460 81 1MB
Italian Pages 352 Year 2008
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Quodlibet Studio Discipline filosofiche
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Maria Teresa Costa Il carattere distruttivo Walter Benjamin e il pensiero della soglia
Quodlibet
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Prima edizione: giugno 2008 © 2008 Quodlibet Via Santa Maria della Porta, 43 - 62100 Macerata www.quodlibet.it Stampa: Grafica Editrice Romana, Roma ISBN 978-88-7462-198-9 Discipline filosofiche Collana fondata da Enzo Melandri Direttore: Stefano Besoli Il volume è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli Studi di Padova.
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Indice
12 13 27
Abbreviazioni Introduzione Soglia. Der destruktive Charakter
Parte prima Benjamin e la filosofia della transizione 45
1. Immagine e immagine dialettica come modello teorico-conoscitivo
45 48 53 58 62 65 70 77 79 80
1.1 Il sapere delle immagini 1.2 Duplicità e storicità dell’immagine 1.3 Jetzt der Lesbarkeit e Jetzt der Erkennbarkeit 1.4 Leggere i segni nascosti 1.5 Storia come Traumdeutung 1.6 La dialettica Traum-Erwachen 1.7 Mémoire involontaire e Dialektisches Bild 1.8 Correspondances e «scrittura per immagini» 1.9 «Scavare e ricordare»: il tempo della memoria 1.10 «La storia si frantuma in immagini, non in storie» Transizione e distruzione nell’immagine dialettica
87 87 90
2. Passage come immagine dialettica 2.1 Passage, Schwelle, Übergang 2.2 Ambiguità del passage
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INDICE
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107 107 109 115 143 143 146 147 151 158 175 188 197
3. Immagine-tempo: Jetztzeit e filosofia della storia 3.1 La rottura del tempo storico 3.2 Genesi e genealogia del concetto di Jetztzeit 3.3 La Jetztzeit nelle tesi Über den Begriff der Geschichte
4. Progresso, catastrofe e redenzione 4.1 Un «nuovo positivo» concetto di storia 4.2 La critica all’ideologia del progresso nel pensiero ebraico-tedesco 4.3 Contro un progresso universale, infinito e inarrestabile 4.4 Tra progresso e catastrofe: l’angelo della storia 4.5 Le conseguenze «kata-strofiche» del progresso 4.6 Pensare la catastrofe: Benjamin e Blanqui 4.7 Catastrofe e Ausnahmezustand: il confronto con Carl Schmitt 4.8 Il concetto di Redenzione
Parte seconda Altri modelli teorico conoscitivi sul tema della transizione 217 217 219 226 228 231 237 244 249 253 254 257
1. Bertolt Brecht carattere distruttivo 1.1 Perché il Fatzer-Fragment? 1.2 Struttura e tematiche del Fatzer-Fragment 1.3 La potenza del frammento 1.4 La drammaturgia dell’attesa 1.5 Il teatro epico 1.6 Il Fatzer-Fragment: dal teatro epico al Lehrstück 1.7 Il Fatzer-Material di Heiner Müller 1.8 Il Benjamin-Kommentar
2. Albert Einstein e la rivoluzione della fisica moderna 2.1 L’effetto fotoelettrico e il concetto di fotone 2.2 La teoria del moto browniano
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INDICE
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258 265 268 274
2.3 I concetti di spazio e di tempo prima della rivoluzione einsteiniana 2.4 La Teoria della relatività ristretta 2.5 La Teoria della relatività generale 2.6 Osservazioni conclusive
279
Osservazioni conclusive. Destruktion als Illumination
311 343
Bibliografia Indice dei nomi
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Il carattere distruttivo Walter Benjamin e il pensiero della soglia
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Chaque époque rêve la suivante. J. Michelet, Avenir! Avenir!
Weil er überall Wege sieht, steht er selber immer am Kreuzweg. W. Benjamin, Der destruktive Charakter
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Abbreviazioni
GB W. Benjamin, Gesammelte Briefe, 4 voll., a cura di C. Gödde e H. Lonitz, Frankfurt a.M. 1995-2000. GS W. Benjamin, Gesammelte Schriften, 7 voll., in collaborazione con T.W. Adorno e G. Scholem, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a.M. 1972-1989.
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Introduzione
1. Nei suoi principali scritti Walter Benjamin non ha cessato di affermare che ogni approccio critico presuppone una teoria della conoscenza. Questa semplice affermazione rivela un aspetto decisivo del suo esercizio conoscitivo e della sua produzione testuale. Quando la parola «critica» entra nel lessico filosofico essa vuole indicare un’indagine sui limiti della conoscenza, circoscrivendo per la filosofia un campo di ricerca, al di fuori del quale essa non può spingersi con l’unico ausilio delle proprie forze. L’innalzamento di confini, la delimitazione di un ambito tematico entro il quale la filosofia deve operare, sembra volerla distinguere e separare dalle altre discipline. Fortemente influenzato dal pensiero di Kant, Benjamin sente fin da subito con altrettanta urgenza la necessità di staccarsene, esercitandosi nel difficile compito dell’abbattimento dei confini. Il concetto di critica di cui Benjamin si fa promotore, seguendo in parte la scia del gruppo di Jena, vuole da un lato aprire la filosofia ad ambiti come la teologia, la storia, l’arte e la scienza, dall’altro portare a definire lo stesso esercizio filosofico come critica. Ciò significa che la filosofia viene a configurarsi per l’autore come sforzo incessante di valicare i confini e di considerarli piuttosto come soglie. In un appunto appartenente all’opera sui passages Benjamin distingue nettamente il concetto di soglia (Schwelle) da quello di confine (Grenze), definendo il primo come una zona di passaggio, un luogo che è possibile attraversare, ma sul quale è dato anche di sostare. Quest’immagine si è offerta come sfondo sul quale costruire la nostra proposta interpretativa.
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INTRODUZIONE
Come ha giustamente sottolineato J.-M. Palmier, la critica vede per Benjamin il suo compimento nel concetto di salvazione (Rettung), inteso al contempo come concetto politico e come concetto teologico1. L’importanza attribuita a tale categoria è chiaramente inseparabile dalla dimensione messianica che influenza profondamente la sua opera, facendola ruotare attorno all’idea che nulla è irrimediabilmente perduto. Non si tratta dunque di un atto restauratore, quanto piuttosto di un gesto che afferra ciò che rischia di essere dimenticato per sempre. Sulla soglia tra politica e teologia, il concetto di salvazione si incarna nell’immagine del carattere distruttivo (destruktive Charakter), figura dialettica che opera nello scarto tra distruzione e salvazione. Se Benjamin definisce la «salvezza» come «il vento dell’assoluto nelle vele del concetto»2 egli precisa anche che per il dialettico «le parole sono le vele» e che «il come esse sono disposte […] ne fa dei concetti»3. Se il vento è inteso da Benjamin come «l’elemento ciclico», il modo di issare le vele può staccare il filosofo da un particolare modo di trasmissione della tradizione caratterizzato dalla ciclicità. Per esercitare la critica come salvazione, il filosofo deve saper intervenire con la violenza della distruzione, poiché, dice Benjamin, solo «una presa ferma e brutale fa parte della salvezza»4. È dunque in questo senso che la figura del carattere distruttivo e il concetto di distruzione positiva di cui essa si fa interprete ci sembrano il luogo privilegiato per osservare le articolazioni del pensiero benjaminiano. Ciò perché in essi i temi e le figure dialettiche si trovano espressi, per così dire, in una forma paradigmatica. Nelle pagine che seguono il pensiero di Benjamin verrà pertanto indagato a partire dalla definizione di carattere distruttivo, nella quale il lettore troverà esposto, nella forma immaginale di un Denkbild, un modello in miniatura della nostra proposta ermeneutica. Intesa in questo senso la parte della nostra ricerca 1 Cfr. J.-M. Palmier, Walter Benjamin. Le chiffonnier, l’Ange et le Petit Bossu, Paris 2006, p. 504. 2 W. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, a cura di R. Tiedemann, ed. it. a cura di E. Ganni, Torino 2000, [N 9, 3], p. 530. 3 Ibid., [N 9, 6], p. 531. 4 Ibid., [N 9a, 3].
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INTRODUZIONE
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intitolata Soglia costituisce, nelle nostre intenzioni, una sorta di benjaminiano Exposé delle pagine successive. «Filosofia della soglia, della transizione» è il nome che a questa proposta abbiamo dato. Occorre fin d’ora fare una precisazione: i termini «soglia» (Schwelle) e «transizione» (Übergang) sono offerti nella nostra ricerca come sinonimi per definire un movimento dialettico colto nel suo arresto. A caratterizzare essenzialmente il «carattere distruttivo» non sono infatti né la distruzione, né la costruzione, né il movimento, né la quiete, ma la coesistenza dei due poli dialettici in una tensione bipolare. Ciò significa che distruzione e costruzione non sono dati come elementi autoescludentisi da rimuovere, né tanto meno come formanti un’unità superiore, ma come mantenuti nella loro singolarità in una tensione perpetua. Detto in altri termini, carattere distruttivo è colui che riesce a sopportare tale tensione, a permanere in una quiete apparente, incarnando egli stesso l’«immagine immobile di un essere di passaggio»5. Risulta a questo punto evidente quanto un lavoro che si affidi come compito di mostrare la potenza conoscitiva e le implicazioni problematiche della definizione di carattere distruttivo voglia soffermarsi non solo sul piano esegetico di una possibile lettura del pensiero di Benjamin, ma anche a considerarne le ricadute filosofiche nell’ambito più generale di una riflessione sull’epoca contemporanea. Accanto al paradigma teorico offerto dall’autore, verranno interrogati altri modelli ermeneutici intorno al problema della transizione. In particolare, ci si soffermerà sull’analisi di due dei pensatori menzionati da Benjamin nel saggio Erfahrung und Armut (1933) come caratteri distruttivi6, cioè figure della transizione. Inse5
Cfr. G. Agamben, Ninfe, Torino 2007, p. 36. Nel saggio citato Benjamin non usa l’espressione «destruktive Charakter», che aveva coniato due anni prima nel saggio Der destruktive Charakter, tuttavia ci sembra che, dati il contenuto dei due testi e le espressioni usate, essi possano essere configurati come due tappe di uno stesso ragionamento, teso a dimostrare che «la costruzione presuppone la distruzione». Nel saggio Erfahrung und Armut egli afferma a tale proposito: «Tra i grandi creatori ci sono sempre stati gli implacabili, che per prima cosa facevano piazza pulita. Essi infatti volevano avere un tavolo per disegnare, sono stati dei costruttori». W. Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V. Scritti 1932-1933, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura 6
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INTRODUZIONE
rite nel contesto di una trattazione sul pensiero di Benjamin, le pagine dedicate a Brecht e Einstein dovranno servire a chiarire la nostra proposta di lettura della filosofia di Benjamin come fortemente connotata dal carattere di transizione. Ciò non solo poiché tali pensatori sono espressione di momenti di rivolgimento nell’ambito in cui hanno operato, ma anche e soprattutto perché hanno fatto della transizione uno strumento di ricerca e di pensiero. I modelli da noi scelti a incarnare il carattere distruttivo provengono volutamente da ambiti di pensiero assai diversificati. Ciò è dovuto non solo all’esigenza di offrire uno spettro concettuale il più possibile ampio e variegato, ma anche, come accennavamo sopra, alla struttura stessa che assume il pensiero benjaminiano. «Filosofia della transizione» o «Pensiero in forma di passage»7 definiscono infatti un modo di fare filosofia che ama operare nelle zone interstiziali, di passaggio, di transizione. In questo senso potremmo dire che è stato Benjamin stesso ad aver preso una posizione a riguardo, autorizzandoci a presentarlo come carattere distruttivo. di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Torino 2003, p. 540. La nostra interpretazione trova conferma anche nella letteratura critica su tale argomento. Cfr. a titolo esemplificativo: D.T. Andersson, Destruktion/ Konstruktion, in M. Opitz, E. Wizisla (a cura di), Benjamins Begriffe, Frankfurt a.M. 2000, pp. 147-185; B. Lindner, Zu Traditionskrise, Technik, Medien, in B. Lindner (a cura di), Benjamin Handbuch. Leben-Werk-Wirkung, Stuttgart-Weimar 2006, pp. 451-464. 7 In questo senso ci sembrano leggibili le suggestive parole di un contemporaneo di Benjamin, Ernst Bloch, che nel suo testo Revueform in der Philosophie, si riferisce alla forma di pensiero usata da Benjamin in Einbahnstraße come un «pensiero in forma di strada» o più esattamente un «pensiero in forma di passage». Volendo inserire tale affermazione in un contesto di storia della filosofia, potremmo affermare che fin dalle origini è la filosofia stessa a trovare la sua espressione più compiuta nelle epoche di transizione. Il primo pensatore che fa coincidere il fiorire della filosofia con le epoche di crisi è Platone, che nel Politico distingue nella storia dell’umanità due cicli. Nel primo è presente la divinità, nel secondo gli dei abbandonano il mondo, che, lasciato al disordine, inverte il proprio movimento e cesserebbe di esistere se la divinità, mossa a pietà, non intervenisse, determinando un’ulteriore inversione del moto, che ripristina il movimento iniziale. Nella fase di transizione in cui il mondo rischia di giungere al suo totale annullamento, la divinità dona all’uomo il sapere tecnico, da cui si svilupperanno in seguito le scienze e con esse il massimo livello di conoscenza dato dalla filosofia. In questo modo il punto più alto del sapere coincide proprio con quella fase di passaggio, di crisi, di transizione in cui l’esistenza stessa del mondo è messa in questione. Per una ricca e complessa analisi sul ruolo della filosofia e del sapere nelle epoche di transizione cfr. F. Chiereghin, Riti di passaggio. I limiti di una comprensione teoretica delle epoche di transizione, Padova 1999.
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INTRODUZIONE
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Presentare il pensiero benjaminiano come filosofia della soglia significa da un lato che esso è configurabile nei termini di una transizione dalle forme classiche ad un nuovo concetto di filosofia, che adotta la forma dell’immagine come modello espressivo8, dall’altro che nel pensiero benjaminiano sono individuabili alcune figure della transizione, di cui il lettore troverà traccia nelle pagine che seguono. L’attraversamento critico di alcuni nodi concettuali leggibili come «immagini del passaggio» vuole essere l’indicazione per una possibile esplorazione topologica del discorso benjaminiano. Nel corso dell’esposizione abbiamo tuttavia preferito non tanto fornire un elenco delle figure della transizione che più ci sembrano significative, ma proporle attraverso un intreccio di tematiche, che coinvolge l’intera riflessione benjaminiana. Occorre tuttavia fare una precisazione: i riferimenti testuali provengono per buona parte dalla tarda produzione benjaminiana, cioè dall’ambito tematico ruotante intorno al Passagen-Werk. Prima di passare a fornire un’analisi strutturale della nostra ricerca, ci sembra opportuno soffermarci a definire con maggiore evidenza il nesso transizione-carattere distruttivo, che costituisce lo sfondo teorico delle nostre riflessioni.
2. Per chiarire il rapporto tra transizione e carattere distruttivo, vogliamo prendere le mosse da una considerazione di G. Scholem con cui si apre il suo saggio La crise de la tradition dans le 8 È Benjamin stesso a suggerire che la domanda circa il conio di una nuova Darstellung filosofica sia propria dei momenti di svolta, di transizione. In questi termini ci sembra possibile interpretare la frase con cui si apre la Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco, una delle pagine più famose di Benjamin, che si rispecchia in tutta la sua produzione successiva. «Es ist dem philosophischen Schrifttum eigen, mit jeder Wendung von neuem vor der Frage der Darstellung zu stehen». «È proprio dello scritto filosofico ritrovarsi, ad ogni sua svolta, di nuovo di fronte al problema dell’esposizione». W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, in GS I/1, p. 207 (trad. it. Il Dramma barocco tedesco, in Opere complete II. Scritti 1923-1927, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura di E. Ganni, Torino 2001, p. 69). È solo nei momenti di transizione che la domanda filosofica circa la forma dell’esposizione si fa pressante.
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INTRODUZIONE
messianisme juif9. Ciò può apparire ad un primo sguardo fuorviante, tuttavia ci sembra possa essere un’utile chiave interpretativa per analizzare il binomio transizione-distruzione. Se ci proponiamo per tema «la tradizione e il tempo presente» – afferma Scholem – sorge subito una prima questione, che potremmo dire, forzando le parole dell’autore, riguarda in un certo senso la fenomenologia della tradizione. Quando una tradizione nasce e si sviluppa nella storia, essa può strutturarsi secondo tre modalità: continuità, metamorfosi e rottura. Sorge allora una domanda necessaria: che cosa sopravvive dopo una rottura? La rottura di una tradizione è realmente una rottura? Se la tradizione acquista nuove espressioni e nuove forme, non si tratta piuttosto di una metamorfosi? C’è qualcosa che perdura malgrado tutto? È interessante che queste riflessioni si sviluppino all’interno di un contesto, quello del messianismo ebraico, che, come noto, influenzò profondamente il pensiero di Benjamin. Ci proponiamo tuttavia di attuare in questa sede una breve epoché sul rapporto che l’autore intrattenne con il pensiero ebraico10, per mettere dapprima in risalto il tema fondamentale della nostra ricerca: il rapporto tradizione-rivoluzione, transizione-distruzione, passaggio-cesura. Se riformuliamo le domande precedenti in termini benjaminiani ne abbiamo: la rottura di una tradizione è davvero una cesura/distruzione? Se la tradizione acquista nuove espressioni e nuove forme, non si tratta piuttosto di un passaggio/ transizione? A questo punto la domanda risulta assai chiara: esiste realmente una relazione di opposizione tra il concetto di transizione e quello di distruzione, tra quello di passage e quello di cesura? Con la nostra ricerca abbiamo tentato di rispondere a queste e 9 Cfr. G. Scholem, La crise de la tradition dans le messianisme juif, in Id., Le messianisme juif. Essais sur la spiritualité du judaïsme, Paris 1974, pp. 103 sgg. Tale saggio fa parte di una raccolta che rappresenta una delle produzioni più ricche di Scholem. Con essa l’autore propone una vera e propria svolta interpretativa all’interno della letteratura critica sul messianismo ebraico e della storia in senso stretto, confrontandosi con alcuni temi di grande rilevanza per il pensiero ebraico, come l’idea di redenzione, il concetto di tradizione nel suo rapporto con la distruzione, il tema della rivelazione. 10 Una ricca sintesi di tale problematica è contenuta in: M. Löwy, Redenzione e utopia. Figure della cultura ebraica mitteleuropea, Torino 1992.
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ad altre domande, fornendo un’interpretazione del pensiero benjaminiano, che vede al suo centro un’idea di transizione che si distacca da un paradigma puramente dinamico, per restituirle un carattere più complesso. La nozione di transizione che emerge dalle riflessioni benjaminiane assume delle valenze duplici e ambivalenti. Nel pensiero di Benjamin coesistono infatti due diverse prospettive, apparentemente antitetiche, e che invece ci sembrano completarsi in modo assai originale. L’esigenza di conservare la tradizione, di cui sono espressione ad esempio il libro Deutsche Menschen11 e il saggio Eduard Fuchs, der Sammler und der Historiker12, si coniuga al desiderio di distruggere, creare spazio, fare piazza pulita. Si pensi ai testi Der Erzähler13, Der destruktive Charakter14, Karl Kraus15, Erfahrung und Armut16. Conservazione e distruzione costituiscono, nella loro compenetrazione, l’immagine di «transizione» che emerge dalla filosofia benjaminiana. Per riconoscere i segni di instabilità che preludono ad una fase di transizione e dunque per riconoscere le a-nomalie che danno l’avvio ad una krisis, bisogna essere ben radicati nella tradizione, ma al contempo pronti ad abbattere il già noto, riuscendo a sopportare la «tensione essenziale» tra i due mondi. La concezione benjaminiana della transizione viene, come dice11 W. Benjamin, Deutsche Menschen, in GS IV/1, pp. 149-234 (trad. it. Uomini tedeschi, trad. it. di C. Bovero e E. Castellani, con un saggio di T.W. Adorno, Milano 1992). 12 W. Benjamin, Eduard Fuchs, der Sammler und der Historiker, in GS II/2, pp. 465505 (trad. it. Eduard Fuchs, Il collezionista e lo storico, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. it. di E. Filippini, con un’introduzione di C. Cases, Torino 1966, pp. 79-124). 13 W. Benjamin, Der Erzähler, in GS II/2, pp. 438-464 (trad. it. Il Narratore, in Angelus Novus. Saggi e frammenti [scelta antologica], a cura di R. Solmi, Torino 1995, pp. 247-274). 14 W. Benjamin, Der destruktive Charakter, in GS IV/1, pp. 396-397 (trad. it. Il carattere distruttivo, in Opere complete IV. Scritti 1931-1932, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Torino 2002, pp. 521-522). 15 W. Benjamin, Karl Kraus, in GS II/1, pp. 334-367 (trad. it. Karl Kraus, in Avanguardia e rivoluzione. Saggi sulla letteratura, [scelta antologica], trad. it. di A. Marietti Solmi, con un’introduzione di C. Cases, Torino 1973, pp. 100-133). 16 W. Benjamin, Erfahrung und Armut, in GS II/1, pp. 213-218 (trad. it. Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., pp. 539-544).
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INTRODUZIONE
vamo, illuminata dalla figura del carattere distruttivo. Abitatore di due mondi complementari, egli è mosso dalla necessità di produrre un novum, di creare una cesura rispetto a ciò che lo ha preceduto, determinando un nuovo inizio. Occorre tuttavia precisare che il processo di distruzione creatrice che egli si propone di attuare non è da intendersi nei termini di una cancellazione totale della tradizione. Per poter ricominciare occorre infatti conoscere e tenere a mente ciò che è stato e dunque confrontarsi con la tradizione. Questo si realizza non tanto nei termini della conservazione e dunque della trasmissibilità, ma invece sotto forma di una distruzione che rinnova la tradizione, rapportandosi ad essa in modo attivo e produttivo. Si tratta di riuscire ad attivare un nuovo modo di vedere, che permetta di cogliere delle nuove figure, delle nuove immagini, che possono sorgere anche dal passato. Il carattere distruttivo riesce a leggere le immagini del passato con una sorta di stereoscopio, che gli fa vedere ciò che la tradizione ha offuscato. Alla trasmissibilità di un patrimonio che rischia di essere tramandato come sempre uguale, egli sostituisce la citabilità di alcuni gesti significanti, prodottisi da un montaggio di materiali apparentemente diversi e contraddittori. A questo punto il lettore avrà inteso che chi vive della e nella transizione è proprio il carattere distruttivo. Iniziano a delinearsi i contorni dell’idea di transizione che verrà esposta nelle pagine che seguono. All’idea di movimento, passaggio, passage, contenuta nel termine Über-gang, che nella sua stessa etimologia mostra una stretta Verwandtschaft con il termine gehen (andare), coesiste quella di cesura, arresto, distruzione. Transizione e distruzione trovano la loro sintesi in quella formula apparentemente paradossale di dialettica che è la Dialektik im Stillstand (dialettica in stato di quiete). La vera componente dialettica è data dalla distruzione. È chiaro che la nozione di transizione che abbiamo appena tracciato ha un forte impatto sulla filosofia della storia benjaminiana, che si configura nella dialettica tradizione-rivoluzione. Se guardiamo al nostro stesso presente, esso ci appare sotto le spoglie di un’epoca di crisi, di mutamenti, di sconvolgimenti, che riguardano l’assetto stesso della nostra società. Tuttavia se ci spostiamo a ripensare al passato, ci sembra che anch’esso non sia altro che una successione di continue crisi e trasformazioni, in cui le epo-
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che di relativa stabilità ricoprono uno spazio così esiguo da apparire insignificante. Risulta dunque evidente che la transizione rappresenti per la storia dell’umanità non tanto un caso anomalo, uno spostamento dall’asse della normalità, un’eccezione alla regola, ma che il suo statuto di eccezione si sia convertito nella normalità e cioè che, come suggerisce Benjamin, «lo stato di eccezione in cui viviamo è la regola»17. Da questa semplice riflessione appare chiaro quanto un’indagine sul tema della transizione ci sia sembrata di una portata straordinaria per riflettere sul senso della storia. Ed ecco che il nostro riferirci a Benjamin si mostra in un certo modo obbligato. Egli ha offerto una chiave di lettura illuminante e originale per comprendere la rivoluzione permanente in cui noi stessi ci troviamo a vivere. Come vedremo, egli non si è limitato a riferire dello stato di malattia che ha contagiato l’epoca contemporanea, ma ha azzardato una possibile apertura positiva, anche se utopica, volta a sospendere le aberrazioni che hanno condotto l’uomo a sentirsi dominatore della natura e dei propri simili. Attento osservatore della situazione storica a lui contemporanea, nel riferirsi alla nozione centrale della dottrina della sovranità, teorizzata da Carl Schmitt in Politische Teologie (1922), Benjamin suggerisce di giungere a un concetto di storia, che corrisponda alla «normalità» dello stato di eccezione. Tale modello storiografico si distingue dallo storicismo, che adotta un procedimento «additivo», fornendo «una massa di fatti per riempire il tempo omogeneo e vuoto»18. Ciò che caratterizza invece la «storiografia materialistica» eletta da Benjamin a forma di conoscenza storica par excellence è un «principio costruttivo». La differenza di metodo comporta anche una differenza di contenuti: oggetto della teoria materialistica non è più «il tempo omogeneo e vuoto», ma «quello riempito dell’adesso»19, la Jetztzeit. A tema non è dunque il continuum del corso storico, che, dice Benjamin, «livella al suolo ogni cosa»20, ma «un passato carico di adesso, che […] faceva schiz17 W. Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Torino 1997, p. 33. 18 Ibid., p. 51. 19 Ibid., pp. 45 sgg. 20 Ibid., p. 83.
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zare dal continuum della storia»21. Il metodo storico da lui auspicato procede in modo simile alla moda, che «ha fiuto per ciò che è attuale, dovunque esso si muova nella selva del passato. Essa è il balzo di tigre nel passato. […] Lo stesso balzo, sotto il cielo libero della storia, è quello dialettico»22. 3. Una volta chiarito lo sfondo teorico del nostro lavoro e dunque dopo aver operato una sorta di ontologia della transizione, vorremmo ripercorrerne in un certo senso la fenomenologia, mostrando al lettore come essa si concretizzi nello svolgimento della nostra ricerca. La prima parte è dedicata a fornire un esempio di come sia possibile essere «distruttivi» in filosofia attraverso una lettura del pensiero benjaminiano, che vede al suo centro dapprima un’analisi del concetto di Dialektisches Bild – e con esso di quelli di Bild (immagine), Denkbild (immagine di pensiero), Dialektik im Stillstand (dialettica in stato di quiete) e passage – come modello teoricoconoscitivo, successivamente una tematizzazione dell’innovativa idea di temporalità che emerge dalla nozione di Jetztzeit (tempoora), ed infine un’indagine sul rapporto sussistente tra Fortschritt (progresso), Katastrophe (catastrofe) ed Erlösung (redenzione). Il coesistere nel pensiero benjaminiano di archeologia e modernità porta l’autore alla costruzione di un metodo filosofico che si propone di offrire una chiave interpretativa per comprendere alcuni dei fenomeni più rilevanti della realtà a lui contemporanea, attingendo a un passato di cui il presente porta ancora delle tracce indelebili. Tale passato non è concluso, ma aperto, in quanto capace di profetizzare il futuro. Nel cercare le radici della modernità Benjamin si sofferma non tanto sugli aspetti macroscopici che hanno costruito il concetto di moderno, ma forma piuttosto un pensiero micrologico, che si muove alla ricerca di immagini, intese come vestigia, tracce, scarti, rifiuti, oggetti che si sottraggono ad uno sguardo distratto. Egli vuole 21 22
Ibid., p. 47 (traduzione modificata). Ibid. (traduzione modificata).
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costruire un atlante delle immagini, intese goethianamente come Urbilder (immagini originarie), in cui si trovano cristallizzati dialetticamente, in forma monadologica, arcaico e moderno, mito e storia, passato e futuro, memoria e redenzione. La seconda parte del lavoro vuole corrispondere alla poliedricità del pensiero benjaminiano (prismatisches Denken), offrendo altri modelli teorico-interpretativi sul tema della transizione, che si affianchino al modello filosofico presentato nella prima parte, e abbraccino altri settori, dall’arte alla scienza – non a caso nella Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco Benjamin afferma che la filosofia si trova in una posizione intermedia tra scienza e arte – per fornire gli strumenti teorici per la comprensione della «rivoluzione permanente» in cui ci troviamo a vivere. Come abbiamo già accennato, si tratta di B. Brecht e A. Einstein. Per quanto riguarda Brecht, ci siamo concentrati su un testo, il Fatzer-Fragment, a cui la critica non sembra avere ancora dato il giusto peso. Proprio nella sua forma frammentaria e inconclusa esso riveste, a nostro avviso, una posizione centrale all’interno della produzione del drammaturgo tedesco, poiché costituisce un interessante luogo di sperimentazione di teoria e pratica teatrale e un importante momento di transizione tra teatro epico e teatro didattico. Di Einstein abbiamo analizzato alcuni scritti, risalenti al cosiddetto annus mirabilis (1905), con cui egli contribuì ad importanti svolte nell’ambito della fisica classica, scuotendola alle sue stesse basi, nei suoi fondamenti, e portando alla nascita di un nuovo modello epistemologico di importanza capitale per la fisica del Novecento e per le ripercussioni più generali che esso ebbe in ambito filosofico. Le analisi sviluppate nelle prime due parti del nostro lavoro dovranno servire ad addestrare lo sguardo a cogliere i tratti caratteristici della comprensione della nostra stessa attualità, i cui germi erano già contenuti nelle teorizzazioni di alcuni dei momenti di transizione e di rivolgimento del secolo scorso. A questo sarà dedicata la parte conclusiva della nostra ricerca, che vuole mettere in risalto l’attualità del pensiero benjaminiano. In essa il lettore troverà esplicitato, in forma compendiosa, il nostro contributo critico-interpretativo.
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4. Prima di entrare nel vivo della nostra ricerca vogliamo fare un’ultima riflessione, che riguarda la collocazione del nostro contributo all’interno della letteratura critica23. La recezione benjaminiana ha subito una straordinaria accelerazione in seguito alla pubblicazione in Germania dell’edizione critica delle Gesammelte Schriften24 dell’autore, conclusasi nel 1989. Prima di essa esistevano solo alcune antologie di scritti benjaminiani: Illuminationen (1961) e Angelus Novus (1966). Alla luce dei nuovi materiali resisi disponibili con tale pubblicazione, le linee di ricerca hanno subito un rapido incremento e hanno potuto cimentarsi in ambiti che prima di tale data non erano percorribili25. L’edizione critica tedesca, iniziata nel 1972 23 Tra i pochi testi in questa direzione vogliamo ricordare: W. Menninghaus, Schwellenkunde. Walter Benjamins Passage des Mythos, Frankfurt a.M. 1986, in cui l’attenzione dell’autore è volta a mettere in evidenza altri temi rispetto a quelli da noi analizzati e cioè ad esempio mito, lingua, bellezza, arte e critica. La sua analisi ha inoltre un carattere più spiccatamente letterario che filosofico. 24 Ci sembra interessante a questo proposito riportare un’osservazione di Dario Gentili: «L’“opera completa” di Benjamin è pubblicata in tedesco con il titolo Gesammelte Schriften (scritti completi), quasi a voler assegnare all’interprete il compito di definirla in opera». D. Gentili, Il tempo della storia. Le tesi «sul concetto di storia» di Walter Benjamin, Napoli 2002, p. 17. In effetti Benjamin ha pubblicato in vita soltanto alcuni dei suoi scritti, lasciandone molti allo stato di appunti o di frammenti, per cui risulterebbe improprio definire la sua «opera» Gesammelte Werke. Lo stesso Passagen-Werk, come è stato opportunamente sottolineato da I. Wohlfarth, dovrebbe essere definito a rigore Passagen-Arbeit. 25 Volendo schematizzare, su indicazione di T. Küpper e T. Skrandies, le fasi della recezione benjaminiana, se ne possono individuare tre. La prima è senza dubbio quella in cui Adorno dà l’avvio alla pubblicazione di alcuni scritti di Benjamin, divenendo non solo Herausgeber di tali testi, ma anche Interpret. La seconda fase si sviluppa intorno al 1968: in essa viene messa in questione la posizione di Adorno, che aveva tentato di cancellare la componente marxista-materialista del pensiero di Benjamin, e ci si riferisce a Benjamin come ad una fonte ispiratrice per la praxis rivoluzionaria di sinistra. La terza fase ha inizio con la pubblicazione delle Gesammelte Schriften (1972-1989) e non può ancora dirsi conclusa. In essa viene presa distanza dalle posizioni polemiche e motivate da un punto di vista politico e viene adottato un confronto di tipo «accademico» con il pensiero di Benjamin. Se infatti intorno al Sessantotto il suo pensiero veniva strumentalizzato a fini politici, a partire dalla pubblicazione delle Gesammelte Schriften si inizia un confronto critico con il pensiero di Benjamin, che si sviluppa secondo linee di ricerca diversificate, alcune delle quali sono volte a inserirlo all’interno dello studio accademico, mentre altre vedono in esso degli interessanti stimoli da
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presso l’editore Suhrkamp di Frankfurt am Main, sotto la guida dei due amici di Benjamin Gerschom Scholem e Theodor Wiesengrund Adorno, si conclude nel 1989 grazie all’intervento di due allievi di Adorno: Hermann Schweppenhäuser e Rolf Tiedemann. L’edizione segue un criterio non cronologico, ma sistematico-formale26. La recezione benjaminiana, e dunque la letteratura critica su Benjamin, ha conosciuto nell’ultimo ventennio una grande espansione non solo in Europa e negli Stati Uniti, ma anche in America Latina e in Giappone. Pensatore isolato ed eccentrico, difficilmente incasellabile all’interno di una corrente filosofica dai contorni definiti, Benjamin non ha neppure dato l’avvio a una scuola di pensiero. Tuttavia la mole degli studi su tale autore mostra chiaramente quanto il suo pensiero sia articolato e ricco di spunti da sviluppare. Egli ha fatto luce infatti su una serie di questioni cruciali, che riguardano il senso stesso della nostra esistenza e che si confrontano con il passato della tradizione. utilizzare nella produzione artistica. Le linee di ricerca, che, soprattutto in anni recenti, si sono avviate, riguardano gli ambiti e le correnti più disparate. Non solo Benjamin suscita l’interesse di filosofi, letterati, critici letterari, traduttori, critici d’arte, storici, teologi, teorici della politica, ecc., ma all’interno di tali discipline provoca reazioni assai diverse. T. Küpper e T. Skrandies, nel ricostruire la Rezeptionsgeschichte, hanno selezionato alcune linee di ricerca che si sono sviluppate a partire dal suo pensiero: marxismo, messianismo e pensiero ebraico, decostruzione, scienza della letteratura, gender studies, teoria dei media, cultur studies. Cfr. T. Küpper, T. Skrandies, Rezeptionsgeschichte, in B. Lindner (a cura di), Benjamin Handbuch, cit., pp. 17-56. Benjamin è divenuto un vero e proprio crocevia di strade e discipline. Il nostro lavoro, di impianto filosofico, nell’eleggere a motivo di riflessione il tema della transizione, vuole in una qualche misura rendere testimonianza della poliedricità e della complessità di tematiche che nella riflessione benjaminiana provocano delle vere e proprie collisioni. 26 È stata avviata una nuova edizione critica delle opere di Benjamin, che prevede una trentina di volumi che usciranno presso la casa editrice Suhrkamp. Ad essa lavoreranno alcuni esperti del pensiero benjaminiano supportati dall’aiuto del Dr. E. Wizisla, direttore del Benjamin Archiv (Akademie der Künste, Berlin), e dei suoi collaboratori U. Marx e M. Schwarz. L’incremento del numero dei volumi è dovuto al fatto che, per quanto riguarda gli scritti benjaminiani più importanti, a ciascuno di essi sarà dedicato un intero volume. La pubblicazione del primo volume, che conterrà l’antologia di lettere Deutsche Menschen, era prevista per il 2007. A tale scritto è stato dedicato un interessante convegno, tenutosi presso l’Akademie der Künste nel novembre del 2005, a cui la sottoscritta ha potuto partecipare per gentile invito del Dr. Wizisla.
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INTRODUZIONE
Il suo pensiero è un’imponente riflessione sulle caratteristiche dell’epoca moderna27 e ci fornisce più di una chiave interpretativa per comprendere la nostra attualità. Il suo merito è stato quello di individuare le radici del moderno, proprio quando esse erano appena in nuce. Alcuni aspetti del suo lavoro rivestono oggi un’importanza decisiva e, come dicevamo, trovano un riscontro nell’attuale produzione artistica e filosofica. Ci limitiamo, a titolo di esempio, ad accennare ad alcune delle questioni che emergono dalla nostra ricerca. La riflessione sull’immagine e sulla produzione di pensiero attraverso le immagini, così come l’attenzione per lo spazio immaginativo (Bildraum), sono alla base di ogni intervento sulla comunicazione di massa – si pensi anche solo alla moda e al montaggio cinematografico – e sulla realtà virtuale. In una società come la nostra, che comunica per immagini, la riflessione benjaminiana può mostrarsi un utile modello ermeneutico per comprendere le tendenze più attuali. La distinzione tra tempo storico e tempo messianico, così come l’accostamento dei temi del progresso e della catastrofe, aprono la strada ad una riflessione sul senso del progresso e della storia. In questo ambito si rivelano assai illuminanti, ancor più in un’epoca caratterizzata da uno stato di guerra permanente, le critiche che Benjamin fa alla teoria schmittiana dell’Ausnahmezustand28. Queste ultime indirizzano ad una comprensione della storia e della società, volta a sovvertire le leggi del dominio e del possesso. In questo senso abbiamo deciso di percorrere tali tematiche attraverso l’intreccio tra estetica e filosofia della storia, ritenendo che le nostre riflessioni si possano inserire in un ambito di ricerca, che rappresenta forse il campo in cui il pensiero di Benjamin potrà dare i suoi frutti più stimolanti e innovativi.
27 Con moderna intendiamo, su indicazione di Benjamin e di Baudelaire, l’epoca iniziata nel XIX secolo. 28 Su tale tematica rimandiamo ai fondamentali libri di Agamben: G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita I, Torino 1995; G. Agamben, Stato di eccezione. Homo sacer II, I, Torino 2003.
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Soglia Der destruktive Charakter
Potrebbe capitare a qualcuno che, nel riguardare alla propria esistenza, pervenga alla constatazione che quasi tutti i più profondi impacci che ha patito in questa vita siano derivati da persone sul cui «carattere distruttivo» tutti erano d’accordo. Potrebbe un giorno imbattersi forse per caso in questi dati di fatto e allora, quanto più forte è lo shock che subirebbe, tanto maggiori sono le sue probabilità di arrivare a una descrizione del carattere distruttivo. Il carattere distruttivo conosce una sola parola d’ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia. Il suo bisogno di aria fresca e di uno spazio libero è più forte di ogni odio. Il carattere distruttivo è giovane e allegro. Distruggere infatti ringiovanisce, perché toglie di mezzo le tracce della nostra età; e rallegra perché ogni rimozione significa per colui che distrugge una schiarita, una perfetta – (per dirla in termini matematici) – riduzione se non estrazione della radice della propria condizione. A una simile concezione apollinea del distruttore induce più che mai la comprensione di come si semplifichi straordinariamente il mondo ove lo si verifichi in base alla dignità d’essere distrutto. Questo è il grande nastro che avvolge armonicamente ogni esistente. Questa è una visione che procura al carattere distruttivo uno spettacolo della più profonda armonia. Il carattere distruttivo è sempre alacremente al lavoro. È la natura a dettargli i ritmi, indirettamente almeno: perché deve prevenirla. Altrimenti s’incaricherà essa stessa della distruzione. Il carattere distruttivo non ha in mente alcuna immagine. Ha poche esigenze, e la minima è: sapere che cosa subentra a ciò che è distrutto. In un primo momento, per un attimo almeno, lo spazio vuoto: il posto dove era la cosa, dove era vissuta la vittima. Si troverà poi prima o poi qualcuno che ne avrà bisogno senza occuparlo. Il carattere distruttivo fa il suo lavoro, evita solo il lavoro creativo. Come il creatore cerca la solitudine, colui che distrugge deve continuamente attorniarsi di gente, di testimoni della sua attività. Il carattere distruttivo è un segnale. Come un disegno trigonometrico è esposto da tutti i lati al vento, egli è esposto da tutti i lati al pettegolezzo. Proteggerlo da ciò è privo di senso.
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SOGLIA. DER DESTRUKTIVE CHARAKTER
Il carattere distruttivo non è affatto interessato a essere capito. Considera superficiali gli sforzi in questo senso. L’essere frainteso non gli nuoce. Anzi, egli provoca l’equivoco, esattamente come lo provocano gli oracoli, queste istituzioni statali distruttive. Il più piccolo borghese di tutti i fenomeni borghesi, il pettegolezzo, insorge solo perché la gente non vuole essere fraintesa. Il carattere distruttivo lascia che lo si fraintenda: e non incoraggia il pettegolezzo. Il carattere distruttivo è il nemico dell’uomo-custodia. L’uomo-custodia cerca la sua comodità, e l’involucro ne è la quintessenza. L’interno dell’involucro è la traccia foderata di velluto che lui ha impresso nel mondo. Il carattere distruttivo cancella perfino le tracce della distruzione. Il carattere distruttivo sta nel fronte dei tradizionalisti. Mentre alcuni tramandano le cose rendendole intangibili e conservandole, altri tramandano le situazioni rendendole maneggevoli e liquidandole. Questi vengono chiamati i «distruttivi». Il carattere distruttivo ha la coscienza dell’uomo storico, il cui sentimento fondamentale è un’insormontabile diffidenza nel corso delle cose, nonché la prontezza con la quale prende nota del fatto che tutto può andare storto. Perciò il carattere distruttivo è l’affidabilità stessa. Il carattere distruttivo non vede alcunché di duraturo. E proprio per questo scorge ovunque vie d’uscita. Anche lì dove altri vanno a sbattere contro muri o montagne, lui intravvede una via d’uscita. Tuttavia, proprio perché scorge ovunque una via d’uscita, deve anche sgomberarsi ovunque la strada. Non sempre con la forza bruta, talora anche con raffinatezza. E poiché scorge vie d’uscita ovunque, si trova sempre a un bivio: nessun attimo può sapere che cosa porterà il successivo. Riduce l’esistente in macerie non per amore delle macerie, ma della via d’uscita che le attraversa. Il carattere distruttivo non vive per il sentimento che la vita merita d’essere vissuta, ma perché non vale la pena suicidarsi1.
Il Denkbild “Der destruktive Charakter” (1931) colloca Benjamin all’interno di un pensiero della crisi, di fronte al quale egli prende una posizione estremamente precisa: tale testo è espressione della necessità di rinnovamento che si manifesta in un ciclo storico quando quest’ultimo giunge ad un punto di rottura irrisolvibile. In attesa della svolta il carattere distruttivo appare così come portatore di un novum, di un cambiamento, di un bisogno di emanciparsi dal passato, senza tuttavia dimenticarlo, ma instaurando con esso un rapporto critico2. Egli sente di 1 Benjamin, Il carattere distruttivo, in Opere complete IV, cit., pp. 522-523 (traduzione modificata). 2 «Il carattere distruttivo sta nel fronte dei tradizionalisti». Ibid., p. 522.
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SOGLIA. DER DESTRUKTIVE CHARAKTER
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avere una «missione storica […] agisce in ogni situazione come se fosse un momento storico», osserva gli eventi con uno sguardo di «insormontabile diffidenza»3, su cui si basa tuttavia la «fiducia stessa» di poter modificare il corso delle cose, di poter arrestare il terribile decreto del «così fu», che ha reso vane le voci di chi lo ha preceduto. Egli «non vede alcunché di duraturo» (sieht nichts Dauerndes), ma «proprio per questo scorge ovunque vie d’uscita» (eben darum sieht er überall Wege), si trova sempre a un bivio (am Kreuzweg) e si vede costretto a sgomberare il campo riducendo «l’esistente in macerie non per amore delle macerie, ma della via d’uscita che le attraversa»4. A questo punto il testo, anziché proseguire attraverso le macerie, si conclude con una riflessione sul suicidio, che sembra precludere ogni possibile via d’uscita e disorienta il lettore: «Il carattere distruttivo non vive per il sentimento che la vita merita di essere vissuta, ma perché non vale la pena suicidarsi». Tuttavia in un’altra versione più estesa del Denkbild, conservata in appendice nel quarto volume delle Gesammelte Schriften, l’autore prosegue, affermando la consapevolezza per il carattere distruttivo di essere un «individuo storico» capace di intravvedere per ogni situazione sempre e comunque una via d’uscita. Quest’ultima non costituisce l’esito di una scelta: «Il carattere distruttivo non crede mai di avere la scelta. È abituato a esplorare ogni situazione solo in cerca della via d’uscita che gli lascia. È capace di capire in ogni momento della vita che “non si va avanti così” – perché in effetti, dentro di sé, nel suo intimo non si va avanti così, ma da un estremo all’altro»5. Dunque è il punto estremo quello in cui la situazione si sblocca, portando all’unica via possibile: distruggere, creare spazio, far pulizia, togliere di mezzo ciò che è ormai concluso per poi costruire nuove vie, nuove figure con le macerie sparse ai piedi del carattere distruttivo. Ed è proprio in questa fase di transizione fra il vecchio e il nuovo mondo che il carattere distruttivo «deve mostrare contemporaneamente le caratte3
W. Benjamin, Appunti sul «carattere distruttivo», in Opere complete IV, cit., p. 525 (traduzione modificata). 4 Benjamin, Il carattere distruttivo, in Opere complete IV, cit., p. 522. 5 Benjamin, Appunti sul “carattere distruttivo”, in Opere complete IV, cit., p. 525.
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SOGLIA. DER DESTRUKTIVE CHARAKTER
ristiche del tradizionalista e dell’iconoclasta»6, deve essere al contempo becchino e levatrice e soprattutto riuscire a sopportare la «tensione essenziale» fra i due mondi. Il carattere distruttivo si manifesta tale sia in riferimento allo spazio che al tempo. Nei confronti dello spazio egli ha una sola necessità: fare posto, fare pulizia, creare uno spazio libero a partire dal quale costruire nuove figure, mostrare nuovi punti di vista innovativi. In questo senso, afferma l’autore, egli «non ha in mente alcuna immagine. Ha poche esigenze, e la minima è: sapere ciò che subentra a ciò che è distrutto»7. Questo non significa che egli non abbia una sensibilità per le immagini. Al contrario il carattere distruttivo è un pensatore per immagini. Non bisogna dimenticare infatti che esso è il contenuto di un Denkbild, di quel conio benjaminiano che non è un nuovo genere letterario, ma una Mischgattung, una mescolanza tra prosa letteraria, filosofia, teoria storica e teoria sociale, che permette all’autore di dare perfetta testimonianza del proprio esercizio di pensiero. Il Denkbild è una forma di equiparazione tra riflessione e visione, in cui scrittura e immagine si condensano, cristallizzandosi in un’«immagine di pensiero». Il pensiero si esercita nella dimensione linguistica nello stesso modo in cui si estraggono le immagini in rilievo da una lastra di rame8. Tali figure rappresentano il reale come la forma cava, la matrice di esse. Nei Denkbilder la domanda circa l’esposizione filosofica diventa in un certo senso ancora più rilevante che nella Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco, poiché in essi l’oggetto dell’analisi 6
Th. S. Kuhn, La tensione essenziale, trad. it. M. Vadacchino, Torino 1985, p. 247. Benjamin, Il carattere distruttivo, in Opere complete IV, cit., p. 521. 8 In un breve testo appartenente alla raccolta Denkbilder, Benjamin definisce attraverso un Denkbild la tecnica stessa della produzione di pensiero attraverso immagini: «Trovare parole per ciò che si ha dinnanzi agli occhi: quanto può essere difficile. Ma quando esse arrivano, allora è come se battessero con dei piccoli colpi di martello contro la superficie del reale, sino a sbalzarne, come da una lastra di rame, l’immagine. Alla sera le donne si raccolgono alla fontana davanti alla porta della città, per prendere acqua in grandi brocche. Soltanto quando ebbi trovato queste parole, dal turbamento delle impressioni immediate emerse, con i suoi precisi rilievi e le sue ombre profonde, l’immagine». W. Benjamin, San Gimignano, in Ombre corte. Scritti 19281929, a cura di G. Agamben, trad. it. di G. Backhaus, M. Bertolini Peruzzi, G. Carchia, G. Gurisatti, A. Marietti Solmi, Torino 1993, p. 424 (traduzione modificata). 7
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coincide con la forma dell’esposizione stessa. Di fronte all’interrogativo su quale sia l’oggetto dell’esposizione filosofica dei Denkbilder, la risposta, apparentemente paradossale, è che si tratta di immagini, immagini che non hanno la funzione di illustrare, di copiare dal vero, ma di rappresentare. Questo diventa l’aspetto più sorprendente di tale forma di pensiero. Illustrare implicherebbe un modello da prendere a esempio. La rappresentazione non è invece una riproduzione passiva, ma un attivo prendere forma, in cui lo stesso io che narra è entrato in qualche modo a far parte della narrazione. In questo senso nel Denkbild “Il carattere distruttivo” quando Benjamin descrive tale figura di rivoluzionario prende egli stesso una posizione a riguardo. I Denkbilder raccolgono in forma aforistica e frammentaria, o forse sarebbe più esatto affermare che citano, tutti i motivi in cui le immagini si condensano nel pensiero di Benjamin. Ciò che ne risulta è una prosa che si muove entro poli dialettici e costruzioni paradossali, davanti alla quale il lettore si vede costretto a sbarazzarsi di tutti i paradigmi concettuali di cui si serviva abitualmente per leggere un testo filosofico. L’immagine riesce ad unire la sfera del visibile a quella dell’invisibile, mostrando più di quanto c’è da vedere. Si tratta di un vedere in profondità, nella profondità con cui lo stereoscopio permette alla vista di allungarsi, entrando nelle cose: uno sguardo metafisico. A questa scrittura fatta di immagini giustapposte e unite con la tecnica del collage concorre la teoria benjaminiana della citazione. Citare un testo non significa far rivivere in un certo senso il passato, ma «strappare dal contesto, distruggere»9. «Nella citazione che salva e punisce la lingua si rivela come la madre della giustizia. La citazione chiama la parola per nome, la strappa dal contesto che distrugge, ma proprio per questo la richiama alla sua origine. […] Nella citazione si rispecchia la lingua angelica in cui tutte le parole, snidate dal contesto idillico del senso, sono diventate motti nel libro della creazione»10. A far assumere una grande carica espressiva è proprio il potere di estraniazione di cui una frase si carica una volta inserita in un altro contesto. Attraverso il 9
Benjamin, Karl Kraus, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 130. Ibid., p. 128.
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gesto citante del carattere distruttivo, Benjamin si fa interprete di un nuovo modo di entrare in relazione con il passato della tradizione: alla trasmissibilità del passato egli sostituisce la citabilità. La scoperta della funzione moderna delle citazioni deriva infatti dalla disperazione del presente e dalla volontà di distruggerlo. In questo senso il carattere distruttivo ha uno spiccato senso dell’immaginazione, che gli permette di fare astrazione e di configurarsi visivamente ciò che subentra alla distruzione prima ancora che essa si realizzi. Affermare che egli «non ha in mente alcuna immagine» significa dunque che egli non ha alcun modello da imitare, da prendere a esempio, ma produce egli stesso le immagini nell’atto stesso del pensare. Per questo Benjamin afferma che il carattere distruttivo vuole «sapere che cosa subentra» alla distruzione. Tuttavia l’aspetto più interessante delle pagine sul carattere distruttivo non si manifesta tanto nel rapporto che quest’ultimo intrattiene con lo spazio, ma piuttosto con il tempo. In questo secondo punto si mostra infatti in maniera assai esplicita la relazione tra il tema della distruzione e quello della transizione. «Il carattere distruttivo non vede alcunché di duraturo» e nel suo desiderio di distruggere, cancellando perfino le tracce della distruzione, egli è continuamente in attività, vive della e nella transizione. In questo senso l’unico tempo che egli concepisce come realmente esistente è quello del passaggio, della trasformazione, del mutamento di forma, della transizione. Benjamin tiene a sottolineare che il carattere distruttivo «si trova sempre a un bivio», e dunque in un luogo che prelude alla transizione. Come è stato opportunamente sottolineato, tale bivio rappresenta la figura-limite entro la quale è possibile pensare al concetto di salvazione (Rettung) e dunque ad un’apertura positiva verso il futuro11. 11 Cfr. I. Wohlfarth, Der “Destruktive Charakter”. Benjamin zwischen den Fronten, in B. Lindner (a cura di), «Links hatte noch alles sich zu enträtseln...» Walter Benjamin in Kontext, Frankfurt a.M. 1978. A questo proposito si rivela di grande importanza un frammento appartenente al Passagen-Werk in cui Benjamin afferma: «Interesse vitale nel riconoscere i pensieri al bivio, a un determinato punto del loro sviluppo. Ciò vuol dire concentrare il nuovo sguardo sul mondo storico in punti dove si deve decidere sul loro carattere reazionario o rivoluzionario». W. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., , p. 937.
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Il rapporto che il carattere distruttivo intrattiene con il passato si configura nella sua differenza rispetto al collezionista, «carattere conservatore e conservante», che rende le cose «tramandabili». Il carattere distruttivo le rende invece «citabili»12. Egli adotta una presa di distanza critica, che gli permette di distruggere senza lasciare tracce, ma conservando memoria di ciò che è stato. Di fronte alle macerie prodotte dalla distruzione ciò che Benjamin auspica non è una nostalgica e fedele ricomposizione dell’infranto, che all’Angelus Novus non era riuscita, ma una nuova costruzione che pone le sue fondamenta su quegli stessi frammenti, che vengono a formare nuove figure, nuove immagini, in cui ciò che è nuovo entra in una connessione dialettica con l’antico, «l’ora» con «il già stato». Appare chiaro fin da ora quanto, a partire da un testo apparentemente marginale come Il carattere distruttivo, il pensiero benjaminiano si presenti come un’immensa ricerca di un metodo, che si riverbera in tutte le tappe del percorso da lui compiuto. Ciò su cui Benjamin riflette in queste poche righe riguarda il senso stesso di cosa significa produrre pensiero, è espressione del suo metodo filosofico, che, come è noto, è anche un metodo storico. Situandosi all’interno del dibattito culturale di inizio Novecento, Benjamin non vuole sancire la fine della ragione classica, quanto piuttosto fornire un nuovo modello ermeneutico, capace di suggerire delle indicazioni di orientamento all’interno della crisi stessa. L’indagine benjaminiana sul «carattere distruttivo» procede negli anni successivi, concretizzandosi in alcune riflessioni, che chiariscono in modo più esplicito che cosa egli intendesse con tale enigmatica espressione. Nel saggio Erfahrung und Armut (1933) Benjamin porta avanti il proprio concetto di distruzione positiva, fornendo – anche se non in modo esplicito – alcuni esempi concreti di persone che sono 12 Cfr. Benjamin, Appunti sul “carattere distruttivo”, in Opere complete IV, cit., p. 524. Occorre tuttavia fare alcune precisazioni. Se pure risulta evidente e assai incisiva la contrapposizione tra l’atto del distruggere e quello del collezionare, c’è da dire che i due ambiti non sono separati e distinti, ma intercomunicanti. Così come il carattere distruttivo «cancella perfino le tracce della distruzione», ma «sta nel fronte dei tradizionalisti», cioè conserva memoria di ciò che è stato, per renderlo in un momento successivo citabile, allo stesso modo il collezionista non tramanda integralmente la tradizione, ma opera dei tagli all’interno di essa, decidendo di conservare solo alcuni elementi.
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state a suo avviso dei caratteri distruttivi. A partire da alcune riflessioni sulla povertà di esperienza (Erfahrungsarmut) in epoca contemporanea egli introduce «un nuovo positivo concetto di barbarie», mostrando come lo spazio vuoto che subentra alla distruzione possa rivelarsi risolutore per superare l’empasse della perdita di esperienza. Fare posto (Platz schaffen), sgomberare (räumen) assumono in questa nuova trattazione un significato positivo, che conduce dalla distruzione alla costruzione. Il punto zero a cui ha portato la povertà di esperienza diventa il luogo di transizione verso un nuovo. Di fronte alla domanda su dove la povertà di esperienza conduca il «barbaro», Benjamin risponde: È indotto a ricominciare da capo (von vorn zu beginnen), a iniziare dal nuovo (von Neuem anzufangen), a farcela con il poco (mit Wenigem auszukommen), a costruire a partire dal poco (aus Wenigem heraus zu konstruieren) e inoltre a non guardare né a destra, né a sinistra (und dabei weder rechts noch links zu blicken). Tra i grandi creatori ci sono sempre stati gli implacabili, che per prima cosa facevano piazza pulita (reinen Tisch machten). Essi infatti volevano avere un tavolo per disegnare, sono stati dei costruttori. Così un costruttore fu Descartes, che per prima cosa per tutta la filosofia non voleva avere nient’altro che un’unica certezza: «Penso, dunque sono» e da questa prese le mosse. Anche Einstein era un costruttore di tal genere, cui improvvisamente dell’intero vasto mondo della fisica proprio niente interessava più di una singola, piccola discordanza tra le equazioni di Newton e le esperienze dell’astronomia. E questo stesso «cominciare da capo» lo avevano ben presente gli artisti quando facevano riferimento ai matematici e, come i cubisti, costruivano il mondo da forme stereometriche o quando, come Klee, prendevano a proprio modello gli ingegneri. Perché le figure di Klee sono, per così dire, progettate sul tavolo da disegno e, come una buona macchina, anche nella carrozzeria, obbedisce soprattutto alle necessità del motore, così quelle nell’espressione dei loro lineamenti obbediscono soprattutto al loro «interno». All’interno piuttosto che all’interiorità: questo le rende barbariche. Qua e là le migliori «teste» hanno già da tempo cominciato a familiarizzare con queste cose. Una totale mancanza di illusioni nei confronti dell’epoca e ciononostante un pronunciarsi senza riserve per essa, questo è il loro carattere distintivo. È la stessa cosa che il poeta Bert Brecht precisi come il comunismo non sia la giusta ripartizione della ricchezza ma della povertà, o che il precursore dell’architettura moderna, Adolf Loos, dichiari: «Io scrivo solo per uomini che possiedono un moderno sentire. Per uomini che si struggono nella nostalgia del Rinascimento o del Rococò, io non scrivo». Un artista così «ad incastro», come il pittore Paul Klee, ed uno così
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programmatico, come Loos – entrambi rifuggono dall’immagine umana tradizionale, solenne, nobile, fregiata di tutte le offerte sacrificali del passato, per rivolgersi al nudo uomo del nostro tempo, che, strillando come un neonato, se ne giace nelle sudice fasce di quest’epoca. Nessuno lo ha salutato in modo più lieto e ridente di Paul Scheerbart. […] Scheerbart si è interessato del problema di cosa apportino i nostri telescopi, i nostri aeroplani e missili degli uomini di allora per del tutto nuove, interessanti e amabili creature. Del resto queste creature parlano già in una lingua completamente nuova. E precisamente ciò che la caratterizza è la disposizione per l’arbitrario elemento costruttivo, in contrapposizione quindi all’organico13.
Dopo aver nominato alcuni esempi di autori – quasi tutti contemporanei – che, a suo avviso, costituiscono dei modelli di caratteri distruttivi, Benjamin si sofferma nuovamente sulla figura di Brecht, unico tra gli esempi menzionati ad essere stato conosciuto e frequentato dal filosofo berlinese. Si può addirittura sostenere che lo stesso concetto di carattere distruttivo sia stato influenzato dal pensiero brechtiano. L’espressione «Verwisch die Spuren!» (cancella le tracce), proveniente dal testo brechtiano Lesebuch für Städtebewohner e rievocata nel saggio Esperienza e povertà, diventa una sorta di parola d’ordine per il carattere distruttivo. Tale formula è introdotta da Benjamin per sottolineare la contrapposizione tra il carattere distruttivo e il cosiddetto Etui-Menschen (uomo custodia), di cui ci aveva parlato già nel Denkbild “Der destruktive Charakter”. L’uomo custodia non è altro che il prototipo del borghese che vive nel suo intérieur, ambiente felpato in cui è impossibile non lasciare tracce14. A tale 13 Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., pp. 540 sgg. (corsivo nostro). 14 Su tale tema Benjamin ritorna in modo assai suggestivo nel Passagen-Werk: «Il XIX secolo è stato, come nessun’altra epoca, morbosamente legato alla casa. Ha concepito la casa come custodia dell’uomo e l’ha collocato lì dentro con tutto ciò che gli appartiene, così profondamente da far pensare all’interno di un astuccio per compassi in cui lo strumento è incastonato di solito in profonde scanalature di velluto viola con tutti i suoi accessori. Per cosa non ha inventato gusci il XIX secolo: orologi da tasca, pantofole, portauovo, termometri, carte da gioco. E, in mancanza di gusci, fodere, passatoie, rivestimenti, coperture. Il XX secolo, con la sua porosità, la sua trasparenza e la sua inclinazione alla luce e all’aria aperta la fa finita con l’abitare nel vecchio senso della parola. Alla stanzetta della bambola nell’appartamento del costruttore Solneß si contrappongono le “dimore per gli esseri umani”. L’art nouveau ha scosso in modo radicale il concetto di guscio». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [I 4, 4], pp. 234 sgg. Sul tema dell’abitare Benjamin discus-
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ambiente chiuso e privato, Benjamin contrappone il luogo aperto del cambiamento, della ri-voluzione, che si offre come No Man’s Land, cioè come soglia che dalla distruzione si apre verso una possibile costruzione. Tale apertura mostra con chiara evidenza il suo potenziale salvifico e rivoluzionario. Tuttavia l’influenza brechtiana non è limitata solo a tale efficace espressione che designa l’atto della distruzione. Oltre al rapporto personale che legò i due autori in una forte amicizia e intesa intellettuale a partire dagli anni Trenta, Benjamin si concentra in più luoghi ad analizzare e commentare alcuni motivi e alcuni testi brechtiani, portando questi ultimi a modello di una produzione di pensiero attraverso immagini, che offre una perfetta testimonianza di un pensiero che, come quello benjaminiano, distrugge nell’atto stesso di costruire e dunque si configura come carattere distruttivo. Non ci sembra questo il luogo in cui ripercorrere la stretta comunanza di intenti e di interessi che portò Benjamin ad occuparsi di Brecht e Brecht a commentare l’opera di Benjamin15, tuttavia vogliamo menzionare uno dei moltissimi passi dell’opera benjaminiana in cui emergono con particolare efficacia i tratti rivoluzionari del drammaturgo. Se, come abbiamo ricordato in precedenza, il carattere distruttivo è «indotto a ricominciare da capo, a iniziare dal nuovo, a farcela con il poco, a costruire a partire dal poco e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra»16, Brecht non solo «ha inause a lungo con B. Brecht. Sono conservati alcuni appunti di tali dialoghi in: W. Benjamin, Diario maggio-giugno 1931, in Opere complete IV, cit., pp. 433 sgg. 15 Il rapporto tra Brecht e Benjamin fu di una portata straordinaria, poiché influenzò fortemente i due pensatori in modo biunivoco. H. Arendt, amica di entrambi, dedicò alcune pagine assai suggestive alla loro memoria, poiché era convinta che si trattasse dell’amicizia tra il più grande poeta tedesco vivente (der größte lebende deutsche Dichter) e il più significativo critico dell’epoca (der bedeutendste Kritiker der Zeit). Cfr. H. Arendt, Walter Benjamin, Bertolt Brecht. Zwei Essays, München 1971. Per una ricca analisi del rapporto tra i due pensatori, si rimanda al bel libro: E. Wizisla, Benjamin und Brecht. Die Geschichte einer Freundschaft, Frankfurt a.M. 2004. Sul rapporto tra Benjamin e Arendt è uscito di recente un interessante libro che raccoglie testi, lettere e documenti, che testimoniano la forte intesa spirituale tra i due autori. Cfr. D. Schöttker, E. Wizisla (a cura di), Arendt und Benjamin. Texte, Briefe, Dokumente, Frankfurt a.M. 2006. 16 Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., p. 540.
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gurato una nuova forma drammatica», ma «è uno specialista del cominciare da capo. […] Brecht ricominciò continuamente da capo più di ogni altro. Detto tra parentesi, ciò rivela il dialettico. (In ogni maestro dell’arte si cela un dialettico)»17.
Excursus. Nel giudaismo viene consacrata non tanto l’opera della creazione, ma la cessazione di quest’ultima nel settimo giorno (Gen., 2, 2-3). Ciò trova la sua estrinsecazione in quella che per gli ebrei è la festa per eccellenza, il sabato (shabat). Esso ha il suo fondamento teologico nella sospensione dell’attività della creazione divina e riflette in ambito umano l’inoperosità di Dio. Così come Dio interrompe la sua azione nel settimo giorno, allo stesso modo l’uomo consacra l’inoperosità divina e umana santificando il sabato (Ex., 20, 11). L’arresto dell’operare evoca l’arresto definitivo, l’Ultimo giorno, e con esso l’attesa messianica. Nella Lettera agli Ebrei Paolo di Tarso definisce quest’atto di cessazione, di sospensione, «sabatismo», istituendo così un nesso decisivo tra condizione escatologica, sabato e inoperosità, che condizionerà profondamente la concezione cristiana del Regno. Il «sabatismo» chiama per nome l’eschaton, che è nella sua essenza inoperosità18. Il sabato rappresenta in questo senso più del sabato, poiché è il paradigma del tempo a venire, il modello del tempo escatologico, l’immagine dell’eternità. Esso si dà come interstizio, intervallo, cesura, è il tempo dell’interruzione dei tempi e ciò significa che non è un altro tempo. La festa non è data dunque come giorno separato, ma come la verità dei tempi. La santificazione del sabato si esplicita sul piano profano attraverso l’interruzione di tutte quelle attività produttive volte al dominio sulla natura. Non è un caso se il termine ebraico che definisce il riposo è menukhà, che significa «attività improduttiva». Interrompere l’azione non significa dunque stare nell’ozio, ma cessare di compiere attività produttive. Se l’uomo riuscisse cioè a svolgere delle attività puramente distruttive, permanendo 17
W. Benjamin, Il paese in cui non si può nominare il proletariato, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 184. 18 G. Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una geneaologia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, II, 2, Vicenza 2007, pp. 262 sgg.
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così in una zona di apparente quiete, di arresto dinamico, egli realizzerebbe compiutamente la propria essenza nella forma dell’inoperosità. Tale concetto di distruzione positiva che non è volta alla creazione, ma a rendere gloria all’inoperosità stessa, riveste un ruolo decisivo nella concezione giudaica dell’uomo. G. Scholem, il maggiore interprete della mistica ebraica, fa della distruzione il centro della propria interpretazione del messianismo. L’idea messianica è caratterizzata secondo questa prospettiva da toni marcatamente apocalittici e distruttivi. L’essenza della distruzione deve essere dunque intesa come inoperosità. È evidente che, dati i presupposti, quest’ultima dev’essere distinta dall’immobilità, e si produce al contrario in un campo di tensioni e non di opposizioni. Se la cultura occidentale è dominata da opposizioni binarie, dicotomiche, antitetiche, al contrario il concetto di distruzione positiva vuole essere, nell’ambito dell’operare umano, ciò che il campo elettrico rappresenta in fisica, un campo di tensioni in cui ogni punto presenta in termini di coesistenza dinamica le due cariche +/-. Secondo questo modello ermeneutico le opposizioni binarie vengono neutralizzate in favore dell’apertura di un tertium, cui si accede neutralizzando la rottura. È questo il modello che aveva presente Benjamin nel concepire il carattere distruttivo e la barbarie positiva di cui esso si fa interprete. Riprendendo un’immagine di Salomon Friedlaender a lui cara, potremmo dire che il carattere distruttivo ama sostare sulla soglia, in un centro inteso non tanto come luogo geometrico, ma come luogo di una dialettica tensiva. Il centro non rappresenta secondo questa concezione «il punto mediano che separa due segmenti su una linea, ma il passaggio attraverso di esso di un’oscillazione polare […] è l’immagine immobile di un essere di passaggio»19. I caratteri distruttivi citati da Benjamin conoscono «una sola parola d’ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia», essi non vedono alcunché di duraturo. E proprio per questo scorgono ovunque vie d’uscita, trovandosi in questo modo sempre a un crocevia. Ciò significa che essi hanno la capacità di sostare nel movimento, di arrestare il passaggio ad un nuovo ordine, dotato di 19
Agamben, Ninfe, cit., pp. 36 sgg.
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regole e caratteri nuovi. Se essi «non hanno in mente alcuna immagine» non significa che alla distruzione non possa seguire una creazione, ma che il carattere distruttivo produce l’immagine del successivo nell’atto stesso del pensare, che egli pensa per immagini. Pensare per immagini arrestando il movimento in una tensione dinamica significa contemplare la possibilità in tutte le forme, nella forma dell’essere e nella forma del non essere, nella forma dell’identità e in quella dell’alterità, della differenza. Essere caratteri distruttivi significa contemplare la potenza esercitandosi nel difficile compito dell’arrestare la potenza nell’atto. Risulta a questo punto evidente che l’inoperosità è pensabile come un’azione umana volta ad aprire le opere alla possibilità di un loro uso diverso, aprirle all’inoperosità. Interpretate secondo quest’ottica, poesia e filosofia sono delle operazioni compiute sul linguaggio che rendono inoperose le normali funzioni linguistiche. Nel poema la lingua riposa in se stessa, contempla la propria potenza di dire e si apre ad un nuovo possibile uso. Nel fare questo il soggetto poetico non coincide con l’individuo che ha scritto tali poesie, ma con il soggetto che si produce nel punto in cui la lingua è divenuta inoperosa20. Non ci sembra un caso se la «barbarie positiva» incarnata dal carattere distruttivo è fondata sull’abolizione di tutte le forme di interiorità, non soltanto quelle in cui si rifugia il borghese del diciannovesimo secolo, ma anche quelle dell’individuo in senso stretto che affida invece il proprio destino alla massa. Il carattere distruttivo rinuncia dunque all’essere un «carattere» nel senso psicologico e drammatico attribuito a questo termine dalla tradizione e procede alla cancellazione dell’intérieur borghese. L’opera del carattere distruttivo, come dicevamo, si situa sulla soglia, a un crocevia, in un luogo dunque che prelude al cambiamento. Proseguendo sulla scia dell’interpretazione che di Aristotele hanno offerto Averroè e Dante, nel pensiero di Benjamin il concetto di inoperosità si colloca all’interno di un processo dinamico volto non solo a restituire alla potenza e non all’atto una posizione di primo piano, ma, attraverso la cancellazione del suo 20
Cfr. Agamben, Il Regno, cit., pp. 274 sgg.
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uso corrente, a disinnescare per l’opera i dispositivi del già noto e della ripetizione. Questi ultimi inibirebbero infatti il concetto di potenza, e più in particolare la sua declinazione di «potenza di non essere». Per poter ricominciare da capo il carattere distruttivo deve smettere di imitare modelli già noti, «non guardare né a destra né a sinistra» e «iniziare dal nuovo». Come ha sottolineato Agamben21 l’atto di creazione non coincide affatto con il processo che porta dalla potenza all’atto per esaurirsi in quest’ultimo, ma vede al contrario al suo centro un atto di «decreazione», che dona alla potenza la sua originarietà e completezza in quanto «potenza di essere» e «potenza di non essere». L’atto di decreazione coincide con la vita dell’opera e proprio per questo sfugge sempre all’autore, permettendogli di continuare a scrivere. In questo senso si potrebbe dire che la vita dell’autore coincide con quella della sua opera e la supera solo dopo che l’ha creata22. Seguendo la suggestione di Focillon, così come è la genesi a creare il Dio, allo stesso modo sono le opere a creare l’artista e l’autore. Per tornare alle parole di Benjamin: «L’origine della grande opera è stata spesso pensata nell’immagine della nascita. Quest’immagine è un’immagine dialettica; essa abbraccia il processo da due lati. Il primo ha a che fare con la concezione creatrice e riguarda nel genio l’elemento femminile. Questo elemento femminile si esaurisce con il compimento. Esso dà vita all’opera, poi viene meno. Ciò che, nel maestro, muore con la creazione compiuta è quella parte di lui, in cui essa è stata concepita. Ma questo compimento dell’opera – e ciò conduce all’altro lato del processo – non è nulla di morto. Esso non è raggiungibile dall’esterno; lime e correzioni non possono estorcerlo. Esso si compie all’interno dell’opera stessa. E anche qui si deve parlare di una nascita. La creazione, infatti, nel suo compimento partorisce nuovamente il creatore. Non secondo il suo elemento femminile, in cui viene concepita, ma nel suo elemento 21 Cfr. G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino 2006, p. 194. 22 Ibid.
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maschile. Colmo di felicità, egli supera la natura: poiché di questa esistenza, che ricevette una prima volta dall’oscura profondità del grembo materno, dovrà ora ringraziare solo un regno più luminoso. Non dove egli fu generato è la sua patria, ma egli viene al mondo, dove è la sua patria. Egli è il primogenito maschio dell’opera, che una volta aveva concepito»23.
23 W. Benjamin, Dopo il compimento, in Opere complete V, cit., pp. 537 sgg. (trad. it. di G. Agamben).
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Parte prima Benjamin e la filosofia della transizione
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1. Immagine e immagine dialettica come modello teoricoconoscitivo
1.1 Il sapere delle immagini Il concetto di immagine dialettica1 (dialektisches Bild), una delle intuizioni più acute di Benjamin, compare nell’ultima fase della sua produzione, ma se ne trovano tracce già prima che acquisti una fisionomia definita. Esso rientra in un progetto di nuovo orientamento del suo pensiero di cui Benjamin stesso avverte i primi segni nella raccolta di Denkbilder “Einbahnstraße”, un libro fatto di pensieri figurali, che costituiva la soglia in cui venivano a intersecarsi il volto precedente dell’autore e quel1 L’immagine dialettica è una delle nozioni più dibattute nella letteratura secondaria sull’autore, alla cui definizione non sembra essere ancora stata data una risposta esaustiva. Per un approfondimento cfr. tra gli altri: R. Bischof, Plädoyer für eine Theorie des dialektischen Bildes, in K. Garber, L. Rehm (a cura di), global benjamin. Internationaler Walter Benjamin Kongreß 1992, München 1999, pp. 92-123; S. BuckMorss, The dialectic of seeing. Walter Benjamin and the Arcades project, Cambridge Mass. 1989; F. Desideri, Il vero non ha finestre... Note su ottica e dialettica nel Passagen-Werk di Benjamin, Bologna 1984; F. Desideri, Il fantasma dell’opera: Benjamin, Adorno e le aporie dell’arte contemporanea, Genova 2002; P. Gabrielli, Sinn und Bild bei Wittgenstein und Benjamin, Bern 2004; K. Greffrath, Metaphorischer Materialismus. Untersuchungen zum Geschichtsbegriff Walter Benjamins, München 1981, pp. 54-63; M. Grossheim, Archaisches oder dialektisches Bild? Zum Kontext einer Debatte zwischen Adorno und Benjamin, «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», 71 (1997), pp. 459-517; A. Hillach, Dialektisches Bild, in Opitz, Wizisla (a cura di), Benjamins Begriffe, cit., pp. 186-229; M. Jennings, Dialectical images. Walter Benjamin’s theory of literary criticism, Ithaca/London 1987; M. Pezzella, L’immagine dialettica. Saggio su Benjamin, Pisa 1982; M. Pezzella, Image mytique et image dialectique. Remarques sur le Passagen-Werk, in H. Wismann (a cura di), Walter Benjamin et Paris. Colloque international 27-29 juin 1983, Paris 1986, pp. 517-528; Sdun, Benjamins Käfer, cit., pp. 76-84; R. Tiedemann, Dialektik im Stillstand. Versuche zum Spätwerk Walter Benjamins, Frankfurt a.M. 1983; C. Zumbusch, Wissenschaft im Bildern. Symbol und dialektisches Bild in Aby Warburgs Mnemosyne-Atlas und Walter Benjamins Passagen-Werk, Berlin 2004.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
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lo successivo. In una lettera all’amico Scholem egli afferma a proposito di Strada a senso unico: Si tratta di una curiosa costruzione o organizzazione dei miei aforismi, una strada che deve rendere accessibile un fondale prospettico da una profondità tale – la parola non deve essere intesa in senso metaforico – come a Vicenza il famoso scenario di Palladio: la strada2.
Il ricorso da parte dell’autore alla metafora della strada per il titolo del libro e a quella della scenografia del teatro Olimpico di Vicenza non è certo casuale: esso rientra nel tentativo di Benjamin di edificare una filosofia della soglia, di cui si trovino tracce fino a livello microscopico, cioè sul piano linguistico-formale. Strada a senso unico viene inserito dall’autore all’interno di un filone che lo terrà impegnato durante tutta la fase matura del suo pensiero: la riflessione sui passages di Parigi. Proprio nei suoi elementi eccentrici il libro è se non un trofeo, peraltro un documento di una lotta interna, il cui oggetto potrebbe essere riassunto così: cercare di cogliere l’attualità come rovescio dell’eterno nella storia, e prendere l’impronta di questo lato nascosto della medaglia. Per il resto il libro deve molto a Parigi, è il primo confronto con questa città. Lo continuo in un secondo lavoro, che si intitola Parisier Passagen3.
E ancora, parlando a Scholem del Passagen-Werk: Qui si tratta di ciò che tu una volta hai sfiorato dopo la lettura di Einbahnstraße: cogliere per un’epoca intera la concretezza estrema che ivi di quando in quando si manifestava per dei giochi infantili, un edificio, una situazione di vita4.
La teoria dell’immagine dialettica contenuta nell’opera sui passages doveva inoltre costituire una sorta di equivalente della 2 «Es ist eine merkwürdige Organisation oder Konstruktion aus meinen Aphorismen geworden, eine Straße, die einen Prospekt von so jäher Tiefe – das Wort nicht metaphorisch zu verstehen! – erschließen soll, wie etwa in Vicenza das berühmte Bühnenbild Palladios: die Straße». W. Benjamin, GB, p. 433 (traduzione nostra). 3 W. Benjamin. Lettere 1913-1940 [scelta antologica], trad. it. di G. Backhaus, A. Marietti, Torino 1978, p.160. 4 Ibid., p. 169. Per un’analisi più approfondita delle lettere che sfiorano Einbahnstraße si rimanda all’apparato critico delle GS IV/2, pp. 907 sgg.
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco e avrebbe dovuto dunque esplicare i fondamenti critico-conoscitivi della produzione benjaminiana degli ultimi anni5. Quando avrò finito il lavoro I Passages di Parigi. Una féerie dialettica, sarà per me concluso un ciclo di produzione – quello di Strada a senso unico – nello stesso senso in cui il libro sul Dramma barocco teneva insieme il ciclo germanico6.
In realtà una vera e propria teoria dell’immagine dialettica non esiste nel pensiero di Benjamin, esistono piuttosto tentativi di configurare quest’ultima come figura di pensiero essenziale per una filosofia che voglia conferire all’immagine lo statuto conoscitivo del concetto. Benjamin organizza un pensiero dialettico attraverso immagini, in cui l’immagine costituisce il medium della dialettica. La riflessione sulla ritmica intermittente dell’immagine attraversa tutta l’opera di Benjamin dai saggi giovanili sulla lingua, al Dramma barocco tedesco, a Strada a senso unico fino al Passagen-Werk e alle tesi Sul concetto di storia. Il concetto di immagine dialettica si esplicita solo in alcuni appunti non pubblicati, che avrebbero dovuto costituire parte integrante del lavoro sui passages parigini, in cui irrompono in forma ancora velata i due elementi che compongono l’immagine dialettica: il primo, l’immagine, riguarda il livello formale della sua prosa filosofica, il secondo, la dialettica, pone la costruzione figurale del suo pensiero su 5 L’immagine dialettica mostra chiare affinità con il concetto di idea, che Benjamin descrive nella Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco: «L’idea è definibile come configurazione del nesso che l’unico e l’estremo ha con ciò che gli è simile». Benjamin, Il Dramma barocco tedesco, in Opere complete II, cit., p. 76 (corsivo nostro). Nel Passagen-Werk egli afferma: «Là dove il pensiero si arresta in una costellazione satura di tensioni, appare l’immagine dialettica». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 10a, 3], p. 534 (corsivo nostro). È chiaro che in entrambi i casi l’autore si sta riferendo all’immagine: «configurazioni» e «costellazioni» si lasciano esprimere meglio nella spazialità delle immagini, che nella linearità dei concetti. Il riferimento all’immagine è legato al fatto che essa costituisce il modo dell’esposizione filosofica (philosophische Darstellung) scelto da Benjamin per le proprie ricerche. 6 «Wenn ich die Arbeit Parisier Passagen. Eine dialektische Feerie beendet habe, so wird für mich ein Produktionskreis – der der “Einbahnstraße” – in ähnlichem Sinn geschlossen sein, wie das Trauerspielbuch den germanischen anschloß». GS IV/2, 910 sgg. (traduzione nostra).
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
basi materialistiche e storico-filosofiche. Tale concetto verrà reso esplicito nelle ultime opere del filosofo berlinese: il PassagenWerk – rimasto incompiuto – e le tesi Sul concetto di storia. Nella sezione Elementi di teoria della conoscenza del Passagen-Werk, in cui Benjamin offre al lettore una sorta di precipitato gnoseologico del proprio progetto, egli sottolinea fin dalle prime righe l’importanza che viene ad assumere l’immagine all’interno dell’opera. Essa costituisce il medium di una forma di conoscenza che prende congedo dal procedere argomentativo, che vedeva nel concetto lo strumento con cui produrre pensiero. Sostituendo all’astrattezza del concetto l’immagine, l’autore si fa interprete di una forma di «sapere sentito» (gefühltes Wissen), capace di «impossessarsi di dati morti, come se fossero qualcosa di esperito e di vissuto»7. Egli mira a risvegliare nella coscienza collettiva il linguaggio delle immagini, che ne rappresenta lo «strato più profondamente addormentato». Aspetto pedagogico di questo progetto: «Educare in noi il medium creatore di immagini allo sguardo stereoscopico e dimensionale nella profondità delle ombre della storia»8.
L’intenzione di Benjamin è di ordine strettamente filosofico: egli vuole «verificare in che misura sia possibile essere concreti in contesti di filosofia della storia» e in questo senso si propone di offrire attraverso il Passagen-Werk una rappresentazione della storia del Diciannovesimo secolo non tanto come prodotto di una costruzione astratta, quanto invece come «commento a una realtà»; egli presenta oggetti concreti come elementi da collezionare per formare una sorta di atlante delle immagini in cui venga a confluire un’intera epoca.
1.2 Duplicità e storicità dell’immagine Gli oggetti scelti possono entrare nella collezione in quanto dotati di alcune caratteristiche essenziali: devono essere vestigia 7 8
Cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [M 1, 5], p. 466. Ibid., [N 1, 8], p. 511.
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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dell’inappariscente – e cioè oggetti in cui l’attenzione dello storico tradizionalista non si è soffermata nel costruire la sua rappresentazione del Diciannovesimo secolo – e figure della duplicità9. La Zweideutigkeit (ambiguità, duplicità) si presenta come marchio essenziale dell’epoca presa in esame. Essa costituisce inoltre per l’immagine il presupposto fondante il suo stesso statuto. L’immagine è per natura duplice in quanto non può essere autoreferenziale, essa è cioè necessariamente rappresentazione di qualcosa di esterno a sé. «Ambiguità – suggerisce Benjamin nel primo Exposé – è l’apparizione figurata della dialettica, la legge della dialettica in stato di quiete»10. Benjamin può indicare i prodotti culturali come immagini, poiché essi sono espressione di tale duplicità e dietro la loro mera esistenza custodiscono un significato nascosto. In tale prospettiva egli individua come strumento ermeneutico-conoscitivo della propria opera sui passages, ma anche più in generale del proprio percorso teorico degli ultimi anni, l’immagine. Ancora più significativo appare il fatto che all’immagine venga attribuita una qualità che mette in maggiore risalto il suo statuto intrinsecamente duplice, e cioè il fatto di essere «dialettica». Essa viene introdotta da Benjamin nella sezione Elementi di teoria della conoscenza, teoria del progresso come apparizione nella dimensione linguistica di una configurazione, in cui entrano in connessione fulminea immagine del presente e immagine del passato e coesistono a formare una figura dialettica: Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità. Poiché, mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, continua, la relazione tra ciò che è stato e l’ora è dialettica: non è un decorso ma un’immagine discontinua, a salti. – 9 Se banalmente prestiamo attenzione all’indice che Benjamin stesso aveva posto, sia pure provvisoriamente, a esergo del Passagen-Werk – a titolo esemplificativo citiamo alcuni nomi di sezioni: passages, moda, collezionista, intérieur, città di sogno, flâneur, prostituzione, gioco, ecc. – salta subito all’occhio quanto tali oggetti si prestino ad essere analizzati sotto il profilo del doppio. 10 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 14 (traduzione modificata).
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
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Solo le immagini dialettiche sono autentiche immagini (cioè non arcaiche); e il luogo, in cui le si incontra, è il linguaggio11.
Solo le immagini dialettiche possono dirsi a ragione immagini in senso stretto, dice Benjamin, quasi volesse affermare l’originarietà dell’immagine dialettica. Questo si può dedurre anche dal frammento successivo12, in cui Benjamin, dopo aver affermato che nel Dramma barocco tedesco analizzava il concetto di origine come trasposizione del concetto goethiano di Urphänomen dall’ambito della natura a quello della storia, procede dicendo che il lavoro sui passages è «un’esplorazione dell’origine»; egli insegue «l’origine delle configurazioni e dei mutamenti dei passages dalla loro comparsa fin al loro declino» ed è alla ricerca di 11
Ibid., [N 2a, 3], p. 516. Cfr. ibid., [N 2a, 4], p. 517: «Durante lo studio dell’esposizione simmeliana del concetto di verità in Goethe, mi apparve con molta chiarezza che il mio concetto di origine nel libro sul dramma barocco è una rigorosa e cogente trasposizione di questo fondamentale concetto goethiano dall’ambito della natura a quello della storia. Origine: si tratta del concetto di fenomeno originario trasposto dal contesto pagano della natura a quello ebraico della storia. Ora, nel lavoro sui passages, ho a che fare anche con un’esplorazione dell’origine. Io inseguo, cioè, l’origine delle configurazioni e dei mutamenti dei passages dalla loro comparsa fino al loro declino, e la colgo nei fatti economici. Questi fatti, considerati dal punto di vista della causalità, cioè come cause, non sarebbero affatto un fenomeno originario – lo diventano solo in quanto, nel proprio stesso svilupparsi – meglio sarebbe detto nel loro disvilupparsi – fanno sorgere dal loro seno la serie delle concrete forme storiche dei passages, come la foglia dispiega da sè l’intero regno del mondo vegetale empirico». La metafora evocata nella frase conclusiva sembra rinviare direttamente alla Morfologia goethiana. Lo studio delle forme e delle metamorfosi degli oggetti naturali si caratterizzava per Goethe come una rappresentazione di processi fenomenici, tesa a descrivere le modalità del loro apparire. In questo si differenziava chiaramente dagli studi classici di storia naturale, il cui scopo era la classificazione degli stessi fenomeni, distinguendoli in base ad un ordine causale. L’apparenza assumeva per Goethe un ruolo di grande rilievo, configurandosi in un certo senso come il darsi del mondo in immagine. Nella sua indagine Goethe era alla ricerca di quel fenomeno originario (Ur-phänomen), da cui si originano tutte le forme. Esso non è da intendersi come arché, come punto da cui si originano tutte le altre forme, per poi allontanarsi da quest’ultimo. Si tratta invece di un’origine che rimane presente e attiva entro ogni forma naturale. In questo senso essa precede le forme solo su un piano logico, non invece su un piano ontologico. Ciò è richiamato in modo assai esplicito nel passo benjaminiano, in cui viene chiarito come il fenomeno originario non debba essere inteso in senso causale e come nel Dramma barocco tedesco e nell’opera sui passages si diano al lettore delle esemplificazioni della teoria goethiana sull’Urphänomen. 12
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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immagini goethianamente originarie – ma non archetipiche in senso junghiano – di immagini dunque in cui antico e nuovo si compenetrino «in stato di quiete». L’archetipo di tali immagini è il passage, «immagine dialettica dell’immagine dialettica». Nell’immagine convergono tre aspetti che fino alla formulazione benjaminiana contenuta nel frammento citato13 avevamo trovato separati: la compresenza in una tensione dialettica di vicinanza e lontananza (Nähe und Ferne), l’unità totalizzante della monade e il coesistere di movimento e immobilità (Dialektik im Stillstand)14. L’unione di tali aspetti rende l’immagine «dialettica»; il suo carattere fondamentale è la storicità. Quest’ultima non è data tuttavia da «presente» e «passato», posti tra loro in una relazione «puramente temporale, continua», bensì dal rapporto tra «ciò che è stato» e «l’ora». Esso non si offre nel continuum del decorso storico, il suo oggetto non è cioè portato dal fluire del tempo, ma è coglibile solo a salti e deve venir costruito in immagini «balenanti» (aufblitzende)15, simili a quelle dei sogni, che come flash emergono all’improvviso al risveglio e poi si dileguano. Le immagini dialettiche sono legate a un concreto e determinato intervallo temporale: La vera immagine del passato passa solo di sfuggita. Solo nell’immagine, che balena una volta per tutte nell’attimo della sua conoscibilità, si lascia fissare il passato16.
La strutturale ambiguità (Zweideutigkeit) che le caratterizza non si configura come assenza di determinazione o di determinabilità, ma è data dalla coesistenza dei poli dialettici, che non vengono superati nella sintesi (Aufhebung), ma si trovano a coesistere nell’immobilità. Benjamin sviluppa un concetto di dialettica, che rompe con la dialettica hegeliana, poiché non si concretizza nello sviluppo, ma nella quiete. Secondo il modello benjaminia13
Cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 2a, 3], p.
