I simboli di fede della Chiesa antica. Nascita evoluzione, uso del Credo [2 ed.] 9788810417027

Fin dalle origini la Chiesa espresse, conservò e consolidò la propria fede mediante formule che, attraverso un processo

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I simboli di fede della Chiesa antica. Nascita evoluzione, uso del Credo [2 ed.]
 9788810417027

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COLLANA

Studi religiosi - Nuova serie

l.

2.

G. FRAGNIÈRE, La religione e il potere L'intolleranza cristiana nei confronti dei pagani, a cura di P.F. BEATRICE

3. A. CÀRPIFAVE, Storia della 4. 5.

Chiesa Ortodossa Russa H. STEGEMANN, Gli Esseni, Qumran, Giovanni Battista e Gesù J.N.D. KELLY, I simboli di fede della Chiesa antica

John Norman Davidson Kelly

I simboli di fede della Chiesa antica Nascita, evoluzione, uso del Credo

001]5

Edizioni Dehoniane Bologna

Titolo originale: Early Christian Creeds Traduzione dall'inglese: Bianca Maresca I edizione italiana sulla III ed. inglese, ED, Napoli: 1987 Nuova edizione riveduta e corretta, EDB, Bologna: 2009

Realizzazione editoriale: Prohemio Editoriale srl, Firenze

c c c c c

1972 1972 2006 1987 2009

J.N.D. Kelly Longman, London Continuum, London ED, Napoli Centro editoriale dehoniano via Nosadella, 6 - 40123 Bologna EDB"'

ISBN 978-88-10-41702-7

Stampa: Sograte, Città

di Castello (PG) 2009

Nota alla terza edizione inglese

La prima edizione di questo famoso libro - uno studio com­ pleto della nascita, dell'evoluzione e dell'uso dei formulari di Credo nei secoli creativi della storia della Chiesa - si è rapida­ mente affermata come opera modello su questo argomento. La sua comparsa, come pure quella della seconda edizione nel 1960, stimolò un gran numero di ricerche, e proprio a questo scopo il dr. Kelly ha ora ulteriormente riveduto il suo testo. In questa edizione il libro si presenta perfettamente moderno per l'attua­ lità di questi studi; contiene poi molti mutamenti sostanziali. Il libro si apre con un esame degli elementi di Credo nel Nuovo Testamento e prosegue con una ricerca nuova per il suo approccio e per le conclusioni alle quali giunge circa i rappor­ ti dei Credo con i riti battesimali. I capitoli che seguono sono dedicati a uno studio sulle prove della «regola di fede» nel II secolo, una lunga disamina dell'Antico Credo romano, e una riflessione sui Credo della Chiesa orientale e sul loro rapporto con le formule di fede occidentali e con quelle proposte dai concili del IV secolo. Una particolare attenzione è rivolta al Concilio di Nicea e al Credo di Nicea e, inoltre, a un'ampia e originale ricostruzione della diffusione del Credo romano e del modo in cui è stato recepi­ to in Europa nella forma dell'attuale Credo apostolico. Nella terza edizione molte parti dei capitoli chiave sul cosiddetto Credo costantinopolitano sono state completamente rivedute, e importanti problemi sono stati riesaminati e chiariti. Due rilevanti caratteristiche del libro sono l' accento che esso pone sull'ambiente liturgico degli antichi Credo, e il ten­ tativo di illustrare la teologia così come era intesa da tutti quel­ li che contribuirono alla sua formazione.

Nella sua forma originale il volume I simboli di fede della Chiesa antica ha trovato ampi consensi in Europa, in America e perfino in Inghilterra; si tratta ancora dell'unico trattato completo su questo argomento e questa terza edizione com­ pletamente aggiornata rimane una lettura essenziale per lo studioso di teologia. Altri lettori interessati troveranno in esso una trattazione chiara e suggestiva. L'Editore

Prefazione alla terza edizione inglese

Questa terza edizione rappresenta una revisione più ampia e più sostanziale del testo originale che non la seconda. Oltre a numerosi adattamenti minori e all'aggiornamento delle note secondo le edizioni e i testi più recenti, ho introdotto una gran­ de quantità di modifiche sostanziali, tenendo conto delle nume­ rose opere recenti sugli antichi Credo (molte delle quali - lo si può tranquillamente affermare - sono state stimolate dal mio stesso libro). Le più importanti di esse si trovano nei capitoli X e Xl, dove la brillante opera di A.M. Ritter sul Credo costantinopolitano mi ha suggerito di riscrivere alcune pagine di vitale importanza; ma molte altre parti (per esempio quelle riguardanti la discesa agli inferi e la comunione dei santi) hanno subìto modificazio­ ni sostanziali. Sono stati anche leggermente modificati, alla luce dei recenti studi critici, i testi greci o latini di alcuni Credo. Spero che questi cambiamenti rendano l'opera di maggiore uti­ lità per gli studiosi del nostro tempo. Come ho spiegato nella prefazione alla prima edizione, non ho incluso una bibliografia esauriente perché l'indagine straor­ dinariamente ampia del p. Y. de Ghellinck, ora morto, sulle opere riguardanti il Credo apostolico (Patristique et moyen age, l) era stata appena pubblicata, e perché una buona biblio­ grafia sul Credo di Nicea si sarebbe dovuta compilare su scala comparata. l/ libro di A.M. Ritter risponde abbastanza a tali esigenze; ma, a partire dal1950 , libri e articoli si sono moltipli­ cati al di là di ogni previsione. Senza pretendere in alcun modo di raggiungere la completezza, ho tentato, nel rivedere le note, di citarne il maggior numero possibile, includendone anche molti pubblicati negli ultimi due anni.

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I simboli di fede della Chiesa antica

Come nella prima edizione, vorrei esprimere la mia gratitu­ dine per il lavoro pionieristico degli studiosi della precedente generazione, quali A. E. Burn, B. Cape/le, C.P. Caspari, F. Kat­ tenbusch, J. Lebon, H. Lietzmann (sotto la guida del quale ho lavorato per un certo periodo a Berlino), G. Morin ed E. Schwartz. l/ lettore incontrerà i loro nomi, e quelli di molti altri, quasi a ogni pagina. Fra i miei contemporanei, vorrei citare anzitutto il rev. dr. F. L. Cross (purtroppo deceduto), il cui inco­ raggiamento ha avuto per me grande importanza. Gli studiosi più recenti, la cui opera ha maggiormente influito su questa nuova edizione, sono G. L. Dossetti, A.M. Ritter e l. Ortiz de Urbina. Sono anche grato alle molte persone che mi hanno dato suggerimenti per la revisione, soprattutto al molto rev. H. Chad­ wick, decano della Chiesa di Cristo. Vorrei ancora una volta esprimere i miei ringraziamenti alla signora C.F.W.R. Gullick, che ha compilato l'indice originale, e al rev. VL. Thawley, un tempo mio allievo, che con il suo sguardo d'aquila ha corretto le bozze della prima edizione, benché il loro attento lavoro abbia subìto molti cambiamenti. Sono grato agli editori per la prontezza con cui mi consentono di realizzare una revisione molto più approfondita di quanto non avrei mai ritenuto possi­ bile.

J.N.D. KELLY Oxford Michaelmas, 1971

Abbreviazioni

E. SCHWARTZ, Acta Conciliorum Oecume­ nicorum, Berlin-Leipzig 1914ss. BADCOCK F.J. BADCOCK , The history of the Creeds, London 21938. BIHLMEYER K. BIHLMEYER, Die Apostolischen Viiter, 2a ed. , Ttibingen 21956. A.E. BuRN , An Introduction to the Creeds, BuRN London 1899. CASPARI A. und N. Q. C.P. CASPARI , Alte und Neue Quellen zur Geschichte des Taufsymbols und der Glaubensregel, Christiania 1879 . . CASPARI Quellen C.P. CASPARI , Ungedruckte, unbeachtete und wenig beachtete Quellen zur Geschi­ chte des Taufsymbols und der Glaubensre­ gel, Christiania 1866-1869. Corpus Christianorum, Series Latina. CCL DA CL Dictionnaire d'archéologie chrétienne et de liturgie. E.J. GOODSPEED, Die iiltesten Apologeten. E.J.G. A. e G.L. HAHN , Bibliothek der Symbole HAHN und Glaubensregeln der alten Kirche, Bre­ slau 31897. Encyclopaedia of Religion and Ethics di HERE Hastings. JTS Journal of Theological Studies. F. KATTENBUSCH, Das apostolische Symbol, KATTENBUSCH Leipzig 1894. J.D. MANSI , Sacrorum conciliorum nova et MANSI amplissima collectio, Firenze e Venezia 1759ss.

A CO

I simboli di fede della Chiesa antica

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Monumenta Germaniae Historica. Nachrichten von der Konigl. Gesellschaft der Wissenschaften zu Gottingen. H.G. OPITZ, Urkunden zur Geschichte des OPITZ Urk. arianischen Streites (nel vol. III di Athana­ sius Werke dell'Accademia di Berlino, 1934-1935). PG Patrologia, Series Graeca, di J.P. MIGNE. PL Patrologia, Series Latina, di J.P. MIGNE. Revue Bénédictine. R. Bén. Rech. théol. anc. méd. Recherches de théologie ancienne et médiévale. RHE Revue d'histoire ecclésiastique. A.M. RITTER , Das Konzil von Konstanti­ RITTER nopel und sein Symbol, Gottingen 1965. ThLZ Theologische Literaturzeitung. ZfKG Zeitschrift ftlr Kirchengeschichte. ZNTW Zeitschrift ftlr die neutestamentliche Wis­ senschaft.

MGH Nachricht. Gott.

I riferimenti patristici sono di solito a PG, PL, CCL, alla serie di Berlino Die griechischen christlichen Schriftsteller der ersten drei Jahrhunderte (= GCS), o a quella di Vienna Corpus scriptorum eccle­

siasticorum latino rum (= CSEL)

.

Introduzione all 'edizione italiana

La teologia scolastica tradizionale pone una distinzione tra due modi di comprendere la fede: la fede che è creduta (fides quae creditur) e la fede con cui si crede (fides qua creditur), indicando con la prima il contenuto dottrinale della religione cristiana, l'aspetto oggettivo della verità rivelata, con la seconda l'adesione personale a tale contenuto, l'aspetto soggettivo della fede. Riguardo al primo aspetto, fin dall'inizio la Chiesa espresse, conservò e consolidò la sua fede mediante delle formule che, attraverso un processo di evoluzione, si sono gradualmente accresciute in estensione e contenuto, passando da un 'iniziale semplicità e pluralità a una sempre maggiore complessità e uni­ formità. Il Credo quindi, termine col quale da secoli i cristiani indi­ cano una formula stabilita e approvata dall'autorità ecclesiasti­ ca che riassume gli articoli essenziali della loro religione, ha alle sue spalle tutta una storia che si sviluppa dalle embrionali for­ mule di fede del NT fino alla sua stabilizzazione. Da questo punto di vista, l'opera di J.N. D. Kelly, I simboli di fede della Chiesa antica, resta ancora, a distanza di tanti anni dalla sua prima edizione (1952), lo studio più completo sulla nascita, l'evoluzione e l'uso dei formulari di Credo nei primi secoli della storia della Chiesa. Attraverso un esame ampio e approfondito, l'autore prende in considerazione le prime confessioni di fede presenti nel NT (c. l) e il /oro rapporto con l'ambiente liturgico, in particolare con i riti battesimali (c. 2). I capitoli successivi contengono uno studio sulle regole di fede del II secolo (c. 3), una lunga disamina dell'Antico Credo

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I simboli di fede della Chiesa antica

romano (cc. 4 -5) e una riflessione sui Credo della Chiesa orien­ tale e su/ loro rapporto con le formule di fede occidentali e con quelle proposte dai concili del W secolo (c. 6 ). Una particolare attenzione è rivolta al Credo di Nicea (cc. 7 -8) e, dopo una ras­ segna dei Credo sinodali (c. 9 ), al Credo di Costantinopoli (cc. 10 -11). Gli ultimi capitoli sono dedicati a un 'ampia ricostruzione del Credo apostolico e della sua diffusione e accoglienza in Europa (cc. 12 -13). L'Autore non si limita a uno studio letterario e storico, ma si sofferma a esaminare anche i contenuti dei formulari: i Credo della cristianità infatti non sono stati mai puri e semplici docu­ menti che richiedono solo di essere suddivisi, catalogati e accu­ ratamente datati, ma anche dei veri e propri manifesti teologici, sorti con significato dottrinale e talvolta profondamente marca­ ti dai segni delle controversie. Condotta sulla terza edizione inglese del197 2 , ampiamente riveduta e aggiornata anche con modifiche sostanziali sulla base delle numerose ricerche successive alla sua comparsa, l'opera apparve nel 19 87 in traduzione italiana per le Edizioni Deho­ niane di Napoli. Viene ora edita dalle EDB sulla scorta dell'ul­ tima edizione inglese (Continuum, Londra 2006 ). Estremamente interessante per il suo approccio e per le con­ clusioni alle quali giunge, essa certamente non mancherà di suscitare ancora l'attenzione degli studiosi e di stimolare ulterio­ ri ricerche sull'argomento. In questa introduzione richiameremo brevemente i momen­ ti salienti dell'evoluzione delle formule di fede nei primi secoli della vita della Chiesa, evidenziando in tal modo le linee por­ tanti della ricerca di Kelly. Tenteremo quindi di individuare i motivi che hanno portato a una sempre maggiore uniformità del Credo, per passare a qualche considerazione sulla validità e l'attualità che i Simboli di fede della Chiesa antica possono ancora avere per il cristiano di oggi.

Introduzione all'edizione italiana

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l. DAL PLURALISMO ALL'UNIFORMITÀ: LINEE DI SVILUPPO STORICO

a) Nuovo Testamento Le più antiche professioni di fede si trovano negli scritti neo­ testamentari. Tra quelle particolarmente antiche basti ricordare: «Gesù è il Cristo», «Gesù è il Signore», molto attestata in Paolo, e «Gesù è il Figlio di Dio».' Sorte in ambiente giudaico, esse hanno forma esclusivamen­ te cristologica. Accanto a queste formule così concise, troviamo in Paolo e in altri scritti del NT formulazioni più articolate, che hanno il carattere di brevi sommari di fede. Esse possono essere ancora solo cristologiche, ma compaiono già formule binitarie e trini­ tarie, 2 le quali, più che rispondere all'esigenza di esplicitare la fede nella predicazione ai pagani convertiti, mostrano chiara­ mente che tali schemi erano già profondamente impressi nella mente dei primi cristiani come i veicoli più adatti per dare alla fede un 'espressione più completa. È difficile stabilire se tali formule siano di carattere persona­ le o siano in qualche modo connesse con la vita liturgica della comunità. In ogni caso, anche se non è possibile indicare una circostanza specifica che richiedesse la proclamazione di queste formule, tuttavia numerose situazioni particolari nella vita della Chiesa fornivano occasioni per dare espressione concreta agli articoli fondamentali della fede cristiana, secondo esigenze determinate dalla necessità del momento: battesimo, istruzione catechistica, predicazione, polemica antigiudaica. Così anche se il Credo, nel senso vero e proprio del termine, doveva ancora venire, già nel NT la fede cominciava a consoli-

' Cf. per la prima, lGv 2,22; 5,1; per la seconda Rm 10,9; 1Cor 12,3; Fil 2,1 1; per la terza 1Gv 4,15; 5,5. Per altri riferimenti scritturistici, come pure per le testimonianze patristiche, i testi dei Credo e le indicazioni bibliografiche, rimandiamo ovviamente alle pagine dell'opera che stiamo presentando. ' Cf. Rm 1 ,3-4; 8,34; lTm 3,16; 2Tm 2,8 (cristologiche); 1Cor 8,6; Rm 4,24; 1Pt 1,21 (binitarie); 2Cor 1,21s; 12,4s; 13,13; 1Pt 1,2 (trinitarie).

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I simboli di fede della Chiesa antica

darsi in sommari convenzionali, dando inizio al movimento verso la sua formulazione e stabilizzazione.

b) La «regola di fede» nel II secolo Col passare del tempo queste formule diventano sempre più complesse, sia nel contesto dell'istruzione catechistica, stretta­ mente còllegata al battesimo, il cui intento principale era di carattere costruttivo e positivo e che resta il campo più fertile per lo sviluppo del Credo, sia in relazione alle nuove esigenze deter­ minate dal diffondersi delle prime dottrine erronee in materia di fede (gnosticismo, marcionismo, prime eresie trinitarie e cristo­ logiche). In particolare nel II secolo si avverte l'esigenza di una dife­ sa da parte cattolica, che si concretizza in una vera e propria let­ teratura antieretica di contenuto dottrinale. In questo contesto comincia a essere formulata la cosiddetta «regola di fede», 3 una sintesi dei contenuti dottrinali del cristia­ nesimo, considerati come patrimonio di fede inalterabile, alla quale ci si richiamava in quanto rifletteva e delimitava gli spazi entro cui ci si riconosceva ortodossi. Essa non era un testo scrit­ to uguale dappertutto, ma un complesso di dati dottrinali tra­ mandati oralmente nella catechesi e fissato per iscritto in termi­ ni leggermente diversificati a seconda delle predilezioni degli autori e delle diverse esigenze, ma contenente la stessa dottrina sostanziale. Pur non avendo valore ufficiale, queste formule certamente rispecch iavano il patrimonio dottrinale della comunità: esse costituivano un ulteriore passo verso la formulazione del Credo.

' L'idea e la terminologia si trovano per la prima volta in Ireneo, ma si incontrano anche in Tertulliano, lppolito, Origene, Cipriano, Novaziano e altrove.

Introduzione all'edizione italiana

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c) Il Simbolo romano Il III secolo fu, sotto molti aspetti, un 'epoca critica nella sto­ ria della Chiesa: uno dei molti problemi che essa si trovò ad affrontare fu l'afflusso nelle sue fila di un numero sempre cre­ scente di convertiti dal paganesimo, che costituì una minaccia per l'integrità dell'insegnamento tradizionale. Fu in questo periodo che cominciò ad essere praticato nella Chiesa l'uso della traditio e redditio symboli: si trattava della consegna del Simbolo4 ai catecumeni in qualche momento ini­ ziale della loro istruzione; essi lo ripetevano sia in seguito, durante il corso di istruzione, sia nello stesso rito del battesimo. In occidente, uno dei più antichi Credo locali che prese forma e fu canonizzato fu quello della Chiesa romana, il cosid­ detto Simbolo romano (= R). È certo che tra la fine del II e l'inizio del III secolo esso era già in uso nella liturgia battesimale della Chiesa di Roma, e veniva recitato due volte: prima in forma dichiaratoria da parte del catecumeno che stava per ricevere il battesimo, e una secon­ da volta sotto forma di domanda e risposta durante la triplice immersione nella vasca battesimale. La struttura di questa professione di fede è trinitaria, con il secondo articolo più esteso degli altri due, probabilmente per­ ché derivava da un 'embrionale formula di fede, anch 'essa trini­ taria, nella quale il secondo membro sarebbe stato ampliato mediante l'inserzione di una formula cristologica, a motivo delle dottrine erronee che nei tempi più antichi avevano per oggetto soprattutto la reale umanità di Cristo. 5 Il testo del Simbolo ci è stato tramandato da Rufina di Aqui­ leia, nella sua Spiegazione del Credo, in latino (404 ca.), e da Marcello di Ancira, nella sua Apologia, in greco (340 ca.): tali

• Non è ben conosciuto il motivo per cui l'occidente usò la parola Simbo­ lo per indicare una professione di fede: l'ipotesi più probabile è quella che con­ sidera il Simbolo come un signum, un segno di riconoscimento dell'essere cri­ stiani. 5 Probabilmente questa fusione è stata operata nei p rimi decenni del II secolo in Asia Minore, luogo di origine delle dottrine di tipo doceta.

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I simboli di fede della Chiesa antica

testimonianze ci riporterebbero al IV e V secolo. Il suo uso tut­ tavia era certamente più antico, dal momento che Ippolito nella Tradizione apostolica, risalente al III secolo, descrivendo il rito battesimale, riporta una professione di fede che corrisponde sostanzialmente al testo di R così come ci è stato tramandato da Rufina e da Marcello.

d) Altri Simboli di fede in occidente Una serie di testimonianze del IV e V secolo ci fa conoscere il testo dei Simboli in uso in molte città occidentali (Cartagine, Milano, Arles, Aquileia, Riez, Braga . . . ). Se per R è possibile almeno abbozzare una storia delle ori­ gini, non lo è altrettanto per i Credo delle altre Chiese locali. E tuttavia questi sono così vicini tra di loro e concordano così strettamente con R, da avvalorare l'ipotesi che siano derivati tutti dal testo romano. In realtà certe leggere divergenze che alcuni di essi presenta­ no, e che coincidono con quelle del testo romano di Ippolito, inducono a pensare piuttosto che tali testi siano derivati non direttamente da R, nella forma tramandata da Rufina e da Mar­ cello, ma da una redazione di R un po ' più antica, corrispon­ dente al testo che si ricava da Ippolito. Riassumendo quindi possiamo concludere che verso la fine del II secolo era già in uso a Roma una professione di fede bat­ tesimale, sostanzialmente riprodotta nel testo di Ippolito. Su questa formula, nel corso della prima metà del III secolo, cominciarono a esemplarsi alcuni Simboli di città occidentali. Nella seconda metà del III secolo il testo si fissa definitiva­ mente nella forma tramandata da Rufina e da Marcello, e in questa forma passa, con leggere modificazioni, ad altre città occidentali. Le aggiunte e le precisazioni che compaiono nei Simboli occidentali del IV e V secolo hanno il chiaro intento di esplici­ tare la forma molto sintetica di R. L'unificazione di tutte queste diverse redazioni, derivate da R, risale a Carlo Magno, il quale, volendo eliminare ogni diffe­ renza, impose nel suo impero una formula unica, il cosiddetto

Introduzione all'edizione italiana

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Simbolo degli apostoli, una professione di fede tuttora in uso nella liturgia battesimale, che è una versione leggermente allar­ gata e modificata di R. 6 Roma in un primo momento non volle sostituire R con la nuova formula: la sua adozione sembra da riportare al tempo degli Ottoni (X-XI secolo), quando l'influsso imperiale si eser­ citò fortemente nella Chiesa romana.

e) I Simboli di fede in oriente Ben diversa è la situazione dei Credo orientali: non c'è nes­ suna formula in oriente che per antichità di origine o per importanza di prestigio si trovi in posizione analoga al Credo romano. I Simboli delle varie Chiese locali (Cesarea di Palestina, Gerusalemme, Antiochia . . . ), pur avendo elementi in comune tra di loro e con R lo schema basilare (struttura trinitaria ampli­ ficata nella seconda sezione con l'inserimento di una formula di çontenuto cristologico), presentano fra loro varie diversità e tut­ tavia tutti insieme concordano su qualche punto che li diversifi­ ca da R, prototipo di tutti i Simboli occidentali. Allo stato attuale degli studi non è possibile precisare la natura di tali rapporti: se essi derivano da R o da un comune antenato poi modificato o se si sviluppano indipendentemente tra loro e da R.

f) I Simboli conciliari di Nicea e Costantinopoli Prima dell'inizio del IV secolo tutti i Credo e i sommari di fede erano di carattere locale: era scontato che essi comprendes­ sero la fede cattolica universalmente accettata, trasmessa dagli apostoli.

' Che questa formula di fede sia stata composta dagli apostoli è leggenda, già attestata verso la fine del IV secolo in occidente; in oriente fu molto meno diffusa.

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I simboli di fede della Chiesa antica

A partire dal concilio di Nicea (325) invalse l'usanza di redi­ gere formulari che esprimessero l'accordo nelle questioni di fede; essi furono rivestiti di autorità molto maggiore di quella locale, in quanto da semplici sommari di fede diventarono una vera e propria prova dell'ortodossia. L'inizio del W secolo è considerato appunto come l'inaugu­ razione del passaggio a questo nuovo tipo di formulario; il passo decisivo fu fatto al concilio di Nicea, il cui Simbolo fu la prima formula proclamata da un sinodo ecumenico. In realtà, già a partire dal III secolo, in occasione di contra­ sti di natura dottrinale, era invalso in oriente e in occidente l'uso di stilare una professione di fede, relativa alla questione trattata, che doveva essere sottoscritta dai contendenti, con particolare riguardo a chi nella disputa era riconosciuto professare una dot­ trina non ortodossa e che perciò era tenuto a sconfessar/a sotto­ scrivendo la formula di fede riconosciuta come ortodossa. In tal modo ci si regolò a Nicea, in occasione del concilio ecumenico che Costantino aveva riunito per decidere la contro­ versia suscitata da Ario; venne proposta alla sottoscrizione di tutti i partecipanti una professione di fede che corrispondeva al Simbolo di Cesarea di Palestina, secondo la testimonianza di Eusebio, o forse a un Simbolo proveniente dall'ambiente siro­ palestinese, integrato da espressioni caratterizzanti in senso orto­ dosso i punti dottrinali messi in questione dalla controversia. La formula di fede di Nicea (= N) fu poi ripresa e ampliata nel-concilio di Costantinopoli del381 (= C);7 non si trattò di una nuova formula, ma solo di un adattamento di N alle nuove esi­ genze, provocate dagli sviluppi della controversia trinitaria dal 325 al380 .8 Durante tali sviluppi si era discusso molto dello Spirito Santo: perciò proprio su questo punto C è molto più completo

7 In realtà il Credo che sta alla base di C non è quello di N, ma probabil­ mente quello della Chiesa di Gerusalemme. ' Questi anni videro una serie di tentativi per risolvere le divergenze di opinione, sia in oriente che in occidente, mediante la formulazione di un Sim­ bolo che potesse soddisfare tutti i partiti o almeno esprimere la fede della maggioranza: fu l'epoca dei cosiddetti Credo sinodali.

Introduzione all'edizione italiana

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di N, che rispecchiava uno stadio della disputa in cui della terza ipostasi trinitaria non si era discusso affatto. L'autorità di C, noto come Simbolo niceno-costantinopolita­ no, si impose gradualmente nell'impero d'oriente, e col passare del tempo divenne il Simbolo centrale e universalmente ricono­ sciuto della cristianità, com 'è oggi.9 Già nel VI secolo esso era diventato l'unico in uso in tutte le Chiese, nella liturgia battesimale. Durante la controversia monofisita, all'inizio del VI secolo, fu introdotto anche nel contesto della celebrazione eucaristica. In tale contesto C si impose anche in occidente: alla fine del VI secolo in Spagna, poi nella liturgia irlandese e, al tempo di Carlo Magno, in Francia. La Chiesa di Roma per lungo tempo rifiutò l'inserzione di C nella liturgia eucaristica; la sua accoglienza definitiva si ebbe solo nell'XI secolo, mentre è molto probabile che esso sia stato inserito nella liturgia battesimale, al posto di R, tra il VI e il IX secolo, prima di essere rimpiazzato dal Simbolo apostolico. 10

9 Se il concilio del 381 abbia redatto effettivamente questo Simbolo non è certo, mancano quasi del tutto attestazioni contemporanee o r osteriori, fino al concilio di Calcedonia del 451. L'ipotesi più probabile è che i concilio redasse questo Credo in un infruttuoso tentativo di accordo con gli oppositori mode­ rati a un pieno riconoscimento della divinità dello Spirito Santo, ma la maggior parte dei teologi lo considerò a lun�o poco più che un recupero di N. Le auto­ rità dell'occidente in particolare lo Ignorarono a lungo, come frutto di un con­ cilio che esse riconobbero come ecumenico solo lentamente. 10 A questo Credo col tempo la Chiesa latina occidentale fece un'aggiun­ ta, non approvata da nessun concilio pienamente ecumenico. Dapprima in Spagna, più tardi in tutta l'Europa occidentale, infine nel 1014 a Roma, all'espressione «che procede dal Padre» furono aggiunte le parole «e dal Hglio» (Filioque). Questa ag�unta è stata per più di un millennio causa di disaccordo e attrito tra la Chiesa orientale e la Chiesa occidentale e costitui­ sce ancora oggi una fonte di discussioni e dissidi: a questo proposito cf. il Memorandum dei Colloqui promossi dalla Commissione Fede e costituzione del Consiglio ecumenico delle Chiese: La théologie du Saint-Esprit dans le dia­ logue entre l'Orient et l'Occident, sous la dir. de L. VISCHER, Paris 1981. Cf. anche PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL'UNITÀ DEI CRISTIANI, chiarimento Le tradizioni greca e latina circa la processione dello Spirito Santo, 8 sett. 1995: EV 14/2966ss.

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I simboli di fede della Chiesa antica

g) I principali tipi di professione di fede A conclusione di questa breve panoramica storica possiamo distinguere, in base ai contesti principali che le hanno richieste, tre diversi tipi di professioni di fede: - professione di fede eucologica: si situa nel contesto liturgi­ co e non è dettata da circostanze esterne che esigono dal creden­ te o dalla comunità una professione, ma dal bisogno religioso interiore di lodare e ringraziare Dio per il dono della salvezza, risultando così l'espressione più diretta e spontanea della fede viva; - professione di fede battesimale: situata nel contesto della catechesi e del battesimo, in essa si manifesta il dialogo tra il catecumeno credente e la Chiesa, tendente alla concordanza di fede; - professione di fede dottrinale: tradizionalmente chiamata Simbolo, essa è una formulazione concisa della dottrina di fede, e va situata per origine e funzione nel quadro dell'insegnamen­ to della fede, dell'apologia e della lotta contro l'eresia.

2.

PER UNA CONFESSIONE DI FEDE ATIUALE NELLA CONTINUITÀ DELLA TRADIZIONE

a) Dall'unità nella fede alla divisione delle Chiese: motivi e conseguenze La storia della Chiesa primitiva fa pensare alla formazione spontanea di una moltitudine di Simboli nelle varie Chiese loca­ li, che, benché variassero nei diversi luoghi, esprimevano ciò che era comune alla Chiesa cattolica. Questa coesistenza pacifica di differenti Simboli diventa tanto più comprensibile se si pensa alla funzione originaria del Credo: essere un mezzo per professare, pregando, la fede comune. Quando più tardi il Credo diventa anche norma di fede e, con il sorgere delle prime teologie, norma di dottrina e misura dell'ortodossia, allora la moltitudine di Simboli si trasforma in una minaccia pericolosa per l'unità.

Introduzione all'edizione italiana

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La Chiesa si difese da questo pericolo con una sempre maggiore uniformità nella professione di fede, favorita anche da parte degli imperatori orientali, più tardi quelli occidentali, che vedevano nel Credo un mezzo politico per fondare o restaurare l'unità dell'impero. La storia mostra infatti un parallelismo tra i tentativi centralizzatori nella Chiesa e nel­ l'impero dopo il 313 , da una parte, e la crescente uniformità del Credo, dall'altra. Mentre in oriente, nonostante l'apporto politico degli imperatori ai Simboli delle varie assise ecclesia­ stiche, continuano a esistere vari Credo, in occidente il Credo apostolico diventa sempre più normativa, non solo per la fede, ma anche per la politica imperiale, soprattutto sotto la spinta di Carlo Magno. Così nel X-XI secolo si verifica il primo irrigidimento nello sviluppo del Credo; nel XVI secolo il divieto del concilio di Trento di usare forme di confessioni di fede diverse da quella tridentina porterà a una paralisi permanente, rendendo impos­ sibile la coesistenza di vari Credo nelle diverse Chiese. La conseguenza è che i Simboli non creano più la comuni­ tà, ma assumono una funzione separatrice. Tale processo significa anche la fine di un periodo di evolu­ zione ne/ linguaggio della fede: di fatto dalla storia degli ultimi quattro secoli risulta che la creatività del credente - che nella confessione di fede si crea un linguaggio proprio e in esso parla sempre nuovamente della salvezza - è stata bloccata. Questa mancanza di creatività è assecondata dal posto secondario che ha preso la confessione di fede nella Chiesa pregante: l'accento esagerato sulla funzione dottrinale e dog­ matica del Credo ha eclissato la sua funzione liturgica e dosso­ logica. Di fronte a questa situazione storicamente determinatasi, ci si interroga oggi sulla possibilità di un suo superamento. Le riflessioni che seguono intendono essere un piccolo contributo alla ricerca, che si va sviluppando in due direzioni: l'opportuni­ tà, all'interno della Chiesa cattolica, di formulare una professio­ ne di fede attuale, cioè di una riformulazione del Credo in un linguaggio più comprensibile e più attento alle nuove esigenze; e la possibilità, all'interno del rapporto tra le diverse Chiese, di

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I simboli di fede della Chiesa antica

formulare un Credo ecumenico, nel quale le diverse confessioni possano riconoscersi e ritrovarsi unite nella confessione della stessa fede. 11

b) Una nuova formulazione del Credo Fin dall'inizio la fede cristiana è stata una fede confessante, che si è espressa in parole, immagini e gesti sempre nuovi. Abbiamo visto come nei primi secoli la molteplicità e la diversi­ tà dei Simboli non abbiano impedito alla Chiesa di conservare e trasmettere l'unica fede. Essi rappresentavano le forme in cui i punti fondamentali della fede venivano professati e insegnati, come variazioni armoniose su un unico tema: la riconoscenza benedicente per le opere di salvezza compiute da Dio in Gesù di Nazaret. Le varie Chiese locali avrebbero valutato i rispettivi Credo, qualora fosse sorta la necessità di farlo, per assicurarsi non se erano identici nella lettera, ma se professavano esplicitamente la stessa fede. Col passare del tempo l'immutabilità delle formule divente­ rà sempre più il mezzo per assicurare la comunione confessio­ nale, perché risultasse conoscibile ciò che viene confessato da tutti, in ogni tempo e dappertutto. Il Simbolo apostolico, per esempio, che da quasi due millenni viene riproposto nelle litur­ gie cristiane, garantisce la continuità nel tempo e la comunione nello spazio. E tuttavia questa sembra essere una concezione troppo ristretta dell'unità di fede e una concezione troppo statica del­ l'identità di tale fede con quella dei nostri padri. Con tutto il rispetto che dobbiamo nutrire verso la professione di fede che ogni domenica si recita assieme a tutta la cristianità che vive sulla terra, non si potrà eludere il problema della sua attualità:

11 Cf. CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE - COMMISSIONE FEDE E COSTI­ TUZIONE, Confessare una sola fede, Una spiegazione ecumenica del Credo, Paper n. 153, Ginevra 1991 [tr. it. EDB, Bologna 1993].

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il che non significa «modernizzare» il Credo per seguire una moda, ma rendere possibile una confessione di fede adeguata alle provocazioni che derivano dall'età contemporanea. Lo stesso Paolo VI affermava che la sua confessione di fede era, sì, «una ripetizione della formulazione che fa parte della tradizione immortale della santa Chiesa di Dio», alla quale però «sono state aggiunte alcune affermazioni richieste dalle esigen­ ze del nostro tempo».12 Indubbiamente i tentativi di giungere a una formulazione veramente nuova sono stati finora scarsi, ma è crescente la con­ cordanza sulla necessità di un rinnovamento del Credo, perché esprima il messaggio cristiano in un linguaggio più attuale e sta­ bilisca un rapporto più stretto tra tale messaggio e l'esperienza del cristiano di oggi. E tuttavia quest'opera di attualizzazione non può non tener conto delle professioni di fede della Chiesa antica: esse restano il punto di partenza di ogni ulteriore sforzo di penetrare il senso delle Scritture. È necessario ritrovare, al di là delle formule, le intuizioni fondamentali, scoprire i dati essenziali presupposti dai termini utilizzati, per poter/i ripensare e riesprimere in concetti e termi­ ni diversi agli uomini del nostro tempo.

c) Alla ricerca dell'unità perduta: un Credo ecumenico? Il concetto di «confessione» designa oggi non ciò che unisce ma ciò che divide: parlando di «confessione» si pensa alle diver­ se Chiese confessionali separate e divise. La storia del secolo XX mostra la presa di coscienza, da parte delle Chiese, dello scandalo delle divisioni e lo sforzo fatto nella direzione di un ritorno all'unità. All'interno del dialogo ecumenico ci si chiede se l'unità della fede e della comunione possa essere ristabilita da una professio­ ne di fede ecumenica o se questa non presupponga già un alto livello di unità.

12 L'Osservatore Romano 1-2.7.1968, l; EV 3/539.

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Certamente qualsiasi tentativo di formulare un Credo ecu­ menico non può prescindere dalle professioni di fede della Chiesa antica, che costituiscono una base comune, in quanto espressioni di una Chiesa non ancora divisa e capace di conser­ vare uniti in se stessa orientamenti vari e correnti teologiche diverse. Tutte le Chiese sono d'accordo nell'attribuire loro un posto speciale nella tradizione cristiana: in effetti nei secoli recenti tutte le maggiori comunità cristiane hanno accettato il Credo niceno-costantinopolitano (anche se gli ortodossi rifiutano l'in­ terpolato Filioque); e il Credo apostolico, pur se usato solo in occidente, è accettabile nei suoi insegnamenti anche dalle Chie­ se cristiane d'oriente. Ma in ogni caso è fuori dubbio che per il cammino verso una comune professione di fede sarà decisivo quanto questa è ani­ mata e sostenuta dalla vita delle Chiese, quanto è coperta dalla loro prassi, quanto dunque già ora le Chiese realizzano quel­ l'unità che è condizione per professare insieme la fede. Una pro­ fessione di fede sarà così espressione di comunione vissuta: non ci potrà essere Credo comune senza vita comune! La liturgia ortodossa introduce la recita del Credo con que­ ste parole: «Amiamoci, affinché possiamo confessare la fede»: finché la comunione non è stata restaurata, anche la fede non può essere realmente confessata. Questa speranza è confortata dal fatto che in molte comuni­ tà si va creando, come segno anticipatore di questa unità, una nuova prassi ecumenica, che può essere la premessa per profes­ sare insieme la fede e un giorno forse anche per un nuovo comune Credo ecumenico.

d) I Credo antichi sono ancora attuali? Da quanto detto risulta evidente che in realtà il problema non riguarda l'uso delle formule, ma tocca il fondamento stesso della fede della Chiesa antica come base e guida per la nostra fede: nonostante il passare del tempo e i problemi nuovi e di eccezionale importanza che sono sorti da allora, i cambiamenti

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intervenuti nei nostri orizzonti intellettuali e nei modi di comu­ nicazione, la fede cristiana non è affatto diversa oggi da quella della Chiesa antica. Così le antiche professioni di fede, anche se riflettono un particolare momento della vita della Chiesa e risultano quindi storicamente e culturalmente condizionate, e non affermano tutto ciò che appartiene alla dottrina cristiana, conservano il loro valore permanente e la loro attualità. Rigettando le eresie, esse ci hanno indicato le false vie di riflessione nelle quali il pensiero teologico non deve entrare e ci ricordano costantemente le conclusioni sbagliate, se vogliamo restare fedeli alla rivelazione. Impedendo soluzioni false, esse hanno delineato i grandi misteri della fede, la Trinità e l'incarnazione, facendoci vedere i problemi essenziali e fondamentali del Credo cristiano e appor­ tando gli elementi di soluzione, di cui ogni lavoro dottrinale deve assolutamente tener conto. I Credo antichi, inoltre, con la loro articolazione ritmica e la ricchezza dei toni biblici conservano una forza innegabile: mediante la loro antichità comunicano un senso di solidarietà con la fede degli apostoli e dei padri. Nei loro contenuti essi accentuano ciò che costituisce l'insieme delle principali verità riguardo a Dio e ai misteri della nostra redenzione. La loro attribuzione dell'opera di creazione, redenzione e santificazio­ ne rispettivamente alle tre persone divine continua a ispirare il culto e la teologia. Per tutti questi motivi i Simboli antichi, anche se non posso­ no essere considerati come la sintesi finale, esaustiva e definiti­ va della fede, neppure sono da rigettare come un 'espressione superata di essa; dobbiamo piuttosto considerarli come «stori­ ci», nel duplice senso che sono frutto di un 'elaborazione in par­ ticolari circostanze, in un dato stadio della storia della Chiesa, e hanno una continua funzione da svolgere in tale storia. Essi sono una testimonianza autorevole della fede un tempo professata e un punto fisso di riferimento trasmessoci da coloro che ci precedettero, da cui deve prendere le mosse qualsiasi ulte­ riore sforzo di rielaborazione e di riformulazione del Credo.

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26 e) Una proposta

Una delle ragioni dell'interesse crescente per la teologia come storia e per le ricerche sul ritorno alla narrazione come espressione primaria del compito della teologia sta nel carattere dinamico della narrazione in rapporto con le categorie antolo­ giche, statiche e immutabili ereditate da prospettive metafisiche. Questo ritorno riflette un bisogno profondo di riunire dina­ mismo storico e particolari contenuti e contesti, e un desiderio di recuperare il senso dei significati in relazione alla storia e il senso di scoperta e profondità in relazione all'esperienza. In questa prospettiva, «una confessione di fede cristiana non è altro che la "sanctae Trinitatis relata narratio":13 il racconto dell'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito, cui abbiamo cre­ duto· sulla parola dei testimoni delle nostre origini, trasmessa nella vivente tradizione ecclesiale. Chi confessa la fede, parla di Dio raccontando l'Amore, così come si è rivelato nell'evento tri­ nitario di Pasqua». Sono espressioni di Bruno Forte, uno degli esponenti più rappresentativi della teologia narrativa del nostro secolo. Ed è con una sua proposta di confessio fide� elaborata su nostra richiesta e con noi discussa e verificata, che vogliamo concludere queste nostre riflessioni, necessariamente brevi: ogni teologo che crede di vedere qualcosa della fede per oggi e doma­ ni cerca anche di esprimerlo in un Simbolo così contemporaneo che molti altri potranno pronunciar/o con lui. Questo di Bruno Forte ci pare in tutta la sua novità una tale sintesi di vecchio e nuovo, di Scrittura e tradizione, da poter dare un assaggio di quanto sulla via di una confessione in rin­ novamento ancora ci aspetta.

Credo in te, Padre, Dio di Gesù Cristo, Dio dei nostri padri e nostro Dio:

13 CONCILIO Xl DI TOLEDO (675): Denz 528.

Introduzione all'edizione italiana tu, che tanto hai amato il mondo da non risparmiare il tuo Figlio unigenito e da consegnarlo per i peccatori, sei il Dio, che è Amore. Th sei il Principio senza principio dell'Amore, tu che ami nella pura gratuità, per la sola gioia irradiante di amare. Th sei l'Amore che eternamente inizia, la Sorgente eterna, da cui scaturisce ogni dono perfetto. Th ci hai fatti per te, imprimendo in noi la nostalgia del tuo Amore, e contagiandoci la tua carità per dare pace al nostro cuore inquieto.

27 Gv 3,16

Rrn 8,32 1Gv 4,8.16

Gc 1,17

Rrn 5,5

Credo in te, Signore Gesù Cristo, Mc 1,11 Figlio eternamente amato, Rm 5,10 mandato nel mondo 2Cor 5,19 per riconciliare i peccatori col Padre. Gv 17,23 Th sei la pura accoglienza dell'Amore, tu che ami nella gratitudine infinita, e ci insegni che anche il ricevere è divino, e il lasciarsi amare non meno divino che l'amare. Th sei la Parola eterna uscita dal Silenzio, Gv 1,1ss il dialogo senza fine dell'Amore, Gv 20,21 l'Amato che tutto riceve e tutto dona. Eb 5,7ss I giorni della tua carne, totalmente vissuti in obbedienza al Padre, il silenzio di Nazaret, la primavera di Galilea, il viaggio a Gerusalemme, la storia della passione, la vita nuova della Pasqua di resurrezione, ci contagiano il grazie dell'Amore, e fanno di noi, nella sequela di te, 1Gv 4,16 coloro che hanno creduto all'Amore, 1Cor 11,26 e vivono nell'attesa della tua venuta.

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I simboli di fede della Chiesa antica Credo in te, Spirito Santo, Signore e datore di vita, che ti libravi sulle acque della prima creazione e scendesti sulla Vergine accogliente e sulle acque della nuova creazione. Tu sei il vincolo della carità eterna, l'unità e la pace dell'Amato e dell'Amante, nel dialogo eterno dell'Amore. Th sei l'estasi e il dono di Dio, Colui in cui l'Amore infinito si apre nella libertà per suscitare e contagiare amore. La tua presenza ci fa Chiesa, popolo della carità, unità che è segno e profezia per l'unità del mondo. Th ci fai Chiesa della libertà, aperti al nuovo e attenti alla meravigliosa varietà da te suscitata nell'Amore. Tu sei in noi ardente speranza, tu che unisci il tempo e l'eterno, la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste, tu che apri il cuore di Dio all'accoglienza dei senza Dio, e il cuore di noi, poveri e peccatori, al dono dell'Amore, che non conosce tramonto. In te ci è data l'acqua della vita, in te il pane del cielo, in te il perdono dei peccati, in te ci è anticipata e promessa la gioia del secolo a venire. Credo in te, unico Dio d'Amore, eterno Amante, eterno Amato,

Gen 1,2

Le 1,35 Mc 1,10 e par .

At 1,8 At 2,1ss 2Cor 3,17

1Cor 12 Rm8

Gv 7,37-39 Gv 6,63 Gv 20,22s 2Cor 1,22

Mt 28,20

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Introduzione all'edizione italiana eterna unità e libertà dell'Amore. In te vivo e riposo, donandoti il mio cuore, e chiedendoti di nascondermi in te e di abitare in me. Amen !

Col3,3 Gv 14,23

LUIGI LONGOBARDO

Napoli, 25 gennaio 1987

Capitolo I

Elementi di Credo nel Nuovo Testamento

l. L'ANTICA LEGGENDA

Per secoli i cristiani sono stati abituati a intendere con il termine «Credo» una formula stabilita che riassume gli artico­ li essenziali della loro religione e gode dell'approvazione del­ l'autorità ecclesiastica. Sembra opportuno che, nel primo capi­ tolo dello studio sull'origine e lo sviluppo delle principali pro­ fessioni cristiane di Credo, si tenti di stabilire se e in che senso si possa ragionevolmente affermare l'esistenza del Credo all'epoca del Nuovo Testamento. Per oltre metà della storia della Chiesa, nessuno ebbe il minimo dubbio al riguardo: si affermava con fiducia che i dodici apostoli avevano essi stessi composto e promulgato il primo sommario di fede. Il titolo «Credo apostolico» o Symbolum apostolorum, che ricorre per la prima volta in una lettera1 inviata dal sinodo di Milano (390) a papa Siricio e probabilmente redatta in bozza da s. Ambro­ gio (che fu anche uno dei suoi firmatari) , è sintomatico di un atteggiamento generalizzato. Un chiaro esempio dell'idea che la gente si faceva sull'origine del Credo è fornito dalla storia circostanziata che Rufino di Aquileia, un tempo amico, ora acerrimo nemico di s. Girolamo, riporta nel suo commento al Credo (forse il primo che possediamo in occidente) scritto intorno al 404. Gli apostoli, egli racconta/ dopo aver ricevuto

1

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S. AMBROGIO, Ep. 42,5: PL 16,1 174. Comm. in symb. apost. 2: CCL 20,134s.

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nella Pentecoste il dono delle lingue, furono incaricati dal Signore di mettersi in viaggio e proclamare la parola di Dio a tutte le nazioni del mondo: Quando furono sul punto di congedarsi, stabilirono prima una norma concordata per la loro futura predicazione, per non trovarsi, separati come sarebbero stati, ad annunciare dottrine differenti alle genti che invitavano a credere in Cristo. Si riunirono perciò in un solo luogo e, pieni di Spirito Santo, compilarono, come ho detto, questo breve sim­ bolo della loro predicazione futura, dando ciascuno il contributo che riteneva migliore; e stabilirono che lo avrebbero trasmesso ai credenti come insegnamento normativa. Rufina non ha inventato la storia che cita. Anzi, essa rap­ presenta ai suoi occhi una tradizione antica e sacra. Per essere precisi, la tradizione fa la sua prima apparizione in un altro documento dello stesso periodo nel nord Italia, la Explanatio symboli ad initiandos3 (che consisteva probabilmente in note basate su un discorso estemporaneo di s. Ambrogio ) ,4 e nelle Costituzioni apostoliche/ anch'esse appartenenti alla seconda metà del IV secolo. In queste ultime, il compilatore anonimo presenta i Dodici ricordando che, per contrastare la minaccia dell'eresia e per rafforzare l'autorità dell'episcopato, si erano riuniti e avevano scritto «questo insegnamento cattolico», al quale poi riferirsi. Noi ora possiamo solo congetturare come e quando il raccon­ to assunse la forma attuale. In un'epoca molto più antica, nella seconda metà del II secolo, gli ambienti cattolici davano per scontato che risalisse agli apostoli ciò che si sarebbe chiamato in seguito «la regola di fede» (un riassunto schematico dell'in­ segnamento cristiano, usato per la catechesi e per altri scopi). La regola di fede non deve essere confusa col Credo, ma (come vedremo in seguito) il loro rapporto era assai stretto. S. Ire neo, per esempio, spiega,6 nel ricapitolarla, che essa era stata tra-

' PL 17,1193-1196. 4 R.H. CONNOLLY rafforzò e avallò il punto di vista di una paternità am­ brosiana. Cf. JTS 47(1946), 185ss. ' 6,14. ' Adv. haer. 1,10,1: PG 7,549ss.

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smessa «dagli apostoli e dai loro discepoli» ed è tipica della sua epoca l'osservazione7 che, se gli apostoli non ci avessero tra­ smesso nulla per iscritto, avremmo dovuto seguire «la regola di fede che essi avevano consegnato ai capi della Chiesa». Allo stesso modo, Tertulliano parla8 della regola di verità che deri­ va da Cristo, trasmessa dai suoi compagni. È proprio la stessa affermazione, in epoca ancora più antica, a segnare il pensiero di s. Giustino, di s. Ignazio e dell'autore della Didachè.9 L'indicazione di Rufina, che ciascun apostolo avrebbe dato il suo contributo personale alla formula, venne in seguito ela­ borata con dettagli pittoreschi. Troviamo la leggenda in forma sviluppata nella serie di sermoni De symbolo, 10 falsamente attribuiti a s. Agostino. Nel primo di essi si legge:11 Il decimo giorno dopo l'Ascensione, quando i discepoli erano riuniti insieme per paura dei giudei, il Signore mandò su di loro il Paracleto promesso. Alla sua venuta, essi furono tutti infiammati come ferro incandescente, e, dotati della piena conoscenza di tutte le lingue, com­ posero il Credo. Pietro disse: «Credo in Dio Padre onnipotente [. . . ] creatore del cielo e della terra» [. . . ]. Andrea disse: «e in Gesù Cristo suo Figlio [. . . ] nostro unico Signore» [. . . ]. Giacomo disse: «che fu conce­ pito nello Spirito Santo [. . . ] nacque da Maria Vergine» [. . . ]. Giovanni disse: «soffrì sotto Ponzio Pilato [. . . ] fu crocifisso morì e fu sepolto» [. . . ]. Tommaso disse: «discese agli inferi [. . . ] il terzo giorno risuscitò da morte» [. . .]. Giacomo disse: «ascese al cielo [. . . ] siede alla destra di Dio Padre onnipotente» [. . . ]. Filippo disse: «di là verrà a giudicare i vivi e i morti» [. . . ]. Bartolomeo disse: «Credo nello Spirito Santo» [. . . ]. Matteo disse: «la santa Chiesa cattolica [. . . ] la comunione dei santi» [. . . ]. Simone disse: «la remissione dei peccati» [. . . ]. Taddeo disse: «la risurrezione della carne» [. . . ]. Mattia disse: «la vita eterna». Si deve notare che il racconto è ispirato esplicitamente al passo di Gv 20,19, secondo il quale solo i Dodici ricevettero l'effusione dello Spirito Santo. Il prestigio del Credo fu in tal

7

Adv. haer. 3,4,1: PG 7,358. Apol. 47; cf. De praescr. 21; 37: CCL 1,164; 202s; 217. 9 Per le prove cf. D. VAN DEN EYNDE, Les normes de l'enseignement chré­ tien, Paris 1933, 51ss; R.P.C. HANSON, Tradition in the Early Church, London 1962, 64s; 75ss. 10 Nell'Appendice del vol. V dell'edizione Migne. 11 Serm. 240 (ma probabilmente del sec. VIII): PL 39,2189. 8

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modo abilmente accresciuto, attribuendolo all'azione diretta dello Spirito di cui gli apostoli erano stati strumento. Così elaborata, la leggenda conquistò nel Medioevd2 un consenso pressoché universale. Ciò è notevole soprattutto per il fatto che non era facile ricavare con esattezza dodici articoli dal Credo. S. Tommaso d'Aquino, per esempio, trovò tale pre­ tesa in qualche modo imbarazzante e preferì distinguere sette articoli che si riferiscono alla divinità e sette all'umanità di Cri­ sto.13 La Chiesa, tuttavia, ritenne che, ai fini dell'istruzione popolare, la storia dell'origine apostolica del Credo, abbellita con dettagli fantasiosi, era utile per rafforzare l'autorità di quella che era diventata una formula sacra. Talvolta ciò trovò espressione nelle arti figurative, come nella Liebfrauenkirche di Treviri, dove le dodici sottili colonne che sostengono la volta furono adornate nel XV secolo con rappresentazioni degli apostoli e degli articoli di fede che cia­ scuno di essi aveva elaborato. Diventò soggetto preferito per le miniature dei salteri, dei libri delle ore e per le vetrate in cui ogni apostolo era raffigurato con un emblema celebrativo del proprio articolo del Credo. Ci è anche giunta14 una composizio­ ne di nove esametri, presentata come opera di s, Bernardo, che attribuisce dodici delle sue affermazioni (il maldestro poeta fu costretto� a ometterne due perché non riusciva a inserirle) al loro presunto inventore. Questi versi godettero certamente di grande diffusione, per la loro indubbia capacità di imprimere nella memoria della gente l'insegnamento del Credo. Accettato come racconto storico fino al XV secolo, aveva tutta l'aria però di essere una pia invenzione. Non avrebbe cer­ tamente resistito al risveglio del senso critico. I primi seri dubbi sull'edificante racconto si manifestarono al concilio di

12 La maggior parte degli autori, come s. MASSIMO DI ToRINO (O m. 83: PL 57,433ss), CASSIANO (Cont. Nest. 6,3: Petschenig l, 328), s. ISIDORO DI SIVIGLIA (De ecci. offic. 2,23: PL 83,815s), ecc., si accontentavano di affermare la pater­ nità apostolica; alcuni (per esempio s. Priminio) attribuivano ogni clausola a un determinato apostolo. 13 Cf. Summa theol. , 11-11, q. l, a. 8. 14 Per il testo cf. HAHN, 87.

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Firenze (1438-1445), che tentò di riunire le Chiese orientale e occidentale. Nel 1438, all'inizio delle trattative/5 quando i padri si trovavano ancora a Ferrara, i rappresentanti latini fecero appello al Credo apostolico. I greci non lo conoscevano affatto, e il loro capo Marco Eugenico, metropolita di Efeso, esclamò perentoriamente: «Non possediamo, né abbiamo mai visto questo Credo degli apostoli. Se fosse mai esistito, il libro degli Atti ne avrebbe parlato nella sua descrizione del primo sinodo apostolico a Gerusalemme, al quale fate appello». Il concilio per un motivo o per l'altro non registrò nessun ulterio­ re progresso sull'argomento. E tuttavia, poco dopo, l'origine apostolica del Credo fu fortemente criticata da Lorenzo Valla, il dotto propagatore delle idee rinascimentali e accanito avver­ sario del potere temporale dei papi.16 In seguito, un attacco meno drastico ma teologicamente più attento fu portato da Reginald Pecock, vescovo di S. Asaph (1444) e poi di Chiche­ ster (1450). Egli negava che gli apostoli fossero gli autori del Credo e rifiutava la discesa agli inferi.17 Per quanto momenta­ neamente soffocate (Valla dovette ritrattarle, e Pecock fu costretto a rinunciare al vescovado nel 1458), e in ogni caso passate in secondo piano durante le grandi controversie della Riforma, queste idee tornarono alla ribalta nel XVII secolo, quando G.J. Voss (1642) e l'arcivescovo Ussher (1647) inaugu­ rarono l'era moderna degli studi sul Credo. Se si affronta direttamente la questione, l'estrema improba­ bilità che gli apostoli abbiano tracciato un sommario ufficiale della fede non merita lunga discussione. La teoria che a essi lo attribuisce, a partire dalla Riforma fu in pratica tacitamente abbandonata come leggendaria da tutti gli studiosi; solo i tra­ dizionalisti si riservarono il diritto di far notare che l'insegna­ mento della formula nota come Credo apostolico riproduce l'autentica dottrina apostolica. È ormai chiaro che quello che

15 Cf. J. HARDOUIN, Acta concilio rum, IX, 842E e 843A. Mansi dà un rias­ sunto molto breve delle sessioni XIII e XIV. 16 Per la parte storica cf. D.G. MONRAD, Die erste Kontroverse uber den Ursprung des apostolischen Glaubensbekenntnisses, Gotha 1881. 1 7 Book of Faith, parte Il, c. V.

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stiamo trattando è solo un esempio caratteristico della nota tendenza della Chiesa primitiva ad attribuire il suo intero apparato dottrinale, liturgico e gerarchico ai Dodici e, tramite questi ultimi, al Signore stesso. In tal senso, si potrebbe facil­ mente concedere molto senza pregiudicare la questione se i portavoce del cattolicesimo del II secolo fossero o meno nel giusto quando affermavano che la loro regola di fede, in quan­ to distinta da ogni formula ufficiale, era identica alla fede degli apostoli. Durante il XIX secolo, tuttavia, gli argomenti critici inclinarono decisamente verso lo scetticismo. Si manifestarono dubbi sulla possibilità stessa che potesse esistere all'epoca del Nuovo Testamento un qualsiasi Credo in genere come corpo dottrinale organico, e tanto meno uno compilato dagli apostoli stessi. Non sembrava si potessero individuare nella letteratura apostolica allusioni certe o cita­ zioni riconducibili a questo testo. Se la Chiesa avesse possedu­ to una formula simile, ne sarebbe dovuta sopravvivere una traccia, data la sua immensa autorità. In ogni caso, postularne una finirebbe col rendere assurda la nota evoluzione del Credo nel II e III secolo. Infine, fu posto in rilievo che ricondurre Credo e formulari fissi agli inizi della Chiesa sarebbe stato un grave anacronismo. La fede stessa non aveva ancora raggiun­ to, in quel periodo, un livello di sviluppo tale da poter essere sintetizzata in un Credo, e inoltre doveva ancora sorgere la nozione precisa di definizioni stereotipe. La forza di queste e simili considerazioni è a prima vista impressionante. Non desta dunque sorpresa se, durante la grande fioritura di studi sui simboli di fede, che si ebbe tra il 1860 e il 1914, venne consolidandosi un'opinione decisamente contraria alla tradizione di un Credo primitivo. Bisogna ricor­ dare che, sotto l'influsso di uomini come von Harnack, la ten­ denza prevalente fu dominata da una particolare teoria sulle origini del cristianesimo. Si stabiliva spesso una marcata anti­ tesi tra la fase neotestamentaria, guidata dallo Spirito e spon­ tanea, e l'epoca del II secolo di formalismo e istituzionalismo incipienti. Finché venne accettata questa concezione della sto­ ria, non è stata individuata nello stadio iniziale del cristianesi­ mo nessuna espressione che somigliasse a un Credo completo.

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La maggioranza degli studiosi ( vi furono, è vero, alcune autorevoli eccezioni)18 ha concluso che simboli di fede formu­ lati nel senso rigoroso del termine non avevano avuto inizio fino alla metà del II secolo o, forse, poco prima. Se qualcosa di simile a un Credo era in uso nella Chiesa prima di allora, non poteva essere nulla di più elaborato della semplice confessio­ ne battesimale «Gesù è il Signore» o «Gesù è il Figlio di Dio». La storia dei Credo sarebbe stata dunque la storia dell'amplia­ mento di queste brevi formule, provocato dalle esigenze delle controversie e dall'evoluzione e maturazione teologica del cat­ tolicesimo. 2.

LA TRADIZIONE APOSTOLICA

Se si pone il problema in questi termini: la Chiesa apostoli­ ca ha posseduto una confessione di fede ufficiale, testualmen­ te stabilita, oppure no? , la risposta negativa dei più antichi ricercatori delle origini del Credo rimane senza dubbio ben fondata. Non è certo però se l'alternativa così posta sia giusta e ragionevole; bisogna domandarsi cioè se il dilemma proposto non ne pregiudichi il risultato. L'ipotesi che formule di fede fisse, testualmente definite, del tipo che sarebbero diventate correnti in seguito, esistessero al tempo del Nuovo Testamento non trova suffragio né in termini generali né per evidenza di documenti. In realtà, tali Credo non comparvero che molte generazio­ ni più tardi; anche la teoria che essi non si possano datare prima della metà del II secolo si rivela eccessivamente ottimi­ stica. Tuttavia concordare su questo punto non esclude mini­ mamente la possibilità che formule di fede di tipo più fluido, prive del carattere di stabilità e ufficialità dei formulari poste­ riori, ma precorritrici di questi, fossero in uso abbastanza pre­ sto. Se la Chiesa ha avuto un Credo all'epoca del Nuovo Testa18 A. SEEBERG, il cui trascuratissimo Der Katechismus der Urchristenheit (Leipzig 1903) aveva in sé le basi di un approccio del tutto nuovo e più van­ taggiOso all'argomento.

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mento, poteva essere soltanto qualcosa di simile. È importante esaminare gli argomenti a favore di questa ipotesi. Nel discutere, occorre tenere presenti due considerazioni. Prima di tutto, la Chiesa dei primi tempi fu sin dall'inizio una Chiesa credente, confessante e kerygmatica. Nulla è più artifi­ cioso e irreale della contrapposizione tanto frequentemente affermata tra la Chiesa del I secolo, con la sua pura religione dello Spirito e la sua quasi totale assenza di organizzazione, e la Chiesa cattolica nascente, della fine del II secolo, con tutti i suoi apparati istituzionali. Se i cristiani dell'epoca apostolica non avessero pensato di possedere una serie di credenze spe­ cifiche, coscientemente recepite, difficilmente avrebbero potu­ to separarsi dal giudaismo per intraprendere un vastissimo programma di espansione missionaria. Tutto tende a dimostrare che le comunità degli inizi si con­ sideravano portatrici di una storia unica di redenzione. Era stata la loro fede in questo annuncio che le aveva chiamate alla vita, ed esse si sentivano in obbligo di comunicarla ai nuovi venuti. Sarebbe dunque sorprendente se non avessero formu­ lato un'espressione visibile nella loro predicazione, come pure nella loro vita comunitaria e nella loro organizzazione. Come altri gruppi religiosi portatori di un messaggio di salvezza, i primi cristiani devono essere stati spinti da un intimo impulso a inserirla nella liturgia, nelle loro regole di fede, nella predica­ zione, e a cogliere ogni occasione per ripeterla. In secondo luogo, il carattere della letteratura apostolica, come gli studiosi hanno con sempre maggiore frequenza rico­ nosciuto a partire dagli inizi del XX secolo, concorda con que­ sta ipotesi. È passato il tempo in cui il vangelo e le epistole potevano essere trattati come biografie oggettive e commenti distaccati di avvenimenti contemporanei. Il Nuovo Testamen­ to è, nel suo insieme, una raccolta di testi in funzione missiona­ ria, scritti «di fede in fede». Gli stessi vangeli sono esposizioni attentamente elaborate dei dati di fede su Gesù, ai quali essi cercano di dare una spiegazione e un fondamento. Anche gli altri documenti presuppongono un retroterra di fede condivi­ so dall'autore e da coloro per i quali egli scrive. Al di là di tutte le differenze, delle sfumature e dei diversi punti di vista che

l. Elementi di Credo nel Nuovo Testamento

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emergono chiaramente, essi formano un corpo letterario che può essere definito unicamente da una comunità dotata di una sua specifica e ben determinata visione delle cose. Alla luce di queste considerazioni, è impossibile non scor­ gere l'accentuazione, riscontrabile dappertutto nel Nuovo Testamento, perché sia tramandata una dottrina imposta con autorità. Negli strati più tardivi i riferimenti a un corpo di insegnamento ereditato sono abbastanza chiari. In Gd 3, per esempio, leggiamo della «fede un tempo data ai santi»; in seguito (v. 20) l'autore parla della «vostra santissima fede», usando il termine, ancora una volta, nel senso di un corpo approvato di dottrine. Ugualmente, nelle lettere pastorali, frasi come «modello di sane parole» (2Tm 1,13), «la dottrina della salvezza» (2Tm 4,3; Tt 1,9) «il deposito ('t'IÌV 1tapa8�1Cl1V) e il «buon deposito» (1 Tm 6,20; 2Tm 1,14), «la fede» nella sua accettazione concreta (1 Tm 1,19; Tt 1,13) e «lo splendido inse­ gnamento» (1 Tm 4,6) sono un ritornello costante. Anche l'au­ tore di Ebrei fa frequenti allusioni a «la professione ('t'lì>, in Rein­ hold Seeberg Festschrift, Leipzig 1929, I, 2ss.

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I simboli di fede della Chiesa antica

del II secolo che la «regola di fede» creduta e insegnata nella Chiesa cattolica fosse ereditata dagli apostoli contiene più che un germe di verità. Non solo il contenuto di quella regola, nei suoi punti essenziali, aveva avuto come preludio «la forma di insegnamento» accettata nella Chiesa apostolica, ma i suoi particolari lineamenti e la sua struttura caratteristica trovava­ no i loro prototipi nelle confessioni e nei sommari di fede con­ tenuti nei documenti del Nuovo Testamento.

Capitolo II

Credo e battesimo

1.

IL RUOLO DEI CREDO DICHIARATORI

Nel capitolo precedente abbiamo visto che numerose circo­ stanze nella vita della Chiesa apostolica si prestarono a pro­ durre confessioni semi-formali di fede. Battesimo, culto, predi­ cazione, istruzioni catechistiche, polemica antieretica e antipa­ gana, esorcismo fornirono occasioni per dare espressione con­ creta agli articoli fondamentali della fede cristiana secondo esigenze determinate dalla necessità del momento. Era giusto attendersi che a tempo debito da alcune o da tutte queste situazioni si sviluppassero formulari stereotipi, poiché la litur­ gia li disponeva in forme fisse. In realtà, le cose andarono così; può rilevarlo a prima vista chiunque faccia ricerche sulla collu­ vie di azioni e riti sacramentali trasmessi dalla tradizione della Chiesa. In questo studio, però, non è nostra intenzione occuparci di ciascun tipo di formulari fissi, ma dei Credo nel senso specifi­ co della parola, come il Credo apostolico. Vogliamo appurare inoltre l'ambiente in cui ebbero origine simili proclamazioni di fede e i motivi che portarono i primi cristiani a rediger le. E qui ci troviamo di fronte a una soluzione quasi universalmente accettata. Si afferma che il Credo avrebbe avuto origine in con­ nessione con il battesimo. «È indiscutibile - osservava Hans Lietzmann1 - che la radice di tutti i Credo è la formula di fede

1 Die Anfiinge des Glaubensbekenntnisses, Ttibingen 1921, 226. Questo breve saggio era parte di una Festgabe presentata ad A. von Harnack.

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pronunciata dal battezzando, o a lui suggerita e da lui confer­ mata prima del battesimo». Questo argomento richiede un attento esame. Non ci può essere alcun dubbio (e l'argomentazione di questo capitolo dovrebbe confermarlo) che il Credo sia stato, storicamente parlando, intimamente connesso con il battesimo. Anzi, si deve ammettere in ogni caso un collegamento molto stretto tra la sua formulazione e l'ammissione dei neofiti alla Chiesa. Ma si deve precisare il tipo di rapporto e l'esatto carattere della con­ nessione. Non è esagerato affermare che, in passato, si sono verificati confusione e malintesi notevoli a questo riguardo. La ricerca che intendiamo produrre in questo capitolo sarà neces­ sariamente un po' superficiale. Ma dovrebbe aiutare a mettere in luce il sorgere delle formule di Credo nella Chiesa, e i modi in cui esse furono impiegate nella liturgia battesimale. Potrà forse essere utile, come punto di partenza, smentire in tutta la sua banalità la teoria popolare del rapporto tra Credo e battesimo. Nella loro forma attuale i Credo sono dichiarato­ n; si tratta cioè di brevi affermazioni, redatte in prima persona, che affermano la fede in una serie selezionata di fatti e dottri­ ne considerati di importanza fondamentale. Credo dichiarato­ n di questo tipo hanno svolto per secoli un ruolo preminente nel battesimo. Nel rito romano precedente il l969,Z per esem­ pio, dopo le cerimonie alla porta della chiesa, il prete conduce­ va il gruppo al fonte e, procedendo, recitava, assieme ai padri­ ni, il Credo apostolico e il Padre nostro. Così nelle Chiese orientali,l dopo l'esorcismo di alcune parti del corpo del candi­ dato e dopo la sua triplice abiura da Satana e la sua triplice dichiarazione di adesione a Cristo, gli viene ordinato di recita­ re il Credo di Nicea, cioè quello costantinopolitano. Professio­ ni di fede simili di tipo dichiaratorio, secondo l'opinione comu­ ne, dovrebbero avere fatto sempre parte della celebrazione del battesimo. In realtà fu proprio la necessità di una formale pro-

' Il rito riveduto ( 1969) non ha una proclamazione di Credo. ' Cf. F.J. GOAR, Euxroì..OytOv sive Rituale Graecorum, Lutetiae Parisiorum 1647, 338.

Il.

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clamazione di fede, che il catecumeno doveva ripetere nel bat­ tesimo, a spronare la Chiesa perché cercasse prima di tutto for­ mule di fede. Per qualsiasi altro uso essi siano serviti nel corso della storia, l'impiego vero e originario dei Credo, la loro ragion d'essere era di servire come solenni confessioni di fede nel contesto dell'iniziazione battesimale. Parlando in generale, ma con alcune riserve su cui tornere­ mo in seguito, questa spiegazione è abbastanza esatta per quanto concerne l'uso del Credo nel IV secolo e nel lungo periodo successivo. Le liturgie battesimali giunte fino a noi, sia orientali che occidentali, sono intricate come una giungla: pro­ prio la loro varietà presenta ostacoli enormi per chiunque voglia aprirsi una strada. Ma la struttura di fondo che mostra­ no è assai chiara, perlomeno per quanto riguarda la professio­ ne di fede del candidato. Emergono con evidenza due momen­ ti che si delineano nel rito del battesimo, in cui il battezzando è chiamato a fare la sua proclamazione. Il primo era l'atto vero e proprio di ricevere il battesimo, al culmine dell'intera ceri­ monia. Mentre era immerso nell'acqua del fonte, gli veniva detto di assentire a tre interrogazioni successive, se credeva cioè nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. A ciascuna egli rispondeva: «Credo»; veniva poi immerso nell'acqua per tre volte e il suo battesimo era così compiuto. Oltre a ciò, tuttavia, molto prima, durante la celebrazione stessa o anche nel corso delle cerimonie preparatorie al batte­ simo, vi erano altre circostanze in cui gli si richiedeva di dichiarare la propria fede. Questa volta non si trattava di assentire a delle domande, ma di recitare un Credo dichiara­ torio. È questo il rito che era noto con il termine tecnico di «riconsegna» del Credo ( lat. redditio symboli gr. cbtayyEÀia tiìç 1ttO"'t'Ecoç) , e che segnala il culmine dell'itinerario catechi­ stico in preparazione al sacramento.4 A un determinato stadio dell'itinerario ( la data precisa variava, ma segnava comunque il passaggio al grado superiore di competentes o �rons6J.LEVOt)

4 Per questo rito nel IV secolo cf. Peregrin. Aether. 46: GEYER, 97s; s. ILA­ RIO , Lib. de syn. 91: PL 10,545; s. AGOSTINO, Confess. 8,2,5: PL 32,751.

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il vescovo «consegnava» formalmente il Credo (questa era la traditio symboli) ai catecumeni più progrediti. Era quindi loro compito impararlo e assimilarlo, per essere poi in grado di ripeterlo come loro proprio patrimonio spirituale alla vigilia della loro iniziazione. Thtto ciò si svolgeva in conformità all'idea che il Credo era una formula segreta che non doveva essere scritta, ma memo­ rizzata dal fedele. Sembra che in molte Chiese avesse luogo più di una «riconsegna». Ciò avveniva, per esempio, in oriente;5 e s. Agostino6 indica una riconsegna preliminare che aveva luogo in occasione della consegna del Padre nostro, otto giorni dopo, cioè, la consegna del Credo. Ma nella maggior parte dei riti (fatta eccezione per quello gallicano) era prevista una speciale riconsegna formale il giorno stesso del battesimo. Si può avere un'idea di come tutto ciò avvenisse a partire dalla descrizione che del battesimo praticato a Gerusalemme intorno alla metà del IV secolo ci è stata tramandata nelle Catechesi mistagogiche di s. Cirillo (tenute o nel 348, quando era ancora prete, su richiesta del suo vescovo, o, forse,7 dopo la sua consacrazione a vescovo). L'istruzione preliminare, abitua­ le in quel tempo, aveva luogo durante il periodo quaresimale, e nel corso di essa, a un certo punto (non direttamente indica­ to ma probabilmente alla fine della quinta settimana), il Credo veniva consegnato ai catecumeni.8 Le altre due settimane pre­ cedenti la settimana santa erano dedicate alla sua spiegazione. Il battesimo era amministrato di notte, durante la veglia pasquale. S. Cirillo descrive9 come i candidati venivano condot­ ti nel cortile antistante il battistero (dç 'tÒv 7tpoauA.tov 'tou �a7tnajla'toç olKov), e lì, rivolti a occidente, in quattro atti distinti rinunciavano a Satana, alle sue opere, alle sue pompe e al suo culto. Poi, rivolti a oriente, la regione della luce, faceva' Cf. L. DUCHESNE, Christian Worship ( trad. inglese 1931 ) , 332. ' Serm. 59,1; 213,8: PL 38,400; 1064s. Cf. L. ErsENHOFER, Handbuch der Katholischen Liturgie, Freiburg i.B. 1933, II, 249s. 7 Così secondo MADER, Der hl. Cyrillus von Jerusalem, Einsiedeln 1891, 2s. ' Cat. 5,12: PG 33,520ss. ' A questo riguardo cf. Cat. 19,2-9 e 20,2-4 (PG 33,1068ss e 1077ss ) , che s. Cirillo consegnava al neobattezzato la settimana dopo Pasqua.

II.

