, di farne un uso apologetico dell’attuale ordine del mondo. Non credo di essere il solo ad aver provato un certo disagio guardando le immagini di Dick Cheney, Jack Straw e Silvio Berlusconi ad Auschwitz. La loro presenza sembrava inviarci un messaggio rassicurante, ma in fondo apo— logetico, consistente nel vedere il nazismo come una legit— timazione in negativo dell’Occidente liberale considerato come il migliore dei mondi. L’Olocausto fonda dunque una sorta di teodicea laica che consiste nel commemorare il male assoluto per convincerci che il nostro sistema incarna il bene assoluto. Nei giorni seguenti, durante una trasmissione radiofonica domenicale di grande ascolto, un politologo francese ha ripetuto più volte che “Auschwitz non è Guantanamo”. Auschwitz non è Guantanamo: que— sta insistenza nel sottolineare un fatto così evidente e incontestabile solleva un interrogativo. Si ha l’impressione che, per alcuni, la commemorazione della liberazione del campo di Auschwitz sia una buona occasione da cogliere per dimostrare che, in fondo, Guantanamo non è così gra— ve. Non si tratta ovviamente di dire che Auschwitz è ugua— le a Guantanamo, ma piuttosto di domandarsi se, dopo Auschwitz, sia possibile tollerare Guantanamo e Abu Ghraib, se non vi sia qualche indecenza nel fatto che proprio i responsabili di Guantanamo e di Abu Ghraib ci abbiano rappresentato durante una cerimonia dedicata alle vittime del nazismo. Per non parlare di Putin, il carnefice dei ceceni, che è riuscito a compiere la prodezza, nel suo stata,

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discorso ad Auschwitz, di non pronunciare nemmeno una volta la parola “ebrei”. Il problema si era già posto, una decina di anni fa, durante la guerra nell’ex Jugoslavia. A coloro che si scandalizzavano per la comparazione tra Miloéevié e Hitler, sicuramente eccessiva, Marek Edelman, uno degli ultimi sopravvissuti dell’insurrezione del ghetto di Varsavia, ribatteva che Srebrenica era ai suoi occhi una “vittoria postuma di Hitler” l Sarebbe senza dubbio più fruttuoso fare delle commemorazioni del sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz l’occasione per iniziare una riflessione critica sul presente, cercando di rispondere agli interrogativi che la memoria dei campi nazisti rivolge alle nostre società. Questo esercizio era già stato tentato, subito dopo la guerra, da Horkheimer e Adorno, i capifila della scuola di Francoforte. In controtendenza rispetto alla visione allora dominante, che consisteva nell’interpretare il nazismo co— me espressione di una ricaduta della civiltà nella barbarie, essi vi vedevano lo sbocco di una dialettica negativa che aveva trasformato la ragione da strumento di emancipazione in strumento di dominio e il progresso tecnico e indu— striale in regressione umana e sociale. Adorno definiva l’Olocausto come l’espressione di “una barbarie che si an— nida proprio nel principio di civilizzazione” 2. Contro la tendenza rassicurante a vedere il nazismo come una legitti— mazione in negativo dell’Occidente liberale, questi filosofi hanno lanciato un allarme severo. Il totalitarismo è nato in seno alla civiltà stessa, di cui è figlio. Questa civiltà rimane la nostra e noi viviamo in un mondo in cui Auschwitz deli— mita un orizzonte di possibilità, benché la sua violenza possa assumere altre forme e altri bersagli. Si può comprendere Habermas, quando scrive che è solo “dopo e attraverso Auschwitz” (nach und durch Auschwitz) che la Germania ha integrato l’Occidente? E in effetti sotto l’impatto del genocidio degli ebrei che la Germania ha rimesso in discussione la sua tradizionale au-

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II.. PASSATO: ISTRUZIONI PER L’USO

topercezione come comunità etnica (esclusivamente fon— data sullo jus sanguinis) è cominciato a ridisegnare la sua identità secondo le linee di una comunità politica, come una nazione di cittadini. Si tratta di una conseguenza fruttuosa della memoria dell’Olocausto. Ma l’Occidente non si riduce allo Stato di diritto e alla democrazia liberale. Il nazismo non si inscrive nella storia dell’Occidente soltanto come espressione estrema del contro-Illuminismo. La sua ideologia e la sua violenza condensavano diverse tendenze all’opera in Europa fin dal XIX secolo: il colonialismo, il razzismo e l’antisemitismo moderno. Era un figlio della storia occidentale. L’Europa liberale del XIX secolo ne era stata l’incubatrice. Il problema che si pone è dunque quello del rapporto della Shoah col processo di civilizzazione. L’Olocausto implicava il monopolio statale della violenza che Norbert Elias e Max Weber, sulla scia di Hobbes, avevano interpretato come un mezzo di pacificazione della società e, di conseguenza, come una conquista del processo di civilizza— zione. Nella sua messa in opera, questo genocidio presupponeva le strutture costitutive della civiltà moderna: la tec— nica, l’industria, la divisione del lavoro, l’amministrazione burocratico-razionale. E la tecnica industriale ad aver permesso la produzione seriale della morte. Insomma, la for— mula convenzionale — Auschwitz fabbrica di morte — non implica certo che ogni fabbrica sia un potenziale campo di sterminio, ma solleva un interrogativo sulla normalità delle nostre società moderne e sulla sua compatibilità con la vio— lenza totalitaria che, lungi dal sopprimere questa normali— tà, la presuppone e l’utilizza. Dopo aver constatato che “L’Olocausto non tradisce lo spirito della modernità”, il sociologo Zygmunt Bauman ha sottolineato che le condizioni favorevoli all’esecuzione del genocidio sono dunque peculiari, ma non eccezionali. Rare, ma non uniche. Esse non sono un attributo immanente della società moderna, ma neanche un fenomeno ad essa estraneo. Dal punto di vista del—

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la società moderna il genocidio non è né un’anomalia né una disfunzione ”.

Pensare il rapporto di Auschwitz con la modernità occidentale può condurre a rimettere in discussione il nostro “quotidiano”. Le zone d’attesa in cui sono internati gli stranieri in situazione irregolare e i richiedenti asilo — cen.tri proliferati nel corso di questi ultimi anni — non sono certo paragonabili ai campi nazisti. Esse possiedono tuttavia, in seno alle nostre società democratiche, alcune carat— teristiche essenziali che definiscono il paradigma del cam— po di concentramento, vale a dire, secondo Giorgio Agamben, “lo spazio che si apre quando lo stato d’eccezione comincia a diventare la regola” 5. Sono in effetti degli spazi anomici nei quali tutto è possibile, non perché sarebbero concepiti come luoghi di annientamento ma perché si tratta di luoghi di non-diritto. Le persone che vi sono internate corrispondono alla definizione del “paria” che dava Hannah Arendt, un fuorilegge, non perché abbia trasgredito la legge, ma perché non c’è nessuna legge che lo possa rico— noscere e proteggere. Individui, essa aggiungeva ricordando gli apolidi, “superflui” agli occhi della comunità delle nazioni. L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i ri— fugiati ne conta parecchie decine di milioni nel mondo di oggi. Molte decine di migliaia sono internate ogni anno nei paesi dell’Unione europea, invisibili come presenze “meta— foricamente immateriali” °. In Le origini del totalitarismo c’è un passaggio che oggi non possiamo leggere senza pensare all’attualità:

Prima di far funzionare le camere a gas, i nazisti avevano scrupolosamente studiato il problema e scoperto con grande soddisfazione che nessun paese avrebbe reclamato quella gente. Occorre rendersi ben conto che una condizione di privazione completa dei diritti era stata creata molto prima che venisse messo in discussione il diritto di vivere’.

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Ma c’è anche un’altra memoria di Auschwitz. Nell’epo-

ca in cui il genocidio degli ebrei era assente dal discorso ufficiale, il suo ricordo alimentava una riflessione e un impegno che non avevano nulla di conformista. In Francia, la memoria di Auschwitz e di Buchenwald è stata una leva potente per le mobilitazioni contro la guerra d’Algeria. La Francia coloniale che opprimeva, torturava e uccideva, evocava dei ricordi a tutti coloro che, qualche anno prima, si erano battutti contro l’occupazione tedesca. Alain Resnais voleva che il suo film Nuit et Brouillard (Notte e nehhia), realizzato nel 1955, fosse un richiamo alla storia. Te-

stimoniando nel 1960 al processo di Francis Jeanson, giu— dicato per aver creato in Francia una rete di sostegno al Fronte di liberazione nazionale algerino (Fln), Pierre Vi— dal-Naquet paragonava i massacri compiuti in Algeria dal— l’esercito francese alle camere a gas di Auschwitz, dove erano morti anche i suoi genitori. Il paragone era certo esagerato, come egli ha del resto riconosciuto nelle sue memories. Oggi, simili posizioni susciterebbero la collera dei “guardiani del Tempio” della memoria dell’Olocausto. Esse rivelano un paesaggio della memoria e della politica molto diverso dal nostro, e i limiti della storiografia (nel senso più tradizionale del termine), in un’epoca in cui la distinzione tra campi di concentramento e campi di ster— minio non era affatto chiara. Ma esse rivelano anche la pre— senza di un ricordo ancora recente, vivo, caldo, che agiva come un incitamento potente a battersi contro le ingiusti— zie e le oppressioni del presente. Questo ricordo ispirava la scelta di molti firmatari del “Manifesto dei 121” per l’insubordinazione dei soldati inviati in Algeria e fu evocato nei processi dell’epoca. Per il trotskista olandese Sal Santen, sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti e poi condannato nel 1960 per aver partecipato alla creazione di una fabbrica di armi clandestina per il Fln, non vi era nes— sun, dubbio che l’impegno anticolonialista fosse un prolun— gamento dell’antifascismo. Il confronto tra crimini nazisti

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violenze coloniali attraversava gli scritti di Frantz Fanon anche le dichiarazioni del tribunale Russell sul Vietnam. Sotterranea ma attiva, la memoria di Auschwitz è anche una chiave indispensabile per spiegare l’antifascismo del movimento studentesco e poi della sinistra extraparlamen— tare dopo il ’68. Questo substrato della memoria colletti— va, all’epoca sommerso dal discorso ufficiale, poteva di tanto in tanto riaffiorare in superficie, come quando Da— niel Cohn-Bendit fu espulso dal generale de Gaulle, facen— do scendere in strada decine di migliaia di giovani al grido “Siamo tutti degli ebrei tedeschi”. Questo slogan possedeva in quel momento una forza liberatrice di cui è difficile oggi comprendere tutta la portata. In Germania, dopo il silenzio dell’era Adenauer, la memoria di Auschwitz doveva riapparire, negli anni Sessanta, come un motore della protesta studentesca. Una nuova generazione chiedeva conto a quella che l’aveva preceduta, rimettendo in discussione il passato tedesco e denunciando i legami che univano la nuova Germania di Bonn al terzo Reich. Non si tratta certo di idealizzare questa rivolta o di nasconderne i limiti e le ambiguità. Diversi analisti hanno sottolineato i residui di un nazionalismo dai tratti antisemiti che poteva sonnecchiare nella virulenza dell’antisionismo, dell’anti—imperialismo e dell’antiamericanismo del— la sinistra extraparlamentare 9. Ma ciò non dovrebbe nascondere il fatto che questa rivolta fu il punto di partenza di tutte le controversie dei decenni seguenti attorno al “passato che non vuole passare” e alla formazione di una coscienza storica nuova di cui la memoria dei crimini nazi— sti costituisce un elemento centrale. Questa rammemorazione ha trovato una illustrazione letteraria notevole, nel 1975, in W ou le souvenir d’enfance di Georges Perec. Questo romanzo si articola attorno a un duplice racconto, quello della memoria e quello di una fiction politica ispirata all’attualità: da un lato i suoi ricordi di orfano, figlio di ebrei polacchi emigrati in Francia, de— e e

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portati e sterminati ad Auschwitz; dall’altra la cronaca di una società totalitaria, W, situata in America latina, orga— nizzata come un sistema totalitario fondato sul principio della competizione sportiva e sfociante alla fine nel massa— cro. Il romanzo termina con queste parole: Ho dimenticato le ragioni che, a dodici anni, mi hanno fatto scegliere la Terra del Fuoco per insediarvi W: i fascisti di Pinochet si sono incaricati di dare alla mia immaginazione un’ulti— ma risonanza: molte isole della Terra del Fuoco sono oggi campi di deportazione “’.

Ma si possono trovare esempi recenti di un buon uso della memoria dell’Olocausto. Per esempio quello dell’africanista Jean-Pierre Chrétien, che nell’aprile del 1994 pubblicava un articolo su “Libération” in cui denunciava i crimini di un “nazismo tropicale” in Rwanda“. Da un punto di vista analitico, questo concetto non sembra molto pertinente, in quanto assimila due genocidi, quello dei tutsi e quello degli ebrei, molto diversi per il loro contesto, la natura dei regimi politici che li hanno concepiti e i mez— zi con i quali sono stati messi in atto. Dal punto di vista dell’uso pubblico della storia, tuttavia, la formula era azzeccata. Nell’aprile 1994, quando l’opinione pubblica ap— pariva ancora largamente incredula o indifferente di fronte a massacri che i media caratterizzavano spesso come “conflitti tribali”, parlare di “nazismo tropicale” aveva un senso, quello di far leva sulla coscienza storica del mondo occidentale, nella quale la Sohah occupa oggi un posto centrale, per attirare l’attenzione su un genocidio in corso. Si trattava di mostrare che il Rwanda stava vivendo una tragedia grave come la Shoah e che bisognava reagire per cercare di impedirla. Da un punto di vista etico-politico, la nozione di “nazismo tropicale” era dunque perfettamente giustificata. Purtroppo, è più facile commemorare i genocidi, soprattutto a decenni di distanza, che impedirli.

