I film di Michelangelo Antonioni 8876055452, 9788876055454


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I film di Michelangelo Antonioni
 8876055452, 9788876055454

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LLYFRGELL COLEG PRIFYSGOL CYMRU

THE LIBRARY THE UNIVERSITY COLLEGE OF WALES ABERYSTWYTH

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LLYFRGELL Hugh Owen LIBRARY Dychweler y llyfr hwn erbyn y dyddiad diwethaf a nodir isod neu cyn hyriny. Os gofynnir ani y llyfrau gan ddarllenydd arali yna gcllir eu galw’n ol. Tliis Book should be returned before or on thè last date stamped below. Books are liable to bc recalled if required by another reader.

Coleg Prifysgol Cymru Aberystwyth The University College of Wales LF 75/5

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EFFETTO CINEMA 9

MICHELANGELO ANTONIONI

EFFETTO CINEMA collana diretta da Orio Caldiron e Claudio G. Fava

CESARE BIARESE

ALDO TASSONE

i film di MICHELANGELO

ANTONIONI

GREMESE EDITORE

Ringraziamenti: Questo libro non si sarebbe fatto senza la gene¬ rosa collaborazione di Michelangelo Antonioni, che oltre a darci il suo tempo ci ha aperto anche i suoi pre¬ ziosi archivi fotografici. Un vivo ringraziamento anche a Tullio Kezich, Dario Zanelli, Carlo Di Carlo e Aldo Bernardini, i cui lavori ci sono stati di grande utilità. Il volume è dedicato agli amici Valerio Zurlini e Frangois Truffaut.

Fotografie: Tutte le fotografie provengono dall’Archivio personale del regista. Per quanto è stato possibile l'editore ha cer¬ cato di risalire al nome dell’autore di tutte le foto pubbli¬ cate nel presente volume, per darne la doverosa segna¬ lazione. Non sempre però le ricerche sono state premiate dal successo ed è pertanto con vivo rammarico che l’edi¬ tore chiede scusa degli eventuali errori, lacune ed omis¬ sioni, dichiarandosi fin d’ora disposto a revisioni in sede di eventuale ristampa. Foto Diai (pag. 10 a sinistra, 11 in alto, 12 in basso, 41,42, 67-71, 82, 83 in alto, 86 in alto, 87 in basso, 87 in alto, 88 in basso, 90-94). G.B. Poletto (pag. 78-81). Nino Pugliese (pag. 71 in basso, 73 in alto). Foto Appetito (pag. 43 in basso, 100 in alto). Fotofilmcolor (pag. 12 in basso, 83 in basso, 85, 89). Ferruzzi (pag. 50). Furio Co¬ lombo (pag. 55 in alto). Roma’s Press (pag. 44). H.G. Casparius (pag. 76). Bruce Davidson — Magnum Photos (pag. 2, 15, 16 in alto, 139, 142-45, 170 in basso, 171). Jack O’Connell (pag. 45).

Copertina: Antonio Dojmi

Impaginazione: Fortunato Romani

Fotocomposizione:

Coleg Prifysgol Cymru The University College Of Wa!as Aberystwyth

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Videograf - Roma

Fotolito: M.C.M. - Roma

Stampa: ITER - Roma © 1985 GREMESE EDITORE s.r.l. 88, Via Virginia Agnelli - 00151 Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte del presente volume può es¬ sere riprodotta o trasmessa, in nessun modo e con nessun mezzo, salvo il caso di recensione, senza il preventivo formale consenso dell'editore. ISBN 88-7605-186-4

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La notte.

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Deserto rosso.

L’OCCHIO CINEMATOGRAFICO DI ANTONIONI

« È uno di quegli autori che obbligano i critici a prendere sul serio il loro mestiere » ha detto un noto studioso a un recente convegno dedicato a Michelan¬ gelo Antonioni. L’affermazione avrebbe avuto un senso pieno, provocatorio, se fosse stata pronunciata negli anni Cinquanta, quando non erano molti coloro che scrivevano cose serie sui primi grandi film del re¬ gista ferrarese. Oggi rischia di apparire pleonastica (ogni autore va preso sul serio), se non equivoca. Non è la serietà che è mancata alla critica antonioniana, almeno a partire dagli anni Sessanta. (Dopo il successo internazionale de L’avventura, infatti, si è verificata una spettacolare inversione di tendenza, nella critica: intimiditi e insieme sedotti dalla statura intellettuale del regista, contagiati dalla seriosità dei colleghi, certi studiosi si sono sentiti in dovere di com¬ petere con il modello. Dando fondo a tutte le loro co¬ noscenze, si sono messi a giocare a chi diceva le cose più “intelligenti”, cioè le più complicate, le più astruse). È mancato, a volte, il senso della misura, dell’autoironia, e una certa sensibilità per i valori figu¬ rativi: pochi critici sembrano essersi accorti che Anto¬ nioni è soprattutto un artista figurativo dotato di un oc¬ chio cinematografico, di un’immaginazione visiva, in¬ comparabili. L’eclisse: due coppie a confronto.

Forse per nessun altro regista contemporaneo si sono avanzati tanti paralleli illustri, coniate tante for¬ mule sofisticate. È stato definito, a volta a volta, « lo stilista enigmatico », « moralista, psicologo e anche sociologo », « Maitre de l’incertitude latente », « Artiste de l’Interstice », e naturalmente « il regista dell’a¬ lienazione e dell’incomunicabilità ». Per commentare le sue opere si e parlato di « cosismo », « reificazio¬ ne », « flusso fenomenologico », sdrammatizzazione, informale, « visione estraniata »; per qualificare il suo stile si sono usati immancabilmente termini come « ri¬ gore », « austerità », « lucidità »: dopo aver saccheg¬ giato Adorno e Gide, un valente studioso antonioniano giunse a scrivere « il suo stile è il rigore stilisti¬ co »! Nel lodevole quanto vano tentativo di trovare una collocazione alla personalità — incatalogabile, senza precedenti — del regista ferrarese, si è scomo¬ data la cultura di un intero secolo: Husserl, Pirandello, Cechov, Joyce, Musil, Broch, Flaubert — c’è chi fa di¬ scendere tutto Antonioni da « L’education sentimen¬ tale », — Gide, Fitzgerald, Pavese, Camus, il Nouveau Roman — immancabile, quello, — e poi De Chi¬ rico, Braque, Hopper, Schònberg... (Cechov, Camus, Pavese bastavano e forse avanzavano). Questi pa¬ ralleli illustri, questo vocabolario iniziatico — prendere

Claudia e Sandro, ne L’avventura.

Lidia e Giovanni, ne La notte.

sul serio un autore non significa « prendersi » sul serio — hanno finito con il creare una nuvola di smog iperintellettualistico intorno al nostro autore, che non ha certo giovato alla sua popolarità. Austero, rigo¬ roso, Antonioni non è mai arido e noioso come certi suoi commentatori. « Alla larga daH’intelligenza che complica tutto » ha scritto Robert Bresson, forse l’u¬ nico “precedente” — come vedremo — di Antonioni. Con il tempo questi schemi in cui si è imprigionato il cinema così squisitamente “visivo” di Antonioni sono in parte caduti. Geniale creatore di immagini, di forme, di atmosfere, profondo analista dei sentimenti deH’uomo moderno, stilista incomparabile, Antonioni è un esteta che guarda il mondo con gli occhi, e il cuore, di un autentico poeta. Non è il filosofo, il socio¬ logo, l’avanguardista (il cultore del moderno per il mo¬ derno), il cronista della decadenza borghese (qual¬ cuno ha parlato di « tarlo nella coscienza della bor¬ ghesia ») che si è a volte preteso.

blemi interiori, che non sentono gli stimoli della fame. Anche la loro vita professionale, se ne hanno una, sembra avere scarsa importanza. Un po’ come nella « Recherche » proustiana, nel cinema di Antonioni i personaggi non vengono quasi mai descritti nel loro ambiente di lavoro; la modista de Le amiche, l'agente di cambio de L'eclisse, il fotografo di Blow up fanno eccezione; Professione reporter non racconta la storia di un giornalista, ma di un uomo che nelle prime sequenze cambia identità. Il fatto che siano pittori, ar¬ chitetti, scrittori, o registi, sembra irrilevante per i pro¬ tagonisti maschili de Le amiche, L’avventura, La notte, Identificazione di una donna. Il tema — caro al cinema americano — del lavoro, della riuscita profes¬ sionale, della carriera, non interessa Antonioni. A pre¬ scindere dalla professione, a rigore interscambiabile, questi personaggi hanno tutti lo stesso problema: come comunicare con gli altri, con la realtà. Li pos¬ siede una inquietudine quasi fisica che li costringe a restare quasi sempre in piedi, a muoversi continuamente, da un punto all’altro, da un luogo all’altro. Le deambulazioni dell’operaio de II grido, di Lidia ne La notte, sono ormai mitiche. Il “road-movie” non l’ha in¬ ventato Wim Wenders, il quale a nostro avviso è il mi¬ gliore allievo che Antonioni abbia avuto. Viaggiatori senza bagagli, senza una meta, i personaggi antonioniani sono dei vagabondi sentimentali Vedere in questa loro “erranza” solo una fuga da se stessi, e non anche una ricerca della propria identità, sarebbe un errore. Smarrirsi, perdersi nella concretezza della natura, delle cose, è anche un modo di ritrovarsi, una fuga verso se stessi. « Non contiene solo errore, l’er¬ rare di questi personaggi » osservava giustamente Boatto già nel 1964, quando il “road-movie” (il film sulla strada) non era ancora alla moda. Parlando dei personaggi maschili di Antonioni, la critica ha forse ecceduto nel sottolineare la loro nega¬ tività: « amari, squallidi, desolati, forse masochisti », li definisce Chiaretti, « deboli e disperati » (Lennon), « impotenti a riscattare i loro dubbi sembrano votati a una sorta di autodistruzione » (Castello). Più che l'im¬ potenza o la desolazione, la loro caratteristica fondamentale sembra essere la fragilità, l’instabilità, a li¬ vello sentimentale ed esistenziale. Non se ne deve però dedurre che siano fragili, deboli, fatiscenti come

