La ghirlanda di fiori. Istruzioni per demolire il recinto dell'io


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La ghirlanda di fiori. Istruzioni per demolire il recinto dell'io

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M.A.D.

La ghirlanda di fiori Istruzioni per demolire il recinto dell'io

PRO M O LIBRI

© 1996: Promolibri, Torino

Stampa: M.S./ Litografia, Torino

INDICE

Tao: la via senza nome . .............................................

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Preliminari alle pratiche . . ................................... 9 Pratica della sala misteriosa . ............................... 11 Shih: la stupefacente ricchezza dell'essere . ................. 13 Pratica dello spazzolino da denti .. ...................... 2 0 Pratica del suono della campana e della veste da monaco .. . . .. . . . . ........ ........ . . . . .... . . . . . 24 Li: vacuità senza segni................................................ 2 6 Pratica di deflazione . ........................................... 3 1 Pratica del senza segno .. . .. . . . .. . . . . . . ... . .. . . . .. . . ..... ... . . 3 5 Pratica del senza nome .. ..................................... 3 7 .

Li shih wu ai: l'armoniosa compenetrazione fra essere e vacuzta.... .. .. . . . . . .. . . . ... .... .. . .. . . . .. . .. . . . . . . . . . . .. . . Pratica delle montagne che camminano o di decentramento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pratica della pietruzza e dell'alberello .. .............. Samu, la pratica della casalinga ........................... .

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39 48 51 52

Shih shih wu ai: il risveglio nella totalità .. .... .. ..... .. ... 54 Pratica dello stornello .......................................... 58 Pratica del vero corpo ......................................... 61

TAO: LA VIA SENZA NOME

Per un po' chiacchiere su me e te, poi più nulla - di te e di me. (dalle Rubaiyyàt)

Ch'ang-sha rientrava da una passeggiata in monta­ gna e il capo dei monaci gli chiese dove era stato . Ch'ang-sha rispose: " Dapprima andai seguendo le erbe fragranti, poi sono tornato seguendo i fiori che cadeva­ no" 1• Il vagabondare fra le montagne del maestro ch'an, guidato solo dai profumi e dai colori della natura, que­ sto vagare libero e quieto non è solo una metafora del risveglio: è una sua precisa descrizione. Poiché "il tao è nascosto e senza nome" 2 ogni via di liberazione che nel­ la sua storia si sia costituita in gerarchie esibite e deno­ minate è, nello stesso tempo, utile e dannosa. Utilissima perché preserva e offre generosamente i frutti della pra­ tica di innumerevoli santi e vagabondi che già hanno percorsa quella via particolare. Dannosa perché si trat­ ta di vie gestite e controllate da chi, per le funzioni che svolge, di solito non può essere né santo né, tanto meno, vagabondo. A tutte le vie costituite va il nostro rispetto e la nostra gratitudine, tuttavia le gerarchie che le governano sono giunte a tali compromissioni con le strutture del potere economico, politico e militare che sentiamo la necessità e l'urgenza di andare in monta­ gna, a seguire quei profumi e quei colori che hanno gui­ dato i vecchi, compassionevoli, maestri. 7

Ma - si dirà - queste «compromissioni» atroci con i ruffiani, i prevaricatori, i torturatori, non sono una novità, e quindi non c'è motivo di evocare una partico­ lare urgenza. A me pare invece che per la prima volta nella lunghissima storia dell'uomo non solo si sia costi­ tuito un «villaggio globale» ma che questo villaggio sia dominato da poteri non-umani, primi fra tutti i «mer­ cati finanziari», sottospecie esplicitamente di rapina del cosiddetto «libero mercato». Così credo che almeno qualcuno voglia imparare a passeggiare in montagna per poi tornare, come d'altra parte fece anche Ch' ang­ sha. Se poi qualcun altro pensasse di non tornare per nulla, questo deriverebbe dal fatto che si tratta di un gioco aperto, in cui nessuna soluzione è garantita, o, tanto meno, obbligatoria. L' abbandono delle vie costituite non implica la ri­ nuncia all'aiuto dei maestri. Come è facile constatare in meditazione, ad esempio con la pratica della sala miste­ riosa (v. oltre) , i nostri maestri sono sempre con noi: sia quelli che ci siamo scelti consapevolmente, sia quelli che ci accompagnano da molti anni senza che ce ne ren­ diamo conto (uno di questi maestri è stato per me J ack London, nelle vesti di Martin Eden ) . Ma noi siamo ancora più ricchi: "i Buddha di tutti i tempi e tutte le dodici divisioni del canone sono fin dall'inizio nella natura dell'uomo " . Hui-neng, il grande maestro ch'an, va anche oltre questa constatazione: "Se provi a cerca­ re un maestro fuori di te e speri di ottenere la libera­ zione, troverai che è impossibile. Se hai riconosciuto il buon maestro che è dentro la tua stessa mente, tu hai già conseguito la liberazione" . 8

Fiducia in se stessi e impegno costante sono r·khil·­ sti in ogni ricerca interiore. Lungo la via senzu nollll', in assenza di fede trascendente e di riti salvifici, si richk­ de solo un po' più di fiducia e di impegno. D'ultra pur­ te sono convinto che "per quanto diverse le strade l'Oil· vergono insieme, per quanto numerose le meditazioni hanno una sola meta: nel tao v'è la grande norma, nel­ la ragione delle cose la grande meta". Con queste paro­ le di commento al Tao Tè Ching il giovane Wang-pi espresse molti secoli fa in estrema, definitiva sintesi la motivazione e il fine della ricerca religiosa: la ragione delle cose.

Preliminari alle pratiche Prima di proporre esercizi di meditazione specifici mi permetto qualche suggerimento. l) Per quanto ri­ guarda la posizione da assumere credo che si favorisca la stabilità e la durata della concentrazione assumendo la classica posizione seduta, su un cuscino piuttosto duro, con la schiena eretta, le gambe incrociate (a pia­ cere) e le mani raccolte in grembo; ritengo anche neces­ saria l'immobilità. Se ci si deve muovere occorre farlo consapevolmente. 2) La descrizione degli esercizi ha un carattere esperienziale; essi potranno servire a qualcosa soltanto se chi li vorrà provare li vivrà a modo suo. 3 ) Consiglio di premettere ad ogni esercizio un perio­ do di meditazione sul respiro, in particolare sulla sen­ sazione dell'aria che passa attraverso le narici. Si do­ vrebbe arrivare ad uno stato di calma profonda e vigi-

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Dialogo sulla via senza nome

Un monaco: "Ho intenzione di andare a sud per studiare il Buddhismo. Cosa ne pensate? " . Chao-chou: "Andando a sud, quando vedi un posto in cui c'è il Buddha, vattene subito; quando vedi un posto in cui non c'è il Bud­ dha non trattenerti" . Il monaco: "Ma questo significa che non c'è nulla su cui possa basarmi " . Chao-chou: "Le foglie del salice. L e foglie del salice " . '

Consigli sulle posture

Le rape e i monaci zen sono migliori se ben seduti. (Sengai)

Una volta Laico P'ang leggeva un siitra sdra­ iato sul suo giaciglio . Un monaco lo vide e disse: "Laico ! Devi rimanere dignitoso quan­ do leggi un siitra". Laico alzò una gamba. Il monaco non ebbe nulla da dire.

lO

le, in un tempo che varierà da persona a persona, dallo stato d'animo e dall'esperienza (quando ci si arriva si sa benissimo dove si è). 4) Nella pratica di meditazione ho sperimentato l'efficacia di ciò che potrebbe essere chia­ mata induzione semantica. Mentalmente richiamo l'a­ spetto vissuto di certe parole chiave e trasformo il vis­ suto in intuizione del presente. Esse così mi aprono l'accesso ad una comprensione più profonda del mio oggetto di meditazione; sottolineo che sono i vissuti ad essere importanti, non le parole, che eventualmente richiamo solo per poter verbalizzare un particolare per­ corso. Ad esempio, per eseguire la prima pratica di questo percorso, ed entrare nella sala misteriosa, le parole vissute potrebbero essere: maestri, presenza, compassione, attenzione. 5 ) Trovo infine utilissimo il metodo consigliato ai principianti da Chih-i: se duran­ te la meditazione si sperimentano tensioni/ emozioni troppo intense, oppure si cade nel torpore, è meglio riportare l'attenzione sul respiro fin quando si riacqui­ sta quella vigile calma così indispensabile per una pra­ tica proficua.

Pratica della sala misteriosa Questa pratica mi è stata suggerita da un passo di Tao-ngan: "Il luogo di chi pratica lo yoga è una sala misteriosa in cui sono riuniti coloro i quali sono in armonia con la verità" . Per chi percorre la via senza nome è di grande aiuto il fatto che questa sala sia così accessibile. In realtà basta sapere che c'è. 11

Raccolto in meditazione, quieto e consapevole, evo­ co vicino a me la presenza dei maestri che mi hanno preceduto sulla via. In loro sento compassione e atten­ zione. La compassione si dimostra nella serenità che infondono; l'attenzione alla mia pratica ha una sfuma­ tura che mi appare severa. Non è che essi si mettano vicino a me seguendo un richiamo, sono io che apro la mia consapevolezza alla loro presenza, qui, in questa particolare dimensione della meditazione. Dimensione? Nella mia visualizzazione - sempre molto povera - mi trovo in un «luogo» senza prospet­ tiva, con pareti che non nascondono nulla e corridoi che non portano da nessuna parte. Forse la loro unica funzione è di far giungere una luce lunare che ritaglia su sfondi oscuri le immobili, potenti figure di basalto dei maestri. Non hanno volto, ma non credo che siano solo simulacri, perché in essi avverto atteggiamenti di­ versi. La compassione di Buddhagho�a è amichevole, addirittura tenera, l'attenzione di qualcun altro, forse Chao-chou, è ironica. Molto ironica. La presenza di Dogen è semplicemente sovrastante. Non oso dire altro su chi si può incontrare nella sala misteriosa. Certo saranno più immediatamente perce­ pibili quei maestri che hanno accompagnato più da vicino il percorso del singolo praticante.