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no la loro professione di fede: «Credo nel Padre, e nel Figlio, e nello Spirito Santo, e in un battesimo di penitenza». Possiamo supporre con buona probabilità che questo testo rappresenti un'abbreviazione di una formula più dettagliata che s. Cirillo aveva commentata articolo per articolo, ma che deve avere avuto qualche titubanza a riportare. La fase seguente era costituita dall'ingresso nel battistero vero e pro­ prio, dove i candidati si toglievano le vesti, venivano unti con l'olio dei catecumeni, e scendevano nudi nella vasca piena d'acqua. Qui veniva loro chiesto ripetutamente se credevano nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo e, appena essi facevano la loro «confessione di salvezza (TI!v crro't'ijpwv Òj.Lowyiav)» in risposta, venivano immersi tre volte nell'acqua. Il racconto di s. Cirillo è confermato e ampliato da Eteria di Aquitania, che circa quarant'anni dopo visitò Gerusalemme e i luoghi santi, annotando la prassi liturgica ed ecclesiastica con devota curiosità. Essa riferisce10 che il Credo era consegnato ai catecumeni dal vescovo all'inizio della sesta settimana di qua­ resima; essi poi lo riconsegnavano (si tratterebbe della prima e meno importante riconsegna e non di quella citata da s. Ciril­ lo) quindici giorni dopo, la domenica delle Palme. Il settimo libro delle Costituzioni apostoliche (scritto verso la fine del IV secolo e riproducente la pratica liturgica siriaca) riferisce una prassi simile. Non si cita in alcun modo la conse­ gna del Credo, benché ciò sia chiaramente sottinteso dall'ac­ cento posto su un'esauriente istruzione prebattesimale sulla fede.11 Ma vi si racconta dettagliatamente e ampiamente la rinuncia del catecumeno a Satana e la sua dichiarazione di adesione a Cristo, e subito dopo egli è presentato mentre ripe­ te l'intero Credo dichiaratorio. Il battesimo vero e proprio è descritto senza alcun accenno a un Credo interrogatorio, ma che ce ne fosse uno sembra implicito nella descrizione12 di un'unzione che seguiva la confessione del Credo come «prepa-

10 11

Peregrin. Aether. 46: GEYER, 97s. Capitolo 39 (pp. 440ss nell'edizione di F.S. FuNK, 1905). 12 Capitolo 42 (p. 448 in FuNK).

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razione per la confessione battesimale (nponapacrKemìv Oj!O­ Àoyi.aç �anncrj.la-toç)». La maggior parte dei riti orientali si conformò a questo modello. S. Giovanni Crisostomo, per esempio, nel predicare, intorno al 396 ad Antiochia, su 1Cor 15,29, cita un frammento dal quale risulta evidente un Credo dichiaratorio pronunciato prima che i candidati entrassero nell'acqua.13 Circa una gene­ razione più tardi, Giovanni Cassiano, rimproverando l'eresiar­ ca Nestorio (430 o 431) di avere abbandonato il Credo profes­ sato nel suo battesimo, suffragò la sua argomentazione con stralci di Credo dichiaratorio in uso per scopi battesimali ad Antiochia.14 Le Omelie catechetiche di Teodoro di Mopsuestia (circa 350-428), ritrovate di recente, spiegano dettagliatamente il Credo, una variante della formula costantinopolitana, che, secondo l'autore, si recitava «prima del nostro battesimo».15 Quando avveniva il giorno stesso del battesimo, la proclama­ zione del Credo trovava posto abitualmente subito dopo l'abiura dal demonio. Nel medesimo tempo ci sono, come già accennato in prece­ denza, prove abbondanti che questi riti orientali prescrivevano anche una seconda professione di fede, sotto forma di assenso dato a una triplice domanda, proprio nel momento del battesi­ mo. Un buon esempio si trova nel Testamentum Domini siria­ co (un rifacimento postniceno della Tradizione apostolica di s. Ippolito, risalente con ogni probabilità al V secolo). Le istru­ zioni date qui preparano alla rinuncia al demonio («lo rinun­ cio a te, Satana, e a tutto il tuo culto, alle tue apparenze, alle tue pompe e alle tue opere}}) e all'unzione del candidato. Questi era poi invitato a rivolgersi verso oriente e a dichiarare la sua adesione al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Segue poi16 la descrizione del battesimo vero e proprio:

" PG 61 ,348.

14 Contra Nestor. " Cf. Horn. XII,

6,3: PETSCHENIG l, 327. 25-28 (ed. TONNEAU e DEVREESSE in Studi e Testi 145,

361ss). 16 Pagina 128s nell'edizione di LE. RAHMANI (Magonza 1899): l'ho tradot­ ta dal latino.

Il.

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I battezzandi stiano in piedi nell'acqua. Allo stesso modo, un diacono deve scendere nell'acqua con loro. Così, una volta che il battezzando è sceso nell'acqua, chi lo battezza deve porre la mano su di lui e dire: « Credi in Dio Padre onnipotente?», ed il battezzando deve rispondere: « Credo». E subito lo si battezzi per la prima volta. Poi il prete deve dire: «Credi in Cristo Gesù figlio di Dio, che venne dal Padre, che è con il Padre dall'inizio, che nacque da Maria Vergine per opera dello Spirito Santo, che fu crocifiSso sotto Ponzio Pilato, morì, il terzo gior­ no risuscitò da morte, ascese al cielo, siede alla destra del Padre, e verrà a giudicare i vivi e i morti?». E, quando risponde: «Credo», lo si bat­ tezzi una seconda volta. Poi deve dire: , ecc. Il Credo costantinopolitano, dopo l'abiura dal demonio, è la sola professione di fede a perdurare nel rito, e la sua forma è naturalmente dichiaratoria. In occidente ciò non si è mai verificato, sebbene affiorino sporadici accenni al fatto che diminuiva l'importanza delle domande e risposte (per esem­ pio, se ne poteva ottenere la dispensa per un battezzando ammalato che aveva già recitato il Credo dichiaratorio )32 che alla fine furono separate dalle immersioni. Anche qui, tuttavia,

30 Cf. H.A. WILSON, The Gelasian Sacramentary, Oxford 1894, 79. " Cf. WILSON, The Gelasian Sacramentary, 86. 32 Cf. la lettera di s. FuLGENZIO DI RusPE (prima metà del VI secolo) a Fer­ rando (Ep. 12,16: CCL 91,371).

II.

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il Credo dichiaratorio, la cui recita ai tempi antichi avveniva spesso fuori del rito vero e proprio, finì per fissarsi saldamen­ te all'interno della stessa liturgia battesimale. A tal punto che la convinzione popolare, di cui stiamo esaminando le creden­ ziali, può considerarsi giustificata. Si era fatto notare all'inizio, tuttavia, che tale asserzione non si potrebbe estendere senza alcune riserve al periodo seguente il IV secolo. La prima è che, almeno per i primi seco­ li, il Credo dichiaratorio non era la sola professione di fede durante il battesimo, né la più significativa. Le «interrogazioni sulla fede (interrogationes de fide)» e le risposte a esse ne costi­ tuivano un'altra, come si è visto. Infatti, dato che formavano il nucleo del rito, è difficile sottrarsi al sospetto che la confessio­ ne di fede in esse contenuta fosse considerata quella essenzia­ le. Ciò è avallato di fatto da molte delle espressioni usate da scrittori appartenenti, in ogni caso, alla fase più antica del nostro periodo. S. Cirillo di Gerusalemme, per esempio, usa l'espressione:33 «Voi avete professato la confessione di salvez­ za (ÙlfJ.oÀoyi}cra-re 't'ÌlV crm't'itptov ÒfJ.oÀoyiav )» a proposito della proclamazione di fede fatta al battesimo, e sono le .risposte alle «interrogazioni sulla fede» che ha in mente. Nelle Costituzioni apostolichf!4 l'espressione «confessione battesimale» per eccel­ lenza è applicata a esse. E così anche il grande peso, che s. Basi­ lid5 e altri padri greci attribuiscono alla triplice immersione e alla triplice confessione con le relative interrogazioni, suggeri­ sce che per essi era questa la confessione che emergeva. Lo stesso avveniva in occidente. S. Agostino, per esempio, chiede:36 «Chi non è al corrente che non si tratta mai di un vero battesi­ mo se vengono omesse le parole evangeliche che formano il simbolo?»; e altrove37 parla delle «interrogazioni necessarie

33 Cat. 20,4: PG 33,1080. 34 7,42: FuNK, 448. " Cf. De Sp. Sancto 15,35: PG 32,132. E anche s. GREGORIO NAZ., Or. 40, 41: PG 36,417, e s. GREGORIO NISSENO, Orat. in bapt. Christi: JAEGER 9,229. 36 De bapt. con. Don. 6,47: PL 43,214. 37 De bapt. con. Don. 1,13: PL 43,121. Cf. anche De fid. et op. 9,14 (PL 40,205s) ed Ep. 98,5 (PL 33,361s).

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strutturate in poche parole». Nel rito gallicano, come si è visto, era questa l'unica professione di fede fatta il giorno stesso del battesimo. Questo ci porta a un altro aspetto che mette in rilievo il ruolo secondario dei Credo dichiaratori. Essi non erano per nulla una parte propria del battesimo. In verità, apparteneva­ no piuttosto alla preparazione catechistica che precedeva il sacramento: la loro proclamazione ne costituiva logicamente lo stadio conclusivo. Ciò emerge chiaramente dal rituale della consegna e riconsegna del Credo che, all'origine, non aveva niente in comune con il battesimo in quanto tale. Nella mag­ gior parte dei riti, la riconsegna formale del Credo aveva luogo alcuni giorni, o almeno alcune ore, prima del battesimo. Secondo l'uso gallicano, non c'era ulteriore Credo dichiara­ torio nel rito battesimale stesso. In alcune Chiese orientali, come si è visto, lo si ritrova immediatamente dopo la rinuncia al demonio, ma si può supporre che si tratti, come era, di un ponte tra i riti del catecumenato e del battesimo. Anche così, la serie di riti e cerimonie del libro di preghiere ortodosse, in cui il Credo dichiara torio è oggi incorporato, è chiaramente distin­ ta dal rito battesimale e intitolata «Preghiera per essere un catecumeno».38 Non è senza significato il fatto che il Credo dichiara torio, in tutti i riti di cui abbiamo descrizioni, fosse pro­ nunciato prima che il candidato entrasse all'interno del batti­ stero e si immergesse nell'acqua. Il processo con cui esso si è amalgamato con la liturgia bat­ tesimale vera e propria può essere · studiato molto utilmente soprattutto nella prassi romana. Nei primi secoli, la sua raison d'etre era chiaramente di costituire il culmine della preparazio­ ne catechistica: la sua collocazione negli «scrutini» sottolinea questo scopo. In seguito, scomparso praticamente il battesimo degli adulti, il rito battesimale subì un drastico mutamento, e molte delle cerimonie che erano proprie del catecumenato furono inserite nel rito del battesimo. Questo processo di adat-

38 a. GOAR, E\JxroMywv sive Rituale Graecorum, 334.

II.

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tamento è causa della presenza del Credo dichiaratorio nella posizione preminente che occupa nel rituale romano dopo il VI secolo. 2. LE INTERROGAZIONI BATIESIMALI Finora, soffermandoci sulla credenza popolare che la pro­ clamazione del Credo fosse originariamente una derivazione della liturgia battesimale, abbiamo deliberatamente circoscrit­ to la nostra attenzione al IV secolo e al periodo seguente. Dob­ biamo ora ricercare quale contributo possano dare al nostro problema i primi tre secoli. Dobbiamo soprattutto indagare sui dati che essi offrono per l'uso dei simboli di fede, dal momen­ to che sappiamo come anche dopo il IV secolo i simboli dichia­ ratori non erano le uniche né le più importanti professioni di fede usate durante il battesimo. Il nostro metodo sarà di dare innanzitutto uno sguardo alle indicazioni fornite dal Nuovo Testamento, per rivolgerei poi agli autori del II e del III seco­ lo. Va tenuta presente la distinzione tra i Credo dichiaratori veri e propri e le semplici espressioni di assenso in risposta a interrogazioni. Per quanto riguarda l'epoca neotestamentaria, non c'è dub­ bio che il Credo fosse considerato, fin dai tempi più antichi, condizione preliminare e necessaria al battesimo. Ciò risulta chiaro dall'essenza del rito di ammissione nella Chiesa. Veniva senz'altro richiesta, a comprova della fede, una professione di fede dell'uno o dell'altro tipo. Nel Nuovo Testamento, tutto questo è dimostrato in maniera circostanziata dal racconto del battesimo dell'eunuco etiope in At 8,36-38. Secondo il raccon­ to, l'eunuco fu così commosso dal discorso di Filippo sul Servo sofferente, che chiese: «Ecco, qui c'è acqua; che cosa mi impe­ disce di essere battezzato?». La risposta di Filippo, secondo la lezione del testo occidentale ( che indica una traccia della pras­ si cristiana primitiva, anche se non è originale ) , fu: «Se credi con tutto il cuore, è permesso». L'eunuco allora confessò la sua fede: «Credo che Gesù Cristo è il Figlio di Dio», e subito Filip­ po lo battezzò.

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I simboli

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Molti altri passi di Atti implicano il fatto che una dichiara­ zione di fede era richiesta per il battesimo. In At 16,14 Lidia viene battezzata a Filippi dopo avere ascoltato la predicazione di Paolo, e così riassume l'evento: «Avete giudicato che io sia fedele al Signore». Ciò significa, evidentemente, che aveva confermato in qualche modo l'insegnamento impartito dal­ l'apostolo. Analogamente, Paolo si rivolge al carceriere preso dal panico a Filippi dicendogli che se voleva essere salvato doveva credere nel nostro Signore Gesù; gli fu annunziata la parola del Signore e, dopo avere in qualche modo assentito alla predicazione ricevuta, si fece battezzare.39 Un'allusione più esplicita all'atto del battezzando di dichia­ rare la propria fede si trova forse nel racconto che Paolo fa del proprio battesimo; Anania, ricorda,40 gli aveva detto: «E ora perché aspetti? Alzati, fatti battezzare e lavati dai tuoi peccati invocando il suo nome» ( At 22,16 ) . In Atti, inoltre, come in altri libri del Nuovo Testamento, si descrive il battesimo come amministrato «nel nome del Signore Gesù»; secondo Mt 28,19 e Didachè 7, invece, nel triplice nome. Si è pensato che una dichiarazione di fede dovesse corrispondere approssimativa­ mente a questo formulario, e questa ipotesi è abbondantemen­ te suffragata dalla prassi ecclesiale delle generazioni seguenti a proposito del formulario battesimale. Nel Nuovo Testamento, ci sono altre indicazioni di una dichiarazione di fede durante il battesimo. Si cita spesso, a que­ sto proposito, 1Pt 3,21 , ma il vero significatd1 dell'espressione OllVt:: t 8t1cr�:: roc; àya9fìc; Ènt:: p CÒ'tll Jla �:: i c; 9t::o v sembra essere «l'impegno di una buona coscienza davanti a Dio». D'altra parte, è assai probabile, come si è rilevato nel capitolo prece­ dente, che l'osservazione di Paolo:42 «Se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti», si riferisca al battesimo: se è così,

" At 16,30ss. "" At 22,16. 41 Cf. E.G. SELWYN, The First Epistle of St Peter, London 1946, 20s; J.N.D. KELLY, The Epistles of Peter and of Jude, Peabody 1969, 162s. 42 Rm 10,9.

II.

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Credo e battesimo

siamo probabilmente di fronte a un frammento di confessione battesimale. Una confessione vera e propria sembra essere espressamente citata in 1Tm 6,12 (nìv lWÀ:ÌlV Òj.I.OAoyiav), come pure in Eb 4,14 («proclamiamo ad alta voce la nostra confessione: Kpa-tiòj.I.Ev 't'lì!l�OÀov ) , ed è ovvia­ mente ispirata al racconto fantasioso dell'origine apostolica del Credo. Rufino insiste a lungo, tuttavia, sulla derivazione del termine dall'idea di segno. Gli apostoli compresero, dice, che, essendoci ebrei che si presentavano con la pretesa di essere apostoli di Cristo, era importante avere un segno da cui si potesse riconoscere colui che predicava l'autentica dottrina apostolica. La situazione, egli continua, era analoga a quella che si verifica talvolta durante le guerre civili, quando le parti rivali possono facil­ mente incorrere nei più disastrosi errori di identificazione, se i loro capi non stabiliscono distintivi o parole d'ordine (symbo­ la distincta) per i loro sostenitori: cosi, se sorgono dubbi su qualcuno, gli viene richiesto il suo simbolo (interrogatus sym­ bolum ) , e immediatamente appare se è amico o nemico. Que­ sto è il motivo per cui - prosegue Rufino - il Credo non viene mai messo per iscritto, ma affidato alla memoria e conservato come il segreto degli uomini di Chiesa uniti agli apostoli. Due passi importanti di Tertulliano sono stati spesso consi­ derati76 come anticipazioni del pensiero di Rufino. Nel De praescriptione,77 egli fa il punto sul legame che unisce le Chie­ se romana e africana, coniando, per descriverlo, il termine con­ tesserare. Questo verbo, come il sostantivo contesseratio, che inventa in un secondo passo78 (qui la tematica è l'unità delle Chiese cristiane in generale ) , è derivato da tessera, che in que­ sto contesto indica il contrassegno o il segno che persone che vivono lontane potrebbero darsi come garanzia di riconosci­ mento reciproco.79 Qui il segno da lui ritenuto idoneo a unire le Chiese e ad esprimere il loro reciproco rapporto è la comu­ ne fede apostolica, o ciò che egli chiama «l'unica tradizione di un medesimo mistero (eiusdem sacramenti una traditio)». Ma, benché i concetti di tessera e symbolum non siano dissimili e in

76 Per esempio KATTENBUSCH, Il, 80 n.; BURN, 49. Capitolo 36: CCL 1 ,216s. " Capitolo 20: CCL 1,202. " Per un esempio vivo cf. PLAUTO, Poenulus, V, Il, 87ss.

n

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un certo senso si sovrappongano, Tertulliano non pensa pro­ priamente a un Credo o a dei Credo. Nel passo precedente, infatti, egli si riferisce alla fede comune e alla prassi della Chie­ sa in senso ampio, includendo la sacra Scrittura, i sacramenti, il martirio. Inoltre, la teoria di Rufina che symbolum significasse in origine segno o simbolo, sebbene sia stata ripresa da nume­ rosi altri padri,80 non fu in alcun modo la sola esegesi né la più seguita. Abbiamo già notato la popolarità dell'intuizione piuttosto rudimentale secondo cui il termine era stato scelto in quanto equivalente a collatio o composizione congiunta. S. Agostino diede il peso della sua autorità a un'altra spiegazione più plausibile. Il Credo è chiamato simbolo, suggerisce,81 in analo­ gia con i patti e gli accordi che gli uomini di affari stringono tra loro. Symbolum, si deve notare, era un antico vocabolo adottato in latino, e nell'uso secolare presentava significati che andavano da anello con sigillo82 o impronta di un sigillo83 fino a vincolo o garanzia legale.84 Che quest'ultimo significato fosse ben in rilievo nell'epoca cristiana è provato dal suo ricorrere in Tertulliano.85 La derivazione che s. Agostino pro­ pone per il titolo del simbolo di fede si presentava così in armonia con l'uso linguistico corrente, e non rimase isolata, ma ebbe il sostegno di un'intera scuola di autori sia prima che dopo di lui.86 Sconcertati forse dalla quantità di spiegazioni fornite dai padri, gli studiosi moderni hanno cercato talvolta una soluzio-

110 Cf. s. AGOSTINO, Serm. 214: PL 38,1072; s. MASSIMO DI TORINO, Horn. 83: PL 57,433. 81 Cf. Serm. 212 (PL 38,1058) e Serm. 214 (PL 38,1072). In quest'ultimo le idee di p atto e di parola d'ordine sono connesse. I passi sono esaminati da B. BuscH m Ephemerides Liturgicae 52(1938), 440s. 82 PLINIO, Hist. nat. 33, l, 4. "' PLAUTO, Pseudolus l, l, 53; Il, Il, 55; ecc. 84 CATONE (ap. Front. Epp. ad Anton. imp. l, 2). 85 Cf. symbolum martis in De paenit. 6: CCL 1,331. 86 Cf. NICETA REM., Explan. symb. 13: PL 52,873; s. PIETRO CRISOLOGO, Serm. 57, 58, 59: PL 52,360ss; Explan. symb. ad init. 13: PL 17,1155; s. FuLGEN­ ZIO DI RUSPE, C. Fab. 36; ls: CCL 91 A, 854 s ; TEODORO MOPS., Horn. XII, 27; ecc.

I simboli di fede della Chiesa antica

92

ne su un terreno completamente diverso. Si è proposto87 di far derivare l'applicazione di symbolum al Credo della Chiesa dalla prassi delle religioni misteriche. In esse erano spesso usate formule stereotipe note solo ai membri del culto, duran­ te le cerimonie di iniziazione e come segni mediante i quali i devoti potevano riconoscersi l'un l'altro; e ci sono solide ragio­ nil!l! per sostenere che erano conosciute tecnicamente come simboli ( crUJl�OÀ.a). Plutarco, per esempio, riporta una frase89 che si riferisce ai «simboli mistici delle orge dionisiache che noi che partecipiamo condividiamo l'un con l'altro». S. Clemente di Alessandria, mettendo in ridicolo il culto di Attis, riporta90 alcune delle sue formule sacre e le chiama simboli. Che il ter­ mine, in questo senso di slogan cultuale, fosse comune agli autori di lingua latina è dimostrato chiaramente dall'osserva­ zione di Firmico Materno/1 in apertura di un dibattito su tali espressioni: Vorrei ora enumerare i segni o simboli (quibus [ . . . ] signis vel quibus symbolis) mediante i quali la disgraziata plebaglia si identifica l'un l'al­

tro nel mezzo delle loro cerimonie superstiziose. Essi infatti hanno i loro segni particolari, le loro particolari risposte, che sono state loro imparti­ te nelle loro riunioni sacrileghe per ammaestramento del demonio. Anche Arnobio applica92 esattamente lo stesso termine symbola alla rozza formula che gli iniziati dovevano recitare durante i riti eleusini. C'è ovviamente un certo parallelismo con i Credo cristiani, e non c'è da sorprendersi che alcuni stu­ diosi abbiano dedotto che symbolum fosse uno dei termini di cui si erano appropriati, particolarmente se si tiene presente fino a che punto i maestri della Chiesa erano preparati a utiliz­ zare la terminologia dei culti misterici.

ff1 Cf. l'articolo di R NITZSCH, in Zeitschrift filr Theologie und Kirche 3(1893), 332-341 . 88 Cf. A. DIETERICH, Eine Mithrasliturgie, Leipzig-Berlin 1923, 64. 89 Consol. ad uxor. 10 ( 61 1 D). "' Protrept. 2,15: STAHLIN, 13. In 2,18 e 2,22 (STAHLIN, 14 e 17) la parola sta per oggetti di culto. '1 De error. profan. relig. 18: ZIEGLER, 43. 92 Adv. nat. 5,26: CSEL 4,198. =

II. Credo e battesimo

93

Prima di fare una scelta di campo tra le opposte teorie, è consigliabile dare ancora una volta uno sguardo a quei passi chiave della corrispondenza di s. Cipriano in cui il termine è usato per la prima volta in relazione con il Credo. Si ricorderà che in Ep. 69,7 si occupava della pretesa dell'eretico Novazia­ no di amministrare un battesimo valido con la giustificazione che «egli battezza con il medesimo simbolo di noi cattolici, riconosce lo stesso Dio Padre, lo stesso Cristo suo Figlio, lo stesso Spirito Santo e [ . . . ] non sembra differire da noi nell'in­ terrogazione battesimale»; in risposta respingeva l'ipotesi che gli scismatici potessero avere «la stessa legge del simbolo e la stessa interrogazione». Analogamente Firmiliano, in Ep. 75,101 1 del corpus di Cipriano, discutendo sul battesimo praticato da una donna pazza, ammetteva che non mancava «né il sim­ bolo della Trinità né l'interrogazione stabilita ed ecclesiastica». Oggi si pensa comunemente che in nessuno di questi passi il termine simbolo possa riferirsi a un Credo dichiaratorio, per­ ché né «battezzare con il Credo» né «credere nella Trinità» sono modi comuni di esprimersi in tal senso. Quasi certamen­ te ciò che gli autori avevano in mente era la triplice interroga­ zione rivolta dal ministro al candidato e la triplice risposta affermativa di quest'ultimo:93 probabilmente avevano in mente anche la triplice immersione o infusione.94 Questa interpreta­ zione si accorda molto bene con le espressioni «battezzare con il simbolo» e «simbolo della Trinità»; mentre l'osservazione95 di Tertulliano, secondo cui era prescritta «Una legge del battesi­ mo (lex tinguendi)» di forma prestabilita («Andate, diceva, e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo»), documenta l'uso della «legge del simbolo». Un'interessante conferma è offerta dal nono canone del concilio di Arles (314),96 che presenta le norme seguenti:

" Cf. sopra, p. 83. " Sia Kattenbusch (II, 189 ) che P. de Puniet (DACL II, 293 ) interpretaro­ no '\uest'ultimo passo come riferentesi semplicemente alle immersioni. ' De bapt. 13: CCL 1,289. 96 CCL 148,10s.

I simboli di fede della Chiesa antica

94

Per quanto riguarda gli africani, dato che essi praticano un secondo battesimo seguendo regole loro proprie, si è deciso che se qualcuno viene alla Chiesa dall'eresia devono rivolgergli le domande del simbo­ lo (interrogent eum symbolum). Se sembra loro che egli sia stato bat­ tezzato nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo, sarà necessario sol­ tanto imporgli la mano così che possa ricevere lo Spirito Santo. Ma se alle interrogazioni non risponde con questa Trinità (non responderit hanc Trinitatem) dovrà essere battezzato. La frase interrogent eum symbolum sembra avere chiara­ mente il significato «gli pongano le interrogazioni battesima­ li». Lo stesso identico uso di symbolum si trova nel passo97 di s. Agostino, già citato, in cui si stabilisce che «non c'è vero batte­ simo cristiano, se mancano le parole evangeliche di cui si com­ pone il simbolo». Possiamo allora considerare cosa certa che symbolum indi­ casse inizialmente le triplici interrogazioni battesimali: per s. Cipriano può avere significato anche la triplice immersione nel­ l'acqua. Ciò che esattamente motivò la scelta della parola rima­ ne sconcertante mistero, per quanto la risposta al nostro quesi­ to dipenda naturalmente dalla connotazione che il termine aveva per coloro che originariamente lo applicarono a tale scopo. L'ipotesi di Rufino che esso avesse il significato di segno o emblema gode oggi di scarsa considerazione in alcuni ambien­ ti,98 soprattutto perché mancano prove che il Credo sia mai stato usato come segreta parola d'ordine. Bisogna tuttavia porre in rilievo che ciò che Rufino sottolinea è il ruolo del Credo come strumento di identificazione della gente, mentre riporta la pras­ si degli eserciti nelle guerre civili solo a titolo di esempio. Ugualmente è stata criticata l'ipotesi della religione miste­ rica:99 in tal caso ci si aspetterebbe che l'iniziativa di definire il Credo come simbolo fosse presa, come già detto, dalle Chiese di lingua greca, ed è pure curioso che il normale termine lati­ no per una formula cultuale sia signum. Rimangono tuttavia

97 98

99

De bapt. contra Don. 6,47: PL 43,214. Cf. H.J. CARPENTER, in JTS 43(1942), 11. Cf. KAITENBUSCH, Il, 130; H.J. CARPENTER, in JTS 43(1942), 6.

Il.

Credo e battesimo

95

dati con cui bisogna fare i conti: il fatto che gli adepti del miste­ ro usassero slogan prestabiliti che chiamavano simbolo, che questi avessero una funzione straordinariamente simile a quel­ la delle domande del Credo, che il linguaggio della Chiesa in relazione al battesimo fosse molto influenzato dal gergo dei misteri, e che autori latini come Firmico Materno e Arnobio alludano a volte a formule di culto come simboli. D'altra parte è stato recentemente sostenutd00 con notevo­ le forza che il riferimento soggiacente al termine è realmente il grande contratto o patto tra Dio e l'uomo che si compie nel battesimo, e di cui le interrogazioni battesimali, i consensi e le immersioni potrebbero, presi nel loro insieme, essere conside­ rati come il sigillo o il segno. Questo punto di vista su tale argo­ mento si accorda con molti fattori, principalmente: a ) con l'uso regolare di symbolum nel significato di garanzia, contratto o sigillo in molti autori secolari latini; b) con la ripetuta descri­ zione del battesimo come patto e con l'associazione di symbo­ lum, nel senso di Credo, in un'intera serie di padri che hanno la medesima idea; c) con la stretta analogia dell'azione del bat­ tesimo, includente domande formali e consensi, con un accor­ do fatto in forma propriamente legale. Si deve ammettere che quest'ultima spiegazione si presen­ ta per molti versi attraente. Sarebbe azzardato escludere la possibilità che contenga la chiave del nostro problema. Thtta­ via, presenta difficoltà di cui bisogna tener conto. Si può dubi­ tare, per esempio, che nei primi secoli, a parte Tertulliano,101 la teologia corrente concepisse consciamente il battesimo come patto solenne. Non c'è dubbio che le forme esterne del sacra­ mento fossero sempre calcolate per suggerire l'atto di un patto commerciale e legale, e che la concezione del patto sia stata abbracciata decisamente da molti autori dopo il III secolo; ma, nel periodo in cui il termine simbolo fu applicato per la prima volta al Credo, altre idee stavano in primo piano.

100

Da H.J. CARPENTER, in JTS 43(1942), 7-1 1. Cf. la sua descrizione del battesimo come fidei pactum nel De pudic. 9,16: CCL 2,1298. 101

96

I simboli di fede della Chiesa antica

Inoltre, se l'idea di un patto solenne fosse stata di fatto così preminente in quell'epoca e se avesse realmente ispirato la scelta di simbolo come termine per designare le interrogazioni e le risposte del Credo, è certamente strano che i padri del IV e V secolo se ne mostrino così poco consci. Il fatto più straor­ dinario e, dal nostro punto di vista, anche il più significativo, è che fossero perciò evidentemente all'oscuro del significato ori­ ginario del termine. E ancora, per quanto chiaramente l'inter­ pretazione di simbolo come segno esterno di un patto possa essere adatta a certi contesti, essa costituisce tuttavia una chia­ ve interpretativa poco soddisfacente del significato di un'espressione di vitale importanza come quella di Firmiliano «simbolo della Trinità». Considerarla equivalente a «la pro­ messa di un legame iniziato con la Trinità>> comporta un lungo cammino dal significato originale presunto del termine come certificato o garanzia. Se tali obiezioni siano determinanti nei confronti di una teoria che possiede tanti argomenti a proprio favore è que­ stione che deve essere lasciata al giudizio del lettore: è forse troppo ottimistico aspettarsi, per un problema come questo, una soluzione del tutto inattaccabile. D'altra parte, si è tenta­ ti di vedere se non sia possibile trovare una spiegazione più semplice, e forse più ovvia, della scelta del termine «simbolo>>, considerando il suo significato fondamentale. Non si deve mai dimenticare che l'idea prima che symbolum, nella sua forma sia latina che greca, connotava, era quella di segno, emblema, simbolo: essa stava per qualsiasi cosa mediante la quale l'at­ tenzione di uno è richiamata a un'altra cosa. Era questo il significato principale che si poneva sempre in evidenza quan­ do la parola era usata, e che non si perdeva mai di vista anche quando il suo riferimento immediato era per esempio un anello da sigillo o una garanzia. E, se symbolum venne impie­ gato come titolo per le domande e risposte del Credo nel significato di segno o emblema, la frase rivelatrice di Firmilia­ no può dare un'indicazione per la sua connotazione precisa. Le domande e risposte erano un segno, un simbolo espressivo e portentoso del Dio uno e trino nel cui nome si amministra­ va il battesimo e con cui il catecumeno cristiano stava per

II. Credo e battesimo

97

essere unito.102 Che il simbolo fosse un simbolo della Trinità sembra essere suggerito dal linguaggio del canone di Arles che abbiamo citato; e non dovrebbe essere necessario sottoli­ neare ulteriormente il modo in cui le domande e le risposte erano regolarmente connesse con il comando del Signore di battezzare nel triplice nome. Non è impossibile (per quanto la nostra teoria non lo richieda affatto necessariamente) che, avendo il simbolo già rappresentato il termine adatto a uno slogan di culto, questo possa avere favorito, se non addirittu­ ra provocato, la sua applicazione alle formule, diventate i segni distintivi dell'ortodossia cattolica. Comunque sia, bisogna ammettere che Rufino può anche non essere stato così fuori strada come talvolta si è creduto, nell'interpretare il simbolo come segno o emblema distintivo. A quell'epoca, naturalmente, predominava il Credo in forma dichiaratoria, che consisteva in una dichiarazione continua e completamente separata dalle triplici domande e immersioni. Possiamo facilmente comprendere come lui e altri scrittori patristici della stessa epoca e delle seguenti fossero in difficol­ tà a cogliere profondamente il significato originario secondo cui si era accettata la sua descrizione in quanto simbolo, e si sentissero liberi di improvvisare le spiegazioni secondo le diverse occorrenze. Ma quali che siano state le ragioni della scelta di questo ter­ mine, non può esserci dubbio che, così come era usato nel III secolo, indicava le interrogazioni e le risposte del battesimo. In seguito, diventò il titolo regolare del Credo dichiaratorio. Non siamo in grado di determinare con precisione come e quando esattamente si verificò questo cambiamento. Il passaggio, però, fu naturale e facile, poiché l'affinità tra Credo dichiaratorio e interrogazioni battesimali era assai stretta: probabilmente coincide con l'introduzione di formule

102 Cosl secondo J. BRINKTRINE (per quanto pensasse piuttosto alla formu­ la del battesimo più che alle domande ) in Theologische Quartalschrift 102(1921), 1 66s. O. CASEL sostenne il punto di vista illustrato sopra in Jahrbuch ftlr Liturgiewissenschaft 2(1922), 133s.

98

I simboli di fede della Chiesa antica

di fede dichiaratone nella fase preparatoria del battesimo. Intorno alla metà del IV secolo, la situazione si era pienamen­ te stabilizzata, come possiamo dedurre dai riferimenti di Rufi­ no, Agostino e altri alla consegna e riconsegna del Credo. Thtto ciò ha grande importanza in se stesso, ma riveste particolare interesse per noi, impegnati come siamo stati nell'indagare il rapporto dei Credo con il battesimo. La rilevante scoperta alla quale

è

giunta la nostra lunga indagine

è

che il nome classico

per i Credo battesimali era, in origine, collegato nel modo più intimo alla struttura primitiva del rito battesimale.

Capitolo III

Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

l. IL PERIODO CREATIVO Oggetto di questo capitolo è l'esame dell'evoluzione del Credo (intendendo il termine in senso ampio, non tecnico, come nel primo capitolo) nel periodo tra la fine del I e la metà del II secolo. I limiti della ricerca non sono stati scelti arbitra­ riamente, ma sono determinati da considerazioni di ordine sto­ rico. Abbiamo già dato uno sguardo all'attività di formulazio­ ne di Credo nella Chiesa, nell'epoca apostolica: per evidenti motivi, essa è oggetto di argomento a sé stante, che merita un esame distinto. Dopo la metà del III secolo, come già accenna­ to, emerse una situazione del tutto nuova con l'introduzione della «consegna» e della «riconsegna» del Credo, e la discipli­

na arcani con cui erano collegate. Queste cerimonie non solo portarono in primo piano i Credo dichiaratori, ma causarono la tendenza a fissarne la formulazione. Il nostro periodo può dunque costituire a buon diritto un'unità naturale. Che sia anche un periodo che merita un esame particolarmente minuzioso deve risultare chiaro a chiunque rifletta che quella mezza dozzina di generazioni fu, istituzionalmente, tra le più creative della storia della Chiesa. La struttura generale del cattolicesimo era già stata delineata nel I secolo, ma solo nel II e nel III si eresse in solida costru­ zione. Questa generalizzazione è valida tanto per i simboli di fede e le liturgie, quanto per le altre espressioni dello spirito cattolico. Rischieremmo di smarrirei nel tentativo di penetrare l'in­ tri cato territorio che abbiamo dinanzi se non avessimo

100

I simboli di fede della Chiesa antica

un'idea chiara di ciò che cerchiamo. La data precisa e le modalità con cui sommari ufficiali di fede sono apparsi, lo svi­ luppo, in particolare, di confessioni battesimali e il loro rap­ porto con altre forme di Credo, in quale misura fattori esterni quali la lotta della Chiesa contro il paganesimo e l'eresia con­ dizionarono il contenuto dei primi Credo: ecco alcuni degli argomenti sui quali dobbiamo fare luce. Essi sono stati per lungo tempo esaminati dagli studiosi di Credo, e si sono venu­ te consolidando alcune opinioni convenzionali. Troppo spesso, però, queste sono viziate dal fatto di basarsi su premesse che oggi si devono considerare obsolete; di conseguenza, è neces­ sario affrontare di nuovo dettagliatamente tali questioni. I risultati acquisiti nel capitolo precedente, per esempio, produ­ cono un mutamento radicale nella prospettiva degli studi del Credo. Non è improbabile che essi incoraggino, o forse anche costringano, a un totale riorientamento di prospettiva in determinate direzioni. Sarebbe chiaramente azzardato, per esempio, accettare senza discutere le formule ufficiali stereotipe comparse, anche se localmente, in un tempo relativamente antico. Fatte alcune eccezioni, la tendenza generale tra gli storici classici dei Credo è stata di considerare il movimento verso la stabilizzazione in una fase molto avanzata, perlomeno in alcune singole Chiese, già nella prima metà del II secolo. L'oriente può essere stato più lento, ma Roma, secondo studiosi come il tedesco Katten­ busch1 e l'inglese Burn,Z poteva vantare una forma di Credo molto stabile e predominante prima dell'epoca dell'eretico Marcione, e cioè prima degli anni '40 del II secolo.3 Una simi­ le ipotesi non può essere messa da parte, ma la sua plausibilità dipendeva in gran parte da due tacite supposizioni: la prima, che la «regola di fede» coincidesse con il Credo, la seconda, che

1 Ci ii, c. 7. 2 Pp. 64ss. ' Il tipo di prova prodotta era l'osservazione di TERTULLIANO (Adv. Mare. I, 20: CCL 1,460) che, secondo i suoi sostenitori, Marcione non aveva tanto apportato delle innovazioni alla regola di fede, quanto provveduto a reinte­ grarla quando era stata alterata.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

101

un Credo dichiaratorio caratterizzasse in ogni epoca il rito del battesimo. Una volta compresa la precarietà di queste ipotesi, diventa possibile un approccio ai documenti senza idee preconcette e una loro valutazione obiettiva, senza supporre sempre la pre­ senza nascosta di una formula ufficiale. In se stessa, la teoria di una repentina codificazione della fede della Chiesa poco dopo il 100 d.C. , anche se in una comunità progredita come quella di Roma, è improbabile, soprattutto a causa dell'estrema fluidità di formulazioni che si era verificata nei decenni precedenti e della gradualità con cui venivano fissati altri aspetti della litur­ gia. Infatti, se la storia della liturgia ci offre un parallelo ade­ guato, dovremmo aspettarci che il secondo stadio nello svilup­ po dei Credo sia stato naturalmente la formulazione di un certo numero di tipi distinti di confessione, coesistenti in ami­ chevole competitività e senza nessuna rigidità di linguaggio. Un altro dato che discende dai risultati della nostra prece­ dente indagine è l'ampiezza e ricchezza relative al campo che lo studioso dei simboli di fede deve esplorare. Limitare l'atten­ zione alla liturgia battesimale poteva essere corretto quando si considerava il Credo un embrione nato nel suo seno e traente tutta la sua sostanza da quest'unica situazione della vita della Chiesa. Abbiamo visto, tuttavia, che è vano guardare al batte­ simo come alla fonte di Credo dichiaratoti in questo periodo: l'attenzione dovrebbe rivolgersi piuttosto alle interrogazioni battesimali secondo le indicazioni fornite dalle tracce che sono rimaste. L'ambiente4 storico battesimale, è chiaro, deve essere considerato in modo ampio, includendo l'intero itinerario di preparazione al sacramento. È stata la teologia- popolare delle scuole catechistiche (forse è troppo dire «scuole» per le strut­ ture di insegnamento del II secolo) che ha fornito ai Credo la maggior parte del loro contenuto. Né si deve dimenticare che vi erano nella vita della Chiesa molte e svariate situazioni che si prestavano alla proclamazione della fede.

4 In inglese , tradotto variamente con: ambiente culturale, sfondo storico, campo, contesto . . . (N. d. T.).

102

I simboli di fede della Chiesa antica

Siamo dunque giustificati se, nel cercare gli influssi che por­ tarono alla formazione dei Credo, teniamo conto di confessio­ ni di qualsiasi tipo, ovunque le incontriamo. Nel II secolo, come già si è visto per il I, l'eucaristia, l'esorcismo e molte altre cir­ costanze ufficiali o meno di esperienza cristiana possono aver portato il loro contributo. Può essere interessante, a questo riguardo, ricercare, alla luce delle conclusioni del primo capito­ lo, fino a quando le confessioni di una, due o tre clausole con­ tinuarono a esistere fianco a fianco e indipendenti l'una dal­ l'altra, nel II secolo, così come avveniva nel l. C'è, infine, un altro aspetto delle formule di Credo su cui sarà vantaggioso procedere con mente aperta: la scelta del materiale da includervi. Una tesi sostenuta dogmaticamente e ampiamente in passato fu che i Credo si erano sviluppati da brevi dichiarazioni a dichiarazioni molto più lunghe, più elabo­ rate, unicamente sotto la pressione dell'esigenza di respingere o escludere l'eresia. Così, la descrizione di Dio Padre come «creatore del cielo e della terra» era spesso considerata5 come nata per influsso antimarcionita, poiché Marcione faceva distinzione tra il Dio del cielo che Gesù aveva rivelato e il demiurgo che aveva creato l'ordine materiale. E ancora, l'insi­ stenza sui dettagli della vicenda umana di Cristo è stata spesso attribuita6 a una polemica antidocetista: i doceti rifiutavano infatti di ammettere la realtà fisica del suo corpo. Uno studioso . tedesco giunse ad affermare che «il Credo battesimale della Chiesa romana era semplicemente il conden­ sato della lotta contro Marcione».7 In realtà, molte delle clau­ sole indicate come antieretiche erano elementi comuni di con­ fessioni cristiane in un tempo in cui i motivi sopra addotti ave­ vano ben poche probabilità di esercitare un influsso reale. In ogni caso, come si è visto nel primo capitolo, lo studio dello svi­ luppo dei Credo secondo un'ipotesi evolutiva è disseminato di

' Cf., per esempi o, J. HAUSSLEITER, Trinitarischer Glaube und Christus­ bekenntnis in der alten Kirche, Giitersloh 1920, 51. • Secondo HAUSSLEITER, Trinitarischer Glaube, 51. 7 G. KROGER, in ZNTW 6(1905), 72-79. Egli stava riproducendo, con l'ag­ giunta di altri argomenti, la tesi d i A.C. McGIFFERT, The Apostles ' Creed, 1902.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

103

tranelli. Nel passare in rassegna i Credo del II e III secolo, cer­ cheremo di accertare senza pregiudizi l'influenza esercitata sul loro contenuto e sulle espressioni di svariate loro parti da motivi polemici. Deve essere chiaro, però, che l'intento princi­ pale dell'istruzione catechistica (possiamo ipotizzare che sia stato questo il campo più fertile per lo sviluppo dei Credo) era di carattere costruttivo: serviva a trasmettere a chi poneva le domande (o catecumeno) la meravigliosa storia dell'opera di salvezza che Dio aveva portato a compimento per l'uomo nel proprio Figlio. Non c'è dubbio che di tanto in tanto si avvertis­ se una nota antieretica: essa è acutamente sottolineata in alcu­ ni passi di s. Ignazio che citeremo tra breve, che sono di tono duramente antidocetista. Ma non dobbiamo ritenere avventa­ tamente che questa sia la sola e più importante funzione dei Credo, né che avesse il sopravvento sulla sua funzione, origina­ ria e positiva, di esporre la fede. 2.

l PADRI APOSTOLICI

Gli scritti dei cosiddetti Padri apostolici costituiscono il primo strato o materiale del nostro periodo. Per quanto riguar­ da i Credo, essi evidenziano una situazione strettamente paral­ lela a quella del Nuovo Testamento cui abbiamo già fatto riferi­ mento. Non si fa alcun accenno (e ancora meno citazione espli­ cita) a un Credo formale e ufficiale in nessun luogo, e i tentati­ vi di scoprirne qualcuno sono falliti proprio come quelli fatti per reperire un autentico Credo apostolico nel Nuovo Testa­ mento. D'altro canto, troviamo abbondanza di frammenti di quasi-Credo, a dimostrare che gli stimoli delle comunità cristia­ ne per le formulazioni di Credo erano vivi e attivi. Sostanzial­ mente il contenuto di questi frammenti lascia chiaramente pre­ sagire il corso che avrebbero preso le future formule ufficiali. Talvolta, queste confessioni embrionali mostrano un carat­ te re esplicitamente trinitario. La Didachè, per esempio, dà direttive precise per l'amministrazione del battesimo.8 «Dopo 8

Capitolo 7: BIHLMEYER, 5.

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I simboli di fede della Chiesa antica

aver detto tutte queste cose, battezzate in acqua corrente nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Due capito­ li dopo, formulando le norme per coloro che avevano diritto a partecipare all'eucaristia, l'anonimo autore li descrive come «coloro che sono stati battezzati nel nome del Signore», che è probabilmente un modo conciso di riferirsi alla più lunga for­ mula una e trina usata durante il rito di iniziazione. Nelle liturgie, come si è osservato nel capitolo precedente, battezzare nel nome del Padre ecc. significava domandare per tre volte: «Credi tu . . . ?» e immergere il candidato nell'acqua con tre successive immersioni. Poiché anche la Didachè preve­ de una triplice aspersione, erano quasi certamente previsti Credo interrogatori di questo tipo (non possiamo naturalmen­ te dire se si limitavano a domande semplici, senza ampliamen­ ti sulle tre persone). L'autore di l Clemente introduce una for­ mula simile quando, facendo eco al testo di Paolo,9 chiede ai suoi lettori:10 «Non abbiamo forse un solo Dio, e un solo Cri­ sto, e un solo Spirito di grazia che è stato riversato su di noi?». L'enfasi posta su un solo - un solo - un solo gli è suggerita dal­ l'indignazione per le controversie cui i corinzi avevano ceduto e che avevano portato divisioni, ma non è improbabile che avesse in mente il Credo interrogatorio del battesimo. La citazione dello Spirito che doveva essere conferito nel battesimo, e la menzione, nella riga seguente, del loro sembrano presupporre un am­ biente di cultura battesimale e quindi una sua maggiore affer­ mazione. Forse non è azzardato vedere un'allusione alla stes­ sa formula nell'affermazione in forma di giuramento del c. ' 58:11 «Poiché Dio vive, e il Signore Gesù Cristo, e lo Spirito Santo», soprattutto perché l'autore aggiunge immediatamen­ te il commento che questo Dio uno e trino è «la fede e la spe­ ranza dell'eletto», e perché il contesto generale è costituito da un'ammonizione ai lettori a soffermarsi «sul nome santis-

' Ef 4,4-6. 10 46,5: BIHLMEYER, 60. 11 BIHLMEYER, 66.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

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simo della sua maestà», cioè sul grande nome in cui erano stati battezzati. Se il fondamento di queste tre confessioni triadiche è litur­ gico, la famosa ingiunzione del Pastore di Enna:12 «Per prima cosa, credete che Dio è unico, colui che ha creato e dato forma alle cose, che ha fatto esistere tutte le cose dalla non-esistenza�� mostra semplicemente un esempio di insegnamento catechisti­ co corrente. A Erma era ben nota la triade Padre, Figlio e Spi­ rito Santo;13 e ciò, insieme alla sottolinea tura «per prima cosa», suggerisce che il modello di base della catechesi, di cui questo brano è un frammento, fosse trinitario. D'altro canto, anche se non ci sono citazioni dirette del kerygma specifico su Cristo, ne possiamo tuttavia trovare indubbia eco sia in s. Clemente che in Erma. Il riferimento del primo a «una sola invocazione in Cri­ st0>>14 potrebbe alludervi; e analogamente altre sue afferma­ zioni quali «il creatore di tutte le cose, mediante il suo ama­ tissimo Figlio Gesù Cristo [ . . . ] che ci ha chiamati dall'oscuri­ tà alla luce»,15 o «attraverso il sangue della redenzione del Signore sarà dato a tutti coloro che credono o sperano in Dio»,16 o «Gesù Cristo nostro Signore, per volontà di Dio, ha dato il suo sangue per noi»,17 o ancora «della cui risurrezione ha fatto primizia il Signore Gesù, facendolo risorgere dai morti».18 I passi di Erma a questo proposito sono più esplici­ ti. La legge di Dio data al mondo intero, afferma,19 è «il Figlio di Dio predicato fino ai confini della terra», mentre cristiani sono coloro che hanno ascoltato il kerygma e hanno creduto in lui. I ministri della Chiesa sono chiamati «gli apostoli e maestri della predicazione del Figlio di Dio»;20 è loro compito

" Mand. 1: GCS 48,23. " Cf. Sim. 5,6,2-7: GCS 48,57s. 14 l Corinzi 46: BIHLMEYER, 60. 15 l Corinzi 59: BIHLMEYER, 66. 1 6 l Corinzi 12: BIHLMEYER, 41s. 17 l Corinzi 49: BIHLMEYER, 62. 18 l Corinzi 24: BIHLMEYER, 49. " Sim. 8,3: GCS 48,69. "' Sim. 9,15: GCS 48,89.

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I simboli di fede della Chiesa antica

predicare il nome del Figlio di Dio e amministrare il battesi­ mo come suo sigillo.21 Le lettere di s. Ignazio sono state a lungo considerate terre­ no particolarmente interessante per gli studiosi dei Credo. In esse si può talvolta riscontrare il modello trinitario; un esem­ pio è Magn. 13 ,22 dove egli invita i suoi corrispondenti a cam­ minare, in tutte le loro azioni, «nella fede e nell'amore, nel Figlio e nel Padre e nello Spirito, nell'inizio e nella fine» e, qualche riga dopo, a essere sottomessi al vescovo e l'uno all'al­ tro «come [ . . . ] gli apostoli a Cristo e al Padre e allo Spirito». È la stessa lettera23 a mettere in luce una confessione non forma­ le del tipo che si può chiaramente identificare a due clausole: «C'è un solo Dio, che si è rivelato mediante Gesù Cristo suo Figlio, il quale è il suo Verbo proveniente dal silenzio». Thtta­ via, i suoi brani più notevoli di quasi-Credo sono di forma e contenuto cristologico, e forniscono una delle prove più con­ vincenti dell'esistenza separata di confessioni a una clausola. Un esempio è la dichiarazione sommaria di Efes. 18,2:24 Poiché il nostro Dio Gesù Cristo fu concepito da Maria secondo il disegno di Dio, dal seme di Davide e dallo Spirito Santo; egli nacque e fu battezzato perché mediante la sua passione potesse purificare l'acqua. Un altro passo si trova in Tra/l. 9:25 Siate sordi se qualcuno vi parla senza Gesù Cristo, della stirpe di Davide, figlio di Maria, che realmente nacque, mangiò e bevve, fu veramente perseguitato sotto Ponzio Pilato, fu veramente crocifisso e morì, sotto lo sguardo di esseri celesti, terrestri e degli inferi, che fu veramente risuscitato dai morti, poiché suo Padre lo risu­ scitò [. . }. ·

.

21

Sim. 9,16: GCS 48,90. BIHLMEYER, 92. 23 Capitolo 8: BIHLMEYER, 90s. 24 BIHLMEYER, 87. 25 BIHLMEYER, 95. n

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

107

Un terzo è Smirn. 1,1-2:26 Siate pienamente convinti riguardo al nostro Signore, che fu veramente della stirpe di Davide secondo la carne, figlio di Dio per volontà e potenza divina, nato realmente dalla Vergine, battezzato da Giovanni, perché potesse compiere ogni giustizia, veramente inchiodato nella carne sotto Ponzio Pilato e il tetrarca Erode [. . . ] perché mediante la sua risurrezione potesse innalzare un vessillo [. . . ] nell'unico corpo della sua Chiesa. Ricercatori di più antica scuola lavoravano abitualmente sulla presunzione che passi come questi fossero estratti e libe­ ramente parafrasati dal Credo battesimale usato da s. Ignazio. Theodor Zahn/7 per esempio, puntò fiduciosamente sulle espressioni «coloro che professano fede» o «coloro che profes­ sano la fede (1ttcrttv È:7tayyeAÀ.6JleVot)» e «coloro che professa­ no di appartenere a Cristo (o i è7tayyeAÀ.6Jlevot Xptcr·wu elvm)» in Efes. 14,2,28 e pretese di cogliervi un'allusione alla formula soggiacente. I tentativi di ricostruire «il Credo di s. Ignazio» sono stati numerosi e audaci.29 Erano però destinati a fallire, dato che il vescovo martire non pensava neanche lonta­ namente all'esistenza di una formula simile. Il passo citato da Zahn considera la fede come atteggiamento, come amore, non come un corpo formulato di dottrina, e i tre brani cristologici citati sono evidentemente unità indipendenti. È vero invece che, attraverso le righe dello stile polemico di s. Ignazio, si può intravedere in sintesi la struttura del kerygma cristologico primitivo. Il testo di Efesini, con la sua arida enu­ merazione di fatti, può ben rappresentare un punto nodale della catechesi locale. Gli altri due hanno carattere solenne, quasi innico, il che ha fatto pensare ad alcuni studiosi all'euca-

26

BrnLMEYER, 106. Das apostolische Symbolum, Erlangen-Leipzig 1893, 42s. 28 BIHLMEYER, 86. 2' Cf., per esempio, A. VON HARNACK nel suo Anhang a Bibliothek di Hahn; R. SEEBERG, in Z. jùr KG 40(1922), 3. 27

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I simboli di fede della Chiesa antica

ristia o a qualche altra situazione liturgica come fondo.30 Ciò è chiaramente possibile, per quanto l'elevatezza dello stile possa attribuirsi semplicemente anche all'intensa partecipazione del­ l'autore. Un elemento che unifica questi tre esempi è la loro fondamentale identità di prospettiva teologica. Sono tutti costruiti sulla stessa idea di fondo dell'antitesi tra l'umiliazio­ ne e l'esaltazione del Signore, e presentano il medesimo sche­ ma: secondo la carne, secondo lo spirito; figlio di Davide, figlio di Dio. Si pongono in linea con la tradizione che si riconduce a Rm 1,3 e Fil 2,5-1 1 . Il secondo e il terzo sono rilevanti per l'in­ dirizzo antidocetista che l'autore ha loro impresso, conscio del pericolo degli eretici che negavano la realtà delle esperienze umane del Signore. Un altro testimone della viva e costante presenza dell'anti­ co kerygma cristologico è s. Policarpo. Nella sua Epistola ai Filippesz"31 si scaglia contro coloro che non confessano che Cri­ sto è venuto nella carne e rinnegano la testimonianza della croce (tò J.Lapwptov 'tou yov ) » . Egli ha in mente, senza dubbio, l'insegnamento tradizionale, com­ patto nella sua struttura fondamentale, anche se plastico nelle formulazioni verbali. In uno dei capitoli precedentP2 della let­ tera possiamo afferrarne un'eco: [. . . ] credenti in lui che ha risuscitato dai morti il nostro Signore Gesù Cristo e gli ha dato gloria e un trono alla sua destra, al quale sono sottomesse tutte le cose del cielo e della terra al quale obbedisce ogni soffio di vento, che verrà a giudicare i vivi e i morti.

lO 31 32

Così secondo H. LIETZMANN, in ZNTW 22(1923), 265. Capitolo 7: BIHLMEYER, 1 17. Capitolo 2: BIHLMEYER, 1 14.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

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La struttura di questa confessione è a due clausole, ed è interessante osservare che l'elemento più lungo, concernente la cristologia, è grammaticalmente subordinato al primo ele­ mento, che è più breve. Molto probabilmente, si tratta di un frammento dell'insegnamento che veniva impartito abitual­ mente ai convertiti nella Chiesa di Smirne. Merita attenzione il fatto che si tratta di un centone di stereotipi ripresi da 1 Pie­ tro,33 perché può chiarire il modo con cui era costruito il corpo della tradizione catechistica . . 3.

l

CREDO DI S. GIUSTINO

Dai Padri apostolici passiamo ora a s. Giustino martire. La sua prima Apologia, scritta a Roma nel 150-155 e indirizzata all'imperatore Antonino Pio, e il suo Dialogo con Trifone ebreo, scritto nel 155-160 con riferimenti a un dibattito che aveva avuto luogo a Efeso alcuni anni prima, sono fonti pre­ ziose per quanto riguarda la prassi liturgica e la teologia apo­ logetica della metà del II secolo. Per lo storico dei Credo il loro valore è immenso. A differenza dei Padri apostolici, negli scrit­ ti dei quali possiamo cogliere echi lontani di formule di Credo, in s. Giustino incontriamo per la prima volta ciò che si può plausibilmente considerare citazione di Credo semiformali. Ciò ha costituito un problema particolare per gli studiosi di Credo. Essi si sono preoccupati soprattutto di determinare quale fosse l'esatto rapporto tra i formulari di s. Giustino e il Credo contemporaneo della Chiesa di Roma. Per quanto ci riguarda, crediamo più opportuno rimandare un esame detta­ gliato di questo problema ai capitoli seguenti, quando avremo acquisito più piena conoscenza del cosiddetto Antico Credo romano. Qui sarà sufficiente osservare che esistono notevoli discrepanze tra quest'ultimo (tecnicamente designato R) e le formule che si possono supporre sottendere il linguaggio di s. Giustino, e che, in ogni caso, l'ipotesi che Roma possedesse in quest'epoca un unico Credo ufficiale è assai dubbia. 33

1 ,21; 3,22; 4,5.

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I simboli di fede della Chiesa antica

La maggior parte delle confessioni in s. Giustino mostra la familiare struttura di fondo a tre clausole. È veramente rile­ vante notare come questo modello era impresso nella sua mente. Si può raccogliere un grande numero di testi minori per illustrare questo dato, come Apol. l, 6,2:34 Ma veneriamo e adoriamo Lui [cioè il vero Dio] e il Figlio) da Lui nato che ci ha insegnato queste verità [. . . ] e lo Spirito profetico; o Apol. l, 65,3:35 Al Padre dell'universo, mediante il nome del suo Figlio, e dello Spirito Santo; o Apol. l, 67,2:36 Il Creatore di tutte le cose, mediante suo Figlio Gesù Cristo, e mediante lo Spirito Santo. Il più lungo ed elaborato si trova in Apol. l, 13 :37

Così, non siamo atei, poiché adoriamo il creatore di questo universo [. . . } e poiché con buona ragione onoriamo colui che ci ha insegnato queste verità e a questo scopo è nato, Gesù Cristo, che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, governatore della Giudea al tempo di Tiberio Cesare, avendo imparato che è il Figlio del vero Dio e ponendo/o al secondo posto dopo il Padre, e lo Spirito profetico terzo nell'ordine, procederemo alla dimostrazione.

34

E.J.G., 29. " E.J.G., 74. 36 E.J.G., 75. 37 E.J.G., 33s.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

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Il contesto letterario del secondo e del terzo di questi stral­ ci è una descrizione dell'eucaristia: sono probabilmente som­ mari, in qualche modo abbreviati, di preghiere rituali. L'ultimo è naturalmente un ampliamento molto libero, con parole del­ l'autore, del Credo che dobbiamo esaminare. Il suo stile circo­ stanziato ed esplicativo si riferisce forse al luogo del discorso. I due passi di s. Giustino, che presentano rilevante impor­ tanza, si riferiscono entrambi alla celebrazione del battesimo e sono stati compiutamente citati nel capitolo precedente. Pre­ sentano una straordinaria somiglianza di linguaggio, e questa caratteristica da sola induce a ipotizzare una forma liturgica più o meno stabile. Il primd8 è molto breve e dice:

Poiché ricevono un lavacro Lustrale nell'acqua nel nome del Padre e Signore Dio dell'universo, e del nostro Salvatore Gesù Cristo, e dello Spirito Santo [. . . ]; alcune righe dopo,il secondo passo:39

Su colui che ha scelto di rinascere e si è pentito dei suoi peccati viene pronunciato il nome del Padre e Signore Dio dell'universo, mentre il celebrante che conduce il candidato all'acqua deve usare questa e solo questa descrizione di Dio [. . . ]. Inoltre, è nel nome di Gesù Cristo, che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, e nel nome dello Spirito Santo, che per mezzo dei profeti preannunciò le verità riguardanti Gesù, che l'uo­ mo illuminato viene lavato. La frase della clausola su Dio Padre è identica in entrambi i casi, e ritorna nuovamente, senza nessuna modificazione di rilievo, in Apol. l, 46.40 Quasi certamente, dunque, riproduce una formula battesimale fissa. Il testo della seconda e terza clausola è più fluido, ma il loro contenuto è molto chiaro. Non c'è nessuna indicazione che la sezione cristologica fosse in qualche modo materialmente più ampia di quanto non indichi­ no i nostri testi. Se, come si è pensato talvolta, si può sottende-

38 Apol. I, 61,3: E.J.G., 70. Apol. l, 61,10: E.J.G., 70s. 40 E.J.G., 59. 39

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I simboli di fede della Chiesa antica

re qualcosa nella frase «le verità riguardanti Gesù», deve trat­ tarsi di una cristologia più o meno sviluppata che si aggiunge­ va alla clausola sullo Spirito. Ci si potrebbe aspettare come logica e giustificata conseguenza uno studio che tentasse di ricostruire quello che potrebbe essere chiamato «Credo di s. Giustino». È necessario però comprenderne bene tutto il con­ testo. S. Giustino stesso spiega che le formule (poiché di formu­ le si trattava ) erano pronunciate dal celebrante e non dal can­ didato al battesimo. La ripetizione «nel nome di» lo mette bene in luce. Come abbiamo indicato, è molto improbabile che la formula vera e propria del battesimo «lo ti battezzo nel nome» ecc. fosse già in uso in quel periodo. Sembra quindi, come già argomentato nel precedente capitolo, che ci troviamo di fronte non a un Credo dichiaratorio del tipo abitualmente ricostruito dagli studiosi, ma alle interrogazioni battesimali. Nella Chiesa di s. Giustino, le domande poste dal celebrante avevano assun­ to una struttura stabile e si svolgevano come segue:

Credi nel Padre e Signore Dio dell'universo? Credi in Gesù Cristo nostro Salvatore, che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato? Credi nello Spirito Santo, che ha parlato per mezzo dei profeti? A questa confessione strettamente trinitaria, s. Giustino poteva evidentemente accostare un semplice kerygma cristo­ logico del tipo che, come si è visto, aveva avuto una continuità storica a partire dalla predicazione degli apostoli e dagli scrit­ ti di Paolo. Ci sono, nelle sue opere, molti passi che lo rifletto­ no; ecco alcuni esempi notevoli: Noi diciamo che il Verbo, che è la prima progenie di Dio, fu generato senza rapporto carnale, Gesù nostro maestro, e che fu crocifisso, e morì, e risuscitò, e ascese al cielo,.41

" Apol. l, 21,1: E.J.G., 40.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

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Troviamo preannunciato nei libri dei profeti che Gesù nostro Cristo sarebbe venuto in terra, sarebbe nato da Maria vergine e si sarebbe fatto uomo: sarebbe stato crocifisso e sarebbe morto, e sarebbe risuscitato, e salito al cielo/2 Ma Gesù Cristo, che è venuto nei nostri giorni, fu crocifisso, e morì, risuscitò, è asceso al cielo e ha regnato;43 Egli fu concepito come uomo dalla Vergine, e fu chiamato Gesù, e fu crocifisso, morì, e risuscitò, ed è asceso al cielo;44 Per il resto dovete provare che Egli acconsentì a nascere come un uomo da una Vergine secondo la volontà del Padre, e a essere crocifisso, e a morire, e anche che dopo questo egli risuscitò, e ascese al cielo. 45 Poiché nel nome di questo vero Figlio di Dio e primogenito di tutta la creazione, che nacque mediante la Vergine, e divenne uomo passibile, e fu crocifisso sotto Ponzio Pilato dal vostro popolo, e morì, e risuscitò da morte, e ascese al cielo, ogni demonio è esorcizzato, conquistato e sottomesso;46 Non bestemmierai contro di lui che è venuto in terra ed è nato,

42

Apol. l, 31,7: E.J.G., 46s. Apol. l, 42,4: E.J.G., 55. 44 Apol. I, 46,5: E.J.G., 59. "" Dial. 63 ,1: E.J.G., 168. 46 Dial. 85,2: E.J.G., 197. 43

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I simboli di fede della Chiesa antica

e ha sofferto, ed è asceso al cielo, e verrà di nuovo. 47 Gesù che abbiamo anche riconosciuto come Cristo il Figlio di Dio, crocifisso, e risorto, e asceso ai cieli, che verrà di nuovo a giudicare la giustizia di ogni uomo risalendo fino ad Adamo stesso. 48 Si può appena mettere in dubbio che questi brani si presen­ tino con una struttura molto simile a un formulario: sono echi della liturgia o dell'insegnamento della Chiesa. Ma sarebbe ugualmente un grave errore considerarli come appartenenti a un Credo a tre clausole con una sezione cristologica pienamen­ te sviluppata, sul tipo di quelle che in seguito finirono per pre­ valere. Ci furono circostanze, come il rito di esorcismo o la celebrazione eucaristica, o come l'esposizione sistematica o la predicazione del messaggio cristiano, in cui confessioni cristo­ logiche di questo genere si rilevano particolarmente idonee. La formula di esorcismo citata in precedenza, per esempio, ha tutte le caratteristiche per essere considerata una riproduzione molto fedele di una formula effettivamente in uso. La breve formula riportata in Dia/. 132,1 è simile a essa, benché presen­ ti in più una menzione della seconda venuta. È difficile respin­ gere la conclusione che s. Giustino conosceva e, all'occasione, faceva ricorso al kerygma cristologico evoluto, che godeva già di un certo grado di stabilità e che era ancora del tutto indipen­ dente dalle confessioni trinitarie. Le opere di s. Giustino, quindi, hanno importanza conside­ revole per lo studioso di Credo. È ipotesi meramente congettu­ rale, non suffragata da alcuna sua affermazione, postulare una connessione con un Credo dichiaratorio ufficiale in uso a Roma o in qualsiasi altra Chiesa. D 'altronde, egli fornisce la prima prova diretta in nostro possesso dell'emergere di inter-

" Dia/. 126,1: E.J.G., 246s. 48 Dia/. 132,1: E.J.G., 254.

III.

Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

115

rogazioni di Credo relativamente fisse durante il battesimo; e attesta l'esistenza in atto di confessioni puramente cristologi­ che a una sola clausola accanto a quelle trinitarie usate nel bat­ tesimo e in altre occasioni. Un fatto che merita di essere sotto­ lineato è la fedeltà con cui esse riproducono il kerygma origi­ nario, senza legarlo in maniera apprezzabile alle necessità pole­ miche o apologetiche, o senza colorarlo con la teologia filoso­ fica propria di s. Giustino. È interessante osservare, in connes­ sione con l'ultimo punto ricordato, che si può anche citare come testimone del kerygma cristologico della metà del II secolo un contemporaneo di s. Giustino, l'apologista Aristide. Alcuni studiosi del passato,49 quando fu scoperta la versio­ ne siriaca della sua Apologia, saltarono troppo in fretta alla conclusione che testimoniasse l'esistenza di un Credo dichiara­ torio definitivo e formale. Anche se tale ottimistica pretesa deve essere respinta, dovrebbe essere chiaro che il c. 250 del testo siriaco contiene un'illuminante parafrasi della tradizione della Chiesa riguardo a Gesù. Unirla alle affermazioni su Dio Padre del c. l, nel tentativo di ricostruire un Credo a tre clau­ sole, significa misconoscere l'argomentazione dell'Apologia. La discussione teologica del c. l è completamente distinta e, nel c. 2, Aristide si rifà alla dottrina cristologica tradizionale, che esisteva autonomamente e che mostra molti punti di ana­ logia con quella di s. Giustino.

4. S. lRENEO E LA SUA REGOLA DI FEDE Dopo s. Giustino, segue, nell'ordine dei testimoni dell'evo­ luzione dei Credo, s. Ireneo, il grande teologo e apologista cri­ stiano della seconda metà del II secolo. Sua costante e ribadi­ ta affermazione fu che la fede della Chiesa era ovunque unica e identica. In un passo famosd1 egli insisteva sul fatto che, ben-

" Cf. J. RENDEL HARRIS, Texts and Studies, I, 1891, 24ss. "' RENDEL HARRIS, Texts and Studies, 36. Il capitolo corrispondente della vers} ne greca in Barlaar;t e Josaphat è 15 (p. 1 10). � Adv. haer. 1,10,1-2. PG 7,549ss.

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I simboli di fede della Chiesa antica

ché si fosse diffusa da un capo all'altro della terra, la Chiesa condivideva un'unica struttura di fede derivata dagli apostoli e dai loro discepoli, e che, mentre le lingue dell'umanità erano diverse, «il valore della tradizione (il ouva1-uç 'riìç 7tapa06creroç)» era identico ovunque. Sua espressione favorita per designare ciò era «il canone della verità», con cui non intende­ va un Credo unico universalmente accettato, o qualche formu­ la similare, ma piuttosto il contenuto dottrinale della fede cri­ stiana èome trasmesso nella Chiesa cattolica.52 Questa, soste­ neva, era identica e con lo stesso contenuto ovunque, in con­ trasto con gli svariati insegnamenti degli eretici gnostici. Sono numerosi i passi in cui fa riferimento a questo pensiero, o anche riproduce sommari che dovremo ora esaminare. Dei due trattati più importanti, l' Epideixis53 e l'Adversus haereses, il primo è opera popolare, meno polemica, scritta come compen­ dio della dottrina cristiana a profitto dei convertiti per il loro periodo di istruzione, mentre l'altra è certamente il magnum opus polemico di s. Ireneo. Nostro compito sarà di scoprire tracce di Credo formali o informali e di osservare la struttura e il rapporto tra i sommari di fede. Proprio quasi all'inizio dell' Epideixis,54 l'autore cerca di imprimere nel suo lettore (il libro è indirizzato a un amico di nome Marciano) l'importanza della fede e che cosa essa impli­ chi. «In primo luogo», dice, «essa ci ordina di tenere a mente che abbiamo ricevuto il battesimo per la remissione dei pecca­ ti nel nome di Dio Padre, e nel nome di Gesù Cristo Figlio di Dio, che si incarnò, morì e risuscitò, e nello Spirito Santo di Dio». Un altro riferimento al triplice nome si trova al c. 7, dove spiega che «il battesimo della nostra rigenerazione si svolge attraverso tre momenti: Dio Padre che ci concede la rigenera­ zione attraverso suo Figlio per mezzo dello Spirito Santo». La

" Per «la regola della verità>> cf. D. VAN DEN EYNDE, Les normes de l'en­ seignement chrétien, Paris 1933, part II, eh. VII; R. P. C. HANsoN, Tradition in the Earlt, Church, London 1962, eh. 3. ' Ritrovato in versione armena nel 1904. I riferimenti sono tratti da una traduzione inglese di J.A. RoBINSON, London 1920 (S.P.C.K.). " Capitolo 3.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

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stessa identica sottolineatura dei «tre momenti», o «articoli», del battesimo ricorre verso la fine del trattato.55 L'evidente implicazione del suo modo di esprimersi è che conosceva una serie di interrogazioni battesimali che suonavano pressappoco cosl ( non è necessario ritenere che la trascrizione del testo fosse necessariamente completa o esatta) :

Credi in Dio Padre? Credi in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che si incarnò, e morì, ed è risuscitato? Credi nello Spirito Santo di Dio? Per un'esposizione dettagliata dei «tre momenti», in un contesto ugualmente connesso con il battesimo, possiamo rivolgerei al c. 6, dove s. Ireneo scrive:

Questo dunque è l'ordine della regola della nostra fede, e il fondamen­ to dell'edificio, e la stabilità del nostro discorso: Dio il Padre, non crea­ to, non materiale, invisibile, un solo Dio, creatore di tutte le cose: que­ sto è il primo punto della nostra fede. Il secondo punto è questo: la Parola di Dio, Figlio di Dio, Cristo Gesù nostro Signore, che fu mani­ festato ai profeti secondo la forma della loro profezia e il disegno della provvidenza del Padre; mediante la quale [cioè la Parola] tutte le cose furono fatte: che poi alla fine dei temJ!.b._[fer completare e riunire tutte le cose, divenne uomo tra gli-llOl'fiiivisibile ii; e tangibile, per abolire la morte e manifestare la vita e realizzare una comunità di unione tra Dio e l'uomo. E il terzo punto è: lo Spirito Santo, per mezzo del quale i profeti hanno profetizzato, e i Padri hanno imparato le cose di Dio, e i giusti furono condotti sulla strada della giustizia; e che alla fine dei tempi fu effuso in modo nuovo sul genere umano su tutta la terra rin­ novandolo, innalzando l'uomo fino a Dio . . : ,..... Questo non è evidentemente il Credo battesimale, ma piut­ tosto una sorta di breve commento. Indica la sostanza del­ l'istruzione catechistica prebattesimale, e illustra come era modellata sullo schema delle interrogazioni battesimali.

55

Capitolo 100.