FRAMMENTI DI UN DISCORSO SULL’AMORE. Cosa ci raccontano i film di Antonioni? Chi sono, cosa fanno, come si muovono, i suoi personaggi? Ri¬ leviamo subito un dato anagrafico: i protagonisti dei suoi film hanno un’età non ben definita che va dai venti ai quarantacinque, « non esibiscono né la loro giovinezza né la loro maturità », scrive Sebbag nel numero di « Caméra/Stylo » dedicato al regista ferra¬ rese, « vivono a loro agio tra due età (L’avventura, La notte), tra due esistenze (Professione reporter), in uno stato di indifferenza e in un presente indefinito ». Salvo rare eccezioni - Tentato suicidio, Il grido - ap¬ partengono alla borghesia, per origine, o per coopta¬ zione (è il caso degli amanti diabolici di Cronaca di un amore, delle protagoniste de L'avventura e de L'eclis¬ se). Se sono sposati, in genere non hanno figli: solo ne II grido, in Deserto rosso, in Identificazione di una donna, vediamo comparire dei bambini. Rarissimi gli anziani (Ilgrido, L'avventura). Totalmente inesistente la vita di famiglia, con i suoi riti, i suoi luoghi deputati. In tutta l’opera di Antonioni non si vede una cucina, una sala da pranzo imbandita; si direbbe che i prota¬ gonisti sono così disincarnati, così presi dai loro pro¬ 8

Ama nascondersi dietro un personaggio femminile (La notte)

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Il primo “Road-Movie” di Antonioni (// grido).

personaggi. Al contrario di quanto avviene ad esempio in Hitchcock, che colloca dei personaggi de¬ boli, quasi stereotipati, in una situazione drammatica forte, Antonioni parte - si direbbe - da una situazione drammaticamente debole ma i personaggi vengono caratterizzati con grande forza. Non solo quelli fem¬ minili, vedremo subito, ma anche quelli maschili: il pit¬ tore Lorenzo (Le amiche), l’architetto Sandro (L’av¬ ventura), lo scrittore Giovanni Pontano (La notte), Piero l’agente di cambio de L’eclisse, l’ingegnere Cor¬ rado (Deserto rosso), il fotografo di Blow up, David Locke (Professione reporter), Mark (Zabriskie Point), il regista Niccolò (Identificazione di una donna), non vivono di luce riflessa, hanno una loro autonomia, sono capaci anche di prendere delle decisioni. Due terzi dei film antonioniani, meno / vinti e II grido tutti quelli realizzati prima di Blow up, hanno come protagonisti donne. (Compreso, curiosamente, il breve racconto realizzato per il Centro Sperimentale nel 1943, storia di un ricatto tra due donne). Cresciuto in un contesto familiare insolitamente ricco di pre¬ senze femminili (tre zie, una ventina di cugine, più le loro amiche, e poi le quattro sorelle della futura mo¬ glie, le attrici dei suoi film, con le loro rispettive corti femminili) Antonioni ha imparato molto presto a cono¬ scere l'animo della donna, a vedere il mondo attra¬ verso il filtro (« molto più sottile di quello maschile ») della mentalità e della psicologia femminile. Non me¬ raviglia dunque che nei suoi film parli più delle donne che degli uomini. « La sua musa ispiratrice abita la casa della Donna » scriveva Cavallaro già nel 1957; ma il grande critico bolognese, uno dei più acuti stu¬ 10

diosi di Antonioni, esagerava quando parlava di una vera e propria « inversione dei ruoli tra i sessi ». Non tutte le creature femminili antonioniane infatti possie¬ dono la lucidità, la grazia, la forza morale di Lidia o di Vittoria, le protagoniste de La notte e L'eclisse-, la “si¬ gnora senza camelie”, Rosetta (Le amiche), Claudia (L’avventura), Giuliana (Deserto rosso) sono fragili, confuse non meno dei loro compagni. Più che un « regista della donna » - qualifica un po’ troppo generica, applicata indifferentemente a ci¬ neasti diversi fra loro come Stemberg, Cukor, Mizoguchi, Ophuls, Bergman, Truffaut, Zurlini - Antonioni è un autore che si serve della donna come di uno schermo, di un filtro. Non perde mai di vista l’uomo; conserva anzi una certa neutralità nei confronti dei due sessi. Non ha torto Tonino Guerra, fedele e ge¬ niale collaboratore del regista, quando osserva (con un’immagine molto pertinente): « Antonioni ama na¬ scondersi dietro a un personaggio femminile; da buon emiliano si sente più a suo agio quando dirige una donna, ha voglia anche di parlare di più ». A partire da Blow up, comunque, il regista ferrarese non si “na¬ sconderà” più dietro a dei personaggi femminili. Attraverso lo specchio interiore della donna, Anto¬ nioni racconta la coppia; l’evoluzione, le malattie dei sentimenti. « Fragments d’un discours amoureux »: il titolo dell’ultimo libro di Barthes (che non è peraltro un nostro “maitre à penser”) si potrebbe applicare a tre quarti dei suoi film. In essi ritroviamo infatti un'analisi assai acuta di tutte le fasi della passione. I turbamenti e l'ebbrezza deH’innamoramento: Paola e Guido, Clara e Nardo, Rosetta e Lorenzo, Claudia e Sandro,

Figure in un paesaggio vuoto (Le amiche, e, sotto, La notte).

Giovanni e Valentina, Vittoria e Piero, Daria e Mark, Ida e Niccolò (nell’ordine, Cronaca di un amore, La si¬

gnora senza camelie, Le amiche, L’avventura, La notte, L ’eclisse, Zabriskie Point, Identificazione di una donna). Il tradimento: La signora senza camelie, Ten¬ tato suicidio, Le amiche, Il grido, L 'avventura. Ma so¬ prattutto la crisi, la separazione: quasi sempre le storie di Antonioni si collocano idealmente “tra due separazioni”. Forse perché è convinto che nessun amore è destinato a durare, quella della separazione è la fase che il nostro regista riesce a raccontare me¬ glio, se ci è consentito un apprezzamento. « Il senti¬ mento fondamentale che ci lasciano i suoi film - os¬ serva Pingaud - è quello dell’insicurezza, della fuga. Delle coppie si formano e si disfano, in una società senza certezze, senza valori. Non si ama; si è visitati, poi abbandonati, dall’amore. La legge dell’esistenza è l’abbandono ». « L’amore è ciò che rimane di qual¬ cosa che un tempo fu immenso ma che sta degene¬ rando... » ha scritto Cechov nei Diari. Pur non condi¬ videndo la misoginia dello sconsolato scrittore russo, Antonioni sembra far propria la sua concezione tra¬ gica deH’amore e dell'esistenza. « Avverto la malattia dei sentimenti prima che i sentimenti » ha detto negli anni Sessanta. Quando gli abbiamo chiesto il senso di questa frase, il regista ha risposto: « Uno si mette a esaminare i sentimenti quando un rapporto va male; quando va tutto bene non ci pensa. La letteratura è da sempre impostata sul male e il dolore; non credo esista un’opera di grande pregio che abbia come mo¬ tivo la gioia o il bene; il bene non ha storia, si dice... I sentimenti sono delle cose talmente fragili che si

Un misterioso elicottero: La notte, sequenza della clinica.

Pietre, con coppia di innamorati (Le amiche).