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SHIH: LA STUPEFACENTE RICCHEZZA DELL'ESSERE Le domande sul tao sono sempre state molte e insi­ stenti. Un giorno un maestro interrogò Chuang-tzu: "Quel che viene detto tao dove sta? " . "Non v'è nulla in cui non stia " , rispose Chuang-tzu, ma l'altro incalzò: "Sarò d'accordo dopo che m'avrai dato un esempio " . "Sta in una formica " . "E più in basso? " . "Sta in una pianta di miglio " . "E più in basso ancora? " . "Sta in un pezzo di coccio" . "E più in fondo ancora? " . "Sta negli escrementi " . A questo punto il contendente di Chuang­ tzu, forse scandalizzato, tacque4• Trascurando - per ora - le tracce fecali della via senza nome, fissiamo le idee sul pezzo di coccio proposto alla nostra attenzio­ ne da Chuang-tzu, e fra di noi lo prendiamo come lo spunto di un gioco linguistico. Quando tocca a me lo poso sul palmo della mano: già tutti voi avete raccon­ tato storie interessanti. Uno è stato un archeologo che ha fatto del coccio la sua grande scoperta, un altro lo ha raccolto nella propria casa distrutta da un terremo­ to, un altro ancora ci ha raccontato del povero com­ messo che si era fatto cadere dalle mani un vaso pre­ zioso. Un quarto, cupamente, lo ha preso fra le dita e ci ha indicato uno spigolo tagliente come lo strumento risolutivo del dramma di un carcerato che, con il coc­ cio, si è tagliato le vene. Quanto a me affermo di voler­ lo utilizzare sul fondo di un vaso per favorire il dre­ naggio dell'acqua. Ovviamente ciò che accomuna tutte 13

queste trame è l'incontro più o meno accidentale, importante o addirittura definitivo di un essere umano con l'ente che abbiamo chiamato «coccio». Si è così caricato di significato possibile un «qualcosa» che in generale è, per noi, solo qualcosa da buttar via. Sarebbe da buttare via anche l'esercizio linguistico se stabilissi­ mo come pertinente alla definizione di significato que­ sta unica eguaglianza:

significato per noi= azione/situazione umana Ben più generale è il caso in cui il significato è gene­ rato e compreso da non-umani (pensiamo ai riti di cor­ teggiamento o di lotta di innumerevoli specie animali) . Ma in effetti seguiamo l'indicazione di Chuang-tzu solo se accettiamo il fatto che l'importanza del coccio è già pienamente descrivibile nei termini della sua «sempli­ ce» esistenza. Il significato più intrinseco della cosa è la cosa stessa («importanza» è uno dei significati di «si­ gnificato»). Infatti dal punto di vista dello spazio essa va considerata come una concentrazione straordinaria­ mente rara in termini di materia e di energia, in un uni­ verso assai avaro di esistenza materiale, mentre dal pun­ to di vista del tempo essa - la cosa, qualunque cosa ha dietro di sé una storia ricchissima e complessa, di cui non riusciamo ad intravvedere l'inizio. Fra gli esempi proposti da Chuang-tzu la formica è l'esito di un'evo­ luzione biologica durata miliardi di anni; la pianta di miglio assomma a questo abisso temporale, per il suo tratto più affiorante, il lavoro di selezione e coltivazio­ ne di innumerevoli generazioni umane; il coccio porta 14

in sé le tracce di un 'evoluzione tecnica trasmessa da artigiano ad artigiano con altri innumerevoli sforzi umani. Per di più ciascun coccio ha un'irripetibile sin­ golarità: se rompiamo un vaso non otterremo mai due cocci uguali. Ma ci rimane ancora da rendere esplicita e in un cer­ to modo terminale un'operazione essenziale: sottrarre la nostra formazione del significato ai vincoli troppo re­ strittivi del per noi. Fra gli esempi di Chuang-tzu quel­ lo della formica chiarisce del tutto la questione: una par­ ticolare formica e tutte le altre formiche non sono lz' per noi, anche quando sono un nostro oggetto di studio o diventano nostro cibo. Pazientemente inventariamo qualcuno degli strati di significato della parola «formi­ ca», dagli aspetti simbolici e metaforici (operosità e anonima socialità) , a quelli esperienziali ( ''mordono ! " , "è difficile liberarsene" ) , a quelli conoscitivi colleziona­ ti da una schiera di specialisti: l'ecologo studia le rela­ zioni di certe formiche con l'ambiente, l'etologo insiste sui costumi collettivi, il biologo prende in considerazio­ ne una miriade di aspetti (dall'evoluzione delle specie alla fisiologia del singolo individuo) , il biochimico isola e analizza un'altra miriade, questa volta di entità mole­ colari. Tutti questi strati di senso appartengono alle nostre pratiche linguistiche, non gravano in nessun modo sulla formichina, tuttavia ci serve richiamarli per comprendere la ricchezza nascosta dell'evento «formi­ ca» quando la incontriamo (la formica mentre cammi­ na, non la parola quando viene pensata ! ) . C i si deve rendere conto che il linguaggio costituisce un effettivo mondo intermedio che si pone come poten15

tissimo filtro interpretativo fra noi e la realtà. Dicias­ sette secoli fa Wang-pi, nel suo commento al Tao Te Ching, scrisse: " Il nome serve a determinare la forma, l'appellativo serve a designare il dicibile" . Tutte e due le affermazioni di Wang-pi sono fondamentali perché mettono in luce la duplicità delle funzioni linguistiche: il nome plasma la realtà, fa emergere e nasconde, de­ termina la forma delle cose; lo stesso appellativo ali­ menta il raziocinio e la comunicazione intersoggettiva. Vedremo fra breve quanto sia fondamentale una co­ municazione non verbale, prima però dobbiamo anco­ ra soffermarci sull'uso di shih, un termine cinese rile­ vante per il nostro cammino. Ogni pratica ha i suoi termini tecnici, dalla meccani­ ca quantistica al biliardo, e le tradizioni religiose non fanno eccezione. La tradizione cinese della Ghirlanda di fiori (Hua Yen) deve il suo nome all 'AvafaJ?2saka-sutra, uno dei maggiori testi del buddhismo mahayana, che conosciamo solo attraverso traduzioni cinesi e tibetane. In essa vengono distinti quattro fa chieh o «mondi del dharma»; anche se si tratta di «mondi» interpretati secondo una sottile analisi filosofica, ignoreremo l' ana­ lisi e li chiameremo semplicemente «mondi», perché l'i­ taliano corrente permette di usare frasi semplici («mon­ do della finanza», «mondo della droga») che esprimono benissimo realtà distinte di un'unica umanità. Il primo mondo che si incontra nella riflessione del­ la Ghirlanda difiori è shih fa chieh, il mondo delle cose e degli eventi particolari. In effetti shih si porta dietro una miriade di significati che vanno da «cosa» ad «affa­ re», «ufficio», «compito», «questione», «incidente»; 16

nel lessico filosofico che ci interessa shih accentua i tratti di «fatto particolare», «evento» 5; per cui la tra­ duzione migliore sarebbe un mostriciattolo del tipo «cosa-evento». D'altra parte l'uso di parole straniere non è di per sé segno di snobismo: i londinesi usano da tre-quattro anni «cappuccino» per indicare una certa confortevole bevanda calda, e noi possiamo pure utiliz­ zare shth per accentuare il carattere dinamico, transito­ rio, evolutivo di ogni «cosa» che abbia nome, ovvero che abbia acquisito ai nostri occhi una qualche identifi­ cabilità. Per capirci meglio consideriamo tre shih: una goccia di latte, un fiore, una nostra mano. Il carattere dinamico della goccia di latte ci è stato mostrato molte volte in quelle riprese in cui il moto accelerato della pel­ licola ci mostra, al momento della proiezione, un mon­ do rallentato a nostro piacimento. Ecco, quando la goc­ cia cade nella tazza e perde definitivamente la sua iden­ tità è tutto un tripudio di avvallamenti, onde e schizzi. Altre volte abbiamo osservato, sulla base di riprese condotte con scatti distanziati nel tempo, lo sbocciare di un fiore. In certi casi l'aprirsi di un bocciolo è così rapido da poter essere seguito ad occhio nudo, in un paio di ore. La goccia e il fiore vivono dinamiche tem­ porali contigue alla nostra, in altre situazioni come il moto di un proiettile supersonico o il ritirarsi di un ghiacciaio i diversi shih si realizzano con ritmi abba­ stanza diversi dai nostri (non per nulla si parla di «tem­ pi geologici») . L'autonomia temporale di ogni shih non ha aspetti misteriosi, oltre - s'intende - quello della presenza effi­ cace del tempo stesso. Qualche problema curioso nasce 17

invece quando cerchiamo di comprendere uno shih dal punto di vista della sua autonomia spaziale. Prendiamo il caso di ciascuna nostra mano. Se anche la loro reci­ proca irriducibile asimmetria (sinistra, destra) non ci turba più che tanto, dobbiamo invece constatare che siamo in grado di vedere dove «cominciano» (dalla punta delle dita . . . ) ma non dove «finiscono». La loro appartenenza funzionale al nostro corpo non le priva di individualità, e tuttavia esiste una zona misteriosa dove la mano e il polso si «confondono». Il palmo della mano e la parte interna del polso presentano diversi solchi che in un certo modo segnano il loro confine. Ma dove finisce l'una e comincia l'altro? Questo deve esse­ re stato veramente un problema serio per i medici che qualche anno fa, in Iran, progettarono una macchina per mozzare le mani ai ladri, secondo la legge islamica. Per noi il problema si risolve nella constatazione che l'isolabilità spaziale non è una condizione necessaria per l'esistenza di uno shih. Per sottolineare la natura dinamica e transitoria di shih è utile un'ultima riflessione su ciò che chiamiamo «atto», «gesto», «azione», «portamento», «postura», ecc. Tutti conosciamo l'importanza esistenziale che può assumere un certo sguardo, l'espressività, persino clini­ ca, delle posizioni e dei movimenti del corpo, la sacra­ lità laica o religiosa di certi gesti ( '' alzò il pugno serra­ to " , "le mani raccolte nella mudra cosmica " ) . Se una certa «andatura» può essere così indicativa di uno sta­ to d'animo o di uno stato di salute vuol dire che lo stes­ so svolgersi nel tempo di un 'azione ha un significato profondo. Shih: la cosa-evento, un grumo di significato. 18

Credo che ora siamo in grado di apprezzare piena­ mente un evento a cui tutte le scuole delle tradizioni ch 'an e zen fanno risalire la loro comune origine. Un giorno Brahma si recò sul Picco dell'Avvoltoio dove era radunata intorno al Buddha una grande as­ semblea di monaci e di praticanti. Brahma aveva porta­ to in dono allo Svegliato una ghirlanda di fiori e, por­ gendogliela, chiese rispettosamente un insegnamento. Il Buddha senza dire una parola sfilò un fiore dorato dal­ la ghirlanda e con un sorriso lo sollevò, facendolo gira­ re fra le dita. L'assemblea rimase in un silenzio stupito e immobile, "solo il venerabile Kasyapa si aprì in un sorriso " . Allora il Buddha esclamò: "Io ho la visione del vero dharma, la segreta essenza del nirvi�:Za, la forma che non è forma, la porta meravigliosa del dharma" 6• In questa storia, raccontata per la prima volta in un siitra «apocrifo» del III-IV secolo dell'era volgare, il messag­ gio gestuale dello Svegliato viene raccolto proprio da Kasyapa, l'ascetico e severo custode della disciplina nell'ordine monastico fondato dal Buddha. Se conside­ riamo il possibile valore liberatorio dall'ego della libera accettazione di una disciplina, non dovremmo stupirei di trovare un «uomo d'ordine» all'origine di una tradi­ zione di pratica interiore che ha generato quasi ininter­ rottamente un'impressionante accozzaglia di eccentrici bizzarri e di perfetti lunatici. D'altra parte ogni qual­ volta la storia si è arenata in quel quasi i praticanti si sono sentiti a disagio e si è cominciato ad agire per «riformare» il ch 'an in Cina o lo zen in Giappone. Kasyapa era un praticante esperto nella percezione dell'importanza dei gesti quotidiani, anche minimi, era 19

quindi ben preparato a cogliere nell' ostensione del fio­ re l'indicazione necessariamente tacita di una particola­ re via, che non solo rifiuta il dominio sulle «cose» ma anzi esalta il risveglio alla loro presenza, al loro essere con noi e non per noi. Ovviamente la prima «cosa» con cui dobbiamo im­ parare a con-vivere siamo noi stessi, innanzi tutto a par­ tire dal valore dei nostri gesti quotidiani. Sotto questo aspetto ho trovato un maestro in mia moglie, quando accudisce i miei figli e me, la casa e la tartaruga, il gat­ to e i fiori. "Le mie attività quotidiane non sono insoli­ te, soltanto che io sono in naturale armonia con esse " , rispondeva il laico P'ang al suo maestro Shih-t'ou, e concludeva: "Potere sovrannaturale ed attività meravi­ gliosa - tirare su l'acqua dal pozzo e portare la legna per il fuoco " . Il maestro annuì e chiese a P'ang se desi­ derava indossare le vesti nere del monaco o se preferi­ va conservare i vestiti bianchi da laico. P' ang, uno dei più vigorosi irregolari della tradizione ch'an, rispose piuttosto ruvidamente: "Voglio fare ciò che mi piace" , e così non si rasò l a testa né si tinse gli abiti. Shih indica la numinosa attività di ogni essere, l'irri­ ducibile presenza di ogni cosa, l'efficace energia di ogni gesto.