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L’eclisse della memoria del comunismo

Lo storico tedesco Dolf Oehler ha mostrato a che punto la cultura francese del Secondo Impero fosse ossessionata dalla memoria del giugno 1848, in una società che cercava di esorcizzare con tutti i mezzi il ricordo di quella rivolta divenuta quasi innominabile 12. Oggi sta succeden— do qualcosa di analogo. L’idea stessa di rivoluzione è criminalizzata, automaticamente ricondotta alla categoria di “comunismo” e quindi archiviata nel capitolo “totalitarismo” della storia del XX secolo. La rivoluzione è assimilata al Terrore (quello della prima repubblica del 1793) e il Terrore ridotto al coerente inveramento di una ideologia criminale ”. Il capitalismo e il liberalismo sembrano tornati ad essere l’ineluttabile destino dell’umanità, come erano stati descritti da Adam Smith all’epoca della Rivoluzione industriale e da Tocqueville dopo la Restaurazione. Questa diagnosi non indica un nuovo ordine da costruire, di cui si coglierebbero appena i tratti, ma il sistema sociale e politi— co esistente, presentato come la sola risposta possibile agli orrori del XX secolo. Rispetto al paesaggio memoriale del secolo scorso, il contrasto è impressionante. Nei momenti più oscuri dell’“ età degli estremi”, quando il vecchio mondo era scosso da una guerra distruttrice che lo faceva assomigliare a un quandro di Jeronimus Bosch, quando si diffondeva la sensazione che l’umanità fosse sull’orlo del ba— ratro e che la civiltà rischiasse di conoscere un’eclisse defi— nitiva, il comunismo appariva, agli occhi di milioni di uo— mini e donne, come un’alternativa per la quale valeva la pena battersi. Nell’idea di comunismo vi era certo una parte di illusione, di mistificazione, di accecamento, di cui solo una minoranza, tra i suoi sostenitori, aveva coscienza. Tuttavia, essa era fortemente radicata nelle classi popolari. Comunismo era una parola carica di molti significati. Vo— leva dire prendere in mano il proprio destino, emancipar-

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si, battersi contro il fascismo, contro l’ingiustizia, contro l’oppressione, costruire una società di eguali. Esso riman— dava anche ad altre realtà meno limpide: l’avanzata “libe— ratrice” dell’Armata rossa, la disciplina, la ragione di Partito, il culto di Stalin. Aspirazioni libertarie, calcoli ma— chiavellici e minacce totalitarie convivevano in una dialettica storica che l’“età degli estremi” aveva spinto al paros— sismo. In molti paesi dell’Occidente europeo, la memoria del comunismo è innanzitutto quella di una “contro—socie— tà” “‘ — caserma, chiesa e comunità fraterna a un tempo — che oggi non esiste più. Se le ombre e le contraddizioni che occultavano questa idea di comunismo sono ormai ben visibili, se le sue illusioni sono distrutte, bisogna pur riconoscere che anche il suo orizzonte di esperienza è scomparso. Ipartiti che discendono da questa tradizione riconoscono la necessità di “rifondarla” e i movimenti di massa più radicali non la rivendicano. Gli zapatisti messi— cani non parlano di comunismo ma di dignità e di giusti— zia. Le forze che si sono mobilitate nel corso degli ultimi anni contro la mondializzazione neoliberista, da Seattle a Genova, hanno delle idee molto chiare su ciò che respin— gono — un mondo reificato e trasformato in merce —, ma non osano proporre un modello alternativo di società. Gli studenti cinesi riuniti sulla piazza Tien an Men nel 1989 non rivendicavano, come a Praga nel 1968 , un “sociali— smo dal volto umano”, ma libertà e democrazia. Nei paesi dell’Europa centrale, numerosi sono coloro che, dopo aver lottato per un socialismo autentico, sono divenuti responsabili non solo del ritorno alla democrazia, ma anche della restaurazione del capitalismo. Entrato nella coscienza storica del mondo occidentale dopo la fine degli anni Settanta come un evento centrale del XX secolo, il ricordo dei campi di morte nazisti si è sal-

dato, dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo dell’impero sovietico, con la memoria del “socialismo reale”. Le due sono diventate indissociabili, come le icone di

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un’“era dei tiranni” definitivamente trascorsa . L’elabora— zione della memoria del passato fascista e nazista, iniziata da qualche decennio in molti paesi europei, si è così intrec— ciata con la fine del comunismo. La coscienza storica del carattere omicida del nazismo è servita da parametro per misurare la dimensione criminale del comunismo, rifiutato in blocco — regimi, movimenti, ideologie, eresie e utopie comprese — come uno dei volti di un secolo di barbarie. La nozione di totalitarismo, un tempo collocata nelle stanze meno frequentate delle biblioteche della guerra fredda, ha conosciuto un ritorno spettacolare come chiave di lettura più adatta, se non la sola capace di decifrare gli enigmi di un’età di guerre, dittature, distruzioni e massacri “’. Una volta decapitato il mostro totalitario dalla testa di Giano, nazista e comunista, l’Occidente ha conosciuto una nuova giovinezza, quasi una nuova verginità. Se il nazismo e il co— munismo sono i nemici irriducibili dell’Occidente, que— st’ultimo cessa di costituirne la culla per divenirne la vittima, mentre il liberalismo si erige a suo redentore. Questa tesi presenta alcune varianti, dalle più rozze alle più sofisticate. La versione rozza è quella del filosofo del Diparti— mento di Stato americano Francis Fukuyama, per il quale la democrazia liberale designa, in senso hegeliano, “la fine della Storia”, per cui sarebbe ormai impossibile concepire un mondo diverso e migliore dell’attuale ”. La versione so— fisticata è quella di Frangois Furet. In Ilpassato di un’illusione, sottolineando che “né il fascismo né il comunismo sono stati i segni inversi di un destino provvidenziale dell’umanità” 18, Furet lascia intendere che tale destino prov— videnziale esiste davvero, rappresentato ovviamente dal lo— ro nemico comune: il liberalismo. Dopo aver equiparato il movimento e gli apparati poli— tici, la rivoluzione e il regime, le sue utopie e la sua ideolo— gia, i soviet e la Gpu, gli storici della nuova Restaurazione hanno iniziato a condannare in blocco il comunismo come un’ideologia e una pratica intrinsecamente totalitarie. Pri— ‘5

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di ogni dimensione liberatrice, la sua memoria è stata classificata negli archivi del secolo dei tiranni. Certo, il xx secolo ha sollevato un interrogativo fondamentale quanto alla diagnosi di Marx circa il ruolo del proletariato come liberatore dell’umanità. La rivoluzione russa (e, sulla sua scia, quelle che l’hanno seguita) ha creato un regime totalitario. Tutto ciò contro cui, da Babeuf a Marx, il comunismo era insorto — l’oppressione, la disuguaglianza, il dominio — è diventato la sua condizione normale di esistenza. La violenza “levatrice” della Storia è stata istituzionalizzata come suo modo di funzionamento. L’apparato concepi— to come mezzo è divenuto il proprio fine, un feticcio che esige la sua parte di vittime sacrificali. Il movimento che aveva promesso l’emancipazione del lavoro, finalmente strappato alla sua forma capitalistica, lasciò il posto a un sistema di alienazione e di oppressione. Il comunismo, cosi come l’abbiamo conosciuto dopo il 1917 attraverso le sue forme storiche concrete, è sparito con il secolo che l’aveva generato. Dopo un’epoca di guerre e genocidi, di fa— scismi e stalinismi, il socialismo esiste solo, come alle sue origini, nella sua forma utopica. Ma questa utopia è ormai pesantemente gravata dal peso della storia, che .la trasforma, secondo le parole ispirate di Daniel Bensa'id, in una “scommessa malinconica” 19. Essa si carica di un’acuta consapevolezza delle sconfitte subite, delle catastrofi sem— pre possibili, e questa consapevolezza diventa il vero filo rosso che forma la continuità della storia come storia dei vinti. Diversamente da Marx, che definiva le rivoluzioni come le “locomotive della storia”, Benjamin le interpretava come il “freno d’emergenza” che potrebbe arrestare la corsa del treno verso una catastrofe eternamente rinnovata e spezzare il continuum della storia 2”. La metafora di. Marx resta prigioniera della mitologia del progresso di cui le ferrovie, espressione della società industriale, immagine della potenza e della velocità, erano state il simbolo per vata

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tutto il XIX secolo. Dopo le rotaie di Birkenau, dopo le linee ferroviarie che gli zehs hanno costruito nei Gulag della Serbia, le locomotive non evocano più la rivoluzione. Certo, non siamo più in mezzo alla tempesta, come i nostri

antenati tra le due guerre. Viviamo, almeno provvisoria— mente, in un paesaggio postcatastrofi'co, al riparo delle calamità che affliggono altre regioni del pianeta. E con la ca— tastrofe si è allontanata la rivoluzione, suo corollario. Poiché il suo “campo d’esperienza” si allontana da noi come un passato trascorso, il suo “orizzonte d’attesa” è diventa— to invisibile“. Non sappiamo se il comunismo potrà tor— nare ad essere un “orizzonte d’attesa”, una “utopia con— creta”, come lo difiniva Ernst Bloch. La cosa certa è che il suo campo di esperienza è scomparso dal nostro paesaggio memoriale e che attende ancora la sua anamnesi. Da questo punto di vista, la memoria del comunismo ha conosciuto una parabola analoga a quella di altri movi— menti di emancipazione. Come hamao sottolineato molti storici, il maggio ’68 non evoca più, nell’immaginario collettivo, il più grande sciopero generale della storia francese, ma il rito di passaggio verso una società individualista e il momento di formazione di una nuova élite “liberal-libertaria”. L’analogia più sorprendente è forse quella dell’anticolonialismo, di cui la memoria pubblica ha conosciuto un’eclisse quasi totale. Una gigantesca rivolta dei popoli colonizzati contro l’imperialismo è stata dimenticata, ri— mossa da altre rappresentazioni del “Sud” del mondo accumulate nel corso di tre decenni: in primo luogo quella delle fosse comuni della Cambogia e del Rwanda, poi quella delle “guerre umanitarie”, infine quella del terrori— smo islamico, i cui portavoce hanno sostituito l’immagine

del guerrigliero. Gli ex colonizzati non hanno acquisito lo di soggetti storici, si sono semplicemente trasformati in “vittime”, in oggetto di soccorso da parte dei paesi sviluppati che continuano ad assolvere, come nel XIX seco— lo, la loro “missione civilizzatrice”, ormai avvolta nel manstatuto

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tello dei “diritti dell’uomo”. Così seppellito, il ricordo del comunismo e dell’anticolonialismo come movimenti di emancipazione, come esperienza di costituzione degli oppressi in soggetti storici, sussiste come memoria nascosta, talvolta come contro-memoria opposta alle rappresentazioni dominanti.

