Alla scuola del personalismo. Nel centenario della nascita di Emmanuel Mounier 9788878701786


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Alla scuola del personalismo. Nel centenario della nascita di Emmanuel Mounier
 9788878701786

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F. ABBRI, S. ANGORI, G. BAFFO, L. CAIMI, H-C.A. CHANG, M. CORSI, R. CUCCURULLO, A. DANESE, F. D’ANIELLO, A.G. DEVOTI, G.P. DI NICOLA, A. GIAMBETTI, C. LANEVE, S.S. MACCHIETTI, M. MICHELETTI, S. MORIGI, P. NEPI, D. ORLANDO CIAN, C. PALAZZINI, N. PAPARELLA, A. PERUCCA, M. PICCINNO, A. RIGOBELLO, G. SERAFINI, M. TEMPESTA, M. TOSO, G. ZAGO

ALLA ‘SCUOLA’ DEL PERSONALISMO nel centenario della nascita di Emmanuel Mounier

a cura di S.S. Macchietti

BULZONI EDITORE ROMA 2006

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Il volume è pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Siena Dipartimento di Scienze Umane e dell’Educazione

TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941

ISBN 978-88-7870-178-6

© 2006 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

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INDICE

Presentazione S.S. Macchietti.........................................................................

pag.

9

Introduzione: Perché alla ‘scuola’ di Mounier? A. Rigobello.............................................................................

»

13

Vocazione educativa e ‘messaggi’ pedagogici di Mounier S.S. Macchietti.........................................................................

»

23

«Refaire la Renaissance»: una sfida filosofica P. Nepi......................................................................................

»

39

Temporalità ed esistenza nella filosofia francese del primo Novecento F. Abbri ....................................................................................

»

53

E. Mounier nella pedagogia italiana degli anni cinquanta e sessanta G. Serafini................................................................................

»

67

La «vertigine della profondità». ‘Interiorizzazione’ ed ‘esteriorizzazione’ come «sistole e diastole» della persona di Emmanuel Mounier S. Morigi ..................................................................................

»

83

Mounier e il personalismo nei manuali scolastici di storia della pedagogia G. Zago ....................................................................................

»

113

Persona e sobornost’: Berdjaev nel pensiero di Mounier G. Baffo ...................................................................................

»

141

Mounier: incontri, sfide e messaggi

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La comunicazione educativa come processo istitutivo della persona. Processo di personalizzazione in Emmanuel Mounier M. Piccinno..............................................................................

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Le tracce di Mounier nella pedagogia di Mario Mencarelli C. Palazzini ..............................................................................

»

187

Azione, esperienza, educazione: il cammino al vero in Blondel, Mounier, Giussani M. Tempesta.............................................................................

»

197

Stefanini e Mounier: contributi al personalismo pedagogico L. Caimi ...................................................................................

»

217

Individualismo e trascendenza: l’attualità dell’umanesimo relazionale di Emmanuel Mounier M. Toso .................................................................................... »

241

Persona e comunità nella prospettiva di un’etica delle virtù M. Micheletti ...........................................................................

»

275

Educare alla cittadinanza con Mounier e Ricoeur A. Giambetti ............................................................................

»

297

Infanzia, personalizzazione, educazione estetica F. d’Aniello ..............................................................................

»

309

Educare per costruire la comunità N. Paparella..............................................................................

»

323

Le personnalisme. Linee pedagogiche e tracce didattiche C. Laneve.................................................................................

»

345

»

367

Alla ‘scuola’ di Mounier

UNA SOTTOLINEATURA: «GENIO DELLA DONNA» ED EDUCAZIONE Il genio della donna e l’educazione H-C.A. Chang ..........................................................................

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Famiglia e vita privata alla «scuola di Mounier» G.P. Di Nicola, A. Danese .......................................................

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383

Quale ‘genio’, oggi, per quale educazione? A. Perucca................................................................................

»

427

E per concludere… la pedagogia della persona: quali sfide educative La promozione della persona nella prospettiva dell’educazione permanente S. Angori ..................................................................................

»

445

Persona e famiglia tra rispetto e responsabilità. Il bisogno della formazione M. Corsi ...................................................................................

»

465

Risorse umane e prospettiva personalista. Quali sfide della pedagogia al mondo del lavoro? R. Cuccurullo...........................................................................

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475

Uomo e tecnologia una simbiosi problematica A.G. Devoti..............................................................................

»

487

E. Mounier: la pedagogia della persona. Quali sfide educative? D. Orlando Cian.......................................................................

»

497

Ringraziamenti.........................................................................

»

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PRESENTAZIONE

Il centenario della nascita di Emmanuel Mounier ha sollecitato un rinnovato interesse per il pensatore francese, testimoniato dai tanti convegni che sono stati realizzati in Italia e nel mondo nel corso del 2005. A questo interesse si collega anche questo volume, che è in gran parte il risultato di una ricerca, effettuata da un gruppo di amici, docenti di discipline pedagogiche e filosofiche presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Siena (sede di Arezzo), ai quali si sono uniti alcuni colleghi di vari Atenei, attenti alla pedagogia ed alla filosofia della ‘persona’ e studiosi di Mounier. I risultati dei loro studi sono stati presentati in occasione del Convegno «Alla scuola del Personalismo. Nel centenario della nascita di Emmanuel Mounier», organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo dell’Università degli Studi di Siena in collaborazione con la Biblioteca Città di Arezzo e le riviste «Prospettiva EP» e «Prospettiva Persona», che si è svolto nei giorni 9-10 dicembre 2005 e che si è proposto come un incontro di riflessione a più voci – di filosofi, di pedagogisti – sul pensiero, sulla testimonianza di Emmanuel Mounier e sul significato, la fecondità e l’attualità della cultura prodotta dal Personalismo. I vari contributi si sono collocati in due sessioni, la prima delle quali, introdotta dall’intervento di Armando Rigobello, il quale ha risposto alla domanda «Perché alla scuola di Mounier?», ha avuto un carattere prevalentemente storico ed ha offerto numerosi ele9

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menti che approfondiscono la conoscenza del pensiero filosofico e delle proposte pedagogiche del fondatore di «Esprit» e del suo rapporto con la filosofia, con la pedagogia e con la cultura della prima metà del Novecento e sollecitano la ricomprensione di alcuni dei suoi messaggi pedagogici. Sulla fecondità del pensiero di questo Autore hanno riflettuto gli interventi collocati all’interno della seconda sessione, intitolata «Alla “scuola” di Mounier», i quali hanno presentato i vari itinerari di ricerca sulle proposte educative della pedagogia della persona e sul rapporto tra la formazione umana e l’etica delle virtù. Altri interventi hanno richiamato l’attenzione sull’attualità dell’umanesimo relazionale di Mounier ed altri hanno preso in esame alcune dimensioni dell’educazione integrale, «l’Io, il tu e il noi» nei processi educativi e le implicazioni pedagogiche e le indicazioni didattiche del ‘Personalismo’. Le due tavole rotonde «Genio della donna ed educazione» e «La pedagogia della persona: quali sfide educative» hanno avuto un carattere prevalentemente pedagogico e sono state ricche di proposte, che si sono collocate nella prospettiva dell’umanesimo relazionale e comunitario, e si sono poste in un rapporto di coerenza con la concezione della persona come ‘progetto’ da realizzare attraverso l’educazione. Questo volume organizza i contributi presentati nel corso del Convegno aretino, tenendo presente la scansione dei lavori di quell’incontro, nel corso del quale sono stati indicati ulteriori itinerari di ricerca per la costruzione di una «pedagogia della persona», capace di testimoniare la volontà di interpretare e di soddisfare il bisogno di cultura, di significato, di senso e di promuovere la disponibilità ad aprirsi all’universo delle conoscenze, alla morale e all’Altro, che è proprio di ogni essere umano…. La costruzione di questa pedagogia domanda un dialogo costante ed interattivo tra il sapere pedagogico e quello filosofico e con quello prodotto da altre scienze umane, della cui fecondità offre una significativa testimonianza questo volume, che è nato dal confronto 10

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tra studiosi impegnati in diversi settori disciplinari, fedeli alla ‘persona’, attenti alla sua educazione e desiderosi di promuovere e far crescere i singoli e le comunità e di costruire e di testimoniare l’umanesimo relazionale. Sira Serenella Macchietti Università degli Studi di Siena

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INTRODUZIONE: PERCHÈ ALLA ‘SCUOLA’ DI MOUNIER? Armando Rigobello

Emmanuel Mounier nacque a Grenoble il primo di aprile del 1905. Ricorre quindi quest’anno il centenario della nascita. È significativo che un Dipartimento di Scienze umane e dell’Educazione dedichi, in occasione della ricorrenza, un convegno dal titolo «Alla scuola del personalismo». Emmanuel Mounier non fu un professore se non per un breve tempo ma la sua prospettiva etico-politica e filosofica nasce da un’esperienza educativa, dalla partecipazione a movimenti formativi di insegnanti di ispirazione cristiana operanti nelle scuole pubbliche. L’ideale personalistico d’altra parte è naturalmente paidetico, educativo. Il ricorso a una visione del mondo di tipo personalistico ha, d’altra parte, animato molti impegni speculativi e pratici del pensiero pedagogico italiano negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Vi sono quindi fondate ragioni per richiamarsi ad una tradizione educativa e di porsi «alla scuola del personalismo» e in particolare a quella di Emannuel Mounier. Il Convegno, ideato dalla professoressa Serenella Macchietti, formatasi alla scuola della tradizione cui si è accennato, suggerisce una riflessione su l’eredità e quindi sull’attualità del messaggio che Mounier e i suoi amici rivolsero attraverso la rivista «Esprit», il cui primo numero esce nel 1932. L’intendimento del gruppo era di creare un movimento di idee, di impegni etico-politici, di testimonianza educativa di fronte alla grande crisi che andava delineandosi negli anni inquieti e tormentosi tra le due guerre. Paul Ricoeur, che fu uno dei più giovani colla13

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boratori di Mounier aveva scritto nel 1983, nel cinquantenario della rivista, un contributo ‘espressamente provocatorio’: Meurt le personnalisme, revient la personne, muore il personalismo, ritorna la persona. Qual è il senso di questa espressione oggi? Il dibattito del convegno può essere considerato un tentativo di risposta a questa domanda, situandola nel contesto di una riflessione pedagogica in senso ampio. In altri termini si tratta di individuare prospettive e limiti nel riproporre oggi il messaggio delineato nel primo numero della rivista con l’articolo «Refaire la Renaissance», cioè dare vita ad un nuovo ‘Rinascimento’. I punti salienti di questo programma: «dissociare lo spirituale dal reazionario» e quindi da una politica senza afflato profetico; promuovere un ‘anticapitalismo’, essendo la ricchezza un ostacolo alla liberazione dell’uomo; opporsi ad una democrazia formale e ‘borghese’ e quindi fare appello ad una «rivoluzione personalistica e comunitaria» rivolta ad instaurare una democrazia sostanziale in tutti i livelli della vita sociale. Riprendere questi temi e riferirli alla situazione presente comporta una conoscenza adeguata del contesto etico-politico e religioso francese e della situazione della Francia tra le due guerre mondiali, e altrettanta consapevolezza della situazione che emerge oggi dalla nostra cultura, dal nostro costume, dalle condizioni di vita, di riflessione morale e speculativa, oltre che politica e religiosa ai nostri giorni. I lavori di un convegno non possono certo risolvere così tanti e impegnativi problemi. Il Convegno tuttavia può aiutare a riflettere sui temi indicati. Vorremmo ora aggiungere alcune riflessioni personali, avendo anche dedicato a Mounier la nostra prima pubblicazione accademica Il contributo filosofico di E. Mounier («Pubblicazioni dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Padova», Roma, Fratelli Bocca editori, 1955). Fu Luigi Stefanini, il fondatore del personalismo speculativo in Italia, a indicarmi il tema e ad ospitare il lavoro nella collana dell’Istituto di Filosofia che dirigeva. E il manifesto di Mounier divenne «la certitude de notre jeunesse». Ma ora, a cinquant’anni di distanza, come ripetere il problema fondamentale che ca14

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ratterizzò il movimento a cui Mounier aveva dato vita? L’espressione è di Martin Heidegger che nel ripensare la filosofia di Kant afferma che occorre risalire dal testo al problema originario, il problema fondamentale che è all’origine dell’impegno speculativo (Cfr. Kant e il problema della metafisica, trad. it., Bari 1981, p. 177). Applicando l’operazione al nostro caso si tratterebbe di cogliere l’ispirazione personalistica al di là delle soluzioni particolari che Mounier ha dato alle questioni che urgevano nel contesto storico ed etico-politico in cui operava. Che sarebbe come dire con Ricoeur «muore il personalismo, ritorna la persona», ma più propriamente muore un personalismo e ci si pone il problema di un personalismo perenne, di ciò che del personalismo rimane valido anche nella diversità delle circostanze, come di fronte al vertiginoso mutamento cui assistiamo. Il personalismo perenne, non connesso ad un particolare momento storico ma capace di informare di sé le più varie situazioni spazio-temporali potrebbe articolarsi attorno ad atteggiamenti che sono al tempo stesso modalità etiche, forme dello spirito di spessore ontologico, che in ultima istanza conducono da un lato ad una considerazione metafisica, dall’altro ad un impegno educativo. La prima di queste modalità è la «dissociazione dello spirituale dal reazionario» che è allo stesso tempo una connotazione della fedeltà alla tradizione (tradizione da tradere, consegnare alle generazioni che salgono i valori fondamentali liberati da ogni sovrastruttura e colti nella loro autenticità). Il secondo modo di essere è l’affrontement e il conseguente engagement, cioè la vita come avventura che richiede un impegno duttile, dinamico, libero da sclerosi: il personalismo, naturaliter cristiano, come lotta per la giovinezza del mondo (L’affrontement chretien, 1943-44). Una vita concepita come un’avventura implicitamente cristiana comporta una puissance d’accueil, una forte disponibilità d’accoglienza, una sempre sottesa fraternità. Tutto ciò presuppone la celebre struttura ontologica ed etica della persona come contemporaneo convergere di tre dimensioni: la vocazione (con il relativo esercizio della meditazione per scoprirne le 15

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dinamiche), l’incarnazione (e il conseguente esercizio dell’impegno), la comunione (resa possibile dall’esercizio della rinuncia). La persona è intesa come tensione globale tra queste tre dimensioni, una verso l’alto per scoprire la propria vocazione, una verso il basso per realizzarla, una orizzontale che comporti la comunicazione fraterna e la donazione di sé. Si tratta di una antropologia personalistica e comunitaria. Il personalismo perenne tuttavia non è soltanto una trasfigurazione utopica dell’essere personale, un’espressione al limite della spiritualità umana, è anche realistica consapevolezza dei limiti e del male sempre risorgente: è profezia ma anche azione politica, denuncia di una situazione e lotta per superarla. Un libro di uno dei primi continuatori di Mounier, Jean Lacroix: Le personnalisme comme anti-ideologie (1972) ne delinea efficacemente la natura. È un ideale utopico per il quale occorre sempre combattere sapendo però che la sua compiuta attuazione non è storicamente possibile. Mounier stesso avvertiva che la realizzazione completa, terrena, storica di una società personalistica e comunitaria deve rimanere sempre un ideale regolativo. Quando si credesse di averla attuata integralmente saremmo in realtà di fronte ad una delle peggiori dittature, quella spirituale. È questa consapevolezza di un limite costitutivo, a nostro avviso, ciò che permette di parlare di personalismo perenne. L’utopia può muovere la storia, ma la storia non è un’utopia. Profezia e politica sono elementi sempre presenti nella vicenda umana. L’atteggiamento interiore con cui valutare le vicende storiche ed intervenire in esse è delineato efficacemente da Mounier nell’espressione optimisme tragique, ottimismo tragico. L’ottimismo discende dalle certezze escatologiche che sostengono nella drammaticità di una esistenza votata ad una «rivoluzione personalistica e comunitaria». Il personalismo di «Esprit» negli anni, purtroppo brevi, dell’impegno di Mounier, operava in un contesto culturale e filosofico di metà secolo ventesimo. Ricoeur è certamente il pensatore che con originalità e senza vincoli di scuola ripensò il personalismo, anzi la 16

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persona, in dialogo con fenomenologia ed ermeneutica e nella consapevolezza dello spostarsi di interessi e metodologie. In sede più specificamente teoretica l’apporto ricoeuriano più fecondo ci sembra quello degli anni centrali del suo lungo itinerario speculativo. Si tratta di posizioni che possono maggiormente dialogare con la tradizione filosofica italiana da Vico a Gioberti, a Luigi Stefanini. Mounier, profondamente radicato nella tradizione filosofica francese, ebbe pure l’apporto di un esule fenomenologo tedesco Luis Landsberg, ma i contatti con l’Italia furono meno significativi. L’attualizzazione del suo messaggio può trovare nuove espressioni nell’apporto della via italiana al personalismo. All’inizio di questa relazione abbiamo accennato come il nostro primo incontro con il pensiero di Mounier fu un invito del professor Stefanini a scrivere prima un articolo e poi un volume sul personalista francese di cui ora ricordiamo il centenario della nascita. Stefanini tuttavia non si occupò nei suoi scritti di Emannuel Mounier. La via italiana al personalismo al suo inizio non passa attraverso l’opera di Emannuel Mounier. Ciò nonostante nella produzione pedagogica come nell’impegno educativo di Luigi Stefanini possiamo trovare elementi per quella «ripetizione del problema fondamentale» del personalismo di «Esprit», la rivista del movimento fondato da Mounier. Pensiamo di sviluppare questa «ripetizione del problema» nel personalismo pedagogico italiano richiamando brevemente la prospettiva pedagogica del Maestro padovano, pur consapevoli che non vi sono connessioni dirette poiché il contesto culturale ed etico-politico francese era ben diverso da quello italiano. La dottrina pedagogica di Luigi Stefanini si inserisce direttamente nella sua prospettiva teoretica: personalismo educativo dedotto dal personalismo metafisico. Già questo carattere costituisce una notevole presa di posizione in quanto implica il rifiuto di una pedagogia meramente strumentale e metodologica e l’affermazione dell’imprescindibile necessità di giustificare ulteriormente la pratica educativa in una concezione generale della realtà e soprattutto dell’uomo. Non è difficile ricostruire le trame delle applicazioni pe17

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dagogiche del personalismo stefaniniano, non solo per la chiara consequenzialità che le connette alla loro fonte filosofica, ma anche perché gli ultimi sviluppi, certamente i più maturi, sono raccolti in un volume del Maestro scomparso sotto il titolo appunto di Personalismo educativo (1955). Una naturale predisposizione all’espressività potentemente comunicativa, l’interiore consenso all’ideale platonico di vita teoretica fatta paideia e la cristiana meditazione sulla fede caritativa che non può conservarsi celata sotto il moggio hanno fatto, nel loro originale convergere, di Luigi Stefanini una delle figure più interessanti e decisive del travaglio di idee e di metodi della scuola italiana, specie nelle inquietudini del secondo dopoguerra. Il pensiero pedagogico dello Stefanini è come un colloquio in cui gli interlocutori sono da un lato la realtà metafisica della persona, erede di un antico attivismo umanistico e cristiano che attraverso Platone, Agostino, Vittorino da Feltre giunge agli appassionati equilibri del nostro Risorgimento pedagogico, e dall’altro i metodi attivistici delle scuole nuove eredi di uno scientismo ametafisico a sfondo pragmatico-sperimentale. La scuola attiva, allora contemporanea, per poter entrare come elemento animatore e fecondo nella vita della scuola italiana occorre che venga sottoposta ad un ‘vaglio’, cioè ad un esame condotto tenendo come metro di valutazione il concetto di persona umana. L’opera dello Stefanini consiste nel fissare i tratti essenziali di questo possibile fecondo connubio. L’attivismo – continuiamo a riportare il pensiero dello Stefanini – si è storicamente configurato come protesta verso la scuola adultistica, nozionale ed astratta in nome della spontaneità vitale svolgentesi nelle concrete determinazioni naturalistiche che il maestro deve interpretare piuttosto che dirigere a valori ritenuti estrinseci. Il personalismo educativo non può ovviamente accettare questa riduzione del fanciullo da persona ad entità bio-psicologica e del maestro da educatore di un carattere ad interprete di un temperamento. Il personalismo accetta la protesta contro ogni vaga astrattezza, ma diffida dal cadere in quell’altra astrazione che è l’uomo inteso in 18

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senso esclusivamente naturalistico come succede quando si prescinda da quella ricchezza interiore che non può esaurirsi nella evoluzione psicologica ma che la muove spiritualmente dal profondo. Antiumanesimo quindi, se umanesimo significa vieta retorica, perenne ed imprescindibile umanesimo, se per umanesimo si vuol significare il primato dell’uomo sulla natura e la devozione a quei valori per i quali la vita umana si rende degna di essere vissuta come una grande avventura di dignità e libertà. La nota dominante il pensiero di Luigi Stefanini in ogni suo aspetto è stata sempre l’apertura alle più audaci correnti, apertura però mediata sempre dalla tradizione umanistica cristiana. Tale carattere si manifesta chiaramente anche sul piano pedagogico nelle forme a cui sopra si è accennato. La scuola autentica ha come propria la stessa legge della società personalistica che è l’‘affinità’, cioè la legge che unisce le anime nella loro comune e pure differenziata libertà personale. La scuola è «maieutica della persona» nel clima personalistico della società scolastica, immagine ed anticipazione di quello che la società dovrebbe essere, di quello che è nella sua sorgente prima. «Il momento della scuola è il momento della sorgente» (Personalismo educativo). Il vero discepolo non è colui che segue letteralmente il maestro, ma colui che ne ripete i motivi profondi, ne ripete – come si diceva all’inizio – il problema fondamentale. Ritornare al personalismo di Mounier oggi, nella riflessione pedagogica ed educativa italiana, può essere un compito da sviluppare in due direzioni: tradurlo in termini di cultura italiana attraverso la ripresa dei temi personalistici della prospettiva filosofica ed educativa di Luigi Stefanini, convergente con quella di Mounier specie sul terreno pedagogico, ma attuata in una tradizione speculativa e storiografica a noi più vicina. La seconda direzione è quella di tradurre l’orientamento scaturito dalla comparazione tra l’indirizzo di Mounier e quello di Stefanini nella complessa realtà contemporanea, una realtà che ci separa dal mondo etico – speculativo, oltre che socio – politico, dei due Maestri di riferimento. Sono sopraggiunti infatti due rilevanti fenomeni che investono molteplici aspetti del contesto sociale: la globalizza19

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zione dell’economia e il declino delle ideologie. Ciò impone un ripensamento complessivo ed insieme articolato secondo le antiche e nuove configurazioni della avventura umana in cui siamo coinvolti. Un programma di educazione in un contesto globalizzato impone di accentuare il rilievo della singolarità personale e quindi la consapevolezza di ciò a cui le logiche di produzione e di mercato debbono sottostare per non travolgere la libertà personale e di gruppo, per non soffocare nell’ottimizzazione ciò che rende l’avventura umana degna d’essere vissuta. Occorre educare a sfuggire quella ‘soffocante tristezza’ che, secondo Gabriel Marcel, investe una vita umana esclusivamente «organizzata attorno all’idea di funzione». Il tramonto di una cultura fortemente ideologizzata, quale quella che ha ampiamente caratterizzato il secolo scorso, richiede d’altra parte un programma educativo rivolto al confronto e al dialogo. Ciò non significa favorire una educazione irenistica, emotiva ed evasiva, ma operare nel senso di una formazione rivolta ad una compiuta conoscenza delle proprie tradizioni e della propria identità per poi operare un confronto, consapevoli che viviamo in quella che è stata chiamata «l’età ermeneutica della ragione» Consapevolezza di se stessi ed apertura agli altri costituiscono un’autentica premessa all’esercizio di un dialogo personalisticamente inteso. Dialogare ‘in veritate’, ossia nell’avvertimento del senso positivo della realtà. Questo tipo di dialogo trova il suo fondamento nella struttura ontologica della persona umana. Oggi ritorna non solo la persona ma anche il personalismo e ciò perché si assiste alle deformazioni cui le logiche settoriali conducono. Quelle concezioni funzionalistiche che avevano nei decenni passati prodotto l’estenuarsi degli ideali personalistici, finiscono per riabilitare oggi, a causa delle conseguenze etico-politiche che la loro attuazione comporta, il discorso personalistico come discorso di opposizione. La concretezza del vissuto ha rivelato la crisi di un sistema e più precisamente la conflittualità tra un compiuto programma di ottimizzazione e l’insuperabile singolarità dell’avventura umana. 20

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Mounier: incontri, sfide e messaggi

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VOCAZIONE EDUCATIVA E ‘MESSAGGI’ PEDAGOGICI DI MOUNIER Sira Serenella Macchietti

Nella vasta ‘produzione’ di Mounier manca forse «un’organica riflessione pedagogica», pertanto alcuni studiosi, pur rilevando la sua vocazione educativa e l’efficacia e la ‘produttività’ di alcuni suoi messaggi, si sono chiesti se il Fondatore di «Esprit» può essere considerato «un pedagogista nel pieno senso della parola»1. Questo intervento non intende dimostrare che Mounier è o non è un pedagogista, è infatti sorretto dalla convinzione che «la stessa “non professionalità” delle indicazioni pedagogiche mounieriane può servire ad evidenziare maggiormente il carattere intrinsecamente e connaturatamente pedagogico dell’intero atteggiamento culturale»2, che non voleva essere né un ‘sistema’ né una ‘macchina politica’ ma una riflessione morale imperniata attorno al nodo della soluzione della crisi del secolo XX3. Questa riflessione, accompagnata da appelli e da messaggi ricchi di significati profondamente educativi, si colloca nella prospettiva della pedagogia, cioè di una scienza che non può non essere aperta alla ‘totalità dell’umano’, all’avventura dell’uomo nella storia ed attenta alla sua libertà, alla sua capacità creativa e alla «singolarità della sua vocazione». 1

Cfr. C. SCURATI, Profili nell’educazione, Milano, Vita e Pensiero, 1977, p.

196. 2 3

Ibidem. E. MOUNIER, Che cos’è il personalismo?, Torino, Einaudi, 1948, pp. 9-10.

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La mancanza di una «cristallizzazione in formule logiche irreversibili» della sua concezione della persona ha consentito a Mounier di offrire continuamente e costantemente suggestioni e spunti alla riflessione sull’educazione, prevalentemente espresse con formule ‘secche’ e suggestive, le quali rischiano (ed hanno rischiato) di apparire polemiche tanto che non manca chi ha affermato che il suo ragionamento sull’educazione è incline a strutturarsi prevalentemente nella forma di proposta da cogliere nella, con e per la tensione. Non si può tuttavia non riconoscere la sua capacità di andare all’essenziale dei problemi e delle posizioni e l’energia critica sempre prontissima ad individuare il punto focale delle questioni. E, a questo proposito, si può affermare che Mounier «esprime nella maniera più condensata e sostenuta possibile il medesimo nucleo teoretico e culturale che è presente, in maniera più diluitamente ed argomentativamente articolata, in tutti i maggiori maestri del pensiero pedagogico cattolico (come De Hovre, Laberthonnière e Maritain): la soggettività dell’essere personale e, nel medesimo tempo, la sua radicale apertura all’altro; il rifiuto di ogni e qualsiasi educazione monopolizzante e totalitaria; l’identificazione del segno distintivo della personalità nel fuoco della coscienza e, pertanto, della libertà; il pluralismo democratico come unica soluzione “morale” alla convivenza politica; l’attivazione delle energie autonome della persona come legge ineluttabile dell’atteggiamento educativo»4. I suoi messaggi quindi possono essere riletti, contestualizzati e riadattati ai ‘disordini costituiti’ che vanno ridisegnandosi oggi e che si sono ridisegnati nel corso del tempo e la sua lezione ‘pedagogica’ non va cercata «nella piena esaustività delle sue indicazioni», ma nel significato di alcune sue affermazioni che si pongono in stretto rapporto con il suo ‘pensiero’ e con la sua testimonianza di vita e quindi con il progetto che ha realizzato nel corso della sua intensa e breve esistenza. 4

Cfr. C. SCURATI, Profili nell’educazione, cit., p. 205.

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Per comprendere il senso di questi messaggi pertanto giova non avvicinarsi a Mounier seguendo rigorosamente le logiche disciplinari ed è opportuno, come sostiene Luciano Caimi, ricordare che «è l’intera ‘proposta’ mounieriana ad assumere implicita valenza pedagogica. Infatti, la “rivoluzione personalistica e comunitaria” propugnata dall’autore contro le derive del capitalismo borghese e dei collettivismi totalitari, doveva poggiare sulla formazione di “uomini nuovi”, cioè interiormente rinnovati e responsabilmente impegnati. Del resto, già nel 1950 Paul Ricoeur5 attribuiva al personalismo dell’amico da poco scomparso il significato di una “pédagogie de la vie communautaire liée à un réveil de la personne”»6. E, sempre Ricoeur, nel medesimo scritto commemorativo, non aveva timore di definire Mounier «come “le pédagogue, l’éducateur d’une génération”7. Gli faceva eco Jean Lacroix, secondo cui il fondatore di “Esprit” poteva legittimamente essere definito “l’instituteur de l’homme du XX siècle” 8. Di recente Guy Coq ha insistito su questo aspetto, precisando che con Mounier siamo in presenza di “un des plus grands éveilleur d’hommes en son siècle”. A lui va pertanto riconosciuta una “exceptionnelle qualité de pédagogue d’humanité”, con la singolare capacità di ridestare e rivelare “l’autre à soi-même” 9». Collocandosi in questa prospettiva, la moglie di Mounier, Paulette Leclercq10, in un’intervista che mi ha concesso nel 1982, mi 5

P. RICOEUR, Une philosophie personnaliste, «Esprit», 12, 1950, p. 863. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, Roma, LAS, 2005, p. 233. 7 Cfr. P. RICOEUR, Une philosophie personnaliste, cit., p. 862. 8 J. LACROIX, Mounier éducateur, «Esprit», 12, 1950, vol. II, p. 839. 9 G. COQ, Préface, in Emmanuel Mounier et sa génération. Lettres, carnet set inédits, Paris, 2000, p. 5 e G. COQ, Pour un retour à Emmanuel Mounier, in Emmanuel Mounier. L’actualité d’un grand témoin, Actes du Colloque tenu à l’UNESCO, G. Coq ed., I, Paris, 2003, p. 15. 10 S.S. MACCHIETTI, Le prospettive della pedagogia personalistica oggi secondo P. Mounier, «Prospettiva EP», 6, 1982, pp. 57-65. 6

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parlò della ‘vocazione educativa’ del marito. E, quando le chiesi come Emmanuel si poneva di fronte ai problemi dell’educazione, mi rispose che «la stessa scelta di vita, la volontà di proporsi come filosofo pubblicista denunciano l’intenzione di impegnarsi nel campo dell’educazione, di un’educazione cui egli affidava il compito di promuovere la conquista del senso della persona, del “piacere” della libertà e della responsabilità e di favorire il graduale passaggio dell’egocentrismo al “gusto” dell’altro». L’educazione infatti è «per Mounier una “démarche qui vise à aller à recontrer et au respect de l’autre” e si realizza grazie alla coscienza di sé, che è collegata alla capacità di “oubli de soi” e alle esperienze e si configura come una lotta con se stessi, che è tanto più proficua quanto più si ha consapevolezza della forza e della fragilità che sono in noi». Paulette Leclercq nella stessa intervista affermò che il marito concepiva l’educazione come un processo continuo, che «impegna l’uomo in ogni momento della sua vita, consentendo allo stesso di vincere, anche se mai definitivamente, la “peur existentielle de vivre”, di superare choc, “passages à vide”, la fragilità e l’angoscia e di affermare quella “espèce de forze créative”, che è in ogni essere umano. L’orizzonte umano è un orizzonte aperto e la lotta che porta all’affermazione della forza creativa, che è in noi, interessa ogni uomo e, secondo Paulette Leclercq, “rien énervait plus E. Mounier que une personne qui n’était plus tendue”», che non era capace di ‘affrontement’ e di ‘engagement’. Pertanto era vivo in E. Mounier «il senso dell’educazione, come impegno esistenziale, e precisa era in lui la certezza che quando si educa si ha il dovere di sollecitare questo impegno, di stimolare la “force créative” della persona, di valorizzare le risorse di ognuno perché ognuno è chiamato ad educarsi e a promuovere coscienza di sé negli altri». Si può quindi affermare, anche secondo Paulette Leclercq, che Mounier intendeva promuovere «un’educazione e una pedagogia della vita comunitaria, legata al risveglio della persona». 26

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A questo intento ed alla consapevolezza della coessenzialità dell’educazione alla vita umana si deve la costante attenzione di Mounier per le scienze dell’educazione e per il confronto con i loro contributi che è indispensabile per la conoscenza (pur sempre provvisoria e parziale) dell’uomo e per l’organizzazione dell’azione educativa. Riscoprire la persona per «Refaire la Renaissance» Luciano Caimi, in un recente saggio, intitolato Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier11, ripercorre l’itinerario formativo del Filosofo francese e richiama l’attenzione sulla genesi della sua vocazione educativa e sull’importanza di incontri e di esperienze e dell’accostamento all’opera di Charles Péguy, che si collocano nell’ultimo scorcio degli anni venti (1828-1929). Rileva inoltre che in quella fervida stagione ‘di riflessioni…’ e di confronti «prevalse in Emmanuel una sensibilità filosofica ed etico-spirituale» ed aggiunge che «mancavano esercitazioni a specifico contenuto educativo. Eppure, a ben guardare, proprio in quel periodo di forti esperienze culturali ed esistenziali possiamo dire che Mounier ponesse solidi, ancorché “impliciti”, presupposti per futuri approfondimenti di carattere pedagogico»12. In effetti soltanto con la pubblicazione di «Esprit» Mounier inizia un discorso in cui è possibile riconoscere la sua attenzione per l’educazione che si collega strettamente all’intenzione di «Refaire la Renaissance». Significativo è, a questo proposito, il Prospectus che annunciava la pubblicazione della rivista in cui si legge: «Noi ci proponiamo di 11 Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, cit., pp. 233-250. 12 Ivi, p. 235.

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salvare l’uomo, sollecitando in lui la coscienza di quello che egli è. Nostro fine principale è quello di riscoprire la vera nozione di uomo. Ci troviamo d’accordo nello stabilire il primato dello spirituale... Il nostro primo sguardo sarà quello dell’uomo, uno sguardo d’amore. Niente di più lontano dalla compiacenza e dal pessimismo. È tempo di liberare l’eroismo dall’amarezza e la gioia dalla mediocrità»13. Infatti il movimento di «Esprit», pensato da E. Mounier fin dal 1929, nasceva dall’esigenza di studiare e di individuare le basi, i principi per il rinnovamento della civiltà, per consentire alla persona la conquista della consapevolezza di ciò che è, del suo essere al di sopra dell’economia e di una filosofia, che aveva dimenticato il suo ruolo e i problemi che interessano l’uomo (che chiedeva «alla scienza una verità che essa annuncia in anticipo come relativa»), e al di sopra di «società governate e funzionanti come camere di commercio»14. La salvezza dell’uomo, la conquista della coscienza di quello che egli è faceva obbligatoriamente appello all’educazione, alla quale Mounier affidava il compito di éveiller gli esseri umani, di restituirli a se stessi15 e di «riumanizzare l’umanità» che ognuno possiede e che ognuno ha il diritto ed il dovere di scoprire, di coltivare e di far crescere. L’impegno educativo è quindi coessenziale al progetto personale e politico di Mounier e è un’espressione del suo engagement. Pertanto «con l’avvio di “Esprit” (1932), la figura dell’intellettuale “engagé”, proposta dal nostro autore16, veniva ad assumere un 13 Cfr. S.S. MACCHIETTI, Appunti per una pedagogia della persona, Roma, Bulzoni, 1998, p. 18. 14 Cfr. S.S. MACCHIETTI, Introduzione, in Pedagogia del personalismo italiano, a cura di S.S. Macchietti, Roma, Città Nuova, 1982, pp. 13-14. 15 Nella prospettiva personalistica di Mounier «restituire l’uomo a se stesso» significa «ricomporre l’uomo: il corpo e lo spirito, la meditazione e le opere… il pensiero e l’azione…». 16 Si veda, in proposito, G. CAMPANINI, Mounier e la responsabilità dell’intellettuale. Itinerari dell’«engagement», in Emmanuel Mounier. Persona e uma-

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profilo carico di ricadute pedagogiche. All’uomo di cultura toccava cioè il compito di “éveiller” le coscienze, di seminare inquietudini contro le troppe ipocrisie della mentalità borghese e le retoriche delle concezioni ideologico-totalitarie…»17. All’assunzione di questo compito si collega la pedagogia di Mounier, che incomincia a delinearsi nel 1935 con la pubblicazione del volume Révolution personnaliste et communautaire, in cui erano raccolti gli scritti apparsi nelle prime annate di «Esprit», i quali tratteggiavano «le linee di un radicale rinnovamento contro il “disordine stabilito”18 proponendo come antidoto culturale per uscire dalla crisi di civiltà in atto la necessità di ripartire dalla persona». Secondo Caimi, l’«approccio fenomenologico a questa fondamentale categoria antropologica, con l’indicazione delle sue tre dimensioni costitutive (“vocation”, “incarnation”, “communion”), corredate dai relativi “esercizi” di personalizzazione (“méditation”, “engagement”, “dépouillement”)19, rappresenta un formidabile presupposto per l’innesto di una curvatura pedagogica del discorso»20, prima sottointesa e poi espressa e sempre fedele all’intento di promuovere «une éducation fondée sur la personne». nesimo relazionale. Nel Centenario della nascita (1905-2005), a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, Roma, LAS, vol. I, 2005, pp. 197-206. 17 Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, cit., p. 236. 18 Per gli aspetti specificamente politici della riflessione mouneiriana, cfr. G. CAMPANINI, La rivoluzione cristiana. Il pensiero politico di Mounier, Brescia, Morcelliana, 1968. 19 La vocation va intesa come la chiamata a svolgere un compito, l’incarnation come l’inserimento in una situazione storica, la communion come la realizzazione in un ambito comunitario. Gli esercizi di personalizzazione rimandano allo spazio rivolto alla scoperta la propria vocazione (anche se la conoscenza della «propria persona e la sua realizzazione sono sempre simboliche e incompiute)» e chiedono uno sforzo di superamento e di spogliazione (cioè la rinuncia, l’espropriazione, la spiritualizzazione). Cfr. E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, Œuvres, I, Paris, 1961, pp. 178-179. 20 Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, cit., p. 237.

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La persona: una fonte di creazione e un focolare di libertà «La persona è un essere spirituale, costituito come tale per un particolare modo di essere della sua esistenza e dell’indipendenza del suo essere: essa mantiene questa sua reale esistenza per la sua adesione ad una gerarchia di valori liberamente scelti, assimilati e vissuti attraverso un impegno responsabile e una costante conversione; essa unifica così tutta la sua attività nella libertà e sviluppa inoltre, attraverso un’attività creativa, la singolarità della sua vocazione»21. Questa è forse la definizione della persona ‘più composta’ e più nota di Mounier, il quale rifiutava ogni concezione statica dell’essere umano, espressa in formule cristallizzate…. Pertanto nelle pagine di questo pensatore la persona viene variamente definita e di essa viene dato un vastissimo affresco psicologico nel Trattato del carattere22, il quale rappresenta un nodo centrale della sua opera e si configura come un «atto di fede nell’uomo», come una ‘scommessa’ e un’espressione di ‘cura’ e di quell’«ansia per l’uomo»23, che caratterizza il suo pensiero e la sua azione. Con questo «Trattato» Mounier cerca di dare una fondazione dinamica della persona, pur affermando che «nessuno schema renderà mai conto delle infinite combinazioni che in ogni psichismo in21

Manifeste au service du personnalisme, in Œuvres, Paris, 1961, vol. I, p.

523. 22

Cfr. E. MOUNIER, Traité du caractère, edito presso l’Editore Le Seuil di Parigi tra la fine del 1946 e l’inizio del 1947. Quest’opera fu successivamente inserita come seconda dei quattro volumi dell’edizione delle Œuvres, curata dalla vedova di Mounier, Paulette Leclercq, e iniziata presso la stessa casa editrice nel 1961. Cfr. anche E. MOUNIER, Trattato del carattere, Alba (Torino), Edizioni Paoline, 1949, Vol. I (traduzione di Clotilde Massa) e Vol. II (traduzione del Dott. Paolo De Benedetti). 23 Cfr. C. NANNI, Mounier: il «Trattato del carattere», in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, cit., p. 254.

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dividuale alimentano, senza mai definirlo ed esaurirlo, l’inaccessibile segreto interiore. Esso sale dalle due grandi sorgenti nascoste al di là della coscienza: gli abissi dell’inconscio organico e collettivo, gli abissi della trascendenza personale»24. Questa affermazione dimostra l’insofferenza di Mounier per qualsiasi visione antropologica deterministica e la preferenza per una visione plastica e dinamica del carattere e della persona che nelle sue opere viene variamente definita. Talvolta infatti è considerata «un focolare di libertà» o «una fonte d’imprevidibilità e di creazione», il cui processo di comprensione si presenta come «un destino avventuroso, i cui dati sono oscuri, le cui strade sono incerte, e i cui incontri sono sconcertanti» e altre volte appare «essenzialmente come libertà e naturalità in intrinseca continuità». Infatti Mounier afferma che l’uomo, pur essendo «un essere naturale in virtù del suo corpo che fa parte della natura» e che «è dovunque egli si trovi», sostiene anche che il suo destino è tale per cui «la libertà è costitutiva dell’esistenza creata» «e nessun determinismo naturale può togliergli questa prerogativa, perché si colloca ad un livello “ulteriore” e “diverso”»25. L’uomo inoltre viene definito anche «come lotta, forza, ricerca di affermazione, protesta, atto, scelta, irriducibilità, trascendenza, comunicazione». Della persona Mounier sottolinea «la capacità di comprensione, la generosità, la fedeltà, la rivolta contro l’imposizione, la resistenza all’oppressione, il rifiuto dell’avvilimento e soprattutto l’azione, la presenza, l’impegno. La persona è unità, processo vitale continuo e coerente, fulcro di saldatura fra stabilità e mutamento»26, è una «totalità dinamica» che «conserva sotto la sua mobilità sempre nuova un’architettura assia-

24

Cfr. E. MOUNIER, Trattato del carattere, cit., p. 94. Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, Roma, Ave, 1964, p. 31, p. 2. 26 Cfr. C. SCURATI, Profili nell’educazione, cit., p. 197. 25

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le fatta di temi permanenti e di una regola di composizione»27. Connessi a questi tratti, poi, sono quelli per i quali la persona viene intesa come interiorità, raccoglimento, intimità, profondità, processo continuamente aperto e riproponentesi di una «duplice e solidale vocazione…: raccogliersi esprimendosi»28 e come ‘mistero’. La persona infine è «… ciò che in un uomo non può venir utilizzato», cioè «ciò che in ogni uomo non può non essere trattato come un oggetto»29. È questo, come sostiene Cesare Scurati, «il principio che informa di sé la posizione del personalismo, inteso come atteggiamento critico-costruttivo nell’analisi della cultura, che riconosce nella persona “un centro di orientamento dell’universo oggettivo”30». Il personalismo si propone, allora, come l’angolo visuale più adeguato per capire, per giudicare e per proporre; esso è insieme uno strumento descrittivo, diagnostico e propositivo. Fare della persona un centro di orientamento vuole dire, pertanto, prendere le distanze dall’individualismo (carente nella considerazione dell’essere esistente come apertura e comunicazione), dall’esistenzialismo tragico (incapace di sostenere ed orientare l’azione), dal marxismo (unilaterale, benché parzialmente esatta, considerazione della collocazione umana nella storia e nella realtà), dall’idealismo (misconoscimento della concretezza naturale e travolgimento della soggettività in una rete di costruzioni puramente “mentali”) e dallo spiritualismo (retorica astrattizzante sullo spirito per se stesso)»31.

27

Cfr. E. MOUNIER, Trattato del carattere, cit., p. 46, p. 44, p. 47. Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 71. 29 Ivi, p. 73, p. 11. 30 Ivi, p. 25. 31 Cfr. C. SCURATI, Profili nell’educazione, cit., pp. 197-198. 28

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Principi, motivi, messaggi pedagogici Alla concezione dinamica della persona di Mounier si collegano i suoi principi e i suoi messaggi educativi, che sono carichi di tensioni valoriali ed attenti ai tanti elementi che concorrono alla realizzazione nell’educazione scolastica ed extrascolastica (ragioni, antropologia pedagogica di base, ideali, finalità, condizioni, scelte di politiche, diritti e doveri delle famiglie, dello Stato, della Chiesa…), la quale non può non avere un’anima morale e democratica. Infatti ad essa compete il compito di maturare «sia nei giovani sia negli adulti, una coscienza democratica nutrita di senso civico, di gusto partecipativo, di disponibilità ad accogliere le sfide della “nuova cittadinanza”»32 e capace di soddisfare le istanze di solidarietà. Questi principi e questi messaggi confermano l’intelligenza pedagogica di Mounier e la sua coerenza con la sua concezione della persona, il cui ‘mistero’ è il «centro focale della sua pedagogia». In gran parte questi messaggi sono proposti e, in un certo senso, organizzati nel Manifeste au service du personnalisme, del 1936, in cui nel Capitolo II (intitolato Strutture fondamentali di un sistema politico personalista), in coerenza con la volontà di partire dalla persona e dalle istituzioni più vicine ad essa33, al primo posto si pone il discorso sull’educazione perché la formazione dell’uomo nuovo è un requisito preliminare per Refaire la renaissance. In questo capitolo vengono enunciati i Principi di un’educazione personastica e viene proposto Uno statuto pluralistico della scuola. Per quanto riguarda i «Principi», Mounier afferma che l’educazione non è chiamata a «façonner l’enfant au conformismes d’un milieu social ou d’une doctrine d’État». La sua finalità principale, infatti, è quella «d’éveiller des personnes capables de vivre et de 32 Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, cit., p. 249. 33 Cfr. E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Introduzione e traduzione di A. Lamacchia, Cassano Murge (Bari), Ecumenica Editrice, 1975.

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s’engager comme personne». Sostiene inoltre che «une éducation fonde sur la personne ne peut être totalitaire, à savoir matériellement extrinsèque et contraignante, elle ne saurait être que totale»34 perché «interessa l’uomo intero, tutta la sua concezione e tutto il suo atteggiamento di vita». In merito alla scuola Mounier sostiene che «lo Stato non può imporre per monopolio una dottrina e un’educazione. Piuttosto, gli compete, oltre che di attivare un efficiente servizio d’istruzione pubblica (quest’ultima concepita in modo laicamente aperto), di rendersi garante del pluralismo delle istituzioni scolastiche, fatto salvo il suo diritto all’esercizio di un controllo anche sull’iniziativa privata per assicurare il rispetto delle regole generali comuni». Inoltre sostiene che «il riconoscimento della legittima presenza di scuole confessionali non deve, sotto il pretesto della libertà, favorire modelli educativi di tipo dogmatico o anti-democratici. È altresì importante che fra le differenti esperienze scolastiche (statali e non) s’instaurino possibilità di contatto e di confronto»35. È agevole rilevare che questi principi e questi motivi sono espressi con vigore ed efficacia e che il loro significato può essere colto andando oltre il tempo in cui sono stati affermati, ma giova anche ricordare che nel «Manifesto» l’attenzione per l’educazione è sempre presente ed è particolarmente evidente nei paragrafi in cui Mounier parla della famiglia, vista come comunità naturale di persone, che non è né automatica né infallibile, che costituisce «un’avventura da correre e un impegno da fecondare» perché possa costruirsi come ‘società spirituale’, e della cultura che dovrà essere «metafisica e personale» e che dovrà prendere «la sua linfa dal popolo» e trovare «un principio di totalità». Inoltre dovrà essere capace di sfuggire al totalitarismo. Queste

34

Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, cit., p. 238. 35 Cfr. E. MOUNIER, Manifeste au service du personnalisme, cit., pp. 554-556.

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considerazioni sulla cultura e sulla famiglia sono coerenti con la visione dell’educazione come apprendistato di libertà, come un processo coessenziale alla vita umana e quindi continuo, che non è chiamato a ‘faire’ ma a ‘éveiller’ la persona, la quale «se suscite par appel». Tuttavia Mounier afferma che la persona «finchè non è maggiorenne dipende dalle comunità naturali in cui si trova per nascita, pertanto la famiglia, le autorità spirituali… gli enti che la aiutano» sono chiamati ad impegnarsi per promuovere la piena educazione dei bambini, dei fanciulli e degli adolescenti per favorire la loro crescita integrale e la loro graduale interiorizzazione dei valori e degli insegnamenti proposti36. Agli educatori comunque si chiede di tener sempre presente che funzione principale dell’educazione non è quella «di fare dei cittadini coscienti, dei buoni patrioti, o dei piccoli fascisti, o dei piccoli comunisti, o dei piccoli uomini di mondo». Essa ha infatti la missione di suscitare persone libere, aperte alla vita ed agli altri, capaci di impegnarsi e di autoformarsi durante l’intero corso della loro esistenza. In questa prospettiva assume un particolare significato la ‘primitività’ della relazione, vista come esperienza originaria della persona, e della comunicazione e come relazione di aiuto, sentita come esigenza fondamentale dell’esistenza personale, individuale e comunitaria37 e vissuta come forma di comunione interpersonale e come gesto d’amore per la persona e per le comunità. In vista della formazione di tutto l’uomo l’educazione non può non essere integrale, non neutrale e personalizzata e non può non muovere dalla persona, non riferirsi ad essa, non mirare a risvegliarla ed a suscitarla e non adeguare l’azione educativa e didattica alla ‘particolarità’ e all’originalità di ogni soggetto e non può non 36

Cfr. Ivi, p. 239. Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, a cura di G. Campanini e M. Pesenti, Roma, Ave, 2004, pp. 57-63. 37

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fare appello alla responsabilità del cristiano38, il cui profilo, secondo Mounier, è quello di «uomo con il gusto dell’interiorità, libero, amante della parresia», «impegnato, disponibile al dialogo con tutti, nutrito di speranza, sciolto dalle ambizioni di potere, consapevole dell’autonomia delle realtà temporali»39, impegnato a farsi educatore di se stesso e degli altri, a sapersi porre in relazione, a testimoniare fiducia nelle persone, ad aprirsi con speranza al futuro40. Messaggi da riscoprire Sembra opportuno completare i troppo rapidi riferimenti fatti ai motivi pedagogici di Mounier, richiamando l’attenzione agli atti originali che, secondo il filosofo francese, è indispensabile compiere per educarsi, per educare, per costruire e suscitare una società di persone «in cui le strutture, i costumi, i sentimenti ed infine le istituzioni siano contraddistinti dalla loro natura di persone». Questi atti sono: 1. Uscire da sé, decentrarsi per divenire disponibili agli altri; 2. Comprendere, cessare di porsi dal proprio punto di vista per mettersi dal punto di vista degli altri; 3. Prendere su di sé, assumere il destino, la sofferenza, la gioia, il dovere degli altri; 4. Dare, superando sia l’individualismo piccolo borghese sia la lotta all’ultimo sangue con generosità e gratuità, totalmente senza spe-

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Cfr. a questo proposito due volumi del 1939: Personnalisme et christianisme, Les crethiens devant le problém de la paix e L’affrontement crethienne del 1945. 39 Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, cit., p. 249. 40 Agli effetti di una rilettura e di una ricomprensione del pensiero di Mounier e in particolare di quello relativo all’educazione si suggerisce cfr. Le personnalisme del 1949. Cfr. anche l’Introduzione di Giorgio Campanini dell’edizione italiana di questo volume del 2004 (E. MOUNIER, Il personalismo, a cura di G. Campanini e M. Pesenti, cit.).

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ranza di ricambio…; 5. Essere fedele nella continuità… con una fedeltà creatrice…41. Inoltre, per comprendere più profondamente la lezione di pedagogia e di vita di Mounier può essere utile presentare ed affidare alla riflessione personale una lettera scritta alla moglie il 20 marzo 1940, in cui Emmanuel si riferisce a Françoise, la sua primogenita, alla quale era stata diagnosticata un’encefalite. Su questa lettera il Filosofo, rivolgendosi a Paulette, così si esprime: «Che senso avrebbe tutto questo… se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante, e non invece una bianca piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se lo vedessimo faccia a faccia; se ogni colpo più duro non fosse una nuova elevazione che ogni volta, allorché il nostro cuore comincia ad abituarsi al colpo precedente, si rivela come una nuova richiesta di amore. Tu senti le piccole povere voci supplicanti di tutti i bambini martiri del mondo e il dolore che la loro infanzia sia andata perduta nel cuore di milioni di uomini che ci chiedono, come un povero al margine della strada: “Diteci, voi che avere il vostro amore, le mani piene di luce, volete donarci tutto questo”. Se a noi non resta che soffrire (subire, patire, sopportare), forse non ce la faremo a dare quello che ci è stato chiesto. Non dobbiamo pensare al dolore come a qualcosa che ci viene strappato, ma come a qualcosa che doniamo, per non demeritare del piccolo Cristo che si trova in mezzo a noi, per non lasciarlo solo ad agire col Cristo. Non voglio che si perdano questi giorni, dobbiamo accettarli per quello che sono: giorni pieni d’una grazia sconosciuta»42. Emerge da questa lettera la fecondità educativa del dolore, a proposito del quale, rivolgendosi ancora a Paulette (11-04-1940), Mounier così scrive: «… sento che il reale, il positivo sono dati dalla calma, dall’amore della nostra bambina che si trasforma dolcemen41

Ivi, pp. 61-62. Cfr. E. MOUNIER, Lettere sul dolore. Uno sguardo sul mistero della sofferenza, a cura di D. Rondoni, Milano, R.C.S. Libri, 2001, pp. 61-62. 42

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te in offerta, in una tenerezza che l’oltrepassa, che parte da lei, ritorna a lei, ci trasforma con lei, e che la stanchezza appartiene soltanto al corpo che è così fragile per questa luce e per tutto ciò che c’era in noi di abituale, di possessivo, con la nostra bambina che ci consuma dolcemente per un amore più bello. Dobbiamo essere forti con la preghiera, l’amore, l’abbandono, la volontà di conservare la gioia profonda nel cuore»43. La sorte di Françoise non è per Mounier «più un fulmine a ciel sereno contro la speranza, ma un anello fraterno della grande miseria degli uomini, senza il quale ci troveremmo un po’ più indietro»44. Per Mounier Françoise è l’immagine della fede, l’infanzia è l’immagine della speranza e i bambini possono essere i nostri maestri. Essi infatti ci educano come noi li educhiamo45, ricambiando le nostre premure e i nostri doni…, con la loro ‘meravigliosa realtà’, le loro esigenze e la loro fragilità…. Essi sono una sorgente… da amare, da proteggere e da mantenere viva…46.

43

Ivi, p. 62. Cfr. Lettera a Jacques Lefrancq, 11 maggio 1940, in E. Mounier, Lettere sul dolore, cit., p. 64. 45 Cfr. Lettera a un’amica, ottobre 1949, in E. Mounier, Lettere sul dolore, cit., pp. 104-106. 46 Cfr. E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, cit., p. 135. 44

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«REFAIRE LA RENAISSANCE»: UNA SFIDA FILOSOFICA Paolo Nepi

Nel corso degli anni Trenta si diffuse una sorta di genere storico-letterario che possiamo definire la lettura ‘epocale’ del mondo moderno, in cui si esprimeva la consapevolezza che qualcosa di grande era avvenuto a partire dal Rinascimento, ma anche che qualcosa non aveva funzionato a dovere. Sintomatica la crisi degli ideali democratici, che avevano ispirato i movimenti liberali per tutto l’Ottocento, e che allora venivano in molte parti d’Europa travolti dai regimi autoritari, e talvolta perfino totalitari, in nome di un nuovo culto del ‘Capo’ e del suo potere decisionale1. Alcuni giunsero perfino a posizioni di netta contrapposizione nei confronti dello spirito e delle realizzazioni della modernità. Anche la riflessione di Mounier prende avvio in questa temperie culturale, e ne resta segnata in modo inconfondibile fino alla prematura scomparsa. Ed è proprio su questo aspetto della meditazione mounieriana che intendo soffermarmi. Mi pare infatti che anche Mounier fosse preoccupato di capire quello che era successo dopo il Rinascimento, ossia dall’epoca che Giorgio Vasari per primo chiamò della ‘rinascenza’, intendendo contrapporre la rude arte antica a quella dei raffinati artisti toscani del Cinquecento. Che ne è stato – si chiede Mounier – delle pro-

1

Cfr. G. CAMPANINI, Intellettuali e società nella Francia del Novecento, Milano, Editrice Massimo, 1995.

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messe del Rinascimento, che dall’Italia si erano diffuse in tutta Europa combinandosi e fondendosi in quel plesso che da qualche decennio abbiamo iniziato a chiamare la Modernità? Si tratta allora di dare un giudizio complessivo circa l’epoca moderna inaugurata dal grande movimento rinascimentale. Questa esigenza di rilettura critica della modernità assumerà, al momento in cui prenderà avvio l’esperienza di «Esprit», la denominazione programmatica «Refaire la Renaissance». «Rifare il Rinascimento», nel senso di liberare le energie ancora inespresse della grande esperienza culturale della Modernità, è infatti il titolo del manifesto programmatico con cui, nel 1932, iniziava la storia del movimento e della Rivista «Esprit»2. Il manifesto, che risente chiaramente dell’influenza decisiva del pensiero di Mounier, contiene espliciti motivi di denuncia e di nuova progettualità. La denuncia riguarda gli errori della civiltà moderna, di cui la grande crisi economica del ’29, che si ripercuoterà nella crisi culturale, sociale e politica degli anni Trenta, è percepita come sintomo. La nuova progettualità dovrà allora evitare sia gli esiti individualistico-liberali, sia, per un errore speculare, gli esiti collettivistici delle grandi rivoluzioni moderne, quella borghese e quella socialista. L’alternativa viene elaborata a partire dalla riabilitazione del primato dello spirituale e dell’etica, e avrà come idee guida le nozioni di persona e di comunità.

2 Il testo fu ripubblicato in Révolution personnaliste et communautaire, ora in Oeuvres, Paris, Seuil, 1963, pp. 137-174; trad. it., Rivoluzione personalista e comunitaria, Milano, Edizioni di Comunità, 1955, pp. 21-83 (nuova edizione, Bari, Ecumenica, 1984). Quattro anni più tardi, nella prima parte del Manifeste au service du Personnalisme (Paris, Ed. Montaigne, 1936; trad. it., Manifesto al servizio del personalismo comunitario, Bari, Ecumenica, 1975, pp. 15-62), dal titolo «il mondo moderno contro la persona», i temi della critica della modernità vengono ripresi in forma più estesa ed organica.

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1. Un intellettuale militante Mounier affronta con un metodo molto personale questa grande opera di rilettura critica della Modernità. Lo stile e il metodo di Mounier non sono quelli dello studioso che ha come prima preoccupazione il rigore storico-filologico. Non perché egli fosse insensibile a questi aspetti, e nemmeno perché li considerasse culturalmente insignificanti, come dimostra ad esempio nel Trattato del carattere, del quale egli stesso riconosce il carattere scientifico, anche se precisa: «la nostra scienza, per il fatto di proporsi come obiettiva, non è tuttavia in minor misura una scienza militante»3. Dire ‘scienza militante’ potrebbe apparire un ossimoro, una contraddizione in termini, dal momento che la scienza moderna postrinascimentale si è affermata proprio liberandosi da ogni ipoteca metafisica e religiosa, e quindi da ogni ulteriorità rispetto all’oggettiva neutralità delle sue proposizioni. Ma significa anche dire che non esiste sapere che non sia sapere dell’uomo intorno all’uomo, e sottolineare quindi questo lato paradossale del sapere, per cui è allo stesso tempo impersonale e personale, in terza persona in relazione al rigore metodo e in prima persona in relazione al suo significato per l’uomo. In Mounier, dunque, tutto va sempre visto a partire anche dalla sua persona. Il suo personalismo, a differenza di quello di Maritain, che viene fondato sulla metafisica dell’essere, si fonda invece sull’esperienza della vita personale, nella quale soggettività e oggettività si compenetrano4. Una soggettività puramente interiore, come quella che – secondo Mounier – è presente in certe espressioni o tendenze dello spiritualismo francese, sarebbe pura evanescenza spirituale. Ma anche un’oggettività puramente esteriore sarebbe espressione altrettanto parziale della condizione umana.

3 4

E. MOUNIER, Trattato del carattere, Roma, Edizioni Paoline, 1982, p. 25. Cfr. A. RIGOBELLO, Il personalismo, Roma, Città Nuova, 1975.

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Cosa pensava dunque Mounier della sua attività intellettuale, della quale intendeva salvaguardare il carattere scientifico, ma riuscendo tuttavia a preservarla da una nozione chiusa e angusta di scientificità? Egli credeva alla profonda solidarietà tra pensiero e azione. Aborriva ogni forma di astrattismo speculativo, attribuendo certi tratti del suo carattere alle origini contadine della sua famiglia. «Sono un “intellettuale”, scrisse in una lettera inviata qualche settimana prima della morte ad un amico conosciuto durante la guerra di liberazione. Questa parola richiama alla mente un certo numero di atrofie e di “tic”. Mi guarderò dal credermene esente. Ma spesso ripenso con riconoscenza ai miei quattro nonni contadini, veri contadini tutti e quattro, con le scarpe infangate, la levata alle tre ed una fetta di salame in mano. Quando malgrado tutto mi sento intimamente così straniero alla mia “gens”, come “gens”, quando mi ribello all’ipocrisia, alle espressioni ampollose, alle piroette o, sull’altro versante (l’Università), all’agghiacciante atteggiamento di sussiego, avverto uno dei miei nonni che reagisce in me, il suo sano realismo che mi scorre nelle vene, l’aria dei suoi campi che purifica i miei polmoni, ed io ringrazio»5. Sarebbe interessante, anche per misurare la diversa temperie culturale, confrontare questa posizione di Mounier con quella di un celebre libro degli anni Venti, La trahison des clercs di Julien Benda6. Mentre Mounier vede il tradimento degli intellettuali nel loro disimpegno, Benda lo vedeva invece nella loro eccessiva compromissione con le vicende politiche in nome di una concezione strumentale della cultura e del lavoro intellettuale. 5 E. MOUNIER, Mounier et sa génération. Correspondance-Entretiens, in Œuvres, Paris, Seuil, 1961-1963, t. IV, p. 413 (trad. it., Lettere e diari, a cura di F. Mazzariol, Reggio Emilia, 1981, p. 17). Cfr. L. GUISSARD, Emmanuel Mounier, Torino, Borla, 1964, p. 12. 6 J. BENDA, La trahison des Clercs, Paris, Grasset, 1927; Il tradimento degli intellettuali nella società contemporanea, Torino, Einaudi, 19762. Si veda inoltre G. INVITTO, «Intellettuali», in Dizionario delle idee politiche, a cura di E. Berti e G. Campanini, Roma, AVE, 1993.

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2. L’‘avvenimento’ e la storia Dire Rinascimento significa disporsi nei confronti della storia. Ma che cos’è la storia per Mounier? Sarebbe inutile cercare in Mounier una compiuta filosofia della storia. E non vi troveremmo neanche una ricostruzione ‘epocale’ della storia moderna sul tipo di quella tentata, ad esempio, da Maritain in Umanesimo integrale. Mounier non dispone delle grandi categorie interpretative maritainiane, quali le nozioni di cristianità medievale o di cristianità secolare, circoscritte con rigore storico-critico e ampiezza di riferimenti culturali. In Mounier dobbiamo cercare solo ciò che lui ha voluto dirci della storia, ossia una descrizione di ciò che la storia significa per l’uomo che vuole rendersi conto di come il suo essere al mondo sia segnato, in modo costitutivo, dalla temporalità. Occorre, per Mounier, cogliere il significato degli avvenimenti in ordine alla realizzazione dei valori della persona, che nella storia può trovare un luogo di riconoscimento e di esaltazione ma anche, al contrario, momenti di negazione e di totale rifiuto. Di fronte al significato della storia non ha dunque senso dividersi tra ottimisti e pessimisti. L’unico atteggiamento autentico di fronte al corso storico è per Mounier l’«Ottimismo tragico (Optimisme tragique)». Si tratta allora di comprendere che cos’è l’avvenimento per Mounier. «L’événement véritable, pour Mounier, est toujours avénement»7. L’evento dunque come avvento. L’evento come rivelazione di un destino che si compie non nonostante ma anche attraverso l’uomo. Un destino quindi che non ha i caratteri della fatalità, ma della storia dell’uomo vista in tutto lo spessore della sua laicità. In una delle sue folgoranti definizioni, Mounier definisce l’avvenimento, ovvero il tempo che si condensa in un fatto, il maestro 7

J.-M. DOMENACH, Emmanuel Mounier, Paris, Seuil, 1972, p. 116. Si tratta del testo di una lettera spedita nel settembre del 1949 a J.-M. DOMENACH. Cfr. DOMENACH, op.cit., p. 18. 8

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interiore: «L’événement sera notre maître intérieur»8. È la percezione della funzione interpretativa che, nei confronti della temporalità, deve assumere il pensiero, che non è un semplice epifenomeno del fatto, ma neanche uno strumento capace di giustificare, come in ogni forma di storicismo assoluto, la storia. Il pensiero può dunque avere, nei confronti dei fatti storici, una funzione di carattere interpretativo ma non fondativo-giustificativo. Sono anzi i fatti, in questa prospettiva, ad offrirsi come guida (maître) all’attività del pensiero riflesso. Un pensiero che non può limitarsi alla purezza formale della criticità, in quanto è appunto espressione di una interiorità, ossia di una persona in cui dimorano le inesauribili esigenze dello spirito. E di fronte al quale i fatti non sono quindi cose dotate di una oggettiva fisicità, ma avvenimenti, ossia dinamismi dalle infinite reazioni e ripercussioni nella esistenza delle persone. È chiaro che in questa prospettiva tutto è avvenimento, anche i piccoli e insignificanti episodi della vita quotidiana, che comunque tali non sono nella storia delle persone. Ma ci sono anche avvenimenti in cui, in modo più manifesto, si evidenzia il carattere drammatico della lotta tra il bene e il male. Per Mounier tali avvenimenti sono stati, tra gli altri: la rivoluzione bolscevica, la prima guerra mondiale, la grande crisi del ’29, l’avvento del nazismo, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale e la resistenza…. A questo punto si tratterebbe di esaminare la correlata nozione di ‘Engagement’, che, dal punto di vista etico, è la risposta consapevole e responsabile all’avvenimento. Senza Engagement la storia sarebbe d’altronde solo una successione fatalistica di eventi. L’Engagement, inteso come tensione morale volta a incarnare il valore nell’avvenimento, oppure ad esprimere il valore attraverso l’avvenimento, esprime pertanto la persona come attiva partecipazione, con le arti mediatrici della saggezza e della prudenza, all’universalità del valore e alla contingenza degli accadimenti storici.

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3. Il Rinascimento da ‘ripetere’ Se questo è l’avvenimento, è chiaro che ogni evento è unico e irripetibile. Il Rinascimento non può dunque essere ripetuto come fatto storico. Si possono però ripetere le sue intenzionalità originarie, nel senso che alcune energie storico-culturali non hanno mai esaurito la loro funzione. Italo Calvino diceva ad esempio, a proposito dei classici, intesi sia come testi sia come paradigmi culturali, che essi non hanno mai finito di dire quello che hanno da dire. A proposito della metafisica di Kant, Heidegger diceva che si tratta sempre di ripeterne il problema fondamentale, attraverso un libero processo ermeneutico che ne muta il significato proprio salvaguardandone la problematicità. «Per ripetizione di un problema fondamentale – dice Heidegger – intendiamo l’esplicitazione delle sue possibilità originarie ancora nascoste. Nella messa in opera di tali possibilità il problema si trasforma; ma questo è anche il solo modo di salvaguardarne il contenuto problematico. Salvaguardare il problema significa, peraltro, mantenere libere e deste le forze interne che lo rendono possibile come problema, nel fondo della sua essenza»9. Come dunque condurre quest’opera di ‘ripetizione’ ermeneutica del Rinascimento, che ne salvaguardi l’istanza modernizzatrice liberandone tuttavia le potenzialità inespresse? Occorre, secondo Mounier, rileggere innanzitutto criticamente l’dea di Rivoluzione. Quindi bisogna prendere coscienza della crisi, ossia dello scarto tra il valore della persona e la storia. Infine, occorre la riabilitazione della comunità che non è l’opposto della persona ma solo dell’astratta mistica dell’individuo.

9

M. HEIDEGGER, Kant und das Problem der Metaphysik (1929), trad. it., Kant e il problema della metafisica, Roma-Bari, Laterza, 1981, p. 177.

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a. La rivoluzione morale C’è un punto di vista particolare da cui Mounier rilegge criticamente il Rinascimento, e da questa lettura trae ispirazione per una sua ‘ripetizione’ nel senso appena detto. Mi pare che tale chiave di lettura sia da cercare nel pensiero di Péguy che fa da esergo del Manifesto di Esprit («Refaire la Renaissance»). «La rivoluzione sarà morale o non ci sarà affatto». Prospettiva legittima, quella di una rilettura dell’avventura del mondo moderno alla luce dell’idea di rivoluzione, ma anche estremamente pericolosa. Legittima, in quanto il mondo moderno è stato un susseguirsi di rivoluzioni: la rivoluzione scientifica, la rivoluzione inglese del Seicento, la rivoluzione francese, la rivoluzione industriale, la rivoluzione russa…. Ma si tratta di una lettura anche pericolosa, in quanto la rivoluzione morale non appartiene alla stessa categoria delle altre rivoluzioni. Là si tratta di rivoluzioni che abbracciano aspetti in un certo senso particolari, dimensioni parziali della condizione dell’uomo nel mondo, mentre la rivoluzione morale riguarda anche le sue più intime esigenze, e coinvolge l’uomo nella sua totalità. Come dunque porsi nei confronti della modernità, evitando – a partire dall’idea di una rivoluzione morale – una lettura generica del mondo moderno, che sfocerebbe inevitabilmente in una generale condanna moralistica e reazionaria? Mounier aveva la consapevolezza di tali rischi, a cui non si sottrae perché secondo lui c’è sempre bisogno di un criterio di giudizio non limitato ma aperto a tutto il volume dell’uomo. La sua visione della storia come avvenimento in senso rivelativo gli fa evitare tuttavia, come capita invece in altri casi, una posizione di netto rifiuto dell’idea del moderno come pura decadenza e declino. b. La crisi 46

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Fioriva in quegli anni un fiume di riflessioni sulla crisi del mondo moderno. Si è parlato di un vero e proprio genere letterario: la letteratura della crisi. Si stava facendo strada una interpretazione della Modernità in termini di decadenza. Mounier sceglie un punto di vista diverso da quello dei critici della modernità, senza tuttavia finire tra i suoi esaltatori ‘progressisti’. «Non bisogna affatto contare sulle epoche serene e felici: solo le crisi conducono la maggior parte degli uomini alla meditazione»10. E aggiunge Ricoeur proprio a questo riguardo, evidenziando meglio le implicazione dell’idea di crisi: «non so più qual è il mio posto nell’universo, non so più quale gerarchia stabile di valori può guidare le mie preferenze, non distinguo chiaramente gli amici dagli avversari»11. In questa percezione acuta della crisi, sia in Mounier che in Ricoeur, non vi è niente di catastrofico o di fatalistico. La coscienza della crisi è il presupposto della volontà di andare, attraverso l’impegno, al di là della crisi. Perché, aggiunge Ricoeur, «c’è per me dell’intollerabile»12, ovvero qualcosa che mi indigna e che mi chiama alla responsabilità. La crisi che si apre con il Rinascimento, secondo Mounier, è una crisi di ordine spirituale. Egli intende per spirituale non qualcosa di intimistico e di emotivo, ma l’asse di equilibrio della realtà umana, ciò che permette all’unità della persona di esprimersi compiutamente ed efficacemente non solo in senso individuale ma anche nelle sue relazioni sociali e politiche. Non bisogna, dice Mounier, «compromettere dei concetti con delle emozioni morali»13. Quando diciamo spirito, precisa Mounier, non vogliamo dire «qualcosa di approssimativo, ma una realtà alla quale noi diamo un’adesione totale, che va al di là di noi, penetra in noi, ci impegna completamen10

Rivoluzione personalista e comunitaria, Milano, Ed. di Comunità, 1955, p.

23. 11

P. RICOEUR, La persona, Brescia, Morcelliana, 1997, p. 30. Ibidem. 13 Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 24. 14 Ivi, p. 36. 12

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te portandoci al di là di noi stessi»14. Anche il Rinascimento è stato infatti un’epoca di crisi. Si è in quel periodo storico definitivamente preso congedo dalla civiltà medievale, attraverso l’affermazione di quei valori umanistici che segnavano il passaggio dalla Civitas christiana alla Città secolare. La crisi, in quanto tale, è dunque una condizione di transizione, che può talvolta anche comportare delle vere rotture rivoluzionarie: «l’apparente violenza delle rivoluzioni spesso contribuisce al progresso della ragione»15. Nonostante tutto, sembra dunque che anche Mounier si muova nell’ottica della Rivoluzione moderna. Ossia nella prospettiva di una rivoluzione politica e non, come lui dice, di una rivoluzione morale. Ma la distinzione tra politica e morale, con la subordinazione della prima alla seconda, è per lui un presupposto di carattere postulatorio. «Non c’è alcuna proporzione fra il complesso della nostra opera e le sue coordinate più specificamente politiche. Il lato politico può essere urgente, ma è subordinato. Il nostro fine ultimo non è la felicità, il benessere, la prosperità di un nucleo sociale, ma l’effondersi spirituale dell’uomo»16. E quando diciamo spirito, precisa Mounier, non vogliamo dire qualcosa di approssimativo, ma una realtà alla quale noi diamo un’adesione totale, che va al di là di noi, penetra in noi, ci impegna completamente portandoci al di là di noi stessi»17. La crisi è dunque, di fronte alla coscienza della non adeguatezza tra la storia e il valore della persona, la non accettazione di quello che Mounier chiama, con un efficace ossimoro, il disordine stabilito. Un disordine stabilito è efficienza senza efficacia. È precisione senza fedeltà. È ordine senza un fine. È comunità senza comunione.

15

Ibidem. Ivi, p. 28. 17 Ivi, p. 36. 16

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c. La riabilitazione della comunità Il Rinascimento, secondo Mounier, ha promosso, attraverso una «mistica dell’individuo», un umanesimo astratto (artificial18), ovvero un umanesimo separato dalla concretezza del vissuto, rispetto al quale è un errore evadere come pure affondare nella comunità. L’individualismo è l’esatto opposto del personalismo comunitario. I diritti individuali, alcuni anche importanti e significativi, hanno però preso il campo una volta occupato dallo «scambio orizzontale di doveri e di dedizioni»19. Si è perso il senso della comunità, come esercizio partecipato al munus , da intendere come dono e dovere allo stesso tempo, dello scambio e del riconoscimento reciproco20. L’individualismo moderno non è solo una morale, non è solo questione di comportamento, è diventato una visione del mondo, una metafisica: la metafisica della solitudine integrale21. Per un processo speculare di reazione, si è sviluppata una mistica di segno opposto, quella del collettivismo e dello Stato etico nella duplice forma di sinistra e di destra. Anche lo statalismo, come l’individualismo, non ha niente a che vedere con il personalismo comunitario. Si tratta di due eresie che hanno bisogno di essere riportate alla verità intorno alla persona. Si tratta anche di un processo molto complesso, perché, dice ancora Mounier, «non si ricostruisce la verità con dei pezzetti di menzogna e un’assoluzione»22. Conclusione Ho cercato di mettere in luce la tensione intellettuale e morale 18

Cfr. ivi, p. 64 nota n. 1. Ivi, p. 57. 20 Cfr. R. ESPOSITO, Communitas, Torino, Einaudi, 1998. 21 Cfr. Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 57. 22 Ivi, p. 40. 19

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che animava Mounier quando, attraverso l’ambizioso manifesto programmatico dal titolo provocatorio «Refaire la Renaissance», iniziava l’avventura di «Esprit». Non saprei dire quanto di quel programma, volto alla netta distinzione tra l’individuo (da intendere come una chiusura su….) e la persona (da vedere come un’apertura verso…), egli sia riuscito a realizzare. Ma se il compito dell’intellettuale, più che quello di realizzare delle cose è quello di tener desta un’idea, resta comunque viva la testimonianza di uno che, pur conoscendo le sue e le nostre fragilità, parlava della realtà personale in questi termini: «se un’opposizione è necessaria per difendere e salvare la persona, noi ci mettiamo in quest’opposizione. Ma ci rifiutiamo, combattendo per la persona, di combattere per quella realtà aggressiva e avida che dietro essa si trincera. Una persona non è un fascio di rivendicazioni che si piegano su se stesse entro una frontiera arbitraria, e neppure un desiderio inquieto d’affermazione. È un riduttore delle influenze, ma ad esse largamente aperto; una potenza orientata verso l’attesa e la recezione. È una forza nervosa di creazione e di dominio, ma entro una comunione umana in cui ogni creazione è irradiamento di luce, ogni dominio un servizio. È una libertà d’iniziativa, vale a dire un focolaio d’iniziative, una prima china verso il mondo, una promessa di molteplici amicizie; un’offerta di sé. Non si trova se stessi, se non quando ci si perde; si possiede soltanto quello che si ama»23. Quella di Mounier, come si vede, è una riflessione sulla persona, e sulle sue avventure postrinascimentali, pervasa di accenti poetici, ai limiti del lirismo. Ma la filosofia, come dice Ricoeur, nasce sempre dalla non-filosofia, nel senso che ha le sue fonti sempre fuori di sé24. E allora Mounier ci ha dato una delle prove più limpide e generose di questo rapporto tra la filosofia e il suo altro. Mou-

23

Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 63. Cfr. P. RICOEUR, Kierkegaard. La filosofia e l’‘eccezione’ (1990), trad. it., Brescia, Morcelliana, 1995. 24

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nier non è mai stato molto amato dai filosofi di professione, anche per quella visione dell’intellettuale di cui abbiamo parlato all’inizio. Può comunque essere un ottimo compagno di viaggio per chi ama la libertà del pensiero, quella libertà che non deve essere mai, neanche in ambito intellettuale, come lui diceva della libertà in generale, «l’iniziativa lasciata ai potenti di condurre il gioco»25.

25

Rivoluzione personalista e comunitaria, ed. it., cit., p. 32.

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TEMPORALITÀ ED ESISTENZA NELLA FILOSOFIA FRANCESE DEL PRIMO NOVECENTO Ferdinando Abbri « …Maritain l’a dit magnifiquement dans sa Lettre à Jean Cocteau: “il faut avoir l’esprit dur et le cœur doux. Combien de gens qui croient avoir le cœur doux, et qui n’ont qu’un esprit mou…”». (E. Mounier, 1927)1.

Nel maggio del 1927 Henri Bergson inviò una lettera di ringraziamento a Emmanuel Mounier per un omaggio floreale in occasione della collaborazione alla preparazione del volume monografico (1926) di Jacques Chevalier su Bergson stesso2. Il giorno dell’ Ascensione dello stesso anno Mounier scriveva alla sorella Madeleine: «Je te mets en cent de deviner ce que j’ai reçu avant-hier: ni plus ni moins qu’une lettre de M. Henri Bergson me remerciant de la gerbe de roses que nous lui avons fait porter pour lui rendre la photo qu’il nous avait accordée (pour le bouquin du «Maître»)»3. Giova ricordare che Chevalier era stato professore di Mounier a Grenoble, e in una lettera dell’8 febbraio 1926 Mounier aveva informato Francisque Gay dell’esistenza all’Università di Grenoble di un giovane maestro, ossia Chevalier le cui «conférences d’hiver sur Descartes et sur Pascal … puis celles sur Malebranche … attirèrent un public croissant et enthousiaste. Cet hiver, une série de conférences sur Bergson dépasse encore le succès des précédentes»4. 1

E. MOUNIER, Œuvres. Recueils posthumes, Correspondance, Paris, Éditions du Seuil, 1963, vol. IV, p. 425. 2 H. BERGSON, Correspondances. Textes publiés et annotés par André Robinet, Paris, Presses Universitaires de France, 2002, pp. 1223-1224. Cfr. J. CHEVALIER, Bergson, Paris, Plon, 1926. 3 E. MOUNIER, Œuvres, cit., p. 425. 4 Ivi, p. 420.

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L’incontro di Mounier con la metafisica, la filosofia moderna, e con quella di Bergson era stato determinante, grazie alla mediazione di Chevalier e alla creazione di un vero e proprio seminario di studenti guidato da Chevalier stesso. Nel maggio del 1929 Bergson invitò Mounier nella propria abitazione perché gli era più facile, a causa delle sue condizioni di salute, «de vous répondre de vive voix que par écrit»5. Nella primavera del 1933, in due occasioni, Bergson manifestò il suo ‘vif intéret’ per la rivista Esprit, da lui letta regolarmente, ma era costretto a declinare l’invito, per ragioni di salute, a collaborare ad un numero monografico dedicato al ‘problème juif’6. Ricordò altresì d’avere sempre reso pubblico solo ciò che era ‘complètement élaboré’, quindi di non avere mai diffuso niente di provvisorio né di avere, per questa ragione, concesso interviste; malgrado l’insistenza ‘doublement aimable’ di Mounier il suo nome non poteva figurare sull’Esprit7. Nel gennaio del 1937 Bergson comunicò a Mounier d’avere ricevuto copia del Manifeste au service du personnalisme (uscito nel novembre del 1936), d’averne fatta solo una prima lettura, ‘rapide et superficielle’, ma sufficiente a fargli comprendere l’importanza del libro, ricco di idee interessanti e suggestive «dont certaines, sans doute, me paraissent discutables, mais qui toutes s’inspirent d’un sentiment élevé. – Je tâcherai de vous relire, cette fois de plus près»8. Questi brevi riferimenti alla corrispondenza di Bergson con Mounier valgono a confermare il ruolo importante che la filosofia bergsoniana ha svolto nella formazione filosofica di Mounier il quale, grazie alla lettura di Bergson e Péguy e all’insegnamento di Chevalier, elaborò, com’è noto, un visione non accademica del sapere filosofico, pensato come una chiave per accostarsi alla realtà9. 5

H. BERGSON, Correspondances, cit., p. 1299. Ivi, p.1404. 7 Ivi, pp. 1406-1407. 8 Ivi, pp. 1564-1565. 9 Cfr. N. BOMBACI, Emmanuel Mounier (1905-1950). Un testimone scomodo. 6

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Ma questi riferimenti confermano anche la centralità della filosofia di Bergson nel processo di sviluppo della filosofia francese del Novecento. Nell’ambito della produzione storiografica più recente si può osservare una ripresa dell’interesse per l’opera di Bergson che viene indagata nelle sue più differenti dimensioni filosofiche, con una particolare attenzione verso l’influenza da essa esercitata in vari campi, da quello strettamente filosofico a quello letterario e scientifico. Era nota la massiccia presenza di Bergson nel dibattito francese del primo Novecento ma si sta ormai ponendo in luce la sua rilevanza in molteplici contesti culturali europei. La storiografia filosofica contemporanea ha specificato la incidenza di molte concezioni bergsoniane nello sviluppo della filosofia tedesca del primo Novecento – si pensi solo al giovane György Lukács – e su molteplici fenomeni culturali, dalla letteratura alle arti figurative. È degno di nota che il massiccio volume sul Novecento della Storia della filosofia, curata di recente da Pietro Rossi e Carlo Augusto Viano, si apre con un capitolo monografico, a firma di Stefano Poggi, dedicato a Bergson10, e in un’opera che, programmaticamente, ha ridotto al minimo i capitoli su singoli filosofi a favore di capitoli tematici. Si può concludere che il quadro del bergsonismo viene ormai ridisegnato nelle sue linee principali e cruciali. Le ricerche e le controversie intorno alla filosofia di Bergson continuano ad occupare la scena della indagine storico-filosofica. A fronte di letture convenzionali Poggi ha sottolineato l’importanza che il positivismo di Comte e quello di Spencer hanno avuto nello svolgersi del pensiero di Bergson, che era privo di aspirazioni sistematiche. Ha anche messo in luce che la ricerca intellettuale è semCenni biografici, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Nel Centenario della nascita (1905-2005), a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, Roma, LAS, 2005, vol. I, pp. 11-28. 10 S. POGGI, Bergson, in Storia della filosofia, a cura di P. Rossi, C.A. Viano, Roma-Bari, Laterza, 1999, vol. VI, pp. 3-15.

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pre stata pensata dal filosofo francese come legata ad una tradizione in cui le ragioni della pura intellettualità non avevano mai il sopravvento su quelle dell’emozione e della intuizione11. L’incremento delle conoscenze storiche sulla scienza del Novecento ha poi consentito di rileggere, sullo sfondo dei progressi della biologia, un’opera difficile e problematica come L’Évolution créatrice che, pubblicata nel 1907, era giunta alla 77a edizione nel 1948. Non è più possibile leggere il complesso della produzione filosofica di Bergson semplicemente come una sorta di reazione antiscientifica e spiritualista agli sviluppi della scienza del Novecento, in un periodo che vide, per altro, molti filosofi d’orientamento assai diverso, celebrare veri e propri processi alla conoscenza scientifica. Bergson ha polemizzato duramente contro forme di dogmatismo scientifico, ha vissuto a fondo la crisi della epistemologia d’impianto positivista e guardato con attenzione a sviluppi teorici come quelli segnati dall’orientamento pragmatista; ha fatto propria la polemica contro una visione riduzionistica, meccanicista e determinista della biologia, ha rivendicato l’attenzione per il divenire, per la spontaneità del pensiero, ha affermato la validità di una concezione qualitativa della realtà, ha sostenuto, accanto alla scienza intesa in senso fisico-matematico, la presenza imprescindibile della filosofia e la vivacità, l’attualità di esigenze ontologiche e metafisiche. Bergson guardò con attenzione agli sviluppi della scienza del suo tempo ma indubbiamente ne rifiutò alcuni concetti fondamentali per cui non è sorprendente che nelle varie edizioni della Évolution créatrice uscite sino al 1940 vi sia un grande e voluto assente, ossia Johann Gregor Mendel (1822-1884): quest’assenza suggerisce che Bergson voleva costruire non una epistemologia delle scienze della vita bensì una ontologia vera e propria che utilizzava quanto le era necessario, ossia in maniera fortemente selettiva, tra i risultati della scienza del tempo. Nel controverso quadro della filosofia bergsoniana le scienze fanno la loro comparsa a ragione di un discorso 11

Ivi, p. 15.

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ideologico che intende rivendicare, a fronte proprio delle scienze fisiche e della vita, una dimensione specifica, irriducibile al fisico, dell’individuo umano. Yvette Conry (1930-1992), che era un’acuta storica della biologia, interessata alle vicende del darwinismo in Francia12, ha offerto un’immagine suggestiva della filosofia di Bergson, caratterizzandola come una pensée che si sviluppa in maniera circolare, in cui gli inizi si ritrovano alla fine del percorso, ma all’interno del cerchio le modulazioni, i mutamenti sono continui e così fanno muovere il cerchio stesso, sottoponendolo ad una continua deformazione13. Si tratta d’una immagine che rende bene il carattere non sistematico del pensiero bergsoniano ma anche il suo continuo riferirsi a concetti precisi, elaborati alla fine dell’Ottocento, e sottoposti a instancabili affinamenti, precisazioni e confronti con l’attualità scientifica e filosofica. Se le opere di Bergson legate al confronto critico con le scienze del tempo appaiono inevitabilmente datate e meno suggestive rispetto a esigenze teoretiche del nostro tempo, i suoi lavori volti a definire la coscienza, la libertà, la tensione metafisica e i caratteri della morale e della religione, a modellare la sua antropologia, risultano di innegabile interesse storico. Servono infatti a chiarire alcuni sviluppi della filosofia francese nel corso del Novecento e a mettere in evidenza la imprescindibilità di temi legati all’immagine dell’individuo e della sua dimensione morale, ossia la questione della libertà. In questo saggio non intendo ripercorrere le fasi di sviluppo della filosofia di Bergson in relazione alla questione della libertà, voglio solo richiamare la trattazione che di questo tema Bergson 12 Y. CONRY, L’Introduction du darwinisme en France au XIXe siècle, Paris, Vrin, 1974. 13 Y. CONRY, L’Évolution créatrice d’Henri Bergson. Investigations critiques. Préface de F. Dagognet, Paris, L’Harmattan, 2000. Questo volume, uscito postumo per le cure di E. Cuvelier, riproduce un corso tenuto dalla Conry nel 1986.

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offrì nei suoi Cours di psychologie a Clermont-Ferrand nel 18871888, e a Parigi, al Lycée Henri-IV, nel 1892-1893. Questi corsi sono stati pubblicati, con una prefazione di Henri Gouhier, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso14, e questa pubblicazione non ha mancato di sollevare alcune discussioni e polemiche, forse inevitabili quando si tratta di Bergson. Adriano Pessina ne ha riconosciuto l’importanza documentaria, ma ha rimarcato che i corsi liceali hanno un approccio storico mentre nelle opere a stampa l’approccio di Bergson è di netto stampo teoretico e secondo lui non ci autorizzano ad integrare «ciò che egli ha prodotto con elementi diversi da quelli realmente impiegati»15. D’altra parte, come ho ricordato sopra, Bergson stesso ha dichiarato di avere comunicato al pubblico, tramite pubblicazione a stampa, solo ciò che riteneva compiuto e finito. Non appartengo alla comunità degli specialisti di Bergson, il mio interesse primario per la filosofia francese tra Otto e Novecento è rivolto alle discussioni epistemologiche sul significato del sapere scientifico, ma proprio a causa di questo interesse tematico è impossibile ignorare Bergson, soprattutto quell’Essai sur les données immédiates de la conscience del 1889 che segna veramente un punto iniziale, di straordinaria importanza storica, della riflessione di Bergson in campo psicologico. Documenti inediti, non destinati alla pubblicazione, che servono tuttavia a chiarire storicamente l’origine e l’articolazione della filosofia di Bergson sul pensiero e la

14

H. BERGSON, Cours. I Leçons de psychologie et de métaphysique. Clermont-Ferrand, 1887-1888. Édition par Henri Hude avec la collaboration de JeanLouis Dumas. Avant-propos par Henri Gouhier, Paris, Presses Universitaires de France, 1990. H. BERGSON, Cours II Leçons d’esthétique à Clermont-Ferrand. Leçons de morale, psychologie et métaphysique au lycée Henri-IV. Édition par Henri Hude avec la collaboration de Jean-Louis Dumas, Paris, Presses Universitaires de France, 1992. 15 A. PESSINA, Introduzione a Bergson, Roma-Bari, Editori Laterza, 1994, pp. 106-108.

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sua spontanea attività, possono esser solo salutati con favore dagli storici che desiderano ricostruire la genesi di alcuni canoni della filosofia bergsoniana. Non si tratta certo d’assegnare un qualche primato all’inedito rispetto al pubblicato dall’autore ma solo di tentare di chiarire i percorsi d’una elaborazione teorica, di un pensiero nel suo costruirsi. Il privilegiamento delle trattazioni del tema della libertà deriva dalla semplice constatazione che questo tema non cessa mai di perdere la sua rilevanza in ogni contesto filosofico e che nel caso di Bergson la ricerca e la critica al determinismo si vennero svolgendo in tempi in cui proprio la libertà individuale e politica era calpestata in tante parti dell’Europa. Nel corso di psicologia a Clermont-Ferrand Bergson dedicò tre lezioni (39, 40 e 41) alla liberté e la prima si apre con una serie di definizioni della libertà che non corrispondono esattamente al ‘sens psychologique’ del termine, ma che hanno più propriamente a che fare con il problema della volontà in filosofia. Bergson considera infatti il determinismo teologico o fatalismo, fondato sull’onnipotenza divina e sulla prescienza, e sottolinea subito l’importanza del concetto di ‘durée’, di durata, individuato come esistente solo per un essere che muta, quindi estraneo a Dio, il quale, essendo immutabile, resta «en dehors du temps, de la durée»16. Naturalmente, la negazione o l’attribuzione di una durata a Dio non risolve il problema: se tutto in Dio avviene in un istante eterno, risulta difficile ammettere la creazione di esseri dotati di una capacità decisionale successivamente alla creazione, poiché «la parola in seguito (ensuite) non ha senso per Lui»17. Con un rinvio incidentale ma esplicito a Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704), Bergson ribadisce il carattere intellettualmente arduo della conciliazione di due verità: la libertà umana e la prescienza divina. Occorre riconoscere che Dio è onnisciente, quindi presciente, che noi siamo liberi, ammesso che ab-

16 17

H. BERGSON, Cours. I, cit. pp. 255-257. Ivi, p. 256.

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biamo coscienza di esserlo, e che esiste una legge morale, un dovere al quale siamo tenuti ad obbedire in quanto esseri capaci di scelta. Ci sfuggono gli anelli intermedi della catena, possediamo solo quelli estremi, ossia prescienza divina e libertà umana18. Il problema del determinismo viene poi affrontato rispetto al dominio della ‘physique’, in quanto approccio adottato sia dai fisici sia dai fisiologi in età moderna. Bergson svolge considerazioni tradizionali sul problema del movimento dell’organismo ma rinvia anche esplicitamente alle concezioni epistemologiche di Émile Boutroux (1845-1921) sul carattere d’approssimazione delle leggi fisiche, sulla impossibilità di ammettere leggi assolutamente vere e sul ruolo che giocano le condizioni fisiche e sperimentali nella definizione di un fenomeno o processo fisico19. I riferimenti a filosofi e scienziati a lui contemporanei confermano lo sguardo attento di Bergson alla scienza e alla epistemologia del suo tempo e segnalano chiaramente che nella cultura francese di fine Ottocento il dibattito sui fondamenti della scienza fu di grande rilievo, si articolò in maniera ampia, e non può essere semplicemente liquidato come una reazione spiritualista al positivismo. In merito al determinismo la conclusione di Bergson è che si tratta di un approccio che soffre di molte eccezioni, e tra queste si rinviene la libertà umana. La questione del determinismo psicologico è per Bergson la più importante e quella che appare meritevole di una considerazione ravvicinata, quindi dettagliata. Per il filosofo francese l’uomo non decide mai in un senso o nell’altro senza ragione, «senza cedere ad una motivazione che ci sembra più considerevole delle sue rivali (sans céder à un motif qui nous paraît plus considérable que ses ri-

18 Ivi, p. 257. Il rinvio è, probabilmente, al celebre Discours sur l’histoire universelle (1681) di Bossuet. 19 Ivi, p. 259. Giova ricordare che nel 1874 Boutroux aveva pubblicato il suo fondamentale lavoro dal titolo De la contingence des lois de la nature.

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vaux)»20. Ammette che noi obbediamo al motivo più forte ma la forza dei motivi o cause è determinata dall’uomo e in questo consiste la nostra libertà:«la nostra libertà consiste precisamente, ripetiamolo, nella capacità (puissance) che possediamo di attribuire, d’assegnare (attacher) alle varie motivazioni (motifs) un valore che dipende interamente dalle disposizioni in cui ci troviamo, dalle nostre abitudini intellettuali (habitudes de penser), dal nostro carattere e dalla nostra moralità»21. L’uomo si trova in una posizione diversa rispetto all’animale perché la sua libertà proviene dal fatto che, accanto alle motivazioni all’azione derivate dalla sua sensibilità, ve ne sono altre la cui origine è nella ragione. Ora tra il piacere e il dovere non esiste una misura comune, mentre si può confrontare un piacere con un altro piacere. La libertà dell’uomo, il suo non essere schiavo delle motivazioni derivano dal suo confrontarsi con motivazioni d’ordine e di qualità differenti: il piacere, l’interesse e il sentimento stanno da una parte, il dovere dall’altra, pertanto l’obbligo morale è il fondamento della libertà umana, perché è l’idea di dovere a liberare l’uomo dalla schiavitù e dal sostrato dei suoi appetiti22. In polemica contro i deterministi Bergson affronta quindi la questione della composizione, della costituzione del carattere o personalità morale umana, che appare come il risultato di diversi fattori, alcuni dei quali indipendenti dall’uomo stesso. Le disposizioni ereditarie, le abitudini ancestrali si trasmettono, secondo quanto stabilito da particolari teorie empiriche e evoluzioniste, e formano gli istinti naturali; il temperamento ossia la costituzione fisica è un altro fattore per cui subiamo influenze e siamo schiavi di disposizioni ereditarie. Infine, l’educazione svolge un ruolo primario perché è «grazie ad essa che noi portiamo nella vita idee compiute (des idées

20

Ivi, p. 261. Ivi, p. 262. 22 Ivi, p. 263. 21

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toutes faites) alla luce delle quali giudichiamo e ci pronunciamo»23. Con gli psicologi empiristi (John Stuart Mill) Bergson riconosce che la personalità morale è il frutto di un insieme di fattori estranei nel senso che non sono prodotti da noi, ma una enumerazione dei vari fattori non può far dimenticare un elemento centrale che ciascuno possiede e del quale ha coscienza, ossia la capacità d’intervenire in un momento dato, di compiere un atto energico di volontà, di trionfare su una massa d’influenze accumulate, infine di divenire padrone di sé24. L’uomo ha coscienza della libertà, possiede nel suo esprit l’idea di libertà perché si tratta di un’idea concepita in generale dal nostro spirito. Nella sua negazione della libertà il determinista è tuttavia costretto ad ammettere che l’idea di libertà è concepibile, proprio perché la discute25. L’uomo è capace di riformare sé stesso, di resistere alle influenze fisiche e divenire virtuoso perché secondo Bergson la legge morale prova la libertà umana: l’uomo è un essere morale, dunque è un essere libero. Nel contesto di un corso liceale di psicologia alla fine degli anni ’80 Bergson aveva posto il tema della libertà, della morale sia in relazione a problemi tradizionali della filosofia, sia in relazione allo sviluppo delle teorie psicologiche nell’ambito della migliore tradizione positivista: questo tema era stato da lui considerato come centrale nella sua filosofia e nella sua visione dell’uomo. Nelle lezioni al liceo Henry-IV la questione della libertà è affrontata, nell’ambito del corso di psicologia, in una lunga lezione, la nona, che ha un andamento decisamente più organico e sistematico rispetto a cinque anni prima, com’era logico attendersi, e il panorama dei riferimenti filosofici è decisamente più ampio. Accanto a John Stuart Mill e Alexander Bain, che erano presenti nei corsi del

23

Ivi, p. 265. Ivi, p. 266. 25 Ivi, p. 268. 24

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1887, figurano anche Hippolyte Taine, Schopenhauer e, soprattutto, Kant. Non a caso la lunga sezione finale della lezione è dedicata a una discussione della dottrina di Kant, in merito al problema della causalità e della libertà. Qui Bergson traccia un vero e proprio grafico delle relazioni tra io noumenico (moi nouménal), carattere intellettuale (caractère intelligible), temporalità (temps) e carattere empirico (caractère empirique): l’io noumenico crea il proprio carattere intellettuale al di fuori del tempo, ma l’intelletto e l’immaginazione assistono allo sviluppo di questo carattere nel tempo, e le facoltà conoscitive vedono il riflesso dell’io noumenico nel tempo, per cui il nostro io è natura dal punto di vista della conoscenza e libertà dal punto di vista dell’azione26. In tal modo, secondo Bergson il rapporto tra libertà e necessità in Kant prevede la necessità come elemento indispensabile della scienza e la libertà come elemento determinante della morale.27 Non posso soffermarmi su questa lettura bergsoniana di Kant, ma mi premeva sottolineare questa nuova presenza nella discussione di Bergson. La lezione sulla libertà si apre con queste affermazioni: «La parola libertà possiede due sensi. S’intende per libertà morale o libertà di perfezione lo stato di un’anima liberata da ogni passività, ossia da ciò che c’è d’inferiore nella sensibilità, e che è agente in virtù della sola ragione. La libertà così intesa coincide con la moralità: si tratta di un ideale proposto all’attività umana. In un altro senso, assai prossimo al primo libertà significa scelta e soprattutto scelta intelligente. Libertà diviene allora sinonimo di libero arbitrio, cioè l’attributo di un essere i cui passi e azioni sono, al meno parzialmente, indeterminati e persino indeterminabili. Che questa libertà di scelta sia necessaria alla realizzazione della libertà morale, è evidente da subito, di modo che il libero arbitrio potrebbe essere considerato il mezzo il cui fine è la libertà morale»28. 26

H. BERGSON, Cours, cit., II, pp. 256-263. Ivi, p. 263. 28 Ivi, pp. 241-242. 27

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Da questo esordio risulta chiaro che con questa lezione Bergson intendeva affrontare una serie di problemi appartenenti alla dimensione morale e alla dimensione epistemologica. Come già a Clermont-Ferrand l’esposizione si articola, senza tuttavia nessun riferimento alla questione teologica, sul registro del determinismo fisico, che nega il libero arbitrio in nome della legge della causalità, e del determinismo psicologico che è fondato sulla connessione necessaria dei fatti interiori. La trattazione di Bergson prende le mosse dal determinismo fisico, individua le modalità del passaggio da questo determinismo a quello psicologico. In questo passaggio si indica che il progresso scientifico ha mostrato sempre più la «necessità di scienze speciali e distinte aventi ciascuna il proprio metodo, il proprio oggetto e i propri postulati»29. In tal modo Bergson può affermare che non esiste la scienza, esistono bensì le scienze e al modello fisico-matematico devono essere affiancati altri modelli di sapere possibile. Nella sezione sul determinismo psicologico si afferma perentoriamente che la «réfutation du déterminisme doit être demandée à la psychologie»30. Nell’esposizione di questa confutazione Bergson si sofferma sul carattere specifico, peculiare dei fatti psicologici: gli elementi chimici sono realtà perché possono esistere separatamente, mentre un elemento psicologico è solo un’astrazione. Non solo quest’elemento non ha un’esistenza separata ma l’astrazione è in grado di separarlo dal suo contesto solo al prezzo di snaturarlo perché l’elemento psicologico deriva i suoi riflessi e la sua coloritura, la sua stessa vita da tutto il rimanente della vita interiore. Se i fatti psicologici più vicini alla vita fisica non scompaiono senza lasciare traccia e arricchiscono la vita interiore, tanto più questo processo sarà cruciale per gli stati psicologici profondi dell’anima che precedono le decisioni

29 30

Ivi, pp. 246-247. Ivi, p. 251.

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importanti: questi stati formano la nostra personalità e da essi emergono le azioni che qualifichiamo come azioni libere31. La conclusione di Bergson è netta: la vita psicologica è un progresso continuo e indiviso e ogni stato psicologico è incommensurabile rispetto ad un altro: «Un esame attento degli stati interiori ci svela da un lato il progresso continuo e indiviso della vita psicologica, dall’altro l’incommensurabilità di ogni stato psicologico rispetto a quelli che lo precedono. Questo stato è incommensurabile rispetto ad essi nel senso che non esiste una misura comune tra di loro, non esiste una comparazione a partire dal susseguente che permetta, dati gli antecedenti, di prevedere l’atto. Quest’ultimo è, in una certa misura, indeterminato rispetto agli antecedenti che ne sono le cause, e la causalità di cui si tratta non è per nulla una causalità fisica»32. Attraverso la confutazione del determinismo associazionistico Bergson giunge ad una riaffermazione della libertà individuale, alla specificazione del carattere irriducibile della vita psicologica, che implica un’assoluta irriducibilità della psicologia alla fisiologia. Vale la pena di notare che i riferimenti di Bergson alle scienze in senso stretto sono precisi, ma l’affermazione generale che ogni disciplina scientifica, cioè conoscitiva, possiede peculiarità epistemologiche che la differenziano da un’altra serve a caratterizzare la psicologia come scienza e ad aprire uno spazio ampio di possibilità. Tutte le scienze dello spirito, le Geistwissenschaften si presentano come scienze proprio a causa della specificità dei loro contenuti e dei loro metodi. La difesa della libertà da parte di Bergson si traduce nella considerazione filosofica del problema morale e nella proposta di un vero e proprio pluralismo epistemologico. È indubbio che le lezioni di Bergson servono a chiarire i percorsi storico-genetici della sua riflessione in ambito filosofico, dall’eti-

31 32

Ivi, pp. 253-255. Ivi, p. 256.

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ca all’estetica, dalla psicologia alla metafisica. Occorre tuttavia guardare alle sue grandi opere per individuare i canoni della filosofia bergsoniana rispetto a questi argomenti che si configurano come parti di un sapere filosofico dinamico. In questo saggio intendevo richiamare l’attenzione, in maniera sommaria e schematica, sull’importanza storica della riflessione epistemologica, nella Francia tra Otto e Novecento, intorno al problema della scienza nei suoi rapporti con la filosofia, ribadire tout court la centralità storico-filosofica dell’opera di Bergson, destinata a grande e duratura influenza, e richiamare i passi iniziali della sua riflessione sul tema della coscienza e della libertà. Le sue lezioni a Clermont-Ferrand e a Parigi indicano e chiariscono come la critica dei determinismi fosse per Bergson un capitolo centrale di una visione dell’uomo, come creatura fisica e morale che è dotata di libertà e può possedere una coscienza viva di questa libertà.

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E. MOUNIER NELLA PEDAGOGIA ITALIANA DEGLI ANNI CINQUANTA E SESSANTA Giuseppe Serafini

1. Mounier e l’educazione L’educazione è elemento costitutivo dell’impegno, della testimonianza, della riflessione di Mounier. C’è in lui un’indubbia «vocazione» all’educazione1, che è conseguenza pressoché inevitabile quando si ha, come egli ha ed esprime, una profonda tensione, attenzione, passione per l’uomo: per ciascun uomo come persona – «il volume totale dell’uomo» – con le dimensioni che lo connotano: incarnazione, vocazione, comunione2. Ciascuna delle tre dimensioni (profondità, lunghezza, larghezza) richiama l’educazione. Ognuno di noi, sottolinea Mounier, è corpo tutto intero e spirito tutto intero. La nostra esistenza incarnata è fattore essenziale al nostro modo di essere personali. Il nostro corpo «non è un oggetto tra gli oggetti, il più vicino tra tutti». Nessuno può essere senza il suo corpo. Esso è «il mediatore onnipresente della vita dello spirito»3.

1

Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, vol. II, Roma, Las, 2005, p. 233. 2 E. MOUNIER, Rivoluzione personalistica e comunitaria, trad. it., Milano, Edizioni di Comunità, 1949 (1935), p. 82. 3 E. MOUNIER, Il personalismo, trad. it., Roma, AVE, 2004 (1949), p. 51.

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L’essere in un corpo – «indivisibilmente carne e spirito»4, l’uno disperso nell’altra «come il vino si mischia con l’acqua»5 – chiede attenzioni, condizioni, anche sul piano educativo. Ciascuno deve essere, infatti, aiutato a prendere atto di ciò sino a svilupparne una profonda consapevolezza perché il non conseguirla «significa condannarsi in precedenza all’insuccesso; chi vuol essere solo angelo diventa bestia». Il problema non sta «nell’evadere dalla vita sensibile e particolare, che si svolge tra le cose, in seno a società limitate, attraverso gli avvenimenti, ma nel trasfigurarla»6. Se l’essere in un corpo esige l’educazione, ancor più la chiede la necessità che ad ognuno sia concessa la possibilità di avvertire l’appello che dall’intimo «esorta ad andare indefinitamente ad li là» di se stesso7, a costruirsi, realizzarsi, esprimersi in pienezza, libertà, autenticità, a muoversi, in altre parole, lungo un sentiero/processo di liberazione, scoperta, decisione, adesione ad universi di significato, che permettano di delineare, portare a compimento, costantemente vivificare un progetto di sé non effimero e che consenta di vivere e esprimersi in maniera umanamente congrua. L’educazione, sottolinea in modo efficacissimo Mounier, non ha per scopo di «foggiare il fanciullo al conformismo di un ambiente sociale o di una dottrina dello Stato. Non si potrebbe neanche assegnarle come fine ultimo l’adattamento dell’individuo sia alla funzione che egli assumerà nel sistema delle funzioni sociali, sia al ruolo che si intravede per lui in un sistema qualunque di relazioni private». Essa non riguarda «essenzialmente il cittadino, né il mestiere, né la figura sociale». Non ha «per funzione principale quella di fare dei cittadini coscienti, dei buoni patrioti, o dei piccoli fascisti, o dei piccoli comunisti, o dei piccoli uomini di mondo. Essa ha 4

E. MOUNIER, Rivoluzione personalistica e comunitaria, cit., p. 85. E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, trad. it., Bari, Ecumenica Editrice, 1982 (1936), p. 121. 6 E. MOUNIER, Rivoluzione personalistica e comunitaria, cit., p. 83. 7 Ivi, p. 82. 5

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la missione di promuovere delle persone capaci di vivere e di impegnarsi come persone»8. Nel senso indicato, l’educazione può anche allora propriamente intendersi come «apprendistato della libertà», che proprio in quanto tale ridimensiona e delegittima ingiustificate pretese delle famiglie e dello stato9. La pienezza e l’autenticità umana non si conseguono, però, secondo Mounier, prescindendo dalla terza dimensione fuor della quale quella (dimensione) precedente diviene estremamente precaria. La persona «non raggiunge se stessa se non dandosi alla comunità superiore che chiama ed integra le persone singole»10. Il primo compito – la «prima missione» – di ogni uomo è proprio quello di scoprire il «suo posto e i suoi doveri nella comunione universale»11: di uscire, dunque, da sé, disponendosi a incontrare l’altro e a comprenderlo, a farsi carico dei suoi problemi e dei suoi affanni, a donarsi gratuitamente e amare l’altro, a impegnarsi con lui nella costruzione di una civiltà personalistica e comunitaria12. La comunità – e utilizzo volentieri il rilievo di Ada Lamacchia che introduce il Manifesto – «nasce allora in una tensione etica tra due persone e si realizza nella misura in cui si realizzano le persone, o meglio in virtù della loro costitutiva capacità di conoscersi come alterità e di responsabilizzarsi nella partecipazione ad una vita comune»13. È sin troppo evidente come le prospettive e i compiti indicati le-

8 E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, cit., pp. 159-160. 9 Ivi, p. 165. 10 E. MOUNIER, Rivoluzione personalistica e comunitaria, cit., p. 83. 11 Ivi, p. 82. 12 Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 59 e seg. 13 A. LAMACCHIA, Introduzione a E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, cit., p. 31.

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gittimino e invochino l’educazione. La rivoluzione che si auspica e si sollecita, dunque, la realizzazione di una civiltà personalistica e comunitaria passano in modo cospicuo proprio attraverso l’educazione e in maniera assai più decisiva di quanto non avvenga nei mutamenti che si giustificano, si preparano, si realizzano e permanentemente si perseguono nel versante del marxismo. L’uomo nuovo, al quale affidare gli obiettivi indicati, Mounier non lo attende tanto e soltanto dal cambiamento delle strutture esterne, che, tuttavia, «possono favorire o ostacolare», bensì anche e in modo speciale «da una tensione personale», dall’appello alle forze più intime dell’uomo, che immediatamente rimanda all’educativo14. A me pare che all’educazione egli riconosca una forza rivoluzionaria che è in larga misura estranea al marxismo. E, perciò, anche in questo le differenze significative con un pensiero, con un movimento, con un impegno, verso i quali avverte una fortissima attrazione soprattutto per la denuncia di un mondo e di una civiltà15 pure se poi non può fare a meno di prendere le distanze da un «ottimismo collettivo che nasconde un pessimismo radicale della persona. Tutta la dottrina dell’alienazione presuppone che l’individuo sia incapace di trasformarsi esso stesso, incapace di sfuggire alle sue proprie mistificazioni»16. Al marxismo appartiene un «disprezzo congenito della persona», mentre invece la «persona è la sola responsabile della sua salvezza, e… ad essa sola compete la missione di sostenere lo spirito là dove è stato misconosciuto»17. Il marxismo – continua ancora Mounier in Che cos’è il personalismo? – trascura dimensioni essenziali dell’uomo: in particolare «l’interiorità e la trascendenza»18. 14

E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, cit., p. 65. Ivi, p. 64. 16 Ivi, pp. 112-113. 17 Ivi, p. 113. 18 E. MOUNIER, Che cosa è il personalismo?, Torino, Einaudi, 1975 (1947), p. 15

18.

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I rilievi critici nei riguardi di un punto di vista non spingono il nostro a tornare a dar credito a quello spiritualismo che ha trascurato e trascura gli aspetti economici e politici19, come non lo convincono a tacere gli equivoci di tanta educazione cristiana che ha sollecitato e sollecita un umanesimo che sembra trarsi dal mondo, dalla lotta, che teme di sporcarsi le mani20. Quanto di questo Mounier, del suo messaggio, della sua visione dell’educazione ha una qualche eco nella pedagogia italiana del secondo dopo guerra? Quanto i suoi scritti sono stati fonte a cui attingere per la riflessione pedagogica di quella stagione? Quanta prossimità, almeno, di preoccupazioni, di analisi, di prospettive c’è stata? E tutto questo è da riferire solo a quel filone di ricerca che si riconosce in una visione cristiana dell’uomo e, dunque, dell’educazione? Non c’è almeno vicinanza di preoccupazioni e di prospettive anche con altre pedagogie? 2. L’ambito della pedagogia cristiana Se si rimane agli anni cinquanta e sessanta, Mounier non appare una delle fonti alle quali si attinge in modo particolarmente significativo neppure nell’ambito della pedagogia cattolica nel nostro paese. Ben più cospicui ed importanti appaiono i richiami – in riferimento alla cultura francese – a Maritain. Ma non mancano le eccezioni. Gaetano Santomauro, già in pagine che risalgono al 1952, ricorda Mounier come uno dei protagonisti nel quadro dei diversi e differenti personalismi cristiani. Ci sono infatti una molteplicità di personalismi con «una diversità di accenti, una varietà di toni, delle parti-

19 20

Ivi, pp. 18-19. Ivi, pp. 34-35.

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colari puntualizzazioni, delle significative evidenze, che esprimono istanze e preoccupazioni, la cui validità storica e pedagogica, la cui densità psicologica non debbono essere trascurate o svalutate»21. Ma è qualche anno più tardi, in una delle opere più significative di Santomauro, che Mounier diventa una delle principali fonti di ispirazione ed analisi. Mi riferisco a Per una pedagogia in situazione dove egli traccia le linee di una pedagogia engagée, «inserita nella trama delle forze tecnologiche, ideologiche e culturali, operanti in un determinato contesto sociale e tendenti molto spesso a strumentalizzare ogni visuale axiologica e deontologica, a risolvere la stessa pedagogia in un discorso meramente ideologico o sociologico o storicistico o pragmatico…»22. Una pedagogia che accetti di «“avventurarsi” e di “compromettersi” nel mondo, non per smarrirvisi o per risolversi in una semplice “ratifica” dell’ordine costituito o per aderire massivamente all’incessante e torbido divenire delle cose e delle situazioni, ma per “decifrare” meglio certi sensi, certi problemi e certe richieste del mondo, per affermare in esso più energicamente e distesamente la forza costruttiva e liberatrice della “legge” educativa e per promuovere più efficacemente la valorizzazione del mondo, elevandone la misura umana, in tutta la ricchezza e la varietà delle sue espressioni»23. Proprio la “misura umana”, mentre impedisce al discorso pedagogico di essere «interamente “situato” o totalmente “chiuso”»24, esige che esso possegga «una vigorosa carica morale e un’energica forza di contestazione dei fatti e delle situazioni»25. A proposito della carica morale, conviene accennare, anche se

21

G. SANTOMAURO, Persona e comunità nella pedagogia integrale, in Pedagogia della persona, Brescia, La Scuola, 1952, p. 71. 22 G. SANTOMAURO, Per una pedagogia in situazione, Brescia, La Scuola, 1967, p. 24. 23 Ivi, pp. 24-25. 24 Ivi, p. 82. 25 Ivi, p. 83.

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va oltre i limiti imposti dal discorso, come Santomauro faccia appello ai principi fondamentali del personalismo cristiano che può «ispirare un’etica rispondente alla nostra effettiva condizione ontologica ed esistenziale, indefinitamente aperta e sensibile alla vicenda storica e mondana dell’uomo e capace di lievitare dall’interno il nostro mondo contemporaneo e di sospingerlo verso traguardi sempre più autenticamente umani, segnati dalla libertà, dalla giustizia e dallo spirito di fraternità e di pace»26. Santomauro, dunque, non pensa affatto ad una pedagogia in situazione come ad un discorso meramente pragmatico o ad una pedagogia engagée nel suo «significato ormai logoro di un’attività culturale che partecipa direttamente alla “lotta politica per la trasformazione della società”», anche se non prescinde «dalla componente politica di un contesto situazionale» né esclude il «momento della denuncia e della protesta»27. Quanto al pedagogista, poi, egli lo prefigura come intellettuale e ricercatore che ha deciso di «servire la causa dell’uomo, sia partecipando al movimento di crescita e di espansione dell’universo personale, come universo di libertà, di consapevolezza, d’impegno, di attività costruttiva e creativa, sia approfondendo il significato e il valore della presenza dell’uomo nel mondo, sia denunziando la irrazionalità di certe situazioni frustranti e di certe prospettive alienanti, sia reagendo ad ogni tentativo di strumentalizzazione politica, ideologica o produttiva dell’uomo, sia collocando il proprio lavoro nella luce di una “scelta” e di un “compito” aventi una profonda sostanza etica»28. Una sintonia molto forte – avvertibile e dichiarata – con i fondamenti della filosofia dell’educazione di Mounier è nelle pagine introduttive, che Giuseppe Catalfamo scrive nell’ottobre del 1957, al suo Personalismo pedagogico. Un personalismo che alla manie-

26

G. SANTOMAURO, L’educazione morale oggi, Bari, Adriatica, 1974, p. 8. G. SANTOMAURO, Per una pedagogia in situazione, cit., p. 105. 28 Ivi, pp. 105-106. 27

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ra di Mounier è presentato come esigenza, problema e prospettiva più che come sistema29. Un personalismo che al pedagogista siciliano appare come un problematicismo che però «non si consuma nella snervante circolarità del “puro problema” e della problematizzazione infinitamente avvolgentesi su se stessa come il passo di una vite senza fine»30 e che al contrario è affermazione «che la persona è valore radicato nella trascendenza; che la persona è una realtà primaria nell’ordine esistenziale»31. Al personalismo riconosce il compito di svolgere «il valore della persona, affermarlo, realizzarlo interamente in ogni aspetto della vita». Un compito che gli appare tutt’altro che pacifico o di poco conto consapevole com’è che la «persona è intimamente dilacerata e combattuta tra l’ideale e l’esistenziale» e sperimenta una «sofferenza esistenziale, che è la sofferenza dell’intervallo in cui la persona è gettata tra la “determinazione” e il “valore”, tra il “valore” e l’“antivalore”»32. L’istanza dell’emancipazione e valorizzazione dell’uomo da perseguire ad ogni livello – compreso quello educativo-scolastico – spiega il perché delle simpatie del personalismo (e di Catalfamo) per il marxismo verso il quale mostra una «compresiva apertura», pur «svolgendone una critica talvolta intransigente»33. La sottolineata dimensione di problematicità (che è altro dal problematicismo bertiniano che in quegli anni va delineandosi e con il quale Catalfamo fa i conti) è da far valere interamente nell’ambito del pedagogico, dal quale deve emergere con tutta chiarezza il rischio d’insuccesso, al quale è costantemente esposta l’educazione. Del «problema pratico di educare non ci sono soluzioni scontate» 29

Cfr. G. CATALFAMO, Personalismo pedagogico, Roma, Armando, 1964 (1957), p. 6. 30 Ivi, pp. 6-7. 31 Ivi, p. 7. 32 Ibidem. 33 Ivi, p. 8.