Pratica dello spazzolino da denti Abbiamo sentito Chuang-tzu alle prese con la domanda: "Dove sta il tao? " . La stessa domanda veni­ va posta ai maestri ch 'an in varie forme: " Cos'è la natu20

La meravigliosa porta del dharma

Una porta di cespuglio, e per serratura questa lumaca. 7

La dottrina trascendente di Yun-men

Un monaco chiese: " Qual è la dottrina che trascende tutti i Buddha e tutti i maestri? " . Yun-men immediatamente levò in alto il suo bastone e disse all' assemblea: " Io chiamo questo bastone, e voi? " .

Pai Ch'ang, a proposito di un risvegliato

"È lo stesso uomo di prima, l'unica differenza sta negli atti comuni della vita quotidiana" .

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ra del Buddha? " , " Questo qua ha la natura del Bud­ dha? " , "E quest'altro ? " . . . La risposta data da Yun-men è riportata come koan in una delle più importanti col­ lezioni cinesi, il Wu-men-kuan (caso n. 2 1). L'intero episodio è narrato in modo molto conciso: Un monaco chiese a Yun-men: "Cos'è il Buddha ? ". Yun-men disse: "Uno stecco per ripulirsi della merda".

Quando usiamo uno scopino del cesso usiamo il Buddha. Si può essere certi che il maestro cinese non intendeva dare né una risposta evasiva, né una risposta metaforica. Se Chuang-tzu ci ricorda che il tao sta negli escrementi, il Buddha può stare nel bastone di Yun­ men. E in qualsiasi altra cosa. Raccolto in meditazione, quieto e consapevole, richiamo alla mente un oggetto di uso quotidiano. La tonalità affettiva dell'oggetto potrebbe essere rilevante, quindi nell'eseguire questa pratica, all'inizio, mi con­ centro su una cosa utile ma «neutra», ad esempio uno spazzolino da denti o un orologio da polso, evitando cose «importanti», cariche di ricordi. (Già la scelta deve essere attenta: un'amica mi diceva che per lei lo spaz­ zolino da denti è intriso di richiami alla propria espe­ rienza di vita) . In primo luogo analizzo in ogni detta­ glio la forma dell'oggetto che ho scelto, le sue proprietà fisiche (peso, maneggevolezza, durezza, flessibilità) . Poi prendo in considerazione i materiali di cui è costituito: materiali naturali o sintetici, gli inchiostri delle scritte, i pigmenti e i coloranti. Quando mi è ben presente la sua costituzione secondo lo spazio e la materia esamino 22

la disponibilità dell'oggetto al mio uso, dalla prima vol­ ta che l'ho incontrato - forse in un negozio, forse già a casa - a tutte le altre volte in cui si è reso utile. Questa coordinata temporale fluisce da quel primo incontro ad ora, e intanto l'oggetto ha cominciato a portare i segni del tempo e dell'uso. Analizzo le modalità d'uso e inda­ go come queste portino all'usura dell'oggetto: anche se non tocco l'oggetto che con lo sguardo, esso comunque invecchia. Posso anche giungere a vedere la fine del­ l'oggetto o di quelli che l'hanno preceduto nel medesi­ mo uso, ma la parte più intensa della pratica viene ora. Ho davanti a me, per quel singolo oggetto, spazio e materia, tempo e uso, usura e familiarità. Senza entrare nei dettagli, richiamo queste caratteristiche per qualche altro oggetto: magari eseguo una specie di inventario in un luogo usuale (un angolo della cucina o dello studio, un cassetto) e mi accorgo che man mano che proseguo nella scansione degli oggetti la loro complessa identità emerge con sempre maggiore facilità e rapidità. In bre­ ve nella mente si affollano centinaia di oggetti, forse migliaia, che non percepisco più singolarmente (a meno che voglia farlo) ma che avverto - appunto- come fol­ la. Una folla sterminata di oggetti al mio servizio. O, mi viene il dubbio, sono io al loro servizio? È questo il punto d'arrivo della pratica: risiedere insistentemente in questo dubbio, oscillando da una sensazione di sicu­ rezza e di benessere a una sensazione di segno opposto, di disagio e di frustrazione, per l'oppressiva cura che tutti questi oggetti impongono.

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Pratica del suono della campana e della veste da monaco Al richiamo della campana del monastero i monaci si erano affrettati verso la sala di meditazione. Yun-men disse: " Guardate ! Questo mondo è ampio e vasto. Perché indossate la veste da monaco al suono della campana ;>" . . Per rispondere alla domanda di Yun-men conside­ riamo la pratica sia in modo informale-osservativo sia in modo formale-analitico. Riguardo all'aspetto informale la pratica di osserva­ zione si potrebbe estendere all'intera attività quotidiana, ma si colgono già frutti rilevanti impegnandosi anche solo in momenti particolari della giornata. Oggetto del­ la attenzione saranno tutti i movimenti, i gesti, le mimi­ che coinvolte nel nostro fare, ad esempio quando pre­ pariamo la colazione, apparecchiamo la tavola, guidia­ mo l'automobile. Si tratta semplicemente di osservare il nostro corpo mentre agisce abilmente rispondendo con continuità e prontezza al divenire della situazione. Il corpo sa dove trovare certi oggetti, come spostarli, usar­ li, consumarli, buttarli via. Più è usuale l'attività e più è automatico il nostro comportamento; tuttavia la ric­ chezza e l'adeguatezza dei nostri gesti è sempre a nostra disposizione, senza che noi ci si accorga di questa immensa fortuna, a meno di menomazioni: come aprire un pacco di latte con una sola mano? Si può iniziare da queste attività vaste e complesse per poi «raffinare» la nostra attenzione su singoli atti o posture. Non ho mai trovato un limite alla complessità dei movimenti delle mie mani, e nemmeno alla loro autonomia da me. 24

Per l'aspetto formale mi metto raccolto in medita­ zione, quieto e consapevole, e richiamo alla mente un comportamento quotidiano. Il comportamento scelto è rilevante. Riguarda la pratica religiosa, o un ruolo fami­ liare. Cosa faccio quando suona la campana che mi richiama alla pratica o al ruolo? Considero in dettaglio l'atteggiamento che ho assunto, i gesti, le parole, i pen­ sieri. Sono intervenuti non solo gli automatismi del cor­ po ma anche gli stereotipi della mente. Quali? Sono sta­ ti diversi rispetto a quando aveva suonato la campana la volta precedente? Posso ricordare quando essa suonò per la prima volta? Perché, allora, ho risposto? Quanto sono consapevole, ora, di quella scelta? Ma fu, allora, una scelta consapevole? Perché posto in questo mondo «ampio e vasto» mi trovo qui, su questo cusci­ no? Mentre affiora la ricchezza contraddittoria di un comportamento particolare, il mondo accessibile si di­ lata, aprendosi ad altre esperienze esistenziali.

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LI: VACUITÀ SENZA SEGNI

Se ci mettiamo silenziosamente in ascolto di un cam­ po di grano, spesso, anche in pieno giorno, si sentono i topini che rosicchiano le spighe. Un ascolto meno con­ templativo viene esercitato dai gatti che ogni tanto, con balzi prodigiosi, tentano la caccia nel fitto intrico degli steli. Grano, topolini e miei svolgono la loro parte nel tao li, l'ordine del tao che regola il corso naturale degli eventi. Li è un termine che viene utilizzato spesso negli scritti taoisti per indicare il principio d'ordine da cui derivano le cose. Si può vedere quanto poco di metafi­ sica si nasconda dietro questa parola considerando la disavventura di un certo filosofo sofista. Il muratore che gli stava costruendo una casa aveva affermato che "non va bene adoperare legno troppo verde " , ma il filo­ sofo, sulla base di un preciso ragionamento sul «secco» e sul «duro», gli aveva imposto l'uso di quel materiale improprio, e la faccenda finì come doveva finire: Il muratore non seppe cosa rispondere a ciò, così che accettò l'ordine e costruì la casa. Quando fu termina­ ta aveva un bell'aspetto, ma ben presto cadde a pezzi. [Il filosofo] amava questi piccoli sofismi ma non ave­ va cognizione dei grandi princìpi."

Così, in questo contesto, i grandi princìpi (ta li) sono quelli che regolano la deformazione di una trave di legno durante l'invecchiamento. In effetti lo stesso 26

carattere con cui i cinesi indicano li richiama un conte­ sto artigianale in quanto è formato dal radicale yii, gia­ da, e dalla parte fonetica li, che rappresenta un picco­ lo villaggio con il terreno ben diviso in campi. Il carat­ tere ricorda che la giada va tagliata secondo la propria testura, secondo le regole imposte dalla natura del ma­ teriale. L'estensione semantica del termine è molto ampia, da «natura dei materiali» a «leggi della mate­ ria»; nel cinese contemporaneo wu li hsiieh designa lo «studio delle leggi della materia», ovvero la fisica. Per i maestri del Hua Y en, un millennio fa, li fa chieh , il mondo di li, indicava sia l'intero complesso di leggi, regole, proprietà, modelli secondo cui gli esseri si for­ mano, agiscono e si trasformano nel mondo dell'espe­ rienza, sia ciò che risultava da questa attività: l'imper­ manenza di ogni ente, fuggevole nel tempo, e la dipen­ denza dell'esistenza di ciascun ente- in ogni istante da altro da sé. Anche noi, se consideriamo da questo punto di vista esistenziale il complesso delle leggi se­ condo cui le scienze descrivono il divenire del mondo (compresi noi stessi), non possiamo che giungere alle stesse conclusioni: nulla rimane immutato, nemmeno per un istante, nulla ha in sé tutte le ragioni del proprio permanere. I maestri Hua Yen ritrovavano così due delle caratteristiche dell'essere indicate dal Buddha: impermanenza (anicca in lingua pali) e impersonalità (anatta) . A questo punto, spingendo fino alle estreme conclusioni l'analisi esistenziale, essi compivano un passo decisivo, utilizzando li per indicare la vacuità buddhista (suiiiiata).