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I simboli di fede della Chiesa antica

Entrambi questi sommari di fede tratti dall' Epideixis sono confessioni trinitarie a tre clausole. Simili sono anche quelli, più importanti, inseriti nell'Adv ersus haereses. Un esempio è il famoso passo56 in cui s. Ireneo parla della

fede perfettamente integra (1tianç ÒÀ.éncÀTIPOç) in un solo Dio onnipo­ tente, dal quale tutte le cose derivano; e della sua ferma fede nel Figlio di Dio, Gesù Cristo nostro Signore, mediante il quale tutte le cose sono, e nel suo disegno di salvezza (tàç oixovoJ.liaç aùtou) in forza del quale il Figlio di Dio divenne uomo; e [. . . ] nello Spirito di Dio che in ogni generazione manifesta apertamente tra gli uomini la provvi­ denza salvifica del Padre e del Figlio, secondo la volontà del Padre. Dato che la seconda e la terza sezione sono parafrasi molto libere, non c'è bisogno di sottolineare che questa con­ fessione è deliberatamente modellata su quella paolina ben nota di 1Cor 8,6. Sotto il profilo dottrinale, si avvicina, soprat­ tutto per la sua chiarezza e precisione, al commentario di Credo di Epideixis 6. Entrambi sottolineano l'opera creatrice del Padre e la sua unicità, entrambi insegnano che per virtù del Figlio esistono le cose create, entrambi insistono sull'ope­ ra profetica dello Spirito attraverso il tempo. Il brano di Credo più noto di s. lreneo e più frequentemen­ te citato presenta una struttura differente. È il passo al quale si era fatto riferimento all'inizio di questa parte, e suona così:57

Dato che la Chiesa, benché diffusa nel mondo intero, fino ai confini della terra, ha ricevuto, trasmessa dagli apostoli e dai loro discepoli, la sua fede in un solo Dio Padre onnipotente, che ha creato il cielo e la terra e il mare e tutto ciò che è in esso; e in un solo Cristo Gesù il Figlio di Dio, che si è fatto carne per la nostra salvezza; e nello Spirito Santo, che per mezzo dei profeti ha proclamato il disegno salvifico e la venu­ ta e la nascita dalla Vergine e la passione e la risurrezione dai morti, e l'innalzamento nei cieli dell'amato Cristo Gesù nostro Signore nella carne, e la sua seconda venuta dai cieli nella gloria del Padre per riuni­ re tutte le cose e innalzare ogni carne di tutta l'umanità, così che [. . . ] possa fare un giusto giudizio tra tutti gli uomini, mandando nel fuoco

56

Adv. haer. 4,33,7: PG 7,1077. " Adv. haer. 1 ,10,1: PG 7,549.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

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eterno le potenze spirituali del male e gli angeli che trasgredirono e caddero nella ribellione e gli empi [. . . ] tra gli uomini, ma ai giusti [. . . } accordando vita e immortalità e assicurando loro gloria eterna. Ciò che è peculiare in questa formulazione è che sembra essere la risultante di un'ingegnosa fusione di una confessione trinitaria breve e nitidamente equilibrata e una cristologica più dettagliata e circostanziata. Il passo in questione, come quelli citati nei paragrafi antecedenti, riecheggia, sia pure con note­ vole distanza, la formula paolina di 1Cor 8,6. La rassomiglian­ za non si ferma a questo, e di fatto (nonostante la parola d'or­ dine «Cristo Gesù», che richiama Epideixis 6) c'è una stretta somiglianza tra Adv. haer. 1,10,1 e Adv. haer. 4,33,7. È impor­ tante notare che la cristologia non appartiene, come sarebbe stato naturale in epoca più tardiva, alla seconda sezione, ma è connessa con il Credo triadico come tema della profezia dello Spirito. Ha tutta l'aria, quindi, di essere esistita un tempo come confessione a una sola clausola e indipendente, in cui i diversi episodi, qui espressi mediante sostantivi («la venuta», ecc.), erano espressi, senza alcun dubbio, da verbi finiti. Accanto a questi, esistono inoltre in s. lreneo molti Credo del tipo a due clausole, e il nostro studio sul suo contributo non sarebbe completo se non li segnalassimo. Alcuni di essi consta­ no di frasi relativamente semplici, come:58 «E tutti questi evan­ gelisti ci hanno trasmesso che c'è un solo Dio, creatore del cielo e della terra, annunciato dalla legge dei profeti, e un solo Cristo, il Figlio di Dio��. Altri sono caratterizzati da una cristo­ logia più ampia, in cui la menzione del Figlio è elaborata con un kerygma esteso. Egli descrive,59 per esempio, tribù barbari­ che che possiedono Scritture non scritte, avendo la tradizione cristiana scritta nei loro cuori, e credendo

in un solo Dio, creatore del cielo e della terra e di tutte le cose che con­ tengono, mediante Gesù Cristo Figlio di Dio, che a causa del suo immenso amore per la sua creazione accettò di nascere dalla Vergine,

58

59

Adv. haer. 3,1,2 (in latino): PG 7,845s. Adv. haer. 3,4,2 (in latino): PG 7,855s.

120

I simboli di fede della Chiesa antica

unendo in se stesso uomo e Dio, e patì sotto Ponzio Pilato, e risuscitò, e fu elevato nello splendore, e tornerà nella gloria, salvatore di quelli che sono salvati e giudice di quelli che sono giudicati. Si potrebbe aggiungere un passo singolare,60 scritto contro i doceti che separano l'eterno Figlio di Dio dal Gesù uomo, in cui la cristologia è liberamente premessa a un Credo minimo di due clausole che si richiama a 1Cor 8,6:

Egli è lo stesso Gesù Cristo nostro Signore, che soffrì per noi e risusci­ tò e tornerà ancora nella gloria del Padre, per risuscitare ogni carne, e per mostrare la salvezza e dimostrare l'autorità del giusto giudizio a coloro che da Lui sono stati creati. C'è dunque un solo Dio, il Padre [. . . ] e un solo Gesù Cristo nostro Signore. Con ciò si completa la nostra indagine su s. Ireneo. Questi dati giustificano alcune conclusioni. Anzitutto, gli era familiare un breve Credo battesimale nella forma di triplice interroga­ zione, benché sia impossibile ora determinare fino a che punto la sua espressione verbale fosse rigida o quanto Epideixis 3 rifletta i suoi termini autentici. In secondo luogo, s. Ireneo conosceva anche il kerygma cristologico tradizionale, con il suo elenco delle esperienze del Signore e di quanto ha compiuto. È interessante studiare il modo in cui combinava tali elementi o li inseriva in confessioni a due o tre clausole. In terzo luogo, potrebbe anche avere attinto a sommari di dottrina cristiana a due o tre clausole. Talvolta erano liberi nel loro frasario, come in Epideixis 6, mentre altre volte la loro struttura era abbastan­ za ordinata e formale, come nelle parole di apertura di Adv. haer. 1 ,10,1 e nei sommari a due clausole citati in precedenza. Nessuno di essi, e tanto meno le confessioni cristologiche, pre­ senta segni tali che li possiamo qualificare come Credo nel senso stretto del termine; sono dei formulari diventati più o meno stereotipi. In quarto luogo, l'impatto del testo paolino di 1Cor 8,6 merita di essere tenuto in considerazione. Infine, l'in­ flusso di motivi antiereticali è, nell'insieme, sorprendentemen-

60

Adv. haer. 3,16,6 (in latino): PG 7,925.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

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te debole, soprattutto se si considera la natura polemica del­ l'opera di s. lreneo. Sarebbe tuttavia avventato minimizzarli: il rilievo dato all'unicità e immaterialità di Dio, all'identità tra Gesù e il Messia profetizzato nell'Antico Testamento e alla realtà dell'incarnazione in Epideixis 6 tradisce probabilmente il desiderio di strappare Marciano dagli errori gnostici. Un trat­ to come l'enfatico «elevato nei cieli nella carne» in Adv. haer. 1 ,10,1 è pure di tendenza antignostica. Questi sono, tuttavia, elementi superficiali e possono essere facilmente separati dal corpo della regola di fede tradizionale e sacrosanta. È degno di considerazione il fatto che la nota polemica è del tutto assente dal breve questionario battesimale. Questo sembra il luogo adatto per richiamare alcune altre formule, appartenenti approssimativamente allo stesso periodo, che illustrano le for­ mule di fede di s. lreneo. Accanto alle sue confessioni a due clausole, per esempio, possiamo porre la confessione attribuita a s. Giustino (che subì il martirio alla fine degli anni '60 del secolo) nell'antico racconto del suo martirio:61

La nostra adorazione è data al Dio dei cristiani, che crediamo essere stato all'inizio il solo creatore di queste cose e l'autore del mondo inte­ ro, e al Figlio di Dio, Gesù Cristo, che è stato anche annunciato dai profeti come destinato a venire quale araldo di salvezza per la razza umana e maestro di nobile dottrina. Similmente, Lietzmann62 ha messo in rilievo il fatto che il Credo prodotto dai «presbiteri benedetti» (probabilmente vescovi)63 di Smirne in opposizione all'eretico Noeto presenta un preciso parallelo:64

Anche noi glorifichiamo un unico Dio, ma perché lo conosciamo; 61 Acta fustini 2,5. La prima metà di questo Credo riproduce il testo di P (Parisinus, 1470, A.D. 890). La maggior parte delle edizioni riportano un testo adattato al Credo successivo. Cf. P.F. DE' CAVALIERI, (Studi e Testi 8), 1902, 33s e F. C. BURKITI, in JTS 1 1(1909), 66. 62 ZNTW 22(1923), 271. 63 Cf. C.H. TURNER, in JTS 23(1921), 28ss. 64 In s. lPPOLITO, Contra Noetum 1: NAUTIN, 235-237.

122

I simboli di fede della Chiesa antica

e accettiamo il Cristo, ma perché lo sappiamo Figlio di Dio, che patì come Egli patì, morì come Egli morì, e risuscitò il terzo giorno, e siede alla destra del Padre, e verrà a giudicare i vivi e i morti. Ancor più importante è il Credo che appare nella Epistula apostolo rum copta, opera antignostica scritta probabilmente in qualche parte dell'Asia Minore poco dopo la metà del II seco­ lo. Nella versione etiopica, i capitoli introduttivi constano di una trattazione in cui si rivendica la provenienza dagli Undici e include una descrizione di alcuni miracoli del Signore. I discepoli spiegano che i cinque pani del cibo miracoloso sono un simbolo del nostro Credo cristiano cioè

nel [Padre, omesso dal cod. A] legislatore dell'universo, e in Gesù Cristo [nostro Redento re, omesso dai codd. A, C] e nello Spirito Santo [il Paracleto, omesso dai codd. A, B, C] e nella santa Chiesa, e nella remissione dei peccati. 65 L'impressione che si ha dal contesto, come pure dallo stile complessivo del passo, è che si tratti di una forma più o meno stereotipa. Così come si presenta, il parallelo col miracolo evangelico garantisce la sua suddivisione in cinque articoli. Si tratta quasi certamente di un formulario a tre clausole, model­ lato sulle interrogazioni battesimali, che è stato ampliato a cin­ que clausole con l'aggiunta alla fine di ulteriori articoli.

5.

l CREDO DI TERTULLIANO

Rivolgiamo ora la nostra attenzione a Tertulliano,66 per vedere quale contributo ci può offrire sulle origini delle forme

" Capitolo 5 (16) etiop. (C. ScHMIDT, Gespriiche Jesu mit seinen Jilngern, 1919, 32). . 66 Di gran lunga la più completa e profonda disamina delle formule d1 Credo di Tertulliano si può ritrovare nell'antico non molto noto La doble f6r·

III.

Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

123

di Credo. Gli studiosi di Credo sono unanimi nel ritenere che la sua testimonianza sia di immenso valore; non sono più con­ cordi, invece, quanto all'interpretazione che deve esserne data. Sotto il profilo metodologico, riteniamo opportuno compiere la stessa distribuzione che abbiamo trovato tanto proficua nello studio di s. lreneo. Ci sono numerosi contesti (ne abbia­ mo studiato la maggior parte, sotto un angolo di visuale legger­ mente diverso, nell'ultimo capitolo) in cui Tertulliano fa riferi­ mento alle domande e risposte battesimali. Egli, infatti, è una delle nostre principali autorità per quanto concerne questo aspetto del rito battesimale. Nel medesimo tempo, gli è fami­ liare, come a s. lreneo, una «regola di fede (regula fidei)» o «regola», cui fa ripetutamente appello. Con questa espressione intende il medesimo significato che s. Ireneo indicava con il suo «Canone della verità», cioè il corpo di insegnamento trasmesso nella Chiesa mediante la Scrittura e la tradizione. Se qualcosa deve essere rilevato, è la sua con­ cezione più chiaramente definita: distingue con maggior preci­ sione il contenuto dottrinale della regola.67 Per questo motivo, gli studiosi sono stati indotti a ritenere che, a differenza di s. Ireneo, sia più strettamente dipendente da un Credo già fissa­ to. Sarà opportuno, come nel paragrafo precedente, distingue­ re attentamente tra le confessioni battesimali di Tertulliano e le sue allusioni alla regola di fede in contesti non direttamente in rapporto con il battesimo. Richiamiamo anzitutto i passi specificamente battesimali. In uno68 di essi si afferma: «Quando entriamo nell'acqua e pro­ fessiamo la fede cristiana in risposta alle parole prescritte dalla sua legge». La «legge», presumibilmente, è il comando del Signore di battezzare tutte le nazioni nel triplice nome. Altro­ ve69 parla di un uomo che discende nell'acqua ed «è immerso con brevi parole (inter pauca verba tinctus)». Abbiamo impara-

mula simb6lica en Tertulliano, del gesuita spagnolo J.M. REsTREPO-JARAMIL­ LO, in Gregorianum 15(1934), 3-58. " Cf. VAN DEN EYNDE, Les normes de l'enseignement chrétien, 297. 68 De spect. 4: CCL 1 ,231. 6' De bapt. 2: CCL 1,277.

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124

to a intendere queste «brevi parole» come le interrogazioni sulla fede rivolte a lui dal celebrante. Un altro passo molto noto70 offre una chiave per capire quali erano quelle parole: «Poi fummo immersi tre volte, dando una risposta in qualche modo più ampia di ciò che il Signore aveva formulato nel van­ gelo». Il significato evidente di ciò è che il ministro del sacra­ mento poneva tre domande al battezzando in questa forma: «Credi in Dio Padre?» - «Credi in Gesù Cristo suo Figlio?» ­ «Credi nello Spirito Santo?», ma che poi questi semplici riferi­ menti alle tre persone divine venivano ampliati con titoli o clausole addizionali non previsti dal comando divino. Il proble­ ma è scoprire quali articoli formavano questa materia supple­ mentare. Un tenue raggio di luce è offerto da un altro passo71 dello stesso libro. Dopo aver parlato dei nomi divini dei Tre che sono gli immediati testimoni della nostra fede e garanzia della salvezza che chiediamo, egli prosegue:

Ma dopo che sia l'attestazione della nostra fede sia la promessa della salvezza sono state garantite dall'approvazione dei tre testimoni, si deve necessariamente aggiungere una menzione della Chiesa; poiché dove sono i Tre, cioè il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo, lì c'è anche la Chiesa, che è un corpo composto di tre. Non ci compete in questa sede addentrarci nelle sottigliez­ ze dell'ecclesiologia di Tertulliano, ma è nostro compito osser­ vare che evidentemente la Chiesa figurava nelle domande bat­ tesimali. Figurava anche, come già abbiamo osservato in que­ sto capitolo, nel sommario di Credo della Epistula apostolo­ rum : la incontreremo ancora brevemente come un articolo nel Credo del papiro di Dèr Balyzeh e come clausola nelle inter­ rogazioni battesimali note a s. Cipriano. Molto probabilmente anche la REMISSIONE DEI PECCATI aveva un posto nel questio­ nario di Tertulliano. Ciò è suggerito, in ogni caso, da un passo72 in cui, esaminando i motivi per cui Gesù non aveva praticato

" De cor. 3: CCL 2,1042. 11 De bapt. 6: CCL 1,282. n De bapt. 1 1 : CCL 1,286.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

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egli stesso il battesimo, indaga con tono ironico in che cosa avrebbe potuto battezzare gli uomini, ricercando ragioni per respingere ogni possibile risposta ( «nella remissione dei pecca­ ti? - ma egli la concedeva verbalmente; in se stesso? - ma si nascondeva umilmente; nello Spirito Santo? - ma non era ancora disceso dal Padre; nella Chiesa? - ma gli apostoli non l'avevano ancora edificata>> ) . Molti studiosi vorrebbero procedere ancora oltre per trar­ re dalle parole «una risposta più ampia», l'ipotesi di una for­ mula elaborata affine, se non identica, all'Antico Credo roma­ no. Esamineremo in seguito il problema della conoscenza che Tertulliano poteva avere di questa antica formula. Qui dobbia­ mo accontentarci di sottolineare il fatto che il suo linguaggio si presenta del tutto inadatto, se ha in mente un Credo compiu­ to. «Una risposta in qualche modo più ampia» implica certa­ mente che il Credo consisteva di domande e che il nocciolo e la sostanza di esse erano costituiti dalle parole dettate dal Signore, e cioè dai nomi delle tre Persone divine. Abbiamo motivo di credere che le interrogazioni di Tertul­ liano contenessero altri articoli, oltre la pura menzione della Chiesà, ma quali fossero possiamo solo ipotizzarlo. È verosimi­ le tuttavia che, presi nel complesso, non fossero tanto numero­ si da squilibrare completamente il semplice schema triadico. Ciò per quanto riguarda i passi battesimali: si dovrebbe ancora una volta sottolineare che questi sono i soli in cui si riscontra un incontestabile ambiente battesimale. Per quanto concerne la citazione della regola di fede da parte di Tertullia­ no, possiamo appellarci a quattro testi principali, che riporte­ remo in ordine cronologico. Il primo è tratto dal suo De prae­ scriptione, 73 scritto intorno al 200, e dice:

La regola di fede è [. . . ] quella regola per cui crediamo che esiste uno e soltanto un unico Dio, e che è il creatore del mondo, che ha portato tutte le cose all'esistenza dal nulla per mezzo del suo Verbo generato dall'inizio; e che questo Verbo, chiamato Figlio suo, apparve secondo multiforme sapienza nel nome di Dio ai patriarchi, fece sempre udire

73

Capitolo 13: CCL 1,197s.

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la sua voce nei profeti, e, da ultimo, entrò nella Vergine Maria per mezzo dello Spirito e della potenza di Dio suo Padre, si fece carne nel suo grembo e da lei nacque come Gesù Cristo; dopo di che proclamò una nuova legge e una nuova promessa del regno dei cieli, fece azioni meravigliose, fu inchiodato sulla croce e risuscitò il terzo giorno, asce­ se al cielo e sedette alla destra del Padre, e mandò in sua vece la poten­ za dello Spirito Santo per guidare i credenti, e tornerà nella gloria per portare i santi al godimento della vita eterna e delle promesse celesti, e condannare gli empi a un fuoco eterno, dopo avere risuscitato gli uni e gli altri dai morti e aver ripristinato la loro carne. Malgrado le apparenze, si tratta di fatto di una dichiarazione di fede trinitaria e non binitaria, come si è sostenuto. Il linguag­ gio si presenta ovunque estremamente libero, e ciò spiega l'inse­ rimento della fede nello Spirito Santo in una clausola subordi­ nata inserita nell'ampio brano cristologico. I due passi che seguono sono più rilevanti sotto il profilo formale. Uno, tratto da un capitolo successivo dello stesso trattato,74 esalta la fede comune che la Chiesa romana condivideva con quella africana:

Essa riconosce un solo Signore Dio, creatore dell'universo, e Gesù Cri­ sto, Figlio di Dio creatore nato dalla Vergine Maria, e la risurrezione della carne. L'altro passo si trova nel De virginibus velandis75 (datato 208-211):

La regola di fede è unica ovunque, la sola che non può subire alterazio­ ni o riformulazioni - la regola che ci insegna a credere in un solo Dio onnipotente, creatore del mondo, e in suo Figlio Gesù Cristo, nato dalla Vergine Maria, crocifisso sotto Ponzio Pilato, risorto dai morti il terzo giorno, asceso al cielo, che ora siede alla destra del Padre, destinato a venire a giudicare i vivi e i morti mediante la risurrezione della carne. Non c'è qui alcuna menzione dello Spirito Santo, ma si dovrebbe tenere presente che lo Spirito figura ampiamente nelle frasi successive.

74 Capitolo 36: CCL 1,217. 75 Capitolo 1 : CCL 2,1209.

III. Le tappe verso la stabilizzazione delle formule

127

La quarta citazione della regola di fede ricorre in Adversus Praxean/6 scritto dopo il 213:

Noi, al contrario [. .. }, crediamo che c'è naturalmente un solo Dio, ma che, secondo il disegno divino che chiamiamo economia, c'è anche un Figlio di questo unico Dio, la sua propria Parola, che da Lui proviene, per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose, e senza del quale nulla è stato fatto. [Crediamo che} questo Figlio fu mandato dal Padre nella Vergine e nacque da lei, uomo e Dio, figlio di uomo e figlio di Dio, e gli fu dato il nome Gesù Cristo; che patì, morì, e fu sepolto, secondo le Scritture, e fu risuscitato dal Padre, e fu innalzato al cielo e siede alla destra del Padre, e tornerà a giudicare i vivi e i morti: che ha mandato dal Padre, come aveva promesso, lo Spirito Santo, il Paracleto, il san­ tificatore della fede di coloro che Credono nel Padre e nel Figlio e nello Spirito Santo. Anche qui, come nel primo testo, abbiamo una formula tri­ nitaria velata, che potrebbe facilmente passare per binitaria. Un'altra sua interessante formulazione è il modo in cui termi­ na, in un breve Credo trinitario. La prima cosa da sottolineare in questi brani della regola di fede tratti da Tertulliano è il modo con cui rispecchiano i suoi interessi polemici. Il secondo e il terzo passo, tratti da contesti privi di qualsiasi traccia di controversia dottrinale, sono sommari completi di un insegnamento cristiano essen� ziale. Nessun giro di frase in essi è colorato da tendenze con­ troversistiche e apologetiche. In stridente contrasto, il primo passo abbonda di tratti che si possono chiaramente attribuire all'animo polemico di Tertulliano e al suo ardore nel rifiutare le varie sètte attaccate nel trattato. L'unità di Dio per esempio è messa in grande rilievo, così come è espressamente rifiutata l'ipotesi della possibilità di un secondo Dio; Gesù è identifica­ to come il Messia della profezia antica e si afferma che speri­ mentò una vera nascita umana dal grembo di Maria; ed è for­ temente sottolineata la risurrezione della carne. Ed erano proprio questi gli argomenti su cui la Chiesa e la gnosi si dava­ no battaglia.

76

Capitolo 2: CCL 2,1 160.

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Similmente il quarto brano, tratto da un libro volto a sma­ scherare un eretico che confondeva le persone del Padre e del Figlio e sosteneva che il Padre aveva realmente sofferto, insi­ ste particolarmente sull'esistenza separata delle due persone. Fu questo Gesù Cristo, vi si argomenta, mandato dal Padre, che nacque, come Dio e uomo; e fu lui a soffrire. Il libro è frut­ to del periodo montanista di Tertulliano, ed è a questo fatto che indubbiamente si deve la speciale accentuazione sullo Spi­ rito nell'ultima parte. D'altronde, tutto questo materiale pole­ mico è in superficie, chiaramente separabile dalla regola di fede, cui non ha certo contribuito con elementi durevoli. La questione fondamentale, tuttavia, è se si possa sostene­ re che i passi citati testimonino l'esistenza di un Credo nel senso vero e proprio del termine. È evidente che se un Credo vi è sotteso, Tertulliano non deve averne considerato inviolabi­ le il tenore verbale. Altrimenti avrebbe provato qualche remo­ ra a modificare il linguaggio che lo esprimeva in funzione di suoi scopi immediati. Tertulliano, non si deve dimenticare, era un giurista: qualsiasi formula di carattere ufficiale avrebbe attratto il suo interesse. La teoria, sostenuta da alcuni studiosi, come Kattenbusch, che fosse dissuaso dal riportare un testo ufficiale dal fatto che il Credo era un mistero che poteva esse­ re rivelato solo agli iniziati, ha pochi argomenti a proprio favo­ re. È improbabile che la disciplina arcani abbia esercitato tale influsso in quell'epoca antica, e Tertulliano stesso non mostra esitazione alcuna nel descrivere le cerimonie per il battesimo. È dunque impossibile, sulle basi delle sue citazioni della rego­ la di fede, argomentare che Tertulliano conoscesse un unico Credo autorevole, anche solo locale. Nello stesso tempo è difficile resistere all'impressione che dietro questi modelli di fede della Chiesa non si nasconda un tipo di formulario o di formulari. Thtti e quattro i passi sono molto simili per contenuto e anche per linguaggio. Il modo di esprimersi del primo e del quarto è libero, perché deliberata­ mente adattato ai fini controversistici dell'autore; ma una volta rimosse le aggiunte polemiche, la struttura naturale che emerge tra le righe è quella tipica di un sommario di fede simile a un Credo. La fisionomia di Credo del secondo e terzo

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passo (benché il secondo sia solo un frammento) è abbastan­ za sorprendente: le limpide frasi participiali del terzo, in par­ ticolare, presentano le tipiche caratteristiche di un formulario definito. Si deve anche notare che la maggior parte di esse ricompare, con pochissime e leggere modifiche, negli altri con­ testi. La soluzione più plausibile sembra essere che, mentre Tertulliano non conosceva nessun Credo ufficiale, attingeva tuttavia a formule che avevano raggiunto un certo grado di stabilità. Forse ciò che egli aveva in mente nel De praescr. 36 e nel De virg. ve!. 1 erano le interrogazioni battesimali; in que­ sti passi molti tratti si potrebbero ben armonizzare con tale ipotesi. Forse il suo linguaggio riflette in qualche modo som­ mari stereotipi di fede usati a scopo di istruzione catechistica. In uno dei capitoli seguenti avremo l'opportunità di discutere più a fondo il problema. 6.

SVILUPPO DELLE FORME FISSE

Dal Nord Africa a Roma il passo è breve, sia liturgicamen­ te che geograficamente. Ma, prima di compierlo, è opportuno considerare brevemente un importante testo di Credo rinve­ nuto in un papiro del VII secolo proveniente da Dèr Balyzeh, nell'Alto Egitto. Fu scoperto nel 1907 da Flinders Petri e e W. E. Crum, e si trova ora nella Bodleian Library di Oxford.77 Con­ sta di un certo numero di frammenti che, una volta riuniti, mostrano contenere un'antica raccolta di preghiere egizie. Vi è incluso verso la fine un semplice Credo. Così come si presenta, la sua forma è dichiaratoria, e la rubrica stabilisce che sia pro­ nunciato da qualcuno non specificatamente indicato (si è pen­ sato trattarsi del neo battezzando). Il testo, riportando in forma estesa le abbreviazioni e ricollocando alcune lettere mancanti, suona così:

n Ci P. DE PUNIET, in R. Bén. 26(1909) , 34; T. SCHERMANN, Der liturgische Papyrus von Der-Balyzeh, ( Texte und Untersuchungen, 36), Leipzig 1910; C.H. ROBERTS B. CAPELLE, An Early Euchologion: The Dér-Balyzeh Papyrus Enlarged and Re-Edited, (Bibliothèque du Muséon, 23), Leuven 1949. -

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ÒJ.lOÀ.O'yei ti\v 1ti.> . Ma i termini scelti e impiegati sono parsi, ad alcuni studiosi moderni, rivelatori del fatto che il sommario ufficiale romano di fede, in altri termini il Credo, fosse stato alterato durante il pontificato di Zeffiri­ no.54 In particolare, sembravano fare emergere questo fatto le parole «la verità della predicazione fu falsificata>> prendendo il verbo 7tapaxapacrcretv nel senso di corrompere o alterare un testo.55 Per cui studiosi come W.M. Peitz, J. Haussleiter e K. Lake si trovarono d'accordo nel ritenere che il fatto, al quale questo modo velato di esprimersi faceva riferimento, non fosse altro che l'interpolazione dell'ampia sezione cristologica nella formula trinitaria breve soggiacente a R. Tenendo conto di questa ipotesi, la redazione finale del Credo dovrebbe risalire molto indietro nel III secolo, poiché il pontificato di Zeffirino è fissato tra il 197 e il 217. È ovvia la difficoltà di supporre che uno dei principali som­ mari di fede romani fosse una formula a nove clausole ancora assente nella �rima decade del III secolo, ma ciò non può esse­ re considerato un'obiezione determinante. Più importante è la stretta analogia di R, nella sua forma sviluppata, con il Credo battesimale della Tradizione di s. Ippolito. L'ipotesi della nostra discussione ci porterebbe ad ammettere che il vescovo dissidente abbia acconsentito che l'articolo cristologico del suo Credo, comprendente, cosi come suona, un racconto compiuto degli eventi di Cristo, gli fosse giunto sotto l'influsso di un'am­ plificazione di nuovo tipo introdotta in R dal suo odiato oppo­ sitore e contemporaneo Zeffirino. Tutto ciò è troppo inverosi­ mile per essere credibile. Ugualmente importante è il fatto che l'ipotesi si basa sulla premessa che esistesse, all'inizio del III secolo, una formula di

"' Cf. W.M. PEITZ, Stimmen der Zeit 94(1918), 553ss; J. HAUSSLEITER, Trini­ tarischer Glaube, Giitersloh 1920, 84ss; K. LAKE, Harvard Theol. Review 17 (1924), 173ss. " Cf. per questo uso EUSEBIO, H. E. 5,28,19: SCHWARTZ, 218.

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Credo che si poteva considerare il Credo ufficiale di Roma. Non c'è bisogno ora di sottolineare l'erroneità di tale afferma­ zione. Ciò che ne costituisce l'effettiva condanna critica, comunque, è il fatto che la teoria è costruita su un'esegesi com­ pletamente errata del passo in questione. Per dirla in breve, questo documento non si riferisce ad anonimi adozionisti che citano un Credo o dei formulari ufficiali. Protestano invece perché «la verità della predicazione» è stata falsificata, e con ciò intendono evidentemente la dottrina cristologica della Chiesa, e non un Credo. Il verbo greco 1tapaxapacrcretv può significare sia «esporre falsamente» sia «travisare», come in un passo di Socrate56 in cui si riferisce che Eustazio di Antiochia aveva accusato Eusebio di Cesarea di avere travisato, o deformato, la fede di Nicea. Questo deve essere il significato del verbo nel nostro passo, poiché ha per oggetto non un documento, ma «la verità». Ma anche se l'autore avesse affermato che era stata falsificata «la predicazione», non ci sarebbe stato ugualmente nessun riferi­ mento a un Credo, perché KftPU'YIJ.a significa in questo contesto, come sempre, il contenuto del messaggio della Chiesa e non la formula, se pure ne esisteva una, in cui era ufficialmente incor­ porato. Egli stesso, alcune righe dopo, definisce l'oggetto della discussione non un formulario, ma «la fede della Chiesa (-rou ÉKKÀ:ncrwcrnK:otì cppoviJIJ.a-roç)», e ciò dovrebbe dirimere la questione al di là di ogni dubbio. Demolita questa ipotesi non ben fondata, possiarp.o ora tor­ nare con rinnovata fiducia alla tesi di una datazion-e molto più antica. J. Lebreton azzardò l'ipotesi che la redazione finale di R abbia visto .la luce sotto il pontificato di Vittore (189-197).57 A suggerirgli questo decennio in particolare fu la convinzione che il Credo avesse un sicuro intento antieretico, e che bersa­ glio del suo attacco fossero il monarchianismo adozionista e il docetismo. Ci è noto che gli adozionisti si installarono a Roma

1,23: PG 67,144. 57 Cf. Histoire du dogme de la Trinité, Paris 1927-1928, Il, 161; Recherches de science religieuse 20(1930), 97ss. 56 H. E.

W.

L'Antico Credo romano

177

verso il 190 e che Vittore intraprese un'energica azione contro il loro principale esponente, Teodoto di Bisanzio. Probabil­ mente Lebreton aveva ragione, per quanto le sue argomenta­ zioni siano molto esili e nulla di specificamente antiadozioni­ sta emerga a un primo sguardo nell'articolo cristologico. Nel complesso, tuttavia (si discuterà ancora di questo nel capitolo seguente), sembra più probabile ritenere che egli abbia esage­ rato l'elemento polemico del Credo e abbia individuato gli obiettivi di esso con una precisione maggiore di quanto i fatti non documentino. Se così è, si devono prendere in considera­ zione le istanze per una datazione leggermente anteriore al pontificato di papa Vittore l, tenendo conto, in particolare, del dato acquisito che la prassi di ampliare il secondo articolo del Credo ha avuto pieno svolgimento fin dai tempi di s. Giustino. Thttavia, uno studioso onesto non può non avere il sospetto, in questo caso, di un certo dogmatismo: deve essere il primo a confessare francamente a se stesso di non poter procedere oltre per mancanza assoluta di qualsiasi dato su cui fondarsi. Può tuttavia consolarsi con la soddisfazione di sapersi in grado di garantire l'antichità e la rispettabilità degli antecedenti di R. La formula soggiacente, su cui si basava, era molto probabil­ mente una interrogazione semplice a tre clausole, modellata, con qualche leggero ampliamento, sul comando battesimale di Matteo: veniva così a congiungersi con la fede e la prassi della Chiesa del I secolo. La cristologia che in seguito vi fu annessa è un esempio di quella proclamazione quasi-stereotipa della buona novella su Cristo che i cristiani avevano ereditato, pra­ ticamente inalterata, dagli apostoli.

Capitolo V

L'insegnamento dell 'Antico Credo romano

1 . IL PRIMO ARTICOLO

È opportuno soffermarci ora a esaminare i contenuti del formulario che abbiamo identificato come l'Antico Credo della Chiesa romana. Il nostro studio è stato necessariamente, finora, quasi soltanto letterario e storico. Ma i Credo della cri­ stianità non sono mai stati puri e semplici documenti che richiedono solo di essere suddivisi, catalogati, e accuratamente datati; sono stati manifesti teologici, sorti con significato dottri­ nale e talvolta marcati profondamente dai segni di controver­ sie. R non fa eccezione. Infatti, come vedremo tra breve, non era altro che un compendio di teologia popolare, tanto più pieno di fascino per noi, in quanto possiamo ancora discerne­ re, cristallizzata nei suoi articoli, la fede e la speranza della Chiesa primitiva. Per rendergli giustizia, dobbiamo accostarci ad esso a un livello più profondo di quanto non sia stato possi­ bile finora, e cercare di chiarirne il messaggio. Il lettore è avvisato in partenza di non coltivare aspettative troppo ottimistiche. Uno studio del tutto esauriente dell'inse­ gnamento di R richiederebbe di ricostruire, in tutta la sua ampiezza, la storia della dottrina cristiana nel II secolo. No i non tenteremo nulla di più che di mettere in luce, per quanto possibile, l'aspetto originario dei diversi articoli del Credo all'epoca della sua composizione. Sarà utile, di tanto in tanto, riferirsi a modo di chiarimento e di contrapposizione al signi­ ficato che vi hanno letto le successive generazioni di cristiani; ma una trattazione esauriente di questi aspetti esula completa­ mente dal nostro intento. Il lettore si ricordi che questo capito­ lo si presenta come un commento continuo del testo.

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Cominciamo con il primo articolo. Così formulato origina­ riamente nel II secolo, esso consisteva nella semplice afferma­ zione CREDO IN Dro PADRE ONNIPOTENTE. Il precedente orientale, come osserveremo nel capitolo seguente, era di ini­ ziare il Credo con un'asserzione di fede in UN SOLO Dro. Gli studiosi del XIX secolo / appellandosi a scrittori come s. Ire­ neo e Tertulliano, fecero un coraggioso tentativo di dimostra­ re che la stessa tradizione si era affermata anche in occiden­ te. Sostenevano che l'espressione UN SOLO era stata delibera­ tamente scartata perché poteva costituire un punto di appog­ gio per il sabellianismo. Tale opinione può essere scartata come del tutto improbabile. Si basa infatti sull'ipotesi tacita, ed erronea, che gli autori dei documenti, cui autorevolmente si riferivano, conoscessero e citassero un Credo ufficiale romano già formulato. Per essere precisi, si trova abbondante materiale di Credo del II secolo (per es. nelle opere di s. Giu­ stino ) che attesta l'esistenza di una professione di fede in Dio senza l'attribuzione UN SOLO, in un tempo in cui il sabelliani­ smo non era ancora diventato una minaccia. L'ipotesi che la Chiesa possa avere espunto UN SOLO dai simboli di fede, quando era già presente nella loro formulazione, per una pre­ sunta supposizione che potesse favorire il sabellianismo, sem­ bra un po' azzardata. Difficilmente i cristiani avrebbero ac­ cettato di scartare, qualunque ne fosse il motivo, un articolo di fede così fondamentale. Il Credo romano implica e si basa sulla fede in un solo Dio, ma tale fede non è asserita in così tante parole. Motivo di ciò è il fatto che la struttura di fondo della formula è strettamente dipendente dal comando batte­ simale di Mt 28,19. Il primo problema che suscitano le parole CREDO IN Dro PADRE ONNIPOTENTE (dç 8EÒV 1ta'tÈpa 1taV't01Cp(hopa; in Deum patrem omnipotentem) riguarda il preciso rapporto di PADRE con ONNIPOTENTE, e di entrambi con Dro. Sermoni e commenti latini al Credo apostolico di epoca successiva li trat­ tano in generale come due descrizioni coordinate della prima

1 Ci per es. BuRN, 57ss.

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p ersona della Trinità. Esegeti modernF del Credo hanno inve­ ce sostenuto che PADRE ONNIPOTENTE deve essere considerato come stretta unità, come un solo titolo. Contro questa tesi, si deve affermare che né l'Antico Testamento (Settanta) né il Nuovo presentano attestazioni di una simile perifrasi onorifica per Dio. Nell'Antico Testamento3 la ricorrenza di gran lunga più frequente è «Signore onnipotente ( Kupwç 7tctV'tOKpa'trop = eb. Yahweh Sabaoth )» o «Dio onnipotente ( ò Beòç ò 7tctV'tO­ Kpa'trop )». Talvolta ricorre isolatamente «l'Onnipotente ( ò 1tOV'tOKpa'trop )» in forma sostantivata per tradurre l'ebraico El Shaddai. Nel Nuovo Testamento, «onnipotente» non compare quasi mai. Dove compare, come in 2Cor 6,18 («Signore onni­ potente» in un centone di citazioni veterotestamentarie ), o nell' Apocalisse4 («Signore Dio onnipotente»), ci troviamo sulla stessa linea di pensiero dei Settanta. Queste parole ricor­ rono insieme per la prima volta nel Martyrium Polycarpi e nel Dialogo con Trifone 139 di s. Giustino, entrambi della seconda metà del II secolo. Uno o due passi non del tutto certi in s. Ire­ neo,5 due o tre in s. Clemente di Alessandria,6 e uno in s. Ippo­ lito7 esauriscono praticamente la lista dei riferimenti del II e dell'inizio del III secolo. I padri usavano con molta frequenza «Onnipotente», ma sempre o isolato (ò 1tOV'tOKpa'trop ) o unito a «Dio» (ò 1tOV'tOKpa'trop Be6ç; Deus omnipotens). D'altro canto, la combinazione «Dio Padre» presenta abbondanti pre­ cedenti nel Nuovo Testamento. Di tanto in tanto Paolo usa frasi come «grazia e pace da Dio Padre» (Gal 1 ,3), «a gloria di Dio Padre» (Fil 2,1 1) oppure «in Dio Padre» (1 Ts 1,1). Altri scrittori del Nuovo Testamento riflettono lo stesso uso;8 ed è interessante osservare che nell'originale greco il termine

2 Cf. per es. KATIENBUSCH, Il, 517ss. 3 Cf. HATCH - REDPATH, Concordance to the Septuagint, Oxford 18921897, 1053s. ' Cf. Ap 1,8; 4,8; 11,17; 15,3; 16,7; 21 ,22. ' Adv. haer. 1,3,6; 2,35,3; 4,20,6 - Deus pater qui continet omnia: PG 7,477; 840; 1037. ' Strom. 7,2,7; 7,2,8; 7,3,16: STAHLIN, 3,7; 8; 12. 7 Con. Noet. 8: NAUTIN, 249. • Cf. per es. Gc 1,27; 1Pt 1,2; 2Gv 3; Gd l. ·

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«Padre» è unito a «Dio» senza nessun articolo, come nel Cre­ do. Nella letteratura del II secolo e seguenti, «Dio Padre» è un modo così abituale di definire la divinità che citazioni per dimostrarlo sono superflue. Giungiamo così alla conclusione che dei due predicati descrittivi PADRE e ONNIPOTENTE, quello più strettamente associato a Dm è PADRE. La fondamentale, originaria verità in cui si proclama la fede è DIO PADRE. Che questo sia il centro del primo articolo non desta la minima sorpresa: è proprio quello che ci saremmo aspettati in considerazione del fatto che il modello era stato fornito dalla formula battesimale. Il titolo ulteriore ONNIPOTENTE deve essersi aggiunto molto presto, indubbiamente come conseguenza dell'influsso del linguaggio dei Settanta sull'uso teologico cristiano. Benché possa sembrare non rilevante, questo punto ha una sua reale portata, in quanto conferma il legame del Credo con il comando battesimale in Matteo. Molto più importante è il problema del significato delle due espressioni PADRE e ONNIPO­ TENTE. In epoche seguenti, la tradizione quasi immutabile del­ l'esegesi patristica occidentale fu di interpretare la prima espressione come riferentesi al particolare rapporto della prima con la seconda persona della santa Trinità. Il Padre era Padre del Verbo eterno. Fin dalla metà del IV secolo, s. Cirillo di Geru­ salemme9 spiegava, nella sua analisi del Credo, che PADRE apparteneva propriamente a Dio in virtù della sua relazione con il Figlio, dato che il termine suggeriva ed effettivamente richiamava alla mente l'idea di Figlio; lo si poteva anche inter­ pretare come indicativo del suo rapporto paterno con l'umani­ tà, ma ciò solo per un uso improprio di linguaggio (lca'ta­ XPTJO''tt Kroç). Prendendo spunto da ciò, Rufino commenta:10

Quando sentite la parola DIO, dovete intendere una sostanza senza ini­ zio, senza fine, semplice [. . . ] quando udite la parola PADRE, dovete intendere il Padre del Figlio, di quel Figlio che è l'immagine della sud­ detta sostanza. Poiché, come nessuno è chiamato padrone a meno che

' Cat. 7,4s: PG 33,608s. 1° Comm. in symb. ap. 4: CCL 20,137s.

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non abbia una proprietà o uno schiavo su cui esercitare il potere, e come nessuno è chiamato tutore a meno che non abbia un pupillo, così nessuno può essere definito padre a meno che non abbia un figlio. Questo tipo di interpretazione, e questo stesso argomento a suo sostegno, divennero comuni nei secoli successivi.n Nel medesimo tempo, ci sono elementi per ipotizzare che tale af­ fermazione abbia portato in alcuni ambienti il messaggio più caldo, meno strettamente teologico. Ne offre buona esemplifi­ cazione s. Agostino. Nel Sermone 21312 sulla consegna del Cre­ do, esclama: «Osservate come le parole si susseguano rapide e piene di significato. Egli è Dio, ed egli è Padre: Dio nella po­ tenza, Padre nella bontà. Come siamo benedetti a scoprire che il nostro Signore Dio è nostro Padre! » . Se ci richiamiamo all'ambiente culturale del battesimo, pregno di concetti sulla rinascita del credente e sulla sua adozione a Figlio di Dio, è facile supporre che pensieri come quelli cui Agostino dava espressione debbano essere stati spesso presenti alla mente delle persone mentre rispondevano alle domande del Credo. Ne abbiamo la prova in un bel passo in cui s. Cipriano13 com­ menta le parole «Padre nostro» nella preghiera del Signore:

Un uomo rinnovato, rinato e restituito al suo Dio mediante la sua gra­ zia (cioè battezzato) dice «Padre» all'inizio della preghiera perché ora ha cominciato a essere figlio [. . . ]. Così, l'uomo che ha creduto nel suo nome ed è diventato figlio di Dio dovrebbe iniziare da questo momen­ to a rendere grazie e a professarsi figlio di Dio, dichiarando che Dio è suo Padre nei cieli, e anche a testimoniare [. . . ] che ha rinunciato a un padre terrestre e carnale e ha cominciato a conoscere, come pure ad avere, come padre soltanto colui che è nei cieli. Prosegue dimostrando che solo coloro che «sono stati san­ tificati mediante lui e rinnovati dalla nascita di grazia spiritua­ le» hanno veramente il diritto di dire «Padre». Tertulliano esprime sentimenti simili in un passd4 che può essere servito 11 Cf. per es. un sermone attribuito a s. Cesario: CCL 103,48. PL 38,1060. 13 De domin. orat. 9 e 10: HARTEL, l, 272s. 14 De orat. 2: CCL 1,258.

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da modello a s. Cipriano; e Origene si diffonde15 sul fatto che, mentre il titolo «Padre» applicato a Dio era frequente nell'An­ tico Testamento, erano stati i cristiani ad avere il privilegio di chiamare Dio PADRE nel senso pieno del termine. Se torniamo al periodo della formazione del Credo, è chia­ ro che nessuna di queste interpretazioni rappresenta la totali­ tà, o anche la parte più importante, di ciò che i suoi autori ave­ vano in mente. Sarebbe tuttavia gravemente mistificante esclu­ derle. S. Clemente di Roma, per esempio, invita16 i suoi lettori ad accostarsi a Dio in santità di anima, «amando il nostro Padre buono e misericordioso che ha fatto di noi sua porzione eletta»; e più che un riferimento a Dio come Padre dei cristia­ ni può essere tratto dall'omelia17 del II secolo nota come 2 Cle­ mente. Ci sono parimenti molti brani del II secolo (per es. in s. Ignazio) in cui la paternità di Dio è compresa in relazione a suo Figlio Gesù Cristo. Che ciò, in ogni caso, corrisponda alla prospettiva del Credo risulta evidente dal linguaggio del secondo articolo. Il più delle volte, tuttavia, quando in quell'epoca si usava il termine «Padre», ci si riferiva a Dio nella sua qualità di Padre e creatore dell'universo. Così, s. Clemente di Roma18 poteva dire «del Padre e creatore dell'intero universo» e del «demiur­ go e Padre delle epoche»; mentre s. Giustino usava19 frequen­ temente l'espressione «Padre di tutto e Signore Dio» e «il Padre di ogni cosa». Un testo rivelatore è quello in cui s. Ire­ neo afferma che il creatore universale è chiamato Padre a causa del suo amore (rivelato nella sua attività di creazione), Signore per la sua potenza, e nostro creatore e artefice per la sua saggezza.20 In un passo interessante/1 s. Teofilo di Antio­ chia descrive Dio come «Padre perché è prima dell'universo»,

" 16 17 18 " 20 21

De orat. 22: KoETSCHAU, Il, 346ss. Capitolo 29: BIHLMEYER, 51. Capitoli 8, 10 e 14: BIHLMEYER, 74; 75; 77. Capitoli 19 e 35: BIHLMEYER, 46; 54. Apol. I , 12; 61; I l, 6: E.J.G., 33; 70; 82. Adv. haer. 5,17,1: PG 7,1169; cf. 2,35,3s: PG 7,840ss. Ad Autol. 1,4: PG 6,1029.

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mentre Taziano22 parla di lui come del «Padre delle cose per­ ce pibili e delle cose invisibili». Analogamente, Novaziano quando, nella sua regola di fede, interpreta23 la clausola D IO PADRE E SIGNORE ONNIPOTENTE, la parafrasa con il significato di «il fondatore perfettissimo di tutte le cose». Per i cristiani del II secolo era questo, al di là di ogni contestazione, il primo, se non addirittura l'unico, significato della paternità di Dio. Si tratta, come provano il Terzo libro dei Maccabei e gli scritti di Filone, di una credenza che essi condividevano con il giudai­ smo ellenistico/4 così come con gli uomini religiosi illuminati in generale.25 Naturalmente, riguardo a questa affermazione della pater­ nità divina non c'è nessuna controversia, e nemmeno a propo­ sito dell'epiteto ONNIPOTENTE a essa strettamente congiunto. Il suo uso è ben fondato sull'autorità dei Settanta, e ricorre, nei primi scrittori cristiani, in numerosissime circostanze come descrizione della maestà e della trascendenza di Dio. Thttavia, il significato profondo del greco 7tavtoKpchrop e il significato pacificamente acquisito nella Chiesa del II secolo non era per nulla identico a quello di «onnipotente» in italiano o di omni­ potens in latino. Loro esatto equivalente sarebbe stato 7tav-co­ ouvajloç. ITaV'tOKp>. Similmente Origene fa28 del fatto che Dio è onnipotente un argomento per la necessità dell'esistenza di un ordine creato. «Così Dio non può essere neppure chiamato onnipotente a meno che non abbia dei sudditi sui quali avere il dominio; e, di conseguenza, per Dio, perché manifesti la sua onnipotenza, l'universo deve necessariamente esistere». In una parte29 delle sue lezioni dedicate a discutere il termine 7tav'tmcpcitrop, s. Ciril­ lo di Gerusalemme nota che l'onnipotente è

colui che regola ogni cosa, che ha autorità. Chi dice che c'è un Signo­ re dell'anima e un altro del corpo sottintende che nessuno dei due sia perfetto. Perché come potrebbe colui che ha autorità sull'anima, ma non sul corpo, essere onnipotente? E come può colui che è padrone del corpo ma non ha alcun potere sugli spiriti essere onnipotente? [. . . ] Ma la divina Scrittura e le espressioni della verità conoscòno un solo Dio che regola tutte le cose con la sua potenza. L'altro significato, quello soggiacente a 7tav·wòtlvafloç che corrisponde all'attuale versione italiana, non impiegò molto tempo a imporsi. Così, possiamo arguire dal Contra Celsum di Origene che il filosofo pagano, indubbiamente sulla base di frammenti di dottrine della Chiesa, aveva l'impressione che i cristiani pensassero che Dio non può far nulla. «Secondo noi, rispose Origene,30 può certamente fare qualunque cosa, qua-

"' Adv. haer. 2,1,5: PG 7,712. Cf. anche 2,6,2: PG 7,724s. Ad Auto/. 1,4: PG 6,1029. 28 De principiis 1,2,10: KOETSCHAU, 41s. 29 Cat. 8,3: PG 33,628. 30 Con. Ce/s. 3,70: KOETSCHAU, l, 262. v

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lunque cosa possa essere fatta senza detrimento della sua divi­ nità, della sua bontà e del suo volere». Così, Dio non può esse­ re ingiusto più di quanto una cosa la cui natura è di essere dolce, in virtù delle sue qualità naturali, possa provare a esse­ re amara. In un altro passo31 concernente la medesima difficol­ tà, afferma che Dio non può fare cose spregevoli: se lo potes­ se, egli che è Dio non sarebbe Dio, perché se Dio fa ciò che è spregevole non è più Dio. Quando Rufina giunge32 a commen­ tare il termine onnipotente, si riallaccia all'antica tradizione e dice che «è chiamato onnipotente perché ha il potere su tutte le cose (quod omnium teneat potentatum)», e prosegue puntua­ lizzando che lo compie attraverso l'azione del Figlio. S. Agosti­ no, poi, era preoccupato dal problema di ciò che Dio può e non può fare. Nel Sermone 213,33 per esempio, egli osserva che noi possiamo aspettare da lui ogni grazia, perché è onnipotente: dire che non può perdonare tutti i nostri peccati è una negazio­ ne blasfema della sua onnipotenza. In una parola, è onnipoten­ te a compiere tutto ciò che vuole. Ma poi prosegue: «Posso dire il tipo di cose che non può fare. Non può morire, non può pec­ care, non può mentire, non può essere ingannato. Queste sono le cose che non può fare: se potesse, non sarebbe più onnipo­ tente». In altre circostanze, s. Agostino ha unito la prospettiva più antica con quella più filosofica. Nel Sermone 214,34 insegna anzitutto che la fede nell'onnipotenza di Dio equivale a crede­ re che è il creatore universale: «Ricordati di credere in Dio onnipotente, nel senso che non esiste creatura che egli non abbia creato». Alcuni paragrafi dopo, discute il problema del­ l'onnip�tenza divina in forma più speculativa. Prendendo come testo base 2Tm 2,13 ( «non può rinnegare se stesso» ) , osserva che il motivo per cui non può fare determinate cose è che non vuole farle. «Se Dio può essere ciò che non vuole esse­ re, non è onnipotente».

31 Con. Ce/s. 5,23: KoETSCHAU, II, 24. 32 Comm. in symb. ap. 5: CCL 20,140. 33 PL 38,1060s. 34 PL 38,1066ss.

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Ma i paradossi e le perplessità filosofiche inerenti alla nozione di onnipotenza divina erano del tutto estranei alla mente degli autori dell'Antico Credo romano. La dottrina fon­ damentale contenuta nel primo articolo della sua formula interrogatoria era quella della paternità creatrice di Dio, della sua maestà e sovranità trascendente. Può sembrare che non ci sia nulla di specificamente cristiano in tale dottrina, dato che i migliori pensatori ebrei e pagani dell'epoca l'avrebbero calo­ rosamente sottoscritta. Ma le parole, cosl come venivano ripe­ tute dal catecumeno cristiano prima della sua iniziazione sacramentale, erano circondate da una particolare atmosfera. Egli aveva infatti il privilegio di sapere, a differenza di ebrei e pagani, che l'Eterno Padre dell'universo era anche il Padre di Gesù Cristo e che inoltre, per sua grazia, aveva accondisceso ad adottarlo come figlio; e sapeva che il sovrano potere che Dio possedeva di diritto era stato chiaramente manifestato nella risurrezione di suo Figlio e nella redenzione. 2. IL NUCLEO DEL SECONDO ARTICOLO Ripreso dallo specifico kerygma cristologico, il secondo articolo dell'Antico Credo romano era estremamente limpido: E IN CRISTO GESÙ SUO UNICO FIGLIO NOSTRO SIGNORE (KaÌ dç; Xptcr'tÒV 'lrtcroiìv, 'tÒV uìòv mhoiì 'tÒV J.LOvoyevfì, 'tÒV KUptov 'fÌJ.Lrov; et in Christum Jesum Filium eius unicum dominum nostrum). Anche questa formula deve rappresentare un'elabo­ razione del vero originale, perché quasi certamente UNICO fu inserito in seguito, in qualche data successiva alla sua compo­ sizione, ed è possibile che anche SIGNORE sia un'aggiunta suc­ cessiva. L'insolita disposizione delle parole CRISTO GEsù è una caratteristica che sorprende subito. Essa ricompare nel que­ stionario battesimale della Tradizione di s. Ippolito, certamen­ te in una delle formule di Tertulliano e nei simboli di fede di Rufina (Aquileia) e di s. Pietro Crisologo (Ravenna):35 altrove cede sempre il passo al normale GEsù CRISTO. La presenza " Cf. sotto, p. 229.

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dell'inversione è una prova dell'antichità del nucleo dell'Anti­ co Credo romano. Quando fu composto, CRISTO non era puro e semplice nome: qualcosa del suo significato originario come titolo, equi­ valente o a Messia o a Unto, vi rimaneva connesso. Paolo era evidentemente conscio delle vere implicazioni del termine, perché dimostra una marcata predilezione per la sequenza Cri­ sto Gesù. Ma i paralleli più illuminanti si possono trovare nei sommari della predicazione apostolica riportati in Atti. Così, viene presentato s. Pietro (2,36) mentre dichiara: «Sappia dun­ que con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso». In segui­ to (5,42) si dice di lui e degli apostoli suoi compagni che «non cessavano di insegnare e predicare che Gesù è il Cristo». Veniamo anche informati che Apollo, a Efeso (18,28), «confu­ tava con forza i giudei, e ciò pubblicamente, dimostrando per mezzo delle Scritture che Gesù è il Cristo». Evidentemente il nucleo di R si congiungeva strettamente con l'antico kerygma. Dietro questo modo di esprimersi vi era, naturalmente, l'autorità dell'Antico Testamento. 'O Xptcr'toç, l'Un:to, era la normale traduzione dell'ebraico Mashiah36 nei Settanta. Tale categoria messianica era stata usata da Gesù stesso, ed era naturale per il cristianesimo delle origini, radicato come era nel giudaismo, di fare ricorso a essa per spiegare il significato della sua persona. Nell'età post-apostolica altre categorie cominciarono a profilarsi all'orizzonte, e le connotazioni cultu­ rali dell'antico titolo ebraico risultarono meno evidenti ai con­ vertiti che entravano nella Chiesa da un ambiente pagano. Per questo, CRISTO richiedeva una spiegazione. S. Clemente Roma­ no usa il termine più frequentemente con l'articolo che non senza, e da alcuni dei suoi testP7 appare che questo titolo ha chiaramente conservato per lui qualcosa del suo sapore mes­ sianico. Ma s. Giustino, che era totalmente al corrente delle sue specifiche connotazioni ( come dimostra il suo Dialogo )/8 36 Cf. HATCH - REDPATH, Concordance, s.v. 37 a. Ad Cor. l6,1; 42,1; 44,3; 49,1; 54,2; 57,2: BIHLMEYER, 43; 57; 59; 61; 64; 65. '" Per esempio 48ss: E.J.G., 146ss.

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trovò opportuno spiegare il termine enigmatico al Senato ro­ mano. Esso si riferisce, dice/9 al Logos che solo può essere chiamato propriamente Figlio di Dio. «Essendo stato concepi­ to all'inizio quando Dio creò e ordinò ogni cosa per mezzo di lui, è chiamato Cristo in virtù del fatto che è stato unto egli stesso, e che per mezzo di lui Dio ha ordinato tutte le cose». Il nome stesso, aggiunge, contiene un significato ineffabile (ovo11a 1mì a\rrò neptéxov &yvrocrwv > ) . 1 � At 2 38 133 1 Co� 6,Ù. 134 Ep. Barn. 11: BIHLMEYER, 24. 135 Man d. 4,3 , 1 : GCS 48,28. 136 Apol. l, 61: E.J.G., 70. 137 Dia/. 44: E.J.G., 141 . 130

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di ottenere questa grazia era di riconoscere Gesù come Messia e di sottomettersi al bagno profetizzato da Isaia. Queste espressioni riguardano, naturalmente, il peccato commesso prima del battesimo. Per il peccato commesso dopo il battesi­ mo, i normali rimedi suggeriti erano la preghiera, il pentimen­ to, . la confessione e le opere buone.138 Ma, presumibilmente, questi erano validi solo per peccati veniali: la possibilità che i cristiani colpevoli di peccati gravi venissero assolti dai sacra­ menti della Chiesa iniziò a essere presa in considerazione uni­ camente nel II secolo. Siamo dunque nel giusto se concludiamo che, in pratica, all'epoca in cui venne a fare parte dell'Antico Credo romano, LA REMISSIONE DEI PECCATI deve avere connotato l'idea del lavacro delle offese passate e dell'aprirsi di una nuova vita per mezzo del battesimo. Non ci sono seri argomenti a favore del­ l'ipotesi139 che questa clausola fosse un riflesso diretto della controversia sorta a Roma durante il regno di papa Callisto circa il potere della Chiesa di assolvere i suoi membri dai pec­ cati più gravi. A parte ogni altra considerazione, sembra chia­ ro che l'espressione abbia trovato la sua strada nel materiale di Credo riconosciuto molto prima che sorgesse questa disputa. A conferma della nostra opinione si deve notare che nell'Ep i­ stufa apostolorum la remissione dei peccati, citata nel somma­ rio di fede a cinque clausole, è strettamente collegata al batte­ simo;140 e nei Credo orientali la remissione dei peccati veniva di solito affermata con molte parole quale conseguenza del battesimo. Indubbiamente, c'era una particolare congruenza nel fatto che il catecumeno confessasse la sua fede per cancellare le sue trasgressioni passate, fatto che era il più evidente e pratico effetto del battesimo che stava per ricevere. Contemporanea­ mente, nella seconda metà del II secolo, si può osservare un

138 a. l Clem. 5 1 ; 2 Clem. 8,13; 16; 19; Ep. Barn. 19,10-12: BIHLMEYER, 62s; 74s; 76s; 78s; 80; 32. 139 Cf. F.J. BADCOCK, The History of the Creeds, 21938, 133. 140 Cf. cc. 27 et., 23 copt. e cc. 42 et., 33 copt. in C. SCHMIDT, Die Gesprache Jesu, 1919.

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aumento della rilevanza data al fatto che il battesimo toglie il peso dei peccati e ciò è evidente specialmente nell'istruzione catechistica che precede il sacramento. Come è rilevato da F. Kattenbusch/41 di questo si parla ben poco, fatto curioso, negli antichi scrittori, che tuttavia naturalmente lo affermano. Ma anche al tempo di s. Giustino, quando il catecumenato era ancora relativamente poco organizzato, ci viene detto che i candidati all'iniziazione venivano istruiti perché durante il corso di preparazione pregassero particolarmente per la remissione dei loro peccati, e che le loro preghiere erano sostenute dall'intercessione congiunta della comunità.142 Quando arriviamo alla Tradizione apostolica di s. Ippolito, la situazione risulta del tutto trasformata. La comparsa della remissione dei peccati è ora così notevole che la frase diventa virtualmente sinonimo del battesimo stesso.143 Nella preghiera che il vescovo pronuncia durante l'imposizione delle mani, che segue immediatamente le immersioni, è «il perdono dei pecca­ ti con il lavacro di rigenerazione» che descrive brevemente che cosa è stato compiuto fino allora nella celebrazione.144 Tht­ tavia, ciò che è molto più significativo è che, se si analizza l'in­ tera elaborata preparazione catecumenale, il battesimo risulta essere «Un grande sacramento predominato dall'idea del­ l'esorcismo».145 Il diavolo viene concepito come se abitasse quasi fisicamente nel candidato, e questo è notoriamente l'ef­ fetto del peccato. Tanto potente è divenuto il senso di separa­ zione causato dal peccato tra cristiani e non cristiani ! Possia­ mo subito pensare quanto ardente fosse la brama di pace che sperimentava il catecumeno. In questo contesto diventa facil­ mente comprensibile l'inserimento di un riconoscimento de LA REMISSIONE DEI PECCATI nelle domande di Credo cui dove­ va rispondere affermativamente.

1 41 II, 706. Apol. I, 61: E.I. G., 70. 143 Ci Ap. Trad. XIX, 2 nelle versioni araba e sahidica: DIX, 30. 144 Ap. Trad. XXII, 1: DIX, 38. 1"' Ci l'importante articolo di Dom B. CAPELLE, in Rech. théol. anc. méd. 5(1933), 129ss. Questa è la conclusione alla quale giunge a p. 148. 142

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Giunti alla clausola finale dell'Antico Credo romano, LA possiamo ritenerci dispensati dall'affrontare un esame accurato del suo significato. La fede nella risurrezione del corpo è stata un dato integrante del cri­ stianesimo già dall'inizio. In 1Cor 15 Paolo afferma tale dottri­ na: ricorda che la nostra fede è fondata sulla risurrezione di Cristo stesso, «primizia di coloro che sono morti», e si soffer­ ma sul problema molto più difficile espresso nella domanda: «Con quale corpo vivranno?». Chiunque sfoglia le pagine dei primi padri avrà una vivida impressione dell'immensa impor­ tanza della speranza della risurrezione per la Chiesa del II secolo. Per citare pochi esempi a caso, gli autori della 2 Cle­ mente e dell'Epistola di Barnaba insistono sulla necessità del nostro risorgere proprio con la carne che abbiamo ora, perché possiamo ricevere la ricompensa dovuta per le nostre azioni.146 S. Clemente Romand47 tentò di dare una spiegazione di questo fatto meraviglioso appellandosi all'analogia del seme che trae il frutto dalla propria corruzione, e collegandola con la classi­ ca leggenda della fenice e con la dottrina dell'onnipotenza divina. Molti teologi e apologisti dell'epoca dispiegarono la loro dialettica a difenderla contro le limitazioni e l'aperta iro­ nia dei critici pagani.148 Alla metà circa del secolo, tuttavia, dovettero cambiare le loro tattiche. Evidentemente c'erano gruppi di cristiani, o di pseudocristiani, che negavano la risurrezione del corpo. Possia­ mo ricordare che s. Policarpo nella sua lettera149 rimprovera, in un passaggio incidentale, coloro che negavano la risurrezione o il giudizio. S. Giustino, in un passo importante, dichiara 150 l'esistenza di sètte di gente simile: RISURREZIONE DELLA CARNE,

146 2 Clem 9; Ep. Barn. 5,6s; 21,1: BIHLMEYER, 75; 15; 33. 147 Ad Cor. 24, 6: BIHLMEYER, 49s. 148 Cf. TAZIANO, Adv. Graec. 6: E.J.G., 272s; TEOFILO DI ANTIOCHIA, Ad Auto 7c. l, 7s: PG 6,1033. 14 Ad Phil. 7: BIHLMEYER, 117. Una data prossima alla metà del secolo, come è proposta per questa parte della lettera da P.N. HARRISON (Polycarp 's Two Epistles, Cambridge 1936), si accorderebbe benissimo con l'argomento. 150 Dial. 80: E.J.G., 192.

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L'insegnamento dell'Antico Credo romano

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Vi ho detto che uomini che si chiamano cristiani, ma sono atei ed empi eretici, insegnano cose che sono assolutamente blasfeme [. . . }. Se incon­ trate persone che si qualificano cristiane [. . . ] ma osano bestemmiare il Dio di Abramo, di !sacco e di Giacobbe, e affermano che non c'è risur­ rezione dai morti [. . . ] non riconosceteli come cristiani. Secondo la corrispondenza apocrifa151 fra la Chiesa di Co­ rinto e Paolo, risalente alla seconda metà del secolo, e per lungo tempo considerata scrittura canonica nella Chiesa siria­ ca, i bestemmiatori che ripudiavano la risurrezione sconvolge­ vano le menti dei fedeli. S. Ireneo, nella cui teologia la dottrina della risurrezione era tema di grande importanza, ci fa cono­ scere queste persone dalla mentalità gnostica, che, credendo che la materia sia essenzialmente male, negano la risurrezione fisica.152 La salvezza, affermano, appartiene solo all'anima, e il corpo, derivato com'è dalla terra, è incapace di parteciparvi. Risponde insistendo che «la salvezza appartiene all'intero uomo, e cioè all'anima e al corpo»: questo è l'insegnamento universale cattolico.153 Anche Tertulliano nel suo De resurrec­ tione mortuorum (scritto nel 208-211) ha il medesimo scopo di contrastare gli gnostici. Si lamenta154 che si soffermino lunga­ mente sulla viltà della carne e sulla sua origine sordida, sul­ l'uso e sulla ignominiosa fine e riducono la dottrina della risur­ rezione a un significato immaginario di loro invenzione, iden­ tificandola sia con gli effetti del battesimo che con il risveglio spirituale con cui si aspettano di coronare l'accettazione dei loro princìpi.155 La sua risposta prende la forma di un eloquen­ te panegirico della carne. Poiché questa era l'atmosfera teologica di quei tempi, dob­ biamo avere ben poca esitazione nello spiegare la presenza della clausola nel Credo come dovuta al naturalissimo deside­ rio di assicurarsi della validità dell'atteggiamento del catecu-

151

376.

Cf. R. HENNECKE, New Testament Apocrypha (E.T. 1965) II, 357; 373;

"' Adv. haer. 1,22,1 ; 1,27,3; 5,2,2: PG 7,669s; 689; 1124. '" Adv. haer. 1,10,1; 5,20,1: PG 7,549; 1 177. '"' De res. mont. 4: CCL 2,925. "' De res. mort. 19: CCL 2,944s.

218

I simboli di fede della Chiesa antica

meno nei confronti di questo punto vitale della dottrina cristia­ na. Possiamo concludere che il sottofondo di controversia fosse anche responsabile, almeno in parte, della scelta del ter­ mine CARNE, contro il meno provocatorio «risurrezione dai morti (àvacr'tacnç vEKpéòv)» preferito dal Nuovo Testamento e da alcuni degli scrittori più antichi. A causa della caustica iro­ nia dei loro oppositori circa la materialità della carne in quan­ to tale, i campioni dell'ortodossia si fecero molto comprensibil­ mente un punto di onore di usare la parola con tutte le sue implicazioni realistiche. Gli eretici, come ammette anche s. Ire­ neo/56 ricorrono al testo paolina: «Carne e sangue non posso­ no ereditare il regno di Dio»; ma la sua risposta a difesa del­ l' «opera fatta dalle mani di Dio» è che ciò che Paolo voleva significare era la carne considerata in se stessa ( Ka8' éau'tijv), cioè considerata indipendentemente dallo Spirito, in altre parole non santificata. Tertulliano, dicendo che «tutta la carne e il sangue, con le loro qualità, risusciteranno», lotta per lo stes­ so obiettivo, mettendo in rilievo il fatto che l'apostolo non rifiutò alla carne e al sangue la risurrezione in quanto tale, ma solo il regno di Dio. Per entrare nel regno è necessario lo Spi­ rito; e così, mentre tutti i morti risorgeranno con i loro corpi fisici, solo coloro che saranno stati santificati dallo Spirito ere­ diteranno realmente il regno.157 Fatta eccezione per i gruppi con tendenze più spiritualizzanti, quali quello di Origene, que­ sto vigoroso e appassionato realismo doveva fare da modello per il futuro pensiero ortodosso sull'argomento. Con quest'affermazione della risurrezione della carne l'Antico Credo romano raggiunge il suo apice. Come compen­ dio di teologia popolare potrebbe sembrare curiosamente difettoso, e l'uomo moderno con i suoi particolari interessi si è talvolta chiesto perché non contenga alcun riferimento ( per scegliere tre punti a caso) all'insegnamento di Gesù, o alla redenzione e alla santa eucaristia. Bisogna, tuttavia, ricordarsi che i simboli di fede, così come sono emersi storicamente, non

1,. Adv. haer. 5,9,1 e 3: PG 7,1144; 1 145. "' De res. mort. 50: CCL 2,992s.

V.

L'insegnamento dell'Antico Credo romano

219

hanno mai inteso essere sommari completi della fede cristiana in tutti i suoi aspetti. Il loro modello era dettato dal triplice comando battesimale del Signore, e il loro contenuto si limita­ va a quelle verità fondamentali su Dio Padre, Cristo Gesù suo Figlio e lo Spirito Santo che la Chiesa aveva o ereditato dal giudaismo o ricevuto essa stessa nella rivelazione del vangelo. La prova più evidente dell'autenticità dell'Antico Credo romano si trova nel modo in cui, mentre alcune delle sue clau­ sole hanno ricevuto una più chiara definizione e altre un mag­ gior rilievo dall'atmosfera controversa del II secolo, le une e le altre risalgono al kerygma primitivo dell'età apostolica.

Capitolo VI

Simboli di fede nell'occidente e nell'oriente

l . LA SCARSITÀ DEI

CREDO

L'informazione a nostra disposizione sui Credo della Chie­ sa romana del II secolo e della prima metà del III è, relativa­ mente parlando, straordinariamente ricca. Grazie a essa, pos­ siamo scrivere almeno un abbozzo di storia delle origini del­ l'Antico Credo romano. Sebbene si tratti di una storia con numerose lacune, e lo storico sia costretto a fidarsi, più spesso di quanto vorrebbe farlo, della propria immaginazione, possia­ mo distinguere almeno a grandi linee il cammino attraverso il quale R si venne formulando. I Credo locali di altre Chiese procedettero con minore fortuna. A parte quelle con collega­ menti romani, le formule in embrione del II secolo e dell'inizio del III cui abbiamo dato uno sguardo nel capitolo III rappre­ sentano un racconto ben magro. In questo capitolo, il nostro scopo sarà di fornire qualche enumerazione di Credo battesi­ mali occidentali diversi da R e dai Credo battesimali orientali dei due secoli successivi. Il lettore non deve aspettarsi molto. Anche quando iniziano a entrare in scena simboli di fede dichiaratori completi, gli esempi che possiamo ricostruire con affidabilità sono pochi e rari, e la storia del loro primo svilup­ po rimane avvolta nel mistero. Non è difficile intuire i motivi di tale stato di cose, che potrebbero sembrare strani a un novellino in questo campo. Per prima cosa, la Chiesa romana è stata probabilmente pionieristica nella produzione di formule di Credo stereotipe. La liturgia a Roma aveva fatto grandi passi in direzione della stabilità ( benché, naturalmente, il tra-

222

I simboli di fede della Chiesa antica

guardo non fosse stato raggiunto ) molto prima che Ippolito progettasse la sua Tradizione apostolica come modello. Altre Chiese rimasero indietro, e l'oriente fu in qualche modo più lento dell'occidente nel fissare i suoi riti liturgici e le sue pre­ ghiere. I sommari di fede del Credo, che fossero interrogatori o dichiaratori, erano un derivato della liturgia e riflettevano la sua stabilità o variabilità. In particolare, tutte le indicazioni puntano verso l'occidente indicandolo come luogo di origine del rito di. «consegna (traditio) » e di «riconsegna (redditio )» del Credo. Queste furono, come osservato in precedenza,1 la logica condizione previa alla canonizzazione di Credo dichia­ ratori ufficiali in ogni località. Nello stesso occidente fu Roma/ probabilmente, a prendere l'iniziativa di stabilizzarli. Non do­ vremmo quindi essere sorpresi di scoprire che i Credo formali sorsero dapprima a Roma, e dovremmo aspettarci di scoprire che Roma fornisca più numerosi segni di un'intensa attività per la formazione di Credo che non altre Chiese del II secolo e dell'inizio del III. Nello stesso tempo, bisogna ricordare che erano in atto altri influssi, che tendevano a stendere un velo su tutti i formulari locali che godessero di autorità, sia in oriente che in occidente. Ciò che abbiamo in mente è la prassi ecclesiastica che, fin da quando nel XVII secolo fu coniata dallo studioso protestante Jean Daillé (Dallaeus ) l'espressione, è nota sotto il nome di disciplina arcani, o norma del segreto. Con ciò si intende la convenzione secondo cui i misteri più distintivi della Chiesa, e in particolare i sacramenti del battesimo e della santa eucari­ stia, erano trattati come segreti per i non iniziati e svelati solo ai fedeli istruiti. S. Agostino riecheggiava una nota caratteristi­ ca domandandosi: «Che cosa c'è di segreto e non di pubblico nella Chiesa? Il sacramento del battesimo, il sacramento del­ l'eucaristia».3 Il Padre nostro e il Credo battesimale furono

1 Cf. sopra, pp. 83-84. ' Per quanto riguarda l'importanza e la solennità della redditio symboli a Roma, cf. s. AGOSTINO, Confess. 8,2: PL 32,75 1, e RUFINO, Comm. in symb. apost. 3: CCL 20,136. 3 Enarr. in psalm. 103,14: PL 37,1348.

VI. Simboli di fede nell'occidente e nell'oriente

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riconosciuti infine tra i segni venerati che non potevano essere insegnati a nessun altro che al fedele. S. Cirillo di Gerusalem­ me, nel tenere una lezione ai candidati al battesimo, fece ben attenzione a non citare il testo del Credo che stava spiegando, e si profuse in ammonimenti perché esso non fosse scritto ma impresso nella memoria dei suoi uditori.4 L'avvertimento di s. Ambrogio:5 «State attenti a non divul­ gare con imprudenza il mistero del Padre nostro e il simbolo», si accordava bene con questo, come pure i riferimenti6 di s. Agostino e Rufina all'imprudenza di scrivere il Credo su carta. Successivamente, nella metà del V secolo, lo storico Sozome­ no7 fu dissuaso da pii amici dallo scrivere il testo del Credo di Nicea, «che solo gli iniziati e i mistagoghi (1-t:ucr'tatç Kaì jlUcr'tayroyo'ìç jlOVotç) hanno il diritto di recitare e di ascoltare». E continuava: «Perché non è bene che qualcuno dei non inizia­ ti ('téòv ÒjlvTJ'tcov) venga a conoscenza di questo documento)), I suoi scrupoli erano probabilmente ormai fuori moda a quel­ l'epoca, perché il suo contemporaneo Socrate8 non esitò a pub­ blicare proprio la stessa formula, come pure, all'occasione, s. Atanasio, s. Basilio ed Eusebio. Si è accesa una grande controversia circa la delimitazione cronologica all'interno della quale possiamo presumere che la disciplina arcani sia stata realmente efficace; anche le moti­ vazioni sottese sono state dibattute.9 A una scuola di storici è sembrato solo un ulteriore esempio della sempre crescente assimilazione del culto cristiano ai riti delle religioni misteri­ che ellenistiche. Questo punto di vista, se ha pretese di spie­ gazione totale, può essere scartato come frutto di fantasia, benché l'atmosfera di sacro timore di cui erano talvolta avvolti i sacramenti, come pure il grossolano riprendere la

4 Cf.

Procat. 12; Cat. 5,12; 6,29: PG 33,352s; 520s; 589. ' De Cain et Abel l ,9,37: PL 14,335. ' S. AGOSTINO, Serm. 212,2: PL 38,1060; RUFINO, Comm. in symb. apost. 2: CCL 20,135. Tra i padri greci, cf. s. BASILIO, De Spir. Sancto 66: PG 32,188s. 7 Hist. eccl. 1,20: PG 67,920s. ' Hist. eccl. 1 ,8: PG 67,68. ' Cf. Reallexikon filr Antike und Christentum, I, 667-679.