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perché il rapporto educativo è incontro di due libertà e perché l’altro (l’educando) «pone ognora dei “dati” nuovi, non previsti e non prevedibili, quantunque supponibili»34. La dimensione di problematicità è elemento che rimane costante anche nelle opere più vicine all’oggi, nelle quali il personalismo storico di Catalfamo si allontana da quello di Mounier, almeno sul piano della filosofia della persona. Infatti, mentre per quest’ultimo l’uomo è persona sin dalla sua «esistenza più elementare»35, per Catalfamo, invece, la persona è ciò che mi e ci attende: un da farsi, un valore da realizzare, proprio attraverso l’educazione . Gli scritti di Mounier sono punto di riferimento sicuro anche per la ricerca di Marcello Peretti già negli anni sessanta. Egli, infatti, individua nelle opere del filosofo francese una delle «più significative basi critiche» – l’altra è Luigi Stefanini – di quel personalismo36 che riconosce ciascun essere umano (in quanto persona) come «soggetto di vita spirituale», dunque, capace di «libera azione, causata da scelte autonome»37. In quanto libera e autonoma, la «persona è necessariamente singolare»38, appartiene solo a se stessa e «ricava da se stessa le proprie singolari connotazioni»39. Nell’uomo la spiritualità «è connaturata in un corpo materiale»: «spirito e corpo si costituiscono come principi, appartenenti a due ordini diversi unitariamente operanti: la libera volontà dell’uomo non agisce per atti di pura spiritualità, ma sotto condizione e per mezzo delle funzioni fisiche del corpo, sulle quali la persona può 34 G. CATALFAMO, I fondamenti del personalismo pedagogico, Roma, Armando, 1966, p. 103. 35 E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 51. 36 M. PERETTI, La personalità della donna e il problema della sua educazione, Brescia, La Scuola, 1961, p. 279 (nota n. 12). 37 Ivi, p. 36. 38 Ibidem. 39 Ivi, p. 37. 40 Ivi, p. 39.

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mantenere... la sua signoria»40. La sottolineata categoria della singolarità, si premura di avvertire Peretti, «non è affermazione individualistica» perché «l’identità della persona non rifiuta, ma esige la molteplicità dei singoli, voluta come affermazione del suo atto di vita, che, in tal modo, si manifesta come atto di vita donante, come vincolo d’amore»41. La comunità personalistica, così come Mounier la delinea, è la prospettiva alla quale si apre la riflessione di Peretti, che ben evidenzia tutta la significatività del rapporto tra gli esseri umani, rapporto nel quale la «libera e originale affermazione» dell’uno nulla toglie all’affermazione dell’altro. La reciprocità, infatti, «della presenza tra persone non è intreccio di limiti, ma incontro di libertà» disponibili alla solidarietà e dalle quali è da attendere «quella comunità di risultati e di beni», che è fonte unica di arricchimento per ciascuno42. Già l’ultima sottolineatura lascia intuire il significato che Peretti attribuisce all’educazione. Un significato che non si discosta da quelli che emergono dall’ampio alveo della riflessione personalistica. Senza l’educazione, evidenzia il nostro, l’essere umano non riuscirebbe ad elevarsi dal piano naturalistico e «la mera spontaneità istintiva costituirebbe il fattore predominante e soverchiante nell’esplicazione della sua vita»43. La formazione della personalità «è il fine specifico dell’educazione», che «si consegue con l’esercizio di tutte le funzioni della persona, la quale, mediante l’attività educativa, si abilita progressivamente a organizzare la propria vita secondo gli ideali proposti dalla forma migliore della natura umana, che 41

Ivi, p. 37. M. PERETTI, Il concetto di cultura educativa. Saggio di pedagogia teoretica, Brescia, La Scuola, 1965, pp. 57-58. 43 M. PERETTI, La personalità della donna e il problema della sua educazione, cit., p.15. 44 Ivi, p. 145. 42

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trova nei valori universali la sua più legittima ispirazione»44. Una qualche prossimità con le analisi di Mounier a me pare che possa essere rilevata nella riflessione di Aldo Agazzi che pure non gli concede attenzioni particolari, almeno negli scritti che ho potuto controllare. Se si debbono rilevare differenze – forse più sfumature che differenze reali – intorno ai concetti di ‘persona’ e ‘individuo’ non si possono, poi, non sottolineare non poche sintonie intorno all’idea di ‘personalità’: intesa da Mounier come la risultante provvisoria dello sforzo di personalizzazione45 e da Agazzi come compiutezza e concretezza umana46. Se accanto a questo si dà evidenza ad alcune sottolineature, quale quella di un’attenzione tutta particolare che Agazzi sollecita – sin dal Saggio sulla natura del fatto educativo – alla storicità dell’essere umano e alla possibilità per lo stesso di essere «autore e soggetto di civiltà e di cultura»47, nelle quali realizza davvero la propria umanità, forse non si è lontanissimi dalle preoccupazioni di Mounier e dai compiti che egli affida all’educazione, anche se, certo, nelle pagine di Agazzi (almeno quelle che ho ricordato) non è facile trovare quella carica che pervade tutta l’opera di Mounier. Carica che invece è presente in molti degli scritti di Agazzi soprattutto in quelli nelle riviste: particolarmente in «Scuola e didattica», dove non di rado egli non usa affatto toni concilianti e pacati e dove prende corpo una pedagogia che si guarda bene dall’essere «vuota di concretezze», «puramente declamatoria»48. Meno ‘compromessa’ con le concretezze appare, invece la peda45

Cfr. E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, cit., p. 126. 46 Cfr. A. AGAZZI, “Intervento”, in La mia pedagogia, Padova, Liviana, 1972, p. 38. 47 A. AGAZZI, Saggio sulla natura del fatto educativo in ordine alla teoria della persona e dei valori, Brescia, La Scuola, 1951, p. 21. 48 A. AGAZZI, “Intervento”, in La mia pedagogia, cit., p. 38.

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gogia di Giuseppe Flores d’Arcais, l’altra delle figure di riferimento del personalismo pedagogico italiano di quegli anni. Le sue preoccupazioni e attenzioni, anche nei decenni successivi, sono soprattutto alle questioni di fondamento e non alle urgenze ed emergenze delle quali si fanno carico, anche se in stagioni differenti, le analisi di Mounier. La medesima cosa può essere detta per Giovanni Calò e Mario Casotti, che personalisti non sono, ma che esprimono al pari degli altri e con gli altri un’identica attenzione e tensione alla persona. La densa vibrazione che si avverte in Mounier si può trovare in Mario Mencarelli, ma non certo in quello prima degli anni settanta, anche se è del 1964 la sua prima seria analisi sui temi dell’educazione permanente, che di per sé sollecitano in direzione dell’impegno – e lo solleciteranno più avanti – e non solo di ricerca. 3. La pedagogia laico-problematicista e quella marxista Non c’è soltanto un personalismo cristiano, avverte Mounier in apertura a Il personalismo49. Ci sono personalismi non cristiani nell’ambito della pedagogia degli anni cinquanta e sessanta nel nostro paese? Non mi avventuro in una risposta. Certo è, però, che se si fa «dell’esistenza di persone libere e creatrici» il nucleo centrale di un punto di vista50 e se si sottolinea che il personalismo è costitutivamente comunitario51 allora una qualche prossimità con alcune riflessioni la si può anche cogliere. E penso soprattutto a Lamberto Borghi e Giovanni Maria Bertin. In Borghi è da evidenziare lo sforzo di armonizzare esigenze in-

49

E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 28. Ibidem. 51 Ivi, pp. 60-61. 50

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dividuali e sociali, infatti, il «vero individuo è l’essere umano socievole e la vera società è l’unione armonica degli individui»52. Da questo ne consegue, sul piano educativo, la necessità di perseguire finalità individuali e sociali, che sono da intendere non come «formazione di individui imbevuti di un determinato credo sociale e plasmati a foggia dei loro maggiori» e neppure di «individui in sé conclusi e tra loro antagonisti», bensì come formazione piena dei poteri di ciascuno e come formazione dell’attitudine alla collaborazione e all’accomunamento53. Dunque, educazione di soggetti in grado di «portare un contributo allo sviluppo ulteriore di se stessi e di contribuire allo sviluppo degli altri, capaci, cioè, di istituire profondi legami con gli altri e di sentire l’unità profonda della propria persona con una realtà e una società sempre più vaste, nel tempo e nello spazio, in un processo di universalizzazione»54. L’ultima indicazione, che è quella di un’educazione che promuova la capacità di conquista dell’universalità – «sia attraverso la fondazione di rapporti umani che non escludono nessun uomo, né vivente al presente, né gia vissuto o nascituro, sia attraverso l’organizzazione intellettuale del mondo oggettivo..., sia attraverso quello sforzo di valorizzazione e idealizzazione di tutta l’esistenza in ogni suo particolare momento della vita nostra e della vita dell’universo in cui il pensiero assume un aspetto religioso»55 –, non ci porta 52 L. BORGHI, L’educazione e i suoi problemi, Firenze, La Nuova Italia, 1963 (1953), p. 7. 53 Ivi, pp. 7-8. 54 Ivi, p. 8. 55 Ivi, p. 15. Quanto alla idea religiosa evocata da Borghi, questa appare allo stesso «come un principio euristico, regolativo e non costitutivo della nostra esperienza; e la finalità religiosa dell’educazione va collocata negli sforzi intesi a rendere sensibili gli animi dei giovani all’idea di una interiorità spirituale come garanzia e guida del loro intimo accomunamento con tutti gli altri e all’idea di un’unità dinamica di reale e di ideale in cui si sostanziano gli sforzi dell’uomo diretti a introdurre ordine e ragione nel mondo» (Ivi, p. 17).

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molto distanti dalle sollecitazioni raccolte in Mounier. E ciò perché la prospettiva delineata, che obbliga almeno a ricordare anche Aldo Capitini, mira alla celebrazione piena dell’essere umano e a cercarla nella comunione di una società fraterna. Quanto a Bertin, l’indicazione di un umanesimo della ragione, del coraggio, della disponibilità, dell’impegno, tutto teso a realizzare comunità autentiche56, non mi pare che contrasti con i temi del messaggio mouneriano. Però, lascia spazio a perplessità – e dunque lascia immaginare una distanza non di poco conto da Mounier – la figura dell’‘uomo disponibile’ che non si vede come possa essere veramente tale senza che siano fatti salvi i diritti della soggettività e di una soggettività non patologica e autenticamente libera. E non può, ancora, non sollecitare interrogativi l’opposizione di questa figura a quella dell’uomo razionale che pare non tradire se stesso solo nella direzione di un insuperabile relativismo, che tuttavia sembra disposto e disponibile alle possibilità offerte dalle differenti direzioni (tra le quali non manca quella indicata da Mounier) le quali, però, paiono divenire problema nell’istante stesso in cui le si sceglie57. Venendo alla pedagogia marxista, mi sembra che le differenze (con il marxismo) sottolineate in precedenza nel riferimento agli scritti di Mounier, siano tutte da riconfermare nel confronto con una delle fonti più significative della pedagogia marxista in Italia. Mi riferisco a Mario Alighiero Manacorda al quale si deve, a cominciare dagli inizi degli anni sessanta, un lavoro in profondità sui testi marxiani e marxisti proprio al fine di ricavarne una pedagogia. Una pedagogia (il rilievo è relativo alle analisi di Marx) che, «nell’obbiettivo della reintegrazione della persona» non può non escludere 56

G.M. BERTIN, Introduzione al problematicismo pedagogico, Milano, Marzorati, 1951, p. 35 e seg. 57 Per il confronto di Bertin con le analisi di Mounier si vedano: G.M. BERTIN, Etica e pedagogia dell’impegno, Milano, Marzorati, 1953, p. 211 e seg.; G.M. BERTIN, Educazione alla ragione, Roma, Armando, 1975 (1968), p. 284 e seg. e p. 382-383.

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«ogni pedagogia individualistica» e legare il «processo pedagogico al processo generale della società, come processo insieme oggettivo e rivoluzionario», ponendo «un rapporto immediato tra educazione e rivoluzione»58. In un ambito di coerenza marxista mi pare che rimangano anche gli scritti di Francesco De Bartolomeis di fine anni sessanta e inizi anni settanta, anche se l’analisi che conduce porta evidenti segni di originalità. E coerenza piena con il marxismo è quella che si ritrova nelle pagine, della prima metà degli anni settanta, di Angelo Broccoli59.

58 M.A. MANACORDA, Il marxismo e l’educazione. Testi e documenti: 18431964, vol. 1°, I classici: Marx, Engels, Lenin, Roma, Armando, 1964, p. 10. 59 Di F. De Bartolomeis di vedano: La ricerca come antipedagogia, Milano, Feltrinelli, 1969; Scuola a tempo pieno, Feltrinelli 1972. Di A. Broccoli si confronti particolarmente: Ideologia e educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1974.

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LA «VERTIGINE DELLA PROFONDITÀ» «INTERIORIZZAZIONE» ED «ESTERIORIZZAZIONE» COME «SISTOLE E DIASTOLE» DELLA PERSONA IN EMMANUEL MOUNIER Silvio Morigi La domanda che non si inchioda più di fronte al mistero perde stupidamente la propria esistenza nella risposta. KARL JASPERS Il mistero ama la luce. EMMANUEL MOUNIER

Nietzsche, Max Scheler e Mounier Circa la dialettica di intériorisation/extériorisation, che per Mounier fonda l’autentico épanouissement (fiorire, sbocciare) della persona, ritengo utile esplorare, in breve, preliminarmente, questo tema in due autori, Nietzsche e Max Scheler, che nutrono profondamente il pensiero di Mounier: anche se, in questo caso, dovremo constatare un suo scarto decisivo nei loro confronti. Di Nietzsche, Mounier dà una lettura fortemente simpatetica e critica al tempo stesso. La sua presenza nella scrittura mounieriana è rilevante quasi quanto quella di Kierkegaard; anzi, pare che spesso Mounier esplori in Nietzsche profondità kierkegaardiane, e in Kierkegaard tonalità nietzscheane. Anche Denis de Rougemont (amico di Mounier, e tra i fondatori di Esprit), in una pagina del suo Journal d’un intellectuel en chômage del 1937, accomuna Kierkegaard e Nietzsche, contrapponendo all’‘orizzontalità’ di un razionalismo paralizzante (che anche Mounier qualifica come «la pigrizia e il temibile accecamento delle pseudo-essenze») una loro comune ‘verticalità’ da «uomini in piedi, uomini in cammino»1. Quanto a 1

E. MOUNIER, Introduction aux existentialismes (1947), in Œuvres, Paris, Du

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Max Scheler, il debito del personalismo francese nei suoi confronti (attraverso la mediazione di Paul-Luis Landsberg), è rilevante. Già negli anni ’10, negli ultimi capitoli di Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, egli aveva delineato la nozione di Gesamtperson (persona totale). E la critica di Mounier al liberalismo borghese richiama, per molti aspetti, quella di Scheler al Bürgertum; e il comunitarismo mounieriano si riconnette (oltre che a Proudhon, Peguy e all’istituzionalismo di G. Gurvitch) all’organicismo politico di Scheler (e anche di F. Tönnies, con la sua distinzione tra ‘comunità’ e ‘società’, Gemeinschaft e Gesellschaft). Anche se Mounier, con una sapiente distillazione, depura l’organicismo scheleriano da certi suoi tratti aristocratici e gerarchici, connessi ad un medievalismo nostalgico2. Ma partiamo da Nietzsche. In molte sue pagine l’interiorità, l’interiorizzazione non sembrano rivestire alcun valore per la «salute»,

Seuil, 1961-1962, III, trad. it. Bari, Ecumenica, 1981, p. 144; DENIS DE ROUGEMONT, Journal d’un intellectuel en chômage, Paris, Albin Michel, 1937, trad. it. Roma, Fazi, 1997, p. 125 («Del razionalismo considerato come la filosofia degli scapoli – degli stati maltusiani, e della classe dei pensionati e dei privilegiati… Il razionalista ideale è l’uomo disteso; tutt’al più l’uomo seduto. Colui che si fa servire. Ma forse sono stato ingiusto con gli scapoli. Ve ne furono almeno due che furono “uomini in piedi”, uomini in cammino. Nietzsche al di sopra di Genova e sulle rive dei laghi dell’Engadina, Kierkegaard chiacchierando sull’Ostergarde a mezzogiorno, o misurando a grandi passi le stanze illuminate del suo appartamento a Copenaghen, nelle sue notti geniali, piene di sghignazzate e di preghiere. Pensavano camminando, ed è per questo che il loro pensiero guida e sostiene il nostro cammino. Ed è proprio Kierkegaard ad avere scritto: “…l’andatura verticale, segno della nostra verticalità infinita”»). 2 Cfr. M. SCHELER, Das Ressentiment im Aufbau der Moralen in Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsatze (1919) in Gesammelte Werke, III, Bern, Francke Verlag, 1955, trad. it. Milano, Vita e Pensiero, 1975. Cfr. G. GOISIS e L. BIAGI, Mounier tra impegno e profezia, Padova, Gregoriana, 1990, pp. 276-281, 77-117; cfr. G. CAMPANINI, Il pensiero politico di Emmanuel Mounier, Brescia, Morcelliana, 1983; cfr. B. ACKERMANN, Denis de Rougemont, une biographie intellectuelle, Genève, Labor et Fides, 1996, I, pp. 249-311.

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la «vitalità» di quelli che egli chiama i «benriusciti». «Per non perdersi, rifuggire dalle esperienze interiori»; «solo dopo aver conosciuto tutte le cose l’uomo avrà conosciuto se stesso» egli scrive3. (Se vi è una profondità inesauribile che affascina Nietzsche, essa non si situa certo nell’interiorità, non rimanda ad un redi in te ipsum: è piuttosto quella del caos primigenio al fondo del reale, di cui egli si sente ‘scriba’, nel senso sia oggettivo che soggettivo del termine)4. Anzi: in Nietzsche l’interiorizzazione sembra addirittura antitetica rispetto ad un’ esteriorizzazione autentica come «sì alla vita», «fedeltà alla terra». Interessante, al riguardo, è l’uso in Nietzsche del termine ‘sottosuolo’ (egli aveva letto Dostoevskij, e quasi sicuramente anche le sue Memorie del sottosuolo). In alcune sue pagine questo termine potrebbe apparire come emblema di quel caos primigenio, magmatico da cui egli è affascinato (scrive Nietzsche che vi sono pensatori «superficiali», «profondi», «radicali»; ma infine «vi sono coloro che cacciano la testa nella melma… sono i cari uomini del sottosuolo»)5. Ma in altre pagine, e prevalentemente, il ‘sottosuolo’ è emblema negativo dell’interiorità: assimilata ad una dimensione morbosa, tossica, dove, dice Nietzsche in Zur Genealogie der Moral, «i vermi fanno il loro nido». Una interiorità quasi sempre scavata dal «risentimento», esito dell’impotenza ad una esteriorizzazione vitale. «Queste bestie del sottosuolo, sature di vendetta e di odio…»6. È nota la tesi di quest’opera, circa la morale ebraico-cristiana, e l’agape evangelica, come «morale degli schiavi»: esito del «risentimento» degli oppressi e dei vinti contro gli Herren, i ‘signo-

3 F. NIETZSCHE, Morgenröte (1881), trad. it. a cura di G. Colli, Milano, Adelphi, 2004, aforismi 448 e 48 (traduzione da me leggermente modificata). 4 Cfr. F. MASINI, Lo scriba del caos, Bologna, Il Mulino, 1983. 5 F. NIETZSCHE, Morgenröte, cit., aforisma 446. Cfr. a cura di G. Penzo, Nietzsche. Atlante della sua vita e del suo pensiero, Santarcangelo (RN), Rusconi, 1999, pp.109-110. 6 F. NIETZSCHE, Zur Genealogie der Moral (1887), trad. it. a cura di S. Giammetta, Milano, Rizzoli, 1997, p.73, 82.

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ri’ delle aristocrazie guerriere e conquistatrici, che prefigurano l’Uebermensch. Una morale che è inversione dei loro valori vitali, e che è vendetta «lungimirante», «sublime» contro di essi. Essa scaturisce dal ‘sottosuolo’ dell’interiorità: che è l’‘aria cattiva’ di un ‘laboratorio’ dove «negromanti ricavano biancore, latte ed innocenza da tutto ciò che è nero»7. Solo l’esteriorizzarsi dell’Herr può dirsi vera «azione»: che tutela una vitale e unitaria spontaneità del suo essere, nel dire primariamente (col suo agire) un «giubilante» e «riconoscente» sì a se stesso. Solo qui è possibile un rapporto «dritto e onesto» non solo con se stesso, ma anche con l’altro. Paradossalmente infatti, in questo testo, pare che solo nella violenza pura ed ingenua della «splendida bestia bionda che si aggira avida di preda e di vittoria» vi sia vero ‘incontro’ con l’altro; addirittura, con ironia anticristiana, si nota che solo in essa può risiedere l’unico vero amore per il nemico, dato che il nemico che si predilige, a tutela della propria distinzione, è quello che si fa rispettare; e che anche quando vi è «passione del disprezzo», essa si trova «mescolata a troppa noncuranza», «leggerezza», «distrazione», «impazienza, perfino troppa contentezza» perché quella possa trasformare il nemico in «caricatura e spauracchio». Al contrario, nella morale degli schiavi, l’esteriorizzarsi non è azione, ma solo «reazione», il ‘sì’ che si dice a se stessi scaturisce da un primario ‘no’ risentito rivolto all’altro. Donde uno «strabismo», una «tortuosità» lacerante nell’animo, donde un’acredine incline a rendere mostruosa e demoniaca l’immagine del nemico, e la nascita del concetto di «nemico malvagio».8 In sostanza l’interiorità, nella sua matrice ebraico-cristiana, «avvelena l’uomo»: è quando l’animo umano «acquista profondità» che esso diventa «essenzialmente pericoloso» per la «salute vitale»9. 7

Ivi, p. 69, 81, 82. Ivi, p. 71, 75, 73-74. Circa la «reattività» in Nietzsche, cfr. G. DELEUZE, Nietzsche et la philosophie, Paris, Plon, 1972. 9 F. NIETZSCHE, Zur Genealogie der Moral, cit., p. 66. Ma, Nietzsche aggiunge, anche se «pericolosa», «interessante». «La storia umana» egli scrive «sarebbe una cosa fin troppo stupida senza la genialità che le è venuta dagli impotenti», 8

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Max Scheler, in Das Ressentiment im Aufbau der Moralen del 1919, critica radicalmente l’interpretazione nietzscheana dell’agape cristiana. Ma, preliminarmente, svolge una fenomenologia del risentimento molto più articolata di quella di Nietzsche, da cui recupera e sviluppa, però, alcuni motivi centrali. Soprattutto quello circa la natura «strabica» dell’uomo del risentimento. Per Scheler, infatti, la valutazione risentita, e i valori che essa rivendica, si regge su di una «comparazione» invidiosa di sé con l’altro, portatore di valori che l’uomo del risentimento è impotente a realizzare in sé. Come nell’apologo della volpe e l’uva in cui l’uva matura viene dichiarata acerba perché irraggiungibile, valori autentici dell’altro vengono negati e calunniati in nome di propri pretesi valori, primariamente abbracciati strumentalmente per brandirli contro l’altro. Questa è la «menzogna organica» del risentimento, intesa ad un recupero ‘drogato’ di vitalità, di superiorità frustrata: in cui il «travisamento del

quella «genialità» creativa che fonda, appunto, l’«inversione dei valori» della «morale degli schiavi» come «spiritualissima vendetta» (p. 67). È in brani come questi che si misura come l’istanza della «salute», di una rettilinea purezza e pienezza vitale venga soppiantata, in Nietzsche, da un fascino quasi ‘estetico’ che egli prova per il complesso e il contraddittorio, inerente alla essenziale caoticità del reale, e che egli coglie anche nel contorcersi interiore e morboso degli «impotenti», nello sdoppiamento esistenziale «strabico» dei «malriusciti». È solo in quest’ottica che il ‘sottosuolo’ dell’interiorità acquista, in certe sue pagine, una valenza positiva: allo stesso modo in cui egli finisce per riconoscere che il «nichilismo ascetico», pur nella sua portata devitalizzante, fu proprio esso l’unico presidio contro un «nichilismo suicida», facendo sì che l’uomo continuasse a trovare un senso in se stesso, anche se «senso del nulla», e che serbasse una volontà, anche se «volontà del nulla». (Come scrive Nietzsche: «l’uomo preferisce ancora il nulla al non volere», «l’ideale ascetico scaturisce da un istinto di potenza e di salvezza di una vita degenerata», ivi, p. 215). È nota la tesi di Nietzsche circa l’ «autosoppressione della morale». Si potrebbe rilevare che ciò vale, a tratti, e in un certo senso, anche per la sua stessa ‘morale’: che lo induce a stigmatizzare la «morale degli schiavi» come «pericolosa» per la vita. Infatti, proprio in nome della vita, egli finisce, ciononostante, col riconoscere una suprema tenacia vitale, una estrema volontà di vita e di potenza, proprio in ciò che si oppone alla vita.

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valore» finisce per inquinare lo stesso «sentimento del valore» (Wertgefühl). L’autentica valutazione propria della «persona elevata» è, invece, «coscienza del tutto sorgiva, irriflessa, ingenua» del valore in sé e negli altri10. Ciò premesso, per Scheler, l’agape cristiana è immune da ogni risentimento. Essa infatti è «un traboccare spontaneo di forza» e di pienezza «vitale», che, se si curva sull’«inferiore» (il debole, il povero), non lo fa per il gusto morboso dell’«inferiore» derivante da un risentimento verso il grande e il potente, ma solo perché riconosce il valore della vita che risiede anche in una «vita spezzata», in un immediato slancio simpatetico della vita verso la vita. Ma Scheler concorda con Nietzsche nel ritenere inquinate da risentimento tutte quelle etiche non cristiane (filantropiche, umanitarie, socialiste e femministe), che però Nietzsche, egli nota, assimila ingiustamente al cristianesimo quali suoi surrogati e derivati laici11. Ed è qui che si innesta la critica scheleriana al Bürgertum e ai suoi valori (fondata su di un’analisi assonante con quella di W. Sombart, e, per certi aspetti, di E.Troeltsch e dello stesso M. Weber circa l’origine della borghesia capitalistica). Per Scheler l’egualitarismo liberale, l’esaltazione di un’umanità generica, astratta e livellatrice, nascerebbe dal risentimento del borghese contro quei valori vitali, culturali e spirituali incarnati e custoditi dalle aristocrazie nobiliari, quali linfa nutritiva di un sociale concepito in termini organicistici e gerarchici. In conclusione per Scheler l’autenticità esistenziale privilegia una esteriorizzazione vitalistica e «sorgiva» (che impronta anche il suo concetto centrale di intentionale Fühlen del valore), ove una dinamica centripeta di interiorizzazione (anche se non viene certo ridotta come in Nietzsche ai «miasmi del marciume interiore» del risentimento) sembra occupi 10

M. SCHELER, Das Ressentiment, cit., p. 69, 72, 43. Scheler nega qui la tesi drastica di Georg Simmel per cui l’autentico giudizio di valore sarebbe immune da ogni comparazione, e rileva che il problema è se essa è precedente e fondante rispetto al giudizio, o solo successiva, nel qual caso non lo inquina. 11 Ivi, p. 84, 93. 12 Ivi, pp. 113 ss., pp.140 ss.

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poco spazio12. Eppure, in alcune pagine di quest’opera del 1919, allorchè motiva l’inautenticità di certe etiche laiche altruistiche, Scheler rileva che ciò deriva da una «angoscia» a «guardare se stessi» che spinge ad una «fuga da sé». Egli scrive che qui il preteso amore si fonda, in realtà, su qualcosa come un «odio per se stessi, per la propria miseria e debolezza». È la propria inferiorità che spinge a darsi all’altro «solo perché è altro, un non-io». Qui l’amore è «eufemismo di fuga da se stessi, di un eterno ripudio di sé che produce solo secondariamente un volgersi all’altro, in conseguenza dell’incapacità di starsene» dice Scheler in francese «chez soi»13. Chez soi. Come è noto, in Mounier, questa espressione, che si connette a ciò che egli chiama «conversione intima», appunto «interiorizzazione», assume un rilievo centrale. La dimensione ‘dialogica’ della dialettica di «interiorizzazione» ed «esteriorizzazione» e il tema del «volto» (visage) in Mounier e Lévinas In Mounier la dialettica di intériorisation/extériorisation sembra potersi intendere in due accezioni distinte, anche se connesse. Nella prima l’«esteriorizzazione» equivale all’estrinsecarsi creativo dell’umano nella produzione di forme culturali, sociali, politiche: ove però la forma cristallizzandosi frena un ulteriore slancio creativo. Circa questa dinamica di «slancio vitale» e «caduta entropica» può cogliersi un influsso marcato di Bergson14. Ma Mounier recupera 13

Ivi, pp. 92-93. Cfr. G. LIMONE, E. Mounier: problemi di interpretazione, in La questione personalista: Mounier e Maritain nel dibattito per un nuovo umanesimo, a cura di A. Danese, Roma, Città Nuova, 1981, p. 169. Ma, al di là di Bergson, questa dinamica asintotica (che Hegel stigmatizza come schlechte Unendlickheit) si può riconnettere ad un pervicace archetipo che condiziona l’immaginario filosofico occidentale anche dopo la critica hegeliana: da Fichte a Bergson, fino a Sartre e 14

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anche il Gabriel Marcel di Être et avoir: per cui l’esteriorizzarsi dell’uomo tende sempre a scivolare in un’ansia di avere, di possedere e dominare la realtà (anche concettualmente: per Marcel, infatti, il problème, l’indagine problematizzante, il ritmo problema-soluzione che scandisce la ratio, e che proprio per questo resta incapace di accedere e di «partecipare» al «mistero dell’essere», mystère de l’Être, è strettamente connesso all’avoir). Ma ciò, rilevava già Marcel, per una dialettica che richiama quella hegeliana di padrone-schiavo (ma qui senza Aufhebung) ha come esito finale un essere posseduto del possessore dai suoi stessi possessi: incastrato, dice Mounier, nella «prigione delle cose». A questo punto è solo una «pulsazione» complementare di «interiorizzazione» che può ridare slancio ed autenticità all’«esteriorizzazione»; come un «riprendersi» dal gelo di un «rapprendersi». «Le cose e le opere stesse dell’uomo tendono a far presa insieme, e ad afferrare l’uomo nella loro rigidità glaciale», «l’uomo tende a rapprendersi nell’inerzia dei propri gesti», «sta a lui e a lui solo riprendersi» da tale «irrigidimento»15. E qui l’«interiorizzazione» è «la gioia di ritrovare le proprie sorgenti interiori e ristorarsi in esse». Ma anche l’«interiorizzazione» può alienarsi nelle «anemie» degli spiritualismi e degli idealismi corrispondenti ad «assottigliamenti della vita soggettiva». «Il personalismo non è uno spiritualismo» precisa con forza Mounier: termine, questo, «legato a tutta una gonfiatura verbale, sentimentale e moralizzante» che «nulla più suscita nell’animo di nessuno». E negli idealismi Mounier denuncia «il primato decadente dell’idea disincarnata sul pensiero impegnato e l’esperienza decisiva, con lo sviluppo canceroso della ruminazione intellettuale, della dialettica senza appigli, ad Heidegger: per il quale, in Sein und Zeit, la «deiezione» (Verfallen) connessa alla «trascendenza» (Transzendenz) dell’«esserci» (Dasein) equivale ad una sorta di «gettarsi in avanti che fa ricadere all’indietro». 15 G. MARCEL, Être et Avoir, Paris, Editions Universitaires, 1991 (prima ed. 1936), trad. it. Napoli, Esi, 1999, p. 140; E. MOUNIER, Qu’est-ce que le personnalisme? (1947), in Œuvres, cit., III, trad. it. Milano, Einaudi, 1975, pp. 80-81.

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dei pensieri gratuiti e degli ideali inefficaci». Dunque, «se Narciso è corroso dal di dentro dal male dell’anima bella e si dissolve sotto il proprio sguardo», «Ercole è divorato dal di fuori dalla sua ultima conquista, bruciato fino alle ossa dal prodotto della sua vittoria mondana»16. Ma in Mounier la dialettica intériorisation/extériorisation. assume anche un’altra accezione, che potremmo definire ‘dialogica’. La persona non è una sostanza, ma un événement: come suo incarnarsi nell’«individuo» che è in lei. Se l’«individuo» è «dispersione» di frammenti psichici, è «avarizia» come istinto di proprietà, la persona è «concentrazione», «vero possesso» come padronanza di sé, è energia formatrice che si esercita sulla materia dell’individuo, ma senza annullarlo proprio perché si incarna in esso. L’individuo resta «l’appoggio necessario allo sviluppo» della persona «donde gli vengono i suoi alimenti oscuri»17. Ma questo processo, in cui la persona acquista il suo spessore e la sua identità, risulta al contempo polarizzato da una dinamica di «comunicazione» e di «apertura» (ouverture) all’«altro» (autre), ad un ‘tu’. Scrive Mounier che la persona «non apprende se stessa se non situata e comunicata»; «gli altri non limitano la persona, anzi le permettono di essere e di svilupparsi; essa non esiste se non in quanto è diretta verso gli altri, non si conosce che attraverso gli altri, si ritrova solo negli altri. La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona; il tu 16

Ivi, p. 68, 80, 67-68; E. MOUNIER, Le Personnalisme (1949), in Œuvres, cit., III, trad. it. Roma, Ave, 1964, p. 63, 32. 17 E. MOUNIER, Manifeste au service du personnalisme (1936), in Œuvres, cit., I, trad. it. Bari, Ecumenica, 1975, pp. 68-70. La concretezza incarnata della persona viene sottolineata da Mounier anche nel seguente brano: «non c’è senza dubbio in me un sol momento di dispersione che non sia in qualche modo personalizzato, alcuna parte della mia persona che non sia in qualche modo individualizzata, oppure, ciò che torna lo stesso, materializzata. Al limite, l’individualità è morte. Nondimeno, sarebbe ancora morte quella della persona spogliata di ogni avarizia e concentrata totalmente sulla sua essenza; è morte in un altro senso, in senso cristiano, ad esempio, il passagio alla vita eterna» (ivi, p. 69).

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viene prima dell’io». Se in natura «regna l’esclusione, in quanto uno spazio non può essere occupato due volte», «il movimento che fa esistere la persona» è tale che la «espone» nella comunicazione; quando questa «si allenta o corrompe, io perdo profondamente me stesso; ogni follia è uno scacco nel rapporto con gli altri» ove «l’alter diventa alienus», rendendomi appunto, con ciò stesso, «alienato, estraneo a me stesso»18. In molte pagine di Mounier il tema del ‘tu’ si connette a quello del «volto» (visage), in anticipo su Lévinas, ma in una accezione del termine, come vedremo, assai diversa, anche se per certi aspetti assonante, rispetto a quella lévinasiana. Si legge, ad es., in Révolution personnaliste et communautaire: «io scopro un uomo quando improvvisamente si erge come un tu. Tu quoque fili. Uomini armati, sconosciuti, estranei sono vicini per un atto banale, e improvvisamente uno di loro assume un volto (visage). Tu quoque. Una comunità perfettamente spirituale lancerebbe questo grido ad ogni piè sospinto, e la terza persona sarebbe eliminata». E in Le Personnalisme Mounier parla di «maschere» che soffocano l’autenticità dei «volti» 18 E. MOUNIER, Qu’est-ce que le personnalisme, cit., p. 68; Le Personnalisme, cit., pp. 44-45. H. HAUSEMER, sul «Bulletin des amis d’E. Mounier» (n. 65 del marzo 1986, pp. 9-14) parla di un «polo sostanziale» e di un «polo relazionale» della persona in Mounier. Giustamente G. Limone (E. Mounier, cit., p. 178, 171) rileva che ciò vale a leggere Mounier troppo a ridosso di un tomismo maritainiano, il che offusca la primaria «declinazione dinamica» che in lui connota la persona. Peraltro è proprio questo aspetto della concezione mounieriana che è stato sospettato di non assicurare «un saldo presidio metafisico» all’autonomia della persona (A. RIGOBELLO, Il contributo filosofico di E. Mounier, Milano, Bocca, 1955, p. 49). Ma, al riguardo, si è rilevato come il personalismo mounieriano non possa ridursi ad una «fenomenologia delle manifestazioni personali» sempre cangianti e relative, dato che «la relazionalità costitutiva della persona è in ultima istanza una relazione con l’assoluto»; «il relativo, mentre si manifesta come relativo», proprio perché «non è mai identificabile con l’assoluto», «deve essere pensato su di uno sfondo di assoluto» (V. MELCHIORRE, Linee di fondazione del concetto di persona, in Mounier trent’anni dopo, Milano, Vita e Pensiero, 1981, p. 105).

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personali19. E dunque, se la persona emerge solo nella comunicazione, è solo nell’aprirsi comunicativo al «volto» dell’«altro» che anche il mio «volto» personale acquista identità ed espressività.

19 E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire (1935), in Œuvres, cit., I, trad. it. Milano, Comunità, 1955, p. 124. Il tema del «volto» emerge, sia esplicitamente che implicitamente, anche in varie pagine derougemontiane. Nell’amour passion, quale de Rougemont lo interpreta nel mito di Tristano ed Isotta (un archetipo che dal XII secolo affascina l’immaginario erotico occidentale: cui egli contrappone, nel rapporto tra i sessi, l’amour action, di ascendenza agapica) non vi è «vero amore per l’altro nella sua realtà concreta». «Tutto accade come se essi non si vedessero, non si riconoscessero». Ciò che essi amano è l’amore (amabam amare, come diceva Agostino): il cui ardere è un sentirsi trasportati verso un assoluto indicibile e sovrumano, con cui fondersi, e in cui annullarsi, verso una «trascendenza» al di là della finitudine carnale che distingue ed individua gli esseri terreni: qual è, appunto, la «Luce Increata» cataro-manichea che, per de Rougemont, nutre il mito. Non a caso è solo la lontananza ad accendere la passione degli amanti: ma una lontananza determinata soprattutto da ostacoli auto-imposti, e quindi invincibili (come la spada di Tristano, che essi frappongono tra i loro corpi nudi, sul giaciglio d’erba nella foresta di Morrois). Ma questa passione per l’ostacolo auto-imposto cela una inconfessabile ed ascetica passione per l’Ostacolo supremo, che essi oscuramente perseguono: per la Morte, come liberazione definitiva da carne e materia terrestre. Scrive al riguardo de Rougemont: «l’amore di Tristano ed Isotta era l’angoscia di essere due; e il suo supremo epilogo è la caduta nell’illimitato, in seno alla Notte, in cui le forme, i volti (visages) si cancellano» (D. DE ROUGEMONT, L’Amour et L’Occident, Paris, Plon, 1939, trad. it. Milano, Rizzoli, 1993, p. 84, 367. E anche nel Journal (cit., pp. 175-176), riflettendo sulla difficoltà, nel parlare in pubblico, di rompere il gelo dell’anonimato tra gli uditori, de Rougemont parla della «gioia di vedere il proprio pubblico», di «mettersi moralmente alla portata di questi spiriti, visibili e leggibili in questi volti (visages). «Vedo questa astrazione: il Pubblico, dissolversi e rinascere, incarnata ogni volta in una figura determinata … Scoperta della varietà meravigliosa che offrono questi volti (visages) attenti, illuminati o cocciuti, dolenti, tesi o distesi…». E in un’altra pagina, circa una sua conversazione occasionale con un pescatore, de Rougemont si chiede quale «presa» possano mai avere le sue parole «su questo essere che mi trovo di fronte, con le sue rughe, la sua barba, e il suo berretto, e che continua a parlarmi di pesca, della sua rete che ieri ha perduto… » (p. 89).

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Allo stesso modo in cui, per ricorrere ad una metafora, è solo l’aggrottarsi del mio volto, nella tensione a vedere i lineamenti di un altro, che marca i lineamenti del mio volto nella loro espressività inconfondibile. Ma che cosa c’è dietro un «volto» personale, nella sua icasticità espressiva? Il «volto», la «persona», dice Mounier (con un lessico che ripropone alla lettera Gabriel Marcel e anche Karl Jaspers) è «appello», «invocazione», «domanda». Commentando Jaspers, nella Introduction aux existentialismes Mounier scrive che anche se «inglobata in sé» ogni esistenza «non è chiusa in sé»; «grida verso l’altra ed ha la risonanza di un’eco. De profundis clamavi ad te… l’invocazione di un’esistenza può sconvolgere un’altra esistenza e richiamarla alla propria verità»20. Ma dietro questa «invocazione» si cela ciò che Mounier chiama la «vocazione» di ogni persona: come un «inesauribile» che si riconnette alla sua singolarità irripetibile (alla sua, si potrebbe dire con l’Heidegger di Sein und Zeit, Jemeinigkeit). La «vocazione» è «il richiamo silenzioso in una lingua che richiederebbe tutta la nostra vita per essere tradotta» e di cui la nostra vita è «un’interpretazione incessante»; essa è il ‘profondo’ vertiginoso della persona, «dagli abissi dell’inconsciente agli abissi del super-cosciente»; e qui Mounier nota che se «la psicologia contemporanea ha esplorato le regioni infernali della profondità della persona, è stata però meno attenta a quelli che si potrebbero chiamare i suoi abissi superiori, in cui affonda l’esaltazione creatrice e la vita mistica»21. Ciò che in Mounier rende estremamente originale la trattazione dell’amore sta anche nel suo connetterlo a questo tema della «voca20 E. MOUNIER, Introduction, cit., pp. 150-152. «Per il pensiero di Jaspers, al punto in cui ci si trovava nel 1939, non c’è regno stabilto per gli esistenti, ma nella notte della separazione un firmamento discontinuo di visite esaltanti che bastano a lasciarci un gusto sostanziale di ricordo e di speranza più forte dell’esperienza massiccia della nostra solitudine» (ivi, pp. 120-121). 21 E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit., p. 68, 61.

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zione personale». Chi ama «non chiede all’amato di rispecchiarlo», «gli chiede di essere se stesso, incomparabilmente». L’amore «guarda di sopra all’individuo alla persona che lo chiama», al di là di affinità elettive che «possono attrarre, ma non tengono legati». Esso non è fusione, anzi è proprio esso che «crea la distinzione» (come rileva Attilio Danese, è «unità nutrita di distanza», di «problematicità dialettica»)22. In altri termini, l’amore è l’aprirsi all’inesauribile che si cela dietro a un «volto», esso è «disponibilità», «fedeltà creatrice» (di nuovo, qui, il lessico di G. Marcel)23. Ed è solo in tale oblatività che ogni persona può ritrovarsi, perdendosi; perché «non si possiede se non ciò che si dà», anzi, «se non ciò a cui ci si dà»; sì che Mounier può parlare di un amo ergo sum come di un «cogito esistenziale irrefutabile»24. Questa concezione dell’amore allude, più in generale, al fatto che, se la persona è «invocazione», «domanda», essa può essere, è chiamata ad essere, nella «comunicazione» intersoggettiva che la personalizza, anche «risposta». Si innesta qui il tema della libertà e della responsabilità. Per Mounier la libertà non è un semplice e vitalistico «sgorgare» (jaillissement), e neppure è l’‘atto gratuito’ di cui parla André Gide in Les Caves du Vatican. Esso non è «ardore

22

E. MOUNIER, Révolution, cit., p. 115; Le Personnalisme, cit., p. 52; A. DAUnità e pluralità. Mounier e il ritorno alla persona, Roma, Città Nuova, 1984, p. 116. 23 «Tutto è diverso se mi pongo riguardo a me stesso e all’altro in un atteggiamento di disponibilità. Non penso più a me come ad un essere da proteggere. Io “sono aperto” al mondo e all’altro» (MOUNIER, Introduction, cit., p.115). È interessante notare come nel ‘primo’ R. Girard (Dostoevskij, du double à l’unité, Paris, Plon, 1963: trad.it. Milano, SE, 1987, p. 121), su cui è rilevante l’influsso del personalismo di de Rougemont, l’espressione ouverture au monde et à l’autre ricorra per qualificare la fede in Dio di Alësˇa nei Fratelli Karamazov: «il Dio d’Alësˇa non è una causa» metafisica, «è apertura al mondo e all’altro». 24 E. MOUNIER, Le personnalisme, cit., p. 45. In Les directions spirituelles du mouvement Esprit (in «Bulletin», cit., nn. 13-14, 1959, p. 41) si legge: «la nostra regola di morale: trovarsi perdendosi». NESE,

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di vita ad ogni costo» che «non esprime alcuna natura, non risponde ad alcun richiamo»; non è «potere puro e semplice», «natura cieca», indistiguibile dall’arbitrio. Diversamente da Sartre (per cui l’uomo è condannato inesorabilmente alla libertà) Mounier sembra porre una dimensione di ‘meta-libertà’ ove è la libertà stessa, quale egli la intende, che può essere accolta e rifiutata nella gratuità assoluta di una «indeterminazione totale»; e come tale essa è «dono» e non condanna, anche se, certo, si resta liberi si «slanciarsi audacemente» o meno, nell’«esperienza» di questa vera libertà25. E, come in Kierkegaard, la vera libertà ha sempre un’impronta drammatica che le deriva dal ‘contenuto’ su cui si misura. «Il contenuto della libertà» si legge nei Papirer «è decisivo a tal punto per la libertà che la verità della libertà di scelta sta appunto nell’ammettere che qui non ci deve essere scelta, benché sia una scelta»26. La verà libertà è infatti, per Mounier, un giocarsi nei confronti di una alterità: anche, e soprattutto, quando l’altro irrompe nella nostra vita con la durezza di un urto che sconcerta, scompagina pericolosamente le nostre sicurezze. Essa è dunque «rischio», «scommessa», «salto»: nella nostra «disponibilità» (disponibilité: di nuovo il lessico di G. Marcel) ad accogliere, nell’altro che ci inquieta e ci sconvolge, un «appello» a cui «rispondere». Ed è proprio in questo senso che la vera «libertà» è «responsabilità». Se la persona è ‘risposta’, l’uomo libero è «un uomo che il mondo interroga e che al mondo risponde; è l’uomo responsabile»27. Questa libertà, sempre «sotto condizione», implica costitutivamente «limite», «ostacolo»: che però è anche l’unico suo vero «sostegno», la sua «forza di slancio». Ed è proprio per questo che libertà è sempre liberazione: quando, per aver accolto la sfida di rispondere all’appello inquietante dell’altro, «per essermi 25

E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit., p. 85, 96, 86, 83. S. KIEREGAARD, Papirer, X2 A 428: trad. it. n. 2148, t.II, p. 33. Sulla libertà in Kierkegaard, cfr. M. IIRITANO, Disperazione e fede in Kierkegaard, Soveria Mannelli, Rubettino, 1999, pp. 95 ss. 27 E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit., p. 91, 61, 99. 26

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esposto ed avventurato nell’oscurità e nell’incertezza», ho «spezzato una catena di fatalità o probabilità, un gioco di forze intimidatrici», giungendo ad incontrare nell’altro, ed al contempo in me, un «volto» inatteso, che è l’«origine creatrice di un ordine nuovo e di una intelligibilità nuova»28. L’errore di una libertà intesa come puro jaillissement deriva da una «miopia filosofica» che ha «spostato sull’atto della scelta il centro di gravità della libertà che invece si trova nella liberazione che consegue ad una scelta felice». «Concentrare l’attenzione unicamente sulla libertà di scelta significa togliere alla libertà la sua forza e renderla ben presto impotente alla scelta stessa, per mancanza di slancio sufficiente». Per di più questa libertà, che si pretende svincolata da ogni contenuto e predeterminazione nel suo esercizio (com’è nel Sartre di L’Être et le néant), finisce invece col ‘reificarsi’ vincolandosi ad un’istanza nevrotica di «autonomia», ad un culto per l’«astensione» e per l’«instabilità» («che è il male spirituale del nostro tempo»), per la «rottura» e la «conquista»: precludendosi così un esercizio integrale della libertà, che è anche «movimento di distensione» e di «compenetrazione», di «adesione» e «disponibilità»29. Si può, al riguardo, misurare in Mounier un deciso distacco da Bergson e dalle Lebensphilosophien primonovecentesche, che pur nutrono profondamente il suo pensiero. Per Bergson la libertà del28

Ivi, p. 89, 93. Ivi, p. 94. Anche qui, in questa opposizione tra «autonomia» e «libertà», può cogliersi un’assonanza con Marcel: che, al riguardo, in Être et avoir critica Kant e rileva che l’«autonomia» costituisce un valore solo nella sfera dell’avoir, come «gestibilità» autonoma di un ambito circoscritto di esperienza. Scrive Marcel che «più io entro integralmente in attività, meno diventa legittimo dire che io sono autonomo». L’autonomia, dunque, a ben vedere, non implica affatto una dilatazione delle possibilità del soggetto, bensì una «riduzione o particolarizzazione» del soggetto stesso nella sua libertà espressiva, esaltata invece da quelle esperienze di creatività, amore, «fedeltà creatrice» in cui io mi apro all’altro, e che sono indici, per Marcel, di autentica partecipation à l’être (G. MARCEL, Être et avoir, cit., pp. 142-148). 29

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l’élan vital, anche nelle sue espressioni culminanti (come la «morale dell’animo aperto» di cui egli parla in Les deux sources de la morale et de la religion) non è polarizzata da alcun contenuto. La «gioia» dell’«eroe e del mistico» (che egli distingue dal «piacere» connesso alle «morali sociali») è, egli scrive in quest’opera del 1932, «l’entusiasmo» di un «cammino» che non «mira» ad alcun «termine». Si tratta, egli scrive ancora, di una morale senza «oggetto», la cui «forza non dipende dal suo contenuto». Dice Bergson: «la carità sussisterebbe in colui che la possiede anche se non vi fossero altri viventi sulla terra»30. E anche per Max Scheler la libertà dell’agape cristiana è un «traboccare spontaneo di forza» rispetto a cui ciò cui esso si volge sembra «secondario» e solo «occasionale». Egli scrive: «c’è impulso a sacrificarsi ancor prima che sappiamo perché, a qual fine, per chi» e «la vista del piccolo, del povero, dell’oppresso offre» solo «un’occasione per l’agire»31. Ma altrettanto sensibile è la differenza di Mounier da molte successive filosofie ‘dialogiche’ che pur egli, sotto molti aspetti, prefigura: non tanto da Martin Buber (dal cui Ich und Du del 1923 egli è anzi influenzato, e il cui concetto di Verantwortung è affine alla responsabilité mounieriana) quanto, ad es., da Emmanuel Lévinas e Hans Jonas. Infatti la responsabilité lévinasiana, e ancor di più la Verantwortung in Jonas, sembrano restare in qualche misura vincolate a quell’accezione giuridico-penalistica del termine «responsabilità» (propria anche del senso comune) come ‘farsi carico’, ‘assumersi le conseguenze’ (Lévinas parla di un farsi «ostaggio» del «volto» dell’altro32). Invece, come si è visto, la responsabilité mounieriana resta intimamente aderente alla lettera immediata del suo etimo latino, respondeo. 30 H. BERGSON, Les deux sources de la morale et de la religion (1932), in Œuvres, Paris, PUF, 1959, pp. 980-1247: trad. it. Bari, Laterza, 1995, p. 25, 26, 35. 31 M. SCHELER, Das Ressentiment, cit., p. 85, 86. 32 E. LÉVINAS, Autrement qu’être ou au-delá de l’essence, Le Haye, Nijhoff, 1974: trad. it. Milano, Jaca Book, 1983, p. 143.

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Dal «guardare» (regarder) al «vedere» (voir). Lo «sguardo dell’altro» (le regard de l’autre) in Sartre e in Mounier Per definire l’extériorisation come libertà responsabile Mounier usa quello stesso termine, «trascendenza», che troviamo anche nell’Heidegger di Sein und Zeit e nel Sartre di L’Être et le néant: ove essa esprime il costitutivo trascendersi dell’«esserci» (Dasein) verso l’orizzonte di significati del proprio «mondo», o del «per sé» (pour soi) verso il proprio «progetto» esistenziale. Ma qui la «trascendenza», nota Mounier nella Introduction, «non incontra nessuno se non se stessa», si ripropone in sostanza come un traboccare vitalistico non polarizzato da alcuna alterità. (E non a caso la nozione heideggeriana di Transzendenz nasce entro le Lebensphilosophien primonovecentesche: ad es. in Georg Simmel che in un’opera del 1916, Lebensanschauung, la usa per distinguere il ‘gettarsi oltre sé’ del biologico dall’inerzia dell’inorganico). Sartre parla drammaticamente dell’esistenza come di una «passione inutile», condannata alla libertà, di un «dio mancato». Eppure, nota Mounier, l’esistenza sartriana «drammatica fin dal suo apparire, schiva alfine il dramma»: la vera drammaticità che vive solo nel «rischio» della «responsabilità» in cui ci si gioca nei confronti di un altro. È noto come il pensiero più avanzato di Sartre, in dialogo col marxismo, si tormenti tra l’esigenza della libertà, e l’esigenza di riconoscere alla «situazione» (situation), in cui quella si esercita, un autentico peso. Ma, rileva Mounier, «è vano parlare di situazione se si elimina l’incontro». E conclude: «quella di Sartre è una teoria della responsabilità assoluta in cui non sono responsabile di niente», essa è solo «una patetica dello scacco», una drammatica del «limite» che resta «letteraria», «nella brillante magia dell’artificio verbale»33. E, quanto ad Heidegger, certo in lui il Dasein è sempre un Mitsein, ed egli riconosce anche che questo «co-essere» dell’«esserci» può elevarsi a

33

E. MOUNIER, Introduction, cit., pp. 139-142.

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modalità positive ed autentiche nelle relazioni intersoggettive. Nondimeno, la più profonda autenticità esistenziale si ha solo nella solitaria decisione del Sein zum Tode, in cui l’esistenza, progettandosi «per la morte», accoglie la propria radicale finitudine ed infondatezza. (Al riguardo Mounier, sempre nella Introduction, nota acutamente che in tal modo Heidegger, ponendo la morte in un «intimo legame con la vita», in qualche modo la «umanizza e spiritualizza»: togliendole però, con ciò stesso, tutta la sua vera drammaticità di ‘urto’ distruttivo rispetto alla vita)34. Certo, in Sartre, il «per sé» (pour soi) dell’esistenza è sempre anche un «per l’altro» (pour autre). Ma per lui l’intersoggettività si riduce ad un conflitto permanente: l’enfer, c’est les autres, è il grido che echeggia alla fine di Huis Clos. Già il solo «sguardo dell’altro» (le regard de l’autre) mi «pietrifica», dice Sartre, annulla la mia libertà incastrandomi, come una cosa, entro un progetto esistenziale altrui, che non mi appartiene. Al che Mounier rileva come la soggettività, quale Sartre la delinea, sia segnata da una «suscettibilità all’usurpazione» ed alla «espropriazione», dall’ossessione di una «viscosità» che «afferra e inghiotte»; sì che, in certe sue opere letterarie (come La Nausée), è lo stesso «contatto», «sfioramento» che risultano «intollerabili» ai personaggi. E si chiede se l’ontologia sartriana non sia qui viziata da «complessi mascherati come aspirazioni dello spirito», per cui l’«incontro» tra due esistenze non può che ridursi ad «adesività».35 Ed in effetti, conclude Mounier, l’intersoggettività in Sartre viene riduttivamente concepita solo all’insegna del dominio e del possesso; cioè in essa viene indebitamente fissata come ontologica quella dimensione dell’avoir che, invece (per Mounier come per Marcel) equivale solo ad un degenerarsi dei rapporti umani36. 34

Ivi, p. 59. Ivi, p. 55, 56, 113. 36 «La logica dell’esperienza personale va nel senso dell’essere e non nel senso dell’avere: l’avere implica un rapporto con l’altro, ma piuttosto che un rap35

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Certo, riconosce Mounier, il regard de l’autre può «pietrificarmi» («la più lieve presenza basta talvolta ad istillare un veleno mortale nei rapporti tra uomo e uomo» e «la comunicazione è meno frequente della felicità, più fragile della bellezza: basta un nulla a fermarla o a spezzarla»)37. Ma ciò che, ancor prima di esso, e soprattutto, mi «pietrifica», è lo «sguardo» che io stesso mantengo su di me, l’«immagine abituale che ho di me»: un’«opacità», nota Mounier, che è anche «alla fonte dell’opacità che in seguito sviluppo sugli altri». La Lot biblica, trasformata in una statua di sale non per essere stata guardata, ma per il suo guardare, può essere una metafora efficace di ciò. Ma allora è proprio il regard de l’autre che può assumere, per me, una valenza decisamente positiva. E non solo nel caso di uno «sguardo generoso» che «mi anima», ma anche, e soprattutto, nel caso di uno «sguardo ostile, o geloso, o indifferente». Se accolto in uno stato di «disponibilità» (che, si ricordi, per Mounier è sempre drammatica: improntata da «rischio», «scommessa», «salto»), tale «sguardo» non «fissa» e «pietrifica», bensì «sconvolge»: «mi disturba, mi inquieta, mi rimette in questione»38. Ovvero: spesso è solo l’irruzione minacporto di comunione è uno sforzo di possessione; nell’avere non esco da quel che sono per cercarmi nell’essere dell’altro, ma cerco di ridurre l’altro nel mio proprium e perciò l’altro continua a restarmi estraneo» (V. MELCHIORRE, Linee, cit., p.106). Mounier, però, rileva che «non si deve opporre troppo violentemente l’essere all’avere» come due alternative radicali; «pensiamo piuttosto a due poli tra i quali è tesa l’esistenza incorporata, alla quale non è possibile essere senza avere» (E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit., p.66). Lo stesso Marcel, peraltro, in una sua lettera a J. Parain-Vial, riconosce di «aver insistito troppo su ciò che si può chiamare la negatività dell’avere»: «assolutamente parlando, non avere niente significa non essere niente» e «l’essere si stabilisce soltanto attraverso la transmutazione dell’avere» (G. MARCEL, Être et avoir, cit., p.223). Al riguardo de Rougemont distingue dall’«avere» il «vero possesso» (« possedere non è avere») che non è nemmeno «l’uso eventuale di una cosa. Significa invece usare di fatto una certa cosa. È dunque un atto e in nessun caso un diritto» (D. DE ROUGEMONT, Journal, cit., pp. 15-16). 37 E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit., p. 42, 49. 38 E. MOUNIER, Introduction, cit., pp. 116-117.

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ciosa su di me del regard de l’autre che vale a trasformare in me l’«opacità» pietrificante del «guardare» (regarder) nella lucidità di un «vedere» (voir); e che, nel consentirmi di «vedere» il mio autentico «volto», mi dispone, contestualmente, a «vedere» anche il vero «volto» dell’altro. E di nuovo, dunque, si ripropone qui la dialettica di intériorisation/extériorisation in quella seconda accezione ‘dialogica’ di cui ho detto. E qui l’«interiorizzazione» viene descritta da Mounier, in Le Personnalisme, come una «conversione intima», «su di sé» (sur soi), alla ricerca in se stessi di un «in sé» (en soi), che consenta di abitare autenticamente «presso di sé» (chez soi): il che, poi, nel mio esteriorizzarmi, è proprio ciò che mi permette di aprirmi, e di attingere anche l’autenticità dell’«altro» (autre)39. Nella Introduction Mounier dice che la vera interiorità, più che ad un «raccoglimento» («temine troppo pacato»), equivale ad uno «sradicamento», ad una dimensione di inquietudine agonica: «bisogna uscire dalla interiorità per consentire l’interiorità» autentica40. E in Le Personnalisme egli rileva che, come l’«esteriorizzazione» può alienarsi in «dissipazione», «dispersione», «morte nell’oggettività», simmetricamente l’«interiorizzazione» può alienarsi in intimismo, nel culto, tipicamente borghese, di un ‘privato’ inteso come «spazio in cui si cerca la tiepidezza di vita». Gli elogi della «vita modesta» («esistono false povertà che in realtà sono furti»), le stesse celebrazioni dei valori della famiglia, «tradiscono troppo spesso questa origine equivoca»41. Dunque il chez soi mounieriano difficilmente è riducibile a pace ed armonia interiore, ad uno ‘star bene con se stessi’, ad una equilibrata auto-stima. Non è neppure il «vigoroso senso di essere al sicuro, di essere su di un terreno saldo, di essere stato nell’intimo salvato, il senso dell’invincibile ricchezza della propria esistenza e vita» da cui deriva, per Max Scheler, «il traboccare spontaneo di 39

E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit. p. 59, 63. E. MOUNIER, Introduction, cit., p. 31, 91. 41 E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit., p. 63, 66. 40

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forza» dell’agape cristiana, qual egli la concepisce42. Come l’azione autentica, scrive Mounier nell’Introduction, non è «solidità massiccia e tranquilla», ma «mette in corto-circuito l’inquietudine e l’azione, che alcuni credono contraddittorie», parimenti la «conversione intima» è «oscurità e scommessa». In entrambi i casi, sia nel volgersi dentro di sé (perché ciò non si traduca in «autosoffocamento») che fuori di sé, «bisogna che noi sappiamo coltivare la distanza e che, con Nietzsche, non temiamo di disinfettare spesso il gusto di ciò che è più vicino con l’amore del remoto»43. Il rilievo che Mounier accorda, nella vita della persona, all’«interiorizzazione» sembrerebbe profilarsi come assonante con un’istanza centrale degli esistenzialismi contemporanei, che egli indaga nel suo volume del 1947. Qui egli parla infatti di «una reazione esistenzialistica contro l’imperialismo dell’esteriorità», e rileva che «Sartre pretende di eliminare la pura esteriorità dalla descrizione delle cose umane»44. Eppure, quanto a Sartre (sviluppando ed esplicitando alcuni motivi della critica che Mounier gli rivolge), sembra emergere un singolare paradosso circa il pour soi: quello di una accentuazione talmente parossistica della sua interiorità che questa finisce per ritorcersi in una esteriorità assoluta, a ben vedere statica, inerte ed impenetrabile (nonostante il suo dinamismo dialettico), pari a quella dell’en soi. Infatti: se, per Mounier, la vera «vita» della persona è tale solo nella sua capacità di trovarsi «esposta» all’autre, per cui la sua libertà si realizza non in un semplice «sgorgare», ma, appunto, in un «esporsi», con rischio e scommessa, all’irruzione dura e minacciosa dell’altro, per Sartre la libertà, cui ci si sente drammaticamentre condannati, non è mai «esposta» in questo 42

M. SCHELER, Das Ressentiment, cit., p.85, e a p. 121 Scheler parla di «una propria interiore intangibilità e sicurezza» quale condizione di una «vita traboccante che generosamente si dona sulla base della pienezza e sovrabbondanza del proprio essere». 43 E. MOUNIER, Introduction, cit. , p. 78. 44 Ivi, p. 123, 112.

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modo. La stessa «descrizione dello sguardo in Sartre introduce l’esteriorità assoluta fin nel contatto più intimo». Questa «esteriorità assoluta» del pour soi (che finisce per assimilarsi ad una «semplice presenza» ontica: Vorhandenheit in Heidegger) deriva dalla impossibilità di un suo esteriorizzarsi, cioè di un suo effettivo incontro, comunicazione con una effettiva alterità. E dato che per Mounier, come si è visto, «esteriorizzazione» ed «interiorizzazione» sono intimamente complementari per l’«incontro» con una alterità, fuori di sé come dentro di sé, si può dire che questa «esteriorità assoluta» del pour soi sartriano deriva anche, paradossalmente, da una accentuazione iperbolica della dimensione interiore del pour soi stesso: che resta cieca al potere di estraniazione da sé che ha la vera «interiorizzazione» personale. In sintesi: per un verso, l’«esteriorità assoluta» (che Mounier rileva nel pour soi sartriano) deriva da una mancanza di vera «esteriorizzazione»; ma, per un altro verso, tale «esteriorità assoluta» può dirsi, paradossalmente, anche interiorità assoluta, solipsistica, per la mancanza di una vera «interiorizzazione». Scrive Mounier che in L’Être et le néant «la libertà è così costituita da un circolo chiuso in se stesso», ed in effetti Sartre (che in questa pagina viene singolarmente, ma significativamente, accostato a Spinoza) la definisce una «totalità inanalizzabile»45. La «passione della Notte»: Mounier, Karl Jaspers e Kierkegaard De Rougemont, nel Journal d’un intellectuel en chômage, scrive: «Gli uomini sono fastidiosi gli uni per gli altri quando hanno cessato di sorprendersi gli uni degli altri… Quando si arriva a non vedere più il vicino la situazione non è più umana». Ed in un’altra pagina, che esordisce «non bisogna entrare in collera nel mese di gennaio»,

45

Ivi, p. 138.

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egli prova diffidenza e disagio per lo «sterile nitore» di un «bell’inverno», dove «un sole freddo, dietro la remota foschia, dilata lo sguardo senza nutrire la visione»46. In base alla nostra analisi, la dialettica personalizzante di intériorisation/extériorisation può intendersi come un passaggio dall’opacità del regarder alla lucidità del voir. Ma ecco, allora, in Mounier due istanze, circa la persona, che parrebbero decisamente antitetiche: l’istanza del «volto» il quale, nella sua figuralità, privilegia il contorno che racchiude, l’angustia spaziale; e l’istanza del «profondo» e dell’«inesauribile». Infatti: come conciliare il «vedere» ed il suo correlato figurale con il mistero? Forse che si può vedere il mistero? Inoltre: la «conversione intima» è ricerca di un en soi interiore, in cui risiedere chez soi. Ma come posso attingere in me un «in sé», se ciò che mi qualifica è l’‘inesauribile’? Il fascino che Mounier nutre, fin dalla giovinezza, per la grande mistica spagnola, per il Nada e la ‘Notte Oscura’ dovrebbero fargli privilegiare l’‘inesauribile’. E parimenti la passione per il ‘profondo’ che gli deriva dalla sua formazione bergsoniana dovrebbero indurlo a svalutare la figuralità spaziale della forma. Ma proprio qui si può misurare un altro scarto significativo di Mounier rispetto a Bergson. Per Bergson ogni figuralità spaziale che scaturisce dal «profondo» dello «slancio vitale» non è che una sua «caduta entropica»: un suo sedimento, un ‘precipitato’ residuale. Mounier invece attribuisce alla figuralità spaziale del «volto» un rilievo ontologico pari a quella del «profondo» e dell’«inesauribile». Perché? Perchè la capacità (al di là del «guardare») di «vedere» il «volto» dell’altro può nascere in noi solo da un passione per l’«inesauribile» e l’«irriducibile» che è nell’altro: passione che è uno scommettere, rischioso e drammatico, su di un’ulteriorità, oscuramente presentita, oltre ciò che in lui immediatamente ci sconvolge e minaccia. Solo a questo punto ci si può illuminare, nell’altro, un «volto»: che, proprio nel suo limite figurale, evoca l’«inesauribile» che è in lui, ne divie46

D. DE ROUGEMONT, Journal, cit., p. 111, 61. ( Il corsivo nel secondo brano è mio).

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ne «cifra» essenziale. E ciò vale a suscitare anche in me, contestualmente, un nuovo «volto» (proteso nella nitidezza del «vedere», non più succube dell’opacità del «guardare»), anch’esso «cifra» del mio «inesauribile». Ed è la luce di questi due «volti» che consente il loro «incontro», la reciprocità della «comunicazione». Ma questa luce può nascere solo da quella che, nella Introduction, Mounier chiama «esperienza notturna», «passione della Notte» (cioè: dell’«irriducibile» e dell’«inesauribile») nel mio rapporto con l’altro e con me stesso. Dunque: certo, come Mounier scrive nel Traité du caractère, «il mistero ama la luce» (come nello splendore epifanico di un’icona russo-ortodossa). Ma nell’esperienza personale è solo dalla «passione per la Notte» che può scaturire tale «luce»: nella concretezza di un «volto» umano, luce e notte si confondono47. 47

E. MOUNIER, Introduction, cit., pp. 172-173. «Ma ecco che sorge davanti a me, in me, un punto oscuro, un enigma, lo sbarramento di uno sconforto, la resistenza di un essere, lo strazio di una solitudine, la stranezza di un avvenimento, e con esso una sorda protesta contro l’ordine delle mie idee, delle mie ragioni, della mia vita, delle mie parole. La passione della notte mi afferra, una passione di distruggere l’abitudine e l’evidenza, di far silenzio, per lasciare che quella cifre insolite comunichino il loro messaggio inatteso» (ibidem). Anche de Rougemont insiste, in un rapporto di coppia all’insegna dell’amour action, sulla finitudine figurale quale condizione dell’incontro e della mutua creazione di due volti personali, nel loro reciproco illuminarsi. Egli scrive: «non v’è dubbio che l’occidentale cristianizzato si distingue dall’orientale per il suo potere di approfondire l’essere creato in quel che ha di particolare. È qui tutto il segreto della nostra fedeltà. La sapienza orientale cerca la conoscenza nell’abolizione progressiva del diverso. Noi cerchiamo la densità dell’essere nella persona distinta, incessantemente approfondita come tale. “Quanto più conosciamo le cose particolari tanto più conosciamo Dio” dice Spinoza». In sostanza, l’autentico rapporto interpersonale (di cui, per de Rougemont il matrimonio cristiano è emblema privilegiato) «presuppone l’accettazione del diverso, quindi dell’incompleto, la presa sul concreto nelle sue limitazioni». «È sulla terra che bisogna amare», nella «nostra condizione finita e limitata». L’amour action che vive in un autentico rapporto di coppia è «l’accettazione dell’essere limitato, amato perché mi chiama a crearlo, che si volge con me verso il giorno per rendere testimonianza della nostra alleanza» (D. DE ROUGEMONT, L’Amour et l’Occident, cit., p. 377, 369, 367, il corsivo è mio).

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Ed è qui che può ulteriormente misurarsi un’altra rilevante differenza tra Mounier e Lévinas. In questi, la radicale alterità del visage de l’autre preclude ogni sua raffiguarazione (intesa da Lévinas unicamente come riduzione dell’altro a me stesso che lo raffiguro, con possibili esiti totalitari). E così l’aprirsi al «volto dell’altro» pare escludere, qui, ogni possibilità di incontro come «profondità di comunione». Come rileva A. Danese: si ha, in Lévinas, un «volto senza il tu». Se Jean Lacroix definisce Lévinas «il più grande metafisico attuale di ispirazione personalista», sono da condividere le motivate perplessità espresse, al riguardo, da Gaspare Mura, e, ancor prima, da Armando Rigobello48. L’intimo nesso che Mounier pone tra la «vertigine della profondità» e il limite figurale dei volti personali è ribadito in varie sue pagine. In Le Personnalisme si legge: «non v’è sfumatura dello spirito che non apra il varco ad un gesto del corpo, né un movimento che non disegni nello spazio un gesto dello spirito». E nel Traité: «il limite è disegno, superficie sensibile, vera bellezza della persona». E nell’Introduction: «strettezza è condizione di profondità». Ma soprattutto, ancora nel Traité: «il mistero ama la luce: esso aspira a precisarsi in forme afferrabili. Ma quanto più si esprime, quanto più si popola di forme, tanto più contemporaneamente s’approfondisce come mistero ed appesantisce il suo segreto»49. Questo nesso strut48 A. DANESE, Unità, cit., p. 102; J. LACROIX, Le personnalisme comme antiidéologie, Paris, PUF, 1972: trad. it. Milano, Vita e Pensiero, 1974, p. 115; cfr. G. MURA, Emmanuel Lévinas: ermeneutica e separazione, Roma, Città Nuova, 1972, p. 48, 192; cfr. A. RIGOBELLO, L’impegno ontologico, Roma, 1977, pp. 96 ss. 49 E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit., p. 39; Introduction, cit., p. 93; Traité du caractère (1947), in Œuvres, cit., II: trad. it. Roma, Paoline, 1949, p. 105. Come ho già rilevato, il tema mounieriano del «mistero che ama la luce» può ben richiamare la teologia dell’icona nella spiritualità delle Chiese orientali. Può essere interessante, al riguardo, ricordare il ruolo rilevante che svolsero nell’ambito del personalismo francese personaggi come Nicolaj Berdjaev, Sergej Bulgakov, ed Alexander Marc. Intensa e quanto mai significativa fu la collaborazione di Berdjaev ad Esprit, e quanto ad A. Marc (pseudonimo di Alexander Marcovitch

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turale tra limitatezza e infinità può anche spiegarsi in Mounier per il rilievo centrale che egli accorda al tema cristologico dell’ Incarnazione: «focolare della storia del mondo»50. La persona è una realtà incarnata, impastata di carne e di sangue, di materia; ad essa, dunque (a meno di non voler vanificare in un modo, per così dire, ‘monofisita’ e ‘docetistico’ il substrato materiale che la nutre) la figuralità è essenziale. Inoltre: il mio aprirmi ad un ‘tu’ può intendersi come un mio ‘incarnarmi’ in lui in forza di una «relazione di transvivibilità»51. In Le Personnalisme Mounier scrive, infatti, che se Pietro si apre autenticamente a Giovanna, «Pietro è Giovanna». E nella Introduction egli rileva che il ‘noi’ crea «un universo di esperienza che non aveva realtà al di fuori di questo incontro», e che, nella sua singolarità inconfondibile di realtà incarnata, esso rimanda, anche qui, all’espressività figurale di gesti, parole, sguardi solo in cui l’«incontro» ha vita concreta52. Il «volto», ho detto, usando un termine jaspersiano, come «cifra» (Chiffre) dell’«inesauribile». Ma è già l’urto traumatico dell’altro su di me, che mi sfida, in una «disponibilià» rischiosa, ad aprirmi all’‘inesauribile’, e che ne è già, di questo «inesauribile», testimonianza drammatica. Tale «urto», in Mounier, richiama allora fortemente ciò che in Jaspers è la «situazione-limite» (Grenzesituation): anche se, mentre questa in Jaspers testimonia la radicale ed inaccessibile trascendenza dell’Essere (come Umgreifende) rispetto alle nostre finitudini esistenziali, in Mounier essa tende piuttosto a configurarsi, immediatamente, in un ambito di intersoggettività Lipsanskj), egli fu al centro dei primi incontri e sodalizi personalisti tra gli anni ’20 e ’30: come le riunioni del celebre Club du Moulin Vert (al primo piano del caffè parigino nella via omonima presso la porta di Orleans): club che de Rougemont definì «la culla del personalismo». Sempre de Rougemont definì A. Marc «il personaggio-chiave della generaziome personalista degli anni ’30». Cfr. A. ACKERMANN, Denis de Rougemont, cit., p. 188. 50 E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit., p. 87. 51 A. DANESE, Unità, cit., p. 108. 52 E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit., p. 106; Introduction, cit., p. 97.

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umana. Per Jaspers, di fronte alle «situazioni-limite» (per lui morte, malattia, colpa…) l’unica autentica possibilità esistenziale che ci si offre è di accogliere lo «scacco» e «naufragio» della nostra finitudine: al contempo costitutivamente protesa all’Essere e da esso costitutivamente relegata. In sostanza, l’autenticità esistenziale è un riconoscersi inchiodati sulla soglia delle ‘situazioni-limite’. Come egli scrive: «la domanda che non si inchioda più di fronte al mistero perde stupidamente la propria esistenza nella risposta». Per Mounier, invece, appunto, «il mistero ama la luce». Egli scrive nella Introduction che «il limite così vibrante al bordo dell’azione non chiama all’arresto, ma al salto, all’avventura e alla scommessa», che innestano quell’incontro e quella comunicazione in cui (e non nella «pace» di un «silenzio» rassegnato come in Jaspers) risiede la vera autenticità esistenziale. La «situazione-limite» jaspersiana, in altri termini, in Mounier diviene un événement (l’événement sera notre maître intérieur, egli scrive in un sua nota di diario): capace di aprirci ad una speranza, che ci provoca (ecco riemergere Bergson) ad uno «slancio vitale», che ci riscatta dall’auto-pietrificazione del regarder, nella sua opacità che offusca a noi stessi il nostro (e l’altrui) «volto»53. Nella Introduction Mounier rileva come negli esistenzialismi, circa l’azione, prevalga il criterio della sua «autenticità» su quello della sua «efficacia»: anche, e soprattutto, nel senso di «comunicazione». L’autenticità si esprime in una «decisione» solitaria (del Sein zum Tode in Heidegger, del riconoscimento del «naufragio» in Jaspers). Pare quasi, nota Mounier, che sia solo la «decisione», qui, ad essere «divina». Ma ciò vale singolarmente, egli prosegue, anche per un esistenzialismo religioso come quello di Kierkegaard. E cita una frase dalla Postilla che suona: «non la verità è la verità, ma la

53

Cfr. anche E. MOUNIER, L’événement et nous (1930), in «Bulletin», cit., 1953, n.3: trad. it. in G. CAMPANINI, Intellettuali e società nella Francia del Novecento, Milano, Massimo, 1995, pp. 188-193.

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via alla verità»; per cui, anche qui, il ‘come’, nella «decisione» sembra prevalere sul ‘ciò che’. Ma, riconosce Mounier, ciò si riconnette in Kierkegaard ad un’istanza «teocentrica», quella del rapporto paradossale della finitudine del singolo con l’Eterno: «indicibile», absconditus, inesauribile. Il tormento di Kierkegaard è per l’autenticità dell’esprimersi di tale esperienza; ed è proprio per tutelarne l’«espressione» autentica, che egli la considera incompatibile con la «comunicazione» di essa ad altri, in una vita sociale, la quale non potrebbe che sfigurarla, vanificare il suo carattere paradossale. Proprio per questo il «cavaliere della fede» kierkegaardiano vive sotto le sembianze di un tranquillo borghese; sempre questo, forse, spiega lo scrivere di Kierkegaard sotto pseudonimi, il suo arrestarsi di fronte al pastorato, e al matrimonio con Regina54. Qui si misura uno scarto essenziale di Mounier nei confronti di Kierkegaard (anche se, nell’Introduction, egli si sforza di attenuarlo), dato che per Mounier l’autenticità dell’esperienza non può prescindere dalla «comunicazione» e dall’«incontro» orizzontale con le alterità umane. E tale scarto si spiega per il fatto che, per Mounier, l’«inesauribile», l’absconditus non ha solo una valenza teologica, ma abita anche, in qualche modo, misteriosamente, nel profondo di ogni persona umana. (Ego sum homo absconditus, noli me tangere, scrive Mounier nella Introduction).55 E non a caso, il paradosso, la 54

E. MOUNIER, Introduction, cit., pp. 123-124, 147-148, 88-89. E. MOUNIER, Traité, cit., pp. 609-610. Se in Sartre il pudore viene interpretato come timore di espropriazione, per Mounier invece esso è «vestale di una specie di poesia del segreto». Ed egli scrive anche: «c’è nella distanza spaziale come un simbolo imperfetto della trascendenza, e nel comportamento del segreto come un riconoscimento della distanza metafisica». Va rilevato che anche per de Rougemont quel che egli definisce, in un rapporto di coppia, come amour action, di ascendenza agapica ( in contrasto con l’amour passion, che egli demistifica, nelle sue origini catare e manichee, come mera passione nichilistica ed ascetica di morte e di estraniazione dalla finitudine terrena) assurge a cifra privilegiata del rapporto del singolo col Dio cristiano. In tal modo egli considera «l’equilibrio imperfetto del matrimonio in una prospettiva aperta e nell’attesa, felice o in55

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drammaticità che vive il singolo kierkegaardiano nel rapporto verticale con Dio, per Mounier si ripropone, analogamente, nell’esperienza orizzontale dell’altro. Proprio per questo la persona umana è l’analogon privilegiato di Dio. In Personnalisme et christianisme Mounier rileva, al riguardo, che, mentre le filosofie dell’antichità ponevano intermediari tra l’umano e il divino, e ancora Averroè, come Origene nelle sue teofanie, «sentiva la necessità di porre tra l’anima e Dio, come una specie di tampone, l’intelletto agente», Agostino definisce, invece, il rapporto tra la persona umana e Dio nulla interposita natura56.

felice, della perfezione». E aggiunge: «so di tentare un’impresa folle (e al tempo stesso affatto naturale) per vivere il perfetto nel non perfetto. Ma tuttavia non ignoro che questo sforzo porta con sé una verità imperturbabile, perché testimonia ininterrottamente a favore di ciò che trascende ogni risultato, anche se eccellente» (D. DE ROUGEMONT, L’Amour et l’Occident, cit., p. 360). E non a caso de Rougemont sottolinea che l’‘urto’, la drammaticità che può contrassegnare il rapporto tra due esistenze, e che nondimeno resta (anche per lui come per Mounier) condizione essenziale per un loro effettivo ‘incontro’, è analogo a ciò che il singolo vive, kierkegaardianamente, nel suo ‘incontro’ con Dio. Per Kierkegaard «l’uomo finito e peccatore non potrebbe mantenere col suo Dio, che è l’Eterno e il Santo, se non delle relazioni d’amore mortalmente infelici. “Dio crea tutto ex nihilo” e quelli che Dio elegge per amor suo “comincia con l’annientarli”. Dal punto di vista del mondo e della vita naturale, Dio appare allora come “il mio mortale nemico”» (ivi, p. 379). Circa Kierkegaard, se Mounier scrive che egli «subisce sfortunatamente l’influsso della corrente romantica, e non giunge, dalla sua scontrosa solitudine, ad incontrare il mondo e gli uomini» (E. MOUNIER, Le Personnalisme, cit., p. 19), per de Rougemont «indubbiamente Kierkegaard non arrivò a “recuperare” il mondo finito che nella coscienza d’averlo perduto, consapevolezza infinitamente fecondata dal suo genio; non riebbe Regina, ma non cessò mai d’amarla e di dedicarle tutta l’opera sua. E probabilmente quest’opera era la palestra della sua reale fedeltà. Perché cercare al di fuori della vocazione tipicamente unica del Solitario il segreto del suo scacco umano?» (D. DE ROUGEMONT, L’Amour et l’Occident, cit., p. 380). 56 E. MOUNIER, Personnalisme et christianisme (1939 ), in Œuvres, cit., I, p. 735.

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MOUNIER E IL PERSONALISMO NEI MANUALI SCOLASTICI DI STORIA DELLA PEDAGOGIA Giuseppe Zago

1. Premessa Obiettivo principale dell’indagine è stato quello di verificare se e come la figura di Mounier e il Personalismo (e in particolare il Personalismo pedagogico) sono stati presentati nella Scuola secondaria, soprattutto agli studenti che si preparavano all’insegnamento elementare e materno negli Istituti e nelle Scuole magistrali1. In so1

Nato con la Riforma Gentile (art. 53, R.D. 6/5/1923, n° 1054), l’Istituto Magistrale è stato soppresso a partire dall’anno scolastico 1998/1999 (D.M. 10/3/1997). I suoi programmi sono rimasti sempre quelli gentiliani del 1923, salvo alcune modifiche, non sostanziali, introdotte nel 1945, alla fine della guerra. Partendo dall’identificazione di educazione e formazione dell’uomo in senso lato, i programmi hanno finito per far coincidere quasi perfettamente filosofia e pedagogia e per farle intendere e studiare come storia delle teorie filosofiche e educative. Si spiega così il fatto che molti manuali in uso negli Istituti magistrali risultino una semplice variante di manuali di storia della filosofia destinati ai Licei, in quanto sono il risultato di un’integrazione della trattazione originaria con alcuni capitoli o paragrafi dedicati all’esposizione di teorie pedagogiche o di esperienze educative. Accanto all’Istituto Magistrale, dobbiamo ricordare la Scuola Magistrale triennale, sorta nel 1933 in seguito alla trasformazione della Scuola di Metodo e destinata a preparare le ‘educatrici d’infanzia’. La sua soppressione è avvenuta contestualmente a quella dell’Istituto Magistrale. Per una ricostruzione storica complessiva della formazione magistrale in Italia, cfr. R.S. DI POL, Cultura pedagogia e professionalità nella formazione del maestro italiano. Dal Risorgimento ai giorni nostri, Torino, Sintagma,1998.

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stanza ci si è proposti di verificare in quale misura e in quali forme le idee di Mounier e, in generale, del Personalismo hanno circolato nella Scuola secondaria negli ultimi cinquant’anni e quali possibilità hanno avuto gli studenti di conoscerle e di apprezzarle. Per operare questa verifica è stato scelto come oggetto di indagine il manuale di storia della pedagogia, o meglio di storia della filosofia e della pedagogia2. Esso è stato considerato dal punto di vista storico, sia come strumento didattico utilizzato con finalità informative e formative, sia come documento o testimonianza della stagione culturale in cui è stato composto e delle ‘sensibilità pedagogiche’ del momento3. 2

Sui manuali di storia della pedagogia (e della filosofia) resta sempre valido, anche per la ricchezza di riferimenti ed esemplificazioni, L. SANTELLI BECCEGATO, L’insegnamento della storia della pedagogia, Brescia, La Scuola, 1981. Molti spunti interessanti sono contenuti anche in E. DAMIANO, L’insegnamento della pedagogia nella nuova secondaria, in Riforma della scuola secondaria superiore e insegnamento della pedagogia, Atti XXVI Convegno di Scholé, Brescia, La Scuola, 1988 (in part. pp. 84-86). Con taglio storico-metodologico: F. DE VIVO, L’insegnamento della pedagogia attraverso i manuali: spunti per una ricerca, in L’istruzione secondaria superiore in Italia da Casati ai giorni nostri, a cura di E. Bosna e G. Genovesi, Bari, Cacucci, 1988, pp. 257-26. Per una panoramica su alcune questioni di ordine didattico: M. LAENG, Manuali, autori, problemi, «Nuova Secondaria», a. XIII, 7, 1996, pp. 7-9 e S. MARTINI, Manuale, testo filosofico e unità didattica, «Studium Educationis», a. II, 2, 1997, pp. 230-234. 3 Una ricerca sistematica sui manuali è stata avviata, fin dagli anni Ottanta, in Francia allo scopo di registrare tutta la produzione a partire dal periodo rivoluzionario. Sotto la direzione di Alain Choppin, sono stati pubblicati numerosi repertori analitici ognuno dei quali presenta i testi di insegnamento per le varie discipline scolastiche (greco, italiano, latino, tedesco, spagnolo, inglese…). Di ogni manuale vengono indicate tutte le edizioni conosciute e i principali luoghi in cui possono essere reperite: cfr. A. CHOPPIN (dir.), Les manuels scolaires en France de 1789 à nos jours, (collection EMMANUELLE), Paris, INRP et Pubblications de la Sorbonne, 1987. Per l’impostazione metodologica della ricerca: A. CHOPPIN, Manuels scolaires: histoire et actualité, Hachette éducation, Paris, 1992. Da ri-

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Quale che sia l’opinione che si può avere sul manuale, è certo che esso è stato (ma rimane ancora) uno strumento didattico centrale nell’insegnamento secondario: le scelte e le esclusioni come le interpretazioni e i giudizi riportati nelle sue pagine hanno concorso a formare quello che potremmo definire il «senso comune storicoeducativo» di tante generazione di studenti e docenti, i quali sono stati indirizzati ad attribuire maggiore o minore rilevanza a questo o a quell’autore, a questa o quella corrente culturale soprattutto sulla base della lettura e dello studio del manuale. Tali scelte e valutazioni rispecchiano sicuramente gli orientamenti ideali e gli interessi culturali di un certo periodo storico e fanno del manuale una autentica ‘fonte’ o ‘documento’ per ricostruire la storia culturale, oltre che pedagogico-didattica, di un certo contesto sociale. Le scelte (e le esclusioni) non sono però che un aspetto della complessa struttura di un manuale: accanto ai contenuti, vanno considerate anche le modalità della loro presentazione. Una forma più o meno critica di esposizione o una ricostruzione più o meno documentata, attraverso il ricorso alle fonti dirette o alla bibliografia specifica, producono innegabilmente effetti diversi nella conoscenza e nell’apprezzamento di una teoria o di una istituzione educativa. Le valutazioni, più o meno esplicite, con cui un testo sottolinea il valore o il significato, oppure i limiti e le incongruenze, di una dottrina o di una esperienza possono, in altri termini, essere proposte e argomentate a livelli diversi, eventualmente anche con il ricorso ad un apparato iconografico, statistico o bibliografico. Si tratta di soluzioni che possono valorizzare la funzione didattica di un testo, cioè la sua capacità di promuovere la riflessione critica e il ripensamento personale, avviando lo studente all’uso degli cordare, infine, i numeri speciali delle riviste “Histoire de l’education”, (Manuels scolaires, Etats et sociétés: XIXe-XXe siècles, n° spécial 58, 1993) e «Argos» (Manuels scolaires: qu’en faire?, 20, 1997). Fra le recenti ricerche italiane, da segnalare Teseo. Tipografi e editori scolastico-educativi dell’Ottocento, a cura di G. CHIOSSO, Milano, Bibliografica, 2003.

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strumenti della ricerca storico-educativa e aiutandolo ad orientarsi nel dibattito storiografico. La correttezza scientifica e la validità didattica di un manuale sono condizionate, quindi, da un lato dai criteri di selezione e ricostruzione adottati dal suo autore e, dall’altro, dalle modalità dell’esposizione che dovrebbero aiutare il lettore a ‘situare’ i vari contenuti e guidarlo criticamente nella loro comprensione e interpretazione. Come avremo modo di vedere esaminando le trattazioni dedicate ai temi della nostra indagine, non sempre i manuali riescono ad offrire, pur nelle inevitabili scelte connesse all’adozione di un certo criterio interpretativo, una esposizione criticamente fondata o comunque tale da mettere in grado lo studente (e il docente) di non ‘dipendere’ esclusivamente da ‘quel’ punto di vista, ma di sapere porsi su un piano più consapevole ed avvertito. Non si può certamente trascurare il ruolo di mediazione che il docente svolge fra il testo e lo studente. Come conferma la quotidiana esperienza didattica, il manuale rimane lo strumento principale di cui egli si serve per impostare il suo lavoro: ciò non esclude però una sua azione di selezione, di integrazione (forse anche di ‘correzione’) o di approfondimento. Questa consolidata pratica scolastica ha sicuramente notevoli effetti sui processi di insegnamentoapprendimento, ma appare di difficile controllo e ricostruzione in sede storica in quanto legata al contingente, all’hic et nunc, all’irripetibile. Qualche traccia di questa prassi potrebbe essere colta attraverso un esame dei registri di classe (o del «Giornale del professore») o dei quaderni di appunti degli studenti o anche da una semplice ricognizione su vecchi manuali usati: certe sottolineature, certe esclusioni o certe annotazioni potrebbero suggerire varie ipotesi sulle concrete modalità d’uso di un certo libro di testo, come pure sui temi e sugli autori privilegiati o trascurati. Una ricostruzione sistematica di questo aspetto della didattica si presenta notevolmente ardua non solo per l’oggettiva impossibilità di considerare tante singole situazioni, ma anche per la carenza di 116

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adeguata documentazione, come può testimoniare lo stato degli Archivi e delle Biblioteche degli Istituti scolastici. Per ricostruire in che modo le idee di un autore o di una corrente filosofica o pedagogica sono state trasmesse nella scuola e sono entrate a far parte di quello che abbiamo definito «senso comune storico-educativo», il riferimento principale resta dunque il manuale, o meglio l’analisi dei vari manuali adottati. La presente indagine è stata condotta su un campione di 40 testi, pubblicati (o ri-pubblicati con sostanziali aggiornamenti) nella seconda metà del secolo scorso. Per tentare di avere un campione rappresentativo è stato utilizzato un duplice criterio di scelta: da una parte la diffusione del testo, attestata – oltre che dall’indice delle adozioni – anche dalla longevità del testo e dalla capacità della Casa editrice di essere presente con il suo circuito commerciale su tutto il territorio nazionale; dall’altra, la considerazione dell’autore (o degli autori), spesso un accademico, al fine di esaminare le impostazioni più originali – culturalmente e didatticamente – e di avere quindi una pluralità di interpretazioni fra i testi esaminati. La scelta di partire dagli anni Cinquanta è sembrata quasi ‘obbligata’: nel 1950 muore infatti Mounier e cominciano a circolare in traduzione italiana le sue opere. In questi stessi anni, si presenta assai vivace il dibattito sui temi della persona, considerata sia in prospettiva filosofica sia in prospettiva pedagogica e anche politi4

Nei primi anni Cinquanta compaiono le principali opere di Stefanini, come Metafisica della persona (1950), Personalismo sociale (1952) e Personalismo educativo (1955). Nonostante le indubbie differenze sul piano teoretico, esse contengono anche significative convergenze sul piano pratico con il pensiero di Mounier. Sempre negli stessi anni, un importante momento di discussione e di propulsione del movimento personalistico in prospettiva pedagogica fu rappresentato dai Convegni di Scholè, avviati nel 1954, e a cui parteciparono, oltre a Stefanini, molti studiosi di area cattolica. Dati gli interessi della nostra indagine, ci limiteremo a ricordare alcuni nomi che avremo occasione di incontrare quali autori di manuali: da Agazzi a Di Napoli, a Baroni, a Flores d’Arcais, a Catalfamo, fino a Mencarelli, Bellerate, Laeng, Giugni…

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ca4. La ipotesi sulla presenza di Mounier e del Personalismo nei testi di questo decennio non si è rivelata prematura perché -come vedremo – qualche risultato significativo è emerso. Nel corso della indagine sarà inevitabile fare frequente riferimento alla figura di Maritain, non solamente per il rapporto che ebbe con Mounier, ma soprattutto per disporre di un termine di confronto utile per ‘avere la misura’ della attenzione che ogni testo ha dedicato a quest’ultimo pensatore. Per ricostruire invece la attenzione riservata al Personalismo italiano, sarà inevitabile fare riferimento alla figura di Luigi Stefanini per il ruolo fondamentale che svolse nel dibattito filosofico e pedagogico del dopoguerra e che unanimemente gli viene riconosciuto5. La comparazione fra gli

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È forse opportuno avvertire che l’accostamento di queste figure e di questi temi non presuppone un loro rapporto diretto o reciproco. Come ha ricordato anche Chiosso: «Nonostante qualche apparente analogia, la “metafisica della persona” stefaniniana si svolgeva in modo del tutto indipendente dal movimento di “Esprit” e dalla posizione di Emmanuel Mounier, in coerenza con l’esperienza del Personalismo italiano che si manifestò più come un esito post-idealistico che come ripresa della riflessione dei personalisti francesi» (Profilo storico della pedagogia cristiana in Italia, Brescia, La Scuola, 2001, p. 190). La precisazione ci pare necessaria nel momento in cui procediamo ad accostare figure e correnti i cui rapporti rappresentano un problema storiografico che non è oggetto della presente indagine. Per una ricostruzione storica di questi rapporti, si rinvia a A. LAMACCHIA, Mounier in Italia, «Quaderno filosofico», VI, 1982, pp. 139-172; A. RIGOBELLO, Il Personalismo, Roma, Città Nuova, 1975, e ID., Mounier e il Personalismo italiano, in Mounier trent’anni dopo, Milano, Vita e Pensiero, 1981, pp. 86-94; G. CAMPANINI, Mounier in Italia. Nota critico-bibliografica, in Mounier trent’anni dopo, cit., pp. 183-189; Persona e personalismi, a cura di A. Pavan e A. Milano, Napoli, Dehoniane, 1987. Cfr. anche A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo. Il concetto di ateismo e la storia della filosofia come problema, Bologna, Il Mulino, 1964 (in part. pp. 342-343), e O. FARACOVI POMPEO, Spiritualismo ed esistenzialismo tra Francia e Italia, «Rivista di Filosofia», vol. LXXIX, 2-3, 1988, pp. 245-270. Per gli aspetti pedagogici: S.S. MACCHIETTI, Pedagogia del Personalismo italiano, Roma, Città Nuova, 1982.

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spazi assegnati ai due pensatori francesi, come pure la considerazione riservata al Personalismo e al pensiero di Stefanini, possono rivelarsi assai significative ai fini della nostra indagine. La presentazione dei tratti che hanno caratterizzato (e differenziato) le varie filosofie e pedagogie della persona non può che rappresentare un indice dell’accuratezza e della precisione delle informazioni contenute in un manuale. 2. Dagli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta L’esposizione dei risultanti dell’indagine sarà articolata in due periodi, di durata pressoché identica: il primo, dagli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Settanta, e il secondo dalla metà degli anni Settanta fino alla fine del secolo. Una prima analisi, di tipo puramente statistico o quantitativo, rivela alcuni dati interessanti: nel periodo compreso fra il 1950 e il 1975 la figura di Mounier risulta praticamente assente in tutti i 20 manuali esaminati (salvo il caso di un testo di cui diremo), mentre il Personalismo è ricordato in cinque manuali su 20 (=25%). La figura di Maritain è presente invece in 9 manuali su 20 (=45%). Nel periodo compreso fra il 1976 e il 2000 la figura di Mounier compare – sia pur con forme di presentazione differenti per ampiezza e livello di approfondimento – nella maggior parte dei testi (12 manuali su 20, pari al 60%), mentre il Personalismo è ricordato in 18 testi (=80%). Maritain è ricordato invece in tutti i manuali. Anche per questo periodo sono stati considerati 20 testi. Dall’analisi quantitativa possiamo ora passare ad una analisi qualitativa: nel primo periodo in esame, se la figura di Mounier risulta sempre assente, il Personalismo comincia invece ad essere ricordato in alcuni testi, ma solamente a partire dagli anni Sessanta. Va segnalato però il caso di un manuale degli anni Cinquanta che può rappresentare una significativa eccezione: si tratta del testo di Aldo Agazzi, Problemi e maestri del pensiero e dell’educazio119

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ne6. Fra i manuali esaminati, è il primo in cui compare il nome (a voler essere precisi, solamente il cognome) di Mounier e in cui si può trovare anche una schematica presentazione dei motivi principali del movimento personalistico. Mounier, di cui non si ricordano né la vita né le opere, è citato come esponente del ‘comunitarismo cristiano’, cioè di una corrente di pensiero le cui tesi ‘convergono’ nel Personalismo, assieme alle tesi dell’‘esistenzialismo cristiano’ e della «sociologia del neo-tomismo (Maritain)7». Il ‘comunitarismo cristiano’ di Mounier è fatto rientrare nel più vasto Personalismo e questo, a sua volta, come fenomeno storico, viene presentato come uno dei «tre atteggiamenti fondamentali della cultura contemporanea». Esso viene presentato come il tentativo di giungere a un superamento delle altre due concezioni storiche, entrambe ritenute ‘unilaterali’: l’individualismo (il cui sviluppo è ricostruito ricordando alcune posizioni di Schlegel, Stirner, Nietzsche, fino a Kierkegaard) e il sociologismo marxista e nazista (le cui fonti sono indicate in Marx ed Hegel ed una concreta manifestazione storica nell’hitlerismo). Dopo averne delineato gli aspetti etico-politici, Agazzi presenta il Personalismo da altre prospettive: dal punto di filosofico egli precisa che questa corrente rappresenta una configurazione dello ‘spiritualismo dualista’ il quale appare opposto al monismo, sia esso spiritualista (idealismo) o materialista (marxismo). Secondo il Personalismo – precisa Agazzi – «è Persona lo stesso Assoluto, che non è e non coincide con “ciò che è” o con “ciò che c’è” di natura e di storia, ma è “Colui che è”, cioè principio personale». Per il Personalismo risultano quindi «insopprimibili e sacri» sia l’individuo come persona sia l’umanità come solidarietà sociale «che si esprime dalle persone stesse, sulla base della loro natura sociale e di una 6 A. AGAZZI, Problemi e maestri del pensiero e dell’educazione, Brescia, La Scuola,1954-55, 198113, 3 voll. Il testo riprende, con ampie revisioni, il precedente manuale dello stesso A., Educare, Brescia, La Scuola, 1947, 3 voll. 7 Ivi, vol. III, p. 461.

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fratellanza che deriva dalla comune partecipazione alla paternità divina»8. Passando al punto di vista pedagogico, l’autore ribadisce telegraficamente che il Personalismo rappresenta una forma del «neospiritualismo dualista», corrente che fa perno sul concetto di persona e che si articola in varie impostazioni, fra cui il neo-tomismo di Casotti e Petruzzellis, oltre al Personalismo di Stefanini9. Nel manuale di Agazzi queste indicazioni non trovano ulteriori approfondimenti: un cenno è riservato anche a Maritain, di cui si ricorda l’appello a «riattingere le profondità dell’anima e i valori della persona»10. Nelle Conclusioni dell’opera, l’autore invoca un «criterio direttivo fondamentale. L’educazione, infatti, è, insieme, “servizio” alla persona, in ordine al suo pieno integrale sviluppo; e “inserimento” di essa nel mondo della civiltà...». I valori – ricorda sempre Agazzi – sono della persona; «vengono da essa alla civiltà; ritornano, con l’educazione, alla persona stessa»11. Se il manuale di Agazzi può costituire una sorpresa – una piacevole sorpresa dal nostro punto di vista – per la rapidità con cui ha registrato un movimento di pensiero e per la sostanziale fedeltà con cui ha saputo interpretarlo, non può rappresentare certamente una sorpresa il nome del suo autore: Agazzi è stato infatti uno dei protagonisti, in campo pedagogico, del vivace dibattito apertosi sulle posizioni del Personalismo a partire dagli anni Cinquanta. Né possono esser dimenticati alcuni suoi contributi di quegli anni, che affrontano esplicitamente il tema della persona e della sua educazione12. 8

Ivi, vol. III, p. 461. Ivi, vol. III, p. 505. Analoghe considerazioni saranno svolte dall’Autore nella quarta edizione di Panorama della pedagogia d’oggi, Brescia, La Scuola, 19544, cui il manuale esplicitamente rinvia per un approfondimento del «movimento pedagogico forestiero e italiano, dal Positivismo ai giorni nostri» (vol. III, p. 556). 10 Ivi, vol. III, p. 552. 11 Ivi, vol. III, p. 556. 12 Cfr. ad es. A. AGAZZI, Saggio sulla natura del fatto educativo in ordine alla 9

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Come abbiamo detto, il manuale di Agazzi rappresenta un’eccezione: nel ventennio successivo nessun altro testo ricorda il nome di Mounier e molto limitata risulta anche la attenzione concessa al Personalismo. Diviene invece una presenza sempre più frequente la figura di Maritain, presentata con crescente interesse, sia in testi di ispirazione cattolica come pure in testi di ispirazione laica. Fra i pochi testi che cominciano a riservare una qualche attenzione al Personalismo va ricordato innanzitutto il manuale di Giovanni Di Napoli13: si tratta del primo fra i testi esaminati che ricorda il Personalismo, anche se solo in riferimento alla figura di Stefanini, il cui pensiero è definito «Personalismo sociale, teistico e pedagogico»14. Come fenomeno storico, il Personalismo non sembra avere una sua identità autonoma, ma viene fatto rientrare nella più generale corrente spiritualistica, nella quale viene annoverato lo stesso Stefanini, collocato fra gli «spiritualisti cristiani»15. Molto più definita risulta la fisionomia del neotomismo che – secondo l’autore – «è professato in generale dai pensatori cattolici», anche se «non può dirsi la filosofia dei cattolici, perché fra i catto-

teoria della persona e dei valori, Brescia, La Scuola, 1951 (nella bibliografia sono citate due opere di Mounier: Révolution personnaliste et communautaire, 1935, e Manifeste au service du personnalisme, 1936). 13 G. DI NAPOLI, Storia della filosofia e della pedagogia, Casale M., Marietti, 1960. 14 «Lo Stefanini – scrive l’A – contro ogni trascendentalismo ed ogni ontologia che faccia affogare la realtà del singolo io spirituale nel tutto, riafferma energicamente la centralità della persona, a cui si rifanno i valori e da cui deve prendere le mosse ogni azione come ogni istituzione; la persona dice apertura alla società (Personalismo sociale), ma dice soprattutto apertura alla Persona trascendente, che è fonte dei valori per la persona umana (Personalismo teistico)» (Ivi, vol. III, p. 233). Un cenno è riservato anche alle idee pedagogiche di Stefanini (p. 256) e al suo Personalismo educativo. 15 Ivi, vol. III, p. 256.

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lici esistono altri indirizzi di pensiero, come il rosminianesimo, lo scotismo, lo spiritualismo cristiano…»16. Come si può notare, non si fa specifico riferimento al Personalismo; anche in campo strettamente pedagogico, al neotomismo sembra essere assegnato un ruolo di rilievo: molto correttamente, fra i suoi esponenti l’autore ricorda Casotti e Petruzzellis e, forse molto meno correttamente, Flores d’Arcais le cui posizioni possono considerarsi sicuramente molto più vicine a Stefanini e al suo Personalismo17. Nel cenno riservato a Maritain, collocato ovviamente fra i neotomisti, si ricorda che per questo pensatore «compito dell’educazione è la libertà come liberazione dell’uomo dalle tendenze inferiori, e tale compito va realizzato in un’atmosfera personalistica e comunitaria, che si ispiri all’ideale cristiano della vita»18. Sempre nella prima metà degli anni Sessanta, una certa attenzione al Personalismo come corrente pedagogica è offerta dalla seconda edizione del manuale di Giovanni Giraldi, Storia italiana della pedagogia19. Coerentemente con il titolo dell’opera, l’indagine è rivolta alla sola area italiana e quindi non si fa alcun cenno a Mounier o a Maritain. L’autore, nella Appendice dedicata al «momento pedagogico contemporaneo», confessa la difficoltà di distinguere chiaramente dei filoni nella pedagogia italiana del tempo perché, egli scrive, «le scuole hanno perduto i loro contorni precisi: lo spiritualista in pedagogia mostra sollecitazioni sociali ed empiristiche non meno vibranti di quelle del marxista o dell’esistenzialista; per cui incontri i medesimi temi, e timbri identici, in autori di ispirazione decisamente diversa e magari contrastante»20. 16

Ivi, vol. III, p. 235. Ivi, vol. III, p. 258. Oltre a Flores d’Arcais, Di Napoli colloca fra i neotomisti Corallo, Baroni, Agazzi e anche se stesso. 18 Ivi, vol. III, p. 257. 19 G. GIRALDI, Storia italiana della pedagogia, Roma, Armando, 19642 (1963). 20 Ivi, p. 379. 17

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Sempre secondo l’autore, lo spiritualismo italiano, per la sua matrice filosofica, si può differenziare in «correnti qualificate prevalentemente (come) esistenzialistiche, personalistiche e spiritualistiche. Del tutto a sé sta il gruppo dei neoscolastici»21. Più che alla presentazione dei motivi generali di ogni indirizzo, l’autore tenta di individuarne gli esponenti più significativi: così, per il ‘Personalismo spiritualistico’ egli segnala Stefanini come ‘caposcuola’ in Italia. «Lo Stefanini – egli scrive – è il filosofo del Personalismo» e aggiunge poi che «risentono fortemente del Personalismo spiritualistico dello Stefanini non solo i discepoli che si sono dedicati prevalentemente a ricerche teoretiche (come il Rigobello, A.M. Moschetti, Pozzo e Santinello), ma anche Flores d’Arcais». Accanto ai ‘padovani’ citati, egli colloca poi Agazzi, «perché sono evidenti in lui gli influssi del Personalismo attivistico dello Stefanini» e, infine, Catalfamo, la cui posizione viene definita «pedagogia personalistica», approdo cui il pensatore siciliano è giunto dopo l’«iniziazione spiritualistica» ricevuta da Vincenzo La Via, suo maestro22. Questa presentazione del Personalismo rimarrà invariata anche nelle successive edizioni dell’opera che circolerà nelle Scuole superiori italiane fino agli anni Ottanta, con una buona diffusione commerciale e con il titolo definitivo di Storia della pedagogia. Fondamenti filosofici. Basi scientifiche. Ordinamenti scolastici. Fra i manuali degli anni Sessanta occorre ricordare anche quello di Mario Mencarelli e Mario Valeri23. Gli autori, presentando un 21

Ivi, p. 386. Ivi, pp. 388-389. 23 M. MENCARELLI, M. VALERI, Storia della pedagogia, Milano, Mondadori, 1962-19682. Il terzo volume lo si deve a Mencarelli, secondo quanto segnala S.S. MACCHIETTI, M. Mencarelli: trentacinque anni di ricerca pedagogica, in G. GATTI – M.G. LUCCI, M. Mencarelli: bibliografia, Roma, Bulzoni, 1999, p. 24. Il pedagogista toscano avrà modo comunque di ricostruire dal punto di vista storico il movimento personalista in diversi studi successivi (v. in part., Il discorso pedagogico in Italia, Università degli Studi di Siena, Quaderno dell’Istituto di Pedagogia, 1986, pp. 11-87). 22

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panorama del pensiero contemporaneo, indicano fra le più significative correnti il neotomismo e fra i suoi principali esponenti Maritain, ricordato soprattutto per la sua antropologia pedagogica. Fra i testi di ispirazione laica, da ricordare i tre volumi di Nicola Badaloni e Dina Bertoni Jovine24, testo che, come il precedente, non fa riferimento a Mounier o al Personalismo. Un capitolo è dedicato però alle ‘soluzioni spiritualistiche’, ricordate come una delle risposte della filosofia ai problemi sociali e culturali del tempo. Alcuni cenni sono dedicati alla figura di Maritain, presentato come «sostenitore del pensiero scolastico e della teoria delle essenze». Gli autori, comunque, affermano che «ben più interessanti della teoria gnoseologica, sono le tesi politico-sociali, ed in generale la filosofia dell’uomo di Maritain»25. Il testo sottolinea che «pur respingendo la soluzione socialistica e comunistica», Maritain «critica severamente e lucidamente la società capitalistica», «auspica una organizzazione comunitaria della società moderna, e critica lucidamente e severamente la società capitalistica, in nome di una socialità cristiana»26. Riprendendo il pensiero pedagogico di Maritain, il manuale ne ricorda sommariamente i principi generali e le critiche all’educazione contemporanea. La Conclusione dell’opera sostiene però che le obiezioni da più parti rivolte all’attivismo pedagogico contemporaneo «non hanno grande rilievo» in quanto sono dettate da «filosofie e concezioni del mondo che non si vedono in esso rispecchiate». Poiché i «valori sono sempre condizionati storicamente», occorre sviluppare piuttosto l’uso della ragione e dello spirito critico per stimolare a «pensare ciò che nell’esistente dev’essere modificato e per poter dar luogo ad una prassi corrispondente»27. 24 N. BADALONI, D. BERTONI JOVINE, Storia della pedagogia, Bari, Laterza, 1968-19722. 25 Ivi, vol. III., pp. 305-306. 26 Ivi, vol. III., p. 377. 27 Ivi, vol. III., pp. 459-460.

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Fra i testi, pubblicati sempre negli anni Sessanta e destinati a grande fortuna nelle adozioni, non possiamo dimenticare quello di Geymonat e Tisato28. Il manuale – che non ricorda né Mounier né il Personalismo – presenta Maritain come uno dei principali esponenti del pensiero cattolico, soprattutto nel confronto che questo aveva ingaggiato con il movimento dell’educazione progressiva. Dopo aver ricordato alcuni motivi attivistici presenti nella concezione pedagogica maritainiana, il testo sottolinea l’attenzione del pensatore francese verso la «umanità democratica e lavoratrice» e il suo atteggiamento critico nei confronti del Cristianesimo che egli aveva energicamente invitato a liberarsi «da ogni interferenza parassitaria degli interessi umani di classi dirigenti che sono oggi moralmente fallite...». Il testo concludeva però la presentazione in modo problematico: ricordando le critiche rivolte al pensatore francese dalla ‘Civiltà cattolica’ nel 1956, si chiedeva infatti «fino a che punto possono essere considerate ortodosse» le tesi maritainiane29, e quindi fino a che punto potessero essere ritenute fedeli interpreti dell’umanesimo cristiano del tempo. Nella prima edizione del manuale (1962), le pagine dedicate a Maritain erano precedute da una breve presentazione del pensiero pedagogico di Stefanini. L’esposizione sembrava però far riferimento soprattutto ad opere risalenti agli anni Trenta (e in particolare al volume stefaniniano sulla relazione educativa30). Il pensatore veneto veniva collocato tra i rappresentanti del ‘neospiritualismo italiano’, posizione considerata come l’approdo di un iniziale esistenzialismo religioso31. Curiosamente, nel testo, non si fa cenno 28

L. GEYMONAT , R. TISATO, Filosofia e pedagogia nella storia della civiltà, Milano, Garzanti, 1962, 3 voll. 29 Ivi, vol. III, pp. 505-506. 30 Il manuale sottolinea che «per lo Stefanini, come per il Dévaud, il rapporto maestro-scolaro concretizza il rapporto Dio-uomo» e avverte che tale principio rende difficile la salvaguardia della libertà dell’alunno nei confronti di un’azione plasmatrice dell’insegnante (Ivi, vol. III, pp. 503-504). 31 L. GEYMONAT , R. TISATO, Filosofia e pedagogia nella storia della civiltà, cit., vol. III, p. 438.

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alle opere più recenti, degli anni Quaranta e Cinquanta, e quindi alla teorizzazione del concetto di persona condotta da Stefanini. Le curiosità, comunque, non finiscono qui: nella seconda edizione del manuale (1977) la breve presentazione del pensiero di Stefanini sparisce. Il testo si limita a ricordarlo come «uno dei maggiori esponenti della pedagogia cattolica contemporanea in Italia»32, assieme a Casotti, cui dedica una specifica presentazione critica. Anche in quest’edizione -aggiornata e ampliata- non si fa riferimento alla figura di Mounier o al movimento personalistico. Pare opportuno ricordare che Mounier e il Personalismo non sono menzionati anche in molti manuali di grande diffusione, come i ‘classici’ Codignola o Lamanna33, e in testi nuovi, destinati anch’essi a grande fortuna, come l’Abbagnano-Visalberghi34. Non si può dimenticare comunque che il filosofo torinese, nel suo Dizionario di filosofia, la cui prima edizione appariva proprio in quegli anni (1961), alla voce Personalismo scriveva che l’indirizzo espresso, sulla scia di Mounier, da numerosi pensatori cattolici, sostenitori del Personalismo metafisico, ha come caratteristica dominante una «oratoria piuttosto confusa»35.

32

L. GEYMONAT, R. TISATO, Filosofia e pedagogia nella storia della civiltà, Milano, Garzanti, 19772, vol. III, p. 482. 33 E. CODIGNOLA, Il problema dell’educazione, Firenze, La Nuova Italia, 195610, 3 voll. Il testo, che resterà in commercio fino agli anni Settanta, nacque con il titolo Il problema educativo (Firenze, La Nuova Italia, 1936). E.P. LAMANNA, Filosofia e pedagogia nel loro sviluppo storico, Firenze, Le Monnier, nuova ed. rifatta, 1957, nuovissima ed. ampliata, a cura di M. GORETTI, 1970, 3 voll. Il manuale nacque con il titolo Il problema dell’educazione nella storia del pensiero, Firenze, Le Monnier, 1936. L’opera costituiva già un rifacimento del testo, dello stesso A., Il problema della cultura, che aveva goduto, negli anni precedenti, di una larga diffusione. 34 N. ABBAGNANO, A. VISALBERGHI, Linee di storia della pedagogia, Torino, Paravia, 1957-1959, 3 voll. 35 Voce Personalismo, in N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, Torino, UTET, 19712, p. 668.