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Non lasciamoci sfuggire l' aspetto semanticamente portentoso di questo «svuotamento» di li fa chieh, ed anzi riviviamolo nel nostro contesto conoscitivo. Li è un nome per l'insieme immenso e differenziato di leg­ gi, le regole che gli enti rispettano giocando: le parti­ celle elementari nel loro «ZOO», le galassie nelle profon­ dità del cosmo e noi stessi nel nostro mondo di forme e di desideri. Tuttavia li è anche un nome per suiiiiata, l'assenza di un sé permanente. Così dicendo sembria­ mo ricondurre tutto alla banalità dell'io empirico, ma così non è: al di là della loro stessa provvisorietà sono proprio le leggi che abbiamo accettato a dirci che nul­ la è permanente, per cui tutto è suiiiiata, vacuità. D'al­ tra parte non si tratta di giungere a questa conclusione per via filosofica, ma di realizzarla sia negli aspetti di­ struttivi ( delle illusioni) , sia in quelli costruttivi (di un'esperienza diversa) . Prima delle pratiche di medita­ zione è però opportuna una comprensione preliminare attraverso l'esempio dei maestri. Le origini storiche del ch'an vengono fatte risalire a un missionario indiano, il monaco Bodhidharma. Quan­ do il pio imperatore Wu gli volle parlare, si svolse un scambio di battute assai curioso, innescato da Wu: " Qual è il principio primo della santa dottrina? " . " Una vasta vacuità. E nulla che possa essere chiamato san­ to ! " . Sconcertato l'imperatore cercò di rassicurarsi: " Chi è davanti a me? " . " Non lo so " , rispose Bodhi­ dharma. Wu rimase senza parole, ma le difficoltà del dialogo non erano certo da imputare a lui. Secondo le parole del Buddha, uno Svegliato ha per nutrimento una "libertà vuota e senza segni" , e " di costui il cam28

mino è difficile da seguire come quello degli uccelli nel cielo " 9, come poteva allora un imperatore, carico di segni del potere, superare la soglia della vasta vacuità del monaco e dialogare con lui? Un commento al Dhammapada, i cui versi ho appena citato, ci indica la traccia da seguire. Suiiiiato animitto (vuota e senza segni) è la libertà vuota di desiderio, odio, illusione, e non porta più questi come segni del proprio esistere. Potremmo chiederci quali tratti apparirebbero sul no­ stro volto non ci fossero più questi segni, così social­ mente convenzionali, però ci rendiamo subito conto di quale sforzo sia necessario per cogliere il proprio volto originale quando apprendiamo dal Buddha che egli risiede sempre nella casa della vacuità (suiiiiatavihara), avendo ottenuto l o stato naturale degli Svegliati, l a suprema insuperabile vacuità. Bene, come arrivarci, in quella casa? Semplice, risponde il canone buddhista, basta praticare una concentrazione della mente priva di segni (animitta cetosamadhi) . Se lo stato finale è totalmente privo di segni questo non significa che non si possa agire in modo «progres­ sivo», mettendo in moto delle procedure di liberazione dai segni: "E qual è la libertà della mente che è senza segni? Quanto a questo, un monaco, non prestando attenzione ad alcun segno, entra nella concentrazione della mente che è senza segno e vi permane" . La do­ manda e la risposta sono di Sariputta (Ma;jhima-Ni­ kaya, discorso n. 43 ) , che aggiunge: "L'attaccamento è produttivo di segni, l'odio è produttivo di segni, l'illu­ sione è produttiva di segni " . Vediamo così che il tripli­ ce marchio del nostro essere, i segni della libertà con29

dizionata che sempre viviamo, sono a loro volta pro­ duttori di segni in un processo di semiosi che sembra senza limite. Un commento alle parole di Sariputta ci fornisce lo strumento pratico per fermare questa sernio­ si. Occorre adottare una «visione» del mondo che sia " senza segno perché rimuove i segni della permanenza, della felicità e del sé" . Nella pratica ricorderemo que­ sta frase così dura, ora diventa molto utile la compren­ sione tecnica del processo di semiosi. La linguistica contemporanea ha chiarito come ogni forma segnica, anche nelle versioni più rudimentali co­ me i «graffiti» sui muri, frammenta il continuum dell'e­ sperienza in segmenti di contenuto che corrispondono ad enti fisicamente riconoscibili (mano, donna, albero) , a concetti astratti (desiderio, libertà) , azioni (leggere, meditare) , generi e specie (mammifero, curva conti­ nua) , direzioni e relazioni (da, sopra, dopo, con ) . Gran parte della nostra «lettura» del mondo dipende dalla «finezza» della segmentazione linguistica di cui siamo competenti: le erbacce del mio giardino «direbbero» a un botanico molto di più di quanto «dicono» a me. Ma vi è un altro aspetto di questa segmentazione del mon­ do che è estremamente interessante. Si è dimostrato che il mondo intermedio costituito da una particolare lingua (l'italiano, ad esempio) non è affatto identico a quelli costituiti dalle altre lingue, specialmente da quelle lon­ tane (come il pali o il cinese) . Così ogni lingua fa vive­ re i suoi parlanti in un particolare mondo. Per di più, dato che " il segno è sempre ciò che apre a qualcosa d'altro " il processo di semiosi è spontaneo e potenzial­ mente illimitato, in quanto ogni segno ne richiama altri 30

per la sua interpretazione. Di qui la fondamentale fun­ zionalità di una delle caratteristiche della tradizione zen: non basarsi sui caratteri scritti (/uryii monji). È un consiglio prezioso, dato che i linguisti moderni posso­ no affermare: "il soggetto è parlato dai linguaggi (ver­ bali e non)". Sono davanti a noi e dentro di noi gli effet­ ti devastanti del linguaggio pubblicitario, e più in gene­ rale quelli della comunicazione televisiva. Eco scopre, linguisticamente, l'inesistenza del sé: " Siamo, come soggetti, ciò che la forma del mondo prodotta dai segni ci fa essere" 10• Se ora dall'analisi linguistica contemporanea tornia­ mo all'insegnamento dell'Ava !a 1?1sa ka afferriamo me­ glio il senso di furyii monji: " Non giungerai mai alla realizzazione di una verità solo ascoltandola, pensan­ dola e comprendendola intellettualmente " , in quanto "l'eccellente e definitiva verità fin dall'inizio non ha alcuna parola per esprimersi, è essenzialmente quieta, realizzabile solo nell'intima coscienza del saggio" .

Pratica di deflazione Si tratta di una pratica che ho trovato estremamente efficace nel ridurre le pretese del mio-io. Molto sem­ plice, quasi meccanica nell'esecuzione, richiede però una certa preparazione «tecnica». Il punto di partenza è una considerazione, che se non fosse stata fatta dal Buddha potrebbe essere tranquillamente attribuita al monsieur de la Palice: " Conviene dire «questo è mio, io 31

Se tu

Chuang-tzu rispose a un importuno: " Se tu ieri m'avessi chiamato bue avrei detto di esse­ re bue, se m'avessi chiamato cavallo avrei det­ to di essere un cavallo " .

Il silenzio

Hui-neng era giunto al termine della vita. I suoi allievi gli chiesero: " Fra poco ci lascerai. Quanto tempo ci vorrà prima che tu torni da noi? " . Hui-neng rispose: "Le foglie cadono e ritornano alle radici. Quando riappaiono sono silenziose " .

La vacuità di Basho

Lampeggia! Attraversa l'oscurità il grido di un airone.

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sono questo, questo è il mio sé» quando questo è imper­ manente, legato alla sofferenza, destinato a mutare? " . "Certamente no, o Signore" risposero compunti i disce­ poli, e il Buddha propose subito con un esempio l'at­ teggiamento corretto: " Perciò tutto ciò che è forma, passata, futura o presente, interna o esterna, grossolana o sottile, inferiore o superiore, lontana o vicina, deve essere vista per mezzo della retta visione quale real­ mente è, cioè: «Questa forma non è mia, io non sono questo, questo non è il mio sé»" 11• Lo stesso ragiona­ mento colpisce tutte le componenti di ciò che ci sen­ tiamo essere, comprese percezioni, sensazioni, abitudi­ ni, forme di pensiero e di comportamento. Se ripercor­ ro lo stesso sentiero indicato dal Buddha ecco che il mio-io empirico non trova più nulla, assolutamente nulla, con cui identificarsi. La pratica analitica che segue è la versione semplifi­ cata di una meditazione descritta da Conze. L'analisi è del tutto generale e può essere applicata a qualsiasi que­ sto. Un'ultima premessa va considerata, particolarmen­ te in riferimento al primo punto della meditazione, che si snocciola come un breve rosario con sei grani. Ogni oggetto è situato in uno o più campi, «spazi» in cui l'og­ getto è sempre sottoposto a forze. Il campo che ci è più familiare è quello gravitazionale, cui è soggetto tutto ciò che ha massa, quindi qualsiasi oggetto materiale. Ma anche tutti i nostri ruoli (sorella, allievo, deputato, gio­ catore di bocce) sono sotto l'influenza di potentissimi campi di relazioni sociali, campi in cui sono presenti forze devastanti. Il nostro stesso corpo è sede di mi­ gliaia di campi definiti da processi chimici. Un esempio 33

fra i tanti è quello dello stimolo che chiamiamo «fame». Nell'ipotalamo funzionano due «centri» antagonisti: un «centro della fame» emette in continuazione i suoi se­ gnali, inibito solo da un altro «centro» (della «sazietà») che entra in funzione quando sale nel sangue il livello di glucosio, in seguito all'ingestione di cibo. È facile immaginare situazioni molecolari in cui un uomo può morire d'inedia senza conoscere i morsi della fame. Raccolto in meditazione, quieto e consapevole, scel­ go un questo da porre in una o più posizioni della terna:

questo è mio io sono questo

questo è il mio sé Mi dico, ad esempio: " questo corpo è mio " , " questo amante è mio " , oppure "io sono questo insegnante" , "io sono questo praticante zen" , e con una delle tante pos­ sibili scelte inizio la meditazione. Al punto l colgo il potere indipendente (da me) dell'oggetto, i suoi «movi­ menti» indipendenti dalla mia volontà. Nel caso di un ruolo la sua dinamica è dettata continuamente dalla sua mutevole realizzazione sociale. Al punto 2 seguo il dive­ nire dell'oggetto, come nasce, come perdura e come muore. Al punto 3 vedo l'oggetto come bersaglio espo­ sto a pericoli e tribolazioni. Qui l'esperienza già vissuta rende superfluo il ricorso alla fantasia. Al punto 4, mol­ to importante, mi accorgo che il posseduto mi possiede, fosse anche solo per la cura che il «posseduto» mi richiede, dalla difesa orgogliosa di un «mio» ruolo fino 34

al togliere la polvere che ricopre i «miei» libri. Al pun­ to 5 il corso degli eventi che coinvolgono l'oggetto mi appare più dominato da forze esterne che da miei sfor­ zi. Al punto 6, infine, constato che ottenuto e desiderato non si corrispondono mai pienamente. Posso esplorare più volte, per lo stesso oggetto, questi sei «grani», ponendomi sempre al termine dell'analisi di ogni punto specifico una qualche domanda pertinente, "ma davve­ ro posso dire che questo è mio, dipende da me, ci pos­ so contare sopra, è un mio rifugio, è in mio potere?". Un'immagine che ci può aiutare nella pratica deriva da un significato tecnico della parola «deflazione»: essa è l'azione del vento che si carica di microscopici detri­ ti nelle steppe e nelle tundre e che, secolo dopo secolo, smussa, erode, cancella qualunque ostacolo sul suo cammino. Quando siamo raccolti in meditazione solle­ viamo un potente vortice interiore, che stacca e acco­ glie i frammenti più esposti del nostro io e li usa come abrasivo. All'inizio l'io-mio è torreggiante, monumenta­ le, tuttavia nessun monumento può resistere al vento del deserto.

Pratica del senza segno Fa-yung viveva in un tempio solitario ed era così san­ to che gli uccelli gli portavano fiori come offerte. Un giorno però, durante un incontro con il maestro ch'an Tao-hsin, Fa-yung si risvegliò completamente. Da allo­ ra non ricevette più offerte di fiori dagli uccelli. Fa35

yung non aveva più nemmeno i segni della santità. Di uno svegliato, secondo lo Zenrin , si dice: Entrando nella foresta non agita l'erba; entrando nell'acqua non l'increspa.

