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Italian Pages [548] Year 1998
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TORINO
DIPARTIMENTO DI FILOLOGIA LINGUISTICA E TRADIZIONE CLASSICA ,
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LUCIO ANNEO SENECA
I FRAMMENTI a cura di DIONIGI VOTTERO
PÀTRON EDITORE BOWGNA 1998
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Copyright © 1998 by Pàtron editore - Quarto Inferiore - Bologna .
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I diritti di traduzione e di adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo sono riservati per tutti i Paesi. t inoltre vietata la riproduzione, anche parzia le, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico, non autorizzata.
Prima edizione, novembre 1998 Ristampa 6 5
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2004 2003 2002 2001 2000 1999 1998
A questa edizione è stato concesso il patrocinio della Commissione Nazionale per le celebrazioni del bimille nario della nascita di L. Anneo Seneca. In copertina: Riproduzione calligrafica della scrittura infe
riore (onciale) del palinsesto Vaticano Palatino latino 24 (foglio 44 recto, righe 14-16), tratta dall'edizione del De amicitia curata da B.G. Niebuhr, Roma, 1820 (cfr. infra, pp. 101-102 e nn. 468-471). PRIMA CHE IL LIBRO SCIENTIFICO MUOIA
Il libro scientifico è un organismo che si basa su un equilibrio delicato. Gli elevati costi iniziali (le ore di lavoro necessarie all'autore, ai redattori, ai compositori, agli illustratori) �ono ricuperati se le vendite raggiungono un certo volume. La fotocopia riducendo le vendite contribuisce alla crc �-r-'\i .. !
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ÈpyQ> q>tÀOl (EuR., Aie., 339) Ai Colleghi del Dipartimento che hanno avuto fìducia in questo lavoro
INTRODUZIONE
I.
GLI SCRITTI PERDUTI DI SENECA E IL GIUDIZIO DI QUINTILIANO (T 1)
La produzione di Seneca fu molto vasta e varia, legata all'importanza che la sua figura ha rivestito e riveste tuttora non solo nell'ambito della letteratura, ma anche in quello della filosofia, della scienza, della storia civile e politica. È difficile valutare la gravità della perdita subita dal cor pus dei suoi scritti, ma non saremo lontani dal vero sostenendo che circa la metà delle sue opere non sono giunte fino a noi 1• Noi possediamo, co m'è noto, la silloge dei Dialogi (dieci scritti in dodici libri, con qualche grave lacuna qua e là: per es., subito dopo l'inizio del De ira, alla fine del De vita beata, all'inizio del De otio e della Consolatio ad Polybium), il De clementia (perduto per più della metà}, il De benefìciis, le Natura/es quaes tiones (che presentano due consistenti lacune, una alla fine del libro IVa, l'altra all'inizio del IVb) 2, le Epistulae mora/es indirizzate a Lucilio (di cui rimangono venti libri su un totale di almeno ventidue), la satira menip pea intitolata Ludus de morte Claudii (o 'AitoxoÀ.oxuvtwcnç), nove tragedie (di cui una, l'Hercules Oetaeus, di contestata autenticità, e un'altra, le Phoenissae, incompiuta 3), una raccolta di 72 o 73 epigrammi, di non si cura attribuzione (solo tre portano esplicitamente nei codici il nome di
I Le valutazioni correnti si mantengono solitamente nel vago. parlando di •non pochi scritti andati perduti•: cfr., per es., M. Schanz-C. Hosius, 1935, p. 706; C. Marchesi, 1944, p. 191. Forse un po' troppo ottimista si dimostrò A. Rostagni (1964, voi. II. p. 522) sostenendo che «la produzione di questo autore, davvero imponente, si è in massima parte conservata• o addirittura che •la produzione sicuramente autentica, oggetto costante di let tura e di studio. ha potuto nella sua quasi totalità esserci trasmessa• (ibid., p. 523). Si deve inoltre tener presente che «altre opere sono forse scomparse senza traccia• (C. Marchesi, 1944, p. 191, n. 1): cosa tutt'altro che improbabile se si pensa che le notizie relative. per es., alle lettere a Cesonio Massimo (T 17), al De situ et sacris Aegyptiorum (T 19), al De matri monio (T 22), al De offìciis (F 57) sono giunte a noi in virtù di fuggevoli e isolati accenni ri spettivamente di Marziale, di Servio, di S. Girolamo e del grammatico Diomede. 2 Cfr. D. Vottero, 1989, pp. 106-111. 3 La critica più recente è tuttavia incline a far risalire l'incompiutezza delle Phoenissae all'autore stesso piuttosto che ad accidenti di trasmissione (cf. Seneca, Le Fenicie. a cura di A. Barchiesi, Venezia, 1988, pp. 14-15, e n. 6 alle pp. I 02-104).
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Introduzione
Seneca) 4 • Resta poi tutta una serie di opere spurie, di raccolte di senten ze, di estratti ed excerpta di vario genere, di florilegi, redatti da compila tori tardo-antichi e medievali, che misero a frutto in parte le opere super stiti, in parte quelle oggi perdute 5• Ultimamente 6 si tende a sopravvalutare la genuinità degli excerpta altomedie vali noti con il nome di De remediis fortuitorum, una sorta di breve «catechismo» in sedici capitoletti, fitto di risposte aforistiche a una serie di obiezioni che, all'in terno delle singole sezioni, si ripetono per lo più con monotona insistenza e ri guardano: la morte e la sepoltura (capp. I-V), la malattia (VI), la cattiva fama (VII), l'esilio (VIII), il dolore (IX), la povertà (X-XI), la cecità (XII}, la perdita dei figli (XIII}, il naufragio e le rapine (XIV), i nemici e la perdita degli amici (XV}, la perdita di una moglie devota e amorevole (XVI). La presenza in numerosi codi ci della dedica al fratello Gallione e una citazione di Tertulliano 7 garantiscono che Seneca scrisse effettivamente un'opera a carattere consolatorio 8 per suggerire, come medico dell'anima 9, alcuni rimedi contro le avversità della sorte; a noi però è giunto soltanto un rifacimento fortemente ridotto, di cui così giudicò assennata mente C. Marchesi IO: «operetta goffamente architettata da un compilatore che poté adoperare alcuni scritti genuini non pervenuti sino a noi, donde trasse non poche sentenze che mostrano sicura l'impronta del pensiero e dello stile di Sene ca» 11. Data la grande fortuna di cui godette durante tutto il Medioevo 12, essa fu inserita già nell'editio princeps di Seneca filosofo 13, poi via via nelle edizioni suc cessive, più per tradizione che per convinzione 14, fino a che fu esclusa da C.R. Fickert ts. Contro quest'ultimo si scagliò subito F. Osann 16, seguito da F. Haase, 4 C. Prato, 1964, pp. 1-2. Cfr. anche infra, p. 14, n. 43. s Su tutti questi scritti, redatti sulla base di materiali senecani, dr. elenco e discussione in M. Schanz-C. Hosius, 1935, pp. 717-720. Restano fuori dal novero i falsi conclamati, come il carteggio con S. Paolo, o le opere falsamente attribuite a Seneca, come la pretesta Octavia. 6 R.J. Newman, 1984; Id., 1988; M. Lausberg, 1989, pp. 1925-26. 7 Apologeticum, 50, 14: Multi apud vos ad tolerantiam doloris et mortis hortantur, ut Cicero in Tusculanis, ut Seneca in Fortuitis, ut Diogenes, ut Pyrrhon, ut Callinicus. 8 R. Kassel, 1958, pp. 11. 12. 14. 28. 9 Sul linguaggio della medicina in Seneca cfr. infra, n. 10 a F 58. 10 C. Marchesi, 1944, p. 192. 11 Anche A. Traina (1987/1, p. 13) giudica che l'operetta ci sia «giunta attraverso riela bornzioni e riduzioni medievali». 12 Francesco Petrarca vi si ispirò nel De remediis utriusque fortunae, due libri di medita zioni sui casi della vita umana, i prosperi e i tristi, di incerta datazione (U. Bosco, France sco Petrarca, Bari, 19774, p. 285; U. Dotti, Vita di Petrarca, Roma-Bari, 1987, pp. 293-300): opera fortunatissima, almeno fino alla metà del Seicento, anch'essa ripetutamente compen diata. 13 Napoli, 1475, voi. I, fogli 4a-5a. 14 Sugli excerpta senecani in generale, compreso il De rem. fort., pesò il giudizio forte mente negativo formulato da Giusto Lipsia, che ne suggellò la stampa con questa sentenza: «Haec excerpta libenter omisissem. Senecae enim non esse, ve! caeco perspicuum est. Sed veritus sum, nequis ca, cuicuimodi sunt, sublata quereretur•, ripetuta in tutte le edizioni che portano il suo nome (cito dalla parigina del 1637, voi. III, p. 302). 15 C.R. Fickert, 1845, p. X: •Excerpta quoque, guae solent adiici Senecae Operibus, ego nolui edere•. 16 F. Osann, 1847, pp. 4-5.
I. Gli scritti perduti di Seneca (T 1)
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che reinserl il De rem. fort. nella sua edizione 17. Su più sicure basi critiche l'ope ra fu ripubblicata da O. Rossbach 18, e globalmente riesaminata da R.J. New man 19. Ma in qualunque modo si voglia valutare il grado di genuinità del De rem. fort., una sua edizione non rientrerebbe nell'ambito dei Frammenti, trattan dosi di un'opera che gode comunque di una sua piena autonomia 20. Su altre presunte testimonianze e frammenti, che di quando in quando la cri tica ha incautamente attribuito a Seneca, cfr. M. Lausberg, 1989, pp. 1956-59.
In questa sede noi ci occupiamo esclusivamente delle opere autenti che, oggi perdute 21• Un primo problema riguarda l'ordine di successione in cui gli scritti devono essere presentati. In assenza di un criterio sicuro 22, mi è parso opportuno seguire l'ordine in cui ce li presenta Quintiliano (T 1, 129 = F 1 Haase = O 5.4 Trillitzsch), a cui dobbiamo riconoscere l'autorità che gli deriva dall'essere un contemporaneo di Seneca 23 e un critico letterario di professione 24• Egli enumera: orazioni, opere poetiche, epistole, dialoghi,
17 F. Haase, 1853, pp. XVI-XX e 446-457. 18 O. Rossbach, 1888, pp. 84-113. Il testo è alle pp. 99-109. La sua distinzione in capito li e paragrafi è considerata canonica. 19 RJ. Newman, 1984. Il testo è alle pp. 119-129. L'editore adotta una nuova suddivisio ne della materia, distinta in una Introduzione (= I, 1), una Prefazione (= I, 2-3), 17 capitoli privi di paragrafi (= II, I-XVI, 8), una Conclusione(= XVI, 9). 20 Cfr., per es., Thesaurus linguae Latinae, Index librorurn scriptorurn inscriptionum ex quibus exempla afferuntur, Lipsiae, 19902, p. 201. 21 I frammenti riferibili alle sezioni mancanti delle opere superstiti sono invece compre si nell'ambito di queste ultime. Cosl la lettera appartenente al libro XXII delle epistole a Lu cilio, riportata da Aulo Gellio (Noctes Atticae, XII, 2, 2-13), è edita alla fine dei venti libri (124 epistole) superstiti: cfr., per es., l'ediz. di O. Hense(Lipsiae, 19142, pp. 614-615); l'ediz. di L.D. Reynolds (Oxonii, 1965, voi. Il, pp. 540-541); l'ediz. di U. Boella (Torino, 19692, pp. 1010-1015). Cosl la lacuna che si apre alla fine del libro IVa delle Natura/es quaestiones è in parte colmata da alcuni §§ dell'operetta Sui mesi di Giovanni Lorenzo Lido (metà del VI sec. d.C.). inseriti al loro luogo nelle edizioni recenti delle Nat. quaest.: cfr., per es., l'ediz. di A. Gercke(Lipsiae, 1907, pp. 157-159); l'ediz. di P. Oltramare (Paris, 19612, voi. 11, p. 190); l'ediz. di D. Vottero(Torino, 1989, pp. 502-505); l'ediz. di H.M. Hine(Stutgardiae et Lipsiac, 1996, pp. 187-189). 22 Per le scelte, peraltro non motivate, degli editori precedenti, cfr. infra, pp. 94-96. 23 Cfr. Quintiliano, Jnstitutio oratoria, VIII, 3, 31 (memini); XII, 10, 11 (ipsi vidimus). 24 Il giudizio di Quintiliano è il primo e il più articolato che l'Antichità ci abbia tra smesso su Seneca. Non è questa la sede per addentrarsi nella dibattutissima questione del significato e dei limiti delle valutazioni quintilianee (qualche indicazione darò nelle note di commento a T 1). Analisi molto equilibrate ed equanimi si possono leggere, per es., in C. Grassi(1971, pp. 63-67; p. 174, n. 168) e in I. Lana (•Il giudizio di Quintiliano su Seneca», in Id., 1988, pp. 77-83). L'avversione di Quintiliano per Seneca, limitata all'ambito stilistico, è stata talmente esagerata che E. Norden (1986, voi. I, p. 318) ha potuto parlare di «amaro accanimento•, W.H. Alexander (1935) di «vendetta mortale•, Th. Gelzer di «violenta con trapposizione•. di «invettiva•, di ironia che si trasforma in parodia (1970, pp. 213. 216. 220. 222). Per un inquadramento del giudizio di Quintiliano nella storia della retorica classica cfr. A. Plebe, 1988, pp. 100-102. Per la tendenza di Quintiliano a rimandare la trattazione dei «casi problematici• alla fine della serie di autori appartenenti alle singole sezioni cfr. W. Ax, 1990, p. 161, n. 46.
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Introduzione
con quest'ultima designazione intendendo riferirsi a tutti gli scritti filoso fici 25• Dunque, dopo il brano quintilianeo (T 1), faremo seguire le testi monianze (T) e i frammenti (F) delle orazioni (T 2-T 13), delle opere poe tiche (T 14-F 16) 26, delle epistole (T 17; ivi inclusa la supplica inviata a Messalina e ai liberti di Claudio: T 18), delle opere filosofico-scientifiche (T 19 - F 96). Restano esclusi, e vengono quindi raggruppati alla fine, lo scritto storico-biografico De vita patris (F 97), le ultime parole pronuncia te da Seneca prima di morire e raccolte dagli astanti (T 98), i codicilli al testamento (T 99) e i testi relativi a scritti di incerta natura (T 100 - F
102).
Un secondo problema, all'interno del primo e del quarto gruppo, pone l'ordine di successione delle orazioni e degli scritti filosofici. Per il primo gruppo la soluzione è semplice: dopo le testimonianze di carattere gene rale sull'attività oratoria di Seneca, seguono i testi relativi alle orazioni nell'ordine (che noi conosciamo dalle fonti) in cui furono scritte e pro nunciate. Per il quarto gruppo invece manca qualsiasi criterio di giudizio oggettivo, sia interno che esterno: l'unico elemento noto è la datazione dei Libri moralis philosophiae, che si collocano negli ultimi sei mesi di vita dell'Autore 27; e non è neppure possibile operare una scelta che, per quanto casuale, conti tuttavia sull'autorevolezza di una qualche tradizio ne 28• A questo punto la via meno arbitraria mi è parsa quella di stabilire preliminarmente, con ]a migliore approssimazione e sfruttando tutti i dati disponibili, la datazione dei singoli scritti in modo da poter adottare poi,
25 Cfr. C. Marchesi (I 944, p. 192): «Quintiliano designa col titolo generico di "dialogi" gli scritti filosofici di Seneca: e in verità questo nome potrebbe convenire a tutte le opere filoso fiche di Seneca le quali, pur non avendo la struttura del dialogo platonico o ciceroniano, hanno spesso il tono delle dispute per le insinuate obiezioni di un anonimo interlocutore•; M. Pohlenz (1967, voi. Il, p. 72, n. 27): «Il titolo Dialogi al tempo di Seneca significa poco più che ..saggi filosofici.. •; A. Traina (I 993, p. 15, n. 22): «Dialogus non va inteso in senso platonico e ciceroniano, ma come corrispondente latino della greca bm-rQ1.fhi o b1.aÀE;1.ç, conversazione a sfondo etico-filosofico, come quelle di Epitteto. Ma ora P. Hadot, Esercizi spirituali e fìlosofìa antica, trad. it. Torino 1988, p. 47, sottolinea "il carattere dialogico" di ogni esercizio spirituale•. Ulteriori precisazioni in O. Rossbach, 1882; R. Hirzcl. 1895, voi. Il, pp. 24-34; A. Michel, 1977; R. Laurenti, I 987, voi. I. pp. 37 e I 07, n. 18. Che, viceversa, i trattati filosofici rientrino nel novero delle epistulae è supposizione gratuita di A. Kappelma cher, che conclude del tutto congetturalmente: «Ich meine, die erhaltenen philosophischen Traktate fallen tatsachlich bei Quintilian unter das Genus epistulae• (1930, p. 182). 26 Poema di Quintiliano o cannen di Tacito (T 4 a) indicano qualsiasi produzione poeti· ca, comprese le tragedie e gli epigrammi. Cfr. K. Mi.inscher, 1922, p. 24, n. 3; I. Lana, 1955, p. 208; A. Traina, 1976, p. 19. Già in Cicerone (Orator, 70) poema designa la poesia in op posizione al discorso in prosa: saepissime et in poematis et in oratione peccatur. 27 Cfr. infra, pp. 72-74. 28 Per esempio, per i Dialoghi gli editori seguono quasi concordemente l'ordine in cui gli scritti si susseguono nel manoscritto più importante, il codice Ambrosiano C 90 inf., an che quand'esso venga considerato «anacronistico e illogico• (cosl A. Marastoni, 1988, p. 55). Similmente, le edizioni moderne presentano per lo più le tragedie, di cui è ignota la crono logia sia assoluta che relativa, nell'ordine in cui compaiono nel testimone unico di uno dei due rami della tradizione, il codice E (Etmscus = Mediceo Laurenziano XXXVII, 13).
I. Gli scritti perduti di Seneca (T 1 ). li. Orazioni (T 2-T 13)
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nell'esposizione, un ordine cronologico: in caso contrario, non vedrei modo di stabilire se, per esempio, il De situ lndiae debba precedere o se guire il De offìciis o se il De matrimonio debba essere anteposto o pospo sto alle Exhortationes, e cosl via 29• Il quadro cronologico degli scritti filosofico-scientifici risulta quindi cosi stabilito (come vedremo più compiutamente analizzando qui di se guito ciascuna opera): De situ et sacris Aegyptiorum e De situ lndiae (1719 d.C.}, De matrimonio (38-39), De motu terrarum (primi anni dell'esilio}, De forma mundi (durante l'esilio}, De offìciis (60), De amicitia (62-63), De inmatura morte (63-64), De superstitione (estate 64), Exhortationes (autun no 64), Libri moralis philosophiae (fine 64 - inizio 65). Nella rassegna delle opere perdute, presentate nell'ordine or ora de scritto, saranno esaminate, insieme ad altre specifiche di ciascuno scritto, le questioni relative: al titolo, al contenuto (così come è possibile rico struirlo da testimonianze e frammenti superstiti, senza azzardare ipotesi incontrollabili di cui è ricca la bibliografia dei frammenti senecani) e alla data di composizione. Il. ORAZIONI
(T 2-T 13)
L'attività oratoria di Seneca si sviluppò in due direzioni: numerose te stimonianze ricordano discorsi pronunciati da lui in prima persona e ora zioni scritte per conto di Nerone, il primo imperatore che si sia valso del l'aiuto altrui in questo settore (T 8,2). Quintiliano (T 1, 129) parla generi camente di orationes e il suo giudizio negativo sullo stile di Seneca è lar gamente influenzato dalla divergenza radicale di gusti proprio in questo campo (cfr. T 1, 126, n. 3). Caligola (T 2 e n. 2) e Quintiliano (T 3 e n. 1) sottolineano due caratteristiche della prosa oratoria di Seneca, che noi possiamo confermare sulla base degli altri suoi scritti superstiti; tutti sono concordi nel rilevare, talora con una punta d'invidia, che egli seppe conquistarsi il favore degli ascoltatori e riscuotere un largo successo (cfr. T 1, 126; T 4a, 3; T 6; T 8, 1). La sua prima orazione giudiziaria a noi nota risale al tempo di Cali gola, anche se è difficile credere che egli abbia rischiato la vita solo per la gelosia che la bellezza del suo discorso avrebbe suscitato nell'imperato re (T 6, n. 1); a questa sua attività giovanile sembra riferirsi Seneca stes so quando ricorda, riandando a un passato indeterminato, di aver dibat tuto cause in tribunale (T 5 e n. 1) 30• Dopo la lunga parentesi dell'esilio, durato dall'autunno del 41 all'inizio del 49, richiamato a Roma da Agrip pina, fu posto accanto a Nerone come precettore, ed ebbe il compito di
29 Un altro problema spinoso riguarda la distribuzione di testimonianze e frammenti, su cui si veda infra, «Avvertenza• a p. 109. 30 Cfr. K. MOnscher, l 922, p. 3.
12
Introduzione
«fare del piccolo Domizio un buon oratore: egli stesso era il migliore ora tore del suo tempo, dunque avrebbe potuto ottenere splendidi risultati col giovanissimo allievo» 31• In realtà questi risultati non furono mai raggiunti e i progressi di Nerone in questo campo furono modesti 32, mentre Sene ca si attirò numerose critiche proprio come maestro di eloquenza (T 4a, 3; T 4 b-c). Le T 7-11 e il F 12 riguardano l'attività di Seneca come scrittore-fan tasma dei discorsi dell'imperatore 33, che iniziò fin dai giorni della succes sione a Claudio. La sequenza degli avvenimenti, quale risulta da Tacito (Anna/es, XII, 69-XIII, 4), è probabilmente la seguente: nel pomeriggio del 13 ottobre del 54 (giorno della morte di Claudio) Nerone, acclamato dalla guardia di palazzo, si reca negli alloggiamenti dei pretoriani, li arringa (T 7), offre loro un donativo ed è salutato imperatore; il 14 ottobre ha luogo la seduta del Senato per decretare speciali onori ad Agrippina e i funerali di Stato a Claudio; il 15 ottobre il Senato decreta la divinizzazione del principe defunto; il 16 ottobre si celebrano i funerali di Claudio, e Nero ne pronunzia la laudatio funebris del padre adottivo (T 8); il 17 ottobre Nerone entra in senato e pronunzia come principe il suo primo discorso (T 9), che viene approvato per acclamazione 34• Al 55 d.C., Tacito riporta alcuni atti di clemenza dell'imperatore, citandone in particolare uno a fa vore di Plauzio Laterano (T 10). T 11-F 12 riguardano il messaggio di Ne rone al Senato con cui si rendeva conto della fine di Agrippina (59 d.C.): i dubbi sollevati sulla paternità senecana dello scritto (T l la, n. 1) non poggiano su nessuna base sicura, fondandosi solo su quegli intenti apolo getici che taluni studiosi nutrono nei riguardi della complessa e contro versa personalità di Seneca 35• Chiude la sezione dedicata alle orazioni il discorso con cui Seneca, nel 62 d.C., si rivolse a Nerone per chiedergli di potersi ritirare dalla vita politica (T 13); esso non ha l'aspetto di una qua lunque conversazione privata e non credo che gli si possa negare un cer to carattere di ufficialità: Nerone stesso, all'inizio della sua risposta (Taci to, Anna/es, XIV, 55, 1), lo definisce una meditata oratio 36• A questo pro posito un profondo e acuto conoscitore sia di Seneca che di Tacito come C. Marchesi, annota: «Che questo colloquio, riferito nella forma del di-
31 I. Lana, 1955, p. 174. Nel 55 Agrippina si dovrà poi rendere conto della potenziale pericolosità dell'oratoria senecana (T 4d). 32 I. Lana, 1955, pp. 175-176, dove ne sono analizzate anche le ragioni. 33 Cfr. W.T. Avery, 1958. 34 Cfr. I. Lana, 1955, p. 239. 35 «Nessun ragionamento può distruggere le testimonianze, inattaccabili, di Quintiliano (autore scrupoloso, anche se non favorevole a Seneca) e di Tacito• (I. Lana, 1955, p. 253); cfr. anche quanto osserva lo stesso Lana (ibid., p. 157) a proposito, per es., della Consolatio ad Polybium. Per l'inquadramento storico del matricidio cfr., per es., E. Cizek, 1986, pp. 5458, e P. Grimal, 1992, pp. 113-116. 36 Diversamente valuta M. Lausberg (1989, p. 1948 e n. 263): «Liegt hier zumindest kei nc offentliche Rede im eigentlichen Sinne vor, sondem der Teil einer Unterredung unter vicr Augcn»; ivi anche un'ampia bibliografia.
Il. Orazioni (T 2-T 13). Ili. Opere poetiche (T 14-F 16)
13
scorso diretto, sia una pura invenzione di Tacito è stato affermato da chi non ha buona idea dei procedimenti della storiografia antica. Questi di scorsi sono gli sviluppi oratori personali di particolari attinti alle fonti. La storiografia romana - tolte le biografie di Svetonio - non ammette inser zioni di documenti: l'autore si appropria i dati positivi delle sue fonti sto riche e dà ad essi una espressione personale. Il colloquio tra Seneca e Nerone fu in s o s t a n z a quale ci è riferito da Tacito• 37• Questo esclu de naturalmente che lo si possa inserire tra i frammenti, ma permette di considerarlo una testimonianza dell'ultimo discorso «ufficiale• pronunzia to da Seneca 38• III.
OPERE POETICHE
(T 14-f 16)
Abbiamo già rilevato 39 che con poemata (T 1, 129) e con carmina (T 4a, 3) rispettivamente Quintiliano e Tacito si riferiscono a tutta la produ zione poetica senecana, ivi comprese le tragedie e gli epigrammi 40• Altri versi sono presenti nel Ludus, dove contribuiscono efficacemente a rag giungere l'effetto caricaturale e parodico della satira feroce 41, e in due luoghi delle epistole a Lucilio, come traduzioni da originali greci 42• Ma Plinio il Giovane (T 14) fa esplicito riferimento a poesie leggère e, dopo aver scritto facio non numquam versiculos severos parum, aggiunge (Epist., V, 3, 2): «ne compongo, sl, e ascolto anche commedie, sono spet tatore di mimi, leggo i lirici e sono un intenditore di versi sotadici», e al § 5 elenca una lunga serie di poeti conosciuti per la loro produzione ero tica, licenziosa e talora anche lasciva o addirittura oscena; alcuni sono a noi noti in particolare come autori di epigrammi: Cicerone, Licinio Calvo,
37 C. Marchesi, 1944, p. 139, n. 13. Inquadra bene il problema anche R. Syme. 1967, pp. 438-439, dove sono pure sottolineate alcune consonanze stilistiche con le opere supersti ti di Seneca. Dissonanze dallo stile consueto di Tacito rileva anche E. Norden, 1986, voi. I, p. 343, n. 53. Altre osservazioni in P. Grimal, 1967; R. Fabbri, 1979, p. 421. n. 47; P. Gri mal, 1992, pp. 123-125. 38 Secondo P. Grimal (1992, pp. 73-79) anche il De c/ementia dovrebbe essere considera to come la redazione scritta, ampiamente rielaborata, di un discorso ufficiale tenuto da Se neca fra il 15 dicembre del 55 e il 15 dicembre del 56. 39 Supra, p. 10, n. 26. 40 Per questi ultimi •è impossibile, ormai, decidere con sicurezza se essi siano o no, in tutto od in parte, autentici• (I. Lana, 1955, p. 158; cfr. anche pp. 116. 159. 208). Su alcuni si esprimono positivamente, per es .• il Rostagni (1964, voi. ll, pp. 487-488 e 525) e D. Romano, 1983 (in particolare, p. 386); più drastico il Traina, che non crede alla loro autenticità «salvo poche eccezioni» (1976, p. 14). Anche C. Prato, cui si deve l'ultima edizione critica, ampia mente commentata (1964), sembra sostanzialmente escludere la paternità senecana. 41 «Nell'Apokololcyntosis... il verso, eredità formale della satira Menippea, ha il sapore di una beffarda vendetta• (A. Traina, 1976, p. 14). 42 Epist., 107, 11 (da Cleante) = FPL, p. 124 More); p. 157 Buechner; Epist. , 115, 14 (da tragici greci), non compresi nelle sillogi del More) e del Buechner, ma aggiunti da A. Trai na-M. Bini, 1986, pp. 31-33 e da J. Bllnsdorf, 1995, Fragm. 3-10, pp. 312-313.
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Introduzione
Lutazio Catulo, Quinto Mucio Scevola, Cornelio Lentulo Getulico, Augu sto, probabilmente Cesare ed anche Tiberio, se è vero che, come afferma Svetonio (Tiberius, 10, 2), componeva poesie in greco ad imitazione di Euforione e di Riano. Si potrebbe quindi ritenere, con qualche verosimi glianza, che anche i componimenti «poco seri» di Seneca fossero epi grammi, a noi non giunti e quindi non compresi nella silloge a lui attri buita. Anche questi potrebbero appartenere al periodo dell'esilio, quando Seneca, per sua stessa ammissione (Cons. ad Helviam, 20, 1), si dedicava anche a leviora studia 43• Si accorderebbe perfettamente con quest'ipotesi il pentametro conservatoci da Prisciano (F 16), in quanto dei 72 epigram mi attribuiti a Seneca ben 69 sono in distici elegiaci 44• IV.