5. | dilemmi degli storici tedeschi

la scomparsa del fascismo

La Germania costituisce un laboratorio interessante per studiare l’interazione tra memoria e scrittura della storia. In questo paese, l’emergere di una coscienza storica del genocidio degli ebrei ha coinciso con la scomparsa della nozione di “fascismo” dal campo storiografico. Ben po— chi storici si sono dedicati a una analisi comparata dei fa— scismi ‘, e pochissimi accettano oggi di considerare il fasci— smo come un fenomeno di portata europea. Si tratta es—

senzialmente di qualche superstite della storiografia della Germania orientale, dopo la “normalizzazione” seguita al— la riunificazione in seno al mondo accademico. Ela nozio— ne stessa di fascismo che, al di là del Reno, sembra costi— tuire una sorta di tabù. Il fenomeno non è nuovo. Era già stato ossevato nel 1988 da Timothy Mason, uno studioso che aveva posto la storia comparata dei fascismi al centro del proprio lavoro. In un articolo significativamente intitolato Whatever happened to “fascism”?, egli sottolineava una tendenza che si sarebbe accentuata nel corso del decennio successivo: la scomparsa del concetto di fascismo nella sto— riografia tedesca 2 . Gli ultimi vent’anni sono stati caratterizzati in Germa—

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nia da cinque grandi dibattiti, alcuni esclusivamente interni alla disciplina, altri proiettati verso l’esterno, fino a di— ventare dei grandi eventi politico—culturali. Il primo è la “controversia degli storici” (Historiherstreit) del 1986, il cui impatto oltre le frontiere tedesche è stato considerevole. Poi, l’anno seguente, il carteggio tra Martin Broszat e Saul Friedlànder, che non ha varcato la soglia delle riviste

delle pubblicazioni specialistiche, ma che costituisce una riflessione metodologica di primaria importanza. Nel 1996, è la controversia a proposito del libro di Daniel J. Goldhagen sui “carnefici volontari di Hitler” ad imporsi in primo piano, ancora una volta con forti ripercussioni sulla scena internazionale. Vengono quindi gli esami di coscienza, questa volta esclusivamente interni al mondo accademico, che hanno luogo in occasione del congresso degli storici tedeschi (Historihertag) del 1998, i quali sono seguiti infine dalle polemiche feroci su una esposizione itinerante dedicata ai crimini della Wehrmacht. Il primo dibattito, l’Historiherstreit, inizia quindi nel 1986 con le tesi di Ernst Nolte sul passato tedesco “che non vuole passare”. La sua interpretazione del nazismo come reazione alla rivoluzione russa e soprattutto la sua vi— sione del genocidio degli ebrei come “copia” di un “genocidio di classe” messo in atto dai bolscevichi sono state og— getto di polemiche ben note. Jiirgen Habermas è stato il principale critico di Nolte, accusato di aver trovato una maniera comoda di “liquidare i danni”, di “normalizzare” il passato e di dissolvere la responsabilità storica ereditata dai crimini del nazionalsocialismo 3. Il secondo dibattito si è svolto l’anno dopo, al riparo dai feuilletons della stampa quotidiana e dagli schermi te— levisivi: un dibattito metodologico destinato ad avere un certo impatto negli ambiti della ricerca. Pubblicato quasi simultaneamente in tedesco e in inglese, il carteggio già ci— tato tra Martin Broszat e Saul Friedlànder affrontava la questione spinosa della possibilità e dei limiti di una storie

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TEÎIÌ)ESCIII

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cizzazione del nazismo, rivelando a un tempo la fecondità di un dialogo e la differenza che deriva da due approcci di— stinti: quello di uno storico tedesco e quello di uno storico ebreo? Questa differenza, che costituisce uno degli aspet— ti centrali del loro carteggio, va sottolineata non per “etni— cizzare” il dibattito ma per ricordare le prospettive epistemologiche distinte che dipendono dalla “posizione” dello storico (ciò che Karl Mannheim avrebbe chiamato il suo Standort) 5, cioè dal suo inserimento in un contesto sociale, politico, culturale, nazionale e memoriale specifico? Terzo dibattito: a metà degli anni Novanta, l’opera del politologo americano Daniel Goldhagen ha suscitato, ben oltre gli ambienti universitari, un vasto dibattito pubblico sul rapporto della società tedesca con il regime nazista e sul grado di implicazione dei tedeschi “comuni” nella messa in atto dei suoi crimini. La tesi di Goldhagen, che mira a presentare il genocidio degli ebrei come un “progetto nazionale” tedesco, è stata fortemente criticata dalla maggior parte degli storici, ma è stata anche un momento importante nel confronto della Germania riunificata con il passato nazista e nella formazione di una coscienza storica, in particolare tra i giovani, al centro della quale si inscrive la memoria di Auschwitz ’. L’approccio funzionalista do— minante negli anni Ottanta e all’inizio degli amai Novanta, che vedeva i crimini nazisti essenzialmente come il prodot— to di una macchina omicida, impersonale e quasi anonima, è stato potentemente scosso da Goldhagen, che ha messo l’accento sulla partecipazione attiva dei tedeschi a questi crimini, spostando l’attenzione dai campi di sterminio alle esecuzioni di massa ad opera delle unità speciali delle SS (Einsatzgruppen), dei battaglioni di polizia e dell’esercito. Quarto dibattito: nel 1998, il tradizionale incontro degli storici tedeschi, che si svolge ogni due anni, è stato segnato da un vivace dibattito introspettivo sul passato della loro disciplina. La compromissione, a volte l’aperta adesione al regime nazista di alcune figure di punta della storiografia

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del dopoguerra — come Werner Conze e Theodor Schieder, i maestri di numerosi ricercatori che dominano oggi la disciplina — è stata oggetto di rivelazioni e di critiche molto severe“. Questo congresso ha tracciato il profilo di una nuova generazione — in senso storico e non semplicemente cronologico del termine, secondo la definizione di Mannheim — apparsa nel corso dell’ultimo decennio (talvolta an— che prima, in particolare nel caso di uno dei portavoce del— l’ondata contestatrice come Gòtz Aly9). Era in qualche modo inevitabile che dopo essere stata uno dei vettori privilegiati dell’elaborazione di una coscienza storica e dello sviluppo di un vasto dibattito sociale sull’uso pubblico del— la storia, la comunità degli storici volgesse lo sguardo al proprio percorso e procedesse, molto onestamente e quin— di anche molto dolorosamente, alla propria autocritica. Si

di una identificazione completa del giudice e dello storico, in un processo in cui gli storici si sono eretti a giudici dei loro predecessori e della loro stessa storia. Quinto dibattito: la mostra sui crimini della Wehrmacht, organizzata dall’Institut fur Sozialforschung di Amburgo e inaugurata nel 1995, ha una storia tormentata di cui si potrebbe fissare la conclusione nel 2002 1°. Risul— tato di un importante lavoro di ricerca, questa mostra ha infranto il luogo comune, profondamente radicato nell’o— pininone pubblica tedesca, secondo cui l’esercito non sa— rebbe stato coinvolto nei crimini del nazismo, la cui responsabilità ricadrebbe in modo pressoché esclusivo sulle SS e sulla Gestapo. Appoggiandosi su un vasto materiale di immagini e di documenti, l’esposizione di Amburgo mostrava al contrario che l’esercito aveva perpetrato numerosi massacri delle popolazioni civili in Unione Sovieti— ca in particolare in Ucraina e in Bielorussia — e in Serbia, prendendo parte all’eliminazione degli ebrei. Era stato al centro di una guerra di conquista e di sterminio contro i comunisti, le popolazioni slave, gli ebrei e gli zingari, una guerra che si era radicalizzata di fronte alla resistenza soè trattato



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vietica e che presto aveva assunto le caratteristiche di una guerra coloniale e di una crociata antisemita. Imilioni di giovani soldati che avevano servito sotto l’uniforme della

Wehrmacht rappresentavano l’insieme della società tedesca con la quale essi mantenevano contatti e scambiavano informazioni. Mostrare l’implicazione della Wehrmacht nel genocidio degli ebrei significava dunque demolire il. mito secondo il quale i tedeschi “non sapevano”. Le feroci polemiche suscitate da questa mostra hanno raggiunto l’apice nel 1999, quando i suoi detrattori hanno potuto provare la presenza di alcuni falsi documenti (quattro fotografie di crimini del Nkvd attribuiti per errore alla Wehrmacht) provocandone la chiusura. A seguito del lavoro di una commissione d’inchiesta indipendente che ha respinto ogni accusa di falsificazione e di manipola— zione, l’esposizione è stata infine riaperta nel 2002, spurgata delle fotografie controverse — una parte del tutto infi— ma sull’insieme dei documenti raccolti e accompagnata da un nuovo catalogo arricchito di un importante appara— —

to

critico “.

Queste controversie presentano alcune caratteristiche profondamente diverse. Si tratta rispettivamente di tre grandi dibattiti pubblici che hanno largamente superato le frontiere di una disciplina scientifica (l’Historiherstreit, l’affare Goldhagen e la mostra sui crimini della Wehrmacht), di una riflessione metodologica sull’interpretazione di un passato che si sottrae ai tradizionali metodi di sto— ricizzazione (il carteggio Broszat-Friedlànder), infine di una crisi di identità all’interno di una comunità intellettua— le (I’sttorihertag del 1998). A ben guardare, tuttavia, le prime tre controversie, che costituiscono anche la premessa e la base sulla quale si sono sviluppate le altre, ruotano attorno a uno stesso problema: la singolarità storica del nazismo e dei suoi crimini ”'. Il riconoscimento di questa singolarità è ormai il postulato implicito della maggioranza

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delle ricerche tedesche sul nazismo. Non si tratta qui di in discussione questa tesi, che si può benissimo ammettere e che costituisce per diversi aspetti una acquisizione importante della storiografia. Ciò che merita di essere sottolineato è invece il suo corollario, cioè le conseguenze problematiche, a volte inquietanti, che hanno accompagnato questo riconoscimento. Al primo posto tra questi effetti negativi, bisognerebbe inserire proprio la scomparsa del concetto di fascismo. Su questo problema cruciale, si ha l’impressione che tutti si siano silenziosamente ma fermamente schierati dal— la parte di Karl Dietrich Bracher, lo storico liberal—conservatore che con maggiore coerenza ha sempre respinto la nozione di fascismo. Da più di quarant’anni, egli oppone la sua visione della Germania nazista come regime totalitario alle diverse teorie del fascismo, categoria che ritiene possa essere applicata solo all’Italia di Mussolini ”. Alcuni dei suoi allievi come Hans-Helmut Kniitter rifiutano persino di attribuire al fascismo lo statuto di un concetto (Begriff), riducendolo a una semplice “parola d’ordine” (Schlagwort), a una ideologia e a uno strumento di propaganda ". Questo atteggiamento non è nuovo. Nuova, invece, è I’adesione che suscita da parte di storici e politologi provenienti dalla sinistra, come Wolfgang Kraushaar o Dan Diner. Il primo difende adesso l’idea di totalitarismo, che presenta come antinomica a quella di fascismo (essendo totalitaria, la Germania nazista non potrebbe più essere fascista) ‘5. Il secondo ha recentemente pubblicato un ambizioso e interessante tentativo di “comprensione” del XX se— colo (Das ]ahrhundert verstehen), nel quale non fa quasi mai ricorso alla nozione di fascismo 16. Il nazionalsocialismo appare come un fenomeno esclusivamente tedesco, completamente distinto e indipendente dal fascismo italiano, tanto nel suo contenuto quanto nella sua forma, impossibile da ricondurre a un fenomeno fascista di portata europea (per questo il suo libro ignora largamente anche la mettere

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guerra civile spagnola). Nella maggior parte dei casi, gli storici che continuano a utilizzare la nozione di fascismo sono dei rappresentanti della scuola storica della vecchia Repubblica democratica tedesca, come Kurt Pàtzold, dei marxisti come Reinhard Kiihnl ”, o degli ex allievi di sini— stra di Nolte, come Wolfgang Wippermann 18. Tra gli storici della Repubblica federale tedesca, l’eccezione è data da Hans Mommsen, che riconosce la pertinenza di questo concetto, anche se lo usa poco all’interno di un’opera cer— tamente considerevole che non si distingue però per il suo comparatismo. E significativo che la sola opera oggi dispo— nibile in Germania sui fascismi sia tradotta dal polacco: Schulen des Hasses, di Jerzy W. Borejsza 19.

Un altro segno rivelatore di questo mutamento nel pae— saggio intellettuale è l’abbandono della nozione di fasci— smo da parte di colui che più aveva contribuito alla sua diffusione: Ernst Nolte. Divenuto celebre all’inizio degli anni Sessanta grazie a un libro ambizioso in cui interpretava il fascismo come un fenomeno europeo di cui analizza— va tre varianti principali il regime di Mussolini in Italia, il nazionalsocialismo tedesco e I’Action francaise —, egli pre— ferisce oggi definire il nazionalsocialismo come un totalitarismo, di cui ha cercato di dare una spiegazione “storico— genetica” 20.



La Shoah, la Repubblica democratica tedesca e l’antifascismo

All’origine di questo “ostracismo” concettuale vi sono, ovviamente, diversi fattori. Se ne possono sottolineare almeno quattro, legati tanto all’evoluzione intriseca della ricerca storica quanto a una trasformazione del paesaggio memoriale della Germania. Il primo dipende dai limiti ormai evidenti delle teorie classiche del fascismo, in particolare quelle d’ispirazione

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marxista. E difficile oggi potersi accontentare di una spiegazione del nazismo come espressione, secondo la formula canonica, dei settori più aggressivi del grande capitale e dell’imperialismo tedesco, o anche, in termini più sfumati, come semplice risultato di un cambiamento dei rapporti di forza tra le classi 2‘. Ilimiti di una tale lettura sono ormai riconosciuti da tutti anche se, sia detto per inciso, le interpretazioni marxiste, oggi poco frequentate dagli studiosi, sono spesso molto più ricche e complesse di quanto si pensi (i marxisti sono tra i primi ad aver parlato del fascismo in termini di totalitarismo, di policrazia, di carisma, di psicologia di massa ecc.) 22. L’indifferenza nei confronti delle basi di classe del nazismo rischia inoltre di condurre in un vicolo cieco, esattamente come le interpretazioni dello Stato hitleriano in termini rigorosamente “classisti”. Se nessuno può seriamente pretendere che le camere a gas corrispondessero a un disegno del capitalismo monopoli— stico tedesco, l’implicazione di quest’ultimo nel sistema concentrazionario nazista è incontestabile, così come il so— stegno delle élite tedesche tradizionali al regime nazista fi-

no alla fine della Seconda guerra

mondiale.