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Verso la fine del primo periodo che abbiamo individuato per la nostra esposizione si collocano due testi che dimostrano una maggiore attenzione ai temi della nostra indagine: il manuale di Salvestrini, Carboni e Zeppa36, presenta un’impostazione simile a quella del Giraldi: il tentativo è quello di delineare le posizioni di singoli pedagogisti più che di individuare e definire degli orientamenti o dei filoni. Nel panorama pedagogico italiano del secondo dopoguerra, il testo indica una ampia ‘corrente spiritualistica’ nella quale inserisce tutti i pedagogisti cattolici. I temi del Personalismo sono accennati nella breve scheda dedicata alle figure di Stefanini, Agazzi, Catalfamo e Flores d’Arcais37. Il manuale – che non cita mai il nome di Mounier – presenta anche il pensiero di Maritain come una ‘pedagogia personalistica’, senza peraltro compiere particolari distinzioni o approfondimenti38. Nella seconda parte del terzo volume (dedicata alla presentazione di alcuni problemi pedagogici) un capitolo porta il titolo «La rivoluzione personalistica»: senza operare riferimenti a specifici pensatori, il testo sostiene che il ‘Personalismo cristiano’ rappresenta un superamento delle «teorie del naturalismo e del socialismo pedagogico»39. Chiudiamo questo primo periodo ricordando un manuale che cita Mounier per la prima volta come esponente del Personalismo. Il testo, composto da M. Gentile e E. Chiari40, non fa una specifica presentazione del pensatore francese, ma si limita a ricordarlo come esponente del movimento che in Francia predicava il superamento dell’individualismo e del socialismo. Ricordiamo questo testo perché rappresenta il primo segnale del sorgere di quella at36

F. SALVESTRINI, L. CARBONI, P. ZEPPA, Pedagogia. Storia e problemi, Milano, Massimo, 1975, 3 voll. 37 Ivi, vol. III, pp. 222-227. 38 Ivi, vol. III, p. 181. 39 Ivi, vol. III, pp. 295-301. 40 M. GENTILE, E. CHIARI, Educazione e filosofia, Padova, Radar, 1974, 3

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tenzione a Mounier che caratterizzerà molti manuali soprattutto del decennio successivo. 3. Dalla metà degli anni Settanta alla fine del secolo Fra gli anni Settanta e Ottanta si assiste ad una notevole fioritura di nuovi manuali: il vivace dibattito sulla abolizione del libro di testo si era ormai esaurito e l’editoria scolastica riprendeva a pubblicare manuali con un significativo rinnovamento nei contenuti come nella impostazione didattica. Fra i titoli pubblicati nel decennio 1976-1986 abbiamo esaminato una decina di storie della filosofia e della pedagogia: in questi volumi – come poi in quelli che appariranno nel periodo successivo – il riferimento al pensatore francese, come al Personalismo in generale, diviene frequente. Lo spazio dedicato nei singoli testi è certamente diverso, così come diverse sono anche le ‘letture’ e le interpretazioni. Il pensiero mounieriano è presentato sostanzialmente secondo due chiavi di lettura: una di tipo pedagogico (in cui tema principale diviene il rapporto educazione-valori) e la seconda di tipo etico-politico (in cui tema principale diviene la categoria dell’impegno). La chiave di lettura di tipo filosofico (centrata sul rapporto tra libertà umana e drammaticità della situazione esistenziale) è accennata da qualche testo per ricordare la partecipazione di Mounier al dibattito fra esistenzialismo ateo e esistenzialismo religioso41. Non rara è voll. 41

Una lettura prevalentemente filosofica è quella contenuta in B. BELLERATE, G. CIANCIO, G. FERRETTI, A. E U. PERONE, Filosofia e pedagogia, Torino, SEI, 1978, 3 voll. Mounier è ricordato brevemente come «filosofo cattolico» e «filosofo del Personalismo comunitario» (vol. III, p. 422); Il Personalismo non è ricostruito attraverso i suoi esponenti, ma è collocato fra le «pedagogie tradizionali» (non tradizionalistiche, precisano gli autori) per la modalità “classica” di approccio al problema educativo. L’orientamento personalistico viene qualificato «di ispirazione deduttivistica», «in quanto parte da un modello o concezione di per-

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però la osservazione che il pensiero mounieriano non si presenta in forma sistematica e che non sempre appare caratterizzato da rigore speculativo. In ordine cronologico, il primo testo a dare un certo rilievo al pensiero Mounier è il manuale di Giuseppe Flores d’Arcais42. Il pensatore francese viene letto soprattutto in chiave pedagogica, cioè «per i riflessi educativi» contenuti nella sua teorizzazione della persona. L’autore precisa sinteticamente alcuni temi pedagogici impliciti nel pensiero di Mounier: dal fine dell’educazione al rapporto formazione-valori, al ruolo formativo delle istituzioni sociali, al tema della Persona divina. Il centro del messaggio mounieriano viene colto nel «riconoscimento che la persona è chiamata, nel mondo, a testimoniare il Valore» in ambito teoretico, ma anche e soprattutto nella propria attività, cioè in ambito pratico: «riconoscimento, dunque, di una personale attività, e tuttavia sempre rapportata al quadro di valori che, se sono tali, non possono essere né transeunti, né mutevoli, né soggettivi»43. Il testo cerca, inoltre, di distinguere il Personalismo di Mounier da quello di altri pensatori contemporanei, come ad esempio Berdiajev e Marcel. Anche nella brevissima presentazione di Maritain si ricorda l’importanza assegnata agli «autentici valori della persona umana, in quanto ancorati a criteri di valutazione oggettiva e universale, i soli che permettano un giudizio sulla vita concretamente vissuta»44. Diverso appare però l’inquadramento: Maritain viene inserito nelsona, cui ci si deve adeguare, pur seguendo le vie che il momento o lo sviluppo scientifico consigliano» (p. 569). Interessante (e originale per quegli anni) risulta il collegamento fra il Personalismo e quelle teorie psicologiche (o «teorie umanistiche della personalità») che «rivendicano l’attività dell’uomo soggetto e l’originale individualità di ogni uomo» (p. 464). Se non andiamo errati, è la prima volta che un manuale apre questa prospettiva, e quindi ricorda gli studi di tipo psicologico sulla persona. 42 G. FLORES d’ARCAIS, Educazione e pedagogia, Milano, Fabbri, 1976, 3 voll. 43 Ivi, vol. III, pp. 278-279.

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l’ambito dell’‘attivismo spiritualistico’ e, più in generale, fra le pedagogie dell’azione, mentre Mounier è collocato fra le pedagogie dell’esistenza, e in particolare nell’ambito della discussione fra esistenzialismo ateo e esistenzialismo religioso. Il testo arresta la sua ricostruzione alla metà degli anni Cinquanta e quindi non si occupa del Personalismo pedagogico italiano e dei suoi esponenti. Fra le letture di tipo pedagogico, da segnalare sicuramente quella presente nel manuale, di orientamento culturale ben diverso dal precedente, di Sergio Moravia45. È bene precisare innanzitutto che il capitolo su «Ideologie e educazione nel Novecento» (e quindi anche la presentazione di Mounier) lo si deve a Franco Cambi. L’esposizione riservata al pensatore francese – collocata nella parte dedicata alla pedagogia cristiana – è densa e le valutazioni sono assai lusinghiere: il Personalismo comunitario appare «rivolto a realizzare un ideale di uomo “totalmente impegnato” sia verso la storia che verso i valori spirituali e tendente a sintetizzare le esigenze dell’esistenzialismo con quelle del marxismo, cioè la responsabilità personale e l’impegno sociale». Dopo averne ricordato le ispirazioni culturali, si afferma che questo pensiero «manifesta una accentuata valenza pedagogica», che pare superiore addirittura a quella di Maritain (cui è riservata un’ampia esposizione del pensiero filosofico, ma molto più limitata di quello pedagogico). «La rivoluzione personalista – spiega il testo – è essenzialmente una trasformazione educativa» e «la costituzione di un uomo nuovo è il compito primario dell’educazione secondo Mounier». Il manuale riconosce, infine, «un significativo spessore teorico e, insieme, una fisionomia aperta, problematica, antidogmatica» al pensiero mounieriano che si è sviluppato intrecciando la riflessione pedagogica con la elaborazione di una teoria della persona46. 44

Ivi, vol. III, p. 257. S. MORAVIA, Educazione e pensiero, Firenze, Le Monnier, 1983, 3 voll. 46 Ivi, vol. III, p. 546. Queste considerazioni saranno confermate anche in alcuni testi recenti, diretti soprattutto allo studio universitario: F. CAMBI, Storia 45

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Fra le varie concezioni pedagogiche ispirate al Cristianesimo, si legge ancora, «è stato il Personalismo a compiere lo sforzo più importante ed organico per elaborare una prospettiva pedagogica caratterizzata da un’adeguata originalità e impegno teorico»47. Il manuale non presenta il Personalismo pedagogico italiano, ma si limita a ricordare che manifesta un orientamento eclettico nei suoi rappresentanti. Il testo è anche l’unico a osservare che l’esperienza di Nomadelfia di Don Zeno Saltini appare ispirata «ai principi del Personalismo comunitario di Mounier». Sempre nel quadro delle letture pedagogiche dei primi anni Ottanta una menzione particolare merita il manuale di Guido Giugni e Antonio Pieretti48. È sicuramente il testo che ha riservato la maggiore attenzione a Mounier e al Personalismo, sia come spazio sia come livello di approfondimento. La esposizione è molto ampia e la figura di Mounier appare presentata in tutti i suoi aspetti: dalla vita alle opere, all’inquadramento storico, alle dimensioni principali del suo pensiero (etico-sociale, filosofica e pedagogico-educativa). Limitando la nostra attenzione all’aspetto pedagogico – che risulta sicuramente il più sviluppato – occorre rilevare che questo è l’unico manuale fra quelli esaminati che si sofferma sul Trattato del carattere e che mette in rilievo come per Mounier la struttura portante di tutto il processo educativo «sia rappresentata dalla formazione del carattere e della volontà». Non mancano anche alcuni spunti sull’educazione del corpo e sull’educazione sessuale proposte da Mounier. L’esposizione – condotta con frequenti citazioni dirette da opere diverse – viene completata con un brano (collocato nella sezione antologica) tratto da Rivoluzione personalistica e comunitaria e da della pedagogia, Bari, Laterza, 1995 (in part. p. 477) e ID., Manuale di storia della pedagogia, Bari, Laterza, 2003 (in part. pp. 321-322). In questi manuali vengono presentati anche il Personalismo pedagogico italiano e i suoi principali esponenti. 47 Ivi, vol. III, p. 543. 48 G. GIUGNI, A. PIERETTI, I problemi della pedagogia e della filosofia, Roma,

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un’ampia e aggiornata bibliografia. A differenza di tutti gli altri manuali, gli spazi riservati a Mounier e Maritain si equivalgono; solamente nella parte antologica si registra una prevalenza del secondo. Anche il Personalismo appare presentato in modo puntuale: la contemporanea ‘pedagogia della persona’ viene sintetizzata nelle sue dimensioni fondamentali (teleologica, metodologica, programmatica, collaborativa, religiosa) e nei suoi indirizzi ed esponenti principali: dal neotomismo (Dévaud, Maritain, Casotti, Nosengo, Santomauro) allo spiritualismo (Mounier e Stefanini), all’umanesimo cristiano (Calò e Meylan). Fra i pedagogisti italiani, il testo (che si limita solo agli scomparsi) ricorda Stefanini per il suo «Personalismo dedotto dal Personalismo metafisico» e Santomauro per la traduzione del Personalismo in «testimonianza ed azione concreta». Un ultimo testo (ultimo, ovviamente, in ordine cronologico), che sviluppa con grande attenzione una lettura pedagogica del Personalismo ricordando anche la figura di Mounier, merita di essere menzionato. Il manuale di Prellezo e Lanfranchi49 dedica un intero capitolo al Personalismo: alla figura di Mounier non viene dedicata una scheda o una presentazione specifica, ma esplicito è il riconoscimento che «il Personalismo, come fenomeno storico, nasce in Francia con Emmanuel Mounier e il gruppo della rivista Esprit», che il movimento è «in chiara opposizione sia all’individualismo borghese sia al collettivismo sovietico» e che «tra i fautori del Personalismo francese spicca il filosofo e pedagogista Maritain», cui il testo dedica un’ampia trattazione. Soffermandosi sulle origini del Personalismo nel nostro paese, il testo avverte che in Italia l’istanza personalistica era già presente in autori dell’Ottocento come Gioberti e Rosmini e che, negli anni centrali del Novecento, è stata rilanciata accogliendo «la voce della rivoluzione personalista e comunitaria di Mounier»50. Città Nuova, 1982, 3 voll. 49 J.M. PRELLEZO, R. LANFRANCHI, Educazione e pedagogia nei solchi della storia, Torino, SEI, 1995, 3 voll.

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Nel Personalismo italiano «un posto di rilievo» è riconosciuto a Luigi Stefanini. Si ricordano poi – nell’ordine – le figure di Catalfamo, Peretti e Flores d’Arcais. Le pedagogie della persona vengono ricostruite – coerentemente con l’impostazione generale del manuale – attraverso la ricostruzione dell’itinerario, umano e intellettuale, dei principali esponenti. Stefanini, in particolare, è considerato come «il fondatore del Personalismo italiano» e «uno degli uomini più rappresentativi del Personalismo educativo»51. I temi, che vanno dal primato della persona (metafisico, sociale e morale) ai fondamenti di una ‘educazione personalistica’, vengono esposti con significative citazioni dalle opere dell’autore. Aggiornata e reperibile risulta la bibliografia critica che il testo offre, anche per gli esercizi e le piste di ricerca proposti per gli studenti. A titolo esemplificativo, segnaliamo la seguente esercitazione: «Individua i tratti comuni e le differenze tra il Personalismo di Stefanini e il Personalismo di Maritain». Fra le letture che privilegiano gli aspetti etico-politici ci limitiamo a ricordare il fortunato manuale di Reale, Antiseri e Laeng52. Alla figura di Mounier viene dato ampio rilievo (nel testo compare anche una foto), come pure all’intero movimento personalistico. La presentazione contiene una esposizione ampia, vorremmo dire quasi ‘affettuosa’ della vita di Mounier, della quale si ricorda la povertà, la sofferenza per la sfortunata condizione della figlia Françoise e la durezza (ma anche la lealtà) del confronto con tanti avversari. Con frequenti e brevi citazioni, il testo riassume poi con puntualità la concezione mounieriana della persona, la proposta di una «rivoluzione personalista e comunitaria», la definizione dell’ottimismo tragico quale ‘atteggiamento’ del Personalista nei confronti

50

Ivi, vol. III, pp. 315-316. Ivi, vol. III, p. 348. 52 G. REALE , D. ANTISERI, M. LAENG, Filosofia e pedagogia dalle origini ad 51

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della storia e, infine, la adesione sincera, come anche le sue critiche, al Cristianesimo e alla Chiesa. Altro merito del volume è sicuramente quello di aver bene rappresentato «la storia e la geografia del Personalismo»: le origini del movimento, nella Francia degli anni Trenta, il gruppo di Esprit, i precursori remoti e prossimi, che vengono ricordati sempre in modo puntuale. Precisa risulta anche la ricostruzione della diffusione delle idee personalistiche in molte nazioni: dalla Francia all’Olanda, alla Gran Bretagna, alla Svizzera, agli Stati Uniti, e ovviamente all’Italia, ove si dice che «costituisce una delle correnti attuali di maggior rilievo della filosofia»53. Anche se appare molto ridotta la considerazione pedagogica, il testo individua i principali motivi dell’educazione personalistica con riferimento ad alcuni autori, e in modo particolare alla figura di Stefanini, di cui ricorda la visione della pedagogia come «scienza filosofica che studia una parte nel tutto» e del Personalismo quale teoria capace di produrre tale visione unitaria54. Esplicita quanto opportuna è la distinzione fra Personalismo e Neoscolastica, così riassunta: «diversa è la impostazione personalistica, ma su basi dichiaratamente metafisiche e realistiche, degli autori provenienti dalla neoscolastica»55. Fra i neotomisti sono ricordati Casotti, Agazzi e, ovviamente, Maritain. Del pensatore francese (cui – caso raro fra i manuali esaminati – viene riservato uno spazio inferiore a quello assegnato a Mounier) vengono sintetizzate le posizioni filosofiche e accennate rapidamente quelle pedagogiche. La chiave di lettura educativa viene parzialmente recuperata da Laeng nella Antologia pedagogica56 del 1995. I passi di Mounier sono tratti dal Manifesto al servizio del Personalismo e riguardano

oggi, Brescia, La Scuola,1986, 3 voll. 53 Ivi, vol. III, p. 787. 54 Ivi, vol. III, p. 788. 55 Ivi, vol. III, p. 780.

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i principi di una civiltà personalistica. Più ampio spazio è dedicato alle opere di Maritain. Negli ultimi anni Ottanta, come nel decennio successivo, il numero dei manuali di nuova pubblicazione diminuisce progressivamente, anche e soprattutto a causa delle sorti sempre più incerte dell’Istituto magistrale destinato alla abolizione, che avrà luogo a partire dal 1998. I nuovi testi prodotti che abbiamo preso in esame sono circa una decina: se togliamo i due già ricordati, possiamo notare che in questi ultimi manuali l’interesse per Mounier è calato vistosamente: ci si limita ad un cenno, quando non lo si ignora del tutto. Anche nei confronti del Personalismo l’attenzione sembra molto diminuita: le elaborazioni sul piano filosofico e pedagogico del primo Personalismo degli anni della ricostruzione sembrano ormai molto lontane, mentre il cosiddetto ‘secondo Personalismo’, avviatosi negli anni Settanta e caratterizzato dal dialogo con le scienze umane e dell’educazione, non sembra aver fatto breccia. A puro titolo di esempio, potremmo ricordare due testi, abbastanza recenti, che godono attualmente di una larga diffusione, grazie anche ad un’innovativa impostazione didattica. Nei volumi di Avalle, Cassola e Maranzana, di Mounier è ricordato appena il nome, mentre il Personalismo è trattato in forma molto sintetica, anche se puntuale e precisa. Breve anche la scheda riservata a Stefanini (indicato come interprete di un indirizzo platonico-agostiniano) e ad Agazzi (indicato come esponente della “pedagogia del Personalismo storico”)57. Un po’ più ampia risulta la presentazione del pensiero di Maritain. Nel manuale di Tassi, invece, non si fa alcun cenno a Mounier, mentre il personalismo è stato inserito (ma solamente nella sua versione maritainiana) nella seconda edizione (1991) e riproposto nella 56

M. LAENG, Antologia pedagogica, Brescia, La Scuola, 1995, 3 voll. U. AVALLE, E. CASSOLA, M. MARANZANA, Cultura pedagogica. La storia, i testi, i problemi, Torino, Paravia, 1997-1998, 3 voll. Il testo rappresenta una rielaborazione ed ampliamento di U. AVALLE, E. CASSOLA, Pedagogisti e pedago57

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terza (2000). Se il pensiero di Maritain è sviluppato con una certa ampiezza e con un apprezzabile approfondimento critico, nulla viene detto invece del Personalismo pedagogico italiano e dei suoi esponenti58. Ci si potrebbe chiedere il perché di questo generale calo di interesse. In questa sede possiamo formulare solamente delle ipotesi: all’inizio del nostro discorso dicevamo che il manuale rappresenta anche uno ‘specchio dei tempi’, una testimonianza delle sensibilità e delle scelte culturali degli anni in cui è stato composto. Forse a Mounier e all’orientamento personalistico si guarda ormai con interesse diverso rispetto ad un passato anche non molto lontano, forse il significato e la forza di certe idee e di certe proposte appaiono alquanto sbiaditi… È ovviamente solo un’ipotesi, che richiederebbe più puntuali verifiche (da estendere anche all’ambito ideologico-politico), ma riteniamo che non sia priva di qualche fondamento. Appendice Elenco dei manuali esaminati N. Abbagnano - A. Visalberghi, Linee di storia della pedagogia, Torino, Paravia, 1957-59, 3 voll. A. Agazzi, Problemi e maestri del pensiero e della educazione, Brescia, La Scuola, 1954-55, 197812 , 3 voll. F. Albergamo - l. Di Leo, Pensiero e attività educativa, Palermo, Palumbo, 1979 (Nuova Ed.), 3 voll. U. Avalle - E. Cassola, Pedagogisti e pedagogie nella storia, Torino, Paravia, 1994 U. Avalle - E. Cassola - M. Maranzana, Cultura pedagogica. La storia, I testi, I problemi, Torino, Paravia, 1997-98, 3 voll.

gie nella storia, Torino, Paravia, 1994. 58 R. TASSI, Itinerari pedagogici, Bologna, Zanichelli, 1987, 19912, 20003, 3

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L. Volpicelli - F. Ravaglioli, Storia dei problemi pedagogici, Bari, Editoriale Universitaria, 1972-732, 3 voll.

voll.

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PERSONA E SOBORNOST’: BERDJAEV NEL PENSIERO DI MOUNIER Giancarlo Baffo

Quando, nel 1926, N. A. Berdjaev giunge a Parigi da Berlino – donde è fuggito per sfuggire alle lugubri fluttuazioni del marco tedesco – ha lasciato dietro le spalle da quasi un decennio ‘l’Apocalisse’ della Russia; di lì a poco, assieme agli intellettuali della sinistra cristiana francese, gli toccherà di scorgere l’addensarsi dei primi, corruschi bagliori della ventura ‘Apocalisse’ d’Europa1. Nel 1932, in una lettera a Robert Garric, Mounier scriverà: «Non so se andiamo verso un “avvenire migliore” e lavorare con questa formula come stella polare sarebbe molto ingenuo e molto borghese. La catastrofe, almeno momentanea, è anzi più probabile di quella linea piatta che voi prevedete»2. Come si è detto, Berdjaev proviene dalla Germania, dove si era rifugiato nel 1922, dopo essere stato già arrestato nel 1920. Quanto al fiuto nietzschiano per l’Apocalisse prossima ventura, nel milieu francese degli anni ’30 nessuno potrà vantare maggior titolo

1 Sulla biografia di Berdjaev, si veda D.A. LOWRY, Rebellious Prophet. A Life of Nicolai Berdyaev, New York, Harper & Bros, 1960; sul periodo francese, cfr. pp. 173 e ss. Particolarmente importante ai fini del presente lavoro O. CLEMENT, Berdiaev. Un philosophe russe en France, Paris, Desclée De Brouwer, 1991. Per un’efficace profilo del pensiero berdjaeviano, si veda recentemente A. GIUSTINO VITOLO, G. LAMI, Storia e filosofia in N.A. Berdjaev, Milano, Franco Angeli, 2000. 2 Cit. in: J. MARITAIN, E. MOUNIER, Corrispondenza 1929-1939, Brescia, Morcelliana, 1976, p. 7.

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dell’aristocratico filosofo ucraino, izgnannik della prima ora (assieme a Sergej Trubeckoj e Semen Frank, espulsi assieme a lui dall’URSS, e in compagnia di nomi come quello di - estov e di S. Bulgakov) nonché reduce della straordinaria stagione della «Rinascenza religiosa russa», in cui si era espressa, producendo frutti altissimi, la «nuova coscienza religiosa». Dopo gli esordi marxisti, Berdjaev in Russia aveva percorso – assieme a buona parte della sua generazione – il tragitto «Dal marxismo all’idealismo» – assistendo sgomento al fallimento della sanguinosa rivoluzione del 1905 e, successivamente, all’incubazione e allo scoppio delle due rivoluzioni del 1917. Al suo arrivo in Francia, dunque, in materia di “rivoluzioni”, Berdjaev ha un’esperienza assolutamente eccezionale che gli ha già permesso di elaborare – come è stato notato – «una teoria unica e devastante» del comunismo»3. Di questa preziosa peculiarità della personalità intellettuale di Berdjaev sarà subito cosciente Maritain – la cui moglie Raisa, come noto, è anch’ella russa – che, a proposito del primo articolo berdjaeviano su «Esprit», Verité et mensonge du communisme, scrive a Mounier il 3 agosto 1932: «Mi rallegro in particolare che sia del tutto decisa la pubblicazione di Berdjaev; secondo me è molto importante e su parecchi punti “situerà” in partenza nettamente ed esattamente la rivista. Non si potrebbe desiderare nulla di meglio per il primo numero»4. Come è ormai acclarato, nel piano della ‘rivoluzione’ personalista – laddove ad altri intellettuali ‘autoctoni’ veniva lasciato il compito di esporre la critica di «Esprit» all’individualismo capitalista e alle questioni politiche interne della Francia degli anni ’30 – l’elaborazione della linea della rivista circa il significato e la portata del comunismo era stato sostanzialmente affidato a Berdjaev. E con buona ragione, si potrebbe aggiungere oggi che, dopo la fine del comunismo, si è tornati a studiare con rinnovato interesse sia il 3 C. BAIRD, Religious Communism? Nicolai Berdyaev’s Contribution to Esprit’s Interpretation of Communism, «Canadian Journal of History/Annales canadiennes d’histoire», 30 I (1995 Apr/avril), pp. 29-47 (qui, p. 32). 4 J. MARITAIN, E. MOUNIER, Corrispondenza, cit., p. 58.

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contributo di Berdjaev a «Esprit», sia le sue opere del periodo dell’emigrazione, fra le quali Nuovo Medioevo in particolare si segnala come uno dei testi fondamentali del post-moderno e che – sebbene scritto a Berlino – fu forse il libro di Berdjaev che più influì su Mounier nell’elaborazione compiuta dell’idea programmatica di «refaire le Renaissance», come vedremo appresso. Va detto però che qualora si voglia opportunamente indagare il contributo berdjaeviano alla piattaforma di «Esprit», delucidando aspetti solitamente trascurati dagli interpreti del personalismo rispetto, ad es., all’ascendenza neotomista, è necessario ripercorrere, pur succintamente, le tappe di un itinerario di pensiero che, nel caso di Berdjaev, comincia assai precocemente in tutt’altro contesto storico-culturale ed epocale. La svolta che in Russia aveva fatto maturare il passaggio dei più bei nomi della intelligencija progressista nel campo del cosiddetto idealismo, originando quella che è stata opportunamente definita una «Rivoluzione dello spirito»5, per molti versi anticipatrice della metànoia predicata dal gruppo di «Esprit» qualche decennio dopo, è la temperie politico-culturale dell’inizio del XX secolo: già nel 1903, Struve, Bulgakov e Berdjaev avevano pubblicato un celebre volume collettivo dal titolo Ot marksizma k idealizmu, in cui si segna il definitivo passaggio di alcuni fra i più rilevanti pensatori marxisti russi dell’epoca da posizioni neo-kantiane, e, al fondo, sostanzialmente positivistiche, alla propaganda attiva in favore dell’idealismo filosofico, della religione e del liberalismo politico. Sempre del 1903 è il Simposio Problemy idealizma, nei cui atti Sergej Bulgakov scriverà con veemenza contro il positivismo, che, assieme al marxismo dominava il campo della intelligencija rivoluzionaria, definendolo l’insieme di «tutte le tendenze di pensiero che rigettano la metafisica e gli autonomi diritti della fede religiosa»6. Ma è lo shock del fallimento della rivoluzione del 1905 a provocare in questo gruppo di pensatori della 5 A Revolution of the Spirit. Crisis of values in Russia, 1890-1924, ed. by. B. Glatzer Rosenthal & Martha Bohacevsky-Chomiak, Fordham University Press, New York, 1990. 6 Ivi, p. 21.

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Rinascenza religiosa l’approdo definitivo ad una concezione del marxismo come para-religione demoniaca ed anticristica parodia del messaggio cristiano di salvezza. Nel 1906, Berdjaev aveva consegnato ai «Voprosy filosofii i psichologii», un lungo articolo, il Socialismo come religione, che contiene già in nuce tutti i temi della sua successiva meditazione filosofico-storica e metafisico-religiosa. Riallacciandosi decisamente al pensiero di Vl. Solov’ev, il quale, agli inizi degli anni ’70, nelle celebri Lezioni sulla Divinumanità, aveva intuito come il radicalismo socialista fosse sostanzialmente la risposta sbagliata all’emergenza di una questione sociale opportunamente posta dal marxismo e come, soprattutto, la questione rivoluzionaria fosse anzitutto una delicata questione mal posta di tipo teologico7 – Berdjaev in questo lungo saggio distingue un ‘socialismo neutrale’, che già considera tipico delle socialdemocrazie continentali e che definisce come una strategia che «organizza il nutrimento dell’umanità ed una vita economica tendente ad una finalità, [che] risolve il problema del pane quotidiano senza pretendere di rimpiazzare il pane terreno col pane celeste. Questo tipo di socialismo – prosegue Berdjaev – ha un’enorme importanza nella vita dell’umanità contemporanea e giocherà un grande ruolo nella storia futura, ma in senso religioso esso è neutrale.[…] Questo socialismo non pretende di essere un dogma, non cerca di rimpiazzare la religione»8. Come si vede, già 7 Di per sé, «Socialismo e positivismo – scriveva Solov’ev nella prima delle Lezioni sulla divinumanità (1877) – non hanno con la religione nessun rapporto diretto, né positivo, né negativo; vogliono soltanto occupare il posto lasciato vuoto dalla religione e nella vita e nel sapere dell’umanità civile contemporanea. È da questo punto di vista che devono essere valutati». Così, nella moderna Europa scristianizzata, «il socialismo, che esige la giustizia realizzata e non può realizzarla su fondamenti naturali finiti, porta logicamente ad ammettere la necessità di un principio assoluto nella vita, cioè a riconoscere la religione». Cfr. VL. S. SOLOV’EV, Sulla divinumanità e altri scritti, prefazione di S. Givone, Jaca Book, Milano, 1990, p. 62; 67. 8 N.A. BERDJAEV, Socialism as Religion, in: A Revolution of the Spirit..., cit., pp. 108-09.

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in questo saggio Berdjaev espone le idee forza di quello che, quasi trent’anni dopo, sarà il suo primo, fondamentale contributo ad «Esprit»: egli, cioè, tratteggia ciò che – in perfetto spirito solov’eviano – gli appare essere la «verità e la menzogna» del comunismo. Accanto a questo socialismo neutrale, inteso come strumento di governo sociale dell’economia, promotore di giustizia ed uguaglianza mondana, Berdjaev colloca ciò che, in quei febbrili anni ’10, si avvia ad essere la scolastica dell’incipiente rivoluzione, ovvero una ‘religione socialista’ che si configura come «dogma completo, soluzione [definitiva] alla questione del significato della vita, del fine della storia. Esso è la predicazione della moralità socialista, della filosofia socialista, della scienza socialista e dell’arte socialista. È la sostituzione del pane terreno col pane celeste, la tentazione di cambiare le pietre in pane. Nel socialismo come religione, le religioni passate sono rimpiazzate. Tutti i problemi della coscienza religiosa si dissolvono; la verità umana non appare più. Non è una questione di ambiente neutrale da cui possano crescere principi religiosi opposti; piuttosto, in esso emerge qualcosa di superumano, finale, di religiosamente perturbante, non indifferente. Emerge una passione socialistico-religiosa in cui si sente già un principio superumano, un principio ateistico»9. Come si vede, è sorprendente in questa precoce analisi la profezia di quella che sarà la dimensione totalitaria della futura società sovietica, nel suo ambiguo intreccio – come ormai ampiamente noto – di materialismo volgare e di irrazionalismo superomistico, di ateismo di stato e culto idolatrico della personalità, il tutto, per Berdjaev, riconducibile, come Solov’ev aveva mostrato, alla mancata realizzazione di una autentica societas Christiana, che, in Russia, stava allora lasciando spazio per l’estetismo decadente dei simbolisti e per il nichilismo rivoluzionario dei massimalisti, entrambi parimenti concresciuti nel vuoto della mancata costruzione di una civitas terrena, retaggio utopico della tradizione nazionale, che lo stesso Berdjaev, in un’altra celebre opera dell’emigrazione, definirà appunto ‘l’idea 9

Ivi, p. 109.

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russa’10. Sennonché, sia la socialdemocrazia europea, sia il «radicalismo della natura russa», che ne porta allo scoperto gli intenti più profondi, mirano in realtà esplicitamente a sostituirsi alla religione – finanche nelle versioni più ‘riformistiche’ – poiché incapaci di limitarsi al perseguimento di obiettivi ‘religiosamente neutrali’ come la giornata di otto ore, l’organizzazione sociale dell’economia, la cooperazione e la riduzione dello sfruttamento, obiettivi che, anzi, sono opportunamente richiesti da un autentico senso religioso della vita. Tale senso, già qui, si configura come una «liberazione dell’umanità da ogni giogo politico ed economico», nel segno di una «filosofia della libertà», in cui lo ‘spirito libero’ berdjaeviano sarà costretto – nel corso di tutta la sua opera – a perseguire una tragica lotta contro l’ineluttabile ‘imborghesimento’ del mondo (lotta che, dopo la Rivoluzione del ’17, sarà condotta, non senza strutturali contraddizioni nel suo pensiero, all’insegna dell’aristocratismo conservatore di K. Leont’ev11, al quale, non a caso, Berdajev dedicherà uno dei primi testi importanti pubblicati in Francia12). La ‘falsa religione’ socialista comincia laddove «il pane quotidiano subordina a sé tutta la vita e la cultura, dove in nome della divisione del ‘pane’ l’uomo rinunzia alla sua primogenitura, dove al pane celeste si rinunzia in nome del paradiso socialista, dove il proletariato e l’umanità futura sono deificati, dove il socialismo prende a costruire una Torre di Babele, dove la vita umana è organizzata senza significato, senza scopo, senza Dio»13. In questo senso il bogoborcˇestvo di Marx è per Berdjaev totalmente dif-

10 N.A. BERDJAEV, L’idea russa. I problemi fondamentali del pensiero russo (XIX e inizio XX secolo), a cura di C. De Lotto, intr. di G. Riconda, Milano, Mursia, 1992. 11 Per una sintesi dell’opera di Leont’ev, si veda recentemente K.M. DOLGOV, VoschoÅdenie na Afon. -izn’ i mirosozercanie K. Leont’eva, Moskva, Raritet, 1997. 12 N.A. BERDJAEV, K. Leont’ev. Ocˇerki russkoj religioznoj filosofii, Paris, YMCA Press, 1926. 13 Id., Socialism…, cit., p.111.

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ferente da quello di Ivan Karamazov: laddove Ivan resta pur sempre – come scriverà Bulgakov – un ‘tipo religioso’ (poiché il teomaco Ivan si ribella al dio metafisico proprio in nome della sublimità della Sua idea), Marx incarna lo spirito del Grande Inquisitore, poiché «ritiene che la malizia è la sola fonte del bene, che il male debba essere ravvivato ed intensificato perché la verità emerga nel mondo. Non a caso Marx amava Mandeville. Egli non vedeva la fonte positiva del bene nel mondo, non comprendeva l’elemento buono. Il capitalismo è male ed il male è la sola speranza di coloro che sono assetati del paradiso socialista»14. Già in questo straordinario testo, Berdjaev delinea con lucida chiarezza, e con accenti sorprendentemente pre-levinasiani, la vocazione anti-personalista del socialismo, un rilievo che tornerà contrastivamente in tutta la successiva ricerca di una sistematica filosofia cristiana della storia e influenzerà decisivamente la critica personalista del marxismo: «[Nel socialismo] La persona non è mai un fine ma sempre un mezzo. La persona in se stessa non possiede valore ed è valutata soltanto riguardo alla sua utilità nel conseguimento del paradiso socialista-proletario. Rispetto alla persona, tutto è permesso nel nome dei benevoli scopi del socialismo. La persona può essere privata della sua libertà e dei suoi diritti. La sua dignità non deve essere rispettata; può essere soppressa, se necessario, per fini sociali giusti. In nessun altro aspetto il principio malvagio del marxismo è così perspicuo come in questa ateistica e disumana attitudine nei confronti del volto dell’uomo…»15. In sostanza, l’idologia socialdemocratica porta a compimento, per una demoniaca eterogenesi dei fini, consistente nell’imborghesimento del mondo, quella omologazione culturale che il ‘reazionario’ Leont’ev aveva preconizzato già negli anni ’70 del XIX secolo, annunziando l’avvento de «l’europeo medio come ideale e strumento della distruzione univer-

14 15

Ivi, p. 111. Ivi, p. 112.

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sale»16: «L’elemento dell’impersonalità, della dimensione astratta, mediocre, trionfa definitivamente nella Socialdemocrazia. Così, essa è ostile alla religione, per la quale la persona, ogni persona, ha un significato assoluto ed un destino assoluto e non può mai essere ridotta soltanto a mezzo»17. La presenza di Leont’ev (ovvero di uno degli autori più importanti e controversi della filosofia russa del secondo Ottocento, talora definito pittorescamente il ‘Nietzsche russo’, nonché antesignano del cosiddetto ‘morfologismo storico’) è uno degli ingredienti costanti della critica berdjaeviana al comunismo e al socialismo, come esiti del Moderno: a lui e alla sua teoria dei cicli di civiltà (che seguirebbero un corso di crescita, fioritura e morte, determinata da una crescente ed esiziale ‘mescolanza semplificatrice’, culminante nel democraticismo della modernità) Berdjaev dedicherà, come si è già accennato, un importante testo nel 1926, pubblicato da YMCA poco dopo il suo arrivo a Parigi. Non è un caso, dunque, se un colorito leont’eviano avrà anche il suo Verité et mensonge…, pubblicato nel primo numero di «Esprit»: il contributo di Berdjaev appare infatti nel contempo fondamentale e singolare all’editorial board della rivista, al punto da doverlo far precedere da una premessa in cui Mounier afferma: «Accuser l’occident, c’est ne pas renier les ressources qu’il détient ancore. Mais il faut d’abord enfoncer l’accusation avec violence pour nous sortir de notre suffisance. A Spengler et à Keyserling il est un autre réponse que la vanité de nos fautes. On pourra ne pas suivre M. Berdiaeff dans les voies de salut qu’il nous propose. On ne pourra lui réprocher de n’avoir pas posé le problème dans son axe»18. Già in questo testo del 1906, la presenza perturbante di Leont’ev (che non appare perspicua al recensore francese di Verité et mensonge…, che evoca per analogiam Spengler e Keyserling) 16 Cfr. K.N. LEONT’EV, Srednij evropeec kak ideal i orudie vsemirnogo razru’enija, in Id., Vostok, Rossija i slavjanstvo, Moskva, Respublika, 1996, pp. 40031. 17 N.A. BERDJAEV, Socialism…, cit., p.112. 18 «Esprit», octobre 1932, p. 322.

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comincia a caratterizzare in un irriducibile senso aristocratico – tragico-aristocratico, si potrebbe anche dire – il peculiare e arduo cristianesimo di Berdjaev, che, successivamente, si sarebbe sviluppato sempre più in una direzione meno preoccupata dell’immanenza del Politico che del senso storico-ontologico, ed addirittura cosmogonico e storiosofico, dell’evento cristiano, sotto l’egida di una costellazione di autori che vanno da Dostoevskij a Leont’ev, dal Solov’ev teosofo a Nikolaj Fedorov19, come decisivo anticipatore di una definitiva critica di ogni utopicità (e un elemento fedoroviano, via Berdjaev, ci sembra assai evidente, come vedremo, anche in Mounier). Il collettivismo ‘senza volto’ di Verité et mensonge rappresenta così non solo la ripresa di un forte tema antropologico patristico – come O. Clement ha opportunamente messo in luce – ma anche la conseguenza di un processo di “mescolanza semplificatrice” inestricabilmente connesso al socialismo come esito fatale della modernità: d’ora in avanti – e se ne renderanno conto anche Mounier e gli autori di «Esprit» alla fine degli anni Trenta, – l’omologazione che impronta la ‘psicologia di massa’ dei totalitarismi sarà per Berdjaev la principale pietra d’inciampo relativamente alla possibilità di una conciliazione fra cristianesimo e modernità, intesa come alternativa possibile fra gli estremi costituiti da fascismo e stalinismo. Potremmo addirittura dire che, nell’esperienza di «Esprit», Berdjaev rivivrà in qualche modo il travaglio ch’era stato proprio della «Società filosofico-religiosa di Pietroburgo», di cui aveva, all’inizio del secolo, criticato, non sempre benevolmente, lo sforzo di conciliare la cultura dell’intelligencija con la necessità di modernizzazione dell’Ortodossia, e che, come allora, non potrà condividere la, per lui ingenua, speranza di una sintesi in grado di esorcizzare i demoni sanguinari del totalitarismo, ad es. nella forma della ‘terza via’ prospettata dalla 19 Sul pensiero di Nikolaj Fedorov, il cui «sovramoralismo cristiano» puntava all’obiettivo della «resurrezione immanente» dei morti, cfr. M. HAGEMEISTER, Nikolaj Fedorov. Studien zu Leben, Werk und Wirkung, München, Verlag O. Sagner, 1989.

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‘Trosième Force’. Che il Cristianesimo, in una dimensione meramente mondana, non possa tenere il passo della ‘religione socialista’ appare chiaro già da questo fondamentale testo, che abbiamo scelto non a caso come specimen particolarmente autorevole, sotto il profilo cronologico, della filosofia e della teologia della storia di Berdjaev. Il problema da porsi di fronte ad ogni mutamento sociale, massime di fronte ad ogni ‘rivoluzione’, è per Berdjaev originariamente il seguente: «quando nascerà una generazione che vivrà e non si limiterà a fertilizzare il terreno per la vita delle future generazioni?»20 In questo passo, dall’inconfondibile sapore fedoroviano, si cela la fondamentale riserva di Berdjaev di fronte ad ogni concreto operari politico: si tratta di un’amara riserva che compendia il pessimismo religioso di Leont’ev con l’afflato antiutopico di Fedorov, che tanta impressione aveva fatto su Dostoevskij: ogni vera ‘rivoluzione’ per essere spirituale e religiosa, e non meramente politico-economica, deve in qualche modo sovvertire l’unidirezionalità del tempo, resuscitare la vita tramontata e non meramente eternizzare quella futura, in una parola, oltrepassare l’ideologia del progresso e battere in breccia ogni tentazione ‘modernista’. Nella religione dell’umanità predicata dalle ideologie progressiste, si dice già in questo testo, parrebbe esserci una parte della verità della ‘Divinumanità’: «Ma troppo spesso la religione dell’umanità perde il suo carattere neutrale ed imbocca il cammino della superumanità. L’uomo è riconosciuto come un mezzo per l’umanità futura, poi l’umanità futura è riconosciuta come un mezzo per un ancor più distante stato superumano e, finalmente, per il superuomo, per il dio terreno. Questo futuro dio terreno, a cui è legato ogni stato terreno perfetto, finale e definitivo, è l’oggetto sacro della religione socialista; nel suo nome vengono compiuti sacrifici umani di sangue e viene sacrificata una lunga linea di generazioni viventi. Senza la sua fonte, Dio, la definitiva perfezione terrena sarebbe non un’umanità resa perfetta, un’unificazione di personalità

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N.A. BERDJAEV, Socialism, cit., p. 112.

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umane perfette, come gli umanisti ingenui credono, bensì l’apparizione di un dio terreno, di un superuomo, per il quale ogni cosa è un mezzo…».21 Allontanandosi dal terreno della vera religione, questo «nuovo monoteismo» intronizza un dio mondano che ha i tratti tirannici del superuomo e si prefigge di irretire un «gregge» di uomini «ammassati con la forza», mediante un’ideologia eudemonistica da esseri deprivati di ogni volontà creativa. Quando arriva in Francia, Berdjaev ha così già perfettamente elaborato le linee principali della sua critica filosofico-religiosa al marxismo, abbozzate con notevole chiaroveggenza in questo cruciale scritto e in un’altra, decisiva serie di opere che giungono fino al periodo berlinese, da il Senso della Creazione, del 1915, – nella quale, la riflessione teodicale, condotta sulla scorta dell’opera di Dostoevskij, approda ad una antropodicea il cui grado supremo è costituito da una «etica della creazione» che, superando quella della Legge e della Redenzione, libera l’uomo ad una vertiginosa e tragica cooperazione con Dio, la quale, oltre ai tratti della Divinumanità, reca ancora in sé l’inconfondibile retaggio di un marcato titanismo romantico22 – a Gli spiriti della Rivoluzione russa (del 1918, ma pubblicato fortunosamente solo nel 1921, nell’antologia De profundis23) alla Filosofia della ineguaglianza24, dalla mono-

21

Ivi, p. 113. N.A. BERDJAEV, Il senso della creazione. Saggio per una giustificazione dell’uomo, a cura di A. Dell’Asta, Milano, Jaca Book, 1994. Sulla centralità di quest’opera nel complesso della produzione berdjaeviana, si veda anche L.N. STOLOVICˇ, Istoria russkoj filosofii. Ocˇerki, Moskva, Respublika, 2005, pp. 225 ss. 23 N.A. BERDJAEV, Gli spiriti della rivoluzione russa, a cura di M. Martini, Milano, Bruno Mondadori, 2001. 24 N.A. BERDJAEV, Filosofija neravenstva, Berlin, Obelisk, 1923. In quest’opera – che lo stesso autore successivamente ripudierà – Berdjaev arriverà a sostenere che il Cristianesimo rappresenta l’opposto di ogni egualitarismo, nonché il carattere inemendabile di ogni ‘rivoluzione’ politica: «Tutte le rivoluzioni sono finite nella reazione. Questo è un fatto irrefutabile. È una legge» (p. 13 dell’ed. citata). 22

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grafia su Leont’ev già citata, a quello che forse è il suo capolavoro berlinese, ovvero il Nuovo Medioevo25. A Parigi, Berdjaev, assieme al fervore intellettuale degli intellettuali cristiani, ha modo di riscontrare subito quel che ai suoi occhi sembra essere una sorta di provincialismo, presente, ai suoi occhi, sia a destra che a sinistra, sia «nell’umanesimo anticlericale» che «presso i difensori e i nostalgici di una ‘società cristiana’»26. Ma accanto a questa Francia, che ai suoi occhi di ortodosso riflette vizi e virtù del cattolicesimo, Berdjaev sa che è presente anche una ‘Francia segreta’ (alla quale nel 1908, aveva già dedicato un articolo assai significativo, il Modernismo cattolico e la crisi della coscienza contemporanea) che compare in alcuni snodi decisivi della Filosofia della libertà, del 1911, e diffusamente ne Il Senso della Creazione: si tratta della Francia di Huysmans, Barbey d’Aurevilly, Baudelaire, Verlaine, Mallarmé, Villiers de l’Isle Adam, e, soprattutto, di Leon Bloy, al quale aveva dedicato nel 1914 uno splendido saggio, dal titolo Il cavaliere della Povertà , quand’era ancora in Russia27. Questa Francia custodisce ciò che Berdjaev aveva chiamato, nella Filosofia della libertà, il «mistero del cattolicesimo», con accenti che riprendono simultaneamente sia ˚aadaev che Solov’ev: il cattolicesimo- che resta «l’asse della storia dell’Occidente» – è da un lato una dimensione intramontabile della storia dell’umanità, capace di resistere ad ogni prova e sfida teologica, nonché una fonte inesauribile di cultura e bellezza (la bellezza che affascinava Huysmans), dall’altro, «essendovisi attenuata la nozione di théosis, la divinizzazione nello Spirito Santo, la nozione di una trasfigurazione reale dell’uomo e dell’universo, esso ha troppo spesso concepito la sua azione sulla storia come destinata a venire dall’esterno, come una volontà di organizzazione, d’influenza e di potenza. Questa volontà è divenuta il fatto della gerarchia – è la tentazione del Grande Inquisi-

25

N.A. BERDJAEV, Nuovo Medioevo, a cura di M. Boffa, Roma, Fazzi, 2000. O. CLEMENT, Berdiaev, cit., pp. 84-85. 27 N.A. BERDJAEV, Rycar’ nisˇcˇety, in «Sofija», 6, 1914. 26

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tore – mentre il popolo, da tanto privato della Bibbia e del Sangue di Cristo, sussisteva in base ad una spiritualità un po’ passiva, marcata da una sorta di sentimentalità, ovvero di sensualità»28. Come ha notato Clement, all’epoca in cui Berdjaev stende queste considerazioni, egli ritiene che il cattolicesimo oscilli ambiguamente fra un modernismo e un neo-tomismo che, in maniera significativamente convergente, risultano entrambi incapaci di venire a capo del ‘mistero’ del Cristianesimo. Se il modernismo – ad es., con Bergson – aveva messo in discussione il positivismo solo per approdare ad una sorta di pragmatismo spirituale che finisce per relativizzare la verità, all’arrivo di Berdjaev in Francia è la ‘reazione’ neo-tomista a trionfare, opponendo, assieme al protestantesimo di stampo barthiano, all’umanesimo laico e, in parte, modernista, una sorta di anti-umanismo, «una trascendenza estranea, priva di immanenza»29. Tuttavia, Berdjaev entra ugualmente in uno stretto rapporto di amicizia con Maritain poiché ammira le modalità della sua conversione, influenzata da Bloy, che reputa una metànoia passata dostoevskianamente «nel crogiuolo del dubbio». È a casa di Maritain, come è noto, che Berdjaev incontrerà Mounier e gli intellettuali cattolici ‘non conformisti’ che presso di lui si riuniscono. Maritain, d’altronde, superando la reciproca distanza teologica, nota come in queste riunioni il russo «[dica] delle cose assai rimarchevoli», e apre, senz’altro influenzato dalla moglie Raisa, la sua collana del Roseau d’Or a contributi ortodossi. È nella collana maritainiana che Berdjaev pubblica nel 1927 la traduzione del Nuovo Medioevo, vòlto in francese dalla moglie di Stanislas Fumet, un’altra intellettuale russa profondamente influenzata da Berdajev. Stando ad una nota di Mounier del 8 dicembre 1930, è probabile che l’idea di «Esprit» abbia preso corpo proprio dopo un suo incontro con Berdajev, personalmente presente alla riunione di fondazione della rivista. Scriverà Mounier nel 1948, dopo la morte di

28 29

O. CLEMENT, Berdiaev, cit., p. 88. Ibidem.

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Berdjaev: «Nous étions assez occupés à nous débarrasser de nos petits Maîtres de la littérature ou de l’Université. Nous n’avions lu ni Marx, ni Kierkegaard, ni Jaspers. Nous cherchions un lieu où camper entre Bergson et Péguy, Maritain et Berdjaev»30. Maurice de Gandillac ha così sintetizzato l’apporto di Berdjaev alla rivista: «…Egli resterà per noi colui che ha rifiutato di fare della schiavitù economica la conseguenza affatto inevitabile della caduta originaria. Per lui la libertà creatrice, che opera sempre in seno ad un mondo ambivalente, ha il dovere di partecipare attivamente alla liberazione [dell’umanità]. […] Nessun regime sociale potrebbe estirpare il male, annientare la volontà di potenza, l’istinto di aggressività, la tentazione dell’orgoglio e dell’odio. Se l’uomo non fosse che natura […], egli ricadrebbe indefinitamente in questa antinatura […] Qui l’uomo totalmente disalienato è meno un’utopia che il limite inaccessibile d’uno sforzo. Ma per non mutarsi esso stesso in mistificazione, questo sforzo sempre nuovo deve essere quello di un soggetto autonomo che assume lucidamente il proprio destino senza mai separarlo da quello degli altri, che supera la tentazione monista (quella dell’idealismo come quella del materialismo), che sa, infine, che nessuna libertà è liberatrice se non in quanto trascendente»31. Nel gruppo di «Esprit», Mounier ingaggia, oltre a Berdjaev, Helene Iswolsky e il grande teologo, professore all’Istituto di S. Sergio, Georgij Fedotov, filosofo, storico e grande studioso di agiografia ortodossa. Nel 1940, Berdjaev realizzerà su richiesta di Mounier un numero di «Esprit» interamente dedicato alla Russia, ma a causa dell’avanzata tedesca di maggio, tutte le copie già stampate della rivista andranno perdute. Ma, come si è già accennato, il contributo berdjaeviano forse più importante ad «Esprit» resta Verità e menzogna del comunismo, pubblicato sul primo numero. Per Berdjaev, il comunismo – come abbiamo visto all’inizio – testimonia di un dovere rimasto incompiuto da parte dei cri-

30 31

Cit. in Ivi, p. 91. Ivi, p. 92.

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stiani: il socialismo infatti, ha radici cristiane nel cristianesimo primitivo, nei movimenti pauperistici del Medioevo e della Riforma, fino in una dimensione evangelica presente nel socialismo ‘romantico’ francese della prima metà dell’Ottocento, come aveva ben visto Péguy . Quando però esso si fa sistema nel comunismo, divenendo «l’incubo del bene cattivo», esso pretende di realizzare la comunità mediante la costrizione, il bene attraverso l’annientamento del male( o, come ha scritto Besançon sulla scorta di Solov’ev, mediante la «falsificazione del bene»)32 in un anticristico sforzo di edificazione di quello che Dostoevskij – nel discorso su Pu’kin – aveva definito il «Palazzo di cristallo»33. Nel far ciò, il comunismo finisce per rigettare integralmente il cristianesimo, il cui contenuto è dostoevskianamente null’altro che libertà. Ogni emendazione dello stato reale della società da parte dei cristiani va dunque realizzata nello spirito di Cristo, pena la realizzazione di una società totalitaria che finisce per costituire una sorta di giudizio finale cui le ‘società cristiane’ non avrebbero mai voluto sottoporsi. Se le verità del socialismo appaiono numerose – come aveva già scritto nel 1906 – esse sono controbilanciate da una sola, fondamentale menzogna: «la negazione della trascendenza e di un principio spirituale dell’uomo, da cui deriva l’idolatria del sociale, un monismo sociale e tecnico, una escatologia intra-storica, un gioco dialettico perverso, secondo il quale il bene può nascere dal male, giustificandolo»34. Svelare la verità e l’errore del comunismo vuol dire così richiamarsi ad un cristianesimo integrale che realizzi una prassi ‘teurgica’, capace non soltanto di realizzare la giustizia sociale ma tale da garantire una inesausta fecondità

32

Cfr. A. BESANÇON, La falsificazione del bene. Solov’ev e Orwell, Bologna, Il Mulino, 1987. 33 Su questi aspetti si veda S. GIVONE, Dostoevskij e la filosofia, Roma/Bari, Laterza, 1984, e, più recentemente, J.P. SCANLAN, Dostoevskij the thinker, Ithaca and London, Cornell University Press, 2002. 34 O. CLEMENT, Berdiaev, cit., p. 93.

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culturale che metta al sicuro dalle ricadute nell’‘oggettività’ e nella grettezza dello spirito borghese35, da riverberarsi in giustizia sociale e fecondità culturale, e, infine, di dar luogo ad un «nuovo tipo di santità». In Personalismo e marxismo (1935), Berdjaev, distinguendo ancora fra socialismo ‘neutrale’ e comunismo – ovvero il socialismo che si è fatto storicamente ‘religione’ – scriverà che, se il primo può essere compatibile con diverse concezioni del mondo, il secondo non può che configurarsi come ideologia totalitaria, poiché, superata l’ingiustizia sociale e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, «la creazione dell’uomo nuovo e della fratellanza fra gli uomini […] è un compito spirituale, religioso, e presuppone una rinascita interiore dell’uomo. Ed è appunto questo che il comunismo non vuole ammettere, in quanto esso è una religione»36. Si tratta di un nodo che rappresenta forse il punto di massima convergenza fra il pensiero berdjaeviano degli anni ’30 e la piattaforma ‘progressista’ coeva di «Esprit», destinata, con lo scoppio della guerra e l’approfondirsi della meditazione berdjaeviana sul significato storiosofico della tragedia dello stalinismo, e più in generale, sul senso della modernità, a divaricarsi in maniera sempre più netta. Tuttavia, nel luglio del 1941, all’inizio dell’operazione ‘Barbarossa’, Mounier, come è stato notato, tornerà coraggiosamente su Verité et mensonge nell’ultimo numero di «Esprit» pubblicato sotto il regime di Vichy, sottolineando come il russo, già nel 1932, avesse «posto il problema nel suo asse», insegnando alla coscienza religiosa contemporanea «a vedere i tradimenti del mondo cristiano senza debolezza e senza leggerezza»37. Ne La rivoluzione personalista, Mounier affermerà poi, con accenti inequivocabilmen-

35

Sulla degenerazione del comunismo sovietico in «capitalismo di stato», Berdjaev aveva precocemente richiamato l’attenzione in Cristianesimo e lotta di classe (1931). Su questo aspetto, si veda C. BAIRD, Religious Communism?, cit., p. 38 ss. 36 Cit. in: A. GIUSTINO VITOLO, G. LAMI, Storia e filosofia in N.A. Berdjaev, cit., p. 127. 37 O. CLEMENT, Berdiaev, cit., p. 94.

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te berdjaeviani, che «il marxismo non è nulla per noi, se non è la fisica della nostra colpa» e, come Berdjaev, mostrerà l’esigenza personalista sottesa ad ogni critica dell’alienazione, rifiutando recisamente il postulato secondo cui «il sociale spiega la coscienza senza residui». Nel Berdajev del periodo francese, tuttavia, l’illusione dell’avvento di una nuova «epoca creativa del mondo», affrescata grandiosamente ne Il senso della Creazione, aveva definitivamente ceduto il passo alla «convinzione di un inconciliabile conflitto fra l’uomo concreto e il progresso storico», determinando quella peculiare ‘rivoluzione personalistica’ che, a differenza di quanto avverrà per Mounier e il gruppo di «Esprit», consiste non soltanto in una «dichiarazione di guerra» al mondo opaco della ‘oggettività’, ma anche a quello della storia, nella convinzione che una autentica ‘rivoluzione’ debba implicare non solo una liberazione della persona (licˇnost’) dalla «malattia dell’oggettivazione» e dalla schiavitù della necessità naturale, ma anche dalla dittatura dello Stato e da ogni esteriorità del sociale38. Come è stato notato dalla critica russa più recente, questa svolta nel pensiero di Berdjaev risulterà intimamente contraddittoria ed incapace di produrre una efficace sintesi fra una visione del mondo di stampo ‘gnostico-esistenzialista’ ed un’altra, di tipo autenticamente cristiano-ortodosso e quasi sofianico, basata su una ‘fede’ certa nei fondamenti ontologici della realtà: si tratta di una tensione tragica testimoniata dall’opposizione, costantemente presente nel ‘secondo’ Berdjaev, fra una concezione genuinamente personalistica dell’ agape come unica philìa in grado di fondare una communio sottratta alla presa demoniaca dell’oggettivazione ed una persistente, ed anzi vieppiù accentuata, tensione utopico-escatologica che continua ad individuare nell’eros la sola forza reale capace di trascendere la peccaminosa datità del mondo, riunendolo all’assoluto in una sintesi ‘uni38 Su questi aspetti della ‘rivoluzione personalistica’ berdajeviana, si veda ora J. JU. ERNYJ, Filosofija pola i ljubvi N.A. Berdajeva, Nauka, Moskva, 2004, pp. 101 ss. 39 Ivi, p. 111.

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totale’39. In questo senso, il rifiuto personalista dello spirito e della mentalità borghese convergerà con la tematizzazione berdjaeviana del ‘borghesismo’ come categoria metafisico-religiosa, piuttosto che socio-economica. Già ne Il senso della storia (1923), Berdjaev aveva ricondotto lo spirito rapace del capitalismo all’anima ‘ariana’ , ovvero individualistica e mercantile, dell’Occidente, cui aveva contrapposto quella giudaica, come principio collettivistico e comunitario: dal trionfo della prima a partire dagli albori della civiltà moderna, sarebbe scaturito il socialismo come risposta fondata sulla riproposizione marxiana dell’antico ideale messianico40. Sebbene Mounier non potesse conoscere due fondamentali contributi di Berdjaev sull’argomento, entrambi in russo (il primo è il già citato saggio su Bloy apparso su Sophia nel 1914, l’altro il borghesismo spirituale, apparso su «Put’», la rivista dell’emigrazione fondata da Berdjaev a Parigi, riprendendo la tradizione della prestigiosa rivista pre-rivoluzionaria «Novyj Put’», e tradotto in francese solo dopo la morte dell’autore) la sua analisi del mondo borghese è profondamente, e talora letteralmente, influenzata dalle idee di Berdjaev in merito41. Riprendendo un tradizione che ha una importante ed assai lunga ascendenza nel pensiero ‘tradizionalista’ russo (si pensi soltanto al già evocato Leont’ev), Berdjaev definisce lo spirito borghese come una struttura della coscienza, una particolare modalità di apprensione del reale esistita da sempre e veementemente stigmatizzata dai Vangeli. Per il Bloy letto da Berdjaev, «il “borghese” è l’idolatra per eccellenza, colui che non crede che a ciò che ricade sotto i propri sensi», mentre il «denaro è il sensibile, il visibile», che, emancipandosi ed ipostatizzandosi, finisce per «crocifiggere» letteralmente il povero42. Berdjaev svilup40

N.A. BERDJAEV, Il senso della storia. Saggio di una filosofia del destino umano, Milano, Jaca Book, 1971. Si tratta di un tema che sarà ulteriormente sviluppato in varie opere successive, fra cui Le fonti e il significato del comunismo russo (1938). 41 O. CLEMENT, Berdiaev, cit., p. 94. 42 Ibidem.

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pa le intuizioni di Bloy, sostenendo che lo spirito borghese rappresenta l’incapacità di prendere sul serio l’invisibile, la «confidenza opaca nella forza delle cose, il rifiuto del mistero e del tragico». A qualunque tendenza politica appartenga, il borghese «non vede né il volto dell’uomo, né il cielo e le stelle». Tutta la storia, in fondo, non è, per Berdjaev, che una tragicommedia in cui il nuovo borghese soppianta quello vecchio: pur se cristiano, il borghese ignora Cristo e non pensa che a organizzare – tecnicamente, nel senso proprio della Zuhandenheit heideggeriana – la Terra. A ciò, il cristiano autentico, secondo Berdjaev, deve contrapporre la spirito dell’ homo viator, ovvero, nella tradizione ortodossa, quello dello strannik, il santo poeta vagante, già sempre aperto alla totalità dell’essere43. In Mounier ritroviamo quasi letteralmente questi concetti: nel Trattato del carattere, egli scrive che «il borghese…rappresenta una forma perbene dell’Anticristo» nonché «l’uomo che ha perduto il Senso dell’Essere e che ha perduto l’Amore», mentre in De la proprieté capitaliste à la propriété humaine, Mounier afferma inoltre che il borghese è vittima predestinata di una nichilistica Entzauberung : «Il mondo sensibile non ha più incantamento per lui. Egli cammina fra cose…(per lui) tempo perso, l’amore delle cose e la liturgia del mondo[…] Quanto al mistero? Dove mai potrà incontrarlo? Egli si è fatto un mondo a portata di mano. Questo mondo non partecipa più di Dio, esso non partecipa che di lui»44. La persona stessa, nel suo differire dalla coscienza e dalla personalità, non è che un «centro invisibile» che si sottrae essenzialmente alla perspicuità della dimensione tecnico-mercantile dell’esistenza contemporanea: «Colui che non sa vedere se non le cose visibili non riuscirà mai ad impossessarsi della persona, neanche con le parole, perché le parole sono fatte per un linguaggio impersonale. La persona si annuncerà agli altri come il residuo vi-

43 44

Ivi, p. 95. Ivi, pp. 94-95.

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vente di tutte le loro analisi e si rivelerà quando essi saranno più attenti alla loro vita interiore»45. Ulteriormente significativo è il fatto che Berdjaev riprenda a sua volta, quasi letteralmente queste espressioni di Mounier nel suo Della schiavitù e della libertà dell’uomo e che, come è stato ancora giustamente notato da Clement, sviluppi di questo tema giungano fino a Paul Ricoeur. Ma l’influenza più eclatante del pensiero di Berdjaev sulla piattaforma ideale di «Esprit» è rappresentata senza dubbio dalla sua nozione di ‘Nuovo Medioevo’. Com’ è noto, il primo editoriale di Mounier su Esprit porta il celeberrimo titolo Refaire la Renaissance46. A proposito dell’affinità delle tematiche affrontate da Mounier in questo testo inaugurale, O. Clement ha scritto: «Che Mounier abbia parlato di “rifare il Rinascimento” e non il Medioevo non costituisce una divergenza col pensiero di Berdjaev, al contrario»47. In effetti, nella sua opera, Berdjaev non si stanca di sottolineare che «un ritorno alla tranquilla esistenza borghese di prima della catastrofe [sarebbe] impossibile»48. Il Nuovo Medioevo dell’Europa (dell’Occidente) è determinato dagli sviluppi paradossali di una «dialettica immanente, prima di autorivelazione, poi di autonegazione, dei medesimi principi che avevano presieduto al suo avvio», il cui culmine è rappresentato dalla Rivoluzione russa intesa come ‘follia razionalista’ – che, in quanto tale, rappresenta l’eterogenesi dei fini di Umanesimo e Rinascimento – combinata con «l’elemento popolare irrazionale»49 dell’anima russa. Per la filosofia della storia di Berdjaev, anzi, «un Rinascimento è possibile se con questa parola si intende una retrospezione delle antiche forme creative, ma nessun rinascimento può essere un ritorno indietro, cioè la re-

45

E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, trad. it. in Il personalismo, a cura di A. Rigobello, Roma, Città Nuova, 1978, p. 127. 46 Su ciò, si rimanda al contributo di Paolo Nepi in questo volume. 47 O. CLEMENT, Berdiaev, cit., pp. 95-96. 48 N.A. BERDJAEV, Nuovo Medioevo, cit., p. 3. 49 Ivi, p. 115.

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staurazione di una vecchia epoca ormai trascorsa»50. La rottura cristiana del paganesimo impedisce ogni ritorno a quella dimensione dell’elementare che pure –al modo di Schelling e Solov’ev– continua a costituire un fondo ‘perenne’ da cui, assieme alle forme eterne dell’arte, possono ad ogni istante riemergere le pulsioni caotiche e gli “spiriti” evocati dalla Rivoluzione del ’17. Il Rinascimento stesso, alla pari della Romantik, non è in fondo che il culmine della Weltanschauung medievale: «F. Schlegel ha un bell’invocare il Medioevo: assomiglia egli forse a un uomo medievale? Tanto meno gli uomini del Rinascimento somigliavano agli uomini dell’antichità greca o romana. Avevano vissuto il Medioevo, e l’acqua del battesimo non poteva essere più cancellata da alcun ritorno all’antichità, da alcun superficiale paganesimo. Nell’Europa cristiana il paganesimo non poteva essere un’esperienza profonda»51. La crisi del Rinascimento deriva così, per Berdjaev, dallo «smarrimento del centro spirituale dell’essere», dalla «perdita del centro spirituale» che ha prodotto nell’uomo rinascimentale uno sdoppiamento che lo ha reso tributario di ‘due mondi’ e che, pur liberando le energie creative dell’uomo, lo ha spiritualmente svuotato. Anche per Berdjaev, fedele in ciò alla visione critica ortodossa del cattolicesimo, la cristianità medievale aveva tenuto fermo il divino a scapito della tolleranza e della libertà. Tuttavia, la crisi dell’Umanesimo (il cui compimento è destinalmente accaduto in Russia, grazie a una intelligencija integralmente permeata dal pensiero filosofico occidentale) impone, come ha scritto ancora efficacemente O. Clement, di «uscire dalla logica del contro, Dio contro l’uomo, poi l’uomo contro Dio, per affermare la pienezza della divinumanità, la vocazione creatrice dell’uomo, chiamata, nello Spirito, a deificarsi trasfigurando l’universo. È dunque assai probabile che lui abbia suggerito a Mounier il tema di un nuovo Rinascimento in cui l’umano si affermasse senza separarsi dal divino, come

50 51

Ivi, p. 10. Ivi, p. 11.

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[Berdjaev] stesso aveva suggerito ne il Senso della Creazione»52. Nel suo Samopoznanie, Berdjaev ci racconta compiaciuto che i giovani intellettuali convenuti alle riunioni organizzative di «Esprit» reclamavano una difesa strenua dell’uomo e dell’umanismo. Mounier, stesso, d’altronde, all’indomani della morte di Berdjaev parlerà del russo come del «primo umanista della Nuova Europa», umanista ‘tragico’ d’un’epoca ancora notturna53. Tuttavia, lo scenario suggestivo e profetico che emerge dalle pagine di Novoe Srednevekov’e non assicura né autorizza la certezza di un ‘Nuovo Rinascimento’: è qui che, a nostro avviso, consiste il principale punto di divergenza del pensiero di Berdjaev rispetto a quello di Mounier. Nella sua opera, il russo non cessa di sottolineare il suo scetticismo metafisico sulla praticabilità empirica di una riforma della politica cristiana, sulle aporie che caratterizzano un Politico ‘cristiano’ mondanamente engagé: «abbiamo forti ragioni per credere – scrive – che le energie creative dell’uomo possano essere rigenerate e la sua identità ristabilita solo attraverso una nuova epoca di ascetismo religioso»54. Rispetto all’uso, per così dire, che di questo testo – pur senza alcun trionfalismo storicistico – farà Mounier, Berdajev aveva qui insistito in una direzione che gli odierni interpreti hanno, non senza ragione, definito post-moderna: la dimensione, ambigua ed enigmatica, aperta provvidenzialmente dalla fine del Rinascimento e del Moderno («Era destino che l’uomo vivesse quell’esperienza. L’uomo doveva passare attraverso la libertà e, nella libertà, accettare Dio. In ciò era il senso dell’umanesimo»55) è più uno spazio meta-storico – o, se si vuole, storico-ontologico – la cui agibilità non è nella potestà umana, ed il coglimento del cui senso è affidato ad una sorta di decifrazione gnostica che toglie di mezzo la potenza empirica di qualsiasi soggetto politico tradizionale. Nell’incontro con Mounier e con «Esprit», questa 52

O. CLEMENT, Berdiaev, cit., p. 96. «Combat», 26 marzo 1948. 54 Nuovo Medioevo, p. 23. 55 Ivi, p. 25. 53

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divergenza non verrà affatto appianata: semmai, come dimostrano le vicende biografiche dei due dopo il 1939 e, da ultimo, nel breve periodo post-bellico (Guerra fredda), sarà destinata ad accentuarsi fino alla rottura, dimostrando che l’intuizione epocale di Berdjaev aveva una portata ben più problematica di quanto, all’inizio degli anni ’30, potesse corrispondere alla intentio tutta politica della rivista. Ciò che tuttavia è importante ai fini della nostra esposizione, è che la proposta berdjaeviana di un cristianesimo ‘unitotale’ come risposta alla schizofrenia prodotta dalle confessioni occidentali nel corso della storia moderna, impronta profondamente la visione mounieriana del cristianesimo, condizionandone finanche la peculiare rivisitazione della teologia del Corpo mistico. Scrive Mounier, citando letteralmente Berdjaev, in Rivoluzione personalista e comunitaria: «Noi siamo rivoluzionari due volte, ma in nome dello spirito. Una prima volta […] perché la vita dello spirito è una conquista sulla nostra infingardia, e ad ogni istante noi dobbiamo scuoterci dal letargo, adattarci alla rivelazione nuova, aprirci all’orizzonte che sia allarga. Una seconda volta – e questo è avvenuto precisamente negli anni attorno al 1930 – perché il mondo moderno è in uno stato di putrefazione così avanzato, così profondo che è necessario il crollo di tutta la sua compagine verminosa perché possano spuntare nuovi germogli. Prima di giungere al nostro Rinascimento, come è stato detto, occorre passare un Nuovo Medioevo. Non è la violenza che fa le rivoluzioni, ma la luce. Lo spirito è il sovrano della vita […] Nel suo modo di procedere v’è qualcosa dell’istantaneità della luce […] Lo spirito detesta la dolcezza cortese che elude gli urti…La Saggezza sta nel giusto mezzo. C’è una Saggezza che ha ragione, ma ci si arriva solo con la follìa»56. Il nuovo Rinascimento, di cui Mounier pare pur problematicamente certo, dovrà avere le inconfondibili caratteristiche ‘energetiche’ e pneumatiche della tradizione ortodossa, mediate dalla

56

E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, trad. it., in Il personalismo, a cura di A. Rigobello, Roma, Città Nuova, 1978, p. 124.

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decisiva lezione della filosofia dell’atto creatore di Berdjaev (tvorcˇestvo). Anche in una delle pagine più teoreticamente elevate dell’opera mounieriana – la confutazione dell’ontologia sartriana contenuta in Introduzione agli esistenzialismi – la lezione di Berdjaev è assolutamente perspicua: criticando la riduzione sartriana dell’Essere all’unidimensionalità stolida e massiccia del per-sé, Mounier scrive: «L’essere nella sua vita più intima ci suggerisce appunto una ulteriorità d’essere, uno spessore ontologico. Ma ciò non è grossolana proiezione su uno schema astratto dell’essere finito: rivela invece l’origine viva dell’essere, della sua sovrabbondanza, della sua permanenza […] Criticando lo schema dell’altro mondo, si è giunti fino a negare l’essere stesso, l’essere che sgorga dall’essere, e il movimento che lo trascina per farlo sorgere dal nulla […] Visto dall’interno, l’Essere non è soltanto identità con se stesso ma sovrabbondanza rianimatrice, in una parola pienezza creatrice. Accettare l’essere significa accettare che vi sia, dinanzi a me, altro da me; e, nell’essere, altro essere oltre l’essere presente. V’è qui una potenza positiva di movimento, pienezza non attuale ma mossa da intima sovrabbondanza. L’idea di una pienezza creatrice occupa un posto centrale nell’ontologia. Esprime a un tempo l’abbondanza e la penuria che caratterizza la nostra esperienza dell’essere»57. Tra la pienezza dell’essere e il ‘nulla’ della creatura v’è, insomma, una ‘circolazione inversa’, un obratnoe tecˇenie avrebbe detto Florenskij, che spiazza sia la classica topologia scolastica dell’essere che il suo inverso esistenzialisticoateistico testimoniato dalla metafisica de L’Etre et le Néant: «Sartre non abbandona mai interamente […] l’ontologia classica»58. Quanto al tema della ‘persona’, è stato giustamente sottolineato che l’elaborazione di Mounier – laddove non è direttamente tributaria di un personalismo «più riflessivo, meno pneumatologico e nient’affatto trinitario, che risale alla tradizione di Maine De Biran e di Renouvier 57

E. MOUNIER, Introduction aux existentialismes, trad. it., in Il personalismo, cit., pp. 118-19. 58 Ivi, p. 121.

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(continuato, negli anni ’30 da un Nedoncelle e da un Madinier)» – risente non poco dell’impronta di Berdjaev, da La destinazione dell’uomo. Saggio di etica paradossale, a Schiavitù e libertà dell’uomo, che presenta nel suo primo, ampio capitolo una grande sintesi di filosofia personalista, di cui Mounier, recensendolo, dirà che rappresenta «un notevole capitolo sulla persona, che delinea posizioni familiari ai nostri lettori»59. A nostro avviso, anche la celebre esposizione mounieriana delle ‘dimensioni’ della persona porta inconfondibilmente il segno del pensiero di Berdjaev e della concezione della sobornost’60: «La persona non è un luogo nello spazio, un dominio circoscritto, che può essere annesso ad altri domini dell’uomo che gli si annettano dal di fuori. La persona è il volume totale dell’uomo. È equilibrio in lunghezza, in larghezza e in profondità, è in ogni uomo una tensione fra le sue tre dimensioni spirituali: quella che sale dal basso e l’incarna in un corpo; quella che è diretta verso l’alto e la solleva a un universale; quella che è diretta verso il largo e la porta verso una comunione. Vocazione, incarnazione, comunione sono le tre dimensioni della persona»61. Questo personalismo trinitario e dinamico, mutatis mutandis, reca nettamente l’impronta ‘unitotale’ del pensiero russo e, segnatamente, dell’antropologia berdjaeviana quale da lui esposta fin da Il Senso della creazione. Non solo: nello stesso contesto, Mounier espone qual è la ‘missione’ dell’uomo (naznacˇenie = 59

O. CLEMENT, Berdiaev, cit. p.98. Sulla nozione di Sobornost’ (comunitarietà, ‘ecclesialità’) come «struttura organico-interna» della società (obsˇcˇestvo), contrapposta alla Obsˇcˇesvtennost’ (socialità) come sua dimensione ‘meccanico-esteriore’, si basa la ‘filosofia sociale’ cristiana di un altro grande pensatore della generazione di Berdjaev, Semen Ludvigovicˇ Frank (1877-1950), che, come lui esule, dal marxismo approdò ad una ontologia ortodossa dell’essere sociale, secondo cui la ‘società visibile’, in ogni momento storico, vive «della sua invisibile, interna, sovratemporale comunitarietà». Su questo aspetto, si veda W. GOERDT, Russische Philosophie, Alber, Freiburg/München, 2002, pp. 641 ss. (in part., p. 662). 61 E. MOUNIER, Rivoluzione personalistica…cit. in: Il Personalismo, cit., pp. 128-29. 60

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Bestimmung), quella di scoprire – schelerianamente – la sua autentica Stellung nel cosmo: questa, sulla scorta della filosofia della ‘creazione’ berdjaeviana, si configura come un’attività volta a ‘trasfigurare’ la materia e a reintegrare (come Nikolaj Fedorov aveva insegnato) l’entropia universale del processo cosmico-storico: «La prima missione di ogni uomo è di scoprire sempre più questo unico numero che designa il suo posto e i suoi doveri nella comunione universale, e di dedicarsi, opponendosi alla dispersione della materia, a quest’opera di convogliamento, di raccoglimento delle proprie forze. La mia persona è incarnata. Quindi non può mai liberarsi completamente […] dalla schiavitù della materia. Ma non basta: non può sollevarsi se non pesando sulla materia. Voler sfuggire a questa legge significa condannarsi in anticipo all’insuccesso; chi vuol essere solo angelo, diventa bestia. Il problema non sta nell’evadere dalla vita sensibile e particolare, che si svolge fra le cose, in seno a società limitate, attraverso gli avvenimenti, ma nel trasfigurarla»62. Questa visione della persona e della storia – «evidente nella tradizione che porta Berdajev, molto meno in quella dell’Occidente» – si collega a una concezione ‘cosmista’ del cristianesimo che, come è stato ancora notato, Mounier «ritrova ed […] esprime con molta forza e poesia»63. In Feu la Chrétienté, Mounier riconosce che questa dimensione cosmica è stato troppo a lungo dimenticata. Per lui – come per la filosofia religiosa russa di cui Berdjaev è erede – la natura non è separabile dall’uomo che la qualifica e l’inserisce nel suo destino, né da Dio, di cui è una sorta di ‘sacramento’: «Ogni tentativo di pensare o di sentire (con san Francesco) cosmologicamente il cristianesimo sembra anche, ad alcuni, sospetto di panteismo. Così l’uomo moderno ha abbandonato il mondo; egli ha accettato che il mondo non fosse altro che una cosa, spazio e movimento, per se stesso, dinanzi a questa

62

Ivi. O. CLEMENT, Berdiaev, cit., p.103. 64 Sul tema della ‘macchina’, Berdjaev aveva scritto nel 1933 un saggio in cui 63

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macchina64, ha accettato il ruolo di spettatore disimpegnato e indifferente del suo cammino senza senso»65. La stessa concezione mounieriana della libertà della persona – intesa non come individuo ‘oggettivo’ ed astratto dalla pienezza unitotale del reale, ma come «cooperatore di Dio» – è direttamente tributaria di questa dimensione cosmologica. In essa, la libertà umana non è arbitrio d’indifferenza, ma risposta all’appello divino, Anruf che non chiama dal vuoto dell’angoscia, ma, scrive Mounier, costituisce la risposta dell’uomo «all’intenzione divina», che lo rende così «capace di Dio e cooperatore di Dio», e che realizza in tal modo ciò che la tradizione orientale chiama ‘sinergia’: «La vocazione suprema della persona è quella di divinizzarsi, divinizzando il mondo», scrive significativamente Mounier in Liberté sous conditions66. La persona così si realizza unicamente nella relazione e nella comunione: Berdajev aggiunge a questo tipico nodo novecentesco – presente nel personalismo attraverso Péguy, Marcel, il Buber di Ich und Du e, e contrario, l’Heidegger dell’analitica esistenziale, la nozione slavofila della Sobornost’, cosicché, come è stato scritto, la sua filosofia rappresenta una «ecclesiologia

nel macchinismo tecnico viene intravisto il contemporaneo «sentimento della planetarietà della terra», parimenti gravido di minacce ed opportunità, che avrà una notevole influenza su Mounier (nel saggio La Machine en accusation, contenuto in La petite peur du XX siècle [1948]): N.A. BERDJAEV, ˚elovek i ma’ina (Problema sociologii i metafiziki techniki), «Put’», 38, 1933, pp. 3-37. Sulla ricezione mounieriana delle idee di Berdjaev in merito, si veda O. CLEMENT, Berdiaev, cit., pp. 104-05. 65 E. MOUNIER, Responsabilità del pensiero cristiano, in: Id. Cristianità nella storia, Bari, Ecumenica Editrice, 1979, p. 97. 66 O. CLEMENT, Berdiaev, cit., p. 99. 67 O. CLEMENT, Berdiaev, cit., p. 99. Va detto che, in questa direzione, le idee presenti in L’io e il mondo degli oggetti (1934) rappresenta, dal punto di vista teoretico, il fondamentale contributo berdjaeviano alla critica dell’oggettività impersonale che caratterizzava, tra gli anni ’20 e ’30, il Dialogisches Denken e l’incipiente esistenzialismo. Su ciò, cfr. W. GOERDT, Russische Philosophie, cit., pp. 626 ss.

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applicata all’antropologia»67. Nel far ciò, la testimonianza esistenziale di Berdjaev contribuisce non poco a equilibrare il comunitarismo di «Esprit», ancorandolo ad una ontologia della libertà che nulla concede alla sempre riemergente fascinazione del collettivismo comunistico: recensendo La rivoluzione personalista di Mounier, Berdjaev scrive: «Mounier lega talmente la persona e la comunità da non voler dire io ma noi. Così facendo egli è vicinissimo alla concezione della Sobornost’ del pensiero ortodosso. Lui e i suoi partigiani si rivoltano contro l’anonimato, l’on, il man. La società capitalista è anonima, la persona vi si trova schiacciata. Ma il comunismo è ancor più antipersonalista. L’individualismo e il collettivismo sono due aspetti dello stesso male»68. Così, come già accennato, Berdajev porta nel personalismo «un’eredità di aristocratismo spirituale» che risulta sovente anche «in tensione con i valori di giustizia e di fraternità» affermati dal movimento «Esprit» nella sua piattaforma più decisamente politico-culturale. La libertà cristiana affermata da Berdjaev sulla scorta di Dostoevskij è, come Mounier nota, (ad esempio, in Certitudes difficiles) una libertà talmente radicale da risultare, alla prova della storia, tragicamente ardua. In proposito è significativa la testimonianza di Jean Lacroix che, nell’articolo Socialisme humaniste, evoca – attraverso la Concezione di Dostoevskij di Berdjaev – ancora una volta la figura del Grande Inquisitore, in un contesto in cui si critica l’eudemonismo dell’ideologia ‘progressista’: «È vero che gli uomini non chiedono che di essere scaricati di se stessi; essi si assoggettano alla servitù[…] la libertà è difficile da portare…»69. Ma, alla lunga, le pur notevoli consonanze teoretiche, erano destinate a scavare un solco fra il russo e Mounier: se inizialmente i dissensi riguardarono solo «le vie e i mezzi della testimonianza», alla fine essi finirono per indicare una profonda differenza metafisica e religiosa70. Per Berdjaev (che, in questo si rivela assai ‘inattuale’ e ottocentesco, 68

«Put’», 49, dic. 1935, p. 90 (Cit. in O. CLEMENT, Berdiaev, cit. p. 101). Ivi, p. 100. 70 Ivi, p. 105. 69

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o, se vi vuole, molto post-moderno) la sola azione feconda possibile è un’azione «a lunga scadenza»: anche se i francesi leggono avidamente – come egli stesso ricorda nella Autobiografia spirituale – le sue opere fondamentali degli anni ’30 – come Spirito e libertà e Sulla destinazione dell’uomo – egli non si aspetta da ciò risultati pratici a breve: «i risultati sociali, politici e culturali d’una tale influenza non potevano essere che assai lenti», mentre, al contrario «Esprit» pretendeva una presa immediata sugli eventi71. A proposito di «Esprit», Berdjaev nota, sempre nell’Autobiografia, che il movimento era limitato agli intellettuali ed aveva un flebile riverbero sulla società, tradendo addirittura un senso di impotenza di fronte all’arrivo della catastrofe pur lucidamente preconizzata da Mounier. Questa impotenza, dopo la guerra, prenderà la forma, per Berdjaev assolutamente inaccettabile, della rinnovata fascinazione del comunismo. Nella Autobiografia, Berdajev non nasconde la sua delusione per l’abbandono, da parte del movimento, di quelle questioni spirituali che richiedono una immensa pazienza, in favore di obiettivi sociali e politici ben più diretti: «Ciò che si apprezzava in me non era ciò che io considero come ciò che è più essenzialmente mio»72. A proposito di questo malentendu, Berdjaev scriverà lucidamente che, in rapporto ai giovani esponenti del personalismo, il suo pensiero era più radicale, più antinomico, più escatologico. E c’è in queste affermazioni berdjaeviane qualcosa di profondamente vero anche sul piano storico ed esistenziale: nonostante tutto, l’esito della riflessione di Berdajev imbocca la strada di una gnosi radicale e tragica, che, a partire dalla fine degli anni ’30, vedrà vieppiù la natura creata – come notò Maurice de Gandillac – come una ‘ossificazione’ dello spirito, polarmente opposta alla pienezza ontologica e sofianica precedentemente affermata73, lascerà come unica via d’uscita dalla prigione del mondo e della storia, quella mistica (di cui è testimonianza il grande studio su Boehme, in 71

Ibidem. Ivi, p. 106. 73 Ivi, p. 109. 72

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due volumi, pubblicato in tedesco negli anni ’40), ovvero la fede escatologica – tipicamente slavofila – in una paradossale redenzione storica della Russia, sorretta da una filosofia e teologia della storia del tutto anacronistica, la stessa che a lui, diagnosta infallibile degli spiriti maligni della rivoluzione, permetterà, all’indomani dell’invasione dell’URSS, di proclamarsi, ancora, un «buon patriota sovietico»74.

74 Su questo aspetto, cfr. A. GIUSTINO VITOLO, G. LAMI, Storia e filosofia in N.A. Berdjaev, cit., pp. 143 ss. Sul ‘perturbante’ ritorno di Berdajev nel dibattito filosofico russo attuale si veda L.N. STOLOVICˇ, Istoria russkoj filosofii. Ocˇerki, cit., pp. 236-37.

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LA COMUNICAZIONE EDUCATIVA COME PROCESSO ISTITUTIVO DELLA PERSONA Marco Piccinno

1. La persona nell’universo della comunicazione La società post-moderna si presenta come un contesto dinamico e complesso, profondamente attraversato dalla comunicazione: «le interdipendenze si sono moltiplicate, la comunicazione trionfa, il pianeta è attraversato da reti, fax, telefoni cellulari, modem, internet»1. Tuttavia, questo moltiplicarsi degli scambi non soltanto tra vicini, ma anche tra lontani, spesso decantato come una delle conquiste più preziose dell’epoca moderna, è gravato da un evidente paradosso, per il quale più aumenta la capacità degli uomini di comunicare, più diminuisce la loro capacità di comprendersi2. La comunicazione che invade la vita quotidiana sembra essere rivolta più a nascondere che a rivelare, più a generare incomprensione e diffidenza che a costruire legami e appartenenze ed in questo senso sembra alienare da se stessa una delle sue caratteristiche fondamentali, quella che tradizionalmente la costituisce come una esperienza umana che riesce a costruire comunione a prescindere dalla capacità di costruire convergenze3. 1 E. MORIN, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, trad. it., Milano, Raffaello Cortina, 2001. 2 Cfr. Ivi, cap. 6. 3 Su questi temi, cfr. G.W. PEARCE, Comunicazione e condizione umana, trad. it., Milano, Franco Angeli, 1987.

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I processi comunicativi che reggono la società del terzo millennio appaiono, in ultima analisi, alienanti ed alienati, perché allontanano l’uomo dagli altri e da se stesso, lo gettano in una condizione di vita inautentica, dove gli scambi adobrano l’identità, quando, addirittura, non l’annientano e la distruggono4. Il contributo che il mondo della comunicazione apporta all’esperienza umana non si declina tuttavia solamente in termini di inautenticità, ma assume altresì un significato ben più ampio ed umanizzante se solo si considerano i nessi che si instaurano tra l’esperienza comunicativa ed i processi generativi della persona. La persona, infatti, non può essere considerata come un dato che emerge come termine finale di una attività specultativa. Essa non si conosce come si conosce un oggetto, piuttosto si rivela entro un movimento esistenziale e dinamico (il processo di personalizzazione) la cui cifra esplicativa essenziale è data proprio dalla comunicazione: «l’esperienza fondamentale [della persona] non è l’originalità, il mantenere le distanze, l’affermazione solitaria; non è il distacco, ma la comunicazione… La persona si sviluppa solo purificandosi dall’individuo che è in lei. E vi perviene non soltanto con l’attenzione continua a se stessa, ma piuttosto rendendosi disponibile, quindi più trasparente a se stessa e agli altri»5. L’affermazione del Mounier ha lo scopo di sottolineare come il legame tra comunicazione e persona ha non soltanto una valenza pratica o strumentale (la comunicazione non è lo strumento che il soggetto umano utilizza per diventare persona), piuttosto si pone come una componente intrinseca e irrinunciabile della stessa identità umana. Significative al riguardo appaiono altresì alcune affermazioni di M. Scheler, anch’esse volte 4

Significative, al riguardo, appaiono le riflessioni di J. Buadrillard, il quale accusa l’universo comunicativo di proiettare e l’uomo in un mondo fatto di trasparenze, dove tutto è attraversato e definito dall’immagine mass-mediatica, che azzera tutte quelle dimensioni dell’identità che non si fanno ricondurre all’apparenza (Cfr. J. BOUDRILLARD, Le crime parfait, Paris, Grelièe, 1995). 5 E. MOUNIER, Il personalismo, trad. it., Roma, Ave, 2004, p. 67 e p. 59.

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a sottolineare il rilievo fondativo che assume per l’identità il legame comunicativo con l’altro: «in un primo tempo l’uomo vive più negli altri che in se stesso, più nella comunità che nel proprio individuo… Le idee ed i sentimenti in cui il bambino vive sono esattamente quelli del suo ambiente, dei suoi genitori, parenti… Solo assai lentamente egli solleva la sua testa al di sopra di questo flusso che scroscia su di lui e allora si ritrova come un essere che ha talvolta anche idee, sentimenti e aspirazioni proprie»6. La comunicazione con l’altro si presenta come un momento fondamentale del percorso che porta l’uomo a costruirsi come persona e del resto, una eco delle parole di M. Scheler si rinviene anche negli scritti di E. Mounier, quando egli afferma che «il primo movimento che riveli un essere umano nella prima infanzia è un movimento verso gli altri… La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona. Il tu, e, in lui, il noi, precede l’io, o, per lo meno, lo accompagna»7. Il legame tra persona e comunicazione emerge tra le righe anche nelle riflessioni più recenti di E. Morin, per il quale l’atto morale, quello cioè che garantisce l’autenticità dell’essere uomo, è essenzialmente «un atto di congiungimento (reliance): congiungimento con un altro, congiungimento con una comunità, congiungimento con una società e, all’estremo, congiungimento con la specie umana»8. Esigenze di chiarezza connesse allo sviluppo del discorso pedagogico impongono comunque di precisare che il radicamento della persona nell’universo della comunicazione non implica il primato ontologico della comunicazione sulla persona. Il processo di cui si

6

M. SCHELER, Essenza e forme della simpatia, trad. it., Roma, Città Nuova, 1980, p. 348. 7 E. MOUNIER, cit., pp. 59-60. 8 «L’acte morale est un acte de reliance: reliance avec un autrui, reliance avec une communauté, reliance avec une societé et à la limite reliance avec l’espéce humaine» tr. nstr: (E. MORIN, Etique, Paris, Seuil, 2004, p. 26.

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discute non riguarda la dimensione ontologica dell’essere, bensì la ben più circoscritta dimensione ontica dell’‘esserci’, nel senso che tale processo descrive non l’itinerario generativo che fa ‘essere’ la persona, ma piuttosto il percorso dinamico che realizza la persona nella storia e nelle concrete e quotidiane situazioni di vita. La comunicazione con gli altri si presenta come un fascio di transazioni che permette al soggetto di scoprire ciò che è e di definire ciò che vuole diventare, ma i paradossi e le contraddizioni di cui essa è gravata lasciano intendere che i suoi dinamismi, se da un lato possono rappresentare una risorsa per l’educazione, dall’altro introducono elementi di alienazione e di inautenticità che sono l’esatto opposto di quel processo di personalizzazione che l’atto educativo intende promuovere. Se è vero che la persona è inscindibilmente legata alla comunicazione, è altrettanto vero che non ogni atto comunicativo promuove la persona, ed in questo senso è compito del discorso pedagogico individuare le coordinate che consentono di distinguere i modelli di scambio orientati alla personalizzazione dai modelli di scambio che invece mediano esiti di tutt’altra natura. 2. La comunicazione come riconoscimento I vissuti di inadeguatezza e di inautenticità associati nell’attuale contesto sociale ai processi comunicativi appaiono con tutta probabilità correlati ad una visone riduttiva e semplificatrice del processo di comunicazione. La velocità degli scambi tipica della società globalizzata sembra infatti orientata ad enfatizzare quell’aspetto dei dinamismi comunicativi maggiormente connesso alle componenti di contenuto, mentre si rivela del tutto disaccorta nei confronti di quelle dinamiche di processo maggiormente correlate alle componenti di relazione9. 9

Il riferimento è al terzo assioma della comunicazione di P. Watzslawick, per

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L’atto comunicativo viene collocato entro un contesto di interazioni che ne riduce la complessità, ne esautora la profondità e soprattutto lo identifica esclusivamente con la funzione di trasferire informazioni da un emittente ad un ricevente. L’attuale società dell’informazione valorizza la comunicazione unicamente per la sua capacità di inviare messaggi ed in questo senso rende conto dei risvolti di inadeguatezza e di alienazione descritti nel precedente paragrafo. Tali risvolti rappresentano infatti non un esito intrascendibile, o comunque intrinsecamente inscritto nei processi di comunicazione, quanto piuttosto un approdo nefasto che, mentre riduce il senso del comunicare al solo scambio di informazioni, allo stesso tempo esclude dal dinamismo comunicativo tutte quelle componenti di natura relazionale orientate a mediare atteggiamenti di accoglienza, di cura, di incontro e di incoraggiamento. Di fronte ad un contesto sociale che rischia di orientare gli atti comunicativi verso esiti parziali ed inautentici, restituire alla comunicazione la sua capacità di promuovere la persona significa sintonizzare gli scambi interpersonali sulla totalità delle risorse comunicative, recuperare una prospettiva di senso entro la quale trovi adeguata soddisfazione non soltanto l’attenzione al messaggio ma anche e soprattutto l’attenzione alla persona del sé e dell’altro. Per farsi veicolo di personalizzazione, l’atto comunicativo ha bisogno di recuperare le sue componenti pragmatiche e proattive, non soltanto nel senso indicato da J.R. Searle e J.L. Austin10, ma sopratil quale, in ogni atto comunicativo si riscontra una componente di contenuto ed una componente di relazione (Cfr. P. WTZSLAWICK, Pragmatica della comunicazione umana, trad. it., Roma, Astrolabio, 1971). 10 Il riferimento è alla teoria del linguaggio considerato non soltanto come atto locutorio (volto cioè a trasmettere un messaggio), ma anche come atto illocutorio e perlocutorio (ovvero come un comportamento finalizzato ad influire sul contesto di enunciazione in vista di una sua trasformazione) (al riguardo, Cfr. J.L. AUSTIN, How to do Things with World, Oxford, Claredon Press, 1962 e J.R. SEARLE, Atti linguistici, trad. it., Torino, Boringhieri, 1976).

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tutto nella prospettiva indicata da P. Ricoeur, per il quale l’atto comunicativo rappresenta una azione che parte dalla sollecitudine, sollecita reciprocità, produce riconoscimento11. Il processo comunicativo riesce a costituirsi come momento di personalizzazione quando il transito di informazioni che esso inevitabilmente comporta si innesta entro un universo di senso fondamentalmente responsivo, in virtù del quale l’atto comunicativo media soprattutto l’intenzione di rispondere a colui che mi sta di fronte e che, con la sola presenza, impegna la mia capacità di donargli cure e attenzioni. Come già rilevato, P. Ricoeur propone «di dare il nome di sollecitudine a questo movimento del sé verso l’altro, che risponde alla chiamata dell’altro»12. Allo stesso tempo, l’atto comunicativo può diventare luogo generativo della persona perché il dinamismo relazionale che lo pervade ben si presta a supportare l’esigenza di relazionalità inscritta nel processo di personalizzazione. Lo scambio comunicativo, (benchè strutturato sulla successione degli atti posti in essere da ciascuno dei soggetti coinvolti nell’interazione), non può essere ricondotto a semplice sequenza di stimoli e reazioni. Esso si profila piuttosto come un dinamismo estremamente complesso, all’interno del quale i singoli contenuti semantici si delineano come gli atti di un Io intenzionalmente rivolti ad interpellare e riconoscere un Tu. Il nesso stimolo-reazione attraverso cui si esprime il dinamismo comunicativo rappresenta non soltanto un fascio di determinismi biderazionali e anonimi, ma anche e soprattutto un percorso creativo mediante il quale i soggetti coinvolti nella relazione si rendono destinatari di reciproci atti di sollecitudine. Sotto tale profilo, gli stimoli e le risposte che pervadono lo scambio comunicativo si propongono come un campo di esperienze che offre uno spazio d’azio11 Cfr. P. RICOEUR, Della persona, in La persona, trad. it., Roma, Morcelliana, 2002, ed anche P. RICOEUR, Sé come un altro, trad. it., Milano, Jaka Book, 1993, primo studio e secondo studio. 12 P. RICOEUR, Della persona, cit., p. 41.

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ne e di concretizzazione «all’istanza etica della reciprocità … che costituisce l’altro in quanto mio simile e me stesso come il simile dell’altro»13. Il dinamismo della reciprocità intrinsecamente inscritto nell’esperienza comunicativa innesta gli esiti dell’interazione al centro del percorso di personalizzazione, poiché gli atti posti in essere da ognuno assumono, in tale prospettiva, non soltanto la forma di un rispondere, ma anche quella di un vero e proprio corrispondersi, ovvero di un rendersi reciprocamente destinatari di atti di accettazione, di promozione, di valorizzazione. Sollecitudine e reciprocità orientano la processualità degli scambi verso esiti produttivi di riconoscimento, ed in questo senso istituiscono l’atto comunicativo come percorso generativo della persona. Trasformare l’esperienza comunicativa in luogo di scambio della sollecitudine reciproca significa infatti porre in essere dinamismi relazionali all’interno dei quali l’altro viene assunto e valorizzato nella propria identità e nel proprio modo di essere, ovvero riconosciuto e confermato come soggetto buono, positivo, meritevole di fiducia, capace di prendere in mano la propria vita ed orientarla secondo orizzonti di adeguatezza ed autenticità. Sotto tale profilo, il riconoscimento mediato dalla sollecitudine assomiglia molto da vicino alle dinamiche generative della cosiddetta fiducia di base, che rappresenta una delle principali conquiste della persona14. L’atto comunicativo, in quanto atto rivolto al riconoscimento, apre un campo di interazioni dove i singoli soggetti coinvolti nello scambio si testimoniano reciprocamente una incondizionata apertura di credito ed in questo senso vengono innestati in un percorso dinamico dove la fiducia in se stessi è il punto di sintesi tra la fiducia donata agli altri e la fiducia ricevuta dagli altri. Il rapporto tra comunicazione e persona esige tuttavia una ulte-

13

Ivi, p. 43. Sul rapporto tra riconoscimento e fiducia di base, cfr. E.H. ERIKSON, Gioventù e crisi di identità, trad. it., Roma, Armando, 1987, pp. 112 ss. 14

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riore specificazione del significato che assume la fiducia in ordine allo svolgimento del processo di personalizzazione. L’esigenza di concedere all’altro una apertura di credito incondizionata, se da un lato innesta la comunicazione sulle dimensioni dell’accoglienza e della valorizzazione, dall’altro non può essere riduttivamente identificata né con la conferma acritica ed incondizionata dell’altro né con atteggiamenti di evitamento o di elusione del conflitto. Per diventare fonte di riconoscimento e di personalizzazione, l’atto comunicativo deve sapersi proporre come un fascio di transazioni capace di attivare la gestione creativa dei conflitti, ovvero come uno spazio di esperienze dove la tensione verso il reciproco riconoscimento non è subordinata alla possibilità di costruire convergenza e, in un certo senso, prescinde perfino dalla possibilità di costruire un accordo. La comunicazione si apre al riconoscimento e dischiude l’universo della persona quando si propone come un’esperienza che sa promuovere comunione anche laddove non è possibile la convergenza. Detto in altre parole, la comunicazione si orienta verso la personalizzazione quando attiva un approccio esplorativo delle dissonanze, quando si fa capacità di disconfermare l’atto senza recidere il legame o svalutare l’identità, quando sa rivolgere le proprie conferme ai comportamenti senza generare onnipotenza nelle identità o assolutizzazione collusiva nei legami15. 3. Comunicazione e mancato riconoscimento L’atto di personalizzazione inscrive in larga misura i suoi processi nell’atto comunicativo e tuttavia bisogna constatare che non ogni atto comunicativo produce necessariamente personalizzazione. 15 Sulla capacità dell’atto comunicativo di gestire creativamente i conflitti e di attivare una gestione educativa dei meccanismi di conferma o di disconferma, cfr., fra gli altri, M. MIZZAU, E tu allora? Il conflitto nella comunicazione quotidiana, Bologna, Il Mulino, 2002; M. PICCINNO, La comunicazione educativa nella famiglia, Roma, Armando, 2004.

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Se il tramite tra comunicazione e personalizzazione è dato – come si è cercato di dimostrare nei paragrafi precedenti – dall’atto di riconoscimento, allora il primo compito di un discorso pedagogico che voglia fondare il nesso tra persona e comunicazione è quello di individuare dei criteri di riferimento che consentano di distinguere i modelli comunicativi che mediano riconoscimento dai modelli comunicativi che invece orientano il processo di scambio verso esiti di natura opposta al riconoscimento. Il dinamismo che regge la processualità comunicativa induce ad individuare un atto di mancato riconoscimento in tutti quei percorsi di scambio dove l’attenzione dei soggetti coinvolti risulta focalizzata non sull’altro reale bensì sull’altro immaginato, ovvero sull’immagine dell’altro così come viene elaborata da ciascuno degli interlocutori. Il mancato riconoscimento si profila come l’esito di situazioni comunicative dove la processualità degli scambi si trova ad essere occupata non dall’altro, ma dalla nostra immagine dell’altro e dove l’intenzionalità comunicativa risulta focalizzata non sulla presa di contatto con ciò che l’altro è bensì sulla elaborazione proiettiva di ciò che l’altro dovrebbe o non dovrebbe essere. La tendenza a sostituire l’altro reale con l’altro immaginato si rinviene in una molteplicità di modelli comunicativi, quali, ad esempio, la tendenza a consigliare, la tendenza ad interpretare, la tendenza a minimizzare. L’atto del consigliare ricorre ogni qual volta il destinatario di una comunicazione risponde ad una difficoltà del partner indicando cosa questi dovrebbe o non dovrebbe fare per risolvere il disagio («Su, non fare così»; «Fatti una bella passeggiata e vedrai che non ci pensi più»; «prova a pensare a cose più urgenti»). Benché atti di questo tipo risultino spesso motivati da un reale atteggiamento di premura nei confronti del soggetto cui sono rivolti, la loro struttura interna rischia di orientare i contesti comunicativi verso situazioni di mancato riconoscimento dell’altro. Le componenti di relazione connesse all’atto del consigliare, al di là dei contenuti concreti che suggeriscono o propongono (fare una passeggiata, pensare ad altro, 179

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non comportarsi in un certo modo), istituiscono il destinatario della comunicazione come un soggetto fondamentalmente incapace di trovare da solo una soluzione al proprio stato di disagio16 ed in questo modo azzerano una delle fondamentali prospettive del processo di riconoscimento e di personalizzazione, quella di restituire all’interlocutore l’identità di un soggetto capace di prendere in mano la sua vita di orientarla verso orizzonti di autenticità e di adeguatezza. Esiti del tutto analoghi a quelli prodotti dall’atto del consigliare sono quelli procurati dai comportamenti relazionali volti ad operare una interpretazione della comunicazione altrui. Il modello dell’interpretazione ricorre in tutti quei comportamenti comunicativi intenzionalmente orientatati «ad interpretare l’origine dello stato di disagio o il problema che è all’origine della richiesta»17. L’espressione di uno stato di disagio messa in atto di uno dei partner viene accolta dall’interlocutore attraverso un comportamento di risposta finalizzato a precisare le possibili cause che sono all’origine di quel particolare vissuto («Dici così perché forse sei un po’ stanco»; «Forse eri già arrabbiato per qualcosa»; «Non sarà perché ieri sera ti sei coricato un po’ tardi?»), mentre il focus dello scambio viene dislocato più sulle possibili soluzioni del disagio che non sulla presa di contatto con la reale situazione emotiva del soggetto. Il dinamismo che regola gli scambi, piuttosto che essere rivolto alla individuazione di ciò che l’altro realmente vive, sembra invece prevalentemente interessato alla definizione di ciò che l’altro dovrebbe vivere, sicché l’intero meccanismo comunicativo viene pervaso da quella particolare forma di mancato riconoscimento che si esprime nella tendenza a sostituire l’altro reale con l’altro immaginato, l’altro come è, con l’altro così come viene definito dall’attività immaginativa del partner. 16 Su questi temi, cfr. fra gli altri R. MUCCICHELLI, Apprendere il counseling, Trento, Erickson, 1987 e M. COMOGLIO, Educare insegnando, Roma, Las, 1999, pp. 230 ss. 17 M. COMOGLIO, cit., pp. 230.

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Il mancato riconoscimento dell’altro si rinviene, infine, nei modelli comunicativi fondati sulla tendenza a minimizzare, la quale si esprime attraverso comportamenti di sostegno che cercano «di rendere più sopportabile lo stato di sofferenza [del partner] accostandolo [a situazioni analoghe] vissute da altri»18 («Non ti preoccupare, è successo anche ad un mio amico»; «stai tranquillo, una volta è successo anche a me»; «Una cosa del genere succede a tutti, prima o poi»). L’azzeramento delle istanze di riconoscimento appare in questo caso correlato all’incapacità dell’interlocutore di sintonizzare la sua risposta sul significato che il problema assume per l’altro, nonché alla conseguenza di istituire l’interlocutore come un soggetto incapace di valutare da solo il valore dei suoi vissuti e dei suoi stati d’animo. 4. Comunicazione e riconoscimento Come abbiamo avuto modo di osservare nei precedenti paragrafi, una delle condizioni che costituisce l’atto comunicativo come esperienza di riconoscimento e di personalizzazione è la sua capacità di testimoniare all’altro una apertura di credito incondizionata. L’elemento dinamico che innesta la comunicazione nelle prospettive della personalizzazione è rappresentato appunto dalla fiducia ed in particolar modo dai meccanismi attraverso i quali essa viene assunta e mediata all’interno degli scambi. L’atto comunicativo si apre alla fiducia quando sollecita nei partner l’intimo convincimento che nessun danno deriverà loro dalla decisione di coinvolgere se stessi nell’atto comunicativo19. Esigenze di chiarezza impongono di precisare che il danno di cui si

18

Ivi. Cfr. H. FRANTA, G. SALONIA, Comunicazione interpersonale, Roma, Las, 1981, pp. 41 ss. 19

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discute non riguarda evidentemente la dimensione fisica, e nemmeno quella strettamente psicologica; esso si riferisce piuttosto a quella situazione di disagio che può insorgere in seguito a comportamenti di mancato riconoscimento e che si sostanzia in atti comunicativi volti a svalutare e delegittimare il modo di essere dell’altro. La possibilità di arginare i rischi connessi all’insorgenza di questo danno impone un efficace controllo dei meccanismi comunicativi connessi alla gestione delle componenti relazionali ed in particolar modo esige l’attivazione di modelli di scambio capaci di tenere distinti i segmenti della comunicazione che si riverberano sul contenuto dai segmenti della comunicazione che si riverberano sulla relazione (e, di conseguenza, sull’identità dell’interlocutore). I modelli comunicativi capaci di gestire costruttivamente le dinamiche della fiducia, pur concretizzandosi in una molteplicità di strategie, fanno tutti riferimento ad analoghe componenti strutturali, le quali sono in larga parte riconducibili ai dinamismi connessi all’attenzione, all’autopresentazione ed alla esplorazione. L’atto comunicativo del prestare attenzione si concretizza nella disponibilità ad accogliere e a valorizzare tutto ciò che l’altro dice, così come lo dice, semplicemente perché lo dice, senza operare valutazioni, interpretazioni o minimizzazioni dei contenuti comunicati20. La disponibilità ad accordare attenzione a ciò che l’altro sta comunicando, se sul piano del discorso testimonia l’interesse per i contenuti, sul piano della relazione testimonia invece l’interesse per la persona, per ciò che essa rappresenta in se stessa, per il valore che essa assume agli occhi del suo interlocutore. L’attenzione accordata alle comunicazioni altrui attiva un processo metacomunicativo in virtù del quale il contenuto espresso dal partner viene costituito dall’interlocutore come un segno inconfondibile dell’identità positiva dell’altro, anche quando si articola in giudizi che egli non conferma o non condivide. L’atto di riconoscimento si estrinseca in una ma-

20

Ibidem, pp. 66 ss.

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nifestazione di disponibilità in cui il comportamento di uno dei partner è intenzionalmente rivolto a dichiarare all’altro che i suoi atti comunicativi restituiscono «il bene che egli è» anche quando egli asserisce qualcosa che non si conferma o non si condivide. Sotto tale profilo, la capacità di prestare attenzione si rivela una delle principali risorse comunicative che consentono di distinguere le componenti strutturali connesse ai contenuti dalle componenti strutturali connesse alla relazione. Ciò emerge in maniera più chiara se solo si considera le dinamica interna di alcune delle strategie comunicative alle quali si affida il compito di mediare interesse ed attenzione. Tra di esse, un significato particolare ai fini del nostro discorso assumono le tecniche della parafrasi – in cui «l’ascoltatore ridice gli stessi concetti dell’emittente, ma con parole diverse»21, – e del riepilogo – che «consiste nel fare una sintesi della esposizione dell’emittente [specie] quando la comunicazione dell’emittente è stata ampia o prolissa»22, – le quali hanno proprio lo scopo di dimostrare all’interlocutore l’interesse del partner a tenere sotto controllo i meccanismi attributivi, valutativi, interpretativi, nonché la sua intenzione di prendere contatto con la reale consistenza dell’ universo soggettivo dell’altro. Detto in altre parole, parafrasi e riepilogo promuovono il riconoscimento dell’altro poiché rappresentano atti comunicativi che dichiarano all’altro: sono interessato a ciò che dici perché sono interessato a ciò che sei. Un’altra componente strutturale dell’atto comunicativo finalizzato a gestire costruttivamente le dinamiche della fiducia è rappresentato dal cosiddetto comportamento autopresentativo, il quale si riscontra in quella forma di comunicazione personale dove il soggetto mette in campo «non le sue idee e i suoi pareri sui vari momenti del mondo ma…la sua emozionalità (desideri, paure, rabbia, gioia) che esperimenta nelle varie situazioni della sua vita»23. Il mo21

Ibidem, p. 68. Ivi. 23 Ibidem, p. 116. 22

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dello autopresentativo agisce in tutte quelle circostanze comunicative in cui il soggetto accetta di parlare di se stesso in prima persona, di esprimere cioè le reazioni personali e profonde ai fatti che coinvolgono la sua vita. L’atto di mettere nelle mani dell’altro le parti più profonde di sé assume valore di riconoscimento nella misura in cui istituisce il destinatario della comunicazione come soggetto degno della propria fiducia e della propria stima, anche quando il contenuto della comunicazione si articola per forza di cose su contenuti negativi o, in qualche maniera, delegittimanti. Sotto tale profilo, il comportamento autopresentativo rappresenta una delle principali risorse comunicative che consentono di disconfermare un eventuale contenuto senza che questo si trasformi in un attacco al legame o, peggio, in una delegittimazione della persona. Un esempio può servire a chiarire meglio il significato del dinamismo appena esaminato. L’espressione «quello che dici mi ha ferito», mettendo direttamente in campo i vissuti procurati nel soggetto da un eventuale comportamento negativo dell’altro, mentre disconferma il contenuto della comunicazione (ciò che l’altro effettivamente ha detto), produce allo stesso tempo una concomitante dichiarazione di stima e di disponibilità a permanere nel legame con lui, poiché la diretta espressione dei vissuti frustranti raggiunge lo scopo di dichiarare all’altro: tu sei un soggetto talmente positivo, che continui a risuonarmi dentro anche quando fai o dici qualcosa che mi ferisce. Per meglio comprendere l’effetto di riconoscimento prodotto da una simile affermazione è sufficiente confrontare i suoi esiti con quelli eventualmente prodotti da una frase del tipo «Non capisci niente», dove l’assenza di autopresentazione qualifica il destinatario come un soggetto totalmente negativo e non riesce in nessun modo a testimoniare la volontà del parlante di permanere nel legame. Il nesso tra comunicazione, riconoscimento e personalizzazione trova infine concrete possibilità di attuazione nei modelli comunicativi fondati sull’esplorazione. Il modello dell’esplorazione si ritrova in tutti quei comportamenti comunicativi che hanno lo scopo di motivare il soggetto ad operare un approfondimento dei propri 184

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atti e della propria esperienza24 e che assumono un prezioso valore di riconoscimento poiché istituiscono il destinatario come un soggetto in grado di elaborare in autonomia i significati connessi agli aspetti fondamentali della propria esistenza. Sul piano delle strategie comunicative, uno dei modi per dare consistenza all’intenzionalità esplorativa può essere individuato nella cosiddetta focalizzazione delle incongruenze, la quale consiste nel portare in rilievo alcuni aspetti contraddittori presenti nelle comunicazioni del partner, affinché egli le possa approfondire e chiarificare meglio25. Anche in questo caso l’atto comunicativo si profila come un percorso dinamico che mentre opera una delegittimazione dei contenuti, mantiene contemporaneamente intatti i giudizi di riconoscimento e di valorizzazione della persona. L’atto finalizzato a rilevare le insufficienze inscritte nella comunicazione del soggetto non mira infatti ad una interpretazione o ad una svalutazione della sua capacità di analisi, ma si orienta piuttosto verso l’istituzione di un contesto comunicativo che, mentre sollecita la sua capacità di risolvere da solo i limiti che gravano sulle sue performance, allo stesso tempo lo invita a riconoscersi come un soggetto capace di prendere in mano la sua vita e di orientarla verso esiti di maggiore adeguatezza.

24

Cfr. al riguardo, le considerazioni di M. Comoglio relative alla rispostasondaggio, la quale consiste nel rispondere «alle richieste di aiuto con domande che stimolano ad analizzare meglio o a chiarificare il disagio» (M. COMOGLIO, cit., p. 230). 25 Al riguardo, cfr. FRANTA, SALONIA, cit., p. 69 ed anche R. CARKHUFF, L’arte di aiutare, trad. it., Trento, Erickson, 2005, p. 78.

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LE TRACCE DI MOUNIER NELLA PEDAGOGIA DI MARIO MENCARELLI Chiara Palazzini

Vorrei cominciare queste mie righe con un piccolo ricordo personale: ho conosciuto Mario Mencarelli quando, giovane studentessa universitaria, matricola della Facoltà di Magistero dell’Università di Siena, ho seguito le sue lezioni di pedagogia; purtroppo, poco tempo dopo Mencarelli venne a mancare. Ma ho ancora ben impressa nella mente la prima lezione a cui ho assistito: mi ha colpito molto il modo di essere di questo grande pedagogista, un esserci che riportava ad un’interiorità profondamente vissuta e visibile, espressa in un’umanità calda e sensibile, realmente attenta e autentica. Questa per me è stata una grande testimonianza e un grande esempio, duraturo nel tempo e nel ricordo, che – devo dire – a volte riaffiora e che tengo presente nell’esercizio della mia professione. Ho fatto questa piccola ‘premessa’ per introdurre al personalismo vissuto e testimoniato da Mencarelli e per cercarne le tracce e le similitudini in quello di Mounier. Mencarelli e Mounier non si erano conosciuti personalmente, ma il personalismo testimoniato di Mounier aveva molto colpito Mencarelli, che lo aveva conosciuto ed apprezzato. Scrive Mencarelli: «Un personalismo scientifico può così riproporsi, senza farsi prendere dalla foga oratoria di cui è stato spesso accusato, come esigenza, come metodo, come prospettiva (per usare le ormai classiche parole del Mounier), sia per animare un nuovo dinamismo nell’ambito etico come a suo tempo riuscì alla dottrina dei valori (tanto più necessario quanto più si pensi all’invadente irraziona187

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lismo che detta oggi le decisioni umane), sia per evitare che l’appello ai valori finisca con l’identificarsi con la tendenza a sottrarsi a decisioni concrete. Non c’è bisogno di cautelarsi ulteriormente davanti al rapporto persona-società: un autentico personalismo non può che essere comunitario (Maritain, Mounier, Stefanini), e quindi decisamente aperto alle istanze della vita sociale. Ma nessuna società potrà vivere con sicurezza se la libertà umana e la coscienza personale non potranno legittimare i valori che la società pone come tali. … Un personalismo scientifico non può che studiare l’uomo in concreto, cioè nella sua essenza e nella sua esistenzialità o, in altre parole ancora, nelle condizioni in cui storicamente e socialmente si trova per affermare il proprio io»1. Queste affermazioni riprendono molto bene ciò che Mounier aveva precedentemente scritto sul personalismo: «Il personalismo … è prospettiva, metodo, esigenza. … il destino dell’uomo vi è coinvolto secondo tutte le sue dimensioni: materiale, interiore, trascendente; l’appello alla pienezza personale … non è separato dall’appello della umanità come tutto»2. Questa pienezza personale vive in una situazione storica ben definita, nella concretezza delle situazioni e nell’urgenza del qui ed ora. E anche per questo aspetto troviamo concordanza fra Mounier e Mencarelli. Afferma Mounier: «… io sono un io-qui-adesso-così-fra questi uomini-con questo passato»3. «… il personalismo, come ogni dottrina che si confonda con la storia, non è uno schema intellettuale che attraverso la storia permanga intatto; associa la fedeltà a un determinato assoluto umano con un’esperienza storica progressiva»4. 1 M. MENCARELLI, Creatività e valori educativi: saggio di teleologia pedagogica, Brescia, La Scuola, 1977, p. 56. 2 E. MOUNIER, Che cos’è il personalismo?, Torino, Einaudi, 1948, p. 113. 3 Ivi, p. 31. 4 Ivi, p. 14.

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Sembra fare eco Mencarelli: «… l’apertura della persona non può che compiersi in situazione, risolvendo continuamente problemi concreti … Né può essere ignorata, ancora in chiave personalistica, la critica di chi osserva che, per il perseguimento di fini perenni, si perdono di vista, talvolta, i fini più vicini, quelli … che configurano la soluzione di problemi concreti»5. Viene avvertita fortemente la necessità di ripartire dalla persona per uscire dalla crisi di civiltà; l’idea di persona è concepita come un compito progettuale, come una realtà in divenire e da edificare. Per Mounier, all’uomo di cultura tocca il compito di risvegliare le coscienze: «Al centro di questa crisi, noi dobbiamo aiutare nello stesso tempo la permanenza e il mutarsi dell’uomo. … La rivoluzione del secolo XX deve foggiare all’uomo contemporaneo uno strumento tecnico razionale e un’organizzazione sociale giusta; ma ha anche il compito di restituirgli una ragione di vivere e di morire, e prima ancora una consistenza»6. E quindi, «Noi lo concepiamo (il personalismo) come un’avventura aperta, fatta di avvenire più che di passato; esso ci ricollega senza dubbio a una linea precisa di valori e di presenze storiche …»7. Anche Mencarelli è molto attento al rapporto della persona con il mondo; questa premura è collocata nella concretezza della situazione socio-storica: « … attenzione per le proposte della “pedagogia in situazione” di Gaetano Santomauro, di cui apprezzava sia la tensione di carattere noetico che quella noematico-esistenziale e critica. Soprattutto apprezzava l’engagement che tale pedagogia chiede al pedagogista, il quale è chiamato a decidere di servire la causa dell’uomo, “sia partecipando al movimento di crescita e di espansione dell’universo personale, come universo di libertà, di consapevolezza, d’impegno, di attività costruttiva e creativa, sia approfon5

M. MENCARELLI, Creatività e valori educativi, cit., pp. 64-65. E. MOUNIER, Che cos’è il personalismo?, cit., p. 57. 7 Ivi, p. 93. 6

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dendo il significato e il valore della presenza dell’uomo nel mondo, sia denunziando la irrazionalità di certe situazioni frustranti e di certe prospettive alienanti, sia reagendo ad ogni tentativo di strumentalizzazione politica, ideologica o produttiva, sia collocando il proprio lavoro nella luce di una ‘scelta’ e di un ‘compito’ aventi una profonda sostanza etica”»8. La nozione di engagement è applicata e sottolineata da Mounier anche al versante pedagogico, ribadendo il ruolo centrale della componente educativa all’interno del progetto di rinnovamento personalistico9. Da parte sua Mencarelli: «… afferma che i tempi che corrono sollecitano a pensare alla essenzialità dell’educazione e alla necessità di una educazione basata sulla esperienza interiore e sulla comunione tra gli uomini. L’attenzione rivolta da Mario Mencarelli nel decennio che va dal 1960 al 1970 all’educazione permanente è espressione di questo impegno etico che lo induce a servire la persona (vista nella sua essenza e nella sua realtà storica ed esistenziale, oltre che nella sua vocazione culturale) e ad affermare … che non è “la cultura che da dignità all’uomo, ma è l’uomo che avvalora la cultura incrementandola sempre di autenticità e di umanità”»10. L’umanesimo totale di Mencarelli è un umanesimo dell’autenticità, unito alla presenza e alla testimonianza, legato ad una forte intenzionalità; è un umanesimo democratico, come è ribadito da Mounier. Inoltre, anche nell’idea mencarelliana di creatività risuonano tematiche di Mounier: «Ma potrà essere osservato, da parte nostra, 8

S.S. MACCHIETTI, La vocazione personalistica di Mario Mencarelli, in Mario Mencarelli: per una pedagogia di frontiera, a cura di S.S. Macchietti, Roma, Bulzoni, 1998, p. 29. 9 Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier, persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, Volume secondo, Roma, LAS, 2005. 10 S.S. MACCHIETTI, La vocazione personalistica di Mario Mencarelli, cit., p. 29.