LETTERE
(T 17-18)
Oltre ai venti libri superstiti di lettere a Lucilio, per un totale di 124 epistole 45, Marziale (VII, 45, 1-4 = T 17) ci informa di numerose (w. 3-4: frequenti ... pagina) lettere inviate da Seneca a Cesonio Massimo. L'epi gramma VII, 45 così continua (w. 5-11): «Tu, o Ovidio 46, che nessuna lingua deve tacere, seguendo costui attraverso i flutti del mare di Sicilia, disprezzasti le ire del tiranno infuriato. L'antichità ammiri pure il suo eroe Pilade, che divenne il compagno inseparabile di (Oreste) esiliato dal la madre. Chi potrebbe paragonare i pericoli corsi da voi due? Tu diven tasti il compagno inseparabile di un uomo esiliato da Nerone,.. Dunque Ovidio accompagnò Cesonio in Sicilia, dov'era stato relegato da Nerone nel 65 d.C., perché coinvolto nella congiura di Pisone 47• Questo componi43 È nota la condanna di Seneca per la poesia, e soprattutto per la lirica: cfr. I. Lana, 1961. p. 394 (rist. in A. Traina, 1976, p. 150). Le particolari condizioni dell'esiliato possono facilmente spiegare un simile «cedimento• di fronte alle pure ragioni dello svago: «è il le vius studium, l'oblectamentum che nei momenti di maggiore sconforto, quando l'animo non regge a studi più impegnativi, viene in soccorso: una pratica che Seneca consiglia a Polibio (Cons. ad Poi. 8, 2-4). che egli stesso adottò nel lungo infelice esilio di Corsica (Cons. ad Helv. 20, I)» (G. Mazzoli, 1970, p. 73). Cfr. anche R. Degl'Innocenti Pierini, 1987. «Presso ché sicuro• dell'autenticità dei carmi relativi all'esilio si dichiara ora anche S. Timpanaro. 1994, p. 461, n. 3. 44 I componimenti d'argomento leggero, quasi tutti erotici, di contenuto sia etero che omo sessuale, nell'edizione di C. Prato (1964) portano i numeri 35-39. 42-44. 47. 54. 56-60. 65-67. 45 Cfr. supra, p. 9, n. 21. 46 Quinto Ovidio era un amico carissimo di Marziale che il poeta ricorda più volte con affetto e che in VII, 44 e 45 celebra per la grande prova di fedeltà data all'amico Cesonio. Tutto ciò che si conosce di questo Ovidio, a noi noto solo da Marziale, è raccolto e discusso da M. Citroni, 1975, p. 321. 47 Tacito (Anna/es, XV. 71, 5) scrive: «Sono banditi dall1talia Cedicia, moglie di Scevi no, e Cesennio Massimo, i quali solo grazie alla condanna si resero conto di essere stati ac cusati•. da cui si arguisce la brutale arbitrarietà del provvedimento: queste due persone si trovarono condannate prima di aver saputo di essere state incriminate. Come quella di No vio Prisco (ibid .• § 3), anche la condanna di Cesonio Massimo fu probabilmente dovuta alla sua amicizia con Seneca. Nel testo di Tacito il nome è Caesennius, in Marziale (VII. 44, I)
IV. uttere (T 17-18)
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mento è strettamente legato al precedente (VII, 44); entrambi celebrano Ovidio e Cesonio prendendo lo spunto da un ritratto in cera di quest'ulti mo 48• Per acquisire qualche elemento utile alla datazione delle lettere di cui stiamo parlando, è opportuno leggere anche l'epigramma 44: «Eccolo, o Ovidio, questo tuo famoso Cesonio Massimo, la cui immagine è ancora conservata dalla vivida cera. Nerone lo condannò; ma tu osasti condanna re Nerone e seguire non i tuoi destini, ma quelli del profugo: attraverso le acque dove regna Scilla tu accompagnasti, magnanimo, l'esule, proprio tu che poco prima non avevi voluto essergli compagno nel consolato. Se i nomi affidati ai miei scritti sono destinati a sopravvivere e se a me è concesso di continuare a vivere oltre la morte, la folla dei contemporanei e dei posteri saprà che tu fosti per Cesonio quel che Cesonio fu per il suo amico Seneca». Da queste ultime parole qualcuno ha inferito che Ce sonio avesse accompagnato Seneca in esilio 49, ma la circostanza è tutt'al tro che certa 50; è tuttavia probabile che almeno parte di queste lettere fossero scritte dalla Corsica 51, poiché Marziale inserisce la notizia del l'epistolario in un contesto esclusivamente occupato dal tema dell'esilio, legato a quello della fedeltà nell'amicizia. Nelle opere superstiti Seneca menziona Cesonio Massimo una sola volta di sfuggita, là dove ricorda una gita in carrozza fatta in compagnia di un certo Massimo, identifica bile col nostro 52• In numerose storie della letteratura latina e in elencbi di opere perdu te di Seneca si legge che quest'ultimo avrebbe scritto almeno dieci libri di lettere al fratello Novato 53• L'equivoco riposa sul frammento 109 Haase 54, Caesonius, ma si tratta della stessa persona (ThlL, Onom., Il, 46, 76-80; 54, 53-56; I. Lana, 1955, pp. 156-157); già C. Marchesi (1944, p. 14, n. 36) osservò che delle due forme l'una (Caesennius) è quella etrusca, l'altra (Caesonius) è quella romana. 48 Furono dunque scritti dopo la morte di Cesonio; la loro pubblicazione si colloca nel 92. 49 Cfr., per es.• C. Marchesi, 1944, p. 15; che però ritiene «poco verisimile sia rimasto sempre colà• (ibid., n. 37) e avanza l'ipotesi che dopo qualche tempo sia tornato a Roma. SO Probabilmente Marziale intese dire soltanto che «come Ovidio fu l'amico più devoto di Cesonio, cosl Cesonio fu l'amico più devoto di Seneca• (I. Lana, 1955, p. 156). 51 Cosi I. Lana, /oc. cii. La datazione proposta da K. MOnscher (1922, pp. 63 e 143), cioè gli anni 59-61, non poggia su nessun dato sicuro; inoltre, perché Seneca avrebbe scritto a Cesonio prima del proprio ritiro dalla vita pubblica (62 d.C.), mentre viceversa dal 62 al 65 poté corrispondere con Lucilio, che, come Cesonio, partecipava in quegli anni alla vita politica? 52 Epist .• 87, 2: «Con pochissimi schiavi, che potevano stare in un solo veicolo, senza nessun equipaggiamento all'infuori di quello che portavamo indosso, io e il mio amico Mas simo già da due giorni ce la godiamo proprio di cuore•. La lettera risale all'estate del 64 (I. Lana, 1955, p. 300; P. Grimal, 1992, p. 304). Secondo un'ipotesi di L. Friedlaender-G. Wis sowa (voi. Il, p. 246, n. 3), tramite l'amicizia con Cesonio sia Ovidio che Marziale avrebbero ottenuto dagli eredi di Seneca parte del podere coltivato a vite che il filosofo aveva possedu to a Nomento. 53 Cfr.• per es.. C. Marchesi, 1957, voi. 11, p. 239, n. 2; L. Alfonsi, 1960, p. 309; E. Para tore, 1962, p. 558 (= 1992, p. 41); C. Marchesi, 1944, p. 191. n. l; A. Marastoni, 1988, p. 46. Cfr. anche A. Setaioli, 1988, p. 179, n. 763. Di «almeno dodici libri• parla G. Viansino, in: Lucio Anneo Seneca, I dialoghi, Milano, 1988 (rist. 1992). voi. I, p. XVII, n. 21. S4 È per lo meno singolare, tra l'altro, che sotto lo stesso n° 109 figurino sia il presunto
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Introduzione
le cui prime quattro righe sono occupate da un passo del grammatico Prisciano (De fìguris numerorum, 14, in GLK, III, 410, 6-8): Seneca in X
epistularum ad Novatum «viginti quattuor sestertia», id est talentum Atti cum parvum. Ora, questa citazione è tratta dal decimo libro delle Contro versiae di Seneca Padre (controversia n ° 5, § 21: Cum donaret illi Caesar talentum, in quo viginti quattuor sestertia sunt Atheniensium more), che è
preceduto da una lunga lettera prefatoria nella quale il retore si rivolge ai suoi tre figli elencati in ordine di età, per cui al primo posto figura pro prio Novato (Seneca Novato, Senecae, Melae fìliis salutem) 55; la stessa in testazione figura all'inizio delle prefazioni, redatte anch'esse sotto forma di lettera, ai libri integri delle Controversiae (I. Il. VII. IX), mentre è as sente dagli altri libri, di cui ci sono giunti solo excerpta. Indipendente mente dal fatto che Prisciano nel De fìguris numerorum 56 confondesse in un'unica persona i due Seneca, cioè il retore e il filosofo 57, resta il so spetto di una citazione mnemonica o comunque di una conoscenza indi retta dell'opera senecana 58• Il passo senecano cui si riferiva Prisciano fu già individuato da J.F. Gronov nel 1643 (luogo segnalato nel 1859 da M. Hertz nell'apparato critico della sua edizione di Prisciano in GLK, voi. III, p. 410, app. crit. a riga 6); numerosi studiosi ebbero poi occasione di ret tificare la svista in cui incorse incautamente il Haase 59•
Supplica Un problema abbastanza complesso e molto dibattuto suscita un pas so di Cassio Dione (T 18), nel quale lo storico greco ci informa che Sene ca scrisse durante l'esilio un �L�À(ov (libellus) pieno di adulazioni nei con fronti di Messalina e dei liberti di Claudio e lo inviò loro dalla Corsica; in seguito però, vergognandosi di questo suo momento di debolezza, lo distrusse (Ò1tTJÀEL'4'E). A questo riguardo la critica ha offerto finora interframmento da Prisciano sia la testimonianza di Marziale (T 17) relativa alle epistole a Ceso nio Massimo. 55 Anche Plinio il Vecchio, Stazio e Marziale (cfr. Th)L, V, 2, 681, 59 e ss.) con epistulae indicano le dediche, in forma di epistole, dei loro libri. 56 Il trattatello, dedicato a Simmaco il Giovane, è datato al secondo decennio del sec. VI da G. Ballaira, 1989, p. 53. 57 Questa è l'opinione, peraltro ben motivata, di L. Bocciolini Palagi, 1978, pp. 218-219. 58 Cosl rispettivamente suppongono L. Bocciolini Palagi, 1978, p. 218, e W. Trillitzsch, 1971, voi. I, p. 202. Non sarà casuale che Prisciano, nella sua monumentale opera gramma ticale. che occupa due interi volumi nella silloge del Keil (GLK, voli. II-III), citi Seneca solo in tre luoghi: qui, in Instit., VII, 56 (che è il nostro F 16) e ibid., VI, 68 (GLK, voi. Il, p. 253, 7-10), dove sono riportati due versi, uno dalla Fedra (v. 710), l'altro dall'Agamennone (v. 379), quest'ultimo attribuito erroneamente alla Fedra. 59 Cfr. K. Mtinscher, 1922, p. 44, n. 2; M. Schanz-C. Hosius, 1935, p. 707, § 468. 2; K. Abel. 1967, p. 156, n. 7; W. Trillitzsch, 1971, voi. I, p. 202; L. Bocciolini Palagi, 1978, p. 219, n. I; M. Lausberg, 1989, pp. 1953-54 e nn. 280-281.
IV. Lettere (T 17-18)
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pretazioni diverse, talora anche diametralmente opposte fra loro. Le prin cipali posizioni sostenute dagli studiosi sono le seguenti: alcuni identifica no il libellus con la Consolatio ad Polybium 60, altri credono che il libellus sia uno scritto a sé 61, altri ancora ritengono che la questione sia tutto sommato irrilevante soprattutto ai fini della ricostruzione della biografia di Seneca 62, altri infine pensano che Dione non sia fededegno e che quindi la notizia, frutto di errori o di deformazioni intenzionali, sia desti tuita di ogni fondamento 63. La prima ipotesi mi pare smentita da alcuni dati di fatto incontestabili: nella Consolatio ad Polybium n o n si leggono le lodi di Messalina e dei liberti di Claudio; inoltre, Cassio Dione non fa parola delle adulazioni a Polibio e all'imperatore, presenti effettivamente nella Consolatio; infine, Seneca si dimostrò così aweduto nel distruggere il suo scritto che ... esso è giunto fino a noi! Di fronte a queste constata zioni, si sono naturalmente escogitate le spiegazioni più varie: che le lodi di Messalina fossero contenute nella parte iniziale, perduta, della Consola tio; che la distruzione di cui parla Dione, se non è senz'altro un'invenzio ne dello storico, si riferisca proprio alla parte iniziale, la cui caduta non sarebbe da attribuire alle vicende della tradizione manoscritta, ma alla mano dell'Autore pentito 64; che Dione intendesse alludere semplicemente
60 La bibliografia è vastissima. Mi limito a qualche indicazione: A. Gerckc, 1895, p. 287; C. Pascal. 1906. p. 36; K. Milnscher. 1922, p. 31; C. Marchesi. 1944, p. 21; F. Giancotti, 1956; A. Rostagni, 1964, voi. II, p. 526; W. Trillitzsch, 1971, voi. I, p. 112; C.F. Russo, 1985, p. 9; M. Lausberg. 1989, p. 1958. Di questa identificazione si accontentano per 19 più anche gli storici: cfr., per es., A. Stein, art. L Annaeus Seneca, in PIR2, voi. I, A 617, p. I03; A. Momigliano, 1961, p. 119, n. 3; da quanto scrive L. Pareti (1955, p. 831) sembrerebbe addi rittura che le lodi a Messalina siano effettivamente presenti nella Consolatio: «Durante l'esi lio, ed anzi nei primi tempi di esso ... egli aveva scritto l'ad Polybium de consolatione, dove, adulando Messalina stessa ed i liberti, fingeva di consolare il liberto Polybio caduto in di sgrazia (sic)•. 61 Cfr.• per es., M. Schanz-C. Hosius. 1935, pp. 706 e 707; W.H. Alexander. 1943; H. Bardon, 1956, p. 169, n. 3 (ibid., p. 123, n. I, lo scritto è inserito fra le opere storiche!); E. Paratore, 1962, p. 558 ( = 1992, p. 41; lo considera un •panegirico di Messalina•); K. Abel. 1967, p. 156 (K. Abel. 1985, pp. 669 e 711 lascia invece aperta la via a qualsiasi soluzione); A. Marastoni, 1988, p. 46. È naturalmente da respingere l'incredibile scelta del Haase, che colloca il passo di Dione al primo posto nella sezione dedicata alle orazioni di Seneca (F 100, pp. 437-438). 62 «La cosa non ha importanza: dal momento che Seneca cedette e venne meno ai suoi propositi di rigido stoico, non ha molta importanza se la sua sconfitta fosse registrata in un libro o in due• (I. Lana, 1955, p. I 57). Giudica invece il comportamento di Seneca in puri termini di 'Real politik' P. Grimal (1992, pp. 61-66). che giunge ad affermare (p. 63) che la pubblicazione della Cousolatio non dovette nuocere alla reputazione dell'Autore. 63 Th. Birt, 1911. Contro il Birt protestò subito W.L. Friedrich, 1913, p. 34 e n. I. Fan tasiosa, in conformità all'indole dello studioso, è la posizione di L. Herrmann (1979, p. 37). che identifica Consolatio e libellus, giudica inattendibile la notizia di Cassio Dione relativa alla distruzione della supplica e ribadisce nel contempo la propria convinzione, già altre vol te espressa, circa la falsa attribuzione a Seneca dell'Apocolocyntosis. Certo, Cassio Dione po trebbe anche aver frainteso, volutamente o no; ma se cominciamo a invalidare i dati del te sto, tutto è sostenibile. 64 A prescindere dall'inverosimiglianza di una simile supposizione, peraltro più volte
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Introduzione
a un «tentativo» di distruzione; che il verbo greco usato da Dione (èmaì..Eiqxo), che significa sempre «cancellare, distruggere», oppure «aboli re, abrogare» 65, abbia qui invece il valore, non documentato, di «mutila re», oppure di «ripudiare, sconfessare» 66; che, infine, la Consolatio giunta a noi sia un'edizione riveduta e corretta dall'Autore, che l'avrebbe depura ta dalle adulazioni di cui parla Dione 67• Allora, scartata questa prima ipo tesi, la spiegazione più logica, rispettosa del valore semantico dei vocaboli usati da Dione e della verosimiglianza storica 68, è che Seneca dall'esilio abbia inviato a Roma, per sollecitare il proprio richiamo, non solo la Consolatio ma anche uno scritto a parte: una supplica, una petizione, un f3q3ìJ.ov appunto 69; in esso tesseva le lodi dell'imperatrice e dei potenti li berti di Claudio 70• Lo scritto, rimasto negli archivi imperiali, fu poi di strutto da Seneca dopo il suo ritorno dall'esilio quando, acquistando a confutata, è probabile che la lacuna con cui si apre lo scritto sia minima. Nota A. Marasto ni (1988, p. 534): «Nei manoscritti, il testo forma un tutt'uno con il Della brevità della. vita, ma l'architettura dello scritto, seppure asimmetrica, è completa: non è andata perduta nes suna sezione determinante•. Il nostro opuscolo conta, nell'edizione di L.D. Reynolds (Oxo nii, 1977), 24 pp. complessive, a fronte delle 26 dell'altra Consolatio scritta durante l'esilio (ad Helviam) e di altri dialoghi di estensione press'a poco uguale o decisamente minore: 26 pp. il De brevitate vitae, 20 il De constantia sapientis, 16 il De providentia. 65 Cfr. H.G. Liddell-R. Scott, A Greek-English Lexicon, Oxford, 19409, s.v., p. 176; G.W.H. Lampe, A Patristic Gruk Lexicon, Oxford, 1961, s.v., p. 172. 66 Cosi intende F. Giancotti (I 956, p. 43): «Forse non si sconfina nell'irrealtà supponen do che Seneca abbia estrinsecato la sconfessione della Consolazione a Polibio col pubblicare un libello di tenore contrario. E, in effetti, niente meglio d'una tale pubblicazione pare po tesse efficacemente suggellare la cancellazione dal novero delle opere riconosciute dall'auto re. Ora, un libello come quello ipotizzato (... ) noi l'abbiamo: è il Ludus de morte eia.udii•. 67 Cosi J.E. Atkinson, 1985, pp. 863-864. Ma, a tacer d'altro, se a Seneca fosse effettiva mente riuscita la difficilissima impresa di togliere dalla circolazione tutte le copie della sup posta prima edizione, non si capisce perché l'avrebbe ripubblicata lasciandovi le smaccate adulazioni a Polibio e, soprattutto, a Claudio (il Claudio dell'Apocolocyntosis!). 68 È del tutto plausibile, anche se non ne fossimo informati positivamente da Dione, che Seneca in otto anni d'esilio abbia inviato a Roma più di una petizione; cfr. I. Lana (I 955, p. 151): «Dopo circa due anni di quella triste vita la sua resistenza cedette. Si piegò a supplicare i potenti per ottenere il richiamo a Roma. Scrisse a Messalina ed ai liberti di Claudio; scrisse in particolare a Polibio, liberto che era a capo della segreteria delle suppli che. Scrisse verosimilmente anche ad altri. Ma invano•. Che l'esilio fosse molto duro e la Corsica una terra particolarmente inospitale. risulta chiaramente dalle due Consola.tiones, alla madre (autunno 42) e a Polibio (autunno 43), oltreché dagli epigrammi sull'esilio. Il caso di Ovidio, che più d'uno ha accostato a quello di Seneca per tutta una serie di analo gie, potrebbe valere anche a questo proposito. 69 Il vocabolo greco, corrispondente al latino libellus, ha spesso proprio questa accezio ne specifica: cfr. H.G. Liddell-R. Scott, cit., s.v., I. 2, p. 315; ThlL, VII, 2, 1264, 26-1265, 58. Altre conferme in J.E. Atkinson, 1985, p. 862, n. 11. 70 Su di essi cfr. Svetonio, Cla.udius, 28, al cui elenco è da aggiungere quel Callisto che nel 48 prese il posto di Polibio proprio come a libellis di Claudio. Secondo Seneca (Cons. ad Poi., 6, 5) Polibio era impiegato a libellis, dunque sarebbe stato il predecessore di Callisto nella medesima carica, mentre secondo Svetonio (loc. cit.) era a studiis: concilia i due dati A. Momigliano, 1932, p. 86, n.; Id., 1961. p. I 03, n. 6. Per le attribuzioni di questi uffici e per i personaggi che li ricoprirono nella prima età imperiale cfr. M. Bang, Die .Beamten «a rationibus», «a libellis», «ab epistulis», in: L. Friedlaender-G. Wissowa, voi. IV, pp. 26-46.
V. La geografia e le cerimonie religiose degli Egiziani (T 19)
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corte una posizione sempre più influente, egli aveva tutte le opportunità di poterlo fare 71• Resta infine da precisare che la petizione, inviata per iscritto da Sene ca ai destinatari, può a buon diritto essere considerata una lettera, cosl come Ovidio chiamò Epistulae le sue suppliche in versi inviate a Roma dal Ponto 72• V. LA
GEOGRAFIA E LE CERIMONIE RELIGIOSE DEGLI EGIZIANI
(T 19)
Il grande interesse che gli scrittori greci e latini manifestarono nei confronti dell'Egitto in tutti i suoi aspetti, è ampiamente documentato fin dall'epoca omerica 73, e la prima trattazione organica della storia e della civiltà egizie giunta fino a noi è rappresentata dal secondo libro delle Sto rie di Erodoto 74• Nella silloge dei frammenti degli storici greci curata da F. Jacoby (voi. III C 1: Aegypten - Geten, Leiden, 1958, pp. 1-277) si sus seguono un gran numero di autori e di opere le più varie sulla storia, la geografia, l'etnografia, la religione degli Egizi 75• La monografia di Seneca si inseriva nel filone della letteratura etnografica cui avevano dato notevo le impulso e diffusione nella prima metà del I sec. a.C. gli studi del poli grafo e filosofo medio-stoico Posidonio di Apamea 76, che esercitò il suo influsso probabilmente già sul De bello Gallico di Cesare 77• Ampie digres sioni su paesi e popoli si leggevano fors'anche nelle Storie di Sallustio e di Livio e, secondo un'ipotesi verosimile di R. Syme 78, suggerirono l'idea della monografia, di cui abbiamo sicura traccia proprio in Seneca per l'Egitto (T 19) e per l'India (T 20-21). Il titolo dell'operetta senecana avrà poi un'eco nell'intestazione originaria della Germania di Tacito, cosl co71 È questa l'ipotesi di W.H. Alexander, 1943, che però riprende la tesi di A. Momiglia no (1932, pp. 135-142) secondo cui l'ad Polybium sarebbe in realtà una satira. Per confutare tale interpretazione basti rimandare a I. Lana, 1955, pp. 147-157, e a A. Traina, 1987/1, pp. 18-21. 72 Temi comuni e riecheggiamenti di Ovidio in Seneca sono studiati ultimamente da R. Degl1nnocenti Pierini, 1990, pp. 105-159 (che riprende e rifonde studi precedenti). Altre si gnificative analogie in D. Romano, 1983, p. 386. 73 Cfr. Omero, Odissea, voi. I (libri I-IV). Testo e commento a cura di S. West, •Fonda zione L. Valla», Milano, 1981, pp. 320-321. 74 cli secondo libro delle Storie di Erodoto è il risultato di oltre due secoli di interesse greco verso l'Egitto• (A.B. Lloyd, Introduzione a: Erodoto, Le Storie, voi. Il, Libro Il, •Fon dazione L. Valla», Milano, 1989, p. IX). 75 Numeri 608a-664, con un'appendice (n ° 665) di altri 208 frammenti divisi per argo mento. Al n° 648 troviamo Cicerone, al 644 F 1 è registrato il nostro passo di Seneca. 76 Cfr. M. Pohlenz, 1967, voi. I, pp. 430-431, che nota come Posidonio abbia dato all'et nografia un carattere scientifico con l'elaborazione in sintesi unitaria di tutti i dati raccolti. Era inoltre interessato in modo particolare alle manifestazioni religiose dei singoli popoli, che egli per lo più aveva conosciuto direttamente nel corso dei suoi viaggi. n In un celebre excursus del libro sesto (capp. 11-28), primo fra i Romani, Cesare s'in trattenne sulle terre e i costumi dei Galli e dei Germani (cfr. G. Pasquali, 1930). 78 R. Syme, 1967, p. 170.
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Introduzione
m'è riportata dai codici: De origine et situ Germanorum (o De origine situ moribus ac populis Germanorum liber o simili) 79• Sull'argomento non possediamo informazioni precise, ma il contenuto dell'unica testimonianza superstite (T 19) ci garantisce che effettivamente erano trattate sia la geografia che le cerimonie religiose degli Egizi. Non abbiamo invece elementi interni per la datazione. L'opinione prevalente collega lo scritto al soggiorno dell'Autore in Egitto 80, dove egli si recò nel 19 d.C. trattenendovisi fino al 31 81, ospite della zia materna il cui marito, Gaio Galerio, rivesti la carica di governatore di quella provincia (praefec tus Aegypti) dal 16 al 31. Il viaggio poté essere determinato sia da motivi di salute, che Seneca non ebbe mai florida e che proprio allora era stata minata da una dieta vegetariana (Epist., 108, 22), sia, soprattutto, da ra gioni di opportunità politica dopoché un senatoconsulto dello stesso anno 19 d.C. aveva condannato i riti e le pratiche di vita aborrenti dalle tradi zioni romane e aveva determinato il conseguente scioglimento della scuo la sestiana cui Seneca aderiva 82• Ora, gli storici che parlano di questo prowedimento, citano precisamente fra i culti proibiti anche quelli egizi: Actum et de s a er i s Aegyptiis Judaicisque pellendis (Tacito, Anna/es, Il, 85, 4); Externas caerimonias, Aegyptios Iudaicosque ritus compescuit (Sve tonio, Tiberius, 36). Sembra dunque ben poco verosimile che Seneca scri vesse la sua monografia, in cui tanta parte dovevano avere i sacra Aegyp tia, menzionati anche nel titolo e presenti nell'unica testimonianza super stite (T 19), dopo che questi erano stati esplicitamente e severamente condannati da un solenne decreto del senato. Di qui prende corpo l'ipote si, formulata da I. Lana 83, che la composizione sia anteriore al senato consulto e si collochi quindi negli anni 17-19. L'interesse per l'Egitto fu poi sempre molto vivo in Seneca ed è ben testimoniato ancora negli anni
79 Cfr.. per es., P. Grimal, 1991, pp. 122. 124. 127. Sul contenuto, il Grimal precisa: •Sembra... che libri di questo genere (e ne esistevano certamente altri, il cui ricordo si è perduto) unissero quella che noi oggi chiamiamo geografia umana alla geografia fisica, nella misura in cui presentavano accanto a una descrizione materiale di un paese, con i suoi con fini, le sue montagne, le sue pianure e i suoi fiumi, una relazione sui costumi, sulle creden ze, le istituzioni politiche nonché sull'aspetto fisico degli abitanti• (p. 122). 80 Cfr., per es., K. Milnscher, l 922, pp. 4-5; F. Martinazzoli, 1945, p. 157; I. Lévy, 1946, p. 128; Id., 1951, p. 149 e n. l; F. Jacoby, 1958: FGrHist, 644 F 1, p. 189; P. Grimal, 1992, p. 43. Non prende posizione M. Lausberg, 1989, p. 1933 (ivi, n. 192, altra bibliografia). 81 I. Lana, 1955, pp. 77 e 96. Nello stesso anno 19 si colloca il viaggio in Egitto di Ger manico, il figlio adottivo di Tiberio, erede al trono imperiale: cfr. D.G. Weingaertner, 1969. In generale, sui viaggi in Egitto nei primi due secoli dell1mpero, cfr. L. Friedlaender-G. Wissowa, voi. I, pp. 423-446. 82 Per la storia della setta dei Sesti e per l'interpretazione di tutti i dati che la riguarda no cfr. I. Lana, 1953, pp. 1-26. 209-234 (rist. in Id., l973, pp. 339-384). 83 I. Lana, 1953, p. 231 (= 1973, p. 382), n. 135: •Penseremmo piuttosto che il giovane Seneca, che s'infiammava per pratiche di vita non romane alla scuola dell'alessandrino So zione, componesse, in onore dello zio Galerio... tale operetta: cioè verso gli anni l7-19».
VI. La geografia dell'India (T 20-21)
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62-63 dal libro IVa delle Natura/es quaestiones, che ha per argomento la piena del Nilo 84• VI. LA GEOGRAFIA DELL'INDIA (T 20-21)
Nell'Antichità classica l'India è ricordata per la prima volta esplicita mente verso la fine del sec. VI a.C. da Ecateo di Mileto nel suo Giro della terra 85 e dal contemporaneo Scilace di Carianda, un ammiraglio di Dario I di Persia, che visitò per primo quella regione lasciandone un'accurata descrizione 8 6• Le conoscenze dei Greci prima di Alessandro Magno erano per lo più mediate attraverso i Persiani: solo dopo la spedizione in India del re macedone si ebbero notizie più precise, dovute ai resoconti e alle relazioni dei suoi generali, soprattutto di Nearco di Creta 87• In realtà an cora nella prima età imperiale gli Indiani, secondo Svetonio 88, erano con siderati un «popolo noto solo per quel che se ne raccontava», e anche se sotto Tiberio il commercio con l'India conobbe un notevole incremento 89, per Seneca la regione, situata agli estremi confini orientali del mondo co nosciuto (Nat. quaest., I, praef. 13), è abitata da barbari (Cons. ad Hel viam, 7, l; Fragm. 52) ed è oggetto di curiosità naturalistiche (Epist., 84, 4) 90. Per la datazione della monografia non ci sono indizi di nessun tipo. Tradizionalmente, anche per via del titolo, la si considera contemporanea al De situ et sacris Aegyptiorum (T 19) e quindi la si pone intorno al 31-
84 Sull'importanza che la regione ebbe per gli imperatori sotto i quali Seneca visse cfr. S. Curto, 1984, pp. 86-87; Seneca stesso ne è testimone per l'età di Nerone (Nat. quaest ., VI. 8, 3-4). Sui vasti possedimenti senecani in Egitto cfr., da ultimo, A. Martin, 1980. 85 Su111ndia abbiamo solo sei brevissimi frammenti: FGrHist, 1 F 294-299. 86 Pochissimi sono i frammenti autentici di Scilace conservatici dagli scrittori antichi (FGrHist, 709 F 1-7). 87 Incaricato di circumnavigare le coste dell'Asia, dall1ndo al Tigri, egli scrisse prima del 312 a.e. una cronaca minuziosa del viaggio; ne restano ampi brani (FGrHist, 133 F 134). I frammenti degli storici greci che scrissero su111ndia sono raccolti dal Jacoby ai nume ri 709-721 dei FGrHist. Anche Seneca ricorda frequentemente 11ndia in relazione all'impresa di Alessandro: Cons. ad Helvùim, 7, 1; Nat. quae.st., V, 18, 10; Epist., 59, 12; 113, 29; 119, 7. 88 Augustus, 21, 3: sostanzialmente confermato da Augusto stesso nelle sue Res gestae, 31. 89 S. Mazzarino, 1962, p. 164. Anche Seneca (Nat. quaest., IVa, 2, 4) ricorda le vie com merciali che portano in India. Per la prima età imperiale cfr. L. Friedlaender-G. Wissowa, voi. I, pp. 369-37 l. Ancora per molti secoli la menzione dell1ndia servirà per designare l'estremità sud-orien tale del mondo conosciuto, spesso associata alla favolosa isola di Tuie, che ne indicava, al l'opposto, l'ultimo limite nord-occidentale (E.R. Curtius, 1992, p. 181). 90 In Nat. quae.st., III, 25, 7, stando ai manoscritti, Seneca avrebbe parlato di isole gal leggianti situate in Jndùi, ma tutti gli editori moderni accettano la correzione di Ermolao Barbaro: in Lydia (cfr. D. Vottero, 1989, ad h. I., p. 432. A. Setaioli, 1988, p. 439, nn. 2074 e 2076, difende lndùi senza portare nessun argomento a sostegno). Tutti i passi di Seneca re lativi all1ndia sono riportati da J. André-J. Filliozat (1986, pp. 66-71), che però stranamente non accennano al De situ Indi.al!.
Introduzione
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32 d.C. 91• L'interesse etnografico e geografico, con la menzione specifica del situs, avvicina effettivamente le due monografie 92, ma, se datiamo la prima al 17-19 93, anche la cronologia della seconda dovrà essere notevol mente abbassata. VII.
IL
MATRIMONIO
(T 22-F 54)
Tra le opere perdute di Seneca, il De matrimonio è quella di cui ci ri mane il maggior numero di frammenti (F 23-54), tutti quanti conservati da S. Girolamo ai capitoli 41-49 del libro primo del suo scritto polemico in due libri contro il monaco Gioviniano (Adversus lovinianum) 94• L'occa sione fu offerta a Girolamo dalla lettura dei Commentario/i (oggi perduti) dello stesso Gioviniano, inviatigli a Betlemme da Pammachio e da altri suoi amici romani perché li confutasse 95• Le quattro proposizioni incri minate sono cosi riassunte da Girolamo 96: 1. Le vergini, le vedove e le donne sposate, una volta ricevuto il battesimo, se non sussistono diversità dovute alle opere da loro compiute, hanno gli stessi meriti. 2. Coloro che sono rinati in virtù del battesimo e si trovano nella pienezza della fede, non possono essere trascinati al peccato dal diavolo. 3. Non esiste nessu na differenza fra l'astinenza dai cibi e la loro assunzione accompagnata da atti di ringraziamento a dio. 4. Tutti coloro che abbiano salvaguardato l'integrità del loro battesimo, riceveranno un'identica ricompensa nell'aldi là. Al primo punto Girolamo risponde nel libro I, agli altri tre nel libro II, rispettivamente ai capp. 1-4, 5-17, 18-34; gli ultimi quattro capitoli (II, 35-38) costituiscono l'epilogo generale all'intera confutazione: l'opera ter91 Cfr. K. Milnscher, 1922, pp. 4-5; F. Jacoby, 1958, n° 644, p. 189, 20 e Id., FGrHist, voi. III C 2 (Leiden, 1958), p. 642, 28. Cfr. anche R. Turcan, 1967, p. 40. Giusto Lipsio (1605, p. XVI) collegava lo scritto con un presunto viaggio dell'Autore in India attraverso il mar Rosso, avvenuto all'epoca del suo soggiorno in Egitto. Quest'ipotesi, ripresa recente mente da J.J. Delgado, 1967, è assolutamente priva di fondamento. 92 Un'analogia fra India ed Egitto è sottolineata da Seneca stesso nelle parole conclusive di T 20b, e i due paesi sono spesso associati dalla fantasia degli antichi: proprio Virgilio, nel passo dell'Eneide, IX, 30-32, per commentare il quale Servio riporta unà delle due testi monianze superstiti sul De situ Indiae (T 21 ). ricorda insieme il Gange e il Nilo. Cfr. anche P. Grimal, 1992, p. 200 e n. 206 di p. 277. 93 Supra, p. 20 e n. 83. 94 La datazione dell'Adversus lovinianum è controversa. L'opinione più probabile lo pone nel 393: cfr., per es., H. Hagendahl. 1958, pp. 142-143; P. Nautin, 1974, pp. 253-255; C. Moreschini, 1989, p. 265, n. I. Per una sintetica presentazione del trattato, per le circo stanze che lo provocarono e le polemiche che ne seguirono, cfr. E. Camisani, 1971, pp. 2022; J.N.D. Kelly, 1975, pp. 179-194; C. Moreschini, 1989, pp. 27-30. Per le condanne pronun ciate contro Gioviniano e otto suoi seguaci dalle Chiese di Roma (papa Siricio) e di Milano (S. Ambrogio) negli anni 392-393, cfr. P. de Labriolle e J.-R. Palanque, in A. Fliche-V. Mar tin (edd.), Storia della Chiesa, voi. III, 2, trad. it., Torino, 19723, pp. 543. 697. 699. 95 Adv. Jovin., I. 1 (PLM, col. 21 lA): Sancii e.x urbe Roma fratres cuiusdam mihi Jovinia
ni Commentariolos transmiserunt, rogantes ut eorum ineptiis respomkrem. 96 Adv. lovin., I, 3, PLM, col. 214 B.