516. 14
Cfr. D. Thierkopf, Nähe und Ferne. Kommentare zu Walter Benjamins Denkverfahren, «Text + Kritik», 31-32 (1979), p. 16. 15 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 9, 7], p. 531. 16 Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, cit., p. 77.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
no la realtà è costituita da estremi, la cui tensione non pretende di essere superata sinteticamente. Non è dunque il movimento a costituire il motore della dialettica benjaminiana, ma il coesistere degli estremi in stato di quiete (Dialektik im Stillstand). Questo non significa tuttavia che venga conservata la conciliazione hegeliana, quanto invece che gli estremi si trovino in una tensione che non si estingue. L’immagine dialettica inaugura un metodo di interruzione, che immobilizza il corso degli eventi e fissa gli istanti in costellazioni di immagini, in cui la dimensione temporale è costituita da una coesistenza di «ciò che è stato» (Gewesene) e «ora» (Jetzt). Al pensiero appartiene tanto il movimento quanto l’arresto dei pensieri. Là dove il pensiero si arresta in una costellazione satura di tensioni, appare l’immagine dialettica. Essa è la cesura nel movimento del pensiero. Naturalmente il suo non è un luogo qualsiasi. In breve, essa va cercata là dove la tensione tra gli opposti dialettici è al massimo17.
Si impone dunque un concetto di «presente», di una Jetztzeit in cui «la catastrofe del tempo può essere trattenuta nella fluttuante immobilità dell’istante»18. L’attimo della conoscibilità è una sorta di cesura nel pensiero, dove immagine del passato e coscienza del presente si trovano in equilibrio. Benjamin non è interessato al passato che appartiene alla linearità del fluire storico proprio della visione storicistica; l’immagine del «già stato» non è un passato irrevocabile, essa può essere ridestata nel presente dalla conoscenza storica, che costruisce delle cesure nel continuum temporale omogeneo. La storia è dunque intesa come una sequenza discontinua di immagini dialettiche, in cui si cristallizzano frammenti di tempo. L’indice storico delle immagini dice, infatti, non solo che esse appartengono a un’epoca determinata, ma soprattutto che esse giungono a leggibilità solo in un’epoca determinata. E precisamente questo giungere a leggibilità è un determinato punto critico del loro intimo movimento. Ogni presente è determinato da quelle immagini che gli sono sincrone: ogni 17
Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 10a, 3], p. 534. F. Desideri, Apocalissi profana: figure della verità in Walter Benjamin, in Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 334. 18
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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adesso è l’adesso di una determinata conoscibilità. In questo adesso la verità è carica di tempo fino a frantumarsi. (E questo frantumarsi, e nient’altro, è la morte dell’intentio, che quindi coincide con la nascita dell’autentico tempo storico, il tempo della verità).
Il frammento prosegue con un’affermazione che apparentemente non sembra aggiungere nulla rispetto a quanto già sappiamo, tuttavia in essa intervengono delle precisazioni decisive sul concetto di Lesbarkeit (leggibilità): Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica nell’immobilità. Poiché mentre la relazione del presente con il passato è puramente temporale, quella tra ciò che è stato e l’adesso è dialettica: non di natura temporale, ma immaginale. Solo le immagini dialettiche sono immagini autenticamente storiche, cioè non arcaiche. L’immagine letta, vale a dire l’immagine nell’adesso della leggibilità, porta in sommo grado l’impronta di questo momento critico e pericoloso che sta alla base di ogni lettura19.
1.3 Jetzt der Lesbarkeit e Jetzt der Erkennbarkeit Le immagini sono portatrici di un indice storico, che segnala non solo che esse si sono formate in un’epoca determinata, ma anche che giungono a leggibilità soltanto in un preciso momento. La nozione di Lesbarkeit deve essere compresa come un momento intrinseco della stessa immagine. Non si tratta di ridurre l’immagine in senso neo-positivista a ciò a cui si riferisce, ai temi che raffigura, a concetti, a schemi. La leggibilità costituisce un momento della dialettica: l’immagine dialettica produce essa stessa una lettura critica del suo presente, facendo confluire quest’ultimo in una tensione irrisolvibile con il passato a cui si riferisce e facendolo entrare con esso in una connessione decisiva. Tale passato non è semplicemente la fonte da cui il presente si produce e prende forma, e nemmeno il presente serve a illumina19
Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 3, 1], p. 518.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
re tale passato. La loro relazione non è infatti di natura puramente temporale, non si tratta di una connessione tra presente e passato, ma di un nesso di natura immaginale (bildlich) tra le figure dell’«adesso» e di «ciò che è stato». Si tratta di immagini che nel loro scontrarsi producono un effetto di choc, portatore di un nucleo esplosivo che rischia di restare non-letto. Riferendosi ad una corrente di pensiero del primo Novecento, di cui si fanno interpreti in modi assai diversi W. Benjamin, A. Warburg, L. Klages e H. Focillon, Giorgio Agamben20 sottolinea con grande acume che le immagini sono vive. Tuttavia, poiché la materia di cui sono fatte è il tempo, esse sono in continua trasformazione e la loro vita è continuamente minacciata dal loro divenire forme spettrali. Liberare le immagini dal loro destino spettrale ed evidenziarne piuttosto il potenziale cinetico è il compito che Benjamin affida alla propria ricerca sui passages. Esso è presente in potenza nelle immagini nella forma di un Nach-leben, di una vita postuma, una forma di vita «speciale e diminuita». Il compito del soggetto storico è quello di riattivare tale potenziale e di restituire le immagini alla loro forma originaria. In questo modo le immagini trasmesse dalle generazioni successive si rimettono in movimento e con esse il passato. Le immagini hanno dunque una vita puramente storica, ma per essere propriamente vive hanno bisogno di un soggetto che le assuma e si faccia assumere da esse21. Il rischio per le immagini di non venire afferrate è altrettanto mortale di quello per l’uomo di divenire prigioniero del loro cristallizzarsi in spettri. Tuttavia egli non può sottrarsi alle immagini, poiché è nell’immaginazione che si produce la frattura fra individuale e collettività e con essa la sua ricomposizione. «È nell’immaginazione che qualcosa come una storia è diventata possibile»22. Affinché la connessione figurale possa essere decifrata è necessario far entrare la lingua nel tempo dell’immagine. Benjamin afferma che il luogo in cui si incontrano le immagini dialettiche è il linguaggio23. Questo problema è descritto esso stesso in termini metaforici come un problema di scultura, di bassorilievo, di 20
Cfr. Agamben, Ninfe, cit., pp. 22 sgg. Cfr. ibid., pp. 54 sgg. 22 Ibid., p. 57. 23 Cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 2a, 3], p. 516. 21
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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supporto materiale che serve all’artista nel Denkbild che porta il titolo San Gimignano: Trovare parole per ciò che si ha dinnanzi agli occhi: quanto può essere difficile. Ma quando esse arrivano, allora è come se battessero con dei piccoli colpi di martello contro la superficie del reale, sino a sbalzarne, come da una lastra di rame, l’immagine24.
A caratterizzare la ricerca teorica di Benjamin è il ricorso a parole in grado di prolungare e intensificare la dialettica dell’immagine. Si tratta di una scrittura essa stessa figurativa (bildlich), portatrice e produttrice di immagini e di storia. Il compito dello storico-filosofo sarà proprio quello di lavorare intensamente sulle parole e sul loro potere di originalità, che implica il loro essere originarie e allo stesso tempo portatrici di novità. Nell’idea dell’eterno ritorno […] la tradizione acquista così il carattere di una fantasmagoria in cui la storia originaria entra in scena con la più moderna delle acconciature25.
La forma per eccellenza per produrre immagini dialettiche come strumento conoscitivo è la forma allegorica. Non è un caso se la prima pubblicazione che contiene il concetto di immagine dialettica è di Adorno, che, nella sua dissertazione per la libera docenza su Kierkegaard, istituisce una connessione decisiva tra la Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco, il capitolo sull’allegoria e il concetto di immagine dialettica, sostenendo che quest’ultimo vede le sue radici nel Trauerspiel: […] La natura si afferma nella dialettica non come una natura sempre viva e presente. La dialettica si arresta nell’immagine ed evoca nell’immediato presente storico il mitico, in quanto è il passato più lontano: la natura in quanto storia originaria. Perciò le immagini che, come quella dell’intérieur, portano dialettica e mito all’indifferenza, sono veramente «fossili antidiluviani». Esse possono chiamarsi dialettiche usando un’espressione di Benjamin, la cui calzante definizione dell’allegoria vale anche per l’intento allegorico di Kierkegaard in quanto figurazione di dialettica storica e natura mitica. Secondo tale definizione «nell’allegoria si presenta din24 25
Benjamin, San Gimignano, in Ombre corte, cit., p. 424. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [D 8a, 2], p. 125.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
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nanzi agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come irrigidito paesaggio primordiale»26.
Anche se Adorno estremizza la connessione tra immagine dialettica e allegoria, sembra possibile individuare una comunanza tra questi due concetti, che potrebbe essere esplicitata dal fatto che l’immagine dialettica è la trasposizione dell’allegoria in ambito di filosofia della storia. Benjamin stesso istituisce in più luoghi questo paragone. Immagine dialettica e allegoria costituiscono degli antidoti contro il mito e in particolare contro la sua pretesa di formare una totalità. Esse oscillano tra gli estremi e nel fare questo vogliono confermare il fatto che la modernità non si offre al soggetto come totalità, ma come insieme di frammenti, percepiti in una successione discontinua di chocs. In questo senso, per definire il proprio metodo filosofico, l’autore ricorre nel Dramma barocco tedesco alla metafora del mosaico: Come nei mosaici la capricciosa varietà delle singole tessere non lede la maestà dell’insieme, così la considerazione filosofica non teme il frammentarsi dello slancio. Entrambi si compongono di elementi disparati, nulla potrebbe trasmettere con più efficacia lo splendore trascendente dell’icona, o della verità. Il valore dei singoli frammenti di pensiero è tanto più decisivo quanto meno immediato il loro rapporto con l’insieme, e il fulgore della rappresentazione dipende dal valore di quei frammenti come lo splendore del mosaico dipende dalla qualità del vetro fuso27.
e nel Passagen-Werk alla metafora del montaggio: Metodo di questo lavoro: montaggio letterario. Non ho nulla da dire. Solo da mostrare. Non sottrarrò nulla di prezioso e non mi approprierò di alcuna espressione ingegnosa. Stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli28.
Il percorso che caratterizza allegoria e immagine dialettica si muove alla ricerca di connessioni e corrispondenze invisibili tra 26 La citazione di Adorno – proveniente da T.W. Adorno, Kierkegaard, Tübingen 1933, p. 60 – è riportata da Benjamin in: Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 2, 7], pp. 515 sgg. 27 Benjamin, Il Dramma barocco tedesco, in Opere complete II, cit., p. 70. 28 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 1a, 8], p. 514.
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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i frammenti, per scoprire «nell’analisi del piccolo momento singolo il cristallo dell’accadere totale»29. Il fatto che l’immagine dialettica abiti gli estremi e alla conciliazione di tipo hegeliano preferisca il permanere di una tensione dialettica modifica naturalmente anche la concezione benjaminiana di sviluppo (Entwicklung), costituendo così uno strumento euristico per la filosofia della storia, di cui l’autore aveva disegnato i tratti già nello scritto giovanile Das Leben der Studenten (1914), in cui tale tema era messo in relazione ad una radicale critica all’idea borghese di progresso (Fortschritt). Il concetto di storia non si sviluppa in questa sede come costruzione di eventi che si succedono cronologicamente e che sono caratterizzati da un modello di evoluzione lineare. Al posto della ricostruzione di uno sviluppo, postulato dallo storicismo, entra in campo l’analisi di strutture nelle quali il flusso dell’accadere si cristallizza in immagini, che mirano ad essere decifrate. Esse hanno una struttura monadologica, dovuta al fatto che sono presenti due diversi orizzonti temporali. Esse vivono cioè in un differenziale temporale (Zeitdifferential). Questo determina una visione della storia intesa come «telescopage del passato attraverso il presente»30 e comporta secondo Benjamin una «svolta copernicana» nella visione storica: La svolta copernicana nella visione storica è la seguente: si considerava «ciò che è stato» come un punto fisso e si assegnava al presente lo sforzo di avvicinare a tentoni la conoscenza a questo punto fermo. Ora questo rapporto deve capovolgersi e il passato deve diventare il rovesciamento dialettico, l’irruzione improvvisa della coscienza risvegliata31.
Ciò significa che «è il presente che polarizza l’accadere in pree post-storia»32 e cioè che il presente determina nell’oggetto del passato, per afferrarne il nocciolo, il punto in cui si scindono la sua pre- e post-storia33.
29
Ibid., [N 2, 6], p. 515. Ibid., [N 7a, 3], p. 527. 31 Ibid., [K 1, 2], pp. 432 sgg. 32 Ibid., [N 7a, 8], p. 528. 33 Ibid., [N 11, 5], p. 535. 30
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
A questo si unisce il concetto dell’«ora della conoscibilità» (Jetzt der Erkennbarkeit), a cui Benjamin ricorre per chiarire come alle immagini dialettiche si leghi un indice storico, che permette loro di poter venire afferrate solo in un determinato istante con la forza distruttiva di un fulmine, che porta alla rottura e all’arresto del decorso storico e al suo cristallizzarsi in una costellazione, cioè in un’immagine monadologica.
1.4 Leggere i segni nascosti La pericolosità della lettura, a cui accenna Benjamin, sta nel fatto che l’ora della conoscibilità, e dunque della leggibilità, proprio perché legato a un determinato e preciso istante dopo il quale svanisce improvvisamente, può essere facilmente perduto. L’immagine può non venire afferrata, non venire conosciuta e restare dunque non-letta. La dimensione dell’immagine dialettica si lega non tanto a quella della visione; essa ha un carattere di scrittura, è in primo luogo uno Schriftbild e un Denkbild, un’immagine di pensiero, che mira ad essere vista nel senso letterale ed etimologico che il termine «vedere» assume nella tradizione culturale occidentale, «vedere con l’intelletto» e dunque «comprendere». L’immagine dialettica vuole dunque essere conosciuta, cioè letta. Ed è solo in questo senso che la lettura costituisce una forma di percezione. Come ricorda Scholem nel bel libro Walter Benjamin. Die Geschichte einer Freundschaft, si tratta di una lettura (lesen) nell’accezione originaria che caratterizza questo termine, cioè decifrare segni nascosti, herauslesen, «lesen in Konfigurationen der Flaeche»34. In questo senso entra in campo anche un’altra forma di percezione, l’immaginazione, in cui l’atto del vedere si mescola all’inconscio. L’immagine dialettica è dunque un’immagine interna, espressione di corrispondenze immateriali (unsinnliche Ähnlichkeiten)35. 34 G. Scholem, Walter Benjamin. Die Geschichte einer Freundschaft, Frankfurt a.M. 1976, p. 79. 35 Su questi temi cfr. S. Bernofsky, Lesenlernen bei Walter Benjamin, in C.L. Hart Nibbrig, Übersetzen: Walter Benjamin, Frankfurt a.M. 2001, pp. 268-279; D. Finkelde, Benjamin liest Proust. Mimesislehre – Sprachtheorie – Poetologie, München
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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Nel saggio Sulla facoltà mimetica del 193336 Benjamin distingue tra due forme di lettura: la prima è quella dello scolaro che legge l’abbecedario (lesen), la seconda quella dell’astrologo che legge dapprima la posizione degli astri, per carpire successivamente il futuro o il destino (herauslesen). Ciò che egli legge sulla posizione degli astri deve essere interpretato e dunque in un certo senso tradotto in una lingua comprensibile per l’uomo, una lingua che gli parli del proprio futuro. Herauslesen equivale dunque all’atto del tradurre (übersetzen). L’atto di leggere, come quello di tradurre, è una declinazione della facoltà mimetica. La lettura delle stelle, delle danze, delle viscere e delle coincidenze è la lettura più antica, anteriore a ogni lingua, una forma di lettura alla ricerca di corrispondenze magiche tra le cose. «Was nie geschrieben wurde, lesen», leggere ciò che non è mai stato scritto. Questa citazione proveniente dal testo di von Hofmannsthal Der Tor und der Tod, compare nelle ultime righe del saggio Sulla facoltà mimetica come motto, come slogan della teoria benjaminiana della lettura. La «lettura più antica» è dunque per Benjamin non tanto una lettura di segni scritti, ma la capacità di comprendere e interpretare le costellazioni. Dalla posizione degli astri, dai gesti e dai movimenti delle danze emergono le basi per le altre facoltà dell’uomo. La citazione di von Hofmannsthal verrà da Benjamin riproposta in alcuni testi successivi, il Passagen-Werk e le tesi Über den Begriff der Geschichte. Nel Passagen-Werk essa introduce il capitolo sul flâneur37, indicando il proprio della sua facoltà percettiva. 2003; G. Gebauer, C. Wulf (a cura di), Mimesis. Kultur – Kunst – Gesellschaft, Hamburg 1998; B. Kleiner, Sprache und Entfremdung. Die Proust Übersetzungen Walter Benjamins innerhalb seiner Sprach- und Übersetzungstheorie, Bonn 1980; W. Menninghaus, Walter Benjamins Theorie der Sprachmagie, Frankfurt a.M. 1995; M. Opitz, Ähnlichkeit, in Opitz, Wizisla (a cura di), Benjamins Begriffe, cit., pp. 15-49; Weigel, Entstellte Ähnlichkeit, cit.; S. Weigel, Die Lektüre, die an die Stelle der Übersetzung tritt. Benjamin psychoanalytische Reformulierung seiner Theorie der Sprachmagie, in Hart Nibbrig (a cura di), Übersetzen, cit., pp. 236-252. 36 Di tale saggio esistono due varianti, contenute nel secondo volume delle Gesammelte Schriften benjaminiane, intitolate Lehre vom Ähnlichen e Über das mimetische Vermögen. La traduzione italiana (Dottrina della similitudine, Sulla facoltà mimetica) si trova in: Benjamin, Opere complete V, cit. 37 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 465.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Quell’ebbrezza anamnestica, in preda alla quale il flâneur gira per la città, non si nutre solo di ciò che colpisce i suoi sensi, ma si impossessa spesso del semplice sapere, anzi di dati morti come di un che di esperito e vissuto38.
Si tratta di quel «sapere sentito» (gefühltes Wissen), che fonda la teoria benjaminiana dell’esperienza. La facoltà percettiva che caratterizza il flâneur è dunque legata alla lettura magica. Sono somiglianze immateriali quelle che appaiono al flâneur nelle sue passeggiate attraverso la città. Esse diventano il motore della sua estetica, che lo porta a considerare lo spazio urbano come un testo scritto da leggere, da decifrare, proprio come le stelle per l’astrologo39. Entrambi sono alla ricerca di un senso che colleghi il passato, più o meno remoto, alla loro osservazione presente. Nei lavori preparatori alle tesi Sul concetto di storia, nell’appunto Das dialektische Bild, viene citata nuovamente la frase di von Hofmannsthal: Se si vuole considerare la storia come un testo, allora diventa valido ciò che uno degli autori più moderni dice dei testi letterari: ho deposto il passato nelle loro immagini, quelle che si possono confrontare, quelle che possono essere trattenute da una piastra fotosensibile. Solo il futuro ha a disposizione rivelatori, che sono abbastanza potenti da portare alla luce l’immagine con tutti i dettagli […]. Il metodo storico è un metodo filologico, che ha alla base il libro della vita. «Leggere ciò che non è mai stato scritto» si dice in Hofmannsthal. Il lettore a cui qui si deve pensare è il vero storico40.
Il «vero storico», il materialista storico non deve limitarsi ad una ricostruzione del corso dei processi storici, ma la sua attenzione per il passato deve farsi guidare dalla preoccupazione per il presente. Egli deve far entrare in una costellazione ciò che legge del 38
Ibid., [M 1, 5], p. 466. Sui temi della flânerie e della topografia cfr. tra gli altri: W. Bolle, Physiognomik der modernen Metropole. Geschichtsdarstellung bei Walter Benjamin, Köln 1994; G. Didi-Huberman, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, Milano 2004; D. Frisby, Frammenti di modernità. Simmel, Kracauer, Benjamin, Bologna 1992; V. Mele, Walter Benjamin e l’esperienza della metropoli. Per una lettura sociologica dei Passages di Parigi, Pisa 2002; P. Menzio, Orientarsi nella metropoli. Walter Benjamin e il compito dell’artista, Bergamo 2002; M. Ponzi, Walter Benjamin e il moderno, Roma 1993; P. Szondi, Walter Benjamin’s city portraits, in G. Smith (a cura di), On Walter Benjamin. Critical Essays and Recollections, Cambridge Mass. 1988, pp. 18-32. 40 GS I/3, 1238 (traduzione nostra). 39
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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passato con i fatti presenti, proprio come fa l’astrologo. Così come le «somiglianze immateriali», anche le immagini dialettiche, che nascono dalla costellazione del già stato con l’ora, vengono percepite in un istante, guizzano via, appaiono solo per un momento. Lo storico corre il rischio di non riuscire a percepirle, ed è proprio per questo che la sua attenzione (Aufmerksamkeit) deve essere massimamente desta. Egli deve inoltre sapersi porre costantemente all’ascolto, a una pura recettività inintenzionale, grazie alla quale egli salva (rettet) il «già stato» dal suo essere avvenuto di necessità e lo rende «immagine del poter essere altrimenti»41. Egli può «agire salvando» solo in un’epoca determinata: La salvezza, che in questo modo – e solo in questo modo – è compiuta, si lascia compiere solo in ciò che nell’attimo successivo è già irrimediabilmente perduto42.
Ma per poter salvare, lo storico deve intervenire con violenza, egli deve cioè saper «distruggere»43: «una presa ferma e apparentemente brutale fa parte della salvezza»44. L’ambito in cui egli opera è la lingua, poiché le immagini dialettiche, come le corrispondenze immateriali, vivono nella dimensione linguistica. Per Benjamin il mondo è come un testo cifrato che deve essere commentato. In questo senso la conoscenza storica deve limitarsi alla forma del commento e il soggetto si trova in una posizione di subordine rispetto al materiale che deve ordinare. Lo storico deve dunque porsi all’ascolto e riuscire a leggere gli accadimenti come testi scritti in cui si annidano dei significati nascosti. «Il metodo storico è un metodo filologico»45, e si avvicina all’interpretazione dei testi sacri. Per questo deve farsi aiutare dalla teologia, che prende a modello. Il mio pensiero sta alla teologia come la carta assorbente all’inchiostro. Ne è completamente imbevuto. Se dipendesse, tuttavia, dalla carta assorbente, non resterebbe nulla di ciò che è scritto46. 41
Desideri, Apocalissi profana, in Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 336. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 9, 7], p. 531. 43 Cfr. ibid., [N 7, 6], p. 527. 44 Ibid., [N 9a, 3], p. 531. 45 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 84. 46 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, [N 7a, 7], p. 528. 42
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
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Il metodo di Benjamin non è tuttavia una semplice lettura interpretativa di testi, esso non riguarda testi scritti, ma costellazioni.
1.5 Storia come Traumdeutung Nella lettura dei fatti storici Benjamin pone l’attenzione non tanto sugli eventi epocali, quanto piuttosto sugli «scarti» (Abfälle), sugli «stracci» (Lumpen), su ciò che tende a sfuggire all’occhio distratto. Egli vuole avere accesso ad ambiti della storia trascurati e immergersi in quello stesso aquarium humain che era il passage de l’Opera per Luis Aragon. Egli si muove come un collezionista di stracci (Lumpensammler)47, che si fa catturare dalle cose. «Noi vediamo soltanto quello che ci guarda. Noi possiamo soltanto – ciò per cui non possiamo nulla»48. Il soggetto è subordinato ai materiali che raccoglie. Questo non si allontana molto dalla bella descrizione che Benjamin ci offre dell’esperienza dell’aura nel saggio Di alcuni motivi in Baudelaire: Avvertire l’aura di una cosa significa dotarla della capacità di guardare49.
Lo storico che si lascia venire incontro e guardare dagli accadimenti subisce insomma un’esperienza analoga a quella di chi si sente osservato anche da un oggetto inanimato50. All’interno dello stesso testo, che, secondo la pratica benjaminiana della citazione, deve adottare quest’ultima anche in ambito storico, l’autore procede nell’analisi, ricorrendo ad alcuni passi esemplificativi, che provengono da alcune opere di tre dei suoi autori prediletti: Proust, Valéry e Baudelaire. 47 Cfr. I. Wohlfarth, Et cetera? Der Historiker als Lumpensammler, in N. Bolz, B. Witte (a cura di), Passagen. Walter Benjamins Urgeschichte des 19. Jahrhunderts, München 1984, pp. 70-95; S. Buck-Morss, Der Flaneur, der Sandwichman und die Hure. Dialektische Bilder und die Politik des Müßiggangs, in N. Bolz, B. Witte (a cura di), Passagen, cit., pp. 96-113. 48 La citazione di Franz Hessel è contenuta in: W. Benjamin, Il ritorno del flâneur, in Ombre corte, cit., p. 472. 49 Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, cit., p. 124. 50 Su questa suggestiva immagine cfr. D. Kimmich, «Nur was uns anschaut sehen wir». Benjamin und die Welt der Dinge, in D. Schöttker (a cura di), Schrift Bilder Denken. Walter Benjamin und die Künste, Frankfurt a.M. 2004, pp. 156-166.
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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«Certi amanti del mistero [afferma Proust] vogliono credere che rimanga qualcosa, negli oggetti, degli sguardi che li hanno toccati». (E cioè la capacità di ricambiarli). […] Analoga […] è la descrizione di Valéry della percezione in sogno come auratica. «Quando dico: vedo questa cosa, non pongo un’equazione tra me stesso e la cosa… Nel sogno, invece, sussiste un’equazione. Le cose che vedo mi vedono come io le vedo»51. E prosegue citando Les Fleurs du Mal: L’homme y passe à travers des forêts de symboles Qui l’observent avec des regards familiers52.
La decifrazione degli accadimenti storici si lega così allo spazio dell’inconscio collettivo e diventa una sorta di freudiana interpretazione dei sogni, da cui la conoscenza storica deve risvegliare. In questo senso, nel tentare di definire la configurazione dell’immagine dialettica, l’autore berlinese si lascia influenzare dal Surrealismo53, e più in particolare dai motivi del sogno, dell’immagine, della scrittura per immagini e del culto degli oggetti. Tutte queste figure, già presenti in forma abbozzata nelle opere giovanili di Benjamin, riemergono con un’intensità maggiore intorno alla metà degli anni Venti, quando egli comincia a ripensare i fondamenti del suo pensiero, fino a confluire nell’Opera sui passages, in cui egli cercherà di trasporre le suggestioni surrealiste nell’ambito della filosofia della storia. Lo stesso Einbahnstraße costituisce un modello in miniatura del Passagen-Werk, in cui l’autore analizza per lo spazio privato quello che avrebbe dovuto essere esteso al collettivo e ad un’intera epoca. Ciò che affascina maggiormente Benjamin del Surrealismo è il riferimento da parte della letteratura alla politica. In questo l’avanguardia surrealista diviene per lui un modello dapprima soltanto estetico, e successivamente anche storico-filosofico e gnoseologico. Benjamin si fa condizionare dal Surrealismo nel primo progetto di stesura dei Passages, in cui, sulla scorta delle 51
Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, cit., p. 125. Ibid. 53 J. Fürknäs ha giustamente sottolineato, ancora negli anni Ottanta, l’importante influsso che il Surrealismo esercitò su Benjamin. Cfr. Fürknäs, Surrealismus als Erkenntnis, cit. 52
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
sue suggestioni, traspone il tema del sogno sul piano del sogno collettivo. Tali temi verranno tuttavia superati poiché per l’autore berlinese il Diciannovesimo secolo rappresenta un’epoca di sogno, che urge al risveglio. Ed è per questo che il fine e «il nuovo metodo, dialettico, della scienza storica [deve essere]: attraversare il già stato con l’intensità di un sogno, per esperire il presente come il mondo della veglia a cui il sogno si riferisce»54. Ciò si lega ad un’idea mistica di storia, che Benjamin manterrà salda fino alle tesi Sul concetto di storia, secondo cui ogni presente si collega a determinati momenti di ciò che lo precede, così come il passato diventa leggibile solo in una determinata epoca, «in cui l’umanità, stropicciandosi gli occhi, riconosce come tale proprio quest’immagine di sogno. È in quest’attimo che lo storico si assume il compito dell’interpretazione del sogno». Egli prende dunque le distanze dall’esperienza surrealista e lo esplicita in alcuni passaggi, già presenti nei Primi appunti, in cui propone una sorta di manifesto gnoseologico: Delimitazione della tendenza di questo lavoro rispetto ad Aragon: mentre Aragon persevera nella sfera del sogno, qui si vuole trovare la costellazione del risveglio. Mentre in Aragon permane un elemento impressionistico – la «mitologia» – […] qui si tratta, invece, di una dissoluzione della «mitologia» nello spazio della storia. Tuttavia questo può accadere solo risvegliando un sapere non ancora cosciente di ciò che è stato55.
Con questo lo storico si propone di attuare una «salvazione» del passato, ovvero di risvegliare la coscienza di un’epoca, il cui sapere non è ancora consapevole di ciò che è stato. Il Diciannovesimo secolo deve così essere riportato al presente ed è per questo che Benjamin cerca nel recente materiale storico eventi che gli ricordino il presente, così come nei sogni del passato rileva delle tracce capaci di 54
Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., , pp. 913 sgg. Ibid., , p. 922. Tale frammento è ripreso con una piccola variazione in [N 1, 9], pp. 511 sgg. La contrapposizione istituita da Benjamin sta ad indicare che egli riconosce al Surrealismo il merito di essere riuscito a decifrare il carattere arcaico della modernità, intesa come luogo del mito, rimanendo tuttavia intrappolato nelle stesse fantasmagorie che è stato in grado di mettere in luce. In altri termini Aragon è stato abile nel configurare la dimensione preistorica e arcaica del passato interpretato dai passages, ma non abbastanza per poter congedare l’immagine onirica di quello stesso passato. 55
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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profetizzare il futuro. In questo senso nel suo progetto sui passages egli non si muove soltanto alla lettura di ciò che è stato scritto, ma anche di ciò che è stato sognato e gli spazi urbani che caratterizzano il secolo Diciannovesimo vengono ad assumere un’importanza decisiva, poiché, come sfondo e scenografia di tali sogni, costituiscono il teatro storico in cui si concentra l’intera epoca.
1.6 La dialettica Traum-Erwachen Il concetto di Erwachen (risveglio) riveste un’importanza straordinaria nella configurazione del progetto storico-filosofico e del metodo storiografico scelti da Benjamin per il Passagen-Werk56. Nella lettera del 10 giugno 1935, che accompagna l’invio dell’Exposé ad Adorno egli chiede: Si ricorda forse se nelle opere di Freud o della sua scuola c’è una psicanalisi del risveglio? O studi relativi a tale tema?57
Nella famosa lettera di risposta di Adorno dell’agosto 1935, destinata a segnare alcuni rivolgimenti nella concezione benjaminiana del «lavoro sui passages» (Passagen-Arbeit), il filosofo francofortese afferma: Non conosco letteratura psicoanalitica sul risveglio, però mi guarderò attorno58.
La riflessione che porterà Benjamin ad individuare i caratteri fondamentali di quella che diverrà la dialettica Traum-Erwachen lo impegnerà per molti anni, attingendo a fonti di varia natura, tra le quali dapprima l’esperienza surrealista, successivamente la teoria psicanalitica di Freud, la teoria marxista del feticismo della merce e la nozione proustiana di mémoire involontaire59. 56 Cfr. B. Kleiner, L’éveil comme catégorie centrale de l’expérience historique dans le Passagen-Werk de Benjamin, in Wismann (a cura di), Walter Benjamin et Paris, cit., pp. 496-515. 57 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 1088. 58 Ibid., p. 1104. 59 Sull’influsso della Recherche proustiana nella formulazione del concetto di Erwa-
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Risveglio (Erwachen) è lo spazio occupato tra sogno (Traum) e veglia (Wachen). Questi ultimi non sono dati come antitetici, ma come necessarie modificazioni della percezione. È uno degli impliciti presupposti della psicoanalisi che la netta opposizione tra sonno e veglia non abbia alcuna validità per la forma di coscienza empirica dell’uomo, e si risolva piuttosto in un’infinita varietà di concreti stati di coscienza, condizionati dai più diversi gradi intermedi dell’essere sveglio di ogni possibile centro psichico. Questo stato della coscienza, suddivisa dalla veglia e dal sonno in una molteplicità di sezioni e di spicchi, va ora solo trasposto dall’individuo alla collettività. Va da sé che gran parte di ciò che per l’individuo è esterno appartiene per la collettività alla propria interiorità: le opere architettoniche, le mode, persino il tempo atmosferico, sono, all’interno della collettività, ciò che i processi organici, i sintomi della malattia o della salute, sono all’interno dell’individuo. Ed essi sono, finché mantengono la loro inconscia e indistinta forma di sogno, dei veri e propri processi naturali, esattamente come la digestione, la respirazione ecc. Sono collocati nel ciclo dell’eterna ripetizione, fino a quando la collettività se ne impadronisce nella politica e ne nasce la storia60.
Come ci sarà modo di chiarire in seguito, Benjamin inserisce il risveglio all’interno della propria concezione di storia, o meglio esso costituisce le fondamenta della sua concezione storiografica. Egli si sta chiedendo se e come sia concepibile storicamente un inizio, inteso come balzo rivoluzionario e non semplicemente sotto la forma a-dialettica della negazione di ciò che è stato. Il risveglio non è l’unico esempio di questa svolta dialettica, tuttavia, proprio nella sua essenza metaforica, può aiutare a comprendere meglio la fondamentale novità che l’autore auspica per la coscienza storica. Erwachen non significa la fine di uno stato di sonno e l’inizio di uno stato di veglia, ma piuttosto il prendere coscienza di ciò che si è sognato. Non vi è insomma alcuna contrapposizione dialettica tra sonno e veglia, superati da una superiore sintesi. Ancora una volta assistiamo al superamento della dialettica hegeliana, attraverso un modello dialettico che si concretizza in una tensione a cui non è dato di essere superata, ma che deve continuare a sussistere. chen cfr. M. Schuller, Bilder-Schriften zum Gedächtnis. Freud, Warburg, Benjamin. Eine Konstellation, «Internationale Zeitschrift für Philosophie», 1 (1993), pp. 73-95. 60 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [K 1, 5], p. 434.
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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Così come non esiste una veglia senza un sonno ricco di sogni da cui ci si deve svegliare, allo stesso modo il sogno altro non è che il rifiuto dello stato di veglia, che Benjamin, sulla scorta delle osservazioni freudiane, pone al centro della sua Traumdeutung. La veglia non deve dunque essere intesa come oblio del sogno, tanto meno come pura negatività o privazione: infatti l’oblio lascia le sue tracce nel lavoro notturno, che continua a tessere «dalla tela di Penelope del ricordo» la vita cosciente diurna. A questo punto la nozione di risveglio diventa la figura che rende possibili sonno e veglia, non perché ne sia la sintesi, ma perché è quella zona in cui viene presa coscienza di ciò che è stato sognato. Sulla soglia tra veglia che tenta di dissolvere il sogno e sogno che tenta di rifiutare l’evidenza della veglia, il risveglio è la perfetta corrispondenza dell’immagine dialettica, di cui costituisce l’ambiguità, quella Zweideutigkeit che fa essere la dialettica benjaminiana «dialettica in stato di quiete» (Dialektik im Stillstand). La dialetticità consiste nella coesistenza della critica del mito e del suo superamento61. Il risveglio non è un punto di separazione con il mondo del sogno e con il passato. Esso è piuttosto il riscatto dal mondo del sogno; indica un luogo di passaggio, in cui il presente si costruisce attingendo al materiale del ricordo. Il prendere coscienza di ciò che è stato sognato si realizza attraverso una successione di immagini di sogno (Traumbilder), dato che il sognatore non fa altro che «vedere» immagini. Queste ultime non sono tuttavia viste attraverso gli occhi. Esse ci appaiono nel momento del risveglio e cioè con uno sfasamento temporale, che non ci permette di vederle in senso letterale, ma ci porta a farne spazio di esperienza, oggetto di racconto e luogo di interpretazione. In un certo senso alle immagini di sogno appartiene un’(in)conscia fine del sogno stesso, la cesura tra sogno e veglia, il momento del risve61 La stessa cosa è detta a proposito della conoscenza storica: «Una conoscenza storica della verità è possibile solo come superamento dell’apparenza; tale superamento, però, non deve significare volatilizzazione, attualizzazione dell’oggetto, ma deve assumere a sua volta la configurazione di un’immagine rapida. L’immagine rapida, piccola, in contrapposizione alla flemma della scienza. Questa configurazione di un’immagine rapida coincide con l’agnizione dell’“adesso” nelle cose. Ma non futuro. […] L’apparenza che viene qui superata è che il prima sia nell’adesso. In verità l’ora è l’immagine più intima di ciò che è già stato». Ibid., , p. 947.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
glio. Ed è questa la dimora delle immagini dialettiche, immagini originarie che non presuppongono un modello di cui essere copia. Anche le immagini di sogno non sono la riproduzione di altre immagini più originarie, poiché né il sogno riproduce immagini della vita diurna, né la sopravvivenza delle immagini al risveglio è una riproduzione delle immagini di sogno. Le immagini del sogno sono prodotte dall’elisione dell’atto del vedere. Il loro statuto paradossale si manifesta non solo come un vedere senza occhi, ma attraverso lo sguardo di qualcun altro, esterno a chi sogna. Questo si realizza a due diversi livelli: nel sogno – quando molto spesso ci accade di assistere a degli atti che ci riguardano, senza essere soggetto delle nostre azioni, ma vedendole appunto con lo sguardo di un altro – e nel risveglio, quando rivediamo attraverso il ricordo, e dunque arricchendo o tagliando particolari al sogno. Quando sogniamo operiamo degli stacchi di montaggio, che producono un racconto fatto di una successione discontinua di immagini istantanee, apparentemente discostantisi dall’atto della visione desta, ma che in realtà procedono in modo assai simile alla produzione del pensiero nel nostro cervello. Essa si realizza in modo discontinuo, operando delle cesure, che corrispondono agli chocs che subisce la nostra percezione. Le immagini di sogno che appaiono al risveglio sono accomunate a quelle della mémoire involontaire: entrambe si presentano improvvisamente senza essere state chiamate. In un «piccolo discorso su Proust» (kleine Rede über Proust), pronunciato da Benjamin in occasione del suo quarantesimo compleanno, egli istituisce tale paragone: Sulla nozione di mémoire involontaire: non solo le sue immagini giungono inattese: piuttosto in essa si tratta di immagini che non avevamo mai visto prima che ci ricordassimo di loro. Ciò è tanto più evidente in quelle immagini nelle quali – proprio come in taluni sogni – possiamo vedere noi stessi. Stiamo davanti a noi come eravamo un tempo in un lontanissimo passato da qualche parte, senza che però ci vedessimo. E quelle che riusciamo a vedere sono proprio le immagini più importanti – quelle sviluppate nella camera oscura dell’attimo vissuto. Si potrebbe dire che ai nostri istanti più profondi è stata unita una piccola immagine, una foto di noi stessi, come nei pacchetti di sigarette. E quella vita la cui immagine scorrerebbe, come si sente dire, dinnanzi a chi muore o a chi versa in perico-
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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lo, si compone proprio di queste piccole immagini. Esse scorrono in rapida sequenza come quei quaderni – precursori del cinematografo – sui quali da bambini potevamo ammirare un boxeur, un nuotatore e un tennista nell’esercizio delle loro arti62.
Erwachen è per Benjamin un sinonimo di Erinnerung63. Esso non indica infatti la fine di un processo (Traum), né l’inizio di un’altra attività (Wachen), ma l’istante in cui viene presa coscienza di ciò che fino a quel momento si è sognato e cioè l’atto del rammemorare: solo nel ricordo improvviso il già stato si configura come tale. Risveglio è il concetto di un presente, che viene prodotto attraverso il passato, così come viceversa il passato si concretizza nel presente attraverso il ricordo64. Nella teoria del risveglio Benjamin introduce il concetto di «schematismo dialettico», in base al quale il risveglio-ricordo rappresenta l’unico punto di conversione possibile tra sogno e veglia65. In questo senso si rivela assai chiaro il riferimento alla Recherche di Proust, di cui Benjamin descrive in modo assai sottile le prime pagine: Similmente in Proust è importante come tutta la vita sia in gioco nel punto di rottura – dialettico in modo supremo – della vita rappresentato dal risveglio. Proust comincia con un’esposizione dello spazio di chi si sveglia66. 62
W. Benjamin, Carte su Proust, in Ombre corte, cit., p. 390. «[…] Il risveglio rappresenta il caso esemplare del ricordare: il caso in cui riusciamo a ricordarci di ciò che è più prossimo, più banale, più a portata di mano. Ciò a cui Proust allude con l’esperimento della dislocazione dei mobili nel dormiveglia mattutino, ciò che Bloch definisce l’oscurità dell’attimo vissuto, non è nulla di diverso da ciò che qui va assicurato sul piano della storicità, e collettivamente. C’è un sapere nonancora-cosciente di ciò che è stato, la cui estrazione alla superficie ha la struttura del risveglio». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [K 1, 2], p. 433. 64 Cfr. H. Weidmann, Erwachen/ Traum, in Opitz, Wizisla (a cura di), Benjamins Begriffe, cit., pp. 342-343. 65 «Struttura dialettica del risveglio: ricordo e risveglio sono strettamente affini. Il risveglio è cioè la svolta copernicana e dialettica della rammemorazione. È un capovolgimento dialettico straordinariamente composito dal mondo del sognatore al mondo dei desti. Per lo schematismo dialettico che è alla base di questo processo fisiologico i cinesi hanno trovato nelle loro favole e novelle l’espressione più radicale. Il nuovo metodo della scienza storica insegna a esperire il passato nello spirito e con la rapidità e l’intensità del sogno, per esperire il presente come mondo della veglia, a cui in ultima analisi ogni sogno si riferisce». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 972. 66 Ibid., [N 3a, 3], p. 519. La Recherche si apre infatti con queste parole: «Je n’avais pas le temps de me dire: “Je m’endors”. Et, une demi-heure après, la pensée 63
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
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1.7 Mémoire involontaire e Dialektisches Bild Il confronto con l’opera di Proust inizia per Benjamin nel 1926 con l’avvio della traduzione in tedesco dei primi tre libri della Recherche insieme all’amico Franz Hessel. Nel 1929 egli annuncia a Max Rychner, redattore del Neue Schweizer Rundschau, l’invio di uno scritto teorico sull’opera dello scrittore francese. Inoltre in un articolo dal titolo Paris, die Stadt im Spiegel (Parigi, la città allo specchio) fa riferimento a «quell’infinito ricordo del ricordo nel quale la penna di Marcel Proust ha trasformato la propria vita»67. In quello stesso anno inizia infatti il serrato confronto teorico con l’autore francese, che vede il suo nucleo propulsore nel saggio Zum Bilde Prousts e sarà destinato ad attraversare tutta la produzione successiva. Riferendosi al concetto di mémoire involontaire, Benjamin vuole portare alla luce un’idea di temporalità assai vicina alla nozione centrale nella strutturazione del tempo storico, la Jetztzeit. Cominciando la sua narrazione autobiografica con il tema del risveglio, Proust diventa per Benjamin un «custode della soglia». Alla ricerca di un tempo che si distacca dalla continuità del tempo diurno e rappresenta un’esperienza che non è mai stata vissuta consapevolmente, l’autore francese disvela il «rovescio» di tale continuum e si insinua in quel «caldo panno grigio, rivestito all’interno di una fodera di seta dai più smaglianti colori», che ci avvolge quando sogniamo68. Il tempo proustiano della memoria mira cioè ad osservare la realtà dal suo lato nascosto, nel rovescio del «tappeto dell’esistenza vissuta, quale l’ha tessuto in noi l’oblio»69. La parte più cospicua degli eventi narrati non riguarda ciò che Proust ha vissuto, quanto piuttosto il lavoro svolto dalla memoria e dall’oblio. La «memoria involontaria» di Proust non è forse assai più vicina all’oblio che a ciò che si chiama comunemente ricordo? E quest’opera della qu’il était temps de chercher le sommeil m’éveillait». Cfr. M. Proust, À la recherche du temps perdu, Paris 1970, p. 3. 67 Benjamin, Parigi, la città allo specchio, in Ombre corte, cit., p. 252. 68 Cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [D 2a, 1], p. 113. 69 W. Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 28.
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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memoria spontanea, in cui il ricordo è la trama e l’oblio l’ordito, non è forse il contrario dell’opera di Penelope, piuttosto che la sua copia? Poiché qui il giorno disfà ciò che aveva fatto la notte. Ogni mattino, quando ci svegliamo, teniamo in mano per lo più debolmente, solo per qualche frangia il tappeto dell’esistenza vissuta, quale l’ha tessuto in noi l’oblio. Ma ogni giorno disfà il tessuto, gli ornamenti dell’oblio con l’agire pratico, e, ancor più, con il ricordare legato alla prassi. È per questo che Proust alla fine ha trasformato i suoi giorni in notti, per dedicare tutte le sue ore all’opera, indisturbato, nella stanza buia, alla luce artificiale, per non lasciarsi sfuggire nessuno degli intricati arabeschi70.
Proust conduce il lettore attraverso «porte inappariscenti» nel mondo onirico, facendogli credere «di essere egli stesso il soggetto di quella fantasia». La soglia tra mondo della veglia e mondo del sogno, rappresentata dalla sua scrittura, mostra ancora una volta la sua imperscrutabile potenza. Nel mondo del sogno, «in cui ciò che accade non si presenta mai come identico, ma simile», lo scrittore francese scopre quel «culto dell’analogia», il cui emblema è, secondo Benjamin, la figura della calza, che, quando è arrotolata nel cassetto, è allo stesso tempo «borsa e contenuto». L’immagine del calzino, assai cara a Benjamin, ritorna nelle pagine di Berliner Kindheit um neunzehnhundert (Infanzia berlinese intorno al millenovecento), dove l’autore narra di quando da bambino amava insinuare la mano nei cassetti del comò e giocare con i calzini arrotolati per verificare la magia dell’identificazione di «borsa» e «contenuto». Dovevo farmi strada fin nell’angolo più riposto; allora incontravo i miei calzini, che se ne stavano l’uno accanto all’altro arrotolati e rincalzati come si usava un tempo, sicché ogni paio aveva le sembianze di una piccola borsa. Nessun piacere era più grande dell’immergere la mano quanto più a fondo possibile nel suo interno. E non solo per il tepore della lana. Era il «regalo» che avevo sempre in mano in quell’interno arrotolato, e che mi attirava verso il fondo. Quando lo tenevo ben saldo in pugno ed ero certo del possesso della tenera massa lanosa, aveva inizio la seconda fase del gioco, che portava alla stupefacente rivelazione. Ora infatti mi accingevo ad estrarre il «regalo» dalla sua borsa lanosa. Lo tiravo sempre di più verso di me, sino a quando lo sconcerto era colmo: il «regalo» era liberato completamente dalla sua borsa, ma questa non esisteva più. Ripe70
Ibid.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
tevo di continuo la dimostrazione di un’inquietante verità: che forma e contenuto, custodia e custodito, il «regalo» e la borsa erano un’unica cosa. Un’unica cosa – e precisamente una terza: quella calza in cui ambedue si erano trasformati71.
Il calzino arrotolato non contiene nulla oltre a sé. L’immagine dello srotolamento potrebbe essere letta come allegoria del processo di lettura o di scrittura, forme di conoscenza in cui, secondo Benjamin, si verifica l’identificazione di forma e contenuto. Riferendo la stessa immagine a Proust, Benjamin afferma che l’autore francese «non si stancava di afferrare il tranello, l’Io, per svuotarlo e ritrovare sempre di nuovo quella terza cosa, l’immagine, che placava la sua curiosità, anzi la nostalgia. […] Nostalgia per il mondo stravolto nell’analogia, in cui si afferma il vero volto surrealistico dell’esistenza»72. Allo stesso modo in cui il bambino si immerge alla ricerca di quella terza cosa contenuta nella calza, Proust cerca nelle immagini del ricordo la possibilità di custodirle, riproducendole nel presente attraverso la sua scrittura. Benjamin ha individuato nella figura del calzino l’immagine della concezione proustiana di scrittura poetica. La Recherche è la ripetizione di un presente che non è dato se non attraverso il ricordo e dunque come posteriore, successivo, come citazione di ciò che è stato vissuto. Il processo dello scrivere garantisce in questo modo la sopravvivenza di quel mondo di corrispondenze e analogie che popolano la prosa di Proust. Non a caso il testo citato costituisce una delle fonti della teoria benjaminiana sulla mimesis, che assumerà la sua forma più compiuta nel saggio Über das mimetische Vermögen (1933), dove egli sottolinea come nella lingua sussista una Verspannung (tensione) tra aspetto semiotico e aspetto magico-mimetico. Questa stessa tensione era stata messa in luce dapprima nel saggio Über Sprache überhaupt und über die Sprache des Menschen (1916) nei termini della distinzione tra contenuto verbale e essere spirituale, e successivamente nel saggio Die Aufgabe des Übersetzers (1921), in cui era a tema la separazione tra 71
Benjamin, Infanzia berlinese intorno al millenovecento. Ultima redazione (1938), cit., p. 79. La citazione non appartiene tuttavia all’ultima redazione, ma proviene dal brano «Armadi» contenuto nella sezione Frammenti da altre redazioni. 72 Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Avanguardia e rivoluzione, cit., pp. 30 sgg.
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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comunicazione e ciò che sta oltre la comunicazione. La lingua comunica (mitteilt) qualcosa, ma non si esaurisce in ciò che comunica. Vi è qualcosa di più decisivo, che rimane tuttavia nascosto: si tratta dello spazio in cui possono apparire le «somiglianze immateriali» (unsinnliche Ähnlichkeiten). Esso non opera nei termini di comunicazione e testimonianza, ma è inafferrabile (unfassbar), misterioso (geheimnisvoll) e poetico (dichterisch)73. La forza della lingua proustiana risiede, secondo Benjamin, nell’emergere del suo lato magico-mimetico, della sua im-mediatezza (Un-mittelbarkeit). Nella lingua poetica delle corrispondenze riesce ad attuarsi uno stato di quiete tra aspetto magico e aspetto semiotico, poiché «in questa pura lingua, che più nulla intende e più nulla esprime, ma come parola priva di espressione e creatività è l’inteso di tutte le lingue, ogni comunicazione, ogni significato e ogni intenzione pervengono ad una sfera in cui sono destinati ad estinguersi»74. Riesce insomma a venire alla luce quel Vexierbild (immagine-rebus), che ogni parola custodisce e che mostra la potenza di una lingua fatta di immagini, esprimentesi attraverso Schriftbild e Denkbild. L’opera di Proust si presenta agli occhi di Benjamin come il primo e più compiuto tentativo di rappresentare un’epoca sotto il profilo della memoria. Egli è riuscito a «cogliere al volo» «il segreto più vero e profondo» che la sua epoca ha custodito, offrendo così al «secolo XIX la possibilità di raccontare le sue memorie»75. In essa si attua una sorta di duplice sovvertimento del rapporto tra vita, scrittura e memoria. Da un lato la vita vissuta prende forma e assume significato solo nell’atto del ricordare. Dall’altro il tema del racconto non è costituito dalle vicende e dalle azioni dell’autore, ma da esse in quanto filtrate dalla memoria. Al posto di un’autobiografia tradizionale, che narra la storia della vita di un uomo, si ha dunque la storia della memoria. In questo modo ciò che è stato dimenticato della vita vissuta può venire tranquillamente soppiantato da un ricordo testuale del ricordo. Le immagini della memoria (involontaria) non vengono percepite consapevolmente nel momento in cui il soggetto le sta vivendo, e dunque 73
Cfr. Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus, cit., p. 39. Ibid., p. 50. 75 Cfr. Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 31. 74
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
non possono neppure venire rievocate coscientemente dalla memoria. La vita vissuta è possesso dell’oblio più che della memoria (volontaria) ed è data solo come intreccio. A questo proposito Benjamin ricorre a due efficaci metafore. La prima è quella del tessuto del tappeto, di cui la notte attraverso l’oblio tesse ciò che del vissuto è stato dimenticato insieme ai fili dell’inconscio, il giorno disfà il tessuto con il ricordare legato alla prassi. L’altra è ciò che i romani chiamavano textum (tessuto), e cioè il testo, che nei manoscritti della Recherche è talmente fitto da non lasciare alcuno spazio bianco. I ricordi della memoria volontaria si trovano sulla superficie visibile del tappeto: autore e azione. Le intermittenze di quest’ultima – che vengono a costituire la scrittura per immagini prodotta dalla mémoire involontaire – sono il «rovescio del continuum del ricordare, il rovescio del tappeto»76. Il dimenticato ricostruisce una costellazione del passato, che, offuscata dalla memoria volontaria, viene riportata alla luce dalla memoria involontaria. A quest’ultima è affidata la possibilità di correggere, con un’infinita apertura di variabili, le immagini del passato che erano state dimenticate, poiché «un evento vissuto è finito, o perlomeno è chiuso nella sola sfera dell’esperienza vissuta, mentre un evento ricordato è senza limiti, poiché è solo la chiave per tutto ciò che è avvenuto prima e dopo di esso»77. L’opera di Proust appare a Benjamin come il tentativo di riprodurre poeticamente la nozione bergsoniana di esperienza, espressa nell’opera giovanile Matière et mémoire, in cui la struttura della memoria è considerata decisiva per la struttura filosofica dell’esperienza. Quest’ultima porta a fissare gli eventi nel ricordo sotto la forma di dati accumulati, non sempre consapevolmente, nella memoria. Bergson, afferma Benjamin, sembra porre una netta distinzione tra vita activa e vita contemplativa, considerando quest’ultima come spazio della memoria. Il fatto di attualizzare al presente il flusso vitale accumulatosi nella memoria è un atto di libera scelta. Su questo punto la nozione bergsoniana e quella proustiana di memoria sembrano non coincidere affatto. È opportuno comunque operare alcune precisazioni. 76 77
Ibid., p. 28. Ibid.
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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Se pure sembra evidente che il concetto di mémoire pure non trovi la sua perfetta corrispondenza in quello di mémoire involontaire, c’è da dire che Proust distingue, fin dalle prime pagine della Recherche, la mémoire involontaire dalla mémoire volontaire. Egli individua un momento di cesura, che separa i due concetti; esso è situabile in un istante preciso: l’episodio della madeleine. Prima di scoprire che il gusto della madeleine lo riporta ad un passato creduto dimenticato e a rivivere quest’ultimo nel momento presente, Proust sottolinea che fino a quel giorno era stato limitato ai dati fornitigli da una memoria che rispondeva solo agli stimoli dell’attenzione (mémoire volontarie) e che non era in grado di dire nulla del passato a cui faceva riferimento. Per questo Proust aveva affermato che il passato è al di fuori della nostra portata ed è custodito piuttosto in qualche oggetto esterno a noi, o nelle sensazioni che quest’ultimo è in grado di produrre su di noi. Tale esperienza non ha alcun legame con la nostra volontà e con la nostra coscienza. Esse sono infatti racchiuse in una parte di noi a cui non abbiamo libero accesso, ma che si apre a noi in forma imprevedibile e inconsapevole sotto forma di choc. Per cercare di chiarire la nozione di memoria, che si è formata attraverso il ricorso a Bergson, Benjamin fa riferimento a un saggio di Freud apparso nel 1921 con il titolo Jenseits des Lustprinzips (Al di là del principio del piacere), in cui l’autore stabilisce una connessione tra memoria (nel senso della mémoire involontaire) e coscienza. La proposizione fondamentale alla base degli sviluppi dell’opera freudiana e delle ricadute che essa avrà sui lavori successivi di alcuni suoi allievi, tra cui Theodor Reik78, è che «la coscienza sorga al posto di un’impronta mnemonica»79. Freud afferma che il fenomeno della «presa di coscienza» non può coesistere all’azione mnemonica. Tracce mnemoniche sono invece riscontrabili in modo assai evidente quando «il processo che le ha lasciate non è mai pervenuto alla coscienza». Traducendo in termini proustiani l’affermazione precedente si ottiene che oggetto della mémoire involontaire può essere solo ciò che non è 78
Benjamin si riferisce al libro: T. Reik, Der überraschte Psychologe. Über das Erraten und Verstehen unbewußter Vorgänge, Leiden 1935. 79 «Das Bewußtsein entstehe an Stelle der Erinnerungsspur». S. Freud, Jenseits des Lustprinzips, in Id., Studienausgabe, Bd. III, Frankfurt a.M. 1982, p. 235.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
stato vissuto. Le esperienze vissute non hanno dunque accesso alla memoria inconsapevole. La facoltà di tesaurizzare nella memoria tracce durevoli della vita vissuta non è deputata ad un atto cosciente. Memoria (involontaria) e coscienza non hanno dunque alcun legame. Secondo Benjamin la coscienza, intesa in senso freudiano, avrebbe la funzione di protezione contro gli stimoli esterni. La minaccia è costituita da energie troppo grandi, che operano all’esterno dell’individuo e possono procurare un effetto traumatico su quest’ultimo, definibile come choc, cioè come catastrofe. La difesa dagli chochs può essere effettuata assegnando ad ogni evento uno spazio temporale all’interno della coscienza. Ciò renderebbe l’evento un’esperienza vissuta. Ma torniamo ora a Proust. L’incursione nell’opera freudiana è servita a Benjamin a chiarire e mettere in risalto la distinzione tra vita vissuta e vita spirituale, che viene accresciuta dall’atto della memoria. In questa prospettiva si collocano anche le osservazioni che Proust fa dell’opera di Baudelaire. Lettore accanito di Les Fleurs du mal, egli afferma che «il tempo è scisso in Baudelaire in […] pochi giorni significativi. […] Sono i giorni del ricordo. Non sono ancora contrassegnati da alcuna esperienza vissuta. […] Ciò che costituisce il loro contenuto è stato fissato da Baudelaire dal concetto di correspondances». Proust passa successivamente a porre in luce alcune caratteristiche che definiscono la nozione baudeleriana di corrispondenza. Essa è portata a fissare un concetto di esperienza, a cui sono legati elementi cultuali. Ciò che Baudelaire intendeva fare agli occhi di Proust era esprimere attraverso le correspondances una nozione di esperienza che si pone al riparo da ogni crisi, dalla catastrofe esistenziale del poeta. Le correspondances interpretano le date del ricordo. E questo costituisce un elemento importante. Esse hanno un legame assai stretto con l’elemento temporale: non esistono infatti corrispondenze simultanee, ma solo corrispondenze tra presente e passato. Come il lettore si sarà accorto, le correspondances di cui si parlava poco sopra non sono altro che un equivalente della mémoire involontaire di Proust, che a sua volta non è altro che una trasposizione del concetto benjaminiano di immagine dialettica80. 80
Un’ampia trattazione sul rapporto mémoire involontaire-dialektisches Bild è
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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1.8 Correspondances e «scrittura per immagini» Proust non costituisce soltanto una fonte a cui attingere da un punto di vista teorico nel configurare la nozione di immagine dialettica, ma è assurto come modello esemplare di quella produzione di pensiero attraverso immagini che, come ha affermato acutamente Hannah Arendt, costituisce il «pensiero poetico» di Benjamin. La filosofia benjaminiana è caratterizzata infatti da un’enorme ricchezza di immagini. Nei suoi scritti si realizza ciò che egli stesso aveva affermato a proposito del Dramma barocco tedesco, e cioè che «da un punto di vista esterno e linguistico – nella drasticità della frase come nella metafora sovraccarica – lo scritto tende all’immagine»81. Denkweise e Schreibweise si incontrano in quel terzo elemento, messo a tema da Benjamin nel saggio Zum Bilde Prousts, l’immagine. La lingua, definita dall’autore come «archivio di somiglianze immateriali», si avvicina in questo modo alle correspondances di Baudelaire e di Proust. Esse compongono nella lingua uno spazio metaforico e figurale, operando un legame tra strati profondi di significato, che oltrepassa le pure connessioni sintattiche. Si tratta di uno spazio simbolico, slegato da connessioni deduttive, ma ricco di una straordinaria potenza conoscitiva: è lo spazio dell’immagine. La definizione di immagine come apparizione di «somiglianze immateriali» trova le sue radici nella tradizione ebraica. Nella lingua ebraica la parola demut indica non solo l’«immagine», ma è usata anche come sinonimo di «somiglianza», e più in particolare di «somiglianza immateriale». Secondo tale tradizione inoltre le immagini vengono inserite nella dimensione della scrittura: esse sono un qualcosa che può essere letto82. Benjamin fa proprie la concezione dell’immagine della tradizione ebraica e la lingua delle corrispondenze di Proust, per costruire una teoria dell’immagine che si configura mescolandosi ad una teoria sulla memoria: le corrispondenze si fanno immagini grazie al potere evocativo della memoria. Essa permette a tali immagini di avere accesso alla contenuta in: H. Teschke, Proust und Benjamin: unwillkürliche Erinnerung und dialektisches Bild, Würzburg 2000. 81 Benjamin, Il Dramma barocco tedesco, in Opere complete II, cit., p. 211. 82 Cfr. Weigel, Entstellte Ähnlichkeit, cit., p. 56.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
dimensione della scrittura, rendendo «leggibile» anche ciò che non è mai stato scritto. Benjamin costruisce così delle costellazioni di immagini scritte e dialettiche, che si configurano nel campo di tensione tra pensiero e immagine. Con l’aiuto della «facoltà mimetica», che riesce ad individuare corrispondenze immateriali e segrete tra le cose, l’immagine si trasforma in immagine scritta, cristallizzata attraverso la «dialettica in stato di quiete». Quest’ultima assolve al compito di arrestare il movimento del pensiero in una costellazione che rimane tuttavia carica di tensioni. Solo tali immagini dialettiche possono essere definite a ragione immagini e trovare posto nella dimensione linguistica: Il testo letterale dello scritto è lo sfondo, in cui unicamente e soltanto può formarsi la figura-rebus (Vexierbild)83.
Tale Vexierbild è la figura nascosta, che si trova in un contesto diverso dal suo significato letterale. La scrittura per immagini è in questo senso una nuova potenzialità che Benjamin offre al linguaggio verbale, per riuscire a rappresentare simbolicamente ciò che resterebbe indicibile a parole. A tale tipo di esposizione filosofica, fatta di «immagini di pensiero» e di «immagini dialettiche», appartengono la cesura, l’interruzione, la discontinuità, il frammentario, e proprio il momento della cesura riesce a dare risalto al carattere rappresentativo della lingua di Benjamin. Nella scrittura benjaminiana ogni immagine è l’unione e la compenetrazione tra lingua poetica delle corrispondenze e movimento del pensiero. La dialettica delle immagini si configura così come espressione dello stile filosofico di Benjamin. In tale scrittura fatta di dialektische Denkbilder diventa esplicito come scrittura e pensiero, forma e contenuto, non possano essere separati e costituiscano i fondamenti della forma filosofica da lui adottata. La «terza cosa» tra pensiero e scrittura corrisponde perfettamente allo stile di pensiero di Benjamin, un trattenersi sulla soglia tra filosofia e letteratura.
83
GS II/I, p. 208 (traduzione nostra).
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1.9 «Scavare e ricordare»: il tempo della memoria Traducendo la dimensione sintetica del procedere argomentativo in immagine, il linguaggio filosofico delle correspondances modifica anche la nozione di temporalità propria della dimostrazione. Alla linearità cronologica della deduzione si sostituisce la simultaneità di immagine presente e immagine del ricordo. Rammemorare diventa dunque un procedimento che rende non solo accessibile il passato, ma lo presentifica. Temporalità e spazialità si intersecano nella logica delle corrispondenze, producendo una lingua metaforica e fortemente simbolica. L’immagine dialettica non è pensabile, se non in connessione con il lavoro compiuto dalla memoria. Quest’ultima non è intesa come possesso dei ricordi, ma come attività di scavo archeologico, che riesce ad entrare nelle cose. Non a caso, scomponendo il termine tedesco Er-innerung si evidenzia un moto verso l’interno (innere), che ci ricorda l’attività dell’archeologo. Esemplare in questo senso un Denkbild che ha per titolo Ausgraben und Erinnern, scavare e ricordare, in cui Benjamin utilizza la metafora del «dissotterrare» per teorizzare il ruolo assunto dalla memoria nella propria scrittura filosofica. […] La memoria non è uno strumento per il riconoscimento di ciò che è passato, ma piuttosto ne è il medium. Esso è il medium di ciò che è stato esperito proprio come il suolo è il medium in cui giacciono sepolte le antiche città. Chiunque cerchi di guardare più da vicino al proprio passato sepolto deve procedere come un uomo che scava. Soprattutto egli non deve esitare a ritornare ripetutamente su uno stesso oggetto – setacciarlo proprio come si setaccia la terra, sradicarlo proprio come si sradica il suolo […] In verità, le immagini che sono estratte da tutte le precedenti costellazioni stanno come cose di valore nelle stanze frugali del nostro pensiero successivo – come opere incompiute nella galleria del collezionista. E sicuramente è utile procedere agli scavi in conformità a piani84.
L’atto rammemorativo pone in generale la questione della distanza che viene a crearsi tra oggetto ricordato e suo luogo d’origine. Ciò impone ancora una volta una scelta dialettica, che vede 84
Cfr. GS IV/1, pp. 400-401 (traduzione nostra).
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
da un lato l’oggetto del ricordo avvicinarsi a noi, dall’altro un allontanamento del suo luogo di origine da noi, poiché esso non ci appare più come tale. Questa è la dimora dell’immagine dialettica, una coesistenza di vicinanza e lontananza, uno spazio a cui non è dato di pensare. Esso è situato ai limiti del tempo, in una dimensione temporale che risente della mistica ebraica, che Benjamin teorizza acutamente con il concetto di Jetztzeit e che nel saggio Zum Bilde Prousts riferisce nei termini di un tempo incrociato, in cui i fili del presente si intrecciano con quelli del passato e del futuro. Il passato non viene rievocato in un tempo presente come possesso, né come rappresentazione o ri-produzione di qualcosa che è stato, ma si produce in quanto inscindibile dalle altre dimensioni temporali, senza le quali sarebbe privo di significato. La produzione del passato da parte del pensiero dialettico avviene in modo discontinuo, a salti, per fotogrammi, per immagini. La dialettica è non solo produttrice di immagini, ma anche di storia. Essa è al contempo scavo archeologico nel passato e portatrice del nuovo e in questo senso soddisfa l’esigenza goethiana di costituire «il fenomeno originario della storia»85. Benjamin non fa altro che trasporre il concetto goethiano di origine (Ursprung) «dal contesto pagano della natura a quello ebraico della storia»86.
1.10 «La storia si frantuma in immagini, non in storie». Transizione e distruzione nell’immagine dialettica L’opera di Proust costituisce un modello irrinunciabile nel configurare una scrittura che si produce attraverso la memoria, tuttavia, se pure l’autore francese ha dato la possibilità al secolo XIX di raccontarsi, lo ha fatto nei termini di una memoria individuale, legata alla persona dell’autore. Ciò che intende invece operare Benjamin, quando individua nella figura del risveglio la svolta dialettica necessaria a risvegliare la coscienza collettiva dai sogni e dalle mitologie del passato, è trasferire l’arte della memoria proustiana dal piano individuale a quello collettivo. 85 86
Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 9a, 4], p. 532. Ibid., [N 2a, 4], p. 517.
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Connettere la teoria del sapere non ancora conscio con la teoria del dimenticare […] e applicarla alla collettività, nelle varie epoche. Ciò che Proust esperì nel fenomeno della rammemorazione come individuo noi siamo costretti a viverlo – come punizione, per così dire, per l’indolenza che ci ha impedito di farcene carico – come «corrente», «moda», «tendenza» (verso il XIX secolo)87.
Nel saggio Über einige Motive bei Baudelaire (1939), in cui Benjamin si sofferma ancora una volta sull’opera di Proust, il nesso tra memoria individuale e memoria collettiva diventa esplicito: Dove c’è esperienza nel senso proprio del termine, determinati contenuti del passato individuale entrano in congiunzione, nella memoria, con quelli del passato collettivo88.
L’espressione lascia intuire una possibile conoscenza da parte di Benjamin del lavoro di Maurice Halbwachs, che a partire dagli anni Venti operava tra le università di Parigi e Strasburgo, cercando di conciliare la teoria fenomenologica della memoria di Henri Bergson con le riflessioni sulla coscienza collettiva di Emile Durkheim e l’influsso delle condizioni sociali sulla funzione del ricordare. Nel primo libro di Halbwachs, Les cadres sociaux de la mémoire, apparso nel 1925, egli affermava che eventi di cui siamo gli unici testimoni, o pensieri e sentimenti che non abbiamo mai comunicato a nessuno, appartengono ad un insieme di concetti, che stanno in relazione con persone, gruppi, luoghi, date, parole, espressioni linguistiche, riflessioni, idee, cioè con l’intera vita materiale e spirituale dei gruppi a cui apparteniamo e siamo appartenuti. Negli stessi anni, in un ambito totalmente diverso, ma pure conosciuto e apprezzato da Benjamin, si stava sviluppando un’altra teoria della memoria collettiva, sostenuta questa volta da un’armatura di storia culturale, più che di psicologia sociale. Aby Warburg lavorava sul problema della vita postuma del paganesimo, sulla dialettica antico-moderno e Benjamin conosceva alcuni suoi lavori, che aveva tenuto in alta considerazione durante la 87 88
Ibid., , p. 943. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, cit., p. 93.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
stesura del Dramma barocco tedesco. Tuttavia la conoscenza che egli aveva del circolo di Warburg, che operava ad Amburgo, era assai limitata, poiché in quegli anni il lavoro di Warburg sulla memoria collettiva non aveva ancora avuto la risonanza che ebbe in seguito89. A differenza di Halbwachs e di Warburg, ciò che muoveva Benjamin alla ricerca di un’idea di memoria collettiva era un’esigenza fondamentalmente teorico-conoscitiva, che portasse alla rifondazione della comprensione storica. La memoria, intesa come risveglio, costituisce la categoria centrale della gnoseologia benjaminiana interpretata dal Passagen-Werk. Essa rappresenta cioè una categoria storica: il risveglio inteso come passaggio dalla coscienza del sogno alla coscienza della veglia è più importante della coscienza. In questo si mostra un’implicita critica della fede nella ragione idealistica, come pure dell’ideologia materialistica e positivistica del progresso. La mitologia non è per Benjamin l’esatto opposto della storia, poiché quest’ultima trova le sue radici nel mito90. «Quello che mi interessa è […] la “storia originaria (Urgeschichte) del XIX secolo”» – scrive l’autore in una lettera all’amico Adorno nel maggio del 193591. Il termine Urge89 Sul rapporto tra Benjamin e Warburg sono stati condotti molti studi a partire ad esempio dal famoso lavoro di Wolfang Kempf, apparso in traduzione italiana nella rivista «aut-aut», che sottolinea la comunanza tra i due autori, nonostante non ci sia mai stata una conoscenza diretta. Cfr. W. Kempf, Walter Benjamin e la scienza estetica. Walter Benjamin e Aby Warburg, «aut aut», 189-190 (1982), pp. 234-262. Cfr. inoltre E. Raimondi, Benjamin, Riegl e la filologia, in Id., Le pietre del sogno. Il moderno dopo il sublime, Bologna 1985, pp. 159-197; G. Boffi, Immagini della memoria. Warburg e Benjamin, «Rivista di Filosofia neo-scolastica», 3 (1986), pp. 432-448; l’importante numero monografico della rivista «aut aut», 199-200 (1984), in particolare i saggi di Agamben, Carchia e Wind; M. Cacciari, Warburghiana I, II, III, in Id., Dell’Inizio, Milano 1990, pp. 347-357. In anni più recenti sono stati pubblicati altri contributi, volti ad identificare la stretta affinità tra i due autori. Cfr. S. Weigel, Literatur als Voraussetzung der Kulturgeschichte. Schauplätze von Shakespeare bis Benjamin, München 2004, in particolare il capitolo Die Entstehung der Kulturwissenschaft aus der Lektüre von Details. Übergänge von der Kunstgeschichte, Medizin und Philologie zur Kulturtheorie: Warburg, Freud, Benjamin. Interessante inoltre il tentativo della Zumbusch di tracciare un parallelo tra l’Atlante di Mnemosyne di Warburg e il Passagen-Werk di Benjamin in: Zumbusch, Wissenschaft in Bildern, cit. 90 «Il sogno – il suolo in cui vengono alla luce i reperti che testimoniano della storia originaria del XIX secolo». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [C 2a, 11], p. 94. 91 Ibid., p. 1078.
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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schichte rappresenta, agli occhi di Benjamin, una zona intermedia tra mito e storia, configurandosi nei termini del rapporto tra mito e modernità. Interpretare la storia come «storia originaria» significa per l’autore intuire la coscienza storica del XIX secolo dai sogni del collettivo e dalle forme specifiche della follia e del mito92. Con l’intenzione di portare alla luce la storia originaria del XIX secolo entra in campo il «nuovo metodo dialettico della storia». Ed è proprio dall’idea della memoria storica come riattualizzazione e presentificazione del passato, intesa come «un esperimento di tecnica del risveglio»93, che deve nascere, secondo Benjamin, il fondamento di un nuovo metodo dialettico della storia, la «svolta copernicana nella visione storica». Il nuovo metodo dialettico della scienza storica si presenta come l’arte di esperire il presente come il mondo della veglia cui quel sogno, che chiamiamo passato, in verità si riferisce. Adempiere il passato nel ricordo del sogno! Dunque: ricordo e risveglio sono strettamente affini. Il risveglio è cioè la svolta copernicana e dialettica della rammemorazione94.
Risveglio implica dunque un riferirsi da parte della memoria non tanto al passato, quanto piuttosto al presente imminente, a cui Benjamin, nelle tesi Über den Begriff der Geschichte dà il nome di Jetztzeit. È interessante a questo punto sottolineare come il progetto di emancipazione del materialismo storico dalla sua forma canonica, suggerito da Benjamin in questo testo capitale nel panorama della filosofia del Novecento, si basi su un fattore per così dire «visuale». L’autore si dà per compito di «non rinunciare a nulla che serva a mostrare la maggiore ricchezza di immagini dell’esposizione materialistica della storia rispetto a quella tradizionale»95. 92
Cfr. GS I/3, p. 1174. Ibid., p. 914. 94 Ibid., [K 1,3], p. 433. Cfr. anche ibid., pp. 913 sgg. 95 GS V/1, p. 578 (traduzione nostra). La fascinazione per l’immagine è caratteristica di tutta l’opera di Benjamin. Non è azzardato affermare che egli abbia coniato dei veri e propri generi letterari basati sulla presenza dell’immagine, che si esplica non solo a livello degli oggetti trattati, ma soprattutto nel tipo di forma filosofica adottata. La Darstellung benjaminiana si manifesta come una «scrittura per immagini», che si concretizza a diversi livelli della sua produzione. La passione per l’immagine non lo abbandonerà mai. Si pensi ad esempio all’uso dell’allegoria nel Dramma barocco tedesco, o alla costituzione di un genere letterario dai contorni labili quale il 93
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Un problema centrale del materialismo storico che andrebbe finalmente riconosciuto: la comprensione marxista della storia si acquista necessariamente a prezzo della perspicuità (Anschaulichkeit) della storia stessa? Oppure: per quale via è possibile collegare un incremento della perspicuità (Anschaulichkeit) con l’applicazione del metodo marxista? La prima tappa di questo cammino consisterà nell’adottare nella storia il principio del montaggio. Nell’erigere insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi, ritagliati con nettezza e precisione. Nello scoprire, anzi, nell’analisi del piccolo momento singolo il cristallo dell’accadere totale96.
L’autore parla di Anschaulichkeit, che, come evidente, riporta alla radice del verbo an-schauen (osservare). La maggiore chiarezza che egli sta auspicando in ambito storico rimanda dunque esplicitamente all’ambito della visione. La storia, dice Benjamin, è fatta da una successione discontinua di citazioni. Se si cerca di estrapolarne una dal suo contesto originario si ottiene che «la storia si frantuma in immagini, non in storie»97. Che cosa si tratta di superare per poter costruire un modello epistemologico adatto alla conoscenza storica? La posizione di Benjamin è dialettica, nel senso che egli rifiuta sia la dimensione della veglia (Wachen) della ragione, imputata dall’autore al materialismo storico di Marx, teso a distoDenkbilder. Di esso troviamo traccia non solo nella raccolta che ne porta il nome, ma anche in Einbahnstraße e in Berliner Kindheit um neunzehnhundert. Nel Passagen-Werk, così come in molte opere che ruotano intorno a questo testo – bisogna considerare che esso occupa l’autore dal 1927 al 1940, epoca in cui è stato estremamente produttivo – egli si propone di «sviluppare immagini dialettiche a partire dalle immagini della storia originaria del XIX secolo». Cfr. W. Bolle, L’historiographie figurative de Walter Benjamin, in C. Dionne, S. Mariniello, W. Moser (a cura di), Recyclages. Économies de l’appropriation culturelle, Montréal 1996, pp. 173-190. 96 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 2, 6], p. 515. 97 Ibid., [N 11, 4], p. 535. Cfr. anche [N 11, 3]. Per ricostruire il modello storiografico di una scrittura intesa come costellazione di immagini, alcuni studiosi, tra cui G. Agamben e W. Bolle, hanno analizzato le cosiddette Farbsiglen. Si tratta di piccole sigle colorate che Benjamin apponeva a lato dei manoscritti del Passagen-Werk, in particolare nei passi dedicati a Baudelaire, che servivano, nella sua intenzione, a vedere delle possibili corrispondenze tra i diversi materiali da lui ordinati. Leggere il testo attraverso le Farbsiglen dà la possibilità di individuare una chiave di lettura diversa, che rappresenta un’abbreviazione, uno schema grafico del testo scritto. Ciò è riconducibile alla passione di Benjamin per le zone di passaggio, per l’interscambio tra scrittura e immagine, per l’inscindibilità nei suoi testi tra piano figurativo e piano teorico. Cfr. W. Bolle, Geschichte, in Opitz, Wizisla (a cura di), Benjamins Begriffe, cit., pp. 399-442.
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1. IMMAGINE E IMMAGINE DIALETTICA COME MODELLO TEORICO-CONOSCITIVO
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gliere l’uomo dalle mitologie che si è costruito, sia il sogno (Traum), su cui si basa la concezione junghiana dell’immagine archetipica. L’immagine dialettica, che Benjamin fa coincidere con la fase del ri(s)-veglio (Er-wachen), è un’immagine autentica, nel senso che non è arcaica. Essere arcaica significa per un’immagine assumere una funzione chiaramente regressiva, e cioè cercare la propria dimora nel tempo passato. L’immagine arcaica rinuncia alla sua originalità, al suo essere allo stesso tempo un’immagine originaria e produttrice di un novum. Si tratta di un’esigenza al contempo estetica e cognitiva. Gli autori evocati da Benjamin come caratteri distruttivi – ripensiamo a Brecht, Klee, Loos, Scherbaart e Einstein – ma ad essi potrebbero essere aggiunti tutti quegli autori che hanno costituito per Benjamin dei momenti decisivi all’interno della storia della cultura occidentale – pensiamo a Baudelaire, Proust, Kafka – hanno operato degli scarti all’interno della tradizione in cui si muovevano, nel senso che hanno saputo riconvocare delle forme originarie, nella duplicità richiamata da questo termine, e cioè nel suo essere contemporaneamente segno di originalità e novità, che si inseriscono tuttavia entro una tradizione consolidata. Si potrebbe affermare che essi non hanno fatto altro che operare attraverso immagini autenticamente dialettiche, poiché le loro opere non hanno né la pretesa della novità assoluta, che comporterebbe l’oblio totale di tutto ciò che è stato, né la pretesa del ritorno alle origini, che è impossibile ri-produrre tout court. Nel momento in cui un’opera d’arte – dalla letteratura, al teatro, all’arte figurativa, all’architettura ecc. – perviene a riconoscere l’elemento mitico e mnemico che ne sta alla base, si appresta a superarlo, e contemporaneamente giunge a riconoscere il proprio presente per superarlo, essa diviene un’immagine dialettica nel senso evocato da Benjamin. L’opera di Benjamin non è moderna, se si vuole intendere questo termine come un progetto di veglia dalla memoria del passato, né arcaica se con ciò si intende una nostalgia per i sogni di un passato originario. Essa è dialettica poiché procede come un momento di risveglio, riuscendo a folgorare la veglia nella memoria del sogno e cioè a produrre un’immagine cristallizzata. L’immagine dialettica – e con essa la figura del risveglio – è un esempio della coesistenza di conservazione e distruzione nel pen-
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
siero di Benjamin. Ma non si tratta semplicemente di questo. Egli compie un passo ulteriore, nel senso che riesce a far coesistere la nozione di passaggio con quella di cesura. Il concetto di transizione che egli propone al lettore attraverso l’immagine dialettica non è altro che una coesistenza di movimento (tensione tra gli opposti) e di quiete. Il momento distruttivo è la vera componente dialettica. Transizione e distruzione coesistono in una dimensione temporale, costituita da un tempo a cui non è dato di pensare, la Jetztzeit, quel luogo in cui i fili del presente vengono intrecciati con quelli del passato e del futuro. Ma prima di procedere nell’analisi del tempo delle immagini dialettiche, ci sembra opportuno fare un breve riferimento a quell’immagine dialettica, che più di ogni altra mostra il suo carattere di transizione, il passage.
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2. Passage come immagine dialettica
2.1 Passage, Schwelle, Übergang Le immagini dialettiche diventano visibili solo nei momenti di krisis, di transizione, in cui «il nuovo si compenetra col vecchio»1. Figura emblematica sono i passages, costruzioni erette a scopo di transito, che fanno emergere da un lato «l’energica tendenza a distanziarsi dall’invecchiato – e cioè dal passato più recente» – dall’altro «rimandano la fantasia, che ha tratto impulso dal nuovo, al passato antichissimo»2. Nell’opera deputata da Benjamin a ricercare le origini del Moderno attraverso una collezione di Ur-bilder (immagini originarie), il Passagen-Werk, egli ricostruisce la genesi di tale struttura architettonica dalla sua nascita fino al declino3. Il passage costituisce all’interno del progetto benjaminiano non solo l’oggetto dell’enorme opera rimasta incompiuta che ne porta il nome, ma anche la forma secondo la quale si mostra agli occhi di Benjamin la modernità4. L’intenzione dell’autore si concretizza nel progetto di 1
Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 6. Ibid. 3 Benjamin individua tre fasi nella storia dei passages parigini: la prima inizia a partire dalla nascita di tale struttura architettonica e copre la prima metà del XIX secolo, quando i passages erano rivestiti di marmo e legno, impreziositi da profili in ottone, ed erano luoghi dell’acquisto di lusso. La seconda inizia dopo il 1852 quando la reclame fa il suo ingresso anche nei passages. La terza dura fino al declino delle gallerie coperte nel XX secolo, quando esse diventano un luogo della memoria che si proietta nel passato più recente. Cfr. H. Brüggemann, Passagen, in Opitz, Wizisla (a cura di), Benjamins Begriffe, cit., p. 581. Sulla storia dei passages cfr. J.-M. Palmier, Histoire des Passages, in Palmier, Walter Benajmin, cit., pp. 745-775. 4 I termini «moderno», «modernità» fanno riferimento al significato che ad essi attribuisce Benjamin nel saggio su Baudelaire, e cioè al XIX secolo, caratterizzato come epoca in cui si sviluppa la metropoli e con essa la vita massificata, la tecnica, il capitalismo e la mercificazione. 2
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
dipingere l’epoca moderna attraverso alcuni topoi – come ad esempio la figura del passage – che sono oggetto di quella che egli definisce «Schwellenkunde»5 (scienza della soglia). Per la sua conformazione architettonica il passage è una soglia (Schwelle), una zona di transizione (Übergangsbereich) tra la strada e i negozi. Il motivo della soglia è richiamato da Benjamin in diversi luoghi, tra cui il saggio su Le Affinità elettive, il saggio Sul Surrealismo, il romanzo Infanzia berlinese intorno al millenovecento, il PassagenWerk. In questa sede ci limiteremo ad un’analisi della nozione di soglia funzionale alla descrizione della figura del passage come dialektisches Bild (immagine dialettica) e dunque prenderemo in esame soltanto alcuni frammenti appartenenti al Passagen-Werk. Benjamin sottolinea esplicitamente come il termine francese passage, utilizzato nell’espressione entrata nell’uso comune rites de passage, non sia altro che la traduzione di Riten des Schwellenübergangs6. Soglia (Schwelle) e passaggio (passage) sono dunque sinonimi. Dopo aver esplicitato l’identificazione tra i due termini, Benjamin procede ad un’analisi etimologica del termine Schwelle, che compare due volte all’interno dell’opera sui passages di Parigi. La soglia deve essere distinta molto nettamente dal confine. La Schwelle è una zona. La parola schwellen racchiude i significati di mutamento, passaggio, straripamento, significati che l’etimologia non deve lasciarsi sfuggire. D’altra parte è necessario osservare il contesto tettonico e cerimoniale che ha portato la parola al suo significato7.
La soglia è distinta dalla nozione di confine (Grenze) e costituisce una zona di transizione (Zone des Übergangs). Per specificare il senso del concetto di passage, all’interno dello stesso frammento Benjamin insiste sul fatto che «siamo diventati molto poveri di esperienze della soglia», esemplificando tale concetto in termini visivi. L’atto dell’addormentarsi e quello del risveglio 5
Cfr. GS V/1, p. 147. Ibid., p. 617. 7 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [O 2a, 1], p. 555. Cfr. anche , p. 936: «Bisogna distinguere nel modo più netto soglia e confine. La soglia è una zona, una zona di passaggio, di transizione» (eine Zone des Überganges). 6
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2. PASSAGE COME IMMAGINE DIALETTICA
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sono tra i pochi che ci sono rimasti. Ma si tratta di un’indagine ben più sottile: attraverso il Passagen-Werk l’autore stesso si propone di attuare un’operazione di risveglio, conducendo le immagini di sogno (Traumbilder) della collettività alla soglia del risveglio. Il Passagen-Werk si rivela così un’opera che parla della struttura architettonica sopra citata attraverso la forma del passaggio. Nel primo Exposé «Parigi, la capitale del XIX secolo» (1935) Benjamin afferma a proposito dei rivolgimenti che hanno investito tutti gli ambiti delle attività umane: Tutti questi prodotti sono in procinto di trasferirsi come merci sul mercato. Ma esitano ancora sulla soglia. Da quest’epoca derivano i passages e gli intérieurs, i padiglioni da esposizione e i panorami. Si tratta dei residui di un mondo di sogno. L’utilizzazione degli elementi onirici al risveglio è il caso esemplare del pensiero dialettico. Perciò il pensiero dialettico è l’organo del risveglio storico8.
La figura dialettica del risveglio, su cui ci siamo già soffermati nelle pagine precedenti, è un esempio dell’interesse benjaminiano per la Schwellenkunde. Soglie, passages e transizioni, oltre ad essere costitutivi della Darstellungsweise filosofica dell’autore berlinese9, formano l’oggetto privilegiato della sua filosofia della storia e della sua teoria gnoseologica10. Potenzialmente infatti ogni spazio e ogni tempo sono per Benjamin una soglia.
8 Ibid., pp. 17 sgg. Il testo prosegue: «Infatti ogni epoca non solo sogna la successiva, ma sognando urge al risveglio. Essa porta in sé la sua fine, e la dispiega – come ha già visto Hegel – con astuzia. Con la crisi dell’economia mercantile, cominciamo a scorgere i monumenti della borghesia come rovine prima ancora che siano caduti». 9 La scrittura filosofica, secondo l’autore berlinese, è anch’essa espressione del carattere frammentario e discontinuo del moderno e proprio per questo si situa sul limen, sulla soglia, concretizzandosi come commento. Ciò è stato teorizzato dallo stesso Benjamin in alcuni luoghi tra cui la Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco, la dissertazione di dottorato La critica del romanticismo tedesco e il saggio Le affinità elettive. 10 Si pensi ad esempio alle figure del risveglio (Erwachen) e dell’ora della conoscibilità (Jetzt der Erkennbarkeit).
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
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2.2 Ambiguità del passage È giunto ora il momento di concentrarsi sulla figura che più di ogni altra rappresenta un esempio di luogo di transizione: il passage. Esso è caratterizzato da una costitutiva Zweideutigkeit (ambiguità, ambivalenza), che lo connota sia per quanto riguarda la sua dimensione spaziale, che temporale11. Come il lettore ricorderà, ambiguità è definita da Benjamin come «l’apparizione figurata della dialettica, la legge della dialettica in stato di quiete (Dialektik im Stillstand)»12. Essa caratterizza l’immagine dialettica, di cui l’autore si preoccupa ancora una volta di fornire alcuni esempi, tra i quali risalta quello di passage. «Un’immagine del genere sono i passages, che sono casa come sono strade»13, afferma Benjamin. È dunque l’autore stesso a dirci chiaramente che la figura del passage è un’immagine dialettica.