Il secondo fattore dipende dalle profonde differenze tra il fascismo italiano e il nazionalsocialismo, soprattutto sul piano dell’ideologia. L’antisemitismo, che occupa un posto centrale nella visione del mondo e nella politica naziste, rimane ufficialmente assente dal fascismo fino al 1938, sedici anni dopo l’arrivo al potere di Mussolini. Più in generale, le matrici culturali del fascismo italiano (la presenza, alle sue origini, di una componente di “sinistra”), Ia sua esaltazione dello Stato “totalitario” (al posto della vò"lhische Gemeinschaft) e anche la sua definizione del nazionalismo (più spiritualista che biologica) rivelano differenze così profonde nei confronti del nazionalsocialismo che una visione monolitica del fascismo come feno— meno omogeneo le cui varianti nazionali sarebbero super— ficiali appare fortemente contestabile 23.

I DILEMMI DEGLI STORICI TEDESCI II

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Se queste lacune e questi. limiti oggettivi hanno certafavorito una rimessa in discussione del concetto di fascismo, un terzo fattore che ne ha determinato l’eclisse è di natura essenzialmente politica. La nozione di fascismo era un dogma per la scuola storica della Repubblica democratica tedesca, in un contesto in cui le frontiere tra ricerca e ideologia, tra interpretazione del passato e apologia dell’ordine dominante erano molto sottili. Dopo la riunifica— zione, questa nozione è scomparsa a seguito della demolizione, in senso letterale, della scuola storica che l’aveva definita. Questo processo è stato accompagnato prima dalla rimessa in discussione e poi dal rigetto radicale di un’altra nozione, quella di antifascismo, che appariva più come una ideologia di Stato che come l’eredità di un movimento di resistenza. Lo studio della resistenza comunista — la cui ampiezza non fu affatto trascurabile 2" — era appannaggio della storiografia della Germania orientale, sottoposta a un forte controllo ideologico. All’Ovest, si privilegiava l’op— posizione all’interno dell’esercito, il cui esito fu l’attentato contro Hitler del luglio 1944, mentre la storia sociale tendeva a mettere tra parentesi il concetto stesso di resistenza (Widerstand) per spostare l’attenzione verso le diverse forme di “non adattamento” (Resistenz) della società civile nei confronti del regime. Come ha suggerito Saul Friedlànder, la conseguenza dell’uso di questo concetto — che letteralmente significa “l’immunità in senso biologico” ” — era quella di legittimare la visione lenitiva e apologetica, larga— mente diffusa tra l’opinione pubblica dopo il 1945, di una società civile tedesca in ultima analisi estranea ai crimini del nazismo. Con lo sviluppo degli studi sulla vita quotidiana (Alltagsgeschichte) nella Germania nazista, la resistenza perdeva il suo interesse 26. Questa trasformazione era tanto più naturale in quanto solo la storiografia della Rdt poteva legittimamente considerarsi l’erede di una tradizione antifascista e non certo gli storici della Germania dell’Ovest appartenenti a quella che oggi è abitualmente mente

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chiamata “generazione della Hitlerjugend”, per non parlare dei loro maestri che dominavano la disciplina nell’era Adenauer e che spesso avevano aderito al partito nazista prima del 1945. Ma questo quadro sarebbe incompleto senza un altro elemento politico. Il concetto di fascismo, nella Germania occidentale degli anni Sessanta e Settanta, serviva spesso a indicare anche il presente e a motivare la lotta contro le tendenze autoritarie di un sistema politico nato dalle ceneri del Terzo Reich. Secondo la celebre for— mula di Adorno, il pericolo rappresentato dalle sopravvivenze del fascismo nella democrazia era ben più grande della minaccia di una ricaduta nel fascismo 27. La solidità delle istituzioni democratiche tedesche, la cui riunificazio— ne è stata un test decisivo, ha mostrato il carattere datato e ormai obsoleto di una tale concezione. Veniamo ora al quarto elemento, probabilmente il più importante. Ciò che più ha contribuito all’abbandono del— la nozione di fascismo nella storiografia tedesca, è stato l’emergere di una coscienza storica fecondata dalla memoria di Auschwitz. Il fascismo appariva come una categoria troppo generica per analizzare Auschwitz. L’1micità dello sterminio degli ebrei d’Europa non può essere colta con un concetto che è stato applicato anche all’Italia di Musso— lini, alla Spagna di Franco, al Portogallo di Salazar, all’Austria di Dollfuss, alla Romania di Antonescu, ecc. La nozione di fascismo, scrive Dan Diner con una formula perentoria, “non permette di cogliere il nocciolo di Ausch— witz” 2“. L’eclisse del concetto di fascismo appare dunque come l’epilogo di un lungo percorso della storiografia tedesca che sfocia in una visione del passato al centro della quale si colloca ormai la Shoah, il “punto fisso” del sistema nazista, segnato da una irriducibile “unicità” (Binzigartigheit). L’accanirnento con il quale gli storici si sono sbarazzati del concetto di fascismo appare quasi come una sorta di nichilismo compensativo, con il quale hanno cercato di cancellare il lungo periodo durante il quale i loro

I DI IL.I'ZMMI DEGLI STORICI "TEDESCHI

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predecessori furono incapaci di pensare e di investigare il genocidio degli ebrei. Sorge allora una domanda di non poco conto: la nozio— ne di totalitarismo, che ha conosciuto una rinascita spetta— colare nel corso dell’ultimo decennio in Germania come nel resto dell’Europa, è forse più adatta a cogliere la singolarità della Shoah? Possiamo dire che lo spostamento del comparativismo storico dal rapporto tra il fascismo italiano e il nazismo al rapporto tra il nazismo e il comunismo sia davvero più illuminante per comprendere la natura del regime hitleriano e la singolarità dei suoi crimini? Si può affermare seriamente chela messa in parallelo del “duplice passato totalitario” della Germania — quello del Terzo Reich e quello della Repubblica democratica tedesca, quello, per riprendere la formula di Étienne Frangois, di un regime che ha accumulato una montagna di cadaveri e quello di un regime che ha accumulato una montagna di dossier "” — conduca a conclusioni di maggiore valore euri— stico? Il dubbio sembra legittimo. Non si tratta di contestare il. valore della nozione di totalitarismo — limitato ma reale — né di rifiutare la legittimità di una comparazione tra i crimini del nazismo e quelli dello stalinismo. Il problema dipende dall’uso che se ne fa. Perché bisognerebbe pensare il totalitarismo e il fascismo come a categorie analitiche incompatibili e alternative? Perché bisognerebbe attribuire una maggiore portata euri— stica alla comparazione tra nazismo e comunismo che a quella tra nazismo e fascismo? Non si tratta nemmeno di negare la singolarità storica dei crimini nazisti, perché lo sterminio industriale degli ebrei d’Europa resta una carat— teristica esclusiva del nazionalsocialismo. Ma se le camere a gas non hanno equivalenti fuori dal Terzo Reich, le loro premesse storiche — l’antisemitismo, il razzismo, il colonia— lismo, l’anti-illuminismo, la modernità tecnica e industria— le sono largamente presenti, a diversi livelli d’intensità, nell’intero mondo occidentale. D’altra parte, la singolarità



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dei crimini del nazismo non esclude la sua appartenenza, nonostante tutte le sue particolarità, a una famiglia politica più vasta, quella dei fascismi europei. Ma è proprio questa

ipotesi che, dall’Historiherstreit fino ai più recenti dibattiti sul Lihro nero del comunismo (il cui impatto non è stato trascurabile in Germania), ha conosciuto un’eclisse quasi totale. Abbiamo dunque assistito, nonostante le incontestabili acquisizioni della ricerca, al ritorno di un “consenso antitotalitario” che, per riprendere le parole di Habermas a proposito della Germania di prima del 1968, presuppo— neva un a priori “anti-antifascista” 30. Per dirla brevemente, l’eclisse del fascismo dipende dalla congiunzione di due tendenze: da un lato il consenso antitotalitario liberale e “anti-antifascista”, dall’altro l’e— mergere di una coscienza storica fondata sulla memoria della Shoah e sul riconoscimento della sua singolarità. In Italia, a queste tendenze hanno dato impulso alcune correnti della storiografia che, potentemente amplificate dai media, hanno teorizzato una separazione radicale tra fascismo e nazismo. Il fascismo italiano, affermava Renzo De Felice nel corso di una intervista che fece gran rumore, resta fuori dal “cono d’ombra dell’Olocausto” “. Questo fe— nomeno perverso — il riconoscimento della singolarità del genocidio ebraico, che agisce in Germania come veicolo di formazione di una responsabilità storica e in Italia come pretesto per una rilettura apologetica del fascismo — è una fonte permanente di malintesi e di ambiguità. Irischi di tali tendenze sono quelli che Martin Broszat aveva denunciato all’inizio del suo carteggio con Saul Friedlànder e di cui quest’ultimo sembra riconoscere oggi, almeno in parte, la realtà: un “isolamento” del passato nazista che impedisce di coglierne i legami con gli altri fasci— smi europei e, più in generale, col modello di civilizzazione del mondo occidentale. Cogliere questi legami non si— gnifica “normalizzare” o riabilitare il nazismo, ma piuttosto “denormalizzare” la nostra civiltà e rimettere in discus-

l DILEMMI DEGLI STORICI TEDESCHI

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sione la storia dell’Europa. Se vi è un Sonderweg tedesco, esso non spiega le origini del nazismo ma il suo risultato 52. In altre parole, la singolarità della Germania nazista dipen— de dalla sua sintesi, sconosciuta altrove, tra diversi elementi — antisemitismo, fascismo, Stato totalitario, modernità tecnica, razzismo, eugenismo, imperialismo, controrivolu— zione, anticomunismo apparsi nell’insieme dell’Europa alla fine del XTX secolo e potentemente sviluppati dalla Pri—



ma Guerra mondiale a livello continentale.

Questo “isolamento” rischia di allontanare la storiografia tedesca dalle principali correnti della ricerca internazionale, dove la legittimità del fascismo come “tipo ideale” è generalmente ammessa. Molti sono gli storici che, negli anni recenti, ne hanno fatto e ne fanno uso. Infine, il rifiu— to della nozione di fascismo (e, di conseguenza, di antifascismo) non fa che riproporre l’eterna questione dei rapporti tra storia e memoria. Scava un fossato radicale tra la storicizzazione attuale del nazismo e la percezione che ne avevano i suoi contemporanei, quando il fascismo, prima di essere una categoria analitica, era un pericolo contro il quale bisognava battersi e quando l’antifascismo, prima di divenire un’ideologia di Stato, costituiva un ethos condiviso dall’Europa democratica e, in quel contesto, dalla cultura tedesca in esilio.

6. Revisione e revisionismo

Metamorfosi di un concetto

“Revisionismo” è una parola camaleontica che ha asnel corso del XX secolo significati diversi e contraddittori, prestandosi a molti usi e suscitando talvolta dei malintesi. Le cose si sono ulteriormente complicate per via della sua appropriazione da parte della setta internazionale che nega l’esistenza delle camere a gas e più in generale il genocidio degli ebrei d’Europa ‘. I negazionisti hanno cercato di presentarsi come i portavoce di una scuola sto— rica “revisionista” opposta a un’altra scuola, che essi definiscono “sterminazionista” e che include ovviamente l’insieme degli studi storici sull’Olocausto degni di questo nome. Al fine di difendere le loro tesi, nel 1987 inegazionisti hanno fondato una rivista chiamata “Annales d’histoire révisionniste”, divenuta poi “Revue d’histoire révisionniste”. Inutile aggiungere che questa corrente — di cui Pierre Vi— dal-Naquet ha svelato la vera intenzione ribattezzandola “gli assassini della memoria” 2 — non ha mai raggiunto il suo scopo, poiché non ha finora ottenuto il minimo riconoscimento nell’ambito della storiografia né diritto di cit— tadinanza nel dibattito pubblico. Al contrario — questo fatto è stato spesso sottolineato — la sua apparizione ha avuto sunto

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REVISIONE E REVISIONISMO

l’effetto indiretto di stimolare la ricerca, che è pervenuta nel corso di questi ultimi anni a una conoscenza ben più precisa e dettagliata dei mezzi e delle modalità del proces— so di sterminio degli ebrei. I negazionisti sono nondimeno riusciti a inquinare il linguaggio e a creare una confusione considerevole attor— no al concetto di revisionismo. Francois Bédarida non mancava di ricordarlo, una decina di anni fa, scrivendo che, appropriandosi di questo termine, i negatori del genocidio avevano compiuto “una vera e propria usurpazione”. Avevano ripreso una parola esistente che traduce “un approccio più che onorevole, per darsi una rispettabilità falsa e ingannevole” 3. E ormai indispensabile, quando si usa questo termine, precisarne il significato, come fa per esempio Pierre Vidal-Naquet che indica, all’inizio delle sue “Tesi sul revisionismo” (1985), la sua scelta deliberata di usarlo in una accezione restrittiva, limitata alla “dottrina secondo la quale il genocidio praticato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei e degli zingari non sarebbe esistito ma consisterebbe in un mito, in un’affabulazione, in una truffa”. Egli prosegue sottolineando che questa parola può veicolare significati diversi a seconda dei contesti, ricordando infine che essa ha conosciuto i suoi momenti di gloria. In Francia, egli scrive, “i primi revisionisti moderni” sono stati i sostenitori della revisione del processo che aveva portato alla condanna del capitano Alfred Dreyfus? Nelle sue linee generali, la storia del revisionismo negazionismo escluso — potrebbe essere ricondotta a tre momenti principali: una controversia marxista, uno scisma interno al mondo comunista e, in senso più largo, una serie di dibattiti storiografici posteriori alla Seconda guerra mondiale. Partiamo dunque dal revisionismo classico, con il quale la parola è stata introdotta nel lessico della cultura politica moderna: si tratta evidentemente della Bernsteindebatte, che nacque alla fine del XIX secolo in seno alla so— cialdemocrazia tedesca e si estese immediatamente all’in—