VII. Il matrimonio (T 22-F 54)
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mina cosi com'era iniziata, denunciando Gioviniano come un epicureo, che predica spinto dalla voluptas e dalla luxuria 97 • La particolare gravità della prima proposizione risulta dall'ampiezza della requisitoria geroni miana, che abbraccia ben 46 capitoli (I, 4-49). Le argomentazioni sono fondate sia sulla sacra scrittura e sugli autori cristiani, sia sulla filosofia, sulla storia e sulla letteratura pagane, e ciò è dovuto non solo alla grande competenza che Girolamo possedeva in entrambi i campi, ma specifica mente al desiderio di rigettare le asserzioni dell'avversario servendosi del le sue stesse armi 98• Al di là della violenza verbale e di una certa virulen za connaturata al suo temperamento di polemista, egli ribadisce la dottri na ufficiale della Chiesa, secondo la quale la gerarchia di merito vede al primo posto le vergini, seguite dalle vedove univirae (maritate una sola volta) e dalle spose monogame 99; le seconde nozze sono caldamente sconsigliate 100• I capp. 41-42 riguardano la preminenza della verginità: Percurram breviter Graecas et Latinas barbarasque historias et docebo virgi nitatem semper tenuisse pudicitiae principatum (cap. 41, p. 382, 5-6 Bickel = PLM, col. 270 B); all'inizio è riportato l'esempio della vestale Claudia (F 43 = 21 Bickel). Ai capp. 43-46 Girolamo illustra, prima con esempi greci e barbari (F 37 = 15 Bickel; F 52 = inc. 2 B.; F 38 = 16 B.; F 39 = 17 B.; F 40 = 18 B.; F 53 = inc. 3 B.), poi con esempi romani (F 41 = 19 B.; F 42 = 20 B.; F 44 = 22-23 B.; F 45 = 24 B.; F 46 = 25 B.; F 47 = 26 B.; F 48 = 27 B.; F 49 = 28 B. ), il rifiuto delle seconde nozze: Veniam ad ma-
97 In I, I, Gioviniano è bollato come Epicurus Christia11orum (concetto ripreso in II, 36, prima definendo l'avversario come Epicurus noster e istituendo poi un'equivalenza vitia = Epicurus = lovinianus) e il trattato si conclude (Il, 38) con una contrapposizione fra Pytha gorae continentia ed Epicuri lttxuria. Tra tutti gli autori pagani ricordati nell'Adv. /ovin .. il nome di Epicuro è quello che ricorre più spesso: dieci volte (I. I. 4. 48; Il, 6. 11. 12. 21. 36 [bis]. 38). di cui una (11, 12) nella citazione da Orazio, Epist ., I, 4, 16. 98 Adversus singulas propositiones eius, Scripturarum ve/ maxime nitar testimoniis: ne querulus garriat, se eloquentia magis quam ventate superatum. Quod si explevero, et illum utriusque instnm,enti nube oppressero, assumam exempla saecularis qttoqtte litteraturae, ad quam et ipse provocar (Adv. lovin., I. 4, PLM, col. 215 A); quoniam intellexi in Commentariis adversarii provocari nos etiam ad mundi sapientiam... , percurram breviter Graecas et I.Atinas barbarasque historias et docebo virginitatem semper tenuisse pudicitiae principatum (ibid., I, 41, PLM. col. 270 A-B). 99 La posizione rigida di Girolamo suscitò sospetti di encratismo; nelle epistole 48-50, scritte nel 394, il santo rispose alle accuse, sottolineando l'ortodossia della sua posizione e confermando sostanzialmente le tesi dell'Adv. lovin. Nel corso dei secoli il magistero eccle siastico non si discosterà da questa dottrina: cfr., per es., il decreto del concilio ecumenico di Firenze (bolla del 4/2/1442), in H. Denzinger-A. Schi>nmetzer, Enchiridion symbolorum de fìnitionum et declanuionum de rebus fìdei et morum, Friburgi Brisgoviae, 197636, n° 1353, p. 343; o uno dei canoni sul sacramento del matrimonio, del concilio di Trento (sessione XXIV dell'l l/11/1563), in H. Denzinger-A. SchOnmetzer, cit., n ° 1810, p. 417. 100 L'opposizione alle seconde nozze, che la Chiesa, pur non consigliando, non condan na, veniva a Girolamo soprattutto da Tertulliano, che ne trattò specificamente nel De mono gamia, ma che manifestò ripetutamente il suo pensiero in proposito in numerosi altri scritti: i passi principali sono raccolti da Ch. Munier, 1990, numeri 173. 174. 180. 183. 187. 188. 190); cfr. anche C. Tibiletti, 1961 (soprattutto pp. 126. 127. 140. 145-146. 150. 154. 161).
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Introduzione
ritas, quae mortuis ve/ occisis prioribus vins supervivere noluerunt, ne co gerentur secundos nosse concubitos, et quae mire unicos amaverunt mari tos; ut sciamus digamian etiam aput ethnicos reprobari (cap. 43, p. 385, 7 1 O Bickel = PLM, col. 273 B-C). Dal rigetto della digamia ali'opposizione al matrimonio in generale, il passo è breve; e infatti ai capp. 47-48 sono enumerati gli aspetti negativi della vita matrimoniale e i vantaggi del celi bato. Il cap. 47 è occupato da un ampio brano di Teo&asto (F 54), in cui il filosofo peripatetico sostiene che «il sapiente non deve prender moglie» (F 54, 1) e sviluppa una serie di considerazioni in cui elenca tutti i luo ghi comuni che si ritrovano in quelle correnti di pensiero antifemministe e misogine particolarmente vive nel mondo classico 101; al cap. 48 ripren de la parola Girolamo imbastendo un'esemplificazione tratta ancora una volta dal mondo greco-romano e barbaro (F 30 = 8 Bickel; F 31 = 9 B.; F 32 = 10 B.; F 33 = 11 B.; F 34 = 12 B.; F 35 = 13 B.; F 51 = inc. 1 B .; F 36 = 14 B.; F 23 = 1 B.; F 24 = 2 B. ). Il cap. 49 conclude il libro primo e la confutazione della prima proposizione di Gioviniano con le lodi della pudicizia e della castità, ed è quasi interamente basato su Seneca, men zionato esplicitamente ben quattro volte 102 (F 25 = 3 B.; F 26 = 4 B.; F 27 = 5 B.; F 28 = 6 B.; F 29 = 7 B.; F 50 = 29 B.). Per l'ordine di successione dei frammenti seguo la sistemazione pro posta dal Bickel al termine del suo monumentale saggio sul De matrimo nio; egli comunque non si nascose le difficoltà dell'impresa e la precarietà delle sue conclusioni 103• All'inizio Seneca avrebbe confutato quegli Stoici che sconsigliavano le nozze cadendo nello stesso errore di Epicuro (F 23) e avrebbe continuato illustrando la genuina posizione stoica sul dovere di prender moglie, rifiutando però di seguire Crisippo quando adduceva mo tivazioni attinte alla superstizione popolare (F 24 ); passava poi a sostene re la necessità naturale e spirituale del matrimonio e ad illustrare le ra gioni valide per contrarlo, con tesi di cui possiamo avere sentore dalla frammentaria letteratura stoica sull'argomento (Antipatro di Tarso, Muso nio Rufo, Ierocle): qui doveva trovare posto la critica a tutti quegli atteg giamenti dettati da impulsi irrazionali, da disposizioni d'animo poco no bili o senz'altro riprovevoli, che fondano il matrimonio sulla sensualità (F 25), sulla stravaganza e sull'eccesso (F 26-27), sull'adulterio (F 28), sul101 Su questi temi si è scritto moltissimo negli ultimi anni. Basti rinviare a tre recenti mi scellanee in cui i problemi sono affrontati dagli specialisti più accreditati delle singole discipli ne: Misoginia e maschilismo in Grecia e in Roma. Genova. 1981; Atti del I e del Il convegno na zionale
oEwç àvl>Qòç xaì. yuvmxoç ( «La co munanza di vita fra marito e moglie») e Noµm àvl>Qòç xaì. yaµE'tftç ( «Leggi del marito e della moglie»): numeri 165-166, p. 17 Rose ( = numeri 165166, p. 28 Gigon). I rapporti di queste due opere perdute fra di loro e con lo scritto matrimoniale citato da Girolamo hanno dato luogo a lun ghe discussioni e gli studiosi non sono approdati .a una conclusione uni voca (una chiara presentazione del problema è in R. Laurenti, 1968, pp. 130-138). Del IlEQÌ. ouµf3twoEwç il Rose registra due frammenti: il primo (Fragm. 182) tramandato da quattro fonti diverse, il secondo (Fragm. 183) solo da Clemente Alessandrino. Il primo si apre con una testimonianza che conferma il titolo di Esichio: «Sono stati scritti da Aristotele anche li bri di economia, come per esempio il "Trattato di economia" e il IlEQÌ. ouµf31.C00Ewç àvbQòç xaì. yuvmxoç, nel quale sostiene che la famiglia ben ordinata risulta costituita da quattro tipi di rapporti: padre-figli, marito moglie, padrone-servi, entrate-uscite» (Fragm. 182, 1 Rose = 99, 2 Gigon); il contenuto è ribadito dagli altri tre passi, in particolare dal terzo (Fragm. 182, 3 Rose = 99, 3 Gigon): «Aristotele sostiene che alla forma zione della famiglia devono concorrere quattro elementi: il rispetto del marito verso la moglie, l'affetto del padre verso i figli, il timore dei servi
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Commento: note 1-2 a T 22
per il padrone e il pareggio fra entrate e uscite». Il secondo frammento (183 Rose = 100 Gigon) riguarda un punto specifico delle relazioni padro ne-schiavi: secondo Aristotele, tra di loro non si deve instaurare un clima di eccessiva confidenza; in particolare occorre che marito e moglie non si abbandonino ad effusioni in presenza della servitù. Del secondo titolo di Esichio (Noµm àvbQòç xaì. yaµEriiç) non abbiamo frammenti: secondo al cuni (per es. P. Moraux, 1951, pp. 256-257) sarebbe un sottotitolo o una glossa del primo; secondo altri (per es. V. Rose, Fragm. 184 = 101 Gigon) lo scritto sarebbe invece conservato nella traduzione latina medievale del cosiddetto «Terzo trattato sull'economia» (Oeconomicus III), il cui origi nale greco, perduto, si fa solitamente risalire alla prima età imperiale (Aristotele, Il trattato sull'economia, a cura di R. Laurenti, Bari, 1967, p. 9) e, al pari degli altri due, è considerato pseudoaristotelico. Poiché a quell'epoca i rapporti fra marito e moglie costituivano effettivamente una sezione degli scritti sull'economia (intesa nel suo significato primitivo di «governo della casa» nel suo complesso, o «amministrazione domestica»), come è confermato, tra l'altro, sia da [Aristotele], Oecon. I e III, sia da Senofonte, Oecon., capp. 7-10, il Gigon raccoglie i frammenti 99-101 (= 182-184 Rose) sotto tale rubrica e li attribuisce al perduto IlEQÌ. otxovoµi.aç ( «L'amministrazione domestica») di Aristotele, mentre relega la testimonianza geronimiana dell'Adversus Iovinianum al n° 1006 (pp. 841842), tra i frammenti senza titolo. A questo punto ci si deve domandare se lo scritto matrimoniale aristotelico, della cui esistenza non è lecito du bitare, fosse autonomo o costituisse un capitolo di un'opera più ampia e comprensiva. La lista di Esichio e l'attestazione del frammento 182, 1 Rose (= 99, 2 Gigon) indurrebbero a mantenere valida la prima soluzione e a identificare il riferimento di Girolamo con il IlEQÌ. ouµJ3u.ocreroç, di cui comunque nell'Adv. Jovin. non si riescono a cogliere tracce (E. Bickel, 1915, pp. 122-128). 2 Lo scritto di Plutarco è identificabile con i faµtxà 1taQayytì..µa'ta (Coniugalia praecepta, «Istruzioni matrimoniali»). l'unica opera pagana d'argomento matrimoniale giunta fino a noi. Il trattatello, collocato da K. Ziegler tra gli scritti filosofico-popolari di argomento etico, è composto dalla dedica e da un proemio, seguiti da 48 capitoletti e da una perora zione finale, ed è databile all'epoca della piena maturità dell'Autore, intor no al 90-100 d.C. È un inno alla vita coniugale, suggerito dalla convinzio ne che in essa si realizzi e si consolidi nel modo più completo e soddisfa cente l'amore che lega l'uomo alla donna; brevi storielle, apoftegmi, afori smi e aneddoti costellano lo sviluppo dei pensieri e mirano a imprimerli più saldamente nell'animo dei lettori. Punti di contatto fra l'Adv. Iovin. e i Coniugalia praecepta sono sicuri (E. Bickel, 1915, pp. 64-65); che Girola mo si sia limitato a leggerne alcuni estratti in un'opera perduta del neo platonico Porfirio (E. Bickel, 1915, pp. 1O1-103) è indimostrabile (H. Ha gendahl, 1958, pp. 152-153 ). Presentazioni e analisi dell'opuscolo plutar cheo in R. Volkmann, uben, Schriften und Philosophie des Plutarch von
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Chaeronea, 2 voli., Berlin, 1869 (rist. Hildesheim, 1980), voi. Il, pp. 172181; K. Ziegler, 1965, pp. 189-191; R. Klaerr, Notice in: Plutarque, Oeu vres mora/es, Tome Il. Texte établi et traduit par J. Defradas, J. Hani, R. Klaerr, Paris, 1985, pp. 139-145. Per le idee di Plutarco sul matrimonio, quali si ricavano sia dai Moralia che dalle Vitae, cfr. L. Goessler, 1962.
3 Girolamo si riferisce rispettivamente ai capp. 41-48 e 49 del libro I dell'Adversus lovinianum.
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1 Il nostro passo, secondo l'attribuzione dell'Usener (Fragm. 19, p. 98, 6-14), apparteneva alle .1t.mtOQLat. (Diapori.e o «Casi dubbi»; cfr. anche in fra, n. 8), ma la dottrina matrimoniale di Epicuro era esposta anche nel trattato Sulla natura, secondo l'esplicita testimonianza di Diogene Laerzio, X, 119: «Lo stesso Epicuro, nei Problemi e nei libri Della natura, afferma che il saggio né si sposerà né genererà figli. Contrarrà matrimonio solo per particolari circostanze della sua vita, ma altre circostanze potranno farlo desistere dal suo proposito» (trad. M. Gigante, in: Diogene Laerzio, Vite dei fìlosofì, a cura di M.G., Roma-Bari, 19752 , p. 438; accetto il testo stabilito dal Gigante dopo ampia discussione alla n. 89 di pp. 573-574). Seneca (l'origine senecana di F 23 è dimostrata da E. Bickel, 1915, pp. 349-353; sulle citazioni di Epicuro in Seneca cfr. A. Setaioli, 1988, pp. 171-248) concorda sostanzialmente con Diogene Laerzio, mentre altre fonti si limitano a sottolineare la prima parte del precetto epicureo: cfr., per es., Epit�eto, Diss., I, 23, 3 e 7; III, 7, 19; Clemente Alessandrino, Stromata, II, 23, 138 (che fa dipendere l'insegnamento del Giardino da Democrito); Teodoreto, Graec. aff. cur., XII, 74; mentre Demetrio Lacone (P. Herc. 1012, coli. LXVI-LXVIII, pp. 182-183 Puglia) spiega in che senso Epicuro abbia negato la naturalità del sentimento di amor paterno. Tutte queste testimonianze sono vagliate e coordinate da A. Grilli, 1953, pp. 7784; ma il testo di Demetrio va ora letto alla luce della nuova edizione e interpretazione di E. Puglia (Demetrio Lacone, Aporie testuali ed esegetiche in Epicuro (P Herc. 1012). Edizione, traduzione e commento a cura di Enzo Puglia, Napoli, 1988, pp. 297-302). 2 «Mentre Seneca aveva distinto fra la sobria ac sicca voluptas della dottrina genuinamente epicurea e il suo abuso da parte di sfrenati liberti ni che se ne servono come patrocinium aliquod et velamentum alle loro dissolutezze [De vita beata, 12, 4], ai Padri latini del IV secolo Epicuro appare generalmente come il patronus luxuriae, il defensor voluptatis per eccellenza• (W. Schmid, 1984, p. 167). Voluptatis adsertor, come già notò il Bickel (1915, p. 350), nel IV secolo era diventato formulare: ai passi da lui citati (Ambrogio, Epist., 63 [= extra coli., 14], 13 e Girolamo, Adv. Io vin., II, 11, col. 300 C, PLM) si possono aggiungere: Lattanzio, Div. in-
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stit., III, 17, 35 (turpissimae voluptatis adsertor) e Ambrogio, Epist., 63 [= extra coli., 14], 17 (Epicurei... assertores voluptatis). Per la presenza di Epi curo nell'Adv. lovin. cfr. Introduzione, p. 23, n. 97. Tra i filosofi pagani, Epicuro fu sempre combattuto dai cristiani con particolare asprezza e di sprezzo (cfr. W. Schmid, 1984, pp. 139-178).
3 Metrodoro (330-277 a.C.) di Lampsaco fu discepolo ed amico caris simo di Epicuro, che però non lo considerava pensatore originale. Fu au tore di parecchi trattati, per lo più in polemica con i filosofi delle altre scuole: possediamo una ventina di titoli (dodici sono espressamente citati da Diogene Laerzio, X, 24) e un centinaio fra testimonianze e frammenti, di cui si può leggere oggi la traduzione italiana in: Epicuro, Opere, a cura di M. Isnardi Parente, Torino, 19832 , pp. 511-538, basata sulla silloge di A. Koerte, Metrodori Epicurei fragmenta ( «Jahrbticher fiir classische Philo logie». XVII Supplementband, Leipzig, 1890, pp. 529-570), opportunamen te aggiornata. Il nostro è il frammento 6 Isnardi Parente, corrispondente al 5 dell'Appendix del Koerte. Per la presenza di Metrodoro in Seneca cfr. A. Setaioli, 1988, pp. 249-256. Leonzio ( «piccola leonessa•) era una cele bre cortigiana ateniese, amata anche, insieme con altre, da Epicuro (i te sti antichi sulla sua vita e sulla sua fama in F. Geyer, art. Leontion 1., in PW, RE, Xli, 2, coli. 2047-48), oggetto naturalmente di scandalo e causa di diffamazione (Diogene Laerzio, X, 4 e 7; Plutarco, Non passe suaviter vivi secundum Epicurum, 4, p. 1089 C; 16, p. 1097 D-E). Per qualche tempo visse con Metrodoro, che «la tenne come concubina" (Diogene La erzio, X, 23), mentre Plutarco, come Seneca, parla di matrimonio (Non posse... , 16, p. I 098 B); a questo proposito occorre osservare che nell'Ate ne del IV secolo i confini tra moglie e concubina erano tutt'altro che net ti (cfr., per es., J.-P. Vernant, Mito e società nell'antica Grecia, trad. it., Torino, 1981, pp. 50-75; E. Avezzù, Introduzione a Demostene, Processo a una cortigiana (Contro Neera), Venezia, 1986, pp. 9-45): la legge ateniese sull'omicidio legittimo poneva sullo stesso piano mogli e concubine, in quanto cogeneranti dell'uomo e procreatrici di figli liberi (Demostene, Contra Aristocratem, 53), e in Lisia, De caede Eratosthenis, 31-33, si stabi lisce l'identità di mogli e concubine - per quanto queste ultime siano de finite «degne di minor considerazione» - riferendola al rapporto col mari to, alla tutela della casa, alla paternità certa dei figli. In questo senso sembra risolvere il problema il Koerte (cit., p. 566). È probabile che pro prio da Leonzio Metrodoro abbia avuto i figli di cui parla Diogene Laer zio, X, 23. 4 Questa è la risposta di Epicuro alla domanda El yaµf1TÉov ( «se ci si debba sposare»), che aveva ricevuto risposte negative già nella filosofia presocratica (Talete, D.-K., 11 A l, 26; Democrito, D.-K., 68 A 170). Era tema caro soprattutto ai Peripatetici e agli Stoici (cfr. anche infra, F 24 e 54), dai quali passò alla diàtriba stoico-cinica (per Seneca cfr. A. Oltra mare, 1926, p. 286, tema 73). Fu un argomento trattato anche nelle scuo-
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le di retorica (Quintiliano, Instit. orat., II, 4, 25; Elio Teone, Progymn., 12, voi. II, p. 120, 15 Spengel = 11, p. 512, 3-4 Butts; Aftonio, Progymn., 13, voi. II, p. 50, 5 Spengel = p. 42, 11 Rabe): pure nel De matrimonio se necano, secondo M. Pohlenz (1967, voi. Il, p. 73), è «ancora ben awerti
bile l'influsso delle esercitazioni scolastiche». Cfr., in generale, K. Prae chter, Zur Geschichte des Topos JtEQÌ. yaµou, in Id., 1901, pp. 121-150 (rist. in Id., 1973, pp. 435-464); per talune soprawivenze medievali cfr. E.R. Curtius, 1992, p. 175 e n. 31.
5 Il richiamo ai disagi connessi col matrimonio è già in Democrito (D.-K., 68 A 170), cui si rifecero, secondo Clemente Alessandrino (Stroma ta, Il, 23, 138), proprio Epicuro e i suoi seguaci. Una conferma al nostro passo viene da Lattanzio (Div. instit., III, 17, 5 = Fragm. 526 Usener): «Uno odia la moglie: gli si enumerano i vantaggi del celibato; un altro ha dei figli malvagi: si esalta la condizione di chi è senza prole». L'elenco degli inconvenienti che la vita coniugale comporta diventerà un luogo co mune di tipo diatribico e retorico (cfr. supra, n. 3), cosa di cui Girolamo era ben consapevole: Non est huius loci nuptiarum angustias describere et
quasi in communibus locis rhetorico exsultare sennone (Adv. Iovin., I, 13, col. 230 C, PLM); proprio a lui siamo debitori della notizia che Tertullia no scrisse in gioventù un opuscolo Ad amicum philosophum de angustiis nuptiarum (E. Bickel, 1915, pp. 245-266; P. Frassinetti, 1955; C. Tibiletti, 1961).
6 lndifferens (àòLacpOQOV) è concetto tipicamente stoico (M. Pohlenz, 1967, voi. I, pp. 246-249, e i testi ivi citati; per un quadro completo rela tivo agli Stoici antichi cfr. SVF, voi. IV, pp. 4-5) e il soggetto di nomina mus è, naturalmente, «noi Stoici»: cfr. Seneca, De vita beata, 22, 4: haec, quae indifferentia vocamus; Epist., 82, 1 O: inter indifferentia ponimus, quae àòLacpOQa Graeci vocant; 82, 14: istis quae a nobis indifferentia ac media
dicuntur, divitiis, viribus, fonnae, honoribus, regno, et contra morti, exilio, malae valetudini, doloribus quaeque alia aut minus aut magis pertimuimus, aut malitia aut virtus dat boni ve/ mali nomen, con un elenco molto più ricco del nostro; per in medio posita (in meditullio compare con Apuleio ed è tipicamente geronimiano: ThlL, VIII, 581, 51-63) cfr. Seneca, Epist., 82, 12: il/a in medio posita sunt, e inoltre 82, 15: quae appellamus media; 94, 8: divitias, honores, bonam valetudinem, vires, imperia, scierit esse me diam partem nec bonis adnumerandam nec malis. Resta da notare che cor porum sanitates, che E. Bickel (1915, p. 350) considera totalmente geroni
miano, fatto salvo l'uso del plurale trova viceversa riscontro in Seneca,
Epist., 120, 5: noveramus corporis sanitatem.
7 Cfr. Seneca, Epist., 95, 35: Omnia praeter virtutem mutare nomen,
modo mala fìeri modo bona.
8 Per questo dubbio cfr. Seneca, Epist., 59, 2; De bene{., IV, 33, 2; per
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Commento: note 8 a F 23; 1-2 a F 24
grave est con l'inf. cfr. De prov., 3, 14; Cons. ad Marciam, 17, 1; De tranq. an., 11, 4. Secondo A. Grilli (1953, p. 77, n. 1), l'uso di venire in dubium (bl.Cl1tOQEtv) rende altamente probabile che il pensiero di Epicuro fosse espresso proprio nelle Diaporie (cfr. supra, n. 1). F 24 1 SVF, III, 727. Fra gli oltre settecento libri attribuiti a Crisippo si ri cordano un IlEQt �t.v ( «Sui generi di vita»), in quattro libri (SVF, III, p. 194, n° VII) e un IlEQl 'tOù xa'fhlxoV'toç ( «Sul dovere»), in almeno sette (SVF, III, p. 197, n° XXVI): in una di queste due opere Seneca lesse pro babilmente la doxa crisippea qui riportata (E. Bickel, 1915, p. 356; ma cfr. SVF, Il, 30). Seneca spesso rileva le ineptiae dei suoi predecessori (Nat. quaest., III, 14, 1: Thaletis inepta sententia; De bene{., II, 21, 4: inep tum et frivolum... exemplum di Ecatone; Epist., 85, 18: inepta distinctio di Epicuro), compresi gli Stoici (Nat. quaest., IVb, 6, 1: Non tempero mihi quominus omnes nostrorum ineptias proferam; Epist., 113, 20-21) e, citati per nome, Zenone (Epist., 82, 8-10) e Crisippo (De bene{., I, 3, 8-4, 6). In generale, sull'indi pendenza di Seneca nei confronti degli Stoici cfr., per es., De vita beata, 3, 2; De otio, 1, 4-5; Nat. quaest., II, 21, 1; VII, 22, 1; Epist., 80, 1; 88, 38; 113, 1 e 23; 117, 1; e G. Mazzoli, 1970, pp. 89-90. Proprio a proposito di Giove, parecchie testimonianze (SVF, II, 1071-74) rilevano l'aspetto paradossale e grottesco di talune interpretazioni crisip pee; scrive Diogene Laerzio (VII, 187): «Vi sono alcuni che criticano Cri sippo, perché trattò nei suoi scritti molti argomenti in tono scandaloso e svergognato. Cosl nel libro Sugli antichi filosofi naturalisti divulga certe storie su Era e Zeus odiosamente inventate e presentate per la lunghezza di seicento linee, che nessuno potrebbe ripetere senza sporcarsi la bocca» (trad. M. Gigante). 2 Gli dèi yaµriÀtOL e yEvÉ-6ÀLOL erano protettori rispettivamente delle nozze e del yévoç, e quindi della stirpe, della famiglia e dunque dei figli ma anche degli antenati; data l'affinità delle loro funzioni, i due epiteti si confondevano spesso (testi e discussione in O. Jessen, art. Genethlios 1., in PW, RE, VII, 1, coli. 1133-34); ma mentre il culto di Zeus Genetlio è ampiamente attestato, solo nel nostro passo si parla espressamente di Zeus Gamelio, essendo questo piuttosto un attributo di Era (E. Bickel, 1915, pp. 354-355; E.F. Bischoff, art. Gamelion, in PW, RE, VII, 1, col. 692). Cfr. Dione Crisostomo, Orat., 7, 134-135 (riportato in parte in SVF, III, 727 b): i lenoni «non hanno rispetto per nessuno, uomo o dio che sia: né per Zeus protettore della famiglia né per Era che presiede ai ma trimoni né per le Moire che tutto portano a compimento né per Artemide protettrice del parto né per Rea madre né per le Ilitie, preposte alle na scite umane, né per Afrodite che dà il nome al rapporto e all'unione se condo natura del maschio con la femmina». Effettivamente Nuptialis non
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compare fra gli epiteti di Giove (C.0. Thulin, art. luppiter, in PW, RE, X, 1, coll. 1142-44). Il ragionamento di Crisippo, per quanto singolare, ebbe comunque una certa fortuna, essendo stato recepito proprio nell'età di Seneca dallo stoico Gaio Musonio Rufo (Diss. XV A, p. 78, 6-13 Hense): «E come non saremmo in colpa anche verso gli dei patrii e verso Giove Gentilizio, operando in tal modo? Chè, come chi è iniquo con gli ospiti offende Giove Ospitale; chi con gli amici, Giove Amicale; cosl chi è iniquo con la propria schiatta, è in colpa verso gli dei patrii e verso Giove Genti lizio, che osserva e punisce le colpe riguardanti la schiatta; e chi è colpe vole verso gli dei, è empio» (trad. N. Festa, 1914, p. 184). Ad analogo ri spetto delle consuetudini cultuali, non senza una punta di autoironia, di chiarerà di aver voluto aderire anche Porfirio, sposando Marcella (Ad Marcellam, 2; cfr. Porfirio, Vangelo di un pagano, a cura di A.R. Sodano, Milano, 1993, pp. 88-89). 3 Gli Stoici si erano distinti proprio per l'indagine sulla natura dei nomi e in particolare su quelli delle divinità (SVF, II, 1023.1062.1063. 1076.1084-1100), interpretati allegoricamente; ricorrevano a spiegazioni etimologiche per razionalizzare il mito (SVF, II, 908-910. 1079), con un metodo rifiutato, fra gli altri, sia da Cicerone (De natura deorum, I, 39-41; III, 63 = SVF, II, 1077. 1069) sia da Seneca (De bene(., I, 3,2-4,5 = SVF, II, 1082). Secondo Crisippo i nomi degli dèi rendevano ragione della loro influenza sulla vita umana (SVF, II, 913.914.930; e 146 = Origene, Contra Celsum, I, 24, dove Origene sviluppa un ampio discorso sulla forza miste riosa dei vari nomi di dio). 4 Parlando di Giove Statore Seneca precisa che egli fu cosi chiamato «non dal fatto che, esaudendo la preghiera rivoltagli, arrestò (stetit) le schiere dei Romani in fuga, come hanno tramandato gli storici, ma per ché tutte le cose si reggono in piedi (stani) grazie a lui, che ne è appunto lo "statore", colui che assicura loro un sostegno stabile» (De bene(., IV, 7, 1; sul riferimento agli storici cfr. Livio, I, 12, 6; X, 37, 15, e, in generale, C.O. Thulin, art. luppiter, cit., col. 1133; G. Wissowa, art. Stator I., in PW, RE, III A 2, coli. 2226-2228). Seneca basa il gioco verbale sull'oppo sizione sto-sedeo, tradizionale nella lingua latina (cfr., per es., Plauto,
Captivi, 2: hi stani ambo, non sedent). F 25
1 Per gli Stoici l'eros è «una tendenza spontanea a conquistarsi l'ami cizia di qualcuno, suscitata dalla visione della bellezza» (SVF, III, 716. 717.721.722), ma quest'ultima è definita «il fiore della virtù» (SVF, III, 718), cioè «la disposizione dell'anima, che all'occhio dell'educatore risulta impressa nell'aspetto esteriore, anche se questo, ad altri, può parere brut to» (M. Pohlenz, 196 7, voi. I, p. 278 e n. 15). Per quanto riguarda il ma-
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trimonio, essi mettono in guardia contro le attrattive della bellezza fisica, come asseriscono esplicitamente, per es., Antipatro di Tarso (SVF, voi. III, Fragm. 62 e 63, pp. 254, 7 e 256, 4 von Arnim), Musonio Rufo (Diss. XIII B, p. 69, 3-13 Hense), Ierocle (K. Praechter, 1901, pp. 82-83 = 1973, pp. 396-397). Diffidente verso l'incanto della bellezza si mostrava anche Panezio, che ne paragonava le lusinghe a quelle del vino e dell'adulazio ne, in un brano conservatoci proprio da Seneca, Epist., 116, 5-6 (= Fragm. 114 van Straaten), che lo cita con piena approvazione. Più equili brata si mostrerà invece la posizione di Plutarco: «Al marito di una don na ricca e bella non conviene affatto imbruttirla o impoverirla, ma mo strarsi alla sua altezza senza servilismi, con padronanza di sé e dignità, senza farsi abbagliare dalle sue qualità; e far traboccare la bilancia dalla propria parte con la forza del carattere» (Amatorius, 9, p. 754 B; trad. V. Longoni, Milano, 1986, p. 57). Sul pessimismo misogino di Teofrasto cfr. infra, F 54, 7 e nn. 16-17.
2 Che la passione amorosa sia una follia è un tema diatribico (A. 01tramare, 1926, p. 290, tema 87), presente anche in Seneca, Cons. ad Hel viam, 13, 3; De bene{., VI, 25, 2; Epist., 9, 11; 59, 15; 74, 2; 83, 25; Phae dra, 195-203. In generale la voluptas era definita dagli Stoici come un'esaltazione irrazionale dell'animo (per es. SVF, III, 391. 404. 406. 438. 445. 454). Per la successiva immagine del flagrare cfr. A. Armisen-Mar chetti, 1989, p. 117.
3 Che un amore esagerato si possa trasformare in odio è opm1one corrente (cfr., per es., [Plutarco], De liberis educ., 13, p. 9 B; Massimo di Tiro, XIX, 4; Clemente Alessandrino, Paedag., II, X, 97, 3; Aristeneto, Epist., I, 22) che, come aforisma, Plutarco fa risalire a Teofrasto (Cato minor, 37, 3 = Theophr., Fragm. 82 Wimmer = L 102 Fortenbaugh): «Il troppo amore rischia di diventare spesso motivo di odio». Non è escluso che Seneca conoscesse quest'ultimo passo, appartenente al IlEQÌ. cpt.Àiaç, da lui probabilmente utilizzato per il dialogo Quomodo amicitia continenda sit (cfr. Introduzione, p. 39). 4 "ExT01toç è congettura di E. Bickel, da lui giustificata con valide ra gioni (1915, pp. 112-116) in un ampio e dettagliato esame di tutto il frammento, in cui discute le fonti di Girolamo e tenta di circoscrivere l'apporto senecano (pp. 108-126).