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ammalano facilmente; come gli esseri umani... ». Vi¬ vendo, non so, in una società più sana, non si po¬ trebbe trovare il modo di guarirli? abbiamo chiesto. « Non è che si può dire come potrebbero andare me¬ glio i sentimenti... - ha risposto il regista. - Cosa vuol dire una società “sana”? Mi citi un esempio di società sana nel mondo! ». Come si vede, più che la conseguenza di una “colpa della società”, per Antonioni la malattia dei sentimenti è un processo naturale. Non meraviglia che nei suoi film rimanga un po’ sullo sfondo (la critica impegnata non mancherà di rimproverarglielo) la de¬ scrizione della società, l'indagine sui rapporti tra per¬ sone e ambiente sociale, dal quale, secondo una ben nota ideologia estranea al regista, discenderebbe “di¬ rettamente” l’inaridirsi dei rapporti umani nel mondo moderno. Forse solo ne L’eclisse e in Deserto rosso (il ci¬ nismo del mondo della Borsa, la degradazione ecolo¬ gica operata dai moderni processi di industrializzazio¬ ne), la disumanizzazione dei personaggi viene asso¬ ciata direttamente con l’ambiente in cui vivono. Questo difetto di storicizzazione, questa « incapacità del regista di mostrare una struttura sociale » (Dort), è davvero un limite? Rimproverare ad Antonioni di non essere Stroheim è un po’ come rimproverare a Proust di non essere Zola. Non è la “denuncia” dei vizi della borghesia ad interessare Antonioni, ma il mondo dei sentimenti, lo scandaglio dei motivi segreti che inducono gli esseri umani ad agire, di ciò che c’è di più fugace e inesprimibile nel comportamento. Quelle che Proust chiamerebbe « le intermittenze del cuore ». Attraverso l’indagine sulla modificazione dei sentimenti, il regista de L'eclisse ci fornisce una pre¬ cisa documentazione dei mutamenti della concezione morale dell’uomo moderno. E, anche, un ritratto della borghesia, tanto più convincente in quanto indiretto: il vuoto formalismo di certi rituali borghesi (i “parties" letterario-mondani de La notte), la fatuità (Cronaca di un amore), la banalità degli interessi (il pomeriggio domenicale trascorso nella baracca sul mare, in De¬ serto rosso), il cinismo (Momina, Le amiche), l’asservimento al denaro (L'eclisse). La rappresentazione antonioniana del mondo borghese non è edulcorata; mai però è caricaturale, o manichea, come ha preteso qualcuno che ha scambiato il regista ferrarese per un sociologo anticapitalista. « Come Brecht ha messo in versi Marx, si può dire che Antonioni ha messo Marx in film — ha osato scrivere l’inglese Strick. — I suoi personaggi sono continuamente irretiti nella trama della distinzione sociale ». Nello stesso equivoco è caduto anche il connazionale Cameron, che arriva a vedere un « simbolo del disorientamento della so¬ cietà capitalista » nelle due innocue bottiglie pubblici¬ tarie collocate ai bordi di una strada, in Cronaca di un amore. Siamo nel puro delirio. È già un’impresa tro¬ vare dei simboli nel surrealista Bunuel, immaginia¬ moci in Antonioni! « Testimone imparziale », come di¬ rebbe Cechov (« Un artista non è un giudice dei suoi personaggi, di quello che pensano o dicono, ma sola¬ mente un testimone imparziale. Di accusatori pub¬ blici, di procuratori e gendarmi ce ne sono anche trop¬ pi »), il regista ferrarese rappresenta la borghesia dal¬ l’interno. Non giudica, non denuncia, perché ha un

alto senso del mistero. Che, Bunuel insegna, è l’a¬ nima di ogni opera d’arte. Il mistero della vita e della morte (che « agli uomini è vietato capire » si legge in uno dei più originali racconti di « Quel bowling sul Tevere pensiamo alla scomparsa di Anna ne L’av¬ ventura, al suicidio di Rosetta - Le amiche - e dell’o¬ peraio de II grido, alla metamorfosi di Locke in Profes¬ sione reporter), il mistero della conoscenza e della realtà sono al centro di due capolavori della maturità del regista ferrarese, Blow up e Professione reporter. « Il mistero è più interessante di qualsiasi spiega¬ zione » scrive in un altro racconto (« Quattro uomini in mare »). Come si può vedere nell’ultimo capitolo, consacrato ai racconti del regista editi da Einaudi nel 1982, le storie di Antonioni pullulano di enigmi. « Sono sempre stato ossessionato dall’idea di un film sul flusso che una persona può trasmettere a un’altra e che quest’ultima si porta dietro negli anni » con¬ fessa in « Verso il confine », tipico racconto del mi¬ stero. FIGURE IN UN PAESAGGIO Ma c’è un mistero che più di ogni altro sembra at¬ trarre l’occhio e stimolare l'immaginazione di Anto¬ nioni: il paesaggio, gli oggetti. « Sono sicuro che c’è una storia in quella massa di volumi... La composi¬ zione è troppo inusitata », scrive in uri altro dei suoi racconti, « Senza titolo » (affacciandosi alla finestra, lo scrittore rimane colpito dalla « prepotente fascia di verde che domina il paesaggio »; « dal verde ven¬ gono fuori » due case rosse, e una gialla che « dà l’impressione di non poggiare da nessuna parte »).

Nei film antonioniani il paesaggio, le cose inani¬ mate, hanno un’importanza determinante, più ancora forse che in quelli di Ford, Mizoguchi, Wenders. « Sono un elemento attivo, portano altrettanta emo¬ zione degli attori » direbbe Wenders. Diventano una componente essenziale, insostituibile del racconto. (« Generalmente io trovo gli esterni prima di scrivere la sceneggiatura » ha detto il regista. « Per poter scri¬ vere ho bisogno di aver ben chiaro l’ambiente del film. Può accadere anche che una storia mi venga sugge¬ rita da un ambiente. Quella de II grido mi è venuta mentre guardavo un muro »). L’ambiente, il “fondo”, non è una semplice cornice, o la trasposizione degli stati d’animo dei protagonisti, come nella letteratura romantica e nel cinema muto; diventa protagonista al punto da “determinare” gli stati d’animo dei perso¬ naggi; i quali, paradossalmente, tendono a diventare cose, materiale plastico. Accentuando la “presenza del fondo”, e richiamando esplicitamente lo sguardo dello spettatore su di esso, suggerisce Cuccù, il re¬ gista fa del paesaggio « un centro di attenzione auto¬ nomo dalla vicenda rappresentata ». “Autonomo” è un termine forse un po’ eccessivo, se applicato incon¬ dizionatamente a tutti i film antonioniani; bisogna ve¬ dere caso per caso; ma il concetto è giusto. C’è sempre un sottile rapporto dialettico tra personaggi e fondo. L’irrimediabile solitudine dei protagonisti de II grido, di Deserto rosso, lo smarrimento di Anna Sandro e Claudia ne L’avventura, sono indissociabili dalla livida, brumosa piana del Po, dal misterioso ar¬ cipelago vulcanico delle Eolie, supremamente indiffe¬ rente. In qualche modo sono già “scritti” nel pae¬ saggio vuoto che circonda i personaggi, come dice Ghiotto. Nella prima sequenza de L’eclisse l’estra-

II “fungo” dell’Eur è il terzo protagonista dell’inquadratura (L’eclisse).

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neità dei due innamorati sul punto di lasciarsi dopo una notte bianca viene accentuata dalla presenza minacciosa, lunare - del Fungo dell’Eur che incombe dalla finestra deH’appartamento. Nel celeberrimo fi¬ nale di quel film, scomparsi i personaggi, il paesaggio diventa di fatto unico protagonista. « Mi piacciono gli oggetti, forse più degli uomini » si è lasciato sfuggire Antonioni una volta. Ma ha ag¬ giunto subito: « Gli uomini però mi interessano di più ». Davanti all’importanza che hanno le cose, gli oggetti nei suoi film (paralumi, soprammobili, fossili, manufatti, muri, macchie, tubature, balconi, finestre, case, fabbriche, navi, aerei, boschi, acquitrini, strade, pianure, isole, montagne, deserti, eccetera) viene il sospetto che gli interessino quanto gli uomini. « In un film, personaggi e oggetti devono camminare fianco a fianco come degli amici » scrive il regista Robert Bresson. I personaggi antonioniani non sembrano avere altri amici che le cose: la passeggiata di Lidia nella periferia milanese {La notte), l’isola-Eden della favola narrata da Giuliana al figlio {Deserto rosso), i viaggi in aereo di Vittoria {L’eclisse) e di Mark (Zabriskie Point). L’atteggiamento che Lidia e Vittoria hanno verso la realtà, fatto di curiosità, di contempla¬ zione e di auscultazione estatica (Vittoria si incanta davanti a un fossile, davanti alla musica notturna delle corde metalliche sbattute dal vento contro le aste portabandiera), rispecchia indubbiamente quello dell’autore. « Far uscire le cose dall’abitudine, decloroformiz¬ zarle » scrive Bresson. Antonioni sa filmare le cose perché sa osservarle, auscultarle. « La sensazione che ho quando lo sento, è che il ronzio dei fili del te¬ legrafo in campagna renda impaziente il paesaggio » leggiamo in uno dei suoi racconti (« I primi giorni di primavera »). E ancora: « Seduto in un caffè [...] la¬ scio correre gli occhi alla ricerca di stimoli ambientali e altre coincidenze » (« La ragazza, il delitto »). « Quando non so cosa fare incomincio a guardare » scrive in « Quel bowling sul Tevere ». E ci rivela anche la “tecnica” con cui “guarda”. « La mia tecnica consiste nel risalire da una serie di immagini a uno stato di cose ».