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IL PASSATO: |S'l'RL."/.IONIPER L’USO

sieme del movimento socialista internazionale. L’ex segre— tario di Engels, Eduard Bernstein, teorizzava allora la ne— cessità di “rivedere” alcune concezioni di Marx, come la

polarizzazione crescente tra le classi nella società borghese o la tendenza al crollo del capitalismo dilaniato dalle sue crisi interne. Da queste revisioni teoriche, Bernstein traeva alcune conclusioni politiche che miravano ad armonizzare la teoria della socialdemocrazia tedesca con la sua pratica, quella di un grande partito di massa che aveva abbandonato la via rivoluzionaria e si orientava verso una politica ri— formista? Questo “revisionismo” fu vigorosamente criticato da Kautsky, Rosa Luxemburg e Lenin, ma nessuno mai si sognò di espellere Bernstein dalla Spd e la contro— versia, talvolta di alto livello teorico, rimase sempre nei limiti di un dibattito di idee. Essa fu seguita da altre “revisioni” — da Rodolfo Mondolfo in Italia, Georges Sorel in Francia e Henri de Man in Belgio — che avrebbero condotto alcuni dei loro promotori dal socialismo al fascismo (’. Il termine cominciò così a diffondersi al di là degli ambienti marxisti. Negli anni Trenta, si definiva revisionista Vladimir ]abotinsky che rifiutava la via diplomatica raccoman— data dai fondatori del sionismo politico (Herzl, Nordau) e progettava la creazione di uno Stato ebraico in Palestina ricorrendo alla forza’. La controversia socialista assumerà una connotazione dogmatica, quasi religiosa, dopo la nascita dell’Unione sovietica e la trasformazione del marxismo in ideologia di Stato, con i suoi dogmi e i suoi guardiani dell’ortodossia. La parola “revisionista” diventò allora un epiteto infaman— te, sinonimo di “traditore”. Essa fu largamente usata durante lo scisma jugoslavo nel 1948 e soprattutto durante il conflitto cino-sovietico, all’inizio degli anni Sessanta. Talvolta diventava un aggettivo che accompagnava un sostantivo più pittoresco e feroce, come nella formula “iena revisionista”, prediletta dagli ideologi del Cominform per definire il maresciallo Tito..”

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Ma le controversie su Bernstein, ]abotinsky e Tito non riguardavano — almeno non direttamente — la scrittura della storia. Il terzo campo di applicazione della nozione di revisionismo riguarda invece la storiografia del dopoguer— ra. Numerosi approcci che miravano a rinnovare l’inter— pretazione di un’epoca o di un avvenimento, a rimettere in discussione il punto di vista dominante, sono stati definiti “revisionisti”. Questa parola puntava a sottolineare il loro carattere innovativo e non a delegittimarli, poiché i loro rappresentanti erano sempre riconosciuti come membri appartenenti a pieno titolo alla comunità degli storici. Tra le “revisioni” più importanti si potrebbe ricordare quella avviata all’inizio degli anni Sessanta dallo storico tedesco Fritz Fischer, che rinnovava il dibattito sulle origini della Prima guerra mondiale (sottolineando, contro la, tendenza dominante nella storiografia tedesca, le mire pangermaniste dello stato maggiore prussiano) “. Poi quella dei polito— logi americani che, seguendo l’esempio di Gabriel Kolko, rimettevano in discussione la guerra fredda ”. Più recente— mente, quella di uno storico come Gar Alperovvicz, secon— do il quale la scelta americana di sganciare la bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki, nell’agosto 1945, mirava più a stabilire la supremazia strategica degli Stati uniti sull’Unione sovietica — facendo pesare sulla scena internazionale il suo monopolio dell’arma nucleare — che a mettere fine alla guerra risparmiando delle vite umane, come pretendeva il presidente Truman “’. Negli Stati uniti vengono oggi definiti “revisionisti” dei sovietologi come Moshe Le— win, Arch Getty e Sheila Fitzpatrick che, a partire dagli an— ni Settanta, hanno preso le distanze dagli approcci antico— munisti dell’epoca della guerra fredda e cominciato a stu— diare, al di là della facciata totalitaria del regime, la storia sociale del mondo russo e sovietico “. Ma numerose “revisioni” appaiono anche in Europa. Per esempio in Italia, all’inizio degli anni Sessanta, in un dibattito storiografico sul Risorgimento, dove “revisioniste” sono definite le tesi di

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Gramsci e Salvemini sui limiti del processo di unificazione nazionale diretto dalla monarchia sabauda 12. Qualche an— no dopo, Francois Furet procede alla “revisione” dell’in— terpretazione giacobino-marxista della Rivoluzione france— se - interpretazione che stigmatizza con disprezzo come una “vulgata populista-leninista” — e si orienta verso una lettura liberale della rottura del 1789, servendosi di Toc— queville e di Augustin Cochin, suscitando un vasto e polemico dibattito internazionale . All’epoca del bicentenario della Rivoluzione, questa tesi “revisionista” benché nutrita di vecchi stereotipi conservatori si è imposta come la lettura dominante. L’ultima “revisione” di peso è quella, già menzionata nei capitoli precedenti, dei “nuovi storici israeliani”. Facendo cadere alcuni miti tenaci, Benny Mor— ris e Ilan Pappé hanno presentato il conflitto del 1948 in tutta la sua complessità, quella di una guerra che fu al contempo lotta autodifensiva e campagna di epurazione etni— ca “‘. Una guerra in cui lo Stato ebraico che era appena sta— to proclamato combatteva da una parte per la sua soprav— vivenza e procedeva dall’altra all’espulsione di diverse cen— tinaia di migliaia di palestinesi. Ecco un esempio di “ revi— sione” opposta a una visione apologetica, che si sforza al contrario di mettere fine a un lungo periodo di amnesia collettiva e di occultamento ufficiale del passato.







La parola e la cosa

Queste “revisioni” storiografiche sollecitano qualche puntualizzazione metodologica. La prima riguarda l’uso delle fonti. Se il racconto storico è una ricostruzione degli avvenimenti del passato “così com’è veramente stato” (wie es ez'gem‘lz'c/a geweren), secondo la formula canonica di Ranke — definizione certo semplificatrice ma incisiva — ne consegue che alcune “revisioni” si inscrivono nel suo ambito in modo naturale. La scoperta di fonti nuove, l’esplo-

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razione degli archivi, la moltiplicazione delle testimonian-

ze possono gettare una nuova luce su eventi che si crede— vano perfettamente noti ma di cui si aveva una conoscenza lacunosa o erronea. La revisione al ribasso del numero del-

le vittime del sistema concentrazionario in Unione sovieti— ca — stimato a dieci milioni da Robert Conquest, poi ridotto a meno di due milioni e ottocentomila dalle ricerche più recenti ‘5 — è stata la conseguenza dell’analisi scrupolosa delle fonti e dell’accesso a una documentazione essenziale prima inaccessibile (una revisione analoga era avvenuta a proposito delle vittime delle camere a gas di Auschwitz, stimate nel 1945 a cinque milioni e oggi a un milione e mezzo).

Altre “revisioni” derivano da un cambiamento di pamdigma interpretativo. Talvolta, l’introduzione di un nuovo paradigma può essere legata a fonti prima ignorate, come sanno tutti coloro — o piuttosto tutte coloro — che hanno cominciato a scrivere una storia delle donne (necessariamente “revisionista”, dato che implicava un mutamento dell’approccio, dei soggetti, dei temi e delle fonti nel modo di fare storia). La storia si scrive sempre al presente e l’interrogativo che orienta la nostra esplorazione del passato si modifica secondo le epoche, le generazioni, le trasfor— mazioni della società e i percorsi della memoria collettiva. Se la nostra visione della Rivoluzione francese o della Rivoluzione russa non è più la stessa di cinquant’anni o un secolo fa, ciò non si deve soltanto alla scoperta di fonti inedite, ma anche e soprattutto a una messa in prospettiva storica nuova, legata alla nostra epoca. Non è difficile riconoscere che la lettura romantica della Rivoluzione francese proposta da Michelet, quella marxista di Soboul e quella liberale di Furet appartengono a contesti storici, culturali e politici diversi. E ben difficile pensare che un’opera come Black Athena di Martin Bernal, che va alla ricerca delle radici africane della civiltà occidentale, potesse essere scritta da uno storico europeo dell’Ottocento, in piena età

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dell’imperialismo. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. In questa accezione, le “revisioni” della storia sono le— gittime, inevitabili e a volte necessarie. Tuttavia, alcune re— visioni — quelle che più spesso si definiscono “revisioni— smo” implicano una svolta etico—politica nel nostro modo di guardare al passato. Esse corrispondono a ciò che ]iir— gen Habermas aveva chiamato, all’epoca dell’Hùtorz'kerstrez'z‘, l’emergere di “tendenze apologetiche” nella storiografia “‘. Usato in questo senso, il concetto di “revisionismo” assume evidentemente una connotazione negativa. Non è dunque sorprendente che alcuni storici accusati di “revisionismo” abbiano cercato di difendersi ricordando che la “revisione” appartiene al modo normale di lavorare dello storico e che, per definizione, quest’ultimo sarebbe sempre un “revisionista”. Nel suo carteggio con Francois Furet, Ernst Nolte sottolinea che “le ‘revisioni’ sono il. pa— ne quotidiano del lavoro scientifico” ”. E evidente che nessuno ha mai rimproverato gli storici “revisionisti” per aver esplorato archivi inediti o aver basato i loro lavori su una documentazione nuova. Ciò che si rimprovera loro è l’intento politico soggiacente alla loro rilettura del passato. L’esempio classico di questo tipo di revisione è proprio quello di Ernst Nolte. Nel suo libro La guerra civile europea, egli presenta i crimini nazisti come la semplice “copia” di una “barbarie asiatica” introdotta dal bolscevismo nel 1917. Minacciata di annientamento, la Germania avrebbe reagito sterminando gli ebrei, fondatori del regime bolscevico, i cui crimini costituiscono per N01te il “precedente logico e fattuale” dei crimini nazisti 18. L’assoluta mancanza di distanza critica mostrata da Nolte nei confronti delle sue fonti — la letteratura nazista dell’epoca — giustifica qualche perplessità, come ha opportuna— mente sottolineato Hans-Ulrich Wehler ”. Ma il problema fondamentale non dipende dall’uso delle fonti. E evidente che la storicizzazione del nazismo proposta da Nolte sfocia in una rilettura del passato in cui la Germania non oc-



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cupa più la posizione dell’oppressore ma quella della vitti— ma e le sue vittime reali, a cominciare dagli ebrei, sono

considerate dei “danni collaterali” nel migliore dei casi e, nel peggiore, come la fonte del male in quanto responsabili della rivoluzione bolscevica "’. Quanto a Renzo De Felice, la sua monumentale ricerca sull’Italia fascista ha prodotto numerose “revisioni” che sono oggi delle acquisizioni storiografiche generalmente accettate, come ad esempio il riconoscimento della dimensione “rivoluzionaria” del primo fascismo, del suo carattere modernizzatore o ancora del “consenso” ottenuto dal regime di Mussolini all’interno della società italiana, in particolare al momento della guerra d’Etiopia“. Assai più discutibile, invece, è la sua interpretazione della guerra civile italiana, tra il 1943 e il 1945 , come conseguenza della scelta antinazionale di una minoranza di resistenti, per la maggior parte comunisti. O ancora, come si è visto, la sua concezione del fascismo italiano come un regime completamente distinto, per le sue radici, la sua ideologia e i suoi scopi, dal nazismo, con il quale avrebbe stabilito un’al— leanza contro natura nel 1940. O infine il suo modo di fare di Mussolini un “patriota” che sceglie di sacrificarsi fondando la repubblica di Salò al fine di risparmiare all’Italia un destino simile a quello della Polonia. Si tratta qui di una rilettura apologetica del fascismo fondata sulla riabili— tazione di Mussolini. Se si aggiunge che queste tesi sono sviluppate in un libro — Rosso e nero22 — la cui pubblicazione ha coinciso con l’ingresso al governo, per la prima volta dopo la fine della guerra, di un partito “postfascista”, ere— de della repubblica di Salò, questa revisione storica non poteva che apparire come il supporto intellettuale di un progetto politico suscettibile di modificare profondamentele basi etico-politiche della repubblica italiana. Si sarebbe quasi tentati di opporre la revisione storica francese a quella di De Felice e dei suoi allievi. In Francia, sulla scia di Zeev Sternhell e di Robert]. Paxton (un israe-