S Nel Fedro Platone riferisce il discorso di Lisia sull'amore, che ab braccia i capp. 6-9 (pp. 230 E-234 C) e svolge la tesi paradossale secon do cui bisogna amare proprio chi non ricambia l'amore; si tratta di un'esercitazione retorica (da molti ritenuta autentica e aggiunta col n ° 35 alle orazioni di Lisia giunte per tradizione diretta: così, per es., nelle edi zioni di C. Hude, Oxonii, 1912, e di L. Gernet-M. Bizos, voi. II, Paris, 19623 , pp. 213-221), più volte citata dagli antichi: cfr. Dionigi di Alicar-
Commento: note 5-6 a F 25; 1-2 a F 26
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nasso, Epist. ad Pomp., 1; Frontone, pp. 250, 10-255, 3 v.d.H. 2, che tenta di gareggiare con l'originale; Massimo di Tiro, XVIII, 7; Ermogene di Tarso, Id., I, 12, p. 331 Spengel = p. 297 Rabe; II, 1O, p. 404 Spengel = p. 387 Rabe; Diogene Laerzio, III, 25; Giovanni Stobeo, IV, 20, 76. Al cap. 8, p. 233 A-B, nell'ambito delle argomentazioni sulla cecità e l'irra zionalità della passione amorosa, considerata una malattia, Lisia sostiene appunto che gli innamorati «lodano le parole e le azioni dell'amato an che contro ogni senso del giusto, in parte perché temono di dispiacergli, in parte perché essi stessi hanno il giudizio offuscato dalla passione; l'amore infatti mostra chiaramente questi effetti: se siamo sfortunati ci spinge a considerare insopportabile ciò che agli altri non provoca nessun fastidio, se siamo fortunati ci costringe a lodare anche ciò che non meri ta di farci gioire». 6 Questa considerazione conclusiva, che non trova più riscontro nel Fedro platonico, è senecana, eccettuato l'uso del verbo finale: accubo e ac cumbo, frequenti in Girolamo, sono estranei alla prosa di Seneca che in vece, in un contesto analogo, ricorre a concumbo (De const. sap., 7, 4). Sui mariti eccessivamente preoccupati della fedeltà della propria moglie, ma nel contempo pronti a insidiare le mogli altrui, cfr. De ira, II, 28, 7; Epist., 74, 2; 94, 26 (G. Grossgerge, 1911, p. 32). Si dava viceversa il caso che talora i legittimi mariti fingessero di dormire, per dimostrarsi com piacenti verso le scappatelle della consorte: Ovidio, Ars amat., II, 545-546; Giovenale, I, 55-57; Plutarco, Amatorius, 16, p. 760 A, che rimanda al proverbio Non omnibus dormio (per il quale cfr. i testi citati in A. Otto, 1890, p. 121, n° 580, s.v. dormire 3; R. Tosi, 1991, p. 120, n ° 261). F 26
1 Questo frammento, che in Girolamo segue immediatamente il pre cedente, presenta un caso concreto di amore eccessivo (F 25, 2), per il quale Seneca potrebbe aver pensato a Mecenate (E. Bickel, 1915, p. 360), che egli cita sempre come esempio di mollezza e di esagerata raffinatezza (Epist., 92, 35; 101, 10-13; 114, 4-8; 120, 19), giungendo a sostenere che il successo non solo lo snervò, ma addirittura lo castrò (Epist., 19, 9); i suoi rapporti con la moglie Terenzia furono caratterizzati da frequenti dissidi e riconciliazioni (De prov., 3, 10; Epist., 114, 6; di una «passione divoran te e frustrata» parla J.-M. André, 1991, p. 19); morendo, egli ne avrebbe cercato ancora gli abbracci, i baci, le parole, le mani (E/egiae in Maecena tem, II, 9-10). Dell'effeminatezza di Mecenate, esplicitamente menzionata da Seneca (De prov., 3, 11; Epist., 101, 13; cfr. 114, 3), parlano anche Velleio Patercolo, Il, 88, 2 (otio ac mollitiis paene ultra feminam fluens) e Giovenale, I, 66. 2 Nella biancheria intima delle donne sia greche che romane non era-
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Commento: note 2-3 a F 26; 1 a F 27
no rappresentate le mutande, ma vi figuravano svariati tipi di reggipetto (U.E. Paoli, 1955, p. 23; Id., 1968, p. 240; A. Pekridou-Gorecki, 1993, pp. 72-73), che secondo le diverse fogge si indicava in latino con vari vocabo li: fascia pectoralis o semplicemente fascia, o anche mamillare o, con pa rola greca, strophium o taenia. A differenza del cingulum, che si portava sopra la veste, la fascia veniva cinta direttamente sulla pelle e sotto il seno, per sostenerlo, e per comprimerlo quando fosse troppo prosperoso (Ovidio, Remedia amoris, 337-338; Marziale, XIV, 134; Isidoro, Origines, XIX, 33, 6); talora poteva essere destinata anche ad altri usi (Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXVIII, 76: lnvenio et fascia mulieris alligato capite dolores minui). Gli uomini indossavano il reggiseno solo quando intende vano celarsi sotto vesti muliebri (Aristofane, Thesmoph., 638-640; Cicero ne, De har. resp., 44; Properzio, IV, 9, 49). Quanto alla corruzione della mascolinità che assume, degenerando, modi propri del sesso opposto, si tratta di un dato presente nella società romana del tempo: cfr. Seneca Pa dre, Controv., I, praef. 8-9; II, 1, 6; Seneca, De prov., 3, 11; De tranq. an., 17, 4; De brev. vitae, 12, 3; Nat. quaest., I, 17, 10; VII, 31, 2-3; Musonio Rufo, Diss., XXI, p. 116, 3-18 Hense; Epitteto, Diss., III, 1, 27-31. Per l'espediente erotico consistente nel bere dalla stessa coppa dell'amata, si vedano i numerosi testi discussi da E. Pianezzola nella nota ai vv. 575576 del libro I dell'Ars amatoria (in Ovidio, L'arte di amare, a cura di E.P., Milano, 1991, p. 253). 3 L'amore, qui condannato nei suoi eccessi, non era comunque un sentimento centrale nel mondo affettivo di Seneca. «Dell'amore nessuna speciale considerazione è nelle pagine di Seneca. Seneca non vuol fare di questa sovrana passione dell'animo umano l'argomento meditato del suo pensiero; e dà solo qualche cenno, sdegnoso e fuggevole, del turpis affec tus, di questo affetto che reputa vergognoso» (C. Marchesi, 1944, pp. 302303). F 27
1 Quippe in seconda sede può essere sia senecano che geromm1ano (E. Bickel, 1915, p. 361, n. 1), ma nel contesto dell'Adv. lovin. sembra ne cessario attribuirlo a Girolamo, che lega strettamente l'inizio del nostro frammento alla sententia di Sesto Pitagorico, inserita tra F 26 e F 27: Unde et Sextus in sententiis: «Adulter est - inquit - in suam uxorem ama tor ardentior» (che traduce Sesto, Sent., 231, reso da Rufino di Aquileia con Adulter etiam propriae uxoris omnis inpudicus; le Sentenze di Sesto sono una raccolta di aforismi religiosi e morali che si è conservata sia nella forma che le fu data da un redattore cristiano verso la fine del II secolo sia in alcune versioni pagane più antiche). Sull'arbitrio di F. Haa se, che nella sua edizione (1853, F 84, p. 434) corresse Sextus in Sextius, attribuendo la massima a Quinto Sestio, fondatore della scuola sestiana,
Commento: note 1-2 a F 27; 1 a F 28
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cfr. E. Bickel, 1915, pp. 357-358 (purtroppo taluni studiosi persistono nel l'equivoco: cfr., per es., P. Grimal, 1992, pp. 171-172 e 209). Continua il discorso di F 25, 2 e F 26 sull'amore troppo ardente, condannabile anche nel matrimonio. Chi si unisce alla propria moglie pensando che sia un'amante, commette per ciò stesso adulterio, sia secondo Seneca (De const. sap., 7, 4) sia secondo la dottrina cristiana (Clemente Alessandrino, Paedag., II, X, 99, 3); e Plutarco (Coniug. praec., 29, p. 142 C) suggerirà allo sposo questo proponimento: «Non posso aver rapporti con una don na considerandola allo stesso tempo moglie e amante• (pensiero ripreso da Clemente Alessandrino, Stromata, II, 23, 143). Inserisce il nostro fram mento nell'ambito delle trasformazioni dell'etica sessuale antica E. Canta rella, 1995/2, p. 243 (la quale però, incredibilmente, attribuisce il pensiero a Seneca Padre); lo stesso testo è citato da Ead., 1995/1, p. 144, cosi in trodotto: «Ogni manifestazione di emotività, all'interno della vita familiare in genere, e coniugale in particolare, era vivamente riprovata•. Cfr. anche F. Mencacci, 1996, p. 34, n. 72. 2 L'elogio della pudicizia percorre gran parte dei nostri frammenti (F 28. 29. 32. 33. 37. 39. 41. 42, 2. 43. 44, 1. 47; e soprattutto F 50) ed è conforme all'insegnamento stoico (E. Bickel, 1915, pp. 360-362), ben espresso da Musonio Rufo (Diss., XII, pp. 63, 17-64, 4 Hense): «Quelli che non sono effeminati o perversi, devono stimare leciti solo quei piaceri venerei che si hanno nel matrimonio e si compiono per la procreazione della prole, appunto perché sono quelli ammessi dalla legge; quelli invece che mirano al semplice godimento sono illeciti e illegali, anche se si ab biano tra coniugi» (trad. N. Festa, 1914, p. 177). La consonanza dei pensieri senecani sul matrimonio con la dottrina cristiana farà sì che i teologi redattori del Catechismo romano, pubblicato nel 1566 in attuazione delle direttive del Concilio di Trento, a conclusione della parte seconda, che termina con i precetti relativi al sacramento del matrimonio (§§ 289-297), citeranno proprio parte del nostro frammento, da Sapiens ad adulteram, convinti di riferire parole autentiche e originali di un autorevole padre della Chiesa, senza sospettare evidentemente che si potesse trattare di un maestro della morale pagana (Catechismus q.d. ad parochos, § 297). F 28
l Coerente con l'insegnamento stoico (SVF, I, 244; 583; III, 729), la morale senecana è severa nei confronti dell'adulterio che, insieme a divor zio (F 36, e n. 1) e aborto (Cons. ad Helviam, 16, 3; Giovenale, VI, 594597; Musonio Rufo, Diss., XV A, p. 77, 12-15 Hense), faceva parte del quadro di corruzione dei costumi tipico della società del suo tempo: cfr. De bene(., I, 9, 4: certissimum sponsaliorum genus est adulterium...: nemo uxorem duxit, nisi qui abduxit; III, 16, 2-3; 28, 4; VI, 32, 1; De ira, II, 28,
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Commento: note 1-3 a F 28; I a F 29
7: is qui nullius non u.xorem concupiscit et satis iustas causas putat aman di, quod aliena est, idem u.xorem suam aspici non vult; Epist., 94, 26: scis
improbum esse qui ab u.xore pudicitiam exigit, ipse alienarum corruptor u.xorum; 97, 2-5. Tacito scriverà a proposito della facilità con cui Poppea passava dall'uno all'altro uomo (Anna/es, XIII, 45, 4): Nec mora quin adul terio matrimonium iungeretur; e sul conto del futuro imperatore Otone la voce popolare sosteneva: u.xoris moechus coeperat esse suae (Carm. in Othonem, Fragm. 5, p. 133 Morel = p. 165 Buechner; apud Svet., Otho, 3, 2). Sul tema della pudicizia cfr. supra, F 27, n. 2.
2 Cfr. De tranq. an., 2, 15: Subit illud tabidarum deliciarum: «Quous que eadem?»; De brev. vitae, 7, 9: Quid enim est, quod iam ulla hora novae
voluptatis possit adferre? Omnia nota, omnia ad satietatem percepta sunt; Epist., 77, 16: Voluptates ipsas, quae te morantur ac retinent, consumpsisti: nulla tibi nova est, nulla non iam odiosa ipsa satietate; Epist., 24, 26; 89, 18-19; e, da una diversa prospettiva, Lucrezio, Ili, 1082-83: dum abest quod avemus, id exsuperare videtur I cetera; post aliud, cum contigit illud, avemus.
3 L'amore furtivo è eccitante (De bene(, IV, 14, l; cfr. anche Herc. Oet., 357: i/licita amantur, excidit quidquid licei). Scevino non aveva più interesse per Aufidia, sua legittima moglie, ed ha quindi deciso di cederla al rivale; ora ne è diventato l'amante: solo così la sua virilità si è potuta risvegliare (Marziale, Ili, 70). Ad altro proposito, Seneca afferma che «la paura precedentemente provata rende più gradito il beneficio ricevuto» (De bene(, I, 11, 3), oppure, che nihil iuvat solitum (Epist., 122, 14).
F 29
1 Leggi contro il celibato esistevano in alcune città greche (Polluce, Onom., III, 48; VIII, 40) ed erano particolarmente severe a Sparta, dove erogavano pene via via crescenti a chi rifiutava il matrimonio, a chi si sposava tardi e, infine, a chi contraeva un matrimonio illegittimo (Stobeo, IV, 22, 16 = SVF, I, 400; secondo Plutarco, Lysander, 30, 7, l'ultimo caso si verificava, per esempio, quando si cercava nel coniuge la ricchezza an ziché l'onestà e l'uguaglianza di condizioni; sul rigore delle leggi spartane e sull'ostracismo sociale che colpiva i celibi cfr. Plutarco, Lycurgus, 15, 13 ); per Atene le fonti non sono concordi (a proposito di Solone, Plutarco, De amore prolis, 2, p. 493 E, è in contrasto con Stobeo, IV, 22, 64, voi. IV, p. 521, 5-7 Hense), ma oggi gli studiosi di diritto attico tendono ad escludere l'esistenza di norme legislative contro i celibi (cfr. U.E. Paoli, 1955, p. 135, n. 36; A.R.W. Harrison, The Law of Athens, voi. I, Oxford, 1968, p. 19, e n. 1), il cui comportamento era solo moralmente riprovato (cfr. infra, n. 28 a F 54, 12): leggi siffatte saranno invece caldeggiate da Platone per il suo Stato ideale (uges, IV, 11, p. 721 B-D; VI, 17, p. 774
Commento: note 1-2 a F 29
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A-B). In Roma il celibato fu combattuto fin da epoca molto antica (Dio nigi di Alicamasso, Antiq. Rom., IX, 22, 2; Plutarco, Camillus, 2, 4; Vale rio Massimo, II, 9, 1-2; Cicerone, De legibus, III, 7; Gellio, I, 6, 1-6; II, 15, 3-7; Paolo Diacono, Epitome ex Festo, s.v. Uxorium, p. 379 M. = 519, 16 Lindsay), ma una legislazione organica è documentata solo a partire da Augusto, che trattò più volte la materia matrimoniale, forse già nel 28 a.C. (Properzio, II, 7, col commento di P.J. Enk, Lugduni Batavorum, 1962, p. 112; ma si veda R. Astolfi, 1995, p. 338, n. 60), poi nel 18 a.e. con la lex Iulia de maritandis ordinibus, seguita nel 9 d.C. dalla lex Papia Poppaea nuptialis (su cui c&. anche infra, n. 3 a F 93), che attenuava sen sibilmente alcune misure della lex Julia contro cui si erano subito levate vivaci proteste (Svetonio, Aug., 34, 1; ma le differenze &a le due leggi non sempre appaiono chiare, anche perché esse sono in genere trattate congiuntamente dai giuristi). La lex Papia Poppaea, emendata dallo stesso Augusto (Svetonio, Aug., 34, 2), ridiscussa sotto Tiberio nel 20 d.C. (Taci to, Annales, III, 25, l), fu poi aggravata dal Senatus consultum Persicia num; contro i rigori di queste norme sembra essersi schierato lo stesso Seneca (c&. Introduzione, p. 30, n. 130). Secondo P. Frassinetti (1955, p. 183) «l'eccessiva severità di questa legge causava un gran numero di ma trimoni di convenienza, infestati da adulterii e sempre in pericolo di rom persi, determinando gran copia di ripudii e divorzii: inoltre, imponendo alle vedove e alle divorziate di risposarsi entro un breve lasso di tempo, sacrificava ai pur legittimi scopi demografici la spirituale e nobile fedeltà al ricordo del marito defunto...Questa eccessiva coazione giuridica, che ardiva penetrare nei recessi più intimi degli animi e, lungi dal raggiunge re il fine prefisso, contribuiva indirettamente alla decadenza dell'istituto matrimoniale, doveva dar forza alle lamentele dei celibi e stringerli in una specie di associazione che riusciva talora - come nell'anno 20 - a far giungere le sue proteste alle supreme magistrature». Leggi severe contro l'aborto, la procurata sterilità, i metodi anticoncezionali e la scarsa natali tà sono invece pienamente approvate da Musonio Rufo, Diss., XV A (pp. 77, 4-78, 6 Hense). 2 La posizione subalterna del marito, come ha giustamente osservato E. Bickel (1915, pp. 188-190), è sottolineata sia dal passivo di conduco sia dall'uso di nubo riferito al maschio (c&. Marziale, VIII, 12, 1-2: Uxorem quare locupl.etem ducere nolim quaeritis? uxori nubere nolo meae: «Mi do mandate perché io non voglia sposare una moglie ricca? Non voglio che, tra i due, il marito sia lei»; già segnalato da O. Immisch, 1899). «Anche in Grecia si sapeva e si diceva che chi sposa una donna con un bel patri monio, diventa il padrone del patrimonio, ma il servitore della moglie» (U.E. Paoli, 1955, p. 82, e n. 113 di p. 165): è tema frequente nella com media dalla quale passa nella paremiografia popolare (c&. R. Tosi, 1991, n ° 1443, pp. 651-652), ed è una delle esortazioni di [Plutarco], De liberis educandis, 19, pp. 13 F-14 A: «Saggio è il precetto: "Prendi la donna adat ta a te", perché chi sposa una donna molto superiore a lui, diventa non
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Commento: note 2 a F 29; I a F 30
già il marito di sua moglie, ma, senz'accorgersene, lo schiavo della sua dote». Il consiglio più frequente raccomandava parità di condizioni: «Chi intende maritarsi, deve farlo secondo la sua condizione, per evitare di contrarre un matrimonio superiore o inferiore alle sue possibilità ... Una donna superiore per ricchezza e discendenza ha in animo di governare anche sul marito, il che lui ritiene ingiusto accettare e anche contro natu ra» (Callicratida, presso Stobeo, IV, 28, 18, voi. V, p. 687, 1-7 Hense; cfr. anche Plutarco, Lysander, 30, 7, cit. alla n. 1; e, in ambito paremiografi co, R. Tosi, 1991, n° 1442, p. 651). A questo proposito appare molto equi librata la posizione di Plutarco: nell'Amatorius Pisia mette in guardia di fronte a un matrimonio con una donna ricca, alla quale spetterebbe il co mando (cap. 7), ma Plutarco replica che scegliere ricchezza invece di vir tù e nobiltà è deplorevole, ma rifiutarla quando s'aggiunge ad esse è stol to; quello che importa è la forza di carattere (cap. 9, p. 754 A-B). Per co gliere appieno il senso della condanna morale di Seneca (che pure non è pregiudizialmente contrario a disparità di condizioni economiche fra co niugi: cfr. Epist., 94, 15), è opportuno tener presente un passo di una let tera dello stesso Girolamo alla vergine Principia (Epist., 127, 3), in cui il Santo afferma che le vedove pagane mostrano la loro gioia per essersi fi nalmente liberate dal dominio dei mariti e ne cercano altri su cui poter spadroneggiare: «questo è il motivo per cui si scelgono dei poveri, che di marito sembrano non aver altro che il nome, affinché sopportino senza ribellarsi la presenza dei rivali»; la ricchezza dunque favorisce l'adulterio e garantisce l'acquiescenza del coniuge, come aveva lamentato già Tertul liano (Ad uxorem, II, 8, 4) fra i cristiani e Giovenale (VI, 136-141) fra i pagani. Sui mariti compiacenti cfr. Seneca, De bene{., I, 9, 3 e i testi cita ti supra, n. 6 a F 25.
F 30
1 Marco Tullio Cicerone sposò Terenzia in un anno compreso fra 1'80 e il 77 a.C.: per 1'80-79 propendono W. Drumann-P. Groebe (voi. VI, p. 604), per il 77, con un ragionamento più articolato e persuasivo, P. Gri mal (1988, pp. 62-63). Essa apparteneva, come indica il nome, a una gens che aveva acquistato grande notorietà ai tempi della seconda guerra puni ca e che faceva parte già da molti secoli della classe dirigente; era inoltre imparentata con la gens Fabia, una delle più illustri di Roma. Oltre alla nobiltà, essa portò a Cicerone una dote considerevole e cospicue proprie tà immobiliari; gli diede due figli: Tullia, nata il 5 agosto probabilmente del 76 (P. Grimal, 1988, p. 63) e Marco, nato parecchi anni dopo la sorel la, nel 65. I rapporti fra i due coniugi cominciarono a guastarsi agli inizi del 48 (W. Drumann-P. Groebe, voi. VI, p. 608; S. Weinstock, art. Terentia 95., in PW, RE, V A 1, col. 713) e si conclusero col divorzio nei primi mesi del 46. «Ma un personaggio dell'importanza di Cicerone, anche nel regime della nuova politica, non poteva restare scapolo. Non per motivi
Commento: note 1-2 a F 30
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personali, naturalmente, ma politici» (P. Grimal, 1988, p. 318). Gli fu pri ma proposto il matrimonio con Pompea, figlia di Pompeo Magno, e suc cessivamente con Irzia, sorella di Aulo Irzio, il grande amico e compagno di Cesare (in quell'anno era pretore, e nel 44-43 scriverà l'ottavo libro del De bello Gallico e, con ogni probabilità, il Bellum Ale.xandrinum). Il rifiuto addotto dall'oratore alle nuove nozze, nonostante l'apparente nobiltà d'in tenti, che ricorda molto da vicino i precetti di Teofrasto (infra, F 54, 2), era probabilmente motivato, nel caso di Irzia, dalla bruttezza della don na, come sembra confermato da una lettera ad Attico (XII, 11) del no vembre 46: «Quanto alla figlia di Pompeo Magno, ti rispondo che in que sto momento non ho nessuna idea precisa, e quanto all'altra di cui mi scrivi, credo che tu la conosca: non ho mai visto un essere più orribile». Alla fine dell'anno sposò poi Publilia, non tanto, come insinuò Terenzia, per un'infatuazione senile, quanto per motivi d'interesse (W. Drumann-P. Groebe, voi. VI, pp. 612-613; P. Grimal, 1988, pp. 318-319); ma le fragili basi del matrimonio erano ulteriormente minate dalla grande differenza d'età: Publilia era poco più che una bambina (Plutarco, Cicero, 41, 5; Cas sio Dione, XLVI, 18, 3-4), mentre Cicerone aveva sessant'anni compiuti (Quintiliano, lnstit. orat., VI, 3, 75). Lo stato di prostrazione seguito alla morte di Tullia (metà febbraio del 45) determinò nell'oratore una profon da avversione nei confronti della giovane moglie, che ripudiò nel luglio di quello stesso anno. 2 La notizia degli ulteriori matrimoni di Terenzia ha diviso la critica: alcuni la accettano (per es., E. Bickel, 1915, pp. 346-347), altri non pren dono posizione (per es., S. Weinstock, art. cit., col. 714), altri ancora la respingono recisamente (per es., W. Drumann-P. Groebe, voi. VI, p. 611; R. Syme, 1968, pp. 310-311: «La credulità e la fantasia a proposito di Sallustio non si sbizzarrirono solo per diffamarlo. Uno dei Padri della Chiesa ci ha trasmesso una allettante e ridicola invenzione. Gerolamo af ferma, infatti, che Terenzia, divorziata da Cicerone, sposò Sallustio, alla morte del quale passò a nuove nozze con l'oratore Messalla Corvino. E basta con gli aneddoti e le favole»). A questo proposito sarà opportuno sviluppare alcune considerazioni, basate su argomenti che valgano a suffragare una delle ipotesi. In primo luogo si deve osservare che la notizia risale non già a un padre della Chiesa, lontanissimo dai fatti e incline ad accettare aneddoti o anche ad alterarli per i suoi fini morali, ma al De matrimonio di Seneca (F 61 Haa se = F 8 Bickel = Q 12.8 Trillitzsch), che nelle sue opere mostra di cono scere bene Cicerone, Sallustio e Messala. Del primo parla spesso, richia ma episodi della sua vita, cita vocaboli o intere frasi, conservandoci an che frammenti di scritti per noi perduti, appartenenti a: orazioni, episto le, opere filosofiche (per la presenza di Cicerone in Seneca cfr. De const. sap., 17, 3; De ira, II, 2, 3; III, 37, 5; Cons. ad Marciam, 20, 5; De tranq. an., 11, 4; 16, 1; De brev. vitae, 5; De bene(., V, 17, 2; VII, 6, 1; Nat. quaest., Il, 56, 1; Epist., 17, 2; 40, 11; 49, 5; 58, 6; 97, 3-8; 100, 7 e 9;
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107, 10; 108, 30-34; 111, l; 118, 1-2; 125, 2-9; sul significato di questa presenza cfr., per es., D.G. Gambet, Cicero in the Works of Seneca «Philo sophus», «Trans. and Proceed. of the Amer. Philol. Assoc.», CI, 1970, pp. 171-183, che sottolinea piuttosto gli atteggiamenti critici di Seneca; P. Grimal, Sénèque juge de Cicéron, «Mélanges d'Archéol. et d'Hist. de l'École Franç. de Rome», XCVI, 1984, pp. 655-670, che rivaluta i passi in cui Ci cerone è indubbiamente giudicato con una certa equanimità come cam pione dell'eloquenza romana e come il maggior rappresentante della lette ratura filosofica in lingua latina; per i rapporti tra filosofia e politica in entrambi cfr. M. Griffin, Philosophy for statesmen; Cicero and Seneca, in H.W. Schmidt-P. Wuelfing (edd.), Antikes Denken - Moderne Schule, Hei delberg, 1988, pp. 133-150. Altre indicazioni supra, Introduzione, p. 39 e n. 179; pp. 40-41). Anche le opere di Sallustio, comprese le Historiae, era no a Seneca ben note; i passi che egli cita dallo storico segnalano quasi sempre particolarità linguistiche (De bene(, IV, 1, 1; Nat. quaest., VII, 8, 2; Epist., 60, 4; 114, 17-19); altre volte Sallustio non è espressamente no minato, ma in De ira, III, 18, 1, per singulos artus è imitazione da Histo ri.ae, 1, 44 Maurenbrecher; in Nat. quaest., IV b, 3, 1, penes auctores fìdes erit, pur non essendo espressione esclusivamente sallustiana, è per noi te stimoniata per la prima volta proprio nel Bellum lugurthinum, 17, 7; e in Epist., 94, 46, è citato testualmente il Bellum lug., 10, 6. Di Marco Vale rio Messal(l)a Corvino, celebre oratore e poeta, Seneca cita una battuta, pronunciata probabilmente nel 25 a.C. all'atto delle sue dimissioni dalla carica di praefectus urbi (Apocol., 10, 2), e un frammento poetico costitui to dal vocabolo unicus, che Messala attribuiva al monte Etna (Epist., 51, 1; Seneca precisa che la sua citazione è testuale). Per questo periodo dunque, Seneca disponeva di fonti oggi perdute, tra cui possiamo ricorda re almeno metà dell'epistolario ciceroniano e le Storie di Tito Livio, di cui ci riporta un passo dal libro XXII (43, 10-11; 46, 9) in Nat. quaest., V, 16, 4; e tre passi da libri perduti: dal libro LXXX (Fragm. 58, p. 179 W.-M.) in Nat. quaest., V, 18, 4; dal libro CXII (Fragm. 52, p. 177 W.-M.) in De tranq. an., 9, 5, e da un libro incerto (Fragm. 66, p. 190 W.-M.) in De ira, I, 20, 6; inoltre ricorda due volte i suoi libri in De bene(, VII, 6, 1, e in Epist., 46, 1, e una volta dialogi e opere d'argomento filosofico a noi ignote (Epist., 100, 9). In conclusione: la notizia dei successivi matrimoni di Terenzia è verosimile? Essa proviene da Seneca, che si dimostra ben informato e che attinge a fonti di primaria importanza, divenute a noi inaccessibili; essa inoltre non è smentita da nessun elemento positivo a nostra disposizione: Terenzia visse sino ad età avanzatissima (secondo Plinio il Vecchio, Nat. hist., VII, 158, e Valerio Massimo, VIII, 13, 6, rag giunse i centotré anni); data la sua nobiltà e la sua ricchezza (cfr. n. 1), si deve ammettere che continuasse a rappresentare un buon partito; essa inoltre viveva in un'epoca in cui matrimoni e divorzi si succedevano con sorprendente rapidità (cfr. infra, F 36 e n. 1); infine, quel che più conta, la notizia di Seneca non contrasta con quanto da altre fonti conosciamo della vita di Sallustio e di Messala Corvino. Un ultimo problema è rap-
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presentato dalla caratterizzazione di Sallustio come inimicus di Cicerone: anche questa è considerata una favola sia da W. Drumann-P. Groebe, voi. V, pp. 463-464, sia da R. Syme, 1968, pp. 123-129; 140, n. 2; 248; 340. Nessuno nega, naturalmente, che i due militassero politicamente in campi opposti e che, a livello personale, i loro rapporti fossero improntati a re ciproca antipatia, ma di vera e propria inimicizia e soprattutto di defor mazione storica da parte di Sallustio non si dovrebbe parlare: «Nessuno degli scrittori antichi lascia capire che il ritratto di Cicerone fatto dallo storico nel Bellum Catilinae sia malevolo e ingiusto. Al contrario, è abba stanza chiaro che Sallustio tentò una pacata e ferma difesa dell'operato del console...Si diffuse, per la verità, l'opinione che Sallustio fosse ostile all'oratore. Ma forse per delle ragioni di carattere letterario e non politi co...; e i retori e pedagoghi ferventi ammiratori di Cicerone sfruttarono tale contrasto» (R. Syme, 1968, pp. 313-314). La questione si risolverebbe owiamente da sé, qualora fosse possibile raggiungere una qualche certez za circa la paternità della feroce Jnvectiva in Ciceronem, attribuita dalla tradizione a Sallustio. F 31 1 Il nostro frammento va collegato alle righe che lo precedono nel l'Adversus Jovinianum (I, 48, p. 390, 26-31 Bickel), dove Girolamo riferi sce sulle sventure familiari di Socrate un aneddoto attinto da Porfirio (E. Bickel, 1915, pp. 129-133; 342-343): «Socrate aveva due mogli, Santippe e Mirto, nipote di Aristide. Esse bisticciavano frequentemente fra di loro ed egli era solito deriderle perché litigavano per lui, che era un uomo di una singolare bruttezza, con naso camuso, calvizie frontale, spalle villose e gambe storte: alla fine rivolsero la loro furia contro di lui conciandolo per le feste; egli allora si diede alla fuga, ma esse lo inseguirono a lungo» (sulla dibattutissima questione delle supposte due mogli di Socrate cfr. l'ampia ed esauriente discussione di R. Laurenti, 1987, voi. Il, pp. 781804, che circoscrive e precisa la notizia, che gli antichi facevano risalire al De nobilitate di Aristotele, e giunge infine a negare credibilità alla pre sunta bigamia del filosofo). Santippe nell'antichità fu spesso citata come esempio tipico di donna bisbetica, litigiosa e molesta (cfr., per es., D 6372. 283; F 163-167 Giannantoni, in: Socrate, Tutte le testimonianze, Roma Bari, 19862 , pp. 292-293. 360-361. 410); la tradizione risaliva ad una bat tuta di Antistene riportata nel Convito di Senofonte (II, 1 O) ed è legata al l'immagine, alimentata soprattutto dai cinici, di un Socrate «paziente», non senza punte di misoginia. Le voci sui dissensi tra i coniugi poterono nascere da una visione della vita troppo divergente, determinata sia dalla grande differenza d'età fra i due sia dalla personalità di Socrate, indub biamente atipica e contrastante con i comportamenti ordinari. In realtà, pare sicuro che Santippe fosse «una donna non indegna di Socrate, che arriva addirittura a dimenticare se stessa per l'uomo verso il quale una
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certa tradizione l'ha rappresentata sempre collerica e aggressiva. Tradizio ne che si giustifica nel suo costituirsi, ma di cui quasi nessun punto rie sce a sostenere la prova seria di una critica coscienziosa» (R. Laurenti, cit., p. 804).
2 L'episodio, che Seneca ricorderà ancora nel De constantia sapientis (18, 5), si legge anche in Epitteto, Diss., IV, 5, 33; Diogene Laerzio, II, 36; Ateneo, V, p. 219 B; Gnomologium Vaticanum, 743, n ° 491 (cfr. K. Doring, 1979, pp. 25 e 57, n. 49); e darà origine a una serie di proverbi e di modi di dire («quando ha tonato bisogna che piova»; «tanto tonò che piovve») che si ritrovano sia nella paremiografia popolare sia nei testi let terari (cfr. S. Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, voi. XIII, Torino, 1986, p. 532, che però non registra l'attestazione forse più antica: «Io sapeva bene che dopo tanti tuoni dovea piovere• di G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, Canto IV, 1, 263, p. 236 ed. G. Pa doan, Milano, 1965). L'aneddoto si inserisce in due topoi ben documentati a proposito della figura di Socrate: la sua pazienza e imperturbabilità di fronte ai casi della vita quotidiana (Seneca lo sottolinea anche in De ira, II, 7, 1; III, 11, 2; De vita beata, 27, 3; Cons. ad Helviam, 13, 4; Epist., 71, 7: Quisquis volet tibi contumeliam faciat et iniuriam, tu tamen nihil patie ris, si modo tecum erit virtus; 104, 27-28, dove sono citati esplicitamente i domestica onera: la moglie e i figli) e il suo gusto per i motti di spirito (battute di Socrate sono riportate da Seneca in De ira, I, 15, 3; III, 11, 2; De bene{, I, 8, 2; VII, 24; Epist., 28, 2; 104, 7; in De bene{, V, 6, 6, è de finito vir facetus).