2.2.1 Indecidibilità topografica tra casa e strada. L’ambiguità sul piano spaziale è data dal fatto che la struttura architettonica del passage è caratterizzata da un fattore di forte indecidibilità topografica, che la porta ad essere descritta come zona di transito o meglio di transizione, in cui, come ha detto Aragon, non è dato di sostare più di un istante, ma in tale istante ci sembra che siano contenuti monadologicamente tutti gli istanti possibili. Tale luogo si configura contemporaneamente come casa e galleria coperta, come intérieur ed extérieur, come luogo protetto e strada, come a-topos, come No Man’s Land14. È proprio la sua costitutiva indecidibilità topografica a definire il passage come un luogo che non ha luogo. I passages sono case o corridoi senza alcun lato esterno – come il sogno15. 11
Cfr. Menninghaus, Schwellenkunde, cit., pp. 54 sgg. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 14. 13 Ibid. 14 Cfr. GS V/2, p. 1232: «Sie stehen zwischen Haus und Straße, zwischen Breitraum und Halle». Essi stanno tra casa e strada, tra spazio aperto e galleria. 15 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [L 1a, 1], p. 455. Il tema del sogno viene messo più volte in relazione da Benjamin con i passages, in par12
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2. PASSAGE COME IMMAGINE DIALETTICA
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La maggior parte dei passages parigini sorge all’inizio del XIX secolo. In una Guida illustrata di Parigi del 1852, citata da Benjamin in due luoghi significativi – all’inizio dei due Exposés e nel primo frammento appartenente alla sezione [A] del Passagen-Werk – si afferma che essi sono una «recente invenzione del lusso industriale […] sono corridoi ricoperti di vetro e dalle pareti rivestite in marmo, che attraversano interi caseggiati, i cui proprietari si sono uniti per queste speculazioni. Sui due lati di questi corridoi, che ricevono luce dall’alto, si succedono i più eleganti negozi, sicché un passage del genere è una città, un mondo in miniatura»16. Le condizioni che permisero la loro comparsa furono «l’alta congiuntura del mercato tessile» insieme al grande sviluppo della costruzione in ferro, che era stato visto dai teorici dell’architettura dell’epoca come un «rinnovamento dell’architettura in senso greco-antico». Essi «danno ai sostegni in ferro la forma di colonne pompeiane, alle fabbriche quella di case d’abitazione, come più tardi le prime stazioni cercano di imitare gli chalet»17. Il ferro fa la sua comparsa insieme al vetro nei passages, nei padiglioni delle esposizioni e nelle stazioni ferroviarie. Benjamin si concentra in più luoghi a descrivere la portata rivoluzionaria dell’utilizzo del vetro nelle costruzioni architettoniche, richiamandosi ripetutamente al testo di Paul Scheerbart Glasarchitektur (1914)18. ticolare all’interno della sezione [L] del Passagen-Werk: «Case di sogno della collettività: passages, giardini d’inverno, panorami, fabbriche, musei delle cere, casinò, stazioni». Cfr. ibid., [L 1, 3], p. 454. Poco oltre egli afferma: «[…] Il nostro tragitto attraverso i passages è anch’esso in fondo un cammino spettrale di questo genere, dinanzi al quale cedono le porte e si aprono le pareti». Cfr ibid., [L 2, 7], p. 458. 16 Ibid., [A 1, 1], p. 41. 17 Ibid., pp. 6 sgg. 18 Il vetro è, secondo Benjamin, un materiale che caratterizza gli spazi come liberi da tracce e privi di aura. Esso allontana gli uomini dal vecchio ideale borghese dell’intérieur, che tendeva a legarli alla dimensione privata del possesso, facendosi promotore di una nuova forma dell’abitare, che vede la casa come uno spazio attraversato in ogni lato da luce e aria. Caratteristiche della nuova architettura sono pareti di vetro e terrazze che entrano a far parte degli appartamenti. La trasparenza del vetro dovrebbe, nelle intenzioni di Scheerbart, costituire il modello delle stesse relazioni umane, non più tese semplicemente all’interesse personale, ma aperte a farsi illuminare dal confronto con l’altro. Il vetro dovrebbe inoltre simboleggiare il passaggio dalla pesantezza alla leggerezza, dal reale all’irreale. La Glasarchitektur è in tal modo il modello utopico di un futuro abitabile, di un non-luogo in cui la dimensione col-
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Se si considerano i passages dal punto di vista della costruzione in ferro, la parte più importante è la copertura, il tetto. La stessa radice della parola Halle (galleria) deriva da lì: è dunque uno spazio definito dalla copertura più che dal contorno. Le pareti sono infatti nascoste tra gli edifici19. Il vetro non serve tanto a dare luce alle gallerie coperte, che mostrano il loro fascino soprattutto all’imbrunire, quando si accendono le prime luci a gas, che fanno la loro prima comparsa proprio all’interno dei passages20. Esso non serve neppure ad alleggerire il corpo esterno della costruzione, che si mimetizza tra le case e spesso non ha nemmeno un lato esterno. Il fascino della trasparenza è dato dalla capacità di questo materiale di avvolgere il passante in un’atmosfera magica e onirica, in cui reale e irreale, sogno e veglia tendono a sovrapporsi. Lo spazio cessa di essere conchiuso tra le mura dell’edificio e si mostra piuttosto come parte di un flusso infinito di passi e di pensieri. Nell’impossibilità di distinguere tra interno ed esterno, così come accade in sogno – luogo per eccellenza privo di limiti e di confini – si muove chi ha fatto della strada il luogo della propria abitazione: il flâlettiva dell’esistenza si fonde a quella di una ritrovata armonia cosmica. Nel saggio Esperienza e povertà Benjamin annovera Paul Scheerbart tra i «caratteri distruttivi»; egli vede infatti nell’Architettura di vetro un tentativo di rottura nei confronti della continuità borghese. «Scheerbart pone un gran valore nel far alloggiare la sua gente […] in case di vetro regolabili e mobili, come intanto ne costruivano Loos e Le Corbusier. Non per nulla il vetro è un materiale freddo e sobrio. Le case di vetro non hanno “aura”. Il vetro è soprattutto il nemico del segreto. È anche nemico del possesso». Cfr. Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., p. 542. 19 Cfr. la citazione del testo di A.G. Meyer, Eisenbauten, Esslingen 1907, p. 69 all’interno della sezione [F] del Passagen-Werk. Cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 169. 20 Al tema del noctambulisme Benjamin ha dedicato alcuni frammenti che riguardano la figura del flâneur di Baudelaire. Essi non sono contenuti nelle Gesammelte Schriften, poiché furono ritrovati nella Bibliothèque Nationale di Parigi da Giorgio Agamben nel 1981 e messi a disposizione dei curatori delle Gesammelte Schriften nel 1993, quando la pubblicazione delle Gesammelte Schriften era stata conclusa. Si trovano ora in versione originale all’interno del IV volume delle Frankfurter Adorno Blätter, rivista pubblicata dal T. W. Adorno Archiv. Nell’edizione italiana delle Opere complete curata da G. Agamben (1986) sono contenuti tali appunti; essi non sono stati invece riportati nell’edizione del Passagen-Werk curata da E. Ganni (2000), che si è riavvicinata al testo delle Gesammelte Schriften, ma sono stati inseriti nel volume W. Benjamin, Opere complete VII. Scritti 1938-1940, a cura di R. Tiedemann, ed. it. a cura di E. Ganni, con la collaborazione di H. Riediger, Torino 2006.
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2. PASSAGE COME IMMAGINE DIALETTICA
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neur. La figura del flâneur serve a Benjamin per definire lo spazio entro il quale si realizza l’esperienza del moderno21. Se per il passeggiatore solitario la città costituisce la propria dimora, il passage – città in miniatura – rappresenta il salotto. Baudelaire ha identificato l’uomo della folla con il tipo del flâneur. Benjamin non concepisce tale identificazione: a suo avviso il flâneur sente la necessità di distaccarsi dalla massa perché «ha bisogno di spazio e non vuole rinunciare al suo tenore privato». Ciò non implica tuttavia che il flâneur ami la dimensione privata; egli si nutre al contrario del suo sguardo sulla folla, dalla quale tuttavia si distacca entrando nel passage dove, lontano dal traffico cittadino e dalle intemperie, osserva la realtà attraverso il filtro del sogno22. L’atto di flâner implica un distacco dalla dimensione frenetica della vita metropolitana e una propensione per il pensiero23. Per questo il flâneur si astrae dalla realtà in cui cammina, fissa gli istanti in attimi carichi di tensione e colleziona immagini di pensiero24. Egli viene colto da uno stato di ebbrezza, provocato dall’idea di sentirsi libero da costrizioni e convenzioni, come 21
Cfr. Ponzi, Walter Benjamin e il moderno, cit., p. 147. In un appunto appartenente alla sezione [F] del Passagen-Werk, dedicato alla figura del flâneur, Benjamin afferma: «Le strade sono la dimora della collettività. La collettività è un essere perennemente desto, perennemente in movimento, che tra i muri dei palazzi vive, sperimenta, conosce e inventa come gli individui al riparo dalle quattro mura di casa loro. Per tale collettività le splendenti insegne smaltate delle ditte rappresentano un ornamento delle proprie pareti pari, e, forse, superiore a un dipinto a olio in un salotto borghese e i muri con il “défense d’afficher” sono il suo scrittoio, le edicole le sue biblioteche, le cassette delle lettere i suoi bronzi, le panchine la mobilia della camera da letto e la terrazza del caffè la veranda, da cui sorveglia la vita della sua casa. Là, dove gli stradini appendono alla grata la giacca, è il vestibolo, mentre la porta carraia che, dalla fuga dei cortili, conduce all’aria aperta, è il lungo corridoio che spaventa il borghese e rappresenta la sua via d’accesso alle camere della città. Il passage è il loro salotto. In esso più che altrove, la strada si dà a conoscere come l’intérieur ammobiliato e vissuto dalle masse». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [M 3a, 4], p. 474. 23 Come ha sottolineato S. Buck-Morss, il flâneur è la forma originaria (Urform) dell’intellettuale moderno. Oggetto della sua ricerca è la modernità, che egli studia osservando la massa. Cfr. S. Buck-Morss, Dialektik des Sehens. Walter Benjamin und das Passagen-Werk, Frankfurt a.M. 2000, p. 365. 24 Per dare un’immagine dell’incedere del flâneur Benjamin afferma: «Nel 1839 era elegante portare con sé una tartaruga andando a passeggio. Il che dà un’idea del ritmo del flâneur nei passages». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [M 3, 8], p. 473. 22
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
il non aver bisogno di una dimora stabile e ancor meno dell’intérieur borghese. Egli ha per abitazione le strade, dove vive, esperimenta e conosce. Baudelaire ha colto in lui il momento di transizione verso l’epoca infernale della modernità: Il flâneur è ancora sulla soglia, sia della grande città che della classe borghese. Né l’una né l’altra lo hanno ancora travolto. Egli non si sente a suo agio in nessuna delle due; e cerca un asilo nella folla25.
Sul solco del modello fornitogli dal poeta francese, Benjamin colloca la figura del flâneur alle soglie dell’esperienza della metropoli e del capitalismo, che osserva, restando tuttavia ai margini. Il flâneur è l’unica figura che entra nelle gallerie coperte, precorritrici dei grandi magazzini, per guardare senza comprare26. Ad incantare questa figura di passeggiatore solitario sono soprattutto le soglie, zone di passaggio e di arresto tra luoghi contigui. «Fiutare una soglia o riconoscere al tatto una mattonella» immergono il flâneur in una dimensione onirica che lo distacca anche temporalmente dalla realtà in cui passeggia27. L’«incantesimo della soglia» è l’annuncio di un rite de passage. Colui che varca la soglia subisce una trasformazione. La porta28 è connessa infatti a questi riti: «Si attraversa il passaggio, che può essere indicato in molti modi diversi – sia attraverso due aste conficcate nel suolo, che tendono eventualmente a incrociarsi in alto, sia attraverso un tronco spaccato al centro e divaricato… o un ramo di betulla curvato a cerchio… – si tratta comunque di sfuggire a un elemento ostile, di liberarsi di una qualche tara, di affrancar25
Ibid., p. 13. Tale utopia è stata anticipata secondo Benjamin da Charles Fourier, che vede nella struttura architettonica del passage «il canone architettonico del falanstero». Nati con scopi commerciali essi diventerebbero luoghi di abitazione. «Il falanstero è una città di passages». Ibid., p. 7. 27 «La strada conduce il flâneur attraverso un tempo scomparso. Per lui ogni strada è scoscesa, lo conduce in basso […] in un passato che può tanto più ammaliare in quanto non è il passato suo proprio, privato». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [M 1, 2], p. 465. 28 Cfr. ibid., , p. 943: «Queste porte sono anche soglie. Nessun gradino di pietra le contrassegna come tali, ma lo fa l’atteggiamento di attesa delle poche persone. Passi misurati con parsimonia rispecchiano, senza saperlo, che ci si trova . Citazione sull’attesa della gente davanti ai passages». 26
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2. PASSAGE COME IMMAGINE DIALETTICA
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si da una malattia o dagli spiriti dei defunti, che non possono infilarsi nello stretto passaggio». […] Chi penetra in un passage percorre il passaggioporta in senso inverso (ovvero si riconsegna al mondo intra-uterino)29.
I passages vengono associati da Benjamin ad un luogo recondito della nostra psiche in cui proliferano i sogni. In questo senso ricostruire topograficamente la città di Parigi significa per l’autore individuare non solo una città in miniatura all’interno della città vera e propria, ma anche entrare in possesso di una zona sommersa della coscienza, che comunica con la dimensione ctonia. All’interno di questo quadro i passages raffigurano metaforicamente la zona che ci mette in relazione a ciò che non emerge alla superficie, ma che si annida nei lati nascosti delle cose e rimanda alla loro finitezza30. Il motivo della topografia ricorre più volte all’interno del Passagen-Werk in relazione alla pianta della città di Parigi. Benjamin nomina ripetutamente i nomi di strade e piazze parigine, insiste inoltre sugli intrecci tra città e intérieur, così come tra città e «spazio aperto». Se nella prima di queste connessioni interno ed esterno si mescolano, confondendosi in figure dall’identità incerta e ambigua, come sono ad esempio le gallerie coperte, nel secondo caso luoghi della città rimandano inconsciamente ad altri luoghi31. 29 Ibid., [L 5, 1], p. 463. Chi attraversa una soglia subisce una trasformazione: «Dalle esperienze della soglia si è sviluppata la porta, che trasforma chi si avventura sotto la sua volta. L’arco di trionfo romano fa del condottiero che torna in città un trionfatore». Ibid., , p. 936. 30 Benjamin afferma esplicitamente la connessione tra i passages e la discesa agli inferi: «Nell’antica Grecia venivano indicati dei luoghi attraverso i quali si scendeva agli inferi. Anche la nostra esistenza desta è una regione da cui in punti nascosti si discende agli inferi, ricca di luoghi per nulla appariscenti ove sfociano i sogni. Ogni giorno vi passiamo davanti incuranti, ma non appena arriva il sonno, torniamo indietro a tastarli con mossa veloce, perdendoci in questi oscuri cunicoli. Gli edifici delle città sono un labirinto che alla luce del giorno assomiglia alla coscienza; di giorno i passages (sono queste le gallerie che conducono alla loro esistenza dimenticata) sfociano inavvertiti nelle strade. Ma di notte, il loro buio compatto spicca spaventoso fra le masse di case: il passante della tarda ora vi passa davanti in gran fretta, a meno che non l’abbiamo incoraggiato al viaggio attraverso le vie anguste». Ibid., [C 1a, 2], p. 89. 31 Un esempio calzante è offerto da quello che Benjamin definisce «excursus sulla place du Maroc»: «Non solo città e intérieur, anche città e spazio aperto possono intrecciarsi tra loro e tali intrecci possono avvenire assai più concretamente. C’è la place du Maroc a Belleville; quello sconsolato mucchio di pietre con i suoi edifici
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
I passages sono figure dai contorni labili, edifici e gallerie, dotate di due aperture (o soglie) – che mettono in comunicazione le strade parigine attraverso percorsi nascosti, a volte difficilmente individuabili per il pedone distratto – ma prive di lati esterni. Corridoi contornati da vetrine su più piani espongono oggetti curiosi e introvabili, che rispecchiano perfettamente la personalità del proprio venditore; è come se il commerciante subisse un processo di metamorfosi per divenire somigliante alla merce esposta. Costruzioni per lo più in ferro e vetro vedono la loro esistenza duplicata attraverso un gioco di specchi, realizzato dalla luce che entra dal soffitto e produce ombre e riflessi in cui si mescolano merci, possibili compratori, immagini desiderio (Wunschbilder), fino a perdere la loro identità32. Quest’ultima è resa incerta anche popolari mi è apparso, quando ci sono capitato il pomeriggio di una domenica, non solo come un esempio di deserto marocchino, ma anche, e al tempo stesso, come monumento dell’imperialismo coloniale; la visione topografica vi si intrecciava al significato allegorico e, tuttavia, essa non cessava di apparire al suo posto, nel cuore di Belleville. Una simile visione è ridestata solo dagli stupefacenti. E di fatto in questi casi i nomi delle strade sono come sostanze stupefacenti che rendono la nostra percezione più complessa e stratificata di quanto non sia la vita quotidiana. Lo stato a cui essi conducono, la loro “vertu évocatrice” – ma questo termine dice troppo poco, perché l’importante, qui, non è tanto l’associazione di immagini, quanto la loro compenetrazione (Durchdringung) – dovrebbe essere presa in considerazione anche in certi stati d’animo ciclici. Il malato che di notte vaga per la città per ore e ore e dimentica di tornare a casa, è forse caduto sotto l’influenza di quella forza». Ibid., , p. 931. Come il mangiatore di hashish, il flâneur è colto da uno stato di ebbrezza che lo porta non tanto ad associare immagini, ma a farle penetrare l’una nell’altra. A muoverlo non è una mera forza di associazione (vertu évocatrice), ma una vera e propria elaborazione delle immagini attraverso la loro potenza allegorica. Il motivo della topografia è dunque messo in relazione da Benjamin alla visione allegorica. Nell’elaborare l’immagine di un luogo, la coscienza è portata ad una concretizzazione, che si realizza anche sul piano temporale, oltre che su quello spaziale. Spazio e tempo si costituiscono così in unità nella concretezza di uno Zeit-Punkt (momento). Se la conoscenza riesce bene, essa «colpisce l’attimo in mezzo al cuore» (ibid., p. 513). Come afferma Benjamin nel Dramma barocco tedesco, nel processo allegorico avviene che: «In seiner Hand wird das Ding zu etwas anderem, er redet dadurch von etwas anderem und es wird ihm ein Schlüssel zum Bereiche verborgenen Wissens» (GS I/1, 359). «Nelle sue mani [dell’allegorista] la cosa diventa qualcos’altro, per mezzo di essa egli parla d’altro e la cosa diventa allora la chiave per accedere al regno di un sapere segreto». Benjamin, Il Dramma barocco tedesco, in Opere complete II, cit., p. 219. 32 Benjamin dedica un’intera sezione del Passagen-Werk al tema dello specchio. Un aspetto dell’ambiguità dei passages è proprio l’«abbondanza di specchi che amplia fiabescamente gli spazi e rende difficile l’orientamento». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [R 2a, 3], p. 605.
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2. PASSAGE COME IMMAGINE DIALETTICA
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dal gioco di prospettive, che si moltiplicano in modo fuorviante per il passante. Colui che attraversa la soglia per entrare nel passage si immerge in una galleria di immagini reali e virtuali (Bildraum), che non sono altro che i fotogrammi che popolano i sogni dei singoli. Benjamin insiste in più luoghi sulla compenetrazione tra le immagini (Durchdringung der Bilder) percepite dall’individuo e il cosiddetto «immaginario collettivo». Come è stato messo in evidenza nelle pagine precedenti, il progetto di risveglio del diciannovesimo secolo su cui si fonda il Passagen-Werk è, nelle intenzioni benjaminiane, un percorso volto al risveglio della collettività dallo stato di sonno in cui era sprofondata. Il XIX secolo, un lasso di tempo , un sogno di un tempo in cui la coscienza individuale si consolida sempre di più nella riflessione, mentre la coscienza collettiva cade in un sonno sempre più profondo. Ora, però, il dormiente – simile in questo al folle – intraprende attraverso il suo corpo un viaggio macrocosmico: grazie allo straordinario affinamento della sua autopercezione, i rumori e le sensazioni dei suoi organi interni – pressione del sangue, movimenti intestinali, battito cardiaco e tensioni muscolari – che nell’individuo sano e sveglio si perdono nella risacca della buona salute, generano le immagini del delirio o del sogno, che ne danno una traduzione e spiegazione; è quanto accade anche alla collettività sognante, che nei passages si sprofonda nel proprio interno. È ad esso che dobbiamo guardare perché sia possibile – nella moda come nella pubblicità, negli edifici come nella politica – interpretare il XIX secolo come la sequenza delle sue visioni oniriche33.
Interessante è il gioco di parole introdotto dall’autore per suggerire una comunanza tra dimensione spazio-temporale (Zeitraum) e dimensione onirica (Zeit-Traum). I passages sono espressione di un lasso di tempo, di un periodo dominato dal sogno. La coscienza collettiva del XIX secolo è infatti trasportata attraverso le gallerie coperte ad attraversare quella zona recondita della psiche, che abitualmente diventa visibile solo negli stati di ebbrezza, di allucinazione, di ek-stasis, in cui l’io è letteralmente condotto fuori di sé. Come il flâneur, la collettività sognante prova nell’attraversamento del passage uno stato di ebbrezza, che 33
Ibid., [K 1, 4], pp. 433 sgg.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
la mette in comunicazione con i propri sogni, anticipando in questo modo il processo di immedesimazione emotiva che verrà introdotto dal film34.
2.2.2 Dialettica della merce tra antico e nuovo. La struttura architettonica del passage è espressione di un allontanamento graduale dell’architettura dall’arte, per avvicinarsi alla tecnica e subirne il fascino. Il rapporto arte-tecnica, che vede il suo luogo topico nel saggio su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, costituisce anche uno dei motivi fondamentali dell’opera sui passages parigini. Riflettendo sulle mutazioni intervenute a livello percettivo nell’era della tecnicizzazione, Benjamin si interroga non solo sui mutamenti intervenuti nell’arte, ma anche sul senso e la portata dello spazio immaginativo e immaginale nel configurare l’epoca moderna. Benjamin ha saputo così anticipare l’importanza di una serie di tendenze estremamente attuali, che vedono il loro centro propulsore nel ruolo dell’immagine per la società moderna. Il serbatoio di immagini a cui attinge l’autore per costruire la propria riflessione storico-filosofica sul concetto di modernità non è altro che quel cosiddetto Bild-raum (spazio immaginativo) – o BildTraum – in cui pullulano appunto le immagini di sogno della collettività. È a partire dal repertorio delle immagini sognate dal collettivo che Benjamin si ripropone di ricostruire il XIX secolo. Prodotto ibrido, nato dall’incontro tra antico e moderno, il passage si trova al contempo sottoposto alle esigenze di mercato, 34 Cfr. Benjamin, L’opera d’arte, cit., pp. 41 sgg. «La natura che parla alla cinepresa» è «diversa da quella che parla all’occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato dalla coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente. Se di solito ci si rende conto, sia pure approssimativamente, dell’andatura della gente, certamente non si sa nulla del suo comportamento nel frammento di secondo in cui affretta il passo. Se siamo più o meno abituati al gesto di afferrare l’accendisigari o il cucchiaio, non sappiamo pressoché nulla di ciò che effettivamente avviene tra la mano e il metallo, per non dire poi del modo in cui ciò varia in relazione agli stati d’animo in cui noi ci troviamo. Qui interviene la cinepresa coi suoi mezzi ausiliari, col suo ampliare e contrarre il processo, col suo ingrandire e ridurre. Dell’inconscio ottico sappiamo qualche cosa soltanto grazie ad essa, come dell’inconscio istintivo grazie alla psicanalisi».
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2. PASSAGE COME IMMAGINE DIALETTICA
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senza tuttavia abbandonare completamente l’armonia delle forme. Il rendersi vieppiù autonoma dell’architettura dall’estetica non è altro che il risultato del processo capitalistico. Nelle vetrine delle gallerie coperte Benjamin vede realizzata la fantasmagoria del feticcio della merce, che porta l’uomo ad entrare per lasciarsi distrarre. La compresenza di antico e nuovo nell’architettura del passage è funzionale alle esigenze commerciali. Non va dimenticato infatti che i passages nascono dalle speculazioni di un gruppo di commercianti, che si uniscono perseguendo i loro interessi. La merce è esposta in un ambiente che appare come familiare, poiché tende a velare le innovazioni apportate dalla tecnica attraverso la citazione di motivi architettonici provenienti dalle epoche precedenti. Tale mescolanza di stili non appare tuttavia come kitsch agli occhi del moderno borghese. Alla merce appartiene un carattere rappresentativo, che ne determina il valore economico e dunque la vendibilità. Attraverso l’esposizione della merce viene trasfigurato il «valore di scambio», e il «valore d’uso» passa in secondo piano. In questo modo si realizza una forma di visibilità che Benjamin definisce «fantasmagoria» e che mostra la merce come il sogno di una cosa35. La trasfigurazione della merce fa apparire quest’ultima come apparentemente nuova, «mai vista», e in quanto tale, attraverso la moda, conduce all’adorazione della merce intesa come feticcio. L’apparenza dell’oggetto-merce induce così il potenziale compratore verso una tensione alla felicità, che pare estinguersi solo nel momento del possesso dell’oggetto. A suscitare la trasfigurazione della merce non è dunque soltanto il potere economico, ma il desiderio e la pretesa del raggiungimento di uno stato di felicità dato dal possesso. Il desiderio di felicità si coniuga come tensione paradossale tra parvenza della novità e appagamento del già vissuto36. Il feticcio svela così un nuovo modo di essere degli 35 Cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 10. «Le esposizioni universali trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d’uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l’uomo entra per lasciarsi distrarre». 36 Cfr. W. Benjamin, Agesilaus Satander, in G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Milano 1996, p. 24. «[…] il contrasto in cui l’estasi dell’unicità, della novità, del non ancora vissuto, è unita a quella beatitudine della ripetizione, del recupe-
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
oggetti e di conseguenza la possibilità per l’uomo di rapportarsi ad essi in termini differenti. In quanto immagine di un’assenza, non è un unicum irripetibile, ma può essere sostituibile all’infinito, senza perdere il proprio carattere di fantasmagoria37. Quanto al secondo aspetto, così come il feticista non riesce mai a possedere interamente l’oggetto del suo desiderio, poiché quest’ultimo è il risultato di due realtà contraddittorie, allo stesso modo il possessore della merce non potrà mai possederla integralmente38. La fantasmagoria della merce mostra che essa non potrà mai essere semplicemente oggetto (d’uso o di scambio), ma che ad essa inerisce un potere che la colloca in una sfera separata, che attinge al cosiddetto «inconscio collettivo». Al «valore d’uso» e al «valore di scambio» Benjamin aggiunge quello che potremmo definire «valore di esposizione». Esso codifica la regola secondo cui una cosa acquista un valore aggiunto per il semplice fatto di essere esposta. Ciò trova la sua massima espressione nel fenomeno del mannequin. Quest’ultimo rappresenta, attraverso l’inespressività dei tratti, la soglia tra umano e inumano, tra organico e inorganico, producendo una sorta di arresto in cui si mostra più di quanto si dà a vedere. In questo senso potremmo dire che il valore di esposizione è un dispositivo in cui trova la sua attuazione la dialettica in stato di arresto. Il feticismo della merce occupa una posizione centrale all’interno del Passagen-Werk. Tale tema, di derivazione chiaramente marxiana, è filtrato dalla lettura lukacsiana del Capitale, contenuta nel capitolo sulla reificazione di Storia e coscienza di classe39. Sulla scia di Lukács, Benjamin si proponeva di tradurre in termini filosofici la teoria economica sul feticismo, riferendosi questa volta al destino della cultura nell’epoca del grande capitalismo. Quest’ultima era destinata, secondo Benjamin, a divenire ro, del vissuto». Per un’analisi del concetto di merce intesa come immagine dialettica cfr. Pezzella, L’immagine dialettica, cit., pp. 125 sgg. 37 Cfr. le fondamentali analisi sul tema del feticismo contenute in: G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino 2006, p. 42. 38 Ibid., p. 45. 39 Non ci è ora possibile soffermarci nell’analisi della presenza dell’opera marxiana e di quella lukacsiana nel progetto del Passagen-Werk, per cui ci limiteremo ad un accenno cursorio, funzionale allo svolgimento del nostro discorso.
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2. PASSAGE COME IMMAGINE DIALETTICA
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prodotto del processo capitalistico e cioè merce in senso stretto. La fantasmagoria della merce doveva essere dunque approfondita all’interno del progetto del Passagen-Werk in ambito culturale. Il concetto di fantasmagoria non è altro per Benjamin che quello che Marx aveva definito come il «carattere di feticcio della merce»40. Ciò che interessava a Benjamin non era tuttavia il contenuto ideologico insito nelle analisi marxiane, quanto piuttosto la sua espressione nella superficie delle cose, quella che in termini idealistici è definita come «bella apparenza». La fantasmagoria non è altro per Benjamin che la trasposizione del concetto goethiano di «bella apparenza» nell’ambito della mercificazione propria del processo capitalistico del XIX secolo. Se la fantasmagoria ha come ruolo essenziale la trasfigurazione, i passages, i padiglioni di esposizione, i panorami, sono espressione di tale trasfigurazione. Marx non avrebbe certo condiviso l’identificazione benjaminiana tra fantasmagoria e feticismo della merce, poiché nell’analisi dei rapporti sociali egli individuava delle relazioni oggettive, non fantasmagoriche. È dunque evidente che Benjamin ha manipolato il pensiero marxiano, poiché egli rifiutava fermamente l’idea che la cultura fosse la mera espressione di rapporti economici. Ciò che gli stava a cuore non era tanto l’origine economica della civiltà, ma l’espressione dell’economia nella civiltà. Analizzando i fatti economici, egli era alla ricerca di fenomeni originari (Urphänomena) intesi in senso goethiano. Le concrete forme storiche dovevano cioè aiutare a giungere ad una comprensione dell’essenza stessa della produzione capitalistica, per giungere alla quale non bastavano i meri concetti, poiché essi si fermavano ad un livello di astrazione, incapace di cogliere la realtà nella sua concretezza. Era invece necessario il ricorso ad un atlante di immagini, intese goethianamente come Ur-bilder (immagini originarie) e non in senso archetipico, come le aveva interpretate Jung. I passages dovevano essere visti come rovine di un passato 40
In un famoso passo del capitolo sul feticismo della merce, contenuto nel Capitale, Marx afferma che il lavoro in condizioni di produzione capitalistica assume per gli uomini «la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose». K. Marx, Il capitale, a cura di D. Cantimori, Roma 1973, vol. I, p. 104.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
borghese, prima ancora di essere stati demoliti. Ciò rientra nell’operazione di risveglio che Benjamin auspica per il diciannovesimo secolo: per passare dal sogno al risveglio occorre trasformare le fantasmagorie in rovine o almeno vedere in esse delle potenziali rovine. Ridurre «l’esistente in macerie non per amore delle macerie, ma della via d’uscita che le attraversa» è il dispositivo usato dal carattere distruttivo per combattere le fantasmagorie41. Questa concezione rientra nel progetto di rinnovamento della razionalità classica, di cui Benjamin si fa interprete in tutta la sua opera. Per poter esprimere la crisi della propria epoca, che egli fa risalire al secolo precedente, il filosofo ha bisogno di estirpare alle radici il linguaggio e la forma filosofica classica, che, procedendo solo attraverso concetti, è inadeguata a esprimere una realtà frammentaria e discontinua. Attraverso una scrittura filosofica fatta di immagini e costellazioni di immagini Benjamin riesce a fare fronte alla dispersione di senso che caratterizza l’epoca in cui stiamo vivendo. Egli costruisce una forma di pensiero che aderisce perfettamente alla situazione di krisis e alla fase di transizione che ha preso l’avvio nella prima metà del secolo scorso e non può ancora dirsi conclusa. Benjamin aveva dunque inteso che i rivolgimenti iniziati nella sua epoca imponevano l’instaurarsi di una forma di razionalità che non rinunciava alla ragione nella sua forma più astratta, ma che mescolava quest’ultima ad altre forme di pensiero che operavano attraverso concetti e immagini, rivelandosi ben più congrue a descrivere le contraddizioni che abitano il mondo in cui viviamo. All’interno di questo progetto l’opera sui passages parigini riveste una posizione decisiva. Se, come dicevamo all’inizio, il passaggio, la transizione, costituisce non solo l’oggetto di tale opera, ma anche la forma secondo la quale la modernità si offre allo sguardo del filosofo, risulta a questo punto assai chiaro come la figura del passage, intesa come immagine dialettica, e dunque come coesistenza di poli in tensione perpetua, sia una forma gnoseologica e possa tramutarsi in occasione conoscitiva per comprendere il nostro stesso presente. 41 Benjamin, Il carattere distruttivo, in Opere complete IV, cit., p. 523. Cfr. G. Raulet, Le caractère destructeur. Esthétique, théologie et politique chez Walter Benjamin, Paris 1997, pp. 87 sgg.
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2. PASSAGE COME IMMAGINE DIALETTICA
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Nella sezione contenente i Primi appunti del Passagen-Werk Benjamin afferma esplicitamente che tale opera può essere letta secondo due assi temporali: in senso cronologico, e dunque vedendo un’evoluzione nella storia dei passages, e in senso regressivo e cioè a partire dal nostro stesso presente, per coglierne le tracce e le immagini originarie (Ur-bilder) nel passato più recente. In questo lavoro si può parlare di due direzioni: quella che va dal passato al presente e che presenta i passages ecc. come precursori, e quella che va dal presente al passato per far esplodere nel presente il compimento rivoluzionario di questi «precursori»42.
2.2.3 Passage come eterno Übergang. Su questa riflessione s’innesta l’ambiguità (Zweideutigkeit) temporale, che caratterizza la struttura architettonica dei passages. Il coesistere di antico e nuovo che si realizza a livello architettonico rispecchia infatti anche il motivo della simultaneità di presente e passato. Nei passages si condensa la modernité, che – come rivela la sua stessa etimologia – trova la sua espressione più compiuta nella moda. Quest’ultima mostra a chiare lettere la propria essenza dialettica, poiché è costituita da una compresenza di imprevedibile novità, che si inserisce nel fondo del sempre uguale. I passages sono il luogo di esposizione delle nouveautés, che catturano lo sguardo dell’uomo moderno sotto le sembianze spettrali e feticistiche della merce. Essa è avvolta dal volto meduseico della fantasmagoria, che mostra della modernità il carattere onirico. Per questo Benjamin insiste sul tema del risveglio del XIX secolo da attuarsi in termini storico-filosofici attraverso il Passagen-Werk. Risveglio inteso come soglia sulla quale deve essere condotta la coscienza collettiva sognante, per divenire consapevole della zona di transizione tra la propria epoca e la successiva. I passages si prestano a configurarsi come figura della duplicità, immagine dialettica che condensa monadologicamente passato e presente, arcaico e moderno, sogno e veglia, realtà e apparenza. Il modo della manifestazione dei poli dialettici è quello di una Dialektik im Stillstand, della coesistenza cioè di una tensione che non si 42
Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., , p. 944.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
estingue. Stillstand non implica semplicemente un arresto, una cesura, ma uno stallo, una soglia tra immobilità e movimento. Il tratto caratterizzante tale forma di dialettica è proprio il momento dello stallo, poiché esso codifica una zona di indifferenza fra i due poli opposti che si trattengono in una tensione bipolare43. Per questo il sogno si mostra come velato e non svelabile. Se i passages, come i sogni, non hanno alcun lato esterno, ciò significa che essi mostrano la realtà nel suo carattere intrinsecamente ambivalente. L’interno esiste nei passages solo come esterno, il fluidificarsi del divenire è anche arresto. Il tempo sembra essersi congelato come eterno Übergang, contrapponendosi alla concezione dinamica dell’accadere e mostrandosi come passaggio in-finito. Esso ha un carattere infernale, su cui Benjamin insiste ripetutamente. Se il passage da un punto di vista architettonico implica la presenza di una porta, di una soglia da valicare per poter accedere a una realtà topograficamente altra e governata da leggi autonome – non dimentichiamo come nella stessa visione dantesca richiamata da Benjamin l’inferno sia preceduto fisicamente da un ingresso e da un custode di tale soglia – è la stessa dimensione temporale del Moderno ad apparire come infernale. La condanna all’eterno ripetersi dell’identico sotto le spoglie del movimento è messa in ridicolo dalla moda, che, con sembianze seducenti e declinate al femminile, tenta di eliminare ogni interruzione e ogni fine44. Il passaggio eternamente staticizzato in stato di quiete non implica l’interruzione della transizione, ma il tentativo di superare il concetto di fine. Uno dei maggiori meriti del filosofo berlinese è il suo tentativo di mostrare la struttura della Dialektik im Stillstand nella figura del passage. Passage e cesura coesistono infatti nella struttura temporale di un presente che è anche passato45. Dalla coesistenza all’interno del pensiero benjaminiano di passage e cesura, continuum e discontinuum, transizione e distruzione, emerge una nozione assai originale di soglia, di transizione, che vede le sue 43
Cfr. Agamben, Ninfe, cit., pp. 28 sgg. Cfr. GS, V/1, p. 115. 45 In una lettera del 1922, indirizzata a Florens Christian Rang, Benjamin afferma che «il passato non è un tesoro della corona custodito in un museo, ma è qualcosa che viene sempre toccato dal presente». Benjamin, Lettere, cit., p. 64. 44
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2. PASSAGE COME IMMAGINE DIALETTICA
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implicazioni più suggestive e ricche di conseguenze nella formulazione di un concetto di temporalità, dato dall’inscindibile intreccio di presente e di passato, cui si aggiunge anche la dimensione del futuro, poiché nel passato si annidano tracce capaci di prefigurare ciò che deve ancora accadere: nella cesura (Zäsur) offerta dalla Dialektik im Stillstand è contenuta in nuce l’apertura verso una possibile redenzione. Così come il risveglio salva il sonno dallo stato di inconsapevolezza e di sogno in cui è sprofondata la coscienza collettiva, vedremo come la redenzione sarà in grado di riscattare il presente attraverso il passato. Su questo promettente concetto di temporalità, definito da Benjamin Jetztzeit (tempo-ora), ci soffermeremo nelle pagine che seguono.
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3. Immagine-tempo: Jetztzeit e filosofia della storia
3.1 La rottura del tempo storico Attraverso la nozione di Jetztzeit (tempo-ora) Benjamin tenta di superare l’idea di tempo lineare e con essa la concezione di tempo storico progressivo e la sua tendenza infuturante. Detto in altri termini, l’autore introduce un’idea di temporalità che, opponendosi alle categorie di continuità e causalità storica, vuole rompere con l’idea di progresso. La presenza onnipervasiva del progresso, che porta a considerare il tempo come una catena di eventi volti attraverso un processo lineare e continuo al futuro, conduce, secondo Benjamin, inevitabilmente alla svalutazione della dimensione del presente e all’impoverimento dello spazio dell’esperienza. Il presente costituisce infatti solo una delle tappe che conducono al futuro. L’autore sembra anticipare con il suo sguardo profetico un processo che ancor oggi non pare destinato ad arrestarsi. Con lo sviluppo del progresso tecnico infatti la tendenza alla modernizzazione diventa oltremodo crescente e tende ad assumere le coloriture di un processo volto non semplicemente al futuro come sua finalità più intima, ma al superamento stesso di tale futuro, che non rappresenta più per l’uomo il fine a cui rivolgersi, ma deve anch’esso essere superato il più rapidamente possibile. Ad un’idea di storia progressiva, che attribuisce al futuro una dimensione prospettica, si va sostituendo l’idea di un futuro che deve essere inglobato e incorporato come parte di un processo evolutivo più ampio, volto allo sviluppo1. 1 Giacomo Marramao nei suoi libri Minima temporalia e Potere e secolarizzazione parla a questo proposito di «patogenesi del moderno», indicando con tale espressione «un’inversione simbolica del rapporto tra dimensione prospettica (o “orizzon-
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Le pagine di Benjamin sulla Jetztzeit introducono una riflessione sul senso della storia e del progresso che si rivela non solo di grande attualità, ma che apre la strada ad una comprensione del nostro stesso presente, obbligandoci a pensare diversamente su una serie di questioni fondamentali. L’intenzione di Benjamin non ha infatti nulla di nostalgico: egli non si propone un ritorno al passato da contrapporre ad una tendenza progressiva che vuole contrastare, bensì una riconquista del presente da attuare attraverso la rottura del modello epistemologico del tempo storico progressivo2. Se nella concezione progressiva e cronologica del tempo il passato, inteso come «già stato», costituisce un momento della dialettica hegeliana dell’ora ed è definito come il non essere dell’ora e cioè nei termini della negazione3, ciò che intende operare Benjamin è superare tale modello dialettico, sottraendo il passato al suo essere negativo. Il suo progetto mira alla costruzione di una temporalità totalmente altra dalla negatività del modello cronologico. Il «già stato» della temporalità cronologica corrisponde, secondo Benjamin, al ricordo, che può essere ricondotto al presente attraverso la memoria volontaria. Tale ricordo tuttavia non riporta alcuna traccia dell’evento vissuto e opera in questo modo un impoverimento del passato. Per sopperire alla povertà di esperienza causata dalla negatività del ricordo, Benjamin ripropone il modello temporale delle correspondances proustiane: alla linearità della logica argomentativa si sostituisce la simultaneità data da quello che Benjamin nel saggio Zum Bilde Prousts definisce verschränkte Zeit (tempo incrociato), che sembra anticipare la nozione di Jetztzeit:
te di aspettativa”) e spazio di esperienza. La conseguenza di tale inversione è che la prospettiva tende a fagocitare l’esperienza». Cfr. G. Marramao, Minima temporalia. Tempo spazio esperienza, Roma 2005, p. 83. 2 Come ha sottolineato Marramao, si tratta di un problema di Darstellung: è la coscienza di tale inversione simbolica del tempo a condurre Benjamin ad assegnare alla «rappresentazione» della storia una forte valenza etico-pratica. Cfr. ibid., pp. 84 sgg. 3 «Ora; mentre esso vien mostrato, ha già cessato di essere […] L’ora consiste proprio in questo: nel non essere più mentre esso è; l’ora come ci vien mostrato è un già stato». G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, Firenze 1967, p. 89.
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3. IMMAGINE-TEMPO: JETZTZEIT E FILOSOFIA DELLA STORIA
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L’eternità di cui Proust dischiude degli aspetti non è il tempo illimitato, ma il tempo incrociato. Ciò che veramente gli importa è il corso del tempo nella sua forma più reale, e cioè intrecciata con lo spazio4.
3.2 Genesi e genealogia del concetto di Jetztzeit Il concetto di Jetztzeit viene introdotto dall’autore da un lato per superare il modello storicistico di tempo lineare, dall’altro per definire e specificare un concetto di presente, in cui sono sparse schegge del tempo messianico, del tempo cioè in grado di redimere gli eventi dal loro essere avvenuti di necessità e non poter essere altrimenti. «Lo Jetzt è quel punto critico celato in ogni immagine del passato che, se toccato, ne determina la leggibilità nel presente, facendo esplodere in esso la visibilità dell’immagine»5. La Jetztzeit è un tempo immobile, cristallizzatosi in immagine, un tempo-immagine. Ma tale immagine, poiché illuminata da una rete temporale i cui fili si intrecciano, sovvertendo la linearità del decorso cronologico, è dotata di un suo intrinseco movimento, che la porta ad essere al contempo immagine del passato, del presente e del futuro. Essa è un’immagine-tempo, o per dirla in termini benjaminiani un’immagine dialettica. La salvazione dell’immagine, operata attraverso il trattenerla nell’equilibrio dell’istante, non significa volerla pietrificare come icona in un punto del continuum temporale lineare, ma liberarla dal giogo della necessità della durata. Lo Jetzt, in quanto incrocio di temporalità diverse, è configurabile come struttura prismatica, a cui si contrappone il continuum, il tempo del mito e della ripetizione. Ed è proprio il continuum che deve essere arrestato attraverso la spazialità dell’immagine. La Jetztzeit definisce il presente come interruzione, cesura, arresto. In questo essa non fa che alludere all’arresto definitivo, il Giorno del Giudizio. Ogni presente, in quanto anticipatore, eccede se stesso. Ciò avviene attraverso la trasformazione della Jetztzeit in Augenblick (istante), originantesi nel4
Benjamin, Per un ritratto di Proust, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 37 (traduzione modificata). 5 F. Desideri, Ad vocem Jetztzeit, in Id., La porta della giustizia. Saggi su Walter Benjamin, Bologna 1995, p. 160.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
l’immagine che si svela all’improvviso, senza lasciare traccia nella memoria involontaria, e chiede di essere decifrata. Tenendo sempre presenti i due nuclei tematici su cui si innesta la nozione di Jetztzeit – critica del modello storicistico da un lato, individuazione di un modello di temporalità storica che allude alla dimensione messianica dall’altro – tentiamo ora di tracciare una breve genealogia di tale concetto all’interno del pensiero benjaminiano. Come noto, essa si trova al centro della sua concezione storica, che emerge da un testo capitale, che l’autore non aveva destinato alla pubblicazione, affidandolo alle mani di alcuni amici: le tesi Über den Begriff der Geschichte. Con esso Benjamin voleva offrire un nuovo modello storiografico, che si opponesse allo storicismo e a un certo materialismo storico, il più diffuso, influenzato dalla visione evoluzionistica del progresso. Egli affermava al contrario «l’intenzione di dimostrare un materialismo storico che ha annichilito in sé l’idea del progresso»6. Proponendo un modello di temporalità storica che si differenzia da quella delle scienze naturali, poiché è disomogenea e caratterizzata da tracce di riferimento al futuro, Benjamin voleva inoltre avvicinarsi ad un’idea di tempo che si contrapponesse alla linearità del decorso storico adottato dallo storicismo e ad un modello ciclico, per riferirsi invece alla concezione ebraica del tempo, in cui sono «sparse schegge del tempo messianico». Per comprendere la nozione di Jetztzeit in tutta la sua pregnanza, sembra necessario riferirsi brevemente ad alcuni dei testi principali che annunciano tale scritto. Questa scelta è dovuta in buona parte alla convinzione che non si possa parlare di fasi all’interno del pensiero di Benjamin, come è stato invece suggerito da alcuni7, ma che ci sia una forte continuità che attraversa 6 Benjamin, Opere complete IX. I “passages di Parigi”, cit., [N 2, 2], p. 514. Per questa interpretazione del marxismo in modo eterodosso Benjamin aveva preso ispirazione da uno scritto di Karl Korsch del 1938 intitolato Karl Marx, in cui lo scrittore affermava che Marx era stato inizialmente influenzato dal pensiero dei controrivoluzionari della Rivoluzione francese e dai romantici tedeschi, filtrato attraverso Hegel. Benjamin cita esplicitamente Korsch nel Passagen-Werk alle pagine 543 sgg. 7 Durante il periodo iniziale della recezione benjaminiana si tendeva ad individuare una cesura tra una fase giovanile intrisa di teologia e una fase materialistica, influenzata dalla lettura di Marx e soprattutto dall’interpretazione lukacsiana di Marx. A questa lettura seguivano evidentemente una serie di domande circa il mag-
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3. IMMAGINE-TEMPO: JETZTZEIT E FILOSOFIA DELLA STORIA
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tutte le riflessioni da lui compiute dagli anni giovanili fino alla sua morte. Più che di evoluzione sembra opportuno, come ha suggerito S. Mosès8, parlare di stratificazione. Esiste insomma una continuità di temi che si susseguono, non senza svolte, ma senza che sia possibile individuare fasi diverse all’interno della riflessione benjaminiana. L’idea di temporalità, che trova la sua più piena formulazione all’interno delle tesi, risente di un intreccio di tematiche e influssi di natura e origine assai diverse, che sembrano a prima vista inconciliabili, ma che invece trovano una perfetta fusione e vengono a costituire le fondamenta del pensiero benjaminiano. L’originalità della riflessione dell’autore berlinese è data anche dall’opera di fusione che egli riesce a offrire ricorrendo ad una raffinata arte della citazione, che mette insieme materiali e autori assai diversi, intervenendo a commentare e ad interpretare questi ultimi. Ci limiteremo in questa sede ad accennare a tre fonti, che concorrono alla fondazione del concetto di Jetztzeit: romanticismo, messianismo e marxismo9. L’elemento romantico accompagna Benjamin fin dalle prime opere e non rappresenta per l’autore un modello puramente letterario e artistico, ma una vera e propria Weltanschauung, che si concretizza in una critica della società capitalistica in nome di valori e modelli pre-capitalistici e dunque in una forte critica del progresso. L’aspetto che l’autore tiene a sottolineare è che tale critica alla modernità non comporta uno sguardo nostalgico verso un passato edenico, ma può essere accompagnata da un momento utopico rivoluzionario10. L’interesse di Benjamin per il Romangiore spazio dato dall’autore all’elemento messianico (Scholem) o materialista (Brecht). In anni più recenti la critica benjaminiana sembra essersi stabilizzata a considerare l’importanza di entrambi gli aspetti, che convivono in una forma nuova e originale. Cfr.: Menke, Sprachfiguren, cit.; A. Pangritz, Theologie, in Opitz, Wizisla (a cura di), Benjamins Begriffe, cit., pp. 774-825; I. Wohlfart, “Einige schwere Gewichte?” Zur “Aktualität” Walter Benjamins, in K. Garber, L. Rehm (a cura di), global benjamin, cit., vol. 1, pp. 31-55. 8 Cfr. S. Mosès, Der Engel der Geschichte. Franz Rosenzweig, Walter Benjamin, Gershom Scholem, Frankfurt a.M. 1994; Palmier, Walter Benjamin, cit. 9 Cfr. il bel libro: M. Löwy, Segnalatore d’incendio. Una lettura delle tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin, Torino 2004. 10 Su questi temi cfr. M. Löwy e R. Sayre, Révolte et mélancolie. Le romantisme à contre-courant de la modernité, Paris 1992.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
ticismo investe la sfera estetica, teologica e storico-filosofica, che nel suo pensiero trovano una fusione alchemica perfetta. Tra gli scritti benjaminiani che risentono maggiormente dell’influsso delle idee romantiche si situano in ordine cronologico: Dialogo sulla religiosità contemporanea (1912), Romanticismo (1913), La vita degli studenti (1914) oltre ovviamente alla sua dissertazione di dottorato Il concetto di critica nel romanticismo tedesco (1919). Nel Dialogo sulla religiosità contemporanea, così come nella conferenza che porta il titolo La vita degli studenti, egli sottolinea in particolare la critica all’ideologia del progresso, che non viene condotta in termini passatisti e nostalgici, ma in nome della rivoluzione. La conferenza si apre con le seguenti affermazioni: C’è una concezione della storia che, fidando nell’infinità del tempo, distingue solo il ritmo, la velocità degli uomini e delle epoche, che scorrono più rapidi o più lenti sui binari del progresso. A questa concezione corrispondono l’incoerenza, l’imprecisione e la mancanza di rigore delle pretese che essa avanza nei confronti del presente. Invece queste nostre considerazioni fanno riferimento a uno stato determinato, in cui la storia riposa come raccolta in un punto focale, e a cui alludono da sempre le immagini utopiche dei pensatori. Gli elementi dello stato finale non sono tendenze informi di progresso, né sono chiaramente visibili; sono, al contrario, opere, creazioni e pensieri sommamente minacciati, malfamati e derisi, che giacciono nel grembo profondo di ogni presente. La storia ha il compito di dare la sua forma pura e assoluta allo stato immanente della perfezione, di renderlo visibile e sovrano nel presente. Ma non è possibile determinare questo stato ricorrendo a una descrizione prammatica dei fenomeni particolari (istituzioni, costumi ecc.), alla quale anzi si sottrae; può essere soltanto colto nella sua struttura metafisica, come il regno messianico o l’idea francese di rivoluzione11.
Utopia, messianismo e rivoluzione sono i cardini intorno ai quali si muoverà la riflessione successiva di Benjamin. Il messianismo si trova al centro della concezione benjaminiana di tempo e storia. In un saggio del 1916, che porta il titolo Trauerspiel und Tragödie, l’autore introduce una distinzione, all’interno del tempo 11 W. Benjamin, La vita degli studenti, in Metafisica della gioventù. Scritti 19101918, a cura di G. Agamben, Torino 1982, p. 137.
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3. IMMAGINE-TEMPO: JETZTZEIT E FILOSOFIA DELLA STORIA
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storico, tra tempo non riempito (unerfüllt), che rappresenta la regola, e tempo riempito (erfüllt), che rappresenta l’eccezione alla regola: il tragico. Il tempo storico viene così definito come un tempo non riempito, ma che può essere riempito in ogni istante, poiché esso «è infinito in ogni direzione, e incompiuto in ogni momento». È opportuno a questo punto avere ben chiaro che cosa intenda Benjamin con unerfüllt, poiché tale termine rappresenta il punto di distinzione tra tempo storico e tempo meccanico. Quest’ultimo è solo «una forma, ma – ciò che è più importante – è una forma che, in quanto tale, non può mai essere colmata»12. Il tempo meccanico è dunque vuoto. Il tempo della storia rappresenta secondo l’autore «molto di più che la possibilità di spostamenti di una determinata grandezza e regolarità – ossia del movimento della lancetta dell’orologio – durante spostamenti simultanei di struttura più complicata»13. Dunque si può dire che la forza del tempo storico rispetto a quello meccanico consiste nella sua incapacità a venire compreso da alcun avvenimento di carattere empirico. Vi è un «di più» che fa sì che il tempo storico non possa essere colto come accadimento, ma solo fissato come «idea», l’idea del tempo riempito, definito anche «tempo tragico». Esso costituisce per l’ambito del profano ciò che nel sacro viene definito «tempo messianico». Il tempo storico non è altro che la secolarizzazione del kairós. Si possono individuare dunque tre diversi livelli di distinzione all’interno della categoria benjaminiana di tempo: la prima tra tempo meccanico (vuoto) e tempo storico (non riempito, riempito); la seconda tra tempo storico non riempito e riempito; la terza tra tempo storico individualmente riempito (tragico) e tempo storico divinamente riempito (messianico)14. Il tempo meccanico, apparentemente lineare, è in realtà circolare, sempre identico a se stesso, e corrisponde dunque al tempo dell’eterno ritorno, che è al contempo sempre nuovo e sempre identico. 12 W. Benjamin, Trauerspiel e tragedia, in Metafisica della gioventù, cit., p. 168. Questa frase è un’implicita critica alla concezione kantiana dell’esperienza, secondo la quale il tempo rappresenta una forma e non conosce l’essere riempito. 13 Ibid. 14 Cfr. M. Sagnol, Tragique et tristesse. Walter Benjamin, archéologie de la modernité, prefacé par S. Mosès, Paris 2003, pp. 53 sgg.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Con la propria idea materialistica della storia l’autore si propone di superare due concezioni che sembrano opporsi, ma che sono entrambe l’espressione della fantasmagoria più dirompente. Egli si propone di superarla opponendo ad essa il proprio concetto dialettico di storia. Il tempo riempito, di cui si parla nel saggio giovanile Trauerspiel und Tragödie, non è altro che l’anticipazione di ciò che nelle tesi Sul concetto di storia verrà definito Jetztzeit. In esso si realizza pienamente, attraverso la figura dello storico, la polarità tra tempo individualmente riempito e tempo divinamente riempito, poiché attraverso la Jetztzeit egli «fonda un concetto di presente […] nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico»15. La contrapposizione tra tempo storico qualitativo – come tempo riempito – e tempo storico quantitativo – caratteristico dell’ideologia progressiva – è ripresa all’interno della tesi di dottorato su Il concetto di critica nel romanticismo tedesco, dove Benjamin oppone l’ «infinità temporale qualitativa» (zeitliche qualitative Unendlichkeit), «che è una conseguenza del messianismo romantico», alla «vuota infinità del tempo» (leeren Unendlichkeit der Zeit), che caratterizza la concezione progressiva16. Il materialismo storico si integra perfettamente con gli altri due elementi: si tratta infatti di un materialismo sui generis, che è legato soprattutto al tema della lotta di classe, mutuato dalla lettura lukacsiana di Marx. Tale concezione del marxismo è imbevuta della critica romantica al progresso e risente della lettura del testo di Karl Korsch Karl Marx (1938), in cui Korsch individua tra le fonti del marxismo il romanticismo tedesco, che «specialmente attraverso Hegel ha influenzato Marx»17. Il nucleo di pensiero che ha condotto al concetto di Jetztzeit, che appare nelle tesi Über den Begriff der Geschichte, è testimoniato da un appunto appartenente al Passagen-Werk – uno dei pochi in cui compare esplicitamente tale termine – in cui Benjamin tratta del costituirsi dell’interesse materialistico per un determinato oggetto storico. Tale interesse non solo «si precostituisce in 15
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 57. Cfr. W. Benjamin, Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 19191922, Torino 1982, p. 86. 17 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., pp. 543 sgg. 16
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3. IMMAGINE-TEMPO: JETZTZEIT E FILOSOFIA DELLA STORIA
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quell’oggetto», ma promuove l’oggetto «dal suo essere di allora alla superiore concretezza dell’essere attuale». Tale problema non può essere affrontato all’interno dell’«ideologia del progresso», ma solo in una visione della storia che la oltrepassi. In essa ogni passato può ottenere un grado di attualità più alto che al momento della sua esistenza. La sua configurazione in quanto superiore attualità spetta all’immagine in cui la comprensione lo riconosce e lo colloca. E questa compenetrazione dialettica e presentificazione di circostanze che appartengono al passato è la prova di verità dell’agire presente. Ovvero: essa accende la miccia del materiale esplosivo riposto nel ciò che è stato18.
Il fatto che l’attualizzazione storica, così come la intende Benjamin, sia in grado di accendere «la miccia del materiale esplosivo riposto nel ciò che è stato» richiama in modo forte le pagine delle tesi Sul concetto di storia.
3.3 La Jetztzeit nelle tesi Über den Begriff der Geschichte Il termine Jetztzeit compare esplicitamente solo nelle tesi XIV, XVIII e A. Nella prima Benjamin critica duramente la concezione storicistica, nelle altre due allude a quel modello di temporalità messianica, che aleggia nel corso di tutto il testo. Se più volte è stato notato dalla critica, sia pure in modi diversi, che il pensiero di Benjamin è attraversato dall’intreccio tra marxismo e messianismo, si può dire che nella formulazione del concetto di Jetztzeit i due elementi trovano la loro sintesi più suggestiva e ricca di implicazioni. La tesi XIV segna un momento importante nell’economia delle riflessioni sul concetto di storia. Ciò è rivelato da una citazione di Karl Kraus, Ursprung ist das Ziel, l’origine è la meta, che Benjamin pone a esergo e che costituisce una sorta di epigrafe per tutte le tesi successive. Con tale affermazione egli vuole alludere al proprio metodo archeologico, teso ad individuare nell’arché non tanto l’inizio di uno sviluppo, e dunque l’instaurarsi di un percor18
Ibid., [K 2, 3], p. 437.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
so cronologico, bensì un vortice che si situa nel presente. Intesa in questi termini, la ri-voluzione che vuole attuare Benjamin nei confronti delle altre Darstellungen storiche è da leggersi in senso etimologico, e cioè come inversione e ritorno all’origine.
3.3.1 Tempo omogeneo e vuoto e tempo riempito dell’adesso. Nella tesi XIII Benjamin critica le teorie progressiste della storia, imputando loro di basarsi su una concezione di temporalità «omogenea e vuota», a cui egli contrappone – nella tesi successiva – un diverso modello storiografico, che fa riferimento al tempo «riempito dell’adesso» (Jetztzeit)19. La concezione di progresso del genere umano è, secondo l’autore, inseparabile infatti da quella di un «tempo omogeneo e vuoto» (die homogene und leere Zeit). Ciò a cui allude Benjamin è l’idea storica di progresso, che aveva dominato dapprima durante l’Aufklärung, successivamente nel XIX secolo pensiero liberale da un lato, marxismo dall’altro. Egli si scaglia soprattutto contro l’utilizzo a scopi politici dell’idea di progresso da parte della socialdemocrazia: quest’ultima infatti ne aveva fatto lo strumento della propria lotta contro fascismo e nazismo, non solo nel periodo di Weimar, ma anche in seguito. Secondo l’autore, la fede assoluta nell’idea di progresso è il risultato di un’errata valutazione del senso della storia, che porta a considerare quest’ultima come processo lineare e progressivo verso il raggiungimento del Bene. Si tratta insomma di una sorta di fideismo di carattere religioso nei confronti del progresso storico, che risente in buona parte dell’influsso dell’ambito scientifico nell’interpretazione dei fatti storici. Il progresso dell’umanità non è altro, per la socialdemocrazia, che una diramazione del progresso tecnico su cui trova il proprio fondamento. 19 In una famosa lettera ad Horkheimer del 12 giugno 1941, Adorno istituisce un paragone tra la Jetztzeit benjaminiana e il kairós di Paul Tillich, teologo luterano, che in quegli anni collaborava con l’Institut für Sozialforschung di Frankfurt a.M. Anche Tillich contrapponeva due nozioni di temporalità: il chrónos, tempo vuoto, e il kairós, tempo «pieno» fatto di una successione di istanti, portatori di una scintilla che custodisce una chance irripetibile. In questa stessa lettera Adorno afferma che nessun altro lavoro di Benjamin è così vicino alle intenzioni dell’Istituto, sottolineando in particolare l’idea della storia come catastrofe permanente, la critica del progresso e del dominio della natura e la sua posizione verso la cultura.
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Il progresso, come si rappresentava nelle teste dei socialdemocratici, era, in primo luogo, un progresso dell’umanità stessa (e non solo delle sue abilità e conoscenze). Era, in secondo luogo, un progresso interminabile (in corrispondenza a una perfettibilità infinita dell’umanità). Esso valeva, in terzo luogo, come un progresso essenzialmente inarrestabile (come quello che descrive spontaneamente un percorso diritto o a spirale)20.
Oltre alla congiuntura storica a cui Benjamin fa riferimento, il suo stesso presente, ciò che egli vuole criticare aspramente è la base teologica su cui si sono costruite le concezioni di storia a partire dall’Illuminismo. Queste ultime considerano la storia come un processo dotato di un’origine e di una fine assolute e dunque come una grandezza quantitativa. Ciò contrasta tuttavia, secondo Benjamin, con l’idea qualitativa del tempo religioso, da lui stesso ripresa nella fondazione del proprio concetto di temporalità storica. In questo senso ci viene in aiuto un’annotazione del Passagen-Werk, in cui l’autore cita il filosofo Hermann Lotze, che sosteneva l’insensatezza di un riferimento a categorie teologiche, per costruire un modello di temporalità storica: Il rifiuto dell’idea di progresso nella concezione religiosa della storia: «In tutti i suoi movimenti la storia non potrebbe raggiungere una meta che non sia sul suo stesso piano, e noi potremmo risparmiarci la fatica di cercare lungo la sua durata un progresso che essa è destinata a compiere non in questa, ma in altezza e in ogni singolo punto»21.
La coscienza dell’unicità qualitativa di ogni singolo istante apre, secondo Benjamin, come avremo modo di mostrare, possibilità inedite di interpretazione del presente. Ogni istante può racchiudere infatti una forza dirompente capace di smuovere dalle fondamenta i fatti storici e di mutare la direzione degli accadimenti. La critica all’idea di storia progressiva conduce Benjamin alla formulazione di una concezione di temporalità che si contrappone a quella dichiarata dalla concezione positivistica. Se, come abbiamo affermato in precedenza, l’idea di progresso è inseparabile dall’idea di un «tempo omogeneo e vuoto», l’autore, inseren20 21
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 45. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 13a, 2], p. 539.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
dosi in una tradizione di pensiero che da H. Bergson passa attraverso E. Husserl, M. Heidegger e F. Rosenzweig, sia pure partendo da presupposti diversi, non fa altro che porre a fondamento della propria concezione storiografica un’idea di tempo che fa riferimento alla concezione lineare e progressiva, per distaccarsene in modo assai netto. Se nella dimensione del «tempo omogeneo e vuoto» il passato non è revocabile, il futuro sembra proiettarsi nella dimensione dell’irreversibilità e si trova all’interno di una progressione come momento da superare, ciò significa che esso diviene «futuro passato» e cioè che è nel passato che bisogna cercare le tracce del futuro22. Presente, passato e futuro non sono eventi che si susseguono in modo lineare e continuo, ma rappresentano tre condizioni della coscienza storica23. Affinché il tempo fisico venga percepito come tempo storico bisogna interrompere il decorso storico.
3.3.2 Citazione e moda. Della concezione «qualitativa» di tempo si fa interprete, secondo Benjamin, Robespierre, protagonista della tesi XIV, che, durante la Rivoluzione francese, aveva guardato ad un modello temporale appartenente ad un passato carico di adesso, che egli «estraeva a forza dal continuum della storia»24, rendendolo oggetto di citazione. La Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata. Essa citava l’antica Roma esattamente come la moda cita un abito d’altri tempi25. 22 Sul tema del «futuro passato» cfr. G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Torino 2005, pp. 104 sgg. Sarebbe senz’altro interessante confrontare le riflessioni di Benjamin con quelle contenute in: R. Kosellek, Vergangene Zukunft. Zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Frankfurt a.M. 1979. 23 Si potrebbe pensare, come qualcuno ha già tentato di dimostrare, ad un possibile avvicinamento della concezione temporale benjaminiana a quella di Agostino. In termini benjaminiani si potrebbe affermare che esiste un presente del passato, un presente del presente e un presente del futuro. Tuttavia la Jetztzeit non rappresenta per Benjamin una condizione dell’animo umano, ma è inscritta nella storia. Se pure si potrebbe far dire a Benjamin che il presente del passato è il ricordo, il presente del presente la visione e il presente del futuro l’attesa, questi concetti sono per l’autore berlinese delle categorie storiche. Cfr. Mosès, Der Engel der Geschichte, cit., pp. 136 sgg. 24 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 47. 25 Ibid.
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Il concetto di citazione, nel riflettere la concezione antisoggettivistica di filosofia, inerisce sia all’ambito della produzione testuale, sia all’oggetto delle riflessioni benjaminiane. In un famoso passo del libro sui passages l’autore istituisce un paragone molto forte tra storia e testo, affermando che «scrivere storia significa […] citare storia»26. Tuttavia la nozione di citazione va ben oltre questo paragone. Essa compare nella terza tesi in relazione alla problematica della conoscenza del passato, caricandosi tuttavia ben presto di una componente escatologica, legata al fatto che «solo a un’umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti»27. Nella tesi XIV la citazione si affranca dai tratti redentivi per essere messa in relazione ad un altro tema a cui Benjamin è molto legato, tanto da dedicarvi un’intera sezione del Passagen-Werk: la moda. Il paragone sembra a un primo sguardo azzardato, invece si mostra ricco di implicazioni. La moda non fa altro che citare il passato per attualizzarlo. Tuttavia la temporalità di cui essa si fa portatrice non è il tempo discontinuo proprio della concezione ebraica, quanto invece la temporalità dell’inferno. È incredibile quanto il tema della moda sia vicino, nelle intenzioni di Benjamin, a quello della morte. Nella citazione di Leopardi che egli pone ad esergo del capitolo sulla moda del Passagen-Werk si dice: «Moda: Madama morte! Madama morte!»28; la moda è «la parodia del cadavere screziato»29, la «provocazione della morte attraverso la donna», «un amaro dialogo sottovoce sulla putrefazione»30. I suoi estremi sono costituiti da frivolezza e morte. Ma la moda è anche straordinariamente perspicace nell’anticipare ciò che ha da venire, poiché in essa gioca un vero e proprio «spettacolo dialettico»: la coesistenza ed il radicarsi dell’elemento di novità in ciò che è abituale, già visto. Essa cioè, pur avendo un «buon fiuto per ciò che è attuale»31, si muove e agisce nell’ambito dell’eterno ritorno dell’identico, senza fine né interruzioni. Il modello temporale dell’inferno si oppone evidentemente al 26
Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 11, 3], p. 535. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 23. 28 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 66. 29 Ibid., [B 1, 4], p. 67. 30 Ibid. 31 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 47. 27
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tempo proprio della rivoluzione, che mira a interrompere il flusso omogeneo del continuum per ribaltarne il corso. Entrambe queste temporalità si inseriscono nella storia della tradizione, tuttavia mentre la prima si muove all’interno di un ciclo che non fa che ripetersi, portando con sé le tracce del vecchio, la seconda si propone il compito di sovvertire la tradizione, operando per tagli netti. L’atto della citazione deve essere preceduto da un’operazione violenta di estrazione di un nucleo dal suo contesto originario, per venire inserito in un luogo diverso, in cui si carica di una forza esplosiva, capace di ispirare i cambiamenti più profondi. Tale violenza non si manifesta tuttavia con la stessa intensità nella moda e nella rivoluzione: se la prima attua il suo «balzo di tigre nel passato» all’interno della logica del potere, se essa cioè, pur sovversiva, è serva della classe dominante, la rivoluzione compie invece il suo salto dialettico occupando una posizione contrastiva nei confronti dei potenti, poiché essa si propone di salvare l’eredità degli oppressi, liberandoli con un gesto di cesura dal continuum catastrofico. Così ad esempio la Roma repubblicana era per Robespierre carica di Jetztzeit al punto tale che, strappata dal suo contesto, poteva diventare un’arma appuntita contro la monarchia. Occorre sottolineare che la distanza temporale che separa i due momenti rivoluzionari non ha alcuna importanza: lunga o breve che sia, essa non è in grado di indebolire la forza dirompente della sua fonte originaria. Il legame fuggevole è dovuto piuttosto al fatto che, una volta individuati i materiali citabili, essi devono essere custoditi con la cura del collezionista di immagini, che sa cogliere e fare proprie le istantanee prima che esse si dissolvano nel continuum. Non a caso nei Materiali preparatori alle Tesi Benjamin ricorre all’immagine della lastra fotografica per indicare gli strumenti con cui opera lo storico: il passato deposita le sue immagini in una lastra fotografica. Solo il futuro ha a disposizione acidi sufficientemente forti da poter fissare le immagini con la chiarezza di tutti i dettagli32. Questa metafora è presente anche nel saggio Eduard Fuchs, Der Sammler und der Historiker dove l’autore afferma la necessità di una 32
Cfr. ibid., p. 83.
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scienza della storia, che non abbia più come oggetto un groviglio di puri dati di fatto, bensì quel gruppo definito di fili, che rappresenta la trama di un passato nell’ordito del presente. (Sarebbe errato voler identificare questa trama col mero nesso di causa ed effetto. Piuttosto, questa trama è tutta di genere dialettico, ed è possibile che per secoli siano andati perduti certi fili che il corso attuale della storia riprende di colpo e quasi inavvertitamente)33.
3.3.3 Critica della causalità storica. Per essere legati da un nesso causale due eventi devono appartenere allo stesso asse temporale. Il modello di temporalità, che Benjamin vuole mettere in risalto, non può per la sua stessa natura essere governato dal principio di causalità, poiché esso nasce dalla discontinuità prodotta da cesure, rotture, rivoluzioni. Lo stesso corso storico, fatto di guerre, lotte, vittorie e sconfitte, può essere letto inoltre dalla parte dei vincitori e dalla parte dei vinti. La storia dei vincitori è la cosiddetta storia ufficiale ed è descrivibile nei termini di una successione continua di vittorie, in cui il bottino viene trasmesso ereditariamente da vincitore a vincitore. La storia dei vinti è invece una storia segreta, che obbliga lo storico a ricorrere a categorie interpretative ben diverse da quelle del positivismo. La tesi A, deputata alla critica della causalità storica, indica la forma di questo secondo modello storiografico. Lo storicismo si accontenta di stabilire un nesso causale fra momenti diversi della storia. Ma nessuno stato di fatto è, in qualità di causa, già perciò storico. Lo è diventato, postumamente, attraverso circostanze che possono essere distanti migliaia di anni da esso. Lo storico che muove da qui cessa di lasciarsi scorrere tra le dita la successione delle circostanze come un rosario. Egli afferra la costellazione in cui la sua epoca è venuta a incontrarsi con una ben determinata epoca anteriore. Fonda così un concetto di presente come quel tempo-ora (Jetztzeit), nel quale sono disseminate e incluse schegge del tempo messianico34.
Per Benjamin gli eventi non sono di per sé storici, né lo diventano in base alla semplice individuazione di nessi di causa-effet33
Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in Id. L’opera d’arte, cit.,
p. 93. 34
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 57 (traduzione modificata).
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
to. La storicità di un evento non può che essere data dall’incontro tra il presente e un determinato momento del passato, che diventa intelligibile grazie all’affinità nata sotto forma di choc tra i due eventi. La citazione di un determinato momento passato da parte dello storico nasce dunque da una forma di conoscenza, che si distacca dal modello scientifico deterministico, teso ad individuare nessi causali tra gli eventi. Essa è fondata su un principio ermeneutico, che vuole portare in superficie il senso degli avvenimenti, attraverso quel processo di telescopage, che porta alla luce le immagini dialettiche. Il legame privilegiato che nasce tra passato e presente, non è dunque quello della causalità, né tanto meno quello del progresso, ma quello che Benjamin in un’altra tesi definisce «patto segreto». Le «schegge del tempo messianico» disseminate nella Jetztzeit, sono offerte dagli attimi rivoluzionari, che interrompono il corso della storia e prefigurano la possibilità della redenzione. Il tempo qualitativo, in opposizione al tempo omogeneo e vuoto, si configura come costellato di schegge messianiche. A differenza del modello temporale proprio della teologia dell’occidente, che è caratterizzato dalla necessità, esso si configura come tempo della possibilità, nel senso di un tempo aperto all’irruzione improvvisa e imprevedibile della novità.
3.3.4 Jetztzeit come prefigurazione del tempo messianico. La Jetztzeit, afferma Benjamin nella tesi XVIII, non si identifica con il tempo messianico, ma ne costituisce soltanto il modello. Esso «riassume in un’immane abbreviazione la storia dell’intera umanità, coincide rigorosamente con la figura che la storia dell’umanità fa nell’universo»35. Nei Materiali preparatori alle Tesi, per 35 Ibid., p. 55. Benjamin unisce la propria concezione di tempo messianico ad una tendenza anti-antropocentrica, che risente dell’influsso dell’opera di L.-A. Blanqui, L’Éternité par les astres. La tesi XVIII si apre infatti con un’immagine molto forte, che chiarisce questa connessione: «I miserabili cinquantamila anni dell’homo sapiens – dice un biologo moderno –, rappresentano, in rapporto alla storia della vita organica sulla terra, qualcosa come due secondi al termine di una giornata di ventiquattro ore. La storia dell’umanità civilizzata, riportata su questa scala, occuperebbe inoltre un quinto dell’ultimo secondo dell’ultima ora». Sul rapporto di Benjamin con l’opera di Blanqui, su cui ritorneremo nel capitolo 4 Progresso, catastrofe e redenzio-
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spiegare che cosa intende con il concetto di arresto messianico, l’autore si riferisce ad una frase che Henri Focillon aveva formulato a proposito dello stile classico: «Breve momento di pieno possesso delle forme, esso si presenta […] come una felicità rapida, come l’akmé dei Greci: l’asta della bilancia non oscilla più se non debolmente. Quel che mi attendo non è di vederla subito pendere di nuovo, e ancor meno un momento di fissità assoluta, bensì, nel miracolo di questa immobilità esitante, il tremolio leggero, impercettibile, che mi indica che è viva»36. La Jetztzeit, come prefigurazione del tempo messianico, rappresenta il breve momento in cui è contenuta e riassunta tutta la storia dell’umanità. Ciò richiama in modo assai evidente la figura della monade, che, come noto, tematizzata dapprima nella Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco, viene ripresa all’interno delle Tesi37. Nella tesi XVIII essa non viene menzionata in modo esplicito, tuttavia la figura della Jetztzeit, prefigurando l’arresto messianico della storia, è al contempo il luogo di pensiero in cui è contenuta l’immagine di tutta la storia dell’umanità, così come la monade per Leibniz38. Trasponendo la figura della monade dall’ambito storico a quello più propriamente politico, essa, in quanto «segno di un arresto messianico dell’accadere», può essere letta come indice della presenza di una chance rivoluzionaria. Ogni monade, ogni momento del tempo storico può alludere ed essere in potenza tempo messianico. Ciò a condizione però che di esso venga decifrata la carica irripetibile e unica39. È cioè solo ne, ha insistito tra gli altri A. Münster: Progrès et catastrophe, Walter Benjamin et l’histoire. Réflexions sur l’itinéraire philosophique d’un marxisme «mélancolique», Paris 1996. 36 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 98. La citazione proviene da H. Focillon, Vie des formes, Paris 1934, p. 18. 37 La tesi XVII è l’unica in cui la figura della monade viene nominata in modo esplicito. 38 La presenza assai scarsa del concetto di monade all’interno delle Tesi è stata spiegata da Gianfranco Bonola con l’ipotesi che tale termine sia il risultato di una tarda elaborazione del concetto di immagine dialettica, più attestato soprattutto nei Materiali preparatori. Cfr. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 188 sgg. 39 «[…] Non vi è un solo attimo (Augenblick) che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria – essa richiede solo di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae confer-
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quando l’azione politica viene collegata a quest’idea di tempo messianico, come tempo che può sopraggiungere in ogni momento, che la Jetztzeit si muta in Augenblick (attimo, istante)40. Ciò avviene non tanto in una prospettiva infuturante, e dunque in una dimensione utopica, quanto piuttosto nella dimensione del ricordo (Erinnerung) del passato. Il materialista storico deve essere in grado di individuare e soprattutto conservare l’immagine del passato nel modo in cui gli appare nell’istante del pericolo. Il messianico coincide con questo istante: esso non è dunque né il tempo dell’attesa, né quello della Jetztzeit – che, come abbiamo suggerito, ne costituisce solo il modello. La Jetztzeit può dunque essere identificata con il tempo dello storico, che deve essere in grado di interpretare e rappresentare (darstellen) le costellazioni, in cui immagini del proprio presente e immagini di un determinato passato vengono a confluire dialetticamente; il tempo messianico viene piuttosto a coincidere in un certo senso con l’istante (Augenblick) dell’azione rivoluzionaria.
3.3.5 Augenblick e apertura della storia. L’enfatizzazione dell’attimo, così come del tempo-ora, si lega profondamente alla critica benjaminiana della temporalità propugnata dallo storicismo. Così come la Jetztzeit offre una definizione di presente come luogo temporale in cui sono «disseminate e incluse schegge del tempo messianico»41, allo stesso modo l’Augenblick allude al fatto che «ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia»42. Non è una grande apertura quella che fa entrare il messia, ma una «piccola porta» (kleine Pforte): non è insomma tutto il pasma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo (Augenblick) possiede su di una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a riconoscere come un’azione messianica». Ibid., p. 55. 40 Per una definizione di Augenblick cfr. in particolare le tesi V, X, XV, XVIIa. Sulla differenza tra Jetztzeit e Augenblick cfr. G. Marramao, Messianismo senza attesa. Sulla teologia politica di Walter Benjamin, «aut aut», 328 (2005), pp. 128 sgg. 41 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 57. 42 Ibid.
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sato ad entrare nello spazio del presente, ma solo la «vera immagine del passato». Benjamin apre in questo modo un varco tra storia e redenzione, lasciando tuttavia ben distinte dimensione profana e dimensione messianica. La possibilità della redenzione è inclusa solo in un concetto di storia, che escluda l’idea di progresso. L’ingresso della redenzione nella dimensione storica è reso possibile dall’intervento del rivoluzionario, che sa cogliere i momenti in cui attuare la rivoluzione. La discontinuità è, secondo l’autore berlinese, il motore della storia; essa si costituisce nell’unità tra teoria e prassi rivoluzionaria. È la rivoluzione a portare fine alle teorie storiche dominanti, lasciando così spazio al passato dimenticato degli oppressi. La «piccola porta» attraverso cui entra il messia non è una soglia invalicabile per lo storico materialista: essa consente il passaggio del futuro passato nello spazio della storia. L’utopia rivoluzionaria di Benjamin è quella di aprire il presente al futuro del passato. Ogni presente è in grado infatti di aprirsi, attraverso l’interpretazione, ad una lettura del passato in cui sono contenute tracce che profetizzano il futuro. Nei Materiali preparatori alle Tesi l’autore prosegue: «Il cardine su cui si muove quella porta è la rammemorazione (Eingedenken)»43. Quest’ultima libera dalla percezione del tempo futuro come «omogeneo e vuoto», che incatena chi si affida agli indovini per conoscere il proprio avvenire. L’apertura della piccola porta attraverso la quale può passare in un giorno qualsiasi il messia non vuole significare per Benjamin il tempo dell’attesa, ma il fatto che, nella sua concezione ebraica, non si tratta di attendere il messia, ma di provocarne la venuta44. Questa convinzione è stata probabilmente ispirata da alcune pagine di Der Stern der Erlösung di Franz Rosenzweig45, in cui si dice che «ogni istante dev’essere pronto ad assumere su di sé la pienezza dell’eternità. […] Senza il voler far venire il messia prima del suo tempo […] il futuro non è affatto futuro, ma 43
Ibid., p. 96. Sul tema di un messianismo da cui è esclusa la dimensione dell’attesa cfr. Marramao, Messianismo senza attesa, cit. 45 F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, Frankfurt a.M. 1930 (trad. it. La stella della redenzione, a cura di G. Bonola, Milano 2005). 44
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
solo un passato trascinato per una lunghezza infinita»46. Evidentemente questa concezione del tempo si oppone all’idea di progresso, poiché implica che la «meta ideale» possa essere raggiunta in un qualsiasi istante47. Per questo la storia si configura per Benjamin come processo aperto in ogni istante alla possibilità del rivolgimento, alla possibilità di catastrofi e rivoluzioni. La riflessione di Benjamin si rivela di grande attualità, poiché le minacce di catastrofe non fanno che aumentare: alle continue guerre, ai conflitti etnici, alla xenofobia, al razzismo se ne aggiungono altre di una portata sempre più devastante, come ad esempio il disastro ecologico incombente causato dalla fede superficiale dell’uomo nel progresso e la possibilità sempre crescente di nuove forme di barbarie, destinate ad allontanarci irreversibilmente dalla democrazia. L’apertura della storia evocata da Benjamin indica tuttavia la possibilità di un’emancipazione prodotta dalla rivoluzione. Quest’ultima non si muove soltanto a destituire il potere autoritario delle classi dominanti, ma anche quel dominio impersonale e astratto prodotto dal capitale e dal feticismo della merce. Egli critica in questo modo l’oppressione, situandosi dalla parte dei vinti, degli sfruttati, di quelli che P. Levi ha definito i «sommersi» e H. Arendt i «paria». Si tratta di un progetto utopico, nonostante Benjamin non sia definibile come «pensatore utopista»: egli si preoccupava infatti dei pericoli imminenti che incombevano sull’umanità, piuttosto che dell’aspirazione ad un futuro «radioso». Nella sua concezione di storia sono possibili esiti diversi, che comprendono la rivoluzione e la vocazione emancipatoria, configurantisi più che altro come tentativo disperato di sfuggire al peggio, piuttosto che come esito di una maturazione della storia. Le tesi Sul concetto di storia non si situano, nella prospettiva dell’autore, alla fine del decorso storico: se la nostra epoca non fa altro che parlare di «fine della storia» – data per assodata la convinzione delle classi dominanti di rivestire un ruolo di exemplum per tutte le generazioni successive di potenti e dominatori, poiché il cosiddetto modello liberaldemocratico costituisce a loro avviso il miglior modello politico 46 47
Ibid., p. 235. Il tema del «qualunque» è probabilmente ispirato da M. Maimonide.
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possibile e dunque destinato a durare fino alla fine dei tempi – le riflessioni di Benjamin vogliono invece mostrare la possibile apertura della storia. Quest’ultima non si riferisce solo a presente e futuro, ma vede nel passato la sua forza distruttiva ed emancipatrice. Ciò significa che la storia che ha dominato finora non è che una delle possibili varianti che avrebbero potuto realizzarsi e dunque non è l’unica possibile. La storia dei vincitori e dei potenti non è la sola possibilità. Dato per assodato questo assunto fondamentale, Benjamin vuole mettere in evidenza il fatto che, così come ciò che è avvenuto era soltanto una delle strade percorribili per l’umanità, allo stesso modo il nostro stesso presente resta aperto al contempo verso un’infinita moltitudine di variabili. Le alternative che la storia ha escluso non erano necessariamente deputate al fallimento: l’ascesa al potere di Hitler e di Stalin, la decisione di ricorrere alla bomba atomica e alle armi di distruzione di massa in tutte le guerre che continuano ad accompagnare la storia dell’umanità sono soltanto alcune delle chances che potevano e possono verificarsi. Benjamin vuole mostrare i limiti delle visioni progressive della storia e delle loro aspirazioni infuturanti, che identificano la «potenza» con l’«atto», il possibile con ciò che ha vinto e doveva vincere. Il futuro dovrebbe, nella visione benjaminiana, poter riabilitare e riattivare delle aperture sulla storia delle vittime ingiustamente offese e riattizzare speranze assopite. Ecco in che modo l’apertura della storia riguarda tutte e tre le dimensioni temporali e coinvolge al contempo politica, etica e diritto. In questo senso l’autore ricorre ad una metafora molto incisiva che interpreta la sua posizione nei confronti delle concezioni dominanti di storia e conseguentemente il suo essere à contre-sens.
3.3.6 «Spazzolare la storia contropelo». «Spazzolare la storia contropelo»48 significa per Benjamin riscrivere la storia dal punto di vista dei vinti. Ciò deve realizzarsi sia sul piano storico – opponendosi al modello storiografico dello storicismo – sia sul piano politico – attuando la rivoluzione. 48
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 31.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Proseguendo la polemica contro Ranke e lo storicismo tedesco, nella tesi VII Benjamin accusa quest’ultimo di Einfühlung (immedesimazione) con i vincitori, o meglio sarebbe dire con le classi al potere, poiché egli non vuole alludere a battaglie o lotte in generale, quanto invece alla «lotta di classe». Propugnando un modello storiografico teso a «spazzolare la storia contropelo», Benjamin vuole senz’altro alludere alla Seconda considerazione inattuale di Nietzsche, in cui l’autore dipinge in toni sprezzanti quegli storici che si schierano sempre dalla parte dei potenti, e hanno una «nuda ammirazione del successo» (nackte Bewunderung des Erfolges). A questo egli oppone quella che vede come virtù dello storico, e cioè la capacità di nuotare «contro le onde della storia»49. Tuttavia, se pure Benjamin condivideva in pieno quest’idea, vi è una differenza fondamentale tra i due autori: Nietzsche si sta riferendo al ribelle, all’eroe e al superuomo, mentre Benjamin è dalla parte dei vinti, degli oppressi. Nell’idea di battersi controcorrente per deviare il corso della storia, Benjamin fa rientrare anche le riflessioni sul tema della Kultur, intesa in termini dispregiativi, poiché essa fa parte del bottino che i dominatori espongono nel corteo trionfale e non è altro dunque che una celebrazione del dominio. Evidentemente Kultur indica la cultura ufficiale, intesa anch’essa come possesso che viene trasmesso in modo ereditario da vincitore a vincitore. Questo possesso, proprio in quanto patrimonio della conoscenza, è garantito per l’eternità e messo al riparo da ogni possibile intervento pratico. Contro questa concezione borghese lo storico materialista ha rotto: consapevole che la sovrastruttura non è indipendente dalla struttura, vuole intervenire attivamente agendo a livello sovrastrutturale, riconfigurando l’idea di cultura. Ciò che deve essere attuato è un’interruzione nel processo di trasmissione della tradizione culturale. «Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie»50, afferma Benjamin, istituendo tra i due elementi non tanto un’opposizione antitetica, ma considerandoli come parti di un’unità dialettica. Così ad esempio gli archi di trionfo, struttura architettonica per cui l’autore manife49 F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, II: Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, III/1, Milano 1972, p. 330. 50 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 31.
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sta un nutrito interesse51, sono al contempo celebrazione del trionfo e monumenti della barbarie. La barbarie stessa è un concetto dialettico nelle intenzioni di Benjamin. Se nelle tesi Sul concetto di storia essa è introdotta per configurare la cultura dominante come intrinsecamente caratterizzata dall’elemento barbaro, poiché le grandi opere della civiltà (monumenti come archi di trionfo, colonne della vittoria, ecc.) possono essere costruite solo grazie alla fatica e alle sofferenze di chi è sottomesso, l’autore introduce in un altro luogo un «nuovo positivo concetto di barbarie»52. Ci stiamo riferendo al già citato saggio Erfahrung und Armut in cui Benjamin delinea le caratteristiche dei caratteri distruttivi, «gli implacabili», coloro che sono cioè in grado di fare piazza pulita con il passato, senza tuttavia cancellarne le tracce. Trasponendo il «nuovo e positivo concetto di barbarie» in ambito storico-politico, si potrebbe affermare che i nuovi barbari devono essere in grado di sbarazzarsi della tradizione culturale portata avanti dai cortei trionfali, per mettere a fuoco la «vera immagine del passato», che è stata offuscata dalla tradizione. Quest’ultima ha imposto la propria ideologia culturale, mostrandola come l’unica possibile, ritenendo che la cultura possa essere appannaggio solo delle classi dominanti. «Spazzolare la storia contropelo» significa per Benjamin integrare la storia culturale con la storia delle lotte di classe e con il diritto delle masse a una propria cultura. Ciò si deve realizzare senza l’immedesimazione emotiva propria di una storiografia fedele alla classe dominante, come lo storicismo, ma situandosi dalla parte dei vinti.
3.3.7 Ausnahmezustand e interruzione del corso storico. Nel punto di incrocio tra le due concezioni di storia tematizzate da Benjamin si innesta la critica alla teoria schmittiana della sovranità. Per la prima è il progresso a costituire la norma, la seconda, che considera invece la storia dal punto di vista degli oppres51 Cfr. la sezione [C] contenuta in: Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit. 52 Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., p. 540.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
si, vede l’oppressione come la norma. Se per la prima gli orrori del fascismo rappresentano un’eccezione alla norma del progresso, per la seconda essi non sono altro che l’espressione più nitida di quello «stato di eccezione permanente» che è la lotta per l’oppressione delle classi. Nel riferirsi al testo di Carl Schmitt Politische Theologie del 192153, Benjamin si concentra in particolare sulla nozione di «stato di eccezione» (Ausnahmezustand) e le assegna un significato nuovo. Per poter comprendere appieno le implicazioni della critica benjaminiana, è opportuno ripercorrere brevemente che cosa intendeva Schmitt con tale nozione problematica. Analizzando la dottrina di sovranità del XVII secolo Schmitt identifica «stato di eccezione» e sovranità: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»54. In questo modo la nozione giuridica di Stato risulta incomprensibile se non è affiancata da quella di decisione personale. Ciò appare in forma ancora più evidente in quei casi che si distaccano dalla «normalità», e cioè nelle situazioni di emergenza, che non sono prevedibili da un punto di vista normativo. In queste circostanze viene messa in luce l’impossibilità di trascendere dalla decisione personale del sovrano. La decisione non si manifesta dunque come un atto esterno alla dimensione giuridica, ma, insieme alla sovranità, è costitutiva della forma giuridica55. Giunti a questo punto risulta spontaneo chiedersi su quali basi si fondi la teoria schmittiana della Herrschaft (sovranità). Per poter rispondere occorre introdurre il concetto di Repräsentation (rappresentazione) e cioè il fatto che il sovrano si fa interprete di un’istanza più alta, che lo trascende. Schmitt individua nella Chiesa cattolica il modello ideale di ogni rappresentazione. In un testo che segue di pochi anni Politische Theologie, e cioè Römi53 Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, München-Leipzig 1922 (trad. it. Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, in Id., Le categorie del politico, Bologna 1999). 54 Ibid., p. 33. 55 «La dimensione della Entscheidung è bensì “extranormativa”, ma non extragiuridica. La funzione del caso d’eccezione è anzi proprio quella di rendere manifesto “in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione”». Cfr. G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino 2003, p. 128.
