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Italian, Latin Pages XXV+211 [241] Year 2007
Collana di studi, edizioni e commenti
I frammenti degli oratori romani dell’età augustea e tiberiana Parte prima Età augustea
a cura di Andrea Balbo
Edizioni dell’Orso
Minima Philologica Collana di edizioni critiche e commenti diretta da LUCIO BERTELLI E GIAN FRANCO GIANOTTI
Serie latina 1
Il volume è stato pubblicato con il contributo del M.U.R.S.T. (Cofin. 2001)
In copertina Ritratto di Virgilio dal codice Vaticanus Latinus 3867 f. 14r.
I frammenti degli oratori romani dell’età augustea e tiberiana Parte prima: Età augustea Seconda edizione riveduta e corretta a cura di
Andrea Balbo
Edizioni dell’Orso Alessandria
© 2004, 2a edizione riveduta e aggiornata 2007 Copyright by Edizioni dell’Orso s.r.l. 15100 Alessandria, via Rattazzi 47 Tel. 0131.252349 - Fax 0131.257567 E-mail: [email protected] http: //www.ediorso.it Redazione informatica a cura di Margherita I. Grasso È vietata la riproduzione, anche parziale, non autorizzata, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno e didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22.04.1941
ISBN 88-7694-743-4
Alla memoria del mio Maestro prof. Italo Lana A Carmen e Cecilia
Indice Introduzione
p.
Conspectus siglorum
XI XIX
1. C. Cornelius Gallus 2. C. Cilnius Maecenas TT 1-6 3. Passienus Pater TT 7-12 4. L. Arruntius Pater T 13 5. M. Vipsanius Agrippa TT 14-15 6. L. Cornificius 7. Velleius Capito 8. C. Albucius Silus TT 16-25 9. M. Porcius Latro TT 26-33 10. C. Sulpicius Galba TT 34-35 11. L. Vinicius TT 36-38 12. P.Fabius Maximus TT 39-43 13. Acilius Lucanus T 44 14. Furius Saturninus 15. Gauius Silo T 45 16. Iulius Florus T 46 17. Torquatus TT 47-49 18. Varius Geminus TT 50-52 19. Pompeius Silo TT 53-54 20. T. Labienus TT 55-58 21. C. Cassius Seuerus TT 59-78 22. M. Pomponius Porcellus TT 79-80
FF 1-2 F3 FF 4-6 FF 7-10
FF 11-14 FF 15-16 F 17 FF 18-19 F 20
FF 21-22 F 23 FF 24-31 FF 32-44 F 45
1 12 23 28 35 44 46 48 71 86 90 94 101 104 108 111 114 119 123 126 143 177
Nota bibliografica
181
Indice dei passi citati
203
VII
Premessa alla seconda edizione Sono molto grato all’Editore per avermi concesso la possibilità di correggere, perfezionare e ristampare il volume, a tre anni dalla prima tiratura, che risulta da qualche tempo esaurita. Non posso nascondere la soddisfazione personale, in tempi comunque non facili per l’Università e per la filologia classica. Questa seconda edizione si presenta profondamente mutata nell’impaginazione rispetto alla prima: si è infatti cercato di sfruttare al massimo il modulo di stampa per ridurre la presenza di pagine bianche tra le varie sezioni. Ad oggi sono state pubblicate le seguenti recensioni della prima edizione: F. Canali De Rossi, BMCR 30. 09. 2004; Br. Rochette, LEC 72, 2004, 362-363; S. Butler, CR 55, 2005, 535-536; P. Hamblenne, «Scriptorium» 59, 2005, n. 462, 188189; G. Baldo, «Eikasmós» 17, 2006, 506-511. Delle segnalazioni di tutti ho cercato di tenere conto nella revisione, così come ho provveduto tacitamente ad eliminare sviste ed aggiornare qua e là testi ed apparati. Sono grato anche a quanti hanno voluto manifestarmi il loro apprezzamento e le loro osservazioni per via epistolare. Un particolare ringraziamento va infine a mia moglie, che in tutti questi anni mi è stata vicina con grande pazienza. Andrea Balbo Pinerolo, marzo 2007
IX
Introduzione Nam comprehendere quemadmodum maxima ita minima difficile est. (Sen. Ep. 89, 3)
1. L’argomento della ricerca Nel 1976 Enrica Malcovati diede alle stampe la quarta ed ultima edizione riveduta degli Oratorum Romanorum Fragmenta, con la quale contribuì a migliorare la conoscenza di una parte della letteratura latina di cui sopravvivono solamente testi frammentari. Il suo lavoro, frutto di un’attività di ricerca più che quarantennale1, costituisce ancora oggi un punto di riferimento essenziale per quanto riguarda l’età repubblicana; parimenti la sua edizione delle opere augustee2 è tuttora il testo base da cui prendere l’avvio per studiare l’attività letteraria di Augusto. La situazione è invece ben diversa per quanto concerne l’oratoria dell’età imperiale, da Augusto in avanti. La migliore silloge attualmente disponibile è la seconda edizione degli Oratorum Romanorum fragmenta di Heinrich Meyer pubblicata a Zurigo nel 1842. Essa peraltro non è un’edizione critica e non costituisce, nonostante l’impegno del curatore, uno strumento immune da mende, come già osservava la Malcovati nel 1930 in ORF1, VII: Oratorum Romanorum reliquias si quis antehac requirebat, ad Turicense Meyeri opus oportebat accederet, cuius editio prior saeculo prope ante, altera vero, auctior atque emendatior, a. MDCCCXLII in lucem prolata est: quamvis enim recentiora studia complures Meyeri coniecturas atque sententias vel omnino reiciendas vel immutandas demonstrassent, nemo tamen opus illud inde retractan-
1
La prima edizione degli ORF è del 1930. Imperatoris Caesaris Augusti Operum Fragmenta ed. H. Malcovati, Augustae Taurinorum 19695. La prima edizione risale al 1921. 2
XI
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
dum susceperat [...]. Il giudizio della Malcovati è senz’altro da condividere, anche se, come ho cercato di dimostrare in altra sede3, bisogna comunque apprezzare il lavoro faticoso e minuzioso di Heinrich Meyer, interessante figura di animatore culturale della Zurigo del primo Ottocento. Rendendosi conto dei limiti di questa silloge, la Malcovati, che già aveva con gli ORF ripreso e superato la parte dell’opera del Meyer relativa alla Repubblica, nella prefazione alla seconda edizione (1955) espresse l’intenzione di raccogliere i resti degli oratori delle epoche successive all’età repubblicana (VI): Haec igitur altera omnino a priore editione mutata est. Nam primum operis fines indice ipso declarari volui, qui liberae reipublicae temporibus continentur: quamquam vehementer opto ut mihi Deo favente contingat per posteriora quoque tempora Romanae eloquentiae vestigia, quae superfuerint, persequi eaque collecta edere. Tale proposito non fu mai realizzato: come osserva Italo Lana4, una «vaga traccia» si trova in una lettera del 6 maggio 1944 alla casa editrice Paravia; il fatto che la studiosa pavese abbia inserito nella prefazione succitata un’indicazione più precisa «dimostra che la Malcovati pensò seriamente al progetto»5; tuttavia nelle sue carte non si trovano lavori preparatori e tanto meno appunti. L’opera attende quindi di essere continuata e questa ricerca intende essere un primo passo verso la sua prosecuzione, auspicata da più parti6. 2. I limiti ed il contenuto del presente lavoro Un’edizione critica che si proponga di continuare gli ORF deve inevitabilmente cominciare dagli oratori contemporanei a Messalla Corvino (ultimo della silloge della studiosa pavese) non accolti nel lavoro dalla Malcovati e dovrebbe – almeno ipoteticamente – raccogliere il materiale oratorio fino a Simmaco, ultimo scrittore della latinità pagana di cui possediamo frammenti oratori già editi7.
3
Cf. Balbo 1997, 632-634 e 636. Sulle altre edizioni ottocentesche di frammenti oratori (Dübner, Cortese) cf. ibidem, passim. 4 Enrica Malcovati e il Corpus Scriptorum Latinorum Paravianum, 191192 in AA. VV., Per Enrica Malcovati – Atti del convegno di studi nel centenario della nascita (Pavia 21-22 ottobre 1994), Como 1996. 5 Ibidem, n. 19. 6 Cf. Cavarzere 2000, 212. 7 Dopo l’edizione del Seeck negli MGH, importante ma risalente anch’essa XII
INTRODUZIONE
La presente edizione, che rielabora una parte di una tesi di dottorato discussa il 24 febbraio 1999 all’Università di Torino, si limita perciò a indagare una parte di tale corpus e va concepita come la prima sezione di un testo riguardante gli oratori delle età di Augusto e di Tiberio, dal 31 a.C. al 37 d.C. Questo è il motivo della scelta della dizione “Parte prima – Età augustea” che compare sul frontespizio. Gli oratori inclusi in questo volume operarono principalmente durante il principato di Augusto, mentre in un successivo volume si accoglieranno coloro i cui discorsi frammentari sono databili tra il 14 e il 37 d.C., all’epoca del governo di Tiberio. All’interno del presente volume sono raccolti frammenti e testimonianze di 22 oratori. Il criterio dirimente per l’inclusione è stato costituito dall’attività effettiva dell’oratore nel foro, in Senato o nel tribunale centumvirale. Non si è tenuto conto dei declamatori di scuola di cui non sia attestato anche un impegno forense8. L’esclusione di alcuni personaggi è stata motivata dall’insufficienza delle testimonianze a favore di tale attività: non si troveranno in questa edizione frammenti di Clodio Turrino padre, un declamatore attivo nelle scuole spagnole, in quanto non mi sembra che le testimonianze in nostro possesso (Sen. Con. 10 praef. 14-16; Quint. Inst. 9, 3, 73) possano dimostrare con sicurezza che la sua attività riguardò anche cause reali9. Di alcuni personaggi sono raccolti sia frammenti sia testimonianze, di altri – di cui non mi è stato possibile reperire alcun frammento – soltanto informazioni sulla loro attività forense. Per quanto concerne la terminologia qui adottata rimando al paragrafo seguente. 3. Il frammento e la testimonianza: precisazioni su concetti difficilmente definibili Nell’ambito della filologia classica e della scienza dell’antichità pochi concetti sfuggono ad una definizione precisa come il frammento e la testimonianza. Gran parte dei testi che ci sono stati trasmessi ha carattere frammentario; molti autori antichi sono noti quasi esclusivamen-
al 1883, si dispone ora di Quintus Aurelius Symmachus, Reden, hrsg. von A. Pabst, Darmstadt 1989. 8 Cf. von Albrecht 1995, II, 875: «Dagli oratori del senato e del foro vanno distinti gli artisti delle declamazioni». 9 Per un’opinione diversa su questo punto cf. Fantham 2002, 271. XIII
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
te per tradizione indiretta o attraverso frustuli papiracei; spesso ci troviamo di fronte a scarsi frammenti dell’opera dello scrittore, ma disponiamo invece di notizie che la riguardano e che costituiscono un’utile – e talora indispensabile – risorsa per lo studio: si tratta delle cosiddette testimonianze. Ma è sempre agevole e possibile distinguere le une dagli altri, o non è vero che «il discrimine tra testimonianza e frammento è sottilissimo e, a volte, non percepibile»10? Il problema è complesso e non poche volte si è tentato di rispondere a tale dubbio. Mi sembra che un contributo rilevante in proposito sia venuto nel recente passato dalla preparazione di edizioni di testi filosofici antichi. In particolare G. Most, in un acuto intervento tenuto ad Ascona nel 199611, ha messo in luce i quattro problemi metodologici di base di cui deve farsi carico l’editore di frammenti filosofici: 1) la definizione del tipo di frammento, che implica la comprensione del motivo per cui è stato citato: 2) la valutazione delle fonti dei frammenti, che si rivela essenziale per comprenderne adeguatamente il contenuto; 3) la relazione esistente tra frammenti e canoni; 4) il motivo per cui si vogliono pubblicare dei frammenti e che cosa si pensa di ricostruire con i frammenti stessi: un libro? Una raccolta dossografica? A tali considerazioni vanno aggiunte le riflessioni che un eccellente editore di testi frammentari, Ian Kidd, premise alla sua prima edizione di frammenti di Posidonio di Apamea: «Even in this collection confined to attested fragments, the term ‘fragment’ has been used in a wide sense to cover all variations from what would seem to be a verbatim quotation to a reported statement of doctrine»12. Ritengo che anche l’editore di testi non filosofici debba fare proprie gran parte di tali riflessioni: per quanto riguarda specificamente i frammenti oratori latini, tuttavia, alcuni dei problemi sollevati dalla ricerca in ambito filosofico non si pongono, mentre se ne presentano altri non meno spinosi. Tra i primi possiamo segnalare il rapporto tra il frammento ed il canone: non esistono infatti canoni degli oratori latini tali da aver influen-
10
M. Gigante in Flores 1981, 125. A la recherche du témoin perdu: historical and theoretical reflexions on the collecting of philosophical fragments, ora confluito nella prefazione di Collecting Fragments/Fragmente Sammeln, ed. by G. W. Most, Göttingen 1997, VI-VIII. 12 Posidonius. 1. The fragments edited by L. Edelstein and I. G. Kidd, Cambridge 1972, XIX. 11
XIV
INTRODUZIONE
zato in modo decisivo la sopravvivenza delle loro opere. Tra i secondi un rilievo essenziale assume il problema della pubblicazione. È possibile rintracciare frammenti di orazioni non pubblicate dall’autore? È possibile che di orazioni non pubblicate sia esistita una redazione scritta? La questione è estremamente complessa e richiederebbe una trattazione ad hoc che non mi è possibile offrire qui13. Per molti oratori i cui frammenti sono accolti in questa edizione non è possibile dimostrare che le loro orazioni siano state pubblicate dagli autori stessi con precisi intenti letterari; per molte di esse si può soltanto presumere che siano state conservate in raccolte d’archivio come gli acta senatus o gli archivi personali degli imperatori e che non siano mai state pubblicate diversamente. Il problema si pone in modo particolare per le orazioni attribuite a Tiberio e citate da Tacito, e quindi non riguarda questo primo volume. Ho scelto perciò di prescindere da tale criterio allo scopo di non escludere materiale che potrebbe essere utile e significativo. Tale scelta presenta il vantaggio di mettere a disposizione un’ampia silloge di testi, che sarà poi compito del lettore valutare e selezionare: concordo infatti pienamente con la seguente affermazione metodologica di Gabriele Giannantoni, pronunciata anch’essa a proposito di edizioni di testi frammentari: «Tra le due alternative, dare troppo poco e dare, forse, in sovrabbondanza, io sono per la seconda, lasciando il giudizio a chi adopererà l’edizione»14. Credo che questo fosse lo spirito informatore della raccolta di Enrica Malcovati, che mise a disposizione degli studiosi un materiale assai ricco e indubbiamente utile. In altre parole, le testimonianze e i frammenti accolti in questa edizione vogliono essere in primo luogo una “raccolta di fonti”15. 13
Essa è stata posta per quanto concerne sia i discorsi perduti e non pubblicati sia quelli frammentari di Cicerone, da Crawford 1984, 1-32 e Crawford 1994, 1-5. Cf. anche E. Narducci, Dal discorso pronunciato al discorso scritto. L’eloquenza come prodotto letterario, in Idem, Cicerone e l’eloquenza romana, Bari 1997, 157-173 e M. Ledentu, L’orateur, la parole et le texte, in Achard 2000, 57-73. 14 G. Giannantoni in Flores 1981, 125. 15 Tale posizione è stata assunta anche da W. Fortenbaugh, responsabile della più recente edizione di frammenti di Teofrasto di Ereso: «Our decision here has been to produce a source book and not a collection of fragments narrowly construed» (Theophrastus of Eresus, Sources for his life, writings, thought and influence, edited and translated by W. F. Fortenbaugh, P. M. Huby, R. W. Sharples, D. Gutas, Leiden – New York – Köln 1992, I, 5). XV
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Fatte queste premesse, tuttavia, dirò secondo quali criteri ho distinto testimonianze e frammenti16: 1) Frammento (F) è, in questa edizione, ogni testo che, con indicazione nominativa dell’autore o fornendo elementi tali da rendere evidente l’attribuzione, riporta non solo quello che possiamo presumere sia stato il testo originale dell’orazione, ma anche la sua eventuale parafrasi fatta dalla fonte, o – ancora – dà notizia dell’esistenza e dell’argomento dell’orazione stessa. Il testo originale (nei pochi luoghi in cui è stato possibile distinguerlo dalla parafrasi con sufficiente approssimazione) è stato stampato con il carattere spazieggiato. 2) Testimonianza (T) è, in questa edizione, ogni testo che riferisce elementi relativi all’attività letteraria (ed oratoria in particolare) dell’autore trattato, senza entrare nel merito del contenuto delle orazioni. 4. La struttura dell’edizione Per quanto riguarda la suddivisione e l’organizzazione del materiale e la collocazione sulla pagina del testo e degli apparati, ho seguito il modello sia dell’ultima edizione Malcovati sia di Sblendorio Cugusi 1982 e mi sono valso dei suggerimenti esposti da A. Grilli in un suo importante lavoro sulla tecnica editoriale dei frammenti filosofici17. La disposizione degli oratori è cronologica, fondata sulle date (certe o presunte) di nascita. Dopo l’Introduzione il lettore trova il Conspectus siglorum, contenente i nomi dei codici utilizzati nella costituzione del testo. Seguono poi le sezioni dedicate ai singoli autori. All’inizio di ogni sezione si trovano tre indicazioni relative alla presenza dell’oratore nelle edizioni precedenti (M 1832 = Meyer1 1832; D 1837 = Dübner 1837; M 1842 = Meyer2 1842); il simbolo Ø indica la sua assenza in queste edizioni. Nella Bibliografia specifica sono compresi i riferimenti bibliografici alle opere citate nel prosieguo del capitolo e particolarmente importanti
16
Faccio mie in questo caso anche le opportune osservazioni di G. Garbarino, Filosofi romani minori: in margine a un’edizione di frammenti, «Quaderni del Dipartimento di Filologia, Linguistica e Tradizione classica dell’Università di Torino» 13, 1999, 141-156, soprattutto 142. 17 Sui criteri per l’edizione di frammenti filosofici in Flores 1981, 111-120. XVI
INTRODUZIONE
per l’analisi ed il commento. Segue una sezione di Dati biografici, in cui vengono fornite le informazioni essenziali sulla cronologia e sulle vicende principali della vita dell’oratore. Qualora ci si trovi in presenza di personaggi molto noti, tali notizie sono estremamente succinte; per maggiori dettagli si rimanda alle opere generali segnalate in bibliografia. Nella sezione di Testimonianze sono riportate con numerazione progressiva araba le testimonianze riguardanti l’attività oratoria o letteraria dell’autore considerato. Seguono quindi i Frammenti di orazioni. Ho scelto di dotare l’edizione di un doppio apparato, il primo dedicato ai contesti ed il secondo, vero e proprio apparato critico, comprendente le varianti testuali. Segue una sezione dedicata al Commento: prima di entrare nel merito dei problemi di ogni frammento, ovunque le testimonianze lo consentissero, si è dato un breve quadro delle caratteristiche dell’arte oratoria dell’autore. Al termine dei singoli capitoli sono state talora inserite Appendici comprendenti testi di dubbia interpretazione o difficilmente attribuibili alle categorie di Testimonianze e Frammenti. Seguono infine la Nota bibliografica, divisa in varie sezioni dedicate a Strumenti e opere generali, Edizioni, traduzioni e commenti e Studi, nella quale sono richiamati anche i riferimenti alle Edizioni, e un Indice dei passi citati. Gli autori latini sono citati secondo le sigle dell’OLD e del ThlL, i greci secondo quelle di LSJ. Le opere di autori moderni indicate in forma abbreviata si trovano elencate per esteso nella Nota bibliografica, nella quale sono accolti tutti i contributi citati più volte nell’opera e tutte le edizioni dei testi antichi. Nell’opera sono raccolti tra le testimonianze numerosi passi di Seneca retore: essi sono citati tutti senza apparato critico; il testo di riferimento è l’edizione Teubner di L. Håkanson ricordata nella Nota bibliografica. In conclusione vorrei rivolgere alcuni ringraziamenti. Il primo va a due persone non più tra noi, il professor Italo Lana, che mi indirizzò allo studio della cultura antica e mi instillò l’amore per la letteratura e la civiltà latina, e il prof. Dionigi Vottero, autore di un’edizione di frammenti senecani da cui ho avuto modo di imparare molto. La mia gratitudine va poi ai professori Gian Franco Gianotti e Giovanna Garbarino, che mi hanno consigliato e pungolato perché concludessi questa prima parte del mio lavoro; un grazie di cuore anche ai professori Alberto Cavarzere, Elvira Migliario, Giuseppina Magnaldi, Giancarlo Mazzoli e William Calder III, dai quali ho avuto alcuni preziosi consigli e suggerimenti. All’amico e collega d’insegnamento Ermanno Malaspina un XVII
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
fraterno grazie per l’appoggio e il sostegno di questi ultimi anni. Infine un affettuoso ringraziamento a mia moglie e ai miei genitori, che mi hanno incoraggiato in questi anni di lavoro.
XVIII
Conspectus siglorum Sono stati segnalati soltanto i codici citati in apparato; dove i testimoni non presentano significative varianti rispetto al testo da me accolto, non sono stati indicati: per un loro quadro completo rimando quindi ai prolegomena delle singole edizioni. Si precisa che tali edizioni sono raccolte nella sezione II della Nota bibliografica: si indica per prima l’edizione di riferimento; le altre seguono in ordine cronologico. Sono state adottate le sigle delle edizioni di riferimento; nel caso di Servio adotto le sigle di Thilo-Hagen corrette in alcuni casi da Reynolds 1983. Si è inoltre tenuto conto di B. Munk Olsen, L’étude des auteurs classiques latins aux XIe et XIIe siècles, Paris 1982-1989. Cassius Dio M Venezia, Biblioteca nazionale Marciana 395 Lb: Firenze, Biblioteca Laurenziana 70, 10 Xiphilinus Epitome di Giovanni Xifilino Zonaras Epitome di Giovanni Zonara Diomedes p excerpta da Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 7530 A Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 7494 B Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 7493 M München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 14467 abm seconde mani di ABM Macrobius18 N Napoli, Bibl. Nazionale «V. Emanuele II», V. B 10
sec. XI sec. XV sec. XI sec. XII
sec.VIII sec. IX sec. IX sec. IX
sec. IX (inizio)
18 Le sigle sono state integrate attraverso il confronto con Reynolds 1983, 233-235 e Marinone 1997, 50-51.
XIX
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
D P S
Oxford, Bodleian Library, Auct. T. 2. 27-II Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 6371 Strasbourg, Bibl. nationale et universitaire, 14-II Madrid, Biblioteca de El Escorial, Q. 1.1. iparchetipo di NDPST Montpellier, Faculté de Médecine, H 225 Bamberg, Staatsbibliothek, Class. 37 M. V. 5 Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Reg. Lat. 1650 London, British Library, Cotton. Vit. C. III Madrid, Biblioteca de El Escorial, C. III 18 iparchetipo di MBVGZ Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Reg. Lat. 2043 London, British Library, Harley 3859-II Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Lat. 3417 Firenze, Bibl. Med. Laurenziana, Gaddi 90 sup. 25 Cambridge, University Library, Ff. 3. 5.-I iparchetipo di RHJFA
T a M B V G Z b1 R H J F A b2
sec. IX (fine). sec. XI sec. XI sec. XV sec. IX sec. IX sec. IX sec. X sec. XII sec. X sec. XII sec. XII sec. XII-XIII sec. XIII
Plinius Maior19 B Bamberg, Staatsbibliothek, class. 42 (M. V. 10), sec. IX (fine)
19
Le datazioni dei codici pliniani adottate dal Croisille sono quelle dell’edizione di A. Ernout del primo libro di Nat. Hist., pubblicata nel 1950: egli non mostra di conoscere le nuove proposte di B. Bischoff apparse rispettivamente nelle sue Mittelalterliche Studien. Ausgewählte Aufsätze zur Schriftkunde und Literaturgeschichte, Stuttgart 1966-1981, III, 182 e 184 e III, 19 n. 67, segnalati in Reynolds 1983, 307-316. Qui sono indicate le nuove datazioni. L’edizione Croisille meriterebbe un’attenta riflessione dal punto di vista del metodo filologico, in quanto risulta a volte imprecisa ed affrettata, soprattutto nell’introduzione: non è chiarita in alcun modo, per esempio, la distinzione in apparato tra V, V1 e V2 e le sigle non sono usate sempre in modo coerente. In ogni caso, il suo progresso rispetto alla classica edizione teubneriana di Jan-Mayhoff è tale (450 correzioni dichiarate dell’apparato) che essa rappresenta per ora la migliore edizione disponibile. XX
CONSPECTUS SIGLORUM
V V1 e V2 R F d T h a
Leiden, Bibl. der Rijksuniversiteit, Voss. Lat. F. 61, correttori del codice V Firenze, Biblioteca Riccardiana, 488 Leiden, Bibliotheek der Rijksuniversiteit, Lips. 7 Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 6797 Toledo, Biblioteca del Cabildo, 47-17 Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 6801 Wien, Österreichische Nationalbibliothek, 9-10
Porphyrio22 V Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Vat. Lat. 3314 M München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm. 181 P Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 7988 W Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, Gud. Lat. 85
20
ca. a. 800 sec. IX (metà) sec. IX (inizio) sec. XII (fine) sec. XIII20 sec. XV21 sec. XII2
sec. IX sec. IX23 sec. XV sec. XV
La datazione di Ernout e di Croisille in questo caso è confermata. Assente nell’edizione dell’Ernout, ma rivalutato da H. Zehnacker, Pline l’Ancien. Histoire naturelle XXXIII, Paris 1983, 33. 22 Holder fonda la sua edizione critica su Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 3314, ma non lo segnala con sigle in apparato: «ita factum est, ut pro fundamento huius recensionis Vaticani lectiones poneremus ne nomine quidem adposito» (praef. IX). Contemporaneamente non indica il codice M sostenendo: «Codicem Monacensem, decimo demum saeculo non sine lacunis exaratum, quamuis Otto Keller amicus et ego pari uterque diligentia seorsim pro se quisque totum excusserimus, nisi paucis locis, quibus Vaticanus frater non gemellus, sed aetate multo superior forte lapsus est, suo nomine in certamen uocare supersedimus» (ibid.). Di fatto, questo procedimento sarebbe corretto se M fosse un descriptus di V, ma a praef. VII ancora Holder scrive: «Monacensis Latinus 181, quinquaginta foliorum, ita ut hunc ex illo primo quidem optutu descriptum esse potest temere dicas; at accuratius inquirenti ex eodem utrumque archetypo, ni fallor Laureshamensi, manauisse patet». Per maggiore chiarezza ho perciò conservato la segnatura di M ed ho introdotto la sigla V per il codice Vaticano. 23 Il codice è così datato da Reynolds 1983, 186. 21
XXI
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Priscianus24 Z Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Vat. Lat. 3313 P Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 7530 R Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 7496 B Bamberg, Staatsbibliothek, Class. 43 (M IV 12) L Leiden, Bibl. der Rijksuniversiteit, Voss. Lat. 67 G Sankt Gallen, Stiftsbibliothek, 904 D Bern, Burgerbibliothek, 109 H Halberstadt, Gymn. Bibliothek, M 59 A Amiens, Bibliothèque municipale, 425 K Karlsruhe, Badische Landesbibliothek, 229 Quintilianus A Milano, Biblioteca Ambrosiana, E. 153 sup. A non ancora corretto A1 a correttore contemporaneo di A B Bern, Burgerbibliothek, 351 B1 B non ancora corretto correttore contemporaneo del codice B B2 A1 Milano, Biblioteca Ambrosiana, F. 111 sup. N Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 18527 Bg Bamberg, Staatliche Bibliothek, Class. 45 (M.IV.14) b correttore di Bg G supplemento di Bg g autocorrezioni di G Mp Montpellier, Faculté de Médecine, H 336 T Zürich, Zentralbibliothek, C 74 a t correttore di T E Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 14146
24
sec. IX1 sec. VIII sec. IX sec. IX sec. IX secc. IX-X sec. X sec. X secc. X-XI secc. IX-X sec. IX (metà) sec. IX2/3 sec. IX sec. X sec. X1 sec. X sec. X sec. XI sec. XI sec. XI sec. XII
Su Z cf. M. De Nonno, Le citazioni di Prisciano da autori latini nella testimonianza del Vat. Lat. 3313, «RFIC» 105, 1977, 385-405. Merita di essere segnalato anche l’importante codice palinsesto di origine beneventana, la cui segnatura è Roma, Biblioteca Vallicelliana, C 9 ff. 152 r – 166 v.: cf. M. De Nonno, Contributo alla tradizione di Prisciano in area beneventano-cassinese: il ‘Vallicell. C 9’, «Revue d’Histoire de Textes» 9, 1979, 123-139. XXII
INTRODUZIONE
D P p
Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 7719 Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 7723 correttori di P
Seneca maior B Bruxelles, Bibliothèque royale, 9581-9595 V Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Vat. Lat. 3872, A Antwerpen, Stadsbibliotheek, 411, a consenso di BVA M Montpellier, Faculté de médecine, H 126 dett. codici deteriori (tra i quali T, L e D: cf. Håkanson 1989, VI-VII) T Bruxelles, Bibliothèque royale, 2025 t mani correttrici di T b Berlin, Staatsbibl. Preuss. Kulturbesitz, Diez. C fol. 4 L Leiden, Bibl. der Rijksuniversiteit, Voss. Lat. 72 D Bruxelles, Bibliothèque royale, 9144 E lezioni derivate da codici recenziori che contengono excerpta e tratte dall’apparato del Müller (cf. Håkanson 1989, XIV-XV) Ed. Ven. Terza edizione Veneta: cf. Håkanson 1989, XVI Ed. Frob. Edizione di Basilea stampata presso G. L. Froben: cf. Håkanson 1989, XVI Ed. Herv. Edizione di Basilea stampata presso J. Hervagen: cf. Håkanson 1989, XVI Ed. Rom. Edizione Romana Schott: Edizione di A. Schott: cf. Håkanson 1989, XVI Schulting Edizione Schott con commento e note di J. Schulting Ed. Bipont. Edizione Bipontina Seruius auctus Eclogae: L Leiden, Bibl. der Rijksuniversiteit, Voss. lat. O. 80
XXIII
sec. XIII sec. XV
sec. IX2 sec. IX2/3 sec. IX-X sec. IX sec. XIII sec. XIV sec. XV sec. XV
1503 1515 1557 1585 1604 1672 1783
sec. IX (fine)
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Aeneis: M F A H
München, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 6394 Bern, Burgerbibliothek, 172 + Paris, Bibliothèque nationale, lat. 7929 Karlsruhe, Badische Landesbibliothek, 116 Hamburg, Staats- und Universitätsbibl., Scrin. 52
Suetonius, De grammaticis25 O Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Ott. lat. 1455 W Wien, Österreichische Nationalbibliothek, 2960 B Oxford, Bodleian Library, Canon. Class. Lat. 151 V Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Vat. Lat. 1862 N Napoli, Bibl. Nazionale «V. Emanuele II», IV C 21 G Wolfenbüttel, Herzog August Bibliothek, Gud. Lat. 93 M Venezia, Bibl. nazionale Marciana, Lat. XIV I (= 4266) H London, British Library, Harley 2639 C Berlin, Staatsbibl. Preuss. Kulturbesitz, Lat. oct. 197 D Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Vat. Lat. 4498 Q Berlin, Staatsbibl. Preuss. Kulturbesitz, lat. fol. 28, U Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Urb. Lat. 1194 w archetipo di XY 25
secc. X/XI sec. IX (fine) sec. X sec. X
sec. XV a. 1466 sec. XV sec. XV sec. XV sec. XV a. 1464 prima del 1465 sec. XV sec. XV a. 1477 a. 1471
Per una descrizione dei codici ed un ampio studio sui loro rapporti cfr. R. P. Robinson, De fragmenti Suetoniani de grammaticis et rhetoribus codicum nexu et fide, Urbana 1922, 29-35 e R. A. Kaster, Studies on the text of Suetonius de grammaticis et rhetoribus, Atlanta 1992. Altri quattro codici sono aggiunti da Brugnoli nella sua edizione, praef. XIX-XXVI. Le sigle utilizzate dai due studiosi suddetti sono riprese da Kaster. XXIV
INTRODUZIONE
X b G a g z q
iparchetipo di OW iparchetipo di BV iparchetipo di ag iparchetipo di NG iparchetipo di Mz iparchetipo di Hq iparchetipo di CDQ
Suetonius, Caesares M Paris, Bibliothèque nationale, lat. 6115 G Wolfenbüttel, Herzog-August Bibl., Gud. lat. 268 (4573) V Città del Vaticano, Bibl. Apost. Vat., Vat. lat. 1904-I L Firenze, Biblioteca Laurenziana, 68, 7-II P Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 5801 O Firenze, Biblioteca Laurenziana. 66, 39 S Montpellier, Faculté de médecine, 117 T Berlin, Staatsbibliothek, Lat. fol. 337 p Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 6116 Q Paris, Bibliothèque nationale, Lat. 5802-I R London, British Library, Royal 15 C. III U consenso di p QR C consenso di LPOST " codici recenziori Velleius Paterculus M: Codice di Murbach26 P: editio princeps di B. Renano
26
sec. IX1 sec. XI2 sec. XI1 sec. XII2 sec. XII sec. XII (metà) sec XII (metà) sec XIV sec XII (metà) XII (metà) XII1
sec. VIII a. 1520
Il codice di Murbach è perduto. Esso fu scoperto da Beato Renano nell’abbazia di Murbach in Alsazia e fu utilizzato per l’editio princeps, con una nuova collazione compiuta da J. A. Burer: cfr. J. C. M. Laurent, Über die Murbacher Handschrift des Velleius, «Serapeum» 8, 1847, 188-192 e la bibliografia in Reynolds 1983, 431-432. XXV
1. C. Cornelius Gallus M 1832 = 222-223; D 1837 = 340-341; M 1842 = 514-515. Bibliografia specifica A. Stein-F. Skutsch, RE IV 1 1900, 1342-1350; W. Stroh, NP 3 1997, 192-193 PIR2 I, C 1369; Szramkiewicz 1976, II, 475-476; Arcaria 2004; Arcaria 2006; Balbo 1998; Balbo 1999, 242-243; Bayet 1928; Blänsdorf 1995, 252-259; Courtney 1993, 259-270; Crowther 1983; Cucheval 1893, I, 117; De Meyier 1977; Frank 1930; Heurgon 1967; Kroll 1909; Manzoni 1995; Mazzarino 1980; Ribbeck 1866; Rohr Vio 2000, 147-169; Salvaterra 1987; Savage 1932; Syme 1938 a; Thomas 1880; Tozzi 1972; Van den Hout 1999, 614-615; Wilkinson 1966. Dati biografici Gaio Cornelio Gallo nacque in un luogo imprecisato, forse a Forum Iulii (Fréjus in Provenza secondo Syme 1938 a; Salvaterra 1987 e Courtney 1993 ritengono che Forum Iulii o Forum Iulium non sia il luogo di nascita di Cornelio Gallo, ma il centro da lui edificato nella campagna militare per la conquista dell’Egitto). Proveniva probabilmente da una famiglia di rango equestre ma di limitati mezzi economici ed ebbe stretti rapporti con Virgilio, di cui fu forse condiscepolo e sicuramente amico: cf. Vita Donati 19; Vita Probiana 7; Vita Focae 63-66 e F. Skutsch, Gallus und Vergil, Leipzig 1906; più recentemente L. Nicastri, Cornelio Gallo e l’elegia ellenistico – romana. Studio dei nuovi frammenti, Napoli 1984, 18-26 e 96-100 e G. D’Anna, EV I, 893 – 896. La sua data di nascita va fissata intorno al 70-68 a.C.: cf. Hier. Ad Olymp. 188, 2 = 27-26 a.C.; per una discussione delle varie proposte di datazione cf. Manzoni 1995, 3-4. Non sappiamo nulla della sua vita fino al 45. Nella guerra civile si schierò dalla parte di Ottaviano e tra il 42 e il 40 ricevette incarichi connessi alla suddivisione delle terre destinate nella Gallia Cisalpina ai veterani di Filippi (cf. infra commento a F 1); dopo la sconfitta di Antonio nel 30 divenne primo prefetto d’Egitto (Manzoni 1995, 43-49). Desideroso di gloria e di lodi, disseminò l’Egitto di statue e di iscrizioni celebrative, che indussero alla fine al sospetto Augusto, il quale, in seguito all’accusa di Valerio Largo, gli tolse il governatorato e lo fece colpire da un provvedimento di renuntiatio 1
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
amicitiae: cf. R. S. Rogers, The Emperor’s Displeasure – amicitiam renuntiare, TAPhA 90, 1959, 224-237; Syme 1974, 310-311; Rohr Vio 2000, 147. Un senatoconsulto lo condannò all’esilio, ma egli preferì Frammenti F1 In Alfenum Varum (= M 1842 Cornelius Gallus fr. 2) [Cum] Iussus tria milia passus a muro in diuersa relinquere, cum octingentos passus aquae, quae circumdata est, admetireris, reliquisti.
F2
Dubium (= Van den Hout 1988 Testimonia et fragmenta 42) Exarsit in iras: communis sermo habet , sed figuratius dicimus, et est specialis Cornelii elocutio.
F1 Serv. Ecl. 9, 10. OMNIA quae supra dixit. Intellegamus autem, aut Vergilii tantum agrum, aut totius Mantuae esse descriptum, quod alii dicunt Vergilium ostendere voluisse, quod Mantuanis per iniquitatem Alfeni Vari, qui agros diuisit, praeter palustria nihil relictum sit, sicut ex oratione Cornelii in Alfenum ostenditur: cum … reliquisti. OMNIA CARMINIBUS V. S. M. id est uestrum Vergilium, cuius causa agri Mantuanis redditi sunt.
F2 Serv. A. 7, 445. Exarsit … elocutio. F 1 2 cum1 delendum putavi || in diuersa L indiuisa Peerlkamp Kroll Mazzarino || cum2 conieci uix Vossius ut L admetireris Kroll cum iussus dubitanter con. Wilkinson || 3 quae Commelin qua L, D 1837 (ob errorem impressionis?) || reliquisti Maswich relinquistis L uix octingentos … qua circumdata est cum [ad]metireris reliquisse Vossius admetiens reliquisti con. dubitanter D 1837 cum metireris Peerlkamp (qui dicit etiam Vossium metireris scripsisse) nihil Mantuanis praeter palustria vel ante vel post reliquisti addenda esse putat Ribbeck F 2 1-2 ardeo… figuratius om. R || figuratius codd. figuratus M || 2 elocutio codd. locutio F elotio A H.
2
1. C. CORNELIUS GALLUS
probabilmente darsi la morte nel 26 a.C.: cf. D.C. 53, 23, 5-24, 1, Manzoni 1995, 53-55, Rohr Vio 2000, 148 e Arcaria 2004.
Traduzione F1 Contro Alfeno Varo Avendo ricevuto l’ordine di lasciare nelle diverse direzioni uno spazio di tremila passi a partire dalle mura, quantunque tu li misurassi (?), hai lasciato ottocento passi all’acqua che si trova tutto intorno. F2 Dubbio Esplose d’ira: la lingua comune usa l’espressione ma diciamo in forma più figurata ; questo è un tratto particolare dello stile di Cornelio. Contesto F1 Serv. Ecl. 9, 10. OMNIA: ciò di cui ha parlato prima; comprendiamo ora che o è stato descritto soltanto il campo di Virgilio o il territorio dell’intera Mantova, cosa che altri affermano che Virgilio abbia voluto indicare, poiché ai Mantovani, per via dell’ingiustizia di Alfeno Varo – che divise i territori –, non era rimasto nulla se non le terre paludose, come è dimostrato dall’orazione di Cornelio contro Alfeno; ‘Avendo… misurassi’. OMNIA CARMINIBUS V. S. M. vale a dire il vostro Virgilio, per opera del quale i campi furono restituiti ai Mantovani. F2 Serv. A. 7, 445.
3
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Commento Su Cornelio Gallo sono numerose le testimonianze letterarie e documentarie che permettono di ricostruire, anche se con molte incertezze, il suo ruolo culturale nella storia dell’elegia latina e della poesia dell’età augustea. La scoperta del papiro di Qasr Ibrîm ha forse consentito di recuperare alcune tracce della sua poesia: cf. G. Petersmann, Cornelius Gallus und der Papyrus von Qasr Ibrîm, ANRW II, 30, 3 (1983), 1649-1655; Blänsdorf 1995, 252-255; Manzoni 1995, 59-92 e 93-100; M. Capasso, Il ritorno di Cornelio Gallo. Il papiro di Qasr Ibrîm venticinque anni dopo, Napoli 2003. Pochissimo interesse ha invece suscitato la figura di Cornelio oratore, anche a causa dell’incertezza delle fonti: Crowther 1983, 1623 scrive: «In addition to being a literary figure Gallus arose to a position of preeminence in political life, as soldier and statesman». Nella n. 4 scrive: «Was Gallus also known as an orator? Cf. Servius on Ecl. 9, 10 (Thilo 110), Quintilian 1, 5, 8». Leggermente più ampio Manzoni 1995, 23-25 che dedica alla sua attività oratoria un paragrafo accettando l’attribuzione al poeta di F 1. Sul passo di Quint. Inst. 1, 5, 8 cf. F 25. F1 Il frustulo fa riferimento ad un episodio della suddivisione dei territori di varie città della Gallia Cisalpina tra i veterani delle guerre civili e, in particolare, tra i reduci della battaglia di Filippi negli anni tra il 42 e il 40. Le truppe congedate avrebbero dovuto ricevere terre espropriate appartenenti al territorio di diciotto città italiche, tra cui Benevento, Venosa, Rimini (cf. App. BC 4, 1, 3 e Nicolet 1984, 73-74). I triumviri si resero presto conto che la quantità di terreno disponibile non sarebbe bastata a soddisfare tutti i richiedenti, visto che il numero dei veterani interessati al provvedimento non era inferiore a 100.000 uomini (170.000 per Bayet 1928, 273): cf. Levi 1971, 69 e Syme 1974, 208210; perciò furono aggiunti i territori di nuove città, tra cui Mantova, inizialmente esclusa a svantaggio di Cremona (Tozzi, EV III, 352-353); fra i poderi interessati ci fu anche quello di Virgilio. Tra i magistrati che ricevettero l’incarico di sovrintendere a questi provvedimenti vi furono Asinio Pollione (su di lui ORF4, no 174 e bibliografia; André 1949; Pavan, EV IV, 172-174; Von Albrecht 1995, II, 832-836), Alfeno Varo (cf. Pavan, EV I, 92-93 con bibliografia) e Cornelio Gallo. La ripartizione non fu accettata di buon grado e provocò numerose liti, probabilmente anche all’interno della commissione. 4
1. C. CORNELIUS GALLUS
Il testo – messo in evidenza con la sottolineatura – appartiene alla sezione del commento serviano meglio conosciuta come Servio Danielino, trasmesso, per quanto riguarda le Bucoliche 4-10, da un solo manoscritto, il codice Vossiano latino O. 80 (= L) della fine del IX secolo, scritto in una minuscola carolina che presenta influenze insulari: cf. Thilo 1887, VIII-X; Savage 1932, 79-82; De Meyier 1977, 137-139. Kroll 1909, 52 avanza l’ipotesi che questa citazione sia entrata nel commento serviano attraverso la mediazione di Asconio Pediano, ma non fornisce nessun elemento per suffragare questa affermazione. Il frammento si presta ad alcune osservazioni. La struttura sintattica è dura; in particolare l’ut che precede octingentos passus non dà un senso accettabile e il relinquistis finale è senz’altro errato. È perciò abbastanza evidente che il testo tràdito è da correggere. Il Vossius (Ad Vergilii Eclogam 6, 64; derivo la notizia da M 1842, 514) propose la sostituzione di uix a ut; l’intervento presuppone un antigrafo già in minuscola: nella carolina infatti una x che abbia un tratto allungato e l’altro appena accennato può essere scambiata con una t; la confusione di ui e u è un fenomeno abbastanza frequente: cf. Havet 1911, §§ 628-629. La correzione è accettabile dal punto di vista paleografico ed ha il vantaggio di restituire un testo apparentemente più intelligibile. Questa proposta non incontrò il favore di Meyer, che conservò l’ut sia in M 1832 sia in M 1842, ma fu accolta già da D 1837, poi da Kroll 1909, Wilkinson 1966, Mazzarino 1980, mentre fu rifiutata da Frank 1922, che, per altro, tralasciò completamente non solo uix ma anche ut. I problemi non si limitano solamente all’ut; altri punti del frammento hanno suscitato dubbi e proposte di correzione: 1) cum: Vossius e Kroll 1909 pensarono alla caduta di un secondo cum davanti ad admetireris, mentre Wilkinson 1966 e Mazzarino 1980 conservarono la lezione di L; 2) in diuersa: Peerlkamp corresse indiuisa, accettato anche da Kroll 1909 e Mazzarino 1980; 3) relinquistis: Vossius lo corresse in reliquisse, Maswich nell’edizione di Leeuwarden del 1717 (cf. Thomas 1880, 344-345) propose reliquisti; M 1832 ripristinò relinquistis pur segnalando la congettura del Vossius; D 1837 stampò reliquisti, senza però dar conto del testo originale; M 1842 accettò il testo D 1837; Ribbeck 1866 ritenne che reliquisti precedesse o seguisse una lacuna contenente un complemento oggetto; egli propose nihil Mantuanis praeter palustria vel aliquid simile; 4) admetireris: D 1837 propose admetiens aggiungendo l’osservazione «Vossii emendatio [scil. uix octingentos… cum admetireris] certa 5
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
est, modo ultimum vocabulum, reliquisti, non tetigisset. Vel scribendum admetiens reliquisti: periit enim apodosis». Dübner suggerì quindi, in modo abbastanza ambiguo e confuso, due soluzioni: uix octingentos … admetireris reliquisti o uix octingentos … admetiens reliquisti. Quest’ultima lezione è però nettamente facilior e non ha incontrato fortuna successivamente. Altrettanto si può dire dell’emendamento cum [ad]metireris che il Peerlkamp afferma di aver già trovato nel testo del Vossius («Mnemosyne» 10, 1861, 281): non vedo la ragione di modificare la forma tradita del verbo, soprattutto perché metireris è facilior rispetto ad admetireris. Il testo propone altri tratti meritevoli di attenzione: 1) l’espressione tria milia passus è rara e senz’altro meno frequente di quella con il genitivo partitivo, ma è comunque sufficientemente attestata (Vitr. 1, 4, 12 e 8, 3, 24; Amp. 8, 1); 2) circumdari sembra avere qui il significato di “esser disposto intorno”: numerose testimonianze confermano che il verbo può essere inteso con il valore di circumducere, circum addere: (ThlL III, 1130, 4877). L presenta la lettura qua, corretta – credo giustamente – in quae: questo fatto rivela come il copista fosse incline ad interpretare circumdata est come passivo. Le gravi difficoltà d’interpretazione del frammento sono confermate dal fatto che gli interpreti non forniscono una chiara traduzione del testo e preferiscono una parafrasi: è il caso di Tozzi, EV III, 353, che propone «[Alfeno Varo] requisì tutto, eccettuata un’area di appena 800 passi intorno alla città circondata dalle acque»; e di Heurgon 1967, 41 dove si trova: «Il semble qu’une zone de 3000 pas de rayon, soit 4kms,5, autour de Mantoue ayant été réservée, il ait poussé la pertica de ses arpenteurs jusqu’à 800 pas, 1km2, des fossés de la ville». Un’eccezione è costituita da Wilkinson 1966, 321, che traduce letteralmente: «When you were assigning land, having been ordered to leave three miles in every direction from the wall, you scarcely left 800 paces of water, which lies around it»; tuttavia poche righe prima della traduzione egli commenta «the sense [scil. del testo] is clear» ma in n. 3 aggiunge «or should be» e cita la traduzione di Frank 1922, che prescinde da uix e ut: «You included within the district» (p. 125). Nella traduzione italiana (1930) di Frank 1922 il passo è così reso: «Avendo avuto l’ordine di lasciare inoccupato un tratto di tre miglia all’esterno della città, tu includesti dentro questo tratto ottocento passi di acqua che stagna attorno alle mura» (146-147). Senza pretendere di offrire una soluzione definitiva, si può tentare di 6
1. C. CORNELIUS GALLUS
fare il punto su alcune possibili soluzioni dei problemi esposti. La congettura indiuisa va probabilmente rifiutata in quanto facilior. In diuersa non vuol qui significare “in direzioni opposte”, ma “in diverse direzioni” ed intende comunicare l’idea della descrizione di un cerchio a partire da un comune punto di riferimento: cf. Mela 2, 115-116. Non si tratta tanto di ribadire che le terre dovessero restare “indivise”, cioè “non assegnate in lotti ai veterani”, ma di far osservare che la parte non assegnata doveva estendersi per un raggio ben definito. L’indivisibilità delle terre si ricava di fatto dal senso di relinquere. Più complesse sono le altre questioni: il cum dovrebbe reggere admetireris essendone separato dal participio iussus e dalla relativa quae… est; è pur vero che il cum è talora piuttosto distante dal congiuntivo che regge (cf. e. g. Cic. fam., 3, 1, 2: iucunda mihi eius oratio fuit cum de animo tuo, de sermonibus quos de me haberes cottidie, mihi narraret), ma in questo caso la durezza della costruzione sembra eccessiva. Wilkinson 1966, 321, senza spiegare la meccanica dell’errore, pensò che admetireris «should be transferred to follow the initial cum»: egli, accolta la congettura uix del Vossius, propose di leggere cum iussus (o iussus) tria milia passus a muro in diuersa relinquere, uix octingentos passus aquae, quae circumdata est, reliquisti; questa proposta presupporrebbe un errore dalla genesi piuttosto macchinosa. Un diverso scenario si aprirebbe se non si accogliesse la correzione del Vossius: allora si potrebbe postulare, seguendo Ribbeck 1866, una lacuna prima o dopo reliquisti, in cui si leggeva il complemento oggetto ed il cui senso dovrebbe essere “non hai rispettato le disposizioni ricevute e non hai lasciato nulla ai Mantovani”; in questo caso sarebbero possibili anche altri analoghi interventi testuali ed esegetici. Credo che, almeno come ipotesi di lavoro, possa essere avanzata una terza proposta, fondata anch’essa sul superamento della congettura vossiana. Nella minuscola carolina è anche possibile la confusione tra cum e ut; se il cum era stato scritto con la u aperta e con una lineetta di abbreviazione per la m, non è così improbabile che un copista distratto abbia letto ut, scambiando la linea di abbreviazione con il taglio della t: un esempio di una confusione di questo genere si trova in Cic. fin. 3, 67; nel codice di Erlangen si trova infatti scritto: sed quem ad modum, theatrum ut commune sit, recte tamen dici potest eius esse eum locum quem quisque occuparit; invece gli altri codici scrivono: sed quem ad modum theatrum cum commune sit eqs. Vi sono inoltre casi simili, in cui la confusione è tra cu e ui cf. Havet 1911, § 645. Se si accettasse questa proposta, allora la posizione del cum iniziale, che già appariva 7
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
assai problematica, risulterebbe pressoché insostenibile, perché il testo suonerebbe: cum iussus tria milia passus a muro in diuersa relinquere, cum octingentos passus aquae, quae circumdata est, admetireris, reliquisti. La durezza del costrutto sarebbe veramente eccessiva. Il testo non può quindi ancora essere ritenuto soddisfacente. Si potrebbe perciò considerare il cum iniziale frutto di una traslocazione ed espungerlo. La traslocazione potrebbe essere spiegata così: il copista, accortosi di aver scritto ut al posto di cum, avrebbe ripetuto quest’ultima parola nel margine; un successivo scriba avrebbe equivocato sulla posizione del cum e l’avrebbe posto prima del participio iussus invece di collocarlo tra relinquere ed octingentos. Con questi due interventi la sintassi del frammento risulterebbe più comprensibile; resterebbe il problema del complemento oggetto di reliquisti, ma esso può essere ricavato da octingentos passus. Il frammento, dato l’uso della seconda persona singolare, fa parte di un’allocuzione di Cornelio Gallo contro Alfeno Varo; nutre dubbi sull’attribuzione a Cornelio Gallo del discorso unicamente E. Diehl, Die Vitae Vergilianae und ihre antiken Quellen, Bonn 1911, 56-57. Il testo sembra suggerire che Varo tenne un comportamento disonesto nei confronti dei Mantovani mentre procedeva alla suddivisione dei territori: si può pensare che egli, essendo cremonese di nascita (Pavan, EV I, 9293) e governatore della Transpadana dopo Asinio Pollione (Serv. Ecl. 6, 6), abbia cercato di favorire i suoi concittadini a scapito dei Mantovani, ai quali avrebbe lasciato quasi soltanto terre palustri. Se si presta fede a questa testimonianza di Servio, probabilmente i Mantovani intentarono causa contro Alfeno Varo ed ottennero il patrocinio di Cornelio Gallo: tale ricostruzione si deve già a M 1842. Il frustulo serviano costituirebbe perciò l’atto di accusa di Cornelio contro Alfeno. Questa ricostruzione presuppone per altro un contrasto tra Cornelio e Alfeno sul quale non possediamo altre informazioni: è sicuro che quest’ultimo aveva giurisdizione sulle questioni riguardanti Mantova (cf. Verg. Ecl. 9, 2329), ma Servio stesso ci informa che egli si adoperò per difendere dai veterani la proprietà di Virgilio. Sulle relazioni fra Gallo, Varo e Pollione la prudenza è d’obbligo. Permane l’incertezza sulla carica effettiva rivestita da Gallo e sull’evoluzione dei rapporti fra lui e gli altri due: cf. Mazzarino 1980, 21 e 25. Sappiamo infatti che Cornelio Gallo era amico di Asinio Pollione: egli forse militò con lui in questo periodo come praefectus fabrum (Syme 1974, 253 n. 6). Questo fatto potrebbe spiegare la sua ostilità contro chi ne aveva preso il posto in Transpadana. Questa ipotesi si scontrerebbe 8
1. C. CORNELIUS GALLUS
però con le testimonianze che concernono i rapporti assai stretti esistenti tra Gallo ed Ottaviano, che aveva affidato ad Alfeno Varo il compito di governare la regione: è anche opportuno osservare che per dieci anni – dal 40 al 30 a.C. – non sappiamo più nulla di Cornelio Gallo e che, quindi, anche la ricostruzione delle sue posizioni politiche risulta difficoltosa (Manzoni 1995, 38-39). Probabilmente l’amicizia e l’ossequio di Cornelio Gallo nei confronti di Ottaviano non impedivano al poetaoratore di essere ostile ad altri seguaci del figlio adottivo di Cesare: inoltre, come osserva Pavan, EV I, 92, «non conosciamo con assoluta precisione gli atteggiamenti politici di Alfeno Varo». La plausibilità di questa conclusione è confermata dalle parole del Mazzarino: «l’oratio Cornelii in Alfenum presuppone che C. Cornelius Gallus abbia un’autorità sufficiente ad attaccare il legatus di Ottaviano P. Alfenus Varus per i criteri con cui egli ha diviso gli agri dei Mantovani […] in questa fase C. Cornelius Gallus parla con quel prestigio che deriva da una solida posizione politica» (Mazzarino 1980, 26 n. 27). Dal punto di vista stilistico possiamo osservare nel frammento un certo gusto per la reiterazione e la deriuatio (passus… passus, relinquere… reliquisti) e per una costruzione che pare confermare il giudizio di Quintiliano (Inst. 10, 1, 93) sullo stile poetico di Cornelio Gallo: Sunt qui Propertium malint. Ouidius utroque lasciuior, sicut durior Gallus. Nel frammento si osserva anche una notevole attenzione ai valori fonici, come dimostrano l’insistenza sulle s e la paronomasia aquae – quae: si tratta di una caratteristica che, anche se in forma più semplice, si riscontra anche nella produzione poetica di Gallo come dimostra il papiro di Qasr Ibrîm, v. 7: quae possem domina deicere digna mea. F2 L’ultima edizione critica delle opere di Marco Cornelio Frontone, Van den Hout 1988, include, come fr. 42 della sezione dedicata ai Testimonia et fragmenta saeculi IV, un passo del commento serviano al settimo libro dell’Eneide in cui Servio esamina la costruzione dell’espressione virgiliana exarsit in iras, osservando che, in senso traslato, normalmente il communis sermo o communis usus (espressione con la quale Servio fa riferimento al consensus eruditorum: cf. Uhl 1998, 333) impiega il verbo ardeo con l’ablativo, mentre in con l’accusativo possiede un valore maggiormente espressivo, connotato dal termine figuratius (un comparativo raro, che compare solo tre volte in Servio: A. 2, 130; A. 4, 529; A. 11, 10). In particolare tale forma è peculiare dello stile di un certo Cornelio. 9
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L’attribuzione frontoniana risale a D’Orville, studioso capace di alcune intuizioni notevoli (cf. Pökel 1882, 196 e Sandys 1908, 454), ma già Naber nella sua edizione del 1867, 262, n. 5 nutriva alcuni dubbi: «Cornelium Frontonem intelligebat Dorvillius. Suspicio haud satis verisimilis». Si pronunciarono per l’attribuzione a Frontone anche il Mai, il Lion nella sua edizione serviana del 1826, il Vollmer nella voce ardeo di ThLl e, più recentemente, Adriana Della Casa (Arusianus Messius, Exempla elocutionum, Milano 1977, 15). Van den Hout 1988 ha accolto il testo senza segnalare nulla di significativo in apparato e ancora recentemente lo stesso ha fatto F. Portalupi (Opere di Marco Cornelio Frontone, Torino 1997, fr. 42, 604-605). Anche Thilo, che nell’edizione si prese cura di questa parte del commento serviano, era incerto sull’attribuzione e riportava in apparato le parole di Naber. Nessuna ulteriore notizia sul passo si trova nella recente monografia di Maria Luisa Astarita su Frontone oratore (Catania 1997). In realtà non esistono elementi decisivi per ascrivere il frammento a Marco Cornelio Frontone. Anche Van den Hout 1999, 614 se ne è reso conto: «As Servius speaks three times of Fronto, it is inconceivable that Cornelius here is Fronto». In effetti Cornelio è citato da Servio tre volte, se prescindiamo da 7, 445: due di queste tre occorrenze si trovano nel commento al libro 7 (7, 30 e 7, 688; la prima si trova in 1, 409), ma questo fatto, che può essere casuale, non costituisce una prova a favore dell’attribuzione a Frontone anche di 7, 445. Per altro, in questi tre testi “sicuri”, Servio impiega esclusivamente il cognomen Fronto e mai il nomen Cornelius: fu forse questa particolarità a suscitare il dubbio nel Naber e nel Thilo. In più Frontone non impiega né ardeo né exardesco in ciò che della sua opera si è conservato. Possiamo quindi concludere, d’accordo con Van den Hout, che il Cornelius in oggetto non è Frontone. Resta da capire chi possa essere. Van den Hout 1999 ritiene che l’unico candidato adatto per l’identificazione possa essere Tacito ed adduce due motivi: 1) la presenza di costrutti analoghi di ardeo ed exardeo con in e l’accusativo in Ann. 11, 12, 2 ([Messalina] in C. Silium … exarserat) e 25, 8 (ut … ardesceret in nuptias incestas); 2) il fatto che vari altri scrittori tardi come Orosio, Sidonio Apollinare, Cassiodoro lo citino chiamandolo Cornelius. Si tratta senz’altro di argomenti efficaci, anche se non cogenti, in primo luogo perché ardeo/exardeo con in e l’accusativo compaiono anche in Cic. Att, 14, 10, 4, Verg. Aen. 12, 71; Man. 4, 220; Quint. Decl. 344, 9; Tac. Hist. 1, 43, mentre exardesco con in e accusativo si trova anche in Liv. 40, 35, 7, V. 10
1. C. CORNELIUS GALLUS
Max. 6, 8, 4, [Quint.] Decl. 19, 9; il secondo argomento vede ridotto il suo peso se esaminiamo come Servio citi gli altri personaggi aventi il nomen Cornelius, cioè Cornelio Balbo, Cornelio Celso, Cornelio Gallo e Cornelio Tacito. Cornelio Balbo: A. 4, 127: Cornelius Balbus. Cornelio Celso: compare sempre e soltanto come Celsus in G. 1, 277; 2, 333 e 479; 3, 188, 296 e 313. Cornelio Gallo: compare come Gallus in Ecl. 3, 1; 6, 64, 66, 72; 10, 1, 2, 10, 46, 50, 74; G. 4, 1; come Cornelius in Ecl. 9, 10. Cornelio Tacito: è citato come Cornelius Tacitus in A. 3, 399. Come si può constatare il nomen Cornelius, per altro raro in Servio, compare sempre associato al cognomen salvo che in A. 7, 445 e Ecl. 9, 10, in cui è riferito a Cornelio Gallo. Anche in quest’ultimo passo si parla di un’orazione: cf. F 1. Forse è possibile supporre che il Cornelio di A. 7, 445 non sia né Frontone né Tacito, bensì Gallo; possiamo altresì presumere che Servio ci tramandi un tratto tipico dello stile oratorio di Cornelio Gallo, più che di Tacito, come ritiene Van den Hout 1999. Certamente si rimane a livello di ipotesi, in quanto nulla esclude che, con l’espressione est specialis Cornelii elocutio, Servio si possa riferire anche a più luoghi diversi, non esclusi quelli poetici, dell’opera di Gallo: l’assenza del testo, del contesto e di qualsiasi notizia ci impediscono di trarre qualunque considerazione ulteriore. Neanche la lingua ci può aiutare fornendoci elementi di particolare rilievo: sull’uso del verbo ardeo ed exardesco cf. ThlL II, 485, 82-487, 70 e ThlL V 1178, 81-1179, 10. Particolarmente significativa per la vicinanza all’uso traslato indicato da Servio è l’espressione in eum furorem exarsit di per. 58. Come si può constatare, questa forma non compare mai nella prosa latina a noi rimasta del II secolo d.C.: pur tenendo conto della limitatezza dei testi frontoniani disponibili, sembra comunque piuttosto difficile attribuirgli questo sintagma.