Privo di segni egli non disturba nessuno e da nessu­ no può essere afferrato. Nella realtà quotidiana incon­ triamo (e siamo) grottesche stampelle, inverosimilmen­ te cariche di etichette. La pratica del senza segno con­ siste nell'inventariare queste innumerevoli etichette e nel rimuoverle, per quanto possibile. Il passo introduttivo alla pratica potrebbe essere definito lo zen del portiere d'albergo. Si tratta infatti di individuare quei segni della condizione sociale, econo­ mica, personale, emozionale che «indossiamo» in modo più o meno consapevole. Dal taglio dei capelli, alla mimica del volto, ai gesti e alle posture, dagli oggetti che indossiamo (in senso letterale) o che collochiamo nell'ambiente di lavoro, alle parole dette, che più di ogni altra cosa denunciano «chi» siamo (a partire dal­ l'accento) . Vi sono poi i segni dei ruoli, che includono i segni del potere, in tutte le sue forme (chi non cono­ sce la noia esibita dai burocrati italiani verso le richie­ ste dei loro concittadini? ) . Da ultimo possiamo consi­ derare i segni dell'immagine di sé, di ciò che ci piace essere: non mi riferisco all'abbronzatura salutista quan­ to piuttosto a cose più sottili come lo sguardo ironico sostituto civile del lei-non-sa-chi-sono-io. Raccolto in meditazione, quieto e consapevole, fac­ cio l'inventario dei segni che utilizzo in una particolare 36

situazione, una lite, ad esempio, o una «presentazione» vera e propria come un invito a cena o una serata in discoteca con nuovi amici. Considero l'inventario più volte, sia cogliendo i segni dal mio punto di vista (cosa intendo comunicare, anche inconsapevolmente) , sia cercando di vedere gli stessi segni con gli occhi degli altri partecipanti alla situazione. Eseguo poi un'attenta e progressiva cancellazione dei segni che ho inventaria­ to (non si tratta di girare in mutande, ma di non indos­ sare nessun pantalone particolare) , cercando di far sì che tutta la procedura sia condotta senza un'intenzione giudicante. Ritorno quindi nella situazione iniziale con il mio nuovo aspetto/comportamento e analizzo le varianti che si potrebbero realizzare. Si ottiene il sommo di questa pratica quando i segni vengono abbandonati nella quotidianità, non per un'in­ tenzione «purificatrice» del praticante ma perché ormai sono d'impaccio sulla via.

Pratica del senza nome Nel Dhammapada il Buddha ha detto: Chi non si identifica in nessun nome e forma, chi non piange per ciò che non esiste si chiama asceta.

Quanto si fa presto a dire senza nome! Se gli Sve­ gliati come il Buddha o Chuang-tzu indicano come meta questo particolare stato, si deve tener presente 37

che santi e barboni, suore e guerriglieri si sono (spesso) incamminati volontariamente sulla via del senza nome. Ciò che qui mi interessa è tutt'altro. È l'immensa mol­ titudine di esseri umani che - loro malgrado - sono sta­ ti privati del loro nome con la violenza. Gli schiavi neri portati al mercato come bestie, i fanti ubriachi lanciati dalle trincee contro le mitragliatrici, i trotzkisti e i pre­ ti inghiottiti dai gulag, gli ebrei e i comunisti cancellati nei lager, le bambine birmane vendute ai bordelli thai­ landesi, i bambini di strada «raccolti» per utilizzare i loro organi, gli interminabili cortei dei deportati e dei profughi . . . Madamz'na, zl catalogo è questo, canta alle­ gro Leporello alla storia. Per la pratica del senza nome non consiglio la postu­ ra formale perché l'esito è troppo violento. La pratica è recente. Passando in pullman davanti ad un cinema ho visto il manifesto di Schz'ndler's lz'st in cui una mano di bambino veniva strappata dalla mano del suo adulto. Improvvisamente ho sentito la mano di mio figlio sfug­ gire alla mia presa, ho udito le sue grida disperate, ho avuto le ossa rotte per la mia inutiie cieca risposta. La pratica può essere ripetuta ovunque, senza alcuna pre­ parazione: non importa lo scenario politico o sociale, perché hanno sempre bussato alle nostre porte e pos­ sono sempre farlo, senza preavviso. Viviamo però solo il momento in cui ci si rende conto per la prima volta che si è senza nome: sentiamo il loro piombare su di noi, l'abbraccio divelto, la nostra impotenza, lo sguar­ do di chi ci è portato via, le grida, le prime botte. È suf­ ficiente.

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LI SHIH WU AI: L'ARMONIOSA COMPENETRAZIONE FRA ESSERE E VACUITÀ

Siamo immersi nel continuo divenire delle condizio­ ni di vita, delle situazioni in cui ci veniamo a trovare - e di noi stessi - e tuttavia ci illudiamo di poter rag­ giungere un approdo sicuro, stabile, immutabile, spe­ riamo sempre di poter dire un giorno: " Ecco, questo sono io ! " . Un giorno, appunto, qualcuno chiese a Chao­ chou: " Qual è la mia essenza? " , e il maestro ch'an rispo­ se: "L'albero si piega; l'uccello vola; il pesce salta; l'ac­ qua è fangosa " . Gli esempi dati da Chao-chou hanno un aspetto dinamico e casuale: il pesce non sempre sal­ ta, l'acqua non sempre è fangosa, dell'albero non pen­ siamo per caratterizzarlo che si piega. Così non penso per caratterizzarmi, come se fosse una mia «essenza»: " adesso ho male a un braccio " , anche se in questo mo­ mento una parte cospicua della mia presenza mentale è accentrata su certi dolori reumatici. In generale amo definirmi in termini meno contingenti e più «comple­ ti»: " sono un uomo " , ad esempio, oppure " sono un ricercatore" , oppure ancora " sono un buddhista " , " sono un milanista " , ecc. ecc. Sono tutte definizioni che (mi) do per fermare il tempo (rassicurare, confer­ mare) o per anticiparlo (progettare, promettere, minac­ ciare) , in ogni caso sono paletti a cui legare il giudizio, mio e altrui, sono cartelli che porto al collo per indiriz­ zare/ giustificare un particolare comportamento. Se non ci fosse sempre una particolarità da sottolineare, la defi39

nizione sarebbe pragmaticamente inutile. Anche quan­ do proclamo "sono un uomo " , l'enfasi è posta a secon­ da delle circostanze su aspetti specifici di una certa dichiarata «umanità» o «virilità», cioè intendo richia­ mare atteggiamenti particolari quali comprensione, coraggio, desiderio (ma anche ostilità, debolezza, rifiu­ to) . Ma quando veramente ci toglieremo targhe, cartel­ li ed etichette saremo in grado di affrontare qualsiasi situazione con il volto più adatto. "L'ho posto di fron­ te al vuoto e al plasmabile, tanto che non sapeva chi o cosa fossi, così che mi ha considerato un filo d'erba sbattuto dal vento o un'onda trascinata dalla corrente. Per questo è fuggito " : così dichiara Chuang-tzu con una certa soddisfazione dopo aver messo in fuga ( " sbi­ gottito " ) un uomo dai poteri invero sovrannaturali, ma che non per questo era meno seccante. In realtà si trat­ tava della quarta visita di questo impiccione a cui Chuang-tzu aveva già mostrato "l'aspetto esteriore del­ la Terra, che fa germogliare incessantemente nell'im­ mobilità " , "l'armoniosa indifferenza del Cielo, in cui non penetrano né nomi, né vantaggi " , e infine ''l'im­ magine del Vuoto supremo, che non ha segno. Ha potuto constatare in me solo un equilibrio fra energia e movimento" 12• Il volto del maestro taoista era di volta in volta diventato l'espressione delle grandi forze che muovono il cosmo fino a giungere al caos originale, «plasmabile» e quindi elusivo, inafferrabile, terrificante. Nell'episodio narrato da Chuang-tzu lo «spaventa­ to» è il seccatore, ma in generale gli «sbigottiti» siamo noi: " Gli uomini hanno paura di dimenticare la propria mente" diceva Huang-po, " temono di precipitare nel 40

Vuoto senza un qualcosa che arresti la loro caduta. Non sanno che il Vuoto non è realmente vuoto, ma è il regno del dharma reale " . E infatti il grande maestro zen Dogen dopo il risveglio nella vacuità esclamava: "Ora vedo chiaramente che la mente è le montagne, i fiumi, e la grande terra; il sole, la luna, le stelle" . Una meravi­ glia ininterrotta, opportunamente commentata da un altro maestro zen, l'americano Aitken: "La ferocia e la sete di sangue non sono la mente, proprio come le montagne e i fiumi? Naturalmente" . Questo dialogo sulla mente ci ·introduce bene nel terzo «regno» della Ghirlanda di fiori, chiamato li shih wu ai fa chieh. È il mondo della non-ostruzione (wu ai) fra li e shih, là dove i modelli d'ordine e le cose-eventi si incontrano generando e rinnovando senza posa il «reale». Va chiarito subito che vi è non-ostruzione nei due sensi: se i princìpi di realtà agiscono sull'informe e generano le cose-eventi, queste non sono affatto stati­ che e nella loro dinamica del sorgere, del permanere e dello scomparire possono a loro volta esprimere nuovi modelli d'ordine. Si parla quindi, di mutua non-ostru­ zione. Prigionieri dei nostri ossificati IO ! ostinatamen­ te cerchiamo di sovrapporre all'esperienza del mondo i «nostri» princìpi d'ordine, disperandoci perché il mon­ do se ne va per i fatti suoi. Come ha scritto Chogyam Trungpa, nel «nostro» incontro con la cosa-evento, "se dobbiamo agire a favore, contro, o in modo indifferen­ te è automaticamente determinato da una burocrazia della sensazione e della percezione" . Ecco cos'è l'io­ mio: una burocrazia interiore che con l'ottusa determi­ nazione di tutte le burocrazie decide del nostro sentire 41

e del nostro percepire, con il solo scopo di perpetuare se stessa ! Nell'Avata1,1tsaka-sutra Maitreya dice al gio­ vane pellegrino Sudhana: "Tutte le cose appaiono co­ me esse fanno [nel mondo] per l'accumulazione e la combinazione di condizioni " . Prima del risveglio l'«ac­ cumulazione» ci sovrasta, ci soffoca, ci acceca; dopo il risveglio saremo in grado di vivere le cose-eventi sotto tutti i rispetti {li) fatti sorgere dalle circostanze e, anco­ ra con le parole di Maitreya, comprenderemo che "tale è l'auto-natura delle cose, che non è completa in se stes­ sa, essendo come un sogno, una visione, un riflesso " . Nel Canto dell'ultima via il maestro taoista Liu-ts'ao (XI sec.) ci dà un esempio preciso di come interagisca­ no li e shih: Nel nostro corpo diventa sudore quando si sente cal­ do, negli occhi diventa lacrime quando si è tristi, nei genitali diventa seme quando ci si sente eccitati, nel naso diventa muco quando si è raffreddati. [Questo principio] scorre dovunque inumidendo tutto il cor­ po; e alla fine non è altro che acqua spirituale. 13

I quattro casi elencati da Liu-ts 'ao tracciano una parabola che parte da un disagio «corporeo», culmina subito in un accidente «spirituale», si ingrossa e discen­ de nell'oscuro cavo del sesso, e si conclude in un bana­ le raffreddore. In ogni punto, comunque, l'acqua non è mai soltanto acqua: è disagio, strazio, appetito, malat­ tia. È acqua «sentita» da noi, è anche «spirito». Corpo/ mente, un'unità inscindibile. Dov'è li e dov'è shih? Il corpo/mente è propriamente il luogo dove li e shih si compenetrano armoniosamente, ossia reciprocamente e 42

senza ostruzione. Il che non vuol dire che le soluzioni che emergono di volta in volta siano effettivamente le migliori dal punto di vista (ad esempio) della propria liberazione dalla burocrazia interiore. Anzi. I maestri incoraggiano; è forse il loro compito prin­ cipale. Lin-chi a proposito del corpo e dei sensi ci dice: Amici, per quanto io posso vedere, la mia intuizione e quella dello stesso [Buddha] sono in perfetto accor­ do. [. ] Non siamo del tutto sufficienti a noi stessi? La luce che emana da ciascuno dei nostri sei sensi non conosce né interruzioni né ostruzioni. ..