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scher Katholizismus und politische Form56, egli afferma esplicitamente che le ragioni del successo della Chiesa cattolica sono legate al fatto che essa si basa su un principio di rappresentazione molto solido: il pontefice rappresenta personalmente un’istanza trascendente. Nel momento in cui il sistema medievale si dissolve bisogna trovare il modo di mantenere l’ordine e ciò può avvenire solo affidandosi ad un sovrano che si faccia rappresentante di un principio superiore, che lo trascende. In ciò si deve ravvisare il nucleo della teologia politica di Schmitt. L’obbedienza è insomma prodotta e legittimata attraverso il concetto di Repräsentation, che inaugura l’età moderna. Esso vede la sua espressione più compiuta nel pensiero di Thomas Hobbes, a cui Schmitt si riferisce più volte. In particolare in Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes57 egli afferma che «il sovrano non è il defensor pacis di una pace riconducibile a Dio; è il creator pacis, creatore di una pace esclusivamente terrena»58. Ciò avviene attraverso un’azione umana, la stipula di un patto tra la persona del sovrano e i suoi sudditi. Se risulta ormai chiaro che il nucleo della teologia politica è situato nell’idea di rappresentazione, è arrivato il momento di cercare di definire radicalmente che cosa Schmitt intenda con teologia politica. Pare senz’altro limitante riferire tale concetto ad una fondazione teologica del politico e così pure individuare un processo di secolarizzazione che emancipa i concetti politici dalla teologia, per donare loro una struttura autonoma. Assai più convincente l’idea di una «presenza nel politico, per il suo stesso costituirsi, di una trascendenza, o meglio un movimento di trascendimento della realtà empirica che è necessario e nello stesso tempo irrisolto, o mai risolto una volte per tutte»59. All’interno di queste riflessioni si situa anche il concetto di «stato di eccezione» coniato da Schmitt. Come Dio trascende le 56 Cfr. C. Schmitt, Römischer Katholizismus und politische Form, München 1925 (trad. it. Cattolicesimo romano e forma politica, Milano 1986). 57 Cfr. C. Schmitt, Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes, Hamburg 1938 (trad. it Il Leviatano nella dottrina dello stato di Thomas Hobbes, Milano 1986). 58 Ibid., p. 84 (trad. it). 59 Cfr. G. Duso, Teologia politica e logica dei concetti politici moderni in Carl Schmitt, in Id., La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, RomaBari 1999, p. 147.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
leggi di natura, allo stesso modo il sovrano può trascendere le norme politiche in corso e denunciare la loro insufficienza rispetto all’eccezione che non è ancora stata codificata come regola. Lo stato di eccezione rappresenta cioè per la giurisprudenza ciò che significa il miracolo per la teologia60. La decisione del sovrano interpreta l’istanza teologica, che afferma l’insufficienza dell’ordinamento giuridico nei confronti dell’eccezione che non è ancora stata codificata. Con il costituirsi dello Stato moderno e la separazione tra potere temporale e potere spirituale, la possibilità dell’eccezione è estinta, poiché la teologia ha perso il suo ruolo politico e il sovrano, privato del potere spirituale, è ora completamente soggetto all’ordinamento giuridico dello Stato. La teologia ha perso cioè il proprio potere di influenza in ambito politico e la trascendenza non viene più a intaccare l’ambito del profano. Schmitt definisce questo passaggio con il termine «secolarizzazione». In epoca moderna l’elemento della trascendenza non ha più un ruolo dominante e la persona del sovrano è privata dell’elemento divino della decisione nello stato di eccezione: in questo modo il concetto di sovranità viene a perdere il suo elemento personalistico e decisionistico61. La dottrina schmittiana della sovranità viene citata da Benjamin in più luoghi. Nel Dramma barocco tedesco il principe si manifesta come detentore del diritto di decidere nello stato di eccezione: «Chi esercita il dominio è destinato fin dall’inizio a essere detentore di un potere dittatoriale nello stato di eccezione, ove questo sia determinato dalla guerra, dalla rivolta o da altre catastrofi»62. E poco oltre prosegue: «La teoria della sovranità, per la quale è esemplare lo stato di eccezione con le prerogative dittatoriali che ne conseguono, impone senz’altro di intendere la figura del sovrano nel senso del tiranno»63. Tuttavia il sovrano manifesta subito la propria incapacità di prendere decisioni: “Il principe, che ha la facoltà di decidere sullo stato di eccezione, mostra 60
Cfr. Schmitt, Politische Theologie, cit., p. 61 (trad. it.). Ibid., p. 71 (trad. it.). Cfr. Gentili, Il tempo della storia, cit., p. 131. 62 Benjamin, Il Dramma barocco tedesco, in Opere complete II, cit., p. 105. 63 Ibid., p. 109. 61
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alla prima occasione che decidere gli è quasi impossibile»64. Proprio nello stato di eccezione, in cui egli dovrebbe manifestare quella «dignità gerarchica illimitata di cui Dio lo ha investito», incapace di decidere, e dunque di agire, mostra la «miseria della propria condizione umana»65. Il sovrano descritto nel Dramma barocco tedesco sembra dunque già anticipare il processo di secolarizzazione di cui parla Schmitt. Se per Schmitt infatti il sovrano in epoca barocca vuole rivestire i due poteri66, per Benjamin il potere spirituale non è impersonato dal sovrano. Un’ulteriore differenza tra le due concezioni è data dal diverso significato attribuito all’espressione «lo stato di eccezione è la regola»: nella concezione liberale di Schmitt tutto è norma, senza eccezioni; Benjamin rovescia questa prospettiva sostenendo che tutto è eccezione, anche la regola. Il fatto che la teologia sia separata dall’ambito politico non elimina lo stato di eccezione, che, trovando espressione nell’incapacità da parte del sovrano di prendere delle decisioni, viene a coincidere con la precarietà del potere politico. Il potere del sovrano, poiché non è illimitato, deve rispondere anch’esso al giudizio sulla propria legittimità. Infatti, se egli fallisce, non fallisce come singolo, ma «in quanto sovrano e in nome del suo ruolo storico, allora la sua rovina assume l’aspetto di un processo la cui sentenza travolgerà anche i sudditi»67. Ogni stato di eccezione conduce dunque il sovrano, in quanto appartenente ad un contesto più ampio, che coinvolge tutti i propri sudditi, ad essere soggetto al giudizio storico. Ecco perché, afferma Benjamin, il dramma barocco assume le vesti di un dramma martiriologico e la figura del principe è accostata a quella del Cristo nella Passione. Quando il sovrano si trova a dover risolvere uno stato di eccezione, è chiamato a ripristinare l’ordine. Ciò significa far entrare lo stato di eccezione all’interno della norma, cioè nella tradizione. Tuttavia proprio nel costituire un’eccezione alla regola, lo stato di 64
Ibid., p. 110. Ibid. 66 Su questo punto ha insistito particolarmente J. Taubes, vedendo in tale identificazione un’anticipazione della concezione totalitaria di Schmitt. Cfr. J. Taubes, Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fügung, Berlin 1987 (trad. it. In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, Macerata 1996). 67 Benjamin, Il Dramma barocco tedesco, in Opere complete II, cit., p. 112. 65
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
eccezione mostra la possibilità dell’interruzione del corso storico e con essa la possibilità dell’instaurarsi di un novum. Ritorniamo ora brevemente alla definizione schmittiana di Ausnahme (eccezione), per poter chiarire ulteriormente il senso della critica di Benjamin. Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale. Qui la decisione si distingue dalla norma giuridica e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno del diritto per creare diritto […] L’eccezione è più interessante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive solo dell’eccezione68.
L’eccezione costituisce dunque la condizione di possibilità della stessa norma e chiarisce il senso del concetto di autorità. L’eccezione è una forma dell’esclusione, che si manifesta come una sospensione dell’ordinamento giuridico vigente, ponendo il potere sovrano nella condizione di dover decidere tra continuità e discontinuità. Non è l’eccezione a sottrarsi alla regola, ma la regola a mostrarsi come eccezione attraverso la propria sospensione69. Quest’ultima si configura sotto forma di soglia critica nella quale interno (norma) ed esterno (eccezione) coesistono in apparente Stillstand, rendendo possibile la messa in atto dell’ordinamento giuridico. La norma deve creare una zona limite entro la quale riferirsi a ciò che le è esterno: lo stato di eccezione. Esso solo determina il costituirsi della norma ed è dunque l’espressione della struttura giuridica originaria. L’eccezione è quindi inclusa nella norma sotto forma di «esclusione inclusiva»70. Il diritto ha una struttura normativa, che si costituisce attraverso la forma della relazione «se… allora». Quest’ultima assume una struttura particolare, che è proprio quella della «esclusione inclusiva». Le norme prescrivono determinate pene per chi contravviene ad esse. La trasgressione è codificata insieme al caso «normale». Paradossalmente la norma, e in conseguenza l’ordine, si costituiscono in origine in relazione 68
Schmitt, Politische Theologie, cit., pp. 40 sgg. (trad. it). Cfr. Agamben, Homo sacer, cit., pp. 21 sgg. 70 Cfr. ibid., pp. 26 sgg. 69
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all’eccezione e cioè attraverso la ripetizione di un caso limite, che è quello di non contravvenire e dunque di non venire puniti. L’eccezione, nella sua forma ambivalente, è dunque all’origine del diritto e della sua codificazione come insieme di norme. La colpa di cui ci si fa responsabili, trasgredendo a una legge, rappresenta l’essere inclusi in quest’ultima attraverso l’esclusione. Si potrebbe forse affermare attraverso un predicato apparentemente provocatorio che non vi sono dunque un «dentro» e un «fuori» dalla legge. La colpa non si riferisce alla trasgressione della legge, ma alla struttura relazionale della legge stessa. Da questo acquista il suo senso l’affermazione che l’ignoranza della norma non esclude dalla colpa. Nell’indistinzione della priorità temporale tra norma e colpa si situa quella zona limite, che costituisce la soglia dello stato di eccezione, che non è altro che l’espressione più compiuta e più completa della sovranità71. La lettura benjaminiana contenuta nell’ottava tesi mira a criticare il concetto di storia che emerge dalla considerazione dello stato di eccezione come regola e ad affiancare a questo un nuovo modello storiografico, che corrisponda all’«effettivo stato di eccezione» prodotto dal materialista storico. All’incapacità di decisione del sovrano nello stato di eccezione e alla catastrofe prodotta dalla non-decisione, che si risolve nel lasciare che le cose procedano secondo il loro naturale corso storico, si contrappone la decisione del materialista storico. Lo stato di eccezione rappresenta infatti un punto da cui si dipartono due percorsi opposti, a cui corrispondono due direzioni temporali differenti, che hanno implicazioni politiche molto forti per il presente. Il primo è quello della non-decisione, che porta a seguire la strada che la tradizione ha sempre percorso e dunque a seguire il tempo omogeneo e vuoto, che conduce inevitabilmente a un futuro di catastrofe e distruzione. Il secondo è quello volto a suscitare l’effettivo stato di eccezione, rivolgendosi alla tradizione degli oppressi, che è stata messa da parte dalla storia dei vincitori. Lo storico materialista si prende la responsabilità di decidere, per redimere quelle che sono state considerate epoche di decadenza. Agendo in questo modo egli mette in luce le enormi potenzialità rivoluzionarie che offre lo 71
Cfr. ibid., pp. 31 sgg.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
stato di eccezione a chi sa leggere tra le righe. Egli deve saper approfittare proprio delle condizioni favorevoli, che gli vengono offerte dallo stato di eccezione, in cui il potere dominante si trova sospeso in una situazione di precarietà e di non decisione. Attendere un futuro migliore non può servire a nulla, poiché il futuro porterà solo annientamento. Benjamin situa il fascismo all’interno del percorso di continuità descritto dal susseguirsi di cortei trionfali dei vincitori. Lo stupore di chi si chiede come sia possibile che il fascismo possa ancora esistere nel XX secolo è visto dall’autore in termini dispregiativi. Egli aveva compreso infatti che il fascismo, sostenuto da quella stessa concezione storiografica, che interpreta la storia come percorso lineare progressivo, si faceva promotore della modernizzazione propria della società industriale capitalistica. Comprendere e far comprendere che il fascismo può esistere nei paesi più sviluppati e che cultura e barbarie sono facce diverse del volto di Giano, potrà portare, secondo Benjamin, ad una maggiore consapevolezza nella lotta antifascista, il cui obiettivo principale è la produzione di quel vero stato d’eccezione, che è l’abolizione del dominio e delle classi. Proprio l’oppressione si fa interprete di quel principio di trascendenza, a cui facevamo riferimento nelle pagine precedenti, che è costitutivo del politico per la sua stessa natura. Il principio di sovranità e con esso l’incapacità di decisione da parte di chi governa nello stato di eccezione tendono a celare frammenti e tracce di passato, che possono invece trovare ancora la loro piena realizzazione nel presente. Di essi Benjamin fa l’oggetto delle sue opere più decisive: il Dramma barocco tedesco e il Passagen-Werk. Non esistono epoche di decadenza, afferma l’autore. Lo storico materialista deve essere consapevole che ogni epoca può aprirsi a delle potenzialità inedite, che parevano impensate all’occhio dello storico tradizionalista. Egli non deve tralasciare quelle aspettative di redenzione che provengono dal passato72, in quanto quest’ultimo ha diritto ad una se pur «debole forza messianica». Ecco perché il tempo a cui fa riferimento lo storico materialista è sempre sospeso, nell’attesa di un evento che sia in grado di modificare, e forse 72 «Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione». Cfr. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 23.
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anche rovesciare, il corso storico. Egli «non può rinunciare al concetto di un presente che non è passaggio, ma nel quale il tempo è in equilibrio ed è giunto a un arresto (Stillstand)» e deve dunque saper «scardinare il continuum della storia»73.
3.3.8 Elemento distruttivo e impulso alla salvazione nella nuova concezione storica. Il tema dell’interruzione rivoluzionaria del corso storico, e dunque di una nuova origine della storia a partire dal punto di arresto, trova la sua espressione all’interno della tesi XV, che si apre con la seguente affermazione: «La consapevolezza di scardinare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione». Ciò si manifesta in modo esemplare nella Rivoluzione francese, a cui l’autore si riferisce anche in questo luogo: i rivoluzionari avevano voluto mostrare il loro «carattere distruttivo» attraverso l’introduzione di un nuovo calendario a partire dall’anno della proclamazione della Repubblica. Questo si chiarisce in un appunto appartenente ai Materiali preparatori delle Tesi in cui l’autore dice: L’elemento distruttivo o critico nella storiografia si esplica nello scardinare la continuità storica. […] Questo elemento distruttivo nella storiografia va concepito come reazione a una costellazione di pericoli che minacciano tanto il contenuto della tradizione quanto il suo destinatario. […] Altrettanto forte quanto l’impulso distruttivo è, nella storiografia autentica, l’impulso alla salvazione. Ma da che cosa può essere salvato qualcosa che è stato? Non tanto dall’infamia e dal disprezzo in cui è caduto, quanto da un determinato modo della sua tradizione. Il modo in cui viene celebrato come una «eredità» è più disastroso di quanto potrebbe esserlo la sua scomparsa. All’esposizione corrente della storia sta a cuore la creazione di una continuità. Essa conferisce valore a quegli elementi del passato che sono già entrati a far parte del suo influsso postumo. Le sfuggono i punti in cui la tradizione si spezza, e quindi le asperità e gli spuntoni che offrono un appiglio a chi voglia spingersi al di là di essa74. 73 Ibid., p. 51. Ogni presente, afferma Benjamin nello stesso passo, non è un punto qualsiasi del decorso storico, ma «quel presente» in cui può essere deciso e intrapreso un nuovo corso storico. In «quel presente» «il tempo è in equilibrio ed è giunto a un arresto (Stillstand)». 74 Ibid., p. 86.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Nell’interrompere il continuum i rivoluzionari fanno coesistere l’elemento distruttivo con la salvazione della tradizione. I calendari sono introdotti da Benjamin per chiarire il proprio concetto di temporalità. In essi si distinguono i giorni lavorativi da quelli festivi. Questi ultimi rappresentano l’eccezione alla regola del normale susseguirsi dei giorni lavorativi e si sottraggono in qualche modo alla concezione temporale imposta dalla classe dominante. Essi sono i «giorni della rammemorazione». Nella traduzione francese delle tesi, fatta da Benjamin, essi vengono definiti come «aussi bien des jours initiaux que des jours de souvenance»75. Il calendario ebraico è forse quello in cui si esplicita maggiormente la relazione tra giorni festivi e rammemorazione, poiché le principali feste ebraiche vogliono ricordare eventi di redenzione. I giorni di festa sono tesi a far coesistere presente e passato, e rappresentano l’ingresso del passato nel corso omogeneo della storia, che interrompe quest’ultimo, rinviando ad un passato che si modifica nell’atto del ricordo76. Questo processo viene attutito nell’uso che le classi dominanti fanno dei giorni festivi: essi servono per celebrare. In un appunto del Passagen-Werk Benjamin afferma che «la celebrazione o apologia si propone di occultare i momenti rivoluzionari. […] Le sfuggono i punti in cui la tradizione si interrompe, e di conseguenza anche le asprezze e gli spuntoni che forniscono un appiglio a chi intende superarla»77. Essa viene utilizzata dalla classe dominante per tentare di impadronirsi e di monopolizzare l’atto del ricordare e serve dunque a mettere in evidenza la continuità storica. Le celebrazioni non fanno che chiarire che non è cambiato nulla e che la storia procede secondo la stessa direzione che già aveva. I giorni di festa possono tuttavia essere utilizzati dalle classi rivoluzionarie per mettere in risalto la possibilità di un nuovo inizio. La tesi prosegue con la contrapposizione dei calendari agli orologi. Questi ultimi servono a misurare il tempo meccanico, 75
Ibid., p. 69. In queste riflessioni si sente l’eco del rapporto che Benjamin intrattenne con il sabatismo, tema su cui ci siamo concentrati nella sezione Soglia. Der destruktive Charakter. 77 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 9a, 5], p. 532. 76
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vuoto e quantitativo, che minaccia la società capitalistica. L’atto dei rivoluzionari di sparare sugli orologi vuole indicare l’irruzione improvvisa del tempo qualitativo nello scorrere meccanico dell’orologio. Trasponendo l’azione politica dei rivoluzionari in ambito storico Benjamin vuole affermare la necessità per lo storico materialista di intervenire, per superare la concezione dominante propugnata dalla storiografia materialistica di un tempo quantitativo, mostrando invece la necessità di scorgere le costellazioni formate dall’irruzione di determinati momenti del passato nel presente, che si costituiscono in immagini dialettiche e abitano la dimensione della Jetztzeit. Sparare sugli orologi equivale dunque all’atto del risveglio.
3.3.9 Il fotografo come testimone della storia. Nella tesi XVII Benjamin fornisce le basi metodologiche secondo le quali deve operare il materialista. Per questo egli procede ad un confronto serrato che vede come protagoniste le metodologie adottate dalle due diverse concezioni storiografiche che attraversano le Tesi. Il procedimento adottato dallo storicismo è additivo, poiché è volto a costruire un concetto di storia, che accosti i fatti secondo un percorso lineare e progressivo. Il metodo adottato dalla storiografia materialista è invece costruttivo, nel senso che si oppone alla temporalità quantitativa accumulativa, adottando un tempo discontinuo, fatto di movimenti e arresti. Non si tratta dunque in questo secondo modello di una successione, nella quale non è possibile individuare la differenza specifica tra gli elementi, che sono semplicemente parti indistinguibili di un tutto costituito dall’eterno ripetersi di eventi pressoché identici, in cui si oppongono vincitori e vinti. Lo storicismo deforma la realtà, poiché mimetizza la tradizione degli oppressi in un percorso continuo i cui veri protagonisti sono solo i vincitori. Il tempo a cui aspira Benjamin è invece un tempo qualitativo, in cui ogni evento è incomparabile agli altri, poiché unico78. La storia è fatta di eventi che si susseguono in modo discontinuo, alternandosi a delle cesure. 78
Cfr. Mosès, Der Engel der Geschichte, cit.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Quando il pensiero si arresta d’improvviso in una costellazione satura di tensioni, le provoca un urto in forza del quale essa si cristallizza come monade. Il materialista storico si accosta a un oggetto storico solo ed esclusivamente allorquando questo gli si fa incontro come monade. In tale struttura egli riconosce il segno di un arresto messianico dell’accadere o, detto altrimenti, di una chance rivoluzionaria nella lotta a favore del passato oppresso. Egli se ne serve per far saltar fuori una certa epoca dal corso omogeneo della storia […] Il frutto nutriente di ciò che viene compreso storicamente ha al suo interno, come seme prezioso ma privo di sapore, il tempo79.
Questo tempo disomogeneo è il tempo prodotto dalla rammemorazione attraverso delle costellazioni che collegano passato, presente (e futuro). Il pensiero deve edificare il proprio «principio costruttivo» nell’idea messianica. L’arresto messianico a cui fa riferimento Benjamin non coincide con la fine della storia, ma con l’arrivo del Messia, che «tronca la storia; […] non compare alla fine di uno sviluppo»80. Se lo storicista non fa altro che classificare e ordinare cronologicamente gli eventi che gli interessano, il materialista storico opera un po’ come l’archeologo del Denkbild “Ausgraben und Erinnern”81. Anch’egli è un uomo che scava poiché vede la storia non tanto come una successione lineare, bensì come costellazione prismatica, in cui gli eventi non sono tutti visibili a occhio nudo alla superficie, ma stratificati. Il principio costruttivo richiamato da Benjamin è dunque un procedimento volto a portare alla luce oggetti e costellazioni nascoste. Esso ha una struttura monadologica: È la struttura monadologica dell’oggetto della storia a richiedere che esso sia sbalzato fuori dal continuum del corso storico. […] Grazie a questa struttura monadologica, l’oggetto storico trova rappresentate al suo interno la propria pre- e post-storia82.
Il metodo della ricerca storico-archeologica del passato è quello della Dialektik im Stillstand (dialettica in stato di quiete). Il pensiero si arresta, posto di fronte ad una «costellazione satura di tensioni», in cui si concentrano le tre dimensioni temporali. 79
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 51 sgg. Ibid., p. 88. 81 Benjamin, Scavare e ricordare, in Opere complete V, cit., p. 112. 82 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 10, 3], p. 533. 80
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3. IMMAGINE-TEMPO: JETZTZEIT E FILOSOFIA DELLA STORIA
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La pre- e post- storia di uno stato di fatto storico appaiono in esso grazie alla sua esposizione dialettica. E ancora: ogni nesso fattuale storico esposto dialetticamente si polarizza e diventa un campo di forze in cui si svolge il confronto tra la sua pre- e post-storia. Diventa tale poiché l’attualità agisce dentro di esso. Per questo lo stato di fatto storico si polarizza secondo la sua pre- e post- storia sempre di nuovo e mai allo stesso modo83.
Tale procedimento si può accostare anche al lavoro del fotografo, che fissa l’attimo in una costellazione satura di tensioni. Dallo scatto fotografico emerge un’immagine, che, come la monade, mostra solo uno dei possibili punti di vista sull’evento che è stato fissato84. Per quanto il fotografo possa essere esperto, egli non riuscirà mai a fissare tutti gli elementi contenuti in quell’istante. Rimarrà sempre qualcosa di non guardato, e dunque dimenticato, a cui lo storico sentirà il bisogno di risalire, un elemento invisibile e inespresso, che si annida in un passato che contiene delle tracce di futuro. Ogni monade, così come ogni fotografia, racchiude infatti infiniti punti di vista, di cui solo alcuni vengono fissati dalla lastra fotografica. Ecco che una diversa immagine, osservata in situazioni differenti, sarà capace di rivelare particolari sempre nuovi, facenti tutti parte di essa. Lo storico materialista non deve temere di «tornare continuamente a uno stesso identico stato di cose»85. Il «seme prezioso, ma privo di sapore» contenuto dal frutto, che è la monade, non è altro che il tempo. Così come la monade custodisce al suo interno un nocciolo temporale, allo stesso modo l’immagine dialettica è portatrice di un indice segreto, un indice storico, che rischia di non essere letto. In questo senso Benjamin afferma che «non bisogna far passare il tempo, ma anzi invitarlo a fermarsi presso di noi»86: dobbiamo essere noi stessi a provocare l’arresto temporale, poiché il messia potrebbe sopraggiungere in ogni istante. Ciò significa che la funzione messianica non è da imputarsi esclusivamente alla figura del messia, e dunque non si può parlare propriamente di «attesa messianica», poiché essa non si caratterizza come pura 83
Ibid., [N 7a, 1], p. 527 (traduzione modificata). Cfr. Gentili, Il tempo della storia, cit., pp. 216 sgg. 85 Benjamin, Scavare e ricordare, in Opere complete V, cit., p. 112. 86 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [D 3, 4], p. 115. 84
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
passività o inattività, ma al contrario mostra la sua forza nell’inoperosità, nella contemplazione delle possibilità custodite nell’attimo. Ciò è realizzabile grazie alla struttura monadologica dell’oggetto storico e dunque al polarizzarsi dell’accadere nell’istante in pre- e post- storia. È evidente che l’attesa subisce uno sbilanciamento verso il passato, inteso come possibilità del sovvertimento del già noto e dunque come instaurarsi della novità nel continuum della ripetizione. Al «vero storico» non interessa l’attesa di un futuro sconosciuto, poiché quest’ultima, non indirizzandosi ad un contenuto specifico, costringe all’inattività. L’opera dello storico materialista deve concretizzarsi attivamente verso una Darstellung della Jetztzeit, che corrisponda al difficile compito dell’arrestare la potenza nell’atto, poiché ogni istante reca in sé l’enérgeia del messianico. Se è così, allora esiste un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra. Allora noi siamo stati attesi sulla terra. Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto. Questo diritto non si può eludere a poco prezzo. Il materialista storico ne sa qualcosa87.
87
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 23.
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4. Progresso, catastrofe e redenzione
4.1 Un «nuovo positivo» concetto di storia Le tesi Über den Begriff der Geschichte costituiscono una sorta di manifesto filosofico, espresso attraverso allegorie e immagini dialettiche, in cui Benjamin chiarisce un nuovo concetto di storia, che si distacca, nella forma della critica, dalla concezione positivistica della temporalità storica. Il lettore viene subito messo in guardia da una certa concezione della storia, quella propugnata dallo storicismo, che non fa altro che proporre un modello di temporalità lineare, continua e progressiva, persuadendo chi la sostiene di «nuotare con la corrente». La corrente è rappresentata dal progresso tecnico, di cui i sostenitori pensano di avere il favore. Benjamin si distacca da una tale concezione a favore di un’idea di storia intesa come percorso discontinuo, fatto di cesure e interruzioni, che possono assumere la struttura di chocs e condurre la storia a mutare il proprio corso. In questo modo le Tesi vengono ad assumere una struttura dialettica, i cui poli sono costituiti dai due modelli storiografici che, nella loro opposizione, attraversano come un filo rosso tutto il testo. Attraverso un’immagine estremamente suggestiva, precedentemente evocata, l’autore esprime la propria intenzione di invertire e sovvertire la concezione di storia che si è diffusa tra i più e ha portato a descrivere la storia dell’umanità dalla parte dei potenti, delle classi dominanti. «Spazzolare la storia contropelo» significa in questo contesto nuotare contro la corrente e cioè rifiutare ogni immedesimazione emotiva con i potenti, i vincitori, i colonizzatori, allontanarsi dalla cosiddetta storia ufficiale e propugnare una visione storica a trecentosessanta gradi, che mostri la sofferenza e l’oppressione1. 1
Su questa linea si situano molti studi di pensatori ebraici, ad esempio quelli di
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Questa concezione si allinea sicuramente con la tradizione marxista, e in particolare con il «materialismo storico», che Benjamin oppone ripetutamente allo storicismo. Tuttavia il confronto con l’opera di Marx e di Engels avviene in modo assai selettivo e tende a tralasciare tutti quei testi che hanno portato alla diffusione di un certo marxismo, in cui emergono a chiare lettere i concetti di progresso, necessità e fatalità2. Se nel marxismo sono individuabili due diverse e opposte tendenze, che coesistono in una tensione che rimane irrisolta, nell’opera di Benjamin sopravvive solo uno dei due poli. L’opera di Marx subisce il fascino per un modello evolutivo scientifico-naturale, che porta lo stesso processo sociale ad essere descrivibile in termini evolutivi. Ciò coesiste con l’idea di rivoluzione, che, inserendosi all’interno del corso lineare della storia, riesce a cogliere i momenti in cui intervenire in modo sovversivo, interrompendo così le leggi della continuità e ribaltando i valori e i paradigmi che erano dominanti. Benjamin prende in considerazione soltanto il secondo aspetto. Se pure sono presenti, non tanto nelle Tesi, ma soprattutto nei Materiali preparatori, delle critiche a Marx e ad Engels, ciò rimane tuttavia ad un livello di scarso approfondimento. Inoltre nel fare proprio un certo marxismo, Benjamin non solo sviluppa esclusivamente una certa tendenza, ma all’interno H. Arendt. In anni più recenti hanno preso l’avvio, soprattutto in America Latina, parecchie ricerche tese ad una riattualizzazione in chiave storico-politica del pensiero di Benjamin, in particolare delle tesi Über den Begriff der Geschichte, intese come fonte d’ispirazione di correnti e movimenti emancipatori. 2 Nei Materiali preparatori alle Tesi Benjamin afferma: «La società senza classi non è la meta finale del progresso nella storia, ma ne è piuttosto l’interruzione, tante volte fallita e infine attuata». E ancora: «Possiamo individuare nell’opera di Marx tre concetti fondamentali, e considerare l’intera armatura teorica di tale opera come un tentativo di fondere insieme questi concetti. Si tratta della lotta di classe del proletariato, del procedere dello sviluppo storico (cioè del progresso), e della società senza classi. In Marx la struttura dell’idea fondamentale si presenta in questi termini: attraverso una serie di lotte di classe, l’umanità, nel corso dello sviluppo storico, perviene a una società senza classi. Ma la società senza classi non può essere concepita come punto finale di uno sviluppo storico. Da questa erronea concezione è derivata, tra l’altro, presso gli epigoni, l’idea della “situazione rivoluzionaria” che, come si sa, non volle mai giungere. Al concetto di una società senza classi dev’essere restituito il suo volto messianico autentico, e questo proprio nell’interesse stesso della politica rivoluzionaria del proletariato». Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 101 sgg.
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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di quest’ultima individua e seleziona soltanto alcune tematiche, come la lotta di classe, la rivoluzione e l’utopia della società senza classi3. Egli opera cioè anche in questo caso come un collezionista di citazioni, che estrapola alcuni passi, per inserirli in contesti assolutamente nuovi, in cui assumono sfumature diverse. Il risultato di quest’operazione di montaggio è un marxismo totalmente nuovo, prodotto dalla fusione di materiali che pure appartenevano a testi di epigoni del marxismo, ma che si integrano attraverso una fusione alchemica con elementi provenienti dai testi più disparati. Di fronte alla domanda circa il marxismo di Benjamin, la risposta più opportuna sembra essere la formulazione di un «altro» marxismo, integrato da elementi teologici, messianici, romantici e utopici, collezionati, citati e montati a formare un intreccio, che ha condotto studiosi come Adorno a definire Benjamin «al di fuori di tutte le correnti», in quanto crocevia di tutte le strade. Nella visione offerta da Benjamin il marxismo è «depurato» dagli elementi evoluzionistici e progressivi e il futuro non è descritto come approdo ineluttabile di un processo storico evolutivo, né tanto meno come risultato del progresso scientifico, tecnico ed economico. Il modello di temporalità storica proposto da Benjamin, criticando la causalità storica e la continuità, non considera il passato come irreparabile, e tanto meno il futuro come inevitabile. Il passato può essere riattualizzato e svolgersi di nuovo in un’altra forma, sotto condizioni differenti, e governato da leggi diverse dalla continuità e dalla causalità. Esso può venire rovesciato ed è proprio su questa consapevolezza a basarsi l’idea sovversiva di storia, intesa come apertura, ribaltamento e sovrapposizione delle tre dimensioni temporali. Come sottolineava Scholem, in Benjamin vi è, così come nella tradizione della mistica ebraica, una proiezione della dimensione utopica nel presente. La messa in discussione e il sovvertimento delle leggi di continuità e causalità si esplicano attraverso una critica radicale e decisiva alla fede nel progresso, e dunque alla visione storica pro3
I testi maggiormente citati e presi in esame da Benjamin sono: i Manoscritti economico-filosofici del 1844, gli scritti sulla Rivoluzione del 1848-50 e sulla Comune, il capitolo sul feticismo della merce del Capitale, attraverso la lettura offertane da Lukács, e la Critica al programma di Gotha.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
gressiva su cui si è fondata la tradizione del pensiero occidentale, almeno a partire dall’età dei Lumi. Quest’ultimo aspetto è presente nel pensiero benjaminiano fin dagli scritti giovanili, influenzati da Romanticismo e messianismo. «Spazzolare la storia contropelo» significa in questo senso aderire ad un’interpretazione storiografica che rifiuta l’idea di progresso.
4.2 La critica all’ideologia del progresso nel pensiero ebraicotedesco La critica al concetto di progresso caratterizza una generazione di autori ebraico-tedeschi, nati nell’ultimo quarto del secolo diciannovesimo nella cosiddetta Mitteleuropa, di cui fa parte Benjamin, che costituisce una sorta di crocevia tra pensatori e tendenze assai diversificate e a volte contraddittorie. Essi si fanno interpreti di un sincretismo più o meno evidente tra Romanticismo e messianismo, tra utopia sociale libertaria e spiritualità religiosa. Ne risulta una figura di pensiero ibrida, che si distacca sia dal romanticismo tedesco classico, sia dal messianismo ebraico tradizionale. Essa non è configurabile neppure come puro aggregato tra i due elementi costitutivi, che vengono invece a illuminarsi reciprocamente, sfociando in una modalità di pensiero e di espressione radicalmente nuova. Il Romanticismo si carica di una forte tensione utopico-rivoluzionaria, che nasce dalla compenetrazione di redenzione e utopia sociale. Chiaramente ciascuno degli autori in questione si relaziona, con modalità diverse, a questo rapporto. Volendo semplificare il più possibile, si potrebbero individuare due gruppi di autori: gli uni in cui predomina l’elemento religioso (M. Buber, F. Rosenzweig, G. Scholem, ecc.), gli altri in cui predomina invece l’elemento marxista anarchico, antibolscevico e antiautoritario (E. Bloch, E. Fromm, G. Lukács, ecc.). Questa seconda categoria è caratterizzata essenzialmente da un forte ateismo, che si nutre tuttavia di elementi tratti dall’ebraismo e dal cristianesimo. Se nel primo caso si tende a fare assopire, o almeno a relativizzare, il carattere rivoluzionario dell’utopia, senza comunque eliminarla, nel secondo domina quest’ultimo elemento a scapito del messianismo, che viene impove-
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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rito della sua specificità ebraica. Il risultato più sostanziale di questa fusione porta al costituirsi di una nuova e, per certi aspetti, rivoluzionaria concezione della storia e della temporalità, il cui carattere principale è la critica al concetto di progresso. Si allude chiaramente alla visione progressiva e progressista della storia, che ha caratterizzato la cultura occidentale a partire dall’Illuminismo, per dominare nel diciannovesimo secolo il pensiero liberale da un lato, il marxismo dall’altro. Benjamin condanna soprattutto l’uso politico che la socialdemocrazia e il comunismo staliniano hanno fatto del concetto di progresso nella lotta antifascista.
4.3 Contro un progresso universale, infinito e inarrestabile Riprendiamo brevemente un passo appartenente alle Tesi, in cui si condensano con estrema lucidità gli elementi della critica benjaminiana. La teoria socialdemocratica, e ancor più la prassi, fu determinata da un concetto di progresso che non si atteneva alla realtà, ma aveva una pretesa dogmatica. Il progresso, come si rappresentava nelle teste dei socialdemocratici, era, in primo luogo, un progresso dell’umanità stessa (e non solo delle sue abilità e conoscenze). Era, in secondo luogo, un progresso interminabile (in corrispondenza a una perfettibilità infinita dell’umanità). Esso valeva, in terzo luogo, come un progresso essenzialmente inarrestabile (come quello che descrive spontaneamente un percorso diritto o a spirale). Ciascuno di questi predicati è controverso e a ciascuno potrebbe applicarsi la critica. Però, se si fa sul serio, essa deve risalire a monte di questi predicati e indirizzarsi a qualcosa che è loro comune. L’idea di un progresso del genere umano nella storia è inseparabile dall’idea che la storia proceda percorrendo un tempo omogeneo e vuoto. La critica all’idea di tale procedere deve costituire il fondamento della critica all’idea stessa di progresso4.
Ciò che Benjamin contesta alla visione socialdemocratica è il fatto che essa sussume sotto il concetto di progresso l’intero corso storico, e dunque presente, passato e futuro. Il concetto di progresso non può infatti, secondo Benjamin, rappresentare un cri4
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 45.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
terio di giudizio, per stabilire il futuro dell’umanità5. Esso si deve riferire soltanto a ciò che effettivamente può venire prodotto dall’uomo. Se ci si riferisce al futuro, considerando la storia dell’umanità come una storia progressiva, il presente viene impoverito, reso impotente di fronte alla storia e privato della possibilità di agire praticamente. Il progresso interminabile non permette di tornare indietro, segue una strada a senso unico (Einbahnstraße). Il suo percorso può essere descritto in termini lineari o nella forma della spirale. Entrambi conducono inesorabilmente verso la catastrofe. Non a caso nella sezione del Passagen-Werk, che porta il titolo «La noia, eterno ritorno», Benjamin mette in relazione la fede nel progresso e l’idea dell’eterno ritorno6. Le tre critiche al progresso non vengono sviluppate all’interno della tesi XIII; esse ritornano nel corso delle altre tesi, poiché tale tema costituisce uno dei pilastri su cui si regge l’intero ragionamento benjaminiano sul senso della storia. 5 A questo proposito Benjamin afferma nel Passagen-Werk: «Il concetto di progresso ha dovuto contrapporsi alla teoria critica della storia dall’istante in cui non fu più applicato come metro a determinati mutamenti storici, ma ebbe invece la funzione di misurare la tensione tra un leggendario inizio della storia e una sua fine altrettanto leggendaria. In altre parole: appena il progresso diviene il marchio dell’intero corso della storia, il suo concetto si inserisce nel contesto di un’ipostatizzazione acritica anziché in quello di un’interrogazione critica. Questo secondo contesto è riconoscibile nella concreta trattazione storica dal fatto che esso inscrive nella sua prospettiva il regresso con dei contorni almeno altrettanto netti di quelli di qualsiasi movimento progressivo». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 13, 1], p. 538. E ancora: «Nel XIX secolo, quando la borghesia conquistò le sue posizioni di forza, il concetto di progresso andò sempre più perdendo quelle funzioni critiche che originariamente gli appartenevano. (In questo processo ha avuto un significato decisivo la dottrina della selezione naturale; con essa si è rafforzata l’opinione che il progresso si compia automaticamente. Ciò ha ulteriormente favorito l’estensione del concetto di progresso in ogni ambito dell’attività umana). In Turgot il concetto di progresso aveva ancora delle funzioni critiche. Esso permetteva innanzitutto di richiamare l’attenzione degli uomini sui movimenti regressivi nella storia. È significativo che Turgot considerasse garantito il progresso soprattutto nell’ambito delle ricerche matematiche». Ibid., [N 11a, 1], pp. 535 sgg. 6 «La fede nel progresso – in una perfettibilità infinita quale compito infinito della morale – e l’idea dell’eterno ritorno sono complementari. Esse costituiscono le indissolubili antinomie rispetto alle quali va sviluppato il concetto dialettico del tempo storico. Di fronte a questo l’idea dell’eterno ritorno appare frutto proprio di quel “piatto razionalismo” di cui si accusa la fede nel progresso, e quest’ultima si rivela altrettanto appartenente al pensiero mitico quanto l’idea dell’eterno ritorno». Ibid., [D 10a, 5], p. 129.
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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Distinguendo innanzitutto tra progresso dell’umanità e delle sue abilità e conoscenze, Benjamin si riferisce da un lato al fascismo, dall’altro alla socialdemocrazia, al liberalismo e al comunismo staliniano, che, come afferma nella tesi XI, vogliono «tenere conto solo dei progressi del dominio della natura, non dei regressi della società»7. Tale critica sarà oggetto anche di alcune riflessioni di Adorno contenute in Minima moralia, in cui l’autore francofortese tiene a sottolineare che la modernità è caratterizzata da un’irrinunciabile antinomia tra progresso tecnico-scientifico da un lato e regresso spirituale e morale dell’umanità dall’altro, coniando l’espressione «progresso regressivo». Quanto sia adeguato utilizzare come fa Adorno tale espressione per i campi di sterminio nazisti e i campi di Hiroshima, resta sicuramente una domanda inquietante. Ciò che in questa sede ci preme sottolineare è che Benjamin vede nelle conseguenze catastrofiche e devastanti dell’utilizzo del progresso in guerra – che comunque non avevano ancora mostrato compiutamente la loro mostruosità – il segno evidente dell’infondatezza dell’ideologia del progresso, che, a partire dall’Illuminismo, dominava le teste delle classi al potere. La seconda critica riguarda la fiducia nell’infinita perfettibilità umana. Se si vuole raggiungere un progresso dell’umanità stessa, dice Benjamin, è impensabile riferirsi all’idea di un perfezionamento e miglioramento progressivo e infinito, e dunque alla concezione di tempo lineare omogeneo e vuoto sostenuta dallo storicismo. Si tratta al contrario di combattere attivamente, per provocare una rottura radicale, che produca un’interruzione del corso lineare e, inserendosi nelle interferenze, rovesci e sconvolga alle radici la storia dell’oppressione, giungendo all’abolizione delle differenze e ad una nuova concezione della storia. Benjamin si sta riferendo ancora una volta al «vero stato di eccezione», che deve essere provocato con un atto rivoluzionario. Il confronto serrato con l’opera di Schmitt aleggia nel corso di tutte le tesi e rinforza la critica benjaminiana alla storia progressiva. Nella terza critica rientra l’analogia quasi sinonimica tra tempo lineare e tempo a spirale, che si rivelerà di straordinaria portata per comprendere la base teorico-filosofica su cui si 7
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 41.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
impianta l’intero progetto del Passagen-Werk, di cui fanno parte anche le Thesen. Se la concezione di temporalità storica sostenuta da Benjamin si innalza sulle basi di un messianismo ebraico letto e conosciuto attraverso il rapporto con G. Scholem, F. Rosenzweig e M. Buber8, c’è da dire che essa si forma anche attraverso il confronto con l’idea di eterno ritorno, che egli ritrova nella costellazione Blanqui-Nietzsche-Baudelaire. Il sempre-nuovo dello storicismo e della coscienza storica borghese deve essere contrapposto, secondo Benjamin, ad un «wahrhaft Neues», che si manifesta nelle interferenze storiche: Il progresso non è di casa nella continuità del corso del tempo, ma nelle sue interferenze: là, dove il veramente nuovo (wahrhaft Neues) si rende percepibile per la prima volta con la sobrietà del mattino9.
Lo storico materialista deve leggere la storia come una sequenza discontinua di fratture e nuovi inizi. Ciò significa che anche nei processi evolutivi di lunga durata egli deve saper cogliere l’assolutamente nuovo, che ogni istante custodisce. La critica all’ideologia del progresso si esplica dunque non solo come una critica al tempo omogeneo e vuoto, ma anche all’idea che la storia proceda in modo irreversibile, seguendo la freccia del tempo. Benjamin sottolinea invece che l’unicità qualitativa di ogni istante, unita alla capacità dello storico di leggere e istituire delle costellazioni tra gli avvenimenti passati e presenti, mostra infinite aperture nel presente e inaugura la possibilità per quest’ultimo di essere rinnovato e modificato, comportando così conseguenze dal peso politico decisivo per il futuro. Interrompere il corso degli eventi, far esplodere la carica esplosiva contenuta nelle costellazioni, riaccendere la miccia della speranza che le generazioni passate hanno perduto è il compito filosofico, storico, etico, politico che Benjamin rivendica per le generazioni future. 8 Su questo punto è opportuno sottolineare che Benjamin non si collega alla visione ebraica ortodossa, ma appartiene piuttosto ai cosiddetti dochakei ha-ketz, gli «acceleratori della fine», di cui parla F. Rosenzweig, coloro che vogliono insomma affrettare l’avvento del Messia. Si tratta cioè di un messianismo rivoluzionario attivo. 9 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 9a, 7], p. 532.
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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4.4 Tra progresso e catastrofe: l’angelo della storia C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo, che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente al futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera10.
Di fronte alla fede in un progresso continuo e illimitato e alla persuasione delle classi al potere di «nuotare secondo la corrente» e di avere il vento favorevole, Benjamin avanza l’idea che il progresso sia una tempesta che allontana dal paradiso e accumula solo rovine e catastrofi. Ciò è teorizzato nella tesi IX, una delle pagine benjaminiane più famose, che ha ispirato autori appartenenti agli ambiti più diversi. Essa ha centrato una delle problematiche che maggiormente riguardano la crisi della modernità, e ancor più perché ha un forte carattere profetico e anticipatore. Essa ha la forma immaginale e allegorica di un Denkbild, che riassume tutto il testo. Ciò diventa particolarmente significativo, in quanto Benjamin esercita tale pratica nel confronto con un’altra immagine, il quadro di Klee, che porta il titolo Angelus Novus e che – come testimonia l’amico Scholem – Benjamin ha custodito per tutta la vita come «l’oggetto più prezioso in suo possesso»11. La nona tesi doveva commentare l’acquerello di Klee, ma essa non descrive effettivamente quello che l’osservatore vede. Essa non è una semplice descrizione di ciò che è raffigurato nel quadro, ma mostra degli elementi «invisibili», che Benjamin ha 10
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 35 sgg. Sulla figura benjaminiana dell’Angelus Novus cfr. tra gli altri le belle interpretazioni di: G. Agamben, L’uomo senza contenuto, Macerata 1994, pp. 157-174; M. Cacciari, L’angelo necessario, Milano 2003; Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, cit.; M. Ponzi, Le figure dell’angelo, in Id., L’angelo malinconico, cit., pp. 31-56. 11
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
proiettato nel quadro. Se osserviamo l’immagine non ci accorgiamo infatti né delle macerie ai piedi dell’angelo, né della tempesta che impedisce all’angelo di chiudere le ali e lo sospinge verso il futuro. Si tratta ancora una volta di un esempio del ricorso preferenziale da parte di Benjamin alle immagini – intese come materiale esplosivo (Sprengstoff) – piuttosto che al ragionamento concettuale-discorsivo. L’Angelo dipinto da Klee rappresenta per Benjamin un abitatore del «mondo complementare», in cui le «frontiere tra soggettivo e oggettivo […] vacillano, schiudendosi al fantasmatico, all’invisibile»12. Nella costruzione del breve testo Benjamin risente chiaramente dell’influsso baudeleriano: la struttura stessa dell’allegoria rimanda a quella delle correspondances. In particolare vi è in questo luogo – così come nel corso di tutte le Thesen – una corrispondenza tra sacro e profano, teologico e politico, di cui la figura dell’angelo è la pura incarnazione. Ciò è dovuto non solo al fatto che egli raffigura tali corrispondenze, ma ancor più alla sua stessa essenza. Egli è una figura-limite tra umano e divino e costituisce la soglia tra i due ambiti13. La figura dell’allegoria è resa ancor più evidente dal fatto che gli equivalenti teologici e profani sono espressi a chiare lettere nel testo: è Benjamin stesso infatti a dirci che la bufera che spira dal paradiso non è altro che il progresso e che le macerie sparse ai piedi dell’angelo sono la catastrofe. Attraverso il ricorso a Baudelaire, Benjamin vuole rendere esplicito il carattere allegorico e distruttivo del moderno e chiarire che il progresso ha per presupposti la catastrofe, la distruzione totale dell’esistente, le macerie. In questo senso è la stessa figu12 C. Buci-Glucksmann, La ragione barocca. Da Baudelaire a Benjamin, Genova 1992, p. 36. 13 La figura dell’Angelo, sulla soglia tra umano e inumano, racchiude in sé due aspetti centrali nell’opera di Benjamin: la «distruzione» e la «redenzione messianica». Il cumulo di rovine che sono sparse ai piedi dell’Angelo può essere letto come allegoria del «carattere distruttivo» del Moderno, che caratterizza anche il metodo filosofico di Benjamin. Egli opera in modo programmatico attraverso découpage e collage, alla ricerca della lingua originaria dei nomi, che precede la lingua umana, la lingua magica parlata dagli angeli, fatta di simboli e di corrispondenze.
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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ra dell’angelo, nella sua estraneità rispetto all’uomo, a mostrare che il progresso ha come presupposto la catastrofe. L’angelo fa apparire la precarietà dell’umano e lascia intravvedere nella distruzione una possibilità di redenzione. Non a caso nella raccolta di citazioni intitolata Zentralpark, che doveva costituire una parte della trilogia su Baudelaire, Benjamin afferma: Il concetto di progresso dev’essere fondato nell’idea di catastrofe. La catastrofe è che tutto continui come prima. Essa non è ciò che di volta in volta incombe, ma ciò che di volta in volta è dato. Il pensiero di Strindberg: l’inferno non è nulla che ci attenda – ma la nostra vita qui14.
Il passo suggerisce un legame tra modernità, progresso e inferno. Se la modernità è allegorizzata da progresso e inferno, ciò è dovuto al fatto che essa si configura come sottomessa alla ripetizione del sempre-uguale (Immergleichen), mascherato da novità. Ne è un esempio il processo di mercificazione che caratterizza la società capitalistica. Il moderno è dunque il luogo delle catastrofi, un luogo di transizione, di svolta, che si trova sull’orlo dell’abisso. L’angelo della storia, figura anch’essa del passaggio, «vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto», ma la tempesta che spira dal paradiso lo allontana e lo conduce alla ripetizione del passato, inteso come ripetizione di sempre nuove e più disastrose catastrofi. Le rovine non sono nell’interpretazione benjaminiana un equivalente moderno delle raffigurazioni romantiche, non sono un oggetto di pura contemplazione estetica, ma hanno un preciso collegamento con la realtà e la storia contemporanea all’autore. Utilizzando tale termine, Benjamin non fa altro che alludere ai massacri e alle mostruose devastazioni prodotte dall’uso massiccio e spregiudicato che l’uomo ha fatto del progresso tecnicoscientifico15. Il progresso è definito come bufera in chiaro riferi14 Benjamin, Parco centrale, in Angelus Novus, cit., p. 141. La stessa frase è presente con piccole modifiche in: Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 9a, 1], p. 531. 15 Probabilmente Benjamin vuole anche alludere assai criticamente alla filosofia della storia di Hegel, che legittimava «rovine», massacri e devastazioni, poiché facenti parte di un processo evolutivo più ampio, volto allo sviluppo, che vedeva al suo cul-
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
mento non solo a Hegel, che aveva parlato di «tempestoso presente», ma anche al linguaggio biblico16. Le considerazioni di Benjamin su progresso e catastrofe si manifestano come una riflessione sulla modernité, la cui portata è ben più vasta di un puro e semplice commentario sull’attualità politica. Ciò significa che non si tratta semplicemente della percezione della catastrofe imminente che si sta per abbattere sull’Europa, ma dell’intuizione lucida che essa assumerà i tratti di una distruzione totale senza precedenti, grazie al potenziamento dei mezzi tecnico-scientifici, che minaccia la sopravvivenza stessa del genere umano.
Excursus. L’immagine benjaminiana dell’angelo della storia ha ispirato anche autori di teatro e di cinema. Heiner Müller definisce il proprio testo Der glücklose Engel (1958) una forma di recezione dell’opera di Benjamin: «Dietro di lui si deposita il passato, sparge detriti su ali e spalle, con rumore quasi di tamburi sepolti, mentre davanti a lui ristagna il futuro, penetra i suoi occhi, fa esplodere le sue pupille come stelle, rovescia la parola in bavaglio sonoro, lo soffoca col suo respiro. Per un istante si vede ancora il suo battere d’ali, nel rollio si sentono cadere le pietre davanti sopra dietro di lui, tanto più rumoroso quanto più impetuoso il vano movimento, sporadico, quando diventa più lento. Poi su di lui si compie l’attimo: in piedi, in quel luogo rapidamente ricolmo, l’angelo malinconico si quieta, attendendo la storia nella pietrificazione di volo sguardo respiro. Finché il rinnovato rumore di un più poderoso battito d’ali si propaga a mine il trionfo della ragione. Se la storia appariva ad Hegel a un primo sguardo come un succedersi desolante di rovine, bisognava a suo avviso riuscire a guardare oltre, vedendo tali catastrofi come momento necessario per giungere infine alla destinazione finale e positiva: la realizzazione dello spirito universale. Benjamin tende a rovesciare questa concezione della storia, puntando lo sguardo sui grandi massacri della storia, dall’antichità fino ai suoi giorni. 16 Per il richiamo a Hegel cfr. G.W.F. Hegel, La razionalità della storia, in Id., Lezioni di filosofia della storia, Firenze 1978, p. 202. Il riferimento biblico è al diluvio universale e alla tempesta che distrusse Sodoma e Gomorra. Il termine «tempesta» vuole inoltre sottolineare che per lo storicismo e per l’evoluzionismo storico il progresso è inteso come evento naturale.
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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ondate attraverso le pietre e annuncia il suo volo»17. Müller condivide con Benjamin la critica alla fede nel progresso e ricorre all’utilizzo di allegorie e immagini, per esprimere la crisi della propria epoca e il carattere distruttivo del Moderno. A questo proposito sono da ricordare alcune considerazioni in cui egli ripensa al paragone istituito da Benjamin tra modernità e inferno, tra società borghese e inferno: «Tra Marx e Benjamin c’è l’accelerazione dello sviluppo tecnologico. Lei conoscerà senz’altro l’immagine della locomotiva che lascia la stazione nella direzione sbagliata – e cioè verso la parete. Questo fa parte degli aspetti infernali del moderno. […] Velocità, accelerazione, sono un tentativo di uscire dalla prigione della continuità. L’accelerazione produce forse distruzione e libera elementi, coi quali si può costruire qualcosa di nuovo»18. La figura dell’angelo della storia ha ispirato un’altro frammento mülleriano del 1991, intitolato Der glückloser Engel 2: «Tra città e città | dopo il muro l’abisso | vento alle spalle La mano | estranea nella carne solitaria | L’angelo lo sento ancora | ma non ha più alcun viso se non | Il tuo che non conosco»19. L’angelo esprime, secondo Müller, il tentativo di salvare la memoria del passato dei vinti dalle macerie della storia dei vincitori. Wim Wenders descrive esplicitamente le figure di angeli che popolano il suo film Der Himmel über Berlin (1986-87) come angeli della storia, mescolando nel loro sguardo scene della Berlino contemporanea con scene della seconda guerra mondiale e del dopoguerra. Essi riescono cioè a vedere tutta la storia di catastrofe che ha caratterizzato la città tedesca, che «come nessun’altra mostra il proprio passato». Wenders situa Benjamin esplicitamente tra le fonti che hanno ispirato Il cielo sopra Berlino: «Come mi sia venuta l’idea di popolare la mia storia berlinese con gli angeli […] L’idea è sorta contemporaneamente da diverse fonti. 17 H. Müller, Material, a cura di F. Hörnigk, Leipzig 1989, p. 7 (trad. it. di M. Ponzi). 18 H. Müller, Jetzt sind eher die infernalischen Aspekte bei Benjamin wichtig, in M. Opitz, E. Wizisla, Aber ein Sturm weht vom Paradiese her. Texte zu Walter Benjamin, Leipzig 1992, p. 355 (trad. it. di M. Ponzi). 19 H. Müller, Glückloser Engel 2, «Sinn und Form», 5 (1991).
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Anzitutto dalla lettura delle Duiniser Elegien di Rilke. Poi tempo addietro dai quadri di Paul Klee. Anche dall’Angelo della storia di Walter Benjamin»20. Il riferimento esplicito a Benjamin è contenuto non solo in alcuni scritti di Wenders, ma anche nella sceneggiatura del film. Si pensi alla lunga scena ambientata alla Staatsbibliothek, in cui gli «angeli berlinesi» si aggirano nella biblioteca, riuscendo a percepire i pensieri e le parole dei lettori. Uno dei lettori sta leggendo un testo appartenente alla letteratura secondaria su Benjamin, in cui viene descritta la figura dell’Angelus Novus. Inoltre Wenders ricorre all’utilizzo della canzone di Laurie Anderson The Dream Before (for Walter Benjamin), in cui viene nominato esplicitamente l’angelo della storia: «History is an angel being blown backwards into the future. And the angel wants to go back and fix things. To repair the things that have been brocken. But there is a storm blowing from Paradise. And the storm keeps blowing the angel backwards into the future. And this storm is called Progress». Gli angeli di Wenders sono portatori di un messaggio estetico e metafilmico, poiché la storia di Berlino è raccontata nel film attraverso un montaggio di scene tratte da altri film e documentari precedenti21. E così si può pensare che Wenders faccia un esplicito riferimento a Benjamin anche nella forma dell’esposizione (Darstellungsform), che ricorre ad un collage di materiali diversi, da cui emerge il carattere discontinuo della modernità. L’angelo della storia è citato una seconda volta, all’interno di una riflessione di estetica del discorso, attraverso la figura dell’Engel der Erzählung. Nella scena ambientata nella biblioteca viene inquadrata la figura di un vecchio, che sapremo poi chiamarsi Homer. Si tratta dell’angelo della storia (intesa questa volta come narrazione). Egli si propone di portare alla salvazione del mondo attraverso la narrazione. Il compito affidato da Benjamin all’Angelus Novus, e che tuttavia egli non può assolvere (destare i morti, ricomporre l’infranto e portare alla salvazio20 W. Wenders, Stanotte vorrei parlare con l’angelo. Scritti 1968-1988, Milano 1989, p. 148. Alcune riflessioni su Il cielo sopra Berlino sono contenute anche in: W. Wenders, L’atto di vedere. The Act of Seeing, Milano 2002. 21 Cfr. B.J. Dotzler, J. Müller-Tamm, Film nach Benjamin. Bild und Erzählung im Denken der Kinematographie, in D. Schöttker (a cura di), Schrift, Bilder, Denken. Walter Benjamin und die Künste, Frankfurt a.M. 2004, pp. 213 sgg.
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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ne del genere umano attraverso l’interruzione del corso storico), viene trasferito da Wenders all’angelo della narrazione. Homer sogna la «terra della narrazione», un luogo utopico, in cui sembra possibile la storia senza guerra e distruzione. Tuttavia anche questo secondo angelo non è in grado di assolvere al proprio compito. La sua terra è cambiata, egli non si orienta più. Sono mutate anche le condizioni sociali del proprio raccontare: gli ascoltatori sono divenuti lettori, essi non siedono più in cerchio, ma ciascuno legge da solo, senza sapere dell’esistenza degli altri lettori. È chiaro il riferimento alla crisi della narrazione descritta da Benjamin nel noto saggio Der Erzähler. L’angelo della narrazione è un semplice frequentatore della biblioteca, che sfoglia il libro di August Sander, Menschen des 20. Jahrhunderts, una collezione di ritratti appartenenti al ventesimo secolo. Il compito messianico che l’angelo benjaminiano non riesce ad attuare è trasferito da Wenders su un piano estetico e metafilmico, nel momento in cui nei titoli di coda appare la scritta: «Allen ehemaligen Engel gewidmet, vor allem aber Yazujiro, François und Andrei» (Ozu, Truffaut, Tarkowskij). Il significato metafilmico della trasposizione di tali figure angeliche, come personificazioni del medium cinematografico, conduce all’idea di un cinema inteso come portatore di consigli (così come la narrazione epica per Benjamin) e annuncio di salvezza. In questo senso Wenders afferma: «Il cinema deve tentare di nuovo di servire agli uomini. Il cinema potrebbe essere l’angelo»22. La visione storico-filosofica di Benjamin ha influenzato inoltre Jean-Luc Godard, che nei propri film sembra voler produrre immagini dialettiche. Ciò è stato sottolineato egregiamente da G. Didi-Huberman nel suo libro Immagini malgrado tutto23, in cui l’autore riprende alcune citazioni del cineasta francese sull’importanza della Storia per fare cinema: «Oggi, in video, guardo più spesso documenti storici che film. Ma è la stessa cosa, non vedo 22 A. Müller, Das Kino könnte der Engel sein. André Müller spricht mit Wim Wenders über seinen Film “Der Himmel über Berlin”, «Der Spiegel», 43 (1987), p. 230 (traduzione nostra). 23 Cfr. G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, trad. it. di D. Tarizzo, Milano 2005.
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differenze. Da questo punto di vista, un estratto del processo di Norimberga e una sequenza di Hitchcock raccontano entrambi ciò che siamo stati, sono entrambi cinema. – La storia è fatta allora di accostamenti? – È ciò che vediamo, prima di dirlo, accostando due immagini: una giovane donna che sorride in un film sovietico non è esattamente uguale a quella che sorride in un film nazista. Mentre lo Charlot di Tempi moderni è esattamente uguale inizialmente all’operaio di Ford filmato da Taylor. Fare della storia significa passare delle ore a guardare queste immagini e poi ad accostarle, facendo scoccare all’improvviso una scintilla. Tutto ciò produce delle costellazioni, con stelle che si accostano e discostano, come diceva Benjamin»24. La figura benjaminiana dell’Angelus Novus ha influenzato moltissimi altri registi, anche in tempi più recenti. Si pensi ad esempio al film di Udi Aloni, Local Angel: Theological Political Fragments (USA/Israel 2002), dedicato alla crisi israeliano-palestinese, e al film di Hubertus Siegert, Berlin Babylon (Deutschland 2000), dedicato alla ricostruzione di Berlino tra il 1996 e il 2000. L’Angelus Novus ha costituito inoltre uno dei motivi ispiratori di Documenta 2007, la cui direzione artistica è stata affidata a R.M. Buergel. Per l’occasione il quadro di Klee è stato esposto all’ingresso del Museum Fridericianum di Kassel.
4.5 Le conseguenze «kata-strofiche» del progresso 4.5.1 Catastrofe come distruzione I. Erfahrungsarmut. Nel contesto della critica benjaminiana all’ideologia progressiva, sono da inserire alcune riflessioni sul declino e la perdita di esperienza nel mondo moderno. Per progresso si intende soprattutto progresso tecnico-scientifico e più in particolare l’uso che di esso ha fatto l’uomo a scopo di distruzione. L’esperienza (Erfahrung) non 24 J.-L. Godard, Le cinéma a été l’art des âmes qui ont vecu intimement dans l’Histoire (entretien avec Antoine de Baecque), «Liberation», 6-7 avril 2002, p. 45. L’influsso benjaminiano sulle Histoire(s) du cinéma di Godard è stato sottolineato da: A. Bergala, Nul mieux que Godard, «Cahiers du cinéma», (1999), pp. 221-249. In queste pagine l’autore ha voluto sottolinare anche la presenza dell’Angelo della storia benjaminiano nelle Histoire(s) du cinéma.
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è da confondere con l’esperienza vissuta (Erlebnis), poiché alla seconda manca un legame forte con il passato della tradizione25. In uno dei suoi scritti più militanti, Teorie del fascismo tedesco26, Benjamin riflette sugli effetti disastrosi che può assumere il progresso tecnico, se viene utilizzato senza la giusta consapevolezza da parte degli uomini. Per evitare che si spalanchi un abisso «fra i giganteschi mezzi della tecnica da un lato, la sua esigua illuminazione morale dall’altro»27 e per non incrementare dunque la velocità con cui la società in cui stiamo vivendo venga condotta al suo definitivo tracollo, non si può far altro, secondo Benjamin, che «separare quanto è possibile da ciò che si dice spirituale tutto quello che è tecnica, escludere con la massima decisione possibile il pensiero tecnico dal diritto di codeterminazione dell’ordine sociale»28. La rivolta schiavistica della tecnica (Sklavenaufstand der Technik), di cui parla l’autore poco oltre, non è altro che il sollevamento/ribaltamento violento di tutti i mezzi chimici, meccanici, tattili, ottici, farmaceutici, spettacolari, drammatici, retorici contro ciò che pretende di rendere la tecnica schiava. Tutti questi mezzi conducono le forze sociali verso la distruzione e scatenano la guerra. Ed è in chiaro riferimento al vincolo sacrale che la tecnica ha istituito nei confronti della guerra a situarsi la critica benjaminiana: l’utilizzo spregiudicato dei mezzi tecnici in guerra fa vacillare il «minuto e fragile corpo umano»29, che si trova costantemente alla mercé di una «forza di esplosioni e di corren25 «[…] l’esperienza è un fatto di tradizione, nella vita collettiva, così come in quella privata. Essa non consiste tanto di singoli eventi esattamente fissati nel ricordo quanto di dati accumulati, spesso inconsapevoli, che confluiscono nella memoria». Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, cit., pp. 90 sgg. Sulla differenza tra Erfahrung ed Erlebnis cfr. R. Bodei, Erfahrung/Erlebnis. Esperienza come viaggio, esperienza come vita, in V.E. Russo (a cura di), La questione dell’esperienza, Firenze 1991, pp. 114-124. 26 W. Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in Opere complete IV, cit., pp. 203213. Tale saggio è stato scritto da Benjamin per prendere posizione contro l’antologia Krieg und Krieger, curata da Ernst Jünger e pubblicata nel 1930. 27 Ibid., p. 203. Il tema di un’asimmetria tra progresso tecnico e progresso morale è di chiara ascendenza kantiana. Cfr. I. Kant, La fine di tutte le cose, in Id., Questioni di confine. Saggi polemici (1786-1800), a cura di F. Desideri, Genova 1990. 28 Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in Opere complete IV, cit., p. 203. 29 Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., p. 540.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
ti distruttrici»30. Non significa più nulla collocare la nozione di fronte in relazione alla violenza dell’attacco e della difesa; tale nozione si è infatti dissolta, poiché alla strategia guerriera si è sostituita quella della distruzione pura. Il fronte non si trova più solo dov’è il campo di battaglia, la nostra stessa vita è costantemente al fronte. Chi ha partecipato alla prima guerra mondiale, dice Benjamin, è tornato «povero di esperienza comunicabile» […] poiché mai esperienze sono state smentite più a fondo di quelle strategiche attraverso la guerra di posizione, di quelle economiche attraverso l’inflazione, di quelle fisiche attraverso la fame, di quelle morali attraverso i potenti. Una generazione, che era andata a scuola ancora con il tram a cavalli, stava, sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui niente era rimasto immutato tranne le nuvole31.
È proprio la relazione che l’autore istituisce tra uso che della tecnica fa la guerra e povertà di esperienza che essa comporta a poter chiarire la critica benjaminiana all’ideologia del progresso. Considerare la povertà come risorsa e mezzo di conoscenza capace di mettere in risalto la diversità tra gli uomini, è una delle strade percorse da Benjamin nel saggio Erfahrung und Armut, per tentare di definire il rapporto tra fede nel progresso e perdita di esperienza. Lampanti sono in questo senso alcune pagine sui reduci della guerra mondiale, che, dopo aver vissuto un’esperienza devastante e destinata a segnarli per il resto della vita, sono divenuti incapaci di dire e di narrare. Ciò è stato causato ancora una volta dall’uso spregiudicato che della tecnica ha fatto la guerra. Essa ha prodotto solo il silenzio della morte. Un tempo si sapeva perfettamente che cosa significasse l’esperienza: le persone anziane l’avevano comunicato alle generazioni più giovani. Il saggio Erfahrung und Armut si apre proprio con l’immagine di un padre morente, che dona esperienza sotto forma di insegnamenti morali ai propri figli. Essa veniva tramandata talvolta concisamente nei proverbi, talvolta prolissamente nei racconti.
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Ibid. Ibid., pp. 539 sgg.
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Ma dove è andato a finire tutto questo? Chi incontra ancora gente capace di raccontare qualcosa come si deve? Dove oggi i moribondi pronunciano parole ancora così durevoli, da tramandarsi, come un anello, di generazione in generazione? A chi oggi viene ancora in aiuto un proverbio? Chi vorrà anche solo tentare di cavarsela con la gioventù, rimandando alla propria esperienza?32
4.5.2 Catastrofe come distruzione II. La crisi della narrazione. Il tema della narrazione, assai caro a Benjamin, rientra in quella teoria più generale sui mutamenti introdotti dal progresso tecnico nella vita dell’uomo. Se pure il cinema «con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere», donando all’uomo la possibilità di comprendere in modo più completo i meccanismi e gli «elementi costrittivi che governano la [sua] esistenza», garantendogli un «margine di libertà enorme»33, l’avvento della tecnica non ha portato soltanto effetti positivi nella vita dell’uomo. Gli esiti più lampanti occupano piuttosto il versante della devastazione e dell’impoverimento della condizione umana. Infatti l’uomo non ha saputo utilizzare i progressi apportati dalla tecnica con moderazione, servendosene invece per sottomettere la natura e i propri simili. Dominio della natura, insegnano gli imperialisti, è il senso di ogni tecnica. Ma chi vorrebbe prestar fede a un precettore armato di sferza, che indicasse il senso dell’educazione nel dominio dei bambini da parte degli adulti? L’educazione non è forse in primo luogo il necessario ordine del rapporto tra le generazioni e dunque, se di dominio si vuol parlare, il dominio non dei bambini ma di quel rapporto? Così anche la tecnica: non dominio della natura, dominio del rapporto tra natura e umanità34.
Riaffrontando da un’altra prospettiva le tematiche considerate in Esperienza e povertà, Benjamin muove ancora una volta dall’analisi del processo che ha portato l’uomo moderno alla perdita dell’esperienza autentica (Erfahrung) e alla sua sostituzione 32
Ibid. Cfr. Benjamin, L’opera d’arte, cit., p. 41. 34 Benjamin, Strada a senso unico, in Opere complete II, cit., p. 462. 33
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
con l’Erlebnis, l’esperienza impoverita dalla massificazione, dalla tecnicizzazione e dal conflitto mondiale. Il saggio sul Narratore (1934) prende l’avvio dal tema della perdita di esperienza, causato dalla guerra, per situarsi polemicamente a distanza dalla «fiumana dei libri di guerra», prodotti dal primo conflitto mondiale, e affermare l’assoluta inenarrabilità di un’esperienza, che ha portato solo devastazione e ammutolimento. Tale processo – dice Benjamin – non si è più arrestato e ha portato al tramonto della grande narrazione, poiché «il lato epico della verità, la saggezza» è venuto meno. Si tratta di un processo graduale e lento, che «ha espulso a poco a poco la narrazione dal parlare vivo», per assumere forme nuove. Per narrazione s’intende la narrazione che ha preso forma dall’epica, e cioè una forma di racconto legata all’oralità. Essa va disparendo in epoca moderna, «poiché non si tesse e non si fila più» mentre si ascoltano le storie. «Quanto più dimentico di sé l’ascoltatore, tanto più a fondo si imprime in lui ciò che ascolta»35. Le cause di questo processo, che ha portato alla scomparsa della grande narrazione e alla sua sostituzione con altre forme di racconto, si possono individuare in tre diverse fasi, che corrispondono a tre generi narrativi. Il primo momento di questo processo citato da Benjamin è costituito dalla nascita del romanzo, che si lega indissolubilmente con la diffusione della stampa. La dimensione del romanzo è quella del libro stampato; l’autore si tira in disparte, poiché «non è più in grado di esprimersi in forma esemplare sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più da vicino, è egli stesso senza consiglio e non può darne ad altri»36. La seconda forma di comunicazione, che si oppone alla narrazione in forma assai più pericolosa del romanzo, è l’informazione, che, a differenza della narrazione epica, presuppone che, mentre la si produce, si offrano al lettore delle spiegazioni. L’informazione ha la pretesa di essere controllata immediatamente. Essa «si consuma nell’istante della sua novità. Vive solo di quest’attimo», mentre la narrazione epica «conserva la sua forza e 35 36
Benjamin, Il narratore, in Angelus Novus, cit., p. 255. Ibid., p. 251.
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può svilupparsi ancora dopo molto tempo», producendo «stupore» e «riflessione». Il terzo genere narrativo è la short story, che si distacca dall’epica poiché è una forma di scrittura che si sottrae alla stratificazione di piani e di varianti producibile solo dall’oralità. Le tre forme narrative, come è evidente, sono il risultato dell’estinzione della «capacità di scambiare esperienze» tra gli uomini. Il rapporto tra narratore e ascoltatore è fondato sulla capacità di quest’ultimo di conservare e ri-produrre ciò che è stato narrato. L’essenziale è cioè la memoria, «facoltà epica per eccellenza». Ed è proprio per questo che Benjamin distingue tre diverse forme di memoria, che corrispondono alle tre forme citate di racconto. La prima, Erinnerung, è la figlia di Mnemosyne, la musa dell’epica. La seconda, Gedächtnis è la memoria del racconto, in cui si annuncia l’Eingedenken (reminiscenza o rammemorazione), il principio del romanzo. La tramandabilità del sapere, il «lato epico della verità», viene messo in relazione da Benjamin con un altro processo, apparentemente trascurabile, ma che rivela invece un aspetto della società borghese moderna. L’atto del morire si è ritratto dalla comunità degli uomini. Mentre un tempo il morire era «l’atto più pubblico tra gli avvenimenti nella vita dell’uomo», nella società di oggi si cerca di evitare che gli uomini si vedano morire a vicenda. Questa semplice abitudine rivela un lato costitutivo della vita dell’uomo moderno. Poiché «la vita vissuta – e questa è la materia di cui sono fatte le storie – assume una forma tramandabile solo nel morente», impedendo agli altri uomini di assistere alla morte di un uomo non si fa altro che impedire che l’esperienza vissuta venga trasmessa da una generazione alla successiva, non si fa altro che accelerare il processo che conduce l’uomo alla perdita di esperienza e all’impoverimento della propria interiorità. L’uomo non è più capace di ri-produrre storie, perché non vede più morire i suoi padri. Come, allo spirare della vita, si mette in moto, all’interno dell’uomo, una serie di immagini – le vedute della propria persona in cui ha incontrato se stesso senza accorgersene – così l’indimenticabile affiora d’un tratto nelle sue espressioni e nei suoi sguardi e conferisce a tutto ciò che lo riguar-
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dava l’autorità che anche il più misero degli uomini possiede, morendo, per i vivi che lo circondano37.
Solo ciò che si accosta all’uomo con auctoritas può essere oggetto di racconto. Il morire si è sottratto non solo dall’ambito dei rapporti tra l’uomo e i propri simili, ma anche tra uomini e cose. Gli oggetti non vengono più vissuti fino in fondo, fino ad essere consumati. Chi si affeziona ai vestiti o chi ha portato almeno una volta una vecchia cintura di pelle fino a che non è caduta in pezzi scoprirà sempre che a un certo punto, nel corso del tempo, vi si è sedimentata una storia. Si sottovaluta, in generale, il significato delle cose per il racconto38.
4.5.3 Catastrofe come transizione I. «Un nuovo positivo concetto di barbarie». Torniamo ora al saggio Erfahrung und Armut. Nel progresso tecnico sono stati individuati dall’autore berlinese i moventi della Armseligkeit (povertà d’animo) e della Erfahrungsarmut (povertà di esperienza). Con l’enorme sviluppo della tecnica, una nuova miseria ha colpito gli uomini, e il suo rovescio è un’«opprimente ricchezza di idee», dalla sapienza yoga, alla chiromanzia, al vegetarianismo, allo spiritismo, ecc. Non si tratta di una «rivitalizzazione», ma di una «galvanizzazione». Alla povertà di esperienze private si accompagna quella delle esperienze dell’umanità intera. In queste condizioni disperate non ha più senso cercare di difendersi attraverso la cultura e «ciò che si dice spirituale»; questi non avranno inoltre alcun ruolo nella decifrazione dei segni di un’emancipazione a venire. Tentare di ricorrere ancora a mezzi spirituali per superare lo scatenamento barbaro portato dalla tecnica, equivarrebbe a una dichiarazione di impotenza. La soluzione proposta da Benjamin è che, invece di edificare un nuovo fronte, bisogna essere in grado di distruggerlo e saper introdurre «un 37
Ibid., p. 258 (traduzione modificata). W. Benjamin, [Appendice a Il narratore], in W. Benjamin, Opere complete VI. Scritti 1934-1937, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, ed. it. a cura di E. Ganni con la collaborazione di H. Riediger, Torino 2004, p. 345. 38
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nuovo positivo concetto di barbarie»39, che permetta di sopravvivere alla scomparsa della cultura. Si tratta di un’espressione coniata da Benjamin, per dare diritto di esistenza al «minuscolo e fragile corpo umano», contro tutte le galvanizzazioni che tentano di sopraffarlo. Con i cordoni di fuoco e i camminamenti, la tecnica ha voluto ricalcare i tratti eroici del volto dell’idealismo tedesco. Ha sbagliato. Poiché quelli che essa riteneva eroici erano i tratti ippocratici, i tratti della morte. E così essa modellava – profondamente compenetrata dalla propria abiezione – il volto apocalittico della natura, la riduceva al silenzio, e tuttavia era la forza che avrebbe potuto farla parlare. Nell’astrazione metafisica in cui il nuovo nazionalismo fa di essa il proprio credo, la guerra non è altro che il tentativo di risolvere con la tecnica in modo mistico e immediato il mistero di una natura idealisticamente concepita, invece di usarlo e illuminarlo percorrendo la via indiretta dell’organizzazione delle cose umane40.
Che valore avrebbe l’intero patrimonio culturale che l’umanità ha alle spalle, se esso non fosse accompagnato dall’esperienza? Come può l’umanità entrare in relazione con esso se è divenuta incapace di dire? Come trasformare l’impoverimento economico, culturale e spirituale, causato dalla sconfitta, in una chance e in una risorsa per la ricostruzione? Tutto questo si può realizzare, secondo Benjamin, non tanto appigliandosi agli antichi valori nazionalistici di un idealismo ormai sorpassato, quanto piuttosto rendendosi conto di ciò che è stato perduto, rinunciando così alla caparbia ostinazione, tesa a trattenere ad ogni costo tutto ciò che è stato; affermando insomma la sconfitta come tale, senza pervertire una disfatta storica reale nella vittoria interiore di un guerriero, fiero delle proprie ideologie. In effetti, in seguito alla catastrofe prodotta dalla prima guerra mondiale, la cultura è lontana dall’essere neutra: essa costituisce il campo privilegiato per riappropriarsi delle ideologie di una nazione sconfitta. Nell’impossibilità di occupare terre, accumulare ricchezze e riconquistare il proprio patrimonio culturale perduto, la soluzione proposta dall’autore è quella di sbarazzarsi di tutto quello che contribuisce ad alimentare la rinascita fascista del patriottismo tedesco. La 39 40
Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., p. 540. Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in Opere complete IV, cit., p. 211.
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forza della nuova povertà di esperienza risiede insomma nell’indifferenza di fronte a questo mito. Se ci si domanda ancora perché introdurre un «nuovo positivo concetto di barbarie», la risposta è data dal fatto che chi è povero di esperienza «è indotto a ricominciare da capo, a iniziare dal nuovo, a farcela con il poco, a costruire a partire dal poco e inoltre a non guardare né a destra, né a sinistra»41. Tali sono gli «implacabili», i «caratteri distruttivi», che, prima di creare il nuovo, sono in grado di sbarazzarsi del passato, di sviluppare una povertà di spirito e avvicinarsi a quell’uomo povero che «niente vuole, niente sa, niente ha», protagonista del sermone eckhartiano Beati pauperes. I caratteri distruttivi «rifuggono dall’immagine umana tradizionale, solenne, nobile, fregiata di tutte le offerte sacrificali del passato, per rivolgersi al nudo uomo del nostro tempo, che strillando come un neonato, se ne giace nelle sudice fasce di quest’epoca»42. Il loro interlocutore, l’in-fans, ancora incapace di dire e rivestito di logori panni, non vuole senz’altro evocare l’innocenza primordiale che precede il peccato originale, ma designa chi non ha conosciuto altro che devastazione e denudamento del presente e non ha memoria di un tempo precedente. Forse Benjamin sta alludendo alla forza attiva dell’oblio, caratteristica della propria concezione messianica di filosofia della storia.
4.5.4 Catastrofe come transizione II. Infanzia e gioco. Il bambino rappresenta il punto d’indistinzione tra uomo e natura, poiché, mentre gioca, non discrimina tra ciò che è umano e ciò che non lo è. Egli mette in discussione i rapporti tra il proprio corpo e ciò che lo circonda: gli altri, gli oggetti, i movimenti, i colori, i suoni. Il linguaggio del gioco si costruisce attraverso la logica della ripetizione: quanto più il bambino è in grado di riprodurre un’azione, tanto più se n’è impadronito. Nulla è più caro al bambino dell’«ancora una volta».
41 42
Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., p. 540. Ibid., p. 541.
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«Es liesse sich alles trefflich schlichten | Könnt man die Dinge zweimal verrichten» – il bambino agisce secondo questa sentenza di Goethe. Solo che per lui non si tratta di due volte, ma di cento e mille, all’infinito. Con questo procedimento egli non riesce soltanto a superare il terrore di certe esperienze originarie, mediante lo smussamento, l’evocazione sbarazzina, la parodia, ma anche a gustare ripetutamente nel modo più intenso trionfi e vittorie. L’adulto libera il suo cuore dal terrore o gode una doppia felicità, raccontando. Il bambino si crea tutto ex novo, ricomincia ancora una volta da capo. Questa è forse la radice più profonda del doppio significato del tedesco spielen: la ripetizione della stessa cosa è forse l’elemento comune ai due sensi della parola. Non è già un «fare come se», ma un «fare sempre di nuovo», la trasformazione dell’esperienza più sconvolgente in un’abitudine, ciò che costituisce l’essenza del gioco43.
Questo avviene senza alcun riguardo per la verosimiglianza. Il gioco dell’imitazione non significa per il bambino duplicare un oggetto attraverso la rappresentazione, ma produrre una nuova somiglianza, che modifica i rapporti tra le cose, tra umano e inumano. Egli si costruisce un mondo il cui accesso è interdetto agli altri, un mondo in cui riesce a mimetizzarsi nelle cose, a dialogare con esse, in cui non ha più importanza se il gioco dell’imitazione lo porta ad essere maestro o mulino a vento44. Ciò è reso possibile dal fatto che i bambini mancano di esperienza, ma trasbordano di immaginazione. [I bambini] si sentono attratti in modo irresistibile dai materiali di scarto che si producono nelle officine, nei lavori domestici o di giardinaggio, in quelli di sartoria o di falegnameria. Nei prodotti di scarto riconoscono la faccia che il mondo delle cose rivolge proprio a loro, a loro soli. […] [Essi] pongono i più svariati materiali, mediante ciò che giocando ne ricavano, in un rapporto reciproco nuovo, discontinuo. I bambini in tal modo si costruiscono il proprio mondo oggettuale, un piccolo mondo dentro il grande, da sé45.
Il bambino è più attratto dal gioco che dal giocattolo, poiché ad attirare la sua attenzione non sono gli oggetti «attraenti» nel 43
W. Benjamin, Giocattolo e gioco. Osservazioni in margine a un’opera monumentale, in Ombre corte, cit., p. 90. 44 Cfr. Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in Opere complete V, cit., p. 522. 45 Benjamin, Strada a senso unico, in Opere complete II, cit., p. 416.
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senso letterale, in cui«l’imitazione è esplicita», quanto piuttosto oggetti di scarto e materiali che di per sé non sono fatti per giocare: pietre, plastilina, legno, carta, ecc. Questi ultimi gli permettono di crearsi un mondo in cui le cose sono slegate dalla loro funzione primaria e alludono ad altro46.
4.5.5 Catastrofe come transizione III. Il sapere delle immagini. Può essere utile spostare ora l’angolatura da cui viene osservata la nozione di gioco, per includere la dimensione collettiva dell’esistenza. La relazione che Benjamin individua tra tecnica e mondo dei bambini, che a un primo sguardo appare al lettore sorprendente, non è infatti priva di riscontri per un’analisi dell’essenza stessa della tecnica, nonché dell’uomo. Quando l’autore si sofferma sull’attenzione del bambino per le cose inanimate, non lo fa per umanizzare queste ultime, né per mostrare la centralità dell’uomo nel mondo. Egli prova piuttosto a domandarsi come dei materiali e degli strumenti possano sbarazzarci dalle preoccupazioni dell’esperienza e ridonarci un accesso tattile a tutto ciò che ci sta intorno47. In opposizione alla conoscenza, che procede per astrazione, Benjamin vuole ripristinare una forma di accesso alla realtà, che riesca a preservare il contatto immediato dell’uomo con ciò che lo circonda attraverso il comportamento mimetico. Benjamin mira dunque ad un «sapere sentito» (gefühltes Wissen), in cui al posto dei concetti appaiono le immagini: le immagini enigmatiche dei rebus e del sogno. L’uomo non deve infatti nutrirsi semplicemente «di ciò che colpisce i suoi sensi», ma essere capace di appropriarsi del sapere come se esso fosse dotato di vita propria ed esperibile sensibilmente. Inizia dunque a chiarirsi come, a partire dall’ambito antropologico della mímesis, la perdita di esperienza, provocata da un uso improprio e spregiudicato della tecnica, rientri a costituire una teoria gnoseologica. Questo modo di approcciarsi alla realtà fa dialogare Benjamin con le «migliori teste» (die besten Köpfe), tra cui Bertolt Brecht, Adolf Loos e soprattutto Paul Scheerbart, che, nel 46 47
Cfr. W. Benjamin, Storia culturale del giocattolo, in Ombre corte, cit., pp. 81-85. Su questi temi cfr. Benjamin, L’opera d’arte, cit., pp. 45 sgg.
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preoccuparsi di «cosa apportino i nostri telescopi, i nostri aeroplani e missili degli uomini di allora per del tutto nuove, interessanti, amabili creature»48, mette in evidenza il fatto che queste ultime parlano una lingua nuova, caratterizzata dalla «disposizione per l’arbitrario elemento costruttivo, in contrapposizione quindi all’organico»49. Scheerbart appartiene a un gruppo di scrittori, che cominciano a interrogarsi sulle trasformazioni della lingua in seguito all’avvento della tecnicizzazione. Gli abitanti del mondo descritto da Scheerbart rifiutano la somiglianza con l’umano anche a livello linguistico, mostrandosi sostenitori del «sex appeal dell’inorganico». Perfino nei nomi propri la gente del libro si scosta dall’umano: Lesabéndio (serata di lettura) è il titolo di un romanzo di Scheerbart, oltre che il nome del suo protagonista. Le persone portano il nome di azioni. Non vi è dunque una gerarchizzazione a livello linguistico, non vi è distinzione tra nomi propri e nomi comuni, tutte le parole possono servire a nominare. Si affaccia a questo punto l’interesse linguistico di Benjamin, che, come è noto, accompagna la sua filosofia fin dai suoi lavori giovanili, intrisi di kabbalah e misticismo romantico. Pare legittimo chiedersi se il riferimento alla lingua nominale di Scheerbart possa essere letto nei termini di un’allusione da parte di Benjamin alla reine Sprache, da lui teorizzata nei saggi giovanili sulla lingua. Che caratteristiche dovrebbe assumere la lingua nuova, che in seguito alla prepotente diffusione della tecnica si pone «al servizio della trasformazione della realtà»?50 Il soggetto disumanizzato, privato della possibilità di nutrirsi del patrimonio culturale dell’umanità e sprofondato in «una specie di nuova barbarie», sotto un cielo reso incerto dai continui bombardamenti di proiettili e immagini-desiderio (Wunsch-Bilder), si trova esautorato anche delle proprie funzioni linguistiche. Egli vive in un mondo irreale e derealizzato, in cui non ha un’effettiva relazione con gli oggetti, che non vengono percepiti nella loro datità sensibile, ma trasfigurati su un piano onirico. Per reagire alla nuova forma di barbarie, l’uomo si trova a parlare una nuova lin48 Benjamin,
Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., p. 541. Ibid. 50 Ibid., p. 542. 49
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gua, prodotto frammentario dello shock che l’ha depauperato. Ed è nel rivolgersi a questa nuova lingua, che i caratteri distruttivi scoprono nelle forme espressive del bambino un possibile modello di riferimento. Nella capacità del bambino di scorgere somiglianze tra le cose e attuare con esse un rapporto magico-mimetico, che alla forza evocativa della parola sostituisce la suggestione dell’immagine, essi intravvedono delle potenzialità impensate. Ecco dunque che le diverse stratificazioni dell’analisi benjaminiana vengono a sovrapporsi. I bambini riescono inoltre a scorgere delle corrispondenze magiche e misteriose e a far interagire ambiti tra loro apparentemente estranei: Compito dell’infanzia: inserire il nuovo mondo nello spazio simbolico. Al bambino è infatti possibile qualcosa di cui l’adulto è del tutto incapace: riconoscere il nuovo. Per noi le locomotive possiedono già un carattere simbolico, poiché appartennero alla nostra infanzia. La stessa cosa accade ai nostri bambini con le automobili, di cui noi stessi non cogliamo invece che l’aspetto nuovo, elegante, moderno e sfrontato. Non c’è antitesi più scialba e ottusa di quella che pensatori reazionari come Klages si sforzano di istituire tra lo spazio simbolico della natura e la tecnica. A ogni formazione naturale veramente nuova, e tale è in fondo anche la tecnica, corrispondono nuove «immagini». Ogni infanzia scopre queste nuove immagini, per incorporarle nel patrimonio immaginario dell’umanità51.