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I simboli di fede della Chiesa antica

terminologia delle religioni misteriche adottata in alcuni gruppi, suggerisca che motivi del genere non erano del tutto assenti. Thttavia non c'è alcun dubbio che, pur essendo stati talvolta esagerati,'0 i legami che collegavano la disciplina al catecumenato erano almeno altrettanto importanti. La sua introduzione coincise con l'affermarsi di un catecumenato evoluto che implicava l'attenta valutazione della preparazio­ ne al battesimo, e cadde in disuso dopo il V secolo, quando divenne regola il battesimo dei bambini e il catecumenato vero e proprio perse il suo significato. Il vero problema, tut­ tavia, è determinare quando ebbe origine. Thtti sono d'accor­ do che era in pieno corso alla metà del IV secolo, perché s. Cirillo di Gerusalemme la dà per scontata nelle sue Cateche­ si mistagogiche. Poiché non c'è traccia che si trattasse di una novità, è giustificato ritenere che risalga almeno a due gene­ razioni anteriori. Alcuni studiosi11 hanno sostenuto che le sue origini risalgono ai primi decenni del II secolo, se non prima, e ritengono di poterne trovare tracce nelle opere di s. Giusti­ no. Questa è però un'affermazione singolare: s. Giustino non solo non dice neanche una parola che possa essere intesa come un'allusione, ma non ha avuto il minimo scrupolo a descrivere i sacramenti in dettaglio in un trattato destinato ai pagani. Una riluttanza del genere nel parlare dei sacramenti si può osservare in Tertulliano e in Origene. Il primo rimpro­ verava12 gli eretici contemporanei per avere ammesso indi­ scriminatamente alle celebrazioni liturgiche sia i fedeli che i catecumeni, il che implica che nella Chiesa cattolica ( non era ancora diventato un montanista) i sacramenti erano riservati. Anche Origene, nel discutere con Celso, dovette ammettere13 che il cristianesimo aveva dei misteri esoterici. In una delle sue omelie14 rifiutò espressamente di spiegare il significato

'0 Per es., da P. BATIFFOL nel suo importante saggio in Etudes d'histoire et de théologie positive, l, Paris 61919. 11 Per es., F.X. FuNK, Das Alter der Arkandisziplin, Paderborn 1907, 42-55. 12 De praescr. haer. 41; cf. Ad uxorem 2,5: CCL 1 ,221; 389. " Con. Ce/s. 1,7: KOETSCHAU, l, 60. 14 Horn. in Lev. 9,10: BAEHRENS, 438.

VI. Simboli di fede nell'occidente e nell'oriente

225

del corpo e del sangue di Cristo davanti a un uditorio misto: «Non indugiamo su questi soggetti, che sono ben noti agli ini­ ziati ma non possono essere rivelati a coloro che non sono iniziati». Ma la prassi era evidentemente solo a uno stadio embrionale. S. Ippolito, che scriveva al tempo in cui viveva Tertulliano, si sentì libero di pubblicare le liturgie del battesi­ mo e dell'eucaristia. Inoltre, nulla sta a dimostrare che ai tempi di Tertulliano e di Origene questa riserva fosse estesa ai modelli dottrinali della Chiesa. Tertulliano, come s. Ireneo, citava continuamente, talvolta molto fedelmente, sommari di quasi-Credo della regola di fede. Origene, nel primo dei due passi citati, fece dell'ironia perché la dottrina cristiana era un segreto. Per sostenere la sua tesi, enumerò molti articoli in una forma simile a un Credo, dichiarando che tutto il mondo li conosceva. S. Ippolito pone le sue domande battesimali nel­ l'insieme completo del rito, senza agire in alcun modo come se esponesse una formula scrupolosamente riservata ai cate­ cumeni. I maestri e gli apologisti cristiani di questo periodo, come è ben noto, accusarono in modo particolare gli eretici per la segretezza con cui avvolgevano le loro dottrine, e affer­ marono che le loro proprie dottrine offrivano la migliore garanzia d'apostolicità per il fatto che erano, ed erano sempre state, pubbliche. Evidentemente, la regola del segreto si stava gradualmente aprendo. Dapprima copriva i sacramenti, e solo in seguito coprì il Credo. Anche quando raggiunse il suo pieno sviluppo, come è noto, il Credo non fu considerato come un mistero eso­ terico quanto i sacramenti. Mentre l'insegnamento più pieno su questi era impartito solo dopo il battesimo, il Credo era offerto ai catecumeni durante lo stadio finale della loro prepa­ razione. Non andremo tanto errati se collochiamo questa aper­ tura del Credo intorno alla seconda metà del III secolo. Non può essere stato molto prima di quella data: sarebbe azzarda­ to volerlo datare successivamente per la testimonianza di s. Cirillo di Gerusalemme. L'effetto della sua introduzione ( e questo è quanto ci interessa ) deve essere stato quello di impor­ re una virtuale censura sulla diretta citazione del Credo batte­ simale. Anche l'influente Credo romano cadde sotto di essa. Il

226

I simboli di fede della Chiesa antica

lettore deve essere stato sorpreso di una simile mancanza di prove della sua esistenza nel III e nel IV secolo. Marcello è il solo scrittore, tra s. Ippolito e Rufino, che lo cita direttamente. Anch'egli fu scrupolosamente attento a non dare alcun segno specifico di identificazione. Anche Rufi­ no non riprodusse l'intero testo né del Credo di Aquileia né di quello romano: dobbiamo metterli insieme come dei puz­ zles. In pratica tutti gli altri Credo locali contemporanei furo­ no persi di vista per lo stesso deliberato occultamento. L'inte­ ro testo di uno o due Credo orientali è sopravvissuto per mo­ tivi particolari, ma in nessun caso abbiamo una diretta e con­ tinua citazione di una formula occidentale. Fortunatamente alcune di esse, sia occidentali che orientali, possono essere ri­ costruite, principalmente da predicazioni o da commenti. Ma proprio per questo motivo, se non altro, sarebbe pericoloso affermare, in base alle loro espressioni, qualche cosa come assoluta certezza. La scarsità di materiale recuperabile è deludente anche per altri motivi, oltre che per la conoscenza frammentaria dei vari Credo che essa consente. Questo significa che possiamo dare ben poche risposte esaurienti, se ne esiste qualcuna, ai proble­ mi più importanti riguardanti i simboli di fede di questo perio­ do. Uno di essi è la data precisa in cui si stabilirono i riti della consegna e della riconsegna del Credo nelle varie regioni. E ancora, erano solo le Chiese maggiori che possedevano formu­ le di fede proprie, o anche Chiese relativamente piccole pote­ vano godere della libertà di apportare loro variazioni locali? Quando le parole esatte del Credo cominciarono ad essere considerate come sacrosante? E con quale severità in periodi diversi venne intesa la norma di un testo prestabilito? Possia­ mo solo tentare di indovinare le risposte esatte a questi e ad altri quesiti. Se soltanto avessimo più simboli da confrontare, potremmo forse capire più profondamente la reciproca influenza di un Credo sull'altro. Ma la riservatezza osservata da predicatori e scrittori innalza una barriera tra noi e la cono­ scenza cui aspiriamo.

VI. Simboli di fede nell'occidente e nell'oriente 2.

227

CREDO DERIVATI DA R

In questa parte daremo uno sguardo ai principali Credo battesimali occidentali, dal IV al VI secolo, che possano avere un sufficiente grado di certezza per il nostro scopo. Questo campo è stato dissodato nel secolo scorso da Caspari, Katten­ busch e Hahn, e benché gli studiosi posteriori (principalmente Dom G. Morin) abbiano dato validi contributi, si sono trovati in disaccordo con le acquisizioni precedenti solo in punti di dettaglio. Oltre all'Antico Credo romano e al questionario battesi­ male della Tradizione apostolica di s. Ippolito, si possono rico­ struire i Credo di quattro Chiese italiane, dato che appartengo­ no tutti all'ultima generazione del IV secolo e alle prime due del V. È fuori discussione, naturalmente, che derivino tutti da epoche precedenti, perché i documenti che li riproducono li trattano come autorevoli e fissi. Il Credo di Milano, dell'ultima metà del IV secolo, può essere ricavato da tre sermoni'5 di s. Agostino sulla consegna del Credo, e anche dal trattato Expla­ natio symboli ad initiandos,16 che consiste probabilmente in annotazioni prese da una catechesi di s. Ambrogio. Benché si rivolga ai suoi fedeli nordafricani, s. Agostino usa una formula differente dal caratteristico Credo africano, e, poiché essa è in pratica identica a R e al Credo della Explanatio,11 possiamo ritenere che si tratti della formula del battesimo della sua Chiesa. Forse si sentì in diritto di usarla poiché i suoi sermoni erano diretti a un pubblico più ampio che non la Chiesa di Ippona.

" Sermones 212, 213 e 214: PL 38,1058-1072. PL 17,1 155-1 160. 17 Explan. symb. dice che il suo Credo è la formula usata dalla Chiesa romana: cf. s. AMBROGIO, Ep. 42: PL 16,1 125. 16

I simboli di fede della Chiesa antica

228 MILANO (Agostino)

MILANO (Ambrogio)

Credo in deum patrem omnipoten­ tem; Et in lesum Christum, filium eius uni­ cum, dominum nostrum, qui natus est de Spiritu sancto et Maria virgine, passus est sub Pontio Pilato, crucifixus et sepultus, tertia die resurrexit a mortuis, ascendit in caelum, sedet ad dexteram patris, inde venturus est iudicare vivos et mortuos; Et in Spiritum sanctum, sanctam ecclesiam, remissionem peccato­ rum, carnis resurrectionem.

Credo in deum patrem omnipoten­ tem; Et in lesum Christum, filium eius uni­ cum, dominum nostrum, qui natus est de Spiritu sancto ex Maria virgine, sub Pontio Pilato passus, et sepultus, tertia die resurrexit a mortuis, ascendit in caelum, sedet ad dexteram patris, inde venturus est iudicare vivos et mortuos; Et in Spiritum sanctum, sanctam ecclesiam, remissionem peccato­ rum, camis resurrectionem.

Credo in Dio Padre onnipotente; E in Gesù Cristo suo unico Figlio nostro Signore, Che nacque dallo Spirito Santo e [o da] la Vergine Maria, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso [non in Amb.] e sepolto, il terzo giorno risuscitò dai morti, ascese al cielo, siede alla destra del Padre, donde verrà a giudicare i vivi e i morti; e nello Spirito Santo, la santa Chiesa, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne.

Gli altri nostri tre Credo italiani sono quelli di Aquileia, di Ravenna e di Torino. Rufind8 è l'autorità per quanto riguarda il primo: lo usò, come abbiamo visto, come base del suo com­ mentario sul Credo apostolico. Una cinquantina di anni dopo, durante il pontificato di s. Leone Magno, troviamo gli altri due. Uno di essi è contenuto nei sei sermoni19 dell'amico del papa, s. Pietro Crisologo, vescovo di Ravenna tra il 433 e il 450, men­ tre l'altro si trova in un'omelia20 del suo contemporaneo s. Massimo, vescovo di Torino, famoso predicatore. Non è neces­ sario riportare traduzioni di questi o degli altri Credo occiden-

18

Comm. in symb. apost. : CCL 20,135ss. 19 Sermones 57-62: PL 52,357ss. 20 Hom. 83 de trad. symb. : PL 57,433ss.

VI. Simboli di fede nell'occidente e nell'oriente

229

tali che saranno citati. Il loro senso a grandi linee è lo stesso di quello di R e del Credo di Milano, e una traduzione tende a mettere in ombra le differenze linguistiche di dettaglio. AQUILEIA

RAVENNA

Credo in dea patre omnipotente invi­ sibili et impassibili; Et in Christo lesu, unico filio eius, domino nostro, qui natus est de Spiritu sancto ex Maria virgine, crucifixus sub Pontio Pilato et sepultus, descendit ad inferna, tertia die resurrexit a mortuis. ascendit ad caelos, sedet ad dexteram patris, inde venturus est iudicare vivos et mortuos; Et in Spiritu sancto, sanctam eccle­ siam, remissionem peccatorum, huius camis resurrectionem.

Credo in deum patrem omnipoten­ tem: Et in Christum lesum, filium eius uni­ cum, dominum nostrum, qui natus est de Spiritu sancto ex Maria virgine, qui sub Pontio Pilato crucifixus est et sepultus, tertia die resurrexit, ascendit in caelos, sedet ad dexteram patris, inde venturus [est] iudicare vivos et mortuos; Credo in Spiritum sanctum, sanctam ecclesiam, remissionem peccato­ rum, carnis resurrectionem, vitam aeternam.

TORINO Credo in deum patrem omnipotentem; Et in lesum Christum filium eius unicum, dominum nostrum, qui natus est de Spiritu sancto ex Maria virgine, qui sub Pontio Pilato crucifixus est et sepultus, tertia die resurrexit a mortuis, ascendit in caelum, sedet ad dexteram patris inde venturus iudicare vivos et mortuos; Et in Spiritum sanctum, sanctam ecclesiam, remissionem peccatorum, carnis resurrectionem.

Dalla provincia balcanica della Mesia Superiore ci è giunto un Credo molto antico. Si può ricomporlo dal frammentario Instructionis libelli V/,21 e l'autore può essere identificato con

21 PL 52,847-876. Sull'intera questione di Niceta e del suo Credo, cf. A.E. BURN, Niceta of Remesiana, Cambridge 1905. Gli studi più recenti non hanno mutato le sue conclusioni.

I simboli di fede della Chiesa antica

230

certezza con Niceta che visse pressappoco dal 335 al 414 e fu per lungo tempo vescovo di Remesiana (la moderna Bela­ Palanka, in Serbia, 30 km a sud-est di Nis). Missionario zelan­ te e fortunato, fu amico di s. Paolino di Nola, che gli dedicò una delle sue poesie. Gennadio di Marsiglia22 è l'autorità in mate­ ria per avere composto i sei libelli. Uno di essi, il quinto, è un commento al Credo battesimale, di cui espone in successione le clausole distinte; e mentre per l'esattezza dell'espressione rimane talvolta qualche dubbio, si ha ben poca difficoltà a rico­ struire il profilo generale della formula. REMESIANA Credo in deum patrem omnipotentem, [caeli et terrae creatorem]; Et in filium eius lesum Christum [dominum nostrum?], natum ex Spiritu sancto et ex virgine Maria, passum sub Pontio Pilato, crucifixum, mortuum, tertia die resurrexit vivus a mortuis, ascendit in caelos, sedet ad dexteram patris, inde venturus iudicare vivos et mortuos; Et in Spiritum sanctum, sanctam ecclesiam catholicam, communionem sanctorum, remissionem peccatorum, camis resurrectionem et vitam aeternam.

Fra le caratteristiche interessanti di questa formula si tro­ vano a ) l'omissione di UNICO con FIGLIO, b) l'uso dei participi ( NATO, SOFFERTO , ecc.) nel secondo membro, probabilmente come risultato del fatto che Niceta lo aveva tradotto dall'ori­ ginale greco, c) la probabile aggiunta di CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA (il testo non dà la certezza assoluta di questo), d) il termine RISUSCITÒ VIVO DAI MORTI caratteristico dei Credo spagnoli, e e) l'aggiunta di COMUNIONE DEI SANTI e VITA ETERNA.

Per quanto riguarda esempi di Credo africani, siamo debi­ tori a s. Agostino, che fu vescovo di lppona dal 396 al 430, a un anonimo suo contemporaneo e di poco più giovane che si può probabilmente identificare con quel Quodvultdeus che fu

22 De vir. illustr. 22: PL 58,1073s.

VI. Simboli di fede nell'occidente e nell'oriente

231

vescovo di Cartagine quando cadde in mano dei vandali, e a s. Fulgenzio, vescovo di Ruspe nella provincia di Bizacena ( una parte dell'attuale Thnisia), con un intervallo di esilio, tra il 508 e il 533. Il Sermone 215 di s. Agostind3 sulla riconsegna del Credo commenta la formula che i candidati battezzati hanno appena recitata, e questo fatto, come pure le peculiarità inter­ ne da cui è segnata, conferma che si tratta di una formula loca­ le africana. Il Credo che abbiamo attribuito alla Chiesa di Car­ tagine può essere estratto da quattro discorsF4 di grande importanza per la liturgia del battesimo, tradizionalmente, ma erroneamente, attribuiti a s. Agostino. Dom Morin ha ricompo­ sto il Credo che viene attribuito con argomenti convincenti a Quodvultdeus,25 allievo e amico di s. Agostino, diventato poi vescovo di Cartagine nel 437. Il Credo di s. Fulgenzio può esse­ re ricostruito dai frammenti26 che rimangono dei suoi dieci libri Contra Fabianum. Tutte e tre le formule hanno in comune alcune particolarità, principalmente la formulazione ridondan­ te del primo articolo, la triplice ripetizione di IO CREDO, il con­ trasto tra DALLO SPIRITO SANTO e DALLA VERGINE MARIA, l'uso di VITA ETERNA, e LA SANTA CHIESA posta alla fine, prece­ duta dalla preposizione MEDIANTE. IPPONA

CARTAGINE

Credimus in deum patrem omnipo­ tentem, universorum creatorem, regem saeculorum, immortalem et invisibilem; Credimus et in filium eius lesum Chri­ stum dominum nostrum, natum de Spiritu sancto ex virgine Maria, crucifixum sub Pontio Pilato, mor­ tuum, et sepultum,

Credo in deum patrem omnipoten­ tem, universorum creatorem, regem saeculorum, immortalem et invisi­ bilem; Credo et in filium eius lesum Chri­ stum, qui natus est de Spiritu sancto ex vir­ gine Maria, crucifixus est sub Pontio Pilato et sepultus,

23

PL 38,1072-1076. 24 Cf. PL 40,637-652; 651-660; 659-668; 42,11 17-1 130. 25 Cf. R. Bén. 31(1914), 156ss; 35(1923), 233ss. Per quanto riguarda i Credo africani, cf. anche P. C. EICHENSEER, Das Symbolum Apostolicum beim heiligen Augustinus, S. Ottilien 1960. 26 Cf. specialmente Frag. XXXVI; Frag. XXXII è anch'esso di aiuto: CCL 91A, 854ss; 831s. Su questo Credo, cf. CASPARI, Quellen, II, 245ss.

I simboli di fede della Chiesa antica

232 [qui] tertia die resurrexit a mortuis, ascendit ad caelos, sedet ad dexteram dei patris, inde venturus est iudicare vivos et mortuos; Credimus et in Spiritum sanctum, remissionem peccatorum, resurrec­ tionem carnis, vitam aeternam per sanctam ecclesiam.

tertia die a mortuis resurrexit, assumptus est in caelos, et ad dexteram patris sedet, inde venturus est iudicare vivos et mortuos; Credo et in Spiritum sanctum, remis­ sionem peccatorum, carnis resur­ rectionem, in vitam aeternam per sanctam ecclesiam.

RUSPE Credo in deum patrem omnipotentem, universorum creatorem, regem saeculorum, immortalem et invisibilem; Credo in lesum Christum, filium eius unicum, dominum nostrum, qui natus est de Spiritu sancto ex virgine Maria, crucifixus est [sub Pontio Pilato] et sepultus, tertia die resurrexit j,a mortuis], in caelum ascendit, et in dextera dei sedit, inde venturus est iudicare vivos et mortuos; Credo in Spiritum sanctum, remissionem peccatorum, carnis resurrec­ tionem et vitam aeternam per sanctam ecclesiam.

Il più antico Credo spagnolo a noi giunto è quello citato da Priscilliano,28 fondatore della setta eretica che porta il suo nome, condannato a morte nel 385. Fu vescovo di Avila. È pos­ sibile29 che il passo che conteneva il Credo fosse realmente opera di un altro priscillianista detto !stanzio, ma attribuirlo a Priscilliano stesso sembra, nell'insieme, più probabile. Un altro Credo spagnolo, probabilmente anteriore di molto all'epoca in cui viene citato, è stato ricavato da vari scritti spagnoli del VI e del VII secolo.30 Se ne può ritrovare un terzo esemplare, inol­ tre, nella liturgia mozarabica.31

'1:1

Cosl in De fid. ad Petrum 63 (xx): CCL 91A, 751. Tract. 2: ed. G. SCHEPSS in CSEL 18,36s. 29 Cf. G. MORIN, R. Bén. 30(1913), 153ss. 30 S. MARTINO DI BRAGA, De correct. rustic. : ed. C P. CASPARI, Christiana, 1883; ILDEFONSO DI TOLEDO, De cognit. bapt. 36ss: PL 96,127ss; ETERIO e BEATO, Ad Elipand. ep. l, 22: PL 96,906. " PL 85,395s. 28

.

VI. Simboli di fede nell'occidente e nell'oriente PRISCILLIANO [Credentesi unum deum patrem omnipotentem ... ; Et unum dominum lesum Christum natum ex Maria virgine ex Spiritu sancto . . . passum sub Pontio Pilato, crucifi­ xum . . . sepultum, tertia die resurrexisse ... ascendisse in caelos, sedere ad dexteram dei patris omni­ potentis, inde venturum et iudicaturum de vivis et mortuis; [Credentesi in sanctam ecclesiam, sanctum Spiritum, baptismum salutare . . . [credentesi remissio­ nem peccatorum . . . [credentesi in resurrectionem carnis . . .

233

SPAGNA VI SECOLO Credo in deum patrem omnipoten­ tem; Et in lesum Christum, filium eius unicum, deum et dominum nostrum, qui natus est de Spiritu sancto et Maria virgine, passus sub Pontio Pilato, crucifixus et sepultus, descendit ad inferna, tertia die resurrexit vivus a mortuis, ascendit in caelos, sedet ad dexteram dei patris omnipo­ tentis, inde venturus iudicare vivos et mor­ tuos; Credo in sanctum Spiritum, sanctam ecclesiam catholicam, remissionem omnium peccato rum, carnis resur­ rectionem et vitam aeternam.

LITURGIA MOZARABICA Credo in deum patrem omnipotentem; Et in Iesum Christum, filium eius unicum, dominum nostrum, natum de Spiritu sancto ex utero Mariae virginis, passus sub Pontio Pilato, crucifixus et sepultus, tertia die resurrexit vivus a mortuis, ascendit in celum, sedet ad dexteram dei patris omnipotentis, inde venturus iudicaturus vivos et mortuos; Credo in sanctum Spiritum, sanctam ecclesiam catholicam, sanctorum communionem, remissionem omnium peccatorum, carnis huius resurrectionem et vitam aeternam. Amen.

Notiamo di nuovo in questi Credo caratteristiche comuni. Il modo curioso di Priscilliano di porre lo SPIRITO SANTO dopo la Vergine Maria e dopo la Chiesa riflette senza dubbio una particolarità del suo insegnamento personale. Ma espressioni come la ripetizione di IO CREDO prima del primo e del terzo articolo, l'inserimento di VIVO dopo RISUSCITÒ, l'intera formu­ la ALLA DESTRA DI DIO PADRE ONNIPOTENTE, la preferenza del participio futuro di GIUDICARE (iudicaturus) e dell'enfatico

I simboli di fede della Chiesa antica

234

il porre sanctum prima di Spiritum, e l'uso di e VITA ETERNA sono tutti caratteristici. Tre Credo gallicani appartenenti a questo periodo ci sono giunti in una forma che può essere considerata attendibile. La prima e più antica è quella di s. Fausto di Riez, abate di Lérins e vescovo di Riez, nato in Inghilterra, che fu stimato nel sud della Francia per aver sconfitto gli ariani tra il 470 e il 480. Il suo Credo è derivato da due omelie De symbolo e dal suo Tractatus de symbolo;32 il terzo articolo è attestato inoltre dal suo libro De Spiritu Sancto. 33 Abbiamo poi il Credo battesima­ le di s. Cesario, facondo vescovo di Arles (503-543). Siamo debitori a Dom G. Morin per avere dimostrato/4 sulla base di caratteristiche stilistiche, che il sermone sull'esposizione o con­ segna del Credo (che si inizia con Sermo et sacramentum) nel cosiddetto Missale Gallicanum vetus35 è realmente di s. Cesa­ rio. In terzo luogo abbiamo un Credo frammentario in una let­ tera apologetica di s. Cipriano di Telone, discepolo e amico di s. Cesario, che morì intorno al 540.36 TUITI

I

PECCATI,

CATIOLICA

RIEZ

ARLES

Credo in deum patrem omnipoten­ tem; Et in filium eius dominum nostrum lesum Christum, qui conceptus est de Spiritu sancto, natus ex Maria virgine, crucifzxus et sepultus,

Credo in deum patrem omnipoten­ tem, creatorem caeli et terrae; Credo et in lesum Christum filium eius unigenitum sempiternum, qui conceptus est de Spiritu sancto, natus est de Maria virgine, passus est sub Pontio Pilato, crucifi­ xus, mortuus et sepultus, descendit ad inferno, tertia die resurrexit a mortuis,

tertia die resurrexit,

32 Per quanto riguarda le omelie, cf. CASPARI, Quellen, Il, 185ss. e 191ss. Per il trattato, cf. il suo A. und N. Q., 262ss. Thtte e tre sono opere dubbie. 33 De Spir. Sancto, 1,2: ENGELBRECHT, 103s. Questo è genuino. "' R. Bén. 46(1934), 178-189: per il testo cf. Serm. 9: CCL 103,47. 35 a. MABILLON, De liturgia gallicana, Paris 1685, 339-342. Ma il testo migliore e anche più accessibile del sermone è quello pubblicato nell'articolo di Doro MORIN in R. Bén. 46(1934); è basato su una fotografia del manoscrit­ to vaticano Palat. Lat. 493 (ff. 20v-26v). 36 Edito da W. GUNDLACH in MGH, Epp. III, 435.

VI. Simboli di fede nell'occidente e nell'oriente adscendit ad caelos, sedet ad dexteram dei patris omnipo­ tentis, inde venturus iudicare vivos et mor­ tuos; Credo et in Spiritum sanctum, san­ ctam ecclesiam, sanctorum commu­ nionem, abremissam peccatorum, carnis resurrectionem, vitam aeter­ nam.

235

ascendit ad caelos, sedit ad dexteram dei patris omnipo­ tentis, inde venturus iudicare vivos et mor­ tuos; Credo in sanctum Spiritum, sanctam ecclesiam catholicam, sanctorum communionem, remissionem pec­ catorum, carnis resurrectionem, vitam aeternam. Amen.

TOLONE Credo in deum patrem omnipotentem; Credo et in lesum Christum, filium eius unigenitum, dominum nostrum, qui conceptus de Spiritu sancto, natus ex Maria virgine, passus sub Pontio Pilato, crucifixus et sepultus, tertia die resurrexit a mortuis, ascendit in coelos, sedet ad dexteram patris, inde venturus iudicaturus vivos ac mortuos.

Le formule riportate sopra comprendono la maggior parte dei Credo battesimali occidentali a noi pervenuti tra il IV e il VI secolo. Il loro legame reciproco e quello con l'Antico Credo romano salta subito agli occhi. Mostrano tutti la stessa disposi­ zione fondamentale e la stessa struttura di R, e in particolare lo stesso tipo di insegnamento, e sono espressi in un linguaggio quasi identico. Alcuni, come i Credo di Milano, non si possono praticamente distinguere: differiscono solo per la disposizione dei termini GEsù CRISTO, l'inclusione di SOFFRÌ, l'omissione di IL QUALE prima di SOFFRì, e la sostituzione di DI LÀ con DA CUI. Altre formule, come quella africana e quella gallicana, posso­ no vantare molte clausole supplementari. Ma le differenze, siano esse poche o molte, non rappresentano che un ricamo superficiale, e non possono cancellare l'identità di fondo. For­ mano chiaramente una famiglia o gruppo a parte, che com­ prende numerosi sottogruppi regionali con le loro particolari­ tà locali, ma chiaramente differenziati da tutti gli altri formu­ lari contemporanei. Sorge allora il quesito se si tratti di formu­ le parallele, cresciute indipendentemente l'una dall'altra ma che abbiano acquisito questa stupefacente mutua somiglianza

236

I simboli di fede della Chiesa antica

mediante influenze e interferenze reciproche, oppure se deri­ vino tutte da un unico ceppo comune. Se questo è il caso, l'uni­ co a poter rivendicare tale ruolo è R. Non solo sarebbe diffici­ le credere che la Chiesa romana in quell'epoca possa avere accettato il suo Credo battesimale da una Chiesa provinciale, ma abbiamo già prodotto le prove della sua attività molto anti­ ca nel comporre simboli di fede, come pure abbiamo provato l'antichità di R. L'ipotesi che si tratti di formule sorelle di R, cosa in se stes­ sa improbabile, se riflettiamo alle immense distanze di molte Chiese l'una dall'altra, è esclusa per le straordinarie somi­ glianze linguistiche dei Credo. Queste giungono a piccole finezze di espressione verbale, quali l'uso di unicum (in prati­ ca non c'è mai unigenitum) per UNICO FIGLIO, ascendere per ASCESO, ad dexteram (in dextera è meglio fondato sull'autori­ tà della Volgata)l' per ALLA DESTRA, venturus (e mai il comu­ ne veniet) per VERRÀ, ecc. , e a particolarità nella disposizione delle parole, quale Maria virgine e la struttura chiastica dei quattro commi originali dell'articolo finale. In secondo luogo, mentre i Credo provinciali contengono tutti delle aggiunte a R, non mostrano delle omissioni sostanziali. R è l'irriducibile struttura che soggiace, ben in vista, a tutti loro. Le differenze poi sono minori in alcuni Credo del IV secolo provenienti da Chiese geograficamente vicine a Roma, e si moltiplicano e diventano più numerose in proporzione con la loro antichità e la loro distanza dalla capitale. Infine, nessuna delle differenze sta a indicare formule fondamentali diverse da R, o anche una versione latina dell'R originale greco diversa da quella che conosciamo. Per quanto riguarda quest'ultimo punto si è sostenutd8 che avesse come conseguenza un corollario di notevole importan­ za. Poiché tutti i Credo provinciali discendono dalla traduzio­ ne latina che divenne poi ufficiale, devono essi stessi datare dal tempo in cui il latino era la lingua liturgica della Chiesa roma-

37 Cf. Eb 8,1; 10,12; 12,2; 1Pt 3,22; ecc. 38 Cf. H. LIE1ZMANN, in ZNTW 21(1922), 5.

VI. Simboli di fede nell'occidente e nell'oriente

237

na. Cioè, non possono essere anteriori alla metà del III secolo. Ma, esposto in questi termini, l'argomento non può essere so­ stenuto. La traduzione latina riconosciuta del Credo, come abbiamo osservato nel capitolo IV/9 può essere stata fatta benissimo qualche tempo prima che il latino fosse adottato ufficialmente nella liturgia romana, anche perché devono es­ serci sempre stati numerosi convertiti di lingua latina aspiran­ ti al battesimo. La conclusione in se stessa, tuttavia, può essere accettata per quanto diversamente motivata. La dipendenza dei Credo provinciali da R dimostra che devono essere venuti alla luce quando R aveva già acquisito la sua posizione di ecce­ zionale prestigio. E questo non può essere stato, nella più otti­ mistica delle ipotesi, molto prima della seconda generazione del III secolo. Per i nostri obiettivi immediati, tuttavia, si trat­ ta di un punto di scarso rilievo. Il dato notevole assolutamente certo che i documenti hanno prodotto in questo studio è il fatto che tutti i Credo battesimali provengono direttamente dal Credo della Chiesa romana. 3.

CREDO ORIENTALI

Un esame dei Credo battesimali orientali ci mette di fron­ te a una situazione del tutto diversa. Non c'è nessuna formula orientale che per antichità di origine o per importanza di pre­ stigio si trovi in qualche modo in posizione analoga al Credo romano. D'altra parte, mentre i Credo occidentali, all'infuori del Credo romano, incominciano ad apparire con difficoltà nel III secolo, l'oriente riesce a produrre una o due formule ben attestate che probabilmente risalgono a quell'epoca. Ce ne sono molte, anche, che risalgono al IV e agli inizi del V secolo. Alcune di esse, come potremo osservare, sono state arricchite con la famosa formul a della teologia nicena (DELLA STESSA SOSTANZA DEL PADRE, ecc. ) , e rappresentano quindi probabil­ mente i primi Credo battesimali, rinnovati e aggiornati.

" Cf. sopra, p. 156.

I simboli di fede della Chiesa antica

238

Il punto di partenza adatto per una ricerca sui formulari orientali è «la dichiarazione riguardante la fede (1Ì 1tepì 1tt­ o-recoç ypmlni)»40 che il dotto Eusebio, vescovo di Cesarea tra il 314 circa e il 339 o il 340, sottopose al concilio di Nicea (325). Egli stesso la redasse nella lettera di autogiustificazione che pensò poi fosse prudente inviare al suo gregge. Un passo importante della dichiarazione, letto davanti all'imperatore Costantino e al concilio (avremo modo di discuterlo in manie­ ra più piena nel prossimo capitolo), era un Credo, il cui testo suona come segue: CESAREA fltcrtEUOfJ.EV EÌç eva !leov, Ttatépa, TtaV'tOKpatopa, 'tÒV 'tOOV Ò1tOV'tOJV òpatoov 'tE Kaì àopatoov 1totn't'i]v. Kaì eiç eva ··K vptov 'Incroiiv Xpt­ crtov, tòv toii !leoii A.Oyov, !leòv ÉK !Jeoii, i ò v to\ì 6eo\ì tÒV �ovoyevfì , tòv é��: toiì natp ò ç yevv,ee vta 9eòv ÒAJ16tvò v npò 7tà vtrov trov ai olvmv, lh' où tà mivta Éyeveto, [tòv crapKo6évta Kaì] Évav9prom'Jcravta, [ tòv crtau­ pm9Évta Kaì tacjlÉvta Kaì] àva­ crtci vta [ É K ve��:p m v ] tl] tpi tlJ TJJ.lÉpa, Kaì àveA66vta eiç toùç o ù pavo 'll ç, Kaì K a 6 i cravta é K oe/;tcOV 'tOÙ 7t0tp6ç, KOÌ ÉpXO�e­ VOV ÉV 00/;� Kptvat çrovtaç KOÌ ve�EcrtV, lCOÌ [etç] VEKpcOV avci­ O''taOW, Kaì eiç çroi]v airovtov) . L'esattezza della versione della sezione centrale da parte di Cassiano è confermata dalla citazione in una Obtestatio, scritta da Eusebio di Dorileo,47 tra il 429-430 circa, contro Nestorio e conservata tra gli acta del concilio di Efeso.48 Si riferisce esplicitamente al «Credo della Chiesa di Antiochia ('toù J..La8iJJ..La'toç 'tftç ÉKKÀ1lcri.aç 'Avno­ xérov)», e ne dà il seguente breve estratto: ETERNA

. . . eeòv aÀ.T)8tvòv EK eeoiì aÀT)Bt­ v o iì , Ò jlOOUO"tOV 't� 7tO'tp t , lh' OU Kaì oi ai roveç Ka'tT)pt{cr8T)crav Kaì tà 7ta Vta eyé veto , tO V llt' Tt ll cl ç eÀ8ovta [al. KateÀ.8ovta] KaÌ yev­ VT)8évta éK Mapiaç tiìc; ayiaç 7tap8évou [al. tiìc; ayiaç tiìc; aet7tap8é­ VO'IJ l Kaì crtaupco8évta é1tì Ilovtiou ITtÀ.atou - Kaì ta eç� ç toiì crull­ �oÀOu.

[ . . ] Dio vero da Dio vero, consu­ stanziale al Padre, mediante il quale anche i secoli furono formati e tutte le cose vennero alla vita, che è venuto per noi [al. è sceso] e nacque da Maria la santa Vergine [al. la santa, la sempre-vergine], e fu crocifisso sotto Pon zio Pilato [. . . ] e il resto del Credo nell'ordine. .

D'altra parte, il testo come riprodotto da Cassiano e da Eusebio di Dorileo mostrava chiaramente sovrapposte a esso le frasi-chiave dell'ortodossia di Nicea - E NON CREATO, Dm VERO DA DIO VERO, CONSUSTANZIALE AL PADRE. Tuttavia, una volta tolte queste, la confessione di Cassiano ha un'aria sospet­ ta a questo riguardo. Nella parte cristologica notiamo come abbia silenziosamente alterato il greco DA MARIA LA SANTA VERGINE, testimoniato da Eusebio, a DA MARIA LA VERGINE, presumibilmente per portarlo in linea con l'uso romano. Un

47 Cosi secondo LEONZIO DI BISANZIO in Contra Nest. et Eutych. 3,43: PG 86,1389. 48 A CO t. l, vol. l, i, 102 (MANSI, 4, 1009 riporta un testo meno conforme a quello di Cassiano).

VI. Simboli di fede nell'occidente e nell'oriente

243

motivo analogo può avere ispirato la sostituzione di IO CREDO con il più usato NOI CREDIAMO, di NOSTRO SIGNORE GESÙ CRI­ STO, e IL TERZO GIORNO RISUSCITÒ invece di RISUSCITÒ IL TERZO GIORNO. Malgrado questi ritocchi, tuttavia, abbiamo tanti buoni motivi per ritenere che la formula soggiacente fosse, come il Credo di Gerusalemme al quale somiglia, un antico simbolo battesimale. Un altro Credo siriaco, usato anch'esso durante il battesi­ mo ma molto più lungo e più dettagliato, si trova nelle Costitu­ zioni apostoliche, nel racconto49 del rito dell'iniziazione. Il trat­ tato stesso fu redatto probabilmente in Siria o in Palestina verso la fine del IV secolo. COSTITUZIONI APOSTOLICHE Kaì n:to"teuro 1mì �an:ti ço!J.at ei ç eva ayÉVV�tOV IJ.OVOV a��8tvòv 8eòv, 1tavt01cpatopa, tòv 1tatépa tou X p t cr t o u , Kti crt�v K a ì O�J.ltOUpyòv toiv an:avtrov' é l; où tà n:avta. Kaì e i ç tòv K u p tov 'I�cro\ìv tòv Xptcrto v , tòv J.LOv oyeviì aùto\ì \JÌOV, tÒV !tpiDtOtOICOV 1ta�ç ICtt­ creroç, tòv 1tpò aioi vrov euooKiQ to\ì n:atpò ç yevv�Sé vta ou Ktt­ cr8évta, 8t' o'ÌÌ tà 1tavta éyéveto tà ÉV OU p avoÌ ç KaÌ É!tÌ yiì ç, ò p atci te 1caì d o pata, tòv én:' écrxatrov toiv �!J.epoiv Kate�Sovta él; OUpaVWV KaÌ crap1Ca Ùva��V­ t a , É K tij ç d y i a ç n: a p 8 é v o u Mapiaç yev�Sévta, Kaì n:o�tteu­ cra!J.evov òcriroç Katà toùç VOIJ.OUç tOÙ 8eo\ì ICOÌ n:atpÒç aUtOÙ, KaÌ crtaupco8Évta én:ì Tiovtiou TitM­ tou, Kaì àn:o8avovta un:Èp �11oiv, Kaì àvacrtavta ÉK veKprov !J.Età tò n:aSeìv t1j tpi tlJ �ILÉPQ, Kaì àve�8Òvta ei.ç tOÙç oupavoÙç KaÌ Ka8ecr8évta ÉV oel;t� toii !tatpÒç, KaÌ n:a�tv ÉPXÒ!LEVOV É!tÌ cruvte-

E credo, e sono battezzato, in un eter­ no, unico vero Dio, onnipotente, il Padre del Cristo, creatore e costrut­ tore di tutte le cose, dal quale sono tutte le cose; E nel Signore Gesù il Cristo, suo uni­ genito Figlio, il primogenito di tutta la creazione che nacque prima dei tempi, increato, in cielo e sulla terra, visibile e invisibile, che negli ultimi giorni scese dal cielo e assun­ se la carne, nato dalla santa vergine Maria, e visse in santa saggezza secondo le leggi di Dio suo Padre, e fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, e morì per noi, e risuscitò nuovamen­ te dai morti, dopo la sua passione, il terzo giorno, e ascese al cielo, e sedette alla destra del Padre, e verrà di nuovo alla fine dei tempi con gloria a giudicare i vivi e i morti, e il cui regno non avrà fine;

·49 Apost. const. 7,41 : ed. F.X. FuNK, l, 444ss.

244 1ei q 1ou at ro v o ç �e1à Bo ç�ç Kpivat çrov1aç Kaì. veKpoùç, où 'tftç Pam1eiaç o'ÙK ecr1m 1é1Gç. Bmt1i ço�at Kaì. eiç 1ò 1tveii�a 1Ò aytOV, 101l1Éacret 'tfìc; 'tou ÒJ.Looucri.ou 1tpocreftKTJc;) «produsse questo formulario» - al quale seguì poi il Credo di Nicea con i suoi anatemi. Eusebio chiude la sua lettera con un lungo passo in cui spiega come insistette nell'esaminare a fondo il Credo, e rifiutò assolutamente di apporre la sua firma finché non fosse stata data una spiegazione soddisfacente di ogni clausola sia del simbolo stesso che dell'anatema finale. Oltre a fornire preziose indicazioni riguardanti l'origine del Credo di Nicea, la lettera è di fondamentale autorevolezza per il suo testo. Oltre che nell'appendice al De decret. Nic. syn. , s. Atanasio citaf!luovamente il Credo nella sua lettera all'impe­ ratore Gioviano.27 Altri importanti testimoni dell'autenticità del testo sono lo storico Socrate28 e s. Basilio.29 Il Credo fu riprodotto, naturalmente, da molti altri autori greci nel secolo seguente il concilio, e vi furono numerose versioni latine.30 Un testo basato su queste fonti autorevoli è pubblicato qui sotto unitamente alla sua traduzione. La sua esattezza è provata da ciò che avvenne più di cento anni dopo al concilio di Calcedo­ nia (451). Nella seconda seduta, tenuta il lO ottobre, i vescovi riuniti fecero sl che il Credo di Nicea venisse letto davanti a loro. Secondo il resoconto molto esauriente conservato negli Atti del concilio, questo venne fatto da Eunomio, vescovo di

27 Ep. ad lov. imp. 3: PG 26,817. 28 Hist. ecci. l, 8,29: PG 67,68. 29 Ep. 125,2: PG 32,548. 30 G.L. DossETTI, Il simbolo di Nicea e di Costantinopoli, Roma ecc. 1967, riporta un'esauriente ricerca critica di tutte le testimonianze.

VII. Il Credo di Nicea

277

Nicomedia. E. Schwartz ritenne31 che la scelta di questo digni­ tario, metropolita di Bitinia (dove era situata Nicea), fosse det­ tata dal desiderio che il Credo venisse recitato nel suo testo autentico, originale. Pur essendo questo improbabile, egli dimostrò, come curatore degli Acta di Calcedonia, che il testo letto deve essere stato differente da quello pubblicato qui sotto solo in particolari di poco conto. NICEA IltO"teUOI!EV eiç eva 9eOV, 1tatÉpa, 1t0VtOKp!XtOpa, 1tclVtOlV ÒpatOOV tE KOÌ. OOpcttOlV 1t011]nlV. Kaì. eiç eva lCUplOV 'll]O"OUV Xpt­ O"tO V, tòv u i ò v toiì 9Eoiì y�>v­ V1]9Évta ÉJC toiì 7tatpòç �ovoyE�, tO\JtÉ O"ttV É IC tfì ç O U O"t aç tOU 7tatp 6ç, 9Eòv É JC 9Eoiì, $éòç ÉJC $rot6 ç, 9Eòv àA.1]9tvòv È JC 9Eoiì àA.1]9tvoiì , yEVV1]9Évta o'Ò 7tOtl]9évta, ÒIJ.OOUcrtOV t{p 7tatpÌ., lh' o'Ù tà 1tQVta È"(ÉVEtO, tci tE ÉV t{jì OUpavtp ICOÌ. tà ÈV tij "fiì, tÒV 01' i]�àç toùç àv9poin:ouç JCaÌ. otà ti]v 1Ì �Eté pav crrotl]piav JCatEA.96 vta JCaÌ. crapJCro9évta, èvav9prom'Jcrav­ ta, 1ta96 vta JCaÌ. avacrtcivta tfj tpit1J i]�pçt, aveA.96vta dç oupa­ vouç, ÈpXO IJ.EVOV !Cptvat çrovtaç JCaÌ. VEJCpoUç. Kaì. Eiç tò aytov 1tVEiì�a. Toùç Oè A.éyovtaç- �v 7tOtE otE o'ÒJC �v, JCaÌ. 7tpÌ. v "(EVV1]9fìvat o'ÒJC �v, JCaÌ. Ott è!; O'ÒK OV'tOlV E"(ÉVEtO, iì El; ÉtÉpaç tl1tOO"'tclO"EOlç Tt O'Òcriaç $ci crJCovtaç e{ va t, iì tpE7ttÒ v iì à A.A.otrotòv tòv u i ò v toiì 9Eo iì , àva9E�tati çn it JCa9oA.t IC TJ JCaÌ. axomoì..t!C'Ì) ÉJCJCA.l]cria.

Crediamo in un solo Dio, Padre onni­ potente, creatore di tutte le cose visibili e invisibili; E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, generato dal Padre, unigenito, della sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato e non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo del quale tutte le cose venne­ ro alla vita, le cose del cielo e le cose della terra, che per noi uomini e per la nostra salvezza discese e si incar­ nò, e divenne uomo, e patì e il terzo giorno risuscitò, ascese ai cieli, e verrà di nuovo a giudicare i vivi e i morti;

E nello Spirito Santo. Ma come per coloro che dicono: c'era quando non era, e prima di essere nai_Oj Egli non era, e che Egli venne allavita dal nulla, o che asseriscono che il Figlio di Dio è di una diversa ipostasi o sostanza, o è soggetto ad alterazione o a cambiamento - a questo la Chiesa cattolica e aposto­ lica lancia anatema.

31 ZNTW 25(1926), 51. Per una valutazione più esatta del testo esposto, cf. D oSSETTI, Il simbolo di Nicea, 77s. Il testo del simbolo appresso riportato è ' quello di Dossetti.

278

I simboli di fede della Chiesa antica

A questo punto lasciamo la lettera di Eusebio, e per rico­ struire il resto della storia dobbiamo rifarci ai ricordi fram­ mentari di altri autori. I vescovi furono invitati a dare il loro voto sul simbolo che veniva loro32 esposto. Ci fu evidentemen­ te grande perplessità,. molta acredine. Le laboriose spiegazioni dell'imperatore non bastarono a calmare i sospetti dei vescovi su ciò che sembrava loro un nuovo indirizzo dell'interpretazio­ ne teologica. Ad Aria e ai suoi amici fu concesso di scegliere tra sottoscrivere o essere mandati in esilio;33 scelsero quest'ul­ timo. Ma erano un piccolo gruppo. A parte l'eresiarca stesso, Secondo di Tolemaide e Teana di Marmarica rifiutarono di apporre le loro firme. Perfino Eusebio di Nicomedia e il prela­ to locale, Teognide di Nicea, erano pronti a conformarsi. L'idea che sottoscrivessero un testo in cui il termine ÒJ.1.ooumoç ( = «della stessa sostanza» ) era sostituito da ÒJ.1.0tOucnoç ( = «di sostanza simile» ) 34 è un'ingenua finzione inventata per salva­ guardare il loro onore. In effetti limitarono la loro opposizio­ ne al rifiuto di firmare la condanna ufficiale dello stesso Aria sostenendo che il suo insegnamento era stato grossolanamen­ te travisato nelle accuse formali. 3. CONFRONTO TRA N E CAES Il duplice problema che lo studioso di simboli di fede si trova ad affrontare riguarda l'identità e l'intenzione della breve formula ( tecnicamente nota come N) che era stata così canonizzata dal concilio ecumenico. Qual è . la storia di questo Credo che Costantino riuscì a fare accettare dai 318 vescovi, e quali sottili sfumature di significato si nascondono nelle sue dibattute clausole? La soluzione al primo di questi problemi, che è stato in discussione fino a poco tempo fa, e che compare ancora in molti testi di storia della Chiesa e in molti autorevo-

31 FILOSTORGIO, Hist. ecci. 1,9: BIDEZ, 1 0. 33 FILOSTORGIO, Hist. ecci. 1 ,9a: BIDEZ, 10. 34 FILOSTORGIO, Hist. ecci. 1,9: BIDEZ; lQs�

VII. Il Credo di Nicea

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li articoli di enciclopedie, è basata su una semplice, piuttosto unilaterale, lettura della lettera apologetica di Eusebio alla quale abbiamo fatto riferimento e che abbiamo riassunto pre­ cedentemente. N; si disse, non è altro che il Credo locale di Cesarea (designato qui come CAES) rivisto alla luce degli interventi dell'imperatore. Il comitato designato per effettuare la revisione inserì, come era stato consigliato a fare, la parola Òf.Looumoç ( = della stessa sostanza), e approfittò di questa opportunità, che gli si offriva, per fare nello stesso senso molti altri cambiamenti. Questa è l'opinione attentamente elaborata ed energicamente difesa dagli studiosi inglesi F.J.A. Hore5 e A.E. Burn,36 e che A. von Harnack37 sostenne per quasi tutto il corso della sua vita. Questi studiosi sapevano bene che le differenze tra CAES e N erano assai più numerose e importanti di quanto, a giudica­ re dalla lettura approvata della lettera di Eusebio, potessero sembrare garantite dall'incoraggiamento di Costantino. Ma avevano pronte spiegazioni ingegnose e ben elaborate. Così secondo Hort, le clausole PRIMOGENITO DI TUTIA LA CREAZIO­ NE (1tpffi'tO'tOKOV 7tclOTIÉvtaç pljj.ia'toç 'tOU Òj.iooucri.ou ) ». Poteva tanto più facilmente farlo in considerazione dell'imprecisione e dell'eva­ sività delle spiegazioni che Costantino aveva dato del termine. Ma il comitato, una volta afferrato un dito, si era preso un brac­ cio: questo almeno fu il giudizio di Eusebio sul suo comporta­ mento. Una cosa era inserire la sola parola in una formula che dava espressione al tipo di insegnamento professato da Euse­ bio nel suo Credo e nella spiegazione teologica a esso aggiun-

286

l simboli

di fede della Chiesa antica

ta. Una cosa del tutto diversa era compilare un Credo pesante­ mente carico di formule omousiane e tanto lontano dall'aprire il minimo spiraglio alla teologia delle tre ipostasi preferita da lui, che in realtà riteneva equivalenti hypostasis e ousia. Di conseguenza si sentl obbligato, come garantisce ai suoi fedeli di Cesarea, di passare con sottile vaglio critico attraverso la massa spinosa di clausole e di anatemi aggiunti, per convincer­ si che erano tutti suscettibili di un'interpretazione consona a ciò che lui e i suoi fedeli avrebbero considerato come solida teologia. Thtto questo è molto bello, potrebbe obiettare il lettore, ma sicuramente l'intero contenuto della lettera (quali che fossero i motivi per cui fu conservata da s. Atanasio e dagli altri) è che Eusebio esponeva il suo Credo come base della formula di fede che doveva essere redatta dal concilio. Certamente il motivo per cui fu accolto con approvazione da parte dei vesco­ vi e da Costantino stesso era che sembrava loro il Credo idea­ le da adottare. Quale altro può essere il significato delle paro­ le: «Il nostro amato imperatore stesso fu il primo a testimonia­ re che era molto ortodosso e che egli aveva esattamente le stesse opinioni. Informò gli altri affinché vi aderissero, sotto­ scrivessero le sue dottrine e avessero le stesse opinioni»? Anche se manca una dichiarazione esplicita a questo riguardo, è certamente facile leggere tra le righe e seguire il corso degli eventi. Potrebbe probabilmente sorgere qui una difficoltà riguardo alla situazione precedente il concilio. Grazie, tuttavia, alle informazioni trovate sul sinodo tenuto ad Antiochia alcuni mesi prima e a cui si è fatto riferimento nella parte iniziale di questo capitolo, non ci è più necessario ricorrere a una spiega­ zione improbabile del comportamento di Eusebio. Se i docu­ menti delle fonti siriache sono attendibili, sappiamo ora che un bando temporaneo di scomunica47 era stato lanciato su di lui a quel concilio, benché dovesse poi essergli stata data l'opportu-

47

Cf. SEEBERG, Die Synode von Antiochien, 151ss.

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287

nità di chiarire la sua posizione durante la successiva riunione ecumenica. Il comunicato diceva: «Noi, ministri membri del sinodo, abbiamo deciso di non fare comunione con questi ( cioè Teodoto, Narciso ed Eusebio ) , giudicando che non sono adatti alla comunione [ . . . ] ma abbiamo garantito loro il grande e sacro sinodo di Ancira come luogo di pentimento e per giun­ gere a conoscere la verità». Possiamo dunque ora apprezzare il vero significato del­ l'episodio che si ricorda in questa lettera. La scena su cui sol­ leva brevemente e con soddisfazione un velo, altro non è che la riabilitazione formale del vescovo di Cesarea e la sua riam­ missione alla comunione cattolica. Naturalmente Eusebio stes­ so non pensò che fosse necessario porre tanto in rilievo questo aspetto della cosa. Per quanto riguardava lui e il suo gregge, la sua condanna provvisoria fu dimenticata molto presto, e il suo scopo nello scrivere non era tanto di raccontarla quanto di spiegare ai suoi ansiosi corrispondenti come era giunto a sot­ toscrivere una formula così manifestamente diversa dal suo ben noto insegnamento. Era importante per lui ricordare che quell'insegnamento aveva avuto il formale e spontaneo rico­ noscimento del concilio. Ma che poi la sua ortodossia sia stata difesa e il temporaneo bando dei padri di Antiochia rimosso, è un fatto del quale non possiamo dubitare. Alla luce di questi fatti possiamo capire il perché della sua ripetuta affermazione, nel documento letto ai vescovi riuniti, che questa fede ortodos­ sa era quella che gli era stata insegnata fin dalla sua giovinez­ za e che avrebbe insegnato fino alla morte. Possiamo anche intuire il vero significato che sta sotto le parole: «Quando fu fatta questa dichiarazione di fede, non c'era motivo per con­ traddirla. Il nostro stesso imperatore divinamente ispirato fu il primo a testimoniare che era completamente ortodossa». In altri termini, lo stesso Costantino di sua bocca attestò la solidi­ tà delle sue opinioni teologiche. Fu il piano dell'imperatore a garantire al concilio un'area di consenso la più vasta possibile, e non c'era nessun vantaggio a escludere una guida tanto rap­ presentativa come Eusebio. D'altra parte, non c'è niente nelle sue osservazioni succes­ sive, che si possono leggere in questa composizione, che sugge-

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I simboli di fede della Chiesa antica

risca che Costantino abbia proposto seriamente che il testo di Cesarea costituisse la base del Credo del concilio. Dovrebbe essere evidente, se la ricostruzione dei fatti che abbiamo trac­ ciato è plausibile, che il formulario di Cesarea avrebbe avuto ben poche possibilità di essere scelto per diventare, con l'ag­ giunta di alcune clausole di salvaguardia, la nuova formula ecumenica. Benché fosse antico e ortodosso, le circostanze della sua esposizione davanti all'assemblea non erano molto propizie perché venisse prescelto a simile onore. In ogni caso, ciò che l'imperatore aveva approvato era l'insegnamento di Eusebio, e non il suo Credo in quanto tale, e questo viene alla luce nella dichiarazione in cui consigliò ai vescovi di sottoscri­ vere la stessa dottrina ('to'iç 86yjlc:xcrt ... -rou-rotç c:xu-ro'iç). Sem­ bra probabile che nell'usare queste parole non pensasse come all'ultimo atto per formulare un Credo conciliare, ma cercasse solo di incitare l'assemblea ad accettare l'ortodossia di Euse­ bio. Ma se stava guardando oltre, al momento della redazione delle definizioni, il suo significato potrebbe essere parafrasato fino a equivalere: «Io personalmente accetto la posizione teo­ logica che ha esposto, e consiglierei che l'accettassimo tutti; ma, per maggior sicurezza, includiamoci la parola homoousios e l'idea che essa difende». Dobbiamo ora ricapitolare la nostra materia, anche se com­ porta varie ripetizioni. Non è più possibile ritenere che la pro­ duzione da parte di Eusebio del suo Credo avesse in primo luogo a che fare con la formulazione da parte del concilio della propria fede. La ricostruzione48 un tempo popolare della scena, secondo la quale gli ariani presentarono dapprima la loro for­ mula come basilare, solo per vederla respinta con indignazio­ ne, e poi il venerabile vescovo di Cesarea venne fuori con la confessione battesimale della sua Chiesa in mezzo all'applau­ so generale, deve essere scartata. Il suo vero obiettivo nel pro­ porre un Credo, così sembra, era di liberarsi dalla taccia di ere­ sia e ottenere in tal modo la propria riabilitazione teologica. Se

48

Cf. BURN, Introduction to the Creeds, 77.

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289

è così, l'episodio deve essere avvenuto in un periodo preceden­ te lo svolgimento del concilio, mentre la formulazione del Credo fu fatta probabilmente molto più tardi. Non solo avven­ ne così, ma la lettera di Eusebio, se letta correttamente, non suggerisce in alcun modo ( contrariamente a quanto si pensa di solito ) che egli abbia mai dichiarato che il testo di Cesarea in quanto tale sia stato scelto come base su cui costruire il formu­ lario ufficiale, e ancor meno che si sia mai lamentato che il comitato di redazione del Credo non abbia adottato il suo come base. La sua delusione è ovvia, ma la sua causa non fu l'arrogante interferenza o la mancanza di riguardo del comita­ to contro il suo Credo di Cesarea. Le differenze verbali tra CAES e N erano evidenti a chiunque avesse fatto attenzione, ma egli chiaramente non vi era interessato. Il vero motivo della sua delusione fu il contenuto teologico del nuovo Credo, come dimostrò mettendosi a esaminare accu­ ratamente e minuziosamente ogni clausola di natura teologica nella formula stessa e nei suoi anatemi. La ragione profonda del suo rammarico era che, mentre l'imperatore aveva coman­ dato l'insegnamento tradizionale del quale la dichiarazione prodotta da lui stesso aveva fornito un esempio, e aveva sem­ plicemente esortato a dargli la massim ru precisione, incorpo­ randovi la parola homoousios, il comitato aveva esagerato nelle sue pretese e ne aveva del tutto distorto l'insegnamento. Essi avevano introdotto non tanto un nuovo Credo quanto ciò che sembrava pericolosamente simile a una nuova teologia, che Eusebio poté accettare solo ( questo egli assicurò ai suoi fedeli ) dopo avere esaminato ogni suo articolo. Soltanto una lettura errata delle sue parole e la scomparsa dei verbali del sinodo di Antiochia hanno portato gli studiosi a considerare la sua relazione come prova di un diretto rapporto tra CAES e N. Correttamente interpretate, come abbiamo visto, esse non offrono alcun supporto a una simile conclusione. Dunque, non risulta neanche minimamente verosimile l'idea che egli fosse interessato ai problemi che di solito preoccupano la ricerca moderna sui simboli di fede.

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I simboli di fede della Chiesa antica

5. LA BASE DI N Se si rifiuta la teoria comunemente accettata del rapporto fra CAES e N, il problema del contesto culturale a monte di N deve essere nuovamente affrontato. L'approccio più evidente è quello di indagare circa il Credo di base che traspare, come abbiamo visto, quando vengono tolte le aggiunte proprie di Nicea. È importante mettere l'accento sul fatto che ciò che rimane non è un testo mutilo, ma un formulario completo e indipendente sotto ogni profilo. Le correzioni di Nicea, secondo la nostra nuova ipotesi, si possono limitare a) alla clausola CIOÈ DALLA SOSTANZA DEL PADRE, e b) al passo più lungo DIO VERO DA DIO VERO, GENERATO E NON CREATO, CON­ SUSTANZIALE AL PADRE. Non c'è bisogno ora di supporre che VERBO un tempo si trovasse dove i padri di Nicea scrissero FIGLIO, O che VITA DA VITA e PRIMA DI TUTTI I TEMPI siano stati per qualche motivo tolti, o che altre modifiche siano state introdotte per sottili motivi come quelli suggeriti da Hort e von Harnack. Tanto tempo fa si osservò che N era straordina­ riamente simile in alcuni punti alle formule di fede di tipo siro-palestinese. H. Lietzmann seguì questa indicazione,49 e affermò che il Credo soggiacente a N, in cui erano state inse­ rite le tipiche espressioni di Nicea, doveva essere un Credo appartenente a quelli del gruppo di Gerusalemme. I Credo più affini sono il primo dei due citati da s. Epifanio50 e quello usato da s. Cirillo di Gerusalemme nelle sue Catechesi. 51 Il vero Credo che venne usato dal comitato di redazione, secon­ do Lietzmann, non è sopravvissuto, ed è ora impossibile pen­ sare a quale Chiesa appartenesse. Si tratta di un'ipotesi attraente, che resiste alle critiche anche se, com'è probabile, dovremmo concludere che il testo attuale del primo Credo di s. Epifanio è stato inserito arbitra­ riamente nei manoscritti per trascuratezza o per zelo mal

•• ZNTW 24(1925), 203. '" Cf. Ancoratus 118: HOLL, I, 146. 51 Cf. sopra, p. 240.

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diretto di scrivani posteriori. 52 I tratti palestinesi di N sono ine­ quivocabili, e chiunque si prenda la briga di confrontarlo con i Credo siriaci e palestinesi può rendersene conto. È anche pos­ sibile a questo riguardo trovare delle analogie che N potrebbe avere con CAES, perché anche questo è presumibilmente un Credo . dello stesso gruppo siro-palestinese. N e CAES sono dunque in rapporto, non però come discendenti da una stessa origine, ma come due abitanti di una sola e identica regione ecclesiastica. Non è in se stesso improbabile che il comitato abbia fatto ricorso come bozza operativa a un formulario pale­ stinese. L'ipotesi alternativa, che non abbiano usato come bozza operativa nessun Credo esistente, ma abbiano improvvi­ sato il loro formulario de novo, non è molto attendibile. La procedura sembra in se stessa improbabile, e il Credo che rimane, una volta rimossi i passi chiaramente niceni, ha tutta l'aria di essere un formulario indipendente. Thttavia von Harnack, benché persuaso verso la fine della sua vita dell'insostenibilità della teoria fino allora tradizionale, che aveva un tempo sostenuta, del rapporto di CAES con N, trovò la proposta alternativa di Lietzmann troppo difficile da digerire. Le sue obiezioni53 furono, dapprima, che l'esistenza del Credo palestinese perduto era tutta una chimera; in secon­ do luogo, che la ricostruzione ipotizzata dello svolgimento dei fatti si accorda male con il racconto di Eusebio; e, in terzo luogo, che tale ricostruzione non tiene conto delle caratteristi­ che stilistiche di N. Eusebio può aver sbagliato, volontariamen­ te o inconsciamente, nel postulare che CAES era stato conside­ rato dall'imperatore come l'unica fonte del nuovo formulario conciliare, ma la sua affermazione implica il fatto che ci fosse un rapporto tra CAEs e N. Di conseguenza affermò che, una volta che il concilio era d'accordo sulla necessità di promulga­ re un nuovo Credo che includesse espressioni omoousiane, un certo numero di vescovi dei partiti ortodossi e moderati, tra i

" Cf. sotto, p. 396. " ZNTW 24(1925), 203. Le sue note sono aggiunte come un «kritischer Epilog>> al n. 13 dei Symbolstudien di Lietzmann.

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I simboli di fede della Chiesa antica

quali Eusebio, probabilmente espose il proprio Credo. Quello ufficiale o quelli ufficiali scelti per la composizione della bozza del nuovo simbolo non avevano, dunque, altro compito che di mettere insieme un documento composito che riflettesse la varietà delle tradizioni ecclesiastiche; e poiché venivano pro­ babilmente proposti in aggiunta a suggerimenti dell'ultimo momento, c'è ben poco da meravigliarsi se la formula fu poi redatta in modo maldestro. Il risultato fu che Eusebio, e con lui molti altri vescovi, affermarono non senza ragione che i loro Credo erano stati scelti a svolgere un ruolo nella formazione del formulario di Nicea. Questa soluzione di compromesso ha avuto successo in alcuni ambienti,54 ma si presta a seria critica. Se l'interpretazio­ ne della lettera di Eusebio sviluppata nella parte precedente è corretta, non c'è motivo di supporre che egli abbia mai dichia­ rato che c'era un rapporto tra CAES e N. Così la chiave di volta dell'architrave di von Harnack crolla. A parte questo, tuttavia, non è vero che l'esistenza della formula soggiacente sia una conclusione puramente arbitraria. Come è stato posto in rilie­ vo, il frasario tecnico di Nicea in sé risulta evidente a tutti. Se viene staccato dal corpo del Credo al quale aderisce così stret­ tamente, rimane un formulario completo e indipendente, sotto tutti gli aspetti. È difficile trovare il modo di spiegare ciò sulla base della ricostruzione degli eventi proposta da von Harnack. Inoltre, se il redattore o i redattori stavano componendo un Credo del tutto nuovo con elementi ai quali avevano contri­ buito una grande quantità di fonti, rimane un mistero, a dispet­ to di von Harnack, perché non abbiano svolto meglio la loro opera. Ci si aspetterebbe che ne risultasse un formulario omo­ geneo. Invece, come si è visto, abbiamo un Credo completo del tipo comune orientale con l'aggiunta di clausole antiariane, forse quasi come un ripensamento tardivo. Queste aggiunte sono state inserite con una goffaggine e assenza di continuità stilistica difficilmente conciliabili con la supposizione avanzata

54

F.J. BADCOCK (2" ed.) e D.L. HOLLAND (Z. jùr KG, 180).

VII. Il Credo di Nicea

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da von Harnack di una formula nuova, costruita sin dalle fon­ damenta dal comitato di redazione. Se, d'altronde, si contro­ batte che la grande varietà di affermazioni in competizione rendeva il compito dei redattori difficile e portava inevitabil­ mente a un lavoro sgraziato, bisogna anche chiedersi perché questa goffaggine si sia manifestata solo mei -riguardi di passi antiariani. Il resto del Credo, una volta escluse queste clauso­ le, scorre abbastanza sciolto. Le obiezioni di von Harnack sono destinate così a cadere. Non c'è bisogno di esaminarle ulteriormente, o di chiedersi quali prove avesse di questa teoria secondo cui i vescovi di sedi diverse avrebbero prodotto dei Credo per un comitato di reda­ zione in difficoltà. La sua ricostruzione di ciò che accadde ha chiaramente il carattere di una congettura. Ci rimane la magra conclusione che N consiste di alcuni Credo battesimali locali, di provenienza siro-palestinese, e le parole chiave di Nicea vi furono inserite in modo un po' goffo. Andare oltre a ciò e ten­ tare di identificare la formula soggiacente sarebbe stato un esercizio poco vantaggioso. Il comitato di redazione aveva pro­ babilmente una certa libertà di azione, subordinata al fatto che i suoi lavori risultassero soddisfacenti ai membri del concilio, e non abbiamo modo di congetturare su quali linee si mosse. C'è una tradizione, ricordata molti anni dopo da s. Basilid5 e in se stessa ineccepibile, che l'animatore primo responsabile della forma redazionale vera e propria del Credo sia stato un prete di Cappadocia chiamato Ermo gene, deciso oppositore di Ari o, che era destinato a diventare vescovo di Cesarea di Cappado­ cia. Anche se pensiamo che ciò sia attendibile, deve rimanere però un problema aperto se la sua opera si limitò solo a pro­ porre le clausole specificamente antiariane, o se abbia propo­ sto anche la formula locale in cui esse furono inserite. In ogni caso, possiamo supporre che sia lui che i suoi colleghi fossero molto più interessati a chiudere fermamente la porta in faccia all'arianesimo piuttosto che preoccuparsi delle rivendicazioni concorrenti dei vari testi di Cred� '' Cf. Epp. 81; 244,9; 263,3: PG 32,457; 924; 977.

Capitolo VIII

Il significato e l'uso del Credo di Nicea

l.

LA TEOLOGIA ARIANA

Nel capitolo precedente eravamo così assorti nel problema letterario del Credo di Nicea che abbiamo dovuto lasciare da parte altri importanti problemi, in pratica senza sfiorarli. In particolare, il significato teologico del Credo e le motivazioni, dottrinali o altre, sottese alla caratteristica terminologia in cui è espresso, meritano di essere trattati in modo più ampio di quanto sia stato allora possibile. Tenteremo dunque in questo capitolo di dare una spiegazione delle sue clausole più impor­ tanti in modo tale da trame la linea dogmatica. Questo ci aiu­ terà anche a chiarire alcuni malintesi comuni e molto diffusi, dedicando un po' di attenzione all'uso della formula fatto nei decenni che seguirono il concilio ecumenico. Poiché lo scopo principale di coloro che formarono il Credo fu di arrestare, una volta per tutte, l'eresia ariana, il nostro esame dovrà essere preceduto da un breve esposto sulle posizioni principali degli eretici. Il lettore che desidera informazioni dettagliate e auto­ revoli dovrebbe ricorrere alle storie complete del dogma o, meglio ancora, ai documenti fondamentali riguardanti la con­ troversia, come i frammenti che ci sono rimasti degli scritti dello stesso Ario.1 L'abbozzo, che è tutto quel che possiamo

1 La collezione più completa di questi, come pure dei frammenti di Aste­ rio il Sofista, si può ritrovare in Recherches sur saint Lucien d'Antioche di G. BARDY, Paris 1936, 266ss. Per i documenti in generale, cf. OPITZ, Urk.

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I simboli di fede della Chiesa antica

dare in questa sede, si limiterà a evidenziare i punti che hanno un peso sul Credo. L'insorgere della controversia ariana deve essere situato probabilmente intorno al 318/ allorché Ario come prete diri­ geva la chiesa di Baucali. Le linee generali del suo sistema, che è un modello di logica a incastro, sono del tutto chiare. La sua chiave di volta era la convinzione dell'assoluta trascen­ denza e perfezione della Divinità. Dio (e aveva in mente Dio Padre) era assolutamente unico: all'infuori di lui non poteva esserci altro Dio nel senso proprio del termine. La professio­ ne di fede attentamente redatta3 che Ario spedì al vescovo Alessandro di Nicomedia,4 che fu sempre riconosciuto come autorità classica per il suo insegnamento, si apriva con le parole enfatiche: «Conosciamo un solo Dio, il quale è l'unico non generato, l'unico e solo eterno, il solo che non ha inizio, il solo vero, il solo che possiede l'immortalità, solo saggio, solo buono, solo che dà la legge, solo giudice di tutte le cose, ecc. ». Questo Dio non era generato, e non era creato, dal­ l'eternità per l'eternità; egli stesso non aveva un'origine, era la fonte e l'origine di tutte le cose esistenti. L'essere, la sostanza, l'essenza ( oùcria, -rò elvat) dell'unico Dio era asso­ lutamente incomunicabile. Perché per Dio comunicare la sua essenza o la sua sostanza a un altro essere avrebbe implicato che era divisibile e soggetto a mutamento. Inoltre, se un'altro essere doveva condividere la natura divina in senso vero e proprio, ci sarebbe stata una pluralità di esseri divini, mentre Dio era per definizione unico. Cosicché ogni cosa esistente fuori di lui deve essere venuta alla vita per mezzo di un atto di creazione da parte sua, e deve essere stata chiamata alla vita dal nulla.

2 Questa data tradizionale, invece dell'autunno del 323 come proposto da E. ScHWARTZ (Nachricht. Gott. , 1905, 297), è stata ritenuta ancora come la più provata (cf. H.G. 0Prrz, in ZNTW 33[1934] , 131ss; N.H. BAYNES, in JTS 49[19481 , 165-168). ' Ci. s. ATANASIO, De syn. 16: PG 26,708s; OPITZ, Urk. 6,2. • W. TELFER aveva reso dubbio il passaggio di Aria da Nicodemia (JTS 37[1936], 60ss).

VIII. Il significato e l'uso del Credo di Nicea

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Insopprimibile corollario di ciò era la drastica subordina­ zione del Figlio o Verbo. Dio desiderò creare il mondo, e per questo usò un agente o uno strumento. Questo fu necessario perché, come chiariva uno degli esponenti della teologia aria­ na, Asteria il Sofista,S l'ordine creato non poteva sopportare il peso dell'azione diretta dell'increato e dell'eterno Dio. Per cui Dio fece esistere il suo Verbo. Ma, prima di tutto, il Verbo era una creatura, un K'ticr�a oppure 1toi:ruw, come gli ariani ripete­ vano sempre, che il Padre aveva fatto esistere con il suo fiat. È vero, egli era una creatura perfetta, e non poteva essere para­ gonato con le altre, ma anch'egli doveva essere annoverato tra altri esseri derivati e dipendenti, e su questo non avevano dubbi. Era «il primogenito di tutta la creazione», e il significa­ to del testo paolina veniva interpretato come se fosse stato incluso nella creazione. E come tutte le altre creature era stato creato dal nulla (è!; oùK ov'trov).6 L'idea che partecipasse del­ l'essenza di Dio, insinuata furbescamente da Ario, aveva il sapore della concezione manichea del Salvatore come porzio­ ne consustanziale della divina luce. In secondo luogo, in quanto creatura il Verbo deve avere avuto un inizio, poiché solo il Padre non aveva principio (&vapxoc;). «Egli venne a vivere prima dei tempi e delle epo­ che», disse Ario nella sua lettera a Eusebio di Nicomedia:7 naturalmente, perché era il creatore dei «tempi e delle età» proprio come lo era di tutto il resto dell'ordine contingente, e così era «generato al di fuori del tempo» ( àxp6vroc; yEv­ Vll 9ctc;)». Ma, continuava Ario, «prima che fosse creato o gene­ rato o definito o stabilito, non era». Essendo stato creato da Dio, era necessariamente posteriore a Dio. Donde il comune e ripetutamente usato slogan ariano: «C'era un tempo in cui non era (�v 1tO'tE O'tE oÙK �v)». Donde, anche le loro esasperate

' Cf. s. ATANASIO, Or. contra Ar. 2,24; cf. anche De decret. Nic. syn. 8: PG 26,200; 25,437. • NAUTIN (Analecta Boli. 67[1949] , 131ss) dichiarò che Ario non aveva insegnato che il Figlio era «dal nulla». Per una critica della sua posizione cf. M. SIMONETTI, Studi sull'arianesimo, Roma 1965, c. 2. 7 I n s. EPIFANIO, Pan. haer. 69,6: HOLL, III, 157; 0PITZ, Urk. l.