Abituato a camminare a fianco a fianco con gli og¬ getti, il regista ferrarese possiede l’arte di infondere loro un’anima. In Zabriskie Point il minuscolo aereo (« Lilly 7 ») rubato da Mark per fuggire nel deserto di¬ venta una creatura vivente. Durante il viaggio di an¬ data e di ritorno, si trasforma in una sorta di uccello preistorico, un “ippogrifo” capace di esaltarsi come il suo spericolato cavaliere (il fantastico corteggia¬ mento dell’auto di Daria, le impennate nei « cieli alti della gioventù »: a un certo momento, durante il fatale viaggio di ritorno, lo vediamo librarsi sopra il mare di nubi libero come un aquilone che riesca a sfuggire alla gravitazione). Capace di “morire”, anche. La spietata caccia che gli danno i poliziotti, quando si posa sulla pista, fa pensare alla cattura di un volatile caduto nella trappola dei cacciatori. Quando Mark viene colpito, anche il motore si spegne; il regista evoca l’agonia del pilota attraverso quella del mezzo. La conclusione di questa splendida sequenza è me¬ morabile: disegnando nell’aria una stupenda ellisse, la cinepresa (piazzata su un elicottero) scende lenta¬ mente verso le grandi ali immobili di « Lilly 7 », arena¬ tosi tra due piste nel tentativo di decollare, quasi a constatarne la morte. Immagini di questa qualità poe¬ tica (e ce ne sono tante nei film di Antonioni) testimo¬ niano inequivocabilmente la grandezza di un cinea¬ sta. Anche perché proviene dal documentario (dalle sequenze della Borsa, ne L’Eclisse, a quelle nella fabbrica di Deserto rosso, dal parco di Blow up al de¬ serto di Professione reporter, in quasi tutti i suoi film troviamo delle parentesi “documentarie”) il regista ferrarese ha bisogno di grandi spazi, di ambienti veri. Tra i fondali dei teatri di posa si sente soffocare. Sullo “spazio” e il “tempo” dei film di Antonioni si è molto scritto, e teorizzato. Semplificando, non è la sede questa per disquisizioni teoriche, diciamo che ai viaggi interiori che ci propone Antonioni, alla rappre¬ sentazione della crisi e del vuoto dell’uomo d’oggi, non si addice il tempo lineare, o concitato, del cinema drammatico, o di azione, che si basa sulla concatena¬ zione causale e sul crescendo dei fatti e delle emo¬ zioni; come ci ricorda Tinazzi, al regista preme co-

Una scena di Zabriskie Point (la cabina dietro cui si ripara Mark è color rosso sangue).

Nella “Valle della morte” (Zabriskie Poinf).

gliere non tanto i fatti quanto gli influssi, i prolungamenti di essi. Il tempo dei film antonioniani è una sorta di eterno presente, dilatato, sospeso, non pro¬ gressivo. Antonioni, è risaputo, continua a “pedinare” i personaggi anche nei momenti in cui, finita una scena, dal punto di vista dell’azione diciamo dramma¬ tica tutto sembra già essere stato detto. In questi “tempi morti” la cinepresa tenta di cogliere le riper¬ cussioni degli eventi dentro i personaggi. Sono mo¬ menti di verifica. Siccome “servono”, non ha senso allora chiamarli “morti”. « Abituati come siamo al presto della durata cinematografica - osserva Boatto - avvertiamo un’impressione acuta di lentezza, come di rallentamento, davanti ai film di Antonioni. Ma in queste vicende affidate alla precarietà del possibile (il Il viaggio in aereo (L'eclisse).

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regista infatti libera l’evento dai limiti della storia, lo ri¬ solve nella situazione, nel comportamento), il tempo non può precipitarsi veloce all’esterno, bensì è co¬ stretto ad addensarsi, a non passare, a seguire il lento incedere dei personaggi che cercano a tentoni il senso della loro vita ». Quello dei film antonioniani è il tempo della scoperta, della verifica (l’aspirazione del regista ferrarese « non è tanto a descrivere quanto a conoscere le cose » osserva acutamente Moravia); e sappiamo che « la verità è lenta da sco¬ prire » (Frangoise Sagan in un suo intervento su L’av¬

ventura). « A una temporalità dilatata, senza concitazione e senza progressione lineare, fa riscontro — rileva Boatto — una spazialità aperta, molteplice, fluida, as¬ solutamente non rigida; « non prospettica », la defi¬ nisce Scalia. Nei film antonioniani, infatti, sembra non esistere separazione tra interni ed esterni. Non c'è nemmeno « la categoria privilegiata della centralità del personaggio » (Boatto). « Si splancano porte, ogni singolo ambiente apre su un altro, l’interno e l’e¬ sterno si incastrano come in una scacchiera » scrive Boatto. « Non incontrando limiti, ciascun personaggio si muove in una fluidità spaziale, passa come tra se¬ zioni continue di ambienti aperti », la sua inquieta ri¬ cerca « ci trascina in un mobile itinerario di spazi con¬ tinui e diversi ». « La strada, questo luogo spalancato e disponibile, riassume idealmente la spazialità di An¬ tonioni ». Regista introverso, contemplativo come Ozu e Mizoguchi — non meraviglia quindi che sia più popolare in Giappone che in Italia —, Antonioni tende ad elimi¬ nare dal quadro tutto ciò che produce movimento, contrasto, agitazione (l’osservazione è di Moravia). Di qui il suo scarso interesse per l’intreccio, il dramma. Nelle sue storie i fatti sembrano accadere come per caso. Più che l’azione conta la situazione, la tensione interiore, l’atmosfera; più che la psicologia conta il comportamento (la psicologia dei personaggi ce la fa

sentire in maniera allusiva; tutto del resto è allusivo, indiretto, in Antonioni). Anche la cinepresa si muove solo quando è ne¬ cessario. La panoramica — che traduce il movimento più tipico dell'occhio umano: cosa fa infatti uno che guarda se non delle panoramiche? — è il movimento preferito di Antonioni. Il senso di immobilità, di astra¬ zione quasi metafisica che ci comunicano i suoi film (« non c’è movimento né dentro né fuori, tutto è come bloccato; fin dalla prima inquadratura di una scena i personaggi appaiono uno da una parte e uno dall’al¬ tra, scostati, già incomunicabili; si spontano ma non si muovono realmente » ci ha detto Tonino Guerra) viene accentuato anche dal modo in cui a volte il re¬ gista apre e chiude una sequenza: la cinepresa in¬ quadra l’ambiente vuoto prima che il personaggio entri in campo, e continua ad inquadrarlo per qualche attimo dopo che questi ne è uscito. Il fatto di tenere la camera puntata a lungo su un ambiente, dicono i giapponesi, contribuisce a “creare l’atmosfera”. Questo procedimento « alla Ozu » — un autore sco¬ nosciuto in Europa fino agli anni Settanta — sarà imi¬ tato fino alla nausea da certi epigoni del maestro fer¬ rarese, convinti che si possa « fare alla maniera di » copiando certi stilemi narrativi. Per rifare Antonioni ci vuole l’occhio, il senso compositivo e ritmico, di Anto¬ nioni. Immobilità, astrazione — non ci meraviglia che Piero della Francesca sia uno dei pittori preferiti del¬ l’autore de L’eclisse — non vanno presi ovviamente come sinonimi di freddezza e noia, come è portato a credere chi identifica il cinema con il movimento e le seduzioni, peraltro legittime, dello spettacolo. La « freddezza » di Antonioni è discrezione, senso della misura e della forma. (« Non cerco freddezza, ma la forma » ha detto lo scrittore Peter Handke, collabora¬ tore di Wenders). Rivedendo le opere del regista fer¬ rarese — innamorato dell’impassibilità, della calma sovrana, dell’assenza di emozioni manifeste, come diceva Berenson di Piero della Francesca — ci si ac¬ corge che brucia una segreta passione sotto la rigo¬ rosa geometria della forma. Con il tempo i suoi film si riscaldano: L'eclisse, il capolavoro più astratto e gla¬ ciale di Antonioni, a distanza di ventidue anni ci ap¬ pare come una delle opere più emozionate del ci¬ nema italiano. Ripercorrendo — nel primo capitolo — le tappe del suo apprendistato abbiamo visto come Antonioni non abbia avuto altri “maestri” che i suoi occhi. Vani sono risultati i tentativi degli studiosi di accostarlo ad altri autori (l’improbabile Carnè, Visconti) o di riaggan¬ ciarlo al carro del neorealismo. (Sembra che non si possa parlare di un regista del dopoguerra senza “collegarlo” a quel movimento, così spontaneo e an¬ titeorico che è lecito domandarsi se abbia senso con¬ siderarlo una scuola). Fin dal primo documentario il giovane Antonioni ha imboccato una strada persona¬ lissima. « Se a rigore si può chiamare « realista » la materia dei suoi documentari — ci ha detto l’ex-documentarista e regista Guido Guerrasio — non si può certo considerare « neorealista » l’ottica con cui Anto¬ nioni guardava a quella materia. Le sue inquadrature sono già, formalmente, elaboratissime, tendono all’a¬