L’immaginario infantile mostra una possibile saldatura tra natura e tecnica, reale e irreale, passato e futuro. Si tratta di un modo di percepire oggetti, azioni e parole come se fossero dotati di vita propria, come interlocutori segreti, che parlano una lingua visiva, in cui la dimensione simbolica fa risplendere le parole nella loro forma significante, senza che esse possano descrivere la realtà, arrestandosi invece ad alludere ad essa. Si potrebbe intendere tali riflessioni come un’allusione metalinguistica di Benjamin al proprio modo di produrre pensiero attraverso immagini. Ciò potrebbe essere una conseguenza del suo adeguarsi alla scena dell’arte contemporanea, in cui non ha più senso vedere una separazione tra scrittura e immagine. Come il fotografo deve «dare alla sua fotografia quel commento scritto che la sottrae 51
Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [K 1a, 3], p. 435.
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all’usura della moda»52, allo stesso modo lo scrittore deve far entrare sempre più la scrittura «nel campo grafico della sua nuova eccentrica ricchezza di immagini»53. Spostandosi ora su un livello più ampio, ci si potrebbe chiedere se sia possibile far rientrare queste considerazioni nell’ambito di una teoria post-auratica, che vede nella diffusione della tecnica nella vita dell’uomo un primo segnale di rottura e di krísis a livello linguistico-espressivo: è insomma ancora possibile, secondo Benjamin, costruire un discorso filosofico (lógos)?
4.5.6 Tra pessimismo e utopia. Non è un caso che il saggio Esperienza e povertà si apra sulle pagine di un libro di lettura che aveva Benjamin quando era bambino, le favole di La Fontaine, e più in particolare sugli insegnamenti morali e i racconti di esperienza vissuta, che dona un vecchio morente ai suoi figli, per chiudersi sulle immagini dei cartoons di Walt Disney. Alla perdita di esperienza e all’imbarbarimento della vita dell’uomo si affianca un mondo onirico, prodotto dell’immaginazione, non ancora dominato dalla logica, dalla ragione e dall’esperienza. Tale mondo del sogno – così come quello del bambino – non ha ancora perduto la sua carica utopica54 e proprio per questo rifiuta e deride i contorni standardizzati e alienanti della vita quotidiana e deride in un certo senso anche i mezzi tecnici, poiché li utilizza in modo provocatorio. Al delirio visivo prodotto da catastrofe e distruzione nella vita reale, si affianca il kitsch del disegno. Il disegno animato è trattato come fatto vivente, è dotato di un’anima: a differenza del film, che trasfigura la realtà, subordinando le persone viventi alla loro immagine di star, esso appare come esistente e pensante. Nelle sue «costruzioni, immagini e storie l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è necessario. E quel che è più importante, lo fa ridendo»55. 52
W. Benjamin, L’autore come produttore, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 209. Benjamin, Strada a senso unico, in Opere complete II, cit., pp. 424 sgg. 54 Sul concetto di utopia in Benjamin cfr. M. Abensour, L’utopie de Thomas More à Walter Benjamin, Paris 2000. 55 Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., p. 544. 53
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
A questo punto non si deve intendere la povertà d’esperienza come se gli uomini volessero essere riempiti da una nuova esperienza. Essi vogliono esserne esonerati e poter far risaltare la propria povertà sia esteriore che interiore. Spesso non sono nemmeno del tutto ignari di esperienza, sono sazi, hanno ingoiato tutto. Alla sazietà subentra la stanchezza, a cui segue necessariamente il sonno, e «allora non è per niente strano che il sogno ricompensi per la tristezza e lo scoraggiamento del giorno e mostri realizzata quella esistenza del tutto semplice, ma grandiosa, per la quale nello stato di veglia manca la forza»56. Nel sogno è possibile riconquistare quel paese delle meraviglie, che supera il mondo della tecnica e si prende gioco di esso. Nel mondo di Mickey Mouse, in cui «un auto non pesa più di un cappello di paglia e il frutto sull’albero si arrotonda così velocemente, come la navicella di un areostato»57, natura e tecnica coesistono indistintamente, permettendo la realizzazione di ciò che nel mondo reale resta un desiderio irrealizzabile. Se l’uomo riuscirà ad adottare un simile punto di vista nei confronti della tecnica in tutti i settori della sua esistenza, dalla sfera privata a quella pubblica, dall’espressione linguistica e artistica ad un suo utilizzo in politica e in guerra, se smetterà di considerare natura e tecnica come due forze antagoniste e inconciliabili e se la correzione riuscirà, egli potrà vedere nella tecnica non più un «feticcio del tramonto», ma «una chiave per la felicità»58. Nel Passagen-Werk Benjamin accosta la perdita di esperienza all’avvento della manifattura e alla produzione di merci. Tale processo raggiunge il suo apice con lo sviluppo dell’industria capitalistica. Riflettendo sui mutamenti intervenuti nella vita degli operai in seguito all’avvento del capitalismo e interpretando alcuni passi del Capitale di Marx, Benjamin accosta la perdita di esperienza alla trasformazione dell’uomo in macchina, al suo diventare automa. Gli stessi gesti ripetitivi, che accompagnano chi lavora in fabbrica, si ritrovano nelle novelle di Poe e Hoffmann, che Benjamin aveva letto con estremo interesse, facendone oggetto di 56
Ibid., p. 543. Ibid. 58 Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in Opere complete IV, cit., p. 213. 57
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alcune riflessioni sul tema della folla, contenute nel saggio Di alcuni motivi in Baudelaire. Operai e automi non conoscono l’Erfahrung, ma solo l’Erlebnis, e più in particolare la Chockserlebnis59. Nelle analisi benjaminiane sulla perdita di esperienza si intravvede un dirompente elemento utopistico, che si situa nella connessione e nell’interdipendenza tra elementi arcaici e moderni, tra inconscio e coscienza collettiva. Alla forma del nuovo mezzo di produzione, che, all’inizio, è ancora dominata da quella del vecchio (Marx), corrispondono, nella coscienza collettiva, immagini in cui il nuovo si compenetra col vecchio. Si tratta di immagini ideali, in cui la collettività cerca di eliminare o di trasfigurare l’imperfezione del prodotto sociale, come pure i difetti del sistema produttivo sociale. Emerge insieme, in queste immagini, l’energica tendenza a distanziarsi dall’invecchiato – e cioè dal passato più recente. Queste tendenze rimandano la fantasia, che ha tratto impulso dal nuovo, al passato antichissimo. Nel sogno in cui, a ogni epoca, appare in immagini la seguente, questa appare sposata a elementi della storia originaria, e cioè di una società senza classi. Le esperienze della quale, depositate nell’inconscio della collettività, producono, compenetrandosi col nuovo, l’utopia, che lascia le sue tracce in mille configurazioni della vita, dalle costruzioni durevoli alle mode effimere60.
Nel riferirsi alla società senza classi primitiva e arcaica, Benjamin pensa in particolare alla società descritta da Bachofen, a cui dedica un importante saggio nel 1935. In essa l’autore berlinese scorge l’«evocazione di una società comunista all’alba della storia». Le società dell’Ur-geschichte sono caratterizzate dall’armonia tra uomo e natura, infranta in seguito dallo sviluppo del progresso. Richiamandosi a questa società arcaica, Benjamin non vuole restaurare il comunismo primitivo, ma portare ad un ritrovamen59 L’interesse di Benjamin per il rapporto vita-automa, di cui si parla nelle novelle di Poe, Kubin e Panizza, è testimoniato da W. Benjamin, E. T. A. Hoffmann und Oskar Panizza, in GS II/2, pp. 664-667. Un racconto di Poe ha ispirato inoltre la prima delle tesi Sul concetto di storia. La novella di Hoffmann Der Sandmann è richiamata nella sezione del Passagen-Werk «La bambola, l’automa». Le due citazioni poste ad esergo di tale sezione sono indice di quel processo di trasformazione dell’uomo in automa o bambola, che caratterizza il carattere meccanico vuoto e ripetitivo della vita in fabbrica. 60 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., pp. 6 sgg.
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to, nella dimensione della memoria e della coscienza collettiva, di quell’antica esperienza dell’egualitarismo antiautoritario e antipatriarcale, facendone una forza per la lotta rivoluzionaria, volta alla futura riabilitazione e al ripristino della società senza classi. Come è noto, nella famosa lettera dell’agosto 1935, che segue la lettura del primo Exposé, Adorno criticherà aspramente la connessione tra passato arcaico e Età dell’oro, così come quella tra epoca della mercificazione e Inferno. Benjamin terrà sicuramente conto delle osservazioni adorniane, che determineranno una curvatura forte all’interno delle sue indagini: egli tenterà infatti di limitare il riferimento al mondo arcaico, che lo avrebbe avvicinato eccessivamente al tipo di indagini condotte da Klages e Jung, tuttavia l’associazione tra modernità e Inferno resterà una presenza molto forte all’interno del Passagen-Werk, e soprattutto dell’analisi dell’opera baudelairiana. L’identificazione della modernità con l’inferno è intesa da Benjamin come catastrofe perenne e come ripetizione priva di speranza di pene infernali, che si rigenerano continuamente. Se nel primo caso il riferimento esplicito è a Strindberg, di cui Benjamin cita l’opera teatrale Verso Damasco, per quanto riguarda il secondo caso egli si riferisce sia alla mitologia greca – citando le figure di Sisifo, Tantalo e delle Danaidi61 – sia alla figura dell’operaio, descritta da Engels62. Un altro richiamo forte è alla frase esposta all’ingresso delle fabbriche (citata da Marx), che sembra rievocare l’iscrizione posta all’ingresso dell’Inferno dantesco63. 61 «“[…] Il desolato tran-tran di un tormento lavorativo senza fine, in cui il medesimo processo meccanico viene rieseguito sempre di nuovo, è simile alla fatica di Sisifo. Il peso del lavoro, come il macigno di Sisifo, riprecipita sempre di nuovo sull’operaio stremato”». Friedrich Engels, Die Lage der arbeitenden Klasse in England, Leipzig 1848, p. 217. Ibid., [D 2a, 4], p. 114. 62 «L’essenza dell’accadere mitico è la ripetizione, in cui s’inscrive come figura latente quell’inutilità che marchia la fronte di alcuni eroi degli inferi (Tantalo, Sisifo e le Danaidi). Ripensando ancora una volta nel XIX secolo il pensiero dell’eterno ritorno, Nietzsche fa la figura di colui in cui la fatalità mitica si compie nuovamente. (L’eternità della pena infernale ha forse smussato all’idea antica dell’eterno ritorno la sua punta più tremenda, sostituendo all’eternità di un decorso ciclico l’eternità del tormento)». Ibid., [D 10a, 4], p. 129. 63 «[…] Il segreto laboratorio della produzione, sulla cui soglia sta scritto: “No admittance except on business”. Cfr. l’iscrizione di Dante sulla porta dell’inferno e Einbahnstraße». Ibid., [X 7a, 3], p. 735.
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4.6 Pensare la catastrofe: Benjamin e Blanqui L’ingresso dei temi dell’inferno, della catastrofe e dell’eterno ritorno nel pensiero di Benjamin è dovuto in buona parte alla lettura del libro di L.A. Blanqui, L’Éternité par les astres (1872). La concezione cosmologica di Blanqui procede dalle ipotesi di Laplace e intende l’universo come prodotto da un numero finito di combinazioni tra gli elementi che lo compongono (un centinaio), che si ripetono all’infinito. Ogni elemento dell’universo (astri, esseri umani, ecc.) si trova ad esistere «in numero infinito nel tempo e nello spazio» e assume in ogni istante contemporaneamente tutte le possibili combinazioni che ha nel corso della propria esistenza. Ciò significa che egli è eterno in ogni istante. Vi è dunque un numero infinito di «sosia» nel tempo e nello spazio. In questa visione del cosmo «il nuovo è sempre vecchio e il vecchio è sempre nuovo» e perciò il progresso è totalmente assente. Pensare che possa esistere una progressione nella storia dell’umanità è un errore: la barbarie non verrà soppiantata dalla cultura e dal progresso, ma continuerà ad avvicendarsi a questi ultimi. Quel che chiamiamo progresso è imprigionato su ogni terra, e con lei svanisce. Sempre e dovunque, sulla superficie terrestre, lo stesso dramma, lo stesso scenario, sullo stesso angusto palcoscenico, un’umanità turbolenta, infatuata della propria grandezza, che crede di essere l’universo e che vive nella sua prigione come se fosse un’immensità, per scomparire ben presto insieme al globo che ha portato con il più profondo disprezzo il fardello del suo orgoglio. Stessa monotonia, stesso immobilismo in tutti gli astri. L’universo si ripete senza fine, e scalpita senza avanzare. L’eternità recita imperturbabilmente nell’infinito le stesse rappresentazioni64.
4.6.1 Tracce di L’Éternité par les astres nell’opera di Benjamin. Benjamin è uno dei pochissimi lettori ad aver messo in evidenza l’importanza di L’Éternité par les astres e ad esserne stato influenzato consapevolmente. L’incontro con l’opera di Blanqui avviene piuttosto tardi e da 64 L.-A. Blanqui, L’Eternità attraverso gli astri, a cura di F. Desideri, trad. it. di G. Alfieri, Milano 2005, p. 77.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
principio in forma indiretta, tuttavia avrà un’importanza decisiva nel delineare il progetto del Passagen-Werk. Il nome di Blanqui è assente nella prima fase di produzione dell’opera sui passages parigini, che inizia nel 1927 a Berlino e vede un primo tentativo di compendio nell’Exposé del 1935. È solamente tra la fine del 1936 e l’inizio del 1937 che Benjamin entra in contatto con l’opera di Blanqui attraverso la mediazione del libro di Gustave Geffroy, L’Enfermé, in cui l’autore traccia una sorta di biografia del rivoluzionario francese. Se si fa riferimento ad una fondamentale lettera, che Benjamin scrive ad Horkheimer il 6 gennaio 1938, si può stabilire che l’incontro determinante con Blanqui e l’ingresso delle sue riflessioni nel pensiero benjaminiano siano da imputare al 1937. Vale la pena riportarne alcuni passi: […] Nelle ultime settimane ho fatto una rara scoperta, che influenzerà in modo determinante il lavoro: mi sono imbattuto nello scritto che Blanqui, nella sua ultima prigione, il Fort Taureau, ha scritto per ultimo. Si tratta di una speculazione cosmologica. Si chiama L’Éternité par les astres ed è, a quanto mi è dato di capire, passato pressoché inosservato fino a oggi. (Gustave Geffroy nella sua esemplare monografia su Blanqui intitolata L’enfermé, lo menziona senza rendersi conto di cosa si tratta). Bisogna ammettere che quando lo si sfoglia per la prima volta, lo scritto appare insulso e banale. Tuttavia le impacciate riflessioni di un autodidatta che ne costituiscono la parte principale, non sono che i preliminari di una speculazione sull’universo, che da nessuno ci si sarebbe aspettati meno che da questo grande rivoluzionario. Se l’inferno è un oggetto teologico, questa speculazione può essere definita teologica. La visione del mondo che Blanqui sviluppa in essa riprendendo i dati della scienza naturale meccanicistica è effettivamente infernale – e al tempo stesso, nella forma di una visione naturale, costituisce il complemento di un ordinamento sociale da cui, alla fine dei suoi giorni, Blanqui doveva considerarsi vinto. Il fatto sconvolgente è che in questo abbozzo è assente ogni ironia. Esso rappresenta una subordinazione incondizionata, ma al tempo stesso il più terribile atto d’accusa contro una società che lancia nel cielo come sua proiezione questa immagine del cosmo. Nel suo tema: l’eterno ritorno, il pezzo ha un singolarissimo rapporto con Nietzsche; uno più recondito e profondo con Baudelaire, che in alcuni passi straordinari rievoca quasi testualmente. Ed è proprio questo rapporto che io mi sforzerò di mettere in luce65. 65 Benjamin, Lettere, cit., pp. 331 sgg. Il primo contatto di Benjamin con l’opera di Blanqui è testimoniato, oltre che dalla lettera citata, ripresa anche all’interno del Pas-
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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Nella lettera è già abbozzato un primo commento all’opera di Blanqui, in cui emergono chiaramente gli elementi che a Benjamin premerà sottolineare. Egli afferma che a L’Éternité par les astres non è stata data la giusta attenzione da parte dei lettori, poiché, ad un primo approccio, appare un libro «insulso e banale». Ciò è accaduto anche a buona parte della critica benjaminiana, che non ha situato in posizione di rilievo l’influsso dell’opera di Blanqui nel pensiero di Benjamin66. Il rapporto di Benjamin con Blanqui riguarda esclusivamente l’opera citata, che riveste un peso decisivo nella formulazione del secondo Exposé e dunque della seconda fase di lavoro all’opera sui passages. L’autore francese non è recepito come una figura emblematica di rivoluzionario, ma come figura insolita di rivoluzionario, che coniuga il proprio anarchismo ad una visione cosmologica assai suggestiva, volta a interpretare l’universo come luogo di catastrofi permanenti. Benjamin intravvede non solo una speculazione cosmologica, ma anche, attraverso quest’ultima, una riflessione teologica, che ha per oggetto l’inferno. L’universo è inteso come luogo infernale, in cui si ripetono catastrofi e devastazioni. È in questo senso che l’ingresso dei temi dell’inferno e della catastrofe nel pensiero benjaminiano è dovuto in gran parte ad una lettura accurata di L’Éternité par les astres. L’autore francese viene menzionato ripetutamente nell’articolo Das Paris des Second Empire bei Baudelaire (1938), in riferimento al tema della bohème e della modernité e dunque nel suo rapporto con l’opera di Baudelaire. sagen-Werk – cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [D 5a, 6], pp. 120 sgg. – da una lettera del 16 aprile 1938, indirizzata anch’essa ad Horkheimer, in cui l’autore richiama il progetto dell’opera su Baudelaire, la cui terza parte doveva essere dedicata al tema dell’eterno ritorno e fare riferimento a Blanqui e Nietzsche. 66 Vi sono tuttavia alcune eccezioni, come ad esempio: M. Abensour, W. Benjamin entre mélancolie et révolution. Passages Blanqui, in Wismann (a cura di), Walter Benjamin et Paris, cit., pp. 219-247; F. Desideri, Nota Blanqui: modernità, eterno ritorno, in Id., La porta della giustizia, cit., pp. 119-135. (Tale testo è riportato con alcune modifiche in: Blanqui, L’Eternità attraverso gli astri, cit., pp. 79-95); F. Rella, Benjamin e Blanqui, in F. Rella (a cura di), Critica e storia. Materiali su Benjamin, Venezia 1980, pp. 181-200. (Tale testo è ripreso con alcune variazioni in F. Rella, Miti e figure del moderno. Letteratura, arte e filosofia, Milano 2003, pp. 80 sgg).
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Successivamente il suo nome compare nella raccolta aforistica Zentralpark (1939), facente parte della trilogia baudelairiana, in relazione ai temi dell’eterno ritorno, della critica all’ideologia del progresso e della catastrofe67. Il luogo più significativo che testimonia il confronto tra i due autori è senza dubbio il Passagen-Werk, e più in particolare il secondo Exposé (1939), Paris, capitale du dix-neuvième siècle. Vi sono in esso due passaggi estremamente importanti per mostrare la pregnanza che l’opera di Blanqui riveste nella costruzione della concezione benjaminiana di catastrofe e del rapporto che quest’ultima intrattiene con la nozione di progresso. Il primo si trova nell’Introduction all’Exposé, in cui Benjamin tenta di spiegare come la concezione di storia, che si trova a fondamento dell’opera sui passages, si fondi sull’idea di fantasmagoria. La sua ricerca si propone di mostrare come dalla rappresentazione cosista della civilizzazione, che non è altro che la concezione storica che il XIX secolo ha offerto di sé attraverso la 67 «L’idea dell’eterno ritorno trasforma anche l’accadere storico in articolo di massa. Ma questa concezione mostra anche in un altro senso – per così dire nel suo rovescio – il segno delle circostanze sociali a cui deve la sua improvvisa attualità. Essa si annunciò nell’istante in cui la sicurezza delle condizioni di vita cominciò a diminuire nettamente in seguito alla successione accelerata delle crisi. L’idea dell’eterno ritorno riceveva splendore dal fatto che non si poteva più contare con sicurezza sul ritorno delle stesse condizioni a intervalli più brevi di quelli forniti dall’eternità. Il ritorno di costellazioni quotidiane diventava via via sempre più raro, e poteva nascere così l’oscuro presentimento che ci si dovesse accontentare delle costellazioni cosmiche. Insomma, l’abitudine si preparava a rinunciare ad alcuni dei suoi diritti. Nietzsche dice: “Amo le brevi abitudini”, e già Baudelaire fu incapace di sviluppare, vita natural durante, abitudini stabili». Benjamin, Parco centrale, in Angelus Novus, cit., p. 132. «Mostrare energicamente come l’idea dell’eterno ritorno penetra quasi nello stesso tempo nel mondo di Baudelaire, di Blanqui e di Nietzsche. In Baudelaire l’accento cade sul nuovo, strappato con eroico sforzo al sempreuguale, in Nietzsche sul sempreuguale, che l’uomo affronta con eroica fermezza. (Blanqui è molto più vicino a Nietzsche che a Baudelaire, ma in lui prevale la rassegnazione). In Nietzsche questa esperienza si proietta cosmologicamente nella tesi che non succede più nulla di nuovo». Ibid., p. 137. «Blanqui […] non mostra alcun odio per la credenza nel progresso; ma la copre tacitamente del suo scherno. Ciò non significa affatto che egli diventi infedele al suo credo politico. L’attività del cospiratore professionale, quale era Blanqui, non presuppone affatto la fede nel progresso, ma intanto solo la decisione di farla finita con l’ingiustizia presente. Questa decisione di sottrarre l’umanità, all’ultima ora, alla catastrofe che di volta in volta la minaccia, fu per Blanqui, più che per ogni altro rivoluzionario di quel periodo, l’elemento determinante». Ibid., p. 141.
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cosiddetta «storia della civilizzazione», le nuove forme di vita e le nuove creazioni a base economica e tecnica, che dobbiamo al secolo scorso, entrino a far parte di una fantasmagoria. Ciò avviene non solo sul piano teorico, ma anche su quello pratico. Come fantasmagoria sono da intendere i passages, le esposizioni universali, il flâneur, la merce, l’intérieur e la ristrutturazione della topografia di Parigi, dovuta a Haussmann. Blanqui viene nominato come avversario della storia della civilizzazione, in quanto ha fatto luce sui tratti più spaventosi di tale fantasmagoria. Benjamin introduce a questo punto, sia pure zwischen den Zeilen, l’idea infernale di eterna ripetizione dell’identico. L’umanità viene descritta infatti attraverso lo sguardo di Blanqui come dannata, poiché imprigionata nell’eterna ripetizione del sempre uguale. L’idea di novità è esclusa dalla fantasmagoria e con essa la possibilità di emancipazione, che potrebbe verificarsi solo attraverso l’introduzione di un elemento di novità, e quindi è destinata a non realizzarsi. Questo porterà l’umanità ad essere presa da un’angoscia mitica, da cui non potrà liberarsi68. Ma è nella Conclusion dell’Exposé che Benjamin parla più esplicitamente di Blanqui. L’Éternité par les astres completa, secondo Benjamin, la costellazione delle fantasmagorie del diciannovesimo secolo attraverso un’ultima fantasmagoria, a carattere cosmico, che comprende implicitamente la critica a tutte le altre. La concezione dell’universo sviluppata da Blanqui a partire dalle scienze naturali meccanicistiche si mostra come una visione infernale. Essa fa da complemento alla società che ha sconfitto Blanqui. In tale testo Blanqui presenta l’idea nietzschiana di eterno ritorno dieci anni prima dell’autore tedesco «in modo appena meno patetico e con un’estrema forza di allucinazione»69. Nella visione cosmica proposta da Blanqui il progresso 68 Cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 20. «[Blanqui] a révélé dans son dernier écrit les traits effrayants de cette fantasmagorie. L’humanité y fait figure de damnée. Tout ce qu’elle pourra espérer de neuf se-dévoisera aussi peu capable de lui fournir une solution libératrice qu’une mode nouvelle l’est de renouveler la societé. La speculation cosmique de Blanqui comporte cet enseignement que l’humanité sera en proie à une angoisse mythique tant que la fantasmagorie y occupera une place». 69 Ibid., p. 34 (traduzione nostra).
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
si mostra come la fantasmagoria della storia stessa. La modernità, conclude Benjamin, è il mondo dominato dalle proprie fantasmagorie. Il secolo non è stato in grado di adeguarsi alle nuove possibilità tecniche attraverso un nuovo ordinamento sociale. In tale visione della storia entra l’intero universo, in cui non fanno che ripetersi cicli cosmici identici con delle piccole variazioni. In questo senso la novità è un elemento della dannazione. Resta a questo punto da domandarsi come si inserisca Blanqui all’interno delle tesi Über den Begriff der Geschichte. Come noto, viene fatta menzione esplicita del suo nome nella tesi XII, tuttavia l’influenza del pensatore francese non è da ricondurre a tale luogo, ben poco significativo nell’economia del testo benjaminiano. Si tratta invece di tracciare una linea di continuità all’interno delle Tesi e di indicare Blanqui come interprete di quello stato di eccezione, che è divenuto la regola. Egli è citato infatti come uomo che ha fatto esperienza sulla propria pelle dell’oppressione, è protagonista di quella storia dei vinti, che Benjamin vuole emancipare. Inoltre ha fatto esperienza anche del potere distruttivo della classe operaia, esperienza che lo ha portato tuttavia ad essere ripetutamente sconfitto e a trascorrere buona parte della sua vita in carcere. L’ombra di Blanqui appare dunque nella filigrana delle Tesi, aiutando Benjamin a formulare la sua nuova e rivoluzionaria idea di storia. Se Blanqui testimonia dello stato di eccezione, vissuto dalla parte dei vinti, risulta a questo punto assai evidente come l’influenza del suo pensiero si rispecchi in una riflessione sull’idea di giustizia. Blanqui individua infatti assai lucidamente un legame, all’interno dell’ideologia storicistica positivista, tra la visione storica lineare e progressiva e l’abbandono dell’idea di giustizia a vantaggio di un patto con gli oppressori70. Anch’egli vuole rompere con la continuità della storia lineare, che non ha fatto altro che descrivere la storia dei potenti, anch’egli mira a «spazzolare 70
«Toutes les atrocités du vainqueur, la longue série de ses attentats sont froidement transformés en évolution régulière, inéluctable, comme celle de la nature». L.A. Blanqui, Contre le positivisme, in Id., Istruction pour une prise d’armes, a cura di M. Abensour, V. Pelosse, Paris 1972, p. 105.
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la storia contropelo», difendendo i propri ideali egualitaristi. Solo restando fedeli all’idea di giustizia si può pensare di rompere la continuità dell’ingiustizia. L’atteggiamento di Blanqui va oltre una mera critica politica e riguarda il significato del progresso nella storia dell’umanità. Egli interpreta la storia come un tessuto assai complesso, fatto di rotture, cesure, nuovi inizi, discontinuità che agiscono e hanno come sfondo la storia dell’oppressione. Ed è solo la rottura con il passato più prossimo a permettere, secondo Blanqui, di riattivare un passato lontano e di dare origine alla libertà futura71. In Benjamin e in Blanqui s’intravvede la stessa volontà di costruire un nuovo modello storico, che superi il modello lineare progressivo e la falsa ideologia di un progresso dell’intera umanità72. A questo scopo Blanqui introduce l’idea dell’eterna ripetizione dell’identico, con cui riesce a superare l’ideologia del progresso, ma non la visione storica lineare.
4.6.2 Blanqui e Nietzsche sull’eterno ritorno. Dieci anni prima della formulazione nietzschiana della teoria dell’eterno ritorno, Blanqui afferma: «Il nuovo è sempre vecchio, e il vecchio è sempre nuovo»73. Eterno ritorno significa per Blanqui che tutto si ripete eternamente con delle variazioni. Un numero finito di elementi si ripete in un numero infinito di combinazioni nello spazio e nel tempo. Ciò vuol dire che l’universo vede realizzate le sue infinite combinazioni sia nella simultaneità che nella successione e che 71 «Il est vrai qu’en reparaissant au jour, comme le Rhône après sa perte, l’antiquité s’est permis de donner un rude démenti (soufflet) à la tocade du développement continu. Arrêtant court, puis refoulant dans la nuit le Moyen Age, elle est venue réinstaller sur les ruines de la tradition christiano-absolutiste l’idée de liberté et de République conservée (restée) en depôt dans les entrailles des idiomes grecs et latins. Elle est donc fausse, cette théorie du progrès interrompu et fatal. Car la civilisation grécoromaine a bondi par-dessus le christianisme pour refaire malgré lui, contre lui, la civilisation moderne». Ibid., p. 110. 72 Cfr. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 93: «Tre momenti vanno calati nei fondamenti della concezione materialistica della storia: la discontinuità del tempo storico; la forza distruttiva della classe operaia; la tradizione degli oppressi». 73 Blanqui, L’Eternità, cit., p. 75.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
dunque esistono non solo duplicati perfetti e sosia di ciascun individuo, ma anche varianti di quello che tale individuo avrebbe potuto essere in condizioni diverse. Ciò che non si realizza qui e ora si sta realizzando e si realizzerà in altri luoghi in eterno. Non è chiaro se Nietzsche avesse letto L’Eternité par les astres prima della formulazione del concetto di eterno ritorno. Sicuramente egli era venuto a conoscenza di tale testo – e lo cita nel 1883, cioè due anni dopo la propria formulazione – tuttavia non è ancora stato confermato dalla critica un effettivo rapporto di causa-effetto tra le due teorizzazioni. C’è da dire che Nietzsche, almeno in una prima fase della sua riflessione, sperava di poter fondare scientificamente la sua teoria, servendosi degli stessi testi che aveva utilizzato Blanqui, e cioè i testi di Laplace e di altri autori influenzati da quest’ultimo74. Un altro elemento a favore dell’influenza diretta tra i due autori – anche se esso non basta a provarla con certezza – è il fatto che vengano usate in alcuni luoghi le stesse parole e addirittura le stesse metafore75. 74
Nella nota “Zarathustra” nell’Opera di Nietzsche, G. Colli esclude che ci sia nelle opere di Nietzsche l’eco di ipotesi della scienza ottocentesca, che invece in Blanqui sono assai esplicite, tuttavia Nietzsche esprime posizioni assai simili a quelle di Blanqui, che indicano un’influenza delle teorie scientifiche di Laplace nelle sue formulazioni. Cfr. F. Nietzsche, Opere, a cura di G. Colli, M. Montinari, Milano 1972, V/2, p. 316; VIII/3, p. 188. 75 C’è da dire che in quegli stessi anni autori appartenenti ad aree assai diverse propongono visioni molto simili a quella nietzschiana di eterno ritorno. «La nostra terra si è forse riprodotta un bilione di volte […] questo ciclo forse si è già ripetuto un’infinità di volte, e sempre allo stesso modo in ogni suo particolare. Una noia da morire». F. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, Milano 1976, p. 675. «Nell’intera durata del tempo, grandi ondate di fondo sollevano, dalle profondità delle ere, le medesime collere, le medesime tristezze, le medesime prodezze, le medesime manie, attraverso generazioni sovrapposte». Proust, Il tempo ritrovato, cit., p. 279. Tuttavia, pur entro un’atmosfera di generale ripensamento dell’idea di tempo, è significativo e curioso che Blanqui e Nietzsche ricorrano addirittura alle stesse metafore per formulare concetti assai simili. Se Blanqui dice: «Tutte queste terre si inabissano, una dopo l’altra, nelle fiamme rinnovatrici, per rinascere e ricadervi ancora, monotono deflusso della sabbia di una clessidra che si gira e si svuota eternamente» (Blanqui, L’Eternità, cit., p. 75), Nietzsche afferma: «Quale che sia lo stato che questo mondo può raggiungere, deve averlo già raggiunto, e non una ma infinite volte. Così quest’attimo: esso era già qui una volta e molte volte e parimenti ritornerà, tutte le forze distribuite esattamente come ora; lo stesso avviene per l’attimo che ha generato questo e per quello che sarà il figlio dell’attimo attuale. Uomo! La tua vita intera, come
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Se per Blanqui il numero degli elementi che si combinano è finito, Nietzsche parla invece di un «numero limitato di centri di forza»: Se il mondo può essere pensato come una determinata quantità di forza e come un determinato numero di centri di forza – e ogni altra rappresentazione rimane indeterminata e quindi inservibile – ne segue che esso deve percorrere un numero calcolabile di combinazioni nel gran giuoco di dadi della sua esistenza. In un tempo infinito, ogni possibile combinazione sarebbe una volta, quando che fosse, raggiunta; sarebbe anzi già raggiunta infinite volte. E poiché tra ogni «combinazione» e il suo prossimo «ritorno» dovrebbero essere passate tutte le altre combinazioni possibili, e ciascuna di tali combinazioni determinerebbe l’intera successione delle combinazioni nella stessa serie, sarebbe con ciò dimostrato un circolo di serie assolutamente identiche: il mondo come un circolo che si è già innumerevoli volte ripetuto e che prosegue il suo giuoco all’infinito. Questa concezione non è senz’altro una concezione meccanicistica: se lo fosse, non determinerebbe l’infinito ritorno di casi identici, bensì uno stato finale. Poiché il mondo non l’ha raggiunto, il meccanismo deve valere per noi come ipotesi imperfetta e solo provvisoria76.
Al di là degli aspetti che accomunano le due teorie di Nietzsche e di Blanqui, è comunque interessante rilevare come sia comune ad entrambi l’idea di una fondazione scientifica delle proprie riflessioni, che convive con elementi mitizzanti. Vi è tuttavia una differenza tra le due concezioni: come hanno sottolineato acutamente F.A. Lange e J.L. Borges77, nella teoria di Blanuna clessidra, sarà sempre di nuovo capovolta, e sempre di nuovo si svuoterà […] E allora troverai di nuovo ogni dolore e ogni piacere e ogni amico e ogni nemico e ogni speranza e ogni errore e ogni filo d’erba e ogni raggio di sole, la connessione totale di tutte le cose». F. Nietzsche, Frammenti postumi. Estate-autunno 1881, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, V/2, Milano 1965, p. 359 (fr. 11 [253]). Il riferimento alla clessidra è presente anche in un frammento della Gaia scienza: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e ogni sospiro e ogni indicibilmente piccola o grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutta nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello di polvere». F. Nietzsche, Gaia scienza, in Opere, cit., vol. 11, pp. 201 sgg. 76 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere complete di Friedrich Nietzsche, ed. it. a cura di G. Colli e M. Montinari, VIII/3, Milano 1974, p. 165. 77 Cfr. F. A. Lange, Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung in
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
qui è assente l’elemento della ciclicità, per cui non si dovrebbe parlare a rigor di termini di eterno ritorno, ma piuttosto di eterna ripetizione. A questo consegue che in tale visione cosmologica è assente la necessità, poiché l’eterna ripetizione di tutti gli elementi dell’universo è esposta a un numero indeterminato di possibili variazioni. Non si può dunque parlare di determinismo, come invece prevedrebbe una visione circolare.
4.6.3 Erstarrte Unruhe: catastrofe in stato di quiete e condanna infernale alla ripetizione. L’universo di Blanqui è «pluralizzato», è multiversum: il suo polimorfismo temporale lo rende tale. Il presente è aperto alla possibilità delle sue infinite variazioni, che sono determinate da cataclismi siderali, cioè da catastrofi. Le catastrofi indicano, per la loro stessa definizione, biforcazioni. Il cosmo oscilla tra distruzione e creazione, tra movimento e quiete. Benjamin introduce in questo senso una figura molto suggestiva, che esprime, attraverso un’immagine dialettica, la struttura stessa dell’universo descritto dall’autore francese. Erstarrte Unruhe (inquietudine irrigidita)78 è la forma dell’universo, e la genesi della sua forma è la catastrofe. Ciò significa che è la stessa inquietudine irrigidita a costituire il principio di conservazione del cosmo. Senza i continui collassi, le catastrofi, le distruzioni, gli scontri, esso si annienterebbe, crollando entropicamente nel nulla. Su questo punto fondamentale s’innesta la teoria ermeneutica benjaminiana, che assume tuttavia le coloriture di una filosofia della storia, piuttosto che di una teoria cosmologica. «La visione di Blanqui fa entrare nella modernité […] l’universo intero»79. Esso è immaginato come multiversum, come reader Gegenwart, Iserlohn 1873-75; J.L. Borges, Storia dell’eternità, trad. it. di L. Bacchi Wilcock, Milano 1983. I due autori accostano il pensiero di Blanqui a quello di Democrito, Epicuro e Lucrezio. 78 «L’inquietudine irrigidita diviene nella visione del mondo di Blanqui lo status del cosmo come tale. Il corso del mondo appare perciò in effetti come un’unica grande allegoria». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [J 55a, 4], p. 354. L’espressione erstarrte Unruhe proviene da un testo di Gottfried Keller, Verlorenes Recht, verlorenes Glück: «War ein Medusenschild | der erstarrter Unruh Bild». Cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [J 50, 5], p. 342. 79 Ibid., p. 35 (traduzione nostra).
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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lizzazione nell’infinità dello spazio e del tempo di tutte le possibili combinazioni tra gli elementi che lo costituiscono. Più che di un’utopia si tratta per Benjamin di un’allegoria della modernità, che, proprio in quanto tale, si fa espressione della più forte critica al concetto di progresso80. Il progresso è imprigionato nell’eterna ripetizione dell’universo, che è immaginato da Blanqui come una prigione che condanna i detenuti a restare inchiodati agli eventi e alla loro ripetizione81. L’universo, in quanto allegoria del moderno, allude al carattere infernale di quest’ultimo, al tempo cioè della ripetizione. Il «moderno»: l’epoca dell’inferno. Le pene dell’inferno sono ciò che di più nuovo di volta in volta si dà in questo ambito. Non si tratta del fatto che accada «sempre lo stesso», ancora meno si può qui parlare di eterno ritorno. Si tratta, piuttosto, del fatto che il volto del mondo non muta mai proprio in ciò che costituisce il nuovo, che il nuovo, anzi, resta sotto ogni riguardo sempre lo stesso. – In questo consiste l’eternità dell’inferno. Determinare la totalità dei tratti, in cui il «moderno» si configura, significherebbe rappresentare l’inferno82. 80
Ciò si mostra in modo assai sottile, secondo Benjamin, in quanto Blanqui non manifesta apertamente la sua critica all’ideologia del progresso, ma la fa emergere in modo velato, trattandola con scherno: «In L’Eternité par les astres Blanqui non mostra alcun astio contro la fede nel progresso, ma fra le righe la sommerge di scherno. Non è affatto detto che egli sia perciò divenuto infedele al suo credo politico. L’attività di un rivoluzionario di professione, quale fu Blanqui, non presuppone la fede nel progresso, ma solo la ferma risoluzione di abbattere delle ingiustizie presenti. L’insostituibile valore politico dell’odio di classe consiste proprio nel dotare la classe rivoluzionaria di una sana indifferenza rispetto alle speculazioni sul progresso. La rivolta dovuta all’indignazione di fronte all’ingiustizia dominante è altrettanto degna dell’uomo di quella che mira al miglioramento dell’esistenza delle generazioni future. Sì, è altrettanto degna dell’uomo, e appare inoltre anche più simile all’uomo. Di pari passo con questa indignazione procederà la ferma risoluzione di strappare all’ultimo momento l’umanità alla catastrofe che di volta in volta la minaccia. Fu questo il caso di Blanqui, che si rifiutò sempre di elaborare progetti per ciò che verrà poi». Ibid., [J 61a, 3], pp. 369 sgg. 81 «Loro e noi e tutti gli altri ospiti del nostro pianeta, rinasciamo prigionieri del tempo e del luogo che il destino ci assegna nelle serie delle sue incarnazioni. La nostra eternità è un’appendice della sua. Siamo soltanto fenomeni parziali delle sue resurrezioni. Uomini del secolo XIX, l’ora delle nostre apparizioni è fissata per sempre e torneremo sempre gli stessi, senza altra prospettiva di qualche variante fortunata. Niente, in tutto questo, che possa placare la nostra sete di meglio». Blanqui, L’Eternità, cit., p. 76. 82 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [S 1, 5], p. 609. Cfr. anche ibid., , p. 919.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Il tempo dell’inferno è il tempo del mito: la teoria di Blanqui è secondo Benjamin répétition du mythe e, in quanto tale, «un esempio fondamentale della storia originaria del XIX secolo»83. Nel tentativo di demitizzare il tempo della modernità s’inserisce il concetto di eterno ritorno e dunque l’accostamento da parte di Benjamin di Blanqui a Nietzsche e anche a Baudelaire. Quando Benjamin afferma nell’Exposé che «la speculazione cosmica di Blanqui insegna che l’umanità sarà in preda a un’angoscia mitica, fintanto che la fantasmagoria vi occuperà un posto»84, sta invocando la dissoluzione del mito come dissoluzione della fantasmagoria stessa. Il tempo mitico della ripetizione imprigiona infatti gli eventi alla necessità dell’accadere di nuovo e li incatena in una successione, che può essere discontinua, ma che non intravvede la possibilità di cogliere nelle interruzioni tracce di possibile redenzione. La discontinuità è data nel tempo del mito dalle continue catastrofi. L’universo di Blanqui condanna gli eventi alla ripetizione, consegnandoli alla catastrofe, che tuttavia non è risolutrice, ma resta all’interno della logica della ripetizione.
4.6.4 Lo scarto tra Benjamin e Blanqui. À la Recherche de la Rédemption perdue. Risulta evidente a questo punto lo scarto tra Benjamin e Blanqui, dovuto senza dubbio all’intervento nel pensiero dell’autore tedesco di elementi tratti dal messianismo ebraico, che conducono ad esiti di apertura alla salvezza e dunque alla redenzione del genere umano. Benjamin ha visto in Blanqui un momento importante, in quanto «l’adversaire le plus redouté de cette société», alla quale si è opposto attraverso una critica dai toni distruttivi – unica 83 Cfr. ibid., [D 10, 2], p. 128. Benjamin rimanda esplicitamente ad altri due frammenti del Passagen-Werk: [N 3a, 2] e [N 4, 1]. Vale la pena fare riferimento al primo, in cui egli definisce che cosa intende per Urgeschichte des neunzehnten Jahrhunderts. «“Storia originaria del XIX secolo”: essa non avrebbe alcun interesse, se la si intendesse nel senso che all’interno del XIX secolo debbano essere ritrovate forme storico-originarie. Solo là, dove il XIX secolo è esposto come una forma originaria della storia originaria, in una forma dunque in cui l’intera storia originaria si concentra nuovamente in quelle immagini che sono attinenti al secolo passato, il concetto di una storia originaria del XIX secolo ha un senso». 84 Ibid., p. 20 (traduzione nostra).
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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arma con cui ha tentato di difendere i propri ideali rivoluzionari di uguaglianza e giustizia. Egli era, tra i rivoluzionari della sua epoca, il più deciso a «sottrarre l’umanità, all’ultima ora, alla catastrofe che di volta in volta la minaccia»85. Ciò che Benjamin tuttavia vede come limite nel pensiero di Blanqui è l’assenza di speranza, che muove invece le riflessioni benjaminiane sul senso della storia, costituendone infine l’approdo. L’Éternité par les astres costituisce agli occhi di Benjamin «una requisitoria sconvolgente […] contro la società»86, che è dipinta con tratti infernali. Blanqui riesce a descrivere efficacemente, mascherata da fantasmagoria cosmica, l’essenza del mondo capitalistico moderno, dominato dalla merce, che introduce e obbliga alla logica della ripetizione dell’Immergleichen, coperto sotto le sembianze della nouveauté. Quest’ultima «appare come l’attributo di ciò che appartiene al banco della dannazione». Nel mondo descritto da Blanqui l’umanità fa la figura di dannata, poiché la novità non è in grado di fornire elementi liberatori e redentivi, e nemmeno la possibilità di modificare la società. Benjamin ritrova un’ulteriore forma di resistenza alla catastrofe continua prodotta dal progresso nella poesia di Baudelaire. Il poeta francese evoca infatti nella propria opera l’esperienza che caratterizza le società precapitalistiche, che è stata perduta nell’epoca della riproducibilità tecnica. Essa viene riconvocata da Baudelaire nel presente attraverso la memoria, che tuttavia non costituisce, secondo Benjamin, uno strumento adeguato alla salvazione del presente87. Uno dei meriti che Benjamin attribuisce a Baudelaire è infatti il riconoscimento della propria impotenza a mutare la società in cui viveva88. «Interrompere il corso del mondo 85
Benjamin, Parco centrale, in Angelus Novus, cit., p. 141. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 34 (traduzione nostra). 87 Attraverso le correspondances il poeta francese fissa «un concetto di esperienza che ritiene in sè elementi cultuali. Solo facendo propri questi elementi, Baudelaire poteva valutare appieno il significato della catastrofe di cui egli, come moderno, si trovava ad essere testimone. [...] Ciò che Baudelaire intendeva con queste correspondances, si può definire come un’esperienza che cerca di stabilirsi al riparo da ogni crisi». Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Angelus Novus, cit., p. 117. 88 Commentando il verso appartenente a Les Fleurs du mal «Le Printemps adorable a perdu son odeur», Benjamin afferma: «Il crollo e la sparizione dell’esperien86
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
era la più profonda volontà di Baudelaire». Ed è proprio la necessità dell’interruzione del corso storico progressivo a costituire l’approdo necessario delle ricerche benjaminiane sul concetto di storia, che assumeranno i tratti di una necessaria redenzione. Ma per poter comprendere come Benjamin arrivi alla formulazione del concetto di interruzione inteso come salvazione, è ora necessario mettere maggiormente a fuoco il concetto di catastrofe.
4.7 Catastrofe e Ausnahmezustand: il confronto con Carl Schmitt Nel Dramma barocco tedesco (1928) Benjamin, situandosi criticamente rispetto alla posizione di Schmitt, propone una «vera e propria teoria della “indecisione sovrana”»89. Egli sottolinea infatti l’impossibilità per il sovrano di decidere sullo stato di eccezione, ironizzando in questo modo sul nesso – imprescindibile per Schmitt – tra sovranità e stato di eccezione. Se il sovrano è per Schmitt colui che decide sullo stato di eccezione, ciò non si realizza secondo Benjamin, poiché vi è una scissione tra potere sovrano e sua messa in opera, che corrisponde alla distinzione istituita da Schmitt in La dittatura (1921) tra norme del diritto e norme di attuazione del diritto. Fra potere sovrano e attuazione del proprio potere si apre un varco incolmabile, che non è altro, da un punto di vista topografico, che la soglia tra ciò che è interno e ciò che è esterno al diritto. Si tratta appunto dello stato di eccezione, e cioè di quella zona-limite in cui l’applicazione della legge è sospesa, ma la legge rimane in vigore. In questo senso lo stato di eccezione si mostra come un non-luogo, in cui coesistono, escludendosi, democrazia e assolutismo. Benjamin ha ben presente questo concetto di stato di eccezione, quando afferma nelle tesi Sul concetto di storia che allo stato di eccezione in cui viviamo, che è divenuto la regola, dobbiamo sostituire il «vero stato di eccezione». za a cui ha – in un tempo lontano – partecipato, è ammesso nella parola perdu. [...] È ciò che rende questo verso di Baudelaire infinitamente sconsolato. Per chi non può più fare nessuna esperienza, non c’è conforto». Ibid., p. 120. 89 Agamben, Stato di eccezione cit., p. 72. Le osservazioni che seguono, relative al concetto di stato di eccezione, sono state ispirate dalla lettura di questo illuminante libro.
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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Su questo sfondo si situa l’osservazione di Agamben, riferita al Dramma barocco tedesco, secondo la quale «il paradigma dello stato di eccezione non è più, come nella Teologia politica, il miracolo, ma la catastrofe»90. La catastrofe è la non decisione, è lasciare che la storia continui secondo il suo corso, senza che venga interrotta. Ciò diventa esplicito nell’ottava tesi Sul concetto di storia, in cui Benjamin afferma: La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di eccezione» (Ausnahmezustand) in cui viviamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo. Allora ci starà davanti, come nostro compito, di suscitare il vero (wirklich) stato d’eccezione, migliorando così la nostra posizione nella lotta contro il fascismo91.
Quest’ultima dichiarazione è una critica ancora più forte al concetto schmittiano di stato di eccezione. Infatti se, secondo Schmitt, lo stato di eccezione dovrebbe servire a rendere applicabile la norma, sospendendone temporaneamente l’efficacia, nel momento in cui l’eccezione diventa la regola, la teoria schmittiana comincia a vacillare. Bisogna dire che la confusione tra norma ed eccezione si era già verificata storicamente nel Terzo Reich, attraverso la proclamazione da parte di Hitler di uno stato di eccezione permanente, che dal 1933 non era più stato revocato, e dunque Schmitt e Benjamin vivevano in una situazione in cui lo stato di eccezione era divenuto la regola92. Inoltre la distinzione istituita da Benjamin tra stato di eccezione ed effettivo stato di eccezione era ben presente a Schmitt, nel momento in cui anch’egli l’aveva presa in prestito dal libro di Theodor Reinach, De l’état de siège, anche se in termini assai differenti. L’opposizione istituita da Benjamin si situa in posizione di critica esplicita a Schmitt. Non si tratta infatti di distinguere, come 90
Ibid., p. 73. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 33. 92 «Il totalitarismo moderno può essere definito, in questo senso, come l’instaurazione, attraverso lo stato di eccezione, di una guerra civile legale, che permette l’eliminazione fisica non solo degli avversari politici, ma di intere categorie di cittadini, che per qualche ragione risultino non integrabili nel sistema politico». Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 11. 91
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
aveva fatto Reinach, tra uno stato di eccezione effettivo (effectiv) ed uno stato di eccezione fittizio (fictiv), ma di assumere che nell’epoca di Benjamin – per non parlare della nostra – lo stato di eccezione ha assunto le sembianze della norma, cioè che non si può vivere se non in uno stato di eccezione permanente. Benjamin contesta aspramente la concezione schmittiana secondo la quale nello stato di eccezione la violenza è inclusa nel diritto attraverso la sua esclusione. Lo stato di eccezione non è altro, per Benjamin, che una zona di «a-nomia», in cui si realizza una violenza, che non ha alcuna veste giuridica93. Egli sostiene – e con lui Agamben – che ciò che si realizza nello stato di eccezione ad opera del potere statuale è una «fictio iuris per eccellenza», nel senso che chi è al potere pretende di mantenere sospeso il diritto come «forza di legge» (senza legge)94. Lo stato di eccezione separa infatti la norma dalla sua applicazione, per rendere quest’ultima possibile. È dunque esplicito come le posizioni dei due filosofi tedeschi contrastino in un punto decisivo: per Schmitt lo stato di eccezione deve mantenere il suo rapporto «essenziale» con la sfera del diritto, per Benjamin esso si situa, al contrario, al di fuori della sfera giuridica. Senza scendere ora troppo nel dettaglio, ci preme sottolineare come il riferimento della critica benjaminiana al concetto di Ausnahmezustand ci serva a chiarire il concetto di catastrofe. 93
Cfr. ibid., pp. 76 sgg. Forza di legge è il titolo di una conferenza tenuta da Derrida nel 1989 alla Cardozo School of Law di New York, in cui egli dava un’interpretazione del saggio benjaminiano Zur Kritik der Gewalt (1921). L’espressione che dà il titolo al saggio era in realtà già nota nel linguaggio giuridico a partire dal diritto romano e medievale, in cui portava il significato di «capacità di obbligare». È solo in epoca moderna, durante la Rivoluzione francese, che tale espressione acquista il significato tecnico di «intangibilità della legge anche nei confronti del sovrano», riferendosi ad atti statuali espressi dalle assemblee popolari. Significativo è il fatto che, sia in epoca antica, che moderna, tale concetto si riferisce, non tanto alla legge, ma «a quei decreti – aventi, appunto, come si dice, forza di legge – che il potere esecutivo può essere autorizzato in alcuni casi – e, segnatamente, nello stato di eccezione – a emanare». Forza di legge si riferisce dunque a quei decreti che non sono leggi, ma che ne acquistano la forza. «Lo stato di eccezione è uno spazio anomico, in cui la posta in gioco è una forza-dilegge senza legge […] qualcosa come un elemento mistico o, piuttosto, una fictio attraverso cui il diritto cerca di annettersi la stessa anomia». Agamben, Stato di eccezione, cit., pp. 50 sgg. 94
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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La critica di Benjamin a Schmitt è volta a mostrare implicitamente che il tempo presente dovrebbe in una situazione «normale» (e cioè in una descrizione storico materialistica degli eventi) scindersi in routine e stato di eccezione. Ciò non si realizza tuttavia nel presente a cui si riferisce Benjamin – e cosa che è per noi più preoccupante, non si è più realizzato storicamente ormai da un secolo. Norma ed eccezione non hanno infatti una loro autonomia né concettualmente, né tanto meno su un piano pratico, poiché il presente ha per norma lo stato di eccezione. La regola è, per Benjamin, che la storia non è altro che la descrizione degli eventi dalla parte dei vincitori, è cioè data come percorso lineare e progressivo. Questo è un falso stato di eccezione, che addormenta la realtà. Bisogna invece suscitare il vero ed effettivo stato di eccezione, mutare il corso degli eventi, spazzolando la storia contropelo e cioè dalla parte dei vinti. Si tratta di una prospettiva di mutamento radicale, entro la quale il tempo futuro non è predeterminato, ma aperto. La freccia temporale non è dunque irreversibile, secondo Benjamin, e il corso della storia può subire una variazione direzionale grazie ad un intervento esterno. Entro questa prospettiva è situabile l’idea di catastrofe. Lo stesso ragionamento che Benjamin applica al concetto di Ausnahmezustand, sembra infatti ripercorribile anche per quanto riguarda la catastrofe.
Excursus. Il termine greco katastrophé ha un duplice significato95. Se guardiamo alla sua etimologia esso indica da un lato un rivolgimento, un rovesciamento, una ri-voluzione, dall’altro il compiersi di un processo e dunque l’esito, il termine, la fine, intesa anche come morte. Esso deriva dal verbo strépho, che significa girare, volgere (lo sguardo, le pupille, il timone, ecc.), rovesciare, capovolgere. Si evidenziano dunque due diversi modi di intendere tale concetto: il primo indica un mutamento di stato 95 Cfr. U. Curi, Katastrophé. Sulle forme del mutamento scientifico, Venezia 1982; S. Natoli, Progresso e catastrofe. Dinamiche della modernità, Milano 1999; A. Tagliapietra (a cura di), Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro, Milano 2004.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
o di direzione, una trasformazione, una transizione; il secondo, che è entrato maggiormente nell’uso comune, indica la fine, il disastro, la distruzione. È accertata infine un’ulteriore accezione tecnica di tale termine, che nel linguaggio teatrale, a partire dalla Poetica di Aristotele indica la transizione, il rovesciamento, la svolta che conduce nel my´thos alla ly´sis (scioglimento) di désis (nodo), e dunque il punto culminante della tragedia. Bisogna dire che il significato più comune di disastro non è accertato nei testi filosofici e letterari della Grecia classica. L’identità tra catastrofe e distruzione, tra catastrofe e rovina, è molto tarda. Nella Poetica Aristotele afferma che un buon racconto (my´thos) si regge sull’imitazione di fatti capaci di destare éleos (pietà) e phóbos (terrore). Ciò si realizza se i fatti avvengono parà ten dóxan (secondo verosimiglianza) e katà ton anankai˜on (secondo necessità). Il racconto deve giungere ad un culmine – la katastrophé, appunto – a partire dal quale inizia lo scioglimento. Il momento della catastrofe rappresenta un mutamento, una transizione di stato. Esso deve verificarsi in conformità alle leggi di verosimiglianza e necessità, e cioè deve introdurre una marcata discontinuità all’interno del racconto rispetto ai fatti precedenti, che tuttavia è una conseguenza necessaria di ciò che si è verificato fino a quel momento. Aristotele offre una sorta di fenomenologia della katastrophé. Non tutti i passaggi da felicità a infelicità (o viceversa) suscitano éleos e phóbos: bisogna escludere quei fatti che non scaturiscono dai precedenti necessariamente o verosimilmente. Vanno fatte inoltre delle eccezioni anche riguardo ai personaggi: essi non devono indurre lo spettatore a provare ripugnanza o disapprovazione. La catastrofe si presenta come metabolé, è data cioè dal sorgere dell’inatteso dal necessario. Una tragedia ben riuscita si fonda sul buon esito della metabolé, più che sul contenuto del racconto. Bisogna ricordare infatti che a quell’epoca i my´thoi erano largamente conosciuti dagli spettatori, e dunque la possibilità di suscitare pietà e terrore era affidata alle forme della metabolé (o katastrophé): anagnórisis (riconoscimento) e peripéteia (peripezia). Fra tutte le forme di metabolé la più efficace è, per Aristotele, quella che interviene contemporaneamente al riconoscimento, come accade per esempio nell’Edipo re. Un altro motivo fondamentale su cui si concentra l’atten-
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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zione del drammaturgo è il fatto che il fine della tragedia, così come di tutti i componimenti, è di produrre un’edoné specifica, che nel caso della tragedia è la kátharsis (purificazione). Ed è proprio la katastrophé a produrre la catarsi. La transizione di stato descritta nel my´thos corrisponde cioè ad un’analoga transizione nello stato d’animo dello spettatore. Entrambi questi mutamenti di stato devono essere inattesi. Il significato di rivolgimento, cambiamento di direzione, svolta, transizione è stato messo in luce all’inizio degli anni Ottanta dalla Teoria delle catastrofi di René Thom, che per catastrofe intende «una transizione discontinua qualsiasi, che si verifica quando un sistema dispone di più di uno stato stabile, o può seguire più di un cammino stabile di trasformazione. La catastrofe è il salto da uno stato a un altro o da un cammino ad un altro». In questa prospettiva la catastrofe non indica la fine di un processo, ma piuttosto un mutamento di forma. I due tratti essenziali che la caratterizzano sono la discontinuità e l’irreversibilità. «La transizione catastrofica è discontinua non perché manchino stati o percorsi intermedi, ma perché nessuno di essi è stabile: il passaggio dallo stato o dal cambiamento iniziale a quello finale ha una durata molto breve rispetto al tempo trascorso negli stati stabili»96. La trasformazione, suggerisce Ilya Prigogine, Premio Nobel per la Fisica nel 1977, non è da intendersi come un passaggio improvviso dall’ordine al disordine, ma come uno stato di «ordine per fluttuazione», da cui emerge il nuovo. Là dove avviene il mutamento di stato (catastrofe), il sistema sceglie tra diverse possibilità. Nessun sistema è stabile, ma è soggetto a continue trasformazioni97. 96
A. Woodcock, M. Davis, La teoria delle catastrofi, Milano 1982, p. 47. Cfr. I. Prigogine, I. Stengers, La nuova alleanza. Metamorfosi della scienza, Torino 1981. Il suggerimento che proviene da queste teorie è di assumere un modello dinamico per leggere gli avvenimenti degli ultimi anni e dell’ultimo secolo. C’è chi, come Natoli, interpreta l’epoca in cui stiamo vivendo come epoca dell’«ordine per fluttuazione». In questo senso, egli afferma, la modernità entra nel Novecento in una zona di disequilibrio, che potrebbe condurla alla catastrofe. Ciò porta a percepire l’epoca in cui stiamo vivendo come epoca di crisi permanente, che affonda le sue radici in quel nesso inscindibile tra progresso e catastrofe di cui sono espressione alcune pagine benjaminiane famose, come ad esempio la già menzionata descrizione dell’Angelus Novus. Quest’esperienza conduce ad una nuova percezione della temporalità, che non può essere più descritta in termini lineari e progressivi, ma solo attraverso una nuova combinazione e redistribuzione di presente, passato e futuro, che ha come 97
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
4.7.1 Catastrofe tra progresso e redenzione. Nella visione storica lineare e progressiva è implicita, secondo Benjamin, l’idea di catastrofe. La conferma è contenuta in tre citazioni precedentemente menzionate. Secondo la prima, proveniente dai Materiali preparatori delle tesi Sul concetto di storia: «La catastrofe è il progresso, il progresso è la catastrofe. La catastrofe in quanto continuum della storia»98. La seconda, contenuta in Zentralpark, afferma: «Il concetto di progresso va fondato nell’idea della catastrofe. Che “tutto continui così” è la catastrofe»99. La terza, appartenente alla tesi IX, descrive lo sguardo dell’Angelus Novus: «Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi»100. Se la modernità non è altro che una catastrofe continua, se il progresso coincide con la catastrofe – e dunque la catastrofe rientra nel tempo progressivo lineare e vuoto – il primo significato che Benjamin attribuisce alla parola Katastrophe è senza dubbio quello di distruzione101. La categoria del progresso e la visione tratti essenziali discontinuità e istantaneità. Il compito per l’uomo contemporaneo non può più essere quello di dare una direzione al tempo e alla storia, ma di saper dominare la contingenza. In questo senso il fine dell’uomo non deve essere una meta ideale da raggiungere, ma il saper vivere nelle zone di transizione, trovando una forma di conoscenza adatta a interpretare il passaggio, il mutamento, la catastrofe. Cfr. Natoli, Progresso e catastrofe, cit. 98 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 89. 99 Benjamin, Parco centrale, in Sul concetto di storia, cit., p. 246. 100 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 37. 101 Su questa linea si collocano, oltre ai testi citati, anche alcuni Drammi radiofonici scritti durante gli anni Trenta, in cui Benjamin descrive delle catastrofi naturali. Ricordiamo ad esempio Il terremoto di Lisbona, La scomparsa di Ercolano e di Pompei, L’incendio del teatro di Canton. Le catastrofi provocate dalla natura, suggerisce Benjamin, sembrano tutte uguali. Effettivamente leggendo il testo benjaminiano su Il terremoto di Lisbona (purtroppo non è più possibile ascoltare le registrazioni della conferenza radiofonica trasmessa il 31 ottobre 1931 dal Berliner Rundfunk e il 3 febbraio 1932 dal Frankfurter Rundfunk) sembra di assistere ad una cronaca sul disastro dello Tsunami. «A nessuno piacerebbe sentir raccontare solamente di case che crollano una dopo l’altra, del terrore per l’incendio che si propaga o del terrore per l’acqua, dell’oscurità, dei saccheggi, dei lamenti dei feriti e dei gemiti di chi cerca i propri cari. E d’altro canto sono proprio queste le cose che ricompaiono – pressoché identiche – in qualsiasi catastrofe naturale». W. Benjamin, Il terremoto di Lisbona, in Opere complete IV, cit., p. 509.
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storicistica dei fatti derivano da uno stesso modello generativo, che intende la storia come insieme di tutto ciò che accade non potendo far altro che procedere, travolgendo ciò che ad esso resiste. Chi sostiene tale concezione della storia non può che assumere il punto di vista dei vincitori, delle classi al potere, che si identificano con tale processo e con la forma di dominio stessa. Se cioè la storia continua ad essere descritta con gli occhi dei potenti, essa non è altro che un percorso caratterizzato dalla linearità e dalla continuità, riassumibile nei termini di quell’unica catastrofe che vede l’angelo della storia. «Un’unica catastrofe che ammassa macerie su macerie» rappresenta l’esito a cui conduce lo stato di eccezione inteso come norma. In questa prima accezione la catastrofe è intesa da Benjamin come conclusione negativa a cui porta la continuazione del progresso. Quest’ultimo, condotto alla sua soglia critica, viene a coincidere con la catastrofe. Esiste tuttavia un altro significato della parola Katastrophe, desumibile dall’intero ragionamento benjaminiano, che vuole corrispondere a quel vero ed effettivo stato di eccezione che lo storico materialista deve suscitare. Se il progresso coincide con la catastrofe ed entra a far parte di quella visione lineare e continua della storia, che identifica l’eccezione con la regola e concepisce dunque la storia come un’unica enorme catastrofe, Benjamin afferma che il «vero» progresso si dà invece nelle interferenze102. A questo punto il passo è breve: lo stesso modello di ragionamento deve valere anche per il concetto di catastrofe. Se la catastrofe fa parte del tempo, così come al tempo lineare e vuoto sostenuto dallo storicismo corrisponde un’unica catastrofe, alla discontinuità della Jetztzeit deve corrispondere una «vera» catastrofe, cioè un mutamento di paradigma, in grado di cambiare il corso della storia. Ciò è possibile attraverso l’interruzione, che può essere attuata in ambito profano attraverso la rivoluzione, in ambito messianico attraverso la redenzione. La tempesta (pro102
Cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 9a, 7], p. 532. Benjamin approfondisce tale nesso anche a proposito del concetto di tradizione: «Mentre l’idea di un continuum livella al suolo ogni cosa, l’idea del discontinuum è il fondamento della vera tradizione». Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 83.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
gresso) che costringe l’Angelus Novus a restare con le ali aperte, spingendolo verso il futuro, può essere arrestata. La «vera» catastrofe, concepita come rivoluzione e redenzione, è da interpretarsi come interruzione del progresso103. La «vera» catastrofe, che corrisponde al secondo significato dell’etimologia di katastrophé, e cioè transizione, coincide dunque con rivoluzione e redenzione. Risulta ora evidente come il concetto di catastrofe, identificandosi nella sua prima accezione con il progresso e nella seconda con redenzione e rivoluzione, costituisca la soglia critica tra questi due concetti e in un certo senso la zona di transizione del ragionamento che permette a Benjamin di approdare, nei termini di un’utopia messianica, al concetto di salvazione104. Ci viene in aiuto un’altra citazione benjaminiana in cui sono contenuti entrambi i significati della parola «catastrofe». Il corso della storia, così come si presenta sotto il concetto di catastrofe, non può in realtà impegnare il pensatore più che un caleidoscopio in mano a un bambino, nel quale ad ogni rotazione l’intero ben ordinato rovina verso un ordine nuovo. L’immagine ha una sua fondata, buona correttezza. I concetti dei dominatori sono stati ogni volta gli specchi grazie ai quali è venuta a costituirsi l’immagine di un «ordine». – Deve essere infranto il caleidoscopio105.
La rotazione che subisce il caleidoscopio nelle mani del bambino porta semplicemente alla costruzione di un nuovo ordine, di una nuova configurazione, che gli specchietti colorati vengono a formare, entro quell’angusto spazio rotondo, che viene proiettato verso la luce. Queste diverse configurazioni non sono altro che i concetti che i dominatori hanno cercato di imporre nel corso della storia che ha per protagonisti solo i vincitori e che è dunque una successione continua, priva di interruzioni, delle diverse vittorie delle classi dominanti. Per giungere ad un mutamento di 103 «La salvazione si affida al piccolo salto frammezzo alla catastrofe continua». Benjamin, Parco centrale, in Sul concetto di storia, cit., p. 246. 104 In questo ambito problematico si inserisce senza dubbio il tema della distruzione in rapporto a quello della costruzione. “La costruzione presuppone la distruzione”. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 7, 6], p. 527. La frase citata potrebbe essere presa come motto per il Carattere distruttivo. 105 Benjamin, Parco centrale, in Sul concetto di storia, cit., p. 243.
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paradigma, non basta ruotare con un leggero moto circolare il caleidoscopio, ma occorre infrangerlo. Per sostituire all’«ordine» dei dominatori un nuovo ordine, occorre, secondo Benjamin, operare drasticamente, interrompendo il movimento circolare e distruggendo l’intero caleidoscopio. È questa l’unica e vera catastrofe possibile, che, mutando il paradigma, porta all’instaurazione di nuove immagini e nuovi punti di vista. È solo con questo tipo di transizione, che è al contempo distruzione, che la visione storicistica, condannata alla ripetizione continua ed infernale di catastrofi, può essere redenta e salvata.
4.8 Il concetto di Redenzione 4.8.1 Redenzione e distruzione: apocalisse e apocatastasi. La vera catastrofe (transizione), coincidente con l’interruzione apportata da rivoluzione e redenzione, condivide con queste ultime proprio la distruzione. Ciò è confermato da alcuni passi di G. Scholem. Nel primo, riferito in particolare al Denkbild “Der destruktive Charakter”, egli afferma che l’idea messianica, che nell’ultima fase della produzione benjaminiana riveste un ruolo decisivo, ha un carattere profondamente apocalittico e distruttore. Il principio di distruzione appare, secondo Scholem, come un aspetto della redenzione e si manifesta anche in ambito profano nell’azione umana106. Esso è infatti il luogo di convergenza tra messianismo e rivoluzione libertaria comunista. Questi ultimi due elementi sono uniti anche dall’idea di un futuro redento come restaurazione del paradiso perduto. Benjamin individua delle corrispondenze tra storia sacra (avvento dell’era messianica) e storia profana (rivoluzione tesa ad abolire le classi). Così il paradiso perduto corrisponde alla società comunista primitiva ed arcaica senza classi in perfetta armonia con la natura; l’espulsione dall’Eden e la tempesta che allontana dal paradiso al progresso e alla 106 G. Scholem, Fidélité et utopie: Essays sur le judaïsme contemporain, Paris 1978, p. 134.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
catastrofe moderna; l’avvento del messia all’interruzione rivoluzionaria della storia; l’età messianica al ristabilimento del paradiso e della lingua universale. Si intravvede in questo senso la concezione della restitutio ad integrum, del tikkun e dell’apocatastasi. Benjamin è interessato ad una sottile forma d’identità tra sacro e profano, tra religione e politica, che si manifesta solo nell’Umschlagen paradossale dell’una nell’altra. La seconda affermazione di Scholem è contenuta nel saggio Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, conosciuto da Benjamin, in cui l’autore afferma che la redenzione ha una natura catastrofica e distruttiva e che il messianismo non è altro che una teoria della catastrofe107. La redenzione porta, secondo Benjamin, ad un nuovo corso della storia che può essere anche palingenesi. Accanto alla figura dell’apocalisse108, riconducibile all’ambito tematico della fine 107 G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, in Id., Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova 1986, p. 114. 108 Il concetto di apocalisse, ormai abusato, è divenuto sinonimo di catastrofe. Tuttavia il suo significato etimologico è «rivelazione». Nell’Antico Testamento, ad esempio nell’Apocalisse di Giovanni, si parla di rivelazione di cose ultime, nel senso di premonizioni sul futuro. L’apostolo indirizza sette lettere alle Chiese cristiane dell’Asia, nelle quali tenta di consolare i fedeli per i tempi difficili in cui stanno vivendo e descrive il Giudizio Finale, annunciando una nuova creazione. La Fine è presentata come catastrofe cosmica. In proposito nell’inserto Diario di Repubblica del 7 gennaio 2005 M. Cacciari scrive: «Apocalisse significa rivelazione. Cade il velo sotto cui la verità si celava. Anzi, cade la benda che portavamo sugli occhi e finalmente scopriamo il senso della nostra storia, il destino del nostro esserci. Credevamo di sentire e vedere ed eravamo ciechi e sordi. Ora irrompe la vera Luce, che veramente disvela le cose nascoste fin dalle origini del mondo. Quale gioia ciò dovrebbe donarci! Dovremmo sperare, se così fosse, il tempo apocalittico con tutte le nostre forze e divorare nella speranza dell’attesa il tempo che resta. E invece ne abbiamo solo terrore. Apocalisse è diventata sinonimo di sciagura e disastro. Da disegno provvidenziale a caso orrendo che ci abbatte e basta. Le nostre apocalissi non mandano alcuna luce, se non quella che, per qualche istante, ci fa mettere in dubbio la nostra forza e le nostre potenze. Ma questa stessa così radicale trasformazione del significato del termine è disvelatrice, “apocalittica”; essa ci rivela che noi ormai sappiamo affrontare la vita soltanto come se potesse continuare nelle forme attuali senza incontrare catastrofi, come se potessimo continuare a gestirla così come stiamo facendo senza dovere mai affrontare mutamenti di stato. Non solo ciechi e sordi, dunque, ma anche ostinati cultori delle più vane illusioni». Come ha sottolineato acutamente Agamben, messianismo e apocalisse vengono spesso confusi, ma si tratta di due concetti assai diversi. Al messianismo non interessa la fine del tempo, ma il tempo della fine. Egli ricorda che la tradizione dell’apocalittica giudaica, così come la tradizione rabbinica, distinguevano due tempi diversi: lo olam
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e della distruzione, e cioè al primo significato della parola «catastrofe», si situa il concetto di apocatastasi, che Benjamin riprende da Origene (III d. C.). Con esso si intende la reintegrazione alla fine dei tempi di ogni cosa creata, la restituzione (o ristabilimento) dell’Universo. Se in età ellenistica l’apocatastasi era legata ad una concezione ciclica di tempo, nel Nuovo Testamento essa viene a significare nuova creazione messianica. Tale concezione, condannata come eretica dal cristianesimo, viene invece salvata da alcuni teologi, in particolare da Origene, che parla non solo di restituzione dell’intero Universo, e cioè di ripristino dello stato precedente la caduta, ma afferma che ciò includerà anche Satana e il male. Con Origene emerge un tema molto importante, che porta al di là della concezione ormai abusata dell’apocalisse e dunque della fine del tempo e della storia. Con il concetto di apocatastasi infatti entra in campo l’idea che il tempo in cui anche noi stiamo vivendo non è l’ultimo, non è il tempo della fine della storia, della civiltà, dell’uomo, ma un «tempo penultimo», un «tempo della fine che non finisce di finire»109, un tempo che non necessariamente include l’idea di distruzione totale e apre la speranza all’idea di redenzione.
Excursus. In questa prospettiva si situa l’architetto polacco Daniel Libeskind, a cui si devono la costruzione dello Jüdisches Museum di Berlino e il progetto per il Ground Zero. Nella descrihazzeh, che indica l’intervallo compreso tra la creazione e la fine del mondo, e lo olam habba, il tempo che seguirà la fine del mondo. Il tempo messianico non coincide con nessuno di questi due tempi, esso non è né il tempo cronologico, né l’éschaton apocalittico, ma “il tempo che resta” tra questi due tempi. L’identificazione e il conseguente appiattimento del tempo messianico nel tempo apocalittico, prosegue Agamben, è stata influenzata in gran parte dal dibattito svoltosi nella Germania degli anni Sessanta a partire dalla pubblicazione del libro di H. Blumenberg, Legittimità dell’età moderna (1966) e del libro di K. Löwith, Storia mondiale e storia della salvezza (1953), dibattito che aveva per tema il rapporto tra modernità e secolarizzazione. Entrambi gli autori tedeschi condividevano l’idea di un’antitesi insuperabile tra modernità ed escatologia. In questo senso i due autori confondevano messianismo ed escatologia. Cfr. G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani, Torino 2000, pp. 63 sgg. Sul dibattito intorno alla secolarizzazione cfr. anche Marramao, Potere e secolarizzazione, cit., e Natoli, Progresso e catastrofe, cit. 109 Cfr. M. Belpoliti, Crolli, Torino 2005, p. 131.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
zione del processo che lo portò all’individuazione della forma architettonica per il Museo ebraico, egli menziona tra le proprie fonti Walter Benjamin, nominato non solo come uno dei tanti ebrei famosi che abitarono a Berlino, ma come modello teorico ispiratore per il progetto architettonico in questione. «Intorno alla Lindenstraße hanno abitato molti famosi tedeschi e molti famosi ebrei. […] Ho cercato di rintracciare gli indirizzi di altri berlinesi come Heinrich von Kleist, Heinrich Heine, Rahel Varnhagen ed E. T. A. Hoffmann, ma anche di berlinesi del nostro secolo come Arnold Schönberg, Paul Celan, Walter Benjamin e Ludwig Mies van der Rohe. […] Non è importante dove fossero questi indirizzi anonimi, ma il fatto che […] io li abbia trovati. Io riuscii a trovarli, trovai i luoghi e tentai di stabilire una connessione tra coloro che erano i portatori dell’entità spirituale di Berlino come emblema, simbolo. Effettivamente emerse un sistema di linee esagonale deformato. Questa era la struttura (lo scheletro), poiché non volevo affatto iniziare con una griglia, un quadrato o una forma modulare. Dovevo da qualche parte cominciare nel nulla, e allora perché non con un sistema irrazionale di linee. Queste linee costruivano un nesso, che collega precisi luoghi a Berlino, nell’est così come nell’ovest della città. Allo stesso tempo si tratta di una serie di collegamenti tra luoghi irreali e persone reali. Questa è una dimensione, chiamiamola la dimensione architettonica del progetto»110. Libeskind afferma che «ognuna delle sessanta stazioni della stella, che Walter Benjamin descrive nel suo testo sull’apocalisse di Berlino, costituisce i fondamenti per uno dei sessanta segmenti lungo lo zig zag dell’edificio»111. Sicuramente nell’eccentricità dell’ambizione formale, tra Einbahnstraße di Benjamin (il libro a cui si riferisce Libeskind nella citazione menzionata) e il Museo ebraico ci sono dei punti di contatto. Risulta tuttavia enigmatico perché Libeskind considerasse Einbahnstraße un tentativo di descrivere «l’apocalisse di Berlino». La struttura architettonica del Museo ebraico è spigolosa, dura, possiede la violenza di un pensiero. Il concetto che sta alla base di 110
D. Libeskind, Radix – Matrix, Architekturen und Schriften, a cura di A.M. Müller, München 1994, p. 100 (traduzione nostra). 111 D. Libeskind, Die Ungreifbarkeit der Grenzen, in A.G. Bertelsmann (a cura di), Berliner Lektionen 29. Oktober 1995, Gütersloh 1996, pp. 136 sgg.
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questa costruzione, afferma Libeskind, è di costruire attorno a un vuoto, che sia percepibile dai visitatori che lo attraversano. Il materiale esterno lo fa assomigliare ad un bunker, coperto da lamine di metallo tagliate da piccole feritoie. Per accedere all’edificio occorre passare per un altro edificio, attraversarne l’atrio e discendere attraverso una scala sotterranea fino ad arrivare al museo vero e proprio. L’accesso esterno allo Jüdisches Museum è dunque precluso. All’interno del museo l’effetto di spaesamento è totale, il pavimento è inclinato, così come tutte le linee della statica dell’edificio non sono ortogonali, ma oblique. La pianta dell’edificio ha una forma zigzagante, che tuttavia non è percepibile né dall’interno, né dall’esterno, ma solo sorvolando il museo. Nell’intersezione tra la linea zigzagante e la linea diritta che rappresenta l’altezza dell’edificio si producono delle zone non percorribili dai visitatori e visibili solo between the lines. Questo spazio inaccessibile, abitato solo dal vuoto, rappresenta per Libeskind l’ebraismo. L’architetto è interessato ai luoghi interstiziali, là dove viene conservata l’esperienza di qualcosa che non c’è più – la Berlino ebraica – ma che esiste come inaccessibile. Between the Lines è il titolo di uno scritto di Libeskind in cui egli descrive il proprio ambizioso progetto, mostrando come sia possibile pensare di essere alla fine dell’architettura, aprendosi contemporaneamente al nuovo.
4.8.2 Redenzione e «futuro-passato»: il confronto con Franz Rosenzweig. Il messianismo espresso da Benjamin in riferimento al concetto di storia non è richiamato in quanto fine della storia, ma coincide piuttosto con quella restitutio ad integrum, e cioè con la restituzione dell’umanità al suo carattere originario, precedente la creazione. In questo senso la redenzione messianica dovrebbe portare alla salvazione dell’umanità dalla catastrofe e dal progresso. In tale prospettiva il messianismo di Benjamin non sembra rivolgersi in senso stretto alla dimensione futura. Ma non per questo – dice Benjamin – il futuro diventa per gli ebrei un «tempo omogeneo e vuoto», «poiché in esso ogni secondo era la piccola porta attraverso la quale poteva entrare il messia»112. 112
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 57.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
Come è stato opportunamente sottolineato, si dovrebbe parlare a proposito di Benjamin di «messianismo senza attesa»113, nel senso che il messia potrebbe giungere ogni giorno. La «piccola porta» (kleine Pforte), di cui parla Benjamin, sta ad indicare che Egli non giungerà maestosamente come prevede il cattolicesimo, ma entrerà per una piccola apertura nell’istante del pericolo, in quella zona di transizione tra essere e nulla, tra distruzione e salvazione. La redenzione si attua «nel piccolo frammezzo alla catastrofe continua». Se non è la dimensione dell’attesa a caratterizzare il messianismo di Benjamin, è piuttosto il passato a superare per importanza il futuro, portando in un certo senso ad un’inversione della nozione stessa di attesa messianica. Come è noto, «agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Torah e la preghiera li istruiscono invece nella rammemorazione»114. La «piccola porta» di Benjamin ricorda chiaramente la concezione espressa da F. Rosenzweig ne La stella della redenzione, secondo la quale «ogni istante deve essere pronto ad assumere su di sé la pienezza dell’eternità». Ma ciò non significa che vi sia un’attesa, quanto piuttosto un tentativo di provocare anticipatamente la venuta del messia: «Senza questa anticipazione […] senza il voler far venire il messia prima del tempo […] il futuro non è affatto futuro, ma solo un passato trascinato per una lunghezza infinita»115. Ciò si oppone chiaramente all’idea di progresso: «L’idea di progresso contro nulla si accanisce come contro la possibilità che la “meta ideale” possa e debba essere raggiunta forse già nel prossimo istante, anzi forse già in questo istante stesso»116. Intorno a tale questione Rosenzweig si scontra con il suo maestro Hermann Cohen, del quale non condivide la dottrina 113 G. Marramao ha sostenuto questa interessante tesi in un convegno internazionale su Benjamin dal titolo «Theologie und Politik», organizzato dalla Internationale Walter Benjamin Gesellschaft in collaborazione con il Goethe Institut di Roma e l’Università Roma I, di cui sono stati pubblicati gli atti. Cfr. G. Marramao, Messianismus ohne Erwartung. Zur “post-religiösen” politischen Theologie Walter Benjamins, in B. Witte, M. Ponzi (a cura di), Theologie und Politik. Walter Benjamin und ein Paradigma der Moderne, Berlin 2005, pp. 241-253. La tesi è stata ripresa successivamente in Marramao, Messianismo senza attesa, cit. 114 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 57. 115 Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 243. 116 Ibid., pp. 244 sgg.
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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della «perfettibilità infinita»117. Essa implica l’adesione alla fede razionalistica nel progresso, che contrasta, secondo Rosenzweig, con l’idea messianica. La teoria di Cohen, contestata anche da Benjamin, intende la storia come sviluppo progressivo dell’anima umana in senso etico. In questo senso il filosofo neokantiano tenta di conciliare messianismo, etica e progresso e identifica la cosiddetta età dell’oro non tanto con un passato edenico, quanto piuttosto con il tempo futuro, in cui vi sarà un progresso morale del popolo ebraico. Tale tesi si situa in posizione di continuità rispetto all’identificazione platonica del Bene con un oggetto trascendente, che si trova «al di là dell’essere». Inoltre essa stabilisce un punto di convergenza tra la posizione platonica e l’etica kantiana. Il passaggio aggiunto da Cohen è l’aver stabilito un’equivalenza tra ciò che si trova al di là dell’essere e un futuro messianico, distinto da quello escatologico. Si tratta per Cohen di pensare ad un’idea messianica estranea all’éschaton. Le critiche fatte da Benjamin e da Rosenzweig a Cohen, pur nella loro diversità, sono volte al superamento dell’endiadi progresso-messianismo, che risulta, a loro avviso, una contraddizione in termini. Consideriamo dapprima la posizione di Rosenzweig. In uno scritto su Jehuda Halevi del 1927, egli sostiene che la speranza nell’avvento del messia è la convinzione «attraverso la quale e per la quale l’ebraismo vive». L’inizio dell’era messianica è introdotto in termini di discontinuità, che interrompe il decorso storico lineare e continuo, apportando un «cambiamento radicale […] che metterà fine all’inferno della storia mondiale»118. 117 Cfr. in particolare: H. Cohen, Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, a cura di B. Strauss, Wiesbaden 1918. Sul rapporto tra Benjamin e Cohen cfr. T. Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin, Macerata 2003. 118 F. Rosenzweig, Jehuda Halevi. Zweiundneunzig Hymnen und Gedichte, Berlin 1927, p. 239, p. 242. Rosenzweig sembra istituire un nesso tra la Gerusalemme celeste e la Gerusalemme terrestre, nel senso che egli collega la rivoluzione emancipatrice all’avvento del messia, in termini che ricordano Benjamin: «Non è affatto un caso che ora per la prima volta si sia iniziato seriamente a fare delle istanze del regno di Dio delle istanze di questo tempo. Solo da allora si sono intraprese tutte quelle
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
La critica benjaminiana mostra, nella distanza verso le idee di Cohen, anche alcune divergenze rispetto alle tesi di Rosenzweig. La critica alla «perfettibilità infinita» è mossa dalla constatazione del presente come catastrofe continua, che necessita non solo dell’intervento di un’interruzione redentrice, ma anche del fatto che questo agisca sul piano della storia e non alla fine di uno sviluppo. Ciò si dà per Benjamin nella convergenza politica di catastrofe e redenzione. All’inversione della nozione di attesa messianica consegue infatti l’idea che la generazione presente sia il soggetto della redenzione. Siamo noi a poter e dover affrettare la venuta del messia. A ciò si riferisce Benjamin quando nella tesi II afferma: «Allora a noi, come ad ogni generazione che fu prima di noi, è stata consegnata una debole forza messianica, a cui il passato ha diritto»119.Quello che ci è stato assegnato è un compito politico, il compito di intraprendere un’azione messianica. Il tratto che maggiormente caratterizza la posizione di Benjamin è senza dubbio l’appello al passato, che si sostituisce alla proiezione nel futuro propria del messianismo120. La prospettiva di Benjamin è avvicinabile a ciò che Scholem afferma a proposito di Maimonide: il fatto che l’ingresso del messia attraverso la piccola porta possa avvenire in ogni momento implica un’inversione della direzione temporale nella tensione a redimere il passato, che porta all’Umschlagen della freccia temporale dal futuro al passato e a un rovesciamento della catastrofe nella redenzione. L’unità tra catastrofe e redenzione, e dunque la congiunzione tra dimensione apocalittico-catastrofica e piano della redenzione, non comporta mai la fine del tempo. Accadendo come katastrophé, il tempo spezza il decorso lineare e si arregrandi opere di liberazione le quali, per quanto da sole non costituiscano né producano il regno di Dio, sono però le precondizioni necessarie della sua venuta. Libertà, eguaglianza, fraternità, da parole poste nel cuore della fede sono diventate parole programmatiche dell’epoca e sono state introdotte con la lotta nel mondo inerte, con lacrime e sangue, con odio e ardente passione in interminabili battaglie». Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 308. C’è da dire tuttavia che le preoccupazioni rivoluzionarie di Rosenzweig sono molto più marginali rispetto a quelle di Benjamin. 119 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 23. 120 «Rilevanza per la filosofia della storia e per la politica del concetto di inversione della direzione (Umkehr). Il giorno del giudizio finale è un presente rivolto all’indietro”. Ibid., p. 102.
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sta nella forma di una Jetztzeit, di un presente immobile nella transitorietà dello spazio di un istante. Ed è proprio su questo punto che la distanza con il pensiero di Rosenzweig si mostra più compiutamente. La diversa interpretazione del concetto di «istante» porta infatti ad esiti di pensiero assai differenti. Se per Benjamin l’istante diviene il luogo di transizione in cui si colloca la redenzione e dunque l’avvento del messia, per Rosenzweig il regno giunge in eterno. La redenzione è infatti per l’autore di Der Stern der Erlösung un tentativo di rendere eterno l’attimo, sottraendolo al tempo. «Eternità è un futuro che, senza cessare di essere futuro, è tuttavia presente. È un oggi consapevole però di essere più che un oggi»121. Scholem sottolinea l’ostilità da parte di Rosenzweig nei confronti della teoria delle catastrofi dell’apocalittica messianica, mostrando la divergenza fondamentale tra Benjamin e Rosenzweig. Se Benjamin, soprattutto a partire dagli anni Trenta, percepisce la storia nei termini di una catastrofe perenne, che invoca la redenzione a partire dall’incompiutezza del passato, ciò è legato ad un’idea di redenzione che potrebbe concretizzarsi in un qualsiasi istante, perché ogni istante potrebbe essere l’ultimo, non, come sostiene Rosenzweig, perché l’Eterno sia eternamente in avvenire. L’importanza attribuita da Benjamin alla dimensione del passato, e dunque alla memoria, intesa come «rammemorazione», è tale da far pendere l’asse temporale verso la storia delle generazioni precedenti. Ciò non implica tuttavia un ritorno al passato, da intendersi come recupero di ciò che è stato perduto. Rivolgendosi apparentemente al passato, la ricerca benjaminiana dell’esperienza perduta si orienta infatti verso un avvenire messianico e rivoluzionario122. Rivoluzione e redenzione, nutrendosi della 121
Rosenzweig, La stella della redenzione, cit., p. 241. Sul problema dell’incompiutezza della storia Agamben ha scritto pagine illuminanti. Affidando alla memoria un compito redentivo nella forma di un’esperienza teologica, Benjamin procede alla messa in questione del principio aristotelico dell’irreversibilità del passato. «Il ricordo può fare dell’incompiuto (la felicità) un compiuto, e del compiuto (il dolore) un incompiuto». In questo senso il ricordo non coincide né con l’avvenuto, né con l’inavvenuto, ma con il loro potenziamento nella forma del loro ridivenire possibili. Il passato viene cioè riconsegnato alla propria potenza (di essere e di non essere). Cfr. G. Agamben, Bartleby o della contingenza, in G. Deleuze, G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Macerata 1993, p. 79. 122
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
forza della rammemorazione, possono restaurare l’esperienza perduta, abolire l’inferno della merce, interrompere il circolo del sempre uguale, liberare l’umanità dall’angoscia mitica e l’individuo dalla condizione di automa. La rivoluzione porterà sul piano profano ad una società senza classi, forma perfetta di secolarizzazione dell’era messianica.