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I simboli di fede della Chiesa antica

proteste contro l'affermazione contraria ortodossa: «Dio dal­ l'eternità, il Figlio dall'eternità; il Padre e il Figlio insieme sem­ pre ( ÒEÌ 9E6ç, ÒEÌ ui6ç· OJ.!a 7ta'tflp, OJ.!a ui6ç)»,8 e il loro rifiuto dell'idea che il Figlio potesse coesistere eternamente col Padre. In terzo luogo, da tutto ciò derivava il fatto che il Figlio non poteva avere una diretta conoscenza del Padre. Essendo egli stesso finito, non poteva comprendere l'infinità di Dio: e dun­ que non aveva una piena comprensione del suo proprio esse­ re. «Il Padre», notava Ario in un passo citato9 da s. Atanasio, «rimane ineffabile per il Figlio, e il Verbo non può né vedere né conoscere suo Padre perfettamente o completamente [ . . . ] ma ciò che conosce e vede, lo conosce e vede nello stesso modo e nella stessa misura come noi conosciamo con le nostre facol­ tà». Su questo punto si insisteva in molte occasioni.10 In quarto luogo il Figlio era moralmente labile e passibile di peccato ('tpE7t'tÒç KaÌ ÒÀ.À.otco't6ç). Ario stesso nei suoi scrit­ ti più formali11 sembra aver dichiarato che il Verbo rimaneva immutabile e moralmente senza peccato, ma più di una volta lasciò intendere che raggiungeva, per la risoluta azione della sua volontà, la sua perfezione morale.12 Si potrebbe anche chie­ dere in che senso il Verbo era Figlio di Dio, se vi era netta frat­ tura tra lui e Dio ed egli era subordinato a lui in tutti questi modi. Ario e i suoi amici continuarono a usare le parole �gene­ rato», «Figlio», ecc. . . . Sfruttavano inoltre le idee che insinua­ vano la necessaria priorità del Padre rispetto al Figlio, e appro­ fittavano pienamente13 della generale confusione fra i termini «generato ('YEVVTJ't6ç)», con cui si affermava concordemente

:

Cf. la lett �ra a Eusebio appena citata. . 12: PG 25,565. Ep. ad epzsc. Aeg. et Lzb. 1° Cf. s. ATANASIO, Or. contra A r. 1,6; De syn. 15; s. Alessandro in SOCRA­ TE, Hist. ecci. 1,6: PG 26,24; 708; 67,48. " Cf. la sua lettera a s. Alessandro (in s. ATANASIO, De syn. 16: PG 26,708s; OPITZ, Urk. 6). 12 Cf. s. ATANASIO, Or. contra Ar. 1,5: PG 26,21 . 13 Cf. la sua lettera a Eusebio di Nicomedia (in s. EPIFANIO, Pan. haer. 69,6; HOLL, III, 157): ò ui.òç OlJIC ecmv ayÉVVlltOç ouBè �poç ayevvittou lCat' ou­ Mva tp67tov. Cf. OPITZ, Urk. I.

VIII. Il significato e l'uso del Credo di Nicea

299

l'esistenza del Figlio, e «contingente (yevrrr6 ç)» con cui l'orto­ dossia negava che il Figlio fosse diventato tale. Ma essi non volevano trarre la conclusione di tipo ortodosso, che cioè, se era realmente Figlio, il Verbo doveva condividere in pieno la natura del Padre. In pratica non davano al termine che un significato metafo­ rico. Il Verbo, agli occhi di Ario, non era l'autentico Figlio del Padre ma il suo Figlio adottivo: «È chiamato Figlio o Potenza per grazia».14 Era stato innalzato a quella posizione perché il Padre aveva previsto la vita meritoria e perfetta che, con le sue libere azioni o volontà, avrebbe condotto. Il risultato utile fu che la Trinità, o la divina Triade, era descritta, in un linguaggio speciosamente origenistico, come consistente di tre persone (tpeìç ùnomacret.ç).15 Ma le tre persone erano tre esseri total­ mente distinti, e non condividevano in alcun modo la stessa sostanza o la stessa essenza l'una con l'altra. Solo il Padre era «vero Dio», e questo titolo veniva attribuito alle altre due in un senso del tutto figurato. 2.

LA RISPOSTA DEL CREDO DI NICEA

In questo modo si configurava la posizione teologica aria­ na. Tenendo presenti i suoi principali e vari aspetti, possiamo cominciare a riconoscere pienamente l'importanza delle clau­ sole particolari del Credo di Nicea, almeno nella misura in cui tentarono di respingere l'arianesimo. Possiamo tralasciare l'UNIGENITO (llovoyevfJ), benché molto inchiostro sia stato ver­ sato per discuterne,16 perché fu accettato da ogni gruppo durante la controversia ariana e non vi si lesse un particolare significato dogmatico. Guardiamo, allora, e rivolgiamoci alla prima delle inserzioni antiariane, la clausola CIOÈ DALLA

" In s. ATANASIO, Or. contra A r. 1,9: PG 26,29. Cf. cilme 1:peiç etmv \momacretç nella lettera di Ario a s. Alessandro (in s. ATANASIO, De syn. 16: PG 26,709; 0PITZ, Urk. 6). 16 Per es., da parte di F.J.A. HORT nelle Two Dissertations, Cambridge e London 1876, parte I. 15

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I simboli di fede della Chiesa antica

SOSTANZA DEL PADRE (tou-técrnv È:JC 'tfìu­ creroç ecrn, YEVTl'tÒç lWÌ 'tpe7t'tÒç Ù1tapxrov)». Nel suo Thalia lo stesso Ario aveva detto:41 «Egli non è incapace di cambiamen­ to (1'i'tpe1t'toç) , come il Padre, ma è per sua natura mutevole, come le creature». Se è rimasto senza peccato, è per il tenace sforzo della sua volontà. Un altro frammento42 di Thalia pone­ va la cosa con maggiore chiarezza: «Per natura il Verbo stesso, come tutti gli altri, è capace di mutamento, ma rimane buono (1wì..òç) per un suo atto di volontà ('tep iotcp atl'tel;ouoicp), per tutto il tempo che vuole esserlo. Ma quando vuole, può cambia­ re, esattamente come possiamo farlo noi, poiché è di natura mutevole». 3. L'HOMOOUSION Ciò che abbiamo detto finora dovrebbe aver messo in chia­ ra luce il carattere del Credo di Nicea. Il lettore dovrebbe forse essere avvertito che la nostra interpretazione di alcune sue clausole è stata quella «ortodossa», basata sulla spiegazione data da s. Atanasio nei suoi scritti p iù tardivi come il De decre­ tis Nicaenae synodi (350-354). Tuttavia, è molto difficile negare che questi ultimi contenessero molto più che un ripudio, punto per punto, delle principali controversie ariane. Non soddisfat­ to di distruggere le posizioni degli eretici, affermò la piena divinità del Figlio con un linguaggio che implicava, se non pro­ prio asseriva esplicitamente, la dottrina dell'identità della sostanza tra lui e il Padre. Il principale veicolo di questo era il termine homoousios destinato di conseguenza a essere per sempre associato al concilio. È chiaro, tuttavia, che si trattava 40 In SOCRATE, Hist. ecci. 1,6: PG 67,48; OPITZ, Urk. 4b. 41 In s. ATANASIO, Or. contra Ar. 1,9: PG 26,29. 42 In s. ATANASIO, Or. contra Ar. 1,5: PG 26,21.

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di un termine strano, nuovo, col quale non molti uomini di Chiesa si sentivano perfettamente a loro agio. Eusebio di Cesarea nella lettera ai suoi fedeli non nascose la costernazione in cui erano caduti i teologi della sua scuola quando esso fu proposto. Anche dopo le attente spiegazioni for­ nite dall'imperatore e da altri, i suoi sospetti non scomparvero completamente, e l'interpretazione43 da lui personalmente adot­ tata, che implicava come il Figlio fosse «dal Padre» e «simile al Padre sotto tutti gli aspetti», era ben lontana da ciò che abbia­ mo ritenuto fosse l'insegnamento di Nicea. S. Atanasio stesso per molti anni mostrò una considerevole riluttanza a usarlo, preferendo «uguale nella sostanza ( O!!OtOç Ka't· oùoi.av )» e lo accettò totalmente con convinzione e di cuore dopo il suo lungo esilio in occidente. Siamo dunque giustificati se dedichiamo una parte speciale a una ricerca (piuttosto superficiale, c'è da temer­ lo) su quanto sottintendeva e sui motivi per i quali fu scelto dai compilatori del Credo ecumenico. Homoousios è, naturalmente, un aggettivo connesso a ousia, o «sostanza», come suo elemento principale. Ben poche parole in greco erano suscettibili di tante e così confuse varia­ zioni di significato come ousia. Il suo significato fondamenta­ le si può definire immediatamente come «essere», «essenza)), «realtà)), ma questi sinonimi si limitano a mettere in evidenza la causa dell'ambiguità. Il significato preciso dato a ousia variava secondo il contesto filosofico in cui allignava e secon­ do la coerenza filosofica dell'autore. Facciamo l'esempio sol­ tanto di tre dei possibili significati che occorreva distinguere. Talvolta il termine era generico: stava per l'universale, la clas­ se alla quale apparteneva un certo numero di individui. Que­ sto era ciò che Aristotele aveva chiamato oEutépa oùcria, o «sostanza seconda)), Talvolta, tuttavia, il significato principale era «singolo)). Un'ousia era un'entità particolare considerata come il soggetto di qualità: ciò che Aristotele intendeva nel dire 1tPolt1l oùcria, o «Sostanza prima)), Così s. Atenagora sta-

43 Cf. la sua lettera in PG 20,1535ss e OPITZ, Urk. 22.

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bilì44 che Talete aveva definito i demoni come «Ousiai psichi­ che». Ma, in terzo luogo, a gente incline a un tipo di pensiero stoico (e l'impatto dello stoicismo sulla mentalità del mondo antico fu potente) ousia potrebbe suggerire solo materia, sostanza, né più né meno. Thtti questi svariati significati, con sfumature più sottili che non sto qui a enumerare, ricompaio­ no nell'uso teologico della parola. Di grande importanza, per esempio, per tutto il periodo patristico era il suo uso con il significato di sostanza individuale, la 1tp� oùo1a di Aristote­ le. Per quanto raramente, se non addirittura mai, rigorosa­ mente identica a esso, ousia era considerata molto frequente­ mente, a tutti gli effetti pratici, come l'equivalente di hyposta­ sis, cioè «oggetto» o «persona», nella discussione sulla Trinità. Così, secondo Marcello di Ancira,45 Narciso disse a Ossio che, sulla base della sacra Scrittura, era costretto ad asserire che c'erano tre ousiai nella divinità; e s. Basilio46 stesso trovò possibile parlare della Trinità come tre ousiai. Nello stesso tempo l'accento posto su ousia, anche quando usato in questo senso, era sempre più sulle caratteristiche o relazioni interne che sulla realtà metafisica. Quando, tuttavia, quest'ultimo aspetto risultò evidente, il significato della parola era molto diverso. Allora si riferiva all'essere della divinità, o di una delle persone divine, dal punto di vista del suo contenuto, della sua sostanza, della sua essenza. Poiché poteva vantare tutti questi significati, non dobbiamo essere sorpresi se scopriamo che homoousios rifletteva anch'esso una corrispondente moltepli­ cità di possibili interpretazioni. Il termine aveva evidentemente un certo impiego corrente nei circoli filosofici. Il neoplatonico Porfirio, per esempio, parlò47 delle anime di animali come homoousioi con le nostre; mentre Plotino usava48 lo stesso aggettivo per descrivere l'affinità tra l'anima disincarnata e la natura divina. Qui il senso è generico:

44 Leg. pro Christ. 23,2: PG 6,941. 4' In EUSEBIO, Contra Marce/lum 1,4,25: KLOSTERMANN, 26. 46 Horn. (23) in Mam. 4: PG 31 ,597. 47 De abstin. 1,19: NAUCK, 99. 48 Enn. 4,7,10: BRÉHIER 4, 206.

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gli esseri paragonati appartengono alla stessa classe, e l'esserne membri risulta dall'analogia di natura. Homoousios comparve per la prima volta tra gli scrittori cristiani nei circoli gnostici, dove riscosse evidentemente una certa popolarità. Quando Ter­ tulliano lo tradusse, ricorse a consubstantialis o consubstanti­ vus. 49 Tipica è l'osservazione di Tolomeo50 nella sua lettera a Flora, che era nella natura di Dio produrre oggetti «simili a lui stesso e homoousia con lui stesso». Così, anche la dottrina dei valentiniani, com'è riportata da s. Ireneo,51 affermava che la parte spirituale del mondo era homoousion con Achamoth, che aveva origine e consisteva di una simile ousia, mentre l'uomo materiale ('tÒV uA.t.Kov ) era fatto a immagine di Dio ed era quasi uguale, ma non homoousios con lui;52 Eracleone invece pensava che un certo numero di anime fossero consustanziali con il dia­ volo. Qui ancora il significato dominante è quello generico. Le molte entità riunite appartengono a un'unica famiglia o a una classe perché condividono lo stesso tipo di sostanza. Sem­ bra che Origene avesse in mente questo significato quando usò il termine, come fece almeno una volta, parlando dei rapporti tra le persone della Trinità. Dichiarò53 che c'era una comunione di sostanza ( communio substantiae ) tra Padre e Figlio, perché un'emanazione è homoousios, cioè come della stessa sostanza, con il corpo del quale è emanazione o emissione. Probabilmen­ te ciò che stava affermando era non che il Padre e il Figlio fos­ sero identici nella sostanza, ma che partecipassero dello stesso tipo di essenza. Eusebio di Cesarea presentava una versione molto annacquata di ciò, quando accettò l'homoousion a con­ dizione che indicasse «che non c'è analogia tra il Figlio del Padre e le creature, ma che egli è stato creato sotto tutti gli aspetti uguale solamente al Padre che lo generò, e che non è derivato da nessun'altra ipostasi o ousia se non dal Padre».54

•• Adv. Hermog. 44; Adv. Valent. 12; 18; 37: CCL 1 ,433; 2,764; 767; 778. 50 In s. EPIFANIO, Pan. haer. 33,7,8: HOLL, l, 457. 5 1 Adv. haer. 1,5,1 e 5: PG 7,492 e 500. 52 Cf. 0RIGENE, In loann. XX, 20 (18},120: PREUSCHEN, 352. " Frag. in ep. ad Hebr. : PG 14,1308. 54 Cf. la sua lettera.

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D'altra parte, gli ariani chiaramente interpretarono homo­ ousios, in tutta buona fede, in un senso materiale. Lo stesso eresiarca ignorò55 l'insinuazione che il Figlio fosse una «parte consustanziale (�poç ÒJ..Looucnov) » del Padre: gli sembrava, come dimostrano molti passi, che implicasse una suddivisione di sostanza. Eusebio di Nicomedia aveva in mente proprio la stessa idea quando, nella sua lettera a Paolino di Tiro,56 escla­ mò rabbiosamente che non avevano mai sentito di due esseri non generati (àyévvrrca ) né di uno diviso in due o soggetto a esperienze corporali. Che molti autentici ariani avessero que­ sta opinione circa homoousios risulta chiaro dal fatto che, secondo la famosa lettera di Eusebio, Costantino riteneva fosse necessario spiegare che la parola non comportava nessu­ na implicazione quasi-fisica e non doveva essere considerata come se indicasse una divisione o un distacco dalla sostanza del Padre. Un esempio più illuminante di un'altra interpretazione cor­ rente di homoousios venne fornito dall'episodio dei due Dio­ nigi negli anni '60 del III secolo.57 Il vescovo Dionigi di Ales­ sandria, come si ricorderà, era stato messo in grande preoccu­ pazione da un'esplosione di sabellianismo nella Pentapoli libi­ ca. Quando adottò energiche misure per sradicarlo, i capi del gruppo dissidente rivolsero una lamentela formale al pontefi­ ce romano, aggiungendo tra le altre cose che il vescovo di Ales­ sandria aveva trascurato di dire che il Figlio era homoousios con Dio. 58 Sembra che Dionigi sia stato un importante collabo­ ratore della teologia di Origene. Non c'è da dubitare che i sabelliani stessero per quell'antico e, perlomeno nei circoli popolari, ampiamente affermato tipo di monarchianismo che considerava Gesù Cristo come la manifestazione terrestre del­ l'Essere divino.

'' Cf. la sua lettera a s. Alessandro in s. ATANASIO, De syn. 16: PG 26,709; OPITZ, Urk. 6. " In TEODORETO, Hist. ecc/. 1,6 : PARMENTIER, 28; 0PITZ, Urk. 8. " L'edizione più utile della corrispondenza è quella di C.L. FELTOE (Cam­ brid§e 1904). I llllei riferimenti sono a questa edizione. Cf. FELTOE, 188.

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Per loro l'approccio di Origene, con la sua distinzione tra le tre ipostasi e la sua tendenza a subordinare il Figlio, era anate­ ma. Quando si appellavano a homoousios come a loro parola d'ordine, volevano significare che l'essere o sostanza del Figlio era identico a quello del Padre. Il modo in cui ricorreva l' ho ­ moousios nelle loro lagnanze inviate al papa è dunque alta­ mente significativo. Indica, per prima cosa, che stava già diven­ tando in alcuni gruppi un termine tecnico per descrivere il rap­ porto del Padre con il Figlio, e, in secondo luogo, che si aspet­ tavano che sarebbe stato riconosciuto e approvato a Roma. È ugualmente significativo il fatto che s. Dionigi si astenesse dal fare pressioni sul suo omonimo circa la necessità di usarlo. La sua risposta formale59 condannava le opinioni riportategli, in particolare la suddivisione dell'Essere divino in «tre potenze e ipostasi indipendenti e in tre divinità», e ne dedusse una linea chiaramente monarchiana. S. Dionigi di Alessandria si difese in modo molto abile. Pur mantenendo tutti i punti essenziali della posizione di Origene, spiegò di non avere usato homoousios perché non era un ter­ mine biblico, ma che egli intendeva esprimere la dottrina che racchiudeva. Per provarlo dichiarò di aver dato come dimo­ strazione del rapporto tra il Padre e il Figlio immagini quali il rapporto del genitore col figlio, del seme con la pianta, e del­ l'onda con la schiuma che ne deriva, essendo tutti questi esem­ pi di entità che erano «della stessa natura (ò!lO"feviì)». Natural­ mente, si trattava qui di un'esegesi di homoousios del tutto dif­ ferente da quel che volevano i sabelliani, e anche da quanto poteva avere avuto in mente il papa. Si riprende ancora una volta il significato generico del termine preferito da Origene e dagli gnostici valentiniani prima di lui. È possibile che abbia dato prova di essere un dialettico troppo sottile ed esperto per il suo fratello romano, e che la sua dichiarazione di voler accet­ tare la formula contava più della sua attenta e dichiarata espo­ sizione di dottrina trinitaria.

" Cf. F'ELTOE,

177ss.

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L'occasione successiva in cui il termine affiorò sembra sia stato il sinodo di Antiochia del 268 che condannò Paolo di Samosata. Per quanto non vi sia nei documenti rimasti nessu­ na relazione riguardante il concilio, e per quanto l'intero epi­ sodio sia stato completamente dimenticato finché i semiariani non lo trassero fuori dall'oscurità al concilio di Ancira {358), sembra certo che l'uso di Paolo del termine homoousios riferi­ to al rapporto del Padre con il Figlio sia stato condannato dai suoi giudici. Il problema che ci sta di fronte è che cosa abbia voluto intendere con tale termine.60 Alcuni studiosi moderni,61 basandosi sul resoconto di s. Atanasio62 in proposito, pensaro­ no che ciò che era stato messo in tal modo al bando dai vesco­ vi fosse un'interpretazione possibile di homoousios citata da Paolo in una reductio ad absurdum, modo di argomentare da lui usato. Secondo questa interpretazione, Paolo aveva affer­ mato che, a meno che Cristo «da uomo non sia divenuto Dio», egli deve essere stato homoousios con il Padre, e questo impli­ cherebbe l'ipotesi di una precedente terza ousia condivisa da entrambi ed esistente prima di essi. Ma s. Atanasio non è in realtà il testimone più imparziale in materia. Esule a quell'epoca, non era al corrente della situazio­ ne del partito semiariano, e la sua risposta era basata su termi­ ni molto generici e confermava quanto poco si sentisse a suo agio. Una spiegazione più attendibile è data da s. Ilario, che certamente aveva una conoscenza di prima mano delle obie­ zioni semiariane e si occupava di esse in maniera molto più approfondita. Secondo lui,63 Basilio di Ancira e i suoi consocia­ ti ritenevano che Paolo avesse voluto significare con homoou­ sios che Padre e Figlio formavano un unico essere, indifferen­ ziato (solitarium atque unicum sibi esse patrem et filium prae-

"' Per quanto riguarda questo difficile problema cf. G. BARDY, Paul de Samosate, Leuven '1929, 333ss; H. DE RIEDMAITEN, Les Actes du procès de Paul de Samosate, Friburg 1952, c. VI. 61 G.L. PRESTIGE, God in Patristic Thought, London '1952, c. X (un capito­ lo molto valido). 62 De syn. 45: 63 De syn. 81:

PG 26,772. PL 10,534.

VIII. Il significato e l'uso del Credo di Nicea

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dicabat). In altre parole, al tempo in cui aveva usato il termine stava sviluppando il suo noto insegnamento che il Figlio era nel Padre come la parola (logos) nell'uomo, e che Cristo il Verbo era solamente una À.EKnKi] èvépyna, cioè qualcosa di simile alla parola che esce da bocca di uomo. Naturalmente una simile dottrina deve avere sconvolto pro­ fondamente i vescovi origenisti che si incontrarono nel concilio per decidere il suo caso. Non poterono fare altro che lanciare un anatema e dichiarare che il Figlio non era homoousios, per lo meno in questo senso del termine, ma era un'ipostasi sepa­ rata. Il loro bando indubbiamente rischiava di irritare il papa romano, che tacitamente aveva approvato il termine in occasio­ ne dell'appello da parte dei sabelliani di Alessandria, e ci sono le prove che erano disposti a conservare buone relazioni con lui. Ma abbiamo già fatto notare che s. Dionigi era stato egli stesso attento a non adottare o insistere sul termine homoou­ sios. I vescovi di Antiochia devono avere confidato nel fatto che, non avendo egli alcun incarico per avvalorare la canoniz­ zazione ufficiale del termine, avrebbe dovuto constatare la con­ danna della dottrina e doveva unirsi a loro per esecrarla. Il risultato evidente della nostra ricerca è dunque che homoousios era una parola con una varietà di significati. Al tempo della controversia ariana era considerata sotto aspetti differenti da diversi gruppi. Secondo lo storico Sozomeno,64 i meleziani che organizzarono l'assalto contro l'ortodossia di Aria affermavano rumorosamente la loro esigenza di ricono­ scere il Logos divino come homoousios e coeterno al Padre. Chiaramente il significato che assumeva nella loro bocca si avvicinava a quello intorno al quale si erano ritrovati i loro pre­ decessori che avevano causato tanto turbamento a Dionigi, cioè che il Figlio era di un'unica e medesima natura del Padre e condivideva la sua sostanza. Fedeli alla tradizione delle popo­ lazioni semplici della Pentapoli libica, dimostravano aperta­ mente la loro protesta contro gli origenisti che insegnavano le tre ipostasi, col pericolo di deviare verso un subordinazionismo.

.. Hist. ecci. 1,15: PG 67,905.

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D'altra parte, qualunque leale sostenitore dell'origenismo, come Dionigi di Alessandria e i vescovi che pronunciarono la sentenza contro Paolo, tendeva a considerarlo, cosi interpreta­ to, con intenso sospetto. Se dobbiamo fidarci della sua lettera, Eusebio di Cesarea poteva essere indotto ad accettare ciò solo nel senso che il suo significato fosse che «il Figlio di Dio non somiglia alle creature, ma è in tutto simile a suo Padre che lo generò, e non è derivato da alcun'altra sussistenza o essenza, se non dal Padre». Per coloro che avevano mentalità ariana, tutta­ via, si trattava di una prospettiva negativa. Lo stesso Ario, nella sua professione di fede65 sottoposta a s. Alessandro, derideva colui che ironicamente considerava le sue implicazioni come manichee. Nel suo Thalia66 aveva chiaramente dichiarato che il Figlio era «non uguale al Padre e per questo motivo non homo­ ousios con il Padre». Eusebio di Nicomedia, che nella sua lette­ ra67 a Paolina di Tiro aveva respinto l'espressione «derivato dal­ l'essenza del Padre», disprezzò lo stesso termine homoousios nel memorandum, ormai perduto, che (se è lecito collegare un accenno68 di s. Eustazio di Antiochia a un episodio raccontato da s. AmbrogioY9 era stato letto ad alta voce e fatto a pezzi durante il concilio. Le sue parole vere e proprie sembra siano state: «Se lo designiamo come vero Figlio di Dio e non creato, cominciamo a dire cosi che egli è homoousios con il Padre». Bisogna affrontare ora il problema di come fu inserito nel Credo. L'opinione più diffusa in passato70 ne attribuiva la re­ sponsabilità esclusivamente a Costantino. L'ipotesi poteva appellarsi alla testimonianza di Eusebio, che nella sua lettera descrive come l'imperatore avesse preso l'iniziativa di propor­ re il termine, e ciò ben si accordava con le interpretazioni cor-

65

In s. ATANASIO, De syn. 16: PG 26,709; OPITZ, Urk. 6. In s. ATANASIO, De syn. 15: PG 26,708. 67 In 'TEODORETO, Hist. ecci. 1,16: PARMENTIER, 28; OPITZ, 68 Cf. 'TEODORETO, Hist. ecci. 1,8: PARMENTIER, 34.

66

Urk. 8.

" De fid. 3,15,125: PL 16,614. E. ScHWARTZ nel suo brillante studio Kaiser Constan­ tin und die christliche Kirche, Leipzig-Berlin '1936, e l'articolo di F. LOOFS, , in Festgabe filr K. Milller, Tiibingen 1922. 7° Cf., per esempio,

VIII. Il significato e l'uso del Credo di Nicea

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renti della sua politica ecclesiastica. Ciò che soprattutto riscuo­ teva la sua approvazione nei riguardi di homoousios si diceva fosse l'estrema ambiguità del termine. Essendo preoccupato prima di tutto dell'unità, accolse con favore un'espressione che non fosse l'insegna di nessun partito e che fosse sufficiente­ mente ampia nell'ambito dei suoi significati da includere grup­ pi di ogni colorazione ideologica. Si è parlato molto del fatto che s. Atanasio stesso abbia evitato di usarla fino ai primi anni '50, e si è ritenuto che inizialmente la guardasse con un certo sospetto, e giungesse a una sua accettazione totale dopo che la sua teologia raggiunse un significativo sviluppo. Avremo occa­ sione di esaminare la validità di queste ultime affermazioni nella parte seguente. N el frattempo, possiamo francamente riconoscere l'importanza del ruolo svolto dall'imperatore al concilio. È stata unicamente la sua influenza, ne siamo certi, che riuscì a vincere l'opposizione, se non proprio i dissensi interni, del considerevole partito di centro di cui Eusebio era il rappresentante. È bene qui ricordare l'affermazione di Euse­ bio nella sua lettera che, per quanto riguarda un chiarimento positivo di homoousios, Costantino acconsenti a dichiarare che «queste cose devono essere intese come aventi un significato divino e ineffabile». Certamente non aveva nulla da guadagna­ re nel portare avanti una teologia nuova e difficile: ciò che voleva era un Credo che potesse essere abbracciato da quante più possibili diverse scuole di pensiero e ricavame un senso. Di questo possiamo essere sicuri. Ma è certamente assurdo pretendere di scoprire una spiegazione pienamente convincen­ te della scelta di homoousios nelle manovre politiche di Costantino. Il Credo conteneva molto più del termine enigma­ tico stesso: in esso vi era CIOÈ DALLA SOSTANZA DEL PADRE, e negli anatemi l'identificazione di ousia con ipostasi. È difficile anche credere che s. Alessandro, sostenuto com'era dal suo diacono s. Atanasio, possa essere stato persuaso ad aderire a una terminologia sui precisi significati della quale ci fossero dei dubbi. In realtà, quali che fossero i vari significati di homo­ ousios, il suo uso nei primi tempi della controversia deve avere racchiuso in sé un senso abbastanza delimitato agli occhi dei teologi, se non addirittura dell'imperatore.

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I simboli di fede della Chiesa antica

In ogni caso, supporre che s. Atanasio, dopo essersi mostra­ to inizialmente piuttosto contrario nei riguardi di questa paro­ la-chiave, si sia trasformato poi in sostenitore entusiasta, vuol dire compiere un considerevole sforzo di immaginazione stori­ ca. C'è inoltre motivo di credere che Costantino non abbia agito del tutto da solo per quanto riguarda i fatti della Chiesa di quell'epoca. Si appoggiò con forza sul consiglio del suo con­ fidente ecclesiastico, Ossio di Cordova, di cui si era già servito quale informatore speciale sulla stessa crisi ariana. La tradizio­ ne più antica, che vide la mano di Ossio dietro il patrocinio del­ l'imperatore per homoousios, ha ancora molto da dire in gene­ re a questo riguardo, e non è per nulla in contrasto con un pieno riconoscimento dell'importanza dell'intervento perso­ nale di Costantino. Possiamo ricordare che s. Atanasio, benché il suo linguaggio non sia tanto esplicito quanto potremmo desi­ derare, sembra avere scelto Ossio come responsabile del Credo. Esiste un notissimo passo71 in cui, spiegando perché Ossi o (ormai vecchio) dovesse essere ingannato dagli ariani, esclamò: «Quando mai si è tenuto un concilio in cui egli non prendesse la direzione e vincesse tutto con l'efficacia delle sue parole!». In un altro passo72 fu forse ancor più preciso: «Fu lui ( Ossio) a propugnare la fede accettata· a Nicea ( oÙ'toç 't'ÌlV ev NtKatçt 1ttO''ttv e/;É8E't0)». L'autore antiariano Febadio sembra aver dato la sua adesione a questa opinione in una frase73 del suo Liber contra Arianos (scritto intorno al 356 o 357). C'era­ no tutti i motivi per cui Ossio dovesse considerare l'accettazio­ ne di homoousios come la miglior soluzione possibile di questi momenti turbolenti. Anche se il termine non era, come è stato spesso affermato, un'espressione accettata della terminologia teologica occidentale, era adattissimo a descrivere il particola­ re carattere di teologia trinitaria, col suo rilevante accento sulla monarchia divina, che era stata per molto tempo di moda in occidente.

11 12 73

De fug. 5: PG 25,649. Hist. Ar. 42: PG 25,744. Contra Ar. 23: PL 20,30.

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VIII. Il significato e l'uso del Credo di Nicea

Un altro valido anello della catena della documentazione è dato dall'episodio narrato dallo storico Filostorgio74 riguardan­ te l'accordo raggiunto tra Ossia e s. Alessandro a Nicomedia, prima del concilio, circa il vero uso del termine homoousios. Il rifiuto di Ari o, manifestato con tanta forza nella sua lettera a s. Alessandro, potrebbe essere interpretato come un segno di consapevolezza che l'opinione del vescovo stava cambiando direzione. Il corso degli eventi così descritto suggerirebbe che c'era uno scenario più ampio e più complesso per la formula­ zione del Credo di quanto vogliano ammettere coloro che lo considerano unicamente come un simbolo di unità dell'impe­ ratore. F. Loofs75 ha fortemente criticato il rapporto di Filostor­ gio facendo notare che s. Alessandro, a giudicare dalla sua let­ tera enciclica76 e dalla sua lettera77 ad Alessandro di Bisanzio, era passato dalla parte moderata degli origenisti. Loofs affer­ mò che la teologia che vi aveva espressa era nel complesso chiaramente origenista, per aver accentuato l'eterna genera­ zione del Figlio, la sua preferenza per «simile in tutte le cose)), e per aver affermato insistentemente che il Padre e il Figlio erano due ipostasi. Ma è errato porre l'accento esclusivamen­ te su un solo aspetto del pensiero di s. Alessandro, che era ben lontano dall'essere un sistema logico e coerente. A fianco del­ l'influsso origenista c'era una viva convinzione, non sempre chiaramente formulata, circa l'unità inseparabile formata dal Padre e dal Figlio. Questa viene alla luce in dichiarazioni come quella che il Padre non poteva mai esser pensato senza il suo Verbo e la sua Sapienza (aA.oyoc; K>. Quasi tutti gli altri, tuttavia, passavano in rassegna le posizioni tipiche di Marcello e di Potino e le proscrivevano. Tra queste si trovavano le affermazioni che il Figlio di Dio non collaborava con il Padre nell'opera di creazione (n. 3; cf. n. 27); che il Verbo non era realmente generato dal Padre prima di tutti i tempi e che la nascita da Maria era l'unica reale (nn. 4, 5 , 9, 10, 27); che la Scrittura prova che l'Unigenito non esisteva prima dei seco­ li (n. 11); che il Verbo dovette sottostare a un mutamento e a una sofferenza nell'incarnazione (nn. 12, 13); che l'Antico Testamento non attesta l'esistenza e l'attività del Figlio come anteriore all'incarnazione (nn. 14, 15, 16, 17); che le tre perso­ ne della lìinità formano un unico prosopon (n. 19); che lo Spi­ rito Santo è Dio non generato o è identico al Figlio o è parte del Padre o del Figlio (nn. 20, 21, 22); che la volontà del Padre

43 Cf. s. EPIFANIO, Pan. haer. 71 ,lss: HOLL, III, 250ss. 44 Cf. s. ATANASIO, De syn. 27; SOCRATE, Hist. ecci. 2,30: PG 26,736ss; 67,280ss; s. ILARIO, De syn. 38: PL 10,509ss. Per quanto riguarda il testo cf. HAHN, 160. " Cf. sopra, pp. 343-344.

IX. L'epoca dei Credo sinodali

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non era implicata nella generazione del Figlio (n. 25; cf. n. 18); che il Figlio è ingenerato e non ha origine (n. 26); e che i titoli di Cristo e Figlio appartengono solo al Verbo dopo la nascita da Maria (n. 27). Il linguaggio filosofico che gli eretici usavano era anch'esso condannato. Così affermazioni come «l'essenza di Dio si espande o si contrae ('t'ÌlV ouoiav 'tou 9eou 1tÀ.amve­ cr9at lì CJUCJ'tÉÀ.À.ecr9at)» (n. 6), o «il Figlio fa sì che la sostanza di Dio sia ampliata (1tÀ.a"CUVO!lÉVTtV 't'ÌlV oucriav "COU 9eOU 1tOte'iv)», o egli è «l'espansione della sostanza di Dio ('tòv 1tÀ.a­ "CUCJ!lÒV "C'iìç ouoiaç)» (n. 7), erano oggetto di anatema. Vi era una certa goffaggine in questa enfasi esagerata, per­ ché i capi della Chiesa occidentale si erano lavati le mani per quanto riguardava Potino nel 345 a Milano (e nel 347), e sem­ bra che s. Atanasio e il suo seguito, senza rompere però la comunione con Marcello, avessero contatti separati con lui poco dopo.46 Nello stesso tempo, tuttavia, il Credo si sforzò di mantenere l'unità della divinità che poteva sembrare in perico­ lo con l'esclusione totale della difesa di Marcello, sostenendo che il Padre è l'unico principio incondizionato (!liav avapxov 'téòv oì..cov àpxilv). Preso nel suo insieme, il tono era di concilia­ zione; se pur veniva mantenuta la distinzione fra le tre Perso­ ne, non si faceva però nessun cenno alle tre ipostasi. Non c'è da sorprendersi, perciò, se s. Ilario in seguito ne abbia data un'in­ terpretazione favorevole.47 Questa rapida ricerca sui simboli di fede promulgati in un decennio rafforza le impressioni della fase di studio preceden­ te. La polemica si muoveva ancora sullo stesso piano del conci­ lio della Dedicazione. Le forze che si opponevano erano anco­ ra, da un lato, il tradizionale trinitarismo occidentale, con il suo forte senso dell'unità di Dio e il suo orientamento a favore di Marcello (s. Atanasio e l'occidente sono stati in genere lenti a capire il pericolo della sua teologia) e, dall'altro, la concezione conservatrice orientale sulla divinità come tre ipostasi ordina­ te gerarchicamente. L'occidente coerentemente vedeva ciò

46 Cf. s. ILARIO, Frag. hist. 2,21: PL 10,650. 47 De syn. 39ss: PL 10,512ss.

356

I simboli di fede della Chiesa antica

come un triteismo incipiente e altrettanto coerentemente, se pur non giustamente, lo escludeva come arianesimo. L'oriente, in maniera ugualmente ingiusta, era una volta di più terrorizza­ to che la teologia occidentale slittasse verso il sabellianismo. Si era ormai molto ridotto, da una parte e dall'altra, il dibattito sul Credo di Nicea e sulla sua parola d'ordine homoousios. Colpi­ sce il fatto che perfino la formula occidentale di Serdica, tanto spesso indicata come il Credo homoousiano, manchi del tutto di riferimenti sia a Nicea sia a homoousios. Il concilio di Nicea, naturalmente, non era stato dimenticato: Ossio e Protogene ritennero fosse necessario rassicurare il papa che la nuova con­ fessione di Serdica non intendeva sostituire il suo Credo. L'oriente era anch'esso comprensibilmente spazientito dal continuo tornare alla carica dell'arianesimo, con le sue implica­ zioni di infedeltà verso Nicea, e tentò di rendere chiara la sua posizione, col ripetere gli anatemi di Nicea. Ma restava al fondo ancora N, che non era né il punto di intesa del primo par­ tito, né il bersaglio degli assalti dell'altro. 3.

IL TRIONFO DELL'ARIANESIMO

Un nuovo capitolo nella storia dei simboli di fede, come pure della grande polemica dottrinale, si aprì col trionfo finale di Costanzo su Magnenzio nell'agosto del 353. Da allora fino alla sua morte nel 361 egli regnò quale unico imperatore sia sull'oriente che sull'occidente. Di conseguenza l'autorità passò rapidamente, e per un certo periodo in modo decisivo, ai grup­ pi antiatanasiani e antioccidentali della Chiesa. La loro vittoria era stata così totale, almeno per il momento, che fu messo da parte ogni scrupolo e per la prima volta si cominciò ad attac­ care apertamente la fede di Nicea. Dopo un breve intervallo, una potente ala sinistra, che riviveva le idee quasi dimenticate di Ari o e le sosteneva in termini radicali, emerse, sotto la guida di estremisti quali Aezio ed Eunomio. Divennero noti come anomei, per il loro insegnamento secondo il quale il Figlio non è uguale (av6j.totoç) al Padre. Thttavia, proprio l'asprezza del conflitto causò una frattura tra tutti quelli che fino allora ave-

IX. L'epoca dei Credo sinodali

357

vano diffidato dell'homoousion. Tra il gruppo moderato d'oriente, che era inorridito nel constatare fino a che punto stavano giungendo i loro più ostinati alleati, e gli omousiani, come si cominciava a chiamarli, si aprì un varco alla riconcilia­ zione. Il principale ostacolo era costituito dalla stretta coope­ razione intercorsa tra s. Atanasio e Marcello, ma i due erano da tempo divisi. Così, dopo il 361, quando Costanzo morì e si rag­ giunse un accordo sulla terminologia al concilio di Alessandria (362) , fu solo questione di tempo per giungere a una piena e mutua comprensione. Secondo noi, uno dei punti di maggiore interesse in que­ st'epoca è l'avere incentrato l'attenzione sul Credo di Nicea. La prima traccia del nuovo ruolo che esso stava cominciando a svolgere si ritrova nella lettera48 che papa Liberia indirizzò a Costanzo nel 354 in risposta alla frase pronunciata su s. Atana­ sio al concilio di Arles poco tempo prima (353). Egli chiese che l'imperatore convocasse un sinodo universale per risolvere non solo le questioni di carattere personale, ma anche per con­ fermare le decisioni prese a Nicea. L'anno seguente (355), quando ebbe luogo a Milano la riunione proposta, Eusebio di Vercelli, rappresentante del partito occidentale, esibì una copia del documento di Nicea e fece pressione perché, prima di occuparsi delle altre questioni, i delegati sottoscrivessero all'unanimità la loro dottrina aderendo alla fede di Nicea.49 Valente di Mursa (Osijek), com'è riferito, intervenne con drammatica violenza, cercando di afferrare la penna dalle mani di un prelato che stava per firmare, e protestando che non era possibile procedere con metodi simili. Incidenti come questo fanno pensare che il partito atanasiano, spinto dal­ l'ascendenza raggiunta dai suoi oppositori e dal crescente estremismo delle loro idee, avesse deciso apertamente di adot­ tare il concilio di Nicea e il suo Credo come modello di orto­ dossia. Si può ricordare che in questo periodo s. Ilario, per sua

48

49

S. ILARIO, Frag. hist. 5,6: PL 10,685s. Cf. s. ILARio, Ad Const. Aug. 1,8: PL 10,562s.

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ammissione,5° prese per la prima volta conoscenza del testo del Credo di Nicea. Poco tempo prima, inoltre, lo stesso s. Atana­ sio aveva cominciato a esprimersi apertamente nella termino­ logia della più genuina dottrina omousiana; poco dopo trovia­ mo Mario Vittorino, il famoso convertito, che difendeva in pieno e molto esplicitamente la dottrina di Nicea.51 Si avvertì ben presto che l'aria stava mutando. Un docu­ mento illuminante in questo senso è il Credo redatto, alla pre­ senza dell'imperatore, al sinodo tenuto a Sirmio (il terzo pre­ senziato massicciamente dai vescovi occidentali) nell'autunno del 357, e immediatamente divulgato in tutte le chiese. 52 A quel tempo il favore di cui godeva il partito atanasiano era assai scarso, poiché lo stesso s. Atanasio era stato violentemente mandato via dalla sua sede (356) e l'episcopato occidentale in generale lo aveva abbandonato e si era arreso alla forza degli eventi. Le guide spirituali erano i prelati Ursacio di Singiduno (Belgrado) e Valente di Mursa (Osijek), politicamente impe­ gnati, che erano diventati consiglieri teologici di Costanzo, e il vescovo locale Germinio. Non è necessario pubblicare l'origi­ nale latino della loro professione di fede, perché non è confor­ me a nessuno dei soliti modelli di Credo; la traduzione è come segue: Poiché si riteneva che ci fosse una disputa riguardante la fede, tutti i problemi venivano attentamente trattati ed esaminati a Sirmio, alla pre­ senza dei nostri santi fratelli e compagni vescovi Valente, Ursacio e Germinio. Si concorda che c'è un solo Dio, onnipotente e Padre, come viene creduto in tutto il mondo, e il suo unigenito Figlio Gesù Cristo il Signore, nostro Salvatore, generato da lui prima di tutti i secoli. Ma non possiamo e non dobbiamo predicare che vi sono due dèi, perché lo stesso Signore ha detto: «Andrò dal mio Padre e dal vostro Padre, dal mio Dio e dal vostro Dio». Perciò c'è un solo Dio al di sopra di tutto, come ha insegnato l'apostolo: «È forse Dio solo dei Giudei? Non

50

De syn. 91: PL 10,545; cf. sopra, p. 326. " Adv. Ar. 1,28; 2,9; 2,12: PL 8,1061; 1095; 1098; e anche il suo Tract. de Homoous. recip.: PL 8,1137ss. Le date riportate per quanto riguarda queste opere sono rispettivamente il 358 e il 359. " Cf. s. ILARIO, De syn. 11: PL 10,487ss; s. ATANASIO, De syn. 28: PG 26,740ss. M. MESLIN (Les Ariens d'Occident, 276-278 ) fa un'analisi eccellente.

IX L'epoca dei Credo sinodali

359

è forse anche Dio dei Gentili? Sì, egli è anche Dio dei Gentili. Perché esiste un solo Dio, che giustifica la circoncisione dalla fede e la non cir­ concisione attraverso la fede». E per tutto il resto erano d'accordo e ammettevano che non esistevano differenze. Ma poiché alcuni o molti erano turbati da sostanza (substantia), che in greco viene chiamata ousia, cioè, per essere più espliciti, homoousion o il termine homeou­ sion, qui non dovrebbero mai essere menzionati né predicati, per il motivo fondamentale che non sono contenuti nella Scrittura ispirata, e perché l'argomento è al di là della conoscenza dell'uomo, e nessuno può spiegare la nascita del Figlio, sul quale viene scritto: «Chi potrà spiegare la sua generazione?». Poiché è chiaro che solo il Padre sa come generò il Figlio, e il Figlio come fu generato dal Padre. Non si tratta del fatto che il Padre sia il più importante. Perché nessuno può dubitare che il Padre sia più grande del Figlio per onore, dignità, splen­ dore, maestà, e proprio in nome del Padre il Figlio stesso testimoniò: «Colui che mi ha mandato è più grande di me». E nessuno ignora che la dottrina cattolica è che il Padre e il Figlio sono due Persone, e che il Padre è più grande e il Figlio subordinato al Padre, assieme a tutte quelle cose che il Padre ha subordinato a lui stesso, e che il Padre non ha origine ed è invisibile, immortale e impassibile, ma che il Figlio è stato generato dal Padre, Dio da Dio, luce da luce, e che la generazio­ ne di questo Figlio, come è già stato detto, nessuno la conosce eccetto suo Padre. E che lo stesso Figlio di Dio, nostro Signore e Dio, come abbiamo letto, si è fatto carne o corpo, cioè uomo, dal grembo della Vergine Maria, e l'angelo lo ha predetto. E come insegnano tutte le Scritture, e soprattutto l'apostolo, lo stesso maestro dei Gentili, egli prese dalla Vergine Maria la sua umanità, per mezzo della quale con­ divise la sofferenza. Tutta la fede è sintetizzata ed è resa certa da que­ sto, che la Trinità deve essere sempre salvaguardata come leggiamo nel Vangelo: «Andate, battezzate tutte le nazioni nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Il numero della Trinità è completo e per­ fetto. Ma il Paracleto, lo Spirito, è per il Figlio: egli fu mandato e venne secondo la promessa a istruire, insegnare e santificare gli apostoli e tutti i credenti. Le cose più notevoli di questo Credo sono il rilievo dato in modo straordinario all'unicità di Dio Padre e l'esplicita proi­ bizione dell'uso sia di homoousios che di homoiousios. S. Ila­ rio ha osservato con sagacia che il primo di questi due punti era affermato a scapito della piena divinità del Figlio, e ha continuato facendo notare che l'agnosticismo professato nei riguardi della generazione del Figlio lasciava aperta la porta a credere che fosse nato sia dal nulla che da qualche sostanza diversa da Dio Padre. Non c'è da meravigliarsi se egli poi ha

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I simboli di fede della Chiesa antica

definito il documento come «la bestemmia». 53 A parte questo, il Credo è pieno di affermazioni sospette sulla subordinazio­ ne del Figlio, e ipotizza persino che, in qùanto opposto all'im­ passibilità del Padre, fosse in qualche modo possibile per la sua unione con l'uomo Gesù. È da notare il fatto significativo che, mentre i simboli di fede dei gruppi centro-orientali redat­ ti a partire dal concilio della Dedicazione comprendevano, com'era naturale, anatemi contro l'arianesimo, per la prima volta tali anatemi non sono chiaramente presenti in questo Credo. La parola d'ordine di Nicea, pur non essendo stata dichiarata falsa, è stata messa al bando, come ci si poteva aspettare, con una formula virtualmente anomea. Lo studioso finlandese J. Guminerus ha dato un'accurata valutazione del suo carattere scrivendo: «Senza predicare direttamente l'aria­ nesimo, la formula costituiva un editto di tolleranza a suo favore, mentre il partito di Nicea si trovò escluso da quella tolleranza».54 Il Credo di Nicea, verso il quale tutti i settori della Chiesa avevano fino allora osservato un atteggiamento corretto e diplomatico, improvvisamente si trovò a essere dichiarato non ortodosso e illegale. Ossio di Cordova, uno dei promotori originari di N, ormai vecchio, era presente al sino­ do, e gli artefici della «bestemmia)) nell'ardore di rafforzare il ' loro Credo col maggior prestigio possibile, non ebbero scru­ polo a forzarlo, esausto com'era ormai, per fargli apporre la sua firma. 55 Presentato come una formula di pace (cosl l'imperatore innocentemente riteneva che si sarebbe dimostrato) , il Secon­ do Credo di Sirmio era «uno squillo di tromba che si poteva udire da un lato all'altro dell'impero)),56 In occidente suscitò un'agitazione immensa, essendo un documento occidentale composto per lo più da vescovi occidentali, e il risultato fu di rafforzare la posizione del Credo di Nicea. Poco dopo, travia-

57.

" De syn. 10: PL 10,486. 54 Die homousianische Partei bis zum Tode des Konstantius, Leipzig 1900, " SozOMENO, Hist. ecci. 4,6 e 12: PG 67,1121 e 1 144. 56 H.M. GWATKIN, Studies ofArianism, Cambridge 21900, 162.

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mo Febadio di Agen che proclama quest'ultimo come «la per­ fetta regola di fede cattolica»,57 e attacca la «Bestemmia>>. Nel­ lo stesso tempo lo attaccò anche un sinodo gallicano e lo con­ dannò formalmente.58 In oriente la pubblicazione del docu­ mento di Sirmio, con l'emergere contemporaneamente degli insegnamenti estremisti di A ezio e di Eunomio (capi del par­ tito anomeo ), ebbe l'effetto di fare aprire gli occhi del nume­ roso gruppo dei moderati o dei semiariani sulla minaccia inclusa nel nuovo e più virulento arianesimo. Per superare la crisi fu tenuto un sinodo ad Ancira nel 358 sotto la direzione di Basilio, vescovo locale, e la reazione fu espressa vivacemen­ te nella lettera sinodale che annunciava le sue decisioni.59 Mentre non citava in alcun modo Nicea e di fatto condannava homoousios (si fece notare che il termine era stato respinto dal concilio che aveva condannato Paolo di Samosata) , i semiariani furono espliciti nella loro ostilità verso gli anomei e insistettero sulla dottrina secondo la quale il Figlio era come il Padre nella sostanza ( ÒJ.!owucrtoç). Quando i delegati del sinodo di Ancira, guidati da Basilio, presero contatto con Costanzo a Sirmio, un poco più tardi nello stesso anno, riusci­ rono a fargli accogliere il modello semiariano, o omeusiano, e ottennero la sua approvazione per la redazione di un formu­ lario che ne rispecchiasse la dottrina: il cosiddetto Terzo Credo di Sirmio. 60 Esso consisteva del Primo Credo di Sirmio (cioè il Secondo Credo del concilio della Dedicazione con gli anatemi diretti contro Paolo di Samosata e Fatino) con l'ag­ giunta di un certo numero di anatemi che si trovavano nella lettera di Ancira. Traboccante di gioia per il successo e fiducioso di riuscire a trovare una via tra l'insegnamento anomeo e il fastidioso homoousion, Basilio di Ancira fece pressione sull'imperatore perché indicesse un concilio generale che potesse emettere

57

Contra Arianos, 6: PL 20,17. ,. S. ILARIO, De syn. 2 e 8: PL 10,481 e 485. 59 Cf. s. EPIFANI O, Pan. haer. 73,2-11: HOLL, III, 268-284. "' Cf. SozoMENO, Hist. ecci. 4,15: PG 67,1 152.

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I simboli di fede della Chiesa antica

legittimamente una dichiarazione conclusiva. Dopo alcuni mu­ tamenti progettuali e conseguenti ritardi, sfruttati astutamente dagli anomei per recuperare molto del terreno perduto, Costanzo accolse la sua richiesta, ma l'effetto, come dimostre­ rà il Credo che ora prenderemo in considerazione, fu molto diverso da quanto si era aspettato Basilio. L'accordo che alla fine Costanzo sanzionò dietro suggerimento degli anomei fu di tenere due concili paralleli, uno della Chiesa occidentale a Rimini e un altro di vescovi orientali nella città costiera di Seleucia in Cilicia. Nel frattempo, nel maggio del 359, un pic­ colo comitato si incontrò a Sirmio e, alla presenza dell'impera­ tore, redasse il seguente formulario come base di lavoro da sot­ toporre a entrambi i concili per discuterlo e, si sperava, per approvarlo:61 ITt�EUO�V eiç eva tòv �6vov KaÌ OA,'J'l6tVÒV 6eòv, ltaté pa, ltaVtO­ Kpatopa, Kti>. Tò Bè o voiJ.a tfì ç o'liaiaç Buì tò àx:l.. o 'liatepov uxò trov xaté prov tE6ei a6at , ayvoOUIJ.EVOV Oè {mò trov :l..aéiìv aKavBaAov cpépetv, Btà tÒ IJ.JltE tàç ypa�àç tOUtO XEpLÉ· xew, i;peae toiìto xepwtpe6fìvm Kaì xavteAooç I!�BÈ IJ.Ìav IJ.vllli�V oùaiaç èxì 6eoiì et vm toiì :l..o t­ xoiì, Btà tò tàç 6eiaç ypacpàç 1!�­ Baj.loiì xepì xatpòç Kaì uioiì où­ aiaç IJ.EIJ.vfìcr6m. OIJ.OLOv lìè Aéyo­ IJ.EV tòv uiòv tep natpì Katà m:lv­ ta, roç KaÌ ai iiytaL ypacpaì AÉ­ youai te Kaì lìtlìcXaKoum v.

363 cose, che i custodi degli inferi vide­ ro e tremarono, e risuscitò dai morti il terzo giorno, e si associò con i discepoli, e compì tutta l'eco­ nomia, e al compimento dei qua­ ranta giorni fu assunto in cielo, e siede alla destra del Padre, e verrà l'ultimo giorno della risurrezione con la gloria del Padre, a remune­ rare ognuno secondo le sue azioni;

E nello Spirito Santo, che l'unigenito di Dio, Gesù Cristo stesso, promise di mandare alla razza umana, il Paracleto, come è scritto: «lo vado da mio Padre, e vi manderà un altro Paracleto, lo Spirito della verità: egli prenderà da me, e vi insegnerà e vi ricorderà tutte le cose». Ma poiché il termine «sostanza» è stato introdotto dai padri troppo semplicisticamente e porta scanda­ lo perché non è compreso dal po­ polo e non lo contengono neppure le Scritture, è sembrato bene di eli­ minarlo, e che non si faccia più nes­ suna citazione di sostanza per quanto riguarda Dio, perché le di­ vine Scritture in nessun luogo men­ zionano la sostanza riguardo al Pa­ dre e al Figlio. Ma affermiamo che il Figlio è simile al Padre in tutte le cose, come le sacre Scritture stesse dichiarano e insegnano.

A causa della data introdotta in forma solenne («sotto il consolato degli illustrissimi Flaviano, Eusebio e Ipazio, l'undi­ cesimo giorno prima delle calende di giugno»), questo Credo, il Quarto di Sirmio, divenne noto, piuttosto ironicamente, come il Credo datato. I suoi oppositori ritenevano ridicolo che

I simboli di fede della Chiesa antica

364

la fede cattolica potesse essere datata.62 Si suppone che la reda­ zione finale sia stata opera di Marco di Aretusa. Sembra basar­ si su un Credo battesimale di modello convenzionale, benché le alterazioni e le interpolazioni ne abbiano completamente sconvolto le parti fondamentali. Alcune forme del testo risul­ tano affini al Credo di Antiochia. Clausole come UN SOLO E VERO DIO e PER MEZZO DEL QUALE FURONO FAITI I SECOLI, ecc. ricordano la terminologia molto simile usata nel simbolo cita­ to in latino da Giovanni Cassiano.63 Inoltre, questo Credo è noto per essere stato il primo a dare un riconoscimento ufficia­ le alla «discesa agli inferi». Ma la sua vera importanza è teolo­ gica. Era un documento di mediazione, destinato per quanto era possibile ad accontentare tutti, e diede luce alla nuova for­ mula di compromesso «omea» proposta da Acacia di Cesarea e accettata dall'imperatore QUASI SOlTO OGNI ASPEITO ed evitava rigorosamente termini tecnici. Si pensava che «l'orto­ dosso» avrebbe notato con soddisfazione che proclamava la generazione del Figlio in un modo incompatibile con l'ariane­ simo. I nuovi ariani, per conto loro, potevano congratularsi con se stessi che l'uso di ousia, insieme a quello di homoousion, fosse condannato: il Figlio non poteva neppure essere descrit­ to come UGUALE NELLA SOSTANZA. Basilio di Ancira e il suo autorevole partito avrebbero desiderato vedere confermato ufficialmente UGUALE NELLA SOSTANZA, ma si dovettero ac­ contentare di UGUALE IN TUITE LE COSE. Almeno questo andò oltre i desideri di Valente e Ursacio, con la loro dottrina che il Figlio era uguale al Padre «per volontà e potenza)), ma dissimi­ le da lui per la sostanza. Quando si giunse al momento di fir­ marlo, i capi dei vari gruppi non riuscivano a nascondere la propria scontentezza. Valente, ci dicono, tentò di scrivere sem­ plicemente UGUALE, lasciando fuori IN TUITE LE cosE, e fu arrestato da Costanzo. Anche Basilio, nella copia che Valente stava per portare a Rimini, aggiunse un lungo post-scriptum che esponeva la sua personale interpretazione del Credo e -

62 Cf. s. ATANASIO, De syn. 63 Cf. sopra, p. 241.

3: PG 26,685.

-

IX. L'epoca dei Credo sinodali

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poneva in rilievo il fatto che il Figlio era uguale al Padre «in tutte le cose, e non solo nella volontà, ma nell'ipostasi e nel­ l'esistenza e nella sostanza».64 In veste leggermente, ma significativamente, diversa tanto da renderlo ancor più con�ono alle preferenze di Valente e Ursacio, questo Credo compare nuovamente come formulario firmato il lO ottobre 359 nella città tracia di Niké da una dele­ gazione di vescovi occidentali del concilio, residenti a Rimini.65 L'affollata assemblea (sembra che vi abbiano partecipato più di 400 vescovi) si dimostrò fervente omousiana, acclamò il Credo di Nicea e l'uso di «sostanza», depose e scomunicò Ursacio, Valente e i loro soci, e mandò una legazione a Costan­ zo per informarlo delle loro decisioni. L'imperatore, come pos­ siamo dedurre, non era affatto contento che il Credo omeo da lui redatto fosse stato cosl frettolosamente messo da parte. I legati vennero indirizzati a Niké, dove a poco a poco furono logorati da indugi prolungati come pure dalla propaganda e dalle minacce alle quali venivano sottoposti.66 Infine, contraria­ mente al mandato ricevuto, acconsentirono a firmare una revi­ sione del Credo datato, che fu poi messo in circolazione come «di Nicea». La maggior parte delle alterazioni era puramente verbale e di scarso rilievo. Di maggiore importanza, tuttavia, in quanto denotavano un sostanziale indebolimento del Credo redatto e approvato a Sirmio, furono: a) la sostituzione di IN TUTTE LE COSE con UGUALE, e b) il divieto non solo di ousia ma anche di «un'unica ipostasi» nella dottrina della Trinità ( «nep­ pure del prosopon del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo deve essere usata la frase UNA SOLA IPOSTASI» ). Firmare questo Credo dimostrava che gli ariani stavano astutamente sfruttando a proprio vantaggio il nuovo compro­ messo. Nel frattempo gli eventi stavano prendendo un corso simile al concilio parallelo orientale di Seleucia. La grande

64 Per quanto riguarda questi particolari, cf. s. EPIFANIO, Pan. haer. 73,22: HOLL, III, 295. " Per quanto riguarda il testo cf. TEODORETO, Hist. ecc!. 2,21 ,3-7: PARMEN­ TIER, 145s; HAHN, 164. 66 S. ILARIO, Frag. hist. 8,4: PL 10,701s.

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maggioranza era omeusiana, guidata da Giorgio di Laodicea, e voleva firmare ufficialmente il Secondo Credo del concilio della Dedicazione. Infatti, lo ratificarono durante la seconda sessione (28 settembre) a porte chiuse, e la minoranza di omei guidata da Acacio si ritirò. Durante la sessione seguente, tutta­ via, il 29 settembre la minoranza ritornò e, per mezzo del com­ missario Leona, funzionario imperiale, propose il proprio Credo. 67 Si iniziava con una breve prefazione che dichiarava che non rifiutavano l'autentica fede proclamata durante il con­ cilio della Dedicazione, ma che per le parole homoousios, homoiousios e anomoios era sorto grande turbamento. «Noi ripudiamo ugualmente homoousios e homoiousios in quanto estranei alla sacra Scrittura, ma lanciamo anatema su anomo­ ios». La dottrina da accettare era che il Figlio era «uguale al Padre», come l'Apostolo aveva detto di lui che era l'immagine del Dio invisibile. Poi seguiva il loro Credo, che in effetti era il Credo datato di Sirmio con alcune correzioni di scarsa impor­ tanza. I termini controversi IN TUTIE LE COSE furono, tuttavia, omessi dopo UGUALE. Seguiva poi un lungo dibattito su ciò che era implicato con esattezza nella parola «uguale», e alla fine Leona sciolse il concilio senza che la questione fosse stata posta ai voti. Come il concilio di Rimini, entrambi i gruppi inviarono delle delegazioni all'imperatore a Costantinopoli per riferire le loro decisioni, ma Costanzo aveva deciso che gli omeusiani, non meno degli omousiani occidentali, avrebbero dovuto firmare la sua redazione di Credo omeo. Dopo un lungo dibattito che durò fino a notte inoltrata strappò loro le firme il 31 dicembre del 359.68 Così la vittoria degli omei fu completa, e fu questa sequenza di eventi che s. Girolamo aveva in mente quando scrisse che «l'intero mondo gemeva e si stu­ piva di ritrovarsi ariano (ingemuit totus orbis, et Arianum se esse miratus est)».69

67 Cf. s. ATANASIO, De syn. 29; SOCRATE, Hist. ecci. 2,40: PG 26,744s; 67 ,337ss; s. EPIFANIO, Pan. haer. 73,25 : HOLL, III, 298s. 68 a. SOZOMENO, Hist. ecci. 4,23: PG 67,1 188. 69 Dial. contra Lucif 19: PL 23,172.

IX. L'epoca dei Credo sinodali

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Ufficialmente, dunque, la fede della Chiesa era ora omea. Per completare l'opera, tuttavia, era necessario portare le deci­ sioni dei delegati di Rimini e Seleucia di fronte a un grande concilio congiunto e ottenere per esse la ratifica finale. A que­ sto scopo si tenne a Costantinopoli nel gennaio del · 360 un sinodo,70 dominato da omei e che si componeva soprattutto di vescovi della Bitinia. Il Credo promulgato71 è il seguente: IltcrtEUOf.U:: V EÌç eva 9EOV 1tatépa, lt0Vt01Cpatopa, el; Otl tà ltUVta. Kai E i ç tòv I!OvoyEvfì ui o v toiì 9Eoiì , tòv 1tpò Jtci vtrov ai oi vrov JCaì 7tpò 1ta�ç àpx�ç yE� 9évta è 1C toiì 9Eoiì l h ' o\ì tà 1tci n a èyévEto, tà òpatà JCaì. tà àopa­ ta, "(EV�9évta OE �!OVO"(Evfì, 1!0VOV ÈlC I!OVO'U toiì ltatpò ç 9EÒV È1C 9Eoiì , O I!OtoV tep yEvvi]cravn a-òtòv Jtatpì 1wtà tàç ypacpaç, où tTtV "(ÉVEcrtV OÙiìEÌ.ç "(t"(Vol>.13 Il punto di vista di Giustiniano era esattamente lo stesso di quello dei monofisiti, e in un decreto del 53314 manifestò la sua fedeltà verso «la sacra istruzione o simbolo [ . . . ] esposto dai 318 santi padri, che i 150 santi padri in questa città regale avevano spie­ gato e chiarito». Come possiamo osservare di nuovo al concilio tenuto a Costantinopoli nel 536,'5 e poi al quinto concilio ecu­ menico (anch'esso tenuto a Costantinopoli) nel 553, sembra che si fosse affermata la teoria secondo la quale C era una ver­ sione migliorata di N. Stando agli atti di quest'ultimo,16 «gli stessi santi padri (i 150), pur seguendo la fede ortodossa come

12

EVAGRIO, Hist. ecc/. 3,4: PG 86,2600s. EVAGRIO, Hist. ecci. 3,14: PG 86,2621. 14 Cf. P. KROGER, Codex lustinianus, Berlin 1877, I, I, 7. Sembra che Giu­ stiniano abbia usato di frequente il titolo «Credo di Nicea» per C. '' Cf. MANsr 8, 1051; 1059; 1063. 1 6 MANSI 9, 179. 13

X Il Credo costantinopolitano

377

esposta dai 318 santi padri, aggiunsero una spiegazione riguar­ dante la divinità dello Spirito Santo e diedero una relazione completa della dottrina del Verbo incarnato». Nel Medioevo la differenza originaria di C da N fu dimenticata e per la maggior parte dei gruppi di studiosi esso divenne noto come Credo di Nicea. Se tuttavia se ne ricordava la differenza, C era ritenuto come identico a N, eccettuata qualche aggiunta resasi necessa­ ria per l'emergere di successive eresie. Per esempio, al sinodo provinciale di Forum Iulii (Cividale del Friuli), che s. Paolino riuni nel 796 o nel 797, C fu pubblicato (nella sua veste latina, naturalmente) con l'aggiunta della clausola E DAL FIGLIO (filio­ que) per quanto riguarda la processione dello Spirito Santo. Nel suo discorso chiarificatore s. Paolino tentò di giustificare l'inclusione della nuova clausola e fece appello al precedente dei padri di Costantinopoli. Fece rilevare che anch'essi erano stati costretti dalle circostanze della loro epoca ad ampliare il Credo originale del concilio di Nicea e, in particolare, a rende­ re maggiormente preciso l'insegnamento sullo Spirito Santo.17

2.

CONFRONTO TRA

CEN

Ecco la complessa tradizione da esaminare. Il capitolo seguente conterrà una parte dedicata all'analisi della dottrina particolare di C, e possiamo quindi per il momento rimandare il problema di come possa essere stato considerato un'aggiun­ ta alla fede di Nicea. Nella parte ancora successiva si affronte­ rà il non facile problema del collegamento di C con Costanti­ nopoli. In questa ci occuperemo semplicemente di un solo filo­ ne della tradizione, quello che afferma che, a parte alcune aggiunte intese a chiarire e a precisare, C è sostanzialmente identico a N. Se questo deve essere preso alla lettera (dobbia­ mo, naturalmente, considerare la probabilità che gli antichi

" MANSI 13, 836. Un testo migliore, con le ragioni per correggere la data­ zione di Mansi del 791 a 796 o 797, è riportato da A. WERMINGHOFF, in MGH, Concilia, Il, 177ss.

378

I simboli di fede della Chiesa antica

non intendessero che le loro parole fossero prese del tutto alla lettera), si tratta di un'affermazione che non consentirà tanto facilmente agli studiosi di starsene tranquilli. Un'argomenta­ zione contraria è stata portata con grande maestria, profondi­ tà e abilità molto tempo fa, prima di tutto da F.J.A. Hort'8 e poi da A. von Harnack.19 Qui ci accontenteremo di riassumere la loro tesi, universalmente accettata. Essa consiste essenzial­ mente nel fare un meticoloso confronto tra i due Credo. Se questo viene fatto, escludendo la parte che còmunemente si ritiene aggiunta al terzo articolo, il risultato conclusivo dimo­ stra che in realtà sono due documenti del tutto differenti. I punti da notare sono i seguenti. Prima di tutto, ci sono delle considerevoli omissioni di C che non sono facilmente spiegabili dato che si tratta di una versione modificata di N. Esse sono: a) le parole CIOÈ DALLA SOSTANZA DEL PADRE; b) DIO DA DIO; c) COSE DEL CIELO E COSE DELLA TERRA (sull'ope­ ra creativa del Figlio, nel secondo articolo); d) gli anatemi. Si potrebbe dire, naturalmente, che gli anatemi non erano più adeguati, perché prendevano in considerazione una forma di arianesimo ormai obsoleta e adoperavano un linguaggio poco coerente circa la distinzione stabilita di recente tra hypostasis e ousia; e anche che l'eliminazione della clausola indicata con c) era un miglioramento stilistico di scarsa importanza dogma­ tica. Ma queste spiegazioni non valgono nel caso delle altre due omissioni, che comprendono delle formule-chiave dell'or­ todossia di Nicea. Chiunque abbia operato le citate modifiche di N deve avere agito molto stranamente omettendo frasari che avevano dato una cosi netta definizione del pensiero di Nice a. In secondo luogo, C contiene una serie di parole e di clau­ sole, alcune delle quali di scarso o di nessun significato, che non sono presenti in N. Queste comprendono: a) CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA nel primo articolo; b) le parole PRIMA DI TUTTI I SECOLI con GENERATO nel secondo articolo; C ) 18 1Wo Dissertations, Cambridge-London 1876, 73ss. 19 Realencyk. di HAUCK, 1902, Xl, 19ss.

379

X Il Credo costantinopolitano le parole

DAI CIELI

con

DISCESE;

d) la frase

S'INCARNÒ PER

e) la clausola E FU CROCIFISSO PER NOI SOTTO PONZIO PILATO con la congiunzione E prima di SOFFRì; !) le parole E FU SEPOLTO dopo SOFFRÌ; g) le parole SECONDO LE SCRITTURE dopo RISUSCITÒ IL TERZO GIORNO; h) la clausola E SIEDE ALLA DESTRA DEL PADRE dopo ASCESE AL CIELO; i) la frase DI NUOVO NELLA GLORIA con VERRÀ; e, naturalmente, j) IL CUI REGNO NON AVRÀ FINE. La maggior parte di questi punti ha poco peso, se pure ne ha, per la discussione teologica corrente, e solo d) e f) possono spie­ garsi come ispirati verosimilmente da considerazioni polemi­ che. La clausola PRIMA DI TUTTI 1 SECOLI rappresenta non solo una deviazione ma un regresso rispetto alla concezione rigoro­ sa di Nicea. I patrocinatori di quest'ultima erano coerenti nel­ l'opporsi all'uso di una terminologia che sembrasse definire il tempo della generazione del Figlio, per le interpretazioni erra­ te alle quali poteva portare una simile definizione, sia pure molto cauta. Il punto d) dell'ipotesi che stiamo esaminando è abbastanza chiaro, se si desiderava precisare la posizione orto­ dossa nei confronti dell'apollinarismo (discuteremo di questo nel prossimo capitolo ).20 Il punto j) intendeva evidentemente mettere in guardia anche contro il risorgere delle idee di Mar­ cello di Ancira. Ma è difficile comprendere perché siano stati apportati gli altri mutamenti che abbiamo elencato. In terzo luogo, fra C e N vi sono numerose differenze, molte delle quali insignificanti in se stesse ma per questa ragione ancora· più inspiegabili, di parole-chiave e di costrutti dottrina­ li. Cosl a) il primo articolo, che descrive Dio come creatore di tutte le cose, mentre è esattamente lo stesso in entrambi per contenuto, è costruito differentemente in C. In C leggiamo òpa'tOOV 'te 1tclV'tffiV lCOÌ aopa'tOOV contro la frase di N 1tclV't'OlV Òpa'tOOV 'te lWÌ àopa'tOOV. E ancora, b) in C UNIGENITO (J.l.OVO­ yevfì) con l'articolo determinativo sta come forma appositiva di IL FIGLIO DI D IO , mentre in N esso vien posto senza l'articoOPERA DELLO SPIRITO SANTO E DELLA VERGINE MARIA;

'" Cf. sotto, pp. 414ss.

380

I simboli di fede della Chiesa antica

lo dopo GENERATO DAL PADRE. c) Così, pure, YeVVll9Év'ta h 'tou 1ta'tpòç di N viene riproposto in C con 'tÒV ÈK 'tOU 1ta'tpòç YEVVll9Év'ta. d) Fatta eccezione di cr'taupco9Év'ta ( CROCIFISSO ) , i vari elementi del secondo articolo di C sono solo coordinati da E. e) Nel terzo articolo il semplice 1caì eiç 'tÒ aytov 1tVeU!J.a {E NELLO SPIRITO SANTO ) di N ricompare in C come KOÌ eiç 'tÒ 1tVeU!J.a 'tÒ aytov. È difficile trovare una ragione per cui il pre­ sunto revisore di N dovrebbe essersi preso la briga di apporta­ re alterazioni, per lo più insignificanti. Questo confronto statistico assicura che, qualunque cosa possa essere C, non può essere dichiarato certamente come una versione modificata di N. I due testi sono in realtà del tutto differenti e si somigliano ordinariamente solo in senso generico, ma non più di qualsiasi altra coppia di formulari orientali. Hort ha riassunto la cosa molto brevemente ponen­ do in rilievd1 che delle 178 (circa) parole di C solo 33, cioè quasi un quinto, possono verosimilmente essere derivate da N. Se C ha avuto rapporti diretti con qualche Credo del IV secolo, non è stato certo con N, ma con alcuni altri simboli di fede che non sono stati finora citati. È interessante osservare, di sfuggita, che esso è praticamente identico al primo simbo­ lo citato da s. Epifania verso la fine del suo Ancoratus,22 ammesso che possiamo fidarci della testimonianza del mano­ scritto. Gli unici punti nei quali quest'ultimo differisce sono l'inserzione di: a) CIOÈ DALLA SOSTANZA DEL PADRE, b) LE COSE DEL CIELO E LE COSE DELLA TERRA, e c) gli anatemi di Nicea. C ha anche una certa somiglianza éon uno strano Credo latino ritrovato nella raccolta di Teodosio il Diacono, nel Codice di Verona LX (58) , sotto il titolo ovviamente ina­ deguato di Symbolum sanctae synodi Sardici. 23 Per le sue inte­ ressanti differenze gli studiosi hanno talvolta affermato che si

21 Two Dissertations, 107 nota. Cf. VON HARNACK, Realencyk. di HAUCK, 3" ed., l, 119. 22 Ancor. 1 18: HoLL, I, 146s. " Per quanto riguarda il testo e un riassunto delle teorie su di esso, cf. DOSSETII , fl simbolo di Nice� e di Costantinopoli, 186-190.

