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Italian Pages 181/185 [185] Year 2011
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Il Giappom• oltre la maschera (japan Unmasked) si presenta come una ricognizione agile e fluida che cerca di fotografare spaccati significativi del Giappone contemporaneo, senza tralasciare uno sguardo, dovuto, alle radici del suo passato storico-culturale. Il lavoro di Lafayettc De Mente, autore di questo volume e di numerosissimi altri saggi sul Giappone, pone in risalto le dinamiche relazionali c sociali situandole nei diversi contesti: economia, politica, istruzione, quotidianità. Francesco Vitucci, da appassionato studioso della società nipponica, ha intravisto in questo saggio spunti interessanti per un contributo di conoscenza sugli stili comunicativi, relazionali e comportamentali rappresentativi di questo Paese. Boyé Lafayette De Mente, docente presso la T hunderbird School of Global Management (Giendale, Arizona, Stati Uniti) è un noto esperto di culture estremo-orientali. ed in particolare di quella giapponese. Sin dalla fine degli anni Cinquanta ha contribuito alla divulgazione della cultura nipponica nel Nord·America. A lui si deve la diffusione dei concetti giapponesi di \\7a, Nemawashi. Kai1.m all'interno della società americana. È stato editore di svariati quotidiani e riviste a Tokyo. Tra le sue numerose opere sulla cultura nipponica ]apan 's Cultura/ Code \\7ords. Etiquelle Guide lo Japan, Samurai Code. Francesco Vitucci, è docente di Lingua Giapponese presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell'Università di Catania e collaboratore presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Bologna. Autore di numerosi saggi sulla lingua e la cultura giapponese, ha pubblicato NIHON ]P (2007), Eserci1.iario Orale di Giapponese Moderno (2009), NIHON ]P 2 (2010). In Giappone è stato docente presso la Keio University (Tokyo) e la Seibi Gakuen University (Tokyo). Ha partecipato alla progettazione di programmi multimediali presso la NHK cd è co-fondatore dell'Associazione Culturale per la didattica del Giapponese Moderno Takamori. (www.takamori.it)
ISBN 978-88-491-3516-9
C84866
LEXIS
Biblioteca di scienze umane
Boyé Lafayette De Mente
Il Giappone oltre la maschera Premessa di
Rita Casadei Traduzione e cura di
Francesco Vitucci
© 2011 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna Titolo originale: Japan Unmasked. The Character & Culture of the Japanese © 2005 Boyé Lafayette De Mente
Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti.
De Mente, Boyé Lafayette Il Giappone oltre la maschera / Boyé Lafayette De Mente. Premessa di Rita Casadei. Traduzione e cura di Francesco Vitucci. – Bologna : CLUEB, 2011 181 p. ; 21 cm (Lexis. Biblioteca di scienze umane) ISBN 978-88-491-3516-9
In copertina: Tavolette votive del tempio Fushimi-Inari Jinja (Kyoto, 2010), www.takamori.it Progetto grafico di copertina di: Oriano Sportelli (www.studionegativo.com)
CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com
INDICE
Premessa di Rita Casadei .....................................................................
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Prefazione – Aspetti di un Giappone “reale” ...................................... Capitolo 1 – Dissipare il mito di un Giappone enigmatico ................. Capitolo 2 – La sfida di essere giapponesi .......................................... Capitolo 3 – La sfida di parlare il giapponese ..................................... Capitolo 4 – Un dilemma giapponese: le politiche contro i princìpi ... Capitolo 5 – Mai dipendere dalla logica in Giappone ......................... Capitolo 6 – Potrà mai il Giappone immettersi nell’energia cosmica? Capitolo 7 – Barriere culturali ed extralegali per gli stranieri in Giappone ................................................................................................ Capitolo 8 – Confrontarsi con un Giappone ateo ................................ Capitolo 9 – Giocare in un campo perennemente avverso .................. Capitolo 10 – Come la mediocrità può “fare carriera” in Giappone .. Capitolo 11 – Come i giapponesi percepiscono ed utilizzano le loro conoscenze rispetto agli occidentali ..................................................
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Capitolo 12 – La sindrome del “rischio morale” ................................ Capitolo 13 – Sul vittimismo giapponese e su come evitare le responsabilità ............................................................................................
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Capitolo 14 – Il sistema inferiore-superiore in Giappone ................... Capitolo 15 – “Soft” management contro “Hard” management ........
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Capitolo 16 – La sindrome del suicidio in Giappone ........................... Capitolo 17 – La cultura giapponese contro il management scientifico Capitolo 18 – L’azienda giapponese del futuro ................................... Capitolo 19 – Le otto regole d’oro per il management giapponese: sono veramente destinati al fallimento? ............................................
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47 51 55 59 63
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Capitolo 20 – L’allergia giapponese per gli occidentali .....................
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Capitolo 21 – L’ossessione della “sgiapponesizzazione” ................... Capitolo 22 – La mentalità dei burocrati giapponesi ..........................
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Capitolo 23 – Perché le azioni in Giappone sono più eloquenti delle parole ..................................................................................................
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Capitolo 24 – Yakuza: la vera storia degli onorevoli gangster ............
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Capitolo 25 – Il contributo dello Zen alla potenza economica giapponese ................................................................................................. Capitolo 26 – Come il Giappone è assurto a superpotenza economica Capitolo 27 – Il biasimo governa il Giappone ..................................... Capitolo 28 – Ijime: bullismo nelle scuole giapponesi ........................ Capitolo 29 – L’inferno delle scuole giapponesi ................................. Capitolo 30 – Sulla crisi del management giapponese ........................ Capitolo 31 – Nihonteki: uno dei segreti del successo giapponese ..... Capitolo 32 – Vendere sesso in un bicchiere. Ovvero: il mercato del piacere in Giappone ....................................................................... Capitolo 33 – La lotta giapponese per raggiungere la perfezione ....... Capitolo 34 – Il mito giapponese dell’internazionalizzazione ............. Capitolo 35 – Sintonizzarsi sulla telepatia culturale giapponese ........ Capitolo 36 – L’approccio discorsivo occidentale contro il Wa/Sa giapponese ............................................................................................. Capitolo 37 – Comprendere la mentalità dei businessmen giapponesi Capitolo 38 – Punti di forza e di debolezza dei giapponesi .................
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Premessa Rita Casadei
Il collega Francesco Vitucci, di ritorno da uno dei suoi frequenti soggiorni in Giappone, mi ha chiesto di contribuire con una Premessa alla traduzione di questa opera divulgativa sulla cultura giapponese. Il titolo Japan Unmasked (di Boyé Lafayette De Mente) si è presentato intrigante e l’idea di arricchire il repertorio, disponibile in lingua italiana, della letteratura sul Giappone si è configurato come uno sforzo meritevole. Ed è proprio sotto questo aspetto che il presente lavoro merita di essere considerato: una ricognizione agile e fluida che cerca di fotografare spaccati significativi del Giappone contemporaneo, senza tralasciare uno sguardo, dovuto, alle radici del suo passato storico-culturale. Francesco Vitucci, da appassionato studioso della società nipponica – e perfetto padrone della lingua giapponese – ha intravisto in questo saggio spunti interessanti per un contributo di conoscenza sugli stili comunicativi, relazionali e comportamentali rappresentativi di questo Paese. Il lavoro di De Mente, autore di questo volume e di numerosissimi altri saggi sul Giappone, pone in risalto le dinamiche relazionali e sociali situandole nei diversi contesti: economia, politica, istruzione, quotidianità. Ciò che si percepisce è l’intenzione di spiegare certe peculiarità comportamentali che troppo spesso vengono fraintese o addirittura stigmatizzate in forma caricaturale. I contesti privilegiati riguardano l’area delle interazioni sociali ed economiche tra il Giappone e i paesi industrializzati dell’Occidente. L’autore ci restituisce fotografie disincantate, che ci inducono a riflettere sulla stereotipia impiegata come unica lente interpretativa. In questo, risulta interessante la scelta di riportare situazioni riconducibili ad ambiti formali ed informali, ad indicare una pluralità di stili comportamentali che di fatto rendono ragione della ricchezza e della complessità della cultura nipponica. Il teleobiettivo con cui De Mente realizza questo “repertorio fotografico”
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– seppur rappresentato in forma narrativa – è quello tipicamente occidentale orientato a mostrare e dimostrare quegli aspetti contraddittori e paradossali con cui il paese del Sol Levante si presenta. Paradosso e contraddizione sono evidentemente dispositivi categoriali con cui l’Occidente classifica concetti, espressioni, condotte culturali che non padroneggia o che non riconosce se non attraverso criteri di contrapposizione dialettica. Il tentativo di questo libro è di narrare situazioni all’interno delle quali deporre gli “occhiali” della classificazione per cercare di vedere ad “occhio nudo” la realtà e la diversità delle dinamiche relazionali vissute a quella latitudine geografica e culturale. Il titolo Japan Unmasked fa riferimento allo sforzo di decifrazione tra ciò che l’Occidente si aspetta ed attende e ciò che effettivamente il Giappone rivela. È chiaro che nell’incontro tra sistemi linguistici, culturali e sociali così distanti tra loro si sperimentino sensazioni molto diversificate: curiosità, fascinazione e trasporto da un parte, inadeguatezza, smarrimento e avversione dall’altra. Attorno al Giappone aleggia spesso un’aura di mistero, volta a rimarcare l’impenetrabilità di una cultura percepita come ermetica e refrattaria all’ansia investigativa degli stranieri, soprattutto occidentali. Nella lettura della storia di questo Paese rimangono impressi i famosi duecentocinquant’anni dell’era Tokugawa – periodo in cui fu instaurato il Sakoku – che segnarono il lungo percorso di chiusura ed isolamento rispetto al mondo straniero. Poco invece conosciamo del pluralismo linguistico, filosofico e religioso che caratterizza il Giappone, delle “contaminazioni” cui si è aperto – in particolare con i vicini paesi India, Cina, Corea – e attraverso cui ha saputo riformulare, nel corso della storia, una propria unicità ed identità culturale. Non è infrequente riscontrare forme sincretiche in cui confluiscono orientamenti filosofici per noi distinti, ma che dalla prospettiva di una filosofia intesa come dimensione esistenziale-esperienziale non possono che collocarsi in modalità di indiscussa interdipendenza ed integrazione. La compresenza integrata di Confucianesimo, Buddhismo, Shintoismo caratterizza l’humus su cui si radicano gli stili comportamentali individuali e collettivi, caratterizzando ancora in forma di condotta rituale dinamiche di organizzazione e regolamentazione politiche, sociali ed economiche. Nel libro si sottolineano spesso situazioni di empasse in cui lo straniero in Giappone si imbatte: la ritualità si rivela nella sua forza comunicativa, ancora più potente della già complessa lingua giapponese. La ritualità richiede uno sforzo di decifrazione di un linguaggio sim-
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bolico che frequentemente è taciuto dalla comunicazione orale e scritta, ma che essa stessa sottintende. È in quel non detto ma agito dalla ritualità che si gioca la “sfida” della reciproca comprensione. Una caratteristica che tutti noi abbiamo avuto modo di notare è la modalità del saluto: l’inchino. Un gesto carico di valenze simboliche, che rivela quanto anche la dimensione corporea sia valorizzata nell’apprendimento – inteso come interiorizzazione, identificazione e comunicazione – dei valori sociali espressi nelle modalità relazionali. Si può parlare di un’educazione attraverso il gesto che affonda le sue origini in un profondo e lontano passato, ma proprio perché rivelatasi come sistema di pratica, condotta, comportamento è restata, e dura fino ad oggi, come modalità familiare e naturale, nell’esperienza personale. Parlare e agire appropriatamente costituiscono un concetto di cultura come conoscenza e come comportamento: la persona si esprime attraverso parole e gesti che liberano nell’interlocutore un’eco, facendo risuonare quello stesso repertorio di sistemi simbolico-valoriali che stanno alla base della relazione intepersonale intesa come condivisione, appartenenza e consenso sociale. Pur non condivisibile in tutte le sue parti, la riflessione e l’interpretazione che l’autore restituisce è sufficientemente carica di suggestioni volte a dare l’idea di quanta cautela dovremmo impiegare nel farci prossimi a questa cultura: la medesima cautela e il medesimo rispetto che noi stessi siamo inclini ad esigere quando altri si accostano con i loro criteri di valutazione al sistema culturale cui apparteniamo. La banalizzazione e l’approccio superificiale feriscono tanto la sensibilità di chi è oggetto di giudizio tanto lo sguardo di chi giudica: si tratta di una ferita che provoca dispersione di intenti e di idee, e penalizza la volontà di reciproca conoscenza e rispetto. Per la natura divulgativa di questo saggio non sarebbe giusto pretendere quel rigore e quella tensione all’approfondimento che molte dimensioni della cultura giapponese esigono. L’autore spesso invita ad accostare stili comportamentali odierni a sensibilità estetiche, filosofiche e religiose molto complesse che hanno segnato la storia culturale del Giappone e che nel corso del tempo, pur in forma e misura diverse, rimangono matrice fondamentale per la sua decifrazione. I rimandi non esauriscono, evidentemente, la comprensione di concetti molto complessi per i quali non bastano conoscenza e speculazione; piuttosto occorrerebbe la disponibilità ad un’immersione filosofico-esperienziale senza peraltro avere pretese di esaustività interpretativa. L’autore si sforza di creare collegamenti tra le condotte comportamentali,
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individuali, collettive e il sistema simbolico-valoriale di riferimento. Ne risulta una rete di rimandi che vuole porsi come mappa per orientarsi all’interno di un ambiente non familiare, che prima ancora di essere giudicato necessita di essere visto: per questo accostiamo questo saggio ad una fotografia che ambisce a rendere l’immagine del proprio soggetto oltre alla sua piatta apparenza. A tal fine si cercano prospettive, angolazioni e persino fughe di orizzonti volti a rendere possibile uno sguardo sul Giappone oltre la maschera. La domanda sulla maschera rimane… di che maschera stiamo parlando? Quella che gli è attribuita da chi lo osserva o quella che lo stesso Giappone indossa? Credo potremmo fermarci a considerare la maschera nella sua funzione più pratica, senza addentrarci troppo in insidiose speculazioni. Intendiamo, dunque, la maschera come mezzo di risonanza, di propagazione del suono e di un messaggio che ci piace intendere come richiamo al reciproco ascolto, alla rimozione del pregiudizio, all’incanto rispetto all’indecifrabile.
Prefazione
Aspetti di un Giappone “reale”
I primi occidentali che presero residenza in Giappone, fatto epocale avvenuto a metà del Cinquecento, furono profondamente colpiti dal carattere e dalla cultura dei giapponesi. Pare, infatti, che essi avessero trovato alcuni aspetti della cultura così piacevoli e soddisfacenti che si sentirono, a quanto pare, quasi in paradiso. In forte contrasto con ciò, essi trovarono però scioccanti o repellenti altri elementi di questa stessa cultura al punto da non poterne approfondire ulteriormente la comprensione. Agli occhi dei nuovi arrivati occidentali, sembrava infatti che per ogni aspetto positivo rinvenuto in questa società ne corrispondesse inesorabilmente uno negativo. Ma non solo. Le contraddizioni rinvenute nel carattere e nelle attitudini dei giapponesi parevano così frequenti che i primi stranieri giunti in Giappone dubitarono addirittura delle capacità intellettuali di questo popolo. Più di quattrocento anni sono passati da questi primi incontri e, nonostante più di un secolo di rapporti e scambi culturali tra il Sol Levante ed il resto del mondo, le differenze culturali, nel bene e nel male, rappresentano ancora un elemento significativo in tutte le relazioni intrattenute dal Giappone con i suoi partner stranieri. Le ragioni di queste differenze non sono difficili da immaginare: la mentalità tipica giapponese è infatti un composto di fattori filosofici e metafisici derivati dallo Shintoismo, dal Buddhismo, dal Confucianesimo, dal Taoismo e dallo Zen laddove quella occidentale è principalmente un prodotto derivato dai temi maggiori della cristianità fusi con la logica e lo scientismo. Ancora oggi, le differenze culturali tra Giappone ed Occidente creano ostacoli comunicativi che portano inesorabilmente a frizioni e ad incomprensioni reciproche. In Occidente, purtroppo, il livello di conoscenza della cultura nipponica rimane ancora estremamente superficiale, dato il numero ancora esiguo di mediatori culturali capaci di sti-
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molare una significativa comprensione delle attitudini giapponesi e di promuovere efficaci dinamiche di reciproca comunicazione. Vi sono infatti intere aree all’interno delle relazioni interpersonali e commerciali dove le differenze culturali non possono essere superate favorendo una parte a scapito dell’altra o, peggio ancora, ignorandone completamente l’esistenza. L’unica soluzione proponibile pare invece consistere nella negoziazione di un compromesso che possa favorire un’interazione paritaria tra le parti. In questo volume, ho cercato di identificare ed illustrare le aree di maggior interesse riguardo le attitudini ed il comportamento della società giapponese al fine di poter contribuire, nel mio piccolo, ad un compromesso culturale tra i nostri due mondi. Boyé Lafayette De Mente
Capitolo 1
Dissipare il mito di un Giappone enigmatico
“I giapponesi sono, probabilmente, le persone più riconoscibili e prevedibili al mondo!” (George H. Lambert, Iamatologo) Le differenze nelle attitudini e nel comportamento tra occidentali e giapponesi sono così frequenti e cospicue che ogni ordinaria spiegazione sulle variazioni culturali non è sufficiente a colmarne il divario. Per molto tempo, gli stranieri hanno sospettato che un qualche misterioso elemento di disturbo fosse alla base delle suddette incomprensioni della mentalità giapponese. Questa presunzione portò, ormai molto tempo fa, alla nascita del cosiddetto mito dell’“Oriente misterioso”, tema ricorrente in quasi tutti gli scritti occidentali sul Giappone che finì per influenzare virtualmente tutte le nostre interazioni con questo Paese. A complicare ulteriormente la situazione, vi è il fatto che i giapponesi stessi hanno storicamente sofferto di un complesso simile al nostro che si potrebbe ugualmente definire come il “Mistero Occidentale”. Notando questo fenomeno, lo studioso iamatologista George H. Lambert scrisse: “Loro (i giapponesi) reagiscono sovente verso di noi secondo antichi e ben consolidati stereotipi e attraverso comportamenti incompatibili con la loro normale condotta. Succede così che noi occidentali ci troviamo a dover reagire a comportamenti anomali che altro non rappresentano che una normale reazione verso noi occidentali”. Da cosa scaturiscono, dunque, le straordinarie differenze culturali tra il Giappone e l’Occidente? Perché due interlocutori che potrebbero condividere così tante affinità differiscono invece enormemente nel modo in cui pensano ed agiscono? Il Giappone rappresenta veramente quel “buco nero” dal quale la luce della comprensione sembra non riuscire a filtrare? È giusto parlare di enigma della cultura giapponese?
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In realtà, commentava qualche anno fa George Lambert, non esistono persone al mondo più prevedibili dei giapponesi data la loro cultura formalizzata ed il gioco sistematizzato delle parti che influenza i livelli più profondi delle loro attitudini e del loro comportamento. La barriera che sembra bloccare il punto di vista occidentale verso la piena comprensione dei giapponesi sembra piuttosto essere rappresentata dal velo della miopia e dall’ignoranza rispetto alla vera essenza della cultura giapponese. Gli “esperti” occidentali hanno dissezionato ed analizzato anatomicamente la cultura giapponese sin dal loro arrivo nel Paese nel Sedicesimo secolo. Essi hanno altresì speso molto tempo ed energia cercando di penetrare le origini e la natura del famoso “spirito nipponico”. Per quanto mi sia dato sapere, però, nessuno ha mai rintracciato la stele di Rosetta di questa cultura. Ovvero, quella chiave interpretativa che avrebbe dovuto svelare il mistero ed il fascino che avvolge la conduzione degli affari, nonché tutte le altre occupazioni personali e professionali del popolo giapponese. Mentre buona parte delle caratteristiche peculiari e delle eccellenze che hanno portato alla ribalta il Giappone sul palcoscenico mondiale (insieme, ovviamente, alle debolezze e ai difetti del Paese) siano state accuratamente descritte dagli imprenditori stranieri, dagli scrittori, nonché dagli studiosi, nessuno ha però mai spiegato da dove scaturissero queste caratteristiche e queste eccellenze. Nessuno ha mai illustrato come esse siano divenute parte integrante della cultura giapponese e nemmeno come funzionassero. Credo, innanzitutto, che tutte le caratteristiche principali per le quali sono (ri)conosciuti i giapponesi, siano esse positive o negative, conoscano la loro genesi nella matrice conosciuta come Kata (ovvero la “forma”, la “strada”) o anche Shikata (“modo di fare”). Si può ipotizzare che le Shikata forniscano una chiave di lettura più completa del perché i giapponesi sono, nel bene e nel male, così “giapponesi”. Al fine di giungere ad una piena comprensione della caratterizzazione dell’“agire nipponico” è necessario quindi penetrare la natura ed il ruolo delle centinaia di Shikata all’interno di questa società. In altre parole, prima di cercare di capire i giapponesi sarà piuttosto necessario comprendere come i giapponesi vedono sé stessi.
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Forma come realtà Utilizzato in un contesto squisistamente giapponese, il concetto di Shikata include più di un semplice processo meccanico. Piuttosto, esso incorpora le leggi fisiche e spirituali dell’intero cosmo. Si riferisce al modo in cui ogni cosa dovrebbe essere eseguita, quindi, all’ordine e alla forma come mezzi per esprimere e mantenere il Wa, ovvero, l’armonia nella società e nell’universo. L’assenza di Shikata è virtualmente impensabile per i giapponesi poiché essa dovrebbe fare riferimento ad un mondo privo di ordine o forma e, quindi, ad un mondo completamente inesistente. Agli albori della loro storia, i giapponesi svilupparono la convinzione secondo la quale la forma anticipava la realtà precedendo anche la sostanza. Si credeva, addirittura, che nulla potesse essere raggiunto senza la lunga pratica mentale e fisica di una giusta Kata. “Il Giappone non possiede una genuina filosofia in quanto tale, bensì solo la forma” dice Kazuo Matsumura, assistente di Mitologia Giapponese all’istituto Oyasato dell’Università Tenri di Nara. Aggiunge, comunque, che oggi molti giapponesi ignorano le radici del loro comportamento kataizzato. Molte delle numerose Kata giapponesi sono state fissate secoli addietro. Esse sono state istituzionalizzate, ritualizzate e consacrate di generazione in generazione. In Giappone, infatti, fare le cose “in modo giusto” è sempre stato più importante che fare “la cosa giusta”. La rigida osservanza delle Kata fu uguagliata alla morale dando la possibilità all’individuo di poter rimanere sia “dentro” al concetto di Kata (Kata ni hamaru) oppure “fuori” da esso (Kata ni hamaranai). Restare fuori dalle Kata rappresentava un vero e proprio peccato verso la società e, in un Giappone così pregno della “forma”, poteva risultare addirittura fatale. Se l’etica apriva la strada allo stile, i princìpi aprivano la strada alla politica. Proprio come se esistesse solo un’unica strada percorribile nel Giappone pre-industriale per realizzare le varie azioni della vita quotidiana (dall’uso delle bacchette, all’imballo di un semplice pacchetto), esisteva altresì solo un unico modo di pensare alla “giapponese”. Il condizionamento culturale basato sul sistema delle Kata ha fatto sì che i giapponesi divenissero estremamente sensibili ad ogni pensiero, modalità o azione che non si conformasse perfettamente ad una Kata appropriata. Sia in situazioni formali che non, virtualmente, ogni azione quotidiana poteva essere giudicata sia giusta sia sbagliata, sia naturale
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sia innaturale. Non poteva esistere, quindi, spazio per alcuna ombra volta al soddisfacimento di qualsiasi pensiero individualistico, preferenze o idiosincrasie. Per i giapponesi vigeva un ordine interiore (il cuore dell’individuo) ed un ordine naturale (il cosmo): questi due venivano tenuti insieme dalla forma, dal concetto di Kata. Poiché le Kata univano l’individuo alla società, il rischio per chi non seguiva una forma “corretta” era di allontanarsi dall’armonia tra gli uomini e la natura. La sfida che l’uomo era chiamato a fronteggiare era quindi quella di conoscere il proprio Honshin (il “giusto cuore”) imparando a seguire le Kata che lo avrebbero posto in armonia con la società ed il cosmo.
Origini della cultura delle Kata Lo Shikata, che è parte integrante della cultura giapponese, nacque come processo meccanico ideato per espletare specifiche mansioni. Tra le primissime e più pervasive forme di Shikata vi era la coltivazione delle risaie, l’etichetta di corte, la calligrafia, la cerimonia del tè, la produzione artistica ed artigianale, la via dei samurai (Bushidō), l’utilizzo della lingua giapponese, nonché una precisa etichetta giornaliera basata su un sistema gerarchico di cui l’anzianità ed il genere erano i parametri fondamentali. La coltivazione del riso, introdotta in Giappone dalla Cina circa tremila anni fa, richiedeva un lavoro di gruppo altamente organizzato attraverso le caratteristiche della cooperazione e della coordinazione. Qualsiasi deviazione al sistema avrebbe provocato il risentimento non solo del proprio nucleo familiare, ma degli amici, dei vicini e, per ultimo, anche quello degli dei. L’intera base economica del Paese divenne essa stessa un’enorme Kata veicolante il giusto comportamento di gruppo, l’abnegazione personale ed il mantenimento dell’armonia. Di conseguenza, qualsiasi individuo che non si conformava alle regole veniva velocemente ostracizzato al fine di proteggere e sostenere il gruppo. Anche il sistema di scrittura attraverso i Kanji (letteralmente “caratteri cinesi”) importato dalla Cina richiedeva anni di concentrazione e di sforzo per essere interiorizzato. Questa scrittura ebbe un impatto fondamentale sullo sviluppo psico-fisico di tutti i giapponesi educati. Instillò in questo popolo le doti della pazienza e della diligenza, estese la destrezza manuale ben oltre la norma, preparandoli ad uno stile di vita in cui la forma e l’ordine regnavano sovrani.
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Imparare a disegnare le migliaia di caratteri Kanji impregnò i giapponesi di un altissimo senso dell’armonia, della forma e dello stile che, combinati insieme, permise loro di raggiungere una profonda comprensione ed apprezzamento dell’estetica, rendendoli quasi dei perfetti artisti. L’allenamento manuale con i Kanji li condizionò fino a renderli pazienti e determinati a raggiungere i loro obiettivi. La lunga pratica divenne così una matrice per formare fisicamente, emotivamente, ed intellettualmente il popolo giapponese amalgamandolo e plasmandolo attraverso la cultura. Con le generazioni successive, i leader guerrieri del Giappone (cosiddetti Samurai) svilupparono le proprie Kata di classe raggruppandole in un codice collettivo di pensiero ed azione conosciuto come Bushidō (“La via dei guerrieri”) esteso a tutti i membri delle loro famiglie. Questo codice richiedeva l’assoluta fedeltà al capo clan, straordinarie capacità con la spada ed altre armi da guerra, nonché l’adesione totale all’etichetta ritualizzata imposta sia alla corte imperiale, che a quella dei signori feudali da parte di tutti i membri maschi delle famiglie samuraiche. Per impadronirsi delle giuste tecniche e sviluppare il senso di responsabilità richiesto dal Bushidō era necessario un supremo sacrificio ed uno sforzo immane. La rigida disciplina e le tecniche codificate secondo le Kata del Buddhismo Zen, introdotto in Giappone dalla Cina nel Tredicesimo secolo, furono presto adottate dai samurai divenendo uno dei principali veicoli per il loro allenamento fisico e spirituale. Successivamente, i modi stilizzati ed i modelli proposti da questi divennero il punto di riferimento per l’intera società giapponese. Il sistema di allenamento kataizzato ispirato dallo Zen condizionò ulteriormente l’élite samuraica spingendola al sacrificio della vita stessa alla ricerca della perfezione e dell’ordine, ed in nome dell’obbedienza verso i propri signori: tratti ancora rintracciabili nella società giapponese contemporanea. La tendenza giapponese di codificare tutti gli aspetti della vita è esemplificata anche dalle forme del teatro Kabuki e Nō, le più estreme nell’ambito dei metodi di recitazione. Una volta stabilite la forma e l’ordine dei movimenti da parte del maestro, lo stile da questi creato veniva consacrato. Ogni singolo movimento, dal più complesso fino al semplice battere di un ciglio era minuziosamente prescritto a tutti i discepoli senza lasciare spazio a nessuna interpretazione personale. Poiché la sfida per gli attori consisteva nel seguire perfettamente le Kata, il successo personale non si basava quindi sull’interpretazione artistica della trama, bensì sulla capacità di riprodurre esattamente le forme.
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Il Nō, altra grande espressione artistica del teatro giapponese, destinato a divenire maggiormente stilizzato e più legato alla logica delle Kata rispetto al Kabuki, evolse in una forma così esoterica che solo una ristretta élite di adepti ne rimase effettivamente affascinata. Per l’attore, l’essenza del Nō risiedeva nella fusione fisica e spirituale della sua personalità con la maschera di legno che indossava, lasciando al personaggio interpretato di prendere possesso della propria persona. Questa sublimazione totale di personaggio e personalità dell’attore nella maschera, nonché la creazione dell’arte attraverso di essa (che diveniva al contempo veicolo e messaggio) era l’obiettivo di tutte le Kata di questa forma teatrale, rintracciabili anche in diversi ambiti della cultura giapponese. Nonostante ciò, alcuni critici occidentali obiettano che il Kabuki e il Nō siano forme teatrali virtualmente svuotate di contenuto con un’eccessiva attenzione all’apparenza. Gli stessi critici affermano che anche i giapponesi stessi che assistono a queste rappresentazioni non sono coscienti del fatto che buona parte di ciò che vedono e ascoltano è semplicemente forma priva di qualsiasi sostanza. Qualcuno si è spinto addirittura ad affermare che: “Quello a cui assistono è privo di significato, poiché l’atto di assistere al Kabuki è diventato di per sé stesso una Kata”. Certamente queste critiche partono dal presupposto che non esiste merito laddove le forme artistiche siano codificate agli estremi. Nonostante ciò, sia il Kabuki che il Nō esemplificano in maniera eccellente il potere delle Kata di produrre l’illusione del reale tramite ciò che è irreale. Entrambi, reale ed irreale, sono infatti ingredienti vitali della cultura giapponese. Per gli occidentali, forse, l’aspetto più scioccante e bizzarro delle Kata del Giappone feudale è rappresentato dalla pratica del suicidio rituale. La cosiddetta pratica di Harakiri fu talmente abusata durante il lungo periodo Tokugawa (1603-1868) che ripetuti editti emanati dai vari signori locali e dagli shogun vennero addirittura ignorati. Sebbene poco praticato al giorno d’oggi, la tradizione del suicidio rituale rimane un elemento percepibile nell’attitudine, se non nella pratica, della società giapponese. L’usanza dell’Harakiri1 rivela crudelmente, più di ogni altra tradizione, la profondità, nonché l’intensità della codificata cultura classica giapponese aiutandoci a chiarire il motivo per il quale essa è stata in grado di modellare il suo popolo con tratti così distintivi.
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Il termine comune utilizzato in Giappone per il suicidio rituale è Seppuku (N.d.T).
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Le caratteristiche della cultura kataizzata del Giappone sin dai tempi più remoti sono state la promozione ed il mantenimento del Wa, ovvero dell’armonia. Il comportamento personale, come anche le relazioni pubbliche e private, sono da sempre centrate su un’armonia strettamente controllata all’interno di un’appropriato contesto sociale dicotomico di tipo superiore/inferiore. Altra caratteristica giapponese derivante dalla suddetta enfasi sulla corretta forma e l’armonia è la tendenza ad evitare assolutamente di intraprendere azioni di cui non si conoscono le modalità di esecuzione. Questo aspetto spiega il motivo per cui i giapponesi siano spesso riluttanti nel fare il primo passo, aspettando invece che altri individui (o altre aziende, se si tratta di affari) prendano l’iniziativa. Questo comportamento rappresenta una delle barriere principali che le imprese straniere devono affrontare cercando di fare affari in Giappone.
L’arte dell’ambiguità Un ulteriore fattore culturale chiave, scaturito dal bisogno di mantenere una facciata di armonia in tutti i contesti, è rappresentato dall’utilizzo dell’ambiguità nella lingua e nella comunicazione non verbale. L’ambiguità serve per evitare obblighi, disaccordi, responsabilità ed aiuta a mantenere l’apparenza dell’armonia, giocando un ruolo di primaria importanza nella vita giapponese. Essa viene utilizzata per lasciare nell’incertezza gli outsider, i concorrenti ed i “nemici” mantendo il vantaggio strategico su di essi. Gli imperativi culturali del mantenimento dell’armonia e della promozione del consenso di gruppo attraverso l’utilizzo di un linguaggio ambiguo, hanno sortito un effetto immediato sulla natura della lingua giapponese stessa. La richiesta di mantenimento del Wa attraverso modalità non contrastive ha infatti influenzato l’utilizzo della lingua contribuendo alla nascita di nuovi termini e suffissi. Infatti, nonostante i giapponesi possano comunicare in modo chiaro e diretto con i membri della propria famiglia, amici intimi e subordinati, il loro linguaggio diviene, però, ambiguo ogniqualvolta si confrontano con tutti coloro al di fuori di questa cerchia. La ragione di questo comportamento, suggerisce Jiro Kamishima, professore emerito di storia della cultura presso l’Università St. Paul di Tokyo, può essere fatta risalire alla paura, tutta giapponese, di rimanere isolati.
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Sebbene, quindi, i giapponesi considerino l’utilizzo dell’ambiguità utile nel mantenere una superficiale armonia e nel tenere gli “stranieri” fuori dal loro circolo interno, il prezzo che essi devono pagare dal punto di vista emotivo rimane alto. Per tutti coloro che sono divenuti parzialmente “sgiapponesizzati”, ad esempio, questo comportamento diviene spesso causa di grande frustrazione.
La società kataizzata Con il trascorrere dei secoli, ogni singola tecnica o professione facente capo allo stile di vita giapponese è stata ridotta ai suoi elementi base. Tali elementi venivano identificati e contrassegnati secondo l’ordine ed il ruolo che essi giocavano nella formazione dell’“insieme”. Lo studio dei comportamenti quotidiani, dell’etichetta, delle abilità lavorative, nonché ogni singola professione divennero presto un processo codificato in due momenti essenziali: l’apprendimento delle basi e lo sviluppo successivo delle abilità per l’esecuzione delle azioni dettate dalle Kata in una modalità e in un ordine prestabilito. L’eterno condizionamento in questa intricata rete di regole e forme ha fatto sì che i giapponesi si aspettino per ogni situazione un esatto processo ed una forma interna corrispondente. Quando essi vengono confrontati con situazioni prive di forma, sono spesso incapaci di intraprendere qualsiasi azione o, al contrario, agiscono in modo insensato se non addirittura in maniera violenta. La differenza sostanziale tra l’agire giapponese e le abitudini sviluppate in molte altre società risiede nel fatto che la società giapponese ha potenzialmente kataizzato tutta la propria esistenza. Nulla viene lasciato al caso o all’estemporaneità. L’elemento Kata viene virtualmente applicato in tutti gli ambiti: dalle situazioni macro fino alle decorazioni dei cibi sui vassoi! Oltre a ciò, bisogna ricordare che l’obiettivo di questo agire non è il raggiungimento di uno standard minimo accettabile, bensì l’assoluta perfezione. Se è vero che non tutti i giapponesi raggiungono sempre la totale perfezione nel comportamento o nella ricerca, certamente una larga percentuale della popolazione ha raggiunto un livello di competenza tale da poter fare emergere la società giapponese rispetto ad altre. Come già è stato ampiamente dimostrato nella seconda metà del Ventesimo secolo, questa ricerca della perfezione ha garantito ai giapponesi numerosi vantaggi nella competizione con l’esterno.
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Sentimento di correttezza Nati ed allevati in un ambiente culturale che è il risultato di secoli di condizionamento delle Kata nell’ambito dello stile e nella fruizione delle arti e dell’artigianato, il singolo ha potuto sviluppare un sesto senso che sembra suggerirgli sempre quando le cose siano al posto “giusto”. Nel campo della produzione, ad esempio, si osserva minuziosamente se i manufatti vengono progettati, prodotti, assemblati ed impacchettati secondo i dettami giapponesi in campo estetico, oppure se sono prodotti con i materiali appropriati, secondo la forma, il sentimento, l’obiettivo e le modalità di impiego indicate. Nei secoli, questi standard si sono raffinati ulteriormente fino a pretendere che anche il manufatto più comune divenga un capolavoro d’artigianato, o che un semplice servizio venga eseguito con tecniche stilizzate e perfette. Così facendo, i giapponesi sono divenuti così sensibili ai canoni della correttezza e della perfezione di prodotti e servizi (sempre misurati con i loro parametri) che riconoscono quasi istintivamente ogni deviazione dallo standard. Questo tipo di reazione fa sì che essi possano essere annoverati come il popolo più selettivo al mondo e, spesso, il più veloce nei giudizi. In realtà, dal 1870 fino agli anni Sessanta del Ventesimo secolo, il Giappone fu tacciato di immettere sul mercato prodotti considerati qualitativamente scadenti e a prezzi eccessivamente contenuti. La responsabilità di questa immeritata reputazione non era però da attribuire ai giapponesi, poiché quando il Paese fu aperto all’Occidente negli anni Sessanta dell’Ottocento, gli importatori stranieri lo invasero letteralmente portando con sé modelli di prodotti occidentali che volevano far copiare ai prezzi più competitivi sul mercato. Questi primi importatori stranieri, insieme a tutti coloro che li seguirono, determinarono la qualità di buona parte delle esportazioni nipponiche fino a quando, circa un secolo dopo, i giapponesi non divennero sufficientemente forti da sottrarsi alla loro influenza.
Il fattore dell’unicità Dopo aver passato diversi secoli all’interno di una società altamente kataizzata senza avere la possibilità né di vedere, né di sperimentare altre modalità di vissuto, i giapponesi sono divenuti estremamente sensibili a qualsiasi deviazione dal loro modo di vivere e di agire. Questo fattore ha contribuito in maniera significativa allo sviluppo di una for-
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te coscienza di unicità nel panorama mondiale. Coscienza tuttora esistente e che continua ad influenzare il comportamento individuale verso gli stranieri, le relazioni d’affari con le imprese estere, nonché le politiche governative nelle questioni internazionali. Sfortunatamente, però, questo sentimento di unicità viene sovente espresso in forme alquanto negative. È estremamente difficoltoso, se non quasi impossibile, ad esempio, per giapponesi non occidentalizzati relazionarsi con gli stranieri. Non solo. Anche i cittadini parzialmente “sgiapponesizzati” che hanno trascorso un periodo della loro vita all’estero sono considerati fuoricasta una volta rientrati in Giappone. In passato, i giapponesi hanno addirittura utilizzato la loro percepita unicità per giustificare a vari livelli sociali diverse tipologie di discriminazione contro cittadini e prodotti stranieri. Attitudine emersa successivamente anche come parte della politica nazionale. Questo comportamento, però, si pone in netto contrasto con gli sforzi che il Paese compie per internazionalizzarsi, finendo per vanificare l’impegno profuso in tal senso sia dal governo che dalle imprese private.
Continuare la cultura delle Kata L’introduzione dell’industrialismo a partire dal 1860 e la scomparsa della classe samuraica dopo il 1868 non comportò la scomparsa della cultura kataizzata, sollecitamente ed accuratamente nutrita nei i secoli. Considerata parte integrante della fibra e dell’anima giapponese essa non poteva essere dismessa così facilmente. La filosofia alla base del “sistema Shikata” divenne parte integrante della mentalità giapponese esprimendosi non solo attraverso l’uso della lingua, ma in numerose altre abitudini profondamente radicate. Questa filosofia rappresenta infatti quel nucleo che rende realmente giapponese l’universo Giappone. Virtualmente, tutte le attitudini e le reazioni, che spesso gli stranieri tendono a considerare dilettevoli o, in altri casi, deplorevoli derivano da questo condizionamento totale operato dalle Kata. Questo stesso condizionamento ha reso successivamente i giapponesi temibili nemici in tempo di guerra, nonché straordinari rivali nel commercio negli anni post-bellici. Oggi, tra le pratiche e le tecniche tradizionali basate sulle Kata si possono annoverare la cerimonia del tè (Sadō), l’Ikebana, il Kendō, il Judō ed il Sumō. Anche un prodotto di importazione quale il baseball è stato kataizzato. Oltre alle suddette tradizioni, bisogna ricordare che
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in Giappone esistono specifiche modalità codificate per arredare la casa, i tavoli degli uffici, per imparare a guidare, per trattare con gli ospiti, per acquistare e fare regali: insomma, per svolgere virtualmente tutto nella vita. Con la caduta dello shogunato Tokugawa negli anni 1867-1868, la sopravvivenza della cultura kataizzata fu garantita grazie al collegamento con l’attività industriale che il nuovo governo Meiji sponsorizzò negli anni successivi. Coloro, infatti, che non si conformavano nelle attitudini e nel comportamento alla cultura tradizionale venivano automaticamente rigettati dai livelli alti del sistema. Compagnie ed organizzazioni di vario tipo epuravano i candidati che non aderivano all’impronta nazionale. L’educazione primaria e secondaria del periodo Meiji, ad esempio, era meticolosamente strutturata in specifiche Kata quali le divise rigorosamente identiche, il modo di inchinarsi, fino alla severa etichetta quotidiana da seguire all’interno delle classi. Questo sistema era stato ideato per trasformare ogni singolo studente in un prodotto omogeneo dal punto di vista culturale. Il risultato complessivo di questo processo di modellamento della società a cui tutti i giapponesi erano assoggettati (durante l’infanzia e in età adolescenziale) rafforzò ulteriormente quelle caratteristiche notoriamente “giapponesi” che avrebbero giocato successivamente un ruolo centrale nel futuro del Paese. Rispetto al passato, infatti, il sistema della Kata era stato esteso alla moltitudine non essendo più mero appannaggio delle classi agiate. Oggi, queste caratteristiche includono: 1) L’obbligo di lavorare insieme in gruppi esclusivi e chiaramente definiti. 2) Una profonda lealtà verso i gruppi di appartenenza e verso il Paese. 3) Un senso dell’equilibrio, della forma, dell’ordine e dello stile altamente sviluppati. 4) Un sentimento ed un bisogno intuitivo per la precisione, l’accuratezza e la correttezza. 5) Straordinaria destrezza manuale e sviluppo di abilità per lavorare in special modo su oggetti piccoli e sofisticati. 6) Predisposizione a concentrarsi con estrema cura su un obiettivo per volta. 7) Desiderio opprimente di eccellere in tutto. Essere al pari degli altri o se possibile migliori di essi. Nel caso, però, si superi in eccellenza i membri del proprio gruppo, si adotterà un comportamento volto a sminuire il proprio talento mascherandolo con l’umiltà al fine di preservare l’armonia interna.
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Da ciò che si evince dalle suddette caratteristiche, non è difficile immaginare come il Giappone, fisicamente e mentalmente incanalato dal governo e dall’industria verso il raggiungimento di specifici obiettivi, abbia tratto vantaggio sulle altre nazioni meno addestrate. Queste ammirevoli qualità, però, hanno generato anche una lunga lista di caratteristiche negative spesso associate al Paese. Alcuni dei tratti negativi derivanti dalla cultura kataizzata e sovente menzionate dagli stessi giapponesi includono: 1) L’incapacità di pensare ed agire in maniera indipendente. 2) Lo stereotipare tutti in termini di famiglia, educazione, università, azienda, dimensione aziendale e posizione ricoperta. 3) La tendenza all’immobilismo per evitare qualsiasi frizione. 4) La tendenza a mantenere lo status quo se non in presenza di pressioni esterne. 5) La mancanza di senso della reciprocità in senso generale. 6) Una coscienza sottosviluppata riguardo ai diritti altrui. 7) L’incapacità di identificare sé stessi con altre nazionalità e razze. 8) L’invocare la propria appartenenza nazionale per giustificarsi nel comportamento e nelle attitudini.
Le Kata ancora primarie Essendo tradizionalmente condizionati a trarre piacere conformandosi alle Kata e ad eseguire tutto seguendo un ordine prestabilito, i giapponesi sembrano maggiormente orientati al processo che non al raggiungimento dei risultati. Laddove gli occidentali sono entusiasti nel ripetere: “Non importa come lo fai. Fallo e basta”, i giapponesi tendono invece a porsi nella modalità: “Non farlo, se non in modo appropriato”. I giapponesi di oggi, afferma il guru dei manager Masaru Chio, sono le persone più felici al mondo quando riescono ad apportare miglioramenti ad un processo. Egli aggiunge: “Sono perfezionisti. Il più piccolo difetto attrae la loro attenzione e non trovano pace fino quando non lo eliminano”. Il risultato di questo comportamento è una forte tendenza a voler migliorare qualsiasi task loro intraprendano, soprattutto se si tratta di questioni tecnologiche o di copiare prodotti importati dall’estero. Essi sembrano, quindi, spendere più tempo nella rifinitura dei progetti, piuttosto che nel raggiungimento dei risultati. Una volta ottenuti i miglioramenti, però, le loro performance sono inarrivabili. Oggi, i giapponesi sono noti per il loro interesse (o ossessione?) per
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la qualità, altro importante elemento derivato dalla cultura delle Kata. La lunga storia di arti, artigianato e stili di vita basati sulle Kata li hanno talmente condizionati da attendersi il livello qualitativo più alto riguardo a ogni prodotto e servizio. Mentre i cambiamenti sociali ed economici hanno enormemente diluito il condizionamento della cultura tradizionale e, di conseguenza, le capacità di discriminazione dei giapponesi nati dopo il 1945, nonostante tutto bisogna riconoscere che questo popolo, in quanto gruppo, rimane uno dei più selettivi al mondo. L’enfasi culturale sull’eccellenza estetica, la qualità e la proprietà rimangono alcune delle spinte primarie in campo economico, concedendo al Paese il primato in ambito di progettazione, produzione, confezionamento, promozione e vendita di beni. Tutto ciò contribuisce a rendere gli stessi giapponesi clienti estremamente esigenti.