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1 Cecilia Metella, figlia di Lucio Cecilio Metello Delmatico console nel 119, fu sposata in quarte nozze da Lucio Cornelio Silla nell'88 a.C. per motivi politici: egli doveva assicurarsi l'appoggio della nobilitas per otte nere il comando della guerra contro Mitridate, e Cecilia «era contempora neamente figlia, sorella, zia, nipote e cugina di consolari e trionfatori» (J. Carcopino, 1979, p. 42; a p. 100 l'albero genealogico della gens dei Cecilii Metelli; cfr. anche F. Mtinzer, art. Caecilia Metella, in PW, RE, III, 1, coli. 1234-35, n° 134; W. Drumann-P. Groebe, voi. II, pp. 14 e 30-31). Seneca gioca sul soprannome Feli.x («protetto dalla fortuna»; cfr. anche De prov., 3, 8; Cons. ad Marciam, 12, 6; analogamente sull'appellativo Magnus in Cons. ad Marciam, 14, 3; De brev. vitae, 13, 7; Epist., 91, 17; 94, 65), attri buito a Silla dagli adulatori per le sue vittorie (Appiano, Bella civ., I, 97, 452; Livio, XXX, 45, 6), divenuto pubblico e ufficiale nell'82 dopo la ca duta di Preneste e l'uccisione del figlio di Gaio Mario (Velleio Patercolo, Il, 27, 5; De viris illustribus, 75, 9), assunto ufficialmente dal dittatore al l'atto della ratifica del suo operato da parte del Senato (fine 82) e appro vato dal popolo nel gennaio dell'81 (Plutarco, Sulla, 34, 3). Per il signifi-
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cato di Felix e l'inquadramento storico-religioso della sua assunzione da parte di Silla, cfr. E. Valgiglio, 1956, pp. 155-197. 2 Per sfuggire alle persecuzioni dei nemici di parte democratica, sul principio dell'86 Metella era fuggita da Roma insieme con numerosi ari stocratici per rifugiarsi presso Silla, che agli inizi dell'87 era passato in Grecia col suo esercito per combattere Mitridate (prima guerra mitridati ca). Dopo aver rapidamente ridotto all'obbedienza le popolazioni greche che avevano defezionato, Silla pose l'assedio ad Atene, dove si era asser ragliato Archelao, luogotenente del re del Ponto; il primo marzo dell'86 la bella ed illustre città cadde col suo porto del Pireo, e fu spietatamente saccheggiata e devastata. La punizione del tradimento di Atene fu partico larmente dura, stando a quanto afferma Plutarco (Sulla, 13, 1), proprio per l'indignazione accesa in Silla dai motteggi triviali coi quali il tiranno Aristione, in vena di beffare e di insultare, ogni giorno dalle mura irritava il generale romano e sua moglie; la circostanza è confermata dallo stesso Plutarco nel De garrulitate (7, p. 505 B-C), dove è riportato uno dei versi scagliati dagli Ateniesi all'indirizzo di Silla, per deriderne l'aspetto fisico (mentre in Sulla, 6, 18, il biografo parla solo delle offese scurrili all'indi rizzo di Metella). Resta comunque da notare che Silla, il quale pure aveva cercato di ridare al matrimonio la serietà d'un tempo con la lex Cornelia de adulteriis et pudicitia, visse da parte sua negli amori illeciti ed extraco niugali (Plutarco, Comp. Lys. et Sullae, 3, 3; Sulla, 36, 1-2; Sallustio, His toriae, I, 58-61 Maurenbrecher). Su di un aspetto particolare del tradi mento coniugale di Metella, si veda ora F. Mencacci, 1996, pp. 13-14. F 33 1 Divorziato da Antistia nell'82, vedovo di Emilia nell'8 l, Pompeo Ma gno passò a terze nozze con Mucia, figlia di Quinto Mucio Scevola con sole nel 95, probabilmente a principio del 79 (J. Carcopino, 1979, pp. 140-141, contro l'opinione corrente, che pone il matrimonio nell'81); poi ché non risulta che essa avesse altre due sorelle più anziane (W. Dru mann-P. Groebe, voi. IV, p. 560; M. Fluss, art. Tertia Mucia, in PW, RE, XVI, 1, col. 449), il soprannome Tertia le è forse derivato proprio dall'es sere stata la terza moglie di Pompeo. Da quell'unione nacquero tre figli: Gneo, Sesto e Pompea. Il giovane generale era quasi sempre lontano da Roma e la sua assenza si protrasse per quasi sei anni, dall'inizio del 67 alla fine del 62, all'epoca della guerra prima contro i pirati, poi contro Mitridate (terza guerra mitridatica), seguita dalla sistemazione dell'Orien te. Mucia, stancatasi di un marito importante, sempre vittorioso ma an che continuamente assente, non esitò a sostituirlo; Pompeo non si curò delle chiacchiere che giungevano alle sue orecchie fino alla vigilia del suo rientro in Italia, quando inviò alla consorte una lettera di ripudio (dicem bre 62); il primo gennaio del 61 Cicerone scriverà ad Attico {I, 12, 3): «Il
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divorzio da Mucia viene approvato senza riserve». Plutarco (Pomp., 42, 13), pur legando la notizia alla spudoratezza di Mucia (così anche Sveto nio, Julius, 50, 1, e Asconio, In Scaurianam, argum., p. 20, 2 Clark = p. 23, 8 Giarratano; mentre nulla si ricava da Cassio Dione, XXXVII, 49, 3), lascia intrawedere anche altri motivi, che saranno stati sicuramente poli tici (J. Leach, 1983, p. 116). Sulla fama di Mucia si soffermano anche Svetonio (De gramm. et rhet., 14, 1) e Catullo (carme CXIII), che parla iperbolicamente di duemila amanti e c'informa che fra gli intimi essa era chiamata col vezzeggiativo di Maecilia (o Mucilla). A questo punto sorge però un problema, che gli storici per lo più non rilevano, pur citando l'Adversus Jovinianum (cfr., per es., W. Drumann-P. Groebe, voi. IV, p. 561, n. 5; M. Fluss, art. cit., col. 449; J. Carcopino, 1979, p. 226, n. 17): dal nostro passo risulta che Mucia sarebbe stata al seguito del marito du rante la guerra mitridatica, il che è escluso sia da quanto conosciamo delle campagne di Pompeo, sia da Plutarco (Zoe. cit.) e da Svetonio (Iu lius, 50, 1), il quale ultimo c'informa che tra gli amori di Mucia figurava anche Cesare, che il rivale, anche dopo il divorzio, continuava a chiamare «Egisto•, con chiara allusione al noto episodio dell'adulterio fra quel per sonaggio e Clitennestra, la moglie di Agamennone re di Micene, durante l'assenza di quest'ultimo, impegnato a guidare i Greci contro Troia. E. Bi ckel (1915, p. 347) ha congetturato con buona verosimiglianza, che si possa trattare di un'aggiunta di Girolamo, come dimostrerebbero anche il colore generale della frase («dictio...fucosum potius modum dicendi eccle siasticum spirat quam Annaeanum») e analoghi fraintendimenti di vicen de di personaggi storici (infra, F 34. 43. 44. 45; per altri errori di Girola mo cfr. E. Bickel, 1915, pp. 253 e 348, n. 1). Sulle cinque mogli di Pom peo cfr. S.P. Haley, The fìve wives of Pompey the Great, «Greece and Rome», XXXII, 1985, pp. 49-59.
F 34 l Marco Porcio Catone (234-149 a.C.; ma alcune fonti lo fanno vivere fino a novant'anni, retrodatando quindi la nascita o postdatando la mor te) ebbe due mogli: prima Licinia, di famiglia onorata ma non facoltosa (Plutarco, Cato maior, 20, 2), da cui nacque il figlio Marco chiamato ap punto Liciniano; poi, rimasto vedovo, in età ormai molto avanzata (Id., ibid., 24, 4) sposò Salonia, la giovanissima figlia di Salonio, un suo ex-se gretario di modestissima condizione, che allora era suo cliente; compiuti ormai gli ottant'anni (Plinio il Vecchio, Nat. hist., VII, 61), ebbe da essa un secondo maschio, che chiamò Marco, detto poi Saloniano (Gellio, XIII, 20, 8; cfr. anche Plinio il Vecchio, cit., § 62) per distinguerlo dal precedente. Il secondo matrimonio fu determinato dal temperamento fo coso di Catone che, sorpreso dal figlio in compagnia di una giovane schiava, pose fine alla tresca e si risposò. Il primogenito si era a sua vol ta accasato poco dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.; Plutarco, cit., 20,
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12) con la giovane Emilia Paola, figlia di Lucio Emilio Paolo e sorella di Scipione Emiliano, appartenente dunque a una delle famiglie romane più nobili e celebri; la coppia abitava nella stessa casa di Catone, che per giunta era piccola (Plutarco, cit., 24, 2), e per ciò stesso non favoriva una convivenza serena, com'è dimostrato dall'episodio della schiava. A questo punto possiamo tentare un'interpretazione della notizia, sicuramente erra ta, che ci offre l'Adv. lovin .: Seneca avrebbe parlato di Salonia (E. Bickel, 1915, pp. 347-349), perché uxor... humili loco nata può riferirsi solo a lei; Girolamo avrebbe poi confuso moglie e nuora, sostituendo Salonia con Aemilia (da lui chiamata Artoria) Paula. Tali passaggi non sono però del tutto chiari, né d'altra parte si può pensare che Artoria sia corruzione do vuta a un copista (W. Drumann-P. Groebe, voi. V, p. 161), trattandosi semmai di «lectio difficilior» rispetto ad Aemilia (il gentilizio Artorius si legge quasi esclusivamente in iscrizioni: ThlL, Il, 645, 6-46). Sembra ugualmente azzardato pensare che Seneca si riferisse ai giovani Marco ed Emilia (W. Drumann-P. Groebe, ibid. ), perché la differenza di status so ciale dei due non basta per far supporre che i loro rapporti diventassero tesi; inoltre l'exemplum acquistava forza proprio dalla notorietà del perso naggio (in F 30: Cicerone; in F 31: Socrate; in F 32: Silla; in F 33: Pom peo; in F 35: Filippo; e così via), di cui d'altra parte Seneca parla spesso nelle opere superstiti. È comunque certo che errori riguardanti personag gi storici nell'Adv. Iovin. sono tutt'altro che infrequenti (cfr. F 33, n. 1 ). I rapporti del Censore con la seconda, giovanissima moglie, poterono gua starsi anche a causa di un certo misoginismo che affiora durante tutta la vita di Catone: sia nella questione della /ex Oppia (195 a.C.; Livio, XXXIV, 2, 1-2), sia quando cacciò dal senato Manilio perché aveva bacia to la moglie alla presenza della figlia (184 a.C.; Plutarco, cit., 17, 7), sia quando rammenta, in un'orazione contro Galba (Fragm. 172 Malcovati = Fragm. 127 Sblendorio Cugusi), un episodio relativo a Papirio Pretestato, sia quando ricorda al primo posto, fra le tre cose di cui si pentl nel corso della sua esistenza, il rammarico di aver confidato un segreto alla moglie (Plutarco, cit., 9, 9; per la posizione ironica assunta da Catone nei con fronti delle donne cfr. P. Grimal, L'amore a Roma, trad. it., Milano, 1964, pp. 84-86). La vera difficoltà sta nel ricostruire il contesto originario da cui sarebbe nato il fraintendimento di Girolamo: probabilmente Seneca coinvolgeva nel suo discorso la plebea Salonia e la nobile Emilia Paola, accompagnando le sue considerazioni o con una critica ad entrambe o con una lode della seconda. Girolamo, condensando il testo, avrebbe con fuso moglie e nuora, sostituendo inoltre Emilia con Artoria. Diversa è la spiegazione di P. Frassinetti (1955, p. 177 e nn. 147-152): egli nega la pa ternità senecana del passo e attribuisce l'errore alla fonte di Girolamo, che avrebbe frainteso ciò che Plutarco scrive in Cato maior, 24, e avrebbe confuso la moglie di Catone con la servetta cui il Censore ricorreva per sfogare la sua libidine senile; in questa fonte probabilmente si leggeva ha buit pro uxore meritoriam. Ma cosl il garbuglio si complica ulteriormente, sia perché non si capisce come osasse mostrarsi superba con Catone una
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schiava che in qualsiasi momento poteva essere bruscamente congedata (come appunto accadde) e punita, sia perché dopo meritoriam la presenza di Paula appare inesplicabile.
F 35 1 Filippo II (382 ca.-336 a.C.), dal 359 re di Macedonia, per le sue mire espansionistiche nei confronti della Grecia fu energicamente ostag giato da Demostene, che fra il 351 e il 340 ca. pronunciò contro di lui quattro orazioni (ma la quarta è di contestata autenticità), che già la tra dizione antica indicò col titolo complessivo di «Filippiche», adottato poi da Cicerone per designare le numerose orazioni (14 superstiti, ma abbia mo notizie anche di una XVI e di una XVII) scagliate contro Marco An tonio nel 44-43 a.C. (cfr. anche Girolamo, Epist., 57, 13: Opto... commen tarios potius scripturarum quam Demosthenis et Tullii Philippicas scribere). 2 Filippo era poligamo (Ateneo, XIII, p. 557 D-E; F. Geyer, art. Philip pos 7., in PW, RE, XIX, 2, col. 2303), ma la moglie ufficiale (non altri menti si può intendere uxor) fu Olimpiade, figlia di Neottolemo re del l'Epiro, da lui sposata nel 357 a.C.; essa gli diede due figli: Alessandro, il futuro Magno (356), e Cleopatra (355). La loro unione si sciolse nel 337 quando Filippo si innamorò perdutamente e sposò Cleopatra Euridice, una giovane della più alta nobiltà macedone: Olimpiade si senti ripudiata e abbandonò il marito ritirandosi in Epiro. Ad Olimpiade, che ebbe un temperamento mistico e passionale, non alieno dalla collera e dalla cru deltà, l'episodio narrato da Seneca, pur non essendo suffragato da nessun altro scrittore antico, si adatta perfettamente, così come si addice a Filip po la reazione tranquilla e rassegnata, che corrisponde all'immagine tra mandata dalle fonti, secondo cui il re mostrò in più occasioni tolleranza e dominio dell'ira (Cicerone, De offìciis, I, 90; Seneca, De ira, III, 23, 2-3; 24, l; Valerio Massimo, VI, 2, ext. 1; Plutarco, De cohibenda ira, 9, p. 457 E-F; Coniug. praec., 40, p. 143 F; De adulatore et amico, 30, p. 70 B-C; Apophth. regum et imperar., Philipp. (passim), pp. 177 C-179 D; Demetrius, 42, 6-7; Stobeo, III, 13, 49, voi. III, p. 464, 1-4 Hense). In Seneca la figu ra di Filippo presenta ora connotati positivi: nel De ira (cit.) è sottolinea ta la sua capacità di sopportazione delle offese (§ 2: si qua alia in Philip po virtus, fuit et contumeliarum patientia), nel De bene{. (IV, 37-38) il suo senso di giustizia; ora invece egli è accomunato ad Alessandro o alla serie dei re macedoni (Nat. quaest., III, praef. 5; V, 15; Epist., 94, 62) per le azioni brigantesche, l'avidità, la corruzione. La duplice connotazione risa le ai contemporanei: un ritratto favorevole ne tracciò Aristotele, che con visse con lui a corte, in contrasto col quadro fosco dipinto da Demostene, sulla scia del quale si muoveranno le scuole di retorica (E. Bickel, 1915, pp. 340-341). Anche il particolare del verso tragico (non identificabile) rientra nel cliché del personaggio, cui sono attribuite spesso battute, e in
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Plutarco (Apophth. regum et imperat., Philipp. 15, p. 178 B) il ricorso a un verso comico sconosciuto (Comic. Attic. Fragm., voi. III, p. 451, Ade spoton 227 Kock). Per l'appartenenza del frammento a Seneca cfr. E. Bic kel, 1915, pp. 339-342. F 36 1 Per la frequenza dei divorzi nella società romana dell'epoca cfr. su pra, F 28; De benef, III, 16, 2: Numquid iam ulla repudio erubescit, post quam inlustres quaedam ac nobiles feminae non consulum numero sed ma ritorum annos suos conputant et exeunt matrimonii causa, nubunt repudii? Tamdiu istuc timebatur, quamdiu rarum erat; quia nulla sine divortio acta sunt, quod saepe audiebant facere didicerunt; LAUDATIO TURIAE, I, 27 (p. 9 Durry): Rara sunt tam diuturna matrimonia finita morte, non divertio in terrupta; Marziale, VI, 7; Giovenale, VI, 229-230; e, in generale, J. Carco pino, 1991, pp. 113-119. Per la vicinanza di due soli giorni fra matrimo nio e divorzio cfr. i casi citati da Svetonio, Julius, 43, 1; Tib., 35, 2. La polemica dei Cristiani contro questa prassi sarà sempre molto dura (cfr., per es., Tertulliano, Apol., 6, 6: repudium vero iam et votum est, quasi ma trimonii fructus) anche perché, secondo il precetto evangelico, «se uno sposa una donna ripudiata, commette adulterio» (Matteo, 5, 32; Marco, 10, 11-12; Luca, 16, 18). Per la gravità del ripudio e l'elogio dell'univira cfr. U.E. Paoli, 1968, p. 273. Si tratta di comportamenti che la tradizione filosofica considera tipiche manifestazioni dell'incostanza e della follia umane (cfr., per es., [Ippocrate], Epist., 17, 27 e 40). F 37 1 Mausolo detenne la satrapia della Caria dal 377 al 353 a.C., svol gendo spesso una politica indipendente dal potere centrale rappresentato dal Gran Re di Persia; trasferì la capitale da Milasa, nell'entroterra, alla sede più adatta di Alicarnasso, che corredò di grandiosi edifici, fra cui la reggia e il sepolcro che da lui prese il nome di Mausoleo. Quando il sa trapo morl (353), la sua tomba monumentale non era ancora terminata; la costruzione fu proseguita da Artemisia, sua sorella e moglie (Teopom po, FGrHist, 115 F 297 Jacoby; Diodoro Siculo, XVI, 36, 2), che gli succe dette sul trono, esercitando la signoria per due anni (morirà infatti nel 351). Il Mausoleo, che tanto influsso ebbe sulla successiva architettura fu neraria (basterebbe ricordare i Mausolei di Augusto e di Adriano, que st'ultimo superstite sotto le vestigia dell'attuale Castel S. Angelo a Roma), era considerato dagli antichi una delle sette meraviglie del mondo (Vitru vio, II, 8, 11; Strabone, XIV, 2, 16, p. 656 C; Pomponio Mela, I, 85; Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXVI, 30; Gellio, X, 18, 4; Valerio Massimo, IV, 6, ext. l; Properzio, III, 2, 21; Marziale, Spect. l; per il Mausoleo di Alicar-
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nasso e gli altri mausolei del mondo antico cfr. L. Vlad Borrelli, art. Mausoleo, in «Enciclopedia dell'Arte Antica,., voi. IV, Roma, 1961, pp. 934-937; i fregi del primo sono riprodotti nell'annesso «Atlante dei com plessi figurati,., Roma, 1973, Taw. 204-210). Il quoque iniziale appartiene a Girolamo, che nell'Adv. Jovin. lega con esso il nostro passo agli esempi che lo precedono, attinti ad altre fonti. Per l'appartenenza del frammento a Seneca cfr. E. Bickel, 1915, pp. 327-330. 2 Cfr. infra, F 49: ait sibi semper maritum Servium vivere. La devozio ne di Artemisia per Mausolo è spesso ricordata dagli antichi, in particola re da Teopompo, FGrHist, 115 F 297 Jacoby; Cicerone, Tusculanae, Ili, 75: quam diu vixit, vixit in luctu eodemque etiam confecta contabuit: huic erat il/a opinio cotidie recens; Strabone, XIV, 2, 17, p. 656 C; Valerio Mas simo, IV, 6, ext. 1 (primo esempio straniero De amore coniugali); Gellio, X, 18, 1 e 3. Le lodi di Mausolo (e, naturalmente, di sua moglie) furono celebrate da poeti e prosatori: Teopompo, Teodette (autore della tragedia «Mausoloit), Naucrate e, secondo alcuni, anche il loro celebre maestro Isocrate (Gellio, X, 18, 6-7). 3 Il vocabolo «mausoleo,. fu impiegato soprattutto dai Romani per designare un sepolcro grandioso (e come tale è passato in tutte le lingue europee moderne), talora con un espresso richiamo al monumento arche tipo: cfr. Strabone, V, 3, 8, p. 236 C; Lucano, VIII, 697; Marziale, V, 64, 5; Svetonio, Aug., 100, 4; Floro, IV, 11, 10; Pausania, VIII, 16, 4. F 38 1 Alcibiade (450 ca.-404 a.C.), figlio di Clinia, discepolo e intimo ami co di Socrate (a lui si intitolano due dialoghi di Platone ed è uno degli interlocutori del Protagora e del Simposio), fu generale e statista e tanta parte ebbe ad Atene, nel bene e nel male, durante la guerra del Pelopon neso; i biografi (Cornelio Nepote e Plutarco) sono concordi nel rilevare che in lui albergavano al massimo grado ottime qualità e gravi difetti (Nepote, Alcib., 1, 1: Constar enim inter omnes, qui de eo memoriae prodi derunt, nihil ilio fuisse excellentius ve/ in vitiis ve/ in virtutibus ). Nel 404 Alcibiade, colpito dalla condanna dei Trenta Tiranni, si rifugiò in Frigia presso il satrapo Farnabazo; con la chiaroveggenza del politico esperto, previde l'inevitabile contrasto in cui Sparta sarebbe venuta con la Persia e pensò di offrire i suoi servigi e chiedere aiuto al Gran Re Artaserse II, rappresentandogli i pericoli dell'egemonia spartana e preparandolo alla guerra che avrebbe potuto risollevare le sorti di Atene; «ma dei pericoli che incombevano su Sparta non era ignaro l'uomo che dirigeva allora con una pienezza di poteri fondata unicamente sulla sua autorità morale la politica spartana, Lisandro. Ed egli tagliò risolutamente la via ad Alcibia de che, affidandosi a Farnabazo, si proponeva col suo aiuto di raggiunge-
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re la corte di Susa. Tradito dall'ospite, l'avventuriero ateniese peri mentre cercava di aprirsi con la spada il varco fra i satelliti del satrape che ave vano circondato la sua casa» (G. De Sanctis, 1963, voi. II, pp. 461-462; notizie più particolareggiate si leggono in Nepote, Alcib., capp. 9-1O; Plu tarco, Alcib., capp. 37-39; per una sintesi moderna si veda J. de Romilly, Alcibiade, trad. it., Milano, 1997, pp. 179-183). 2 Sull'uccisione di Alcibiade siamo ampiamente informati da Nepote, Alcib., cap. 1O e da Plutarco, Alcib., cap. 39; e dagli accenni di Isocrate, Orat., 16, 40; Cicerone, De divinatione, II, 143; Diodoro Siculo, XIV, 11, 3-4 (= Eforo, FGrHist, 70 F 70 Jacoby); Valerio Massimo, I, 7, ext. 9; Ate neo, XIII, p. 574 E-F; Giustino, Historiae Philipp., V, 8, 12-14; Orosio, Historiae adversus paganos, II, 17, 6-7. Nei particolari le fonti non sono concordi: secondo Nepote e Plutarco, i sicari non osano affrontare aperta mente Alcibiade, ma ne circondano la casa e vi appiccano il fuoco; egli, in un primo momento, tenta di spegnere l'incendio ma, non riuscendovi, si lancia illeso tra le fiamme, esce, ed è ucciso dai giavellotti e dalle frec ce; secondo Giustino ed Orosio, Alcibiade non riesce a fuggire e brucia vivo nella camera in cui dormiva; Diodoro sembra conciliare le due ver sioni, sostenendo che fu «sopraffatto dal fuoco e da coloro che lanciava no dardi contro di lui». Il particolare dell'amante pietosa è confermato da Nepote, da Plutarco (secondo cui si chiamava Timandra), da Cicerone, da Valerio Massimo e da Ateneo (secondo cui si chiamava Teodote; il villag gio frigio sarebbe stato Melissa), nei quali manca però la considerazione finale, strettamente funzionale solo al racconto di Seneca (stilisticamente ricorda Nepote, cit., 1O, 6: aedifìcii incendio mortuum cremavit, quod ad vivum interimendum erat comparatum; per victis Atheniensibus cfr. ibid., 9, 1). Il coraggio della concubina richiama il comportamento della zia materna di Seneca che, come osserva il nipote (Cons. ad Helviam, 19, 5), oblita imbecillitatis...caput suum periculis pro sepultura (scii. viri) obiecit et, dum cogitai de viri funere, nihil de suo timuit. La presenza di un'aman te anche in terra d'esilio è da considerarsi normale nella vita di un uomo come Alcibiade che, attraente nel fisico, brillante d'ingegno e ricco, si ac compagnò per tutta la vita a etere e concubine, dimostrandosi seduttore di donne di bassa e d'alta condizione (Nepote, Alcib., 1, 4; Plutarco, Al cib., 8, 4; 16, 1 e 5; 23, 5 e 7; 36, 2; Ateneo, XIII, p. 574 E) e destando perciò la reazione sdegnata della moglie lpparete (Plutarco, Alcib., 8, 4-6); per i suoi amori maschili cfr. Nepote, Alcib., 2, 2-3; Plutarco, Alcib., 3, l; 4, 2-3; 5, 1. Per l'appartenenza del nostro frammento al De matrimonio cfr. E. Bickel, 1915, pp. 330-333.
F 39 1 I personaggi del frammento sono Candaule, re di Lidia, l'ultimo del la dinastia degli Eraclidi; Gige, suo successore, e fondatore della dinastia
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Commento: note 1-2 a F 39
dei Mennnadi; la moglie di Candaule, e poi di Gige, il cui nome è per lo più taciuto o variamente tramandato dalle fonti (secondo Tolemeo Efe stione, in Fozio, Bibliotheca, cod. 190, p. 150 b Bekker = voi. III, p. 63 Henry, si chiamava Nisia). La vicenda di Gige è narrata all'inizio delle Storie di Erodoto (I, 8-12), di cui costituisce la prima novella e una delle più famose, e presenta una delle varianti, che circolavano nell'antichità, sulla presa del potere da parte di Gige, il cui regno è datato dallo storico greco dal 716 al 678 a.C. (ma la cronologia dev'essere abbassata al 687652). Dunque, secondo Erodoto, che è la fonte diretta di Seneca (E. Bic kel, 1915, pp. 322-323; il nostro passo è sfuggito a A. Setaioli, Episodi erodotei nell'opera senecana, Appendice IV in Id., 1988, pp. 485-503), Can daule aveva una moglie assai attraente e ne vantava la bellezza di fronte a Gige, una delle sue guardie predilette; convinto che l'amico non credes se alle parole, lo persuase dopo molte resistenze ad osservarla di nascosto mentre si spogliava prima di mettersi a letto; ma la regina se ne avvide e il giorno dopo, fatto chiamare Gige, gli pose come alternativa la morte o l'uccisione del colpevole. Gige si nascose allora dietro la stessa porta della notte precedente, pugnalò Candaule nel sonno ed ebbe così la donna e il regno. Erodoto dà della leggenda una versione originale, diversa da quella degli altri scrittori e soprattutto di Platone, che nella Repubblica (Il, 3, pp. 359 D-360 B; seguìto, per es., da Cicerone, De oflìciis, III, 38-39) nar ra come Gige si servl di un anello miracoloso, che lo rendeva invisibile, per sedurre la moglie del re, la quale poi aiutò l'amante a sopprimere il marito e a conquistare così il potere. Il particolare dell'adulterio sarà i n seguito accolto anche da autori che concordano con la narrazione erodo tea (per es., Giustino, Historiae Philipp., I, 7, 14-19). Per tutti gli aspetti, sia storici che leggendari e di costume, per la fortuna della novella e l'ampia bibliografia ad essa relativa, cfr. il commento di D. Asheri a Ero doto, Le Storie, voi. I, Milano, «Fondazione L. Valla», 1988, pp. 267-27 l. Una messa a punto recente anche in L. Belloni, Candaule in Erodoto: il re, il tiranno, il despota, in: A. Aloni-L. De Finis (edd.), Dall'Indo a Thule: i Greci, i Romani, gli altri, Trento, 1996, pp. 215-224. Infine, per la con suetudine senecana di alludere a personaggi ben noti senza nominarli espressamente, cfr., per es., De const. sap., 4, 2 (Serse); 13, 3 (id.); De brev. vitae, 17, 2 (id.); Cons. ad Marciam, 13, 1 e ad Poi., 11. 2 (Senofonte e il figlio Grillo; ma per il secondo passo sono state proposte anche altre identificazioni); Cons. ad Helviam, 10, 8 (Manio Curio Dentato); 19, 5 (Al cesti e il marito Admeto); Epist., 82, 22 (Quinto Cedicio). 2 Commenta Erodoto (I, 10, 3): «Infatti presso i Lidi, come presso quasi tutti gli altri barbari, è motivo di grande vergogna, anche per un uomo, essere visto nudo». Il tabu della nudità esisteva anche in Grecia in età arcaica; poi la nudità fu introdotta, da Cretesi e Spartani, nei giochi ginnici; i barbari però, in particolare gli Asiatici, continuarono a cingersi di perizoma anche nelle gare. Ali' interno delle pareti domestiche, la don na greca indossava sempre qualche indumento, per quanto legger o (U.E.
Commento: note 2 a F 39; 1 a F 40
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Paoli, 1955, pp. 116-118, nn. 19-23), e P. Veyne (1990, p. 185) documenta come nell'antichità la nudità totale della donna, anche nell'amplesso, non era usuale: «l'antica nudità, il sogno di sensualità pagana e di candida natura, sono dei miti. Si capisce bene da dove essi siano scaturiti: dal l'iconografia, dalle nudità nella scultura e nella pittura». Uno dei proverbi contenuti nel dialogo erodoteo fra Gige e Candaule recita appunto: « Una donna che si spoglia della veste, si spoglia insieme anche del pudore» (I, 8, 3), e sarà spesso citato dagli scrittori posteriori, per es. da Elio Teone, Progymn., 4, voi. II, p. 92, 4-6 Spengel (= 5, p. 342, riga 410 Butts); Plu tarco, De recta ratione audiendi, 1, p. 37 D; Coniug. praec., 10, p. 139 C; Clemente Alessandrino, Paedag., II, X, 100, 2; III, V, 33, 1; Teodoreto, Graec. aff. cur., IX, 41; Stobeo, III, 32, 15; IV, 23, 36; cfr. anche R. Tosi, 1991, p. 629, n° 1391. Ben altro discorso, naturalmente, va fatto per i vari tipi di amori extraconiugali: valga per tutti la scena dell'incontro fra Ovidio e Corinna in Amores, l, 5.