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e un americano), gli storici hanno proceduto a una “revisione” che ha permesso di riconoscere le radici autoctone del regime di Vichy, il suo carattere estremamente autoritario, se non fascista, il suo ruolo attivo nella collaborazione ela sua complicità nel genocidio degli ebrei 23. In Ita— lia, invece, sotto l’impulso dell’ultimo De Felice, è apparsa una nuova tendenza storiografica che fa della riabilitazione del fascismo il suo obiettivo esplicitamente rivendicato. In Francia venivano abbandonate le tesi sull’inesistenza di un fascismo nazionale e i miti su Vichy come “scudo” pro— tettivo quando in Italia Mussolini veniva ritratto come una figura tragica di patriota. Le revisioni che ho appena menzionato — quali che siano i loro intenti e il loro valore superano le frontiere della storiografia in quanto disciplina scientifica per toccare un campo più vasto, quello del rapporto che ogni paese stabilisce con il proprio passato, ciò che Habermas definisce, con una formula efficace, l’uso pubblico della storia“. In altre parole, queste revisioni rimettono in discussione, al di là di una interpretazione dominante, una coscienza storica condivisa e una responsabilità collettiva nei confronti del passato. Esse riguardano sempre eventi fondanti la Rivoluzione francese, la Rivoluzione russa, il fascismo, il nazismo, la guerra arabo—israeliana del 1948, ecc. e la loro rilettura della storia concerne, ben al di là dell’interpretazione di un’epoca, il nostro modo di vedere il mondo nel quale viviamo e la nostra identità nel presente. Esisto— no dunque revisioni di natura diversa: alcune feconde, al— tre discutibili, altre ancora profondamente nefaste. Fecon— da è la revisione dei “nuovi storici” israeliani, che ricono— scono un’ingiustizia prima negata, raggiungono la memoria palestinese e gettano le basi per un dialogo israelo-pale— stinese. Discutibile è la revisione di Furet, che conclude Il passato di un’illusione con una rimessa in discussione radi— cale di tutta la tradizione rivoluzionaria — fonte, ai suoi occhi, dei totalitarismi moderni — e con una apologia malin-

liano







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conica del liberalismo come orizzonte insuperabile della storia”. Nefaste, infine, sono le revisioni di Nolte e De Felice, il cui obiettivo — o almeno la conseguenza — è il re— stauro dell’immagine del fascismo e del nazismo, riconciliandone la memoria con le società che ne portano le trac— ce e ne gestiscono il lascito. Se alcune revisioni della storia devono essere combattute, ci si può tuttavia interrogare sull’utilità di catalogarle in una stessa categoria negativa il “revisionismo” — che ricorda l’“inferno” in cui in altri tempi si collocava la lette— ratura pornografica nelle biblioteche. Trasformata in lotta “antirevisionista”, la critica delle tesi di Nolte e De Felice rischia di conoscere una deriva analoga a quella della controversia marxista sul revisionismo ricordata più sopra, cioè il passaggio da un dibattito di idee a una pratica inquisitoria, alla scomunica di tutti coloro che si allontanano da una ortodossia prefissata, da un canone normativo. In altri termini, parlare di “revisionismo” rimanda sempre a una storia teologizzata. L’antifascismo trasformato in ideologia di Stato nei paesi del blocco sovietico, in particolare nella Repubblica democratica tedesca, ha prodotto nel lungo periodo dei risultati disastrosi, compromettendo alla fine la propria legittimità. Senza raggiungere le stesse proporzioni, la retorica antifascista che ha regnato in Italia per quarant’anni ha avuto delle conseguenze dannose sulla ricerca storica. Per molto tempo, la preoccupazione di denunciare il fascismo ha prevalso su quella di analizzarlo e capirlo. Sono occorsi decenni per superare alcuni tabù. L’opera di Claudio Pavone storico di sinistra ed ex resistente — che interpreta la Resistenza non solo come una





lotta di liberazione ma anche come una guerra di classe e soprattutto come una guerra civile, è apparsa soltanto nel

1990”. Insomma, l’antifascismo istituzionalizzato e trasformato in epopea nazionale non è stato un antidoto efficace contro la riabilitazione del fascismo. Bisognerebbe evitare che qualcosa di analogo si ripetesse per la Shoah,

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ormai divenuta, come abbiamo visto, una “religione civi— le” dell’Occidente, con le conseguenze positive ma anche tutti i pericoli che questo comporta.

Le tendenze apologetiche nella storiografia del fasci-

smo e del nazismo devono essere combattute, ma non\con— trapponendo loro una visione normativa della storia. E per questo che le leggi contro il negazionismo possono rivelarsi pericolose. Se il negazionismo deve essere combattuto e isolato in tutte le sue forme — quello di Robert Faurisson e di David Irving, come quello, più rispettabile in apparen— za, di Bernard Lewis —, diversi storici (tra i quali il sotto-



scritto) hanno espresso alcuni dubbi sull’opportunità di sanzionarlo per legge, istituendo così una verità storica uf— ficiale protetta dai tribunali, con l’effetto perverso di trasformare gli assassini della memoria in vittime di una censura, in difensori della libertà di espressione. In altre paro— le, se si accetta la nozione di “revisionismo”, bisogna ammettere il principio di una storia ufficiale. Krzysztof Po— mian ha ragione di affermare che non dovrebbero esserci né storici ufficiali né storici revisionisti ma soltanto storici critici 28. “Revisionismo” è una parola ereditata da un secolo in cui l’impegno degli intellettuali passava attraverso il loro schieramento ideologico. Si è potuto credere allora che il miglior mezzo per difendere dei valori consistesse nel vestire una uniforme ideologica o prendere la tessera di un partito. Il prezzo di questa scelta troppo spesso è sta-

la dimissione degli intellettuali di fronte alla loro funcritica. Ciò non ha più ragion d’essere oggi. Benché entrata nel linguaggio e ormai di uso corrente nella polemica, la nozione di “revisionismo” resta assai problematica e spesso si rivela nefasta. Forse sarebbe meglio utilizzarla soltanto per indicare una controversia datata, sollevata da Eduard Bernstein più di un secolo fa. to

zione

Nota bibliografica e ringraziamenti

Il nucleo originale di questo saggio è una comunicazione presentata all’Università di La Plata, in Argentina, nel— la primavera del 2002, durante un convegno organizzato

dalla Comisiòn Provincial por la Memoria, l’istituzione che raccoglie gli archivi della dittatura militare degli anni 1975—1983 e costituisce una fonte essenziale per lo studio della memoria dei “desaparecidos” nella provincia di Buenos Aires. Una versione italiana è apparsa, con il titolo Storia e memoria. Gli usi politici del passato, nella rivista “Novecento. Per una storia del tempo presente”, 10, 2004. 11 paragrafo dedicato al comunismo nel capitolo quarto è tratto da una conferenza tenuta a Berlino nella primavera del 2001, poi pubblicata in Jour fixe (a cura di), Geschichte nach Auschwitz, Unrast, Miinster 2002. Il capitolo quinto e una comunicazione a una giornata di studi sul tema “Fascismo, nazismo, comunismo: dibattiti e controversie storiografiche in Germania e in Italia”, organizzata e curata da Bruno Groppo per il Centre d’Histoire sociale du XXc siècle del Cnrs nel 2001. Una prima versione è apparsa, con gli atti, nella rivista “Matériaux pour l’Histoire de notre temps”, 68, 2002, poi in spagnolo (Ar— gentina) nella rivista “Politicas de la Memoria”, 4, 2003— 2004. L’ultimo capitolo è la versione rielaborata di una co—

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municazione presentata a un convegno diretto da Catheri— ne Coquio all’università di Paris N-Sorbonne, nel 2002, ed è apparso con lo stesso titolo nel volume degli atti: Catherine Coquio (a cura di), L’Histoire troue'e. Ne'gutiou et Témoignage, L’Atalante, Nantes 2003. In seguito è stato tradotto in spagnolo nella rivista di Valencia “Pasajes”, 14, 2004. Tutti i testi sono stati completamente rifusi in questo saggio, uscito in francese nell’autunno 2005 per le edizioni La Fabrique. Vorrei qui ringraziare gli amici che mi hanno offerto l’occasione a scriverli: Patricia Flier, Elfi Miiller, Bruno Groppo e Catherine Coquio, senza dimen— ticare Erie Hazan, amico e complice a La Fabrique. Questa edizione italiana è stata leggermente arricchita di alcuni passaggi che fanno allusione al più recente dibattito francese e spagnolo. Ringrazio infine Gianfranco Morosa— to, che non solo mi ha proposto di accogliere questo saggio nella sua casa editrice, ma ne ha anche assicurato la traduzione. Poiché l’italiano rimane, nonostante tutto, la mia lingua materna, mi sono arrogato il diritto di rivederla, modificarla e ampliarla. Si tratta quindi, in sostanza, di una seconda versione originale.

Parigi, giugno 2006

Note

Introduzione. L’emergere della memoria

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David L. SILLS (a cura di), International Encyclopedia of the Social Sciences, Macmillan, New York 1968, 7 voll.; Jacques LE GOFF, Pierre NORA (a cura di), Faire de l’histoire, Gallimard, Paris 1974 (Fare storia. Temi e metodi della nuova storiografia, trad. it. di I. Mariani, Einaudi, Torino 1981); Raymond WILLIAMS, Keywords. A Vocabulary of Culture and Society, Fontana, London 1976. Cfr. Kerwin LEE KLEIN, On the emergence of Memory in Historical Discourse, in “Representation”, 69, 2000, p. 129. Si veda l’introduzione di Peter REICHEL, Politik mit der Erinnerung, Carl Hauser, Miinchen 1995. Charles MAIER, A Surfeit of Memory? Reflections on History, Melan— choly and Denial, in “History & Memory”, 5, 1993, pp. 136—151; Ré— gime ROBIN, Ma me'moire sature'e, Stock, Paris 2003. Oliver DUMOULIN, Le role social de l’historien. De la chaire au pre'toire, Albin Michel, Paris 2003, p. 343. Eric]. HOBSBAWM, “Introduction: Inventing Traditions”, in Eric ]. HOBSBAWM, Terence RANGER (a cura di), The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1983 ("Introduzione: Come si inventa una tradizione”, in ID., L’invenzione della tradizione, trad. it. E. Basaglia, Einaudi, Torino 1987, p. 10). Sul concetto di “religione civile”, cfr. Emilio GEN'I‘ILE, Le religioni della politica. Fra democrazia e totalitarismo, Laterza, Roma 2001. Su questo tema vedi soprattutto Antonio GIBELLI, L'oflicina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1990. Walter BENJAMIN, “Der Erzàhler. Betrachtungen zum Werk Nikolai Lessi—rows”, in ID., Illuminationen. Ausgewiihlte Schriften, Suhrkamp,

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Frankfurt a.M 1977, p. 386 (“Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov”, in ID., Angelus Novus. Saggi eframmenti, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1981, p. 248). Sul concetto di “esperienza vissuta” (Erlehnis) si veda anche il saggio di Benjamin, “Uber einige Motive bei Baudelaire”, in Illuminationen, p. 1.92 (“Di alcuni motivi in Baudelaire”, in Angelus Novus, cit., p. 96). Sulla distinzione benjaminiana tra Erlehnis e Erfahrung ritorna anche Theodor W. Adorno in una lettera a Benjamin del 12 febbraio 1940, cfr. Theodor. W ADORNO, Walter BENJM«IIN, Briefwechsel 1928-1940, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1995, p. 416. Cfr. Luigi PIRANDELLO, Come tu mi vuoi, Oscar Mondadori, Milano 1980; Leonardo SCIASCIA, Il teatro della memoria. La sentenza memorahz'le, Adelphi, Milano 2004; e José Carlos MARIATEGUI, La novela y la vida. Siegfried y el profesor Canella, Amauta, Lima 1955 (Il romanzo e la vita, a cura di Antonio Melis, Marietti, Genova 1990). Edward P. THOMPSON, Time, Work—Dzisafiline and Industrial Capita— lism, in “Past and Present”, 38, 1967 (“Tempo, disciplina del lavoro e capitalismo industriale”, in ID., Società patrizia, cultura plebea. Otto saggi di antropologia storica sull’Inghilterra del Settecento, trad. it. di S. Loriga, Einaudi, Torino 1981, pp. 3—55 ). Cfr. Giorgio AGAMBEN, Infanzia e storia. Distruzione dell’esperien2a e origine della storia, Einaudi, Torino 1978. Reinhart KOSELLECK, “Kriegsdenkmahle als Identitàtsstiftungen der chrlebenden”, in 0. MARQUARD, K. STIERI….IE (a cura di), Identikit, Wilhelm Fink, Miinchen 1979, pp. 255-276. Tra i numerosi contributi a questo dibattito storiografico, cfr. la sinte— si di Gérard NOIRIEL, Sur la “crise” de l’histoire, Belin, Paris 1996. Annette WII—ZVIORKA, L’ère du témoin, Plon, Paris 1998 (L’era del testimone, trad. it. di F. Sossi , Raffaello Cortina, Milano 1999). Tzvetan TODOROV, Les ahus de la mémoire, .Arléa, Paris 1995 (Gli abusi della memoria, trad. di A. Cavicchia Scalamonti, Ipermedium, Napoli 1996). Cfr. in particolare, a propositio della prima guerra del Golfo, Dan DINER, Krieg der Erinnerung und die Ordnung der Welt, Rothbuch Verlag, Berlin 1996. Tom SIIGEV, The Seventh Million. The Israelis and the Holocaust, Hill & Wong, New York 1993 (Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, trad. it. di C. Lazzari, Mondadori, Milano

2002, p. 368). 19 Cfr. “Libération”, del 2 aprile 2002. 20 Cfr. Catherine BÉDARIDA, Le faux pas du romancier ]ose' Saramago, in “Le Monde” del 29 marzo 2002.