X Il Credo costantinopolitano

381

tratta di un importante precursore di C, forse di ambiente antiocheno; in realtà tuttavia sembra non trattarsi di nulla più che di un adattamento dello stesso C per scopi battesimali. Un esame di questi testi, tuttavia, apre ampie vie che possono essere percorse in modo soddisfacente solo in alternativa al problema principale di fondo, cioè del rapporto di C col con­ cilio di Costantinopoli del 381 . Dobbiamo ora studiare questo argomento, ma possiamo farlo con la piena certezza che la tradizione è in errore perlomeno nel voler identificare gli ele­ menti fondamentali di C con N. 3. I FATII

CONTRO LA TRADIZIONE

La tradizione universale, come abbiamo già osservato, fin dal tempo almeno del concilio di Calcedonia (451), è che C fosse il Credo ratificato dai 150 vescovi che formarono il con­ cilio di Costantinopoli (maggio-luglio 381) e convocati, insie­ me con circa 36 ves covi macedoniani che in seguito si ritiraro­ no, dall'imperatore Teodosio I per il triplice scopo di stabilire finalmente la fede di Nicea, di eliminare tutte le eresie, nomi­ nando un vescovo ortodosso per la città imperiale, e di risolve­ re altre questioni del momento. Fino a poco tempo fa la gran­ de maggioranza degli studiosi moderni è stata unanime nel rifiutare l'antica opinione circa l'origine di C. Le obiezioni con­ tro la supposizione che C fosse stato composto e promulgato dal concilio del 381 sembravano schiaccianti, sia per numero che per autorevolezza; soltanto uno o due studiosi ragguarde­ voli non hanno ceduto, ma l'opinione generale è stata che i padri di Calcedonia, come si erano sbagliati circa la ratifica ori­ ginale di C, così essi, o almeno i loro successori, si erano ingan­ nati circa la relazione di C con N. Così, lungi dal trattarsi di un formulario autorevole, o ekthesis, dei vescovi riuniti a Costan­ tinopoli, deve trattarsi di qualche Credo locale battesimale che in un modo o nell'altro (a questo punto le opinioni differisco­ no notevolmente) è stato collegato con il concilio. Si è pensato che questa ipotesi spiegherebbe il motivo per cui un Credo che non poteva evidentemente essere la proclamazione ufficiale

382

· I simboli di fede della Chiesa antica

del concilio sia riuscito a farsi ritenere come tale da generazio­ ni acritiche di ecclesiastici. Le considerazioni ritenute decisive per la tradizione meri­ tano un riepilogo dettagliato.24 Prima di tutto, una testimo­ nianza di prima mano, come quella che abbiamo sulle attività del concilio di Costantinopoli, è sembrata priva di riferimenti a C. Gli atti ufficiali non sono stati conservati, probabilmente perché il concilio fu considerato ecumenico soltanto molto tempo dopo. D'altra parte, non c'è nessun accenno a un Credo di quattro canoni come quello confermato ufficialmente dal concilio o dalla lettera che, a conclusione dei lavori, fu man­ data a Teodosio con i canoni.25 In verità, le raccolte successive includono tre canoni con annesso il nostro Credo, ma si è con­ cordi nel ritenere che sia quelli che questo sono degli intrusi.26 Il primo dei canoni originali si limita a confermare la fede di Nicea con le parole: La fede dei 318 padri che si incontrarono a Nicea in Bitinia non deve essere messa da parte, ma deve restare come vincolante, e qualsiasi ere­ sia deve ricevere l'anatema, e in particolare quella degli eunomiani, o anomei, e quella degli ariani, o eudossiani, e quella dei semiariani, o pneumatomachi, e quella dei sabelliani, e quella dei marcelliani, e quel­ la dei fotiniani, e quella degli apollinaristi. La lettera di Teodosio, che compendia il lavoro del concilio, dice: «Dopo di ciò abbiamo pubblicato alcune concise defini­ zioni ( O'UV'tOJ.lOUç opouç ei;E>, fece rilevare:

" Citato da TEODORETO, Hist. ecci. 5,9: PARMENTIER, 289ss; la sezione rilevante è la 13, a p. 293. 28 Hist. ecci. 5,8: PG 67,576ss. 29 Hist. ecci. 7,9: PG 67,1436ss. "' Hist. ecci. 5,8: PARMENTIER, 288. 31 Ep. 102: PG 37,193.

384

I simboli di fede della Chiesa antica

Per parte nostra non abbiamo mai pensato, e mai potremmo ritenere alcuna dottrina preferibile alla fede dei santi padri che si riunirono a Nicea per distruggere L'eresia ariana. Aderiamo con l'aiuto di Dio e aderiremo a questa fede, riempiendo Le lacune che essi Lasciarono nei riguardi dello Spirito Santo, perché questo problema non era ancora stato sollevato. In ciò era naturalmente implicito, come osservò lo studioso tedesco, che s. Gregorio ammetteva solo il Credo di Nicea, malgrado fosse cosciente della mancanza di alcuni particolari. Non avrebbe potuto scrivere in questi termini, se avesse sapu­ to che una formula alternativa pienamente esauriente era già stata solennemente promulgata alcuni mesi prima.32 La terza e più sorprendente obiezione è il quasi assoluto silenzio circa un Credo costantinopolitano che avrebbe dovu­ to godere di preminenza dal 381 al 451 . Questo silenzio desta particolare sorpresa, perché i numerosi sinodi di quel periodo avrebbero dovuto accennare a questo Credo, se fosse esistito. Al terzo concilio generale, avvenuto a Efeso nel 431 , il Credo che svolse un ruolo autorevole e che fu inserito negli atti fu N. 33 Si votò anche perché non fosse consentito a nessuno «di pro­ porre o di comporre o di mettere insieme nessun'altra fede oltre quella definita dai santi padri che si radunarono a Nicea sotto la guida dello Spirito Santo».34 Perfino nel sinodo tenuto da Flaviano a Costantinopoli nel 448 per giudicare Eutiche non fu ricordato C, che, quantunque garantito dal concilio del 381, avrebbe dovuto godere di maggiore considerazione nella sua stessa città. C fu letto ad alta voce35 durante la settima ses­ sione36 del sinodo del 448 per ordine stesso dell'imperatore, e nella lettera di Flaviano a papa Leone, che lo metteva al cor­ rente dello svolgimento dei lavori,37 è riportato come testo

32 Cf. HAUCK, Rea[encykl. di HAUCK, 3• ed., Xl, 18. Per quanto riguarda i riferimenti a esso, ci ACO I, l, iii , 38; cf. 121; 122; 127; 128; 132; 134-135. 34 ACO l, I, vii, 105. " Cf. ACO II, I, i, 101; 120. ,. A CO Il, I, i, 138. 37 Cf. Ep. Leonis 22,3: PL 54,724. 33

X. Il Credo costantinopolitano

385

autorevole accanto al concilio di Nicea, al concilio di Efeso e alle lettere di s. Cirillo. Alcuni mesi dopo, all'inizio del 449, scri­ vendo all'imperatore che richiedeva una dichiarazione della sua fede, Flaviano diede una risposta quasi uguale: «Le nostre opinioni sono ortodosse e non possono essere biasimate, per­ ché ci conformiamo sempre alle divine Scritture e alle dichia­ razioni ufficiali dei santi padri che si incontrarono a Nicea e di coloro che si incontrarono a Efeso al tempo di Cirillo di felice memoria».38 Le parole «e a Costantinopoli», che ricorrono in molti manoscritti e che indicano un Credo di Costantinopoli, sono rifiutate dagli storici della scuola di von Harnack come un'intrusione nel testo autentico. La testimonianza del «latrocinio efesino» (449) rispecchia esattamente la stessa mentalità. Entrambi i comitati che vi si riunirono ignorarono evidentemente nello stesso modo C e furono ugualmente concordi nel riconoscere N come la sola formula autorevole. L'imperatore, nella lettera ufficiale al sinodo, fece riferimento alla «fede ortodossa esposta dai santi padri di Nicea e confermata dal sacro sinodo di Efeso»;39 ed Eutiche stesso asserì che era stato esposto a molti pericoli perché, in armonia con le risoluzioni adottate nel precedente concilio di Efeso, aveva deciso «di non pensare in altro modo che non fosse in accordo con la fede espressa dai santi padri».40 A parte i concili, tuttavia, la stessa reticenza nei riguardi dell'asserita ratifica di C a Costantinopoli nel 381 si riflette negli scritti di teologi di tutte le scuole del periodo in esame. Un'accurata ricerca di prove richiederebbe uno spazio maggiore di quello che può essere qui dedicato a questo argo­ mento. È da notare, tuttavia, che Nestorio, che fu patriarca di Costantinopoli fino al 431 e che per primo introdusse il Credo nella controversia cristologica, nella sua prima lettera a papa Celestino parlò con coerenza di «fede di Nicea».41 Il testo che

38

A CO Il, I, i, 35. ACO II, I, i, 73 e 82. 40 ACO II, I, i, 90s. 41 Scritta nel 429. Per quanto riguarda il testo cf. F. LooFS, Nestoriana, Halle 1905, 165ss. 39

386

I simboli di fede della Chiesa antica

usava, benché divergesse spesso grandemente da N nella sua forma integrale, non coincideva tuttavia con C e naturalmen­ te non gli era mai venuto in mente che qualche altro formula­ rio fosse autorevole come quello sancito dai 318 padri. Anche s. Cirillo era a conoscenza di un solo simbolo valido e vinco­ lante, che chiamava la fede stabilita dai padri di Nicea. Fu un accanito sostenitore del suo testo integro e non alterato, e una volta derise pesantemente Nestorio per aver ricordato che conteneva la clausola S 'INCARNÒ PER OPERA DELLO SPIRITO SANTO E DELLA VERGINE MARIA.42 In occidente s. Leone si riferì molte volte al Credo nel trattare il caso di Eutiche. Tal­ volta intendeva il Credo apostolico, ma altre volte citava esplicitamente la fede o le decisioni di Nicea.43 Ma non dimo­ strava in alcun modo la minima conoscenza del formulario costantinopolitano. In realtà, come ha coraggiosamente affermato una volta von Hamack,44 non c'è la minima traccia, nel periodo tra il 381 e il 451 , né nelle relazioni ufficiali dei sinodi orientali e occi­ dentali, né negli scritti di teologi ortodossi o eterodossi, del­ l'esistenza di C, e tanto meno un sintomo che fosse ritenuto l'ekthesis garantita dai padri di Costantinopoli. Si potrebbe obiettare, naturalmente, che questa congiura di silenzio fosse solo il risultato che il concilio di Costantinopoli non fu ricono­ sciuto come ecumenico almeno fino al 451 . Questa ipotesi ha una certa forza, perché sappiamo che solo i vescovi orientali vi parteciparono, e in pratica la maggior parte dei delegati prove­ niva esclusivamente dalle sedi della Tracia, dell'Asia Minore e della Siria. Le sue decisioni furono rifiutate fin dall'inizio in occidente e dai capi della Chiesa in Egitto. Ciò nondimeno, malgrado la sua impopolarità in alcuni luoghi, l'opera del con­ cilio non fu totalmente trascurata, come dimostrano la conser­ vazione dei suoi canoni e le allusioni degli storici della Chiesa. Inoltre, l'oscurità in cui C è avvolto si estende non solo all'oc-

42 Adv. Nest. 1,8: PG 76,49. 43 Cf. per esempio A CO Il, IV, 1 1 ; 15; 29-31. 44 Realencykl. di HAUCK, 3" ed., XI, 18.

X. Il Credo costantinopolitano

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cidente e all'Egitto, dove è forse spiegabile, ma anche all'orien­ te, e perfino alla stessa Costantinopoli. Il peso dunque della testimonianza esterna è sembrato a molti del tutto avverso alla tradizione storica dell'origine di C. Agli occhi di molti critici, tuttavia, il colpo di grazia sembrò essere il fatto, al quale si è accennato superficialmente nella parte precedente, che C evidentemente esisteva già molti anni prima del concilio di Costantinopoli. Il Credo che s. Epifanio, verso la fine del suo trattato Ancoratus,45 raccomandava come una formula battesimale ai presbiteri della chiesa di Syedra, in Panfilia, è praticamente identico al nostro testo. Il brano può essere collocato con certezza nell'anno 374, perché l'autore fa la prefazione al suo secondo Credo, nel capitolo seguente, con un'elaborata datazione. Se si ammette la sua identità, può benissimo essere che C abbia qualche collegamento col conci­ lio del 381, ma non può certamente essere stato redatto in quella circostanza. Il massimo che si può affermare è che il concilio abbia rilevato e ratificato un Credo locale battesimale esistente, ma i critici hanno pensato a questo proposito che si tratti di un fatto molto dubbio. I paragrafi precedenti hanno dato un riassunto degli avve­ nimenti contrari alla tradizione. La maggior parte degli studio­ si in passato li trovarono assolutamente decisivi, e rivolsero la loro attenzione su questioni accessorie ma strettamente con­ nesse. Prima di tutto, che cos'è questo Credo riportato da s. Epifanio? Fattane la stesura, egli passò a spiegarlo con le enig­ matiche parole: «Questa fede fu tramandata dai santi apostoli e nella Chiesa, la città santa, da tutti i santi vescovi, più di 310 di numero, riunitisi per la circostanza». La risposta, formulata prima di tutto da G.J. Voss46 e pienamente rielaborata da Hort,47 è che quanto esso contiene riguarda l'antico Credo di Gerusalemme48 rivisto in senso niceno. Se si tolgono le formu-

" 46 " 48

118: HOLL, l, 146s. Dissertationes tres de tribus symbolis, Amsterdam 1642, 32ss. Two Dissertations, 76ss; 84ss. Cf. sopra, p. 240 (c. 6, par. 3).

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I simboli di fede della Chiesa antica

le caratteristiche di Nicea, tutto il primo articolo e il secondo fino a PRIMA DI TUTTI 1 SECOLI è identico, parola per parola, al Credo che si può riprendere dalle Catechesi di s. Cirillo. Il secondo articolo sembra di fonte gerosolimitana, ma vi sono state inserite le frasi-chiave di Nicea e alcune affermazioni sto­ riche più precise - DALLO SPIRITO SANTO E DALLA VERGINE

MARIA, PER NOI SOTTO PONZIO PILATO, E SOFFRÌ, SECONDO LE

SCRITTURE, DI NUOVO [ . . . ] CON GLORIA. Nel terzo articolo lo sfondo o è totalmente di Gerusalemme o può essere rapporta­ to a simboli di fede collegati con Gerusalemme; e l'espressio­ ne aggiunta riguardante lo Spirito Santo trova il suo prototipo nelle lettere di s. Atanasio a s. Serapione di Thmuis (356-362). Hort avanzò un'ipotesi ancora più azzardata affermando, con grande abilità ed erudizione, che s. Cirillo stesso era probabil­ mente l'autore della revisione del Credo originale di Gerusa­ lemme, e ponendo l'accento sui possibili legami storici tra s. Cirillo e s. Epifania. Il secondo problema da risolvere, se dobbiamo scartare la tradizione, riguarda il legame tra il Credo riveduto di Gerusa­ lemme e il concilio del 381. Un collegamento ci doveva essere, altrimenti sarebbe stato impossibile presentarlo verosimilmen­ te come l'ekthesis dei 150 padri. Una volta ancora F.J.A. Hort propose una soluzione largamente accettata.49 Portò l'attenzio­ ne sul fatto che, benché s. Cirillo fosse egli stesso presente al concilio di Costantinopoli, la sua ortodossia non era al di sopra di ogni sospetto agli occhi dei teologi occidentali, perché per lungo tempo aveva militato nel partito antiniceno. Infatti l'ostilità dell'occidente contro il concilio era in gran parte dovuta al ruolo preminente svolto nelle sue deliberazioni da uomini della cui teologia c'era motivo di dubitare. Soprattutto, il vescovo che per un periodo fu presidente del concilio, Mele­ zio di Antiochia, non era affatto ritenuto come persona orto­ dossa in occidente. La Chiesa orientale aveva capito in pieno l'atteggiamento dogmatico dell'occidente. Nulla avrebbe potu­ to allora essere più naturale per s. Cirillo che presentare un

•• Two Dissertations, 97ss.

X. Il Credo costantinopolitano

389

Credo come prova della sua precisione teologica; e il Credo che avrebbe presentato sarebbe stato il Credo corretto di Gerusalemme. Questo poi, inserito negli atti del concilio quan­ do, molti anni dopo, la gente aveva ormai dimenticato l'esatto svolgimento dei fatti, può essere stato effettivamente conside­ rato come il Credo promulgato dal concilio. Una soluzione alternativa fu avanzata da J. Kunze in un'im­ portante monografia,50 e nei suoi aspetti principali è stata recentemente sostenuta da E. Molland.51 Secondo questa opi­ nione, C può essere stato usato durante la consacrazione bat­ tesimale ed episcopale di Nettario, pretore della città, che, eletto vescovo di Costantinopoli durante il concilio, di conse­ guenza ne divenne il terzo presidente. Al momento della sua elezione era noto per essere stato laico e non battezzato. È probabile, argomenta Kunze, che avesse ricevuto sia l'istruzio­ ne battesimale sia il sacramento stesso dalle mani di Diodoro di Tarso, sostenitore della sua candidatura. Il fatto che C venne alla luce per la prima volta a Cipro (Salamina era la città sede di s. Epifanio) e passò da lì a Syedra in Panfilia, sembrava a Kunze che ne rendesse evidente la possibile adozione da parte della Chiesa di Tarso in Cilicia. Il suo uso durante il battesimo e l'ordinazione di Nettario sarebbe dunque perfettamente na­ turale, se Diodoro era il vescovo ministrante. Ammettendo che fosse usato così, C sarebbe stato per questo motivo inevitabil­ mente legato al concilio, tanto più che Nettario, probabilmen­ te dopo questo avvenimento, ne fece il Credo ufficiale di Costantinopoli. Fra le altre prove, che a Kunze sembravano calzare con la sua supposizione, c'è una curiosa nota che è inse­ rita negli atti e che riporta la votazione a Calcedonia sulla que­ stione se N e C concordassero con il Tomo di Leone. Quando votò Callinico di Apamea in Bitinia, città non tanto lontana da Costantinopoli, precisò che il concilio del 381 era stato tenuto «durante la consacrazione del piissimo Nettario».52 C'era evi-

50

Das niciinisch-konstant. Symbol, 32ss. " Ci Opuscula Patristica, Oslo-Bergen-Tromso 1970, 236. 52 ACO Il, I, ii, 104.

390

I simboli di fede della Chiesa antica

dentemente un legame nella sua mente tra il Credo che face­ va parte della Definizione e l'elevazione di Nettario all'epi­ scopato. 4.

IL RIESAME DELLA TRADIZIONE

Le considerazioni elencate nella parte precedente pongono necessariamente l'attribuzione tradizionale di C al concilio di Costantinopoli di fronte a un inquietante interrogativo. Non possiamo eliminare con disinvoltura fatti, se di fatti si tratta, quali a ) l'assenza di qualsiasi traccia nei documenti contempo­ ranei che il concilio si sia reso responsabile senza motivo di un'iniziativa tanto diversa dalla riaffermazione di N, b) la pre­ sunta affermazione che nel lungo spazio di tempo tra Costan­ tinopoli e Calcedonia N era la sola formula autorevole, e c) la prova che C era in uso unicamente come un Credo battesima­ le locale quasi un decennio prima che i padri si incontrassero. Non c'è da stupirsi se per molti studiosi queste prove furono schiaccianti. D'altra parte, tuttavia, c'è sempre stata una mino­ ranza che si è rifiutata di cedere. Osserviamo, infatti, che Caspari aderì fortemente alla tradizione, malgrado capisse le difficoltà che questa implicava. Perfino nell'epoca di maggior vigore dell'ipotesi di Hort-von Hamack, si potevano udire distintamente voci che dubitavano della sua validità. Fra que­ sti coraggiosi conservatori si possono annoverare lo studioso tedesco W. Schmidt,53 lo storico ecclesiastico russo A.P. Lebe­ dey54 e il vescovo greco C. Papadopoulos.55 L'inglese F.J. Bad­ cock56 entrò in seguito nelle loro file. Ancor più recentemente Eduard Schwartz57 aggiunse la sua influente autorità in difesa della tradizione nella sua forma più intransigente. Tanto è il prestigio del suo insegnamento e, in particolare, della sua

" Cf. Neue Kirchliche Zeitschrift 10(1899), 935ss. 54 Per un riassunto su questo punto di vista, cf. JTS 4(1903), 285ss. " Cf. 'E7tt che Cartagena, Malaga, Cadice e forse anche Siviglia furono rian­ nesse all'impero. I rapporti commerciali erano in pieno svilup­ po. Una conoscenza sommaria delle usanze liturgiche greche era inevitabile; il rito mozarabico infatti tradisce molte tracce di influenza bizantina. In terzo luogo, il posto assegnato al Credo era significativo, subito dopo il canone e prima del Padre nostro. Lo scopo era di fare della solenne professione di fede una preparazione alla comunione. Il Credo continuò a essere ripetuto in questo punto nel rito mozarabico. Il risultato immediato delle decisioni del concilio fu di sta­ bilire l'uso eucaristico del Credo in Spagna in generale e nelle province spagnole del nord dei Pirenei: l'influenza dei visigoti raggiunse il Rodano. Ma qui la sua avanzata sul continente venne arrestata. Thttavia la Chiesa irlandese, con la sua ecletti­ ca liturgia, sembra essersi mostrata più incline ad accettare il nuovo modello. Il Messale di Stowe, scritto secondo il più

69

MANSI 9, 990.

'" BuRN, 1 15 (segue E.B. Pusey). 71

Chronicon: PL 72,863.

Xl. L'insegnamento e la storia di C

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recente editore72 nella prima decade del IX secolo, prescriveva il canto del Credo dopo il vangelo.73 In passato gli studiosi ave­ vano visto in questo un'imitazione dell'inserimento del Credo nella messa alla corte di Carlo Magno dopo il 798; ma la data antica del Messale, unita ad alcuni tratti del testo dello stesso credo, rende quest'ipotesi assai improbabile. La spiegazione di gran lunga più plausibile è quella avanzata di recente da Dom B. Capelle in un brillante articolo/4 che cioè la presenza del Credo nel Messale di Stowe non è altro che un esempio dell'in­ flusso liturgico spagnolo in Irlanda. Sappiamo che l'epoca d'oro di questo influsso è stato il periodo tra i secoli VII e VIII, e che le usanze spagnole adottate dall'Irlanda sono state mol­ tissime.7� I monaci irlandesi, tuttavia, si distinsero per aver inse­ rito il Credo in un punto diverso da quello preferito in Spagna. Sembrerebbe inoltre che in Irlanda l'usanza di cantare il Credo durante la messa fosse già ben affermata nell'VIII seco­ lo, ed è provato che l'uso sia passato da Il in Inghilterra. Il testo di C con cui operò Alcuino, nato ed educato nell'antica Nor­ thumbria, era molto simile a quello del Messale di Stowe, e anche prima che la corte di Aquisgrana avesse introdotto il Credo nell'eucaristia sembra che egli fosse già a conoscenza di quest'uso.76 Probabilmente lo sperimentò nella sua patria nel nord dell'Inghilterra, dove il modello del Credo usato era quello importato dall'Irlanda.n L'ambiente del successivo periodo dell'inserimento di C nel rito occidentale si muta spostandosi dalla metropoli visigota di Toledo e dai monasteri irlandesi alla corte di Carlo Magno ad Aquisgrana. Le cause sono molto incerte, e a prima vista con­ trastanti. Molti liturgisti autorevoli e degni di fede della Gallia

n Cf. G.F. WARNER, The Stowe Missal, H. Bradshaw Society XXXI e XXXII, 1915, Il, xxxiv. " Cf. fol. 20r del Messale che è conservato nella Biblioteca della Reale Accademia Irlandese, Dublino (sigla D. II, 3). 74 Rech. théol. anc. méd. 6(1934), 249ss. " Cf. E. BISHOP, in Liturgica Historica, Oxford 1918, 165-202. " Cf. Ep. ad Felic. 3 (PL 101,121) scritta nel 793. 77 Cosi CAPELLE, in Cours et conférences des semaines liturgiques.

438

l simboli di fede della Chiesa antica

del IX secolo, come Amalario di Metz78 (t 850 o 851), Rabano Mauro di Magonza79 (t 856) e Remigio di Auxerre80 (t 908 ca.), mantengono un rigoroso silenzio nelle loro attendibili opere sul Credo e sulla sua presenza nella messa. D'altra parte, Enea di Parigi (t 871 ), scrivendo verso la metà dello stesso secolo,S' parla de «la fede cattolica, che il sabato l'intera Chiesa dei Galli canta durante la messa». Ci sono due passi particolar­ mente importanti, tuttavia, che indicano la via della vera solu­ zione. Il primo è di Valafrido Strabone, abate di Reichenau (t 849), e merita di essere riprodotto per intero:82 Il simbolo della Chiesa cattolica - egli scrisse - viene giustamente ripe­ tuto durante la solennità della messa dopo il vangelo, cosicché per mezzo del santo vangelo possiamo credere col cuore nella giustizia, e per mezzo del Credo viene fatta la confessione con le labbra per la sal­ vezza. Ed è importante notare che il motivo per cui i Greci trasposero nella celebrazione eucaristica questo Credo (piuttosto che un altro), che noi, imitandoli, abbiamo adottato nella messa in canto musicale, era perché si trattava della particolare confessione del concilio di Costantinopoli. Forse sembrava più adatto anche ad essere musicato del Credo di Nicea, che era peraltro più antico. Inoltre, essi volevano che la pietà del fedele, durante la celebrazione dei sacramenti, combat­ tesse i veleni degli eretici con la medicina preparata nella stessa città imperiale. Da lì sembra che poi l'uso sia passato ai Romani. Fra i Galli e i Germani, però, lo stesso Credo cominciò a esser ripetuto con sem­ pre maggiore diffusione e frequenza (latius et crebrius) durante le cele­ brazioni eucaristiche, dopo la deposizione dell'eretico Felice, che fu condannato durante il regno del glorioso Carlo, capo dei Franchi.

Il secondo passo importante si trova nel resoconto conser­ vato dall'abate Smaragdo83 di un incontro tenuto ne11'810 fra papa Leone III e tre delegati, o missi, inviati a Roma da Carlo Magno. Il passo è troppo lungo per poter essere pubblicato integralmente, e in ogni caso l'uso rozzo del latino non consen-

'" Cf. il suo De ecci. offic. III (PL 105,1 101), scritto nell'820. Cf. il suo De cleric. instit. I (PL 107,297ss), scritto non più tardi dell'819. "" Cf. De divin. offic. 40 (PL 101,1246ss); fa isamente attribuito ad Alcuino. •• Adv. Graec. 93: PL 121,721. 82 De ecci. rerum exord. et increm. 22: PL 1 14,947. 113 PL 102,971ss; e anche MGH, Concilia, Il, 240ss. 19

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tirebbe una traduzione presentabile. Il vero argomento del dibattito era la legittimità di includere le parole E DAL FIGLIO nel Credo nella clausola sulla processione dello Spirito Santo. Infatti, l'intento della missione di Carlo Magno al papa potreb­ be benissimo essere stato di strappargli una qualsiasi conces­ sione ufficiale per l'inclusione della frase controversa nel Credo. In sostanza il papa rispose che, pur avendo dato il suo consenso al canto del Credo nella cappella regia di Aquisgra­ na e altrove nella Gallia, egli non aveva mai confermato uffi­ cialmente E DAL FIGLIO. Il punto interessante che ne emerge, per quanto ci riguarda ora, è che il canto del Credo nel rito franco era stato approvato durante il regno di papa Leone, e cioè in una data successiva al 795. Questo concorda esattamen­ te con la dichiarazione indipendente di Valafrido secondo cui l'usanza ebbe inizio dopo la deposizione di Felice l'Eretico. Sappiamo che Felice era il famoso vescovo adozionista di Urgel in Spagna (l'eresia adozionista scoppiò in Spagna negli ultimi decenni dell'VIII secolo), che fu infine condannato e costretto a fare atto di sottomissione durante il concilio riuni­ to ad Aquisgrana nell'ottobre del 798. Potremmo osservare, rapidamente, che il momento assegnato alla recita del Credo da parte dei franchi era quello che ora occupa in occidente, cioè immediatamente dopo il vangelo. Evidentemente essi erano consci che altrove stavano rompendo con la prassi (per esempio in Spagna), perché Valafrido pensò bene di fornire un'edificante giustificazione dell'uso dei franchi. Non abbiamo tuttavia ancora esaurito l'importanza della testimonianza di Valafrido. Non bisogna supporre che egli aves­ se un intento puramente cronologico nel ricordare la deposi­ zione di Felice. L'indiscutibile insinuazione che sta dietro le sue parole è che la controversia adozionista diede una spinta alle innovazioni liturgiche. Una conferma della sua supposizione non si può ricercare negli atti del concilio di Aquisgrana, per­ ché essi sono andati perduti. Ma ci sono fondati motivi di cre­ dere che s. Paolino di Aquileia, che con Alcuino ebbe una parte importante nella lotta contro l'insurrezione adozionista, scelse deliberatamente il Credo costantinopolitano come lo strumen­ to più efficace per combattere l'eresia. In tutto questo aveva

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dietro di sé Alcuino. Per esempio, nel sinodo di Cividale del Friuli da lui indetto nel 796 o 797, dopo aver inveito con elo­ quenza contro l'adozionismo, consigliò all'assemblea il Credo di Costantinopoli come il miglior rimedio contro errori di que­ sto genere. Dichiarò anche che la vera dottrina per opporsi all'adozionismo era inculcata molto meglio dal Credo che da qualsiasi altra cosa, e comandò al suo clero di imparare il Credo a memoria.84 Un'attenta analisi del testo carolingio del Credo, che è approssimativamente quello usato oggi in occidente, dimostra che esso è identico a quello promulgato in questa occasione da s. Paolino. Alla luce della conoscenza di questa sua politica e del fatto che il testo deliberato nei domini di Carlo Magno fu steso sotto il suo influsso, è difficile non con­ cludere che il motivo principale, se non l'unico, di portare il Credo nella messa, fosse il desiderio di respingere la minaccia dell'adozionismo.85 Bisognerebbe anche segnalare il fatto che la sua azione non fu considerata per niente come rivoluzionaria. L'impero carolingio si estendeva a sud fino alla Spagna, e inclu­ deva perciò alcune province dove il Credo era stato cantato durante la messa fin dai giorni del re Recaredo; è assai proba­ bile che quest'uso fosse diffusissimo anche nel nord dell'Inghil­ terra. Questo spiega l'affermazione altrimenti ben strana che la recita del Credo divenne «più diffusa e frequente» dopo la deposizione di Felice. L'aver posto il Credo nel rito franco dopo il vangelo tradisce con ogni probabilità l'azione influente di Alcuino. Proveniente dalla Northumbria, dove il Credo era stato forse cantato in quel punto, egli fu probabilmente il fau­ tore dell'usanza preferita anche dalla liturgia spagnola. Nel frattempo la Chiesa romana, con tutta la regione eccle­ siastica soggetta al suo dominio liturgico, osservava a distanza con atteggiamenti nettamente conservatori e si trattenne dal seguire l'andazzo della nuova moda. Lo studioso deve fare attenzione a non prendere troppo alla lettera dichiarazioni

.. MGH, Concilia, Il, 180s; 189. "' Su tutto questo cf. l'articolo molto suggestivo di dom B. CAPELLE, in Rech. théol. anc. méd. 1(1929), 7ss.

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come quella di Valafrido che «da lì [cioè Costantinopoli] si ritiene che l'uso sia passato ai Romani». Probabilmente questo rappresenta ciò che i liturgisti desideravano pensare, e forse pensavano sinceramente, benché il termine qualificante credi­ tur abbia l'aria di una dolorosa sensazione di dubbio. Dovrem­ mo esser cauti anche per un brano riferito da Amalario di Metz, nel suo Eclogae de officio missae,86 sull'uso romano di recitare il Credo. Il libro è stato compilato probabilmente nel X secolo; e, in ogni caso, quello che aveva in mente l'autore non era la prassi della Chiesa romana stessa, ma l'Ordo Roma­ nus che il predecessore del papa Leone, Adriano l, aveva invia­ to alla Chiesa gallicana su richiesta di Carlo Magno,87 e nel quale probabilmente erano state introdotte delle rubriche riguardanti il Credo. Thtte le testimonianze veramente fonda­ te che abbiamo (per esempio il rapporto di Smaragdo sull'in­ contro tra i missi e papa Leone) fanno chiaramente pensare che la recitazione del Credo durante la messa fosse disappro­ vata da Roma. Dovevano passare duecento anni prima che un altro impe­ ratore - forse una figura meno famosa nella storia europea di quanto lo fosse Carlo Magno, ma che aveva concesso favori al papa per cui quest'ultimo si sentiva obbligato a ricambiare riuscisse a indurre uno dei successori di Leone a portare l'uso romano a conformarsi con il resto della cristianità. L'abate Bemone di Reichenau, che era anch'egli un testimone oculare, racconta come l'imperatore Enrico II, nel visitare Roma nel 1014 per la sua incoronazione, fosse meravigliato di constatare che la messa, ivi celebrata, mancasse ancora di un Credo.88 Se noi - scriveva Bernone - come spesso viene asserito, non possiamo cantare l'inno angelico nei giorni festivi perché il clero romano non lo canta, non dovremmo ugualmente recitare il Credo dopo il vangelo, perché i romani non lo hanno mai cantato fino ai tempi dell'imperato­ re Enrico di felice memoria. Ma essendo stato richiesto da questo impe-

.. PL 105,1323. Per quanto riguarda la lettera del papa, cf. MGH, Epp. , III, 626. 111 Cf. il suo Libell. de quibusdam rebus ad miss. offic. pertin. : PL 142,1060s.

87

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ratore in mia presenza perché fosse tale la loro prassi, li udii dare una risposta di questo genere, che la Chiesa romana non era mai stata inquinata con la feccia dell'eresia, ma era rimasta senza scosse nella solidità della fede cattolica secondo l'insegnamento di s. Pietro, e così era più necessario che questo simbolo venisse cantato di frequente da coloro che potevano essere contaminati da qualche eresia. Ma il signo­ re imperatore non desistette, finché, aiutato dal consenso di tutti, non persuase il signore apostolico Benedetto che essi dovevano cantare il simbolo durante la messa pubblica.

Il papa si sentiva fortemente in debito verso Enrico per l'aiuto ricevuto nella lotta vittoriosa contro l'antipapa rivale Gregorio nel 1012, e in generale era ben disposto verso l'impe­ ratore e le sue richieste dando prova di buon senso in questio­ ni di tal genere. In ogni caso Roma in questo periodo era sotto l'influsso liturgico della Chiesa germanica, e l'adozione del Credo non era che il termine di una lunga serie di graduali imi­ tazioni.89 5. I L FILIOQUE Stranamente intreèciato con una serie di circostanze che permisero al Credo di introdursi nell'eucaristia, è il problema del fatidico inserimento del filioque nel terzo articolo che, a partire dall'VIII secolo, è stato uno degli argomenti più caldi e discussi tra la Chiesa orientale e quella occidentale. Per molti secoli il testo di C, accettato nella Chiesa latina e nelle Chiese in comunione con essa, conteneva la clausola CHE PROCEDE DAL PADRE E DAL FIGLIO (filioque), riferita allo Spirito Santo. Le Chiese ortodosse orientali rimasero fieramente, anzi fana­ ticamente, attaccate al più antico CHE PROCEDE DAL PADRE. Un ampio dibattito sull'infelice aggiunta con tutte le sue implica­ zioni comporterebbe un esame di almeno tre problemi: la teo­ logia della duplice processione, la storia dell'inserimento del filioque e la storia della lunga polemica su tutto questo fra oriente e occidente. Qui ci occuperemo principalmente del

89 Cf. T. KLAUSER, in Historisches Jahrbuch 53(1933}, 169ss.

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secondo, benché occorra premettere alcune osservazioni sul primo problema. Il terzo problema appartiene di diritto al campo della vera e propria storia della Chiesa più che agli studi sul Credo. Per quanto riguarda la teologia, la dottrina che la terza Per­ sona proceda nella sua esistenza ugualmente e coordinata­ mente dalla prima e dalla seconda era caratteristica, nella sua forma più piena, del trinitarismo occidentale, e in particolare della formulazione di esso fatta da s. Agostino. Fin dai tempi di Tertulliano90 la formula tipica era stata «dal Padre per il Figlio>>. Nel IV secolo, tuttavia, si dedusse un senso più profon­ do e cioè che dal Figlio, unitamente al Padre, procedeva real­ mente lo Spirito Santo. Il testo al quale ci si riferiva costante­ mente era la dichiarazione del Signore in Gv 16,14: «Egli (cioè lo Spirito) prenderà del mio». I precursori di tutto questo furo­ no s. Ilario (cf. il suo Patre et Filio auctoribus)91 e Mario Vitto­ rino92 (non s. Ambrogio,93 i cui testi si riferiscono alla missione esterna dello Spirito), ma entrambi evitano di parlare diretta­ mente della sua processione dal Figlio. S. Agostino non sentì la necessità di una specificazione. Il suo trinitarismo non ebbe inizio con il Padre come fonte delle altre due Persone, ma con l'idea dell'unica, semplice Divinità che nella sua essenza è Tri­ nità. Il logico sviluppo del suo pensiero incluse la dottrina che lo Spirito Santo procedesse in modo altrettanto vero dal Figlio come dal Padre, ed egli non ebbe scrupoli a esporre questo pensiero con franchezza e precisione in numerose circostan­ ze.94 Ammise che in senso primario (principaliter) lo Spirito procedeva dal Padre, perché era il Padre che aveva dotato il Figlio della capacità di far procedere lo Spirito Santo.95 Ma era

"' Cf. Adv. Prax. 4: CCL 2,1 162: «spiritum non aliunde puto quam a patre per filium». " De trin. 2,29: cf. 8,20; 26: PL 10,69; 250s; 255. "' Per esempio Adv. Ar. 1,13; 1 ,16; Hymn. 1,62s. 93 Per un esame più completo, cf. J.N.D. KELLY, The Athanasian Creed, London 1964, 86-90. "' Cf., per esempio, Contra Max. Ar. 2,14,1; 2,17,4; De trin. 2,4,7; 20,29: PL 42,770; 784s; 824; 908. " Cf. De trin. 15,17,29; 15,26,47: PL 42,1081; 1095.

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premessa fondamentale della sua teologia che qualsiasi cosa si potesse predicare di una delle Persone potesse esser predicata delle altre. Era perciò inevitabile che considerasse il rinnega­ mento della duplice processione come una violazione dell'uni­ tà e della semplicità divina. Questo modo di pensare fu universalmente accettato in occidente nel V e nel VI secolo: non ci poteva essere un esem­ pio più illuminante per il prestigio che il grande africano gode­ va nella cristianità latina. Thttavia la teologia greca non era assolutamente preparata a seguire l'ardita strada che a s. Ago­ stino sembrava così facile e così naturale. Molti passi possono essere presi dai padri orientali, e sono stati citati nel corso della lunga e amara polemica, che sembrano avvicinarsi alla dottri­ na della duplice processione. Uno o due autori, come s. Epifa­ nio,96 possono perfino aver subìto l'influsso dei loro colleghi latini, tanto da diventare un'eco del loro linguaggio. In genera­ le, però, i padri orientali non persero mai di vista l'idea espo­ sta con forza da s. Gregorio di Nissa al termine del suo Quod non sunt tres dii:97 quello che giustificava le distinzioni nella Trinità era il fatto che una delle Persone partecipava la relazio­ ne di causa (tò ai: nov) alle altre due. Così essi non trovavano difficoltà a dire che lo Spirito procedeva dal Padre per il Figlio, considerando il Figlio come strumento o agente del Padre. Ma essi consideravano come un assioma il fatto che solo il Padre fosse la fonte o l'origine della divinità, e che sia il Figlio che lo Spirito procedevano, nel vero e proprio senso del termine, da lui, il primo per generazione e il secondo per processione. Il loro fermo rifiuto di prendere lo stesso orientamento dei lati­ ni non era un mero frutto di ostinazione, ma derivava da una sensazione istintiva del profondo principio che era implicato. Ciò che realmente divideva l'oriente dall'occidente nella loro acida e spesso insipida polemica sul filioque era una sostanzia­ le differenza di approccio al problema del mistero della Divi­ nità una e trina.

,. Cf. Ancor. 7,8: HoLL, 1, 15. VI PG 45,133.

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Naturalmente i capi della cristianità occidentale, pur accet­ tando pienamente e insegnando la dottrina della duplice pro­ cessione, agivano con molta cautela e diplomazia per dichia­ rarla dogma ufficiale di fronte ai teologi orientali. Riunioni tenute lontano dal centro della cristianità, come il terzo conci­ lio di Toledo {589) e il sinodo inglese di Hatfield {680),98 pote­ vano proclamare la dottrina e lanciare l'anatema su coloro che la negavano, ma il papato evitò deliberatamente di compro­ mettersi. Per portare un solo esempio, la processione dello Spi­ rito dal Figlio come pure dal Padre veniva espressamente inse­ gnata da s. Gregorio Magno99 (590-604), ma la formula veniva accuratamente omessa dalla professione di fede proclamata quasi un secolo dopo (680) da papa Agatone in nome di un sinodo tenuto a Roma.100 Nella formulazione dei simboli di fede l'affermazione della duplice processione apparve per la prima volta, sembrerebbe, in Spagna, in una serie di formule locali orientate contro l'eresia priscillianista. Una delle più antiche di queste formule è il cosiddetto Credo di Damaso, 101 attribuito nella sua forma originaria a s. Girolamo, che A.E. Burn identifica con la risposta del papa al trattato indirizzato­ gli da Priscilliano di Avila nel 380. Secondo l'ipotesi avanzata da K. Ktinstle, essa era stata in realtà compilata nel sinodo di Saragozza, che in quello stesso anno condannò l'eretico, e che potrebbe averla inviata a Damaso perché l'approvasse. Di tono chiaramente antipriscillianis ia, contiene la dichiarazione: «Noi crediamo [ . . . ] nello Spirito Santo, non generato ed eter­ no, non creato né fatto, ma che procede dal Padre e dal Figlio».102 Un altro esempio è il Credo con dodici anatemi, la cui paternità spesso è stata attribuita al concilio di Toledo (400)/03 ma che, secondo il suggerimento di Dom Morin,104 potrebbe essere il Libellus in modum symboli, smarrito per " Cf. BEDA , Hist. ecci. 4,17: PL 95,198s. ., Cf. Moral. 1 ,22,30; Hom. 26,2: PL 75,541; 76,1198. 1 00 Ep. 3: PL 87,1220. 101 Per il testo cf. HAHN, 200. Cf. BURN, 245ss. 1"' Antipriscilliana, Freiburg i.B. 1905, 46ss. 103 Per il testo cf. HAHN, 168; e anche MANSI 3, 1003. 104 R. Bén. 10(1893), 385ss.

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lungo tempo, di Pastore, vescovo di Galizia nel 433. Anche qui viene espressa la dottrina dello «Spirito, il Paracleto, che non è né il Padre stesso né il Figlio, ma procede dal Padre e dal Figlio». Molti altri testi simili potrebbero essere citati, e lo stu­ dioso potrebbe essere tentato di concluderne che nel filioque ci fosse qualcosa di particolarmente grave per il priscilliani­ smo. La vera spiegazione, tuttavia, è che il priscillianismo manifestava tendenze del tutto sabelliane, e che il rifiuto di esso richiedeva un'esposizione dettagliata dell'insegnamento trinitario. La presenza del filioque nei simboli di fede spagnoli di questo periodo testimonia unicamente la popolarità della dottrina in questa parte della Chiesa occidentale. Un vivace esempio dell'interesse che la duplice processio­ ne aveva per la cristianità spagnola è dato dalla registrazione degli atti del concilio di Toledo convocato da Recaredo nel 589. All'apertura della sessione il re si indirizzò ai vescovi e ai notabili riuniti, insistendo a lungo sulla sua conversione e sul suo ardente desiderio di far ciò che poteva per divulgare la vera fede.10� Quindi proseguì recitando una formula, nella quale dichiarò: In grado uguale lo Spirito Santo deve essere professato da noi, e dob­ biamo predicare che egli procede dal Padre e dal Figlio ed è di un 'uni­ ca sostanza con il Padre e il Figlio; inoltre, che la Persona dello Spiri­ to Santo è la terza della Trinità, ma che anch 'egli condivide pienamen­ te l'essenza divina con il Padre e il Figlio.

Evidentemente, la dottrina veniva considerata come un'af­ fermazione rinnovata contro l'arianesimo. Ciò implicava che il Figlio, essendo ugualmente fonte dello Spirito, non fosse in alcun modo inferiore al Padre, e che tutte e tre le Persone erano perfettamente coeguali e partecipavano ugualmente dell'essenza divina. Il concilio segui con entusiasmo l'imposta­ zione di Recaredo, e redasse il terzo dei suoi anatemi nella forma: «Chiunque non crede nello Spirito Santo, o non crede

1115

MANSI 9, 977ss.

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che egli procede dal Padre e dal Figlio, e rinnega che egli sia coetemo e coeguale al Padre e al Figlio, sia anatema su di lui».106 Questo linguaggio stava a indicare che, mentre la dottri­ na veniva ritenuta essenziale, essa tuttavia non era considera­ ta dal concilio come rivoluzionaria, ma veniva piuttosto accet­ tata come un articolo di ortodossia. Si è spesso ritenuto che l'inserimento della parola filioque nel testo vero e proprio del Credo debba datare da questa circo­ stanza. Re Recaredo recitò formalmente il Credo di Nicea, con i suoi anatemi, e il Credo costantinopolitano, che includeva la fede dei primi quattro concili generali. È sembrato incredibile, tenuto conto del suo preciso linguaggio sulla questione della duplice processione e dell'entusiasmo con cui il concilio lo accolse, che il termine che esprimeva la dottrina non dovesse essere inserito nel Credo. L'evidenza dei manoscritti tuttavia non è molto chiara su questo punto. Molti anni fa A. E. Bum fece notare che molti importanti manoscritti contenenti gli atti del concilio o mancano della parola in questione o la riportano per­ ché inserita da uno scrivano successivo.107 La questione richiede un'ulteriore indagine, ma sembra sia giusto concludere che così come fu recitato in origine al concilio di Toledo il testo di C fosse quello puro senza filioque. Era inevitabile però che, con la cre­ scente importanza data alla dottrina, la parola dovesse rapida­ mente introdursi nel Credo. I manoscritti spagnoli dei secoli suc­ cessivi riportano abbondanti spiegazioni del processo in corso. Il resto della storia è assai noto. L'uso del filioque si diffuse dalla Spagna alla Gallia, dove, anche prima di fissarsi nel Credo, trovò accoglienza in alcuni riti del prefazio della messa.108 All'inizio sembra che l'occidente non fosse realmente a conoscenza del fatto che la dottrina della duplice processio-

106

MANSI 9, 985. Cf. il suo breve articolo in JTS 9(1908), 301s. Malauguratamente sem­ bra che nessuno abbia seguito e confermato le sue ricerche. 1'"' Cf. la prima contestatio della terza delle messe galliche di Mone (PL 138,867), trovata su un palinsesto a Reichenau datato al 650 circa: lo Spirito viene indicato come «sussistente per una processione mistica dal Padre e dal Figlio>>. 107

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ne rappresentava un decisivo passo avanti, o certamente un'esplicitazione, dell'insegnamento dei secoli precedenti. Così il sinodo di Hatfield, convocato per consolidare la Chiesa contro le presunte tendenze eutichiane di monotelismo, pro­ clamò la sua leale adesione alle decisioni dei primi cinque con­ cili ecumenici e del sinodo del Laterano tenuto nel 649 sotto papa Martino l. Ma la professione di fede che pubblicò si espri­ me come segue: Noi conosciamo e glorifichiamo nostro Signore Gesù Cristo come loro [cioè i padri dei concili generali] lo glorificano, senza aggiungere o sot­ trarre alcunché, e lanciamo l'anatema col cuore e con la voce contro coloro ai quali essi lanciano l'anatema, e riconosciamo coloro che essi riconoscono, glorificando Dio Padre senza origine, e il suo unigenito Figlio, generato dal Padre prima di tutti i tempi, e lo Spirito Santo che procede in modo ineffabile dal Padre e dal Figlio, come quei santi apo­ stoli e profeti e dottori che abbiamo ricordati109 hanno insegnato.

Un linguaggio come questo risulta ancor più strano se si ricorda che l'arcivescovo Teodoro, che presiedeva il sin odo, era stato un tempo monaco di Tarso, per cui presumibilmente era a conoscenza del vero testo del Credo. Prima o poi, tuttavia, doveva crearsi una frattura fra oriente e occidente. Il primo scontro sembra che sia avvenuto durante il concilio di Gentil­ ly, nella Pasqua del 767. Gli argomenti da discutere subito erano la venerazione delle immagini e la restituzione di terri­ tori in Italia dove Costantinopoli riteneva di avere dei diritti; ma è stato riferito110 «che fu esaminato fra i Greci e i Romani il problema riguardante la Trinità, se lo Spirito Santo procede dal Figlio così come procede dal Padre». Evidentemente era accaduto che i delegati occidentali accusarono gli ambasciato­ ri dell'imperatore Costantino V (Copronimo) di negligenza circa la questione dell'adorazione delle immagini, ed essi risposero stigmatizzando l'inopportunità d'inserire il filioque nel Credo.

'"" BEDA, Hist. eccL 4,17: PL 95,199. 110 MANSI 12,677; ADO DI VIENNE, Chron. : PL 123,125.

XI. L'insegnamento e la storia di C

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La disputa, che era così scoppiata quasi incidentalmente, non impiegò molto a divampare seriamente. Pipino, re di Fran­ cia, che era stato presente al concilio di Gentilly, morì nel 768, e Carlo Magno, suo figlio e successore, accettò il filioque con un certo fervore, cogliendo ogni occasione per farne sfoggio davanti all'oriente inorridito e facendo del suo meglio per indurre il papato a dargli il suo sostegno morale e pratico. Una prova ne è il rimprovero da lui indirizzato al papa Adriano I nel 794. Il patriarca di Costantinopoli, Tarasio, aveva mandato una lettera circolare al clero di Antiochia, di Alessandria e di Costantinopoli, con una formula che esprimeva la dottrina della processione dello Spirito Santo solo dal Padre, e sembra che Adriano avesse dato il suo consenso a questa confessione durante il settimo concilio generale tenuto a Nicea nel 787. Carlo Magno rimproverò il papa di aver ammesso delle dottri­ ne tanto errate come quelle di Tarasio, «che professa che lo Spirito Santo procede non dal Padre e dal Figlio, secondo la fede del simbolo di Nicea, ma dal Padre per il Figlio». Il papa, nella sua risposta scritta anch'essa nel 794, difendeva il patriarca, dicendo che la sua teologia non era derivata da lui, ma era conforme all'insegnamento di molti antichi padri e alla prassi della Chiesa romana.111 Nello stesso anno il filioque ebbe grande risonanza nel sinodo di Francoforte sul Meno (794), che fu riunito per condannare l'eresia adozionista e i suoi principali sostenitori, Elipando di Toledo e Felice di Urgel. Carlo Magno in persona era presente, e il papa era rap­ presentato dai suoi legati. Fra i documenti che vennero letti c'era il Libellus dei vescovi italiani contro Elipando, che fu probabilmente opera di s. Paolino di Aquileia. In questo docu­ mento veniva fortemente affermata la dottrina della duplice processione. 112 In seguito, nel corso del sinodo, venne letta una lettera di Carlo Magno indirizzata a Elipando e agli altri vescovi spagnoli, e allegata ad essa si trovava una forma di Credo in cui l'imperatore proclamava di credere nella duplice

111

112

MGH, Epp. , V, 7ss. MGH, Concilia, Il, 136.

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I simboli di fede della Chiesa antica

processione.113 Due anni dopo, nel 796 o nel 797, al sinodo di Cividale del Friuli riunito da s. Paolino, il simbolo espresso fu C con il filioque nel terzo articolo.114 Nella seduta inaugurale s. Paolino ne giustificò abilmente l'inserimento: esso non violava il principio che proibiva la costituzione di nuovi Credo più di quanto non lo avevano violato i padri del 381 quando si senti­ rono obbligati a ritoccare N. Era diventato necessario inserire E DAL FIGLIO «a causa di quegli eretici che mormorano che lo Spirito Santo è solo dal Padre». m Non c'è dubbio che la forma in cui fu cantato il Credo nella cappella regia di Aquisgrana, e in generale durante il dominio dei franchi dopo il 798, contene­ va anche la clausola controversa. Thttavia il papato non si lasciò persuadere ad accettarla, e Carlo Magno, che considerò il filio­ que come un trionfo contro l'impero orientale, non si diede pace finché non riusci a convincere Roma ad allinearsi sulle sue posizioni. Fece un efficace tentativo in questo senso nel penoso incidente di Gerusalemme dell'80S. Vi era sul Monte Oliveto un convento di monaci latini che venivano trattati come eretici e minacciati di espulsione dai loro vicini ortodossi perché can­ tavano il Credo costantinopolitano durante la messa con l'ag­ giunta di E DAL FIGLIO. Naturalmente essi resistevano, difende­ vano i loro diritti in materia, e indirizzarono una lettera116 a Leone III lamentandosi e domandando che cosa dovevano fare. Gli chiesero di informare Carlo Magno, perché proprio nella sua cappella avevano sentito il Credo cantato col filioque. Sembra che il papa, prima di tutto, abbia mandato loro una pro­ fessione di fede indirizzata alle Chiese orientali in cui afferma­ va la processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Poi informò l'imperatore del fatto.117 Carlo Magno, che nella Terra Santa aveva il ruolo di protettore dei cristiani, incaricò Teodul­ fo di Orléans di scrivere il suo trattato De Spiritu Sancto118 e

"' MGH, Concilia, Il, 163. 114 MGH, Concilia, Il, 187. 11s MGH, Concilia, Il, 182. 116 Cf. Ep. peregrin. monach. : PL 129,1257ss. 117 Cf. Ep. 15: PL 102,1030ss e 129,1260ss. 118 PL 105,239ss.

Xl. L'insegnamento e la storia di C

45 1

riuni un concilio ad Aquisgrana nell'809-810. I delegati presen­ ti approvarono e sottoscrissero il libro di Teodulfo, si pronun­ ciarono a favore del filioque, e probabilmente comandarono anche che venisse aggiunto al Credo.119 In seguito a questa riu­ nione Carlo Magno inviò una delegazione a Leone III di cui l'abate Smaragdo conservò un resoconto. Come dice il rappor­ to della conversazione, gli inviati usarono tutte le loro arti sul papa senza profitto. Questi mostrò un certo conservatorismo romano, e ben sapendo che, se si fosse arreso, si sarebbe messo in un'imbarazzante situazione di fronte all'oriente, evitò le loro ingegnose argomentazioni. La verità dottrinale riassunta dal filioque, come egli liberamente ammise, era essenziale all'orto­ dossia, ma non tutte le verità essenziali erano racchiuse nel Credo. Egli ammise anche di aver confermato il canto del Cre­ do nei territori franchi, ma il suo permesso non aveva inteso giustificare una forma modificata di esso. Continuò dicendo che, se volevano la sua vera opinione, tutta questa agitazione sarebbe stata evitata se essi avessero aderito all'usanza della Chiesa romana, per cui il Credo non veniva cantato durante la messa ma usato unicamente per motivi di catechesi. Il suo pare­ re era dunque di togliere il Credo dall'eucaristia gradualmente, iniziando dalla cappella regia.120 In questo modo Leone III uscl vittorioso dall'incontro. Sembra tuttavia che egli abbia voluto rilasciare un documento più noto e più duraturo della sua decisione di aderire ferma­ mente alla versione primitiva del Credo. Il cronista Anastasio riferisce che egli fece incidere due scudi d'argento con l'iscri­ zione del Credo, una in greco e l'altra in latino, che furono affissi nella basilica di S. Pietro.121 Nel IX secolo s. Pier Damia­ ni e altri notarono lo strano monumento e riprodussero parte della sua iscrizione. La loro relazione testimonia chiaramente che il terzo articolo dice CHE PROCEDE DAL PADRE. 122 All'inizio

119 MGH, Concilia, II, 235s. "" MGH, Concilia, II, 240ss; e anche PL 102,971ss. 121 PL 128,1237-1238. 122 De process. Spir. Sancti 2: PL 145,635.

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I simboli di fede della Chiesa antica

del IX secolo, dunque, benché la dottrina della duplice proces­ sione fosse insegnata dappertutto nella Chiesa occidentale e la clausola filioque fosse inserita nel Credo in Spagna, in Francia , in Germania, e in ogni caso nel Nord Italia, Roma rifiutò di alterare il testo ufficialmente autorizzato. Indubbiamente uno dei motivi fu un radicato tradizionalismo; un altro può essere stata la riluttanza a seguire le orme delle Chiese provinciali, benché fosse iniziato il periodo in cui Roma cominciava a ri­ prendere i riti dalla liturgia gallicana. Deve esserci stata anche una comprensibile volontà da parte del papato di non mettere se stesso e la Chiesa occidentale irrimediabilmente in cattiva luce agli occhi di Costantinopoli. Altra cosa invece era per le Chiese lontane adottare nel loro Credo la clausola controver­ sa: ma la Santa Sede si sarebbe compromessa molto di più facendo un passo irrevocabile. Sembra che i papi abbiano con­ servato questo atteggiamento ancora per due interi secoli. Anche durante la polemica di Fotino, a metà del IX secolo, quando il patriarca di Costantinopoli urlava violente accuse di eresia contro l'intera Chiesa occidentale e, in particolare, l'ac­ cusava di ammettere la duplice processione, nessun documen­ to dimostra che il Credo di Roma sia stato modificato. In quale data precisa e in quali circostanze Roma accolse nel Credo il filioque rimane un mistero. La teoria che è stata ampiamente accettata è quella che la circostanza decisiva fu il giorno in cui, sopraffatto dagli argomenti persuasivi dell'imperatore Enrico Il, Benedetto VIII acconsentì che il Credo costantinopolitano venisse cantato durante la santa eucaristia. L'ipotesi è credibi­ le: è difficile pensare che il papa potesse essere tanto privo di diplomazia da sostenere di fronte all'imperatore un testo del simbolo in cui mancava la frase alla quale la Chiesa di Carlo Magno e i suoi successori davano tanta importanza.

Capitolo XII

Il Credo apostolico

l. IL «TEXTUS RECEPTUS»

(T)

Dopo il Credo costantinopolitano, il più importante som­ mario di fede della cristianità è il cosiddetto Credo apostolico. Fatta eccezione dei gruppi anabattisti, la sua autorità fu in generale riconosciuta durante la Riforma. Martin Lutero lo scelse come uno dei tre formulari che uniscono nella fede e sia Calvino che Zwingli lo inclusero nelle loro norme dottrinali. La Chiesa inglese gli ha dato un'eccezionale importanza e ne ha imposto la recita due volte al giorno nella preghiera della mattina e della sera. Non è stato mai classificato fra i modelli teologici, e di conseguenza non ha un posto nella liturgia delle Chiese orientali ortodosse, ma è scomparso ormai da tempo il sospetto con cui era considerato una volta. Nel XX secolo la sua importanza si è accresciuta e diffusa, perché è stato ricono­ sciuto da molte assemblee ecumeniche come l'unica espressio­ ne autorevole della fede cristiana. Nel 1920, per esempio, venne presentato dalla Conferenza di Lambeth, nel corso del suo famoso Appello al popolo cristiano , come uno dei quattro pilastri (gli altri erano le sacre Scritture, i due sacramenti del Signore e il sacerdozio) su cui poteva essere costruita l'unità visibile della Chiesa.1 Ugualmente, alla Conferenza mondiale

' Cf. sezione VI dell'Appello, che formava la nona delle risoluzioni adot­ tate dalla Conferenza (R. 28 del Rapporto, pubblicato nel 1922). Cf. Enchiri­ dion Oecumenicum [EO) 6/3031.

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I simboli di fede della Chiesa antica

di Fede e Costituzione, che si tenne a Losanna nel 1927, eccle­ siastici orientali e occidentali lo recitarono insieme durante la sessione di apertura, e si riunirono proclamandolo come l'espressione adeguata del messaggio cristiano.2 Il testo del Credo apostolico, nella forma latina e italiana, viene pubblicato qui sotto. La versione latina corrisponde esat­ tamente alla forma data da Melchiorre Hittorp, canonico di Colonia, nel cosiddetto Ordo Romanus antiquus, che egli riprese come parte introduttiva del suo autorevole De divinis catholicae ecclesiae officiis ac ministeriis, pubblicato nella sua città episcopale nel 1568.3 Esso s'identifica con un Credo che godeva autorità in occidente al termine del Medioevo, e che i riformatori stessi adottarono come loro norma di fede ( Lutero tuttavia leggeva CRISTIANA invece di CATTOLICA ) . TEXTUS RECEPTUS

Credo in Deum Patrem omnipoten­ tem, creatorem coeli et terrae; Et in Iesum Christum, filium eius uni­ cum, dominum nostrum, qui con­ ceptus est de Spiritu sancto, natus ex Maria virgine, passus sub Pontio Pilato, crucifixus, mortuus et sepul­ tus, descendit ad infema, tertia die resurrexit a mortuis, ascendit ad coelos, sedet ad dexteram Dei Pa­ tris omnipotentis, inde venturus est iudicare vivos et mortuos; Credo in Spiritum sanctum, sanctam ecclesiam catholicam, sanctorum communionem, remissionem pec­ catorum, carnis resurrectionem, et vitam aeternam. Amen.

Io Credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra; E in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che fu concepito dallo Spirito Santo, nacque dalla Vergine Maria, soffri sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese all'inferno, e il terzo giorno risuscitò dai morti, salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente, di lì verrà a giu­ dicare i vivi e i morti; Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei sant� la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, e la vita eterna. Amen.

2 Cf. G.K.A. BELL, Documents of Christian Unity, 2' ser., 1930, 9. I rappre­ sentanti ortodossi conservarono il ioro atteggiamento tradizionale con una cauta nota a piè di Ra�ina. Cf. EO 6/326-436.930-932. 3 Cf. p. 73 dell ediZione del 1568. Cf. anche Maxima bibliotheca veterum patrum et antiquorum scriptorum ecclesiasticorum, Lugduni 1677, XIII, 696, dove l' Ordo Romanus antiquus venne opportunamente ristampato.

XII. Il Credo apostolico

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Prima di tutto, dovremmo notare (il fatto non è mai stato negato) che ciò che troviamo qui è una variante piuttosto ela­ borata dell'Antico Credo romano ( R) che abbiamo identifica­ to e studiato nei capitoli III e IV. Per facilità di riferimento gli viene di solito assegnata la lettera convenzionale T (= textus receptus). Abbiamo osservato nel capitolo VI che le formule usate nella Chiesa occidentale nei primi secoli per l'istruzione dei catecumeni e per l'amministrazione del battesimo erano altrettante varianti di R. Abbiamo dato un'occhiata alle for­ mule di questo genere che provengono dal Nord Italia, dai Balcani, dal Nord Africa, dalla Spagna e dalla Gallia. In tutte il corpo centrale era R, e si distinguevano l'una dall'altra e da R sia per modifiche di frasario di scarsa importanza sia per l'in­ serimento di espressioni complementari. Nel caso di T le aggiunte caratteristiche sono undici in tutto: a) T aggiunge CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA (creatorem coeli et ter­ rae ) ; b) T corregge il costrutto che distingue R, e cioè CRISTO GESÙ, nel più comune GEs ù CRISTO; c) T dà maggior precisio­ ne al NATO DALLO SPIRITO SANTO E DALLA VERGINE MARIA di R correggendolo CONCEPITO DALLO SPIRITO SANTO, NATO DALLA VERGINE MARIA; d) T aggiunge SOFFRÌ (passus) prima di SOTTO PONZIO PILATO; e) T inserisce MORTO (mortuus); f) T inserisce DISCESE ALL'INFERNO (descendit ad inferna) dopo SEPOLTO; g) T amplia ALLA DESTRA DEL P AD RE di R con ALLA DESTRA DI DIO PADRE ONNIPOTENTE (ad dexteram Dei Patris omnipotentis); h) T cambia DONDE di R (unde) in DI Lì (inde); i) T aggiunge CATTOLICA (catholicam) alla descrizione di R della Chiesa come SANTA; j) T inserisce COMUNIONE DEI SANTI (sanctorum communionem) come articolo di fede; k) T aggiun­ ge VITA ETERNA ( vitam aeternam ). In secondo luogo, vorremmo ricordare di passaggio che, benché l'ambiente in cui si svilupparono R e i Credo derivati fosse principalmente catechistico e battesimale, T fu sin dalla sua formazione destinato a svolgere funzioni molto più ampie. Il suo ruolo primario, naturalmente, è sempre stato di servire come Credo dichiaratorio nel battesimo. In questo suo ruolo ha fatto la sua comparsa nei riti battesimali dell'occidente lati­ no a partire dall'VIII secolo, e in quello della Chiesa romana,

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I simboli di fede della Chiesa antica

insieme alle interrogazioni più brevi e più antiche, a partire da una data appena leggermente posteriore, della quale dovremo parlare nel prossimo capitolo. Ma quasi contemporaneamente alla sua redazione finale T ebbe anche un valido contributo dall'ufficio divino, che l'ha conservato da allora fino ad oggi. Assai prima che questo accadesse, quando le loro formule di fede erano ancora delle variazioni fluttuanti e incomplete di R, s. Ambrogio e s. Agostino parlavano del symbolum fidei come di una formula magica da ricordare e recitare a intervalli sta­ biliti. «Recitate il Credo quotidianamente», consigliava que­ st'ultimo al suo gregge.• «Quando vi alzate, quando vi prepara­ te a dormire, ripetete il Credo, recitatelo al Signore, ricordate­ velo, non vi infastidite a ripeterlo». In questo primo periodo la recita regolare del Credo non aveva nulla, per quanto ne sap­ piamo, di un obbligo canonico, ma era un fatto di devozione privata. Alla metà del VII secolo troviamo tuttavia s. Fruttuo­ so (t circa nel 665), arcivescovo di Braga, che includeva il Credo nella compieta, e prescriveva che i frati di un monaste­ ro, a conclusione delle loro preghiere serali, «dovessero tutti insieme a una voce recitare il simbolo della fede cristiana».5 Dobbiamo riferirei a un tempo molto più recente per trovare una prova evidente del suo uso nel mattutino e nell'ora di prima. Alcuino non ne ricorda la pratica nei suoi scritti liturgi­ ci, e il primo a prescrivere l'uso del Credo prima del mattutino e dell'ora di prima, e dopo compieta, sono s. Benedetto di Aniane (t 821), il grande riformatore di monasteri sotto Carlo Magno e Ludovico il Pio,6 e Amalario di Metz.7 Ma la presen­ za del Credo nei primi salteri prova che il suo inserimento nelle ore del mattino può esser fatto tranquillamente risalire a molto prima della loro epoca. In quel periodo tutte le versioni derivate da R avevano già lasciato il posto a T, e accadde dun-

• Serm. 58,11: PL 38,399s. Cf. s. AMBROGIO, De virg. 3,4; Explan. symb. ad init. : PL 16,225; 17,1155 e 1160. s Reg. monach. 2: PL 87,1099. • Cf. Vita s. Bened. Anian. : Bolland. Acta SS., Antwerpen 1658, IV, 618. 7 Cf. De ecci. offic. 4,2: PL 105,1 168. Esso fu pubblicato non molto dopo 1'820.

XII. Il Credo apostolico

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que che esso, come fiore sbocciato dall'evoluzione dei Credo in occidente, ereditasse un ruolo di primo piano nel culto quo­ tidiano della Chiesa. Ci sono molti problemi strettamente collegati che vengono sollevati da T e che sarà nostro compito esaminare in questo capitolo e nel prossimo. Un problema importante, al quale dobbiamo tentare di dare una risposta, riguarda l'identità e la provenienza. T è un Credo provinciale, un cugino di tutti que­ gli altri che fiorirono tanto prolificamente dappertutto nel­ l'Europa occidentale e nel Nord Africa dopo il III secolo? E se è cosl, a quale regione dobbiamo attribuire il suo luogo di ori­ gine, e per mezzo di quale fatale sequenza di eventi dobbiamo supporre che sia stato promosso a una posizione preminente perfino a Roma? Oppure si tratta in realtà di una revisione di R effettuata dalla stessa Chiesa romana? Parallelamente a questa ricerca letteraria e storica si pone il problema del signi­ ficato delle espressioni aggiuntive che rappresentano la diffe­ renza fra R e T. Quali furono i motivi del suo inserimento, e fino a qual punto l'insegnamento del Credo venne modificato dalla loro presenza? Per il momento limiteremo la nostra ricerca all'aspetto teologico e dottrinale del Credo apostolico. Il problema è tanto intricato e importante che se ne occuperà questo intero capitolo. Nell'ultimo capitolo ci occuperemo, invece, della questione ancor più complessa dell'origine di T e del suo affermarsi come un Credo libero da qualsiasi condizio­ namento di autorità europee. 2.

CAMBIAMENTI NEL PRIMO ARTICOLO

Sul primo articolo non ci tratterremo a lungo. È stato già posto in rilievo nel capitolo V che il significato originario sia di PADRE che di ONNIPOTENTE passò molto presto in seconda linea. Dopo il IV secolo, se non prima, gli esegeti e i commen­ tatori quasi sempre interpretarono la paternità riferendosi alla particolare relazione della prima persona della Trinità con la seconda, all'interno della santa Trinità. Una volta che la dottri­ na teologica del Dio uno e trino cominciò a diventare esplici-

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I simboli di fede della Chiesa antica

ta, era inevitabile che il clero considerasse il Credo come un'esposizione concisa della fede trinitaria corrente. Un com­ mento caratteristico è stato quello di s. Fausto di Riez (circa 450): «Come vengono distinte in modo meraviglioso con l'in­ tero Credo le Persone separate ! Come chiaramente in tutto questo è rivelata la Trinità! ».8 Quasi un secolo prima di lui Niceta di Remesiana aveva definito il Credo, a parte gli artico­ li che seguono LO SPIRITO SANTO, come «questa proclamazio­ ne della Trinità»,9 malgrado il fatto che era stato ben lungi dal­ l'intenzione degli autori di R di renderlo tale. Cosi Dio veniva normalmente interpretato come significante l'unica Divinità, e PADRE come indicazione del Padre di Gesù Cristo. ONNIPO­ TENTE inoltre perse gradualmente il suo senso originario, indi­ cato dal greco 1tavtmcpatrop, di «dominatore di ogni cosa», e, sotto l'influenza del latino omnipotens, gli venne dato il signi­ ficato di capace di fare tutte le cose. L'unica nuova aggiunta che compare nel primo articolo di T è CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA. Qualche predicato come questo, che ponesse in rilievo l'attività creativa di Dio, era un elemento quasi fisso nelle formule di fede orientali. La sua assenza in R era uno degli aspetti più caratteristici del for­ mulario. I teologi occidentali insegnarono sempre la dottrina, naturalmente, e le espressioni catechistiche della regola di fede spiegarono ed elaborarono indubbiamente sempre il primo articolo insistendo sull'opera di Dio nella creazione dell'uni­ verso: si trattava di una verità che caratterizzava la cristianità e la distingueva da tutte le altre religioni. Novaziano, a metà del III secolo, esigeva che si credesse «prima di tutto, in Dio Padre e Signore onnipotente, cioè nell'artefice perfettissimo di tutte le cose, che in alto aveva sospeso i cieli, e consolidò la terra», ecc.10 Niceta riuni un'intera serie di aggettivi che, dice­ va, appartenevano a Dio - «non generato... invisibile... incom­ prensibile .. , immutabile... buono e giusto, artefice del cielo e

• Cf. Hom. I symb. : CASPARI, Quellen, 11, 188, • De symb. 8; 9; 10: BuRN, 46; 47; 48. 10 De Trin. 1: PL 3,913.

XII. Il Credo apostolico

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della terra».11 Rufino per inciso descrisse Dio come «colui che è senza autore, l'autore di tutte le cose».12 Ma riferimenti espli­ citi a questo aspetto del suo essere erano infrequenti e tardivi nelle formule di fede occidentali. I formulari nordafricani furo­ no i primi ad allinearsi, a giudicare dalle parole CREATORE DI TUTTE LE COSE (universorum creatorem) nel testo tramandato­ ci da s. Agostino.13 L'identico frasario del nostro Credo aposto­ lico viene confermato dal Credo di s. Cesario di Arles.14 La scelta delle parole è curiosa. Per molto tempo la tradizione occidentale sembra abbia fatto la spola tra CONDITOREM e CREATOREM, mentre non trovava molti sostenitori FACTOREM (erano sempre preferite in latino traduzioni del Credo costan­ tinopolitano). Potrebbe aver inconsapevolmente portato all'ultima scelta di CREATOREM la versione della Volgata di Geo 1,1: «In principio Dio creò (creavit, malgrado l'è:1toinaev dei Settanta) il cielo e la terra». È stata forse qualche particolare considerazione a suggeri­ re l'inserimento di queste parole? Alcuni vi hanno voluto tro­ vare l'eco di una polemica antieretica. È ben noto che la Chie­ sa non ha esitato a usare il dogma ereditato di un Dio creato­ re della terra e del cielo come una spada potente contro la negazione degli gnostici che l'ordine materiale deve la sua esi­ stenza al buon Dio. Ma questo avveniva nel II e nel III secolo, quando le formule di fede occidentali erano ancora prive di ogni accenno alla creazione da parte di Dio. Più tardi il priscil­ lianismo potrebbe aver fornito l'occasione per un'esplicita affermazione che Dio era l'autore della materia non meno che dello spirito, perché (a giudicare dagli anatemi pronunciati contro di esso dal concilio di Braga del 563)15 quell'eresia era fortemente intrisa di manicheismo. Rifiutava di ammettere che la carne fosse opera di Dio, preferendo attribuire la sua origi-

11 De symb. 2: BURN, 39s. Questa formula potrebbe essersi trovata nel suo Credo. " Comm. in symb. apost. 4: CCL 20,137s. " Serm. 215: PL 38,1072. " Cf. sopra, pp. 234-235. " MANSI 9, 774ss. Cf. particolarmente nn. 4, 5, 7, 8, 1 1 , 12, 13 e 14.