Sopravviverà la cultura delle Kata? Buona parte della vecchia generazione giapponese è propensa ad affermare che la cultura delle Kata scomparirà. Essa sostiene che coloro che non sono stati pienamente indottrinati in questa cultura in giovane età non solo hanno perso un aspetto vitale del loro “carattere giapponese”, ma non avranno nemmeno la possibilità di rieducarsi attraverso qualche ora o settimana di addestramento presso le aziende dove andranno a lavorare. Questa frangia conservatrice è cosciente che l’inchino, ad esempio, è parte di un condizionamento del comportamento che ha fornito i giapponesi della loro unicità aiutandoli contemporaneamente a mantenere intatta la cultura tradizionale. Nonostante l’indebolimento progressivo della cultura delle Kata, un senso di unicità continua a pervadere i giapponesi. Essi si sentono diversi non solo per lo storico isolamento geografico e per la barriera protettiva rappresentata dalla lingua, ma piuttosto per la cultura, che li differenzia in una varietà di contesti. Un tratto della sempre maggiore esclusività della cultura è rintracciabile nell’incapacità dei giapponesi di accettare gli stranieri che non risiedano che temporalmente in Giappone. Normalmente, infatti, i giapponesi esonerano gli stranieri da ogni tipo di richiesta di approfondimento culturale nel caso vengano considerati “ospiti”, offrendo loro, invece, straordinaria cortesia e altrettanti privilegi. Diversa è la posizione degli stranieri residenti in Giappone, poiché essi devono affrontare
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la dicotomia culturale che impedisce ai giapponesi di accettarli in pieno. Di conseguenza, i residenti devono essere coscienti che sebbene i giapponesi si rivelino ospitali e tolleranti nei rapporti con gli stranieri di passaggio (che non sono tenuti a conoscere o a mettere in pratica l’etichetta kataizzata), essi si sentono invece offesi quando gli stranieri residenti non seguono correttamente i dettami culturali nipponici. Molti residenti non asiatici si lamentano sovente della loro esclusione dalla società giapponese. L’autore Donald Richie, di stanza nel Paese e acuto osservatore della scena giapponese, riassume brevemente la situazione in un’intervista pubblicata nel volume Japan as we lived it: Can East and West ever meet? di Bernard Krishner (Yohan Publications, Tokyo). Richie afferma che se egli fosse giapponese non rimarrebbe per più di dieci minuti in Giappone. “Il peso sociale esercitato sull’individuo è piuttosto pesante” afferma. “La verità è che, per molti dei residenti non asiatici, vivere in Giappone è sopportabile proprio perché esclusi dal tessuto sociale e per il diverso trattamento da questi ricevuto”. La trama fittissima e la sicurezza rappresentata dalla rete delle Kata giapponesi hanno altresì reso il Paese particolarmente sensibile nei confronti di tutto ciò che è imprevisto. Mal tollerando l’inatteso, i giapponesi che non frequentano la cultura occidentale si trovano in situazione di forte disagio quando devono invece trattare con gli stranieri. Essendo impossibilitati a prevedere ciò che accadrà, essi si sentono sotto costante pressione in loro presenza. Di recente, un residente straniero di lunga data in Giappone ha affermato che i giapponesi sono soliti trincerarsi dietro la formalità quando chiamati ad affrontare situazioni sconosciute, utilizzando la cerimoniosità quale veicolo di fuga dalla realtà. “Le Kata sono state tradizionalmente utilizzate per rimpiazzare le vere relazioni umane” egli afferma. “Se è vero che l’etichetta sociale che supporta il sistema Shikata mal si adatta al mondo contemporaneo, è peraltro innegabile che senza questo sistema i giapponesi si sentirebbero persi non sapendo come comportarsi. Da un punto di vista occidentale, i giapponesi sono stati disumanizzati dalla loro dipendenza sulle Kata”, aggiunge lo stesso osservatore. Oggi, nonostante si stiano compiendo sforzi sinceri e generalmente entusiastici per internazionalizzare il sistema sociale ed economico (rendendo tutti paradossalmente “meno giapponesi”), quello del Sol Levante rimane ancora un popolo sui generis, poiché ancora legato alle Kata e ai processi di una cultura che lo rende diverso dalle altre nazioni.
Capitolo 2
La sfida di essere giapponesi
Giapponesi si è, non si nasce. Questo popolo necessita di praticare la propria “nipponicità” per rimanere in armonia con il mondo. Qualcuno afferma che l’unica religione dei giapponesi sia quella di “essere giapponesi”. In apparenza, questa affermazione può essere vera se si mette sullo stesso piano la religione con una certa ideologia economica ed un sistema sociale stilizzato che incorpori quelle pratiche rituali atte a preservare ed esprimere il sistema e l’universo dei valori in esso contenuti. La cultura giapponese, anche oggi codificata, consacrata e ritualizzata in larga misura, omologa il Paese a tal punto da far apparire tutti i suoi appartenenti virtualmente identici. Questo condizionamento culturale, sia negli atteggiamenti che nel comportamento fisico, è così pervasivo che chiunque devi dalla norma finisce inevitabilmente per spiccare come in “contraddizione” con il resto. A causa di questo profondo condizionamento verso la nipponicità, i giapponesi stessi risultano molto sensibili verso qualunque attitudine o azione che non si conformi o che non aderisca al suddetto modello imposto. Gli individui all’interno del sistema, infatti, monitorano costantemente il comportamento dei simili misurando contemporaneamente sé stessi nei rapporti con gli altri. Buona parte di questa valutazione avviene in maniera automatica ed inconscia, ma diviene immediatamente conscia e deliberata quando emerge una qualsiasi deviazione che richiami in causa un giudizio. Poiché i giapponesi tendono a divenire prodotti della loro stessa cultura (stilizzata e formulata), essi hanno sviluppato una chiara e comprensiva visione di sé stessi e di che cosa significhi essere “giapponesi”: in altre parole, hanno imparato a pensare e a comportarsi secondo il modello generale. Non solo esistono precise linee guida su come es-
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sere giapponesi, ma anche severe sanzioni contro chiunque manchi di vivere secondo i criteri di una accettabile “nipponicità”, spesso applicate repentinamente ed in maniera piuttosto efficace. Tra queste, la pena più comune risulta essere l’esclusione totale dal gruppo di appartenenza.
Nutrire la “nipponicità” La cultura formalizzata giapponese, divisa nettamente in parti contenenti ciascuna le proprie dettagliate linee guida, richiede un nutrimento continuo per poter sopravvivere. Essa necessita infatti di maggiori attenzioni, sforzi e pratiche rispetto ad altri stili di vita non autoctoni. I giapponesi stessi, coscienti di questo bisogno, hanno creato in passato una varietà di pratiche e di arti che rappresentano vere e proprie scuole del “sentirsi giapponesi”. Queste scuole, istituzionalizzate all’interno della cultura, includono, ad esempio, la nota cerimonia del tè, l’Ikebana, ma anche rinomate arti marziali quali l’Aikidō, il Judō, il Kendō o il Karate che, in realtà, vengono praticate più per i loro effetti sul processo di “giapponesizzazione” che non per lo sviluppo delle tecniche marziali in sé stesse. Altre pratiche culturali che contribuiscono al mantenimento di questo sentire comune includono la meditazione Zen, il canto popolare, la calligrafia, l’artigianato tradizionale quale la ceramica, i bonsai, la produzione delle merci laccate ed, infine, la scultura. Oltre alle suddette pratiche, anche buona parte degli incontri privati e delle riunioni d’affari in Giappone altro non rappresentano che esercizi di applicazione culturale delle Kata: a cominciare da dove si prende posto a sedere (secondo lo status dei partecipanti) fino a comprendere la tipologia di linguaggio utilizzato. Le riunioni più popolari e rappresentative in Giappone sono date dai cosiddetti Enkai, veri e propri banchetti organizzati all’interno di alberghi, ristoranti o saloni in affitto spesso arredati con tatami. Questi banchetti rappresentano veri e propri microcosmi di cultura giapponese. Infatti, dimostrano e rinforzano virtualmente ogni forma comportamentale e linguistica epitomizzanti il sistema sociale nipponico. Grazie a questi incontri, i giapponesi stringono amicizie e si legano al proprio gruppo di lavoro riaffermando la loro “nipponicità”. È qui che le loro anime si rinnovano trovando rinforzo e che il loro posto nella società trova la giusta conferma. Avendo partecipato di persona a centinaia di questi eventi, ho notato come gli stranieri (che non hanno ancora vissuto questa esperienza o che siano
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incapaci di immedesimarsi completamente in tale sorta di rito per deficit linguistico o cognitivo) siano destinati ad essere banditi per sempre da una piena intimità con la cultura giapponese. Più comuni e diffusi degli Enkai (ai quali un giapponese medio prende parte alcune volte durante l’anno, mentre i businessmen due/tre volte al mese) sono però i cabaret, i night-clubs ed i bar. Esistono, credo, più luoghi riservati ai convivi in Giappone che non in altri paesi del mondo. Rispetto agli Enkai, questi luoghi giocano un ruolo diretto nel nutrire la coscienza giapponese grazie alla frequentazione meno formale ed esclusiva. In virtù di ciò, anche gli stranieri più inesperti possono frequentarli liberamente. Per fare riferimento alla movimentata vita notturna giapponese si utilizza eufemisticamente il termine di Mizu Shōbai, ovvero “commercio dell’acqua”, forse in riferimento ai tempi in cui i bagni pubblici erano il centro della bella vita in generale. Essendo incapaci di “essere sé stessi” durante le ore lavorative e le attività del giorno, durante la notte, i giapponesi si rivolgono tradizionalmente ai bistrot al fine di rilassarsi, stringere legami, esprimersi senza remore e godere dell’amicizia dei simili. Bisogna ricordare, infatti, che non solo questioni private, ma anche economiche, politiche ed altrettante faccende pubbliche sono state sovente risolte all’interno dei bagni pubblici, delle case per geisha o dei bar. Gli uomini d’affari ed i politici spendono all’anno molti miliardi di dollari nel Mizu Shōbai adulandosi, costruendo e lubrificando le relazioni interpersonali. In conclusione, non è scorretto affermare che questo sistema (sovente tacciato di essere eccessivamente formale, strutturato e kataizzato) grazie all’inserimento dell’elemento umano, paradossalmente funziona.
Il costo di doversi legare Gli stranieri che visitano per la prima volta il Giappone rimangono spesso stupiti dalla quantità di tempo e di denaro che i giapponesi spendono nel Mizu Shōbai. Fra loro, chi prende residenza in Giappone con la famiglia, considera questa enfasi sulle attività notturne un vero e proprio fardello emotivo, rifiutandosi di parteciparvi se non in rare occasioni. Sebbene sia auspicabile controllare la frequenza delle uscite notturne (per non correre il rischio di essere giudicati ridicoli), non è con-
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sigliabile però sminuirne l’importanza o, addirittura, evitarle. In molti casi, prima che gli individui possano effettivamente concludere, ad esempio, qualsiasi rapporto d’affari, si richiedono sovente relazioni personali al di fuori dell’ambito d’ufficio. Infatti, è comprensibilmente radicata nei giapponesi la profonda convinzione che non si possa conoscere realmente le persone fino a quando non “si alzi il gomito insieme”: questo perché, secondo un’antica credenza, è proprio quando si beve che la vera indole degli individui emerge. Come dire, in vino veritas!
Capitolo 3
La sfida di parlare il giapponese
Fino a tempi recenti la lingua giapponese veniva utilizzata alla stregua di una barriera per tenere gli stranieri a distanza. Il governo dello shogunato Tokugawa (1603-1868), infatti, reputava un vero e proprio crimine insegnare la lingua agli stranieri. Uno dei primi occidentali che visitò il Giappone nel Sedicesimo secolo commentò non senza una certa esasperazione che la lingua giapponese era talmente difficile da apprendere e da utilizzare che, forse, doveva essere un prodotto del diavolo in persona. Questo primo visitatore, che era un missionario, si sentiva miseramente frustrato per la sua incapacità di comunicare efficacemente attraverso la lingua. Dopo tre quarti di secolo, centinaia di altri missionari e commercianti stranieri residenti in Giappone dovettero affrontare la stessa barriera linguistica in tutti i loro rapporti con i giapponesi. I rarissimi stranieri che, invece, seppero sviluppare una reale capacità orale furono coloro che vennero portati in tenera età nel Paese apprendendo la lingua durante la crescita. Lo shogunato ed i clan governativi, sospettosi e prudenti nei confronti degli stranieri, utilizzavano regolarmente la lingua come barriera nei rapporti con questi. Col tempo, fu emesso addirittura un editto che vietava ai giapponesi di insegnare la propria lingua ai nuovi arrivati: lo stesso editto rimase effettivo fino alla caduta dello shogunato nel 1868. Siccome, però, buona parte dei primi forestieri giunti in Giappone non imparava quasi nulla della lingua, gradualmente i giapponesi si convinsero che dovesse esistere qualche aspetto della stessa che la rendeva ostica agli stranieri. Questa convinzione, unita alla mancata propensione degli stranieri a studiare la lingua, continuò fino agli anni Settanta del Ventesimo secolo, esercitando una certa influenza anche nel
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nostro nuovo millennio. Probabilmente, è sempre per questo motivo se solo il 10-15 per cento dei residenti fissi in Giappone parla giapponese, e se i giapponesi stessi rimangono ancora sorpresi quando incontrano degli stranieri abili. Il motivo per il quale ancora oggi solo pochi occidentali sono in grado di parlare giapponese con una certa fluenza risiede nel fatto che la lingua è talmente integrata con i processi del pensiero e con i comportamenti dei singoli che, dal punto di vista giapponese, è impossibile esprimersi correttamente senza la conoscenza pregressa della mentalità e del modo di agire. Secondo un giovane uomo d’affari americano cresciuto a Tokyo, il giapponese sarebbe una “lingua carica”, ovvero una lingua per la quale, anche gli stranieri che la parlano, sono chiamati a seguire i cliché di comportamento giapponesi. Se, infatti, si parlasse la lingua senza seguire i dettami culturali, il parlante rischierebbe di risultare arrogante e anti-nipponico andando a rinforzare ulteriormente lo sterotipo che vede gli stranieri incapaci di esprimersi appropriatamente in giapponese.
Differenti livelli linguistici Come prodotto di una cultura kataizzata tramite rigidi codici comportamentali (quali, ad esempio, il sistema gerarchico superiore/inferiore) la lingua giapponese è composta di vari livelli creati per adattarsi al giusto rango sociale degli interlocutori e alle circostanze. Cominciando dall’alto, vi è la cosiddetta “lingua di corte” che si sviluppò all’interno della corte imperiale e che oggi è raramente utilizzata (quasi nessuno è infatti in grado di comprenderla). Al di sotto della lingua imperiale, troviamo un registro linguistico altamente stilizzato con i caratteri di un vero e proprio dialetto. Al di sotto di questo registro, esiste il “giapponese formale”, compreso da tutti, ma parlato solo da coloro che lo utilizzano con una certa frequenza. Esso viene chiamato in causa in situazioni e discorsi formali quali, ad esempio, le cerimonie. A seguire, vi è un giapponese più comune utilizzato nelle interazioni sociali e di lavoro giornaliere. Entro questo registro, però, esistono ulteriori livelli linguistici che possono variare dal formale al neutro passando anche per un livello più “volgare”. Le gradazioni che si vengono a creare tra questi livelli possono alterare enormemente il significato dei termini utilizzati, sulla base dell’intento dei parlanti. Al di sotto di questo livello linguistico “standard” esistono poi una miriade
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di gerghi di classe e sublingue. Tra questi è interessante citare l’idioma utilizzato dalle organizzazioni criminali, il quale sfocia quasi in un vero e proprio dialetto. Sebbene i giapponesi siano in grado di comprendere i gerghi più comuni, molti di loro, però, non sono in grado di riprodurli. Bisogna ricordare, infatti, che in Giappone esistono molte variazioni dialettali regionali parlate solo dai relativi nativi. Quando i giapponesi parlano la loro lingua, lo fanno includendo naturalmente tutti gli elementi culturali contenuti in essa: ovviamente, si aspettano che anche gli stranieri facciano lo stesso. In altri termini, per poter parlare in maniera appropriata, agli stranieri viene richiesto di assorbire la psicologia, la filosofia, nonché gli atteggiamenti fisici della lingua alla stregua dei parlanti nativi. Molti residenti in Giappone che studiano la lingua in loco riconoscono i contenuti culturali di questa e, unitamente allo studio linguistico, sono altresì capaci di assorbire automaticamente un certo numero di attitudini nel loro comportamento. Nonostante ciò, molti trovano l’ingrediente culturale di accompagnamento alla lingua talmente estraneo, da evitare qualsiasi “giapponesizzazione” delle maniere. Costoro, incapaci di assorbire la quantità necessaria di elementi culturali utili per amalgamarsi nella società nipponica, oltre ad essere guardati con sospetto, finiscono paradossalmente per mettere a disagio i giapponesi stessi. Siccome buona parte dei giapponesi non ha avuto una sufficiente esperienza nei rapporti cross-culturali, essa rimane molto sensibile al tema della lingua, poiché non è in grado di concepire le proprie attitudini ed i propri comportamenti divisi da essa. Si pensi, ad esempio, che anche parlare con un marcato accento dialettale non è sinonimo di sobrietà: piuttosto, è considerato un segno di debolezza del parlante. Ciò contribuisce ulteriormente a definire la natura speciale della lingua in Giappone. Allo stesso tempo, esiste anche una tendenza a considerare pericolosi tutti gli stranieri che parlano fluentemente giapponese. Questo perché non si potrà nascondere nulla dal punto di vista linguistico (non a caso, i giapponesi affermano che la presenza di abili parlanti stranieri li mette a disagio). In forte contrasto con ciò, essi sembrano invece altamente disponibili verso coloro che, sebbene non fluenti, cercano di dimostrare le poche competenze linguistiche acquisite. Ciò avviene poiché, a parte l’iniziale sorpresa, nessuna abilità è loro richiesta.
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Vivere in un’altra dimensione Gli occidentali che hanno vissuto per decenni in Giappone divenendo bilingui e biculturali sono uniti nell’affermare che la “fissa” dei giapponesi per il binomio lingua-cultura sia così radicata da impedire loro di relazionarsi efficacemente con gli altri popoli. Essi, infatti, credono che tutto ciò che accada in altre lingue o culture, non essendo in diretta relazione con il Giappone, debba essere tenuto a ragionevole distanza. Uno degli effetti di questo ragionamento è la tradizionale ossessione nel voler mantenere la cultura giapponese incontaminata. Ma non solo. Tra gli effetti contemporanei di questa politica della purezza e dell’esclusività sono da annoverare l’altissimo numero di residenti coreani e cinesi (molti dei quali nati in Giappone) legalmente segregati nel Paese, nonché la mancata accettazione delle altre nazionalità all’interno della società. Nonostante ciò, è virtualmente impossibile essere bene informati sul Giappone senza una profonda comprensione ed un apprezzamento dei termini chiave atti a descrivere le attitudini ed i comportamenti di questo popolo. Fortunatamente, da un certo punto di vista, raggiungere questo pur limitato obiettivo non comporta la fluidità linguistica. Non essere in grado, invece, di dialogare efficacemente con amici o con uomini d’affari (che non parlano la nostra lingua), sarebbe come fare una doccia con una muta addosso! In questi casi, più che la frustrazione personale, potrebbe giocare un ruolo penalizzante il fatto che la comunicazione sia incompleta e che lasci entrambi gli interlocutori in una posizione di oscurità rispetto ai desideri e ai sentimenti altrui. È stato calcolato che per buona parte delle persone raggiungere una certa disinvoltura in giapponese richieda sei o più ore di intenso studio quotidiano (unite alla pratica viva della lingua) per una durata di circa nove mesi di tempo. Per chi è coinvolto lavorativamente in Giappone ed intende sviluppare l’abilità di comunicare a trecentosessanta gradi in questo contesto culturale, però, lo studio della lingua rappresenta sicuramente un piccolo prezzo che vale la pena di pagare.
Capitolo 4
Un dilemma giapponese: le politiche contro i princìpi
Un noto giapponese una volta affermò: “Noi giapponesi seguiamo sì delle condotte, ma non possediamo princìpi!”. Nessuno nel mondo occidentale può comprendere o relazionarsi con il Giappone senza avere un’idea di come la morale in questo Paese differisca dal concetto duale di giusto e sbagliato. La tanto decantata omogeneità della cultura giapponese, ricca della sua saggezza antica e di quei processi che hanno trasformato, in senso positivo, i giapponesi in formidabili individui, è altresì responsabile di un lato oscuro che ha contribuito a produrre alcuni dei capitoli più foschi della storia mondiale dell’ultimo secolo. Questa controparte negativa della cultura giapponese è oggi riscontrabile in parte della politica interna e dell’economia del Paese di cui influenza direttamente tutte le azioni interne ed internazionali. Il bisogno impellente di integrare le economie del resto del mondo con la propria, riducendo al minimo le frizioni e ottimizzando i benefici per sé e per gli altri, rappresenta una questione cruciale per il Giappone contemporaneo. Purtroppo, però, al momento non esistono né la volontà, né i mezzi per raggiungere questo straordinario obiettivo. Le differenze politiche ed economiche esistenti tra il Giappone, gli Stati Uniti, e le altre nazioni del mondo scaturiscono da un background culturale che pone spesso i giapponesi fuori dal dominio del pensiero razionale collocandoli, invece, in un vuoto comunicativo e di intendimento. Questa spaccatura storica tra il Giappone ed il mondo esterno è ulteriormente complicata dall’orribile virus del razzismo. Focalizzandosi per il momento sui rapporti tra Stati Uniti e Giappone, bisogna riconoscere come tradizionalmente sia sempre stato presente un elemento razzistico nelle modalità con cui i due paesi si sono osservati e
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rapportati. Il razzismo ha giocato un ruolo chiave e riconoscibile sul condizionamento psicologico di entrambi i due paesi: basta osservare i manga, la letteratura, i film o i mezzi di informazione. Questo fattore, però, sembra superare il semplice elemento biologico alludendo piuttosto ad una combinazione di razza, religione e differenze profonde nel modo di pensare ed agire, unite ad ulteriori misture pericolose.
Il grande spartiacque filosofico Mentre sociologi ed altri studiosi stanno cercando di elaborare da ormai molte generazioni le numerose differenze culturali tra il Giappone e l’Occidente, uno degli elementi chiave più significativi non è stato ancora affrontato. Mi riferisco alle fondamenta etiche del Giappone, quasi mai chiamate in causa nelle relazioni politiche ed economiche. Esistono, infatti, profonde differenze tra le basi filosofiche del Giappone e quelle delle società occidentali. Disparità che affondano le proprie radici nella cultura giudeo-cristiana in Occidente, e quella shintobuddhista-confuciana in Giappone. Il concetto occidentale che vede l’individuo separato dai suoi simili e fornito di un bagaglio preordinato e predeterminato di diritti umani si è imposto come tema centrale nel pensiero occidentale. Ciò ha condotto gli uomini a pensare in autonomia e ad agire individualmente per il proprio bene. Non a caso, gli occidentali sono soliti porre tutto in questione, cercare prove: tutti sintomi di un atteggiamento che ha condotto ad un contegno scientifico nella ricerca basato su di un ragionamento logico e matematico. Secondo i suddetti canoni, non solo ciò che è apparentemente visibile ma anche tutto ciò che è invisibile rimane sotto lo scrutinio di coloro che vogliono penetrare l’intero segreto della vita. Da un punto di vista spirituale, il Giudaismo e il Cristianesimo erano caratterizzati dalla presenza di un dio unico che esprimeva la sua supremazia su tutto ciò che era invisibile ma anche universale ed immutabile. Egli era l’unico responsabile per la formulazione delle leggi morali. A lui e alle sue leggi, prima che a re o ad imperatori, gli uomini dovevano rimanere fedeli. Da questa teologia monoteista combinata con il sapere scientifico, i primi occidentali elaborarono princìpi che divennero verità universali. Conformandosi a questi, gli uomini vissero secondo ciò che giudi-
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carono il più alto standard possibile di condotta1. Alcuni di questi principi occidentali sono immediatamente identificabili nel corpo delle leggi create da stati quali l’Inghilterra, la Francia ed, in special modo, nella costituzione (degli anni Settanta del Settecento) e dalla conseguente Carta dei Diritti degli Stati Uniti d’America.
Un cammino diverso per il Giappone Nel Giappone antico (come anche in altre zone dell’Asia Orientale), le autorità secolari e spirituali venivano generalmente combinate nella persona di un re o di un imperatore. Lo scopo ultimo delle leggi emanate da questi e dai suoi ministri era quello di proteggere e preservare la classe dominante relegando in ultima posizione i diritti individuali dei sudditi. La concezione, pura ed insindacabile, che i diritti umani dovessero precedere le leggi dei re e degli imperatori non era, evidentemente, posta a fondamento della società. Nei regni asiatici, la morale consisteva in ciò che le autorità al potere sancivano e non era certo frutto del giudizio, emanato in cielo, di un dio infallibile. La morale tradizionale giapponese, ovvero ciò che si intende per una forma accettabile e condivisa di comportamento, non era basata su princìpi universali scoperti o propagati dall’uomo verso i suoi simili. Piuttosto, essa era incentrata sui costumi e le leggi che servivano gli interessi delle classi al potere. In tali società, la creazione ed il rafforzamento delle leggi era spesso arbitrario e basato sulle circostanze. Gli individui, dovendosi basare sulle circostanze prevalenti e mai su princìpi assoluti, hanno favorito molte delle contraddizioni tipiche del carattere giapponese, tra le quali una certa propensione a passare dall’estrema gentilezza all’estrema brutalità, oppure dall’estrema educazione a punte di maleducazione eccessiva. Molti giapponesi, coscienti di questo loro aspetto culturale, sono soliti affermare: “Noi giapponesi seguiamo sì delle condotte, ma non possediamo princìpi”. Sebbene essi si sforzino di vivere seguendo una serie di nobili precetti spesso mutuati dall’Occidente è doveroso constatare come la loro intera società sia ancora prigioniera di una mora-
1 Che in realtà, pochi seguirono, ma che divennero nonostante tutto i parametri idealizzati con i quali misurare il comportamento umano.
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lità basata sulle circostanze e sulle strategie, spesso foriera di risultati disastrosi.
Il grande dibattito etico Oggi, parte del grande e crescente dibattito in Giappone verte sul significato dei termini morale, etica e princìpio, rispettivamente Dōtoku, Rinri e Gensoku in giapponese. Sebbene questi termini assumano un significato differente all’interno del contesto nipponico, si è portati spesso a confonderli dimenticando che essi sono stati ideati, invece, da società fondate ognuna su caratteristiche proprie. Proponiamo un esempio. La pratica tradizionale eschimese che vede gli uomini in visita intrattenersi sessualmente con la moglie del padrone di casa rappresenta una tradizione onorata da tempo. Se mai, in questa società, un uomo rifiutasse di concedere la propria moglie al visitatore verrebbe considerato un essere immorale. Negli Stati Uniti ed in altre società la condivisione della sposa era, ed è ancora additata, come immorale alla luce dei princìpi della cristianità. In un contesto occidentale cristiano, i princìpi, applicabili a tutti ed in tutte le situazioni, sono, almeno in teoria, assoluti ed immutabili. L’uomo virtuoso non dovrebbe né ingannare, né trattare i suoi simili in modo ingiusto, anche se, in realtà, egli è pienamente cosciente del fatto che non potrà essere giudicato, imprigionato o punito nell’arco della vita terrena. In un certo senso, si può affermare che anche i giapponesi vivano seguendo modalità che, per loro, sono assolutamente morali. In un contesto occidentale, invece, il loro comportamento viene spesso considerato immorale, poiché non si uniforma a “princìpi” riconosciuti o condivisi. Ciò, ovviamente, non significa che la condotta occidentale possa essere giudicata sempre morale o basata su princìpi infallibili. Ovviamente non lo è. Partendo da questi presupposti, però, bisogna fare attenzione affinché queste ostilità non vadano a provocare frizioni che potrebbero infine minare, ad esempio, le buone relazioni politiche o economiche tra Occidente ed Oriente. Gli occidentali (soprattutto gli americani) considerano i giapponesi come un popolo disonesto nelle relazioni economiche con i fornitori, con i partner commerciali, i loro clienti ed i concorrenti. L’onestà sembra essere sovente l’unico principio a cui gli americani ed altri popoli occidentali fanno riferimento, sebbene i giapponesi non la consi-
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derino un punto di riferimento nelle relazioni con l’altro. Nel contesto giapponese, l’onestà è infatti un concetto relativo e dipendente dalle circostanze. Se non esiste a priori o se manca addirittura la volontà di costruire relazioni sufficientemente stabili da garantire mutue obbligazioni, la questione dell’onestà non può scaturire dal senso dell’uguaglianza o della responsabilità morale. Oggi, i giapponesi affrontano i temi dello scontro tra moralità e princìpi virtualmente in ogni ambito della loro vita, ma soprattutto negli affari e nella politica. Qui, infatti, essi sono chiamati ad agire basandosi più sulle strategie che sui valori condivisi. I mezzi di informazione giapponesi, che stanno gradualmente sviluppando una coscienza basata sui princìpi, svolgono oggi un ruolo significativo nella denuncia dei comportamenti immorali dei politici, ad esempio, accusati di corruzione o coinvolti in traffici illeciti. Fatti inammissibili anche per il tollerante pubblico giapponese. L’attuale sistema legale vigente in Giappone è basato sui criteri della giustizia e della protezione del cittadino. Questi princìpi, però, sono da interpretare dal punto di vista di una moralità sociale che ha tradizionalmente permesso alle forze dell’ordine, ad esempio, di usare violenza fisica sui sospettati ingiuriandoli ed estorcendo loro confessioni prima dei processi (continuando poi a vessarli anche dopo l’incarcerazione). Programmi televisivi sulla polizia in onda a più riprese durante la settimana mostrano agenti picchiare persone sospettate comportandosi come se il tutto si dovesse ridurre ad una semplice dimostrazione di forza. Purtroppo, non si registrano proteste né contro questi programmi, né contro la cruda realtà. Pochi giapponesi, alcuni dei quali in posizioni di rilievo, hanno cominciato a interrogare pubblicamente il Paese in materia di morale economica, soprattutto in relazione al commercio internazionale. Essi affermano che, se non ci si adatterà rapidamente ai princìpi occidentali, il Paese sarà chiamato ad affrontare le ostilità esterne rischiando di perdere buona parte di tutto ciò che ha conquistato dopo il 1945. La recente consapevolezza, che un sistema economico politicamente manipolato e auto-centrato sia incompatibile con i sistemi stranieri, arriva però troppo tardi e non è nemmeno abbastanza robusta da alterare in breve tempo il corso del gigante economico giapponese. Fino al collasso del mercato immobiliare e dei mercati finanziari agli inizi degli anni Novanta, commenti nel settore pubblico e privato dipingevano molti giapponesi convinti del fatto che il loro Paese poteva, e forse doveva, trasformare il resto del mondo nell’equivalente di
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una vasta colonia. Certamente, sarebbe stato un grave errore inseguire qualsiasi percorso che avesse favorito una tale politica (anche se non apertamente pianificata). Oggi, tutti i suddetti elementi combinati tra loro pongono indubbiamente il futuro del Paese a rischio. L’unica soluzione possibile (o forse la priorità assoluta) per il Giappone sembra essere, quindi, quella di adottare sistemi politici ed economici che pongano alla base della società un’effettiva morale.
Capitolo 5
Mai dipendere dalla logica in Giappone
Nulla è più frustrante e sconcertante per chi arriva per la prima volta in Giappone dell’incontro con la logica giapponese. Presenterò di seguito una visione d’insieme riguardante l’origine ed il funzionamento di questa logica unitamente ad alcuni consigli su come affrontarla. Il divario culturale esistente tra il Giappone e vari paesi dell’Occidente (tra i quali gli Stati Uniti, in particolare) rimane tuttora vasto e profondo nonostante più di mezzo secolo di solida interazione a livello sociale, economico e politico. Dal punto di vista americano, uno degli abissi culturali tra i più frustranti ed irrazionali è rappresentato dal diverso utilizzo della logica (in giapponese Ronri), sovente causa di ricadute immediate sulle relazioni politiche ed economiche tra i due paesi. Come risaputo, gli americani, unitamente ad altri popoli occidentali, si fregiano sovente di agire e pensare in maniera “logica”: fenomeno culturale che apparentemente nasce nell’ambito dei primi sviluppi della ricerca scientifica in molte regioni del vecchio continente. Questo stesso sviluppo scientifico, però, non ha caratterizzato il Giappone premoderno. In primo luogo, perché il Paese era geograficamente isolato; secondariamente, perché le sue correnti filosofico-religiose (Shintoismo, Buddhismo e Confucianesimo) ponevano l’accento sul passato; per ultimo, perché il governo feudale, comparso nel Dodicesimo secolo, enfatizzava lo status quo. L’ultima grande dinastia feudale giapponese, quella dello shogunato Tokugawa (1603-1868), si spinse così lontano nel proibire ogni cambiamento e nel congelare il Paese in quel preciso momento storico che, a livello sociale, scomparì quasi completamente il desiderio umano di imparare e di innovarsi. Sin dai tempi antichi fino alla metà dell’Ottocento, in Giappone l’enfasi era stata posta sull’interiorità e su un tipo di comportamento personale ed interpersonale altamente stilizzato: un
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sistema che aveva la precedenza sui sentimenti. Col passare del tempo, le forme ed i processi acquisirono ulteriore importanza a scapito della sostanza e, nella maggior parte dei casi, la logica (Ronri) veniva giustificata solo in quanto strumento utile per eseguirli correttamente. La società venne ulteriormente formalizzata e codificata da un sistema verticale che classificava gli individui per classe, età, occupazione e sesso; tale sistema, però, pur essendo razionale, ignorava la pura logica come fondamento del pensiero e del comportamento umano. Mantenere, invece, relazioni “corrette” tra gli individui e l’armonia all’interno dei gruppi divenne l’imperativo categorico della cultura giapponese. Per raggiungere tale scopo, però, era spesso necessario agire in maniera illogica. Ancora oggi, poche cose riescono a contrariare maggiormente i giapponesi quanto un approccio logico alle relazioni personali, politiche e lavorative. Essi, infatti, considerano le posizioni o le presentazioni basate sulla logica come fredde e calcolate poiché inefficaci nel considerare l’elemento umano e spirituale. In numerose occasioni, ho preso personalmente parte a presentazioni aziendali di uomini d’affari americani in visita in Giappone. Sebbene impeccabili, dal punto di vista del ragionamento logico, tali presentazioni sortivano un effetto contrario sull’audience giapponese, sempre più chiusi e a disagio nell’impossibilità di riconciliare i propri valori con quelli della logica americana. La logica giapponese, infatti, si basa su imperativi culturali che hanno il compito di creare e sostenere relazioni cooperative ed armoniose basate sull’esperienza accumulata nei secoli, sull’etichetta tradizionale, sull’etica, nonché sui risultati che queste intendono raggiungere. La differenza sostanziale tra la logica occidentale ed il concetto di Ronri consiste nel fatto che, nel contesto giapponese, la logica non viene necessariamente equiparata alla razionalità: se è per soddisfare un qualche elemento umano o spirituale caro ai giapponesi, infatti, spesso essa si rivela inutile. Nelle conversazioni, ad esempio, è perfettamente logico nascondere le proprie reali intenzioni (Honne) dietro una facciata pubblica (Tatemae) utilizzando frasi e termini astratti privi di senso e fuorvianti. In questi casi, che rappresentano la regola più che l’eccezione, nella maggior parte delle situazioni formali, rimane compito di chi ascolta indovinare il significato recondito o le vere intenzioni del parlante. Processo, questo, che richiede una conoscenza approfondita della lingua e della cultura. Conoscenza a cui spesso si fa riferimento con il termine di Haragei (“arte delle viscere”) e che si potrebbe tradurre come “capacità di leggere la mente altrui”.
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È altresì logico, per il modo di fare giapponese, condividere la responsabilità in gruppo piuttosto che farla gravare su di un unico individuo. Questa procedura è divenuta un potente incentivo contro la prevenzione degli errori da parte dei singoli e contro il conseguente coinvolgimento del gruppo di appartenenza. Nel caso in cui si verifichino errori gravi o casi di attività criminale all’interno di aziende o organizzazioni governative, è logico per i giapponesi individuarne nel rappresentante il responsabile maggiore e chiederne formalmente le dimissioni come gesto simbolico per mantenere, almeno, l’armonica esteriorità del gruppo. Travisare eventi, mentire o imbattersi in altre attività di copertura rappresentano azioni logiche nell’ambiente tradizionale giapponese: se, però, il fine è quello di preservare il gruppo e l’intero sistema. Questa logica circostanziale, soprattutto quando è utilizzata dai burocrati del governo, include altresì un elemento nazionalistico. Due delle sanzioni tipiche utilizzate dal sistema per rinforzare la conformità alla logica giapponese sono il mobbing e l’ostracismo. Il mobbing, sia esso da parte di colleghi di lavoro o di superiori, può assumere toni sadistici e continuativi al fine di raggiungere l’obiettivo finale: ovvero, la completa ostracizzazione del partito colpevole. Certamente molti giapponesi sono in grado di ragionare seguendo la logica occidentale. Nonostante ciò, il loro comportamento è comunque condizionato dal gruppo di appartenenza. Solo in rare eccezioni essi si dimostrano abbastanza forti, temerari o coraggiosi da infrangere il codice condiviso, ecco perché sentondosi limitati e frustrati dal sistema in cui vivono, hanno inventato alcuni metodi per evaderlo in momenti cruciali; uno di questi consiste nel parlare d’affari fuori dall’ufficio, solitamente durante cene informali da tenersi la sera. Ciò permette loro di fare a meno della posizione pubblica (Tatemae, appunto) e di poter rivelare invece le proprie vere intenzioni (Honne). Gli occidentali dovrebbero ricordare che tutto ciò che sentono in maniera ufficiale dai giapponesi altro non è che Tatemae. Dovrebbero altresì essere coscienti che ciò che viene comunicato in maniera informale come Honne non si tramuterà necessariamente in realtà, poiché quasi nessun uomo d’affari potrà agire in maniera del tutto indipendente; allo stesso modo, nessun burocrate sarà mai abbastanza egocentrico da poter evitare il sistema. Imparare a navigare tra le correnti e i vortici della logica giapponese rimane quindi la sfida principale per gli occidentali.
Capitolo 6
Potrà mai il Giappone immettersi nell’energia cosmica?
Appare sempre più evidente come gli antichi popoli asiatici abbiano scoperto alcuni segreti fondamentali dell’universo. Tra questi l’esistenza ed il potere del “Ki”che un numero sempre maggiore di imprenditori giapponesi applica nei programmi di addestramento personali e dei loro dipendenti.
La forza è con loro? Ho personalmente assistito a dimostrazioni di arti marziali in cui maestri anziani, (spesso gracili omini che a stento arrivavano ai sessanta chili) facevano volare via ragazzi dalla costituzione ben più robusta senza mostrare il benché minimo sforzo, semplicemente limitandosi a toccare chi stava di fronte in attacco. Tali dimostrazioni avevano il fine di mostrare il potere del Ki, un concetto di cui pochissimi occidentali hanno sentito parlare. Nella metà degli anni Novanta dello scorso secolo, però, il termine cominciò a circolare in numerose riviste popolari americane. Il concetto e l’utilizzo del Ki in Asia risale ai tempi antichi. Molte migliaia di anni fa, in India e in Cina gli uomini impararono attraverso l’introspezione che il sangue circolava all’interno del corpo umano (fenomeno scoperto solo qualche secolo più tardi in Europa) e che esisteva una sorta di “forza vitale”, manipolabile dalla mente, che era altresì in grado di reagire al contatto o all’inserimento di aghi nei suoi canali. Questa antica conoscenza, unita all’utilizzo di un potere speciale che univa mente e corpo, non era, però, appannaggio esclusivo dell’Asia. Sembra, infatti, che quasi tutte le culture occidentali utilizzassero coscientemente la cosiddetta energia cosmica insita nelle loro attività. Soprattutto in Europa occidentale, la cristianità ha sovente col-
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legato queste pratiche all’adorazione del diavolo, laddove gli empirici, invece, le hanno rinnegate insieme a tutto ciò che non potevano vedere o sperimentare all’interno dei loro laboratori. Solo negli ultimi decenni del Ventesimo secolo, nord-americani ed europei, influenzati dal crescente contatto con il Giappone, la Cina ed altri paesi asiatici, hanno cominciato a riesaminare le vecchie conoscenze che vedevano il corpo infuso di una qualche energia. Stando a queste tradizioni, che gli scienziati occidentali e le autorità mediche avevano fino a quel momento considerato prive di senso, l’energia, tramite l’influsso della mente, poteva alterare la pressione sanguigna, la percezione del dolore, nonché altri elementi fisici. Un primo stimolo a questo interesse tra gli occidentali fu la pratica dell’agopuntura e la sua crescente popolarità tra alcuni medici. L’interesse si diffuse enormemente grazie al caso di un giornalista americano colpito da un attacco improvviso di appendicite durante un soggiorno a Pechino. Costui, operato da chirurghi cinesi che utilizzarono l’agopuntura per anestetizzarlo, pubblicò il resoconto della sua esperienza sul «New York Times». Negli anni Ottanta del Ventesimo secolo il governo cinese lanciò un esteso programma di ricerca che includeva metodi scientifici e moderni al fine di provare l’esistenza di questa straordinaria forza vitale negli esseri umani, nonché la sua efficacia nel trattamento di varie patologie. Per questo fine, il governo sponsorizzò altresì l’apertura di dozzine di scuole regionali per l’addestramento nell’agopuntura di migliaia di individui. In Giappone, questa misteriosa “energia cosmica” viene definita Ki e la sua pronuncia deriva dall’antico cinese “ki” o “chi”, tradotto sovente con “energia”, “spirito”, “mente” o anche con “respiro cosmico”. Ki è una delle sillabe che compongono la parola Aikidō, una delle arti marziali più popolari in Giappone. Non solo. Essa è contenuta nel termine Kiai, ovvero il grido che i praticanti di Kendō lanciano quando attaccano gli avversari con le loro spade di bambù. I giapponesi, come anche gli altri asiatici in generale, hanno infatti imparato già da molto tempo addietro a chiamare a raccolta il potere del Ki attraverso il grido nei momenti in cui manifestano la propria energia interiore. Il grido in sé stesso non rappresenta necessariamente il Kiai, poiché esso può essere qualsiasi suono con o senza un significato. Negli anni Sessanta, molte aziende giapponesi promossero dei programmi per rafforzare il Ki dei nuovi assunti insegnando loro ad applicarlo nelle attività lavorative. Le nuove reclute venivano mandate in
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centri d’addestramento (che richiamavano quelli militari) dove era loro richiesto di esercitarsi per alcune ore al giorno gridando il più forte possibile in luoghi pubblici (spesso presso stazioni di treni locali alla presenza dei pendolari di passaggio). Senza curarsi di come potevano essere considerate dagli imprenditori occidentali, impostati alla razionalità e alla scientificità, queste pratiche funzionavano comunque alla perfezione, come tutti coloro che hanno servito unità militari della marina o che si sono misurati in alcune attività sportive possono testimoniare. Nonostante tutto, però, ad un certo punto, questo tipo di addestramento da parte delle aziende giapponesi sembrò doversi esaurire, poiché sia l’alto management che i nuovi impiegati persero buona parte dell’ardore militaresco con il quale affrontavano il lavoro sin dall’immediato dopoguerra fino allo scoppio della “bolla speculativa” dei primi anni ’90. Personalmente, non sono in grado di fare previsioni, né di dare suggerimenti alle aziende occidentali che hanno adottato l’addestramento al Kiai per i loro impiegati, ma è innegabile che nuovi sviluppi ed utilizzi del concetto di Ki siano sulla buona strada per essere riconosciuti universalmente. Sin dalla metà degli anni Ottanta, un numero crescente di noti imprenditori giapponesi si sono rivolti in massa a maestri del Ki per imparare i segreti della forza interiore. Anche il potente Ministero del commercio internazionale e dell’industria del Giappone sta lavorando insieme con l’Università delle Elettrocomunicazioni per cercare di scoprire la natura del Ki e le modalità per controllarlo. Anche la Sony Corporation, epitome di impresa moderna ed internazionale, possiede un team di specialisti che studiano il fenomeno del Ki. Secondo la testimonianza di molti dirigenti d’alto livello di alcune delle più grandi imprese di successo giapponesi, incluso la Sony e la Sega Enterprises, il Ki è stato in grado di curare malattie, renderli più giovani ed energici, fornendo loro straordinarie intuizioni per la conduzione delle aziende. Data la vasta approvazione ed il conseguente successo da essa scaturita, risulta chiaro che il Ki potrà ancora ricoprire un ruolo importante per l’arsenale economico giapponese. Anche per gli imprenditori occidentali potrebbe essere interessante scandagliare il potenziale insito del Ki. Non solo per mantenere il vantaggio competitivo negli affari quanto, piuttosto, per trarne i maggiori benefici a livello personale. Concludendo, se gli sforzi compiuti da cinesi e giapponesi per comprendere e controllare il Ki hanno prodotto risultati di successo, il resto degli imprenditori del mondo farebbe meglio a non farsi cogliere troppo impreparato sull’argomento.