F 40 1 L'identificazione di Rodogune (nome di donna persiano e partico) con personaggi storici noti è problematico, perché nessuna risulta essere figlia di un Dario; né d'altra parte l'aneddoto senecano è confermato da altra fonte. Delle tre Rodogune di cui ci parlano i testi classici (G. Plau mann, art. •poòoyou 'VTI, in PW, RE, I A 1, coli. 956-957; K. Ziegler, art. Rhodogune, in «Der kleine Pauly», voi. IV, col. 1588), una era la madre di Dario I (seconda metà del VI sec. a.C.), l'altra era figlia di Artaserse II Mnemone, andata sposa ad Oronte, satrapo dell'Armenia orientale, alla fine del sec. V, la terza era figlia di Mitridate I, che la diede in sposa a Demetrio II Nicatore dopo averlo sconfitto nel 139 a.C. (ad essa si ispire rà P. Corneille nel comporre la tragedia «Rodogune»). E. Bickel (1915, pp. 320-322), senza far parola di queste difficoltà, identifica senz'altro la nostra Rodogune con l'omonima eroina di cui trattò, secondo l'anonimo Tractatus de mulieribus, cap. 8 (in Paradoxographi, ed. A. Westermann, Braunschweig, 1839, rist. Amsterdam, 1963, p. 215, 26), Eschine socratico nel dialogo intitolato Aspasia (prima metà del IV sec. a.C.). Essa era, se condo Eschine (Fragm. 18, pp. 276-277 Dittmar, in: Aischines von Sphet tos. Studien zur Literaturgeschichte der Sokratiker. Untersuchungen und Fragmente von H.D., Berlin, 1912), una regina dei Persiani che avrebbe contribuito alla grandezza del suo regno e che andava famosa soprattutto per un episodio: si stava ravviando i capelli quando fu raggiunta dalla no tizia della ribellione di uno dei popoli a lei soggetti; in quel momento il suo primo ed unico pensiero fu di correre immediatamente a reprimere la sedizione, lasciando a metà l'acconciatura, che avrebbe terminato solo al ritorno dalla spedizione vittoriosa. Conclusa la vicenda, fu poi dedicata in un tempio un'immagine della regina con i capelli a metà raccolti sul capo e a metà sciolti. Questo racconto, con qualche variante, si legge an-
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Commento: note J a F 40; 1 a F 41
che in Polieno (Strateg., VIII, 27), secondo il quale l'immagine di Rodogu ne che si annoda i capelli era riportata sul sigillo dei re persiani. Un am pio sviluppo acquista l'aneddoto in Filostrato (Jmagines, II, 5), dove pren dono il sopravvento gli aspetti decorativi e favolistici, e l'unico elemento storico originale sta nell'indicazione del nome del popolo ribelle: gli Ar meni (§§ 1 e 4); ma neppure questo particolare si rivela utile ai fini di precisare l'epoca in cui sarebbe vissuta la regina (cfr. Philostratos, Die Bilder, hrsg. tibersetzt und erlautert von O. Schonberger, Milnchen. 1968. pp. 389-390; nessun tentativo di identificazione con personaggi storici in B. Ehlers, Eine vorplatonische Deutung des sokratischen Eros. Der Dialog Aspasia des Sokratikers Aischines, Milnchen, 1966, pp. 44-51 ). Il carattere energico e bellicoso della Rodogune di Eschine renderebbe ragione della reazione violenta nei confronti della nutrice e d'altra parte Eschine stesso era filosofo non ignoto a Seneca, che lo cita una volta in De bene(., I, 8, 1-9, I; ma in Eschine Rodogune è una regina dai tratti leggendari (non sarà casuale che l'episodio dei capelli si trovi ripetuto pari pari a proposi to di Semiramide in Valerio Massimo, IX, 3, ext. 4), in Seneca una prin cipessa inserita in una serie di exempla precedenti e seguenti, tutti stori camente ben documentati. D'altra parte, il nome di Dario, senza ulteriori specificazioni, deve riferirsi a uno dei re persiani meglio noti ai lettori del De matrimonio: o Dario I (citato da Seneca in De ira, III, 16, 3) o Da rio III (citato in Nat. quaest., VI, 23, 3; Epist., 47, 12; 94, 63; 119, 7); se la fonte dell'episodio è Eschine, non può trattarsi che di Dario I, del qua le Erodoto (V, 116) conosceva tre figlie, andate spose rispettivamente a Daurise, a Imea e a Otane: di costoro, il primo perì in un'imboscata (V. 121). mentre il secondo morì di malattia nella Troade (V, 122). F 41 1 Lucrezia era figlia di Spurio Lucrezio Tricipitino, andata sposa a Lucio Tarquinio Collatino; la sua bellezza suscitò un'insana passione in Sesto, figlio di Lucio Tarquinio il Superbo, che la violentò sotto la minac cia delle anni e di una messinscena che avrebbe escogitato per farla ap parire adultera. Dopo lo stupro, essa mandò a chiamare il marito, che giunse accompagnato da Lucio Giunio Bruto: dopo aver spiegato loro l'accaduto, si suicidò con un coltello per lavare l'onta subita. L'ira dei pa renti, di Bruto e del popolo scoppiò furibonda e portò alla cacciata del re e dei suoi figli (509 a.C.). La vicenda è narrata con ricchezza di particola ri da Tito Livio (I, 57, 4-60, 2) e dagli storici antichi che trattarono il pe riodo del trapasso dalla monarchia alla repubblica romana; i moderni. che considerano Lucrezia una figura leggendaria, non negano però all'epi sodio un nucleo di verità storica. In Roma Lucrezia era considerata una gloria nazionale, spesso rievocata da prosatori e poeti; Seneca stesso vi accennerà ancora infra, F 50, 2 (cfr. anche Cons. ad Marciam, 16, 2), e da Valerio Massimo è giudicata dux Romanae pudicitiae e collocata al primo
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posto fra gli esempi De pudicitia (VI, 1, 1). Anche i cristiani, che pur ne disapproveranno il gesto suicida, ne loderanno la specchiata virtù (Tertul liano, De exhort. cast., 13, 3; De monog., 17, 2; Ad mart., 4, 4; Girolamo, Epist., 123, 7; e soprattutto Agostino, De civ. dei, I, 19). L'antichità la consegnò al Medioevo e all'età moderna: Dante la pone nel castello del Limbo (Inferno, IV, 128), Petrarca e Boccaccio la ricordano ripetutamente nelle loro opere in latino e in volgare, e ancor oggi in francese «faire la Lucrèce» significa «scimmiottare la donna onesta». Sugli elementi geroni miani nella citazione senecana cfr. E. Bickel, 1915, pp. 187 e 292. Sul «mito• di Lucrezia, le sue origini, la sua fortuna, e sul modo nel quale esso è stato interpretato ed elaborato nei secoli cfr. I. Donaldson, 11ze Ra pes of Lucretia. A Myth and its Transformations, Oxford, 1982. Per l'imma gine della macchia cfr. M. Armisen-Marchetti, 1989, p. 165. F 42
1 Nell'estate del 260 a.e. il console Gaio Duilio riportò nelle acque di Milazzo la prima vittoria navale romana sulla flotta punica (cfr. De brev. vitae, 13, 3: primus navali proelio Duilius vicit, dove i codici conservano tracce della grafia con doppia «elle», ben testimoniata in numerosi altri scrittori: F. Mtinzer, art. Duilius, in PW, RE, V, 2, coll. 1776, 48-1777, 10; ThlL, Onom., III, 266, 19-267, 4) e celebrò il primo trionfo navale della storia di Roma, come sottolineano concordemente le fonti (Fasti trium phales capitolini, ad a. 260, p. 100 Degrassi, Augustae Taurinorum, 1954; Livio, Periocha 17; Valerio Massimo, III, 6, 4; Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXN, 20; Tacito, Anna/es, Il, 49, l; Floro, II, 2, 9; cfr. anche CIL, 1 2 , 25 = n° 319 Degrassi, lnscriptiones Latinae liberae rei publicae, voi. I, Firenze, 19652 , p. 189). Il nome della moglie è conservato solo da Seneca e si è supposto che Bilia (o Billia) sia una modernizzazione di un antico Duilia (o Duillia) perché, secondo una ben nota legge fonetica del latino, DV ini ziale dà spesso come esito B (Cicerone, Orator, 153; Quintiliano, lnstit. orat., I, 4, 15; M. Leumann, p. 131, § 140. b); ma per un verso risulta singolare che si sia conservato il maschile Duil(l)ius e non il femminile Duil(l)ia, per l'altro si deve notare che non è affatto necessario presuppor re che i due sposi appartenessero alla medesima gens. In base a queste considerazioni E. Klebs (art. Bilia, in PW, RE, III, 1, col. 471, 14-48) ipo tizza che il nome originario fosse invece Villia, corrottosi nei manoscritti medievali per un facile scambio fra i due suoni iniziali B e V, ben testi moniato peraltro già in iscrizioni d'età imperiale (A. Traina, L'alfabeto e la pronuncia del latino, Bologna, 19734, p. 47; C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, Bologna, 19726, p. 247). 2 La storiella è riportata da numerosi autori antichi, che la riferisco no però a personaggi diversi e ne variano i particolari. Plutarco (De ca pienda ex inimicis utilitate, 7, p. 90 B; cfr. anche Apophth. regum et impe-
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rat., Hiero, 3, p. 175 B-C) ne fa protagonista Ierone di Siracusa, mentre Luciano (Hermotimus, 34) e Stobeo (III, 5, 42, voi. III, pp. 268, 13-269, 4 Hense = Aristotele, Fragm. 777 Gigon) parlano di Gelone, che avrebbe avuto la rivelazione non già da un nemico, ma da un amico (secondo Stobeo) o da una straniera con cui il tiranno aveva avuto un amplesso occasionale (secondo Luciano). Per l'appartenenza del frammento a Sene ca cfr. E. Bickel, 1915, pp. 60-62.
F 43 1 Claudia Quinta era probabilmente figlia di Publio Claudio Pulcro uno dei figli di Appio Claudio Cieco -, console nel 249 a.C. (F. Milnzer, art. Claudia Quinta, in PW, RE, III, 2, col. 2899, n° 435; W. Drumann-P. Groebe, voi. II, pp. 153-154). L'episodio di cui fu protagonista (cfr. infra, n. 2) ci è narrato da varie fonti con numerose varianti: un'ampia disami na offrono E. Bickel (1915, pp. 221-231, che dimostra l'appartenenza a Seneca del nostro frammento) e, da ultimo, J. Gérard, 1980, e J. Scheid, Claudia, la vestale, in: A. Fraschetti (ed.), 1994, pp. 3-19. Una delle diver genze più marcate riguarda la condizione di Claudia, che nel testo di Gi rolamo è considerata una vestale, mentre nelle fonti più antiche e autore voli essa è una matrona: cfr. Cicerone, De har. resp., 27; Livio, XXIX, 14, 12; Ovidio, Fasti, IV, 313 (e così ancora Minucio Felice, 7, 3 e 27, 4); compare come virga per la prima volta in Stazio, Silvae, I, 2, 246, seguito da Claudiano, Carm. min. 30 (= Laus Serenae), v. 18 e da Apollinare Sido nio, Carm., 24, 43, e come vestale in Erodiano, Hist., I, 11, 4; Giuliano Imperatore, Orat. 5 (= Alla madre degli dèi), cap. 2, p. 160 B; De viris il lustribus, 46, 2; Ianuario Nepoziano, 9, 12, e, seppur meno esplicitamen te, anche presso Solino, 1, 126; altri invece non dicono nulla al riguardo: per es., Cicerone, Pro Caelio, 34; Properzio, IV, 11, 51-52; Ovidio, Epist. ex Ponto, I, 2, 141-142; Valerio Massimo, I, 8, 11; Plinio il Vecchio, Nat. hist., VII, 120; Silio Italico, XVII, 23-47; Tacito, Anna/es, IV, 64, 3; Sveto nio, Tib., 2, 3; Appiano, Hann., 56; Lattanzio, Div. instit., II, 7, 12; Agosti no, De civ. dei, X, 16; Macrobio, Saturn., Il, 5, 4 (= Augusto, Dieta, LXIII, p. 174 Malcovati, in: lmperatoris Caesaris Augusti operum fragmenta, Au gustae Taurinorum, 19695). Nei testi il nome della donna è o Claudia Quinta o Quinta Claudia o semplicemente Claudia o è taciuto, data la notorietà dell'episodio; solo in Diodoro Siculo, XXXIV/XXXV, 33, essa è chiamata Valeria, ma si tratta di un excerptum contenente numerose incertezze (fra l'altro vi è confuso Publio Cornelio Scipione Nasica console nel 162 e nel 155 a.C., con il pa dre omonimo, console nel 191). Secondo J. Gérard (1980), la leggenda del miracolo di Claudia si sarebbe formata nella seconda metà del secondo secolo a.C. nell'interesse della gens Claudia (e già E. Bickel, 1915, pp. 227-228, pensava non a caso che l'autore ne fosse l'annalista Quinto Clau dio Quadrigario, da cui Seneca avrebbe attinto); la funzione del personag-
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gio si sarebbe modificata poi nel I sec. d.C., quando il mito di Cibele si integrò con quello delle origini troiane di Roma e divenne nazionale. La sostituzione di una vergine, diventata poi senz'altro vestale, in alcuni testi a partire dalla fine del I sec. d.C. può essere spiegata sia con la facilità con cui la pudicitia o la castitas poteva diventare virginitas, sia col fatto che all'accoglimento della dea, secondo Ovidio (Fasti, IV, 296), erano pre senti anche le Vestali, sia soprattutto con la confusione con la vestale Claudia, di cui parla Valerio Massimo, V, 4, 6, che sia in Cicerone (Pro Caelio, 34) sia in Svetonio (Tib., 2, 4) è nominata subito dopo la nostra; cosi anche in altri autori (per es. in Properzio, IV, 11, 53-54 e in Agosti no, De civ. dei, X, 16) dopo Claudia Quinta seguono esempi di Vestali. F. Osann (1846, pp. 9-12) sostenne invece, contro ogni verosimiglianza, che Tito Livio «aut dormitavit..., ista quum scriberet, aut erroneam rei famam secutus, matronarum ordini Claudiam adscripsit• (p. l O). La fortuna della vicenda di Claudia è documentata dal rilievo di un'ara al Museo Capitoli no in Roma (B.M. Felletti Maj, art. Cibele, in «Enciclopedia dell'Arte Anti ca», vol. II, Roma, 1959, p. 576), dalla notizia di una statua a lei dedica ta, sfuggita miracolosamente a ben due incendi (Valerio Massimo, I, 8, 11; Ianuario Nepoziano, 9, 12; Tacito, Annales, IV, 64, 3) e da raffi gura zioni bronzee di cui parla Giuliano (cit., p. 161 B); inoltre Ovidio (Fasti, IV, 326) sembra autorizzarci a ritenere che esistesse una pretesta a lei in titolata. 2 Magna Mater è l'appellativo consueto di Cibele, detta anche la «Ma dre degli dèi,. e identificata dai Greci con Rea, la madre di Zeus e degli altri dèi, figli di Crono. L'appellativo Idea collega Cibele col monte Ida, in Frigia (attuale Kaz D�g. in Turchia), uno dei luoghi in cui era venerata. Secondo il racconto di Tito Livio (XXIX, 10, 4-11, 8, e 14, 5-14), nel 205 a.C., durante una fase critica della seconda guerra punica, una profezia contenuta nei libri Sibillini indusse i Romani a decretare il trasporto a Roma da Pessinunte, sede originaria di Cibele, del simulacro aniconico della dea, costituito da una piccola pietra silicea (forse un meteorite), di colore scuro e di forma acuminata; giunta con una nave alle foci del Te vere ai primi di aprile del 204, la pietra fu sbarcata ad Ostia; «l'accolsero riverenti le più distinte matrone della città, tra le quali resta famoso il nome della sola Claudia Quinta; la dubbia reputazione, come si vuol far credere, goduta da costei fino a quel momento rese più immacolata la sua pudicizia presso i posteri per un cosl religioso uffizio. Le matrone passandosi di mano in mano il simulacro, succedendo l'una al l'altra...portarono la dea nel tempio della Vittoria che si trova sul Palatino il giorno prima delle idi di aprile e quel giorno fu dichiarato festivo» (Li vio, XXIX, 14, 12-13; trad. L. Fiore, Torino, 1981, p. 509. Il giorno in re altà non era il 12 ma il 4 aprile - dunque pridie Nonas in luogo di pridie Jdus di Livio - come precisano le altre fonti: cfr. W. Drumann-P. Groebe, vol. Il, p. 154, n. 2); la pietra fu poi trasportata nel 191 nel tempio dedi cato alla Magna Mater, iniziato nello stesso anno 204 e di cui sono tutto-
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Commento: note 2-3 a F 43; I a F 44
ra visibili gli avanzi del podio, nell'angolo sud-ovest del Palatino (R.A. Staccioli, Guida di Roma antica, Milano, 1986, pp. 368-369). Come si vede, Livio non accenna al miracolo, che troviamo per la prima volta no minato nella rielaborazione di Ovidio (Fasti, IV, 291-346), secondo cui la nave si sarebbe arenata alle foci del Tevere e nessuno sarebbe riuscito a smuoverla finché Claudia, dopo aver levato una fervida preghiera alla dea, si fece avanti, afferrò la gomena e smosse l'imbarcazione, ricevendo così dalla divinità una piena assoluzione dall'accusa di impudicizia, che le era stata ingiustamente mossa. Dopo Ovidio, l'evento prodigioso fu più volte ripreso e rivisitato dagli scrittori, che lo variarono nei particolari (le narrazioni più ampie si leggono in Erodiano, Hist., I, 11, 3-5 e in Giulia no Imperatore, Orat. 5 - Alla madre degli dèi -, cap. 2, pp. 159 C - 161 B): per es., la nave sarebbe stata tirata con una fune, secondo Ovidio (cit ., w. 297 e 325) e Silio Italico, XVII, 41; con la cintura della donna, secondo Appiano, Hann., 56; Minucio Felice, 27, 4; Tertulliano, Apol., 22, 12; Erodiano, Hist., I, 11, 4-5; lanuario Nepoziano, 9, 12; Lattanzio, Div. instit., II, 7, 12; Giuliano Imperatore, cit., p. 160 C; De viris illustribus, 46, 2; Agostino, De civ. dei, X, 16; e addirittura con i capelli, secondo Claudiano, Cann. min., 30, 18, e Apollinare Sidonio, Cann., 24, 43. 3 La designazione di Seneca come patruus di Lucano risale alle opere cronografiche e biografiche di Girolamo. Nel Chronicon ad a. 66 p. Chr. (p. l 84e Helm) leggiamo: L. Annaeus Seneca Cordubensis, praeceptor Nero nis et patruus Lucani poetae, incisione venarum et veneni haustu perit, e nel De viris illustribus (12, 1): Lucius Annaeus Seneca Cordubensis, Sotio nis stoici discipulus et patruus Lucani poetae, eqs.; mentre nelle altre quattro citazioni dell'Adv. Jovin. egli è indicato tre volte come Seneca e un'ultima, genericamente, come doctissimus vir (cfr. Introduzione, p. 24, n. 102). Sulla conoscenza che Girolamo aveva di Lucano cfr. H. Hagen dahl, 1958, pp. 186, n. 1; 190; 230; 244; 252; 284; 325. F 44 1 Per inquadrare i personaggi di cui Seneca parla in F 44, 45 e 47, è necessario tracciare un breve profilo della famiglia di Catone. Marco Por cio Catone, il celeberrimo Uticense immortalato da Lucano e da Dante, nato nel 95 a.C., o poco prima (W. Drumann-P. Groebe, voi. V, p. 164, n. 6), si sposò una prima volta con Atilia, figlia di Atilio Serrano, da cui ebbe due figli: Porcia, nata intorno al 75, e Marco, che morirà a Filippi nel 42. Incline alla dissolutezza, Atilia fu ripudiata intorno al 65 dal mari to, che passò a seconde nozze nel 62/61 con Marcia, figlia di Lucio Mar cio Filippo, console nel 56: essa gli diede tre figli, un maschio (W. Dru mann-P. Groebe, voi. V, p. 213, n° 25, suppongono che il prenome fosse Lucio) e due femmine, di cui almeno una si sarebbe chiamata Porcia (ibid., p. 213, numeri 26 e 27; F. Miltner, art. Porcia, numeri 29 e 30, in
Commento: nota 1 a F 44
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PW, RE, XXII, 1, col. 218). Intanto, nel 56 o poco dopo, accadde un epi sodio clamoroso, che ebbe vasta eco sia fra i contemporanei che fra i po steri (cfr. infra, F 45, n. 1): Catone cedette la moglie Marcia al celebre oratore Quinto Ortensio Ortalo, su richiesta di quest'ultimo e col consen so del padre di lei Filippo; dopo la morte di Ortensio, awenuta nel SO. Catone riprese con sé Marcia nel gennaio del 49, ma non poté più vivere accanto a lei perché le vicende della guerra civile lo coinvolsero in conti nui impegni militari, fino alla morte per suicidio, awenuta ad Utica in torno alla metà di aprile del 46. Nessuna delle figlie di Catone aveva nome Marcia (per i vari membri della gens Porcia cfr. W. Drumann-P. Groebe, voi. V, pp. 96-217; l'albero genealogico è alle pp. 96-97); dunque, com'è stato persuasivamente sostenuto da E. Bickel (1915. pp. 57-58 e 289-290), Girolamo confonde Marcia con Porcia; ma un lapsus di tal ge nere è difficilmente attribuibile a Seneca: per cui è probabile che nel De matrimonio si leggesse effettivamente il nome di Porcia. A questo punto però è necessario sgombrare il campo da un equivoco: F 44 e F 47 non solo esprimono la stessa decisa contrarietà alle seconde nozze, efficace mente condensata in due risposte di carattere apohegmatico, ma sono esplicitamente attribuiti alla medesima persona, la figlia minore di Cato ne, che in F 47 è correttamente indicata col nome di Porcia: non è dun que possibile identificare quest'ultima con la figlia di primo letto, moglie di Marco Calpurnio Bibulo, console nel 59, in primo luogo perché essa era la maggiore delle figlie di Catone, in secondo luogo perché essa, ri masta vedova intorno alla metà di marzo del 48 (Bibulo morì per la fati ca e il freddo sulla sua nave di comandante della flotta pompeiana nel l'Adriatico, come sappiamo da Cesare, De bello civili, III. 18, 1-2; per maggiori particolari cfr. D. Vottero, n. 1 ad h.l. in A. Pennacini (ed.), 1993, p. 1287), si risposò nel 45 con Bruto (cfr. infra, n. 1 a F 45). Se le due sententiae fossero attribuite a Porcia Maggiore, la contraddizione fra il solenne proposito e il comportamento pratico della donna sarebbe insa nabile (frutto di un'ingenuità disarmante è pensare, con W. Drumann-P. Groebe, voi. V, p. 213, n. 4, che essa abbia semplicemente cambiato idea!), e non avrebbero potuto essere raccolte acriticamente dalla tradi zione filosofica che di Porcia ci ha lasciato un'immagine idealizzata, ac comunata per le sue eroiche virtù alle figure del padre (Catone) e del se condo marito (Bruto), visti come campioni delle libertà repubblicane e assurti a simbolo di romana fierezza e di opposizione alla tirannide. Così non a lei si riferisce Seneca in F 47 con felix et pudica matrona (come so stengono W. Drumann-P. Groebe, voi. V, p. 212, n. 3, e F. Miltner, art. Porcia, n° 28, in PW, RE, XXII, 1, col. 218, 20), che non è apposizione di Porcia, ma soggetto di nubit; tanto meno numquam praeter semel nubit dello stesso F 47 ha per soggetto Porcia (così W. Drumann-P. Groebe, voi. V, p. 210, n. 6). Sgombrato il campo da questa serie di fraintendimenti, cui purtroppo ha contribuito almeno in parte lo stesso Girolamo, possia mo concludere che in F 44 e 47 Seneca ci presenta Porcia, la più giovane delle due figlie di secondo letto di Catone, della quale noi non sappiamo
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Commento: note 1-3 a F 44; 1 a F 45
nient'altro che questo: fu generata da Marcia appena prima del suo ma trimonio con Ortensio (Lucano, II, 330-331), dunque intorno al 56, e fu affidata alla stessa Marcia da Catone nella seconda metà del gennaio 49, quando l'Uticense riprese con sé la moglie proprio per darle in custodia la casa e le figlie (Plutarco, Cato minor, 52, 5), che egli non intendeva ab bandonare, nell'imminenza della partenza da Roma per condividere le sorti di Pompeo, fuggito dalla capitale la sera del 17 gennaio (i consoli e la maggior parte dei senatori lo seguiranno il 18: cfr. D. Vottero, n. 5 a De bello civili, I, 14, 3, in A. Pennacini (ed.), 1993, p. 1196). Non sappia mo quindi chi fosse il marito e in quali circostanze essa l'abbia perduto. 2 Un aneddoto in parte simile è riferito da Plutarco, Coniug. praec., 24, p. 141 C: un giovane della corte macedone aveva preso in moglie una donna molto bella ma di cattiva reputazione; la regina Olimpiade (cfr. su pra, n. 2 a F 35) aveva commentato: «Costui non ha criterio, altrimenti non si sarebbe sposato basandosi sugli occhi»; la morale tratta da Plutar co è che non ci si deve sposare né «con gli occhi» né «con le dita», cioè calcolando le ricchezze che la moglie porta in dote. Stando ad Ateneo, XIII, p. 609 B-C, lo stesso episodio, con alcune varianti, era raccontato nel decimo libro delle Storie di Filarco (III sec. a.C.; FGrHist, 81 F 21 Ja coby); ma mentre Plutarco nega che gli occhi siano buoni giudici, in Se neca è vero il contrario, perché essi sono considerati uno strumento del l'anima (cfr. ThlL, IX, 2, 447, 19-53; 448, 22-34). L'esaltazione delle doti più preziose e consistenti della donna di fronte alle altre caduche e pas seggere appare fin dagli inizi della riflessione greca, in Omero e in Esio do, e trova l'assertore più pieno e convinto in Semonide d'Amorgo; si tratta di un tema ampiamente sviluppato nella trattatistica (cfr., per es., Senofonte, Oecon., VII, 42-43; [Aristotele], Oecon., Ili, 1, pp. 140-142 Rose; p. 352 segg. Gigon). 3 Pur essendo indiscutibile l'alto rigore morale di Porcia e la nobiltà dei suoi intenti, difficilmente Seneca poteva approvare l'atteggiamento di totale chiusura di fronte al dolore e il desiderio di lutto perpetuo. Egli in fatti, scrivendo negli stessi anni del De matrimonio la Consolatio ad Mar ciam (37 d.C.: I. Lana, 1955, pp. 97-100), biasima Ottavia che non smise mai di piangere e gemere per la perdita del figlio Marcello ( «quale duran te il funerale, tale fu per tutta la vita»: ibid., 2, 4) e respinse gli interventi consolatori di amici e parenti: «non smise mai le vesti di lutto, non senza recare offesa, così, a tutti i suoi, perché sembrava che, mentr'essi erano vivi, essa fosse sola al mondo» (ibid., 2, 5). F 45 l Anche questo passo, come il precedente (F 44), presenta un grave
fraintendimento della realtà storica (sugli errori di Girolamo cfr. supra, n.
Commento: nota 1 a F 45
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1 a F 33), che potrebbe essere questa volta intenzionale, nato dal deside rio di contrapporre alla volubilità e all'indifferenza di una moglie sposata in seconde nozze, la dedizione e l'attaccamento dell'univira (tant'è vero che Girolamo commenta il nostro brano con queste parole: «Le donne in fatti si dedicano con maggiore affetto a un marito che rimanga unico, e il non essere passata attraverso nessun'altra esperienza costituisce un fat tore importante volto a creare un più stretto legame di tenerezza», I, 46, p. 387, 24-26 Bickel). Ma le fonti sono concordi nell'informarci che: a.) Marcia, seconda moglie di Catone l'Uticense (cfr. supra, n. l a F 44), era vergine: quondam virgo toris melioris iuncta mariti (Lucano, II, 329); Ca tone «era coniugato con Marcia, figlia di Filippo, che aveva sposato vergi ne, e pur essendole oltremodo affezionato ed avendo da lei dei figli, la cedette tuttavia ad Ortensio, uno dei suoi amici, che desiderava dei figli ma aveva una moglie che non gliene poteva dare; Marcia rese padre an che Ortensio: a questo punto Catone la riaccolse in casa, come se l'avesse data semplicemente in prestito» (Appiano, Bella civ., II, 99, 413). Sulla vi cenda di Marcia (per cui cfr. anche supra, n. l a F 44; W. Drumann-P. Groebe, voi. III, pp. 101-102; voi. V, pp. 208-209; F. Milnzer, art. Marcia, n ° 115, in PW, RE, XIV, 2, col. 1602; per una interpretazione e per un inquadramento storico-giuridico della diandria e della poliandria nella so cietà romana cfr. M. Salvadore, 1990, pp. 13-46, con le precisazioni di E. Cantarella, 1996, pp. 98-107) già gli antichi espressero giudizi e valutazio ni divergenti, come osserva esplicitamente Plutarco, che proprio per que sto dedica all'episodio uno spazio molto ampio (Cato minor, capp. 25; 52, 5-8: al § 8 respinge recisamente gli attacchi di Cesare, che aveva accusato Catone di aver mirato alle ricchezze di Ortensio); da parte sua Lucano (II, 326-391), insieme con Catone, idealizzerà anche Marcia, in ciò segui to da Dante che spiegherà allegoricamente il ritorno di Marzia presso il primo marito come figurazione dell'anima che torna a Dio (Convivio, N, 28, 13-19; cfr. M. Pastore Stocchi, art. Marzia, in « Enciclopedia Dante sca», voi. III, Roma, 19842 , p. 850). Ma intanto la vicenda era diventata emblematica: se ne serve Strabone (XI, 9, 1, p. 515 C) per un parallelo etnografico; se ne impadroniscono le scuole di retorica, in cui si dibatte an Cato recte Marciam Hortensio tradiderit (Quintiliano, III, 5, 11; X, 5, 13); la citano con riprovazione i cristiani, a partire da Tertulliano (Apol., 39, 12-13; Girolamo, Adv. Jovin., II, 7, col. 296 A, PLM = pp. 402-403 Bic kel; Agostino, De bono coniugali, 18, 21; De fìde et operibus, 7, 10; Salvia no, De gubern. dei, 7, 23, 103); un biasimo implicito si legge anche in Dione Crisostomo, Orat., 31, 42 (su cui M. Bettini, 1992, p. 67). b.) Vice versa Porcia, come abbiamo già accennato (supra, n. 1 a F 44), andò spo sa a Marco Calpurnio Bibulo intorno al 61 (W. Drumann-P. Groebe, voi. V, p. 209, n. 12; F. Miltner, art. Porcia, n° 28, in PW, RE, XXII, l, col. 217) e fu forse questo il motivo che impedl ad Ortensio di ottenerla in moglie (Plutarco, Cato minor, 25, 4-8; in realtà però non esistevano veri e propri impedimenti giuridici, come nota ancora E. Cantarella, 1996, p. 100); rimasta vedova intorno alla metà di marzo del 48, si risposò con
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Commento: note 1 a F 45; 1 a F 46
Marco Giunio Bruto nella seconda metà di giugno del 45; dopo il cesari cidio, Bruto decise di lasciare l'Italia e Porcia lo vide per l'ultima volta ad Elea (Velia) in Lucania, alla fine di agosto del 44 (Plutarco, Brutus, 23). La data della sua morte è controversa: secondo la tradizione, che Seneca qui segue, essa si sarebbe uccisa ingerendo dei carboni ardenti, alla noti zia del suicidio del marito, awenuto intorno alla metà di novembre del 42, dopo la seconda battaglia di Filippi (Valerio Massimo, IV, 6, 5; Mar ziale, I, 42; Plutarco, Brutus, 53, 5-7; Cato minor, 73, 6; Appiano, Bella civ., IV, 136, 574; Cassio Dione, XLVII, 49, 3; Polieno, Strateg., VIII, 32); senonché alcuni indizi lasciano ritenere che essa sia morta prima di Bru to, probabilmente nel 43 (W. Drumann-P. Groebe, voi. V, p. 211, nn. 4-8; F. Miltner, art. cit ., coli. 217-218). Sappiamo infatti da Cicerone (Epist. ad Brut., I, 17, 7) che poco dopo la battaglia di Modena essa era malata, e in una lettera di poco anteriore al 18 giugno del 43, lo stesso Cicerone sembra lamentarne la morte (ibid., I, 9, 2: amisisti cui simile in terris nihil fuit). Anche Plutarco (Brutus, 53, 5-7), che cita come fonte Nicolao di Damasco (FGrHist, 90 F 99 Jacoby), fa cenno ad una lettera che Bruto avrebbe inviato agli amici, rimproverandoli di non aver vegliato sulla vita di Porcia (Epistolographi Latini minores, voi. II, n° LIV, Fragm. 75 Cugusi, Augustae Taurinorum, 1979, pp. 181-182; commento e bibliografia ibid., II, 2, pp. 202-203). Il racconto del suicidio dopo Filippi sarebbe quindi una falsificazione della tradizione letteraria, che ha voluto creare in Por cia l'omologo femminile del padre Catone: al momento in cui vede defini tivamente conclusa la propria missione, si toglie eroicamente la vita (sul significato e il valore di questa morte «esemplare», cfr. M. Citroni, 1975, pp. 136-137; e M. Salvadore, 1990, pp. 47-60). È probabile dunque che in Seneca la verità storica fosse rispettata (P. Frassinetti, 1955, pp. 176-177 e 187; supra, nn. 2 a F 30; 1 a F 44) e che l'apprezzamento del filosofo fosse rivolto a Porcia che, pur risposatasi dopo la vedovanza, rimase in trepidamente fedele alla memoria del secondo marito; solo cosl acquista senso sed: Marcia, pur sposata vergine, si dimostrò infedele, al contrario di Porcia, matrona non univira. Qualcosa di simile abbiamo letto anche a proposito della vicenda di Catone il Vecchio (F 34): una moglie di bassa estrazione sociale non garantisce, per questo solo motivo, il mantenimen to dell'armonia coniugale. Entrambe queste considerazioni trovano con ferma nella precettistica senecana, che ammetteva matrimoni con donne vergini e non, ricche e povere: In matrimonio praecipies quomodo vivat cum uxore aliquis quam virginem duxit, quomodo cum ea quae alicuius ante matrimonium experta est, quemadmodum cum locuplete, quemadmo dum cum indorata (Epist., 94, 15). F 46 1 Annius è nomen plebeo (W. Drumann-P. Groebe, voi. I, p. 29); non sussistono elementi per identificare la nostra matrona con qualcuna fra le
Commento: note 1 a F 46; 1 a F 47; 1 a F 48; 1 a F 49
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Annie a noi note per altra via (E. Klebs, art. Annia, n° 103, in PW, RE, I, 2, col. 2310, 43-46; E. Bickel, 1915, p. 290). F 47 1 Su Porcia Minore e sull'interpunzione del nostro frammento cfr. su pra, n. 1 a F 44. Questo exemplum si inserisce in una nutrita serie di epi sodi uguali o simili, tendenti ad esaltare le matrone univirae (cfr. Introdu zione, p. 25, n. 106). F 48 1 Parlando di Marcella e di Annia (F 46), E. Bickel (1915, p. 290) le definisce «matronae duae, quarum de aetate et vita nil constat, nullo alio nomine nisi gentilicio significatae»; mentre E. Groag (art. Claudia Marcel la maior, n° 422, in PW, RE, III, 2, coli. 2890-91) identifica la nostra con Claudia Marcella (Maggiore), figlia di Gaio Claudio Marcello e di Ottavia Minore, sorella di Augusto: che l'aneddoto senecano sia «bedeutungslos» (col. 2891, 20) è forse eccessivo affermare, visto che si inserisce a pieno titolo nella serie di medaglioni volti all'esaltazione dell'univira (F 37. 40. 44-49. 53; cfr. Introduzione, p. 25, n. 106); quel che pare invece del tutto improbabile, come abbiamo già osservato a proposito di Porcia Maggiore (supra, n. 1 a F 44), è che la tradizione filosofica e la letteratura degli exempla abbiano potuto attribuire un apoftegma di rifiuto delle seconde nozze a una matrona che andò sposa una prima volta a Marco Vipsanio Agrippa intorno al 28 a.C., una seconda volta a Iullo Antonio, figlio del triumviro, e una terza volta (W. Drumann-P. Groebe, voi. II, p. 338, n° 17. c) a Sesto Appuleio, console nel 14 d.C. F 49 1 Valeria (R. Hanslik, art. Valeria, n° 392, in PW, RE, VIII A 1, col. 244) era figlia di Marco Valerio Messal(l)a Nigro, console nel 61 a.C., e quindi sorella di Marco Valerio Messala Potito, console suffetto nel 29, e di Marco Valerio Messala Corvino, console nel 31, il celebre uomo politi co, oratore, storico, grammatico e poeta, creatore del circolo che da lui prese nome (A. Rostagni, 1964, voi. II, pp. 19-22). Essa sposò Servio Sul picio Rufo (F. Mtinzer, art. Sulpicius Rufus, n° 96, in PW, RE, IV A 1, coli. 860-862), figlio dell'omonimo giureconsulto amico di Cicerone: pare sia morto poco dopo la scomparsa del padre e di Cicerone (43 a.C.), forse vittima delle proscrizioni; egli è comunemente identificato con il Servio (Sulpicio), autore di poesie erotiche, citato da Orazio, Senn., I, 1O, 86, da Ovidio, Tristia, II, 441 e da Plinio il Giovane, Epist., V, 3, 5. Si ha notizia
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Commento: note 1 a F 49; 1-3 a F 50
di tre figli nati da Valeria e da Servio: uno morto in tenera età (CIL. VI. 26979), l'altro, Postumio Sulpicio, assistente di Messala Corvino curator aquarum nell'l l a.C., e, verosimilmente, la poetessa Sulpicia, appartenen te al circolo di Messala, e a noi nota dal corpus Tibullianum (cfr. A. Ro stagni, 1964, voi. II, pp. 185-189 e 205). La risposta di Valeria è testimo ne di uno stato d'animo simile a quello attribuito ad Artemisia, che de functum maritum sic semper amavit ut vivum (F 37). Per l'appartenenza del nostro frammento a Seneca cfr. E. Bickel, 1915, p. 290. Per l'indivi duazione di Valeria cfr. M. Haupt, Varia, «Hermes», V, 1871, pp. 32-34 (riedito in Id., Opuscula, III, 2, Lipsiae, 1876, rist. Hildesheim, 1967. pp. 502-503). F 50
1 Sulle designazioni di Seneca nell'Adv. /ovin. cfr. Introduzione. p. 24. n. 102. Sulla doctrina riconosciuta a Seneca dagli antichi cfr., per es.. Co lumella, III, 3, 3: vir excellentis ingenii atque doctrinae; Plinio il Vecchio. Nat. hist., XIV, 51: principe...eruditorum; Marziale, IV, 40, 2: docti Sene cae; Quintiliano, supra, T 1, 128-129; Gellio, Xli, 2, 1: rerum, quas dicat. scientiam doctrinamque ei non deesse dicunt.