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2. C. Maecenas M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = Ø. Bibliografia specifica A. Stein - A. Kappelmacher, RE XIV 1, 1928, 207-229; P. Lebrecht Schmidt, NP 7 1999, 633-635; PIR2 V, M 30; André 1967; André 1983; Avallone 1962; Bardon 1956, 13-19; Cucheval 1893, I, 100-114; Evenepoel 1990; Graverini 1997; Harder 1889; Lieberg 1996; Lunderstedt 1911; Norden 1986, I, 302-304. Dati biografici Una messa a punto delle questioni principali della bibliografia mecenatiana è contenuta in Graverini 1997, a cui rimando per un’introduzione generale. Il nome completo di Mecenate secondo CIL VI 21771 (= ILS 7848) è C. Maecenas L. f. Pom(ptina tribu); dubbia è la sua appartenenza alla famiglia etrusca dei Cilnii di Arezzo: a favore Tac. Ann. 6, 11, 2 e Macr. Sat. 2, 4, 12; scettico C. J. Simpson, Two small thoughts on «Cilnius Maecenas», «Latomus» 55, 1996, 394-398. È ignoto
Testimonianze T1 Sen. Ben. 4, 36, 1-2. Damno castigabo promittentis temeritatem: «Ecce, ut doleat tibi, ut postea consideratius loquaris!» Quod dicere solemus, linguarium dabo. Si maius erit, non committam, quemadmodum Maecenas ait, ut sestertio centies obiurgatus sim.
T2 Sen. Ep. 114, 4-8 e 21 (= Lunderstedt 1911, 11 e Avallone 1962, II). Quomodo Maecenas uixerit notius est quam ut narrari nunc debeat quomodo ambulauerit, quam delicatus fuerit, quam cupierit uideri, quam uitia sua latere noluerit. Quid ergo? Non oratio eius aeque soluta est quam ipse discinctus? Non tam insignita illius uerba sunt quam cul12
2. C. MAECENAS
l’anno di nascita: egli fu press’a poco coetaneo di Virgilio; è invece conosciuto il giorno, il 13 aprile: Hor. Carm. 4, 11, 13-20. Il padre era Lucio Mecenate, un cavaliere che aveva parteggiato per Ottaviano: cf. RE, 209 e La Penna, EV III, 411. Gaio continuò la tradizione paterna: anch’egli combatté per Ottaviano a Filippi, trattò nel 40 a.C. la conclusione del patto matrimoniale tra Ottaviano e Scribonia, ebbe una parte di primo piano nella stipula dell’accordo di Brindisi con Antonio, fu ambasciatore di Ottaviano presso Antonio stesso. Non è chiaro invece se sia stato presente e in che modo alle campagne di Modena ed Azio: cf. La Penna, EV III, 413 e Evenepoel 1990, 104-105. Dal 39 a.C. si venne precisando il suo ruolo culturale e politico: «[nel primo compito rientrava] da un lato la diplomazia, dall’altro una specie di controllo di polizia su Roma e l’Italia, specialmente in assenza di Ottaviano; nel secondo compito rientravano il controllo, la formazione, la guida dell’opinione pubblica e, in questo ambito, la guida dei letterati» (La Penna, EV III, 412). Si ammalò gravemente intorno al 30-29 a.C. e forse negli stessi anni prese in moglie Terenzia, sorella adottiva di Licinio Murena Augure, con cui però non ebbe un’unione tranquilla, bensì segnata da dissensi e rappacificazioni: cf. Evenepoel 1990, 105. Di lui è spesso ricordata la condotta non proprio irreprensibile dal punto di vista morale: cf. T 2. Dopo il 29 non si hanno più notizie precise sul ruolo politico di Mecenate. La morte lo colse nell’ 8 a.C.
Traduzione T1 Sen. Ben. 4, 36, 1-2. Con questo sacrificio colpirò la temerarietà di colui che promette: «Ecco, ti provochi dolore affinché tu possa poi parlare con un po’ più di cervello». Come siamo soliti dire, darò la multa della lingua lunga. Se sarà troppo grande, non farò sì che, come dice Mecenate, debba pagare dieci milioni di sesterzi per una sventatezza. T2 Sen. Ep. 114, 4-8 e 21 (= Lunderstedt 1911, 11 e Avallone 1962, II). È troppo noto per aver bisogno di essere ricordato ora in che modo Mecenate vivesse, come camminasse, quanto fosse raffinato, quanto desiderasse apparire, quanto non si curasse di celare i suoi vizi. Che dunque? Il suo stile non è forse trascurato quanto egli è molle? Le sue parole non 13
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tus, quam comitatus, quam domus, quam uxor? Magni uir ingenii fuerat si illud egisset uia rectiore, si non uitasset intellegi, si non etiam in oratione difflueret. Videbis itaque eloquentiam ebrii hominis inuolutam et errantem et licentiae plenam. [Maecenas de cultu suo.] 5 Quid turpius «amne siluisque ripa comantibus»? Vide ut «alueum lintribus arent uersoque uado remittant hortos». Quid? si quis «feminae cinno crispat et labris columbatur incipitque suspirans, ut ceruice lassa fanantur nemoris tiranni». «Inremediabilis factio rimantur epulis lagonaque temptant domos et spe mortem exigunt». «Genium festo uix suo testem». «Tenuisue cerei fila et crepacem molam».«Focum mater aut uxor inuestiunt». 6 Non statim cum haec legeris hoc tibi occurret, hunc esse qui solutis tunicis in urbe semper incesserit (nam etiam cum absentis Caesaris partibus fungeretur, signum a discincto petebatur); hunc esse qui tribunali, in rostris, in omni publico coetu sic apparuerit ut pallio uelaretur caput exclusis utrimque auribus, non aliter quam in mimo fugitiui diuitis solent; hunc esse cui tunc maxime ciuilibus bellis strepentibus et sollicita urbe et armata comitatus hic fuerit in publico, spadones duo, magis tamen uiri quam ipse; hunc esse qui uxorem milliens duxit, cum unam habuerit? 7 Haec uerba tam improbe structa, tam neglegenter abiecta, tam contra consuetudinem omnium posita ostendunt mores quoque non minus nouos et prauos et singulares fuisse. Maxima laus illi tribuitur mansuetudinis: pepercit gladio, sanguine abstinuit, nec ulla alia re quid posset quam licentia ostendit. Hanc ipsam laudem suam corrupit istis orationis portentosissimae delicis; apparet enim mollem fuisse, non mitem. 8 Hoc istae ambages compositionis, hoc uerba transuersa, hoc sensus miri, magni quidem saepe sed eneruati dum exeunt, cuiuis manifestum facient: motum illi felicitate nimia caput. Quod uitium hominis esse interdum, interdum temporis solet. […] 21 Quod uides istos sequi qui aut uellunt barbam aut interuellunt, qui labra pressius tondent et adradunt seruata et summissa cetera parte, qui lacernas coloris inprobi sumunt, qui perlucentem togam,
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2. C. MAECENAS
sono forse tanto ricercate quanto il tenore di vita, il seguito, la casa e la moglie? Sarebbe stato un uomo di grande ingegno se l’avesse condotto per una via più dritta, se non avesse evitato di farsi capire, se non si fosse lasciato andare anche nell’espressione. [Mecenate dal de cultu suo] Perciò avrai di fronte lo stile di un ubriaco, involuto, incapace di mantenersi fermo e pieno di eccessi. 5 Che cosa c’è di più brutto di «con il fiume e la riva chiomata di selve»? Guarda come «arino l’alveo con le barche e, rivoltata l’acqua, spingano indietro i giardini». Che? Se qualcuno «ammicca al cenno di una donna e fa il colombo con le labbra e comincia sospirando come i signori del bosco infuriano con il collo affranto». «Genia incorreggibile, mettono tutto sottosopra per il cibo e attaccano le case con la bottiglia e affrontano la morte sperando». «A fatica (chiamerei) il Genio come testimone alla sua festa». «O i fili della sottile candela e il tritello scoppiettante». «La madre o la moglie adornano il focolare». 6 Appena leggerai ciò, ti verrà in mente che questi è colui che camminava per la città sempre con la tunica sciolta (infatti, anche quando rivestiva le funzioni dell’imperatore assente, si richiedeva il segnale a lui che aveva la tunica sciolta); era costui la persona che in tribunale, ai rostri, in ogni pubblica assemblea appariva con il capo coperto da un mantello da cui uscivano le orecchie da una parte e dall’altra, non diversamente da come sono soliti apparire in un mimo gli schiavi fuggiaschi di un ricco; era costui che, nel massimo strepito delle guerre civili e in una città inquieta e tutta quanta in armi, aveva come pubblica scorta due eunuchi, che erano però più uomini di lui; era costui che si sposò mille volte pur avendo una sola moglie. 7 Queste parole costruite in modo così sbagliato, buttate lì con tanta negligenza, ordinate in modo così diverso dalla consuetudine comune, mostrano che i suoi costumi non erano meno strani, perversi e singolari. Lo si loda sommamente per la mansuetudine: non usò la spada, si astenne dal sangue, dimostrò la sua potenza solo con la licenza. 8 Ma rovinò questo suo stesso merito con quelle raffinatezze proprie di uno stile stranissimo; è chiaro infatti che fu molle, non mite. Chiunque, osservando le tortuosità della composizione, le parole usate in senso diverso, i pensieri incredibili, sovente anche grandi, ma rammolliti nel momento in cui vengono espressi, comprenderà che la sua testa era stata sconvolta dall’eccessivo successo. Quel difetto talora è proprio di un uomo, talora di un’età. […] 21 Tu vedi praticare questo comportamento coloro che o si strappano la barba tutta o qua e là, che si radono i baffi ben a fondo lasciando crescere i peli da tutte le altre parti, che indossano mantelli di colore troppo vivace o una toga trasparente, che non vo15
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
qui nolunt facere quicquam quod hominum oculis transire liceat: inritant illos et in se auertunt, uolunt uel reprehendi dum conspici. Talis est oratio Maecenatis omniumque aliorum qui non casu errant sed scientes uolentesque. T3 Quint. Inst. 9, 4, 28 (= Lunderstedt 1911, 16 e Avallone 1962, V). Quaedam uero transgressiones et longae sunt nimis, ut superioribus diximus libris, et interim etiam compositione uitiosae, quae in hoc ipsum petuntur, ut exultent atque lasciuiant, quales illae Maecenatis: «sole et aurora rubent plurima»; «inter sacra mouit aqua fraxinos»; «ne exequias quidem unus inter miserrimos uiderem meas» (quod inter haec pessimum est, quia in re tristi ludit compositio).
T4 Tac. Dial. 26, 1-2. Ceterum si omisso optimo illo et perfectissimo genere eloquentiae eligenda sit forma dicendi, malim hercule C. Gracchi impetum aut L. Crassi maturitatem quam calamistros Maecenatis aut tinnitus Gallionis: adeo melius est orationem uel hirta toga induere quam fucatis et meretriciis uestibus insignire.
T5 Suet. Aug. 86, 2. Cacozelos et antiquarios, ut diuerso genere uitiosos, pari fastidio spreuit exagitabatque nonnumquam; in primis Maecenatem suum, cuius “myrobrechis”, ut ait, “cincinnos” usque quaque persequitur et imitando per iocum irridet. T6 Macr. Sat. 2, 4, 12. Idem Augustus quia Maecenatem suum nouerat stilo esse remisso, molli et dissoluto, talem se in epistulis quas ad eum scribebat saepius exhibebat; et contra castigationem loquendi, quam alias ille scribendo seruabat, in epistula ad Maecenatem familiari plura in iocos effusa subtexuit: «Vale, mel gentium † melcule, ebur ex Etruria, lasar Arretinum, adamas Supernas, Tiberinum margaritum, Cilniorum smaragde, iaspi figulorum, berulle Porsenae, carbunculum… habeas, i{na suntevmw pavnta, mavlagma moecharum».
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2. C. MAECENAS
gliono far nulla che possa sfuggire agli occhi della gente: li stuzzicano e rivolgono la loro attenzione su di sé, vogliono anche essere rimproverati purché siano notati. Tale è l’eloquenza di Mecenate e di tutti gli altri che non sbagliano per caso ma coscienti e di loro volontà. T3 Quint. Inst. 9, 4, 28 (= Lunderstedt 1911, 16 e Avallone 1962, V). Alcuni iperbati però sono troppo lunghi, come abbiamo esposto nei libri precedenti, ed anche talora difettosi nella composizione: essi vengono ricercati per il solo scopo di sbizzarrirsi e abbandonare ogni limite, come quei famosi esempi di Mecenate: «rosseggiano per il sole e la piena aurora»; «scorre in mezzo la sacra acqua ai frassini»; «neppure le mie esequie io, che sono tra i più afflitti, potrei vedere» (e questo è il peggiore, perché la composizione si prende delle libertà in un argomento triste). T4 Tac. Dial. 26, 1-2. Per altro, se, tralasciando quell’ottimo e perfetto genere di eloquenza, si dovesse scegliere un modello nel parlare, per Ercole preferirei l’impeto di Gaio Gracco o la maturità di Lucio Crasso ai calamistri di Mecenate o al tintinnio di Gallione: a tal punto è meglio rivestire un’orazione anche con una toga ruvida piuttosto che abbellirla con vesti morbide da prostitute. T5 Suet. Aug. 86, 2. Disprezzò in modo eguale i leziosi e gli arcaizzanti come difettosi per ragioni diverse; talvolta li criticava: primo fra tutti il suo amico Mecenate, di cui attaccava sempre – secondo la sua espressione – i “ricciolini profumati” e che prendeva in giro imitandolo per scherzo. T6 Macr. Sat. 2, 4, 12. Lo stesso Augusto, poiché sapeva che il suo caro Mecenate aveva uno stile trasandato, molle e slegato, abbastanza sovente si adeguava a questo modo di scrivere nelle lettere che gli indirizzava; ed invece, impiegando uno stile opposto al linguaggio censurato che usava altre volte scrivendo, aggiunse in una lettera familiare a Mecenate parecchie espressioni molto facete: «Stammi bene o miele delle genti †, avorio di Toscana, silfio di Arezzo, diamante delle regioni adriatiche, perla del Tevere, smeraldo dei Cilnii, diaspro dei vasai, berillo di Porsenna, carbonchio… ma va’, per farla breve, cataplasma di prostitute». 17
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Frammenti F3 In Octauiam (= Lundestedt 1911, 15 et Avallone 1962, IV) Pexisti capillum naturae muneribus gratum.
F3 Prisc. GL II 536, 5-7. In ‘to’ ‘c’ antecedente invenio ‘pecto’, cuius praeteritum plerique ‘pexui’, Asper tamen ‘pectui’, Charisius ‘pexi’ protulerunt. Maecenas in Octauiam “pexisti … gratum”. Similiter ‘necto, nexui’ et ‘nexi’.
Commento F3 Nel decimo libro delle Institutiones grammaticae di Prisciano è conservato un frustulo in prosa attribuito a Mecenate. Si tratta di un frammento di un testo in cui si loda la capigliatura di un personaggio, verosimilmente Ottavia, sorella di Augusto. Il testo non è sicuro: il codice B, ritenuto da Hertz, editore di Prisciano, il più affidabile dopo R, presenta una lineetta sopra la a finale di Octavia, fatto che indurrebbe a leggere Octauiam; l’editio princeps del 1470 e l’edizione parigina del 1516 trascurano la linea e stampano rispettivamente octauia e Octauia. Le interpretazioni proposte sono state quattro: 1) leggere in Octauiam come un riferimento ad un’opera elogiativa nei confronti della sorella dell’imperatore e considerare l’in non come sinonimo di aduersus ma con valore direzionale (Harder 1889, Lunderstedt 1911, Bardon 1956, Avallone 1962, Lieberg 1996); 2) leggere in Octauia come titolo di un’opera intitolata Octauia, forse una tragedia od una commedia (M. Meibom Maecenas, Leiden 1653, 148; A. Lion, Maecenatiana sive de C. Cilnii Maecenatis vita et moribus, Göttingen 1824, 46; J. H. Neu-
F 3 1 In superscripsit K || octauia (lineolam fere evanidam supra a habet B) octavia ed. Ven. 1470 Octauia ed. Ascens. Parisii 1516, Meibom, Bothe, Neukirch, Lion Octavio Falster in octauo Krehl
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2. C. MAECENAS
Traduzione F3 Ad Ottavia Hai pettinato una chioma bella per i doni di natura. Contesto F3 Prisc. GL II 536, 5-7. Tra i verbi che finiscono in -to caratterizzati da una c che precede (questa sillaba) trovo pecto, il cui perfetto ha la forma pexui per la maggior parte degli studiosi, pectui per Aspro e pexi per Carisio. Mecenate ad Ottavia (scrisse): «Hai … natura». In modo simile abbiamo necto, nexui e nexi.
kirch, De fabula togata Romanorum, Lipsiae 1833, 65 e 90; F. H. Bothe, Poetae scenici Latinorum VI, Lipsiae 1834, 259 et 272); 3) leggere in octauo (A. Krehl, Prisciani Caesariensis grammatici opera, Lipsiae 1819-20, II, 574; RE, 223) pensando ad un sottinteso “dialogo”, sul modello di quanto tramandato da Char. GL I, 79, 24 (ut Maecenas in X) e GL I, 146, 29 (uolucrum Maecenas in dialogo II); 4) leggere in Octauio (C. Falster, Memoriae obscurae, Copenhagen 1722, 46), riferendosi ad un testo destinato all’imperatore. La soluzione più probabile è senz’altro la prima, sia per l’autorevolezza del testimone che ha l’indicazione dell’accusativo sia perché le altre proposte sono nettamente faciliores. Non fa difficoltà inoltre l’in con l’accusativo con il valore di erga, in quanto vi sono numerosi esempi paralleli: cf. ThlL VII 1, 747, 25-749, 9. È impossibile stabilire con sicurezza se questo passo elogiativo facesse parte di un’orazione o non piuttosto di un libello non meglio identificato (Bardon 1956, 18). Avallone pensava ad «una laudatio funebris di Ottavia parallela a quella di Augusto» (Avallone 1962, 264) ed è seguito in questo da Lieberg 1996. Hermann e Keil propendevano a loro volta per un’orazione: «At mihi cum God. Hermanno Opusc. V 265 [= De fabula togata Romanorum V, 265] orationis pedestris esse videntur [scil. haec verba]» (GL II, 536 app. ad l.). Recentemente Mayer 2001, 171 ha ribadito che Mecenate non pubblicò mai orazioni. Bisogna per 19
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
altro ricordare che «sur l’oraison funèbre que prononça Auguste, nous ne savons rien» (Bardon 1940, 28): essa è comunque testimoniata da Suet. Aug. 61, 2 e D.C. 54, 35, 4: cf. Malcovati 1969, 77 fr. 8, XVI e XXXV. Gli elementi che Avallone adduce a sostegno dell’ipotesi (il perfetto pexisti che si riferirebbe ad una defunta, la lode per la donna, l’affetto di Mecenate per Augusto e la sua famiglia) non sono assolutamente cogenti, soprattutto perché non possiamo essere del tutto certi che in questo testo si parli proprio di quell’Ottavia. La tesi che si tratti di un’orazione è convalidata dal ritmo del frammento, che è senz’altro di natura prosastica, anche se si presenta costruito in modo assai singolare, con «due molossi fra cui è inserito un bacchìo con una clausola coriambico-trocaica» (Avallone 1962, 59) e che costituisce perciò un modello di numerus senz’altro originale. Questa clausola apparve giustamente “auffallend” a Stein – Kappelmacher in RE, 223, in quanto sono conosciuti esempi di trocheo più coriambo (cf. Lausberg 1960, § 1029) ma non della forma inversa: si può forse pensare che Mecenate, nella sua ricerca di un’espressività “barocca”, abbia voluto scompaginare un ritmo usuale capovolgendolo alla ricerca di un effetto sorprendente. Lieberg 1996, 10, parla di “tre cretici”, ma non mi sembra possibile evidenziare questa struttura ritmica. G. Baldo («Eikasmós» 2006) ritiene che la natura prosastica di questo frammento possa essere confermata dalla presenza in Cic. De orat. I 115 e Vit. 2 praef. 1 del sintagma naturae muneribus. Dal punto di vista lessicale bisogna segnalare, con Avallone, il “senso pregnante” di pectere, usato con il valore di “pettinare bene, con arte”, la sineddoche di capillus nel senso di chioma, per cui esistono numerosi esempi poetici: cf. e. g. Cat. 64, 193; Hor. Carm. 3, 14, 25; Ov. Her. 15, 76; è opportuno l’accostamento con i versi iniziali dell’elegia 1, 2 di Properzio (Avallone 1962, 260-261). Se il frammento può esser fatto risalire alla laudatio funebris, la sua data deve essere fissata all’11 a.C., ovvero ai giorni delle esequie. Nulla si può dire sullo stile. Un lungo passo dell’epistola 114 ad Lucilium di Seneca ci restituisce, oltre ad alcuni frustuli di uno o più scritti prosastici mecenatiani (cf. Harder 1889, 11; Bardon 1956, 17 e 43; Avallone 1962, 248249), un attacco di Seneca alla condotta di vita ed allo stile di Mecenate. Il filosofo si basa sulla convinzione che ad una vita dissoluta corrisponda un modo di scrivere insolito, sgradevole e licenzioso (itaque ubicumque uideris orationem corruptam placere, ibi mores quoque a recto desciuisse non erit dubium) e definisce l’oratoria di Mecenate inuolutam et errantem et licentiae plenam. La critica si appunta soprattutto contro la compositio: le frasi citate da Seneca mostrano parole tam 20
2. C. MAECENAS
inprobe structa, tam neglegenter abiecta, tam contra consuetudinem omnium posita. Questa descrizione ci consente di comprendere come Mecenate avesse intrapreso una via stilistica lontana da quella tradizionale, forse quella di un asianesimo radicale: cf. Norden 1986, I, 302304. Appendice 1 Il discorso di Mecenate in Cassio Dione Cassio Dione ci ha trasmesso in 52, 2-40 due lunghi discorsi tenuti da Agrippa (52, 2-13) e Mecenate (52, 14-40) ad Ottaviano, nei quali si sostenevano rispettivamente l’opportunità di conservare l’ordinamento repubblicano e la necessità di dare a Roma un governo monarchico. Essi sono considerati fittizi da tutti i maggiori interpreti ed effettivamente questa appare l’interpretazione corretta per più motivi: 1) «È ben noto come fosse una caratteristica della storiografia antica l’introdurre nei punti cruciali della narrazione storica delle discussioni […] Questa utilizzazione di un artificio tradizionale da parte di Dione è confermata dal confronto con quel poco che ci è dato conoscere del 3° libro della Storia, nella cui parte iniziale Dione esponeva, quasi certamente con una discussione tra i rivoluzionari, alcune considerazioni sul mutamento istituzionale dello stato dalla monarchia alla repubblica» (E. Gabba, Sulla Storia Romana di Cassio Dione, RSI 67, 1955, 289333; rif. a 312); 2) non vi sono elementi che consentano di collocare i discorsi di Agrippa e di Mecenate in un luogo e in un momento preciso: si tratta di consultazioni che, anche ammettendo che si siano verificate, non si tennero in nessun luogo pubblico, di fronte ad alcun organismo ufficiale, e perciò non possono comunque essere ritenute vere orazioni, bensì, eventualmente, discorsi privati; 3) a Roma nell’età di Augusto non era credibile che si avanzasse la proposta di modificare formalmente l’ordinamento dello stato in forma monarchica: è quindi impensabile che questo tema fosse oggetto di un discorso pubblico; 4) non vi sono altre testimonianze in favore dell’esistenza di una tale disputa, che sembra trovare il suo modello letterario nella discussione erodotea sulle forme di governo: cf. McKechnie 1981, 154; 5) il discorso di Mecenate è pesantemente influenzato dalla precettistica sull’educazione del principe: cf. D. Fishwick, Dio and Maecenas: the emperor and the ruler cult, «Phoenix» 44, 1990, 267-275; 21
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
6) le parole che Dione fa dire a Mecenate contengono un’immagine ideale della monarchia. Una conclusione persuasiva – che chi scrive accetta – è fornita da Tiziano Dorandi: «Ich glaube, daß kein Zweifel mehr daran bestehen kann, daß die besprochene Rede bei Cassius Dio keine sachentsprechende Möglichkeit bietet, die Persönlichkeit des historischen Maecenas und sein Werk zu rekonstruieren. Im besten Falle könnte man die Rede als ein interessantes Zeugnis für das Nachleben des Maecenas betrachten» (T. Dorandi, Der «gute König» bei Philodem und die Rede des Maecenas vor Octavian (Cassius Dio LII, 14 – 40), «Klio» 67, 1985, 56-60). Per questa ragione tali lunghi testi non sono accolti né qui né nel capitolo dedicato ad Agrippa. Appendice 2 La citazione di T 1 In mancanza di testimonianze sulla provenienza del dictum di Mecenate contenuto in T 1, è impossibile decidere se esso possa provenire da uno scritto e di che opera si tratti: mi limito solamente ad osservare che la clausola, che presenta un gruppo spondaico-trocaico, ha dei precisi paralleli oratori: nos possemus (Cic. Lig. 4, 10); Romanus sum (Cic. Ver. 5, 62, 162). Questo elemento è naturalmente troppo debole per poter affermare che si tratti di un frammento oratorio.
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3. Passienus pater M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = 531-533. Bibliografia specifica W. Kroll, RE XVIII 3, 1949, 2096; P. Lebrecht Schmidt, NP 9, 2000, 388; PIR III P 108; Bornecque 1902, 186-187; Hoffa 1909, 31-32. Dati biografici Di Passieno conosciamo con precisione la data di morte, il 9 a.C. (Hier. Ad Olymp. 192, 4 = 9-8 a.C.), ma ignoriamo quella di nascita. Le fonti non ci tramandano né il praenomen né il cognomen. Suo figlio, Lucio Passieno Rufo (cfr. PIR III P 111), fu console nel 4 a.C.; si può datare ipoteticamente la nascita del figlio fra il 41 e il 36 a.C. e supporre che Passieno padre, quando generò il figlio, avesse almeno vent’anni: si giunge così a fissare un termine ante quem intorno al 65-60 a.C., data già per altro proposta da Bornecque 1902, 186. Null’altro conosciamo sulla sua vita.
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Testimonianze T7 Sen. Con. 2, 5, 17. Passienus, uir eloquentissimus et temporis sui primus orator, hanc subtilitatem actionis non probabat in .
T8 Sen. Exc. Con. 3 praef. 10-11. Passienus noster cum coepit dicere, secundum principium statim fuga fit, ad epilogum omnes reuertimur; media tantum quibus necesse est audiunt. Miraris eundem non aeque bene declamare quam causas agere, aut eundem non tam bene suasorias quam iudiciales controuersias dicere?
T9 Sen. Exc. Con. 3 praef. 14-15. Diligentius me tibi excusarem, tamquam huic rei non essem natus, nisi scirem et Pollionem Asinium et Messalam Coruinum et Passienum, qui nunc primo loco stat, minus bene uideri quam Cestium aut Latronem.
T 10 Sen. Con. 7, 1, 20. Passienus et Albucius et praeter oratores magna nouorum rhetorum manus in hanc partem transit. Fuerunt et qui in nouercam inueherentur; fuerunt et illi qui non quidem palam dicerent, sed per suspiciones et figuras; quam rem non probabat Passienus et aiebat minus uerecundum esse aut tolerabile infamare nouercam quam accusare.
T 11 Sen. Con. 10, 5, 21. Hic [scil. Craton] Caesari, quod illum numquam nisi mense Decembri audiret, dixit: «wJ" bauvnw/ moi crh'/»; et commendaretur a Caesare Passino nec curaret, interroganti quare non conplecteretur tanti uiri gratiam: «hJlivou kaivonto" luvcnon oujc a{ptw».
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3. PASSIENUS PATER
Traduzione T7 Sen. Exc. Con. 2, 5, 17. Passieno, uomo eloquentissimo e primo oratore del suo tempo, non approvava in questa sottigliezza del discorso. T8 Sen. Exc. Con. 3 praef. 10-11. Quando il nostro Passieno cominciò a parlare, subito dopo l’esordio vi fu una fuga e tutti ritornammo al momento dell’epilogo; soltanto coloro che ne hanno necessità ascoltano le parti centrali. Ti meravigli del fatto che egli non declamasse tanto bene quanto sosteneva le cause in tribunale o che non trattasse le suasorie in modo tanto adeguato quanto le controversie giudiziarie? T9 Sen. Exc. Con. 3 praef. 14-15. Mi scuserei con te con maggiore impegno, adducendo la scusa di non esser nato per questo compito, se non sapessi che Asinio Pollione, Messalla Corvino e Passieno, che ora occupa il primo posto, hanno fama di parlare meno bene di Cestio o di Latrone. T 10 Sen. Con. 7, 1, 20. Passieno, Albucio e, oltre agli oratori, una gran parte dei declamatori dell’ultima leva si schierarono da questa parte [scil. sostenendo che non si dovesse attaccare la matrigna]. Vi furono anche alcuni che inveirono contro di lei. Vi furono anche quelli che non parlarono apertamente, ma impiegando accenni e figure; Passieno non approvava questo comportamento e sosteneva che era più disonesto e inaccettabile infamare la matrigna che accusarla. T 11 Sen. Con. 10, 5, 21. Costui (Cratone) disse a Cesare (Augusto), poiché non lo ascoltava mai se non nel mese di dicembre: «Mi usi come una stufa»; e quando Cesare lo raccomandò a Passieno ed egli non se ne curò, alla domanda perché non desse adeguata importanza alla benevolenza di un uomo così importante, rispose: «Non accendo la lucerna quando il sole brucia».
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
T 12 AL Shackleton Bailey 1982, 401, 9-12 (= 405 Buecheler-Riese-Lommatzsch 314-315). Crispe … maxima facundo uel auo uel gloria patri quo solo careat, si quis in exilio est onginquae iaceo saxis telluris adhaerens: mens tecum est, nulla quae cohibetur humo.
Commento Le testimonianze di cui disponiamo concordano nel definire Passieno un grande oratore, non solamente un declamatore di scuola: uir eloquentissimus et temporis sui primus orator afferma esplicitamente Seneca Retore (T 7); Cassio Severo, citato da Seneca, lo pone accanto a personaggi notissimi per la loro abilità forense come Asinio Pollione, Messalla ed Albucio (T 9); addirittura, ne sostiene la preminenza assoluta ai suoi tempi: qui nunc primo loco stat (ibidem). Augusto stesso ne aveva una notevole opinione e lo considerava tantus uir (T 11), degno di costituire un punto di riferimento per l’eloquenza; un epigramma dell’Anthologia Latina attribuito a Seneca Filosofo e dedicato al nipote Crispo Passieno lo chiama facundus (T 12). Per questo motivo la mancanza di qualsiasi frammento e di notizie dettagliate sulle sue orazioni risulta sorprendente; la stessa scarsità di frammenti di declamazioni, se confrontata con il numero di testi trasmessi da Seneca Retore per altri autori, fa supporre che la sua attività declamatoria ed oratoria non sia stata molto cospicua: Seneca ricorda infatti soltanto 8 interventi dell’oratore: Con. 2, 5, 17; 7, 1, 20 e 22; 7, 2, 12; 7, 5, 9; 7, 8, 9; 9, 3, 7; 10, 3, 4. Passieno non fu esente anche da qualche critica: Cassio Severo dà l’impressione di ritenere che le parti migliori del suo repertorio fossero gli esordi e le conclusioni e che tutta la parte narrativa risultasse nel complesso interessante soltanto per chi doveva prestare attenzione all’argomento specifico della causa (cfr. T 8). Non ci sono elementi ulteriori che ci consentano di comprendere le ragioni di questo apprezza26
3. PASSIENUS PATER
T 12 AL Shackleton Bailey 1982, 401 (= 405 Buecheler-Riese-Lommatzsch 314-315). Crispo … somma gloria per un avo e un padre eloquenti, unico di cui si sia privi se ci si trova in esilio, giaccio aggrappato alle rocce di una terra lontana: con te è il mio cuore, che nessuna terra ricopre.
mento di Severo per Passieno: egli, in Con. 7, 2, 12 è citato tra coloro che trattarono un tipico tema “repubblicano”, la declamatio de Popillio, che, dopo esser stato difeso da Cicerone, lo tradì e lo uccise, portandone testa e mani ad Antonio: cfr. R. Volkmann, RE XXII, 1, 1953, 54-57; per le testimonianze sull’orazione ciceroniana cfr. Puccioni 1963, 156157. Forse l’attenzione di Passieno verso questo tema potrebbe essere dovuta ad una sostanziale omogeneità politica con i filo-repubblicani. T 10 ci fornisce qualche informazione ulteriore. Il tema della controversia è il seguente: un padre ha dato ad uno dei suoi due figli l’ordine di uccidere l’altro, accusato di aver tentato il parricidio; il fratello non ha il coraggio di dargli la morte e lo carica su un battello privo di attrezzature. Il condannato è salvato dai pirati, ne diventa capo, cattura il padre e lo rimanda in patria. Quest’ultimo, ritornato a casa, ripudia il figlio che non ha eseguito l’ordine di giustiziare il fratello. Molti retori pensarono che la responsabile occulta della decisione del padre fosse la matrigna dei due ragazzi e perciò espressero tale convincimento sia direttamente sia mediante congetture e figure. Passieno invece preferì chiamare in causa la uerecundia e la tolerantia nei confronti di colei per la quale non vi erano evidenti prove di complicità: il nostro oratore appare perciò meno spregiudicato dei suoi colleghi retori, rivelando un comportamento forse dettatogli dall’esperienza forense, nella quale si dovevano fare i conti con la realtà dei fatti. 27
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
4. Lucius Arruntius pater M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = Ø. Bibliografia specifica P. von Rohden, RE II 1, 1895, 1262; W. Eck, NP 2 1997, 33; PIR2 I, A 1129; Bardon 1956, 96-97; Bergener 1965, 48-56; Lebek 1966, 360-372. Dati biografici Console nel 22 a.C. (insieme a Marco Claudio Marcello Esernino),
Testimonianze T 13 Sen. Ep. 114, 17-20. Haec uitia unus aliquis inducit, sub quo tunc eloquentia est, ceteri imitantur et alter alteri tradunt. Sic Sallustio uigente anputatae sententiae et uerba ante exspectatum cadentia et obscura breuitas fuere pro cultu. L. Arruntius, uir rarae frugalitatis, qui historias belli Punici scripsit, fuit Sallustianus et in illud genus nitens. Est apud Sallustium «exercitum argento fecit», id est, pecunia parauit. Hoc Arruntius amare coepit; posuit illud omnibus paginis. Dicit quodam loco «fugam nostris fecere», alio loco «Hiero rex Syracusanorum bellum fecit», et alio loco «quae audita Panhormitanos dedere Romanis fecere». 18 Gustum tibi dare uolui: totus his contexitur liber. Quae apud Sallustium rara fuerunt apud hunc crebra sunt et paene continua, nec sine causa; ille enim in haec incidebat, at hic illa quaerebat. Vides autem quid sequatur ubi alicui uitium pro exemplo est. 19 Dixit Sallustius «aquis hiemantibus». Arruntius in primo libro belli Punici ait «repente hiemauit tempestas», et alio loco cum dicere uellet frigidum annum fuisse ait «totus hiemauit annus», et alio loco «inde sexaginta onera-
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4. L. ARRUNTIUS PATER
nacque verosimilmente prima del 60 a.C., forse verso il 64. Era un homo nouus; la famiglia proveniva dalla città volsca di Atina; è probabile che sia egli l’Arrunzio che, secondo Appiano (BC 4, 46), fu proscritto nel 43 a.C. e si rifugiò presso Sesto Pompeo: cf. Hinard 1985, n. 20, 432-433. Dopo il trattato di Miseno si schierò inizialmente dalla parte di Antonio, ma poi passò al seguito di Ottaviano e nella battaglia di Azio guidò l’ala sinistra della flotta di quest’ultimo (Vell. 2, 85, 2). Approfittando della sua nuova posizione riuscì a salvare il proprio amico Gaio Sosio che aveva parteggiato per Antonio (Vell. 2, 86, 3). Nel 17 a.C. fu probabilmente quindecimuir sacris faciundis. Le sue tracce negli anni successivi si perdono: è molto probabile che sia stato il padre del Lucio Arrunzio console nel 6 d.C. Non sappiamo quando sia morto.
Traduzione T 13 Sen. Ep. 114, 17-20. Qualsiasi personalità che domini sul terreno dell’eloquenza introduce questi difetti, tutti gli altri li imitano e se li tramandano. Così, quando Sallustio era nel pieno della sua attività, furono considerati eleganti i pensieri interrotti, le parole che comparivano senza essere attese e la brevità oscura. Lucio Arrunzio, uomo di rara morigeratezza, che scrisse la storia della guerra punica, fu un imitatore di Sallustio e si distinse in quel modo di comporre. In Sallustio si trova l’espressione «fece un esercito con il denaro», vale a dire lo mise insieme con il denaro. Arrunzio cominciò ad apprezzare queste parole e le impiegò in ogni pagina. In un punto dice «fecero scappare i nostri» in un altro «Gerone, re di Siracusa, fece la guerra» e in un altro ancora «queste notizie fecero sì che i Palermitani si arrendessero ai Romani». 18 Ti ho voluto dare un assaggio: il libro è intessuto interamente di queste frasi. Le espressioni che furono rare in Sallustio sono frequenti in costui e quasi continue e non senza ragione; infatti il primo incappava in tali espressioni, mentre costui le cercava. Vedi allora che cosa succeda quando ci si pone come esempio un difetto. 19 Sallustio disse «mentre le acque imperversavano (hiemantibus)». Arrunzio nel primo libro della guerra punica scrive «improvvisamente imperversò la tempesta (hiemauit)» e in un altro punto, volendo dire che l’anno era stato freddo, scrive «l’intero anno fu burrascoso (hiemauit)» e in altro luogo ancora «quindi mandò 29
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
rias leues praeter militem et necessarios nautarum hiemante aquilone misit». Non desinit omnibus locis hoc uerbum infulcire. Quodam loco dicit Sallustius «dum inter arma ciuilia aequi bonique famas petit». Arruntius non temperauit quominus primo statim libro poneret ingentes esse “famas” de Regulo. 20 Haec ergo et eiusmodi uitia, quae alicui inpressit imitatio, non sunt indicia luxuriae nec animi corrupti; propria enim esse debent et ex ipso nata ex quibus tu aestimes alicuius adfectus: iracundi hominis iracunda oratio est, commoti nimis incitata, delicati tenera et fluxa.
Frammenti FF 4-6 In centumuirali iudicio (cf. FF 12-14). F4 accipimus condicionem; iurabit. F5 tollantur; poterimus sine illis uiuere.
FF 4-5 Sen. Con. 7 praef. 7 Nam in quodam iudicio centumuirali, cum diceretur iuris iurandi condicio aliqua delata ab aduersario, induxit eiusmodi figuram, qua illi omnia crimina regereret [F 12]. Et executus est locum. Quo perfecto surrexit L. Arruntius ex diuerso et ait: «accipimus… iurabit». Clamabat Albucius: [F 13]. Arruntius instabat. Centumuiri rebus iam ultimis properabant. Albucius clamabat: [F 14]. Arruntius aiebat: «tollantur… uiuere». Summa rei haec fuit: centumuiri dixerunt dare ipsos secundum aduersarium Albucii si iuraret; ille iurauit. Albucius non tulit hanc contumeliam, sed iratus calumniam sibi imposuit: numquam amplius in foro dixit.
F 4 2 accipimus Håkanson autcepimus M aut accepimus M2 M3 || iurabit Gronov iurauit aM
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4. L. ARRUNTIUS PATER
sessanta rapide navi da carico oltre ai soldati e ai marinai necessari mentre imperversava l’aquilone (hiemante)». Non smette di infilare ovunque questa parola. In un punto Sallustio dice «mentre in mezzo alle guerre civili cerca le glorie dell’uomo giusto e onesto». Arrunzio non si trattenne dallo scrivere subito nel primo libro che grandi erano le “glorie” di Regolo. 20 Questi difetti ed altri dello stesso genere che l’imitazione ha impresso nell’animo di qualcuno, non sono segni di dissolutezza né di corruzione d’animo; infatti devono essere specifici di quella persona e devono scaturire da lui i difetti che ti consentono di valutare le passioni di qualcuno: lo stile di un uomo rabbioso è rabbioso, quello di un appassionato è troppo teso, quello di un tenero molle e lento. Traduzione FF 4-6 In un giudizio davanti ai centumviri (cf. FF 12-14). F4 Accettiamo la condizione: giurerà. F5 Eliminiamo (le figure); riusciremo a vivere senza di esse. Contesto FF 4-5 (cf. FF 12-14) Sen. Con. 7 praef. 7. Infatti, mentre in un processo davanti ai centumviri gli si diceva che la possibilità di giurare era stata offerta ad un certo punto dall’avversario, egli [scil. Albucio] introdusse una figura per ritorcergli contro tutte le accuse: «Sei d’accordo che la questione si accomodi con un giuramento? Giura, ma ti darò io la formula: giura in nome delle ceneri di tuo padre che sono ancora insepolte, giura per la memoria di tuo padre». E trattò compiutamente il luogo. Una volta che ebbe concluso, si alzò Lucio Arrunzio dalla parte dell’avversario e disse: «Accettiamo … giurerà». Albucio gridava «Non ho dato la possibilità di giurare realmente, ho usato una figura». Arrunzio insisteva. I centumviri si avvicinavano al momento della decisione. Albucio proclamava a gran voce: «Così le figure vengono eliminate dal mondo». Arrunzio diceva: «Eliminiamole … esse». La conclusione del processo fu la seguente: i centumviri decisero di dar ragione all’avversario di Albucio nel caso che egli giurasse; egli giurò. Albucio non sopportò quest’offesa, ma, colmo di rabbia, si impose questa punizione: non parlò mai più nel foro. 31
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
F6 paratum se esse respondit.
F6 Quint. Inst. 9, 2, 95. Vtilis aliquando etiam dissimulatio est, ut in eo (nota enim fabula est) qui, cum esset contra eum dictum «iura per patris tui cineris» paratum … respondit, et iudex condicione usus est, clamante multum aduocato schemata de rerum natura tolli: ut protinus etiam praeceptum sit eius modi figuris utendum temere non esse.