Capitolo 7
Barriere culturali ed extralegali per gli stranieri in Giappone
Fare affari in Giappone rappresenta una grande sfida anche per i giapponesi. Non c’è da stupirsi se ciò risulta ulteriormente complicato per gli stranieri. Fino agli anni Ottanta, il Giappone ha mantenuto per una serie di prodotti una pletora di barriere legali che hanno reso difficile, se non impossibile, l’entrata di imprese estere nel Paese. Oggi, buona parte di queste barriere legali sono state eliminate o ridotte ad un livello che ha posto il Giappone al livello dei paesi occidentali. Nonostante ciò, a causa di pratiche culturali ed extralegali utilizzate da ministeri governativi ed agenzie ad essi collegate, bisogna riconoscere che ancora adesso non è semplice per le imprese straniere lavorare in Giappone. Le pratiche extralegali a cui faccio riferimento consistono in ritardi e richieste arbitrarie imposti sovente alle aziende estere e ai loro prodotti dalle agenzie governative giapponesi. Ministeri ed agenzie, infatti, si sono spinti sovente oltre la legge nello sforzo di indirizzare l’economia nella direzione ritenuta più giusta per le industrie ed il Paese, ritenendo loro dovere morale proteggere il Giappone da tutto ciò che avesse potuto danneggiare il tessuto economico-sociale senza considerazione alcuna della legge. Specialmente in passato, il Giappone ha reagito in modo differente alle proteste logiche e legali avanzate dalle imprese straniere: a volte ignorandole completamente, a volte promettendo cambiamenti che poi non venivano mai realizzati. Nel peggiore dei casi, sono state emanate leggi per proibire le suddette pratiche, con il risultato che esse ne uscivano paradossalmente rinforzate. Come conseguenza di tutto ciò, è normale che qualsiasi individuo che occupi posizioni inferiori in dogana (o in altre agenzie) o che sia incaricato dell’emissione di permessi, licenze o altri approvazioni ufficiali, abbia la possibilità di bloccare ogni
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richiesta a tempo indeterminato. Ciò può avvenire se egli non è d’accordo con i contenuti della richiesta, se è contro il richiedente, o se è persuaso da concorrenti o chiunque abbia interessi a ritardare e ad insabbiare la procedura. Gli imprenditori stranieri che non hanno familiarità con questa burocrazia corrono spesso il rischio di essere rimandati per settimane (se non addirittura mesi) per pratiche che, in realtà, richiederebbero solo qualche ora (o al massimo qualche giorno) senza nemmeno poter capire il vero motivo di questi ritardi. Ancora oggi, queste barriere virtuali rappresentano un ostacolo, finendo col produrre solo costosi e frustranti ritardi. Più gravi di queste barriere, che possono essere comunque superate da una grande tenacia, sono i muri e le trincee derivanti dalle idiosincrasie della cultura giapponese. La prima di queste (e forse la più importante) riguarda l’etichetta e la morale nelle relazioni interpersonali ed economiche. In Giappone, questi due elementi influenzano gli affari attraverso modalità criptiche spesso giudicate irrazionali ed ostruzioniste dagli osservatori occidentali. Partiamo dal presupposto che tutte le organizzazioni giapponesi sono orientate al gruppo e che l’individuo non occupa che un ruolo secondario rispetto ad esso. L’autorità si diffonde all’interno del gruppo senza essere delegata ad un leader, come spesso accade in Occidente. Qualsiasi straniero che entri in un dato gruppo, approcci un responsabile e sia convinto di averlo convinto con i propri argomenti, non ha compiuto in realtà che un “primo passo”. In Giappone, le decisioni, infatti, sono basate sul consenso dell’intero gruppo. L’unica possibilità di far prevalere le proprie idee o i propri progetti dipende essenzialmente dall’abilità del singolo nel persuadere ogni membro del gruppo senza irritarlo e senza mostrare aggressività o eccessivo individualismo. Il processo di persuasione avviene sovente dietro le quinte, al di fuori degli orari di lavoro, ed è conosciuto col termine di Nemawashi, che letteralmente significa: “rivoltare le radici”, ma che in realtà fa riferimento a discussioni di tipo confidenziale e al fenomeno del lobbismo. Tradizionalmente il Nemawashi si svolge nei bar, nei cabaret e nei cosiddetti Ryotei, ovvero locali che servono cibo e che intrattengono i clienti con le geishe (laddove richieste). Di recente, però, il lobbismo avviene anche presso le lounge degli hotel, nei ristoranti o durante gli incontri di golf. Il Nemawashi richiede tempo, energia e denaro. Rimane, però, un elemento vitale per gli affari in Giappone, ed è per que-
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sto motivo che le aziende nipponiche spendono da cinque a dieci volte di più nell’intrattenimento rispetto a quelle occidentali. Tutte le aziende in Giappone stanziano budget ufficiali per il Nemawashi. Spesso, però, questi budget vengono superati e le aziende devono coprire le spese extra trovando mille sotterfugi. I budget, di solito, coprono due tipi di intrattenimento: quello da parte dei manager per intrattenere i membri dello staff al fine di creare intimità e migliorare i legami, ed un secondo, per i clienti acquisiti e quelli futuri. Un altro muro culturale che gli stranieri si trovano ad affrontare quando entrano in contatto con aziende giapponesi riguarda il processo di pianificazione dei progetti. Tranne rare eccezioni emerse solo negli ultimi anni, le proposte manageriali (in buona parte delle imprese giapponesi) partono all’interno delle sezioni e dei dipartimenti e mai ad un livello esecutivo: inutile dire che quando gli occidentali incontrarono per la prima volta questo approccio manageriale “bottom up” ne furono profondamente sconvolti. Sebbene il supporto della direzione possa indubbiamente aiutare all’interno di una corporation giapponese, il successo o meno nel trattare con le aziende dipende dalle relazioni sviluppate con i colleghi coinvolti negli stessi progetti all’interno delle sezioni e dei dipartimenti. Quasi sempre, queste relazioni necessitano di andare oltre i prodotti, i servizi o il mero lato finanziario. Esse devono assolutamente includere il lato personale. Così come la controparte giapponese, anche i businessman occidentali dovrebbero essere praparati a spendere tempo e denaro dopo la fine del lavoro creando buone relazioni interpersonali con i capi di dipartimento e di sezione, ma anche con i livelli più bassi dello staff. Il primo passo per intessere e mantenere buone relazioni in Giappone è identico a quello di altri paesi: basta mangiare e bere in compagnia. A ciò, in Giappone si aggiunge un ulteriore elemento: la compagnia di giovani donne, che in passato, divenivano quasi sempre compagne di letto. L’usanza di introdurre donne attraenti e compiacenti per cementificare le relazioni tra uomini, sebbene sempre più in calo per i costi che comporta, è una pratica tuttora in voga in Giappone. Questo tipo di intrattenimento avviene solitamente nei bar e nei cabaret che ospitano “hostess”, non nelle case per geisha, che invece si rivolgono ad un alto target di funzionari governativi e capitani d’industria. Come la loro controparte giapponese, anche i businessman stranieri sono chiamati a spendere una parte del loro dopo-lavoro per nutrire le relazioni personali con i loro futuri fornitori, clienti o partner commerciali giapponesi.
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Altro elemento importante nella procedura di creazione e mantenimento dei legami personali in Giappone è lo scambio di favori. Naturalmente, chi è in una posizione di richiedere un favore dovrà essere maggiormente pronto a donare che a ricevere. Tra le barriere culturali quasi impercettibili, tanto da non essere quasi mai riconosciuta completamente dagli americani, vi è la lingua. Le buone relazioni personali e lavorative dipendono infatti da una comunicazione chiara e completa. In più di cinquant’anni di esperienza in relazioni tra il Giappone e l’Occidente non ricordo nemmeno un’occasione dove la comunicazione tra le parti abbia raggiunto un’effettiva completezza. Nella maggior parte dei casi, infatti, la parte straniera delegava alla parte giapponese il compito di capire e parlare la lingua straniera con risultati che potevano spaziare perlopiù dall’accettabile allo scarso. Inutile dire che con questa strategia, entrambe le parti non riuscivano ad avere mai un quadro chiaro delle posizioni e delle aspettative degli interlocutori, dovendo operare sovente in una zona d’ombra comunicativa. È superfluo ricordare che in una scala da 1 a 100, basterebbe non capire il 2-3 percento di uno scambio per incorrere in seri problemi di intelligibilità. Ovviamente, anche nella propria lingua madre, una comunicazione esauriente richiede sovente un livello di competenza che molti individui non possiedono. Per non parlare del fatto che, oltre a ciò, le lingue mutano. Nel caso del giapponese, però, esso risulta molto ambiguo non solo nel vocabolario, ma anche nelle modalità con cui viene utilizzato: tutto ciò ne rende ulteriormente impegnativa l’implementazione. Nonostante ciò, rimanendo nell’ambito della lingua, non posso non rimanere stupito dall’insensibilità culturale e dall’ignoranza di molti professionisti occidentali (in particolare americani). Sebbene coscienti della barriera linguistica, nessuno si decide infatti ad affrontarla adducendo, invece, come scusa l’impossibilità di investire tempo e denaro nell’apprendimento linguistico. Inutile ricordare che per sormontare le varie barriere che ostacolano il business in Giappone è necessario in primis acquisire conoscenza. Dopo di ciò, le abilità personali ed il buon senso richiederanno anche la lungimiranza per chiamare in causa l’aiuto di personale qualificato.
Capitolo 8
Confrontarsi con un Giappone ateo
I valori ed i comportamenti ereditati dal Giappone tradizionale divergono da quelli dei popoli educati alla cultura cristiana. Molte di queste differenze hanno delle ricadute sulle attività commerciali, le relazioni interpersonali e la sfera sessuale. Il primo contatto documentato tra occidentali e giapponesi avvenne nel 1543 allorché una giunca proveniente dalla Cina con a bordo molti commercianti portoghesi fu dirottata da una tempesta sull’isoletta di Tanegashima, a quaranta chilometri (venticinque miglia) dalle coste del Kyūshū. Tra le novità che i visitatori portoghesi introdussero in Giappone vi erano armi da fuoco, polvere da sparo, tabacco e anche …malattie veneree. Il signore dell’isola rimase così colpito dalla polvere portata dai portoghesi che ordinò agli artigiani dell’isola di costruire una fonderia per duplicare il prodotto: in soli cinque anni, i fucili di Tanegashima superarono qualitativamente quelli prodotti in Europa. Poco tempo dopo, i portoghesi ritornarono a Macao riportando della scoperta del Giappone. Ciò attrasse altri commercianti e missionari dal Portogallo e dalla Spagna che furono presto seguiti da inglesi ed olandesi. Lettere, cronache, libri furono successivamente redatti dai primi occidentali che presero residenza nel Paese rivelando le cospicue differenze tra il modo di agire e pensare occidentale, ed i valori ed il comportamento dei giapponesi. Da una prospettiva occidentale, i giapponesi sembravano non possedere morale o etica e venivano sovente descritti come persone incontrollabilmente bugiarde di cui non doversi assolutamente fidare. I primi missionari stranieri rimasero ulteriormente scioccati dalle attitudini in campo sessuale dei giapponesi. Essi, infatti, non ritenevano peccaminosa la nudità o il sesso. Piuttosto, li consideravano funzioni “fisiologiche” aventi un ruolo fondamentale nella vita.
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Tali critiche erano destinate a continuare per almeno quattrocento anni. Fu, infatti, solo a metà del Novecento che gli occidentali cominciarono a comprendere i “motivi” di questi comportamenti attraverso lo studio dei pilastri filosofici dell’etichetta e dell’etica giapponese. I primi a raggiungere una profonda comprensione di questa cultura così “immorale”, rendendola fruibile all’esterno, furono gli uomini di affari occidentali improvvisatisi scrittori, insieme ad altri pochi studiosi. Successivamente, dagli anni Settanta del Ventesimo secolo essi furono coadiuvati da un ristretto gruppo di autori giapponesi che cominciarono a pubblicare in lingua inglese. Il nucleo delle differenze tra la morale occidentale e quella giapponese è legato ai sistemi religiosi che hanno dominato entrambe queste due sfere culturali. In Occidente, la cristianità divenne la forza spirituale e filosofica dominante basandosi su principi assoluti quali il bene ed il male, o i principi di giusto e sbagliato. Essa sviluppò un dettagliato codice di pensiero e di comportamento che si inculcava negli individui già dall’infanzia. Ogni pensiero o azione veniva prescritta e giudicata da un unico, onnisciente ed onnipotente dio, il quale indicava in termini assoluti i precetti pertinenti alla vita quotidiana. Gli occidentali venivano in tal modo educati a giudicare ogni singolo aspetto della vita, etichettando pensieri ed azioni secondo le categorie antitetiche di buono/cattivo o morale/immorale. La vita in Occidente prendeva quindi spunto dai princìpi assoluti dei Dieci Comandamenti, secondo i quali, gli individui erano costretti a soffrire pene spirituali ed emotive ogni qualvolta avessero infranto uno di questi regolamenti o quando la loro cattiva condotta veniva tenuta nascosta ai propri simili. Dio sapeva e si sarebbe saputo vendicare da solo. Per molte centinaia di anni, nell’Europa del periodo premoderno, la chiesa cattolica romana portò avanti la sua battaglia contro gli infedeli ed i sospetti eretici. Fu un periodo di grande crudeltà ed intolleranza religiosa che passò alla storia con il nome di Inquisizione. Centinaia di migliaia di individui vennero imprigionati, torturati, ed immeritatamente giustiziati, spesso tramite la condanna al rogo. Sebbene i metodi della cristianità fossero inumani ed irrazionali, essi instillarono comunque negli occidentali precetti comportamentali basati sui princìpi dell’immutabilità e dell’assolutezza. La prima regola nella cultura occidentale consisteva nel sapere distinguere automa-
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ticamente il bene dal male, il giusto dallo sbagliato, così come indicava la Chiesa1. In Giappone non esisteva un dio unico ed onnipotente. Non vi erano nemmeno i Dieci Comandamenti. Nessun testo religioso insegnava verità assolute, ma vi erano invece dettagliate linee guida riguardanti lo status sociale, la posizione, il genere e le relazioni interpersonali. Nessuna di queste linee guida possedeva, quindi, il benché minimo legame con la religione. Per il popolo giapponese, nessun potere definitivo era nelle mani di un dio. Piuttosto, esso era depositato nell’ambito del gruppo. I singoli giuravano fedeltà ai membri del gruppo e ai loro leader e non giuravano ad un dio (né lo temevano). Ciò di cui erano intimoriti erano quindi il giudizio e le opinioni degli appartenenti allo stesso gruppo, ai quali si sforzavano di uniformarsi il più possibile condividendo al contempo i desideri dei superiori. All’interno di questo contesto culturale, dove le circostanze e l’ambientazione erano di base pacifiche, il parametro di riferimento per ciò che era ritenuto vero e giusto veniva ad essere determinato dalla maggioranza. Di conseguenza, in tempi di conflitto e di caos, o nei momenti di avvicendamento al potere, anche la morale tendeva a mutare per conformarsi alle nuove circostanze. I giapponesi consideravano virtuosi coloro che seguivano il consenso del gruppo (proteggendolo dall’esterno) e coloro che sapevano convivere in armonia in una sorta di “cameratismo”, obbedendo a tutte le regole dell’etichetta richieste dal sistema sociale. Non esisteva quindi un bene assoluto. Esistevano, piuttosto, i bisogni immediati dei più, e tutto ciò che serviva le esigenze della maggioranza era considerato “buono”. Il “male”, al contrario, era tutto ciò che si poneva in contrasto con questa mentalità. A confortare questa moralità situazionale vi era anche il fatto che qualsiasi beneficio a favore dei leader veniva automaticamente recepito come beneficio per l’intero gruppo2. I primi occidentali in Giappone, condizionati da quei princìpi assoluti ed antitetici che si estendevano virtualmente in ogni angolo del 1 Sfortunatamente, però, ciò non garantiva né il bene, né un comportamento più umano. Non a caso, ancora oggi, buona parte del male perpetrato nel mondo viene commesso sempre in nome della religione. 2 Ciò spiegherebbe anche il motivo per cui molti leader giapponesi siano stati in grado di imbarcarsi in qualsiasi tipo di frode economica, finanziaria e politica senza incorrere nella collera dei subordinati.
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pensiero e del comportamento umano, furono letteralmente scioccati nel doversi misurare con la morale antropocentrica e circostanziale dei giapponesi. Oggi, dopo l’introduzione dei principi della democrazia in Giappone, ad opera degli Stati Uniti, seguita alla Seconda guerra mondiale nel 1945, e dopo alcuni decenni di influenza occidentale, il sistema morale, frutto del raro meticciamento tra Buddhismo, Confucianesimo e Taoismo, è stato diluito considerevolmente. Nonostante ciò, esso rimane ancora molto visibile all’interno del governo, delle organizzazioni tradizionali e di molte aziende giapponesi. Di conseguenza, gli occidentali coinvolti con il Giappone dovranno prestare attenzione a non dare per scontato il fatto che i giapponesi possano comprendere la loro logica e la loro moralità incentrata su princìpi assoluti. Indubbiamente, molti giapponesi sono oggi in grado di comprendere l’approccio occidentale su base individuale. Gli stessi individui, però, nell’interazione con i loro colleghi di lavoro dovranno necessariamente conformarsi alle aspettative del gruppo. Ovviamente, l’approccio giapponese alla morale deve fondarsi su alcuni punti di forza, altrimenti non si spiegherebbe come un gruppo così relativamente ristretto di individui, in un paese dalle piccole dimensioni, avrebbe potuto costruire la seconda economia più importante al mondo in soli trent’anni. Tra questi punti di forza vi è il fatto che la moralità giapponese permette al singolo di raggiungere obiettivi che vengono disapprovati o, addirittura, chiaramente proibiti nell’ambito della morale occidentale. Altro fattore da tenere in cosiderazione, è l’orientamento al gruppo che permette di concentrare le energie su obiettivi specifici. Ciò comporta quindi che il singolo debba sacrificare tempo, energia e talento agli interessi del sistema. Concludendo, si può affermare che la natura esclusiva della mentalità giapponese renda imperativo il massimo impegno al fine di ottenere la comprensione e la coperazione degli stranieri, mettendoli, però, nella situazione di non poter competere con loro alla pari3. Come è facile prevedere, il mindset della maggior parte dei giapponesi non cambierà così velocemente (in particolare per coloro che lavorano per il governo) almeno fino a quando essi non comprenderanno che una genuina globalizzazione economica può rappresentare un effettivo beneficio e non solo una minaccia. 3 In questo passaggio, l’autore fa riferimento alla dipendenza dalla cultura classica dei giapponesi (N.d.T.)
Capitolo 9
Giocare in un campo perennemente avverso
In Giappone, tutti i tipi di relazione, incluso quelle lavorative e personali, sono influenzate dalla cultura prevalente. Le presunte “difficoltà” che gli stranieri riscontrano nel mondo degli affari, altro non rappresentano che un’illusione creata da loro stessi. La visione che molti uomini d’affari stranieri hanno del Giappone, come di un campo da gioco avverso, nasce fondamentalmente da due dimensioni: la prima comprende una genuina riflessione sul contesto affaristico di per sé; la seconda, ha le caratteristiche di un “miraggio” che nasce dalla combinazione di ignoranza ed incapacità di comprendere il Giappone se non attraverso i filtri interpretativi occidentali. Sfortunatamente, i problemi causati da questo “accidentato” campo da gioco che è il Giappone non possono essere facilmente risolti. Infatti, né la buona volontà nell’ambito legislativo da parte giapponese, né una repentina comprensione da parte straniera, potrebbero alterare le ben radicate attitudini e le pratiche indicate come causa dei caratteri anomali del mercato giapponese. Ciò lascia gli uomini d’affari stranieri con un’unica scelta, e cioè, quella di imparare a trattare efficacemente con la controparte giapponese imparando a stare in equilibrio in situazioni di evidente “imparità” sia nel mercato nipponico, che nei loro mercati interni. Per poter rimanere in equilibrio, è innanzitutto necessario interpretare attraverso un linguaggio cross-culturale tutto ciò che si vede e che si sente. I problemi, però, cominciano quando tutto ciò che viene detto e mostrato non corrisponde più alla realtà. Per un’accurata comprensione della prassi giapponese, gli occidentali necessitano di approfondire il significato che concetti quali l’uguaglianza e l’equità rivestono in Giappone. Esiste certamente un termine giapponese per “uguaglianza”, anche se esso viene raramente utilizza-
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to. Nel contesto nipponico, infatti, un’effettiva uguaglianza non esiste che nel campo della fisica. All’interno di associazioni politiche e commerciali, come anche in quasi tutti gli altri ambiti della vita, esistono ovunque entità superiori ed inferiori. L’uguaglianza all’interno delle relazioni economiche si riduce ad un concetto puramente situazionale da dover interpretare attraverso parametri culturali giapponesi e non attraverso i princìpi astratti occidentali. Nel sistema giapponese, infatti, si presume in maniera automatica che qualsiasi partito più forte, perspicace e particolarmente abile, non solo non possegga le caratteristiche dell’equità rispetto alla controparte debole, ma si ritiene che esso otterrà anche maggiori benefici in virtù della sua situazione di prevalenza.
Fallimenti nelle joint-ventures Né il princìpio del buon samaritano, né il prestare attenzione ai perdenti sono mai stati elementi promossi in Giappone. Essi, infatti, non hanno mai avuto diritto di cittadinanza all’interno dell’esperienza storica del Paese. L’incapacità da parte occidentale di riconoscere questo aspetto nel contesto delle joint-ventures con compagnie giapponesi, ha contribuito in maniera significativa alla dissoluzione di queste nel giro di pochi anni. Certamente, potenziali incrinature sono inevitabili nelle joint-ventures, soprattutto se originate dalla differenza di vedute rispetto agli obiettivi. Generalmente, i giapponesi sono orientati allo sviluppo di nuove tecnologie, nuovi prodotti e nuove quote di mercato da sfruttare per la propria crescita e la reddività interna: in altre parole, essi si imbarcano nelle suddette collaborazioni con il chiaro intento di sfruttare i partner stranieri. Dall’altro lato, gli imprenditori occidentali entrano nelle joint-ventures convinti di guadagnare un accesso facilitato e più economico al mercato giapponese, non comprendendo (se non ignorando del tutto) che le suddette operazioni non rappresentano nel lungo periodo un buon investimento in termini di impresa. Quando le relazioni si inaspriscono, quindi, essi non possono fare altro che lamentarsi della controparte giapponese. Il tema dell’equità all’interno delle relazioni Giappone-Occidente rappresenta sicuramente il problema primario e la fonte principale delle incomprensioni e delle difficoltà che gli stranieri si trovano ad affrontare nel Sol Levante. Secondo la concezione occidentale, l’equità
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è un princìpio astratto ed universale da dover applicare in tutti i tipi di relazione. In effetti, sembra quasi che l’equità rappresenti l’unico princìpio etico che gli occidentali, e soprattutto gli americani, posseggano. Dal nostro punto di vista, infatti, tendiamo a voler costruire l’intero mondo che ci circonda su di esso, tanto è vero che in quasi tutte le presentazioni americane, siano esse proposte o atti di protesta, non si parla che di equità, sebbene poi nessuno viva tenendo fede a questo ideale. Sicuramente, per i nipponici, sarebbe buona cosa confrontarsi con individui che condividono, come noi, il concetto di equità. Purtroppo, però, questo concetto, inteso in senso occidentale, è qualcosa di recente e di innaturale per i giapponesi. Agli americani, quindi, non resta che imparare ad adattarsi alla situazione. Sin dagli albori della propria storia fino a questi ultimi decenni, il Giappone si è basato su relazioni di tipo superiore/inferiore all’interno delle quali il concetto di equità in senso occidentale non esisteva. Infatti, la natura e la qualità delle relazioni tra gli individui erano incentrate sullo status di chi era chiamato in causa. Esisteva certamente il senso del giusto e dello sbagliato, ma anch’esso era relativo e sempre basato sul princìpio di servire, proteggere e mantenere l’establishment politico: sicuramente non aveva nulla a che fare con i diritti delle persone. Con l’abolizione delle vecchie leggi feudali e l’introduzione dei diritti umani nel 1945-46, i giapponesi furono liberi, per la prima volta nella storia, di fondare le loro vite sui concetti di uguaglianza e giustizia. Finora, però, essi sono stati utilizzati solo in ambito strettamente personale e privato.
Il sistema di mercato predatorio del Giappone I sistemi complessivi della politica e dell’economia giapponesi sono ancora incentrati su di un’etica della relatività e su espedienti politici. Entrambi, infatti, puntano ad ottenere i massimi benefici per le élite. L’attuale sistema economico, in particolare, ignora i concetti di equità e giustizia poiché caratterizzato da un aspetto predatorio e dalla mancanza di limitazioni naturali. Gli americani, in realtà, sembrano i meno atti a trattare con questo sistema economico poiché più legati, per condizionamenti interni e per legge, a rispettare fedelmente le regole del gioco. Oggi, è sicuramente
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giusto affermare che siamo responsabili dell’aver creato noi stessi buona parte dei problemi economici sorti con il Giappone. Anche a livello governativo, i nostri sforzi per mitigarli nei decenni passati sono stati considerati ingenui, se non addirittura privi di senso. Un approccio lineare al tema del commercio (nell’ambito della riduzione delle linee di prodotto fino al sistema di distribuzione) che si concentri su obiettivi singoli non risolverà i problemi ma, anzi, limiterà i risultati. Tutti gli sforzi per convincere il governo giapponese e l’establishment affaristico a cambiare la loro natura facendo appello al fair play sono destinati a non avere seguito. Certamente, sia in ambito governativo che economico, tali appelli possono essere considerati giusti ed importanti a livello individuale. Non potranno pretendere, però, di veicolare cambiamenti repentini e fondamentali nell’intero sistema. Sembra impossibile, infatti, che l’arena economica giapponese possa livellarsi nel futuro prossimo. Il massimo che gli imprenditori stranieri potranno quindi aspettarsi saranno delle condizioni migliori, per raggiungere le quali, dovranno lavorare in concerto con altre compagnie all’interno dei loro settori e con i loro governi, al fine di creare un equilibrio di potere che permetterà loro di trattare con il Giappone su una base maggiormente paritaria.
Capitolo 10
Come la mediocrità può “fare carriera” in Giappone
La cultura giapponese ha tradizionalmente promosso i livelli standard piuttosto che l’eccellenza. È interessante approfondire lo sviluppo di questa anomalia culturale, nonché il ruolo che essa continua a svolgere all’interno delle aziende, del governo, del campo medico-scientifico ed educativo. Sin dalla metà dell’Ottocento, allorché la flotta delle cosiddette “navi nere” capitanate dall’ammiraglio della marina americana Perry forzò il Giappone ad aprirsi ai paesi stranieri, tutti gli osservatori più acuti della società giapponese sono concordi nell’affermare che uno degli aspetti più ricorrenti nella cultura giapponese sia la presenza di numerose contraddizioni. Sembra, infatti, che ad ogni aspetto culturale positivo ne corrisponda necessariamente un altro di valenza negativa. Tra le contraddizioni più evidenti si possono annoverare: l’estrema gentilezza contrapposta all’estrema crudeltà, l’estrema onestà e la diffusa corruzione, lo straordinario senso di lealtà ed il repentino cambiamento di parte a seconda delle circostanze, l’estrema cortesia contrapposta all’estrema villanìa, un senso estetico altamente raffinato unito ad un interesse ossessivo del grottesco e del volgare, una grande umiltà contrapposta ad una sconfinata arroganza. Questa dualità tipica del carattere giapponese può essere apparentemente ricondotta ad una serie di motivazioni di cui la principale sembra essere la mancanza di principi assoluti (quali, ad esempio, la dicotomia “bene/male”) all’interno delle maggiori correnti filosofiche e religiose del Giappone (Shintoismo, Buddhismo e Confucianesimo). Soprattutto nel Confucianesimo e solo a tratti nel Buddhismo, la moralità è sovente legata alle circostanze: il bene ed il male, infatti, erano storicamente sanciti dai partiti al potere e da tutto ciò che poteva servire gli interessi degli singoli.
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Stando a ciò, a livello personale, i giapponesi potevano applicare vari gradi di moralità alle varie situazioni in cui erano coinvolti. I fattori che potevano influenzare questo modo di agire includevano la classe sociale, l’età, il sesso, la posizione professionale ed il grado. All’interno di questo contesto sociale, era considerato del tutto normale nascondere e travisare gli eventi o mentire al fine di perseguire il proprio ideale di “bene maggiore”. Tutto ciò contribuiva, naturalmente, ad evitare imbarazzo, nonché eventuali conseguenze negative nei confronti del prossimo, poiché l’obiettivo rimaneva il mantenimento e la protezione dell’armonia di gruppo attraverso l’espansione del potere delle autorità interne ad esso. Altro aspetto vitale all’interno della dualità del carattere giapponese è rappresentato dall’esclusivismo caratterizzante tutte le tipologie di gruppo: da quelli minori fino a quelli numericamente più ampi. In tempi antichi, questo aspetto cominciò a delinearsi all’interno dell’istituzione familiare per poi estendersi progressivamente, a livelli più alti, all’interno dei gruppi lavorativi, dei villaggi e dei clan. Nel Giappone moderno, l’esclusività (che, in questo caso, è sinonimo di gruppismo) si basa su una serie di elementi fra cui, ad esempio, l’etnicità, nel caso in cui un qualsiasi elemento esotico venga chiamato in causa. A livello quotidiano, invece, il fattore di gruppo è generalmente basato sull’unità lavorativa e quindi sulle Ka, ovvero sui reparti all’interno delle aziende e/o delle organizzazioni, fino a salire in alto fino ai dipartimenti, alle divisioni, alle corporazioni, alle istituzioni, alle agenzie e ai ministeri. L’essenza del gruppo in Giappone è principalmente rintracciabile nell’attenzione volta dai suoi membri verso l’interno e, quindi, verso la sopravvivenza e la reputazione del gruppo stesso. In virtù di ciò, i membri di reparti di aziende o di certe organizzazioni si vedono costantemente in competizione con altri reparti della stessa azienda o organizzazione. Allo stesso modo, accade che divisioni della stessa compagnia o agenzie appartenenti allo stesso ministero competano sovente gli uni contro gli altri. Sebbene nel mondo degli affari questa competizione di gruppo rappresenti una delle fonti primarie di stimolo per l’economia, le forti contraddizioni derivanti dal gruppismo (specialmente in ambito governativo e all’interno di istituzioni non commerciali quali la scuola) costituiscono uno degli handicap maggiori del paese. Esse, infatti, precludono il pensiero creativo e la spinta all’innovazione stimolando, al contrario, il consenso e, quindi, il rallentamento del processo decisionale. Altro elemento derivante dalla sindrome di gruppo giapponese, rin-
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tracciabile a partire dalle compagnie minori fino ad aziende di dimensioni nazionali, è l’incapacità di relazionarsi intimamente con il prossimo. Soprattutto con gli appartenenti ad altre organizzazioni, aree ed, in special modo, con gli altri paesi. Tutti coloro che non sono stati ancora significativamente “sgiapponesizzati”, infatti, non riescono a vedere al di là dei confini del proprio gruppo (e di quelli ad esso collegati) e al di là del Giappone in generale. Come conseguenza di questo comportamento, si assiste alla condivisione dell’autorità e della responsabilità tra tutti i membri interni ai gruppi. Ogni gruppo è infatti capitanato da un leader o da un responsabile che viene selezionato in base ai princìpi dell’anzianità e alle sue capacità di mantenere l’armonia. L’intelligenza, la conoscenza, l’esperienza, l’ambizione e la motivazione non vengono affatto considerate. Piuttosto, l’imperativo principale sembra quello di preservare i buoni rapporti con i membri del proprio gruppo. Ogni manifestazione significativa di intelligenza, conoscenza, esperienza e motivazione che metta in risalto i singoli è destinata ad attrarre critiche, opposizione ed altre forme di pressione da parte dei propri colleghi. In passato (ed ancora oggi per certi versi), specialmente in politica, gli individui che accumulano anzianità all’interno del proprio gruppo e che soddisfano le richieste dei colleghi tendono a non assumere mai forti posizioni personali e a non commettere in nessun modo errori di qualsivoglia entità. Essi risultano, al contrario, estremamente abili nelle relazioni umane tanto da poter aspirare alle più alte cariche. Tra l’altro, questa sindrome rimane cospicua anche tra gli appartenenti alle organizzazioni rappresentanti le arti, gli intermediari legali, gli artigiani, i medici, gli educatori, gli scienziati e gli scrittori. Nonostante ciò, a causa dell’invidia auto-generata da questo senso esasperato di appartenenza al gruppo, personalità rilevanti ed esplicite in questi settori, raramente giungono ad occupare i vertici delle rispettive associazioni. L’approvazione dei colleghi e la relativa pressione sui singoli rappresentano uno dei princìpi preponderanti della società giapponese. Essi, infatti, limitano i parametri della percezione personale stimolando, invece, il senso della solitudine a causa dell’incapacità di potersi relazionare con qualsiasi individuo esterno al gruppo. Coloro che si possono definire “insider” in Giappone, comunque, sono a conoscenza del fatto che tutte le persone in prima linea nella politica e nelle società sono generalmente le meno abili. Ciò accade in particolare in politica dove alle personalità forti, carismatiche e volitive non viene concesso di raggiungere i vertici delle istituzioni. Se, per
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un caso della sorte, invece, ciò dovesse accadere, è certo che queste personalità non dureranno a lungo. Una delle maggiori ripercussioni di questo sistema è rintracciabile nel fatto che sia i primi ministri, sia i dirigenti delle maggiori aziende ed organizzazioni giapponesi non possono esercitare un potere reale. Per ciò che concerne il governo, ad esempio, persone informate parlano dell’esistenza di un gruppo (formato da dodici membri interni ed esterni al governo) che eserciterebbe la propria influenza sul primo ministro. Pare, infatti, che se la maggioranza di questi “uomini-ombra” non si dicesse d’accordo, quasi nulla potrebbe muoversi a livello politico nel Paese. Addirittura, si parla con insistenza della presenza di almeno un membro influente della mafia Yakuza all’interno di questo gruppo. Salvo rare eccezioni, è solo dai primi anni Novanta del Ventesimo secolo che un ristretto numero di imprenditori giapponesi ha cominciato a parlare apertamente per conto delle proprie aziende. In precedenza, infatti, molte aziende giapponesi risultavano totalmente anonime al mondo esterno: un fenomeno che ancora prevale in Giappone, specialmente tra le comunità di professionisti. I non pochi giapponesi che criticano questo sistema sono convinti che la maggior parte dei loro coetanei sia talmente costretta all’interno dei propri gruppi da non poter intravvedere né i problemi con i quali essi si devono confrontare personalmente, né quelli che l’intero paese deve affrontare. Molti giapponesi si limitano a considerare i suddetti problemi come eventi secondari ed isolati (considerandoli conseguenze delle pesanti pressioni subite dall’esterno) e sono convinti che essi possano essere risolti singolarmente tramite l’adozione di misure graduali. Tra questi critici vi è chi descrive il sistema sociale ed economico giapponese come “monoculturale” intendendo con ciò un sistema progettato unicamente per concentrarsi su un unico obiettivo: la produzione di massa standardizzata. Tutto il resto, presenta problematiche che sono difficili, se non impossibili, da risolvere. Questo significa, ovviamente, che per affrontare le sfide che si presentano oggi all’orizzonte, i giapponesi dovranno intraprendere una trasformazione completa dei loro valori di base, creando un sistema che premi il pensiero creativo e l’abilità in generale. Ciò non rappresenta certo un percorso facile. Sebbene il suddetto processo sia già cominciato nel settore dell’high-tech, ed in particolare nelle compagnie di software fondate da giovani imprenditori anticonformisti, è ancora molto raro trovare aziende proiettate verso il cambiamento. Sicuramente, esso richiederà decenni prima di poter sortire un serio impatto sulla cultura giapponese.
Capitolo 11
Come i giapponesi percepiscono ed utilizzano le loro conoscenze rispetto agli occidentali
Tra i fattori che hanno contribuito maggiormente a rendere quel piccolo stato che era il Giappone la seconda economia mondiale bisogna sicuramente annoverare l’accumulo e l’utilizzo delle conoscenze in modo olistico. Nonostante i recenti problemi, questo approccio rimane ancora invariato. Fino al 1990, quando la cosiddetta “economia della bolla” stava per esplodere, molti leader politici ed imprenditori occidentali si sentivano frustrati di fronte al continuo successo del gigante giapponese e all’apparente impossibilità di comprenderne le ragioni del successo. Il presentimento che il Giappone potesse giocare “sporco” culminò in una campagna contro le pratiche manageriali del Paese, precedentemente considerate degne di emulazione. Questa reazione irrazionale venne presto tradotta in una retorica politica che danneggiò l’immagine del Paese all’estero inibendo le nazioni e le imprese interessate ad investirvi. Nessun reale beneficio, sembrava essere il messaggio, poteva essere tratto da rapporti con il Giappone. Di certo, allo straordinario successo economico di cui il Giappone fu protagonista tra il 1945 ed il 1990 contribuirono una serie di ragioni interne ed esterne. Sicuramente, non è esagerato affermare che furono le cause esterne a produrre buona parte di questo successo, superando ogni possibile talento o unicità presente nel Paese. È innegabile, però, che il modo di osservare ed eseguire ogni tipo di task da parte giapponese ha contribuito ad un’affermazione che altrimenti non sarebbe mai stata raggiunta. Buona parte dei suddetti talenti, nonché dei sistemi manageriali nipponici conosciuti all’estero, sono stati descritti ed analizzati discretamente sia dai giapponesi che dalle autorità occidentali. Esiste, però, un aspetto molto sottile della mentalità giapponese che non si riesce ancora
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a cogliere e che è rimasto virtualmente nascosto fino ad oggi. Questo fattore ancora sconosciuto rappresenta uno degli ingredienti più importanti del successo economico passato e presente del Paese. Un ingrediente presente già a partire dalla transizione da paese agricolo-artigianale a potenza industriale che il Paese ha vissuto tra il 1870 ed il 1990. Questa ricetta segreta per il successo riguarda il modo di percepire, accumulare ed utilizzare la conoscenza: modalità completamente differente da quella prevalente in Occidente, ma anche manifestazione culturale di cui i giapponesi stessi non sono pienamente coscienti.
Parte dopo parte In generale, gli occidentali sono condizionati a considerare le informazioni e la conoscenza come parti di un insieme. Ad eccezione degli scienziati e di pochi altri professionisti, non sapendo guardare oltre, quasi tutti non si aspettano altro dal suddetto approccio. I libri, gli insegnanti e i nuovi media (cioè quasi tutte le fonti di informazione) ci presentano sovente la realtà come composta da tante parti finite che non ci tornano d’aiuto nel comprendere le complessità e le interrelazioni del mondo che ci circonda. Sebbene perennemente inondati da una continua valanga di informazioni, non siamo in grado di utilizzarle per comprendere ciò che succede, ad esempio, nel campo dell’educazione, del business e della politica; in altre parole, non siamo in grado di trarre il benché minimo beneficio da esse. Se dovessimo mai giudicare il nostro mondo occidentale osservando le notizie tratte dai quotidiani o dalle stazioni televisive locali, dovremmo supporre che per noi non esista nessuna via di scampo e che il tempo a nostra disposizione sia ormai giunto alla fine. I giapponesi, però, possiedono un approccio differente alla ricerca e all’utilizzo delle informazioni: un approccio che si pone al di là del livello della coscienza e che si rivela di vitale importanza nel momento in cui si è chiamati a produrre risultati. A causa dell’apparente influenza dello Shintoismo, del Buddhismo e del Confucianesimo, il popolo giapponese ha tradizionalmente considerato la vita e le sue numerose sfaccettature (incluso la conoscenza) come parte di un flusso continuo di eventi tra loro correlati ed essenziali. A differenza degli occidentali che tendono a ricercare ed utilizzare il quantitativo necessario di informazioni per poter sopravvivere o per raggiungere obiettivi immediati nel breve periodo, i giapponesi considerano la ricerca e l’uti-
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lizzo delle informazioni come un processo in formazione privo di soluzione di continuità. Il tutto a prescindere da come o quando le informazioni verranno implementate. Questo aspetto ha condotto i giapponesi ad adottare in modo automatico un approccio alquanto attivo (e non reattivo) rispetto al trattamento delle informazioni. In altre parole, laddove gli occidentali attendono che gli eventi accadano per poter reagire, i giapponesi tendono invece ad anticiparli basandosi sul flusso di informazioni in entrata ed agendo in modo da poter godere di un certo vantaggio temporale. Fino al 1990 circa, questa sostanziale differenza ha influenzato profondamente il management delle migliori imprese giapponesi. Grazie, infatti, alle informazioni e alle linee guida ricevute, esse hanno potuto apportare continue e minuziose correzioni nelle loro politiche di gestione alla stregua dei timonieri delle navi che si trovano a dover correggere la rotta bilanciandosi con il vento ed il mare in continuo mutamento.
L’attesa occidentale delle crisi Nel business occidentale, sembra sia necessaria sempre una crisi prima che i manager possano apportare cambiamenti fondamentali alle loro operazioni. Spesso, però, questi cambiamenti non avvengono mai senza la rimozione del top management. Agli svantaggi di suddetta impostazione, bisogna aggiungere il fatto che anche questi cambiamenti forzati avvengono solo una volta ogni 15-20 anni. Una filosofia del management così reattiva, tipica di molte aziende occidentali, si rivela però ulteriormente svantaggiosa (almeno fino in tempi recenti) quando sono i presidenti o altri pochi individui a voler gestire personalmente le aziende. Alla stregua di veri e propri dittatori, queste figure pretendono di gestire il management con le caratteristiche dell’inflessibilità e della fossilizzazione finendo inevitabilmente per sancire la fine delle proprie aziende, proprio come sono condannate a finire le dittature. Le imprese giapponesi, a dispetto dell’immagine esterna, sono invece governate alla stregua di vere e proprie democrazie all’interno delle quali il potere dei presidenti e degli alti dirigenti risulta limitato. Al contrario, è una larga percentuale degli impiegati che gioca un ruolo diretto nelle decisioni aziendali. I capi di reparto (famosi Kachō) insieme alle loro squadre speciali spendono larga parte del loro tempo nell’elaborazione di prodotti e progetti, nell’analisi delle attività dei
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concorrenti e nelle relazioni che propongono alle alte sfere del management. Tutte le più grandi società giapponesi possiedono infatti un costante flusso di informazioni proveniente dalle rispettive filiali estere. Trust, quali Mitsui o Mitsubishi, hanno a disposizione network di raccolta di informazioni internazionali che sorpassano la portata e l’efficienza delle agenzie di intelligence governative. L’intero corpus delle informazioni che giunge al management delle aziende giapponesi tende quindi ad essere più ingente e di qualità superiore rispetto a quello in possesso delle aziende medie occidentali. Affermo ciò a dispetto della crisi abbattutasi sull’economia giapponese dal 1990, allorché la cosiddetta “economia della bolla” ha cominciato a collassare: fenomeno prodotto essenzialmente dalle politiche e dalle prassi governative. Oggi, il Giappone combatte per riformare le strutture ed i princìpi sottostanti la propria economia internazionalizzandola attraverso il processo del Kyōsei. Con l’avanzamento di questo processo, le modalità di raccolta delle informazioni unite all’approccio di lungo termine tipico delle aziende giapponesi continueranno a fornire vantaggi tangibili nella competizione con il resto del mondo. Il termine Kyōsei significa infatti “simbiosi” e viene utilizzato nel senso di vivere e lavorare in maniera totalmente cooperativa: ovvero, in armonia.
Capitolo 12
La sindrome del “rischio morale”
La “sindrome culturale” che ha aiutato i giapponesi a costruire una super-economia in soli trent’anni è divenuta oggi un handicap che ha inevitabilmente bloccato la crescita. Se non si correggerà al più presto questa miopia, si prospetta un futuro non roseo per il Sol Levante. Per secoli i giapponesi sono stati culturalmente abituati a chiudersi in sé stessi allo scopo di proteggersi dagli eventi e dalle situazioni che potevano minacciare il loro benessere fisico, emotivo e spirituale. Se è vero che questa loro introversione può dipendere dalle circostanze, in tutti i casi essa rimane invariabilmente basata sull’appartenenza al gruppo, sull’adesione alle sue regole e su un’etichetta sociale condivisa. In epoca antica, i suddetti gruppi includevano clan e villaggi. Oggi, invece, essi sono rappresentati dai ministeri e dalle agenzie governative, dalle grandi società nonché dalle istituzioni scolastiche, dagli ospedali, dalle squadre di baseball e dalle scuole di Sumō. Siccome il benessere è tradizionalmente dipeso dall’esistenza continuata del gruppo e dalla funzione interna svolta dai suoi membri, i giapponesi, paventandone la scomparsa, hanno sempre evitato apertamente qualsiasi tipo di cambiamento. Una volta che un gruppo veniva formato e certe azioni messe in moto, i suoi appartenenti sacrificavano virtualmente tutto pur di sostenerlo e proseguire nel percorso intrapreso. All’interno di questo sistema, che ha posto sin dall’antichità le basi della società giapponese, ai singoli membri non era permesso di pensare o agire in forma indipendente, poiché erano tenuti a raggiungere il consenso insieme a tutti gli altri pari agendo all’unisono. Nella maggior parte dei casi, la creatività individuale e lo spirito di innovazione non potevano prevalere. Nonostante molte eccezioni significative ed un graduale indebolimento del sistema di gruppo, questo aspetto rima-
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ne comunque la colonna portante della società giapponese rappresentando altresì la fonte di buona parte dei problemi economici, politici e sociali che il Paese si trova oggi ad affrontare. Iwao Nakatani, professore di economia presso la prestigiosa università Hitotsubashi fa riferimento a questo sistema con il termine di sindrome del “rischio morale” mutuandolo dal gergo assicurativo dove descrive la tendenza degli assicurati a non prendere nessuna iniziativa personale al fine di evitare l’insorgere di problemi. Il professor Nakatani fa notare come la tradizione giapponese della responsabilità e del paternalismo da parte di associazioni, organizzazioni e governo precluda ai membri dei suddetti gruppi la possibilità di indicare chiaramente i problemi al loro insorgere. Al contrario, gli appartenenti ai suddetti gruppi vengono solitamente incoraggiati a fare il minimo indispensabile per sopravvivere senza alterare l’armonia e non attrarre l’attenzione su di essi. Nakatani utilizza il termine “sistema di convoglio” per descrivere la tradizionale abitudine dei gruppi giapponesi a sostenere i “perdenti”, cioè individui, affiliati e gruppi sussidiari in svantaggio. Egli nota, però, come questo sistema funzioni solo nel caso in cui l’intera compagine economica sia forte e caratterizzata da un alto tasso di crescita. Mutuando le parole di Nakatani si può virtualmente affermare che tutto il Giappone abbia sofferto della suddetta sindrome dal 1990 fino al 2001 circa. In questo periodo, infatti, non c’è stata possibilità per il Paese di ritrovare l’antico vigore economico essendo, sia i grandi imprenditori che i leader politici, intrappolati in questo tipo di mentalità. Il rischio morale ed i lunghi tempi del consenso hanno quindi permeato la cultura giapponese sin dalle epoche remote finendo per inglobare ogni aspetto della vita del Paese. L’etica è così maturata in un contesto isolazionistico assorbendo via via le caratteristiche giapponesi della lingua, del clima, della geografia e del metodo di coltivazione delle risaie. Ne è scaturita, quindi, una morale situazionale nata dalla natura autoritaria dei governi e dalla fusione delle tre correnti di Shintoismo, Buddhismo e Confucianesimo. Nonostante la cosiddetta sindrome del rischio morale, le circostanze domestiche ed internazionali che hanno garantito prosperità e crescita nel Paese sono scomparse negli ultimi anni Ottanta del ventesimo secolo. Le proposte avanzate e successivamente accolte dal governo per porre rimedio al collasso economico del 1990-91, unitamente al malessere generalizzato che seguì, indicarono solo parzialmente i sintomi del rischio morale continuando in buona parte ad alimentare il co-
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siddetto “sistema di convoglio”. Agli occhi degli imprenditori e dei leader politici, però, diveniva sempre più chiaro che fino a quando il Paese non fosse uscito dal suo tradizionale “bozzolo”, cambiando profondamente mentalità ed atteggiamento, la sindrome del rischio morale non poteva essere curata. Il nuovo dialogo che ne scaturì non riguardò solo i sistemi operativi. Esso verteva piuttosto sulla necessità di liberarsi dei lunghi tempi del consenso e del rischio morale apportando modifiche all’intero assetto culturale a partire dai valori e dalle aspirazioni tradizionali. L’intero processo mirava a trascinare l’economia per circa dieci anni per far sì che il sistema potesse recuperare slancio. Ciò avrebbe comportato intuizione, coraggio e leadership: caratteristiche di cui l’establishment politico ed economico, fino a quel momento, scarseggiava. Nella società contemporanea giapponese gli individui più ostili ai cambiamenti culturali ed economici sono sicuramente i burocrati vecchio stile appartenenti al governo che, in genere, hanno in carico l’intero sistema. Costoro si trovano infatti all’apice di una struttura che si aggrappa ai “vecchi metodi”. Essendo, però, detentori di un potere enorme, hanno anche molto da perdere in qualsiasi tipo di trasformazione culturale. Certamente, la decisa resistenza dei burocrati al cambiamento deriva dal fatto che essi sono stati educati a credere e a praticare questo sistema escludendone a priori tutti gli altri: se questa pratica (forse l’unica di cui essi sono a conoscenza) dovesse mai essere sostituita, comporterebbe sicuramente una perdita del potere, del prestigio e di tutti i benefici extra acquisiti grazie alle posizioni occupate. Non è tutto però. Buona parte dei burocrati, infatti, rimane fermamente convinta che l’approccio classico giapponese resti ancora il migliore e che tutti coloro che criticano il sistema, semplicemente, non sono in grado di capirlo o apprezzarlo. Sin dai primi anni Ottanta, infatti, la lamentela più diffusa nel Paese era che se mai gli stranieri avessero “capito” il Giappone, tutto sarebbe andato nella giusta direzione. Dopo i burocrati, tra coloro che oppongono una fiera resistenza al cambiamento, bisogna annnoverare i ranghi più alti del sistema educativo e di tutte le professioni istituzionalizzate del Paese. Come prodotti del sistema, buona parte di essi deve posizione ed immagine ad esso e non, sicuramente, alle competenze conoscitive o ai risultati ottenuti. Dopo questa categoria, nel terzo gruppo di “tradizionalisti” che si oppone al cambiamento è necessario includere i dirigenti ed i manager
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delle società che sono assurti al vertice grazie al sistema. È il governo, infatti, che li protegge dalla competizione internazionale e domestica e che gli assegna i maggiori appalti di lavoro pubblico e militare offrendo loro anche garanzie finanziarie. In larga misura, l’establishment giapponese dipende ancora dai lunghi tempi di raggiungimento del consenso e dalla suddetta sindrome del rischio morale. Curare “completamente” la sindrome significa riprogrammare intellettualmente ed emotivamente i “pazienti”. Un processo, questo, che potrebbe richiedere una o più generazioni, sebbene i giapponesi stessi siano oggi concordi nell’affermare che il vecchio sistema non sia più adeguato e che dovrà evolvere rapidamente per affrontare le sfide provenienti dall’estero. Storicamente, infatti, i maggiori cambiamenti culturali nel paese sono avvenuti a seguito di influenze e pressioni esterne, poiché era solo in questo modo che i giapponesi si sentivano certi di poter abbandonare i vecchi metodi per i nuovi. Oggi, la pressione da parte straniera sui giapponesi (in aumento dagli anni Ottanta e dall’inizio del Ventunesimo secolo) per invogliarne il cambiamento dei valori, delle attitudini e dei comportamenti ha raggiunto un punto di non ritorno. Sono sicuro che, così come hanno fatto in passato quando hanno dovuto affrontare le inesorabili pressioni interne e straniere, i giapponesi sapranno dimostrare ancora una volta abilità straordinarie nel trasformare profondamente sé stessi e la loro economia per far fronte alle nuove sfide dell’età contemporanea.