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che l’idea di “creatività” (intesa prima come potenziale umano e educativo e poi come stile di vita) si pone più su un piano esigenziale che sul piano della sistematicità, e quindi, mentre può sembrare inafferrabile a chi vi cerca un “sistema”, rivela la sua forza, anche sul piano della coerenza pedagogica e educativa, al livello di prospettiva, di metodo, di esigenza. Sono parole che echeggiano una puntuale affermazione del Mounier intorno al personalismo, che adesso citiamo testualmente: “il personalismo può sembrare inafferrabile a chi vi cerca un sistema, mentre è prospettiva, metodo, esigenza. Come prospettiva, all’idealismo e al materialismo astratti contrappone un realismo spirituale, sforzo continuo per ritrovare l’unità che queste due prospettive nascondono (...). Come metodo, il personalismo respinge il metodo deduttivo dei dogmatici e l’empirismo bruto dei ‘realisti’ (...). Come esigenza, infine, il personalismo è l’esigenza di impegno totale”»11. In questo impegno totale dell’uomo, per Mounier ogni ipotesi di una nuova società risulta inconsistente senza gli uomini nuovi: «… le idee sono niente senza gli uomini che soli possono alimentarle»12. Sembra fare risonanza Mencarelli, ricordando che: «… la persona supera sempre il personalismo (come la società supera sempre la sociologia, l’arte l’estetica, il mondo la filosofia). La medicina può spiegare, per analogia, che cosa è il personalismo scientifico. In pedagogia il personalismo può assumere una squisita dimensione scientifica ponendosi proprio come istanza, come metodo, come prospettiva (che ci sembrano i termini più peculiari di un autentico spirito scientifico sia che esplori la natura sia che esplori l’essere dell’uomo)»13.

11 M. MENCARELLI, Creatività e valori educativi, cit., p. 71 e nota 12 a piè di pagina. 12 E. MOUNIER, Che cos’è il personalismo?, cit., p. 117. 13 M. MENCARELLI, Creatività e valori educativi, cit., p. 101.

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E ancora: «… il ruolo di un personalismo scientifico appare irrinunciabile proprio nel momento in cui si voglia chiedere la costruzione d’una “società nuova” a un insieme di principi fondati su una sicura coscienza critica e pertanto idonei a dar luogo ad una società in cui ogni persona può creativamente essere se stessa»14. Per Mounier «l’educazione deve preparare il terreno … per elaborare una formazione dell’uomo totale»15. Per l’educatore la rivoluzione personalistica e comunitaria doveva poggiare sulla formazione di uomini nuovi, interiormente rinnovati e responsabilmente impegnati, pienamente consapevoli della propria vocazione personale e comunitaria16. Mounier, risvegliatore di coscienze, dice con forza: «Uomo, svegliati! Il vecchio appello socratico, sempre attuale, è il nostro grido di allarme a un mondo che si assopisce nelle sue strutture, nei suoi comodi, nelle sue miserie, nel suo lavoro e nel suo ozio, nelle sue guerre, nella sua pace, nel suo orgoglio e nel suo accasciamento»17. Anche Mencarelli ribadisce il «significato politico di un’educazione che si preoccupa della promozione e dell’attuazione piena del potenziale umano che ciascuna persona possiede»18. Questa è un’idea di educazione che risponde ad una precisa presa di posizione: «… pensiamo all’umanità in quanto istanza di personalizzata e personalizzante capacità di domanda (l’inquieta ma gratificante volontà di significato), che, mentre denunzia ogni forma di cristallizzazione e di conservatorismo, pone la persona davanti alla ricchezza emergente dal mistero che custodisce. In questa accezione, l’educazione alla umanità può rappresentare una idea, è vero; ma rappresenta soprattutto una presa di posizione davanti ai problemi concreti, nei riguardi dei quali è una esplici14

Ivi, p. 61. E. MOUNIER, Che cos’è il personalismo?, cit., p. 115. 16 Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, cit.. 17 E. MOUNIER, Che cos’è il personalismo?, cit., p. 79. 18 M. MENCARELLI, Creatività, Brescia, La Scuola, 1976, p. 6. 15

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ta proposta di soluzione positiva, che vuol rompere con le crisi ricorrenti: proposta di intenti creativi che investono il costume e la cultura, la scienza e la politica»19. E ancora: «Il quadro che va configurandosi trascurerebbe dati culturalmente essenziali se non assumesse anche il significato del dibattito filosofico contemporaneo, spesso contraddittorio, ma impegnato a comprender meglio la condizione dell’uomo, ad approfondire la natura e il senso della libertà, a fare dell’impegno conoscitivo un momento irrinunciabile per la soluzione di problemi reali (e non di evasione), a privilegiare il significato della critica e quindi la portata di un continuo impegno di ricerca, di domanda, di interpretazione…»20. Mounier afferma che lo scopo dell’educazione consiste non nel faire ma nell’éveiller la persona e in questo appello credo si possano leggere anche le premesse ai concetti di potenzialità e creatività di Mencarelli. «Non a caso la richiesta di creatività va di pari passo con la richiesta di una affermazione più autentica della personalità, di più ampi spazi di libertà, di una rigenerazione della società mediante una tensione etica, senza la quale ogni appello alla creatività è appello vano o semplice riduzione della stessa creatività a manifestazioni espressive più o meno bizzarre, in ogni caso effimere»21. Mencarelli invita il pedagogista e l’educatore a studiare profondamente «quell’ autentico microcosmo che è rappresentato dalla persona. Un microcosmo, un vero e proprio atomo, che, come l’atomo, contiene una carica indefinibile di vita, che si tratta di tradurre in umanità, non in violenza: un microcosmo, inizialmente pressato da tanti “universi” (da quello della famiglia a quello della società), che può espandersi al punto da assumere in se stesso, in virtù

19

M. MENCARELLI, Creatività e valori educativi, cit., p. 292. M. MENCARELLI, Creatività, cit., p. 10. 21 Ivi, p. 12. 20

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della conoscenza e dell’esperienza morale, gli stessi «universi» di relazione»22. Mounier nel Manifesto tesse l’elogio della famiglia come «comunità naturale di persone» che ha come missione la custodia e la cura della vocazione dei figli. Mounier parla quindi di un’educazione aderente ai vissuti autobiografici; esorta ad un risveglio della personale capacità di discernere intorno agli avvenimenti personali e storici23. Per Mencarelli «la persona era veramente il “deus absconditus” da scoprire, da coltivare, da onorare»24. «Questo riferimento all’amore verso il prossimo è un segno della vocazione di Mario Mencarelli, il cui magistero di pedagogista e di educatore era espressione del suo amore per le persone»25. La vocazione personalistica di Mencarelli non può non considerare le domande fondamentali dell’esistere: « … l’uomo ha infatti bisogno di sapere chi è, dove va, a che cosa è destinato, quale è il significato della sua esistenza. In questa prospettiva riemerge la funzione esigenziale del discorso sulla creatività, che è la medesima funzione d’ogni autentico personalismo, che non si pone come sistema filosofico o come ideologia, bensì come istanza, come metodo, come prospettiva, cioè come impegno rivolto allo scopo di favorire l’espansione del microcosmo umano, la sua apertura sul mondo, la sua espansione in autenticità, la sua libertà critica e intelligente»26. Quindi, la natura del suo personalismo «non era né un sistema né una dottrina ma voleva esprimere, aggiungendosi alle diverse versioni del pensiero personalistico, l’intenzione di “completare la 22

Ivi, p. 39. Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, cit.. 24 S.S. MACCHIETTI, La vocazione personalistica di Mario Mencarelli, cit., p. 23

21. 25 26

Ivi, p. 20. M. MENCARELLI, Creatività, cit., p. 39.

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scienza della vita umana” e di operare “per rendere più umana la vita di ogni uomo”»27. Il pensiero e l’azione magistrale di Mencarelli erano quindi tesi «alla definizione e all’affermazione di un umanesimo, che, approssimativamente, possiamo chiamare “popolare”, impegnato a soddisfare il bisogno di educazione di tutti, teso verso l’universale, capace di interrogarsi sul destino umano e sui valori per i quali merita vivere. Tuttavia la prospettiva in cui si collocava era già quella dell’umanesimo totale in cui il piano della civiltà e quello della cultura ascendono verso quello della spiritualità e si aprono quindi alla scoperta della vita profonda della persona»28. Anche per Mounier possiamo parlare di un umanesimo totale, in quanto l’educazione riguarda l’uomo nella sua interezza e fa riferimento a valori che impegnano l’uomo stesso a una concezione positiva della vita. Per specificare ancora meglio l’umanesimo di Mencarelli, riporto ancora un brano appassionato di Sira Serenella Macchietti: «… l’umanesimo del mio Maestro era soprattutto un umanesimo cristiano, che ha teorizzato e che ha illuminato la sua esistenza chiedendogli di farsi testimone nel tempo non rifiutando le istituzioni, la vita comunitaria, i suoi doveri professionali, ma esercitando nei loro confronti una funzione critica, un ruolo di costante sollecitazione, considerandoli alla luce dell’ideale, ponendo in evidenza la loro costante inadeguatezza e quindi rendendo manifesta la necessità del loro rinnovamento continuo, del loro mutamento inesauribile. “L’uomo che è conscio della propria finitezza e fedele al valore che lo trascende, infatti, è sempre all’opposizione, come lo è la persona che vive creativamente”. Per Mario Mencarelli la definizione di questo umanesimo ha costituito un traguardo dell’itinerario di un’esistenza impegnata, du27

S.S. MACCHIETTI, La vocazione personalistica di Mario Mencarelli, cit., p.

28

Ivi, p. 23.

19.

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rante la quale si è incontrato con i fatti, con i problemi, con le urgenze quotidiane, con le istanze di giustizia sociale e di formazione umana, rimanendo fedele alla volontà di rispondere agli appelli della vita e di rispettare il mistero che ogni persona custodisce, di guardare con occhio sereno nell’incommensurabili profondità del suo essere. Egli ci ha quindi offerto una testimonianza incomparabile di un rigore che sapeva onorare al tempo stesso la scienza e la fede, proponendosi sempre come un pedagogista-maestro, illuminato dalla convinzione “che l’educazione è un’opera di elezione e che richiede una eccezionale capacità d’amore” e dalla certezza che l’amore, come scriveva in una sua poesia giovanile, è “l’arcano motore di vita e di idee”»29. Quindi, numerose tracce di Mounier sono state rinvenute senza troppo sforzo nella riflessione pedagogica di Mario Mencarelli. Credo che, infine, Mencarelli sarebbe stato senz’altro concorde con Mounier nell’augurarsi che « … la miglior sorte che possa toccare al personalismo è questa: che dopo aver risvegliato in un sufficiente numero di uomini il senso totale dell’uomo, si confonda talmente con l’andamento quotidiano dei giorni da scomparire senza lasciar traccia»30.

29 30

Ivi, pp. 36-37. E. MOUNIER, Che cos’è il personalismo?, cit., p. 10.

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AZIONE, ESPERIENZA, EDUCAZIONE: IL CAMMINO AL VERO IN BLONDEL, MOUNIER, GIUSSANI Marcello Tempesta

Cosa collega autori distanti nel tempo e per alcuni versi eterogenei come Maurice Blondel, Emmanuel Mounier e Luigi Giussani? Aldilà dei pur ricostruibili influssi diretti (Mounier lettore di Blondel e Giussani lettore di entrambi), una rilevante affinità metodologica ed una profonda consonanza culturale nell’affrontare l’indagine antropologica e la domanda intorno al senso dell’esistenza umana. Il nostro percorso (di taglio teoretico-problematico piuttosto che strettamente storico) intende legittimare la fondatezza e illustrare le ragioni generali di questa affermazione, evocando tre concetti/parole-chiave (azione, esperienza, educazione) che ci pare possano costituire altrettante porte d’accesso per comprendere tale familiarità e per accennare i tratti di una comune antropologia relazionale ricca di attenzione ai vissuti, di densità religiosa, di vocazione pedagogica. Crediamo che ciò sia nello spirito di una riflessione, come quella all’interno della quale questo scritto si inserisce, che partendo da Mounier, voglia andare oltre Mounier, voglia cioè continuare a confrontarsi con le provocazioni che ancora oggi la vivente tradizione personalista (come un fiume carsico che attraversa la nostra cultura e che trova in autori quali quelli prescelti delle emersioni significative) propone alla nostra attenzione. I contesti storico-culturali ed i profili personali dei tre sono di certo profondamente diversi: il filosofo universitario Maurice Blon197

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del (1861-1949) si confronta, a cavallo tra ’800 e ’900, con razionalismi di segno diverso (positivista e neoidealista), accomunati da una generale opzione immanentista1; il pensatore ed animatore culturale Emmanuel Mounier (1905-1950) opera in un’epoca segnata dalla lotta tra contrapposte visioni del mondo di stampo individualistico e collettivistico, e, a livello teorico, soprattutto dalla presenza dell’esistenzialismo e del marxismo2; il sacerdote, educatore e intellettuale Luigi Giussani (1922-2005) vive e scrive nel tempo della cultura postmoderna e del profilarsi inquietante dell’ombra del nichilismo3. Volendo invece motivare e specificare l’affinità e la consonanza enunciate in apertura, ci pare si debba rilevare come sia comune, in primo luogo, l’accettazione del metodo (tipicamente moderno) di approccio al problema della verità e del senso a partire dalla riflessione sul soggetto, metodo riscattato tuttavia dagli esiti solipsistici che sovente ad esso si collegano nella modernità; un soggetto, si badi bene, non inteso come astratta essenza generica, come Gattungwesen, come ‘umanità in generale’ alla Feuerbach, bensì osservato come io, come singolo, potremmo dire come persona in senso mounieriano, cioè come concreto dinamismo vivente, pensante, agente, desiderante, che facendo esperienza della realtà ed implicandosi nella storia inizia a scoprire se stesso e le potenti domande che lo abitano: quella sul significato della propria esistenza e quella sul significato dell’essere. Comune è, in secondo luogo, il rifiuto di ogni lettura riduttiva della complessità umana (propria di posizioni di tipo razionalista, prassista, ideologico o nichilista che tanta parte hanno nella cultura moderno-contemporanea), in favore di 1

Cfr. F. LEFÈVRE, L’itinéraire philosophique de Maurice Blondel, Paris, Aubier-Montaigne, 1966. 2 Cfr. G. CAMPANINI, Intellettuali e società nella Francia del Novecento, Milano, Massimo, 1995; P. RICOEUR, La persona, trad. it., Brescia, Morcelliana, 1997. 3 Cfr. A. SCOLA, Un pensiero sorgivo. Sugli scritti di Luigi Giussani, Geno-

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un’indagine appassionata della profondità dell’intero antropologico, che conduce la riflessione sull’uomo ad aprirsi alla dimensione comunitaria, a quella religiosa, a quella educativa. Occorre infine dire, prima di procedere nel nostro itinerario, che pur essendo ciascuno dei concetti fondamentali attorno ai quali esso si struttura riferito in particolare ad un autore, ne possiamo rintracciare la circolazione e la presenza operante anche negli altri; e che i testi sui quali si è in particolare soffermata la nostra attenzione sono L’azione per Blondel, Il personalismo e alcune lettere per Mounier, Il senso religioso e Il rischio educativo per Giussani.

Epifania dell’umano e invocazione del divino: l’azione in Maurice Blondel Quando nel 1893 Blondel pubblica la sua celebre tesi di dottorato alla École Normale Supérieure di Parigi che reca come inconsueto titolo L’azione, ha ben presente che il processo di secolarizzazione della cultura europea (ed in particolare francese) ha fatto strame delle metafisiche dell’essere di tipo essenzialistico e deduttivistico, accusate di allontanare l’uomo dall’orizzonte mondano e storico, introducendo nella dinamica conoscitiva elementi considerati extrarazionali, trascendenti, inverificabili, estrinseci: la koiné culturale impone di attenersi ai dati dell’ordine immanente, i soli che la razionalità umana può indagare. Blondel accetta la sfida di porsi sul terreno dell’analisi della soggettività e dell’esperienza, ed utilizzando questo ‘metodo d’immanenza’4 cerca di mostrare quanto parziale sia invece la ‘dottrina dell’immanenza’, ossia quanto riduttiva e poco rispettosa dei dati di realtà sia l’immagine dell’uomo propria dello scientismo (che lo ri-

va-Milano, Marietti, 2004.

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duce a materia e meccanismo biologico) e del razionalismo (che enfatizza un pensiero autoreferenziale ed astratto, chiuso nel circolo delle proprie rappresentazioni e della loro interna coerenza). Il suo oggetto d’indagine è l’azione, cioè il dato, il fatto, nella vita umana, più generale e costante di tutti, quello che meglio esprime, a suo dire, il nucleo più profondo dell’essere umano. È osservando l’uomo in azione che è possibile capire l’uomo, cercare di scorgere il dinamismo fondamentale che sospinge la sua esistenza e di individuare il suo eventuale termine di approdo, il suo (per usare il lessico blondeliano) ‘destino’5. Secondo Blondel insomma (sulla scia di Ollé-Laprune e di Newman) la razionalità esprime la sua intima natura come apertura alla scoperta di un ordine reale e non semplicemente nozionale, come tensione a comprendere la vita, ciò che la muove e ciò che può compierla. Così Blondel propone una ‘scienza dell’azione’ senza dimenticare che si tratta di descrivere e comprendere qualcosa di cui siamo, al contempo, protagonisti, ossia di riflettere sulla nostra esistenza: «Io non pretenderò di conoscermi, di mettermi alla prova, di acquisire la certezza o di valutare il destino dell’uomo, senza gettare nel crogiuolo l’uomo intero che porto in me».6 Egli enuncia anzitutto il problema fondamentale posto dall’azione, con toni che anticipano la letteratura esistenzialistica: «La vita umana ha o non ha un senso? E l’uomo ha un destino? Io agisco, ma senza neanche sapere che cos’è l’azione, senza aver desiderato di vivere, senza conoscere esattamente chi sono né addirittura se sono».7 Tale autoriflessione fa emergere la percezione di una condizione, che ci è data e non è voluta, di ‘condanna alla vita’ (che può 4

Cfr. J. WEHRLÉ, La méthode d’immanence, Paris, Bloud et Cie, 1911. Il termine utilizzato, destinée, non ha in Blondel una connotazione fatalistica, ma è da intendersi piuttosto come ‘destinazione’ e ‘compimento’. 6 M. BLONDEL, L’azione. Saggio di una critica della vita e di una scienza della prassi, trad. it., Cinisello Balsamo (MI), Paoline, 1993, p. 69. 5

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anche apparire una ‘condanna alla morte’), la quale genera un impellente bisogno di chiarificazione: «Se c’è qualcosa da vedere, ho bisogno di vederlo. Verrò a sapere, forse, se questo fantasma che sono per me stesso, ha qualche solidità o meno. Scoprirò senza dubbio ciò che si nasconde nei miei atti, in questo fondo ultimo in cui senza di me, malgrado me, io subisco l’essere e mi ci abbarbico. Il problema è inevitabile; l’uomo lo risolve inderogabilmente; e questa soluzione, giusta o sbagliata, ma volontaria e al tempo stesso necessaria, ognuno la porta nelle proprie azioni»8. Per questo, secondo Blondel, occorre studiare l’azione: per mostrare all’uomo la pienezza nascosta anche nelle sue opere quotidiane, per prospettargli tutte le esigenze della vita, per verificare l’adeguatezza delle risposte al problema del significato dell’agire, che l’agire stesso (anche implicitamente) reca con sé. Parte da qui una fenomenologia dell’azione, da quella involontaria a quella volontaria, attraverso tutte le dimensioni dell’umano (corporeità, psichicità, razionalità) ed i suoi ambiti di espressione (famiglia, patria, umanità), che porta alla individuazione di un contrasto ineliminabile, di una sproporzione inesorabile tra l’atto del volere e il risultato effettivamente conseguito, tra ‘volontà volente’ e ‘volontà voluta’. La volontà volente, mossa dall’idea regolativa dell’infinito, spinge l’uomo all’incontro appassionato con la realtà finita e insieme gli fa avvertire un perenne senso di incompiutezza, che lo risospinge senza posa nell’azione. Egli si scopre così insieme libero e necessitato. È attraversando tutta la parabola dell’azione, che sempre ripropone questa strutturale sproporzione a soddisfare le proprie intime esigenze di verità e di bene, che nel cuore dell’esperienza umana affiora l’ipotesi e la domanda che qualcosa/qualcuno venga a compiere la dinamica della nostra natura, altrimenti irragionevolmente contraddittoria: è per Blondel l’attesa, immanente e razionale, del soprannaturale e del trascendente.

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Ivi, p. 65.

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Questa dinamica dell’azione umana, assolutamente personale, non ha però niente di individualistico, ed è invece intrinsecamente legata all’insieme delle relazioni nelle quali l’esistenza immerge l’uomo: tra di esse un ruolo decisivo ha la relazione educativa, per la sua capacità di ‘provocare’ l’io ad uscire dal proprio nascondiglio, suscitando il bisogno del vivere autenticamente umano, l’esigenza della propria integrale realizzazione, l’apertura al mondo. Si tratta, per Blondel, di collegare l’educazione alla natura profonda e concreta dell’uomo (seguendo la quale si favorisce l’esplicitazione di ciò che ontologicamente già si è), di accompagnare il movimento fondamentale e spontaneo del suo essere, contribuendo così al compimento del suo destino9. La tradizionale antinomia pedagogica tra libertà e autorità, autonomia ed eteronomia, trova in questa prospettiva una via di superamento10, poiché l’autorità è intesa come autorità ‘liberante’, la cui ragion d’essere non consiste nella realizzazione di un proprio progetto di influenza ma nel favorire l’espressione e la crescita del nucleo interiore della persona: l’autorità, invitando infaticabilmente ed ‘entrare in gioco’, a passare dalla passività della sopravvivenza all’attività propria della vita autenticamente umana, a manifestare nella loro interezza le proprie esigenze infinite, si palesa cosi come fattore generativo dell’esercizio della libertà. Non pochi autori11 hanno individuato nella filosofia dell’azione una consonanza ante litteram con l’attivismo pedagogico e con l’‘educazione nuova’ d’inizio ’900, ma tale fondata e legittima lettura potrebbe risultare incompleta e fuorviante se non rendesse

8

Ibidem. Cfr. O. ARCUNO, Il concetto di educazione nella filosofia dell’azione di Blondel, «Levana», 4, 1925, pp. 81-96. 10 Cfr. M. CHIARANDA, Autorità e libertà in Maurizio Blondel, «Rassegna di Pedagogia», 26, 1968, pp. 64-83. 11 Cfr., tra gli altri, M. LAENG, Valenze pedagogiche della filosofia di M. Blondel, «Teoresi», 6, 1951, pp. 50-62; L. VAN ACKER, Maurice Blondel et «L’Éduca9

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conto della complessità del pensiero blondeliano e della sua ultima finalizzazione. Il blondelismo (assimilato a volte in modo superficiale a forme di anti-intellettualismo o di vitalismo) resiste ad essere piegato in senso pragmatista per la costante attenzione alla integralità che lo caratterizza: la stessa riflessione sull’azione (che ha giustamente reso celebre il suo autore) può essere infatti compresa pienamente solo se considerata nel suo legame con la riflessione sul pensiero12 e sull’essere13, che Blondel ci ha consegnato circa quarant’anni più tardi. Ma tale trinità di azione, pensiero ed essere ripropone, in ogni sua scansione e nel suo insieme, la necessità di un trascendimento, che nasce dall’impossibilità di accontentarsi dei risultati dell’azione, delle conquiste del pensiero, della realtà degli esseri finiti. L’implicazione nella realtà naturale di qualcosa che la oltrepassa e alla quale l’uomo aspira, emerge come l’estrema parola della ricerca e della vita umana, affermazione immanente della necessità del trascendente (che l’uomo può invocare ma non produrre), speranza sospesa all’ipotesi di una comunicazione liberale dello stesso trascendente non contraddittoria con la struttura del nostro essere. Luogo in cui la verità nasce dalla carne: l’esperienza in Emmanuel Mounier La filosofia mouneriana, anche quando il suo autore cerca di approfondire l’engagement giovanile per giungere ad una riflessione sul concetto di persona più fondata dal punto di vista teoretico, si tion Nouvelle», «Les Études philosopiques», 9, 1954, pp. 163-73. 12 Cfr. M. BLONDEL, La Pensée, Paris, Alcan, 1934, 2 voll. (vol. I., La genese de la pensée et les paliers de son ascension spontanée; vol. II, La responsabilité de la pensée et la possibilità de son achèvement). 13 Cfr. M. BLONDEL, L’Être et les êtres. Essai d’ontologie concrete et inte-

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pone pur sempre come tentativo di chiarificazione dell’esperienza umana e non perde mai, analogamente a quanto abbiamo visto in Blondel, il rapporto con il vissuto, con il ‘mondo della vita’, con l’esperienza personale14. Anche in Mounier si cerca di bandire ogni degenerazione teoreticista della filosofia, ogni deriva intellettualista che evadendo in un mondo di pure essenze astoriche e impersonali, perda il mondo dell’‘esistenza incorporata’, che è a suo giudizio la cifra dell’umano. Analogo fastidio egli manifesta per quelle posizioni che (nel campo della filosofia di ispirazione religiosa) tentano di perpetuare una pur nobile tradizione, riproponendo in un contesto culturale oramai post-cristiano un esangue spiritualismo e uno stanco discorso sui valori del passato. Il suo pensiero mette a tema la persona come intimità e come apertura all’alterità, ossia rapporto con sé stessa, con gli enti, con gli altri, con il fondo misterioso dal quale la realtà zampilla, come dialettica di radicamento nella storia e trascendimento della stessa. L’esperienza è la modalità attraverso la quale siamo introdotti alla verità del nostro essere e del mondo, che non ci si impongono come esterne datità oggettive, ma vengono sempre incontrate e scoperte, per così dire, ‘di persona’. Analogamente all’azione blondeliana, l’esperienza mouneriana è il vivere nella sua integralità accompagnato dalla consapevolezza del vivere stesso, che implica delle esigenze e delle domande e costituisce al contempo un banco di prova per l’autenticità delle nostre risposte e delle nostre opzioni15. grale, Paris, Alcan, 1935. 14 Cfr. A. RIGOBELLO, Il contributo filosofico di Emmanuel Mounier, Roma, Bocca, 1955. 15 Come afferma Giorgio Chiosso, «nel richiamare la priorità dell’esperienza personale sovra ogni cosa, il direttore di Esprit riprendeva e arricchiva, filtrata dalla sensibilità fenomenologica ed esistenzialistica, quella tradizione platonico-

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Vibra in questa idea di esperienza la ricchezza semantica alla quale ci rimanda l’etimologia: esperienza viene infatti da ex-periri, composto da ex (rafforzativo) e da un verbo non usato, periri (fare esperienza) di significato simile al greco peíra (prova, saggio). Ha la stessa radice del latino periculum (esperimento, prova, cimento, rischio). Leggiamo ne Il personalismo: «La persona è una attività vissuta come autocreazione, comunicazione e adesione, che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di personalizzazione. A tale esperienza nessuno può essere condizionato né costretto; ma coloro che la portano ai suoi vertici richiamano lassù, attorno ad essi, gli altri, risvegliando i dormienti, e così di richiamo in richiamo, l’umanità si distoglie dal presente sonno vegetativo in cui ancora è assopita. Chi si rifiuta di ascoltare questo richiamo, di impegnarsi nell’esperienza della vita personale, ne perde il senso come si perde la sensibilità di un organo che non funziona»16. L’assonanza con il pensiero blondeliano (che Mounier conosce attraverso Jacques Chevalier), l’idea che il diventar persona e l’iniziale svelarsi della condizione umana passi attraverso il cimento dell’impegno consapevole con la vita e con le sue esigenze, diventa più avanti riferimento esplicito. Leggiamo infatti nel capitolo intitolato L’impegno: «Che l’esistenza sia azione, e che l’esistenza più perfetta sia azione più perfetta, ma sempre azione, è una delle intuizioni basilari del pensiero contemporaneo. Se ad alcuni ripugna introdurre l’azione nel pensiero e nella più alta vita dello spirito è perchè essi ne hanno una nozione piuttosto confusa, o la riducono all’impulso vitale, all’utilità o al divenire; mentre essa va intesa nel suo significato più comprensivo: da un lato indica l’esperienza spirituale dell’uomo nella sua integrità, dall’altro l’intima fecondità agostiniana e pascaliana che, come sappiamo, aveva avuto proprio in Francia larga influenza con l’insegnamento blondeliano centrato sull’idea di Dio che si manifesta nell’interiorità umana» (G. CHIOSSO, Novecento pedagogico, Brescia, La Scuola, 1997, p. 231).

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dell’essere. Ciò posto si può dire: quel che non agisce non è. Il logos è verità, e col Cristianesimo è anche via e vita. È merito di M. Blondel l’aver ampiamente affermato queste idee. Una teoria dell’azione non è dunque un’appendice al personalismo, ma occupa in esso una posizione centrale»17. La verità è dunque tale, per Mounier, se è vita, se muove la vita, è verità ‘per l’uomo’ se è in qualche modo dall’uomo sperimentabile nella sua fecondità e nella sua ragionevolezza. Occorre passare dall’esperienza per camminare verso la verità, ma al contempo le verità più grandi devono passare attraverso il vaglio dell’esperienza per confermare la loro realtà e manifestare pienamente la loro ricchezza. Molte potrebbero essere le citazioni mouneriane richiamate a conforto di queste affermazioni. Ci piace però dare spazio ad un’affascinante documentazione tratta non da uno scritto teorico, bensì contenuta in alcune lettere nelle quali Mounier racconta delle sue vicende personali, cariche di slanci ma anche di difficoltà, ed in particolare del rapporto con Françoise, la desideratissima figlia. Ella subisce in tenera età una gravissima menomazione cerebrale, che la renderà idiota e la porterà a morte precoce. Esperienza limite, che però permette a Emmanuel e alla moglie Paulette di approfondire il loro sguardo sul mistero della persona e sulla provocatoria razionalità della vita: essa richiama chi la attraversa con attenzione e lealtà ad aprirsi ad una ulteriorità di significato, ad un ‘oltre’ implicato dalla logica dell’esistenza. Luigi Giussani rimane fortemente colpito da queste lettere: ne inserisce alcune in un volumetto che raccoglie pagine scelte degli autori che più hanno inciso sulla sua formazione, intitolato Le mie letture, e promuove una più ampia pubblicazione antologica, intitolata Lettere sul dolore, all’interno di una collana da lui diretta presso la casa editrice Rizzoli.

16

E. MOUNIER, Il personalismo, trad. it., Roma, AVE, 1996, p. 11.

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Scrive Mounier in un momento difficile della sua vita: «È dalla terra, dalla solidità che deriva necessariamente un parto pieno di gioia (…) e il sentimento paziente dell’opera che cresce. (…) Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne»18. In un’altra lettera, parlando della figlia, osserva: «Che senso avrebbe tutto questo se la nostra bambina fosse soltanto una carne malata, un po’ di vita dolorante e non una bianca, piccola ostia che ci supera tutti, un’immensità di mistero e di amore che ci abbaglierebbe se la vedessimo faccia a faccia»19. Ed ancora, rivolto a Françoise: «Occorre resistere alle forme facili della pace segnata dal destino, rimanere padre e madre, non abbandonarti alla nostra rassegnazione, (…) ravvivare la nostra ferita, perché questa ferita è la porta della presenza»20. Il titolo che Giussani antepone al suo commento alle lettere mouneriane, Ravvivare l’umano, prende spunto proprio da queste espressioni, che documentano a suo giudizio come l’umanità generata dalla fede cristiana sia capace di abbracciare tutta la nostra esperienza, senza censurare nulla, permettendo di vivere ogni circostanza come occasione per scoprire l’avventura affascinante e drammatica dell’esistenza e la misteriosa ma reale corrispondenza dell’avvenimento cristiano alle sue esigenze : «Le ultime parole di questa lettera di Mounier (…) indicano la possibilità di essere coscienti di sé momento per momento, con una positività e una profondità con cui non esiste possibilità di paragone»21. In questo ‘ravvivare l’umano’ possiamo vedere sinteticamente condensata anche l’intera parabola culturale di Emmanuel Mounier: compito eminentemente educativo, esso contiene l’invito a non con-

17

Ivi, p. 121. E. MOUNIER, Lettere sul dolore, trad. it., Milano, Rizzoli, 1995, pp. 39-40. 19 Ivi, p. 61. 20 Ivi, pp. 67-68. 18

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templare mai la scena del mondo come spettatori, a vivere fino in fondo l’esperienza umana rifuggendo la passiva sopravvivenza, a verificare se essa sia abbandonata alla sconfitta dell’insensatezza o abbia una destinazione. Dire movimento di personalizzazione equivale a dire educazione e viceversa: suggerimento discreto, percorso proposto e mai imposto, offerta di un contesto comunitario ricco di relazioni capaci di stimolare e coinvolgere l’io senza sostituirlo nella sua responsabilità di esperire il mondo e di impegnarsi in esso. Esplicita è, a questo proposito, la sua critica tanto al formalismo autoritario dell’educazione del passato quanto allo spontaneismo dell’attivismo puerocentrico, che gli appariva sviato da un’idea di natura ‘angelica’ e da un certo ottimismo borghese22. Se Mounier fu anzitutto, secondo la celebre espressione di Paul Ricoeur, «l’éducateur d’une generation»23, ciò avvenne perché «al di là degli approfondimenti sull’uno o sull’altro aspetto della problematica educativa, è l’intera proposta mouneriana ad assumere un’implicita valenza pedagogica»24. L’intellettuale Mounier fu certamente anche uomo d’azione, proteso ad una trasformazione migliorativa del mondo: ma il suo percorso, a guardarlo in maniera non superficiale, ci trasmette il suggerimento che la prima azione dell’uomo, radice di ogni impegno e possibile anche nella situazione di massima impotenza, è la coscienza di ciò che egli vive, come ‘ferita’ e ‘porta’ aperte al significato di ciò che si sperimenta. In questo senso, mounerianamente, lo scopo dell’educazione non è «quello di fare ma di ‘suscitare’ le persone»25, ossia aiutare ogni uomo ad intravedere la sua autentica statura, la

21

L. GIUSSANI, Le mie letture, Milano, Rizzoli, 1996, p. 167. Cfr. G. CHIOSSO, Novecento pedagogico, cit., p. 232. 23 P. RICOEUR, Une philosophie personnaliste, «Esprit», 12, 1950, p. 862. 24 L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale, a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, Roma, Las, 2005, 2 voll., vol. II, p. 233. 22

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grandezza della sua vocazione, poiché «la persona si suscita con un appello e non si fabbrica con l’addestramento»26. Introduzione alla realtà e rischio necessario: l’educazione in Luigi Giussani Luigi Giussani, noto ai più come protagonista della vita ecclesiale del ’900, ha voluto ripetutamente considerarsi principalmente un educatore, e non ha mancato di mettere per iscritto le sue riflessioni sul proprio percorso educativo soprattutto in due volumi, Il cammino al vero è un’esperienza27 e Il rischio educativo28. Su quest’ultima opera (recentemente ripubblicata da Rizzoli) e sulla complessiva originalità del metodo giussaniano ha, or non è molto, posto l’accento Giorgio Chiosso, in un suo volume sulle forme dell’educazione contemporanea, indicando nel suo autore un protagonista della scena educativa novecentesca meritevole di ulteriore approfondimento pedagogico29. I suoi scritti sull’educazione non nascono ‘a tavolino’, ma attraverso la progressiva presa di coscienza dei bisogni incontrati nella sua esperienza di educatore cristiano (che inizia nell’Italia degli anni ’50) e la generalizzazione delle attenzioni di metodo scoperte all’interno del suo lavoro come necessarie. I cardini dell’educazione cristiana da lui proposta, che sono a suo giudizio propri dell’educazione in quanto tale, sono fondamentalmente il gusto per la ragionevolezza e per la verificabilità esperienziale della proposta educativa: «Il primo di natura teoretica: i contenuti della fede hanno bi-

25

E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 160. Ibidem. 27 Cfr. L. GIUSSANI, Il cammino al vero è un’esperienza, Torino, SEI, 1995. 28 Cfr. L. GIUSSANI, Il rischio educativo, Milano, Rizzoli, 2005. 29 Cfr. G. CHIOSSO, Teorie dell’educazione e della formazione, Milano, Mon26

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sogno di essere abbracciati ragionevolmente, debbono cioè essere esposti nella loro capacità di miglioramento, illuminazione ed esaltazione degli autentici valori umani. Il secondo cardine si può esprimere dicendo che quella presentazione deve essere verificata nell’azione, cioè l’evidenza razionale può illuminarsi fino alla convinzione solo nell’esperienza di un bisogno umano affrontato dall’interno di una partecipazione al fatto cristiano: e tale partecipazione è un coinvolgimento nella realtà cristiana come fatto essenzialmente sociale o comunionale»30. Ci sembra che dal punto di vista teorico la riflessione sull’educazione di Giussani sia comprensibile solo alla luce della sua trilogia antropologico-teologica31, ed in particolare del primo volume, Il senso religioso. La religiosità non rappresenta, per Giussani, una mera preferenza individuale, bensì l’inesorabile «natura del nostro io in quanto si esprime in certe domande: “Qual è il significato ultimo dell’esistenza?”, “Perché c’è il dolore, perchè in fondo vale la pena vivere?”. O, da un altro punto di vista: “Di che cosa o per che cosa è fatta la realtà?”»32. Domande inestirpabili, che esigono una risposta totale, per la quale l’essere umano è strutturalmente sproporzionato. Esse costituiscono tuttavia la stoffa segreta di ogni nostro atto, pensiero, sentimento, volizione: anche solo vivendo cinque minuti, secondo Giussani, non solo l’uomo se le pone ma vi risponde anche, affermando teoricamente o praticamente qualcosa per cui valga la pena vivere quei cinque minuti. Questo dinamismo conoscitivo e desiderativo è dunque il motore della vita umana: come possiamo conoscerlo? «Poiché si tratta di un fenomeno che avviene in me, che interessa la mia coscienza, il

dadori, 2005, pp. 126-7. 30 L. GIUSSANI, Il rischio educativo, cit., p. 43. 31 Cfr. L. GIUSSANI, Il senso religioso, Milano, Rizzoli, 1997; All’origine della pretesa cristiana, Milano, Rizzoli, 2001; Perché la Chiesa, Milano, Rizzoli, 2003.

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mio io come persona, è su ‘me stesso’ che devo riflettere: mi occorre un’indagine su me stesso, ‘un’indagine esistenziale’»33, ossia una presa di coscienza di ciò che emerge nella mia esperienza. «I fattori che ci costituiscono emergono dunque osservandoci in azione»34, prosegue Giussani con evidenti accenti blondeliani da ricondursi alla conoscenza del filosofo di Aix-en-Provence guadagnata negli anni della formazione teologica presso il Seminario di Venegono. È nell’impegno con la vita che emerge ciò che siamo, la persona come métaphysique en marche direbbe Blondel, come cor inquietum, direbbe Agostino. Le domande ultime si destano, infatti, nell’impatto con la realtà, grazie all’attrattiva che le cose suscitano in noi e alla promessa di compimento che esse generano in virtù della loro natura di segno analogico dell’Essere (terminologia che possiamo usare senza tema di tradire il pensiero dell’autore, poiché in Giussani, accanto ad un incedere profondamente agostiniano, troviamo una sostanza profondamente tomista). L’esperienza, come luogo dell’incontro tra l’io ed il reale, è entità sponsale che permette l’aurorale svelarsi del senso di entrambi. L’educazione, all’interno di questa dinamica, ha un ruolo decisivo: «Ma perché l’uomo deve essere educato (…)? L’uomo – osserva continuamente il Papa [Giovanni Paolo II, n.d.r.] quando parla di educazione e cultura, che è in fondo lo stesso, perché l’educazione è lo strumento principe della cultura e ultimamente le due parole hanno due radici che si richiamano – deve essere educato perché diventi sempre più se stesso, si realizzi. L’uomo, infatti, non si realizza se non attraverso l’incontro con un altro. (…) L’altro, tanto è originariamente necessario perché l’uomo esista, altrettanto è necessario perché l’uomo s’avveri, si inveri, diventi sempre più se stesso.

32 33

L. GIUSSANI, Il senso religioso, cit., p. 59. Ivi, p. 6.

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Per questo l’uomo è destinato, per un compimento di sé, all’orizzonte totale»35. L’educazione, dice perciò Giussani con Jungmann, è eine Einführung in die Gesamtwirklichkeit, ‘un’introduzione alla realtà totale’ dell’educando favorita dall’educatore36, dove l’aggettivo totale è da intendersi in duplice senso: secondo la totalità dei fattori della realtà e secondo la totalità delle dimensioni del soggetto. Ma poiché la realtà, a suo giudizio, non è mai veramente affermata come tale se non è affermata in qualche modo l’esistenza del suo significato, l’educatore vive pienamente il suo compito quando è capace di risvegliare l’umano come desiderio e domanda di senso; quando propone (sarebbe forse meglio dire testimonia) un interesse che è desto per lui, lanciando così l’interlocutore nell’avventura della vita, della conoscenza, della libertà; quando non si sforza tanto di convincere l’altro di ciò che dice ma offre un metodo per verificare personalmente ciò che dice. La relazione educativa, per Giussani, deborda di molto dalle relazioni istituite, dai contesti di tipo formale, dall’età giovanile, costituendo un ‘trascendentale’ dell’esperienza umana: educativa è ogni relazione che favorisce una presa di coscienza profonda dell’esistenza o di un suo segmento; educativa è ogni relazione realmente significativa ed autenticamente umana. In un senso più intenzionale e consapevole, lo spirito generale del processo educativo si articola in tre scansioni dinamiche37: ‘proporre adeguatamente il passato’, cioè la sintetica ipotesi culturale esplicativa della realtà che proviene dalla propria tradizione cultu-

34

Ivi, p. 46. Testo tratto dalla conferenza Introduzione alla realtà totale. Il rischio educativo, tenuta da Giussani il 20 giugno 1985 presso la Sala Capitolare della Basilica di Santa Maria della Passione a Milano, organizzata dall’U.C.I.D. (Unione Cattolica Imprenditori Dirigenti). 36 Cfr. L. GIUSSANI, Il rischio educativo, cit., p. 65. 35

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rale38; ‘dentro un vissuto presente’ autorevole, incarnato da un educatore capace di presentificare tale patrimonio mostrandone l’interessante nesso e la possibile corrispondenza con le proprie esigenze ultime; promuovendo una ‘educazione alla critica’ ed alla libertà all’interno di un contesto di tipo comunitario. Mette conto di rilevare che la parola critica non è qui da intendersi in senso dubitoso e distruttivo, ma secondo il valore originario del krínein greco, come capacità di rendersi ragione delle cose. L’educatore, infatti, invita a fare esperienza di ciò che propone, esperienza che anche per Giussani non coincide con un generico, impulsivo, epidermico ed arazionale ‘provare’ bensì con il capire e giudicare ciò che si vive, col coglierne il senso, col sorprendere o meno la corrispondenza con quel criterio di giudizio che la natura fornisce all’uomo: l’‘esperienza elementare’, o, biblicamente, il ‘cuore’ (volto interiore della persona fatto di ragione e libertà, sete di verità, felicità e compimento). L’educazione si palesa allora, inevitabilmente, come rischio, in un duplice senso: rischio da parte dell’educatore di una relazione di assoluta gratuità, che investe sulla pura libertà dell’altro come capacità di giudicare e riconoscere il vero, e contribuisce così alla generazione di nuova umanità, di personalità e di storia; rischio da parte dell’educando di un paragone, di una messa alla prova dell’ipotesi educativa ricevuta nei confronti dell’ambiente e della storia, unico esperimento dal quale egli può ricevere capacità di convinzione dei valori proposti. 37

Ivi, pp. 16-7. «È importante notare che, così intesa, la tradizione non ha nulla a che fare con la mera trasmissione di un sistema di concetti o di dottrine che, come una zavorra, vincolerebbe educando ed educatore al passato. Essa, come diceva Blondel, è invece un ‘luogo di pratica e di esperienza’, vissuto e proposto in prima persona dall’educatore alla libertà sempre storicamente situata dell’educando. Pertanto la tradizione così intesa è per sua natura aperta a tutte le domande che incombono sul presente. Essa garantisce il processo della ‘generazione’ – la piena ed autentica esperienza di paternità-figliolanza – imprescindibile condizione per suscitare civiltà» (A. SCOLA, Un pensiero sorgivo, cit., p. 74). 38

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Nova et vetera Blondel, Mounier, Giussani sono inequivocabilmente dei ‘moderni’ per come hanno sentito l’esigenza di una piena valorizzazione del soggetto umano e della sua attività in questo mondo, il valore della concretezza ed il bisogno della umanizzazione della realtà, il rifiuto dell’uomo di essere inserito passivamente in una realtà data e l’importanza di una certezza verificabile e verificata, la valenza conoscitiva ed educativa dell’esperienza. Ma tale modernità, per cosi dire, ‘esigenziale’ e ‘metodologica’ convive con degli approdi eccentrici ed eterodossi rispetto agli esiti prevalenti nella modernità, consegnandoci delle letture antropologiche la cui aura di freschezza ed il cui carattere ‘sorgivo’ evidenziano una non comune capacità da parte dei tre autori di riproporre creativamente, come fosse qualcosa di nuovo, una tradizione culturale che pure viene da lontano. Nova et vetera, dunque, nell’invito a seguire la logica dell’azione, a réveiller la conscience, a correre il rischio della relazione educativa fino a intravedere il ‘punto di fuga’ che l’esperienza suggerisce: emerge l’indicazione di percorsi attraverso i quali l’uomo del nostro tempo può essere educato a non arrendersi ad una percezione della realtà nei termini della ‘stupida realtà’ di Nietzsche o della ‘opprimente realtà’ di Sartre, in sostanza inconoscibile se non come immagine o interpretazione solipsistica che ne abbiamo (condizione della quale il dramma pirandelliano è icona insuperata); percorsi che contraddicono l’immagine di un’esistenza inesorabilmente ‘gettata nell’essere’, nel labirinto disperante della complessità postmoderna. In questa prospettiva, il cammino dell’uomo al vero non avviene nel segno di una mera e solitaria ricerca intellettuale, ma come presa in carico di tutto l’umano e come partecipazione ad una relazione personale: ciò accade, in ultima analisi, perché per Blondel, Mounier e Giussani (pur con accenti e sottolineature differenti) la verità stessa è, nella sua pienezza, una Persona, la presenza umana 214

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dell’uomo di Nazareth che si rende incontrabile e sperimentabile nella storia. Il senso dell’uomo e del mondo non ci è dunque irrimediabilmente precluso poiché la verità stessa è nostra ‘consanguinea’ ed ha deciso di farsi conoscere: avvenimento gratuito che compie l’attesa umana, Lógos incarnato, o, come scriveva Mounier nelle sue lettere, «verità che nasce dalla carne».

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STEFANINI E MOUNIER: CONTRIBUTI AL PERSONALISMO PEDAGOGICO Luciano Caimi

Luigi Stefanini (Treviso, 1891 – Padova, 1956) ed Emmanuel Mounier (Grenoble, 1905 -Parigi, 1950) sono esponenti ben noti del personalismo, movimento culturale ampio e al suo interno variegato per prospettazioni teoriche, sensibilità, sviluppi argomentativi1. Se l’autore francese può, a buon diritto, essere riconosciuto su scala internazionale come l’interprete di maggiore risonanza di quell’indirizzo di pensiero, lo studioso italiano è senz’alcun dubbio colui che nel nostro Paese ha, in modo più convinto, perseguito una proposta personalistica capace di articolarsi nei diversi campi della ricerca filosofica, con diramazioni anche pedagogiche. In una stagione di ricorrenze celebrative per entrambi (2005, cento anni dalla nascita di Mounier – 2006, cinquanta dalla morte di Stefanini), suggerire un confronto sul loro contributo personalistico alla pedagogia ci consentirà di accostare due proposte che, seppur distinte, risultano – lo possiamo dichiarare sin d’ora – ugualmente ricche di sollecitazioni.

1 Per un primo orientamento circa significato, sviluppi interni e interpretazioni dell’esperienza personalistica, resta sempre valida l’Introduzione di A. Rigobello al volume, da lui curato, Il personalismo, Roma, Città Nuova, 1975, pp. 7-83.

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1. L’itinerario di Stefanini verso il personalismo Luigi Stefanini giunse a definire il suo personalismo all’indomani della seconda guerra mondiale. Esso segnava l’approdo di un itinerario di ricerca filosofica incominciato negli anni Venti. Laureatosi in Filosofia nel 1914 all’Università di Padova con una tesi su Blondel, militò a lungo fra le file della Gioventù di Azione Cattolica, ricoprendo responsabilità direttive su scala regionale e nazionale. Dopo la partecipazione agli eventi bellici, si laureò anche in Lettere (1919). Titolare di Filosofia nel Liceo patavino “Tito Livio” dal 1924, nel 1925 conseguì la Libera docenza in Pedagogia. Fu autore di manuali di storia della filosofia e della pedagogia per Licei e Istituti magistrali, in applicazione dei programmi della riforma Gentile (1923). Come insegnante interpretò una didattica attiva, colloquiale, capace di accendere, nella scia della classica tradizione maieutico-socratica, intelligenza e cuore degli allievi. Sul versante specificamente ideologico, va registrato il progressivo abbandono dell’anti-fascismo d’inizio anni Venti e, alla stregua di quanto avvenne per molti militanti cattolici, l’allineamento, via via incrementatosi a seguito del buon esito della vicenda concordataria (1929), su posizioni filo-regime2. A cavallo fra anni Venti e Trenta, dopo un serrato confronto con l’attualismo, condusse a compimento la prima fase della sua elaborazione teoretica, denominandola ‘Idealismo cristiano’. Era una formula consapevolmente rischiosa, come del resto gli rimproverarono alcuni critici, ma Stefanini decise di assumerla, nel tentativo di mostrare, contro le derive del naturalismo positivistico, il guadagno dello spiritualismo gentiliano. Certo, appariva lontano da lui l’intento di procedere a una sorta di contaminazione del pensiero cristiano con quello attualistico, data l’insormontabile differenza fra la 2

Riguardo a questi aspetti dell’itinerario biografico e intellettuale dell’autore, mi permetto rinviare al mio studio Educazione e persona in Luigi Stefanini, Brescia, La Scuola, 1985, pp. 9-67.

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prospettiva trascendentistica dell’uno e quella immanentistico-monistica dell’altro3. Dal 1931 fu incaricato di Pedagogia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Padova, insegnamento illustrato per lungo periodo da Giovanni Marchesini. Il 1935 fu un anno professionalmente fondamentale per il nostro studioso, risultando vincitore al concorso universitario. Nel 1936-’37 ricoprì la cattedra di Filosofia teoretica a Messina. L’anno successivo venne chiamato a Padova dalla Facoltà di Lettere e Filosofia come titolare di Pedagogia. Incaricato, nel 1938, della stessa disciplina presso l’Istituto Universitario di Ca’ Foscari a Venezia e di Estetica, sempre nell’ateneo patavino, nel 1940 passava sulla cattedra di Storia della filosofia, onorandola sino al termine della vita. L’intera decade degli anni Trenta e la prima metà della successiva videro Stefanini impegnato su un ampio fronte di studi: fondazione del discorso pedagogico, Platone, problema dell’imaginismo, pragmatismo e attivismo educativi, storicismo ed esistenzialismo tedeschi4. Nel saggio del 1944, Spiritualismo cristiano, che, emblematicamente, conferiva il titolo alla seconda fase di sviluppo del pensiero dell’autore, giungevano a maturazione i motivi tipici della sua scepsi. Essa aveva indiscutibili capisaldi nelle affermazioni della ‘genesi psicologica’ della ricerca filosofica e del ‘carattere semantico’ dell’essere. «Il primo dell’umana conoscenza – si legge in quel testo -, l’esperienza primordiale a cui ogni altra è subordinata è quella di un essere che vive nell’attualità del suo dirsi a se stesso: parola»5. Questo, dunque, per sommi capi, il tragitto biografico-culturale di Luigi Stefanini sino al dischiudersi della stagione democratica, che lo vide ben presto protagonista fra gli intellettuali d’ispirazione cristiana con la menzionata proposta personalistica. 3

Ivi, pp. 67-74. Ivi, pp. 74-148. 5 L. STEFANINI, Spiritualismo cristiano, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di M.F. Sciacca, Como, Marzorati, 1944, p. 385. 4

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Nella sua espressione compiuta la formula del personalismo, strettamente congiunta con il suddetto approdo teoretico di Spiritualismo cristiano, risultava da lui così espressa: «L’essere è personale e tutto ciò che non è personale nell’essere rientra nella produttività della persona come mezzo di manifestazione e di comunicazione tra le persone»6. La dichiarazione aveva una premessa nell’imaginismo, la teoria che Stefanini riprese dalle fonti patristiche e da Gioberti, autore cui dedicò un’ampia monografia nel 1947. Per interpretarla, possiamo dire nel modo seguente: il senso del reale non si esaurisce nel fatto di essere un dato presupposto, ma si precisa nel significato che la persona riesce a conferirgli, esprimendolo nella luminosità di un’immagine. Dunque, nella visione stefaniniana, la persona, con la sua attività allusiva, è ‘parola’ significante per l’intera realtà. Fornita di propria consistenza nell’atto di esprimersi, essa costituisce un’universalità che si puntualizza in unicità e singolarità: la prima nota rinvia alla seconda, con la ricchezza dei suoi profili psicologici, etici ed estetici, che il nostro autore s’incaricò d’indagare. A queste caratteristiche distintive vanno aggiunte la razionalità, come qualità manifestante la ‘coesione interna’ della persona con se stessa, e l’incarnazione, rivelatrice, a un tempo, della concretezza, ma anche dei condizionamenti (bio-psichici e socio-culturali) vincolanti l’io personale, dei quali le tecniche dell’analisi esistenziale forniscono una varia e ampia fenomenologia. Il nucleo metafisico della persona era ribadito da Stefanini quale differenza costitutiva fra la radice infinita della medesima e le sue realizzazioni sempre inadeguate per l’intrinseca finitezza7. La prospettiva metafisica costituì presupposto di un abbozzo di ‘summa personalistica’, concernente la filosofia morale e sociale, 6 L. STEFANINI, Intervento, in La mia prospettiva filosofica, Padova, Liviana, 1950, p. 205. 7 Cfr. L. STEFANINI, Metafisica della persona, in ID., Metafisica della persona e altri saggi, ivi, pp. 3-26.

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l’estetica e la pedagogia, che lo studioso veneto tracciò a cavallo fra anni Quaranta e Cinquanta8. Sugli sviluppi pedagogici e educativi torneremo in seguito. 2. L’approdo di Mounier al personalismo Dal canto suo, Emmanuel Mounier pervenne alla messa a punto del ‘personalismo comunitario’ all’inizio degli anni Trenta, dopo un itinerario biografico-intellettuale cronologica-mente più breve rispetto a quello dell’approdo personalistico di Stefanini. Formatosi alla scuola di Jacques Chevalier, si trasferì alla Sorbonne per proseguire gli studi filosofici, ma l’ambiente accademico parigino, a prevalente indirizzo idealistico, gli risultò deludente. Viceversa, fu per lui ricco l’incontro con figure dell’intellettualità cattolica (padre Guillaume Pouget, Jean Guitton, Jacques Maritain, Jean Daniélou) e con esperienze laicali, come il movimento femminile ‘Les Davidées’ di M.lle Silve, impegnato nell’opera di apostolato entro la laicissima scuola statale. Risale al 1928-’29 l’accostamento all’opera di Charles Péguy, che molto contribuì a maturare in Mounier un particolare sguardo cristiano sulla vita e sulla storia, avvalorante la distinzione fra religione e politica, l’esigenza di dissociare il cristianesimo dai compromessi mondani, la funzione della mistica nell’esperienza credente, la centralità delle virtù teologali, l’attenzione verso il mondo dei poveri, l’impazienza per un modello di città più ‘a misura di uomo’9. Negli scritti di quella fervida stagione di riflessione e incontri Emmanuel maturò solidi, ancorché ‘impliciti’, presupposti culturali per futuri approfondimenti di carattere pedagogico. Intanto, diveni8

Si veda A. RIGOBELLO, Introduzione, cit., pp. 62-67. Per approfondimenti, si consulti N. BOMBACI, Una vita, una testimonianza. Emmanuel Mounier, Messina, Armando Siciliano Editore, 1999, pp. 11-74. 9

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va in lui sempre più chiaro l’orientamento ad abbandonare l’ipotesi di proseguire la carriera accademica, per intraprendere quella, forse più ‘rischiosa’, dell’intellettuale impegnato in un’opera di animazione culturale, senza vincoli istituzionali di alcun genere. Passaggio decisivo fu, nel 1932, l’avvio della rivista «Esprit», promossa insieme a un gruppo di amici, preoccupati del presente e del futuro del mondo anche a motivo della drammatica avanzata dei totalitarismi. Da quel momento la vicenda di Mounier fu tutt’uno con quella del periodico, che s’impose subito nel dibattito del tempo per la forza delle idee e per un’attitudine anti-conformistica10. Nei primi scritti apparsi sul periodico e raccolti nel 1935 sotto il titolo Révolution personnaliste et communautaire il trentenne Mounier tratteggiava le linee di un radicale rinnovamento contro il ‘disordine stabilito’, suggerendo come antidoto culturale per uscire dalla crisi di civiltà in atto la necessità di ripartire dalla persona. Il suo approccio a questa fondamentale categoria antropologica, per altro mai definita in modo concettualmente rigoroso, era di tipo fenomenologico. Nel testo del ’35 parlava della persona, distinguendola dall’individuo, come del «volume total de l’homme», «une présence en moi», contraddistinta da tre dimensioni costitutive: ‘vocation’, ‘incarnation’, ‘communion’. Ad esse connetteva i relativi ‘esercizi’ di personalizzazione (‘méditation’, ‘engagement’, ‘dépouillement’), indispensabili per attingere la piena statura della maturità umana11. L’antropologia mounieriana rappresentava un’importante premessa ai fini di una curvatura pedagogica del discorso.

10

Sulle origini e i primi sviluppi del periodico, rinviamo a: J.-L. LOUBET DEL BAYLE, I non conformisti degli anni Trenta (trad. dal francese), Roma, Cinque Lune, 1972, pp. 155-202; M. WINOCK, Histoire politique de la revue “Esprit” (1930-1950), Paris, Éditions du Seuil, 1975, pp. 42-197; J.-M. DOMENACH, Emmanuel Mounier (trad. dal francese), Bari, Ecumenica Editrice, 1996, pp. 51-78; N. BOMBACI, Una vita, una testimonianza. Emmanuel Mounier, cit., pp. 99-212. 11 Cfr. E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, in ID., Œuvres, Paris, Éditions du Seuil, 1961, tome I, pp. 178, 179.

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Infatti, l’insistere sull’idea di persona come realtà in divenire e da edificare, come “compito progettuale” da svolgere puntando su libertà, coraggio, responsabilità, scelta implicava la necessità di dischiudere uno spazio specifico per l’intervento e il sostegno educativi. Ma di ciò diremo in seguito. Se riprendiamo il filo dell’evoluzione biografico-intellettuale di Mounier, conviene ricordare che al volume del 1935 seguirono altri importanti lavori. Si pensi, per esempio, a Manifeste au service du personnalisme, 1936 e a Personnalisme et christianisme, ’39. Nelle riflessioni dei secondi anni Trenta il metodo di analisi fenomenologico-esistenziale dell’autore andò precisandosi, con la conferma di una visione dell’uomo-persona come naturalità e libertà in stretta e reciproca linea d’interconnessione. Entro quest’ottica, il processo di personalizzazione, sempre sottoposto ai vincoli dovuti alla dimensione ‘incarnata’ dello spirito, secondo Mounier, postula un’indispensabile attitudine alla lotta, alla ricerca di affermazione, al rifiuto di ogni asservimento e oppressione, alla disponibilità verso l’impegno e l’incontro interpersonale. Nel drammatico quinquennio bellico «Esprit» subì, per motivi di censura, lunghi periodi di sospensione e il suo direttore, coinvolto nelle vicende della Resistenza anti-nazista, sperimentò anche il carcere (1942-’43)12. Risale a quegli anni la stesura del Traité du caractère, pubblicato nel 1946. La complessa opera, efficacemente definita come «una grande “architettura della persona”»13, nasceva dal desiderio di Mounier, in un’epoca di «confusione d’ogni valore» e di profonda ‘angoscia’, di sondare il mistero dell’uomo, con specifico riguardo ai processi e ai dinamismi costitutivi del carattere personale. Contro ogni determinismo, dall’analisi emergeva una concezione plastica e dinamica della struttura caratterologica indivi12 Si veda N. BOMBACI, Una vita, una testimonianza. Emmanuel Mounier, cit., pp. 227-286. 13 G. CAMPANINI, Introduzione a E. MOUNIER, Trattato del carattere (traduzione dal francese), Roma, Edizioni Paoline, 1982 (VIII ed.), p. 15.

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duale, in virtù della quale trovava legittimazione la possibilità stessa dell’educazione, come sostegno indispensabile per una crescita responsabilmente umana della libertà e della volontà14. Dopo la guerra, gli anni rimasti da vivere a Mounier si ridussero a soli cinque. Ma fu un periodo d’intensa riflessione sulla proposta personalistica, di confronto con esistenzialismo e marxismo/comunismo, di meditazione sul destino del cristianesimo, nonché di forte iniziativa per rinvigorire la rivista e sviluppare, sia in Francia sia all’estero, il movimento di amici ad essa legati15. Fra gli scritti pubblicati, ricordiamo Qu’est-ce que le Personnalisme (1947) e Le Personnalisme (1949), che costituì una sorta d’impreventivato testamento filosofico. Su quest’ultimo testo torneremo in seguito per la parte che più direttamente ci riguarda. 3. Stefanini lettore di Mounier Negli scritti di Mounier non v’è traccia di riferimenti a Stefanini. Al contrario, in quelli dell’autore italiano sussiste un esplicito e significativo rinvio al pensiero dell’intellettuale transalpino. Incomincio con una testimonianza di Armando Rigobello. Questi ricorda che poco dopo la morte di Mounier, discorrendo con Stefanini nella biblioteca del Seminario di Filosofia all’Università di Padova, il professore gli mostrò il volume Rivoluzione personalistica e comunitaria (Edizioni di Comunità, 1949), invitandolo intanto a predisporre una recensione per il «Giornale di Metafisica», dopo-

14

Per un primo accostamento al Traité, cfr.: G. CAMPANINI, Introduzione, cit., pp. 5-19; C. NANNI, Mounier: il “Trattato del carattere”, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre nel Centenario della nascita (1905-2005), a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, Volume secondo, Roma, LAS, 2005, pp. 251-268. 15 Si veda N. BOMBACI, Una vita, una testimonianza. Emmanuel Mounier, cit., pp. 287-332.

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diché sarebbe stata presa in considerazione l’eventualità di una monografia sul pensatore francese. Stefanini -prosegue Rigobello- aggiunse un commento, osservando che nel testo avrebbe trovato «suggestioni molto belle», da lui condivise, ma la ‘matrice’, il ‘fondamento speculativo’ lo riteneva diverso da quello al quale egli tentava di ancorare il suo personalismo16. Il filosofo veneto confermava tale giudizio nell’Introduzione a una sua raccolta di saggi del 1952. Leggiamolo per esteso: «Chi scrive ha grande ammirazione per il personalismo sociale che viene di Francia sotto l’insegna di E. Mounier e fa capo al centro animatore di Esprit. Riconosce che questo movimento è animato da una fede, che è ansia di combattimento e di realizzazione. Però ritiene che convenga anche porre un momento d’indugio all’ansia diffusiva, affinché non avvenga che il personalismo sociale, non abbastanza controllato nella sfera dei principii, ammetta con eccessiva facilità accostamenti a tendenze di tutt’altro segno, le quali agiscono purtroppo nel mondo moderno con una forza d’urto che non lascia tempo a riflettere sulla nostra condizione d’uomini e sulle leggi a cui la natura umana deve obbedire per non corrompersi»17. Dunque, stima per il contributo di pensiero e per il movimento mounieriano, ma anche rilevazione di una certa debolezza teoretica, che, fra l’altro, avrebbe potuto favorire, volutamente o meno, qualche cedimento verso indirizzi incomponibili con la prospettiva personalistica (Stefanini non lo dice, ma con ogni probabilità pensava soprattutto al marxismo). Orbene, in sintonia con il Maestro, pure Rigobello, nel 1955, era indotto a osservare che nella riflessione dell’autore francese lo statuto della persona non sembrava imperniato su un saldo ‘presidio

16 Cfr. A. RIGOBELLO, Mounier e il personalismo italiano, in Mounier trent’anni dopo, Atti del Convegno di studio dell’Università Cattolica (Milano, 17-18 ottobre 1980), Milano, Vita e Pensiero, 1981, p. 86. 17 L. STEFANINI, Personalismo sociale, Roma, Studium, 1979 (II ed.), pp. 1-

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metafisico’18. In anni più recenti analoga valutazione, pur all’interno di un apprezzamento complessivo per la ricerca filosofica dell’autore francese, è stata ribadita da altri studiosi19. Non tutti i critici convengono però sulla (presunta) ‘inconsistenza ontologica’ del pensiero di Mounier. È il caso, ad esempio, di Virgilio Melchiorre, secondo il quale non sussiste «debolezza di metodo o di serietà speculativa» nel fondatore di «Esprit». La sua insistita sottolineatura circa l’‘indefinibilità’ concettuale della persona era da intendersi come cautela contro il rischio di un’ingessatura sostanzialistica della medesima. Ciò non significava misconoscimento dell’esigenza di porre ordine nell’elaborazione dei concetti, esercizio, del resto, indispensabile per fissare la comunicazione di un pensiero e fondarne le sue intuizioni profonde. Il punto – insiste Melchiorre – ‘era un altro’: Mounier intendeva avvertire che l’esperienza della persona eccede pur sempre ogni ‘sistemazione formale’, rendendo pertanto ‘provvisorio’ qualsiasi assetto concettuale. Ne discendeva non l’abbandono del rigore logico-teoretico, ma semmai la necessità di delineare uno «statuto dialettico dell’intelligenza, fra concettualità ed esperienza, fra esplicazione e disvelamento intuitivo». In gioco, insomma, risultava la visione stessa della filosofia, intesa come «pensare partecipativo, esistenzialmente coinvolto». Per Mounier, la filosofia si traduceva coerentemente «nel modo di una fenomenologia dell’esistenza» (o – per dirla con Ricoeur – in una «fenomenologia ermeneutica della persona»). In definitiva, sempre secondo Melchiorre, il contributo filosofico mounieriano, originale ed efficace nella messa a punto delle strutture portanti della vita personale, va cercato non in un’elaborazione organicamente rivolta alle questioni fondative, bensì 2. 18

A. RIGOBELLO, Il contributo filosofico di E. Mounier, Roma, Bocca, 1955,

p. 49. 19 È il caso, ad esempio, di G. Goisis, del quale si vedano: Mounier e il labirinto personalista, Venezia, Helvetia, 1988, pp. 275-277; (con L. Biagi), Mounier

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nel modo «di fornire ai filosofi di professione una matrice filosofica, di proporre loro delle tonalità, alcuni moduli teoretici e pratici capaci di una o più filosofie, di una o più sistematizzazioni filosofiche»; matrice, qui intesa come prospettazione di alcune linee, essenziali e aperte, circa l’essere dell’uomo-persona20. Lascio agli specialisti l’ulteriore approfondimento della questione, limitandomi a registrare che proprio sul nodo controverso del fondamento teoretico del pensiero di Mounier si accentrava anche l’osservazione critica di Stefanini. D’altra parte, i loro differenti itinerari intellettuali costituivano premesse per esiti inevitabilmente diversificati del ‘discorso’ personalistico. Il filosofo italiano, come ha efficacemente scritto Rigobello, giunse alla configurazione dell’idea di persona «attraverso un’interpretazione metafisica della dialettica finito e infinito, costitutiva dell’esperienza interiore umana»; dal canto suo, l’autore francese pervenne «a risultati analoghi mediante una fenomenologia psicologico-esistenziale della stessa esperienza». Nel caso del primo, si trattava di un procedimento teso a reperire «un limite nella pienezza della spiritualità»; in quello del secondo, del rinvenimento di «un’istanza di ulteriorità nelle diverse figure di una fenomenologia dell’esistenza»21. Il sostanziale accordo intorno agli esiti ultimi della riflessione non escludeva però differenziazioni, oltre che sul piano fondativo, anche su alcuni versanti, per così dire, ‘applicativi’: pensiamo a quello socio-politico-istituzionale. Basti un accenno: lo Stefanini della stagione personalistica, pur non sottostimando il ‘comunitarismo’ (nella stessa versione mounieriana), come modello ideale di convivenza, attuabile, ad ogni modo, in forme storicamente limitate e parziali, era piuttosto fra impegno e profezia, Padova, Gregoriana, 1990, pp. 395-399. 20 Cfr. V. MELCHIORRE, Mounier. Per un’ontologia della persona. Relazione al Seminario di studio nel centenario della nascita di E. Mounier, «Per una metafisica della persona» (Milano, 23-24 novembre 2005), promosso dal Dipartimento di Filosofia dell’Università Cattolica, i cui atti sono in corso di stampa. 21 A. RIGOBELLO, L’itinerario speculativo di Luigi Stefanini, in Personalismo

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indotto ad avvalorare il sistema di democrazia rappresentativa e parlamentare, circa la quale, semmai, l’impegno doveva essere quello di fornirle una nuova giustificazione umanistico-cristiana; Mounier, invece, con la sua proposta di ‘comunità personalistica’, sembrava meno propenso a concedere credito a istituti e forme della tradizionale organizzazione democratico-liberale, per privilegiare esperienze di democrazia più diretta, forse non del tutto esenti da qualche accento carismatico22. Con penetrante giudizio di sintesi, Armando Rigobello ha scritto: «In Stefanini vive la tipica vocazione italiana alla mediazione, alla composizione, al reperimento di nuove motivazioni in una continuità con la tradizione stessa; in Mounier si esprime compiutamente la vocazione francese al radicalismo morale e alla rottura rivoluzionaria»23. Consonanze e differenziazioni le possiamo trovare anche nella riflessione pedagogica dei due autori. Prima di approfondire questo aspetto, conviene precisare che tanto nell’uno quanto nell’altro la cifra educativa costituiva tratto distintivo delle rispettive personalità. Furono differenti le ‘cattedre’ di esercizio del loro magistero, ma comune la preoccupazione di una proposta e di un magistero culturale vivi, stimolatori delle coscienze nella ricerca del vero. Nei Licei, prima, all’Università, poi, quella di Stefanini fu scuola di testimonianza e di dialogo. Il suo insegnamento si presentava non come trasmissione di un sapere accademico, bensì come esperienza attiva, dove insegnante e studente erano entrambi impegnati nel processo di graduale accostamento della verità. Al discente non era consentito di attardarsi nel puro ascolto; gli veniva chiesto, invece, di partecipare in prima persona alla riflessione introdotta dal sociale, cit., p. XIV. 22 Ivi, pp. XIV-XV. Per approfondimenti della visione socio-politica dell’autore transalpino, cfr.: G. CAMPANINI, La rivoluzione cristiana. Il pensiero politico di Emmanuel Mounier, Brescia, Morcelliana, 1968; M. MONTANI, Persona e società. Il messaggio di Emmanuel Mounier, Torino, Elle Di Ci, 1978 (II ed.), pp. 224-228.

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docente con parola calda e forbita, che penetrava nell’animo dell’interlocutore. Fare scuola per Stefanini voleva dire comunicare se stesso24. Anche in Mounier vi era una spiccata vocazione educativa, posta bene in luce da autorevoli testimonianze. Paul Ricoeur lo ha definito «le pédagogue, l’éducateur d’une génération»25. Jean Lacroix ha parlato di lui come dell’«instituteur de l’homme du XX siècle»26. Guy Coq ha detto che con Mounier siamo in presenza di «un des plus grands éveilleur d’hommes en son siècle»27. Egli aveva un’«exceptionnelle qualité de pédagogue d’humanité», con la singolare capacità di ridestare e rivelare «l’autre à soi-même»28. 4. Stefanini: educazione come ‘maieutica della persona’ Luigi Stefanini – secondo quanto si è accennato – incominciò a occuparsi di pedagogia a metà degli anni Venti, continuando a interessarsene sino alla fine della vita. Al suo attivo figura un’ampia produzione in materia, a conferma del fatto che per lui si trattava di un campo di ricerca di primaria importanza. Del resto, egli era convinto che la pedagogia e l’educazione fossero il ‘banco di prova’ di ogni ideologia o filosofia, capaci di rivelare la bontà o meno di queste ultime. La ‘formula’ del suo personalismo pedagogico era così indicata: «il fine immediato dell’educazione è la maieutica della persona e

23

A. RIGOBELLO, L’itinerario speculativo di Luigi Stefanini, cit., p. XV. Cfr. L. CAIMI, Educazione e persona in Luigi Stefanini, cit., p. 288. 25 P. RICOEUR, Une philosophie personnaliste, «Esprit», 12, 1950, p. 862. 26 J. LACROIX, Mounier éducateur, ivi, p. 839. 27 G. COQ, Préface, in Emmanuel Mounier et sa génération. Lettres, carnets et inédits, Paris, Éditions Parole et Silence, 2000, p. 5. 28 G. COQ, Pour un retour à Emmanuel Mounier, in ID. (Éd.), Emmanuel Mounier. L’actualité d’un grand témoin. Actes du Colloque tenu à l’UNESCO, 24

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ogni altra finalità, essa stessa personalisticamente intesa, è da conseguirsi attraverso la mediazione della persona del singolo»29. Ma, per promuovere un processo educativo di tipo personalistico – osservava Stefanini – non basta parlare di persona, occorre chiarire se la s’intende come ‘principio’ o come ‘funzione’. Infatti, «con la persona ridotta a riflesso condizionato, a fenomeno di convergenza collettiva, a funzione dell’istinto, del bisogno organico, della situazione, della macchina produttiva e via dicendo, non si può nemmeno parlare di educazione, perché si tratta di cosa da “inserire” in un determinismo, di ruota da “adattare” a un ingranaggio, di animale da “addomesticare”, non mai di un essere spirituale e libero da suscitare nell’esercizio delle sue qualità intrinseche, disimpegnandolo dalle condizioni di eteronomia in cui si trova quando in lui non è ancora nato l’uomo»30. Come si vede, per Stefanini, l’azione educativa, concepita in una prospettiva antropologica sgombra da lacci deterministici e tesa alla piena liberazione del soggetto, va sottrata a qualsivoglia scopo strumentale. Sotto questo profilo, la convergenza con la prospettiva di Mounier risultava piena e inequivocabile. Dalla considerazione centrale del personalismo pedagogico l’autore veneto traeva una serie di conseguenze per gli ambienti educativi, con particolare riguardo alla scuola. Per lui, la ‘personalizzazione’ scolastica doveva avere implicanze di ordine pedagogico, didattico, istituzionale. Tra esse ricordo: la difesa del primato del singolo alunno rispetto al gruppo scolastico, con il conseguente diritto di ciascuno a usufruire di un’educazione rispettosa dei propri ritmi evolutivi; la necessità, in contrapposizione ai vari tipi d’irrazionalismo, di volontarismo, di pragmatismo e di problematicismo, di una maturazione integrale ed equilibrata del discente, sempre veduto ivi, 2003, tome 1, p. 15. 29 L. STEFANINI, L’alternativa pedagogica, in Il problema pedagogico. Atti del X Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, Brescia, Morcelliana, 1955, p. 46.

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nella sua qualità di persona ‘incarnata’ e ‘mondanizzata’; il valore dell’etero-educazione, se considerata come promotrice di auto-educazione; l’esigenza, per l’alunno, di una «sperimentazione dell’uomo nella persona del maestro»; la concezione dell’autorità come suscitatrice della libertà dell’educando in un rapporto dialogico e reciprocamente attivo; l’importanza della ‘concentra-zione’ e della ‘gerarchizzazione’ didattica del sapere; l’urgenza di un’organizzazione sociale e scolastica tale da garantire, fra l’altro, la diffusione dell’istruzione di base per tutti, l’accesso agli studi superiori ai capaci e ai meritevoli, la fruizione di strutture e interventi riabilitativo-formativi per ragazzi in difficoltà31. Il modello di «scuola del dialogo», in grado, per Stefanini, di conciliare l’attivismo con i valori della tradizione, sintetizzava, sul piano pedagogico, l’idea metafisica della persona come logos, parola aperta quindi alla ‘conversazione’ con sé e con tutto quanto è altro da sé: cose, uomini, Dio32. Va opportunamente precisato che la pedagogia personalistica del professore veneto risultava debitrice al cristianesimo di fondamentali spunti e illuminazioni. Erano da considerarsi in tal senso: la sottolineatura del ‘primato educativo’ dell’infanzia; la ricerca di un equilibrio realistico fra gli estremismi del ‘pelagianesimo pedagogico’ (Rousseau) e del ‘giansenismo pedagogico’ (Freud); l’avvaloramento, nella scia di Gesù, della ‘didattica degli esemplari’; l’insistenza sulla ‘sinergia’ fra adulto e minore; la visione del processo educativo come metanoia33. La messa in guardia dai rischi di alcune teorie e prassi educative correnti toccò un punto di particolare efficacia espositiva e in30

Ivi, pp. 49-50. Cfr. L. STEFANINI, Linee del personalismo educativo, in Personalismo educativo, Roma, Bocca, 1955, pp. 9-12. 32 Si veda L. STEFANINI, La scuola del dialogo: interrogazione ed esame, in Personalismo educativo, cit., pp. 87-106. 33 ID., Institutio divina e institutio umana, in La pedagogia cristiana. Atti del 31

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tensità emotiva nell’ultimo intervento in pubblico, il 28 settembre 1955, a Trento, in occasione della XXVIII Settimana Sociale dei Cattolici d’Italia. Senza misconoscere il progresso dell’educazione moderna, attestata intorno a parole-chiave come attivismo, sperimentalismo, socializzazione, Stefanini insisteva però sul pericolo ìnsito in essa di ‘volatilizzare l’intimità’ spirituale della persona. Da qui la critica al cosiddetto ‘fumettismo’, inteso come disposizione, certamente favorita dallo sviluppo dei media (cinema, televisione), «ad accogliere ciò che si dona senza sforzo, sostituendo il visto all’espresso, la ricerca all’attività, l’immediata apprensione alla riflessione, l’acquisto rapido alla lenta graduale conquista, cedendo all’impressione pura e alla virtù incantatrice dell’immagine»34. Tutto ciò finiva con il porre il soggetto nella «condizione dello spettatore», tipica di chi si trova ad ‘assistere’ più che a partecipare in prima persona a un avvenimento. La conclusione dell’intervento rendeva al meglio il senso di un pensiero pedagogico sempre teso ad avvalorare la custodia dell’interiorità personale. «L’ora della prova per l’educazione – dichiarava Stefanini – sarà superata se essa riuscirà a formare, nelle condizioni meno favorevoli, una sfera riservata alla riflessione e alla concentrazione, resistendo alle attrattive allucinanti e dispersive, se riuscirà a mantenere desta l’alacrità spirituale contro lo stato ipnotico di chi ha gli occhi aperti per vedere tutto, fuorché per accorgersi di se stesso»35. 5. Mounier: l’educazione come ‘risveglio’ della persona Nel caso dell’intellettuale francese, possiamo osservare che, a parte gli specifici, ancorché non organici, riferimenti ai problemi I Convegno di “Scholé”, Brescia, La Scuola, 1955, cfr. pp. 25-29, 33-53. 34 ID., Pedagogia nuova per il rinnovamento della società, in Società e scuola. Atti della XXVIII Settimana Sociale dei Cattolici d’Italia, Roma, Edizioni I.C.A.S., 1956, p. 161.

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dell’educazione, l’intera sua opera assume una valenza di tipo pedagogico, poiché la tensione propriamente educativa, vòlta a ‘risvegliare’ le coscienze, ponendole in guardia da tutti i rischi di assopimento nei quali, per ragioni individuali e/o socio-culturali, esse possono incorrere, traspare quasi da ogni pagina36. Sino da Révolution personnaliste et communautaire gli accenni propriamente pedagogici assumevano anche un profilo, per così dire, ‘politico’. L’educazione era cioè veduta come esperienza e pratica strategica in ordine all’auspicato programma di cambiamento personale e socio-culturale. Nel paragrafo ‘Révolution personnaliste’ incrociamo la polemica sia verso l’educazione ‘toute faite’, ossia conformistica del capitalismo sia verso quella dei collettivismi totalitari, miranti ad assoggettare il bambino «au canon de leur métaphysique officielle», con la fabbricazione in serie «de petits communistes, de petits fascistes, et autre citoyens sur mesure». Dunque, nell’uno e nell’altro caso si assisteva a modelli educativi in funzione del ‘rôle social’ (‘funzionalistici’, appunto, avrebbe detto Stefanini). Inevitabilmente, essi risultavano agli antipodi di un’educazione attenta all’‘être métaphysique’ di ciascuno, «fondée sur la personne»37. A scritti successivi Mounier avrebbe affidato il compito di svolgere meglio questi enunciati. Ne possiamo cogliere sviluppi già nel Manifeste au service du personnalisme (1936). Il paragrafo «L’éducation de la personne» era articolato in due parti: «Principes d’une éducation personnaliste» e «Pour un statut pluraliste de l’école». Nella prima figuravano tre tesi, che sintetizziamo come segue:

35

Ivi, p. 163. Per uno sguardo d’insieme sulla riflessione educativa mounieriana, rinvio al mio saggio Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre nel Centenario della nascita (1905-2005), cit., vol. II, pp. 233-250. 37 E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, cit., pp. 179, 36

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a. l’educazione non ha per scopo di «façonner l’enfant au conformismes d’un milieu social ou d’une doctrine d’État». Sua finalità principale, infatti, è quella «d’éveiller des personnes capables de vivre et de s’engager comme personne»; b. «une éducation fondée sur la personne ne peut être totalitaire, à savoir matériellement extrinsèque et contraignante, elle ne saurait être que total». Essa, inoltre, proprio perché concerne l’uomo nella sua interezza, rifugge da posizioni ‘neutre’, prive cioè di riferimenti a valori che impegnano una concezione positiva della vita; c. in quanto «apprentissage de la liberté», l’educazione postula per il minore il supporto di un’autorità di riferimento, rappresentata innanzitutto dalle figure parentali. All’interno di un rapporto interpersonale, siglato dal pieno rispetto dell’adulto verso l’educando, resta però certo che al secondo spetta interiorizzare progressivamente gli insegnamenti ricevuti, mettendosi via via alla prova38. La sezione «Pour un statut pluraliste de l’école» risultava, a sua volta, organizzata intorno ai due seguenti enunciati: I. lo Stato non può imporre per monopolio una dottrina e un’educazione. Piuttosto, gli compete, oltre all’attivazione di un efficiente servizio d’istruzione pubblica (quest’ultima concepita in modo laicamente aperto), di rendersi garante del pluralismo delle istituzioni scolastiche, fatto salvo il suo diritto all’esercizio di un controllo anche sull’iniziativa privata per assicurare il rispetto delle regole generali comuni; II. il riconoscimento della legittima presenza di scuole confessionali non deve, sotto pretesto della libertà, favorire modelli educativi di tipo dogmatico o anti-democratici. È altresì importante che fra le differenti esperienze scolastiche (statali e non) s’instaurino 414, 183. 38 E. MOUNIER, Manifeste au service du personnalisme, in ID., Œuvres, cit., tome I, pp. 550, 551, 553.

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possibilità di confronto39. Il Manifeste riservava espliciti riferimenti alla problematica educativa anche nel paragrafo dedicato alla famiglia. Di questa «communauté naturelle de personnes»40 Mounier tesseva l’elogio, fuori, per altro, da celebrazioni retoriche, dal momento che conosceva bene limiti e pesantezze della concreta esperienza familiare. In ogni caso, per lui la famiglia era da considerarsi come «une chance à courir, un engagement à féconder»41, con l’obiettivo di renderla effettivamente comunità ricca di comunicazione spirituale. Essa – scriveva ancora – costituisce «le milieu le plus naturel à l’épanouissement de l’enfant»42; deve però guardarsi dalla pretesa di sottomettere i figli a conformismo sociale o a interessi commerciali: sua missione, invece, è la custodia e la cura della loro vocazione. Siamo al Traité du caractère (1946), testo fondamentale nella produzione mounieriana per approfondire il nesso fra discorso antropologico e pedagogico. Era convincimento dell’autore che l’educazione, incominciando da quella sperimentata in famiglia, costituisse fattore centrale per la progressiva configurazione della struttura caratteriale. Di conseguenza, il trattato non poteva esimersi dall’approfondire una serie di questioni pedagogicamente rilevanti. Ricordiamo, per esempio, quelle concernenti: i possibili modelli (autoritario, ‘astensionistico’, promozionale) della relazione educativa; il ruolo della corporeità nella formazione personale (con i suggestivi richiami a una «pédagogie générale du corps à corps»)43; l’attenzione, da parte dell’educatore, verso i tratti distintivi e le esigenze specifiche dei vari tipi caratteriali; la cura per un corretto irrobustimento della volontà; le modalità d’intervento educativo sui versanti intellettuale, morale, sociale, sessuale, religioso per una crescita 39

Ivi, pp. 554-556. Ivi, p. 570. 41 Ivi, p. 566. 42 Ivi, p. 569. 43 E. MOUNIER, Traité du caractère , in Œuvres, cit., tome II, p. 568. 44 Sulle implicanze educative del Traité, oltre al menzionato saggio di C. 40

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equilibrata della personalità44. Con Le Personnalisme (1949) anche le analisi pedagogiche precedentemente svolte trovavano definitiva conferma in un perimetro discorsivo che, sebbene non organico, risultava comunque di grande efficacia. Lo sviluppo della riflessione poteva essere distinto in una ‘pars destruens’ e in una ‘pars construens’. Quanto alla prima, meritano di essere almeno poste in luce: la critica alle prevalenti prassi educative, accusate di scarsa consapevolezza verso le esigenze della persona del minore; il dissenso netto nei confronti del dilagante autoritarismo; il richiamo alla poca cura per le virtù di tipo attivo (coraggio, impegno, autonomia decisionale ecc.); la presa di distanza da modelli d’istruzione perlopiù formalistici e insensibili ai problemi derivanti dalle disuguaglianze sociali; la denuncia, ancorché non disgiunta dal riconoscimento dei meriti, di alcuni limiti dell’attivismo («partiellement dévié par l’optimisme libérale et son idéal exclusif de l’homme floride, philantrope et bien adapté»)45. Se passiamo alla ‘pars construens’, rileviamo il ritorno su tesi acquisite, ma riproposte con efficacia. Centrale risultava quella secondo la quale l’educazione consiste non nel ‘faire’, ma nell’‘éveiller’ la persona, che, lungi dall’essere ‘fabbricata’ con l’addestramento, “se suscite par appel”. Di conseguenza – e non diversamente da Stefanini – era ribadito in maniera netta il rifiuto di ogni strumentalismo o funzionalismo educativo. La persona, a motivo della sua trascendenza, appartiene soltanto a se stessa: «l’enfant est sujet, il n’est ni RES societatis, ni RES familiae, ni RES ecclesiae». Però, – osservava Mounier – non è un ‘sujet isolé’46. Da qui la reiterata indicazione circa l’importanza degli ambienti di vita (famiglia, scuola, comunità di fede) per una crescita in umanità coerente con l’impegnativa ‘vocazione’ anche sociale della persona. Nanni, cfr.: R. GERVASI, Psicologia e pedagogia del carattere di Emmanuel Mounier, «I Problemi della pedagogia», 1, 1964, pp. 29-47; F.V. LOMBARDI, Politica ed educazione nel personalismo di Mounier, Milano, Massimo, 1980, pp. 70-92. 45 E. MOUNIER, Le personnalisme, in Œuvres, cit., tome III, p. 521. 46 Ivi, p. 522.

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Considerazioni conclusive Da quanto sopra esposto si può concludere dicendo, intanto, che fra i due autori, pur nella diversità degli itinerari biografico-intellettuali e dei relativi approdi personalistici, sussistono chiari punti d’intesa sull’idea di persona come categoria-chiave dalla quale muovere per ogni rinnovamento culturale, sociale e educativo. Circa l’ultimo aspetto, una sostanziale convergenza riguarda il concetto di educazione come processo di liberazione. Mounier parlava di ‘risveglio’ della persona, Stefanini di ‘maieutica’: nozioni distinte, ma di significato fondamentalmente simile. Per entrambi, l’azione educativa, promossa e sostenuta dall’adulto, doveva tendere a favorire nel minore una graduale maturazione dell’impiego della propria libertà, nell’ottica di una vocazione umana interpretata con senso di responsabilità e coscienza solidale. La visione, poi, della persona come realtà ‘incarnata’ costituiva motivo ugualmente condiviso. Ne discendevano importanti conseguenze per l’educazione, sollecitata, contro ogni forma di ‘angelismo’ evanescente, ad avere presente la totalità dei bisogni dell’educando, in rapporto alla particolare dinamica evolutiva di ciascuno e al contesto di esperienza socio-culturale. Consonanza, fra i due, oltremodo significativa era altresì rilevabile nella presa di distanza da ogni ipotesi di educazione conformistica e ‘modellante’. Questo, perché un’impostazione educativa del genere sarebbe la smentita più decisa del diritto di ogni minore a divenire nient’altro che se stesso, sentendosi perciò tutelato e sorretto nel faticoso, ma esaltante perfezionamento della propria, irripetibile personalità. Anche sul ruolo e sulla responsabilità dell’educatore l’accordo fra i nostri studiosi era profondo. In loro risultava infatti ben presente il convincimento secondo cui l’adulto, insostituibile testimone di vita e dei più nobili valori ad essa legati, doveva esercitare il suo ruolo promozionale verso l’educando, preoccupandosi non di ‘trattenerlo’ a sé, bensì di sollecitarlo progressivamente nell’impe237

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gnativa conquista della propria autonomia. Né meno partecipata, in Stefanini e Mounier, appariva l’intesa intorno al valore degli ambienti educativi. Famiglia e scuola (quest’ultima concepita in un’ottica di pluralismo democratico rispettoso dell’iniziativa privata) rappresentavano ai loro occhi i contesti vitali entro i quali, pur con accenti diversi, la persona doveva trovare debito sostegno per crescere equilibratamente, maturando via via fiducia in se stessa, capacità di relazione, apertura al mondo. Da ultimo, va osservato che, nel secondo dopoguerra, sia l’uno sia l’altro autore percepirono, sebbene con differente intensità, l’onere delle ‘sfide’ socio-culturali e scientifico-tecniche anche per l’educazione cristiana. Se nel caso dell’intellettuale francese il problema era inserito all’interno della più ampia riflessione circa il destino del cristianesimo nella società moderna e, di conseguenza, il profilo di credente adulto da edificare, in quello del filosofo italiano la questione si collocava nel quadro di un impegno di autenticazione personalistica della cultura, che avrebbe dovuto trovare schierati in prima linea i cattolici. Possiamo, in definitiva, concludere dicendo che con Stefanini e Mounier siamo in presenza di personalismi dotati di fisionomie teoretico-fondative e argomentative distinte, però convergenti intorno al dato antropologico di fondo – l’idea di persona –, da cui si evince, fra l’altro, una sintonia pedagogicamente significativa circa ‘parole’, ‘messaggi’, ‘proposte’ capaci d’imporsi ancora oggi con forza evocativa e progettuale. Si tratta, ad ogni buon conto, di due eredità che, lungi dall’essere ‘ripetute’ retoricamente, vanno piuttosto ‘svolte’ in modo attento alle sempre nuove domande sull’educazione e sul suo significato nella vita degli uomini e delle società.

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Alla ‘scuola’ di Mounier

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INDIVIDUALISMO E TRASCENDENZA. L’ATTUALITÀ DELL’UMANESIMO RELAZIONALE DI EMMANUEL MOUNIER Mario Toso

1. Il crollo delle ideologie e il ritorno dell’individuo Il ritorno dell’individuo è evento che fa seguito ad una fase storica in cui si tentò il superamento di esperienze liberal-borghesi mediante figure statali dapprima incentrate sulla classe proletaria, sulla razza, sulla Nazione, sul culto del Capo; poi, terminata la seconda guerra mondiale, sulla persona, quale soggetto di diritti e di doveri, essere relazionale e solidale. L’istituzione di Stati sociali e democratici nella seconda metà del secolo XX intendeva essere l’inveramento congiunto sia della solidarietà che della partecipazione, della libertà e della giustizia sociale, col definitivo abbandono dell’autoritarismo e della manipolazione delle masse, sfuggendo agli estremi opposti dell’individualismo e del collettivismo. Ma il deterioramento della figura dello Stato sociale, nella sua fattispecie di Stato del benessere, a causa di molteplici fattori sembra far ritornare il pendolo della storia al punto di partenza. Gli Stati occidentali della seconda metà del Novecento, pur movendo da intenti di solidarietà e di giustizia nella libertà hanno ottenuto esiti di spersonalizzazione e di massificazione dei cittadini. Si è determinata una situazione in cui gli individui, sia negli Stati democratici occidentali che nello Stato collettivistico russo, sono apparsi livellati, ridotti a numeri, oggetto di assistenza. Non a caso Friedrich von Hayek e Robert Nozik hanno inter241

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pretato non solo l’esperienza russa ma anche quella degli Stati sociali occidentali come espressione di un’eccessiva ed ingiusta subordinazione dell’individuo alla società, come realizzazione di una solidarietà imposta a danno della libertà. Sta di fatto che, in concomitanza alla crisi del marxismo e degli Stati sociali occidentali, specie alla fine secolo XX e con il crollo del muro di Berlino, incomincia prepotentemente la valorizzazione dell’individuo nella società e nella cultura. Ciò si accompagna alla diffusione delle teorie liberali. L’individualizzazione della società non è un processo lineare e uniforme, bensì complesso, ambivalente, cioè dotato di aspetti positivi e negativi, concernente più ambiti, compresi quelli del lavoro, del diritto, dell’economia e della politica. Mentre sul piano del lavoro si afferma mediante lo sfaldamento della sua uniformità fordista per aprirsi ad una molteplicità di lavori con esigenze, cultura, aspirazioni diversificate e difficilmente rappresentabili, sul piano dell’economia si attua con il ritorno del fondamentalismo del libero mercato, in particolare nella sua fattispecie finanziaria. Sul piano politico, invece, si esprime con la revisione dello Stato sociale eccessivamente accentratore ed assistenzialistico, che ora sembra evolvere in senso societario in modo da essere più vicino alle persone e ai loro bisogni, e anche con la fine dei grandi partiti di massa1. Questi, indebolendo la loro natura democratica e partecipativa, talora diventano partito di pochi o partito personale2, mentre la politica appare ridotta a semplice amministrazione delle cose, appendice o variabile dipendente dei mercati liberalizzati e deregolamentati, subordinati a gruppi oligarchici della finanza e della tecnica. Detto altrimenti, il «ritorno dell’individuo» se da una parte è la giusta rivalutazione del singolo, rispetto al tutto, dall’altra si verifica con modalità che ne impoveriscono le potenzialità positive. E ciò perché, fondamentalmen1

Su questo si legga M. CROSTI-V. FOA, Il ritorno dell’individuo. Cosa cambia nel lavoro e nella politica, Roma, Edizioni Lavoro, 2000. 2 Cf. M. CALISE, Il partito personale, Roma-Bari, Laterza, 2000.

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te, si dimentica la dimensione di trascendenza della persona. Qui, allora, considereremo dapprima la fenomenologia del ritorno ambivalente dell’individuo specie nella prevalente cultura massmediatica; poi, si vedrà l’apporto del personalismo comunitario e relazionale di E. Mounier nell’elaborazione di un nuovo umanesimo che armonizza l’individualità con la trascendenza. 2. L’individuo, macchina comunicante in un mondo globalizzato: un umanesimo neoindividualistico e mercantilistico Di estrema importanza sono le trasformazioni, prodotte dai media, dei modi concreti di percepire la realtà e, in presenza dell’accelerazione vorticosa delle elaborazioni, perfino della stessa dimensione del tempo. Le modifiche determinate dai media sull’immagine complessiva dell’uomo stesso e, quindi, sulla coscienza che ha di sé, degli altri, della storia, generano variazioni consistenti sotto il profilo etico-culturale che non possono lasciarci indifferenti. La realtà virtuale dei media, cancellando tempo, spazio e la relazione espressa dal corpo, muta la percezione di sé, sradicando quasi la persona dalla propria ‘carne’. Ciò che viene in primo piano è un io fenomenico, che vive senza un centro unificatore dei molti sé in una sinfonia. A causa dell’ipermediatizzazione delle relazioni, si può dire che le persone perdono gli altri e se stesse. Indeboliscono la propria capacità di far proiezione di sé, nonché la propria identità che, come hanno insegnato i filosofi personalisti, si perfeziona nel confronto con l’alterità dell’altro come del Sé, mediante una relazionalità positiva. Il soggetto, sempre più frammentato e nomadico, smarrito tra i suoi oggetti e le sue macchine, è immerso nel puro presente: «Il dissolvimento insieme del passato e del futuro porta a una presenzialità assente e vuota»3. Detto 3

E. FIORANI, La comunicazione a rete globale. Per capire e vivere la mutazione di epoca, Milano, Lupetti-Editori di Comunicazione, 1998, p. 106.

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diversamente, gli uomini non sarebbero più enti sussistenti in sé e per sé, ossia soggetti autonomi, liberi e responsabili, essenzialmente sociali e relazionali, poiché prevale la rappresentazione di sé come ‘macchina comunicante’, ricca di scambi sociali ma non solidale. La persona non ha più il contatto con la propria ‘natura’ di essere umano, sinolo di anima e corpo, dotato della capacità di conoscere il vero e il bene, di una libertà intrinsecamente legata a tale capacità, alla relazionalità. Le conseguenze di una simile visione della persona, sradicata dalla sua essenza, sono facilmente rintracciabili allorché ci si riferisca, ad esempio, alla concezione dei diritti e della convivenza sociale. I media, contribuendo a rendere dominante una visione della realtà e dell’uomo non ancorata alla loro dimensione metafisica ed etica, ne favoriscono un’interpretazione storicistica ed individualistica. I diritti sono intesi come pretese illimitate, senza i corrispettivi doveri. Con ciò è operato una sorta di scippo nei confronti dell’uomo e della società. La sottrazione della prospettiva del compimento e della rappresentazione dell’ideale li depriva, in certo modo, del futuro. Il loro destino è tutto concentrato nell’attimo presente4. Ma i media non provocano e non attestano solo un mutamento nella percezione dell’uomo e del suo destino. Intrisi da visioni parziali dell’uomo e del suo destino, strutturano una nuova cultura che avvolge il mondo globalizzato, contaminandolo e rafforzando i suoi aspetti tecnocratici e materialistici. Impongono una nuova visione della famiglia umana e della storia. Ne risignificano la stessa prospettiva di futuro, contrassegnandola di pessimismo e di paura. Dall’incontro dei media con i vari aspetti della globalizzazione, dal loro reciproco influsso nasce una commistione culturale che tocca i gangli vitali della comunicazione, della convivenza civile, dell’etica

4

Cf. PH. BRETON, L’utopie de la communication, Paris, Éditons La Découverte, 1992, trad. it.: L’utopia della comunicazione. Il mito del «villaggio planetario», Torino, UTET, 2000, pp. 142-143.

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pubblica e della giustizia sociale, della democrazia e dello stesso senso dell’esistenza dei popoli, della loro dimensione di trascendenza. In particolare, negli anni Ottanta del secolo appena conchiusosi, la tecnoutopia ecumenica di Marshall McLuhan diffusasi a macchia d’olio sul pianeta, dietro la spinta data dal collasso del socialismo reale, dall’informatica e dalla globalizzazione della finanza, subisce una mutazione semantica. Il villaggio globale è soppiantato dalla Rete, ove non scorrono solo i flussi del sapere individuale e collettivo, ma anche le strategie delle multinazionali e del macrosistema tecnofinanziario. Il modello di comunicazione delle imprese si qualifica come tecnologia di gestione simbolica dei rapporti sociali e si estende all’insieme della società come l’unico modello efficace di ‘tecnica relazionale’.5 La neolingua della comunicazione viene dettata e significata dalla razionalità mercantile. Gli universali relativi alla comunità globale sono forgiati sulla base dei valori manageriali. Francis Fukuyama parla, così, di «fine della Storia»6, coincidente con la consacrazione del capitalismo occidentale o, meglio, del capitalismo globale, vittorioso su modelli di economie totalmente pianificate dal centro. L’uscita dalla storia e la fine delle ideologie collettivistiche apre alla stabilizzazione e universalizzazione di un umanesimo di basso profilo, per il quale l’economico ha la preminenza su ogni altro valore. Si giunge a ritenere che il libero mercato possa propiziare di per sé, con i suoi meccanismi e le sue leggi, pace e prosperità per tutti. La democrazia è interpretata in modo consustanziale all’informatica e al mercato stesso. La partecipazione si esaurisce in una nozione neopopulista di global democratic marketplace (repubblica mer5

Cf. A. MATTELART, Storia dell’utopia planetaria. Dalla città profetica alla società globale, Torino, Einaudi, 2003, p. 391. 6 Cf. F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1989.

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cantile universale smithiana in versione aggiornata), secondo cui solo il libero arbitrio del cittadino-consumatore deve regolare la circolazione dei flussi culturali sulla piazza della libera offerta. Le sorti della cooperazione tra i popoli e l’efficacia della comunicazione universale vengono fatte dipendere dalla conformità alle regole del libero scambio. L’etica pubblica è ridotta all’etica del mercato e degli affari. La giustizia sociale non trova più il suo riferimento nel bene comune, nazionale ed universale. In questo nuovo impasto culturale, le nozioni di universalità, di trascendenza comunicazionale, perdono il loro significato di condivisione collettiva di valori. Non c’è più spazio per un pianeta concepito come elaborazione sociale. Non ci sono più margini per una definizione antropo-sociologica della società globale, quale macrocosmo unificante microcosmi o raggruppamenti particolari in un tutto che li integra. L’unità complessa delle diversità del mondo è ridotta a mera uniformità di natura materiale. La storia, chiusa in un ghetto tecnoglobale monotono e in definitiva statico perché ripetitivo, non è più capace di rinnovarsi. L’intelligenza speculativa e pratica è superflua, non servendo più per interpretare e trasformare ciò che ormai sembra essere fatalmente senza prospettive di futuro ed è retto da una razionalità tecnocratica e mercantile. Sembra in tal modo concludersi un processo di secolarizzazione, che immanentizza il fondamento dell’unità della famiglia umana e della storia. La secolarizzazione, degenerata in secolarismo, ricerca il fondamento del finito solo nel finito che assolutizza, scindendolo definitivamente dal divino – l’infinito – e rinchiudendolo nel mondano. L’umanesimo disponibile assume caratteri neoindividualistici e neoutilitaristici, supportati da prospettive improntate a scetticismo e a relativismo morale.

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3. Il coraggio di un nuovo umanesimo: decisività delle condizioni di pensabilità di un nuovo umanesimo e la verità sull’uomo E tuttavia, nell’odierno processo di globalizzazione, nonostante i molti segni contrari, è insita una visibile ed eclatante spinta all’unificazione del mondo, che esige sia potenziato un umanesimo della libertà, della relazionalità solidale e dell’apertura alla Trascendenza. Se si vuole dare un’anima più umana ed umanizzatrice alla globalizzazione, occorre avere il coraggio di proporre un nuovo quadro culturale, capace di coniugare libertà e verità, etica e politica, religione e laicità. Ma questo è possibile se si pone mente – per quanto detto sull’imperante agnosticismo, – alle condizioni della sua pensabilità. Di fatto, la diffusione di un nuovo umanesimo e la possibilità di una conseguente opera di educazione sono oggi assai ridotte. E questo, perché per molti la conoscenza del vero bene umano non è accessibile alla ragione; perché ai nostri giorni è ampiamente accettata una concezione della libertà, intesa prevalentemente come arbitrio incondizionato7. Per molti pensatori odierni, maestri del nulla, non esiste una realtà da interpretare. Esistono solo interpretazioni sulle quali è impossibile pronunciare un giudizio veritativo, dal momento che non si riferiscono a nessun significato obiettivo. Si è, dunque, chiusi entro i reticoli delle nostre interpretazioni del reale, senza nessuna via di uscita per raggiungerlo. Ogni interpretazione e il suo contrario sarebbero egualmente validi. L’educazione avrebbe come obiettivo quello di aiutare a vivere la propria libertà, come possibilità di fare tutto ciò che si crede purché non si leda il diritto altrui. Nelle società odierne, multireligiose e multiculturali, non esistono valori condivisibili universalmente perché essi sono incommensurabili. Proprio con riferimento a quanto detto, occorre invece compren7

Cf. C. TAYLOR, La modernità della religione, Roma, Meltemi Editori, 2004, p. 63. Antesignana di una simile prospettiva sulla libertà è l’opera di J. STUART MILL, Saggio sulla libertà, Milano, Mondadori, 1991, specie p. 12.

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dere che senza un’apertura intenzionale della nostra intelligenza alla realtà, è impossibile essere liberi da visioni ideologiche e preconcette. La libertà non può vivere disgiunta dalla verità. Solamente quando è illuminata dal bene vero e sa legarsi ad esso, la libertà conduce la persona al suo compimento: è la verità che rende liberi (cf. Gv 8,32). Così, si deve comprendere che, se non è possibile accedere al vero bene umano, la politica rimane senza riferimento a un bene comune, l’educazione perde il suo significato e non ha quindi motivo d’essere, le regole della democrazia, come anche i diritti dell’uomo, sono privi di contenuti; la laicità degli Stati diviene senescente. Diventa allora cruciale il confronto con il problema della verità sull’uomo. Non a caso il superamento degli umanesimi moderni e la costruzione di uno nuovo è, per il filosofo francese, essenzialmente questione di verità sull’uomo, sulla sua condizione, sulla storia, intesa come processo di costruzione della civiltà. L’umanesimo individualista poggia sulla scissione cartesiana tra spirito e materia, quello collettivista dissolve la persona e il suo spirito nella materia. Un nuovo rinascimento, un nuovo umanesimo possono sorgere sulla base del recupero della verità sull’uomo, saldando spirito e materia; trovando un’armoniosa sintesi tra pensiero ed azione, tra persona e comunità, tra conversione morale, spirituale e azione trasformatrice o rivoluzionaria. «Rifare il Rinascimento» equivale, dunque, a rivedere criticamente le matrici culturali ereditate dalla modernità. Significa affrontare il più grave pericolo che attenta alla vita di tutti e cioè la falsità eretta a sistema. Tutti i valori – registrava con rammarico Mounier – sono inquinati. Non resta che incamminarsi seriamente e sistematicamente nella ricerca e nella comunicazione della verità. E aggiungeva: bisogna strappare ai falsari ciò che maggiormente ci è caro8, ripropo8

Cf. E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, Paris, Montaigne, 1935, trad. it.: Rivoluzione personalista e comunitaria, Milano, Edizioni di Comunità, 1955, p. 410 (Œuvres, I, p. 393).

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nendosi di riportare alla loro originale purezza valori oggi sepolti sotto la menzogna9. Ebbene, ai nostri giorni le cose non sono molto differenti: la visione della persona, della famiglia, della patria, della libertà appaiono contraffatte. La persona dev’essere riconosciuta com’è realmente, ossia soggetto, fondamento e fine della società, sul piano nazionale e internazionale. Va posta al centro della città nell’interezza del suo essere libero e responsabile, relazionale e solidale, aperto strutturalmente a Dio. Così, è urgente ridare dignità ed eticità alla politica appiattita sulle leggi del mercato. La democrazia, dominata da oligarchie economiche e tecnocratiche, deve tornare a servire le persone, la loro libertà. Come per Mounier, anche per noi la crisi degli umanesimi dominanti è crisi della visione dell’uomo, è questione antropologica che presuppone, a sua volta, un problema gnoseologico. 4. L’esigenza di meglio fondare un impegno di civiltà, ovvero un metodo per conoscere e pensare la verità sulla persona Per Mounier, a onor del vero, la questione è ancor più radicale. È questione di metodo nel conoscere la realtà, nell’accostarla10. Per trovare un nuovo umanesimo occorre lasciare da parte il metodo idealista che, sulla scorta dell’insegnamento di Cartesio, presume di accedere ad un sapere certo e scientifico movendo dal pensiero o dalle idee per giungere alla realtà. Una via di uscita può essere rappresentata dal realismo: un metodo di filosofare e di conoscere la realtà che vede convergere, pur con accentuazioni diverse, intellettuali cattolici del calibro di Jacques Maritain e di Étienne Gilson11. 9

Cf. ivi, p. 284 (Œuvres, I, p. 309). Merita qui segnalare l’importante studio di V. MELCHIORRE, Il metodo di Mounier ed altri saggi, Milano, Feltrinelli, 1960. 11 Sulle profonde ed acute riflessioni di quest’ultimo sul metodo realista ci permettiamo di rinviare a M. TOSO, Fede, ragione e civiltà. Saggio sul pensiero di Étienne Gilson, Roma, LAS, 1986, specie pp. 47-61. 10

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Secondo il metodo realista, la giustificazione della conoscenza avviene movendo da un’esperienza cognitiva originaria che, nel suo schematismo fondamentale, non è mai l’esperienza di uno stato, di uno specchio neutro, di una pura soggettività conoscente. È sempre esperienza di una coscienza in atto, quale unità di soggetto conoscente ed oggetto conosciuto del quale l’esistenza non è da dimostrare. Se nel metodo idealista si pone come punto di partenza del filosofare l’analisi e la fattività del pensiero, nel metodo realista il pensiero è scoperto nel reale analizzando la conoscenza con cui si possiede un oggetto. Il realismo è «conoscenza che nasce dalla conoscenza di sé solo all’interno dell’essere», afferma Gilson12. Il metodo che Mounier sceglie per conoscere adeguatamente la persona e la realtà è nella stessa linea anti-idealista. Ecco cosa afferma in Il personalismo: «[…] io esisto soggettivamente, io esisto corporalmente sono un’unica e medesima esperienza. Non posso pensare senza essere, né essere senza il mio corpo: per mezzo suo io sono esposto a me stesso, al mondo, agli altri, è per mezzo suo che sfuggo alla solitudine di un pensiero che sarebbe soltanto il pensiero del mio pensiero»13. Mounier esplicita ed integra la riflessione gilsoniana sul realismo metodico, evidenziandone maggiormente la dimensione esistenziale, psicologica, relazionale e storica. L’esperienza originaria da cui si muove la conoscenza implica sempre la coscienza dell’essere situati in un corpo, in una storia, in un mondo. «Io – scrive Mounier – non sono affatto un cogito aereo e sovrano, librato nel cielo delle idee, ma sono quest’essere greve di cui una sola greve espressione definirà il peso: io sono un io-quiadesso-così-fra questi uomini-con questo passato»14. 12

E. GILSON, Le réalisme méthodique, Paris, Téqui, 1935, p. 84. E. MOUNIER, Le personnalisme, Paris, P.U.F., 1949, trad. it.: Il personalismo, G. Campanini-M. Pesenti (edd.), Roma, AVE, 2004 (dodicesima edizione riveduta e ampliata), p. 51. 14 E. MOUNIER, Qu’est-ce que le personnalisme?, Paris; Seuil, 1947, trad. it.: Che cos’è il personalismo?, Torino, Einaudi, 1948, p. 31. 13

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Il metodo mounieriano, allora, è definito nel suo dinamismo – trovandovi la legge del suo attuarsi e della sua perenne fecondità – proprio nell’esperienza originaria dell’essere qui-adesso-con, del cogliersi dell’io come soggetto sempre nell’oggetto. In forza di una riflessione realista, l’esperienza prima dell’ente esistente – esperienza pre-filosofica o pre-metafisica –, si traduce progressivamente in conoscenza problematizzante, esplicitante, sistematizzante. Disvela l’essere stesso dell’uomo come essere nella relazione, nella trascendenza: «La persona – afferma Mounier, passando dalla fenomenologia alla metafisica dell’essere umano – non è l’essere, è movimento d’essere verso l’essere, e non è consistente che nell’essere cui aspira»15. In questa definizione della persona si trova descritta sinteticamente l’esperienza originaria e realista dell’essere umano, su cui si ritornerà per coglierne le conseguenze sul piano dell’elaborazione di un nuovo umanesimo. Per ora è importante sottolineare che il metodo di riflessione mounieriano, proprio perché si attua all’interno dell’esperienza cognitiva originaria della persona – esperienza che ne rispecchia la struttura d’essere –, si caratterizza, conseguentemente, come movimento incessante del pensiero in cerca dell’Essere assoluto presente nel tempo. L’esperienza dell’essere nella relazione che è la persona, del suo dinamismo di trascendenza verso l’alterità, sia orizzontale che verticale, diviene in certo modo esperienza di Dio, della Trascendenza per eccellenza. In particolare, il metodo di riflessione si modella naturalmente come dialettico, perché alimentato dall’analisi della presenza e dell’assenza dell’Assoluto nel relativo. Ogni ente, ogni persona partecipa dell’Essere, ne contiene la presenza e, per ciò stesso, chiama a scoprirla. Se il pensiero deve seguire il moto con cui la persona cerca di trascendersi in ciò che non è, superandosi verso un più di

15

E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 105 e ss.

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essere, non potrà mai possedere una conoscenza esaustiva della verità. Il pensiero deve via via integrare vari «punti di vista» con altri «punti di vista». Cadrebbe in errore se riducesse la verità sulla persona ad un punto di vista, rinchiudendola in un aspetto particolare della sua esistenza. Poiché la persona è essere dinamico e storico non è, dunque, possibile possederne una verità compiuta. Le uniche verità a noi possibili, sottolinea Mounier, sono sempre ‘monche’, ‘impure’16, bisognose d’integrazione continua. In definitiva, la conoscenza della persona e del mondo non può che rispecchiarne l’essere complesso, cangiante, in movimento. È progressiva, sulla base di acquisizioni e di certezze precedenti. L’intelligenza umana poggia inevitabilmente sull’ambiguità che corre dal non essere all’essere e di nuovo al non essere, in un circolo che non è mai chiuso, sia sul piano della trascendenza orizzontale (verso l’altra persona) che verticale (verso Dio). Avvalendosi della metafisica di Tommaso d’Aquino, ma anche dell’apporto di sant’Agostino, Mounier descrive la persona come un’essenza reale, non astratta, essenza di un atto d’esistenza. L’essenza reale nella persona è termine o fine costitutivo dell’esistenza. Come tale, qualifica la persona in senso dinamico, la muove dall’intimo. Per Mounier, come per Tommaso d’Aquino, nella persona non esiste una natura statica. La natura va intesa come fine ultimo o principio primo di una tensione d’essere. Poggiando sull’esperienza cognitiva di tipo tomista, Mounier supera la visione antropologica dell’esistenzialista Jean-Paul Sartre, per il quale la persona è dotata di un dinamismo che, di coscienza del niente in coscienza del niente, è diretto verso il vuoto. La supera, perché la tensione verso l’essere che costituisce la persona nel suo intimo si attua in seno all’essere. Il plus-être cui l’uomo tende è una possibilità che egli trova e a cui risponde. Non se la dà. Se così fosse, il suo divenire non avrebbe senso.

16

Cfr. E. MOUNIER, Che cos’è il personalismo?, cit., p. 22.