2 Il nostro passo trovava posto verosimilmente nella parte finale del De matrimonio, contenente la perorazione sulla pudicitia (cfr. Introduzio ne, p. 25; E. Bickel, 1915, pp. 362-366) che, soprattutto per la donna, è l'ornamento più bello: unicum tibi ornamentum, pulcherrima et nulli ob noxia aetati forma, maximum decus visa est pudicitia (Cons. ad Helviam. 16, 4; per l'uomo cfr., per es., De vita beata, 13, 3). Essa è una di quelle virtù che si devono cercare per se stesse (De bene{., IV, 12, 4), che s i in segnano ai bambini fin da piccoli (Cons. ad Marciam, 22, 2; De bene{.. VI. 24, 1) e che pretende di trovare negli altri anche chi non la pratica (De ira, II, 28, 7; Epist., 94, 26), e costituisce uno degli argomenti p ropri della filosofia morale (Epist., 49, 12; 88, 8). Se l'impudicitia è il peggiore dei mali che affliggono l'età di Seneca (Cons. ad Helviam, 16, 3), la pudicitia per contro è uno di quei beni senza i quali è possibile sì continuare a vi vere, ma in modo tale che la morte sarebbe preferibile (De bene{., I. 11. 4); onde non desta meraviglia che il giovane Seneca, alla scuola di Attalo. si sentisse infiammato a seguire un tenore di vita ascetico, fondato sulla sobrietà e sulla castità (Epist., 108, 14).
3 Si tratta di motivi topici nelle trattazioni di carattere matrimoniale. Cfr .• per es.. Finti pitagorica (la presunta figlia di Callicratida: R. Del Re. 1979, pp. 48-49, n. 71, n° 31) presso Stobeo, IV, 23, 61-6la (voi. IV. pp. 590. 9-591, 15 Hense): «Nel modo più efficace ed essenziale p romuove la pudicizia il non macchiare il talamo e l'essere pura da qualsiasi contatto con uomini estranei. Se cade in tale mancanza, (la moglie) offende innan-
Commento: note 3-7 a F 50
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zitutto gli dèi penati in quanto dà alla famiglia e alla stirpe aiuti non le gittimi ma spuri...L'ornamento più bello e il vanto più grande d'una don na libera è di poter testimoniare coi propri figli la sua purezza coniugale, se essi riproducono nell'aspetto la somiglianza del padre che li ha genera ti». Per la corruzione del sangue conseguente all'adulterio cfr. M. Bettini, 1992, p. 157, n. 5. In un contesto analogo, alcune alternative ritorneranno in Nat. quaest., I, 17, 4. 4 La pudicizia si presenta sotto un duplice aspetto: si astiene dal vio lare il corpo altrui ed ha riguardo per il proprio corpo (Epist., 49, 12). L'integrità fisica va di pari passo con la purezza interiore, in quanto la li bidine sessuale attraverso il piacere corrompe l'animo (Cons. ad Marciam, 19, 6: libidinis per voluptatem animos carpentis): chi se ne libera è al sicu ro da ogni altra passione (Cons. ad Helviam, 13, 3: quem non violaverit
hoc secretum et infzxum visceribus ipsis exitium, omnis alia cupiditas in tactum praeteribit).
S Seneca stesso fu console (I. Lana, 1955, p. 240; suffetto per sei mesi nel 55 secondo la ricostruzione di G. Camodeca, I consoli del 55-56 e un nuovo collega di Seneca nel consolato: P. Cornelius Dolabella (TP. 75 [= 140}+ 135), «Zeitschrift fiir Papyrologie und Epigraphik», LXIII, 1986, pp. 201-215) e le fonti antiche ci informano a più riprese dei suoi succes si nel campo dell'eloquenza (Introduzione, pp. 11-12). La sottomissione di popolazioni straniere fu considerata cosl importante da fruttare a nume rosi generali l'onore di un soprannome che traeva origine dal nome delle genti o delle regioni conquistate: per es. Africano, Allobrogico, Asiatico, Bitinico, Britannico, Dalmatico, Germanico, Isaurico, Macedonico, Nu mantino, Numidico, e cosl via. 6 Cfr. Cons. ad Marciam, 16, 2: Bruto libertatem debemus, Lucretiae Brutum; per la vicenda di Bruto e Lucrezia cfr. supra, n. 1 a F 41.
7 Cornelia, la più giovane delle due figlie di Publio Cornelio Scipione Africano Maggiore, andò sposa giovanissima - nel 183 a.C. - a Tiberio Sempronio Gracco (217-154 a.C.) cui diede dodici figli: tutti, eccetto Sem pronia, le premorirono. Rimasta vedova nel 154, non si risposò, nono stante che l'avesse chiesta in moglie il sovrano d'Egitto Tolemeo (identifi cato per lo più con Tolemeo VIII, Evergete II): rifiutò quindi la possibili tà di diventare regina (Plutarco, Gracchi, 1, 7). La tradizione ne fece il modello della matrona romana (cfr. C. Petrocelli, Cornelia, la matrona, in: A. Fraschetti (ed.), 1994, pp. 21-70, con ampia bibliografia); basterebbe citare a questo proposito quanto scrive Plutarco (ibid.): «Allevò i due ma schi di cui scrivo la biografia, Tiberio e Gaio, con tanta saggezza che pur essendo, secondo l'opinione comune, i migliori tra i Romani per doti na turali, diedero a vedere di aver ricevuto un più deciso incitamento alla virtù dall'educazione che dall'indole innata». Perciò le fu decretato l'altis-
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Commento: note 7-8 a F 50
simo onore di una statua (Plinio il Vecchio, Nat. hist., XXXIV, 31; Plutar co, Gracchi, 25, 4), di cui nel 1878 venne alla luce la base rettangolare (A. Longo, art. Cornelia, in «Enciclopedia dell'Arte Antica», voi. Il, Roma. 1959, p. 854). Un suo aforisma è ricordato da Seneca in Cons. ad Mar ciam, 16, 3, e in Cons. ad Helviam, 16, 6. Per Porcia e Bruto cfr. F 45 e n. 1. Dal punto di vista critico-testuale, occorre osservare che contro Gracco dei codici dell'Adv. Jovin., cui si attiene il Bickel, è forse opportu no ripristinare la grafia Graccho, costantemente rispettata da tutta la tra dizione manoscritta senecana nei casi analoghi di Cons. ad Marciam. 16, 3 e 4; De brev. vitae, 6, l; Cons. ad Helviam, 16, 6; De bene{., VI, 34, 2; Epist., 114, 13.
8 La tradizione storica, commista ad elementi leggendari, racconta che durante il regno di Anco Marcio giunse a Roma, proveniente da Tar quinia, un ricco straniero, di nome Lucumone, insieme con la moglie: Ta naquilla (a noi noto come prenome femminile etrusco nelle forme thana chvil arcaica, thanchvil recente). Ben accolto dal re, che gli donò la citta dinanza romana, egli mutò il suo nome in quello di Lucio Tarquinio. mentre la consorte mutò Tanaquilla in Gaia Cecilia. Acquistatosi ben pre sto, per i suoi meriti in pace e in guerra, la stima del re e l'affetto del popolo, Tarquinio fu designato da Anco morente come tutore dei suoi fi gli e, morto il re, ottenne egli stesso la corona per consenso unanime dei cittadini. Dopo 38 anni di regno (616-578 a.C.) fu assassinato dai figli di Anco Marcio, bramosi di vendicarsi dell'usurpato trono e preoccupati che egli indicasse come suo successore il genero Servio Tullio. Ma, avvenuto il misfatto, la scaltra ed energica vedova Tanaquilla fece proclamare che il re, gravemente ferito, era ancora in vita, e che aveva nominato Servio come temporaneo reggente. Così questi ebbe tempo di affermarsi al pote re e, quando lo giudicò opportuno, annunciò la morte di Tarquinio e si fece riconoscere re dal popolo. La singolare figura di Tanaquilla ha spes so suscitato discussioni relative al problema della sua storicità (per es. G. De Sanctis, 1979, pp. 365-366, la considerava senz'altro una divinità, ipo stasi della buona matrona), oggi comunemente ammessa (cfr. A. Momi gliano, Tre fìgure mitiche: Tanaquilla, Gaia Cecilia, Acca Larenzia. 1938, rist. in Id., 1989, pp. 371-394; in particolare per Tanaquilla: pp. 372-377), e della sua identificazione con Gaia Cecilia. Le sue virtù domestiche sono rilevate soprattutto da Plinio il Vecchio, Nat. hist., VIII, 194; da Festo, De verborum signif., s.v. Praebia, p. 238 Mueller = p. 276 Lindsay; da Paolo Diacono, Epitome ex Festo, s.v. Gaia Caecilia, pp. 95-96 M. = p. 85 L. (che ne sottolinea la probitas); da Ausonio, Parentalia, 32, 5; da Apollinare Si donio, Carm., 24, 39; per Plutarco (Quaestiones Romanae, 30, p. 271 E) essa era dotata delle più alte qualità sia fisiche che morali. Altre volte in vece Tanaquilla era citata come la tipica donna dominatrice e prepotente (Giovenale, VI, 566; Ausonio, Epist., 23, 31) e Paolino da Nola (Carmina. lO, 192) arriverà addirittura a contrapporla a Lucrezia (nec Tanaquil mihi, sed Lucretia coniunx). Sulla sua figura cfr., da ultimo, E. Cantarella
Commento: note 8 a F 50; 1-2 a F 51
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(La doppia immagine di Tanaquilla: Grande Madre, moglie fedele, in T. Gia ni Gallino (ed.), 1990, pp. 137-147), che cosi conclude il suo saggio: «come tessitrice Tanaquilla è la spia di un momento storico-precittadino in cui è 'madrina' delle giovani spose. Come filatrice, rinvia simbolica mente a un universo in cui è signora del destino, della vita e della morte. Ma il patriarcato romano non la ricorda più in queste vesti. Pur dedican dole una statua in cui è rappresentata con il fuso e la conocchia, non la onora come colei che fila la vita, ma solo come una moglie fedele che, chiusa nella sua casa, fila la lana» (pp. 146-147).
F 51 1 Le tragedie dello stesso Seneca ci offrono da se sole molti esempi di tali vicende: nella Medea, la protagonista provoca la morte del marito Giasone che l'abbandona per sposare Creusa; nell'Agamennone Clitenne stra, che odia Cassandra, uccide il marito con la collaborazione del pro prio amante Egisto; nell'Ercole Eteo Deianira uccide, pur senza volerlo, il suo sposo Ercole che torna a Trachis con la bella Iole. Nell'Ercole furioso il protagonista, in preda a follia, uccide moglie e figli; nella Medea la pro tagonista uccide sulla scena i figlioletti avuti da Giasone; nella Fedra la protagonista, spinta da passione incestuosa, provoca la rovina del figlia stro Ippolito. Infine, nel Tieste il protagonista uccide con l'inganno i figli del fratello Atreo e ne imbandisce le carni al misero padre. Numerosi casi simili sono citati, per es., da Ateneo, XIII, pp. 556 C e 560 C-F, e costitu ivano probabilmente un luogo comune nella trattazione dei filosofi sul matrimonio (cfr., per es., Nicostrato, IlEQÌ. yaµou, apud Stobaeum, IV, 23, 65, voi. IV, p. 598, 14-16 Hense). 2 Il ratto di Elena, causa della guerra di Troia, conta nei testi greci e latini innumerevoli citazioni: crudo, ma efficace, Orazio, Sermones, I, 3, 107-108: nam fuit ante Helenam cunnus taeterrima belli I causa. E. Bickel (1915, pp. 65-66 e 338) ritiene che Girolamo non dipenda da Seneca, ma da qualche scritto posteriore: forse Plutarco, Coniug. praec., 21, pp. 140 F-141 A; forse Giamblico, Pythagorae vita, 8, 42. Ma la genericità dei due passi offre poche garanzie: per es. Plutarco si limita ad osservare che «il matrimonio di Elena e di Paride arrecò a Greci e barbari un'Iliade di guai», espressione proverbiale largamente diffusa nel mondo antico (A. Otto, 1890, p. 171, n° 849). È vero che decennale bellum è locuzione del latino tardo (ThlL, V, l, 130, 4-9), ma ai dieci anni della guerra di Troia Seneca fa più volte riferimento sia nell'Agamennone (w. 156; 398a-399a; 867; 921) sia nelle Troiane (w. 22-24; 125-128; 273-275; 547-550; 591); ed è altrettanto vero che «Seneca Helenam in servatis scriptis non nisi epist. 88, 6 tetigit» (E. Bickel, 1915, p. 338), ma, proprio in riferimento a Ele na, leggiamo in Agam., 274: Europam et Asiam paribus afflixit malis, e in Troades, 896: tibi fluxit Asiae, fluxit Europae cruor. Infine, pur essendo
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Commento: note 2 a F 51; 1-2 a F 52; 1 a F 53
evidente nell'intera frase l'impronta geronimiana (E. Bickel, 1915, p. 66, n. 1), non sarà inutile rilevare che anche muliercula è vocabolo presente nella prosa di Seneca (De clem., II, 5, 1; Epist., 63, 13; 66, 53). Per la fi gura di Elena e il gran numero di tradizioni ad essa relative cfr. le belle pagine di N. Loraux, 1991, pp. 207-226, dal titolo significativo: «Il fanta sma della sessualità». F 52
1 L'India è considerata regione barbara anche in Cons. ad Helviam, 7, 1. L'interesse di Seneca per l'India è testimoniato dal suo trattato geo etnografico De situ Jndiae (T 20-21): cfr. Introduzione, pp. 21-22.
2 Notizie sulla costumanza indiana qui descritta (conosciuta in Euro pa col nome di satr, che propriamente indica la donna - «vera sposa» - e non la cerimonia; proibita oggi per legge, ma ancora praticata da gruppi fanatici) si diffusero nel mondo greco in seguito alle relazioni degli stori ci di Alessandro: cfr. Onesicrito, FGrHist, 134 F 21 Jacoby (= Strabone, XV, 1, 30, pp. 699-700 C); Aristobulo di Cassandreia, FGrHist, 139 F 42 Jacoby (= Strabone, XV, 1, 62, p. 714 C); probabilmente Clitarco, presso Diodoro Siculo, XVII, 91, 3; Ieronimo di Cardia, presso Diodoro Siculo, XIX, 33, 3-34, 6; cfr. inoltre Nicolao di Damasco, FGrHist, 90 F 124 Ja coby; Plutarco, An vitiositas ad infelicitatem suffìciat, 3, p. 499 C; Eliano, Varia historia, VII, 18. Fra i Romani, il primo a parlarne fu Cicerone, Tu sculanae, V, 78; cfr. inoltre Properzio, III, 13, 15-22; Valerio Massimo, Il, 6, 14: Solino, 52, 32; Servio, Comm. ad Aen., V, 95; W. Heckel - J.C. Yar dley, Roman Writers and the Jndian Practice of Suttee, «Philologus•, CXXV, 1981, pp. 305-311 (al nostro passo, riportato a p. 307 nella forma scorretta in cui si legge in PLM, gli autori dedicano scarsa attenzione, ri tenendolo senz'altro una tarda testimonianza dell'epoca di S. Girolamo). Per l'appartenenza del nostro frammento a Seneca cfr. E. Bickel, 1915, pp. 333-335. Il tema fu oggetto di trattazione delle scuole di retorica e dei moralisti (cfr. J. André - J. Filliozat, 1986, pp. 339-340, n. 6; p. 402, n. 414).
F 53
1 Alcesti, una delle quattro figlie di Pelia, sposò Admeto ed accettò di morire al suo posto; Eracle la ricondusse in vita dall'Ade. Il mito era noto soprattutto attraverso l'Alcesti di Euripide, una tragedia che nessuna per sona colta poteva ignorare (Macrobio, Saturn., V, 19, 3), destinata ad esercitare molta influenza anche sul teatro moderno (basti citare l'Alceste prima e l'Alceste seconda del nostro Alfieri); abbiamo notizie anche di altri drammi greci e latini che trattavano il medesimo tema: per es. l'Alcesti di
Commento: note 1 a F 53; 1 a F 54
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Frinico, l'Admeto di Sofocle (forse dramma satiresco), l'Alcesti di Antifane (una commedia) e, fra i Romani, le A/cesti di Accio e di Levio (di cui so pravvive, oltre il titolo, qualche sparuto frammento). Perciò Seneca dirà (Cons. ad Helviam, 19, 5): Nobilitatur canninibus omnium quae se pro co niuge vicariam dedit. La fedeltà al marito, e quindi la pudicizia, di Pene lope erano proverbiali (cfr., per es., Seneca, Troades, 698; Properzio, II, 6, 23-25; Ovidio, Amores, III, 4, 23-24; Ars amatoria, I, 475; III, 15-16; Lucia no, Dia/. meretr., 12, 1) ed una delle occupazioni inutili dei filologi, se condo Seneca (Epist ., 88, 8), consisteva proprio nel ricercare accurata mente qualche elemento che permettesse di sostenere il contrario (Quid inquiris an Penelopa inpudica fuerit, an verba saeculo suo dederit ?). Laoda mia, moglie di Protesilao, il primo dei Greci caduto a Troia, si suicidò gettandosi sul rogo del marito (la leggenda, come spesso in casi simili, conosceva naturalmente molteplici varianti). Numerosi poeti ne trattaro no: si ricordano tragedie intitolate a Protesilao da Euripide, da Pacuvio, da Tizio (drammaturgo e oratore dell'età dei Gracchi), nonché la Protesi laudamia di Levio, che fonde nel titolo il nome dei due sposi devoti; e proprio a Levio pare essersi ispirato Catullo per la splendida digressione contenuta nel suo carme LXVIII (vv. 73-130). A proposito degli esempi di donne qui accomunati da Seneca, oltre ai passi segnalati da K. Praechter, 1901, pp. 136 e 147 (rist. 1973, pp. 450 e 461), e da E. Bickel, 1915, pp. 326-327, è opportuno ricordare che si trovano spesso citati anche nei testi poetici (Alcesti e Penelope, per es., da Properzio, II, 6, 23 e nel Culex, 262-267) e soprattutto in Ovidio, il poeta più amato da Seneca dopo Vir gilio: Alcesti, Penelope e Laodamia in Epist. ex Ponto, III, 1, 105-110; Pe nelope, Alcesti e Laodamia in Tristia, Il, 375-376 e 403-404; V, 5, 51-58; 14, 35-40; Penelope, Laodamia, Alcesti in Ars amatoria, III, 15-20; le sole Penelope e Laodamia in Amores, li, 19, 29-38; Ars amatoria, II, 355-356; Tristia, I, 6, 20-22 (in ordine inverso); inoltre in Heroides, I, leggiamo la lettera fittizia di Penelope ad Ulisse e in Her., XIII, di Laodamia a Prote silao. F 54 1 F 54 rappresenta un esempio emblematico delle difficoltà che in contra l'editore dei frammenti di Seneca; in questo caso egli deve rispon dere a una serie di interrogativi, parzialmente interdipendenti: dove ha letto Girolamo il brano teofrasteo? se, come credo di aver dimostrato (cfr. Introduzione, pp. 26-29, dove sono sottolineate anche le consonanze, soprattutto stilistiche, con gli scritti senecani superstiti), esso era inserito nel De matrimonio, è giunto a Seneca per via diretta o indiretta? di quale opera teofrastea faceva parte? Teofrasto vi esprimeva le proprie personali opinioni sul matrimonio? è sicuro che appartenga veramente a Teofrasto? Alla seconda domanda non si può dare una risposta definitiva: A. Setaioli (1988, pp. 141-164; 407-408; 426-452) esclude citazioni dirette da Aristote-
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Commento: nota 1 a F 54
le e da Teofrasto da parte di Seneca, che si sarebbe seivito di volta in volta di fonti dossografiche o di intermediari di scuola stoica; ma F 54 presenta uno sviluppo troppo ampio e coerente perché possa avere un'ori gine manualistica: se non si vuole ammettere una conoscenza diretta del trattato di Teofrasto, si dovrà pensare che il nostro brano fosse da tempo entrato a far parte del patrimonio della letteratura diatribica e che di Il sia peivenuto a Seneca. Per quanto riguarda il titolo, pare assodato che fra gli scritti di Teofrasto figurasse un IlEQi yaµou (De nuptiis), come di mostra W.W. Fortenbaugh, 1984, pp. 10-11 (S 17) e 106-108, il quale però sostiene (pp. 210-212; 256-257) che il nostro passo non contiene il genuino pensiero del maestro peripatetico sulle nozze, perché è in aperta antitesi con un frammento conseivatoci da Giovanni Stobeo (III, 3, 42, voi. Ili, pp. 207-208 Hense = Fragm. 152 Wimmer = L 84, pp. 50-51 For tenbaugh), nel quale Teofrasto afferma viceversa che dobbiamo prenderci cura diligentemente e amorevolmente della moglie e dei figli, che a loro volta ci contraccambieranno, i figli assistendoci quando saremo vecchi, la moglie quando siamo malati e coll'occuparsi quotidianamente dell'ammi nistrazione domestica: è evidente il contrasto soprattutto con la seconda parte di F 54 (§§ 8-13); secondo W.W. Fortenbaugh (p. 211), proprio come nella commedia le lamentele contro le mogli non escludevano che la rappresentazione si concludesse con un matrimonio, cosl nel De nupti is ai rilievi negativi sullo stato matrimoniale succedevano valutazioni po sitive e il trattato tenninava con la considerazione che la maggior parte degli uomini si deve sposare, non esclusi i sapientes. Di diverso awiso sono invece, generalmente, gli altri studiosi (bibliografia in W.W. Forten baugh, 1984, p. 207), che si richiamano all'ideale di vita contemplativa propugnato da Teofrasto: cfr., per es., A. Plebe, 1966, pp. 404-405; O. Re genbogen, art. Theophrastos, in PW, RE, Suppi. VII, col. 1488; A. Grilli, 1953, pp. 130-133; A. Barigazzi, 1966, p. 543. Ugualmente incerti sono i destinatari della polemica teofrastea: per F. Bock (1899, pp. 32-40) sareb be Aristotele, per K. Praechter (1901, pp. 130-131 = rist. 1973, pp. 444445) uno degli Stoici antichi (Zenone o Cleante), mentre W.W. Forten baugh (1984, pp. 210-211) sottolinea gli elementi di contrapposizione nei confronti dei peripatetici contemporanei: Dicearco e Demetrio Falereo. Un'ultima ipotesi avanza lo stesso Fortenbaugh (pp. 211-212): che F 54 sia una falsificazione, che si sarebbe fondata su circostanze esteriori della vita di Teofrasto, per es. sul fatto che egli rimase scapolo (cfr. A. Plebe, 1966, p. 339, n. 12) o che si preoccupò, come risulta da varie testimo nianze, dei figli e dei nipoti di Aristotele; ma lo stesso Fortenbaugh ritie ne poco fondato un simile sospetto e preferisce concludere il suo com mento al nostro brano notando alcune analogie con i Caratteri, individua bili soprattutto nella presenza di elenchi in Char., I, 6; IV, 11; V, 9, e nei nostri §§ 2 e 3, oltreché in una generica parentela fra la loquacità e l'in contentabilità delle mogli e i Caratteri III, VII e XVII (ma nell'operetta di Teofrasto non s'incontrano descrizioni di mogli). L'autorità di Girolamo si rivelò comunque talmente efficace, che l'estratto teofrasteo poté godere
Commento: note 1-5 a F 54
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nel Medioevo di grande fortuna, come appare dalla nutrita lista di autori che lo conobbero e lo citarono (W.W. Fortenbaugh, 1984, pp. 10-11 e la rubrica di p. 35) apprezzandone lo spirito misogino: da Pietro Abelardo a Giovanni di Salisbury, da Ugo di Fouilloi a Vincenzo di Beauvais. Circo larono inoltre alcuni volgarizzamenti toscani, fra i quali è degna di essere ricordata l'arguta traduzione che G. Boccaccio inserl nelle sue Esposizioni sopra la Comedia di Dante, lezione LVIII, a Inferno, XVI, 45, dove Iacopo Rusticucci afferma «la fiera moglie più ch'altro mi nuoce» (il commento occupa i §§ 24-26, la traduzione i §§ 28-44, pp. 692-697, ed. G. Padoan, Milano, 1965); un'ampia parafrasi si legge anche nel Trattatello in laude di Dante (G. Boccaccio, Opere in versi. Corbaccio. Trattatello in Laude di Dante. Prose latine. Epistole, a cura di P.G. Ricci, Milano-Napoli, 1965, pp. 583-586) e continui echi si colgono nel Corbaccio. Il testo latino fu trascritto dal Boccaccio medesimo, sulla base di un manoscritto assai scorretto, nello Zibaldone Mediceo Laurenziano (Plut. 29.8. Riproduzione fotografica a cura e con introduzione di G. Biagi, Firenze, 1915, foglio 52 v). 2 Il brano di Teofrasto si inserisce nel dibattito d yaµrrrÉov, che ebbe particolare fortuna soprattutto presso i Peripatetici e gli Stoici (supra, n. 4 a F 23); ma un altro peripatetico, Dicearco, contro cui si è supposto che Teofrasto polemizzasse (cfr. n. prec.), oppone alle inutili discussioni dei filosofi suoi contemporanei la visione di una vita più attiva e sana: «gli antichi non indagavano se bisogna darsi alla politica e come, ma senz'altro di persona vi si dedicavano e bene, e neppure se bisogna spo sarsi ma, sposatisi come ci si deve sposare, convivevano con le loro mo gli. Quelle erano opere degne di veri uomini e occupazioni da saggi, men tre la vuota sentenziosità che va di moda oggi è invece un insieme di ba nalità» (Fragm. 31 Wehrli). 3 Secondo Epicuro, raramente (F 23), secondo gli Stoici sì (K. Prae chter, 1901, p. 69, rist. 1973, p. 383; M. Pohlenz, 1967, voi. I, pp. 282; 382-383; voi. II, pp. 46; 54-55; 124-125), anche se Seneca (F 24) critica la singolare motivazione addotta da Crisippo.
23.
4 Inizia l'elenco delle angustiae nuptiarum, su cui cfr. supra, n. 5 a F
S Questa sentenza sarà ripetuta da Cicerone (F 30) per respingere una proposta di nozze non gradite; A. Grilli (1953, p. 198, n. 2) vi vede un influsso diretto di Teofrasto. Il fastidio arrecato dalla moglie al marito occupato nelle meditazioni filosofiche sarà più volte sottolineato dai trat tatisti contrari al matrimonio; cfr., per es., G. Della Casa, An uxor sit du cenda (ed. A. Di Benedetto, Milano, 1992, p. 86): «hominem in bibliothe cam abditum subtilissimisque ac difficillimis in rebus occupatum medi tantemque, meris de nugis sexcenties interpellat atque interrogat». Ma già
282
Commento: note 5-9 a F 54
Petrarca notava (Le Familiari, XX, 4, 34): «Magne corporis, magne animi vires sunt que simul et literis sufficiant et uxori».
6 La ricorrente polemica contro il lusso delle donne è ripresa da Se neca: cfr. De const. sap., 14, 1: Quid refert quam habeant, quot lecticarios habentem, quam oneratas aures, quam laxam sellam?; De vita beata, 17, 2: quare uxor tua locupletis domus censum auribus gerit?; Cons. ad Helviam, 16, 3: non gemmae te, non margaritae flexerunt; non tibi divi tiae velut maximum generis humani bonum refulserunt; De bene(, VII, 9, 4-5; Herc. Oet., 658-667; Phaedra, 387-393; De rem. fort., 16, 6: Due bene institutam nec maternis inquinatam vitiis, non cuius auriculis utrimque patrimonia bina dependeant, non quam margarita suffocent, non cuius mi nus sit in dote quam in veste, non quam patente sella circumlatam per ur bem populus ab omni parte aeque quam maritus inspexerit. 7 Per le rimostranze delle mogli cfr., per es., Plutarco, Coniug. praec., 39, p. 143 E; Plauto, Miles, 690-700; Ovidio, Ars amatoria, II, 151-155; Giovenale, VI, 268-269. Per la gelosia nei confronti degli amici del marito cfr., per es., Antifonte Sofista, D.-K., 87 B 49; Giovenale, VI, 214-215; 51O. Totalmente opposto è invece il comportamento della prima moglie di Seneca, cui probabilmente era dedicato il De matrimonio (cfr. Introduzio ne, p. 30): essa, che conosce e rispetta le abitudini del marito, quando dalla camera è stata portata via la lucerna, smette di parlare, perché lo sposo possa attendere all'esame di coscienza quotidiano, in cui passa mi nuziosamente in rassegna l'intera giornata appena trascorsa (De ira, III, 36, 3-4; accetto per il De ira la data del 41 d.C. proposta da I. Lana, 1955, pp. 121.130.132-133).
8 Su questo tema cfr. n. 2 a F 29. Traduce il Boccaccio nelle Esposi zioni sopra la Comedia (ed. cit. a n. 1, § 31, p. 694): «il nudrire quella che è povera è molto difficile cosa, e il sostenere i modi e i costumi della ricca è gravissimo tormento»; più liberamente nel Corbaccio (§ 247; ed. cit. a n. 1, p. 503): «Niuna cosa è più grave a comportare che una fem mina ricca; niuna più spiacevole che a vedere irritrosire una povera». Per le prepotenze della donna ricca sulla scena cfr., per es., Menandro, Fragm. 333 K.-Th., che Gellio (II, 23, 8-10) pone a confronto con la riela borazione latina del commediografo Cecilio Stazio.
9 Il lebete è un grande recipiente metallico, di forma variabile, ma ge neralmente con la pancia molto più larga della sua altezza e della larghez za dell'imboccatura; era privo di piede e quindi bisognoso di un supporto, per lo più un tripode, che veniva poi a costituire spesso un tutt'uno con esso. (Cfr. M.G. Marunti, art. Lebete, in «Enciclopedia dell'Arte Antica», voi. IV, Roma, 1961, pp. 519-522). Per il controllo che l'acquirente opera su animali e schiavi cfr. Epist., 47, 16; 80, 9; 95, 67. Per le immagini sug gerite a Seneca dalle transazioni commerciali cfr. D. Steyns, 1907, p. 101.