Capitolo 13
Sul vittimismo giapponese e su come evitare le responsabilità
A livello individuale i giapponesi sono soliti lamentarsi dei loro simili e del sistema accusandoli sovente dei propri fallimenti: questo comportamento rende ulteriormente complicate le relazioni individuali che gli stranieri si trovano ad intessere con loro. È sintomatico per i giapponesi far ricadere sui propri simili i propri problemi e tutte quelle azioni che finiscono per produrre frizione o critica. Questa accusa, specialmente quando è diretta agli Stati Uniti d’America o ad altri paesi, parte dal presupposto che gli stranieri non sono in grado di comprendere il Giappone. A questa tradizionale e ben nota accusa, segue poi la convinzione che non appena gli stranieri saranno in grado di capire profondamente il Giappone condividendone le posizioni, non si porrà più nessun tipo di questione. Anzi, da questa condizione scaturirà una cooperazione reciprocamente benefica. Su questo fondamento logico si basavano le giustificazioni per l’invasione e l’annessione della Corea nei primi anni del Novecento, quelle per l’invasione e l’annessione della Manciuria qualche decennio più avanti ed, infine, quelle per il tentativo di conquista dell’intero sud-est asiatico e della zona meridionale del Pacifico durante la Seconda guerra mondiale. Lo stesso ritornello venne continuamente ripetuto a partire dagli anni Settanta del Novecento, allorché l’intaprendente recupero del Paese dalla distruzione causata dal conflitto cominciò a sortire effetti negativi sull’economia degli Stati Uniti e su quella dei paesi dell’Europa occidentale. Il governo, i burocrati, i politici, i grandi imprenditori e gli accademici continuavano ad affermare che se solo gli stranieri avessero realmente compreso il Giappone tutte le frizioni si sarebbero risolte velocemente. Oltre a ciò, i giapponesi affermavano che buona parte dei loro sforzi andava nella direzione di una comprensio-
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ne reciproca (incluso la goffa trovata di sponsorizzare tour internazionali di Kabuki). Questa posizione intellettuale ed emotiva da parte giapponese non rappresentava un ricercato sotterfugio per guadagnare uno sleale vantaggio sugli avversari. Si trattava piuttosto di un condizionamento a credere e ad agire senza secondi fini che essi avevano subito per generazioni. Come riportato anche nella mia pubblicazione Japan’s Cultural Code Words, questa mentalità è stata definita dai ricercatori in psicologia nipponica come “sindrome dell’innocenza conscia”. In altre parole, a prescindere dalla situazione in cui si è coinvolti (sia essa sociale, economica o politica) esiste per i giapponesi una coercizione a credere nella correttezza delle posizioni assunte sebbene poi esse vengano contraddette da criteri obiettivi. Secondo i ricercatori che hanno individuato la “sindrome dell’innocenza conscia”, i giapponesi considerano le proprie posizioni come le più onorabili: nel caso si dovesse ricercare una qualche responsabilità dei loro misfatti, essi vengono forzati dal senso dell’onore a trasferirla automaticamente sulle loro vittime autoproclamandosi innocenti. Il suddetto fenomeno psicologico rientra nel cosiddetto concetto di Higaisha Ishiki, tradotto con il termine di: “mentalità vittimista”. Quando esposti alle critiche, i giapponesi considereranno sé stessi deboli ed indifesi, accusando invece la controparte di essersi avvantaggiata in modo scorretto. Ciò non deve portarci ad indurre che i giapponesi siano privi di un comportamento e di un pensiero razionale, ma, in linea di massima, si può affermare che essi tendano ad essere razionali solo nel momento in cui non incontrano nessun tipo di opposizione. Durante i primi meeting di lavoro, gli imprenditori stranieri, i diplomatici e gli studiosi rimangono immancabilmente colpiti dall’apparente buona volontà e dall’attitudine cooperativa della controparte giapponese, presumendo in maniera automatica di poter avviare affari con essa. Abbassando la guardia, però, la controparte straniera finisce sovente per mostrare le carte sul tavolo illudendosi che anche i giapponesi facciano lo stesso. I giapponesi potrebbero essenzialmente seguire le mosse degli stranieri senza grossi intoppi, ma ciò dipende dagli obiettivi che essi perseguono: se, infatti, essi percepiscono di non potere ottenere ciò che desiderano, è molto probabile che chiamino in causa il suddetto Higaisha Ishiki facendo ricorso ad una serie di strategie tramite le quali raggiungere, immediatamente o nel futuro prossimo, i propri obiettivi.
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Normalmente i giapponesi giustificano le loro strategie economiche e politiche adducendo la scusa che il Giappone sia una piccola nazione con poche risorse che non può competere a pari livello con gli Stati Uniti o con le altre grandi nazioni. Dal loro punto di vista, i paesi stranieri dovrebbero poter comprendere questa loro posizione di svantaggio. Gli Stati Uniti, in particolare, sono stati costantemente accusati di scorrettezza nei confronti del Giappone. Nonostante un numero sempre maggiore di giapponesi sia stato in grado di superare in buona parte (se non addirittura completamente) questa mentalità vittimista, essa rimane ancora profondamente radicata tra tutti coloro che esercitano una certa influenza sul pensiero e sui costumi del Paese. In particolare è rintracciabile tra i politici di “destra”, gli studiosi tradizionalisti, i burocrati vecchio stile ed i giornalisti conservatori. Per gli stranieri che lavorano a contatto con il Giappone è impossibile evitare le ripercussioni dell’Higaisha Ishiki. Essere coscienti, però, dell’esistenza di questa sindrome rappresenta già un buon inizio. L’approccio migliore per minimizzare gli effetti di questa potenziale barriera consiste nell’essere franchi e nell’informare la controparte giapponese che ciò che in superficie potrebbe apparire scorretto, in realtà, non lo è. Spiegare nei dettagli la propria posizione rappresenta poi il passo successivo. Per poter raggiungere questo obiettivo con successo sarà però necessario studiare con cura ogni singolo aspetto che possa avere una qualche ripercussione sui propri progetti. Pazienza e perseveranza si rivelano vitali per poter portare avanti il proprio lavoro attraverso i meandri sotterranei della psicologia giapponese. Ciò comporta l’implementazione di svariate tecniche quali i contatti personali in orari extra-ufficio (per lo più in bar, ristoranti e cabaret), il ricorso massiccio dietro le quinte al cosiddetto Nemawashi (lobbismo) con tutti gli individui coinvolti (o che saranno coinvolti) nei progetti, l’apparente condivisione di grandi quantità di informazioni (nascondendo invece quelle più riservate) ed il mantenimento di un contegno educato, ma sicuro, durante l’intero processo delle trattative.
Capitolo 14
Il sistema inferiore-superiore in Giappone
Nonostante i drastici cambiamenti avvenuti nella cultura giapponese dal 1945, il Paese presenta ancora una società verticale organizzata su una scala gerarchica del tipo “superiore-inferiore” e caratterizzata da una precisa etichetta che controlla virtualmente tutte le relazioni interpersonali del mondo adulto. L’etichetta giapponese, intesa come forma e moralità, si spinge al di là delle semplici “maniere”. Essa si basa piuttosto sul concetto gerarchico “superiore-inferiore” che definisce le relazioni fisiche e filosofiche tra le persone. Questo concetto viene predicato attraverso l’assunzione di un giusto comportamento kataizzato, il rispetto verso il prossimo, e la rettitudine nelle azioni attraverso il ricorso ad una corretta modalità nei tempi appropriati. La natura verticale dell’etichetta giapponese si è indubbiamente sviluppata grazie al mito shintoista che attribuiva ai primi governanti del paese una discendenza divina e, quindi, l’origine mitica dell’arcipelago. Secondo la leggenda, la società che ne scaturì si stratificò in un sistema che vedeva al vertice l’imperatore seguito dalla famiglia imperiale, una classe elitaria di servitori e feudatari regionali fino a comprendere le classi inferiori dei militari, dei monaci, degli artigiani, dei mercanti ed, infine, i contadini. La suddetta organizzazione verticale della società fu ulteriormente definita e rafforzata dall’adozione di alcuni concetti chiave del Confucianesimo importati dalla Cina nel Sesto e nel Settimo secolo dopo Cristo. Mantenendo ben salda la già diffusa tradizione di “nipponizzare” tutte le idee importate dall’estero, i governanti giapponesi modificarono l’ordine dei precetti confuciani rendendo di primaria importanza il rispetto e la fedeltà verso i propri superiori. La verticalità, unita ad un comportamento altamente stilizzato di ti-
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po cortese prescrivente un comportamento minuzioso nelle azioni e nella lingua, erano alla base sia della struttura che dell’essenza dell’etichetta giapponese. Tutto era concentrato sul mantenimento delle giuste relazioni di tipo verticale all’interno degli stretti confini di una studiata armonia: imparare e seguire l’etichetta prestabilita divenne così importante che ogni comportamento appropriato adottò la forma e lo spirito di un rituale religioso, guadagnando sovente la precedenza sui princìpi e su ciò che gli occidentali considerano oggi gli innati diritti umani. Durante il lungo periodo pre-moderno, la moralità individuale subì il controllo costante della società mentre le azioni dei singoli furono perennemente monitorate dalle autorità. Non solo. Al fine di omologare intellettualmente, emotivamente e spiritualmente i giapponesi e di standardizzarne il comportamento fisico, il sistema dell’etichetta li condizionò ulteriormente facendoli lavorare insieme all’interno di gruppi altamente disciplinati e divisi secondo gli obiettivi da perseguire.
Il sistema dell’etichetta oggi Lo shogunato feudale, che nutrì e rinforzò il sistema dell’etichetta condiviso nel Paese per circa mille anni, cadde nel 1886. Nonostante la caduta, il sistema, che era così profondamente radicato nello stile di vita dei giapponesi, rimase praticamente intatto fino al 1945, anno della sconfitta da parte delle forze militari alleate. Nei decenni che seguirono la Seconda guerra mondiale, si assistette all’introduzione dei princìpi di libertà individuale e di uguaglianza nel Paese. Il potere e l’importanza dell’etichetta, invece, cominciò a logorarsi profondamente. Nonostante ciò, buona parte del vecchio sistema resisteva continuando a regolare il tono e l’essenza del comportamento dei giapponesi distinguendoli in maniera netta dagli altri popoli. Con la sola eccezione delle generazioni più giovani e di una piccola percentuale di anticonformisti, il comportamento giornaliero dei giapponesi seguiva generalmente le regole e le forme fissate centinaia di anni prima, soprattutto nell’ambito degli affari e delle situazioni formali. Età, sesso, posizione sociale e le tipologie di relazione continuavano ad essere di vitale importanza nel determinare il comportamento appropriato tra gli individui.
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L’onnipresente inchino L’aspetto più vistoso dell’etichetta tradizionale giapponese continua ad essere il cosiddetto Ojigi, ovvero l’inchino. Come altri elementi della vita in Giappone, l’inchino trova implicazioni ben più profonde della semplice presentazione personale. La tipologia d’inchino e il modo in cui esso è formalmente eseguito sono infatti determinati dalla relazione esistente tra gli individui coinvolti, nonché da una serie di circostanze speciali che possono formarsi in un determinato momento. Un inchino inappropriato o, addirittura, la sua stessa mancanza potrebbero rappresentare una trasgressione sociale e professionale con serie conseguenze per gli attori. Sapere quando e come inchinarsi in Giappone rappresenta solo un aspetto minore del sistema dell’etichetta. Più che in altri paesi, ci si aspetta dai giapponesi un’adesione totale ai modelli di comportamento prestabiliti per tutti i passaggi maggiori e minori della vita quotidiana passando dalle cerimonie nuziali a quelle funerarie, dai regali alle occasioni di buon augurio, dal ricambio di favori alla creazione di obbligazioni verso il prossimo. È questo sistema uniforme e minuziosamente prescritto di comportamento che, unito al fattore linguistico, fornisce la società giapponese del suo aspetto efficiente ed ordinato, nonché di una sicurezza e di una moralità molto al di sopra della media. Molti stranieri finiscono per non essere accettati dal sistema societario giapponese a causa dell’incapacità e del rifiuto di seguire la suddetta etichetta (che funge da vera e propria barriera culturale). Questa mancanza fa sì che i giapponesi considerino sovente gli occidentali alla stregua di veri e propri alieni rendendone ulteriormente difficile l’integrazione nel Paese. In tal caso, sarà poco probabile che essi si sentano a proprio agio in questa società o che possano sviluppare un benché minimo senso di appartenenza verso di essa. Anche agli stranieri nati e cresciuti in Giappone capita, ad esempio, durante gli anni della maturità di sentirsi ancora fuori luogo a causa dell’esclusivismo della cultura nipponica. Molti occidentali che hanno avuto successo negli affari in Giappone hanno imparato ad approfittare del loro status da “stranieri” conformandosi al sistema giapponese quando si è rivelato a loro vantaggioso o ad aggirarlo e addirittura ignorarlo (laddove fosse possibile o desiderabile) quando esso andava a pregiudicare i propri interessi. Fortunatamente, esiste un aspetto positivo nell’abitudine giapponese di trattare tutti gli stranieri come ospiti temporanei (a prescindere da quan-
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to risiedano nel paese e perché): i giapponesi, infatti, si aspettano che gli stranieri rispettino sì le loro leggi, ma non che seguano o conoscano le intricate, lunghe e a volte costose regole sociali che definiscono e controllano le relazioni interpersonali e affaristiche. Oltre ad accettare una tipologia di comportamento non giapponese da parte degli stranieri in situazioni informali e casuali, molti giapponesi sono addirittura soliti cooperare con gli stranieri che non si conformano al sistema aiutandoli ed allontanandosi dal proprio comportamento abituale. Questo atteggiamento, però, finisce per suscitare nei visitatori e nei nuovi arrivati l’impressione che sia facile muoversi e raggiungere i propri obiettivi in Giappone. Imprenditori stranieri e altri professionisti che lavorano a contatto con il Giappone dovrebbero considerare l’etichetta giapponese come la prima linea di difesa e la principale barriera da superare. Molti di loro, infatti, non essendo abituati ad un comportamento così formale, ne sono spesso intimiditi. Accecati dai riflessi di una cultura così raffinata, incapaci di parlare o di leggere la lingua (in pratica analfabeti), sviati da un’etichetta altamente stilizzata, molti stranieri si vedono fortemente limitati nelle loro facoltà fondamentali quando si incontrano con i giapponesi. Addirittura, fra questi vi è chi non sa fare altro che adottare un comportamento eccessivamente ossequioso o adulatorio. Si rivela di fondamentale importanza, invece, trattare con i giapponesi pagando loro il giusto rispetto e adottando un comportamento cortese senza reagire in modo spropositato alla formidabile cultura nipponica. Questo atteggiamento si rivela tanto importante quanto lo è per loro evitare di colpevolizzarsi eccessivamente.
Capitolo 15
“Soft” management contro “Hard” management
Gli imprenditori giapponesi devono al loro “Soft” management buona parte dello straordinario successo che le loro aziende hanno conosciuto a partire dagli anni Cinquanta fino ai primi anni Novanta del Ventesimo secolo. Nello stesso periodo, essi consideravano l’“Hard” management la causa principale dei problemi che molte aziende occidentali si trovavano ad affrontare. Oggi, però, il mondo è cambiato e le aziende giapponesi sono state forzate a scontrarsi contro la loro stessa cultura. I giapponesi sono soliti ammirare qualità quali: la virilità, il coraggio, l’energia e l’ostinata perseveranza. Per essere pienamente accettate, però, le suddette qualità devono essere espresse attraverso precise modalità che spesso cozzano con il comportamento e le aspettative occidentali. L’ideale giapponese di “eroe”, sia esso nell’ambito politico o militare, è rappresentato dalla figura di un uomo che combini costantemente tutte le suddette caratteristiche insieme ad una profonda umiltà, un atteggiamento fanciullesco irradiante innocenza, ed un’attraente vulnerabilità dai toni completamente disarmanti. Queste ultime caratteristiche fanno sì che gli imprenditori occidentali sottovalutino spesso la controparte giapponese poiché incapaci di interpretare il significato culturale di tale atteggiamento. In conclusione, essi presumono una debolezza inesistente nella controparte finendo per rendere sé stessi più vulnerabili di prima.
Mancanza di conoscenza La mancanza di conoscenza riguardo la storia commerciale e tecnica giapponese rappresenta un fattore fuorviante per gli imprenditori occidentali. Un aneddoto storico raccontato da Jean Pierce, autore e giornalista di «Japan Times» esemplificherà tale debolezza.
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Nei primi anni Cinquanta dell’Ottocento quando le navi americane del commodoro Matthew Perry giunsero in Giappone per negoziare l’apertura del Paese al mondo esterno, egli mostrò ai giapponesi un treno in miniatura. In tale occasione, il cronista ufficiale della missione scrisse: “Il primo giorno, i giapponesi rimasero stupiti del meraviglioso trenino. Il secondo giorno ne studiarono i meccanismi. Il terzo giorno suggerirono alcuni miglioramenti”. Certamente, il punto saliente di questo pensiero è da ricercare nel fatto che nonostante l’industria giapponese del tempo vivesse tecnologicamente la sua preistoria, i giapponesi appartenenti ai ceti più elevati avevano comunque ricevuto un’educazione di alto rango che li rendeva straordinariamente perspicaci e capaci di un ragionamento logico e altamente sofisticato. Oltre a ciò, essi possedevano un bagaglio millenario di esperienza nella conduzione degli affari e della politica. Nonostante una lunga tradizione e la presenza di un ceto educato e sofisticato di persone, gli imprenditori che trasformarono il Paese in una potenza industriale (prima negli anni Ottanta e Novanta dell’Ottocento, e successivamente negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento) erano intrisi di ideali manageriali, tecnologia e pratiche provenienti dall’America e dall’Europa. Infatti, durante gli anni di svolta (1954-58), più di duemila uomini d’affari giapponesi (per buona parte manager in prima linea) si recarono per visite-studio negli Stati Uniti all’interno di programmi organizzati dal Centro per la Produttività Giapponese. Le informazioni e le intuizioni che costoro riportarono indietro divennero parte delle fondamenta per la nuova potenza industriale che avrebbero creato nel decennio successivo.
La fonte del sapere Sicuramente, anche le pubblicazioni straniere a carattere tecnico e commerciale importate principalmente dagli Stati Uniti hanno contribuito a catapultare in breve tempo il Giappone negli alti ranghi delle potenze economiche. A partire dai primi anni Cinquanta, infatti, imprenditori giapponesi, scienziati e studiosi si focalizzarono su tutto ciò che veniva pubblicato negli Stati Uniti e che avesse a che fare con la tecnologia ed il business. La casa editrice Diamond Publishing Co. pubblicò nel 1956 il volume di Peter F. Drucker intitolato Automation and the New Society. In soli due anni più di un centinaio di altre pubblicazioni riguardanti l’automazione vennero tradotti e pubblicati nelle ri-
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spettive edizioni giapponesi. Inutile ricordare che, oggi, i giapponesi sono i leader mondiali in questo campo. Sebbene quasi tutta l’economia industriale del Giappone possa essere considerata la conseguenza diretta degli innesti della tecnologia, dei sistemi e del design americano ed europeo, è significativo notare come la cultura aziendale giapponese abbia continuato a presentare tratti distintivi rispetto alle suddette aree geografiche. I giapponesi distinguono sovente tra il loro stile manageriale e le pratiche occidentali definendo il loro stile “Soft” e quello occidentale “Hard”. Questa terminologia assume un significato particolare se analizzata nel suo contesto giapponese, poiché i termini “Soft” e “Hard” fanno espresso riferimento sia alle relazioni umane nella sua accezione più generica, che alle relazioni personali a livello individuale. Sono infatti queste relazioni che gettano le basi per le attività sociali e per gli affari nel Paese. In un contesto affaristico, ad esempio, “Soft” si riferisce ad un sistema di management che dà generalmente la precedenza ai fattori personali nella condotta e nell’ambito decisionale, cercando al contempo un approccio olistico nella considerazione e nel trattamento degli impiegati come anche dei clienti.
Un’attitudine alla crudeltà Il sistema manageriale che i giapponesi definiscono “Hard” pone il profitto e la sopravvivenza aziendale al di sopra del benessere degli impiegati, presentando una certa attitudine alla crudeltà nei confronti dei clienti. Ne scaturisce l’immagine di un sistema dove gli alti dirigenti, sulla scorta di una logica personale ed egoistica, prendono sovente le decisioni in maniera arbitraria senza occuparsi dei sentimenti o dei benefici degli impiegati. All’interno di un contesto aziendale, un individuo “Soft” si caratterizza per la cortesia, la ponderatezza, la modestia, l’onestà, per l’impegno nel benessere altrui ed, infine, per la capacità di espletare fino in fondo i propri doveri. D’altro canto, un individuo “Hard” è visto come tipicamente aggressivo, egoista e principalmente interessato al proprio benessere e piacere. L’approccio “Soft” ed olistico giapponese permette di accettare e fondere insieme diverse opinioni, differenti gradi di accuratezza, nonché di sentirsi a proprio agio con concetti apparentemente illogici o irrazionali che permettono di analizzare tutto in maniera relativa.
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Laddove gli occidentali battono sempre un’unica strada (di solito la più breve) per raggiungere i propri obiettivi, i giapponesi prendono in considerazione molti percorsi per un solo obiettivo, accontentandosi di ottenere piccoli progressi strada facendo pur di raggiungere il traguardo. Non senza sorprese, i giapponesi tendono a considerare lo stile manageriale di molte aziende americane “Hard” notando, logicamente, che è anacronistico aspettarsi in tale contesto la totale diligenza e la lealtà da parte degli impiegati. Da tale tipo di conduzione, sostengono i giapponesi, ci si possono aspettare solo frizioni tra la forza lavoro e la direzione aziendale. In realtà, nel management giapponese vi è qualcosa di più di un paternalistico umanesimo. Il sistema funziona grazie ad un’etica del lavoro che è stata parte del condizionamento culturale avviato nel Sedicesimo secolo. Dal 1500 in avanti, infatti, il lavoro in Giappone è stato sempre equiparato alla virtù e alla morale. Le uniche strade percorribili per consolidare il capitale spirituale erano infatti il lavoro ed il sacrificio a beneficio altrui. Più impegnativo, sporco e pericoloso era il lavoro e maggiore erano le ricompense spirituali ottenute attraverso la perseveranza. Alcuni dei leader religiosi più influenti nel Paese insegnavano che la via per la Buddhità sulla terra passava attraverso il lavoro duro ed altruistico: un lavoro inteso come attività spirituale. Non a caso, la risposta di un maestro Zen al discepolo che chiedeva cosa fare per raggiungere l’illuminazione fu: “Vai a lavare la tua scodella!”. Con il passare delle generazioni, il concetto di laboriosità altruistica permeò gradualmente la cultura giapponese. Fu proprio tale orientamento religioso al lavoro, unito al condizionamento culturale che prevedeva l’utilizzo di una logica “approssimativa” e del “Soft” management che hanno successivamente reso i lavoratori moderni giapponesi dei formidabili rivali a livello internazionale. Purtroppo, però, l’attitudine religiosa a sacrificare la propria vita attraverso il lavoro altruistico non è stata ereditata dai giapponesi nati dopo il 1960, con il risultato che le forze inesorabili del capitalismo stanno gradualmente erodendo le fondamenta intellettuali ed emotive del “Soft” management. Sempre più aziende giapponesi sono oggi forzate ad adottare lo stile manageriale di tipo occidentale che, dal 1850 fino a metà degli anni Novanta del Novecento, esse avevano apertamente disprezzato. Sebbene ciò stia impattando in maniera significativa l’intera cultura del Paese, è altresì innegabile che una nuova generazione di giapponesi si stia facendo strada lentamente nella società.
Capitolo 16
La sindrome del suicidio in Giappone
I suicidi giocano, nella loro morbosità, un ruolo chiave nella storia del Giappone. Ancora oggi continuano ad influenzare le attitudini ed il comportamento nel Paese. La storia giapponese è intrisa di leggende drammatiche riguardanti i suicidi che vedono sovente protagonisti banditi intrappolati, guerrieri e comandanti militari posti di fronte al dramma della sconfitta, membri della famiglia reale, signori feudali in situazioni di difficoltà o di estremo imbarazzo, oppure servitori fedeli che pongono fine alla loro vita come mezzo per risvegliare il cambiamento nei loro capricciosi signori. Il famigerato suicidio tramite sventramento con la spada o con pugnale rappresentava una risposta alla credenza che individuava nell’addome il centro del corpo, ovvero il sito che ospitava l’anima e dove dimoravano qualità quali il coraggio, la conoscenza, la forza di spirito, la volontà e la generosità. Se dovessimo azzardare un paragone, per i giapponesi, il rito dell’Harakiri (letteralmente, “taglio del ventre”) poteva equivalere al metodo moderno occidentale del suicidio con arma da fuoco1. In giapponese, per fare riferimento all’Harakiri (dicitura più volgare) si utilizza più formalmente il termine Seppuku, scritto con gli stessi due ideogrammi cinesi di Harakiri. Durante le generazioni che seguirono l’ascesa dello shogunato nel 1192, i samurai presero il potere, imponendo come modello il proprio codice etico e comportamentale che considerava il Seppuku come la modalità di suicidio
1 In questo passaggio l’autore fa un riferimento indiretto ad altre forme di esecuzione capitale, contrapponendo l’onorabilità del suicidio con arma da fuoco rispetto, ad esempio, alla crocifissione, come spiegato in seguito (N.d.T).
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per eccellenza, visti gli attributi di disciplina, coraggio, forza di spirito e volontà ad esso connessi. Tra le più note ed impressionanti storie di Seppuku a noi oggi pervenute, ve ne è una in particolare che ebbe luogo nel 1333. Si narra che Yoshiteru Murakami ed il suo signore, il principe Morinaga, furono intrappolati dai nemici in una casa dal tetto di paglia. Murakami si arrampicò sul tetto per distrarre i nemici e favorire la fuga del suo signore. Spacciandosi per Morinaga, Murakami schernì i suoi nemici che si trovavano nel giardino attiguo urlando a squarciagola che avrebbe mostrato loro la vera morte di un samurai. Appiccando fuoco al tetto di paglia, si spogliò dell’armatura e delle vesti ed impugnò la spada corta provocandosi uno squarcio profondo ed ampio nello stomaco. Dopo di ciò, estrasse le interiora dalla ferita, le recise e le lanciò ai nemici che si trovavano sotto di lui. Per concludere il gesto, inserì la punta della spada lunga in bocca, e cadde in avanti su di essa. Nel 1603, anno della nascita del lungo shogunato Tokugawa (reso famoso dal libro e dal film Shogun), la pratica dell’Harakiri divenne uno dei cinque gradi di pena per i malfattori all’interno della classe samuraica (i criminali comuni venivano invece torturati, decapitati o crocifissi). L’atto venne successivamente formalizzato e ritualizzato: ogni singolo aspetto della procedura fu definito da precise regole che indicavano gli indumenti da indossare, l’ora, il luogo, i testimoni, le guardie, gli ispettori (per certificare l’identità dell’individuo ed il decesso) ed, infine, il Kaishakunin, ovvero l’assistente del condannato. Siccome anche il taglio più profondo e largo nello stomaco non garantisce una morte subitanea, era divenuta abitudine per il Kaishakunin rimanere in piedi di fianco al condannato e recidergli il capo con un rapido colpo di spada nel momento in cui egli si conficcava la lama nello stomaco. Per rispettare l’etichetta prestabilita, l’assistente doveva cercare di lasciare uno strato di pelle attaccata al collo per non far rotolare la testa in modo indecoroso. Una procedura, questa, che richiedeva una straordinaria maestrìa con la spada. Subito dopo l’inizio dello shogunato Tokugawa, il numero di suicidi fra i samurai aumentò ad un ritmo che mise in allarme il governo. Per far fronte a questo problema, l’amministrazione emise un editto che ne proibiva la pratica, ma l’usanza era talmente radicata nella classe guerriera, che la proibizione venne ignorata ed il numero di suicidi continuò ad aumentare. Anche gli editti supplementari emanati nei successivi duecento anni fallirono nell’intento di fermare questa pratica.
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Uno degli episodi più illustri di Seppuku ebbe luogo nel febbraio del 1703. Due anni prima, Naganori Asano, giovane signore del clan Ako, svolgendo il suo turno di soggiorno presso la corte dello shogun a Edo (attuale Tokyo) venne insultato dal capo del protocollo shogunale, chiamato Kira. Nel reagire, Asano sguainò la spada e ferì leggermente Kira. L’atto di sguainare la spada all’interno del castello dello shogun, però, rappresentava un’offesa capitale, così ad Asano fu ordinato di commettere Seppuku. Dopo il suicidio rituale, svoltosi repentinamente dopo l’ordine, il feudo di Asano venne confiscato dallo shogunato e i suoi quarantasette servitori, oltraggiati dal fatto che a Kira non era stata inflitta nessuna punizione, giurarono in segreto di vendicarsi dell’ingiustizia. Per due anni, i quarantasette Rōnin, ovvero i samurai senza padrone, pianificarono la vendetta. Al fine di sviare le spie di Kira e la polizia shogunale, spendevano il loro tempo bevendo e frequentando i quartieri a luci rosse della capitale. Finalmente, in una notte di neve del 1703, in quarantasei fecero irruzione in casa di Kira, gli mozzarono il capo e lo portarono sulla tomba del loro signore affinché egli potesse trovare pace. Uno solo dei quarantasette, che aveva all’epoca diciotto anni, non partecipò all’agguato. I quarantasei samurai, di cui uno aveva solo quindici anni, si consegnarono così alle autorità. Per i successivi due anni, il loro destino venne dibattuto con toni accesi dai membri della corte shogunale, da scolari esterni ed, in generale, anche dal pubblico. Secondo l’opinione pubblica e quella degli studiosi, i samurai non dovevano essere incriminati, poiché essi avevano agito difendendo l’antico codice che prevedeva la possibilità di vendicare il proprio signore. Alla fine, lo shogun fece suo il parere di Sorai Ogyu, noto scolaro confuciano, che si pronunciò a favore di una sanzione. Secondo lo studioso, sebbene i quarantasette Rōnin avessero applicato il codice samuraico, essi avevano comunque infranto la legge territoriale creando disordine a livello pubblico. Di conseguenza, i quarantasei samurai, incluso il diciottenne che non partecipò all’azione (ma escluso l’unico quindicenne per motivi di età) vennero tutti condannati a morte. Invece di giustiziare i Rōnin secondo la modalità riservata ai criminali comuni, il proclama shogunale concesse loro di poter commettere Harakiri preservando così il loro onore di samurai. I quarantasei uomini vennero divisi in gruppi di cinque-sei ed affidati nelle mani dei principali signori feudali dell’epoca, ai quali venne dato l’ordine di sorvegliare sulle esecuzioni. Tutti i condannati esegui-
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rono il rituale come ordinato e vennero seppelliti vicino alla tomba del loro signore all’interno del tempio Sengaku, nei pressi dell’odierna zona di Shinagawa. I quarantasei condannati, passati alla storia come i quarantasette Rōnin, divennero immediatamente eroi agli occhi della popolazione. Qualche mese dopo la scomparsa dei Rōnin, uno spettacolo che magnificava la loro azione di vendetta venne presto allestito in un teatro di Edo, ma le autorità si affrettarono a fermarne subito le rappresentazioni. Nel 1706, Chikamatsu Monzaemon, considerato lo Shakespeare del Sol Levante, scrisse uno spettacolo per marionette basato su quell’evento. Dopo di lui, molte altre opere teatrali raccontarono a più riprese la storia dei quarantasette samurai. Anche in tempi più recenti, la saga è stata descritta in numerosi romanzi e film. I primi occidentali ad osservare il rituale del Seppuku furono sette consoli stranieri di stanza a Tokyo nel 1868. In quell’anno, un gruppo di soldati samurai fecero fuoco con i cannoni su un insediamento straniero a Kobe. Al samurai responsabile del gruppo, un certo Zenzaburo Taki, lo shogunato ordinò il suicidio rituale. Ai sette consoli stranieri, fra i quali era presente Algernon Mitford dalla Gran Bretagna, venne ordinato di presiedere al suicidio per poter riportare ai rispettivi governi l’avvenuta esecuzione del responsabile dell’accaduto. Mitford, che in seguito divenne celebre per le sue pubblicazioni sul Giappone, descrisse il rituale nei minimi dettagli: osservò la bellezza del giovane samurai che eseguì perfettamente il rituale conficcandosi e facendo scorrere in orizzontale il pugnale dalla parte sinistra dell’addome verso la destra in direzione dello stomaco. Infine, dopo averlo girato verticalmente per assicurarsi che la parte vitale dell’intestino fosse recisa, si piegò in avanti distendendo il collo in modo che questo potesse essere mozzato con un sol colpo di spada dal Kaishakunin. Nei decenni successivi, ci furono numerosi altri casi di Seppuku da parte di militari e uomini comuni. Durante gli ultimi mesi della Seconda guerra mondiale, migliaia di giovani piloti giapponesi, invocando lo spirito dei loro antenati samurai, si offrirono per divenire “bombe umane” schiantandosi con i loro aerei sulle navi americane nel vano sforzo di fermare l’avanzata straniera verso il Giappone. Poco dopo l’annuncio di resa alle forze alleate nell’Agosto del 1945 da parte dell’imperatore Hirohito, decine di persone si radunarono nei giardini di fronte al palazzo imperiale per commetere Harakiri. Nel novembre del 1970, Yukio Mishima, uno dei romanzieri e drammaturghi più illustri del Giappone, nonché uomo conservatore e co-
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mandante di un proprio esercito privato, si barricò nel quartier generale delle forze di difesa nazionale in centro a Tokyo, salì su un balcone, ed in un lungo discorso, implorò i soldati riunitisi intorno all’edificio di rigettare il moderno e di tornare ai vecchi princìpi. Dopo di ciò, commise Harakiri. In occasione del proprio suicidio, Mishima selezionò per il Kaishakunin una spada antica. Purtroppo, però, a causa del fatto che la spada era poco affilata o, pare, per la poca esperienza dell’incaricato, furono necessari ben tre colpi di spada per mozzare la testa di Mishima. Dopo quello di Mishima nel 1970, non si sono più registrati casi formali di Harakiri, sebbene fino al 1997 il numero annuale di suicidi ottenuto tramite altri mezzi ha raggiunto la cifra di 24931 casi, crescendo ad un tasso annuo maggiore del cinque percento. Quasi tutte le fasce di età sono rappresentate annualmente nella statistica dei suicidi: dagli studenti delle scuole superiori agli anziani. Le ragioni per il suicidio sono varie: dal bullismo subito dai giovani ad opera di coetanei a scuola, fino alle malattie, i debiti, l’alcolismo, i problemi psicologici, le relazioni interpersonali, i fallimenti aziendali, oppure, gli scandali finanziari che vedono coinvolti manager di aziende e ufficiali governativi. Oggi, però, una nuova minaccia incombe sui suicidi in Giappone: i media riferiscono vari casi di giovani che incontrandosi online su Internet decidono di suicidarsi in maniera collettiva fissando addirittura la data del giorno designato. Attualmente, la dedizione e lo spirito di sacrificio simboleggiati dall’Harakiri continua a giocare un ruolo significativo nel Giappone contemporaneo incoraggiando gli studenti ad impegnarsi, e i lavoratori a sacrificarsi per le loro famiglie e per la sopravvivenza e la crescita delle aziende a cui appartengono. Non è nemmeno un caso che sia i burocrati che i politici invochino ancora oggi lo spirito dei samurai suicidi per trarne ispirazione e servire al meglio il proprio Paese.
Capitolo 17
La cultura giapponese contro il management scientifico
Dalla rapida ripresa post-bellica del Giappone fino all’ascesa a seconda economia del mondo, la cultura esclusiva del Paese ha giocato un ruolo preponderante rispetto allo stile di management occidentale. Oggi, sebbene sotto assedio, essa risulta ancora influente in numerosi settori ed aree del sapere. Gli americani ed altri occidentali che si riversarono in Giappone negli anni Cinquanta per acquistare a poco prezzo giocattoli, accendini, articoli sportivi, abbigliamento ed altri beni di consumo, erano soliti lamentarsi in modo veemente della gestione aziendale giapponese, considerandola priva di fondamento logico. Costoro erano convinti che se i giapponesi non avessero abbandonato il proprio stile manageriale, il Paese non sarebbe rimasto che una mera fonte di merce di esportazione a poco prezzo gestita da importatori stranieri. Trovandosi d’accordo con queste critiche, molti imprenditori e manager giapponesi si impegnarono ad adottare in tempi brevi il sistema gestionale americano. Tra questi, alcuni di loro cercarono addirittura di ristrutturare nel giro di uno o due anni le proprie aziende. Per altri, però, il cambiamento richiese più tempo. Già prima della fine degli anni Cinquanta, risultò ovvio che lo sforzo di americanizzare le aziende giapponesi fosse destinato ad un completo fallimento. Infatti, più grandi erano le dimensioni delle aziende coinvolte in questo sforzo e maggiori erano i danni. L’esperimento venne quindi abbandonato in gran fretta dopo aver causato la caduta e la conseguente scomparsa di numerose aziende. Questa breve, ma costosa, frequentazione con il pensiero occidentale non rappresentava la prima esperienza per i giapponesi. In precedenza, essi erano già stati sedotti dall’idea che il management ed i prodotti occidentali fossero superiori ai loro, tanto che subito dopo la ca-
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duta del governo shogunale di stampo feudale avvenuta nel 1868, sembrava che quasi nulla della cultura tradizionale giapponese potesse sopravvivere all’attacco delle idee e delle merci straniere. Fortunatamente per il Giappone, però, un fenomeno simile si ripetè anche negli anni Cinquanta, sebbene in forma minore. Ciò avvenne nel momento in cui il successo travolse quelle aziende che resistettero all’impulso di contestare e contrastare la cultura tradizionale giapponese. Invece di cercare di imitare le pratiche manageriali occidentali, i giapponesi impararono ad avvantaggiarsi della tecnologia americana ed europea adattandola al loro sistema tradizionale. Durante questo processo, essi migliorarono in generale sia la tecnologia che i sistemi di produzione.
Il lato metafisico del lavoro in Giappone Quando a metà degli anni Cinquanta cominciai ad interessarmi ai fattori storici e culturali che avevano caratterizzato lo stile manageriale giapponese, la cosa che mi colpì maggiormente fu la componente metafisica del pensiero e della formazione dei mercanti e degli artigiani nel Giappone antico. Secondo il metodo tradizionale giapponese, ad un apprendista carpentiere, ad esempio, non venivano né richiesti lavori umili, né veniva considerato un semplice servitore del maestro. I giovani garzoni venivano infatti mandati a teatro al fine di studiare le relazioni umane, nonché il ruolo degli oggetti nella vita delle persone: un concetto ed una pratica inconcepibile nel contesto occidentale. L’apprendista seguiva poi le lezioni del maestro riguardanti le caratteristiche materiali e “spirituali” del legno utilizzato in commercio, al fine di comprenderne la natura ed utilizzarlo correttamente nel lavoro. Ai giovani praticanti veniva infine insegnato il rispetto per gli utensili del mestiere, custoditi gelosamente al pari di preziose opere d’arte. È importante notare, però, come questo sofisticato approccio al management e alla formazione professionale avvenisse nel contesto complessivo della cultura, enfatizzando valori quali il lavoro di gruppo, l’apprezzamento estetico, la mutua responsabilità, la grande sensibilità ed il rispetto verso le relazioni umane, nonchè il concetto del miglioramento continuo delle attitudini, del comportamento personale, del talento e del lavoro manuale. Il sistema educativo formale giapponese, con la sua enfasi sulla lettura, sulla scrittura di migliaia di ideogrammi, sull’obbedienza cieca
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alle autorità e su una precisa e raffinata etichetta, contribuì sicuramente a stimolare i modelli già insiti nel pensiero e nel comportamento degli individui, rendendo i lavoratori giapponesi accondiscendenti e docili da gestire. È innegabile, infatti, che fu proprio questa scia educativa e formativa ad oltrepassare i limiti della necessaria conoscenza, degli aspetti pratici del lavoro e del management, donando, invece, alle pratiche giapponesi un sapore tutto particolare ed una forza speciale. Risulta altresì ovvio il motivo per il quale gli imprenditori giapponesi non avessero bisogno di frequentare speciali corsi di management per avere successo negli affari: tutto ciò che dovevano fare era seguire semplicemente la loro cultura e la loro inclinazione organizzando, formando, e dirigendo il personale. Essi, infatti, sapevano già come motivare i loro simili e come instillare e mantenere in loro la fiducia.
Un esercizio di cultura Fare affari in Giappone equivale ad esercitarsi nella cultura: infatti, conoscendola ed utilizzandola abilmente (partendo dalla lingua e dall’etichetta fino a toccare la sua tradizione filosofica, religiosa, artistica, artigianale, folkloristica e ricreativa) saranno maggiori le possibilità di successo negli affari. In Giappone, i migliori manager sono coloro che si trovano così immersi nella cultura da poter ispirare i loro simili incarnando quel carattere e quella personalità che i giapponesi sono stati educati ad ammirare e rispettare per tradizione. Invogliandoli a farsi seguire con piacere, i suddetti individui ispirano nei loro simili una fedeltà assoluta, non tanto per le loro qualità intellettuali (né tantomeno per le conoscenze o per le capacità tecniche), quanto per le loro virtù culturali. Molti di questi manager, infatti, sebbene non si possano definire particolarmente intelligenti, risultano però dotati di un notevole buon senso, forza di carattere e coraggio per perseguire gli obiettivi e non temere le difficoltà ad essi correlate. Piuttosto che ricercare l’intuito e le direttive formandosi sui libri o con l’esperienza pratica degli anni di tirocinio, essi sono invece capaci di sfruttare intuitivamente una “banca dati” di conoscenza culturale in grado di trascendere la tecnologia ed i processi scientifici, rielaborando tutto in termini di relazioni umane. Non sono solo i giapponesi a rimanere affascinati da tali maestri di cultura: numerosi leader governativi ed imprenditori stranieri sono sta-
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ti a tal punto sedotti dal carisma e dal magnetismo di questi personaggi da rimanerne virtualmente ipnotizzati. Nonostante fondamentali cambiamenti in atto nella cultura a partire dagli anni Cinquanta, molti manager giapponesi, incaricati di ruoli di importanza strategica nel business nazionale ed internazionale, continuano a formarsi negli MCA (Master in amministrazione culturale) piuttosto che frequentare corsi di direzione aziendale. Risulta quindi fondamentale per gli occidentali che fanno affari con ed in Giappone essere a conoscenza della suddetta formazione per poter apprezzare il background dei loro interlocutori ed imparare a trattare da un punto di vista umano, piuttosto che da una prospettiva meramente economica. Non a caso, una delle prime lezioni che gli stranieri devono assimilare facendo business in Giappone è che bisogna relazionarsi da un punto di vista strettamente personale ed intimo con gli individui: ciò richiede, ovviamente, un investimento umano maggiore rispetto a quello di cui ci si avvale normalmente in Occidente.
Capitolo 18
L’azienda giapponese del futuro
Numerose aziende giapponesi si trovano oggi in difficoltà. Vi è una consapevolezza sempre maggiore del fatto che per prosperare e sopravvivere bisogna cambiare totalmente le proprie strutture. Ciò ha comportato la pianificazione delle aziende del futuro. Dal 1995 risultò ovvio a numerosi imprenditori giapponesi che la struttura corporativa e la filosofia manageriale che aveva caratterizzato il Giappone sin dagli inizi degli anni Cinquanta fossero superate ed ormai quasi del tutto incompatibili con il nuovo ordine economico. Al Paese risultava chiaro che, per sostenere e stimolare una crescita economica continua, si dovevano necessariamente riformare dal profondo le strutture aziendali nipponiche. Nel 1997, l’Associazione Giapponese dei Dirigenti d’Azienda organizzò undici gruppi di ricerca al fine di esaminare le modalità per lo sviluppo delle future generazioni di imprenditori nel Paese, la relazione tra imprese ed individui nel mondo contemporaneo (e nel futuro), nonché la possibilità di creare imprese che potessero riscuotere successo nel Ventunesimo secolo.
Programma di ricerca La prima fase di questo programma della durata di diciotto mesi si poneva lo scopo di sviluppare una comprensione comune delle tematiche da affrontare. La seconda fase consisteva, invece, nello spiegamento di tre task-force per esaminare gli obiettivi delle imprese nel futuro, la relazione ideale tra imprese e dipendenti, nonché la natura delle aziende cosiddette “creatrici di conoscenza”. Infine, la terza fase del progetto, prevedeva visite dei suddetti ricercatori negli Stati Uniti per intervista-
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re rappresentanti di business school ed aziende, scambiando con loro opinioni e punti di vista. La prima task-force si occupò delle operazioni e delle aspettattive delle aziende leader giapponesi (in Giappone e all’estero) mantenendo uno sguardo sui cambiamenti già in atto e quelli previsti per il futuro negli ambienti in cui le aziende si sarebbero trovate ad operare. La seconda task-force, condusse invece interviste con singoli dipendenti all’interno delle maggiori aziende giapponesi, considerandoli le unità basiche all’interno dell’intera struttura aziendale. Le suddette indagini, focalizzate sul bisogno di realizzazione personale dell’individuo e sulle modalità di sviluppo del pieno potenziale di ogni elemento umano, vennero condotte tramite colloqui con impiegati generici, amministratori e manager. La terza task-force, si concentrò infine sulle modalità ottimali riguardanti l’acquisizione, l’utilizzo e la condivisione della conoscenza. Di seguito sono riportate alcune delle conclusioni a cui questo programma di ricerca è giunto: 1. Subordinare gli individui alle aziende non permette ai dipendenti di sviluppare o utilizzare le loro piene potenzialità. Per ottenere il massimo risultato, la relazione tra aziende e dipendenti deve essere paritaria. 2. Nonostante aziende e dipendenti debbano condividere insieme dedizione e responsabilità, essi devono rimanere nondimeno indipendenti all’interno di una relazione di mutuo beneficio e cooperazione. 3. Le società devono possedere solidi princìpi contenenti linee-guida chiare per i propri dipendenti. Le regole aziendali devono però garantire una sufficiente flessibilità per poter tenere in considerazione le differenze caratteriali, attitudinali, conoscitive, motivazionali e di capacità dei singoli dipendenti. Per ultimo, i team di ricerca hanno riassunto le conclusioni e le loro valutazioni in dieci “verità” o “princìpi” che sono stati successivamente esposti come linee-guida per le aziende del Ventunesimo secolo. I suddetti princìpi coprono tre aree: quella aziendale, la relazione tra azienda e lavoratori, ed infine, quella dei dipendenti.