NOTE

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1. Storia e memoria: una coppia antinomica?

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U I- à

Paul RICCEUR, La me'moire, l’histoire, l’ouhli, Seuil, Paris 2000, p. 106 (La memoria, la storia, l’ohlio, trad. it. di D. Iannotta, Raffaello Cortina, Milano 2003). Una posizione analoga era già stata difesa con forza da Patrick H. IIUTTON, History as an Art of Memory, University Press of New England, Hanover, NH. 1993. Michael OAKI&SHO'I'I', Rationalism in Politics and Other Essays, Meuthen, London 1962, p. 198. Walter BENJAMIN, “Zum Bilde Prousts”, in ID., Illuminationen, cit., p. 336 (“Per un ritratto di Proust”, in ID., Avanguardia e rivoluzione, trad. it. di A. Marietti, Einaudi, Torino 1973, p. 28). Ivi, p. 345 (trad. it., p. 37). Walter BENJAMIN, Das Passagen-Werh, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1983, Bd. |,p. 490 (Parigi, capitale del XIX secolo, trad. it. di E. Ganni, Einaudi, Torino 1986). Ivi, p. 588. Frangois HARTOG, Regi/nes d’historicité. Présentisme et experience du temps, Seuil, Paris 2003, p. 126. Riprendo qui una riflessione già presentata nel mio saggio “La singolarità di Auschwitz. Ipotesi, problemi e derive di un dibattito”, in Marcello FLOR'ES (a cura di), Nazismo, fascismo, comunismo. Totalitarismi a confronto, Bruno Mondadori, Milano 1998, pp. 303 -325. Siegfried KRACAUER, “Die Photographic”, in ID., Das Ornament der Masse. Essays, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1977, p. 32 (“La fotografia”, in [D., La fahhrica del disimpegno, trad. it. a cura di C. Groff, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2002, pp. 61-75), e, dello stesso autore, Theory of Film, Oxford University Press, New York 1960, p. 14 (trad. it. Film. Il ritorno alla realtà fisica, Il Saggiatore, Milano

1962). 10 Cfr. Dominick LACAPRA, “History and Memory. In the Shadow of the Holocaust”, in ID., History and Memory after Auschwitz, Cornell University Press, Ithaca 1998, p. 20. 11 ]ean-Michel Crili-\UMONT, Connaissance ou reconnaissance? Les enjeux du de'hat sur la singularité de la Shoah, in “Le Débat”, 82, 1994, p. 87. 12 Steven KATZ, “The Uniqueness of the Holocaust: The Historical Dimension ”, in Alan S. ROSENBAUM (a cura di), Is the Holocaust Unique? Perspectives on Comparative Genocide, Westview Press, Boulder 1996, pp. 19—38. 13 Eric ]. HOBSBAWM, “Identity History is not Enough”, in [D., On Hi— story, Weidenfeld & Nicolson, London 1997, p. 277 (“La storia dell’i— dentità non basta”, in ID., De Historia, trad. it. di vari, Rizzoli, Milano 1997). 14 G.WF HEGl-II., Vorlesungen it'her die Philosophie der Geschichte, Sohr— kamp, Frankfurt a.M. 1986, p. 83 (Introduzione alle lezioni sulla filosofia della storia, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1963).

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15 Ihidem. 16 G.\W.F HEGHI., “Phànomenologie des Geistes", in ID., Gesammelte Werke, vol. 9, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1980, p. 433 (trad. it. Fenomenologia dello spirito, vol. 2, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 305). Si vedano a questo proposito i commenti di ]acques D’IIONDT, Hegel. Philosophe de l’histoire vivente, Puf, Paris 1987, pp. 349-450. 17 Si vedano le considerazioni di Hegel sull’Africa, che egli semplice— mente espunge dalla sua indagine in quanto “non costituisce nessuna parte del mondo storico” (es ist kein geschichtlicher Weltteil): G.WF HEGEL, Varlesungen ither die Philosophie der Geschichte, cit., p. 129. 18 Cfr. Ranajit GUHA, History at the Limit of World-History, Columbia University Press, New York 2002 (La storia ai limiti della storia del mondo, trad. it. di R. Stanga, Sansoni, Milano 2003, pp. 60-63). 19 Walter BENJAMIN, “Uber den Begriff der Geschichte”, in Illuminationen, cit., p. 254 (trad. it. “Tesi di filosofia della storia”, in ID. Angelus Novus, cit., p. 78). 20 Frangois FURET, Pour une definition des classes infirieures a l’époque moderne, in “Annales ESC”, XVIII, 3, 1963, p. 459. Questo passo è criticato da Carlo GINZBURG, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ’500, Einaudi, Torino 1978, p. XIX. 21 Edward P. THOMPSON, The Making of the English Working Class, Vic— tor Gollancz, London 1963 (Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, trad. it. B. Maffi, Il Saggiatore, Milano 1969); Michel FOUCAULT, Histoire de la folie iì l’ége classique, Gallimard, Paris 1964 (Storia della follia nell’età classica, trad. it. di F. Ferrucci, Rizzoli, Milano 1978); Carlo GINZBURG, Ilformaggio e i vermi, cit. 22 Michelle PERROT, Les femmes ou les silences de l’histoire, Flammarion, Paris 2001. 23 Ranath GUHA, The Prose of Counter-lnsurgency, in “Subaltern Stu— dies”, 2, 1983, pp. 142 (“La prosa della contro-insurrezione”, in R. GUHA, G.Ch. SPIVAK, Suhaltern Studies. Modernità e (post)colonzirli— smo, a cura di S. Mezzadra, Ombre corte, Verona 2002) e ID., The Small Voice of History, in “Subaltern Studies”, 9, 1996, pp. 1-12. 24 Maurice HALBWACI IS, La me'moire collective, Albin Michel, Paris 1997, p. 130 (La memoria collettiva, a cura di P. ]edlowski, Unicopli, Milano 1987). Su Halbwachs, cfr. Patrick H. HUTTON, History as an Art ofMemory, cit., pp. 73-90. 25 Maurice HALBWACHS, Les Cadres sociaux de la me’moire (1925), Albin Michel, Paris 1994, (trad. it. I quadri sociali della memoria, Iperme-

dium, Napoli 1997). 26 Maurice HALBWACHS, La me’moire collective, cit., p. 136. 27 Ivi, p. 157. Vedi soprattutto Henri BERGSON, La perception du changement, Presses Universitaire de France, Paris 1959. 28 Maurice HALBWACHS, La me’moire collective, cit., p. 161. 29 Yosef H. YERUSHALMI, Zakhor. ]ewish History and Iewish Memory, University of Washington Press, Seattle 1982 (Zahhor. Storia ehraica e

NOTF.

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memoria ehraica, trad. it. D. Fink, Pratiche, Roma 1983), capitolo 4, 30 Pierre NORA, “Entre histoire et mémoire. La probématique des lieux”, in II). (a cura di), Les lieux de me'rnoire. I. La Répuhlique, Gallimard, Paris 1984, p. XIX. Per una analisi interessante di questo approccio, che mette in parallelo memoria e storia con l’opposizione fissata da Lévi—Strauss tra società “calde” e società “fredde”, cfr. Dominick LACAPRA, “History and Memory. In the Shadow of the Holocaust”, cit., pp. 18-22. 31 Perry ANDERSON, La pensée tiède, Seuil, Paris 2005, p. 53. 32 Edward SAID, Freud and the Non-European, Verso, London 2003. La

definizione dell’archeologia come “religione nazionale” è sviluppata da Neil Asher SI]…BERMAN, “Stucturer le passé. Les Israéliens, les Pale— stiniens et I’autorité symbolique des monuments archéologiques”, in Francois HARTOG, ]acques REVEL (a cura di), Les usages politiques du passé, Editions de l’Ehess, Paris 2001. 33 Primo LEVI,Isommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986. 34 Pierre VIDAL-NAQUET, Mémoires. I. La hrisure et l’attente 1930-1955, Seuil-La Découverte, Paris 1995, p. 12. 35 Martin Baoszar, Saul FRIEDLÀNDER, A Controversy ahout the Histori— cization of the Natz'onal-Soczizlzlsm, in “New German Critique”, 44, 1988, pp. 85—126.

36 Ivi, p. 48. 37 Cfr. Nicolas BI.-:RG, Der Holocaust und die westdeutschen Historiker. Erforschung und Erinnerung, Wallstein, Gòttingcn 2003, pp. 420-424, 613—615. 38 Cfr. Ulrich l'IERBI-iR'I', “Deutsche und ]iidische Geschichtsschreibung iibcr den Holocaust”, in Michael BRENNER, David N. MYERS (a cura di), ]iidz's‘che Geschichtsschreihung heute. Themen, Positionen, Kontro— versen, C.H. Beck, Munchen 2003, pp. 247—258. 39 Si veda il questo proposito Winfried G. SEBALD, Luftkrieg und Literatur, Fischer, Frankfurt a.M. 2001, p. 21 (Storia naturale della distruzione, trad. it di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2004, p. 27). 40 Amos FUNKENSTEIN Collective Memory and Historical Consciousness, , in “History & Memory”, I, 1, 1989, p. 11. Si veda anche, dello stesso autore, Perception of jewish History, University of California Press, Berkeley 1993, pp. 3, 6. 41 Saul FRIEDLÀNDER, Trauma, Transference and r“ll7'orking Through” in Writing the History of the Shoah, in “History & Memory”, I, 1992, pp. 39-59, e, sempre dello stesso autore, History, Memory, and the Historian. Dilemmas and Responsahz'lities, in “New German Critique”, 80, 2000, pp. 3-15. 42 Dominick LaCapra ha analizzato in modo molto acuto i vantaggi po—

tenziali di questo "turbamento empatico” (empathic unsettlement) nell’indagine critica di un evento traumatico (Writing History, Writing Trauma, ]ohn Hopkins University Press, Baltimora 2001, p. 41). In un altro saggio, LaCapra indica due regole di base alle quali atte-

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nersi: “l"empatia’ con l'esecutore implica ammettere che, in partico— lari circostanze, chiunque può compiere degli atti estremi, mentre l’empatia con la vittima implica un rispetto e una compassione che non significano né identificazione né parlare al posto degli altri" (Tro— pisms of Intellectual History, in “Rethinking History”, vol. 8, 4, 2004, p. 525).

43 Saul FRIEDLÀNDER, Nazi Germany and the ]ews, I. Tbe Years ofPersecution 1933—1939, Harper & Collins, London 1997 (La Germania nazista e gli ebrei. ]. Gli anni della persecuzione, 1933-1939, trad. it 8. Minucci, Garzanti. Milano 2004). 44 Sui lavori della scuola storiografica diretta da Martin Broszat all’Institut fùr Zeitgeschichte di Monaco, cfr. Martin BROSZAT (a cura di), Alltagsgescbicbte. Neue Perspekiae oder Trivialisierung?, Oldenbourg, Miinchen 1984. Un’opera di questa scuola che sfugge a questa ten— denza, scritta da uno storico appartenente a una generazione posteriore, è quella di Detlev ].K. PEUKERT, Inside Nazi Germany. Conformity, Opposition and Racism in Evericiay Life, Penguin Books, London 1987. 45 Andreas HILLGRUBER, Zweierlei Untergang. Die Zerscblagung des deutschen Reicbes und das Ena'e des europà'iscben ]udentums, Siedler, Berlin 1986, pp. 24—25. 46 Walter BENJAMIN, “Ùher den Begriff der Geschichte”, in Illuminationen, cit., p. 254 (trad. it. “Tesi di filosofia della storia”, cit., p. 78). Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti traducono il concetto benjaminiano di Einfiiblung con “immedesimazione emotiva” (si vedano i loro “Lemmi” in Walter BENJAMIN, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 169—171). 47 Ian KERSI-IAW, Hitler 18891936 I Iubris, Allen Lane, London 1998, p. XII (Hitler 1889-1936, trad. it. di A. Catania, Bompiani, Milano 1999). 48 Ivi, p. 24. Il riferimento implicito è a Joachim Fl-LST, Hitler. Eine Biograpbie, Ullstein, Frankfurt a.M. 1973 (Hitler. Una biografia, trad. it., Garzanti, Milano 1999). 49 Dominick LACA'PRA, Writing History, Writing Trauma, cit. p. 41. 50 Hannah ARENDT, Eichmann in Jerusalem. A Report on tbe Banality of Evil, Penguin Books, London 1963 (La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, trad. it. di P. Bernardini, Feltrinelli, Milano 1995). Per una rilettura e una contestualizzazione di questo libro, cfr. Steven E. ASCHHEIM, Hannab Arendt in ]erusalem, University of. California Press, Berkeley 2001. 51 Christopher BROWNTNG, Ordinary Men. Reserve Police Batallion 101 and tbe Final Solution in Poland, Harper & Collins, London 1992 (Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, trad. it. di L. Salvai, Einaudi, Torino 1999). 52 Cfr. GÉNÉRAI. AUSSARESSL'S, Services spe'u'aux. Alge'rie 1955—1957 , Per— rin, Paris 2001. 53 David N. MYERS, “Selhstreflexion im modemen Erinnerungsdiskurs'",

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in Michael BRENNER, David N. MYERS (a cura di), ]ilcli3cbe Gescbicbtsscbreibung beate, cit., p. 66. 54 George L. MOSSE, Renzo De Felice e il revisionismo storico, in “Nuova antologia”, 2206, 1998, p. 181. 55 George L. MOSSE, Confronting History. A Memoir, The University of Wisconsin Press, Madison 2000, p. 109 (Difronte alla storia, trad. it. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma 2004, p. 135). 56 Renzo DE FELICE, Rosso e nero, Baldini e Castoldi, Milano 1.995, p.