Commento L’attività letteraria di Arrunzio ci è quasi ignota. Seneca ci conserva alcuni frammenti di una sua opera storica sulle guerre puniche, dando un giudizio non del tutto positivo, soprattutto dal punto di vista linguistico (T 13): cf. anche A. Setaioli, Elementi di sermo cotidianus nella lingua di Seneca prosatore, SIFC LII 1980, 11-15 (= Idem, Facundus Seneca. Aspetti della lingua e dell’ideologia senecana, Bologna 2000, 15-19). Pochissimo sappiamo di Arrunzio come oratore; la scelta di includerlo tra gli oratori esaminati in questa edizione è dovuta alla sua identificazione con l’avversario di Albucio Silo nel processo che segnò la fine della pubblica attività forense di quest’ultimo. Si tratta tuttavia di una valutazione ipotetica. FF 4-6 I tre frammenti arrunziani, insieme ai quattro testi che compongono FF 12-14, ci restituiscono lo scambio di battute verificatosi nel corso di un processo di fronte ad un tribunale centumvirale per un reato non ben precisato. Per una più ampia e dettagliata illustrazione di questo episodio cf. il commento a FF 12-14. Il primo problema che si presenta è quello dell’identificazione di Arrunzio, che non è sicura. Due sono le ipotesi: 1) che sia Lucio Arrunzio il vecchio (PIR2 I A 1129); 2) che si tratti di Lucio Arrunzio console nel 6 d.C., probabilmente figlio del precedente. Lebek 1966, 368-369 propende per la seconda soluzione, in quanto ritiene che le espressioni se32
4. L. ARRUNTIUS PATER
F6 Rispose di essere pronto. Contesto F6 Quint. Inst. 9, 2, 95. È utile talora anche la dissimulazione, come nel caso di quel tizio – si tratta infatti di una vicenda famosa – che, poiché ci si era rivolti a lui dicendo «Giura per le ceneri di tuo padre» rispose … pronto ed il giudice accettò la proposta, per quanto l’avvocato gridasse a gran voce che così le figure di pensiero venivano bandite dal mondo: cosicché fu immediatamente raccomandato di non servirsi in modo sconsiderato di queste figure.
necane si attaglino meglio ad un oratore conosciuto quale Lucio Arrunzio il giovane, mentre dell’attività oratoria del padre non sappiamo nulla. Tuttavia, anche se verosimile, la tesi di Lebek non è certa: nulla infatti impedisce che sia stato Arrunzio il vecchio ad essere avversario di Albucio ed, anzi, la sua età avanzata confermerebbe il fatto che fosse riuscito a sconfiggere un nemico di cui, attraverso l’assidua frequentazione, poteva conoscere i punti deboli. Credo infatti che l’accortezza e la spregiudicatezza dimostrate dall’Arrunzio coinvolto in questo processo si adattino meglio ad un personaggio più anziano e più esperto, appunto Arrunzio padre. D’altra parte questa identificazione non pregiudica assolutamente la proposta di datazione del Lebek, che si fonda su altri solidi elementi di tipo linguistico e storico. Le competenze dei centumuiri riguardavano il diritto privato e, in particolare, le cause di successione: cf. M. Wlassak, RE IV 1, 1935-1953 e Gagliardi 2002. Poco si può dire su questa orazione, che assume nei frustuli conservatici il carattere di un’altercatio: su questo tipo di discorso, che aveva un carattere decisamente ostruzionistico, cf. Talbert 1984, 265, P. L. Andreini, Speech, context and narrative point: aspects of speech in Tacitus’Annals, Diss., University of Michigan 1987, 163-166; L. de Libero, Obstruktion. Politische Praktiken im Senat und in der Volksversammlung der ausgehenden römischen Republik (70-49 v. Chr.), Stuttgart 1992, 15 e 23 e J. A. Crook, Legal Advocacy in the Roman World, London 1995, 134. A sostegno del convenuto, Arrunzio aveva inserito la figura iurisiurandi nella prima parte della sua arringa: anch’egli evi33
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
dentemente aveva scelto di utilizzare mezzi fortemente emotivi per trarre dalla propria parte i giudici. L’atteggiamento di Arrunzio (Arruntius instabat) indica una certa esperienza forense: infatti, una volta colto l’errore dell’avversario, egli è subito pronto a non lasciarsi sfuggire l’occasione di una vittoria, forse, insperata. Egli è abile anche nell’utilizzare termini e concetti dell’avversario a proprio vantaggio: tollantur riprende il tolluntur di Albucio ma lo priva del tono accorato e lo carica invece di affettata e spregiudicata noncuranza. Per quanto riguarda i problemi testuali non sono accettabili le lezioni con il perfetto accepimus e iurauit, in quanto la vivacità della narrazione richiede l’uso dei tempi presente e futuro. Arrunzio non dà peso agli strumenti retorici: si tratta naturalmente di un esempio di sagacia nel capovolgere a proprio vantaggio le argomentazioni dell’avversario. Albucio nel processo dà l’impressione di un professore di scuola che non è in grado di fronteggiare una situazione inattesa, mentre Arrunzio dimostra una notevole competenza nelle questioni pratiche del foro.
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5. M. Vipsanius Agrippa M 1832 = 223; D 1837 = 341; M 1842 = 523-525. Bibliografia specifica R. Hanslik, RE IX A 1, 1961, 1226-1275; D. Kienast, NP 1, 1996, 294-296; PIR III, V 457; Schanz-Hosius, II, 1935, 329-331; Bardon 1956, 81-82; Bauman 1970, 171-179; Cucheval 1893, I, 95-100; Håkanson 1984; Marx 1925; McKechnie 1981; Roddaz 1984. Dati biografici Marco Vipsanio Agrippa nacque in una località sconosciuta tra il novembre 64 e il marzo 63 a.C., figlio di un Lucio Vipsanio di origine sicuramente non nobile (Roddaz 1984, 23-26 e 28-29); le fonti parlano di una ignobilitas originaria e di una misera iuuenta (Suet. Cal. 23, 1; Plin. Nat. 7, 45, 1; Tac. Ann. 1, 3, 1; cf. Roddaz 1984, 17-29). Nulla sappiamo sulla sua vita fino al 46-45 a.C., quando partecipò alle campagne di Cesare contro i Pompeiani. I suoi primi rapporti con Ottaviano risalgono al 45 a.C. Dopo le guerre di Modena e Perugia nel 40 rivestì la pretura; dalla fine del 40 al 37 fu governatore delle Gallie e nel 37 venne insignito del suo primo consolato. Tra il 37 e il 33, anno della sua edilità, condusse numerose campagne militari; la crisi del 32-31 lo trovò ancora una volta al fianco di Ottaviano; durante la campagna di quest’ultimo in Egitto, Agrippa e Mecenate ressero il governo ad interim a Roma fino al 29. Dal 29 al 23 egli restò a Roma e si occupò di numerose opere edilizie. Dal 23 al 21 compì un viaggio in Oriente e, al ritorno, sposò Giulia, figlia di Augusto: precedentemente aveva già contratto matrimonio con Cecilia Attica (37 a.C.) e Marcella (28 a.C.): cf. Roddaz 1984, 83-84 e 534-535 e ora anche S. Musso, La figlia di Tito Pomponio Attico: Cecilia Attica, «Quaderni del Dipartimento di Filologia, Linguistica e Tradizione classica dell’Università di Torino» n. s. 5, 2006, 139-174 (part. 149 n. 51). Dal 20 al 18 Agrippa viaggiò per la seconda volta in Occidente combattendo contro i Cantabri nel 19; tra il 17 ed il 13 ritornò in Oriente. Giunse a Roma nel 13, dove gli venne rinnovato l’imperium; tra il 13 e l’inverno del 12 partecipò alla campagna di Pannonia, ma alla fine dell’inverno di quest’anno Agrippa cadde malato in Campania e morì tra il 19 ed il 23 marzo. 35
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Testimonianze T 14 Nic. Dam. Vit. Caes. 7 (Jacoby 1925, no 90, p. 393). «Hn eij" ta; mavlista Kaivsari tw'/ nevw/ sunhvqh" kai; fivlo" ∆Agrivppa", ejn taujtw'/ te paideuqei;" kai; tina e[cwn filivan. T 15 Mar. Vict. Ars 4, 6. Idem (= L. Caluus) «optimus maximus» scripsit, non ut nos per V litteram. Diuus Augustus genetiuo casu «huius domos meae» per O non ut nos per V litteram scripsit; Messala, Brutus, Agrippa pro “sumus” “simus”. Frammenti FF 7-8 In C. Cassium (= M 1842 Vipsanius Agrippa fr. 1) F7 Quo tempore, Capito, patruus meus, uir ordinis senatorii, Agrippae subscripsit in C. Cassium. F8 Eujqu;" de; divka" fovnou kata; tw'n peri; to;n Brou'ton eijsh'gen, wJ" a[ndra prw'ton ejn ajrcai'" tai'" megivstai" ajnh/rhkovtwn a[kriton, kai; kathvgoron ejpevsthse Brouvtou me;n Leuvkion Kornifivkion, Kassivou de; Ma'rkon ∆Agrivppan.
F7 Vell. 2, 69, 5. At lege Pedia, quam consul Pedius, collega Caesaris, tulerat, omnibus qui Caesarem patrem interfecerant aqua ignique damnatis interdictum erat. Quo … Cassium. F8 Plut. Brut. 27, 4. oJ ga;r nevo" Kai'sar … eujqu;" … ∆Agrivppan: wjflivskanon ou\n ta;" divka" ejrhvma", ajnagkazomevnwn fevrein yh'fon tw'n dikastw'n.
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5. M. VIPSANIUS AGRIPPA
Traduzione T 14 Nic. Dam. Vit. Caes. 7. Agrippa, che era stato educato nella stessa scuola e che sovrabbondava d’affetto per lui, aveva un rapporto di massima confidenza ed amicizia con il giovane Cesare. T 15 Mar. Vict. Ars 4, 6. Egli (L. Calvo) scrisse optimus maximus non come noi con la lettera V. Il divino Augusto scrisse al genitivo huius domos meae con la O e non come noi con la V; Messala, Bruto e Agrippa scrissero simus al posto di sumus. Traduzione FF 7-8 Contro Gaio Cassio. F7 Proprio in quel tempo Capitone, mio zio, uomo dell’ordine senatorio, si associò all’accusa di Agrippa contro Gaio Cassio. F8 Subito presentò le accuse di omicidio contro Bruto e i suoi complici, per avere ucciso senza giudizio l’uomo che occupava il primo posto nelle magistrature più importanti, e stabilì come accusatore di Bruto Lucio Cornificio e di Cassio Marco Agrippa. Contesto F7 Vell. 2, 69, 5. Ma in virtù della legge Pedia, che il console Pedio, collega di Cesare, aveva presentato, tutti coloro che avevano partecipato all’uccisione di Cesare padre, una volta condannati, erano stati esiliati. Proprio … Cassio. F8 Plut. Brut. 27, 4. Infatti Cesare il giovane … subito Agrippa: gli imputati non erano presenti al dibattimento, mentre i giudici erano obbligati a votare.
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
F9 Pro reo ignoto (= M 1842 Vipsanius Agrippa fr. 2) Cum defenderet reum, fuit accusator qui diceret: «Agrippa, Marce et quod in medio est» (uolebat Vipsanium intellegi); [fuit qui diceret] «concurrite! Agrippa, malum habebis; responde, sis, ea, Marce uterque».
F 10 De tabulis omnibus signisque publicandis (= M 1842 Vipsanius Agrippa fr. 3) Exstat certe eius oratio magnifica et maximo ciuium digna de tabulis omnibus signisque publicandis, quod fieri satius fuisset quam in uillarum exilia pelli. F9 Sen. Con. 2, 4, 13-14. Tanta autem [Marcus] sub diuo Augusto libertas fuit ut praepotenti tunc M. Agrippae non defuerint qui ignobilitatem exprobrarent. Vipsanius Agrippa fuerat, Vipsani nomen quasi argumentum paternae humilitatis sustulerat et M. Agrippa dicebatur. Cum … uterque. Mihi uidetur admiratione dignus diuus Augustus, sub quo tantum licuit, sed horum non possum misereri qui tanti putant caput potius quam dictum perdere.
F 10 Plin. Nat. 35, 26. Sed praecipuam auctoritatem publice tabulis fecit Caesar dictator Aiace et Media ante Veneris Genetricis aedem dicatis, post eum M. Agrippa, uir rusticitati propior quam deliciis. Exstat … pelli.
F 9 2 Agrippa, Marce Winterbottom Agrippa Marce Lipsius agrippam a Agrippae Shackleton Bailey || 3 medio Lipsius medium a || uolebat codd. uoluit Håkanson [fuit qui diceret] del. Kiessling serv. Winterbottom || 4 Agrippa a Winterbottom Agrippae Schulting || habebis a habebit Gronov Winterbottom habebis dett. Schulting || responde, sis, ea, Marce uterque conieci responde sis, Marce uterque Ribbeck et alii edd. inter quos Winterbottom responderitis Schulting ea Marce Bursian diis eam arce A respondid eam arce B respondis diis ea Marce V F 10 2 oratio BVR ratio F || 3 fieri BFdTha fierit V1R fieret V2 || satius B satis VRF
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5. M. VIPSANIUS AGRIPPA
F9 In difesa di un ignoto accusato. Mentre difendeva un accusato l’accusatore disse: «O Agrippa, Marco e ciò che c’è in mezzo» (si riferiva a Vipsanio) [vi fu chi disse] «Correte! Agrippa, te la passerai male; rispondi a questo invito, per favore, Marco primo e secondo». F 10 Sull’acquisizione da parte dello stato di tutti i quadri e di tutte le statue. Rimane una sua splendida orazione, degna del più grande dei cittadini, con la proposta che lo stato mettesse a disposizione di tutti ogni quadro e ogni statua: sarebbe stato meglio prendere questa decisione, piuttosto che le opere d’arte fossero esiliate nelle ville. Contesto F9 Sen. Con. 2, 4, 13-14. Sotto il divino Augusto vi fu una così grande libertà di parola che non mancarono quanti rimproverassero a Marco Agrippa, che allora era potentissimo, la sua umile origine. Egli era stato Vipsanio Agrippa, ma aveva rimosso il nome come una prova dell’umile origine paterna e veniva chiamato Marco Agrippa. Mentre … secondo. Mi sembra che sia degno di ammirazione il divino Augusto, sotto il quale si godette di tale libertà, ma non posso provare simpatia per costoro che pensano che sia meglio perdere la testa piuttosto che rinunziare ad una battuta di spirito. F 10 Plin. Nat. 35, 26. Ma Cesare dittatore conferì pubblicamente una notevole importanza ai quadri dedicando quelli di Aiace e di Medea davanti al tempio di Venere Genitrice; dopo di lui agì così Marco Agrippa, un uomo più vicino alla semplicità contadina che alle raffinatezze. Rimane … ville.
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Commento Uomo politico di prim’ordine, generale abile e fortunato, Agrippa fu anche letterato di un certo rilievo. Egli, come Mecenate, Messalla Corvino ed Augusto stesso, fu autore di un’autobiografia; inoltre compose alcune opere tecniche: i Commentarii de aquis, riguardanti gli acquedotti, i flussi d’acqua a Roma ed i problemi tecnici che comportava la gestione dell’approvvigionamento idrico (ampiamente utilizzati da Frontino: cf. Hanslik 1961, 1269-1270 e Roddaz 1984, 572-573); i Commentarii geographici, uno scritto che godette, forse, di notevole fortuna, ma la cui esistenza è ancora oggi oggetto di discussione: cf. Hanslik 1961, 1270-1272 e Roddaz 1984, 573-591 e 683-684. Sulla formazione culturale di Agrippa sappiamo abbastanza poco. Nicola di Damasco ci informa che fu educato nella stessa scuola di Augusto (T 14, condivisa da Roddaz 1984, 32), ma ciò non implica che ne abbia condiviso gli orientamenti letterari e stilistici: dubbi sulla veridicità della testimonianza sono espressi da Marx 1925, 184, mentre Bardon 1956, 82, pur accettando la notizia, osserva che non si può precisare se la scuola ricordata sia stata quella di Apollodoro, di Capro o di Epidio. Agrippa fu sicuramente lettore di Sallustio (Sen. Ep. 94, 46); la testimonianza di Mario Vittorino (T 15) sembra indicare che egli sia stato un cultore di forme grammaticali più rare di quelle usuali. Non sappiamo quante orazioni Agrippa abbia pronunciato né se siano state pubblicate. La sua attività in questo campo dovette comunque essere abbastanza significativa: F. Münzer (Beiträge zur Quellenkritik der Naturgeschichte des Plinius, Berlin 1897, 397-398) aveva ritenuto che la testimonianza di Plin. Nat. 36, 121 (Adicit ipse [= Agrippa] aedilitatis suae commemoratione et ludos diebus undesexaginta factos et gratuita praebita balinea CLXX […]) dimostrasse che Agrippa aveva conferito forma oratoria alle relazioni sulla sua attività di edile; tuttavia, come già osservava Bardon 1956, 81, «ce serait trop extraordinaire pour que Pline ne l’eût pas remarqué». Possibile è invece che egli abbia pronunciato orazioni durante l’anno dell’edilità, ma non ce ne resta traccia. C’è la possibilità che questa commemoratio aedilitatis possa esser ritenuta parte dell’autobiografia: cf. Roddaz 1984, 570-571. Cassio Dione ci ha trasmesso in 52, 2-40 due lunghi discorsi tenuti da Agrippa (52, 2-13) e Mecenate (52, 14-40) ad Ottaviano, nei quali si sostenevano rispettivamente l’opportunità di conservare l’ordinamento repubblicano e la necessità di dare a Roma un governo monarchico. 40
5. M. VIPSANIUS AGRIPPA
Sulle ragioni addotte per non accoglierli in questa edizione rimando all’Appendice 1 alle pp. 21-22. FF 7-8 L’assassinio di Cesare determinò una durissima reazione da parte di Ottaviano (cf. Levi 1994, 41-120), che nel 43 a.C., sulla base della lex Pedia de interfectoribus Caesaris, mise immediatamente sotto accusa Bruto e Cassio: cf. F. Münzer, RE XIX 1, 1937, 38-40, Bauman 1970, 171-179 e Roddaz 1984, 41-42. Ottaviano non volle assumere personalmente l’onere dell’accusa, probabilmente per evitare di trasformarla in una questione esclusivamente familiare. Perciò, secondo Plutarco, l’affidò a Lucio Cornificio e a Marco Vipsanio Agrippa, entrambi suoi fedelissimi. Velleio Patercolo riferisce che Agrippa fu appoggiato da suo zio Capitone: cf. infra 89-90. Certamente per gli accusatori non fu difficile conseguire la vittoria, in quanto gli accusati non erano presenti e la loro responsabilità era evidente. Nulla possiamo dire né sul contenuto né sullo stile del discorso. Nel contesto di F 7 accetto il testo di Woodman 1983, che non espunge damnatis ma lo traspone, seguendo una proposta del Gruner, prima di aqua. F9 È opportuno notare che, a rigore, questo frammento, più che di Agrippa, è del suo ignoto avversario. Il discorso di cui Seneca Retore fornisce notizia, cogliendo l’occasione per esaltare la magnanimità di Ottaviano garante della libertas, è piuttosto misterioso: non sappiamo l’oggetto del contendere, non conosciamo l’imputato, non siamo informati sugli accusatori. L’unico elemento che si può evincere è che l’orazione fu occasione per attacchi violenti contro Agrippa e la sua famiglia. È possibile che il discorso sia stato pubblicato, ma la nota affermazione senecana sulla sua personale esperienza di ascolto dei grandi oratori (Sen. Con. 1 praef. 2) impedisce di esserne certi: scettico sulla pubblicazione Roddaz 1984, 571. Il passo al cui interno è contenuto il frammento è piuttosto controverso, come si può desumere dall’apparato. Håkanson 1984, 241-243 era già intervenuto per discutere alcune incongruenze del paragrafo precedente ed aveva introdotto numerose correzioni; tuttavia anche la parte finale del paragrafo 13 non gli risultava del tutto chiara, tanto che fu costretto ad inserire numerose congetture, ma anche a riconoscere in apparato che il locus restava comunque dubius. Credo che le correzioni 41
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
accolte dall’editore teubneriano non possano però venire accettate, ad eccezione di una. Vediamo i singoli casi: 1) l’apostrofe dello sconosciuto accusator, che si rivolge a Marco Agrippa alludendo a ciò che sta in mezzo tra il prenome ed il cognome, cioè al nomen Vipsanio, non guadagna in efficacia e sarcasmo se si legge con Shackleton Bailey Agrippae con un vocativo plurale piuttosto che Agrippa secondo la proposta di Giusto Lipsio ripresa da Winterbottom; all’errato agrippam della tradizione si può perciò sostituire il vocativo singolare senza alcuna difficoltà; 2) non mi sembra giustificata la decisione di stampare uoluit al posto del tradito uolebat, senza neppure segnalare la variante in apparato: non credo che vi siano ragioni che possano richiedere questo intervento; 3) nella parte seguente il testo da me proposto si basa su un numero minimo di interventi rispetto alla tradizione: fuit qui diceret va espunto perché postula un altro accusator o un ulteriore personaggio intervenuto nel dibattito; se si accetta tale espunzione, viene meno la necessità di correggere come Winterbottom habebis di a in habebit, visto che non è più una terza persona a parlare, bensì l’accusator; più complessa è la questione della frase seguente, dove il testo dei codici è confuso e privo di senso: la correzione più accettabile è ancora quella di Ribbeck, accolta da Winterbottom, ma la presenza di eam in A e B e di ea in V mi induce ad introdurre anche l’ea di Bursian, con l’ovvia integrazione dovuta a ragioni sintattiche: respondeo costruito con ad e l’accusativo non crea problemi, in quanto è forma ampiamente attestata in latino; il nisi proposto da Schulting potrebbe essere una buona correzione, ma dà l’impressione di essere una lettura facilior e di allontanarsi un po’ troppo dal testo tradito; infine non vedo la necessità di sostituire l’uterque tradito con alterque come Gertz e Håkanson stesso: qui la battuta risulta più efficace se si allude ad entrambi gli Agrippa (Marco e Vipsanio), non prima ad uno e poi all’altro. F 10 Plinio il Vecchio testimonia l’esistenza ai suoi tempi di un’orazione de tabulis signisque publicandis di Agrippa. L’espressione exstat oratio è un indizio abbastanza forte per presumere la sua pubblicazione, come si può evincere da un preciso parallelo tacitiano riguardante Tiberio: cf. Ann. 2, 63, 11, exstat oratio qua magnitudinem uiri, uiolentiam subiectarum ei gentium et quam propinquus Italiae hostis, suaque in destruendo eo consilia extulit. Anche P. Gros, Aurea templa: recherches 42
5. M. VIPSANIUS AGRIPPA
sur l’architecture religieuse de Rome à l’époque d’Auguste, Roma 1976, 157 accetta l’esistenza di un “célèbre discours” di Agrippa. È verosimile che l’orazione risalga agli anni intorno al 20 a.C., in concomitanza con l’attività di governo esercitata da Agrippa a Roma durante l’assenza di Augusto: cf. Roddaz 1984, 245. Si trattò sicuramente di un’orazione deliberativa, che toccava un argomento di politica culturale piuttosto interessante. Agrippa, seguendo probabilmente indicazioni augustee, proseguì in questa direzione, volendo garantire alla popolazione la fruizione delle opere d’arte conservate a Roma; per raggiungere questo scopo egli propose di mettere a disposizione del pubblico i quadri e le statue delle collezioni private. Il provvedimento rientra nel novero delle iniziative prese dal princeps «a favore delle arti e dell’educazione del gusto artistico dei Romani» (I. Lana in Lana-Maltese 1998, II, 646; cf. anche Cucheval 1893, I, 98-99). L’opera del collaboratore di Augusto assunse senz’altro un valore positivo anche agli occhi degli antichi: Plinio il Vecchio dichiara l’orazione magnifica e degna di un maximus ciuis; anche la relativa quod fieri … pelli, che potrebbe derivare dall’orazione di Agrippa, ma più probabilmente è l’espressione di un giudizio pliniano, conferma questo atteggiamento. Nulla possiamo dire della lingua e delle argomentazioni utilizzate: Roddaz 1984, 572 afferma che «on retrouve certainement chez Agrippa, le mépris d’Auguste pour le cacozelon», ma tale giudizio non può sicuramente essere giustificato dall’espressione uir rusticitati propior quam deliciis, che si riferisce in generale ai suoi gusti e probabilmente alle sue origini, ma non sicuramente allo stile dell’orazione.
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
6. Lucius Cornificius M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = Ø. Bibliografia specifica F. Münzer, RE IV 1 1900, 1623-1624; K. L. Elvers, NP 3, 1997, 199; PIR2 I, C 1503; Szramkiewicz 1976, I, 135 e II, 395-396; David 1992, 893-894; Sumner 1970. Dati biografici La data di nascita di Cornificio è incerta: David 1992 azzarda l’80 a.C., ma tale indicazione è condizionata dall’identificazione del personaggio con colui che accusò nel 52 Tito Annio Milone de ambitu dopo gli Appi ed insieme a C. Ateio: cfr. Asc. Mil. 34, 5. In realtà è molto difficile che il L. Cornificio attivo come subscriptor di Agrippa possa es-
Frammenti Cf. F 8 Commento Cf. F 8 44
6. L. CORNIFICIUS
sere identificato con tale personaggio, in quanto, come nota Sumner 1970, 264 e n. 4, il subscriptor è spesso un giovane e non necessariamente un personaggio già affermato come doveva essere l’accusatore di Milone. In ogni caso non fu sicuramente lo stesso personaggio che accusò Milone di omicidio in Senato, come testimonia ancora Asc. Mil. 32, 7, poiché il praenomen di quest’ultimo era Publius. Va allora accettata l’ipotesi di P. Wissowa, RE IV 1, 1900, 1623, secondo il quale il Cornificio subscriptor di Agrippa era il figlio dell’accusatore di Milone. Cornificio, la cui famiglia era probabilmente originaria di Lanuuium (David 1992, 893), fu probabilmente governatore dell’Illirico nel 38 a.C., comandante del corpo di spedizione a Taormina contro Sesto Pompeo nel 36, console nel 35, quindi proconsole d’Africa, trionfatore nel 32 a.C.; rinnovò secondo Svetonio il tempio di Diana sull’Aventino. Fu legato in qualche modo da parentela a Quinto Cornificio, proconsole d’Africa dal 44 al 42 a.C., genero di Aurelia Orestilla, la vedova di Catilina (Szramkiewicz 1976, I, 135). Non sappiamo quando sia morto.
Traduzione Cf. F 8
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
7. Velleius Capito M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = Ø. Bibliografia specifica K. Ziegler, RE VIII A, 1955, 637-638; David 1992, 900-901; Sumner 1970. Dati biografici Velleio Capitone, zio dello storico Velleio Patercolo, veniva probabilmente dalla Campania. David 1992, 900 gli attribuisce un rango
Frammenti Cf. F 7
Commento Plutarco non nomina Capitone, ma le due notizie non sono contraddittorie, in quanto l’impiego del verbo subscribo indica l’affiancarsi di uno o altri accusatori a quello principale (Santalucia 1998, 168-169; fonti riportate a n. 209) e, di fatto, le testimonianze confermano che fu 46
7. VELLEIUS CAPITO
equestre, ma la testimonianza del nipote lo definisce uir ordinis senatorii: cf. F 7. Le due testimonianze non sono probabilmente contraddittorie, se pensiamo che molte famiglie equestri ottennero un rango più elevato in considerazione della loro fedeltà ad Augusto. Poiché lo storico Velleio Patercolo nacque tra il 20 e il 19 a.C., la sua data di nascita è forse da fissare intorno al 65 a.C. e questo fatto indurrebbe a dubitare ancora più fortemente dell’ipotetica datazione all’80 a.C. della nascita dell’altro subscriptor di Agrippa, Lucio Cornificio.
Traduzione Cf. F 7
Agrippa a sostenere il ruolo più importante in questo processo: la notizia velleiana non è comunque chiarissima e non è possibile comprendere se Capitone avesse già raggiunto il rango senatoriale prima del processo. 47
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
8. C. Albucius Silus M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = Ø. Bibliografia specifica P. Von Rohden, RE I, 1893, 1331); K. Gerth, RE Supplementband III, 1918, 71-77; C. Walde, NP 1, 1996, 442-443; PIR2 I, A 489; Aldrete 1999, 31; Assereto 1967; Bardon 1956, 117; Bornecque 1902, 145-148; Casamento 2002, 27-33; Cucheval 1893 I, 241-242 e 284-287; Fairweather 1981, 288-291; Hoffa 1909, 25-29; Laffi 2001; Lebek 1966, 360-372; Lindner 1861; Magnaldi 1997; Spina 2004, 201-213; Sussman 1978, 96-99 e 108-109. Dati biografici Gaio Albucio Silo nacque a Novara probabilmente tra il 60 e il 50 a.C.: Bornecque 1902, 146 e Assereto 1967, 10 propongono il 60-55 a.C.; Kaster 1995, 314 scende al 55-50 a.C. La forma del suo nome non
Testimonianze T 16 Sen. Con. 1, 3, 8 (= Assereto 1967, test. 2). Improbat Albucium quod haec non tamquam particulas incurrentes in quaestionem tractasset sed tamquam problemata philosophumena. T 17 Sen. Con. 7 praef. 1-9 (= Assereto 1967, test. 1). Instatis mihi cotidie de Albucio. Non ultra uos differam, quamuis non audierim frequenter, cum per totum annum quinquies sexiesue populo diceret, ad secretas exercitationes non multi inrumperent; quos tamen gratiae suae paenitebat: alius erat, cum turbae se committebat, alius cum paucitatem contempserat. Incipiebat enim sedens et, si quando illum produxerat calor, exsurgere audebat. Illa intempestiua in declamationibus eius philo48
8. C. ALBUCIUS SILUS
è tramandata uniformemente, ma le testimonianze più attendibili presentano Albucius Silus: cf. CIL V 6513 e 6530; Assereto 1967, 9 n. 1 e Kaster 1995, 314. Non sappiamo nulla della sua formazione né della sua educazione: frequentò sicuramente le scuole di retorica e divenne retore egli stesso. Rivestì probabilmente non prima del 25 l’edilità nella sua città; Svetonio ci testimonia che abbandonò Novara in seguito ad un vergognoso incidente processuale e si recò a Roma dove fu accolto tra gli amici di Lucio Munazio Planco probabilmente dopo il 25: cf. T 23. Qui Albucio acquisì una grande notorietà come retore, aprì proprie sale e si dedicò anche alla filosofia, ascoltando le lezioni di Papirio Fabiano. Sostenne alcune cause in tribunale, tra cui una a Milano di fronte al proconsole Lucio Pisone (cf. infra F 11), ma, dopo una sconfitta, si ritirò definitivamente e si dedicò esclusivamente alle declamazioni scolastiche. Pubblicò forse nella capitale il suo trattato di retorica; poi, dopo il suo floruit, fissato da Gerolamo nel 6 a.C., si ammalò gravemente per un ascesso od un tumore e ritornò a Novara dove si lasciò morire di fame in una data imprecisata nel primo ventennio del primo secolo: Bornecque 1902, 147 e Assereto 1967, 12 propendono per il 10 d.C.; Lebek 1966, 368 propone una data dopo il 16; Kaster 1995, 315, dopo una convincente analisi dei passi proposti da Lebek a sostegno della sua tesi, conclude per un’epoca imprecisata tra il 10 e il 15 d.C.
Traduzione T 16 Sen. Con. 1, 3, 8 (= Assereto 1967, test. 2). [Cestio] rimproverava Albucio perché non aveva trattato questi punti come singoli elementi specifici della questione, ma come argomenti filosofici. T 17 Sen. Con. 7 praef. 1-9 (= Assereto 1967, test. 1). Ogni giorno mi incalzate a proposito di Albucio: non vi rimanderò oltre, quantunque non l’abbia ascoltato sovente, poiché in tutto l’anno parlava al pubblico cinque o sei volte e non molte persone assistevano alle sue esercitazioni private; tuttavia costoro si pentivano del loro favore: era un uomo quando si affidava alla folla, un altro quando si era disinteressato di un piccolo numero di uditori. Infatti cominciava seduto e, se mai l’eccitazione lo portava ad emozionarsi, osava alzarsi. Quella sua filosofia, inoppor49
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sophia sine modo tunc et sine fine euagabatur. Raro totam controuersiam implebat: non posses dicere diuisionem esse, non posses declamationem; tamquam declamationi multum deerat, tamquam diuisioni multum supererat. Cum populo diceret, omnes uires suas aduocabat et ideo non desinebat: saepe declamante illo ter bucinauit, dum cupit in omni controuersia dicere non quidquid debet dici sed quidquid potest. Argumentabatur moleste magis quam subtiliter: argumenta enim argumentis colligebat et, quasi nihil esset satis firmum, omnes probationes probationibus aliis confirmabat. 2 Erat et illud in argumentatione uitium, quod quaestionem non tamquam partem controuersiae sed tamquam controuersiam implebat: omnis quaestio suam propositionem habebat, suam exsecutionem, suos excessus, suas indignationes, epilogum quoque suum. Ita unam controuersiam exponebat, plures dicebat. Quid ergo? Non omnis quaestio per numeros suos implenda est? Quidni? Sed tamquam accessio, non tamquam summa. Nullum habile membrum est si corpori par est. Splendor orationis quantus nescio an in ullo alio fuerit. Non hexis magna, sed phrasis. Dicebat enim citato et effuso cursu sed praeparatus. Extemporalis illi facultas, ut adfirmabant qui propius norant, non derat, sed putabat ipse sibi deesse. Sententiae, quas optime Pollio Asinius albas uocabat, simplices, apertae, nihil occultum, nihil insperatum adferentes, sed uocales et splendidae. 3 Adfectus efficaciter mouit, figurabat egregie, praeparabat suspiciose. Nihil est autem tam inimicum quam manifesta praeparatio; apparet enim subesse nescioquid mali. Itaque moderatio est adhibenda, ut sit illa praeparatio, non confessio. Locum beate implebat. Non posses de inopia sermonis Latini queri cum illum audires: tantum orationis cultae fluebat. Numquam se torsit quomodo diceret, sed quid diceret. Sufficiebat illi in quantum uoluerat explicandi uis; itaque ipse dicere solebat, cum uellet ostendere non haesitare se in electione uerborum: «Cum rem animus occupauit, uerba ambiunt». Inaequalitatem in illo mirari licebat: splendidissimus erat; idem res dicebat omnium sordidissimas: acetum et puleium et [Damam
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tuna nelle declamazioni, si diffondeva allora senza misura e senza fine. Raramente portava a termine l’intera controversia: non si sarebbe potuto affermare che ci fossero una divisione e una declamazione; come molto mancava alla declamazione, così la divisione aveva molto di eccessivo. Quando parlava di fronte al pubblico, chiamava a raccolta tutte le sue forze e per questo non smetteva. Spesso, mentre declamava, fu dato per tre volte il segnale di conclusione, mentre egli cercava di dire in ogni controversia non tutto ciò che si doveva, ma tutto ciò che si poteva dire. Argomentava con pedanteria più che con sottigliezza; univa ragionamenti a ragionamenti e confermava ogni prova con altre prove come se nulla fosse abbastanza sicuro. 2 Nel suo ragionamento era anche difettoso il fatto che trattava a fondo un tema non come una parte della controversia, ma come una controversia a sé stante: ogni tema aveva la sua enunciazione, la sua trattazione, le sue digressioni, le sue invettive ed anche il suo epilogo. Così esponeva una sola controversia, ma in realtà ne pronunciava di più. ‘Che dunque? Forse che ogni tema non deve essere trattato a fondo in tutti i suoi elementi?’ Certo! Ma come un’aggiunta, non come il tutto. Nessun membro è capace di agire, se è uguale al corpo. Non so se qualcun altro abbia avuto un’eloquenza splendida come la sua. Non aveva una grande facilità, ma un’ottima loquela. Infatti parlava con estrema rapidità e a briglia sciolta, ma dopo essersi preparato. Come affermavano coloro che lo conoscevano più da vicino, non gli mancava la capacità di improvvisare, ma egli stesso riteneva che gli mancasse. Le sue frasi – che Asinio Pollione ottimamente chiama “lucenti” – erano semplici, esplicite, non apportavano nulla di nascosto o di inatteso, ma erano armoniose e magnifiche. 3 Riuscì a muovere gli affetti in modo efficace, usava in modo egregio le figure, preparava con abile arte allusiva il suo discorso. Nulla è poi tanto nocivo quanto una preparazione (troppo) evidente; infatti dà l’impressione che ci sia sotto qualcosa di sbagliato. Perciò bisogna usare moderazione, in modo che si tratti di una preparazione, non di una confessione. Trattava appieno e felicemente l’argomento. Non ci si sarebbe potuti lamentare della povertà della lingua latina nel momento in cui lo si fosse ascoltato: a tal punto fluiva la sua colta oratoria. Non si preoccupò mai per il modo in cui dovesse parlare, ma di che cosa dovesse dire. La capacità di esporre gli bastava per i suoi fini; perciò, volendo mostrare che non esitava nella scelta delle parole, egli stesso diceva: «Quando la mente s’è appropriata dell’argomento, le parole girano». Ci si poteva sorprendere della sua diseguaglianza: era raffinatissimo; eppure trattava anche gli argomenti 51
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et Philerotem] lanternas et spongias; nihil putabat esse quod dici in declamatione non posset. Erat autem illa causa: timebat ne scholasticus uideretur. 4 Dum alterum uitium deuitat, incidebat in alterum, nec uidebat nimium illum orationis suae splendorem his admixtis sordibus non defendi sed inquinari. Et hoc aequale omnium est, ut uitia sua excusare malint quam effugere. Albucius enim non, quomodo non esset scholasticus, quaerebat, sed quomodo non uideretur: nihil detrahebat ex superuacuo strepitu; haec sordida uerba ad patrocinium aliorum adferebat. Hoc illi accedebat inconstantia iudicii: quem proxime dicentem commode audierat, imitari uolebat. Memini omnibus illum omissis rebus apud Fabianum philosophum, tanto iuueniorem, quam ipse erat, cum codicibus sedere; memini admiratione Hermagorae stupentem ad imitationem eius ardescere. 5 Nulla erat fiducia ingenii sui, et ideo adsidua mutatio; itaque dum genera dicendi transfert et modo exilis esse uolt nudisque rebus haerere, modo horridus et squalens potius quam cultus, modo breuis et concinnus, modo nimis se attollit, modo nimis se deprimit, ingenio suo inlusit et longe deterius senex dixit quam iuuenis dixerat; nihil enim ad profectum aetas ei proderat, cum semper studium eius esset nouum. Idiotismos est inter oratorias uirtutes res quae raro procedit. Magno enim temperamento opus est et occasione quadam. Hac uirtute uarie usus est: saepe illi bene cessit, saepe decidit. Nec tamen mirum est si difficulter adprehenditur uitio tam uicina uirtus. […] 6 Raro Albucio respondebat fortuna, semper opinio: quamuis paenituisset audisse, libebat audire. Tristis, sollicitus declamator et qui de dictione sua timeret etiam cum dixisset: usque eo nullum tempus securum illi erat. Haec illum sollicitudo fugauit a foro et tantum unius figurae crudelis euentus [FF 12-14] Erat enim homo summae probitatis, qui nec facere iniuriam nec pati sciret. 8 Et solebat dicere: «Quid habeo quare in foro dicam, cum plures me domi audiant quam quemquam in foro? Cum uolo dico, quamdiu uolo». Et quamuis non fateretur, delectabat illum in declamationibus quod sche-
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più bassi, l’aceto, il puleggio, le lanterne e le spugne; pensava che non ci fosse nulla che non si potesse dire in una declamazione. Il motivo però era che temeva di sembrare un oratore di scuola. 4. Evitando un difetto, cadeva in un altro e non si rendeva conto che quell’eccessiva magnificenza della sua oratoria non era rafforzata ma insozzata dall’apporto di queste sordidezze. Ciò capita a tutti coloro che preferiscono giustificare i propri difetti piuttosto che eliminarli. Infatti Albucio non cercava il modo di non essere oratore di scuola, ma di non sembrarlo: non eliminava nulla dello strepito inutile; usava queste parole sordide per giustificarne altre. Per questo gli si aggiungeva un gusto vacillante: voleva imitare colui che aveva ascoltato parlar adeguatamente appena prima. Ricordo che egli, lasciata ogni altra occupazione, sedeva con dei quaderni d’appunti davanti al filosofo Fabiano, che era più giovane di lui di un numero di anni equivalente alla sua età; lo ricordo mentre, attonito per l’ammirazione di Ermagora, si esaltava nell’imitarlo. 5 Non aveva alcuna fiducia nel suo ingegno e perciò cambiava continuamente. Perciò mentre copiava due stili oratori ed ora voleva essere scarno ed aderire ai nudi fatti, ora rozzo e trascurato più che raffinato, ora breve e armonioso, ora si elevava troppo ora si abbassava eccessivamente, si prese gioco del suo ingegno e da vecchio parlò di gran lunga peggio che da giovane; infatti l’età non lo aveva aiutato a far progressi, dal momento che la sua predilezione era sempre diversa. L’idiotismo è tra le qualità oratorie quella che raramente si esercita bene. Infatti c’è bisogno di un gran temperamento e di un’occasione. Egli se ne servì in vario modo: spesso gli andò bene, spesso fallì. Non c’è tuttavia da meravigliarsi se s’impara con difficoltà una qualità positiva tanto vicina ad un difetto. […] 6 Raramente la buona sorte bussava alla porta di Albucio, ma sempre si pensava bene di lui: quantunque ci si fosse pentiti di averlo ascoltato, faceva piacere ascoltarlo. Era un declamatore tetro, preoccupato e ansioso riguardo al suo modo di parlare anche dopo avere finito; fino a quel momento non era tranquillo neppure per un istante. Questa preoccupazione e l’esito infausto di una sola figura lo indussero ad evitare il foro. [FF 12-14] Era infatti un uomo della massima onestà, che non era in grado né di commettere un’ingiustizia né di subirla. 8 Aveva anche l’abitudine di dire: «Quale ragione ho di parlare nel foro dal momento che mi ascoltano a casa più di quanti ascoltino chiunque nel foro? Quando voglio, parlo, parteggio per chi voglio, parlo per tutto il tempo che voglio». E quantunque non lo ammettesse, nelle declamazioni gli faceva piacere il fatto che le figure re53
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mata sine periculo dicebantur. Nec in scholasticis tamen effugere contumelias poterat Cestii, mordacissimi hominis.
T 18 Sen. Con. 7, 1, 20 (= Assereto 1967, test. 3). Passienus et Albucius et praeter oratores magna nouorum rhetorum manus in hanc partem transit; fuerunt et qui in nouercam inueherentur. T 19 Sen. Con. 10, 1, 13-14 (= Assereto 1967, test. 5). Audit illum declamantem Albucius, fastidiosus auditor eorum quibus inuidere poterat; admirabatur hanc Bassi sententiam […] (Idem Latronis illas sententias aiebat tumidas magis esse quam fortes, quae summa hominum admiratione circumferebantur […]) Ipse autem laudabat haec utique adaequaret. T 20 Quint. Inst. 2, 15, 36 (= Assereto 1967, test. 7). Excludunt a rhetorice malos et illi qui scientiam ciuilium officiorum eam putauerunt, si scientiam uirtutem iudicant, sed anguste intra ciuiles quaestiones coercent. Albucius non obscurus professor atque auctor scientiam bene dicendi esse consentit, sed exceptionibus peccat adiciendo «circa ciuiles quaestiones et credibiliter»: quarum iam utrique responsum est.
T 21 Quint. Inst. 3, 3, 4 (= Assereto 1967, test. 8). Nec audiendi quidam, quorum est Albucius, qui tris modo primas esse partis uolunt quoniam memoria atque actio natura, non arte contingant: quarum nos praecepta suo loco dabimus; licet Thrasymachus quoque idem de actione crediderit. T 22 Quint. Inst. 3, 6, 62 (= Assereto 1967, test. 9). [Hermagoras] Legales autem quaestiones has fecit: scripti et uoluntatis (quam ipse uocat kata; rJhto;n kai; uJpexaivresin, id est dictum et exceptionem: quorum prius ei cum omnibus commune est, exceptionis nomen minus usitatum), ratiocinatiuum, ambiguitatis, legum contrariarum. Albucius eadem diuisione usus detrahit tralationem, subiciens eam iuridicali. In le54
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toriche si potevano svolgere senza rischi. Neppure negli esercizi scolastici, tuttavia, aveva potuto evitare gli insulti di Cestio, un uomo estremamente mordace. T 18 Sen. Con. 7, 1, 20 (= Assereto 1967, test. 3) = T 10.
T 19 Sen. Con. 10, 1, 13-14 (= Assereto 1967, test. 5). Albucio, un ascoltatore che non sopportava coloro per cui poteva provare invidia, lo [scil. Giulio Basso] ascoltò declamare; apprezzava questa sentenza di Basso […] (Egli affermava che quelle sentenze di Latrone, che godevano della massima ammirazione della gente, erano più gonfie che efficaci […]) Egli stesso lodava invece queste parole come quelle da eguagliare. T 20 Quint. Inst. 2, 15, 36 (= Assereto 1967, test. 7). Anche coloro che hanno considerato la retorica scienza dei doveri civili, ne escludono i disonesti, se ritengono la scienza una virtù, ma la rinchiudono strettamente entro le questioni civili. Albucio, professore e autore non oscuro, è d’accordo sul fatto che si tratti di una scienza del parlar bene, ma sbaglia nei limiti che le attribuisce aggiungendo «riguardo alle questioni civili ed in modo credibile»: a questi due punti ho già risposto. T 21 Quint. Inst. 3, 3, 4 (= Assereto 1967, test. 8). Né bisogna ascoltare alcuni, tra i quali c’è Albucio, che affermano che le parti della retorica sono solo le prime tre, poiché la memoria e l’actio sono doti naturali e non si imparano: di queste ultime daremo a suo luogo i precetti, per quanto Trasimaco abbia avuto la stessa idea sull’ actio. T 22 Quint. Inst. 3, 6, 62 (= Assereto 1967, test. 9). [Ermagora] stabilì le seguenti questioni legali: dello scritto e dell’intenzione (che egli chiama kata; rJhto;n kai; uJpexaivresin, cioè “secondo il detto e l’eccezione”: il primo elemento è comune a tutti, il termine “eccezione” è invece meno usato), sillogistico, dell’ambiguità, delle leggi contrarie. Albucio, avendo usato la medesima divisione, esclude l’eccezione declinatoria sotto55
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galibus quoque quaestionibus nullum putat esse qui dicatur ratiocinatiuus. T 23 Suet. Gramm. 30, 1-6 (= Assereto 1967, test. 6). C. Albucius Silus, Nouariensis, cum aedilitate in patria fungeretur, cum forte ius diceret, ab iis contra quos pronuntiabat pedibus e tribunali detractus est. Quod indigne ferens statim contendit ad portam et inde Romam receptusque in Planci oratoris contubernium, cui declamaturo mos erat prius aliquem qui ante diceret exorare, suscepit eas partes atque ita impleuit ut Planco silentium imponeret, non audenti in comparationem se demittere. 2 Sed ex eo clarus propria auditoria instituit, solitus proposita controuersia sedens incipere et calore demum prouectus consurgere ac perorare. Declamabat aut genere uario, modo splendide atque ornate tum – ne usque quaque scholasticus existimaretur – circumcise ac sordide et tantum non triuialibus uerbis. 3 Egit et causas, uerum rarius dum amplissimam quamque sectatur nec alium in ulla locum quam perorandi. 4 Postea renuntiauit foro partim pudore partim metu: [F 12 a] [F 11] 6 Iam autem senior ob uitium uomicae Nouariam rediit conuocataque plebe, causis propter quas mori destinasset diu ac more contionantis redditis, abstinuit cibo.
T 24 Hier. Ad Olymp. 193, 3 = 6-5 a.C. (= Assereto 1967, test. 10). Albucius Silo Nouariensis clarus rhetor agnoscitur. T 25 Sicardus Cremonensis, Chronicon (Migne 213, 446-447). Temporibus Caesaris Octauiani Augusti Falcidius legem tulit quae Falcidia nominatur. […] Albucius Nouariensis et Messala Coruinus rhetores fuerunt.
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ponendola alla questione giudiziale. Egli pensa anche che nelle questioni legali non vi sia alcun elemento che possa esser definito sillogistico. T 23 Suet. Gramm. 30, 1-6 (= Assereto 1967, test. 6). Gaio Albucio Silo di Novara, mentre si trovava a presiedere un dibattimento quando rivestiva la carica di edile in patria, fu tirato via per i piedi dal tribunale da coloro contro i quali stava pronunciando il giudizio. Sentendosi profondamente insultato da quell’atto, si diresse subito verso la porta e da lì a Roma, dove fu accolto nel circolo dell’oratore Planco; questi, quando aveva intenzione di declamare, aveva l’usanza di persuadere qualcuno a parlare prima di lui; Albucio assunse quel compito e lo svolse talmente bene da imporre il silenzio a Planco, che non osava confrontarsi con lui. 2 Divenuto famoso per quell’episodio, allestì proprie sale di declamazione; aveva l’abitudine di cominciare seduto, una volta presentato l’argomento, e di balzare in piedi e perorare dopo essersi infiammato; egli declamava in modo vario, ora con magnificenza e grande cura ora con uno stile stringato, basso e con termini pressoché triviali, per timore di essere ritenuto dappertutto un oratore di scuola. 3 Trattò anche cause in tribunale, ma abbastanza raramente, in quanto cercava solo le più importanti e non si assumeva mai altro compito se non quello di perorare. 4 Poi rinunciò al foro in parte per vergogna ed in parte per timore: [F 12 a] [F 11] 6 Ormai invecchiato, sofferente per via di un ascesso, ritornò a Novara e convocata la plebe e spiegate a lungo e secondo il suo costume di oratore le ragioni per cui aveva deciso di morire, si astenne dal cibo. T 24 Hier. Ad Olymp. 193, 3 = 6-5 a.C. (= Assereto 1967, test. 10). Albucio Silo di Novara si segnala come famoso retore. T 25 Sicardo di Cremona, Chronicon (Migne 213, 446-447). Ai tempi di Cesare Ottaviano Augusto Falcidio propose la legge che si chiama Falcidia. […] furono retori Albucio di Novara e Messala Corvino.
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Frammenti F 11 In cognitione caedis Mediolani. […] apud L. Pisonem proconsulem defendens reum cum cohiberent lictores nimias laudantium uoces et ita excanduisset ut, deplorato Italiae statu, quasi iterum in formam prouinciae redigeretur, M. insuper Brutum cuius statua in conspectu erat inuocaret legum ac libertatis [auctorem ac] uindicem, paene poenas luit.
F 11 Suet. Gramm. 30, 5. Et rursus in cognitione caedis Mediolani apud … luit.
F 11 2 proconsulem OWNGB personalem V || cohiberent lictores O NG BV cohiberent ditionem W cohibente lictore Stephanus || 3 et ita excanduisset Roth ita excanduisset Decembrius excanduit Muretus et excanduisset B ita excanduisse et V ita excanduisse NG || 5 legum codd. regum U Decembrius (qui scripsit se in Hersfeldensi hoc legisse) Robinson || 5-6 legum ac libertatis [auctorem ac] uindicem Magnaldi ac libertatis auctorem ac uindicem O Decembrius legum auctorem ac libertatis uindicem Della Corte regum uindicem ac libertatis auctorem tempt. Vacher
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Traduzione F 11 In un processo di omicidio a Milano. E un’altra volta rischiò di essere punito mentre difendeva un accusato in un processo di omicidio a Milano di fronte al proconsole Lucio Pisone; poiché i littori reprimevano le eccessive grida di lode, egli diede talmente in escandescenze che, deplorata la condizione dell’Italia, come se fosse di nuovo ridotta a provincia, invocò inoltre Marco Bruto, di cui era visibile una statua, come promotore delle leggi e difensore della libertà. Contesto F 11 Suet. Gramm. 30, 5. E un’altra volta rischiò … libertà.