4.8.3 Redenzione e rivoluzione. All’interno della letteratura critica su Benjamin c’è chi ha concepito il rapporto tra messianismo e rivoluzione come secolarizzazione e chi, al contrario, ha parlato di teologizzazione del marxismo. Guardando direttamente a Benjamin, si comprende il suo interesse per una forma di identità tra politica e religione, che si manifesta nel rovesciamento (Umschlagen) dell’una nell’altra. Le due dimensioni si implicano cioè reciprocamente. La posizione di Benjamin è di grande lucidità: la sua concezione di rivoluzione – e così pure di redenzione – nasce e affonda le sue radici in opposizione al concetto di progresso. A differenza di quest’ultimo, essa non guarda al futuro, ma al passato. Essa non conquista l’avvenire, ma vuole vendicare il passato degli oppressi. La rivoluzione non ha la sua dimora nel divenire, ma nell’arresto del tempo. Cessando in questo modo di appartenere alla storia intesa come processo, essa non ha nulla da spartire con il progresso, di cui costituisce l’arresto e l’interruzione. Redenzione e rivoluzione si attuano nella dialettica che fa coesistere due tendenze apparentemente opposte e contraddittorie, che invece si integrano reciprocamente. Si tratta di una spinta restauratrice e di una corrente utopica. In questo senso ha affermato egregiamente Scholem: L’utopia che prospettava all’ebreo di quell’epoca un ideale da realizzare si divide del tutto naturalmente in due categorie. Può assumere la forma radicale della visione di un contenuto nuovo, il quale dovrà essere realizzato da un futuro che tuttavia altro non è, in fondo, che il ripristino della situazione originaria, la restituzione di ciò che è andato perduto. È questo contenuto ideale del passato che sta alla base anche della visione del futuro. Ma in questa utopia orientata in senso restaurativo, consapevolmente o inconsapevolmente, si insinuano elementi che in sé non hanno alcunché
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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di restaurativo e che derivano invece dalla visione di una condizione del tutto nuova del mondo, da realizzarsi messianicamente. L’assolutamente «nuovo» porta, dunque, in sé elementi dell’antico, ma questo «antico» stesso non è per nulla il realiter passato, bensì qualcosa di trasformato e trasfigurato dal sogno: qualcosa su cui si è posato il raggio dell’utopia123.
Così ad esempio il concetto ebraico di Tikkun indica la restaurazione dello stato originario dell’universo e dunque un elemento restaurativo insieme all’utopia dell’eliminazione del negativo. Allo stesso modo tali elementi convivono anche nel pensiero libertario di Bakunin, Proudhon e Sorel. Bisogna inoltre sottolineare che nella concezione benjaminiana di messianismo, influenzata dalla lettura del saggio di Scholem Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, l’Erlösung si realizza sulla scena della storia e non al di fuori di essa. L’avvento del messia, così come quello del carattere distruttivo, si situa nella zona di transizione tra presente e futuro, in una scena dominata da macerie e distruzione, che hanno fatto precipitare il mondo in un abisso non colmabile da progresso e sviluppo, ma solo dalla catastrofe rivoluzionaria, che porta necessariamente alla redenzione. Il messia non giunge, secondo Benjamin, alla fine della storia: «Il messia tronca la storia; il messia non compare alla fine di uno sviluppo»124.
4.8.4 Il potere redentivo della citazione Solo a un’umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a un’umanità redenta il passato è divenuto citabile in cia123 G. Scholem, Per una comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, in Id. Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova 1986, pp. 110 sgg. 124 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 88. Secondo la tradizione del messianismo ebraico l’avvento del messia comporta l’introduzione di un mondo completamente altro. L’armonia che egli ri-stabilisce tra uomo e natura, così come tra uomo e suoi simili, non significa un miglioramento del mondo preesistente, ma l’inizio di un mondo completamente nuovo. Ciò comporterà il rovesciamento di alcuni punti fondamentali. Il primo riguarda il sovvertimento delle classi e dunque l’abbattimento e la sostituzione dei potenti e delle classi al potere – in alcuni testi biblici si arriva addirittura a sostenere l’abolizione del potere in quanto tale. La seconda conseguenza è l’abolizione delle limitazioni imposte dalla Torah e l’avvento di una nuova legge.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
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scuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una «citation à l’ordre du jour» – giorno che è appunto il giorno del giudizio125.
Redimere il passato significa, per Benjamin, prendere compiutamente possesso del proprio passato, cioè poterlo citare. La citazione è intesa da Benjamin come interruzione, arresto, e si lega così all’ambito della distruzione. Il concetto di interruzione è visto da Benjamin nei termini di una distruzione positiva. Esso attraversa tutta la sua opera, costituendo sia l’oggetto di alcune sue riflessioni, che la forma di esposizione adottata. Così ad esempio nel Dramma barocco tedesco la rappresentazione filosofica interrompe la linearità della catena deduttiva, nelle Affinità Elettive l’inespresso interrompe la bella apparenza, la riproducibilità tecnica interrompe l’aura dell’opera d’arte, il teatro epico di Brecht interrompe l’andamento dell’azione, il materialista storico e il rivoluzionario delle tesi Sul concetto di storia interrompono il continuum del corso della storia126. Riferendosi in particolare al teatro di Brecht, Benjamin afferma che l’interruzione è uno dei procedimenti fondamentali di ogni strutturazione della forma. Il procedimento travalica di molto il settore dell’arte. Per non citare che un esempio, esso sta alla base della citazione. Citare un testo implica interrompere il contesto in cui rientra. È così perfettamente comprensibile come il teatro epico, che si basa sull’interruzione, sia in senso specifico un teatro citabile. […] «Rendere citabili i gesti», è questo uno degli esiti essenziali del teatro epico. L’attore deve essere in grado di spazieggiare i suoi gesti, come un tipografo le parole127.
Nel saggio su Kraus la citazione viene definita come «la forza, non di custodire, ma di purificare, di strappare dal contesto, di distruggere»128. Tale forza distruttrice è però messa in relazione alla forza della giustizia: nello strappare la parola dal suo contesto, essa rimanda anche alla sua origine. In questo senso origine e 125
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 23 sgg. Cfr. W. Menninghaus, Walter Benjamin: il discorso della distruzione, in Ponzi (a cura di), L’angelo malinconico, cit., pp. 227-242. 127 W. Benjamin, Che cos’è il teatro epico?, in Id., L’opera d’arte, cit., p. 131. 128 Benjamin, Karl Kraus, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 131. 126
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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distruzione si completano129. Se è la citazione a permettere la redenzione, quest’ultima sarà necessariamente inseparabile dalla forza di strappare il passato dal proprio contesto per distruggerlo e riportarlo, nella sua nuova forma, alla propria origine. Ricondurre all’origine non significa per Benjamin trasmettere alle generazioni future, come patrimonio appartenente alla tradizione, il passato con delle modifiche, ma interrompere la tradizione e portare il passato al suo compimento, cioè alla sua fine130. È dunque evidente quanto la concezione benjaminiana di Erlösung sia impregnata di coloriture fortemente distruttive. Il carattere distruttivo di Benjamin si manifesta chiaramente in ambito geschichtphilosopisch come tensione al rinnovamento, che trova tuttavia i suoi fondamenti nell’idea di origine. Il carattere distruttivo non si limita infatti ad una pura e semplice liquidazione del passato, ma nella distruzione rievoca l’origine di ciò che viene eliminato. Per giungere alla redenzione è necessario passare attraverso la distruzione131.
4.8.5 La redenzione attraverso le immagini Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «proprio come è stato davvero». Vuole dire impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo. Per il materialismo storico l’importante è trattenere un’immagine del passato nel modo in cui s’impone imprevista al soggetto storico nell’attimo del pericolo132.
129 Cfr. G. Agamben, Walter Benjamin e il demonico. Felicità e redenzione storica nel pensiero di Benjamin, «aut aut», 189-190 (1982), pp. 143-163. 130 Anche il procedimento della riproduzione e dunque il concetto di riproducibilità, a cui Benjamin dedica il noto saggio sull’Opera d’arte, non esce dal circolo vizioso del richiamo all’origine, e dunque non porta al superamento e al compimento dell’idea di trasmissibilità. 131 Sul rapporto tra la distruzione benjaminiana e la decostruzione di Derrida cfr. Menninghaus, Walter Benjamin: il discorso della distruzione, cit., pp. 239 sgg.; C. Bäuerl, Zwischen Rausch und Kritik 2. Vom Willen nicht regiert zu werden in 10 Variationen, Bielefeld 2004, pp. 106-116. Derrida ha sottolineato acutamente che nel pensiero di Benjamin il tema della redenzione si coniuga a quello di giustizia. Cfr. J. Derrida, Forza di legge. Il «fondamento mistico dell’autorità», Torino 2003. Su questi temi cfr. anche l’illuminante saggio: G. Agamben, Il Messia e il sovrano, in Id. La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza 2005, pp. 251-270. 132 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 27.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
In questa frase, proveniente dalle tesi Sul concetto di storia, è concentrato il senso dell’intera riflessione benjaminiana su un «nuovo positivo» concetto di storia, che si affranchi dalla tradizione storicistica dominante e lasci aperto un piccolo spiraglio alla redenzione. Le riflessioni che tale citazione inaugura, ci permetteranno inoltre di tornare al punto da cui si è originata la nostra indagine, la passione benjaminiana per l’immagine e la formulazione di un tipo di esposizione filosofica (philosophische Darstellung), che vede nell’immagine il suo nucleo propulsore. La prosa benjaminiana è composta da dialektische Denkbilder, nel senso che l’esercizio di pensiero del filosofo berlinese si produce nel luogo di incontro tra Denkweise e Schreibweise, l’immagine. Procediamo ora ad analizzare il contenuto della citazione. «Articolare storicamente il passato», e cioè fare storia, è possibile, secondo Benjamin, non tanto riproponendo una «cronistoria» di ciò che è accaduto, ma istituendo con gli accadimenti un rapporto nuovo, teso a «leggere» nel passato tracce e prefigurazioni di un tempo di là da venire. Già da queste prime riflessioni pare evidente come la freccia temporale a cui Benjamin fa riferimento appaia in un certo senso rovesciata. Se si vuole restituire la storia alla sua vera natura, occorre riportare il presente al passato, ricercando tracce invisibili e indelebili. Tali riflessioni erano già contenute in nuce in un famoso aforisma di Einbahnstraße, in cui Benjamin afferma: «Simile ai raggi ultravioletti, il ricordo mostra a ciascuno nel libro della vita una scritta, che, invisibile profezia, glossava il testo»133. E prosegue: «Il giorno è steso ogni mattina sul nostro letto come una camicia di bucato; questo fittissimo, sottilissimo tessuto di linda profezia ci sta addosso a pennello. La fortuna delle prossime ventiquattr’ore dipende dalla nostra capacità di afferrarlo svegliandoci»134. Nella forma di un Denkbild, e dunque di un’immagine, l’autore avverte sul carattere profetico dell’accadere storico. Il futuro sembra essere contenuto nel sogno, o meglio nella sua rammemorazione (Eingedenken) inconsapevole, nella proustiana mémoire involontaire. Il fatto che tale futuro, già prefiguratosi nelle 133 134
Benjamin, Strada a senso unico, in Opere complete II, cit., p. 458. Ibid. (corsivo nostro).
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4. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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immagini di sogno, si realizzi, è dovuto alla capacità di fissare tali immagini in costellazioni nell’atto del risveglio, di staticizzare dialetticamente il tempo nell’attimo del risveglio, che coincide poi con lo spazio-tempo delle immagini dialettiche, la Jetztzeit. Comincia già a prefigurarsi l’intreccio delle figure di transizione che abbiamo cercato di schizzare nelle pagine precedenti. Le immagini del passato – allo stesso modo in cui quelle del sogno devono essere fissate nell’attimo del risveglio – devono essere trattenute dallo storico materialista nell’istante del pericolo. Il significato di quest’affermazione è contenuto in un altro passo citato, appartenente alle tesi Sul concetto di storia, in cui Benjamin afferma: «Il passato reca con sé un indice segreto che lo rinvia alla redenzione»135. L’indice segreto richiama chiaramente la dimensione della rammemorazione (Eingedenken), che possiede, secondo Benjamin, una forza redentiva; tuttavia essa da sola non basta per redimere compiutamente la sofferenza apparentemente definitiva delle vittime del passato, delle classi oppresse. La redenzione si deve realizzare sia su un piano teologico-messianico, che su un piano profano (come rivoluzione). Essa – e su questo punto Benjamin ritorna nella tesi successiva – richiede la rammemorazione di tutto il passato, senza alcuna distinzione di grado e rilevanza. Ciò richiama, evidentemente, il già menzionato concetto di apocatastasi e il suo equivalente ebraico, il tikkun136. Nel suo costitutivo essere rivolta al passato, la redenzione si attua trattenendo immagini (Bilder) che si presentano nell’attimo del pericolo (im Augenblick der Gefahr)137. L’immagine viene cioè 135
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 23. Su questi temi cfr. G. Scholem, Kabbala, in Encyclopaedia Judaica. Das Judentum in Geschichte und Gegenwart, IX, Berlin 1932. Benjamin è stato influenzato da questo testo e lo chiarisce in una lettera del 15 gennaio 1933 all’amico. Nella versione francese della tesi III il concetto di apocatastasi (o tikkun) viene esplicitato: Benjamin parla infatti di humanité restituée, sauve, rétablie. L’apocatastasi rientra nell’ambito tematico del «carattere distruttivo», nel senso che la restituzione del passato al suo stato originario è al contempo un novum. Ciò è stato opportunamente sottolineato da J.M. Gangebin in Histoire et narration chez Walter Benjamin, Paris 1994, p. 26. L’autrice afferma che nell’apocatastasi, oltre al momento restaurativo, vi è anche, «dato che il passato in quanto passato non può tornare che in una non-identità a se stesso, apertura al futuro, incompiutezza costitutiva». 137 Sul nesso redenzione-immagine cfr. le illuminanti pagine di G. Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, Milano 2005. Le riflessioni del filosofo e storico del136
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
pensata nell’attimo del passaggio, nel momento di transizione verso l’immagine successiva. Il compito del materialista storico – ma ciò vale anche per il filosofo delle immagini – deve essere quello di riuscire a trattenere (festhalten) tali immagini, che scompaiono con la stessa rapidità con cui sono apparse. In questo senso la redenzione che egli deve attuare non riguarda la fine dei tempi, ma ogni Augenblick del presente. Per il pensatore rivoluzionario non vi è un solo attimo che non rechi con sé la propria chance rivoluzionaria – essa richiede soltanto di essere intesa come una chance specifica, ossia come chance di una soluzione del tutto nuova, prescritta da un compito del tutto nuovo. Per il pensatore rivoluzionario la peculiare chance rivoluzionaria trae conferma da una data situazione politica. Ma per lui non trae minor conferma dal potere delle chiavi che un attimo possiede su di una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa. L’ingresso in questa stanza coincide del tutto con l’azione politica; ed è ciò per cui essa, per quanto distruttiva possa essere, si dà a riconoscere come un’azione messianica138.
L’azione politica e messianica che egli ha da intraprendere è al contempo un’azione estetica. Come è stato opportunamente sottolineato, la riflessione di Benjamin è un’«estetica della redenzione»139. Le immagini, così come la storia, redimono, salvano un sapere, che potrebbe andare perduto. Redimere attraverso le immagini non significa semplicemente discolpare gli attori della storia, ma aprire gli occhi ad un nuovo modello conoscitivo, che renda giustizia alle vittime del passato, caricandosi in questo modo di una forte valenza etica. Ciò che Benjamin si propone di offrire attraverso l’estetica della redenzione è di mostrare un possibile utilizzo del nostro sguardo e della nostra memoria. In questo senso ci viene in aiuto una citazione di S. Kracauer, che, negli stessi anni di Benjamin, si occupa ripetutamente dei l’arte francese si sviluppano a partire da alcune foto scattate di nascosto ad Auschwitz nel 1944 da alcuni membri del Sonderkommando, per proseguire con una sottile e acuta analisi su potenzialità e limiti delle immagini artistiche, fotografiche, cinematografiche, “di pensiero”. 138 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 55. 139 Cfr. R. Wolin, Walter Benjamin: An Aesthetic of Redemption, New York 1982.
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IV. PROGRESSO, CATASTROFE E REDENZIONE
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rapporti tra storia e immagine (cinematografica). Nel suo famoso libro Theory of Film egli afferma: Ci hanno insegnato a scuola la storia della Gorgona Medusa. […] La morale di questo mito è, chiaramente, che noi non vediamo, non possiamo vedere gli orrori reali che ci paralizzano con un terrore accecante; ma che sapremo a che cosa assomigliano soltanto guardando le immagini di essi che riproducono la loro autentica apparenza140.
Il fatto che le immagini a cui allude Kracauer siano quelle cinematografiche e non le immagini dialettiche non è significativo ai fini della nostra indagine. Entrambi questi tipi di immagine sono infatti funzionali ad un modello conoscitivo che non si lascia imprigionare dalle maglie di una catena logico-deduttiva, ma che si muove sulla soglia tra filosofia e arte, tra politica ed estetica. Tale sapere abita zone interstiziali, soglie, passages, «luoghi in cui non si può sostare più di un istante», lo stesso istante in cui si mostrano con la forza e la brevità di un fulmine le immagini dialettiche, la Jetztzeit. La proposta benjaminiana è di costruire un sapere della transizione, che sappia muoversi entro quella civiltà delle immagini che è il mondo contemporaneo. Tali immagini sono da intendersi in senso ampio: dalle immagini tout court come quelle dell’arte figurativa, della fotografia, del cinema, alle immagini della letteratura, della scienza, del sogno e del ricordo. Esse sono portatrici al contempo di un nucleo di pensiero strettamente filosofico, risiedente nella dimensione del lógos, e di quel «sapere della narrazione», che nel Novecento ha assunto le sembianze di una vera e propria corrente di pensiero. Sulla soglia tra m´ythos e lógos Benjamin costruisce una filosofia delle immagini dalla valenza fortemente etico-politica. Il tema della redenzione costituisce entro questa prospettiva un elemento imprescindibile: esso deve servire infatti ad addestrare il lettore a «leggere ciò che non è mai stato scritto», ad affrontare lo sguardo di Medusa senza restare pietrificato. Tale modello di pensiero è d’impronta fortemente 140 S. Kracauer, Theory of Film. The Redemption of Phisical Reality, Princeton (NJ) 1997, pp. 305 sgg.
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PARTE I. BENJAMIN E LA FILOSOFIA DELLA TRANSIZIONE
polemologica141, poiché non è volto a servirsi dello scudo di Perseo per proteggersi dalla violenza del reale, né dai Wunschbilder, che esautorano l’uomo dal possedere uno spirito critico e autonomo. Saper leggere le immagini significa saper affrontare il reale, adottando un punto di vista volto ad abolire quello stato di eccezione che è divenuto la regola142. È chiaro a questo punto come dimensione etico-politica ed estetica formino un tutto unico, che viene a costruire una filosofia della transizione, della soglia. Nell’istante di pericolo in cui l’Er-lösung vede il suo necessario sviluppo nella End-lösung, Benjamin avverte il lettore di immagini ad imparare a scorgere in esse delle aperture alla storia, delle aperture cioè a quel nuovo concetto di storia, che travalichi la visione storicistica e conformistica, situandosi al di fuori di tutte le correnti. Pensatore eccentrico, promotore di un prismatisches Denken (pensiero prismatico), egli vuole infrangere il caleidoscopio che contiene quei prismi colorati e luccicanti, che nelle mani del bambino appaiono come magici e incantati, ma nelle mani dei dominatori portano solo catastrofi e distruzioni. Pertanto, «prima che la scintilla raggiunga la dinamite, la miccia accesa va tagliata»143.
141
Cfr. U. Curi, Polemos: filosofia come guerra, Torino 2000. Come ha sottolineato Didi-Huberman,«non stupisce affatto che Aby Warburg abbia fatto di Perseo che lotta con la Gorgona una personificazione esemplare dell’intera “storia intellettuale europea”, pensando alla lotta incessante dell’éthos contro i poteri di quelli che chiamava i monstra, i mostri della barbarie». Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, cit., p. 223. 143 Il brano dal titolo Segnalatore di incendio è contenuto in: Benjamin, Strada a senso unico, in Opere complete II, cit., p. 441. 142
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Parte seconda Altri modelli teorico conoscitivi sul tema della transizione
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1. Bertolt Brecht carattere distruttivo
1.1 Perché il Fatzer-Fragment? La definizione benjaminiana di carattere distruttivo trova non solo la sua più compiuta esemplificazione nella figura di Brecht, ma è essa stessa ispirata da un’espressione proveniente da un testo del drammaturgo tedesco, che porta il titolo Lesebuch für Städtebewohner (Libro di lettura per abitanti della città). Quando Benjamin nel testo Der destruktive Charakter (1931) afferma che «il carattere distruttivo cancella perfino le tracce della distruzione», non sta facendo che una parafrasi della nota espressione brechtiana «Verwisch die Spuren» (cancella le tracce), che citerà nuovamente due anni dopo nel saggio Erfahrung und Armut. Benjamin agisce dunque in modo assai sottile, definendo Brecht come carattere distruttivo attraverso le parole che lo stesso drammaturgo aveva utilizzato. Ciò è confermato da un appunto di diario, ancora inedito in Italia, scritto da Benjamin nell’agosto del 1938. In esso si legge: «Brechts destruktiver Charakter […] der das kaum Erreichte wieder in Frage stelle»1. La figura di Brecht emerge come quella di un «costruttore», che distrugge nello stesso atto di creare. Ciò significa che nella produzione teatrale di Brecht atto costruttivo e atto distruttivo si trovano a coesistere in stato di quiete. La teorizzazione e la messa in pratica da parte di Brecht di una nuova forma drammaturgica, che si distacca da quella tradizionale, chiariscono a pieno titolo come egli sia la perfetta incarnazione del carattere distruttivo. Non è un caso se Benjamin negli appunti 1 «Il carattere distruttivo di Brecht […] che pone ancora in questione ciò che non è stato raggiunto». GS VI, p. 538 (traduzione nostra).
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
dedicati a spiegare tale concetto porta come caratteristica essenziale di tale figura l’atto della citazione. «Alcuni rendono le cose tramandabili (e sono soprattutto i collezionisti, caratteri conservatori, conservanti), altri rendono le situazioni praticabili, per così dire citabili: e questi sono i caratteri distruttivi»2. Rendere citabili i gesti è infatti una delle massime del teatro epico di Brecht. Il drammaturgo tedesco porta il teatro di impianto aristotelico ad una nuova configurazione, che si esplica attraverso una messa in crisi dei paradigmi tradizionali, senza tuttavia cancellare la tradizione. Il rinnovamento delle forme del teatro classico non si realizza infatti, secondo Brecht, attraverso una serie di innovazioni puramente formali ed esteriori, ma attraverso una messa a fuoco e una rivitalizzazione del contenuto ideale originario che tali opere non hanno smesso di comunicare al pubblico nel corso dei secoli. Detto in altri termini: un’opera classica, come ad esempio il Faust di Goethe, può ancora risultare attuale e a noi contemporanea se, nel rapportarsi ad essa, il drammaturgo, e con lui gli attori, non si propongono di mutarne le forme, ma di mostrare la grandezza umana che i classici riescono ancora a trasmetterci. In questo senso la rivoluzione nelle forme drammaturgiche non implica necessariamente l’abbandono dei modelli della tradizione, ma un distacco critico da essi. Se ci si limita ad un puro rinnovamento formalistico, afferma Brecht, con la durezza e l’incisività che è propria al suo linguaggio fatto di immagini, ci si riduce a «voler rendere sapore alla carne mal conservata infarcendola di spezie e di salse piccanti»3. Chi procede in tal modo fa sì che «vada perduta la freschezza originaria delle opere classiche, quello che era un tempo il loro aspetto sorprendente, nuovo, produttivo, e che ne costituisce una caratteristica essenziale»4. Ci si concentrerà esclusivamente su un testo rimasto volutamente incompiuto, il Fatzer-Fragment5, ma che non per questo ha 2
Benjamin, Appunti sul “carattere distruttivo”, in Opere complete IV, cit., p. 524. B. Brecht, Effetto intimidatorio dei classici, in Id., Scritti teatrali, a cura di E. Castellani, trad. it. di E. Castellani, R. Fertonani, R. Mertens, Torino 2001, p. 111. 4 Ibid., p. 110. 5 B. Brecht, Fatzer, in Id., Werke. Große und kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, a cura di W. Hecht, J. Knopf, W. Mittenzwei, K.-D. Müller, Band 10 (Stücke. Stückfragmente und Stückprojekte), Berlin-Frankfurt a.M. 1997, pp. 387529 e pp. 1114-1150. 3
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO
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perso la propria centralità all’interno del percorso brechtiano. Concepito inizialmente come Schaustück ed esempio di teatro epico, esso diventerà un terreno di sperimentazione di teoria e pratica teatrale, costituendo così un luogo di transizione tra teatro epico e teatro didattico. Attraverso un’analisi di tale frammento emergeranno alcuni dei motivi e delle tematiche che hanno fatto dire a Benjamin, e con lui a molti altri, che il teatro brechtiano rappresenta una vera e propria fase di transizione dalle forme classiche della drammaturgia di impianto aristotelico a nuove e rivoluzionarie forme, che non solo hanno ispirato gli autori successivi a Brecht, ma che non sono ancora state compiutamente superate e hanno aperto delle interessanti finestre sul «teatro del futuro»6. L’interesse per la figura di Brecht come esempio di carattere distruttivo è ulteriormente amplificato dalla condivisione di temi e di forme di produzione di pensiero che ha accomunato Brecht e Benjamin. Ciò risalta con maggiore evidenza dallo stretto rapporto di amicizia che, a detta di H. Arendt, unì «il più grande poeta vivente» con «il più significativo critico dell’epoca», originando uno scambio intellettuale reciproco tra i due, che sfociò in una serie di contributi teorici di grande rilievo. Quest’ultimo punto, che necessiterebbe di una trattazione a sé, data la ricchezza e l’importanza che tale rapporto ha avuto per lo sviluppo intellettuale di entrambi i pensatori, verrà lasciato sullo sfondo7.
1.2 Struttura e tematiche del Fatzer-Fragment Veniamo ora al Fatzer-Fragment. Tale testo, ancora inedito in Italia, impegnò Brecht a fasi alterne dal 1926 al 1930, durante le quali egli lavorò contemporaneamente ad altre opere, del cui influsso il Fatzer risente in modo evidente. Concepito inizialmen6 Cfr. R. Steinweg, Das “Theater der Zukunft” – ein “Politaeum”. Über die Arbeit der Theatergruppe Angelus Novus Wien mit Brechts “Fatzer”-Fragment, «Korrespondenzen: Lehrstück, Theater, Pädagogik», 2 (1986/87), pp. 17-19. 7 Per un accurato approfondimento del rapporto tra Benjamin e Brecht cfr. il libro di E. Wizisla, direttore del Benjamin Archiv e del Brecht Archiv (Akademie der Künste, Berlin), dal titolo: Benjamin und Brecht. Die Geschichte einer Freundschaft, Frankfurt a.M 2004.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
te come Schaustück, e cioè come dramma teatrale, esso assumerà ben presto le vesti di un’opera frammentaria dal carattere volutamente sperimentale. I curatori delle opere complete di Brecht in trenta volumi (Große kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe) hanno individuato cinque diverse fasi durante le quali Brecht lavorò a tale testo, apportandovi modifiche sia dal punto di vista formale che contenutistico. Secondo questo schema Brecht concepì il Fatzer fino al 1927 come esempio di teatro epico, per farlo divenire successivamente luogo di sperimentazione per quella nuova forma drammatica, di cui non esistevano ancora esempi concreti e che porterà il nome di Lehrstück (dramma didattico). Ma la questione non è così semplice. Il Fatzer non è da intendersi semplicemente come momento di transizione tra teatro epico e teatro didattico, ma si presenta al contempo come terreno fertile, dove Brecht ha voluto, non solo sperimentare forme di produzione drammaturgica, ma anche riflettere da un punto di vista teorico sulla funzione del teatro. In questo senso tale testo mantiene forme proprie del teatro epico, di quello didattico, oltre a contenere un’ampia parte dedicata a discorsi di carattere teorico, che assumono molto spesso lo stile della saggistica filosofica. A partire dalla quarta fase di lavoro (vierte Arbeitsphase), che si situa tra il 1928 e il 1929, inizia a mostrarsi in modo esplicito la distinzione tra Fatzerdokument e Fatzerkommentar8. Il primo si riferisce, nelle intenzioni brechtiane, ai frammenti narrativi o drammaturgici, il secondo è letteralmente un commento fatto dall’autore su alcune problematiche di rilevanza decisiva nella strutturazione dell’opera. Il Fatzerkommentar, che occupa solo un quarto del testo e che trova spazio nella quinta fase di lavoro, riveste un’importanza significativa per l’economia del testo stesso. Le parti di cui esso si compone sono infatti delle citazioni di testi teorici precedenti al Fatzer o di testi che Brecht scrisse dopo aver smesso di dedicarsi al Fatzer. Prima di procedere nell’analisi di tale testo e di offrire un’interpretazione circa l’importanza che esso assume all’interno del8
Sulla distinzione tra Fatzerdokument e Fatzerkommentar ha insistito acutamente J. Wilke nel suo libro Brechts “Fatzer”-Fragment: Lektüren zum Verhältnis von Dokument und Kommentar, Bielefeld 1998, che costituisce nel panorama internazionale una delle poche monografie sul Fatzer.
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO
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l’opera brechtiana, vogliamo fornire una breve sintesi del contenuto del Fatzer. La vicenda è ambientata in un periodo di grandi rivolgimenti. Nel 1918 la Germania è attraversata da ribellioni, tumulti e scioperi generali organizzati da operai e soldati, che sperano di poter realizzare un sogno che dura ormai da tempo: il potere al popolo. Tali rivolte non avranno tuttavia un esito positivo. Questo è lo sfondo entro cui si svolge il dramma. Esso narra di quattro disertori che nel 1918 giungono con il proprio panzer a Mülheim sulla Ruhr, dove uno di loro ha una piccola abitazione. La piccola città industriale è in preda al caos e al malcontento a causa della guerra. I quattro erano stati creduti morti o dispersi e per questo vivono sotto costante minaccia di venire catturati in quanto disertori. Abbandonato il proprio panzer cercano di procurarsi sostentamento. Nonostante l’essere in quattro renda l’impresa più difficile, decidono di non separarsi per alcuna ragione, perché sperano in una rivolta popolare che metta fine alla guerra. Questa prospettiva li tiene in vita. Trovano asilo a casa di uno di loro, dove vive la moglie, che non suppone di rivedere il marito così presto. Tuttavia egli si mostra duro nei suoi confronti e non la degna di alcuna attenzione. Ciò provoca una reazione da parte della moglie, che trova consolazione tra le braccia di Fatzer, uno dei tre compagni del marito. Questo determina una forte tensione tra i quattro disertori, alla quale si aggiunge l’assoluto bisogno di nutrirsi. Per due settimane cercano di approvvigionarsi e alla fine il più furbo e più egoista, Fatzer, colui che aveva incitato gli altri tre a disertare, si stacca dai compagni, determinando la disfatta generale. La sua impresa fallisce, perché egli si invischia in una lite con un gruppo di macellai, in cui trova la morte. Ciò avviene davanti agli occhi dei suoi compagni, che non lo aiutano e, per evitare di essere loro stessi coinvolti, fingono di non conoscerlo. Lo sfondo del Fatzer è quello della guerra, della città, della diserzione, della clandestinità e della rivoluzione, tematiche che aprono complesse e delicate questioni storiche e politiche, alle quali Brecht cerca di dare una risposta durante gli anni Venti e Trenta. La parte dedicata alla narrazione della vicenda attraverso descrizioni e dialoghi occupa tre quarti del materiale. La parte restante è costituita da discorsi teorici con funzione di commen-
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
to, la cui presenza rende più evidente il carattere discontinuo e frammentario del testo e non è integralmente riconducibile alla vicenda narrata nel testo. Alcuni approfondiscono le parti narrative e drammatiche, come ad esempio il cosiddetto Geschlechtskapitel, in cui è messa a tema la tematica sessuale, e il Todeskapitel, che si riferisce esplicitamente alla vicenda della morte di Fatzer. Altri frammenti del Kommentar riguardano argomenti disparati, particolarmente cari a Brecht in quegli anni: dalla funzione di Dokument e Kommentar si passa alla funzione stessa del teatro, al suo ruolo pedagogico, al rapporto politica-filosofia, a quello individuo-massa e dunque alla funzione dello Stato in relazione al singolo. In questo senso, anche le parti di commento che non si riferiscono direttamente al Fatzer non vogliono spiegare la vicenda narrata, ma aprire nuovi contesti indipendenti dal materiale drammaturgico. Per questo, come è stato opportunamente sottolineato, non vi è una gerarchia all’interno del Fatzer tra Dokument e Kommentar, ma entrambi gli elementi contribuiscono a determinare la struttura prismatica sfaccettata e fortemente pluridimensionale del testo9. Il Kommentar doveva infatti fornire al lettore, nelle intenzioni di Brecht, teorie sullo stato collettivo e sul modo per raggiungerlo, la rivoluzione10. Nella fase di recezione di tale testo da parte della critica tedesca11 sono individuabili alcuni passaggi significativi che hanno permesso a quest’ultimo di assumere la veste che esso mostra oggi al lettore della Große und kommentierte Berliner und Frankfurt Ausgabe, l’edizione completa che a partire dal 1997 inserisce il Fatzer all’interno della raccolta in trenta volumi di tutte le opere di Brecht, dai drammi teatrali, alle poesie, agli scritti teorici, agli appunti. Il primo a interessarsi del Fatzer fu Walter Benjamin, che nel suo testo Aus dem Brecht-Kommentar (1930)12 fece alcune rifles9
Cfr. J. Wilke, Brechts “Fatzer-Fragment”, cit. «Was enthält der Kommentar: Ansichten (Theorien), die für den kollektivistischen Staat und den Weg dorthin: die Revolution nötig sind». (Che cosa contiene il Kommentar: idee (teorie) per lo stato collettivistico e il modo per raggiungerlo: le rivoluzioni sono necessarie). Brecht, Fatzer, cit., p. 513 (traduzione nostra). 11 Non verrà fatto riferimento in questa sede ad Heiner Müller, che ebbe un ruolo assai significativo nella storia della recezione del Fatzer-Fragment. Ci proponiamo di riservare alla posizione di Müller uno spazio più ampio nelle pagine successive. 12 Cfr. W. Benjamin, Aus dem Brecht-Kommentar, in GS II/2, pp. 506 sgg. La tra10
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO
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sioni sul ruolo del Kommentar, strutturate esse stesse nella forma del commento. Negli anni Sessanta Ernst Schumacher13 insistette a considerare il Fatzer come significativo momento di transizione all’interno della produzione brechtiana dal teatro epico a quello didattico. In questa direzione si mosse anche il tentativo da parte di Reiner Steinweg14 di sistematizzare il Fatzer-Material, suddividendo il testo in 56 Handlungselemente. Un’utile chiave per comprendere la struttura del testo era senza dubbio, secondo Steinweg, l’individuazione dei motivi e delle relazioni tra i frammenti di testo. Quest’ultimo doveva infatti essere considerato non tanto per blocchi contrapposti (parte drammatica – parte di commento), lettura che non avrebbe portato a nulla, ma nella sua interezza, data dall’unione delle componenti, e dunque seguendo un’evoluzione in senso cronologico. Seguendo la strada inaugurata da Steinweg, i curatori della Berliner und Frankfurter Ausgabe individuarono cinque diverse fasi di lavoro, comprese tra il 1926 e il 1930, nelle quali Brecht si esercitò nella pratica e nella teorizzazione di nuovi e interessanti modelli di teatro, che non hanno smesso di esercitare il loro fascino sul lettore contemporaneo. Il passo compiuto dai curatori ha permesso alla critica successiva di poter esercitare con più agilità il proprio lavoro, portando avanti ciò che era stato auspicato dallo stesso Brecht e cioè che il lettore, proseguendo nella lettura e nell’interpretazione del Fatzer, entrasse nel vivo del testo e aggiungesse commenti ai suoi stessi commenti. La prima fase di lavoro (erste Arbeitsphase) è compresa tra l’estate del 1926 e l’estate del 1927. Essa si compone di undici frammenti (alcuni drammatici, altri narrativi), in cui sono schizzate alcune delle scene iniziali del Fatzer, in particolare due duzione italiana è contenuta in: W. Benjamin, Dal commentario brechtiano, in Avanguardia e rivoluzione, cit., pp. 176 sgg. 13 Cfr. E. Schumacher, Stoff und Form in Leben des Galilei, in Id., Brecht. Theater und Gesellschaft im 20. Jahrhundert, Berlin 1973, p. 213; C. Neubert-Herwig (a cura di), Brecht-Kritiken, Berlin 1977, p. 232. 14 Cfr. R. Steinweg, Das Lehrstück. Brechts Theorie einer politisch-ästetischen Erziehung, Stuttgart 1976, pp. 230-253.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
diverse varianti della scena della diserzione. I personaggi non hanno ancora assunto una fisionomia definita e sono indicati con le sigle x, y, z. La seconda fase di lavoro occupa Brecht nel settembre del 1927. Nonostante la sua breve durata, in essa sorgono i primi contorni del progetto drammaturgico. Essa si compone di nove frammenti nei quali cominciano a emergere le caratteristiche dei personaggi (Fatzer, Kaumann, Büsching, Koch) e un abbozzo più concreto della trama. Oltre alla scena della diserzione, vengono esposte anche la scena ambientata nell’appartamento di Kaumann, il tentativo di approvvigionamento da parte di Fatzer e il progetto da parte dei tre commilitoni di ucciderlo. In questa fase fa la sua prima comparsa il coro, a cui Brecht attribuisce la funzione di commento alle vicende narrate e quella di esporre contenuti politico-didascalici. Non si può tuttavia ancora parlare di Fatzer-Kommentar. Nelle prime due fasi di lavoro Brecht considerava il Fatzer come uno Schaustück, e cioè un esempio di teatro epico. A partire dalla terza fase di lavoro egli smette di concepire il Fatzer come esempio di dramma epico e dunque rinuncia all’idea di costruire un racconto compiuto, per passare a considerarlo come luogo in cui sperimentare nuove possibilità di fare e di pensare il teatro. È dunque a partire da questa fase, situabile tra la fine del 1927 e l’inizio del 1928, che si può parlare di transizione dalle forme consolidate del teatro epico ad abbozzi di una nuova tipologia drammaturgica, il teatro didattico, in cui i contenuti eticopolitici diventano vero e proprio oggetto del Fatzer-Material. La terza fase occupa una parte molto più significativa delle precedenti, sia per quanto riguarda il numero di pagine e di frammenti di cui si costituisce, sia quanto all’introduzione in modo assai più esplicito di parti a carattere meditativo e di commento, oltre a frequenti monologhi e brani per il coro. Viene introdotta inoltre la tematica sessuale e cioè il tema del possesso di una donna (la moglie di Kaumann), che porterà ad un conflitto dai toni molto accesi tra l’egoista Fatzer e Kaumann. Ha inizio la separazione tra l’individualista Fatzer e i tre commilitoni, che avrà esiti drammatici disastrosi. Nella quarta fase, compresa tra l’autunno del 1928 e la fine del 1929, la distinzione tra Fatzerdokument e Fatzerkommentar
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diventa sempre più netta. A questo scopo viene rafforzata la funzione di commento del coro e vengono inserite parti teoriche, come ad esempio le storie del pensatore (Geschichten vom Denkenden), che diventeranno le Storielle del signor Keuner. Già nel Fatzer sono infatti presenti alcune delle Geschichten von Herrn Keuner, che acquisiranno in seguito una posizione autonoma e indipendente dalla trama del Fatzer. A questo si devono anche alcune modifiche riguardo ai nomi dei personaggi: Kaumann diventa Leeb e Koch diventa Keuner15. 15 Sul ruolo del nome Keuner nel pensiero di Brecht ha insistito particolarmente W. Benjamin, che nel dramma radiofonico Bert Brecht afferma: «Da dove venga questo nome, può avere in sé la sua spiegazione. Supponiamo quindi con Lion Feuchtwanger, un tempo collaboratore di Brecht, che si nasconda in esso la radice greca koinós – ciò che è comune, che riguarda tutti, che appartiene a tutti. In effetti il signor Keuner è colui che riguarda tutti, che appartiene a tutti, vale a dire il capo, la guida. Solo che lo è in modo del tutto diverso da come, oggi, solitamente ci si rappresenta un capo, in nessun modo un retore, un demagogo, un ricercatore d’effetti o un “uomo forte”. La sua occupazione principale è lontana mille miglia da ciò che oggi ci si immagina per un capo. Il signor Keuner è infatti colui che pensa. [...] In base a tutto il suo modo di agire questo ‘uomo pensante’ non potrà mai essere scambiato con il saggio dei Greci, con l’inflessibile stoico o con quell’esperto nell’arte del vivere, che viene dalla scuola di Epicuro; piuttosto lo si potrebbe scambiare con quella figura di un puro uomo di pensiero senza affetti creata da Paul Valéry, con Monsieur Teste. Entrambi hanno tratti cinesi. Entrambi sono infinitamente scaltriti, infinitamente discreti, infinitamente gentili, infinitamente vecchi, infinitamente capaci di adattarsi. Il signor Keuner però si distingue assolutamente dal suo collega francese per il fatto di avere una meta, che non perde di vista nemmeno per un momento. Questa meta è il nuovo stato. Uno stato, che dal punto di vista filosofico e letterario è fondato così profondamente, come si sa di quello di Confucio.[…] Il vizio del signor Keuner è di pensare in modo freddo e incorruttibile. A cosa serve ciò? Serve a portare la gente a rendersi conto con quali presupposti si avvicina ai capi, ai cosiddetti Führer, ai pensatori o ai politici, ai libri o ai discorsi di costoro, per poi mettere in discussione, così a fondo quanto è possibile, tale presupposto. […] L’interesse del signor Keuner si concentra proprio nel mostrare che la ricchezza di problemi e teorie, tesi e visioni del mondo è fittizia. E che queste si annullino reciprocamente non è né un caso, né è fondato nel pensiero stesso, ma nell’interesse di coloro che hanno messo i “pensatori” ai loro posti. […] Merita pensare? Deve giovare? A cosa serve in realtà? A chi? Nient’altro che rozze domande, certo. Noi però, dice il signor Keuner, non abbiamo in alcun modo da temere domande grossolane, e proprio per queste teniamo pronte le nostre risposte più raffinate. Poiché questa è la nostra differenza in confronto a quegli altri: essi sono ben capaci di porre domande in modo fine e sottile, ma inondano i canali delle loro domande con il profluvio di fango delle loro risposte, con quella ricchezza non filtrata, che è fruttuosa per pochi e dannosa per quasi tutti. Noi al contrario poniamo domande in modo senz’altro deciso, ma tra le risposte lasciamo passare solo quelle vagliate per tre volte. Risposte chiare e precise, in cui deve essere tra-
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
L’aspetto pedagogico del dramma, che confluirà successivamente nella teorizzazione e nella messa in pratica del Lehrstück, diventa sempre più vistoso nell’economia del Fatzer. I temi su cui si dibatte nella quarta fase sono amore e sessualità, morte e rapporto individuo-collettività. La quinta fase si sviluppa tra la fine del 1929 e l’inizio del 1930. Essa è in un certo senso la più significativa, perché conduce alla pubblicazione nel 1930 di tre frammenti del Fatzer nel primo quaderno dei Versuche. Essa si compone del frammento drammatico Rundgang des Fatzer durch die Stadt Mühlheim, del frammento che descrive la disfatta di Fatzer e della poesia Fatzer komm, di cui Benjamin ha fornito un’acuta analisi nel suo saggio Aus dem Brecht-Kommentar. Alla quinta fase di lavoro segue il vero e proprio Fatzerkommentar, in cui Brecht analizza il ruolo di Dokument e Kommentar, oltre a fornire alcuni indottrinamenti per gli apprendisti attori, a riflettere sul ruolo del teatro e sulla sua funzione educativa16 e su alcuni dei motivi del Fatzer, come ad esempio i temi della morte, del possesso, del rapporto uomo-massa.
1.3 La potenza del frammento Alla pubblicazione dei tre frammenti appartenenti alla quinta Arbeitsphase nel primo quaderno dei Versuche avrebbe dovuto seguire, nelle intenzioni di Brecht, quella del resto dell’opera nei quaderni successivi17. Ciò non avvenne e il Fatzer mantenne la struttura frammentaria. Questo tuttavia non implicò una svasparente non solo il contenuto, ma anche l’atteggiamento di colui che parla». Benjamin, Bert Brecht, in Opere complete IV, cit., pp. 176 sgg. 16 Mentre i drammi didattici erano intesi da Brecht come Kleine Pädagogik, utile per la fase iniziale della rivoluzione proletaria, il Fatzer avrebbe dovuto costituire, secondo Brecht, una Große Pädagogik, poiché esso sposta il sistema attori-spettatori nella fase della realizzazione di uno stato socialista. Tuttavia per una completa analisi del Fatzer non è sufficiente la considerazione del suo aspetto pedagogico-sociale. 17 «Der dritte Versuch Fatzer 3 ist in der 3. Abschnitt des Stückes Untergang des Egoisten Johann Fatzer. Abschnitt 1 und 2 werden später in diesen Heften erscheinen». B. Brecht, Versuche, Berlin und Frankfurt a.M. 1959, p. 6.
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lutazione del Fatzer da parte dell’autore, ma gli offrì invece delle possibilità impensate per esercitarsi alla produzione successiva. Nel corso degli anni egli si convinse a considerare il Fatzer non più un esempio di pratica teatrale, ma un esperimento utile alla comprensione di sé come drammaturgo18. Ciò gli permise una libertà straordinaria nei confronti del materiale da trattare e soprattutto gli diede la possibilità di mantenere per il suo scritto il carattere di processo, di transizione. Il Fatzer non rimase dunque frammento per l’incapacità da parte del suo autore di giungere ad un compimento, ma per il suo desiderio di sperimentare e di crescere come drammaturgo attraverso la sperimentazione. Il livello di radicalità giunge nel Fatzer al suo estremo, la scrittura si frantuma in scene e commenti del coro, che vengono a loro volta messi in questione dalle scene stesse. Ogni frammento viene condotto al suo limite, oltre il quale non può più essere criticato, ma solo messo in questione attraverso l’apertura ad un nuovo inizio, ad un altro modo di raccontare la storia19. La radicalità strutturale è tale da mettere in questione la stessa funzione pratica che il testo avrebbe dovuto avere, in quanto forma anticipante del Lehrstück. Nel Fatzer è evidente fin dalle prime pagine che la vicenda dei quattro disertori non avrà un esito positivo: il fulcro della vicenda è rappresentato infatti dallo scontro e dalla tensione irrisolvibile tra due poli, da un lato l’egoista Fatzer, dall’altro gli altri tre soldati, da un lato il principio individualistico, dall’altro il collettivo. Ciò mostra in modo assai evidente, non tanto il richiamo ai drammi didattici, quanto piuttosto la rilettura dei drammi giovanili sul modello del Baal20. 18 «Das ganze Stück, da ja unmöglich, einfach zerschmeißen für Experiment ohne Realität! Zur Selbstverständigung». Cfr. Brecht, Fatzer, cit., p. 1120. 19 Cfr. M. Massalongo, Quel che resta del gesto di Fatzer. Heiner Müller legge Bertolt Brecht, «Hortus Musicus», 14 (2004), p. 21. 20 Su questo punto ha insistito particolarmente W. Benjamin nel saggio Bert Brecht, in cui afferma: «[…] Baal, Mackie Messer, Fatzer […] tutta quell’orda di teppisti e delinquenti che popolano i drammi di Brecht, ma che soprattutto sono i veri cantanti dei suoi songs, raccolti nello straordinario Libro di devozioni domestiche. Tutte queste atmosfere malavitose e tutti questi songs risalgono al primo periodo di Brecht, al cosiddetto periodo di Augusta, allorché in compagnia dell’amico e collaboratore Caspar Neher e altri, in strane melodie inframmezzate da rudi e struggenti ritornelli, abbozzò i motivi dei suoi drammi successivi. Da questo mondo proviene il poeta assassino e
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La radicalità della frammentazione del Fatzer inibisce inoltre la possibilità di raccontare una fabula. Il racconto viene condotto ad un momento catastrofico, senza tuttavia che ci sia uno scioglimento. Inoltre non vi è una vera e propria peripezia, poiché fin da subito si intravvedono le tracce del tradimento, che allontanerà i protagonisti della vicenda. È la narrazione stessa ad entrare in crisi, dal momento che non vi è la struttura ipotattica propria della fabula, ma una struttura parattattica, che sembra non voler privilegiare alcuna parte del racconto. Il confine tra ambito teorico e ambito estetico risulta chiaramente attraversabile. Il teatro appare come scena del racconto e come processo in cui si produce il pensiero. In questo senso esso non dice più del reale, ma si limita a tradurre il mentale in gestuale. I gesti vengono cioè resi citabili.
1.4 La drammaturgia dell’attesa Il Fatzer tratta di una rivoluzione anticipata. Brecht, che auspicava anche sul piano della praxis una rivoluzione e la considerava attuabile, non riesce a rappresentare poeticamente come essa si possa realizzare. Il tentativo di fornire al lettore un’estetica della rivoluzione fallisce in partenza, nel momento stesso in cui egli la anticipa nella figura della diserzione. Lo stesso atto della diserzione, che identifica i protagonisti del dramma, non è altro che un non-agire, un sottrarsi all’azione, pur continuando a sperare che la rivoluzione si realizzi. Il modello drammaturgico che si adatta a descrivere la diserzione è una drammaturgia dello zwischen, delubriacone Baal e infine anche l’egoista Fatzer. Ma sarebbe un grave errore supporre che queste figure interessino l’autore solo in quanto personaggi deterrenti. Il reale interesse di Brecht al Baal e al Fatzer è più profondo. Rappresentano per lui certamente l’egoismo e l’asocialità, ma è vero anche che uno degli sforzi costanti di Brecht è proprio quello di dipingere la figura dell’asociale, del teppista, come figura di rivoluzionario virtuale. E non si tratta qui solo di simpatia personale verso questo tipo umano, ma è in gioco anche un momento teorico. Se Marx, senza rivendicare alcun ethos a tale scopo, si è posto per così dire il problema di far scaturire la rivoluzione dal suo altro da sé, il capitalismo, Brecht trasferisce questo problema nella sfera umana: la sua intenzione è quella di fare emergere dal tipo cattivo e egoista, da sé, senza alcun ethos, il rivoluzionario. […] Brecht intende creare il rivoluzionario in provetta miscelando meschinità e malvagità». Benjamin, Bert Brecht, in Opere complete, IV cit., p. 178.
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l’attesa di un novum. Non è un caso se la vicenda inizia con l’arrivo dei quattro soldati in una terra di nessuno, uno spazio desolato e deserto, in cui l’azione si è già consumata (la battaglia è finita). Questa No Man’s Land è un luogo in cui l’azione è in un certo senso cristallizzata, in stato di quiete, almeno nella fase iniziale del racconto. Fatzer, accortosi che intorno a loro non c’è nessuno, afferma: «Es ist gut, daß wir durch den Zufall an eine Stelle der Welt gekommen sind, wo wir drei Minuten überlegen konnten»21. I disertori aspettano. E non c’è nulla di più adatto a tale situazione del gesto dell’attesa, una sorta di negazione, o almeno congelamento dell’azione. I quattro aspettano la rivoluzione, cioè la fine della guerra in un senso per loro salvifico. Nello specifico Fatzer attende l’aiuto esterno da altri soldati, mentre i suoi tre compagni attendono l’intervento «redentore» del loro capitano, Fatzer. Se la loro azione si concretizza nell’attesa, il politico si mostra in un certo senso come interruzione. In questa prospettiva non si può parlare in senso stretto di dramma per il Fatzer. Se durante le prime fasi di lavoro Brecht sembra indirizzarsi verso una contrapposizione dialettica tra la figura di Fatzer e quella di Koch (Keuner) insieme ad un progressivo impoverimento della prima a scapito della seconda, successivamente è impossibile individuare quest’antitesi, poiché essa va gradualmente assottigliandosi in seguito all’ingresso nella scena di parti teoriche e commentative. Con l’entrata del coro è come se quest’ultimo facesse da contrappunto all’azione narrata. È evidente l’influenza della tragedia greca sulla drammaturgia brechtiana. In particolare il richiamo più forte sembra essere all’Antigone di Sofocle. La contrapposizione tra individuo e collettivo, così come l’utilizzo del coro con funzione di commento, sembrano infatti richiamare la polarità tra privato e pubblico, laddove la figura di Fatzer e quella di Antigone sono entrambe fortemente sbilanciate verso il primo polo22. Tuttavia non è chiaro se Brecht si sia richiamato consapevolmente alla tragedia antica. 21 «È un bene che siamo giunti per caso in una parte di mondo in cui possiamo riflettere tre minuti». Brecht, Fatzer, cit., pp. 388 sgg. (traduzione nostra). 22 Su questo punto cfr. H.-T. Lehmann, Das politische Schreiben. Essays zu Theatertexten, Sophokles, Shakespeare, Kleist, Büchner, Jahnn, Bataille, Brecht, Benjamin, Müller, Schleef, Berlin 2002, pp. 255 sgg.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
È interessante l’espressione «zwei Chöre», con cui Brecht introduce una parte commentativa. Ciò potrebbe alludere al fatto che egli non solo utilizza il coro con funzione di commento, ma, per movimentare la scena e rendere la contrapposizione dialettica più complessa, introduce due diversi commenti del coro. Questo muove evidentemente la trama del Fatzer dal sistema duale ad una polifonia di voci. Il ruolo preponderante che il coro e il Kommentar assumono vieppiù nelle ultime fasi di lavorazione comporta un chiaro distacco del testo dalla mimesi delle azioni e dunque un passaggio evidente dal modello drammaturgico a quello di un meta-teatro che, nel riflettere su se stesso sia da un punto di vista teorico che su un piano pratico, attraverso l’utilizzo delle parti commmentative, mette in questione le proprie funzioni. Il coro si allinea al ruolo che aveva nella tragedia antica, poiché non fa che amplificare ciò che viene narrato e in un certo senso ripeterlo, citarlo, commentandolo. Il teatro brechtiano pare dunque ricalcare il modello antico, nel momento in cui il gesto non viene semplicemente «agito», ma ri-petuto, richiamando così la funzione cerimoniale e rituale, che il teatro aveva nelle società antiche. In questo modo gli attori, e con essi le voci, vedono sbiadita la loro individualità, poiché sono parti di un collettivo, di un’orchestra, che può esprimersi solo nella sua integralità. Ed è per questo che il carattere frammentario del Fatzer mostra le sue rivoluzionarie potenzialità solo in quanto frammento di una totalità. Per chiarire maggiormente come il Fatzer rappresenti la messa a punto sia sul piano teorico, che pratico, di un importante momento di transizione tra il modello di teatro epico – e dunque il distacco di Brecht dalla drammaturgia classica – e quello di teatro didattico – e dunque la chiarificazione del ruolo politico del teatro, inteso come portatore di un messaggio chiaramente marxista – ci pare utile fornire ora alcuni elementi del teatro epico. Ciò offre inoltre la possibilità di presentare la figura di Brecht come carattere distruttivo, e dunque di porre in risalto il messaggio rivoluzionario che il drammaturgo tedesco voleva proporre ai suoi interlocutori.
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1.5 Il teatro epico Come noto, nel corso di tutta la sua produzione teatrale, Brecht ha dato ampio spazio alla riflessione sul ruolo del teatro attraverso lunghi scritti teorici, che, a seconda delle occasioni, hanno preso la forma di appunti, pagine di diario, lettere, frammenti e saggi. Ciò è ben documentato nella Große kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, che, organizzata secondo un criterio tematico, contiene le seguenti sezioni: Stücke, Stückfragmente23, Gedichte, Prosa, Schriften, Journale, Briefe. Nella sezione Schriften, che raccoglie gli scritti teorici dal 1914 al 1956, è contenuta un’interessante sezione dedicata ai Texte zu Stücken, cioè alle cosiddette note ai drammi e alle regie, di cui Brecht amava corredare i suoi drammi. Particolarmente significative ai fini della nostra indagine si rivelano due di queste note, in particolare la Nota all’Opera da tre soldi e la Nota all’opera Ascesa e rovina della città di Mahagonny, dove Brecht ha teorizzato con chiarezza esemplare il significato del teatro epico. Il teatro epico di Brecht nasce dall’esigenza di rappresentare l’uomo nei suoi rapporti con la natura e i propri simili nell’epoca della riproducibilità tecnica. Le riflessioni brechtiane sul senso e il ruolo del teatro nella società a lui contemporanea sono mosse dalla coscienza della crisi della narrazione e dell’incapacità dell’uomo di comunicare le proprie esperienze. Ciò determina la necessità, da parte di alcuni autori, di spingersi alla sperimentazione di nuovi mezzi artistici. Nell’esprimere tale esigenza, Brecht sottolinea con insistenza il fatto che «il mondo d’oggi può essere descritto agli uomini d’oggi solo a patto che lo si descriva come un mondo che può essere cambiato»24. Il mondo può essere cioè espresso attraverso il teatro solo a condizione che esso sia considerato come un mondo trasformabile. Il progresso scientifico ha determinato il dominio della natura e dei propri simili da parte dell’uomo, dominio che è tuttavia destinato a ribaltarsi nel suo contrario, se l’uomo non 23
Nella sezione che raccoglie gli Stückfragmente – il volume decimo – è contenuto il Fatzer. 24 B. Brecht, È possibile esprimere il mondo d’oggi per mezzo del teatro?, in Id., Scritti teatrali, Torino 2001, p. 20.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
smetterà di considerare la natura come oggetto da conquistare. In un’epoca in cui la scienza è in grado di trasformare la natura, non è più ammissibile, secondo Brecht, che «si continui a descrivere all’uomo il suo simile come vittima, come oggetto passivo di un ambiente sconosciuto quanto immutabile»25. Con queste parole Brecht tenta di rivendicare un ruolo sociale per il teatro, in modo che esso sia non solo un efficace strumento di descrizione della realtà, ma soprattutto un motore che avvii una necessaria trasformazione per un mondo divenuto invivibile. Tali esigenze implicano necessariamente per il drammaturgo uno spostamento dall’estetica tradizionale alla ricerca di nuove forme innovative e rivoluzionarie per il teatro. Ciò determina evidentemente un distacco e una chiara rinuncia alla forma drammatica. Il fatto che i rapporti intersoggettivi siano divenuti problematici provoca delle difficoltà per l’autore di teatro nel pensare il dramma stesso, poiché la forma drammatica non concepisce come problematici tali rapporti, tendendo ad individuare due poli, uno positivo rappresentato dal protagonista e uno negativo rappresentato dall’antagonista26. Per questo Brecht si muove, con altri autori a lui contemporanei, verso un distacco dalle forme della drammaturgia aristotelica, per formulare più compiutamente una drammaturgia non-aristotelica, a cui darà il nome di «teatro epico». È senz’altro evidente che di teatro epico si potesse parlare anche prima del conio brechtiano – pensiamo ad esempio a Erwin Piscator – tuttavia è solo con Brecht che esso assume una forma chiara e definita e che mostra compiutamente il suo «carattere distruttivo». Nella già citata nota all’opera Ascesa e rovina della città di Mahagonny, pubblicata nel 1931, egli fornisce al suo pubblico uno strumento assai utile all’individuazione dei tratti che distinguono il teatro epico da quello drammatico. Si tratta del famoso schema di stampo dialettico, in cui Brecht offre una sistematizzazione del tema in questione.
25
Ibid. Cfr. P. Szondi, Teoria del dramma moderno 1880-1950, con un’introduzione di C. Cases, Torino 2000, p. 97. 26
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO Forma drammatica del teatro
Forma epica del teatro
attiva
narrativa
involge lo spettatore in un’azione scenica fa dello spettatore un osservatore, ma ne esaurisce l’attività
ne stimola l’attività
gli consente dei sentimenti
lo costringe a decisioni
gli procura emozioni
gli procura nozioni
lo spettatore viene immesso in un’azione
viene posto di fronte ad un’azione
viene sottoposto a suggestioni
viene sottoposto ad argomenti
le sensazioni vengono conservate
vengono spinte fino alla consapevolezza
l’uomo si presuppone noto
l’uomo è oggetto di indagine
l’uomo immutabile
l’uomo mutabile e modificatore
tensione riguardo all’esito
tensione riguardo all’andamento
una scena serve l’altra
ogni scena sta per sè
corso lineare degli accadimenti
a curve
natura non facit saltus
facit saltus
il mondo com’è
il mondo come diviene
ciò che l’uomo deve fare
ciò che l’uomo non può non fare
i suoi impulsi
i suoi motivi
il pensiero determina l’essere sociale
l’essere sociale determina il pensiero
Se nella rappresentazione drammatica vi era un tentativo di fusione delle diverse arti, che insieme dovevano offrire un tutto organico e inscindibile, il teatro epico deve essere caratterizzato, secondo Brecht, dalla «separazione degli elementi» (Trennung der Elemente). Se attraverso la fusione gli «elementi vengono necessariamente degradati in egual misura», comportando inoltre l’unione dello spettatore alla rappresentazione, poiché egli, immedesimandosi nella vicenda, agisce passivamente, Brecht auspica invece per il nuovo teatro la rinuncia ad ogni tentativo di «ipnosi», poiché quest’ultimo è in grado di produrre solo «nebbia» e «ubriacature». Ciò non significa tuttavia che nel teatro epico lo spettatore venga escluso dalla vicenda. Egli non viene più trascinato nella vicenda attraverso l’illusione, ma viene posto di fronte alla vicenda, che è presentata come materia di riflessione. Nel teatro epico l’azione non costituisce integralmente la durata della rappresentazione. Ciò determina delle modificazioni nell’inten-
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
dere il tempo della rappresentazione, che non è più dato da una successione assoluta di momenti presenti. Il presente della rappresentazione è in un certo senso più ampio di quello dell’azione, poiché Brecht introduce dei momenti di riflessione sui motivi che spingono i protagonisti ad agire. L’azione non s’indirizza in questo modo al fine, ma anche allo svolgimento stesso della vicenda, inteso come presente e passato. A ciò si lega il compito sociale che Brecht attribuisce al teatro epico. Oggettivando le azioni dei personaggi e riflettendo sul motore di queste ultime, si riflette in un certo senso sulla loro base sociale27. Ciò è realizzato da Brecht attraverso una serie di innovazioni formali, volte a corrispondere ad una «trasformazione che trascende di gran lunga la sfera formale e che incomincia infine a considerare la funzione vera e propria del teatro, la sua funzione sociale»28. A questo scopo Brecht decide di «conferire maggiore autono27 In questo senso si collocano alcune riflessioni benjaminiane contenute nel saggio Che cos’è il teatro epico? (I). Uno studio su Brecht (1931), in cui Benjamin avvicina la figura dell’attore del teatro epico a quella del filosofo. Nel teatro epico l’attore si trova «collocato al fianco del filosofo. Il gesto dimostra il significato sociale e l’applicabilità della dialettica. Fa le sue prove sulle condizioni in cui si trova l’uomo. Le difficoltà che il regista incontra nell’impostazione non sono risolvibili senza una concreta visione all’interno del corpo della società. La dialettica cui il teatro epico mira non dipende tuttavia da una successione scenica nel tempo; si manifesta semmai già negli elementi gestuali che sono alla base di ogni successione temporale e che si possono solo impropriamente definire elementi, perché non sono altro che questa successione stessa. Comportamento immanentemente dialettico è ciò che fulmineamente si rivela nella situazione in quanto riproduzione di atteggiamenti, azioni e parole umane. La situazione che il teatro epico scopre è dialettica in fase statica. Perché, come in Hegel, il trascorrere del tempo non è la madre della dialettica, ma solo l’elemento in cui si rivela, nel teatro epico, la madre della dialettica non è lo svolgimento contraddittorio delle dichiarazioni o dei comportamenti, ma il gesto in sé. […] Il ristagno nel reale flusso di vita, l’attimo in cui il suo decorso si ferma, diviene avvertibile come onda di riflusso: lo stupore è appunto quest’onda di riflusso. La dialettica in fase di stasi è il suo oggetto. […] Quando però il flusso delle cose si spezza contro questa rupe dello stupore, allora non c’è differenza fra una vita umana e una parola. Entrambe non sono nel teatro epico che la cresta dell’onda. Esso fa schizzare alta l’esistenza dal letto del tempo, la lascia per un attimo sospesa e cangiante nel vuoto, per poi adagiarvela di nuovo». W. Benjamin, Che cos’è il teatro epico? (I). Uno studio su Brecht, in Opere complete IV, cit., pp. 369 sgg. 28 B. Brecht, Note all’opera Ascesa e rovina della città di Mahagonny, in Id., Scritti teatrali III. Note ai drammi e alle regie, trad. it. di C. Pinelli, M. Carpitella, E. Castellani, P. Chiarini, R. Fertonani, R. Mertens, Torino 1975, p. 59.
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO
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mia alla musica, alla parola, alla figurazione»29. Ciò avviene in primo luogo attribuendo alla musica un ruolo diverso da quello che aveva nel dramma di impostazione aristotelica. Essa non ha semplicemente una funzione di accompagnamento, ma prende posizione nei confronti del testo, lo interpreta da una prospettiva esterna. La musica è uno degli strumenti che contribuiscono a rendere le opere di Brecht prodotte dalla frammentazione degli elementi e dunque espressione di una polifonia di voci30. Un altro aspetto importante è l’introduzione di motivi narrativi nelle rappresentazioni drammatiche. Ciò si realizza attraverso l’utilizzo di strumenti diversi, che integrano l’azione degli attori: parole scritte e immagini. Le prime sono introdotte dai cosiddetti cartelli, condotti nella scena dai personaggi stessi, o appesi sulle pareti31. Le immagini sono realizzate attraverso la proiezione di frammenti cinematografici, in genere di carattere documentario32, volti a rendere la rappresentazione maggiormente stratificata. La scena non vuole simulare il reale, ma «citare, raccontare e rammentare». Una funzione di commento e di interruzione dell’azione, che fa apparire quest’ultima come composta di gesti citabili, è svolta anche dalle voci del coro. 29
Ibid., p. 57. Come noto, Brecht scriveva egli stesso i testi dei propri songs, giovandosi poi, in fase di realizzazione, dell’aiuto del famoso compositore Kurt Weill. Si pensi ad esempio alla musica di Ascesa e rovina della città Mahagonny e a quella dell’Opera da tre soldi. 31 I cartelli sono «un primitivo avvio alla letteralizzazione del teatro. […] Letteralizzazione significa sostituire al “figurato” il “formulato”: essa dà al teatro la possibilità di stabilire una connessione con altri istituti dedicati all’attività spirituale; ma rimane un fatto unilaterale finché anche il pubblico non partecipi ad essa e, attraverso di essa non riesca a porsi “al di sopra” della vicenda. L’uso dei titoli può essere criticato dalla drammatica tradizionale col sostenere che lo scrittore teatrale deve concentrare nell’azione tutto quel che ha da dire, e che la poesia ha da esprimere tutto da sé stessa. Tali argomenti corrispondono a quell’atteggiamento dello spettatore, nel quale non è lui che pensa alla cosa, ma è la cosa che lo fa pensare. Ma questa tendenza a subordinare tutto a un’idea, la mania di costringere lo spettatore a una dinamica a senso obbligato, nella quale non gli sia concesso di guardare verso destra e verso sinistra, verso l’alto e verso il basso, deve essere respinta dal punto di vista della nuova drammatica. Anche nell’arte drammatica bisogna introdurre l’uso della nota in calce e del rinvio per raffronto». B. Brecht, Note all’“Opera da tre soldi”, in Id., I capolavori, vol. I, a cura di H. Riediger, con un’introduzione di C. Cases, Torino 1998, p. 94. 32 Ciò veniva realizzato anche da Piscator, con cui Brecht ha collaborato. 30
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
A tali «effetti di straniamento» si aggiunge anche il tipo di recitazione degli attori, che non devono immedesimarsi totalmente con il personaggio, ma limitarsi a «mostrare» il personaggio, o meglio non «limitarsi a viverlo soltanto». Questo non significa che l’attore deva mostrarsi impassibile, ma che i suoi sentimenti non devono essere gli stessi del personaggio. Per realizzare in una recitazione l’effetto di straniamento possono essere utili alcuni accorgimenti: l’utilizzo della terza persona, del tempo passato e della lettura ad alta voce di didascalie e cartelli. Lo spettatore viene così esercitato ad una «visione complessa», è messo in grado di «pensare al di sopra della corrente». Egli non deve inoltre assumere a teatro un atteggiamento diverso dal proprio contegno abituale, come se entrasse in un mondo che non ha nulla in comune con quello reale. A questo scopo Brecht propone provocatoriamente che gli spettatori possano fumare durante la rappresentazione. Con tale atteggiamento si determina senza dubbio una maggiore attenzione degli attori durante la loro esecuzione, poiché, «voler “ammaliare” un uomo che fuma, e che perciò è sufficientemente affaccendato con se stesso, è impresa disperata»33. Lo spettatore vede rappresentato sulla scena sia ciò che egli desidera vedere della vita, sia ciò che non gli è gradito; egli cioè vede non solo realizzati, ma anche criticati i propri desideri. In questo modo il teatro epico mette in questione le concezioni borghesi, sia attraverso il proprio contenuto, che attraverso la propria forma. A questo punto lo spettatore è in grado di assegnare al teatro una nuova funzione di commento e di critica sociale. Brecht inizia a riflettere sul fatto che esso possa e debba diventare un luogo di ammaestramento, non solo per gli spettatori, ma per gli stessi attori, che, nell’esercizio di ruoli positivi e negativi, vedano il teatro come palestra per la propria crescita spirituale. Dopo aver sperimentato il carattere rivoluzionario del teatro epico rispetto all’arte drammatica tradizionale, Brecht non abbandona le illuminanti idee con cui aveva distrutto l’immagine aristotelica di dramma, costruendone una nuova, fondata su basi solide e assai innovative. Tuttavia si accorge di nuove e 33
Brecht, Note all’“Opera da tre soldi”, cit., p. 94.
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO
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importanti direzioni di ricerca, che lo porteranno a teorizzare e mettere in pratica il cosiddetto Lehrstück (dramma didattico).
1.6 Il Fatzer-Fragment: dal teatro epico al Lehrstück La letteratura critica brechtiana si è concentrata solo in anni recenti a dare il giusto risalto al cosiddetto «teatro didattico» di Brecht, inizialmente oscurato dalla luce siderale che aveva illuminato il teatro epico. Se in una prima fase della recezione brechtiana si tendeva infatti a identificare il teatro brechtiano con il cosiddetto teatro epico, solo in anni recenti è stato possibile considerare quest’ultimo come uno degli elementi, forse il più eclatante, di una serie di innovazioni apportate alla drammaturgia moderna, che hanno portato Benjamin e con lui molti altri a vedere in Brecht il modello più calzante di carattere distruttivo. In questa prospettiva il Fatzer-Fragment non solo assume una posizione di grande rilievo all’interno dell’opera brechtiana, ma rappresenta una vera e propria chiave di volta, per comprendere l’evoluzione spirituale di Brecht. Se l’autore si è esercitato durante tutta la vita nella formulazione di teorie teatrali, espresse sotto la forma di scritti teorici, alle quali ha dato poi una realizzazione pratica attraverso i propri drammi, è solo nel Fatzer-Fragment che egli si esercita contemporaneamente nella teorizzazione e nella messa in pratica del proprio teatro. Il Fatzer è l’unico esplicito esempio in tutta la produzione brechtiana che va dal 1914 al 1956 di quel «pensiero per immagini», che accomuna il drammaturgo tedesco al critico berlinese che si è espresso attraverso Denkbilder. Nel Fatzer sono contenute le prime riflessioni sul teatro didattico. Esse prendono forma solo a partire dalla terza fase di stesura e dunque dalla fine del 192734. Ci si limiterà ad analizzare sol34 Le opere drammaturgiche più significative che Brecht scrisse dal 1926 al 1930, anni in cui era impegnato parallelamente nella stesura del Fatzer, sono: Mann ist Mann (1926), Der Flug der Lindbergh (1929), Die Dreigroschenoper (1929), Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny (1930), Die Maßnahme (1930)*, Badener Lehrstück vom Einverständnis (1930)*, Der Jasager, der Neinsager (1930)*, Die Ausnahme und die Regel (1930)*, Die heilige Johanna der Schlachthöfe (1930). Le date sono solo indicative, poiché Brecht impiegò a volte alcuni anni per la realizzazione di ciascuno dei drammi citati. Gli asterischi vogliono evidenziare i drammi didattici.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
tanto le parti teoriche appartenenti al Fatzerkommentar, tralasciando così le riflessioni di carattere pedagogico disseminate nel corso del testo e riservate per lo più al coro. All’interno del Fatzerkommentar Brecht configura la separazione tra Dokument e Kommentar, spiegandone le diverse funzioni. A proposito del Fatzerdokument egli afferma: Der Zweck, wofür eine Arbeit gemacht wird, ist nicht mit jenem Zweck identisch, zu dem sie verwertet wird. So ist das Fatzerdokument zunächst hauptsächlich zum Lernen des Schreibenden gemacht. Wird es späterhin zum Lehrgegenstand, so wird durch diesen Gegenstand von den Schülern etwas völlig anderes gelernt, als der Schreibende lernte. Ich, der Schreibende, muß nichts fertigmachen. Es genügt, daß ich mich unterrichte. Ich leite lediglich die Untersuchung und meine Methode dabei ist es, die der Zuschauer untersuchen kann35.
Successivamente Brecht spiega che nel processo di indottrinamento degli apprendisti attori36 occupano un ruolo significativo sia i contenuti, che la forma adottata dall’autore di teatro. Attraverso la forma di scrittura usata vengono infatti stabiliti contemporaneamente la scelta dei pensieri, l’atteggiamento di colui che scrive, così come lo scopo dello scrivere37. La scelta dello stile acquista insomma una posizione decisiva anche nei confronti del ruolo educativo che assume il testo. La forma che, secondo Brecht, aderisce nel modo più efficace ai fini pedagogici, e dunque al Lehrstück, è il Kommentar. Ed è in questo senso che egli afferma: «Zum Fatzerdokument gehört das Fatzerkommentar»38. 35 «Lo scopo per il quale un lavoro viene fatto non è identico a quello per cui esso viene utilizzato. Così il Fatzerdokument all’inizio è fatto principalmente per l’apprendimento di colui che scrive. Successivamente esso viene fatto oggetto di insegnamento, così attraverso questo oggetto viene imparato dagli scolari qualcosa di totalmente diverso da ciò che ha imparato colui che scrive. Io, colui che scrive, non devo terminare nulla. È sufficiente che io istruisca me stesso. Io conduco solo la ricerca e il mio metodo è ciò che l’osservatore può ricercare». Brecht, Fatzer, cit., p. 514 (traduzione nostra). 36 Evidentemente quando nel Fatzer ci sono dei riferimenti agli apprendisti attori essi non significano che Brecht auspicasse una messa in scena del Fatzer. A partire dalla terza fase di lavoro, e cioè dal 1927, egli aveva infatti deciso di non conferire al Fatzer il carattere di Schaustück, per considerarlo invece un terreno di sperimentazione. 37 «Durch die Schreibweise wird die Auswahl der Gedanken, die Haltung des Schreibenden und der Zweck des Schreibens bestimmt!». Cfr. Brecht, Fatzer, cit., p. 514. 38 «Al Fatzerdokument appartiene il Fatzerkommentar». Ibid., p. 515 (traduzione nostra).
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO
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Se il dramma si compone di parti narrative (Dokument) e di parti commentative (Kommentar), è evidente che il processo di apprendimento deve realizzarsi secondo due fasi: la prima volta a comprendere la vicenda narrata, la seconda volta ad interpretare quest’ultima. Gli apprendisti attori devono osservare la recitazione di un artista «esperto» e non limitarsi a prenderla come modello, ma sottoporla a una critica serrata. Ad ogni osservazione deve conseguire una critica e dunque l’apprendimento si realizza attraverso un processo dinamico che continua a crescere modificandosi. Il Kommentar diventa occasione e oggetto di continua rielaborazione, con esso Brecht non formula criteri definitivi, ma affida il pensiero al processo della scrittura attraverso un modello volutamente provvisorio e aperto. Dopo le prime pagine, dedicate all’esplicitazione del ruolo di Fatzerdokument e Fatzerkommentar, Brecht prosegue fornendo al lettore, e dunque agli aspiranti attori, alcuni insegnamenti pratici più o meno evidenti. Nel frammento intitolato Theater, egli introduce la figura del Denkende (il pensatore), centrale nella produzione brechtiana. Essa ritornerà infatti non solo all’interno del Badener Lehrstück vom Einverständnis, ma più in generale dal 1929 per designare il cosiddetto eingreifend Denkende, cioè un’osservazione dialettica della società. Negli stessi anni Brecht elabora inoltre le Geschichten vom Herrn Keuner, una raccolta di piccole storielle esposte sotto la forma di parabole, il cui protagonista, il Signor Keuner, è il Denkende39. La figura del pensatore è descritta nel Fatzer nei seguenti termini: Um seine Gedanken zu ordnen, liest der Denkende ein Buch, das ihm bekannt ist. In der Schreibweise des Buches denkt er40.
39 Ciò è sottolineato esplicitamente nell’apparato critico del Fatzer. Cfr. ibid., p. 1148. Come abbiamo già affermato, il Fatzerkommentar è costituito per buona parte da piccoli frammenti, che Brecht utilizza anche in altri testi. In particolare vi sono molti piccoli brani che egli inserisce nelle Geschichten vom Herrn Keuner e nel Badener Lehrstück vom Einverständnis. 40 «Per ordinare i propri pensieri il pensatore legge un libro che gli è noto. Nella forma di scrittura del libro egli pensa». Ibid., p. 517 (traduzione nostra).
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
Il pensatore è colui che, per ordinare i propri pensieri, legge un libro che gli è noto e si ferma a riflettere sulla forma di scrittura usata. Ciò ripercorre specularmente quello che l’autore aveva affermato precedentemente a proposito degli apprendisti attori. Per un apprendimento più efficace, aveva affermato Brecht, è particolarmente adatto il Kommentar, cioè una forma aperta, che gli stessi apprendisti attori, così come i lettori, possono continuare a meditare e interpretare, aprendo nuovi orizzonti e nuove strade per il Fatzer. L’inserimento da parte di Brecht nel Kommentar di parti di testo, che non rinviano direttamente a ciò che è esposto nel Fatzerdokument, vuole essere un invito al lettore a non limitarsi a ciò che è scritto, ma a diventare lui stesso «pensatore», o come egli dirà poco oltre, «filosofo»41. Così come per il pensatore la riflessione sulla forma di scrittura diventa un modo per riordinare le proprie idee, allo stesso modo l’aspirante attore deve concepire la propria recitazione come modello spirituale e palestra per la vita. Wenn einer am Abend eine Rede zu halten hat, geht er am Morgen in das Pädagogium und redet die drei Reden des Johann Fatzer. Dadurch ordnet er seine Bewegungen, seine Gedanken und seine Wünsche. Weiter: wenn einer am Morgen einen Verrat ausüben will, dann geht er am Morgen in das Pädagogium und spielt die Szene durch, in der ein Verrat ausgeübt wird. Wenn einer abends essen will, dann geht er abends in das Pädagogium und spielt die Szene durch, in der gegessen wird42. 41
In questa prospettiva vanno lette alcune riflessioni che Brecht scrisse nel 1936 a proposito del teatro didattico: «Il petrolio, l’inflazione, la guerra, le lotte sociali, la famiglia, la religione, il grano, il mercato del bestiame diventavano oggetto di rappresentazione teatrale. Mediante cori lo spettatore era istruito in merito a circostanze di fatto a lui ignote. Mediante film si mostravano montaggi di avvenimenti in tutto il mondo. Mediante proiezioni si portavano a conoscenza dati statistici. Erano altrettanti modi di mettere in rilievo i vari ‘sfondi’ e ciò equivaleva ad esporre alla critica l’operato dell’uomo. Venivano mostrati comportamenti sbagliati e giusti, uomini che sapevano quello che facevano e uomini che non lo sapevano. Il teatro divenne accessibile ai filosofi, beninteso a filosofi che si proponessero non solo di spiegare il mondo, ma anche di cambiarlo». B. Brecht, Teatro di divertimento o d’insegnamento?, in Id., Scritti teatrali, cit., p. 64. 42 «Se uno deve tenere un discorso la sera, la mattina va a scuola e pronuncia i tre discorsi di Johann Fatzer. In tal modo mette in ordine i propri movimenti, i propri pensieri e i propri desideri. Ancora: se uno di mattina vuole praticare un tradi-
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO
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A questo scopo Brecht fornisce dei commenti ad alcune scene e tematiche del Fatzer, come ad esempio la scena del possesso (Zum Fatzer Sex-Stück) e la descrizione della morte di Fatzer (Zum Todeskapitel). Essi dovrebbero servire, nelle intenzioni di Brecht, a far proseguire la riflessione degli aspiranti attori sulle tematiche in cui si esercitano sulla scena. Nel processo d’indottrinamento degli attori, Brecht attribuisce una posizione di primo piano alla dottrina marxista. A questo si ricollega ad esempio il frammento che descrive il dialogo tra Masse (massa) e Lehre (insegnamento). Alla domanda su quanti tipi di uomini esistano, la massa risponde che sono due: coloro che dominano e coloro che sono dominati. Brecht ironizza sull’argomento, dicendo che i dominatori tendono a convincere la massa, che si possa abolire la differenza tra i due gruppi senza usare la violenza, e che la violenza sia adoperata solo dalla massa. Ma l’aspetto del Fatzerkommentar più dichiaratamente pedagogico, che avvicina il Fatzer al Lehrstück, risentendo chiaramente delle dottrine marxiste, è senz’altro la Theorie der Pädagogien, in cui Brecht afferma: I filosofi borghesi fanno una grossa differenza fra chi agisce e chi osserva. L’uomo che pensa non fa tale differenza. Se la si fa, si lascia la politica a chi agisce e la filosofia a chi osserva, mentre, in realtà, gli uomini politici devono essere filosofi e i filosofi devono essere politici. Fra vera filosofia e vera politica non esiste alcuna differenza. A questa convinzione l’uomo che pensa fa seguire la proposta di educare i giovani per mezzo della recitazione teatrale, vale a dire, facendone persone che agiscono e che osservano al tempo stesso, come è raccomandato dai precetti degli istituti educativi. Preso isolatamente, il piacere di osservare è dannoso per lo stato, e così pure quello di agire. Recitando, compiendo cioè determinate azioni sottoposte alla loro stessa osservazione, i giovani vengono educati per lo stato. Tali recite devono essere inventate ed eseguite in modo che lo stato ne tragga un utile. Sul valore di una battuta, di un gesto, di un’azione, decide pertanto non la bellezza, ma l’utile che ne trae lo stato quando gli attori recitano quella battuta, fanno quel gesto, compiono quell’azione. Questa utilità per lo stato, le teste ottuse potrebbero tuttavia sminuirla di molto, facendo ad esempio eseguire agli attori solamente azioni, a mento, va la mattina a scuola e recita la scena in cui viene praticato un tradimento. Se uno di sera vuole mangiare, allora va di sera a scuola e recita la scena in cui si mangia». Brecht, Fatzer, cit., p. 517 (traduzione nostra).
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
loro giudizio, sociali. Invece, proprio la rappresentazione dell’asocialità, eseguita da futuri cittadini, è utilissima allo stato, specie se viene effettuata sulla base di modelli appropriati e grandiosi. Per lo stato, il miglior modo di raddrizzare gli impulsi asociali, derivanti dalla paura e dall’ignoranza, è quello di costringere ciascuno a manifestarli in una forma quanto più possibile perfetta e quasi irraggiungibile dal singolo in modo indipendente. Questo è il fondamento dell’idea di praticare la recitazione negli istituti educativi43.
Gli aspiranti attori, così come i filosofi, devono essere persone capaci di riflettere e di agire. La loro attività si esercita sia su un piano teorico, che pratico. In questo modo essi vengono educati per lo Stato, che viceversa deve trarre un utile dalla recitazione degli attori. Per questo essi devono recitare sia azioni virtuose, che azioni riprovevoli. Anzi la messa in scena di queste ultime si rivela di grande vantaggio per lo Stato. Brecht si riferisce in particolare al problema dell’asocialità, di cui la figura di Fatzer è espressione, sostenendo che la messa in scena dell’asocialità è un primo passo verso la «guarigione» della società. Il dramma didattico dunque diventa un modello pedagogico in primo luogo per l’attore, al punto che, a detta di Brecht, «lo spettatore non gli è necessario»44. Esso è basato sulla convinzione che l’attore possa venire influenzato positivamente in ambito sociale e per questo si rivelano di grande utilità sia l’«imitazione di modelli altamente qualificati», sia la «critica esercitata su tali modelli». A ciò si aggiunge il ruolo positivo affidato all’imitazione di atti e atteggiamenti asociali. Per lo stile di recitazione continuano a valere le norme del teatro epico, e dunque gli effetti di straniamento. La condizione indispensabile per la realizzazione di un buon dramma didattico è il fatto che gli aspiranti attori non si sentano «offesi» se qualcuno insegna loro qualcosa45. Per questo alla messa in scena di un dramma didattico possono contribuire solo alcune categorie di persone, coloro che sono in grado di mettersi in discussione. Il 43
Ibid., p. 524. La traduzione italiana è contenuta nella già citata antologia: Brecht, Scritti teatrali III. Note ai drammi e alle regie, cit., p. 72. 44 Brecht, La teoria del dramma didattico, in Id., Scritti teatrali III, cit., p. 73. 45 Cfr. Brecht, Malintesi sul dramma didattico, in Id., Scritti teatrali III, cit., p. 76.
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO
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dramma didattico è inteso come un luogo di formazione per il suo autore e per gli attori che vi prendono parte. La forma del dramma va continuamente adattata agli scopi che ci si prefigge. In questo senso, poiché secondo Brecht non vi è nulla di immutabile, ma tutto è transitorio, e le azioni umane sono l’espressione più piena di tale incompiutezza, è necessario sottoporre i drammi didattici ad una continua trasformazione, donando loro una struttura aperta. A quest’esigenza vuole corrispondere, pur nella sua drasticità, il Fatzer-Fragment, scritto da Brecht zur Selbstverständigung, per comprendere se stesso, a scopo cioè di chiarificazione personale. Nelle note alla regia di Das Badener Lehrstück vom Einverständnis, testo in cui Brecht riprende alcune fondamentali riflessioni che aveva già abbozzato nel Fatzer, viene affermato con chiarezza esemplare lo scopo precipuo che ogni dramma didattico deve avere. Das Lehrstück, gegeben durch einige Theorien musikalischer, dramatischer und politischer Art, die auf eine kollektive Kunstübung hinzielen, ist zur Selbstverständigung der Autoren und derjenigen, die sich dabei tätig beteiligen, gemacht und nicht dazu, irgendwelchen Leuten ein Erlebnis zu sein. Es ist nicht einmal ganz fertig gemacht. Das Publikum würde also, sofern es nicht bei dem Experiment mithilft, nicht die Rolle des Empfangenden, sondern eines schlicht Anwesenden spielen46.
Attraverso la teorizzazione e la messa in pratica del Lehrstück, Brecht tenta di dare una risposta alla domanda: come e che cosa bisogna studiare. Riprendendo un discorso di Lenin pronunciato al Terzo congresso panrusso dell’Unione della gioventù comunista russa il 2 ottobre 1920, egli afferma: 46 «Il Lehrstück, dato da alcune teorie di tipo musicale, drammatico e politico, che rinviano ad un esercizio artistico collettivo, è fatto per l’autocomprensione dell’autore e di coloro che vi partecipano attivamente e non per essere un’esperienza per una persona qualunque. Non è mai finito del tutto. Il pubblico avrebbe dunque, a condizione che non partecipi all’esperimento, non tanto il ruolo del ricevente, ma di uno che è semplicemente presente». B. Brecht, Zu “Das Badener Lehrstück vom Einverständnis, in Große kommentierte Berliner und Frankfurter Ausgabe, Schriften 4. Texte zu Stücken, Band 24, bearbeitet von P. Kraft unter Mitarbeit von M. Conrad, S. Gerund und B. Slupianek, Berlin-Frankfurt a.M. 1991, p. 90 (traduzione nostra).
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
[…] qui si tratta soprattutto del fatto che, contemporaneamente alla trasformazione della vecchia società capitalistica, l’istruzione, l’educazione, la formazione culturale delle nuove generazioni che edificheranno la società comunista non possono esser condotte secondo i vecchi metodi47.
Ecco perché, secondo Brecht, il suo teatro, oltre ad esigere un determinato standard tecnico, presuppone «l’esistenza di un potente moto di vita sociale, che abbia interesse alla libera discussione dei problemi dell’esistenza in vista della loro soluzione, e che tale interesse possa difendere contro tutte le tendenze avverse»48. Risulta assai evidente perché a Berlino il nazismo abbia posto un drastico arresto allo sviluppo di questo teatro. In questo senso la definizione benjaminiana di carattere distruttivo sembra essere la più perfetta e acuta analisi che si potesse dare del drammaturgo tedesco. Anch’egli, come il suo amico Benjamin, era della convinzione che il proprio metodo scientifico si distinguesse da quello dei suoi predecessori, poiché «delineando nuovi oggetti, sviluppa nuovi metodi»49.