strazione ». Il solo antecedente che abbia in qualche modo rappresentato un “modello” per il giovane re¬ gista ferrarese è forse Robert Bresson. Una miste¬ riosa consonanza estetica lega l’autore di Cronaca di un amore all’austero regista di Les dames du bois de Boulogne. Un po’ come Bresson, Antonioni procede per riduzione e sottrazione, detesta i “coups de theàtre”, gli effetti esteriori, il sentimentalismo, il melo¬ dramma, la musica di commento (preferisce i rumori della realtà, il silenzio). Ambedue i cineasti hanno una grande passione per gli oggetti (« Un solo mistero delle persone e degli oggetti » scrive Bresson nelle sue « Notes »). Non impongono il loro mondo, fanno in modo che si imponga da sé. Non aggrediscono Ig spettatore, ne stimolano l’immaginazione (« Fare in¬ dovinare. Produrre l’emozione attraverso una resi¬ stenza all’emozione » citiamo ancora il maestro fran¬ cese). E non hanno paura di apparire monotoni insi¬ stendo sugli stessi temi: « Non è forse perché canta sempre la stessa canzone che l’usignolo è così am¬ mirato? » (Bresson). Ma tra questi austeri, disincantati, stilisti, forse i più intransigenti del cinema del dopoguerra, esistono 17

Dei film di Antonioni serbiamo nella memoria soprattutto delle immagini (L’eclisse).

anche (per fortuna) molte e sostanziali differenze: Bresson è un purista, un giansenista, Antonioni no. La sua concezione giansenista del cinema come arte del levare, il suo terrore per le possibili commistioni tra teatro e cinema, hanno portato il maestro francese a prendere delle posizioni di un’intransigenza quasi maniacale: per impedire loro di recitare, fa muovere e parlare i suoi "modelli” - così chiama gli interpreti, non professionisti - come degli automi. Tra i tanti rifiuti di Bresson c’è anche quello del piacere dell’occhio. « La bellezza del tuo film - scrive - non sarà nelle im¬ magini (cartapostalismo) ma nell’ineffabile che esse sprigionano ». Non necessariamente l’ineffabile è ne¬ mico della bellezza, e alleato della disincarnazione. Meno intransigente, più umano, Antonioni non si fa scrupolo di ricorrere agli attori professionisti (li usa a modo suo naturalmente, facendo appello anche con dei trucchi al loro istinto più che alla loro intelligenza, al loro self-control; vuole che recitino con il minimo di lucidità possibile), di sfruttare il proprio talento figura¬ tivo, la sua acuta sensibilità per i valori pittorici. A ri¬ schio di essere preso per un "esteta”, cura scrupolo¬ samente la composizione, la bellezza dell’inquadra¬ tura. (Proust confessava di prediligere gli scrittori che « scrivono anche bene »). Senza scadere nel pitto¬ resco o nelle « cartoline postali », cui alludeva Bres¬ son, le inquadrature di Antonioni si distinguono anche per la loro raffinata bellezza oltre che per la loro origi¬ nalità compositiva. « Mentre di altri maestri del ci¬ nema — ha scritto Mario Soldati — ricordiamo delle scene, dei film di Antonioni serbiamo nella memoria soprattutto delle immagini. Pochi registi al mondo ci hanno dato immagini che rimangono cosi persistenti nella memoria, così compatte, preziose, inalterabili ». 18

Le riproduzioni contenute nel presente libro lo testi¬ moniano ampiamente. Peccato che queste immagini di allucinante bel¬ lezza siano a volte appannate da un dialogo non sempre altrettanto felice e funzionale. È un difetto che Antonioni ha in comune con Bresson. Rigorosissimo nel controllare la composizione dell’inquadratura, il ritmo delle sequenze, la colonna sonora, il regista è meno intransigente per quanto riguarda le battute pronunciate dai personaggi, che a volte (si veda la conclusione del capitolo su Identificazione di una donna) suonano letterarie, sentenziose, artificiose. C’è una tale sproporzione in Antonioni tra sceneggia¬ tura e film, tra parola scritta e immagine, che al ter¬ mine delle riprese occorrerebbe forse risistemare i dialoghi previsti per renderli adeguati alla potenza e alla raffinatezza delle immagini; evidentemente, questo non gli è sempre possibile. Come Chaplin, più attore che regista, nei suoi film tendeva a trascurare le immagini, troppo subordinate alla recitazione, allo stesso modo Antonioni, più cineasta e pittore che drammaturgo, tende a trascurare i dialoghi. Contano così poco che, dopotutto, possiamo anche dimenti¬ carli. L’aspetto pittorico-figurativo è così determinante nel cinema di Antonioni (la storia, si direbbe, è solo un pretesto per « fare delle immagini », un po’ come per Wenders) che risulta strano il fatto che nessuno abbia mai pensato a pubblicare un libro tutto di immagini tratte dai suoi film. Si è fatto per Fellini (in Svizzera) e Kubrick (in Francia; evidentemente in Italia editori e saggisti continuano a pensare che il cinema non è un’arte figurativa); perché non per Antonioni? Studiosi e cineasti si accordano nell’assegnare a

Michelangelo Antonioni un posto di primissimo piano nel cinema mondiale del dopoguerra. Confrontando le valutazioni proposte dalle due categorie si resta però colpiti da una curiosa discordanza: mentre i ci¬ neasti — vedremo subito — insistono concordemente sull’aspetto visivo del cinema di Antonioni, sul suo oc¬ chio, i critici tendono a sottolineare soprattutto la coe¬ renza della ricerca, il rigore dello stile, il coraggio di « suonare su una corda sola », di « imporre come una poetica la sua monotonia tematica e stilistica » (Pignotti). A noi questa monotona insistenza della cri¬ tica sul « rigore » e la « lucidità » di Antonioni sembra un po’ riduttiva. Anche Straub, anche Marguerite Duras, sono rigorosi e lucidi, ma queste qualità non ba¬ stano a farne dei geni del cinema. È poi vero che Antonioni suona su una corda sola? Stilisticamente, e anche tematicamente, cosa hanno in comune, a ben guardare, Cronaca di un amore (1950) e / vinti (1952), Le amiche (1955) e II grido (1957), L’avventura (1959) e La notte (1960), Deserto rosso (1964) e Blow up (1966)? (Abbiamo scelto, si badi, dei film realizzati uno di seguito all’al¬ tro). Nell’analisi delle singole opere abbiamo messo in rilievo la sottile evoluzione del linguaggio antonioniano da un’opera all’altra Non sempre la critica si è resa conto ad esempio che i "piani sequenza’’ de / vinti non sono gli stessi di Cronaca. (Il “piano sequen-

Il tempo si è fermato: l'alba de La notte.

Non c’è movimento, tutto è come bloccato (L’eclisse).

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za”, l'inquadratura lunga, è una tecnica che Antonioni ha applicato per primo in Italia; ereditandola probabil¬ mente da Orson Welles, quello che L'orgoglio degli Amberson, se ne è servito con molta libertà, senza di¬ ventarne schiavo come invece è accaduto talvolta ai suoi allievi Miklos Jancso e Thodoros Anghelopulos). Quanto alla problematica dei suoi film, chiusa con Deserto rosso la ricerca sull’evoluzione e la malattia dei sentimenti nel mondo moderno, a partire da Blow up Antonioni si è spinto — non solo geograficamente — in zone inesplorate: la conoscenza della realtà (Blow up), il problema dell’identità (Professione repor¬ ter), il rapporto uomo-natura (Tecnicamente dolce, ri¬ masto purtroppo allo stadio di progetto), il mondo del¬ l’elettronica (Il mistero di Oberwald). La presunta « monotonia » di Antonioni — come, si è visto, la “freddezza”, la “noia” — è un altro luogo comune. Cosa vi colpisce di più nel cinema di Antonioni? Abbiamo rivolto la domanda a una ventina di cineasti italiani e stranieri; le loro risposte testimoniano in ma¬ niera eloquente quanto il cinema moderno debba al regista ferrarese. « Non ho visto i suoi documentari, ma i suoi primi film sono stati per me un autentico shock — ci ha detto Alain Resnais. — Mi sento così dilettante davanti ad Antonioni! Mi ha comunicato l’ossessione per l’immagine ». « Antonioni — ci ha ri¬ sposto Eric Rohmer — ha un senso straordinario dello spazio e del tempo cinematografici. Il regista ita¬ liano che ha avuto la maggior influenza in Francia negli anni Sessanta è stato certamente Rossellini, ma il mio primo film deve più all’autore de II grido che al¬