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5. La fecondità del metodo di Mounier rispetto a nuovi personalismi ed umanesimi Approfondendo il metodo indicato da Mounier, si può comprendere quanto esso sia prezioso per la nostra epoca in cui, dopo il crollo dei collettivismi socialisti, ritorna l’individuo e si è alla ricerca di nuovi personalismi ed umanesimi. La sua decisività appare soprattutto perché non è aprioristico, ma anche perché consente di accedere ad una verità integrale dell’uomo, ossia verità che, pur non essendo esaustiva, concerne tutte le sue dimensioni costitutive, passando dal fenomeno al fondamento, integrando l’apporto di diversi gradi del sapere, come direbbe Jacques Maritain, distinguendoli ed unendoli allo stesso tempo17. Il concorso di diversi gradi del sapere, da quello che è legato al fenomeno a quello che giunge al fondamento, danno ragione della persona come «volume totale dell’uomo»18, ossia come soggetto che non può essere ridotto né all’io empirico né all’io ontologico, ma li comprende entrambi come necessariamente complementari. Consente di cogliere la persona come unità permanente, inclusiva sia della propria coscienza che dell’insieme dei suoi atti: un’unità che trascende tutte le visioni che se ne possono avere19. È unità, sì, descrivibile razionalmente, ma è anche ineffabile, per quella trascendenza che la connota e la apre alla Trascendenza divina per partecipazione. Il pregio fondamentale del metodo filosofico mounieriano – pregio che lo rende a noi indispensabile – è che esso riporta sempre il pensiero all’esperienza originaria del nostro essere in situazione. Ciò facendo, suscita un personalismo che, com’è stato sottolineato dallo stesso Mounier, non può essere scambiato con uno schema intellettuale che rimane intatto attraverso la storia. Il segreto della pe17

Cfr. J. MARITAIN, Les degrés du savoir, Paris, Desclée de Brouwer, 1934. E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 90. 19 Cfr. ibidem 18

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renne attualità sia del metodo filosofico sia del personalismo ad esso connesso risiede nel fatto che associano la fedeltà ad un determinato assoluto umano con un’esperienza storica progressiva20. Detto altrimenti, il metodo mounieriano, per il suo continuo commisurarsi alla persona concreta, situata storicamente, genera un personalismo sempre aperto a revisioni e a perfezionamenti. In questo senso, muoiono i personalismi e ritorna la persona. Il rapporto circolare ed incessante fra soggetto ed oggetto, fra teoria e prassi, non è mai definitivo. Proprio per questo, come ha sostenuto Paul Ricoeur, non bisogna pensare al personalismo – ma lo stesso potrebbe essere ripetuto con riferimento ad ogni umanesimo – come ad un’esperienza filosofico-culturale conclusa. Il personalismo è più davanti a noi che dietro di noi, egli ebbe a dire in un’intervista ad Attilio Danese21. In ciò Ricoeur ricalcava Mounier, il quale era solito ripetere che il personalismo è «un’avventura aperta, fatta più di avvenire che di passato»22. Secondo il metodo mounieriano le dottrine personaliste non potranno mai sostituirsi all’esperienza delle persone concrete, alla loro realtà storica. Sarà sempre necessario ‘ritornare’, tramite reiterati tentativi di conoscenza e di azione, che più si approssimano, almeno tendenzialmente, alla verità della persona realmente esistente e alla sue esigenze profonde. Così, i vari personalismi invecchiano, si fossilizzano e muoiono, ma ne nascono di nuovi, perché è la persona vivente che l’impone23. Il pensiero e l’azione personalisti trovano senso ed efficacia qualora si commisurino, anzi, qualora siano ‘misurati’ dalla persona concreta o reale, nelle sue componenti permanenti e mutevoli. 20

Cfr. MOUNIER, Che cos’è il personalismo?, cit., p. 14 (Œuvres, III, p. 182). Cfr. A. DANESE, Conversazione con Paul Ricoeur, «Nuova Umanità», 27, 1983, p. 106. 22 Cfr. E. MOUNIER, Œuvres, III, p. 229. 23 Cfr. P. RICOEUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, «Esprit», 1, 1983, pp. 113-119. 21

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A noi, alla ricerca di un nuovo umanesimo, l’esperienza filosofico-culturale mounieriana e la stessa riflessione che il filosofo francese aveva iniziato su di essa insegnano che si può vincere la menzogna sull’uomo e sulla storia se accanto al sapere empirico si accetta quello metafisico e pratico, ossia se si supera quello antiquato, ottocentesco, che riduce la conoscenza al sapere razionalistico e fenomenico. La verità sull’uomo è accessibile se non ci si aggira tra semplici cose, spogliate di ogni mistero, ma se si scende in profondità, giungendo all’essere come atto d’esistere. In particolare, non può essere da noi ignorato l’ammonimento di Mounier, allorché si fa prepotente un individualismo smaccato, stigmatizzante lo spirito ‘borghese’ che pervade tutto, persino la percezione di sé. L’atteggiamento borghese fa perdere il senso dell’essere e, con esso, il senso dell’amore, dell’avventura, della sofferenza stessa. Sostituisce i valori di carattere esteriore con quelli di santità. Spersonalizza il soggetto, rendendolo vittima della «metafisica della solitudine integrale», la sola che rimane quando si è persa la verità, il mondo e la comunione24. Il metodo mounieriano se non garantisce la verità completa – nel senso di definitiva – sull’uomo, consente di accedere a qualcosa di più dei «brandelli di verità» di cui parlano Hans Kelsen e Karl Popper, poggianti su un vago senso morale. Si tratta di una verità assoluta, per un verso, e relativa, per un altro, ossia una verità dotata di fondamento razionale oggettivo ma perfettibile. La verità metafisica sull’uomo mette in evidenza che la libertà di cui questo è dotato è posta di fronte all’essere come dato e come possibilità. Infatti, la libertà dell’uomo è di una persona, di questa persona, così costituita e situata in se stessa, nel mondo e di fronte ai valori25, perché poggiante su un essere dinamico, aperto all’esse-

24

Cfr. E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., 1955, p. 57 (Œuvres, I, pp. 158-159). 25 Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 97.

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re di più, al non essere e a Dio. In quanto libertà di un essere, che è costitutivamente aperto alla trascendenza sia orizzontale che verticale, non è libertà di indifferenza nei confronti del vero e del bene, come l’hanno intesa e la concepiscono gran parte dei liberali e degli spiriti anarchici. Esprime, invece, una struttura d’essere che le è sottesa e la orienta. È libertà ‘chiamata’26. Possiede una ‘vocazione’ alla trascendenza, verso cui l’essere della persona è proteso. Grazie a questa vocazione della libertà alla trascendenza, il personalismo e l’umanesimo verso cui conduce il metodo mounieriano sono caratterizzati da una libertà che non è per il nulla. Essa è per l’essere, il bene, la trascendenza, la comunione, Dio. Si è qui di fronte ad una prospettiva filosofica di grande fecondità culturale. Infatti, una libertà orientata al vero e al bene, destinata a legarsi ad essi, ossia a passare dallo stato di «libertà di scelta» a quello di «libertà di adesione»27, può aiutare gli umanesimi odierni – ereditati dall’epoca moderna e impliciti nelle nuove teorie liberali – a superare le aporie che li inficiano alla radice. Quando la libertà personale è separata dalla libertà pubblica, come anche la laicità dalla religione, la politica e la stessa laicità statale sono consegnate al non senso, al vuoto etico. La discontinuità tra libertà individuale e libertà sociale è postulata dalle nuove teorie liberali – siano esse neocontrattualiste, neo26 «La nostra libertà – scrive Mounier – è la libertà di una persona situata, è anche la libertà di una persona valorizzata. Io non sono libero solamente per il fatto di esplicare la mia spontaneità, ma divengo libero se indirizzo questa spontaneità nel senso di una liberazione, cioè di una personalizzazione del mondo e di me stesso. Dal sorgere dell’esistenza fino alla libertà vi è dunque posto per una nuova istanza, la quale separa la persona implicata, ai margini dello slancio vitale, dalla persona che si sviluppa attraverso i suoi atti in una sempre maggiore consistenza della sua esistenza individuale e collettiva. Così io non dispongo arbitrariamente della mia libertà, anche se il punto in cui mi congiungo ad essa è nascosto nel mio intimo. Ma la mia libertà non scaturisce semplicemente, essa è ordinata, o, meglio ancora, chiamata» (Ivi, pp. 99-100). 27 Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, cit., pp. 101-102.

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kantiane, neoutilitariste o fondate sul discorso –, perché alla loro base sta la concezione della libertà di un soggetto portatore di interessi, ma svincolato da qualsiasi dato normativo previo. Nel decidere moralmente, questi non sarebbe mosso da una naturale inclinazione al vero e al bene. Ciò significa che il soggetto decide allora in modo radicale sul tipo di morale da adottare nella vita pubblica, indipendentemente dall’inclinazione all’ordine morale. Questo pregiudica la libertà politica, chiamata a realizzarsi – sempre secondo le suddette teorie – come libertà che deve aderire, tramite contratto o convenzione o dialoghi neutrali, a leggi di massima universalizzazione, che non hanno alcun radicamento nel bene voluto dal singolo, perché questo è irrimediabilmente bene soggettivistico28. Per un altro verso, l’esperienza che da Grozio ad oggi ha voluto teorizzare un’etica per lo Stato etsi Deus non daretur, lasciandosi alle spalle qualsiasi nozione di metafisica e qualsiasi verità oggettiva, sta consumandosi in una laicità che tende ad essere vuota di contenuti morali29. È il caso della lotta di intolleranza nei confronti dei 28

Mounier stigmatizza lucidamente il fallimento della discontinuità tra etica personale ed etica pubblica. Il soggetto individualistico partorisce solo un’etica pubblica utilitaristica. È impossibile che individui intrinsecamente e totalmente corrotti possano vivere un’etica pubblica sostanziata di giustizia e di imparzialità. «Si è spesso messo in rilievo – osserva Mounier – il divorzio fra l’uomo pubblico e l’uomo privato. Ma costoro, secondo la concezione comune, sono già due mostruosità. L’uomo privato, modello borghese, è l’individualità ripiegata sulle sue proprietà, sulle sue simulazioni, sulla sua inviolabilità impura, sulla sua vita privata fatta non d’amore ma di rifiuti: il privato è ciò di cui si privano gli altri. L’uomo pubblico, fatto sul medesimo stampo, è l’individualità che fa pompa e commercio delle sue apparenze, dei suoi compromessi, delle sue menzogne, che ha rapporti con coloro che offrono di sé la medesima immagine, e sfuggono alle inquietudini e agli impegni con le stesse forme di chiassosa ostentazione; l’uomo pubblico è debole con se stesso, debole con gli altri, oppure sconfitto nell’intimo, insolente al di fuori; e per darsi un contegno compie tutti gli stessi generici gesti sociali» (E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., pp. 117-118). 29 Su questo si veda M. TOSO, Per una laicità aperta, Caltanissetta, Lussografica, 2002.

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crocifissi e di altri segni religiosi nei luoghi pubblici, quali ad esempio le scuole e i tribunali. Una laicità che perde il riferimento a Dio si trova ad essere, gradualmente, orfana dell’etica e diviene senescente, popolata di contraddizioni. Ora, per superare la deleteria discontinuità tra etica personale ed etica pubblica occorre tornare, come suggerisce Mounier, a un soggetto che è costituito essere unitario perché proteso al vero e al bene perfetti, ossia a Dio. Solo così si può essere dotati di una libertà attraversata da un criterio normativo immanente, che le conferisce unità nelle sue varie concretizzazioni sia individuali che sociali30. Così, sempre alla scuola di Mounier, si deve pensare all’etica politica come bisognosa di un fondamento, ossia quale è dato dalla legge morale, che riceve vigore dall’orientamento della persona al divino. Grazie alla tensione dell’uomo verso Dio, l’etica politica trova la sua consistenza. Il senso di assoluto che abita nello spirito umano costituisce il metro di misura del politico, nonché la ragione del suo trascendimento. Ciò che rende ogni persona e ogni libertà dotate di un’inclinazione al vero, al bene e a Dio è la capacità nativa dell’uomo di accedervi. L’uomo, afferma Mounier, più che per il lavoro è stato creato per cercare la verità e contemplarla31. In forza della sua co30

«Totalitari nella nostra intenzione ultima, noi – scrive Mounier – non lavoriamo per passare il tempo, né per un interesse, né per un piacere, ma perché muoviamo verso la verità e lavoriamo per la comunità universale, in cui nessuno né alcun aspetto della verità verrà trascurato: muoviamo verso Dio, anche se a molti Dio è ignoto. Un uomo non è completamente uomo se non è sempre vigile a unire tutti i suoi atti e tutti i suoi pensieri nell’unità d’un medesimo scopo, e animato dal costante desiderio di allargare la sua comunione man mano che si avvicina alla meta» (E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 145). 31 «L’uomo è creato prima di tutto per cercare la verità del mondo; né lui né le sue facoltà sono state create per domare la materia o trarne un benessere. Dietro le rivendicazioni e le impazienze del lavoro, vi è sempre il rimpianto e la speranza della contemplazione. Alle prese con la materia, il lavoro non ha il compi-

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stitutiva capacità di conoscere la verità, ogni persona è resa partecipe – indipendentemente dalla sua etnia o razza, dalla sua nazione o religione – di una universale ricerca del vero bene umano, che consente di vedere le molteplici culture dei popoli unificabili in una difficile ma non impossibile convivialità. Le fondazioni etiche della vita sociale sono legittimamente plurali. Esse, peraltro, possono offrire una piattaforma di valori condivisi, sul piano nazionale ed internazionale, proprio perché sono espressioni della comune ricerca della verità. Solo all’interno di una simile ricerca è possibile quell’universalismo morale concreto, non astratto, avente radici in ogni uomo e in ogni donna, che costituisce l’anima etica dei diritti e della democrazia, quali idee non esclusivamente occidentali32. 6. Umanesimo relazionale e civiltà dell’amore Oggi con l’oblio della dimensione ontica della persona è necessario recuperarne l’aspetto comunionale e comunitario giacché, come già rilevato, essa spesso è ridotta a fascio di istinti, a macchina comunicante, a libertà incondizionata, vuota di contenuti etici. L’uomo anonimo dell’individualismo, senza passato, senza legami, senza famiglia, senza ambiente, senza vocazione – simbolo matematico predisposto a giochi disumani, di cui parlava Mounier – non è realtà estranea alla nostra cultura. to di spiritualizzarla; il lavoro, che è la seconda vocazione dell’uomo, non è che una forma contingente della prima» (Ivi, p. 65). 32 In una delle sue ultime pubblicazioni Amartya SEN (cfr. La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione degli altri, Milano, Mondadori, 2004) ha cercato di mostrare che la democrazia è un valore universale con ragionamenti plausibili, ma che meriterebbero una maggior fondazione, evidenziando come la democrazia è di tutti non solo perché nelle varie parti del mondo sono reperibili tracce di forme di governo basate sull’esercizio del diritto di voto, nonché di libera e responsabile discussione pubblica di temi politici, ma anche perché la struttura d’essere – ontologica e morale – delle persone ne consente la fio-

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Per Mounier, come per noi, se si intende creare un mondo migliore ove le persone fioriscono secondo libertà e responsabilità, è urgente porre in atto un duplice rinascimento: e personalista e comunitario. Rispetto al neoindividualismo utilitaristista e mercantile dobbiamo attuare il primo. Rispetto al neocomunitarismo che tende a mutuare la dignità etica delle persone dal contesto socio-culturale in cui vivono, dimenticando l’autonomia del soggetto morale; rispetto a concezioni socio-sistemiche della convivenza, che enfatizzano l’ambiente sociale rispetto all’individuo e alla sua libertà, dobbiamo proporre il secondo. Il rinascimento della persona, ci ricorda Mounier, passa attraverso il rinascimento comunitario, e viceversa. E il rinascimento comunitario, su cui ora ci fermiamo, ha la valenza di umanesimo relazionale nei confronti della civiltà dell’amore. Ebbene, lo sguardo di Mounier è proprio puntato su quest’ultima, come prospettiva storica, sintetica ed ideale, che deve pervadere i popoli e unificarli in un’unica famiglia. La prospettiva di simile civiltà è ereditata dall’esperienza di fede del pensatore francese e dalla riflessione che egli conduce sull’esperienza soprattutto interiore dell’esistenza umana. L’impegno intellettuale del credente Mounier è caratterizzato dall’intento costante di enucleare, con tenacia e metodicità, le vie culturali – ma non solo – che ne consentono l’affermazione sulla faccia della terra. In particolare, pensa che il grande sogno della civiltà dell’amore possa avverarsi grazie ad un personalismo comunitario che ritiene essere una vera e propria filosofia, non un semplice atteggiamento dello spirito o un sistema dottrinale ingessato e concluso. È filosofia, perché implica la creazione di un ordine nel pensare33. ritura. 33

«[…] il personalismo – scrive Mounier – non rifugge da una sistemazione. Perché è necessario un certo ordine nei pensieri: concetti, logica, schemi sintetici non sono solamente utili a fissare e a comunicare un pensiero che, senza di essi,

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Il personalismo comunitario – inteso come schema culturale non aprioristico, scoperto con metodo realista, grazie alla fede e alla ragione, come dinamismo ontologico ed etico germinale dell’esistenza umana – dovrebbe aiutare la convivenza dei popoli a realizzare la propria vocazione d’essere, vocazione alla «comunione di persone», pur contrastata da mille ostacoli. Una comunità di popoli non si realizza spontaneamente. La comunicazione di cui è capace ogni persona e ogni popolo, l’insegna l’esperienza quotidiana, subisce molti scacchi. L’essere-persona non è un idillio continuo da mattina a sera34. Mounier, che definisce la persona come un essere strutturalmente diretto verso gli altri, è perfettamente cosciente della difficoltà dell’impresa. A fronte di un mondo conflittuale e in frantumi, non esita a domandarsi – e altrettanto potremmo fare noi che viviamo nella società della comunicazione globale, la quale paradossalmente soffre di solitudini aggravate –: «Ma è possibile comunicare gli uni con gli altri?». «Non esistono più – constata desolatamente – né uni né altri; non vi è più un prossimo, non vi sono più simili. Vi sono solo delle coppie tetre e malinconiche, e ognuno sta a fianco del compagno in adesione volgare e distratta»35. «Molti uomini – annota sempre Mounier – trascorrono tutta la vita senza conoscere una sola vera comunione. Molti altri realizzano solo una, due, tre persone collettive. Ben pochi arrivano a un amore vero, a una famiglia vera, a un’amicizia sola, ma vera»36. «Non vi sono mai state tante società – conclude sconsolato – ma mai è esistita meno d’oggi una comunità»37.

si dissolverebbe in intuizioni opache e solitarie; ma servono a scavare intuizioni nelle loro profondità: sono strumenti di scoperta e, nello stesso tempo, di esposizione. Proprio perché fissa delle strutture, il personalismo è una filosofia e non un semplice atteggiamento [il corsivo è nostro]» (E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 28). 34 Cfr. ivi, pp. 63-65. 35 E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., 1955, p. 103. 36 Ivi, p. 117.

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Tuttavia, ogni persona è chiamata a vivere nella comunione-comunità, per struttura d’essere, per legge di vita: la persona non si realizza che nella comunità; l’esperienza comune di ogni vita intima c’insegna che la persona si compie solo dimenticandosi, dandosi; l’esperienza interiore cristiana percepisce, a sua volta, che la pienezza umana si conquista, paradossalmente, abbandonandosi totalmente all’Altro, che è Dio. Il personalismo ha, dunque, il compito, arduo ma non impossibile, di contribuire a sviluppare il potenziale comunitario delle persone e delle varie collettività, superando incomunicabilità ed egoismi. Detto altrimenti, la comunità non è realtà già compiuta. Essa è da costruire in continuazione, facendo leva su quei germi positivi insiti nelle persone e nei solchi della storia. Con riferimento alla vocazione comunitaria delle persone e delle società, occorre evitare, secondo Mounier, la retorica vuota e la superficialità. L’uomo non può essere salvato con qualsiasi ‘mediazione’ comunitaria. Se la persona si realizza nella comunità, questo non vuol dire che gli individui debbano perdersi nell’impersonale. La comunità, che consente alla persona di raggiungere il proprio compimento, è costituita essenzialmente, ma non solo, da una «comunione di persone»: non vanno, infatti, dimenticate le istituzioni, le strutture, la religione, gli ethos. La vera comunità è, anzitutto, un noi di persone. Non è un noi-massa o società impersonale, cameratesca, consortile. Neppure è un noi etnico, razziale, vitale, giuridico-contrattuale. È molto di più. È una «persona di persone»38. Ciò che la unisce è l’amore reciproco, disinteressato, oblativo. La dinamica dell’amore fa della comunità un ambiente ove l’altro, ogni altro, è voluto e amato per se stesso, come un tu, ossia come un soggetto libero e responsabile, relazionale, aperto alla Trascendenza. «Tutte le esperienze – sottolinea Mounier, evidenziando il primato ontologico ed etico della persona sulla società e sulla comunità – ci riportano allo stesso punto. È impossibile arrivare alla co37

Ivi, p. 101.

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munità evitando la persona, è impossibile far poggiare la comunità su altra base che non siano alcune persone solidamente costituite. Il noi segue l’io o, per meglio dire, poiché non si costituiscono l’uno indipendentemente dall’altro, il noi deriva dall’io, e non potrebbe precederlo. […] Un noi organico, il noi, realtà spirituale conseguenza dell’io, non sorge da un annullamento delle persone, ma dal loro compimento»39. Più precisamente: il noi comunitario incomincia ad essere «solo il giorno in cui ciascuno dei membri scopre in ciascuno degli altri una Persona e come tale la tratta, e come tale impara a conoscerla. Esso si attua come comunità solo il giorno in cui ognuna delle singole persone si preoccupa prima di tutto di sollevare tutte le altre al di sopra del proprio livello verso i valori particolari della propria vocazione, e si migliora e si innalza insieme con ciascuna di quelle»40. Il noi comunitario, dunque, si forma gradualmente, con l’affermarsi progressivo dell’amore che unifica le persone in una relazionalità di mutuo potenziamento d’essere. Ma, osserva Mounier, una comunità ove vige pienamente l’amore non è di questo mondo. Essa esiste solo in Dio, comunità d’amore, e nella comunione dei santi. Trova degli anticipi e realizzazioni parziali nella Chiesa – partecipazione vertice alla vita comunitaria della Trinità, – nelle comunità personali, nel legame coniugale, nell’unione familiare, nell’amicizia41. In definitiva, il personalismo comunitario è un universale concreto, ossia un ideale di vita relazionale che, inscritto nella struttura d’essere delle persone, create ad immagine somigliantissima di Dio, è destinato a svilupparsi come forma perfettiva delle varie società, attingendo energie dall’alto, dalla comunità ecclesiale, casa e scuola di comunione, in quanto umanità unificata nel Corpo mistico del 38

Ivi, p. 129. Ivi, p. 110. 40 Ivi, p. 111. 39

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Cristo, vivente partecipazione della comunità trinitaria. Ogni società, unione di persone, è chiamata ad incarnare, il più possibile, l’ideale della relazionalità di comunione e di mutuo potenziamento d’essere del noi comunitario, avvicinandosi progressivamente al suo esemplare Trascendente. È proprio sulla base di questa prospettiva di vita comunitaria aperta alla trascendenza, in senso orizzontale e verticale, che occorre ripensare all’organizzazione dei vari ambiti della socialità: famiglia, società civile, economia, società politica nazionale ed internazionale. Essi devono divenire – come, peraltro, affermerà più tardi l’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II42 – forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo ove l’uomo è aiutato a trascendere se stesso e a vivere l’esperienza del dono di sé e della formazione di un’autentica comunità, orientata al suo destino ultimo che è Dio. 7. Il personalismo comunitario anima dell’economia e della politica come relazionalità di comunione e di mutuo potenziamento da realizzare nell’economia e nella politica Amartya Sen, come anche la dottrina sociale della Chiesa, più volte ci ha ricordato che per la crescita globale delle persone non basta mettere a disposizione più ampie risorse materiali; occorre anche creare le condizioni della libertà, aumentando la capacità dei 41

Cfr. ivi, 130. Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Lettera enciclica Centesimus annus (01.05.1991), n. 41 in AAS 83 (1991) 793-867. 43 Cfr. ad es. A. SEN, La diseguaglianza. Un riesame critico, Bologna, Il Mulino, 1994; A. SEN, Globalizzazione e libertà, cit.. Per alcune considerazioni che mettono in evidenza luci ed ombre dello stimolante pensiero del noto premio Nobel dell’economia si rinvia a M. TOSO, Welfare society. La riforma del welfare: l’apporto dei pontefici, Roma, LAS, 2003, pp. 526-527; ID., Democrazia delle regole o dei valori? La dimensione antropologica ed etica della democrazia, in 42

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singoli di compiere scelte43. Anche Mounier era attento a questo aspetto. Qui, in particolare, ci fermiamo a considerare alcune condizioni che egli propone relativamente all’ambito economico e politico. Il personalismo comunitario sollecita la società economica, rileva Mounier, a strutturarsi secondo principi e orientamenti diametralmente opposti rispetto a quelli dell’economia capitalistica, quali ad esempio: a) assenso alla libertà d’iniziativa economica e di mercato, ma esercitate entro un quadro giuridico certo – libertà, dunque, attraverso la «costrizione istituzionale»44 – e orientate dai vari soggetti sociali al bene comune. Si deve, cioè, puntare alla realizzazione di un’economia sociale, prospettiva riconfermata da Giovanni Paolo II nella già citata Centesimus annus (cf. nn. 52 e 53); b) economia a servizio dell’uomo. Ossia: economia che, mentre produce beni e servizi necessari a soddisfare quantitativamente e qualitativamente i bisogni delle persone, non conculca la dignità dei lavoratori e i loro diritti connessi; orienta le imprese non solo al legittimo e giusto profitto, ma anche a realizzarsi come comunità di persone responsabili nei confronti di se stesse, della famiglia, della società e – aggiungeremmo noi oggi – dell’ambiente. L’economia al servizio della persona riconosce il primato del servizio sociale sul profitto; c) primato del lavoro sul capitale e, quindi, lavoro per tutti quelli che ne sono capaci;45 d) democrazia economica, ovvero caratterizzata dall’universalizzazione della proprietà (nei suoi vari significati); da un’organizzazione pluralista di questa; da entità produttive che coinvolgono, il più possibile, i lavoratori nella gestione, senza che sia perduto il centro decisionale; dalla regolamentazione delle multinaziona-

«La Società» XIV/4-5, 2004, pp. 572-574. 44 Cfr. E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 239.

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li, della speculazione e del mondo degli affari. Con riferimento a questo contesto, Mounier parla di primato della persona sviluppantesi in comunità organiche. Si tratta di un principio regolatore che deve propiziare un regime economico né statalista né individualistico o anarchico, specie «con la creazione di comunità organiche in cui si inseriscano la vita privata, la vita pubblica, la professione».46 Se per noi è inevitabile riscontrare come il personalismo comunitario mounieriano, a fronte della nuova organizzazione dell’economia, necessita di essere rivisto ed aggiornato nelle sue specificazioni storiche, alcune delle quali risultano piuttosto radicali, va anche rilevato che, stante l’attuale orientamento neoliberista, esso conserva una carica riformatrice insospettabile. In particolare, potrebbe concorrere efficacemente nel decolonizzare il nostro immaginario collettivo, che appare sempre più dominato da prospettive che concedono il primato alla finanza e al profitto rispetto all’economia reale sino a destrutturarla; come anche rispetto al lavoro e alla politica, subordinandoli ai templi degli affari. «Di fronte alla globalizzazione che – scrive Serge Latouche, sociologo dell’economia – rappresenta il trionfo planetario del tutto-èmercato, bisogna concepire e promuovere una società nella quale i valori economici smettano di essere centrali (o unici). L’economia deve essere rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non come fine ultimo»47. Con riferimento alla personalizzazione della società economica, l’ateo Latouche giunge a proporre linee di soluzione analoghe a quelle del credente Mounier. Non si tratta di distruggere l’economia in quanto tale o di disprezzare lo sviluppo. Sarebbe un’assurdità, perché economia e libero mercato sono indispensabili. Il problema è quello di vincere l’ideologia dello ‘sviluppismo’ consumista e di45

Cfr. ivi, p. 251. Cfr. ivi, p. 241. 47 S. LATOUCHE, Decolonizzare l’immaginario. Il pensiero creativo contro l’e46

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struttore, mercificante le persone e il mondo. Lo si può fare, creando società conviviali a livello locale – quel locale che si continua a distruggere e che spesso appare già perduto – potenziando le piccole iniziative che interpretano lo scambio non in termini puramente mercantili, bensì sulla base della solidarietà e del dono. Mounier parla esattamente di un’economia «decentralizzata fino alla persona» che, con la creazione di spazi di ‘organismi comunitari’, le garantiscono spazi di libertà rispetto sia a deregolamentazioni estreme del mercato che ad apparati troppo accentrati48. Per cambiare la logica economica e politica attuale occorre, in sostanza, sostiene il Latouche, rafforzare i legami sociali locali, non demonizzare la logica del dono, perché la loro scomparsa determina inevitabilmente l’impoverimento economico. Occorre, cioè, offrire maggior spazio ad iniziative di nicchia, di non profit, di commercio equo e solidale. La loro logica può fecondare e sollecitare il mercato a una trasformazione in senso umanistico49. Parimenti, agendo sulla macroeconomia, va promossa una tassa sulle transazioni finanziarie50. Inoltre, si dovranno porre regole e limiti per il mercato e la concorrenza, senza ucciderli, affinché siano ‘equi’51. Interessante è anche la proposta che, secondo il principio di sussidiarietà, «ogni produzione che si può fare su scala locale, per bisogni locali, deve essere realizzata localmente». «Un tale principio riposa sul buon senso e non sulla razionalità economica»52, riconosce il Latouche, che si ispira a Yvonne e Michel Lefebvre53. Non avrebbe infatti senso guadagnare pochi spiccioli su un oggetto, quando bisogna poi contribuire con cifre notevoli, attraverso oneri diversi, alla sopravvivenza di una frazione di popolazione che non conomia dell’assurdo, Bologna, EMI, 2004, p. 10. 48 Cfr. E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., pp. 140-141. 49 Cfr. S. LATOUCHE, Decolonizzare l’immaginario, cit., p. 129. 50 Cfr. ivi, p. 134. 51 Cfr. ivi, p. 136. 52 Cfr. ivi, p. 137. 53 Y. MIGNON LEFEBVRE-M. LEFEBVRE, Les patrimoines du futur, les sociétés

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può più partecipare alla produzione di quell’oggetto. Anche per Mounier la vita nuova, quella comunitaria, si espande dal basso, dalla prossimità alle persone concrete. Una vita comunitaria estesa sul piano mondiale presuppone il tirocinio del tu, della relazionalità solidale sul piano locale. «Al di là delle società di cui ritengo di far parte – scrive Mounier – vi sono gli altri, tutto il mondo, l’Umanità. Non facciamoci illusioni. Forse solo colui che è penetrato abbastanza profondamente in Dio è in grado di amare tutti gli uomini, quelli che conosce e quelli che non conosce, ciascuno per sé, e se occorre anche contro la loro volontà. Tregua d’eloquenza. Io non amo l’umanità; io non lavoro per l’umanità. Amo alcuni uomini e l’esperienza che ne traggo è così generosa che, grazie a quella, mi sento capace di darmi a ogni prossimo che traversi il mio cammino»54. Mounier pensava alla riforma della vita politica proprio mediante la diffusione a raggiera di «isole» di personalismo comunitario, capaci di lievitare nei tempi lunghi tutta la società55, quasi anticipando Alasdair MacIntyre, che invece parla di potenziamento delle «comunità delle virtù»56. Ciò lo induceva a guardare in modo particolare alla società civile, ai suoi aspetti antropologici ed etici e a fer-

aux prises avec la mondialisation, Paris, L’Harmattan, 1995. 54 E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 118. 55 Cfr. E. MOUNIER, Manifeste au service du personnalisme, Paris, Montaigne, 1936, trad. it.: Manifesto al servizio del personalismo, Bari, Ecumenica, 1975, p. 253. 56 Circa la realizzabilità di comunità di virtù nella società moderna si veda A. MACINTYRE, After Virtue. A Study in Moral Theory, Notre Dame/IN, University of Notre Dame Press, 1981; trad. it.: Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano, Feltrinelli, 1988. MacIntyre non propone l’etica delle virtù per il moderno stato-nazione, bensì per le micro-comunità. È vero che il moderno Stato-nazione, democratico e pluralista, non può essere una comunità di virtù, e che l’etica delle virtù non può essere applicata alla società politica senza adattamenti realistici. Questo, però, non significa che l’etica delle virtù non sia più opportuna e che non possa più trovare alcuna espressione sociale. Su questo si veda anche G. ABBÀ,

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marsi di meno sugli aspetti istituzionali e strutturali degli Stati, cosa che ha indotto Giorgio Campanini a descrivere Mounier come pensatore ‘pre-politico’, ossia pensatore che ricerca soprattutto i fondamenti della vita democratica57. Con riferimento alla democrazia, egli ne condanna anzitutto la subordinazione all’economia. «La democrazia politica ormai – lamenta – non è altro che la maschera di un’oligarchia economica»58. Ugualmente ne stigmatizza – al pari di quanto fa il populismo antipolitico italiano nei confronti della nostra democrazia59 – il parlamentarismo astratto e confuso60. Ne disapprova l’uso arrogante del principio di maggioranza, fenomeno a noi contemporaneo. Colin Crouch, analizzando la situazione della democrazia contemporanea, afferma che essa sta entrando in una fase di entropia regressiva, di post-democrazia61. Non solo non funziona, ma non viene più creduta come sistema di rappresentanza e di partecipazione da parte del popolo intero, articolato in persone, famiglie, gruppi, classi, comunità religiose. È, quindi, in crisi sul piano politico e strutturale, come forma di governo partecipativo. E ciò, a causa di più fattori: globalizzazione; finanziarizzazione dell’economia mondiale, che ridimensiona le sovranità nazionali; mediatizzazione e spettacolarizzazione della politica; personalizzazione dei partiti e loro fallimento sul piano della mediazione. In tal modo, le decisioni politiche dipendono sempre meno dalla società civile, dalle famiglie, dai corpi intermedi, quanto piuttosto da poteri che obbediscono prevalentemente ad interessi economici, a gruppi di pressione

Quale impostazione per la filosofia morale?, Roma, LAS, 1995, pp. 295-299. 57 Cfr. G. CAMPANINI, Il pensiero politico di Mounier, Brescia, Morcelliana, 1983, p. 253. 58 E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 239. 59 Su questo si veda M. CROSTI, La sfida populista e il caso italiano, postfazione a P. TAGGART, Il populismo, Troina (EN), Città Aperta, 2002, pp. 207-221. 60 Cfr. E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 274.

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che non pongono al centro il bene comune ma quello proprio. Ma la crisi della democrazia non deriva solo dall’inadeguatezza strutturale, dall’incapacità rappresentativa. È crisi anzitutto morale, dovuta alla perdita dei parametri antropologici ed etici a fondamento delle coscienze e, insieme, degli strumenti cognitivi e critici che permettono di accedere alla realtà integrale delle persone e dei problemi62. Ebbene, la lettura mounieriana della democrazia in termini di personalismo comunitario – ossia secondo una prospettiva che implica il potenziamento della responsabilità e della partecipazione dei cittadini – può senz’altro contribuire alla cura delle malattie della democrazia odierna, rivalutandola come forma di governo partecipativo, vincendo forme di gestione dell’autorità di tipo demagogico e populista, che bypassa i corpi intermedi e le rappresentanze di altri corpi sociali. Mounier, infatti, così si esprime in forma lapidaria: «Chiamiamo democrazia con tutti i termini qualificativi e superlativi necessari per non confonderla con le sue minuscole contraffazioni, quel regime che poggia sulla responsabilità e sull’organizzazione funzionale di tutte le persone costituenti la comunità sociale. Solo in questo caso ci troviamo senza ambagi dal lato della democrazia. Aggiungiamo che, portata fuori strada fin dall’origine dai suoi primi ideologi e poi soffocata nella culla dal mondo del denaro, questa democrazia non è mai stata attuata nei fatti, e lo è ben poco negli spiriti»63. Proprio per questo, la prospettiva mounieriana di personalismo comunitario della democrazia, che ne puntualizza la dimensione spirituale ed umana, con riferimento all’esercizio della sovranità popolare, alla libertà, all’eguaglianza, ne sollecita soprattutto la rivitalizzazione dell’anima antroplogica ed etica, senza dimenticarne gli 61

Cfr. C. CROUCH, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003. Sulla crisi complessa della democrazia e sull’apporto della prospettiva personalista alla sua soluzione ci permettiamo di rinviare a M. TOSO, Democrazia delle regole o dei valori?, «La Società», XIV/4-5, 2004, 568-590. Si veda anche P. PAVAN, La democrazia e le sue ragioni (1958), Roma, nuova ed. Studium, 2003, a cura e con uno Studio introduttivo (pp. 1-80) di M. Toso. 62

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aspetti procedurali ed istituzionali. La libertà dei cittadini su cui deve poggiare la democrazia, sostiene infatti Mounier, non è quella di individui svuotati di ogni sostanza o aderenza carnale o spirituale, resi forti da sentimenti e rivendicazioni, eretti in assoluti. Non è la libertà di scelta, considerata fine a se stessa, senza possibilità di dedizione. La democrazia si regge e fiorisce poggiando su libertà di autonomia, messe in condizione di meglio aderire, convintamente e totalmente, al bene umano. Così, la democrazia, secondo il filosofo francese, non coltiva l’ottimismo devoto della sovranità nazionale, della maggioranza, della loro infallibilità. La democrazia non è il regno del numero, ma quello del diritto. Infine, non si può sperare sulla democrazia partecipativa quando la mistica delle élite, dell’aristocrazia, aleggia e tutto pervade. «Un regime personalista – ci ricorda Mounier – è quello che fa partecipare alle funzioni dell’unità tutte le persone, e ciascuna occupa il posto assegnatole dalle proprie facoltà e dall’economia generale del bene comune; è quello quindi che cerca di ridurre gradatamente la condizione disumana e pericolosa, dell’uomo passivamente governato. È passivamente governato sia colui che si fida dell’infallibilità della massa sia colui che si fida dell’infallibilità di un uomo: passivamente governati sono quegli individui che, qualunque sia la loro funzione, attribuiscono il proprio valore alle istituzioni, ma queste devono essere tali da sostenere le debolezze degli individui e tali che il sovrano (si tratti di un popolo o di un individuo) non ne possa disporre a proprio piacimento»64. 8. A mo’ di conclusione: il segreto della perenne giovinezza dell’Umanesimo relazionale Per Mounier, anche gli Umanesimi relazionali, come il persona-

63 64

E. MOUNIER, Rivoluzione personalista e comunitaria, cit., p. 272. Ivi, p. 274.

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lismo comunitario, sono destinati a morire e a risorgere. Quale, ultimamente, il segreto della loro perenne giovinezza? Sicuramente lo è il metodo realista, di cui si è detto nella prima parte di questo saggio, perché esso consente di ritornare a contatto con l’esperienza originaria della persona e della vita comunitaria, tenendo conto delle res novae. Ma la fonte ultima della perenne novità dell’Umanesimo relazionale, come anche la garanzia della sua autenticità e profeticità, è da ricercarsi più in profondità, vale a dire nella dimensione di trascendenza della persona che la mette in grado di partecipare a quel torrente di vita strutturata a tu che le è offerta mediante l’incarnazione, la morte e la risurrezione del Signore Gesù. Ciò induce a considerare l’importanza della missione della Chiesa nel mondo oggi, proprio con riferimento all’affermazione di un Umanesimo relazionale, solidale, aperto alla Trascendenza. L’incarnazione e la redenzione pongono il senso originario della storia, sono la fonte di ogni progettualità e di ogni umanesimo storico, la ragione del loro rinnovamento incessante attraverso i secoli. La memoria di tali eventi universali, memoria che la comunità ecclesiale compie ogni qualvolta celebra l’Eucaristia, diviene quasi spontaneamente generatrice di un progetto di missione – come ci ha recentemente ricordato la lettera apostolica di Giovanni Paolo II, Mane nobiscum Domine (17.10.2004) –, nonché matrice feconda di innumerevoli progettualità ed umanesimi sociali. L’Eucaristia, spiega infatti il pontefice, «è un modo di essere che da Gesù passa nel cristiano e, attraverso la sua testimonianza, mira ad irradiarsi nella società e nella cultura» (n. 25). Mediante la memoria dell’Eucaristia, la comunità dei credenti è costituita «casa e scuola di comunione», comunità pasquale, che immette nel mondo un torrente di vita strutturata a tu, e per ciò stesso diventa profezia, ossia centro che suscita, nel reticolo delle relazioni interpersonali, una nuova umanità, più solidale, non alienata. Vi è chi vuole affrontare i drammi del mondo con l’eroismo delle rivoluzioni e il titanismo dell’azione; vi è anche chi abbraccia l’eroismo buddista, che fa leva più sulla pietà e meno sull’agire. La 272

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Chiesa propone un altro eroismo, quello dell’amore di Cristo, contemplativo ed attivo insieme, trasformatore ed innovatore, mediante l’azione per la giustizia. È, in definitiva, la proposta di un umanesimo libero per se stesso e cosciente di sé, che conduce l’uomo al sacrificio e a una grandezza veramente divina. La fatica del dono e della responsabilità, il dolore e lo scacco, sono abbracciati ad occhi aperti, sono portati in prima persona e vissuti senza rinunziare alla gioia già presente in essi, sicché lo spirito crocifisso può esultare nonostante tutto.

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PERSONA E COMUNITÀ NELLA PROSPETTIVA DI UN’ETICA DELLE VIRTÙ Mario Micheletti

Non intendo qui certamente presentare un quadro storico o sistematico completo dell’etica delle virtù e della varietà delle sue forme1. In taluni miei scritti precedenti ho indicato le ragioni che stanno a fondamento della sua vigorosa rinascita nella recente filosofia morale2. In questa circostanza, dando per scontata la conoscenza delle principali caratteristiche dell’etica delle virtù nelle sue recenti riformulazioni, vorrei piuttosto mettere l’accento molto liberamente e in modo necessariamente schematico su alcuni aspetti della mia personale interpretazione di tale prospettiva etica, alla luce di una possibile connessione con le tematiche del personalismo comunitario3. Mi limito qui ad assumere come fondamentale in 1 Dietro la varietà delle formulazioni, è importante sottolineare gli aspetti comuni. Cfr. C. SWANTON, Virtue Ethics. A Pluralist View, Oxford, Oxford U.P., 2003, p. 4. 2 In particolare, cfr. M. MICHELETTI, Virtù private, pubbliche virtù. Moralità personale ed etica pubblica nella recente filosofia morale, «Prospettiva EP», XVII, 1, 1995, pp. 19-41; M. MICHELETTI, La riscoperta delle virtù nell’etica filosofica recente, «Cultura e educazione», X, 5/6, 1998, pp. 52-62. 3 E. VITALE, Il soggetto e la comunità. Fenomenologia e metafisica dell’identità in Charles Taylor, Torino, Giappichelli, 1996, pp. 30-31 nota, giudica opportuno il confronto della posizione di Taylor con la tradizione personalistica, rinviando in particolare al Manifeste au service du personnalisme di Mounier e al circolo raccoltosi intorno alla rivista «Esprit». Cfr., in questa direzione, l’interessante studio di P. NEPI, Individui e persona. L’identità del soggetto morale in Tay-

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qualsiasi forma di etica delle virtù la convinzione che la nozione di virtù, come buona qualità o disposizione stabile del carattere, è centrale, nel senso che i concetti di correttezza morale e di vita buona, il ‘punto di vista morale’ e le rigorose richieste della moralità non si possono comprendere senza una determinata concezione delle virtù rilevanti4. Due aspetti dell’etica delle virtù, che ho sempre considerato importanti, hanno a che fare col tema che affronto oggi: 1) le virtù etiche costituiscono i tratti essenziali di una persona, del suo carattere5, di modo che l’identità fondamentale di una persona è definita propriamente dalla sua identità morale, quale si costituisce principalmente attraverso le sue scelte; 2) un’etica delle virtù non è un’etica privata più di quanto sia un’etica pubblica, puntando piuttosto al superamento della dicotomia pubblico/privato, perché è al tempo stesso personale e comunitaria6. Sarebbe facile mostrare la presenza significativa di queste idee negli scritti di Mounier, anche alla luce della considerazione che la preoccupazione morale percorre tutta la sua opera, e la persona costituisce per lui la norma prima dell’agire morale7. Parlando della

lor, MacIntyre e Jonas, Roma, Studium, 2000, e dello stesso autore: Charles Taylor. Il recupero dell’ideale di autenticità nel moderno, in Un mondo altro è possibile, a cura di Chiara Di Marco, Milano, Mimesis, 2004, pp. 271-287. 4 Cfr. C. SWANTON, Virtue Ethics, cit., p. 5. 5 Su questo punto, cfr. L. TRINKAUS-ZAGZEBSKI, Virtues of the Mind, Cambridge, Cambridge U.P., 1996, p. 135. 6 Cfr. G. ABBÀ, Quale impostazione per la filosofia morale?, Roma, LAS, 1996, p. 12. Cfr., riguardo al personalismo, la seguente osservazione di V. MELCHIORRE, Linee di fondazione del concetto di persona, in Mounier trent’anni dopo, Milano, Vita e Pensiero, 1981, p. 112: «In questa prospettiva il dilemma fra pubblico e privato viene ad essere un falso dilemma». Riguardo a Mounier, cfr. M. TOSO, Il coraggio di un nuovo umanesimo relazionale, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale, a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, Roma, LAS, 2005, vol. II, pp. 35-65 (in particolare, p. 53 n.). 7 J.F. PETIT, Penser avec Mounier. Une éthique pour la vie, Lyon, Chronique Sociale, 2000, pp. 130, 167.

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«natura intrinsecamente etica del carattere», Mounier afferma infatti che «tutto il contenuto del carattere cade sotto l’autorità della vita morale», nel senso che, integrandosi lo stesso «dato del carattere» nello «sforzo morale», «il campo del carattere deriva dall’atto morale» e «il carattere è un atto, non un fatto»8. D’altra parte, per Mounier, «è impossibile arrivare alla comunità evitando la persona»9 e noi troviamo la «comunione» inserita nel cuore stesso della persona come «integrazione della sua stessa esistenza»10. In questo senso la comunità, intesa come «un’integrazione delle persone nel rispetto totale della vocazione di ciascuno», è una realtà, anzi un valore «quasi altrettanto fondamentale della persona»11. Mounier tratta espressamente della virtù come eccellenza o vertice qualitativo della persona umana, osservando in modo appropriato, con riferimento alla tradizione aristotelico-tomista, che, se la virtù è un ‘mezzo’ non lo è nella forma di un compromesso fra due vizi contrapposti, o fra due qualità opposte, ma come l’ottimo, l’eccellenza determinata razionalmente in rapporto ad ogni ambito di scelta. «Anziché in un mezzo – egli osserva rinviando alla trattazione tommasiana delle virtù -, diremo che le virtù e il vertice della qualità umana si trovano sulla cresta dominante gli opposti versanti… O se si parla di mezzo, bisogna specificare che si designa un medio di ragione e non di situazione, dacché il “giusto mezzo” potrà 8 E. MOUNIER, Traité du caractère, Paris, Éd. du Seuil, 1962 (Œuvres, t. II), pp. 60-63, 746 (trad. it., Alba, Ed. Paoline, 1949, vol. I, pp. 61-63; vol. II, p. 350). 9 E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, in Oeuvres, Paris, Éd. du Seuil, t. I, 1961, p. 190 (trad. it., Milano, Ed. di Comunità, 1949, p. 101). Cfr. G. CAMPANINI, Il ‘Manifesto personalista’: attualità e inattualità di una lezione, in La questione personalista. Mounier e Maritain nel dibattito per un nuovo umanesimo, a cura di A. Danese, Roma, Città Nuova, 1986, pp. 62-76, in particolare p. 70. 10 E. MOUNIER, Manifeste au service du personnalisme, in Oeuvres, cit., t. I, p. 535 (trad. it., Cassano [Bari], Ecumenica, 1975, p. 82). 11 E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, cit., p. 175 (trad. it., p. 77).

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essere talvolta dal lato della moderazione, ma tal altra anche dal lato della passione»12. Mounier, del resto, dà rilievo a una distinzione, di matrice aristotelica, fondamentale per l’etica delle virtù, quando, sottolineando la differenza fra poiesis e praxis, osserva che, nel fare o produrre, l’azione ha per fine principale quello di dominare e di organizzare una materia esteriore, mentre dal punto di vista dell’agire l’azione non mira tanto a produrre un’opera esteriore, quanto a formare colui che agisce, la sua abilità, le sue virtù, la sua unità personale13. 1. La centralità del soggetto agente Il primo punto che vorrei sottolineare, a proposito di un’etica delle virtù sviluppata coerentemente, è la centralità del soggetto agente14, della persona, centralità misconosciuta dalle tendenze etiche preminenti nell’ambito contemporaneo (nelle quali è criticabile, dal mio punto di vista, non tanto l’assenza di un’antropologia, quanto la presenza implicita di un’antropologia incoerente e implausibile, che rinvia a una soggettività, trascendentale o empirica, priva di concretezza storica e relazionale: la stessa concezione dell’io come individuo astratto, atomizzato, senza passato e senza avvenire, senza legami, animato solo da una presunta libertà assoluta, negati-

12

E. MOUNIER, Traité du caractère, cit., pp. 741-742 (trad. it., vol. II, p. 345). E. MOUNIER, Le personnalisme, in Oeuvres, t. III, Paris, Éd. du Seuil, 1962, p. 501 (trad. it., Roma, AVE, 2004, pp. 124-125). A proposito dell’etica delle virtù, in rapporto al bene delle persone e delle comunità, cfr. G. ABBÀ, Felicità, vita buona e virtù, Roma, LAS, 19952, p. 326. Sulla connessione tra personalismo etico e tradizione aristotelica, cfr. G. CHALMETA, Introduzione al personalismo etico, Roma, Ed. Università della Santa Croce, 2003, in particolare pp. 14 ss. (a p. 46 c’è un interessante riferimento a Ch. Taylor). 14 Cfr. A. DA RE, Figure dell’etica, in Introduzione all’etica, a cura di C. Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. 3-118, in particolare p. 26. 13

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vamente prospettata da Mounier15), e, in rapporto a questo, la valorizzazione, in connessione col tema delle virtù, del principio dell’«effetto intransitivo della scelta»16 (la capacità della scelta di modificare non solo stati di cose esterni, ma la stessa persona che agisce). Si rapporta a questo principio ciò che osserva Mounier, quando parla di «un lavoro personale e insostituibile dell’uomo su se stesso», di uno sforzo «di essere per fare», e di un agire orientato non al ‘successo’, ma alla ‘testimonianza’, e quando osserva che «scegliendo questo o quello, io scelgo ogni volta indirettamente me stesso, e mi costruisco in quella scelta»17. L’etica delle virtù, nella sua rinascita attuale, si è proposta di contrastare, prevalentemente su basi aristoteliche, l’enfasi sulle regole che caratterizza gran parte del dibattito etico moderno e contemporaneo nelle prospettive fra loro molto diverse di matrice consequenzialistica e deontologica (regole delle azioni moralmente corrette, regole di utilità, regole di giustizia), sostenendo che il punto essenziale della moralità dovrebbe essere la persona, la sua maniera d’essere, i tratti essenziali del suo carattere; dovrebbe concernere quale tipo di persona è bene essere, non primariamente a quali regole si dovrebbe obbedire (anche se, come vedremo, ciò non significa rinunciare alle norme in etica, ma piuttosto rivederne il significato in rapporto alla natura dei fini virtuosi).

15

Cfr. E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, cit., p. 159 (trad. it., p. 53). 16 J. FINNIS, Fundamentals of Ethics, Oxford, Clarendon Press, 1983, pp. 139 ss.; J. FINNIS, Moral Absolutes, Washington, The Catholic University of America Press, 1991, pp. 72-74. 17 E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, cit., pp. 341, 342, 345 (trad. it., pp. 314-315, 316, 319); E. MOUNIER, Le personnalisme, cit., p. 483 (trad. it., p. 101). È lo stesso principio enunciato dallo Spaemann, quando rileva che «in ogni azione noi influiamo indirettamente su noi stessi, diamo forma a noi stessi» (R. SPAEMANN, Concetti morali fondamentali, trad. it., Casale Monferrato, Piemme, 1993, pp. 117-118).

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La riscoperta delle virtù nell’etica filosofica recente, avvenuta per lo più in seguito all’impulso dato dal celebre articolo di G.E.M. Anscombe, Modern Moral Philosophy (1958), e dagli scritti etici di Philippa Foot18, comporta necessariamente un mutamento nel modo stesso di concepire la filosofia morale, che, come è ovvio, l’avvicina, pur in un contesto problematico contemporaneo, a figure di etica proprie del pensiero antico. Se lo scopo della morale non è la produzione di certi stati di cose né la conformità di singole azioni a regole universali formalmente valide, la razionalità etica non può consistere nel massimizzare quegli stati né nell’applicazione di criteri formali di universalizzabilità, ma nel deliberare in vista di un certo modo di vivere piuttosto che di un altro. L’interesse etico fondamentale è rivolto al tipo di persona da realizzare, alle forme di eccellenza o di virtù tramite le quali si raggiungono, con scelte e deliberazioni pratiche, i fini propri della persona e si realizzano le sue potenzialità specifiche. L’etica delle virtù è un’etica della prima persona, è un’etica che si delinea a partire dal soggetto agente e dalle sue scelte. Come è stato osservato, l’etica delle virtù considera l’agente come un soggetto nato e sorretto da una rete di relazioni interpersonali, che gli consentono di definire il proprio profilo di una ‘vita buona’ come appartenente alla vita più ampia di una comunità concreta19. In modo analogo, nel personalismo di Mounier il soggetto si definisce nella sua originaria apertura all’altro e nell’immediata vocazione alla «comunione inscritta nel cuore della persona», così come in Ricoeur, in cui perdura l’eco del personalismo, il ca-

18 Cfr. soprattutto G.E.M. ANSCOMBE, Modern Moral Philosophy, «Philosophy», 33, 1958, pp. 1-19; P. FOOT, Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, Oxford, Blackwell, 1978; P. FOOT, Natural Goodness, Oxford, Clarendon Press, 2001; P. FOOT, Moral Dilemmas, Oxford, Oxford U.P., 2002; A. MACINTYRE, After Virtue, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1981, 19842. 19 Cfr. R. MORDACCI, Una introduzione alle teorie morali, Milano, Feltrinelli, 2003, p. 173.

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rattere di relazionalità umana si fonda su un percorso concettuale in cui il legame originario con l’altro uomo è indisgiungibile da una compiuta e articolata tematizzazione dell’idea di soggetto come soggetto agente e responsabile20. 2. Etica delle virtù e comunitarismo Anche l’etica delle virtù, specialmente nelle sue versioni neoaristoteliche e neotomiste, può essere allora in qualche modo caratterizzata come una forma di «ritorno della persona» dopo la «morte del personalismo», secondo l’efficace espressione di Ricoeur21. Questo accostamento dell’etica delle virtù al tema della persona e della sua realizzazione appare meno problematico, se davvero è lecito interpretare lo stesso pensiero di Mounier come «un vero ritorno all’etica, all’etica intesa nel senso forte della parola», non semplicemente al primato della persona, ma a «una particolare concezione del vissuto etico come dinamismo di autorealizzazione della persona stessa». Vi è chi ha interpretato il personalismo di Mounier come una riscoperta di quella struttura aretologica dell’etica, che in tempi recenti è stata difesa soprattutto dal MacIntyre: anche se non c’è in Mounier un riferimento altrettanto deciso a Aristotele e Tommaso, tuttavia «la concezione condivisa dell’impegno morale come fatto di crescita personale e la comune apertura ai problemi dell’educazione morale fondano... una certa parentela intellettuale e una certa consonanza spirituale» che sembra giusto sottolineare22.

20

Cfr. S. RICOTTA, Giustizia, intersoggettività, istituzioni. Ricoeur tra Mounier e Levinas, in Forme della reciprocità, a cura di L. Alici, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 199-246 (in particolare pp. 228-229). 21 Cfr. P. RICOEUR, Meurt le personnalisme, revient la personne, «Esprit», 1, 1983, pp. 113-119. 22 G. GATTI, E. Mounier: un ritorno all’etica, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale, cit., Vol. I, pp. 121-133 (in particolare, pp. 122,

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Io vorrei qui mettere l’accento sull’importanza dei concetti di persona e comunità, della dimensione comunitaria della persona23, nella prospettiva etica incentrata sulle virtù, del tutto indipendentemente dalle concezioni politiche talvolta ambiguamente collegate ad essa, e indicate come forme di ‘comunitarismo’, mostrando anche come il riferimento alle posizioni di Mounier e di Maritain possa essere sotto questo aspetto un utile correttivo alle versioni ‘organicistiche’ del comunitarismo. C’è un senso in cui «non c’è conoscenza delle virtù e dei vizi fuori di una comunità», perché le persone non imparano le virtù ‘isolatamente’24, ma l’idea di una necessaria supremazia della comunità sulla singola persona non è eticamente accettabile. Per Mounier «la sola comunità valida e solida» è la ‘comunità personalista’, orientata quindi «all’attuazione come persona di ciascun individuo che la compone», nel rispetto totale della ‘vocazione’ di ciascuno25. Come osserva Maritain, se non si capisse il senso proprio in cui il bene del corpo sociale è un bene comune di persone umane, questa formula, a sua volta, condurrebbe ad altri errori, di tipo totalitario. «Il bene comune della città non è né la semplice collezione dei beni privati, né il bene proprio di un tutto che (come la specie, per esempio, riguardo agli individui, o come l’alveare riguardo alle api), frutta a sé solo e a sé sacrifica le parti. È la buona vita umana della moltitudine, di una moltitudine di persone; è la loro comunione nel vivere bene... Il bene comune della città implica ed esige il riconoscimento dei diritti fondamentali delle persone... e comporta esso stes-

133). 23

R. BOYER, Actualité d’Emmanuel Mounier, Paris, Ed. du Cerf, 1981, p.

103. 24 D.M. NELSON, The Priority of Prudence, University Park, Penn., Pennsylvania State University Press, 1992, p. 151. 25 E. MOUNIER, Manifeste au service du personnalisme, cit., pp. 523, 539 (trad. it., pp. 65, 88); E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, cit., p. 175 (trad. it., p. 77). Cfr. G. GOISIS, L. BIAGI, Mounier tra impegno e pro-

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so come valore principale la più alta accessione possibile (vale a dire compatibile con il bene del tutto) delle persone alla loro vita di persona e alla loro libertà di sviluppo, – e alle comunicazioni di bontà che a loro volta ne procedono»26. Il personalismo etico può contribuire a chiarire il rapporto fra le nozioni di ‘persona’ e ‘comunità’ e l’etica delle virtù. Non c’è, per me, una connessione necessaria fra l’etica delle virtù e il comunitarismo come teoria politica. Il supporlo significa commettere l’errore simmetrico a quello dei sostenitori del neocontrattualismo, quando tendono a risolvere in definitiva l’etica normativa in etica pubblica o politica. La comunità è in primo luogo un’istanza morale, è la naturale espansione della persona, della sua strutturale relazionalità e socievolezza; è insieme il dato di partenza dell’esperienza morale e un compito e un progetto27, ed è connessa alle qualità morali della persona, alle sue virtù (e ai suoi vizi). L’idea di comunità appartiene per me primariamente alla dimensione etica e rinvia certamente a uno spazio ‘pubblico’, che non coincide però immediatamente con quello della politica. È interessante notare, perché generalmente lo si ignora, che i filosofi che più frequentemente sono stati associati al comunitarismo, MacIntyre e Taylor, in qualche modo hanno sempre rifiutato tale accostamento e hanno sempre inteso la comunità come capace di cambiamenti critici e non coercitivi. Ad esempio in uno scritto del 1994, A Partial Response to My Critics, MacIntyre si dissocia nettamente dai comunitari e dalle loro proposte avanzate come un contributo alla politica dello stato-nazione, e contesta la confusione tra la concezione romantica della cofezia, Padova, Gregoriana, 1990, pp. 168, 175. 26 J. MARITAIN, La persona e il bene comune, trad. it., Brescia, Morcelliana, 1980, p. 31. «L’opera comune stessa della società ha per valore principale la libertà di sviluppo delle persone con le garanzie ch’essa comporta e con la diffusione di bontà che ne procede» (p. 62). 27 Cfr. S. PALUMBIERI, Postmoderno e persona. Sfide e stimoli, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale, a cura di Toso, Formella, Danese,

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munità politica, giustamente contrastata dai teorici del liberalismo, in quanto capace di generare il totalitarismo e altri mali, e la concezione aristotelica. Charles Taylor ha insistito a sua volta soprattutto sulla struttura essenzialmente dialogica, e in questo senso comunitaria, della persona umana e sull’impossibilità per un essere umano di concepirsi al di fuori di ogni rapporto col bene o di funzionare come agente umano senza alcun riferimento al bene, e ha contestato il termine ‘comunitarismo’, usato come se i critici del liberalismo volessero sostituire al singolo principio fondamentale del liberalismo un altro principio onnicomprensivo, che in modo eguale e opposto esaltasse la vita della comunità sopra ogni altro aspetto28. cit., vol. I, pp. 59-105 (in particolare, pp. 90-91). 28 A. MACINTYRE, A Partial Response to my Critics, in After MacIntyre, edited by J. HORTON and S. MENDUS, Cambridge, Polity Press, 1994, pp. 283-304 (in particolare, pp. 302-303); A. MACINTYRE, Politics, Philosophy and the Common Good , in The MacIntyre Reader, ed. K. KNIGHT, Cambridge, Polity Press, 1998, pp. 241-251 («But we must not picture this connection between individuals and the common good – osserva MacIntyre – as something that might exist apart from and independently of the rational activity of the members of that society in enquiring and arguing about the nature of their goods. For it is a connection constituted by practical rational activity» [p. 242]; «it will therefore be crucial not only to tolerate dissent, but to enter into a rational conversation with it and to cultivate as a political virtue not merely a passive tolerance, but an active and enquiring attitude towards radically dissenting views, a virtue notably absent from the dominant politics of the present» [p. 251]); C. TAYLOR, Le Fondamental dans l’Histoire, in Charles Taylor et l’interprétation de l’identité moderne, sous la direction de Guy Laforest et Philippe de Lara, Paris, Cerf, 1998, pp. 35-49 (in particolare, pp. 38-39); C. TAYLOR, Reply and re-articulation, in Philosophy in an Age of Pluralism. The Philosophy of Charles Taylor in Question, ed. James Tully, Cambridge, Cambridge U.P., 1994, pp. 213-257 (in particolare, p. 250); P. KELLY, MacIntyre’s Critique of Utilitarianism, in After MacIntyre, cit., pp. 134-135. Cfr. tuttavia le osservazioni critiche di M. D’AVENIA, L’aristotelismo politico negli Stati Uniti, in Tra legge e virtù. La filosofia pratica angloamericana contemporanea, a cura di A. Campodonico, Genova, Il melangolo, 2004, pp. 69-86, in particolare pp. 76-77. Cfr. anche P. MARRONE, Ontologia minima liberale, ovvero: cosa c’è di comunitario nel comunitarismo?, in Libertà, giustizia e bene in una società plurale, a cura

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3. Moralità personale, virtù e interiorità Un punto dell’etica delle virtù che ho sempre apprezzato, e che può essere considerato consentaneo con certe caratteristiche del personalismo, è il rilievo centrale attribuito alla dimensione personale della moralità, in contrasto con quelle tendenze dell’etica filosofica contemporanea che finiscono con l’identificare sostanzialmente l’etica con l’etica pubblica e col relegare la moralità all’ambito delle mere preferenze individuali o, in alternativa, col sottrarre la sfera personale alla dimensione della moralità (identificata evidentemente con l’ambito delle regole pubbliche, con l’ambito della regolamentazione dei rapporti interpersonali e delle relative situazioni conflittuali). Difendere il ruolo e il significato della moralità personale non vuol dire, certo, negare la rilevanza dell’etica pubblica, bensì negare l’identificazione dell’ambito dell’etica con quello dell’etica pubblica o politica, qualunque sia la sua matrice, neocontrattualistica o di etica del discorso o utilitaristica. La frattura che si determina fra le regole pubbliche prospettate e le motivazioni morali, distinte da motivazioni puramente prudenziali o legate a sanzioni, mi è sempre sembrata collegabile a quella dissociazione che, nel famoso articolo del 1976, The Schizophrenia of Modern Ethical Theories, mise in luce Michael Stocker, lamentando la scissione tipica di molte teorie etiche moderne e contemporanee tra motivi e ragioni o giustificazione. La carenza di tali teorie nell’esame delle strutture motivazionali pregiudica, per Stocker, la loro stessa validità come teorie etiche: ciò che manca in esse è in definitiva la persona, la prospettiva del soggetto agente29. Come ho avuto occasione di notare nei miei scritti sull’etica delle virtù, la Theory of Justice di Rawls30, per quanto si opponga di C. Vigna, Milano, Vita e Pensiero, 2003, pp. 355-382 (in particolare, p. 381). 29 M. STOCKER, The Schizophrenia of Modern Ethical Theories, «The Journal of Philosophy», 73, 1976, pp. 453-466, ristampato in Virtue Ethics, edited by Roger Crisp and Michael Slote, Oxford, Oxford U.P., 1997, pp. 66-78 (in particolare, pp. 66, 71, 77). 30 J. RAWLS, A Theory of Justice, Oxford, Oxford U.P., 1980 (first published,

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correttamente all’utilitarismo, fondandosi su una razionalità formale e procedurale rischia di escludere dall’ambito della problematica etica le questioni umane più significative e di non rendere conto del tipo di razionalità pratica implicata dalle deliberazioni morali. Alla fine i punti di disaccordo, pur notevoli, fra i più importanti testi dell’utilitarismo contemporaneo, del neocontrattualismo, nonché del cosiddetto libertarismo (si veda il Nozick di Anarchy, State, and Utopia31) appaiono meno importanti della sostanziale convergenza sul principio che lo scopo dell’etica è di giustificare un assetto sociale ove l’individuo, quale soggetto di desideri o preferenze o soggetto autonomo, possa fare ciò che vuole senza danneggiare altri o danneggiandoli solo per un migliore risultato, come se l’ ‘individualismo espressivo’, come è stato chiamato, fosse capace di racchiudere in sé la moralità del rispetto reciproco e questa, in quanto manifestazione minima di un vincolo sociale, e distinta dalla pratica ispirata dal semplice timore della sanzione, non richiedesse la formazione e l’esercizio di virtù fondamentali32. L’apparente paradosso per cui certe forme di individualismo radicale trovano una collocazione appropriata entro un’etica tendenzialmente identificata con un’etica pubblica, avente lo scopo di regolare i rapporti fra gli individui nello spazio pubblico e di stabilire procedure capaci di evitare o risolvere i conflitti, ha la sua radice nell’importante, ma discutibile contributo all’etica di J.S. Mill. In On Liberty Mill sostiene che solo quando c’è il pericolo che si rechi danno agli altri «la situazione si sottrae all’ambito della libertà e si Cambridge, Mass., Harvard U.P., 1971). 31 R. NOZICK, Anarchy, State, and Utopia, New York, Basic Books, New York 1974. 32 G. ABBÀ, Felicità, vita buona e virtù, cit., p. 105. Cfr. F. D’ANIELLO, Etica pubblica e morale personale, «Prospettiva Persona», 13, 2004, n. 47, pp. 19-22. Anche in rapporto al cosiddetto ‘individualismo espressivo’, cfr. le osservazioni di C. TAYLOR, La modernità della religione, trad. it., Roma, Meltemi, 2004, pp. 63-64. Lo stesso Nozick ha finito col collocare l’etica del rispetto al livello più basso di un’etica composta di quattro livelli (cfr. R. NOZICK, La vita pensata, trad.

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colloca in quello della moralità o della legge»33 (dal che si evince che la libertà è definita dall’assenza della legge e che la moralità è assimilata al diritto e posta nell’ambito di regole volte a restringere la libertà; in Utilitarianism, del resto, in un contesto simile, Mill arriva a proporre il concetto di punizione come definitorio della moralità34). Qui Mill non si limita ad affermare l’autonomia liberale del soggetto dalle interferenze del potere (una visione teorico-politica su cui è facile, e doveroso, convenire), ma sostiene che la moralità non ha nessun rapporto con le questioni personali, intese come puramente private35. Ora, non c’è nulla di contraddittorio nell’ammettere che talune linee di condotta o stili di vita sono liberamente scelti, anche nel senso di liberi da interferenze, e tuttavia moralmente degradanti. È tipica del resto l’oscillazione tra il fare della moralità una mera questione privata e il sottrarre la sfera personale alla dimensione della moralità, a seconda del concetto di ‘moralità’ che viene introdotto, sempre tuttavia all’interno di un’interpretazione dicotomica dei rapporti fra pubblico e privato. Come se le scelte libere della persona, costitutivamente inserita in un contesto relazionale, non contribuissero a costruirne il carattere e a determinarne quindi l’identità morale e a caratterizzare il suo agire in se stesso come nobile o ignobile, umanamente degno o indegno, e non avessero in questo senso un’incidenza anche sulla comunità delle persone. Recentemente, in un contesto etico fortemente influenzato dalle classiche posizioni di Aristotele e Tommaso d’Aquino, Philippa Foot ha messo in discussione le restrizioni cui J.S. Mill ha sottopoit., Milano, Mondadori, 1990, pp. 230-231). 33 J. STUART MILL, On Liberty, in Utilitarianism, On Liberty and Considerations on Representative Government, London-Melbourne-Toronto, J.M. Dent & Sons, 1977, p. 138. 34 Cfr. J. STUART MILL, Utilitarianism, in Utilitarianism, On Liberty and Considerations on Representative Government, cit., p. 45. 35 Cfr. le osservazioni di M. MIDGLEY, Heart & Mind. The Varieties of Moral

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sto l’uso di ‘moralità’, negando che vi sia alcuna ragione di pensare che le valutazioni che Mill chiama ‘morali’ debbano essere trattate in modo diverso da altre valutazioni concernenti il volere umano, e sostenendo che ci sono in generale atti cattivi, che meritano di essere biasimati indipendentemente dal danno che probabilmente ne deriva per altre persone36. Vorrei notare qui un punto, che ho per lo più trascurato nei miei scritti precedenti, nei quali, pur ricordando taluni studi recenti volti a una riconsiderazione del ruolo attribuito da Kant alle virtù37, ho tuttavia insistito sull’influsso kantiano su teorie come quelle di Rawls e Habermas tendenti a valorizzare il ruolo della razionalità kantiana in etica in uno spazio pubblico e in rapporto a un suo uso pubblico, e sul contrasto in Kant fra l’agire per il dovere e l’agire per inclinazione, insufficiente nella prospettiva dell’etica delle virtù a caratterizzare la personalità del soggetto virtuoso rispetto a quella del soggetto semplicemente ‘continente’ (un sospetto discusso recentemente da S. Engstrom38, o un grave limite, connesso alla caratterizzazione come virtuosa di una personalità ancora immatura, quale appare nella seguente osservazione di Pieper: «La tensione aspra del dominio di sé, inseparabilmente congiunta, per noi eredi di Kant, con ogni concetto di temperanza, anzi con il concetto di virtù in genere, secondo la dottrina tomista è un fenomeno concomitante agli stati iniziali, ai meno perfetti, mentre la virtù vera e perExperience, London, Routledge, 1983, pp. 114 ss., 117. 36 P. FOOT, Natural Goodness, cit., pp. 66-80. 37 R. B. LOUDEN, Kant’s Virtue Ethics, in «Philosophy», 61 (1986), rist. in Virtue Ethics. A Critical Reader, ed. D. STATMAN, Edinburgh, Edinburgh U.P., 1997, pp. 286-299; B. HERMAN, The Practice of Moral Judgment, Cambridge, Mass., Harvard U.P., 1993, pp. 23-44; N. SHERMAN, Making a Necessity of Virtue. Aristotle and Kant on Virtue, Cambridge, Cambridge U.P., 1997. Cfr. anche i saggi su Kant raccolti nel volume Aristotle, Kant, and the Stoics, edited by Stephen Engstrom and Jennifer Whiting, Cambridge, Cambridge U.P., 1996. 38 Cfr. S. ENGSTROM, Happiness and the Highest Good in Aristotle and Kant, in Aristotle, Kant, and the Stoics, edited by S. ENGSTROM and J. WHITING, cit., pp.

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fetta, in armonia con il suo stesso concetto, porta, in radiosa letizia, il sigillo della facilità, della lievità spontanea, dell’inclinazione naturale»39). Vorrei notare qui che sul tema della moralità personale si potrebbe verificare una convergenza fra l’etica delle virtù di matrice aristotelico-tomista e l’etica di matrice kantiana, nonostante le differenze notevoli che le separano (tra cui soprattutto il primato del dovere in Kant e la sua definizione della virtù nei termini unicamente di fortitudo moralis, ma con tutta una serie di qualificazioni che qui dobbiamo trascurare). L’accostamento può sembrare sorprendente, alla luce della prevalente utilizzazione di Kant, che ho già ricordato, nella recente filosofia morale nella direzione dell’etica pubblica, o nella versione dell’etica del discorso (Habermas e Apel) o in quella della teoria della giustizia di Rawls (in considerazione soprattutto del primato del giusto sul bene). Recentemente, Christine Swanton ha osservato che le differenze fra l’etica delle virtù e il kantismo sono state sopravvalutate e ha osservato che «Rosalind Hursthouse in On Virtue Ethics ha fatto molto per riabilitare la ragione e le motivazioni ‘derivanti dal dovere’ come centrali nel soggetto agente virtuoso, e per attenuare i contrasti fra Aristotele e Kant sulle distinzioni fra enkrateia o continenza e virtù», mentre «recenti interpretazioni dell’imperativo categorico proposte da Christine Korsgaard e Barbara Herman, e la recente attenzione rivolta alla Metafisica dei costumi di Kant da parte, per esempio, di Marcia Baron e Onora O’Neill hanno contribuito grandemente a mettere in rilievo l’accento di Kant sulla relazionalità, il senso di umanità, le emozioni, l’amore, il rispetto, e la virtù»40. 125-126. 39 J. PIEPER, La temperanza, trad. it., Brescia, Morcelliana, 2001, p. 54. 40 C. SWANTON, Virtue Ethics, cit., p. 5; la stessa Swanton utilizza le osservazioni kantiane su amore e rispetto, contenute nella Metafisica dei costumi, nel capitolo V, intitolato appunto Love and Respect. Cfr. R. HURSTHOUSE, On Virtue Ethics, Oxford, Oxford U.P., 1999; C. KORSGAARD, Rawls and Kant: On the Primacy of the Practical, in «Proceedings of the Eighth International Kant Con-

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Stabilendo questa connessione con Kant sul piano della moralità personale, io mi riferisco in particolare alle tesi sviluppate nella seconda parte della Metafisica dei costumi, dedicata alla «dottrina della virtù», dove Kant sostiene che, supponendo che non vi siano doveri verso se stessi, non potrebbe esserci alcun dovere verso gli altri41, la moralità personale risultando quindi la condizione che rende possibile la moralità nelle relazioni con gli altri, e muove una serie di critiche per così dire ante litteram al ‘principio del danno’ che formulerà Mill. Kant trova infatti evidente che, ad esempio, la falsità volontaria, anche quando non arreca alcun danno al diritto degli altri, merita la più severa condanna morale, dal momento che nell’etica «l’assenza di ogni danno non costituisce affatto titolo di autorizzazione»42. «Esula qui dal discorso – osserva Kant – il danno che può derivarne agli altri uomini, perché ciò non costituisce il carattere proprio di questo vizio (perché allora esso consisterebbe unicamente nella violazione del dovere verso gli altri), e nemmeno interessa il danno che il mentitore arreca a se stesso, perché allora questo vizio, alla stregua di una mancanza di prudenza, sarebbe in contraddizione soltanto con le massime pragmatiche, non con quelle morali, e non potrebbe affatto essere considerato come la tra-

gress», Milwaukee, Wis., Marquette U.P., 1995; M. BARON, Kantian Ethics Almost Without Apology, Ithaca, N.Y., Cornell U.P., 1995; M. BARON, Kantian Ethics, in Three Methods of Ethics: A Debate, edited by Marcia Baron, Philip Pettit, Michael Slote, Oxford, Blackwell, 1997, pp. 3-91; O. O’NEILL, Acting on Principle: An Essay on Kantian Ethics, New York, Columbia U.P., 1975; O. O’NEILL, Constructions of Reason, Cambridge, Cambridge U.P., 1989; O. O’NEILL, Towards Justice and Virtue, Cambridge, Cambridge U.P., 1996; B. HERMAN, The Practice of Moral Judgment, cit. Cfr. anche C. KORSGAARD, Kant, in Ethics in the History of Philosophy, edited by Robert J. Cavalier, James Gouinlock, James P. Sterba, London, Macmillan, 1989, pp. 201-243; C. KORSGAARD, Creating the Kingdom of Ends, Cambridge, Cambridge U.P., 1996; A. DONAGAN, A Theory of Morality, Chicago, University of Chicago Press, 1977. 41 Cfr. I. KANT, Metafisica dei costumi, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 272.

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sgressione di un dovere... La menzogna (nel significato etico della parola), come falsità volontaria in generale, non ha bisogno di essere dannosa agli altri per essere considerata condannabile, perché in questo caso sarebbe soltanto una violazione del diritto degli altri»43. Naturalmente, svolge un ruolo centrale in questa prospettiva l’idea, importante per il personalismo (e in effetti ricordata da Mounier, quando egli nega, al modo di Kant, che la persona possa essere mai ridotta da fine a mezzo44), che «l’uomo considerato come persona, vale a dire come soggetto di una ragione moralmente pratica, è elevato al di sopra di ogni prezzo... Vale a dire egli possiede una dignità (un valore interiore assoluto)»45. Sarebbe interessante, in un eventuale approfondimento di questo tema, al di fuori di qualsiasi retorica dell’interiorità, dimostrarne la connessione con quello dell’interiorità effettiva, la dimensione più trascurata dalle figure di etica normativa di tipo consequenzialistico. Ciò che caratterizza qualsiasi forma di etica delle virtù è la tesi che ogni virtù esprime apprezzabili stati interiori del soggetto agente, e che pertanto ciascuno dei modi in cui si manifesta la consapevolezza morale, nella misura in cui fa parte dei profili delle virtù, esprime in effetti tali stati interiori. Questa dimensione della virtù è così importante che, come ha finemente osservato Christine Swanton, «raggiungere l’obiettivo cui mira una virtù non è la stessa cosa che agire muovendo da uno stato virtuoso»46. 42

Ivi, p. 287. Ivi, p. 288. 44 E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, cit., p. 175 (trad. it., p. 78). 45 I. KANT, Metafisica dei costumi, cit., p. 294. Sui ‘doveri verso se stessi’, cfr. già I. KANT, Lezioni di etica, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 2004, pp. 135-145. Sarebbe interessante discutere, in questo contesto, la connessione che Spaemann stabilisce tra il declino del concetto di ‘doveri verso se stessi’ e il declino del teismo nel pensiero moderno (R. SPAEMANN, Christian Ethics of Responsibility, in Moral Truth and Moral Tradition, ed. Luke Gormally, Dublin, Four Courts Press, 1994, pp. 147-148). 43

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Ho sempre sostenuto che occorre distinguere il concetto di interiorità da quello, di origine epistemologica, di privatezza. Esso trova applicazione visibilmente nella rete concreta, nella ricchezza e complessità dei rapporti interpersonali. Le virtù sono ordinate principalmente all’atto interiore che qualifica il soggetto agente e definisce la sua identità. In un’etica della prima persona l’agente si qualifica per le sue intenzioni e le sue scelte, cioè per il suo lato interiore47. Ciò non autorizza tuttavia l’interpretazione dell’etica delle virtù come una mera, flebile etica dell’intenzione48, perché le virtù sono disposizioni stabili del carattere che si manifestano, e si incrementano, con le scelte e le azioni effettive, in uno spazio pubblico e nella rete complessa delle relazioni interpersonali. Sarebbe interessante integrare in una prospettiva di etica delle virtù osservazioni come quelle, provenienti da ambiti culturali diversi da quelli finora considerati, di Josef Pieper circa la necessità per il bene comune della virtù del singolo, anche della virtù più personale e nascosta e, per così dire, più privata49, e di Romano Guardini riguardo sia alla connessione che sussiste fra la distruzione della sfera interiore e la disponibilità della persona all’aggressione del potere dispotico sia al ruolo dello spazio interiore e del raccoglimento nella realizzazione dell’autentica padronanza di sé e nell’apertura dell’io alla comprensione del bene contrapposta all’irrigidimento in se stesso provocato dall’ossessione del pensiero della propria autonomia (una tesi che ricorda la convinzione di Mounier 46

C. SWANTON, Virtue Ethics, cit., p. 294. Cfr. anche pp. 3, 28. G. ABBÀ, Felicità, vita buona e virtù, cit., p. 260. 48 E. LECALDANO, Torino, Etica, Utet, 1995, pp. 181-182. Recentemente Lecaldano ha sostenuto che «una precisa linea teorica all’interno dell’utilitarismo... consente di riconoscere l’importanza delle virtù per la valutazione morale» e che «in particolare molto ci si può aspettare da un utilitarismo innestato nella tradizione sentimentalista che si ispira a Hume»: cfr. E. LECALDANO, Carattere, virtù, moralità: un’analisi su base utilitarista?, in Etica individuale e giustizia, a cura di A. Ferrara, V. Gessa-Kuretschka, S. Maffettone, Napoli, Liguori, 2000, pp. 377-397 (in particolare, pp. 379, 397). 47

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che ridurre l’attenzione per la libertà alla mera conquista dell’autonomia significa incoraggiare quella tendenza dell’individuo a racchiudersi in se stesso che lo rende ottuso e non disponibile, non responsabile; una tesi che ricorda anche la ripetuta denuncia di Charles Taylor nei confronti dell’individualismo, della concentrazione sul proprio io, che impoverisce di significato la propria vita, e di qualsiasi interpretazione dell’autenticità personale come espressione di una vuota autonomia, di scelte aventi un valore semplicemente come scelte, indipendentemente dalla qualità morale dei loro contenuti, e dai tratti del carattere che ne risultano e da cui procedono)50. Questa linea di pensiero del resto è perfettamente congruente ancora una volta con quella del personalismo. Per Maritain la personalità significa interiorità riguardo a se stessi e nel contempo ‘unità sociale’51. Mounier a sua volta osserva che il linguaggio comune spesso identifica ‘vita personale’ e ‘vita interiore’ e sostiene che l’interiorità non esclude la comunità, perché gli uomini sono legati solo dalle loro vite interiori, che muovono spontaneamente verso la comunità: la vita privata si regge solo sulla vita interiore, ma questa è già vita sociale52, è «intimità comunicata da persona a persona»53.

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J. PIEPER, La luce delle virtù, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1999, p. 23. Cfr. R. GUARDINI, Virtù, trad. it., Brescia, Morcelliana, 1997, pp. 69-71; R. GUARDINI, La coscienza, trad. it., Brescia, Morcelliana, 1997, pp. 10-11, 45, 53, 57; E. MOUNIER, Le personnalisme, cit., pp. 483-484 (trad. it., p. 102); C. TAYLOR, The Ethics of Authenticity, Cambridge, Mass., – London, Harvard U.P., 1991, pp. 4, 39; C. TAYLOR, Radici dell’io, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1993, p. 617. Cfr. N. GENGHINI, Identità comunità trascendenza. La prospettiva filosofica di Charles Taylor, Roma, Studium, 2005, p. 165. 51 J. MARITAIN, La persona e il bene comune, cit., pp. 25, 30. 52 E. MOUNIER, Révolution personnaliste et communautaire, cit., pp. 236-237, 332 (trad. it., pp. 162-163, 300); Manifeste au service du personnalisme, cit., p. 557 (trad. it., p. 117). 50

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3. Virtù e regole Un aspetto dell’etica delle virtù che vorrei mettere in evidenza è la circostanza che, in base ad essa, sarebbe un errore considerare la moralità come qualcosa che sopraggiunga dall’esterno e non abbia una connessione essenziale con l’identità della persona. La qualificazione morale della persona, la determinazione delle disposizioni stabili del suo carattere, quelle per le quali ha senso esprimere lode o biasimo, pur nell’estrema varietà delle circostanze e situazioni, il suo possedere virtù e vizi, è una conseguenza inevitabile delle scelte libere della persona. Il principio dell’effetto ‘intransitivo’ della scelta, che su basi aristoteliche riconosce che le nostre scelte libere non modificano solo stati di cose esterni ma la persona stessa che agisce, esprime in altra forma la medesima verità. La stessa intima connessione fra la moralità e il soggetto umano può essere raggiunta a partire dalle norme e dalle regole, se si vede che queste acquistano senso solo nel definire e costituire un intero modo di vivere, quello cui le virtù stesse sono orientate o che già esprimono in modo eccellente54. John Haldane ha recentemente osservato che il passag53

E. MOUNIER, Le personnalisme, cit., p. 464 (trad. it., p. 76). Cfr. le osservazioni di G. ABBÀ, Quale impostazione per la filosofia morale?, cit., pp. 245, 267, 268. Si è osservato propriamente che le esigenze della moralità esercitano un richiamo sul soggetto agente non perché siano una voce imperiosa, che minacci di interferire con la sua tendenza all’autorealizzazione, ma perché in definitiva rappresentano una dimensione di coscienza senza la quale la personale autorealizzazione mancherebbe di stabilità e profondità: cfr. J. COTTINGHAM, Appagamento individuale ed esigenze morali, in Etica individuale e giustizia, a cura di Ferrara, Gessa-Kuretschka, Maffettone, cit., pp. 79-92 (in particolare, p. 92). Nell’etica delle virtù la condotta migliore si spiega nei termini di come è meglio per una persona essere. Si può sussumere l’etica delle virtù sotto l’etica della ‘realizzazione di sé’, se si suppone che agire in modo appropriato significa agire secondo quei tratti del carattere che esprimono o realizzano il proprio io, la propria natura o identità, le finalità intrinseche del proprio essere come soggetto agente, nella concretezza dei suoi legami e delle sue relazioni costitutive: cfr. G. WATSON, On the Primacy of Character, in Identity, Character, and Morality, edited by Owen Flana54

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gio da un’etica della legge a un’etica delle virtù non consiste tanto in un mutamento di direzione, quanto nell’acquisizione di un nuovo principio di movimento dall’interno (ab intrinseco, come dicevano gli scolastici): mediante questo principio si può raggiungere la stessa mèta cui si era precedentemente orientati55. L’obiezione dell’etica delle virtù al primato delle regole o delle norme non implica la loro esclusione dall’ambito dell’etica (analogamente è stato detto di Mounier che ciò che egli esclude è solo la sacralizzazione della norma56). Qual è il ruolo delle regole in un’etica delle virtù? Nell’etica contemporanea non si dà una risposta univoca a tale domanda. Per MacIntyre le regole sono necessarie, anche se il loro senso si manifesta solo in rapporto all’esercizio delle virtù e al modo di essere e di vivere che caratterizza la piena fioritura della persona. «Comprendere l’applicazione di regole come parte dell’esercizio delle virtù – osserva MacIntyre – significa comprendere il senso del seguire le regole, dal momento che non si può comprendere l’esercizio delle virtù se non nei termini del loro ruolo nel costituire il tipo di vita nel quale soltanto il telos umano si può conseguire. Le regole che sono i precetti negativi della legge naturale non fanno altro che porre limiti a quel tipo di vita e in tal modo solo parzialmente definiscono il tipo di bontà cui mirare. Distaccate dal loro ruolo nel definire e costituire un intero modo di vivere, esse diventano nient’altro che una serie di proibizioni arbitrarie»57. Le regole sono necessarie, ma nessun genere di regole, né quelle negative inviolabili né le prescrizioni positive, osserva MacIntyre, «possono costituire gan and Amélie Oksenberg Rorty, Cambridge, MA, The MIT Press, 1990, pp. 449469. 55 J. HALDANE, Faithful Reason, London – New York, Routledge, 2004, p. 159. 56 J.-F. PETIT, Penser avec Mounier. Une éthique pour la vie, cit., p. 154. 57 A. MACINTYRE, Three Rival Versions of Moral Enquiry, London, Duckworth, 1990, p. 139. Cfr. anche A. MACINTYRE, Politics, Philosophy and the Com-

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da sole una guida sufficiente per l’azione», di modo che «sapere come agire virtuosamente implica sempre qualcosa in più del mero seguire una regola»58. Come ha osservato Jean Porter, «tipi di azione moralmente buoni sono concettualmente connessi con le virtù, in quanto determinati tipi di azioni sono caratteristici di particolari virtù e tendono a promuoverle nella persona»59. D’altra parte in questa prospettiva, che si rifà a Tommaso d’Aquino, la norma morale è intrinseca alla persona, non si giustappone né si impone dall’esterno, neppure nel senso delle formulazioni, più o meno radicali, della cosiddetta ‘etica dei comandi divini’, e il male morale, di conseguenza, non è un’offesa a Dio perché rechi in qualche modo danno a Lui o violi un ordine superiore arbitrario, ma perché c’è qualcosa di intrinsecamente autodistruttivo nella violazione della legge morale (e in questo senso, nella prospettiva del teismo cristiano, il male morale «contraddice la volontà assoluta di Dio che le sue creature esistano e fioriscano»60). È lo stesso processo che, in forma più diretta e immediata, si manifesta quando si arresta, o, peggio, si inverte radicalmente l’orientamento verso le virtù, cioè verso quelle forme di eccellenza, senza le quali non è possibile la realizzazione integrale della persona.

mon Good, cit., p. 247. Cfr. anche M. MATTEINI, MacIntyre e la rifondazione dell’etica, Roma, Città Nuova, 1995, p. 80. 58 A. MACINTYRE, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, trad. it., Milano, Vita e Pensiero, 2001, p. 91. Cfr. D. SOLOMON, MacIntyre and Contemporary Moral Philosophy, in Alasdair MacIntyre, ed. Mark C. Murphy, Cambridge, Cambridge U.P., 2003, pp. 114-151, in particolare p. 131. Cfr. G. ABBÀ, Quale impostazione per la filosofia morale?, cit., p. 247. 59 J. PORTER, The Recovery of Virtue. The Relevance of Aquinas for Christian Ethics, Louisville, Westminster/John Knox Press, 1990, p. 105. 60 296 Ivi, p. 147.

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EDUCARE ALLA CITTADINANZA CON MOUNIER E RICOEUR Andrea Giambetti

Premessa È innegabile che le consonanze filosofiche tra E. Mounier e P. Ricoeur siano moltissime; eppure direi che il trait d’union definitivo può essere senz’altro individuato in quella passione civile, politica ed educativa che ha connotato la vita di entrambe. Mounier e Ricoeur (paradossalmente come Sartre, loro ideale ‘dirimpettaio’) non separano mai pensiero ed esistenza, libertà ed engagement, indagine filosofica e scelte di vita. Essi hanno trasformato la passione civile in intento educativo e la meditazione filosofica in narrazione; tutto ciò è stato per i due filosofi non solo un programma di vita, ma una propria personale ascesi e una scommessa sul futuro del mondo. Educare alla cittadinanza sulla scorta della riflessione personalista dei nostri autori significa, in prima istanza, scommettere sulla possibilità – nonostante le voci irridenti che oggi echeggiano da più parti – di unire etica e politica; non di ‘sovrapporre’ etica e politica, semplicemente di porle in un dialogo profondo e vivificante. L’etica dei Nostri, lungi dall’essere un privatistico esercizio di virtù disancorato dal mondo, dall’‘altro’, dalla storia, è invece un’etica della relazione e della mutualità, un’etica strutturata sul concetto primitivo di alterità. Per Ricoeur, ad esempio, se non è più possibile parlare di un Ur-ich, un io primitivo, fondativo, tipico delle filosofie del soggetto, si deve invece riscoprire un’alterità primitiva, strutturante l’identità profonda della persona almeno quanto la sua 297

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stessa ipseità. Al fondo del mio ‘io’ c’è sempre un ‘altro’. Questa alterità-che-mi-interpella è la scaturigine profonda, fontale, da cui trae origine la visione etica dei nostri due filosofi. A questo punto possiamo chiederci se esista un orizzonte ermeneutico in cui l’ethos della persona colga la sua ontologica alterità ed entri in dialogo con essa, le permetta di ri-emergere, di ri-scoprirsi, di portarsi a coscienza: questo orizzonte è la ‘politica’ nel senso alto del termine, è l’edificazione della città dell’uomo, è la storia del mondo con i suoi ripetuti scacchi alle magnifiche sorti e progressive. Un’etica per la politica, una politica per l’etica Sinora abbiamo affermato che, stando alla lezione etico-politica di Ricoeur e di Mounier, un’educazione alla cittadinanza deve emergere dallo svelamento del fondamento etico della persona. Ma dietro questo velo, dopo questa ri-velazione, nell’arcano ‘fondamento opaco’ dell’uomo cosa veramente si cela? Scopriamo qui un’attitudine fondamentale della persona, o se vogliamo una virtù cardinale, quella della «sollecitudine»; essa può esser considerata il perno, lo stabile fondamento su cui costruire la politica della città dell’uomo. La sollecitudine svela alla persona i due volti della sua natura sociale: quello che lo convoca a responsabilità grazie all’incontro con l’altro-personale; quello che gli rivela la sua dimensione comunitaria grazie all’incontro con l’altro-istituzionale, soprattutto nella dimensione della giustizia e della responsabilità collettive. Educare alla cittadinanza significa, dunque, svolgere un’azione incisiva a carattere formativo che, partendo dall’afflato etico insito nella coscienza della persona, estenda la prospettiva della «vita buona» nella direzione dell’altro personale (rapporto io-tu), dell’altro comunitario (rapporto io-noi), dell’altro istituzionale (rapporto io-tutti). Ci avverte Paul Ricoeur che l’etica personale – che implica il riconoscimento della dignità altrui, la stima e la sollecitudine 298

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nei confronti del ‘volto’ del simile –, non può permanere a lungo entro il rapporto duale io/tu; deve anzi permettere lo svelamento di una ‘terza’ dimensione, quella dell’ ‘altro senza volto’, quella del «ciascuno». «Che la prospettiva del vivere bene comporti in qualche modo il senso della giustizia, è implicito nella nozione stessa dell’altro. L’altro è anche l’altro dal “tu”. Correlativamente la giustizia si estende al di là del faccia a faccia. Sono qui in gioco due asserzioni: in virtù della prima, il vivere bene non si limita alle relazioni interpersonali, ma si estende alla vita delle istituzioni. Per la seconda, la giustizia presenta degli aspetti etici che non sono contenuti nella sollecitudine e cioè essenzialmente una esigenza di uguaglianza. L’istituzione come punto di applicazione della giustizia, e l’uguaglianza come contenuto etico del senso della giustizia sono le due poste in gioco dell’indagine che verte sulla terza componente della prospettiva etica. Da questa duplice indagine risulterà una nuova determinazione del sé, quella del ciascuno: a ciascuno il suo diritto»1.

Ma prima ancora di osservare il movimento dell’io-etico verso l’alterità siamo invitati a cogliere il dinamismo del movimento opposto; quello cioè che provenendo dall’alterità costruisce l’identità della persona. Prima che io possa volgere la mia sollecitudine verso l’altro-da-me, questa alterità ha già costituito parte fondamentale della mia persona, mi ha costruito, mi ha strutturato. Io posso cogliere il valore del mio impegno etico-politico-civile-educativo soltanto se ho già preso coscienza del valore che l’alterità ha assunto nella formazione della mia stessa identità. L’altro non è solo l’altroda-me, ma è anche l’altro-in-me. Il canale dell’alterità come struttura stessa dell’ipseità della persona è il cardine delle filosofie personaliste di Ricoeur e di Mounier. L’altro mi costituisce; in esso posso rispecchiare la mia identità e la 1

P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Paris, Seuil, 1990; trad. it. e intr. a cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Milano, Jaca Book, 1993, p. 290.

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mia umanità. L’altro non è «il mio inferno», piuttosto è la ‘mia patria’. Ma l’altro, dicevamo, è anche altro-da-me, diverso, distante, lontano, senza volto. Da questa costatazione prende le mosse l’educazione alla cittadinanza, poiché soltanto attraverso il canale della giustizia, l’anelito all’equità, è possibile scorgere l’«altro senza volto», il distante. Esso può avvicinarsi a noi, perdere parte dell’anonimato che lo caratterizza, soltanto attraverso il canale dell’istituzione, altrimenti rischieremmo la permanenza in un facile quanto improduttivo irenismo, in un’etica deteriore dei buoni sentimenti. L’istituzione, al contrario, dà fondamento ed educa la tensione che ogni uomo porta in sé all’universalità e all’incontro generalizzato. In questo orizzonte non vi è più posto per l’esclusione del diverso e del lontano, anzi, parafrasando Ricoeur, possiamo dire che in questo caso «il terzo è incluso». Egli non è più un distante, piuttosto pertiene alla mia identità quanto il ‘tu’ amicale, perché nella mia identità personale vi è l’anelito alla giustizia, alla sollecitudine, al rispetto incondizionato. Il ‘terzo’ permette l’esperienza dell’umanità nel suo senso più pieno e più vasto; permette che la sollecitudine e la cura possano oltrepassare gli angusti limiti del proprio orizzonte ermeneutico; permette di cogliere la dignità incondizionata dell’esser-uomo, al di là delle barriere spazio-temporali e sociali che una visione troppo angusta potrebbe circoscrivere. Il riconoscimento del ‘terzo’ struttura la mia umanità e mi rende pienamente persona. La città dell’uomo è, dunque, lo spazio di coglimento dell’alterità soprattutto nella forma della ‘terziarietà’. Spazio di concertazione nella quale si fa esperienza di possibilità e di logiche diverse da quelle della relazione di dominio; ove si sperimentano la condivisione delle possibilità, la concretezza del potere-in-comune, la «convivialità delle differenze», secondo la felice espressione di mons. Bello. Come si vede lo sforzo di Ricoeur e di Mounier è stato quello di collegare saldamente l’etica della persona con la politica per la persona. Questo ponte ermeneutico costituisce l’impianto generale 300

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della ‘vita buona’, quella, cioè, vissuta «con e per gli altri all’interno di istituzioni giuste». Il cittadino responsabile sarà, dunque, colui che tiene fortemente ancorato il suo senso etico alla sua azione politica, in modo tale che l’uno e l’altra si echeggino vicendevolmente; si potrebbe parlare di una vicendevole «ascrizione di responsabilità». «I due mondi, quello dell’etica e quello della politica, si impoveriscono se contrapposti frontalmente o se appiattiti l’uno nell’altro. Ricoeur preferisce parlare di intersezioni per evitare la coincidenza… La scelta di orientare eticamente la politica torna ad essere una priorità, anche se la distinzione deve restare: l’etica non si confonde con la politica, ma la contesta e la mette in questione, smascherandone talvolta la ‘violenza indifferente’… animandone talaltra la tensione a superare la sua autoreferenzialità, per rimettere al centro la persona, sfidandola sempre al confronto con l’utopia. L’etica, dunque, problematizza la politica»2. Un «nucleo etico invulnerabile» rimane il fondamento della vita politica e della filosofia di matrice personalista. Tuttavia possiamo domandarci in cosa effettivamente consista l’irriducibilità di tale fondamento insito nella coscienza della persona. Ricoeur ritiene di poter metaforizzare (o forse concretizzare) tale nucleo ricorrendo alla celebre regola d’oro, nella sua duplice formulazione (in negativo ed in positivo): «fa’ agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te». Educare alla cittadinanza, allora, significherà educare allo sguardo alto dell’etica; uno sguardo che sappia superare la pretesa separazione de factu tra etica e politica. «Una cultura della responsabilità tende ad allargare gli spazi che consentono il risveglio di tale coscienza politica nel maggior numero possibile di cittadini, pronti all’occorrenza ad assumere la responsabilità della cosa pubblica, sia attraverso i canali istituiti della vita politica, che attraverso forme nuove di autoorganizzazione dal basso… La politica impregnata di 2

A. DANESE, Etica della responsabilità e politica, in Persona, comunità e istituzioni. Dialettica tra giustizia e amore, a cura di A. Danese, Firenze, Edizioni Cultura della Pace, 1994, p. 14.

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eticità, lungi dallo scadere – secondo un modo razionalista e neutralista – nella fantasticheria, nello spiritualismo sterile e nella chiacchiera, è l’impegno principe per realizzare uno sviluppo più pienamente umano, per non cedere alla suggestione dei cinici, che ritengono abissale la separazione tra idealismo morale e realismo politico»3. Un’autentica educazione alla cittadinanza non potrà nemmeno trascurare il tema – centrale sia nell’opera di Mounier che di Ricoeur – dell’aspetto istituzionale dell’azione socio-politica. L’istituzione non è che un «canale distributivo di umanità», che giunge ad intessere relazioni colmando distanze anche abissali. «L’istituzione traduce in norma la sollecitudine a condividere, distribuire e redistribuire diritti e doveri, guadagni e patrimoni, responsabilità e poteri, vantaggi e svantaggi»4. Ma l’istituzione svolge anche un ulteriore compito, quello di mediatrice ottimale nei rapporti tra diversi; armonizza, cioè, i rapporti tra contrari. Innanzitutto facilita la comunicazione, in modo tale che partners diversi e distanti possano mantenere la propria identità senza che il più debole sia destinato a soccombere nel confronto con il più forte. Inoltre riesce a ridurre il grado di conflittualità naturale che è sempre presente nella relazione intersoggettiva ed interistituzionale. Ambedue i soggetti, sia che si tratti di relazioni personali che di rapporti tra istituzioni, possono affidarsi alla terziarietà dell’istituzione come alla garanzia di uno sguardo ‘altro’ ed ‘alto’ rispetto alle logiche, sempre parziali, dei propri individuali punti di vista. Il terzo istituzionale garantisce, dunque, una terza prospettiva di osservazione e di analisi delle posizioni in conflitto, tale da facilitare un punto di vista impersonale, estraneo rispetto agli interessi delle parti coinvolte. In tal caso l’istituzione non è altro che la piattaforma neutrale sul cui suolo possono esser risolte le conflittualità, talora endemiche, della vita civile. 3 4

Ivi, p. 18. Ivi, p. 22.

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A livello educativo appare opportuno riservare un’attenzione specifica, in special modo nei percorsi scolastici, al senso e all’importanza delle istituzioni per la vita sociale. Ma appare anche opportuno richiamare con forza l’educando all’espressione concreta della propria istanza civica, anche attraverso le forme dell’impegno comunitario, associativo, culturale, aggregativo, sportivo, di volontariato. Forme, queste, ove le competenze istituzionali vengono esperite in modo diretto e vitale. L’attenzione alle povertà emergenti Nell’ambito della società complessa e consumistica s’impone un’ulteriore sottolineatura entro la sfera dell’educazione alla cittadinanza: l’attenzione alle povertà emergenti. Proprio in contesti ‘di frontiera’ si percepisce il bisogno di una formazione che non sia solo il frutto di buoni sentimenti, ma che manifesti una piattaforma di valori condivisi che giungano a concretezza grazie all’attenzione di attori ben preparati. «L’intenzionalità etica dell’impegno politico assume in Ricoeur non tanto il volto severo dell’imperativo categorico, quanto il richiamo solerte della cura verso ciò che è fragile. I “senza nome” e “senza volto”, gli ultimi, coloro che non hanno voce non cessano di reclamare la loro parte nella spartizione delle risorse, domanda che trova risposta nei due modi possibili della sollecitudine interpersonale e della sollecitudine istituzionale»5. Per Mounier, come per Ricoeur, prendere coscienza della sofferenza altrui è atto altamente sociale che deve trasformarsi in ogni persona in concreto impegno civile. La sofferenza dell’altro libera nel sé i sentimenti di cura e di sollecitudine che sono spontaneamente rivolti all’alterità. Educare all’attenzione e alla sollecitudine per l’umanità esclusa dalle logiche efficientistiche della moderna civiltà e dai

5

Ivi, p. 29.

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meccanismi nichilistici del post-moderno, significa travalicare i confini dell’oggi per aprire uno sguardo di responsabilità etica verso coloro che verranno dopo di noi. «La sofferenza non è definita unicamente dal dolore fisico, e neppure dal dolore mentale, ma dalla diminuzione, e anche dalla distruzione della capacità di agire, di poter fare, che vengono sentite come un attentato alla integrità del sé. Qui l’iniziativa, precisamente in termini di potere-di-fare, sembra spettare unicamente al sé, che dona la sua simpatia, la sua compassione, prendendo questi termini nel senso forte dell’aspirazione a condividere la pena altrui»6.

Eppure – continua Ricoeur – nella sollecitudine verso colui che sente diminuita o ferita la propria integrità personale, e che apparentemente non è in grado di adìre le vie dello scambio e dell’alternanza del dono, rimane possibile l’esperienza forte della reciprocità, del riconoscimento del valore assoluto che l’altro è per ognuno. La pratica del perdono Potrà apparire desueto l’inserimento del tema del perdono tra le attenzioni educative che abbiamo sinora proposto. Eppure non soltanto esso ci appare come una delle dimensioni fondamentali della relazionalità umana, ma ci convinciamo sempre di più della valenza sociale e, per molti aspetti, ‘politica’ di questa essenziale pratica di convivenza. Paul Ricoeur è intervenuto varie volte su questo tema, invocando su di esso un’attenzione educativa particolare, soprattutto in riferimento alle tragiche vicende della storia del Novecento e agli esiti potenzialmente esiziali della crescente conflittualità planetaria. Inoltre la pratica educativa è di per sé un ‘perdono continuo’ per la insita necessità dell’accoglienza della diversità. 6

P. RICOEUR, Sé come un altro, cit., p. 286.

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Certo, «in un tempo come il nostro, ‘perdono’ suona come un termine desueto e lontano dalla sensibilità di una cultura che ama parlare piuttosto di diritti individuali, di una giustizia da reclamare, di rivincite e di successo. Chiedere perdono e perdonare è avvertito da molti come un gesto umiliante o remissivo; ritenere un valore il perdono ci mette controcorrente rispetto alla cultura dominante»7. Se il secolo scorso è stato un punto di riferimento emblematico nel quale le forze del male hanno manifestato come non mai la loro potente virulenza, il nuovo millennio è chiamato a manifestare il «fondo di bene» presente nell’uomo proprio attraverso la pratica del perdono; l’ultima parola dovrà essere affidata ancora una volta al bene. Il futuro, infatti, nasce da una memoria ‘restaurata’. Educare al perdono significherà, dunque, educare a non dimenticare, anzi a ricostruire, mediante la potenza rigenerativa del perdono, una memoria dolorosa8. «Il perdono è una forma specifica di revisione del passato in cui ciascuna persona ripercorrendo le esperienze della sua vita vi rinviene sofferenze che ancora producono dolore. È opportuno fermarsi, ascoltare il proprio dolore e ospitare quello dell’altro, per evitare di rimuginare il proprio»9. Possiamo parlare, ormai, della pratica del perdono non soltanto entro la relazione interpersonale ma, addirittura, quale pratica socialmente virtuosa. Essa ci appare come il baluardo etico a garanzia del futuro del mondo. «Dal punto di vista teorico, sociale e politico, il perdono è necessario alla convivenza: se la gratuità del perdono origina in una esigenza del cuore umano, allora anche la società

7 G.P. DI NICOLA, A. DANESE, Perdono… per dono. Quale risorsa per la società e la famiglia, Torino, Effatà, 2005, p. 3. 8 «Il problema non è di perdonare, ma di domandare perdono. Ci sono dei momenti privilegiati in cui dei gesti simbolici ottengono un effetto. Penso al cancelliere tedesco Brandt che rende omaggio ai martiri del ghetto di Varsavia. Un gesto simbolico dà coraggio a chi lotta per la riconciliazione tra i popoli», ibidem. 9 D. IANNOTTA, Il perdono difficile. Per un’economia del dono nell’ordine della carità, «Prospettiva Persona», 45-46, 2003, p. 18.

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deve a suo modo rappresentarlo, anzi forse essa sarebbe ‘disumana’ se non ne rispecchiasse le caratteristiche. In effetti una società senza perdono annienta i nemici, è totalitaria, oppure assiste impotente alla morte di entrambe le parti che si fronteggiano, e dunque alla sua estinzione»10. La temperie culturale tipica delle società post-moderne, nella sua logica di competizione e di sopraffazione, emargina costantemente coloro che il meccanismo – spesso economico ma anche politico e sociale – scarta come residuo. Di fronte a tali conseguenze, il conflitto sociale tra élite e mondo dell’emarginazione è destinato inesorabilmente ad acuirsi. I conflitti bellici contemporanei conducono potentemente alla ribalta internazionale l’evidenza di tale assunto. La spirale di odio e di rivendicazione – economica, sociale, dei diritti – sembra inarrestabile ed anzi appare come il moto perpetuo di un circolo insanabilmente vizioso di sopraffazione e di violenza. Come poter uscire da tale spirale? «Il perdono è socialmente virtuoso perché interrompe il circuito vizioso della vendetta, per la quale le vittime tendono a identificarsi con i carnefici e a ripetere le sevizie subite, trasmettendo così, di generazione in generazione, la predisposizione alla vendetta e all’annientamento del nemico»11. «Vi è un grande bisogno che i popoli dell’Europa prendano compassione gli uni degli altri, immaginino, lo ripeto, la sofferenza degli altri al momento di gridare vendetta per le ferite che sono state loro inflitte nel passato. Ciò che qui viene richiesto rassomiglia fortemente al perdono»12. 10

G.P. DI NICOLA, A. DANESE, Perdono…, cit., p. 11. «Non si può suggerire che l’ordine della giustizia e della reciprocità possa essere influenzato da quello della carità e del dono: influenzato, ossia colpito e, se posso dirlo, intenerito? Non ne abbiamo forse esempi nella giustizia penale, con la grazia regale, la prescrizione, le riduzioni di pena? E nella sfera sociale, con certe espressioni caritative della solidarietà?», P. RICOEUR, Quale nuovo ethos per l’Europa, in Persona, comunità e istituzioni… cit., p. 103. 11 G.P. DI NICOLA, A. DANESE, Perdono…, cit., p. 12. 12 P. RICOEUR, ibidem.

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«Una società non può vivere nel fondamentalismo della giustizia del taglione. La giustizia resta tale, pur nel suo rigore politicogiuridico solo se ammette l’eccezione del perdono, ossia l’economia del dono, con la sua logica poetica più che etica, coopera con l’economia dello scambio, della giustizia, della reciprocità»13. Concludendo A cosa è utile, in definitiva, un’educazione alla cittadinanza che sia attenta ai temi che abbiamo individuato? Con Ricoeur potremmo dire che essa conduce alla formazione dell’homme capable, un uomo, cioè, che è divenuto pienamente persona e che, pertanto, è degno di stima e di rispetto. Un uomo che sa accogliere la responsabilità che deriva dall’alterità; che affronta le sfide della vita sociale con lo sguardo alto dell’etica; che è capace di com-passione verso il simile degradato nella sua dignità; che si dà cura del futuro del mondo e si impegna concretamente nell’oggi muovendosi nella complessità, anche istituzionale, della società moderna. Un uomo capace di far dialogare la «poetica dell’amore con la prosa della giustizia». 13

D. IANNOTTA, cit., p. 20. Nella medesima direzione ci appare convincente la lezione di G. RAVASI a commento del celebre aforisma di Cesare Beccaria nell’opera Dei delitti e delle pene: “Non vi è cosa più pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni”. Il teologo così si esprime: «La frase è interessante e ha al centro un tema di sua natura ambiguo, quello dello «spirito della legge». Da un lato, infatti, l’osservanza rigida e frigida della norma può diventare fonte di prevaricazioni e di ingiustizie: per questo sono state accolti nei vari sistemi giudiziari alcuni correttivi, come quello delle attenuanti. Un’applicazione letteralista delle regole può essere disumana… È necessario contemperare rigore e comprensione ma non fino al punto di far evadere impudentemente il cittadino al dettato sostanziale della norma. È giusta, quindi, la clemenza che non diventa lassismo», G. RAVASI, Lo Spirito della legge, «Avvenire», 5 maggio 2005.

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INFANZIA, PERSONALIZZAZIONE, EDUCAZIONE ESTETICA Fabrizio d’Aniello

Prima di entrare nel vivo delle questioni che interessano il rapporto tra educazione estetica ed infanzia, sembra doveroso premettere alcune precisazioni. In primo luogo, le considerazioni che verranno espresse sul rapporto suddetto non si collocano nella prospettiva degli esiti estetici, ma in quella educativa. In questo senso, viene ad essere bandita qualsivoglia ideologia panestetizzante che abbia origine da una matrice romantica post-kantiana, in ordine alla quale l’educazione estetica sia identificabile con l’Educazione tout court («l’educazione estetica risolve in sé l’educazione intellettuale, l’educazione morale, l’educazione religiosa»1): questa forma di educazione, al contrario, contribuisce, al pari di altre e sinergicamente con esse, alla crescita e alla maturazione integrale ed armonica del bambino, rappresentando non tanto lo scopo stesso di una determinata processualità formativa autoreferenziale, quanto un mezzo idoneo «ai fini della celebrazione del valore e della signoria dell’essere umano, della sua capacità di significazione e del suo contributo in direzione della elaborazione di un diverso progetto antropologico e sociale»2. 1 G. CATALFAMO, Il significato dell’educazione estetica nella formazione della personalità, in L’educazione estetica, Atti del V Convegno di Scholé, Brescia, La Scuola, 1961, p. 87. 2 B. ROSSI, Creatività ed educazione estetica, «Cultura e educazione per il bambino», 5-6, 1989, p. 11.

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In secondo luogo, accogliendo le riflessioni di Sira Serenella Macchietti, giova sottolineare il significato che intendiamo attribuire al concetto di educazione estetica, proprio perché uno dei motivi per cui questa non ha mai goduto di un ampio spazio o di una particolare considerazione nella scuola dell’infanzia consiste nel fatto «che la stessa espressione [...] assume vari significati se collocata in vari contesti e che si incontra ancora qualche difficoltà nell’individuare le sue differenze rispetto a quella artistica»3. Dunque, per dirla con Aldo Agazzi, possiamo, kantianamente, comprendere l’estetico come ciò che è «gusto, quale attitudine a sentire, godere, contemplare (gustare) il bello, ossia l’arte»4 e guardare, invece, all’artistico come «dono del genio, ossia la capacità di produrre il bello, di creare in arte»5. Oltre a ciò, «la categoria ‘estetica’ appartiene a tutti: è quella, ancora, di ‘gustare’, appunto, il bello e, in una certa misura, di tentarne la produzione in qualche forma»6. Mentre l’artistico proietta il particolare (la professionalità competente costruita sulla base di conoscenze, abilità e tecniche consolidate), l’estetico appartiene all’universale ed è appannaggio di tutti. Pertanto, concentrandoci sulla dimensione estetica piuttosto che su quella artistica, forti della certezza che il gusto estetico sia educabile in tutti e per tutti, fin dall’infanzia, non possiamo certamente accreditare tesi concordi con la teoria estetica crociana, che nega «la possibilità di fruizione dell’arte da parte dell’infanzia e, per intrinseca coerenza, dell’arte per l’infanzia, sostenendo che “il sole dell’arte non è fatto per il tenero occhio del bambino”»7. Così come 3 S.S. MACCHIETTI, L’educazione estetica nella storia della pedagogia dell’infanzia e della scuola materna, «Cultura e educazione per il bambino», cit., p. 2. 4 A. AGAZZI, Didattica degli insegnamenti linguistici, Milano, Vita e Pensiero, 1975, p. 11. 5 Ibidem. 6 Ibidem. 7 S.S. MACCHIETTI, L’educazione estetica ..., cit., p. 2.

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non possiamo non criticare ipotesi di studio che, schillerianamente, ribadiscano una frattura insanabile tra attività artistica ed intellettuale, sostenendo che lo «stato estetico» (il regno del gioco e dell’apparenza dove l’incontro-scontro tra istinto formale ed istinto sensibile si annulla a favore del raggiungimento della vetta della personalità) può essere raggiunto unicamente dall’artista dotato della «natura geniale» e dell’«anima bella»8. Possiamo, invece, rilevare, con Renzo Titone, che «l’affinamento estetico dello spirito è troppo importante perché lo restringiamo alla casta di alcuni presunti super-dotati: tutti (i bambini), in quanto candidati all’umanità ideale, hanno un preciso diritto a tale perfezione»9. In terzo luogo, argomentare sull’educazione estetica significa implicitamente celebrare la creatività come idea regolativa dell’educazione permanente della persona e, coerentemente, raccogliere la sfida di una pedagogia che, di fronte all’affermazione di un relativismo etico diffuso, all’incedere dell’irrazionalità storica niciana e al successo riscosso da modelli pedagogici che puntano sulla preminenza della politica scolastica e del formalismo, nonché sull’assenza di progettualità educativa, abbraccia una antropologia pedagogica forte e difende strenuamente il valore della persona e la persona come valore: perché la tensione ideale della creatività la agevoli nella «enucleazione e valorizzazione della sua essenza dinamica e dei suoi poteri rivelativi e generativi di originalità»; perché rinvenga nell’esercizio della stessa «la forza di attualizzazione [...] della propria distintività» e delle proprie ‘virtualità’; perché dall’ideale etico di cui questa si fa latrice, sia in grado di attingere

8

Cfr. J.C.F. SCHILLER, L’educazione estetica dell’uomo, trad. it., Milano, Rusconi, 1998 e F. D’ANIELLO, La poesia come attuazione delle potenzialità interiori, in Itinerari pedagogici e culturali, a cura di S.S. Macchietti, Siena, Edizioni Cantagalli, 2000. 9 R. TITONE, Introduzione ad una psicologia dell’educazione estetica, in Psicologia e didattica dell’educazione estetica, a cura di R. Titone, Torino, SEI, 1995, p. 16.

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quell’«energia indispensabile per affrontare e risolvere situazioni disumanizzanti»; perché, infine, educandosi alla creatività, sviluppi quella vis produttiva e proattiva che le consenta di «vivere in maniere autenticante la propria avventura esistenziale»10. «Il ritratto che ne deriva è quello di una creatività non funzionalistica od efficientistica, bensì ‘umanistica’, ‘personalistica’, capace cioè, in virtù del rispetto profondo della persona e dei dinamismi mediante i quali essa si apre ai valori, di consolidare la forza di iniziativa individuale e, conseguentemente, di generare modalità di vita qualitativamente superiori»11, sia dal punto di vista personale, che comunitario, facendo tesoro degli inviti che questa ci offre al fine di aderire «ad una forma di engagement civile per eliminare tutte le forme di depressione umana e sociale, di emarginazione e di frustrazione [...]»12. Quello che ci chiediamo ora è perché riflettere sul Bello, espresso attraverso l’arte, proprio in relazione all’infanzia. Perché il bambino, contrariamente ad un adulto disincantato, abituato a convivere con i risultati di una istruzione legata alla promozione di operazioni logico-formali e con l’uso di una facoltà pensante progressivamente inaridita da quella tensione all’apparenza e alla superficialità che è propria dell’odierna società economica, vive su se stesso la mostruosa sensazione della realtà (intesa etimologicamente come meravigliosa), unitamente allo stupore che l’accompagna. Non a caso viene utilizzato il termine stupore. In effetti, innanzi al prevalere delle tendenze cognitiviste, che sacrificano forme e momenti educativi essenziali per centrare l’attenzione su processi di apprendimento finalizzati ad agevolare la conoscenza della realtà in vista dell’esercizio crescente di potere su di essa, vale la pena sottolineare, con Carla Xodo Cegolon, l’importanza di «valorizzare anche il 10

B. ROSSI, Creatività..., cit., pp. 10-11. Ivi, p. 10. 12 M. MENCARELLI, Creatività e valori educativi. Saggio di teleologia pedagogica, Brescia, La Scuola, 1977, p. 211. 11

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rapporto più partecipato e coinvolto che inizia con l’incanto e lo stupore del bambino verso il mondo»13. Per mezzo di questi, infatti, egli riesce ad intessere con la realtà, ivi compresa quella artistica, un rapporto diretto, istintivo, fantastico, in cui i confini tra io e non io scompaiono e significante e significato coincidono, nel senso che, impossessandosi del simbolo, ne conquista contemporaneamente il significato, immediatamente. A questo proposito, si potrebbe chiamare in causa la psicologia dell’età evolutiva, con le sue forme di sincretismo, di animismo e di realismo, per spiegare tale rapporto, ma, più semplicemente e fuori dai luoghi comuni, occorrerebbe riferirci all’infantile condizione egocentrica e, ancor più, al linguaggio con cui si esprimono, sia l’arte, che il bambino: il linguaggio delle emozioni. È grazie alla forza dirompente di quest’ultime, e qui riprendo il pensiero di Jacques Maritain, che l’artista è in grado di destare la sua anima dal torpore, di scuotere ed illuminare gli antri bui del suo «preconscio spirituale» (un inconscio positivo e non deterministico o automatico come quello freudiano) e sviluppare un’intuizione creativa che dall’oblio risale in superficie, a livello della coscienza, manifestandosi nell’attività di una «intelligenza non razionale» capace di dar forma a ciò che prima era indefinibile ed intraducibile14. Ed è ancora grazie alle emozioni che il bambino supera gli ostacoli cognitivi, cogliendo il non-dicibile, il non-razionale, il non-conoscibile, fino ad accogliere la profondità del messaggio di un opera, che, insistendo appunto sulla dimensione emotiva, comunica con l’essere interiore del bambino medesimo, con la purezza istintiva ed originaria della persona, favorendo l’emersione 13 La citazione è ripresa da un’intervista rilasciata al Centro Studi Gilda il 16 dicembre 2003, nell’ambito di una Conferenza organizzata dall’Associazione Filosofica Trevigiana e dalla provincia di Treviso sul rapporto tra Educazione e morale ed è consultabile presso il sito web www.gildacentrostudi.it. Per approfondimenti cfr. C. XODO, L’occhio del cuore. Pedagogia della competenza etica, Brescia, La Scuola, 2001, pp. 286-292. 14 Cfr. R. ALBAREA, Arte e formazione estetica in Jacques Maritain, Verona, Morelli Editore, 1990, pp. 78-81.