L’azienda 1. Gli ideali, provenienti dagli individui e dalla società, rappresentano l’assetto principale delle aziende.
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2. I manager devono operare con dignità e sicurezza anche in condizioni di estrema difficoltà. In particolar modo, quando la rapidità e l’agilità dei processi decisionali si rivelano essenziali. 3. Le priorità aziendali devono essere bilanciate tenendo in considerazione le obbligazioni verso i dipendenti, i clienti, le comunità locali, la società nel complesso, gli azionisti e la comunità globale. Sforzi incondizionati devono essere compiuti per massimizzare i benefici verso tutti i suddetti soggetti.
La relazione tra aziende e lavoratori 4. Aziende e dipendenti devono essere legati l’un l’altro e devono condividere gli stessi obiettivi e le stesse vedute al fine di instaurare una relazione qualitativamente e tipicamente soddisfacente per entrambi. La suddetta relazione deve portare alla crescita reciproca. 5. L’azienda deve divenire un luogo dove i dipendenti vengono aiutati ed incoraggiati a migliorare le proprie conoscenze, ad aumentare la propria abilità, a sviluppare creatività e valore. La struttura e la cultura aziendale dovrà essere in grado di poter venire incontro ad individui portatori di valori ed obiettivi differenti. 6. I dipendenti dovrebbero essere organizzati in squadre flessibili i cui membri devono essere incoraggiati ad esprimere le proprie personali opinioni e a proporre suggerimenti. Gli obiettivi di squadra non devono mirare alla auto-preservazione, bensì alla creazione di una sinergia che renda possibile il raggiungimento degli obiettivi. Ciò darà spazio alla contraddizione, spesso fonte di nuove idee. 7. I dipendenti che falliscono pur dando il loro massimo contributo non devono essere penalizzati. A loro devono essere concesse ulteriori opportunità al fine di promuovere in essi la determinazione, il pensiero creativo e l’imprenditorialità.
I dipendenti 8. Ogni società deve essere rappresentata da un “leader” che sia ben informato, creativo e capace di ispirare i dipendenti. (I giorni del “management medio”, che hanno caratterizzato le società giapponesi in passato, sono finiti). 9. I dipendenti devono seguire una politica di “comunicazione e for-
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mazione aperta”: è di primaria importanza incontrare, formare e guidare più colleghi possibili senza tenere in considerazione il grado, la posizione, il genere, l’età o la nazionalità. 10. I dipendenti devono mostrare un attaccamento forte all’azienda e votarsi al suo successo senza però doversi sacrificare personalmente. Tutti i dipendenti dovrebbero coltivare interessi propri al di fuori dell’ambito aziendale.
Come appare il futuro Nonostante le premesse, il suddetto manifesto corporativo per il Ventunesimo secolo non è stato ancora implementato in Giappone. La tradizionale filosofia corporativa, unita al vecchio sistema di gestione del personale, rimane infatti talmente radicata nella psiche e nella cultura giapponese da non poter essere sostituita così repentinamente. Certamente, cambiare le aziende giapponesi richiederà un mutamento nell’atteggiamento e nel comportamento tradizionale dei dipendenti. Ciò, però, non può essere imposto dall’alto, ma bisognerà invece stimolarlo gradatamente nell’arco di un certo periodo di tempo. Tuttavia, molti degli elementi culturali che hanno reso i giapponesi potenti concorrenti in passato, sono divenuti oggi seri handicap (pensiamo al gruppismo e all’autoritarismo) e sono ancora in grado di condizionare il management aziendale in assenza di alternative accreditate. Con ciò, si spiegherebbe anche il motivo per cui dopo i primi anni Novanta solo poche società giapponesi abbiano compiuto effettivi progressi nel tentativo di cambiare la propria cultura. Per la maggior parte delle aziende giapponesi, è indubbio che ci sia ancora molta strada da percorrere per poter raggiungere il modello aziendale proposto dall’Associazione Giapponese dei Dirigenti d’Azienda.
Capitolo 19
Le otto regole d’oro per il management giapponese: sono veramente destinati al fallimento?
Dalla fine degli anni Quaranta fino ai primi anni Novanta, il governo giapponese, in stretta collaborazione con l’industria e attraverso una serie di politiche e strategie, ha contribuito a creare quel gigante economico che ha minacciato la conquista del mondo. Nonostante ciò, questo straordinario risultato potrebbe scomparire repentinamente alla stregua di una meteora. Oggi, molte delle politiche e delle scelte che hanno reso possibile lo straordinario successo giapponese sono criticate per le conseguenze che hanno generato. E, forse, sono anche destinate al fallimento. Dagli anni Cinquanta fino agli anni Novanta del Ventesimo secolo, le modalità del business giapponese apparivano invincibili. Dalla fine degli anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta, i dirigenti delle maggiori società mondiali si spinsero all’estremo pur di imparare (spesso copiando) molti aspetti del management giapponese. Vi era molto da imparare dai nipponici: dagli aspetti apparentemente banali quali la pulizia sul posto di lavoro, alla stretta cooperazione tra i designer dei prodotti, gli ingegneri e gli operai delle linee di montaggio. Non solo. Da essi si potevano altresì imparare concetti quali la priorità alla qualità dei prodotti, la garanzia dei servizi post-vendita, la valorizzazione dei dipendenti, dei clienti e del lavoro duro. Molti stranieri hanno cercato di spiegare i primi successi del management giapponese in termini culturali. Certamente, l’intuizione era giusta, ma vi era qualcosa in più da prendere in considerazione. Gli elementi mancanti nell’approccio straniero venivano definiti dai giapponesi come i “tre tesori” del loro stile manageriale (che generalmente, però, si adattava solo alle grandi aziende) ed includevano: l’impiego a vita, gli stipendi per anzianità, e i sindacati aziendali. Ai suddetti elementi, vanno aggiunte ciò che io definisco di seguito le “otto regole d’oro del management giapponese” e cioè:
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1. Tutti i dipendenti giapponesi lavoravano come se fossero imprenditori indipendenti e, quindi, i soli responsabili del successo o del fallimento aziendale. 2. Buona parte degli investimenti erano stati realizzati sulla base di obiettivi corporativi e di lungo termine. 3. Di fatto, tutti gli investimenti miravano ad aumentare la capacità di esportazione dei prodotti sul mercato mondiale. 4. Tutti gli sforzi nella progettazione, nell’ingegneria e nel lavoro miravano ad un miglioramento continuo della qualità, dell’efficienza e della durevolezza dei prodotti. La responsabilità finale del controllo qualitativo incombeva sui lavoratori delle linee di montaggio e non, come negli Stati Uniti ed in altri paesi, sugli ingegneri ed i manager che non erano quasi mai all’interno degli stabilimenti di produzione. 5. Gli sforzi ed i contributi dei lavoratori delle linee erano altamente valorizzati al pari di quello dei colletti bianchi e dei dirigenti aziendali. 6. L’acquisizione e l’utilizzo delle nuove tecnologie rappresentavano la massima priorità. 7. Tutte le attività aziendali includevano un approccio “azienda-centrico” dove i dipendenti erano chiamati a porre gli interessi ed il futuro dell’azienda al primo posto tra le loro priorità, subordinando, invece, gli interessi personali. 8. Il suddetto approccio “azienda-centrico” era basato su un ulteriore approccio “dipendente-centrico” (detto anche “familiarismo corporativo”) che aveva come scopo quello di produrre la massima quantità di sinergia (l’impresa garantiva il sostentamento dei dipendenti attraverso un’ampia serie di benefici sociali ottenendone in cambio fedeltà assoluta). Come effetto di questa filosofia manageriale, la nazione giapponese in toto finì per focalizzarsi sullo stesso obiettivo di lungo termine: ovvero la produzione di merce di alta qualità per il mercato mondiale. Dalla metà degli anni Cinquanta in poi, praticamente tutte le aziende manifatturiere e commerciali in Giappone, incluso i piccoli rivenditori e le imprese minori nelle più remote zone del Paese, si consideravano fornitori del mondo. Durante i primi vent’anni della notevole crescita giapponese, gli imprenditori si trovarono sovente a copiare e ad acquistare la tecnologia straniera ed il know-how della distribuzione all’ingrosso, emulando e spesso migliorando i processi di fabbricazione e di vendita al dettaglio delle più avanzate aziende mondiali.
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I primi inconvenienti derivanti da questo sistema ibrido di management cominciarono a manifestarsi gradualmente negli anni Sessanta, allorché le società leader giapponesi cominciarono a stabilire fabbriche e uffici vendita all’estero nel tentativo di gestirli seguendo i loro parametri. Per i primi dieci anni, il trasferimento del management nipponico all’estero sembrava produrre buoni risultati, anche se questo primissimo successo non rappresentava che una mera illusione, poiché basato principalmente sulla buona reputazione di cui godevano le aziende giapponesi, e sulle offerte lavorative che, all’epoca, non esistevano a livello locale. A partire dalla metà degli anni Ottanta, le differenze culturali, combinate ad una mutua ignoranza e ad una quasi inesistente comunicazione interculturale, provocarono un crescente disappunto tra i dipendenti stranieri delle aziende giapponesi, sfociate successivamente in frizioni con i superiori nipponici. Questo, però, era assolutamente irrilevante rispetto a ciò che stava accadendo nello stesso periodo in Giappone e nel resto del mondo. Gli Stati Uniti e le nazioni europee industrialmente avanzate si stavano finalmente unendo per divenire più competitivi nei mercati locali ed in quelli esteri: ciò accadeva in gran parte a causa della grande competizione nipponica e grazie all’acquisizione di nozioni acquisite direttamente dal Sol Levante. In Giappone, d’altro canto, la crescente ricchezza ed i cambiamenti sociali stavano cominciando ad erodere quegli attributi culturali che avevano contribuito a rendere il Paese uno straordinario avversario in guerra e durante le prime tre decadi successive al secondo conflitto mondiale. Oltre a ciò, i cambiamenti in atto negli individui nati dopo il 1960 furono così profondi che questi vennero definiti addirittura Shinjinrui, ovvero “nuova razza umana”. A parte i suddetti cambiamenti, però, in una prospettiva di breve periodo fu ancora più significativo il fatto che lo stesso sistema utilizzato nel Paese dagli anni Cinquanta per finanziare la crescita industriale, finì per produrre la nota “bolla speculativa” che, fuori da ogni controllo, scoppiò nei primi anni Novanta del Ventunesimo secolo. Il crollo finanziario di cui fu protagonista il Giappone negli anni 1990-91 fu la diretta conseguenza delle politiche governative e delle pratiche manageriali adottate ben prima della Seconda guerra mondiale, combinate ad altre nuove misure attuate nel dopo guerra. Sebbene tali politiche permisero al Paese di riprendersi dopo il conflitto e di trasformarsi nella seconda potenza economica mondiale in soli trent’anni, è innegabile, però, che esse furono portate avanti per troppo tempo.
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Il sistema manageriale una volta sì ammirato era infatti causa dell’estrema lentezza delle organizzazioni, del fallimento sistematico a livello comunicativo tra le varie sezioni e dipartimenti delle aziende, dell’estrema suddivisione delle attività e della responsabilità al punto che i singoli individui si ritrovavano privi di qualsiasi potere operando, invece, in una sorta di limbo. Oltre a ciò, l’eccessivo grado di burocratizzazione sviliva ogni tipo di iniziativa e attività. Stando alle parole di numerosi consulenti aziendali ed economisti giapponesi, il management della maggior parte delle aziende era degenerato al punto da rendere le aziende nipponiche simili a quelle americane prima della ristrutturazione dei primi anni Ottanta. Quando il disastro finanziario colpì il Paese durante i primi anni Novanta, i produttori cominciarono ad agire nel modo più semplice e repentino possibile percorrendo l’unica strada a loro possibile: abbassarono i prezzi ed iniziarono a lavorare febbrilmente per aumentare le esportazioni. Peccato, però, che all’epoca il mondo era cambiato in maniera significativa rispetto al periodo in cui il Giappone aveva vissuto la propria incredibile crescita economica. Non vi erano più i grandi mercati della guerra quali quelli della Corea e del Vietnam; oltre a ciò, il Giappone doveva confrontarsi con il crescente potere manifatturiero dell’Asia sud-orientale, con una nazione americana rivitalizzata, ed un Europa occidentale unita. La competizione che attualmente il Giappone si trova ad affrontare con le manifatture nel resto del mondo aumenterà a livello esponenziale. In molti casi, essa poteva, e può ancora oggi essere considerata, una conseguenza diretta della creazione di filiali estere, della diffusione tecnologica e dell’addestramento della manodopera che il Giappone stesso ha portato avanti negli anni addietro: ciò diviene sempre più lampante ogni anno che passa. Concludendo, al fine di sostenere lo standard di vita raggiunto (e magari di migliorarlo) nei prossimi decenni, al Giappone non resta che ridurre drasticamente la sua dipendenza dall’industria manifatturiera, enfatizzando, invece, investimenti nel settore della conoscenza. È chiaro che nel primo decennio di questo Ventunesimo secolo, il Giappone non potrà più rivestire un ruolo di predominanza nel mondo: ciò è già scritto a caratteri cubitali nella storia. Le maggiori società giapponesi dovranno quindi cominciare a prepararsi per l’inevitabile.
Capitolo 20
L’allergia giapponese per gli occidentali
Quando i giapponesi incontrarono per la prima volta gli occidentali nel Sedicesimo secolo, scoprirono di esserne pressoché allergici sia dal punto di vista fisico e spirituale, che emotivo ed intellettuale. Sebbene il tempo abbia contribuito ad un cambiamento sia da parte occidentale che giapponese, fino ad oggi non si sono registrati miglioramenti significativi in questo comportamento. L’“antica” intolleranza riveste ancora oggi un ruolo significativo sia nel business che nella politica. Tra gli aspetti che maggiormente inibirono i giapponesi nei confronti dei primi stranieri in cui si imbatterono nel Sedicesimo secolo, vi fu la scarsa pulizia corporale. Mentre i nipponici avevano l’abitudine di detergersi quotidianamente, al contrario, gli occidentali si lavavano di rado e, in alcuni casi, solo poche volte all’anno. Di conseguenza, a causa del cattivo odore da essi emanato, i giapponesi riuscivano difficilmente a stare in loro presenza. Oltre ai suddetti problemi di igiene personale, i giapponesi erano soliti conformarsi ad una stilizzata e minuziosa etichetta che, oltre a regolamentare quasi tutti i movimenti del corpo, si estendeva altresì alla lingua. Al contrario, paragonati ad essi, gli occidentali sembravano non possedere nessuna regola che ne governasse il comportamento fisico e linguistico. Fortunatamente per la sensibilità giapponese, tutti gli stranieri a cui venne permesso di rimanere nel Paese (a parte alcuni olandesi che vennero espulsi nella seconda metà degli anni Trenta del Seicento) vennero confinati su una remota isola artificiale nella baia di Nagasaki. Questa situazione durò fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento, allorché gli Stati Uniti spedirono una flotta di navi per forzare il Giappone a riaprire al commercio estero e agli stranieri. Nonostante i duecento an-
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ni passati dal loro primo contatto con il Paese, buona parte degli occidentali che giunsero in Giappone subito dopo, non aveva ancora migliorato le proprie abitudini igieniche. Oltre a ciò, consumando molto burro e carne, i loro corpi emanavano un odore estremamente sgradevole che i giapponesi trovavano ributtante. Non furono, però, le sole abitudini igieniche e la mancanza di etichetta ad accrescere il divario tra giapponesi ed occidentali. I giapponesi, infatti, consideravano le credenze ed i valori occidentali assolutamente alieni alla loro cultura. Oltre a ciò, le fattezze fisiche (tra cui l’altezza) e le diverse caratteristiche razziali degli occidentali contribuirono ad accrescere le differenze, sfociando in vere e proprie reazioni schizofreniche (se non proprio disumane) nei confronti dei prigionieri di guerra stranieri durante il secondo conflitto mondiale. Dal punto di vista intellettuale ed emotivo, i giapponesi erano stati così a lungo condizionati dall’origine mitica del proprio Paese e dal proprio isolamento che finirono per convincersi di essere superiori a tutti gli altri popoli. Quando, invece, a partire dagli anni Cinquanta dell’Ottocento in poi divenne tristemente ovvio che erano inesorabilmente arretrati rispetto agli occidentali in termini tecnologici ed industriali, i giapponesi ricaddero nella convizione di essere almeno superiori in termini spirituali e culturali: ciò li stimolò motivandoli a voler raggiungere l’Occidente anche in termini materiali. Sebbene il Paese raggiunse un certo benessere materiale a partire dagli anni Sessanta del Novecento, le differenze percepite dai giapponesi verso gli occidentali non vennero affatto dissipate. Anche oggi, nonostante una profonda esposizione durata più di mezzo secolo, molti giapponesi continuano a sentirsi a disagio in presenza degli stranieri. In alcuni casi, il disagio giunge addirittura al punto da renderli “allergici” agli occidentali. Il suddetto sentimento risulta così accentuato ed universale che in giapponese viene espresso dal termine Iwakan, tradotto generalmente con “senso di incongruità o di incompatibilità”. Le autorità sanitarie giapponesi affermano come in un contesto squisitamente nipponico, il significato di Iwakan inglobi un senso di disagio e di sospetto. Ad esso, confermano le autorità, può essere fatto risalire il cosiddetto “complesso verso gli stranieri” che affligge in particolar modo buona parte degli uomini giapponesi. Da un insolito intreccio del destino, il suddetto complesso sembra però travalicare i confini delle mere differenze fisiche e culturali, poiché l’elemento che accentua le differenze sembra essere infatti la lingua.
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Come già affrontato in precedenza, la lingua giapponese non è facile da imparare. Storicamente, i giapponesi la utilizzavano come barriera preventiva verso quegli stranieri che intendevano approfondire la conoscenza del Paese e della popolazione. Per un lungo periodo storico, infatti, insegnare la lingua ai forestieri rappresentava un grave crimine. Sommando i suddetti fattori al lassismo e all’arroganza degli occidentali (soprattutto americani), si può ben comprendere il motivo per cui solo un esiguo numero di occidentali si sia cimentato, almeno fino agli anni Settanta del Novecento, nello studio linguistico. Rimasti quasi del tutto privi di interlocutori che parlassero la propria lingua, il risultato fu che i giapponesi dovettero misurarsi con le lingue straniere (normalmente l’inglese) per poter comunicare a fini commerciali e diplomatici, lamentandosi di una vera e propria discriminazione contro di essi. Il fatto che i giapponesi si dovessero cimentare nello studio dell’inglese non si rivelò una proficua soluzione al problema della comunicazione interculturale. Sin dalla riapertura del Paese all’Occidente avvenuta a metà anni Cinquanta dell’Ottocento, i tentativi giapponesi di imparare l’inglese si rivelarono essenzialmente inadeguati. Sebbene molti, infatti, imparassero a leggere sufficientemente bene, quasi nessuno era in grado parlare: problema, questo, che affligge ancora oggi il Paese. I giapponesi che riescono a parlare fluentemente inglese, però, devono affrontare un ennesimo problema, alquanto unico nel suo genere. Essi, infatti, sostengono che la differenza esistente tra le due lingue sia riconducibile al fatto che esse vengono analizzate in diverse zone del nostro cervello. Tale differenza fa sì che l’apprendimento dell’inglese per i giapponesi diventi un’impresa alquanto ostica. Secondo il Dott. Tadanobu Tsunoda, autorità nel campo degli studi sul funzionamento cerebrale, la lingua giapponese viene processata dal lobo destro del cervello, laddove quella inglese, invece, è controllata dal sinistro. Quando ai giapponesi viene chiesto di capire e parlare inglese, essi devono passare dal lobo destro a quello sinistro. Questo passaggio, suggerisce il Dott. Tsunoda, oltre a rivelarsi oltremodo faticoso, costringe i giapponesi a non poter ragionare “a modo loro” finendo per catapultarli in un mondo completamente sconosciuto. Ciò, aggiunge Tsunoda, spiegherebbe anche il motivo per il quale i giapponesi si sentono a disagio quando si trovano a contatto con gli stranieri. In special modo, quando partecipano a conferenze internazionali, forum e meeting di negoziazione condotti in inglese o in altre lingue. Oltre a
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ciò, pare che molti giapponesi ai quali viene chiesto di operare in ambienti anglofoni per un certo periodo di tempo (due o tre giorni, ad esempio), necessitino successivamente di alcuni giorni per riprendersi dall’esperienza linguistica. Questa è una delle ragioni per le quali i businessmen giapponesi non amano ingaggiare estenuanti sessioni di negoziazione con gli occidentali. Certamente, il fallimento degli americani e di altri occidentali di incontrarsi a mezza strada con i giapponesi per costruire un ponte in grado di superare le diversità culturali e linguistiche, contribuisce ad alimentare il cosiddetto Iwakan e quel complesso verso gli stranieri di cui buona parte degli uomini giapponesi soffrono (le donne giapponesi, al contrario, sembrano essere meno affette da questa sindrome). Sebbene aumentino gli occidentali (incluso americani) in grado di cavarsela con la lingua ed il pensiero giapponese, bisogna però riconoscere che questo numero è ancora troppo esiguo e che il gap linguistico esistente rappresenta ancora una delle barriere più insidiose tra il Giappone ed il resto del mondo.
Capitolo 21
L’ossessione della “sgiapponesizzazione”
I giapponesi stanno superando il loro complesso d’inferiorità storico? Potranno mai mutare le loro caratteristiche culturali? Poco tempo fa, volando a nord dell’Oceano Pacifico a bordo di un volo da Tokyo a San Francisco, ho avuto modo di intrattenere una straordinaria conversazione con il mio vicino di posto: un giovane uomo d’affari giapponese sulla trentina, proprietario di una catena di piccoli “love hotel”1 (mestiere che l’uomo svolgeva contemporaneamente al ruolo di monaco buddhista. Ruolo non proprio compatibile con la natura degli hotel da lui gestiti). Rimasi subito colpito da alcune delle domande che l’uomo mi pose: identiche a tutte quelle che mi sono state poste in circa quarant’anni di soggiorno in Giappone. Ciò ha contribuito a rafforzare la mia convinzione che, nel profondo, i giapponesi non sono mai cambiati malgrado più di cinquant’anni di forte esposizione al mondo esterno. Il giovane uomo era ossessionato dall’idea che gli occidentali potessero ancora considerare i giapponesi degli “stupidi” (Baka) o delle persone stravaganti. Era inoltre convinto che i giapponesi dovessero trasformarsi in persone differenti per poter essere accettati come normali esseri umani. Verso la fine della nostra conversazione, l’uomo ha cominciato a sforzarsi di trovare una definizione del modello di persona “non giapponese” a cui lui aspirava. Alla fine, ha concluso con grande emozione affermando di voler divenire: “…internazionale!”. Fui letteralmente colpito dall’intensità di questa affermazione e dalla sincerità con la quale era stata pronunciata. Da essa nascevano infatti interessanti implicazioni riguardo al futuro prossimo del Giappone.
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Love hotel: hotel a tariffa oraria per incontri a sfondo sessuale (N.d.T).
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Sebbene il giapponese medio di oggi sia lontano dall’essere un individuo internazionale, è innegabile che vi siano stati cambiamenti consistenti nel carattere e nella loro personalità a partire dagli anni Cinquanta, e che la società diverga fortemente dal modello in voga una decina di anni or sono. Nonostante i dubbi continui e le credenze malriposte di giovani imprenditori e simili, i giapponesi sono veramente cambiati. Risultano meno insulari, maggiormente obiettivi e più disposti al mutamento ed è significativo che il passo di tale cambiamento stia crescendo a livello esponenziale: sono passati i giorni in cui il grido Ware ware nihonjin! (siamo giapponesi!) regolava il tono e l’essenza di tutte le reazioni verso i popoli stranieri. Oggi più che mai, le reazioni del giapponese ordinario alle questioni interne ed internazionali trascendono i confini del Paese. Sebbene i giapponesi rimangano ancora convinti della superiorità di molti aspetti della loro cultura (mostrando ancora una profonda lealtà verso il Paese), d’altro canto rimangono disillusi da un sistema politico fazioso che non permette ai leader di esercitare l’autorità assumendosi le proprie responsabilità. Come se non bastasse, i giapponesi sono irritati con il governo e con le grandi società per essere collusi in un sistema che promuove le esportazioni sacrificando il benessere dei suoi cittadini. I cambiamenti economici stanno forzando i giapponesi a misurarsi con meno posti di lavoro e con una vera e propria rivoluzione del management affaristico. Frequentare università prestigiose non garantisce più un’esistenza sicura. L’impiego a vita nel settore commerciale non è più garantito, e caratteristiche quali il senso di iniziativa e il talento stanno cominciando lentamente ad avere la precedenza sull’anzianità. I cambiamenti sociali che accompagnano questi sviluppi economici e filosofici colpiscono al cuore il Giappone tradizionale. Le nuove generazioni pospongono il matrimonio o addirittura lo eludono. Specialmente tra le coppie sul finire dei quaranta ed inizio cinquant’anni, il tasso dei divorzi aumenta in modo rapido a causa del rifiuto (tutto femminile) di rimanere all’interno di relazioni in cui mancano genuini legami affettivi. In generale, le donne sembrano non essere più disposte ad accettare né i matrimoni combinati, né le lunghe separazioni causate dagli impegni lavorativi dei mariti (a volte di durata pluriennale), né il lungo orario lavorativo che finisce per causare l’effettiva separazione dei membri delle famiglie. Sebbene ancora soggette a discriminazione in ambito di stipendi e promozioni nel mondo del lavoro, le donne diventano sempre più indipendenti ed autosufficienti. Attualmente, esse
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prendono buona parte delle decisioni riguardanti il matrimonio, i figli, l’educazione e la finanza familiare. Già dagli anni Settanta, a loro viene riconosciuto il merito del successo nell’ambito della produzione dei beni di consumo ed in buona parte delle industrie di servizio, fra le quali il turismo. D’altro canto, all’interno della società giapponese vi è un crescente riconoscimento del fatto che il vecchio sistema educativo (ideato per omologare i giapponesi e trasformarli in lavoratori e consumatori passivi), invece che rappresentare un vantaggio, si stia trasformando in un pericoloso detrimento. Il sistema dovrebbe quindi essere sostituito con una struttura che enfatizzi l’individualità e l’imprenditorialità. Oltre a ciò, il gap generazionale diviene sempre più pronunciato polarizzando i vecchi da una parte, ed i giovani dall’altra, portando agli estremi la pressione contro ogni istituzione sociale ed economica nel Paese. Così come le giovani generazioni scherniscono la conformità richiesta nelle scuole, anche impiegati e burocrati governativi nella fascia tra i trenta ed i quarant’anni (veri pilastri degli affari e del governo giapponese) chiedono e spingono per quei cambiamenti che lentamente stanno alterando la natura delle loro organizzazioni rendendoli sempre meno “giapponesi” e maggiormente internazionali. Oggi, i fattori di omogeneizzazione in atto in Giappone sono rappresentati principalmente da forze esterne. Sebbene influenzino l’intera società nel suo complesso, gli effetti più spettacolari delle suddette forze si devono rintracciare nei giovani ed, in particolare, tra quelli in età adolescenziale. In forte contrasto con i modelli tradizionali della cultura giapponese, queste nuove influenze omogeneizzanti (non solo manufatti, ma vere e proprie culture) consistono principalmente di film, musica, abbigliamento ed accessori provenienti non solo dall’Occidente, ma anche dai vicini paesi asiatici. I semi del cambiamento epocale che stanno rimodellando la popolazione sono contenuti a livello quasi inconscio all’interno dei suddetti prodotti di importazione; concetti quali la democrazia, l’uguaglianza, l’individualità e la morale universale penetrano oggi l’ambiente e la società nella sua interezza. È innegabile che il Giappone non dissiperà velocemente tutta la sua essenza tradizionale, ma bisogna altresì riconoscere che il giapponese medio, come il mio vicino di posto in aereo, sta prendendo coscienza del fatto che non potrà più vivere in contrasto con il resto del mondo. L’ultima generazione di “veri giapponesi” è forse quella nata dagli anni trenta fino al 1945 e che è stata allevata in modo “tradizionale”. I
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tradizionalisti, infatti, si dicono convinti che si possano considerare “veri” giapponesi solo coloro che abbiano speso la vita a contatto con le arti ed i mestieri tradizionali, mantenendo deliberatamente i valori ed uno stile di vita classico. L’influenza di un gruppo isolato e, per giunta, di piccole dimensioni, affermano i tradizionalisti, non potrà però sostenere a lungo la cultura tradizionale giapponese, in un momento, come quello attuale, in cui la massa evolve verso una nuova tipologia umana. Concludendo, la domanda che si pongono oggi gli ortodossi è la seguente: “In che cosa si stanno trasformando i nuovi cittadini giapponesi?”.
Capitolo 22
La mentalità dei burocrati giapponesi
Non si può comprendere il sistema economico, politico e sociale del Giappone senza una conoscenza approfondita della mentalità dei burocrati nipponici che sembrano vivere quasi in un mondo parallelo. I burocrati giapponesi vivono in un mondo a parte. Un mondo virtuale che li isola dal resto della società. Sebbene la struttura di questo mondo sia visibile dall’esterno, la sua profonda natura rimane invece celata dietro a muri culturali apparentemente trasparenti. La situazione che ne scaturisce potrebbe essere paragonata ad un doppio specchio tramite il quale ai burocrati sia permesso osservare il mondo esterno senza essere notati a loro volta. Il termine giapponese per burocrate (Yakunin) presenta di per sé le caratteristiche del suddetto mondo: la prima parte del composto “yaku” significa infatti “ruolo”; la seconda “nin”, invece, “persona”. In altre parole, si potrebbe tradurre il termine come “persona che interpreta un ruolo”. La connotazione chiave di questo termine diviene ancora più chiara se si osserva il sostantivo composto Yakusha, che nel gergo teatrale indica l’attore professionista e che assume lo stesso identico significato di Yakunin (sha è sinonimo di nin). In altre parole, i burocrati del governo giapponese sono identificati come individui preparati a svolgere un determinato ruolo, richiedente una mentalità ed un comportamento di base differente da quello dei normali cittadini. Fino a che non si comprende a fondo la mentalità dei burocrati giapponesi sarà impossibile poterne interpretare il comportamento e comunicare efficacemente con essi. Sebbene le parole che utilizzano possano suonare familiari, in realtà essi parlano sovente una lingua differente. Ma non solo. Anche i loro obiettivi e le intenzioni rischiano di sembrare del tutto irrazionali agli outsider. Detto ciò, allo scopo di comprendere la suddetta mentalità analizzerò alcuni termini chiave che rias-
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sumono questo atteggiamento presentando il fondamento logico sul quale si basano le azioni (o spesso inazioni) dei burocrati. Tra questi termini menzionerò Messhi Hōkō, Meiwaku, Taika Naku, Maemukini, Jūbun, Tsutomeru, Kentō Suru, Hairyo Suru, Shinchōni. Ve ne sono in realtà molti altri, ma questi sono più che sufficienti a fornirci un’idea esaustiva sul tema. Esaminiamoli di seguito nel loro contesto d’utilizzo burocratico e politico: Messhi Hōkō: tradotto impropriamente con “sacrificarsi per il bene pubblico” questo costrutto viene utilizzato dai burocrati per indicare il fondamento del loro sistema di valori. In altre parole, gli Yakunin non devono basare le proprie azioni su valori socialmente condivisi. Essi credono che l’unico valore a cui sia lecito ispirarsi sia il sacrificio dei propri interessi personali per il bene del popolo e del paese. All’interno del contesto burocratico, seguire i dettami del Messhi Hōkō significa proteggere gli interessi e l’autorità delle proprie sezioni e ministeri di appartenenza aumentandone il prestigio. Tutto si basa sulla convinzione che solo preservando ed incrementando il potere del gruppo, si possano realmente soddisfare i bisogni del Paese. Gli Yakunin giustificano questa mentalità ricordandosi costantemente che stanno sacrificando la propria individualità e la vita privata per il bene della Nazione (bisogna notare che questa attitudine è riscontrabile anche in altri ambiti. Una forma più blanda della sindrome del Messhi Hōkō è sempre esistita sin dal passato nell’atteggiamento di quasi tutti i giapponesi). Meiwaku: nella sua accezione generica questo termine significa: “causare problemi al prossimo”. Comportamento che per tradizione è sempre stato vietato ai giapponesi, soprattutto all’interno del proprio gruppo di appartenenza. All’interno delle agenzie e dei ministeri governativi giapponesi, evitare di causare problemi è la regola d’oro. O meglio, il primo di una lunga serie di comandamenti. La prima responsabilità (ma anche il primo obbligo) per tutti i burocrati è quella di non causare nessun tipo di disagio ai propri colleghi, sia a livello individuale, sia come membri di una data sezione o dipartimento. In questo caso, Meiwaku fa riferimento a qualsiasi controversia/conflitto o a qualsiasi tipo di disturbo emotivo o dispiacere: in altre parole, esso fa riferimento a tutti quegli elementi che possono turbare in qualche modo i sentimenti dei singoli o causare alterazioni all’armonia (Wa) del gruppo.
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Per eludere il Meiwaku, i burocrati devono evitare di esprimere la propria opinione o imporre i propri programmi. Devono evitare di fare affermazioni che possano far trasparire promesse o impegni ed imparare ad ignorare, negare, occultare ed anche mentire laddove necessario; tutti artifici culturali, questi, che hanno tradizionalmente giocato un ruolo chiave nel mantenere, almeno in superficie, l’armonia all’interno della società giapponese. Il concetto di “evitare il Meiwaku” permea in profondità la mentalità della burocrazia. Esso non rappresenta solo lo standard di riferimento per il pensiero ed il comportamento degli Yakunin, ma anche il criterio che questi cercano di imporre, in particolar modo, anche alle grandi aziende e alla società nel complesso. Sebbene evitare il Meiwaku funga da difesa impenetrabile per la burocrazia, esso impedisce altresì alle agenzie governative e ai ministeri di essere disponibili, innovativi e progressisti rappresentando la barriera principale all’innovazione e ai cambiamenti rapidi. Una delle prime lezioni che i giovani burocrati imparano è che per evitare di causare problemi è necessario giocare sicuro. Per ottenere ciò risulta utile non prendere nessun tipo di iniziativa, svolgere solo mansioni di routine, rimanere uniti all’interno del gruppo non chiedendo nulla e non criticando i propri superiori. A causa della suddetta mentalità e del sistema che la sorregge i cambiamenti in materia di politiche e prassi governative sopraggiungono generalmente solo in concomitanza di pressioni esterne (Gaiatsu) da parte di governi stranieri, media e potenti organizzazioni. Adottando dei cambiamenti solo in presenza di pressioni esterne, i burocrati e politici dimostrano di non poter essere fautori delle innovazioni, non assumendo esteriormente nessuna responsabilità. In realtà, attraverso una precedente manipolazione, essi possono effettuare cambiamenti eludendo qualsiasi tabù contro questa pratica. Al fine di produrre una sufficiente pressione esterna, i politici (e più raramente, i burocrati) coscienti dell’importanza dei cambiamenti si trasformano in abili manipolatori dei mass media, delle organizzazioni esterne e dei governi stranieri, condizionando il mutamento attraverso i vari labirinti burocratici e legislativi. Sebbene un numero crescente di giapponesi comprenda ed apprezzi il ruolo della pressione straniera sul paese, si manifestano altresì due tipi di resistenza ad essa: una simulata ed una reale. La prima, da parte di coloro che vogliono realmente ottenere successo; la seconda, da parte di chi soffre fortemente dell’ingerenza straniera nella sovranità
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del Giappone. Inutile ricordare che la pressione esterna (Gaiatsu) rappresenta la causa primaria di quell’anti-americanismo che occasionalmente divampa in Giappone. Taika Naku: questa espressione è strettamente correlata alla sindrome anti-Meiwaku insita nella cultura giapponese. Taika significa “grave errore” e Naku “senza”, quindi uniti insieme, i due termini si traducono con: “senza gravi errori”. Essendo i burocrati giapponesi costantemente oggetto di insistente pressione da parte dei loro pari e dei rispettivi gruppi di appartenenza, a loro nessun errore è concesso (sia esso minimo o consistente). La conseguenza diretta di questa mentalità si riflette nel fatto che al fine di stare al passo con i colleghi, gli Yakunin evitano di prendere autonomamente l’iniziativa e di introdurre qualsiasi elemento di novità nel lavoro che sono chiamati a svolgere. Il terrore insito nella burocrazia di creare Meiwaku e di commettere Taika ha contribuito alla nascita delle tre regole per il successo che i maligni attribuscono ai burocrati governativi. Ovvero: mai arrivare tardi in ufficio, non svolgere nessun tipo di lavoro, mai andare in vacanza. In termini pratici, l’obiettivo principale di tutti i burocrati governativi è non causare in alcun modo Taika nell’arco della propria carriera. Infatti, quando essi vanno in pensione, il maggior encomio che possano ricevere dai colleghi è quello di rivedersi riconosciuti il fatto di non aver mai causato disagi al gruppo di lavoro. Maemukini: tra gli stratagemmi utilizzati dai burocrati e dai politici giapponesi per rinviare coloro che presentano richieste o proposte vi è l’abitudine di promettere che considereranno tutto Maemukini, cioè “frontalmente” o “guardando in avanti”. Il termine, infatti, viene utilizzato con il significato di: “considerare gli eventi in modo costruttivo e positivo”. In pratica, questa espressione si riduce ad un semplice rinvio in tono educato e chi la utilizza lascia presagire che non verrà fatto assolutamente nulla per portare avanti l’istanza, lasciando invece il richiedente con la flebile speranza che essa possa essere riconsiderata positivamente in futuro. Questo stratagemma viene sovente utilizzato da imprenditori, burocrati e politici. Essendo tutti i giapponesi a conoscenza dell’utilizzo culturale del termine Maemukini, essi reagiscono tipicamente andando a visitare ripetutamente su base settimanale, mensile o addirittura annuale i personaggi incaricati delle decisioni ricordandogli cordialmente del-
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l’istanza presentata. Di solito, entrambe le parti sono consapevoli del gioco, ma sono la perseveranza e l’elargizione di benefici ai burocrati chiamati in causa che spesso fanno la differenza. Gli stranieri che non sono profondamente coscienti delle reali connotazioni del Maemukini vengono spesso ingannati dalle prime apparenze, rimanendo successivamente delusi per un lungo periodo di tempo. Jūbun: altro termine sovente utilizzato da politici e burocrati per esprimere in maniera più approfondita il significato di Maemukini. Jūbun significa infatti: “in modo pieno”, “abbastanza” o anche “completamente”. Sebbene risulti più impegnativo rispetto al termine precedente, esso viene utilizzato alla stregua di Maemukini per sospendere educatamente il giudizio su istanze o progetti. Tsutomeru: l’accezione generica di questo termine è: “lavorare”, “essere impiegato”. Viene altresì utilizzato con il significato di: “recitare la parte di” o “assumere il ruolo di”. Nel burocratese assume l’ulteriore sfumatura di: “compiere uno sforzo”, “tentare di”, mettendo in evidenza lo sforzo lavorativo ed il senso del dovere insito nella classe burocratica. Utilizzato dai politici e dagli Yakunin, il termine implica il decadimento di ogni tipo di responsabilità verso qualsivoglia promessa. Letteralmente, ci si “impegnerà per” e ci si “assumerà il ruolo di”, ma senza assumere nessuna vera responsabilità. Kentō Suru: termine sovente utilizzato dagli Yakunin e dai politici, ma molto amato da questi ultimi. Significa: “investigare”, “esaminare” e viene comunemente menzionato in occasione di conferenze e meeting dove ci si deve pronunciare su questioni poste dal governo. In termini pratici, il termine suggerisce che sebbene il tema centrale della discussione potrà essere discusso, alla fine, però, nessuna decisione verrà presa. Anche in questo caso, i giapponesi che si trovano nella posizione di dover subire il processo del Kentō sanno perfettamente che al fine di fare breccia negli interlocutori dovranno continuare ad insistere ripetutamente procedendo semmai all’istituzione di alleanze. Capita spesso che molti funzionari governativi stranieri, in occasione di estese trattative in Giappone non riescano che a strappare più di una promessa di “Kentō Suru” alla controparte, tornandosene ingenuamente soddisfatti nei rispettivi paesi. Nell’ambito del business, lo stesso termine rappresenta una vera e propria barriera culturale per gli imprenditori stranieri che si accingono a fare affari nel Paese.
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Hairyo Suru: ennesima espressione tanto cara agli impiegati statali e ai politici il cui obiettivo primario sembra quello di dover rimandare gli elettori ed i cittadini attraverso l’utilizzo di un intercalare gentile e costruito. Hairyō Suru significa infatti: “prendere seriamente in considerazione qualcosa”. Nonostante ciò, quando il termine viene impiegato è poco probabile che un’ipotetica proposta o petizione venga presa in considerazione. Shinchōni: quando politici e Yakunin intendono affrontare in maniera più decisa (sebbene sempre indiretta) una richiesta o proposta che non può avere ulteriori sviluppi, essi sono soliti affermare che la considereranno in modo Shinchōni, ovvero “prudente” o “cauto”. Nel caso in cui, invece, essi affermino senza mezzi termini che la proposta sia Muzukashii (ovvero “difficile”), sarà allora meglio accantonare la richiesta sviluppando invece un nuovo approccio. Il termine Muzukashii può infatti essere interpretato come un: “ non posso farlo” o anche “non può essere fatto”.
Cosa fanno nella maggior parte del tempo gli Yakunin Sebbene agli outsider possa sembrare che gli Yakunin giapponesi passino buona parte del loro tempo rinviando i cittadini o elargendo guide alle società, in realtà, il loro lavoro consiste in altro. La maggior parte del tempo è solitamente impiegata nell’elaborazione delle bozze legislative da proporre alla Dieta per la discussione, nonché alla creazione di testi di domanda e risposta che i membri del parlamento, i ministri, e i capi delle varie agenzie utilizzano durante le sessioni della Dieta. Concludendo, è giusto affermare che i veri autori di tutti i copioni scritti della politica (del presente e del passato) siano proprio gli Yakunin. Indubbiamente, esistono segni che indicano come i vecchi politici giapponesi stiano finalmente cominciando a pensare di agire in proprio da veri legislatori; alcuni giovani parlamentari stanno addirittura assumendo un comportamento da fautori della legge. È chiaro, però, che nel breve periodo non sarà possibile fare a meno degli Yakunin sradicando in modo repentino questo sistema.
Capitolo 23
Perché le azioni in Giappone sono più eloquenti delle parole
Gli stranieri si trovano spesso ad essere spiazzati quando la controparte giapponese non mantiene la parola data o rompe gli accordi scritti. Nonostante ciò, non comprendendo a fondo lo studio dell’etica e dell’etichetta giapponese, essi non sono in grado di capire che ciò che può apparire sbagliato per loro, è invece giusto per i nipponici. In Giappone, in occasione di conversazioni formali ed ufficiose in presenza di burocrati e politici, ciò che normalmente si sente non rappresenta ciò che si otterrà. Infatti, invece di parlare in modo franco ed esaustivo, i giapponesi tendono ad esprimersi attraverso l’utilizzo di termini vaghi ed alquanto criptici. In particolar modo, quando non sono in grado o non intendono in nessun modo cooperare e portare a termine un ipotetico progetto con la controparte. Generalmente, per comunicare in modo efficace in Giappone bisogna essere in grado di interpretare le relazioni, le circostanze ed il comportamento degli individui e dei gruppi, piuttosto che le parole. Ciò richiede una conoscenza esaustiva della storia e della cultura del Paese. La causa di questa insolita situazione deve essere ricercata nei secoli addietro allorché la cultura e la società nipponica mutarono a tal punto che le apparenze presero il sopravvento sulla realtà celandola dietro una facciata di piacere. Apparentemente, la suddetta trasformazione ebbe luogo grazie al ruolo giocato dal sistema dell’etichetta che, a sua volta, originava dall’imperativo di mantenere armoniose le relazioni tra gli individui sulla base della classe sociale, della posizione, del genere e di altri fattori sociali. Man mano che l’etichetta venne ritualizzata, essa conobbe una propria vita indipendente divenendo parte integrante dello standard morale giapponese e ricevendo una maggiore importanza rispetto agli stessi contenuti dei dialoghi tra gli individui.
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Ancora una volta, in situazioni di tipo formale, era il messaggio che veniva completamente taciuto e a cui non si faceva riferimento. Il motivo per il quale i giapponesi erano in grado di comunicare senza difficoltà all’interno di questo sistema era attribuibile al fatto che essi condividevano le stesse opinioni e lo stesso stile di vita. Oltre a ciò, possedevano altresì una base comune di conoscenza, di valori e di aspirazioni. Sicuramente, l’orientamento di gruppo della società giapponese ha contribuito in modo significativo all’omologazione culturale e sociale. Infatti, vivere in ambienti angusti e lavorare fianco a fianco col prossimo ha fatto sì che i giapponesi divenissero familiari con il carattere, la personalità, gli obiettivi ed i gusti di tutti i membri dei rispettivi gruppi di appartenenza. Se a ciò si aggiunge la combinazione dell’etichetta universale con le norme che regolavano il gruppo e la famiglia (e alle quali i giapponesi sottostavano ormai da secoli), non c’è da stupirsi se tutta la società finisse per essere controllata nel comportamento e limitata nelle scelte. Da un punto di vista pratico, il risultato ottenuto era che tutti pensavano ed agivano in maniera quasi identica lanciandosi sovente in lunghe e dettagliate conversazioni normalmente inutili e prive di contenuto. In tale ambiente, la comunicazione extra-verbale che personalmente definisco “telepatia culturale” e che i giapponesi chiamano Haragei (“arte delle viscere”1), rappresenta il fulcro delle interazioni tra gli individui. Stando a ciò che i giapponesi affermano, essi comunicano soprattutto per “atmosfera” e non tramite le parole: ciò comporta un’enfasi sull’apparenza esteriore (Tatemae) con conseguente tendenza a nascondere i propri sentimenti (Honne). Il suddetto condizionamento culturale è stato così forte e pervasivo nei secoli, da caratterizzare ancora oggi buona parte degli individui anziani, ed in particolar modo coloro appartenenti ad enti conservatori e tradizionalisti, fra cui bisogna annoverare anche il governo. Com’è noto, gli americani e buona parte degli europei apprezzano la schiettezza, le presentazioni dettagliate e i dibattiti vivaci basati su fatti ed assunzioni. In contrasto, per più di mille anni i giapponesi sono stati programmati a parlare in pubblico attraverso il Tatemae, rivelando invece il loro lato Honne (“vero pensiero”) solamente in privato.