Qui Lin-chi aderisce esattamente all'insegnamento originario dello Svegliato, che fra i sensi la mente va conteggiata come sesto senso. La punta della lingua sente il salato dell'acqua di mare, e la riconosce, così la mente è in grado di saggiare i pensieri che affiorano nella sua sfera sensibile, con la stessa cauta partecipa­ zione dell'organo del gusto. Però, come un cane impaz­ zisce inseguendo un odore (è un «naso») così un uomo diventa folle per un'idea (è una «mente») . È evidente quindi che la «luce dei sensi» prima di potersi sprigio­ nare liberamente deve sottrarsi proprio a quel cumulo di condizionamenti che ci imbozzola, riducendoci a cri­ salidi sognanti. L'io-mio, forte della sua burocrazia interiore, ci tiranneggia scandendo: "Sono questo, quel­ lo è già mio, e quell'altro deve esserlo" . S e qui torniamo a wu ai, alla non-ostruzione, essa sembra ora aver incontrato il suo ostacolo principale, il blocco ostruente fondamentale: l'idea di essere. Pur trattandosi di un'ostruzione non più solida dell'idea simmetrica di non-essere, la sua maggiore «concretez43

za» e rilevanza è dovuta a ragioni biologiche, di soprav­ vivenza nostra in quanto esseri senzienti (la fuga di­ sperata di un ragno minacciato ha la stessa radice). Esiste per altro un atteggiamento pratico che porta al progressivo sgretolamento del blocco dell'essere, pur senza erigere la barricata del non-essere. Si può partire da una constatazione del Dhammapada: " Come si pos­ sono intrecciare molte collane da un mucchio di fiori, così pure molte buone cose possono essere compiute da un mortale, una volta che sia nato " . Il commento a questo testo pali fa riferimento a Visakha, una bella e ricca sostenitrice laica del sangha. Con il semplice buon senso di molti scritti buddhisti viene detto che per intrecciare molte ghirlande occorre sia l'abilità dell'ar­ tigiano sia la disponibilità di molti fiori; nello stesso modo per compiere azioni positive (kusala) sono indi­ spensabili fiducia e impegno di ricerca, nonché l'op­ portunità e i mezzi concreti. In Visakha ricchezza inte­ riore e ricchezza esteriore non erano in contrasto. Il primo tratto della via è caratterizzato dall'uso corag­ gioso e generoso delle risorse disponibili per il bene proprio e altrui. Questo «tratto» rischia però di essere interminabile perché il «benefattore» ha cento cose care, e come disse il Buddha a Visakha, " coloro i quali hanno cento cose care, hanno altrettanti cento dolori " ( Udana, 8, 8 ) . Si rimane perciò legati alla ruota della gioia e del dolore, ancora lontani dalla distaccata, com­ pleta partecipazione degli svegliati agli eventi che in­ contrano. La via senza nome si imbocca veramente quando si pratica la non-azione, wu wei, come è stata vissuta ed elaborata dai taoisti e dai maestri ch'an . 44

Nel Huai Nan Tzu, un testo del II secolo prima del­ l' era volgare, è scritto: Alcuni possono affermare che colui che agisce con lo spirito della wu wei è uno che è sereno e non parla, o uno che medita e non si muove. [. .. ] Non ho mai udi­ to una spiegazione simile da nessun saggio.

Cosa sia wu wei viene detto molto bene subito dopo: . . . è che nessun pregiudizio personale interferisce con il tao universale e che nessun desiderio e ossessione conducono fuori strada [. .. ]. Il modello naturale {li) deve guidare l'azione (shih) affinché il potere possa essere esercitato in accordo con le intrinseche pro­ prietà e le tendenze naturali delle cose.

Anche in altre culture è affiorato lo stesso atteggia­ mento: il n#kiima-karman è l'atto libero dal desiderio, privo di impulso individuale volitivo, diretta espressio­ ne di un realizzato della Bhagavad-gitii. Il karma-yoga invoca però l'esistenza di un Signore teistico che possa ricevere ciò a cui abbiamo rinunciato, il frutto del nostro lavoro, nel tao invece non vi è nulla di riferibile ad una «persona», e nel ch 'an la wu wei diventa com­ pletamente laica, avendo come riferimento la «mente ordinaria». In questa tradizione l'insegnamento esplici­ to sulla mente ordinaria viene fatto risalire al dialogo che portò al risveglio di Chao-chou. Chao-chou chiese al suo maestro Ma-tsu: "La Via cos'è? " , e il maestro rispose: "È la mente quotidiana " . Ancora teso nello sforzo della ricerca Chao-chou in45

calzò: "Bisogna mirare ad essa, non è vero? " . Ma-tsu negò che fosse possibile un processo diretto, basato ancora sulla conoscenza: "La Via non ha nulla a che fare col «conoscere» o col «non conoscere». Se hai già raggiunto la Via a cui non si può mirare, è come lo spa­ zio: un vuoto assolutamente limpido. Non puoi forzar­ la nell'uno o nell'altro modo " . Il racconto dell'episodio si conclude così: " In quell'istante Chao-chou si risve­ gliò al significato profondo. La sua mente fu come la limpida luna piena " . Un maestro contemporaneo, Sheng-yen, ha ricordato che i termini cinesi con cui vie­ ne indicata questa mente sono p 'ing e ch 'ang, e stanno a significare sia «ordinario», «quotidiano, sia «a livel­ lo», «costante»; con il primo significato è una mente che è coinvolta nel mondo ordinario, si muove come al solito, ma non si afferra a nulla, con il secondo senso è una mente in uno stato di costante equanimità. In entrambi i casi non c'è attaccamento. La non-azione non è affatto inazione, o, peggio, una specie di abulia. Forse il modo migliore per afferrare il concetto è con­ siderare l'insegnamento che sottende arti marziali come l'aikido o il kendo, dove il corpo e la mente sono com­ pletamente fusi in una risposta immediata, non riflessi­ va, agli attacchi dell'avversario. Certo, tra afferrare il concetto di wu wei e realizzarlo c'è quella dz//erenza che chiamiamo risveglio . . . Essere immersi nel presente, lasciar cadere il rim­ pianto per il passato che non è più, rifiutare l'attesa per il futuro che non è ancora: sono tre aspetti dell' apertu­ ra al mondo cosz' com'è. I discepoli continuano a inter­ rogarsi, e i maestri ricordano che l'azione nel vivere 46

concreto è necessaria. Comunque. Una monaca chiese: " Maestro, quando ci sono progetti tutto diventa robac­ cia. Senza farvi mettere in trappola dai progetti, vi pre­ go di rispondermi " . Chao-chou la rimproverò: " Prendi dell'acqua, mettila nel bricco e falla bollire " . Questa è la prova severa della quotidianità, dove è possibile sot­ trarsi allo smarrimento e ritrovare la via nel breve gesto, semplice proiezione di una necessità immediata. D'altra parte i ruoli che proprio nella quotidianità ricopriamo fanno sempre scattare la trappola dei progetti di cui par­ lava la monaca. È un punto serio e delicato , che va approfondito. Forse dobbiamo semplicemente constatare che se ci troviamo il corpo e la mente ricoperti di targhe, cartel­ li ed etichette (come si diceva poco fa) forse non tutti questi indici puntati verso di noi provengono dall'ine­ sausta attività dell'io-mio. In genere, abbiamo un paio di genitori e ci procuriamo di che vivere. La lingua che parliamo assomma gli sforzi conoscitivi ed espressivi di centinaia di generazioni, tutto ciò che usiamo, anche «solo» nella quotidianità, rappresenta l'esito del lavoro di migliaia di persone sparse in tutto il mondo. Ac­ cettiamo quindi, come faceva saggiamente Visakha, le enormi ricchezze che ci sono state donate, e, senza aggrapparci a esse, ricambiamo il mondo con l'espres­ sione del meglio delle nostre potenzialità. Qualcuno chiese: "Maestro, dov'è concentrata la vostra mente? " . Chao-chou rispose: " Dove non c'è intenzione " , ossia affacciati sul mondo e non riflessi nello specchio del­ l'io-mio. Anche quando dobbiamo progettare un'azio­ ne meno quotidiana del preparare il tè facciamolo con 47

la massima concentrazione, le diverse opportunità si presenteranno spontaneamente davanti a noi, e una volta presa la decisione agiamo intensamente, senza esi­ tazioni. "Per penetrare nelle profondità della propria natura e realizzare quella vera qualità vivente che è con­ servata in ogni circostanza, non c'è nulla di meglio che un'immobile e quieta concentrazione nel mezzo dell'at­ tività " . Così Hakuin, il maestro zen. E non c'è nulla d � aggiungere, alla nostra azione.

Pratica delle montagne che camminano, o di decentramento Nella tradizione del buddhismo indiano l'acqua vie­ ne vissuta molto diversamente a seconda di chi la incontra. Con le parole di Asvabhava: " Gli esseri cele­ stiali la vedono come gioielli, la gente nel mondo la vede come acqua, gli spiriti affamati la vedono come pus e sangue, e i pesci la vedono come un palazzo " . Il fondatore del soto zen , Dogen , porta spesso questo esempio nelle sue riflessioni sulle molte dimensioni del­ la realtà. In uno scritto stupendo, intitolato Siitra delle montagne e delle acque, commenta a lungo un detto di un antico maestro: " Le verdi montagne camminano sempre" . Dogen non ammette incertezze: Se dubitate che le montagne camminino, non cono­ scete il vostro stesso camminare; non è che voi non camminiate, piuttosto non comprendete il vostro stes­ so camminare. Quando conoscerete il vostro stesso camminare, allora dovreste conoscere pienamente il camminare delle verdi montagne.

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Senza preoccupazione

La gru, il gatto, il ladro, camminano senza ru­ more e senza preoccupazione. Essi ottengono il risultato desiderato. Così dovrebbe sempre camminare l'asceta. ( S antideva)

Pace interiore

Quando la casa è vuota e pacifica, lo spirito vi abita naturalmente. (Liu-t'sao)

Niente di speciale

Amico della Via, il dharma dei buddha non richiede nessuno sforzo speciale. Solo agisci in modo ordinario , senza provare di fare qualcosa di particolare. Svuota l'intestino, piscia, vestiti, mangia il tuo riso, e, se ti senti stanco, allora sdraiati. (Lin-chi)

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E aggiunge, come indicazione di metodo: "Dovreste studiare le verdi montagne usando numerosi mondi come vostri modelli" . Quanto all'acqua, e a come è vis­ suta diversamente a seconda degli esseri, Dogen osserva: Non c'è un'acqua originaria, non c'è un'acqua comu­ ne a tutti i tipi di esseri. Ma l'acqua per questi diver­ si tipi di esseri non dipende dalla mente o dal corpo, non si origina dalle azioni, non dipende dal sé o dal­ l' altro. La libertà dell'acqua dipende solo dall'acqua.