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FF 12-14 In centumuirali iudicio F 12 Placet tibi rem iureiurando transigi? Iura, sed ego iusiurandum dabo: iura per patris cineres, qui inconditi sunt, iura per patris memoriam F 12 a Iura per patris matrisque cineres qui inconditi iacent F 13 non detuli condicionem; schema dixi. F 14 ista ratione schemata de rerum natura tolluntur.
FF 12-13-14 Sen. Con. 7 praef. 7. Nam in quodam iudicio centumuirali, cum diceretur iurisiurandi condicio aliquando delata ab aduersario, induxit eiusmodi figuram qua illi omnia crimina regereret. Placet, inquit … memoriam; et executus est locum. Quo perfecto surrexit L. Arruntius ex diuerso et ait [F 4] Clamabat Albucius: non … dixi. Arruntius instabat. Centumuiri rebus iam ultimis properabant. Albucius clamabat: ista … tolluntur. Arruntius aiebat: [F 5]. Summa rei haec fuit: centumuiri dixerunt dare ipsos secundum aduersarium Albucii si iuraret; ille iurauit. Albucius non tulit hanc contumeliam, sed iratus calumniam sibi imposuit: numquam amplius in foro dixit. F 12 a Suet. Gram. 30, 4. Nam cum in lite quadam centumuirali aduersario quem ut impium erga parentes incessebat ius iurandum quasi per figuram sic obtulisset: «Iura … iacent», et alia in hunc modum, arripiente eo condicionem nec iudicibus aspernantibus, non sine magna sua inuidia negotium adflixit. =
F 12 2 dabo Gertz dabo a dictabo Gronov || 3 iura per patris matrisque cineres codd. Suetonii iura per patris tui cineres codd. Quintiliani ad Inst. 9, 2, 95 F 14 schema dixi codd. scema dixit Aruntius M || tolluntur codd. tollantur VD
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F 12-14 In un processo davanti ai centumviri. F 12 Sei d’accordo che la questione si accomodi con un giuramento? Giura, ma ti darò io la formula: giura in nome delle ceneri di tuo padre che sono ancora insepolte, giura per la memoria di tuo padre. F 12 a Giura per le ceneri del padre e della madre che giacciono insepolte. F 13 Non ho dato la possibilità di giurare realmente, ho usato una figura. F 14 Così le figure vengono eliminate dal mondo. Contesto FF 12-13-14 Sen. Con. 7 praef. 7 = FF 4-5.
F 12 a Suet. Gramm. 30, 4. Infatti, poiché in un processo davanti ai centumviri diede ad un avversario che accusava di empietà contro i genitori la possibilità di pronunciare un giuramento che egli concepiva come figura: «Giura … insepolte» ed avendo detto altre cose simili, poiché l’avversario colse al volo l’occasione ed i giudici non si opposero, perse la causa non senza suo grande sdegno. = F 6
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Quint. Inst. 9, 2, 95. Vtilis aliquando etiam dissimulatio est, ut in eo (nota enim fabula est) qui, cum esset contra eum dictum «Iura per patris tui cineres», paratum se esse respondit, et iudex condicione usus est, clamante multum aduocato schemata de rerum natura tolli: ut protinus etiam praeceptum sit eius modi figuris utendum temere non esse: cf. F 6.
Commento «Medium uidetur tenuisse Albucius inter oratorem et declamatorem: dixit enim et in foro et in schola» (Lindner 1861, 10); nonostante questa affermazione Albucio preferì nettamente l’attività all’interno di scuole o auditoria. Seneca Retore, che non ebbe l’occasione di ascoltarlo molte volte, riferisce che si esibiva di fronte ad un pubblico poco numeroso non più di cinque o sei volte per anno. Restano poche tracce di alcuni processi in cui intervenne: egli si dedicava soltanto alle cause più significative e si occupava sempre della peroratio; in ogni caso terminò la sua carriera di avvocato dopo esser stato sconfitto pesantemente davanti ai centumuiri e dal quel momento si dedicò solamente all’eloquenza scolastica. Fu considerato da Seneca Retore uno dei più importanti declamatori della sua epoca: egli lo inserisce infatti nella prima quadriga insieme a Marco Porcio Latrone, Giunio Gallione e Arellio Fusco. Tuttavia lo pone al terzo posto dopo Latrone e Gallione, perché «he lacked self-confidence and this caused a lack of proportion in his speeches […] A shy, sensitive man, Albucius was unsure of his abilities in general» (Sussman 1978, 98); a ciò si aggiungevano l’incostanza e l’estrema volubilità, l’incapacità di padroneggiare in modo equilibrato le singole parti dell’orazione, la pedanteria nell’argomentazione; il suo pregio maggiore era uno splendor orationis inesistente in altri autori (cf. T 17). Il sintagma splendor orationis non compare frequentemente: oltre a Seneca Retore lo impiega soltanto Cicerone in de orat. 3, 147, quae ad ipsius orationis laudem splendoremque pertinent, ma il termine splendor, che indica la magnificenza e l’eccellenza raggiunta nell’arte oratoria, ha invece una notevolissima fortuna, perché è espressione tecnica soprattutto in Cicerone. L’Arpinate afferma infatti in Br. 216 a proposito di Curione che hoc uerissime iudicari potest, nulla re una magis oratorem commendari quam uerborum splendore et copia; in Cicerone lo splendor connota positivamente la perfezione dell’eloquenza di 62
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Pompeo Magno (Br. 239), di M. Claudio Marcello (Br. 250) e di Ortensio, di cui si loda lo splendor uerborum (Br. 303): è evidente quindi l’intensità dell’apprezzamento senecano per Albucio Silo. Sulla preferenza di Albucio per un uditorio selezionato cf. Videau 2000, 94-95. Anche dal punto di vista ideologico Albucio Silo fu un personaggio notevole; Seneca ci ricorda il suo interesse, che egli ritiene eccessivo, per i temi diatribici e filosofici (A. Oltramare, Les origines de la diatribe romaine, Genève 1926, 185). «Le tesi a cui partecipa Albucio sono, per lo più, a sfondo filosofico o filosofico-giuridico o ricche di spunti moraleggianti» (Assereto 1967, 25); nelle declamazioni «si può reperire un influsso, sia pure assai generico, della filosofia stoica per quanto riguarda alcuni atteggiamenti, quali, ad esempio, il disprezzo delle ricchezze […] il valore che dà alla sopportazione e al disprezzo della morte […] la caducità delle cose umane» (ibidem). A ciò si affiancano la presenza di numerose gnw'mai e varie reminiscenze che sembrano confermare la testimonianza che lo vuole discepolo di Papirio Fabiano (cf. W. Kroll, RE XVIII 3, 1056-1059): non si può desumere da ciò una sua adesione al pensiero di matrice sestiana, ma un colorito filosofico è alquanto evidente: cf. soprattutto I. Lana, Sextiorum nova et Romani roboris secta, in Idem, Studi sul pensiero politico classico, Napoli 1973, 339-384 (= RFIC 31, 1953, 1-26 e 209-234 = I filosofi sestiani e l’indifferenza di fronte allo stato in Idem, Sapere, lavoro e potere in Roma antica, Napoli 1990, 169-227). F 11 Nella sua edizione di Albucio Silo Anna Maria Assereto valuta diversamente i testi da me indicati come frammenti di orazioni e li colloca tra le testimonianze (F 11 = test. 8) e tra i frammenti di declamazioni (FF 12-14 = 59, 60, 61 incerti nominis): ho ritenuto di dover dissentire 63
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da questa scelta perché Seneca stesso ci informa che questi discorsi furono pronunciati durante processi realmente svoltisi; i loro frammenti devono avere perciò un trattamento autonomo e non esser posti sullo stesso piano delle declamazioni di cui Seneca Retore ci conserva numerosi esempi. Svetonio racconta di un procedimento per omicidio svoltosi a Milano di fronte al procuratore Lucio Pisone. In questa occasione Albucio Silo svolse il ruolo di avvocato difensore. Il discorso appartiene all’oratoria giudiziaria. Di fronte al tentativo dei littori di zittire le grida di coloro che lodavano le sue parole, egli perse la calma e proruppe in una deplorazione della condizione dell’Italia, (Transpadana: cf. Laffi 2001, 224 e n. 46, che riprende R. Syme, Transpadana Italia, «Athenaeum» 63, 1985, 28-36) lamentandosi del fatto che veniva trattata come se fosse stata ridotta nuovamente a provincia; si mise inoltre ad invocare Marco Bruto il cesaricida, quale difensore della libertà. Il procedimento ha contorni molto incerti. Laffi 2001, 231 ricorda che «in circostanze normali il processo si sarebbe svolto dinanzi al tribunale dei magistrati cittadini o sarebbe stato deferito a Roma […] e nell’uno e nell’altro caso si sarebbe svolto secondo la procedura delle quaestiones». Non sappiamo chi sia stato l’imputato: sempre Laffi 2001, ibidem avanza l’ipotesi che si sia trattato di un comes del proconsole o di un militare e che quindi sia stato sottoposto alla sua giurisdizione diretta. Se di quaestio si trattò, fu molto probabilmente quella de sicariis et ueneficis: cf. Santalucia 1998, 145-148 e Kaster 1995, 323. Già Bleicken 1962, 188 richiamava l’attenzione sul fatto che la testimonianza svetoniana sembrava confermare l’esistenza di corti di giustizia per delitti capitali anche lontano da Roma. Il termine cognitio sarebbe stato utilizzato in modo impreciso da Svetonio al posto del corretto quaestio, a meno che Pisone non si sia limitato a presiedere un tribunale locale, in modo analogo al pretore a Roma (ibidem): siamo tuttavia nel campo delle ipotesi. A proposito della reazione di Albucio giustamente argomenta Kaster 1995, 324: «that Albucius took offence at the lictors’attempt to keep order implies that he was already accustomed to, and regarded as his due, the sort of clamorous approval that attended scholastic declamations». Dal punto di vista testuale il frammento si presta ad alcune osservazioni: 1) l’inserzione di ita prima di excanduisset proposta da Roth è opportuna per introdurre la consecutiva successiva. 2) La lezione regum al posto di legum, che Pier Candido Decembrio 64
8. C. ALBUCIUS SILUS
testimonia di aver visto nel perduto codice di Hersfeld, determinerebbe un senso insoddisfacente; bisognerebbe infatti accostare regum a uindicem e leggere regum uindicem ac libertatis auctorem. Se di errore si fosse trattato, non sarebbe impossibile immaginarne l’origine, ma la sua meccanica risulterebbe in ogni caso estremamente macchinosa: cf. Vacher 1993, 246-247. È anche possibile pensare a soluzioni più semplici, come un errore di lettura del Decembrio (Vacher 1993, 247) o un errore di trascrizione della consonante commesso dal copista. Sulla base di queste considerazioni pare preferibile conservare il testo dei codici. 3) Accetto invece la correzione di Magnaldi 1997 legum ac libertatis [auctorem ac] uindicem (ora riportata anche in Magnaldi 2000, 21). Il codice O, che reca auctorem ac al posto di auctorem et è di norma superiore a W (Kaster 1995, 135-146); in questo caso, inoltre, la sua lettura è appoggiata dalla testimonianza di Decembrio (che attesta auctorem ac) e dall’usus di molti scrittori latini, nelle cui opere «si trovano spesso espressioni del tipo uindices libertatis o uindex atque auctor libertatis o legis uindices o legis auctores, mai però una commistione quale legum ac libertatis auctorem ac uindicem» (Magnaldi 1997, 230). Per ripristinare il parallelismo ed accogliere la lezione di O non resta che pensare che sia caduto auctorem dopo legum «per salto da auc- ad ac» e che il sostantivo sia stato reinserito successivamente insieme alla «parola-segnale ac», che doveva indicare il punto dell’intervento di integrazione (ibidem). Il lamento di Albucio è formalmente riferito all’Italia Transpadana, come è provato dall’avverbio iterum, ma è anche evidente che, citando Marco Bruto, egli pensava a tutta l’Italia e dava l’impressione di collocarsi in una posizione non favorevole al nuovo regime. Questa tendenza è confermata anche dall’atteggiamento che Albucio tenne nel pronunciare la suasoria 6 relativa alla scelta di Cicerone di sottomettersi o no ad Antonio. Secondo Seneca Retore, Albucio fu infatti l’unico declamatore ad insinuare il sospetto che non soltanto Antonio fosse ostile a Cicerone, ma che questo sentimento fosse comune agli altri triumviri: l’espressione roga Cicero, exora unum ut tribus seruias (Suas. 6, 9) confermerebbe questa tesi. È probabile che Albucio abbia evitato di esprimere platealmente il suo parere: il caso di Milano è forse proprio l’eccezione che conferma la regola ed è dovuto, sicuramente, alla sua «incapacité à se maîtriser» (Vacher 1993, 240; cf. anche T 17). Gli indizi – definirli prove sarebbe eccessivo – suggeriscono perciò che il nostro retore possa essere inserito tra gli autori che costituiscono la «catena che 65
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
unisce il libero mondo dell’età repubblicana con gli scrittori filolibertari del I secolo» (Assereto 1967, 25), come Asinio Pollione e Cremuzio Cordo (cf. Syme 1974, 479-492). Le parole con cui Albucio invocava Bruto richiamano espressioni testimoniate da Cicerone (Bruto e Cassio uindices libertatis in Phil. 2, 30) e che si ritrovano anche nelle opere di Livio e Tacito. La statua di Bruto era stata probabilmente eretta a Milano verso il 46-45, quando egli era stato governatore della Cisalpina: cf. Kaster 1995, 324, mentre Laffi 2001, 226 non prende posizione definitiva sulla data. La datazione di questo processo si presenta incerta. Lindner 1861, 9 e Assereto 1967, 11 ritengono che esso si sia svolto dopo il processo centumvirale di cui si parla in FF 12-14: essi fondano la loro asserzione sull’ipotesi che il sintagma et rursus abbia valore temporale ed indichi quindi un evento successivo; inoltre collocano il proconsolato di Lucio Pisone dopo il suo consolato del 15 a.C.; in base a ciò Lindner fissa il processo intorno al 10 a.C. e la Assereto intorno al 12; entrambi suppongono che il retore sia ritornato nell’Italia settentrionale per la vergogna di essere stato battuto in modo così indecoroso da Arrunzio; di conseguenza la testimonianza senecana secondo cui Albucio non avrebbe più sostenuto discorsi dopo la sua sconfitta nel processo centumvirale sarebbe destituita di fondamento. La ricostruzione proposta non regge per vari motivi: 1) le date sembrano esser state proposte in modo abbastanza casuale e, in ogni caso, senza offrire una giustificazione adeguata: ci si potrebbe chiedere perché non fissare l’udienza al 13 o all’11 a.C.; 2) et rursus non ha in Svetonio solamente valore temporale, bensì è una formula impiegata per collegare citazioni ed aneddoti e in questi casi «rursus does not mark a temporal sequence, implying that the item it introduces postdates the preceding, but merely means ‘on another occasion/in other instance’, functionally = item/likewise» (Kaster 1995, 323). Una ricerca sulla presenza di et rursus negli autori latini conferma la tesi di Kaster: il sintagma compare 122 volte; Svetonio è uno degli autori (insieme a Columella, Apuleio ed ai testi del Digesto) che lo usa di più (12 volte): solamente in quattro casi egli lo impiega con valore temporale (Iul. 37, 1; Aug. 22, 1 e 26, 2; Vit. 12,1); 3) se Lucio Pisone è da identificare con Lucio Calpurnio Pisone, quest’ultimo fu presente in Italia settentrionale tra il 25 e il 14 a.C. e fu console nel 15 a.C.; successivamente egli andò a governare come consularis la Panfilia nel 13 a.C.: cf. Laffi 2001, 225-226. Non è impossibile, come già osservava Groag, che Pisone «proconsulatu […] func66
8. C. ALBUCIUS SILUS
tum esse temporibus bellorum quae Augustus adversus gentes Alpinas gessit»; ed è anche possibile che «eum hoc officium ante consulatum gessisse»; infatti, come ribadiva G. Wesenberg (RE XXIII, 1, 1233 – Nachträge), «im Prinzipat wird die Bezeichnung proconsul zu einem Titel für die Statthalter der Senatprovinzen, mochten sie vorher den Consulat bekleidet haben oder nicht». L’orazione potrebbe esser perciò datata ad un momento imprecisato tra il 25 ed il 16 a.C. A mettere in dubbio questa ricostruzione sta tuttavia il fatto che, dopo il riordino amministrativo dell’Italia, l’Italia Transpadana non era ridiventata una provincia, bensì costituiva sotto Augusto, insieme al resto della penisola, l’XI regio e non era governata da un proconsole; l’espressione di Albucio, infatti, dice semplicemente quasi iterum in formam prouinciae redigeretur, non che era stata ridotta nuovamente a provincia (cf. correttamente Laffi 2001, 233 contra Bleicken 1962, 188). Le possibilità a questo punto sono diverse: a) che il proconsole non sia il Lucio Pisone console nel 15; Albucio Silo avrebbe parlato di fronte ad un altro personaggio: come ricorda, infatti, Kaster 1995, 323, «there were many Pisones in the second half of the 1st cent.; Suet. gives very little ground for identifying this one»; in questo caso si potrebbe anche pensare che l’orazione di Albucio risalisse ad un periodo anteriore alla sua venuta a Roma; b) che Albucio abbia pronunciato il suo discorso di fronte al Lucio Pisone che fu console nel 15 e che, come tale, non poteva in quel momento essere nel nord dell’Italia come proconsole; in tal caso dovremmo ammettere che il suo proconsolato (che si situerebbe tra il 25 ed il 16 a.C.) fosse una magistratura eccezionale dovuta alle esigenze delle campagne militari di Augusto, oppure che egli fosse il proconsole di una provincia confinante, come l’Illirico (Laffi 2001, 229); meno convincente è l’idea che potesse essere un governatore provinciale in transito verso la Gallia o la Spagna e che fosse stato eccezionalmente chiamato ad esercitare l’autorità in tale processo: cf. G. Chilver, Cisalpine Gaul. Social and economic history from 49 B.C. to the death of Trajan, New York 1975 rist., 10-11 citato in Laffi 2001, 231-232. Se si accetta l’identificazione con il Lucio Pisone console del 15, è possibile cercare di fissare un limite ancora più preciso: una testimonianza di Oros. Hist. 6, 21, 22 fa riferimento ad un Pisone che avrebbe comandato una spedizione contro i Vindelici dal 16 al 13 a.C.; pur essendovi incertezze sull’identificazione di questo personaggio, qualora egli fosse il Lucio Pisone di cui stiamo parlando, sarebbe ulteriormente 67
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
confermata la sua presenza nell’Italia settentrionale e si potrebbe supporre che l’orazione sia stata pronunciata nel 16 a.C. (terminus post quem della testimonianza orosiana): cf. R. Frei-Stolba, rec. a F. Schön, Der Beginn der römischen Herrschaft in Rätien, «Gnomon» 60, 1988, 140; cf. anche Laffi 2001, 228-229. Non è però possibile addurre prove decisive di questa ipotesi: ritengo invece che si debba prestar fede alla testimonianza di Seneca Retore e che quindi l’ordine stabilito da Lindner ed Assereto vada invertito. FF 12-14 I quattro testi qui raccolti fanno parte del discorso che Albucio Silo pronunciò in un processo svoltosi di fronte ad un tribunale centumvirale per un reato non ben precisato. Le competenze dei centumuiri riguardavano il diritto privato e, in particolare, le successioni; forse era in discussione proprio una causa di questo tipo, come sembra indicare il riferimento ai genitori defunti del convenuto. Su questo processo centumvirale cf. Gagliardi, 2002, 204-206 e 465-466. Il convenuto si era forse macchiato di qualche colpa nei loro confronti: è per altro anche possibile, come suggerisce Kaster 1995, 322, che si tratti di un’inferenza basata sulla forma del giuramento. L’episodio, raccontato per primo da Seneca, passò poi in Quintiliano e Svetonio, che, come è noto, ebbero lo scritto senecano come fonte. Su Svetonio in particolare cf. Kaster 1995, 313-314 e 346-359 (dove si segnala anche l’uso di altre fonti); Quintiliano cita esplicitamente Seneca retore soltanto due volte, in Inst. 9, 2, 42-43 e 9, 2, 98, ma il passo in discussione prova che il materiale senecano utilizzato dall’autore dell’Institutio oratoria fu in realtà più ampio. Come si evince dal testo quintilianeo riportato in apparato, esso era divenuto un esempio comunemente citato sia del modo in cui doveva essere usata la dissimulatio sia della cautela con cui dovevano essere impiegate figure retoriche come la figura iurisiurandi. Sul rapporto fra Seneca retore e Svetonio a proposito di questo episodio cf. Kaster 1995, 350-352. In questo contesto il termine dissimulatio indica l’atteggiamento di chi finge di non capire ciò che un altro dice o propone (e sfrutta questa finta ignoranza a proprio vantaggio): cf. Quint. Inst. 6, 3, 85. La narrazione più articolata ed ampia dell’episodio è fornita da Seneca. Albucio stava probabilmente concludendo la peroratio, come possiamo supporre dalla dinamica dell’azione. Successivamente non prende più la parola se non per rispondere, in una sorta di altercatio, alle affermazioni di Arrunzio; anche il giudizio è emesso senza che egli 68
8. C. ALBUCIUS SILUS
intervenga nuovamente, segno che, probabilmente, la figura scelta era prevista per l’epilogo. Egli aveva deciso di terminare sfruttando una trovata (sul significato di sch`ma cf. Quint. Inst. 9, 1 e Lausberg 1960, §§ 499 e 600-602). La figura di cui si serve Albucio è basata sull’ironia: l’elemento di contrasto specifico consiste nel fatto che egli, che sta accusando l’imputato di essere impius erga parentes, lo vuole obbligare a giurare fittiziamente proprio per le ceneri dei genitori; la struttura formale con l’imperativo è anch’essa ironica: cf. Inst. 9, 2, 48. Il giuramento era un elemento giudiziario di prova generalmente considerato dai trattatisti retorici come inartificialis, cioè esterno all’arte retorica (cf. Inst. 5, 1, 1), ma, a causa della sua solennità sacrale, poteva garantire una notevole mozione degli affetti. Albucio pensò di aumentare ulteriormente il pathos rivolgendosi direttamente all’avversario con un’apostrofe: lo scopo era chiaramente quello di conquistare il favore dei centumuiri attraverso un’asserzione che mirava a portare «opprobrium upon the man» (Kaster 1995, 322). In realtà si trattava di una scelta rischiosa, perché sarebbe stato sufficiente che l’accusato rompesse l’incanto retorico e considerasse il giuramento reale e non immaginario e l’impianto accusatorio avrebbe fatto naufragio; nel processo civile romano era possibile ad una parte in causa aver la meglio accettando di giurare secondo le condizioni proposte dall’avversario: cf. Dig. 12, 2-3 e M. Kaser-K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht in I. von Müller et alii, Handbuch der Altertumswissenschaft, München2 1996, 266-269 e 590-592; in particolare il giuramento è previsto proprio nell’ambito di questioni riguardanti l’eredità (Dig. 12, 2, 11-12). Il giuramento in nome dei cari (defunti o viventi, umani o divini) è tradizionale ma non frequentissimo: cf. Prop. 2, 20, 15; Ov. Pont. 3, 3, 68. Arrunzio colse la palla al balzo, dichiarò con prontezza che il suo cliente era pronto a giurare e difese la sua posizione con forte pragmaticità. Albucio tentò inutilmente di salvare la situazione facendo osservare che si era di fronte ad un espediente retorico, ma i giudici non accettarono la sua asserzione. Offeso da questa sconfitta, che doveva essere attribuita alla sua ingenuità, Albucio rifiutò in seguito di pronunciare discorsi in pubblico: come abbiamo già osservato, questa testimonianza costituisce l’elemento più importante per retrodatare il processo milanese: cf. Lebek 1966, 363-364. Tre sono i punti del discorso che ci sono stati conservati: la formula 69
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del giuramento (F 12, F 12a); la difesa della propria argomentazione retorica da parte di Albucio (F 13); il timore da lui espresso che sfruttare i punti deboli di una figura significhi sminuire non solo la sua efficacia, ma anche mettere in dubbio l’utilità delle altre figurae (F 14). Dal punto di vista testuale sono opportune alcune puntualizzazioni: 1) la correzione dabo del Gertz si impone di fronte all’incomprensione del contesto da parte del copista; iusiurandum dare significa infatti “giurare”, ma qui Albucio invita l’imputato a prestare il giuramento secondo la formula che egli gli proporrà; in questo contesto mando, che ha un senso più forte, si fa preferire a dicto del Gronov in quanto quest’ultimo verbo è utilizzato soprattutto in riferimento a testi scritti; Seneca lo impiega una sola volta, in Con. 1, 7, 18, nel senso di “dettare”; 2) in Svetonio il giuramento deve avvenire per le ceneri di entrambi i genitori, mentre in Seneca e Quintiliano solamente per quelle del padre: per il resto le espressioni coincidono perfettamente. È possibile che Svetonio (o l’eventuale fonte da cui egli trasse questa informazione) abbia inserito anche la madre per conferire maggiore enfasi: come nota Kaster 1995, 352 l’inserzione svetoniana «may simply be an inference based on the wording of the oath»; 3) i codici di Quintiliano non conservano patris bensì il vocabolo patroni: si tratta di un’incomprensione che già non era sfuggita al correttore del codice P, che aveva restaurato patris. Il registro stilistico di questi frammenti è alto: l’imperativo iniziale iura in costruzione anaforica (iura per patris …/ iura per patris…), l’accorta costruzione del periodo, in cui la relativa di tre parole è racchiusa tra due principali che hanno esattamente la stessa struttura sintattica e l’identico numero di vocaboli (quattro), la formula del giuramento conferiscono al testo una notevole enfasi ed un’intensa solennità. F 13 è caratterizzato da una costruzione chiastica (detuli condicionem/schema dixi) potenziata dall’impiego della prima persona, dall’allitterazione delle d. Le clausole sono tradizionali (doppio cretico con soluzione del terzo longum, ovvero cretico e peone quarto) in F 12 (cf. Lausberg 1960, § 1028); ditrocheo in F 13; molosso con palimbacchio in F 14 (cf. Lausberg 1960, § 1034) con una sola eccezione in F 12 a: inconditi iacent presenta infatti una clausola cretico-giambica che viola il principio antimetrico, anche se è ammessa talora da Quintiliano (Lausberg, 1960 §§ 1017 e 1032).
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9. M. Porcius Latro M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = 539-542. Bibliografia specifica R. Helm, RE XXII, 1953, 233-235; P. Lebrecht Schmidt, NP 10, 2001, II. 3, 163; PIR III P 638; Bardon 1956, 88-90; Bornecque 1902, 188-192; Casaceli 1978; Cucheval 1893, I, 268-283; Duret 1983, 15181525; Fairweather 1981, 251-270 e passim; Heldmann 1979; Hoffa 1909, 12-17; Janka 2000; Kaster 1995, 329-331; Kennedy 1972, 324326, 455; Leeman 1974, 307-308; Sussman 1978, 20-21 e passim; Vössing 2003. Dati biografici Marco Porcio Latrone nacque in Spagna, forse a Cordova: cf. T 26. Secondo M. Griffin (The Elder Seneca and Spain, JRS 62, 1972, 1-19, part. 15) proveniva da una famiglia originaria della provincia e fu amico d’infanzia di Seneca Retore e probabilmente suo coetaneo, come sembra potersi dedurre dall’espressione a prima pueritia usque ad ultimum diem perductam familiarem amicitiam repetam (T 26); per la medesima soluzione inclinano Bornecque 1902, 188 e Helm 1953, 233234, che fissa la sua data di nascita intorno al 55 a.C.; con maggiore prudenza Sussman 1978, 20 la pone tra il 58 e il 53. Le notizie certe sulla sua vita sono assai poche: frequentò la scuola del retore Marullo probabilmente a Roma: su questo fatto dimostrano assoluta certezza Bornecque ed Helm, mentre in modo più sfumato Sussman 1978, 20-21 fa notare che Seneca non precisa dove insegnasse Marullo, anche se una scuola con più di duecento allievi (Con. 1 praef. 2) sembra probabilmente eccessiva per una città diversa da Roma. Dopo gli anni di studio si dedicò a sua volta all’insegnamento della retorica ed ebbe tra i suoi uditori Ovidio, che Seneca definisce Latronis admirator (Sen. Con. 2, 2, 8). Il suo metodo di insegnamento prevedeva che gli allievi dovessero costantemente ascoltarlo e non avessero praticamente mai la possibilità di parlare: cf. T 29. Nel 17 a.C. pronunciò una declamazione davanti ad Augusto, Agrippa e Mecenate, che forse si servì di lui per attaccare Agrippa: cf. Sen. Con. 2, 4, 13: cf. anche G. Calboli, Tra corte e scuola: la retorica imperiale a Roma, «Vichiana» 3a serie, I, 1-2, 1990, 71
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
17-39, part. 20. È possibile che sia ritornato in Spagna, come fece del resto Seneca, almeno per un certo periodo: cf. FF 15-16. Morì probabilmente nel 4 a.C., forse suicidandosi per evitare le sofferenze provocate da una febbre quartana: cf. T 33. Sulla febbre quartana di Porcio cf. Kaster 1995, 330-331 e soprattutto Cels. 3, 15-17. Celso invita il paziente affetto da questa malattia al riposo assoluto o, se ciò comporta difficoltà, a camminare con moderazione (aut ex toto quiescere … aut, si
Testimonianze T 26 Sen. Con. 1 praef. 13-24. In aliis autem an beneficium uobis daturus sim nescio, in uno accipio: Latronis enim Porcii, carissimi mihi sodalis, memoriam saepius cogar retractare et a prima pueritia usque ad ultimum eius diem perductam familiarem amicitiam cum uoluptate maxima repetam. Nihil illo uiro grauius, nihil suauius, nihil eloquentia [sua] dignius. Nemo plus ingenio suo imperauit, nemo plus indulsit. In utramque partem uehementi uiro modus deerat: nec intermittere studium sciebat nec repetere. 14 Cum se ad scribendum concitauerat, iungebantur noctibus dies et sine interuallo grauius sibi instabat, nec desinebat nisi defecerat. Rursus cum se remiserat, in omnes lusus, in omnes iocos se resoluebat. Cum uero se siluis montibusque tradiderat, in siluis ac montibus natos homines illos agrestis laboris patientia et uenandi sollertia prouocabat et in tantam perueniebat sic uiuendi cupiditatem ut uix posset ad priorem consuetudinem retrahi. At cum sibi iniecerat manum et se blandienti otio abduxerat, tantis uiribus incumbebat in studium ut non tantum nihil perdidisse sed multum adquisisse desidia uideretur. 15 […] quotiens ex interuallo surrexerat, multo acrius uiolentiusque dicebat; exultabat enim nouato atque integro robore et tantum a se exprimebat, quantum concupierat. Nesciebat dispensare uires suas, sed immoderati aduersus se imperii fuit, ideoque studium eius prohiberi debebat, quia regi non poterat. Itaque solebat et ipse, cum se
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difficile est, leuiter ambulare): è chiaro che un personaggio incapace di padroneggiare a fondo se stesso come Latrone (cf. T 26) non poteva curarsi in maniera adeguata; sembra quindi del tutto naturale che la malattia sia divenuta cronica e l’abbia spinto al suicidio. Non è possibile per altro conoscere le ragioni che hanno spinto Gerolamo a datare la morte di Latrone al 4 a.C.: cf. Helm 1956, 69.
Traduzione T 26 Sen. Con. 1 praef. 13-24. Non so se, in generale, stia per farvi un favore, ma comunque voi me ne fate uno: infatti sarò indotto a ricordare abbastanza spesso Porcio Latrone, amico a me carissimo e ripercorrerò con estremo piacere un’amicizia profonda che è durata dalla più tenera età fino al suo ultimo giorno. Era serio quanto nessun altro e gentile ed eloquente allo stesso modo. Nessuno ebbe maggior controllo sul proprio talento, nessuno gli fu maggiormente sottomesso. A quell’uomo veemente mancava la misura da due punti di vista: non era capace né di smettere di lavorare né di ricominciare. 14 Quando si era messo a scrivere d’impegno, i giorni formavano una cosa sola con le notti e senza interruzione egli si applicava con eccessivo vigore e non smetteva se non quando non ne poteva più. D’altra parte quando si era concesso un po’ di riposo, si abbandonava a divertimenti e giochi di ogni tipo. Ma una volta che si era sistemato tra le selve e le montagne, gareggiava con la gente del luogo, nata tra le selve e sui monti, nella capacità di sopportare le fatiche e nell’abilità venatoria e arrivava ad amare tanto quel genere di vita che poteva a stento ritornare alle abitudini precedenti. Ma quando era riuscito a riprendere possesso di se stesso e si era sottratto alle blandizie dell’ozio, si dedicava al lavoro con tanto vigore che non soltanto sembrava non aver perso nulla, ma aver guadagnato molto con l’inattività. 15 […] ogni volta che era ritornato in attività dopo un’interruzione, parlava con maggior forza ed intensità; infatti esultava perché le sue forze si erano rinnovate ed erano tornate integre e traeva da se stesso tutto quello che aveva desiderato. Non sapeva distribuire le proprie forze, ma pretese moltissimo da se stesso e il suo zelo doveva essere bloccato proprio perché non poteva essere regolato. Perciò anche 73
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assidua et numquam intermissa contentione fregerat, sentire ingenii lassitudinem, quae non minor est quam corporis, sed occultior. 16 Corpus illi erat et natura solidum et multa exercitatione duratum, ideoque numquam impetus ardentis animi deseruit. Vox robusta, sed surda, lucubrationibus et neglegentia, non natura infuscata. Beneficio tamen laterum extollebatur, et, quamuis inter initia parum attulisse uirium uideretur, ipsa actione adcrescebat. Nulla umquam illi cura uocis exercendae fuit; illum fortem et agrestem et Hispanae consuetudinis morem non poterat dediscere: utcumque res tulerat, ita uiuere, nihil uocis causa facere, non illam per gradus paulatim ab imo ad summum perducere, non rursus a summa contentione paribus interuallis descendere, non sudorem unctione discutere, non latus ambulatione reparare. 17 Saepe cum per totam lucubrauerat noctem, ab ipso cibo statim ad declamandum ueniebat. Iam uero, quin rem inimicissimam corpori faceret, uetari nullo modo poterat: post cenam fere lucubrabat, nec patiebatur alimenta per somnum quietemque aequaliter digeri, sed perturbata ac dissipata in caput agebat. Itaque et oculorum aciem contuderat et colorem mutauerat. Memoria ei natura quidem felix, plurimum tamen arte adiuta. Numquam ille quae dicturus erat ediscendi causa relegebat: edidicerat illa cum scripserat. Quod eo magis in illo mirabile uideri potest, quod non lente et anxie sed eodem paene quo dicebat impetu scribebat. 18 […] In illo non tantum naturalis memoriae felicitas erat sed ars summa et ad conprehendenda quae tenere debebat et ad custodienda, adeo ut omnes declamationes suas, quascumque dixerat, teneret iam. Itaque superuacuos sibi fecerat codices; aiebat se in animo scribere. Cogitata dicebat ita ut in nullo umquam uerbo eum memoria deceperit. Historiarum omnium summa notitia: iubebat aliquem nominari ducem et statim eius acta cursu reddebat; adeo, quaecumque semel in animum eius descenderant, in promptu erant. […] 20 […] illud unum non differam, falsam opinionem de illo in animis hominum conualuisse: putant enim fortiter quidem, sed parum subtiliter
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egli, quando era stato spossato da uno sforzo continuo e ininterrotto, era solito percepire la stanchezza della mente, che non è inferiore a quella del corpo, ma è più nascosta. 16 Aveva un corpo solido di natura e rafforzato da un grande esercizio e perciò non smise mai di assecondare gli impeti del suo animo ardente. La sua voce era forte ma cupa, offuscata non dalla natura, ma dalle veglie notturne e dalla mancanza di cura. Tuttavia diventava più robusta grazie alla potenza dei polmoni e, quantunque all’inizio desse l’impressione di essere poco potente, cresceva nel corso della stessa orazione. Non si curò mai di esercitare la voce; non poteva dimenticare quell’abitudine vigorosa, rustica e caratteristica della Spagna: viveva così come le circostanze lo conducevano, non faceva nulla per la voce, non la guidava gradualmente a poco a poco dal tono più basso a quello più alto e poi non la faceva discendere ad eguali intervalli dal tono più alto, non eliminava il sudore ungendosi, non rafforzava i polmoni camminando. 17 Spesso, dopo aver vegliato per tutta la notte, appena mangiato si presentava subito a declamare. Ma non gli si poteva in alcun modo impedire di compiere l’azione più nociva per il suo corpo: normalmente lavorava di notte, dopo cena, e non permetteva che gli alimenti fossero ben digeriti nel corso del riposo del sonno, ma essi gli montavano alla testa tutti insieme e in disordine. Perciò gli si era indebolita la vista ed era mutato il suo colorito. Aveva una memoria buona per natura, aiutata tuttavia moltissimo dalla tecnica. Non rileggeva mai, per ricordarlo a memoria, ciò che stava per pronunciare: aveva imparato le frasi nel momento in cui le aveva scritte. E questo fatto può apparire in lui maggiormente sorprendente, perché non scriveva con lentezza e difficoltà, ma quasi con il medesimo impeto con cui parlava. 18 […] Egli non possedeva soltanto una memoria particolarmente buona di natura, ma anche una tecnica eccellente sia per afferrare ciò che doveva ricordare sia per conservarlo, al punto tale che ricordava anche tutte le declamazioni che aveva pronunciato. Perciò aveva reso inutili per sé i quaderni di appunti; diceva di scrivere nella mente. Diceva ciò che aveva pensato senza che la memoria lo ingannasse anche in una sola parola. Conosceva molto bene tutte le vicende storiche: invitava qualcuno a nominargli un generale e ne ripeteva rapidamente le gesta; tutto ciò che aveva imparato, anche una sola volta, lo aveva sulla punta delle dita. […] 20 […] non rimanderò ad un momento successivo soltanto la discussione sul fatto che, nella mente delle persone, ha preso piede una falsa idea riguardo a lui: infatti credono che egli abbia parlato con forza ma con 75
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eum dixisse, cum in illo, si qua alia uirtus fuit, et subtilitas fuerit. 21 Id, quod nunc a nullo fieri animaduerto, semper fecit: antequam dicere inciperet, sedens quaestiones eius, quam dicturus erat, controuersiae proponebat, quod summae fiduciae est; ipsa enim actio multas latebras habet, nec facile potest, si quo loco subtilitas defuit, apparere, cum orationis cursus audientis iudicium impediat, dicentis abscondat. At ubi nuda proponuntur membra, si quid aut numero aut ordine excidit, manifestum est. Quid ergo? Vnde haec de illo fama? Nihil est iniquius his qui nusquam putant esse subtilitatem nisi ubi nihil est praeter subtilitatem. Et in illo cum omnes oratoriae uirtutes essent, hoc fundamentum superstructis tot et tantis molibus obruebatur, nec deerat in illo sed non eminebat – et nescio an maximum uitium subtilitatis sit nimis se ostendere: magis nocent insidiae quae latent; utilissima est dissimulata subtilitas, quae effectu apparet, habitu latet. 22 Interponam itaque quibusdam locis quaestiones controuersiarum, sicut ab illo propositae sunt, nec his argumenta subtexam, ne et modum excedam et propositum, cum uos sententias audire uelitis, et quidquid ab illis abduxerit molestum futurum sit. Hoc quoque Latro meus faciebat, ut sententias amaret: cum condiscipuli essemus apud Marullum rhetorem, hominem satis aridum, paucissima belle sed non uulgato genere dicentem, cum ille exilitatem orationis suae imputaret controuersiae et diceret: «Necesse me est per spinosum locum ambulantem suspensos pedes ponere», aiebat Latro: «Non mehercules tui pedes spinas calcant, sed habent», et statim ipse dicebat sententias quae interponi argumentis cum maxime declamantis Marulli possent. 23 Solebat autem et hoc genere exercitationis uti, ut nihil praeter epiphonemata scriberet, aliquo die nihil praeter enthymemata, aliquo die nihil praeter has translaticias quas proprie sententias dicimus, quae nihil habent cum ipsa controuersia implicitum sed satis apte et alio transferuntur, tamquam quae de fortuna, de crudelitate, de saeculo, de diuitiis dicuntur; hoc genus sententiarum supellectilem uoca-
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poca acutezza, mentre, se mai egli ebbe una virtù, fu proprio l’acutezza. 21 Egli fece sempre ciò che oggi, per quanto ne so, non viene fatto da nessuno: prima di cominciare a parlare, da seduto esponeva le questioni della controuersia che si accingeva a declamare e questo era un atto di estrema sicurezza; infatti un’orazione presenta molte difficoltà e può esser difficile comprendere se in qualche luogo l’acutezza sia venuta a mancare, dal momento che il fluire dell’orazione impedisce a chi ascolta di esprimere un giudizio e mette in sordina quello di chi parla. Ma quando vengono esposte le articolazioni del discorso senza ornamenti, è evidente se qualcosa non va nel numero o nell’ordine. E dunque? Da dove arriva quella sua reputazione? Coloro che ritengono che non vi sia acutezza proprio là dove non vi è nulla al di fuori dell’acutezza sono ingiusti quanto nessun altro. E per quanto egli possedesse tutte le virtù oratorie, queste fondamenta erano nascoste dalla mole di costruzioni così ricche e così vaste: in lui non mancavano certo, ma non spiccavano – e non so se il difetto più grande dell’acutezza sia il mettersi troppo in mostra: sono più pericolose le insidie nascoste; la più utile è l’acutezza dissimulata, che si rivela attraverso il suo effetto, ma rimane nascosta nella sua natura. 22 Inserirò perciò in alcuni luoghi le questioni delle controversie come egli le espose e non aggiungerò a queste le argomentazioni, per non eccedere la misura e il mio proposito, dal momento che voi volete ascoltare le sentenze e vi parrà fastidioso ogni spazio di tempo che (si) toglierà loro. Anche il mio amico Latrone dava prova di amare le sentenze. Mentre eravamo insieme studenti presso il retore Marullo, un uomo abbastanza arido, che diceva pochissime cose con eleganza, ma con uno stile non usuale, quando costui imputava l’esilità del suo discorso al tema della controuersia e diceva: «È necessario che io, mentre cammino attraverso un luogo spinoso, faccia attenzione a dove metto i piedi», rispondeva Latrone: «Per Ercole, i tuoi piedi non pestano le spine, ma le hanno dentro!» E subito egli pronunciava sentenze che potevano essere inframmezzate alle argomentazioni di Marullo mentre era nel pieno della declamazione. 23 Aveva invece l’abitudine di esercitarsi in questo modo: un giorno non scriveva nulla se non esclamazioni, un altro niente ad eccezione di entimemi, un altro nulla se non queste frasi tradizionali che propriamente chiamiamo sententiae, che non hanno una correlazione stretta con la controuersia, ma si possono spostare in modo abbastanza opportuno anche altrove, come quelle che riguardano la sorte, la crudeltà, l’età, la ricchezza; chiamava questo tipo di frase il suo “corredo”. Ave77
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bat. Solebat schemata quoque per se, quaecumque controuersia reciperet, scribere – et putant illum homines hac uirtute caruisse, cum ingenium quidem eius et hac dote abundauerit! Iudicium autem fuit strictius: non placebat illi orationem inflectere nec umquam recta uia decedere nisi cum hoc aut necessitas coegisset aut magna suasisset utilitas. 24 Schema negabat decoris causa inuentum, sed subsidii, ut quod [palam] aures offensurum esset si palam diceretur, id oblique et furtim subreperet. Summam quidem esse dementiam detorquere orationem cui esse rectam liceret. […].
T 27 Sen. Con. 2, 4, 8. Fuit autem Messala exactissimi ingenii quidem in omni studiorum parte, Latini utique sermonis obseruator diligentissimus. Itaque cum audisset Latronem declamantem, dixit: «Sua lingua disertus est». Ingenium illi concessit, sermonem obiecit. Non tulit hanc contumeliam Latro, et pro Pythodoro Messalae orationem disertissimam recitauit, [que] compositamque suasoriam Theodoto declamauit per triduum. T 28 Sen. Con. 7, 5, 7. Has controuersias, quae et accusationem , non eodem ordine omnes declamauerunt: quidam fuerunt, qui ante defenderent quam accusarent, ex quibus Latro fuit. T 29 Sen. Con. 9, 2, 23. Illud, quod tamquam Latronis circumfertur, non esse Latronis pro testimonio dico et Latronem a sententia inepte tumultuosa uindico; ipse enim audiui Florum quendam, auditorem Latronis, dicentem (non apud Latronem; neque enim illi mos erat quemquam audire declamantem. Declamabat ipse tantum et aiebat se non esse magistrum sed exemplum. Nec ulli alii contigisse scio quam apud Graecos Niceti, apud Romanos Latro, ut discipuli non audiri desiderarent sed contenti essent audire. Initio contumeliae causa a deridentibus discipuli Latronis auditores uocabantur; deinde in usu uerbum esse coepit et promiscue poni pro discipulo auditor. Hoc erat non patientiam suam sed eloquentiam uendere) […].
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va anche l’abitudine di scrivere da sé le figure che la controuersia accoglieva – e la gente pensa che egli mancasse di questa virtù mentre il suo ingegno era ricolmo anche di questa dote! Il suo gusto invece fu alquanto severo: non gli piaceva mai piegarsi alla ricerca di effetti stilistici e allontanarsi dalla via diritta, se non quando l’avesse costretto la necessità o gliel’avesse consigliato la possibilità di ottenere un grande vantaggio. 24 Diceva che la figura non era stata pensata per adornare il discorso, ma per fornire un aiuto, per far entrare in modo indiretto e furtivo ciò che darebbe fastidio alle orecchie se fosse detto apertamente. Affermava che era una follia grandissima far deviare il corso di un’orazione che avesse la possibilità di procedere in modo lineare. […]. T 27 Sen. Con. 2, 4, 8. Messalla ebbe un’esattissima capacità di giudizio in ogni ambito degli studi, in particolare, fu il più diligente custode del corretto uso della lingua latina; dopo aver ascoltato Latrone declamare, disse: «È eloquente nella sua lingua». Gli concesse il talento, ma criticò il suo stile. Latrone non sopportò quest’insulto: lesse l’eloquentissima orazione di Messalla in difesa di Pitodoro e declamò per tre giorni la sua suasoria in difesa di Teodoto paragonandola con quella. T 28 Sen. Con. 7, 5, 7. Non tutti declamarono con il medesimo ordine queste controversie che comprendono le parti di accusa e di difesa. Vi furono alcuni, tra cui Latrone, che difesero prima di accusare. T 29 Sen. Con. 9, 2, 23. Posso testimoniare che quella sentenza attribuita a Latrone non è sua e lo libero da una sentenza assurdamente chiassosa; io stesso ho infatti udito un certo Floro, allievo di Latrone, che la pronunciava (ma non davanti a Latrone. Infatti egli non aveva l’abitudine di ascoltare altri che declamassero; declamava lui solo ed affermava di non essere un maestro, ma un esempio; so che non è successo a nessun altro se non a Nicete tra i Greci e a Latrone tra i Romani che gli allievi non desiderassero essere ascoltati, ma si accontentassero di ascoltare. All’inizio i discepoli di Latrone erano motteggiati come “ascoltatori” dai detrattori; poi questa parola cominciò ad entrare nell’uso e ad essere impiegata comunemente al posto di discepolo. Questo significava non vendere la sua pazienza, ma la sua eloquenza). 79
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T 30 Sen. Con. 10 praef. 13 (= Assereto 1967, test. 4). Primum tetradeum quod faciam quaeritis? Latronis, Fusci [Cesti], Albuci, Gallionis. Hi quotiens conflixissent, penes Latronem gloria fuisset, penes Gallionem palma; reliquos ut uobis uidebitur componite: ego uobis omnium feci potestatem. T 31 Sen. Con. 10 praef. 15. Latro numquam solebat disputare in conuiuio aut alio quam quo declamare poterat tempore. Dicebat quosdam esse colores prima facie duros et asperos: eos non posse nisi actione adprobari. Negabat itaque ulli se placere posse nisi totum; nosse enim se et suas uires et illarum fiducia aliis metuenda et praerupta audere. Multa se non persuadere iudici sed auferre.
T 32 Plin. Nat. 20, 160. Cuminum … uerumtamen omne pallorem gignit bibentibus. Ita certe ferunt Porci Latronis, clari inter magistros dicendi, adsectatores similitudinem coloris studiis contracti imitatos […].
T 33 Hier. Ad Olymp. 194, 1 = 4-3 a.C. M. Porcius Latro Latinus declamator taedio duplicis quartanae semet interficit.
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T 30 Sen. Con. 10 praef. 13 (= Assereto 1967, test. 4). Chiedete quale consideri la prima quadriga? Quella di Latrone, Fusco, Albucio e Gallione. Ogni volta che si fossero confrontati, la gloria sarebbe rimasta in mano di Latrone, la vittoria a Gallione; sistemate gli altri come vi sembrerà meglio: vi ho dato la possibilità di valutarli tutti. T 31 Sen. Con. 10 praef. 15. Latrone non aveva mai l’abitudine di discutere in un banchetto o in un momento diverso da quello in cui poteva declamare. Diceva che vi erano alcuni colori a prima vista duri ed aspri: non potevano essere approvati se non nel corso dell’orazione. Perciò diceva di non poter piacere a nessuno se non dopo che fosse arrivato alla fine; infatti conosceva le proprie forze e confidando in esse osava compiere imprese per gli altri temibili e pericolose. Non persuadeva il giudice a concedergli quello che voleva, ma glielo portava via. T 32 Plin. Nat. 20, 160. Il cumino … di ogni specie provoca tuttavia il pallore in chi lo beve. Affermano che i seguaci di Porcio Latrone, celebre tra i maestri della parola, abbiano imitato con esso il colorito provocato dallo studio […]. T 33 Hier. Ad Olymp. 194, 1 = 4-3. a.C. Marco Porcio Latrone, declamatore latino, si uccide per il fastidio di una duplice febbre quartana.
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Frammenti FF 15-16 Pro Porcio Rustico F 15 Latronem Porcium, declamatoriae uirtutis unicum exemplum, cum pro reo in Hispania Rustico Porcio, propinquo suo, diceret, usque eo esse confusum ut a soloecismo inciperet, nec ante potuisse confirmari ac parietem desiderantem, quam impetrauit, ut iudicium ex foro in basilicam transferretur. F 16 Quod accidisse etiam M. Porcio Latroni, qui primus clari nominis professor fuit, traditur, ut, cum ei summam in scholis opinionem obtinenti causa in foro esset oranda, inpense petierit uti subsellia in basilicam transferrentur: ita illi caelum nouum fuit ut omnis eius eloquentia contineri tecto ac parietibus uideretur.
F 15 Sen. Con. 9 praef. 3. Hoc quod uulgo narratur an uerum sit tu melius potes scire: Latronem Porcium … transferretur. Vsque eo ingenia in scholasticis exercitationibus delicate nutriuntur, ut clamorem, silentium, risum, caelum denique pati nesciant. F 16 Quint. Inst. 10, 5, 18-19. Sed quem ad modum forensibus certaminibus exercitatos et quasi militantis reficit ac reparat haec uelut sagina dicendi, sic adulescentes non debent nimium in falsa rerum imagine detineri et inanibus simulacris usque adeo, ut difficilis ab his digressus sit, adsuefacere, ne ab illa, in qua prope consenuerunt, umbra uera discrimina uelut quendam solem reformident. Quod accidisse … uideretur.