1.7 Il Fatzer-Material di Heiner Müller Nella recezione del Fatzer ha rivestito un ruolo di primo piano il drammaturgo Heiner Müller, che, vedendo in tale opera uno «Jahrhunderttext, von der sprachlicher Qualität her, von der Dichte», un testo d’importanza capitale, un «Objekt von Neid» (oggetto di invidia)50, si esercitò durante tutta la sua produzione teatrale, prendendo il Fatzer come «matrice». Molte delle sue opere possono essere considerate commenti a margine del Fatzer. In particolare, è interessante ricordare che, oltre alle cinquecento pagine di frammenti brechtiani dedicati al Fatzer-Fragment, vi è una vera e propria versione mülleriana del Fatzer, consistente in un montage selettivo, in cui Müller propone un testo rappresenta47
Brecht, Nota alla Linea di condotta, in Id., Scritti teatrali III, cit., p. 83. Brecht, Teatro di divertimento o d’insegnamento?, in Id. Scritti teatrali, cit., p. 70. 49 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 9, 2], p. 530. 50 H. Müller, Fatzer-Material 1978, in B. Brecht, Der Untergang des Egoisten Fatzer, Bühnenfassung von Heiner Müller, Frankfurt a.M. 1994, p. 7. 48
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO
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bile in teatro51. Esso viene messo in scena per la prima volta nel 1978 ad Amburgo insieme al Prinz von Homburg di H. v. Kleist, con la regia di M. Langhoff e M. Karge52. Di Müller sono rintracciabili, oltre alle opere teatrali e ad alcuni scritti teorici, un’interessante autobiografia53 e una serie di brevi interviste, dalle quali emerge a chiare lettere il suo rapporto con il Fatzer. Interrogato sul suo interesse nei confronti della vicenda narrata nel Fatzer, egli afferma che, per costruire un confronto produttivo con la figura di Brecht, si rivelano di particolare importanza i testi degli anni Venti, che mostrano un riferimento preciso alle lotte di classe sviluppatesi in quegli anni in Germania. Inoltre essi manifestano un’attenzione genuina per il marxismo, che non era ancora stato condizionato da alcun influsso esterno. Resta comunque che il maggiore interesse che il Fatzer ha esercitato su Müller è legato alla forma di scrittura in esso utilizzata. Il fatto di essersi accorto di non poter compiere un’opera integrale ha offerto delle enormi possibilità di sperimentazione a Brecht, permettendogli di realizzare la sua opera più interessante (das 51 Nella «komprimierte Version» di H. Müller, riportata da J. Wilke nel suo libro Brechts “Fatzer”-Fragment la fabula è la seguente: «Vier Leute desertieren aus dem ersten Weltkrieg, weil sie glauben, die Revolution kommt bald, verstecken sich in der Wohnung des einen, warten auf die Revolution, und die kommt nicht. Da es keine besseren, keine expansiven Möglichkeiten gibt für ihre angestauten revolutionären Bedürfnisse, radikalisieren sie sich gegenseitig und negieren sie gegenseitig». (Quattro persone disertano dalla prima guerra mondiale, perché credono che la rivoluzione arrivi presto, si nascondono nell’appartamento di uno di loro, aspettano la rivoluzione, ed essa non arriva. Poiché non c’è alcuna possibilità migliore di espansione per i loro desideri rivoluzionari troncati, si radicalizzano reciprocamente e si contestano reciprocamente) (traduzione nostra). 52 Ciò che affascinava maggiormente Müller del Fatzer era il suo carattere frammentario, in cui egli riconosceva lo standard tecnico più alto del kaputten Theater. Per questo, nel rimaneggiare il testo attraverso un montage selettivo, egli costruì molti blocchi di testo (Textblocken), che permisero al frammento di divenire rappresentabile. Il frammento apre molti più punti di vista del pezzo concluso, poiché in esso risultano maggiormente evidenti gli sforzi e le difficoltà che animarono l’autore. Cfr. W. Mittenzwei, “Fatzer” oder die Möglichkeiten des Theaters im Umgang mit einem Fragment. Bertolt Brechts “Untergang des Egoisten Fatzer” in der Fassung von Heiner Müller im Berliner Ensamble, «Theaterarbeit in der DDR», 15 (1987). 53 Cfr. H. Müller, Krieg ohne Schlacht. Leben in zwei Diktaturen. Eine Autobiographie, in Werke 9, a cura di F. Hörnigk, Frankfurt a.M. 2005.
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Interessanteste von Brecht). Così come anche Müller sembra inserire il Fatzer in una fase di transizione all’interno del percorso drammaturgico di Brecht, tale testo ha esercitato su di lui una tale importanza, da poter determinare un decisivo momento di passaggio anche all’interno della produzione mülleriana. FATZER war für mich wichtig, um eine Phase abschließen zu können, sie wirklich wegräumen zu können. Jetzt stehe ich vor dem Nichts und muß etwas Neues finden. […] Es gilt, eine neue Dramaturgie zu entwickeln54.
Si potrebbe affermare che il confronto di Müller con il Fatzer lo ha reso un vero e proprio carattere distruttivo, nel senso che, dopo l’incontro con tale testo, è iniziata una fase di transizione all’interno della produzione mülleriana verso un «nuovo» che non è ancora iniziato. Ciò lo ha portato ad affermare di dover riuscire a sviluppare una nuova drammaturgia per poter proseguire nel suo lavoro. Nello stesso anno dell’intervista precedente egli sembra istituire un rapporto tra la vicenda narrata nel Fatzer e il problema del terrorismo55. Ma ancora una volta il drammaturgo torna a riflettere sulla forma utilizzata nel Fatzer, che lo rende un weitwirkendes Stück, un’opera destinata ad avere un forte influsso sul teatro successivo. Müller istituisce un confronto tra i pezzi «classici» di Brecht, soprattutto le parabole, e il Fatzer. A differenza dei primi, dalla struttura chiusa, che riflette la loro chiusura nei confronti della realtà esterna, il Fatzer manifesta il suo carattere rivoluzionario, proprio grazie alla sua struttura frammentaria e discontinua, la cui forza è data dalla compenetrazione tra piani diversi (parti nar54 «Il Fatzer era importante per me per poter concludere una fase, per poterla davvero rimuovere. Adesso sto davanti al Nulla e devo trovare qualcosa di nuovo. Si tratta di sviluppare una nuova drammaturgia». H. Müller, Es gilt eine neue Dramaturgie zu entwickeln. Ein Gespräch mit W. Kässens und M. Töteberg über Terrorismus und Nibelungentreue sowie das Fatzer-Fragment (1978), in Id., Gesammelte Irrtürmer Interviews und Gespräche, Frankfurt a.M. 1986, p. 54 (traduzione nostra). 55 H. Müller, K. Kässens, M. Töteberg, Brecht und die Terroristen. DASDA-Interview mit dem DDR-Dramatiker Heiner Müller anläßlich der Urauffürung des BrechtFragments “Fatzer” im Hamburger Schauspielhaus, «DASDA-Avanti. Das Monatsmagazin für Kultur und Politik», 4 (1978), pp. 32-34.
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1. BERTOLT BRECHT CARATTERE DISTRUTTIVO
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rative, parti commentative), che non sono da considerare come blocchi distinti, ma come formanti un tutto unico. In questo senso egli afferma: «Die Kontinuität schafft die Zerstörung»56, la continuità provoca la distruzione. Egli insiste nel sottolineneare la necessità di considerare il metodo di lavoro (Arbeitsmethode) di Brecht, oltre ai risultati (Arbeitsresultate) da lui raggiunti. Se Brecht è diventato un autore studiato anche nelle scuole, ciò è dovuto in gran parte ai risultati che ha raggiunto, che sono divenuti una sorta di canone. Non si è invece dato il giusto rilievo al metodo brechtiano. A chi domanda a Müller se abbia seguito le orme di Brecht, egli risponde con sicurezza che non si è trattato di imitare il lavoro svolto dal «maestro», ma che era impossibile non sentirne l’influenza, poiché Brecht è stato un vero e proprio carattere distruttivo, determinando una cesura netta con il passato. Vieles ist nicht mehr möglich nach Brecht oder nur anders möglich. Der Blick auf die gesamte deutsche Literatur hat sich verändert und damit der Umgang mit ihr57.
Il Fatzer doveva rimanere, secondo Müller, frammento, perché, se Brecht lo avesse concluso, non avrebbe potuto sperimen56 Müller cita una frase di Brecht pronunciata in un’intervista televisiva al Neuer Deutscher Rundfunk negli anni 1948-49: “Das Weitermachen schafft die Zerstörung, die Kontinuität schafft die Zerstörung. Die Keller sind noch nicht ausgeräumt, und schon werden Häuser drauf gebaut. Man hat sich nie Zeit genommen, die Keller auszuräumen, weil immer neue Häuser über denselben Kellern stehen». (Andare avanti provoca la distruzione, la continuità provoca la distruzione. Le cantine non sono ancora state messe in ordine e già ci vengono costruite sopra case. Non ci si è mai presi il tempo di mettere le cantine a posto perché sopra le stesse cantine stanno sempre nuove case). H. Müller, Man muß nach der Methode fragen, «Notate. Informations- und Mitteilungsblatt des Brecht Zentrums der DDR», 6 (1983), p. 5 (traduzione nostra). Ciò significa, secondo Müller, che in Germania nessun periodo storico è stato vissuto fino in fondo e dunque superato. Si è sempre cercato di andare avanti edificando ogni volta sulle macerie prodotte dalle catastrofi della storia tedesca. Tale visione ci sembra ricordare la concezione benjaminiana della catastrofe. In questo senso ci sembra di poter affermare, supportati in questo da una conversazione avuta nell’ottobre del 2005 con il Dr. E. Wizisla, che Müller legge Brecht attraverso gli occhiali di Benjamin. 57 «Molto non è più possibile dopo Brecht o è possibile solo in un modo diverso. Lo sguardo sull’intera letteratura tedesca è mutato e con ciò la relazione con essa». Ibid., p. 3 (traduzione nostra).
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tare, e dunque la sua produzione si sarebbe arrestata. Esso è «das beste, was in diesem Jahrhundert geschrieben worden ist für die Bühne und das beste von Brecht. Diese Höhe hat er nie wieder erreicht»58. Attraverso il Fatzer Brecht rappresenta in modo esemplare la fase di transizione che a livello storico si stava realizzando in quegli anni59. Vogliamo concludere questa breve ma necessaria incursione nel laboratorio di H. Müller con un’ultima citazione, che costituisce il più bel commento che egli abbia mai fatto al Fatzer. Esso è contenuto nel saggio Fatzer ± Keuner: Ein inkommensurables Produkt, geschrieben zur Selbstverständigung. Der Text ist prä-ideologisch, die Sprache formuliert nicht Denkresultate, sondern skandiert den Denkprozeß. Er hat die Autentizität des ersten Blicks auf ein Unbekanntes, den Schrecken der ersten Erscheinung des Neuen. Der Schreibgestus ist der des Forschers, nicht des Gelehrten, der Forschungsergebnisse interpretiert, oder des Lehrer, der sie weitergibt. Mit den Topoi des Egoisten, des Massenmenschen, des neuen Tiers kommen unter dem dialektischen Muster der marxistischen Terminologie Bewegungsgesetze in Sicht, die in der jüngsten Geschichte dieses Muster perforiert haben. Brecht gehört am wenigsten in diesem Text zu den Marxisten, die der letzte Angsttraum von Marx gewesen sind. Mit der Einführung der Keunerfigur (Verwandlung Kaumann/Koch in Keuner) beginnt der Entwurf zur Moralität auszutrocknen. Der Schatten der Leninschen Parteidisziplin, Keuner der Kleinbürger im Mao-Look, die Rechenmaschine der Revolution. Fatzer als Materialschlacht Brecht gegen Brecht Nietzsche gegen Marx Marx gegen Nietzsche. Brecht überlebt sie, indem er sich herausschießt, Brecht gegen Brecht mit dem schweren Geschützt des MarxismusLeninismus. [...] Brecht ein Autor ohne Gegenwart, ein Werk zwischen Vergangenheit und Zukunft. Ich zögre, das kritisch zu meinen: die Gegenwart ist die Zeit der Industrienationen, die kommende Geschichte wird von ihnen nicht allein gemacht; ob sie zu fürchten ist, wird von ihrer Politik abhängen. [...] Brecht gebrauchen, ohne ihn zu kritisieren, ist Verrat60. 58 Il Fatzer è «la cosa migliore che sia stata scritta in questo secolo per il teatro e la cosa migliore di Brecht. Questa altezza egli non l’ha più raggiunta». Ibid., p. 4 (traduzione nostra). 59 «Wichtig ist an Brecht, daß er zwischen zwei Epochen vermittelt mit seinen Texten. Er ist Repräsentant dieses Übergangs». (È importante in Brecht che egli fa da mediatore tra due epoche con i suoi testi. Egli rappresenta questa transizione) ibid. (traduzione nostra). 60 «Un prodotto incommensurabile, scritto a scopo di chiarificazione personale. Il testo è pre-ideologico, la lingua non formula risultati di pensiero, ma invece scandisce
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1.8 Il Benjamin-Kommentar Nel già citato saggio Aus dem Brecht-Kommentar Benjamin afferma a proposito di Brecht: I Versuche […] sono punti di applicazione del suo talento. La loro novità consiste nel fatto che questi punti risaltano in tutta la loro importanza, per essi il poeta si congeda dalla sua «opera», e, come un ingegnere nel deserto comincia a scavare pozzi di petrolio, così nel deserto del presente egli inizia la sua attività in determinati punti esattamente calcolati. […] «La pubblicazione dei Versuche – esordisce l’autore – ha luogo in un momento in cui certi lavori non devono più essere tanto esperienze vissute individuali (avere carattere di opera), quanto piuttosto essere diretti all’utilizzazione (trasformazione) di determinati istituti e istituzioni». Non si proclama un rinnovamento; si progettano innovazioni. Qui la poesia non si aspetta più nulla da un sentimento dell’autore che non sia unito con la spassionatezza, la sobrietà, nella volontà di trasformare questo mondo. Sa che l’unica possibilità che le resta è di diventare sottoprodotto in un complicatissimo processo volto alla trasformazione del mondo. Qui essa è tale sottoprodotto, e di valore inestimabile. Ma il prodotto principale è un nuovo comportamento. Dice Lichtenberg: «Non è importante quello di cui uno è convinto. Importante è ciò che le sue convinzioni fanno di lui». E cioè, per Brecht, il comportamento. Esso è nuovo, e la sua maggiore novità consiste nel fatto che può essere appreso61. il processo del pensiero. Esso ha l’autenticità del primo sguardo su un qualcosa di ignoto, lo spavento della prima apparizione del nuovo. Il gesto di scrittura è quello del ricercatore, non dell’erudito, che interpreta i risultati della ricerca, o dell’insegnante che li trasmette (ad altri). Con i topoi dell’egoista, dell’uomo-massa, del nuovo animale, diventano visibili, sotto il modello dialettico della terminologia marxista, leggi di movimento, che nella storia passata hanno perforato questo modello. Brecht appartiene il meno possibile in questo testo ai marxisti, che sono stati l’ultimo incubo di Marx. Con l’introduzione della figura di Keuner (trasformazione di Kaumann/Koch in Keuner) inizia a prosciugarsi il progetto di moralità. L’ombra della disciplina di partito leninista, Keuner, il piccolo borghese dal look maoista, il calcolatore della rivoluzione. Fatzer come battaglia di materiali, Brecht contro Brecht, Nietzsche contro Marx, Marx contro Nietzsche. Brecht sopravvive a loro intanto che abbatte se stesso, Brecht contro Brecht con i mezzi violenti del marxismo-leninismo. […] Brecht, un autore senza presente, un’opera tra passato e futuro. Io esito a considerarlo criticamente: il presente è il tempo dei paesi industrializzati, la storia che verrà non verrà fatta da loro soli; se essa è da temere, dipenderà dalla loro politica. […] Utilizzare Brecht senza criticarlo è un tradimento”. H. Müller, Fatzer ± Keuner, in R. Grimm e J. Hermand (a cura di), Brecht Jahrbuch 1980, Frankfurt a. M. 1981, p. 20 (traduzione nostra). 61 Benjamin, Dal commentario brechtiano, in Avanguardia e rivoluzione, cit., pp. 176 sgg.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
All’interno della produzione brechtiana Benjamin attribuisce un valore particolare ai Versuche. Già dal titolo è esplicitato il carattere volutamente sperimentale di tale raccolta, nella quale è contenuta la quinta Arbeitsphase del Fatzer. Benjamin insiste in più luoghi sull’importanza dei Versuche nell’economia dell’opera brechtiana, tanto che nella conferenza radiofonica Bert Brecht (1930), in cui egli riprende una parte del saggio Aus dem Brecht Kommentar, inizia la sua analisi della figura di Brecht proprio a partire da tale testo. I Versuche sono, a detta di Benjamin, «punti di applicazione del talento brechtiano», nei quali emerge con chiara evidenza la pregnanza della prosa del drammaturgo. Ciò si manifesta con maggiore chiarezza rispetto agli altri testi brechtiani, proprio per il carattere frammentario e discontinuo con il quale Brecht espone le proprie idee. Essi hanno lo scopo di trasformare determinate istituzioni, divenendo un «prodotto secondario in un processo assai ramificato, teso alla trasformazione del mondo». Ciò deve avvenire attraverso l’introduzione di un nuovo e rivoluzionario modo di procedere, a cui Brecht e Benjamin danno il nome di «citazione»62. 62 Desideri istituisce un esplicito parallelismo tra la pratica teatrale di Brecht e il fare storia di Benjamin. Per entrambi gioca un ruolo decisivo il concetto di citazione, unito a quelli di distruzione e costruzione (Cfr. F. Desideri, Walter Benjamin il tempo e le forme, Roma 1980, pp. 215 sgg.). Se il teatro epico, attraverso l’interruzione delle azioni e il loro emergere come frammenti significativi di una totalità, rende quest’ultima intelligibile a uno spettatore critico e distaccato, allo stesso modo per Benjamin interrompere il continuum temporale produce un oggetto storico, la monade, in rapporto dialettico con il presente. Come nelle tesi Sul concetto di storia Benjamin affida al presente il compito di definire e redimere il passato, allo stesso modo il teatro epico è «un gesto presente» eseguito dall’uomo contemporaneo, che diventa il filtro che permette a un evento storico divenir rappresentato. Il teatro di Brecht scopre la benjaminiana Dialektik im Stillstand: la dialettica non è lo svolgersi di un processo, ma la capacità di interromperlo, mostrando come in ogni istante pulsino delle tensioni in grado di trasformare il corso degli eventi. Sul rapporto tra Benjamin e Brecht e la loro formulazione di una «scienza materialista» della letteratura cfr. F. Masini, Brecht e Benjamin. Scienza della letteratura e ermeneutica materialista, Bari 1977. La pratica della citazione è menzionata da Brecht in un brano intitolato Originalità: «Il filosofo cinese Ciuang-ze, ancora nel vigore degli anni, scrisse un libro di centomila parole formato per nove decimi da citazioni. Da noi tali libri non possono essere scritti giacché manca l’ingegno. Ne viene di conseguenza che si preparano i pensieri solo nel proprio laboratorio, perché chi non ne produce abbastanza ha l’impressione di essere pigro». B. Brecht, Le storielle del signor Keuner, in Dialoghi di profughi, a cura di C. Cases, Torino 1978, p. 127. All’ammirazione per la citazio-
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«Poter essere appreso» significa che i gesti riprodotti dai protagonisti delle opere brechtiane diventano citabili. E con essi le loro parole, che devono essere in un primo tempo «notate», e poi «capite». «Esse hanno dapprima il loro effetto pedagogico, poi quello politico, e solo da ultimo quello poetico»63. Mostrare questa progressione è lo scopo del commentario che Benjamin offre al lettore del cosiddetto Fatzer komm, una parte lirica appartenente al Fatzerdokument, situata appena prima del Fatzerkommentar. In queste poche pagine Benjamin si propone di offrire un vero e proprio commento testuale, che procede insinuandosi tra le righe brechtiane, costruendo un altro testo nel testo. Si tratta di una sorta di tentativo esemplificatore di ciò che deve essere un commento. Ciò si rivela particolarmente interessante, poiché attraverso questa forma Benjamin sembra allinearsi perfettamente allo scopo che l’amico Brecht aveva assegnato al proprio testo: sottoporre il Fatzer al vaglio della critica dei suoi successori, per sviluppare nuove forme di concepire il teatro. Se è ormai dato per assodato che gli autori che divengono dei «classici» – anche se probabilmente Brecht sarebbe rabbrividito all’idea di essere definito tale – determinano una vera e propria catena di riflessioni di carattere ermeneutico da parte delle generazioni successive, ciò è ancora più evidente nel caso del Fatzer, poiché era implicito nella struttura stessa di tale testo. Le pagine di Benjamin si strutturano sotto forma di un commento al commento. In questo senso paradossalmente il Kommentar brechtiano viene trattato come documento (Dokument), cioè come testo da analizzare. Sul ruolo del commento nei confronti dell’Ur-text Benjamin si concentra in un altro scritto, dedicato anch’esso ad una lettura di ne Brecht connette quella per le copie: «Dobbiamo liberarci dall’abitudine di disprezzare le copie. Copiare non equivale al “minimo sforzo”, non è una vergogna, è un’arte. O, per meglio dire, bisogna farne un’arte. Proprio perché così si eviterà di cadere nello stereotipo e nel congelato. Se in proposito la mia esperienza può avere qualche interesse, posso ricordare che io stesso, nella mia carriera di autore teatrale ho copiato testi giapponesi, greci, elisabettiani, mentre come regista ho copiato gli adattamenti del comico teatrale Karl Valentin e i bozzetti scenici di Caspar Neher; e con tutto ciò non ho mai avuto la sensazione che la mia libertà fosse limitata. [I modelli] per essere imitati devono essere imitabili. L’inimitabile e l’esemplare sono due concetti da tenere distinti». B. Brecht, Come valersi non servilmente di un modello di regia. Prefazione al modello per l’Antigone 1948, in Id., Scritti teatrali, a cura di E. Castellani, Torino 1975, pp. 198 sgg. 63 Benjamin, Dal commentario brechtiano, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 177.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
Brecht e più in particolare di alcune sue poesie64. Le riflessioni benjaminiane si avviano sulla scia di una considerazione: la difficoltà per il lettore contemporaneo di accostarsi alla lirica. Il commento si distacca, secondo Benjamin, da ogni intento valutativo, strutturandosi come traduzione (Übersetzung) del contenuto di verità espresso dal testo originale. In questo senso, così come le traduzioni possono salvare il testo dall’oblio, trasmettendolo alle epoche successive, anche il commento contribuisce a tale processo. Se qualcosa può incoraggiare a compiere questo tentativo, si tratta della consapevolezza, alla quale anche altrimenti va attinto al giorno d’oggi il coraggio della disperazione: la consapevolezza cioè del fatto che già il giorno a venire potrebbe recare distruzioni di una portata così gigantesca che noi ci vediamo separati dai testi e dai prodotti di ieri come da secoli. (Il commento, che oggi può ancora presentarsi come un abito troppo teso e aderente, domani mostrerà già tutte le sue pieghe classiche. Là dove la sua precisione potrebbe risultare quasi indecente, domani potrebbe ristabilirsi il mistero)65.
Attraverso il proprio commento all’opera di Brecht, Benjamin ha aperto la strada ad una forma d’interpretazione, che, agendo entro le maglie del testo e fornendone una versione interlineare, sembra corrispondere perfettamente al gesto auspicato dall’amico Brecht. Interrogato poco prima della sua morte sul «Theater der Zukunft», il drammaturgo tedesco aveva affermato che esso dovrà avere la forma del Fatzer66. Tale affermazione potrebbe sembrare in un primo momento paradossale, data la struttura non drammaturgica di tale opera, ma apre invece lo sguardo ad una forma di pensiero assai stimolante e suggestiva. Si tratta di quella stessa modalità di pensiero che Benjamin attribuiva a Brecht, definendolo destruktiver Charakter, allineando in questo modo il teatro brechtiano alla massima, contenuta nel PassagenWerk, «Die Konstruktion setzt die Destruktion voraus»67. 64 Cfr. W. Benjamin, Commenti ad alcune liriche di Brecht, in Id., L’opera d’arte, cit., pp. 137-161. 65 Ibid., pp. 139 sgg. 66 Cfr. S. Wackwitz, Der apokryphe Brecht. Fatzer und das Theater der Zukunft: was aus dem Stückschreiber (noch) alles hätte werden können. Eine persönliche Bilanz und ein Gespräch, «Frankfurter Rundschau», 33 (1988). 67 Benjamin, GS V/I, p. 587.
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2. Albert Einstein e la rivoluzione della fisica moderna
Nel 1905 Einstein aveva solo ventisei anni ed era impiegato all’Ufficio Brevetti di Berna. Nel breve periodo compreso tra il 17 marzo e il 30 giugno di quell’anno egli inviò agli Annalen der Physik, la più famosa ed autorevole rivista di fisica dell’epoca, tre lavori fondamentali, che avrebbero modificato profondamente la nostra comprensione del mondo. Difficilmente nella storia della scienza si può trovare una successione così impressionante di contributi originali e innovativi, che hanno mostrato la creatività dell’ingegno umano. Quel breve intervallo di tempo può essere considerato il periodo di transizione dalla fisica classica alla fisica moderna, poiché in esso sono stati modificati radicalmente i concetti base della fisica, determinando degli sviluppi interessanti anche in ambito filosofico. La visione di Einstein ha infatti trasformato in modo decisivo la concezione di spazio e di tempo che aveva dominato fino ad allora. Ma veniamo ora ai tre lavori sopra citati. Il primo riguarda l’effetto fotoelettrico e il concetto di fotone1. Il secondo tratta della teoria del moto browniano2, il terzo espone la teoria della relatività ristretta3. Anche se affrontano argomenti assai diversi, i tre lavori hanno molto in comune quanto al metodo e al tipo di problematica: si tratta di questioni che a quell’epoca erano assai controverse e che 1 A. Einstein, Über einen die Erzeugung und Verwandlung des Lichtes betreffenden heuristischen Gesichtspunkt, «Annalen der Physik» (Leipzig), 17 (1905), pp. 132-148. 2 A. Einstein, Über die von der molekularkinetischen Theorie der Warme geforderte Bewegung von in ruhenden Flüssigkeiten suspendierten Teilchen, «Annalen der Physik» (Leipzig), 17 (1905), pp. 549-560. 3 A. Einstein, Zur Elektrodinamik bewegter Körper, «Annalen der Physik» (Leipzig), 17 (1905), pp. 891-921.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
i fatti sperimentali non permettevano di interpretare secondo gli schemi classici. Tutti e tre propongono soluzioni semplici, che non richiedono il ricorso a complessi strumenti matematici, ma introducono idee profonde e rivoluzionarie. Essi sono stati pienamente confermati dalle osservazioni sperimentali e sono diventati patrimonio della scienza. Tuttavia ci sono state difficoltà e opposizioni da parte di scienziati di grande rilievo, che hanno osteggiato per anni le teorie einsteiniane. Max Planck (18581947), professore a Berlino dal 1889 al 1926, che aveva introdotto per primo l’idea del quanto di energia nell’emissione e assorbimento della radiazione luminosa4, considerava piuttosto azzardato il lavoro di Einstein sul fotone. Il secondo lavoro sul moto browniano, che si basava sull’ipotesi della struttura atomica e molecolare della materia, cadeva in un’epoca in cui sia l’esistenza degli atomi che l’interpretazione meccanico-statistica della termodinamica di Ludwig Bolzman (1844-1906) non erano accettate dalla comunità dei fisici. La teoria della relatività ristretta era criticata da Henri Poincaré (1854-1912), nonostante egli avesse dato contributi importanti alla comprensione delle stesse problematiche.
2.1 L’effetto fotoelettrico e il concetto di fotone Il 17 marzo 1905 Einstein invia agli Annalen der Physik il primo dei tre lavori, che porta il titolo Über einen die Erzeugung und Verwandlung des Lichtes betreffenden heuristischen Gesichtspunkt (Su un punto di vista euristico riguardante la generazione e la trasformazione della luce). In esso l’autore formula l’ipotesi che la luce, considerata fino ad allora un fenomeno puramente ondulatorio, possa avere anche delle caratteristiche corpuscolari. Facendo riferimento all’idea di Planck, secondo la quale la radiazione viene emessa e assorbita secondo quantità definite (quanti) 4 Per spiegare il comportamento dell’emissione di radiazione dei corpi portati ad alta temperatura Planck introduce l’ipotesi che l’energia irradiata non venga emessa in modo continuo, ma in piccole quantità definite, proporzionali alla frequenza della radiazione stessa. La quantità E = hv – dove h è la costante di Planck – viene chiamata quanto di energia.
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2. ALBERT EINSTEIN E LA RIVOLUZIONE DELLA FISICA MODERNA
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di energia, Einstein assume quest’ultima come una proprietà intrinseca della radiazione stessa e afferma che la luce è composta di particelle5, che verranno in seguito chiamate «fotoni»6. In questo modo egli riesce a spiegare l’effetto fotoelettrico, che fino ad allora nessuno aveva chiarito, poiché a motivarlo non erano adeguate le leggi dell’elettrodinamica classica. Esso consiste nell’emissione di elettroni da superfici metalliche illuminate dalla luce. Ciò che restava fino a quel momento inspiegato era l’esistenza di una soglia critica nella frequenza della luce, al di sotto della quale l’effetto fotoelettrico non si manifestava, anche qualora l’intensità della radiazione fosse molto elevata. Sfruttando l’idea del fotone, Einstein fornisce una spiegazione molto semplice del fenomeno7. L’idea del fotone effettivamente è molto rivoluzionaria8; essa costituirà un elemento essenziale del modello atomico formulato nel 1913 dal fisico danese Niels Bohr (1885-1962) e degli sviluppi successivi della fisica atomica. È inoltre a partire dalla complementarietà dei concetti di onda e di corpuscolo che avrà inizio il grande sviluppo della Meccanica ondulatoria di Erwin Schrödinger (1887-1961) e della Meccanica delle matrici di Werner Heisenberg (1901-1976), che successivamente confluiranno nella Meccanica Quantistica. È interessante notare che gli sviluppi rivoluzionari delle formulazioni einsteiniane andarono ben oltre quello che l’autore stesso poteva immaginare, nonostante egli fosse consapevole dell’originalità del suo lavoro, come è testimoniato da una lettera all’amico Konrad Habicht9. A partire dalla teoria einsteiniana 5 In questo caso particella è da intendersi come quanto di radiazione con massa uguale a zero, velocità uguale a c ed energia E = hv dove h è la costante di Planck e v la frequenza della radiazione. Da questa relazione si capisce che maggiore è la frequenza, maggiore è l’energia del quanto di radiazione. 6 Il termine «fotone» fu coniato nel 1926 dal fisico americano Gilbert Newton Lewis (1875-1946). 7 Ogni elettrone è trattenuto all’interno di un metallo da una forza elettrica; esso può essere liberato soltanto assorbendo una quantità di energia maggiore di una quantità definita e questo è possibile soltanto quando un fotone di frequenza sufficientemente elevata gli fornisce l’energia necessaria. 8 Non va dimenticato che nella motivazione del premio Nobel attribuito ad Einstein nel 1922 si fa esplicito riferimento soltanto al lavoro sull’effetto fotoelettrico. 9 Cfr. M. Klein, A.J. Kox, R. Schulmann (a cura di), The Collected Papers of Albert Einstein, vol. 5, Princeton 1993, p. 31.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
vengono infatti modificati radicalmente i concetti di misura e di interazione tra osservatore e osservabile. Nella misurazione di un oggetto entra come variabile lo stesso osservatore, che può modificare egli stesso il valore della grandezza misurata. A relazioni causali e perfettamente determinabili tra cause ed effetti si sostituisce il cosiddetto Principio di indeterminazione di Heisenberg: le certezze e le determinazioni precise della fisica classica non vengono più considerate tali. L’osservatore si deve ora limitare ad una conoscenza parziale e puramente probabilistica. Einstein non era certo un sostenitore dell’indeterminismo10 e non era dunque convinto che alla fisica fosse preclusa una conoscenza dei fenomeni più precisa di quella che fino ad allora era stata raggiunta. Per questo cercò nel corso della sua vita di costruire una teoria alternativa alla Meccanica Quantistica, nella quale si potesse recuperare il carattere deterministico della fisica classica11. Come è noto, questa linea di ricerca non ebbe successo: tutte le predizioni della Meccanica Quantistica – anche se ritenute paradossali secondo il senso comune – sono state finora verificate e non si è giunti alla formulazione di nessuna teoria alternativa soddisfacente.
10 Il fisico americano D. Brian riporta una frase di Einstein che chiarisce la sua posizione critica contro l’indeterminismo: «Sono un determinista, obbligato ad agire come se il libero arbitrio non esistesse, poiché se desidero vivere in una società civilizzata, devo agire in maniera responsabile. So che filosoficamente un assassino non è responsabile dei suoi delitti, ma preferisco non prendere il the insieme a lui. […] Non ho controllo, primariamente su quelle misteriose ghiandole in cui la natura prepara l’essenza stessa della vita. Henry Ford l’avrà chiamata la sua Voce Interiore, Socrate il suo demone; ogni uomo si spiega a modo suo il fatto che l’arbitrio umano non è libero. […] Ogni cosa è determinata, il principio come la fine, da forze su cui non abbiamo alcun controllo. È determinata per l’insetto quanto per la stella. Esseri umani, vegetali o polveri cosmiche, tutti danziamo a un ritmo misterioso, intonato a distanza da un suonatore invisibile». D. Brian, Einstein: A Life, New York 1996, p. 185 (traduzione nostra). 11 Nella biografia di Einstein scritta da A. Folsing viene riportata una frase molto significativa sul punto di vista einsteiniano nei confronti della Meccanica Quantistica: «La meccanica quantistica merita un grande rispetto. Ma una voce dentro di me mi dice che non rappresenta il vero Giacobbe. La teoria offre molto, ma non ci porta più vicini ai segreti del Vecchio. Dal canto mio, almeno sono convinto che Egli non giochi a dadi». A. Folsing, Albert Einstein, New York 1997, p. 585.
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2. ALBERT EINSTEIN E LA RIVOLUZIONE DELLA FISICA MODERNA
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2.2 La teoria del moto browniano Il secondo lavoro, Über die von der molekularkinetischen Theorie der Warme geforderte Bewegung von in ruhenden Flüssigkeiten suspendierten Teilchen (Sul moto di particelle in sospensione in un fluido in quiete come previsto dalla teoria cinetica del calore) inviato alla stessa rivista l’11 maggio, riguarda il moto browniano, cioè il moto disordinato di piccole particelle sospese in liquidi stazionari. Il moto browniano era stato analizzato da un botanico scozzese, l’abate Robert Brown (1777-1858), che nel 1828 pubblicò una dettagliata relazione delle sue osservazioni12, in cui escludeva che il moto fosse causato da microrganismi. Esso si manifestava infatti con qualsiasi tipo di particella in sospensione, anche inorganica, come la fuliggine, e non solo con le particelle organiche, come i granelli di polline, che Brown aveva osservato per primo. Le osservazioni di Brown rimasero ignorate per un lungo periodo. Sarà Einstein a capirne l’importanza, mostrando come il moto browniano permetta di combinare due grandi teorie della fisica dell’Ottocento: la termodinamica e la teoria cinetica dei gas. Mentre la termodinamica studia le proprietà generali dei gas, considerandoli come fluidi continui e quindi ignorando la loro struttura microscopica, la teoria cinetica assume che i fluidi siano costituiti da un numero estremamente elevato di particelle distinte – atomi e molecole – in moto disordinato e ne studia le proprietà statistiche. L’intuizione che i gas siano composti da particelle distinte risale almeno al secolo XVIII, ma, nonostante i grandi sviluppi della chimica nel secolo successivo, la teoria cinetica dei gas veniva considerata un artificio matematico e non una teoria realistica. Einstein combina la teoria cinetica dei gas con la termodinamica e interpreta il moto browniano delle particelle in sospensione come causato dagli urti delle molecole del liquido in cui esse si muovono. L’elaborazione teorica e gli esperimenti proposti da Einstein ribadiscono in modo definitivo e inequivocabile la strut12
Cfr. R. Brown, A brief account of microscopical observations made in the months of June, July and August 1827 on the particles contained in the pollen of plants and on the general existence of active molecules of organic and inorganic bodies, «Edinbourgh New Philosophical Journal», 1828, pp. 358-371.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
tura atomica della materia e dimostrano l’esistenza degli atomi. In un commento autobiografico ai suoi contributi in questo settore della fisica Einstein scrive: Il mio scopo precipuo era di trovare i fatti che confermassero, per quanto era possibile, l’esistenza di atomi di determinate dimensioni finite13.
I risultati raggiunti da Einstein verranno confermati tre anni dopo da Jean Perrin14. Il lavoro di Einstein innesca una vera e propria rivoluzione nella meccanica statistica, in cui le proprietà macroscopiche dei corpi materiali vengono ricavate in base all’ipotesi della loro costituzione atomica e molecolare. Le applicazioni di questa teoria vengono estese a campi tradizionalmente estranei all’indagine fisica. Per fare qualche esempio, la teoria del moto browniano è impiegata in biologia per spiegare il funzionamento dei motori molecolari e il trasporto chimico cellulare, in ingegneria dei trasporti per simulare i flussi del traffico nelle autostrade, in economia per fare modelli sui corsi azionari dei mercati finanziari.
2.3 I concetti di spazio e di tempo prima della rivoluzione einsteiniana Prima di analizzare il contenuto del terzo lavoro del 1905 sulla teoria della relatività ristretta, che ha modificato radicalmente i concetti di spazio e di tempo fino ad allora dominanti nella cultura scientifica e filosofica, sembra opportuno offrire una breve introduzione sulla situazione che precede la rivoluzione einsteiniana. Prima di essa la fisica era basata sulle formulazioni di Isaac Newton (1643-1727), contenute nel suo trattato Philosophiae Naturalis Principia Mathematica. Facciamo ora un ulteriore passo indietro, per cercare di chiarire come Newton sia arrivato a sostenere l’ipotesi di spazio e tempo assoluti15. 13 A. Einstein, Nota, in P. Schlipp (a cura di), Albert Einstein: Philosopher-Scientist, New York 1949, p. 46. 14 Cfr. J. Perrin, Les Atomes, Paris 1991. 15 Una dettagliata analisi dei concetti di spazio e tempo è contenuta in: J. Stachel,
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2. ALBERT EINSTEIN E LA RIVOLUZIONE DELLA FISICA MODERNA
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Quanto al concetto di spazio, in generale se ne possono dare due diverse definizioni: spazio inteso come contenitore di tutti gli oggetti materiali, e spazio come collezione di tutte le relazioni tra gli oggetti. La prima definizione corrisponde all’idea di spazio assoluto, che esiste indipendentemente dalla presenza di oggetti materiali; ciò comporta l’esistenza del vuoto e il fatto che gli oggetti materiali possano essere concepiti solo come immersi nello spazio. La seconda definizione corrisponde a uno spazio relazionale: non esiste lo spazio vuoto in quanto lo spazio non è concepibile senza oggetti materiali. È interessante notare che queste due concezioni erano presenti già nel pensiero greco antico: l’idea di spazio assoluto si ritrova infatti in Democrito e negli atomisti, che concepiscono l’esistenza del vuoto nel quale si muovono gli atomi di cui sono costituiti tutti gli oggetti materiali; per Aristotele invece il vuoto non può esistere e lo spazio è semplicemente un nome per descrivere le relazioni tra gli oggetti materiali (spazio relazionale). Come noto, trionferà l’aristotelismo, imponendosi per circa due millenni nella filosofia occidentale. L’idea di spazio assoluto, implicita in Galileo Galilei (1564-1642), viene adottata da Newton, mentre tra il XVII e il XVIII secolo riemerge il conflitto tra le due diverse concezioni di spazio. In Francia domina con Cartesio la concezione di spazio relazionale, mentre in Inghilterra domina la concezione newtoniana di spazio assoluto. Questa situazione viene descritta in modo umoristico, ma incisivo da Voltaire nelle Lettres philosophiques: Un francese, che arriva a Londra, troverà la filosofia, come qualunque altra cosa, completamente diversa. Ha lasciato il mondo come un plenum, ed ora si troverà in un vacuum16.
Ma torniamo a Isaac Newton. Nei Principia egli scrive:
Development of the concepts of space, time and space-time from Newton to Einstein, in A. Ashtekar (a cura di), 100 Years of Relativity. Space-Time structure: Einstein and beyond, Singapore 2005, pp. 3-36. 16 Voltaire, Lettres philosophiques, ou Lettres anglaises avec le texte complet des remarques sur les Pensees de Pascal, Paris 1964.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
Lo spazio assoluto, nella sua stessa natura, senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre uguale ed immobile; lo spazio relativo è una dimensione mobile o misura dello spazio assoluto, che i nostri sensi definiscono in relazione alla sua posizione rispetto ai corpi, ed è comunemente preso al posto dello spazio immobile17.
Prendiamo ora in esame il concetto di tempo. Anche in questo caso si possono dare due definizioni diverse: tempo assoluto, che scorre uniformemente senza relazione con nulla di esterno, e tempo «relazionale» (o tempo relativo), inteso come ordinamento nella successione degli eventi. Mentre secondo la prima definizione il tempo ha un’esistenza in sé, per la seconda non si può concepire il tempo in assenza di eventi materiali. Secondo le parole di Newton: Il tempo assoluto, vero e matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente, e con altro nome è chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare è una misura (esatta o inesatta), sensibile ed esterna della durata per mezzo del moto, che comunemente viene impiegata al posto del vero tempo: tali sono l’ora, il giorno, il mese, l’anno18.
Nella prospettiva del tempo relativo bisogna distinguere tra due situazioni diverse: il tempo relativo ad una successione di eventi che accadono nello stesso luogo, e il tempo che collega eventi che accadono in luoghi diversi. Per confrontare tempi relativi ad eventi spazialmente lontani, è necessario introdurre il concetto di simultaneità. Risulta però problematico determinare se due eventi che accadono in luoghi lontani tra loro siano o meno simultanei. Il problema non sussiste nella fisica di Newton, poiché si assume l’esistenza del tempo assoluto, che scorre ovunque in modo uniforme. Quando si considera il moto, cioè la variazione della posizione spaziale nel tempo, si presenta inoltre un problema operazionale relativo allo spazio assoluto. Non esiste alcuna prescrizione che ci permetta di decidere se un corpo è a riposo oppure se si trova in moto rettilineo uniforme rispetto ad un ipotetico spazio assoluto. Lo stesso Newton era consapevole di questo problema: 17 I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, a cura di A. Pala, Torino 1965, p. 102. 18 Ibid., p. 101.
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2. ALBERT EINSTEIN E LA RIVOLUZIONE DELLA FISICA MODERNA
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è difficilissimo in verità conoscere i veri moti dei singoli corpi e distinguerli di fatto dagli apparenti; e ciò perché le parti dello spazio immobile, in cui i corpi veramente si muovono, non cadono sotto i nostri sensi19.
In effetti, le leggi della meccanica di Newton non ci permettono di distinguere, per mezzo di esperimenti meccanici, lo stato di quiete di un corpo dal moto uniforme o, in altre parole, di distinguere tra di loro diversi sistemi «inerziali»20. Dell’equivalenza tra tutti i sistemi inerziali, che oggi esprimiamo col principio di relatività galileiano, era ben consapevole Galileo, che ne dà una rappresentazione dettagliata in una bella pagina del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anche un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti. […] Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; chè (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina o pure sta ferma21.
Il fatto che l’osservatore all’interno del «navilio» non sia in grado di accorgersi di essere in moto si può esprimere dicendo che le leggi della fisica (nel caso specifico della meccanica) sono invarianti rispetto al passaggio da un sistema di riferimento in quiete ad uno in moto uniforme, o più in generale rispetto alle trasformazioni da un sistema di riferimento all’altro. Nella fisica galileiana 19
Ibid., p. 110. Un fenomeno fisico elementare, chiamato evento, avviene in un dato punto dello spazio e in un dato istante. Per descrivere quantitativamente i fenomeni si definisce un sistema di riferimento associando a ciascun evento quattro numeri: tre per lo spazio, che individuano la posizione, e uno per il tempo. Sistema di riferimento inerziale è quel sistema nel quale vale la prima legge della meccanica di Newton e cioè nel quale un corpo non soggetto a forze è in quiete oppure si muove di moto rettilineo uniforme. Ne segue che ogni sistema in moto rettilineo uniforme rispetto ad un sistema inerziale è anch’esso un sistema inerziale. Il nome «sistema inerziale» fu introdotto da Ludwig Lange nel 1885. Cfr. R. Torretti, Relativity and Geometry, Oxford 1983, p. 17. 21 G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Id., La prosa, a cura di I. Del Lungo e A. Favaro, Firenze 1978, p. 374. 20
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
la forma delle leggi non varia rispetto alle trasformazioni da un sistema all’altro; il tempo è assoluto, mentre la posizione spaziale è relativa, in quanto dipende dal sistema di riferimento. Anche se adottiamo l’idea di Newton di uno spazio e di un tempo assoluti, da un’analisi critica delle conseguenze della meccanica newtoniana emerge l’impossibilità di determinare la posizione spaziale assoluta di un corpo materiale, poiché non si può individuare un sistema privilegiato, in quiete rispetto allo spazio assoluto, tra gli infiniti sistemi inerziali equivalenti. Si possono comunque attribuire valori assoluti – nel senso di universali, cioè identici in tutti i sistemi inerziali – sia per gli intervalli temporali, che per le distanze spaziali. Tuttavia verso la metà del XIX secolo, con l’approfondimento della comprensione dei fenomeni elettromagnetici, sembra presentarsi la possibilità di mettere in evidenza lo spazio assoluto mediante determinazioni al di fuori della meccanica. La luce viene interpretata come un fenomeno ondulatorio e l’ottica viene unificata con l’elettrodinamica che, a sua volta, compendia i fenomeni elettrici e magnetici. Si arriva così alla moderna teoria dell’elettromagnetismo per opera di vari fisici, tra cui va segnalato in particolare James Clerk Maxwell (1831-1879). La luce viene identificata con le onde elettromagnetiche. In analogia con le onde sonore, vibrazioni che avvengono e si propagano nell’aria – o in altri mezzi fluidi – sembrava necessario supporre l’esistenza di un mezzo in cui si producessero e si propagassero le onde luminose. Questa interpretazione portava all’introduzione di un ipotetico mezzo invisibile, chiamato etere, sede delle vibrazioni elettromagnetiche, che occupava tutto lo spazio e rimaneva immobile, anche quando i corpi materiali si muovevano in esso. Dalla teoria dell’elettromagnetismo – in particolare dalle equazioni di Maxwell – si poteva calcolare che la velocità della luce aveva un valore definito c. Nella fisica di Galileo e di Newton le velocità sono relative e sono diverse, se misurate in sistemi di riferimento differenti22. 22 Secondo Galileo una forza ha gli stessi effetti in ogni sistema di riferimento che si muova di moto rettilineo e uniforme rispetto a un sistema inerziale. Invece la velocità dipende dal sistema di riferimento e quindi dallo stato di moto dell’osservatore. Ad esempio, per un osservatore fermo sulla riva di un fiume, la velocità di un passeggero che corre sul ponte del «navilio» di Galileo è la somma algebrica della velocità
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Sembrava quindi che dovesse esistere un sistema di riferimento privilegiato, rispetto al quale le onde elettromagnetiche, e la luce in particolare, dovevano avere esattamente il valore c. Si riteneva che questo sistema di riferimento privilegiato non fosse altro che quello in cui l’etere si trovava in quiete. Determinando il moto della Terra rispetto all’etere, si pensava di poter individuare sperimentalmente lo spazio assoluto. Infatti, applicando alla propagazione della luce la regola della composizione delle velocità della fisica classica, si sarebbero potute mettere in evidenza variazioni nella velocità della luce, a seconda che la sorgente luminosa si trovasse in quiete o in moto. Si riteneva che le variazioni nel moto terrestre intorno al Sole durante l’anno corrispondessero a differenze della velocità della Terra rispetto all’etere: tali differenze avrebbero causato variazioni nella misura della velocità della luce. Dato il valore estremamente elevato di quest’ultima, si valutava che i possibili effetti fossero molto piccoli, ma che con una sufficiente precisione nelle misure si sarebbero potuti mettere in risalto23. Tuttavia, il risultato dei raffinati esperimenti eseguiti da Albert A. Michelson (1852-1931) e di Edward W. Morley (18381923) alla fine del XIX secolo fu che il valore della velocità della luce, misurato in condizioni di moto diverse24, non variava affatto, ma rimaneva sempre uguale allo stesso valore c (circa 300000 km/sec), che venne quindi considerato come una nuova costante fondamentale della fisica. Questi risultati mettevano in crisi i presupposti della fisica classica e facevano dubitare dell’esistenza dell’etere e di un sistema di riferimento privilegiato. È sintomatica un’affermazione di Michelson e Morley nel 1887: del «navilio» rispetto alla riva e di quella del passeggero rispetto al «navilio». Questa è la regola di composizione delle velocità di Galileo e di Newton. 23 Si stimava che le variazioni della velocità della luce fossero molto piccole, ma si era certi che gli apparati sperimentali, basati sulla interferenza delle onde luminose, fossero in grado di rilevare questi deboli effetti. 24 Michelson e Morley confrontarono la velocità della luce di due raggi che viaggiavano lungo due direzioni tra loro perpendicolari. A causa del moto di rotazione della terra e di rivoluzione intorno al sole l’apparato sperimentale si muoveva rispetto all’etere con velocità e direzione che mutavano durante il giorno e durante le stagioni. Tuttavia i due scienziati non rilevarono alcuna differenza giornaliera o annuale tra i due raggi: risultava che la luce viaggiava sempre con la stessa velocità rispetto all’osservatore, indipendentemente dal suo moto.
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L’ipotesi di un etere stazionario risulta contraddetta dai fatti e se ne deve necessariamente concludere che l’ipotesi è falsa25.
Va osservato che le leggi della meccanica di Newton sono state verificate per velocità relativamente piccole. Quando si considerano condizioni molto diverse da quelle usuali può verificarsi che le leggi non siano più valide. Nel caso di velocità elevatissime, come per i fenomeni ottici, non è detto che il concetto di simultaneità continui ad essere assoluto e non sia invece relativo al sistema di riferimento. Il risultato inaspettato dell’esperimento di Michelson e Morley diede l’avvio a varie speculazioni nella comunità dei fisici. Per spiegare la situazione furono introdotte ipotesi specifiche, come quella del trascinamento dell’etere, che assumeva che la Terra trascinasse nel suo moto l’etere nelle sue vicinanze. Nel 1889 il fisico irlandese George Francis FitzGerald (1896-1940) propose di spiegare l’esperimento assumendo che […] la lunghezza dei corpi materiali cambia, a seconda di come essi si muovono nell’etere, o attraverso esso, di una quantità che dipende dal quadrato del rapporto tra le loro velocità e quella della luce26.
Attraverso un percorso indipendente, nello stesso anno l’olandese Hendrik Lorentz (1853-1928) fece una proposta analoga e cioè quella della contrazione dei corpi in movimento. In una memoria del 1895 lo stesso Lorentz formulò delle nuove relazioni – che successivamente verranno chiamate «trasformazioni di Lorentz» – tra due sistemi inerziali, di cui uno in quiete e uno in moto. Per la prima volta il tempo nel sistema di riferimento in moto appariva diverso da quello del sistema di riferimento fisso. Lorentz distingueva quindi un tempo locale da un tempo generale27. Anche il fisico matematico francese Henri Poincaré si occupò di queste problematiche e nel 1902 scrisse: 25 A.A. Michelson, E.W. Morley, On the Relative Motion of the Earth and the luminiferous Ether, «American Journal of Science», 34 (1887), pp. 333-345. 26 G.F. FitzGerald, The Ether and the Earth’s Atmosfere, «Science», 13 (1899), p. 390 (traduzione nostra). 27 H. Lorentz, Versuch einer Theorie der elektrischen und optischen Erscheinungen in bewegten Körper, Leida 1895.
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Non c’è il tempo assoluto. Dire che due durate sono uguali è un’asserzione priva di senso e che non può acquisirne che per convenzione. Non solo noi non abbiamo intuizione diretta dell’eguaglianza di due durate, ma non possediamo neppure quella della simultaneità di due avvenimenti che si producono su due teatri diversi28.
Sarà Einstein a raccogliere l’eredità di tali ipotesi e, tenendo conto di tutte le problematiche messe in campo dai fisici contemporanei, introdurrà un nuovo punto di vista, e formulerà una teoria estremamente innovativa, la Teoria della relatività ristretta.
2.4 La Teoria della relatività ristretta Il 30 giugno 1905 Einstein invia agli Annalen der Physik il lavoro contenente la Teoria della relatività ristretta29, Zur Elektrodinamik bewegter Körper (Sull’elettrodinamica dei corpi in moto), che si rivela di grande portata rivoluzionaria e che scardina le idee di spazio e di tempo che fino ad allora avevano dominato la scena. Con tale scritto Einstein si propone di chiarire come sia possibile interpretare la costanza della velocità della luce, fatto in contrasto con la regola della composizione delle velocità di Galileo. Inoltre egli vuole capire come sia possibile estendere l’ipotesi di invarianza30 delle leggi di tutta la fisica – comprese le leggi dell’elettromagnetismo – rispetto alle trasformazioni tra diversi sistemi inerziali. Intorno a queste stesse domande si interrogavano tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo altri importanti scienziati, tra cui Lorentz e Poincaré. Il merito di Einstein è di aver eliminato l’etere dalla propria formulazione, giungendo alla costruzione di una teoria semplice e completa. Mentre per i fisici citati permaneva l’idea di un sistema di riferimento assolutamente fermo, anche se 28
H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, Bari 1989, p. 107. In tedesco si usa la parola «speciale»: Die spezielle Relativitätstheorie. 30 Per mettere in evidenza questo carattere di «invarianza» è stato proposto per la teoria di Einstein il nome di Invariantentheorie, ma ha prevalso il nome di Relativitätstheorie, che fa riferimento alle misure «relative» e non assolute di lunghezze spaziali e intervalli temporali. Cfr. F. Klein, Über die geometrischen Grundlagen der Lorentzgruppen, «Jahrbuch der Deutsche Matematiker-Vereinigung», 19 (1910), p. 287. 29
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
non osservabile, per Einstein non esiste nessun sistema di riferimento privilegiato e la distinzione newtoniana tra moti reali e apparenti viene eliminata. Einstein assume i due seguenti postulati: il primo afferma che le leggi della fisica hanno la stessa forma in ogni sistema inerziale, il secondo dice che in qualsiasi sistema inerziale la velocità della luce è la stessa, sia che la luce venga emessa da una sorgente in quiete, sia che venga emessa da una sorgente in moto uniforme. Nel fare questo Einstein assume un punto di vista completamente diverso da quello dei suoi predecessori: anziché cercare di spiegare la costanza della velocità della luce, egli la introduce come postulato. In definitiva, Einstein formula un principio di simmetria in base al quale, non solo la velocità della luce, ma tutte le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi inerziali. Da questi postulati e dall’ipotesi universalmente accettata che lo spazio e il tempo siano omogenei si può facilmente dimostrare che le trasformazioni che collegano le coordinate spazio-temporali tra due distinti riferimenti inerziali non sono altro che le trasformazioni di Lorentz. Tali trasformazioni si ritrovano nei lavori di Lorentz e di Poincaré, ma solo come artifici per interpretare il risultato dell’esperimento di Michelson e Morley. Einstein per la prima volta dimostra e mette in evidenza che le «trasformazioni di Lorentz» sono una conseguenza dei due principi fondamentali assunti come postulati. Tali trasformazioni contengono esplicitamente la velocità della luce c, che rappresenta la velocità massima di ogni segnale fisico e la velocità limite a cui possono avvicinarsi i corpi materiali, senza poterne raggiungere il valore. Einstein trova inoltre una nuova legge di composizione delle velocità, che sostituisce quella di Galileo, e che si approssima a questa quando le velocità in gioco sono molto minori della velocità della luce. Egli si rende conto che le «trasformazioni di Lorentz» lasciano invariate soltanto le leggi dell’elettromagnetismo, compendiate dalle equazioni di Maxwell31, ma non le leggi della meccanica 31 É opportuno notare che le equazioni di Maxwell, in quanto descrivono fenomeni – come quello delle onde elettromagnetiche – che si propagano alla velocità della
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2. ALBERT EINSTEIN E LA RIVOLUZIONE DELLA FISICA MODERNA
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di Newton e ipotizza che le «trasformazioni di Lorentz» debbano avere una validità universale, in quanto contengono esplicitamente il valore costante della velocità della luce. L’unica possibilità è quindi di modificare la meccanica di Newton32. Mentre viene conservata la validità del primo principio della meccanica newtoniana, il secondo principio, espresso dalla famosa equazione F = ma, viene completamente modificato. In questa sede non riportiamo le equazioni di Einstein, ma ci limitiamo a segnalarne un’importante e originale implicazione e cioè l’equivalenza della massa con l’energia33 e la possibilità di convertire l’una nell’altra34. Per ottenere una formulazione invariante della meccanica il fisico tedesco ha l’ardire di sbarazzarsi dei concetti newtoniani di spazio e di tempo, che avevano dominato il pensiero degli ultimi secoli. Nella misurazione delle distanze spaziali e degli intervalli temporali influisce lo stato di moto dell’osservatore: le distanze misurate nel sistema di riferimento in quiete rispetto all’osservatore differiscono da quelle relative ad un altro sistema in moto rispetto al sistema di riferimento iniziale. Un ragionamento analogo vale per il concetto di tempo. Einstein parla a questo proposito di contrazione delle lunghezze e di dilatazione dei tempi. Questo risultato è una conseguenza delle «trasformazioni di Lorentz», ma Einstein assume un punto di vista completamente diverso: non sono gli oggetti fisici ad essere modificati, bensì le misure delle lunghezze e delle durate temporali35. luce, rimangono valide nella teoria della relatività ristretta, anche se sono state ottenute diversi anni prima della formulazione della teoria di Einstein. 32 Il fatto che il valore limite della velocità sia finito è cruciale per la formulazione della nuova meccanica di Einstein. Soltanto se la velocità fosse infinita, cioè non ci fosse un valore limite, la meccanica di Newton conserverebbe la sua validità. 33 Cfr. A. Einstein, Ist die Trägheit eines Körpers von seinem Energieinhalt abhängig?, «Annalen der Physik», 18 (1905), pp. 639-641. 34 Questo risultato della teoria della relatività ristretta ha avuto forti implicazioni sia negli sviluppi teorici che nelle applicazioni tecniche, comportando esiti positivi, come ad esempio la realizzazione di reattori nucleari che forniscono energia, e conseguenze disastrose, come la costruzione della bomba atomica. 35 È interessante notare che nella teoria della relatività il tempo si può considerare come la quarta coordinata in uno spazio quadridimensionale. Nella trasformazione da un sistema inerziale ad un altro è la «distanza» opportunamente definita in questo spazio-tempo che rimane invariata e non separatamente la distanza spaziale e l’intervallo temporale.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
Egli dimostra che la contrazione delle lunghezze e la dilatazione degli intervalli di tempo sono dovute ai diversi procedimenti adottati in due sistemi di riferimento in moto relativo e non al moto di ciascuno di questi rispetto all’etere. Rivoluzionaria è l’osservazione secondo la quale la contrazione della lunghezza si manifesta anche per le distanze relative ad un sistema di riferimento in quiete, se le misure vengono effettuate da un sistema di riferimento in moto. Einstein indica quindi per la prima volta la reciprocità della contrazione di Lorentz. In definitiva, nella teoria della relatività ristretta le coordinate spazio-temporali variano con il moto relativo e con esse varia anche la nozione di simultaneità, perdendo così il suo valore assoluto. In questo senso due eventi, che visti in un dato sistema di riferimento appaiono come simultanei, non lo sono più quando sono considerati da un osservatore che si trova in un sistema in moto rispetto al primo. Come già detto, la situazione è simmetrica nei due sistemi di riferimento: ognuno dei due osservatori trova che le lunghezze determinate per il sistema in moto relativo sono contratte rispetto alle misure nel proprio sistema e che gli intervalli temporali sono dilatati. Ciò significa che anche il concetto di simultaneità è relativo: due eventi simultanei rispetto ad un osservatore in un sistema di riferimento non lo sono più se si osservano da un altro sistema in moto rispetto al primo. Queste modifiche chiaramente non si manifestano nelle esperienze quotidiane, ma soltanto quando le velocità in gioco sono confrontabili con quella della luce; solo in questo caso esse diventano significative. Le determinazioni sperimentali hanno verificato ampiamente le predizioni di Einstein.
2.5 La Teoria della relatività generale Ci siamo limitati finora ai lavori di Einstein relativi al 1905. Va ricordato tuttavia che la sua produzione scientifica continua per tutta la sua vita, anche se non con la stessa intensità dell’annus mirabilis, con risultati di grande impatto e straordinaria originalità: dalla Teoria della relatività generale ai fondamentali contributi alla meccanica statistica, dall’analisi delle strane proprie-
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2. ALBERT EINSTEIN E LA RIVOLUZIONE DELLA FISICA MODERNA
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tà della meccanica quantistica alle teorie di unificazione delle forze elettromagnetiche e gravitazionali. Sembra dunque opportuno dedicare alcune riflessioni alla Teoria della Relatività generale, formulata nella sua forma definitiva nel 191536 e pubblicata solo nel 1916 col titolo Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie (I fondamenti della teoria della relatività generale)37. Più che un’estensione della teoria precedente (relatività ristretta) essa va considerata come una nuova teoria della gravitazione, che sostituisce la teoria di Newton e mette d’accordo la gravità con i requisiti della relatività ristretta. Mentre i lavori del 1905 affrontano problemi sollevati da fatti sperimentali non interpretabili secondo le concezioni di quel tempo e li risolvono in modo semplice, ma al tempo stesso rivoluzionario, la relatività generale non è stata motivata da alcun fatto sperimentale, bensì dall’esigenza di costruire una teoria coerente e unitaria. Secondo Gerald t’Hooft, premio Nobel per la Fisica nel 1999, Dirac, Fermi, Feynman e altri hanno dato molteplici contributi alla fisica, ma Einstein ha mostrato al mondo, per la prima volta, che il puro pensiero può cambiare la nostra comprensione della natura38.
In base alla teoria della gravitazione di Newton la forza gravitazionale tra due corpi, posti a distanza arbitraria, si manifesta istantaneamente. Per esempio, se una catastrofe modificasse la struttura del sistema solare, gli effetti gravitazionali si manifesterebbero immediatamente sulla Terra, mentre le eventuali modifiche ottiche si rileverebbero soltanto dopo un certo tempo sia pur brevissimo, poiché la luce si propaga con una velocità finita, anche se elevatissima. Secondo la Teoria della relatività ristretta la velocità della luce rappresenta il limite massimo di propagazione dei segnali fisici. Qual è dunque l’agente che trasmette l’informazione sulla forza gravitazionale? 36 A. Einstein, Zur allgemeinen Relativitätstheorie, «Sitzungsberichte, Preussische Akademie der Wissenschaften», Berlino 1915, p. 844. 37 A. Einstein, Die Grundlagen der allgemeinen Relativitätstheorie, «Annalen der Physik», 49 (1916), pp. 769-822. 38 M. Chalmers, Five papers that shook the world, «Physics World», 18 (2005), p. 16 (traduzione nostra).
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
Newton non ignorava il problema, ma trascurò deliberatamente di indagare sull’origine e sulla natura delle forze gravitazionali. Infatti in una lettera del 25 febbraio 1693 all’amico Richard Bentley, filologo e critico inglese, si legge: È inconcepibile che la materia bruta e inanimata possa agire e influire su altra materia senza reciproco contatto. […] Che un corpo possa agire a distanza su di un altro attraverso il vuoto, senza la mediazione di qualche altra cosa in virtù della quale, e per mezzo della quale, l’azione a distanza o la forza possa essere trasportata da un corpo all’altro, è per me un’assurdità […] ma se questo agente sia materiale o immateriale è questione che lascio decidere ai lettori39.
Per conciliare la Teoria della relatività ristretta con la teoria della gravitazione di Newton, Einstein si cimenta nella costruzione di una nuova teoria40. Il punto di partenza della sua indagine, che lo porta poi alla soluzione del problema, è il principio di equivalenza, che stabilisce l’eguaglianza tra massa inerziale e massa gravitazionale. La prima determina l’inerzia che si oppone alla variazione dello stato di moto di un corpo (aspetto passivo), la seconda determina la forza attrattiva, che si esercita su un’altra massa (aspetto attivo). Questo principio si può collegare agli esperimenti di Galileo sulla caduta dei gravi. Il fatto che tutti i corpi cadano con la stessa accelerazione porta all’identificazione delle due masse. Con una profonda intuizione Einstein generalizza il principio di equivalenza, affermando che un sistema di riferimento in moto accelerato è equivalente a un sistema in presenza di forze gravitazionali. Ciò significa che l’accelerazione può modificare localmente l’effetto della gravità fino ad annullarla41. 39 H.W. Turnbull, J.F. Scott, A.R. Hall, L. Tilling (a cura di), The correspondence of Isaac Newton, vol. III, Cambridge 1959-1977, pp. 253-254 (traduzione nostra). 40 Nella Teoria della relatività ristretta venivano presi in esame soltanto i sistemi inerziali; inoltre la gravità veniva ignorata. 41 Ad esempio, in un ascensore in caduta libera i corpi diventano privi di peso. In questa situazione l’ascensore si comporta come un sistema inerziale (cioè vale il principio di inerzia) e in conseguenza di ciò valgono per esso le leggi della relatività ristretta. Analogamente, in un satellite artificiale o in una stazione spaziale in orbita stazionaria attorno alla Terra, la gravità non si fa sentire perché viene compensata dalla forza centrifuga. Gli astronauti fluttuano privi di peso, a meno che non vi sia una gravità apparente, generata da un moto rotatorio.
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In un manoscritto inedito del 1919, citato dal suo biografo Abraham Pais, Einstein descrive come il pensiero più originale della sua vita la formulazione del principio di equivalenza tra sistemi accelerati e sistemi in presenza di gravità: Il campo gravitazionale ha solo un’esistenza relativa in modo analogo al campo generato dall’induzione elettromagnetica. Infatti, per un osservatore che cada liberamente dal tetto di una casa, non esiste campo gravitazionale42.
Quest’intuizione, che risale al 1907, chiarisce che in caduta libera il peso viene annullato. Con questo principio espresso da Einstein si assume cioè che un sistema immerso in un campo gravitazionale è equivalente ad un sistema accelerato in assenza di gravità. Non è dunque possibile distinguere tra sistemi in moto accelerato e sistemi in presenza di gravità; inoltre i sistemi inerziali in generale non sono distinguibili dai sistemi non inerziali43. Einstein è alla ricerca di una formulazione delle leggi della fisica che sia invariante rispetto a tutti i sistemi in moto relativo arbitrario44. Questo è il requisito della relatività generale. Le trasformazioni della relatività ristretta tra sistemi inerziali in moto relativo rettilineo uniforme vengono quindi generalizzate per qualunque sistema di riferimento in moto arbitrario. Tale generalizzazione richiede delle drastiche modifiche nella descrizione della realtà: Einstein dimostra che l’inserimento della gravità implica un cambiamento nella geometria dello spazio-tempo, poiché la massa introduce una curvatura nello spazio e quindi modifica la forma della traiettoria di un corpo. Un corpo in moto libero in questo spazio, e cioè non soggetto a forze che non siano quelle gravitazionali, non è in generale né rettilineo, né uniforme. La sua traiettoria, che rappresenta il percorso più breve, viene chiamata «geodetica». 42 A. Pais, “Sottile è il Signore…” La scienza e la vita di Albert Einstein, Torino 2002, p. 194. 43 Un osservatore che si trova in un ascensore in caduta libera e dunque in un sistema accelerato può ritenere di trovarsi in un sistema inerziale, anche se è in presenza di gravità. 44 Più precisamente si tratta di «covarianza», che implica che le leggi della fisica siano espresse da equazioni che conservano la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento.
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
Per giungere a queste conclusioni Einstein ha dovuto abbandonare i principi della geometria euclidea – in particolare il postulato delle parallele di Euclide – e ricorrere alle geometrie non euclidee, nelle quali il rapporto tra circonferenza e raggio di un cerchio è diverso da 2p e la somma degli angoli interni di un triangolo è diversa da 180o. Le geometrie non euclidee erano state elaborate da alcuni grandi matematici del XIX secolo, tra cui Carl Friedrich Gauss (1777-1855) e Georg Friedrich Bernhard Riemann (1826-1866), tuttavia non esisteva un formalismo matematico adeguato per descrivere e realizzare la Teoria della relatività generale. Einstein viene a sapere per caso dall’amico Marcel Grossman, che a Padova due matematici avevano sviluppato un formalismo, detto «calcolo differenziale assoluto», che avrebbe potuto essere utilizzato per tale scopo. Si tratta di Gregorio Ricci Curbastro (1853-1925) e Tullio Levi-Civita (1873-1942). Grazie all’ausilio di questi nuovi algoritmi matematici Einstein riesce a completare il suo ambizioso programma. La formulazione finale della teoria viene inviata da Einstein agli Annalen der Physik il 20 marzo 1916. In questo lavoro viene presentata un’equazione che, diversamente dalle altre equazioni della fisica, svolge un duplice ruolo. Essa descrive infatti le proprietà del campo gravitazionale e il moto della materia, e cioè come è generata una forza e come si muove un corpo. In modo assai suggestivo Einstein afferma a questo proposito che è la materia ad agire sullo spazio, dicendogli come deve curvarsi e che è lo spazio ad agire sulla materia, dicendole come deve muoversi45. La teoria rappresenta una sintesi elegante e concisa delle proprietà dinamiche della materia e delle proprietà geometriche dello spazio-tempo. Già l’anno precedente, e più precisamente il 4 novembre 1915, Einstein aveva affermato presso l’Accademia Prussiana delle Scienze di Berlino: Alla magia di questa teoria non si potrà sottrarre nessuno che l’abbia veramente compresa; essa costituisce un vero trionfo dei metodi del calco45
Cfr. B. Greene, L’Universo elegante, Torino 2000, p. 62.
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lo differenziale assoluto fondato da Gauss, Riemann, Christoffel, Ricci e Levi-Civita46.
Come abbiamo affermato in precedenza, non esisteva alcun fatto sperimentale nuovo, che richiedesse la profonda revisione della teoria della gravitazione e dunque una riformulazione da parte di Einstein di quest’ultima attraverso la Teoria della relatività generale. Tuttavia essa fornisce delle previsioni specifiche, che richiedono di essere verificate sperimentalmente. La conclusione del citato articolo di Einstein del 1916 contiene tre diverse previsioni: l’anomalia del moto di Mercurio47, la deflessione dei raggi luminosi e lo «spostamento della luce verso il rosso», cioè la diminuzione della frequenza della luce, quando attraversa campi gravitazionali intensi48. La deflessione della luce viene confermata sperimentalmente solo nel 191949. La notizia viene diffusa dalla stampa internazionale. Il Times intitola un articolo Revolution in Science – New Theory of the Universe50 ed Einstein diviene lo scienziato più famoso del mondo. C’è un’altra importante predizione della Teoria della relatività generale, che non ha tuttavia ancora avuto una verifica sperimentale diretta51: l’esistenza delle onde gravitazionali. Le pertur46 Cfr. F. Toscano, Il genio e il gentiluomo. Einstein e il matematico italiano che salvò la Teoria della relatività generale, Milano 2004, p. 239. 47 La traiettoria del pianeta Mercurio intorno al Sole presentava delle anomalie in contrasto con i calcoli condotti secondo la meccanica di Newton, ma in accordo con quelli ottenuti da Einstein nella sua teoria. Questa era l’unica predizione della teoria confermata sperimentalmente al momento della sua pubblicazione. 48 Questa predizione venne confermata solo molti anni più tardi, e cioè nel 1960. Cfr. R.V. Pound, G.A. Rebka, Apparent weight of photons, «Physical Review Letters», 4 (1960), pp. 337-341. 49 L’eclissi totale di Sole del 1919, visibile nell’emisfero Sud, fornì l’occasione per osservare la luce proveniente da una determinata stella, luce che passava in prossimità del Sole. Questa osservazione era possibile soltanto durante un’eclissi solare. A questo scopo vennero effettuate due spedizioni: una in Brasile e una nell’Isola del Principe, al largo della Guinea spagnola. Venne confermato l’effetto di deflessione e l’osservazione fornì una determinazione in buon accordo con il valore predetto. 50 Cfr. R.P. Crease, C.C. Mann, The second creation, New Brunswick (NJ) 1996, p. 39. 51 Un’evidenza indiretta dell’esistenza delle onde gravitazionali è stata ottenuta nel 1982 dagli astrofisici Russel Hulse e Joseph Taylor in base alle osservazioni com-
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
bazioni gravitazionali si trasmettono mediante onde gravitazionali, che si possono interpretare come increspature dello spaziotempo e che si propagano, come le onde elettromagnetiche, alla velocità della luce. Sono proprio il campo gravitazionale e le sue perturbazioni, che si propagano a velocità finita – uguale a quella della luce –, a dover essere interpretati come l’agente che trasmette la forza di gravità. In questo modo viene abbandonata l’idea dell’azione istantanea a distanza e si ottiene una teoria della gravitazione in accordo con i principi della relatività. Attualmente diversi tipi di esperimenti hanno confermato la Teoria della relatività generale; inoltre quest’ultima ha dato origine a grandi sviluppi nei settori dell’astrofisica e della cosmologia, che hanno modificato drasticamente la nostra concezione dell’Universo.
2.6 Osservazioni conclusive Risulta a questo punto evidente come la definizione benjaminiana di «carattere distruttivo» sia un’efficace Denkbild per esprimere la transizione che Einstein ha determinato nello sviluppo della fisica del Novecento. Egli modifica infatti alcune delle nozioni fondamentali della fisica classica, scuotendola alle sue stesse basi, nei suoi fondamenti. Tali modifiche riguardano essenzialmente l’introduzione di tre nuovi e rivoluzionari concetti. Il primo concerne l’interpretazione dei fenomeni luminosi: la luce non viene più intesa semplicemente come onda, ma come compresenza di onda e corpuscolo. Il secondo è la sostituzione dell’idea newtoniana di spazio e tempo assoluti con la concezione di spazio e tempo relativi, cioè dipendenti dallo stato di moto dell’osservatore. Il terzo riguarda la sostituzione delle geometrie euclidee con quelle non euclidee per la descrizione dello spazio fisico. piute su una «pulsar binaria»: si tratta di due stelle in moto l’una rispetto all’altra, che si avvicinano perdendo energia. L’energia perduta dal sistema verrebbe portata via dalle onde gravitazionali emesse.
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Nei primi due lavori del 1905 viene affermato in modo definitivo il carattere discontinuo e discreto della materia nei suoi diversi stati e nelle diverse forme e configurazioni dei corpi solidi e dei fluidi. La materia non occupa completamente regioni definite dello spazio, ma risulta costituita da atomi e molecole, cioè da costituenti distinti e per lo più separati in uno spazio vuoto. I concetti di atomo e molecola erano presenti nella chimica e nella fisica del XIX secolo, ma essi venivano generalmente considerati come un artificio mediante il quale si poteva dare una descrizione semplice e suggestiva delle reazioni chimiche e di tutta una classe di fenomeni fisici. Al contrario, Einstein mostra che essi devono essere considerati oggetti reali, di cui si possono determinare le dimensioni spaziali. Il fatto che non si fosse potuta dimostrare fino ad allora la loro esistenza era dovuto alla loro estrema piccolezza rispetto alle dimensioni dei corpi macroscopici e degli strumenti di misura. Einstein cancella definitivamente la concezione dell’Universo fisico dei secoli precedenti, in cui si manifestava una certa avversione per il vuoto, e la sostituisce con l’attuale descrizione discreta e discontinua. Egli non si limita a mettere in evidenza questa proprietà degli oggetti materiali, ma estende questa descrizione anche alla radiazione. Le equazioni di Maxwell prevedono la propagazione delle onde elettromagnetiche, e in particolare della luce, come perturbazione che si propaga in un mezzo continuo. L’intuizione rivoluzionaria di Einstein è che anche la luce è costituita di «particelle» indipendenti e che quindi, sia per la materia che per la radiazione, si deve adottare una descrizione discreta e discontinua. Queste idee innovative hanno portato al grande sviluppo della fisica atomica: dall’analisi della struttura dell’atomo, a sua volta costituito da particelle più piccole, e dalla scoperta delle strane proprietà del mondo microscopico trae la sua origine la formulazione della meccanica quantistica, che al determinismo della fisica classica sostituisce una descrizione statistica e probabilistica dei fenomeni fisici. È vero che Einstein è rimasto legato alla tradizione deterministica classica, e quindi in una posizione contrastiva rispetto alle teorie indeterministiche di Heisenberg, ma non va sottovalutato
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PARTE II. ALTRI MODELLI TEORICO CONOSCITIVI SUL TEMA DELLA TRANSIZIONE
il suo contributo fondamentale e innovativo alla concezione «atomistica» della materia e della radiazione. Ciò non intacca l’immagine di rivoluzionario che Benjamin, e con lui molti altri, hanno voluto attribuire ad Einstein. Veniamo ora ai concetti rivoluzionari espressi nel terzo lavoro del 1905, in cui viene presentata la teoria della relatività ristretta. Essi riguardano una nuova concezione dello spazio e del tempo. L’idea radicata da secoli di uno spazio e di un tempo assoluti viene sostituita da una concezione in cui le proprietà dello spazio-tempo dipendono dallo stato di moto dell’osservatore. Ad esempio se due osservatori in moto relativo confrontano le misure di una distanza spaziale e di una durata temporale relativa ad un dato fenomeno, ciascuno di loro trova che il suo metro è più lungo del metro dell’altro e che il suo orologio va più in fretta rispetto a quello dell’altro. Una caratteristica sconcertante secondo il senso comune è che la situazione è perfettamente simmetrica per i due osservatori52. Una conseguenza di queste proprietà è che anche il concetto di simultaneità perde il suo valore assoluto: due eventi simultanei per un osservatore non lo sono più per un secondo osservatore in moto rispetto al primo. In una descrizione quadri-dimensionale dello spazio-tempo coesistono passato, presente e futuro. L’ordine temporale di due eventi riscontrato da un osservatore può risultare ribaltato per un altro osservatore, se i due eventi non sono collegati da una relazione di causa-effetto: in altre parole il passato può venire scambiato con il futuro. Questi aspetti della teoria della relatività ristretta sono una conseguenza dell’ipotesi fondamentale che la velocità della luce è finita e rappresenta la velocità massima per la propagazione di ogni segnale fisico. L’esistenza di questo limite ha senza dubbio 52 Apparentemente questo principio di simmetria viene violato dal cosiddetto paradosso dei gemelli (o dei due orologi), uno dei quali rimane sulla Terra, mentre l’altro parte per un lungo viaggio interplanetario. Al suo ritorno il viaggiatore spaziale si ritrova molto più giovane del suo gemello rimasto sulla Terra. In effetti i due sistemi di riferimento in cui si trovano i due gemelli non sono equivalenti, poiché quello relativo al viaggiatore spaziale non è inerziale, in quanto subisce una accelerazione alla partenza e una decelerazione al rientro; per la spiegazione del paradosso non è sufficiente la Teoria della relatività ristretta, ma bisogna ricorrere alla relatività generale. Cfr. Pais, “Sottile è il Signore...” La scienza e la vita di Albert Einstein, cit., p. 160.
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un aspetto negativo, poiché ci impedisce di spostarci a piacimento nell’Universo; tuttavia c’è anche un aspetto positivo ed è quello di poter venire a conoscenza della storia dell’Universo. Quanto più lontano è il fenomeno che osserviamo, tanto più indietro è avvenuto nel tempo; le osservazioni, mediante segnali che viaggiano alla velocità della luce, si estendono nelle più lontane regioni dello spazio e nelle più remote epoche del tempo. Un’altra idea rivoluzionaria, che ha distrutto la vecchia concezione delle proprietà geometriche dello spazio, viene espressa nella nuova teoria della gravitazione di Einstein nell’ambito della relatività generale. Viene rinnegato il dogma che la geometria euclidea fornisca la vera e unica descrizione delle proprietà geometriche dello spazio; tali proprietà vengono modificate – almeno localmente – dalla presenza della materia e per una corretta descrizione bisogna ricorrere alle geometrie non-euclidee. Quest’idea è alla base della teoria della relatività generale, formulata diversi anni dopo il 1905, l’annus mirabilis. In conclusione, il carattere distruttivo dell’opera di Einstein si è manifestato ad ampio raggio e in varie direzioni, scuotendo le fondamenta su cui si basavano radicate e indiscusse concezioni della fisica classica. Questo terremoto concettuale ha portato ad una revisione critica dei postulati della fisica, che sono stati sostituiti da nuovi postulati, sui quali è stata costruita una nuova descrizione più ampia e coerente dei fenomeni del mondo fisico. L’opera di Einstein rappresenta dunque la transizione tra la fisica classica e la fisica moderna; elemento caratteristico di questa transizione è l’introduzione di un nuovo paradigma, il principio di simmetria, che avrà un ruolo decisivo per lo sviluppo di diversi settori della fisica contemporanea.
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Osservazioni conclusive Destruktion als Illumination
In uno dei più complessi ma profondi frammenti postumi di Benjamin, che porta il titolo Kapitalismus als Religion1, sono contenute alcune riflessioni sulla società capitalistica, la cui rilevanza per il mondo contemporaneo è davvero stringente. Il frammento è stato scritto nel 1921, ma pubblicato soltanto nel 1985 nel sesto volume delle Gesammelte Schriften, che raccoglie frammenti e scritti autobiografici. Ispiratrice di tale scritto fu l’opera di Max Weber Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus2, che Benjamin lesse in quegli anni, offrendone un’interpretazione dai toni più marcatamente di critica sociale, anche se pregna di elementi teologici. In questa sede non ci preme mettere in rilievo le differenze tra le due diverse concezioni di capitalismo, quanto piuttosto prendere lo spunto dalle riflessioni benjaminiane contenute in tale scritto, per procedere ad un’analisi complessiva e compendiosa dei temi che sono emersi nel nostro lavoro, che chiedono a questo punto un’ultima chiarificazione. «Nel capitalismo – afferma Benjamin – si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui davano risposta un tempo le cosiddette religioni»3. Ciò 1 W. Benjamin, Kapitalismus als Religion, in GS VI, pp. 100-103. La traduzione italiana dal titolo Capitalismo come religione è contenuta in: Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 284-287. 2 M. Weber, Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus, «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», XX (1905), pp. 1-54; XXI, pp. 1-110; ora in Id., Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, 3 voll., Tübingen 1920-21 (trad. it. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Firenze 1965). 3 Benjamin, Capitalismo come religione, in Sul concetto di storia, cit., p. 284.
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OSSERVAZIONI CONCLUSIVE. DESTRUKTION ALS ILLUMINATION
non significa che il capitalismo sia una semplice secolarizzazione della fede protestante, come aveva sostenuto Weber, ma implica qualcosa di ulteriore e cioè che il capitalismo sia esso stesso un fenomeno religioso. Per chiarire tale tesi non è possibile, secondo Benjamin, richiamarsi alla «rete in cui ci troviamo»4. Nell’affermare tale difficoltà, l’autore è consapevole della natura rivoluzionaria delle proprie riflessioni. Ciò diventa ancora più esplicito nel prosieguo del discorso, quando egli afferma: «Più tardi tuttavia di questo ci si potrà fare un’idea»5. Ma veniamo al nucleo essenziale che emerge dal testo. Il capitalismo, inteso come religione della modernità, è definito da tre tratti fondamentali. In primo luogo esso è una religione cultuale, forse la più estrema che sia mai esistita. In essa tutto ha significato solo in relazione al culto e non ad una dogmatica o ad una teologia. Secondariamente tale culto ha una durata permanente, è la «celebrazione di un culto sans rêve et sans merci»6. Non è dunque possibile distinguere in tale culto giorni feriali da giorni di festa. Sono tutti giorni di festa, in cui ci si deve dedicare a tale culto. Il culto è in terzo luogo «generatore di colpa». Ciò significa che esso non è volto né alla redenzione, né all’espiazione di una colpa. Esso è «il primo caso di un culto che non toglie il peccato, ma genera la colpa»7. In questo senso l’epoca capitalistica è caratterizzata 4
Ibid. Ibid. 6 U. Steiner ha suggerito di sostituire all’espressione «sans rêve et sans merci» la formula «sans trêve et sans merci». Tale intuizione sembra effettivamente motivata dal contesto in cui è inserita. Se il capitalismo è inteso da Benjamin come un culto dalla durata permanente, in cui è difficile distinguere i giorni festivi da quelli lavorativi, poiché tutti i giorni devono essere votati al culto di tale religione profana, affermare che esso è un culto «senza tregua», anziché «senza risveglio», pare senza dubbio appropriato. Cfr. D. Baecker (a cura di), Kapitalismus als Religion, Berlin 2003, p. 15. 7 Su questo punto ci sembrano particolarmente pregnanti alcune riflessioni che U. Steiner ha condotto riferendosi all’etimologia dei termini tedeschi Geld e Schuld. La parola Geld deriva da gelten, che significa primariamente «wert sein, gültig sein», cioè essere valido. Solo in una fase successiva dell’evoluzione della lingua tedesca essa ha assunto il senso di «entrichten, bezahlen» (pagare). Ciò significa che i termini Geld e gelten indicano originariamente l’adempimento di una colpa, il necessario compimento di un debito. Specularmente il termine Schuld rappresenta un’astrazione del verbo sollen, tanto che alle origini i due termini erano equivalenti. Successivamente il termine Schuld ha assunto una forte connotazione negativa, assimilando nella colpa l’essere debitori a qualcuno di un pagamento. Su queste basi U. Steiner ha osservato 5
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da «un’immensa coscienza della colpa, che non sa togliersi il peccato, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, martellarla nella coscienza e infine e soprattutto includere Dio stesso in questa colpa per infine interessare lui stesso all’espiazione. […] La trascendenza di Dio è caduta. Ma egli non è morto, egli è incluso nel destino dell’uomo»8. La tensione del capitalismo non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza, ma alla disperazione, mette in evidenza che lo scopo di tale religione non è la trasformazione del mondo, ma la sua distruzione. Il capitalismo come religione ha pervaso a tal punto gli animi del nostro tempo, che perfino tre autori che per Benjamin rappresentano tre profeti della modernità – Nietzsche, Freud e Marx –, ne sono stati contagiati9. Il superuomo nietzschiano è il primo uomo che inizia consapevolmente ad adempiere alla religione capitalista. «L’idea del superuomo sposta il “salto” apocalittico non nella conversione, nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza, bensì nell’incremento apparentemente costante, ma nell’ultimo suo tratto esplosivo, discontinuo. […] Il superuomo è l’uomo storico arrivato senza conversione, quello cresciuto oltre il cielo»10. Anche la teoria di Freud appartiene, secondo Benjamin, al «dominio sacerdotale» del culto capitalistico. «Il rimosso, l’idea peccaminosa è per la più profonda analogia […] il capitale che paga gli interessi all’inferno dell’inconscio»11. E allo stesso modo in Marx «il capitalismo che non si converte diviene, con gli interessi e gli interessi composti, che sono in che vi è una stretta Verwandtschaft tra i termini Geld e Schuld, che si legano indissolubilmente all’atto del ricambiare, dell’essere in dovere, in debito, nei confronti di qualcuno. Cfr. U. Steiner, Die Grenzen des Kapitalismus. Kapitalismus, Religion und Politik in Benjamins Fragment “Kapitalismus als Religion”, in Baeker (a cura di), Kapitalismus als Religion, cit., p. 41. Sulla centralità che il concetto di colpa (Schuld) riveste nell’economia del frammento benjaminiano Kapitalismus als Religion cfr. anche i saggi di W. Hamacher (Schuldgeschichte. Benjamins Skizze “Kapitalismus als Religion”) e di N. Bolz (Der Kapitalismus – eine Erfindung von Theologen?) contenuti nello stesso volume. 8 Benjamin, Capitalismo come religione, in Sul concetto di storia, cit., pp. 284 sgg. 9 Kapitalismus als Religion è uno dei pochi testi in cui Benjamin coniuga in modo sintetico, ma assai incisivo, tre figure della modernità: Nietzsche, Freud e Marx. 10 Benjamin, Capitalismo come religione, in Sul concetto di storia, cit., p. 285. 11 Ibid.
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quanto tali funzione della colpa/debito (vedi la demoniaca ambiguità di questo concetto), socialismo»12. Se il capitalismo ha invaso a tal punto gli animi della società moderna, che perfino Nietzsche, Freud e Marx se ne sono fatti contagiare, risulta lecito domandarsi se Benjamin abbia offerto attraverso le proprie riflessioni un utile strumento per difendersi da tale contagio. La critica al capitalismo, avviata dall’autore nel clima postbellico della prima guerra mondiale, rientra in quella critica al concetto di progresso, che attraversa il pensiero di Benjamin fino alla sua formulazione più compiuta, contenuta nelle tesi Über den Begriff der Geschichte. Il progetto di costruire una Urgeschichte der Moderne attraverso gli scritti ruotanti intorno al Passagen-Werk, diventa l’esplicitazione di una critica alla società a lui contemporanea, espressa già nel frammento Kapitalismus als Religion. I toni della riflessione, così come lo scopo precipuo dei diversi scritti sono sicuramente differenti, tuttavia non vi è un rovesciamento di paradigmi e di variabili, che permetterebbe di individuare diverse fasi all’interno del pensiero benjaminiano, quanto invece un intensificarsi dello sguardo dell’autore, che analizza le stesse tematiche da prospettive diverse. L’elemento teologico, se pure maggiormente esplicitato nei primi scritti, mantiene comunque una presenza preponderante anche nel Passagen-Werk. È lo stesso Benjamin a suggerirlo quando afferma: «Il mio pensiero sta alla teologia come la carta assorbente all’inchiostro. Ne è completamente imbevuto. Se dipendesse, tuttavia, dalla carta assorbente, non resterebbe nulla di ciò che è scritto»13. Nel secondo Exposé al Passagen-Werk, redatto in francese nel 1939, Benjamin mostra chiaramente il proprio interesse per una teoria della storia che critichi l’idea di progresso. Come abbiamo già affermato, la critica alla falsa ideologia del progresso trova le sue radici nella produzione mercificata propria del capitalismo. Su questi temi l’autore si esprime in modo assai chiaro e al contempo suggestivo nelle pagine che fanno da Introduzione e da Conclusione al suddetto Exposé. 12 13
Ibid. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 7a, 7], p. 528.
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In quella sede egli reinterpreta con rinnovato interesse i temi che avevano ispirato il frammento Kapitalismus als Religion, coniugando il superamento della teoria weberiana ad una ripresa del tema nietzschiano dell’eterno ritorno attraverso la riflessione di L.-A. Blanqui. Notre enquête se propose de montrer comment par suite de cette représentation chosiste de la civilisation, les formes de vie nouvelle et les nouvelles créations à base économique et technique que nous devons au siècle dernier entrent dans l’univers d’une fantasmagorie. […] A la même époque, l’adversaire le plus redouté de cette société, Blanqui, lui a révélé dans son dernier écrit les traits effrayants de cette fantasmagorie. L’humanité y fait figure de damnée. Tout ce qu’elle pourra espérer de neuf se-dévoilera n’être qu’une réalité depuis toujours présente; et ce nouveau sera aussi peu capable de lui fournir une solution libératrice qu’une mode nouvelle l’est de renouveler la société. La spéculation cosmique de Blanqui comporte cet enseignement que l’humanité sera en proie à une angoisse mythique tant que la fantasmagorie y occupera une place14.