1 Una sorte di intuizione o intelligibilità interiore radicata al centro dell’esperienza dell’individuo (N.d.T).
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Di fatto, il sistema Tatemae/Honne fu ufficialmente inaugurato dal governo giapponese durante il tardo periodo Heian (794-1185). Nel 1185, infatti, il fondatore del sistema governativo shogunale Yoritomo Minamoto estese ulteriormente il concetto, formulando leggi e proclami extralegali che conferivano l’intero potere politico allo shogunato di Kamakura e lasciando l’imperatore e la sua corte di Kyoto sì integri, ma privi di ogni autorità. Questo sistema, dove il potere rimaneva nelle mani di un governo ombra, fu destinato a durare nel Paese fino in età moderna permeando in modo significativo la cultura ed ogni livello della società fino alle piccole aziende, i cui proprietari si ritiravano in pensione in anticipo per poter successivamente condurre gli affari dalle retrovie. Ancora oggi, il governo giapponese è controllato ad ogni livello da individui che rimangono nell’ombra dei portavoce ufficiali. Oltre a ciò, il lettore deve sapere che buona parte delle azioni amministrative da parte delle agenzie governative e dei ministeri sono di fatto illegali e spesso incentrate sui programmi dei suddetti “uomini ombra”. Oltre al governo, anche numerose società giapponesi sono sovente condotte da individui che rimangono nell’ombra. Tra questi vi sono dirigenti di basso rango, manager, consulenti o direttivi in pensione. Aspetto, questo, ben noto ai giapponesi, ma quasi sconosciuto agli stranieri. Il concetto di Tatemae/Honne pervade così in profondità la mentalità e l’agire giapponese che è capace di estendersi anche alle leggi dello stato e ai contratti scritti. In senso generico, anche le leggi o i contratti possono essere considerati Tatemae, ovvero mere facciate esprimenti intenzioni generali che, però, nella realtà, non risulteranno mai effettivamente vincolanti. Nel contesto giapponese, non importa cosa dicono le leggi e i contratti. Piuttosto, è l’intenzione degli individui che hanno creato le leggi o sottoscritto i contratti che conta. Non a caso, quando le circostanze mutano, è prassi comune ignorare gli impegni scritti qualora non soddisfino la volontà dei loro creatori. Per ciò che riguarda il governo giapponese, è bene sapere che buona parte delle leggi sono promulgate per soddisfare le aspettative e le richieste di specifici elettori. Nonostante ciò, i burocrati, che sono responsabili dell’applicazione delle leggi, continuano ad assumere un atteggiamento del tipo Tatemae. Essi, infatti, continuano generalmente ad operare tramite il ricorso a metodi extralegali. Allo stesso modo, anche i meeting di lavoro in Giappone sono principalmente finalizzati alla creazione di un’“atmosfera”: di certo, non
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mirano alla discussione di contenuti concreti o al raggiungimento veloce di conclusioni. È solo dopo numerosi incontri, infatti, che è possibile far emergere il consenso e decidere sul da farsi. All’interno delle agenzie governative e dei ministeri, il fine dei meeting preliminari, che di solito hanno luogo dopo il normale orario lavorativo nel contesto di vere e proprie cene istituzionali, viene soprannominato “free talking”. Il “free talking” prevede che i partecipanti non discutano delle questioni sul tavolo, ma che consolidino invece il legame di gruppo chiaccherando (spesso di sesso) durante la cena. Una delle ragioni principali per la quale gli stranieri (in special modo funzionari governativi e professionisti) incontrano difficoltà nelle trattative con i giapponesi, è riconducibile al fatto che buona parte dell’amministrazione nel Paese è condotta, di fatto, con metodi illegali. Infatti, sono talmente numerose le pratiche svolte al di fuori della legge e dei contratti che, spesso, l’intero sistema contrattuale sembra doversi risolvere in una mera simulazione. Sebbene preferisca continuare ad operare senza dover alterare nulla fino a quando le condizioni lo permettono, il governo nipponico2, quando pressato dall’esterno, ha la facoltà di adattare leggi e regolamenti a piacimento. Non essendo impregnati di una cultura contrattuale e legislativa, molti giapponesi continuano anche oggi a ritenere corretto il suddetto comportamento extralegale, soprattutto se il fine è quello di operare nell’interesse della collettività. Ciò comporta, ovviamente, che tutto ciò che si sente e si legge in Giappone può divergere in modo significativo da ciò che si attua nella realtà.
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Come anche altre entità oltre ad esso.
Capitolo 24
Yakuza: la vera storia degli onorevoli gangster
Le organizzazioni criminali organizzate giapponesi continuano a sopravvivere e a prosperare. Le aziende straniere farebbero bene a muoversi con molta cautela. Una mia amica americana un tempo ha vissuto in casa di un Oyabun, ovvero, di un boss di una delle più estese organizzazioni criminali del Giappone divenendone la sua guida “spirituale”. Stando alla mia conoscente, quest’uomo doveva essere uno degli uomini più eccelsi nel Paese e la sua ammirazione per questo personaggio ben noto alla malavita (in verità, piuttosto visibile all’esterno) pareva non soprendere affatto i giapponesi. L’organizzazione Yakuza (il cui nome deriva dal termine generico “malvivente”), ha svolto un ruolo centrale nel governo e nell’economia del Paese sin dai primi decenni dello shogunato Tokugawa (1603-1868). Sebbene una parte dei giapponesi si rapporti al mondo Yakuza con disappunto (credendoli ormai fuori moda e prossimi alla fine), un’altra parte continua invece a mostrarle rispetto, senza provare fastidio per il profilo pubblico adottato dall’organizzazione nella società o per la sua continuata sopravvivenza. Come accade spesso nella migliore tradizione giapponese, anche la Yakuza deve le sue origini alla forma di governo che si impose in Giappone dal 1192 al 1868, allorché il Paese era retto dagli shogun e da un’èlite di guerrieri professionisti: i samurai. Durante questo lungo periodo ciò che in Occidente si definiscono i diritti umani erano completamente sconosciuti in Giappone, poiché tutti i diritti sanciti ed adottati dallo shogunato avevano il solo scopo di proteggere e perpetuare il governo e la classe dirigente. La gente comune era quindi alla mercé dei signori locali e delle forze mercenarie samuraiche. Poco dopo aver fondato lo shogunato Tokugawa nel 1603, Tokugawa Ieyasu fece promulgare una legge territoriale che permetteva ai sa-
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murai di poter uccidere seduta stante chiunque li insultasse o infrangesse una delle numerose leggi o regolamenti che disciplinavano la società. L’editto era conosciuto con il nome di Kirisute Gomen, ovvero: “uccidi, scusati e procedi”. Essendo la spada l’arma principale dei samurai, essa veniva impiegata normalmente nelle esecuzioni. Non a caso, il verbo giapponese Kiru cumula entrambi i significati di “uccidere” e “tagliare”. Con il passare degli anni, grazie al consolidamento territoriale del potere Tokugawa, le guerre tra i clan avversari cessarono definitivamente. Senza nessuna guerra da combattere, molti samurai cominciarono a darsi all’alcol, a combattere tra loro, e a giustiziare chiunque incontrassero sul loro cammino. Questi omicidi, commessi agli angoli delle strade da parte di samurai ebbri ed arroganti, portarono lo shogunato alla costruzione dei notori Kōban, ovvero, di quei posti di polizia che ancora oggi si trovano agli incroci delle strade di città e paesi in tutto il Giappone. Mentre il paese conosceva un periodo di lunga pace, anche l’economia prosperò. Un’estesa classe media si sviluppò e ricchi mercanti fecero la loro comparsa a Osaka, Kyoto, Edo (odierna Tokyo) ed in altre grandi città. Arte, artigianato, letteratura ed i grandi quartieri dell’intrattenimento divennero presto l’emblema della società giapponese. Il mondo delle scommesse rappresentava una delle industrie più floride attraendo a sé un significativo numero di gretti criminali e Rōnin (samurai senza padrone che vagavano per il paese; alcuni divenivano veri e propri mercenari vendendo la propria abilità) che portavano ancora la spada senza temere le autorità. Con l’aumento delle scommesse, i giocatori d’azzardo professionisti divennero ideologicamente sempre più indipendenti e provocatori nei confronti delle autorità governative. In special modo nei confronti degli arroganti samurai locali che abusavano del proprio potere vessando indiscriminatamente i normali cittadini e giustiziandoli con impunità. Per sopravvivere nel mondo delle imprese illegali, i giocatori dovevano essere dotati di coraggio, perspicacia ed abilità per difendere sé stessi. Gradualmente, molti di questi cominciarono ad utilizzare tali capacità anche per difendere la gente comune, divenendo celebri come campioni dei diritti del popolo. I giocatori d’azzardo cominciarono così a farsi chiamare con l’appellativo di Yakuza, ovvero il nome del gioco di carte più popolare dell’epoca. Il gioco richiamava più o meno l’odierno Black Jack e la vittoria della mano era sancita da chi non superava i diciannove punti:
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una mano che accumulava otto (ya), nove (ku) e tre (za) punti, dava un punteggio totale di venti punti, andando a determinare la sconfitta. Quando ciò accadeva, il mazziere era solito gridare appunto: “Yakuza!”, ovvero “Hai perso!”. Adottando il nomignolo di “Yakuza”, i giocatori d’azzardo mettevano letteralmente in guardia le autorità e la società autodefinendosi delle “cattive mani” ed avvisandoli con ciò che non desideravano essere disturbati. Il numero dei giocatori Yakuza continuò ad aumentare parallelamente alla crescita economica. Negli anni che seguirono, si riunirono in gruppi sviluppando un proprio gergo ed un vero e proprio codice etico che includeva, ad esempio, il divieto di attaccare e derubare la gente comune. Col tempo, le bande divennero così numerose e potenti che finirono per influenzare, e a volte controllare, le autorità locali e regionali dello shogunato. Quando lo shogunato Tokugawa cadde nel 1868 e l’industrializzazione cominciò ad imporsi su larga scala nel 1870 gli Yakuza seppero stare al passo con i tempi aggiungendo al loro portafoglio classico (prostituzione, intrattenimento e scommesse) anche l’edilizia ed i trasporti. Nel 1945, sul finire della Seconda guerra mondiale, grazie alle proprie imprese impegnate nel vasto mercato nero di merci e denaro, la Yakuza fu uno dei primi gruppi a recuperare terreno. Verso la fine degli anni Cinquanta, si contavano infatti più di duemilacinquecento bande con circa centomila affiliati. A partire dagli anni Sessanta, la Yakuza cominciò ad investire in attività legittime, nonché a supportare i candidati locali, regionali e nazionali nelle elezioni agli incarichi pubblici. Grazie a questi sviluppi, i membri delle bande Yakuza che si trovarono in possesso delle azioni delle maggiori società giapponesi, al fine di estorcere ingenti somme di denaro alle compagnie, cominciarono a ricorrere alla violenza minacciando di rivelare informazioni riservate in occasione dei meeting degli azionisti. Questi individui vennero definiti Sōkaiya. Oltre a ciò, capitava anche che durante le riunioni di vertice, alcune compagnie reclutassero volutamente a scopo intimidatorio i Sōkaiya per minacciare gli azionisti o per evitare che questi ponessero domande imbarazzanti (il significato letterale di Sōkai, infatti, è: “riunione generale”). Tutti i boss della Yakuza e i loro affiliati erano noti alle forze di polizia, ai mass-media e al pubblico in generale, poiché essi non cercavano affatto di camuffare le loro attività e la loro presenza. Al contrario, essi frequentavano regolarmente ristoranti rinomati e hotel di lus-
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so come normali uomini d’affari, anche se il loro abbigliamento (soprattutto abiti e scarpe) e le loro acconciature bastavano a farli identificare in un sol colpo come membri delle gang. Nella maggior parte dei casi, la polizia non prendeva provvedimenti contro la Yakuza se non nel caso di omicidi, i quali erano generalmente legati alle guerre tra bande rivali o a vendette personali tra gli affiliati. Quando la violenza scoppiava in alcune aree tra le bande, la polizia interveniva attraverso raid negli uffici e nelle aziende Yakuza arrestando decine, e a volte, centinaia di membri. Quasi tutti, però, tornavano stranamente a piede libero dopo qualche ora o giorno di reclusione. In generale, infatti, solo gli assassini giudicati colpevoli scontavano pienamente la propria pena rimanendo per lungo tempo in prigione. Fra gli anni Settanta ed Ottanta, gli scandali finanziari dovuti ai legami con la Yakuza da parte di funzionari governativi e dirigenti di società in vista, spinsero il governo ad emanare una serie di editti al fine di eliminare le infiltrazioni dei Sōkaiya. Le nuove leggi, però, furono subito ignorate ed aggirate. Tra i metodi più diffusi per eluderle, vi era, ad esempio, quello di forzare le aziende a pagare ingenti somme di denaro per misteriosi “abbonamenti” a sedicenti riviste. Nonostante ciò, bisogna ammettere, però, che le nuove leggi contribuirono in maniera significativa al decremento del numero delle bande Yakuza e dei propri affiliati. I registri di polizia mostrano che dal 1990 la Yakuza è scesa ad un totale di duemila bande con circa settantamila affiliati. Nonostante ciò, bisogna notare come la mafia giapponese abbia modernizzato il suo intero apparato facendo ricorso ai telefoni cellulari, ai computer ed, in generale, all’alta tecnologia. Oltre a ciò, essa ha ulteriormente ampliato l’ambito dei propri affari entrando nel mercato del turismo, della droga ed esportando gli affari anche all’estero. A seguito del devastante terremoto di Kobe nel 1995 le bande Yakuza della città e della zona circostante si distinsero per essere state le prime a portare cibo, acqua e beni di prima necessità ai trecentomila senzatetto colpiti dal sisma. I mass-media furono prontissimi nel notare che l’organizzazione criminale era meglio organizzata e maggiormente efficace rispetto al governo locale, regionale e nazionale. Non a caso, quando questa si rivolse alle maggiori catene di ristorazione per chiedere contributi per le vittime del terremoto, nessuno osò rifiutare. Sebbene diminuita nel numero, oggi la Yakuza giapponese risulta più forte che in passato. In maniera arguta, alcuni testimoni non man-
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cano di osservare che in Giappone senza l’approvazione della mafia il governo non potrebbe permettersi di compiere il benché minimo passo. Soprattutto, in materia di trasporti ed edilizia. Anche l’autore è stato personalmente coinvolto in un progetto edilizio nella prefettura di Nagasaki, ma non appena il progetto sembrava stesse per partire, i membri della Yakuza spuntarono con una delle loro “telefonate di cortesia” all’impresa giapponese incaricata delle costruzioni. L’unico modo per evitare il coinvolgimento con la Yakuza (le cui connessioni sono spesso difficili da identificare) consiste nell’ottenere l’approvazione ed il supporto da parte di banchieri onesti e funzionari governativi (di quasiasi livello) al fine di potersi difendere tramite il loro potere e prestigio (i neofiti che non dovessero riconoscere le bande Yakuza dalle loro acconciature permanentate o dai loro abiti di seta, possono sempre verificare se il dito mignolo della mano sinistra è stato mozzato fino alla prima giuntura. Questo macabro rito del taglio della punta del mignolo rappresenta il metodo tradizionale per scusarsi di una seria offesa portata ad un boss o ad una cosca appartenente alla Yakuza).
Capitolo 25
Il contributo dello Zen alla potenza economica giapponese
Molte ipotesi sono state avanzate per spiegare il processo che ha portato il Giappone a divenire una superpotenza economica in soli trent’anni. Altrettante ne sono state proposte per comprendere la ragione per cui i prodotti giapponesi, in soli dieci anni, sono evoluti dallo stadio di mere copie (spesso scadenti) allo status dei migliori manufatti al mondo. Tutti questi tentativi, però, sono risultati incompleti ed il motivo di questa incompletezza è da ricercare nel fatto che l’uomo chiave in questa sorta di miracolo economico morì nel 1744. Nella storia vi sono numerosi esempi di piccole nazioni o città-stato divenute superpotenze economiche. Da questo punto di vista, il Giappone non rappresenta affatto un’eccezione. Ciò che possono definirsi uniche, però, sono quelle circostanze che si sono create nel Paese e che l’hanno portato a divenire la seconda economia mondiale. Per molti, tali circostanze rimangono ancora avvolte nel mistero. L’enigma si spiegherebbe grazie agli insegnamenti di un rivoluzionario praticante Zen, chiamato Baigan Ishida, nato nel 1685 e morto nel 1744. Nelle epoche anteriori alla comparsa di Ishida, la filosofia economica prevalente in Giappone era incentrata su princìpi quali la diligenza e la frugalità: concetti, questi, fondamentalmente opposti. Di conseguenza, gli individui erano condizionati a lavorare duramente, conducendo allo stesso tempo un’esistenza piuttosto frugale. Con il passare degli anni pacifici del governo Tokugawa, si fece strada nel Paese una classe di facoltosi mercanti di cui una parte accumulò ingenti fortune. Dal canto suo, per contenerne l’arricchimento, il governo intervenne prontamente cominciando a rinforzare le leggi suntuarie. La conseguenza diretta delle nuove leggi fu che alle famiglie di mercanti più abbienti vennero confiscate intere aziende e proprietà con l’accusa di “lusso intollerabile”.
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Agli altri mercanti di successo non restò che adottare un basso profilo. Ecco perché i leader delle grandi case di mercanti, quali ad esempio la Mitsui, stilarono dei regolamenti (obbligatori per tutti i membri delle rispettive famiglie) che sancivano il divieto del lusso, l’enfasi sulle relazioni umane, la fedeltà alla famiglia e la protezione del patrimonio. Dovendo sottostare all’ordine di ridurre le spese ed il consumo, l’intero Paese si ritrovò presto a dover affrontare un aumento delle scorte di beni ed un calo della domanda che produssero, a loro volta, il blocco della crescita economica nonché il collasso dell’intero sistema. Come se ciò non bastasse, nel 1700, il Paese dovette affrontare una depressione devastante che fu ulteriormente aggravata da una pesante carestia negli anni dal 1716 al 1735. Numerose soluzioni furono proposte per riportare l’economia in equilibrio. Tra queste, alcune prevedevano addirittura rimedi di carattere metafisico con incluse improbabili scalate al monte Fuji nel tempo libero. Fu proprio allora che fece la sua comparsa Ishida Baigan. Nato in una famiglia di contadini, durante l’adolescenza Ishida seguì un apprendistato presso un commerciante di tessuti a Kyoto. Secondo le leggi in vigore all’epoca, gli apprendisti divenivano commessi all’età di vent’anni, direttori di bottega a trenta (ma non potevano sposarsi prima dei quarant’anni), ed infine si ritiravano dal lavoro qualche anno più tardi a causa delle brevi aspettative di vita dell’epoca (intorno ai cinquant’anni). Qualche anno dopo l’inizio dell’apprendistato, il commerciante presso cui lavorava Ishida andò in bancarotta, ma egli, vergognandosi dell’accaduto, decise di non tornare a casa e di tacere la verità alla famiglia. Quando tornarono a Kyoto, qualche anno più tardi, i genitori lo trovarono in condizioni di estrema indigenza. Ishida tornò a casa con la famiglia lavorando temporaneamente come contadino. Dopo di ciò, fu affidato nuovamente ad un altro commerciante di tessuti a Kyoto e divenne direttore di bottega a quarant’anni (invece che a trenta come d’abitudine). Durante l’apprendistato, Ishida divenne uno zelante studioso dello Zen, antica pratica che esortava al controllo della mente, alla distinzione tra illusione e realtà, alla diligenza, all’austerità, alla semplicità e all’unità con la natura. Obiettivi, questi, che dovevano essere raggiunti attraverso la meditazione e la pratica lavorativa. Ishida pensò quindi che invece di lavorare allo scopo di accumulare beni materiali e ricchezze, gli uomini dovessero considerare il lavo-
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ro come mezzo per sviluppare il proprio carattere. Così facendo, si ritirò dopo essere stato promosso direttore di bottega ed aprì una scuola dove poter insegnare la propria nuova filosofia economica. Non avendo studenti però, cominciò a tenere le sue lezioni in strada a Kyoto. Gli insegnamenti di Ishida furono riassunti nello slogan: “Shōgyō Soku Shugyō” tradotto con: “il lavoro è la ricerca della conoscenza”, o anche “il lavoro porta alla saggezza intuitiva”. In termini pratici, lo slogan di Ishida suggeriva che lo scopo primario del lavoro doveva essere la formazione del carattere e della virtù, e non la produttività fine a sé stessa. Considerando la frugalità come una delle più alte ed onorevoli virtù, egli credeva che gli uomini dovessero essere giudicati sulla base del proprio carattere, e non dei propri beni materiali. In un momento in cui l’economia era sovraccaricata dalla produzione di beni che si rivelavano superflui per lo stile di vita indicato dal governo, la filosofia di Ishida poté diffondersi rapidamente, tanto che nel giro di qualche anno, sorsero accademie a lui ispirate in tutto il Paese. Nei decenni successivi, i seguaci di Ishida fornirono una nuova interpretazione al lavoro, il quale non venne più considerato una mera fatica fisica (spesso sgradita), quanto piuttosto una vera e propria esperienza filosofico-religiosa. Il messaggio sembrava quindi essere: più diligente e duro era il lavoro, maggiori erano le soddisfazioni intellettuali, emotive e spirituali che si potevano ottenere. Come dire, più abili erano i giapponesi nel lavoro, più alta era la qualità dei prodotti e la soddisfazione che essi ne traevano. Il suddetto principio dell’appagamento portò i giapponesi a ricercare sempre la perfezione in ogni singolo sforzo. Non erano sufficienti prodotti che si limitassero a funzionare bene. Essi dovevano essere rifiniti e completati sin nei più reconditi dettagli e, addirittura, in quelle parti che normalmente non erano visibili agli utilizzatori finali. Inutile ricordare che, col tempo, la filosofia di Ishida divenne lo standard morale tramite il quale i giapponesi cominciarono a misurare sé stessi e gli altri. Vi erano però altri due fattori chiave che influenzarono profondamente il Paese e che ancora oggi giocano un ruolo fondamentale in ambito economico: la filosofia corporativa e la politica nazionale. I presupposti fondamentali per lo sviluppo futuro del Paese si potevano riassumere in due aspetti fondamentali: la relativa scarsità di materie prime e la sovrabbondanza di forza lavoro. Queste condizioni portarono i giapponesi a sviluppare una straordinaria sensibilità nei confronti dei
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materiali con i quali producevano, nonché a prodigarsi generosamente nel lavoro e nei progetti in cui erano coinvolti. Da questo periodo in avanti, infatti, la qualità dell’artigianato giapponese assurse ai livelli di una vera e propria produzione artistica. Lo stesso approccio, accompagnato dalla stessa filosofia e dallo stesso impegno, furono alla base della ricostruzione del Paese dopo la devastazione subita nel secondo conflitto mondiale. Durante il primo decennio postbellico, la qualità dei prodotti giapponesi venne controllata per la maggior parte dagli importatori stranieri, ma non appena i giapponesi furono in grado di emanciparsi dall’influenza degli acquirenti stranieri, la qualità delle loro merci conobbe un miglioramento significativo, e agli inizi degli anni Sessanta, essi erano già leader mondiali in diverse categorie di prodotti. La passione giapponese per i dettagli e la qualità era destinata ad avere un impatto decisivo anche sugli Stati Uniti. Infatti, oltre ad accaparrarsi larghi segmenti del mercato americano, quando i produttori statunitensi tentarono di esportare le loro merci in Giappone la maggior parte di essi fallì perché, a quel punto, i prodotti non erano più all’altezza dello standard qualitativo nipponico. Agli americani, servirono ben dieci anni, ed un investimento nella cultura corporativa importata direttamente dal Giappone, per riportare i propri prodotti al livello dei nuovi avversari. Oggi, però, i giorni di gloria dell’etica lavorativa ad orientamento religioso sono passati, poiché le condizioni politiche, economiche e sociali che hanno contribuito al successo nipponico, non esistono più né in Giappone, né altrove. Ciò rappresenta sicuramente un grosso handicap. Soprattutto alle vecchie generazioni giapponesi, abituate ad essere programmate a pensare ed agire con grande scrupolosità all’interno di sistemi ben definiti, l’impostazione lavorativa mutuata dagli insegnamenti di Baigan rischia di far perdere di vista la visione d’insieme, inibendo altresì la reazione ai macro-cambiamenti. Sicuramente, le nuove generazioni, non essendo impregnate dell’etica del lavoro Zen, potranno contribuire con una nuova mentalità alle sfide che attendono il Paese. Nel frattempo, però, è indubbio che se i giapponesi ignoreranno le attuali condizioni economiche continuando a seguire solo i suddetti insegnamenti, si troveranno sicuramente in una condizione di serio svantaggio. A meno che il resto del mondo non accolga, ovviamente, parte delle teorie di Ishida Baigan.
Capitolo 26
Come il Giappone è assurto a superpotenza economica
In soli trent’anni, il timido Giappone è stato capace di trasformarsi da Paese devastato dalla guerra, in seconda potenza economica del mondo. Come ciò sia avvenuto, continua a rimanere un mistero per molti. Non si può comprendere, né spiegare la trasformazione del Giappone da Paese devastato dal secondo conflitto mondiale a seconda potenza mondiale senza conoscere in profondità il significato e le implicazioni del termine Gyōsei Shidō, traducibile in italiano con “guida amministrativa”. Gyōsei Shidō fa riferimento a tutte le procedure e le pratiche concepite dal governo militare giapponese negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta al fine di concedere ai leader militari e ai burocrati governativi il pieno potere in campo economico mobilitando il Paese verso la guerra. Un primo segnale del suddetto sviluppo lo si ebbe subito dopo la caduta del governo shogunale nel 1868, allorché i nuovi leader politici avviarono un programma d’urto finalizzato ad industrializzare la nazione nel più breve tempo possibile e ad evitare la colonizzazione da parte delle potenze occidentali, dimostrando con ciò il potere intellettuale e spirituale insito nel Paese. Principalmente, il programma consisteva nell’importare la tecnologia ed il knowhow presenti nelle economie industriali più avanzate dell’Occidente invitando consulenti, tecnici e tutto il personale ritenuto utile per l’attuazione del progetto. Unitamente a ciò, il governo giocò un ruolo fondamentale nella formazione e nel finanziamento dei grandi gruppi societari operanti nelle aree industriali di importanza strategica quali l’acciaio, la chimica e l’energia. In pochissimi anni, il leitmotiv giapponese cambiò da “onora l’imperatore ed espelli i barbari stranieri” a “importa la civiltà e la saggezza dell’Occidente”. Durante questo breve periodo, il sistema feudale (costituito da signori locali, guerrieri samurai e shogunato) che aveva caratterizzato il
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Paese sin dal Dodicesimo secolo, scomparì del tutto. In soli venti anni, il comparto industriale si impose su un’economia tradizionale di stampo agricolo rafforzando il nuovo potere governativo e la classe militare giapponese. Nel campo della formazione, i nuovi leader adottarono il sistema educativo tedesco tramite il quale poterono esercitare un controllo assoluto sui curriculi e sulle attività scolastiche. Tale attività, era finalizzata essenzialmente a trasformare i giovani studenti giapponesi in lavoratori/soldati diligenti e sottomessi. All’epoca, infatti, all’interno delle nascenti industrie giapponesi non esisteva ancora l’impiego a vita e, tantomeno, nessun tipo di contratto d’assunzione. Gli operai potevano essere licenziati seduta stante ed il governo giustificava questa pratica adducendo la scusa che, in quanto figli di contadini, una volta perso il lavoro, gli operai potevano ritornare alle vecchie occupazioni in campagna. Parallelamente a ciò, il governo, congiuntamente al sistema educativo, promuoveva in quegli anni il concetto dell’imperatore “padre della nazione”: a lui, infatti, tutti dovevano giurare la propria fedeltà vivendo in modo frugale e lavorando sodo nell’interesse della nazione. Nei primi decenni del Ventesimo secolo, la burocrazia governativa, unitamente ad una buona parte dei politici e dei militari, si oppose in modo veemente all’idea di democratizzare il Paese attaccando in ogni occasione le proposte giunte in tal senso. Dal 1930 in avanti, una delle pratiche più diffuse da parte dei governanti consisteva nell’accusare i leader dei movimenti democratici di corruzione o frode finanziaria al fine di causare scandali che mantenessero l’intero Paese in agitazione politica. Siccome la classe burocratica governativa controllava i mezzi di informazione attraverso lo stanziamento di contributi alla stampa connivente, i giornali vennero utilizzati come veicolo principale per distruggere i parlamentari della Dieta sostenitori di ideali democratici. Il fervore militare e nazionalistico guidò un gruppo di giovani ufficiali di ispirazione radicale a tentare un colpo di stato contro il governo nel 1936 con lo scopo di assassinare i parlamentari promotori delle riforme democratiche. Sebbene la sollevazione venne presto sedata, l’occasione fornì ai militari la scusa per imporre alla Dieta una Legge di Mobilitazione Nazionale nel 1938 (a quel tempo, il Giappone era già in guerra con la Cina). Il governo, ormai nelle mani dei ministri della guerra e dei loro alleati negli altri ministeri, fece approvare rapidamente nuove leggi volte a standardizzare ogni aspetto dell’economia e della società: dall’educazione alla produzione del riso, dal sakè ai medicinali. Addirit-
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tura, speciali leggi suntuarie vennero emanate in merito all’abbigliamento che ai sudditi era concesso vestire. Tali norme, rientranti nella “Ordinanza Nazionale per l’Abbigliamento dei Sudditi”, erano state modellate su di una legge nazista approvata in Germania, ma finirono col rivelarsi così impopolari che il governo dovette fare un passo indietro e revocarle. Nonostante ciò, ogni altro aspetto nella vita del Paese venne comunque standardizzato. Ulteriori misure draconiane furono adottate per forzare tutte le grandi società a stabilire le proprie sedi a Tokyo al fine di poterle facilmente controllare. Oltre alle grandi holding, questo trattamento fu riservato anche alle case editrici, alle case di distribuzione di libri e riviste, e a tutti coloro che gravitavano nel mondo dell’arte. Nel 1941, anno in cui il Giappone invase il sud-est asiatico, il Pacifico meridionale e gli Stati Uniti, il governo militare fece approvare nuove leggi che garantivano ai vari ministri il controllo totale dell’economia e della società. Questa autorità venne successivamente estesa attraverso il ricorso a programmi extralegali che andarono a completare l’opera di sottomissione del Paese. L’obiettivo primario di tali leggi ed editti extralegali era di standardizzare completamente la produzione di massa e l’attività economica così da poter preparare la nazione allo sforzo bellico. Durante l’occupazione americana, seguita al secondo conflitto mondiale nel 1945, le facoltà di controllo concesse al governo giapponese in materia economica e sociale vennero limitate abbondantemente. Le forze occupanti istituirono altresì una serie di leggi che garantirono la libertà personale e i diritti umani, fino ad allora sconosciuti nella storia del Paese. Nonostante ciò, subito dopo la fine dell’occupazione alleata nella primavera del 1952, i ministri giapponesi, in particolare il ministro delle finanze e quello del commercio internazionale e dell’industria, ristabilirono molte delle politiche del periodo prebellico facenti capo al Gyōsei Shidō. Ripetendo virtualmente il programma che il nuovo governo Meiji aveva istituito subito dopo la caduta dello shogunato feudale nel 1868, i ministri del dopoguerra diedero subito inizio (anche attraverso programmi di finanziamento indiretto) ad una politica di massiva importazione di tecnologia e knowhow stranieri, inviando centinaia di delegazioni aziendali all’estero a scopo di ricerca e addestramento. Al fine di renderle più competitive sui mercati internazionali, il governo concesse particolare sostegno alle industrie chiave del Paese fa-
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cendo ricorso a pratiche legali e non. Ovviamente, il fine della suddetta attività era quello di prevenire e/o limitare l’entrata di compagnie e prodotti stranieri in Giappone. Ancora una volta, vennero attuate pressioni sulle maggiori compagnie ed associazioni industriali affinché queste spostassero le rispettive sedi centrali nella capitale, con il risultato che quelle che resistettero furono tagliate fuori dai contratti, dalle licenze e dalle quote governative. Le pressioni divennero particolarmente intense durante i primi anni Sessanta, periodo nel quale il Giappone aveva già abbondantemente superato il prodotto interno lordo della fase prebellica. Negli anni successivi al conflitto, sorsero nel Paese centinaia di case editrici, distributori nel campo dei mezzi di comunicazione e canali radio-televisivi. I ministri del governo compirono uno sforzo immane per tenere sotto controllo la situazione. In questo frangente, l’exDipartimento del controllo del pensiero, parte del Ministero dell’Educazione, fu utilizzato per forzare decine di case editrici nate nel dopoguerra a fondersi in quattro maggiori compagnie. Una delle misure più drastiche adottate dai nuovi regolamenti imposte all’industria editoriale consisteva nel far passare da Tokyo tutte le pubblicazioni prodotte in altre zone del Paese. In altre parole, un qualsiasi libro pubblicato, ad esempio, nella lontana Hiroshima e destinato alle librerie locali, doveva essere inviato a Tokyo e poi rispedito a Hiroshima per la vendita. Siccome, però, molte riviste presentavano scadenze settimanali divenendo obsolete nel giro di pochi giorni, questa legge costrinse le case editrici di riviste con distribuzione nazionale e senza uffici nella capitale a spostarsi coercitivamente a Tokyo. L’idea sottintesa alle nuove leggi per il controllo dell’editoria e dei media, era identica a quella applicata in precedenza alle industrie manifatturiere: si trattava essenzialmente di una standardizzazione dall’alto verso il basso al fine di raggiungere il massimo controllo e garantire la massima efficienza. Questo pensiero era analogo in tutto e per tutto all’ideologia fondante del lungo shogunato Tokugawa, il quale era riuscito ad omologare ad un livello sorprendente l’intera cultura del Paese strutturandolo alla stregua di un unico organismo, dotato di una testa (ossia i manager a Tokyo) e di appendici (i lavoratori nelle province). Grazie al fatto di funzionare alla stregua di un singolo organismo, la standardizzazione giapponese dei processi politici, di produzione e distribuzione, nonché di tutte le attività sociali ed economiche raggiunta attraverso la “guida amministrativa”, concesse al Paese un enorme po-
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tere e significativi vantaggi economici rispetto agli altri stati. L’incredibile forza di questa economia standardizzata e burocratizzata fece sì che il Giappone potesse avvantaggiarsi della situazione politica ed economica internazionale durante i primi tre decenni postbellici per realizzare il cosiddetto “miracolo economico”. In altre parole, il Giappone poté raggiungere una prominenza in campo internazionale grazie al fatto di non aver mai smobilitato l’economia adottata in tempo di guerra. Infatti, non appena riguadagnata la propria sovranità, il Paese ricominciò a dirigere il mercato al fine di ottenere i massimi risultati; a spese, però, dei consumatori giapponesi. Lo sforzo governativo era tutto teso a fondare la potenza economica del Paese tramite la produzione e l’esportazione, senza dover sostenere alcun costo militare, e senza tenere in considerazione consumatori o azionisti. In tal modo, il prodotto interno lordo crebbe a livelli esponenziali. Nonostante ciò, a metà degli anni Ottanta, i cambiamenti avvenuti a livello nazionale ed internazionale cancellarono buona parte dei vantaggi ottenuti tramite il Gyōsei Shidō e la crescita, una volta inarrestabile, cominciò invece a mostrare segni di cedimento. A metà degli anni Novanta, infatti, essa si era ormai bloccata. Essendo divenuti i “padroni” del Paese sin dalla caduta del sistema shogunale avvenuta nei primi anni Settanta dell’Ottocento, i burocrati giapponesi non hanno mai mostrato di voler rinunciare al potere esercitato in campo economico e governativo. La catastrofe finanziaria, abbattutasi sul Paese sul finire degli anni Novanta del Ventesimo secolo, li ha indubbiamente posti sotto assedio sia dall’interno che dall’esterno, ma nonostante ciò, essi hanno sempre evitato di apportare cambiamenti significativi al processo dello Gyōsei Shidō rallentando inevitabilmente quelle manovre che si sarebbero potute rivelare fondamentali per il Paese. Al tempo, alcuni osservatori fecero notare che il risanamento, forse, si sarebbe potuto raggiungere in soli cinque anni. In realtà, poi ne occorsero quasi dieci. Ciò ha dimostrato che l’antico sistema dello Gyōsei Shidō non è più in grado di controllare l’economia, e che quei fattori culturali che hanno tradizionalmente costretto o svilito il pensiero indipendente e l’azione dei singoli, stanno lentamente perdendo peso. Nel frattempo, sembra, però, che nel nuovo ordine economico mondiale, il periodo incluso tra gli anni Sessanta e Novanta dello scorso secolo, sia destinato ad essere ricordato come l’“età dell’oro” dell’epoca moderna giapponese.
Capitolo 27
Il biasimo governa il Giappone
L’eliminazione della pratica del biasimo e del sistema basato sull’anzianità potrebbe risultare utile al rilascio di energie, ambizione e talento di cui il Paese necessita per superare le crisi che sta affrontando e, forse, per ritornare ai tempi di gloria del successo economico. Come ho già illustrato, molto tempo addietro, la cultura giapponese venne codificata al punto da regolare tutte le azioni fisiche degli individui: mangiare, dormire, sedere, vestirsi, parlare, salutare, lavorare, scrivere e, addirittura, divertirsi. La suddetta programmazione culturale, però, non si limitava solo alle azioni fisiche, ma includeva altresì i princìpi della morale, facendo in modo che tutti i giapponesi potessero condividere gli stessi identici valori. Il condizionamento nell’etichetta e nell’etica fu così profondo che gli standard sociali divennero gradualmente sempre più raffinati. In risposta alla necessità di doversi comportare sempre “in modo appropriato”, tutti i giapponesi diventarono dei veri e propri perfezionisti sia da un punto di vista del cerimoniale che morale. Tale comportamento non doveva però essere finalizzato alla lode. Al contrario, doveva risultare scontato: infatti, invece di elogiare e premiare i singoli per il buon comportamento adottato nel proprio contesto culturale, divenne costume attribuire demeriti biasimando tutti coloro la cui condotta non si confaceva alle aspettative generali. Ancora oggi, i giapponesi sono valutati principalmente in base al sistema del demerito. Ogni singola distrazione o insuccesso viene registrato scrupolosamente, sia in senso astratto, che nel senso letterale del termine. Addirittura, in contesti ufficiali, quali ad esempio i servizi governativi o militari, le note di biasimo possono far parte del dossier individuale dei lavoratori, andandosi a fissare in maniera indelebile nella mente dei superiori e dei colleghi di lavoro.
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Esistono due aspetti da prendere in esame nel caso del demerito come forma di valutazione in Giappone. Da un lato, esso rappresenta un potente incentivo alla prudenza e alla prevenzione degli errori sul lavoro: buona parte dell’incredibile forza delle aziende nipponiche deriva sicuramente da questo tipo di ossessione. Da un altro punto di vista, invece, l’influenza deformante e debilitante del sistema di demerito (in particolare all’interno dei ministeri e delle agenzie governative) rappresenta uno degli aspetti più gravosi del tradizionalismo giapponese. Tale aspetto negativo va indubbiamente ad inibire il pensiero ed il comportamento al punto da rendere le persone più simili a parassiti che non ad individui pensanti. Non a caso, limitando o eliminando totalmente l’individualità dei dipendenti e dei manager, il sistema del demerito va a ridurre drasticamente la creatività e l’innovazione instillando, al contrario, la paura dell’errore e della critica da parte dei superiori e dei colleghi, le cui principali preoccupazioni sono rappresentate dalla preservazione dell’armonia e dalla protezione del gruppo. Per secoli, il Giappone è stato condizionato a temere e ad evitare l’incertezza e l’imprevisto, apportando cambiamenti solo dopo lunghe sessioni di discussione e dopo aver raggiunto un consenso pieno. Tra le numerose ricadute del suddetto sistema sociale, si può annoverare senz’altro l’incapacità di creare precedenti (ovvero, di non intraprendere mai azioni innovative); operazione, questa, impensabile per un normale cittadino giapponese ed, ancor di più, per gli appartenenti alla burocrazia governativa. Attualmente, si nota da parte di numerose imprese giapponesi un serio impegno a voler cambiare il sistema demeritocratico in favore di un sistema meritocratico basato sulle promozioni e sugli incentivi. Al momento, però, solo poche giovani aziende high-tech di ispirazione internazionale hanno effettivamente abbandonato il vecchio sistema. Forse, saranno necessari molti anni, prima che esse possano implementare completamente il concetto superando l’ostruzionismo delle vecchie generazioni giapponesi. A causa dell’attaccamento ai concetti di anzianità, del corporativismo e di armonia, è infatti alquanto improbabile che il resto delle aziende giapponesi possa adottare il nuovo sistema nel prossimo decennio. In passato, è innegabile che il sistema sociale basato sull’anzianità abbia avuto un suo significato. Gli anziani, infatti, erano i detentori assoluti della conoscenza e delle esperienze necessarie alla sopravvivenza della società. Questo sistema è potuto sopravvivere fino ai nostri giorni grazie al fatto che, sin dalle epoche più remote, il Giappone si era
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organizzato in una società chiusa, numericamente esigua e piuttosto coesa. Oltre a ciò, essa aveva vissuto sempre in totale isolamento dotandosi di leggi che proibivano qualsiasi tipo di cambiamento. Sebbene la crescita miracolosa fosse ascrivibile più a fattori esterni al Paese che a precisi fattori culturali, il suddetto sistema ha giocato indubbiamente un ruolo significativo nella trasformazione del Paese in colosso economico durante gli anni che andavano dal 1950 al 1980, continuando a funzionare in modo ragguardevole fino ai primi anni Novanta. Purtroppo, però, non essendo più presenti le caratteristiche socio-economiche degli anni Cinquanta, sul finire del secolo il sistema dell’anzianità ha perso buona parte della sua efficacia ponendo la pratica del demerito fuori luogo in un contesto contemporaneo. Inutile ricordare che oggi la resistenza più accanita allo smantellamento di questi due sistemi si registra indubbiamente da parte del governo e, soprattutto, da parte delle élite burocratiche che così tante energie investono nel mantenimento dello status quo. Nonostante ciò, prima che tali sistemi possano essere eliminati o ridotti, sono auspicabili ulteriori cambiamenti culturali. Tra questi, la propensione giapponese a sacrificare i propri interessi personali a favore del governo e delle grandi società. Lo spirito di sacrificio, infatti, essendo stato inculcato nei giapponesi sin dalle epoche più remote, rappresenta ancora oggi un aspetto fondamentale della loro mentalità e del loro comportamento. Non si tratta solo di adeguarsi al governo e alle entità corporative. Piuttosto, lo spirito di sacrificio è parte integrante dell’immagine che i giapponesi hanno di loro stessi come esseri unici ed isolati in un mondo a loro “ostile”. Per concludere, vale la pena ricordare che, se e quando i giapponesi saranno in grado di puntare sull’individualità adottando un sistema che premi l’impegno e i risultati, saranno di sicuro stupefacenti l’energia, l’ambizione ed il talento che potranno scaturire da questa nuova impostazione.