F 15 2 exemplum dett. templum a || 4 nec ante ed. Herv. Negante a || 4-5 suppl. ed. Rom. || impetrauit a impetrarit Madvig F 16 1 M. Spalding in b om. B fort. recte || 1-2 professus fuit b || 2 traditus aut b || 4 transferrentur N transferentur B || ut del. B || eius del. b
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Traduzione FF 15-16 In difesa di Porcio Rustico F 15 Porcio Latrone, esempio insuperato di arte declamatoria, mentre difendeva in Spagna un suo parente, Rustico Porcio, si confuse a tal punto da cominciare con un solecismo e, poiché sentiva la mancanza di un tetto e delle pareti, non poté riaversi prima di aver ottenuto che il processo fosse trasferito dal foro alla basilica. F 16 Ciò si dice che sia accaduto anche a Marco Porcio Latrone, che fu il primo professore di retorica di gran nome: dovendo sostenere una causa nel foro quando nelle scuole godeva di un’altissima fama, chiese insistentemente che gli sgabelli del tribunale fossero portati nella basilica: il cielo aperto risultò così insolito per lui che l’intera sua eloquenza pareva essere contenuta da un tetto e dalle pareti. Contesto F 15 Sen. Con. 9 praef. 3. Tu puoi sapere meglio se sia vero ciò che si racconta in giro: Porcio … basilica. A tal punto gli ingegni si sviluppano mollemente nelle esercitazioni scolastiche, così da non tollerare il clamore, il silenzio, il riso e persino il cielo. F 16 Quint. Inst. 10, 5, 18-19. Ma allo stesso modo in cui questo – per così dire – nutrimento dell’eloquenza ristora e rinsalda coloro che si affaticano e combattono, per così dire, nel foro, così i giovani non devono trattenersi troppo a lungo su immagini fittizie e abituarsi a vuote apparenze al punto tale da allontanarsene con difficoltà, affinché, abituati a quell’ombra in cui sono quasi invecchiati, non temano come il sole le vere competizioni. Ciò … pareti.
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Commento FF 15-16 L’unico riferimento ad un discorso non fittizio pronunciato da Porcio Latrone ci è conservato da Seneca Retore e da Quintiliano, segno che il comportamento tenuto in quell’occasione dall’illustre professore di retorica era divenuto un esempio comune (da non imitare) all’epoca della redazione dell’Institutio oratoria. Montano Vozieno, oratore celebre ai tempi di Tiberio, ricorda che Porcio Latrone, mentre si trovava in Spagna, dovette difendere nel foro di una città un suo parente, Porcio Rustico, sul quale non abbiamo altre notizie: cf. PIR III P 644 e Bornecque 1902, 200-201. La desuetudine ai processi reali gli impedì di trovare l’adeguata concentrazione e fece sì che si confondesse ed esordisse con un macroscopico solecismo. In preda ad un attacco di panico, l’oratore chiese ed ottenne che il dibattimento fosse spostato nella basilica della città, in modo tale da ricreare le condizioni di una sala di declamazione. La trama della vicenda appare abbastanza semplice, ma molti particolari ci sfuggono. In primo luogo non sappiamo nulla dell’imputazione né dell’imputato. Inoltre non sappiamo di quale città si trattasse: è possibile che fosse Cordova, dove, già ai tempi di Cesare, esisteva una basilica (cf. B. Alex. 52, 2), ma probabilmente essa non era l’unica città della Spagna meridionale ad esserne dotata: tuttavia nelle altre principali città della provincia Baetica quali Malaca, Gades, Hispalis, Noua Carthago e Castulo, gli scavi archeologici non hanno rinvenuto la presenza di basiliche, anche se in alcuni casi (Malaca, Castulo) i resti antichi sono molto limitati. Ignoriamo infine la data del processo: è opinione comune che esso vada collocato in occasione di un ritorno in Spagna di Latrone, in quanto Quintiliano afferma esplicitamente che Porcio era già celebre quando pronunciò questo discorso: cf. Bornecque 1902, 188; non credo inoltre possibile che un oratore agli inizi della carriera ottenesse di spostarsi con facilità dal foro alla basilica. Tuttavia il modo in cui Montano introduce la notizia (hoc quod uulgo narratur an uerum sit tu melius potes scire) fa pensare che Seneca potesse aver assistito al fatto o, comunque, che potesse attingere a notizie più esatte: per questo motivo si è pensato che il discorso risalisse ad uno dei periodi in cui anche Seneca era ritornato in Spagna per curare i propri interessi: cf. Sussman 1978, 21-22. Tuttavia né il Retore né Quintiliano ci forniscono dati che consentano di determinare con maggior precisione la cronologia. 84
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Dal punto di vista testuale l’inserimento di tectum in Con. 9 praef. 3 si impone sulla base del confronto con il passo parallelo di Quintiliano. Purtroppo il frammento non ci consente di comprendere le caratteristiche dell’arte oratoria di Porcio Latrone. Le testimonianze di Seneca Retore ci permettono di comprendere che egli fu una sorta di genio dell’eloquenza: non mancava di alcuna virtù propria dell’arte del parlare (T 26, 13), era dotato di una memoria prodigiosa (T 26, 18), sapeva comporre le sue orazioni in modo lineare e chiaro, ma senza rinunciare alla sottigliezza delle argomentazioni, che riusciva a dissimulare con efficacia (T 26, 21), aveva una cultura estremamente vasta, anche dal punto di vista storico, amava le frasi ad effetto (T 26, 22): cf. anche Casaceli 1978, 64-65 e Vössing 2003. Egli è per Seneca il modello dell’oratore di scuola e non casualmente non risulta all’altezza di coloro che sono in grado di improvvisare efficacemente.
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10. C. Sulpicius Galba M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = Ø. Bibliografia specifica F. Münzer, RE IV A 1931, 756-758; PIR III S 722; Szramkiewicz 1976, II, 445-446; Eck 1991; Kaster 1995, 135-136; Shotter 1993, 103; Venini 1977. Dati biografici Figlio dello storico Gaio Sulpicio Galba e padre dell’imperatore Servio Sulpicio Galba, appartenne ad un’influente famiglia senatoria
Testimonianze T 34 Suet. Gal. 3, 6. Ab hoc sunt imperatoris Galbae auus ac pater: auus clarior studiis quam dignitate – non enim egressus praeturae gradum – multiplicem nec incuriosam historiam edidit; pater consulatu functus, quamquam breui corpore atque etiam gibber modicaeque in dicendo facultatis, causas industrie actitauit. T 35 Macr. Sat. 2, 6, 3. In Galbam eloquentia clarum, sed quem habitus, ut supra dixi, corporis destruebat, M. Lollii uox circumferebatur: «Ingenium Galbae male habitat».
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10. C. SULPICIUS GALBA
(Eck 1991) e nacque intorno alla metà del I secolo a.C. e fu proconsole d’Asia prima del 5 a.C. e verosimilmente consul suffectus in quell’anno; è possibile che sia ritornato a governare l’Asia anche dopo il consolato: cf. Szramkiewicz 1976, II, 446; il suo praenomen è stato dedotto sulla base del praenomen del padre. Caratterizzato da un’accentuata gobba, fu fatto oggetto di numerosi scherzi: cf. Macr. Sat. 2, 4, 8. Non sappiamo quando sia morto.
Traduzioni T 34 Suet. Gal. 3, 6. Da costui vennero il nonno e il padre dell’imperatore Galba: il nonno, più famoso per gli studi che per le cariche – infatti non andò oltre la pretura – pubblicò una storia varia e piuttosto pregevole; il padre, raggiunto il consolato, anche se era piccolo e per giunta gobbo e non molto efficace nell’arte del parlare, fu abile nel trattare le cause. T 35 Macr. Sat. 2, 6, 3. Contro Galba, famoso per l’eloquenza, ma rovinato, come dissi precedentemente, dall’aspetto fisico, circolava una battuta di Marco Lollio: «L’ingegno di Galba ha una brutta dimora».
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Frammenti F 17 Dubium de re incognita In eundem Galbam Orbilius grammaticus acerbius irrisit. Prodierat Orbilius in reum testis. Quem Galba ut confunderet, dissimulata professione eius interrogauit: «Quid artium facis?» respondit: «In sole gibbos soleo fricare».
F 17 Mac. Sat. 2, 6, 4. In … fricare.
Commento F 17 L’attività oratoria di Gaio Sulpicio Galba è indubbia, anche se testimoniata da fonti piuttosto tarde. T 34 afferma che Galba fu un avvocato attivo e T 35 che fu celebre per la sua eloquenza: è per altro curioso che né Seneca Retore né Quintiliano lo ricordino; si può forse ipotizzare che non abbia mai pronunciato declamazioni: ciò spiegherebbe il silenzio di Seneca. L’avverbio industrie si segnala per la sua rarità: in riferimento all’arte oratoria compare solamente un’altra volta nella letteratura latina, di nuovo in Suet. Dom. 1, 1, a proposito dell’abilità forense e giuridica dell’imperatore Domiziano. Il testo riportato da Macrobio è alquanto problematico. Possiamo soltanto dedurre con certezza che, siccome Galba attaccò Orbilio e quest’ultimo era stato chiamato a deporre contro un accusato, Galba stesse difendendo l’accusato medesimo; non abbiamo però nessun’altra notizia. La questione è complicata dal fatto che in Suet. Gramm. 9 è ricordato un aneddoto analogo in cui Orbilio rispose con ferocia non a Galba
F 17 3 testis b b2 testes N D P T || 4 artium ab artificium P
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10. C. SULPICIUS GALBA
Traduzione F 17 Dubbio su un fatto sconosciuto. Il grammatico Orbilio derise in modo assai più pungente lo stesso Galba. Orbilio era testimone a carico dell’imputato in un processo. Galba, per indurlo a contraddirsi, fingendo di non conoscere la sua professione, gli chiese: «Che mestiere fai?»; rispose: «Di solito sfrego le gobbe al sole». Contesto F 17 Mac. Sat. 2, 6, 4.
ma a un certo Varrone, che Kaster 1995, 135 identifica con Varrone Murena, amico di Cicerone ed edile curule del 44 a.C., ma che potrebbe anche essere Varrone Gibba, avvocato gobbo collegato a Cicerone nella seconda difesa del miloniano M. Saufeio nel 52 a.C.: cf. É. Deniaux, Clientèles et pouvoir à l’époque de Cicéron, Roma 1993, 559-560 e D.R. Shackleton Bailey, Onomasticon to Cicero’s Letters, Stuttgart 1995, 96. Kaster 1995, 136 conclude che la testimonianza macrobiana «is surely a fabrication», soprattutto perché risulta molto remota la possibilità di identificare questo personaggio con il plagosus Orbilius oraziano: costui visse tra il 113 e il 14 a.C. (E. Bernert, RE XVIII 1, 1939, 876-877) e difficilmente avrebbe potuto trovarsi contro un avversario più giovane di lui di almeno 50 anni. Concordo perciò con Kaster sulla sostanziale impossibilità di identificazione, ma segnalo ugualmente il testo, in quanto non mi sembra da scartare l’ipotesi di Marinone 1997, 346 n. 6, che si tratti qui del figlio di Orbilio, che fu anch’egli grammatico.
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11. Lucius Vinicius M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842= Ø. Bibliografia specifica R. Hanslik, RE IX A 1, 1961, 111-112; W. Eck, NP 12/2, 2002, II. 1, 236; PIR III V 443; Avery 1935; Bornecque 1902, 198-199. Dati biografici Lucio Vinicio appartenne ad un’importante famiglia di rango equestre della Campania, che in età augustea raggiunse posizioni elevate nel mondo politico romano. Figlio di un altro L. Vinicio, triumuir monetalis nel 54 a.C. e consul suffectus nel 33 a.C., cugino di M. Vinicio consul suffectus nel 19 a.C., zio di P. Vinicio, console nel 2 d.C., fu triumuir monetalis nel 16/15 a.C., consul suffectus nel 5 a.C. Nacque tra il 50 e il 40 a.C. È probabilmente colui che si recò a salutare Giulia, figlia di
Testimonianze T 36 Sen. Con. 2, 5, 20 (= Exc. Con. 2, 5, 1). Hic est L. Vinicius, quo nemo ciuis Romanus in agendis causis praesentius habuit ingenium: quidquid longa cogitatio alii praestatura erat, prima intentio animi dabat. Ex tempore causas agebat, sed non desiderabat hanc commendationem, ut ex tempore agere uideretur. De hoc eleganter dixit diuus Augustus: «L. Vinicius ingenium in numerato habet». T 37 Quint. Inst. 6, 3, 110-111. Quod si non totius, ut mihi uidetur, orationis color meretur, sed etiam singulis dictis tribuendum est, illa potius urbana esse dixerim, quae sunt generis eiusdem, quo ridicula ducuntur et tamen ridicula non sunt, de Pollione Asinio seriis iocisque
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11. L. VINICIUS
Augusto, a Baia, ricevendo poi i rimproveri dell’imperatore per via epistolare (cf. T 38 e Avery 1935). Ebbe quindi rapporti con la famiglia imperiale ed anche i suoi discendenti continuarono a rimanere nelle grazie degli imperatori: cf. Hanslik 1961, 111. Bornecque 1902, 187 e Schanz-Hosius II, 1935, 356 identificano invece il Lucio Vinicio ricordato in T 36 con suo padre: la base di tale affermazione è costituita dal testo di Con. 2, 5, 19, in cui si parla di L. Vinicius, †vinci fater†, secondo la lettura di A; l’espressione è interpretata come corruzione di Vinici pater, per cui Seneca Retore, pur ricordando anche Vinicio il giovane, parlerebbe in realtà di suo padre. L’esegesi, però, non risulta convincente e sembra preferibile quella di Hanslik per due motivi: 1) Lucio Vinicio il giovane sembra appartenere ad una generazione maggiormente legata ad Augusto, mentre L. Vinicio padre era già affermato ai tempi delle guerre civili; 2) su un denarius d’argento di L. Vinicio il giovane è riprodotto l’arco di trionfo che fu elevato nel Foro Romano per celebrare la vittoria di Azio: cf. Hanslik 1961, 111; ciò sembra confermare i suoi stretti rapporti con Augusto e permette di comprendere meglio la familiarità dell’imperatore con questo personaggio. Non sappiamo nulla della data di morte.
Traduzione T 36 Sen. Con. 2, 5, 20 (= Exc. Con. 2, 5, 1). Questi è Lucio Vinicio, di cui nessuno cittadino romano ebbe un ingegno più pronto nel trattare le cause: il primo impulso della mente gli offriva ciò che un altro avrebbe ottenuto da una lunga riflessione. Trattava le cause in modo improvvisato, ma non sentiva il bisogno di essere lodato, per avere la fama di trattarle in modo tale. Il divino Augusto disse efficacemente su di lui: «Vinicio ha un ingegno che vale denaro contante». T 37 Quint. Inst. 6, 3, 110-111. E se, come credo, il colorito dell’intera orazione non merita ciò [scil. di essere considerata urbana], ma bisogna attribuire tale definizione anche ai singoli detti, chiamerei urbane piuttosto quelle cose che appartengono al medesimo genere da cui si traggono quelle ridicole e tuttavia non sono ridicole, proprio come di Asinio 91
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
pariter accommodato dictum est esse eum omnium horarum, et de actore facile dicente ex tempore, ingenium eum in numerato habere.
T 38 Suet. Aug. 64, 2-3. Filiam et neptes ita instituit [scil. Augustus], ut etiam lanificio assuefaceret uetaretque loqui aut agere quicquam nisi propalam et quod in di[ut]urnos commentarios referretur; extraneorum quidem coetu adeo prohibuit, ut L. Vinicio, claro decoroque iuueni, scripserit quondam parum modeste fecisse eum, quod filiam suam Baias salutatum uenisset.
Commento L’apprezzamento di Seneca retore per L. Vinicio risulta per noi abbastanza misterioso. Egli era sicuramente molto talentuoso, capace di improvvisare in maniera assai efficace eppure desideroso che non lo si lodasse per tale abilità. Augusto lo gratificò di una battuta che alludeva al suo incarico di triumuir monetalis. A questo proposito è necessario aggiungere qualche parola su T 37. Già Giusto Monaco (Quintiliano e il capitolo de risu, Palermo 1970, 154) aveva supposto che l’actor di cui Quintiliano sottolineava la capacità di improvvisare facilmente fosse Lucio Vinicio, a causa della presenza dell’espressione rara in numerato, che significa “in contanti”, attribuita da Seneca Retore ad Augusto in riferimento a Vinicio. L’interpretazione dello studioso palermitano è senz’altro corretta per due motivi: 1) il sintagma in numerato è estremamente raro in latino: si trova in senso metaforico soltanto nei passi citati di Seneca Retore e di Quinti92
11. L. VINICIUS
Pollione è stato detto che era abile allo stesso modo nelle parti serie e nelle battute e che era un uomo di tutte le ore, ed è stato affermato di un “attore” che improvvisava facilmente, che aveva talento in contanti. T 38 Suet. Aug. 64, 2-3. [Augusto] allevò la figlia e le nipoti in modo tale da addestrarle anche al lavoro della lana e da vietare loro di dire o fare qualunque cosa se non apertamente e in modo tale da poter essere inserita nei diari quotidiani; le tenne tanto lontane dai contatti con gli estranei che scrisse a Lucio Vinicio, giovane famoso e ben educato, che si era una volta comportato in modo poco opportuno perché era venuto a Baia a salutare sua figlia.
liano, mentre compare in Plinio il Vecchio e nel Digesto in contesto contabile o giuridico; 2) la parola actor in Quintiliano non significa principalmente “attore (di teatro)”, ma “oratore”: anzi, nelle 41 altre occorrenze del termine nell’Institutio oratoria soltanto nei 3 casi in cui è accompagnata da sostantivi come comoediae o comoediarum o aggettivi come comicus la parola assume il primo significato. Perciò è assai probabile che qui Quintiliano abbia voluto alludere ad un personaggio dal talento pronto e vivace, abile nell’improvvisazione. L’espressione facile dicens è infatti estremamente elogiativa, anche perché piuttosto rara: in senso tecnico il sintagma facile dicere è utilizzato soltanto da Cicerone in Br. 221 per apprezzare l’eloquenza di Gaio Papirio Carbone Arvina, tribuno della plebe nel 90 a.C., ucciso nell’82 durante la repressione operata dai seguaci di Mario: cf. ORF4 I, no 87, 303-304. Purtroppo non abbiamo testi che ci consentano di esaminare le caratteristiche della sua arte oratoria. 93
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
12. Paul(l)us Fabius Maximus M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842= Ø. Bibliografia specifica E. Groag, RE VI, 1909, 1780-1789; W. Eck, NP 4, 1998, II. 14, 377; PIR2 III F 47; Szramkiewicz 1976, II, 116-117; 401-402; Della Corte 1986, 43-44; Fraenkel 1993, 558-564; Hoffa 1909, 36-37; Münzer 1920, 98; Syme 1986-2001, 598-618. Dati biografici Paolo Fabio Massimo fu uno dei personaggi più in vista dell’ultimo scorcio del I secolo a.C. e dei primissimi anni del I d.C. Nacque probabilmente intorno al 46-45 a.C. (prima per Eck, NP), imparentato con alcune delle famiglie più antiche e nobili di Roma: il suo nome rimanda
Testimonianze T 39 Hor. Carm. 4, 1, 9-16. Tempestiuius in domum Pauli purpureis ales oloribus comissabere Maximi, si torrere iecur quaeris idoneum. Namque et nobilis et decens et pro sollicitis non tacitus reis et centum puer artium late signa feret militiae tuae […].
T 40 Ov. Pont. 1, 2, 67-70 e 115-118. Suscipe, Romanae facundia, Maxime, linguae difficilis causae mite patrocinium. Est mala, confiteor, sed te bona fiet agente: 94
12. PAUL(L)US FABIUS MAXIMUS
ad un’antica e forte tradizione, che rimonta forse fino all’avo Emilio Paolo (Szramkiewicz 1976, II, 116). Si legò ad Ottaviano sposandone la cugina prima Marcia ed ebbe una notevolissima carriera politico-amministrativa, che si sviluppò soprattutto in Grecia e in Asia, dove rivestì le cariche di quaestor Augusti per l’Acaia, di proconsole d’Asia e forse di proconsole di Cipro: cf. Syme 1986-2001, 601-602. Dovette essere un governatore abbastanza apprezzato, come si può evincere dal decreto delle città asiatiche in suo onore, di cui restano frammenti provenienti da Apamea, Dorileo, Eumenia e Priene: cf. Szramkiewicz 1976, II, 402 e CIL III 12240 e 13561. Innalzato al consolato nell’11 a.C., egli appartenne al gruppo ristretto degli amici principis ed intrattenne relazioni con Orazio, che lo elogiò nel IV libro dei Carmina, ed Ovidio, il quale gli inviò ben tre lettere dall’esilio (Pont. 1, 2; 3, 3 e 8). Dopo il consolato fu probabilmente proconsole (Eck, NP) e poi legato in Spagna Citeriore. Rimase fino alla fine vicino all’imperatore, accompagnandolo in segreto a Pianosa, dove si trovava relegato Agrippa Postumo: cf. Syme 1986-2001, 610-612. Morì forse suicida nel 14 d.C.
Traduzione T 39 Hor. Carm. 4, 1, 9-16. Più opportunamente, se cerchi un cuore adatto da infiammare, andrai con i meravigliosi cigni alati a fare baldoria nella casa di Paolo Massimo. Infatti è nobile, bello, non si rifiuta di parlare in difesa degli accusati che ricorrono a lui, e, giovane dalle mille risorse, porterà lontano le insegne della tua milizia […]. T 40 Ov. Pont. 1, 2, 67-70 e 115-118. O Massimo, eloquenza della lingua romana, accetta la benevola difesa di una difficile causa. È cattiva, lo ammetto, ma se tu la sostieni diventerà buona: di’ solamente parole indul-
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
lenia pro misera fac modo uerba fuga. […] Vox, precor, Augustas pro me tua molliat aures, auxilio trepidis quae solet esse reis adsuetaque tibi doctae dulcedine linguae aequandi superis pectora flecte uiri. T 41 Sen. Con. 2, 4, 11. Sed ut aliquid iocemur, Fabius Maximus nobilissimus uir fuit, qui primus foro Romano hunc nouicium morbum quo nunc laborat intulit; de quo [F 18]. Hanc controuersiam cum declamaret, Maximus dixit [quasi] tricolum tale, qualia sunt quae basilicam †insectant† (dicebat autem a parte ): «Omnes aliquid ad uos inbecilli, alter alterius onera, detulimus: accusatur pater in ultimis annis, nepos in primis, abdicatus nullis». Haec autem subinde refero quod aeque uitandarum rerum exempla ponenda sunt quam sequendarum.
T 42 Sen. Con 10 praef. 13. Hos minus nobiles sinite in partem abire, Paternum et Moderatum, Fabium et si quis est nec clari nominis nec ignoti.
T 43 Porph. Ad Hor. Carm. 4, 1, 9-10 e 14. Fabius Maximus Paulus fuit nobilis et disertus adulescens, cui uenerios lusus nunc cu maxime conuenire dicat, ipse ostendit subiciendo: [Hor. Carm., 4, 1, 13-14]. Causidicum oratorem esse ostendit Paulum.
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12. PAUL(L)US FABIUS MAXIMUS
genti per un povero esiliato. […] Ti prego, la tua voce renda favorevoli per me le orecchie di Augusto, essa che di solito aiuta i rei tremanti e, grazie alla dolcezza consueta della tua colta lingua, piega il cuore di un uomo che merita di essere messo alla pari degli dei.
T 41 Sen. Con. 2, 4, 11-12. Ma, per scherzare un poco, Fabio Massimo fu quel nobilissimo uomo che per primo introdusse nel foro Romano questa nuova malattia di cui ora soffre. [F 18]. Mentre declamava questa controversia Massimo usò un tricolo simile a quelli che deturpano i tribunali? Parlava dalla parte del padre e diceva: «Tutti abbiamo deposto davanti a voi qualcosa, l’uno i pesi della debolezza dell’altro, visto che siamo sfiniti: il padre viene accusato negli ultimi anni di vita, il nipote nei primi, il figlio ripudiato in nessun istante». Vi riferisco al momento questi casi, poiché devono essere citati tanto esempi di cose da seguire quanto di cose da evitare. T 42 Sen. Con. 10 praef. 13. Lasciate che questi personaggi meno importanti se ne vadano da una parte, Paterno, Moderato e Fabio e chiunque non è né celebre né sconosciuto. T 43 Porph. Ad Hor. Carm. 4, 1, 9-10 e 14. Fabio Massimo Paolo fu un giovane nobile ed eloquente; Orazio stesso, con quanto segue, spiega perché gli si confacevano tantissimo i piaceri amorosi [Hor. Carm, 4, 1, 13-14]. Indica che Paolo era un oratore di professione.
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Frammenti F 18 In Cassium Seuerum (= M 1842 Cassius Severus fr. 2) De quo Seuerus Cassius, antequam ab illo reus ageretur, dixerat: quasi disertus es, quasi formosus es, quasi dives es; unum tantum es non quasi: uappa. F 19 Dubium de congiariorum exiguitate (?) heminaria
F 18 Sen. Con. 2, 4, 11. Sed ut aliquid iocemur, Fabius Maximus nobilissimus uir fuit, qui primus foro Romano hunc nouicium morbum quo nunc laborat intulit; de quo … uappa. F 19 Quint. Inst. 6, 3, 52-53. In metalempsin quoque cadit eadem ratio dictorum, ut Fabius Maximus, incusans Augusti congiariorum quae amicis dabantur exiguitatem, … esse dixit (nam congiarium commune liberalitatis atque mensurae) a mensura ducta inminutione rerum.
Commento L’attività oratoria di Fabio Massimo è ricordata con chiarezza dalle testimonianze: evidente è in particolare l’apprezzamento per la sua abilità come patronus nel difendere gli accusati (T 39 e T 40); di lui è attestata anche l’attività di declamatore (T 41); Porfirione lo definisce di-
F 18 2 Cassius dett. Cassio a || dixerat codd. disserat B || 3 quasi codd. quiai A quia B || 4 uappa Gronovius alapam a F 19 2 heminaria Regius heminariam A
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12. PAUL(L)US FABIUS MAXIMUS
Traduzione F 18 Contro Cassio Severo Cassio Severo, prima di essere stato messo sotto accusa da lui, aveva detto di quella persona: «Sei quasi eloquente, quasi bello, quasi ricco; soltanto una cosa sei completamente, un fannullone».
F 19 Dubbio sulla scarsa entità delle elargizioni. Doni del valore di un’emina. Contesto F 18 Sen. Con 2, 4, 11. Ma, per metterla un po’ sullo scherzo, Fabio Massimo fu un uomo nobilissimo che per primo introdusse nel foro romano questa malattia nuova di cui soffre ancora; Cassio … fannullone. F 19 Quint. Inst. 6, 3, 52-53. Il medesimo tipo di detti ricade nella categoria della metalessi: Fabio Massimo, incolpando Augusto per la scarsa entità delle elargizioni date agli amici, disse che erano doni … emina, indicando la diminuzione delle sostanze dalla misura (infatti il congiarium esprime il senso concomitante di generosità e di misura).
sertus e causidicus, vale a dire avvocato di professione (cf. ThLl III, 703, 72-704, 53 e Neuhauser 1958, 202). Egli introdusse nel foro quello che Seneca chiama un nouicium morbum, vale a dire uno stile oratorio affettato e lambiccato, da evitarsi in ogni caso (T 41).
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
F 18 L’unica traccia del processo intentato da Fabio Massimo a Cassio Severo è conservata da questo frammento di Seneca retore. Il contesto ci informa sulla scarsa considerazione che il secondo aveva per il primo e non ci sorprende quindi che, tra i due, uno screzio od un contrasto abbia potuto dare vita ad una causa. Non c’è modo di comprendere se il contrasto abbia avuto anche ragioni politiche, anche se l’ostilità di Cassio Severo per Augusto ed i suoi partigiani potrebbe essersi riverberata anche su Fabio Massimo: cf. infra 173. Nel testo, al di là di varianti di poco conto, è opportuno soffermarsi brevemente sulla correzione uappa di Gronov rispetto ad alapam tradito da a. L’intervento è necessario, perché il vocabolo alapa, “schiaffo, ceffone”, ricorrente soltanto in Fedro, Giovenale e Porfirione, non conferisce alcun senso soddisfacente; uappa, termine attestato già in Catullo, consente invece di coniugare un significato accettabile e una correzione non molto difficile. F 19 Nella sezione De risu, che occupa il capitolo 3 del sesto libro dell’Institutio Oratoria, Quintiliano raccoglie numerosi esempi di battute, motti di spirito, espressioni comiche utilizzate per vivacizzare le orazioni. Gli esempi non hanno solo origine oratoria; perciò il motto potrebbe anche essere appartenuto ad una raccolta di facete dicta simile a quelle esistenti per Cicerone ed utilizzate per esempio da Domizio Marso e Macrobio: cf. Balbo 1996, 278-280 e n. 71. Se ammettiamo che si tratti di un frustulo di orazione dobbiamo allora osservare che le parole di Fabio Massimo denotano una notevole libertà di parola nei confronti di Augusto, quale sembra convenire soltanto ad un suo stretto collaboratore. Non abbiamo elementi efficaci per dedurre una datazione plausibile, perché non conosciamo il luogo in cui fu pronunciata l’affermazione né sappiamo se Augusto sia stato presente. In Anc. I, 15 si parla di donativi offerti alla popolazione in molti momenti diversi tra il 29 e il 12 a.C., ma non si fa cenno agli amici, bensì alla popolazione, né si accenna a misure di capacità come hemina e congius, ma semplicemente ad elargizioni in denaro. La battuta si fonda sul doppio senso di congiarium, che indica il donativo del valore di un congius, vale a dire di sei sextarii, mentre l’hemina vale mezzo sextarius, ovvero 1/12 del congius: si tratta perciò di una riduzione enorme dell’entità dell’elargizione. La parola heminaria è un hapax restituito dal Regius nella edizione veneta del 1493. 100
13. Acilius Lucanus M 1832 = Ø; D 1837 = 349 (proposta di Egger); M 1842 = 543. Bibliografia specifica P. von Rohden, RE I 1893, 259; PIR2 I, A 74; Brugnoli 1982; Gualandri 1989; Lo Cascio 2003; Martina 1984; Rostagni 1956, 176-186. Dati biografici Di Acilio Lucano, padre di Acilia, suocero di Marco Anneo Mela e nonno di Marco Anneo Lucano, conosciamo con certezza soltanto quanto è testimoniato dalla Vita lucanea dello pseudo-Vacca (T 44; su tale scritto cf. Rostagni 1956, 176-177, Brugnoli 1982 e Martina 1984), la più antica delle brevi biografie di Lucano che ci sono state tramandate e l’unica a fornirci qualche notizia su di lui. Poiché Lucano nacque il 3 novembre del 39 d.C. e sua madre Acilia era ancora viva nel 65, in quanto denunciata dal figlio come aderente alla congiura dei Pisoni e poi “dimenticata” da Nerone nella repressione (cf. Ann. 15, 56, 4 e 71, 5), ne consegue che la data di nascita di Acilio può essere fissata con buone probabilità nella seconda metà del I secolo a.C. Egli era probabilmente originario di Cordova, in Betica, dove la gens Acilia, di origine plebea italica (cf. Münzer 1920, 91-92 e 120; Kajanto 1965, 113), era certamente insediata: su 35 casi di Acilius / Acilia attestati in Spagna (comprendenti anche le iscrizioni graffite sulla ceramica) ben 10 provengono da questa provincia. Anche l’espressione dello pseudoVacca matrem habuit et regionis eiusdem et urbis Aciliam nomine garantisce una nascita spagnola della madre. Acilio fu oratore ed ebbe una buona reputazione. Sulla sua relazione con gli Annei non possiamo far altro che proporre congetture: è evidente che una famiglia aristocratica di rango equestre come quella di Seneca non avrebbe accettato di imparentarsi con personaggi di livello sociale inferiore: possiamo perciò supporre che Acilio fosse di rango equestre: cf. P. Grimal, Seneca [titolo originale Sénèque ou la conscience de l’Empire, Paris 19912], tr. it., Milano 1992, 33-37; K. Abel, Seneca. Leben und Leistung, ANRW II, 32, 5 (1985), 656-658; Lo Cascio 2003. Sulla morte di Acilio Lucano nulla sappiamo di certo: se si ammette che l’epigrafe CIL II 2182, rinvenuta nel 1772 ad Adamuz, ad una ventina di chilometri a NE di Cordova, si riferisce a lui, si deve riconoscere 101
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
che morì nella terra dove era vissuto: su questo argomento cf. Balbo 2003.
Testimonianze T 44 Vita Lucani 2, 2. (M. Annaeus Lucanus) matrem habuit et regionis eiusdem et urbis Aciliam nomine, Acilii Lucani filiam, oratoris operae apud proconsules frequentis et apud clarissimos uiros non nullius ingenii, adeo non improbandus ut in scriptis aliquibus hodieque perduret eius memoria, cuius cognomen huic poetae inditum apparet.
Commento La Betica era provincia senatoria governata da un proconsole che aveva sede a Cordova ed aveva tra i suoi compiti essenziali quello di amministrare la giustizia (Daremberg-Saglio IV A, 720, P. Schulten, RE VIII, 1913, 2037; sulla provincia in particolare cf. A. T. Fear, Rome and Baetica. Urbanization in southern Spain c. 50 BC-AD 150, Oxford 1996 e Lo Cascio 2003). Siccome nelle province il proconsul era sostituito sovente dai suoi legati nei processi di primo grado e ricopriva il ruolo di giudice d’appello, è verosimile pensare che ad Acilio, avvocato di fama, fossero affidati processi che comportavano appello, vale a dire cause di una certa rilevanza. Appare perciò perfettamente coerente l’affermazione che Acilio abbia potuto parlare frequentemente davanti ai proconsoli, in quanto favorito dalla vicinanza alla sede dei magistrati. L’uso del plurale proconsules indica anche che Acilio ebbe modo – probabilmente – di discutere cause di fronte a più d’uno di loro. La sua 102
13. ACILIUS LUCANUS
Traduzione T 44 Vita Lucani 2, 2. (Marco Anneo Lucano) ebbe per madre una donna di nome Acilia, proveniente dalla medesima regione e dall’identica città, figlia di Acilio Lucano, oratore che teneva frequentemente discorsi davanti ai proconsoli e che presso le persone più note aveva fama di avere un certo ingegno; tanto lo si apprezzava che in alcuni scritti perdura anche oggi la sua memoria; è evidente che a costui è stato attribuito il suo cognome.
fama oratoria doveva essere diffusa tra le persone nobili della provincia; l’espressione usata (il non premesso al nullus) attesta un apprezzamento moderato, degno di nota se si pensa che la vita dello pseudoVacca è «palesemente apologetica anche nei confronti dei familiari di Lucano, come prova il lusinghiero giudizio su Seneca e su Mela e, in ultima analisi, anche su Acilia» (Martina 1984, 159). Se la Vita di Vacca va fatta risalire all’età di Vespasiano, il positivo giudizio del suo autore verso Acilio implica che le sue orazioni si leggessero ancora circa 6070 anni dopo la loro composizione. Sembra plausibile l’interpretazione di M 1842, 543, che identificava negli scripta le orazioni: ciò fa pensare ad una loro pubblicazione e spinge a supporre che fossero piuttosto apprezzate. Acilio risulterebbe quindi uno dei primi autori spagnoli in lingua latina di cui ci sia attestata l’esistenza (cf. Gualandri 1989, 483). 103
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
14. Furius Saturninus M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = Ø. Bibliografia specifica K. Münschner, RE VII 1, 1910, 368; PIR2 III, F 201; Bauman 1974, 95-96; Bornecque 1902, 167-168; Brunt 1961; Kunkel 1969.
Frammenti F 20 In Volesum Saturninus Furius, qui Volesum condemnauit, maius nomen in foro quam in declamationibus habuit
F 20 Sen. Con. 7, 6, 22. Saturninus Furius … habuit; solebat tamen tam honeste declamare, ut scires illum huic materiae non minus idoneum esse sed minus familiarem. Is in hac controuersia, cum L. Lamiae filio declamaret, dixit sententiam: oJ me;n path;r ceivrwn gevgonen turavnnou, oJ de; dou'lo" eJautou'.
F 20 2 Saturninus AV saturnininus B || Volesum Lipsius uoles uel a Votienum Madvig Volesum Valerium dubitanter Gertz
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14. FURIUS SATURNINUS
Dati biografici Le vicende della sua vita sono pressoché sconosciute. Sappiamo solamente che egli dovette essere in rapporti di collaborazione con Augusto, in quanto partecipò come accusatore al processo contro Messala Voleso nel 5 d.C. Seneca ricorda una sua declamazione per il figlio di Lucio Lamia: secondo Münschner in RE costui dovrebbe essere identificato con il console del 3 d.C., morto nel 33, al quale furono dedicati da Orazio i Carm. 1, 26 e 3, 17; per Groag (PIR2) si trattò invece del figlio di quest’ultimo. In ogni caso Seneca attesta senza alcun dubbio sia l’attività di oratore sia quella di declamatore di Saturnino (cf. F 20).
Traduzione F 20 Contro Voleso Saturnino Furio, che accusò Voleso, ebbe una reputazione maggiore nel foro che nelle sale di declamazione. Contesto F 20 Sen. Con. 7, 6, 22. Saturnino Furio … declamazione. Tuttavia declamava in modo tanto efficace che avresti potuto ritenerlo non meno adatto a questo tipo di oratoria, ma in essa meno esperto. Egli, in questa controversia, mentre parlava davanti al figlio di Lucio Lamia, disse la sentenza seguente: «Il padre è diventato peggiore di un tiranno, ma lo schiavo peggiore di se stesso».
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Commento F 20 Lucio Valerio Messala Voleso (R. Hanslik, RE VIII A 1955, 170171) divenne console nel 5 d.C. insieme a Gneo Cornelio Cinna Magno: cf. Rohr Vio 2000, 196-197. Fu poi proconsole dell’Asia nell’11 d.C., dove, secondo Seneca, si distinse per particolare crudeltà, facendo sopprimere in un giorno 300 persone e dichiarando poi la propria soddisfazione per tale atto (Ira 3, 5, 5); egli fu fatto processare da Augusto. La data del processo ci è ignota, ma deve essere compresa tra l’11 ed il 14 d.C., anno del decesso dell’imperatore. Hanslik afferma che egli fu accusato immediatamente dopo la conclusione della sua attività di governatore, ma non vi sono elementi sicuri in questo senso. Tacito (Ann. 3, 68) afferma che Tiberio, mentre preparava l’accusa contro Giunio Silano, ricordò l’esistenza di libelli augustei e di una deliberazione del Senato riguardanti Voleso, che viene chiamato proconsul. La tipologia dell’accusa è incerta: Seager 20052, 134, seguendo Hanslik, ritiene che Voleso sia stato messo sotto processo per gli atti di violenza e crudeltà commessi nell’amministrazione della provincia; Brunt 1961, 200, 203 e 224 ritiene che l’accusa abbia riguardato tanto la saeuitia quanto il reato de repetundis e che, forse, non possa essere totalmente esclusa l’imputazione di maiestas; Bleicken 1962, 35 si limita ad accennare alle prime due accuse; Kunkel 1969, 38 inclina per il reato de repetundis; Bauman 1974, 95 e Talbert 1984, 461 suggeriscono che Voleso sia stato accusato di maiestas; il primo si spinge ad affermare che, dal confronto con l’esito del processo di Silano, anche quello di Voleso si concluse con l’esilio e la confisca dei beni; Woodman-Martin 1996, 466 sostengono con buoni argomenti la posizione di Seager. Gli indizi in nostro possesso sono per altro assai labili e si fondano esclusivamente su deduzioni ex silentio basate su somiglianze tra processi: l’impressione è che forse non vi siano elementi sufficienti per chiamare in causa la maiestas e che un prudente non liquet sia la migliore soluzione; significativo è il fatto che Zäch 1972 non prenda in considerazione questo caso nel suo volume sui processi di lesa maestà. È opportuno osservare che il cognome Voleso, adottato nelle edizioni, deriva da una buona congettura del Lipsio sul tradito voles vel, originato probabilmente da un fraintendimento di un originario Voles∑; non particolarmente utile è il Volesum Valerium del Gertz, mentre Votienum del Madvig è inaccettabile, in quanto crea una difficoltà cronologica in106
14. FURIUS SATURNINUS
superabile, poiché il processo contro Vozieno Montano risale al 25 d.C., 11 anni dopo la morte di Augusto. Soltanto Seneca Retore ricorda l’azione di Furio Saturnino in questo processo. Sull’orazione di Saturnino non sappiamo alcunché. Brunt 1961, 200 n. 31 interpreta l’azione espressa dal verbo condemnare come «a counsel for prosecution»»; Bleicken 1962, 35 n. 3, ponendosi sulla stessa linea, afferma giustamente che l’uso del verbo condemnare non significa che egli abbia giudicato Voleso, bensì che, semplicemente, pronunciò un discorso di accusa che risultò decisivo per la condanna dell’imputato. Si può presumere che egli fosse legato da un rapporto di particolare fiducia nei confronti dell’imperatore; non è detto per altro che sia stato un senatore: contra Kunkel 1969, 38, che ritiene anche che il processo non si sia svolto in Senato; possibilisti gli altri interpreti, che ritengono tuttavia che il processo si sia tenuto nella curia. Nel passo senecano nulla ci autorizza a negare l’esistenza di un tale processo, che sembrerebbe confermata dalla testimonianza tacitiana: Brunt 1961, 200 ritiene il procedimento di Voleso uno dei casi in cui il Senato dimostrò di aver acquisito competenze giudiziarie nuove rispetto all’epoca tardorepubblicana.
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
15. Gauius Silo M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842= Ø. Bibliografia specifica K. Münschner, RE VII, 1, 1910, 870; J. Rüpke, NP 4, 1998, II. 8, 815; PIR2 IV G 111; Bornecque 1902, 168.
Testimonianze T 45 Sen. Con. 10 praef. 14. Bene declamauit Gauius Silo, cui Caesar Augustus, cum frequenter causas agentem in Tarraconensi colonia audisset, plenum testimonium reddidit; dixit enim: «Numquam audiui patrem familiae disertiorem». Erat qui patrem familiae praeferret, oratorem subduceret: partem esse eloquentiae putabat eloquentiam abscondere.
Commento Non restano frammenti di cause che abbia sostenuto: il giudizio di Augusto risulta complessivamente positivo, ma sicuramente velato di ironia ed anche Seneca Retore non nasconde qualche riserva sul suo modo di parlare: la scelta di mettere in primo piano il padre di famiglia e di riservare un ruolo secondario all’attività oratoria non poteva risultare convincente per il retore spagnolo. Le citazioni delle declamazioni sono 5 e sono concentrate nel decimo libro delle Controuersiae (2, 7 e 16; 3, 14; 4, 7; 5, 1); esse non forniscono informazioni significative: anche Si108
15. GAUIUS SILUS
Dati biografici Le notizie su questo personaggio sono ridottissime: fu sicuramente declamatore ed avvocato, come si evince da T 45. Augusto ebbe modo di ascoltarlo in Spagna nella colonia di Tarragona: Bornecque ritiene che vi sia nato, ma non ci sono elementi che possano suffragare questa ipotesi. Il riferimento all’imperatore porta a supporre che egli abbia ascoltato Silone durante la campagna di Spagna, tra il 26 ed il 25 a.C., quando svernò a Tarragona durante la campagna contro Cantabri ed Asturiani: cfr. Flor. Epit. 2, 33, 51 e A. Brancati, Augusto e la guerra di Spagna, Urbino 1963, 55, 57, 87, 91-92. Il nome risulta incerto tra Gabius, Grabius e Gauius, ma la lectio difficilior è senz’altro quest’ultima: Gabius di V è dovuto probabilmente ad una varietà di pronuncia e Grabius di B ed M2 ad un fraintendimento lessicale.
Traduzione T 45 Sen. Con. 10 praef. 14. Gavio Silone fu un buon declamatore. Cesare Augusto, poiché lo aveva ascoltato spesso mentre trattava cause nella colonia di Tarragona, gli diede un valido riconoscimento; disse infatti: «Non ho mai sentito un padre di famiglia più eloquente». Era uno che metteva in primo piano il padre e teneva indietro l’oratore: riteneva che parte dell’eloquenza fosse celare l’eloquenza.
lone possedeva uno stile patetico, in cui la carica espressiva e l’uso delle interrogative retoriche risultano evidenti. Il tema dell’eloquenza che cela se stessa è collegato al principio retorico della dissimulatio artis, le cui testimonianze più antiche sono forse da rintracciare già nella retorica del IV secolo a.C., almeno in Aristotele, Rh. 1404 b 18; tracce di tale principio si trovano in Rhet. Her. 4, 7, 10 (= Calboli 1969, 161: Praeterea ne possunt quidem ea, quae sumuntur ab aliis, exempla tam esse artem accommodata, propterea quod in dicendo leuiter unus quisque 109
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
locus plerumque tangitur, ne ars appareat), Cic. Or. 78, Ov. Ars 2, 313 e Met. 10, 252, Quint. Inst. 2, 5, 8 e 9, 3, 102, Longin., Subl. 17, 1 e 22, 1: cfr. per un’ampia discussione Calboli 1969, 285-286 e per un approfondimento C. Neumeister, Grundsätze der forensischen Rhetorik, München 1964, 130-155; W. Stroh, Rhetorik und Erotik. Eine Studie zu Ovids liebesdidaktischen Gedichten, WJA N. F. 5, 1979, 117-132; M. Fabius Quintilianus Institutionis oratoriae liber I ed. by F. H. Colson, Cambridge 1924 (= Hildesheim – New York 1973), 142 e 179. Altri passi sono segnalati in Calboli 1969, 286. Seneca Retore aveva già toccato questo tema in Con. 1 praef. 21, parlando di Porcio Latrone: cfr. T 26, 21-22. Senz’altro l’accostamento implicito tra la espressione abscondere eloquentiam di Gavio Silone e il vocabolo subtilitas di Latrone ci può far comprendere come l’arte oratoria del primo doveva in qualche modo essere imparentata con l’arte del grande declamatore.
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16. Iulius Florus M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = Ø. Bibliografia specifica O. Rossbach, RE VI 2, 1909, 2761-2770; M. Schottky, NP 6, 1999, II. 57 e 59, 34; PIR2 III, F 456 e PIR2 IV, I 316; Bessone 1996; Fedeli 1997, 1041 e 1049-1050; Lana 1989, 49-50. Dati biografici Floro, il cui profilo biografico non ci è noto, era sicuramente uno dei giovani che componevano la studiosa cohors di amici di Tiberio. Rivestì il ruolo di scriba, anche se non sappiamo in quale ufficio; fu probabilmente segretario di Tiberio (Bessone 1996). Porfirione (Ad Hor. Ep. 1, 3, 1) ci testimonia che fu un colto letterato autore di satire, che si preoccupò anche di mettere insieme una vera e propria edizione degli scrittori satirici romani. Rimangono soltanto delle ipotesi – seppur seducenti – le identificazioni con il declamatore allievo di Latrone di cui parla Seneca retore in Con. 9, 2, 23-24 e con lo zio di Giulio Secondo ricordato da Quint. Inst. 10, 3, 13-14 (cf. M. Schottky, NP 6, 1999, II. 59, 34): cf. Bessone 1996. Soltanto la testimonianza di Orazio ci conserva qualche notizia sulla sua attività oratoria.
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Testimonianze T 46 Hor. Ep. 1, 3, 21-25. […] Non tibi paruum ingenium, non incultumst et turpiter hirtum seu linguam causis acuis seu ciuica iura respondere paras seu condis amabile carmen, prima feres hederae uictricis praemia.
Commento Floro è caratterizzato da un ingegno pronto e sviluppato e soprattutto dalla versatilità, che gli consente di occuparsi indifferentemente di versi e di prosa riportando sempre la palma del successo. Orazio ne attesta l’attività sia come accusatore sia come difensore in cause civili, ma non conserva altre notizie in proposito: l’espressione acuere linguam esprime, con una metafora efficace di matrice militare (Fedeli 1997, 1049), l’azione di chi si addestra in modo meticoloso per le contese forensi, come dimostrano alcuni precisi paralleli in Cic. Br. 331 (tu 112
16. IULIUS FLORUS
Traduzione T 46 Hor. Ep. 1, 3, 21-25. Non possiedi un ingegno scadente, né è poco raffinato e vergognosamente rozzo: sia che tu aguzzi la lingua nelle cause penali sia che tu prepari un parere in cause civili sia che tu dia forma ad un gradevole carme, riporterai il primo premio, l’edera del vincitore.
illuc ueneras unus, qui non linguam modo acuisses exercitatione dicendi, riferito a Bruto) e de orat. 3, 121 (non enim solum acuenda nobis neque procudenda lingua est); respondere ciuica iura (un hapax oraziano con respondeo transitivo) indica invece l’attività pura e semplice del giurisperito ed è equivalente a de iure ciuili respondere (Fedeli 1997, 1050). L’accostamento tra le due espressioni mi sembra quindi dovuta, come già ha notato il Fedeli, «ad una contrapposizione fra virtù di tipo militare […] e virtù pacifiche del giureconsulto che dà solo pareri di carattere legale» (Fedeli 1997, ibidem). 113
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
17. (Manlius?) Torquatus M 1832 = 218-219; D 1837 = 336-337; M 1842 = 527-528. Bibliografia specifica F. Münzer, RE XIV 1, 1928, 1193; W. Kierdorf, NP 7, 1999, I. 14, 825; PIR2 V, M 162; Bornmann 1996; Citti 1994; Lana 1989, 50-52; Mastrocinque 1996. Dati biografici Su Torquato, amico di Orazio e destinatario, oltre che dell’epistola 1, 5, anche dell’ode 4, 7, non sappiamo molto. Il carme 4, 7 reca come inscriptio la dicitura ad Manlium Torquatum e per questo motivo si è ritenuto che egli appartenesse alla gens Manlia. Numerosi sono stati i
Testimonianze T 47 Hor. Carm. 4, 7, 23-24. Non, Torquate, genus, non te facundia, non te restituet pietas. T 48 Tac. Ann. 4, 43, 5. Quo iure Vulcacius Moschus exul in Massiliensis receptus bona sua rei publicae eorum ut patriae reliquerat.
T 49 Ps. Acron. Ad ep. 1, 5. Torquatum aduocatum amicum suum, inuitat ad cenam Horatius. 114
17. (MANLIUS?) TORQUATUS
tentativi di identificazione con personaggi di cui si possiedono notizie da altre fonti: Lucio Manlio Torquato console nel 65 a.C. (Cruquius, Dacier), Manlio Torquato figlio di quest’ultimo e personaggio del De finibus (Wieland), un nipote (Sanadon, Mitscherlich e M 1832), un Aulo Manlio Torquato seguace di Pompeo protetto da Attico (Préaux), Lucio Nonio Asprenate Calpurnio Torquato (Teodoro Marcilio, M 1842); nessuna di queste ipotesi regge però ad un attento esame delle prove: cf. Citti 1994, 232-236. Non risulta che abbia ricoperto cariche politiche: i Manlii, infatti, che si erano opposti a Cesare, furono tenuti lontani dalle istituzioni in età augustea (Mastrocinque 1996, 921). Egli era sicuramente un avvocato molto attivo (cf. T 49), probabilmente ricco; è possibile che avesse ormai raggiunto un’età matura, in quanto il commento di Porfirione gli attribuisce una preminenza tra gli oratori che doveva verosimilmente esser frutto di una lunga pratica forense. Syme 1986-2001, 582 sostiene che fosse epicureo. Non abbiamo modo di stabilire le sue date di nascita e di morte: certamente era ancora vivo nel 13 a.C., anno della pubblicazione del quarto libro delle Odi.
Traduzione T 47 Hor. Carm. 4, 7, 23-24. O Torquato, né la stirpe, né l’eloquenza né la pietà ti riporteranno in vita. T 48 Tac. Ann. 4, 43, 5. Sulla base del medesimo diritto [la possibilità di conferire la cittadinanza ad un esiliato] Volcacio Mosco, dopo esser stato accolto come esule tra gli abitanti di Marsiglia, aveva lasciato i suoi beni alla loro città, che per lui era divenuta la patria. T 49 Ps. Acron. Ad ep. 1, 5. Orazio invita a cena il suo amico avvocato Torquato. 115
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Frammenti FF 21-22 Pro Moscho ueneficii reo (= M 1842 Torquatus fr. 1 et ORF4, n° 174, fr. 23) F 21 Moschi causam F 22 Moschus hic Pergamenus fuit rhetor notissimus. Reus ueneficii fuit, cuius causam ex primi tunc oratores egerunt Torquatus hic, de quo nunc dicit, cuius extat oratio, et Asinius Pollio.
F 21 Hor. Ep. 1, 5, 8-9. Mitte leuis spes et certamina diuitiarum / et Moschi causam.
F 22 Porph. Ad ep. 1, 5, 9. Et Moschi causam: […] Moschus … Pollio. = Ps. Acron ad ep. 1, 5, 9.