Commento: note 10-14 a F 54
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10 Lo stesso consiglio darà Girolamo nel 395 alla vedova Furia (Epist., 54, 13): «Non tenerti appiccicati al fianco un amministratore dai capelli arricciati né un fratello di latte di bell'aspetto o un corteggiatore dalle tinte civettuole bianche o vermiglie». Pur risalendo a Teofrasto dun que, F 54 risente qua e là di usi e costumi della Roma imperiale (cfr. L. Friedlaender-G. Wissowa, voi. I, p. 280, nn. 2.4.11; p. 282, n. 5); alcuni accenni ricordano temi dell'elegia e della satira romana. Per l'appellativo domina riferito alla moglie cfr. ThlL, V, 1, 1938, 35-41; 1939, 12-39; L. Friedlaender-G. Wissowa, voi. IV, p. 87. Trattandosi di una donna arro gante, l'epiteto assume qui una connotazione negativa, ribadita infra, alla fine del § 8. 11 Cfr., per es., Marziale, VI, 67: «Tu, o Pannico, sei curioso di sape re perché la tua Celia tenga con sé solo eunuchi. Ma è chiaro: Celia vuol farsi scopare senza partorire»; VI, 2, 6; Giovenale, VI, 366-378. 12 La dedizione del saggio è riservata alla filosofia (cfr. supra, § 2; in fra, n. 2 a F 94). In realtà, il consiglio dei trattatisti (e del medesimo Teo frasto, se crediamo al passo a lui attribuito, riportato da Stobeo, cit. su pra, n. 1) era proprio quello di affidare alla moglie la sovrintendenza del )'economia domestica: posta a capo della dispensa e dei servi, essa aveva il diretto controllo sulle entrate e sulle uscite, come appare dall'Economi co di Senofonte (VII, 29-43), che è il primo esempio a noi noto di lettera tura economica antica; secondo Oecon., VII, 29, la divisione dei ruoli fra marito e moglie aveva un fondamento divino. «Il potere della moglie nel la casa non è una funzione vicaria del potere del padrone di casa, come invece lo è il potere dell'amministratore - schiavo - nelle proprietà terrie re. La funzione del marito consiste solo nel far prendere alla moglie quindicenne coscienza del suo ruolo» (Senofonte, L'amministrazione della casa, a cura di C. Natali, Venezia, 1988, p. 229, n. 73; cfr., in generale, U.E. Paoli, 1955, pp. 55-82). Nel nostro brano l'attenzione di Teofrasto ai problemi economici è costante (§§ 2. 4. 5-6. 8. 13). 13 Della moglie venefica, soprattutto per motivi di denaro, doveva parlare la predica popolare: cfr., per es., Ovidio, Ars amatoria, III, 465; Seneca, De ira, III, 33, l; Epist., 119, 6; Giovenale, I, 69-72; X, 25-26; XIV, 173-176. Su ben noti processi a carico di awelenatrici cfr. E. Canta rella, 1996, pp. 70-75. 14 Anche Antipatro di Tarso (Fragm. 62 von Arnim, in SVF, voi. 111, p. 254) consigliava di non dare eccessiva confidenza a macellai, falegna mi, sarti, artigiani e artigiane in generale, che, a suo avviso, godevano di troppa facilità di accesso in casa (altri testi in: Orazio, Il libro degli Epo di, a cura di A. Cavarzere, Venezia, 1992, p. 237, comm. ad Epod., 17, 20). In particolare, il tipo della vecchia mezzana è frequente nella poesia antica, specialmente nella commedia, ed è emblematicamente rappresen-
284
Commento: note 14-19 a F 54
tato nel primo Mimiambo di Eroda; si ritroverà poi nel romanzo e nella novella: cfr., per es., Apuleio, Metam., IX, 15 (anus quaedam stuprorum sequestra et adulterorum internuntia), donde rifluirà in Boccaccio, Decame ron, V, 10. 15 Il medesimo pensiero ritornerà in De benef, IV, 14, 1, dove Seneca cita Ovidio, Amores, III, 4, 4 (ai vv. 3-4 Ovidio scrisse: «Se una rimane casta anche senza motivi di timore, quella è davvero casta; colei che non tradisce perché non può, quella tradisce»; cfr. già Properzio, IV, 1, 145146; Tibullo, I, 6, 75-76). Per l'elogio della pudicitia cfr. F SO e n. 2. 16 L'insegnamento di Teofrasto era che «una donna non deve né guardare gli altri né offrirsi ai loro sguardi, specialmente quando si è ab bigliata per apparire bella: in entrambi i casi infatti viene spinta a com portamenti disonesti» (Fragm. 157 Wimmer = L 125 Fortenbaugh; a que sto passo rimandava già F. Osann, 1846, pp. 6-7). Sui pericoli connessi con la bellezza fisica (che Teofrasto non a caso definiva «un tacito ingan no»: L 126 Fortenbaugh, da Diogene Laerzio, V, 19) cfr. supra, F 25, 1 e n. 1. Nel mondo greco circolava un detto proverbiale, attribuito dalle fon ti a vari filosofi (di volta in volta a Solone, a Biante, a Pittaco, a Bione di Boristene, ad Antistene, ad Aristippo, a Teocrito di Chio; ampia discussio ne nel commento di A. Barigazzi al Fragm. 122 di Favorino: 1966, pp. 542-543), che recitava: «Se sposi una donna brutta, l'avrai come punizio ne; se la sposi bella, l'avrai in comunione», da cui era facile trarre la con clusione che non ci si deve sposare (Aulo Gellio, V, 11, 2). A. Oltramare ( 1926, p. 268, tema 23a) vi individua un tema diatribico. 17 Cfr. Publilio Siro, Sententiae M 18 (= v. 326 Ribbeck): Maximo pe riclo custoditur quod multis placet, e N 32 (= v. 408 Ribbeck): Non facile solus sen,es quod multis placet. 18 Rende magistralmente il Boccaccio, che tali situazioni aveva p1u volte descritto nelle sue novelle: «alcuna volta è presa quella cosa la quale d'ogni parte è combattuta» (Volgarizzamento cit. a n. 1, § 38, p. 695). Per le metafore tratte dalla vita militare cfr. D. Steyns, 1907, pp. 22-34. 19 Effettivamente, alla moglie veniva affidata la sovrintendenza del l'economia domestica (supra, n. 12). La presenza di una donna al capez zale del malato è sempre giudicata preziosa (cfr., per es., Euripide, Fragm. 822 Nauck2 ); la cura reciproca fra coniugi è considerata un ele mento essenziale del matrimonio (testi in K. Praechter, 1901, p. 79 e n. 2; rist. 1973, p. 393), come noterà esplicitamente Musonio Rufo (Diss., XIII A, p. 68, 5-13 Hense): «Nel matrimonio ci deve essere intera convi venza e reciproca cura del marito e della moglie, e nella buona salute e nelle malattie e in ogni occasione; e per desiderio di tale affetto, non meno che per quello della prole, va a nozze ciascuno dei coniugi. Dove,
Commento: note 19-23 a F 54
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adunque, codesta cura è perfetta e in modo perfetto se la prestano i co niugi fra loro, gareggiando per superarsi a vicenda, quello è un matrimo nio come si deve e degno d'invidia; ché quella è la comunanza ideale» (trad. N. Festa, 1914, p. 179). Poteva naturalmente anche capitare che le premure di una moglie si rivelassero interessate ([Demostene], Contra Ne aeram, 56-58). Per lo sfogo di una moglie, costretta a fungere da infer miera di un marito artritico e disamorato, cfr. Apuleio, Metam., V, 1O. 20 Spesso l'amministratore era uno schiavo: si ricordi l'bthQorroç (so vrintendente o fattore), di cui parlano Senofonte, Oecon., XII, 3-9; XIII, 13; Aristotele, Politica, I. 7, p. 1255 b 36; Magna Moralia, I, 35, p. 1198 b 12; [Aristotele], Oecon., I, 5, 1, p. 1344 a 26. Sugli svariati compiti degli schiavi antichi cfr. M.I. Finley, Schiavitù antica e ideologie moderne, trad. it., Roma-Bari, 1981, pp. 103-114; sulle occupazioni degli schiavi nell'Ate ne del V/IV secolo cfr. Y. Garlan, 1984, pp. 53-59. Dal testamento riporta to da Diogene Laerzio, V, 54-55, risulta che Teofrasto possedeva nove schiavi e due liberti, di cui uno in particolare (Pompilo) rivestiva funzioni amministrative.
21 Uno degli aspetti dell'amicizia più comunemente sottolineati era proprio quello dell'assistenza durante la malattia: cfr., per es., Epicuro, Fragm. 175 Usener (= 132 Arrighetti2 ); Orazio, Serm., I, 1, 80-84; Seneca, De bene{., IV, 20, 3; Epist., 9, 8; 78, 4; 101, 3; [Luciano], Amores, 46. Per l'importanza degli schiavi nati in casa (otxoyEvEtç) cfr. Y. Garlan, 1984, p. 48: «L'oikogenés presentava in effetti il doppio vantaggio di essere, in li nea di principio, più devoto e, se gli si voleva far acquisire una certa qua lifica, di cominciare prestissimo il suo apprendistato». Per la scelta della lezione vernaculi, occorre osservare che in latino vernacula non ha mai il valore di vernaculus o di vernula. E. Bickel (1915, p. 389, appar. a riga 23), che pensa a traduzione di Girolamo dal greco di Porfirio (cfr. Intro duzione, p. 26 e n. 111), ritiene possibile un riferimento a schiave, che contesto e verosimiglianza storica rendono altamente improbabile. In Se neca incontriamo sia vernula (De prov., 1, 6; De tranq. an., 1, 7) sia vema culus (De bene{., VI, 11, 2): nel nostro passo quest'ultimo è meglio testi moniato. 22 Per il carattere di neoformazione senecana di coaegroto cfr. Intro
duzione, p. 28 e n. 121.
23 Rara avis è nesso proverbiale testimoniato la prima volta in Persio, I, 46, ripreso poi da Giovenale, VI, 165; sarà particolarmente amato pro prio da Girolamo (cfr., per es., Adv. Helvid. de Mariae virg., 20; Comm. in Tit., 2, 6 segg.; Comm. in Os., prologus; Adv. Pelag., II, 11). I Greci prefe rivano «raro come (o: più raro di) un corvo bianco» (A. Otto, 1890, pp. 51-52, n° 232, s.v. avis 2.; cfr. anche R. Tosi, 1991, p. 321, n° 671; p. 631, n° 1396).
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Commento: note 24-28 a F 54
24 Questa massima diventerà un topos retorico: «La solitudine è un bene solo per il sapiente» (A. Oltramare, 1926, p. 284, tema 62), che in Seneca si innesta sulla tendenza a evitare la folla, a ritirarsi in sé stesso: cfr., per es., De brev. vitae, 18, 1; Epist., 7, l; 8, l; 10, l; Nat. quaest., IVa, praef. 1.3.20, e, in generale, C. Marchesi, 1944, pp. 282-285, e A. Grilli, 1953, pp. 261-278. Anche Musonio Rufo, che pure esalta con calore l'unione fra marito e moglie (Diss. XIV), ammette che un matrimonio sbagliato è peggiore della solitudine (Diss. XIII A, p. 68, 20 Hense).
25 È tipico del saggio farsi contemporaneo dei grandi spiriti del pas sato: Disputare cum Socrate licei, dubitare cum Carneade, cum Epicuro quiescere, hominis naturam cum Stoicis vincere, cum Cynicis excedere (De brev. vitae, 14, 2); cum Catonibus vive, cum Laelio, cum Tuberone. Quod si convivere etiam Graecis iuvat, cum Socrate, cum Zenone versare... Vive cum Chrysippo, cum Posidonio (Epist., 104, 21-22); cfr. anche Cons. ad Marciam, 25, 2; De otio, 1, l; Epist., 25, 6; 62, 2; 102, 22. 26 Dio è proprio una di quelle realtà che si possono vedere solo con gli occhi della mente (Nat. quaest., VII, 30, 3-4); per la necessità di parla re con lui cfr., per es., Epist., 10, 5.
27 Questa è una massima che Catone il Censore (in Cicerone, De re publica, I, 27, e De officiis, III, 1) attribuiva a Scipione l'Africano e che sarà ripetuta più volte da Ambrogio (De off. ministr., lii, 2; De virginibus, II, 10; Epist., 49 [= 33], 1). Lo stesso concetto, in termini diversi, ritorna in Seneca (Epist., 6, 7): «Amicus esse mihi coepi». Multum profecit: num quam erit solus. Per la fortuna dell'apoftegma cfr. I. Dionigi, Introduzione a: Seneca, De otio, Brescia, 1983, pp. 123-124.
28 Nozze e procreazione erano strettamente collegati nella società an tica e «lo stesso fatto che uomini come Alcibiade, Sofocle, Lisia e Demo stene, noti per la loro vita libertina, avevano moglie, induce a pensare che il matrimonio era sentito come un dovere morale...Nella vita pubblica uno scapolo è considerato come un cattivo cittadino, e non tanto perché si riprovi il celibato di per sé, ma perché è dovere del cittadino mettere al mondo prole di cittadini» (U.E. Paoli, 1955, p. 136, n. 37). Anche i fi losofi, a partire almeno da Democrito (D.-K., 68 A 170; B 278), conferma rono questo binomio: Platone, Symp., 25, p. 206 C; Leges, IV, 11, p. 721 B-C; VI, 16, p. 773 D-E; VIII, 7, p. 838 E; Aristotele, Politica, I, 2, p. 1252 a 26-b 24; [Aristotele], Oecon., I, 3, 1-3 (ispirato a Senofonte, Oecon., VII, 19); gli Stoici (SVF, I, 270; Ili, 611. 616. 686; Antipatro di Tarso, Fragm. 63, in SVF, voi. III, pp. 254-257); Ario Didimo, Ethica, presso Stobeo, Il, 7, 11 b (voi. II, p. 94, 14-15 Wachsmuth); II, 7, 11 m (voi. II, p. 109, 1 6 W.); Antistene, V A 58 Giannantoni (= Diogene Laerzio, VI, 11); Filone, De Iosepho, 43; De Cherubim, 43; Ocello Lucano, 44, p. 21, 22-23 Harder; lerocle, presso Stobeo, IV, 24, 14 (voi. IV, pp. 603, 9; 604, 7. 26 Hense;
Commento: note 28-31 a F 54
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un suo trattato era intitolato: «Il matrimonio e la procreazione»: K. Prae chter, 1901, pp. 66-90, rist. 1973, pp. 380-404); Musonio Rufo, Diss. XII (cit. supra, n. 2 a F 27); Epitteto, Diss., I, 11, 3; III, 7, 26; 22, 67-68. An che chi sconsiglia o rifiuta le nozze, ne riconosce comunque lo stretto le game con la procreazione (cfr. Epicuro, supra, F 23 e n. 1). Per Seneca (Cons. ad Helviam, 13, 3) come per Lucano (II, 387-388) la sessualità è stata data all'uomo e dev'essere esercitata non per il piacere, ma per la propagazione della specie. D'altra parte, le stesse leggi contro il celibato (su cui supra, F 29 e n. 1) si giustificavano proprio per la tutela della na talità. 29 Si tratta di pensieri comuni nel mondo antico e correnti ancora oggi: cfr., per es., Esiodo, Theog., 603-607: «Quegli invero che fuggendo le nozze e le opere moleste delle donne non ha volontà di sposarsi, giunge alla molesta vecchiaia, con la mancanza di uno che l'assista nella età tar da; egli vive non certo bisognoso del vitto, ma quando muore la sua ric chezza se la dividono i suoi lontani parenti» (trad. A. Colonna, Torino, 1977, p. 97). Che i figli siano sostegno dei genitori nella vecchiaia, sulla scorta di Aristotele (Politica, VII, 16, p. 1335 a 32-35; Ethica Nicom., IX, 2, p. 1165 a 21-24; [Aristotele], Oecon., I, 3, 3, p. 1343 b 20-23; III, 2, p. 143, 1-4 Rose; Senofonte, Oecon., VII, 19), aveva affermato lo stesso Teo frasto, in un frammento conservatoci dallo Stobeo (cfr. supra, n. 1 ). Con siderazioni molto simili al pensiero di Teofrasto svolgerà Filodemo di Ga dara nel De morte, libro IV, coli. XXII, 9 - XXIII, 15; XXIV, 5-17 (pp. 150-152 Kuiper). 30 Trattando dell'eterno v1z10 dell'ingratitudine scriverà Seneca (De benef., V, 17, 4): Quis non patris sui supremum diem, ut innocens sit, op tat, ut moderatus sit, expectat, ut pius, cogitat?; cfr. anche Plauto, Mostel laria, 233-234; Ovidio, Fasti, II, 625; Metam., I, 148; Giovenale, III, 43-44; XIII, 154-158 (che testimonia la frequenza dei parricidi in Roma); XIV, 250-255. Per la madre da uccidere perché, vecchia, continua a vivere, cfr. Orazio, Serm., Il, 1, 53-56. 31 Per le preoccupazioni procurate dai figli cfr., per es., Euripide, Al cestis, 882-888; Medea, 1090-1115; e, in ambito filosofico, Antifonte Sofi sta, D.-K., 87 B 49 e soprattutto Democrito, D.-K., 68 B 275-279 (per es. B 276: «Non mi sembra che si debba cercare di aver figliuoli: perché io vedo che, ad aver figliuoli, molti e grandi sono i pericoli, molti i dolori, mentre pochi sono i vantaggi e piccoli e pieni d'incertezze»; trad. V.E. Al fieri), cui risponderà argutamente il retore autore dell'epistolario pseudo ippocratico (Epist., 17, 33-34): «Chi mai, o Democrito, ha pensato, spo sandosi, alla separazione o alla morte? allevando figli, alla loro perdita? Ma le cose non stanno diversamente per quanto riguarda l'agricoltura, la navigazione, la sovranità, il comando e tutto ciò che succede nel corso della vita: nessuno infatti ha mai supposto che avrebbe fallito; ognuno
Commento: note 31-32 a F 54; 1 a T56; 1 a F 57
288
anzi nutre buone speranze e dimentica il peggio» (cfr. Ippocrate, Sul riso e la follia, a cura di Y. Hersant, trad. it., Palermo, 1991, p. 67). 32 Per l'uso del positivo seguito da quam, in luogo del comparativo, cfr. E. Bickel, 1915, pp. 5-6. VIII.
IL TERREMOTO
(T 55)
* Sul De motu te"arum cfr. Introduzione, pp. 31-33; M. Lausberg,
1989, pp. 1926-27. IX. LA
FORMA DEL MONDO
(T 56)
* Sul De forma mundi cfr. Introduzione, pp. 33-35; M. Lausberg, 1989, pp. 1928-29. T 56 1 M. Lausberg (1989, pp. 1928-29 e nn. 166-167) rimanda a Platone, Timaeus, 7, p. 33 B: «(Il demiurgo) diede al cosmo una forma opportuna e corrispondente alla sua natura. Per il vivente destinato ad abbracciare in sé tutti i viventi era opportuna una forma che raccogliesse in sé tutte quante le forme possibili: perciò lo tornl circolare, in forma di sfera, di stante in egual misura dovunque dal centro alle estremità»; cfr. anche Aristotele, De caelo, II, 4, pp. 286 b 10 - 287 b 21. Ma si deve tener pre sente che la sfericità del cosmo è affermata dalla gran parte dei filosofi greci, a partire dagli antichi Pitagorici (D.-K., 58 B la == Diogene Laerzio, VIII, 25; cfr. Pitagorici, Testimonianze e frammenti, fase. III, a cura di M. Timpanaro Cardini, Firenze, 19732, p. 221; R. Mondolfo, 1950, pp. 520551) e comunemente recepita anche dagli scienziati romani (cfr., per es., Plinio il Vecchio, Nat. hist., II, 5, con il commento di J. Beaujeu, Paris, 1950, p. 121). X. I DOVERI (F 57)
* Sul De offìciis cfr. Introduzione, pp. 35-36; M. Lausberg, 1989, p.
1925.
F 57 1 Nelle opere superstiti Seneca ricorre effettivamente più spesso a cer-
Commento: note 1 a F 57; 1-3 a F 58
289
vicem praebere (De tranq. an., 16, 1; Nat. quaest., II, 59, 7; Epist., 4, 7; 82, 12), ma in Epist ., 4, 7 è usato anche praestare come semplice variazione stilistica, senza sostanziale differenza di significato (cfr. ThlL, X, 2, 387, 43-44); altrettanto frequente è l'impiego di cervicem porrigere (De ira, I, 18, 3; De bene(., III, 25; Epist., 47, 4; 76, 27; 82, 9), col medesimo valore di «porgere il collo (al carnefice)». D'altra parte la distinzione di Diomede è implicitamente negata da Prisciano, Jnstit., XVIII, 130 (voi. III, p. 268, 17 GLK), che pone sullo stesso piano di do e dono proprio praebeo e praesto. XI.
L'AMICIZIA
(F 58-60)
* Sul De amrcrtra cfr. Introduzione, pp. 37-41; E. Bickel, 1905; M. Lausberg, 1989, pp. 1917-25. F 58 1 Per occurro con l'agg. pred. cfr.. per es., De ira, III, 29, 1; Cons. ad Marciam, 3, 4; Apocol., 13, 2; Epist., 70, 5. 2 Come appare dalla trascrizione diplomatica dello Studemund (1888, p. XIII), queste prime righe sono di lettura incertissima. E. Bickel (1905, p. 201) tentò una ricostruzione ingegnosa, accolta recentemente da W. Trillitzsch (O 19. 5, p. 417): « I le tristior quam solebat I occurrit; ille m si- I e in adver- I a quaerentem». enno I dsnit, solo I gresra defecit. iter al terius oculos tu- I lit aut intra I ges du I us est hic qui ques- I turus venit, at contra se adfuit et satisfa cienti satisfecit? Resta tuttavia più d'una perplessità: per es. gressu, già in tegrato dallo Studemund (1888, p. XXVI), introduce un vocabolo estraneo alla prosa di Seneca, che lo usa solo nelle Tragedie, dove però non s'in contra mai il nesso solus gressus di cui, stando agli esempi riportati dal ThlL (voi. VI, s.v. gressus), non esistono ricorrenze neppure in altri testi. Cosi oculos {erre nel senso di «sostenere gli occhi, lo sguardo» non sembra attestato: Seneca usa, per es., oculos patì (De bene(., IV, 23, 4), Cesare aciem oculorum {erre (De bello Gallico, I, 39, 1), Cicerone ora {erre (Phi lipp., XII, 13); naturalmente il nesso si incontra, ma con altri significati, per es. quello di «posare (volgere) lo sguardo su (verso)» (Virgilio, Aeneis, Xl, 800), o quello di «avere (tenere, portare) gli occhi» accompagnato da participio predicativo (Lucano, IX, 127-128; Silio Italico, XIII, 822). 3 Una chiara distinzione tra i compiti del giudice e quelli dell'arbitro formulata proprio da Seneca nel De benefìciis (III, 7, 5). Per altri testi cfr. ThlL, VII, 2, 597, 48-52. 68-71; 598, 9. 73; 599, 14. 22.
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Commento: note 4-1 O a F 58
4 Cfr. Epist., 11, 1O: Elige eum cuius tibi placuit et vita et orario et ipse animum ante se ferens vultus; 99, 15; De bene{., VI, 12, 1: non opus est te dicere: voltus tuus loquitur. Sul viso si distinguono chiaramente i sentimenti che albergano nell'animo: verba cessent licet: si, quemadmodum debemus, adfecti sumus, conscientia eminebit in voltu (De bene{., II, 25, 2). Non mancano in Seneca veri e propri elementi di fisiognomonica, riguar danti, per es., il superbo (De bene{., II, 13, 2), il pazzo (De const. sap., 18, l; De ira, I, 1, 3; Epist., 52, 12) e soprattutto l'irato (De ira, I, l, 4; Il, 19, 5; 35, 3; III, 4, 1-2; 13, 2). Per le locuzioni proverbiali cfr. A. Otto, 1890, p. 147, n° 717, s.v. fron.s 1, e soprattutto R. Tosi, 1991, p. 322, n° 673. 5 Seneca consiglia un metodo esattamente opposto a quello seguito dall'imperatore Claudio, il quale absentibus secundum praesentes facillime dabat (Svetonio, Claud., 15, 2), com'ebbe a rimproverargli sarcasticamente lo stesso Seneca nell'Apocolocyntosis {10, 4; 12, 3, v. 21; 14, 2). Per il va lore tecnico-giuridico di dare cfr. anche De vita beata, 1, 5; Seneca Padre, Controv., VII, pr. 7; Tacito, Anna/es, IV, 43, 3; Plinio il Giovane, Epist., VII, 6, 9. 6 Per l'uso di contrahere cfr., per es., Cons. ad Marciam, 26, 2 (qui minimum cum illa contra.xerant) e De bene{., VI, 30, 1 (si quis tecum con tra.xii) e, in generale, ThlL, IV, 764, 7-54. E. Bickel (1905, p. 201, n. 1) giudicò il testo oscuro e propose: quisquis reconciliari vult, con trahat; plurimum operis eqs., intendendo con ciò significare l'espressione di un animo contrito; ma vultum contrahere, comunque poco adatto ad esprimere un sentimento simile (cfr. ThlL, IV, 758, 6-7), è nesso estraneo a Seneca, che usa piuttosto frontem contrahere (De ira, Il, 2, 5; III, 33, 4) o animum contrahere (De const. sap., 10, 2; Cons. ad Helviam, 18, 5). 7 In rem praesentem in unione ad un verbo di moto è nesso frequente in Seneca: De ira, Il, 36, l; De bene{., IV, 35, 2; Epist., 6, 5; 30, 15; 59, 6; 66, 35; 98, 18. Res praesen.s indica la realtà presente, effettiva, concreta, ciò che si può immediatamente e realmente vedere, toccare, sperimentare (G. Garbarino, 1978, p. 227, n. 391). 8 Sembra di poter cogliere un'eco di Ovidio, Metam., VIII, 82: tene bris... audacia crevit (altri casi infra, nn. 23 e 26). Talora alla luce si sot traggono in particolare le azioni infami (Nat. quaest., I, 16, 3-6). 9 Per donor cfr. De ira, II, 30, l: puer est: aerati donetur; III, 11, 1: alia differenda sunt, alia deridenda, alia donanda; Epist., 81, 16: si id dana ri... poterit. Per defendere cfr., per es., Quintiliano, VII, 2, 29: ut obiecta vel neget vel defendat vel minuat. 10 Per il concetto si può confrontare una massima della scuola pita gorica (D.-K., 58 D 9, § 231): «Nelle amicizie le incrinature e le ulcerazio-
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ni devono essere evitate per quanto è possibile». In Seneca è frequente l'uso del linguaggio della medicina applicato alle malattie dello spirito: cfr., per es., P. Migliorini, 1988.
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11 Cfr. Publilio Siro, P 52 (v. 670 Ribbeck): plures amicos mensa quam mens concipit, cui farà eco Marziale (IX, 14): Hunc quem mensa tibi, quem cena paravit amicum I esse putas fìdae pectus amicitiae? I Aprum amat et mullos et sumen et ostrea, non te. I Tam bene si cenem, noster amicus erit. In un'epistola probabilmente contemporanea al De amicitia (cfr. Introduzione, p. 40), Seneca scrive: errat autem qui amicum in atrio quaerit, in convivio probat (19, 11), motivo passato poi in prover
bio sia nel latino medievale che nelle lingue moderne (R. Tosi, 1991, p. 597, n° 1326); esso riecheggia un altro motto, riportato dai paremiografi greci, e spiritosamente variato da Petronio (38, 13): «Vive la pentola, vive l'amicizia» (testi in R. Tosi, 1991, p. 589, n° 1309). Per mettere alla prova l'amico bisogna cessare di mantenerlo (Epist., 20, 7), perché amicitia olim petebatur, nunc praeda (Epist., 19, 4). Anche nel dialogo lucianeo Toxaris sive amicitia (§ 37) lo scita Tossari rimprovera i Greci che conquistano gli amici coi simposi. Per la metafora giuridica (pignus) cfr. D. Steyns, 1907, p. 100; M. Armisen-Marchetti, 1989, p. 108.
12 Cfr. Epist., 55, 9-11. Per il concetto di ius amicitiae cfr. Cicerone, Laelius. 35 e 63; E. Bickel, 1905, p. 192. Certo, chi passa la vita in pere grinatione, non può avere amicizie (Epist., 2, 2).
13 Già Aristotele aveva osservato che «se l'assenza diventa lunga, sembra che provochi la dimenticanza dell'amicizia; di qui deriva l'affer mazione: 'molte amicizie furono sciolte dal1a mancanza di rapporti diret ti'» (Ethica Nicom., VIII, 5, p. 1157 b 11-13; cfr. anche ibid., 19-22; Ethica Eud., VII, 12, p. 1245 a 23-25. 34-35). 14 Per l'opposizione fugio - reduco cfr. De tranq. an., 8, 7: Diogeni servus unicus fugit nec eum reducere... tanti putavit; Epist., 4, 4: ne reduce
retur e fuga.
15 Cfr. De bene{., VI, 34, 5: In pectore amicus, non in atrio quaeritur: ilio recipiendus, illic retinendus est et in sensus recondendus; Epist., 55, 11: Amicus animo possidendus est; hic autem numquam abest, quemcumque vult cotidie videt. Non sarebbe invece conforme a giustizia, secondo Cice rone (Laelius, 75), impedire la partenza degli amici. Per la animi velocitas cfr., per es., De bene{., II, 29, 5; Cicerone, Tusculanae, I. 43; Plinio il Vec chio, Nat. hist., VII, 52; Quintiliano, V, 10, 123; Marco Aurelio, XI, 1; e P.
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Commento: note J 5-24 a F 59
Grimal, 1992, p. 250. Per il valore di in prima parte (che rimanda a una sezione oggi perduta, agli inizi del trattato), cfr. Introduzione, p. 41, n. 192.
16 Virgilio, Aeneis, III, 490. Quando Enea si accomiata dai congiunti Troiani prima di partire dalla sua patria, Andromaca porge ad Ascanio ricchi doni e si rivolge a lui come all'unica immagine superstite di Astia natte, notando nei suoi occhi, nei suoi gesti, nel suo viso, gli stessi atteg giamenti e la stessa espressione del suo povero figlio.
17 Imago richiama il verso che in Virgilio precede immediatamente il nostro: o mihi sola mei super Astyanactis imago (Aeneis, III, 489).
18 Riprese di versi virgiliani a brevissima distanza sono tipicamente senecane: cfr., per es., Epist., 56, 12 e 14 (Aeneis, II, 729); Epist., 95, 68 e 70 (Georg., III, 79); Epist., 95, 68 e 71 (Georg., III, 81); Epist., 104, 24 (Ae neis, VI, 277); Epist., 108, 24 e 26 (Georg., III, 66-67); Epist., 108, 24 e 29 (Georg., III, 67). Sulla presenza di Virgilio in Seneca cfr. G. Mazzoli, 1970, pp. 215-232; Id., art. Seneca (filosofo), in «Enciclopedia Virgiliana», voi. IV, Roma, 1988, pp. 766-768.
19 Cfr. De bene(, II, 5, 4: omnis benignitas properat. Chi elargisce be nefici deve metterne in conto anche la perdita: cfr., per es., De bene(., I, 1, l; 2, 2-5; 3, l; III, 6, 2; 7, 1; VII, 30, l; 32; Cicerone, Laelius, 31.
20 Seneca intende affermare, evidentemente, che l'ira dell'amico era moderata e durava poco (Epist., 116, 7: dolebimus, sed parum; concupisce mus, sed temperate; irascemur, sed placabimur); si tratta di una passione ben dominata, che non trascende, proprio come quella di Socrate che di ceva al servo: caederem te nisi irascerer (De ira, I, 15, 3). Anche Giulio Ce sare m oderate solebat irasci (De ira, Il, 23, 4).
21 Cfr. Epigr., 49, 3-4 (p. 84 Prato): sic illos vincam, sic vincar rursus amando: I mutuus inter nos sic bene certet amor (rivolto ai suoi due fra telli; con l'antitesi attivo-passivo in poliptoto, tipicamente senecana: per vincere-vinci cfr., per es., De ira, II, 32, 1; Nat. quaest., IVa, 2, 5; IVb, 11, 2; Agam., 25-26). Cfr. anche De bene(, I, 4, 3; III, 38, 2-3; V, 5, 1.
22 Per usus riferito a virtus cfr. De vita beata, 25, 8; De brev. vitae, 19, 2; De clem., I, 3, 1; Epist., 95, 58.
23 Anche qui (cfr. supra, n. 8; infra, n. 26) sembra di poter cogliere un'eco di Ovidio (Heroides, XI, 122): sparsa... nati collige m embra tui. Per l'immagine tratta dal corpo umano cfr. D. Steyns, 1907, p. 141.
24 Cfr. Cicerone, Laelius, 23: absentes adsunt. Già Talete, stando alla
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tradizione (D.-K., 10, 3 d 2; 11 A 1, 37), esortava a ricordarsi degli amici sia presenti che assenti, e Isocrate awertiva Demonico (Ad Demon., 26): «Ricorda gli amici assenti dinanzi ai presenti, per non dar l'impressione di voler trascurare anche questi quando fossero lontani». 25 Per lassitudinem ponere cfr. De tranq. an., 17, 7; Epist., 123, 1. 26 Iners ingenium è probabilmente ovidiano (Amores, I, 15, 2). 27 Intra se come espressione della interiorità è attestato a partire da Ovidio (Metam., VII, 55), ma è Seneca a diffonderlo: cfr., per es., De brev. vitae, 12, 4; De benef, VI, 38, 2; Epist., 41, 2; 50, 4 (A. Traina, 1987, pp. 22-23; 73-76). F 60
28 È più prudente respingere l'integrazione del Niebuhr (1820, p. 102) tior, accettata da tutti gli editori, nessuno dei qua li tentò mai di giustificarla. Occorre però osservare che notitia animi è nesso estraneo a Seneca, e inoltre incertus, riferito a vultus (stando alla documentazione fornita dal ThlL, VII, 1, 879, 59), non significa «poco noto» o «malnoto», ma «incerto, turbato, stravolto» (cfr., per es., Cicero ne, Pro Cluentio, 54; Sallustio, Bellum Iug., 106, 2). 29 Cfr. Cicerone, Pro Marcello, 22: cum in animis hominum tantae la tebrae sint et tanti recessus. 30 Per una benignitas simulata cfr., per es., De benef, I, 4, 2: ne sub specie benignitatis inconsulta facilitas placeat; Epist., 22, 12: bono ac beni gno vultu mala magnifica tribuerunt. In adumbrare ritorna un'immagine tratta dalle arti figurative (cfr. supra, F 59, 6, e D. Steyns, 1907, p. 116). 31 La sezione relativa agli adulatori non poteva mancare in una trat tazione sull'amicizia (cfr. Introduzione, pp. 38-39 e n. 177). Per l'immagi ne tratta dai cosmetici cfr. D. Steyns, 1907, p. 139; M. Armisen-Marchetti, 1989, p. 167. 32 L'aforisma è di origine teofrastea (L 93, pp. 66-67; 285-286 Forten baugh), e principalmente su di esso si fondò K.A. Neuhausen (1984, so prattutto alle pp. 268-274) per dimostrare che fonte primaria del nostro dialogo sarebbero stati i tre libri TIEQÌ.