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e l’attuazione delle sue potenzialità creative e creatrici. Se è vero che l’emozione costituisce lo strumento privilegiato in base al quale il bambino e l’artista entrano in rapporto con la realtà – addirittura lo stesso Maritain prefigura l’esistenza di una peculiare conoscenza artistica ‘disponibile’ non solo per chi produce in arte, ma anche per chi ne fruisce, denominata «conoscenza per connaturalità affettiva»15, o, «per risonanza nella soggettività»16 –, è altrettanto vero che la scelta di focalizzare l’interesse sull’infanzia deriva da ulteriori ‘affinità’ tra il bambino e l’artista. Mutuando da uno studio condotto da Diega Orlando Cian sulla valenza educativa della poesia, pare lecito affermare, infatti, che i due soggetti non sono così dissimili, per quanto viene di seguito indicato: – Come l’artista colora la realtà con le tinte dell’introspezione, così il bambino percepisce il mondo esterno sulla base di una rappresentazione che prende spunto da uno stato interiore (ritorna il tema dell’emozione). – Come semanticamente ambiguo, allusivo e polisemico appare il linguaggio dell’artista, così, talvolta, anche le esternazioni linguistiche del bambino palesano molteplici prospettive interpretative, specialmente per le orecchie dell’adulto abituato ad impostare la comunicazione entro codici testati e continuamente riprodotti. – L’artista ed il bambino sono usi a descrivere e a reinventare metaforicamente la realtà17. Il richiamo alla metafora ci permette ora di affrontare un altro punto cardine della nostra argomentazione: in che modo l’educazione estetica e, dunque, l’incontro con l’arte – al di là delle conside15

Per approfondire tale concetto cfr. J. MARITAIN, Frontiere della poesia, trad. it., Brescia, Morcelliana, 1981. 16 U. ECO, La definizione dell’arte, Milano, Mursia, 1968, p. 109, citato da R. ALBAREA, Arte e formazione estetica ..., cit., p. 19. 17 Cfr. D. ORLANDO CIAN, Il valore della poesia per l’educazione del bambino, «Cultura e educazione per il bambino», cit., pp. 30-31.

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razioni espresse in apertura sulla creatività, che permeano e guidano, comunque, qualsiasi altra riflessione qui presente – contribuisce al processo di personalizzazione del bambino, alla sua umanizzazione? In prima istanza, l’arte mette a disposizione un’esperienza variegata, quella degli artisti, che costituisce il perno su cui l’educando può far leva, sia per allargare i confini della conoscenza di sé (confronto, interiorizzazione e significazione di metaesperienze emotivo-affettive e relativo accrescimento del centro della soggettività cosciente), che della percezione dell’alterità (l’opera può riferirsi a luoghi, personaggi, paesaggi e vissuti dapprima ignoti o esclusi dall’esperienza personale e sociale del bambino). In seconda battuta, agendo metaforicamente sulla realtà e, sovente, essendone essa stessa una espressione/interpretazione metaforica, insegna a comprendere che non esiste un’unica angolazione prospettica da cui osservare il mondo, bensì molteplici punti di osservazione che concorrono, tutti, ad arricchire ciò che è già noto di particolari inediti. Di conseguenza, sembra giusto sostenere che l’incontro con il Bello artistico rafforzi e potenzi le possibilità metaforiche del bambino. La metafora artistica, intesa come invenzione che scopre la realtà, svelandone l’apparenza, o come «significazione ingegnosa»18, ovvero come la porta oltrepassata la quale scopriamo la possibilità di addentrarci in un nuovo mondo di significati: – Indica al bambino la via d’uscita dalle coercizioni del linguaggio comune, mettendo in discussione i pregiudizi cognitivi e le convenzioni culturali, gli stereotipi e i luoghi comuni dell’antilingua mediante l’apertura a dimensioni di innovazione e di alternativa19. A questo proposito, e prendiamo come esempio quello della me18 E. TESAURO, Il cannocchiale aristotelico, ripreso da G. CONTE, Introduzione, in Metafora, a cura di G. Conte, Milano, Feltrinelli, 1981. 19 Per approfondire il ruolo della metafora in ordine a questa finalità, cfr. D. ORLANDO CIAN, Il primato della lingua come strumento di educazione, Brescia, La Scuola, 1977, p. 81 e ssg.

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tafora poetica, la familiarità progressiva con il linguaggio con cui questa si esprime e l’integrazione di questo con quello denotativo, portano ad un ampliamento delle competenze linguistiche del bambino. La polisemicità poetica favorisce un rapporto aperto, dialogante e problematico con il testo e ciò si presta come contributo essenziale allo sviluppo di una più generale competenza comunicativa e discorsiva. Tramite la sollecitazione ad una ridefinizione continua e ad una mobilizzazione della competenza lessicale e semantica (conoscenza e comprensione di altre parole o di significati diversi correlati alla medesima parola), il linguaggio poetico evidenzia il potenziale ‘significativo’ delle parole, rafforzando di conseguenza l’attitudine alla caratterizzazione personale del discorso e quell’atteggiamento di flessibilità che funge da antidoto alla meccanicità con cui si realizza oggi la fruizione dei messaggi della cultura di massa. – Riduce il rischio di aderire a categorie concettuali rigide e cristallizzate, imponendo l’esercizio di un’originalità interpretativa critica che annulla le pressioni omologanti. Affinché l’adulto di domani non si lasci ammaliare dalle sirene dell’adattamento passivo ed anonimo, finendo col vivere l’alienazione di un’esistenza plagiata dagli slogan dell’edonismo consumistico e dell’obnubilamento mediatico, converrebbe educare il bambino di oggi a dialogare con la realtà che lo circonda, ad interrogarla, ad agire su di essa, per conquistare un’identità attiva. A tale scopo, il «potere dialettico»20 dell’arte, ovvero il potere che essa ha di ‘rompere gli schemi’ per individuare opportunità di cambiamento e possibilità di trasformazione, domandandogli di recuperare la dimensione del silenzio e della meditazione al fine di trascendere l’immanenza formale21, aiuta il bambino ad arricchire il tesoro della personale

20

G.M. BERTIN, L’ideale estetico, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 217. Cfr. J. MARITAIN, Della poesia come esperienza spirituale, trad. it., «Poesia», Quaderni internazionali, 2, 1945, p. 318. 21

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coscienza critica, permettendogli di immaginare ed elaborare soluzioni alternative che concorrano alla delineazione di un progetto di vita axiologicamente orientato. – Stimola l’utilizzo del pensiero magico/fantastico, ossia di una forma di pensiero che, a sua volta, si nutre di metafore e costituisce l’espressione metaforica di quello logico, al quale è unito da un rapporto di analogia formale. ‘Logico’ e ‘magico’, oltre ad essere due forme di pensiero, sono due sistemi di conoscenza ed adattamento alla realtà complementari, perciò degni di essere coltivati entrambi ai fini dell’educazione integrale del bambino. Inoltre, in quanto tipo di conoscenza intuitivo, fondato sull’emozione e sull’immagine, che mette in rapporto l’interiorità con l’esteriorità22, fungendo da ipotetico spazio neutro all’interno del quale è sospeso il criterio di verità/falsità e da ponte di contatto tra campi semantici differenti, la metafora artistica: – Facilita l’accoglimento rispettoso della diversità e l’accettazione della differenza non come ostacolo, ma come valore e risorsa. – Agevola la percezione del paradosso, dell’assurdo e delle incongruenze non come ciò che esuli dalla norma, ma come espressione di creatività e bellezza, modo diverso e ricchissimo di vedere le cose. – Sollecita la capacità di adattarsi a sistemi concettuali altri, in modo tale che, in caso di incomprensione, non venga lasciato spazio alla chiusura, al trionfo del pregiudizio e del distacco, all’intolleranza e alla mancanza di flessibilità, bensì alla disposizione al dialogo, all’ascolto dell’altro, alla volontà di negoziare un significato consensuale23. Quanto detto finora afferisce sostanzialmente alla dimensione 22 Cfr. M. MANNO, Presentazione, in J.S. BRUNER, Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, trad. it., Roma, Armando, 1976, pp. 18-19. 23 Sull’influenza della metafora nella calibrazione dei modi di strutturazione concettuale, cfr. G. LAKOFF, M. JOHNSON, Metafora e vita quotidiana, trad. it., Farigliano, Espresso Strumenti, 1982, pp. 255-259.

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contemplativa dell’educazione estetica, ma non esiste solo l’aspetto fruitivo. I ‘tentativi’ di produzione a cui rimandava Agazzi, in particolare quando questi siano indirizzati, in sezione ad esempio, ad una produzione collettiva, agevolano: – lo sviluppo del senso e del rispetto di sé, dato che nell’atto creativo è possibile riconoscersi (riconoscere l’esercizio della propria volontà e l’attuazione delle potenzialità ideatrici e creatrici con conseguente aumento del livello di autostima) e valutarsi (valutare il proprio ‘saper fare’ e i limiti interni che circoscrivono la maturazione armonica della personalità in ordine alle eventualità autorealizzative e alla conquista di un ‘saper essere’ dinamico); – la cooperazione. «È la cooperazione che, costringendo l’individuo a occuparsi incessantemente del punto di vista degli altri per paragonarlo al suo, porta al primato dell’intenzionalità»24. «La cooperazione, rimuovendo l’egocentrismo e il realismo morale, conduce ad una “interiorizzazione delle regole. Così una nuova morale succede a quella del puro dovere. L’eteronomia lascia il posto a una coscienza del bene, la cui autonomia deriva dall’accettazione delle norme di reciprocità. L’obbedienza lascia il posto alla nozione di giustizia e all’aiuto reciproco, fonte di tutti gli obblighi sino ad allora imposti come imperativi incomprensibili”»25. La cooperazione, dunque, correlata alla messa a disposizione delle risorse personali in vista di un fine comune (il buon esito della produzione stessa), alla sana competizione che evidenzia ostacoli e pregi dell’incedere creativo, alla negoziazione di significati condivisibili necessaria alla progressione dell’itinerario ‘artistico’, suscita ed alimenta il processo di crescita sul piano morale, perché fa leva su dinamiche relazionali regolate da norme all’interno delle

24 J. PIAGET, Il giudizio morale nel fanciullo, trad. it., Firenze, Giunti Barbera, 1972, p. 87, citato da G. SERAFINI, Educazione morale oggi, in Educazione morale, a cura di S.S. Macchietti, Roma, FISM, 1990, p. 46. 25 G. SERAFINI, Educazione morale oggi, cit., p. 46.

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quali il bambino impara ad esprimersi e a realizzare se stesso agendo con senso di responsabilità26, fino a comprendere, gradualmente, l’importanza di ciò che possiamo definire ‘commozione morale’ anche al di fuori della stessa dimensione estetica. Per ‘commozione morale’ si intende il muovere insieme (educatori ed educandi) e parzialmente corresponsabile verso un bene che incide palesemente sia a livello sociale, sia in termini di autoaffermazione ontologica individuale: il bene comune. Lungi dal voler trattare in questa sede il rapporto tra Bene e Bello, conviene a questo punto evidenziare ulteriori finalità educative raggiungibili attraverso l’incontro con l’arte. Ci riferiamo in particolare ad attività e giochi proposti al bambino con l’intento principale di sensibilizzarlo al gusto estetico (conoscenza ed imitazione spontanea di opere d’arte, tanto per fare un esempio) e che, contemporaneamente, mirano al conseguimento di specifici obiettivi di apprendimento altrettanto importanti in termini di crescita globale. Tali compiti, che riguardano indistintamente l’‘assaporazione’ e la produzione estetica, tendono a: sviluppare la coordinazione oculomanuale ed esercitare la motricità fine della mano (ritagliare tasselli di un quadro riprodotto e giustapporli per ricostruirlo nella sua interezza, per esempio), esercitare il controllo grafo-motorio (ripassare tratteggi e compiere grafismi elementari), sperimentare forme originali di espressione artistica (digitopittura, tangram, utilizzo di elementi presenti in natura, etc.), sperimentare tecniche decorative alternative (tecnica dei punti, delle linee, etc.), sviluppare la capacità di osservazione e potenziare la percezione visiva, discriminare percettivamente i colori, sperimentare combinazioni cromatiche, conoscere le iniziative artistiche presenti nell’ambiente di vita, etc. Accertato, quindi, il ruolo che l’educazione estetica assume in ordine al processo di personalizzazione del bambino, per l’attenzio-

26

Cfr. C. XODO, Perché l’educazione morale, in Educazione morale, a cura di C. Xodo, Brescia, La Scuola, 2001, pp. 57-58.

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ne che presta all’unità integrale del suo sviluppo e alla affermazione delle qualità ontologiche della persona, per la capacità di soddisfare «un diritto personale (il diritto all’attuazione del potenziale umano [...]), un’esigenza sociale (il bisogno di un bene comune) ed anche il bisogno di superare la precarietà esistenziale, di apprezzare e produrre ciò che consente all’uomo di affermarsi come fruitore e produttore di cultura e significati»27, non resta altro che rispondere alla domanda sul come educare al Bello: come educare al gusto estetico, come passare dalla ‘sensualità artistica’ alla sensibilità estetica, dall’immediatezza del sentire alla legittimazione e mediazione razionale-emotiva del sentito? Lo spazio a nostra disposizione non ci consente di analizzare quel ventaglio di proposte didattiche, che, in tempi recenti, si è dispiegato in modo esponenziale ponendo in rilievo questioni attinenti soprattutto la metodologia educativa piuttosto che l’antropologia e la teleologia. Perciò, ci limiteremo ad alcune indicazioni di massima che, a nostro avviso, costituiscono l’asse portante di qualsiasi esperienza di educazione estetica. In accordo con le riflessioni di Fiorenzo Viscidi28 sulla formula proposta da Luigi Stefanini (educazione alla, nella e per la bellezza), sembra utile approfondire il ruolo dell’educatore nella promozione e nella realizzazione di una educazione al Bello. La ‘testimonianza’ dell’amore per il Bello si manifesta nella relazione e nella comunicazione che l’educatore intrattiene con i propri educandi e ciò dovrebbe avvenire non solo quando oggetto della discussione sia l’arte, bensì ogni tipo di dialogo e di confronto dovrebbe essere «improntato da una nota di artisticità e di esteticità, come disposizione che la bellezza viva in un rapporto dinamico di comunicazio-

27

S.S. MACCHIETTI, L’educazione estetica ..., cit., p. 8. Cfr. F. VISCIDI, Didattica dell’insegnamento estetico, in Questioni di metodologia e didattica, a cura di M. Peretti, Brescia, La Scuola, 1974, pp. 261-263. 29 Ivi, p. 262. 28

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ne»29. Pertanto, dalle parole dell’educatore, dai suoi gesti e dal modo in cui si rapporta agli alunni, dovrebbe trapelare il desiderio di far capire, sentire e vivere la Bellezza. Quest’ultima frase ci aiuta a comprendere l’impossibilità di educare alla Bellezza, in senso letterale, e la necessità, invece, di educare a prendere confidenza con essa, ad amarla, in modo graduale, attraverso un vero e proprio tirocinio del Bello. L’occhio metaforico del bambino dovrebbe essere progressivamente abituato al linguaggio con cui questo si manifesta, passando dal facile al difficile: dall’armonia delle note che procedono dai ritmi alternati delle ninne-nanne, delle conte e delle filastrocche sino alle composizioni musicali degne di nota; dalla brevità degli haiku ai silenzi infiniti delle poesie; dagli scarabocchi e dalle prime attività grafiche alle rappresentazioni dei grandi maestri; dai giochi di ruolo alla drammatizzazione teatrale; dalla modellazione plastica alla euritmia delle forme scultoree; dal racconto breve al romanzo di formazione, etc. Questo dovrebbe essere il compito dell’educatore e, più ancora, per mezzo di quella che definiamo ‘commozione estetica’, mediare, per il bambino, i ‘flussi’ emotivi, affettivi e cognitivi trasmessi dall’opera d’arte, garantendo una sistematizzazione razionale delle metaesperienze estetiche, attraverso una loro contestualizzazione che consenta di calibrare la valenza educativa del ‘messaggio artistico’ sul vissuto quotidiano, sull’ambiente di vita familiare e sociale. Ciò affinché, come affermato da principio, un siffatto processo non sia finalizzato alla mera conquista di una ‘competenza estetica’, pur rilevante che sia, bensì, tramite essa, all’educazione integrale del bambino, quindi alla sua personalizzazione.

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EDUCARE PER COSTRUIRE LA COMUNITÀ Nicola Paparella

1. Socializzare nella società… individualista Molto più di un paradosso è la condizione complessa e travagliata dell’uomo giunto ormai al di là della soglia del terzo millennio: Non più soltanto solitario fra la folla, ma persino incapace di scegliere e di decidere nella società dei mercati e degli ipermercati, smarrito nella cultura dell’orientamento, incerto nella società dell’informazione, confuso di fronte alle immagini e alle storie del virtuale, incapace di leggere ciò che con le sue stesse mani ha scritto, come se fosse impresso sull’orlo di sabbia lambito dall’onda del mare. Incerto ed insicuro. Incerto, come all’indomani delle torri gemelle, quando il mondo sprofondò sotto la paura per un nemico dal volto nascosto. Insicuro, non ostante i mille cedimenti e le mille rinunce, a favore di un controllo di polizia tanto soverchio quanto gradito e persino invocato. E così, mentre celebra la libertà, invoca i controlli; mentre scioglie inni all’autonomia, chiede garanzie e cerca verifiche; mentre invoca la solidarietà, celebra i fasti dell’individualismo più acceso. La competizione è ormai diventata la cifra permanente del rapporto sociale; il mercato è il criterio di legittimazione dell’intrapresa pubblica e privata; il consenso è il nuovo ed indiscusso criterio di verità tanto in sede politica quanto nell’agire sociale. 323

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L’antico nostro vocabolario è tutto da riscrivere. Le categorie con le quali avevamo cercato di interpretare la persona, la società e la storia sono poco più che simulacri di discorsi drammaticamente inconsistenti. Tutto il nostro sistema è un brulicare di relitti. Parole che non dicono, voci che non parlano, iniziative che non muovono, vicende che non tracciano né la storia né la cronaca del quotidiano affanno dell’uomo. Le Istituzioni medesime sembrano ridurre la vita ad un insieme ingarbugliato di vecchi ed inutili orpelli. Un labirinto in cui si perde tutto ciò che può aver senso per la persona e di cui ci si accorge soltanto quando è troppo tardi: quando la persona s’avvede d’aver perduto anche la propria identità. In questo groviglio di cose, dove l’accidente sopravanza la sostanza, ha ancora senso discutere di socializzazione? Ha ancora senso pensare all’educazione sociale come al momento in cui la persona conquista la sua capacità e il gusto stesso di relazionarsi all’altro per costruire insieme la comunità? Non è forse legittimo il sospetto – almeno il sospetto – che la stessa reciprocità sia qualcosa di più di una bidirezionalità riflessa, e non possa essere ridotta a semplice scambio o, come accade, ad un’occasionale coincidenza di interessi e di bisogni? Cinquant’anni fa si parlava della scuola come di vivaio di relazioni umane1; ma qualche anno più tardi sembrava potesse bastare un buon programma di Educazione civica2, o, come si puntualizzò, una scrupolosa Educazione alla convivenza democratica3, in uno spazio di attenzione che nel 1991 diventò quello de Il sé e l’altro4. Troppo poco, in una scuola che fa fatica ad assicurare il lavoro 1

Cfr. K.H. READ, La scuola materna, vivaio di relazioni umane: guida moderna per genitori e insegnanti, trad. it., Roma, Armando, 1965. 2 Cfr. i Programmi didattici per la scuola media, 1979. 3 È uno dei motivi cardine dei Programmi didattici per la scuola elementare del 1985. 4 È un capitolo degli Orientamenti destinati alla scuola materna, 1991.

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cooperativo e che ancora affida la cura della relazionalità alla dimensione duale – maestro scolaro – o al gioco di ruolo o, al più, a qualche momento di lavoro di gruppo. Troppo poco, soprattutto, in una scuola ancora tutta quanta intrisa di spirito competitivo, all’interno di una società pur essa competitiva ed a volte persino ingiusta e litigiosa. Probabilmente c’è ancora bisogno di riflettere sui cambiamenti intervenuti nella cultura e nella società nell’ultimo scorcio di millennio. Il passaggio da una civiltà ancora in qualche modo rurale e comunque racchiusa entro le dinamiche relazionali inscrivibili all’interno del cortile, del quartiere, del gruppo parentale allargato, alla società dell’informazione, della globalizzazione, in una economia di mercato a forte competitività, ha comportato squilibri negli assetti sociali e gravi interferenze nella prassi educativa, con reazioni non proprio tempestive all’interno del discorso pedagogico. Se ‘I care’ campeggiava sulla lavagna della scuola di Barbiana5, cosa mai potremo oggi scrivere sul monitor della scuola del cooperative learning? Ci siamo accorti del cambio di registro che si è andato operando? Ci siamo accorti che la dimensione relazionale è ben povera cosa se viene a declinarsi come strumentazione didattica, rinunciando a farsi innanzi tutto connotazione educativa? Soprattutto, abbiamo considerato che questo cambio di registro s’è verificato proprio quando maggiore si faceva l’esigenza di una formazione a forte valenza sociale, civile, morale, emotiva ed affettiva? I care. Preoccuparsi, «prendere su di sé», avrebbe detto E. Mounier, «assumere il destino, la sofferenza, la gioia, il dovere degli altri, sentir male al proprio petto»6. Prendere su di sé, ripete forse qualcuno, ancora oggi. Ma c’è il rischio che le parole vogliano dire altro. Sfoglio un libro singolare; 5

Di L. MILANI cfr. principalmente Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, a cura di M. Gesualdi, Milano Mondadori, 1973 e Lettere a una professoressa: scuola di Barbiana, Firenze, Editrice Fiorentina, 1976. 6 E. MOUNIER, Il personalismo, trad. it., Roma, Ave, 1964, pp. 48-49.

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per certi aspetti attraente. Ha un titolo accattivante: Come trovare il lavoro che piace: consigli e tecniche per trovare o riscoprire un lavoro in armonia con se stessi. Che bello. Provo a leggere: «Leader è chi sa prendere su di sé la responsabilità di scegliere quale direzione dare alla propria vita. È chi sa confrontarsi con le differenze, valorizzando i diversi punti di vista e creando collaborazione. Essere leader significa anche avere il coraggio di rischiare di essere se stessi, per fare la differenza, a partire dalla realizzazione della propria unicità»7. È scritto bene; quasi convincente. Vorremmo poter sottoscrivere. Ma se rileggiamo con attenzione ci accorgiamo che la logica è decisamente quella della cosiddetta civiltà individualistica. Non ostante le migliori intenzioni, muovendoci in questa ottica restiamo dietro a sogni costruiti da altri, e ci confrontiamo con verità già metabolizzate e quindi ‘lisate’ e perciò non più riconoscibili. Ci manca la dimensione di comunità di cui parlava E. Mounier. Ci manca quella «società di persone in cui le strutture, i costumi, i sentimenti, le istituzioni siano contraddistinti dalla loro natura di persone: una società di cui noi cominciamo soltanto ad intravedere e ad abbozzare i costumi»8. Viviamo invece in una società ancora carica di individualismo, e là dove l’individualismo viene meno, gli subentra quella connotazione di massa entro cui il singolo non ha coscienza di sé stesso e perde persino l’idea del suo essere originale ed unico. C’è ancora nella quotidianità dei gesti e nel sapore stesso della cultura che condividiamo una permanente radice egoistica che nasce dal sentirsi isolati e conduce a rinforzare la chiusura verso l’altro. La dimensione dell’Io e quella del Tu sono reciprocamente compromesse. Con una certa punta di ironia potremmo dire, paradossalmente, che la più decisa espressione di reciprocità, nella nostra civiltà, è 7 C. MENGOTTI, Come trovare il lavoro che piace: consigli e tecniche per trovare o riscoprire un lavoro in armonia con se stessi e gli altri, Casale Monf., Sonda, 2004. 8 E. MOUNIER, cit., p. 48.

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data proprio dalla reciproca compromissione del Tu e dell’Io. Perché dove il volto dell’altro resta in ombra, anche l’immagine di sé resta come sfocata e perduta. Dal punto di vista della esistenza personale questa nostra condizione culturale è carica di conseguenze anche drammatiche. I gruppi sociali quando riescono a trovare ragioni e motivi di convivenza, lo fanno attraverso una serie più e meno lunga di negoziazioni che attestano il loro profilo e collocano la loro identità in uno spazio di mediazione che diventa – fatalmente e irrimediabilmente – uno spazio di medietà e quindi una condizione sostanziale di mediocrità. Oppure escono dall’isolamento e dal vincolo della mediazione e si attestano sui fronti dell’egoismo di gruppo, della sopraffazione, della competizione sfrenata, dove il mercato non è più l’agorà dell’incontro e dello scambio, ma il luogo e lo strumento per l’esercizio del potere e per la sopraffazione a danno del più debole. La volontà della persona si piega alla determinazione del più forte. Il consenso sostituisce la partecipazione e l’interesse surroga il valore. Per questo la volontà – intesa come capacità di autodeterminazione – è davvero esiliata alla periferia delle attenzioni educative, e – dobbiamo dirlo – ai margini delle premure della investigazione scientifica9. Per questo stesso motivo la capacità di decisione e quella di scelta sono compromesse e si appalesano nelle loro traduzioni sbiadite come adesione, opzionalità, selezione e comunque prive dello spessore valoriale. Scegliere, di per sé vuol dire separare, nel senso del separare la parte migliore dalla parte peggiore, un esercizio che richiede discernimento, prudenza, volontà e intelligenza delle cose. Scegliere, oggi, è un’operazione priva di processualità e, comunque, orfana della tensione valoriale. È proprio per questo che 9 Si veda comunque, N. PAPARELLA, L’educazione della volontà nell’infanzia, in L’educazione della volontà, Atti del XXIV Conv. di Scholé, Brescia, La Scuola, 1986, pp. 178-182. ID, Pedagogia dell’infanzia. Principi e criteri, Roma, Armando, 2005, p. 127 e ss.

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diventa oggi necessario uno spazio straordinario di attenzione nei confronti, ad esempio, dei temi dell’orientamento: perché occorre sopperire con misure straordinarie a ciò che ordinariamente s’è perduto o s’è consunto. In ogni caso, sia che ci si trovi dalla parte di chi vuole, sia che ci si trovi dalla parte di chi invece può soltanto chiedere o dare, la qualità delle nostre scelte, la qualità delle nostre azioni, la qualità della nostra vita è radicalmente viziata dalla evidente mancanza di reciprocità. Saltata la reciprocità, viene anche meno la possibilità stessa di capire e di poter condividere o di potersi adeguare a ciò che l’altro chiede o a ciò che l’altro si aspetta. Quando ci avviciniamo all’altro, solitamente lo facciamo per calcolo di interessi. Condivisione, intesa, coesione, non sono che esito di appropriate strategie. Non hanno più quella radice di oblatività o quella forza di partecipazione che ne sottolineava l’aspetto profondamente significativo all’interno dell’universo personale. Anzi, non si iscrivono per nulla nella logica della persona, perché, al più, restano nel registro dell’individuo e nella cultura dell’individualismo. A fronte di tutto questo, ritenere possibile una inversione di tendenza attraverso i pannicelli caldi dell’apprendimento cooperativo è come credere che una macchina si possa muovere soltanto perché è piena di benzina. Occorre fare di più. Né basta richiamare, di tanto in tanto, l’idea di persona, perché anche su questo c’è da essere più esigenti, ed andare al di là della identità e persino al di là della singolarità. Per dirla con Zygmunt Bauman, occorre ripensare al postulato della solidarietà10. 10 Cfr. Z. BAUMAN, Il disagio della postmodernità, Milano, Bruno Mondadori, 2002. Per Bauman, un progetto politico postmoderno dovrà ispirarsi al triplice principio di Libertà, Differenza e Solidarietà, «nel quale la solidarietà rappresenta l’indispensabile completamento, nonché la condizione necessaria della libertà

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2. Quale socializzazione? Dobbiamo tornare a parlare di persona, ma situando la persona fra le persone; dobbiamo tornare a quella idea di comunità che tanto appassionò E. Mounier. E dobbiamo farlo anche quando – o forse, soprattutto quando – discutiamo di scuola, sapendo che il soggetto in formazione è sempre e comunque «inserito in collettività», e si forma nelle collettività e per mezzo di esse, «ambienti naturali della sua formazione»11. Si tratta allora di fare dell’esperienza scolastica un modo di socializzazione adatto allo sviluppo di una società di persone che vivono e crescono in un contesto aperto alle dimensioni della libertà, della valorizzazione delle singolarità e della solidarietà. Se dobbiamo riconoscere alla scuola una certa misura di artificialità, per la distanza che essa pone fra sé e la società, che viene in qualche modo rappresentata e ‘raccontata’ attraverso le mediazioni della parola, del linguaggio più o meno formalizzato, della scrittura e della rappresentazione simbolica, ma non vissuta, come poteva invece essere un tempo, nella scuola-bottega dove si imparava facendo, se la scuola non può rinunciare ad un apprendimento formalizzato e ad un largo investimento nella direzione degli strumenti della mediazione culturale, è pur vero che la socializzazione resta uno dei suoi compiti principali. Anzi, proprio il proliferare delle agenzie formative, la loro ‘concorrenza’ nelle modalità di gestione della re-

e della differenza». Ed è proprio il postulato della Solidarietà che richiama gli uomini postmoderni a fare società al di là degli automatismi del mercato globale di per sé deregolato: «Ciò che i sistemi postmoderni non sono … in grado di esaudire da soli, senza un intervento politico, è il postulato della solidarietà; e ricordiamo ancora una volta che senza solidarietà la libertà non può sentirsi sicura, mentre le differenze e la “politica dell’identità” che per natura esse tendono a sviluppare conducono quasi sempre … a un’interiorizzazione dell’oppressione» (p. 267). 11 E. MOUNIER, cit., p. 160.

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lazione con i giovani, la perdita della esclusività del compito educativo che la scuola condivide, oggi, con un numero sempre crescente di altri soggetti pubblici e privati, induce a riaffermare la sua centralità nella funzione educativa e nella preparazione all’accesso critico e responsabile al mondo della informazione. A ben guardare la stessa possibilità di piena fruizione dell’informazione è correlata al possesso di strumenti conoscitivi e della capacità di organizzare razionalmente il pensiero, secondo competenze che soltanto la scuola sembra poter offrire. Sotto questo profilo i recenti mutamenti sembrano aumentare, invece che ridurre, l’importanza della scuola12: più si moltiplicano le occasioni di formazione e di informazione, maggiore è l’esigenza di possedere le competenze che permettano di utilizzare al meglio, ed in maniera non subordinata, apprendimenti e notizie, capacità ed abilità. Se mai alcuno ritenne davvero imminente l’avvento della società descolarizzata, dovrebbe oggi ravvedersi sia per il rapido diffondersi del modello scolastico ad altre agenzie che tentano di affidare apprendimento e socializzazione agli stessi schemi procedurali adoperati dalla scuola, sia per lo sviluppo della società dell’informazione che rende ormai imprescindibile la più ampia diffusione della razionalità e delle capacità di analisi e di padronanza dei modelli conoscitivi che solo l’apprendimento scolastico formalizzato può fornire. L’insieme delle conoscenze necessarie, non soltanto nelle varie attività, ma nella stessa vita quotidiana, sono aumentate: l’utilizzazione degli apparati tecnologici, i rapporti con la complessità dell’organizzazione amministrativa e sociale, l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, presuppongono delle capacità intellettuali che occorre formare in un ambito specializzato13.

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L. FISCHER, Appunti di sociologia della scuola, Bologna, Il Mulino, 2003, cap. 1. 13 Ibidem.

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Della scuola non possiamo perciò fare a meno; si tratta di capire quale tipo di socializzazione la scuola possa fornire e quale socializzazione di fatto possa assicurare. In un’ottica funzionalista, T. Parsons definisce la socializzazione «come lo sviluppo negli individui degli impegni e delle capacità che costituiscono i prerequisiti essenziali per l’attuazione del loro ruolo futuro»14. Egli fa riferimento tanto agli impegni ad attuare i valori generali della società quanto quelli rivolti alla realizzazione di uno specifico ruolo sociale; e per le capacità allude sia alla competenza o alla abilità di adempiere ai doveri inerenti al proprio ruolo specifico, sia alla attitudine ad agire in modo responsabile nei confronti delle persone con le quali si entra in contatto per ragioni di lavoro. A ben guardare le parole di Parsons aiutano a capire quali possano (o debbano) essere i compiti della scuola e, ad un diverso livello, le responsabilità della pedagogia. Li riassumiamo in due parole da declinare parallelamente e senza che l’una abbia ad escludere l’altra: relazionalità e dialogicità15. Gli studi che molto opportunamente si vanno oggi compiendo sulle funzioni e sulle strutture richiamate dai processi di socializzazione, ricadono nell’ambito della relazionalità dove abbiamo ancora bisogno di capire la persona nella sua complessità e lungo i percorsi dello sviluppo, perché l’uomo non resti uno sconosciuto, come dice E. Morin16, e perché l’azione educativa possa essere condotta con sempre maggiore efficacia. In questa direzione molto si è fatto, tanto in Italia17 quanto in altri paesi e il livello di approfondimento 14

T. PARSONS, La classe scolastica come sistema sociale, in Sociologia dell’educazione, a cura di V. Cesareo, Milano, Hoepli, 1972 (1959), p. 238. 15 Cfr. N. PAPARELLA, Pedagogia dell’infanzia, Roma, Armando, 2005 16 «L’uomo rimane questo sconosciuto, oggi più per cattiva scienza che non per ignoranza. Da qui il paradosso: più conosciamo, meno comprendiamo l’essere umano». E. MORIN, Il metodo, vol. 5: L’identità umana, trad. it., Milano, Cortina, 2002. 17 Un esempio fra tanti: A. PERUCCA, Genesi e sviluppo della relazione educativa, Brescia, La Scuola, 1987.

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delle conoscenze pedagogiche appare particolarmente apprezzabile. Nei casi più fortunati, la ricerca sulla relazionalità si è spinta anche verso la considerazione dei quadri valoriali, ma di per sé si tratta di un ambito parallelo che va esplorato distintamente e con strumenti in qualche misura diversi. In ogni caso, quando la relazionalità si arricchisce del pensiero dell’altro, entriamo in un contesto che a noi piace designare con la parola dialogicità, proprio per distinguerlo dalla relazionalità e per rimarcarne il carattere essenzialmente valoriale. Il pensiero dell’altro: non soltanto l’aspetto prettamente funzionale della possibilità dell’incontro e della relazione, ma l’esperienza del volto dell’altro e quindi il pensarlo, il farsene carico, il tenerlo nel conto, con tutte le possibili implicazioni: sociologiche, politiche, economiche, religiose, situazionali…18. C’è da recuperare un fascio di valori che vengono qui appena richiamati, valori etici, noetici, filetici, sociali, religiosi… un intero discorso sull’uomo, un quadro completo della persona e della comunità nella quale l’uomo costruisce e invera la propria identità. Un fascio di valori da cui germinano, come fasci di luce da un brillante colpito dal sole, una miriade di significati con i quali la persona conferisce senso alla propria esperienza. Tenere tutto questo al di fuori della scuola sarebbe grave errore. Di fatto si tratterebbe di impresa pressoché impossibile perché l’educatore, alla resa dei conti, non riuscirebbe a rimanere neutrale, indisponibile per qualsivoglia testimonianza, incapace di dire, del tutto insensibile all’altro. Si tratta se mai di verificare se tutto questo immensamente ricco contesto di significati debba rimanere esterno alle premure educative, ai progetti intenzionalmente perseguiti, al ruolo e alle funzioni che la società affida alla scuola. Nella società funzionalista ed individualista l’estraneità o la pre18

Cfr. M. BUBER, Il principio dialogico, trad. it., Milano, Ediz. di Comunità, 1959; E. LEVINAS, Etica e infinito. Il volto dell’altro come alterità etica e traccia dell’infinito, trad. it., Roma, Città Nuova, 1984.

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sunta neutralità non sarebbero errori o difetti, ma pregi meritevoli di segnalazione. Ma come si potrebbe allora discutere di solidarietà? Come si potrebbe parlare di interculturalità? E che senso avrebbe tutto il discorso sulla nuova cittadinanza? Finirebbero con il diventare, queste come altre analoghe questioni, problemi da affrontare ad un registro più metallico, quasi come convenzioni sociali da esercitare al fine di attenuare i disagi ed ottenere standard di vita più vantaggiosi. La solidarietà diventerebbe il prezzo da pagare allo svantaggio perché non diventi minaccia sociale; l’intercultura diventerebbe strumento di mediazione fra potenziali conflitti interetnici; e la nuova cittadinanza non sarebbe che un’espressione nuova della mobilità sociale. È questo quel che si vuole? È giunto forse il momento di prendere atto dei vistosi effetti che si producono non appena ci si ferma (o ci si impantana) nella cultura dell’individualismo e dell’efficientismo dove, in buona sostanza, la persona rimane orfana dell’altro, la cui presenza è di fatto avvertita come limite, e non invece come arricchimento, come superamento della solitudine, come possibilità di dialogo all’interno di un universo di relazioni e di significati che vanno a costituire quella unità di senso che è il Noi. Da un punto di vista psicodinamico il Noi viene persino prima della differenziazione del Tu e dell’Io, ma dopo la differenziazione si va a ricostruire come nesso dinamico, scambio continuo di significati, possibilità di riconoscimento reciproco, condizione per lo stesso emergere dell’identità personale. Cercare il volto dell’altro non è la risposta ad un limite o il tentativo di trovare un supporto ed un sostegno; perché l’altro non è il testimone della nostra iniziativa, né il non Io da superare per riaffermare la propria identità, ma la sorgente del dialogo. È il Tu senza del quale la persona resta afona ed orfana, solitaria e inerme, marginale e mai centrale rispetto al costrutto sociale e alla storia. Ecco il richiamo di E. Mounier: «L’atto primo della persona… è quello di suscitare, assieme ad altri, una società di persone»19. Ed è 333

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proprio qui che prende corpo e rilievo quanto lo stesso Mounier insegna quando dice che sono almeno cinque gli atti originali della persona e, a leggerli, sono tutti proattivamente rivolti verso l’altro: uscire da sé, comprendere, prendere su di sé, dare, essere fedele. Anche questi, tuttavia, vanno intesi ed interpretati liberando il discorso dalle ipoteche dell’individualismo e dell’efficientismo, perché altrimenti, si rischia di trasformare queste parole in simulacri, in ombre sotto le quali si nasconde una realtà del tutto diversa: relitti irriconoscibili di immagini sbiadite. Uscire da sé non vuol dire alienarsi, non vuol dire dimenticare il proprio nome e la propria identità, non vuol dire perdere quel «senso di identità interiore»20 di cui parlava E. Erikson e che noi amiamo chiamare ‘integrità’21; ma vuol dire uscire dai recinti della propria pigrizia, dai limiti del proprio individualismo, dalle angustie della solitudine, dalle ristrettezze del privato, dal cono d’ombra delle proprie abitudini, per correre verso l’altro, per sentirsi abbracciato dalla storia e dalla cultura, per trovare supporto e forza nella comunità. Uscire da sé, per incontrare gli altri e comprenderli. Comprendere, come l’etimo suggerisce: legare in un abbraccio unico coloro che hanno lo stesso nostro volto. È la persona che si apre alle persone. «Il primo passo verso il tu è quel movimento che “ritira le mani” e libera lo spazio in cui possa avere libero corso l’autofinalismo della persona»22, diceva R. Guardini. Se l’incontro con l’altro è un rivolgersi come ad un oggetto, la persona come tale è in riposo: «il suo volto interiore non si mostra»; l’uomo è impegnato sol19

E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 48. E.H. ERIKSON, Introspezione e responsabilità, trad. it., Roma, Armando, 1968, p. 98. 21 Cfr. N. PAPARELLA, Integrazione del sé. Fondamenti, in L’io, il sé l’altro. Autonomia, integrazione, relazione, Brescia, La Scuola, 1993, p. 53 e ss. 22 R. GUARDINI, Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, ed. it., Brescia, La Scuola, 1987, p. 193. 20

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tanto con ciò che ha e con ciò che può, non come se stesso23. Uscire da sé, dunque, per comprendere, in termini dialogici e in un orizzonte di eticità sociale, prima ancora che in prospettiva conoscitiva. Prendere su di sé. Il destino del Tu è preoccupazione e cura dell’Io. La sua buona riuscita è la mia buona riuscita. Il suo cammino è il nostro cammino. Farsi carico di ciò che egli si attende, del suo bisogno, della sua necessità, della sua attesa. Quante volte il dialogo è pressoché impossibile perché ci si ferma alle parole, o ai segni esterni, alle piccole schegge di un discorso che dice senza raccontare, senza fare memoria, senza parlare alla persona. Quando invece ci riesce di capire, di afferrare il senso di ciò che viene detto e del non detto, il significato delle domande verbalizzate e delle attese non esplicitate, quando riusciamo a fare in modo che il capire non sia un prendere e portare via, ma uno scoprire e un inverare, allora riusciamo anche a farci carico, a portare l’altro sulle nostre spalle, perché possa egli raggiungere i suoi obiettivi e possa farsi ricco delle sue risorse e del nostro supporto. In questa ottica il dare è anche un ricevere, non in termini di scambio lungo l’asse dell’avere, ma come comune arricchimento nel contesto della medesima esperienza. Vale la pena ricordare che non vi può essere esperienza se non in uno spazio partecipativo dove il fare si lega all’agire e quindi l’attività si riempie di significato. Offrire all’altro il fare e l’agire e costruire con lui uno spazio di partecipazione che permetta lo sviluppo dell’esperienza significa, sì, dare, in termini di attenzione e di offerta, ma significa anche ricevere, in termini di possibilità e di orizzonti valoriali che si dischiudono attraverso i significati conferiti all’agire e alla stessa comune esperienza. Ecco perché diciamo, con piena convinzione, che l’esperienza educativa arricchisce e ringiovanisce l’educatore, perché nello scambio dialogico egli, mentre offre sicurezza e guida, mentre te23

Cfr. Ivi, pp. 193-194.

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stimonia valori e condivide significati, non può non restare coinvolto dal senso che gli altri partecipano all’interno dello spazio esperienziale condiviso. Per ultimo E. Mounier richiama ad essere fedeli, al senso della fedeltà. Dove la parola viene declinata soprattutto in ragione del progetto di vita che la persona assegna a sé medesima. Non si è fedeli a qualcosa e nemmeno a qualcuno: si è fedeli a sé medesimi, alla propria storia, alla propria identità, al proprio progetto di vita. E lo si è per sempre. Non senza una punta di sagacia, C. Péguy era solito dire: «È facile essere fedeli, il difficile è esserlo per sempre»24. Su questa base i processi di socializzazione, tanto a scuola quanto in famiglia, tanto nei piccoli gruppi quanto negli aggregati sociali, seguono itinerari ben diversi da quella che può essere una semplice assimilazione delle norme o dall’apprendimento – anch’esso rilevante – della capacità di trasformare le norme in regole, nella direzione dell’autonomia. I processi di socializzazione tengono conto di tutto questo e sicuramente se ne avvalgono; ma puntano più in alto. Non si tratta di saper ‘stare’ con gli altri, ma di costruire una comunità. Dal punto di vista educativo questo richiede un deciso e decisivo recupero dell’idea di esperienza educativa: un fare ed un agire condiviso entro cui vengano ad esprimersi, in termini partecipativi, significati e valori condivisi25. Gioverebbe qui rievocare tutta una serie di comportamenti, di situazioni, di interventi, di scelte e di decisioni educative per le quali la dimensione del Noi viene a prevalere rispetto alla dimensione dell’Io: «La nostra automobile», dice il papà in luogo del più scon24 Cfr. N. PAPARELLA, Péguy e l’autorità nella scuola, in Péguy vivant, Atti del Congresso Internaz. «Péguy vivant» (27-30 aprile 1977), Lecce, Milella, 1978, pp. 269-276. 25 Dal punto di vista didattico si veda N. PAPARELLA, La programmazione delle attività educative nella scuola materna, Brescia, La Scuola, 1984.

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tato «la mia automobile». «La nostra vacanza», piuttosto che ‘la mia’ o «la tua vacanza»; e soprattutto vale sottolineare il modo di porsi e la effettiva capacità di manifestare condivisione e partecipazione. L’idea di partecipazione merita, probabilmente, una sottolineatura, perché per lunghi anni è stata declinata principalmente in una logica di tipo spartitorio dove il partecipare voleva dire, essenzialmente, prendere la propria parte. Occorrerebbe invece recuperare l’idea antica del manifestare un progetto e quindi del condividere il progetto medesimo, dove l’idea di partecipazione è interfaccia dell’idea di comunità. Anzi, in un certo senso, spetta alla comunità (piccola o vasta che sia) legittimare la partecipazione, perché senza intenti da realizzare, senza finalità da perseguire, senza identità da scoprire, senza bisogni da soddisfare, mancherebbe alla partecipazione il contenuto della sua attività e la direzione da imporre al suo lavoro. Così come, del resto, senza processi e spazi nei quali sia possibile sperimentare e condividere significati ed orizzonti valoriali, la comunità rischierebbe di non essere pienamente consapevole di sé medesima e non troverebbe occasioni e ragioni per approfondire le proprie radici26. È interessante notare, e lo facciamo per rapidi accenni, come in questo quadro concettuale, assuma un diverso significato anche la nozione di competenza, oggi tanto spesso evocata, ma raramente approfondita. Se nel comune discutere la competenza trova fondamento nel sapere o nel potere o nella legge, fonti che comunque hanno un loro rilievo e una loro pregnanza, in un contesto di effettiva partecipazione, la competenza non soltanto trova un nuovo e più preciso parametro, la responsabilità27, ma si avvicina ad essere una vera e propria struttura, ossia un modo di funzionare della persona. Non soltanto, ma 26 Cfr. N. PAPARELLA, Scuola della comunità, scuola di libertà, «Quaderno di pedagogia», Università degli Studi di Lecce, 1, 1980, pp. 106-107. 27 Nella responsabilità è compreso il ‘diritto’, ma si fa riferimento anche al ‘diritto’ del destinatario delle nostre iniziative; è compreso il ‘potere’, ma come

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in uno spazio di partecipazione possiamo dire che la partecipazione produce ed esalta le competenze, così come le competenze promuovono livelli sempre più pervasivi di partecipazione. 3. Il Noi come compito educativo In una certa misura la persona è permanente disponibilità ad essere. È di per sé libera, originariamente ed essenzialmente libera, ma non è ancora nella sua pienezza se non nell’esercizio della vita e nel tirocinio della crescita. In una delle sue meditazioni R. Guardini diceva: «noi dovremo tenerci disponibili per ciò che non è ancora detto, ma che aspetta ed aspira a tradursi nell’esistenza. Per ciò che vi è di più delicato nella situazione e di inespresso nell’uomo. Per tutto quanto sfugge alle forme tradizionali; non perché siano false, ma perché la vita non cessa di svilupparsi, nuova materia di realtà affiora e perché nuovi valori assumono il carattere di ciò che urge verso la realizzazione»28. Anche la dimensione del Noi si dispiega lungo un percorso evolutivo che impegna l’educatore, richiedendo attenzione continua e premure perseveranti. Anzi, sarebbe sicuramente utile ricostruire le caratteristiche del Noi (e quindi anche del Tu e dell’Io) così come si vanno diversamente connotando alle diverse età. Il Noi nell’infanzia è lo spazio di una appartenenza giocata prevalentemente sul versante del dato, del così è. Molto spesso si tratta di una provenienza, più ancora che di una vera e propria appartenenza. Nella fanciullezza il Noi si colora di operatività sociale e sembra quasi identificarsi con l’azione comune o con il profilo del fare e dell’agire. Nella preadolescenza il Noi è il piccolo gruppo, reso riconoscibile dai segni, dal gergo o servizio e cura; è compreso il ‘sapere’, ma al di sopra di ogni steccato tecnocratico. 28 R. GUARDINI, Volontà e verità, trad. it., Brescia, Morcelliana, 1978, p. 107.

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forse persino dal rito. Nell’adolescenza è ancora il piccolo gruppo (o anche aggregazioni più vaste), ma l’identità – quasi sempre mediata dal leader – predomina sul gesto, e il gergo serve a confermare un’appartenenza che richiede continue certificazioni… Lo spazio di questo intervento non consente ulteriori approfondimenti, se non sotto il profilo criteriologico, come regole dell’agire educativo, da flettere poi a seconda dei contesti e delle età. La prima di queste regole metodologiche è destinata a richiamare l’idea di relazione educativa che ha bisogno di potersi esprimere – sempre e comunque – in una vasta gamma di toni e di voci perché l’intera persona resti coinvolta, con la premura di conferire sempre alla relazione educativa un contenuto operativo. Non si educa soltanto con le parole, ma con parole che si lasciano ben volentieri surrogare o completare dai fatti, da un agire insieme, da un’esperienza che si esercita su dati, su fatti, su cose, su vicende. Se qualche volta si è pensato di mantenere la relazione educativa nel recinto dei bei discorsi, occorre ora fare lo sforzo di portarla nel campo fertile dell’esperienza dove il dire e il fare attraggono la persona e la pongono al centro dell’agire. La seconda regola vale come raccomandazione per chi lavora con le persone in età evolutiva, soprattutto con i bambini, ma poi anche con i giovani. Occorre saper riconoscere e saper rompere le situazioni di isolamento che sempre più frequentemente imbrigliano la piena espressione della personalità. In alcuni casi l’isolamento sembra essere l’esito di una opzione, il più delle volte maschera una difficoltà. Ogni incontro procura delle difficoltà e qualche volta persino il conflitto. L’educatore deve sapere che persino il conflitto va capito e va interpretato come prima forma, forse maldestra, di rapporto e di dialogo. L’isolamento uccide la persona, spegne la sua vocazione alla comunità, avvizzisce le sue competenze. Occorre agire perché la persona sia sempre nella comunità e venga quasi trascinata dall’agire comune verso un comune universo di valori. La terza regola punta a rinforzare l’appartenenza, il che poi si339

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gnifica, nel contesto specifico del lavoro educativo, così come nella quotidianità della vita familiare, modulare le attività, il gioco, le diverse iniziative didattiche, ogni possibile occasione ed ogni motivo che permetta di sottolineare la comune appartenenza o almeno la significatività dello spazio di partecipazione o gli elementi che rendono riconoscibile la comunità di riferimento. Con la quarta regola si richiama l’attenzione sulle norme e sulle regole, non tanto per segnalare il rilievo che ha, lungo il processo educativo, il passaggio da un comportamento a prevalente esposizione alle norme ad un comportamento a prevalente regolazione da parte delle regole, quanto per porre in evidenza il fatto che la norma medesima, e soprattutto la regola, si caricano di significato e quindi di riflessi valoriali all’interno della relazione. È la relazione che fornisce un perché, una direzione e uno spessore qualitativo alla norma e alla regola; è la relazione che permette di vivere norme e regole come fattori di regolazione piuttosto che come vincoli e legami da sopportare. La quinta regola apre il discorso alla comunità; quasi un corollario rispetto a tutto quel che s’è detto. La scuola non può che essere scuola della comunità, ché anzi, proprio da questo e proprio per questo diventa scuola di libertà. Si è a lungo discusso, negli ultimi anni, a proposito della lontananza della scuola dalla sua comunità. Se con questo si vuole dire che la vita della comunità penetra nella scuola attraverso una serie di mediazioni tali da farla apparire distante, non si allude ad altro che alla naturale ed ovvia condizione della scuola che, per la sua stessa configurazione, si distacca o si separa dalla vita, quasi ad introdurre una certa misura di artificialità. La vita ci offre esperienze in presa diretta, la scuola le media con il ragionamento, con la riflessione, con la rappresentazione, con un universo di simboli e di significati che ne permettono la comprensione e la fruizione, ma che, proprio per questo, ne mediano il rapporto. Questo non disturba il nesso scuola comunità, che oltre tutto va fondato su un diverso registro. La comunità offre alla scuola uno spazio di accoglienza, indica 340

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una provenienza, segnala un universo di valori e di significati che sono la sua storia e disegnano il suo futuro, e la scuola, a sua volta, restituisce alla comunità una serie di consapevolezze, di capacità di attenzione, di volontà e di progettualità che permettono di guardare al futuro con ragionata speranza. La mediazione che talvolta sembra allontanare è data dalla traduzione concettuale, dalla elaborazione razionale, dalla flessione in rappresentazioni riproducibili; il profilo valoriale, invece, così come lo spazio partecipativo o l’avanzare dei significati non hanno bisogno di mediazioni e, comunque, non trovano disturbo o limite in questo tipo di mediazioni che la scuola potrebbe offrire. La vera distanza che può disturbare è quella che si misura sulla diversità di impianto valoriale, sulla distanza fra universo di valori che orientano la comunità e quadro ideale di riferimento della scuola. Su questo versante la mediazione non avrebbe senso e la distanza risulterebbe incolmabile. Al contrario, la scuola ha bisogno di vivere nella comunità e di nutrirsi di ciò che più la caratterizza; allo stesso modo la comunità genera la sua scuola, ne coltiva l’impianto e lo sviluppo, ne segue i percorsi, ne alimenta le imprese, ne motiva le iniziative. Se, invece, la scuola ignora la sua comunità e la comunità trascura la sua scuola, l’istituzione educativa resta come orfana, priva di una genitorialità che può essere surrogata, ma mai totalmente rimpiazzata. Per questo non si farà mai a sufficienza per garantire un nesso robusto e significativo fra scuola e comunità, e le riflessioni che abbiamo sin qui condotto permettono di aggiungere almeno tre esiti di per sé ineludibili, se davvero scuola e comunità ritrovano le ragioni profonde della loro solidarietà: a) nasce una idea nuova di partecipazione, fondata sulla condivisione di progetti e centrata sulla persona e sulla sua identità; b) nasce una nuova idea di progetto educativo che si muove al di là dei formalismi della programmazione per attingere alle risorse profonde dell’uomo in relazione permanente con l’altro, con la 341

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storia, con la cultura; c) nasce una nuova didattica incentrata sulla dimensione del Noi. Sulla partecipazione e sul nesso che si stabilisce fra una corretta idea di partecipazione e un orientamento positivo verso la nozione di scuola della comunità, ci limitiamo a richiamare alcune nostre note che risalgono agli anni cui il tema aveva una sua ampia presenza nel dibattito sulla scuola italiana29. Basti in questa sede sottolineare, ancora una volta, l’opportunità di andare al significato antico di partecipazione, da intendere come ostentazione di un progetto e quindi come condivisione delle connesse responsabilità; la qualcosa carica la partecipazione di una valenza valoriale e la fa diventare la chiave di volta per la costruzione della comunità. E proprio a partire da queste annotazioni si capisce che il progetto educativo non può essere una sorta di repertorio delle attività, ma, ben più significativamente, un insieme motivato, ragionato e coerente di nessi valoriali attorno ai quali imbastire l’esperienza educativa dei giovani affidati alla scuola. Allo stesso modo la didattica si caratterizza non tanto o non soltanto per gli apprendimenti che propone, ma anche per le procedure che adotta (e in qualche modo suggerite dai compiti di sviluppo) e per i nessi valoriali che sceglie e che poi diventano finalità educative e quindi aspetti qualitativi della esperienza scolastica. Su questa strada qualche cosa si è fatto, ma manca ancora il quadro generale, la cornice di fondo, forse persino il lessico30. Si tratta di muoversi in questa direzione sapendo che l’uomo del XXI secolo non può rimanere orfano della comunità, così come la scuola non può restare lontana e quasi separata, indipendente, estranea rispetto alla sua comunità. E la comunità, sia essa il quartiere, il piccolo 29 N. PAPARELLA, Scuola della comunità, scuola di libertà, «Quaderno di pedagogia», cit., pp. 83-123. 30 Cfr. N. PAPARELLA, Per costruire una ontologia sul tema della programmazione, in Ontologie, simulazione, competenze, a cura di N. Paparella, Castrignano dei Greci, Amaltea, 2006.

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paese, la grande città, non può rimanere estranea alla scuola. Ridare alla scuola la sua comunità e ridare alla comunità la sua scuola non è compito facile. Ma è qui che si giocano, in ambito educativo, l’idea di partecipazione, l’idea di libertà, l’idea di autonomia e l’idea stessa di sviluppo.

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LE PERSONNALISME LINEE PEDAGOGICHE E TRACCE DIDATTICHE Cosimo Laneve

Si è ormai in un mondo fatto di crolli ideologici e, sovrattutto, etici a cui vanno aggiunti il disastro ecologico, l’euforia della velocità, il ruolo smarrito degli intellettuali (volti ai lucidi piaceri della mente o disposti alla voracità insaziabile dei media), l’invasione crescente di quanti fanno della tecnologia e della produzione il contenuto della loro saggezza. Questi ultimi si sono spinti nello spazio sulle astronavi, hanno solcato vie nuove, ma hanno sentito nello stesso tempo sgretolarsi l’universo intorno a loro (il vuoto morale, le pseudo-nozioni della tecnoproduttività). Senza voler demonizzare le positive conquiste raggiunte dalla tecnologia in vari campi, dalla medicina alla comunicazione, dall’astronautica alla robotica ecc., si ha l’impressione che la tecnica non sia più uno strumento nelle mani dell’uomo, ma nel governo del mondo abbia preso il posto dell’uomo, riducendolo a semplice funzionario, quando non a mero ingranaggio dell’apparato da essa dispiegato. Ne deriva che la psiche umana non ospita più, o solo, un ‘incoscio pulsionale’, descritto magistralmente da Freud, dove sessualità e aggressività mandano a buon fine gli interessi della specie sovente in conflitto con quelli del singolo individuo, ma anche, e sovrattutto, un ‘incoscio tecnologico’1, dove una società, in ogni aspetto regolata dalla tecnica, chiede all’uomo di essere perfettamente omo-

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Cfr. U. GALIMBERTI, La casa di psiche, Milano, Feltrinelli, 2006.

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logato all’apparato di appartenenza (sia esso amministrativo, burocratico, industriale, commerciale) per evitare di toccare con mano la propria inadeguatezza rispetto alla perfezione della macchina, e scoprirsi null’altro che un modo deficiente di essere macchina, una scandalosa non-macchina. Si vive così in una società del disincanto: gli incantatori ci hanno lasciato, ci hanno piantato in piena sterilità del ‘reale’, ma «di un reale de-realizzato dalle immagini che ne proiettano e vi proiettano i media. Per questo non proviamo neanche nostalgia; (…) e ci ritiriamo dalle ideologie»2. Il crollo delle utopie non è esente dalla loro frantumazione in una miriade di microutopie della vita quotidiana, che rafforzano in forma di ipercompensazione trend già in corso, spingendo a sognare ‘denti bianchi’, ‘vita snella’, denaro e successo3. Scriveva profeticamente Mounier nel 1949: «l’uomo preoccupato del suo benessere diventa l’animale domestico delle cose che glielo procurano: l’uomo ridotto alla sola funzione produttrice o sociale diventa un ingranaggio»4. È paradossale il crescendo di incertezza, di trepida attesa e di paura. È la ‘modernità liquida’5, dove vengono sempre più a mancare quelle certezze che davano le strutture solide come lo Stato-nazione, le istituzioni, la famiglia, il lavoro. Vengono a mancare forme di solidarietà e punti di riferimento comunitari che in passato aiutavano a condividere il fardello esistenziale. E nonostante tutto questo si è ancora alla ricerca di un senso. In una società come l’attuale, individualistica e frammentata, scientificamente progredita ma umanamente impoverita, si avverte 2

P. ZUMTHOR, Babele, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1998, p. 205. Al riguardo cfr. F. CASSANO, Homo civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Bari, Dedalo, 2006. 4 E. MOUNIER, Il personalismo (1949), trad. it., Roma, AVE, 1964 (le citazioni si riferiscono alla decima edizione del 1996), p. 38. 5 Cfr. Z. BAUMAN, La modernità liquida, trad. it., Bari, Laterza, 2002. 3

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con sempre maggiore intensità il bisogno di punti di riferimento forti6. L’individualismo del credere è un tratto tipico del tempo presente, che si combina in vari casi con nuovi e singolari sentimenti di appartenenza religiosa. Tagliati gli ormeggi l’orizzonte si dilata: il suo dilatarsi lo abolisce come orizzonte, come punto di riferimento. L’abbattimento di questa linea di orizzonte che separa l’aldilà dall’aldiquà ha cancellato ogni traccia di trascendenza sotto una coltre di banalità che spinge a cercare l’infinito nel finito, la dimensione religiosa, fondata sulla teologia, nel post-religioso, abbandonato alla deriva settaria, racchiudendo il cielo nella pozzanghera in cui si riflette: si è ormai oltre la New Age. Il che non significa disconoscere il contributo delle cosiddette ‘nuove spiritualità’, alcune delle quali sono una forte sollecitazione all’intimità del raccoglimento, al silenzio della riflessione, al fervore della preghiera: si vuole affermare soltanto che la maggior parte di esse, insoddisfatte dalle religioni storiche, inseguono una spiritualità che le sostituisca cadendo nelle spire di credi alternativi7 o finendo col deificare certi oggetti (pietre ed erbe). Insomma la maggior parte delle ‘nuove spiritualità’ esprime confusione, fumosità, cerca esperienze trascendentali senza-credere-in-Dio. Si rivalutano così sentimenti premonitori e vibrazioni parapsicologiche. Nessuno osa parlare di verità, né nel senso che l’etimo consente di svelamento di realtà latente, o alethéia, né di verità partecipata o certez6

Il che non è che la conferma di un bisogno. John Ray, naturalista e teologo inglese vissuto tra il ’600 e il ’700, scrisse in La saggezza di Dio manifesta nelle opere della creazione (1691), opera che è bene consultare: «Persone incolte, appartenenti ai ceti più umili, le sentite dire che non hanno bisogno di dimostrazione dell’esistenza di Dio, perché lo prova a sufficienza ogni filo d’erba». Correva il 1691. 7 Ai caratteri del pluralismo religioso in Italia, alle diverse forme in cui si esprime la religiosità, ai rapporti tra le diverse confessioni religiose, al ruolo pubblico delle istituzioni e dei gruppi religiosi, è dedicato il numero monografico di «Rassegna Italiana di Sociologia», XLVI, 4, 2005.

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za intersoggettiva. All’insegna della New age è cresciuta nel giro di pochissimo anni una letteratura imponente che proclama Truth is out there (la verità è altrove). Nietzsche aveva proclamato la morte di Dio e indicato l’uomo stesso come suo uccisore. Ma Michel Foucault ha rilevato che, in correlazione con la morte di Dio, Nietzsche annunciava anche la fine del suo uccisore. La morte dell’uomo, oggi, si manifesta sovrattutto in un generale malessere spirituale che non ha precedenti nella storia dell’uomo. Benasayag e Schmidt, ne L’epoca delle passioni tristi8, affermano che a quel malessere sempre più diffuso, in particolare nei giovani, non si è preparati ad offrire una cura, in quanto si tratta di crisi individuali all’interno di una crisi sociale generale. Senza più valori della persona, né ‘dentro’ né ‘fuori’ non solo il rischio del post-umano (Jeremy Rifkin giunge a dire, riferendosi all’ingegneria genetica, che «colui che controllerà i geni controllerà il XXI secolo») non è più virtuale, ma anche l’educazione ha perso il suo ordine9. Tutte le parole che prima la definivano (promozione, valorizzazione, umanizzazione) si sono dissolte; sono ancora usate alcune vecchie parole, ma queste nell’indicare i tratti dell’educare non designano più la loro essenza, ma solo i loro modi realizzativi: il perché (si badi: non come aitìa, la mera causa immediata, bensì come arkè, il fondamento, il principio) come cede al come, il fine alla procedura, il significato al significante; ed ancora la visione alla virtualità, la ragione universale alla ragione plurale, il mistero alla sfida della interpretazione esaustiva, il logos al linguaggio, l’agire al fare, l’idea di educare all’idea di sviluppo, e così via. 8

L’età moderna aveva promesso un messianesimo ateo con una redenzione laica. «Ma tale promessa – scrivono – non è stata mantenuta. Ecco perché la crisi attuale è diversa dalle altre cui l’Occidente ha saputo adattarsi: si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà». 9 Da qui il nomadismo educativo; cfr. il mio Derive culturali e critica pedagogica, Brescia, La Scuola, 2001.

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Questo contributo intende individuare l’apporto del testo, Le personnalisme (1949), assai significativo, di Emmanuel Mounier all’educazione nel mondo di oggi: pertanto attraverso «l’occhio pedagogico» cercherò di lumeggiarne aspetti e dimensioni che, a mio avviso, sono rilevanti e particolarmente pregnanti. Tre i segmenti di discorso individuati, di cui il primo sarà trattato in forma estremamente sommaria e schematica in quanto credo che sarà oggetto di altre relazioni dei colleghi. Nello stendere questa mia relazione non ho potuto evitare di fare riferimento alla trattazione di non poche questioni presentate in altri miei lavori e riprenderne alcuni punti, riproposti però in funzione di un altro scopo, con un nuovo taglio nell’ottica dello specifico obbiettivo qui individuato. L’uomo come persona Ne richiamo sinteticamente i tratti forti. La persona è, anzitutto, intesa come singolarità. È la configurazione della persona apparsa nella storia: ovvero è l’essere umano con un nome, collocato entro uno spazio ed un tempo in cui si costituisce come originale e singolare complesso. È l’essere che aspira a realizzarsi e mantenersi in unità coesa ed in una continuità coerente. È anche l’essere avido di godimento che si scontra con la sofferenza e rivendica riconoscimento e condivisione responsabile. È, in definitiva, la persona come atto e come scelta: essa prende coscienza di sé non già o solo nell’estasi, bensì nella forza, nella lotta energica e perciò la persona si configura come ‘rottura’ e come ‘protesta’: «La vita personale – afferma Mounier – comincia con la capacità di rompere i contatti personali con l’ambiente, di riprendersi, di ripossedersi per riportarsi ad un centro e raggiungere la propria unità»10. Ne consegue che la felicità non dipende da ciò che 10

E. MOUNIER, Il personalismo (1949), cit., p. 62.

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l’uomo riesce ad avere, bensì da ciò che cerca di essere nel suo intimo11. Su questo punto intendo ritornare. Per ora basti la massima valorizzazione dell’interiorità (l’‘in sé’) che – secondo Mounier – è scandita da: – la vertigine delle profondità; – l’appropriazione (eppoi all’espropriazione); – la vocazione: «“accogliersi per trovarsi”: io sono questo essere singolare, ho un nome proprio»12. Il secondo tratto forte della persona è l’‘essere verso’13. È un andare verso, che nasce dalla Bibbia: il popolo ebraico non si è formato in Egitto, ma si è formato nell’Esodo. Contrariamente all’opinione corrente, l’esperienza fondamentale della persona non è, quindi, il distacco, la chiusura nella singolarità, ma la comunicazione. L’uomo si affranca dal suo individualismo «rendendosi più disponibile, più trasparente a se stesso ed agli altri. Ed allora avviene come se soltanto in quel momento, non essendo più occupato di sé, “pieno di sé”, diventasse capace degli altri»14. E qui Mounier evidenza tutto il valore plurimo dell’altro: per il sé, per gli altri, per la comunità tutta. E conseguentemente avverte: talvolta l’uomo con la sola presenza fisica offusca la comunicazione: ma questa «opacità ha radici molto più profonde del corpo… L’intenzione di sedurre priva l’amore del suo incanto, come quella di convertire irrita l’uomo senza fede»15. Essere persona, dunque, significa anche essere-in-cammino. Da qui deriva che il personalismo mouneriano non è uno spiritualismo, ma è azione: «Che l’esistenza sia azione, e che l’esisten11

Gli studi di S. NATOLI: cfr. La felicità. Saggio di teoria degli affetti, Milano, Feltrinelli, 1999; L’attimo fuggente o della felicità, Roma, EdUP, 2001; La felicità di questa vita, Milano, Mondadori, 2001. 12 E. MOUNIER, Il personalismo (1949), cit., p. 70. 13 Cfr. Ivi, p. 61. 14 Ivi, cfr. pp. 45-46. 15 Ivi, p. 44.

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za più perfetta sia azione più perfetta, ma sempre azione, è una della intuizioni basilari del pensiero contemporaneo»16. Bonhoeffer ribadisce l’obbligo per il cristiano e la persona di essere – come voleva Nietzsche – «fedele alla terra», alla sua miseria, alla fame e alla morte, senza ricorrere al trucco di rifugiarsi, quando la vita diventa pericolosa, nelle «sovraterrene speranze»17. Oltre un certo quietismo che rinvia all’aldilà ogni correzione dell’ingiustizia, per il personalista (cristiano) il mondo va cambiato: e ciò contiene un fermento rivoluzionario. In breve: la persona non è un furbo che faccia un’assicurazione sulla vita eterna. Una fuga nell’aldilà tradisce il messaggio personalista: non per nulla il Dio cristiano si è fatto uomo, si è calato nel tempo, nella storia, nella mondanità. Da qui le quattro dimensioni fondamentali dell’azione: il fare; l’agire; il teorizzare; l’essere comunità. Questo segmento di discorso si pone come propedeutico agli altri due che seguono. Linee pedagogiche La prima: l’educazione come personalizzazione non è dispersione, livellamento, indifferenza, degradazione, tantomeno ripetizione omologa o addirittura monotonia dell’abitudine e mera routine proprio perché tutte queste reprimono l’audacia vitale dietro linee di sicurezza che fa degenerare le scoperte in automatismi e da cui l’inventiva si ritrae. Così, per esempio, l’homo videns et currens d’og16

Ivi, p.121. «Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze». F. NIETZSCHE, Così parlò Zaratustra (18831885), Un libro per tutti e per nessuno, Opere, Milano, Adelphi, 1968, vol. VI, Prefazione, p. 6. 17

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gi può diventare sempre meno sapiens: attenzione a non trasformare gli uomini in meri indovidui che seguono rotte stabilite e non già scelte, che incontrano sigle e non persone. Occorre sempre più che si rivaluti il ruolo della persona – sono alla seconda implicazione pedagogica – nei suoi valori costitutivi: la libertà: «Il diritto di peccare, cioè di rifiutare il proprio destino, è essenziale all’esercizio della libertà»18, di scelta e di adesione19; la responsabilità; la tolleranza; la solidarietà; la comunità delle persone. La vera bussola contro il rischio del nomadismo educativo20 consiste, a mio avviso, proprio nel ricupero del nesso fra educazione e etica ontologica, che postula un atto globale non dipendente soltanto dalle ragioni mondane. La verità sull’uomo non è una verità come quelle scientifico-matematiche, in una parola visibili come le realtà puramente materiali, ‘fattuali’, per cui comprenderle significa la stessa cosa che contarle e misurale (comprensione come precisione). La verità sull’uomo è per una quota analizzabile positivamente per giungere ad una conoscenza ed una spiegazione pubblica, ossia intersoggettiva e da tutti controllabile, per l’altra quota è un’apertura su un mistero più grande di cui riesco appena a intuire una parte, a balbettarne qualcosa, molto più grande di me, ma anche credo di voi, e forse di noi tutti, in quanto, come diceva Norberto Bobbio, «evidentemente è comune all’uomo di ragione che all’uomo di fede»21. E qui si imporrebbe una puntualizzazione fra l’uomo-di-ragione e l’uomo-di-fede: ovvero fra il laico e il cristiano che, prevista in conclusione, sarei tentato di anticipare: per il momento resisto. E siamo ad un’ulteriore implicazione. 18

Ivi, p. 15. Ivi, p. 96. 20 Cfr il mio Derive culturali e critica pedagogica, cit. 21 N. BOBBIO, Religione e religiosità, «Micromega», 2, 2000, p. 7. 19

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Da quanto ho detto – sia pure in forma estremamente sintetica – deriva che l’educazione oggi (intesa come personalizzazione) non può non postulare (nel senso forte che l’etimo consente) la metànoia, ovvero un cambiamento radicale: si richiede un uomo nuovo, e tutte le rivoluzioni anche politiche hanno sognato una rivoluzione allo stesso tempo sociale, collettiva, materiale, ma anche spirituale, interiore. Questi i passi che mi paiono degni di attenzione: a. far leva sull’interiorità: la categoria del sé, dell’interiore, ovvero la parte ‘discreta’, singolare, privata, intima di ciascuno di noi. Credo che sia sotto gli occhi di tutti il fatto che l’esistenza appaia sottoposta ad un’accelerazione crescente, bersagliata da assilli che esigono risposte sempre più veloci e costretta a protendersi verso mete da raggiungere e abbandonare sempre più rapidamente. La velocità aumenta in ogni settore, trasformazioni storiche epocali avvengono con un ritmo che rende difficile percepirle e seguirle: da un lato i grandi schemi di pensiero e di rappresentazione a lungo termine sembrano essere crollati e, dall’altro, la globalizzazione e la comparsa di nuove tecnologie impone alle società la logica del ‘tempo reale’ e l’orizzonte del ‘breve termine’ (egemonia della logica finanziaria e mediatica). Appunto per questo talvolta non sappiamo fare attenzione alle dimensione profonda delle relazioni affettive, in quanto riteniamo che non ci sia gusto: sentiamo l’esigenza di parlare a voce alta, di esibire gesti inequivocabili, di mettere in piazza parte del nostro vissuto quotidiano. In uno scenario consumistico, dove le merci per essere prese in considerazione devono essere pubblicizzate, si propaga un costume che contagia: (anche) il privato si pubblicizza22. Gli uomini hanno la sensazione di esistere soltanto se si mettono in mostra, se si presentano nell’apparire e non nell’essere per cui, fra uo-

22

Cfr. A. RUSSEL HOCHSCHILD, Per amore o per denaro. La commercializzazione della vita intima, trad. it., Bologna, Il Mulino, 2006.

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mini e merci, il mondo è diventato una ‘mostra-mercato’. Da qui quella metamorfosi dell’individuo nella quale ormai si riconosce – e vuole essere riconosciuto – solo attraverso la propria immagine pubblicizzata: così non cerca più se stesso, ma la pubblicità che costruisce la sua immagine. A tutto questo va aggiunto che siamo in un mondo in cui irrompono con indiscrezione per ottenere non solo – attraverso test, questionari, campionature – indagini di mercato, ma anche intime confessioni, emozioni in diretta, storie di amore, trivellazioni di vite private, che lo stesso individuo consegna, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, la sua parte discreta, la stessa interiorità, secondo quei tracciati di ‘spudoratezza’ che vengono invece acclamati come espressioni di libertà e di sincerità, mentre la malattia, il dolore e la povertà finiscono per essere le uniche cose di cui ci si vergogna: proprio quelle che avrebbero piuttosto bisogno di conforto, di empatia, di solidarietà, di partecipazione affettiva. Una volta si parlava di pudore ossia del tentativo di tenere riservata la propria soggettività (e non mi riferisco soltanto alla sessualità), in modo da essere segretamente se stessi in presenza degli altri. Era una evidenza e un mistero, una virtù e una forza: tutto quel complesso di forze contraddittorie che spingevano il singolo in direzioni opposte e lo costringevano a rimanere in bilico fra desideri e paure, fra voglia di rischiare e ripiegamento di sé. E, poiché queste forze erano caratterizzate da pari intensità, bisognava imparare a contrastarle nella direzione voluta. Oggi è perciò vitale in famiglia ritrovare il senso dell’intimità e dell’interiorità, il senso della discrezione e della delicatezza. Il pudore che si impone ad un padre: il pudore di non esporsi ai figli nelle proprie debolezze e nelle proprie miserie, per non appesantirne e intristirne il compito di crescere. Solo i genitori possono realmente far comprendere ai figli il riguardo per i sentimenti e per le emozioni, ma anche per le ferite altrui. Venendo meno le risorse interne alla famiglia, ci si orienta sempre più nel cercare aiuti all’esterno, nelle molte offerte che il mer354

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cato mette a disposizione per far fronte ai bisogni fondamentali. La vita intima si commercializza come sostiene nel suo ultimo libro Per amore o per denaro Arlie Russel Hochschild: si moltiplicano le proposte di servizi e di esperti per meglio organizzare la nostra esistenza di cui vi è un ampio riscontro nella pubblicità, negli spot televisivi, nei siti internet, nei manuali di auto-aiuto. Agenzie varie si propongono per trovarci l’anima gemella, organizzare le nozze perfette, preparare le feste di compleanno dei figli, visitare i nostri anziani. In qualche caso viene addirittura offerta anche una ‘nonna’ a pagamento per insegnare (a noi o alla nostra colf) quanto non abbiamo appreso (per mancanza di tempo) dalla nostra nonna biologica. Oggi direi che il significato di interiorità sta in questo: un istinto di conservazione, di protezione contro tutto ciò che può minacciare la dignità dell’uomo. E qui la pedagogia e la educazione, ispirate al personalismo mouneriano, sono chiamate a svolgere un ruolo per niente marginale, ovvero promuovere quella «cultura della interiorità, del drammatico dialogo con se stessi» di cui parla Remo Bodei23. b. riscoprire la sincerità e la veracità. Accade altresì che l’uomo, oltre ad abolire l’interiorità, relega la parola intima nel nontempo: nasconde così non soltanto le parole trasparenti, le parole autentiche24 (dolci e sincere, crude e di rabbia), le parole di amicizia e di conforto, ma anche quelle dove dominano il silenzio e il raccoglimento, le parole di preghiera, le parole d’amore, le parole della vocazione profonda. Da qui – giova ripeterlo – l’educare al raccoglimento si prospetta come must pedagogico urgente che nel testo di E. Mounier costituisce il fil rouge della sua proposta25.

23

R. BODEI, Leggetela in solitudine, «Il Sole 24 ORE», 6 novembre 2005. Cfr. il mio Parole per educare, Brescia, La Scuola, 1994. 25 E. MOUNIER, Il personalismo (1949), cit., pp. 61-74. 24

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Ed ancora: imparare a non condividere tutto. Non si tratta di occultare verità poco gradevoli o creare ambigue forme di complicità; dobbiamo piuttosto fare i conti con il fatto che ciascuno ha la sua sensibilità e una particolare resistenza alle situazioni. Il senso di appartenenza della famiglia va giocato proprio sulle cose dette sottovoce che, nella loro apparente debolezza e insignificanza sonora, sono quelle che maggiormente ci danno la speranza di poter dar significato al frastuono del mondo esterno. Non è secondario allora educare a decostruire l’ovvio: l’alimento più consumato è oggi difatti il «brodo del banale»: il pensare individuale è infarcito da idee precotte, concetti scipiti, osservazioni edonisticamente piccanti, opinioni rimasticate, impastate sovente dall’incessante gossip dei media (sovrattutto della tv). E lo stesso parlare è oramai arenato nelle sirti del dilettantismo locutorio. c. sollecitare la responsabilità: «l’uomo contemporaneo se non ha progetto, ha, però, contro i pretesti peterpanisti»26, una precisa responsabilità: farsi carico delle condizioni della società in cui vive (il personalismo alla Dossetti). Il progetto nasce e si riproduce continuamente, ma sarà sempre incompleto. E ciò vale sovrattutto per il cristiano il quale sa che il Regno di Dio in terra non ci sarà. C’è quindi una doppia dimensione: non un progetto definitivo, ma la responsabilità che spinge al cambiamento sociale. Il progetto non è un progetto già fatto, è – per Mounier – un cammino di fedeltà alla parola di Dio e di sforzo perché questa parola in qualche nodo si incarni. d. decolonizzare l’immaginario economico e deconomizzare gli spiriti: uscire, cioè, dal dispotismo della economia, dalla dittatura del profitto, mettendo al centro della vita degli esseri umani significati diversi rispetto a quelli dell’espansione della produzione e del mercato, oltre la credenza che ‘di più’ sia ‘meglio’ (Serge Latouche).

26

M. CRUZ, Farsi carico, trad. it., Roma, Meltemi, 2005, p. 47.

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Il termine felicità, sostituito dai media dalla parola ‘benessere’ (fitness), è considerato ben più scientifico in quanto designante quella situazione in cui l’uomo viene ad avere una sua effettiva disposizione di beni materiali in gran copia epperciò risulta in grado di soddisfare tutti i suoi bisogni materiali. La persona – afferma Mounier – «non consiste infatti nell’imporre alle cose un rapporto da padrone a schiavo; la persona si libera liberando, ed è chiamata a liberare tanto le cose quanto l’umanità»27. e. promuovere il senso dell’essere comunità: decentrare l’individuo da se stesso «al fine di collocarlo nelle aperte prospettive della persona»28. Quando «la comunicazione (educativa, l’aggettivo è mio) si allenta o si corrompe, io perdo profondamente me stesso: (…) l’alter diventa alienus, ed io a mia volta divento estraneo a me stesso»29. «L’atto primo della persona è quello di suscitare, assieme agli altri, una società di persone»30. Due i fattori favorevoli: la pratica della partecipazione e gli atti dell’educatore: ovvero uscire da sé, comprendere, prendere su di sé, dare, essere fedele. E dunque: comprendere le differenze nel senso di capire, riconoscere accettare e rispettare le differenze culturali a patto che si sia animati da una buona volontà, da spirito di tolleranza, e da spirito di solidarietà. E vengo al terzo ed ultimo segmento del mio discorso. Tracce didattiche Queste mi paiono significativamente utili. – La presenza dell’insegnante come persona: compito del docente è testimoniare con il proprio comportamento la sua adesione ai significati-valori, quale che ne sia la giustificazione teorica che la 27

E. MOUNIER, Il personalismo (1949), cit., p. 38. Ivi, p. 46. 29 Ivi, p. 47. 30 Ivi, p. 48. 28

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sua coscienza, la sua formazione personale, le sue scelte filosofiche, politiche, religiose gli suggeriscono. Ma non solo. Qui si vuole rimarcare la sua presenza «in carne ed ossa», per usare l’espressione husserliana: persona che può gioire e soffrire, sperare e arrendersi, vincere o perdere, e così via. Va allora rimarcato che l’attività personale del discente è direttamente proporzionale all’attività intelligente del docente. Scriveva Luigi Stefanini: «invece di minimizzare il maestro per massimizzare lo scolaro, la scienza ed esperienza costringono ad affermare che tanto più attivo e libero è lo scolaro quanto più attivo e autorevole è il maestro, quanto più assidua la sua presenza, prudente la sua vigilanza, fervido il suo appello»31. Si pensi al contributo recente delle neuroscienze: nell’ultimo decennio la neurofisiologia ha aperto una via promettente con la scoperta dei neuroni specchio. Queste cellule sono dotate di una sorprendente proprietà: si attivano sia quando compiamo una data azione sia quando vediamo altri che la fanno32. Le implicazioni didattico-educative correlate – a questo punto – (una per tutte: il ruolo del modello educativo) possono essere straordinarie. – La didattica dell’oscuro33. Molta dell’attività dell’insegnante è esplicita, diretta, evidente e costituisce quella che possiamo chiamare la didattica del ‘chiaro’ o del ‘testo’. Ma, come ognuno sa, accanto a tali attività ve sono altre che lo stesso docente non esprime con la medesima intenzionalità e con la medesima visibilità: le sue convinzioni, le sue preferenze, i suoi comportamenti; ma non solo: anche le sue insicurezze, le sue paure, i modi di reagire (e qui il

31

L. STEFANINI, Personalismo educativo, Roma, Fratelli Bocca Editori, 1955,

p. 76. 32

Cfr. G. RIZZOLATI, C. SINIGAGLIA, So che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, R. Cortina, 2006 ed anche M. SOLMS, O. TURNBULL, Il cervello e il mondo interno. Introduzione alle neuroscienze dell’esperienza soggettiva, trad. it., Milano, R. Cortina, 2006. 33 Per ulteriori indicazioni vedi il mio testo Elementi di Didattica generale, Brescia, La Scuola, 1997.

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ruolo della psicoanalisi è fondamentale), i criteri in base ai quali operare le scelte e assumere le decisioni sono tutti elementi che vengono appresi dai/lle preadolescenti o comunque altrettanto influenzanti le loro modalità di comportarsi e di essere. Si schiudono molteplici percorsi didattici diretti a profittare di tali possibilità. – La tempestività degli interventi. L’efficacia di un intervento didattico, se dipende certo da chi lo promuove, dipende non poco dall’atteggiamento mentale di chi lo riceve. La persuasività dei nostri argomenti ha scarsa importanza, anzi non ne ha nessuna, se chi li ascolta ha già preso le sue decisioni. Lo si può riscontare in più campi: specie in quello politico34. Questo, però, non significa affatto che le esortazioni siano superflue o i consigli inutili. Al contrario: possono essere utilissimi, anzi determinanti, quando vengono al momento giusto; quando sono rivolti a soggetti che sono ricettivi, che hanno un atteggiamento mentale favorevole, ed aspettano soltanto una spinta dall’esterno per scegliere, decidere, convertirsi, e così via. Chi, dunque, vuole insegnare qualcosa a qualcuno deve innanzitutto capire lo stato d’animo di colui a cui si rivolge, e scegliere il momento opportuno. Perché il successo dei tentativi di persuasione, ma anche di ogni altra attività, prima fra tutte quella d’insegnamento, è anche questione di tempestività. Sovente non si riescono ad offrire contenuti pertinenti con il momento di disponibilità all’apprendimento dell’allievo; anzi non raramente si deprime l’opportunity to learn: è il rispetto mouneriano per la persona dell’allievo che deve guidare l’azione del docente. Orbene, occorre allora una particolare attenzione nel saper cogliere, da parte del docente, il momento favorevole. E, quindi, sono necessarie, in primo luogo, le osservazioni – analisi tendenti a conoscere lo stato cognitivo e motivazionale (conoscenze, interessi, aspettative, attese) degli allievi. 34

A chi ha già scelto questo o quel partito, si possono citare fatti provati e inoppugnabili a favore dell’uno o a sfavore dell’altro: chi ha fatto la sua scelta non cambia facilmente idea.

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In secondo luogo non vanno trascurate quelle occasioni (avvenimenti politici, eventi storici, fatti quotidiani, competizioni sportive; e così via), sovente pubblicizzate dai mass media, che possono essere colte per soddisfare attese cognitive, per provocare riflessioni ad hoc, per indurre cambiamenti valutativi e decisionali. Ed infine occorre saper preparare tale momento (favorevole) di ‘ascolto-disponibilità’ attraverso percorsi in grado di generare particolare forme di attenzione. Dunque: saper cogliere, ma anche saper costruire ad arte il ‘momento giusto’. In questo senso ha sempre una pregnante attualità l’affermazione – già richiamata in altre occasioni – di Comenio: Didactica artificium docendi sonat: ossia considerare l’insegnamento come un artificio (nel senso forte che l’uso del termine consente e non già nella sua connotazione negativa: artificio è il risultato della téchne, del fare secondo arte). – La collaborazione consonante. Qui intesa – si badi – come ulteriore testimonianza di un modello sociale, non come mero invito: ma come reale collaborazione. Collaborare difatti significa non sommare i dati raccolti indipendentemente dai vari componenti; bensì costruire un percorso comune che trova la sua giustificazione e la sua unità nel progetto educativo. In tale prospettiva la negoziazione serena e ragionevole con i colleghi è lo strumento indispensabile per la costruzione di una comune azione didattica. Il contributo di ciascun docente serve non poco agli altri per costruire un tipo di pensiero – discorso che si può realizzare nel ragionare, insieme, nell’affrontare temi e problemi, discutendo, e nello scegliere una linea comune nella conduzione didattica. La collaborazione fra una pluralità di docenti, vale a dire una pluralità di competenze, di esperienze, di prospettive, offre a chi apprende la possibilità di vivere e sperimentare modalità diverse di interazione e di relazione educativa, ma anche di fruire di occasioni preziose per i processi di socializzazione che (nella scuola e fuori) si conducono per il loro sviluppo cognitivo, affettivo, sociale. Lo scambio di idee fra docenti, una produttiva interazione didattica fra gli stessi, lo sforzo collaborativo 360

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di ciascuno, si fanno specchio per educare alla collaborazione che risulta ancora tanto carente nella nostra cultura scolastica e no. Verso la società delle persone E vengo alla puntualizzazione – già accennata – fra l’uomo di ragione e l’uomo di fede, ovvero fra il laico e il cristiano. Tema, questo, più che mai attuale anche per certi interventi apparsi sulla stampa non senza alcune sbavature interpretative. L’uomo di ragione – dicevo – è il laico, colui il quale si caratterizza per lo stile di pensiero aperto, la disposizione alla tolleranza, la relazione dialogante, il rifiuto di qualunque ipse dixit, la disponibilità a mettere in discussione qualsiasi proposizione, anche quella apparentemente più solida35. Il che significa non accettare alcuna verità rivelata come fondamento, usare l’intelligenza critica, separare la religione dalla politica e la morale dal diritto, ma anche lasciare al singolo (cittadino) la piena libertà di coscienza e di culto, assieme alla facoltà di promuovere la propria fede nel rispetto delle convinzioni altrui. Conscio del fatto che non ogni esperienza può essere oggetto di rigorosa dimostrazione logica, né la spiegazione può essere lasciata all’autorità ed ai dogmi, e neppure al preliminare sacrificio dell’intelletto, il laico rifiuta la diserzione da questo mondo, mantiene il suo atteggiamento di ponderato, ma non cinico, disincanto nel resistere alla seduzione di dogmi, miti o ideologie utilizzati come riempitivi di quei vuoti inevitabilmente lasciati da ogni sforzo di comprensione e di dominio della realtà. Rifugge certo dalla pretesa voltairiana di «schiacciare l’infame»; cerca anzi il dialogo con le religioni, perché sa che esse racchiudono un tesoro di speranze, desideri e paure e perché il dialogo schiu-

35

Cfr. AA.VV., Le ragioni dei laici, a cura di G. Preterossi, Bari, Laterza, 2005.

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de nuovi orizzonti e tiene lontana l’ottusità dei falchi di entrambi gli schieramenti. Laico sta, dunque, per tolleranza, premessa per il rispetto delle idee degli altri, onde evitare di cadere in forme estremistiche; significa demistificazione di tutti gli idòla, anche dei propri; attesta la capacità di credere fortemente in alcuni valori, sapendo che ne esistono altri, pure essi degni di essere rispettati. E il cristiano? Credo che la sua posizione lo carichi di ulteriori responsabilità. Ma procediamo con ordine. Quando, per un centinaio di milioni di uomini e di donne, la ricerca primaria del senso non si orienta più in misura sufficiente sulla prospettiva politica, possono mostrarsi nel pensiero laico i sintomi di un malessere dovuto alla percezione che la storia sia sfuggita di mano alla progettualità umana e che il razionalismo in tutte le sue forme (scientifiche, filosofiche, tecniche, etiche) non sia in grado di tenere sotto controllo le sorti dei popoli del genere umano nel suo complesso. Oggi ci si rende sempre più conto di quanto Husserl aveva predetto da tempo: sulla disperazione dell’esistenza, scienza e tecnica hanno poco da dirci. La crisi delle scienze europee36 tenta di dare risposte di significato all’esistenza. La scienza spiega; ma l’esistenza non diventa per questo meno misteriosa e inquietante. Di conseguenza vanno ritrovati i valori perduti, e quindi Dio da cui tutti i valori dipendono. Le Chiese e le religioni difatti aprono squarci di incondizionata speranza, polarizzando le attese verso il futuro riscatto di questo mondo ancora colmo di ingiustizia e di questa umanità sofferente, irredenta e ignota a se stessa. Con un’esperienza accumulata nei millenni, esse si fanno così carico di quei problemi che coinvolgono tutti e che (proprio per la loro magnitudine o per la loro natura)

36 Cfr. E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1972.

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non sono in grado di venire avviati a soluzione dagli Stati e o dagli organismi internazionali. Occorre pertanto disporsi, da parte specie della Chiesa e dei cristiani, a sviluppare un serrato dialogo con i laici, confrontarsi con loro, in quanto collaboratori della verità, in vista di un nuovo umanesimo. Il che non è facile sovrattutto quando la libertà del soggetto tende a scivolare sempre più lontano fino al punto di diventare libertà di ciascuno che non riconosce più la libertà degli altri. L’umanesimo laico che era cresciuto per far riconoscere alla fede il limite che precede l’intolleranza riesce a diventare esso stesso intollerante perché diventa assoluto, così quando rivendica gelosamente la propria indipendenza intellettuale. Dagli assoluti della religione si passa agli assoluti di una sconfinata libertà di ragione: si profila la necessità di combattere o solo curare le patologie della ragione illuministica (e della libertà con la sua pretesa di auto-sufficienza dell’io rispetto a qualsiasi vincolo esterno) o positivistica «a ciò che si può provare con esperimenti». È laico difatti ogni non credente che non assolutizza e non idolatra il proprio relativo punto di vista e la propria ricerca. Così come è laico anche il credente che non è superstizioso, che non è fanatico, che non è arrogante, che non è chiuso alla ricerca di una verità sempre più chiara e piena37. Il laico non-credente sa riconoscere la profonda analogia che lo lega alla domanda del laico-credente e alla sua continua ricerca del vero e del bene. Ricerca, questa, che, se così realizzata, non può non essere anche laica. Su ambedue, sul laico e sul credente, in definitiva, incombe l’ombra del mistero. Ci sono aspetti in ombra nella nostra esistenza che ancora oggi non trovano linguaggio per essere detti, eppure ur37

Su rapporto di fede e ragione v., fra gli altri, B. FORTE, G. GIORELLO, Dove fede e ragione si incontrano?, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006; ed anche B. FORTE, La bellezza di Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006.

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gono dentro ognuno di noi, là dove la scienza e la filosofia non bastano, dove le parole delle «idee chiare e distinte» ancora non riescono a dire. Il mistero chiede ad entrambi l’umiltà di riconoscere il proprio limite e perciò di aprirsi all’Altro. Così intesa, la laicità è piuttosto una sensibilità profonda che tocca il modo stesso di vivere e di sentire certo del ‘laico’ ma anche del ‘credente’: costituisce l’essenza della democrazia moderna prefigurata da Mounier: il diritto di ogni persona, di ogni gruppo, di ogni comunità, di ogni soggetto singolo o collettivo, di far valere i propri diritti e di essere ascoltato con attenzione e rispetto. Reciproci. Senza imposizioni e sopraffazioni. Senza imporre la propria verità a chi non la condivide. La democrazia è il contenitore di queste parziali verità e di parziali interessi38. La (volontà della) maggioranza si costruisce attorno alla sintesi delle diverse tesi. La pedagogia sociale, oggi, non può non attingere a piene mani alle riflessioni mouneriane.

38

Cfr. P. SCOPPOLA, La democrazia dei cristiani, Bari, Laterza, 2006.

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UNA SOTTOLINEATURA: «GENIO DELLA DONNA» ED EDUCAZIONE

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IL GENIO DELLA DONNA E L’EDUCAZIONE Hiang-Chu Ausilia Chang

Il genio della donna e l’educazione è una tematica di fondamentale importanza non solo per gli ‘specialisti’ dell’educazione, ma anche per tutti, perché tocca, a mio avviso, la coscienza dell’umanità intera1 chiamata ad avere una giusta visione antropologica e quindi a scoprire la vera dignità e grandezza della donna. Tale dignità e grandezza costituisce anche la sua specifica vocazione e missione che, secondo Giovanni Paolo II, è «nell’ordine dell’amore» (Mulieris dignitatem, cap.VIII)2. 1 Cfr. H-C.A. CHANG, Per una presenza educativa tra le giovani: quali condizioni?, in Verso l’educazione della donna oggi. Atti del Convegno internazionale promosso dalla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» (Frascati, 1° – 15 agosto 1988), a cura di Antonia Colombo, Roma, LAS, 1989, pp. 371-401; H-C.A. CHANG, Donna e umanizzazione della cultura. quali percorsi?, in Donna e umanizzazione della cultura alle soglie del terzo millennio. La via dell’educazione. Atti del Convegno Internazionale e Interculturale promosso dalla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» (Collevalenza, 1°-10 ottobre 1997), a cura di H-C.A. Chang – P. Cavaglià – M. Farina – E. Rosanna, Roma, LAS, 1998, pp. 563-585; H-C.A. CHANG, Introduzione al terzo nucleo. Conclusioni del terzo nucleo, in Ivi, cit., pp. 457-460; pp. 587-593; H-C.A. CHANG, L’educazione della donna in Asia: problemi e prospettive, «Rivista di Scienze dell’Educazione», 3, 1996, pp. 321-346. 2 Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Mulieris dignitatem. Lettera Apostolica sulla dignità e vocazione della donna (15-8-1988), nn. 28-30, in Enchiridion Vaticanum, 11, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1991, nn. 1331-1342, pp. 829-841. Di fronte alla dilagante cultura della morte, dell’avere (efficientismo, confor-

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Emmanuel Mounier, cui è dedicato questo Convegno per ricordare il centenario della nascita, è uno dei filosofi che ha evidenziato chiaramente la necessità di un’antropologia personalistica relazionale3 sul versante non solo orizzontale ma anche verticale, riferito cioè a Dio Amore trinitario che ama ognuno e lo rende capace di amare tutti a sua volta. Pertanto tale antropologia, da un lato mette in luce l’insopprimibile desiderio di ogni uomo d’incontrarsi con il tu e il Tu, il suo anelito e la nostalgia dell’infinito, la sua ansia di verità, la ricerca di autentica felicità e, dall’altro indica che la vera libertà consiste nell’accoglienza della signoria di Dio nella propria vita, la quale include necessariamente anche l’accoglienza solidale di tutti senza discriminazione. Si tratta di riconoscere e accogliere il prezzo da pagare per la crescita umana di ogni uomo, crescita possibile solo sotto il segno dell’amore: è quanto dire che l’uomo ha bisogno d’incontrarsi con la Vita, con il Vivente, che è Cristo, culmine di tutta l’esistenza, se non si vuol morire per sempre. Il presente studio, nella sua brevità e modestia, è un tentativo di esplorare, alla luce del pensiero di Mounier e di Giovanni Paolo II, il concetto di ‘genio della donna’ e lo pone, anzi lo trova posto senza forzatura, in relazione con l’educazione. Esso, inoltre, cerca di evidenziare tale rapporto – donna ed educazione – in riferimento all’e-

mismo, funzionalismo, sfruttamento, ecc.) e della depersonalizzazione (ipocrisia, tirannia, violenza, naturalismo) urge una seria rilettura dell’identità femminile a partire dall’amore, dal mistero pasquale, dalla verità della famiglia, dalla dimensione spirituale della persona umana. Mounier, attento a captare il senso delle problematiche emergenti nel suo tempo, ha dedicato espressamente un brevissimo saggio intitolato «Aussi la femme est une personne» (1936). Al riguardo vedi: E. MOUNIER, Anche la donna è una persona, in Manifesto al servizio del personalismo comunitario [Manifeste au service du Personnalisme, Paris, Éd. Montaigne, 1936], trad. it., Bari, Ecumenica Editrice, [1975] 19822, pp. 174-178. 3 Cfr. L. CAIMI, Ripensando al personalismo pedagogico di Mounier, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, Vol. 2, a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, Roma, LAS, 2005, pp. 234-250.

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sperienza plurimillenaria delle donne ‘comuni’ e della figura storica paradigmatica che è Maria di Nazaret4. Dato lo spazio limitato, la mia esposizione sarà breve e toccherà solo alcuni punti. 1. Il ‘genio della donna’: una vocazione umanizzante Il ‘genio femminile’, espressione cara a Giovanni Paolo II, è di difficile definizione, nonostante le riflessioni fatte anche come reazione e risposta a ciò che il movimento femminista ha suscitato fino ad oggi. Nello stesso Mounier, anche se utilizza alcune espressioni quali ‘mistero femminino’ e ‘genio domestico’ della donna5, tale discorso rimane piuttosto secondario in quanto non si sofferma a svilupparlo esplicitamente. Egli tuttavia, pur nella esiguità delle sue riflessioni esplicite sulla tematica della donna6, può essere considerato un eccellente esponente della pari dignità della donna e della vocazione universale della persona umana7. Circa l’identità della donna egli, da un lato, riconosce la difficoltà di discernere nella donna ciò che è natura da ciò che è artificio8 e, dall’altro, afferma che la donna, se 4

Ciò che è assente nella storia della cultura non cattolica è la conoscenza di Maria di Nazaret donna per eccellenza, archetipo di tutti gli esseri umani, in particolare della donna e di tutte le donne. È il tempo di farla ‘uscire’ dal ristretto mondo di riflessioni cattoliche per i cattolici per porla al centro della vicenda umana di ieri, d’oggi e di domani, così pure nella storia dell’educazione. 5 Cfr. Ivi, p. 178 e 188. 6 Esplicitamente egli dedica appena un saggio alla tematica della donna (vedi supra nota 2). 7 Mounier afferma: «Ogni persona ha un significato tale da non poter essere sostituita nel posto ch’essa occupa nell’universo delle persone» (in «Esprit», 1° aprile 1938, riportato in E. MOUNIER, Il personalismo [Le personnalisme 1949], Roma, trad. it., Ave, 19878, p. 71). 8 E. MOUNIER, Anche la donna è una persona, cit., p.176. Egli, giustamente, rileva la difficoltà di parlare dell’identità della donna e dell’uomo (cfr. ID., Trat-

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vuole e se osa, può «capovolgere la storia e il destino dell’uomo»9, in termini, diremo, di vera umanizzazione. Egli critica la falsa femminilità fatta di sottomissione «al di sotto della persona», che non favorisce affatto la possibilità del dono di sé per un essere libero, la consapevolezza e assunzione della vocazione spirituale che è, secondo lui, la maternità10. È merito di Giovanni Paolo II aver evidenziato con molta chiarezza e vigore la necessità di riconoscere, scoprire, recuperare, difendere e valorizzare la dignità della donna in tutti gli ambiti della convivenza umana. Si può dire che l’espressione ‘genio della donna’ rappresenta il contenuto di una ‘nuova’ antropologia che esce da schematismi o riduzionismi, ed è aperta all’altro, alla reciprocità, alla dimensione comunitaria dell’umanità da coltivare come processo educativo e formativo di ogni essere umano. Ogni uomo è dono di Dio all’umanità ed è chiamato ad esserlo con la vita. Il che significa che, sia l’uomo che la donna, hanno un contributo ‘tipico’ e caratterizzante. Parlare del ‘genio’ della donna, a mio avviso, si colloca in questo quadro e ha una ragione in più – che diremo storico-culturale – riferentesi cioè al riconoscimento della necessità di scoprirlo, difenderlo e valorizzarlo come rispetto dovuto alla donna a vantaggio della stessa umanità, quindi dell’uomo stesso. Rispetto dovuto ma che, purtroppo, lungo i secoli spesso le è stato negato. Quanto emerge sia dalla Lettera Mulieris dignitatem, sia dalle riflessioni soprattutto biblico-teologiche sulla donna, è in perfetta sintonia con l’apporto peculiare di Emmanuel Mounier che, da giovane filosofo, ha capito profondamente che la crescita e maturazione umana si effettua in relazione all’altro, nella capacità di far spazio all’altro, nel col-laborare con l’altro verso la meta comune, per il raggiungimento del ‘bene pubblico’ (cioè il bene comune di tutti). È tato del carattere [Traité du caractère, Paris, Éd. du Seuil 1947], Roma, Edizioni Paoline [1949] 19828, pp. 768-772). 9 E. MOUNIER, Anche la donna, cit., p. 178. 10 Cfr. Ivi, pp. 174-175 e p.177.

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eloquente al riguardo la nota formula della sua antropologia, fenomenologicamente e ontologicamente relazionale: «Amo ergo sum!»11, che si pone in contrapposizione a quella cartesiana autofondantesi «Cogito ergo sum». Secondo Mounier, si può dire che «io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri, e, al limite, che essere significa amare»12. Non intendo presentare il pensiero antropologico di Mounier – non è di mia competenza – bensì evidenziare per sommi capi una convinzione, bisognosa di ulteriori approfondimenti, ossia la considerazione della donna quale ‘signora’ dell’educazione, a motivo di una triplice esperienza che chiamo: ‘viscerale’, ‘ecologica’, ‘umanizzatrice’. Essa contraddistingue, secondo il mio modo di vedere, il genio femminile al quale, com’è noto, non solo Dio affida l’uomo, ma anche Dio si affida e affida l’umanità intera. Il che significa che la donna ha la vocazione connaturale alla sua struttura ontologica e fenomenologica di prendersi cura dell’umano, vale a dire, dell’educazione. 2. La donna: ‘signora’ dell’educazione nell’esperienza viscerale con l’altro, con il ‘tu’ La donna, nella maggioranza dei casi, è chiamata a vivere la maternità biologica, e tutte le donne sono chiamate a vivere quella spirituale13. Anche se, come si è detto, Mounier non sviluppa tale discor-

11 Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, cit., pp. 47-50. Sugli scritti di Mounier vedi: Oeuvres de Mounier, voll. 4, Paris, Éditions du Seuil, 1961-1963. Su Mounier vedi ancora il già citato Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale, a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, Vol. I. Nel centenario della nascita; vol.II. Mounier e oltre, Roma, LAS, 2005; A. MARCHESE, Emmanuel Mounier tra pensiero e impegno. Una filosofia a servizio della persona, Roma, LAS, 2005. 12 E. MOUNIER, Il personalismo, cit., p. 47. Cfr. anche ivi, p. 50.

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so egli ‘avrebbe’ potuto pienamente e egregiamente affermare quanto viene qui rilevato. Dico ‘avrebbe’, in quanto credo che c’è in lui la premessa per collegare la riflessione sulla donna a quella riguardante l’eccelsa e impareggiabile figura di donna che è Maria di Nazaret. La donna che accoglie dentro di sé una vita, in modo tutto speciale si rende solidale con l’altro, da tutti i punti di vista: fa spazio all’altro, gli dona l’habitat e l’humus vitale, gli dona il nutrimento – che è il proprio sangue –, respira insieme all’altro, ritma la propria vita secondo i bisogni dell’altro che è inerme, cosicché la sua vita fa tutt’uno con la vita dell’altro. È quanto dire che l’uomo è affidato alla donna, alla sua capacità di ricevere e donare amore, alla sua capacità di vivere «per l’altro» (Mulieris dignitatem, n. 7) e non solo accanto e insieme all’altro. Proprio in questo consiste il ‘genio della donna’. Quante madri, lungo la storia, hanno preferito alla propria la vita del nascituro! La storia delle culture e delle religioni, infatti, evidenzia la bellezza, la virtù e la grandezza di ogni essere umano, proprio in questa capacità di rispetto-apertura-aiuto all’altro, quindi di amore verso gli altri, di perdono verso i propri nemici, di misericordia, di compassione, e di sentirsi nell’altro e con l’altro. L’empatia, oggi evidenziata anche come virtù educativa14, è stata vissuta, lungo i secoli, in vari modi da parte di innumerevoli persone di ricca umanità. La donna, da sempre e per sua stessa natura, ha il privilegio di fare un’esperienza ‘viscerale’ nel senso più profondo e ricco della parola nei confronti dei propri figli, esperienza che possiamo considerare paradigmatica, esprimente solidarietà, empatia, reciprocità con la vita15. È un privilegio esclusivo anche in materia di educa13

Cfr. E. MOUNIER, Manifesto, cit., p. 178. Cfr. A. BELLINGRERI, L’empatia come virtù educativa. Compiti formativi specifici e suo significato nella crescita morale della persona, «Studium Educationis», 3, 2003, pp. 640-647; ID, L’empatia come categoria pedagogica ed educativa, «Pedagogia e Vita», 5, 2001, pp. 100-128. 15 Giuseppe Rovea, commentando il documento Mulieris digniatem, rileva: 14

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zione prenatale, tema la cui importanza meriterebbe uno studio approfondito da diverse angolature. Il prototipo di questa figura femminile è Maria di Nazaret, un personaggio storico che debitamente e adeguatamente andrebbe fatto conoscere all’umanità intera e non solo all’interno mondo cattolico16. Ella costituisce il paradigma non solo di ogni donna chiamata a custodire, nutrire e curare la vita, ma anche di ogni essere umano capace di accogliere la Sorgente di ogni vita, la Vita per eccellenza, l’Amore in persona. In ciò Maria rappresenta il vanto dell’umanità e di ogni essere umano che da sempre nutre un anelito insopprimibile di felicità senza fine, di gioia, di libertà17. Maria di Nazaret, infatti, nell’accoglienza del progetto di Dio nel momento dell’Annunciazione, diviene un essere umano, per eccellenza capace di Dio: interlocutrice e collaboratrice del progetto arcano attraverso l’accoglienza della Vita che dà vita e vivifica le altre vite, le sana e le potenzia (empowerment) in dignità da scoprire e riconoscere. Ella, in questo senso, aiuta chi cerca Dio a trovarlo e, nel contempo, aiuta Dio a incontrare i popoli, come, in maniera emblematica nel momento in cui lo mostra ai Magi. A Maria dun-

«Questo è il genio della donna: la sua squisita, insopprimibile, naturale, quasi esasperata sensibilità per l’uomo, per tutto ciò che è autenticamente e veramente umano nell’esperienza e nella storia degli uomini» (G. ROVEA, Il genio della donna, «La Scuola e l’Uomo», 5, 1989, p. 121). 16 Un impegno in tale prospettiva è stato assunto dalla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium», gestita dalle Figlie di Maria Ausiliatrice (= Suore Salesiane di don Bosco). Lo testimoniano in particolare alcune recenti pubblicazioni: Maria nell’educazione di Gesù Cristo e del cristiano. 1. La pedagogia interroga alcune fonti biblioco-teologiche, a cura di M. Farina, M. Marchi, Roma, LAS, 2002; Maria nell’educazione di Gesù Cristo e del cristiano. 2. Approccio interdisciplinare a Gv 19,25-27, a cura di G. Loparco, M.P. Manello, Roma, LAS, 2003; «Io ti darò la Maestra…». Il coraggio di educare alla scuola di Maria, a cura di M. Dosio, M. Gannon, M.P. Manello, M. Marchi, Roma, LAS, 2005. 17 Cfr. H-C.A. CHANG, Un approccio pedagogico-didattico a Gv. 19,25-27, in

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que, donna per eccellenza, Dio si è affidato per incontrare in carne ed ossa l’umanità, per donarle felicità e salvezza. Maria di Nazaret ha creduto alla vita e, come lei, ogni donna è chiamata a fare altrettanto, è chiamata a promuovere la cultura della vita, della reciprocità, dell’amore autentico, dell’accoglienza, dell’ospitalità, del dono gratuito: valori tutti su cui ogni autentica educazione deve fare leva. L’esperienza ‘viscerale’ – che innumerevoli donne per secoli hanno vissuto testimoniando senza chiasso la capacità di accogliere la vita e donare amore – non va interpretata nel suo aspetto angusto, biologico o bio-fisiologico soltanto, ma soprattutto in senso morale e spirituale. Le donne madri che non amano o non sanno amare i propri figli rappresentano, grazie al Cielo, solo una porzione minuscola in confronto alle altre che vivono ‘l’uno per l’altro’, nonostante i limiti umani di incostanza e di imperfezione. 3. La donna: ‘signora’ dell’educazione nell’esperienza familiare ed ecologica La storia dell’umanità ha collocato abitualmente la donna in casa. Nella mia lingua coreana si usa l’espressione ‘persona interna’ per indicare la moglie, mentre il marito è ‘persona esterna’ alla casa. La donna, anche quando lavora fuori, ha il ‘governo’ della casa e della famiglia, rendendosi prossima non solo al marito ma anche ai figli. La donna è colei che custodisce la vita della famiglia, ne diviene la memoria, per cui diventa capace anche di ‘narrazione’ e di evocazione di quello che si vive in famiglia, ossia capace di accompagnamento, tanto necessario nel processo educativo e formativo da poter essere considerato un altro nome del sistema preventivo. In tutto ciò la donna vive, in senso profondo, la gratuità, la dedizione gioiosa promuovendo tutti, accompagnandoli, consigliandoli nel modo più naturale, cosicché vive la sua signoria che non umilia nessuno, che fa sentire tutti a loro agio, che infonde sicurezza a 374

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quanti vivono insieme. In una parola, è veramente educatrice. La donna, inoltre, ha fatto spesso e continua a fare da intermediatrice e pacificatrice dentro e fuori le mura familiari. In questo senso ella è promotrice di un oikos umano e umanizzante18. Da tutto questo emerge che il ‘genio femminile’ mostra la grandezza umana nell’atteggiamento dell’Ecce Ancilla Domini – espressione paradigmatica di Maria di Nazaret – atteggiamento di servizio sublime e non servile, di disponibilità e di dedizione generosa e intelligente19. Esso esprime, quindi, l’amore che favorisce la crescita in umanità, in stile di gratuità, assolutamente lungi da certe pretese di un femminismo ad oltranza. Solo chi è capace di vivere, giorno per giorno, l’exodus dal proprio egoismo e dalla prepotenza si rende veramente capace di amare l’altro e di educarlo20. Come Maria di Nazaret ogni donna è chiamata a credere al mistero dell’amore, che significa ‘Mistero Pasquale’, amore che si dona fino alla morte e che abbraccia tutti senza limiti. L’umanità finché non scopre questa verità dell’amore resta in balia del proprio egoismo, che non fa vedere l’altro come dono e partner grazie al Maria nell’educazione, cit., pp. 143-151. 18 Sarebbe interessante al riguardo interrogare Mounier sull’ispirazione originaria del suo personalismo comunitario: la sua riflessione sulla vita trinitaria o anche e soprattutto sulla figura di Maria di Nazaret attraverso cui Dio Verbo si è fatto carne. Personalmente, rilevo che il tema di Maria non è stato menzionato negli scritti di Mounier e tanto meno negli studi finora compiuti sul suo pensiero. 19 Giovanni Paolo II, giustamente, ribadisce che «Servire vuol dire regnare» (Mulieris dignitatem, n. 5, in Enchiridion Vaticanum, 11, cit., n. 1220, p. 719). 20 Al riguardo vedi AA.VV., L’accompagnement: une nouvelle donne éducative, «ECA», 250, 2000; G. LE BOUËDEC, L’accompagnement en éducation et formation: un projet impossible?, Paris, L’Harmattan, 2001. 21 Anche il noto psicologo J. Nuttin mette in evidenza che, l’essere aperti agli altri favorisce l’essere e il diventare se stessi «non già secondo gli stretti limiti di un io individuale isolato, ma secondo la misura delle potenzialità espansive di un io integrato nel mondo degli uomini e dell’Assoluto. Soltanto questo, infatti, è l’io “completo”; l’altro è un io rimpicciolito. È profondamente falso il considerare

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quale ogni io cresce umanamente21. Il vero amore è quello pasquale. Mounier è stato considerato «l’uomo della pasqua» che ha capito e ha cercato di vivere la verità del vero amore22. Maria di Nazaret eccelle anche in questo mistero dell’amore, in quanto è stata la ‘terra’ di Dio dove Egli ha posato la sua tenda per abbracciare, con il cuore di carne che pulsa d’amore senza limiti, l’umanità intera, ciascun uomo e donna. Ella, capace di Dio, ha dato allo stesso Dio la possibilità di ‘dimostrare’ cosa significhi amare e quanto egli ami davvero, essendo Egli stesso l’Amore in persona. Ella ha capito chiaramente che non è possibile conseguire la nostra felicità e libertà al di fuori di Dio. Maria, tutta di Dio-Amore Misericordia, diviene così Madre di Misericordia per il genere umano bisognoso di Dio e del suo perdono. Anzi, si può dire che Maria, essendo Madre di Lui Misericordia, genera la Misericordia. Maria di Nazaret dunque, nella sua accoglienza di Dio, si è resa accogliente di tutti divenendo la ‘casa’ di Dio e degli uomini. In questo senso, ella ci insegna a inculcare in noi e negli altri la convivialità delle differenze, nell’armonia e nella pace. Anche noi accogliendo Dio nel nostro cuore diveniamo la ‘casa’ capace di accogliere tutti, facendoli sentire a loro agio. 4. La donna: ‘signora’ dell’educazione nell’esperienza umanizzatrice plurimillenaria Nella storia dell’umanità non è raro e non è difficile individuare ‘l’altro’ come una limitazione dell’io, poiché il contatto con “l’altro” è, al contrario, un arricchimento dell’io, quando questo contatto non lo si compia in atteggiamento di difesa» (J. NUTTIN, Psicanalisi e personalità [Psychanalyse et conception spiritualiste de l’homme, Louvain, Publications Universitaires, 1950], trad. it., Roma, Paoline, 1967, p. 321). 22 Cfr. P. CHÁVEZ VILLANUEVA, Vocazione, incarnazione, comunione. Le tre

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il grande influsso delle figure femminili sul governo di re e di grandi organizzatori. La donna ha dimostrato, lungo la storia, la sua ‘competenza’ di consigliera, capace di relazionalità, di intercessione, di armonizzazione, di portavoce, non solo nelle mura familiari e nel proprio casato, ma anche nei grandi regni e imperi che si sono succeduti lungo la storia; indubbiamente si sono verificate anche azioni contrarie. La storia dovrà fare giustizia e luce sulla capacità umanizzatrice della donna nei confronti dei figli, del marito, del prossimo. La storiografia deve ancora fare molto cammino perché abbracci la storia globale e non solo dei ‘potenti’. Ciò permetterebbe di evidenziare nella sua giusta luce il ‘genio della donna’ anche rispetto all’educazione civile, tema trascurato che invece meriterebbe un’attenzione particolare. Maria di Nazaret è solidarietà personificata con Dio Amore, nel collaborare alla salvezza dell’umanità incapace di amare e capace persino di uccidere Dio fattosi carne quale suo Salvatore. Per questo, sotto la Croce di Gesù, ella diviene Madre della Chiesa («Ecco tua madre!»), di ogni cristiano e di ogni essere umano. Maria vibra così, di generazione in generazione, con Dio e per l’umanità intera («Tutte le generazioni mi chiameranno beata»). La donna, e Maria di Nazaret per eccellenza, crede ed è chiamata a credere alla storia e fare la storia in modo umanizzante nell’ottica di Dio, cioè a vivere da con-cittadini non solo della terra ma anche del cielo, nella prospettiva appunto di un’identità solidale in ogni ambito della convivenza umana. Dio è Amore, il che significa che Egli vuole la nostra felicità, e questa felicità è Egli stesso, il nostro Tu-pienezza senza limiti. Maria di Nazaret l’ha capito nella sua carne, nel suo cuore, con la vita interamente donata a Dio a favore dell’umanità. Ha capito che tutti noi abbiamo sete insopprimibile di amore e di libertà, di amare e di essere amati. L’amore caratterizza la nostra esistenza dall’inizio sino alla fine. Per l’essere umano amare la vita significa amare ed essere amati. Ecco il senso pieno della formula antropologica di 377

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Mounier: «Amo ergo sum!». Giovanni Paolo II, convinto assertore del genio femminile, ha compreso profondamente il ruolo e il significato di Maria di Nazaret per ogni essere umano. Con la sua incrollabile convinzione e il desiderio di volere essere «Totus tuus», come appare nel suo stemma papale, ci ha insegnato che tutti siamo chiamati a riconoscere la dignità autentica dell’uomo e, quindi a delineare il volto definitivo dell’essere umano che raggiunge in Maria la forma più eccelsa. Maria di Nazaret, infatti, è una persona umana che ha vissuto, in misura paradigmatica, quello che Mounier chiama «atti originali che non hanno equivalente nell’universo», ossia: 1°) Uscire da sé (decentrarsi per divenire disponibile agli altri); 2°) Comprendere (abbracciare la singolarità degli altri con la propria singolarità); 3° Prendere su di sé, assumere il destino, la sofferenza, la gioia, il dovere degli altri; 4°) Dare (generosità e gratuità); 5°) Essere fedele23. Concludendo Gli uomini ben pensanti e onesti – tra questi senza dubbio Mounier – hanno ribadito la necessità di riconoscere la piena cittadinanza femminile nella società e di aiutare la donna stessa ad acquisire la coscienza di sé, della sua identità e dignità, della sua specifica vocazione e missione. Basterebbe riprendere il pensiero di Giovanni XXIII espresso nella sua enciclica Pacem in terris24, il Concilio Vadimensioni della persona, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale. Mounier e oltre, cit., pp. 21-24. 23 Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, cit., pp.48-51. 24 «Nella donna […] diviene sempre più chiara e operante la coscienza della propria dignità. Sa di non poter permettere di essere considerata e trattata come istrumento; esige di essere trattata come persona, tanto nell’ambito della vita domestica che in quello della vita pubblica» (GIOVANNI XXIII, Lettera enciclica Pacem in terris. La pace tra tutte le genti (11-4-1963), n.19, in Enchiridion Vaticanum /2, Bologna, Edizioni Dehoniane, 197610, p.37).