Commento FF 21-22 Al tempo di Porfirione, verso la fine del III secolo d.C., era ancora disponibile l’orazione con cui Torquato difese il retore Volcacio Mosco, un allievo di Apollodoro di Pergamo: su di lui cf. R. Hanslik, RE IX Supplementband 1962, 1836 e Bornecque 1902, 199-200. Egli, giunto a Roma forse al seguito di T. Volcacio Tullo console nel 33 a.C., si dedicò all’insegnamento della retorica. Seneca retore, che era stato suo allievo, lo cita otto volte nelle Controuersiae e nelle Suasoriae dando una valutazione non molto positiva della sua arte oratoria: Moschus non incom-
F 22 1 rhetor ego Retor Holder Reus codd. reus Petschenig || 2 primi Holder primi V pimis W || 3 Pollio plerique Polio Holder
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17. (MANLIUS?) TORQUATUS
Traduzione FF 21-22 In difesa di Mosco accusato di avvelenamento. F 21 La causa di Mosco. F 22 Questo Mosco di Pergamo fu un retore notissimo. Fu accusato di avvelenamento; gli oratori che difesero la sua causa furono questo Torquato, di cui ora parla e del quale rimane l’orazione e Asinio Pollione: essi erano tra i migliori dell’epoca. Contesto F 21 Hor. Ep. 1, 5, 8-9. Lascia da parte le deboli speranze e le competizioni per il denaro e la … Mosco. F 22 Porph. Ad ep. 1, 5, 9: E la causa di Mosco: […] Questo … epoca. = Ps. Acron ad ep. 1, 5, 9.
mode dixit, sed ipse sibi nocuit; nam dum nihil non schemate dicere cupit, oratio eius non figurata erat sed praua (Con. 10 praef. 10). Fu accusato di veneficio, un’imputazione assai frequente: cf. Citti 1994, 158; sulla lex e sulla quaestio competente de sicariis et ueneficis cf. Santalucia 1998, 145-148. Bisogna precisare che il verbo agere non indica necessariamente l’atto di assunzione della difesa di un accusato, ma può anche indicare genericamente la discussione della causa: Torquato potrebbe quindi anche non aver difeso Mosco, ma aver semplicemente
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
pronunciato un’orazione nel corso del suo processo (Lana 1989, 51). Tuttavia la maggioranza degli studiosi non accetta questa interpretazione: così ORF4, n° 174, ff. 23-24 e Fedeli 1997, 1070-71. A favore di questa seconda ipotesi si può osservare che l’espressione causam o causas agere significa “difendere” soprattutto quando si fa riferimento ad amici: cf. e. g. Cic. de orat. 1, 170. Se accettiamo tale interpretazione, dobbiamo osservare che del collegio di difesa fece parte anche Asinio Pollione (su questo intervento cf. ORF4, ibidem e Sen. Con. 2, 5, 13), mentre non sappiamo chi rappresentasse l’accusa nel processo; tuttavia la testimonianza di Seneca Retore dimostra che Mosco fu condannato ed andò in esilio a Marsiglia, dove morì nel 25 d.C., anno in cui i Marsigliesi chiesero al senato di poterne ottenere in eredità le ricchezze lasciate in città: cf. Citti 1994, 158. L’episodio è riferito da Tac. Ann. 4, 43, 5 (= T 48): cf. anche Koestermann 1965, II, 148-149. Anche la data del procedimento è incerta. La Malcovati (ORF4, ibidem) ricava la data del settembre di un anno intorno al 20 a.C. da due dati: 1) la pubblicazione in quest’anno del primo libro delle Epistulae; 2) il riferimento al genetliaco di Augusto citato in Ep. 1, 5, 9, che cadeva il 23 settembre (sulla questione dell’identificazione del Caesar qui citato cf. Citti 1994, 159). Tuttavia il primo elemento è valido soltanto per fissare un terminus ante quem, mentre il riferimento alla causa Moschi non è necessariamente da collegare alla data del 23 settembre: l’accostamento alle spes ed agli affanni per la ricchezza induce a pensare che anche la causa Moschi venga citata non per una sua vicinanza cronologica al momento del banchetto, ma per il suo valore esemplare di evento complesso e difficoltoso, che provoca il bisogno di riposo e di distrazione. Non credo quindi che dalla testimonianza oraziana si possa ricavare una datazione così precisa. Lana 1989, 52 ritiene che l’espressione certamina diuitiarum si riferisca alle cause civili e che, quindi, Torquato, in modo analogo a Giulio Floro (cf. 173-176), eccellesse sia nell’ambito dell’oratoria civile sia in quella giudiziaria, cercando di trarne vantaggi tangibili in termini di carriera: l’interpretazione è verosimile, ma non vi sono elementi certi per assumerla come sicura; per Fedeli 1997, 1071 i certamina diuitiarum sono le lotte per le ricchezze; il riferimento potrebbe essere ad una «caccia al denaro che riguarda quei suoi assistiti nei confronti dei quali egli svolge l’attività gratuita di civilista» (cf. vv. 12-15). Tali diuitiae sono i beni che si contendono gli eredi, «ai quali quotidianamente egli dà il proprio parere in cause di successione» (1073). 118
18. Q. (?) Varius Geminus M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842= Ø. Bibliografia specifica R. Helm, RE VIII A, 1955, 413-414; PIR VII, V 187; Bornecque 1902, 197; Hoffa 1909; Winterbottom 1974, passim. Dati biografici Le notizie sulla vita di Vario Gemino sono molto incerte. Seneca retore ci testimonia che egli fu un declamatore che diede prova di sé sia nelle Controuersiae sia nelle Suasoriae. Fu ascoltato ed elogiato da Cassio Severo (cf. T 50) e probabilmente pronunciò un discorso di fronte ad Augusto: ciò induce a collocare il suo floruit tra la parte conclusiva del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C., prima del 12 d.C., data limite dell’esilio di Cassio (cf. 144-145). Bornecque 1902 suppone che sia stato allievo di Cestio Pio (65-60 a.C. - post 9 d.C.), perché quest’ultimo sembra assumere nei confronti di Gemino atteggiamenti da insegnante, ma i passi addotti a dimostrazione non sono del tutto convincenti: è vero che Gemino parlò davanti a Cestio Pio e che costui fu l’unico a rivolgergli delle critiche (Exc. Con. 4, 8, 3 e Con. 7, 8, 10), ma in quest’ultimo passo Cestio Pio rimprovera anche Porcio Latrone senza per questo esser stato suo maestro; inoltre Cestio è un uomo dai giudizi decisamente pungenti nei confronti di tutti i declamatori: cf. Con. 7 praef. 8-9 su Albucio. Ebbe comunque un certo successo nell’ambiente dei declamatori e risulta noto ai tempi di Seneca filosofo (cf. T 51) e celebre come sublimis orator all’epoca di Gerolamo, sempre che il nome non sia stato inserito erroneamente nell’Adv. Iouinianum: cf. T 52. Due epigrafi ritrovate a Castelvecchio Subrego vicino a Sulmona (CIL IX 3305 e 3306) ci parlano di Quintus Varius Geminus, Quinti filius, il quale fu il primo di tutti i senatori peligni, per due volte rivestì la carica di legatus Augusti, fu proconsole, praefectus frumenti dandi, decemuir stlitibus iudicandis, curator aedium sacrarum monumentorumque e ebbe altre cariche nell’amministrazione augustea. La PIR lo identifica senz’altro con il Vario Gemino delle fonti letterarie, ma non possiamo esserne totalmente sicuri: indubbiamente questa collaborazione con Augusto si adatta bene al nostro personaggio. 119
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Testimonianze T 50 Sen. Suas. 6, 11. Itaque Cassius Seuerus aiebat alios declamasse, Varium Geminum uiuum consilium dedisse. T 51 Sen. Ep. 40, 9. Nam Geminus Varius ait. «Quomodo istum disertum dicatis nescio: tria uerba non potest iungere». T 52 Hier. Adu. Iou. 1, 28 (PL 1845, 249). Quam rarum sit uxorem sine his uitiis inueniri, nouit ille qui duxit uxorem. Vnde pulchre Varius Geminus sublimis orator, qui non litigat, inquit, coelebs est. Frammenti F 23 Apud Caesarem de re ignota Caesar, qui apud te audent dicere, magnitudinem tuam ignorant, qui non audent, humanitatem.
F 23 Sen. Exc. Con. 6, 8, 1. Extra. Varius Geminus apud Caesarem dixit: «Caesar … humanitatem».
Commento F 23 Questa frase di Vario Gemino compare nella parte conclusiva del sesto libro delle Controuersiae, che ci è giunto soltanto nella forma di excerpta. In questa sezione si discute se sia colpevole di rapporti delittuosi la vergine Vestale che pronunciò le seguenti parole: Felices nuptae! Moriar nisi nubere dulce est. Il testo attribuito a Gemino è collocato dopo la pars altera, vale a dire la difesa anonima del comportamento 120
18. Q.
(?) VARIUS GEMINUS
Traduzione T 50 Sen. Suas. 6, 11. Perciò Cassio Severo diceva che gli altri avevano declamato, mentre Vario Gemino aveva dato un parere realistico. T 51 Sen. Ep. 40, 9. Infatti Gemino Vario disse: «Non so come possiate definire eloquente costui: non è in grado di mettere insieme tre parole». T 52 Hier. Adu. Iou. 1, 28 (PL 1845, 249). Chi si è sposato sa quanto sia raro trovare una moglie senza questi difetti [litigiosità e rabbia]. Per cui disse efficacemente il sublime oratore Vario Gemino che chi non litiga è celibe. Traduzione F 23 Davanti a Cesare su un tema ignoto Cesare, coloro che hanno l’ardire di parlare davanti a te ignorano la tua grandezza, coloro che non osano, la tua umanità. Contesto F 23 Sen. Exc. Con. 6, 8, 1. Extra. Vario Gemino davanti a Cesare disse: «Cesare… umanità».
della Vestale e non vi è alcuna indicazione che tale frase sia in qualche modo collegata alla controversia. Certo, poiché ci si trova di fronte ad un excerptum, un tale legame non è da escludere, ma, siccome Seneca retore accosta a volte testi di orazioni reali a testi di declamazioni, non sarebbe sorprendente che l’epitomatore avesse voluto segnalare una frase particolarmente significativa senza curarsi di specificare se fosse 121
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
collegata o no con il tema dell’excerptum. Inoltre bisona osservare che l’espressione extra indica una situazione spesso esterna alla controversia, come indica Exc. Con. 1, 1: Extra controuersiam dicta. E. Migliario, per via epistolare, mi suggerisce l’ipotesi che possa anche essere caduta una frase relativa al contesto delle parole di Gemino, ricordando come i materiali compilatori si prestino ad eventi del genere: tuttavia anche di un fatto del genere non vi è alcuna prova. Anche in questo caso, quindi, la prudenza è d’obbligo, ma non sembra impossibile, come già proponeva Bornecque 1902, pensare ad un’orazione di Vario Gemino; tale posizione è fatta propria anche da RE, 413. Il personaggio a cui si rivolge Gemino è chiamato Cesare, ma è molto difficile che si tratti del dittatore, se non altro per motivi cronologici: Vario avrebbe dovuto declamare di fronte a lui prima del 44 a.C., ma ciò comporterebbe una sua nascita anteriore a quella di Cestio Pio e di Seneca Retore, fatto che il Cordovese avrebbe senz’altro segnalato. Si tratta invece con massima verosimiglianza di Ottaviano, che molto sovente in Seneca Retore è citato come Caesar: cf. Con. 2, 4, 13 e 10, 5, 21; non ha dubbi Winterbottom 1974, 525: «doubtless Augustus». Dal punto di vista stilistico la frase è attentamente studiata: al vocativo Caesar segue una costruzione isocolica in cui la seconda parte si segnala per le ellissi. Dal punto di vista contenutistico si può mettere in luce l’uso del verbo audere, che segnala il timore reverenziale di chi si rivolge all’imperatore; di rilievo sono i due termini magnitudo ed humanitas, che connotano la grandezza d’animo di Ottaviano: l’imperatore è grande, ma allo stesso tempo condiscendente. Il termine humanitas non è comune per gli imperatori: è utilizzato soltanto da Plinio il Giovane a proposito di Traiano in Ep. 6, 31, 14 con l’accezione di “delicatezza”; tuttavia in Seneca retore può in qualche modo essere considerato sinonimo di “tolleranza per la libertà di espressione” ed accostato perciò al termine libertas; esemplare risulta il confronto con Con. 2, 4, 13, in cui sono riportati due esempi di tolleranza augustea verso Porcio Latrone e un avversario di Agrippa (cf. F 9). In generale sul significato di questi termini cf. J. Hellegouarc’h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la république, Paris 19722, 267-271 e 290294.
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19. Pompeius Silo M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842= Ø. Bibliografia specifica K. Ziegler, RE XXI, 2, 1952, 2319-2320; C. Walde, NP 10, 2001, III. 2, 115; PIR VII, P 494; Bornecque 1902, 187-188; Hoffa 1909; Janka 2000; Vössing 2003. Dati biografici Pochissime sono le notizie che possediamo su Pompeo Silone. Fu sicuramente un esperto declamatore, come dimostra la copiosa messe di citazioni di Seneca Retore nelle Controuersiae e nelle Suasoriae. Bornecque 1902, 187 lo ritiene allievo di Porcio Latrone, mentre PIR lo considera suo contemporaneo. Il giudizio di Cassio Severo ci induce a ritenerlo in attività prima dell’8-12 d.C. (cf. T 59) e perciò a collocarne la data di nascita nella prima metà del I secolo a.C. Nulla sappiamo della sua morte.
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Testimonianze T 53 (cf. T 59) Sen. Exc. Con. 3 praef. 11. Silo Pompeius sedens et facundus et litteratus est, et haberetur disertus, si a praelocutione dimitteret; declamat tam male, ut uidear belle optasse cum dixi: «Numquam surgas». Magna et uaria res est eloquentia, neque adhuc ulli sic indulsit ut tota contingeret; satis felix est qui in aliquam eius partem receptus est.
T 54 Sen. Con. 9, 2, 22. Silo Pompeius, homo qui iudicio censebatur, et ipse ad hanc descriptionem accessit, minimum tamen mali fecit.
Commento Cassio Severo, citato da Seneca retore, esprime un giudizio negativo su Silone declamatore. L’espressione sedens sedens et facundus et litteratus est ha creato molto imbarazzo agli interpreti: essa potrebbe essere spiegata con l’accostamento a T 26, 21, dove il termine indica l’atteggiamento del declamatore che stava seduto prima di iniziare il suo intervento nella controversia e rifletteva sui punti che avrebbe toccato. Tuttavia, come già notava Janka 2000, 457, il comportamento di Porcio Latrone era del tutto inusuale e non corrispondeva ad una prassi condivisa; l’atto di restare seduti, in questo caso, doveva perciò assumere un significato differente. Vössing 2003, 75, ha pensato ragionevolmente che faccia riferimento alla prassi di pronunciare da seduti una premessa (praelocutio) della vera e propria declamazione, che non era legata al tema e consisteva in una conversazione composta da frasi brevi e senza struttura definita dal punto di vista sintattico: «Ziel des Redners war es dabei, das Publikum direkt anzusprechen, es für sich einzunehmen, ihm an kleinen Paradenstücken seine Kunst und seine Bildung zu demon124
19. POMPEIUS SILO
Traduzione T 53 (cf. T 59) Sen. Exc. Con. 3 praef. 11. Pompeo Silone finché resta seduto è facondo e colto e sarebbe ritenuto eloquente se lasciasse andar via gli ascoltatori dopo l’esordio; declama così male che mi pare di avergli dato un buon consiglio quando gli dissi: «Non alzarti mai». L’eloquenza è cosa grande e varia e non è stata mai così generosa nei confronti di nessuno da donarsi a lui integralmente; è sufficientemente fortunato colui che ha trovato ospitalità in qualche sua parte. T 54 Sen. Con. 9, 2, 22. Pompeo Silone, un uomo celebrato per il suo giudizio, provò anch’egli questa descrizione, tuttavia gli effetti negativi furono molto limitati.
strieren, es gewissermäßen aufzuwärmen und auf die eigentliche Rede vorzubereiten» (ibidem). La battuta di Cassio Severo costituirebbe allora un invito scherzoso a non cominciare mai la vera declamazione, ma a mantenersi in questa fase preparatoria in cui si dimostrava abile ed efficace. Dall’osservazione di Cassio si deduce perciò che Silone era un mediocre oratore di scuola, ma la seconda parte della riflessione sembra poterci indurre a ritenere che fosse anche dotato di un’eloquenza efficace, anche se non perfetta e completa. In effetti Seneca retore cita 64 volte Pompeo Silone sia nelle Controuersiae sia nelle Suasoriae ricordandone sententiae, diuisiones e colores; egli viene apprezzato come personaggio fedele alle regole dell’oratoria e capace di argomentare su ogni punto della legislazione (Con 1, 2, 15: Silo Pompeius, dum praeceptum sequitur quo iubemur ut, quotiens possumus, de omnibus legis uerbis controuersiam faciamus) e si segnala perché non si limita esclusivamente agli argomenti usati dagli altri (Con 1, 7, 13: Silo Pompeius non eis tantum usus est quibus ceteri). Non siamo in grado di definire con precisione e con sicurezza la sua reale produzione oratoria. 125
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20. T. Labienus M 1832 = 220-222; D 1837 = 339-340; M 1842 = 528-531. Bibliografia specifica W. Kroll, RE XII 1, 1924, 270-271; P. Lebrecht Schmidt, NP 6, 1999, 4, 1033; PIR2 V, L 19; von Albrecht 1995, 832; Balbo 1999, 243253; Bardon 1956, 96-97; Bornecque 1902, 177-178; Casaceli 1978; Cavarzere 1989, 293 n. 226; Cavarzere 2000, 202-203; Cucheval 1893, I, 179-190; Duret 1983, 1510-1517; Fairweather 1981, 292-293; Hennig 1973, passim; Hoffa 1909, 35-36; Kennedy 1972, 309-310; Raaflaub, Samons 1990, 439-441; Syme 1938; Syme 1978, 212-213. Dati biografici Sulla vita di Tito Labieno siamo poco informati. Il nomen ci è ignoto: nessuna delle fonti di cui disponiamo tramanda la forma Atius che M 1842 gli attribuisce. La famiglia era originaria di Cingulum nel Piceno (Syme 1938, 119) ed era la stessa del Labieno legato di Cesare, ma non siamo in grado di precisare quale fosse il grado di parentela tra i due: erra invece von Albrecht 1995, che li identifica. Non sappiamo quando fosse nato né abbiamo alcuna notizia sulla sua gioventù né sul suo cursus honorum. La scelta del suo parente di abbandonare la parte cesariana e di passare a Pompeo condizionò probabilmente il destino di tutti i componenti del nucleo familiare; forse la summa egestas (T 55) che, secondo Seneca Retore, contraddistingueva Labieno oratore, derivava proprio da difficoltà dovute alle vicende politiche. Tito Labieno nutrì sentimenti filo-pompeiani che conservò anche con l’avvento di Augusto (T 55): Kennedy 1972, 309 parla a questo proposito di una «evident paranoia», ma sembra più corretta la posizione di Duret 1983, 1511, che afferma «c’est trop accorder à la mode que de diagnostiquer chez lui un cas aigu de paranoia». Tale atteggiamento non si concretizzò probabilmente in un’opposizione esplicita e violenta al nuovo regime: Syme 1938, 125 ed Hennig 1973, 248-249 ricordano che l’aggettivo Pompeianus era stato riservato anche a Tito Livio, «l’interprete dell’Italia con-
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20. T. LABIENUS
servatrice e gelosa delle proprie libertà, che aveva contribuito tramite gli eserciti ad abbattere la repubblica aristocratica, ma che avrebbe preferito sostituirla con l’irrealizzabile, mitizzata repubblica del buon tempo andato piuttosto che con il principato» (G. Zecchini, Il pensiero politico romano, Roma 2002, 77). Labieno dovette comunque faticare parecchio per farsi strada come oratore; passò alla storia come un personaggio violento, rabbioso al punto tale da essere soprannominato Rabienus, con una motivazione molto significativa: quia passim ordines hominesque laniabat (T 55). Seneca lo definisce homo mentis quam linguae amarioris (T 56). Nutrì sentimenti di ostilità nei confronti sia di Mecenate (F 24) sia di Asinio Pollione (cf. FF 25 e 26), inimicandosi così sia un sostenitore di Augusto sia un suo oppositore. Labieno compose anche un’opera storica, di cui non ci sono rimasti frammenti: essa fu bruciata in seguito ad un senatoconsulto probabilmente nel 12 d.C. (T 57), ma ne dovette sopravvivere qualche copia se, come ricorda Svetonio, essa ricomparve ai tempi dell’imperatore Caligola (T 58). Tito Labieno non resse all’umiliazione e si suicidò facendosi seppellire vivo nel sepolcro di famiglia, verosimilmente in quello stesso anno. Tale vicenda è strettamente legata al problema della condanna di Cassio Severo da parte di Augusto in applicazione della lex Iulia maiestatis: cf. Hennig 1973, 251254; Bauman 1974, 31 n. 42 e soprattutto Duret 1983, 1513-1517, che identifica in modo convincente l’accusatore di Labieno con Mamerco Emilio Scauro (sul quale cf. Bornecque 1902, 143-145; Bergener 1965, 95-101; Bauman 1974, 92-99 e 126-128; Duret 1983, 1513-1514 e 3160-3163) e colloca l’esilio di Cassio Severo all’8 d.C., confermando al 12 la datazione del rogo dei libri e della morte del nostro oratore; Raaflaub, Samons 1990 si limitano a parlare di una data compresa tra l’8 ed il 12 d.C.; Cavarzere 2000, 202 ammette la possibilità che il rogo possa essere anticipato all’8 d.C. In Labieno, personaggio forse sgradevole, certo duro e deciso, è stato osservato un tentativo più o meno conscio di identificazione con Catone Uticense (Duret 1983, 1511); entrambi mostravano la medesima severità, prendevano posizione contro i vizi, davano prova senza esitare della loro libertà di parola, anche se a volte essa risultava eccessiva: «sa mort volontaire aussi, dans ce quelle eut de théâtral, devait à ses yeux le poser en martyr. Tel Caton à Utique, il refusait de survivre à l’injustice» (ibidem).
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Testimonianze T 55 Sen. Con. 10 praef. 4-8. De T. Labieno interrogatis. Declamauit non quidem populo, sed egregie. Non admittebat populum et quia nondum haec consuetudo erat inducta et quia putabat turpe ac friuolae iactationis. Adfectabat enim censorium supercilium, cum alius animo esset: magnus orator, qui multa impedimenta eluctatus ad famam ingeni confitentibus magis hominibus peruenerat quam uolentibus. Summa egestas erat, summa infamia, summum odium. Magna autem debet esse eloquentia quae inuitis placeat, et cum ingenia fauor hominum ostendat, fauor alat, quantam uim esse oportet quae inter obstantia erumpat! Nemo erat qui non, cum homini omnia obiceret, ingenio multum tribueret. 5 Color orationis antiquae, uigor nouae, cultus inter nostrum ac prius saeculum medius, ut illum posset utraque pars sibi uindicare. Libertas tanta ut libertatis nomen excederet, et quia passim ordines hominesque laniabat Rabies uocaretur. Animus inter uitia ingens et ad similitudinem ingeni sui uiolentus et qui Pompeianos spiritus nondum in tanta pace posuisset. In hoc primum excogitata est noua poena; effectum est enim per inimicos ut omnes eius libri comburerentur. Res noua et inuisitata, supplicium de studiis sumi. 6 Bono hercules publico ista in poenas ingeniorum uersa crudelitas post Ciceronem inuenta est. Quid enim futurum fuit si triumuiris libuisset et ingenium Ciceronis proscribere? […] 7 Di melius, quod eo saeculo ista ingeniorum supplicia coeperunt quo ingenia desierant! Eius, qui hanc in scripta Labieni sententiam dixerat, postea uiuentis adhuc scripta conbusta sunt, iam non malo exemplo, quia suo. Non tulit hanc Labienus contumeliam nec superstes esse ingenio suo uoluit sed in monumenta se maiorum suorum ferri iussit atque ita
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20. T. LABIENUS
Traduzione T 55 Sen. Con. 10 praef. 4-8. Mi interrogate a proposito di Tito Labieno? Egli non declamò certo per il pubblico, ma raggiunse un livello egregio. Non consentiva al pubblico di ascoltarlo, sia perché questa consuetudine non era ancora stata introdotta, sia perché riteneva che fosse un atto vergognoso e denotasse una frivola iattanza. Infatti ostentava un’austerità censoria, quantunque fosse diverso nell’animo: era un grande oratore che, dopo aver superato molti ostacoli, era giunto a godere della reputazione di persona di ingegno più attraverso il riconoscimento forzato degli uomini che grazie ad un loro consenso volontario. Era estremamente povero, molto screditato e molto odiato. Grande però deve esser l’eloquenza che sia gradita a chi è riluttante e, poiché il favore degli uomini mette in mostra gli ingegni e li nutre, quanto grande deve esser il vigore per farsi largo tra gli ostacoli! Non vi era nessuno che, pur rimproverando all’uomo ogni colpa, non fosse disposto ad attribuire molte qualità al suo ingegno. 5 Il colore era quello dell’oratoria antica, il vigore proprio della nuova, gli ornamenti medi tra il tempo nostro e quello precedente, cosicché entrambe le epoche potevano rivendicarlo a sé. La sua libertà di parola fu così grande da eccedere i limiti di ciò che definiamo libertà e da farlo chiamare Rabieno, poiché attaccava ferocemente senza distinzione gli ordini e le persone. Il suo animo fu grande pur tra i difetti e violento in modo simile al suo ingegno e tale da non aver ancora deposto i suoi furori pompeiani, nonostante la pace fosse così salda. Per la prima volta fu inventata contro di lui una nuova pena: i nemici fecero in modo che tutti i suoi libri fossero bruciati. Fu un fatto nuovo e quale mai precedentemente si era visto, mandare al supplizio la letteratura. 6 Per Ercole, fu un bene per tutti che una crudeltà del genere, che mirava a punire gli ingegni, sia stata scoperta dopo Cicerone: che cosa infatti sarebbe successo se i triumviri avessero deciso di proscrivere anche il talento di Cicerone? […] 7 Rendiamo grazie agli dei per aver fatto sì che codesti supplizi degli ingegni siano cominciati nel momento in cui gli ingegni erano venuti meno! Gli scritti dell’uomo che aveva pronunciato questo giudizio contro gli scritti di Labieno successivamente furono bruciati mentre egli viveva ancora: ormai non era più un esempio negativo, poiché ne era stato colpito anche lui. Labieno non sopportò questa offesa e non volle sopravvivere al suo ingegno, ma ordinò di farsi portare alle tombe dei suoi antenati e di farsi chiudere lì dentro, temendo evidentemente che il fuoco che era stato destinato al 129
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includi, ueritus scilicet, ne ignis, qui nomini suo subiectus erat, corpori negaretur. Non finiuit tantum se ipse sed etiam sepeliuit. 8 Memini aliquando, cum recitaret historiam, magnam partem illum libri conuoluisse et dixisse: «Haec quae transeo post mortem meam legentur». Quanta in illis libertas fuit quam etiam Labienus extimuit!
T 56 Sen. Exc. Con. 4 praef. 2. Et inde est quod Labienus, homo mentis quam linguae amarioris, dixit: «Ille triumphalis senex (scil. Asinius Pollio) ajkroavsei" suas [id est declamationes suas] numquam populo commisit»: siue quia parum in illis habuit fiduciam siue – quod magis crediderim – tantus orator inferius id opus ingenio suo duxit et exerceri quidem illo uolebat, gloriari fastidiebat.
T 57 D.C. 56, 27, 1. [Augusto] Kai; maqw;n o{ti bibliva a[tta ejf∆ u{brei tinw'n suggravfoito, zhvthsin aujtw'n ejpoihvsato, kai; ejkei'nav te, ta; me;n ejn th'/ povlei euJreqevnta pro;" tw'n ajgoranovmwn ta; de; e[xw pro;" tw'n eJkastacovqi ajrcovntwn, katevflexe, kai; tw'n sunqevntwn aujta; ejkovlasev tina".
T 58 Suet. Cal. 16, 1. Titi Labieni, Cordi Cremuti, Cassi Seueri scripta senatus consultis abolita requiri et esse in manibus lectitarique permisit, quando maxime sua interesset ut facta quaeque posteris tradantur.
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20. T. LABIENUS
suo nome potesse essere negato al corpo: non soltanto pose fine alla sua vita, ma si diede anche da sé la sepoltura. 8 Mi ricordo una volta che, mentre recitava la sua opera storica, arrotolò una gran parte del libro e disse: «Quanto tralascio verrà letto dopo la mia morte». Quanto grande fu la sua libertà di parola: Labieno stesso ne ebbe paura! T 56 Sen. Exc. Con. 4 praef. 2. E da qui viene quell’affermazione di Labieno, un uomo che aveva sia un animo sia una lingua piuttosto aspri: «Quel vecchio (Asinio Pollione), che aveva ottenuto il trionfo, non pronunziò mai le sue declamazioni in pubblico»; sia perché ebbe poca fiducia in esse, sia perché, – ed è la spiegazione più plausibile – un oratore così importante ritenne quell’attività inferiore al proprio ingegno e intendeva tenersi in esercizio con essa, ma disdegnava di gloriarsene. T 57 D.C. 56, 27, 1. (Augusto), avendo anche saputo che aveva scritto alcuni libri contro la tracotanza di alcuni, li fece cercare e fece bruciare dagli edili quelli trovati in città, quelli rinvenuti fuori dai magistrati dei luoghi dove erano stati trovati e punì alcuni di coloro che li avevano raccolti. T 58 Suet. Cal. 16, 1. (Caligola) consentì che gli scritti di Tito Labieno, Cremuzio Cordo e Cassio Severo, distrutti in virtù di senatoconsulti, fossero ricercati, presi in mano e letti, perché gli interessava moltissimo che ogni fatto fosse trasmesso ai posteri.
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Frammenti F 24 In Bathyllum (= M 1842 Labienus fr. 3) Recitauit rescriptum Labieno pro Bathyllo Maecenatis F 25 In Pollionem (= M 1842 Labienus fr. 2) casamo †adsectator† FF 26-29 Pro Figulo contra heredes Vrbiniae (= M 1842 Labienus fr. 1) F 26 Vt Asinius pro Vrbiniae heredibus Labienum aduersarii patronum inter argumenta causae malae posuit (= ORF4, n° 174, fr. 29).
F 24 Sen. Con. 10 praef. 8. Monstrabo bellum uobis libellum quem a Gallione uestro petatis. Recitauit … Maecenatis, in quo suspicietis adulescentis animum illos dentes ad mordendum prouocantis. F 25 Quint. Inst. 1, 5, 8. Vnum gente, quale sit si quis Afrum uel Hispanum Latinae orationi nomen inserat: ut ferrum quo rotae uinciuntur dici solet ‘cantus’ […] et in oratione Labieni (siue illa Corneli Galli est) in Pollionem casamo … e Gallia ductum est: nam ‘mastrucam’, quod est Sardum, inridens Cicero ex industria dixit.
F 26 Quint. Inst. 4, 1, 11-12. Etiam partis aduersae patronus dabit exordio materiam, interim cum honore, si eloquentiam eius et gratiam nos timere fingendo ut ea suspecta sint iudici fecerimus, interim per contumeliam, sed hoc perquam raro, ut … posuit. F 24 2 Bathyllo codd. babat hillo B || Maecenatis Lipsius Maecenatae a Maecenate M F 25 2 casamo B casami A T casena Alm. cassamum P2 om. P1 || adsectator B aƒfectator A P2 affectato Sarpe 1815 affectate Colson FF 26 2 Vrbiniae B Vrbinae A
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20. T. LABIENUS
Traduzione F 24 Contro Batillo Recitò una risposta a Labieno in difesa di Batillo di Mecenate. F 25 Contro Pollione casamo †seguace?†. FF 26-29 In difesa di Figulo contro gli eredi di Urbinia F 26 Come Asinio, che, nella difesa degli eredi di Urbinia, pose tra le prove di una causa ingiusta il fatto che Labieno difendesse l’avversario. Contesto F 24 Sen. Con. 10 praef. 8. Vi farò vedere un libretto carino da chiedere al vostro Gallione. Recitò … Mecenate, in cui guarderete con ammirazione l’animo di un giovane che provoca quei denti a mordere. F 25 Quint. Inst. 1, 5, 8. Uno di questi modi è dato dall’uso di termini di un popolo straniero, come avverrebbe se si inserisse un vocabolo africano o spagnolo in un’orazione latina: per esempio, come il ferro che cinge le ruote si suol chiamare ‘cantus’ […] e nell’orazione di Labieno (o di Cornelio Gallo) contro Pollione la parola ‘casamo’ †seguace† è stata tratta dalla lingua gallica: Cicerone impiegò infatti a ragion veduta, con l’intenzione di schernire, la parola ‘mastruca’, che è sarda. F 26 Quint. Inst. 4, 1, 11-12. Anche il patrono della parte opposta ci darà materia per l’esordio, talvolta attraverso l’onore, se, fingendo di temere la sua eloquenza e la sua bravura, faremo in modo che esse divengano sospette al giudice, talvolta per mezzo dell’offesa, ma ciò avverrà di rado, come … avversario.
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F 27 Vt est quaesitum contra Vrbiniae heredes is qui tamquam filius petebat bona Figulus esset an Sosipater … An hic sit ex Vrbinia natus Clusinius Figulus. (= ORF4, n° 174, fr. 30). F 28 Vt in lite Vrbiniana petitor dicit Clusinium Figulum filium Vrbiniae acie uicta in qua steterat fugisse, iactatumque casibus uariis, retentum etiam a rege, tandem in Italiam ac patriam suam [marginos] uenisse atque ibi agnosci. (= ORF4, n° 174, fr. 31).
F 27 Quint, Inst. 7, 2, 4-5. Est et illud, quod potest uideri extra haec positum, coniecturae genus, cum de aliquo homine quaeritur quis sit, ut … Sosipater. Nam et substantia eius sub oculos uenit, ut non possit quaeri an sit, quo modo an ultra oceanum, nec quid sit nec quale sit sed quis sit. Verum hoc quoque genus litis ex praeterito pendet: an … Figulus.
F 28 Quint. Inst. 7, 2, 26-27. Illud quoque, etiam si non est ajntikathgoriva, simili tamen ratione tractatur in quo citra accusationem quaeritur utrum factum sit. Vtraque enim pars suam expositionem habet atque eam tuetur, ut … agnosci: Pollio contra seruisse eum Pisauri dominis duobus, medicinam factitasse, manu missum alienae se familiae uenali inmiscuisse, a se rogantem ut ei seruiret emptum. Nonne tota lis constat duarum causarum comparatione et coniectura duplici atque diuersa? Quae autem accusantium ac defendentium, eadem petentium et infitiantium ratio est.
F 27 1 Vrbiniae edd. Vruia vel Vriua codd. F 27 3 [marginos] ego †marginos† codd. Winterbottom Marrucinos aut Marrubios Cuper Marrucinos Bonnell Malcovati a quadam urbe Marcina con. M 1842 per mangones Kiderlin
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20. T. LABIENUS
F 27 Come fu chiesto contro gli eredi di Urbinia se colui che come figlio pretendeva i beni fosse Figulo o Sosipatro … Se questo Clusinio Figulo sia nato da Urbinia. F 28 Come nel processo di Urbinia l’accusatore dice che Clusinio Figulo, figlio di Urbinia, dopo la sconfitta dell’esercito in cui aveva militato, era fuggito e, colpito da varie sventure e dopo esser stato trattenuto anche dal re, finalmente era giunto in Italia e nella sua patria e lì venne riconosciuto. Contesto F 27 Quint. Inst. 7, 2, 4-5. Vi è anche quel genere di congettura che può apparire posto al di fuori di questi elementi, quando, a proposito di una persona, si chiede chi sia, come … Sosipatro. Infatti la sua esistenza reale è così evidente che non ci si può chiedere se esista, allo stesso modo in cui non si chiede se stia oltre l’oceano, né che cosa sia né di che specie sia ma chi sia. Ma anche questo genere di contenzioso dipende dal passato: «Se … Urbinia». F 28 Quint. Inst. 7, 2, 26-27. Anche se non si tratta di una ajntikathgoriva, viene trattato allo stesso modo quel caso in cui, senza formulare l’accusa, ci si chiede quale dei due reati sia stato commesso. Infatti entrambe le parti espongono una loro versione e la sostengono, come … riconosciuto. Pollione, al contrario, affermò che quello era stato schiavo di due padroni a Pesaro, che aveva praticato la medicina e, dopo esser stato liberato, si era unito ad un’altra familia di schiavi in vendita; poiché lo aveva pregato di farlo suo schiavo, egli (Pollione) lo aveva acquistato. Forse che l’intera lite non si fonda sulla comparazione di due cause e su una congettura duplice e diversa? Il metodo di coloro che accusano e che si difendono è identico a quello di chi incrimina e di chi afferma la propria innocenza.
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F 29 ostenta promissione Dubia F 30 rebus agentibus (= ORF , n° 174, fr. 32). 4
F 31 Clipeus (= ORF4, n° 174, fr. 34).
F 29 Diom. GL I, 376. Ostendor ostentus, quoniam sit tendor tentus. Nam ostentatus est frequens […] et L[i]bius item pro Figulo ostenta promissione.
F 30 Quint. Inst. 9, 3, 13-14. Nam receptis etiam uulgo auctore contenti sumus, ut iam eualuit «rebus agentibus», quod Pollio in Labieno damnat, et «contumeliam fecit», quod a Cicerone reprehendi notum est: adfici enim contumelia dicebant.
F 31 Char. GL I, 77, 14-15 = 98, 1-3 Barwick 1964. Clipeus masculino genere in significatione scuti ponitur ut Labienus ait, neutro autem genere imaginem significat.
Commento Magnus orator (T 55) è una definizione che Seneca Retore attribuisce esplicitamente a un solo personaggio oltre a Labieno, Asinio Gallo (Exc. Con. 4 praef. 4). Seneca conferisce perciò a Labieno una notevole importanza, riconoscendo che la sua arte oratoria si poneva a metà tra la capacità di usare immagini efficaci dell’oratoria antica ed il vigore innovativo dell’eloquenza più recente: cf. T 55, 5. A differenza di Latrone le fonti non si diffondono molto sulle caratteristiche della sua ars che, stando ai frammenti, doveva essere improntata all’irruenza. 136
20. T. LABIENUS
F 29 Con una promessa palese. Dubbi F 30 incalzando le circostanze. F 31 immagine. Contesto F 29 Diom. GL I, 376. Ostendor ostentus, poiché esiste tendor tentus. Infatti è frequente ostentatus […] e Labieno ugualmente nella orazione in difesa di Figulo scrive «con … palese». F 30 Quint. Inst. 9, 3, 13-14. Infatti nelle espressioni accolte nell’uso ci accontentiamo anche di quelle attestate dal volgo: per esempio sono divenute comuni rebus agentibus (incalzando le circostanze), che Pollione condanna in Labieno, e contumeliam fecit, che, si sa, già Cicerone rimproverava: infatti dicevano adfici contumelia. F 31 Char. GL I, 77, 14-15 = 98, 1-3 Barwick 1964. La parola clipeus assume al maschile il significato di ‘scudo’, come afferma Labieno, invece quando è neutra significa ‘immagine’.
F 24 La notizia dell’esistenza di un’orazione contro Batillo, un pantomimo proveniente da Alessandria, celebre per le sue interpretazioni di danza comica e legato intimamente a Mecenate (cf. P. Gensel, RE III 1, 137-138; Hor. Epod. 14, 9; D.C. 54, 17, 5; Tac. Ann. 1, 54; Plut. Quaestiones conuiuales 7, 8, 3 p. 711 e-f; Ath. 1, 37, p. 20 d-e; Macr. Sat. 2, 7, 19) è ricavabile dal riferimento al rescriptum di Gallione, che ne fu la risposta; il testo di Gallione fu una sorta di confutazione scritta e non si 137
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
può in nessun modo dimostrare che esso sia stato realmente pronunciato di fronte ad un tribunale (cf. Bornecque 1902, 174). Erronea è la convinzione che Labieno abbia difeso Batillo (M 1832; Cucheval 1893, I, 182); M 1842, 531 riconobbe l’errore e lo corresse. Nulla possiamo dire né dell’occasione del discorso, che possiamo supporre di tipo giudiziario: Bornecque 1902, 177 lo considera un “pamphlet”, ma non adduce prove sostanziali in favore di tale tesi. Certamente un personaggio dall’atteggiamento censorio come Labieno si trovò a proprio agio ad attaccare la mollezza e la scostumatezza di Batillo, tanto più che i pantomimi erano comunemente considerati personaggi equivoci (cf. e. g. F. Dupont, Teatro e società a Roma [tit. or. L’acteur roi ou le théâtre dans la Rome antique, Paris 1985], Roma-Bari 1991, 89-105). La scelta di attaccare un personaggio legato a Mecenate conferma verosimilmente l’atteggiamento di Labieno ostile alla famiglia di Cesare e quindi anche ad Ottaviano ed ai suoi seguaci. F 25 Nella sezione dell’Institutio oratoria di Quintiliano dedicata ai barbarismi viene registrato anche un esempio di gallicismo tratto da un’orazione di Labieno o di Cornelio Gallo rivolta contro Pollione. L’incertezza sull’attribuzione dimostra che, se mai le orazioni di Labieno furono pubblicate, già Quintiliano non vi aveva accesso e che, quindi, un secolo dopo la sua morte, esse erano dimenticate, così come quella di Gallo, probabilmente in seguito alla persecuzione del primo e alla damnatio memoriae del secondo. Non sappiamo nulla né dell’argomento né dell’occasione del discorso e, a dire il vero, l’attribuzione a Cornelio Gallo non sembra convincente in quanto postulerebbe un contrasto tra lui ed Asinio Pollione che sembrerebbe smentito dall’appellativo familiaris meus, con cui Asinio definisce Cornelio (Cic. fam. 10, 32, 5, ma anche 10, 31, 6); alla stessa conclusione giunge Cavarzere 1989. Anche J. Cousin (Quintilien, Institution oratoire I, Paris 1975, 162-163) e Manzoni 1995, 23-24 negano che l’autore possa essere Gallo, che era morto venti anni prima di Labieno: quest’ultimo non esclude del tutto che Gallo possa aver attaccato in un’orazione Asinio Pollione. Chi scrive è perciò propenso ad attribuire il frammento a Labieno, che fu avversario di Pollione almeno nella causa in difesa degli eredi di Urbinia e fu da lui attaccato con crudele sarcasmo (cf. FF 26-29). Una questione rilevante riguarda il termine casamo. Come già riconosceva Spalding 1798-1834, il testo tràdito conteneva una parola celti138
20. T. LABIENUS
ca dalla grafia incerta: casamo, casami, cassamum, casena. Le varianti sono dovute all’incomprensione del vocabolo celtico originale. Trovandosi nell’incertezza e non riuscendo a comprendere il collegamento tra casamo e adsectator, gli editori più antichi non stamparono casamo, bensì casnar, congettura di un ignoto dotto che ritenne la parola di origine gallica, conservandole il significato di senex che possiede nella lingua osca, a cui in realtà appartiene (ThlL III 516, 22-26). Casnar in lingua osca indica, secondo le testimonianze di Varrone, L. 7, 29 e Festo De verborum significatu s. v., il “vecchio” ed è imparentato con cascus e canus. L’accostamento tra le due parole, secondo la testimonianza di Spalding 1798-1834 (I, 90-91: si igitur lectio, qualem recepimus, vera est, dixeris casnarem sive Pollionem, sive alium quempiam, in illa oratione esse appellatum, quia gravis iam annis puellas assectaretur), fu allora interpretato come un riferimento all’abitudine di un vecchio (Pollione o chi per lui) di correre dietro alle ragazze. Tale soluzione, alquanto bizzarra in verità, non viene più accettata dagli editori moderni, i quali, in base all’autorevolezza di B e ad un esempio epigrafico di origine pannonica (CIL III Supp. I, 10348), accettano la lezione casamo: l’iscrizione, rinvenuta a Vereb in Ungheria, compare sotto le immagini di una donna seduta e di due fanciulle e, pur non essendo molto chiara, comprende il termine CASAMONIS, da interpretare probabilmente come un genitivo della parola casamo. Rimane per altro l’incertezza sul suo significato, anche perché neppure il termine adsectator è sicuro: infatti un importante manoscritto quintilianeo, A, presenta affectator, da cui sono derivate le congetture affectato del Sarpe e affectate del Colson: entrambe sono da respingere non solo perché il termine è probabilmente un sostantivo, ma anche perché affectato si trova soltanto in Lampridio e adfectate compare nella tarda latinità (Servio e Marziano Capella). Quintiliano non impiega altrove il vocabolo adsectator, mentre adotta nell’Institutio oratoria altre tre volte il sostantivo adfectator (Inst. 5, 13, 24; 6, 2, 16; 6, 3, 3). Non essendoci elementi probanti a favore dell’una o dell’altra lezione, sembra opportuno seguire il Winterbottom e porre la parola tra cruces. Diversa è invece la scelta di M. L. Porzio Gernia, che accetta il termine e lo inserisce nel suo breve thesaurus celtico – latino (M. L. Porzio Gernia, Gli elementi celtici del latino, 108 in AA. VV., I Celti in Italia a cura di E. Campanile, Pisa 1981, 97-122); cf. anche A. Holder, Altceltischer Sprachschatz, Leipzig 1896 I, 821; A. Ernout – A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 19674 s. u.; Walde-Hoffmann 1938, I, 177. 139
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FF 26-31 Asinio Pollione fu uno dei più importanti storici dell’epoca: cf. G. Zecchini, Asinio Pollione: dall’attività politica alla riflessione storiografica, ANRW II, 30, 2, 1982, 1265-1296, con ricca bibliografia finale; sull’aspetto specifico della sua produzione poetica cf. J. P. Néraudau, Asinius Pollion et la poésie, ANRW II, 30, 3, 1983, 1732-1750. Fu anche un acerrimo nemico di Labieno. Forse i motivi di questa ostilità furono politici, in quanto Pollione aveva sostenuto Cesare contro Pompeo e si era poi accostato ad Antonio. I due si trovarono di fronte in una causa riguardante l’attribuzione di un’eredità, quella della ricca Urbinia, sposa probabilmente di un Clusinio della popolazione dei Marrucini (PIR III V 682). Costei doveva aver lasciato un patrimonio consistente, che era stato attribuito, in mancanza di figli legittimi, ai parenti più prossimi. Ad un certo punto l’assegnazione fu impugnata da un certo Clusinio Figulo, il quale pretendeva di essere il figlio legittimo di Urbinia, scomparso dopo la distruzione in battaglia del corpo militare cui apparteneva; successivamente, dopo numerose peripezie, era riapparso e richiedeva che fossero riconosciuti i suoi diritti. La causa fu discussa davanti al tribunale centumvirale, competente proprio sulle questioni di eredità. Tac. Dial. 38, 2 conferma che questa causa fu discussa dinanzi ai centumviri: causae centumuirales … adeo splendore aliorum iudiciorum obruebantur, ut… non denique ullius magni oratoris liber apud centumuiros dictus legatur, exceptis orationibus Asinii, quae pro heredibus Vrbiniae inscribuntur (cf. ORF4, n° 174, 28); cf. anche Gagliardi 2002, 211-215. Asinio Pollione, che era di origine marrucina ed aveva forse degli interessi in comune con la famiglia di Urbinia, difese gli eredi che si opponevano a Clusinio Figulo, accusando quest’ultimo di essere in realtà un suo schiavo di nome Sosipatro, acquistato da precedenti padroni di Pesaro; Tito Labieno sostenne il preteso Figulo. Sicuramente non fu pronunciato un solo discorso, come si evince dalla testimonianza tacitiana. Non conosciamo l’esito del processo, ma esso dovette risultare esemplare, in quanto se ne trova traccia non solo in Tacito e Quintiliano, ma, probabilmente, anche nell’Ars grammatica di Diomede, come si può evincere da F 29, F 30 e F 31. A proposito di quest’ultimo testo, sono infatti incline ad accogliere la proposta di correzione già avanzata nell’apparato del Keil e a considerare l’altrimenti ignoto nome Libius (Liuius nelle edizioni successive alla editio princeps) nient’altro che una forma corrotta di Labienus. L’origine dell’errore è verosimilmente da vedere in una o più abbreviazioni dell’antigrafo che non sono state più comprese; a quel punto il copista scrisse proba140
20. T. LABIENUS
bilmente un nome a lui più familiare (Libius è variante comune per Liuius cf. e.g. Sen. Con. 9, 2, 26, dove i codd. B e V e gli excerpta leggono Libius) compiendo un errore di trivializzazione; decisivo è, a mio parere, il riferimento all’orazione Pro Figulo che accompagna il nome Libius: non vi è infatti alcuna attestazione di discorsi che riguardino altri personaggi recanti il cognomen Figulus; credo perciò che si debba vedere nel Figulo di Diomede il Clusinio Figulo preteso figlio di Urbinia. Per quanto riguarda F 30 e F 31, nel caso di Quintiliano, pur non essendo possibile stabilire con precisione a che opera appartengano tali parole di Labieno, è plausibile pensare che possano far parte delle orazioni della contesa su Urbinia, come pensa la Malcovati in ORF4, n° 174, fr. 32; nel secondo caso, invece, il problema è più complesso: è pur vero che la testimonianza di Carisio cita immediatamente dopo un frammento dell’orazione di Asinio in difesa di Urbinia in cui il clipeus è usato al maschile (ORF4, n° 174, fr. 34), ma non ci sono elementi sicuri che ci consentano di attribuire l’espressione di Labieno al discorso in difesa di Figulo; bisogna perciò sospendere il giudizio, osservando che, forse, potrebbe essere plausibile anche l’attribuzione del frammento alla perduta opera storica di Labieno. Il discorso fu pronunciato mediis diui Augusti temporibus […] postquam longa temporum quies et continuum populi otium et assidua senatus tranquillitas et maxima principis disciplina ipsam quoque eloquentiam sicut omnia depacauerat (Tac. Dial. 38, 2). Gudeman (P. Cornelii Taciti Dialogus de oratoribus, Leipzig-Berlin 19142, 487) propose una data tra il 15 ed il 14 a.C.; André 1949, 71-72 suggerì una data «au milieu du principat d’Auguste, soit vers 10»; anche E. Malcovati ORF4, n° 174 congetturò una data intorno al 10 a.C.; Güngerich-Heubner (Kommentar zum Dialogus des Tacitus, Göttingen 1980, 169-170) sostengono che è impossibile datare con una certa precisione il discorso sulla base del testo della testimonianza, che appare fortemente approssimativo. I commentatori rifiutano la datazione Gudeman, basandosi sull’incerto valore di medius contenuto in una testimonianza di Serv. A. 3, 270: medio apparet fluctu: iuxta morem cotidianum dixit ‘medio’ ut si dicamus, ‘in medio mari naufragium fecit’, cum interdum non longe a litore contingit; l’espressione, come si può constatare, è molto generica e non si può perciò andare al di là di un’indicazione di massima. Se, come tutto sembra indicare, il petitor di Inst. 7, 2, 26 è Labieno, allora la testimonianza di Quintiliano ci consente di ricostruire a grandi linee gli argomenti basilari della sua causa. Il caso di Urbinia è considerato da Quintiliano un tipico esempio di quello status coniecturalis in 141
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
cui le parti propongono due versioni dei fatti diverse e tra loro incompatibili ed è necessario decidere quale sia più plausibile (cf. Lausberg 1960, §§ 99-103 e L. Calboli Montefusco, La dottrina degli status nella retorica greca e romana, Hildesheim-New York-Zürich 1986, 60-77). I frammenti quintilianei non sono sempre ascrivibili con sicurezza ora all’una ora all’altra parte. Il passo riportato in Inst. 7, 2, 4 è ambiguo: la Malcovati pone le due domande ut est quaesitum contra Vrbiniae heredes is qui tamquam filius petebat bona Figulus esset an Sosipater … An hic sit ex Vrbinia natus Clusinius Figulus all’interno del fr. 30 di Asinio Pollione (= 3 della Pro Vrbiniae heredibus, ORF4 n° 174) e dà l’impressione di ritenerle pronunciate da Pollione; in realtà l’espressione contra Vrbiniae heredes sembra provare che le due interrogazioni siano state rivolte non da Pollione, bensì da Labieno: la prima aveva lo scopo di mettere in dubbio l’identificazione (proposta da Pollione) di Clusinio Figulo con il suo ex schiavo Sosipatro e quindi di demolire uno dei cardini della difesa dei diritti degli eredi di Urbinia, cioè che il preteso erede fosse un millantatore; la seconda, evidentemente successiva alla prima, aveva probabilmente il solo scopo di impostare con chiarezza la questione centrale del dibattimento. In F 28 la parola marginos è quasi sicuramente la traccia di una glossa Marrucinos inserita per chiarire quale fosse la provenienza di Figulo: un copista forse digiuno di geografia la inserì nel testo senza comprendere una probabile abbreviazione. Ritengo perciò che non sia da restaurare nel testo. Degna di nota per l’inventiva la correzione per mangones di Kiderlin, che sembra proporre un contesto da romanzo (sparizione, prigionia, ritorno grazie ai mercanti di schiavi) assolutamente non giustificabile sulla base delle fonti disponibili. Dal punto di vista stilistico l’uso del participio femminile ostenta dimostra l’accuratezza di Labieno nello scegliere la forma grammaticalmente corretta (come è riconosciuto anche da Diomede sulla base del parallelismo con tendor) e non quella imprecisa ostentata; il sintagma è un hapax.