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l’autore di Viaggio in Italia-, strano che pochi se ne siano accorti. Non sono l’unico a dovergli qualcosa. Per esempio c’è molto Antonioni, forse anche un po’ troppo, in un film tedesco che amo particolarmente, Nel corso del tempo ». Anche se preferisce parlare di Ozu (dietro il quale si diverte a nascondersi) Wim Wenders non ha nessuna difficoltà a riconoscere il suo debito: « Antonioni è uno dei registi che mi ha emozionato di più, dopo Ozu. Mi piace il suo modo di guardare, di filmare le cose e i paesaggi ». (È molto strano che la critica non abbia mai sottolineato le sot¬ tili analogie che esistono tra Alice nelle città e II grido, tra Paris, Texas e Zabriskie Point). Il regista ferrarese è popolare anche tra i cineasti americani. Altman e Woody Alien lo annoverano tra i loro autori preferiti. Scorsese ci ha confessato di es¬ sere « affascinato dal prodigioso occhio cinematogra¬ fico di Antonioni ». E Coppola: « La conversazione deve molto a certe sequenze di Blow up. Anche De¬ serto rosso mi ha colpito molto ». Siamo sicuri che anche l’autore di Cinque pezzi facili (Rafelson) « deve » qualcosa ad Antonioni. Da Jancso ad Anghelopulos, da Petri a Zurlini, da Carpi a De Seta, da Wenders a Tarkovski, sono molti i registi europei che si rifanno al maestro ferrarese. Elio Petri: « Ammiro molto il suo talento plastico. An¬ tonioni mi ha aiutato, mi ha formato, non ho alcun mo¬ tivo di nasconderlo. Ha sempre un occhio giovanile, attonito, vergine, sulla realtà ». Valerio Zurlini: « La costituzione dell’immagine in Antonioni è sempre as¬ soluta e assolutamente originale. Saprei ricono-

Due inquadrature tipiche di Antonioni (sopra, Blow up; sotto, L’eclisse).

scere una sua inquadratura tra cento. A me e a molti della mia generazione i suoi documentari e i suoi film hanno insegnato a guardare la realtà ». (Sui rapporti Antonioni-Zurlini si veda il Quaderno nu¬ mero 25 di « Circuito Cinema », Venezia, 1983, pa¬ gine 2-9). Fabio Carpi: « È l’esempio più alto che il ci¬ nema italiano possa offrire. Un lucido sguardo laico che airinterno del piano sequenza recupera i battiti del cuore nei tempi morti dell’inquadratura. È un nar¬ ratore perverso che distrugge le storie, in cui non crede, per restituirci le coordinate della vita intesa come enigma esistenziale ». Vittorio De Seta: « Mi af¬ fascina come cineasta; come narratore trovo che ha anticipato i tempi: viviamo di fatto in un mondo dove i sentimenti sono morti e la vita è diventata ango¬ sciante proprio come nei film di Antonioni ». Andrei Tarkovski: « Antonioni fa parte della ristrettissima schiera di cineasti-poeti che si creano il proprio mondo. I suoi grandi film non invecchiano, al contra¬ rio ». Miklos Jancso: « È stato il mio maestro ». Il regista ferrarese è ammirato anche da autori che fanno un cinema diverso dal suo. Robert Altman: « Un grande cineasta ». Mario Monicelli: « È il regista moderno più importante, per me, quello a cui rico¬ nosco in qualche maniera una forma di genio più che a qualsiasi altro. Mi affascina il rigore assoluto dell’immagine, sposato a una verità che è al tempo stesso realistica e surreale. Mi affascina la mancanza asso¬ luta di romanticismo, il fatto di essere riuscito a espri¬ mere con il cinema cose che sembravano intraducibili in immagini ». Paolo e Vittorio Taviani: « È un autore che ci interessa profondamente. L'occhio di Antonioni

rappresenta la possibilità di un nuovo sguardo sul mondo ». Satyajit Ray: « Ammiro moltissimo l’opera di Antonioni, la sua secchezza, la sua raffinata ele¬ ganza. La notte, L’eclisse, e gran parte di Blow up sono dei monumenti cinematografici ». Akira Kurosawa: « Prima di vedere i suoi film non avrei mai cre¬ duto si potesse andare così lontano, al cinema, nell’esprimere i sentimenti più segreti. Forse solo Mizoguchi è sceso a profondità così insondabili ?>.

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UN UOMO SENZA COMPROMESSI

« Non ho ricordi ». « Non mi volto mai indietro ». « Mi guardo appe¬ na nello specchio quando mi faccio la barba ». « Non mi piace che si sap¬ pia tutto di me. Quello che conta sono i film ». È quanto ci siamo sentiti ripetere da Michelangelo Antonioni ogni volta che abbiamo tentato di indurlo ad alzare il velo sul suo passato. Uomo del presente, proteso verso il futuro (anche per questo non ci sono flash-back nei suoi film, fino a Professione re¬ porter, 1976), il più internazionale dei cineasti della penisola non appartiene alla categoria degli artisti (Pavese, Fellini) segnati per la vita dalle prime esperienze dell’adolescenza. Il fatto di essere nato (il 29 settembre 1912) in una città (Ferrara) della piana del Po sembra non avere importanza per l’au¬ tore di Blow up. Antonioni potrebbe essere nato in una qualunque città del Nord... Europa. Eppure in tre momenti chiave della sua carriera cinemato¬ grafica ha sentito il bisogno di ritornare al paesaggio della sua infanzia: per realizzarvi il suo primo documentario (Gente del Po), il suo primo film a colori (Deserto rosso), e quella che si può considerare la sua opera più personale, Il grido. Inoltre le prime sequenze di Cronaca di un amore, il film con cui nel 1950 esordisce nel lungometraggio, sono ambientate a Ferrara, dove ha tra¬ scorso i primi ventisette anni della sua esistenza. Le radici hanno dunque un peso anche per il meno autobiografico dei nostri registi. In una pagina della Prefazione ai « Sei film », pubblicati da Einaudi nel 1964, il regista rievoca, con la precisione che lo contraddistingue, il clima della sua adolescenza ferrarese. « “Laggiù vive una ragazza... Non è nemmeno innamorata di me”. Dove ho letto questa frase? Potrei farne il simbolo della nostra, mia e dei miei coe¬ tanei, giovinezza a Ferrara. Non avevamo altra preoccupazione. L’odore della canapa, quello dei resti delle bietole sui carri che andavano e venivano dagli zuccherifici, quello del fiume, di erba e di fango. Tutti questi odori che si mescolavano a quello della donna, l’estate, dei profumi scadenti nei balli popolari, l’inverno. Le strade lunghe e larghe, strade di città di pianura, belle

Michelangelo (Nino) a nove

mesi. a d^e annj (a sinistra, jn basso); seduto accanto al fratello maggiore Alberto.

Con alcuni amici ai mare (Michelangelo è a destra, in camicia bianca).

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e quiete come inviti all'eleganza, agli ozi dissipati. Le interminabili chiac¬ chiere agli angoli di queste strade a notte alta con gli amici, e sempre l'argo¬ mento era la donna. Certe sere andavamo nelle osterie a bere il vino. Ma non mi piaceva ubriacarmi, perdere coscienza di quella leggera deprava¬ zione. Certe altre andavo, da solo, in un casamento popolare e ci restavo tutta la notte, con una ragazza. Non mi pento di aver trascorso così tante ore della mia vita, per questo posso parlarne. Ci mettevamo sullo scalone e sta¬ vamo lì al buio. Vedevo, alla luce della luna, un’arcata stupenda e, dietro, il cortile cinquecentesco. Sentivo dei passi, delle voci nel buio. Ricordo un bimbo spinto fuori da un uscio così: “Va’ a cercare quella puttana di tua so¬ rella!” “Dov’è?” “Sulle mura... La prima che trovi a gambe aperte è lei”. La ragazza che era con me era dolce e fedele. Non mi faceva uscire prima del¬ l’alba perché temeva che i giovani del casamento mi bastonassero. All’alba rincasavo ascoltando il rotolio dei carri sui ciottoli. Stravaccati sui carri, i bar¬ rocciai cantavano. Avevano dormito sodo, tuffato la testa in una catinella d’acqua, bevuto la grappa in un bar, e adesso cantavano un canto provviso¬ rio, senza allegria, che tra poco avrebbe fatto posto alle bestemmie. Qualche volta salivo anch’io sui carri e mi facevo portare. Era un’esperienza esal¬ tante. Non li ricordo più quei dialoghi, ma allora mi sembravano straordina¬ ri ». Dei primi anni di Michelangelo Antonioni finora non si sapeva di più. Ce¬ dendo cortesemente alle nostre insistenze, il regista ha fornito altri interes¬ santi particolari. « La mia è stata un'infanzia abbastanza felice. Mìa madre (Elisabetta Roncagli) era una donna molto buona e intelligente. Da giovane aveva fatto l’operaia. Anche mio padre era un uomo molto buono. Proveniva da una fa¬ miglia di estrazione popolare, ma studiando e dandosi da fare era riuscito a crearsi una discreta posizione. I miei genitori mi lasciavano molta libertà: io e mio fratello eravamo sempre fuori a giocare con gli altri ragazzi. Curiosa¬ mente i nostri amici erano sempre dei proletari, dei “poveri”: allora c’erano ancora i poveri, si riconoscevano anche da come erano vestiti. Ma anche nel loro modo di vestire c’era una fantasia, una schiettezza, che me li facevano preferire ai figli di famiglie borghesi. Ho sempre avuto simpatia per le figlie di proletari, anche in seguito, quando frequentavo l’istituto tecnico e l’università; erano meno sofisticate, più autentiche ed istintive » Prima che al cinema (« C erano tre sale cinematografiche nel mio quartiere, una era di fronte a casa mia, dovevo quindi solo attraversare la stra-