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ticano II25 e soprattutto la già citata Lettera Mulieris dignitatem in cui si sottoliena che la dignità della donna viene misurata dall’ordine dell’amore e la donna non può ritrovare se stessa «se non donando l’amore agli altri»26. Giustamente si dice che la nuova autocoscienza femminile è ‘un segno dei tempi’. Un pieno riconoscimento della donna come persona al pari dell’uomo maschio non è purtroppo ancora effettivo nella realtà dei fatti. Bisogna dire che al di sotto dei problemi che travagliano la convivenza civile sta sempre il problema antropologico che, a mio avviso, va posto non solo in termini di chi è l’uomo?, ma anche in termini di chi sono io e chi è l’altro rispetto a me? Di chi sono? Che cosa desidero e cerco e perché?27. Mounier ha capito profondamente che l’amore è il futuro della comunità umana28, poiché il cuore dell’uomo è fatto per amare. L’aspirazione alla felicità esige di pagare il prezzo dell’amore, l’unica via per far fronte alle minacce che pesano oggigiorno sulla vita umana. Tutte le antropologie che fanno dell’individuo l’unica fonte 25

Cfr. M. FARINA, Donne consacrate oggi. Di generazione in generazione alla sequela di Gesù, Milano, Figlie di San Paolo, 1997, soprattutto pp. 108-121. 26 GIOVANNI PAOLO II, Mulieris dignitatem, n. 30, cit., n. 1337, p.835. 27 Più pensatori, come ad es. Ricoeur, Lévinas, Mancini, rilevano che se il primo millennio è stato un millennio dell’essere, il secondo il millennio dell’io, del soggetto, il terzo sarà il millennio dell’altro. Si è cercato, in altri termini, di fondare la morale prima sull’essere, poi sull’io. Ora si intravede il tempo in cui la morale si fonderà sul riconoscimento dell’altro come impegnativo per l’io (cfr. L. CORRADINI, Essere scuola nel cantiere dell’educazione, Roma, SEAM, 1996, 41; I. MANCINI, L’ethos dell’Occidente, Genova, Marietti, 1990). Il tema dell’Infinito, pertanto, va approfondito in tutti gli ambiti delle riflessioni scientifiche della convivenza umana. Di recente è stato celebrato il 1° Convegno Internazionale e del Progetto STOQ (Scienza, Teologia e Ricerca Ontologica) sul tema «L’infinito in Scienza, Filosofia e Teologia» (Roma, 9-11 novembre) presso l’Università Lateranense. 28 Egli afferma: «[…] l’amore è una nuova forma di essere […;] l’atto di amore è la più salda certezza dell’uomo, il cogito esistenziale irrefutabile: Io amo, quindi l’essere è, e la vita vale (la pena di essere vissuta» (E. MOUNIER, Il perso-

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della moralità portano a cercare la felicità nella morte29. Nel genio della donna, che è fondamentalmente amore materno fatto di gratuità, di servizio generoso e del dono di sé, c’è la condizione più importante per ogni rapporto educativo e formativo che fa crescere l’uomo in umanità, così pure l’insegnamento per ogni essere umano ad apprendere come farsi umano. Da quanto detto emerge che una società sana necessita di avvalersi del ‘genio della donna’, di scoprirlo e renderne sempre più consapevoli le stesse donne. Questo perché la donna alla ricerca della propria identità e impegnata a vivere la sua vocazione del ‘dono di sé’ costituisce il ‘paradigma’ per ogni essere umano, chiamato a crescere in umanità, nella prospettiva della cultura del dono e della convivialità delle differenze. Se noi siamo concittadini non solo su questa terra, ma anche nell’Al-di-là, un’autentica educazione alla cittadinanza non può essere che fondata su un’adeguata visione antropologico-teologica della realtà30. L’educazione o è o non è. La donna che vive pienamente la sua vocazione è, a pieno titolo, ‘signora’ dell’educazione, guida competente e maestra esemplare nell’aiuto a farsi umano di ogni uomo e donna. Parafrasando il titolo del noto Rapporto all’UNESCO31 si può affermare: Nella donna un tesoro per l’educazione dell’umanità. Lo è per eccellenza

nalismo, cit., 50). 29 Cfr. M. SCHOOYANS, Nuovo Disordine Mondiale. La grande trappola per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità [L’Évangile face au désordre mondial, Paris, Fayard, 1997], trad. it., Milano, Edizioni San Paolo, 2000, p. 135. 30 Questa convinzione ha accompagnato, fin dal suo sorgere, l’impostazione degli studi nella Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium», per cui si dà importanza alla formazione filosofico-teologica come base di tutte le specializzazioni nell’ambito delle scienze dell’educazione. 31 Cfr. Nell’educazione un tesoro. Rapporto all’UNESCO della Commissione Internazionale sull’educazione nel XXI secolo [Learning: The Treasure within /

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in Maria di Nazaret la quale con la vita ha insegnato come si ama, cioè come si educa e come educare in modo integrale.32 A tale figura paradigmatica spetta, come dicevo, un dovuto spazio e una dovuta considerazione non solo nella storia della cultura in generale, ma anche nella storia dell’educazione per tutti.

L’éducation: un trésor caché dedans, a cura di Jacques Delors, Paris, UNESCO, 1996], trad. it., Roma, Armando, 1997. 32 In questo senso si comprende la convinzione ribadita durante un recente Convegno Internazionale organizzato dalla Pontificia Facoltà di Scienze dell’Educazione «Auxilium» e svoltosi nei giorni 27-30 dicembre 2004 a Roma. Vedi al riguardo soprattutto M. MARCHI, La dimensione mariana nel cammino dell’Istituto delle FMA, in «Io ti darò la Maestra…», cit., p. 75: «Un’autentica educazione mariana deve passare e coincidere con un’autentica educazione integrale in

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FAMIGLIA E VITA PRIVATA ALLA «SCUOLA DI MOUNIER» Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese

Premessa Mounier amava approcciare il concetto di persona per coppie di contrari, antitetici e complementari, quali pensiero e azione, pubblico e privato, singolo e comunitario, uguaglianza e differenza, molteplicità e unità, superamento di sé e identità, uomo e donna, restando all’incrocio delle antinomie che reclamano un continuo movimento dialettico1. Se si impedisce questo fecondo movimento irrigidendo le contrapposizioni oppure fondendo i poli nella sintesi, con l’annullamento delle differenze, si spegne la vita stessa. Nella tensione tra i poli, la vita etica della persona si presenta come dono di sé: «Non si saprebbe opporre radicalmente individualità e personalità. In quanto singolarità essenziale, l’individuo è già piuttosto un al-di-là che richiede una certa tensione tra l’individuale e l’universale. Essa agisce attraverso due tendenze complementari: l’una diretta verso la concentrazione e il dominio di sé, l’altra verso l’espansione e il dono di sé. In due parole la persona è il dominio di sé e il dono di sé»2. Questa stessa tensione è ineliminabile dal rapporto uomo donna 1 Per questo saggio, si rimanda a: G.P. DI NICOLA, Ripensare la famiglia con Mounier, «La Famiglia», 232, 2005, pp. 8-19; A. DANESE, Unità e pluralità. Mounier e il ritorno alla persona, Roma, Città Nuova, 1984. 2 J. LACROIX, Le personnalisme comme anti-idéologie, Lyon, 1972, p. 27.

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ed è tanto più feconda quanto più i due soggetti sono maturi e responsabili. Perciò Mounier auspicava la formazione di donne forti e mature, non solo per il fatto di svolgere un lavoro extradomestico e percepire uno stipendio, ma soprattutto perché in grado di superare quelle mollezze e quell’infantilismo che troppo a lungo hanno atrofizzato la femminilità e di conseguenza impoverito l’umanità. «Aussi la femme est une personne» è il grido con cui Mounier nel 1936 titola il numero unico che «Esprit» ha dedicato alla questione femminile, quasi a sottolineare che non poteva più restare implicita la realtà dell’eguaglianza dell’uomo e della donna3. Il titolo, allora provocatorio, oggi desueto, era un modo per introdurre nel dibattito culturale ‘alto’ e nel mondo cattolico accreditato un tema inconsueto, rimasto ghettizzato alle suffragette o ai salotti borghesi. Non era possibile per il gruppo di amici che condividevano l’ispira-

3

Si tratta del numero 45 di «Esprit» (1936, tredici anni prima che uscisse «Le deuxième sexe») con il titolo ripreso dall’intervento di Mounier La femme aussi est une personne, pp. 281-287. Gli stessi concetti sono stati ripresi nel Manifeste au service du personnalisme (Paris, Montaigne, 1936, rip. in Œuvres, Paris, éd. Du Seuil, 1961, pp. 479-649, pp. 559-568. D’ora in poi le Œuvres verranno indicate con O, il numero romano del volume (sono infatti 4 volumi) e le relative pagine). Nello stesso numero 45 di «Esprit» Mounier firma un secondo intervento, congiuntamente a J. Perret, dal titolo «La femme chrétienne», la cui prima parte «Dans les moeurs» è di J. Perret (pp. 392-395) e la seconda «Et dans la pensée chrétienne» è di Mounier (pp. 396-407). Riprende poi l’argomento in Affrontement chrétien (O III, pp. 14-15), in Le personnalisme (O III, pp. 515-517), Feu la chrétienté, (O pp. 673-675), Traité du caractère (O II, pp. 95-105, 155-158, 302. 382. 468. 483. 506-507, 512, 517, 606-608), Certitudes difficiles (O IV, pp. 102. 277-278), Lettre à une jeune amie, 24.X.1949 (O IV. pp. 823-26). Sul tema della donna vanno inoltre esaminate alcune recensioni ai libri di S. DE BEAUVOIR (Le deuxiéme sexe, Paris, Gallimard, 1949), di H. DEUTSCH (La psycologie des femmes, Puf, Paris 1949, «Esprit», n. 162, 1949, pp. 1005-1009) nonché la recensione del 1938 al libro di M. RICHARD (La femme à tout faire, Paris, Montaigne, 1938). Da ricordare infine un articolo dello stesso titolo del numero unico di «Esprit» del 1936, La femme aussi est une personne, pubblicato in «Femmes», Paris, 1945, n. I.

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zione personalista evitare di mettere il dito sulla piaga, anche se prevedibilmente, l’accoglienza non sarebbe stata buona. Troppo femministi per i cattolici e troppo cattolici per le femministe, quegli articoli di “Esprit” costituiscono oggi un documento raro – e del resto non il solo della produzione mounieriana – che attesta la capacità di captare il senso delle problematiche sollevate dal mondo contemporaneo. Mounier si era reso conto che non si poteva fare una rivoluzione personalista e comunitaria senza avere di fronte donne capaci di mettersi in questione e di dire una parola originale, non soltanto ‘eco’ maschile (la donna come ‘aiuto’, ‘costola’). Aveva compreso che non bastava più parlare di pari dignità, senza restituire alle donne concrete opportunità di affermazione. Soprattutto esse dovevano tirar fuori tutte le potenzialità del loro essere persone. Dicendo ‘persona’ Mounier voleva sottolineare l’infinita dignità di ciascuno nella sua intrinseca relazionalità. Né solo relazionalità, perché mancherebbe di identità, né solo identità, la persona ha per caratteristica propria la capacità di essere altro da sé assumendo l’essere personale di un altro, sia esso uomo che Dio4. Persona infatti avrebbe un sapore prometeico e individualista, se non fosse coniugato col termine ‘comunità’ ossia con le relazioni interpersonali primarie e dunque innanzitutto in famiglia, dove si apprende la convivenza delle differenze grazie al rapporto tra mamma e papà. La persona va protetta dai ripiegamenti individualistici

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Perciò la persona non s’oppone al ‘Tu’ o al ‘noi’, ma solamente al ‘si’ (on) anonimo e tirannico denunciato da M. Heidegger (Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, M. Niemeyer, V. Tübingen, 1927, pp. 126-127). Anche l’Einfülung di M. Scheler, la percezione dell’essenza singolare dell’altro visto come testimone dell’Assoluto è possibile perché la persona è capace di mettersi al posto dell’altro, di svolgere il ruolo dell’altro (Cfr. M. SCHELER, Wesen un Formen der Sympathie (1923), in Gesammelte Werke hrsg. M.F. Frings, Bern und München, 1973, cfr. M. DUPUY, La philosophie de M. Scheler, Paris, PUF, 1959; A. MERTRAUX, M. Scheler ou la phénomenologie des valeurs, Paris, Seghers, 1973).

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come pure dalla cadute collettiviste poggiando su due pilastri: una corretta accettazione delle differenze e la personalizzazione dei rapporti (giacché, di per sé, nell’estendersi a più larghi cerchi, il sociale tende a divenire impersonale ed oppressivo). 1. Il materialismo della vita privata borghese È nota la critica sferrata dal personalismo – che difendeva l’importanza della vita spirituale, della famiglia e della vita privata rispetto alla posizione marxista più distruttiva – alla società contemporanea, giudicata come ‘désodre établi’, per l’alleanza tra capitalismo e fariseismo religioso. Quando Mounier usa l’aggettivo ‘borghese’, con riferimento alla società a lui contemporanea, non si riferisce solo alle dinamiche socio-economiche, ma soprattutto alla persona che «ha smarrito il mistero dell’essere». Il tipo del borghese, nel suo attaccamento alla ricchezza, ha immiserito la capacità di trascendersi e si muove riducendo tutto e tutti a cose. Nonostante il perbenismo, non conosce né la religione né l’amore, perché tutto riduce a ordine, sicurezza, mediocrità, avere. Nella cultura dell’avere, sia l’uomo che la donna seguono un processo di depersonalizzazione che mutila la vocazione umana più profonda a tutto vantaggio dei valori della efficienza e della funzionalità socio-economica. Vedendo diffondersi una cultura che rimpiazza l’amore con il benessere (espressa così significativamente nel donare al neonato per il battesimo il libretto di conto corrente), Mounier domanda provocatoriamente: «L’uomo è fatto per il benessere? Può nel benessere conservare la passione di Prometeo e la divina tenerezza che nasce dalla pietà?»5. La famiglia borghese gli appare come una comunità di sangue, funzionale, più adatta ad affossare le vocazioni personali che a pro-

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E. MOUNIER, Du Bonheur, IV, 259-281.

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muoverle. La difesa della famiglia, nella cultura borghese, coincide spesso con l’affermazione dell’individualismo, del conformismo, del possesso. L’orgoglio con cui il borghese esalta la sua famiglia è un misto di ipocrisia e di oppressione. L’equilibrio degli egoismi viene tollerato se non alimentato, purché domini il fariseismo dell’onore. Nell’ottica di Mounier solo a cominciare dalla famiglia, dove i soggetti interagiscono e preparano nuove forme di socialità, si potranno porre basi solide per un nuovo umanesimo relazionale. In nome della persona, egli prende le distanze da quel familismo retorico e senza spessore che idolatra la famiglia e ne fa una gabbia soffocante, per poi di fatto abbandonarla a se stessa. «Sembra che quelli che difendono la famiglia – scrive – ammettano ordinariamente nella loro esuberanza apologetica che la famiglia sia per sé sola, come per virtù di una grazia automatica, un mezzo che favorisce l’espansione spirituale dei suoi membri. Perché fingere che essa sia, per un privilegio inatteso, una società spirituale pura? Se è una società fondamentalmente funzionale, può, come ogni altra società anche naturale, generare conformismo, ipocrisia e oppressione… Occorre avere il coraggio di dire che la famiglia, e spesso anche la migliore, uccide spiritualmente altrettanto e forse più persone per la sua grettezza, la sua avarizia, le sue paure, i suoi automatismi tirannici, di quante ne faccia affondare la decomposizione del focolare… L’amore è condizionato dalla classe sociale e dal volume della dote, la fedeltà dal codice della considerazione e del prestigio, le nascite dalle esigenze del benessere… Anarchica e tirannica, essa è il più elementare di quei prodotti sociali, aggressivi al di fuori, oppressivi al di dentro, che uniscono una somma di egoismi. Costituita in società chiusa, la famiglia riflette l’immagine dell’individuo proposta dal mondo borghese: il senso della vocazione e del servizio vi sono parimenti soffocati… “spirito di famiglia”, “onore di famiglia”, “tradizioni di famiglia”, tutti paroloni usati per dissimulare il nodo di vipere che non si vuole scoprire… salvare la famiglia sì, ma per salvarla mettere a nudo le sue piaghe brulicanti… Città di provin387

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ce… quanti esasperati racchiudete?… nelle nostre città abbellite per i turisti ci sono centinaia di prigioni oscure, in cui innumerevoli persone sono imprigionate in un piccolo focolare, sotto la protezione della legge, infanzie abortite prima di avere anche presentito l’appello della vita… Questa comunità di persone non è né automatica né infallibile. Essa è un’avventura da correre, un impegno da fecondare. È a condizione di tendervi con ogni sforzo, di irradiare la grazia, e solo a questa condizione, che la famiglia può essere chiamata società spirituale»6. La donna, nella sua posizione centrale, rivela la grandezza e i limiti della famiglia. Generalmente essa viene esaltata e insieme rinchiusa nel ruolo materno. Ma: «la persona della donna non è certo separata dalle sue funzioni, ma la persona si costituisce sempre al di là dei dati funzionali e spesso in lotta contro di essi»7. La questione femminile s’innesta così in quella del rapporto pubblico-privato, considerato nelle derive della contrapposizione e della identificazione. Quanto alla famiglia, Mounier sottolinea: «Ma essa non è esclusivamente una fonte di utilità biologica o sociale e, se la si difende soltanto nel suo aspetto funzionale se ne perde il senso: il quale consiste nell’essere essa il punto in cui si articola il pubblico e il privato, in cui si congiungono una certa vita sociale e una certa vita intima: essa socializza l’uomo privato e interiorizza i costumi»8. In una vita privata chiusa in se stessa la donna vive l’alienazione di una «prigione fiorita, ma sigillata». Ella vede da lontano il mondo pubblico degli uomini, nel quale essi hanno la parola e decidono. La vita privata, vissuta nell’ottica della subordinazione al pubblico maschile, porta i segni negativi della ripetitività monotona e cavillosa dei piccoli servizi quotidiani, nei quali si forgia una femminilità deteriore, ma nel contempo il mondo pubblico si priva 6

E. MOUNIER, Manifeste…, cit., I, pp. 564-569. E. MOUNIER, Manifeste, I, p. 561. 8 E. MOUNIER, Le personnalisme, III, pp. 427-525, p. 516, trad. it., «Il personalismo», a cura di A. Cardin, Roma, Ave, 1964, 1978. 7

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di quella carica umana necessaria a ricomporre, in una concezione integrale, la co-umanità. Nella cultura dell’avere la donna e l’uomo risultano entrambi spogliati della vocazione personale che è in loro, l’una sotto l’aspetto della rinuncia, l’altro del possesso. Il ‘borghese’ considera la donna una sua proprietà e dice «mia moglie, la mia automobile, le mie terre», quel che conta per lui non sono la moglie, l’automobile, le terre, ma l’aggettivo possessivo che per lui prende carne... Il borghese circonda la sua casa «di belle cose, tra cui sua moglie, cioè di cose piacevoli»9. La donna, dal canto suo, è umiliata dal suo essere ridotta a ‘bene’: «È merce per il riposo oppure per il decoro del guerriero. Merce per lo sviluppo delle faccende familiari. Oggetto (come ben si dice) di piacere e di scambio»10. L’apologia delle virtù tradizionali confonde valori borghesi e cristiani, benché abbiano radici profondamente diverse, finendo col benedire gli egoismi mascherati che salvano la facciata e corrodono la sostanza: «Questo zelo familiare è una specialità della decadenza borghese. O meglio la “sua” famiglia ha contribuito a farne una società commerciale, nella quale tutti gli atti decisivi sono regolati dall’interesse del denaro. L’amore viene condizionato dal livello della classe sociale e dal volume della dote. La fedeltà dal codice della considerazione e del prestigio, le nascite dalle esigenze del benessere. Il matrimonio oscilla dal banco-giro di conti all’estensione di un affare, dall’operazione pubblicitaria al riflusso»11. Di qui la necessità di distinguere la valorizzazione cristiana della famiglia dalla difesa ad ogni costo del suo modello funzionale e gerarchico. «Occorre allora stare attenti – scrive Mounier – a non con9

E. MOUNIER, Révolution, cit., I, pp. 127-416, p. 392, trad. it. «Rivoluzione personalista e comunitaria», a cura di L. Fuà, Milano, Comunità, 1955, n. edizione, Bari, Ecumenica, 1984. 10 E. MOUNIER, Manifeste, I, pp. 479-649, p. 560. trad. it. «Manifesto al servizio del personalismo», a cura di A. Lamacchia, Bari, Ecumenica, 1975, p. 122. 11 E. MOUNIER, Manifeste, cit., I, p. 564.

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fondere conservatorismo e fedeltà, di modo che la famiglia, anziché essere compromessa nelle restaurazioni accademiche, possa trovare l’affermazione delle sue strutture fondamentali in forme nuove»12. Tra le strutture fondamentali c’è la fedeltà: «La fedeltà non è come certe sue contraffazioni di attiva lega, una garanzia di benessere o un godimento delicato di sentimenti superficiali. È un’umile conoscenza del tempo necessario per creare una comunità, sia pure di due persone e non si esaurisce mai»13. Vi è collegata la definizione naturalistica della donna che, sulla base dell’interpretazione della teleologia del dato biologico, risulta unilateralmente destinata a compiti servili: «La legge che vi prevale è evidentemente quella del più forte, nella specie quella dell’uomo. Egli si riserverà i nobili compiti, rimettendo alla donna tutti i lavori servili in virtù della “legge naturale del suo sesso” e in virtù di un “genio femminino” come per caso esattamente complementare del confort e della soddisfazione dell’uomo, cuoca, massaia, amante. È bene per questo ordine che la donna non abbia vocazione – o capriccio – altro rispetto a quello del marito, che ella non aspiri ad una vita spirituale diversa… se non mediante delega e interposta persona. Il punto di vista biologico puro apre sempre la strada ad una oppressione»14. Più spesso sono le carenze della formazione ad alimentare una pseudo-spiritualità femminile contrabbandata per virtuosa, quando ‘vocazione femminile’, ‘dono di sé’ significano semplicemente la rinuncia anticipata alla formazione del sé. Nella cultura borghese la donna viene educata ad attendere dal matrimonio la sua realizzazione, a disporsi ad una dipendenza che, ancor prima che materiale ed economica è soprattutto psicologica e spirituale. In tale atrofia della persona il bene-rifugio cui le donne si aggrappano è «la fragile tenda, la prigione fiorita ma sigillata della falsa femminilità... la massa si 12

Ivi, p. 563. ID., Révolution cit., p. 194. 14 E. MOUNIER, Manifeste, cit., I, p. 564. 13

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avvolge alla matassa oscura e amorfa della femminilità... in mancanza del potere di costituirsi come persone, se ne procurano l’illusione esasperando una femminilità che si vendica, e corrono alla bellezza come a Dio. Esse sono le macchine perfette che hanno dato la loro anima alle cose e affidato la metà dell’umanità al trionfo titanico sulla polvere, alla creazione della buona cucina»15. Le donne vivono «non... una vita di conquista, una vita aperta, ma un destino da vinti, un destino chiuso, fuorigioco. Esse sono collocate nella sottomissione: non quella che può coronare al di là della persona, il dono di sé per un essere libero, ma quella che è al di sotto della persona, rinuncia anticipata alla sua vocazione spirituale... Esse errano in se stesse alla ricerca di un’identità che non conoscono»16. I limiti della cultura liberal borghese – economicismo, naturalismo, funzionalismo, fariseismo – subiscono uno scossone dalla rivoluzione femminista, forse proprio per questo aborrita e denigrata. Al contrario per il personalismo, il processo di liberazione della donna, per quel richiamo che contiene a rivedere la tradizione, per l’esigenza di superare naturalismo e funzionalismo, viene visto come alleato privilegiato della rivoluzione personalista nel denunciare i falsi valori, riproporre il primato della persona e dunque contribuire alla rivoluzione spirituale del nuovo umanesimo17. La critica del pensiero liberale sulla famiglia è apparsa a qual15

Ivi, pp. 559-560. Ivi, p. 559. Mounier chiarisce che è proprio l’abulia il male principale: «Che cosa occorre alle donne per diventare delle persone? La volontà e l’accettazione di uno statuto di vita che permette loro di esserlo. Esse non lo desiderano? Non è questo precisamente il sintomo di un male?» (E. MOUNIER, Manifeste, I, p. 560). 17 E. MOUNIER, Les taches actuelles d’une pensée d’ispiration personnaliste (1948), «Bullettin des amis d’E. Mounier», 31, 1968, p. 13. Scriveva J. Lacroix: «Piuttosto che essere una filosofia, il personalismo è l’intenzione stessa che anima l’uomo: costruire la propria e l’altrui personalità in vista della costruzione dell’umanità» (J. LACROIX, Lettera a Garaudy: Il personalismo e il dialogo, in Prospettive dell’uomo, Torino, Borla, 1972, pp. 179-183, p. 179). 16

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cuno eccessiva e influenzata dall’avanzante mentalità marxista. È vero però che Mounier si mantiene costantemente nei confronti di ogni ideologia, sul doppio filo della demolizione e della ricostruzione, secondo uno stile dialettico che ricerca la contrapposizione non per gioco euristico, ma perché il pensiero restituisca al pensiero culture e ideologie rinnovate dopo averle passate al vaglio del fuoco purificatore di una critica costruttiva. 2. La vita privata nel marxismo Mounier viene talvolta tacciato di catto-comunismo, ma senz’altro ha mostrato un maggiore discernimento rispetto alla gran parte del mondo cattolico nel raccogliere le sollecitazioni positive del marximo come occasione per liberare la società dallo sfruttamento, dal naturalismo, dal falso spiritualismo. È vero che il marxismo ha considerato la vita privata come la fortezza della vita borghese, lo spazio della mediocrità dell’individuo che resiste alla penetrazione dello Stato e alla rivoluzione collettivista. È vero che è stato spietato nel denunciare i mali della famiglia, sino a presentarsi contro la stessa sua esistenza. È anche vero però che il rifiuto che il mondo borghese da una parte e la maggior parte del mondo cristiano dall’altro hanno opposto al marxismo, per i suoi contenuti materialistici e atei, ha portato a sottovalutare spesso anche i suoi contributi positivi, e di conseguenza anche la critica della posizione subalterna della donna e dei guasti della famiglia tradizionale. Deciso però è stato Mounier nel respingere la tentazione marxista di destabilizzare la famiglia, nel quadro di quell’esaltazione del collettivo che sottovaluta la persona e i piccoli gruppi e pensa alla liberazione della donna come liberazione dalla famiglia. Egli era convinto che per un essere umano è indispensabile il rapporto di affidamento reciproco a tu per tu, al di là della retorica della giustizia affidata alle istituzioni, delle proclamazioni idealistiche e filantropiche: «Io non amo l’umanità, non lavoro per l’umanità, amo alcuni 392

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uomini e l’esperienza che ne traggo è così generosa che grazie a quella mi sento capace di darmi ad ogni prossimo che attraversa il mio cammino…pochi sentono l’umanità e i così detti umanitari ancor meno degli altri»18. La proposta marxista, assunta tout court, finisce col tenere sotto rigido controllo la vita privata e omologare la donna e l’uomo. La vita privata, spregiatamente considerata angusta da un prospettiva sociologistica, funzionalistica, economicistica, si rivela essenziale per la forza propositiva e unitiva che contiene, come una riserva preziosa di creatività e di relazionalità primaria. Per una democrazia fondata sulla persona è indispensabile perciò il sostegno alla famiglia e alle comunità intermedie, in modo da evitare l’isolamento dell’individuo e favorire la creazione di raggruppamenti di vario genere, con poteri che si controllano e limitano reciprocamente, in un’interdipendenza che favorisce il migliore equilibrio possibile. «Più di una volta nella sua storia – si legge nel Manifesto – il marxismo ha infamato la vita privata come la fortezza centrale della vita borghese, che deve essere smantellata per costruire la società socialista... La rappresenta perciò come una vita di spazi angusti e di stile mediocre, legata all’economia ormai tramontata dell’artigianato professionale o domestico. Vi vede ancora la resistenza della vita spicciola alla razionalizzazione sociale, dell’individuo alla penetrazione dello Stato... Noi aderiremmo ben volentieri ad una parte importante di questa critica se essa si accontentasse di scoperchiare quel focolaio di marciume e di fariseismo che l’onesta veste della vita privata ricopre troppo spesso... Al di sotto di questo marciume elegante ristagna tristemente la palude piccolo borghese, mondo senza amore, incapace di felicità come di miseria, con la sua avarizia sordida e la sua deprecabile indifferenza. Ma queste non sono che contaminazioni della vita privata, dovute alla mediocrità dell’uomo e alla disgregazione del sistema»19. 18 19

E. MOUNIER, Révolution, I, p. 196. E. MOUNIER, Manifeste, cit., I, pp. 557-558.

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È il protagonismo del sociale il fronte contro cui s’infrangono le varie forme di statalismo, più o meno morbido. Ribadisce Mounier: «La società, lo Stato è solo parzialmente il fine dell’attività delle persone, non è neanche il loro fine, precisamente in quanto non è una persona, se si designa con la parola persona ciò che trascende le condizioni della vita personale»20. Perciò il personalismo sostiene il principio della sussidiarietà, che rispetta le comunità più piccole nel loro protagonismo e nell’esplicazione della loro libertà (libertà religiosa, scuola privata, libertà d’impresa, ecc.). La difesa della differenza di genere implica anche che la vita privata interagisca, ma non si esaurisca nella sfera pubblica. Interessi, aspirazioni, fermenti di diverso genere, coagulati in gruppi ed associazioni, devono poter sfuggire ad ogni incapsulamento rigido, anche se reclamano un coordinamento che eviti la sopraffazione del più forte. Nell’accezione marxista invece termini come privato, famiglia, comunità evocano ciò che è limitato, disimpegnato dal punto di vista politico e ripiegato sul particolare. Si dimentica che il pubblico è anch’esso spesso individualità allargata che «fa pompa e commercio delle sue apparenze» in una forma di ‘chiassosa ostentazione»21. Non sta nella quantità il criterio discriminante, ma nel processo di personalizzazione, giacché anche un grande Stato può essere un’individualità allargata, fatta «non d’amore ma di strumentalizzazione», come il privato può essere un’individualità ‘ripiegata’, fatta «non d’amore ma di rifiuti». La vita privata «non si oppone alla vita interiore, né alla vita pubblica, essa prepara l’una e l’altra a comunicare reciprocamente le loro risorse»22. Essa getta una coltre di protezione sulla vita dello Spirito che si alimenta di silenzioso e fecondo dialogo dell’anima col cosmo e con Dio23. È inoltre luogo di sperimentazione del 20

E. MOUNIER, Feu la chréienté, III, p. 669. E. MOUNIER, Révolution , I, p. 195. 22 E. MOUNIER, Manifeste, I, p. 559. 23 E. MOUNIER, Révolution , I, p. 236. 21

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nuovo, da non intendersi soltanto in funzione presociale e prepolitica, come dovessero poi sfociare necessariamente nel pubblico. «La vita privata consiste esattamente in questo spazio di preparazione della persona nell’incontro della vita interiore con la vita collettiva, lo spazio indistinto ma vitale in cui l’una e l’altra mettono radice»24. Mounier accetta dunque la critica al borghesismo della vita privata, al suo individualismo, al dominio del denaro, alla religione della domenica, ma distingue le contaminazioni dalla vita familiare autentica. «La nostra critica – precisa – anche quando denuncia gli stessi mali, rimane lontana cento leghe da quel razionalismo pedante per cui la vita privata, così come la vita interiore, è una sopravvivenza reazionaria oppure, come dicono i nostri pedanti, una forma di “onanismo mistico”»25. Tra l’esaltazione liberal-borghese della vita privata e la critica marxista, l’accezione personalista recupera dall’una la difesa della persona e delle comunità primarie, dall’altra la critica ad ogni contraffazione, ad ogni rinuncia a solide responsabilità nella costruzione della città. Sul piano economico difendere la famiglia significa salvare il valore della proprietà, l’uso dei beni secondo le necessità di ciascuno, nella libertà di una messa in comune delle risorse che accoglie le esigenze singole e le soddisfa il più possibile equamente, uscendo dalle logiche contrapposte del liberalismo e del collettivismo. Proprio nella famiglia così come le piccole comunità religiose o laiche, si sperimentano forme concrete di condivisione dei beni, senza imposizione dall’alto, come accade nelle soluzioni collettiviste, e senza chiusure egoistiche, come negli estremi individualisti. Purché la famiglia non sia la scusante per il ripiegamento chez soi e dunque la rinuncia, l’abdicazione, la fuga dalle responsabilità. La distruzione della famiglia prepara una società desolante, composta di uomini e donne «senza dimensione interiore e incapa-

24 25

E. MOUNIER, Manifeste, III, p. 557. E. MOUNIER, Manifeste, I, p. 558.

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ci di incontri», un deserto in cui tutti, ma soprattutto le donne, perdono la loro umanità. Il protagonismo delle donne nella riformulazione della vita privata è indispensabile per arginare i totalitarismi: «Quando la comunità si è completamente disgregata… quando gli uomini non sono altro che elementi di un numero o fantocci di un conformismo, ecco che salta fuori quella specie di grosso bestione, ora sentimentale ora feroce, come tutti i grossi bestioni»26. Senza relazioni calde, senza famiglia, le persone cadono nella omologazione delle masse anonime, pronte per le tirannie: «Spersonalizzata in ciascuno dei suoi membri, spersonalizzata come organismo, la massa presenta un regime caratteristico di anarchia e di tirannide messe insieme; per essere più precisi è la tirannide dell’anonimato che di tutte è la più vessatoria… L’uomo anonimo dell’individualismo, senza passato, senza legami, senza famiglia, senza ambiente, senza vocazione, è simbolo matematico già predisposto ai giochi disumani… Regno dell’impersonale, del “si dice”, del “si fa”, spersonalizzazione, irresponsabilità, disordine e oppressione messi insieme»27. I mali della famiglia reclamano terapie differenti a diverse sintomatologie, ma non giustificano il tentativo dei regimi di denigrarla e sradicarla, mostrando quasi di temere il suo potenziale umano e comunitario, la sua socialità libera. Si tratta di purificare la vita privata dalle sue derive ideologiche e spiritualiste, dalla concentrazione su energie vitali, quali la razza e il sangue, dalla tendenza a confondere la comunità con una sola delle persone della comunità… Questo compito non si può svolgere senza il protagonismo delle donne nella società personalista la quale ambisce a liberare i sistemi dal burocraticismo, dall’anonimato delle macrostrutture, dalla riduzione della persona a numero, da tutte le strutture che risultano impermeabili alla logica delle relazioni ‘calde’. «La vita privata è il

26 27

E. MOUNIER, Révolution, I, p. 197. Ibidem.

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grande mistero di un’epoca e spesso ne contiene il segreto»28. Per il personalismo non si possono affrontare i problemi esulando dagli aspetti umani, psicologici e spirituali che la persona vive nel suo intimo e nelle relazioni a tu per tu. Quando la cultura marxista amplifica la denunzia del marito-padrone, della famiglia ghetto, della maternità schiavitù, spegne queste esigenze più profonde riducendo i problemi della donna al lavoro extradomestico, come se fosse scontata la coincidenza tra autonomia economica e buon essere della persona29. Ai problemi della famiglia e della donna il marxismo dovrebbe dare una risposta più convincente del lavoro extradomestico, in contrapposizione spregiativa nei riguardi del lavoro casalingo. «Noi non pensiamo – scrive Mounier – che la sua liberazione abbia come condizione prima il rientro di tutto il genere femminile in un’industria pubblica (Engels), né che i compiti del focolare siano contaminati da non si sa quale coefficiente speciale d’indegnità»30. Nell’ottica personalista lavoro è ogni attività umana, che si svolga tra le pareti di una casa o di una fabbrica o all’università, che sia lavoro delle braccia o della mente o dello spirito. Vi è qui la difesa di un dignitoso e riconosciuto lavoro casalingo, purché non venga preso a pretesto per rigurgiti nostalgici che ricaccerebbero la donna in cucina, come all’epoca faceva di frequen28

Prospectus d’«Esprit» du 6.1.1932, «Bullettin des amis d’E. Mounier», 57, 1982, p. 16. 29 Da una parte Mounier critica giustamente la dominanza della variabile economica come variabile indipendente del rapporto di potere marito-moglie («ridicolo – egli scrive – in una unione che sigilla l’amore, vedere una dipendenza intollerabile nel fatto che la donna deve vivere, se c’è bisogno, del salario di suo marito») (E. MOUNIER, Manifeste, I, p. 566), dall’altra però egli parla di un salario per il lavoro della donna in casa preso dal salario del marito (cfr. E. MOUNIER, Manifeste, I, p. 568), proposta che non eliminerebbe la condizione di dipendenza economica della moglie dal marito. Non viene prospettata l’ipotesi di un salario domestico riconosciuto dallo Stato al coniuge che lavora in casa. 30 E. MOUNIER, Manifeste, I, p. 566.

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te una certa letteratura conservatrice. «L’attuale regime disumano che costringe la donna povera al lavoro forzato, che la strappa al suo focolare, gli eccessi di una certa concezione marxista, non giustificano affatto la sciocca reazione di un “ritorno al focolare”, materialmente concepito e sistematicamente applicato, che isolerebbe più completamente la donna dal mondo»31. Si comprende meglio la differente prospettiva mounieriana constatando l’uso del termine ‘proletariato’ che, nella sua accezione marxiana, è riduttivo dell’umanesimo alla dimensione orizzontale. L’umanesimo di Mounier invece, come sottolinea giustamente E. Borne, ha come caratteristica specifica l’«apertura non solo all’altro uomo, ma anche all’altro dall’uomo di cui non si saprebbe negare apriori la realtà»32. ‘Proletari’ sono per Mounier tutti coloro che sono impossibilitati a raggiungere la pienezza delle potenzialità della persona e quindi particolarmente le donne. «Alcune centinaia di migliaia di operai in ciascun paese capovolgono la storia perché hanno preso coscienza della loro oppressione. Un proletariato spirituale, cento volte più numeroso, quello delle donne, rimane, senza che ci si sorprenda di esso, al di fuori della storia... questa impossibilità per la persona di nascere alla sua propria vita, che secondo noi definisce il proletariato più essenzialmente ancora della miseria materiale, è la sorte di quasi tutte le donne, ricche e povere, borghesi, operaie, contadine»33. La denuncia marxista della condizione della donna nella famiglia sollecita ad una più giusta relazione tra i coniugi, con una più equa ripartizione dei compiti di casa34. Per una riduzione del carico 31

Ivi, p. 567. E. BORNE, E. Mounier, Paris, Seghers, 1972, p. 59. 33 E. MOUNIER, Manifeste, I, p. 559. 34 Sono convinzioni confermate dalla vita: Mounier, come ci ha confermato in una conversazione la signora Paulette Mounier, distribuiva il tempo tra lo studio, la rivista e la cura della piccola Françoise (cfr. l’intervista a M.me Mounier, I Muri bianchi, «Città Nuova», 2, 1983, pp. 44-46. Ella ci confidava: «In effetti 32

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di lavoro domestico, Mounier sollecita da una parte lavori flessibili e part–time e dall’altra la creatività della tecnica per l’applicazione domestica delle nuove tecnologie. Riserva inoltre una buona accoglienza alle proposte di soluzioni collettive per i servizi, pensa ad una legislazione più adeguata. Il lavoro domestico sarebbe altresì alleggerito se si attribuisse meno importanza ai procedimenti rituali e borghesi del confort e della raffinatezza. «Per quanta inventiva possano impiegare trenta massaie di un grande caseggiato o di un gruppo di abitazioni nel complicare la loro arte in cucina, ci sarà difficile credere che tutta la spiritualità di quel caseggiato sarebbe colpita, qualora alcuni servizi comuni liberassero quello spossante sperpero di energie a favore di un lavoro più personale»35. Sono proposte che mirano alla conciliazione tra lavoro e famiglia ma che non si identificano con gli orientamenti del socialismo svedese. In Svezia, con una tradizione precristiana nordica che aveva già concesso alla donna maggiori libertà, la donna va occupando sempre più spazi pubblici e godendo di una pienezza di diritti giuridici ed economici. Mounier riconosce a questa esperienza i segni di un miglioramento qualitativo dei rapporti uomo donna, ma ribadisce che la liberazione esteriore non coincide automaticamente con quanto il personalismo si attende dalle donne. «Malgrado posseggano tutta l’attrezzatura elettrodomestica, numerose donne svedesi sono schiave della pulizia dei loro appartamenti come le casalinghe francesi della loro cucina complicata. Rivelano così, nonostante il benessere di una certa emancipazione giuridica, un matra me ed Emmanuel si viveva un rapporto di parità e di rispetto reciproco. Io, dopo il matrimonio, conservai il mio lavoro e lo svolsi a Bruxelles, nonostante l’attività di Emmanuel a Parigi. Solo dopo, col mutare delle circostanze, facemmo altre scelte. Debbo anche dire che rimase sempre tra noi un fondamentale rispetto dei ritmi di vita di ciascuno, dei suoi interessi, delle sue idee. Per fare un esempio concreto, io amo coricarmi presto la sera e ho potuto continuare a farlo anche con i bambini piccoli, perché Emmanuel, che invece gradiva studiare fino a tardi, si prendeva lui le incombenze familiari», p. 46). 35 E. MOUNIER, Manifeste, I, p. 563.

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lessere inconfessato»36. L’esempio svedese mette in luce come la questione femminile non può essere risolta ad una sola dimensione: «Si vede quanto sia sommario porre la persona della donna in termini di dilemma: il gineceo o la piazza pubblica»37. Le donne hanno davanti un compito impegnativo di demolizione delle sovrastrutture storiche che ne hanno atrofizzato lo sviluppo e di reinvenzione della propria identità: «Così a poco a poco senza dubbio la femminilità si libererà dall’artificio, si ritroverà su una strada che noi non supponiamo, abbandonerà sentieri che credevamo tracciati per l’eternità. E, ritrovandosi, si perderà »38. Riacquisendo la capacità di viversi come soggetto, in qualche modo costringeranno anche l’uomo a riformulare la sua identità. Infatti la rinuncia preconcetta alla vita libera e cosciente, radicata nella donna da secoli, fa sì che anche l’uomo viva l’atrofia delle sue potenzialità umane e che l’uno e l’altra facciano fatica a riconoscersi come persone. Un equilibrio soddisfacente tra i generi, nella distinzione e nella reciproca comunicazione, non può essere programmato né dai regimi marxisti, né dai vari tentativi di socialismo. Benché questi abbiano difeso la donna dallo sfruttamento liberal borghese, non sono riusciti a sfuggire agli effetti boomerang dovuti alla mancanza di garanzie per la vita privata, di rispetto delle differenze, dell’integralità di ogni persona comprensiva della sua dimensione spirituale. È su questi fronti che si delinea la sfida del personalismo. 3. L’indifferenza della famiglia nell’esistenzialismo L’esistenzialismo, con la sua critica distruttiva alla famiglia in nome della libertà dell’io, provoca in Mounier una presa di posizio36

E. MOUNIER, Du Bonheur, IV, p. 279. Ivi, IV, p. 278. 38 E. MOUNIER, Manifeste, cit., I, p. 561. 37

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ne che risulta evidente nella recensione a «Le deuxième sexe» su «Esprit». Egli si dichiara completamente d’accordo a lottare contro il «falso mistero femminile» e rivendicando tale denuncia alla sua intuizione del 193639. Pur percependo chiaramente la differenza di prospettive, Mounier ammira l’irruenza dell’autrice e lo stile piacevole. Riconosce l’onestà di chi scrive: «Le deuxième sexe è... un libro onesto, un tono di serietà e di gravità femminile lo informa, non se la prende che con l’ignavia e noi dobbiamo a questi impeti d’ira qualcuna delle pagine più forti e più giuste che siano state scritte contro Montherlant. Si dovrebbe essere ben ignoranti per trovare nel soggetto stesso che viene trattato materia di scandalo... L’originalità del libro è il punto di vista esistenzialista che viene dato a questi fatti e a questi miti»40. Non sottovaluta i punti d’incontro col personalismo: «Bisogna intendersi sulla prospettiva che si sceglie. Si può giudicare un tale libro dal di fuori, in riferimento ad una concezione della donna, dell’amore e del matrimonio differente dalla propria, cristiana per esempio (ma bisognerà non porre al cristianesimo le lenti della morale borghese). Alla fine di questo esame la si respingerà come insufficiente o dannosa, secondo il punto di vista scelto, non ci sarà però motivo per considerarla avvilente... in materia spirituale non c’è una politica del peggio e non è indifferente a un cristiano che un libro comunista o esistenzialista faccia salire o scendere il livello medio dei suoi tempi»41. Nello stesso tempo però Mounier, senza mai assumere le vesti della rigidità del giudice, manifesta chiaramente le sue perplessità. La prospettiva esistenzialista, con la critica alla famiglia tradizionale e al maschilismo, porta la De Beauvoir a minimizzare la risorsa della differenza di genere, in particolare la dimensione fisiologica 39 E. MOUNIER, CR a S. De Beauvoir, Le deuxièrne sexe, «Esprit», 162, 1949, pp. 1005-1009. 40 E. MOUNIER, CR a S. De Beauvoir, cit., p. 1005. 41 Ibidem.

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oggettiva legata alla maternità, a tutto vantaggio della libertà dell’individuo, indifferentemente maschio e femmina. La donna liberata dalla dipendenza della natura, sembra a Mounier limitata entro la logica naturale di un’antropologia vitalistica e orizzontale che atrofizza la trascendenza creatrice. La denuncia esistenzialista degli stereotipi antifemminsti non manca di prestare il fianco alle contraddizioni tipiche di un punto di vista filosofico, che, a furia di esaltare la libertà autoponentesi, svaluta l’oggettività delle condizioni date, del corpo, dei contesi socioculturali. Il limite della natura e degli altri sembra scomparire di fronte ad una individualità indipendente e priva di spessore ontologico. Di fatto la De Beauvoir: «si trova in difficoltà a dire cos’è la donna perché non è niente, l’uomo (come la donna) non è se non ciò che fa»42. L’impostazione esistenzialista della De Beauvoir appare a Mounier una tesi contrapposta a quella naturalista, come si può capire dalla sua recensione ad un libro di H. Deutsch uscito nello stesso anno, recensito in poche righe e senza entusiasmo, ma utile a rivendicare una certa sussistenza dell’oggettività43. Il concetto di persona in questo caso serve a rivendicare il primato ontologico ed etico del soggetto – maschio e femmina – libero e responsabile di costruire la propria storia ma dentro e oltre le relazioni col cosmo, la natura, la società. Se la De Beauvoir assolutizza il piano psicologistico e storicistico, la Deutsch descrive le caratteristiche femminili in qualche modo tracciate dalla natura e opposte a quelle maschili: passività, masochismo, narcisismo… Tra il rifiuto dell’essere e la tentazione di definirlo chiaramente, c’è spazio per un approccio flessibile e aperto, capace di tenere conto dei condizionamenti e nello stesso tempo di saper tacere. Su tali presupposti Mounier fonda la sua riserva: «... lo 42

E. MOUNIER, CR a S. De Beauvoir, cit., p. 1007. E. MOUNIER, CR a H. Deutsch, La psycologie des femmes, Paris, Puf., 1949, «Esprit», cit. 43

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slancio spirituale, per non essere vano, esige che noi abbiamo presente nel pensiero e nell’azione il senso di questo condizionamento, ma che ci guardiamo dal fissare confini troppo in fretta e che ne rimandiamo generosamente il tracciato all’esperienza creatrice. Il sesso è più profondo della civiltà, ma la persona è ancor più profonda del sesso»44. Mounier coglie i limiti dell’oltranzismo della posizione femminista e, avventurandosi nella ricostruzione psicologica, fa osservare che la De Beauvoir è troppo presa dal risentimento, si crogiola nella denuncia e nel vittimismo, finendo col gettar via il bambino con l’acqua sporca: ipocrisia del matrimonio e matrimonio stesso, abusi della maternità e sua grandezza, perversioni dell’amore coniugale e l’amore stesso. Egli teme altresì l’accentuazione dell’individualismo. «Questo libro – conclude Mounier – è troppo spesso il libro di una donna sola e volitiva, che vuole tutto decidere con una autosufficienza sterile, l’amore, il bambino, la sua vita. Si potrebbe riprendere il gioco di parole di Bergson: per paura della passività della grazia femminile ella rifiuta ogni grazia»45. Il valore del libro più che nel tentativo di indicare soluzioni, sta nella denunzia, in gran parte condivisibile, in quanto «scuote lo spirito di pigrizia, ma – scrive Mounier in un’aggiunta al Trattato – non potrebbe imporsi alla prova del tempo e dell’esperienza»46. La De Beauvoir ha avuto il coraggio di sfidare la cultura contemporanea aiutando le donne a prendere coscienza di sé, ma poi le ha la44

Ivi II, p. 157, it. p. 212. Ibidem. 46 E. MOUNIER, Traité du caractère, II, p. 156, trad. it. Trattato del carattere, a cura di C. Massa e P. De Benedetti, introduzione di C. Campanini, Paoline, Roma 1982, p. 212. In quest’opera Mounier tratta più volte le tematiche del rapporto tra i sessi impostandole ricalcando talvolta studi e convinzioni della psicologia dell’epoca, non sempre favorevoli alle novità. Nelle aggiunte, invece, come quelle sulla Deutsch e sulla De Beauvoir, sente il bisogno di apporre indicazioni teoriche più aperte rispetto all’impostazione generale del «Trattato», cosa che d’altra parte aveva fatto anche nelle recensioni su «Esprit». 45

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sciate in un’inquietudine irrisolta, giacché non ha saputo dire una parola positiva sull’identità della donna. L’esistenzialismo non riconosce altro valore che la capacità di creare nuovi valori «ma questa libertà senza contenuti né direzione è troppo facilmente confusa con la corrente spontanea della vita. Lasciata sola a se stessa la vita prolifera i problemi come le forme»47. Dal canto suo Mounier non si sbilancia nel definire la differenza femminile. Egli è convinto che, nell’ottica della creatività della persona, solo il futuro potrà rivelare sorprese circa l’identità dei generi: «Perché l’eterno dibattito tra la natura e l’accidente non si chiarisca che sulla lunghezza della storia, ci vorranno lunghe esperienze prima di poter decidere categoricamente su un problema che ancora tante circostanze parassite ingombrano: ma ci si augura che non siano soluzioni che mascherano in fin dei conti interrogativi ancora aperti e che le posizioni assunte non siano spacciate per esperienze evidenti»48. Se talvolta nel Trattato (per esempio discutendo con Heymans, Psycologie de la femme), si sofferma su alcuni quadri caratteriologici tipici dell’uomo e della donna, non manca però di sottolineare, facendo riferimento all’esperienza e alla nuova psicologia, che: «la natura stessa non ha voluto un taglio assoluto dall’uno all’altro sesso. A gradi variabili in ciascuno di noi coesistono i due principi maschile e femminile»49. Sia per l’uomo che per la donna si può parlare perciò di «bisessualità psichica a dominante monosessuale su una sessualità biologica fermamente stabilita»50. Soprattutto le relazioni di genere devono restare aperte alla creatività personale, evitando le polarizzazioni tra uguaglianza e differenza, natura e cultura, esperienza ed essenza… Così Mounier nel Trattato del carattere tenta di districare il rapporto tra natura e cultura, volendo insieme evitare gli eccessi del naturalismo e del cul47

Ivi, p. 1009. E. MOUNIER, CR, cit., p. 1008. 49 Traité, cit., p. 157, it. p. 213. 50 Ivi, p. 158, it. p. 213. 48

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turalismo: «Ricerche libere da preconcetti si proporranno non più di cancellare la diversità psicosessuale, ma di separare ciò che appartiene al fondo permanente e irriducibile del quadro caratteriologico di ognuno dall’apporto della storia e dell’educazione e di indicare i margini di variazione dall’uno all’altro»51. «La natura – aggiunge – non è un dato immobile, ma una potenza… chiamata ad una perpetua invenzione»52. Ogni persona nel creare un equilibrio soddisfacente tra le sue diverse componenti, ha la possibilità di oltrepassare i condizionamenti e riesce a dire una parola in più rispetto al suo bagaglio caratteriologico. «Quando la persona compie atti trascendenti o liberi, che oltrepassano le determinazioni del carattere, sfugge alla caratterologia, e questa ne afferra solo la proiezione esteriore e i risultati»53. Occorre per Mounier riconoscere alla caratteriologia il suo ruolo ma anche i suoi limiti; essa ha il diritto di classificare secondo i metodi delle scienze naturali, ma deve sapersi fermare e tacere quando incontra la persona. Ciò vale particolarmente per la donna, sulla quale molto di ciò che si scrive è sotto il segno dell’approssimazione, dell’ignoranza o del dogmatismo. Nel Manifesto del 1936 si legge: «A parte la maternità, della quale d’altronde conosciamo male le risonanze generali, noi non conosciamo con certezza oggettiva né che esiste una femminilità, che sarebbe un modo di essere radicale della persona, né ciò che essa è... Se c’è nell’universo umano un principio femminile, complementare o antagonista di un principio maschile, è necessaria ancora una lunga esperienza perché sia liberato dalle sue sovrastrutture storiche»54; e ancora: «Noi sappiamo solo che la donna è fortemente segnata nel suo equilibrio psicologico e spirituale da una funzione: il parto, e da una vocazione:

51

ID. Traité cit., II, p. 155, it. pp. 210-212. Ivi, p. 157, it. p. 212. 53 Ivi, p. 39, it. p. 65. 54 ID., Manifeste, cit., I, p. 561, it. p. 123. 52

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la maternità. È tutto. Il resto delle nostre affermazioni è un misto di ignoranza e molta presunzione»55. Il personalismo mounieriano, pur tracciando delle coordinate dialettiche di riferimento ribadisce l’indefinibilità della persona, «protesta del mistero», il quale non invita alla rinuncia ma alla ricerca: «Il mistero ama la luce. Contrariamente alla confusione, esso aspira a precisarsi in parole chiare e in forme afferrabili. Ma quanto più si esprime, tanto più si popola di forme, tanto più contemporaneamente si approfondisce come mistero e appesantisce il suo segreto»56. Al contrario ogni definizione è un’operazione di sistemazione della realtà entro schemi razionali che stanno particolarmente stretti alla persona la quale rifiuta di divenire a se stessa e agli altri un oggetto, di essere dissacrata nel mistero di cui è portatrice («La persona non è oggetto, essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come oggetto»57). Le pur necessarie indicazioni sulla persona devono perciò tener presenti i limiti denunciati da Bergson del pensiero tout fait58. Non si tratta di un silenzio prefilosofico (Mounier era stato un promettente agregé di filosofia), ma della scelta intenzionale di difendere l’originalità della persona dai procedimenti della logica intellettualistica e dai metodi gnoseologici di matrice cartesiana59. Il mistero della persona della donna e del55

Ibidem. ID., Traité, cit., p. 70, it. p. 105. 57 E. MOUNIER, Le personnalisme, III, p. 434, it. p. 11. 58 «Il rifiuto della definizione va... inteso soltanto come rifiuto del definitivo, del pensiero che si è chiuso in se stesso, e che invece dovrebbe considerare le proprie distinzioni come viatico provvisorio tra diverse ignoranze» (V. MELCHIORRE, Linee di fondazione del concetto di persona, in Mounier trent’anni dopo, cit., p. 97). 59 Mounier riconosce a Cartesio il merito di aver trasformato la filosofia in una conversione dell’esistenza. Nello stesso tempo però, a causa del suo metodo gnoseologico, Mounier gli attribuisce i germi del solipsismo, del razionalismo, e dell’idealismo (Cfr. V. MELCHIORRE, L’interpretazione di Cartesio nel pensiero di Mounier, «La coscienza utopica», Milano, Vita e Pensiero, 1970, pp. 147-169). Su Cartesio Mounier aveva fatto la dissertazione «Le conflit de l’anthropocentrisme et du théocentrisme dans la philosophie de Descartes» presentata il 23-6-1927 a 56

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l’uomo, colto più adeguatamente da un approccio contemplativo, intuitivo, empatico, si distilla nel tempo, si chiarifica nel vissuto esperienziale e su ampie dimensioni della storia. 4. Sul familismo dei cattolici Quando negli anni Trenta Mounier affrontava simili problematiche, nella Chiesa dominava una concezione della donna e della famiglia ancora fortemente legata alla tradizione classica, salvo ristrette élites di benpensanti e piccoli gruppi di ‘femministe cattoliche’. L’esaltazione della famiglia faceva temere fortemente i rischi del collettivismo marxista, mentre induceva a sottovalutare i rischi della famiglia borghese, sempre passibile di trasformarsi in «Noeud de vipères», come denunciava con forza in quegli anni il già celebre romanziere cattolico François Mauriac. La Chiesa gerarchica temeva gli effetti della trasformazione industriale sulle famiglie, quando le donne venivano spinte a lavorare fuori casa per necessità economiche, con i correlati fenomeni dell’urbanesimo e del declino del mondo della tradizione artigianale e contadina. La preoccupazione della Chiesa magistrale era – sin dalla Rerum Novarum, accolta dai progressisti con grande entusiasmo sin dal suo apparire nel 1891 – quella di salvare la famiglia, scoraggiando le donne dal lavoro extradomestico e invitandole a conservare la fedeltà alla “natura”. «Certe specie di lavoro – scriveva Leone XIII – non si confanno alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del debole sesso»60. Grenoble per conseguire il Diploma di Studi superiori di Filosofia, lavoro tuttora inedito, consultabile presso la biblioteca personalista «E. Mounier» a Chatenay Malabry (Paris). 60 Rerum novarum, cap. XXVI. Sulla posizione del magistero dei Papi cfr. M.T. BELLENZIER, Femminismo e antifemminismo negli ultimi papi, in Chiesa femminista e anti, Torino, Marietti, 1977, pp. 84-112.

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In realtà, benché le condizioni di oggettivo sfruttamento della manodopera femminile rendesse pericoloso e umiliante il lavoro extradomestico61, l’inserimento delle donne in ambienti di lavoro promiscui contribuiva alla presa di coscienza della disuguaglianza di trattamento e della necessità di una partecipazione diretta al mondo pubblico, quindi dell’esistenza di una questione femminile rimasta soffocata nell’intimità delle pareti domestiche. Ma la Chiesa aveva le sue ragioni nel rafforzare la convinzione della centralità del ruolo della donna nella famiglia, come perno naturale della sua tenuta e della sua unità. Il lavoro extradomestico veniva rifiutato come effetto del marxismo e del suo attacco diretto alla famiglia e alla stessa dignità della donna, come risulta dalla Divini Redemptoris (1937), che accomuna appunto lavoro extradomestico e comunismo62. Se dal messaggio evangelico deriva la fondamentale uguaglianza dei generi a immagine di Dio, non per questo viene abolita sulla terra una differenza gerarchica che fa del marito il capo, le cui virtù si esplicano nell’esercizio di una “giusta” autorità e nel lavoro onesto. Le virtù attribuite invece alla natura femminile sono l’amore, il servizio, il sacrificio, l’obbedienza. Pio XI nella Casti Connubii si preoccupa di rafforzare l’ordine nella famiglia rifacendosi agli insegnamenti di S. Paolo e S. Agostino e scrive: « ... il quale ordine ri61 Così risulta dalla testimonianza sulle condizioni di lavoro delle bambine data al Comitato di inchiesta sul lavoro infantile, di S. Coulson, (rip. in L. CARINI ALIMANDI, Presenze di donna, Roma, Città Nuova, 1985, pp. 100-101): «Domanda: A che ora durante il periodo di più intenso lavoro queste bambine si recavano al cotonificio? R: Durante quella stagione, per circa sei settimane, ci andavano alle tre del mattino terminando alle dieci di notte. D: Quali intervalli erano permessi per riposo o per nutrirsi durante quelle diciannove ore di lavoro? R: Per colazione un quarto d’ora, per pranzo mezz’ora e per il tè un altro quarto d’ora... D: A che ora le facevate alzare il mattino? R: In generale cominciavamo a vestirle alle due di notte». 62 Cfr. cap. XI. Lo stesso papa nell’enciclica Arcanum, cap. VIII, afferma: «Il marito è il principe della famiglia, è il capo della moglie».

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chiede da una parte la superiorità del marito sopra la moglie e i figli e dall’altra la pronta soggezione e ubbidienza della moglie, non per forza... se l’uomo infatti è il capo la donna è il cuore»63. I discorsi alle donne di Pio XII dal 1939 al 1948 non mutano la posizione tradizionale ed anzi insistono sul tema. Così vengono ammoniti gli sposi: «Sì, l’autorità di capofamiglia viene da Dio come venne da Dio ad Adamo la dignità e l’autorità di primo capo del genere umano, fornito di tutti i doni da trasmettersi alla sua progenie: onde egli fu per primo formato e poi Eva: e Adamo, dice S. Paolo, non fu ingannato, ma la donna si lasciò sedurre... O spose e madri cristiane, mai non vi sorprenda la sete di usurpare lo scettro della famiglia. E vostro scettro sia quello che vi pone in mano l’apostolo delle genti: il salvarsi per la procreazione dei figli... e voi, o spose, non siate paghe di accettare e quasi di subire questa autorità dello sposo, alla quale Dio negli ordinamenti della natura e della Grazia vi ha sottoposte: voi dovete nella vostra sincera sottomissione, amarla e amarla col medesimo rispettoso amore che portate all’autorità stessa di Nostro Signore, dal quale scende ogni potestà di capo»64. I documenti oscillano così tra la proclamazione dell’uguaglianza tra i sessi e l’affermazione della subordinazione della donna secondo la teoria tanto cavalcata e ambivalente della diversità di natura. «...Non possono mantenere – scrive lo stesso Pio XII – e perfezionare questa loro eguale dignità, se non rispettando e mettendo in atto le qualità particolari che la natura ha elargito all’uno e all’altra, qualità fisiche e spirituali indistruttibili, delle quali non è possibile di sconvolgere l’ordine senza che la natura stessa venga di nuovo a ristabilirlo… l’ufficio della donna, la sua maniera, la sua inclinazione innata è la maternità... a questo fine il Creatore ha ordinato tutto l’essere proprio della donna... di guisa che la donna, ve-

63 64

Cfr. cap. X. Pio XII, Allocuzione agli sposi del 10-9-1941.

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ramente tale, non può altrimenti vedere né comprendere a fondo tutti i problemi della vita umana che sotto l’aspetto della famiglia»65. Anche quando col tempo si rende necessaria l’accettazione dell’ormai attestato lavoro extradomestico della donna, esso è visto come supporto al lavoro dell’uomo (‘aiuto’) e in ambiti che abbiano attinenza con la naturale tendenza alla maternità. Mounier ricorda che le posizioni del mondo cristiano sono inficiate da pregiudizi legati all’antichità pagana e al fariseismo borghese con cui è inestricabilmente intrecciata la Buona Novella. Volendo cercare le cause di un tale ristagno, egli pensa ad una consolidata abitudine a sorvolare il problema antropologico della differenza di genere e il fatto che le definizioni sull’essere della donna si devono ad uomini, preti, intellettuali e celibi66. Presi dai problemi considerati più importanti, i pensatori cristiani hanno trascurato questa «sorta di zona vegetativa della storia al di qua della cultura e dell’azione, dove gli uomini hanno respinto la femminilità. La donna rientrava nel campo del mondo soggettivo, del mondo sentimentale, apparteneva ai letterati e alla predica domenicale»67. Colpisce la chiarezza con cui Mounier denuncia la tradizione cristiana antifemminista, tenace, endemicamente attaccata al giansenismo, al pelagianesimo, al paganesimo, ad una lettura pregiudiziale della Bibbia, al vecchio diritto romano e ad una cultura ancora impregnata di tarda romanità, che vede nella donna la causa della decadenza dei costumi. La critica della cultura sulla donna segna la distanza tra la posizione di Mounier e quella di Maritain. In quest’ultimo infatti si nota un maggior spirito di difesa della cristianità che porta ad attribuire piuttosto alla sola cultura pagana, marxista e 65

Pio XII, Discorso alle delegate del Cif del 1945. Mounier scrive che però non è sufficiente la considerazione che i preti celibi non conoscono i meandri della psicologia femminile («i migliori ne parlano sempre con goffagine e inesperienza», art. cit. p. 397), dal momento che anche i pastori protestanti, che sono sposati, manifestano le stesse lacune. 67 E. Mounier, art. cit., p. 398. 68 Cfr. per esempio il paragrafo sulla donna sposata che si trova in Umanesi66

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borghese, le posizioni antifemministe68. Mounier non manca di riconoscere al Vangelo un messaggio liberante sul rapporto tra i generi, per l’affermazione della diretta figliolanza dell’uomo e della donna da Dio, la difesa della verginità e della libera scelta nel matrimonio contro il potere paterno (difeso dal diritto romano e da quello germanico). Riconosce anche che la storia della Chiesa è ricca di figure eccellenti di donne: «Ogni volta che la Chiesa traballa sulle sue colonne, noi vediamo sorgere una donna per sostenerla al bordo del precipizio»69. Innumerevoli le citazioni storiche a sostegno di questa tesi, non solo con esempi di donne sante e carismatiche (Giovanna D’Arco, Caterina da Siena), ma anche valorizzando la storia della Chiesa antimaschilista, quella di quanti hanno reclamato per la donna cultura ed eguaglianza in controtendenza con i tempi e quella dei casi in cui la Chiesa è rimasta sola a difendere la donna, con suo grave danno, per esempio nel caso di Enrico VIII70. Il compito del personalismo cristiano è quello di depurare lo spirito nuovo del Vangelo da quella cultura anti-femminista, che continua a manifestarsi ancora in tre principali tendenze. La prima attie-

mo integrale dove tra l’altro J. Maritain scrive: «Se, nell’ordine delle relazioni economiche concernenti i beni materiali, è normale che la donna maritata sia nutrita da suo marito, non perderà per questo il senso della sua libertà di persona. che per di più dovrà dar luogo a un intero riconoscimento giuridico implicante. per tutto ciò che riguarda l’istituto matrimoniale, l’eguaglianza dei diritti: e la donna sarà unita all’uomo per realizzare, contemporaneamente alla sua funzione materna, quella funzione sulla quale insiste la Bibbia, di aiutare, a titolo di persona a lui simile, l’uomo a vivere: e per nutrirlo a sua volta nell’ordine di una economia più segreta e più profondamente umana» (J. MARITAIN, Umanesimo integrale, trad. it. Torino, Borla, 1977, pp. 225-226). 69 E. Mounier, art. cit., p. 403. 70 Mounier conclude: «Se è difficile trovare a questa denigrazione frivola della donna la conferma che alcuni hanno cercato nei testi canonici, è invece una rivincita facile dimostrare che la donna deve al cristianesimo una dignità che da nessuna parte le era allora riconosciuta» (art. cit., p. 401).

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ne la convinzione ben radicata nei cristiani più zelanti che «la vocazione spirituale essenziale per la donna sta nelle incombenze di casa», di cui sul piano del costume si vedono le conseguenze nell’alienazione della sfera politica e sociale, negli atteggiamenti di falsa umiltà e di servilismo. Eppure è proprio a Marta che Gesù conferma il primato della fondazione spirituale della persona. Mounier si oppone anche all’interpretazione dei comportamenti femminili come naturalmente remissivi quando invece tale remissività ha la stessa radice patologica della tentazione di sottomettere l’altro. Egli preferisce interpretare l’atteggiamento femminile, in sintonia con gli studi di Gina Lombroso, come dettati da maggiore alterocentrismo: « ... Molti tratti che si è tentati di riferire ad una disposizione di sottomissione sono effetti della più profonda vocazione femminile alterocentrica, spesso con sfumatura materna»71. Così le definizioni della natura e della psicologia femminile offrono il varco ad interpretazioni aperte e richiedono un lavoro di discernimento tra conservatorismo e innovazione, che porta in sé tutti i rischi dell’ignoto72. Jacques Perret, che ebbe il compito di tratteggiare il tipo di donna cristiana, scrive: «Prima “donna cristiana” era chiamata una specie di vergine dolente o fatalmente gioiosa, generalmente sposata ad un non credente che perseguitava per tutta la vita con buoni servizi, pazienza, virtù nella speranza che un giorno si fosse convertito... una volta sposata, in effetti, la giovane cristiana... tende a

71

Ivi, p. 507, it. p. 645. Lo sforzo di Mounier di purgarsi dai preconcetti acquisiti dalla cultura tradizionale sembra più aperto all’esperienza della storia futura rispetto alle posizioni di alcuni articoli sulla donna apparsi successivamente in «Esprit» (Cfr. F. GREGOIRE, De femmes qui ne sont pas féministes, «Esprit», 11, 1964, pp. 777 ss.: P. THIBAUD, La partie des femmes, «Esprit», 5, 1976, pp. 1049 ss.). Sulla linea di Mounier si collocava l’articolo di J.M. DOMENACH (La femme aujourd’hui, «Esprit», 5, 1961, pp. 984 ss.) che sottolineava come i problemi della donna esigono risposte istituzionali formulate, sulla base di nuove esperienze storiche. 72

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tuffarsi in maniera particolarmente esclusiva nel lavoro della sua famiglia. Tutto lo slancio della tradizione cristiana sul matrimonio tende a presentarle la sua nuova via come una via della dimenticanza di sé, nella devozione umile e quotidiana a suo marito e ai suoi figli che ella desidera numerosissimi... la donna cristiana considera tutto ciò molto semplicemente e nella gioia perché crede, così facendo, di compiere la volontà di Dio e il voto della sua natura. D’altronde il nome dell’umiltà e della sottomissione alla legge del suo stato viene ad addobbare molto opportunamente la ristrettezza, la pigrizia dello spirito, la stupidità pura e semplice, promosse ancora una volta alla dignità di virtù cristiane»73. Troppo facilmente, per superficialità o per comodità, sono state promosse a virtù eroiche e cristiane le rinunce e le sottomissioni forzate: la donna sarebbe portata naturalmente a seguire un uomo rinunciando a se stessa, in una sorta di devozionismo innato. Aspetti sociali e culturali s’intrecciano con la strumentalizzazione funzionale perpetrata lungo i secoli: «Una stirpe che da millenni è stata scartata dalla vita pubblica, dalla creatività intellettiva e molto spesso dalla vita stessa, che si è adattata ad essere relegata in disparte, nella timidezza e in un sentimento tenace e paralizzante della propria inferiorità, in una discendenza in cui da madre in figlia, certi elementi essenziali dell’organismo spirituale umano sono rimasti incolti ed hanno potuto atrofizzarsi durante i secoli»74. Ripercorrendo la letteratura cristiana sulla donna (costumi, tradizioni, documenti magisteriali e letteratura, teologia) Mounier, nota: «Niente è più povero della letteratura cristiana contemporanea sui problemi della donna... noi manchiamo quasi totalmente di una teologia dell’amore coniugale e di una teologia della persona della donna... niente è stato rinnovato da lungo tempo in questo ambito 73

J. PERRET, art. cit., pp. 392-394. E. MOUNIER, Manifeste, cit., I, p. 560. 75 E. MOUNIER, La femme chrétienne dans la pensée chrétienne, «Esprit», 45, 1936, pp. 396-407, p. 396. 74

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del pensiero cristiano»75. Avverte perciò l’esigenza di incoraggiare studi sistematici sul tema («che dovrà essere una tentazione saporita per un giovane storico o un giovane filosofo»76). Non sarà facile liberarsi dalla tendenza sospettosa, di impronta giansenista, che vede nella donna la tentazione, il richiamo della carne, il peccato, «secondo l’aberrazione di un maschilismo che rende la donna oggetto, la riduce a sesso, la materializza... e scarica la responsabilità dell’uomo»77. Per gli spiritualisti la dignità della donna si riscatta da una certa connaturata peccaminosità solo nei due stati possibili della verginità volontaria e delle numerose maternità senza discernimento. Il rapporto coniugale invece resta confinato nel peccato e non si comprende il mistero della comunione coniugale, che fa degli sposi «due in una sola carne». La terza tendenza negativa della cultura cristiana consiste nell’attribuire alla donna «una natura diminuita, subordinata a quella dell’uomo e destinata per essenza al servizio»78. L’anima femminile è considerata un’anima di ‘seconda zona’, dal momento che l’essere stata estratta dalla costola dell’uomo farebbe della donna una «sorta di suo prodotto», con un’interpretazione a cui Mounier preferisce l’intuizione di Raissa Maritain79. La tesi sempre latente di una natura ‘seconda’ informa le regole sulla sottomissione della donna, che Mounier considera semplici direttive amministrative con funzioni sociali, storicamente condizionate, e che ritiene un’eco di correnti esterne alla grande Tradizione cristiana. Se in qualche

76

E. MOUNIER, art. cit., p. 396. Ivi, p. 400. 78 Ivi, p. 401. 79 E. Mounier si appoggia a Raissa Maritain (Histoire d’Abraham, «Nova et Vetera», 3, 1935) per sostenere che la donna è dunque costituita da materia più nobile di quella dell’uomo e aggiunge: «Se vogliamo a tutti i costi perseguire l’allegoria, è un po’ meno volgare e pur anco verosimile» (art. cit., p. 401). Anche Maritain rinvia all’interpretazione di Raissa in una nota di Umanesimo integrale, cit., p. 226. 77

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modo tali pregiudizi si ritrovano ancora nel popolo cristiano, ciò testimonia quello scadimento del messaggio evangelico che il personalismo non cessa di denunciare. Mounier, cattolico e personalista, si muove tra la Chiesa e il mondo in bilico tra fedeltà e spirito critico, evitando di concedere troppo sia alle superficiali accuse di una generica arretratezza della Chiesa, sia alla difesa ad oltranza del suo operato. Il suo è un atteggiamento di fedeltà critica: «Cerchiamo in essa – scrive nella lettera ad A. Dumas sul rapporto comunismo-Chiesa – (non ponendoci al di fuori come i farisei), e con il suo soccorso interiore, di sradicare continuamente il loglio, ma non rimaniamo ciechi di fronte al buon grano che si trova nella Chiesa»80. Suggerisce alla teologia di approfondire tre piste che possono illuminare i problemi connessi della donna e della famiglia: gli studi sul matrimonio, come sacramento segno del mistero delle nozze spirituali di Dio con l’anima, l’analogia trinitaria e la mariologia: «È in una donna che si riassume, è per una donna che si riscatta e si eleva tutta l’umanità»81. In Maria Mounier vede riscattata la dignità della persona, libera di dare il suo consenso a Dio. Nello stesso tempo egli denuncia una certa idealizzazione spiritualista di cui le donne 80 Si tratta di una lettera di commento al decreto del S. Uffizio dei 13-7-1949, considerato come atto disciplinare. Vi si legge: «Non si tratta assolutamente, come dice lei, di difendere la forza o il potere temporale della Chiesa, ma non è detto che là dove ci sono impurità, non ci sia, nello stesso tempo lo spirito di Dio operante. La lotta dei Papi contro gli imperatori certamente non è stata scevra da interessi e colpe, tuttavia è stata anche la lotta dello Spirito contro il potere assoluto. Entrambi erano presenti in differenti gradi secondo i diversi atteggiamenti assunti, ma nell’insieme il buon grano cresceva nella stessa terra in cui cresceva il loglio» (Lettre à A. Dumas del 9-10-1949, in IV, pp. 820-821, trad. it. Lettere e Diari, a cura di F. Mazzariol, con notizia di G. Campanini, Reggio Emilia, Città Armoniosa, 1981, pp. 488-89). In questo equilibrio di giudizio che aderisce e critica, mentre riconosce il ruolo che la Chiesa riserva alle donne che si consacrano totalmente a Dio, non manca di aggiungere: «Benché Essa abbia rifiutato loro il sacerdozio, ovvero solo alla donna» E. Mounier, art. cit., p. 404. 81 Ivi, p. 406.

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comuni e gli sposi hanno più sofferto che beneficiato. Il culto di Maria ha significato l’esaltazione di «un certo tipo di femminilità asessuata, scialba, che sublima in sentimentalità pietose lo squilibrio di una natura disprezzata o rifiutata e la sottomissione all’orgoglio virile»82. 6. L’orizzonte della reciprocità L’orizzonte della reciprocità, secondo l’analogia trinitaria, ispira Mounier a pensare ad un rapporto uomo donna in cui l’educazione e il sostegno reciproci siano la condizione prima per la realizzazione della civiltà dell’amore. Per il fatto di avere uno sguardo ampio sulla relazione uomo donna, decisiva per realizzare il compito etico del personalismo in direzione antropologica e sociale, Mounier è rimasto anche piuttosto solo – e non solo all’interno del mondo cattolico – a guardare in faccia impietosamente alla condizione delle donne. Egli si sofferma su questo tema, tutte le volte che dà concretezza al termine persona in quanto ‘co-umanità’: «L’opinione pubblica sembra porsi solo i problemi degli uomini, nei quali gli uomini hanno la parola. Alcune centinaia di migliaia di operai, in ciascun paese, capovolgono la storia perché hanno preso coscienza della loro oppressione. Un proletariato spirituale cento volte più numeroso, quello delle donne, rimane, senza che ci si sorprenda, al di fuori della storia… Questa impossibilità per la persona di nascere alla sua propria vita, che secondo noi definisce il proletariato più essenzialmente ancora della miseria materiale, è la sorte di quasi tutte le donne, ricche e povere, borghesi, operaie, contadine»83. Non di rado volge uno sguardo di compartecipazione sofferente su questa grande porzione dell’umanità: «Esse errano in se stesse in un’identità che non conoscono. Gi82

Ibidem. Manifeste, cit., I, 559. 84 Ivi, p. 560. 83

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rano attorno alla società le cui porte sono loro chiuse»84. Quando deve affrontare nel Trattato i temi della psicologia femminile in maniera più sistematica, egli dà alcune indicazioni sulle differenze psicologiche tra i generi a partire dagli studi disponibili, talvolta ripetendone convinzioni oggi desuete, ma il più delle volte prendendo le distanze da ogni fissità definitoria in nome di un personalismo che a suo avviso deve restare prudente nei confronti dei condizionamenti che provengono sia dalla natura che dalla cultura. In ogni caso egli cerca di sgombrare il campo da ricerche poco scientifiche e pregiudiziali, facendo proprio il metodo sperimentale di Heymans, basato sulla diffusione universale dei tratti femminili e maschili e su esperimenti che cercano di depurare la femminilità dalle caratteristiche dell’educazione e della cultura per raggiungere le costanti del carattere. In realtà anche gli studi di Heymans appaiono oggi inficiati da valutazioni pregiudiziali: non è facile liberarsi dall’ottica di una mascolinità che fa da criterio di riferimento dell’umanità tutta. Mounier, pur partendo dalla bisessualità a dominanza monosessuale, di tanto in tanto propone differenze che oggi apparirebbero stereotipate, e le orienta al principio della reciproca complementarietà: «... l’emotività, che appare come il perno della struttura psichica femminile, è tra tutte le costanti la più solidamente stabilita... l’uomo è rivolto verso la potenza, la donna verso la sicurezza»85; «La femminilità si sottrae agli effetti psicologici di una certa naturalità vegetativa solo prendendo a prestito dalla virilità la sua limpidezza di maniere, la sua schiettezza e qualcuna delle sue virtù e l’uomo, per mitigare la sua brutalità, per frenare il suo egoismo, per rallentare la sua indiscrezione, per vivificare la sua oggettività, ha bisogno di un po’ di quella dolcezza, di quel disinteresse, di quell’abbandono, di quel fervido senso della vita che sono il meglio del principio femminile»86. 85 86

Ivi, p. 156, it. p. 212. Ivi, p. 157, it. p. 213.

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Mounier non manca però di manifestare l’ammirazione di fronte a particolari capacità dell’intelligenza femminile di muoversi nelle situazioni concrete, ad evidenziare come nella vita di tutti i giorni è venuto crescendo un «dialogo muto che l’universo animato mantiene con la donna a dispetto delle impazienti curiosità dell’uomo»87. Le risorse dell’intelligenza femminile gli paiono essere: pazienza, perseveranza, attenzione al particolare, capacità di afferrare rapidamente il senso di una situazione. Mounier voleva che il personalismo contribuisse a destare le donne dal torpore a cui sono state indotte e in cui si sono adagiate. Perciò fa appello ai grandi profili di donne forti della storia biblica e sembra fare propri i richiami al senso della ‘virilità’ di cui parlava Caterina quando voleva dare spessore alle virtù. Ad una giovane amica restia al matrimonio, per aver introiettato una falsa spiritualità, raccomanda di recuperare la propria virilità, e approfitta per denunciare l’abitudine comune al mondo femminile, con particolare riferimento a quello borghese e cattolico, di crogiolarsi in una infanzia psichica e spirituale, a tenersi vincolata al familismo, all’ideale dell’anima bella, ai buoni sentimenti, ai legami di sangue, senza assumere responsabilità personali e sociali. Egli, a costo di apparire odioso, la prega di spezzare l’atrofia dello spirito, di guardare in faccia la realtà e tagliare il cordone ombelicale del mammismo: «Quando dico ragazzina, evoco un’impressione insieme simpatica e penosa che lei mi dà spesso, quella di avere accanto a me una ragazzina e non una donna. Non mi fermo qui. Ho capito molto bene che lei gioca ancora un po’ a fare la ragazzina, all’apparenza, per mascherare tutto un orizzonte di volontà e di meditazioni profonde. Ma non bisogna giocare troppo con le maschere, sa, altrimenti, prima o poi, esse finiscono col prendersi gioco di noi. È ora di diventare una vera donna; ciò vuol dire un essere spirituale adulto, che non si ritira davanti a niente e non si aggrappa alla sua ado-

87

Ivi, pp. 607-608, it. p. 771.

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lescenza. Ciò vuol dire semplicemente una donna che osserva, assume e matura la sua condizione di donna... Poiché, se sono insopportabili le piccole teste vuote che non sognano che di precipitarsi nel matrimonio per meglio sistemarsi (credono!), Lei, restando così a lungo signorina arriverà a dimenticare il matrimonio… È ora di rompere con l’affettività; intendo quest’affettività primaria, carnale, che frena in noi la vocazione più alta. Vedrà che, oltre della crisi, si ritroverà di fronte alla sua mamma, lo sguardo nello sguardo, e costruirà con lei un affetto nuovo, interiormente libero, che sarà molto più bello e forte rispetto all’attaccamento infantile... Voglio spingere le mie parole sino alla brutalità estrema, gliene chiedo scusa. Salvo una vocazione eccezionale (bisogna prendere ogni garanzia per discernere una vera chiamata), lei non è stata chiamata da Dio per essere la zia dei nipoti o la dama di compagnia della mamma… Sia lucida, ascolti gli appelli della sua vocazione e tutti i suoi riceveranno in seguito molto più da lei, nella sincerità e nella donazione reciproca... Mi perdona questo lungo discorso? Forse non fa che sfondare porte aperte. Rida pure di me. Forse la ferisco? Allora che Dio voglia che queste ferite di una mano maldestra divengano le Sue ferite e la fortifichino. Non ho resistito a tenderele una mano amica»88. Allargando il discorso a ciò che il futuro del movimento personalista si attende dalle donne, Mounier conclude: «Noi avremo bisogno più che mai di donne forti, lucide, decise». Grazie al riferimento alla persona, Mounier è in grado di sfuggire alle trappole del naturalismo, dello storicismo, dell’individualismo, del marxismo, del femminismo e dell’esistenzialismo. Egli avverte la necessità che il personalismo costituisca per tutte queste correnti una sorta di svegliarino che ne ridimensioni le pretese e ne orienti le speculazioni a vantaggio della formazione di piccoli nuclei familiari e non in cui la persona possa esprimersi adeguatamente.

88

E. MOUNIER, Lettre à une jeune amie, in O IV, p. 825.

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Anche per questo il personalismo stringe la mano al femminismo per quel che concerne l’impegno a porre in atto processi di coscientizzazione di cui è difficile misurare la portata. «Facendo passare – conclude Mounier – la metà dell’umanità allo stato di persona adulta, conducendola... da un cristianesimo naif ad un cristianesimo che non può più essere tale, il cristiano che collabora ad un femminismo ben compreso, al di là della politica e al di là della storia, dona all’opera della Redenzione una spinta forse a null’altro comparabile in importanza e in dimensione»89. 7. Per una filosofia dell’amore La risorsa femminile collegata alla famiglia e all’importanza della vita intima, sembra a Mounier fondamentale per il personalismo. È frutto soprattutto di una conquista culturale, ma non disdegna l’applicazione giuridica: «È auspicabile certo che la comunità familiare sia tanto solida che non si curi di tutta la giurisdizione, ma la legge deve garantirsi sul massimo rischio, non sui risultati felici. Il suo ruolo è di stabilire un ordine là dove l’amore lo renderebbe inutile. A partire da garanzie minime, sancite dalla legislazione, la donna cesserà di avere un destino alla mercé del suo potere di acquisto e l’attaccamento al suo focolare cesserà di significare la rinuncia ad ogni forma di vita personale, il ripiegamento sul “genio” casalingo»90. Dal punto di vista sociale e politico, solo puntando sulla qualità dei rapporti, sulla cultura e sulla spiritualità è possibile alimentare una cittadinanza partecipata e attiva che è condizione di democrazia realizzata. Soprattutto però l’emergere della soggettualità femminile e la sua rivoluzione nella vita sociale impone il capovolgimento

89 90

Ivi, p. 407. E. MOUNIER, Manifeste, cit., I, 568.

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dei paradigmi su cui si regge la cultura della ragione senza amore, dell’individuo senza donazione, del calcolo senza gratuità. Mounier crede che a partire dalla vita familiare sia possibile affermare valori umani universali, come la tenerezza, la cura, la donazione di sé, sinora troppo soffocati tra le pareti domestiche o relegati al romanticismo dei poeti; comunque considerati tipici delle donne, dunque ‘inferiori’, ma che oggi appaiono invece indispensabili per costruire una società più umana. Mounier è convinto che potranno essere soprattutto le donne – ma non da sole – ad immettere risorse positive di vita culturale e spirituale, contribuendo non poco alla costruzione di una città capace di integrare efficienza ed espressività91. Scrive: «La donna allora non avrà conquistato solamente la sua parte nella vita pubblica, ma avrà disintossicato la sua vita privata, restituito a milioni di esseri disorientati la dignità di persone e, assicurando forse il cambiamento dell’uomo indebolito, avrà ritrovato nella dignità di persona, i valori primi di un umanesimo integrale»92. Il nuovo Rinascimento di Mounier, l’umanesimo integrale di Maritain non si potranno realizzare senza una ricongiunzione e una purificazione dei valori della femminilità e della mascolinità. L’amore si può a ragione considerare la chiave ultima e il filo conduttore dei valori che il personalismo persegue, ben conoscendo la difficoltà delle tappe, degli insuccessi e delle conflittualità della storia. Il tema dell’amore, ampiamente trattato dalla letteratura filosofica, troppo spesso viene identificato con la consonanza, la compiacenza, la fusione, quando non lo si confonde con filantropia, immedesimazione affettiva, libido freudiana, empatia. Per Mounier l’amore qualifica l’essere: «L’amore guarda al di 91

Dell’importanza della vita privata Mounier parla sin dal «Documento» di «Font Romeu del 1932» (cfr. Chronique du Mouvement», «Bullettin des amis d’E. Mounier», 57, 1982, pp. 32-33), ma ne tratta in maniera più ampia sia in Révolution, I, pp. 189-195, 236-246, 383-384, sia nel Manifeste, I, pp. 557-570: cfr. anche Le personnalisme, III, pp. 464-465. 92 E. MOUNIER, Manifeste, cit., I, 562.

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sopra dell’individuo, alla persona che lo chiama, al di sopra di certe casuali consonanze o differenze superficiali che possono attrarre, ma non tengono legati»93. L’amore come fondamento ontico dell’essere è libertà della persona di volere l’essere dell’altro ed in ciò avere la certezza del proprio essere. La certezza esistenziale viene quindi, con una radicale inversione di tendenza, agganciata all’amore e non più alla soggettività del pensiero. «L’atto di amore – diceva Mounier – è la più saggia certezza dell’uomo, il cogito esistenziale irrefutabile: io amo, quindi l’essere è e la vita vale la pena di essere vissuta»94. L’amore si fonda sulla libertà della persona di volere l’essere dell’altro (la capacità allotropica) ed avere in ciò la certezza del proprio essere, di conoscere se stessa e l’altro per la comunicazione tra gli esseri. Non si tratta, dunque, di atti, ossia di azioni fatte per amore, ma di una dimensione dell’essere indispensabile a che la persona sia tale, evitando che gli altri le restino estranei e che ella resti estranea a se stessa. Cita Mounier: «L’atto di amore mi conferma non solo attraverso il movimento nel quale lo pongo, ma attraverso l’essere che in quel movimento dona me stesso agli altri»95. Il tema dell’amore qualifica così una antropologia del dono: «L’amore è il luogo della rivelazione dell’essere…L’amore fa essere quella persona così com’è… “Prima di cominciare ad amare, egli non era, per così dire “se stesso”. Egli “era”… solo la funzione che doveva svolgere davanti al mondo e davanti a sé. Ma dal momento in cui ama, egli è. Ama, e perciò è. E l’altra persona ha la stessa esperienza con lui… l’uno riceve se stesso dall’altro, in reciproco dono” (Boros)… Io dunque sono uomo quando faccio essere l’altro più uomo. Essere significa far essere. E poiché quando faccio essere amo, allora io sono quando amo, nella misura in cui amo»96. 93

ID., Révolution cit., I, p. 192, trad. it. p. 115. ID., Le personnalisme, III, p. 455. 95 E. MOUNIER, Le personnalisme, Œuvres, cit., III, p. 455. 96 AS, pp. 84-85. 94

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Rispetto all’amore pratico kantiano, la filosofia dell’amore proposta da Mounier perde la rigidità del comando categorico, si libera dal dovere di lottare senza fine contro l’inclinazione sensibile, dal momento che la persona è essere-amore97. Rispetto all’amore intellettuale di stampo spinoziano la sua proposta assume caratteristiche più personali e umane98. L’amore romantico ed il suo prolungamento nell’idealismo sono soprattutto unità di finito e infinito, non solo colto dal sentimento, alla maniera di Schlegel, ma anche dalla mediazione razionale unificatrice99. Quando il romanticismo interpreta l’amore come funzione si espone al rischio di assorbire l’altro nel97

Secondo Kant l’amore morale si esprime nella sua forma perfetta nella massima: «Ama Dio sopra ogni cosa, il prossimo come te stesso», la quale presenta la contraddizione di comandare l’amore e si rivela solo come una indicazione di perfezione. «Come un’ideale – scrive Kant – di santità non raggiungibile da nessuna creatura e che tuttavia è l’esemplare a cui dobbiamo procurare di avvicinarci con un progresso ininterrotto, ma infinito» (I. KANT, Kritik der praktischen Vernunft, 1788, trad. it. F. Capra, riv. da E. Garin, Bari, Laterza, 1955, p. 107). Tale amore risulta nettamente distinto dall’amore sensibile o patologico. 98 In Spinoza l’amore non si riferisce all’esperienza dell’uomo, ma al concetto metafisico di Dio nel suo rapporto con se stesso e col mondo. L’amore dell’uomo verso Dio è della stessa qualità dell’amore infinito con cui Dio ama se stesso. «Ne consegue – sostiene Spinoza – che Dio in quanto ama se stesso, ama gli uomini e per conseguenza che l’amore di Dio verso gli uomini e l’amore intellettuale della mente verso Dio sono la medesima cosa» (B. SPINOZA, Ethica ordine geometrico demonstrata, trad. it. G. Durante, Firenze, Sansoni, 1963, V, § 36). 99 L’amore in Hegel è la viva relazione delle stesse essenze (H. NOHL, cit., p. 2 ss). L’amore rappresenta anche la totale unificazione della virtù nel sentimento infinito nel quale il soggetto abbandona se stesso e tuttavia si ritrova nella pienezza del suo essere (Cfr. G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Ästhetik, trad. it. Estetica, Torino, Einaudi, 1967). L’unificazione dell’amore è tuttavia inferiore rispetto a quella prodotta dalla filosofia, anzi l’amore in Hegel non è neppure religione (H. NOHL, cit., pp. 295-300) e riapre la scissione tra il sentire, il soggettivo, l’utopico e la realtà oggettiva. Per l’amore nelle opere giovanili hegeliane e sul suo significato politico cfr. A. DANESE – G.P. DI NICOLA, Il ruolo socio-politico della religione nel giovane Hegel (1793-1800), Bologna, Patron, 1977, pp. 124-127, 177-178, 201-203.

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l’io, come fosse un suo prolungamento o, viceversa, al rischio di annullare l’io nella reciproca fusione. È un rischio permanente anche nelle filosofie esistenziali e fenomenologiche. L’amore supera l’affinità naturale per il fatto di distinguere e non solo unire: «Si dice a torto – scrive Mounier – che l’amore identifica: ciò è vero soltanto nella simpatia, nelle affinità elettive, in cui noi cerchiamo ancora un bene da assimilare, una risonanza di noi stessi in un nostro simile; l’amore pieno invece crea la distinzione, il riconoscimento e la volontà dell’altro in quanto tale. La simpatia è ancora un’affinità della natura; l’amore è una nuova forma di essere; esso si volge al soggetto al di là della sua natura, vuole il suo compimento come persona, come libertà»100. I concetti di distinzione e di distanza sono necessari all’amore per frenare ogni forma di assorbimento e di omologazione, preludio di monismi totalitari. Tale deriva è evidente nel concetto di amore descritto da N. Hartmann101. Anche nella filosofia di Feuerbach si parla di un amore che «non ha plurale», in quanto attinge ad una sola fonte di unità estesa a tutta l’umanità, secondo l’ideale etico tipico degli scrittori positivisti. Ma nella prospettiva feuerbachiana l’amore, sia umano che divino, è contemplazione di se stessi: la coscienza dell’oggetto non è che l’autocoscienza dell’uomo102. L’unità si nutre di distanza e l’amore conserva la dialettica del rapporto uguaglianza differenza, presenza-assenza, essere-non essere. L’altro rimane altro e conserva perciò tutti gli attributi del rispetto richiesti da E. Lévinas. Occorre, infatti, riconoscerlo «come soggetto, come un essere presente... che non si può definire, classificare, che è inesauribile, colmo di speranze, ed egli solo può di100

E. MOUNIER, Le personnalisme, III, p. 455, trad. it. p. 52. Cfr. N. V. HARTMANN, Ethik, trad. it., Napoli, Guida, 1970. 102 Cfr. L. FEUERBACH, L’essenza del cristianesimo, trad. it. in Opere, Bari, Laterza, 1965. L’amore in Feuerbach resta unità del soggettivo e dell’oggettivo, dell’io e dell’altro, unità trasferita dall’infinito all’uomo nella sua finitudine. 103 E. MOUNIER, Le personnalisme, III, p. 453. 101

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sporre delle sue speranze: significa fargli credito»103. Far credito all’altro è però solo un aspetto della relazione che comporta altresì apertura, generosità, riconoscimento del tu come seconda persona. Ma questo tu dalle caratteristiche ancora lévinasiane, se è apertura e presenza dell’altro come soggetto, non basta a qualificare la relazione donativa, che si stabilisce nel momento in cui l’altro è voluto dall’io «come prima persona» in rapporto con sé104. L’aver scelto la persona, e per essa la filosofia del dialogo, dell’impegno e dell’amore, ha permesso a Mounier di dire una parola in più rispetto ai suoi contemporanei e, nonostante le inevitabili lacune, di conservare un’apertura di fondo alla scommessa su un futuro in cui maschilismo e femminismo si potranno spegnere nella comunione reciproca. L’amo ergo sum, la formula con cui si può esprimere il senso più profondo del personalismo di Mounier, prendendo le distanze dal cogito cartesiano, ben si adatta a reinterpretare il mondo con voce di donna. «Un pensiero che pone l’amore nel cuore del mondo, lo pone nel cuore della filosofia, e la filosofia, orientata da due secoli sulla produzione delle idee, ne deve essere profondamente rinnovata… Che sia offerto alla riflessione sull’amore uno sforzo altrettanto considerevole quanto quello dedicato alla riflessione sulla conoscenza e, a fortiori, a quello dedicato all’invenzione tecnica»105. Per queste ragioni e non per compiacenza, Mounier vede nella donna la più grande riserva di umanità: «È in questo caos di destini falliti, di vite in attesa, di forze perdute, senza dubbio la più ricca riserva di umanità, una riserva d’amore per far scoppiare la città degli uomini, la città chiusa, egoista, avara e menzognera degli uomini. Forza quasi ancora intatta»106. Gli pare possibile sperare che le donne potranno svolgere un ruolo speciale nell’additare a tutti «l’immenso spazio che l’uomo moderno ha disdegnato e di cui l’a104 OUNIER, 107 Révolution personnaliste et communautaire, cit., I, p. 192. more èE.ilMcentro» . 105 E. MOUNIER, Feu la chrétienté, in Œuvres, cit., III, 593-594; cfr. anche ID., Le personnalisme, in Œuvres, cit., III, 455. 106 ID., Manifeste, cit., L p. 560, it. p. 122. 107 Ivi, p. 562, it. p. 124.

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QUALE ‘GENIO’, OGGI, PER QUALE EDUCAZIONE? Angela Perucca

1. L’altra metà del cielo Il ‘genio della donna’ sembra essere sempre stato quello di fare della famiglia un luogo di sperimentazione di sempre nuove modalità di guidance, ossia di orientamento ai modelli sociali di convivenza, un compito di formazione permanente di minori e di adulti, mutevole nel tempo secondo le forme del vivere sociale e pur sempre proteso al loro progredire più che al loro perpetuarsi. Ogni donna ha avuto l’obiettivo, e il potere di orientare il marito e persino i propri vecchi oltre che i figli a migliori stili di vita, a forme di comunicazione più significative in ordine alla comprensione degli altri, a modi di agire più prudenti, meno irruenti, in sostanza più capaci di incidere sulla realtà in termini costruttivi anziché distruttivi. Lo specifico femminile è stato individuato come il ‘genio’ della donna e, almeno nel mondo occidentale, talmente idealizzato da finire per generare uno stereotipo culturale della personalità femminile, cristallizzatosi nel tempo1 e non più idoneo a contenere il divenire dei ruoli e dei compiti della donna in una società in profonda ed epocale trasformazione. Se si considera poi il prevalere nella società civile delle logiche del potere e della forza che ha condotto a considerare la donna il 1

Cfr. B. FRIEDAN, La mistica della femminilità, trad. it., Milano, Comunità,

1964.

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sesso debole2 e si tien conto della perversa degenerazione di tale modello, non soltanto nei contesti di deprivazione economica e culturale, si comprende il degrado della condizione femminile e la sottomissione della donna al potere maschile. La riduzione d’identità dovuta allo stereotipo, e la perdita di dignità conseguente alle logiche del potere e della forza bruta sembrano aver minato il genio della donna sino a che l’angelo del focolare, la guida ed il sostegno del vivere civile, si è ribellato e «le mura dell’identità femminile»3 si sono infrante. Perso l’orizzonte globale del cielo e l’intera dimensione dell’umano nel suo essere maschile e femminile, la condizione dell’uomo e della donna è risultata divisa, il femminile è divenuto ‘altro’, si è fatto conflittuale, ha rivendicato la differenza dimenticando la complementarità e talvolta ha pensato di coprire l’intero imitando il maschile. Superata la stagione in cui la lotta ingaggiata dal femminismo, mentre poneva il problema della giusta rivendicazione dei diritti della donna, tramutava l’emancipazione in una ingiusta rivalsa che negava la differenza, oggi si torna a valorizzare lo specifico femminile, la peculiare identità e l’autenticità del carattere della donna e, persino, il valore civile della sua presenza storica. La storia non è mai stata fatta soltanto dagli uomini; per quanto culturalmente legata al focolare domestico la donna ha condiviso ed orientato il progresso della civiltà. Come hanno potuto evidenziare i nuovi modelli dell’indagine storica, non v’è nella costruzione della storia soltanto il protagonismo degli uomini, ma anche un non ruolo civile e sociale delle donne. Oggi riemerge la donna-persona, in senso mounieriano, capace di agire, di comunicare, di scegliere e di aderire, forse più portata 2 Cfr. S. DE BEAUVOIR, Il secondo sesso. I fatti e i miti, vol. I, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1969; S. FIRESTONE, La dialettica dei sessi, trad. it., Firenze, Guaraldi, 1971. 3 F. CASSANO, Approssimazione, Bologna, Il Mulino, 1989, p.70.

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dell’uomo alla ‘lotta per’ anziché alla ‘lotta contro’4, più sensibile alla percezione dell’unità inscindibile di mente e corpo, di spirito e materia, di individuo e società; una donna che esprime essenziali dimensioni dell’umano nel suo essere presente al mondo e non soltanto alla famiglia. La partecipazione della donna alla vita socio-economica-produttiva introduce atteggiamenti e logiche capaci di trasformare profondamente il senso dell’agire e la qualità della vita. Occorre ridefinire il ‘genio della donna’. Chiedere spazio per occupare ruoli maschili è soltanto un epifenomeno dell’emancipazione femminile, di fatto la presenza della donna-persona sta rigenerando molti ruoli sociali e culturali, in quanto induce a riscoprire la complementarità di maschile e femminile in ciascun soggetto umano e la polivalente dinamica delle interazioni sociali che si esprimono oltre che nei termini di produzioneconsumo anche in quelli di produzione-cura. La dimensione di cura, di cui la donna si fa portatrice, implica la costanza dell’interesse verso ciò che si è generato o prodotto, esula dagli schemi dell’hic et nunc come da quelli dell’usa e getta, impegna al mantenimento ed alla perpetuazione, consente di proiettarsi oltre il limite della propria esistenza e di evitare «di produrre soltanto l’effimero: lo sterile esito del solipsismo maschile e femminile»5. Troppo spesso la frenesia di produrre per consumare ci fa dimenticare che «perché gli uomini ottengano la pace e la certezza di aver vissuto come dovevano, devono raggiungere, oltre la paternità, forme di espressione culturalmente elaborate che siano durature e certe»6.

4

Cfr. E. SPALTRO, Lotta contro e lotta per, Milano, Celuc Libri, 1977. A. PERUCCA, Identità femminile e accettazione della maternità, «La Famiglia», 115, 1986, p. 74. 6 M. MEAD, Maschio e femmina, trad. it., Milano, Il Saggiatore, 1979, p. 17. 5

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2. Un compito nuovo L’educazione della donna, come insegna la pedagogia del passato, è il fondamento di ogni nuova prospettiva per l’educazione delle giovani generazioni ma, nell’epoca post moderna, in cui la donna è partecipe e protagonista dei diversi contesti del vivere, occorre per la donna, e non soltanto per lei, un’educazione che coinvolga tutte le dimensioni dello sviluppo sociale da quelle affettive e relazionali, a quelle socio economiche oltre che cognitivo-tecnico-culturali. Una svolta epocale si sta verificando nel discorso sull’educazione: i luoghi dell’educativo si stanno moltiplicando; anche volendo considerare utopico il concetto di società educante occorre rilevare che le sedi di produzione dei saperi nonché quelle di accesso alla conoscenze si stanno differenziando e moltiplicando; enti ed organizzazioni non specificamente educativi stanno occupando ampi spazi nella erogazione della formazione, non soltanto a livello professionale; i processi dell’insegnare e dell’apprendere si differenziano e si distanziano sempre più dalla dimensione educativa. La realtà del fenomeno educazione, in un’epoca in cui le interazioni educative vanno oltre il micro-sistema delle istituzioni tradizionali (scuola famiglia, chiesa e stato) comporta un nuovo e diverso investimento sul ‘genio’ della donna. La libera circolazione delle risorse culturali e le nuove tecnologie, consentono diffuse forme di interazione comunicativa ma questo, il più delle volte, rientra in una logica di mercantilizzazione dei saperi che svilisce la dimensione creativa ed interpersonale della trasmissione delle conoscenze e ne enfatizza le dimensioni strumentali a scapito di quelle culturali. Se la cultura è l’insieme dei codici simbolico valoriali che regolano la condotta, la riduzione del valore umano e sociale degli apprendimenti diviene, allora, evidente. Occorre riproporsi le domande che E. Mounier offriva già nel 19487 alla nostra riflessione sul ruolo e sulla funzione sociale della 7

Cfr. E. MOUNIER, Il personalismo, trad. it., Roma, AVE, 19878°.

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donna, considerando che, poiché «il nostro mondo sociale è fatto dall’uomo e per l’uomo», una grande risorsa ed una nuova potenzialità di crescita umana e di sviluppo sociale è insita nel fatto che «l’umanità non ha ancora attinto ampiamente alle riserve della femminilità»8. Egli sostiene che per dare un senso pieno all’affermazione: «la donna è persona» occorre chiedersi: «Come sviluppare fino in fondo le sue risorse, senza costringerla nei limiti delle sue funzioni? Come integrarla a contatto del mondo e integrare il mondo a contatto con lei? Quali nuovi valori implica questa prospettiva?»9. Non si tratta soltanto di domande ma di ‘compiti rivoluzionari’ che E. Mounier, già consegnava al mondo del XX secolo. Nella società contemporanea la donna compie, ogni giorno, un percorso di crescita che non la estranea dal contesto sociale e la chiama a misurarsi con il cambiamento e la complessità, ad orientarsi in un orizzonte mondiale, a comprenderne le conseguenze sulle persone10 a considerare in ordine a sé ed agli altri le nuove istanze culturali, economiche e politiche della società locale e globale. La donna è radice dell’umanità, da sempre è stata l’approdo che dà fiducia nelle avversità, che genera nuova vita. La letteratura contemporanea ha messo in chiara evidenza le drammatiche condizioni che la società complessa e postmoderna impone al vivere umano. In che misura possiamo riconsegnare all’universo femminile il compito di aiutarci a recuperare la sicurezza anche nella condizione di rischio, a recuperare la speranza anche nella condizione d’incertezza, a recuperare una direzione anche in assenza di progetto, a recuperare l’identità oltre l’immagine, a ricostruire la comunità?

8

Ivi, p. 151. Ibidem. 10 Cfr. Z. BAUMAN, Dentro la globalizzazione Le conseguenze sulle persone, trad. it., Bari, Laterza, 2001. 9

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Recuperare la sicurezza nella condizione di rischio L’uomo oggi vive in quella che è stata definita la «società mondiale del rischio»11: smarrite le fonti primarie di sicurezza, una definita e permanente identità, una fissa dimora, una famiglia pluri generazionale, una comunità civile di tipo solidale, non può più considerare la donna «la casa dell’essere, il luogo della “quiete” e dell’“opaca pienezza”, nel quale tornare senza perdersi, pausa del rischio»12 Eppure, non è vero che la donna, oggi può «addomesticarsi ai bisogni dell’uomo, soltanto perdendo la sua umanità, la propria autonomia e libertà»13, certamente ella può recuperare nuove modalità per esprimere la propria autentica femminilità. L’antica vocazione della donna a generare per accudire e far crescere, esce dall’angusto limite del focolare con la proposta di valori orientati al decentramento da sé come fondamentale esperienza sociale e conquista necessaria all’uomo contemporaneo che deve costantemente disporsi al confronto con l’altro diverso. L’universo femminile offre ancora sicurezza quando: – consente una matura conferma e verifica dell’identità nella differenza, – apre ad esperienze di condivisione e di servizio, – coltiva il dialogo per costruire l’accordo, – induce ad operare con pazienza per edificare il convivere in un contesto in cui individualismo e narcisismo sembrano voler fagocitare l’umano.

11 Cfr. U. BECK, La società globale del rischio, trad. it., Trieste, Asterios, 2001, ed anche, dello stesso, Un mondo a rischio, trad. it., Torino, Einaudi, 2003. 12 F. CASSANO, op. cit., p.70. 13 Ibidem.

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Recuperare la speranza nella condizione di incertezza In un’epoca in cui la ragione si scontra con le differenti ragioni, «il progresso è un illustre esponente della grande famiglia di nozioni controverse» ed offre più dubbi che certezze, la morale ha assunto dimensioni sempre più soggettive per cui «ciò che per l’uno è bene per l’altro può esser male»14, risulta evidente che l’acquisizione della sicurezza è sempre più difficile sia nella definizione di principi e valori universali che nel governo della condotta personale. La condizione di incertezza sembra divenuta endemica nel mondo contemporaneo non soltanto là dove mancano le risorse di base per una sopravvivenza decorosa, anche là dove lo sviluppo non è a misura d’uomo e la vita risulta non degna di essere vissuta perché «l’acquisizione della sicurezza impone sempre il sacrificio della libertà»15. Occorre speranza per non cedere alla tentazione di barattare l’autentica libertà con un’ampia, artificiale e ricca possibilità di scelta. In queste condizioni, anche la famiglia rischia di diventare uno di quei rifugi volontari «che fa sentire la sicurezza dell’eguaglianza come una gabbia di ferro» in cui «l’isolamento si auto perpetua e si alimenta»16 a danno della capacità sociale di condivisione, comunicazione e comunione che E. Mounier riconosceva essenziale al processo di personalizzazione. Occorre speranza per affrontare il rischio del confronto e aprirsi alla partecipazione: «una società in cui gli esseri umani si riducono nella condizione di individui “rinchiusi nei loro cuori” è una società in cui pochi vorranno partecipare attivamente all’autogoverno»17. Il lungo esercizio di dedizione cui la natura e la storia hanno indotto la donna offre ancora qualche motivo di speranza nella possi14

Z. BAUMAN, Voglia di comunità, trad. it., Bari, Laterza, 2001, p. 20. Ibidem. 16 Ibidem. 17 C. TAYLOR, Il disagio della modernità, trad. it., Bari, Laterza, 1999, p. 12. 15

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bilità che l’incontro con l’altro non sia motivo di ritiro o di sopraffazione, che la libertà, non sia soltanto ampia possibilità di scelta, ma capacità di adesione. Recuperare una direzione pur in assenza di progetto La consolidata tendenza, non più soltanto dei giovani, a vivere il presente in termini fruitori e senza prospettive, la inattendibilità di ogni progetto in una società che non soltanto cambia, ma ha assunto il cambiamento come sistema di sopravvivenza, rende difficile acquisire e testimoniare una direzione che governi il vivere. È sempre più evidente «il rifiuto del paralizzante impatto degli impegni a lungo termine e dei pesanti e caotici legami di dipendenza» che ha indotto anche la classe intellettuale a «ripudiare il proprio ruolo moderno di illuminatrice, guida e maestra» per seguire «la nuova strategia di distacco, allontanamento e disimpegno»18. La navigazione a vista concentra l’attenzione sull’emergenza, evita gli scogli, ma perde la meta. Sopravvivere fra le difficoltà, ristrutturare ora per ora il proprio modo di essere e di presentarsi, valutare ogni giorno quali possono essere i riferimenti significativi del vivere, rischia di essere impegno quotidiano che distoglie da ogni progetto e non consente di assumere una direzione né il controllo del proprio destino. Pure la donna, nell’esperienza della maternità, ha sempre dovuto imparare a navigare al buio, a coniugarsi con l’ignoto, a misurarsi ogni giorno con un crescere divergente, a coordinare il suo progetto con il divenire dell’altro, perché il figlio è l’altro ignoto, il non progettabile, che si fa, all’uomo ed alla donna, maestro di vita, pietra angolare su cui misurare la propria capacità di trovare la giusta direzione19. 18 19

Z. BAUMAN, Voglia di comunità, cit., p.104. Cfr. PERUCCA, Maternità…, cit.

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Recuperare l’identità oltre l’immagine Mai come oggi la donna sembra essere uscita da quella condizione che E. Mounier definiva di ‘pseudo mistero’: il mito dell’apparire e la moda dell’immagine cui la donna è stata da sempre indulgente, il narcisismo cui è stata indotta finché la bellezza è stata considerata per lei un doveroso connotato, sono divenuti un carattere necessario anche all’uomo per affermarsi nella società post moderna in cui, per usare una espressione di C. Lasch, «l’Io sovrano è stato cancellato dalle immagini». Pure, lo stesso autore confuta che il narcisismo diffuso e l’Io minimo che connotano il mondo occidentale, siano semplicemente la conseguenza della «femminilizzazione della società»; sono, piuttosto, «strategie di sopravvivenza» in un mondo in cui l’Io appare «come unica cosa reale in un ambiente irreale»20. Se non può cambiare i principi che regolano il mondo del mercato e del successo, l’educazione reciproca ad essere persona può certamente restituire all’uomo come alla donna la capacità di recuperare la propria integra identità. Nella prospettiva mouneriana, l’essere umano, se pur vive le condizioni che la sua natura e il suo essere sociale dettano, è in grado di trascenderle: uomo e donna insieme possono trovare la via di uscita per manifestare il reale mistero dell’essere persona e la sua capacità di trascendersi per aprirsi agli altri. Insieme non vuol dire attraverso un processo di identificazione ma per mezzo di un riconoscimento, di un sostegno, di una conferma reciproci: di una ‘mutualità’ in cui soltanto è possibile a ciascuno «scoprire il proprio sé autentico»21.

20

Cfr C. LASCH, L’Io minimo, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1996, p. 10 e p. 90

e ss. 21

E. ERIKSON, Gioventù e crisi di identità, trad. it., Roma, Armando, 1974, p.

230.