114. 57 Robert ARON , Histoire de Visby, 1940-1944, Fayard, Paris 1954 (trad. it. La Francia di Vic/ay 1940-1944, Rizzoli, Milano 1972). 58 Citato in Angelo DEL BOCA, I gas di Mussolini. llfascismo e la guerra d’Etiopia, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 75. De Felice non si preoccupa dei massacri dell’esercito italiano in Etiopia nella sua biografia di Mussolini (Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-193 6, Ei— naudi, Torino 1974, capitolo sesto, pp. 597-756). Su De Felice e la guerra d’Eti0pia, si veda Nicola LABANCA, “Il razzismo coloniale italiano” in Alberto BURGIO (a cura di), Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945 , Il Mulino, Bologna 2000, pp. 158159. 59 Queste fotografie sono riprodotte in Angelo DEI. BOCA,Igas di Mussolini, cit., pp. 115-116. 60 Siegfried KRACAUISR, History. Tbe Last '] bings Before tbe Last, Oxford University Press, New York 1969, p. 157 (Prima delle cose ultime, trad. it. di S. Pennisi, Marietti, Casale Monferrato 1985, p. 125). 61 Ivi“, p. 83 (trad. it., pp. 67-69). Si veda Georg SIMMEL, “Exkursus. Uber den Fremden”, in Soziologie. Untersucbungen tiber den Formen der Vergesellscba/tung, Dm1cker &: Ilumblot, Berlin 1988, pp. 509512 (“Excursus sullo straniero”, in ID., Sociologia, trad. it. di G. Gior— dano, Edizioni di Comunità, Torino, 1998, pp. 580—584). 62 Questa espressione è stata coniata da ,lùrgen HABERMAS, “Vom òffentlichen Gebrauch der lÈiistorie”, nel vol. collettivo Historikerstreit, Piper, Miinchen 1987, pp. 243-255 (“L’uso pubblico della storia”, in Gian Enrico RUSCONI (a cura di), Germania: un passato cbe non passa. ! crimini nazisti e l'identità tedesca, trad. it. di vari Einaudi, Torino 1987, pp. 98-109). 63 Ludmila DA SILVA CATEI.A, No babra'flores en la tumba del pasado. La experiencia de reconstruca'òn del mundo de familiares de desaparecidos, Al Margen, La Plata 2001.

2. Il tempo e la forza

Walter BENJAMIN, “Uber den Begriff der Geschichte”, cit., p. 259 (“Tesi di filosofia della storia”, cit., p. 84). Michael LÒWY, Walter Benjamin. Avertissement d’incendie. Une lectu-

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re des “'.l'bèses sur le concept

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)

d’bistoire”, Presses universitaires de Fran-

ce, Paris 2001, pp. 105-108 (Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi '5ul concetto di storia’ di Water Benjamin, trad. it. di M. Pezzella, Bollati Boringhieri, Torino 2004).

Walter BENJAMIN, “Uber den Begriff der Geschichte”, cit., p. 259 (“Tesi di filosofia della storia”, cit., p. 84). Eric ]. HOBSBAWM, Age of Extremes. Tbe Sbort il'wentietb Century, Pantheon Books, New York 1994 (Il secolo breve, trad. it. B. Lotti, Rizzoli, Milano 1995); Bernard PUDAL, Bruno GROPPO, Claude PENNE'I‘IER (a cura di), Le sie'cle des communismes, Editions de l’Atelier, Paris 2000. Léon POLIAKOV, Bréviaire de la baine, Calmann-Lévy, Paris 1951 (Il Nazismo e lo sterminio degli ebrei, trad. it. A.M. Levi, Einaudi, Torino 1977).

Raul HILBERG, Tbe Destruction of tbe European ]ews, Quadrangle Books, Chicago 1961 (La distruzione degli ebrei d’Europa, trad. it. a cura di F. Sessi, 2 voll., Einaudi, Torino 1999). 7 Henry ROUSSO, Le syndrome de Vic/ay de 1944 à nos jours, Seuil, Paris 1990; si veda anche, su queste diverse tappe, Paul RIC(EUR, La me'moire, l’bistoire, l’oubli, cit. p. 582. 8 Theodor W. ADORNO, “Was bedeutet: Aufarbeitung der Vergangenheit?”, in ID., Eingrzfle. Neun Èritiscben Modelle, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1963, p. 125 (“Cosa significa elaborazione del passato”, trad. it. di F. Filice in Th.\X/. ADORNO, Contro l’antisemitismo, Manife— stolibri, Roma 1994, p. 21). 9 Jean AMI—ERY, ]enseits von Sebald und Stibne, Klett-Cotta, Stuttgart 1977, |). 1.20 (Intellettuale a Auscbzaitz, trad. it. di E. Ganni, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 128). 10 Cfr. Nicolas BHRG, Der Holocaust und die westdeutscben Historzker, 6

cit., pp. 215-219. 11 Ernst BLOCH, Erbscbaft dieser Zeit (1935), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1985, pp. 104-125 (Eredità del nostro tempo, trad. it. e cura di L. Boella, Il Saggiatore, Milano 1992). Si vedano anche i saggi di Daniel Bcnsa'id raccolti in La discordance des temps, Éditions dela passion, Paris 1995. 12 Cfr. ]éròme BASCHET, “L’histoire face au présent perpétuel. Quelques remarques sur la relation passé—futur”, in F. HARTOG,]. REVEL (a cura di), Usages politiques du passé, cit., p. 67. 13 Hannah ARENDT, La banalità del male, cit. Su questo processo, si vc-

da anche il film Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno, di Rony BRAUMAN e Eyal SWAN (libro+DVD, Einaudi, Torino 2000). 14 Raul HILBERG, The Politics of Memory, Ivan R Dee, Chicago 1996. 15 Cfr. Dan DINER, “Hannah Arendt Reconsidered: Ùber das Banale und das Bòse in ihrer Holocaust-Erziihlung”, in Gary SMITH (a cura di), Hanna/9 Arendt Revisited. “Eicbmann in ]erusalm” und die Folgen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2000, pp. 120—135. 16 Cfr. Pierre VIDAL—NAQUEI", “Et par le pouvoir d’un mot...”, in ID.,

NOTE



Les ]uzfs, la me'moire et le présent, II, La Découverte, Paris 1991, pp_ 267—275. 17 Si veda Marcello FLORES, Il genocidio degli armeni, Il Mulino, Bologna2006.

18 Cfr. Maria FERRETTI, La memoria mutilata. La Russia ricorda, Corbaccio, Milano 1993. 19 Erneto GALLI DELLA LOGGIA, La morte della patria, Laterza, Roma—

Badl999.

20 Cfr. il testo del discorso del presidente Ciampi in Filippo FOCARDI (a cura di), La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 a oggi, Laterza, Bari—Roma 2005. L’espressione “i ragazzi di Salò” è stata coniata dall’ex presidente del senato Luciano

Violante, membro della coalizione di centrosinistra dell’Ulivo, durante un discorso nella primavera del 1996 (incluso nel volume curato da Focardi, pp. 285 -286). Si veda anche la critica di Antonio Tabucchi al presidente Ciampi (pp. 335-338). 21 Sergio LUZZAT'I‘O, La crisi dell’antzfascismo, Einaudi, Torino 2004, p. 31. Luzzatto sottolinea giustamente che ogni democrazia moderna si fonda su una “gerarchia retrospettiva della memoria”, cioè su scelte che definiscono la sua identità (p. 30). Le memorie "simmetriche e compatibili " rivendicare da Ciampi e da una larga parte dell’élite politica rimettono in discussione le scelte fatte al momento della nascita

deflarepubbhca

22 Claudio MAGRIS, La memoria è libertà dall’ossessione del passato, in “Il Corriere della Sera”, 10 febbraio 2005 23 Davide RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politic/ae d’occu— pazione dell’ltalia fascista in Europa (1940—1943), Bollati Boringhieri, Torino 2003; Costantino DI SANTE (a cura di), Italiani senza onore. ] crimini in _lugoslavia e i processi negati (1941-1951), Ombre corte, Verona2005. 24 Cfr. Paloma AGUILAR, Memoria y olvido de la guerra civil espariola, Alianza Editorial, Madrid 1996. Su questo tema, si vedano anche i contributi raccolti in “Matériaux pour l’histoire de notre temps”, 70, 2003. 25 Cfr. in particolare Julian CASANOVA (a cura di), Morin matar; sobrevivir. La violencia en la dictatura de Franco, Critica, Barcelona 2002. 26 Particolarmente significativo, da questo punto di vista, l'impatto della mostra “Exilio”, organizzata a Madrid nel settembre-ottobre 2002

dalla Fondazione Pablo Iglesias, al Museo nazionale centro d’arte Reina—Sofia. 27 Si veda in particolare l’opera citata di Paloma AGUTLAR, Memoria y olvido de la guerra civil espariola, e Ismael SA’/. CAMPOS, “El pasado que afin no puede pasar", in ID., Fascismo y franc/nismo, Puv, Valencia 2004, pp. 277-291.

28 Bruno GROPPO, “Traumatismos de la memoria e imposibilidad del 01vido en los paises del Cono Sur”, in Bruno GROPPO, Patricia FLIER (a

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cura di), La imposibiliclad del olvido, Ediciones Al Margen, La Plata 2001, pp. 19-42.

29 Dan DINER, “Gestaute Zeit. Massenvernichtung und jijdische Erzàihlung”, in ID., Kreislà'ufe, Berlin Verlag, Berlin 1993, pp. 123—140. 30 Cfr. in particolare Ilan PAPPE, La guerre de 1948 en Palestine. Aux ori—

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gines du conflit israe'lo—arabe, La Fabrique, Paris 2000. Si vedano anche le osservazioni di Michel WARSCIIAWSKI, Israel—Palestine. Le de'fi binational, Textuel, Paris 2001, pp. 39-46. Sulla nascita della storio— grafia palestinese, cfr. Rashid KHALIDI, identità palestinese. La costruzione diuna moderna coscienza, trad. it. di A. Serafini, Bollati Boringhieri, Torino 2003, e anche Elias SANBAR, “Hors de lieu, hors de temps. Pratiques palestiniennes de l’histoire”, in F. HARTOG, _I. REVEL (a cura di), Usages politiques du passé, cit. p. 123. Peter NOVICK, The Holocaust in American Life, Houghton Mifflin, New York 1999. Cfr. Dan DINER, “Cumulative Contingency. Historicizing Legitimacy in Israeli Discourse”, in ID., Beyond the Conceivable. Studies on Germany, Nazism, and the Holocaust, University of California Press, Berkeley 2000, p. 215. Cfr. Tom SEGEV , Il settimo milione, cit., p. 459—460. Nicole LORAUX, La Cité divise'e. L’oubli dans la me'moire d’Athènes, Payot, Paris 1997. Peter NOVICK, The Holocaust in American Life, cit., p. 15. Cfr. Maya MORIOKA TODESCI—IINI (a cura di), Hiroshima 50 ans, Autrement, Paris 1995. Susan SONTAG, Regarding the Pain of Others, Penguin Books, London 2003 (Davanti al dolore degli altri, trad. it. di R. Pela, R. Sanna Lodigiani, Mondadori, Milano 2003, p. 76—77). Peter NOVICK, The Holocaust in American Life, cit., p. 279. Arno MAYER, Why did the Heavens not Dar/een? The Final Solution in I-Iistorv, Pantheon Books, New York 1988 (Soluzione finale. Le ster— minio degli ebrei nella storia europea, trad. it. di G. Panzieri Saija, Mondadori, Milano 1990). Gilbert ACI—ICAR, Le choc des barbaries, Complexe, Bruxelles 2002. Esiste già una abbondante letteratura su questo monumento. Si veda in particolare il catalogo pubblicato dalla Fondazione che lo gestisce, Stiftung Denkmal fiir die ermordeten Judcn Europas (a cura di), Materialen zum Denkmalfiir die ermordeten ]uden Europas, Nicolai Verlag, Berlin 2005. Régine ROBIN, Berlin chantiers, Stock, Paris 2001, p. 394. Sulla Neue Wache, cfr. Peter REICHEL, Politi/