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I simboli di fede della Chiesa antica

ne agli angeli cattivi. Ma i commenti dei teologi occidentali non accennano minimamente al fatto che essi considerassero la clausola come una difesa contro questa o qualsiasi altra forma di errore. È appena ipotetico pensare che l'esempio dei simboli di fede orientali, in particolare di C, abbia esercitato qualche influenza. Ciò che tuttavia rende perplessi al riguardo è la parola CREATOREM, e non FACTOREM (la regolare traduzio­ ne latina del termine 1tOtllnlV di C), scelta per esprimere il con­ cetto. La spiegazione più attendibile potrebbe essere che que­ sta parola si sia insinuata nel Credo in maniera casuale e spon­ tanea. Si ricorderà che nel II secolo si pensava che l'idea di Dio come fonte e origine dell'universo fosse contenuta nel termine PADRE. Ma quando il titolo venne spiegato dandogli il signifi­ cato di Padre di Gesù Cristo, coloro che avevano il compito di esporre e commentare il Credo potrebbero benissimo aver preso coscienza di una grande lacuna nel suo insegnamento. Dal momento che l'affermazione di Dio creatore di tutte le cose era un articolo presente e frequente nell'istruzione cate­ chistica data dalla Chiesa, l'inserimento di un riferimento al riguardo era soltanto una questione di tempo. 3. CAMBIAMENTI DI MINORE IMPORTANZA Come risulta dal Credo apostolico tradizionale, il secondo articolo di R venne in seguito ampliato con sei o sette aggiun­ te o modifiche. Molte di esse sono di scarso o di nessun rilievo dogmatico e possono essere passate sotto silenzio senza com­ mento. Il costrutto CRISTO GEsù, per esempio, che era un'espressione tipica di R, fu sostituito col passar del tempo dal molto più usuale GEsù CRISTO. Dal momento che si com­ prendeva sempre meno che CRISTO era un titolo e significava Messia, anche questo mutamento era destinato a verificarsi presto o tardi. Non c'è bisogno di dire qualche cosa circa la sostituzione di DI Lì (inde) con il DONDE di R ( unde) dopo aver ricordato la seconda venuta. DONDE si trovava in tutti i simbo­ li di fede locali, e R invece era stato l'unico a scegliere DA CUI (il Credo della Tradizione apostolica di s. lppolito non aveva

XII. Il Credo apostolico

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nessun elemento di congiunzione). L'aggiunta di SOFFRÌ e MORÌ, con le conseguenti alterazioni della struttura della frase, sembra ugualmente priva di importanza dottrinale. Entrambi i termini avevano un posto fisso tra le frasi stereotipe del Credo del II secolo, e l'ultimo poteva appellarsi all'autorità dell'an­ nuncio di s. Paolo,16 «che Cristo morì per i nostri peccati». In s. Giustino,17 s. Ireneo,18 e Tertulliano19 c'è una grande varietà di contesti nei quali SOFFRì viene preferito a CROCIFISSO. Tra gli scrittori che nella loro regola di fede avevano MORTO, prima o dopo CROCIFISSO o SOFFRÌ, c'erano s. lgnazio/0 s. Giustino/' e Tertulliano.22 Alcuni hanno pensato23 che l'aggiunta di SOFFRÌ in ogni caso potesse essere ispirata dall'esempio del Credo di Nicea. Hanno fatto osservare che esso comparve per la prima volta (a giudicare dai formulari esistenti) in varianti locali di R (per esempio il Credo di Milano) datati posteriormente a Nicea. Ma entrambi i termini erano ovviamente appartenuti sin dai tempi più antichi al ceppo delle scuole catechistiche. Se si devono cercare delle influenze particolari per spiegare la loro presenza nel Credo, sembra assai più logico guardare, per quanto riguarda SOFFRIRE, a testi biblici come Mc 8,31 («>, e prosegul raccomandando l'uso regolare del Padre nostro, con la sua richiesta di perdono, come una specie di battesimo quotidiano. In un altro sermone che spiegava il Credo,72 enumerò tre metodi per ottenere la remissione dei peccati nella Chiesa - battesimo, preghiera, e «una maggiore umiliazione di noi stessi nella penitenza (humi­ litate maiore paenitentiae)». In seguito teologi come s. Fulgen­ zio di Ruspe (t 532f3 e s. Ildefonso di Toledo (t 667f4 indu-

10

Comm. in symb. apost. 33: CCL 20,169. " Serm 213,8: PL 38,1064s. 72 Serm. ad catech. 8: PL 40,636. " Per es., Ep. 7; De remiss. peccat. II: CCL 90,244-254; 91A,678-707. 74 Lib. de cognit. bapt. 81s: PL 96,140s.

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giarono a lungo sulla disciplina penitenziale della Chiesa, men­ tre s. Ivo di Chartres (t 1 1 17) commentò brevemente la for­ mula: «Non solo di quei peccati che vengono rimessi col batte­ simo, ma anche di quelli che vengono purificati col fare una penitenza conveniente dopo un'umile confessione».75 Oltre a queste considerazioni riguardanti una teologia posteriore e più matura, il terzo articolo di T vanta tre caratte­ ristiche che lo differenziano dall'Antico Credo romano. Una di queste, la clausola LA COMUNIONE DEI SANTI, presenta alcune difficoltà di interpretazione, e rimandiamo per il momento il suo esame. Le altre due, l'aggettivo CAITOLICA per definire la Chiesa e le parole LA VITA ETERNA, possono essere trattate in pochi paragrafi. Thtti sanno che il significato originario di CATIOLICO era «generale» o «universale». Zenone lo stoico scrisse un libro sulle cose universali, che chiamò Ka6oÀ.uca; Polibio76 parlò di «storia universale (tilç Ka8oÀ.tKiìç Kaì Kotvf]ç icrtopiaç)»; e s. Giustinon applicò il termine alla risurrezione ('lÌ Ka8oÀ.tK'IÌ àvamamç). In s. Ignazio per la prima volta ci imbattiamo in esso come predicato della Chiesa: «Dove c'è il vescovo», egli disse,711 «li c'è la comunità, proprio come dove si trova Cristo Gesù, ivi è la Chiesa cattolica». Qui non c'è nessuna riflessio­ ne sull'antitesi fra l'unica Chiesa ortodossa e le conventicole dissidenti. Lo scrittore stava paragonando la Chiesa universa­ le, guidata da Cristo, alle Chiese locali presiedute dai vescovi; ed egli affermava che la comunità locale aveva realtà, vita e potenza solo in proporzione alla sua appartenenza alla Chiesa universale con la sua guida spirituale. Proprio lo stesso signifi­ cato viene dato all'aggettivo nei passi del Martirio di Policar­ po dove esso compare.79 Questo significato rimase sempre il principale, tanto che s. Cirillo di Gerusalemme poté dire della Chiesa (pur aggiungendo altre, più immaginose, motivazioni):

" Serm. 23: PL 162,606. 76 Hist. 8,2,1 1: BOTI'NER-WOBST, Il, 335. 77 Dia/. 81: E.J.G., 194. " Smym. 8,2: B!HLMEYER, 108. 19 lnscr. 8,1; 19,2: BIHLMEYER, 120; 124; 130.

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«Essa è chiamata cattolica perché è sparsa da un capo all'altro della terra in tutto il mondo».80 Dopo la metà del II secolo, tut­ tavia, cominciò ad acquistare connotazioni nuove, che designa­ vano «la grande Chiesa» (per usare una frase di Celso81) in contrapposizione con le numerose sètte eretiche. Probabil­ mente il primo esempio del suo uso con questo significato si trova nel Canone Muratoriano, che enumerava i libri sacri che furono o non furono «accolti nella Chiesa cattolica». Riferen­ dosi a questo significato di uso comune, papa Cornelio (t 253) si lamentò in una lettera che il suo rivale Novaziano ignorasse «che doveva esserci un solo vescovo nella Chiesa cattolica».82 Nella stessa data (250 circa), quando al martire Pionio venne chiesto dai suoi giudici come si chiamasse, egli rispose: «Un cri­ stiano»; e, quando la richiesta si fece più pressante: «A quale Chiesa appartieni?», egli rispose: «Alla Chiesa cattolica».83 Fu alla fine del IV secolo che CATIOLICA cominciò a com­ parire nei Credo occidentali. Il primo testimone attendibile che possiamo indicare è Niceta di Remesiana. In seguito divenne una parola cara ai Credo di Spagna e di Francia. I Credo orientali avevano sempre manifestato una predilezione per questo termine, e alcuni hanno sospettato che dietro la sua adozione da parte dell'occidente ci fosse un influsso orientale. Se vogliamo accogliere questa spiegazione, possiamo subito pensare che C ne creò lo stile: se l'occidente aveva preso C come modello, ci saremmo dovuti aspettare anche APOSTOLI­ CA. È possibile che l'immenso prestigio delle Catechesi di s. Cirillo, che presuppongono una formula in cui manca APOSTO­ LICA ma che contiene invece CATIOLICA, possa aver contagiato gli autori del Credo occidentale. Ma la parola CATIOLICA è diventata un termine cosl usuale nel frasario teologico occi­ dentale che non è necessario ricercare dei motivi reconditi del suo inserimento nel Credo. È interessante, invece, osservare

.., " "' "' 45ss.

Cat. 18,23: PG 33,1044 . 0RIGENE, Con. Cels. , 5,59: KoETSCHAU, Il, 62. EUSEBIO, Hist. ecci. 6,43,1 1 : SCHWARTZ, 263. Per il Martyrium Pionii cf. R. KNOPF, Ausgewiihlte Miirtyrerakten, '1929,

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che nella mente di Niceta esso delineava principalmente l'uni­ cità della Chiesa ortodossa in opposizione alle sètte.84 Egli parlò dell' «Unica Chiesa cattolica nel mondo intero, alla comu­ nione della quale dovete essere fortemente uniti», in contrasto con «le altre pseudo-Chiese» che credevano e agivano da nemiche di Cristo e dei suoi apostoli. Era naturale che questo significato fosse di importanza primaria in un'epoca in cui l'arianesimo, il donatismo e altre eresie si erano diffuse e veni­ vano propagandate da Chiese rivali. Col passare del tempo, tuttavia, essa tendeva a diventare secondaria, per quanto fosse sempre tenuta viva. La maggior parte dei sermoni e delle spie­ gazioni del Credo indicano questa parola, l'origine della quale risultò talvolta misteriosa per coloro che erano di lingua latina, come sinonimo di «universale». «Che cos'è la Chiesa cattoli­ ca», si domandava s. Fausto di Riez, «se non il popolo consacra­ to a Dio che è diffuso in tutto il mondo?»;85 e l'autore del ser­ mone dell'appendice pseudoagostiniana, nella sua concisa parafrasi a CAITOLICA, ripeteva queste parole nel significato di «sparsa per il mondo intero».86 Come spiegazione dei due significati presi nel loro insieme, abbiamo la dichiarazione di s. Ildefonso di Toledo che CAITOLICA significa «universale», seguita immediatamente dall'affermazione che è proprio sotto questo aspetto che la vera Chiesa si distingue dalle «conventi­ cole di eretici», che fioriscono soltanto localmente.87 L'inseri­ mento di CAITOLICA diede così espressione alla consapevolez­ za della Chiesa della sua posizione straordinariamente autore­ vole di fronte alle sètte dissidenti. LA VITA ETERNA, che sembra sia stata citata per la prima volta nei formulari africani, andò incontro a un'esigenza reli­ giosa più particolare. È ovvio che molta gente desiderava qual­ cosa di più dell'assicurazione che sarebbe un giorno risuscita­ ta da morte: la pura e semplice risurrezione avrebbe potuto

84

De symb. 10: BURN, 48. 85 Cf. il suo Tract. de symb. in CASPARI, A. und. N. Q., 272s. 86 Serm. 242, 4: PL 39,2193. tr7 Lib. de cognit. bapt. 73: PL 96,138.

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implicare anche un'altra morte. S. Agostino aveva in mente le loro difficoltà quando, esponendo (probabilmente nel 421 ) la sua fede personale, osservò: «Ora, per quanto riguarda la risur­ rezione della carne (che non è come quella di alcune persone che sono risorte dalla morte per poi morire di nuovo, ma come la risurrezione della carne di Cristo, cioè per la vita eterna), non so come spiegare le cose in breve».88 Perciò, in un sermo­ ne a lui attribuito, spiegava con molte parole che la clausola ALLA VITA ETERNA era stata aggiunta perché non si pensasse che la risurrezione dei credenti fosse come quella di Lazzaro, ma come quella di Cristo.89 E ancora, in una delle sue lettere, trattando di tanti problemi proposti da un pagano, disse che molti erano preoccupati chiedendosi se la risurrezione conces­ sa al fedele somigliasse più a quella di Lazzaro o a quella di Cristo.90 I dubbi al riguardo non si limitavano evidentemente all'Africa, perché anche s. Giovanni Crisostomo in una delle sue omelie riteneva che fosse opportuno opporsi ad essi. Dopo avere detto perdono dei peccati - egli dichiarò - proclamate LA RISURREZIONE DAI MORTI [. . .]. Ma, poiché un semplice accenno alla risurrezione non basta a mettere in evidenza l'intera dottrina (infatti molti uomini che sono risorti dalla tomba sono morti nuovamente, come per esempio personaggi del Nuovo Testamento, Lazzaro e la gente che risuscitò al momento della crocifissione), vi è richiesto anche di affermare E NELLA VITA ETERNA. 91

La breve constatazione che questi passi consentono è che una riflessione popolare sulla risurrezione giustifica la nostra deduzione che la clausola debba il suo posto nel Credo al desiderio di tranquillizzare le menti turbate. Una conferma può derivare dall'espressione in cui è talvolta riferita, ALLA VITA ETERNA, che dimostra l'intento di esprimere l'intero significato nella sua pienezza di RISURREZIONE DELLA CARNE. Questa lettura, come abbiamo osservato nel paragrafo prece-

88 Enchir. 84: PL 40,272. 89 Serm. ad catech. 9: PL 40,636. 90 Ep. 102 ad Deograt. : PL 33,371ss. 91 Hom. 40,2: PG 61 ,349.

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dente, era caratteristica del Sermo ad catechumenos agostinia­ no, e c'è la testimonianza di qualche manoscritto che anche Niceta includeva nel suo Credo ALLA VITA ETERNA. Ma un insieme di considerazioni estranee e più concrete si aggiunse presto alla clausola. S. Cirillo di Gerusalemme, per esempio, pur collocando LA VITA ETERNA in forma assai breve, indicò che essa voleva significare qualcosa di molto più importante di una semplice continuazione della vita: essa indicava, come egli disse, «la vera, reale vita (lÌ ovtroç çroiJ Kaì ÒÀ.'f18roç)», che era Dio stesso.92 Per Niceta VITA ETERNA era la vita con Cristo in cielo, vita eterna e benedetta, il frutto della fede e della parola giusta, una vita che non potevano possedere né i paga­ ni né gli ebrei non credenti, ma che era riservata ai fedeli che vivevano santamente qui sulla terra.93 Cosi l'accento fu spo­ stato dall'idea di un'esistenza prolungata alla qualità sacra della vita del mondo futuro. Perciò quando i pelagiani, ansio­ si di giustificare la loro usanza di battezzare i bambini, tenta­ rono di fare una distinzione fra vita eterna o salvezza (che naturalmente per gli uomini peccatori è necessaria) e il regno dei cieli (cosa che pensavano potessero ottenere i bambini innocenti col battesimo), furono contraddetti da una protesta indignata da parte di s. Agostino. Si trattava, disse con forza,94 di una novità blasfema dire che la vita eterna differisse in qualche modo dal regno dei cieli. Anche nel Medioevo l'accento posto su VITA ETERNA riguardava la condizione positiva di beatitudine di cui godeva­ no i redenti. Come aveva detto s. Tommaso d'Aquino, la prima verità sulla vita eterna consiste nel fatto che l'uomo trova l'unione con Dio, che è la ricompensa e il fine di tutti i nostri travagli, e il coronamento di tutti i nostri desideri.95

" ., .. 95

Cat. 18,28ss: PG 33,1049ss. De symb. 12: BURN, 51. Serm. 294,2s: PL 38,1336ss. Cf. Expos. sup. symb. apost. ad fin. (Paris 1634, III, 133).

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6.

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LA COMUNIONE DEI SANTI

Infine, veniamo a un'altra espressione del Credo apostolico che ha dato origine a una grande polemica, LA COMUNIONE DEI SANTI (sanctorum communionem). Il primo Credo rimastoci che ne attesta la presenza è il formulario con il commento di Niceta di Remesiana. Già prima di Niceta, tuttavia, se l'ipotesi di Dom G. Morin può essere ritenuta buona, sembrerebbe che fosse formulato nella cosiddetta «Fede di s. Girolamo»,96 che termina con IO CREDO NELLA REMISSIONE DEI PECCATI, NELLA SANTA CHIESA, NELLA COMUNIONE DEI SANTI, NELLA RISURRE­

Un antico Credo armeno citato da Caspari parla anche di fede nel PERDONO DEI

ZIONE DELLA CARNE E NELLA VITA ETERNA.

PECCATI, NELLA SANTA CHIESA E NELLA COMUNIONE DEI

SANTI. 97

Vi è forse grande incertezza circa le origini di questi due formulari, perché siamo in grado soltanto di fare molte ipotesi su di essi. Ma senza dubbio la frase ricorre:98 a) in un rescritto imperiale dell'anno 388 che mette al bando gli apolli­ naristi, fra l'altro, a communione sanctorum; b) in un canone di un sinodo tenuto a Nimes nel 394 o nel 396. Da allora lo si trova nel Credo, ma quasi esclusivamente nel sud della Gallia. Questo fatto potrebbe sembrare favorire l'ipotesi che Nice­ ta abbia probabilmente ripreso COMUNIONE DEI SANTI prima di tutto dalla Gallia, con la quale egli aveva stretti vincoli perso­ nali in quanto amico di s. Paolino da Nola, che egli visitò più di una volta. Thttavia von Harnack mise in dubbio questo fatto e disse invece che era assai più probabile che lo scambio fosse avvenuto in senso inverso, avendo Niceta ripreso l'idea da s. Cirillo di Gerusalemme. Ma non c'è niente che stia a indicare che s. Cirillo sapesse qualcosa sulla COMUNIONE DEI SANTI: i passi citati da von Harnack dalle Catechesi per provare la sua teoria sono tutti molto vaghi.99 Ci sono, tuttavia, delle indica-

96 .., "' "'

Cf. Anecdota Maredsolana III, iii, 199s. Cf. Quellen, II, 1 1 ; HAHN, 138. Per quanto riguarda questi testi cf. Codex Theod. XVI, 5,4: CCL 148,50. Cat. 18,26, fin. ; 27; 28: PG 33,1048ss.

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zioni più convincenti circa l'importazione della formula dal­ l'oriente. a) Se la Fides Hieronymi identificata da G. Morin è realmente il Credo firmato da s. Girolamo nel deserto di Cal­ cide nel 377/378, dev'esserci stato un formulario di Antiochia, e questo è confermato da altre espressioni tipicamente orien­ tali in essa contenute.100 b) Niceta stesso subiva influssi da parte dell'oriente, com'è dimostrato dal fatto che il commento del suo Credo era ispirato dalle Catechesi di s. Cirillo di Gerusa­ lemme. Inoltre, sebbene egli non avesse incontrato Paolino da Nola prima del 398, è accertato che, per la sua origine balcani­ ca, durante la sua vita favorì una forte e autorevole influenza tra l'oriente e il sud della Gallia. c) Mentre in occidente l'espressione sanctorum communio era rara e il suo significato incerto, in oriente l'equivalente greco, cioè Kotvcovia 'trov ayicov, e le frasi relative avevano un significato preciso e acqui­ sito di «partecipazione alle cose sacre», cioè ai riti eucaristici.101 Questo rende assai probabile il fatto che il pensiero e il lin­ guaggio che lo esprimevano abbiano avuto origine in oriente. La polemica più intensa, tuttavia, si ebbe intorno al conte­ nuto dottrinale di sanctorum communio e sui motivi del suo inserimento nel Credo. L'interpretazione tradizionale, se per praticità si può definirla così, è che le parole significano «ami­ cizia con persone sante», considerando la parola sanctorum o in un senso limitato di santi e di martiri veri e propri, o in senso più ampio e più originario e cioè di fedeli in generale, viventi o anche defunti.102 Un'esegesi alternativa in contrasto con questa sosteneva che le parole dovessero avere nel Credo il senso del loro equivalente greco, cioè «partecipazione ai riti eucaristici», e questa tesi è stata sempre più sostenuta a partire dal XIX secolo.103 La parola sanctorum, è da notare, può essere tanto 100

Cf., per es., G. MORIN, in R. Bén. 16(1904), 1ss. Per quanto riguarda i testi illustrativi, cf. W. ELERT, in Theol. Literatur­ zeitung 74( 1949), 578ss. 102 Cf. per es., J.P. KIRSCH, Die Lehre von der Gemeinschaft der Heiligen im Christlichen Altertum, Mainz 1900 (trad. ingl. 1910). 1"' Cf. T. ZAHN, Das apost. Sym b olum, Erlangen-Leipzig 1893, 88ss; ELERT, in Theol. Literaturzeitung; S. BENKO, The Meaning of Communion of Saints, London 1964. 101

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maschile quanto neutra. Infine una terza corrente di interpre­ tazione vorrebbe leggere in communio un significato concreto, traducendo l'espressione come «amicizia, cioè comunità, for­ mata di persone sante»; in tal caso la si potrebbe interpretare come un'ulteriore definizione di SANTA CHIESA CATIOLICA. Si ritiene che essa sia stata inserita nel Credo per protesta contro il rigore donatista, che soleva criticare la Chiesa cattolica per­ ché accoglieva ugualmente nel suo gregge capre e pecore.104 Si può supporre che le parole siano state talvolta usate per signi­ ficare concretamente «amicizia di persone sante».105 In ogni caso, tuttavia, la controversia vera e propria, per quanto riguar­ da l'importanza della formula nel Credo, si trova fra le due interpretazioni precedenti e le varie sottoforme di esse: non ci sono dubbi che COMUNIONE DEI SANTI nei simboli di fede abbia un significato molto più ampio della parola «Chiesa». Un vali­ do argomento contro il tentativo di trovare un orientamento antidonatista in queste parole è dato dal fatto che esse non ebbero mai il consenso di alcun formulario nordafricano, ben­ ché il donatismo abbia avuto una seria incidenza unicamente in quella regione. Il modo più utile di affrontare il problema ( un problema forse insolubile ) dell'importanza originaria delle parole è di studiarle come si trovano fissate nel Credo. Qui in ogni caso abbiamo dei solidi appigli a cui aggrapparci e non abbiamo bisogno di restare sospesi nell'aria vertiginosa delle supposi­ zioni. Non può esserci alcun dubbio, per esempio, su ciò che pensava Niceta quando citò la nostra clausola. Che cos'è la Chiesa - si chiedeva - se non l'assemblea di tutti i santi? Fin dall'origine del mondo i patriarchi, i profeti, i martiri, e tutti gli altri uomini giusti che hanno vissuto o vivono attualmente, o vivranno nei tempi futuri, costituiscono la Chiesa, poiché essi sono stati santificati da un 'unica fede e da una sola condona di vita, e sigillati da un unico Spi-

1 04 1"'

Così secondo SWETE, The Apostles ' Creed, 1894, 30. Cf., per es., s. AGOSTINO, Enarr. in psalm. 36,2,30; Serm. 52,2; Ep. Donat. ad Flav. Marcel/. : PL 36,379; 38,357; 43,835 . Altre interpretazioni sono preferi­ bili.

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rito e così costituiti in un solo corpo, di cui Cristo viene dichiarato il capo, come dice la Scrittura. Inoltre, gli angeli e le virtù e le potenze celesti sono anch 'essi riuniti in questa Chiesa [. . . ]. Perciò credete che in questa Chiesa potrete raggiungere la comunione dei santi. CoMUNIONE DEI SANTI è qui chiaramente interpretato come quell'amicizia ultima con le persone sante di tutte le età, come pure con l'intera compagnia del cielo, che viene anticipata e in parte realizzata nell'amicizia della Chiesa cattolica sulla terra. D'altra parte, il riferimento veniva limitato ai santi nel senso specifico del termine da s. Fausto di Riez (eletto vescovo nel 452 circa).

Crediamo - diceva ancora -106 nella comunione dei santi, ma veneria­ mo i santi, non tanto al posto di Dio, quanto per l'onore e la gloria di Dio. Adoriamo nei santi il timore e l'amore di Dio, non la sua divini­ tà. Adoriamo i meriti dei santi, non i meriti che hanno per se stessi, ma quelli che hanno guadagnato con la loro devozione. Essi, dunque, meritano di esser venerati degnamente, in quanto infondono in noi, con il disprezzo della morte, l'adorazione di Dio e il desiderio di una vita che verrà.

Fausto stava chiaramente tentando di difendere, e nello stesso tempo di moderare e tenere nei limiti del buon senso, il crescente culto dei martiri che a quel tempo era una caratteri­ stica della religione gallicana, e che il prete aquitano Vigilan­ zio aveva di recente tentato invano di tenere a freno.107 Il trat­ tato sul Credo che viene anche attribuito a s. Fausto attaccava i seguaci di Vigilanzio con un linguaggio assai poco moderato. «Questo articolo» diceva «deve svergognare quanti empia­ mente rinnegano l'onore dovuto alle ceneri dei santi, e rifiuta­ no di credere che la memoria dei beati martiri debba essere celebrata venerando le loro tombe».108 Concezioni affini, benché non sempre limitate ai santi nel senso specifico del termine, si possono trovare insieme alla for"" Cf. Hom. II in CASPARI, Quellen, Il, 197. 107 Girolamo scrisse il suo trattato contro Vigilanzio (PL 23,339ss) nel 406: ma sembra che la vicenda sia durata a lungo, e l'eresia evidentemente prese radici. 11111 Cf. CASPARI, A. un d N. Q. , 273s.

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mula in altre espressioni gallicane del Credo dove rion si avverte alcun tono polemico. Il Sermo pseudo-August. 242 cosi commenta: «COMUNIONE DEI SANTI: cioè, siamo legati in amici­ zia e in comunione di speranza con quei santi che sono morti nella fede che abbiamo abbracciata».109 Il riferimento è chiara­ mente indirizzato a tutti i cristiani scomparsi. Il Sermo pseudo­ August. 240 nota che nell'eternità i doni dello Spirito, che sono quaggiù distribuiti in modo diverso a diversi individui, saranno proprietà comune di tutti, e ognuno dei santi troverà le sue mancanze riempite dalle virtù degli altri.110 Quaggiù l'amicizia attuata è ancora quella di tutti i credenti, benché la sua realiz­ zazione completa sia rimandata alla vita futura. Il Sermo pseu­ do-August. 241 è stato spesso citato come prova per l'interpre­ tazione sacramentale; afferma infatti che noi crediamo nella comunione dei santi perché dov'è la fede santa là vi è la comu­ nione santa (sancta communio).111 Ma alcuni affermano che questo significa non comprendere la vera intenzione dell'esor­ tazione, che è la seguente: poiché crediamo nella santa Chiesa cattolica, e poiché la fede porta l'amicizia santa, per questo motivo godiamo dell'amicizia dei santi, e per questo dovrem­ mo credere nella risurrezione e nella remissione dei peccati mentre ancora viviamo nel corpo. Comunque sia, Rabano Mauro ha riprodotto quasi alla lettera l'insegnamento del Sermo pseudo-August. 242,112 come ha fatto l'autore (Alcui­ no?) della Disputatio puerorum del IX secolo.113 Non può esserci alcun dubbio che, per quanto riguarda le formule di fede occidentali, questa era l'interpretazione di COMUNIONE DEI SANTI che ebbe la storia più lunga e continua. Ma potremmo tranquillamente ammettere che le parole veni­ vano spesso prese, anche in occidente, in rapporto ai sacramen­ ti. Questo era indubbiamente il loro significato nel rescritto di Teodosio, al quale ci siamo riferiti in precedenza, e anche in

'"' PL 39,2193. PL 39,2189. 111 PL 39,2191. 112 PL 1 12,1226. 113 PL 101 ,1 142. 1 10

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una lettera114 di s. Girolamo (traduzione, in realtà, di un origi­ nale greco). Inoltre, benché il testo del canone di Nimes sia gravemente mutilo (esso dice «in primis quia multi de ultimis orientis partibus venientis presbyteros et diaconos se esse con­ fingunt . . . sanctorum communione speciae simulatae religionis impraemunt: placuit no bis si qui fuerint eiusmodi . . . ad ministe­ rium altarii non admittantur» ), non ci può essere dubbio che riguardasse l'esclusione dalla comunione. Se la testimonianza del Sermo pseudo-August. 241 è considerata dubbia, un'allu­ sione non certamente ambigua ai sacramenti risulta nel sermo­ ne Symbolum graeca lingua est,115 che risale all'età carolingia. Questo spiega la formula come se significasse «santa comunio­ ne attraverso l'invocazione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, a cui ogni fedele dovrebbe partecipare in ogni giorno del Signore». Nel medioevo, mentre sanctorum veniva normal­ mente considerato .di genere maschile, la parola communio veniva spesso considerata equivalente a «la comunione di cui godevano i santi», cioè il santo sacramento dell'altare. S. Ivo di Chartres, per esempio, intese la clausola come se significasse «la verità dei sacramenti della Chiesa, alla quale partecipava­ no i santi che sono trapassati nell'unità della fede»;116 mentre Abelardo notò di essa: «Cioè, quella comunione per mezzo della quale i santi vengono fatti santi e vengono confermati nella loro santità, con la partecipazione al sacramento divi­ no».117 Bisognerebbe però osservare che Abelardo aggiunse immediatamente che sanctorum poteva essere considerato anche in senso neutro (neutra/iter) come se fosse riferito al pane e al vino consacrati del santo sacramento. In armonia con questa spiegazione una versione franco-normanna del Credo, che viene spesso citata, tradusse il nostro articolo «la commu­ nion des saintes choses».118 Si trattava di una variante di questa esegesi che s. Tommaso d'Aquino illustrò nel suo breve saggio 1 14

Ep. 92,3: PL 22,764: «a communione sanctorum . . . separatus». "' Nel Codex Sessorianus 52: cf. sotto, p. 523ss. Serm. 23: PL 162,606. 117 Expos. in symb. apost. : PL 178,629s. 118 Cf. HAHN, 74. Il testo è del XII secolo. 116

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sul Credo apostolico.119 «Poiché tutti i fedeli formano un solo corpo», egli scrisse, «i benefici appartenenti all'uno vengono comunicati agli altri. Si realizza così una compartecipazione dei benefici (communio bonorum) nella Chiesa, e questo è ciò che intendiamo con sanctorum communio». I beni condivisi - egli continuò a spiegare - comprendono ogni cosa degna di essere compiuta sulla terra dai santi (sancti) , ma in particolare i sette sacramenti, che ci portano la forza della passione di Cristo, essendo egli il capo del corpo. Secondo la maggior parte degli studiosi, s. Tommaso considerò qui sanctorum come neutro e precisamente come equivalente di bonorum, cioè dei beni o «benefici», ma questo sembra assai improbabile. Una simile interpretazione è in contrasto con l'accento posto sui fedeli come donatori e ricettori dei beni, o con la citazione esplicita di «tutti i santi» più avanti nel capitolo, o con l'inclusione di bene­ dizioni diverse dai sacramenti della Chiesa fra i benefici di cui si parla. Dovrebbe risultare evidente che ciò che s. Tommaso realmente intendeva con la clausola era «la condivisione o la partecipazione alla gioia dei santi». Contemporaneamente altri autori medievali l'applicarono in senso stretto alla Chiesa come a una società intimamente collegata. Amalario di Treviri (t circa 816), per esempio, ne fece una parafrasi come l'amici­ zia dei santi che viene tenuta insieme dallo Spirito/20 mentre Magno di Sens la spiegò come se significasse «l'assemblea di tutti i fedeli in Cristo».121 La nostra rassegna fornisce un quadro illuminante dei vari significati che furono dati a sanctorum communio nei periodi patristico e medievale. Ma la conclusione inevitabile alla quale giunge è che, per quanto riguarda il Credo, il senso predomi­ nante, perlomeno fra i secoli V e VIII, fu «amicizia con perso­ ne sante». L'esegesi sacramentale venne in un tempo successi­ vo, e ha tutta l'aria di essere secondaria: anche dove la ritrovia­ mo, sanctorum stesso era assai spesso interpretato in senso 119

Expos. sup. symb. apost. (Paris 1634, III, 132). Ep. de caer. bapt. : PL 99,896. Libell. de myst. bapt. , in E. MARTÈNE, De antiquis ecclesiae ritibus, Antwerpen 1736, 170. IlO 121

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maschile. La forza dell'argomentazione di T. Zahn era dovu ta a considerazioni o aprioristiche o assai lontane nella loro ana­ lisi dalla storia del Credo occidentale. Perciò egli e i suoi seguaci ritennero che si facesse un riferimento sicuro ai sacra­ menti nel sommario ufficiale della fede della Chiesa. Indubbia­ mente vi è qualcosa di valido in tutto questo: anzi potremmo supporre che fu la consapevolezza istintiva di una lacuna nel formulario che, fra gli altri fattori, mosse i teologi delle epoche successive a leggervi un'allusione ai sacramenti. Ma sarebbe avventata l'ipotesi che il criterio di ciò che avrebbe dovuto esservi nel Credo spieghi ciò che si trova realmente in esso. Inoltre, essi riponevano la loro fiducia su analogie derivate dal­ l'uso greco, richiamandosi alla presenza frequente di un riferi­ mento sacramentale in parole come Kotvrovia e tà ayta. Ma bisogna notare che delle vere espressioni parallele di sancto­ rum communionem difficilmente possono essere riscontrate nel greco, e che in ogni caso è azzardato affermare che i termi­ ni greci e latini si siano necessariamente sovrapposti. Mentre tà ayta in greco normalmente significavano le specie consa­ crate dell'eucaristia, non vi è una prova inequivocabile fino a un'epoca molto tardiva che sancta avesse il medesimo specifi­ co senso in latino. Nei pochi esempi del tutto inconfutabili che si possono raccogliere del termine usato in questo senso, il significato sembra essere totalmente generico e non specifico, e il contesto si riferisce ai sacramenti senza ombra di ragione­ vole dubbio.122 L'importanza e il valore, inoltre, dei termini paralleli greci diventano ancor più discutibili se ci ricordiamo che, a causa della sua origine orientale, la clausola non fu mai inserita nei Credo ufficiali greci, e che la grande ambiguità del latino incoraggiò interpretazioni diverse. Per questi motivi la più antica e tradizionale interpretazio­ ne della frase sembra essere molto probabilmente l'originaria. Quando in seguito l'interpretazione sacramentale cominciò a

'" a s. AGOSTINO, In Joh. evang. tract. 6,15; De fid. et op. 8: PL 35,1432; 40,202. In Ep. 98,5: PL 33,36, talvolta citata a questo proposito, sanctis �ignifi­ cava probabilmente «santi>>.

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farsi strada, potrebbe essere stata in qualche modo come una risposta alla necessità che si sentiva di ricordare i sacramenti; e la tendenza crescente a includere il sacramento della peni­ tenza sotto LA REMISSIONE DEI PECCATI potrebbe aver fatto rilevare tale mancanza. Il termine stesso communio, che stava diventando sempre più adatto a indicare il sacramento dell'al­ tare, si piegò molto presto alla nuova spiegazione, se addirittu­ ra non fu proprio esso a suggerirla. Se ci si domanda, tuttavia, quale particolare situazione o crisi abbia favorito l'interpola­ zione, non viene certo subito alle labbra una risposta sicura. Von Hamack in un primo momento123 (in seguito egli ritirò la sua congettura) suggerì che la nuova clausola dovesse essere considerata come la risposta ortodossa agli attacchi fatti da Vigilanzio e da critici della stessa opinione al crescente culto dei santi che divenne usuale alla fine del IV secolo e agli inizi del V. Ma dovrebbe risultare ovvio che COMUNIONE DEI SANTI godeva già di un significato certo, e non comportava alcun sapore polemico, quando Niceta la riprese. Per lui SANTI aveva un'estensione più ampia che i santi e i martiri, poiché com­ prendeva i patriarchi dell'antichità, gli attuali membri della Chiesa, e tutti i giusti delle generazioni future. In ogni caso, se fossero state delle considerazioni di ordine polemico a motiva­ re l'aggiunta delle parole, ci saremmo aspettati che avessero un significato assai più preciso e determinato. D'altronde, l'elemento essenziale di verità contenuto nel­ l'opinione di von Hamack non dovrebbe essere ignorato, anche se non siamo d'accordo sul fatto che egli pensava alle particolari polemiche che avevano spinto gli ortodossi ad aggiungere al Credo COMUNIONE DEI SANTI. Il IV secolo fu testimone di un'enorme espansione della devozione che la Chiesa aveva dedicato ai suoi santi e illustri morti fin dai tempi più antichi. Anche all'inizio del III secolo l'autore della Passio­ ne di Perpetua e Felicita124 assicurò ai suoi lettori che il suo

123 Das apost. Glaubensbek., 3ls. 1 24 Capitolo I (in Texts and Studies l, 2, 62s). L'autore era probabilmente Tertulliano.

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scopo nel descrivere i fatti accaduti era quello di metterli in comunione con i santi martiri (ut . . . communionem habeatis cum sanctis martyribus), e per mezzo di essi con Gesù Cristo. Durante il IV secolo l'entusiasmo popolare per i martiri e per la conservazione delle loro reliquie e la richiesta di loro pre­ ghiere furono dappertutto in aumento. Questi fatti lasciano trasparire credenze rozze. Abbiamo per esempio, sotto forma di breve trattato, il sermone che s. Vittricio di Rouen pronun­ ciò nel 396 quando accolse le reliquie di martiri mandate in dono alla sua città episcopale da parte di s. Ambrogio.125 Il suo linguaggio ardente rivela che lui e i suoi ascoltatori considera­ vano che le reliquie portassero con sé la vera presenza piena di grazia degli stessi martiri, e per mezzo loro della Divinità con la quale erano uniti. Ma stravaganze di questa natura rappre­ sentavano unicamente il lato popolare di un significato di inti­ ma amicizia che si stava sviluppando e di cui la Chiesa sulla terra sentiva di avere il privilegio di godere assieme agli eletti che erano già morti. «Mentre dimoriamo in questa Chiesa», scrisse s. Ilario «dobbiamo dimorare anche in quell'altra Chie­ sa, perché questa Chiesa è l'immagine di quella [ . . . ] cioè la Chiesa dell'innumerevole moltitudine di angeli; è la Chiesa dei patriarchi, la Chiesa degli spiriti radicati nel Signore».126 Alcu­ ne righe dopo, nella stessa pagina, affermava che gli angeli e i santi, gli apostoli, i patriarchi e i profeti avevano circondato la Chiesa sulla terra con la loro attenta protezione. Pensieri come questi erano ancor più sviluppati negli scritti di s. Agostino. È evidente che nel IV secolo la coscienza della comunione con i redenti in cielo, che avevano già assaporato la pienezza della gloria di Cristo, era reale e ricca di speranza tanto per i teolo­ gi che per i gruppi di semplici fedeli. Con l'ambiente devozio­ nale e dottrinale impregnato di simili idee, occorre un ben pic­ colo sforzo di immaginazione per capire quanto facile dev'es­ sere stato per qualche formale affermazione trovare un posto di prestigio nel Credo. Così, benché non implicasse secondi fini

"' De laud. sanct. : PL 20,443ss. 126 Tract. in psalm. 124,4: PL 9,681s.

XII. Il Credo apostolico

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polemici, COMUNIONE DEI SANTI dette espressione a concezioni che erano vivamente presenti nelle menti del clero dei secoli IV e V, particolarmente in quelle zone dell'Europa occidenta­ le dove, come diremo tra breve, il Credo apostolico si era modellato nella sua forma definitiva.

Capitolo XIII

Le origini del Credo apostolico

l. TESTI CHE SOMIGLIANO A T

È stato spiegato all'inizio del capitolo precedente che il for­ mulario ora noto in occidente come Credo apostolico ebbe ori­ gine come una delle molte varianti dell'antica confessione bat­ tesimale della Chiesa romana. Abbiamo già osservato quanto sia teologicamente più preciso e maturo di R come professio­ ne di fede, ma finora nulla è stato detto circa il complicato e difficile problema della sua origine. Le questioni che suscita sono di grande interesse e importanza, e dedicheremo questo capitolo a un esame di esse. È chiaro che il nostro primo com­ pito dovrà essere quello di riassumere le prove della prima comparsa di T (= Textus receptus), e su questo non esistono dei seri dubbi. Troviamo un testo identico sotto ogni aspetto per i suoi intenti nel trattato De singulis libris canonicis scarap­ sus, scritto da s. Priminio, fondatore e primo abate del famoso monastero di Reichenau, presso il lago di Costanza. San Primi­ nio (il suo nome è stato di solito scritto Primino, ma sia la filo­ logia che l'innumerevole tradizione dei manoscritti sostengo­ no la nostra forma)1 fu un insigne missionario benedettino che giunse nei dintorni del lago di Costanza verso il 724, fondò l'abbazia di Reichenau sotto la protezione e l'aiuto di Carlo

' Circa l'ortografia del suo nome, e le sue implicazioni per quanto riguar­ da il suo ambiente e la sua origine, cf. G. MoRIN, in Revue Charlemagne 1(1911), 2-4.

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Martello, organizzò gli istituti monastici nella Germania sudoccidentale, e risvegliò una nuova vita religiosa e di studio sulle rive dell'alto Reno. Scrisse il suo Scarapszd in una data difficile ora a stabilirsi, che si aggira tra il 710 e il 724. Si tratta di una specie di compendio della dottrina cristiana, tratto dalla sacra Scrittura e da autori ecclesiastici noti, e fu usato come sussidio da lui e dai suoi discepoli nella loro attività missiona­ ria. Più tardi il santo cadde in disgrazia delle autorità locali, fu espulso e si rifugiò in Alsazia, e, dopo un altro periodo di gra­ vosi impegni, terminò i suoi giorni probabilmente nel 753 nel­ l'abbazia di Hornbach ( nei pressi di Zweibriicken ) , un'altra delle sue fondazioni. Priminio citò il Credo apostolico in tre diversi contesti del suo manuale missionario. Nel primo di questi ( c. lO) egli espo­ se il noto racconto secondo il quale i Dodici, ripieni di Spirito Santo, composero un sommario di fede. Il Credo, risultante dall'unione delle dodici formule che egli citò, coincide esatta­ mente con T, eccettuata l'espressione SEDETIE (sedit) invece di SIEDE (sedet) per indicare la sessione di Cristo alla destra del Padre. Il terzo ( c. 28) consiste di un'istruzione esortativa sulla fede e la morale, e riproduce il Credo liberamente e in modo inesatto. Il secondo è il più interessante ( c. 12); in esso s. Priminio ricordò ai suoi lettori la circostanza solenne del loro battesimo. Così richiamiamo alla vostra memoria, o fratelli - egli scrisse -, il patto che abbiamo fatto con Dio proprio nel battistero: cioè dove, allorché il prete ci richiese varie volte i nostri nomi e come venissimo chiamati, o rispondeste voi stessi, se eravate già in età da rispondere, o in ogni caso colui che stava facendo la promessa solenne per voi e vi fece uscire dal­ l'acqua rispose e disse: «Egli si chiama Giovanni», o qualche altro nome. E il sacerdote chiese: «Giovanni, rinunci al diavolo e alle sue opere e alle sue pompe?». E voi rispondeste: «lo rinuncio, cioè io disprezzo e rinuncio a tutte le opere cattive e diaboliche». Dopo aver rinunciato al demonio e a tutte le sue opere cattive, il sacerdote vi chie­ se: «Credi in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra?>>.

2 PL 89,1029ss. L'edizione di gran lunga migliore del testo è quella stam­ pata in G. JECKER, Die Heimat des heiligen Pirmin, MUnster i.W. 1927.

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XIII. Le origini del Credo apostolico

Voi rispondeste: «lo credo». E ancora: «Credi in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, che fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, soffrì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese all'inferno, e il terzo giorno risuscitò dai morti, salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente, e da li verrà a giudi­ care i vivi e i morti?». E voi rispondeste: «Credo». E il sacerdote vi chiese per la terza volta: «Credete nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurre­ zione della carne, la vita eterna?». Voi rispondeste, o il vostro padrino rispose per voi: «Credo». Vedete quale patto e promessa o confessione da parte vostra: è un vincolo fra voi e Dio. Con la fede eravate battez­ zati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo fino alla remissione di tutti i vostri peccati, e venivate unti dal prete col crisma della salvezza fino alla vita eterna, e il vostro corpo veniva vestito con una veste bianca, e Cristo rivestì la vostra anima di grazia celeste, e vi fu assegnato un angelo santo come custode. 3

Abbiamo detto che questo rappresenta la prima redazione di una formula di fede praticamente identica a T: l'unica diffe­ renza è SEDETIE (sedit) invece del SIEDE di T, e questo non ha grande rilevanza, tenuto conto della diffusione dell'espressio­ ne SIEDE nei Credo occidentali. Formulari assai simili a T si ritrovano in altri documenti liturgici quasi contemporanei. Uno di essi è il messale del VII secolo, o dell'inizio dell'VIII, chiamato talvolta Sacramentario Gallicano, ma oggi più comu­ nemente definito il Messale di Bobbio4 (Cod. Lat. 13246 della Biblioteca Nazionale di Parigi). Qui il Credo compare in non meno di quattro versioni. A. Nella prima5 esso è premesso al sermone per la consegna del simbolo di fede subito dopo il rito dell'Effatà cioè la ritua­ le consegna ai candidati delle prime parole di ognuno dei quat­ tro vangeli. Assai simile a T, si differenzia in numerosi punti, in particolare: sostituisce IO CREDO al posto di E all'inizio del ,

' Per una riproduzione fotografica del passo com'è contenuto in Cod. Ein­ sidelnsis, 199, fol. 237r. (fine dell'VIII secolo o inizi del IX: il migliore dei tre manoscritti di Scarapsus), cf. A.E. BuRN, Facsimi/es of the Creeds, Tavola X, H. Bradshaw Society XXXVI, 1909. • Per il testo, cf. H. Bradshaw Society LIII, 1917 (un intero facsimile foto­ grafico), e LVIII, 1920 (una trascrizione completa). ' H.B. Soc. LVIII, 56: nel manoscritto fol. 88r.

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secondo articolo e UNIGENITO ETERN06 al posto di UNICO di T, omette NOSTRO SIGNORE, scrive CONCEPITO, NATO, CROCIFISSO, MORTO e SEPOLTO come participi in accusativo, e usa il passato SEDETTE al posto di SIEDE. Merita attenzione anche l'uso di SANTO con Spirito. B. Un altro testo si può ricavare dal sermone che segue immediatamente dopo le formule del Credo.7 Per quanto allu­ sivo e non necessariamente completo, esso presuppone una conoscenza di UNICO e NOSTRO SIGNORE, come pure della let­ tura IL QUALE FU CONCEPITO . . . NATO . . . C. Ancora un terzo Credo,8 questa volta in forma interro­ gatoria, è desunto dalla liturgia battesimale prevista per la vigi­ lia di Pasqua, subito dopo la rinuncia e la prima immersione. Anche questo è molto vicino a T, e le principali differenze sono: CONCEPITO, NATO, ecc. vengono espressi da participi in accusativo, manca MORTO, SEDETTE sostituisce SIEDE, e VITA ETERNA è detto in modo più complesso. D. Infine, vi è un testo isolato delle formule del Credo in una raccolta di aggiunte assortite situate al termine del messa­ le.9 Esso consiste in un frammento che attribuisce le varie for­ mule ai loro presunti autori apostolici, con molte e notevoli differenze da T. Per esempio, manca di CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA, e parla del SUO UNICO FIGLIO NOSTRO DIO E SIGNORE, non riporta CONCEPITO ma invece dice NATO DALLA VERGINE MARIA PER LO SPIRITO SANTO, non menziona MORTO, DAI MORTI e CATTOLICA, aggiunge PER IL SANTO BATTESIMO a REMISSIONE DEI PECCATI, e chiude con RISURREZIONE DELLA CARNE ALLA VITA ETERNA. Esso è stato erroneamente identifi­ cato come un formulario usato nella recita delle ore.10 In real­ tà, benché non ci sia niente di strano e di eccezionale nella pre­ senza di un Credo nella recita delle ore in questo periodo, il

• KATIENBUSCH (II, 776 n. 28) vide in questo particolare l'influenza del Te Deum, vv. 12 e 15. ' H.B. Soc. LVIII, 56s: nel manoscritto foll. 88v-90v. • H.B. Soc. LVIII, 74s: nel manoscritto foll. 1 17v-118r. • H. B. Soc. LVIII, 181: nel manoscritto foll. 298r e v. •• Per esempio da KATIENBUSCH, l, 55; Il, 747 n. 34; 881 n. 14.

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XIII. Le origini del Credo apostolico

contesto del passo, come pure l'attribuzione degli articoli ai dodici apostoli, indica che l'intento dell'autore era principal­ mente catechistico.11 La versione latina della prima e della terza di queste varianti di T (A e C), con tutti gli errori ortografici e gramma­ ticali, viene riportata qui sotto: BOBBIO A

BOBBIO C

Credo in deum patrem omnipoten­ tem, creatorem celi et terrae. Credo in lesu Christo filium eius uni­ genitum sempiternum, conceptum de Spiritu sancto, natum ex Maria virgene, passus sub Poncio Pilato, crucifixum, mortuum et sepultum, discendit ad inferno, lercia die resurrexit a mortuis, ascendit ad celus, sedit ad dexteram dei patris omnipotentis, inde venturus iudica­ re vivos et mortuos. Credo in sancto Spiritu, sancta aecle­ sia catolica, sanctorum comunione, remissione peccatorum, carnis resurreccioniem, vitam aeternam.

Credis in deum patrem omnipoten­ tem, creatorem celi et terre? Credit et in Iesu Christo filium eius unicum, dominum nostrum, con­ ceptum de Spiritu sancto, natum ex Maria virgene, passo sub Poncio Pilato, crucifixum et sepultum, discendit ad inferno, tercia die resurrexit a mortuis, ascendit in celis, sedit ad dexteram dei patris omnipotentis, inde venturus iudica­ re vivos ac mortuos? Credit in sancto Spiritu, sancta aeclesia cathotica, sanctorum comunione, remissione peccatorum, carnis resur­ reccionis, vitam abere post mortem, in gloriam Christi resurgere.

Questo per quanto riguarda il Messale di Bobbio. In secon­ do luogo, dovremmo rivolgerei all'Antifonario di Bangor, che contiene un testo del Credo che fa subito ricordare T ed è in rapporto con le formule che abbiamo appena studiate. Questo famoso manoscritto irlandese, ora conservato nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (siglato 5 inf.) , fu scritto nel grande monastero fondato nel 559 da s. Comgall nei pressi di Belfast: la sua data, 680-691, è stabilita da riferimenti al nome dell'aba­ te contemporaneo.12 Nel fol. 19r e v, in mezzo a una raccolta di

11

Cf. A. WIHNART, in H. B. Soc. 61(1923), 43. " Cf. la magnifica edizione fotografica preparata per la H. Bradshaw Society (IV e X) nel 1893 e 1895 da F.E. Warren.

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anatemi e di preghiere e immediatamente prima del Padre nostro, viene riportato il Credo seguente: Credo in deum patrem omnipotentem invisibilem, omnium creatura­ rum visibilium et invisibilium conditorem. Credo et in lhesum Christum filium eius unicum, dominum nostrum, deum omnipotentem, conceptum de Spiritu sancto, natum de Maria virgine, passum sub Pontio Pylato, qui crucifixus et sepultus discen­ dit ad inferos, tenia die resurrexit a mortuis, ascendit in caelis sedit­ que ad dexteram dei patris omnipotentis, exinde venturus iudicare vivos ac mortuos. Credo et in Spiritum sanctum, deum omnipotentem, unam habentem substantiam cum patre et filio, sanctam esse aecclesiam catholicam, abremissa peccatorum, sanctorum commonionem, camis resurrec­ tionem. Credo vitam post mortem et vitam aetemam in gloria Chri­ sti. Haec omnia credo in deum. Le caratteristiche notevoli che subito saltano agli occhi sono a) l'uso di ARTEFICE DI TUTI'E LE CREATURE, ecc. come pure INVISIBILE con PADRE ONNIPOTENTE, b ) l'introduzione di DIO ONNIPOTENTE dopo aver nominato sia il Figlio che lo Spi­ rito, c) l'insistenza sulla consustanzialità dello Spirito, e d) la forma della clausola finale sulla vita futura. Bisogna anche notare l'omissione di MORTE. A parte questi punti, tuttavia, il Credo è nelle sue grandi linee simile a T, e quando vi si allon­ tana richiama forme del Credo del Messale di Bobbio. Tra i passi simili possiamo scegliere a ) la ripetizione di CREDO prima del secondo articolo, b ) l'uso di participi in accusativo per coN­ CEPITO, ecc., c) l'uso di SEDETTE per SIEDE, d) l'ablativo in cae­ lis per AL CIELO, e) la frase LA GLORIA DI CRISTO nella clauso­ la finale. Un terzo documento liturgico che potremmo prendere come prova di una forma di Credo simile a T è il cosiddetto Missale Gallicanum vetus.13 Secondo il parere degli esperti, il manoscritto che lo riporta (Cod. Vat. Pal. 493) comprende i resti di due diversi sacramentari che sono stati riuniti insieme. Le parti che ci riguardano erano collegate, a quanto pare, alla

" Cf. J. MABILLON, De liturgia Gallicana libri III, Paris 1685; J.M. NEALE G. H. FORBES, Ancient Liturgies of the Gallican Church, Burntisland 1855.

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diocesi di Auxerre, in Francia; furono scritte all'inizio dell'VIII secolo e provenivano da monasteri della Borgogna che aveva­ no rapporti con la Germania.14 Nei foll. 16r e v e 17r possiamo ritrovare una formula del Credo all'inizio di un sermone pro­ nunciato al momento della consegna nel rito della traditio sym­ boli. 15 Il sermone stesso commenta le clausole del Credo una per una, ma nel nostro codice si interrompe improvvisamente a Credo in filio eius perché molte pagine sono scomparse. Il Credo riportato per esteso all'inizio è sostanzialmente identico a T, e così non ha bisogno di essere qui ripetuto. I soli punti di differenza sono che esso omette DISCESE ALL'INFERNO, inserisce VINCITORE prima di AL CIELO, mette SEDETIE al posto di SIEDE, e conserva l'antica espressione gallicana REMISSIONE DEI PECCA­ TI. Il testo completo del sermone interrotto, è interessante notarlo, si ritrova nel Cod. Lat. Monacensis 6298 del Sermo Pseudo-August. 242 (un manoscritto dell'VIII secolo del mo­ nastero di S. Emmero, nella diocesi di Freising). Il Credo che si è ricavato si avvicina ancora una volta a T, ma omette UNICO, NOSTRO SIGNORE, MORÌ, DISCESE ALL'INFERNO, e tutte le citazio­ ni della sessione. Queste omissioni trovano passi paralleli nelle antiche formule di fede gallicane, con la triplice tipica ripetizio­ ne IO CREDO. Probabilmente questo rappresenta la forma origi­ nale del Credo usato nella liturgia, mentre il testo riprodotto in extenso all'inizio è quello noto al copista dell'VIII secolo. Una seconda forma di Credo, bisogna notarlo, compare nel fol. 20v del Messale Gallicano: è quella che abbiamo identificato a p. 234 come il formulario di s. Cesario di Arles, ed è di nuovo molto simile a T. Infine, T si trova nella sua forma praticamente integra nel cosiddetto Sacramentario di Ge/lone. Il manoscritto che lo con­ tiene (il riccamente illustrato Cod. Lat. l2048 che è nella Biblio­ teca Nazionale di Parigi) risale alle ultime decadi dell'VIII

" Cosl secondo L. lì'aube, il famoso paleografo, in BURN , Facsimiles of the Creeds, 48. " U MABILLON, De liturgia Gallicana libri III, 348; BURN, Facsimiles of the Creeds, Tavole V-VII.

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I simboli di fede della Chiesa antica

secolo. Tentativi sono stati fatti16 per rintracciare la sua origine nell'abbazia di Gellone o di S. Guillaume-du-Désert (presso Aniane, a nord-ovest di Montpellier), dove restò a lungo indub­ biamente all'inizio del IX secolo. Ma le congetture che lo colle­ gano al nord della Francia, a Rebais17 nella diocesi di Meaux o a Cambrai, 18 sono assai più sorprendenti. Molte sue forme orto­ grafiche, abbreviazioni e spiegazioni risentono dell'influenza spagnola. Come sacramentano appartiene alla scuola gelasia­ na, e prevede due schemi battesimali. Nel primo le interrogatio­ nes de fide consistono in un Credo in forma interrogatoria anche più povero di R: «Credi in Dio Padre onnipotente? E in Cristo Gesù suo unico Figlio nostro Signore? Credi anche nello Spirito Santo, nella santa Chiesa cattolica, nella remissione dei peccati, nella risurrezione della carne?». Nel secondo schema il Credo compare in due modi,19 dapprima in una forma dichiara­ tona e poi in forma interrogatoria. La prima è posta dopo l'ape­ ritio aurium (fol. 181r): il sacerdote fa un breve discorso di introduzione e invita l'accolito a dichiarare il Credo a nome del bambino candidato. Il testo a questo punto è identico a T, salvo che riporta SEDETIE al posto di SIEDE e omette est con venturus. L'altra (fol. 181v) fa parte del battesimo di un catecumeno ammalato e coincide ancora con T salvo per quanto riguarda la forma interrogatoria, l'aggiunta di CREDI ANCHE ru? all'inizio del secondo articolo, l'omissione di ARTEFICE DEL CIELO E DELLA TERRA, e la sostituzione di SEDETIE con SIEDE. 2.

LA REDAZIONE NON ROMANA DI

T

Questa, a grandi linee, è la prova più antica dell'esistenza di T e della formula di fede collegata strettamente ad esso. Con questo materiale davanti a noi, il nostro compito consiste ora

16 Cf. P. DE PvNIET, Le sacramentaire romain de Gellone, Roma 1938 (una serie di articoli in Ephemerides Liturgicae), 6ss. " Cosi secondo L. Traube in BuRN, Facsimiles of the Creeds, 49. 18 Cf. l'articolo di Doro A. WILMART, in R. Bén. 42(1930), 210-222. •• Cf. BURN, Facsimiles of the Creeds, Tavole VIII e IX.

XIII. Le origini del Credo apostolico

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nel tentare di stabilire da dove ebbe origine T. E qui la prima ipotesi da prendere in considerazione è ovviamente quella che sostiene che la completa redazione di R, di cui T era il risulta­ to, venne eseguita nella stessa Roma. Questa era la teoria che G.L. Hahn20 e A.E. Bum21 difesero all'inizio del XX secolo. Ben­ ché A.E. Bum in seguito sia giunto a un compromesso tanto da ammettere che R potrebbe aver subìto altrove la sua totale tra­ sformazione in T,22 egli rifiutò risolutamente di scostarsi dalla sua posizione che, cioè, a Roma l'adozione deve essere avvenu­ ta molto prima del 700, e che da Roma esso si era poi diffuso. Un esame delle sue argomentazioni, spesso messe da parte ma mai seriamente vagliate, costituisce il metodo più opportuno per affrontare in modo globale il problema dell'origine di T. Per sostenere che Roma era il luogo di origine di T, o alme­ no il centro ecclesiale responsabile della sua vasta diffu�ione, Bum si rifaceva a molte e diverse considerazioni. Prima di tutto, fece appello a un manoscritto conservato nella Biblioteca del Collegio del Corpus Christi a Cambridge, il Psalterium Latino­ Graecum (n. 468), che egli credeva portasse la nuova stesura di Papae Gregorii. Ammise che il manoscritto era probabilmente di uno scrivano inglese, datato non prima del XV secolo. Ma, seguendo le orme di Caspari,23 lo mise in relazione con papa Gregorio III (731-741). In questo manoscritto figura un Credo il cui testo è identico a T ad eccezione di un paio di variazioni insignificanti (l'omissione di est con venturus , e di E prima di LO SPIRITO SANTO). Bum si sentì dunque autorizzato a considerare questo come una prova dell'esistenza di T a Roma nel 700 circa. In secondo luogo, affermò di trovare molto significativo l'uso di T da parte di s. Priminio. Il grande missionario bene­ dettino, disse, parla nel suo Scarapsus della consegna del Credo ai catecumeni immediatamente dopo la loro rinuncia al diavolo e a tutte le sue opere e alle sue pompe, e questa era

"' Cf. Bibliothek, 24, n. 20.

" Cf. An lntroduction, 233ss. 22 Cf., per esempio, Facsimiles of the Creeds, 1908, 12; Encyclopaedia Bri­ tannica, 11 ed. , VII, 395. 23 Quellen, III, 215s.

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l simboli

di fede della Chiesa antica

un'usanza chiaramente romana. Citò anche la rinuncia stessa in ciò che Bum riteneva essere la sua forma romana, e fece riferimento alla preghiera romana dell'unzione. Inoltre s. Pri­ minio era, secondo Bum, l'amico e il compagno di lavoro di s. Bonifacio che, come sappiamo, ricevette espresse istruzioni da parte di papa Gregorio II di usare l'ordinamento battesimale ufficiale romano. In una famosa lettera24 il papa ammonì il nuovo missionario ad aderire lealmente alle usanze della Santa Sede. Desideriamo - egli scrisse - che applichiate il rituale sacramentale, che applichiate, durante l'iniziazione di coloro che tramite la grazia di Dio verranno alla fede, la forma prescritta nei riti della nostra sede aposto­ lica, e questo abbiamo inviato per la salvaguardia del vostro insegna­ mento.

Evidentemente, è impossibile dimostrare che s. Bonifacio abbia realmente adottato T come suo Credo battesimale, ma Bum osservò che era improbabile che avesse usato un testo differente da quello preferito dal suo collaboratore s. Priminio. Ma se T fu usato da s. Bonifacio, entusiastico divulgatore degli usi romani, la probabilità che si trattasse di un formulario romano è molto più grande. In terzo luogo, Bum trovò una valida conferma delle pro­ prie opinioni in alcune risposte mandate al questionario che Carlo Magno diffuse nell'812 (ricorreremo a quest'ultimo) circa la forma del rito battesimale prevalente nel suo impero. La risposta più importante a noi rimasta è quella di Amalario di Treviri, e il testo del Credo che sembra presupporre era quasi sicuramente T o qualcosa di simile. Le osservazioni che l'accompagnavano furono interpretate da Bum come una con­ ferma che egli usava l'ordinamento romano del battesimo, del Credo e di tutto il resto. Durante lo scrutinio - scriveva Amalario - facciamo il segno della croce sui bambini, formulato secondo l'ordinamento romano, e faccia­ mo anche una genuflessione e un 'abiura, e istruiamo i padrini e le

24

Ep. 1: PL 89,496.

XIII. Le origini del Credo apostolico

499

madrine nella preghiera del Padre nostro, cosicché essi possano fare la stessa cosa negli impegni per i quali sono garanti. E allo stesso modo li istruiamo nel Credo, che nella nostra lingua viene tradotto segno. 25

Burn dedusse da queste parole che tutte le norme indicate dovevano essere state ugualmente modellate sulla prassi cor­ rente romana. Egli portò come conferma della sua argomenta­ zione la presenza di T nei vari messali e sacramentari contem­ poranei gallicani, perché tutti riconoscono che questi riti, con­ seguenza della politica volutamente romanizzante dell'ultimo periodo dell'VIII secolo, comprendevano parecchi elementi romani accanto a quelli gallicani. Infine, avanzò un'ipotesi più generale, e cioè l'estrema improbabilità che Roma abbia ripre­ so da riti stranieri uno strumento liturgico importante come il Credo battesimale. « È impossibile credere che la Chiesa, che nel secolo IX aveva rifiutato di inserire filioque in N e di com­ piacere cosl all'imperatore, proprio in quel periodo accettasse da fuori un segno di nuova revisione. Sono tutte circostanze da riferirsi all'evolversi di una crescita graduale».26 Queste erano le prove di Burn. Convinti dell'inutilità di un dogmatismo a questo riguardo, gli studiosi in genere non sono rimasti soddisfatti di tali argomentazioni. Trovavano molti punti deboli in tutte le sue riflessioni, come potremo vedere osservandole in ordine, e alcune di esse apparivano basate su puri e semplici errori. Un esempio lampante di quest'ultimo caso era la sua fiducia nel Psalterium Latino- Graecum di Cam­ bridge, fiducia condivisa da una schiera di altri studiosi (e que­ sto può essere un'attenuante). È un mistero come mai questo manoscritto sia stato collegato con un papa Gregorio. Al fol. ii r esso porta l'iscrizione «psalterium grecum prioris Gregorii». Secondo M.R. James, è stato probabilmente scritto nel XIII secolo, ed egli azzardò la supposizione che fosse di proprietà di Gregorio di Huntingdon, priore di Ramsey (t circa 1250).27

'"' PL 99,894. 26 An Introduction, 239. 21 Cf. M.R. JAMES, A Description ofthe MSS in the Library of Corpus Chri­ sti College, Cambridge, Cambridge 1912, Il, 399ss.

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Che avesse ragione o meno, il manoscritto non aveva niente a che fare con un papa Gregorio, e il sottile filo di collegamento che agli occhi di Bum e di altri collegava il suo contenuto con Roma era puramente immaginario. Indubbiamente Bum attribui troppa importanza anche alla supposta amicizia e collaborazione tra s. Priminio e s. Bonifa­ cio. L'unica circostanza documentata di contatto fra i due gran­ di missionari della Germania si ebbe quando s. Priminio giace­ va sul suo letto di morte a Hornbach e, secondo il suo biogra­ fo del IX28 secolo (testimone non molto attendibile), ricevette una visita di s. Bonifacio. Se questo fatto sia mai avvenuto (esso viene raccontato in modo edificante, mentre i ben infor­ mati biografi dello stesso s. Bonifacio tacciono al riguardo), dev'essere stata una visita di passaggio quando s. Bonifacio tornava a Magonza dopo la consacrazione di Pipino a re dei franchi. Il nome di s. Priminio non si trova nella corrisponden­ za che ci è rimasta di s. Bonifacio, benché entrambi appartenes­ sero allo stesso ordine benedettino, e, mentre i due personaggi devono essere stati l'uno a conoscenza dell'esistenza dell'altro, sembra che in realtà siano vissuti l'uno indipendentemente dall'altro. Inoltre, benché s. Bonifacio fosse stato nominato da papa Gregorio III nel 738 suo legato sia per la Baviera sia per il resto della Germania, sembra che egli abbia volutamente cercato di evitare di svolgere la sua missione in Germania, cer­ tamente per non interferire nell'attività di s. Priminio.29 L'ipo­ tesi che fossero amici e operassero insieme o persino come col­ leghi è totalmente priva di basi storiche. Si rischia perciò di certo qualcosa di più che un salto nel buio a concludere che, se s. Priminio usava T, anche s. Bonifa­ cio deve averlo usato, supponendo che T fosse una formula romana ampiamente proclamata da s. Bonifacio, del quale era ben nota la fedeltà alla prassi romana. È certo comunque che non una sola traccia del Credo da lui usato per il battesimo è

" Cf. Vit. et mirac. s. Pirminii 9: E.O. HOLDER-EGGER, in MGH, Script. , XV, 28s. 29 Su tutto questo, cf. JECKER, The Heimat des hl. Pirmin, 14.

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giunta a noi negli scritti di s. Bonifacio.30 In ogni caso, è azzar­ dato credere che la sua formula di fede debba essere stata identica a quella romana, perché, mentre le autorità romane insistevano indubbiamente sull'osservanza dello schema prin­ cipale del loro rito battesimale, nessun documento attesta che dessero una particolare importanza alle parole del Credo. Se la missione di s. Agostino di Canterbury in Inghilterra più di un secolo prima può fornirci qualche analogia, si potrebbe dedur­ re che non vi davano tanta importanza. Durante il pontificato di s. Gregorio Magno la Chiesa rom ana quasi certamente usò C come suo Credo battesimale, almeno per scopi locali. Sap­ piamo che s. Agostino sostenne con fervore accanito che la prassi romana fosse preminente, e in particolare decretò che «il ministero del battesimo, per mezzo del quale rinasciamo a Dio, fosse compiuto secondo il rito della santa Chiesa romana e apostolica».31 Ma tutte le prove sembrano portare alla con­ clusione che R fosse il Credo che la Chiesa inglese era persua­ sa di dover adottare. L'altra opinione di Burn, secondo cui s. Priminio stesso seguì l'uso romano sia per quanto riguarda la collocazione del Credo sia per la forma di rinuncia, non può essere presa in seria considerazione. Non è praticamente possibile ricostruire l'ordine preciso delle cerimonie a partire dal sommario rias­ suntivo di s. Priminio. Nella misura in cui possiamo farlo, tutta­ via, è chiaro che egli si sta riferendo non alla recita formale del Credo nel momento della redditio, come presuppone l'argo­ mentazione di Burn, ma alla forma interrogatoria propria del momento del battesimo. Il fatto che le domande del Credo note a s. Priminio venissero fatte nella forma di T è una prova del carattere decisamente non romano del suo rito battesima­ le. Le domande usate a questo punto nell'autentico rito roma­ no erano sempre assai più brevi che in T, come veniamo a sape­ re dal Sacramentario Gelasiano oltre che dal cerimoniale che viene seguito oggi.

"' Messo in evidenza da KATIENBUSCH, Il, 821ss. 31 Cf. BEDA, Hist. ecci. 2,2: PL 95,83.

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I simboli di fede della Chiesa antica

Burn è stato anche colpevole di aver tentato di ricavare più del dovuto dai testi nell'interpretazione di Amalario, come se nella risposta a Carlo Magno fosse implicito il fatto che la sua formula di Credo (ancora una volta T) fosse romana, come anche le liturgie da lui seguite per il battesimo. Il massimo che si può dedurre dal contesto della sua lettera è che egli si ado­ però perché l'ordinamento liturgico riproducesse lo schema romano. Non si riferiva a un formulario del Credo tipicamen­ te romano più di quanto pensasse che la Santa Sede avesse una versione distinta del Padre nostro. È in ogni caso azzardato, nel momento in cui si fa opera di ricerca tra le liturgie franche di questo periodo, fare troppe deduzioni ispirandosi a descrizioni di un rito romano. I carolingi, e in particolare lo stesso Carlo Magno, indubbiamente conducevano una politica romanizzan­ te, e avevano incoraggiato l'adozione della liturgia romana con tutti i mezzi a loro disposizione. Ma ciò che emergeva come risultato dei loro sforzi, e passava per «romano», era di solito un'evidente fusionè di elementi romani e gallicani. L'argomen­ tazione generale che Roma, la quale aveva rifiutato di accetta­ re il filioque da Carlo Magno, non potesse dar credito con bonaria accondiscendenza alla forma gallicana del Credo bat­ tesimale, può essere subito messa da parte. È assai improbabi­ le che i motivi per cui Leone III ripudiò il filioque avessero qualcosa a che fare con la sua preferenza per i testi antichi in quanto tali, o anche con l'umiliazione che un pontefice roma­ no potrebbe aver pensato di subire lasciandosi imporre qual­ cosa in materia liturgica da un imperatore franco. Non è diffi­ cile intuire che ciò che lo dissuase fu realmente l'istinto del­ l'uomo di governo che non doveva in nessun modo far appari­ re colpevoli se stesso e la Santa Sede agli occhi dell'ortodossia orientale. I rapporti tra oriente e occidente erano molto preca­ ri e non era conveniente che il papa offrisse gratuiti motivi di rivalsa ai vescovi orientali. In pratica, come avremo modo di osservare in seguito, l'ondata di reciproche influenze liturgiche aveva già cominciato a palesarsi, e, se nell'VIII secolo il rito romano si stava diffondendo nella Francia e nella Germania, era Roma stessa nel IX secolo che ne subiva il riflusso. La Santa Sede dunque nel IX secolo, rifiutando di farsi debitrice

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della Chiesa gallicana, lasciava che elementi gallicani comin­ ciassero col suo consenso a comparire con sempre maggior fre­ quenza nei suoi testi di liturgia. Finora abbiamo trattato di considerazioni negative. Se esse bastano a intaccare le argomentazioni positive avanzate a favore della presunta origine romana di T, tuttavia lasciano ancora sussistere l'ipotesi che sia così. L'argomentazione che ha indotto la maggior parte degli studiosi a respingerla deve ancora essere ricordata. Essa si divide in tre parti. Prima di tutto, ci sono fondati motivi per supporre che, se un Credo di questo genere era conosciuto e usato a Roma prima del IX secolo, si trattava di R e non di T. Leone Magno (t 461) e Gre­ gorio Magno (t 604), come è stato appena dimostrato/2 cono­ scevano e si servivano di R o di un Credo molto simile, poiché tutti e due certamente ignoravano T. Un'altra prova è la pre­ senza di R, e non di T, nel Codice Laudiano degli Atti , un manoscritto della fine del VI secolo o inizio del VII portato in Inghilterra da missionari romani (probabilmente da Teodoro di Tarso, 669-690), e nel Salterio di Aethelstan (IX secolo). In secondo luogo, è difficile sfuggire all'impressione, come è stato messo in rilievo nel capitolo precedente, che, per alcuni secoli, la Chiesa romana abbia usato C come suo Credo battesimale, almeno per i suoi scopi locali; in terzo luogo, i lettori avranno notato in quest'ultima parte che tutti i documenti precedenti comprovanti l'esistenza di T o l'esistenza di Credo simili a T sono gallicani. Anche se è difficile stabilire la loro esatta pro­ venienza, nessuno sforzo di fantasia, però, potrà associarli direttamente a Roma. La maggioranza di essi risale a una data precedente la metà dell'VIII secolo. Ciò significa che la delibe­ rata romanizzazione dei libri liturgici gallicani, che fu una caratteristica della politica liturgica carolingia, non ebbe vera­ mente luogo prima della metà di quel secolo.

32 Da KATIENBUSCH, Il, 807ss.

504 3.