da »), da ragazzo Michelangelo si appassiona alla musica e al disegno. Violinista precoce, tiene un concerto pubblico a nove anni. « La musica mi emo¬ zionava enormemente — ricorda. — Suonavo tutto a modo mio, senza se¬ guire rigidamente i tempi indicati sullo spartito ». La passione per il disegno durerà tutta la vita. Tra un film e l'altro tornerà con entusiasmo alla pittura. Vi¬ sitando nel 1983 la prima esposizione di Antonioni pittore informale, i fre¬ quentatori della Mostra veneziana scopriranno con viva sorpresa un aspetto inedito della personalità del regista. « Da ragazzo non disegnavo pupazzi o figure, ma facciate di case, portali. Uno dei miei giochi preferiti era “organiz¬ zare” delle città. Senza sapere niente di architettura, costruivo palazzi, strade, sulle quali facevo muovere dei pupazzetti. Mi inventavo delle storie. Quegli happening puerili — avevo undici anni — erano come dei piccoli film ». La prima pellicola che ricorda di aver visto è un film dell’orrore, a pun¬ tate. Si intitolava II mistero di Koenigsmark. « Ricordo l'immagine dell'assas¬ sino che affilava la lama con cui avrebbe ucciso i proprietari del castello ». « Al cinema andavo molto spesso perché anche mio fratello lo amava molto .... Mi compravo i bruscolini, mi sedevo, mangiavo e guardavo. Mescolare il sapore salato con l’immagine era una cosa che mi piaceva molto ». Il primo incontro con il mondo dello spettacolo ha luogo al teatro Novelli di Paullo, un paesino del ravennate. Un compagno di giochi, figlio di un proprietario di un cinema-teatro — « All'epoca non si aveva ancora tanta fiducia nello spetta¬ colo cinematografico e quindi lo si abbinava con il varietà » — organizza una recita. « Il teatrino sorgeva sulla rocca di Paullo; il palcoscenico si affacciava su due strapiombi. Il mio amico curava la regia, io avevo l’incarico di “fare il tuono": nella “pièce” infatti, un drammone a fosche tinte, c’era un temporale. Il rumore del tuono veniva provocato da una palla di marmo del diametro di quaranta centimetri, una medioevale palla di cannone, per intenderci, che io dovevo far rotolare lungo una di quelle monumentali scalinate con lo scalino basso per consentire il passaggio dei cavalli. Portammo la pesante palla di

Cortina, 16 gennaio 1936.

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marmo in cima alla scala e al segnale cominciai a farla scendere lentamente. Era così pesante che mi sfuggì di mano. Dopo aver percorso tutta la scali¬ nata, piombò in uno dei precipizi, a valle, lo mi presi uno spavento terribile; ma il tuono fu stupendo. I compagni che mi complimentarono non volevano credere che la palla era finita nel burrone. La mia prima esperienza nel campo dello spettacolo fu davvero memorabile ». Il primo contatto professionale di Michelangelo con il teatro — che di¬ venta con il tempo un’autentica passione — avviene sotto la guida di Angelo Aguiari, « un uomo di grande talento » che organizza delle riviste con le mu¬ siche del maestro Ratta. In uno di questi spettacoli — « erano molto belli e abbastanza grandiosi, perché trattandosi di recite di beneficienza non si ba¬ dava a spese » — Michelangelo interpreta la parte di un matto. Più tardi, mentre frequenta l’università, metterà su una compagnia teatrale. « Mi diver¬ tiva molto far recitare gli amici. Facevo anche delle scenografie, molto sim¬ boliche, molto strane, debbo dire. Andavo matto per Ibsen e Pirandello. Scrissi anche un paio di commedie, di stampo pirandelliano naturalmente. Una l’ho messa in scena. Si intitolava, chissà perché, Il vento. Più tardi ne scrissi una con Bassani. Ricordo che la facemmo leggere all’avvocato Boari, critico teatrale del “Corriere padano”. Ci disse che era una “nobile fatica” ma niente di più. Non ricordo più di cosa trattasse ». A Ferrara la cultura è una cosa del passato. Per reagire all’abulia della provincia, Antonioni crea un cenacolo letterario insieme agli amici Giorgio Bassani, Lanfranco Caretti e un certo Giuliani. « Ci vedevamo periodica¬ mente per leggerci le nostre prime fatiche letterarie » ricorda Antonioni. Ca¬ retti, che è diventato uno dei più importanti filologi italiani, è più ricco di par¬ ticolari. « Il cenacolo aveva luogo nella casa di Bassani, il più appassionato a travolgerci nella nostra indolenza. Era un punto di ritrovo e di stimolo. Fummo i primi a leggere l’« Ulisse » di Joyce nella traduzione di Valéry Larbaud. La borghesia di Ferrara era molto chiusa e conservatrice. Ad accomu¬ narci erano i “no” che ci sentivamo di dire per difendere il buon gusto contro il cattivo gusto dell’epoca. Eravamo senza dubbio dei formalisti; il formalismo riempiva anche il nostro vuoto di ideologia ». Come si svolgevano le riunioni del cenacolo? « Bassani — prosegue Caretti — leggeva poesie, io eserci¬ tavo l’ingrata funzione di critico. Giuliani, che era di estrazione popolare, esprimeva la reazione antiborghese. Antonioni? Taceva. I silenzi di Antonio¬ ni... come quelli di Montale. La parola non era il suo elemento essenziale; il suo alfabeto esigeva altre forme espressive. Noi eravamo dei divoratori di libri e parlavamo delle letture che avevamo fatto; Antonioni invece, che non era un lettore sterminato proprio perché leggeva per riempire i buchi di im¬ magini — come tutti gli autodidatti ha assimilato quello che gli serviva —, parlava del fotografo Sfuria che andava nelle paludi di Comacchio. Già allora Michelangelo andava dalle immagini alle cose. Ha sempre fatto fatica a metFrequentatore assiduo del Tennis Club Marfisa, a Ferrara.

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terci di mezzo le parole. Immagini e sentimenti prima di tutto. Il sogno di Antonioni è che il sentimento diventi immagine e l'immagine sentimento .... L’Antonioni che ricordo — conclude Caretti — è nel silenzio e nello stile di vestire, uno stile molto raffinato e discreto, che non si vedeva. Forma, stile, rigore, silenzio: lo era anche nel privato ». Come giudica Caretti i primi scritti deH’amico Michelangelo? « Il suo teatro si collocava tra Strindberg e Ibsen .... C’era in lui un fondo di crepusco¬ larismo sublimato nello stile rigoroso ... ». Non parlava mai del suo futuro? Avrebbe potuto diventare uno scrittore? « Non so. Michelangelo non diceva quello che pensava. In un racconto pubblicato sul “Corriere padano” e inti¬ tolato “Strada a Ferrara” si legge: “Tu non hai sogni... non hai aspirazioni... Spendi la tua esistenza goccia a goccia e conservi per te, e per te sola, il se¬ greto della tua pacatezza e del tuo stile. Non scuoterti, taciturna viuzza. La tua religione è il silenzio, ch’è anche la tua bellezza”. Come dire: lasciatemi il mio silenzio... ». Secondo Lanfranco Caretti, Ferrara non ha capito i silenzi di Antonioni. « Credo si possa dire che è stato rifiutato dalla sua città. Quando andò a chiedere la mano di una ragazza, che poi sposò un ricco borghese, il padre di lei lo mandò via a male parole dicendo: “Non darò mai mia figlia a un nul¬ latenente che vuol fare del cinema! Prima si faccia una posizione, poi ne ri¬ parliamo” ». Antonioni non se la legherà al dito. Lui così restio alle cerimonie accetterà di buon grado di tornare nella sua città per ricevere un premio de¬ cretatogli — un po’ in ritardo — in occasione del suo settantesimo com¬ pleanno. Di quel tributo di simpatia avrebbe avuto più bisogno ai tempi de II

Durante la storica sfilata del Palio, a Ferrara (secondo da sinistra),

grido. 27

“Riccione 21 luglio 1939, Raduno delle stelle”, dice la scritta sul retro della foto. La vigilia della partenza per Roma.