Capitolo 28
Ijime: bullismo nelle scuole giapponesi
Un numero significativo di giovani giapponesi si rifiuta di andare a scuola per paura. Questo incredibile fenomeno si può considerare una conseguenza del conflitto in atto tra la cultura tradizionale e quella contemporanea con implicazioni serie sia a livello nazionale che internazionale. I report sulla violenza all’interno delle scuole elementari, medie e superiori giapponesi sono ormai all’ordine del giorno. Si racconta di studenti che aggrediscono gli insegnanti, che intimidiscono i loro simili al punto da condurli al suicidio, o che distruggono le proprietà scolastiche. I dati che emergono dai suddetti report finiscono sovente per scioccare e lasciare increduli sia i genitori, che la società nel complesso. A stupirsi, però, sono anche gli stranieri, che per decenni hanno lodato il sistema educativo nipponico per aver preparato studenti dalle buone maniere, capaci di ottenere voti ragguardevoli nelle scienze e nella matematica, nonché di trasformarsi in dipendenti ideali per ogni tipo di azienda. Cos’è successo alla scuola giapponese? Come può accadere che scuole una volta invidiate, oggi si trasformino in focolai di violenza? Che studenti lodati da tutti, oggi vengano invece paragonati a terroristi? Le risposte a queste domande risultano alquanto complesse, ma sono da ricercare nella cultura tradizionale giapponese e, soprattutto, nel nazionalismo militante che si sviluppò tra il 1854 ed il 1945. Subito dopo la cosiddetta “restaurazione Meiji” del 1868 e la caduta del governo shogunale sfociata in una guerra civile, i leader del nuovo governo emanarono una serie di decreti allo scopo di rimodellare il panorama intellettuale, economico e morale del Paese. Tra questi, vi era un manifesto politico e moraleggiante conosciuto come il Rescritto Imperiale dell’Educazione, il quale sanciva il mandato divino del-
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l’imperatore, attuando un vero e proprio lavaggio del cervello a scapito degli studenti, i quali, oltre che mostrare un’obbedienza indiscussa alle autorità e ai superiori, dovevano altresì convincersi che il più alto grado di moralità si raggiungeva con la fedeltà assoluta all’imperatore e ai suoi collaboratori. Durante gli anni trenta e Quaranta del Ventesimo secolo, le scuole giapponesi vennero poste sotto uno stretto controllo militare. Le scuole condizionavano gli studenti a credere e a difendere la superiorità nonché la purezza della razza e della cultura giapponese, al punto che l’adozione di qualsiasi tipo di comportamento o elemento di origine straniera venne considerato tabù e punibile con sanzioni immediate. Tra le misure adottate, il governo proibì, ad esempio, l’utilizzo del sistema fonetico di trascrizione in caratteri latini, l’utilizzo di termini coniati in inglese, ed i cartelli stradali in lingue diverse dal giapponese nelle città. Per non bastare, nel suddetto periodo, tutti coloro che non avevano capelli rigorosamente neri o i caratteristici “occhi a mandorla” correvano un serio pericolo di discriminazione. Coloro, invece, che non si confacevano ad uno stile di vita strettamente autoctono correvano il pericolo (ancora maggiore) di essere puniti dalla Kempeitai (la “polizia del pensiero”), ma anche dalla polizia generica, dai militari e, a scuola, dai propri compagni di classe. Questa forma estrema di pregiudizio si placò a seguito della sconfitta nel secondo conflitto mondiale e della conseguente rimozione dei militari al potere da parte dei vincitori americani e delle forze alleate. Tra le riforme istituite dalle forze americane, che occuparono il Paese dal 1945 al 1952, vi fu l’eliminazione del Rescritto Imperiale dal sillabo delle scuole giapponesi. Nonostante ciò, eccezion fatta per gli studenti delle elementari ai quali non veniva più inculcato e che non dovevano più subire la presenza militare a scuola, l’intera struttura educativa, a partire dal Ministero dell’Educazione fino ad arrivare agli insegnanti, rimase praticamente intatta: i materiali didattici rimanevano sotto il controllo governativo, l’istruzione continuava a privilegiare lo studio mnemonico, in classe non era prevista la partecipazione degli studenti, e l’unico fine dell’apprendimento sembrava risolversi nel superamento degli esami di ammissione. Se, da un lato, tale sistema educativo permetteva agli studenti di ottenere voti ragguardevoli in matematica e scienze, dall’altro, inibiva la personalità ed il rispetto verso sé stessi. Infatti, già dai primi anni Settanta, gli studenti cominciarono a ribellarsi contro il sistema rifiutan-
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dosi in molti casi di seguire le lezioni. Tra loro, alcuni assunsero comportamenti violenti nei confronti dei propri simili, mentre altri cominciarono ad aggredire gli insegnanti e a distruggere le proprietà scolastiche. Nel 1982, le suddette forme di violenza scolastica erano ormai così diffuse nel Paese che il Ministero dell’Educazione dovette condurre una vera e propria inchiesta al fine di comprenderne il motivo. Le scuole che dall’inchiesta risultarono più violente vennero etichettate come “scuole pericolose” e agli amministratori e al corpo docente dei suddetti istituti il governo ordinò una maggiore sollecitudine ed un controllo più rigoroso sugli studenti. Nonostante ciò, i problemi, specialmente il bullismo nei confronti degli studenti portatori di una qualche diversità, continuarono ad aumentare; una sindrome, questa, che le autorità scolastiche non esitarono a definire Ijime, termine derivante dal verbo Ijimeru traducibile con “canzonare”, nel migliore dei casi, ma anche con “tormentare”, nella peggiore delle ipotesi. Durante gli anni Ottanta e Novanta, a causa del ritorno in Giappone di migliaia di bambini in età scolare educati all’estero, si registrò un aumento significativo dei casi e della veemenza del fenomeno (le ragioni di questo flusso erano da attribuirsi al rimpatrio di quei dipendenti che erano stati inviati all’estero dalle aziende giapponesi negli anni Sessanta). Buona parte di questi bambini, infatti, non era in grado di esprimersi fluentemente in giapponese anche se, tra questi, alcuni erano parlavano in maniera più o meno scorrevole una seconda lingua straniera. Oltre alla lingua, tutti questi studenti avevano comunque sviluppato comportamenti di tipo occidentale che li ponevano in risalto rispetto al resto dei coetanei nipponici, finendo per essere molestati dagli insegnanti che non riuscivano a sopportarne la presenza in classe. Nella maggior parte dei casi, gli studenti maltrattati (di entrambi i sessi) finivano per abbandonare la scuola e assorbire il risentimento dei docenti subendo molestie ed infinite violenze. Nonostante ciò, questo trattamento non era riservato solo agli studenti di ritorno dall’estero, poiché numerosi studenti giapponesi venivano ugualmente vessati dagli insegnanti al punto da essere spinti addirittura al suicidio. Tutto ciò contribuì a portare il problema alla ribalta e all’attenzione della nazione. Tra le soluzioni adottate per ridurre il problema della violenza contro gli studenti rientranti dall’estero vi fu quella di aprire scuole speciali. Nel frattempo, però, nelle scuole giapponesi il problema dell’Ijime assumeva proporzioni smisurate. Nel 1985, il Ministero dell’Edu-
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cazione registrò ben centocinquantamila casi di molestie1. Successivamente alla suddetta inchiesta del Ministero, le indagini successive mostrarono una flessione nel numero delle molestie. Di contro, però, aumentarono le violenze fisiche nei confronti degli insegnanti e di persone esterne ai campus, nonché gli atti vandalici all’interno delle proprietà scolastiche. Nel 1988, furono registrati trentamila casi, ma a metà degli anni Novanta, la cifra aumentò ulteriormente ponendo in risalto l’efferatezza degli incidenti. Durante questo periodo si verificarono numerosi casi di suicidio da parte delle vittime dell’Ijime. Questo triste fenomeno portò alla ribalta la superficialità con la quale il problema era stato trattato fino ad allora, nonché l’indifferenza mostrata dai genitori delle vittime. Responsabili scolastici, docenti e genitori cercarono di sfuggire alle proprie responsabilità, mentre risultò evidente anche tra gli studenti testimoni delle molestie che nessuno aveva denunciato nulla né alle autorità scolastiche, né ai parenti delle vittime. Finalmente, nel 1998, il problema giunse alla Dieta Nazionale. L’allora primo ministro Ryūtarō Hashimoto, paragonando le scuole del Paese a veri e propri campi di battaglia, avanzò riforme che ponessero fine agli estenuanti ed estremamente competitivi esami di entrata scolastici. La commissione formata per coadiuvare il ministro dell’educazione fece notare, però, che l’origine del problema andava ricercata nel deterioramento morale del mondo adulto, invocando così il ritorno ad un’educazione di stampo morale nelle scuole. Oltre a ciò, fu sottolineato che fenomeni quali l’Ijime o la violenza scolastica non potevano essere risolti modificando semplicemente il sistema educativo. Piuttosto, sottolineava la commissione, era l’intero sistema di valori del Giappone contemporaneo che avrebbe dovuto essere sostituito. Attualmente, il governo sta discutendo la proposta di modificare la Legge sui Giovani per poter incarcerare gli studenti responsabili di atti criminali già all’età di quattordici anni. Per il momento, però, solo i giovani che hanno superato il sedicesimo anno di età possono essere processati legalmente, mentre coloro che non raggiungono la suddetta età vengono semplicemente ripresi o puniti. L’estrema preoccupazione sollevata dal problema dell’Ijime nelle scuole giapponesi era altresì rivelata da statistiche che mostravano co-
1 In realtà, alcuni osservatori affermavano che la cifra reale superasse di 2-3 volte quella riportata dal Ministero.
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me ogni anno più di centomila giovani si rifiutavano di andare a scuola perché intimiditi. Qualcosa di incredibile per un Paese così dedito all’educazione. Altro dato allarmante sulla diffusa e crescente insensibilità dei giovani nipponici è stato fornito da un’indagine di un team dell’Università Tōyō, il quale ha comparato il senso di coscienza pubblica e la compassione degli studenti di medie e superiori giapponesi con quelli di altri sei paesi (tra i quali Stati Uniti, Cina, Corea del Sud, Polonia). I risultati dell’indagine mostrano come i giapponesi abbiano raggiunto il punteggio più basso, trovando in ciò una correlazione tra il comportamento antisociale degli studenti e la degenerazione dell’ambiente sociale. Non a caso, lo studio mette in luce che sia l’ambiente familiare che la scuola, invece di rappresentare spazi dediti all’apprendimento e alla cura dei figli, siano degenerati rispettivamente allo stato di “spazi emotivamente vuoti” e di semplici “aree di intrattenimento” per una generazione di studenti che non riesce più a sopportare, né a confrontarsi con la competizione. Oggi, il dibattito sui giovani continua ponendo sotto accusa la condizione culturale del Giappone contemporaneo. Ancora una volta, però, sembra che i giapponesi vogliano ignorare i suddetti problemi, nella speranza che si possano risolvere senza l’intervento umano.
Capitolo 29
L’inferno delle scuole giapponesi
Gli occidentali hanno sovente frainteso e mal giudicato il Giappone. Uno degli esempi più eclatanti è rappresentato dall’immagine positiva che hanno del sistema educativo giapponese. Un’immagine che trova, purtroppo, poca corrispondenza con la realtà. Quando negli anni Settanta (tempo in cui il Giappone stava colonizzando economicamente il mondo) gli americani cominciarono a lodare il sistema scolastico del Sol Levante, molti giapponesi ne furono talmente lusingati da non riuscire a contenere la soddisfazione. In forte contrasto con gli adulti, però, gli studenti giapponesi consideravano il sistema educativo nazionale una sorta di infernale gulag negante loro il diritto all’individualità, alle differenze, e alla possibilità di nutrire sogni propri. All’epoca, l’intero sistema educativo giapponese era basato sull’acquisizione mnemonica di nozioni create e selezionate accuratamente dal Ministero dell’Educazione. A partire dalla promozione alle scuole medie, gli esami risultavano altamente competitivi, ragion per cui ogni anno un numero significativo di studenti veniva relegato ai ranghi inferiori della società e del mondo lavorativo. Il sistema risultava così rigido, oppressivo ed inesorabile che la vita di buona parte degli studenti fu ridotta ad un vero e proprio incubo fino agli anni delle superiori. A causa di ciò, alcuni optarono addirittura per alternative formative al di fuori del percorso scolastico tradizionale. Coloro, invece, abbastanza fortunati da poter entrare in un’università di loro gradimento risultavano comunque talmente provati dallo sforzo degli esami di entrata che finivano per abbandonare quasi del tutto lo studio fino al raggiungimento della laurea. Storicamente, il sistema educativo post-shogunale giapponese era stato ideato per formare individui che possedessero le stesse cono-
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scenze e che pensassero o agissero all’unisono. Tali attributi furono di grande aiuto sia al regime militare che controllava il Paese prima del 1945, sia al governo che, nel ventennio successivo alla guerra, dovette dirigere la ricostruzione sociale, nonché un’economia devastata dal conflitto mondiale. Prima ancora della caduta dello shogunato avvenuta nel 1868, l’educazione in Giappone era organizzata attraverso due tipologie di strutture scolastiche: gli Hankō, scuole feudali per i bambini appartenenti alle famiglie samuraiche, e le Terakoya, scuole templari per i bambini di estrazione comune. Mentre ai figli dei samurai venivano impartite una serie di materie utili per inserirli nella classe al potere, ai figli del popolo veniva insegnata solamente la lettura, la scrittura e la matematica. Dopo la caduta dello shogunato, gli ex-samurai divenuti leader del nuovo governo adottarono il modello occidentale per ristrutturare il sistema educativo. Essi, però, commisero l’errore di concentrare tutto il potere amministrativo nelle mani del Ministero dell’Educazione, il quale mirò essenzialmente all’accrescimento della prosperità attraverso la progressiva militarizzazione del Paese, senza prendere in considerazione gli interessi personali e i sentimenti degli studenti. Purtroppo, però, con il passare degli anni, l’obiettivo del sistema scolastico si concentrò sempre di più in questo tentativo di transizione in senso militare. Allo scoppiare della Seconda guerra mondiale, le scuole vennero messe sul piede di guerra: gli studenti delle scuole elementari vennero fatti evacuare in aree rurali, mentre gli studenti delle medie furono mobilitati e posti a lavorare in fabbriche di materiali bellici. Gli studenti universitari, invece, furono obbligati ad entrare nelle forze armate giapponesi. Durante l’occupazione alleata del Giappone (1945-1952) seguita al secondo conflitto mondiale, al governo giapponese fu imposto di eliminare ogni forma di militarismo o nazionalismo dal curriculo scolastico orientando, al contrario, gli studenti ad una cultura di pace e allo sviluppo della propria individualità e del carattere. Sebbene il militarismo e l’ultranazionalismo scomparvero presto dalle aule, la direzione scolastica e la didattica rimasero invece invariate. Oltre a ciò, vennero altresì rafforzate nel dettaglio le regole di comportamento per gli studenti. Passato il periodo del dopoguerra, l’industria ed il commercio cominciarono a favorire i diplomati ed i laureati delle scuole più prestigiose del Paese. Oltre a contribuire alla fama dei suddetti istituti scolastici, ciò provocò inevitabilmente un inasprimento del livello di dif-
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ficoltà degli esami di entrata. La conseguenza diretta di tale politica costrinse gli studenti che non superavano gli esami a dover riparare su scuole di secondo o terzo livello se non, addirittura, ad abbandonare completamente lo studio. In virtù di ciò, anche le scuole materne (Yōchien) introdussero gli esami di ammissione costringendo i genitori a dover assumere tutor per bambini di soli tre anni! Per ciò che concerneva gli studenti delle superiori, essi venivano definiti Rōnin (con riferimento ai samurai “senza padrone” che vagavano per il Paese) quando non riuscivano a superare i test di entrata presso le università da loro selezionate. Anche oggi si calcola che ogni anno circa duecentomila studenti diventino Rōnin in Giappone. Tra questi, alcuni sostengono gli esami ogni anno riprovando per due o tre anni di seguito fino all’abbandono definitivo degli studi (in caso di fallimento dell’esame) o all’entrata in università (in caso di superamento). Dalla metà degli anni Sessanta, sia i media, sia gli studenti facevano riferimento all’intero sistema educativo giudicandolo una sorta di “inferno”. Per migliorare la situazione, il Ministero dell’Educazione propose alcune riforme che furono però avversate dal sindacato dei docenti, di tradizione socialista e comunista. All’epoca, le scuole giapponesi contavano dai duecentoventi ai duecentoquaranta giorni annuali di attività scolastica (contro i centottanta americani) con l’anno diviso in tre semestri alle scuole elementari e medie (dalle superiori, invece, l’anno veniva suddiviso in due semestri) e con un programma rigido ed uniforme in tutto il Paese. Tra le peculiarità di questo processo educativo, bisogna annoverare l’assoluta assenza di partecipazione degli studenti. L’intero sistema, infatti, era incentrato sulla preparazione agli esami di entrata per i livelli scolastici successivi tanto da ossessionare non solo gli insegnanti, ma anche i genitori. In particolare, alcune madri (i padri erano troppo impegnati con il lavoro) vennero soprannominate Kyōiku Mama (“madri dell’educazione”) per la veemenza costante con la quale blandivano ed incitavano allo studio i propri figli. L’importanza rivestita dagli esami di ammissione per le scuole superiori e l’università fece sì che prolificassero nel Paese i cosiddetti Juku (“doposcuola”) e le Yobikō (“scuole con tutor privati”) dove milioni di studenti si riversavano dopo essere usciti da scuola, aggiungendo all’orario scolastico fino a quattro ore di studio quotidiano per ben sei giorni a settimana. Verso la fine degli anni Settanta, l’intero sistema sembrava essere sulla soglia del crollo: la battaglia tra il Ministero dell’Educazione e il
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sindacato dei docenti continuava ad assumere toni aspri paralizzando l’intera comunità degli educatori. Di conseguenza, i docenti si sentivano sempre più frustrati e la qualità dell’insegnamento peggiorava, mentre i suicidi tra gli studenti divenivano ormai prassi comune. Nonostante ciò, la reazione (sia da parte dei docenti, che dell’amministrazione) fu di imporre agli studenti norme ancora più drastiche nello sforzo di controllarli. Ciò contribuì a peggiorare ulteriormente la situazione, ma pose altresì in evidenza che la soluzione al problema era da ricercare negli insegnanti e nello staff scolastico, da sempre programmati ad un ambiente di apprendimento mnemonico e dai toni militareschi. Ad inasprire la già precaria situazione si aggiunsero poi i cambiamenti economici nel Paese. Infatti, una volta che i prodotti ad alto contenuto tecnologico raggiunsero il loro momento di notorietà, le imprese più prestigiose si ritrovarono a competere con un America ed un Europa rivitalizzate. In tale contesto, l’omologazione quasi robotica degli studenti in lavoratori si rivelò inefficace. Infatti, sebbene questi continuassero a racimolare voti molto alti nei test di scienze e matematica, erano però incapaci di quel pensiero creativo ed indipendente che stava trainando in quel momento la nuova economia mondiale. Sin d’allora, sebbene il Ministero abbia annunciato un numero di riforme per riportare il sistema educativo giapponese al passo coi tempi, il processo di attuazione delle revisioni rimane ancora lento ed incompleto. Bullismo ed altre forme di violenza rimangono ancora endemiche sembrando aumentare in buona parte delle scuole superiori. La crisi economica ha certamente ridimensionato Juku e Yobikō, ma ancora oggi migliaia di studenti li frequentano sacrificando la propria giovinezza in un sistema educativo che non serve né i propri interessi, né quelli del Paese. Sembra chiaro ormai che il Giappone non potrà risolvere i propri problemi in ambito educativo fino a quando non realizzerà un ricambio nella classe dei burocrati, degli amministratori scolastici e dei docenti, tramite il quale poter rompere definitivamente con il passato. Le voci del cambiamento, sebbene flebili, cominciano comunque ad avere un’eco nel Paese. Tra queste, bisogna segnalare il tentativo di consorziarsi da parte di alcune università pubbliche al fine di permettere agli studenti di spostarsi tra i vari campus a seconda delle proprie necessità individuali. Anche il Ministero dell’Educazione, sta valutando l’opportunità di rendere maggiormente indipendenti le università pubbliche dal governo, responsabilizzandole anche in termini di spesa e di rendimento.
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Cambiamenti così epocali, però, impiegheranno molto tempo prima di tradursi in realtà. Gli educatori americani, in passato così ammaliati dai risultati ottenuti dagli studenti giapponesi, dovrebbero invece ritenersi fortunati piuttosto che invidiare un ambiente educativo che ha tradizionalmente negato ai giovani il diritto di pensare, sognare e creare.
Capitolo 30
Sulla crisi del management giapponese
Buona parte delle imprese maggiori in Giappone si trova a dover reinventare un nuovo modello manageriale. La loro risposta determinerà il futuro che, però, non sembra essere molto confortante. Nel 1995, il Professor emerito dell’Università di Tokyo ed autore di alcune pietre miliari nel campo del management, Moriaki Tsuchiya, insieme a Konomi Yoshinobu, ex-dipendente della Mitsubishi e della Mitsui & Company, nonché autore di numerose pubblicazioni di business e consulente aziendale, hanno pubblicato un’opera intitolata Shaping the Future of Japanese Management: New Leadership to Overcome the Pending Crisis. All’interno del volume, questi due stimati osservatori del cosiddetto “stile manageriale nipponico” mettono in guardia le maggiori aziende del Paese, suggerendo che per poter sopravvivere nel Ventunesimo secolo, sarà necessario riformare alla base le politiche e le pratiche manageriali finora adottate. Nel volume, i due autori descrivono in dettaglio gli aspetti tradizionali del management giapponese, le cause che hanno contribuito alla cosiddetta “bolla speculativa”, nonché la cieca enfasi sulle esportazioni che ha inibito nel Paese lo sviluppo di un’economia interna (aspetto, questo, risalente già ai primi decenni del periodo Meiji, a fine Ottocento). Tra le pratiche manageriali che i due autori suggeriscono di eliminare figurano: 1) L’impiego a vita. 2) La classificazione e gli stipendi per anzianità. 3) La distribuzione di utili quasi inesistenti agli azionisti e l’investimento arbitrario dei profitti da parte dei manager. 4) L’assunzione di impiegati giovani inesperti (direttamente dalle scuole superiori e dalle università) ed i lunghi training a cui questi ven-
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gono sottoposti per inserirli nelle aziende ed indottrinarli nella filosofia corporativa. 5) La dipendenza sul governo per proteggere il mercato interno dalla competizione straniera. 6) La crescita continua delle dimensioni aziendali attraverso la diversificazione e l’istituzione di nuove filiali senza l’elaborazione di piani di lungo periodo. 7) La dipendenza su un credito a buon mercato da parte delle banche affiliate. 8) Il vantaggio sleale nei confronti dei mercati stranieri. Gli autori evidenziano in maniera critica (cosa alquanto rara in Giappone) come lo stile manageriale classico abbia contribuito ad un rigonfiamento eccessivo delle imprese, nonché ad una difficoltà comunicativa all’interno di queste. Oltre a ciò, essi rimarcano l’impossibilità da parte dei manager di dimostrare la propria creatività e di prendere l’iniziativa. Anche gli interessi divergenti delle criticate agenzie governative e delle grandi aziende, affermano gli autori, sono divenuti così gravosi che impediscono alle imprese di esprimersi al meglio delle loro possibilità. L’altro tallone di Achille delle grandi aziende giapponesi, suggeriscono Moriaki e Konomi, è da rintracciare nel sistema di formazione tradizionale che, invece di produrre specialisti, non fa altro che formare forza lavoro generica. Infatti, oltre a non ricevere una formazione specializzata, i colletti bianchi vengono regolarmente spostati tra i vari dipartimenti aziendali, in modo che dopo aver familiarizzato con il proprio lavoro in un dato dipartimento, vengono immediatamente dislocati altrove. Oltre che alle aziende, i due autori accusano anche il sistema educativo nazionale definendolo “privo di sostanza”, costoso, debilitante ed incapace di fornire agli studenti quella tipologia di conoscenza ed esperienza utile ad affrontare le nuove sfide con le quali l’industria ed il Paese devono confrontarsi. Riassumendo lo stile manageriale giapponese, che Moriaki e Konomi non esitano a definire obsoleto e problematico, i due osservatori riconoscono e criticano un altro aspetto che fino ad oggi solo pochi commentatori hanno avuto il coraggio di chiamare in causa: essi mettono sotto accusa “l’ambiguità” del management tradizionale. Per comprendere a fondo l’importanza di questa affermazione, è necessario ricordare che, sin dai tempi più remoti, l’ambiguità rappresenta un aspetto fondante della cultura e della comunicazione giappo-
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nese. Una comunicazione chiara (che potrebbe assumere i toni della rudezza, fino a giungere all’insulto vero e proprio), infatti, potrebbe generare conseguenze catastrofiche (e sarebbe semplicemente impensabile) in Giappone. Inutile ricordare che la scia lasciata da questo tipo di condizionamento dura ormai da secoli e continua a caratterizzare ancora oggi i giapponesi. Altro aspetto criticato dagli autori riguarda l’abitudine da parte di molti manager di alto livello di spendere buona parte del proprio tempo a preparare ed esaminare piani strategici ormai “ritualizzati” e privi di qualsiasi nesso con la produzione ed il marketing. Ciò, suggeriscono gli autori, provocherebbe una frustazione endemica nei manager di medio e basso livello, i quali si ritrovano sovente a fare ostruzionismo nell’azienda o, nel peggiore dei casi, ad abbandonarla direttamente. Reazioni, queste, impensabili nel contesto della tradizione giapponese classica. Sebbene le grandi aziende giapponesi mostrino all’esterno un’immagine di grande controllo a livello organizzativo e di supporto, buona parte delle attività che coinvolgono gli staff interni riguardano essenzialmente l’espletamento di formalità ed il rafforzamento delle regole, suggeriscono gli autori. Addirittura, nelle imprese che hanno automatizzato buona parte delle attività produttive, le spese per il personale di controllo e di supporto rappresentano ben l’80 percento del totale delle retribuzioni aziendali. Gli autori proseguono la loro indagine elencando quelle aziende che hanno definitivamente rotto col passato e che si stanno distinguendo nel superamento del periodo di stagnazione (tra queste: Fujitsu, NEC, Sony, Toray). Oltre a ciò, essi delineano quei cambiamenti che potrebbero rivelarsi utili a risollevare il Paese dalle recenti disavventure economiche, e cioè: 1) Il governo, il sistema educativo e le grandi imprese dovranno facilitare lo sviluppo comune dello spirito d’iniziativa, di una mentalità e di un sistema di supporto simile a quelli adottati negli Stati Uniti. 2) A livello macroeconomico, il Giappone dovrà adoprarsi per elevare lo standard educativo e di vita degli altri paesi asiatici. 3) Il Giappone dovrà avvantaggiarsi dell’incremento di valore dello yen per aumentare in modo significativo le importazioni al fine di produrre ricchezza nel Paese. Con ciò, i giapponesi avranno la possibilità di sviluppare il proprio tenore di vita apportando miglioramenti ai propri alloggi o aumentando il tempo libero a propria disposizione.
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4) Per raggiungere i suddetti obiettivi, le imprese giapponesi dovranno decentrare e livellare le proprie strutture organizzative eliminando l’eccessiva burocratizzazione ed incoraggiando la flessibilità ed il pensiero innovativo. Ciò dovrà essere raggiunto attraverso la promozione di uno spirito imprenditoriale ad ogni livello del management. 5) Le aziende non dovranno più dipendere dagli “assetti nascosti”, ovvero azioni di compagnie esterne o proprietà di beni immobili. Dovranno invece imparare a sviluppare l’esperienza ed il talento dei propri dipendenti considerandoli l’unico vero asset aziendale. 6) Le riforme dovranno avere luogo all’interno delle attuali strutture aziendali con riferimento alle gestioni delle imprese maggiori del Paese. Soprattutto, dovranno riguardare quelle aziende che sprecano le abilità e le aspirazioni dei loro migliori dipendenti limitandone le attività e le capacità progettuali. 7) Le società di grandi dimensioni dovranno essere scisse in aziende minori dotate di piena autonomia. Le aziende madri dovranno invece svolgere una funzione di mero controllo azionario. È superfluo sottolineare che sebbene buona parte delle maggiori aziende giapponesi non abbia ancora attuato i suddetti cambiamenti, nel frattempo le nefaste previsioni di Tsuchiya e Konomi si sono già tradotte in realtà. Bisogna riconoscere, però, che le riforme avanzate dagli autori richiedono un cambiamento epocale della cultura tradizionale giapponese, ovvero di una delle culture più esclusive, coese ed autorevoli mai sviluppatesi al mondo. Inutile dire che il mutamento richiederà tempo e sacrificio. Paradossalmente, le stesse tradizioni e gli elementi culturali che hanno reso il Giappone un così formidabile avversario in tempo di guerra e durante il ventennio del suo sviluppo economico (1960-1980), oggi rappresentano un freno per il Paese. La questione che si pone è dunque la seguente: i giapponesi che occupano posizioni strategiche all’interno del governo e delle maggiori aziende sapranno adattarsi in modo abbastanza radicale e rapido così da poter attuare le politiche e le riforme strutturali necessarie al Paese? Tsuchiya e Konomi non sembrano essere positivi in merito. Infatti, entrambi prevedono che, anche nella migliore delle ipotesi, mentre l’industrializzazione procederà nel resto dell’Asia, lo status internazionale del Paese sarà destinato a declinare in modo significativo nel corso del Ventunesimo secolo. Nelle conclusioni al volume che il Professor Tsuchiya ha scritto tre anni dopo l’edizione giapponese del volume, l’autore osserva che di recente solo poche prestigiose aziende sono state in grado di raziona-
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lizzare la propria struttura ed il proprio management. Nel resto dei casi, la maggior parte delle imprese non ne sono state capaci, mentre altre non hanno nemmeno preso in considerazione l’idea. Lo stesso autore aggiunge che nel Paese non sono emerse né le giuste dirigenze aziendali, né quelle politiche utili alla riorganizzazione del mondo imprenditoriale giapponese. Le previsioni appaiono quindi molto desolanti.
Capitolo 31
Nihonteki: uno dei segreti del successo giapponese
La cultura classica giapponese risulta così autorevole che ha reso quello nipponico uno dei popoli più esigenti al mondo. Malgrado ciò, questo fattore ha condannato al fallimento molti prodotti stranieri continuando ad agire da barriera per le aziende estere che intendono commercializzare i propri beni sul mercato giapponese. Nonostante la prossimità geografica con la Corea e la Cina, un commercio intermittente e relazioni culturali con questi due paesi, il Giappone è rimasto isolato dal resto del mondo per un periodo di più di millecinquecento anni. Durante questo lungo periodo, i giapponesi hanno sviluppato una metodologia tutta particolare per operare nel proprio contesto ed osservare il mondo circostante. Un esempio ne è la prassi rigorosa e formalizzata insita nella cultura nipponica che portava a distinguere nettamente gli oggetti di manifattura giapponese da quelli di fattura straniera. Tra questi due ambiti, non vi era soluzione di continuità. Con il trascorrere dei secoli e con l’avanzamento dell’omologazione culturale, i giapponesi divennero così sensibili verso la “differenza”, che si convinsero che i prodotti elaborati in ambito straniero non si potessero adattare al loro ambiente: né dal punto di vista spirituale, né da quello materiale. Fu solo negli anni Settanta dell’Ottocento che un numero significativo di giapponesi residenti tra Tokyo, Yokohama, Kobe, ed altre grandi città, entrò in contatto su larga scala con manufatti stranieri. Per un certo periodo la novità e l’esoticità di questi prodotti ebbe il sopravvento sui giapponesi, i quali, tramite l’utilizzo di tali manufatti, cercavano di avvicinarsi il più possibile ad uno stile di vita occidentale. Parallelamente, questo fenomeno fu accompagnato da un rigetto per i prodotti autoctoni. I giapponesi, infatti, cominciarono a considerare l’arte e l’artigianato tradizionale inferiore a quello occidentale, sostenendo la mera pro-
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duzione di beni di fattura straniera. In realtà, questa attitudine venne fomentata in modo significativo dalla rapida comparsa di importatori americani ed europei, i quali si dimostrarono ansiosi di far copiare i propri prodotti in Giappone dove artigiani e lavoratori erano altamente qualificati e dove i costi di manifattura risultavano abbastanza contenuti. La sindrome del rigetto, però, non ebbe seguito. Sin dall’inizio di questo periodo, infatti, quasi tutti i prodotti in stile occidentale prodotti in Giappone vennero destinati al mercato straniero con il soprannome di Yokohama Hin, ovvero “prodotti di Yokohama”1. La qualità di questi manufatti, essendo quasi interamente controllata dagli importatori stranieri, risultava eccessivamente scadente rispetto allo standard qualitativo locale, al punto che i giapponesi li cominciarono a considerare sotto-prodotti di infima fattura. Questa situazione durò fino alla seconda metà degli anni Cinquanta del Ventesimo secolo, allorché i produttori giapponesi cominciarono a combattere con gli importatori stranieri per il controllo dei beni di esportazione. A partire da questo periodo, la reputazione e la qualità dei prodotti “Made in Japan” conobbe un’impennata significativa così che, a partire dalla metà degli anni Sessanta, il Giappone fu in grado di sviluppare il primo ed il più sviluppato mercato dei consumi in Asia, basandosi sulla produzione di beni in stile occidentale fabbricati in loco, ed includendo sia gli standard qualitativi tradizionali, che quella particolare essenza che rendeva i prodotti accettabili al pubblico giapponese. Fu durante questo decennio che un limitato numero di produttori americani ed europei nel mercato dei beni di consumo ed industriali cominciò ad avvicinarsi al mercato nipponico. Sfortunatamente, però, il tasso di fallimento di suddette imprese nell’approccio al mercato giapponese fu significativo. Esistevano, infatti, numerose barriere governative ed istituzionali contro i prodotti stranieri destinati al Giappone, nonché una varietà di fattori che rendevano quasi impossibile la vendita sul mercato locale. Tra gli elementi che causarono le difficoltà ed il fallimento delle aziende straniere ve ne fu uno che i produttori stranieri non seppero né anticipare, né gestire. Al di là del fatto che la qualità generale (incluso il confezionamento) dei prodotti provenienti dagli Stati Uniti era quasi sempre molto inferiore agli standard giapponesi2, bisogna ricono-
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Indicando con ciò il fatto che venivano spediti all’estero dal porto di Yokohama. Tanto da non riuscirsi a guadagnare nemmeno l’accesso al mercato nipponico.
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scere che questo sottile elemento, non ascrivibile né alla qualità, né all’aspetto esteriore dei beni, aveva a che fare invece con il carattere “troppo” esotico dei prodotti. In altre parole, i prodotti importati venivano recepiti dai giapponesi come “eccessivamente stranieri” nel design, nella forma, nelle dimensioni e “nell’anima”. Purtroppo, però, dato che buona parte dei produttori non fu in grado di comprendere questo aspetto, nessuno riuscì a trovare una soluzione appropriata. Nei decenni successivi, numerose imprese straniere si sforzarono di studiare le caratteristiche del “gusto giapponese” e le modalità per poterlo assecondare, laddove altre, invece, si rifiutarono di esaudire i gusti nipponici andando incontro al fallimento. Oggi, tra i termini chiave che si utilizzano per indicare il gusto giapponese vi è Nihonteki dove Nihon sta per “Giappone” e Teki significa: “adatto, compatibile, conforme”. Tradotto in italiano, il termine potrebbe corrispondere a: “stile giapponese”. Nel periodo a cui facciamo riferimento, buona parte dei consumatori nipponici richiedeva al mercato interno che anche i prodotti stranieri si confacessero al gusto autoctono e che fossero, appunto, Nihonteki. Come ho già avuto modo di esporre in altre mie precedenti pubblicazioni sul Giappone, affinché i prodotti possano acquisire lo status di Nihonteki, essi devono aderire ad uno o più degli standard espressi dai concetti giapponesi di Shibumi, Wabi, Sabi e Yūgen, che oltre a rappresentare la base dell’estetica giapponese, sono stati parte integrante della cultura sin dal periodo Heian (794-1185). Shibumi significa: “raffinato, sobrio” e Wabi “semplice, quieto, tranquillo”. Sabi, che si può tradurre letteralmente con “ruggine”, fa invece riferimento alla bellezza insita nel transire del tempo, mentre Yūgen può essere tradotto come: “mistero, sottigliezza”. Per secoli, i suddetti attributi hanno rappresentato il fondamento delle arti e dell’artigianato giapponese influenzando altresì gli ambiti dell’architettura, dell’allestimento dei giardini, della produzione di ceramica, dell’Ikebana, del teatro Kabuki e di altre forme artistiche. Fino ad alcuni decenni or sono, i giapponesi erano così pregni dei suddetti princìpi che erano in grado di individuarli senza nessuna difficoltà aspettandosi di ritrovarli in tutti i prodotti ed i manufatti che acquistavano o utilizzavano. I prodotti che non incorporavano le suddette qualità erano considerati, ovviamente, inaccettabili. A tal proposito, è interessante notare che i primi manufatti a rispettare gli standard giapponesi furono alcuni articoli da regalo, accessori e capi di abbigliamento prodotti in Francia ed in Italia.
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Fino alla seconda metà degli anni Ottanta, buona parte degli agenti e degli importatori giapponesi si sforzarono di persuadere (se non addirittura di costringere) i fornitori stranieri a “nipponizzare” i propri prodotti, poiché consapevoli che senza i dovuti accorgimenti, questi non sarebbero mai stati accettati in Giappone. Oggi, però, le nuove generazioni, veterane sì dello shopping all’estero, ma non più impregnate dei concetti estetici tradizionali, sembrano essere più interessate al prezzo e alla qualità media dei prodotti che non al significato culturale contenuto in essi. Malgrado ciò, nel caso in cui gli imprenditori stranieri siano interessati ad incontrare la fetta di pubblico dei consumatori anziani giapponesi, essi devono essere consapevoli del fatto che il fattore Nihonteki rappresenta ancora oggi un elemento vitale nell’atto e nella motivazione all’acquisto. In molti casi, però, raggiungere questo mercato è possibile anche attraverso la creazione di una “giusta immagine” pubblicitaria, piuttosto che con l’adattamento ad hoc dei prodotti stranieri per il mercato nipponico. Concludendo, bisogna notare che, sebbene la società contemporanea giapponese sia attraversata da una progressiva modernizzazione in senso occidentale, la cultura tradizionale rimane ancora ben ancorata alle infrastrutture del Paese e non vi è dubbio che questa continuerà a giocare un ruolo fondamentale nelle attitudini e nei comportamenti di acquisto dei consumatori giapponesi per buona parte del Ventunesimo secolo.
Capitolo 32
Vendere sesso in un bicchiere. Ovvero: il mercato del piacere in Giappone
In Giappone, il sesso a scopo ricreativo è stato tradizionalmente associato all’acqua. Non a caso, il commercio che concerne l’intrattenimento notturno viene chiamato in giapponese “Mizu Shōbai”, ovvero: “commercio dell’acqua”. Nessuno conosce il motivo per il quale si cominciò ad utilizzare il termine Mizu Shōbai. È assolutamente innegabile, però, che lo straordinario numero di stazioni termali associato all’antica pratica delle abluzioni quotidiane (estesa ad ambo i sessi) portò ad una rapida associazione dell’acqua con il piacere. Non a caso, lo Shintoismo, religione autoctona del Paese, associava una scrupolosa pulizia corporale ad un’energica celebrazione della fertilità umana. Probabilmente, fu solo nel periodo di massima affermazione dello shogunato Tokugawa (1603-1868) che il termine Mizu Shōbai entrò a far parte del vocabolario quotidiano dei giapponesi. All’epoca, infatti, grazie allo sviluppo di una vasta rete di locande situate ai bordi delle strade, il piacere di un buon bagno caldo veniva sovente associato al piacere della carne, mentre si espandevano in tutto il Paese i quartieri dedicati alle geishe e alle prostitute. Sebbene la prostituzione organizzata fosse oggetto di controllo da parte del governo shogunale e dei Daimyō (signori feudali delle province), essa era considerata un’attività legittima e non gravata da nessun tipo di biasimo morale. I giapponesi, infatti, non essendo soliti associare il sesso né al peccato, né al solo amore di coppia si sono potuti risparmiare secoli di repressioni imposte, invece, ai cristiani e ai musulmani dai rispettivi leader religiosi. Forse, l’unica critica che si potrebbe muovere nei confronti delle abitudini sessuali giapponesi, è che esse siano state incentrate su una visione alquanto “maschio-centrica”. Non a caso, buona parte dei costumi e delle istituzioni del periodo To-
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kugawa erano organizzate per soddisfare i bisogni ed i capricci degli uomini ignorando, invece, la sensibilità femminile. Sebbene questa impostazione si possa ritenere ingiusta e deplorevole, essa ha contribuito tuttavia alla formazione di quell’immaginario femminile giapponese che tanto ha affascinato in passato gli uomini occidentali. Detto ciò, bisogna però riconoscere che, nel Giappone contemporaneo, le donne stanno prendendosi la loro giusta rivincita. Per alcuni versi, infatti, esse sono state in grado di invertire le regole del gioco assumendo il pieno controllo delle relazioni con il sesso opposto. Oggi, infatti, le donne giapponesi risultano più volitive e desiderose di partecipare attivamente all’eterno gioco delle parti tra i due sessi e, tra le più giovani, si assiste addirittura ad un aumento dell’“intraprendenza” nei confronti degli uomini.
Il ruolo dell’alcool In Giappone, come anche in altri paesi, l’attività sessuale ed il consumo di bevande alcoliche sono strettamente correlate. Bere in occasione di cerimonie o per puro piacere è un’abitudine consolidata sin dai tempi più remoti nel Paese. Non a caso, il Sakè (distillato di riso) veniva considerato bevanda sacra sia per le divinità dello Shintoismo, che dai leader del potere temporale. Attualmente, i giapponesi sono annoverati tra i maggiori bevitori al mondo. Oltre al Sakè, tra le bevande più consumate troviamo la birra e la vodka. Mentre buona parte della popolazione consuma regolarmente alcol, il resto dei giapponesi ha occasione di avvicinarsi ad esso solo saltuariamente. Ciò che sorprende, però, è che i giapponesi non riescono a reggere affatto l’alcol, tanto che dopo qualche sorso diventano spesso rossi in viso raggiungendo l’ebbrezza (o finendo per stare male) dopo averne bevuto solo una modesta quantità. Certamente non tutti sono suscettibili delle suddette condizioni. Molti, infatti, vanno fieri del fatto di poter bere in grande quantità. Soprattutto tra uomini, essere in grado di reggere l’alcol rappresenta un tradizionale simbolo di virilità, giocando un ruolo significativo nelle vite dei manager e dei professionisti nipponici. L’etichetta giapponese prevede che gli ospiti, come anche i restanti partecipanti ai convivi, controllino che i bicchieri altrui non siano mai vuoti o quasi privi del beveraggio. Ciò costringe i singoli a dover bere velocemente ed in grande quantità, specialmente in occasione di
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feste e celebrazioni dove tra i vari obiettivi vi è quello di assicurarsi che tutti si ubriachino a dovere1. Specialmente per i visitatori stranieri, risulta alquanto difficile passare del tempo in Giappone senza rimanere coinvolti in numerosi convivi alcolici. Ancora più complicato risulta trovare una scusa accettabile (per esempio: “il medico me lo ha proibito”) per astenersi dal bere. Un’ottima soluzione al problema, però, può rivelarsi la finzione: infatti, fingendo l’ebbrezza dopo solo due o tre drink può rivelarsi di grande aiuto (secondo una modalità appropriata alla situazione, ovviamente). Inutile ricordare che il Sakè2 viene tradizionalmente riconosciuto come “il lubrificante sociale” per eccellenza e che, sebbene sia stato oggi sostituito nella maggioranza dei casi dalla birra, esso rimane comunque il parametro attraverso il quale i giapponesi misurano l’apprezzamento della propria cultura. Infatti, ancora oggi, se ci si rifiuta di bere mostrando di non apprezzare il Sakè (almeno in occasione di cerimonie), non si è considerati né giapponesi, né tantomeno amici del Giappone.
L’onnipresente Nomiya L’ambientazione più comune del Mizu Shōbai giapponese è rappresentata dalle centinaia di migliaia di cosiddetti Nomiya (letteralmente, “luogo per bere”). In Giappone, infatti, esistono differenti tipologie e classi per i locali che servono alcol: tra questi abbiamo i cosiddetti bar, i lounge, i nightclub, i cabaret, le birrerie, i pub, nonché esercizi specializzati nella vendita del solo Sakè. Sebbene oggi si riscontri una generale confusione rispetto all’utilizzo dei suddetti termini, bisogna ricordare che alcune delle differenze tra i vari locali sono sancite per legge. La più importante di tali differenze legali prevede che i Nomiya debbano essere in possesso di una licenza da cabaret al fine di assumere entraîneuse che intrattengano i clienti. Tra gli altri vincoli legali, vi è altresì l’obbligo di possedere una licenza di ristorazione al fine di poter rimanere aperti oltre la mezzanotte. 1 Ciò si associa al fatto che, per la tradizione giapponese, l’ebbrezza è rivelatrice della personalità degli individui. Tramite l’ebbrezza, infatti, si è capaci di rompere con l’etichetta e con il gioco delle parti. 2 Con il termine Saké oggi si fa riferimento a tutte le bevande alcoliche in generale e non solo al tradizionale distillato di riso (N.d.T).
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Potendo offrire legalmente la compagnia di giovani donne, i cabaret, i nightclub e gli “hostess bar” detengono il primato dell’intrattenimento notturno in Giappone sin dai primi anni Cinquanta del Ventesimo secolo. Come anticipavo, però, vi sono sostanziali differenze tra i cabaret, i nightclub, gli hostess bar ed i lounge. I cabaret ed i nightclub sono normalmente molto grandi e possono essere caratterizzati entrambi dalla presenza di musica dal vivo, oltre che dalla presenza delle hostess. Nei cabaret ai clienti vengono assegnate automaticamente delle entraîneuse non appena entrati e fatti accomodare. Il cliente paga per queste una tariffa, che si calcola normalmente sulla base del tempo e della tipologia del cabaret, e se il cliente mostra delle preferenze può richiedere anche una hostess di suo gradimento pagando una tariffa extra. Chi può permettersi di spendere di più può intrattenersi anche con più hostess contemporaneamente che lo raggiungeranno al tavolo o in un eventuale privé. In questi casi, è possibile anche che il cliente faccia ruotare le entraîneuse dando loro la possibilità di guadagnare ulteriormente sulla tariffa3. Generalmente, i nightclub permettono sempre ai clienti di scegliere se volersi o meno intrattenere con le hostess; concetto, questo, introdotto nel Mizu Shōbai sul finire degli anni Quaranta dai fondatori (spesso stranieri ed americani) dei primi locali notturni del dopoguerra. Oltre alle esigenze maschili, i suddetti club soddisfacevano però anche le mogli e le giovani donne, mentre i cabaret erano rivolti (e lo sono ancora oggi) principalmente ad un pubblico di uomini. Altra caratteristica che contribuisce a distinguere i cabaret dalle altre tipologie di Nomiya è che questi sono frequentati essenzialmente da uomini di mezza età (tra cui molti imprenditori) per i quali i locali sono soliti spedire il conto delle consumazioni direttamente alle aziende, piuttosto che incassare in contanti direttamente. Ovviamente, ciò comporta che il frequentatore medio dei cabaret debba far valere le proprie credenziali e la propria capacità di solvenza prima che gli venga fatto credito. Nel caso in cui egli rappresenti una compagnia nota, ciò risulta più facile: l’aspirante cliente si presenta in anticipo attraverso l’intercessione di un abitué del locale fornendo il proprio biglietto da visita al direttore del cabaret, il quale lo accetta assegnandogli un limite di credito. La posizione individuale all’interno dell’azienda di appar3 In alcuni locali, le hostess ruotano automaticamente al fine di far spendere più denaro ai clienti. Stratagemma sovente utilizzato dai locali controllati dalla Yakuza nei confronti di ignari clienti o di stranieri.
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tenenza e le sue dimensioni sono chiare indicazioni del budget che il cliente ha a disposizione per ogni visita al cabaret4.
Izakaya Questa tipologia di locale nacque durante il periodo Edo (1603-1868) e fu rimodernata negli anni Settanta dello scorso secolo. Conosciute in passato come taverne frequentate da lavoratori uomini, le Izakaya oggi hanno assunto le caratteristiche dei pub occidentali e si rivolgono principalmente a coloro con un ristretto budget fondendo insieme il concetto della taverna e del fast-food e attraendo folle di giovani. Esistono molte catene di Izakaya tra cui Yoro no Taki è sicuramente la più estesa5. Tra i fattori di maggiore attrazione delle Izakaya sono da annoverare sicuramente i prezzi contenuti per le bevande alcoliche di base (Sakè, birra, Shōchū6), il buon cibo, ed il fatto che soddisfino sia il palato maschile che quello femminile. Tra i cibi serviti presso la catena Yoro no Taki, ad esempio, vi è il Sashimi, lo Yakitori, varie pietanze cotte in casseruola, insalate, formaggio fuso con Tōfu o gamberetti, pepite di carne alla turca e ravioli cinesi. Tra le altre catene di Izakaya bisogna ricordare anche Hachitsu, ed in particolare, Tsuhachi che offre pizza con patate, piatti cinesi, dessert allo yogurt di mirtillo e gelato. Il calcolo delle calorie viene indicato su ogni pietanza e, tra queste, quelle contrassegnate con un cuore rosa indicano la categoria dei cibi “salutari”. Tra le catene più interessanti in Giappone vi è anche Murasaki, che combina l’atmosfera dei ristorantini con quella dei Furusato Izakaya (letteralmente: “taverne del paese natìo”) enfatizzando più il cibo che non il consumo di alcolici. Il menù di Murasaki presenta: pancetta di balena, intestini di calamaro sotto sale, formaggio fuso con Tōfu ed insalate all’italiana. Fra le bevande: succhi di banana, mela ed ananas misti con Shōchū.