Raccolto in meditazione, quieto e consapevole, ri­ cordo le parole di Dogen: "Dovreste studiare le verdi montagne usando numerosi mondi come vostri model­ li" . Richiamo quindi alla mente un «oggetto» che mi si presenta quotidianamente. Potrebbe essere un libro, il tavolino del salotto, il micio di casa. Scelgo il tavolino. Considero il suo uso, da parte mia e dei miei figli e come appare a noi, poi cambio «mondo» e esploro il tavolino con le zampe e la «trombetta» di una mosca, alla ricer­ ca di una macchia umida in grado di alimentarmi. Non divento - per ora - una mosca, ma mi chiedo cosa la mosca vada cercando con tanta attenzione sulla superfi­ cie del tavolino. In un altro «mondo», faccio attenzione al tarlo, che si nutre a crepapelle della cellulosa di cui è costituito il legno, e mi chiedo cosa sia il «tavolino» per il tarlo, dalla nascita alla morte. In un quarto «mondo» non vi sono più esseri senzienti, ma solo atomi, moleco­ le, e radiazioni elettromagnetiche: qui il «tavolino» è un intero cosmo di strutture molecolari, di vibrazioni, oscil­ lazioni, urti, di «calore», di «luce». In un altro «mondo» ancora tutto questo scompare per lasciare soltanto più materia senza qualificazioni, materia che interagisce con 50

altra materia mediante campi gravitazionali. Qui il «tavolino», ombra opaca tra ombre oscure, è una pura massa che è attratta da tutte le altre masse dell'universo e, reciprocamente, le attrae. Estendo, ripercorro e arric­ chisco questa costellazione di mondi, diventando sem­ pre più consapevole che sono infiniti, e che il mio-io è solo uno dei tanti «centri» rispetto al quale il tavolino e tutti gli altri oggetti esistono.

Pratica della pietruzza e dell'alberello "Alla rana del pozzo non si può parlare del mare per­ ché è circoscritta dal suo buco " . Forse noi umani abbia­ mo la possibilità di uscire dal buco, per renderei conto, come continua Chuang-tzu, che " quando si enuncia il numero delle creature si dice diecimila: l'uomo è una di esse " . Da questa consapevolezza nasce una domanda precisa: " Sto tra il Cielo e la Terra come una pietruzza o un alberello su una grande montagna. Essendo con­ scio della mia pochezza, di che menerei vanto ? " . Raccolto in meditazione, quieto e consapevole, mi pongo fra le diecimila creature, e cammino assieme a loro almeno su tre vie. La prima è la via del tempo evo­ lutivo: immediatamente dietro di me i miei genitori, i quattro nonni, e subito indistinta la folla degli avi; un po' più indietro i miei antenati si ricoprono di pelo, si incurvano, si sforzano di reggere la posizione eretta; ancora più a ritroso posso esplorare abissi profondi popolati di infiniti esseri, tutti miei progenitori, mentre davanti a me ho un ventaglio di futuri possibili, traslu51

cidi, indefiniti. La seconda via è quella percorsa dal­ l'umanità presente. Non riesco nemmeno a concepire i miliardi di esseri umani miei coetanei, ma se mi ritrovo in un luogo qualunque (un treno, un supermercato) posso valutare quanto io sia uno e nessuno. La terza via è quella calpestata adesso dalle altre diecimila creature, quelle che popolano ogni angolino della terra, che ora non riconosco più come parenti, e che pure, come un milione di anni fa, mi nutrono con il loro corpo. Ri­ cordo ora le parole di Chuang-tzu: " Sto tra il Cielo e la Terra come una pietruzza o un alberello su una grande montagna " . Mi trovo in equilibrio fra il Cielo senza nomi né vantaggi, e la Terra immobile madre di tutte le diecimila creature. Sono la pietruzza, ridicolmente pic­ cola, che però ha in sé l'intera storia della montagna; pietruzza che ritrovereste lì o lì vicino anche dopo mil­ le anni. Sono l'alberello, contorto e robusto, cresciuto al limite delle possibilità di sopravvivenza, ben radicato nella montagna, e da lei nutrito. Uomo, pietruzza e albe­ rello, siamo sempre tentati di «menar vanto» di esiste­ re. Grande ricchezza, infatti. Fra le diecimila creature.

Samu, la pratica della casalinga

Tso wu indica nel ch 'an il lavoro quotidiano inteso come pratica di distacco e di ascesi. Così il lavoro per sostenere se stesso e la comunità monastica diventa per ogni monaco un momento di continuità con la pratica formale di meditazione seduta. Il maestro che più di ogni altro operò per la diffusione del tso wu fu Pai52

chang. Quando, ormai anziano e debole, i suoi allievi gli nascosero la zappa e gli altri attrezzi per impedirgli di lavorare nei campi, Pai-chang rifiutò il cibo, pro­ nunciando una frase divenuta poi famosa: " Un giorno senza lavorare ( tso wu ) è un giorno senza mangiare " . In giapponese i due caratteri cinesi sono letti samu, termi­ ne con cui è entrato nella regola quotidiana dei mona­ steri zen. Ma Dogen parla del samu nel contesto di ciò che chiama pratica continua (gyoji) . " Nella grande via dei patriarchi Buddha c'è sempre una pratica suprema e continua, [. . .] è pratica pura e continua che trascen­ de la contrapposizione di sé e altri " . La grande via non sarebbe tale se passasse solo per le sale di meditazione dei monasteri di legno e pietra. "Questa pratica conti­ nua, consistente nel non abbandonare il monastero, è il regno della libertà dal condizionamento, allo stesso modo in cui il cielo è libero dalle impronte degli uccel­ li che volano; è il regno in cui si è in completa unità con l'universo intero " . E Dogen aggiunge: " L'universo inte­ ro è il monastero " 14• L'opera quotidiana diventa prati­ ca continua quando ogni gesto realizza la pratica della grande via. È l'insegnamento che (senza intenzione) mi impartisce ogni giorno mia moglie, nei suoi «lavori di casa». Così facendo lei, cattolica, rende la nostra casa la casa del Signore.

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SHIH SHIH WU AI: IL RISVEGLIO NELLA TOTALITÀ

Fra i gioielli racchiusi nella mole dell'Avalaf?Zsaka­ siitra vi è il racconto dell'itinerario di ricerca di un gio­ vane, Sudhana, che viene mandato da un «buon amico» all'altro per raccogliere consigli e indicazioni in grado di aiutare la sua ascesi. Al termine di una lunga seque­ la di cinquantatré incontri, il giovane viene condotto dal Buddha Maitreya in un'immensa torre, la torre di Vairocana, al cui interno Sudhana vive un'esperienza stupefacente. " La torre è grande e spaziosa come il cie­ lo stesso. Il suolo è pavimentato di innumerevoli pietre preziose, e vi sono nella torre innumerevoli palazzi, portici, finestre, scalinate . . . tutto fatto delle sette spe­ cie di pietre preziose" . Ovunque " campanelle tintinna­ no nella brezza, fanno capolino fiori, dondolano ghir­ lande" , e ancora miriadi di "meravigliosi uccelli stanno cantando, fiori di loto sono in sboccio, grandi alberi si dispongono in lunghi filari" . Ma ciò che più colpisce Sudhana è che " dentro la torre, spaziosa e squisita­ mente decorata, vi sono anche centinaia di migliaia di miriadi di torri, ciascuna delle quali è squisitamente decorata come la stessa torre principale e spaziosa come il cielo " . Le innumerevoli torri non si nascondo­ no e sovrastano l'un l'altra: " ciascuna conserva la sua esistenza individuale in perfetta armonia con tutto il resto; non vi è nulla che impedisce a una torre di esse­ re fusa con le altre, prese singolarmente e collettiva54

mente " , e infine " Sudhana, il giovane pellegrino, vede se stesso in tutte le torri, come in ciascuna singola tor­ re, dove tutto è contenuto in ogni cosa e ciascuna cosa contiene tutto " [dal Ga!Jt},avyiiha, nella traduzione di Suzuki] . Questa è la descrizione di uno Svegliato indiano di ciò che nel Hua Y en è chiamato shih shih wu ai /a chieh, il mondo della non-ostruzione fra cosa-evento e cosa-evento. Un lunga espressione - ostica - per desi­ gnare ciò che i vedenti di ogni epoca e di ogni credo (o senza credo) hanno sempre indicato: " S appi che il mondo tutto intero è uno specchio/ e in ogni atomo si trovano cento soli fiammeggianti. / Se tu fendi il cuore di una sola goccia d'acqua/ ne scaturiscono cento puri oceani " (Mahmud Shabestari) 1 5 • " Sappi che vi sono miriadi di forme e centinaia di erbe su tutta la terra, e tuttavia ogni erba e ciascuna forma di per sé è l'intera terra. Lo studio di questo è l'inizio della pratica" (Dogen) . " Le stelle e il tutto fa danzare il sole. Resti immoto? Del tutto non fai parte" (Angelus Silesius) 1 6 • Che la visione di Sudhana sia possibile dipende da almeno due condizioni. La prima è espressa più volte nel Siitra del cuore, una scrittura cara a tutti i pratican­ ti zen: "la forma è vacuità e proprio la vacuità è forma" . L a «forma», il «corpo», il «senso» delle cose appare quando vi è un soggetto che costruisce un oggetto sul­ la base della propria comprensione del mondo, così che la forma dell'oggetto è una pura proiezione del sogget­ to, è un'illusione, è priva di essenza propria, è vacuità. Ma è proprio questa stessa vacuità dell'oggetto a far sì che esso possa apparire con la forma «adatta» per un 55

particolare soggetto: la vacuità è forma. Ora, come dice Silesius, se resti immoto non arrivi a far parte del tutto, ossia se ti irrigidisci in quella forma di te stesso che tu percepisci, allora poni l'ostacolo fondamentale al risve­ glio. Lin-chi fu molto esplicito: Se vuoi essere libero di nascere o di morire, di anda­ re e di stare come uno si mette o si toglie un vestito, allora devi comprendere in questo stesso momento che la persona che sta ascoltando qui il dharma non ha né forma, né caratteristiche, né radice, né inizio, né luogo dove abitare, e tuttavia è vibrantemente vivo.