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3. Insieme per ricostruire la comunità Il conflitto fra identità femminile e identità maschile, la competizione uomo donna non sembra essere stata considerata uno dei fattori della perdita del senso della comunità che caratterizza i nostri giorni; pure è evidente che destrutturare, nella coppia e nella famiglia, i rapporti non è senza riverbero e conseguenze sulla comunità. Se si sostiene che è necessario, alla sopravvivenza della comunità, dare una risposta alla «domanda di riconoscimento», che ogni persona pone al suo simile per affermare la propria differenza, e se si ritiene che la comunità richieda «l’esercizio della ridistribuzione»22, che fonda la solidarietà sulla equità dell’accesso alle risorse secondo i bisogni e le necessità, non si può dimenticare che l’offerta di riconoscimento e di equa distribuzione fra diversi è intrinseca all’esperienza familiare ed è propria del ruolo materno e del positivo rapporto genitoriale e fraterno. Le profonde trasformazioni del mondo in cui viviamo possono e debbono, sulla base di una più equa distribuzione nell’accesso alle risorse, ai servizi ed al potere nonché di un diverso modo di intendere la divisione del lavoro, offrire all’uomo come alla donna, o, meglio, all’uomo insieme alla donna, la possibilità di esprimersi e di realizzarsi in maniera più autentica non soltanto nella sfera del privato, anche in ordine al bene comune, in un mondo in cui «l’immaginazione morale non è più in grado di gestire la realtà sociale»23. La crisi, nella nostra cultura, del senso di comunità può finalmente aiutarci a smascherare l’artificialità del «titanismo dell’uomo continuamente teso a trascendersi»24, e, più che spingere la donna ad imitarlo, può indurci a riflettere sulla necessità di ricostruire le

22

Z. BAUMAN, Voglia di comunità, cit., p. 105 Ibidem. 24 F. CASSANO, Approssimazione, cit., p. 70. 23

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basilari attitudini del con-vivere. A partire dal recupero di una immagine autentica della donna, come persona capace di costruire e gestire il bene comune, si può offrire anche all’uomo un riferimento cui riportarsi per accorgersi che non può rimanere ancorato ad una identità artificialmente virile. Soltanto insieme è possibile rispondere alla «voglia di comunità che emerge nella società contemporanea» e non per fondare ‘comunità gruccia’, agglomerati difensivi ove ritrovarsi fra eguali per censo, per professione e magari per sesso. Queste nuove forme di comunità surrogatorie offrono apparenti identità comunitarie statiche nel tempo e autoreferenziali, ma sono soltanto «effetti o prodotti secondari di una perennemente incompleta (e, in quanto tale, sempre più febbrile e crudele) opera di demarcazione dei confini» che ha lo scopo di tenere lontani gli altri diversi25, di compensare la separatezza del vivere competitivo e conflittuale. L’amicizia e l’alleanza uomo-donna, consentono che iniziativa e competenza possano esprimersi anche al di fuori della famiglia senza complessi di falsa inferiorità o di velleitaria superiorità; conducono a costruire rapporti interpersonali non soltanto sterilmente produttivi; consentono di creare insieme una comunità civile di cui farsi carico con piena soddisfazione, ritrovando la gioia del con-dividere e il gusto, ormai smarrito, del con-vivere. La globalizzazione esprime un bisogno universale, di condivisione, di unità, di abolizione dei confini, ma non costruisce la convivenza. Uno degli imperativi che sottende alla logica della globalizzazione è «uscire dai propri confini», eppure, nel nostro mondo ormai globalizzato «una cosa che non sta accadendo è la scomparsa dei confini»26. Paradossalmente, anziché unire, l’universalismo divide perché, abolendo i confini, introduce il rischio di omologazione, minaccia ogni singolare identità e finisce con l’accentuare il

25 26

Z. BAUMAN, Voglia di comunità, cit., p. 17. Ibidem.

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bisogno di determinare, definire, custodire «il rapporto fra identità e differenza» per garantire il riconoscimento27. L’attitudine femminile ad offrire cura e riconoscimento se anche porta ad erigere confini protettivi non introduce il rischio di una chiusura all’alterità: l’universo femminile può trasmettere, nella nostra società globalizzata e conflittuale, la consapevolezza che il bisogno di autonomia e di libertà, che spinge oltre il confine, non nega la solidarietà necessaria a costruire la comunità poiché il ‘con-fine’ vuol dire anche contatto, punto in comune28. Certamente l’idea di comunità include quella di confine, ma il concetto di società aperta recupera più ampie dimensioni con la disposizione al dialogo esteso ed alla reciprocità. Relazione, reciprocità e responsabilità sono i fondamenti della comunità, che è, sì, il più delle volte, una realtà locale e circoscritta, ma non legata alla «mistica del vicino» o alla «mistica del piccolo» bensì all’altezza dell’uomo, dell’universo e della storia, una realtà non priva di identità e di confini, ma aperta alla dimensione universale e consapevole «dell’unità dell’umanità nello spazio e nel tempo»29. In che modo si può giungere a ridisegnare la famiglia, il contesto lavorativo, la comunità locale, la società globale come comunità aperte è un interrogativo complesso ed un compito non esclusivamente pedagogico di cui l’umanità degli uomini e delle donne dovrà al più presto farsi carico per superare l’arroccamento difensivo e conflittuale dell’individuo. Occorre, oggi più che mai, fare della capacità di riconoscimento e di mediazione la strategia che può guidare dalla dipendenza all’autonomia, per ricondurre l’indipendenza conflittuale di marca individualista all’interdipendenza e alla solidarietà; uomo e donna

27

Ibidem. Cfr. F. CASSANO, Il pensiero meridiano, cit., p. 56 e ss. 29 E. MOUNIER, op. cit., pp. 53- 57. 28

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possono incrementare, nella comunità locale come in quella globale, la qualità umana della vita.

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E per concludere... la pedagogia della persona: quali sfide educative

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LA PROMOZIONE DELLA PERSONA NELLA PROSPETTIVA DELL’EDUCAZIONE PERMANENTE Sergio Angori

1. La lunga elaborazione di una idea-guida Non è nostra intenzione accreditare l’immagine di un Emmanuel Mounier anticipatore di idee e di teorie che, di fatto, si svilupperanno e consolideranno in anni successivi alla sua scomparsa. È tuttavia inconfutabile che in alcuni suoi scritti siano avvertibili sensibilità, intuizioni, prese di posizione non diverse da quelle che, a partire dagli anni Sessanta, ritroveremo tra gli elementi generativi del concetto di educazione permanente, in particolare di quella versione dell’educazione permanente che, nel richiamarsi al personalismo, intende prestare attenzione alla totalità dell’uomo, valorizzarne le vocazioni e il potenziale di sviluppo, sollecitarne l’autonomia, farsi criterio-guida delle azioni di promozione umana dei singoli e delle comunità. Quando Mounier afferma che l’educazione costituisce «un apprendistato della libertà»1e che, di conseguenza, non è attività circoscrivibile alla sola fase iniziale della vita, quando sottolinea che essa «interessa l’uomo intero, tutta la sua concezione e tutto il suo atteggiamento di vita» e che ha come principale missione quella di «promuovere delle persone capaci di vivere e di impegnarsi come persone»2, quando auspica che nella società possa affermarsi una 1 E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, trad. it., Brescia, La Scuola, p. 165. 2 Ivi, p. 160.

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‘tensione comunitaria’ che porti al superamento dell’individualismo più miope, responsabile della frattura che si è venuta a determinare tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e la cultura, tra l’uomo ed il contesto sociale, quando prefigura la ‘città personalistica’ ed immagina una ‘comunità’ disposta a guardare con fiducia alle risorse individuali ci propone non soltanto un progetto di rinnovamento della civiltà (capace, com’egli dice, di refaire la renaissance riposizionando l’uomo al centro della storia) ma anche un’idea di autorealizzazione umana in cui sono chiaramente avvertibili istanze di autenticazione personale e sociale che si collocano incontestabilmente nella prospettiva dell’educazione permanente. Parimenti, allorquando prende posizione davanti ai rischi della ‘mistica’ del lavoro e della ragione scientifica3, quando segnala con preoccupazione gli effetti di una industrializzazione selvaggia – una industrializzazione, egli afferma, che ha messo ai margini dell’umanità «una classe di uomini inchiodati al lavoro delle proprie mani, privati di quella grandezza artigiana che è nella padronanza dell’opera o nella partecipazione delle mani ad un vasto disegno dell’uomo»4 –, quando denuncia certe forme di ‘progresso’ che colpiscono le persone «più duramente nella loro dignità che nella loro sussistenza» perché le espelle dalla cultura, dalla vita libera, dalla gioia del lavoro e in molti casi, attraverso l’alienazione, anche da se stesse5, quando lamenta il crescente dilagare del conformismo sociale e della corruzione dei valori morali non si possono non rilevare vistose convergenze con le posizioni (più o meno coeve) di educatori e di movimenti di pensiero che si adoperano attivamente per lo sviluppo della cultura popolare, come il francese Poeple et Colture, e che hanno un ruolo di rilievo nella incubazione e germinazione di un’idea di educazione capace di abbracciare l’intero corso della vita umana. Per

3

Ivi, p. 108. Ivi, p. 76. 5 Ibidem. 4

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non dire, infine, che l’impegno (engagement) da lui espresso come intellettuale «chiamato a far fronte alla realtà storica e (…) sollecitato ad assumersi le proprie responsabilità»6 rivela esplicite assonanze con quello testimoniato da figure di rilievo dell’immediato secondo dopoguerra che si renderanno protagoniste di significative iniziative nel campo dell’educazione popolare, particolarmente in quello dell’educazione degli adulti (da Joffre Dumazedier a Paul Lengrand, da Jean Guéhnno a Joseph Folliet). Nel rilevare ciò, per quanto vada tenuto presente che l’espressione educazione permanente è estranea al vocabolario di Mounier7, crediamo di poter affermare che nel programma della rivoluzione personalista e comunitaria del pensatore francese – un programma incentrato sulla nozione di persona (connotata da una solida fiducia nelle facoltà umane, nelle potenzialità creative ed espansive di ciascuno, nelle capacità individuali di autoformazione) e su quella di comunità (intesa come realtà in cui le persone hanno la possibilità di conoscersi, di realizzarsi, di responsabilizzarsi alla vita comune grazie alla tensione etica che alimenta i loro rapporti) – sono rintracciabili riferimenti a processi di natura educativa capaci di sollecitare e sostenere, in ogni momento della vita, lo sviluppo di risorse umane individuali e potenzialità di autoaffermazione. Il fondatore di «Esprit» sa bene che il costituirsi di una comunità personalistica è un traguardo che non è a portata di mano e che la realizzazione di forme di ‘socialità’, anche di livello meno elevato rispetto a quelle ideali, implica un radicale processo di cambiamento che investe, assieme ai meccanismi dell’economia, l’orizzonte dei valori di riferimento, gli assetti sociali, le relazioni umane, i comportamenti personali. Egli è pienamente consapevole che tra6 G. CAMPANINI, Mounier e la responsabilità dell’intellettuale. Itinerari dell’‘engagement’, in Emmanuel Mounier. Persona e umanesimo relazionale, a cura di M. Toso, Z. Formella, A. Danese, Vol. I, Roma, Las, 2005, p. 198. 7 Cfr. S.S. MACCHIETTI, L’educazione popolare nel pensiero di E. Mounier, «Prospettiva EP», 3, 1984.

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sformare un mondo in cui prevale il désordre établi è impresa non facile; avverte che la tensione dialettica tra istanze personalizzatrici e istanze spersonalizzanti è costantemente esposta a situazioni di scacco. Ciò, tuttavia, non gli impedisce di pensare che l’uomo nuovo possa riuscire a dominare le tecniche e le conseguenze disumanizzanti dell’industrializzazione, oltre che realizzare forme di vita comune scevre da egocentrismi prevaricanti. Il compito ‘educativo’ che in tale contesto Mounier assegna a se stesso e ai suoi collaboratori è quello, come è stato fatto rilevare, di compiere opera di ‘mediazione culturale’ tra le forze vive del suo tempo e di combattere con lucidità e determinazione «la confusione e l’incoscienza» che regolano i rapporti umani. Si tratta, per un verso, di difendere un’immagine di uomo in grado di onorare la ‘triplice vocazione’ – alla interiorità, alla comunicazione, alla trascendenza8 – che dovrebbe orientarne la crescita e l’agire e, per l’altro, di tutelare le classi sociali più indifese dalla fascinazione suscitata dai totalitarismi o, comunque, da subdole forme di manipolazione politica. Ed è proprio la capacità di Mounier di esprimere e conciliare una visione filosofica forte dell’‘uomo totale’ tanto con la crudezza del momento storico quanto con l’impegno culturale e politico (mettendo in relazione ‘utopia’ e ‘realismo’) che consente di cogliere analogie non marginali tra l’attività di ‘animazione’ da lui svolta e quella espressa da movimenti che, come accennato, nel corso degli anni Cinquanta, in Francia ma non solo, si fanno promotori – sicuramente anche grazie al ‘clima culturale’ alimentato da “Esprit” – di proposte, attività ed esperienze ‘educative’ che intendono andare oltre la lotta all’analfabetismo, oltre le politiche di remedial instruction, oltre il superamento dell’esclusione sociale e che mirano a facilitare l’accesso alla cultura da parte dei ceti popolari, così da consentire loro la partecipazione piena alla vita democratica.

8 A. LAMACCHIA, Introduzione a E. MOUNIER, Comunismo anarchia e personalismo, trad. it., Cassano (Bari), Ecumenica, 1976, p. 29.

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Il concetto di educazione permanente, in questo contesto, non emerge all’improvviso; esso nasce da una lunga elaborazione e la sua origine è, in larga misura, da ricondurre alla espansione della domanda generale di educazione conseguente allo sviluppo della società industriale e ai mutamenti sociali che ne conseguono. Al suo costituirsi concorrono sia ideali e concezioni classiche dell’uomo, che da sempre premono per potersi affermare (rispetto per la vocazione personale, valorizzazione dell’ingegno umano, possibilità di esercitare il potere audecisionale), quanto problemi, urgenze, sfide, istanze che le contingenze del momento impongono di affrontare. È un concetto che, fin dal suo apparire, è avvertito come idea di sintesi, come espressione di una idea regolativa (regolativa dell’intero sistema educativo) dotata di una incontestabile forza traente che le deriva dalla tensione etica in essa presente e che si esprime in impegno a favore della promozione umana, in determinazione nello sviluppo delle vocazioni culturali dei singoli gruppi sociali, in capacità di suggerire ed attivare strategie finalizzate a facilitare la rigenerazione continua dei principi su cui si regge la convivenza civile. E se è vero che spetta alla pedagogia, annota Mario Mencarelli, avere ‘grandi intuizioni’ capaci di produrre idee-guida che siano fonte di altrettanto grandi trasformazioni in campo educativo (per restare all’età moderna, egli ricorda l’ideale pansofico di Comenio, l’educazione secondo natura di Rousseau, la scuola aperta a tutti auspicata da Pestalozzi, l’autoeducazione che è al centro delle teorie dell’attivismo) è non meno vero che l’idea di educazione permanente esprime «il presagio d’una grande rinascita culturale e civile» nella quale avranno modo di realizzarsi i principi di una educazione umanamente autentica9. Rinascita affidata alla possibilità di affermazione di nuovi modelli culturali, capaci di rispondere ai pro-

9

M. MENCARELLI, Creatività e educazione, in Creatività e educazione, Atti del XV Congresso nazionale dell’As.Pe.I., Siena, 1981, p. 68 e segg.

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blemi umani più pressanti e tali da favorire la diffusione del rispetto dei diritti propri ed altrui, il pluralismo (e quindi una feconda interazione anche tra orientamenti valoriali, politici e religiosi diversi), una più diffusa coscienza civica, ambientale, sanitaria, estetica, e via dicendo, fra tutti i cittadini. 2. Prestare attenzione ai problemi umani Pierre Furter, ricostruendo le vicende che precedono la nascita dell’idea di educazione permanente osserva che nozioni tra loro semanticamente vicine affermatesi nel decennio 1950-1960, come ‘educazione continua’, ‘educazione degli adulti’, ‘educazione prolungata’, ‘animazione’, ‘sviluppo culturale’, ‘democratizzazione della cultura’, «si riallacciano a idee elaborate negli ambienti della resistenza [francese] al nazismo»10; ad ambienti, aggiungiamo noi, che avevano potuto giovarsi anche degli stimoli culturali offerti da Mounier. È quello, prosegue Furter, un periodo «di creatività, [di] immaginazione pura, di invenzione sociale (…) caratterizzato dalla convergenza progressiva di queste idee e nozioni diverse che si cristallizzano attorno a quella d’educazione permanente». Un’idea, come abbiamo anticipato, fortemente suggestiva, che appare immediatamente ricca di fascino perché capace di legittimare e dare senso alle molteplici forme di esperienza educativa che all’uomo è dato di vivere nei diversi momenti della propria vita e in differenti contesti. Jean-Claud Forquin, cimentandosi nello stesso compito, sottolinea anch’egli il fervore che in Francia anima il dibattito culturale nel secondo dopoguerra e ricorda che gli obiettivi su cui si polarizza l’educazione ‘post-scolare’ sono inizialmente due: la formazione del cittadino, attraverso la diffusione della cultura (attività di cui

10

P. FURTER, La formazione continua in una società in crisi, in La sfida dell’educazione, a cura di M. Mencarelli, Teramo, Lisciani & Giunti, 1981, p. 139.

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avrebbero dovuto farsi carico i movimenti impegnati nell’educazione popolare e i mezzi di comunicazione di massa valorizzando convenientemente il tempo libero di cui le persone cominciavano a disporre per effetto del diffondersi dei modelli di vita legati all’industrializzazione diffusa), e la maturazione di competenze professionali con le quali affrontare la crescita economica (alla quale era invece particolarmente interessato il mondo delle imprese)11. La debolezza semantica dell’espressione educazione permanente e gli equivoci che ne accompagnano l’uso possono essere colti a pieno tenendo presente proprio il contesto cui si è appena fatto cenno e ricordando che il concetto al quale essa fa riferimento evoca attività che si prestano ad essere percepite in modo diverso a seconda dell’‘osservatorio’ dal quale le si considera: l’ambiente associativo-culturale le avverte infatti come una pregevole opportunità per promuovere lo sviluppo personale e la partecipazione di tutti alla vita della comunità, quello politico come un mezzo per accelerare i processi di innovazione sociale, quello economico come un’occasione di accrescimento delle competenze professionali dei lavoratori e di sviluppo produttivo. E questa pluralità di visioni e di interpretazioni che caratterizza, fin dall’esordio, il costrutto di educazione permanente fa sì che esso assuma una molteplicità di significati che si porterà dietro pressoché fino ad oggi e che sarà fonte di non pochi equivoci e travisamenti12. Nel contempo non si può ignorare che i processi costitutivi di nuovi modelli culturali – attraverso i quali la creatività umana riesce a trovare soluzioni (non di rado anche efficaci e dinamiche) a problemi complessi di emarginazione, di precarietà, di asservimento al potere, alle ideologie, alle mode – sono sempre lenti e laborio11 J-C. FORQUIN, L’idea dell’educazione permanente e la sua espressione internazionale a partire dagli anni ’60, in «LLL – Focus on Lifelong Lifewide Learning», 2, 2005. 12 Cfr. S. ANGORI, Educazione permanente: un’espressione superata?, «Prospettiva EP», 1, 2001.

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si. È infatti innegabile che resistenze al cambiamento, indifferenza, fatalismo, al pari di improduttive e semplicistiche fughe in avanti, incidano in misura rilevante sulla vita sociale e, di conseguenza, anche su quella personale. Tutto questo dà conto del perché gli ostacoli che si sono frapposti e si frappongono all’affermarsi di un sistema di educazione permanente – attento ai bisogni educativi dell’uomo nelle diverse fasi dell’esistenza (e quindi non scuolacentrico in quanto il ‘centro’, nella vita, è costituito da ogni momento in cui essa si snoda), orientato a sollecitare l’emancipazione di singoli e comunità, impegnato ad utilizzare metodologie diverse da quelle scolastiche – siano numerosi e di non agevole superamento. Non è tuttavia questa la sede per ripercorrere il cammino difficile di una idea che, come è stato detto, presenta ‘un lungo passato e una breve storia’. Ciò su cui vogliamo soffermarci per sviluppare alcune rapide considerazioni è, piuttosto, la stretta connessione che è possibile stabilire tra il concetto di persona a quello di educazione permanente, anche perché è da tale connessione che, a nostro avviso, si deve partire per rispondere alle istanze di ‘rifondazione’ di quest’ultimo concetto. Istanze che emergono da tempo e da più parti e che sottolineano, in modo concorde, come la ‘fortuna’ da esso riscontrata non si sia ancora concretizzata, quantomeno nella misura sperata, in avvertibili e diffusi processi di affermazione del valore della persona. Mario Mencarelli nel sottolineare che educazione permanente è idea che evoca con immediatezza un esplicito significato civile e democratico13 evidenzia come essa dia voce ad una profonda istan13

Scrive al riguardo: «Non c’è nessuna idea, penso, che sia fortemente contestativa come l’idea di educazione permanente, ma è una contestazione che va al di là della denunzia e indica in modo preciso la complessità delle cose che meritano di essere fatte» (M. MENCARELLI, L’educazione permanente come idea normativa per la trasformazione delle istituzioni per l’educazione degli adulti, in I Centri Sociali di Educazione Permanente. Prospettive di sviluppo, a cura di C. Scaglioso, Roma, Ministero P.I., 1973, p. 48.

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za umanistica. Istanza di liberazione, di autenticità, di autoeducazione, che l’interpretazione personalistica di tale idea (e della conseguente azione educativa) contribuisce ad esaltare e ad arricchire14. Sottolinea, in particolare, come i problemi con i quali l’educazione permanente è chiamata a confrontarsi siano innanzi tutto problemi umani: problemi concreti che le persone vivono in un preciso momento storico e che, per essere risolti, chiedono l’affermarsi, come si è detto, di nuovi modelli culturali che l’educazione dovrebbe riuscire a far emergere e consolidare, pena la sua progressiva estraneità rispetto ai processi di cambiamento che scandiscono la storia. La forza esigenziale che il personalismo esprime – il mettere al centro la persona, l’aspirazione che questa ha nel potersi realizzare compiutamente, la tensione che esprime nel riuscire a manifestare le potenzialità di cui dispone e nel guardare con fiducia al futuro – trova così nell’educazione permanente lo strumento che consente di prospettare la costruzione di una società effettivamente ‘centrata sulla persona’, a misura di questa, impegnata a coltivarne tutte le virtualità15. L’educazione, annota Aldo Agazzi, va vista come «un continuum senza segmentazioni»; di conseguenza «non può essere concepita come una serie di pure aggiunte per sovrapposizione ai periodi precedenti (…) posti in successione». Destinatario dell’agire in questo ambito, egli prosegue, non è il bambino, il fanciullo, l’adolescente «ma l’uomo nella sua età infantile (…) nella sua fanciullezza, nella sua adolescenza, nella sua età adulta, nella sua vecchiezza; ma sempre tutto l’uomo»16. Affermazioni, queste, che nella

14

Cfr. M. MENCARELLI, Educazione scolastica ed extra scolastica oggi, «Prospettiva EP», 1, 1978. 15 Cfr. S.S. MACCHIETTI, Persona, domande di senso, educazione, «Prospettiva EP», 1, 2000. 16 A. AGAZZI, L’educazione permanente comincia dalla scuola materna, «Prospettiva EP», 1, 1978, poi anche in «Scuola e Didattica», 9, 1978-1979, con il titolo L’educazione permanente: concetto e implicanze.

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loro lucida essenzialità lasciano intuire tutta la complessità dell’impegno che l’idea di educazione permanente sottende. Di qui l’esigenza – è ancora Mencarelli a farsene interprete agli inizi degli anni Ottanta – di procedere ad una sua verifica al fine di accertare se sia ancora capace di interpretare ed esprimere quella volontà di promozione umana che ne aveva contrassegnato la nascita. La riflessione sullo ‘stato dell’arte’ in cui si trova il processo di emancipazione umana messo in moto da tale idea consente al pedagogista senese di evidenziare come l’enfasi che ha accompagnato l’impiego delle ‘tecniche’ di cui essa si è avvalsa (animazione socioculturale, istruzione ricorrente, democratizzazione della cultura, ecc.) abbia favorito il fiorire di forme esteriori di ‘partecipazione’ alla vita sociale e politica (si pensi alle derive di un certo assemblearismo formalmente ineccepibile ma spesso inconcludente) nonché lo sviluppo di uno sterile efficientismo (legato alla crescita dei saperi professionali), «quasi che l’educazione permanente – egli commenta – debba mirare a costruire un uomo più produttivo invece che un uomo più vero»17. La conseguenza di ciò, osserva Mencarelli, è che «la cultura è ancora lontana da popolo»18 e che molto resta da fare perché ogni uomo, in virtù di un processo di autorealizzazione continua, sia messo in condizione di cogliere la forza di congruenza umana che la cultura possiede, la versatilità che essa presenta nel soddisfare le esigenze e gli interessi di ciascuno, il contributo che può esprimere nel selezionare e suggerire sempre più complesse forme di umanità. Per promuovere processi di rigenerazione della cultura non basta tuttavia ampliare le opportunità di educazione e di accrescimento delle competenze, a cominciare da quelle ‘alfabetiche’. È soprattutto dalla «riflessione sulle proprie vicende» che la società appren-

17

M. MENCARELLI, Educazione permanente: significato di un’espressione, «Prospettiva EP», 5-6, 1983. 18 Ibidem.

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de19. Ma se così è c’è da domandarsi perché, nonostante il moltiplicarsi e lo specificarsi delle ‘tecniche’ di cui l’educazione può oggi avvalersi, il numero degli ‘esclusi’ dalla cultura continui ad essere allarmante, perché l’idea di una ‘società educante’ non abbia trovato sostenitori convinti, perché il rapporto tra democrazia ed educazione sia ancora accompagnato da sospetti e diffidenze. La fruizione dei musei (come di altri ‘beni culturali’: teatri, biblioteche, gallerie d’arte, parchi archeologici e naturalistici, ecc.), per esemplificare su questo punto, continua ad essere riservata – annota Paul Bélanger, già direttore dell’Istituto per l’educazione dell’UNESCO – ad una minoranza privilegiata di cittadini nonostante l’aumento del tempo libero e nonostante si tratti di luoghi di apprendimento informale20. Probabilmente non si è fatto abbastanza per promuovere negli adulti la motivazione ad apprendere, coltivando in loro la curiosità cognitiva, il piacere di conoscere, il gusto di capire; ancor meno si è fatto sul piano della diffusione del convincimento che, tra le attività umane, quelle culturali sono altrettanto importanti di quelle che hanno rilevanza sul piano economico. Assicurare condizioni che consentano a tutti di avvertirsi produttori di cultura (nelle molteplici forme ed espressioni che questa si dà: lingua, arte, storia, scienza, religione) è, comunque, tutt’altro che impresa agevole. Troppe persone sembrano essersi smarrite, anche in questo campo, nella logica dell’utile, del mercantile, del consumo: la ‘cultura dei bisogni’ (legata all’effimero, al quotidiano, alla routine, al frammento) prevale su quella degli ‘ideali’; i ‘saperi’ inscatolati in ‘memorie’ di grande potenza (floppy, CD-ROM, DVD, ecc.) sono in mostra sugli scaffali dei supermarket della conoscenza e si offrono ad acquirenti distratti e smarriti. Ma è anche vero che chi non entra in contatto con la cultura da protagonista rischia di re19

Ibidem. Cfr. P. BÉLANGER, Nuove visioni su lifelong learning e musei, in Musei e lifelong learning, a cura di M. Sani, Bologna, Istituto per i Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, 2004. 20

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starne ai margini, di subire le scelte e i gusti degli altri, di esserne un consumatore passivo e manipolabile. Il che implica che dovremmo valorizzare maggiormente la creatività umana in tutte le sue espressioni, nella sua dimensione individuale e in quella collettiva, convinti che predisponendo ed animando ambienti di apprendimento stimolanti e capaci di coinvolgere attivamente le persone il numero degli esclusi dalla cultura possa finalmente ridursi. Tesi, questa, condivisa da Jacques Delors il quale, dopo aver ricordato che l’educazione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona che della comunità, afferma che essa dovrebbe offrire a tutti, simultaneamente, «le mappe di un mondo complesso in perenne agitazione e la bussola che consenta agli individui di trovarvi la propria rotta»21, così che ognuno sia messo in grado di occupare il proprio posto nella comunità di appartenenza e di disporre degli strumenti che lo pongano al riparo da possibili rischi di esclusione o di marginalizzazione. Ripensare ed ampliare il concetto di educazione permanente, com’egli auspica, è pertanto una operazione che consente di comprendere che l’idea che esso esprime trova oggi la propria legittimazione più che nelle istanze poste dalle trasformazioni in atto nel campo del lavoro nella necessità di assicurare a ciascuno la capacità di «conservare il controllo del proprio destino»22, in modo che possa realizzarsi secondo i ‘talenti’ di cui dispone e delle aspirazioni che possiede. Esigenza, questa, che appare tanto più ineludibile se si pone mente al fatto, annota ancora Delors, che il progresso tecnologico di cui siamo testimoni rischia di sorpassare la nostra capacità di trovare soluzioni ai tanti interrogativi che esso suscita.

21

J. DELORS, Nell’educazione un tesoro, trad. it., Roma, Armando, 1997, p.

22

Ivi, p. 92.

79.

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3. L’educazione nella ‘società della conoscenza’ Tra i numerosi problemi umani che il nostro tempo si trova ad affrontare una delle priorità è costituita dal riuscire a conciliare ‘crescita economica’ (di cui il progresso tecnologico è fattore determinante) e ‘sviluppo umano’. Al riguardo un dato è certo: produttività, competizione, efficienza costituiscono fattori di una inevitabile subordinazione dell’uomo ai processi economici. Parimenti, l’accento posto sulle dinamiche del ‘cambiamento’ e le sollecitazioni a tener loro dietro porta, non di rado, a collocare in second’ordine il rispetto per l’uomo, per la sua dignità, libertà, autonomia, coscienza morale. Quanto all’apprendimento, assistiamo al differenziarsi dei contesti in cui si realizza, al moltiplicarsi delle forme che assume, all’affinamento degli strumenti di cui si avvale per essere organizzato, proposto, archiviato, utilizzato, ma manca spesso una riflessione seria sulle finalità cui deve mirare e sul senso che esso ha. La sollecitazione a conciliare dimensione umana e dimensione economica è, in verità, avvertibile in numerosi documenti internazionali sulle politiche educative e formative prodotti da UNESCO, OCDE, Unione Europea, ecc.; raramente, tuttavia, tale questione vi viene convenientemente sviluppata in quanto, come è stato rilevato, si tratta di testi che si collocano nella prospettiva di un umanesimo laico, senza che chi li redige privilegi una specifica opzione antropologica23. In essi non si va oltre l’invito ad educare alle responsabilità civili, al fine di assicurare – nelle diverse realtà – coesione sociale, esercizio della cittadinanza attiva, sostegno ad uno sviluppo ecologicamente sostenibile. L’accesso al sapere, in questa prospettiva, prima che condizione per la realizzazione di sé è visto come garanzia di occupabilità dei cittadini lungo tutta la loro carriera lavorativa.

23

Cfr. M.L. DE NATALE, Persona e educazione permanente, in AA. Vv., Persona e educazione, Brescia, La Scuola, 2006.

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Un riscontro di ciò può essere colto in un’annotazione del Libro bianco di Édith Cresson e Pádraig Flynn Insegnare e apprendere: «la posizione di ciascuno nello spazio del sapere e della competenza sarà decisiva»24. Di qui l’impegno a ridurre lo scarto tra coloro che ‘sanno’ e coloro che ‘non sanno’, consentendo a tutti di arrivare a possedere almeno gli strumenti culturali di base; ma di qui anche l’esigenza di interrogarsi sulle ‘ragioni’ dell’apprendere (sulla natura degli apprendimenti da acquisire, sugli scopi che essi hanno, sulla forza generativa o sulla funzione omologante che presentano, sugli ‘interessi’ di chi li propone e di chi li eroga). Non basta, insomma, prendere atto del ruolo che il sapere riveste nella ‘società della conoscenza’, occorre domandarsi in quale misura e a quali condizioni esso può concorrere a far sì che ognuno riesca a ‘prendere in mano il proprio destino’. Ed è innegabile che, sotto questo aspetto, preoccupi non poco il fatto che, sulla scia di quanto verificatosi a proposito dei documenti internazionali appena richiamati, anche in altri testi di indirizzo l’umanesimo dei diritti veda via via espungere ogni riferimento all’educazione (sostituita dalla nozione di ‘formazione’) e, prima ancora, alla persona (si usano, in sua vece, termini come: individuo, cittadino, utente, consumatore), per concentrare l’attenzione sull’‘apprendimento’, sulla ‘conoscenza’, sui ‘saperi’, mentre – inquietanti – si fanno ogni giorno più ampi gli spazi della ‘vita artificiale’ (robotica, biotecnologie, cyborg ecc.)25. Perplessità desta anche il fatto che vadano scomparendo espliciti rinvii a valori, e che stiano occupando un ruolo centrale principi quali: innovazione, flessibilità, accertamento e certificazione delle competenze. All’educazione non si chiede più di promuovere processi di coscientizzazione e di liberazione, di farsi interprete – unitariamente – delle necessità materiali, delle esigenze sociali e delle aspira24 COMMISSIONE EUROPEA, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Lussemburgo, 1995. 25 Cfr. F. PINTO MINERVA, R. GALLELLI, Pedagogia e post-umano. Ibridazioni identitarie e frontiere del possibile, Roma, Carocci, 2004.

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zioni spirituali delle persone e delle comunità; le si affida il compito di facilitare e sostenere i processi innovativi che si registrano in campo tecnologico, economico, sociale, garantendo appunto gli ‘apprendimenti’ necessari. Da agente di cambiamento (nell’Italia postunitaria l’istruzione ebbe il merito di contribuire a ‘fare gli italiani’, successivamente di accelerare la ‘modernizzazione’ del Paese, quindi di favorirne lo sviluppo democratico) la si retrocede a strumento, a mezzo, al più a ‘risorsa’ con cui gestire il cambiamento. «Formarsi oggi, scrive Franco Cambi, è formarsi [in primis] ai saperi, nei saperi, all’uso dei saperi»26. È il ‘conoscere’ che, a parer suo, «dà identità e dà forza» a chi si trova a vivere la ‘condizione postmoderna’ del nostro tempo. In assenza di un’idea di uomo, di un progetto di sviluppo umano, di un modello di società condivisi – e nell’impossibilità di stabilire, al riguardo, dei ‘fondamenti’ – l’accento è posto in via prioritaria, e non potrebbe essere diversamente, sui ‘saperi’ che l’educazione (o, meglio, l’istruzione) è capace di fornire27. Solo essi, prosegue Cambi, sembrano in grado di ‘attraversare’ e di rendere intelligibile un universo-senza-centro. Tutto questo ha prodotto alcuni significativi e vistosi mutamenti anche all’interno del vocabolario dell’agire educativo. Il fatto che l’espressione lifelong education (educazione permanente) sia progressivamente pressoché scomparsa dalla scena e ad essa sia andata sostituendosi lifelong learning (apprendimento lungo tutto il corso della vita), entrata ormai nell’uso comune, è emblematico del prezzo pagato alla pretesa di disporre di un congegno formativo apparentemente ‘neutro’, privo di contaminazioni di carattere valoriale (l’accostamento a ideali, a principi, a concezioni della vita, a idee dell’uomo, della società, ecc. avrebbe compromesso – si è detto – la credibilità dell’idea di educazione). 26 F. CAMBI, Saperi, riflessività, cittadinanza, per la «scuola della società complessa», «Didatticamente», 1-2, 2005. 27 Cfr. S. ANGORI, Persona, sfide della società conoscitiva e nuove istanze educative, «Prospettiva EP», 2, 1997.

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Cosicché se in passato, particolarmente nei Paesi anglofoni, si è sottolineata la complementarietà dei concetti di education e di learning – il primo riferito al contesto istituzionale, all’educazione intesa come ‘bene pubblico’, all’insieme delle politiche educative, delle risorse e dei dispositivi necessari ad attuarle, il secondo utilizzato invece per indicare le responsabilità individuali in tema di autorealizzazione, usato per fare riferimento al coinvolgimento personale nelle attività di apprendimento – oggi si mettono in evidenza soprattutto le differenze che li distinguono; non senza peraltro qualche significativa eccezione. In Francia si preferisce infatti tradurre l’espressione lifelong learning con il semantema educazione e formazione lungo tutto il corso della vita, ribadendo con ciò che i due termini (educazione e formazione) fanno riferimento a realtà non riducibili l’una all’altra in quanto rinviano a contesti, attività, obiettivi diversi, anche se affini o complementari. Quanto al prevalere dell’interesse per i temi dell’apprendere rispetto a quelli dell’educare, la cosa viene spiegata (si veda il Rapporto Apprendere a tutte le età dell’OCDE, 1996) con l’esigenza di riconoscere al soggetto il compito primario di provvedere alla propria crescita umana e con il fatto che i ‘contenuti’ dell’apprendimento, le ‘forme’ che assume (formale, non formale, informale), i ‘luoghi’ in cui si realizza (in famiglia, a scuola, nel lavoro, nella formazione iniziale, in quella continua), le ‘modalità’ con cui viene proposto (in presenza, a distanza, in forma cooperativa, attraverso i media, attraverso le nuove tecnologie, ecc.), le ‘stagioni’ della vita in cui si attua (i primi anni di vita, la giovinezza, l’età adulta, la terza età) sono giudicati più importanti delle politiche educative, a cominciare dalla lotta all’analfabetismo (oggi all’illiteracy) e a tutte le forme di deprivazione culturale che le istituzioni pubbliche sono in grado di mettere in campo. Ma non è ininfluente un altro elemento: poiché anche nei processi culturali sta guadagnando consensi una prospettiva neo-liberale, la ‘domanda individuale’ – all’interno del ‘mercato dell’apprendimento’ – va imponendosi su quella ‘collettiva’. È cioè ormai opinione condivisa che finalità, contenuti, 460

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percorsi, momenti della formazione debbano rispondere prioritariamente alle esigenze degli ‘utenti’, prima che a logiche politiche e/o di sviluppo economico e sociale. Molti degli equivoci che accompagnano queste due espressioni (education e laerning) nascono dal fatto, rilevano alcuni, che entrambe sono da riferire ad un modello di società, la learning society, la cui nozione si presta a varie interpretazioni28 sulle quali vale la pena soffermarci brevemente. Peter Jarvis, rifacendosi alla letteratura sull’apprendimento in età adulta, osserva che di esso si hanno almeno tre diverse concezioni29. La prima mette l’accento sul ruolo delle istituzioni e delle realtà educative della società della conoscenza: la padronanza sempre più diffusa di linguaggi, tecniche, strumenti e processi per il trattamento dei dati che esse contribuiscono a sviluppare e diffondere consentirà ad un sempre maggior numero di persone l’accesso all’informazione e l’esercizio di una cittadinanza più partecipata. La seconda invita a riflettere sul fatto che la rapida crescita delle conoscenze produce una altrettanto rapida obsolescenza dei ‘saperi’ o almeno di una parte cospicua di essi; l’apprendimento continuo costituisce, di conseguenza, un fattore essenziale per mantenere in equilibrio il ‘sistema’. La terza concezione evidenzia, infine, come la learning society sia essenzialmente una ‘società di consumo’: le conoscenze costituiscono una ‘merce’ come altre. Il ‘mercato’ che le riguarda è regolato dalla domanda e dall’offerta; i ‘clienti’ si muovono al suo interno sulla base dei loro interessi personali e professionali, dell’importanza che attribuiscono al sapere, della capacità che hanno di selezionare l’offerta culturale, delle risorse finanziarie che possono e che intendono investirvi. A buona ragione, pertanto, nel Rapporto mondiale dell’UNE28 J-C. FORQUIN, L’idea dell’educazione permanente e la sua espressione internazionale a partire dagli anni ’60, cit. 29 P. JARVIS, Adult and continuing education, London-New York, Routledge, 1996.

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SCO Vers les sociétés du savoir si afferma che il termine ‘sapere’ non include soltanto ‘conoscenze scientifico-tecnologiche’ di carattere universale e quindi, in quanto utilizzabili da tutti, con un preciso valore all’interno del ‘mercato’, ma anche conoscenze ‘locali’, per così dire idiografiche, che assumono rilievo solo nelle culture e nei contesti in cui esse hanno avuto modo di costituirsi ed in cui vengono concretamente utilizzate30. Nell’auspicare che nel passaggio dalla ‘società dell’informazione’ alle ‘società del sapere’ (al plurale, perché occorre tener conto della singolarità che ognuna di esse esprime) sia possibile cogliere il significato umano che le conoscenze (a cominciare da quelle ‘autoctone’) presentano, viene sottolineato che il sapere non può essere merchandisé, quasi fosse un qualunque ‘bene di consumo’. Ciò basta per avvertire tutta la debolezza di un discorso sull’apprendimento (learning) che si ostini a non voler tenere conto che le ‘tecniche’ – quelle utilizzate per rilevare i ‘fabbisogni’ che si registrano in tale ambito, per progettare i più efficaci percorsi formativi possibili, per proporre contenuti motivanti e culturalmente appropriati, per verificare i risultati ottenuti – hanno bisogno di ‘valori’ di riferimento (costituiti dalla ‘educabilità’ dell’uomo, dal riconoscimento dei poteri di autorealizzazione di cui questi dispone, dall’apprezzamento della funzione fertilizzante della cultura, ecc.). Alla learning society va ascritto il merito di aver mostrato le enormi potenzialità dell’apprendimento, inteso come bene personale e collettivo, ma non va sottaciuto che quello indicato è un modello di società pressoché del tutto impotente nel fornire indicazioni su un altro versante non meno di rilievo: quello che ha a che fare, nella costruzione di originali e significativi progetti di vita, con principi morali, concezioni della vita e del mondo, modelli di condotta capaci di onorare e valorizzare pienamente i poteri umani.

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UNESCO, Vers les sociétés du savoir, Parigi, 2005.

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Conclusivamente, riteniamo allora che recuperare la ‘prospettiva’ dell’educazione permanente (compresa la componente dell’educazione ‘liberale’, ‘disinteressata’, ‘informale’ che essa presenta) possa consentire di guardare alla persona non tanto per le possibilità di acquisire sempre nuovi saperi che essa esprime (e per i benefici che da ciò conseguono sul piano individuale e sociale) ma per l’aspirazione a crescere e a realizzarsi in umanità che accompagna la sua intera vita e che merita la massima considerazione, oltre all’impegno di tutti.

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PERSONA E FAMIGLIA TRA RISPETTO E RESPONSABILITÀ. IL BISOGNO DELLA FORMAZIONE Michele Corsi

Premessa Ritengo che il tema della famiglia o meglio del rapporto, oggi assai faticoso e per molti aspetti impervio, tra ‘persona’ e famiglia si inserisca pienamente nell’interesse complessivo di questa tavola rotonda: «La pedagogia della persona: quali sfide educative», perché è proprio su questo versante che si consumano attualmente, a livello sia nazionale che internazionale, talune delle sfide più forti e pericolose per il futuro stesso della persona, non solo per come viene correttamente o variamente intesa nell’ambito dei molteplici e diversi ‘personalismi’, ma pure per come andrebbe egualmente pensata e voluta da tutti i soggetti di buona volontà che, al di là di differenti ideologie o punti di vista, dovrebbero avere a cuore, e davvero, «le magnifiche sorti e progressive» dell’umanità. Che poi il discorso che andrò prospettando, sia pure brevemente, abbia proprio in Mounier e nella sua proposta filosofico – pedagogica globale uno dei suoi maggiori iniziatori o capisaldi fondamentali (espliciti o impliciti), alla stessa stregua dell’intera pedagogia personalista, si evincerà, presumo, con sufficiente evidenza dal taglio e dai contenuti del mio intervento ed il lettore attento coglierà in filigrana espressioni e pensieri dell’illustre Maestro.

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La cornice Molti sono, infatti, i problemi che attraversano e appesantiscono, odiernamente, la persona (e le persone), la famiglia (e le ‘famiglie’)1: dal calo della natalità (per cui il nostro Paese è il fanalino di coda dell’intero pianeta) alle risposte (e alle domande a monte) assai spesso inadeguate nei confronti della fertilità o della sovra – popolazione di alcune zone del pianeta, dallo squilibrio tuttora e a lungo esistente tra aree ricche e aree povere (con ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri) alle crescenti esigenze di occupazione per troppi giovani che vedono la loro ‘adolescenza’ allungarsi a dismisura sino a diventare patologica o patogenetica2 per mancanza di lavoro (con ricadute ed esiti inopportuni, ancorché non necessariamente correlati, quali ad esempio la droga o il fenomeno in progressivo aumento dell’alcoolismo giovanile – fenomeno peraltro in eguale crescita nelle donne tra i 35 e i 50 anni), dallo sfruttamento dei minori, in varie forme e misure, al giovanilismo a tutti i costi e al rifiuto della vecchiaia, da una concezione della vita intesa come possesso individuale e non quale bene sociale alla paura della morte e alla sua rimozione, dal trionfo esagerato e inquietante, e dunque in qualche modo perverso proprio perché eccessivo, del privato sul pubblico e del materiale sullo spirituale a una nuova concezione della ‘fedeltà’ più massiccia e pesante ‘finché dura’, da una cultura emergente e diffusa del «tutto invecchia in fretta» e va quindi ‘sostituito’ (in una dinamica sistemica e interpersonale, e prima ancora individuale, che si ritaglia e si descrive, pertanto, come permanentemente provvisoria e conflittuale) al rifiuto montante di ogni dogma o contratto pubblico in una società, di contro, viepiù decapitata che ha visto piangere di recente, nei giovani, il padre comune 1

Cfr. M. CORSI, Il coraggio di educare. Il valore della testimonianza, Milano, Vita e Pensiero, 2003. 2 Cfr. P. BLOS, L’adolescenza. Una interpretazione psicoanalitica, trad. it., Milano, Franco Angeli, 1971.

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scomparso Giovanni Paolo II per l’assenza dei troppi padri naturali. È anche la società, in alcuni suoi imponenti e importanti segmenti, in special modo quella capitalistica o post-capitalistica o vogliosamente e sfrenatamente capitalistica di troppe nazioni europee, americane o asiatiche, che si muove all’insegna del ‘tutto e subito’, dell’utile immediato e dell’interesse individuale, dell’egoismo e della sfiducia, dell’«ognuno è legge a se stesso». Caratterizzata dalla nuova condizione femminile e dalla crisi, per converso e autonomamente, del ruolo maschile; e connotata egualmente dalla crescita esponenziale della popolazione anziana pure a livello mondiale, con una carta di Europa (per quel che ci riguarda più da vicino) che vive ormai una trasformazione apparentemente pacifica, ma non pedagogicamente governata, di razze, etnie e ‘religioni’ pari probabilmente solo al tempo delle cosiddette invasioni barbariche del IV° – V° secolo d. C. E, sullo sfondo, guerre disumane e dimenticate, lotte etniche feroci (ancorché pilotate e sfruttate, entrambe, dai regimi forti) e nazionalismi esasperati anche ‘a pochi passi’ dal nostro Paese. Tutto questo si ripercuote sulla famiglia e sulle ‘famiglie’, sulle scelte personali e sulle condizioni esistenziali, in un quadro di luci e di ombre, di motivazioni alte e di pericolose discese agli inferi, di significativi ancoraggi al cielo, alla speranza e alla fiducia, ma pure di spaventosi pressappochismi e di notevoli superficialità e banalizzazioni. E che significa anche, come ricaduta contemporanea e diffusa, il diverso uso e la differente funzione (pure valoriale) della sessualità di molto anticipata per età (e nondimeno i capitoli attuali della contraccezione e dell’I.V.G.), la ‘quasi scomparsa’ dell’esperienza della fraternità (particolarmente in Italia) a causa del crescente fenomeno del figlio unico (con una politica degli alloggi che sicuramente non favorisce la paternità e la maternità responsabili), la diminuzione (talora impressionante) del tempo educativo, per 3

Cfr. M. CORSI, Genitori e figli: educare comunicando. La strategia dell’attenzione, l’offerta del tempo, «Prospettiva EP», 14, 1991, pp. 13-30.

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quantità e qualità, nel rapporto tra genitori e figli3 e, a monte e correlativamente, tra coniugi o conviventi nell’ingenua ricerca della felicità a tutti i costi, nella tensione spesso incomprensibile e immotivata verso soddisfazioni carrieristiche ritenute ‘imprescindibili’ e «nuovi e pressanti bisogni economici» da soddisfare urgentemente, come risposte a domande personali di senso e di significato, deluse e deludenti, povere e solitarie. Dalla famiglia alle ‘famiglie’: taluni picchi emergenti Nel mondo si contano attualmente 15 diversi modelli di ‘organizzazioni familiari’, differenti per dimensione sociologica e quadro normativo di riferimento. Naturalmente, con percentuali difformi di distribuzione da continente a continente, da sub – continente a sub – continente, da nazione a nazione. Destinati a cambiare anche sotto la spinta di assetti legislativi che si modificano come l’approvazione, ad esempio, nei primi mesi di questo 2005 ad opera della Spagna (preceduta dal Belgio pur caratterizzato da una significativa presenza cattolica e dalla protestante Olanda, ma ‘prima’, la Spagna, in ordine alle adozioni gay) del matrimonio tra omosessuali, con la possibilità di adottare figli da parte di costoro. In una legge, questa spagnola, dal vocabolario ‘incomprensibile’ e ‘rinnovato’ che sostituisce, a tal proposito, le parole ‘marito e moglie’ del più antico ‘matrimonio’ – che ha raggiunto comunque nel Paese iberico il 60% di separazioni e divorzi – con ‘coniugi’, mentre ‘padre e madre’ diventano ‘genitori’, e che introduce il divorzio dopo tre mesi di matrimonio, senza separazione preventiva e senza cause di colpevolezza addotte da uno dei due ex contraenti; così come, altrettanto di recente, ha consentito l’accesso gratuito alla pillola del giorno dopo da parte di bambine di dieci anni. Una Spagna, peraltro, in cui si segnala un nuovo e consistente aumento della natalità come ulteriore ‘segno di contraddizione’ e quale scelta, particolarmente, della popolazione iberica di matrice cattolica. Né può essere sottaciuto, del resto, sul versante affettivo – re468

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lazionale, che è stata quasi legittimata ormai, in un’importante assise mondiale di soli pochissimi anni fa, la presenza nel mondo di cinque diversi orientamenti o preferenze sessuali, di contro ai due stili di rapporto sinora tradizionalmente invalsi e riconosciuti. Ma attenti: è passato pressoché inosservato o ha fatto soltanto sorridere un altro emendamento al codice civile varato sempre dal Congresso spagnolo: quello che inserisce tra i doveri della coppia sposata anche la condivisione delle responsabilità domestiche e cioè l’obbligo dei lavori casalinghi per gli uomini, oltre alla più scontata cura e attenzione nei confronti dei figli, dei genitori e delle altre persone a carico. Il che vuol dire che il governo spagnolo, a fare enfasi su quest’ultimo provvedimento, è convinto che ciò che già accade e non da ora nelle famiglie autenticamente democratiche4 va ‘imposto’ per legge, a motivo che ‘la legge educa’, crea un sistema di opportunità e di obblighi con connesse sanzioni, determina il costume e i comportamenti sociali, affettivi e relazionali, dunque istituzionali, a venire. Una sola osservazione e in merito a un unico evento (a causa della dovuta, comprensibile brevità): mi chiedo se si possa davvero eludere la domanda (in nome dei ‘diritti’ dell’adulto) se il bambino in genere, il bambino del secolo scorso (salutato come il secolo della scoperta dell’infanzia) e di questi primi anni del terzo millennio, per il quale tutti sembriamo esigere ‘l’offerta del meglio’ (perché non chiede di nascere, ma viene sospinto all’esistenza dalle decisioni altrui e dalla donna in particolare!) ottenga realmente la migliore delle possibilità esistenziali con l’eventuale adozione da parte di una coppia gay. Se il ‘meglio’ siamo poi tutti d’accordo nel ritenere che sia la messa a disposizione di costui del più ampio ventaglio (per non dire totale) delle opportunità di scelta, delle più vantaggiose condizioni socio – 4

Cfr. M. CORSI, La famiglia come palestra di democrazia: il rispetto di sé e dell’altro, in L’educazione alla democrazia tra passato e presente, a cura di M. Corsi, R. Sani, Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 135-156.

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economiche e culturali di contesto, affettive, relazionali, umane, politiche ecc., entro cui crescere, maturare e dunque decidere in libertà, autonomia, responsabilità (tre ‘parole chiave’ su cui si tornerà a breve) di sé e dell’intera propria vita anche a vantaggio degli altri (e della società) con cui si rapporterà. Non dimentichi tra l’altro, sulla scorta delle psicologie e delle psicoanalisi tuttora vigenti, che la personalità di ciascuno di noi è un processo – prodotto di identificazioni continue a partire dalla nascita e particolarmente nei primi tre o sei anni di vita nella relazione con i soggetti stabili di riferimento e con il ‘potere’ che, entrambi o uno dei due in specie, incarnano, esprimono e rappresentano (e cioè i ‘genitori’ del recente provvedimento da parte delle camere spagnole che, a detta dei sondaggi, incontra il 66% dei favori della popolazione di quel Paese). Ritengo, in nome non già dell’impossibile neutralità valutativa, ma di una non contestabile, al momento, oggettività relazionale5, che, al di là dei ‘diritti’ degli adulti, esista un diritto ancora più radicato e significativo che è quello del bambino: innanzitutto il ‘diritto’ a una famiglia ‘normale’ e valida (e, quando ne è privo, alla sua migliore sostituzione possibile) e, con esso, alla crescita e al ben – essere morale e psico – fisico diffuso, e infine, divenuto grande, alle opportune condizioni di vita e di lavoro. Tutto il resto, invece, appartiene alla soggettività e non alla necessità. Ma veniamo al nostro Paese (in cui si conta egualmente la stessa molteplicità di differenti organizzazioni familiari), per porre in risalto alcuni dati emergenti. Il primo: le famiglie separate e divorziate hanno ormai superato ampiamente il livello del 30% e si stanno avvicinando a quello del 35%, senza più la forbice di qualche decennio fa tra separazioni e divorzi e con una distribuzione pressoché uniforme su tutto il territorio nazionale. Con un picco crescente di ‘crisi’ e ‘rotture’ che si

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Cfr. E. NAGEL, La struttura della scienza. Problemi di logica nella spiegazione scientifica, trad. it., Milano, Feltrinelli, 1968.

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situa nei primi tre anni di matrimonio, sia civile che religioso, entrambi pure in calo come istituti ‘normati’ e prescelti. Con una quantità di minori, figli di tali ‘amori smarriti’6, prossima al tetto dei due milioni e con un incremento annuo di circa 70.000 nuove unità, di contro all’aumento della popolazione anziana (anche in Italia). Domanda: è un quadro fisiologico, questo appena descritto? In altro contesto: un dato di incidenza ‘tumorale’ che si presentasse con la stessa percentuale e in una fase estremamente giovanile verrebbe letto come un segno di malattia o di benessere? E sarebbe mai possibile una ‘medicina’ che lo volesse curare ‘allargando le maglie’ o piuttosto si darebbe vita a una seria azione di prevenzione che altro non è che il ricorso alla formazione mirata e precoce? Una seconda rilevazione: mi riferisco ai problemi legati alla fecondazione assistita, al tema della generatività e al ‘bisogno’ del figlio (per stare a taluni ‘argomenti caldi’ dibattuti pure di recente nel nostro Paese), per soffermarmi, da pedagogista, su un unico imprescindibile aspetto: il figlio non può essere mai un bisogno dell’adulto, la risposta a un’esigenza di affermazione o di estensione personale e duale perché, se così fosse, si configurerebbe da subito come una scelta sbagliata, sbagliata per l’adulto e sbagliata per il minore, carica e a breve di sofferenza per entrambi. Il figlio come ‘bisogno’ rinvia a una situazione psicologica di ‘mancanza’, a una povertà riconosciuta e non a una ricchezza da mettere in circolazione, a un’immaturità originaria, a un dolore da risolvere, a una privazione che si considera intollerabile e che va dunque soddisfatta, a un’ingiustizia che chiede giustizia, a un vuoto che attende un pieno. E così l’adulto o gli adulti ‘parlano’ di loro e non di ‘lui’, e si aspettano ‘soddisfazioni’ soprattutto per loro stessi. E il tutto si iscrive in una ‘logica di possesso’. Ma il figlio e la sua nascita non si iscrivono in questa logica. Il figlio è una persona, un ‘progetto’ e non la risposta a un’esigenza sia

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Cfr. D. FRANCESCATO, Figli sereni di amori smarriti. Ragazzi e adulti dopo la separazione, Milano, Mondadori, 1997.

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pure umanamente comprensibile, è un essere e non un avere, è un dovere (sociale oltre che etico) e non un diritto, è un dono ricevuto gratuitamente al di là della pochezza delle risorse impiegate, è un mistero, così come la vita di ciascuno di noi che affonda nel mistero. Un mistero che va accettato (come la mancanza del figlio e la sua non nascita biologica) e che nessuna teoria scientifica o scientista ha mai potuto risolvere del tutto. Il bisogno di formazione: educare al rispetto, educare alla responsabilità Non abbiamo bisogno, allora, di padri e madri comunque, malgrado il calo delle nascite (o di coniugi e famiglie apparentemente stabili, nonostante le troppe separazioni e divorzi). Abbiamo piuttosto necessità di nuovi padri e madri (e dunque, a monte, di nuovi coniugi). Di padri e madri liberi, autonomi e responsabili. Testimoni di quella libertà che è sempre pensante (e non emotiva o arbitraria) e pesante (come la intendevano Michele Federico Sciacca e Franco Lombardi) perché incarnata in una storia accolta e non subita, meditata, riflessa, sposata per poi magari anche cambiarla e soprattutto migliorarla. Autonomi perché consapevoli delle relazioni cui partecipano e alle quali danno vita. Responsabili, nell’esatta accezione del termine, come soggetti impegnati a dare una risposta di senso e di significato ai talenti di cui sono portatori e a quel talento ‘primo’ che è la propria, unica vita. Si ha urgenza cioè di padri e madri ‘educati’, perché sappiano educare a loro volta alla libertà, all’autonomia e alla responsabilità i propri figli e che, correlate sistemicamente e socialmente tra loro come ‘valore’, sono in ultima istanza il fine, reale e pregnante, di ogni educazione correttamente intesa. Abbiamo bisogno di maggiore libertà come categoria etica che sovrasta e fonda la relazione Io – Tu – mondo, di una più consistente (o nuova) educazione al rispetto di sé e dell’Altro, come sintesi di libertà e autonomia, laddove il rispetto e la responsabilità sono gli 472

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assi cartesiani di un’opportuna e adeguata formazione della persona alla vita di coppia e di famiglia, per la migliore interazione possibile tra la stessa persona e la famiglia (e dei figli e dei coniugi pure tra loro). Abbiamo necessità che Stato e Chiesa (quale massima organizzazione non statale presente nel nostro Paese) avviino finalmente una politica e una pastorale di effettiva ed efficace educazione alla famiglia e in famiglia, dalla nascita della persona in avanti, senza pause o infingardaggini o privilegiamento, per tradizione o comodità, di particolari età evolutive. L’urgenza è di disporre, oggi, di padri e madri ‘salmone’ che sappiano anche loro, come questo pesce, nuotare controcorrente e dire pure qualche no giustificato e motivato, senza paura di perdere l’affetto dei figli o di venire abbandonati o di peggio e senza creare simbiosi o dipendenze, né attacchi né fughe, rabbie o mancanze di speranza. Di padri e madri coraggiosi, che sappiano educare al coraggio, e che, formati e davvero adulti, sappiano farsi padri e madri anche dei tanti bambini, fanciulli e adolescenti ‘senza famiglia’. Che siano educati ed educhino alla comunicazione efficace ed efficiente e alla ‘cultura’ del contratto relazionale, storico e flessibile, intelligente, come premessa e quadro di rapporti interpersonali stabili e duraturi, sereni, a favore della crescita di tutti e di ciascuno7. Sono necessari, allora, pure nuove forme di adozione e un maggiore sviluppo dell’istituto dell’affido, di comunità realmente familiari e di case famiglia, così come una più consistente e pedagogica crescita delle reti di solidarietà familiare, sicché ogni figlio comunque nato abbia ‘genitori’ disponibili e che ai padri e alle madri ‘ancora in viaggio’ e ai coniugi «all’ulteriore ricerca di loro stessi» si insegni piuttosto e con più frequenza, non abbandonandoli, a ‘volare’ e a sollevarsi dai troppi tombini raso terra che questa nostra sto-

7 Cfr. A. ASCENZI, M. CORSI (a cura di), Professione educatori/formatori, Milano, Vita e Pensiero, 2005.

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ria in difetto di umanità assai spesso sollecita e propone. In sintesi, ciò che ci serve attualmente è un’autentica promozione del valore e della funzione naturali e irrinunciabili della famiglia a vantaggio dell’intera umanità, senza distinzione di età: per i minorenni e per gli adulti, di politiche davvero familiari e non individualistiche e nemmeno più quali risposte meramente economiche o di settore a emergenze o a situazioni di crisi, di più adeguati e numerosi servizi sociali di consulenza e di intervento in rete tra loro, perché persone, coniugi e genitori «non si nasce, ma si diventa»8. Affinché cresca nelle donne e negli uomini di questo nostro tempo, lentamente e amabilmente, il gusto della responsabilità e della scelta, commisurate e interconnesse tra loro. Conclusione Un’ultima considerazione. Esiste, al di là di tutto, un modello di famiglia che risponda maggiormente alle esigenze di benessere dei minori e alle domande di ‘salute’ degli adulti? A chiederlo sinceramente, la risposta senza pregiudizi non può che essere unanime: quello caratterizzato da stabilità e democrazia relazionale, che coltiva e pratica gli stili della solidarietà reciproca, della generosità vicendevole, del perdono e dell’autentico rispetto9. Impossibile? Allora sono impossibili la stessa società e qualunque forma di società presenti e future. Il dato inconfutabile, purtroppo, è che la nostra società non è ancora umana, è tuttora un ‘progetto’ e costituisce di contro, al momento, un’implicita denuncia della povertà etica del mondo sviluppato, in cui si stenta a intravedere proprio la società10. 8 Cfr. M. CORSI, C. SIRIGNANO, La mediazione familiare. Problemi, prospettive, esperienze, Milano, Vita e Pensiero, 1999. 9 Cfr. M. CORSI, R. SANI (a cura di), L’educazione alla democrazia..., cit. 10 Cfr. M. CORSI, Come pensare l’educazione. Verso una pedagogia come scienza, Brescia, La Scuola, 1997.

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RISORSE UMANE E PROSPETTIVA PERSONALISTA. QUALI SFIDE DELLA PEDAGOGIA AL MONDO DEL LAVORO? Rossana Cuccurullo

1. Il significato di ‘risorse umane’ e le problematiche connesse a tale espressione Quando si parla di ‘risorse umane’ il riferimento immediato va al lavoro, a quell’attività in cui l’homo faber esplicita la sua vis materiale, intellettuale, spirituale. Per cui, un tale riferimento vincola questa espressione agli aspetti contestuali, organizzativi, gestionali del lavoro abitualmente esercitato dalla persona umana. È noto che l’espressione ‘risorse umane’ compare nelle scienze dell’organizzazione, con le teorie di organizzazione del lavoro, allorquando, all’inizio della seconda guerra mondiale nasce la Scuola delle Risorse Umane, i cui esponenti D. Mc Gregor1 e F. Herzgeber compiono i primi tentativi per portare in primo piano il ‘fattore umano’ nei contesti lavorativi; ‘fattore umano’ dell’impresa che in precedenza non era stato considerato nell’applicazione fordista delle teorie e dei principi dell’organizzazione scientifica del lavoro (Osl), elaborati da F. W. Taylor2. 1 Per un approfondimento si veda: D. MCGREGOR, L’aspetto umano dell’impresa, trad. it., Milano, Angeli, 1972; D. MCGREGOR, Leadership e motivazione nelle imprese, trad. it., Milano, Angeli, 1975. 2 F. W. Taylor sviluppò il suo sistema alla fine del XIX secolo, ripreso e sviluppato da H. Ford che vi apportò alcuni elementi di novità (fordismo). Si veda:

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Non siamo a conoscenza se, oltre allo stimolo e all’influenza esercitati dalle istanze sulla ‘relazione umana’ in ambito lavorativo, evidenziate dalla precedente Scuola delle Relazioni Umane, con gli studi di psicologia del lavoro, i cui principi si riconducono all’idea di fondo secondo la quale «un’organizzazione autoritaria e meccanicistica, cioè basata su regole rigide, crea tensioni psicologiche e conflittualità»3, McGregor ed Herzgeber abbiano risentito, o fatto tesoro, per così dire, anche della critica che Emmanuel Mounier ha rivolto a Taylor e allo stesso Ford nel suo Manifeste au service du Personalisme, edito nel 1936. Certo è che Mounier critica una «organizzazione di lavoro viziata dal capitalismo che bisogna rifiutare – come sottolinea – perché questo sistema si fonda su un disprezzo, cosciente o implicito dell’esecutore»4. E più oltre, continua Mounier: «Si conosce la parola di Taylor: “non vi si domanda di pensare, ci sono altri uomini che sono pagati per questo!” La tecnica è stata messa al servizio di un ordine meccanico di classe in cui la persona che lavora è stata considerata come un semplice strumento dell’efficienza e della produzione»5. Allo stesso Ford, cui riconosce di aver «tentato di subordinare la mistica del profitto a una mistica del servizio», chiede: «Servizio al consumatore? Chi è il consumatore? L’uomo reale, preso nell’insieme delle sue esigenze? Non pare – si risponde Mounier – ma il cliente, fonte della vendita, dunque il profitto»6.

F.W. TAYLOR, Principi di organizzazione scientifica del lavoro, trad. it., Milano, F. Angeli, 1987 e F. BAZZANTI, L’analisi delle competenze: organizzazione del lavoro e professionalità, in A. MONASTA, a cura di, Mestiere: progettista di formazione, Roma, NIS, 1997, p. 67. 3 Ivi, p. 69. 4 E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo, trad. it. Ada Lamacchia, Bari, Ecumenica Editrice, 1982 (II), p. 215. 5 Ibidem. 6 Ivi, p. 222.

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Il lavoratore, quindi, al servizio della tecnica, del profitto, dell’economia, possiamo dedurre da queste critiche mouneriane. L’ottica funzionalista e strumentale sembra rovesciarsi con le teorie emergenti dalla Scuola delle Risorse Umane, laddove, appunto l’homo faber diventa ‘risorsa’ dal profilo umano. Diciamo sembra, e lo sottolineiamo, per un certo ordine di motivi. Infatti, se è vero che l’espressione ‘risorse umane’, da quella sua origine di stampo scientifico-organizzativo in poi, viene attribuita a tutte quelle persone che, in quanto lavoratori, sono inserite e operano in un contesto/ambiente lavorativo, e ad esse si guarda con attenzione perché si riconosce loro di essere, per così dire, il ‘motore’ della realtà lavorativa, intesa come sistema organizzato; è altrettanto vero che un ‘motore’, nel suo significato, è ciò che muove qualcosa in funzione di qualcos’altro. Ed è vero, altresì, che, al di là delle affermazioni di principio che in alcuni anni recenti si sono avute da più parti nel mondo del lavoro e nella società civile, non pare affatto, nella concretezza delle situazioni, che le ‘risorse umane’ sfuggano, ancor oggi, e in determinate circostanze, all’ipoteca funzionalista e alla sottomissione a problematiche organizzative e gestionali, che non sono propriamente attinenti le persone, cioè il loro riconoscimento effettivo, la loro valorizzazione come uomini pensanti e dotati di potenzialità, individuali personali sociali, in grado di emergere e lasciate libere di manifestarsi. 2. La risorsa umana: un ‘capitale’, un ‘patrimonio’? Una tale constatazione ci viene suggerita anche dal fatto che un’altra espressione, quella di ‘capitale umano’, che si accompagna spesso, oggi, a quella di ‘risorse umane’, risulta ambigua nel suo significato. ‘Capitale’, per chi? ‘Capitale?, come? È necessario chiederci. La parola ‘capitale’, infatti, ci fa venire in mente questioni di na477

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tura economica; fa riferimento ad una economia di mercato; da essa è derivato il termine ‘capitalismo’ che ha assunto sue proprie caratteristiche e determinazioni e le cui estreme conseguenze erano già state messe chiaramente in luce, come si sa, da Mounier stesso nella costruzione teorica della sua economia personalista. Il rischio, dunque, insito nel concetto di ‘capitale umano’ è quello di ricadere nella visione di un uomo unilaterale, l’homo economicus. Se c’è ambiguità, c’è rischio di intendere con la medesima espressione significati diversi. Non ci sembra del tutto fuori luogo richiamare alla memoria, a questo proposito, una affermazione che troviamo nel Manifesto al servizio del personalismo, secondo la quale «l’economico non può risolversi separatamente dal politico e dallo spirituale ai quali è intrinsecamente subordinato, e nello stato normale delle cose non è che un insieme di opere al loro servizio»7. Il primato, dunque, va al ‘politico’ e allo ‘spirituale’, da cui la deduzione lecita che ne consegue: «Una economia che avesse per fine la persona metterebbe alla sua base – dice Mounier – i bisogni economici nell’insieme dei bisogni della persona»8. Si potrebbe obiettare che sono trascorsi settanta anni da simili considerazioni critiche e che, pertanto, cambiamenti si sono avuti tanto sul piano storico-politico quanto su quello economico-sociale, in ordine ad una presa di coscienza sul valore intrinseco dell’homo faber e sulla dignità della persona. Certo, se non tenessimo conto dei cambiamenti intervenuti e trasferissimo letteralmente quelle affermazioni di Mounier ai giorni nostri, saremmo facilmente tacciati di essere non puntuali con la realtà storico-sociale odierna. Tuttavia, pur ammettendo una tale ‘presa di coscienza’, alcuni dubbi si presentano all’analisi pedagogica della questione di cui stiamo trattando. 7 8

Cfr. E. MOUNIER, Manifesto al servizio del personalismo, cit., p. 205. Ivi, p. 217.

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Ricontestaulizzare la parola ‘capitale’ associandola ad ‘umano’, dunque, che significato può avere oggi? Se l’espressione ‘capitale umano’ venisse assunta nel mondo del lavoro, secondo l’ottica di una economia, che “regola costantemente il suo apparato, nel suo funzionamento così come nel suo orientamento, su questo riferimento alla persona e alle sue esigenze”9 (sono ancora parole di Mounier), allora non saremmo indotti a sollevare dei dubbi e a considerare con sospetto il senso che si dà ad una tale espressione. Ma, all’analisi pedagogica, cui compete sia di rivolgere attenzione al ‘capitale umano’ e alle ‘risorse umane’, cercando di coglierne tutte le potenzialità, dal punto di vista soprattutto della relazione che lega gli uomini all’interno di un cotesto lavorativo e delle prospettive educative che una relazionalità positiva efficace e lo stesso ambiente di lavoro possono esprimere e produrre, sia di delineare condizioni e modalità per prefigurare orientamenti, non sfugge l’ambiguità sottesa all’espressione ‘capitale umano’ né la genericità con cui si connotano le ‘risorse umane’. Di certo, non appare del tutto trasparente l’uso che se ne fa e ciò induce alcune perplessità e riserve nelle scienze dell’educazione, alla riflessione pedagogica, che da qualche decennio, ormai, rivolge la sua attenzione al lavoro, ai contesti lavorativi, all’uomo che opera in tali contesti. Ci riferiamo ai noti studi prodotti in quell’ambito della pedagogia, della pedagogia sociale, che va sotto la denominazione di Pedagogia del lavoro, che si è, più di recente, preoccupata di delineare le prospettive pedagogiche inerenti l’educabilità dell’uomo adulto inserito in un contesto lavorativo, «anche se l’attenzione per il lavoro e per l’uomo lavoratore risale a tempi ben più lontani»10.

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Ibidem. Per questa specifica questione si rimanda a: R. CUCCURULLO, Risorse umane e Pedagogia, «Prospettiva EP», 4, 2004. 10

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Perplessità e riserve, dunque, perché non è sufficiente affermare, come si fa, nelle sedi economiche e in quelle delle scienze dell’organizzazione del lavoro, che il ‘capitale umano’ va inteso come attore primum dei processi, delle procedure, degli esiti delle attività lavorative e come dominatore della tecnica e della tecnologia. Occorre dimostrarlo. Analogamente, così, non basta affermare che le ‘risorse umane’ occupano una centralità, in quanto ‘motori’ e ‘promotori’ del cambiamento di cultura, e supporto principale al diffondersi dell’istanza della qualità a tutti i livelli dei contesti lavorativi. Occorre agire nella direzione di porre effettivamente le risorse umane al centro di ogni processo, sia esso progettuale, organizzativo-gestionale, comunicativo – sociale, relazionale. Si tratta, allora, di costruire, in ambito pedagogico, un ‘discorso’ orientativo , normativo – regolativo, e di intervento per prospettare la possibile realizzazione di una azione dell’uomo che lavora, in grado di incidere prima di tutto sulla situazione personale e intersoggettiva di ognuno, nell’ottica della promozione continua dello ‘sviluppo integrale della persona’. Non v’è dubbio, secondo la prospettiva personalista, che una siffatta azione sia in grado di incidere anche sul tessuto sociale. Pare, dunque, necessario che si realizzi questo passaggio dalle affermazioni di principio alla evidenza dei fatti, i quali non sembrano ancora attestarne la realizzazione. 3. Quale sfida per la riflessione pedagogica? La riflessione pedagogica può contribuire a favorire questo passaggio, fornendone le chiavi positive perché la visione del lavoro umano e della persona del lavoratore acquistino specifici connotati. Vale a dire, in prima istanza perché il lavoro sia inteso come luogo di continua educabilità per la persona (educazione/formazione permanente), in seconda istanza perché l’attività lavorativa delle 480

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risorse umane sia espressione delle potenzialità personali, della creatività e della iniziativa progettuale dei singoli, da ultimo perché il lavoro diventi l’ambito dell’esplicitarsi delle relazioni (educative) fra le persone11. Ebbe a dire Emmanuel Mounier nel 1934 ( e troviamo queste parole a dedica del volume Manifesto al servizio del personalismo, nella traduzione italiana del 1975, per l’Editrice Ecumenica di Bari): «Non lavoriamo per passatempo, né per interesse, né per un piacere, ma tesi verso la verità e per la comunità universale, dalla quale nessuno è escluso (…)». Al di là di questa riflessione filosofica e di questa visione universale dell’opera produttiva dell’uomo, la pedagogia della persona può, comunque, derivarne degli orientamenti significativi. Innanzi tutto, lo specifico punto di vista della pedagogia con cui ‘guardare’ al lavoro umano consente di riflettere su quelle proposizioni: lavoro – educabilità, lavoro – manifestazione delle potenzialità e della creatività, lavoro – relazionalità; e permette di prospettare proposte, sul piano teorico e sul piano operativo, per la valorizzazione di questi connotati del lavoro e per il miglioramento della realtà lavorativa nel suo complesso. In secondo luogo, se si assume il criterio che la scienza pedagogica, nella sua articolazione di pedagogia sociale, possa essere intesa come scienza sviluppativa12 per i contesti sociali in cui operano le risorse umane, i quali si costituiscono come corpi primari e intermedi di una società educante13, ed essi stessi, pertanto micro –

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Cfr. ibidem. Il riferimento va alle pagine di Mario Mencarelli su «La pedagogia sociale come scienza di sviluppo», in Il diritto all’educazione frontiera della pedagogia sociale, Brescia, La Scuola, 1975, pp. 114-122. 13 Abbiamo presente quanto sosteneva Aldo Agazzi, a tal proposito, delineando la pedagogia sociale come pedagogia d’una ‘società educante’, in A. AGAZZI, Problematiche attuali della pedagogia e Lineamenti di pedagogia sociale, Brescia, La Scuola, 1968, pp. 141-144 e pp. 150-154. 12

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società educanti, non può sfuggire che la ‘sfida’, tutta educativa, per una pedagogia della persona nel mondo del lavoro, e negli ambienti specifici in cui l’uomo esercita la propria attività lavorativa, non può che essere questa e come tale va raccolta ed affrontata. Se, infatti, la risorsa umana viene assunta dalla pedagogia della persona come soggetto unico e irripetibile, dotato di una propria personalità, di potenzialità connaturate ma continuamente sviluppabili e educabili, come persona portatrice di esigenze di realizzazione della propria umanità autentica anche nell’operatività lavorativa, la sfida raccolta consiste anche, in primo luogo, nel prospettare alle altre scienze umane e alle scienze dell’organizzazione quali siano le potenzialità dinamiche delle risorse umane, interconnesse con le istanze della qualità; in secondo luogo, nel rappresentare come la motivazione e l’espansione proiettiva e propulsiva dell’uomo siano capaci di ‘suscitare’ l’iniziativa personale a vantaggio del contesto lavorativo; in terzo luogo, nell’evidenziare quali capacità le persone che lavorano sappiano manifestare nel gestire le relazioni e le interrelazioni, all’interno dell’organizzazione e al suo esterno14. Consiste, infine, e non perché sia l’ultima istanza della sfida (che, anzi, è la principale), nel sottolineare quanto sia necessario porre a fondamento di qualsiasi intervento di formazione e di riqualificazione il rispetto per la dignità di ogni persona. E, questo, vuol dire tenere in massimo conto le esigenze formative specifiche di ciascuno e sollecitare l’emergere dei bisogni formativi non palesati, in modo da operare per la soddisfazione degli stessi e per la piena autorealizzazione di ogni risorsa umana. Ci sembra, allora, di poter dire che la pedagogia, il cui oggetto di riflessione è l’educazione, e, per l’adulto, è nello specifico la formazione, si pone come scienza teorico – pratica per delineare paradigmi e indicare criteri per la formazione al, per il e sul lavoro delle risorse umane, nel senso che, in tutte e tre le declinazioni, i proces-

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Cfr. CUCCURULLO, Risorse umane e Pedagogia, cit.

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si formativi connessi al lavoro si delineino in funzione delle risorse umane, con la chiara indicazione di obiettivi orientati e correlati al pieno sviluppo della persona umana15. Per quanto testé detto, tre, sostanzialmente e volendo semplificare, sono, a nostro avviso, le questioni da affrontare, tra loro correlate. La prima questione. L’ottica della pedagogia della persona può fornire un approccio non utilitaristico alle risorse umane, evidenziandole, sì, come ‘patrimonio’, ma un patrimonio che ha valore in sé e per sé, identificandole come potenzialità da valorizzare e delle quali promuovere la crescita, indicandole come fine e non come mezzo anche per lo stesso sviluppo e per la crescita del sistema organizzativo. La seconda questione. Un simile approccio consente di porre in evidenza anche il ‘valore’ del lavoro, col privilegiarne la dimensione formativa, poiché le relazioni interpersonali, che si qualificano per lo spessore educativo che acquistano per le persone che vi sono coinvolte, assumono un ruolo consistente nell’attività lavorativa e forniscono al lavoro un aspetto umanizzante di rilievo. In questo ordine di idee, si può identificare, intenzionalmente, il lavoro come ‘luogo’ di autorealizzazione del lavoratore come persona. Coniugare il lavoro con l’educabilità, con la progettualià, con la relazionalità significa attribuirgli quel valore ‘aggiunto’, per cui ci sembra si possa dire, anche oggi, con Mounier che lavoriamo «tesi verso la verità», una verità che fa ritrovare noi stessi, nel nostro intimo, nel mentre ritroviamo anche l’altro e lo riconosciamo, dandogli credito e credibilità. La terza questione. L’appello alla formazione continua rivolto alle risorse umane si chiarifica nei termini e si concretizza in percorsi meglio definiti, se coniugato alla dignità e al rispetto della per-

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Cfr. ibidem.

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sona, al riconoscimento dei suoi bisogni formativi e al potenziamento della sua creatività. Inoltre, si personalizza, altresì, se la formazione stessa, nel mentre viene pensata, progettata e pianificata, mantiene una dimensione prospettica, aperta, non chiusa in sé, ed opera considerando, appunto, il lavoro non avulso da sé ma come luogo di autorealizzazione formativa della persona del lavoratore. Vale a dire, un lavoro che, in quanto tale, non si qualifica per il carattere della fissità ma per quello della flessibilità; non si precisa in modalità chiuse e definite, ma in quelle aperte, dinamiche e potenzialmente sempre in sviluppo; non si orienta solo verso la verifica dell’applicazione immediata di quanto un percorso formativo può dare e verso riscontri, per così dire, fiscali degli esiti prodotti, ma guarda piuttosto a quale crescita umana e personale, oltre che professionale, il soggetto in formazione abbia guadagnato al termine di un percorso formativo. Ciascuna di queste tre questioni o ambiti, a largo respiro, reca con sé l’esigenza di approfondimento, di specificazione e di articolazione, oltre che quella di un sereno e chiaro dibattito da attivare con il mondo del lavoro, con le scienze dell’organizzazione e con le scienze economiche. Alla ricerca pedagogica, nell’ambito della pedagogia della persona, attiene il compito di soddisfare la prima esigenza. La scienza della comunicazione, qualora si qualificasse per la centralità da porre all’uomo e per l’attenzione alla persona, potrebbe, a nostro avviso, soddisfare la seconda, cioè potrebbe diventare il ‘medium’ per aprire il dibattito e il ‘fulcro’ di raccordo tra le scienze dell’educazione e le scienze economiche e dell’organizzazione, al fine di operare tali confronti. Una prospettiva pluridisciplinare, se non interdisciplinare, al riguardo, non potrebbe che giovare alla personalizzazione della formazione e all’umanizzazione del lavoro, in termini reali, e non puramente come affermazione di principio, su cui le diverse componenti sembrano essere tutte d’accordo, ma che, in sostanza, sono condivisibili solo a parole e non nei fatti. 484

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La stessa riflessione pedagogica, proprio nella sua articolazione sociale, che guarda ai contesti (corpi primari e intermedi della società) e a quanto in essi si agisce e alla singolarità delle persone che vi agiscono, e secondo l’ottica personalista, occorre compia ulteriori progressi in quelle due direzioni della personalizzazione della formazione e dell’umanizzazione del lavoro, guardando alla prassi e coniugando teoria e prassi, mediante un processo dinamico di implementazione reciproca, che non può che favorire un arricchimento alle due dimensioni e offrire indicazioni e orientamenti.

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UOMO E TECNOLOGIA UNA SIMBIOSI PROBLEMATICA Anna Gloria Devoti

1. Premessa È mia intenzione soffermare l’attenzione sul rapporto uomo-tecnologia in quanto questa simbiosi, a mio avviso, costituisce una delle problematiche nella promozione del personalismo. Occupandomi di tecnologia in ordine ai processi di insegnamento e apprendimento, più volte mi sono trovata a domandarmi come e se la tecnologia possa contribuire ad aiutare la persona a crescere, ad esprimersi, ad apprendere ed a rinforzare la propria identità. Dalle esperienze che conduco mi sentirei di rispondere in maniera positiva, nel senso che riconosco alla tecnologia certe potenzialità formative capaci non solo di supportare, ma anche di promuovere processi di ‘personalizzazione’ migliorando così la qualità critica di apprendimento di ogni soggetto coinvolto. Ma fuori dalla filosofia di utilizzo di tali strumenti, come tool di espressione, di pensiero, di lavoro, di studio, di creazione, di elaborazione di conoscenze, avverto il forte rischio per l’uomo di farne un cattivo uso ed un abuso incontrollato. Tanti sono i pericoli a cui può andare incontro la persona e l’umanità in genere. Possiamo tranquillamente parlare di alcune dipendenze dovute a fruizioni passive, di sperimentazioni condotte oltre il limite eticomorale, di mitizzazioni tecnologiche capaci di promuovere o anteporre la tecnologia all’uomo, di indicarla come un fine e non come 487

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un mezzo di cui servirsi per il completamento e sviluppo delle potenzialità umane. Gli entusiasmi o i timori che lo sviluppo tecnologico suscita fanno spesso trascurare la necessità di riflettere criticamente sui complessi rapporti tra uomo e tecnologia. Uomo e Tecnologia, generalmente sono due entità ritenute distinte e separate per quanto interagenti. È mia opinione invece ritenere che tra uomo e tecnologia non esista una distinzione netta e che da sempre l’evoluzione tecnologica abbia contribuito e contribuisca potentemente all’evoluzione dell’uomo, quasi a coincidere con essa. C’è un rapporto inscindibile tra l’uomo e i suoi manufatti. Giuseppe Longo1, da anni studioso delle ricchezze e dei rischi della vita in simbiosi con la tecnologia, afferma che l’evoluzione della tecnologia contribuisce potentemente all’evoluzione dell’uomo, anzi ne è diventata la sua evoluzione. La tecnologia è parte integrante dell’uomo e l’homo technologicus non è tanto «homo sapiens più tecnologia», ma è «homo sapiens trasformato dalla tecnologia», che le consente di crescere, di esprimersi e di amplificare le proprie potenzialità, di divenire pertanto un’unità evolutiva nuova. Per Longo le due evoluzioni ‘biologica’ e ‘tecnologica’ sono intimamente intrecciate in un’evoluzione ‘biotecnologica’, al cui centro sta l’homo technologicus in via di formazione, una sorta di simbionte, cioè un insieme delle due entità. In biologia si usa il termine ‘simbiosi’ per indicare uno stretto rapporto di convivenza e di mutuo vantaggio tra due specie diverse. Pur con i limiti di ogni metafora, anche il rapporto uomo e tecnolo-

1 Giuseppe Longo è ordinario di Teoria dell’informazione nella Facoltà di Ingegneria dell’Università di Trieste. Si è interessato di intelligenza artificiale e del rapporto uomo-tecnologia. Le opere consultate in merito sono: Homo technologicus, Roma, Meltemi, 2001; Il simbionte: prove di umanità futura, Roma, Meltemi, 2003.

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gia si può considerare in continua simbiosi. Come l’uomo fa la tecnologia, così la tecnologia fa l’uomo. Se la Tecnologia e l’uomo sono così legati in modo essenziale, perché allora parlare del rischio ‘disumanizzante’ della tecnologia? Concordo con le riflessioni di Longo nel ritenere che le problematiche, le paure, i rischi che tale rapporto crea, non derivino tanto da uno allontanamento progressivo dalla ‘pura’ natura umana, certamente da conservare e difendere ad ogni costo, quanto: – da uno squilibrio crescente tra la parte biologica e la parte tecnologica dell’unità in simbiosi; – da un’accelerazione progressiva dello sviluppo tecnologico; – da una impossibilità di assorbire in modo equilibrato le innovazioni e le perturbazioni che esse provocano. Non si tratta dunque di considerare la tecnologia come un’entità esterna ed invasiva, quanto di analizzare i motivi dello squilibrio e proporne i rimedi. Squilibrio tra l’altro che si manifesta come un vero e proprio disadattamento, come vera sfida all’educazione, a cui ogni educatore è tenuto a rispondere. 2. Disadattamenti e sofferenze dell’uomo Non si possono misconoscere gli effetti della tecnologia sull’uomo e come questi possono avvenire in modo diverso sulle diverse componenti, siano esse cognitive, emotive, percettive, fisiologiche, ecc. Non si può non riconoscere quanto il digital tenda ancora a dividere2 e quante problematiche coinvolga all’interno della vita di 2 Digital divide, è il termine tecnico utilizzato per indicare il divario, la disparità e/o le disuguaglianze vissute da parte di alcune categorie sociali o di interi Paesi nel poter o non poter usufruire delle tecnologie digitali (www.DIGITALDIVIDE.IT). Oggi viene definito ‘digital divide’, una forma di discriminazione

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una comunità. L’accesso e l’utilizzo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione rappresentano nel nostro mondo un pre-requisito per lo sviluppo economico, culturale e sociale. Sono l’equivalente dell’elettricità ai tempi dell’era industriale. L’Information Technology sicuramente non è la causa dei cambiamenti che stiamo vivendo, ma lo strumento senza il quale niente di ciò che sta cambiando sarebbe possibile. Già negli anni ’90 l’intero pianeta era organizzato intorno a reti telecomunicanti di computer; oggi, ogni ambito di attività umana dipende dal potere dell’informazione, in una sequenza di innovazioni tecnologiche che aumenta progressivamente. Il ruolo cruciale della ICT (Information Communication Technology) nello stimolare lo sviluppo assume due aspetti: da una parte dà la possibilità ai paesi di modernizzare i loro sistemi di produzione ed incrementare la loro competitività rispetto al passato; dall’altra, per quelle economie che non sono in grado di adattarsi al nuovo sistema tecnologico, determina ritardi sempre più incolmabili. Per questo la situazione che si va delimitando vede ancora forte il divario nella fruizione delle nuove tecnologie tra Paesi dotati e Paesi sprovvisti di Tecnologie informazionali, come il divario di alfabetizzazione tra strati sociali e fasce di età all’interno di ogni Paese. L’abilità di muoversi all’interno dell’era dell’informazione dipende dalla capacità dell’intera società di essere educata e messa in

che divide i ricchi dai poveri, fra le nazioni e il loro interno, sulla possibilità e/o impossibilità di accesso alla nuova tecnologia telematica. L’espressione ‘digital divide’ evidenzia il fatto che le persone, i gruppi e le nazioni devono avere accesso per non rimanere in ritardo e poter godere dei benefici che la globalizzazione e lo sviluppo promettono. È necessario che «il divario tra coloro che beneficiano dei nuovi mezzi di informazione e di espressione e coloro che non hanno ancora accesso ad essi non diventi una incontrollabile, ulteriore fonte di disuguaglianza e di discriminazione» (GIOVANNI PAOLO II, Messaggio per la XXXI Giornata Mondiale delle Comunicazioni 11 maggio 1997).

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grado di assimilare ed utilizzare informazioni complesse, ma è ancora alta la disparità tra la domanda e l’offerta tecnologica. Mentre nel passato l’offerta tecnologica seguiva la domanda e di rado si osservava il contrario, oggi la domanda viene creata dall’offerta. La domanda di alfabetizzazione ai nuovi strumenti, per esempio, è la conseguenza per non sentirsi analfabeti o estranei a questo mondo. L’offerta senza la spinta di un bisogno reale, può dar luogo a degli atteggiamenti contraddittori di per sé: – è constatabile da chiunque, per esempio, come all’interno del mondo della Scuola vi siano ancora insegnanti che rifiutano i computer solo perché non sanno usarli; – altri invece che li vogliono, senza sapere cosa farsene e senza minimamente porsi il problema di un utilizzo improprio – se da una parte abbiamo persone con dipendenze estreme che delegano e riconoscono alle macchine, alla tecnologia funzioni, attività, capacità e perfino decisioni che un tempo appartenevano all’essere umano; – dall’altra incontriamo persone ansiose e paurose nell’utilizzare la tecnologia odierna, considerandola addirittura ‘antiumana’ e quindi realtà dalla quale difendersi. Sono fenomeni questi, a cui assistiamo quotidianamente, sono fenomeni solo transitori, ma non per questo meno degni di attenzione. Tanti sono gli aspetti e gli interrogativi su come affrontare il Digital Divide. Oggi più che mai sembra improrogabile fermarsi a riflettere, documentarsi e pianificare azioni sia di educazione allo sviluppo, sia di formazione che ci consentano di non rimanere impreparati e/o in ritardo nella risoluzione delle disuguaglianze digitali e delle problematiche a queste connesse. Per cui una educazione alla ‘lettura’ dei media, alla ‘contestualizzazione’ dei media e ‘con’ i media si fa sempre più urgente e necessaria.

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3. Responsabilità umana La questione fortemente emergente, a cui dobbiamo prestare attenzione, è quella di ricondurre il problema ad una responsabilità umana, ad una capacità di utilizzo e ad un controllo consapevole da parte dell’uomo. Il ‘delegare’ la macchina ad assolvere funzioni di competenza dell’uomo, – se da una parte può comportare una certa rassicurazione e scarico di responsabilità, – dall’altra può determinare conseguenze anche inquietanti in ambiti delicati, quali quello medico o formativo, a cui dovremmo invece porre maggiore attenzione. A tal proposito mi vengono in mente alcune pagine di sintesi di un seminario, tenutosi a Tokyo tra esperti italiani e giapponesi su Robotica umanoide, in cui stimolanti risultano essere alcune riflessioni in ordine al rapporto uomo-tecnica per la sottolineatura delle dimensioni ontologiche ed etiche3. Quello che chiaramente emerge è l’importanza delle finalità dell’agire umano, all’uomo viene ricondotto il significato del rapporto ‘tecno-etica’, nel senso: – che il significato al rapporto tecno-etica è dato dall’uomo, – che i fini non sono immanenti alla tecnica, – che è l’uomo che dà moralità alla tecnica e legittimità morale al mezzo, – che non c’è coincidenza etica con l’efficacia della tecnica, – che tutto ciò che è tecnicamente possibile non è detto che lo sia altrettanto eticamente. La tecnologia è semplicemente un mezzo; è l’ uomo che deve

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J.M. GALVAN, La nascita della tecnoetica, Pontificia Università della Santa Croce, Roma in www.usc.urbe.it/html/galvan/mosca.pdf

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imparare a servirsene in maniera responsabile e giudiziosa, se vogliamo che la ricchezza tecnica risulti per l’uomo e non contro l’uomo. I nuovi mezzi di comunicazione sociale sono strumenti potenti di comunicazione e di arricchimento culturale, di commercio e partecipazione politica, di dialogo e comprensione interculturale. Tuttavia vi è anche l’altra faccia della medaglia: gli stessi mezzi di comunicazione, che possono essere utilizzati per il bene delle persone e delle comunità possono altresì essere utilizzati per manipolare, dominare e corrompere. Internet può costituire un valore aggiunto e promettente, ma tuttavia può anche rappresentare e fare del ‘male’. Il ‘bene’ o il ‘male’ che certamente può derivare, dipende unicamente dalle scelte e finalità che l’uomo intende portare avanti. In una società sempre più permeata di tecnologia, in cui dimensioni propriamente umane come identità, relazionalità, lavoro, politica sono sempre più dipendenti dalla tecnologia e dalle sue trasformazioni, è inevitabile che si avverta il bisogno di un modo diverso di rapportarsi con la tecnologia e precisamente considerare nel connubio uomo-tecnologia anche il ruolo dei valori. La questione impone quindi la necessità di: – un nuovo approccio al problema – e di fare appello ai valori e ai paradigmi personalistici in quanto capaci a far rivivere il rapporto con maggiore fiducia e speranza. L’esigenza di un’etica del computer o più concretamente di una serie di regole deontologiche da usare come orientamento per le professioni legate alla tecnologia informatica si è fatta sentire molto presto. È un tema piuttosto interessante che è destinato a crescere di importanza man mano che si farà sentire in maniera sempre più forte l’influenza dei tecnici nella progettazione di interventi e nelle 4

D. BENNATO, Tecnoetica. Il ruolo dei valori nel rapporto fra tecnologia e società. Articolo presentato al II Forum AIS dei Giovani Sociologi, Napoli 7-8-9, 2004.

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dinamiche relazionali tecnologicamente mediate4. A mio avviso la questione impone un richiamo all’educativo per poter ricondurre il problema ad un ‘sano ed equilibrato rapporto’, pur sapendo benissimo quanto la libertà dell’uomo sia tale da condurlo ad agire spesso in maniera impropria. La soluzione chiaramente può essere trovata all’interno di ognuno di noi ed in base anche al modello antropologico che ognuno possiede. – Coloro che riducono il senso profondo della vita a forme di efficientismo riconosceranno certamente nella macchina, nella tecnica la supremazia sull’uomo, – chi invece si prodiga per un una promozione umana, per un completo sviluppo della persona, in ogni sua forma di espressività, creatività e libertà coglierà nella macchina, nella tecnica, un potente strumento per meglio supportare la crescita della persona. 4. Cosa proporre? Un rimedio potrebbe essere: – Affrontare un’educazione ai media per coglierne il valore formativo. – Invitare la tecnologia a perfezionare l’usabilità del prodotto in modo da facilitare il rapporto dell’uomo con l’interfacce, evitando quindi le ansie dei meno propensi. – Promuovere una competenza pedagogico-mediale negli educatori, formatori per i loro interventi rivolti alle giovani generazioni ma anche alla generazione adulta. – Orientare la tecnologia nella prospettiva di una tecnologia antropocentrica, dove l’uomo rimanga il valore primario. – Potenziare e rafforzare la comunicazione mediata, verso forme di aiuto reciproco di condivisione e costruzione comune di conoscenza. – Sviluppare la creazione di networks e quindi spazi pubblici per di494

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battiti fra le persone; canali attraverso i quali far circolare conoscenze; siti dove fonti di informazione possono essere consultati. – Facilitare e stimolare la costruzione di Ambienti di apprendimento attraverso l’allestimento di ‘aule virtuali’, comunità di apprendimento, di pratica, connotate da elevati livelli di interazione fra gli attori coinvolti, dall’opportunità di valorizzare le potenzialità individuali in modo creativo e costruttivo attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale. Conclusione In questo contesto in cui ‘la scuola del personalismo’ dà ampio credito alla persona, al valore della sua espressività, creatività, coscienza di sé, autenticità, consapevolezza e responsabilità di sé e degli altri, anche se l’accostamento con la tecnologia può sembrare forzato, azzarderei l’ipotesi di ritenere la tecnologia, capace di concorrere nella prospettiva personalista e di costituire quel valore aggiunto per la crescita della persona nella configurazione e nelle caratteristiche sopra menzionate. La tecnologia può costituire un’ulteriore possibilità, di cui la persona può servirsi nella realizzazione della sua autenticità. Importante resta sempre l’accostamento ad essa in maniera educata e responsabile. Noi genitori, noi educatori, noi formatori siamo chiamati a percorrere questa strada per promuovere in termini sani e costruttivi il connubio uomo-tecnologia e per confermare il valore della persona in quanto tale.

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E. MOUNIER: LA PEDAGOGIA DELLA PERSONA. QUALI SFIDE EDUCATIVE? Diega Orlando Cian

Il mio intervento intende focalizzare il problema fondamentale dell’opera di Mounier in direzione della sua attualità e della sua valenza pedagogica: l’idea, cioè, di ‘persona’, l’unica grande sfida, dalla quale, soprattutto oggi, nell’era cosiddetta della complessità, si dispiegano molteplici sfide educative, perché su di essa si fonda il senso essenziale dell’uomo, la sua umanità. La persona oggi viene ‘ri-scoperta’, ‘ri-conosciuta’: è ‘la chiave del secolo’, si legge nei documenti Unesco del 1997; i servizi sociali sono diventati servizi alla persona. Si tratta di una esigenza reale che ha influito sulle leggi, che è presente nei vari linguaggi scientifici ma anche nel linguaggio comune, a sottolineare la dignità e il valore di ciascun essere umano. Sembra esservi però, oggi, una differenza fondamentale rispetto alla prospettiva mounieriana: lo sradicamento della persona dalle sue radici cristiane. È, a mio avviso, una differenza più apparente che reale. Mounier, difatti, intendeva proclamare, usando il termine ‘personalismo’, non una dottrina filosofica, ma «una parola di intesa significativa, una designazione comune a dottrine diverse, ma che, nella situazione storica in cui ci troviamo, possono essere d’accordo sulle condizioni elementari, fisiche e metafisiche, di una nuova civiltà. Personalismo non annuncia allora il costituirsi di una scuola o l’apertura di una chiesa o l’invenzione di un sistema chiuso. Esso è testimone di una convergenza di più volontà, e si pone al servizio di esse senza toccare le loro diversità, per domandare loro 497

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i mezzi per incidere in modo efficace nella storia» (M.S.P.C., pp. 56). Certo, all’interno di tale personalismo, Mounier innesta tutto l’entusiamo e la fede del testimone cristiano che vuole impegnarsi a servire la persona e a migliorare il mondo. Coglierà la sua sfida, con maggior rigore razionale e sistematico ma con minore passione umana e cristiana, Paul Ricoeur, con la sua persona intesa come ‘attitùde’ – lo stesso termine usato da Mounier – costruita attraverso il razionale cammino della teoria dell’azione, della narrazione e dell’etica, come basi che possono aprire l’orizzonte all’universale, al senso della vita, all’appropriazione del proprio valore, quindi al trascendente. Il concetto di persona mounieriano è perciò attualissimo, perché fondato su condizioni ‘elementari’ essenziali che si attuano in modo diverso nelle diverse situazioni umane. Vorrei soffermarmi su alcune di queste condizioni, quelle che ci permettono di parlare di persona soprattutto nell’ambito educativo, nella sua dinamicità e nella sua strutturazione formale. Anzitutto, persona è un’idea chiave in educazione, perché indica il suo ‘diventare’ nella ‘vocazione unificante’ dell’essere umano, l’«esperienza progressiva di una vita, la vita personale» (M.S.P.C., p. 65), che richiede, da parte dell’educatore, non solo competenze, ma anche la capacità di ‘suscitare’ potenzialità nascoste, di ‘fare appello a’, fin dall’infanzia (I.P., p. 161). Essa è sia ciò che ‘è’ sia ciò che ‘diventa’, ‘espansione’ e ‘interiorizzazione’, ‘esteriorità’ e ‘interiorità’, insieme compiutezza e incompiutezza, per usare i termini della polarità pedagogica, che esigono in ogni tempo la capacità di coniugare insieme «la permanenza e il mutarsi dell’uomo» (C.P., p. 57). 1. Una delle condizioni fondamentali della persona dal punto di vista educativo è il senso dell’essere come unità e identità, che si ‘danno’ per ‘costruirsi’. Esse costituiscono la prima sfida nel mondo di oggi quello del riduzionismo, dei saperi micro, specialistici e tecnici, al posto della cultura¸ quello della molteplicità degli ‘io’ giustapposti, quello della frammentarietà, del cambiamento senza punti di riferimento e senza limiti; quello della virtualità senza corpo; e 498

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potremmo continuare. La lezione di Mounier è insieme lucida e lungimirante e segue un iter metodologico che contemporaneamente ‘distingue’ – per esempio, contro l’individualismo e il collettivismo, la persona non è né l’individuo né una cellula del sociale – ma nello stesso tempo ‘integra’, secondo la logica dell’et-et, non dell’aut-aut. «Quando io cerco sulle prime di conoscermi, mi colgo dapprima diffusamente alla superficie della mia vita, e mi si rivela piuttosto una molteplicità di immagini… che mi danno per sovraimpressione atti sparsi, ed io vi vedo circolare i diversi personaggi tra i quali vado vagando e tra i quali mi disperdo». La persona è ‘individualizzata’, ‘materializzata’, per cui non esiste una «opposizione dell’individuo alla persona» ma «una polarità, una tensione dinamica tra due moti interiori, l’uno di dispersione, l’altro di concentrazione», che rende la persona «fusa con la sua carne, pur trascendendola» (M.S.P.C., p. 69). «L’unificazione progressiva di tutti i miei atti, e per essi dei miei personaggi e dei miei atti è l’atto proprio della persona», che «non riduce ciò che essa integra, ma lo salva, lo compie, ricreandolo dall’interno» (P.S.V., p. 24). E proprio perché la persona è singolarità, l’identità è il nucleo da cui si dispiega, si apre il cambiamento, il rinnovamento di sé, secondo un principio ‘vivente e creatore’, unico ma proprio dell’umanità di tutti gli uomini, unificante, perché il fine della persona, anzi «lo scopo dell’educazione è di far maturare (il fanciullo) e di armarlo (qualche volta anche di disarmarlo) il meglio possibile per la scoperta di questa vocazione che è il suo essere stesso e il centro di unificazione delle sue responsabilità di uomo» (M.S.P.C., p. 73). La «cifra indecifrabile della propria singolarità» costituisce l’identità di ciascuno, che permette di costruire, attraverso l’educazione, l’unità progressiva nel continuo rinnovamento, nell’espressione dell’inedito, nella relazione con l’altro e nella conquista della cultura e della realtà. Unità, quindi, non statica ma dinamica, per cui nel rinnovamento creativo l’essere umano non procede per giustapposizioni di diversi io, di innumerevoli personaggi o istanti di esistenzialistica memoria, ma riconoscendosi sempre, anche quando il cambiamento è una vera me499

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tànoia. Questo nucleo di identità è la base dell’ulteriorità, per cui l’uomo «è fatto per essere superato», è al di là di tutte le possibili oggettivazioni, perché «movimento dell’essere verso l’essere», in una ‘continuità’ che «non nasce da ripetizione ma da sovrabbondanza» (I.P., p. 104), al punto che «per definizione, la persona è ciò che non può essere ripetuto due volte» (I.P., p. 59). Il discorso si potrebbe ampliare, ma non è questa la sede: ci basti ricordare che unità implica continuità nel cambiamento, anche quando la vita ci prova con esperienze di rottura, di crisi e di riappropriazione di noi stessi, in una sorta di ‘ottimismo tragico’ in cui ciascuno trova la sua ‘giusta misura’ (I.P., p. 44). 2. Da questa prima sfida – unità contro dispersione nella frammentarietà – ne emerge una seconda, strettamente collegata alla prima: l’uomo è relazione, comunicazione. L’unificazione progressiva di sé non si attua nell’ideale astratto, nell’angelismo, ma nell’esperienza della vita personale, nelle sue vicissitudini, nella sua ‘incarnazione’, nella relazione, nella ‘capacità’ dell’altro, e nella comunità intesa come ‘persona di persone’ (R.P.C., p. 107). Tutto ciò avviene attraverso l’educazione, lo stimolo dell’educatore, la sua intenzionalità, che non predetermina il cammino dell’educando, ma lo aiuta, lo cura, nella vicinanza, nella prossimità, nella partecipazione, nell’amore, a superare gli ostacoli, endogeni ed esogeni, a trovare anche in essi quell’unità che fa crescere e non disorienta. L’identità, allora, nel decentrarsi, si concentra, riflette, non si ripiega su se stessa, ma comunica, si impegna, decide, conquista se stessa nella libertà. Tutto ciò avviene soltanto nella relazione, nella comunicazione con l’altro. Sulla scia di Marcel, di Buber, nella direzione che diventerà quella del ‘Sé come un altro’ di Ricoeur, Mounier riconosce l’altro come inscritto nell’io, al punto che la persona si apre alla novità di se stessa attraverso il trascendimento personale, che è l’incontro con l’altro. «L’altro giunge nel profondo della persona autentica, che si trova solo donandosi e che ci conduce al mistero dell’essere…. Noi troviamo la comunione inserita nel cuore stesso 500

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della persona come integrazione della sua stessa esistenza» (M.S.P.C., p. 82). L’uomo diventa ‘capace degli altri’ nel ‘tirocinio del tu’, nel realizzare la sua disponibilità e il suo movimento verso l’altro, fin dall’infanzia. «Il primo movimento che riveli un essere umano nella prima infanzia è un movimento verso gli altri: il bimbo … scopre se stesso negli altri… La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona. Il tu, e quindi il noi, viene prima dell’io, o per lo meno l’accompagna». La persona è cioè per natura ‘comunicabile’: parla, si esprime, si ‘espone’, e questo movimento la fa esistere, vivere. La comunicazione come rapporto interpersonale è il cuore dell’educazione, perché senza comunicazione non esisterebbe educazione: «Quando la comunicazione si allenta o si corrompe, io perdo profondamente me stesso…. L’alter diventa alienus, ed io a mia volta divento estraneo a me stesso, alienato. Si potrebbe quasi dire che io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri, e, al limite, che essere significa amare» (I.P., pp. 48-49). Il profondo significato di comunicazione è l’aspirazione a una ‘comunità persona’, persona di persone, «coordinazione naturale delle persone» che, anche se molte, si legano nell’intimo come fossero due sole, facendo nascere una persona nuova, una ‘comunità’, che, pur nelle difficoltà, tra gli ostacoli, interni ed esterni, esalta le differenze di ciascuno, la propria singolarità, articolata in modi diversi ed unici contro qualsiasi conformismo: anche le comunità sono ‘uniche’ come le persone, e indispensabili per realizzare il destino di ogni singolo essere umano (famiglia, scuola, e così via). Non è difficile comprendere quale profonda differenza, e quale sfida quindi per l’educazione, tra tale concezione della ‘comunicazione’ e quella odierna dei ‘media’, esaltata da tanta letteratura contemporanea, che fa leva, non tanto sugli aspetti di crescita della persona totale, quanto su strategie, su mezzi di comunicazione-informazione, indifferente ai contenuti e ai valori umani. Solo se, all’interno di tali strumenti e tecniche odierni, che esistono e modificano la mentalità umana fin dall’infanzia, e quindi non possono essere negati, si riesca ad innestare la comunicazione mounieriana, che pur 501

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ha le sue strategie, si potrà vincere la sfida delle nuove generazioni. Di fronte a modelli avulsi dall’umanizzazione di ciascuno, privi di qualsiasi fondamento etico, legati solo al mercato e all’effimero consumo, sollecitanti diritti individuali identificati con l’appagamento di meri desideri e istinti senza limiti umani, modelli che creano nei giovani frustrazioni, ambiguità, incertezze, debolezze, povertà umana, disorientamento, spesso fino all’annientamento di sé e degli altri, Mounier risponde non solo con i suoi ideali, ma anche con le sue proposte concrete, con le sue strategie, con la sua esperienza di lotta quotidiana, senza misconoscere, anzi valorizzando, gli apporti della modernità, purchè al servizio dell’uomo. Egli è consapevole che, in un mondo interculturale, parlare di rispetto e di dialogo senza un fondamento, limitarsi a esaltare solo l’individuo e la personalità, significa mera retorica, mera ricerca di sé negli altri, perché mancano sacrificio, volontà, impegno, decisione, a realizzare anzitutto se stessi, ad amare gli altri in una relazione che diventi ‘comunità’, cioè ‘nuova persona’, al punto che solo le vere comunità riaccostano l’uomo a se stesso. Il ‘tirocinio del tu’, il nutrimento del ‘cuore’, la presenza del ‘volto’, dell’altro, unito e distante al tempo stesso, perché «l’amore differenzia ciò che unisce» (R.P.C., p. 68), sono essenziali alla persona per crescere, sono l’aiuto indispensabile al «movimento della vita personale». Non possiamo soffermarci a lungo sulle strategie e sui mezzi che Mounier suggerisce per realizzare, di fatto e in concreto, nelle difficoltà della vita e in modo sempre nuovo nelle diverse situazioni e culture, tali principi. È certo che si tratta di una grande sfida odierna che la pedagogia deve saper cogliere per andare ‘controcorrente’, per diventare – come è sempre stata nei suoi periodi migliori – ‘anticonformistica’, senza negare il presente ma penetrando nella nuova realtà dei mezzi di comunicazione e nei messaggi sociali, con linguaggi diversi, più umani e umanizzanti nella loro attualità. Dobbiamo cioè essere capaci di progettare una ‘nuova comunicazione’ di massa (a Padova stiamo proprio conducendo una ricerca in questa direzione), ponendoci una prima domanda fondamentale: quale 502

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immagine di ‘persona’ si comunica, attraverso, per esempio, la televisione, alle giovani generazioni? È una ‘persona’ che stimola il bambino, il fanciullo, l’adolescente, ad essere responsabile, impegnato nell’avventura della vita, equilibrato, aperto agli altri, fedele a sé e all’altro, capace di ‘comunicare’ fino a creare ‘comunità intepersonali’, pur nelle difficoltà reali, nei conflitti che l’altro pone, anche quando si tratta di famiglia, di scuola, di istituzioni? Oppure deresponsabilizza, insinua miti di bellezza e di giovinezza perenni, modifica la mentalità stessa dell’adolescente fino a fargli vivere e sperimentare la contraffazione dell’amore e della comunicazione, la provvisorietà degli affetti nella molteplicità e temporaneità dei suoi vari ‘io’, ciascuno dei quali esige, hic et nunc, soddisfazione di desideri e bisogni, nella negazione della ‘virtù’ della durata, cioè della fedeltà verso sé e verso gli altri, di un impegno quotidiano nell’avventura della vita, e di una libertà, intesa anche come adesione convinta e atto di scelta dei valori umani? L’amore come ‘cura’, come ‘distanza’ e ‘presenza’, come sollecitudine verso il ‘prossimo’ – non si ama l’umanità astratta, e lo aveva già detto Dostojewskj! – deve essere la sostanza della ‘comunicazione’. È in grado la pedagogia di accettare questa sfida, che arriva, per Mounier, fino all’estrema conseguenza, di considerare società e stato come un ‘aiuto’ alla persona, come strutture che favoriscono (le ‘istituzioni giuste’ di Ricoeur!) oppure ostacolano, ma non potranno mai creare l’uomo nuovo che ama e comunica con l’altro ? È in grado di ipotizzare un potere economico e politico decentrato, disarticolato fino a incontrare la persona? Certo, la persona comunitaria e comunicante si realizza nella realtà del presente, nell’impegno che è lotta quotidiana contro la mediocrità, contro i conformismi di qualsiasi genere, contro la comunicazione ‘impersonale’ del si (si dice, si fa), e del noialtri ( narcisismo camuffato nella gruppalità, nel cameratismo), contro le varie ‘società’ che «spesso non sono altro che una moltiplicazione dei disordini dell’individuo» e quindi minacciano e opprimono la persona (R P.C., p. 137). 503

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3. Eppure, quel ‘contro’ in Mounier si trasforma in strategia che serve per arrivare alla persona comunitaria, perché le società stesse, i ‘raggruppamenti’ – aggiungiamo anche la tecnica e i mezzi multimediali – possono rappresentare «un addestramento efficace alla comunità e una tappa nel suo cammino» (ibidem), oppure «una necessità, un male minore», che «fa parte di una tattica… non di quella che tradisce le fedeltà essenziali lasciandole al caso delle situazioni e degli interessi, ma a quella che, nei dati dell’esperienza, cerca di volta in volta d’incarnare il massimo bene col minimo male» (R.P.C. p. 145). Questa sfida valorizza il presente perché in esso si impegna – è l’intraducibile ‘engagément’ – a permearlo di presenza umana. Sono queste le utopie essenziali all’educazione per penetrare nella realtà, anche la più difficile, l’ideale alto di una persona ‘decentrata’ perché parte da un ‘centro’ da cui si irradia il processo di personalizzazione nell’incontro con l’altro, natura, cultura, persone. Ma, come abbiamo visto, si tratta di utopie realizzabili nella sfida quotidiana, di cui Mounier ha dato prova in tutta la sua esistenza. Se è vero che «non vi sono mai state tante società, ma mai è esistita meno d’oggi la comunità» (R.P.C., p. 93), è anche vero che oggi potremmo ‘immaginare’ mezzi «temporali, incarnati, che esigessero una tecnica, ma la cui anima, il cui fine, e quindi lo stesso volto appartenessero a un mondo diverso da quello in cui dominano le astuzie e le brutalità della forza»; «metodi che non abbiano solo efficacia dimostrativa, ma siano attivi, mirino a scopi precisi, e traggano la loro efficacia non già dal numero e dalla violenza, ma dall’esempio e dal sacrificio» (R.P.C., p. 295). Tale valorizzazione dell’attualità nella quale deve imprimersi il segno dell’uomo impegnato e libero, capace di scelte coraggiose, significa anche valorizzazione del corpo, della materia, del mondo in tutte le sue forme, della tecnologia in tutte le sue articolazioni, in quel ‘giusto limite’ nel quale entra anche lo spirito che non può essere ‘disincarnato’. «Bisogna che la materia ritrovi il suo luogo e la sua anima perché noi ne ritroviamo il cammino… Impariamo ancora il senso carnale del mondo, la dimestichezza con le cose. Riac504

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quisteremo una poesia, e sarà già un primo sbocciare alla nuova rugiada dell’anima moderna, povera di colori e appesantita da tante banalità» (R.P.C., pp. 54-55). La materia come ‘pista di lancio’, in cui si rilanciano le proprie forze, ha un suo ‘senso spirituale’ che «non è un appetito selvaggio, né un’ebbrezza splendida, ma prima di tutto una tenerezza» (R.P.C., p. 56). Mounier lancia la sfida perfino del ‘mistero’ delle cose, che proprio per la loro ‘distanza’ rivelano, come l’essere umano, «senso della profondità o senso segreto» e perciò esigono anch’esse rispetto, non possesso e dominio utilitaristico da parte dell’uomo che alle cose è accomunato. «Il mistero è semplicità, e la semplicità, dallo sguardo del bimbo alla linea che segnano i campi di grano, è la forma più commovente della grandezza. Il mistero non è ignoranza cristallizzata, non è paura dell’ombra proiettata sulla strada, è profondità dell’universo» (R.P.C., pp. 76-77). Siamo passati dalla sfida come impegno nel mondo attuale al saper ascoltare e saper vedere in profondità il mistero che siamo e che ci avvolge, senza la presunzione della cultura contemporanea che tutto vuole spiegare e dimostrare, ma non comprende che l’ulteriorità è propria dell’uomo ma anche della natura. È la critica a «ogni forma di aristocraticismo dottrinario» che è «la tendenza a mettere la competenza al di sopra dell’uomo, il quale non sa nulla se non che soffre, che ama, che cade in errore e se ne tira fuori alla bell’e meglio. Di qui a costituire un corpo di tecnocrati e a credere, in poche parole, alla supremazia dello schema tecnico, dello schema dottrinario sulla posizione intima e quotidiana dei problemi, non v’è che un passo» (R.P.C., pp. 452-453). Oggi siamo già arrivati a questo punto. L’educazione è diventata solo processo, tecnica, strategia e richiede perciò ‘competenza’ da parte dell’insegnante, dell’educatore, incapace di ‘fare appello a’, di saper ‘risvegliare’ l’inedito di ciascuno. Per concludere, le sfide cui la lettura di Mounier oggi ci ha impegnati, sono molte. È necessario passare da una persona espropriata, desituata, competente nel frammento, a una persona che ha un posto nell’universo e vi si ricono505

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sce nella sua singolarità, che sa essere interpellata da valori, impegnata nel presente ma proiettata nel futuro, capace di ‘comunicare’ perché ama, cura sé, l’altro, le cose e le istituzioni; perchè sa scegliere, decidere, essere responsabile e libera di una libertà che non è solo mero esercizio. Certo, tutte le sfide odierne possono essere comprese dalla pedagogia solo se essa, oggi come ieri, crede nell’uomo, nella persona, nel senso essenziale dell’umanità. Al di fuori di questa concezione, d’altronde, la pedagogia non esiste perché non esiste l’educazione, se non come continua rincorsa di un cambiamento che ci permea intimamente e può farci diventare non-uomini: molti annunciano già l’era del post-umano. Con Mounier, anche noi ci domandiamo, nell’era del benessere, dell’abbondanza, della sicurezza, della facilità, del nostro mondo occidentale: «ma l’uomo che farà? … In ogni caso, si tratta di prevedere e di inventare tutto un nuovo stile di vita», di cogliere l’‘evoluzione felice’ verso «un mondo sempre più solidale e organizzato», ma nello stesso tempo di non «nascondersi che quest’ampliamento della potenza e dell’organizzazione collettive porta con sé, oltre ad una promessa notevole, un pericolo assai temibile» (R.P.C., pp. 442-443), che è quello di soffocare l’autonomia sovrana della persona e di distruggere l’umanità. L’esito di questa sfida è affidato all’educazione, che dovrà essere in grado di formare oggi ‘un’umanità vigorosa’, ricca di quella ‘forza’ che «non è essenzialmente aggressività, bensì generosità» (R.P.C., p. 289), capace di lottare ogni giorno per una migliore umanità contro l’annientamento dell’uomo e l’avvento della post-umanità. Le citazioni sono state ricavate da queste opere di EmmanuelMounier: Rivoluzione personalista e comunitaria (1935), Milano, ed. di Comunità, 1955: R.P.C. Manifesto al servizio del personalismo comunitario (1936), Bari, ed. Ecumenica, 1975: M.S.P.C. 506

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La paura del secolo ventesimo (1946), Firenze, ed. Fiorentina, 1951: P.S.V. Che cos’è il personalismo? (1947), Torino, ed. Einaudi, 1948: C.P. Il personalismo (1950), Roma, ed. Ave, 1964: I.P.

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Il Comitato tecnico-scientifico ringrazia tutti coloro che hanno reso possibile il positivo svolgimento del Convegno e la stampa degli atti: la International Promotion Service Bucci s.r.l. e la Banca Toscana – capogruppo di Arezzo (sponsor); la Heaven Events e la L.P. grafica (sponsor tecnici); la Provincia ed il comune di Arezzo per la concessione del patrocinio; il dott. Stefano Mendicino; l’Università di Siena, La facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo, il Dipartimento di Scienze umane e dell’educazione, il Dipartimento di Studi storico-sociali e filosofici e la Biblioteca ‘Città di Arezzo’ per la generosa concessione di risorse umane e finanziarie; i relatori del Convegno ed i presidenti di sessione. Un ringraziamento speciale va al personale tecnico-amministrativo del Dipartimento di Scienze umane e dell’Educazione, sia quello ancora in servizio sia quello da poco ritirato, per l’instancabile lavoro logistico ed organizzativo. Ferdinando Abbri Sergio Angori Adua Bidi Piccardi Sira Serenella Macchietti Mario Micheletti Paolo Nepi Giuseppe Serafini

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2006 dalla Grafica Universal per conto della GESP - Città di Castello (PG)

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