Queste informazioni riservate sono generalmente gestite internamente al locale ed i prezzi non vengono mai aumentati in maniera arbitraria. Gli importi da pagare non vengono mai fissati, ma seguono comunque un orientamento già noto ai clienti. 5 Questa catena si sta espandendo anche nella costa occidentale degli Stati Uniti. 6 Bevanda dall’alto tasso alcolico distillata dalla feccia del Sakè. 4
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Karaoke Tra la tipologia dei locali più popolari in Giappone nell’ambito del Mizu Shōbai bisogna annoverare sicuramente i Karaoke, ovvero bar muniti di microfoni, attrezzature audio e database musicali per i clienti che intendono cantare su basi preregistrate. Il termine Karaoke significa: “senza orchestra” e fa riferimento all’illusione di potersi esibire con un’orchestra dal vivo. Sebbene i Karaoke si siano diffusi anche in Occidente, in Giappone, dove sono presenti migliaia di questi locali, godono di uno straordinario successo. Il motivo di tanta popolarità è da attribuire al fatto che per i giapponesi cantare in pubblico rimane una questione di orgoglio personale. Molti, infatti, si allenano privatamente a casa (a volte per anni) per non rischiare di sfigurare nel momento in cui verranno chiamati ad esibirsi in pubblico. Per buona parte degli uomini d’affari giapponesi, cantare al Karaoke non rappresenta un semplice divertimento. Oltre al fatto che il Karaoke aiuta a scaricare lo stress e a procurare soddisfazione personale, le performance canore sono ritenute indicative del carattere e della personalità degli individui: una buona esibizione può essere quindi paragonata al risultato che si raggiunge attraverso la pratica delle ormai rare arti tradizionali quali la calligrafia o la poesia Haiku, simboli di una certa realizzazione culturale. Spiegando l’importanza rivestita dai Karaoke agli stranieri, i manager nipponici sottolineano sovente che per comprendere e comunicare con il popolo giapponese è necessario sapersi esibire con loro (sia in gruppo, che singolarmente) al Karaoke. Questa convinzione, espressa sovente a più riprese e scaturita dalla presenza significativa nonché dal successo dei suddetti locali, è da ritenersi indubbiamente valida. Il fatto che solo pochi occidentali (in particolare americani) siano intonati ed in grado di cantare più o meno decentemente, rappresenta un vero e proprio handicap sociale nel momento in cui ci si trova a visitare il Giappone per turismo o per affari. Il mio consiglio, quindi, è di imparare almeno una canzone (fosse anche Old Gray Mare o I’ve been Working on the Railroad) prima di recarsi in Giappone! Nonostante le nuove e diverse tipologie di locali giapponesi dove è possibile bere e divertirsi in compagnia, i cabaret rimangono comunque l’opzione preferita dagli uomini di mezza età grazie all’accessibilità dei costi e alla possibilità di bere intrattenendosi con donne giovani e di bell’aspetto (anche apparentemente disponibili). Sebbene i clienti
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dei cabaret non riescano mai a strappare un appuntamento alle loro hostess preferite, bisogna riconoscere che almeno, all’interno di questi locali, essi hanno la possibilità di fare un tuffo nel passato e ottenere una sorta di sollievo sessuale bevendo, però, in cambio una quantità d’alcol significativa. Concludendo, bisogna ammettere che in nessuna parte del mondo gli imprenditori del “divertimento” maschile hanno sviluppato una tale capacità di vendere “sesso in un bicchiere” come gli operatori dei cabaret giapponesi e delle loro hostess.
Capitolo 33
La lotta giapponese per raggiungere la perfezione
La cultura tradizionale giapponese presume che tutti gli individui debbano ricercare la perfezione in ogni cosa. Questa convinzione, e le pratiche da essa scaturite, giocano da sempre un ruolo preponderante nella vita del Paese. Vi è una scena tratta dal film epico Shogun che potrebbe essere considerata una meravigliosa metafora di tutti gli aspetti metafisici e degli obiettivi cari alla cultura classica giapponese. Nella scena, il protagonista straniero, interpretato dall’attore Richard Chamberlain, sfida un samurai vantandosi del fatto che la sua pistola sia superiore all’arco del guerriero giapponese, intendendo affermare con ciò la superiorità ed il maggior progresso della propria cultura rispetto a quella nipponica. Dopo aver dimostrato l’abilità con la propria arma, Chamberlain attende il turno del suo rivale. Il samurai sceglie come bersaglio una delle porte di un cancello in legno posta di fronte all’edificio in cui si trovano. Mentre costui è ancora seduto sul Tatami muovendosi con inesorabile efficienza e velocità, scocca una freccia lasciandola passare attraverso gli Shōji di carta di un pannello chiuso che gli impedisce di vedere il bersaglio. Sebbene impossibilitato a vedere l’obiettivo, il samurai sembra apparentemente non prendere la mira. Nella scena successiva, nonostante non venga mostrata, si intuisce chiaramente che la freccia ha raggiunto il suo bersaglio. A quel punto, lo straniero, stupito dalla forza interiore del samurai, maturata grazie ad una lunga esperienza, non osa nemmeno dubitare del fatto che la freccia sia andata a segno.
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Come sconfiggere il Senso Comune (Occidentale) Ciò che dimostra nella scena il samurai è che per padroneggiare qualsiasi arte o disciplina è necessario prendere in considerazione due dimensioni: quella fisica e quella mentale. Proprio la dimensione mentale, infatti, è in grado di sconfiggere sia le regole, che il senso comune occidentale. Questo aspetto, risalente alla cultura classica giapponese, è stato ripetutamente illustrato nei famosi Chambara, film di taglio storico che narrano le straordinarie capacità (spesso esagerate) dei samurai “vecchio stile”. Tra i samurai, coloro che si allenavano seriamente o che erano naturalmente dotati di particolari abilità, erano anche in grado di sviluppare un “sesto senso” che gli permetteva di sentire e vedere tutto ciò che non si percepiva ad occhio nudo compiendo imprese a dir poco incredibili. Questa abilità metafisica marcava la differenza tra l’ordinario e l’eccellenza, tra il maestro ed i rispettivi arcieri, spadaccini, pittori, vasai e giardinieri, dotati sì di una lunga formazione ed esperienza, ma ancora troppo nella media per i canoni attesi dai rispettivi maestri. Storicamente, l’allenamento delle arti marziali combinava l’aspetto mentale con quello motorio dando la precedenza alla mente rispetto alla componente fisica. Il traguardo ultimo da raggiungere attraverso l’allenamento, infatti, era il raggiungimento di un equilibrio perfetto tra corpo e mente sfociante nello stato del cosiddetto Muga. Il Muga permetteva alla mente e al corpo di funzionare in completa simbiosi senza che ostacoli o barriere si frapponessero tra il pensiero e l’azione. Non a caso, si dice che lo stato mentale del Muga sia così vasto da permettere allo spirito di trascendere la materia. Generalmente, si pensa che, almeno in parte, questo scenario fatto di allenamento spirituale e fisico aiuti a potenziare le capacità dei giapponesi nel momento in cui intraprendono determinate azioni. Sebbene la filosofia e la disciplina che avevano stimolato il condizionamento culturale durante il lungo periodo feudale (1192-1945) siano mutate profondamente negli ultimi quarant’anni, l’influenza di questo patrimonio culturale continua a giocare un ruolo significativo in molte aree di importanza strategica nella vita del Paese. In termini più moderni, la versione contemporanea del Muga sembra infatti manifestarsi nello straordinario grado di dedizione e zelo che i giapponesi riversano negli obiettivi che si prefiggono. Ereditando alcune delle attitudini al Muga, non è errato affermare che anche
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molti dei più operosi imprenditori e ufficiali governativi di alto rango nel Giappone contemporaneo possano sicuramente essere definiti discendenti della filosofia, se non anche dello spirito, incarnato dai maestri guerrieri del passato.
Il ruolo dello Zen Molta della teoria che sottintende il potere e la pratica dell’atteggiamento e dell’attitudine al Muga derivano dallo Zen, ovvero quella branca del Buddismo che si occupa del mondo fenomenico, sebbene poi insegni che ciò che si percepisce come reale, in effetti, esiste solo nella mente umana. Lo Zen spiega che per rimanere in armonia e poter controllare a proprio vantaggio il mondo sensibile, è innanzitutto necessario controllare la mente. La pratica del Muga, contempla la concentrazione, un’attitudine al pensiero positivo, ed un utilizzo del potere della mente e dell’immaginazione per “produrre” gli effetti desiderati: tutti elementi, che a prima vista, potrebbero far parte di ciò che noi concepiamo normalmente come “buon senso”. Nonostante ciò, l’utilizzo di questa conoscenza nel mondo, e soprattutto in Occidente, risulta ancora raro. In Occidente, stranamente, l’unica area delle attività umane che ha generalmente riconosciuto la validità ed il merito del Muga (cercando addirittura di istituzionalizzarlo) è quella degli sport professionistici ed, in particolare, il golf, dove anche la minima deviazione tra corpo e mente sancisce la differenza tra il successo e la sconfitta. A parte lo sport, però, bisogna riconoscere che quasi tutti coloro che raggiungono il successo, utilizzano inconsciamente il Muga nei loro sforzi, a prescindere che lo abbiano fatto con intenzione o meno. A molti di noi, è capitato di veder naufragare i propri obiettivi per l’incapacità di controllare la mente o il corpo. Per evitare ciò, non resta quindi che sperare che il concetto di Muga possa divenire presto parte integrante della nostra educazione e formazione occidentale.
Capitolo 34
Il mito giapponese dell’internazionalizzazione
In passato, i giapponesi si chiedevano in modo ossessivo se fosse possibile stare al passo con gli occidentali senza dover perdere la propria identità. Attualmente, una percentuale sempre maggiore di persone si definisce “internazionale”, ma senza comprendere il significato di questo termine. In quanto ex-residente e assiduo frequentatore del Sol Levante, mi trovo spesso ad incontrare persone che giungono per la prima volta in Giappone: le reazioni di questi individui al Paese spaziano normalmente dal senso di confusione, alla frustrazione o alla fascinazione. Buona parte dei visitatori stranieri sono sovente impressionati ed ammirati dalla ricchezza, dall’efficienza del sistema economico e dall’ordine sociale nipponico. Tra questi, molti commentano entusiasti il grado di occidentalizzazione ed internazionalizzazione del Paese. Questo stato mentale “auto-indotto” rappresenta senza dubbio il risultato delle impressioni superficiali sul Paese, nonché la facciata esteriore (Tatemae) del Giappone stesso. L’immagine che il Paese dà di sé come di un contesto “internazionalizzato” non è però che un miraggio, ovvero un mero riflesso dei suoi edifici e delle mode in stile occidentali, nonché di altri elementi extra-asiatici presenti nel Paese. Intellettualmente ed emotivamente, il giapponese medio non si può definire affatto un individuo “internazionale”. Infatti, buona parte dell’esiguo numero di nipponici che si auto-definisce “internazionale” rimane all’oscuro del vero significato di questo termine. Come la maggior parte degli americani e di altri popoli, anche i giapponesi sono scarsamente informati sul mondo esterno. Ciò, ovviamente, li pregiudica fortemente limitandone le attitudini ed il comportamento verso tutto ciò che è straniero. Il governo giapponese, unitamente a numerose industrie e ai portavoce dell’istruzione, è ufficialmente impegnato nell’internazionalizza-
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zione del Paese promuovendo molteplici programmi atti a raggiungere tale obiettivo. Nonostante ciò, un numero significativo di giapponesi (sia nel governo, che nell’industria privata) rimangono convinti che lo studio della lingua inglese e della storia mondiale, unita ad un’alta percentuale di viaggi all’estero, siano più che sufficienti a far raggiungere al Paese lo status dell’“internazionalismo”. Partendo da questi presupposti si evince come il concetto classico di internazionalismo giapponese si discosti radicalmente da quello occidentale. Molti giapponesi, infatti, credono che l’internazionalismo si riduca ad una sufficiente capacità di comunicazione con il resto del mondo finalizzata all’illustrazione delle proprie caratteristiche e del proprio sistema. Solo così, credono i giapponesi, gli stranieri saranno in grado di comprendere profondamente il Sol Levante accettandone l’organizzazione e la posizione all’interno dell’economia e della società mondiale. Questa, però, non è solo l’unica interpretazione del concetto. Per altri giapponesi, infatti, il termine è sinonimo di minori restrizioni alle importazioni e alle operazioni delle imprese straniere operanti nel Paese, ma anche di riduzione delle barriere extra-legali poste dai burocrati governativi con relativa apertura dei mercati finanziari giapponesi. La supposizione (o affermazione) che il Giappone sia anche minimamente internazionalizzato viene sovente posta in discussione dagli incidenti o dagli eventi che trovano eco nella stampa locale. Un esempio ne sono quegli articoli di quotidiani che raccontano le tragiche vicende di giovani giapponesi di ritorno in Giappone dopo alcuni anni di vita all’estero con le proprie famiglie. Gli articoli riportano sovente il trattamento da alieni riservato a questi giapponesi, come anche delle spietate violenze fisiche e psicologiche, nonché degli abusi da parte dei compagni di classe. Stando a questi articoli, sembra che addirittura gli insegnanti considerino gli studenti di ritorno dall’estero come ospiti indesiderati. Inutile ricordare che tali comportamenti da parte di studenti e docenti non possono definirsi affatto “internazionali”.
Il significato di Internazionalismo Rispetto alla versione occidentale caratterizzata dalla bidirezionalità, il concetto di internazionalismo giapponese può considerarsi unidirezionale. In realtà, però, il significato di questo termine viene sovente frainteso quasi ovunque. In un contesto più esteso, il termine dovrebbe contenere almeno quattro dei seguenti indirizzi fondamentali, e cioè:
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1. Ogni individuo deve essere tollerante e rispettoso verso chi si presenta diverso nel colore della pelle, nella lingua, nelle credenze, nel comportamento e nell’apparenza esteriore. 2. Essere internazionali significa incontrare, associarsi, cooperare e collaborare su base paritaria con individui portatori di stili di vita differenti e provenienti da altre etnie, credenze e nazionalità. 3. Essere internazionali significa preoccuparsi del benessere proprio ed altrui contribuendo realmente alla società mondiale, anche a costo di sacrifici personali. 4. Essere internazionali significa difendere i diritti e la dignità delle persone (a prescindere da dove esse vivano) includendo in ciò i diritti e la dignità di quei bambini che vengono ostracizzati dalle proprie società di appartenenza. Credo che i suddetti punti debbano fungere da presupposto affinché non solo il Giappone, ma anche ogni altra nazione del mondo possa definirsi realmente internazionale. Così come gli americani farebbero meglio ad imparare e ad adottare in maniera conscia e risoluta alcuni dei comportamenti e delle attitudini nipponiche, anche i giapponesi dovrebbero avvicinarsi all’Occidente in maniera più profonda. In altre parole, lo scambio culturale dovrebbe travalicare il mero piano intellettuale. L’internazionalismo, secondo il mio parere, dovrebbe infatti essere introdotto come vera e propria materia scolastica nel programma delle scuole elementari e dei livelli scolastici superiori sulla scorta di una solida base filosofica e di specifiche linee guida. Il Giappone potrebbe cominciare a definire questa nuova cultura integrandola nei propri processi educativi1. Non bisogna dimenticare, infatti, che buona parte del futuro del Paese scaturirà dal coraggio politico e morale degli attuali leader, i quali dovranno porre un freno agli istinti nazionalistici, promuovendo invece lo sviluppo di un effettivo internazionalismo. Sfida dalle enormi proporzioni, questa, che rimette in gioco l’intera cultura giapponese.
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La mancata attuazione di ciò, potrebbe costare non poco al Paese.
Capitolo 35
Sintonizzarsi sulla telepatia culturale giapponese
In Giappone, una parte significativa della comunicazione si articola attraverso modalità extralinguistiche. Chi non è capace di sintonizzarsi ed interpretare il flusso delle suddette informazioni si sentirà inesorabilmente isolato. Nel Sol Levante, buona parte della comunicazione interpersonale (sia essa privata o nell’ambito professionale) si articola attraverso il ricorso a modalità extra-verbali. Personalmente, amo definire questa forma di comunicazione “telepatia culturale”, poiché, in Giappone, rappresenta un’abilità che si impara ad assorbire sin dall’infanzia. La natura (e l’origine) di questa rara forma di telepatia culturale rappresenta uno degli aspetti più interessanti e significativi nella storia del Paese, ragion per cui comprenderla può rivelarsi essenziale al fine di carpire i meccanismi di funzionamento della società giapponese contemporanea. Sin dagli ultimi decenni del periodo Heian (794-1185) la vita di corte a Kyoto era divenuta così sofisticata e codificata che l’imperatore, i ministri, i cortigiani, le dame e gli ufficiali di alto rango con le proprie famiglie cominciarono a sviluppare metodi di comunicazione che si avvalevano di ventagli, mimica facciale, gesti, lingua corporale, nonché di un preciso stile comportamentale che non richiedeva l’ausilio della parola. Molti dei messaggi, inviati silenziosamente attraverso numerosi escamotage extralinguistici, riguardavano relazioni amorose o intrighi di corte: argomenti privati, a volte di natura pericolosa, ai quali era preferibile non dare voce. La mancanza di privacy nello stile di vita giapponese, quindi, fu uno degli incentivi più rilevanti per lo sviluppo di tali forme di comunicazione extralinguistiche. Con il passare dei secoli, dopo essere penetrata gradualmente nell’élite samuraica dei guerrieri e degli amministratori, la cultura di cor-
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te permeò anche le classi sociali inferiori portando con sé questa capacità di comunicazione telepatica. In poco tempo, essa divenne caratteristica di tutto il popolo giapponese giocando un ruolo di primaria importanza nell’ambito della comunicazione in generale. In particolare, per i samurai al potere, l’abilità di comunicare senza esprimersi verbalmente rappresentava una questione di vita o morte. Infatti, fraintendere o ignorare un messaggio poteva comportare la perdita della propria posizione sociale, l’esilio o, addirittura, la morte (in alcuni casi, anche immediata).
L’arte delle viscere Come già anticipato nel capitolo 23, si fa riferimento agli aspetti della suddetta abilità culturale con il termine Haragei, ovvero “arte delle viscere”, significando con ciò l’abilità di prevedere il carattere, la personalità e le intenzioni degli interlocutori attraverso la lettura, appunto, delle “viscere”. L’equivalente occidentale di questa capacità potrebbe avvicinarsi alla nostra modalità di giudizio che si basa sulle sensazioni “a pelle” o sull’intuito. Oltre alla mancanza di privacy, tra gli altri fattori chiave che hanno contribuito allo sviluppo della telepatia culturale troviamo il bisogno di circoscrivere in modo straordinario il parlato al fine di non infrangere il “rigoroso” stato di armonia richiesto dal sistema dell’etichetta. L’utilizzo corretto della lingua nel momento opportuno e attraverso modalità adeguate divenne col tempo così impegnativo che per i giapponesi divenne naturale cominciare ad esprimersi in maniera vaga: il risultato fu che la franchezza e l’immediatezza divennero tabù nella lingua orale. Al loro posto, venne introdotta invece un’astuta modalità allusiva, che tra i membri delle classi agiate, assunse la forma della poesia, utilizzata sovente come veicolo di trasmissione di desideri ed idee. Per comunicare efficacemente entro i confini della propria società, oltre a dover sviluppare straordinari poteri intuitivi, i giapponesi hanno altresì assimilato notevoli capacità verbali ed extralinguistiche1. Durante il lungo periodo feudale, i suddetti fattori si sono rivelati così in-
1 Tra queste due categorie sono da segnalare: l’utilizzo dei giusti registri linguistici, del vocabolario adatto, del tono di voce appropriato tra le capacità verbali, e l’utilizzo delle corrette coordinate extraverbali per ciò che concerne la mimica ed i gesti.
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tensi da permeare la cultura sopravvivendo (sebbene in forma attenuata) anche nella società contemporanea (soprattutto nel mondo degli affari e nell’ambito delle situazioni formali).
Lasciare intendere più che parlare Facendo riferimento a questa duratura modalità comunicativa, i commentatori giapponesi contemporanei la definiscono sovente come “capacità di lasciar intendere”, suggerendo a tutti gli aspiranti studiosi di lingua giapponese che, al fine di comprendere e trattare con successo con il Sol Levante, sarà necessario prendere coscienza di questo fattore, riproducendolo in modo identico nella comunicazione. Riconoscendo che le abitudini verbali ed extralinguistiche di buona parte degli occidentali (improntate alla chiarezza e alla franchezza) si pongono all’opposto delle proprie, i giapponesi non si aspettano che gli stranieri adottino la modalità nipponica nel proprio vissuto. Allo stesso tempo, essendo precisamente e totalmente programmati nel proprio tradizionale stile comunicativo, essi non solo non riescono ad eluderlo, ma trovano a volte impossibile accettare i comportamenti e lo stile retorico degli occidentali2. Come già illustrato, gli uomini d’affari ed i politici occidentali avvertono sovente un senso di frustrazione quando non riescono ad ottenere risposte chiare dalla controparte giapponese. Il dilemma è che i giapponesi interagiscono utilizzando un solo canale comunicativo, laddove gli occidentali, invece, fanno ricorso a più canali che, sebbene sovrapposti e ravvicinati, rimangono più o meno stabili. Per illustrare meglio il concetto, non è esagerato affermare che ogniqualvolta i giapponesi sono chiamati a comunicare efficacemente con gli stranieri, essi si trovano nella posizione di dover abbandonare quasi totalmente la propria identità culturale. Attualmente, sebbene un numero considerevole di giapponesi abbia raggiunto discrete capacità comunicative attraverso lo studio delle lingue straniere all’estero o dell’inglese grazie alla frequentazione degli stranieri in Giappone, bisogna altresì ammettere che il problema della comunicazione cross-culturale non è stato ancora risolto in maniera efficace. 2 Allo stesso modo, molti occidentali, anche dopo anni di esperienza in Giappone, non riescono ad accettare e ad utilizzare lo stile retorico ed il comportamento giapponese.
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A questo proposito, è interessante notare che, per i giapponesi, risulta alquanto semplice assumere un comportamento diverso nel momento in cui parlano o pensano in inglese o in altre lingue straniere. Ciò accade poiché buona parte dei vincoli culturali che normalmente ne controllano il comportamento non devono essere trasposti nelle lingue di arrivo. Nonostante ciò, sebbene i giapponesi parlanti una seconda lingua possano comunicare in modo franco con gli stranieri, il problema comunicativo non può dirsi certamente risolto. In patria, infatti, dovendo agire da intermediari tra gli stranieri ed i loro simili, i giapponesi devono ricorrere al proprio carattere quando si interfacciano con i propri connazionali divenendo così parzialmente inefficaci quando vengono chiamati a svolgere il ruolo di interpreti o mediatori. Oggi, quasi tutti i giapponesi riconoscono l’inefficienza del proprio stile comunicativo tradizionale anche in ambito locale. Di conseguenza, aumenta su di loro la pressione affinché questo venga modificato rendendolo più chiaro e diretto. Malgrado tutto, però, il suddetto sistema risulta così profondamente radicato nel carattere e nella personalità giapponese che, senza dubbio, saranno necessarie due o tre generazioni prima che si possano superare tali difficoltà. Un fattore molto promettente in ambito tecnologico che, forse in un decennio, contribuirà al mutamento della natura e della qualità comunicativa delle interazioni giapponesi con il resto del mondo, è rappresentato dai software di traduzione3, comodi abbastanza da poter essere trasportati in giro alla stregua di Mp3 o mini-radio. Nonostante tutto, però, le differenze culturali rimarranno in essere. Così come sarà inevitabile dover comprendere e tradurre la telepatia culturale dei giapponesi.
3 Oggi inglobati anche all’interno dei maggiori browser in rete e accessibili anche tramite tecnologia mobile (N.d.T.).
Capitolo 36
L’approccio discorsivo occidentale contro il Wa/Sa giapponese
Il baratro culturale che divide i giapponesi dagli occidentali si ripropone nell’approccio Wa/Sa nell’ambito delle relazioni umane. Dalla seconda metà del secolo scorso, le prime riunioni di lavoro tra imprenditori giapponesi ed occidentali erano generalmente caratterizzate dalla cortesia, dall’entusiasmo e dalla cooperazione. Tanta era l’impressione di sincerità e volontà da parte giapponese, che, ancora oggi, gli occidentali rimangono così impressionati dall’etichetta nipponica da lasciarsi prendere spesso da un entusiastico ottimismo. Ad onor del vero, bisogna affermare che, dal canto loro, i giapponesi non intendono risultare falsi agli occhi degli stranieri: semplicemente, si comportano seguendo le modalità che la propria tradizione illustra nel caso in cui ci si incontri e si conoscano nuove persone. Nonostante ciò, essendo disorientati dall’etichetta giapponese, gli occidentali reagiscono sovente sospendendo inconsciamente buona parte delle proprie facoltà critiche, oppure reagendo in maniera atipica e con disappunto. A causa dei suddetti fraintendimenti, i contatti del Paese con gli stranieri sono stati spesso caratterizzati da reazioni inusuali da parte occidentale che hanno, a loro volta, incoraggiato i giapponesi a non cambiare atteggiamento, aggravando ulteriormente i problemi di comunicazione da entrambi i lati. In realtà, la sfida della comunicazione interculturale potrebbe essere controllata e superata se solo entrambe le parti prendessero coscienza dei messaggi che veicolano, regolando di volta in volta il rispettivo comportamento. Sfortunatamente, però, è raro giungere ad un tale grado di consapevolezza.
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Un problema fondamentale Esiste un problema ben più spinoso, e dalle profonde implicazioni che riguarda le differenze con cui giapponesi ed occidentali comunicano verbalmente sentimenti ed informazioni di importanza cruciale. Queste differenze, della cui esistenza entrambe le parti sono coscienti e che si vorrebbe in qualche modo poter riequilibrare, derivano essenzialmente dal profondo di ogni cultura, ecco perché appaiono difficili da regolare rispetto, ad esempio, alla semplice etichetta. I problemi, suggerisce il consulente manageriale Michiro Matsumoto, si originano nel momento in cui l’approccio occidentale “Domanda/Risposta” entra in conflitto con quello tradizionale giapponese. Matsumoto, autore di molte opere (tra cui: The Unspoken Way: Haragei - Silence in Japanese Business and Society), ma anche abile interprete, ha scritto e conferito ampiamente sul tema dell’incapacità comunicativa dei giapponesi con gli stranieri. Nella sua opera, egli sottolinea1 il fatto che i giapponesi non hanno esperienza nell’utilizzo del modulo discorsivo “Domanda/Risposta” nell’ambito del proprio pensiero. Oltre a non averlo mai utilizzato, essi non sono nemmeno in grado di comprenderlo o di approvarlo, suggerisce l’autore, poiché i propri riferimenti etici e filosofici appaiono diametralmente opposti a quelli occidentali. Tra le forme più semplici e dinamiche di discorso occidentale possiamo sicuramente annoverare il classico dibattito, che Matsumoto sta promuovendo in Giappone sin dagli anni Ottanta all’interno del lento quadro di internazionalizzazione in atto nel Paese. Il dibattito, infatti, rappresenta l’estremo contrasto tra la modalità discorsiva occidentale e quella acuta e raffinata del Sol Levante. Qualsiasi discorso occidentale, sia che riguardi la politica o gli affari, assume normalmente la forma del dibattito e di un confronto intellettuale in cui poter utilizzare le armi della logica e dei fatti. In Occidente, un dibattito o una negoziazione di successo richiedono: una mente razionale, conoscenze puntuali, onestà, rispetto per gli interlocutori e buone capacità retoriche. Queste discussioni formali ed aperte, però, vanno a scontrarsi inevitabilmente con la cultura estremo orientale. Difatti, l’armonia (Wa), che si pone alla base della modalità relazionale nipponica, richiede che le parti in causa evitino la rudezza
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Con il ricorso a modalità che non poco hanno irritato i giapponesi.
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ed il confronto diretto adottando, nel caso di tematiche particolarmente sensibili, una forma di discussione indiretta che faccia emergere gradualmente, ed in maniera informe, la posizione dei singoli. Il ripudio di una comunicazione diretta ed esaustiva è stato tradizionalmente così radicato in Giappone che, paradossalmente, gli individui dotati di eccellenti abilità retoriche venivano considerati ipocriti ed inaffidabili: qualità che non si addicono di certo ad eventuali confidenti o partner d’affari. Sebbene in passato assumesse delle forme più blande, nel Giappone contemporaneo quest’attitudine rimane consistente specialmente nell’ambito della politica2 e del business.
La sindrome della gaffe Tra gli aspetti che regolarmente fanno inciampare gli imprenditori occidentali in Giappone, vi è il fatto che oltre ad esprimersi in modo eccessivamente appropriato, i nostri uomini d’affari parlano anche troppo per i gusti giapponesi. Ciò finisce per creare inevitabilmente più danno che altro, visto che i nipponici sembrano non apprezzare affatto le dissertazioni troppo espansive. Gli americani, in particolare, sembrano non saper sopportare il vuoto verbale, cosicché quando la parte giapponese rimane silenziosa, senza profferire nessun commento o senza rivolgere domande, essi temono sovente di non aver centrato il bersaglio (supposizione giusta nella maggior parte dei casi) lanciandosi nuovamente in un turbine di parole che non fanno altro che peggiorare la situazione. Come già illustrato in precedenza, oltre ad evitare le frizioni in pubblico, il concetto giapponese di Wa include la condivisione della responsabilità3 all’interno del gruppo, senza farla ricadere sui singoli. Se una parte della cultura giapponese può essere ricondotta al suddetto principio del Wa, un altro elemento rilevante è rappresentato dal concetto di Sa. Il termine Sa presenta una serie di significati non proprio chiari. Potrebbe essere infatti tradotto con: “bene”, “potrebbe essere”, “non direi”, “chissà”. In realtà, esso viene sovente utilizzato quando non si intende dare seguito ad una domanda o ad una certa situazione, rimanendo nel vago. Nel risultato, potrebbe essere parago-
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Come ha dovuto constatare suo malgrado l’ex-primo ministro Toshiki Kafu. Per il successo o il fallimento di un progetto, ad esempio.
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nato alla nostra classica alzata di spalle o ad un gesto evasivo fatto con le mani. La combinazione di Wa e Sa rende l’idea di come fosse regolato il comportamento giapponese in passato. Storicamente, il Wa ha contribuito alla formazione del Sa poiché le sanzioni imposte su coloro che infrangevano l’armonia erano così alte che l’unica soluzione al tempo proponibile rimaneva quella di mantenere un profilo basso ed evasivo, almeno fino a quando non si conoscessero le posizioni altrui. D’altro canto, in Occidente, essendo buona parte della comunicazione organizzata secondo il modulo “Domanda/Risposta”, l’ottenimento immediato delle informazioni rimane l’obiettivo principale dei parlanti. Malgrado ciò, fino a quando i manager, i burocrati ed i politici giapponesi non impareranno a reagire utilizzando la suddetta tipologia di parlato4 sarà superfluo ricordare che non si potranno eliminare le incomprensioni e le frizioni che emergono ogniqualvolta giapponesi ed occidentali entrano in contatto.
4 Lo stesso vale per gli occidentali che dovranno divenire maggiormente sensibili al fattore Wa/Sa.
Capitolo 37
Comprendere la mentalità dei businessmen giapponesi
È stato più volte ricordato come i concetti dello Zen costituiscano una parte significativa della formazione dei businessmen giapponesi. Di seguito mi ripropongo di approfondire questo tema illustrando i motivi per i quali essi influiscono sui rapporti economici delle ditte straniere in Giappone. I suggerimenti proposti affinché gli imprenditori occidentali approfondiscano la pratica e lo studio dello Zen al fine di competere in maniera efficace con i giapponesi, non risultano del tutto ridicoli. Buona parte della filosofia giapponese in ambito di management aziendale risulta infatti così legata ai concetti dello Zen che diviene quasi impossibile discuterne o addirittura comprenderla senza richiamare in causa questa antica tradizione Buddhista. Il defunto Sig. Konosuke Matsushita, fondatore di uno dei maggiori colossi industriali al mondo e considerato “il guru del management” da buona parte degli osservatori nipponici, era un praticante dello Zen. Paradossalmente, costui non aveva ricevuto nessun tipo di addestramento o di educazione in ambito di pratiche manageriali ed affaristiche (nel senso che noi occidentali attribuiamo normalmente ai suddetti termini). Non è esagerato affermare che, come per Matsushita, buona parte degli uomini d’affari di maggior successo in Giappone non debba la propria fortuna alle pratiche di gestione occidentali. Piuttosto, il loro successo è da attribuire all’applicazione delle attitudini e dei comportamenti tradizionali nipponici nell’ambito dell’organizzazione e della gestione del personale per il raggiungimento di obiettivi comuni1.
1 Bisogna riconoscere, però, che la base tecnologica per il successo giapponese è stata comunque importata dall’Occidente.
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Buona parte dei concetti che gli imprenditori occidentali hanno assimilato sin dagli anni Settanta dal Giappone2 risultano profondamente radicati nello Zen. A prescindere da ciò che un occidentale può estrapolare dalla lettura del classico Libro dei Cinque Anelli, scritto dallo spadaccino (ma anche pittore e calligrafo) più famoso del Giappone, Miyamoto Musashi (1584-1645), bisogna prima di tutto comprendere che esso rappresenta un vero e proprio manuale di Zen. Il filosofo e pittore contemporaneo Riei Yamada (in possesso delle identiche qualifiche manageriali di Matsushita, Honda, Morita ed altri rinomati imprenditori giapponesi) afferma che lo straordinario successo nipponico del Dopoguerra sia da attribuire all’influenza del concetto di derivazione Zen del Mu nell’ambito del pensiero e del comportamento giapponese. Il Mu (spesso espresso anche come Kū) corrisponde pressappoco ai nostri concetti di: “vuoto”, “assenza di sé” o anche “non esistenza del sé”. Yamada, oltre a sostenere che il Mu sia alla base della cultura del Paese, sottolinea che per comprendere e relazionarsi in modo efficace con i giapponesi, risulta imprescindibile la conoscenza del suddetto concetto Zen. È innegabile, infatti, che i problemi maggiori incontrati dagli imprenditori occidentali in Giappone siano sovente derivati dal diverso approccio interrelazionale con il quale questi si rapportano ai giapponesi (soprattutto, coloro di stampo tradizionale).
L’altruismo ed i giapponesi Generalmente, la cultura occidentale condiziona gli individui a concentrarsi su sé stessi incoraggiando l’idea che, in quanto separati dal resto della società3, essi possano sviluppare relazioni umane impostate sull’interesse personale e sull’auto-preservazione. Questo approccio alquanto egocentrico viene spesso sublimato in Occidente nell’ambito degli sport o di altre attività di gruppo, rappresentando con ciò un’eccezione (soprattutto se in ambito di business) alle modalità complessive di pensiero e di comportamento condivise. Tra gli aspetti di questo egocentrismo imprenditoriale dell’Occidente (soprattutto maschile) che
Dal Kaizen (miglioramento progressivo) al Nemawashi (vedi Capitolo 7). L’indipendenza totale del singolo sembra essere lo stato “ideale” per l’individuo in Occidente. 2
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colpiscono maggiormente i giapponesi vi sono gli alti salari che vengono normalmente riconosciuti ai dirigenti aziendali; il concetto di concentrarsi principalmente sulle persone al vertice, infatti, non appartiene alla tradizione nipponica. Al contrario, sin da periodo antico, i giapponesi sono stati portati a considerare l’egocentrismo come il peggiore dei peccati: non a caso, la società incentivava ogni tipo di sanzione sociale, economica o politica allo scopo di rafforzare la coscienza di gruppo. Durante gli ultimi secoli del periodo Heian (794-1185) vivere con altruismo rappresentava senz’altro l’ideale sociale per eccellenza, per fare riferimento al quale si utilizzava il termine Kokorozukai, che nel linguaggio poetico equivaleva a: “vivere considerando il prossimo dal profondo del cuore”. Questo concetto spirituale, oltre che a rappresentare una componente chiave della triade filosofica Shintoismo/Buddismo/Confucianesimo, era servito altresì a cementificare le basi dell’intera società giapponese, tanto da essere utilizzato politicamente sia dalla corte imperiale che dal successivo governo shogunale. Con ciò, non si intende certamente affermare che tutti i giapponesi agissero sempre con altruismo. È innegabile, però, che in passato buona parte della popolazione agisse in modo disinteressato (in particolare fino agli anni Sessanta del Novecento) e che proprio questa caratteristica abbia giocato un ruolo fondamentale nel delineare i tratti specifici della cultura giapponese. Ad un livello puramente umano, la vita basata sul Kokorozukai ha contribuito a mitigare gli aspetti più severi ed inumani della società feudale giapponese, ecco perché, ancora oggi, buona parte di esso rimane sedimentato nel comportamento dei singoli, facendo intravedere loro la speranza di un mondo migliore. In un contesto affaristico, il concetto di Kokorozukai rappresenta la relazione ideale tra dipendenti, produttori, aziende sussidiarie, affiliate, nonché di tutto il network composto da marketing, vendita all’ingrosso e distribuzione. Nel caso del Giappone, gli individui facenti capo a quelle aziende o a quei network, pur di proteggere e nutrire le relazioni umane, sono capaci di spingersi ai limiti più estremi con una diligenza ed una dedizione tale da superare il mero senso del dovere (inteso in senso occidentale). Ancora oggi, buona parte dei giapponesi lavora sodo passando più ore del previsto in azienda poiché capaci di identificarsi più intimamente con il proprio lavoro, piuttosto che con la propria famiglia o con sé stessi. Come controparte di questo sacrificio, essi si aspettano (e, di
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solito, ricevono) da parte dei propri datori di lavoro un certo grado di fiducia che spesso trascende le pure considerazioni economiche4.
La vera natura delle aziende giapponesi Da un certo punto di vista, non è errato affermare che le aziende giapponesi siano spesso gestite più nell’interesse dei propri dipendenti che non degli azionisti: l’impiego sicuro per i lavoratori sembra avere infatti la precedenza sui profitti aziendali. In tutto ciò, i dipendenti appaiono personalmente coinvolti nella crescita e nella sopravvivenza delle aziende poiché considerano sé stessi parti integranti delle imprese, e non semplici outsider lavoranti per un mero stipendio. Tra le ragioni per le quali i giapponesi preferiscono fare affari tra di loro vi è che danno per scontato un comportamento egoistico da parte degli imprenditori stranieri: evitando l’incontro con gli occidentali, quindi, si eluderanno le eventuali frizioni causate dall’incontro dei due sistemi di pensiero. Al fine di superare questo preconcetto, sarebbe utile che anche i nostri imprenditori si appellassero al concetto giapponese di Kokorozukai, dimostrando alla controparte nipponica un’empatia a livello relazionale. L’introduzione dei concetti occidentali di “diritti umani” e “libertà” in Giappone, avvenuta dopo il secondo conflitto mondiale, ha cominciato sin dall’inizio a mettere in questione il concetto e la pratica del Kokorozukai nel Paese. Forse, occorreranno due o tre generazioni prima che questo si incrini ad un livello paragonabile a quello delle società occidentali. Per il momento, però, il concetto di Mu continuerà ad aggiungere un sapore particolare alla società nipponica fornendo i giapponesi di un vantaggio competitivo sulle nazioni provenienti da diverse aree culturali.
4 Aspetto, questo, che sembra contenere al suo interno elementi delle classiche teorie socialiste e comuniste.
Capitolo 38
Punti di forza e di debolezza dei giapponesi
La cultura tradizionale giapponese è stata da sempre così minuziosamente ricca di dettagli che è riuscita ad omologare il proprio popolo pur enfatizzandone i punti di forza e le debolezze. Le Kata (forme culturali) attraverso cui, tradizionalmente, il Paese è cresciuto in omogeneità non hanno permesso ai giapponesi di elaborare modalità per intendere in senso occidentale l’antinomia bene/male. La lealtà verso il gruppo ed il conformismo, infatti, hanno da sempre rappresentato una priorità rispetto al pensiero indipendente e al concetto di etica, laddove l’obbligo personale e l’osservanza del rituale hanno sovente prevalso sul sentimento e la “ragione”. Sulla scorta della suddetta formazione, i giapponesi hanno sviluppato nel tempo caratteristiche ambivalenti: alcune ammirevoli ed estremamente vantaggiose, altre molto sfavorevoli, specialmente nell’ambito delle relazioni internazionali. Tra i comportamenti kataizzati ritenuti vantaggiosi possono annoverarsi: 1. Un impulso a lavorare in gruppi ben definiti ed esclusivi. 2. Una grande lealtà verso il proprio gruppo di appartenenza e verso il Paese. 3. Un senso dell’equilibrio, della forma, dell’ordine dello stile altamente sviluppati. 4. Un sentimento (ed una necessità) istintiva per la precisione, l’accuratezza e la correttezza. 5. Una straordinaria destrezza manuale ed abilità a lavorare con oggetti piccoli e sofisticati. 6. Una predisposizione a concentrarsi con estrema dedizione su progetti in essere. 7. Un desiderio travolgente di eccellere e competere con il prossimo accompagnato ad una capacità di mantenere l’armonia del gruppo
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utilizzando la maschera dell’umiltà ogniqualvolta i propri risultati superino quelli dei simili. Come si può facilmente comprendere, una nazione così fisicamente e mentalmente conformata si pone nella condizione di ottenere vantaggi significativi rispetto a quelle meno addestrate. In particolar modo, quando gli sforzi vengono incanalati dal governo e dall’industria per raggiungere obiettivi specifici il divario tra il Giappone ed i restanti paesi si rivela notevole. Se si esclude l’energia che la cultura delle Kata ha saputo infondere nel popolo, il sistema giapponese, lungi dall’essere perfetto, ha presentato sin dal passato anche punti di debolezza. Fino a quando il Paese era rimasto isolato dal resto del mondo, i difetti del sistema venivano spesso occultati e gli individui erano costretti ad accettare gli aspetti negativi delle formule comportamentali, sacrificando con ciò la propria individualità e l’indipendenza sull’altare dell’armonia e dell’organizzazione nazionale. Un imprenditore americano bilingue, che ha vissuto in Giappone sin dagli anni Cinquanta, sembra avere individuato le principali debolezze del sistema sociale kataizzato giapponese, affermando che: “Nel Giappone contemporaneo, il campo d’azione muta costantemente sebbene le Kata rimangano invariate. In passato, quando il Paese era ancora isolato, le Kata servivano come punti di riferimento assoluti per ogni tipo di comportamento. Oggi, invece, queste rappresentano sovente una trappola fuorviante per gli individui”. Alcuni degli aspetti negativi della suddetta cultura (spesso chiamati in causa dai giapponesi stessi) comprendono: 1. L’incapacità di pensare ed agire su base individuale. 2. La tendenza a stereotipare gli individui sulla base della famiglia di appartenenza, dell’educazione ricevuta, dell’università frequentata, dell’azienda a cui si appartiene, delle dimensioni dell’azienda, e della posizione occupata all’interno dell’azienda dove si presta servizio. 3. La tendenza all’inazione al fine di evitare qualsiasi tipo di frizione. 4. La tendenza a preservare lo status quo se non in presenza di pressioni esterne. 5. La mancanza quasi assoluta del senso di reciprocità (in termini generici). 6. Una coscienza sottosviluppata in merito ai diritti altrui. 7. L’incapacità di identificarsi con altre nazionalità o etnie. 8. L’invocazione della propria “nipponicità” come giustificazione per le proprie attitudini ed il comportamento personale.
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Visti dall’esterno, i giapponesi sembrano spesso apparire caricature della propria stessa cultura alla stregua di rigide figure capaci di pensare ed agire solo in un’unica direzione, ovvero quella loro indicata (sin dalla tenera età) da un condizionamento pressocché meccanico. Molto probabilmente, oggi questa impressione può anche rivelarsi errata, ma è innegabile che la programmazione culturale a cui sono stati sottoposti rende difficile, se non impossibile, l’adattamento a contesti stranieri1. Con gli anni, le metodologie di apprendimento tradizionale ed i processi di addestramento in Giappone si sono indubbiamente indeboliti. Attualmente, sebbene su di essi venga esercitata una forte pressione al cambiamento (sia nell’ambito della vita privata che pubblica), molti giapponesi rimangono ancora incastrati nel sistema delle Kata rallentando, così, il processo di rinnovamento sociale. Il mutamento più significativo rilevato negli ultimi anni nel sistema, riguarda sicuramente alcune aziende ed organizzazioni che, nell’ambito delle proprie attività, hanno concesso la massima priorità alla creatività (di gruppo ed individuale) grazie all’intervento di ricercatori anticonformisti e di dipendenti dotati di grande lungimiranza. La cultura delle Kata sembra aver investito i giapponesi di una forma di riverenza per la rigidità così radicata che finisce per prevalere anche a dispetto di un’ipotetica flessibilità dai risvolti, forse, più positivi. Tale rigidità viene finalizzata alla ricerca della forma e dell’armonia come arma per ostacolare gli avversari e gli interessi stranieri nel Paese. Nonostante ciò, buona parte di quei giapponesi che non sono stati influenzati dal contatto con le culture straniere, sembra non essere cosciente né del proprio comportamento, né delle occasioni offerte dall’intercultura. Ancora oggi il Paese appare controllato dalle Kata, continuando ad enfatizzare i punti di forza di questo sistema (considerato la formula sociale per eccellenza) affinché anche il resto del mondo lo possa adottare in futuro. Non a caso, la critica più veemente nei confronti degli Stati Uniti si focalizza sull’accusa della mancanza di forme discernibili (Kata, appunto) all’interno del modus vivendi americano. Grazie all’esposizione crescente alle culture esotiche, però, un numero sempre maggiore di giapponesi sta prendendo coscienza dei limiti
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Lo stesso vale per gli stranieri che devono interagire con i giapponesi.
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della propria cultura, nonché della scarsità di un contenuto umano individuale all’interno dei propri comportamenti: ingrediente, questo, necessario per il raggiungimento di una vita spiritualmente ed emotivamente completa2. Per comprendere l’importanza della cultura Kata all’interno della società giapponese basterebbe considerare l’intero sistema alla stregua di un culto religioso pervasivo e dettagliato, dove, sia il pensiero che le azioni, vengono minuziosamente prescritte dall’alto. Il sistema (almeno in contesti formali e lavorativi) appare quindi rafforzato da una durezza quasi militare. Sebbene le leggi feudali siano decadute molto tempo addietro ed il comportamento degli individui appaia molto più rilassato, buona parte del Paese continua ad esibire valori e comportamenti tradizionali al punto da potersi distinguere nettamente dagli altri gruppi nazionali. Conformarsi al giusto Ikikata (“modo di vivere”) nell’ambito del lavoro e delle situazioni formali rappresenta ancora oggi uno sforzo considerevole, poiché il suddetto modus vivendi chiama necessariamente in causa un gioco di ruolo estremo e faticoso. Per utilizzare una metafora, sarebbe come vivere su un palcoscenico ed essere costantemente controllati nell’esecuzione, nei dialoghi e nel tono di voce. Il minimo errore verrebbe irrimediabilmente recepito come un difetto del carattere e della personalità, e sbagliare equivarrebbe a non essere considerati più giapponesi. Malgrado ciò, è inutile ribadire, però, che i punti di forza del sistema giapponese incidono maggiormente rispetto alle debolezze: i risultati straordinari raggiunti in ambito economico in un arco di tempo così ristretto sono, infatti, eloquenti. Oltre a ciò, esistono ulteriori punti di forza in questa cultura che travalicano il mero ambito economico. Tra questi, ricordiamo l’impegno estetico nelle arti e nell’artigianato, un altissimo livello di etichetta individuale, nonché un’enfasi sull’armonia nell’ambito di tutte le relazioni interpersonali. Concludendo, credo che il mondo occidentale abbia imparato molto dal Giappone sin dagli anni Settanta del secolo scorso. Penso altresì, però, che questo processo di apprendimento sia solo agli albori.
2 È questo il motivo per cui sempre più giapponesi cominciano a mettere in discussione i propri valori tradizionali e a rompere con i modelli sociali classici.
Finito di stampare da Legoprint - Lavis (TN) Maggio 2011