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21. Cassius Seuerus M 1832 = 225-229; D 1837 = 343-347; M 1842 = 545-551. Bibliografia specifica J. Brzoska, RE III 2, 1899, 1744-1749; C. Walde, NP 2 1997, 10171018; PIR2 II, C 522; Bardon 1956, 88-90; Bornecque 1902, 188-192; Casaceli 1978; Cucheval 1893, I, 197-216; Deroux 2003; Deroux 2004; D’Hautcourt 1995; Duret 1983, 1518-1525; Fairweather 1981, 278-283 e passim; Froment 1879; Heldmann 1979; Heldmann 1982, 163-198; Hoffa 1909, 35-36; Kennedy 1972, 310-312; Lassandro 1996; Leeman 1974, 300-302; Münkel 1959, 5-6; Raaflaub, Samons 1990, 441; Weichert 1836; Winterbottom 1954, passim. Dati biografici Cassio Severo nacque nella seconda metà del I secolo a.C., forse negli anni 40: Walde 1997 propone tra il 40 e il 32 a.C.: da T 75, che riferisce un episodio del 24 d.C., sembra possibile desumere con Brzoska che Severo fosse senex già in quella data e che, quindi, avesse superato i sessant’anni (cf. D. Slusanschi, Le vocabulaire latin du gradus aetatum, «Revue roumaine de linguistique» 19, 1974, 103-121; 267-296; 345369; 437-451; 563-578, particolarmente 563-569). Non siamo certi del suo praenomen: Quint. Inst. 6, 3, 90 ci conserva Caius, ma non sempre il C. Cassius del testo quintilianeo potrebbe essere identificabile con Severo. Del tutto destituita di fondamento è la proposta di Weichert 1836, 191, che, sulla base di Plin. Ep. 4, 28, 1, gli attribuiva il praenomen Titus: il Titus di Plinio è un Catius, non un Cassius. Proveniva sicuramente da una famiglia di umili origini (T 75); è sconosciuto il suo luogo di nascita. Non conosciamo praticamente nulla dei suoi anni giovanili né della sua formazione culturale: entrò forse in contrasto con Paolo Fabio Massimo, ma le notizie in proposito sono estremamente limitate: cf. 100. Seneca Retore ci informa che alla sua condotta di vita mancava la grauitas (T 59), mentre Tacito definisce la sua esistenza malefica (T 75) e parla della sua libido (T 74). Doveva essere un uomo abbastanza prestante fisicamente, robusto e dotato di una voce solida e gradevole allo stesso tempo (T 59). Fu sia declamatore sia oratore, ma non apprezzava particolarmente le sale delle scuole, in quanto riteneva inutili i temi là di143
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battuti; preferiva di gran lunga l’oratoria reale, anche se non sempre le sue doti gli consentivano di prevalere (T 73). Nel 9 a.C. accusò di veneficio Lucio Nonio Asprenate, amico di Augusto, che fu difeso da Gaio Asinio Pollione (cf. F 33; per i frammenti dell’orazione di Asinio Pollione cf. ORF4 , n° 174, frr. 35-38) e prese una posizione ostile alla famiglia Giulia; personaggio impetuoso, dotato di un certo senso dell’umorismo che sfociava in battute talora crudeli e insultanti (T 59), subì la sorte di Tito Labieno e Cremuzio Cordo e fu perseguitato e condannato all’esilio dapprima a Creta e poi nell’isola di Serifo, dove morì, secondo Gerolamo, in una condizione di tragica povertà: si era, secondo il Padre della Chiesa, nel venticinquesimo anno dacché il provvedimento di relegazione era stato adottato (T 78). Gerolamo colloca il decesso di Cassio Severo nel 32 d.C. (Syme 1978, 213-214 e NP): ciò porterebbe a datare il provvedimento d’esilio al 7-8 d.C. Un celebre passo di Cassio Dione sembrerebbe però far sospettare che i provvedimenti di esilio fossero stati presi in concomitanza dei roghi dei libri di Tito Labieno e di Cremuzio Cordo, fissati dallo storico greco al 12 d.C. (cf. 202-203); per questo motivo la data della morte di Cassio Severo è stata abbassata da alcuni studiosi fino al 36-37 d.C.: cf. Syme 1939-1974, 489-490; Hennig 1973, 245-254; Heldmann 1982, 168. Altri ancora, datando i provvedimenti ricordati da Dione al 9 d.C., hanno fissato il decesso di Severo al 34 d.C.: Peterson 1891, 114; Austin 1965, 155. Esprime la sua incertezza Goodyear 1972-1981, 151: «Severus’ condemnation falls in A. D. 8 according to Hier. Chr. p. 176 H. […] But it falls in A. D. 12 if he belongs among the persons mentioned at Dio 56, 27, 1 […] were Jerome reliable, one might prefer his explicit testimony. As it is, we must remain in doubt». Duret 1983, 15141516 è giunto a nuove conclusioni: 1) in primo luogo sembra possibile sganciare il provvedimento di distruzione dei libri di Cremuzio Cordo e Tito Labieno dall’esilio di Cassio Severo; 2) è verosimile che l’esilio di Cassio debba essere collocato prima della punizione di Labieno; 3) la testimonianza di Gerolamo può essere quindi accettata. Un analogo tentativo di conciliare le testimonianze di Gerolamo e Dione Cassio è compiuto da Levick 1986, 192: Cassio Severo sarebbe stato esiliato nell’8 a Creta, ma avrebbe continuato con i suoi attacchi contro Augusto, fatto che gli sarebbe costato l’esilio a Serifo dopo un riesame del senato nel 24 d.C. (T 75 si riferirebbe a questo riesame); D’Hautcourt 1995, 317-318 riprende la tesi della Levick senza menzionarla e conclude che l’esilio a Serifo fu comminato già nel 12 d.C. Quest’ulti144
21. CASSIUS SEUERUS
ma ricostruzione si presenta come fortemente ipotetica né risulta suffragata da argomenti particolarmente convincenti. Misteriosa risulta invece una testimonianza di Plutarco (T 71), nella quale compare un mordace motto di spirito rivolto da Cassio Severo a Tiberio; esso va naturalmente fatto risalire a prima dell’esilio, in quanto risulta pronunciato di fronte all’erede di Augusto, ma non vi sono precise indicazioni né sulla data né sull’occasione: una datazione plausibile può essere fissata tra il 4 d.C. (anno dell’adozione di Tiberio come figlio ed erede di Augusto, come ricorda Levick 1986, 49) e l’8 o il 12 d.C.; altrimenti sarebbe necessario supporre un ritorno di Cassio Severo a Roma, fatto che sembra in contraddizione con tutte le altre fonti. Cassio Severo fu un uomo decisamente inserito nella vita politica del suo tempo: la sua acerrima inimicizia con Tito Labieno non gli impedì di condividerne la scelta di oppositore del regime (Syme 1974, 489). Fu citato in tribunale da Fabio Massimo, amico di Augusto e destinatario di numerosi scritti ovidiani (cf. Syme 1978, 142-143 e F 18); fu ostile a Cestio Pio, di cui non sopportava la vanità. Di un certo interesse è il suo dichiarato apprezzamento per Publilio Siro, il mimografo, la cui opera presentava «due caratteristiche apparentemente contrastanti: la licenziosità delle trame e delle situazioni e la sentenziosità di tanti suoi tratti» (I. Lana in Lana-Maltese 1998, II, 587; cf. anche F. Giancotti, Mimo e gnome. Studi su Decimo Laberio e Publilio Siro, MessinaFirenze 1967, 282-285; Casaceli 1978, 60-61): si tratta di qualità che sembrano adattarsi piuttosto bene alla personalità di Cassio. Egli fu autore di procacia scripta (T 74): non sappiamo che cosa fossero, e non sembra possibile dedurre che si sia trattato di satire o scritti consimili come sosteneva M 1842, 551. Quintiliano conserva citazioni di testi che non sembrano riconducibili ad orazioni e declamazioni, ma che assomigliano a dicta scherzosi: è anche possibile che tali testi provenissero da quegli scripta insultanti nei confronti di uomini e donne che, secondo Tacito, provocarono la condanna del nostro oratore. Maggiore incertezza vi è su una sua eventuale produzione storica e sull’esistenza di un suo epistolario (T 65 e 67).
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Testimonianze T 59 Sen. Exc. Con. 3 praef. 1-18. Memini itaque me a Seuero Cassio quaerere quid esset cur in declamationibus eloquentia illi sua non responderet. 2 In nullo enim hoc fiebat notabilius. Oratio eius erat ualens, culta, uigentibus plena sententiis. Nemo minus passus est aliquid in actione sua otiosi esse: nulla pars erat, quae non sua uirtute staret, nihil in quo auditor sine damno aliud ageret; omnia intenta, aliquid petentia. Nemo magis in sua potestate habuit audientium affectus. Verum est, quod de illo dixit Gallio noster: «Cum dicebat, rerum potiebatur: adeo omnes imperata faciebant; cum ille uoluerat, irascebantur, Nemo non illo dicente timebat ne desineret». 3 Non est quod illum ex his quae edidit aestimetis; sunt quidem et haec quibus eloquentia eius longe maior erat quam lectus. Non hoc ea portione illi accidit, qua omnibus fere, quibus maiori commendationi est audiri quam legi, sed in illo longe maius discrimen est. Primum, tantundem erat in homine quantum in ingenio: corporis magnitudo conspicua, suauitas ualentissimae uocis (quamuis haec inter se raro coeant, ut eadem uox et dulcis sit et solida), pronuntiatio quae histrionem posset producere, tamen quae histrionis posset uideri. 4 Nec enim quicquam magis in illo mirareris quam quod grauitas, quae deerat uitae, actioni superat: quamdiu citra iocos se continebat, censoria oratio erat. Deinde ipsa quae dicebat meliora erant quam quae scribebat. Vir enim praesentis animi et maioris ingenii quam studii magis placebat in his quae inueniebat quam in his quae attulerat. Iam uero iratus commodius dicebat, et ideo diligentissime cauebant homines ne dicentem interpellarent. 5 Vni illi proderat excuti; melius semper fortuna quam cura de illo merebat. [id] Numquam tamen haec felicitas illi persuasit neglegentiam: uno die priuatas plures non agebat, et ita ut alteram ante meridiem ageret, alte-
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Traduzione T 59 Sen. Exc. Con. 3 praef. 1-18. Ricordo che io chiesi a Cassio Severo perché nelle declamazioni la sua eloquenza non fosse all’altezza del suo valore. 2 Infatti in nessuno tale discrepanza si presentava con maggiore evidenza. La sua oratoria era solida, raffinata, piena di frasi efficaci; nessuno tollerò meno di lui la presenza di elementi superflui nel proprio discorso; non vi era alcuna parte che non si reggesse grazie alla propria robustezza, nessun punto in cui un ascoltatore potesse distrarsi senza correre qualche rischio; ogni argomento era vigoroso e andava dritto all’obiettivo; nessuno riuscì mai a controllare più di lui le emozioni degli ascoltatori. È vero ciò che disse su di lui il mio amico Gallione: «Quando parlava, era padrone assoluto: a tal punto tutti quelli che ascoltavano eseguivano i suoi ordini; quando voleva, si adiravano, piangevano, provavano pietà. Mentre egli parlava, tutti temevano che smettesse». 3 Non è possibile valutarlo in base alle sue pubblicazioni; certamente anche queste consentono di riconoscere la sua eloquenza; tuttavia era di gran lunga più bravo quando era ascoltato che quando era letto. Questo non gli capitò nella medesima misura in cui, in linea di massima, succede a tutti, che traggono più vantaggio dall’essere ascoltati che dall’essere letti: in lui il divario è di gran lunga maggiore. In primo luogo la sua struttura fisica era adeguata al suo talento: la sua corporatura era ragguardevole, la sua voce soave ma molto vigorosa (sebbene queste due caratteristiche, robustezza e soavità, si presentino raramente nella medesima voce), il modo di esporre tale da dimostrare la bravura di un attore senza tuttavia apparire quello di un istrione. 4 Infatti niente avrebbe destato meraviglia nei suoi confronti più del fatto che la severità che mancava alla sua condotta di vita sovrabbondava nel suo discorso: finché non cedeva ai lazzi, la sua orazione era degna di un censore. Inoltre le cose che diceva erano migliori di quelle che scriveva. Infatti era un uomo di mente pronta, più dotato di talento che di costanza nell’applicarsi: incontrava maggiore successo quando improvvisava piuttosto che nelle parti preparate. Anzi, quando era in preda all’ira si esprimeva meglio, e per questo motivo le persone prestavano estrema attenzione a non interromperlo mentre parlava. 5 Era l’unico a cui giovava essere provocato; più che la preparazione, era la buona sorte a rendergli un buon servizio. Tuttavia questa circostanza favorevole non lo indusse mai ad essere negligente. Non trattava più di due cause private in un solo giorno e lo faceva in modo tale da sostenerne una prima di mezzodì, 147
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ram post meridiem; publicam uero numquam amplius quam unam uno die. Nec tamen scio quem reum illi defendere nisi se contigerit; adeo nusquam rerum ullam materiam dicendi nisi in periculis suis habuit. 6 Sine commentario numquam dixit, nec hoc commentario contentus erat in quo nudae res ponuntur; sed ex maxima parte perscribebatur actio. Illa quoque, quae salse dici poterant, adnotabantur. Sed cum procedere nollet nisi instructus, libenter ab instrumentis recedebat. Ex tempore coactus dicere infinito se antecedebat. Numquam non utilius erat illi deprehendi quam praeparari; sed magis illum suspiceres quod diligentiam non relinquebat, cum illi tam bene temeritas cederet. 7 Omnia ergo habebat, quae illum, ut bene declamaret, instruerent: phrasin non uulgarem nec sordidam sed electam, genus dicendi non remissum aut languidum sed ardens et concitatum, non lentas nec uacuas explicationes, sed plus sensuum quam uerborum habentes, diligentiam, maximum etiam mediocris ingenii subsidium. Tamen non tantum infra se cum declamaret sed infra multos erat; itaque raro declamabat et non nisi ab amicis coactus. 8 Sed quaerenti mihi quare in declamationibus impar sibi esset, haec aiebat: «Quod in me miraris, paene omnibus euenit. Magna quoque ingenia – a quibus multum abesse me scio – quando plus quam in uno eminuerunt opere? […] In ipsa oratione quamuis una materia sit, tamen ille qui optime argumentatur neglegentius narrat, ille non tam bene implet quam praeparat. [Cf. T 8 ] [Cf. T 53] 12 Ego tamen et propriam causam uideor posse reddere: adsueui non auditorem spectare sed iudicem; adsueui non mihi respondere sed aduersario; non minus deuito superuacua dicere quam contraria. In scholastica quid non superuacuum est, cum ipsa superuacua sit? Indicabo tibi affectum meum: cum in foro dico, aliquid ago; cum declamo, id quod bellissime Censorinus aiebat de his qui honores in municipiis ambitiose peterent, uideor mihi in somniis laborare. 13 Deinde res ipsa diuersa est: totum aliud est pugnare, aliud uentilare. Hoc ita semper
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l’altra dopo; ma non si dedicò mai a più di una causa pubblica in un giorno. Non so tuttavia quale accusato gli sia riuscito di difendere eccezion fatta per se stesso: non trovò mai alcuna motivazione per parlare se non quando si trattò di rischi che correva di persona. 6 Non parlò mai senza un quaderno d’appunti e non si accontentava di quello in cui sono raccolti semplicemente i punti essenziali, ma in massima parte vi trascriveva l’orazione stessa; erano annotati anche quei punti che potevano essere esposti in maniera arguta; ma, per quanto non volesse procedere se non quand’era ben preparato, volentieri rinunziava alle risorse di cui disponeva. Quando era costretto a parlare improvvisando, era infinitamente superiore. Era sempre meglio per lui farsi sorprendere che essersi preparato; ma la cosa più sorprendente in lui era che non tralasciava di essere accurato per quanto la sua temerarietà gli garantisse un così grande successo. 7 Così era dotato di tutte le caratteristiche che lo rendevano abile a declamare bene: dizione né banale né triviale ma ricercata, uno stile oratorio non calmo e languido ma ardente e concitato, spiegazioni né lente né vuote ma più ricche nel contenuto che nell’espressione, l’accuratezza, che è la risorsa più grande anche di un ingegno mediocre. Tuttavia, quando declamava, non soltanto era al di sotto del proprio livello, ma al di sotto di quello di molti altri; perciò declamava raramente e soltanto se gli amici insistevano. 8 Ma quando io gli chiedevo perché nelle declamazioni non fosse pari al proprio talento, rispondeva: «Quel che ti sorprende in me, succede quasi a tutti. Quando mai anche i grandi ingegni – dai quali mi rendo conto di esser molto distante – spiccarono in più di un ambito? […] Quantunque nella stessa orazione il soggetto sia il medesimo, tuttavia quello che argomenta in modo eccellente narra con troppa negligenza, mentre un altro non sviluppa i concetti con la stessa accuratezza con cui li prepara. [Cf. T 8] [Cf. T 53] 12 Tuttavia mi sembra di poter addurre anche una giustificazione adatta a me: ho preso l’abitudine di non guardare l’ascoltatore ma il giudice; ho preso l’abitudine di non rispondere a me stesso, ma all’avversario; evito di dire tanto le cose superflue quanto quelle che mi sono sfavorevoli. Che cosa non è superfluo nell’oratoria di scuola dal momento che essa stessa è superflua? Ti esporrò il mio pensiero: quando parlo nel foro, faccio qualcosa; quando declamo mi sembra di lottare nei sogni, (per usare) l’espressione che Censorino impiegava con straordinaria efficacia a proposito di coloro che ambiscono alle cariche pubbliche nei municipi. 13 Inoltre ci sono differenze: un conto è combattere, tutto un altro è fendere l’aria. Si è sempre pensato che la scuola fosse quasi un centro 149
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habitum est, scholam quasi ludum esse, forum arenam; et ille ideo primum in foro uerba facturus tiro dictus est. Agedum istos declamatores produc in senatum, in forum: cum loco mutabunt; uelut adsueta clauso et delicatae umbrae corpora sub diuo stare non possunt, non imbrem ferre, non solem sciunt, uix se inueniunt. Adsuerunt enim suo arbitrio diserti esse. 14 Non est quod oratorem in hac puerili exercitatione spectes. Quid si uelis gubernatorem in piscina aestimare? [Cf. T 9] 15 Vtrum ergo putas hoc dicentium uitium esse an audientium? Non illi peius dicunt, sed hi corruptius iudicant: pueri fere aut iuuenes scholas frequentant; hi non tantum disertissimis uiris, quos paulo ante rettuli, Cestium suum praeferunt , nisi lapides timerent. Quo tamen uno modo possunt praeferunt; huius enim declamationes ediscunt, illius orationes non legunt nisi eas quibus Cestius rescripsit. 16 Memini me intrare scholam eius cum recitaturus esset in Milonem; Cestius ex consuetudine sua miratus dicebat: «Si Thraex essem, Fusius essem; si pantomimus essem, Bathyllus essem, si equus, Melissio». Non continui bilem et exclamaui: «Si cloaca esses, maxima esses». Risus omnium ingens; scholastici intueri me, quis essem qui tam crassas ceruices haberem. Cestius Ciceroni responsurus mihi quod responderet non inuenit, sed negauit se executurum nisi exissem de domo. Ego negaui me de balneo publico exiturum nisi lotus essem. 17 Deinde libuit Ciceroni de Cestio in foro satisfacere». [cf. F 32] 18 «Hanc», inquit, «tibi fabellam rettuli ut scires in declamationibus tantum non aliud genus hominum esse. Si comparari illis uolo, non ingenio mihi maiore opus est, sed sensu minore. Itaque uix iam obtineri solet, ut declamem; illud obtineri non potest, ut uelim aliis quam familiarissimis audientibus». Et ita faciebat. Declamationes eius inaequales erant, sed ea quae eminebant, in quacumque declamatione posuisses, inaequalem eam fecissent. Conpositio aspera et quae uitaret conclusionem, sententiae uiuae. Iniquom tamen erit ex
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di allenamento per gladiatori, il foro un’arena; per questo motivo colui che stava per parlare per la prima volta nel foro ricevette il nome di tiro. Conduci dunque questi declamatori nel senato, nel foro: quando cambierà il luogo, essi stessi muteranno, come i corpi avvezzi al chiuso e ai piaceri favoriti dall’ombra non possono stare all’aperto, non sono capaci di sopportare la pioggia e il sole, a stento riescono a capire dove sono; infatti si sono abituati ad essere eloquenti in base al loro giudizio. 14 Non vi è motivo per cui tu presti attenzione ad un oratore impegnato in questa pratica puerile. Che diresti se volessi mettere alla prova un nocchiero in una piscina? [Cf. T 9]. 15 Pensi dunque che questo sia un difetto di chi parla o di chi ascolta? Essi non parlano peggio, ma l’uditorio esprime giudizi in modo più erroneo: frequentano le scuole per lo più da bambini o da giovani; costoro non soltanto preferiscono il loro Cestio agli uomini eloquentissimi che io poc’anzi ho menzionato, ma lo preferirebbero anche a Cicerone se non temessero di esser lapidati. Tuttavia lo preferiscono nell’unico modo che possono; imparano a memoria le sue declamazioni, non leggono le orazioni di Cicerone se non quelle alle quali Cestio ha risposto per iscritto. 16 Mi ricordo che entrai in una sua scuola mentre stava per recitare una declamazione “Contro Milone”; Cestio, con la sua usuale ammirazione per le proprie opere, diceva: «Se fossi un Trace, sarei Fusio; se fossi un pantomimo, Batillo, se fossi un cavallo, Melissione». Non trattenni lo sdegno ed esclamai: «Se fossi una cloaca, saresti quella massima». Tutti scoppiarono in una grande risata; i declamatori mi fissarono, chiedendosi chi fosse quello zotico così rozzo. Cestio, che stava per rispondere a Cicerone, non trovò una risposta da darmi, ma affermò che non avrebbe continuato la declamazione se non fossi uscito dalla casa. Io affermai che non sarei uscito dal bagno pubblico se non avessi concluso il bagno. 17 Poi decisi di vendicare Cicerone su Cestio nel foro». [Cf. F 32]. 18 Disse: «Ti ho raccontato questo aneddoto, perché ti rendessi conto che nelle declamazioni non vi è soltanto un altro genere di argomenti, ma un altro genere di uomini. Se voglio paragonarmi a loro, non ho bisogno di un ingegno maggiore, ma di una minore intelligenza. Perciò a stento ormai si riesce ad ottenere che io declami; non si può ottenere che io accetti, se mi ascoltano persone diverse da quelle a me più intime». E faceva così. Le sue declamazioni erano squilibrate, ma gli elementi che spiccavano, in qualunque declamazione li avessi posti, l’avrebbero resa squilibrata. Il suo modo di comporre era aspro, tanto che non riusciva a costruire un periodo armonioso, le sentenze vivaci. Tuttavia non sarà giusto esprimere un giudizio su di lui sulla base delle de151
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his eum aestimari quae statim subtexam; non enim haec ille optime dixit, sed haec ego optime teneo. T 60 Sen. Con. 7, 3, 8. Cassius Seuerus, summus Publili amator, aiebat non illius hoc uitium esse, sed eorum qui illum ex parte qua transire deberent imitarentur, quae apud eum melius essent dicta quam apud quemquam comicum tragicumque aut Romanum aut Graecum; ut illum uersum quo aiebat unum uersum inueniri non posse meliorem […]. T 61 Sen. Con. 9, 3, 14. Cassius Seuerus uenustissimam rem ex omnibus: qui ab auditione eius cum rediret, interrogatus quomodo dixisset, respondit: male kai; kakw'".
T 62 Sen. Con. 10 praef. 8. Cassi Seueri, hominis Labieno inuisissimi, belle dicta res ferebatur illo tempore, quo libri Labieni ex senatus consulto urebantur: nunc me, inquit, uiuum uri oportet, qui illos edidici.
T 63 Sen. Suas. 6, 11. Et adiecit illam sententiam quam Cassius Seuerus unice mirabatur: quid deficiemus? Et res publica suos triumuiros habet. […] Itaque Cassius Seuerus aiebat alios declamasse, Varium Geminum uiuum consilium dedisse.
T 64 Plin. Nat. 7, 55, 8. Cassio Seuero, celebri oratori, Armentari murmillonis obiecta similitudo est. T 65 Quint. Inst. 6, 1, 43. Ex scholis haec uitia, in quibus omnia libere fingimus et inpune, quia pro facto est quidquid uoluimus; non admittit hoc idem ueritas, egregieque Cassius dicenti adulescentulo: «Quid me
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clamazioni che citerò subito; infatti non sono le sue migliori, ma sono quelle che mi ricordo meglio. T 60 Sen. Con. 7, 3, 8. Cassio Severo, il più grande ammiratore di Publilio, diceva che questo non era un difetto suo, ma di coloro che lo imitavano in ciò che avrebbero dovuto tralasciare e non imitavano quanto egli aveva detto meglio di qualsiasi scrittore comico o tragico, romano o greco; per esempio quel verso per il quale negava la possibilità di trovarne uno migliore […]. T 61 Sen. Con. 9, 3, 14. Cassio Severo usò l’espressione più arguta fra tutti: egli, mentre ritornava dall’averlo ascoltato, alla domanda concernente il modo in cui (Sabino Clodio) aveva parlato rispose: «Male e malamente». T 62 Sen. Con. 10 praef. 8. Si riferiva una bella espressione che Cassio Severo, uomo del tutto inviso a Labieno, aveva pronunciato nel tempo in cui i libri di Labieno venivano bruciati in seguito a un senatoconsulto. Disse: «Ora bisogna bruciare vivo me, che li ho imparati a memoria». T 63 Sen. Suas. 6, 11, 8. E (Vario Gemino) aggiunse quella sentenza che Cassio Severo apprezzava particolarmente: «Perché ci indeboliamo? Anche la repubblica ha i suoi triumviri». […] Perciò Cassio Severo diceva che gli altri avevano declamato, mentre Vario Gemino era stato l’unico a esprimere un’opinione autentica. T 64 Plin. Nat. 7, 55, 8. A Cassio Severo, celebre oratore, fu rimproverata la somiglianza con il mirmillone Armentario. T 65 Quint. Inst. 6, 1, 43. Questi difetti vengono dalle scuole, nelle quali immaginiamo ogni cosa liberamente e senza rischio, poiché consideriamo come avvenuto tutto ciò che vogliamo; ma la realtà non ammette questo: Cassio ad un giovanotto che gli diceva: «Perché mi guardi con uno sguardo torvo, Severo?» rispose egregiamente: «Per Ercole, non ti 153
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toruo uultu intueris, Seuere?» «Non mehercule», inquit, «faciebam, sed sic scripsisti: ecce!» et quam potuit truculentissime eum aspexit.
T 66 Quint. Inst. 6, 3, 26-27. Quamquam autem gratiae plurimum dicentis seueritas adfert, fitque ridiculum id ipsum, quod qui dicit illa non ridet, est tamen interim et aspectus et habitus oris et gestus non inurbanus, cum iis modus contingit. 27 Id porro quod dicitur aut est lasciuum et hilare, qualia Gabbae pleraque, aut contumeliosum, qualia nuper Iuni Bassi, aut asperum, qualia Cassi Seueri, aut lene, qualia Domiti Afri.
T 67 Quint. Inst. 6, 3, 78-79. Repercutiendi multa sunt genera, uenustissimum quod etiam similitudine aliqua uerbi adiuuatur, ut Trachalus dicenti Suelio «Si hoc ita est, is in exilium», «si non est ita, redis» inquit. 79 Elusit Cassius Seuerus, obiciente quodam quod ei domo sua Proculeius interdixisset, respondendo «Numquid ergo illuc accedo?».
T 68 Quint. Inst. 10, 1, 116-117. Multa si cum iudicio legatur dabit imitatione digna Cassius Seuerus, qui, si ceteris uirtutibus colorem et grauitatem orationis adiecisset, ponendus inter praecipuos foret. 117 Nam et ingenii plurimum est in eo et acerbitas mira et urbanitas †et sermo†, sed plus stomacho quam consilio dedit: praeterea ut amari sales, ita frequenter amaritudo ipsa ridicula est.
T 69 Quint. Inst. 12, 10, 11. Hic uim Caesaris, indolem Caeli, subtilitatem Calidi, diligentiam Pollionis, dignitatem Messalae, sanctitatem Calui, grauitatem Bruti, acumen Sulpici, acerbitatem Cassi reperiemus […].
T 70 Suet. Vit. 2, 1-2. Contra plures auctorem generis libertinum prodiderunt, Cassius Seuerus nec minus alii eundem et sutorem ueteramenta154
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guardavo in questo modo, ma hai scritto che lo facevo: ecco (qui)!» e lo guardò nel modo più aspro che gli fu possibile. T 66 Quint. Inst. 6, 3, 26-27. Sebbene poi la serietà dell’oratore aggiunga grandissimo pregio e faccia ridere proprio il fatto che chi dice quelle cose non ride, tuttavia l’aspetto, l’atteggiamento del viso ed i gesti riescono ad essere eleganti quando sono misurati. 27 Inoltre ciò che si dice o è lascivo e scherzoso, come moltissime battute di Gabba, o offensivo, come poco tempo fa le parole di Giunio Basso, o aspro, come il modo di parlare di Cassio Severo, o moderato, come quello di Domizio Afro. T 67 Quint. Inst. 6, 3, 78-79. Vi sono anche molti modi per attuare la ritorsione, il più bello dei quali è quello che si giova anche di una certa somiglianza tra le parole, come nel caso di Tracalo che a Suelio che gli diceva: «Se le cose stanno così, tu vai in esilio», rispondeva: «Se non stanno così, ci ritorni tu». 79 Cassio Severo si divertì alle spalle di un tale che gli rinfacciava che Proculeio gli aveva vietato di frequentare la sua casa rispondendogli: «Forse che io vado lì?». T 68 Quint. Inst. 10, 1, 116-117. Qualora sia letto in modo assennato, presenterà molti punti degni di imitazione Cassio Severo, il quale sarebbe da annoverare tra gli oratori più importanti, se a tutti gli altri suoi pregi avesse aggiunto il colorito e la serietà. 117 Infatti egli ha grandissimo talento, è fortemente mordace ed arguto †…†, ma diede più spazio allo sdegno che alla riflessione: inoltre, come le sue arguzie sono amare, così la sua stessa mordacità è frequentemente ridicola. T 69 Quint. Inst. 12, 10, 11. Qui troveremo il vigore di Cesare, l’istinto di Celio, la sottigliezza di Calidio, la diligenza di Pollione, la dignità di Messalla, la purezza di Calvo, la serietà di Bruto, l’acume di Sulpicio, l’amarezza di Cassio […]. T 70 Suet. Vit. 2, 1-2. Dal punto di vista opposto, parecchi autori riferirono che il progenitore della stirpe era un liberto; Cassio Severo ed altri an155
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rium, cuius filius sectionibus et cognituris uberius compendium nanctus, ex muliere uulgari, Antiochi cuiusdam furnariam exercentis filia, equitem R. genuerit.
T 71 Plut. De adulatore et amico 18 (= Plut. Mor. 60 D). Polla; d∆ aujtou' toiau'ta suneivronto", eijpei'n fasi to;n rJhvtora Kavssion Seuh'ron «Au{th tou'ton hJ parrhsiva to;n a[nqrwpon ajpoktenei'». T 72 Tac. Dial. 19, 1-2. Nam quatenus antiquorum admiratores hunc uelut terminum antiquitatis constituere solent, qui usque ad Cassium quem reum faciunt, quem primum adfirmant flexisse ab illa uetere atque directa dicendi uia, non infirmitate ingenii nec inscitia litterarum transtulisse se ad illud dicendi genus contendo, sed iudicio et intellectu. 2 Vidit namque, ut paulo ante dicebam, cum condicione temporum et diuersitate aurium formam quoque ac speciem orationis esse mutandam. Facile perferebat prior ille populus, ut imperitus et rudis, impeditissimarum orationum spatia, atque id ipsum laudi dabatur, si dicendo quis diem eximeret.
T 73 Tac. Dial. 26, 4-5. Equidem non negauerim Cassium Seuerum, quem solum Aper noster nominare ausus est, si iis comparetur, qui postea fuerunt, posse oratorem uocari, quamquam in magna parte librorum suorum plus bilis habeat quam sanguinis. Primus enim contempto ordine rerum, omissa modestia ac pudore uerborum, ipsis etiam quibus utitur armis incompositus et studio feriendi plerumque deiectus, non pugnat, sed rixatur. 5 Ceterum, ut dixi, sequentibus comparatus et uarietate eruditionis et lepore urbanitatis et ipsarum uirium robore multum ceteros superat, quorum neminem Aper nominare et uelut in aciem educere sustinuit.
T 74 Tac. Ann. 1, 72, 3. Primus Augustus cognitionem de famosis libellis 156
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cora che era un ciabattino, il cui figlio, ottenuto un cospicuo guadagno con la vendita dei beni confiscati e con quelli dei debitori, generò un figlio, cavaliere romano, da una popolana, figlia di un certo Antioco che faceva il fornaio. T 71 Plut. De adulatore et amico 18 (= Plut. Mor. 60 D). Mentre (un adulatore) diceva molte frasi di tale tipo, si racconta che l’oratore Cassio Severo abbia affermato: «Questa libertà di parola ucciderà quest’uomo». T 72 Tac. Dial. 19, 1-2. Infatti, poiché gli ammiratori degli antichi sono soliti indicare come confine dell’antichità quello costituito da Cassio Severo, che mettono sotto accusa e che si allontanò secondo le loro affermazioni per primo da quell’antico e retto stile oratorio, io ritengo che egli non passò a quel genere di eloquenza per debolezza d’ingegno e ignoranza della letteratura, ma consapevolmente e con intelligenza. 2 Infatti, come dicevo poco fa, vide che, in concomitanza con la situazione dei tempi e con la diversità del gusto, doveva cambiare anche la forma e l’aspetto esteriore dell’eloquenza. Quel pubblico del passato sopportava facilmente la lunga durata di discorsi intricatissimi, in quanto inesperto e rozzo, ed anzi considerava motivo di lode se qualcuno consumava un’intera giornata a parlare. T 73 Tac. Dial. 26, 4-5. Allo stesso modo non negherei che Cassio Severo, il solo che il mio amico Apro abbia osato nominare, possa esser chiamato oratore, qualora sia paragonato a coloro che vissero dopo, quantunque in gran parte dei suoi libri ci sia più bile che vigore. Per primo, infatti, disprezzato l’ordine degli argomenti, trascurati la moderazione e il pudore delle espressioni, disordinato anche in quelle risorse che utilizza e scopertosi il più delle volte nella furia di ferire, non combatte ma tira pugni in una rissa. 5 Per altro, come ho detto, se lo paragoniamo a quelli che sono venuti dopo, supera di gran lunga per la varietà dell’erudizione, per l’eleganza dell’arguzia e per la gagliardia delle sue stesse forze tutti gli altri, nessuno dei quali Apro si è sentito di nominare e, per così dire, di schierare sul campo. T 74 Tac. Ann. 1, 72, 3. Per primo Augusto istruì processi sui libelli diffama157
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specie legis eius tractauit, commotus Cassii Seueri libidine, qua uiros feminasque inlustris procacibus scriptis diffamauerat […].
T 75 Tac. Ann. 4, 21, 3. Relatum et de Cassio Seuero exule, qui sordidae originis, maleficae uitae, sed orandi ualidus, per immodicas inimicitias ut iudicio iurati senatus Cretam amoueretur effecerat; atque illic eadem actitando recentia ueteraque odia aduertit, bonisque exutus, interdicto igni atque aqua, saxo Seripho consenuit.
T 76 Sol. Coll. 1, 82. Armentarius murmillo et Cassius Seuerus orator ita se mutuo reddiderunt ut si quando pariter uiderentur dinosci non possent, nisi discrepantiam habitus indicaret.
T 77 Macr. Sat. 2, 4, 9. Cum multi Seuero Cassio accusante absoluerentur, et architectus fori Augusti expectationem operis diu traheret, ita iocatus est (Augustus): «Vellem Cassius et meum forum accuset».
T 78 Hier. Ad Olymp. 202, 4 = 32-33 d.C. Cassius Seuerus orator egregius, qui Quintianum illud prouerbium luserat, XXV exilii sui anno in summa inopia moritur uix panno uerenda contectus.
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tori sulla base di quella sua legge, spinto dalla sfrenatezza di Cassio Severo, che aveva diffamato con scritti insolenti uomini e donne illustri […]. T 75 Tac. Ann. 4, 21, 3. Si presentò un rapporto anche sull’esule Cassio Severo, il quale, di infima origine, di vita scostumata ma dotato di una solida eloquenza, si era attirato inimicizie eccessive tanto da fare in modo di essere esiliato a Creta in seguito ad un giudizio del senato espresso sotto giuramento; e là, comportandosi allo stesso modo, rinnovò i vecchi odi aggiungendone di nuovi e, spogliato dei beni e condannato all’esilio, invecchiò sull’isola inospitale di Serifo. T 76 Sol. Coll. 1, 82. Il mirmillone Armentario e l’oratore Cassio Severo furono così simili l’uno all’altro che, ogni volta che li si vedeva insieme, non si riusciva a distinguerli a meno che non lo consentisse la diversità del vestito. T 77 Macr. Sat. 2, 4, 9. Poiché molti venivano assolti quando li accusava Cassio Severo e l’architetto del foro di Augusto tirava per le lunghe la realizzazione dell’opera, l’imperatore scherzò così: «Vorrei che Cassio accusasse anche il mio foro». T 78 Hier. Ad Olymp. 202, 4 = 32-33 d.C. Cassio Severo, oratore egregio, colui che aveva schernito quel proverbio di Quinzio, muore nel venticinquesimo anno del suo esilio in una condizione di estrema povertà con le vergogne coperte a malapena da un panno.
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Frammenti F 32 Orationes contra Cestium Pium Subinde nanctus eum in ius ad praetorem uoco et, cum quantum uolebam iocorum conuiciorumque effudissem, postulaui, ut praetor nomen eius reciperet lege inscripti maleficii. […] Deinde ad alterum praetorem eduxi et ingrati postulaui. Iam apud praetorem urbanum curatorem ei petebam; interuenientibus amicis, qui ad hoc spectaculum concurrerant, et rogantibus dixi molestum me amplius non futurum si iurasset disertiorem esse Ciceronem quam se.
FF 33-37 Contra Nonium Asprenatem (= ORF4, n° 174, ff. 35-38 e M 1842 Cassius Severus fr. 1). F 33 Propter hanc Mucianus altero consulatu suo in conquestione exprobrauit patinarum paludes Vitelli memoriae, non illa foediore, cuius ueneno Asprenati reo Cassius Seuerus accusator obiciebat interisse conuiuas CXXX (= ORF4, n° 174, fr. 35).
F 32 Sen. Exc. Con. 3 praef. 17. Subinde … maleficii. Tanta illius perturbatio fuit ut aduocationem peteret. Deinde … se. Nec hoc ut faceret uel ioco uel serio effici potuit. F 33 Plin. Nat. 35, 164.
F 32 3 iocorum recc. locorum M || conuiciorumque suppl. M2 uitiorumque M || 4-5 deinde … eduxi Schott adulterum praedixi M
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Traduzione F 32 Orazioni contro Cestio Pio Subito dopo, avendolo incontrato, lo cito in giudizio davanti al pretore e, dopo aver riversato su di lui quanti scherzi e insulti volevo, chiesi che il pretore ammettesse contro di lui l’accusa sulla base della legge riguardante i reati perpetrati per mezzo di uno scritto … Poi lo condussi davanti all’altro pretore e lo accusai di ingratitudine. Alla fine davanti al pretore urbano chiedevo per lui un procuratore; poiché gli amici, che erano accorsi a questo spettacolo, intervenivano e cercavano di difenderlo, risposi che non avrei più arrecato disturbo se avesse giurato che Cicerone era più eloquente di lui. FF 33-37 Contro Nonio Asprenate. F 33 A causa di questo (piatto) Muciano, durante il suo secondo consolato, rinfacciò alla memoria di Vitellio il possesso di stoviglie grandi come stagni, nel corso di un discorso di rimprovero; tale piatto non fu più detestabile di quello che, secondo l’accusa rivolta da Cassio Severo contro Asprenate, aveva provocato la morte per avvelenamento di 130 convitati. Contesto F 32 Sen. Con. 3 praef. 17. Subito … scritto. Egli fu così preoccupato che chiese una dilazione. Poi … lui. Ma ciò non poté essere ottenuto né scherzando né parlando sul serio. F 33 Plin. Nat. 35, 164.
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F 34 et Cassi reo Asprenate (= M 1842, Cassius Severus fr. 1 et ORF4, n° 174, fr. 36). F 35 Di boni, uiuo, et, quo me uiuere iuuet, Asprenatem reum uideo (= M 1842, Cassius Severus fr. 1). F 36 Cum Asprenas Nonius artius ei iunctus causam ueneficii accusante Cassio Seuero diceret, consuluit senatum, quid officii sui putaret ( = ORF4, n° 174, fr. 37).
F 34 Quint. Inst. 10, 1, 22-23. Illud uero utilissimum, nosse eas causas quarum orationes in manus sumpserimus, et, quotiens continget, utrimque habitas legere actiones: ut Demosthenis et Aeschinis inter se contrarias, et Serui Sulpici atque Messalae, quorum alter pro Aufidia, contra dixit alter, et Pollionis et … Asprenate, aliasque plurimas.
F 35 Quint. Inst. 11, 1, 57. Nam sine dubio in omnibus statim accusationibus hoc agendum est, ne ad eas libenter descendisse uideamur. Ideoque mihi illud Cassi Seueri non mediocriter displicet: «Di … uideo». Non enim iusta ex causa uel necessaria uideri potest postulasse eum, sed quadam accusandi uoluptate.
F 36 Suet. Aug. 56, 3. Cum … putaret; cunctari enim se, ne si superesset, eripere[t] legibus reum, sin deesset, destituere ac praedamnare amicum existimaretur; et consentientibus uniuersis sedit in subselliis per aliquot horas, uerum tacitus et ne laudatione quidem iudiciali data.
F 34 1 Asprenate Obrecht aspernatae G F 35 1 Asprenatem ed. Ven. 1493 aspernantem B corr.
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F 34 E di Cassio nel processo in cui era accusato Asprenate.
F 35 Bontà divina, sono vivo e, affinché mi faccia piacere vivere, vedo Asprenate sotto accusa. F 36 Quando Nonio Asprenate, a lui (Augusto) strettamente legato, si difendeva da un’accusa di avvelenamento di cui lo incolpava Cassio Severo, chiese al senato quale ritenesse che fosse il suo dovere. Contesto F 34 Quint. Inst. 10, 1, 22-23. Per altro è molto utile conoscere le cause a cui si riferiscono le orazioni che stiamo studiando e, ogni volta che sarà possibile, leggere i discorsi pronunciati da entrambe le parti: come quelle di Demostene e di Eschine, opposte tra di loro, e di Servio Sulpicio e di Messalla, il primo dei quali parlò in difesa di Aufidia e il secondo contro, e quelle di Pollione e di … Asprenate, e moltissime altre. F 35 Quint. Inst. 11, 1, 57. Infatti senza dubbio in ogni accusa dobbiamo costantemente fare in modo che non sembri che siamo ricorsi volentieri al tribunale. E perciò non mi piace assolutamente quella frase di Cassio Severo «Bontà … accusa». Infatti può sembrare che l’abbia accusato non per un motivo giusto o necessario, ma per un certo piacere di accusare. F 36 Suet. Aug. 56, 3. Quando … dovere: infatti era incerto tra il guadagnarsi la reputazione di sottrarre un accusato alle leggi qualora lo aiutasse, e quella di abbandonare ed anzi condannare in anticipo un amico nel caso che lo lasciasse da solo; poiché tutti furono d’accordo, sedette in tribunale per parecchie ore, ma in silenzio e senza fornire alcuna deposizione in suo favore.
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F 37 Fivlw/ tev tini divkhn feuvgonti sunexhtavsqh, proepikoinwvsa" aujto; tou'to th'/ gerousiva/. Kai; ejkei'novn te e[swse, kai; to;n kathvgoron aujtou' oujc o{pw" di∆ ojrgh'" e[sce kaivper pavnu pollh'/ parrhsiva/ crhsavmenon, ajlla; kai; eujqunovmenon ejpi; toi'" trovpoi" ajfh'ken, eijpw;n a[ntikru" o{ti ajnagkaiva sfivsin hJ parrhsiva aujtou' dia; th;n tw'n pollw'n ponhrivan ei[h. “Allou" ge mh;n ejpibouleuvein oiJ mhnuqevnta" ejkovlase. (= ORF4, n° 174, fr. 38). F 38 Pro se contra Fabium Maximum (?) = F 18 et M 1842 Cassius Severus fr. 3 De quo Seuerus Cassius, antequam ab illo reus ageretur, dixerat: quasi disertus es, quasi formonsus es, quasi diues es: unum tantum es non quasi, uappa. F 37 D.C. 55, 4, 1-3. Tau'tav te ou\n kai; ta\lla ãa}Ã tovte ejnomoqevthsen, e[" te to; sunevdrion ejn leukwvmasi gegrammevna proevqhke pri;n crhmativsai ti peri; aujtw'n, kai; toi'" bouleutai'" meq∆ eJno;" eJtevrou ejselqou'sin ajnagnw'nai ejpevtreyen, o{pw" a[n ti mh; ajrevsh/ aujtou;" h] kai; e{terovn ti bevltion sumbouleu'sai dunhqw'sin ei[pwsin. 2 Ou{tw gavr pou dhmokratiko;" hjxivou ei\nai w{ste tino;" tw'n sustrateusamevnwn pote; aujtw'/ sunhgorhvmato" par∆ aujtou' dehqevnto" to; me;n prw'ton tw'n fivlwn tinav, wJ" kai; ejn ajscoliva/ w[n, suneipei'n aujtw'/ keleu'sai, e[peit∆ ejpeidh; ejkei'no" ojrgisqei;" e[fh «ejgw; mevntoi, oJsavki" ejpikouriva" creivan e[sce", oujk a[llon tina; ajnt∆ ejmautou' soi e[pemya, ajll∆ aujto;" pantacou' proekinduvneusav sou», e[" te to; dikasthvrion ejselqei'n kai; sunhgorh'saiv oiJ. 3 Fivlw/ tev … ejkovlase. F 38 Sen. Con. 2, 4, 11. Sed ut aliquid iocemur, Fabius Maximus nobilissimus uir fuit, qui primus foro Romano hunc nouicium morbum quo nunc laborat intulit; de … uappa.
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F 37 Egli assisté anche un amico che si difendeva in un processo, dopo averlo comunicato al senato: lo fece assolvere e inoltre non solo non si adirò assolutamente nei confronti del suo accusatore, per quanto avesse parlato con troppa libertà, ma lo perdonò quando gli venne davanti a rimproverarlo per il suo modo di comportarsi, rispondendo apertamente che la sua franchezza era necessaria per loro (scil. i Romani), in quanto la maggior parte di loro era disonesta. F 38 In difesa di se stesso contro Fabio Massimo (?) = F 18.
Contesto F 37 D.C. 55, 4, 1-4. Trasmise al senato per iscritto su tavolette tutte queste decisioni e tutti gli altri provvedimenti che aveva allora varato prima di riferire su di essi e permise ai senatori di entrare a gruppi di due per leggerle, affinché, se qualche decisione non fosse loro gradita o potessero suggerirne una migliore, lo comunicassero. 2 Infatti era ritenuto così democratico che, quando uno di coloro che avevano combattuto con lui gli chiese di assisterlo come avvocato, dapprima diede l’incarico di difenderlo ad uno dei suoi amici, adducendo la giustificazione di essere occupato, ma dopo che l’accusato, adiratosi, ebbe detto: «Certo io, tutte le volte che hai avuto bisogno di aiuto, non ti ho mandato qualcun altro al posto mio, ma ho corso pericolo per te ovunque», venne in tribunale e lo difese. 3 Egli … disonesta. F 38 Sen. Con. 2, 4, 11 = F 18
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F 39 Contra Pomponium Porcellum Quando non putat is cum aduersario de iure sibi sed de soloecismo controuersiam futuram.
Dubia F 40 Nescio, inquit, qui conuiciati sint, et puto Stoicos fuisse. F 41 Vt ille qui in actione Hibericas herbas se solo nequiquam intellegente dicebat, nisi inridens hanc uanitatem Cassius Seuerus spartum dicere eum uelle indicasset.
F 39 Suet. Gramm. 22, 1-2. M. Pomponius Porcellus sermonis Latini exactor molestissimus, in aduocatione quadam – nam interdum et causas agebat – soloecismum ab aduersario factum usque adeo arguere perseuerauit quoad Cassius Seuerus, interpellatis iudicibus, dilationem petiit ut litigator suus alium grammaticum adhiberet «Quando … futuram».
F 40 Quint. Inst. 6, 3, 78. Transtulit crimen Cassius Seuerus; nam cum obiurgaretur a praetore quod aduocati eius L. Varo Epicurio, Caesaris amico, conuicium fecissent, «Nescio … fuisse». F 41 Quint. Inst. 8, 2, 2. In quo uitio cauendo non mediocriter errare quidam solent, qui omnia quae sunt in usu, etiam si causae necessitas postulet, reformidant: ut … indicasset.
F 39 2 putat w putat Holford Strevens || sibi sed b sed sibi XG cum aduersario de iure om. X
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F 39 Contro Pomponio Porcello. Dal momento che egli ritiene di dover dibattere con il suo avversario a proposito non di una questione di diritto ma intorno a un solecismo.
Dubbi F 40 Non so chi l’abbia insultato, ma penso che siano stati degli Stoici. F 41 Come quel tale che, in un’orazione, parlava di erbe iberiche, ma avrebbe capito solo egli che cosa voleva dire, se Cassio Severo, prendendo in giro la sua vanità, non avesse spiegato che voleva intendere lo sparto. Contesto F 39 Suet. Gramm. 22, 1-2. Marco Pomponio Porcello, critico molto pedante della lingua latina, mentre assisteva un suo cliente – infatti talora sosteneva anche cause – continuò a stigmatizzare a tal punto un solecismo commesso dall’avversario finché Cassio Severo, dopo aver interpellato i giudici, chiese un rinvio affinché il proprio cliente potesse valersi di un altro grammatico, «dal … solecismo». F 40 Quint. Inst. 6, 3, 78. Cassio Severo trasferì la colpa su altri; infatti, poiché il pretore lo rimproverava perché i suoi avvocati avevano insultato Lucio Varo epicureo, amico di Cesare, disse: «Non … Stoici». F 41 Quint. Inst. 8, 2, 2. Tentando di evitare questo errore son soliti sbagliare gravemente alcuni che temono tutte le parole dell’uso comune, anche se le esigenze della causa le richiedono: come … sparto.