I simboli di fede della Chiesa antica

L'ORIGINE ISPANO-GALLICANA DI T

Se si esclude la teoria che T abbia avuto origine e sia stato emanato da Roma, se ne deve ovviamente ricercare la fonte in uno dei centri della provincia. Un metodo utile di approccio al problema è quello di esaminare i vari tipi di simboli di fede locali, per quanto è possibile recuperarli, e di confrontarli con T. Benché sia ovvio che le forme di Credo non fossero rigida­ mente stabilite, è ugualmente ovvio che i testi usati nelle varie località tendessero a distinguersi con tratti caratteristici. Di primo intuito si può affermare che è molto probabile l'ipotesi secondo cui T deve essere sorto nella regione in cui formulari molto simili erano di uso corrente. Se viene adottata questa ipotesi, è logico che alcune regioni possono essere senz'altro escluse. Nessuno, forse, può proporre l'Africa come l'ambiente in cui nacque T, ma è interessante notare che formulari di fede identificabili come africani differi­ scono in maniera netta da T. Prendiamo i formulari citati alle pp. 229s come rappresentativi delle formule di fede africane. Delle undici caratteristiche locali riportate nella prima parte del capi­ tolo XII solo cinque compaiono in essi - il costrutto GEsù CRI­ STO, MORTO, DONDE, CAITOLICA e VITA ETERNA; e di questi né MORTO né CAITOLICA (solo in s. Agostino) sembrano avere avuto gra_nde presa. Nello stesso tempo, in stridente contrasto con T, essi hanno espressioni insolite come RE DEI TEMPI, IMMOR­ TALE e PER MEZZO DELLA SANTA CHIEsA. D'altra parte, è stato di tanto in tanto affermato che T potesse essere una formula del Nord Italia. È stata addotta a prova di ciò la presenza di un testo molto simile nel Messale di Bobbio, ma (a parte l'improbabilità che il Messale di Bobbio potesse essere un documento del Nord Italia) la teoria riceve poco o addirittura nessun appoggio dai Credo che appartenevano a quella regione. Essi sono, come abbiamo visto alle pp. 227ss, assai più vicini a R che a T. Il riferimento alle Chiese spagnole dev'essere preso in maggiore considerazione. Sembra che la Spagna abbia posse­ duto una versione abbastanza consolidata del Credo dai tempi di s. Martino di Braga (t 580) sino all'VIII secolo, e che que­ sto fosse simile a T in molti particolari. Naturalmente tutte le

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formule di fede spagnole di questo periodo avevano il costrut­ to GEsù CRISTO. Ma inoltre avevano trovato un posto le clau­ sole SOFFRÌ, DISCESE ALL'INFERNO, DIO PADRE ONNIPOTENTE nel passo riguardante la sessione, CATTOLICA e VITA ETERNA.33 La liturgia mozarabica poteva anche vantare la COMUNIONE DEI SANTI. Ma bisogna notare che, pur adoperandosi in Spagna il Credo costantinopolitano durante la messa fin dal 589, le parole CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA erano normal­ mente mancanti. Lo stesso avveniva per l'importante distinzio­ ne CONCEPITO DA . . . NATO DA . . . Un Credo di qualche interesse per determinare la prove­ nienza di T è sicuramente la formula di Niceta di Remesiana che circolava alla fine del IV secolo nella regione dei Balcani.34 Il testo che si può ricavare dal suo De symbolo è straordinaria­ mente vicino a T. Al di là di ogni ombra di dubbio, Niceta cono­ sceva bene le varie forme GESÙ CRISTO, SOFFRÌ, MORÌ, CATTO­ LICA e VITA ETERNA, e parlò di Cristo che sedeva alla destra del PADRE (omettendo ONNIPOTENTE ) . Benché leggermente meno certo, è assai probabile che egli conoscesse CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA. Una caratteristica notevole del suo Credo era, naturalmente, l'inclusione di COMUNIONE DEI SANTI. Il principale punto di divergenza fra esso e T era non aver riportato CONCEPITO DA e DISCESE ALL'INFERNO. È importante ricordare che i punti di concordanza tra Niceta e T non resta­ no isolati. Infatti possiamo indicare altri formulari ben noti che derivano dalle zone orientali dell'impero d'occidente e dalle province vicine dell'impero d'oriente e che hanno dei tratti somiglianti a T. Il Quarto Credo di Sirmio e il relativo Credo di Nicea contenevano entrambi MORì e DISCESE ALL'INFERNO. La cosiddetta «Fede di s. Girolamo», quale che sia stato il suo vero rapporto con il santo, univa elementi niceni con elementi ricavati da formule locali (probabilmente da tipi di Credo della Pannonia usuali a Stridone) e rivelava di conoscere abitual­ mente le espressioni CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA (il

" Cf. sopra, p. 233. 34 Cf. sopra, p. 229.

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l simboli

di fede della Chiesa antica

testo parla DI COSE VISIBILI E INVISIBILI } , DISCESE ALL'INFERNO e COMUNIONE DEI SANTI.35 È indiscutibile, tuttavia, che in pratica le formule di fede identiche a T cominciarono a comparire nel sud della Gallia, e in particolar modo in Provenza, a partire dal V secolo. Possia­ mo ricordare che il Credo di s. Fausto di Riez alla metà del V secolo36 conteneva già i termini caratteristici CONCEPITO DALLO SPIRITO SANTO, NATO DALLA VERGINE MARIA, e poteva anche vantare la formula COMUNIONE DEI SANTI. Assai importante è il Credo identificato nel 1934 da Dom G. Morin come quello di s. Cesario di Arles (t 542).37 Conteneva CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA, la distinzione CONCEPITO DA . . . NATO DA . . . , le parole SOFFRÌ, MORÌ, DISCESE ALL'INFERNO, PADRE . . . ONNIPO­ TENTE, DONDE, e COMUNIONE DEI SANTI, e, naturalmente, G ES Ù CRISTO, CATTOLICA e VITA ETERNA. Si distingueva da T solo per alcuni particolari di minor conto - l'uso di UNIGENITO al posto di UNICO, l'omissione di NOSTRO SIGNORE e l'inserimento di ETERNO dopo UNIGENITO, l'inserimento ancora di CREDO all'inizio del secondo articolo, e l'inversione dell'ordine delle parole sanctum Spiritum. Il disce­ polo e più giovane contemporaneo di s. Cesario, s. Cipriano di Tolone, aveva un formulario assai simile a questo. I frammenti rimasti non riportano CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA (neppure il Credo di s. Cesario nel suo sermone di commento), né MORTO, o ONNIPOTENTE nella formula sulla sessione di Cri­ sto, ma aggiungono NOSTRO SIGNORE e tralasciano ETERNO dopo UNIGENITO. 38 Contemporaneamente, come abbiamo visto precedentemente in questo capitolo, vi sono alcuni documenti liturgici, e in particolare il Messale di Bobbio e il Missale Gal­ licanum vetus, come pure il Sacramentario di Gellone di poco più recente, che esprimono forme molto diverse da T, e che si devono quasi certamente collegare con la Gallia.

" Cf G. MORIN, Anedocta Maredsolana III, iii , 199s. Cf. sopra, pp. 234-235. " Cf. sopra, pp. 234-235. Questo è il Credo che compare nel Missale Galli­ canum vetus, fol. 20v. '" Cf. sopra, pp. 234-235. 36

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Le prove, dunque, suggeriscono decisamente che si debba ricercare il luogo di origine di T nel sud della Gallia. Gli stu­ diosi, generalmente, hanno avuto la tendenza a indirizzarsi verso la Borgogna per l'apparente connessione di questa regione con importanti documenti liturgici e con l'attività mis­ sionaria di s. Priminio.39 D'altra parte, ci sono un buon numero di considerazioni che indicano come probabile luogo di origi­ ne di T una regione certamente diversa dalle terre dei franchi. La regione è il distretto sud-occidentale della Francia che si estende dai Pirenei al Rodano, con capitale Narbona, nota negli antichi tempi come Septimania, e che tra il V e l'VIII secolo era sotto il dominio dei visigoti spagnoli. Sarà bene dedicare alcune pagine a un esame dell'ipotesi che T possa derivare da questa regione. È di fondamentale importanza, prima di tutto, la testimo­ nianza di s. Priminio. Questi indubbiamente è il primo testimo­ ne letterario dell'esistenza di T. È stata respinta l'ipotesi secon­ do cui egli avrebbe ricevuto la sua formula di Credo da Roma. Si potrebbe suggerire, in alternativa, che per lui il formulario da usare doveva essere quello del distretto in cui operava. Ma la Germania non era a quel tempo un paese con una fiorente vita cristiana: la prassi liturgica dev'essere stata a uno stadio embrionale di sviluppo. Le lettere di s. Bonifacio alla Santa Sede danno un quadro impressionante della barbarie della popolazione alla quale egli portava il vangelo, e del grado deplorevole del suo livello sacramentale e liturgico. L'attività di s. Priminio probabilmente non si svolse in un ambiente con una tradizione più viva e più sviluppata. Perciò, l'ipotesi che egli abbia dovuto affidarsi per il suo Credo battesimale agli usi locali della popolazione alla quale predicava deve essere lasciata da parte come un'errata interpretazione della situazio­ ne. Un'obiezione più risolutiva per questa ipotesi è tuttavia il fatto assai probabile, a giudicare dalla natura delle sue fonti letterarie, che abbia composto il suo Scarapsus prima di inizia-

•• Per esempio KAITENBUSCH, Il, 790ss ; E LooFS, Symbolik, TUbingen­ Leipzig 1902, 39; BADCOCK, 148ss.

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re l'attività missionaria in Germania. In conclusione, dunque, la teoria più plausibile è che abbia usato la formula di fede con la quale era cresciuto nella sua terra natia. Il problema più importante è di determinare quale questa fosse, e in passato tutti tiravano a indovinare al riguardo ( dif­ ficilmente meritano un'espressione più seria). S. Priminio è stato rivendicato dall'Irlanda, dall'Inghilterra e anche dalla Danimarca. Con relativa certezza, è dimostrato che egli era in realtà un discendente di antichi romani, e che il luogo di origi­ ne si trovava nella regione visigota della Francia che per seco­ li era stata soggetta al controllo e alla pressione culturale della Spagna.40 Questa potrebbe sembrare un'ipotesi azzardata, ma è quella sulla quale convergono molte differenti linee di testi­ monianza. La filologia del suo nome è una sola: può risalire a radici latine, ma non germaniche, anglosassoni o irlandesi. L'analisi delle sue fonti letterarie è inoltre indicativa: rivela che leggeva quasi esclusivamente autori della penisola iberica, quali s. Martino di Braga, s. Isidoro di Siviglia e s. Ildefonso di Toledo. I suoi interessi teologici e liturgici erano pienamente in armonia con tutto questo, perché indicavano un ambiente spa­ gnolo; e il tipo di organizzazione che impose nelle molte case religiose da lui fondate ricordava la prassi del lontano sud­ ovest. La tradizione voleva che egli fosse stato un profugo dal suo paese. Se è vero che era originario del distretto di Narbo­ na, vengono chiariti i motivi della sua partenza dalla Septima­ nia e dell'inizio dei suoi lunghi viaggi missionari. Fu nel 718 che i saraceni, sotto il comando del terribile El-Hurr, irruppe­ ro attraverso i Pirenei con le loro orde, spargendo devastazio­ ni per ogni dove: la stessa Narbona cadde sotto di loro nel 720. Le chiese, con i loro addobbi e i loro tesori, e il clero che li

"' Cf. G. MoRIN , «D'où est venu St. Pinnin?», in Revue Charlemagne 1(1911), 87ss; D.U. BERLIÈRE, in R. Bén. 34( 1922), 388; D.J. PÉREZ, in Bolettin de la Rea/ Academia de la Historia ( Madrid) 77( 1920), 132-150; JECKER, Die Heimat des hl. Pirmin; W. LEVISON, in Neues Archiv 45(1924), 385. In contrasto con questo punto di vista, cf. M.J. FLESKAMP, in Z. fti r KG. 46(1925), 199-202; ma l'argomentazione che egli svolge per dimostrare un'origine irlandese di s. Priminio è insufficiente.

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custodiva furono oggetto dei loro attacchi, e s. Priminio può benissimo essere stato uno di quelli che fuggirono per metter­ si in salvo prima dell'assalto. In secondo luogo, l 'uso da parte di s. Cesario di Arles (t 542) di una formula di fede straordinariamente simile a T, duecento anni prima di s. Priminio, convalida decisamente questa ipotesi. Arles si trovava, è vero, sulla riva orientale del Rodano. Ma le relazioni ecclesiali, al contrario di quelle di Vienne (che si intrattenevano con i borgognoni), si svolgeva­ no con i visigoti dominatori della Provenza, e nel 514 papa Simmaco dette allo stesso s. Cesario potere decisionale per le questioni riguardanti la fede sia in Spagna che in Gallia.41 I suoi rapporti privati con i capi dei goti, pur avendo dei mo­ menti di estrema tensione (egli fu esiliato in più di una circo­ stanza), furono molto stretti e sfociarono in una collaborazio­ ne pratica e concorde. È interessante osservare che il Credo, che gli attribuiamo d'accordo con Dom Morin,42 e che ha dei chiari segni di analogia con T, ricorda in numerosi particolari alcuni formulari spagnoli. L'aggettivo UNIGENITO (unigeni­ tum ), per esempio, ha un precedente spagnolo nel libellus fidei di s. Gregorio di Elvira del IV secolo .43 Si trova di nuovo in s. Teodulfo di Orléans circa nell'800,44 e questi apparteneva ai goti della Spagna. È presente anche, come abbiamo già osser­ vato, nel Credo di s. Cipriano di Tolone. E ancora, l'inversione di sostantivo e aggettivo in SANTO SPIRITO (sanctum Spiritum) si trova in s. Gregorio di Tours (t 594):5 ed è probabilmente spagnola: in ogni caso essa ricompare nel Credo della liturgia mozarabica. 46 In terzo luogo, il Credo principale del Messale di Bobbio, formula A, sembra essere perfettamente identico al Credo (che si può ritrovare, vogliamo ricordarlo al lettore, nel fol. 20v. del

41 42

Cf. la lettera del papa (Ep. 9): PL 62, 66. Cf. sopra, pp. 234-235 (cf. R. Bén. 46 [ 1934 1 , 178ss). 43 Cf. PL 20,49s (di solito attribuito a Feba dio di Agen). 44 Cf. Lib. de ord. bapt. 7: PL 105,227; e anche HAHN, 69 . ., Cf. Hist. ecci. Frane. l, prol. : PL 71,161ss; e anche HAHN, 63. 46 Cf. sopra, p. 233.

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Missale Gallicanum vetus) che abbiamo accettato come la fede di s. Cesario. La versione di Bobbio concorda con il testo di s. Cesario nel sostituire UNIGENITO SEMPITERNO ( unigenitum sem­ pitemum) con unicum di T. Entrambi portano inde venturus iudicare (DI Ll VERRÀ A GIUDICARE) senza est, l'inversione del­ l'aggettivo e del sostantivo in SANTo SPIRITO, e alcune forme importanti (DISCESE ALL'INFERNO ecc.) che confermano l'esi­ stenza di T e le sue origini. Le sole differenze fra loro derivano da talune esigenze di scrittura barbarica del Messale di Bobbio che appartengono all'epoca e all'ambiente in cui venne redat­ to, o consistono di minuzie nel frasario (l'omissione in Bobbio A di et dopo il secondo Credo, l'uso di ex Maria al posto del de Maria di s. Cesario, la sostituzione dei participi in accusativo con i verbi finiti di s. Cesario). Queste osservazioni sollevano subito il problema circa il luogo di origine del Messale di Bob­ bio. Mabillon negò che potesse riferirsi alla città del Nord Ita­ lia di cui porta il nome: 47 lo considerò un documento gallicano, e lo fece risalire al monastero di Luxeuil. Duchesne, 48 seguito da Dom P. Cagin/9 tornò su questo punto e disse che era stato composto nei dintorni di Bobbio: per costoro si trattava del­ l'unico testo rappresentativo della liturgia del Nord Italia a partire dal IX secolo. S. Baumer,50 F. Probst51 ed E. Bishop52 vi riscontrarono l'opera di missionari irlandesi stabilitisi sul con­ tinente. Nel suo recente studio sul Messale Dom A. Wilmart53 tornò all'ipotesi di Mabillon, benché poi ben presto fu costret­ to ad ammettere l'influenza irlandese. Egli pensò che un libro di questo tipo dovesse essere stato scritto e messo in circolazio­ ne da un monastero della Borgogna che si trovava vicinissimo a qualche centro di cultura irlandese come Luxeuil. Tra tutte queste supposizioni, tuttavia, la più fondata e convincente è

Museum ltalicum, 273; 276: Praef n. i, ix . .. Christian Worship (trad. ingl.), London 1931, 158s. •• Te Deum ou lllatio? , 1907, 29 n. l . "' Z. far Kat. Theol. 16{1892), 485s. '1 Die abendlandische Messe, 1896, 37ss, 359ss. 12 JTS 4{1903), 566 e 8(1907), 293. " H. Bradshaw Society LXI, 1923, 38s.

'7

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quella di Dom G. Morin. Sia nel 1914 che nel 1934 egli mise in rilievo la parte importante svolta nel Messale da elementi spa­ gnoli e mozarabici.54 La presenza di questi elementi, come fece notare, era meglio spiegata dall'ipotesi che il Messale di Bob­ bio sia stato compilato nella zona sud-occidentale della Fran­ cia. Le numerose tracce di influsso irlandese, da lui rilevate in modo palese, calzavano perfettamente con la sua teoria. Si chiedeva infine dove mai in Gallia non vi fossero state emigra­ zioni irlandesi verso la fine del VII secolo o nella prima parte dell'VIII. E proseguiva: On /es retrouve partout, ces «peregrini» insulaires, depuis le Quercy et l'Aquitaine jusqu 'aux milieux monastiques de la Belgique, des rives de l'océan Atlantique jusqu 'au delà du Rhin; et il n 'est point douteux qu 'ils n 'aient pénétré en une fou/e de milieux au sujet desquels /es documents nous font défaut. ss

Dom Morin si era molto occupato della ricostruzione delle opere omiletiche di s. Cesario. Queste ricerche lo portarono a convincersi sempre più che vi erano stretti legami tra l'antico Sacramentario Gallicano e la liturgia proposta da s. Cesario nei suoi sermoni, e in particolare nelle sue istruzioni catechistiche bibliche in preparazione al battesimo di Pasqua.56 Sembra dun­ que che la soluzione da lui suggerita abbia chiarito la prolunga­ ta controversia sul luogo di origine del Messale di Bobbio. Un altro fatto, che rende più convincente l'ipotesi che sta prendendo consistenza, è la comparsa di un Credo praticamen­ te identico a T nel Sacramentario Gellonense. I liturgisti più competenti affermano concordemente che il manoscritto con­ tenente questo Credo fu redatto negli ultimi anni dell'VIII secolo, ed è probabile che sia stato scritto per qualche casa reli­ giosa dei dintorni di Meaux (non lontano da Parigi, a est). Il suo editore più recente, Dom P. Puniet, come è stato notato in precedenza, ritiene che il luogo di origine sia la stessa Gellone,

� �

,. R. Bén. 31 1914 , 326ss, e 46(1934), 187ss. " R. Bén. 31 1914 , 328. In francese nel testo originale (N.d. T.). ,. R. Bén. 46 1934 , 187.

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nei dintorni di Montpellier nel sud della Francia, ma la sua argomentazione non convince nessuno. L'abbazia di S. Guil­ laume-du-Désert o di Gellone non fu fondata prima dell'804, che è una data piuttosto tarda per il manoscritto; e non si pos­ sono trascurare le ripetute citazioni nel martirologio, nella forma originale, dell'abbazia di Rebais (nella diocesi di Meaux). La scoperta di Dom A. Wilmart,S7 per cui la stessa mano che scrisse il sacramentario lavorò su un altro manoscrit­ to dell'VIII secolo appartenente al capitolo di Cambrai (e ciò non comporta che il sacramentano sia stato fatto per Cam­ brai), rafforza la convinzione di un suo collegamento con il nord della Francia. Dal nostro punto di vista il fatto interessan­ te è che la tradizione ha collegato s. Priminio con Meaux. Secondo il suo biografo,58 il missionario benedettino non andò direttamente in Germania. Si rifugiò dapprima, probabilmen­ te, in Aquitania, e poi viaggiò verso l'Austrasia, dove per un certo tempo «esercitò senza infamia un episcopato pastorale», in un luogo detto Castellum Melcis. È sorta qualche controver­ sia circa l'ubicazione di questo luogo misterioso. Dom G. Morin suppose (per motivi, temo, più patriottici che oggettivi) che dovesse trattarsi di Melsbroeck, un tempo Meltburch, nei pressi di Bruxelles. L'ipotesi fu resa possibile, ma difficilmente plausibile, dalla sua insistenza nel voler leggere, contro l'evi­ denza di tutti i migliori manoscritti, Meltis per Melcis.59 Gli stu­ diosi in genere sono giunti decisamente a favorire l'identifica­ zione del Castellum Melcis con Meaux.60 Questa nelle sue linee generali è certamente la teoria più probabile, se si tiene in con­ siderazione l'antica tradizione ecclesiastica secondo cui s. Pri­ minio fu un tempo vescovo di Meaux. È dunque possibile che la presenza di una formula di fede identica a T (il Credo, lo si ricordi, di s. Priminio) nel Sacramentario di Gellone sia in qual-

'7 Cf. R. Bén. 42(1930), 210-222; il manoscritto in questione è il n. 300 della Biblioteca municipale di Cambrai. '" Cf. Vit. et mirac. s. Pirmin I: MGH, Script. XV, 21s. " Cf. R. Bén. 29(1912), 262-273. "' Cf. B. KRUSCH, in Neues Archiv 39(1914), 550ss e Gottinger Nachr. Phil. Hist. Kl. , 1916, 231ss. Cf. anche W. LEVISON, in Neues Archiv 38(1913), 351s.

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che modo un resto dell'influsso che il benedettino profugo da Narbona doveva aver subìto durante il suo soggiorno prece­ dente di due o tre generazioni. Bisogna notare che il mano­ scritto ha altre caratteristiche tipicamente spagnole. L'ipotesi che T abbia avuto origine nel sud-ovest della Francia, nella zona nota un tempo come Septimania, e che abbia raggiunto la sua forma attuale proprio li nel VII secolo, merita di essere presa in seria considerazione. Non è necessa­ rio porre in rilievo la superiorità di tale tesi rispetto all'ipotesi dell'origine borgognona: non c'è collegamento fra s. Priminio e la Borgogna, e il rapporto degli importanti manoscritti liturgi­ ci con la Borgogna è puramente occasionate. Perciò, lungi dal­ l'essere in contrasto con essa, la comparsa abbastanza sollecita di formule di fede simili nei Paesi balcano-latini, per esempio negli scritti di Niceta di Remesiana, ne fornisce una preziosa conferma. Vi erano stretti legami fra le zone orientali dell'im­ pero occidentale da un lato e la Spagna e la Gallia dall'altro. Portiamo un solo esempio: s. Martino di Tours (t 397) non solo era nato in Pannonia (a Szombathely, in Ungheria) ma vi aveva operato per un lungo periodo di tempo. S. Martino di Braga (t 580) era anch'egli originario della Pannonia. I visigo­ ti, che dopo il 419 occuparono la Gallia e poi la Spagna, e circa nel 470 contagiarono una parte dei burgundi con l'arianesimo, si erano stabiliti per un certo periodo di tempo nella Dacia e dintorni. Gli ostrogoti, che avevano governato in Provenza per più di una generazione dopo il 510, provenivano dalla Panno­ nia. Per questi motivi si può facilmente ritrovare una specie di prestito di formule di fede. I rapporti erano ugualmente stret­ ti fra l'Irlanda, la Spagna e la Gallia, e, se i missionari irlande­ si si spargevano nell'Europa al seguito di s. Colombano, l'Irlan­ da era a sua volta debitrice all'Europa occidentale di buona parte della sua cultura e della sua arte liturgica. E così può anche essere spiegata la conoscenza di T da parte del clero e dei fedeli irlandesi.

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4. CARLO MAGNO E IL CREDO Qualunque possa essere il giudizio conclusivo sull'afferma­ zione che la Francia sud-occidentale è il luogo di origine del textus receptus del Credo apostolico, pochissimi potranno negare che la sua origine non debba essere ricercata nel nord delle Alpi alla fine del VI secolo o nel VII. Stabilito questo punto, dovremmo ora avere la possibilità di affrontare il pro­ blema ugualmente importante e non meno faticoso della sua ufficializzazione come unico Credo battesimale della Chiesa occidentale. Come accadde che T fosse scelto per questo emi­ nente compito, e per quali vie riuscì a inserirsi nella liturgia romana? Saranno necessari due esami separati, perché sembra che T dapprima sia diventato la versione autorizzata del Credo in Francia e in Germania, e che poi si sia affermato nella stes­ sa Roma. Bisogna anche premettere che non possiamo spera­ re di ricostruire con precisione e in dettaglio le varie tappe attraverso le quali furono raggiunti questi traguardi. Le scarse prove che abbiamo non ci permettono di ricavare una teoria in termini di avvenimenti concreti e di date precise. Cionondime­ no, benché il problema che affronteremo sia avvolto da fitto mistero, è possibile distinguere approssimativamente il tipo di evoluzione che deve essersi verificata, e cosl ricostruirla a grandi linee. Un dato che emerge con indiscutibile chiarezza è che durante il dominio dei franchi, alla fine del secolo VIII e agli inizi del IX, le circostanze erano favorevolissime alla scelta e al definitivo affermarsi di un solo testo del Credo battesimale. Prima di tutto, i governanti franchi, e Carlo Magno in partico­ lare, diedero volutamente grande spazio all'uniformità della liturgia nel loro programma di innovazione culturale. Dopo il patto di reciproco aiuto sigillato fra Pipino e papa Stefano II nel 754, fu loro scopo costante di ricondurre nei loro regni le usanze liturgiche, allora segnate da caotiche diversità, in un alveo ordinato e fondato in pieno accordo sulla prassi corren­ te romana. Il prestigio di Roma operava già fortemente (per esempio missionari come s. Bonifacio erano degli infaticabili sostenitori di Roma), ma deve avere avuto un potente impulso

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quando Pipino pose Roma come esempio per il clero e cercò di procurarsi egli stesso libri liturgici romani.61 Si disputa se le riforme di Pipino siano andate oltre l'introduzione del canto romano dell'antifonario e del responsoriale o meno.62 Qualun­ que cosa si sia potuto pensare di questo problema specifico, senza alcun dubbio Carlo Magno perseguì energicamente lo stesso ideale di conformarsi a Roma per la celebrazione della messa e, in generale, per l'amministrazione dei sacramenti. In tutto questo ricevette un aiuto sostanziale dal Sacramentario Gregoriano che, in risposta alla sua richiesta, gli era stato invia­ to nel 785 o 786 dal papa Adriano I per mano dell'abate Gio­ vanni di Ravenna.63 Una volta giunto in territorio franco que­ sto sacramentano, nelle copie diffuse vennero inserite nume­ rose modifiche per prevenire contrasti troppo violenti con gli usi locali. Per quanto riguarda il rito battesimale, non abbiamo alcun motivo di supporre che questa politica abbia avuto qual­ che drastico effetto sul testo del Credo. Conoscendo la rilut­ tanza di Carlo Magno e del suo consigliere Alcuino a voler sconvolgere più del necessario la prassi in uso, possiamo argui­ re che essi non erano disposti a destituire il modello T del Credo battesimale in favore di C usato abitualmente nel rito romano durante la traditio e la redditio. Ma appare chiaro che la mentalità prevalente doveva essere ostile ai particolarismi regionali e questo deve avere incoraggiato il formarsi di testi uniformi e ufficialmente riconosciuti. In secondo luogo, insieme alla preoccupazione di uniforma­ re i riti, i capi dei franchi ritenevano assai importante, come un elemento di linea politica, l'insegnamento del Credo e del Padre nostro. Nel decadimento deplorevole dell'istruzione, della cultura, della morale e della religione con cui dovevano confrontarsi, sembra che essi abbiano scelto questi testi come

61 Cf. M. NETZER, lntroduction de la messe romaine en France sous /es Carolingiens, Paris 1910, 30ss; E. CASPAR, Pippin und die Romische Kirche, Berlin 1914, 12-53; T. KLAUSER, in Hist. Jahrbuch 43(1933), 169ss. 62 Cosi, per esempio, S. BAUMER, Geschichte des Breviers, Freiburg 1895, 228ss. Ma cf. KLAUSER, Hist. Jahrbuch 43(1933), 171. 63 Per la lettera del papa, cf. MGH, Epp. , III, 626.

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adatti a imporre almeno un livello minimo d'istruzione. Perciò Carlomanno, nel 742, nel confermare le decisioni di un conci­ lio presieduto da s. Bonifacio, decretò che ogni anno in quare­ sima i vescovi dovessero esaminare il loro clero parrocchiale nelle funzioni del proprio ministero, e soprattutto nelle ceri­ monie del battesimo, nelle preghiere e nel rituale della messa, e nella fede cattolica.64 S'intendeva compiere indubbiamente un'indagine sulle capacità del sacerdote circa le parti essenzia­ li dell'insegnamento cristiano; sembra, tuttavia, che l'esame includesse anche il Credo, sia perché questo era di uso comu­ ne, sia perché si avvertiva una generale ignoranza del clero in quell'epoca.65 Mentre all'origine quest'ordinanza era applica­ bile solo nel territorio dipendente da Carlomanno, cioè l' Au­ strasia, essa venne accettata da Pipino nel concilio di Soissons del 744 per la Neustria,66 venne confermata dal concilio gene­ rale dei franchi nel 747,67 e fu ripromulgata da Carlo Magno per tutti i suoi domini nel 769.68 L'immensa importanza che l'imperatore annetteva all'insegnamento della vera fede risul­ tò con forza nell'Admonitio generalis(f) che pubblicò il 23 marzo 789, e molti dei suoi capitoli (per esempio il 32, 1'82) sembrano proprio parafrasi del Credo apostolico. Carlo Ma­ gno non era mai stanco di ripetere che voleva sacerdoti istrui­ ti, e con ciò intendeva dire uomini con un'esatta conoscenza delle funzioni liturgiche, e in particolare del battesimo e della messa, e capaci di istruire la gente con validi commenti sul Padre nostro e sul Credo.70 I concili locali rafforzarono in pra­ tica i suoi desideri ratificando il suo programma di studi per il clero. Abbiamo un interessante questionario preparato proba­ bilmente per un missus tra 1'803 e 1'813, che si inizia con una

64

(n. 3& .

Cf. A. BoRETIUS, Capitularia Regum Francorum (MGH, Legg. , II), l, 25

Cf. E. VYKOUKAL, in RHE 14{1913), 90. MGH, Conci/. , II, 35 (n. IV) . 67 MGH, Conci/. , Il, 47. 68 BORETIUS, Capitularia Regum Francorum, 45 (n. 8) . ., BORETIUS, Capitularia Regum Francorum, 52ss. '" Ct. il materiale convenientemente raccolto da M. ANDRIEU, Les Ordines romani du haut moyen dge, Leuven 1931, l, 476ss. 66

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improvvisa domanda ai sacerdoti per appurare se conoscevano a memoria e capivano il Credo e il Padre nostro.71 Possediamo anche un elenco di articoli sulla dottrina, che «tutto il clero è tenuto a imparare», che includono la fede cattolica di s. Atana­ sio, il Credo apostolico e il Padre nostro.72 Contemporaneamente una serie di decreti dello stesso genere resero obbligatorio per tutti i laici lo studio di questi testi basilari. In due di essi, per esempio, troviamo una lettera di Carlo Magno indirizzata a un vescovo Garibaldus ( Gerbal­ do di Liegi, 784-810), che esprimeva la sua sollecitudine per l'istruzione religiosa dei fedeli.73 Nessuno potrà fungere da padrino o da madrina, egli insiste, se non conosce a memoria e non ripeta il Padre nostro e il Credo. Nello stesso modo, in un programma di inchieste redatto per i missi di Carlo Magno, sta scritto che tutti i cristiani sono tenuti a conoscere il Padre nostro e il Credo, e a saperli insegnare agli altri.74 Decreti del genere si potrebbero citare all'infinito. Il loro significato sem­ brerebbe essere che il Credo, come pure il Padre nostro, era un mezzo di riconoscimento e di ufficialità; in tal caso è ovvio che non poteva essere tollerata a lungo una grande varietà di testi. Un importante provvedimento preso da Carlo Magno nel1'81 1-813 segna una svolta decisiva nell'evoluzione verso una versione unica e ufficiale del Credo. Probabilmente in questo periodo egli scrisse a tutti i vescovi metropolitani del suo regno chiedendo informazioni dettagliate sui riti battesimali pratica­ ti e sul Credo battesimale usato nelle loro diocesi. Nella sua lettera a Odilberto di Milano disse:73 Pertanto desideriamo sapere, o con una lettera o a voce, in che modo voi e i vostri suffraganei educate e istruite sul sacramento del battesimo

71 BORETIUS, Capitularia Regum Francorum, 234. Cf. anche C. DE CLERCQ, La législation religieuse Franque, Leuven-Paris 1936, 252. 72 BORETIUS, Capitularia Regum Francorum, 235. 73 BORETIUS, Capitularia Regum Francorum, 241 . Cf. DE CLERCQ, La légi­ slation religieuse Franque, 222s. 74 BORETIUS, Capitularia Regum Francorum, 109s. " BORETIUS, Capitularia Regum Francorum, 246s. Cf. anche DE CLERCQ, La législation religieuse Franque, 216.

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i preti di Dio e le persone da voi incaricate, cioè, perché un bambino divenga prima catecumeno, e che cosa sia un catecumeno. Inoltre che cosa dite loro sulle altre parti in ordine al rito per quanto riguarda lo scrutinio, che cos'è lo scrutinio; per quanto riguarda il simbolo che cosa significhi questa parola secondo i latini; per quanto riguarda la fede (de credulitate), in che modo debbano credere in Dio Padre onni­ potente e in Gesù Cristo suo Figlio, che nacque e soffrì e nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, e gli altri articoli che seguono nello stesso Credo; per quanto riguarda la rinuncia a Satana e a tutte le sue opere e le sue pompe, che cosa sia la rinuncia, e quali sono le opere e le pompe del demonio, ecc.

Notiamo che qui l'imperatore cita specificamente il Credo. Il suo scopo, evidentemente, era di assicurare l'uniformità nella celebrazione del battesimo sulla base del rito romano. Le risposte dei vescovi, una parte delle quali sono giunte fino a noi, devono aver rivelato una spaventosa diversità di situazio­ ni, e dobbiamo ritenere che venissero confermate le sue peg­ giori previsioni. Così i concili da lui patrocinati nell'813 insi­ stettero nuovamente che dovesse essere preso a modello il rito romano, e che su questo i vescovi dovevano istruire il clero. L'idea dell'uniformità si stava energicamente aprendo una strada, ed è interessante per noi osservare che il testo del Credo battesimale era fra gli articoli che maggiormente stava­ no a cuore all'imperatore. I risultati ai quali mira questa ricerca possono a prima vista non sembrare molto interessanti. Ma, se pur non abbia­ mo finora incontrato un chiaro segno della preminenza asso­ luta garantita a T, potremmo almeno aver compreso quanto l'ambiente fosse propizio all'affermarsi di un solo Credo uffi­ ciale e all'eliminazione di ogni particolarismo. Non deve sor­ prendere che la scelta sia caduta su T. Bisogna ricordare che T si presentava in modo insolitamente favorevole per affermar­ si. Originario della Septimania nel sud-ovest della Francia, era in uso comune ad Arles sull'altro lato del Rodano; e con i viaggi missionari di s. Priminio si stabilì sia nel nord della Francia che in alcune parti della Germania. L'abbazia di Rei­ chenau fondata dal suo patrono era un efficiente centro di influenza liturgica. Era facile, dunque, prevedere che, quando la politica di uniformità liturgica perseguita dai carolingi,

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l'elevazione del Credo battesimale a strumento di istruzione, e la particolare sollecitudine di Carlo Magno per il rito batte­ simale avessero richiesto l'adozione di un Credo comune, la scelta sarebbe caduta su una formula che già godeva di una larga diffusione e popolarità. In ogni caso fu circa all'inizio del IX secolo che T cominciò a ottenere in pratica una specie di monopolio nell'Europa occidentale. Abbiamo notato precedentemente che la forma di Credo che Amalario di Treviri inviò a Carlo Magno in rispo­ sta al suo questionario era o T o qualcosa di molto simile. 76 Sarebbe interessante se potessimo scoprire che parte, se ve n'è stata, ebbero nel suo sviluppo le scuole di Aquisgrana e di Tours. Una questione non risolta è la grande importanza della Disputatio puerorum che la tradizione attribuisce ad Alcuino.n Nel capitolo II di questa interessante piccola opera il Credo viene citato due volte, sotto forma di domande e risposte, ed entrambe le volte si tratta del testo del nostro Credo apostoli­ co. La Disputatio è riportata in un manoscritto di Salisburgo (n. 67) della fine del IX secolo: gli altri scritti appartengono indiscutibilmente ad Alcuino. Froben, editore della raccolta delle opere di Alcuino, lo accettò come originale, dichiarando che lo stile e il genere corrispondevano esattamente a quelli di Alcuino, ma gli studiosi non hanno pronunciato nessun giudi­ zio definitivo. Se il trattato è realmente di Alcuino, costituireb­ be una notevole dimostrazione dell'adozione di T come testo ufficiale del Credo battesimale da parte dei teologi principali di Carlo Magno. Allo stato attuale, non si trova in nessuna parte traccia di T negli scritti di Alcuino, benché egli faccia allusione sia al Credo costantinopolitano (che era per lui il Credo per eccellenza) sia al Credo apostolico. Quasi tutti gli altri scrittori del IX secolo tacciono indistintamente circa il testo del Credo che conoscevano e usavano. Ma esiste un'ec­ cezione degna di nota, Rabano Mauro. Diciamo subito che egli era stato discepolo prediletto di Alcuino a Tours, ed è un

76 77

Cf. sopra, pp. 497-499: cf. PL 99,896. Per quanto riguarda il testo, cf. PL 101,1099ss.

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fatto che egli cita il Credo, nell'autentica forma T, parecchie volte nelle sue opere. 78 Un'altra prova del particolare prestigio che T stava ora acquistando è data dalla sua comparsa nei salteri. Fu in que­ st'epoca, o poco più tardi, che il Credo cominciò ad essere riportato nei salteri e in altri formulari simili, come il Te Deum e il Quicumque vult. È da rilevare che, ogni qual volta il Credo apostolico fa la sua comparsa nei salteri del IX secolo, il testo è quello che stiamo studiando. Probabilmente il più antico di questi uffici è il Salterio di Vienna (n. 1861 della Biblioteca Nazionale di Vienna), che secondo la tradizione venne ordina­ to da Carlo Magno al copista Dagulfo per presentarlo a papa Adriano l. In base a questo lo si potrebbe collocare prima del 795. Kattenbusch era incline a dubitare di una data così antica, facendo notare che Karolus e Hadrianus, ai quali si riferiva lo scrittore originario, potevano ugualmente indicare Carlo il Baldo e papa Adriano II; ma per quanto riguarda la data tra­ dizionale c'è probabilmente da dire di più, sia per motivi paleografici che per altri motivi.79 Qui troviamo T in un libro liturgico fatto per ordine dello stesso re. T è presente anche nel famoso Salterio di Utrecht, attualmente nella Biblioteca del­ l'Università di Utrecht, che risale ai primi decenni del IX seco­ lo.IK) Compare nuovamente (fol. 167r.) nel Salterio di Carlo il Baldo (Cod. Lat. 1 152 della Biblioteca Nazionale di Parigi).81 Questo fu fatto per il re stesso durante la vita della regina Ermentrude (842-869). Sappiamo che Carlo Magno era preoc­ cupato e insisteva perché le celebrazioni liturgiche si svolges­ sero con decoro e venissero fomiti al clero salteri debitamen­ te corretti.82 T deve aver goduto del privilegio e del prestigio di essere un formulario ufficiale, se fu scelto per essere incluso nei salteri preparati per la casa reale. La sua presenza in essi, e

78 Cf. Hom. 13 e De ecci. discip. 2: PL 1 10,27; 1 12,1225s. "' Cf. H. LECLERCQ, in DACL, III, 703s. "' H. LECLERCQ, in DACL, XI, 1344ss. "' Cf. H. LECLERCQ, in DACL, III, 843ss. 82 Cf. Admonitio generalis, cc. 70 e 72: BORETIUS, Capitularia Regum Fran­ corum, 59s.

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probabilmente nei salteri corretti usati dal clero, spiega in buona parte il perché della sua rapida diffusione nel IX seco­ lo. La recitazione, infatti, e il canto dei salmi, come forma di intercessione e di preghiera per altri scopi, divenne una prati­ ca devota che godeva di una popolarità molto vasta fra il clero e il laicato nell'epoca dei carolingi. 5.

L'ACCOGLIENZA DI T A ROMA

Nella parte precedente si è cercato di raccogliere, forse in un modo piuttosto schematico e non bene ordinato, del mate­ riale che mettesse in luce il cammino fatto dal Credo apostoli­ co in forma di T per diventare preminente nelle terre dei fran­ chi. Non siamo per niente sorpresi di osservare che in genere venne considerato nei secoli XI e XII come la versione autore­ vole del Credo in occidente. S. Ivo di Chartres (t 1 1 17), per esempio, scrisse un sermone sul Credo apostolico, ed è certo che il testo che aveva davanti era T, benché vi abbia tralascia­ to DISCESE ALL'INFERN0. 83 Cosl anche Joscellino (Joslenus o Gauslenus), vescovo di Soissons nella prima metà del XII secolo (t 1 1 52), presupponeva la conoscenza di T nella sua spiegazione del Credo.84 Il prete e monaco spagnolo di Lione della fine del XII secolo, s. Martinus Legionensis (t 1221), usava anche T come suo modello,85 come pure Abelardo (t 1 142) un secolo circa prima di lui.86 Thttavia l'evento di mag­ giore interesse è che, a partire dal XII .secolo in poi, in ogni caso T fu il testo ufficiale del Credo nella stessa Roma. La cosa è comprovata autorevolmente da papa Innocenzo III (t 1216) nel suo trattato sul santo sacramento.87 Parlando del canto del Credo durante la messa, ricordò sia il Credo apostolico che quello costantinopolitano, il primo sotto forma di T. Da questo

83

Serm. 23: PL 162,604ss. Expos. in symb.: PL 186,1479ss. 83 Serm. 34: PL 208,1326ss. "" Expos. symb. : PL 178,617ss. ff7 De sacr. altar. myst. 2,50: PL 217,827s. 84

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periodo in poi scompaiono le comuni variazioni nel testo, ed è solamente T che viene considerato dappertutto come Credo apostolico. Cosl, quando Tommaso d'Aquino trattò del Credo nelle sue opere, adottò naturalmente T come base.88 Il problema che deve ora essere affrontato è come e quan­ do la versione di R, che, come abbiamo visto, con tutta proba­ bilità raggiunse il suo sviluppo definitivo in Francia, fu adotta­ ta a Roma. Si ricorderà che il Credo usato per la professione di fede nel rito battesimale a partire dal VI secolo era stato quasi certamente C. Le domande rivolte al candidato al momento del battesimo continuarono, naturalmente, a essere un'abbre­ viazione di R: ed esattamente la stessa versione ridotta viene usata anche oggi nello stesso punto del rito. Ma sia per il Sacra­ mentario Gelasiano che per l'Ordo Romanus VII di Mabillon sono il candidato o i suoi padrini che fanno la loro professione di fede con le parole CREDO IN UN SOLO Dio, ecc. Non c'è nien­ te che dimostri che questa prassi fosse diventata obsoleta, e ancor meno che T avesse preso il posto di C all'inizio del IX secolo; dunque, le prove esistenti indicano che l'uso catechisti­ co di C era a quell'epoca in pieno vigore.89 I due primi documenti ritenuti romani che testimoniano dell'accoglienza di T a Roma sono a) l'Ordo Romanus anti­ quus, edito da Melchiorre Hittorp nel 1568 come prima parte del suo De divinis catholicae ecclesiae officiis, e b) il Codex Ses­ sorianus 52 (ora Codice 2096 nella Biblioteca Nazionale di Roma). Il primo di questi, descritto dal cardinale Tommasi nel XVII secolo come «Un insieme di svariati riti secondo le diver­ se usanze», è stato fatto risalire da alcuni studiosi alla metà del X secolo.90 Si tratta di uno dei principali documenti ed è situato dopo il Pontificale romano-germanico del X secolo che è stato notoriamente studiato da M. Michel Andrieu.91 li Codex Sesso-

88

Expos. super symb. apost. (Paris 1634, III). 89 Cf. sopra, p. 429. 90 Cf. R. MONCHEMEIER, Amalar von Metz, 1893, 140; S. BAUMER, Die Katholik, 1889, I, 626. " Cf. Les Ordines romani e Le pontificai romain au moyen IJge, (Studi e Testi, LXXXVI ), 1938.

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rianus 52 è anch'esso un documento composito, che include delle parti di fine secolo XI e inizio del Xll.92 Delle quattro sezioni di cui si compone, i foll. 1-103 e i foll. 178-190 sono, per la maggior parte, del XII secolo, mentre i foll. 104-177 e i foll. 191-205 appartengono alla fine dell'XI secolo. Sembra fuor di dubbio che la prima redazione sia stata scritta in Italia. Il mano­ scritto era proprietà nel XIII secolo (questo è il significato di una nota posta in calce nel verso dell'ultima pagina) dell'abba­ zia di Nonantola, situata 10 km a nord-est di Modena. La presenza di T in queste due importanti fonti richiede una più precisa e dettagliata esposizione. Molti frammenti e stralci del rito battesimale si possono ritrovare caoticamente sparsi qua e là ne ii ' Ordo Romanus antiquus. In tutti questi, general­ mente, il Credo proposto è C. Con quest'unica eccezione, tutta­ via, pubblicata a p. 73 dell'edizione 1568, T viene citato come un Credo dichiaratorio, assieme alla rubrica introduttiva: Allorché termina la litania presso il fonte, tutto il clero e il popolo sta in circolo intorno ad esso, e vien fatto silenzio e il papa all'ora nona, mentre sta per benedire l'acqua, come è d'uso, pronuncia il Padre nostro, Pater noster, ecc. Credo in demo, ecc.

Nel Codex Sessorianus 52 il Credo T compare in due posti distinti. Il primo di questi è nei foll. 114v e 1 15r, dove la tradi­ tio symboli viene descritta dopo il modello deli ' O rdo Romanus VII di Mabillon, ma con alcuni mutamenti significativi. I prin­ cipali sono due: a) che non c'è ormai alcuna indicazione che il catecumeno parlasse greco, e b) che il testo del Credo recitato dall'accolito non è più C, ma T. È interessante tuttavia osserva­ re che è C che viene recitato durante la redditio symboli il sabato santo. Troviamo per la seconda volta T nel sermone che spiega il Credo. Ha inizio nel fol. 161 v e termina al fol. 163r. Qui i nomi degli apostoli considerati autori di ogni clausola sono scritti al margine. Il Credo ricostruito coincide esatta-

"' Il manoscritto è stato descritto da G. MoRIN, in R. Bén. 14(1897), 481488; P. GRISAR, Analecta Romana, l, 214-216. Cf. ANDRIEU, Les Ordines roma­ ni du haut moyen dge, 287ss.

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mente con T, eccettuata l'omissione di NATO DALLA VERGINE MARIA , che deve essere attribuita a una svista. Nel manoscrit­ to vi sono altri testi di Credo oltre a T: per esempio nel fol. 163r viene fatta un'altra esposizione del Credo, e si tratta questa volta di un testo strettamente simile a R (il predicatore lo cita integralmente nell'esordio). L'Ordo Romanus antiquus, come abbiamo visto, probabil­ mente non fu compilato prima della metà del X secolo. Inoltre, gran parte del contenuto è chiaramente gallicano, e non roma­ no. E dubbio, di conseguenza, se, malgrado il suo nome, possa essere addotto come testimonianza della prassi romana. La particolare importanza, agli occhi degli studiosi, del Codex Ses­ sorianus 52 dipende dalla possibilità di darci preziose notizie sulle usanze liturgiche romane della metà del IX secolo, o di quello appena successivo. Come ha fatto notare Dom Morin molto tempo fa, alcune formule, che sono ricorrenti nella stes­ sa parte del codice, come il rito battesimale, sembrano essere direttamente collegate a questa data. Nel fol. 126r si possono ritrovare delle solenni .acclamazioni che si recitavano durante le messe papali nelle grandi festività in onore del papa e del­ l'imperatore. I nomi citati sono Nicola (domno nostro Nicho­ lao) e Ludovico (domno nostro Hludovico). È ovvio pensare che le persone indicate debbano essere il papa Nicola I (858867) e l'imperatore Ludovico II (850-875). Le acclamazioni solenni sono simili a quelle frequentemente usate nell'epoca carolingia. Dom Morin osservò anche che l'ordinamento del rito battesimale era seguito subito dopo (foll. 128v-131r) da quello di consacrazione dei vescovi che era certamente colle­ gato con Roma (cf. il riferimento al vescovo consacrante chia­ mato domnus apostolicus).93 Considerando queste indicazioni veramente definitive circa la data delle liturgie descritte nel Codex Sessorianus 52, molti studiosi hanno ritenuto giusto concludere che T deve essere stato adottato nel rito battesimale romano almeno verso la

93

Cf. il suo articolo in R. Bén. 14(1897), 481ss passim.

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metà del IX secolo. Tale fu la conclusione dello stesso Dom Morin, che fu seguito, se pure con minor fiducia, da Katten­ busch.94 Questa opinione non è affatto assurda o forzata. La liturgia romana, con l'aiuto espressamente dato da Pipino e da Carlo Magno, fu introdotta decisamente nei territori franchi verso la seconda metà dell'VIII secolo. Thttavia, all'inizio del IX secolo, l'ondata dava segni di fluttuare in direzione oppo­ sta. In quell'epoca Roma adottava esperienze della Chiesa dei franchi. Leone III, per esempio, pur non volendo imitare il modo gallicano di cantare il Credo durante la messa, non esitò a introdurre a Roma le rogazioni dei franchi nei giorni che pre­ cedevano la festa dell' Ascensione.95 Un capitulare evangelio­ rum romano usato a Lucca nella seconda metà del IX secolo conteneva già le festività franche degli apostoli con le loro pericopi.96 Esempi come questi potevano essere isolati, ma indicavano i segni dei tempi: l'influsso culturale dei franchi infatti doveva ben presto diventare marea potente, e le onde lambivano ormai le spiagge romane. Non possiamo escludere la possibilità che fra le innovazioni importate a Roma dall'im­ pero franco all'inizio del IX secolo ci fosse la versione franca del Credo apostolico. Thttavia possiamo chiederci se non si sia costruito troppo sulle acclamazioni festive che indubbiamente costituiscono un modello straordinario del Codex Sessorianus 52. In generale sarebbe preferibile assegnare a una data più tarda l'adozione di T da parte di Roma. Mentre l'influenza liturgica franca inco­ minciava a farsi sentire a Roma nella metà del IX secolo, essa non si diffuse pienamente in Italia fino a circa cent'anni dopo. Inoltre, la lunga sopravvivenza del ricordo dell'uso di C nel servizio battesimale (un uso attestato in molte occasioni dal­ l'Ordo Romanus antiquus stesso, come il lettore potrà ricorda­ re) renderebbe difficile accertare se C abbia lasciato il suo

.. Per i suoi quesiti, cf. Il, 801 . "' Cf. Liber pontifica/is (ed. L. DucHESNE, Paris 1892), II, 12, p. 40 nota. 96 Cf. il capitulare nel manoscritto del Vangelo Vatic. Lat. 7016. L'esempio è stato ripreso dall'articolo di T. KLAUSER, in Hist. Jahrbuch 53(1933), 183s.

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I simboli di fede della Chiesa antica

posto a T cosi presto. Considerazioni come queste invitano ad accettare con maggiore cautela la credibilità del Codex Sesso­ rianus 52 quale prova attendibile della prassi romana della metà del IX secolo. Molti punti sembrano fatti apposta per sollevare e rafforza­ re i dubbi. Prima di tutto, la parte del codice che stiamo esami­ nando non fu scritta prima della fine dell'XI secolo e su que­ sto tutti sono concordi,. Questo fatto genera subito dei sospet­ ti. Era una naturale e quasi irresistibile tentazione che gli ama­ nuensi, nel ricopiare il Credo in extenso, lo riproducessero nella forma con cui avevano maggiore familiarità. Supponen­ do che il rito descritto nel suo insieme appartenga al IX seco­ lo, non abbiamo allora nessuna garanzia che il Credo dichiara­ torio sia una copia fedele del testo originale; e ritrovare C alla redditio del sabato santo complica ancor più le cose. In secon­ do luogo, non è del tutto certo che il rito sia necessariamente del IX secolo. Il Codex Sessorianus 52 è una raccolta di brani che si riferiscono a date molto diverse. Non si può minimamen­ te supporre che tutti questi brani, o anche che tutti gli ordines compresi nei foll. 104-177, risalgano alla stessa epoca. Indub­ biamente le acclamazioni festive del fol. 126 sono giustamente attribuite ai regni del papa Nicola I e dell'imperatore Ludovi­ co Il. Altre parti, tuttavia, possono risalire a date molto poste­ riori. Per fare un esempio, il rito della consacrazione di un vescovo (ff. 128v-130r) riporta lunghi brani ripresi da modelli franchi, e questo si potrebbe facilmente capire se fosse accadu­ to dopo il IX secolo. È perfettamente logico che la versione modificata dell'Ordo Romanus VII che forma il rito battesima­ le derivi da una data relativamente più tardiva. In terzo luogo, non abbiamo realmente alcun diritto di ritenere che tutti i rituali compresi nel codice siano di origine romana. Un recen­ tissimo e autorevole esame del manoscritto97 ha portato l'at­ tenzione sugli stretti punti di contatto che ha con il pontificate romano-germanico compilato probabilmente a Magonza verso

97 Cf.

ANDRIEU, Les Ordines romani, 484.

XIII. Le origini del Credo apostolico

527

la metà del X secolo. Prevale l'opinione che il codice, o il modello sul quale era fondato, deve aver visto la luce solo poco prima dell'adozione definitiva del pontificate a Roma, e cioè nell'ultima parte del X secolo. Per quanto riguarda i suoi con­ tenuti, essi sono chiaramente un insieme di materiali derivati da varie fonti, sia franche sia romane. Se il significato ultimo di riflessioni come queste non è del tutto chiaro, esse perlomeno ci obbligano a guardarci dal peri­ colo di costruire troppe cose sul fatto di aver ricevuto il testo del Credo dal Codex Sessorianus 52. È necessario che sia vagliato un grande numero di probabilità, la qual cosa non faceva parte degli obiettivi di Dom Morin e Kattenbusch, e sarebbe meglio rimandare qualsiasi decisione finché non si possa disporre di un'edizione del codice con relative note. Nel frattempo, la fiducia nell'opinione che T abbia soppiantato C nel rito battesimale romano fin dal IX secolo è seriamente venuta meno. Può benissimo essere accaduto, ma la prova che di solito viene portata non è per niente soddisfacente. D'altra parte è possibile proporre una data alternativa che è assai pro­ babile. Questa è l'epoca in cui, per effetto di circostanze politi­ che e per la sua interna debolezza, la Chiesa romana fini per soccombere senza resistenza all'influsso franco-germanico e, in particolare, consenti alla sua liturgia di subire un'effettiva trasformazione. Tale periodo durò all'incirca dalla restaurazio­ ne dell'impero sotto Ottone I nel 962 fino all'inizio del regno di papa Gregorio VII (1073). Per oltre un secolo, come osser­ vò lo stesso papa Gregorio VII, « Teutonicis concessum est regi­ men nostrae ecclesiae».98 Thtto questo dimostra quanto la con­ dizione della Chiesa in Italia, non meno che nella città santa, fosse deplorevole nel X secolo. L'ignoranza e la corruzione erano molto forti, e la scienza e la prassi della liturgia erano cadute in uno stato di pietosa decadenza. L'imperatore Ottone I, che fece della riabilitazione del livello ecclesiastico uno degli elementi-base della sua politica, soggiornò diverse volte e a

'" Cf. MORIN, Anecdota Maredsolana, II, i, 460.

528

I simboli di fede della Chiesa antica

lungo in Italia, e al suo seguito schiere di ecclesiastici germani­ ci attraversarono le Alpi. Non c'è da meravigliarsi che il loro sforzo per far risorgere una solida prassi liturgica desse come risultato una drastica gallicizzazione del rito romano. Un passo che deve aver contribuito ampiamente a questo fu fatto da papa Gregorio V nel 998. 11 22 aprile di quell'anno sembra che, dietro l'intervento di Ottone III, egli abbia accordato partico­ lari privilegi all'abbazia di Reichenau, compreso quello di avere il proprio abate consacrato dallo stesso pontefice roma­ no, ma in cambio impose ad essa il dovere di inviare alla Santa Sede, in occasione della consacrazione di ogni abate, un sacra­ mentano, un epistolario, un vangelo e due cavalli bianchi.99 Questa curiosa servitù getta un raggio di luce indicativo sul­ l'avvilente livello di vita culturale dell'Italia centrale in quel­ l'epoca, se il papa non poteva contare su scriptoria locali per compilare i libri liturgici che gli occorrevano. Contemporanea­ mente offre un segno evidente della soggezione liturgica di Roma, e mostra uno dei modi con cui i riti franco-germanici superarono le Alpi. I messali e i sacramentari che i monaci di Reichenau spedivano periodicamente al palazzo del Laterano devono naturalmente essere stati conformi al modello di uso corrente a quel tempo in Germania e nell'impero franco in generale. Si deve ammettere che nessuna eco del Credo battesimale, nessun indizio che alluda alle sue svariate vicende è stato pos­ sibile cogliere in questo lungo periodo di secoli. Il cambiamen­ to dall'uso di C all'uso di T può essere avvenuto in qualsiasi data. Pensiamo, per esempio, al tentativo di riforma liturgica avviato nel secondo quarto del X secolo da parte di Alberico, Patricius Romanorum, con l'aiuto di s. Odilone, il venerabile abate di Cluny.100 Esso risultò dalla fusione della liturgia roma­ na ereditata da s. Gregorio e da pontefici anteriori con un gran

,. Cf. A. BRACKMANN, Germania Pontificia, in Regesta Pontificum Roma­ norum, II, I, 152 nota. Non era lettera morta nel 1083: cf. ANDRIEU, Les Ordi­ nes romani, 516. 100 Cf. ANDRIEU, Les Ordines romani, 512ss, e Rev. des sciences relig. 5(1925). 251 .

XIII. Le origini del Credo apostolico

529

numero di importanti elementi gallicani. E ancora, non si può evitare di pensare che i monaci benedettini di Reichenau non abbiano avuto la parte loro. I rituali del battesimo che viaggia­ vano verso il sud al palazzo del papa dal loro scriptorium con­ tenevano certamente il Credo T che era stato ad essi trasmes­ so dal loro fondatore profugo. Tra le molte cose oscure e sconcertanti, tuttavia, emerge una conclusione importante; e questa rimane ugualmente vera, non importa se si preferisca una data antecedente o posteriore per quanto riguarda la trasformazione del rito battesimale. L'adozione di T nella liturgia romana può essere considerata come un effetto secondario, piccolo in se stesso ma carico di un significato duraturo, della profonda e lunga diffusione dei libri liturgici romani con influenza germanica dopo l'inizio del IX secolo. È stato affermato: «Fu la Chiesa franco-germanica che, nella sua epoca critica, salvò la liturgia romana per Roma e per il mondo occidentale».101 Se l'argomento di questo capitolo è ben fondato, queste parole possono essere applicate in partico­ lare al Credo apostolico. Nel persuadere Roma ad accettare una nuova confessione battesimale, la Chiesa d'oltralpe stava semplicemente restituendole, arricchita e migliorata, quella stessa regola di fede che lei stessa aveva compilato nel II seco­ lo come un compendio del vangelo eterno.

101

Così secondo KLAUSER, in Hist. Jahrbuch 53(1933), 189.

Appendice

Simboli di fede riportati in questo volume

l CORINZI 15,3ss

Vi ho infatti trasmesso in primo luogo ciò che anch 'io ho ricevuto, che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, che fu sepolto, che il terzo giorno fu risuscitato secondo le Scritture, che apparve a Cefa, e poi ai Dodici, apparve pure a più di cinquecento fratelli in una sola volta . . . apparve quindi a Giacomo, poi a tutti gli apostoli. . .

ROMANI 1 ,3ss Riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di David secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza mediante lo Spirito di santificazione, quando fu risu­ scitato dai morti, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui abbiamo avuto la grazia . . .

ROMANI 8,34 Gesù Cristo che morì, anzi che è risuscitato, sta alla destra di Dio, e intercede per noi.

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I simboli di fede della Chiesa antica

2 TIMOTEO 2,8 Ricordati che Gesù Cristo della stirpe di Davide risuscitò dai morti (secondo il mio vangelo). l PIETRO 3,18ss

Perché anche Cristo soffrì per i peccati, egli giusto in favore degli ingiusti, per portarci a Dio, messo a morte nella carne, ma vivificato nello spirito. E in spirito si recò ad annunziare agli spiriti che attendevano in pri­ gione. . . . in virtù della risurrezione di Gesù Cristo, il quale, salito al cielo, sta alla destra di Dio essendogli stati sottomessi gli angeli, i principati e le potenze.

l TIMOTEO 3,16

Che si manifestò nella carne, fu giustificato nello Spirito, apparve agli angeli, fu annunziato ai pagani, fu creduto nel mondo, fu assunto nella gloria.

l CORINZI 8,6

Per noi c'è un solo Dio, il Padre, dal quale provengono tutte le cose, e noi siamo per lui, e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose, e noi esistiamo per lui.

l TIMOTEO 2,5ss

Uno solo infatti è Dio, uno solo il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, il quale ha dato se stesso in riscatto per tutti. . .

533

Appendice l TIMOTEO 6,13s

Ti scongiuro davanti a Dio che dà la vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo che testimoniò la sua bella confessione davanti a Ponzio Pilato, di custodire senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo.

2 TIMOTEO 4 1 ,

Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù, che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e per il suo regno . . .

ROMANI 4,24 . . . Ma anche per noi. . . che crediamo in Colui che risuscitò dai morti Gesù nostro Signore, il quale fu messo a morte per i nostri peccati e fu risuscitato per la nostra giustificazione.

l PIETRO 1,21

Voi per opera sua (cioè di Gesù) credete in Dio, che l'ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria.

S. IGNAZIO, Agli Efesini 18,2 Poiché il nostro Dio Gesù Cristo fu concepito da Maria secondo il disegno di Dio, dal seme di Davide e dallo Spirito Santo; Egli nacque e fu battezzato perché mediante la sua passione potesse purificare l'acqua.

534

I simboli di fede della Chiesa antica S. IGNAZIO, Ai Tra/lesi 9

Siate sordi se qualcuno vi parla senza Gesù Cristo, della stirpe di Davide, figlio di Maria, che realmente nacque, mangiò e bevve, fu veramente perseguitato sono Ponzio Pilato, fu veramente crocifisso e mori, sotto lo sguardo di esseri celesti, terrestri e degli inferi, che fu veramente risuscitato dai morti, poiché suo Padre lo risu­ scitò [. . . ].

S. IGNAZIO, Agli Smirnesi 1,1-2 Siate pienamente convinti riguardo al nostro Signore, che fu veramente della stirpe di Davide secondo la carne, figlio di Dio per volontà e potenza divina, nato realmente dalla Vergine, banezzato da Giovanni, perché potesse compiere ogni giustizia, veramente inchiodato nella carne sotto Ponzio Pilato e il tetrarca Erode [. . . 1 perché mediante la sua risurrezione potesse innalzare un vessillo [. . . l nell'unico corpo della sua Chiesa.

S. POLI CARPO, Ai Filippesi 2 [. . . l credenti in lui che ha risuscitato dai morti il nostro Signore Gesù Cristo e gli ha dato gloria e un trono alla sua destra, al quale sono sonomesse tutte le cose del cielo e della terra al quale obbedisce ogni soffio di vento, che verrà a giudicare i vivi e i morti.

I CREDO DI S. GIUSTINO Apologia l, 6,2 Ma veneriamo e adoriamo Lui (cioè il vero Dio) e il Figlio, da Lui nato che ci ha insegnato queste verità . . . e lo Spirito profetico.

535

Appendice

Apologia l, 65,3 Al Padre dell'universo, mediante il nome del suo Figlio, e dello Spirito Santo.

Apologia I, 67,2 Il Creatore di tutte le cose, mediante suo Figlio Gesù Cristo, e mediante lo Spirito Santo.

Apologia I, 13 Così, non siamo atei, poiché adoriamo il creatore di questo universo {. . . ] e poiché con buona ragione onoriamo colui che ci ha insegnato queste verità e a questo scopo è nato, Gesù Cristo, che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, governatore della Giudea al tempo di Tiberio Cesare, avendo imparato che è il Figlio del vero Dio e ponendo/o al secondo posto dopo il Padre, e lo Spirito profetico terzo nell'ordine, procederemo alla dimostrazione.

Apologia l, passim Poiché ricevono un lavacro lustra/e nell'acqua nel nome del Padre e Signore Dio dell'universo, e del nostro Salvatore Gesù Cristo, e dello Spirito Santo [. . . ]; Su colui che ha scelto di rinascere e si è pentito dei suoi peccati viene pronunciato il nome del Padre e Signore Dio dell'universo, mentre il celebrante che conduce il candidato all'acqua deve usare questa e solo questa descrizione di Dio . . . Inoltre, è nel nome di Gesù Cristo, che fu crocifisso sotto Ponzio Pilato, e nel nome dello Spirito Santo, che per mezzo dei profeti preannunciò le verità riguardanti Gesù, che l'uomo illuminato viene lavato. Noi diciamo che il Verbo, che è la prima progenie di Dio, fu generato senza rapporto carnale, Gesù nostro maestro, e che fu crocifisso, e morì, e risuscitò, e ascese al cielo; Troviamo preannunciato nei libri dei profeti che Gesù nostro Cristo sarebbe venuto in terra,

536

I simboli di fede della Chiesa antica

sarebbe nato da Maria vergine e si sarebbe fano uomo: sarebbe stato crocifisso e sarebbe morto, e sarebbe risuscitato, e salito al cielo; Ma Gesù Cristo, che è venuto nei nostri giorni, fu crocifisso, e morì, risuscitò, è asceso al cielo e ha regnato; Egli fu concepito come uomo dalla Vergine, e fu chiamato Gesù, e fu crocifisso, morì, e risuscitò, ed è asceso al cielo,· Per il resto dovete provare che Egli acconsenti a nascere come un uomo da una Vergine secondo la volontà del Padre, e a essere crocifisso, e a morire, e anche che dopo questo egli risuscitò, e ascese al cielo. Poiché nel nome di questo vero Figlio di Dio e primogenito di tutta la creazione, che nacque mediante la Vergine, e divenne uomo passibile, e fu crocifisso sotto Ponzio Pilato dal vostro popolo, e morì, e risuscitò da morte, e ascese al cielo, ogni demonio è esorcizzato, conquistato e sonomesso; Non bestemmierai contro di lui che è venuto in terra ed è nato, e ha sofferto, ed è asceso al cielo, e verrà di nuovo. Gesù Che abbiamo anche riconosciuto come Cristo il Figlio di Dio, crocifisso, e risono, e asceso ai cieli, che verrà di nuovo a giudicare la giustizia di ogni uomo risalendo fino ad Adamo stesso.

537

Appendice

LA REGOLA DI FEDE DI S. IRENEO (Adv. haer. 4,33) Credi in Dio Padre? Credi in Gesù Cristo, il Figlio di Dio, che si incarnò, e morì, ed è risuscitato? Credi nello Spirito Santo di Dio?

PROFESSIONE DI FEDE DEI PRESBITERI DI SMIRNE CONTRO NOETO Anche noi glorifichiamo un unico Dio, ma perché lo conosciamo; e accettiamo il Cristo, ma perché lo sappiamo Figlio di Dio, che patì come Egli patì, morì come Egli morì, e risuscitò il terzo giorno, e siede alla destra del Padre, e verrà a giudicare i vivi e i morti.

SIMBOLO DI D�R BALYZEH OJ.lOMryEi 'tiìv m uiòv 1tÉJl7tOVtoç toi> natpòç 1tapaye:ye:�a9at ÉJC tcilv ovpavmv mç yéypa1ttat, ÈltÌ. KataÀOOet tftç aJlaptiaç KaÌ. tou 9avatOU, JCaÌ

Crediamo in un solo Dio, Padre onni­ potente, dal quale sono tutte le cose. E in un solo Figlio di Dio, generato da Dio prima di tutti i tempi e prima di tutti gli inizi, per mezzo del quale tutte le cose furono create, visibili e invisibili, unigenito generato, Lui solo dal solo Padre, Dio da Dio, come il Padre lo generò secondo le Scritture, del quale nessuno cono­ sce la generazione se non il solo Padre che lo generò. Sappiamo che quest'unigenito Figlio di Dio, aven­ dolo mandato il Padre, venne dal cielo, come sta scritto, per la distru­ zione del peccato e della morte, e nacque dallo Spirito Santo, dalla Vergine Maria per quanto riguarda

Appendice yevv�9évta EK nveu�atoç ay{ou, h Mapiaç tftç 7tap9Évou tò Ka­

tà crci p K a ro ç yÉ ypa!tta t , KaÌ avacrtpa�vta �tà toiv �a�toiv, Kai Jtci�ç tiì ç oi Kovo�iaç 1tÀ�­ pm9ei cr�ç Katà t� v Jtatp t K � v JX>uÀ�crtv, crtaupmeévta Kaì aJto­ eav6vta, KaÌ tacjlévta KaÌ eiç tà Kataxe6vta KateÀ�Àue6ta, ovtt va KaÌ a\ltòç Ò 48�ç �!t�I;,EV, Ocrttç Kai àvécr� Ò !tÒ toiv veKpoiv tfj tpi 't1J ��épQ Kai 8uhptljfe �eta tmv �ae�toiv, Kai JtÀ�pm9etcrmv tecrcrapàKOVta ��epoiv aveÀ�cj19� eiç oi>pavouç Kai Ka9é çetat év 8el;tQ toù 7tatp6ç, È ÀEucr6�evoç év tù écrxatU n�pç& tftç avacrtà­ cremç év tfj 1tatptK1] 66 1;1] , i va a1to8oi ÈKacrt� Katà tà epya a\1tOÙ. Kai e i ç tò dytov 1tVEÙJ.1a, o 1tep a'ÙtÒç Ò J.lOVQYEvftç tOÙ 9eo\ì UÌÒç o X p t crtòç o KUptoç Kai eeòç nJ.lmv t7tTTY'YeiÀato 1tÉJ.11tEl v t�P rt­ vet toiv avepro�tmv �tapa KÀ�tov, Kata7tep yéypa!ttat «tò 1tveù�a til ç a À�9e i aç» , o 1te p au to i ç E7tE�IjfEV o te àvi1 À9ev eiç toùç oi>pavoUç. Tò 8é o vo�a til ç o u cri aç, o 1tep a1tÀOUcrtepov Ù1tÒ tcOV 1tatÉ pmv É tÉ 9� , d yV O O U J.lEVOV 8é to i ç Àaoi ç CJKd v8aÀOV e cjlepe, 8 t O tl J.1�8È ai ypacjlai toùto 7tEptéxou­ crtv, ii pecre 7teptatpe9ilvat Kai 1taVtEÀmç ��8EJ.l{ av J.lV�J.l�V tOÙ Àot1toù yi vecr9at, é1tet8�1tep Kaì. al eeiat ypacjlaì OOOaJ.loiç ÈJ.l�­ veucrav 1tepì. oi>criaç 1tatpòç Kaì. uioù, Kaì. yàp oi>aè òcjleiÀEt il!t6crtacrtç !tEpÌ 1tatpòç Kaì uioù Kaì ayiou 1tVEU�atoç ovo�d çecr9at. o�otov oè ÀÉyo�v tf9 1tatpl. tòv uiòv mç Àéyoucrtv ai eeiat ypa­ cjlaì Kaì 8tOàCJKoOOt. ruicrat 8è ai aipécretç ai te ii� 7tp6tepov Ka­ tEKpi�crav Kaì aittveç éàv Kat­ v6tepat yévmvtat èvavtiat t'IYYXà­ voucrat til ç é Kte9e { cr�ç taut�ç ypa�. avaeeJ.lO ecrtCll> Sviluppo delle forme fisse ........................................ » Alcune conclusioni .................................................... »

115 122 129 136

Capitolo IV ............................................ Prove a favore di R .. .................................................. La difesa della tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La lingua originale di R . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . R, Tertulliano e s. Ippolito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'ipotesi di Holl-von Hamack . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

L'ANTICO CREDO ROMANO

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L'INSEGNAMENTO DELL'ANTICO CREDO ROMANO . . . . . . . .

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Il primo articolo.......................................................... Il nucleo del secondo articolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'inserimento cristologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Lo Spirito Santo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'azione dello Spirito ................................................

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2. 3. 4. 5. 6.

Capitolo V l. 2. 3. 4. 5.

Capitolo VI SIMBOLI DI FEDE NELL'OCCIDENTE E NELL'ORIENTE . . . .

»

221

La scarsità dei Credo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Credo derivati da R . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Credo orientali............................................................ Confronto fra Credo orientali e occidentali . . . . . . . . . . L'origine dei Credo orientali .................................... Relazione fra Credo orientali e occidentali ............

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l. 2. 3. 4. 5. 6.

583

Indice generale

Capitolo VII ........................................................ p. simboli di fede come prova di ortodossia . . . . .... » La promulgazione di N . ............................................. » Confronto tra N e CAES . . .......... . .... . .... . ................... . » La lettera di Eusebio .................................... . .... . . . .... » La base di N ................................................................ »

IL CREDO DI NICEA l. I 2. 3. 4. 5.

.

..

.

.

265 265 272 278 282 290

Capitolo VIII IL SIGNIFICATO E L'USO DEL CREDO DI NICEA . . . . . . . . . . . . . .

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295

La teologia ariana . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La risposta del Credo di Nicea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L'homoousion . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Dopo Nicea . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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Il concilio della Dedicazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Da Serdica a Sirmio . . . . .. . . .. . .. ........ .. .............. . . . . .. . . . . . . Il trionfo dell'arianesimo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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l. 2. 3. 4.

Capitolo IX L'EPOCA DEI CREDO SINODALI. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . l. 2. 3.

.

.

.

Capitolo X IL CREDO COSTANTINOPOLITANO. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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La tradizione riguardante C... . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Confronto tra C e N . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I fatti contro la tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Il riesame della tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Verso una soluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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401

L'INSEGNAMENTO E LA STORIA DI C . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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e l'apollinarismo . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. .. . . . . . ... Lo Spirito Santo in C .......... . ... ... ............... . . . . . . . ...

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l. 2. 3. 4. 5.

Capitolo Xl l. C 2.

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...

584 3. 4. 5.

Indice generale

L'uso battesimale di C .............................................. p. C nella santa eucaristia.............................................. » Il filioque .................................................................... »

427 43 1 442

Capitolo XII .. .... .... . Il «textus receptus» (T) ........ ...... ...................... ........ Cambiamenti nel primo articolo ........ ...... .............. .. Cambiamenti di minore importanza ........................ La discesa all'inferno ................................................ Il terzo articolo reinterpretato e riveduto .............. La comunione dei santi

IL CREDO APOSTOLICO l. 2. 3. 4. 5. 6.

..... .•.....................•......•..•..

Capitolo XIII LE ORIGINI DEL CREDO APOSTOLICO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . l . Testi che somigliano a T . ... .. .. . ....... ...... ....... .... ..... .... .. 2. La redazione non romana di T .............................. .. 3. L'origine ispano-gallicana di T.................................. 4. Carlo Magno e il Credo ............................................ 5 . L'accoglienza di T a Roma ........................................

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496 504 514 521

Appendice SIMBOLI DI FEDE RIPORTATI IN QUESTO VOLUME . . . . . . . . . .

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531

Breve bibliografia ............................................................

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Indice analitico ................................................................

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