Vivo ! è il corpo della donna che ascolta Lin-chi; vivo ! è il corpo dell'uomo che ogni mattina prima del­ l'alba sale sul treno per andare a lavorare; vivo ! è il cor­ po di chi legge queste righe. Chi cammina sulla via sen­ za nome non è uno spirito disincarnato o un'anima in lista d'attesa per il giudizio. È un corpo-mente perfet­ tamente in grado di percorrerla. Dogen ha chiarito mol­ ti aspetti dello " studio della via con il corpo-mente" : " Studiare la via con il corpo significa studiare la via con il vostro proprio corpo. È lo studio della via che usa questo ammasso di carne rossa" . Fiduciosi nella nostra adeguatezza alla via vi progrediamo e ci accorgiamo che "il corpo proviene dallo studio della via. Ogni cosa che proviene dallo studio della via è il vero corpo umano " . Lo studio della via è passione, partecipazione, compas­ sione, grido e gesto d'aiuto, contemplazione e silenzio. Il corpo-mente si rafforza e si dilata, si avvicina ad esse­ re il nostro vero corpo: " L'intero mondo nelle dieci direzioni non è che il vero corpo umano. Il venire e 56

l'andare della nascita e della morte sono il vero corpo umano " (Dogen) . Dogen torna più volte sulla questione perché è un punto focale del suo insegnamento: " Quale fede può mai avere chi non conosce il vero corpo, che è il pino di primavera, o la vera realtà che è, così com'è, il cri­ santemo d'autunno? Come può mai riuscire a recidere le radici di nascita e morte? " . In effetti il processo stes­ so di (ap)prendimento di questo «corpo esteso» recide le dolorose radici di nascita e morte perché si nasce e si muore infinite volte, con dolcezza e con strazio, iden­ tificandosi con l'altro. " Come sono io così sono gli altri, e così come sono gli altri sono io " , ha detto il Buddha. " Sei simile a tutte le cose e nessuna è a te eterogenea " , h a insistito un calzolaio di nome Jakob Boehme 1 7 , men­ tre lo Zenrin è persino e finalmente giocoso: Nascondi t e stesso in ogni singola cosa.

Quale sollievo diventare un rospetto grigio che salta nell'erba del giardino ! " Identificazione significa non differenziazione, non fare alcuna distinzione fra sé e gli altri" , ha insistito Dogen, e ha espresso potentemente la forza di questo processo, una volta che sia awiato: Con il passare del tempo il sé e gli altri diventano uno. L'identificazione è come l'oceano, che non respinge nessuna acqua, qualunque sia la sua origine, e tutte le acque, allora, si riuniscono per formare l'oceano.

Siamo così giunti ad un luogo cui conducono tutte le pratiche di ascesi, ed è per questo motivo che mi 57

sono permesso di citare parole di figli d'Abramo. Poi­ ché finora mi sono affacciato solo per qualche istante nel mondo di shih shih wu ai, non ho potuto constata­ re se oltre al lampeggiante andirivieni dei principianti, gli stessi maestri non si dividano nuovamente. Forse alcuni aspettano che "I fiumi battano le mani, esultino insieme le montagne / davanti al Signore che viene " (Salmo 97 , 8-9) , altri varcheranno "la porta della miste­ riosa femmina" , la porta che "è la scaturigine del Cielo e della Terra " ( Tao Te Ching, 6, 3 -4 ) , altri ancora sono semplicemente svaniti. Però, tutto sommato, la faccen­ da della loro sorte è poco importante, come ha scritto un poeta giapponese: Del tutto a parte dalla nostra religione ci sono i fiori di pruno ci sono i fiori di ciliegio.

Pratica dello stornello Il mondo di shih shih wu ai permette innumerevoli pratiche gioiose, pigre, immemori. Giochi, insomma. Purtroppo sono irrimediabilmente serioso, così, anche qui, ho voluto far affiorare appigli e fondamenti, e ne ho trovati in abbondanza. Essendo questo il luogo del­ la non ostruzione (anche fra le religioni ufficiali) pos­ siamo leggere Suso: " Un uomo può non afferrare le cose: sia ozioso, così le cose afferreranno lui " , oppure Dogen: " Che il sé si faccia avanti e confermi la miriade 58

La pratica

Assimilati all'inconsapevolezza delle creature, tienti in profonda comunanza con esse nella spontaneità. Sciogli il tuo cuore e libera il tuo spirito, sii indifferente e senza anima. (Chuang-tzu)

La meditazione

Confucio si sentì a disagio e chiese: " Cosa significa «mi siedo e dimentico»? " . Yen-hui rispose: " Lascio andare le membra del mio corpo e bandisco l'intelligenza. Mi separo dal­ la forma e accantono la conoscenza. Mi iden­ tifico con la grande totalità. Questo significa: «Mi siedo e dimentico» " . (Chuang-tzu)

Quiete interiore

Sulla montagna il monaco siede in meditazione.

Ai piedi della montagna si riposano le vacche. 18

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di cose è detto illusione/ che la miriade di cose si fac­ cia avanti e confermi il sé è detto risveglio " . Ma il con­ siglio più adatto per godersi il mondo di shih shih wu ai è quello dello Zenrin: N ascondi te stesso in ogni singola cosa.

Ricordo, ad esempio, quando nella grande piazza i richiami degli stornelli mi hanno costretto a seguire il volo dello stormo, un turbine avvolgente e chiassoso. Inafferrabile, imprevedibile, senza forma e senza capo. Mi preparo allora a volare con loro. Raccolto in medi­ tazione, quieto e consapevole, inizio la pratica perden­ do peso e dimensione, fino a sentirmi aggrappato e dondolante su un ramoscello di tiglio, poco lontane da me le grondaie di un palazzo, sotto, il via-vai, il rumo­ re e la puzza del traffico. Né il palazzo, né il traffico mi interessano minimamente. Sono concentrato sulla pre­ sa delle mie zampe sull'esile rametto, e mi rendo conto che occorre essere leggero, leggerissimo, per oscillare tranquillamente come fanno gli innumerevoli compagni intorno a me. Mentre tutto questo dondolìo a quindici metri d'altezza mi dà ancora il batticuore non ho più tempo per riflettere perché uno dopo l'altro i miei vici­ ni sono volati via, e improvvisamente so che devo la­ sciare la presa anch'io. Per un istante cado, ma il richia­ mo dello stormo che si va riformando è troppo forte, e comincio a volare. In ogni momento sento di far parte di questa nuvola, ora sui bordi, ora al centro, ora, addi­ rittura, mi stanno seguendo tutti quanti in picchiata verticale verso quel grande uomo di bronzo . I miei 60

occhi vedono nitidamente i compagni, i tetti, gli alberi, la piazza; le ali e le penne della coda reagiscono allo sforzo delle brusche virate, delle impennate; le piume del petto si appiattiscono nella vertigine delle cadute. Non mi importa dove vado, o dove per un po' mi poso. Non lascio tracce, volo, volo, volo.

Pratica del vero corpo Sulla base dell'Avata1J1saka-sutra ogni essere è com­ penetrato con tutti gli altri, pur conservando la propria individualità. Un filo d'erba è l'intero universo, ma è sempre quel filo d'erba, degno di rispetto e di atten­ zione. Tutti gli uomini e le donne hanno un corpo, anche i più «spirituali» fra noi. Da esso dobbiamo par­ tire, fiduciosamente, per riottenere ciò che è nostro, il nostro vero corpo. Con le parole di Dogen: L'intero universo è il vero corpo umano, l'intero universo è la porta della liberazione, l'intero universo è l'occhio di Vairocana, l'intero universo è il corpo di dharma del sé.

Nell'Avata1J1saka-sutra vi è una meravigliosa descri­ zione del cosmo come insieme di universi locali, cia­ scuno con il suo particolare splendore e la sua partico­ lare luce: Alcuni mondi di pura luce sono sospesi saldamente nello spazio . . . alcuni mondi sono simili a ruote incandescenti . . . Alcuni sono sottili, alcuni piccoli,

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infatti hanno innumerevoli forme e ruotano in vari modi . . . Alcuni hanno la forma di fiori, lampade adorne di gioielli, alcuni sono vasti come l'oceano, ruotanti come una ruota che gira . . .

E questo indescrivibile fulgore è in continuo muta­ mento: Insondabili sono gli innumerevoli mondi nella totalità degli universi. Molti mondi sono nuovi o sono cadenti, mentre molti altri presto cesseranno di essere. Come foglie in una foresta, alcuni fioriscono, altri cadono . . .

Con gli occhi ancora pieni di queste immagini mi sie­ do sul cuscino di meditazione con la spina dorsale ben dritta. Raccolto, quieto e consapevole, osservo il mio respiro. Tra il bordo delle narici e il ventre l'aria pene­ tra e riemerge, sprofonda e riaffiora. Sento il corpo di­ ventare cavo e dilatato. Si contrae e si espande, tran­ quillo, come l'andare e il venire della risacca. Poi il movimento diventa sempre più ampio, lento e possen­ te come una grande marea sotto la luna piena, e senza transizione la luna stessa è «Sotto» di me, in un attimo il sole è già lontano, stella tra le stelle. Proiettata nel vuoto, senza tempo, la pura consapevolezza (di essere) segue le correnti di luce che fluiscono tra le galassie, scorre lungo le tensioni che curvano lo spazio fra gli ammassi di stelle. Si esaurisce ogni moto. Contemplo gli universi che sono il mio corpo: come foglie in una foresta, alcuni fioriscono, altri cadono . . . 62

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Data la natura pratica della collana sono date qui di seguito solo le indi­ cazioni bibliografiche dei testi reperibili in italiano. 1 La raccolta della roccia blu, a cura di T. e ]. C. Cleary, 3 voll . , Roma, Ubaldini, 1 979, caso n . 3 6 . , vol. II, p. 1 7 . ' Tao Te Ching, trad. d i F. Tomassini, Milano, TEA, 1994 , cap. 4 1 , v . 2 1 , p . 90. 1 Zen radicale, a cura di Y. Hoffmann, Roma, Ubaldini, 1979, pp. 95 . ' Chuang-tzu, a cura di F. Tomassini, Milano, TEA, 1989, n. 160, p. 178. ' G. C. C . Chang, La dottrina buddhista della totalità, Roma, Ubaldini, 1 974, p. 169.

Mumonkan. La porta senza porta, a cura di Zenkei Shibayama, Roma, Ubaldini, 1977, caso n. 6, p. 64 . 7 A. Watts, L a via dello zen, Milano, Feltrinelli, 1 979, p . 1 99. ']. Needham, Scienza e civiltà in Cina, vol. Il, Storia del pensiero scien­ tz/ico, Torino, Einaudi, 1 983 , pp. 5 1 , 7 3 , 322. 6

' L 'orma della disciplina (Dhammapada), a cura di E. Frola, Torino, Boringhieri, 1979, v. 92 , p. 3 2 . 10 I riferimenti di semiotica sono tratti da: U. Eco, Semiotica e filosofia de/ linguaggio, Torino, Einaudi, 1 984 , pp. 5 1 , 53 -54. " Samyutta-nikaya, XXII, 59, cit. da E. Conze, Il pensiero del buddhz� smo indiano, Roma, Mediterranee, 1 988, p. 34. " Qui ho scelto: Zhuang-zi, a cura di L. Kia-hway, Milano, Adelphi, 1 993 , p. 7 3 . " Il libro dell'equilibrio e dell'armonia, a cura d i T. Cleary, Milano, Mondadori, 1 99 1 , p. 29. " Dogen, in: Come allevare un bue, a cura di F. D. Cook, Roma, Ubaldini, 1 98 1 , pp. 155 , 1 6 1 , 163 . " Cit. da: E . d e Vitray-Meyerovitch ( a cura di) , I mistici dell'islam. Antologia del sufismo, trad. it. di S . Tubino, Parma, Guanda, 1 99 1 , p. 299. "'A. Silesius, L'altro io di Dio, a cura di L. Parinetto, Milano, Mimesis, 1 99 1 , p. 149. "M. Baldini, Aforismi mistici, Milano, Mondadori, 1 994, p . 1 3 7 . " Yoka Daishi, I l canto dell'immediato satori, Milano, Mondadori, 1 994, cit. dal commento di T. Deshimaru, p. 74.

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