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F 42 Quid facies cum in bona tua inuasero, hoc est, cum te docuero nescire maledicere? F 43 Nam et Cassius Seuerus urbane aduersus hoc facientem lineas poposcit.
F 44 lege sancitum est.
F 42 Quint. Inst. 8, 3, 89. Est et amarum quiddam, quod fere in contumelia est positum, quale Cassi: «Quid … maledicere?[…]». F 43 Quint. Inst. 11, 3, 133. Transire in diuersa subsellia parum uerecundum est: nam et Cassius Seuerus … poposcit et si aliquando concitate itur, numquam non frigide reditur.
F 44 Diom. GL I, 371. Fere apud ueteres uerba tertiae coniugationis productae perfecto indicatiuo duplici i finiebantur, ut adeo adii. Sed nouitas breuitatis causa cuncta permiscuit. Quippe sancio sancii faciebant […] et in passiuo Cassius Seuerus lege … est ait.
Commento Cassio Severo è uno degli oratori su cui maggiormente si è esercitato l’acume degli interpreti. Konrad Heldmann ha pubblicato nel 1982 un’ampia messa a punto sulla sua arte oratoria e sul ruolo da lui assunto all’interno del dibattito tacitiano e quintilianeo sul declino dell’oratoria romana: al suo lavoro rinvio per maggiori approfondimenti.
F 43 et Cassius Seuerus codd. et Cassius et Seuerus b
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F 42 Che cosa farai quando sarò piombato addosso ai tuoi beni, cioè quando avrò dimostrato che tu non sai essere maldicente? F 43 Infatti anche Cassio Severo richiese in maniera spiritosa linee di demarcazione nei confronti di un tizio che si comportava così. F 44 È stato stabilito dalla legge. Contesto F 42 Quint. Inst. 8, 3, 89. C’è anche un elemento di amarezza che si trova quasi sempre nell’offesa, come l’espressione di Cassio: «Che cosa … maldicente». F 43 Quint. Inst. 11, 3, 133-134. È poco decoroso spostarsi dalla parte degli sgabelli occupati dagli avversari in tribunale: infatti … così, e se talora si va in modo concitato, si ritorna sempre in un’atmosfera fredda.
F 44 Diom. GL I, 371. Normalmente presso gli antichi i verbi della terza coniugazione allungata terminavano al perfetto indicativo con una doppia i, come adeo adii. Ma l’uso recente, per ragioni di brevità, ha mescolato tutte le regole. Perciò formavano il perfetto sancii da sancio e nel passivo Cassio Severo disse: «È … legge».
Le fonti non sono sempre concordi sulla figura e sullo stile di Cassio, ma alcuni elementi comuni sembrano emergere con una certa chiarezza anche dal confronto con i pochi frammenti superstiti: 1) la sua avversione per la pratica della declamazione; le poche citazioni, di cui una sola veramente significativa, ed il giudizio riportato da Seneca Re-
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tore ci fanno capire che il gusto di Cassio era orientato verso la concretezza; 2) la veemenza del suo ductus oratorio: egli non si perita di mostrarsi duro nei confronti degli avversari, anzi li attacca violentemente mettendoli in ridicolo e svergognandoli; il giudizio di Seneca sul suo genus dicendi ardens et concitatum (T 59) non può che trovare conferma; anche la tesi di Winterbottom, che, appoggiandosi sul Retore, vede in Cassio un oratore “natural”, disposto a fidarsi in modo pressoché esclusivo del proprio ingenium e privo di interesse per una seria preparazione (Winterbottom 1954, 95), risulta ampiamente condivisibile; 3) Cassio Severo è chiaramente riconducibile all’ambito dell’opposizione filo-repubblicana, nemica della famiglia Giulia e amaramente conscia dei mutamenti della situazione politica; 4) dal punto di vista stilistico, pur nella scarsità di testi disponibili, risulta evidente la grande potenza espressiva di cui era dotato questo oratore. Egli assumeva sicuramente un rilievo notevole all’interno del panorama culturale dell’epoca e rendeva sicuramente plausibile l’osservazione del Dialogus de oratoribus (T 72) sul mutamento dell’arte oratoria dopo la sua morte. F 32 Seneca Retore rammenta una serie di azioni giudiziarie intraprese da Cassio Severo contro Cestio Pio, uno dei più celebri declamatori dell’epoca (su di lui cf. Bornecque 1902, 160-162). Cestio, mentre si apprestava a pronunciare un’orazione scolastica Aduersus Milonem e a “correggere” Cicerone, subì gli insulti di Severo, che colse l’occasione per difendere l’oratoria dell’Arpinate. Severo lo convocò per ben due volte sia davanti al praetor peregrinus, competente nelle cause che riguardavano contese tra Romani e stranieri – Cestio, nato a Smirne, probabilmente non era cittadino romano (Bornecque 1902, 160) – sia davanti a quello urbanus, la figura istituzionale che si occupava delle cause private tra cittadini romani e lo accusò inscripti maleficii ed ingrati; Cestio chiese una dilazione, ma non fu possibile indurlo a riconoscersi inferiore a Cicerone dal punto di vista oratorio. Cassio accenna a due momenti giuridici successivi: la uocatio in ius e la fase in iure (Marrone 1989, 82-83). Egli, attore della causa, richiese l’iscrizione di Cestio sulla base di un’actio che non faceva però riferimento alla giurisprudenza realmente utilizzata, ma a due leggi tipiche dell’universo giuridico delle scuole di declamazione: di esse la prima (l’inscripti maleficii actio) era o del tutto immaginaria (Bornecque 1902, 62) o, per lo meno, divenuta obsoleta, anche se forse poteva far riferimento a qualche elemento reale (Bonner 1969, 86-87); la seconda 170
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(l’ingrati actio) aveva un’origine verosimilmente greca (Bornecque 1902, 67), ma poteva essere ricondotta ad un uso giuridico romano, la richiesta di procedere legalmente contro uno schiavo liberato che non si era dimostrato grato nei confronti del suo padrone (Bonner 1969, 87). È chiaro quindi che Cassio Severo non volle perseguire realmente Cestio sulla base delle leggi: risulta infatti evidente il suo intento di attaccare la personalità letteraria di Cestio, smascherarne la pochezza e difendere il primato artistico di Cicerone da questo “servo” ingrato e maldicente. È abbastanza verosimile supporre che i pretori, non riscontrando l’esistenza di un reato, non abbiano ritenuto opportuno procedere, ma che abbiano indotto le parti a comporre privatamente il dissenso. Il carattere fortemente letterario della situazione è ribadito dall’insistenza su elementi come ioca e conuicia, dalla raffigurazione di un Cestio Pio tremebondo, dall’intervento degli amici a chiedere grazia. Non sappiamo come Severo abbia organizzato le sue orazioni, ma certo in esse dovevano scatenarsi tutta la sua ferocissima mordacità e la sua parrhsiva: Heldmann 1982, 194 parla infatti di un “Katz-Maus Spiel” tra Severo e Cestio. FF 33-37 L’intervento contro Nonio Asprenate, amico intimo di Augusto, rappresenta l’atto processuale più importante a noi noto di Cassio Severo. Gli interpreti hanno molto discusso sull’identità di questo Nonio Asprenate, identificandolo o con il Lucio Nonio figlio del proconsole di Cesare in Africa e Spagna (E. Groag, RE XVII 1, 866-867, n. 15) o con il Lucio Nonio console del 6 d.C. e figlio del precedente. La Malcovati (ORF4, n° 174) accetta la tesi di Groag e lo identifica con il primo. Da rifiutare l’identificazione di M 1842, 549 con Nonius Asprenas Torquatus, considerato il destinatario dell’epistola oraziana 1, 5. La vicenda è probabilmente databile al 9 a.C., anche se Groag osserva che la data non può essere sicura; essa vide Nonio Asprenate accusato di avvelenamento per aver provocato la morte di 130 convitati durante un banchetto (F 33). Il numero è apparso eccessivo a molti studiosi, che hanno anche proposto di correggere il CXXX in [C]XXX: cf. Heldmann 1979, 165 n. 368. Lo studioso tedesco parla inoltre di un “Fischvergiftung”, ma le fonti non presentano elementi che possano suffragare tale tesi. Per Deroux 2004 proprio il numero inverosimile di avvelenati costituirebbe una ragione per la probabile assoluzione dell’imputato, ma, come abbiamo visto sopra, il testo può essere emendato non senza ragione con una cifra meno assurda. Cassio Severo sostenne l’accusa e Aspre171
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nate fu difeso da Asinio Pollione. Secondo la testimonianza di Cassio Dione anche lo stesso imperatore partecipò alla difesa di Asprenate e riuscì a farlo assolvere, senza per altro valersi della sua autorità per compiere una vendetta contro Cassio Severo (cf. F 37). Il testo dello storico greco non reca i nomi degli attori della vicenda, ma già Groag, seguito dalla Malcovati, era incline a ritenere che Cassio Dione alludesse al processo di Nonio Asprenate. In effetti i riferimenti ad un amico di Augusto accusato e alla parrhsiva dell’accusatore si attagliano alla perfezione ai personaggi di Asprenate e Cassio Severo; inoltre l’atto con cui Augusto si consigliò con il senato prima di accettare di difendere l’amico si trova già ricordato da Svetonio: cf. F 36. L’unico tratto curioso della testimonianza di Cassio Dione è l’assenza del riferimento ad Asinio Pollione: tuttavia, dati i rapporti non certo idilliaci esistenti tra lo storico di sentimenti filo-repubblicani e l’imperatore, è probabile che già le fonti dello storico greco omettessero la sua partecipazione alla causa. Una conferma dell’assoluzione di Asprenate è vista da Deroux 2003 nel dictum augusteo di T 77, nel quale la battuta dell’imperatore alluderebbe alla sconfitta di Cassio Severo. Deroux 2004 ha poi ripreso la tesi sostenuta precisando come non esistano contraddizioni fra le informazioni ottenibili da Svetonio e da Cassio Dione e come non sia necessario supporre con J. André che Asprenate sia stato condannato a risarcire le famiglie delle vittime. Ci resta un solo frammento diretto di questa orazione, F 35; essa per altro era ancora sicuramente leggibile all’epoca di Quintiliano e doveva godere di una certa notorietà, in quanto il retore di Calagurris la cita insieme a celebri discorsi antitetici come quelli di Eschine e Demostene De corona o quelli di Servio Sulpicio e Messalla Corvino su Aufidia (cf. ORF4, n° 119, ff. 7-10 e n° 176, ff. 12-13). Quintiliano cita il frammento all’interno del capitolo de apte dicendo proprio per criticarlo: Cassio Severo sarebbe infatti venuto meno a quella prassi che suggeriva ad ogni accusatore di evitare l’eccessiva animosità nei confronti della parte avversa, allo scopo, evidentemente, di non indisporre i giudici. Non credo che si possa attribuire con sicurezza questa frase all’esordio dell’orazione: essa potrebbe infatti anche essere un’esclamazione estemporanea e, come tale, comparire in qualsiasi parte del discorso. Da essa emergono comunque l’impulsività e la violenza di Cassio Severo. Tali caratteristiche potrebbero essere in parte influenzate da modelli letterari: Heldmann 1979, 190-196 afferma che soprattutto le testimonianze tacitiane su Cassio Severo sono riconducibili al paradigma letterario iliadico di Tersite, l’esempio classico di un «unverfrorenen 172
21. CASSIUS SEUERUS
und demagogischen Wortführer und […] Exempel Homers für den Mann, der seinen Mund nicht halten kann». La frase risulta piuttosto studiata dal punto di vista stilistico. Il vocativo iniziale di boni è un’esclamazione molto frequente sia nella lingua degli oratori sia, per esempio, in quella dei comici: tuttavia Cassio sceglie di collocarla in prima sede, una posizione che Cicerone, che pure la impiega molto sovente, tende ad evitare, preferendo porla nel mezzo del colon o alla sua conclusione: l’unica eccezione in ambito oratorio è Mil. 59, 5, mentre la posizione iniziale era prediletta da Plauto, Terenzio e Cecilio Stazio e tornò ad essere sfruttata successivamente da Apuleio (Pl. Epid. 539; Ter. An. 338; Caecil. Com. 54 e 280; Apul. Met. 3, 9; 9, 12; 10, 2; 10, 20). L’insistenza sulla prima persona singolare (uiuo … me … uideo) conferisce un tono molto personale all’accusa; notevole è l’insistenza sui suoni cupi u, marcata dall’allitterazione di ui e dalla deriuatio uiuo … uiuere. L’uso finale di quo e congiuntivo senza la presenza del comparativo non è molto frequente, ma è sufficientemente attestato anche in prosa: cf. Cic. Leg. 2, 65 e LHS II, 679-680. F 38 L’esistenza dell’orazione da cui ho tratto F 38, da me inserito con un punto interrogativo, è del tutto congetturale e presuppone che Cassio Severo si sia difeso personalmente dall’accusa, a noi ignota, rivoltagli da Fabio Massimo: cf. F 18. Severo doveva essere un suo fiero avversario e questo fatto non sorprende, in quanto Fabio Massimo era invece fedelissimo amico di Augusto. Già M 1842 aveva asserito l’esistenza di tale orazione, adducendo un indizio (non si può parlare di prova) di natura psicologica: egli riteneva assai probabile che Cassio Severo, il cui carattere rissoso e attaccabrighe era ben noto, non avesse delegato ad altri il compito di sostenere la propria causa; a smentire questo ragionamento concorre tuttavia una testimonianza molto precisa sul ricorso di Cassio ad aduocati (Quint. Inst., 6, 3, 78); il dubbio sull’esistenza reale dell’orazione perciò rimane ed è condiviso anche da G. Baldo nella sua recensione su «Eikasmós». La disputa va comunque datata a prima del 13-14 d.C., anni in cui morirono rispettivamente Fabio Massimo e Augusto. Di particolare interesse risulta il termine uappa, “fannullone, scioperato”, abbastanza raro e molto insultante, attestato prevalentemente in poesia satirica ed epigrammatica: lo usano Cat. 28, 5; Hor. Sat. 1, 1, 104; 2, 12; 5, 16; 2, 3, 144; Priap. 14, 6; Mart. 12, 48, 14 e possiede evidentemente una connotazione colloquiale. In prosa, oltre che da Seneca, è utilizzato da Plin. Nat. 14, 64 e 125. 173
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F 39 Il frammento testimonia l’attività di Cassio Severo come aduocatus, cioè difensore-assistente di un accusato, che aveva il compito di «proporre istanze giudiziarie nell’interesse» del proprio cliente (Marrone 1989, 343). È pur vero che, in linea generale e almeno fino all’età ciceroniana, l’aduocatus si distingue dal patronus, in quanto non pronuncia personalmente discorsi, ma fornisce per lo più pareri sulla conduzione della difesa (cf. Ps. Asc. ad Diu. in Caecilium 11 qui defendit alterum in iudicio aut patronus dicitur, si orator est; aut aduocatus, si ius suggerit aut praesentiam suam commodat amico), ma è altrettanto evidente dal contesto che qui il termine aduocatus non conserva più quella precisa distinzione segnalata dallo Pseudo Asconio e che l’attività di Cassio Severo si può in qualche modo considerare analoga a quella del patronus: sul significato di aduocatus cf. Neuhauser 1958, 169-171 e 183. Non conosciamo l’argomento della causa né il nome del cliente, mentre l’avversario di Severo era un personaggio di una certa notorietà: cf. F 45. Era perciò del tutto plausibile che due personaggi così pronti allo scontro arrivassero fino ad un vivace diverbio. Bisogna per altro ricordare che questa testimonianza sembra essere in parziale contraddizione con T 59, 5, in cui si ricorda che a Cassio non riuscì di difendere nessuno se non se stesso: nec tamen scio quem reum illi defendere nisi se contigerit; adeo nusquam rerum ullam materiam dicendi nisi in periculis suis habuit. Tuttavia non è necessario conferire all’asserzione di Seneca retore un valore di verità assoluta; essa può anche essere interpretata in senso iperbolico e ironico: secondo Seneca Cassio avebbe potuto ottenere buoni risultati solo difendendo se stesso. La causa era sicuramente un’actio di tipo civile di fronte ai centumuiri, «at the second stage of proceedings, after the issue had been defined before a praetor» (Kaster 1995, 226; cf. anche Gagliardi 2002). L’asserzione di Cassio, che faceva parte della richiesta di dilazione, è carica di sarcasmo. La forte antitesi ius – soloecismus esprime il contrasto tra la concretezza di un fatto giuridico e la vacuità di un ragionamento grammaticale che, capziosamente, sembra risultare più importante della materia del contendere della causa; sul senso tecnico del termine cf. Kaster 1995, 225. Il termine controuersia è qui impiegato in senso non tecnico. Il tràdito putat is va mantenuto se si ritiene di essere di fronte ad un frammento contenente una «citazione diretta di un documento di interpellatio giudiziaria formulata da un avvocato a nome del suo litigator» (G. Brugnoli, Per il testo del De grammaticis di Svetonio, 174
21. CASSIUS SEUERUS
GIF 48, 2, 1996, 195); se invece si ritiene che si tratti di un resoconto del biografo si dovrebbe preferire putat is, come Holford Strevens in Kaster 1995. È pur vero che Svetonio non inserisce nel De grammaticis molte citazioni dirette e, quando lo fa, usa la forma inquit; inoltre egli usa spesso il quando causale con il congiuntivo, mentre esso più comunemente regge l’indicativo (LHS II, 607). Credo tuttavia che questi argomenti non siano così forti da prevalere sulla lezione dei codici e che, perciò, il tràdito putat is sia preferibile alla correzione. Per un approfondimento della questione e una documentazione più ampia cf. Balbo 2005. Non era consueto che un grammatico fosse anche avvocato: per questo indubbiamente Svetonio sente il bisogno di segnalare che Porcello interdum causas agebat. Dal punto di vista di Porcello l’uso dell’espressione arguere perseuerauit dimostra l’insistenza e la pervicacia dell’avversario di Cassio Severo. Non vi sono dati per collocare cronologicamente il frammento: per questo motivo, in modo del tutto indicativo, l’ho inserito in coda ai precedenti. FF 40-44 Non abbiamo elementi per identificare l’origine dei frammenti seguenti. Le citazioni, quasi tutte provenienti da Quintiliano, sono però inserite in contesti che inducono ad attribuirle con buona probabilità ad orazioni: anche Heldmann 1982, 180 attribuisce F 42 ad un’orazione. In F 40 si parla di una obiurgatio e di aduocati, in F 41 di una risposta ad un tale che parlava di erbe iberiche in una actio, in F 42 abbiamo un esempio dell’uso dell’amarezza nel discorso, in F 43 si discute dei modi in cui si può evitare che l’efficacia del discorso diminuisca; solamente nel caso di F 44, in cui il passo citato da Diomede è completamente decontestualizzato, rimangono forti dubbi sull’attribuzione: l’uso del termine lex può però costituire un elemento a favore dell’ambito giuridico, anche se è ben lontano dal costituire una prova. J. Urìa Varela, Shorter note. Identifying the Clarus orator at Quintilian, inst. 8.2.3, CQ 50, 2000, 314-316 identifica il personaggio che parla in F 41 con Asinio Pollione. In questi testi si possono riscontrare vari elementi di un certo interesse: 1) la vena irridente di Severo, che si rivela non solo nella battuta di F 40, in cui si allude alle topiche divergenze di pensiero tra Epicurei e Stoici, ma anche in F 41, dove l’oratore demolisce la uanitas altrui semplicemente chiamando con il proprio nome la pianta di cui si sta parlando, che è probabilmente la ginestra di Spagna (cf. J. André, Lexi175
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
que des termes de botanique en latin, Paris 1956, 298) ed ancora in F 43, dove ironicamente egli propone una demarcazione ben precisa tra le parti in causa, allo scopo di evitare confusioni tra i giudici; 2) l’ostilità contro i Giulii, che si evince ancora da F 40, in cui la battuta è diretta contro un Lucio Varo epicureo non chiaramente identificabile ma amico di Augusto: J. Cousin (Quintilien, Institution oratoire, VI-VII, Paris 1977, 205) pensa che si tratti del nipote di Quintilio Varo; 3) l’accuratezza nell’architettura del periodo, come si comprende dalla lettura di F 42: il gusto dell’anafora (cum… cum) e del poliptoto (tua… te) sono i tratti stilistici immediatamente individuabili; curioso è l’accostamento tra la battuta di Cassio Severo e quella di Lucio Licinio Crasso in risposta a Lucio Marcio Filippo (ORF4 n° 66, fr. 41): non è improbabile pensare ad un’analoga acredine delle orazioni da cui erano tratte.
176
22. M. Pomponius Porcellus M 1832 = Ø; D 1837 = Ø; M 1842 = Ø. Bibliografia specifica H. Dahlmann, RE XXII, 1952, 2411-2412; PIR VII, P 551; Balbo 2005; Christes 1977, 97; Duret 1983, 3314-3315; Kaster 1995, 222224. Dati biografici Marco Pomponio Porcello fu un grammatico di rilievo vissuto nell’ultima metà dell’età di Augusto e nei primi anni del regno di Tiberio (Dahlmann 1952; Kaster 1995, 223). La sua origine fu probabilmente libera (Kaster 1995, 222 e Christes 1977, 97), come dimostra il fatto che egli esercitò anche l’avvocatura, seppure occasionalmente. Il cognomen Porcellus è stato restaurato dal Kaster in modo convincente contro il tràdito Marcellus e il personaggio è stato identificato con il grammatico Porcello citato in Sen. Suas. 2, 12-13: cf. Kaster 1995, 222-223, R. Kaster, Studies on the text of Suetonius de grammaticis et rhetoribus, Atlanta 1992, 99-102, L. Fanizza, Senato e società politica tra Augusto e Traiano, Roma-Bari 2001, 81-82 e Balbo 2005. Fu un personaggio caratterizzato da una notevole prontezza nelle battute e da un desiderio esasperato di conservare la purezza della lingua, fino al punto di rimproverare lo stesso eloquio dell’imperatore Tiberio. Il fatto che venga definito exactor molestissimus della lingua conferma il suo carattere pungente e la sua inflessibile ostinazione. Anche l’aneddoto con cui Asinio Gallo ci testimonia la sua attività di pugile vale a confermare questa convinzione. Non sappiamo quando sia morto: sicuramente dopo il 22 d.C., anno in cui morì Ateio Capitone, protagonista di T 80.
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I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Testimonianze T 79 Sen. Suas. 2, 13. Illud Porcellus grammaticus arguebat in hoc uersu quasi soloecismum quod, cum plures [dicerent] induxisset, diceret: «Hic meus [dies] est dies», non: «Hic noster est», et in sententia optima id accusabat quod optimum. Muta enim ut “noster” sit: peribit omnis uersus elegantia, in quo hoc est decentissimum, quod ex communi sermone trahitur; nam quasi prouerbii loco est: «Hic dies meus est»; et, cum ad sensum rettuleris, ne grammaticorum quidem calumnia ab omnibus magnis ingeniis summouenda habebit locum; dixerunt enim non omnes simul tamquam in choro manum ducente grammatico, sed singuli ex iis: «Hic meus est dies».
T 80 Suet. Gramm. 22, 2-3. Hic idem cum ex oratione Tiberii uerbum reprehendisset, adfirmante Ateio Capitone et esse illud Latinum et si non esset futurum certe iam inde, «Mentitur», inquit, «Capito. Tu enim, Caesar, ciuitatem dare potes hominibus, uerbo non potes». Pugilem olim fuisse Asinius Gallus hoc in eum epigrammate ostendit. Qui caput ad laeuam didicit glossemata nobis Praecipit. os nullum uel potius pugilis.
Frammenti F 45 Contra Cassium Seuerum = F 39 In aduocatione quadam – nam interdum et causas agebat – soloecismum ab aduersario factum usque adeo arguere perseuerauit F 45 Suet. Gramm. 22, 1. M. Pomponius Porcellus sermonis Latini exactor molestissimus, in aduocatione … perseuerauit quoad Cassius Seuerus, interpellatis iudicibus, dilationem petiit ut litigator suus alium grammaticum adhiberet 178
22. M. POMPONIUS PORCELLUS
Traduzione T 79 Sen. Suas. 2, 13. Il grammatico Porcello riteneva errato in questo verso [di Cornelio Severo stratique per herbam / «hic meus est» dixere «dies»], come se si trattasse di un solecismo, il fatto che, dopo avere raffigurato molti (soldati), (il poeta) dicesse: «Questo è il mio giorno», non «Questo è il nostro» e in un’espressione eccellente stigmatizzava la parte migliore. Prova infatti a cambiare la frase in modo che ci sia “nostro”: sparirà ogni eleganza del verso, in cui la parte più graziosa è quella tratta dalla lingua di tutti i giorni; infatti «Questo è il mio giorno» è quasi una forma proverbiale e, quando avrai compreso il significato, non riceverà attenzione neanche una sottigliezza da grammatici degna di essere trascurata da tutte le persone intelligenti; infatti parlarono non tutti insieme come in gruppo guidato per mano da un grammatico, ma ognuno di loro disse «Questo è il mio giorno». T 80 Suet. Gramm. 22, 2-3. Poiché costui in persona [scil. Porcello] aveva criticato una parola in un’orazione di Tiberio, visto che Ateio Capitone affermava che quel termine era corretto e che, se non lo fosse, sicuramente lo sarebbe diventato da quel momento, egli ribatté: «Capitone sta mentendo. Infatti tu, Cesare, puoi donare la cittadinanza agli uomini, non ad una parola». Asinio Gallo rivela in questo epigramma contro di lui che costui un tempo era stato un pugile: «Colui che ha imparato “Sposta la testa a sinistra”, ora ci insegna le parole difficili. Non ha stile o, piuttosto, ha quello di un pugile». Traduzione Cf. F 39.
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«quando non putat is cum aduersario de iure sibi sed de soloecismo controuersiam futuram».
Commento Cf. F 39.
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Ambrosius Theoosius Macrobius Willis 1970 = Ambrosii Theodosii Macrobii Saturnalia, apparatu critico instr. J. Willis, editio correctior Leipzig 19702. Marinone 1997 = I Saturnali di Macrobio Teodosio, a cura di N. Marinone, Torino 19973. C. Cilnius Maecenas Lunderstedt 1911 = P. Lunderstedt, De C. Maecenatis fragmentis, Commentationes philologicae Ienenses IX, 1, 1911. Avallone 1962 = R. Avallone, Mecenate, Salerno 1962. Marius Victorinus Mariotti 1967 = Marii Victorinii Ars Grammatica. Introduzione, testo critico e commento a cura di I. Mariotti, Firenze 1967. Nicolaus Damascenus Jacoby 1925 = F. Jacoby, Die Fragmente der griechischen Historiker, zweiter Teil A - Universalgeschichte und Hellenika, 324-430, Berlin 1925 (= Leiden 1961). Oratores Romani M 1832 = Oratorum Romanorum Fragmenta ab Appio inde Caeco et M. Porcio Catone usque ad Q. Aurelium Symmachum collegit atque illustravit H. Meyerus, Turici 1832. D 1837 = Oratorum Romanorum Fragmenta ab Appio inde Caeco ad Q. Aurelium Symmachum collegit et illustravit H. Meyerus. Editio parisina auctior et emendatior curis F. Dübneri Parisiis 1837. M 1842 = Oratorum Romanorum Fragmenta ab Appio inde Caeco et M. Porcio Catone usque ad Q. Aurelium Symmachum collegit atque illustravit H. Meyerus. Editio auctior et emendatior Turici 1842. 4 ORF = Oratorum Romanorum Fragmenta liberae rei publicae quartum edidit H. Malcovati, Augustae Taurinorum, I: Textus 1976; II: Index Verborum e scidulis ab †Helmut Gugel collectis compositus ab H. Vretska, adiuvante C. Vretska, 1979. Publius Ouidius Naso Della Corte 1986 = F. Della Corte, Introduzione in F. Della Corte - S. Fasce, Opere di P. Ovidio Nasone, II, Torino 1986. Richmond 1990 = P. Ovidi Nasonis Ex Ponto libri quattuor. Rec. J. A. Richmond, Stutgardiae 1990. 188
NOTA BIBLIOGRAFICA
C. Plinius Secundus Beaujeu 1950 = Pline l’Ancien, Histoire naturelle livre 1. Texte établi et traduit par J. Beaujeu. Intr. de A. Ernout, Paris 1950. Ernout 1962 = Pline l’Ancien, Histoire naturelle livre 29. Texte établi, traduit et commenté par A. Ernout, Paris 1962. André 1964 = Pline l’Ancien, Histoire naturelle livre 19. Texte établi, traduit et commenté par J. André, Paris 1964. André 1965 = Pline l’Ancien, Histoire naturelle livre 20. Texte établi, traduit et commenté par J. André, Paris 1965. André 1972 = Pline l’Ancien, Histoire naturelle livre 24. Texte établi, traduit et commenté par J. André, Paris 1972. André 1974 = Pline l’Ancien, Histoire naturelle livre 25. Texte établi, traduit et commenté par J. André, Paris 1974. Schilling 1977 = Pline l’Ancien, Histoire naturelle livre 7. Texte établi et traduit par R. Schilling, Paris 1977. Croisille 1985 = Pline l’Ancien, Histoire naturelle. Livre 35. Texte établi, traduit et commenté par J-M. Croisille, Paris 1985. Plutarchus Ziegler 19646 = Plutarchi Vitae Parallelae. Rec. Cl. Lindskog et K. Ziegler. Vol. II fasc. 1 iterum rec. K. Ziegler, Lipsiae 1964. Ziegler 1968 = Plutarchi Vitae Parallelae. Vita Caesaris Rec. Cl. Lindskog et K. Ziegler. Vol. II fasc. 2 iterum rec. K. Ziegler, Lipsiae 1968. Flacelière-Chambry 1978 = Plutarque. Vies. Tome XIV Dion-Brutus. Texte établi et traduit par R. Flacelière et E. Chambry, Paris 1978. Ziegler-Gärtner 1993 = Plutarchi Vitae parallelae. Rec. Cl. Lindskog et K. Ziegler. Vol. II fasc. 1 iterum rec. K. Ziegler. Editionem correctiorem cum addendis cur. H. Gärtner, Stutgardiae et Lipsiae 1993. Poetae Latini Courtney 1993 = The fragmentary Latin poets edited with commentary by E. Courtney, Oxford 1993. Blänsdorf 1995 = Fragmenta poetarum latinorum epicorum et lyricorum praeter Ennium et Lucilium post W. Morel novis curis adhibitis ed. C. Büchner. Editionem tertiam auctam curavit J. Blänsdorf, Stutgardiae 1995. Pomponius Porphyrio Meyer 1874 = Pomponi Porphyrionis Commentarii in Q. Horatium Flaccum. Rec. G. Meyer, Lipsiae 1874. 189
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Holder 1894 = Pomponi Porfyrionis [sic] Commentum in Horatium Flaccum rec. A. Holder, Innsbruck 1894 (rep. Aus. Hildesheim 1967). Priscianus Caesariensis GL 1855 = Prisciani grammatici Caesariensis Institutionum grammaticarum libri XVIII ex recensione M. Hertz, duo voll., Leipzig 1855 (rep. Aus. Hildesheim 1961) (= GL ex recensione H. Keil, II-III). M. Fabius Quintilianus Spalding 1798-1834 = M. Fabius Quintilianus. De institutione oratoria libri duodecim. Ad codicum veterum fidem recensuit et annotatione explanavit G. L. Spalding, quattuor volumina (V add. C. Zumpt 1829, VI E. Bonnell 1834), Lipsiae 1798-1816 [= Hildesheim 1962]. Peterson 1891 = M. Fabi Quintiliani Institutionis oratoriae liber X. A revised text with introductory essay, critical and explanatory notes and a fac-simile of the Harleian Ms. by W. Peterson, Oxford 1891 (= Hildesheim 1967). Austin 1965 = Quintiliani Institutionis oratoriae liber XII edited by R. G. Austin, Oxford 1965 (rep. with corrections). Winterbottom 1970 = M. Fabi Quintiliani Institutionis oratoriae libri duodecim. Rec. adn. critica instr. M. Winterbottom, duo voll., Oxonii 1970. Shackleton Bailey 1989 = M. Fabii Quintiliani Declamationes minores. Ed. D. R. Shackleton Bailey, Stutgardiae 1989. Ps. Quintilianus [Decl.] Håkanson 1982 = Declamationes XIX maiores Quintiliano falso adscriptae. Ed. L. Håkanson, Stutgardiae 1982. L. Annaeus Seneca Maior Kiessling 1872 = Annaei Senecae Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores, Rec. A. Kiessling, Lipsaie 1872 (= Lipsiae 1935). Müller 1887 = L. Annaei Senecae patris Scripta quae manserunt edidit H. J. Müller, Wien 1887 (= Hildesheim 1963). Winterbottom 1974 = The Elder Seneca declamations in two volumes translated by M. Winterbottom, 2 voll., Cambridge-London 1974. Håkanson 1989 = L. Annaeus Seneca Maior. Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores. Rec. L. Håkanson, Lipsiae 1989.
190
NOTA BIBLIOGRAFICA
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III. Studi Achard 2000 = AA. VV., Orateurs, auditeurs, lecteurs. À propos de l’éloquence romaine à la fin de la République et au debut du Principat, actes de la table ronde du 31/1/2000 édités par G. Achard et. M. Ledentu, Lyon 2000. Aldrete 1999 = G. Aldrete, Gestures and acclamations in Ancient Rome, Baltimore 1999. Allen 2002 = cf. Edizioni – Fre(n)culphus Lexovensis. André 1949 = J. André, La vie et l’oeuvre d’Asinius Pollion, Paris 1949. André 1964 = cf. Edizioni – Plinius Secundus. André 1965 = cf. Edizioni – Plinius Secundus. André 1967 = J. M. André, Mécène. Essai de biographie spirituelle, Paris 1967. André 1972 = cf. Edizioni – Plinius Secundus. André 1974 = cf. Edizioni – Plinius Secundus. André 1983 = J. M. André, Mécène écrivain, ANRW II, 30, 3 (1983), 17651787. Arcaria 2004 = F. Arcaria, I crimini ed il processo di Cornelio Gallo, «Quaderni Catanesi di Studi Antichi e Medievali» 3, 2004, 109-226. 192
NOTA BIBLIOGRAFICA
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NOTA BIBLIOGRAFICA
Cavarzere 2000 = A. Cavarzere, Oratoria a Roma. Storia di un genere pragmatico, Roma 2000. Christes 1977 = J. Christes, Sklaven und Freigelassene als Grammatiker und Philologen im antiken Rom, Wiesbaden 1977. Citti 1994 = cf. Edizioni – Horatius. Courtney 1993 = cf. Edizioni – Poetae Latini. Crawford 1984 = cf. Edizioni – Cicero. Crawford 1994 = cf. Edizioni – Cicero. Croisille 1985 = cf. Edizioni – Plinius Secundus. Crowther 1983 = B. Crowther, C. Cornelius Gallus. His importance in the development of Roman poetry, ANRW III, 30, 3, 1983, 1622-1648. Cucheval 1893 = V. Cucheval, Histoire de l’éloquence romaine depuis la mort de Cicéron jusqu’à l’avènement de l’empereur Hadrien, I-II, Paris 1893. D 1837 = cf. Edizioni – Oratores Romani. D’Hautcourt 1995 = A. D’Hautcourt, L’exil de Cassius Severus: hypothèse nouvelle, «Latomus» 54, 1995, 315-318. David 1992 = Le patronat judiciaire au dernier siècle de la république romaine, Roma 1992. Della Corte 1986 = cf. Edizioni – Ouidius. De Meyier 1977 = A. De Meyier, Codices Vossiani Latini, III – Codices in octavo, Leiden 1977. Deroux 2003 = C. Deroux, Le bon mot d’Auguste au sujet de son Forum (Macrobe, Sat. II, 4, 9), «Latomus» 62, 2003, 676-679. Deroux 2004 = C. Deroux, Auguste, Cassius Severus et le proces de Nonius Asprenas (Suetone, Aug. LVI, 6 et Dion Cassius LV, 4, 3), «Latomus» 63, 2004, 178-181. Dorey 1976 = cf. Edizioni – Liuius. Drexler 1964 = cf. Edizioni – Cicero. Duret 1983 = L. Duret, Dans l’ombre des plus grands I. Deuxième partie: orateurs et déclamateurs, ANRW II, 30, 3 (1983), 1503-1560. Eck 1991 = W. Eck, Sulpicii Galbae und Livii Ocellae: zwei senatorische Familien in Tarracina, LF 114, 1991, 93-99. Elefante 1997 = cf. Edizioni – Velleius Paterculus. Ernout 1962 = cf. Edizioni – Plinius Secundus. Evenepoel 1990 = W. Evenepoel, Maecenas: a survey of recent literature, AncSoc 21, 1990, 99-117. Fairweather 1981 = J. Fairweather, Seneca the Elder, Cambridge 1981. 195
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NOTA BIBLIOGRAFICA
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202
Indice dei passi citati Ps. Acron Ad Hor. Ep. 1, 5 = T 49 AL Shackleton Bailey 401 (= 405 Buecheler-Riese-Lommatzsch 314-315) = T 12 Amp. 8, 1 App. BC 4, 1, 3 BC 4, 46 Apul., Met. 3, 9 9, 12 10, 2 10, 20 Arist. Rh. 1404 b 18 Ps. Asc. ad Diu. in Caecilium 11 Asc. Mil. 32, 7 34, 5 Ath. 1, 37, p. 20 d-e Aug. Anc. I, 15 B. Alex. 52, 2 Caecil., com. 54 com. 280 Cat., 28, 5 64, 193 Char., GL I, 77, 14-15 = 98, 1-3 Barwick = F 31 Char., GL I, 79, 24 = 100, 22 Barwick Char., GL I, 146, 29 = 186, 7 Barwick Cels., 3, 15-17 Cic., Att. 14, 10, 4 Br. 216 221 239 250 203
pp. 114-115 pp. 26-27 p. 6 p. 4 p. 29 p. 173 p. 173 p. 173 p. 173 p. 109 p. 174 p. 45 p. 44 p. 137 p. 100 p. 84 p. 173 p. 173 p. 173 p. 20 pp. 136-137; 140-141 p. 19 p. 19 p. 72 p. 10 p. 62 p. 93 p. 63 p. 63
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
D.C.
Dig. Diom. Fest. Flor. Gal. Hier.
Hor.
303 p. 63 331 p. 112 fam., 3, 1, 2 p. 7 10, 31, 6 p. 138 10, 32, 5 p. 138 fin. 3, 67 p. 7 Leg. 2, 65 p. 173 Lig. 4, 10 p. 22 Mil. 59, 5 p. 173 Or. 78 p. 110 de orat. 1, 170 p. 118 de orat. 3, 121 p. 113 3, 147 p. 62 Phil. 2, 30 p. 66 Ver. 5, 62, 162 p. 22 52, 2-40 pp. 21-22; 40-41 53, 23, 5-24 p. 3 54, 17, 5 p. 137 54, 35, 4 p. 20 55, 4, 1-3 = F 37 pp. 164-165; 171-173 56, 27, 1 = T 57 pp. 127; 130-131 12, 2-3 p. 69 12, 2, 11-12 p. 69 GL I, 376 = F 29 pp. 136-137 GL I, 371 = F 44 pp. 168-169; 175-176 De verborum significatu 47 p. 139 Epit. 2, 33, 51 p. 109 Pap. Qasr Ibrîm, v. 7 p. 9 Ad Olymp. 188, 2 = 27-26 a. C. p. 1 Ad Olymp. 192,4 = 9-8 a. C. p. 23 Ad Olymp. 193, 3 = 6-5 a. C.= T 24 pp. 56-57 Ad Olymp. 194, 1 = 4-3 a. C.= T 33 pp. 72; 80-81 Ad Olymp. 202, 4 = 32-33 d. C.= T 78 pp. 144; 158-159 Adu. Iou. 1, 28 = T 52 pp. 120-121 Carm. 1, 26 p. 105 3, 14, 25 p. 20 3, 17 p. 105 4, 1, 9-16 = T 39 pp. 94-95 4, 7, 23-24 = T 47 pp. 114-115 204
INDICE DEI PASSI CITATI
Liv. Longin. Macr.
Man. Mar. Vict. Mart. Mela Nic. Dam. Oros. ORF4, I ORF4, I ORF4, I ORF4, I ORF4, I ORF4, I ORF4, I ORF4, I ORF4, I Ov.
4, 11, 13-20 p. 13 Ep. 1, 3, 21-25 = T 46 pp. 112-113 1, 5 p. 114 1, 5, 8-9 = F 21 pp. 116-118 Epod. 14, 9 p. 137 Sat. 1, 1, 104 p. 173 1, 2, 12 p. 173 1, 5, 16 p. 173 2, 3, 144 p. 173 40, 35, 7 p. 10 per. 58 p. 11 Subl. 17, 1 p. 110 22, 1 p. 110 Sat. 2, 4, 8 p. 87 2, 4, 9 = T 77 pp. 158-159; 172 2, 4, 12 = T 6 pp. 16-17 2, 6, 3 = T 35 pp. 86-87 2, 6, 4 = F 17 pp. 88-90 2, 7, 19 p. 137 4, 220 p. 10 Ars 4, 6 = T 15 pp. 36-37; 40 12, 48, 14 p. 173 2, 115-116 p. 7 Vit. Caes. 7 = T 14 pp. 36-37; 40 Hist. 6, 21, 22 p. 67 n° 66, 41 p. 176 n° 87 p. 93 n° 119, 7-10 p. 172 n° 174 pp. 4; 141 n° 174, 23-24 p. 118 n° 174, 28 pp. 132; 140 n° 174, 29, 30, 31, 32, 34 pp. 132-137 n° 174, 35-38 p. 144 n° 176, 12-13 p. 172 Ars 2, 313 p. 110 Her. 15, 76 p. 20 Met. 10, 252 p. 110 Pont. 1, 2, 67-70 e 115-11= T 40 pp. 94-97 3, 3 p. 95 3, 3, 68 p. 69 3, 8 p. 95 205
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
Pl. Plin.
Plin. Plut.
Porph. Priap. Prisc. Prop. Quint.
Epid. 539 p. 173 Nat. 7, 45, 1 p. 35 7, 55, 8 = T 64 pp. 152-153 14, 64 p. 173 14, 125 p. 173 20, 160 = T 32 pp. 80-81 35, 26 = F 10 pp. 38-39; 42-43 35, 164 = F 33 pp. 144; 160-161; 171-173 36, 121 p. 40 Ep. 4, 28, 1 p. 143 6, 31, 14 p. 122 De adulatore et amico 18 (= Plut. Mor. 60 D) = T 71 pp. 145; 156-157 Brut. 27, 4 = F 8 pp. 36-37; 41; 44 Quaestiones conuiuales 7, 8, 3 p. 711 e-f p. 137 Ad Hor. Carm 4, 1, 9-10 e 14 = T 43 pp. 96-97 Ad Hor. Ep. 1, 3, 1 p. 111 1, 5, 9 = F 22 pp. 116-118 14, 6 p. 173 GL II, 536, 5-7 = F 3 pp. 18-21 1, 2 p. 20 2, 20, 15 p. 69 Decl. 344, 9 p. 10 Inst. 1, 5, 8 = F 25 pp. 4; 127; 132-133 2, 5, 8 p. 110 2, 15, 36 = T 20 pp. 54-55 3, 3, 4 = T 21 pp. 54-55 3, 6, 62 = T 22 pp. 54-57 4, 1, 11-12 = F 26 pp. 127; 132-133; 138 5, 1, 1 p. 69 5, 13, 24 p. 139 6, 1, 43 = T 65 pp. 145; 152-155 6, 2, 16 p. 139 6, 3, 3 p. 139 6, 3, 26-27 = T 66 pp. 154-155 6, 3, 52-53 = F 19 pp. 98-100 6, 3, 78-79 = T 67 = F 40 pp. 145; 154-155; 166-167; 175-176 6, 3, 85 p. 68 6, 3, 90 p. 143 6, 3, 110-111 = T 37 pp. 90-93 206
INDICE DEI PASSI CITATI
[Quint.], Rhet. Her. Sen.,
Sen.,
7, 2, 4-5 = F 27 pp. 134-135; 142 7, 2, 26-27 = F 28 pp. 134-135; 141 8, 2, 2 = F 41 pp. 166-167; 175-176 8, 3, 89 = F 42 pp. 168-169; 175-176 9, 1 p. 69 9, 2, 42-43 p. 68 9, 2, 48 pp. 68-69 9, 2, 95 = F 6 e F 12 a pp. 32-34; 62-63 9, 2, 98 p. 68 9, 3, 13-14 = F 30 pp. 136-137; 140-141 9, 3, 73 p. XIII 9, 3, 102 p. 110 9, 4, 28 = T 3 pp. 16-17 10, 1, 22-23 = F 34 pp. 162-163; 171-173 10, 1, 93 p. 9 10, 1, 116-117 = T 68 pp. 154-155 10, 3, 13-14 p. 111 10, 5, 18-19 = F 16 pp. 72; 82-85 11, 1, 57 = F 35 pp. 162-163; 171-173 11, 3, 133 = F 43 pp. 168-169; 175-176 12, 10, 11 = T 69 pp. 154-155 Decl. 19, 9 p. 11 4, 7, 10 p. 109 Ben. 4, 36, 1 = T 1 pp. 12-13 Ira 3, 5, 5 p. 106 Ep. 40, 9 = T 51 pp. 120-121 94, 46 p. 40 114, 4-8 e 21 = T 2 pp. 12-17; 20 114, 17-20 = T 13 pp. 28-32 Con. 1 praef. 2 pp. 41; 71 1 praef. 13-24 = T 26 pp. 71-78 1 praef. 21 p. 110 1, 2, 15 p. 125 1, 3, 8 = T 16 pp. 48-49 1, 7, 13 p. 125 1, 7, 18 p. 70 2, 2, 8 p. 71 2, 4, 8 = T 27 pp. 78-79 2, 4, 11 = T 41 = F 18 = F 38 pp. 96-100; 145; 164-165 2, 4, 13 p. 71; 112 207
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
2, 4, 13-14 = F 9 pp. 38-39; 41-42 2, 5, 13 p. 118 2, 5, 17 = T 7 pp. 24-26 2, 5, 19 p. 91 2, 5, 20 (= Exc. Con. 2, 5, 1) = T 36 pp. 90-91 7 praef. 7 = F 4; F 5; F 12; F 13; F 14 pp. 30-34; 60-63; 66; 68-70 7 praef. 1-9 = T 17 pp. 48-55; 62; 65 7 praef. 8-9 p. 119 7, 1, 20 = T 10 e T 18 pp. 24-27; 54-55 7, 1, 22 p. 26 7, 2, 12 pp. 26-27 7, 3, 8 = T 60 pp. 152-153 7, 5, 7 = T 28 pp. 78-79 7, 5, 9 p. 26 7, 6, 22 = F 20 pp. 104-107 7, 8, 9 p. 26 7, 8, 10 p. 119 9 praef. 3 = F 15 pp. 72; 82-85 9, 2, 22 = T 54 pp. 124-125 9, 2, 23 = T 29 pp. 78-79 9, 2, 23-24 p. 111 9, 2, 26 p. 141 9, 3, 7 p. 26 9, 3, 14 = T 61 pp. 152-153 10 praef. 4-8 = T 55 pp. 126; 127; 128-131; 136 10 praef. 8 = F 24 = T 62 pp. 127; 132-133; 137-138; 152-153 10 praef. 10 p. 117 10 praef. 13 = T 30 = T 42 pp. 80-81; 96-97 10 praef. 14 = T 45 pp. 108-109 10 praef. 15 = T 31 pp. 80-81 10 praef. 14-16 p. XIII 10, 1, 13-14 = T 19 pp. 54-55 10, 2, 7 p. 108 10, 2, 16 p. 108 10, 3, 4 p. 26 10, 3, 14 p. 108 10, 4, 7 p. 108 208
INDICE DEI PASSI CITATI
10, 5, 1 10, 5, 21 = T 11 Exc. Con. 1, 1 3 praef. 1-18 = T 59
Serv.,
3 praef. 10-11 = T 8 3 praef. 11 = T 53 3 praef. 14-15 = T 9 3 praef. 17 = F 32 4 praef. 2 = T 56 4 praef. 4 4, 8, 3 6, 8, 1 = F 23 Suas. 2, 13 = T 79 6, 9 6, 11 = T 50 e T 63 A. 1, 409 2, 130 3, 270 3, 399 4, 127 4, 529 7, 30 7, 445 = F 2 7, 688 11, 10 Ecl. 3, 1 6, 6 6, 64 6, 66 6, 72 9, 10 = F1 10, 1 10, 2 10, 10 10, 46 10, 50 10, 74 G. 1, 277 2, 333 2, 479 209
p. 108 pp. 24-26; 122 p. 122 pp. 143; 146-153; 170; 174 pp. 24-26 pp. 124-125 pp. 24-26 pp. 160-161 pp. 127; 130-131 p. 136 p. 119 pp. 120-122 pp. 177-179 p. 65 pp. 102-121; 152-153 p. 10 p. 9 p. 141 p. 11 p. 11 p. 9 p. 10 pp. 2-3; 10 p. 10 p. 9 p. 11 p. 8 p. 11 p. 11 p. 11 pp. 2-3 p. 11 p. 11 p. 11 p. 11 p. 11 p. 11 p. 11 p. 11 p. 11
I FRAMMENTI DEGLI ORATORI ROMANI DELL’ETÀ AUGUSTEA E TIBERIANA
3, 188 3, 296 3, 313 4, 1 Sicardus Cremonensis, Chronicon = T 25 Sol., Coll. 1, 82 = T 76 Suet., Gramm. 9 22, 1-2 = F 39 = F 45 22, 2-3 = T 80 30, 1-6 = T 23 30, 4 = F 12 a 30, 5 = F 11 Aug. 22, 1 26, 2 56, 3 = F 36 61, 2 64, 2-3 = T 38 86, 2 = T 5 Cal. 16, 1 = T 58 23, 1 Dom. 1, 1 Gal. 3, 6 = T 34 Iul. 37, 1 Vit. 2, 1-2 = T 70 12,1 Tac., Ann. 1, 3, 1 1, 54 1, 72, 3 = T 74 2, 63, 11 3, 68 4, 21, 3 = T 75 4, 43, 5 = T 48 6, 11, 2 11, 12, 2 11, 25, 8 15, 56, 4 15, 71, 5 Dial. 19, 1-2 = T 72 26, 1-2 = T 4 26, 4-5 = T 73 38, 2 210
p. 11 p. 11 p. 11 p. 11 pp. 56-57 pp. 158-159 p. 88 pp. 166-170; 178-179 pp. 178-179 p. 49; 56-57 pp. 60-61 pp. 49; 58-59; 63-68 p. 66 p. 66 pp. 162-163; 171-173 p. 20 pp. 91-93 pp. 16-17 pp. 127; 130-131 p. 35 p. 88 pp. 86-87 p. 66 pp. 154-157 p. 66 p. 35 p. 137 pp. 143; 145; 156-159 p. 42 p. 106 pp. 143; 158-159 pp. 114-115; 117 p. 12 p. 10 p. 10 p. 101 p. 101 pp. 156-157; 170 pp. 16-17 pp. 144; 156-157 pp. 140-141
INDICE DEI PASSI CITATI
Ter. Varr., V. Max. Vell. Verg., Vita Donati Vita Focae Vita Lucani Vita Probiana Vitr., CIL CIL CIL CIL CIL CIL CIL CIL CIL
Hist. 1, 43 An. 338 L. 7, 29 6, 8, 4 2, 69, 5 = F 7 2, 85, 2 2, 86, 3 Aen. 12, 71 Ecl. 9, 23-29 19 63-66 2, 2 = T 44 7 1, 4, 12 e 8, 3, 24 II 2182 III Supp. I, 10348 III 12240 III 13561 V 6513 V 6530 VI 21771 (= ILS 7848) IX 3305 IX 3306
211
p. 10 p. 173 p. 139 p. 36 pp. 36-37; 41; 46-47 p. 29 p. 29 p. 10 p. 8 p. 1 p. 1 pp. 101-103 p. 1 p. 6 p. 101 p. 139 p. 95 p. 95 p. 49 p. 49 p. 12 p. 119 p. 119
Finito di stampare nell’aprile 2007 da DigitalPrint Service s.r.l. in Segrate (Mi) per conto delle Edizioni dell’Orso