Blanqui emerge da queste poche righe come un esempio di pensatore à contre temps15. Nella stessa epoca in cui l’umanità è pervasa dalla fede nel progresso e dalla religione capitalistica, egli mostra il carattere allucinatorio di tali ideologie. Esse rientrano in una fantasmagoria a carattere cosmico, che emerge dall’ultimo scritto dell’autore francese, L’Éternité par les astres. Nella visione cosmologica proposta da Blanqui «l’umanità fa la figura di dannata», poiché essa ha affidato le proprie speranze ad una visione storica lineare e progressiva, in cui il capitalismo rientra 14
Ibid., pp. 19 sgg. La polemica contro il conformismo è rivolta da Benjamin anche alla socialdemocrazia. Nelle tesi Über den Begriff der Geschichte egli afferma: «Il conformismo, che fin dall’inizio è stato di casa nella socialdemocrazia, non è connesso solo con la sua tattica politica, ma anche con le sue idee economiche. […] Non c’è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente. Per loro lo sviluppo tecnico era il favore della corrente con cui pensavano di nuotare. Di qui era breve il passo all’illusione che il lavoro di fabbrica, che si troverebbe nel solco del progresso tecnico, rappresenti un risultato politico. La vecchia morale protestante del lavoro festeggiava, in forma secolarizzata, la sua resurrezione fra gli operai tedeschi». Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 39. È chiaro il riferimento da parte di Benjamin alla tesi weberiana sull’origine calvinista dell’etica del lavoro, contenuta in Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus. 15
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come parte di un processo di crescita del genere umano. Secondo Blanqui il progresso non occupa alcuna posizione nell’intero universo: «Même monotonie, même immobilisme dans les astres étrangers. L’univers se répète sans fin et piaffe sur place. L’éternité joue imperturbablement dans l’infini les mêmes représentations»16. La dialettica tra Neue e Immergleichen diventa in questa prospettiva una dialettica in stato di quiete, poiché la novità si presenta come «une réalité depuis toujours présente»17. In questo senso la novità non sarà un utile strumento salvifico per l’umanità, che si mostra come dannata a vivere nel ciclo di un’eterna ripetizione dell’identico. Per questo Benjamin afferma a proposito di Blanqui: «la nouveauté lui apparaît comme l’attribut de ce qui appartient au ban de la damnation»18. Nella prospettiva di Blanqui, come abbiamo già sottolineato, non vi è la possibilità di una redenzione per l’umanità. Su questo punto s’innestano le riflessioni benjaminiane sul carattere distruttivo e sulle possibilità di redenzione offerte da un’osservazione delle immagini sapientemente istruita e indirizzata. Così come Blanqui, pensatore rivoluzionario e controcorrente, ha visto una contrapposizione tra progresso e rivoluzione, il carattere distruttivo, eletto da Benjamin a modello di una nuova conoscenza storica, è mosso da questa considerazione per offrire a chi ha una disposizione all’ascolto del pensare, unita a una propensione per le immagini, una chiave interpretativa volta a superare quello stato di catastrofe permanente, che rischia di farsi eterno. L’appercezione catastrofica della storia muove Benjamin ad offrire uno squarcio di salvazione attraverso una riflessione marcatamente etico-politica. La propensione all’ascolto, che deve avere il lettore di Benjamin, ricorda quella pura recettività inintenzionale delle idee che caratterizza il filosofo che abita le pagine della Premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco e dei saggi giovanili sulla lingua. Ciò non deve essere dunque inteso in senso dispregiativo, nei termini di una pura passività, ma al contrario vuole muovere il lettore ad un nuovo modo 16
Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 35. Ibid., p. 20. 18 Ibid., p. 35. 17
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di ascoltare e vedere la tradizione. In questo senso il rapporto con ciò che è stato non assume alcun significato se si limita a ripercorrere ciò che la tradizione conformista, che ha fatto oggi del capitalismo una religione, ha sempre trasmesso. Tale riflessione apre un interrogativo di estrema importanza circa il problema del rapporto tra storia e tradizione, tra cultura e memoria di essa. Nella visione benjaminiana non ha senso né una rimozione totale della propria memoria da parte di una cultura, né tanto meno una cultura che immobilizzi se stessa in una perenne commemorazione del passato. Entrambe sono votate all’impotenza. La tradizione non è da intendersi nei termini di un fiume continuo, in cui le cose si trasmettono seguendo la corrente, ma come dialettica tensiva in cui le acque si mescolano, rinnovando gli oggetti del tramandare e con essi la capacità di guardare19. Se ripensiamo alle pagine benjaminiane sul carattere distruttivo, sembra di scorgere un’opposizione tra due diversi atteggiamenti rispetto alla tradizione. Da un lato si situano i collezionisti, che intendono la tradizione nei termini della trasmissibilità, dall’altro vi sono i cosiddetti distruttivi, che si collocano in posizione contrastiva rispetto alla tradizione. Queste le parole di Benjamin: Alcuni rendono le cose tramandabili (e sono soprattutto i collezionisti, caratteri conservatori, conservanti), altri rendono le situazioni praticabili, per così dire citabili: e questi sono i caratteri distruttivi20.
È evidente che leggendo tali parole il lettore percepisca le due figure citate come antitetiche e inconciliabili. Tuttavia, ad una più attenta osservazione del pensiero benjaminiano, tale contrapposizione non è da intendersi come sussistente. Così come Benjamin afferma a proposito dei caratteri distruttivi che essi si trovano «nel fronte dei tradizionalisti», il gesto del collezionista sembra riflettersi specularmente in quello del carattere distruttivo: la pratica del collezionismo, ampiamente attuata dallo stesso Benjamin, nasce essa stessa da un’esigenza di superamento della disperazio19 Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. di E. Codignola, G. Sanna, Firenze 1964, vol. I, p. 11. 20 Benjamin, Appunti sul “carattere distruttivo”, in Opere complete IV, cit., p. 524.
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ne del presente e da un forte desiderio di distruggerlo21. Non è solo il carattere distruttivo a voler rendere citabile un certo passato, ma lo stesso collezionista elegge come oggetto della propria indagine le citazioni. Come noto, tra le passioni del collezionistaBenjamin non vi erano soltanto i libri, ma, da vero bibliomane, egli conservava in piccoli taccuini una raccolta insuperabile di citazioni, provenienti dagli ambiti più diversi: dalle poesie del diciottesimo secolo agli articoli di giornale. Il ricorso alla citazione non era dunque dovuto ad un’esigenza conservativa, né tanto meno conservatrice, quanto piuttosto al desiderio di «purificare, strappare dal contesto, distruggere»22. Nella pratica del collezionismo di citazioni è individuabile una sottile tensione tra il bisogno di preservare e quello di distruggere, ed è in questo senso che la citazione si mostra incomparabilmente potente nell’attuare una cesura all’interno della tradizione23. Se la tradizione è volta a tramandare un patrimonio di oggetti e di valori dati per assodati, il collezionismo si concentra soltanto su alcuni elementi apparentemente meno appariscenti, ma ricchi al contrario di una straordinaria potenza conoscitiva. Se la prima segue una direzione temporale lineare e progressiva, il secondo trova la sua dimora più propria nelle interferenze, nei momenti di rottura, nei luoghi di passaggio, di transizione, negli interstizi e negli intervalli. Si tratta per quest’ultimo di stracci, 21 H. Arendt ha messo in evidenza che l’esercizio di pensiero di Benjamin era fortemente influenzato dalla sua passione per il collezionismo. La pratica del collezionismo diventa una figura essenziale, volta a chiarire la concezione benjaminiana di conoscenza storica e la necessaria interdipendenza di quest’ultima da un rapporto con la tradizione, che vive nella dialettica tra Destruktion e Konstruktion. Cfr. H. Arendt, Il pescatore di perle. Walter Benjamin 1982-1940, trad. it. di A. Carosso, Milano 1993. Punto di riferimento decisivo per il chiarimento di tale rapporto problematico è costituito da alcuni scritti, apparsi negli anni della crisi della repubblica di Weimar e dell’esilio dell’autore: Ich packe meine Bibliothek aus; Der Destruktive Charakter; Erfahrung und Armut. 22 Benjamin, Karl Kraus, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 130. 23 Sammler e destruktiver Charakter instaurano un rapporto essenziale con la tradizione. Quest’ultima non si configura, secondo Benjamin, come qualcosa di inviolabile e di immodificabile, che viene trasmesso di generazione in generazione, ma come un patrimonio di conoscenze che ogni generazione produce daccapo. Collezionista e carattere distruttivo vogliono operare un «ringiovanimento» del mondo e dei paradigmi ermeneutici e conoscitivi che lo caratterizzano, adottando come strumento la distruzione.
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rifiuti, «scarti della storia». Questi sono l’oggetto della ricerca benjaminiana sul senso della modernità, che trova il suo luogo più proprio nell’opera incompiuta sui passages. Bisogna a questo punto senz’altro richiamare alla mente del lettore il fatto che il concetto di modernità che emerge dalle letture benjaminiane non è da intendersi, come hanno fatto molti teorici del postmoderno, nei termini di un’eliminazione di tracce mnemoniche, per operare uno scarto rispetto al passato. Il concetto di moderno che emerge dalle analisi del filosofo berlinese risente in forte misura della visione baudeleriana secondo la quale la nostra originalità [in quanto moderni] deriva dall’impronta che il tempo imprime alle nostre sensazioni24.
La modernità è definita dunque attraverso la sua originalità e quest’ultima è offerta dall’«impronta del tempo». Ciò rimanda esplicitamente alla parentela etimologica che lega i termini «moda» e «modernità», entrambi impensabili in una dimensione a-temporale. Per cercare di definire la modernità, afferma Baudelaire ne Il pittore della vita moderna, «Il segreto è […] di distillare dalla moda ciò che essa può contenere di poetico nella trama del quotidiano, di estrarre l’eterno dall’effimero». E ancora: «La modernità è il transitorio, il fuggitivo, il contingente, la metà dell’arte, di cui l’altra metà è l’eterno e l’immutabile. […] Ogni epoca ha il proprio portamento, il proprio sguardo e sorriso. […] Perché ogni modernità acquisti il diritto di diventare antichità, occorre che ne sia tratta fuori la bellezza misteriosa che vi immette, inconsapevole, la vita umana»25. Secondo l’interpretazione che offre Benjamin di queste affermazioni, per permettere alla modernità di divenire antichità, e dunque per consentirle di divenire citabile, occorre che la memoria acquisti un ruolo attivo. «Le cose sopravvissute a se stesse sono diventate serbatoi inesauribili di ricordi»26. Non si tratta di 24 La citazione di Baudelaire proviene da: Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [J 6a, 2], p. 253 (traduzione nostra). 25 C. Baudelaire, Il pittore della vita moderna, in Id., Scritti sull’arte, trad. it. di G. Guglielmi, E. Raimondi, Torino 1992, pp. 288 sgg. 26 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi”, cit., [J 71, 2], p. 389.
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considerare gli oggetti come rientranti nella continuità della tradizione. La memoria si configura al contrario come rottura non solo della continuità storica, ma della stessa concezione che ad essa è sottesa. Tale concetto di memoria si lega inscindibilmente ad un nuovo dispositivo di pensiero del passato. Nel ricercare gli oggetti di scarto come modelli gnoseologici della modernità, Benjamin afferma che in essi si annida esemplarmente «l’immagine più intima di ciò che è stato»27. Ed è proprio da questa collezione di materiali di scarto ad emergere con nitidezza una nuova forma di sapere, leggibile nei termini di una filosofia della soglia, della transizione. Risulta a questo punto assai chiaro che il gesto del collezionista non è guidato dalla tradizione, se si intende quest’ultima come trasmissibilità. Infatti la tradizione impone ordine al passato, non solo in senso cronologico, bensì anche sistematico. La passione del collezionista manca al contrario di tale sistematicità, poiché non è volta, nelle intenzioni benjaminiane, ad una trasmissione di ciò che da un punto di vista qualitativo risulta rimarchevole, ma è suscitata dall’autenticità e dall’unicità del proprio oggetto. Alla tradizione il collezionista contrappone dunque il criterio dell’autenticità, così come all’autorevolezza il criterio dell’originarietà28. Autenticità e originarietà, oltre a richiamare le note pagine su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, sembrano riman27 Cfr. le belle analisi di G. Didi-Huberman sull’interesse benjaminiano per stracci e oggetti di scarto in: Didi-Huberman, Ninfa moderna, cit. 28 Su questo punto Benjamin si distacca nettamente da ciò che è diventata oggi la pratica del collezionismo. L’interesse del collezionista Benjamin è alimentato infatti da oggetti apparentemente trascurabili, ai margini, sulle soglie, ai bordi delle strade, oggetti che non sono considerati per il loro valore d’uso e tanto meno per il loro valore di scambio, ma che vengono liberati dalla schiavitù di essere utili e di avere un prezzo, un valore in termini di denaro e dunque di mercificazione. Gli oggetti su cui si sofferma il Sammler benjaminiano valgono infatti per la loro insostituibilità per chi li possiede. Possono essere anche stracci, brandelli, immagini strappate, ma nulla può subentrare al loro posto nella mente di chi si è impadronito di loro. Questa osservazione, apparentemente marginale, ci sembra invece di una portata straordinaria per comprendere il senso della rivoluzione operata da Benjamin nei confronti di una tradizione intesa come patrimonio che viene trasmesso integralmente di generazione in generazione, come bottino culturale che passa di vincitore in vincitore, sempre e comunque seguendo la linearità del decorso cronologico e dunque dal punto di vista dei «potenti». Su questo punto ha insistito tra gli altri H. Arendt nel saggio dedicato a commemorare l’amico scomparso, menzionato in precedenza.
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dare all’intenzione benjaminiana di costruire un atlante di immagini configurabile come archeologia della modernità, o, in termini goethiani, come storia originaria del Moderno (Ur-geschichte der Moderne). Esso si costruisce attraverso una lettura del presente, che vuole portare alla luce tracce delle epoche passate. Nelle suggestive pagine in cui Hannah Arendt traccia un ritratto dell’amico scomparso, è contenuta una delle più belle definizioni del metodo benjaminiano. Richiamandosi alla Tempesta shakespeariana, l’autrice definisce in modo magistrale la dialetticità del pensiero benjaminiano. Come un pescatore di perle che si cala sul fondo del mare, non per disseppellirlo e riportarlo alla luce, ma per liberare quel che in esso c’è di ricco e inconsueto, le perle e il corallo degli abissi, e ricondurlo in superficie, questo pensiero scava nei recessi del passato, ma non allo scopo di resuscitarlo a ciò che era e di contribuire al rinnovamento di epoche estinte. Ciò che guida questo pensiero è la convinzione che, benché i viventi siano soggetti alla rovina del tempo, il processo di decadimento è contemporaneamente un processo di cristallizzazione, che sul fondo degli abissi, ove affonda e si dissolve ciò che un tempo era vivo, certe cose subiscono un «sortilegio del mare» e sopravvivono in nuove forme cristallizzate immuni agli elementi, come se aspettassero solo il pescatore di perle che un giorno scenderà da loro per ricondurle al mondo dei vivi – quali «frammenti di pensiero», cose «ricche e strane» e forse, addirittura, eterni Urphänomene29.
Nel gesto del collezionista che, attraverso un montaggio di citazioni tratte da materiali diversi, ricostruisce il passato, non tanto come patrimonio consolidato da tramandare di generazione in generazione, ma piuttosto come percorso discontinuo, teso a mettere in risalto frammenti di pensiero, perle e coralli che le generazioni passate hanno lasciato cadere negli abissi più reconditi della dimenticanza, si annidano tracce di distruzione e rinnovamento. Queste ultime, nella Zweideutigkeit che configura la loro compenetrazione, mostrano compiutamente la loro natura dialettica. La vera misconosciutissima passione del collezionista è sempre anarchica, distruttiva. La sua dialettica è infatti: combinare alla fedeltà all’og29
Arendt, Il pescatore di perle, cit., pp. 91 sgg.
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getto, a ciò che è singolo, a ciò che in esso è salvo la protesta caparbia e sovversiva contro ciò che è tipico, classificabile30.
Attraverso la catarsi del gesto citante, il collezionista sembra dunque rinviare ad un motivo complementare all’attività del carattere distruttivo. Alla ricerca di nuove vie per rapportarsi al passato della tradizione, entrambi fanno della distruzione non solo il motore delle loro indagini, ma anche il phármakon per superare quello stato di crisi permanente, che sembra essere divenuto la regola. Se la logica capitalista ha costretto gli oggetti alla schiavitù di dover essere utili, il collezionismo rappresenta, nelle intenzioni benjaminiane, una modalità di approccio ad essi, volta a liberarli da tali infernali ceppi. In questo senso esso costituisce una sorta di Miniaturmodell della redenzione dell’umanità. A questo punto, dopo aver appianato le apparenti ambiguità che sembravano contrapporre il collezionista al carattere distruttivo, mostrando che entrambi vedono nella distruzione non solo un modo di rapportarsi alla tradizione, che evita la sua pura trasmissibilità, ma anche una possibile apertura utopica e redentiva, che offre strumenti ermeneutici per una nuova rilettura della storia, vogliamo ora concentrarci sul motivo della nostra elezione del carattere distruttivo a emblema della «filosofia della transizione» e sulle implicazioni che tale scelta ha avuto per la nostra ricerca. Come è stato sottolineato, il concetto benjaminiano di carattere distruttivo è stato tematizzato dal filosofo in due saggi – Der destruktive Charakter (1931) ed Erfahrung und Armut (1933) – che, nella loro scansione, sembrano voler dimostrare al lettore che «Die Konstruktion setzt die Destruktion voraus». Se nel primo è offerta, nella forma di un Denkbild, l’immagine del distruttore, che «cancella perfino le tracce della distruzione», il secondo riguarda esattamente quella fase di transizione che conduce dal vecchio al nuovo mondo. Le espressioni «creare spazio», «far pulizia» che assumono per il carattere distruttivo le sembianze di parole d’ordine, preludono all’instaurazione di nuovi paradigmi da sostituire all’Erfahrungsarmut, che ha reso gli uomini incapaci di dire e di trasmettere esperienze. Di fronte all’incapa30
W. Benjamin, Elogio della bambola, in Opere complete IV, cit., p. 10.
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cità dell’uomo contemporaneo di stabilire un rapporto con il passato, che si configuri nei termini di una pura trasmissione di un patrimonio culturale che ha perso d’autorità, Benjamin intravvede la possibilità di introdurre attraverso la figura del carattere distruttivo «un nuovo positivo concetto di barbarie»31 e cioè una nuova forma di relazione con il passato della tradizione. La distruzione assume in questo senso una connotazione positiva, in quanto apre la strada alla costruzione di nuovi modelli di conoscenza. Ciò diventa esplicito nel secondo saggio citato, in cui il carattere distruttivo viene descritto come un costruttore. Di fronte all’apparente vicolo cieco in cui la nostra stessa attualità è stata condotta dal capitalismo, attraverso un uso prepotente e bombardante di Wunsch-bilder, Benjamin afferma la potenza di alcuni gesti «inaugurali» come ricominciare da capo (von vorn beginnen), iniziare dal nuovo (von Neuem anfangen), farcela col poco (mit Wenigem auskommen), costruire a partire dal poco (aus Wenigem heraus konstruiren), non guardare né a destra né a sinistra (weder rechts noch links blicken). La distruzione, se opportunamente condotta, può pre-mettere e pro-mettere una costruzione positiva. «Tra i creatori – afferma Benjamin – ci sono stati sempre gli implacabili, che per prima cosa facevano piazza pulita. […] Sono stati dei costruttori»32. All’aporia conformistica del continuum lineare e progressivo, il filosofo contrappone un’interruzione distruttiva e creatrice. Al capitalismo come religione, la distruzione come illuminazione. Se attraverso il primo model31 Tale affermazione risente chiaramente dell’influenza del pensiero di Nietzsche. Su questo punto ha insistito B. Lindner in un suo recente saggio. Cfr. B. Lindner, Zu Traditionskrise, Technik, Medien, in Lindner (a cura di), Benjamin Handbuch, cit., pp. 451-464. Se procedendo nel testo Benjamin afferma «l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è necessario», tale affermazione, inserita nel contesto della cancellazione del patrimonio librario ad opera di Hitler, si rivela di una portata ancora più rivoluzionaria. In una variante manoscritta del testo Benjamin nota inoltre: «Ma chi può seriamente accettare che l’umanità superi l’empasse che le sta di fronte caricata della valigia di un collezionista o di un antiquario?». GS II/3, p. 961 (traduzione nostra). Questa frase è chiaramente autobiografica: in quegli anni Benjamin si trovava infatti a dover fissare anche concettualmente il suo statuto di esule. Egli stesso, così come il carattere distruttivo, doveva saper ricominciare da capo, farcela con poco e non guardare né a destra, né a sinistra, ma fissare un punto-zero (Nullpunkt) a partire dal quale interrogarsi su un nuovo inizio sul piano pratico. 32 Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., p. 540.
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lo si è condotti alla pratica di un culto che alimenta se stesso senza espiare una colpa, ma invece allo scopo di rendere quest’ultima universale e dunque condivisibile, la distruzione vuole mostrare delle aperture della storia nei confronti di una possibile redenzione. È evidente che il ricorso da parte di Benjamin ad un possibile esito di salvazione non è il risultato di una scelta di comodo, ma al contrario nasce da una profonda delusione per un presente fatto di catastrofi e devastazioni. È proprio la coscienza della negatività dell’epoca a lui contemporanea – che lo ha minacciato direttamente mettendo in discussione la sua stessa sopravvivenza – a condurre l’autore ad un’esigenza segnatamente etico-politica al rinnovamento, alla trasformazione. Attraverso la transizione dalla visione «progressiva» ad una concezione di forte rottura è possibile, secondo Benjamin, pensare ad un esito diverso della storia. Il carattere distruttivo si situa in questo ambito come l’abitatore di due mondi complementari. Occupando la soglia tra il vecchio e il nuovo, egli è rivolto contemporaneamente al passato e al futuro. In questo modo è in grado di illuminare con il proprio gesto distruttore il presente della transizione attraverso una modalità di visione che supera le forme consolidate dell’apparenza, muovendosi alla ricerca dell’oggetto filosofico che può sussistere solo in quanto velato, la verità. Il carattere distruttivo offre dunque un nuovo modello epistemologico ed ermeneutico per pensare la nostra memoria, il nostro passato e la nostra tradizione. Senza voler operare un azzardo, potremmo dire che egli, in quanto abitatore dello spazio-tempo della transizione, incarna perfettamente la figura del filosofo. Attraverso un’analisi di tale paradigmatico modello conoscitivo abbiamo tentato di offrire alla ormai sterminata letteratura critica su Benjamin una trattazione su che cosa significhi per l’autore berlinese fare filosofia nelle epoche in cui lo stato di eccezione è divenuto la regola. Benjamin costituisce dunque nella nostra interpretazione un modello esemplare di carattere distruttivo in ambito filosofico. Di fronte alla ormai irreparabile crisi dell’esperienza e della narrazione, denunciate da Benjamin, sembra divenuto necessario invocare la necessità della sopravvivenza, di un Nach-leben, di
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forme e immagini mnemoniche appartenenti al passato della tradizione, sotto mutate spoglie, che nascondono attraverso il velo dell’apparenza un nocciolo di verità che rischia di restare coperto. Facendo della Erfahrungsarmut qualcosa di diverso dall’impoverimento spirituale e intellettuale, il filosofo deve saper intravvedere le tracce di un possibile rinnovamento, leggendo negli oggetti più appartati. È in questo senso che il carattere distruttivo non si limita ad offrire un modello ermeneutico per l’interpretazione e la conoscenza del passato, ma apre una piccola finestra su ciò che non è ancora accaduto. Se, come è stato più volte osservato dalla critica, il modello di conoscenza proposto da Benjamin sembra sbilanciarsi verso una ri-lettura della Vergangenheit, il punto di forza della lettura dell’epoca contemporanea all’autore sembra identificabile con la spinta al rinnovamento che in tale lettura è contenuta. Le forze per il «ringiovanimento» del linguaggio filosofico, di cui si fa carico il carattere distruttivo, sono inscindibilmente legate alla potenza che può avere l’incontro/scontro tra il presente e un istante preciso di ciò che lo ha preceduto. Le costellazioni prismatiche a cui Benjamin suggerisce di prestare ascolto, o forse sarebbe più opportuno dire prestare lo sguardo, possono essere, per un lettore-ascoltatore desto e attento, trampolini di lancio per una «nuova positiva» concezione filosofica. Non si tratta di una pura e semplice sostituzione di una nuova filosofia della storia all’ormai usurato modello storicistico, ma di una vera e propria rinascita per la filosofia da intendere come disciplina della transizione o come pensiero in forma di passage. Se Benjamin afferma a proposito del carattere distruttivo che «poiché vede ovunque strade si trova sempre al crocevia»33, ciò sembra adattarsi perfettamente all’esercizio del pensare operato dall’autore berlinese. Se – come ha acutamente sottolineato l’allievo Adorno – Benjamin si trova «al di fuori di tutte le correnti» ciò è senz’altro imputabile alla duttilità e all’atto di flâner intellettuale che ha fatto di Benjamin un pensatore della soglia, in tutte le sue forme. Potremmo dire che se egli si trova «al di fuori di tutte le correnti», e dunque non è incasellabile in 33 Benjamin, Il carattere distruttivo, in Opere complete IV, cit., p. 522 (traduzione modificata).
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alcun «movimento» filosofico e non ha neppure dato l’avvio ad una scuola di pensiero, ciò è senza dubbio perché egli si trova al crocevia di tutte le strade34, in quella zona a-topica, che proprio in quanto No Man’s Land mostra la sua incomparabile potenza. In questo senso prendiamo in prestito un frammento del Passagen-Werk, per restituirlo subito al suo Autore. Negli ambiti, con i quali abbiamo a che fare, la conoscenza è data solo in modo fulmineo. Il testo è il tuono che poi continua a lungo a risuonare35.
Questo è, a nostro avviso, il peso che il pensiero benjaminiano ha avuto per la cultura novecentesca e che auspichiamo possa continuare ad avere nel millennio da poco iniziato. Ciò non solo per i contenuti che l’autore ha trasmesso attraverso i propri scritti, ma per aver voluto inaugurare un nuovo modo di rapportarsi al passato della tradizione, che rende responsabili gli attori del presente nei confronti di un patrimonio, che non è solo un carico pesante da portare con noi, ma una chiave interpretativa per aiutarci a comprendere quelle fasi di transizione che sono divenute la norma. Attraverso il binomio Destruktion/Konstruktion, offertoci dalle pagine di Der destruktive Charakter ed Erfahrung und Armut, Benjamin sembra voler auspicare non solo per sé, ma anche per le generazioni che verranno di bonificare territori su cui finora è cresciuta solo la follia. Penetrarvi con l’ascia affilata della ragione, senza guardare né a destra né a sinistra, per non cadere preda dell’orrore che adesca dal fondo della foresta. Ogni terreno ha dovuto, una volta, essere dissodato dalla ragione, ripulito dalla sterpaglia della follia e del mito36.
«È quanto occorre fare qui per il XIX secolo» – conclude Benjamin. Ed è quanto occorre fare anche per tutte le epoche successive – vorremmo aggiungere. 34 Cfr M. Löwy, Redenzione e utopia, cit. Nel bel libro di Löwy Benjamin è inserito in un’analisi sui pensatori ebraico-tedeschi di inizio Novecento come un autore non incasellabile in una corrente definita. Al di fuori di tutte le correnti e al crocevia di tutte le strade: Walter Benjamin è il titolo dedicato all’analisi di tale pensatore prismatico. 35 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 1, 1], p. 510. 36 Ibid., [N 1, 4], pp. 510 sgg.
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La concezione filosofica di Benjamin è espressione di una forza costruttiva che può nascere dall’Erfahrungsarmut, se le forze della distruzione vengono sapientemente indirizzate ad un’apertura redentiva. Ciò significa che il compito storico-filosofico di cui si fa interprete il carattere distruttivo non è semplicemente una Traumdeutung dei sogni prodotti dalla fantasmagoria del capitalismo, che hanno fatto sprofondare il diciannovesimo secolo in un sonno profondo, ma un’opera di risveglio, che contrapponga agli spettri del capitalismo non tanto un’altra forma di religione, quanto piuttosto «il momento distruttivo, che garantisce l’autenticità del pensiero dialettico, come l’autenticità dell’esperienza del dialettico»37. La scienza della storia non deve cioè avere come oggetto un groviglio di puri dati di fatto, bensì quel gruppo definito di fili che rappresenta la trama di un passato nell’ordito del presente. (Sarebbe errato voler identificare questa trama col mero nesso di causa ed effetto. Piuttosto, questa trama è tutta di genere dialettico, ed è possibile che per secoli siano andati perduti certi fili, che il corso attuale della storia riprende di colpo e quasi inavvertitamente)38.
La conoscenza storica diviene in questo modo fortemente connotata in senso politico. Se la storia è il prodotto di una costruzione operata attraverso la lettura e l’interpretazione di segni e immagini nascoste, non ha senso per Benjamin parlare di attualizzazione nel significato che questo termine assume abitualmente nella storia della cultura. Attualizzare il passato significa per l’autore berlinese produrre una nuova Vergangenheit, rendendo il passato «scandaloso» per il presente39. Nel voler presentare al lettore il pensiero benjaminiano come filosofia della soglia, ci si è imposto chiaramente di confrontarci con una serie di tematiche che, evidenziando una sottile tensione 37
Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico, in L’opera d’arte, cit., p. 92. Ibid., p. 93. Su questo punto Benjamin critica non solo lo storicismo, ma anche la socialdemocrazia: «[I socialdemocratici] non riconobbero il lato distruttivo di questo sviluppo [prodotto dal capitalismo] perché erano ormai lontanissimi dall’aspetto distruttivo della dialettica». Ibid., p. 89. 39 Un’interessante prospettiva di attualizzazione del Passagen-Werk (o PassagenArbeit, come preferisce definirlo I. Wohlfarth sulla base di alcuni appunti di Benjamin) è contenuta nel saggio: I. Wohlfarth, Die Passagenarbeit, in Lindner (a cura di), Benjamin Handbuch, cit., pp. 251-274. 38
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tra antico e moderno, vecchio e nuovo, passato e presente, mettono in luce increspature e ambivalenze nella riflessione benjaminiana e aprono una serie di interrogativi40. Dapprincipio la domanda circa la possibilità di una conciliazione tra distruzione e tradizione. Come abbiamo affermato nelle pagine precedenti, è individuabile nel pensiero dell’autore berlinese un’ambiguità difficilmente conciliabile tra collezionista e carattere distruttivo, tra tradizionalista e iconoclasta, tra l’esigenza di conservare e quella di distruggere. Tali oscillazioni non indicano la debolezza del ragionamento benjaminiano, ma ne mostrano piuttosto la forza e sono espressione di un lavoro di ricerca che scava alle radici delle cose, per tentare di portarne alla luce l’origine, intesa segnatamente come Ur-sprung. In questo senso le figure del Sammler, del destruktive Charakter e dell’historische Materialist adottano la citazione come principio operazionale, poiché essa contiene una tensione dialettica tra impulso alla distruzione e tensione alla salvazione41. Ciò viene 40 Nel secondo Exposé al Passagen-Werk, Benjamin elegge Baudelaire a figura esemplare della coesistenza e della compenetrazione tra antico e moderno. Ciò si rivela di una portata straordinaria se teniamo a mente che le pagine dedicate al poeta francese dovevano costituire, nelle intenzioni benjaminiane, un Miniaturmodell dell’opera sui passages. Come abbiamo già sottolineato, proprio in questa prospettiva Benjamin aveva costruito nella mappatura delle citazioni del Passagen-Werk un vero e proprio codice topografico, che associava agli argomenti che egli collegava al poeta francese delle piccole sigle di forme e colori diversi, leggendo le quali era possibile ricostruire un codice di lettura alternativo per l’opera sui passages. Se l’ambiguità è la cifra della modernità, Benjamin afferma: «Spleen et idéal – dans le titre de ce premier cycle des Fleurs du mal le mot étranger le plus vieux de la langue française a été accouplé au plus récent. Pour Baudelaire il n’y a pas contradiction entre les deux concepts. Il reconnaît dans le spleen la dernière en date des transfigurations de l’idéal – l’idéal lui semble être la première en date des expressions du spleen. Dans ce titre où le suprêmement nouveau est présenté au lecteur comme un “suprêmement ancien”, Baudelaire a donné la forme la plus vigoreuse à son concept du moderne. Sa théorie de l’art a toute entière pour axe la “beauté moderne” et le critère de la modernité lui semble être ceci, qu’elle est marquée au coin de la fatalité d’être un jour l’antiquité et qu’elle le révèle à celui qui est témoin de sa naissance. C’est là la quintessence de l’impévu qui vaut pour Baudelaire comme une qualité inaliénable du beau. Le visage de la modernité elle-même nous foudroie d’un regard immémorial. Tel le regard de la Méduse pour les Grecs». Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 30. 41 In un libro uscito postumo nel 2006, J.-M. Palmier ha scelto tre figure che, attraverso delle variazioni attorno al tema del dorso (gobba, ali, borsa), incarnano la dialettica tra destino e salvazione. Si tratta dell’omino gobbo, dell’angelo e dello straccivendolo. Cfr. Palmier, Walter Benjamin, cit.
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esplicitato nelle tesi Über den Begriff der Geschichte dall’affermazione: «solo a una umanità redenta tocca in eredità piena il suo passato. Il che vuol dire: solo a una umanità redenta il passato è divenuto citabile in ciascuno dei suoi momenti»42. Entrare in pieno possesso del proprio passato significa, secondo Benjamin, poterlo citare. Se l’umanità raggiunge tale rapporto con il proprio passato, essa è redenta. Se ripensiamo alla teoria della citazione, espressa dai saggi Der destuktive Charakter e soprattutto Karl Kraus, ricordiamo che la forza della citazione non è tanto «di custodire, ma di purificare, di strappare dal contesto, di distruggere»43. Tuttavia citare una parola significa anche «chiamarla per nome». «La citazione chiama la parola per nome, la strappa dal contesto che distrugge, ma proprio per questo la richiama anche all’origine»44. È dunque evidente che origine e distruzione si compenetrano nella citazione. Se redimere il passato significa renderlo citabile e nel procedimento della citazione le forze distruttrici si combinano ad una tensione all’origine, ciò vuol dire che il rapporto con il passato auspicato da Benjamin si configura nella tensione irrisolta tra conservazione e distruzione. La potenza della posizione benjaminiana si situa proprio nella compenetrazione, di ascendenza ebraica, tra distruzione e salvazione45. La restituzione del passato alla sua origine non implica una mera sostituzione dei contenuti di ciò che tramanda la tradizione. Non si tratta infatti di sostituire alla storia dei potenti e dei dominatori la storia degli oppressi. Si tratta di salvare il passato da un particolare modo della sua trasmissione, di non tramandarlo cioè come patrimonio ereditario, ma di interrompere tale trasmissione e tale idea di tradizione46. È proprio la figura del42
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 23. Benjamin, Karl Kraus, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 130. 44 Ibid., p. 128. 45 Su questo punto la nostra interpretazione si avvicina fortemente a quella che Agamben sostiene in: Agamben, Walter Benjamin e il demonico, cit. 46 «Altrettanto forte quanto l’impulso distruttivo è, nella storiografia autentica, l’impulso alla salvazione. Ma da che cosa può essere salvato qualcosa che è stato? Non tanto dall’infamia e dal disprezzo in cui è caduto, quanto da un determinato modo della sua tradizione. Il modo in cui viene celebrato come “eredità” è più disastroso di quanto potrebbe esserlo la sua scomparsa». Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 86. 43
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l’interruzione a situarsi al centro dell’interpretazione benjaminiana della storia. Citazione, interruzione, cesura, arresto indicano i gesti che, brechtianamente, Benjamin ha eletto a metodo della sua concezione storica e filosofica. In questo senso Benjamin afferma in una nota appartenente ai Materiali preparatori delle tesi la necessità di inserire tra i fondamenti teorico-conoscitivi dell’opera sui passages alcune considerazioni dedicate a Carl Gustav Jochmann, scrittore rivoluzionario del romanticismo tedesco, che egli percepisce come un anticipatore. La sua opera, Die Rückschritte der Poesie (I regressi della poesia) «si colloca nel secolo XIX come un meteorite caduto dal XX». Egli è descritto come un veggente, che, al pari dell’Angelus Novus, volta le spalle al futuro. Questo rapporto di «veggenza» nei confronti del futuro sembra essere uno dei tratti caratterizzanti anche il fare storia di Benjamin. «Saranno forse critica e profezia le categorie che vengono a convergere nella “salvazione del futuro?”» afferma poco oltre. E prosegue: «Come si può conciliare la critica del passato (p. es. Jochmann) con la sua salvazione? Tener ferma l’eternità degli accadimenti storici, vuol dire propriamente: attenersi all’eternità della loro transitorietà»47. Per tenere insieme distruzione e salvazione occorre saper esercitarsi nell’atto dell’arresto, saper cioè permanere in quell’istante preludente la novità, considerare la soglia tra due istanti come coesistenza di passaggio e di cesura. La soluzione a cui porta l’opera del carattere distruttivo non ha nulla di finale, di definitivo. Lo spazio vuoto prodotto dalla distruzione non deve essere immediatamente colmato, la memoria di ciò che è stato non deve essere definitivamente cancellata. Ciò richiama fortemente la fonte d’ispirazione teologica48, che permea nel profondo queste pagine benjaminiane. Così come il teologo opera guidato dalla memoria di una rivelazione precedentemente manifestatasi49, allo stesso 47
Ibid., pp. 92 sgg. Cfr. I. Wohlfarth, Nihilismo contra nihilismo. Sull’attualità della “politica mondiale” di Walter Benjamin, in M. Ponzi, B. Witte (a cura di), Teologia e politica. Walter Benjamin e un paradigma del moderno, Torino 2006, pp. 51-85. 49 Cfr. B. Groys, Sulla riproduzione totale, in Ponzi, Witte (a cura di), Teologia e politica, cit., pp. 397-408. 48
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modo la figura della soglia come coesistenza di movimento e quiete richiama fortemente la dimensione sabbatiana dell’inoperosità50. Il carattere distruttivo mostra la forza della distruzione non tanto in quanto preludente ad una nuova costruzione, bensì in quanto essa può preludere ad altro. La distruzione subisce un forte sbilanciamento verso la dimensione della potenza, nel momento in cui Benjamin afferma la necessità per il carattere distruttivo di essere «sempre alacremente al lavoro». Il carattere distruttivo impara dalla natura che siamo esseri di passaggio51 e non possiamo occupare definitivamente alcuno spazio con una nostra «opera». «È la natura a dettargli i ritmi, indirettamente almeno: perché deve prevenirla. Altrimenti si incaricherà essa stessa della distruzione». In questo senso la salvezza non deve essere pensata come compimento, come fine, ma come facente parte del nostro perenne transitare, e dunque non tanto in senso escatologico, bensì in senso storico. Se la scena della salvezza è storica, il teatro descrittoci dal carattere distruttivo è quello di una potenza che crea incessantemente nell’atto del distruggere e che riesce a mantenersi potenza anche nell’atto. L’immagine dialettica (dialektisches Bild) s’inserisce in questo progetto come la soluzione adottata da Benjamin in ambito teorico-conoscitivo, per conciliare il momento distruttivo proprio della storiografia materialistica con il suo impulso alla salvazione. L’elemento distruttivo o critico nella storiografia si esplica nello scardinare la continuità storica. […] Questo elemento distruttivo nella storiografia va concepito come reazione ad una costellazione di pericoli che minacciano tanto il contenuto della tradizione quanto il suo destinatario. Contro questa costellazione di pericoli muove la storiografia; sta ad essa dar prova della sua presenza di spirito. In questa costellazione di pericoli l’immagine dialettica guizza fulmineamente. Tale immagine è identica all’oggetto storico; essa giustifica lo scardinamento del continuum52.
L’immagine dialettica è una categoria conoscitiva, che si caratterizza come manifestantesi all’improvviso, è «un’immagine bale50
Cfr. Agamben, Il Regno e la gloria, cit. Cfr. D. Gentili, “Soluzioni finali”. Critica della Gewalt e critica del potere in Walter Benjamin, in Ponzi, Witte (a cura di), Teologia e politica, cit., pp. 206 sgg. 52 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 86. 51
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nante»53, che abita quegli attimi di interruzione, di cesura, di arresto, in cui la tradizione «si spezza», mostrando le proprie «asperità» e i propri «spuntoni» come un possibile «appiglio» per «chi voglia spingersi al di là di essa»54. La nuova forma di conoscenza storica eletta da Benjamin a modello è data da una sequenza discontinua di immagini dialettiche. Se «all’atto del pensare appartiene tanto il movimento (Bewegung) quanto l’arresto dei pensieri (Stillstellung der Gedanken)», l’immagine dialettica si manifesta «là dove il pensiero si arresta in una costellazione satura di tensioni. […] Essa è la cesura nel movimento del pensiero. Naturalmente il suo non è un luogo qualsiasi. In breve, essa va cercata là dove la tensione tra gli opposti dialettici è al massimo»55. L’immagine dialettica si mostra dunque come figura della coesistenza di movimento e quiete, di passaggio e cesura, di conservazione e distruzione. Essa abita quell’istante di arresto che prelude al cambiamento. Quest’ultimo è da intendersi come mutamento di direzione che intraprende il corso storico, se esso è sapientemente interrotto dal materialista storico56. Ciò si realizza solo in base ad una particolare predisposizione alla lettura che caratterizza alcune figure di «rivoluzionari». L’immagine dialettica è caratterizzata infatti da un indice storico che dice non solo che essa appartiene ad un’epoca determinata, ma che giunge a leggibilità solo in un’epoca determinata. Tale leggibilità costituisce un momento stesso della dialettica. Essa si configura nel senso originario che nella lingua tedesca caratterizza il termine lesen, cioè heraus-lesen, interpretare i segni nascosti, le costellazioni, che nascono dall’incontro-scontro tra il presente in cui opera lo storico materialista e un particolare istante del passato che lo ha preceduto. In questo processo entrano in campo anche altre 53
Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 9, 7], p. 531. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 86. 55 Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., [N 10a, 3], p. 534. 56 Al materialista storico potremmo aggiungere altre figure di «salvatori», che intervengono nel pensiero benjaminiano a suscitare il vero ed effettivo stato di eccezione, cioè l’interruzione del continuum storico lineare e progressivo e la sua sostituzione con un modello di conoscenza, che vede nella redenzione il «limes del progresso». Oltre naturalmente al riferimento all’intervento salvifico del Messia, stiamo alludendo chiaramente al carattere distruttivo e al collezionista. 54
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forme di percezione, come l’immaginazione, la facoltà di vedere e produrre immagini. L’immagine dialettica è dunque un’immagine interna, che è espressione di corrispondenze immateriali (unsinnliche Ähnlichkeiten). Immagini dialettiche e somiglianze immateriali sono caratterizzate dalla fulmineità del loro apparire. Per questo lo storico deve essere massimamente desto e attento nel configurarsi tali costellazioni, ponendosi all’ascolto, ad una pura recettività inintenzionale, grazie alla quale può giungere a salvare il passato dal suo manifestarsi come già stato e concluso, aprendolo invece alla possibilità di un esito diverso della storia. Leggendo la storia in questo senso, essa è «un’immagine che viene dalla rammemorazione involontaria, un’immagine che s’impone improvvisamente al soggetto della storia nell’attimo del pericolo»57. Per questo Benjamin in un appunto di folgorante lucidità definisce l’immagine dialettica come «il ricordo involontario dell’umanità redenta»58. Risulta a questo punto evidente perché la prima parte del nostro lavoro abbia assunto la struttura di una ring composition. Ciò non è evidentemente casuale, ma rientra in un progetto volto ad interpretare le immagini come figure della redenzione. Il metodo filosofico-conoscitivo inaugurato da Benjamin attraverso il concetto di immagine dialettica avvia una nuova forma di sapere che abita nelle zone interstiziali e coniuga il piano gnoseologico a quello estetico e a quello etico-politico. Attraverso il percorso da noi compiuto, abbiamo voluto rendere testimonianza di un modo di fare filosofia che livella le barriere disciplinari per transitare liberamente nello spazio dimensionale delle immagini e della storia. 57
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 87. Ibid., p. 96. L’immagine dialettica, intesa come momento dell’interruzione, salva da un’interpretazione della storia come catastrofe continua. Nell’appunto citato Benjamin afferma: «Nel momento in cui il passato si contrae nell’attimo – nell’immagine dialettica –, esso entra a far parte del ricordo involontario dell’umanità». Ciò significa che la contrazione del passato in un determinato attimo è in grado non solo di produrre conoscenza, ma entra a costituire «il ricordo involontario dell’umanità redenta». L’immagine dialettica si configura cioè nei termini di una figura paradossale della memoria di ciò che – in quanto oggetto della mémoire involontaire – non è mai stato visto. La redenzione si attua dunque, secondo Benjamin, non tanto per ciò che è stato, cioè il mero passato, che risulta ormai concluso, quanto invece per qualcosa che non è mai stato e che nasce da una particolare costellazione tra un determinato passato e un preciso attimo presente. 58
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Se, come abbiamo visto, il conio da parte dell’autore del concetto di dialektisches Bild può essere letto come esempio di tentata conciliazione tra discontinuità e tradizione, risulta senza dubbio problematico comprendere che cosa intendesse Benjamin con l’affermazione: «Bild ist die Dialektik im Stillstand»59, immagine è la dialettica in stato di quiete. Se pure l’accostamento del termine «immagine» alla determinazione «dialettica» potrebbe sembrare paradossale, il pensare ad una dialettica in fase statica potrebbe apparire come una contraddizione. C’è da dire che tali espressioni non sono ancora state compiutamente chiarite dalla critica e che forse proprio grazie alla loro enigmatica durezza, esse sapranno suscitare l’interesse delle generazioni successive, aprendo degli interrogativi filosofici, destinati a restare unlösbar. Per questo non riteniamo di poter decifrare (heraus-lesen) tali costellazioni problematiche, ma ci proponiamo di tentare un’Auseinandersetzung con esse, accostando loro la figura dell’Übergang. Se è dato per assodato che la dialettica ha la sua dimora nel tempo – lo stesso definire la dialettica una dialettica in stato di quiete implica la sua collocazione in una fase di arresto del tempo, in un momento di discontinuità situato nello scorrere del tempo – risulta evidente che l’opera sui passages (Passagen-Werk) si mostri come eminentemente dialettica. È lo stesso Benjamin a definire i passages come esempio di immagine dialettica60. Essi costituiscono l’immagine dialettica par excellence. Dedicando un’intera opera a descrivere la figura del passage, adottando quest’ultima non solo come contenuto della propria analisi, ma anche come forma di produzione di pensiero, Benjamin mostra la Dialektik im Stillstand nella figura del passage. Nell’analisi condotta nel capitolo Passage als dialektisches Bild, abbiamo individuato come costitutiva della figura del passage una Zweideutigkeit (ambiguità), che si esplica sia sul piano spaziale, che su quello temporale. A questo punto ci preme rievocare, se pure in modo cursorio, il concetto di ambiguità temporale che caratterizza il passage. In esso si mostra infatti il nucleo problematico che vogliamo esporre. Così come da un punto di 59 60
GS V/1, p. 577. Cfr. Benjamin, Opere complete IX. I “passages” di Parigi, cit., p. 14.
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vista topografico il passage si manifesta come luogo dall’identità incerta, in-decisa, in quanto coesistenza di interno ed esterno, di casa e strada, allo stesso modo il tempo sembra essersi congelato nel passage come eterno Übergang, contrapponendosi alla concezione dinamica e progressiva dell’accadere e mostrandosi come passaggio in-finito. Tale passaggio eternamente staticizzato, e dunque «in stato di quiete», non implica l’interruzione della transizione, ma piuttosto il tentativo di un superamento del concetto di fine, e con esso della concezione storica progressiva, che attribuisce al futuro una dimensione prospettica. Da queste riflessioni emerge, all’interno dell’analisi benjaminiana una nozione assai originale e promettente di soglia, che, nella sua ambivalenza, si offre come coesistenza di movimento e quiete, passage e cesura, continuum e discontinuum, conservazione e distruzione. Le implicazioni che di essa ci sembrano maggiormente problematiche e ricche di conseguenze si ricollegano alla formulazione da parte di Benjamin di una concezione di temporalità, data dalla coesistenza di presente, passato e futuro. Se il rapporto tra presente e passato si offre nell’immagine dialettica attraverso la relazione di Verwandtschaft che essa intrattiene con la mémoire involontaire, l’ingresso del futuro in tale costellazione è dato dalla cesura (Zäsur) operata dalla Dialektik im Stillstand, che apre la storia verso un suo possibile esito utopico e redentivo. Il progetto benjaminiano mira alla costruzione di una temporalità, che si sottragga alla negatività del modello cronologico, espressione di un modello dialettico di stampo hegeliano, nel quale il passato, inteso come «già stato», si dà come «il non essere dell’ora» e dunque nei termini della negazione. Il concetto di Jetztzeit (tempo-ora), che si offre come un presente immobile nella transitorietà dello spazio di un istante, nasce dunque per superare il modello storicistico61 da un lato, e dall’altro per specificare un concetto di presente in cui siano sparse schegge del tempo messianico, di quel tempo in grado di redimere gli eventi dal loro essere avvenuti di necessità e non poter essere altrimenti. 61 Alla critica allo storicismo si aggiunge anche quella a un certo materialismo storico, il più diffuso, influenzato da un’idea evoluzionistica di progresso.
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Il modello di temporalità offerto da Benjamin, operando una critica alla continuità e alla causalità storica, non considera il passato come irreparabile, e tanto meno il futuro come inevitabile. La messa in discussione di tali categorie si esplica attraverso una critica radicale all’ideologia progressiva su cui si è fondata la tradizione di pensiero occidentale almeno a partire dall’età dei Lumi. In contrapposizione a tale modello storiografico, l’autore propone una lettura alternativa dell’idea di storicità, che non deve essere più intesa nei termini di un progresso lineare che segue la freccia temporale in direzione di uno sviluppo progressivo «universale», «infinito» e «inarrestabile», ma che vuole operare un sovvertimento di tale interpretazione, offrendo delle aperture alla storia, che sono date proprio da quei momenti di cesura, interruzione, in cui si mostrano, come immagini balenanti, le immagini dialettiche. Se volessimo figurarci su un piano grafico la concezione di temporalità benjaminiana, che si produce attraverso l’intreccio dei concetti di progresso, catastrofe e redenzione, dovremmo ricorrere ad una freccia temporale, cioè ad una semiretta orientata costellata di punti da cui si dipartono altre semirette.
La prima semiretta indica la concezione temporale lineare e progressiva, orientata verso il futuro, criticata da Benjamin e sostenuta dallo storicismo e da un certo materialismo storico influenzato da un’idea evoluzionistica di progresso. I punti di tale semiretta, da cui si dipartono altre semirette orientate in infinite direzioni dello spazio, rappresentano i momenti di cesura, d’interruzione, in cui è possibile allo storico decifrare le immagini dialettiche. Tali punti sono cioè infinite Jetztzeit, in cui il corso
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lineare della storia si interrompe e prende una direzione diversa. Quei punti sono dei momenti di transizione nel senso evocato da Benjamin attraverso la Dialektik im Stillstand, e cioè una coesistenza di movimento e quiete. Da un punto di vista grafico, alla semiretta iniziale si aggiungono infinite altre semirette che si dipartono da essa, che vedono la loro origine negli infiniti punti da cui essa è formata. Ne deriva dunque un reticolo infinito di semirette orientate in infinite direzioni nello spazio. Ma veniamo ora al significato che tale immagine viene ad assumere sul piano di una nuova filosofia della storia d’impronta marcatamente etico-politica. Nella visione storica lineare e progressiva è implicita, secondo Benjamin, l’idea di catastrofe. «La catastrofe è il progresso, il progresso è la catastrofe. La catastrofe in quanto continuum della storia»62. «Il concetto di progresso va fondato nell’idea della catastrofe. Che “tutto continui così” è la catastrofe»63. «Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli [l’Angelus Novus] vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi»64. Non è questo il luogo in cui ripercorrere l’intero ragionamento compiuto nel capitolo Progresso, catastrofe e redenzione. Ciò che ci preme sottolineare è l’interpretazione che in quella sede abbiamo voluto offrire al nesso indicato. Benjamin vuole contrapporre alla visione storica lineare e progressiva, che è l’esito dello sguardo dei potenti, un modello alternativo di storia che sovverta tale visione, aprendo dei possibili scorci di redenzione e degli esiti diversi per gli eventi. La visione storicistica progressiva è leggibile, secondo Benjamin, come quell’unica catastrofe che vede l’Angelus Novus. Secondo tale concezione, il progresso coincide con la catastrofe, intesa come distruzione. Vi è tuttavia un ulteriore significato che la parola Katastrophe custodisce nella sua etimologia e che emerge dall’intero ragiona62
Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 89. Benjamin, Parco centrale, in Sul concetto di storia, cit., p. 246. 64 Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 37. 63
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mento benjaminiano. Esso viene illuminato dal confronto che abbiamo istituito tra il concetto di Katastrophe e quello di Ausnahmezustand. Coloro che sostengono la visione storica progressiva non fanno altro che rendersi interpreti di quello stato di eccezione, che secondo Benjamin, è divenuto la regola. Quando l’autore allude invece a quel «vero» ed «effettivo» stato di eccezione che lo storico materialista deve suscitare, fa scorgere al lettore la possibilità di un esito diverso per la storia, che redima gli eventi dal loro essere incatenati in una visione conformistica e conclusa. Ed è su questo punto che vogliamo fissare per un momento l’attenzione del lettore. Se il progresso appartiene a quella visione lineare e progressiva, che identifica l’eccezione con la regola e mostra la storia come un’unica catastrofe, in un appunto di rara lucidità Benjamin afferma che il «vero» progresso si offre solo nelle interferenze. Se progresso e catastrofe sono dati come coincidenti, ad un «vero» progresso deve corrispondere una «vera» catastrofe. Essa è situabile in quei punti della semiretta che avevamo identificato con la Jetztzeit, e che aprivano la storia a infiniti e possibili esiti diversi dal loro precipitare nella distruzione prodotta dalla guerra e dalla mercificazione. La vera catastrofe abita dunque negli intervalli, in quelle zone di transizione che preludono ad una nuova semiretta. Essa è da intendersi come interruzione del decorso lineare e progressivo e come coincidente con quei momenti emancipatori che Benjamin identifica su un piano profano con la rivoluzione e su un piano messianico con la redenzione. Risulta a questo punto evidente come il concetto di Katastrophe, nella Zweideutigkeit che lo connota, si identifichi nella sua prima accezione con il concetto di progresso, nella seconda con quelli di rivoluzione e redenzione. È proprio tale ambiguità a mostrare la forza del ragionamento benjaminiano. Se da un lato i due significati sembrano escludersi, c’è da dire che anche nella sua seconda accezione la catastrofe non è immune da distruzione. Quest’ultima è da intendersi come distruzione positiva, coincidente con la fase di transizione che fa approdare il ragionamento benjaminiano al concetto di salvazione. Proviamo ora a inserire la costellazione concettuale data da progresso, catastrofe e redenzione all’interno di un discorso più
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ampio, volto a mostrare l’attualità del discorso benjaminiano per l’interpretazione dell’epoca in cui stiamo vivendo. È ancora possibile ad una modernità che ha permesso e permette all’uomo come norma lo sterminio dei propri simili e la devastazione dell’ambiente parlare di progresso? Si tratta davvero, come sosteneva lo storicismo, di un progresso che coinvolge l’intera umanità ed è destinato ad una durata infinita? O non si tratta piuttosto di un’epoca di catastrofi e disastri?65 Se, come abbiamo accennato, la catastrofe non è solo sinonimo di disastro, ma può essere letta come transizione, soglia, svolta, rovesciamento, e dunque aprire ad un esito diverso della storia, essa comporta anche l’acquisizione di una nuova prospettiva sul mondo. Quest’ultima non presume più di dare una direzione alla storia, ma si colloca in una posizione contrastiva rispetto alla visione evoluzionistica. All’interno di questa nuova visione della storia, il pensiero di Benjamin si mostra come esempio di rara lucidità di una riflessione sul concetto di soglia e sulle aperture che esso comporta non solo in ambito dichiaratamente filosofico, ma per acquisire una chiave di lettura globale dell’epoca in cui stiamo vivendo. Di fronte alla norma, che caratterizza l’epoca contemporanea, di concepire lo stato di eccezione come la regola e dunque di leggere il momento attuale come provvisorio, instabile e preludente ad una stabilità, che invece non verrà mai raggiunta, sembra necessario addestrare lo sguardo ad adottare un nuovo punto di vista sugli eventi che ci circondano, attrezzarsi di un’armatura teoretica volta a dominare il caso e a portarsi all’altezza di ciò che sembra improbabile. Sembra dunque necessario adottare un sapere della transizione che sappia muoversi negli interstizi, negli intervalli, nelle zone apparentemente riposte e marginali. Questa forma di sapere ci sembra essere interpretabile come una possibile risposta alla domanda posta da Benjamin su che cosa ereditare in un’epoca caratterizzata dall’Erfahrungsarmut. Il saggio che porta il titolo Erfahrung und Armut si conclude con un’immagine molto incisiva attraverso la quale Benjamin esprime il proprio sconforto e la propria preoccupazione per un futuro che si annuncia come costellato da disastri e mancanza di 65
A conclusioni simili approda S. Natoli nel suo libro Progresso e catastrofe, cit.
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risorse spirituali nella maggior parte degli uomini, dalla classe politica alla massa. Siamo divenuti poveri. Abbiamo ceduto un pezzo dopo l’altro dell’eredità umana, spesso abbiamo dovuto depositarlo al Monte di pietà a un centesimo del valore, per riceverne in anticipo la monetina dell’«attuale». La crisi economica è alle porte, dietro di esse un’ombra, la guerra che avanza. Star saldi è divenuto oggi affare dei pochi potenti, che, lo sa Iddio, non sono più umani dei molti; nella maggior parte dei casi più barbari, ma non alla buona maniera. Gli altri allora devono prepararsi, di nuovo e con poco. Lo fanno insieme a quegli uomini, che del radicalmente nuovo hanno fatto la loro causa e lo hanno fondato su comprensione e rinuncia. Nelle loro costruzioni, immagini e storie l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se questo è necessario. E quel che è più importante, lo fa ridendo. Forse a tutti questo riso suona barbaro. Bene. Talvolta il singolo può pure cedere un po’ d’umanità a quella massa, che un giorno gliela renderà con interessi e interessi raddoppiati66.
Da tale visione catastrofica emerge tuttavia una sottile linea di speranza che l’autore consegna a quei pochi «che del radicalmente nuovo hanno fatto la loro causa e lo hanno fondato su comprensione e rinuncia». Si tratta ancora una volta dei cosiddetti caratteri distruttivi, che sanno affidarsi al poco per iniziare daccapo. Ad essi devono affidarsi, seguendone le tracce, coloro che vogliono sopravvivere alla perdita di esperienza e di cultura che caratterizza l’epoca contemporanea. Tale riflessione, di una portata straordinariamente anticipante, fissa lo sguardo su una situazione di crisi, che sembra essere destinata a non estinguersi. In questo senso il carattere distruttivo, di cui si fa interprete lo stesso Benjamin, mostra di possedere delle lenti infrarosse capaci di penetrare nelle cose, che allo sguardo miope dei molti – ivi comprese le classi al potere – si manifestano solo nella loro apparenza di fantasmagorie. Il carattere distruttivo è in grado invece di cedere «un po’ di umanità» a quella massa di barbari, che tuttavia, se giustamente sensibilizzata, saprà rendergliela un giorno di ritorno con interessi raddoppiati. Offrire tale interpretazione del pensiero benjaminiano non significa voler a tutti i costi salvarlo dall’essere incasellato nel66
Benjamin, Esperienza e povertà, in Opere complete V, cit., pp. 543 sgg.
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l’ambito di un pessimismo dai toni marcatamente nichilistici e distruttori, ma mostrare piuttosto la forza di quell’affermazione apparentemente paradossale con cui egli sembra anticipare il tema del destruktive Charakter nel saggio Der Surrealismus: organizzare il pessimismo non significa altro che allontanare dalla politica la metafora morale, e scoprire nello spazio dell’azione politica lo spazio radicalmente, assolutamente immaginativo (hundertprozentigen Bildraum). Ma questo spazio non può più essere misurato contemplativamente67.
«Organizzare il pessimismo» significa, nella nostra lettura, farsi interpreti di quel sapere della transizione, che sappia muoversi entro quell’epoca di immagini, feticci e apparenze che è l’età contemporanea. Tale sapere non può limitarsi all’ambito che Benjamin definisce «contemplativo». La filosofia della transizione si concretizza al contrario in un «pensare per immagini» che si muove sulla soglia tra theoría e práxis, estetica e politica, Wissenschaft e Kunst.
67
W. Benjamin, Il Surrealismo, in Avanguardia e rivoluzione, cit., p. 24.
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Ringraziamenti Questo saggio sviluppa le principali tematiche della mia dissertazione di dottorato, discussa nel 2007 presso l’Università degli Studi di Padova. Se esso è diventato un libro è stato grazie all’interessamento di molti. La mia riconoscenza va in primo luogo al Prof. Umberto Curi, per avermi incoraggiata ad avvicinarmi all’opera di Walter Benjamin e per aver seguito con grande attenzione e competenza l’intero percorso della mia ricerca. Ringrazio il Prof. Giacomo Marramao per i validi suggerimenti e per la fiducia che ha riposto nel mio lavoro. Sono grata inoltre al Dott. Fabio Grigenti per la stima dimostratami in più occasioni e per la sua grande disponibilità. Durante il periodo di ricerca trascorso a Berlino presso il Benjamin-Archiv e il Brecht-Archiv ho avuto la fortuna di conoscere il Dr. Erdmut Wizisla, direttore di entrambi gli archivi, che ringrazio per le fruttuose conversazioni e per avermi messo a disposizione materiali e competenze preziose, oltre ad avermi procurato stimolanti occasioni di incontro con altri studiosi del settore. Ringrazio anche il personale dei due archivi, in particolare Ursula Marx e Michael Schwarz del Benjamin-Archiv, che hanno contribuito a rendere il mio soggiorno particolarmente proficuo. Sono inoltre grata ai Proff. Willi Bolle, Jeanne Marie Gangebin, Winfried Menninghaus, Detlev Schöttker, Irving Wohlfarth, con i quali ho avuto fruttuosi scambi di idee in occasione di alcuni convegni internazionali su Benjamin. Un particolare ringraziamento va infine al Dott. Gino Giometti e al Dott. Stefano Verdicchio per aver accolto il mio lavoro presso la loro casa editrice, importante punto di riferimento per gli studi benjaminiani.
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Indice dei nomi
Abensour, Miguel 171 n. 54, 177 n. 66, 180 n. 70 Adorno, Theodor Wiesengrund 12, 19 n. 11, 24-25, 55-56, 65, 82, 116 n. 19, 145, 149, 174, 293 Agamben, Giorgio 15 n. 5, 26 n. 28, 30 n. 8, 37 n. 18, 37-41, 54 e n. 20, 82 n. 89, 84 n. 97, 92 n. 20, 100 n. 37, 104 n. 43, 112 n. 11, 134 n. 69, 151 n. 11, 188-190, 198 n. 108, 205 n. 122, 209 n. 129, 209 n. 131, 297 n. 45, 299 n. 50 Agostino d’Ippona 118 n. 23 Alfieri, Giulia 175 n. 64 Alighieri, Dante 39, 174 n. 63 Aloni, Udi 158 Anderson, Laurie 156 Andersson, Dag T. 16 n. 6 Aragon, Luis 62, 64 e n. 55, 90, 94 n. 28 Arendt, Hannah 36 n. 15, 77, 126, 144 n. 1, 219, 286 n. 21, 288-289 Aristotele 39, 192, 259 Ashtekar, Abhay 259 Averroè 39 Bacchi Wilcock, Livio 184 n. 77 Bachofen, Johann Jakob 173 Backhaus, Giorgio 30 n. 8, 46 n. 2 Baecker, Dirk 280 n. 6 Bakunin, Michail A. 207 Bataille, Georges 221
Baudelaire, Charles 26 n. 72, 62, 76-77, 84 n. 97, 85, 87, 92-94, 150, 152153, 176-178, 186-188, 287 e nn. 24-25, 296 n. 40 Bäuerl, Carsten 209 n. 131 Belpoliti, Marco 199 n. 109 Bentley, Richard 270 Bergala, Alain 158 n. 24 Bergson, Henri 74-75, 81, 118 Bernofsky, Susan 58 n. 35 Bertolini Peruzzi, Marisa 30 n. 8 Bischof, Rita 45 n. 1 Blanqui, Louis-Auguste 122 n. 35, 150, 175-187, 283-284 Bloch, Ernst 16 n. 7, 69 n. 63, 146 Blumenberg, Hans 199 n. 108 Bodei, Remo 159 n. 25 Boffi, Guido 82 n. 89 Bohr, Niels 255 Bolle, Willi 60 n. 39, 84 n. 95 Bolz, Norbert W. 62 n. 47, 281 n. 7 Bolzman, Ludwig 254 Bonola, Gianfranco 21 n. 17, 123 n. 38, 125 n. 45 Borges, Jorge Luis 183, 184 n. 77 Bovero, Clara 19 n. 11 Brecht, Bertolt 16, 23, 34-37, 85, 111 n. 7, 168, 208, 209-252 Brian, Denis 256 n. 10, 257 Brown, Robert 257 e n. 12 Brüggemann, Heinz 87 n. 3 Buber, Martin 146, 150
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344 Buci-Glucksmann, Christine 152 n. 12 Buck-Morss, Susan 45 n. 1, 62 n. 47, 93 n. 23 Buergel, Roger-Martin 158 Cacciari, Massimo 82 n. 89, 151 n. 11, 198 n. 108 Cantimori, Delio 102 n. 40 Carchia, Gianni 30 n. 8, 82 n. 89 Carosso, Andrea 286 n. 21 Carpitella, Mario 234 n. 28 Cases, Cesare 19 nn. 12 e 15, 232 n. 26, 235 n. 31, 250 n. 62 Castellani, Emilio 19 n. 11, 218 n. 3, 234 n. 28, 251 n. 62 Celan, Paul 200 Chalmers, Matthew 269 n. 38 Chiarini, Paolo 234 n. 28 Chiereghin, Franco 16 n. 7 Christoffel, Elwin 273 Ciuang-ze (Chuang tze) 250 n. 62 Codignola, Ernesto 285 n. 19 Cohen, Hermann 202-204 Colli, Giorgio 128 n. 49, 182 n. 74, 183 nn. 75 e 76 Confucio 225 n. 15 Conrad, Marianne 243 n. 46 Crease, Robert P. 273 n. 50 Curi, Umberto 191 n. 95, 214 n. 141, 206 Davis, Monte 193 n. 96 Deleuze, Gilles 205 n. 122 Del Lungo, Isidoro 261 n. 21 Democrito 184 n. 77, 259 De Negri, Enrico 108 n. 3 Derrida, Jacques 190 n. 94, 209 n. 131 Descartes, René 34, 259 Desideri, Fabrizio 45 n. 1, 52 n. 18, 61 n. 41, 109 n. 5, 159 n. 27, 175 n. 64, 177 n. 66, 250 n. 62 Didi-Huberman, Georges 60 n. 39, 157 e n. 23, 211 n. 137, 214 n. 142, 288 n. 27 Dionne, Claude 84 n. 95
INDICE DEI NOMI
Dirac, Paul Adrien Maurice 269 Dostoevskij, Fëdor M. 182 n. 75 Dotzler, Bernhard J. 156 n. 21 Durkheim, Emile 81 Duso, Giuseppe 131 n. 59 Einstein, Albert 16, 23, 34, 85, 253-278 Engels, Friedrich 144, 174 e n. 61 Epicuro 184 n. 77, 225 Euclide 272 Favaro, Antonio 261 n. 21 Fermi, Enrico 269 Fertonani, Roberto 218 n. 3, 234 n. 28 Feuchtwanger, Lionn 225 Feynman, Richard P. 269 Filippini, Enrico 19 n. 12 Finkelde, Dominik 58 n. 35 FitzGerald, George Francis 264 e n. 26 Focillon, Henri 40, 54, 123 e n. 36 Folsing, Albrecht 256 n. 11 Ford, Henry 256 Ford, John 158 Fourier, Charles 94 n. 26 Freud, Sigmund 65-66, 75 e n. 79, 281-282 Friedlaender, Salomon 38 Frisby, David 60 n. 39 Fromm, Erich 146 Fürnkäs, Joseph 63 n. 53 Gabrielli, Paolo 45 n. 1 Galilei, Galileo 259, 261, 262 e n. 22, 265, 266, 270 Gangebin, Jeanne-Marie 211 n. 136 Ganni, Enrico 14 n. 2, 16 n. 6, 17 n. 8, 19 n. 14, 92 n. 20, 164 n. 38 Garber, Klaus 45 n. 1, 111 n. 7 Gauss, Carl Friedrich 272-273 Gebauer, Gunter 59 n. 35 Geffroy, Gustave 176 Gentili, Dario 24 n. 24, 132 n. 61, 141 n. 84, 299 n. 51 Gerund, Sigmar 243 n. 46 Godard, Jean-Luc 157
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INDICE DEI NOMI
Goethe, Johann Wolfang von 50 n. 12, 167, 218 Gödde, Christoph 12 Greene, Brian 272 n. 45 Greffrath, Krista R. 45 n. 1 Grimm, Reinhold 249 n. 60 Grossheim, Michael 45 n. 1 Grossman, Marcel 272 Groys, Boris 298 n. 49 Guglielmi, Giuseppe 287 n. 25 Gurisatti, Giovanni 30 n. 8 Habicht, Konrad 255 Halbwachs, Maurice 81-82 Halevi, Jehuda 203 Hamacher, Werner 281 Hart-Nibbrig, Christiaan L. 58 n. 35 Haussmann, Georges-Eugéne 179 Hecht, Werner 218 n. 5 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 89 n. 8, 108 n. 3, 110 n. 6, 114, 153 n. 15, 154 e n. 16, 234 n. 27, 285 n. 19 Heidegger, Martin 118 Heine, Heinrich 200 Heisenberg, Werner 255-256, 275 Hermand, Jost 249 n. 60 Hessel, Franz 62 n. 48, 70, 62 Hillach, Ansgar 45 n. 1 Hitchcock, Alfred 158 Hitler, Adolf 127, 189, 291 n. 31 Hobbes, Thomas 131 Hofmann, Ernst Thomas Amadeus 172, 173 n. 59, 200 Hoffmannstahl, Hugo von 59-60 Horkheimer, Max 116 n. 19, n. 176, 177 n. 65 Hörnigk, Frank 156 n. 14, 245 n. 53 Hulse, Russel 273 n. 51 Husserl, Edmund 118 Jennings, Michael W. 45 n. 1 Jochmann, Carl 101, 174 Jünger, Ernst 159 n. 26
345 Kafka, Franz 85 Kant, Immanuel 13, 159 n. 27 Karge, Manfred 245 Kässens, Wend 246 n. 55 Keller, Gottfried 184 n. 78 Kempf, Wolfang 82 n. 89 Kierkegaard, SØren A. 55 Kimmich, Dorothee 62 n. 50 Klages, Ludwig 54, 170, 174 Klee, Paul 85, 151, 152, 156, 158 Klein, Felix 265 n. 30 Klein, Martin 255 n. 9 Kleiner, Barbara 59 n. 35, 65 n. 56 Kleist, Heinrich von 200, 245 Knopf, Jan 218 n. 5 Korsch, Karl 110 n. 6, 114 Kosellek, Reinhart 118 n. 22 Kox, Anne J. 255 n. 9 Kracauer, Siegfried 212, 213 e n. 140 Kraus, Karl 115, 208 Kubin, Alfred 173 n. 59 Kuhn, Thomas 30 n. 6 Küpper, Thomas 24 n. 25 La Fontaine, Jean de 171 Lange, Friedrich Albert 183 e n. 77 Lange, Ludwig 261 n. 20 Langhoff, Matthias 245 Laplace, Pierre Simon de 175, 182 e n. 74 Le Corbusier, Charles Éduard Jeanneret 92 Lehmann, Hans-Thies 229 n. 22 Leibniz, Gottfried Wilhelm 123 Lenin, Nikolaj V. 243 Leopardi, Giacomo 119 Levi, Primo 126 Levi-Civita, Tullio 272-273 Libeskind, Daniel 199-201 Lichtenberg, Georg Christoph 249 Lindner, Burkhardt 16 n. 6, 25 n. 25, 32 n. 11, 291 n. 31, 295 n. 39 Lonitz, Henri 12 Loos, Adolf 34-35, 85, 92, 168
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346 Lorentz, Hendrik 264-268 Lotze, Rudolf Hermann 117 Löwith, Karl 199 n. 108 Löwy, Michael 18 n. 10, 112 nn. 9 e 10, 294 n. 34 Lucrezio (Tito Lucrezio Caro) 184 n. 77 Lukács, György 100, 145 n. 3, 146 Maimonide, Mosé 126 n. 47, 204 Mann, Charles C. 273 n. 50 Marietti Solmi, Anna 19 n. 15, 30 n. 8, 46 n. 3 Mariniello, Silvestra 84 n. 95 Marramao, Giacomo 107 n. 1, 108 n. 2, 118 n. 22, 124 n. 40, 125 n. 44, 130 n. 55, 199 n. 108, 202 n. 113, 310 Marx, Karl 84, 101 e n. 40, 110 nn. 6 e 7, 114, 144 e n. 2, 155, 172-174, 228, 248, 249 n. 60, 281 e n. 9, 282, 310 Marx, Ursula 25 n. 26 Masini, Ferruccio 250 n. 62 Massalongo, Milena 227 n. 19 Maxwell, James Clerk 262, 265 e n. 31, 275 Mele, Vincenzo 60 n. 39 Menninghaus, Winfried 24 n. 23, 59 n. 35, 90 n. 11, 208 n. 126, 209 n. 131, 310 Menke, Bettine 111 n. 7 Menzio, Pino 60 n. 39 Mertens, Renata 218 n. 3, 234 n. 28 Michelet, Jules 11 Michelson, Albert A. 263 e n. 24, 264 e n. 25, 266 Mies van der Rohe, Ludwig 200 Mittenzwei, Werner 218 n. 5, 245 n. 52 Montinari, Mazzino 128 n. 49, 182 n. 74, 183 nn. 75 e 76 Morley, Eduard W. 263-264, 266 Moser, Walter 84 n. 95
INDICE DEI NOMI
Mosès, Stéphane 111 e n. 8, 113 n. 14, 118 n. 23, 139 n. 78 Müller, Alois M. 200 n. 110 Müller, André 157 n. 22 Müller, Heiner 154-155, 222 n. 11, 244-249 Müller, Klaus-Detlef 218 n. 5 Müller-Tamm, Jutta 156 n. 21 Münster, Arno 123 n. 35 Natoli, Salvatore 191 n. 95, 193 n. 97, 194 n. 97, 199 n. 108, 307 Neher, Caspar 227 n. 20, 251 Neubert-Herwig, Christa 223 n. 13 Newton, Isaac 34, 258-264, 267 e n. 32, 269, 270, 273 e n. 47 Newton Lewis, Gilbert 255 n. 6 Nietzsche, Friedrich 128 e n. 49, 150, 174 n. 62, 176, 177 n. 65, 178 n. 67, 181-183, 186, 248, 249 n. 60, 281 e n. 9, 282, 291 n. 31 Opitz, Michael 16 n. 6, 45 n. 1, 59 n. 35, 69 n. 64, 84 n. 97, 87 n. 3, 111 n. 7, 155 n. 18 Origene 199 Ozu, Yazujiro 157 Pais, Abraham 271 e n. 42, 276 n. 52 Pala, Alberto 260 n. 17 Palladio, Andrea 46 Palmier, Jean-Michel 14 e n. 1, 87 n. 3, 111 n. 8, 296 n. 41 Pangritz, Andreas 111 n. 7 Panizza, Oskar 173 n. 59 Paolo di Tarso 37 Pelosse, Valentin 180 n. 7 Perrin, Jean 258 e n. 14 Pezzella, Mario 45 n. 1, 100 n. 36 Pinelli, Carlo 234 n. 28 Piscator, Erwin 232, 235 n. 32 Planck, Max 254-255 Platone 16 n. 7
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347
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INDICE DEI NOMI
Poe, Edgar Allan 172-173 Poincaré, Henri 254, 264-266 Ponzi, Mauro 60 n. 39, 93 n. 21, 151 n. 11, 155 nn. 17 e 18, 202 n. 113, 208 n. 126, 298-299 Pound, Robert V. 273 n. 48 Prigogine, Ilya 193 e n. 97 Proudhon, Pierre-Joseph 207 Proust, Marcel 62-63, 68-77, 80-81, 85, 109, 182 Raimondi, Ezio 82 n. 89, 287 n. 25 Ranchetti, Michele 21 n. 17 Rang, Florens Christian 104 n. 45 Ranke, Leopold von 128 Raulet, Gérard 102 n. 41 Rebka, Glen A. Jr. 273 n. 48 Rehm, Ludger 45 n. 1, 111 n. 7 Reik, Theodor 75 e n. 78 Reinach, Theodor 189-190 Rella, Franco 177 n. 66 Ricci Curbastro, Gregorio 272-273 Riediger, Hellmut 16 n. 6, 19 n. 14, 92 n. 20, 164 n. 38, 235 n. 31 Riemann, Georg Friedrich Bernhard 272-273 Rilke, Rainer Maria 156 Robespierre, Maximilien-François-Isidore de 118, 120 Rosenzweig, Franz 118, 125 e n. 45, 146, 150 e n. 8, 201-204 Russo, Valeria E. 159 n. 25 Rychner, Max 70 Sagnol, Marc 113 n. 14 Sander, August 157 Sanna, Giovanni 285 n. 19 Sayre, Robert 111 n. 10 Scheerbart, Paul 35, 91 e n. 18, 168, 169 Schlipp, Paul Arthur 258 n. 13 Schmitt, Carl 21, 130 e n. 53, 131 e nn. 56-57, 132 e nn. 60-61, 133 e n. 66, 134 e n. 68, 149, 188-191
Scholem, Gershom 12, 17, 18 e n. 9, 25, 38, 46, 58 e n. 34, 99 n. 36, 111 n. 7, 145-146, 150-151, 197 e n. 106, 198 e n. 107, 204-207, 211 n. 136 Schönberg, Arnold 200 Schöttker, Detlef 36 n. 15, 62 n. 50, 156 n. 21, 310 Schrödinger, Erwin 255 Schuller, Marianne 66 n. 59 Schulmann, Robert 255 n. 9 Schumacher, Ernst 223 e n. 13 Schwarz, Michael 25 n. 26, 310 Schweppenhäuser, Hermann 12, 15 n. 6, 17 n. 8, 19 n. 14, 25, 165 n. 38 Scott, Joseph F. 270 n. 39 Sdun, Dieter 45 n. 1 Siegert, Hubertus 158 Skrandies, Timo 24 n. 25 Slupianek, Benno 243 n. 46 Smith, Gary 60 n. 39 Socrate 256 n. 10 Sofocle 229 Solmi, Renato 19 n. 13 Sorel, Georges 207 Stachel, John 258 n. 15 Stalin, Josif V. 127 Steiner, Uwe 280-281 Steinweg, Reiner 219 n. 6, 223 e n. 14 Stengers, Isabelle 193 n. 97 Strindberg, Johan August 153, 174 Szondi, Peter 60 n. 39, 232 n. 26 Tagliacozzo, Tamara 203 n. 117 Tagliapietra, Andrea 191 n. 95 Tarizzo, Davide 157 n. 23 Tarkowskij, Andrei 157 Taubes, Jacob 133 n. 66 Taylor, Joseph 273 n. 51 Taylor, Sam 158 Teschke, Henning 77 n. 80 Thierkopf, Dietrich 51 n. 14 Thom, René 193 t’Hooft, Gerald 269
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INDICE DEI NOMI
Tiedemann, Rolf 12, 14 n. 2, 15 n. 6, 17 n. 8, 19 n. 14, 25, 45 n. 1, 92 n. 20, 164 n. 38 Tillich, Paul 116 n. 19 Tilling, Laura 270 n. 39 Torretti, Roberto 261 n. 20 Toscano, Fabio 273 n. 46 Töteberg, Michael 246 n. 55 Truffaut, François 157 Turgot, Anne Robert Jacques 148 n. 5 Turnbull, Herbert W. 270 n. 39 Vadacchino, Mario 30 n. 6 Valentin, Karl 251 n. 62 Valéry, Paul 62-63, 225 Varnhagen von Ense, Rahel 200 Voltaire, François-Marie Arouet, detto 259 e n. 16 Wackwitz, Stephan 252 n. 66 Warburg, Aby 54, 81, 82 e n. 89, 214 n. 142 Weber, Max 279-280 Weidmann, Heiner 69 n. 64 Weigel, Sigrid 59 n. 35, 77 n. 82, 82 n. 89 Weill, Kurt 235 n. 30 Wenders, Wim 155-157 Wilke, Judith 220 n. 8, 222 n. 9, 245 n. 51 Wind, Edgar 82 n. 89 Wismann, Heinz 45 n. 1, 65 n. 56, 178 n. 66 Witte, Bernd 62 n. 47, 202 n. 113, 298299 Wittgenstein, Ludwig 45 n. 1 Wizisla, Erdmut 16 n. 6, 25 n. 26, 36 n. 15, 45 n. 1, 59 n. 35, 69 n. 64, 84 n. 97, 87 n. 3, 111 n. 7, 155 n. 18, 219 n. 7, 247 n. 56, 310 Wohlfarth, Irving 24 n. 24, 32 n. 11, 62 n. 47, 111 n. 7, 295 n. 39, 398 n. 48, 310 Wolin, Richard 212 n. 139 Woodcock, Alexander 193 n. 96 Wulf, Christoph 59 n. 35 Zumbusch, Cornelia 45 n. 1, 82 n. 89
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Quodlibet Studio
ANALISI FILOSOFICHE
Massimo Dell’Utri (a cura di), Olismo Rosaria Egidi, Massimo Dell’Utri e Mario De Caro (a cura di), Normatività, fatti, valori Massimo Dell’Utri, L’inganno assurdo. Linguaggio e conoscenza tra realismo e fallibilismo Giacomo Romano, Essere per. Il concetto di “funzione” tra scienze, filosofia e senso comune Sandro Nannini, Naturalismo cognitivo. Per una teoria materialistica della mente Rosa M. Calcaterra (a cura di), Pragmatismo e filosofia analitica. Differenze e interazioni Georg Henrik von Wright, Mente, azione, libertà. Saggi 1983-2003 Elio Franzini e Marcello La Matina (a cura di), Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi
CAMPI DELLA PSICHE
Jacques-Alain Miller, L’angoscia. Introduzione al Seminario X di Jacques Lacan Éric Laurent, Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive Francesco Napolitano, Sete. Appunti di filosofia e psicoanalisi sulla passione di conoscere Jacques-Alain Miller (a cura di), L’anti-libro nero della psicoanalisi Felice Cimatti, Il volto e la parola. Psicologia dell’apparenza Antonio Di Ciaccia (a cura di), Scilicet. Gli oggetti a nell’esperienza psicoanalitica Lucilla Albano e Veronica Pravadelli (a cura di), Cinema e psicoanalisi. Tra cinema classico e nuove tecnologie
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DISCIPLINE FILOSOFICHE
Riccardo Martinelli, Misurare l’anima. Filosofia e psicofisica da Kant a Carnap Luca Guidetti, La realtà e la coscienza. Studio sulla “Metafisica della conoscenza” di Nicolai Hartmann Michele Carenini e Maurizio Matteuzzi (a cura di), Percezione linguaggio coscienza. Saggi di filosofia della mente Stefano Besoli e Luca Guidetti (a cura di), Il realismo fenomenologico. Sulla filosofia dei Circoli di Monaco e Gottinga Roberto Brigati, Le ragioni e le cause. Wittgenstein e la filosofia della psicoanalisi Girolamo De Michele, Felicità e storia Annalisa Coliva and Elisabetta Sacchi, Singular Thoughts. Perceptual Demonstrative Thoughts and I-Thoughts Vittorio De Palma, Il soggetto e l’esperienza. La critica di Husserl a Kant e il problema fenomenologico del trascendentale Carmelo Colangelo, Il richiamo delle apparenze. Saggio su Jean Starobinski Giovanni Matteucci (a cura di), Studi sul De antiquissima Italorum sapientia di Vico Massimo De Carolis e Arturo Martone (a cura di), Sensibilità e linguaggio. Un seminario su Wittgenstein Stefano Besoli, Massimo Ferrari e Luca Guidetti (a cura di), Neokantismo e fenomenologia. Logica, psicologia, cultura e teoria della conoscenza Stefano Besoli, Esistenza, verità e giudizio. Percorsi di critica e fenomenologia della conoscenza Barnaba Maj, Idea del tragico e coscienza storica nelle “fratture” del Moderno Tamara Tagliacozzo, Esperienza e compito infinito nella filosofia del primo Benjamin Paolo Di Lucia, Ontologia sociale. Potere deontico e regole costitutive Michele Gardini e Giovanni Matteucci (a cura di), Gadamer: bilanci e prospettive Luca Guidetti, L’ontologia del pensiero. Il “nuovo neokantismo” di Richard Hönigswald e Wolfgang Cramer Michele Gardini, Filosofia dell’enunciazione. Studio su Martin Heidegger Giulio Raio, L’io, il tu e l’Es. Saggio sulla Metafisica delle forme simboliche di Ernst Cassirer Marco Mazzeo, Storia naturale della sinestesia. Dal caso Molyneux a Jakobson Lorenzo Passerini Glazel, La forza normativa del tipo. Pragmatica dell’atto giuridico e teoria della catogorizzazione Felice Ciro Papparo, Per più farvi amici. Di alcuni motivi in Georges Bataille Marina Manotta, La fondazione dell’oggettività. Studio su Alexius Meinong Silvia Rodeschini, Costituzione e popolo. Lo Stato moderno nella filosofia della storia di Hegel (1818-1831)
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Bruno Moroncini, Il discorso e la cenere. Il compito della filosofia dopo Auschwitz Stefano Besoli (a cura di), Ludwig Binswanger. Esperienza della soggettività e trascendenza dell’altro Luca Guidetti, La materia vivente. Un confronto con Hans Jonas Barnaba Maj, Il volto e l’allegoria della storia. L’angolo d’inclinazione del creaturale Mariannina Failla, Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo Luca Guidetti, La costruzione della materia. Paul Lorenzen e la «Scuola di Erlangen» Maria Teresa Costa, Il carattere distruttivo. Walter Benjamin e il pensiero della soglia ESTETICA E CRITICA
Silvia Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto. Forma e materia sonora nell’estetica musicale contemporanea Daniela Angelucci (a cura di), Arte e daimon Silvia Vizzardelli, Battere il Tempo. Estetica e metafisica in Vladimir Jankélévitch Alberto Gessani, Dante, Guido Cavalcanti e l’“amoroso regno” Daniela Angelucci, L’oggetto poetico. Waldemar Conrad, Roman Ingarden, Nicolai Hartmann Hansmichael Hohenegger, Kant, filosofo dell’architettonica. Saggio sulla Critica della facoltà di giudizio Samuel Lublinski, Saggi sul Moderno (a cura di Maurizio Pirro) Mauro Carbone, Una deformazione senza precedenti. Marcel Proust e le idee sensibili Raffaele Bruno e Silvia Vizzardelli (a cura di), Forma e memoria. Scritti in onore di Vittorio Stella Paolo D’Angelo, Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp Camilla Miglio, Vita a fronte. Saggio su Paul Celan Clemens-Carl Härle (a cura di), Ai limiti dell’immagine Vittorio Stella, Il giudizio dell’arte. La critica storico-estetica in Croce e nei crociani Giovanni Lombardo, La pietra di Eraclea. Tre saggi sulla poetica antica Giovanni Gurisatti, Dizionario fisiognomico. Il volto, le forme, l’espressione Paolo D’Angelo, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia Pietro D’Oriano (a cura di), Per una fenomenologia del melodramma
FILOSOFIA E POLITICA
Massimiliano Tomba, La «vera politica». Kant e Benjamin: la possibilità della giustizia Alberto Burgio (a cura di), Dialettica. Tradizioni, problemi, sviluppi
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LETTERATURE OMEOGLOTTE
Silvia Albertazzi e Roberto Vecchi (a cura di), Abbecedario postcoloniale III. Venti voci per un lessico della postcolonialità Matteo Baraldi e Maria Chiara Gnocchi (a cura di), Scrivere = Incontrare. Migrazione, multiculturalità, scrittura Silvia Albertazzi, Barnaba Maj e Roberto Vecchi (a cura di), Periferie della storia. Il passato come rappresentazione nelle culture omeoglotte Beatriz Sarlo, Una modernità periferica. Buenos Aires 1920-1930 François Paré, Letterature dell’esiguità Matteo Baraldi, I bambini perduti. Il mito del ragazzo selvaggio da Kipling a Malouf
LETTERE
Andrea Landolfi (a cura di), Memoria e disincanto. Attraverso la vita e l’opera di Gregor von Rezzori Felice Rappazzo, Eredità e conflitto. Fortini, Gadda, Pagliarani, Vittorini, Zanzotto Felice Ciro Papparo (a cura di), Di là dalla storia. Paul Valéry: tempo, mondo, opera, individuo Carlo A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno Francesco Spandri, Stendhal. Stile e dialogismo Antonietta Sanna, La parola solitaria. Il monologo nel teatro francese del Seicento Giancarlo Bertoncini, Narrazione breve e personaggio. Tozzi, Pirandello, Bilenchi, Calvino
SCIENZE DEL LINGUAGGIO
John R. Taylor, La categorizzazione linguistica. I prototipi nella teoria del linguaggio
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