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Che cosa leggeva Antonioni in quegli anni? « Di tutto. Ho avuto tanti amori letterari — ci ha detto. — Il primo romanzo che ho letto fu “Il serpente piumato” di Lawrence. Poi sono venuti Ibsen, Pirandello, Gide .... Ebbi una specie di cotta per Gide; durante la guerra ho tradotto anche un suo libro, “La porte étroite”. Poi la cotta mi passò. Troppo moralista. La letteratura francese l’ho studiata a fondo come quella italiana. Più tardi mi sono orien¬ tato verso la letteratura anglosassone, la poesia specialmente. Mentre la Francia è stata un’esperienza culturale, lo studio della letteratura e della poesia anglosassone è stato un'esperienza di vita. Sentivo che quelle opere appartenevano di più alla realtà, avevano un’aderenza più diretta alla vita, quindi me le sentivo più vicine .... Se ho amato gli apocalittici più dei simbo¬ listi francesi, evidentemente mi riguardavano più intimamente ». Dopo Pirandello, lo scrittore italiano che ha marcato di più il giovane An¬ tonioni è Cesare Pavese. « Ricordo che Bassani mi passò una copia ampia¬ mente chiosata di “Paesi tuoi”. Il romanzo era appena uscito. Da quel mo¬ mento divenni un attento lettore di Pavese ». L’incontro con lo scrittore pie¬ montese sarà estremamente proficuo: nel 1955 Antonioni porterà sullo schermo il romanzo « Tra donne sole » (Le amiche). Dopo aver frequentato il ginnasio, Michelangelo si iscrive all’istituto tec¬ nico. Molti si chiederanno perché un giovane così dotato per le lettere e le arti abbia scelto un indirizzo scientifico. La scelta fu dettata dalle circostanze: l’amore per una ragazza che frequentava l’istituto, la scarsa simpatia (reci¬ proca) verso il preside del liceo. « Mi odiava — ricorda il regista. — Devo ri¬ conoscere che gliene avevo combinate di cotte e di crude; non ero uno sco¬ laro diligente. Dopo l’istituto tecnico mi sono iscritto alla facoltà di economia e commercio, a Bologna, ma frequentavo spesso le lezioni tenute alla facoltà di lettere ». La scelta della tesi — I problemi di politica economica ne « I pro¬ messi sposi » — è indicativa. « So che in genere gli studenti non amano questo libro, ma a me piacque molto. Sostenni che il Manzoni non capiva niente di politica economica e il professore, Alberto Giovannini, mi dette per¬ fettamente ragione ».

« Il complesso di non aver fatto degli studi classici mi rimarrà sempre un po’ — confessa candidamente Antonioni. — Mi piaceva molto scrivere, ma non mi ritenevo abbastanza colto; pensavo che per scrivere ci volesse una grande cultura. Mi pesava anche il fatto di non avere una solida base filoso¬ fica. In filosofia sono sempre rimasto un autodidatta. Mi sono avvicinato a certi testi dell’esistenzialismo per colmare delle lacune più che per istinto. Mi sentivo più portato verso la letteratura e la poesia » Durante gli studi universitari Antonioni comincia a pubblicare recensioni cinematografiche, elzeviri, articoli di vario genere sul « Corriere padano », il giornale di Ferrara. Il primo articolo — in quattro anni ne scriverà un centi¬ naio circa — è del 30 giugno 1936. La collaborazione di Antonioni con il gior¬ nale della sua città cesserà a partire dal 1940 quando, stabilitosi a Roma, di¬ verrà redattore della rivista « Cinema ». A chi gli chiede se fare il critico fosse un ripiego, una scorciatoia, in attesa di “passare alla regia”, come accadrà per molti autori della “Nouvelle Vague” francese, Antonioni risponde senza ambiguità: « Facevo della critica per fare della critica ». Che la sua non sia stata una vocazione folgorante risulta in maniera direi emblematica dall’epi¬ sodio seguente. « Avevamo deciso fra amici di girare un documentario sui “matti” — ricorda — un documentario dal vero. Un giorno, con la “Bell and Howell” dell’amico Andrea Bulzoni, figlio del proprietario di un calzaturificio, mi presentai al direttore del manicomio di Ferrara. Era un uomo altissimo, e aveva la faccia che con il passare del tempo andava sempre più somigliando a quella dei suoi ricoverati. Per farmi vedere come soffrivano i suoi matti, emetteva ululati. Mi misi d’accordo con lui per utilizzare degli schizofrenici veri. Erano molto mansueti, dolcissimi. Li portai nell’ambiente dove volevo girare e spiegai loro quello che volevo fare. Mi stavano a sentire con atten¬ zione e umiltà. Al momento di girare, quando abbiamo acceso i proiettori, la stanza divenne una bolgia infernale: non sopportando la luce, cominciarono a rotolarsi, dimenarsi, urlare. Davanti a quello spettacolo terribile fui inca¬ pace di dare un ordine qualsiasi, e rinunciai al documentario. Fu intorno a quella scena indimenticabile che cominciammo a parlare, senza saperlo, di neorealismo ». Nei quattro anni di intensa collaborazione al « Corriere padano » Anto¬ nioni si fa apprezzare dal direttore Nello Quilici, un uomo colto, intelligente (« Era un po’ la mente di Italo Balbo »). Un giorno del 1939, a Venezia, Nello Quilici presenta Antonioni a Vittorio Cini, un personaggio molto importante, da poco nominato presidente dell’Esposizione Universale che doveva te¬ nersi a Roma nel 1942. Quando il neopresidente gli propone di diventare « uno dei suoi segretari particolari » Antonioni accetta. « Fu così che mi trovai a Roma — ricorda. — Ma la vita d ufficio non era fatta per me. E così dopo un po’ la mollai per entrare nella redazione della rivista “Cinema” ». Per riassumere la storica svolta della sua vita Antonioni non poteva usare una formula più laconica. Luogo d’incontro di intellettuali operanti in tutti i settori artistici (vi collaboravano Alvaro, Pannunzio, De Feo, Flaiano, Soldati, Zavattini, Betti, Ca¬ sella, Debenedetti), la rivista « Cinema » — ci informa Brunetta — svolge una funzione di “svariata divulgazione”. Godendo della doppia copertura della federazione fascista e del figlio di Mussolini, Vittorio, che la dirige dal 1938 al luglio 1943, la rivista « può aprire spazi e sollecitare interventi e col¬ laborazioni di intellettuali che spesso non appaiono di una perfetta ortodos¬ sia », e diventare così « un canale privilegiato entro cui convergono i desi¬ deri e le ipotesi poetiche che costituiranno la premessa fondamentale del¬ l’avventura culturale e artistica di una generazione ». Quando Antonioni entra nella redazione di « Cinema » non sono ancora esplosi quei fermenti preneorealisti teorizzati da un gruppo di giovani battaglieri — De Santis, Pietrangeli, Lizzani, Mida, Alicata — che approderanno alla rivista tra il 1941 e il 1943. Nel 1940 le colonne della redazione sono Gino Visentini, che pro¬ viene dalla “dura scuola” di Leo Longanesi, e Francesco Maria Pasinetti, che insegna al Centro Sperimentale. Con l’autore della prima storia del ci¬ nema italiano, che lo ospita in casa sua, il critico ferrarese stringe un’affet¬ tuosa amicizia. Letizia Balboni, sorella della moglie di Pasinetti, diventerà la signora Antonioni. Vittorio Mussolini, il direttore ufficiale di « Cinema », non si vede quasi mai in redazione. La composizione della rivista grava sulle spalle dei redat¬ tori. « Ci fu un periodo in cui mi trovai a dover comporre la rivista da solo » ricorda il regista. Un giorno, messo alle strette — « mi mancavano dieci, venti righe per chiudere il numero » — Antonioni decide di pubblicare un breve pezzo apparso con uno pseudonimo sul « Corriere padano ». Invece di complimentare il giovane redattore di « Cinema » per l’onore ricevuto, of-

La scoperta del teatro: Michelangelo attore, a diciassette anni (a destra).

Sottufficiale nel reparto telegrafisti (al centro).

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feso per non essere stato previamente consultato, l’autore di quelle dieci righe scatena un putiferio. « Prendendo il pretesto di quella stupida vicenda mi fecero firmare un pezzo di carta — le dimissioni — e, senza una lira di li¬ quidazione, mi misero in mezzo ad una strada. Allora mi iscrissi al Centro sperimentale di Cinematografia. Dopo tre mesi mi richiamarono sotto le armi. Rimasi in servizio a Roma per un anno e mezzo ». Nel suo brevissimo passaggio al Centro Sperimentale (quei tre mesi serviranno più al prestigio della Scuola che alla formazione professionale dell'allievo) Antomom trova subito modo di farsi notare: lo snort che rea¬ lizza ottiene il primo posto nella graduatoria degli scrutini. Il saggio racconta la visita di una signora ad una donna di malaffare; la signora recupera le let¬ tere compromettenti dando del denaro alla ricattatrice. Le due donne sono interpretate dalla stessa attrice, ma il movimento di macchina che segue la signora mentre entra in casa della ricattatrice non è interrotto: come è riu¬ scito l’allievo a passare da una all’altra senza stacco? La commissione esa¬ minatrice (in cui figurano Chiarini e Barbaro) non riesce a chiarire il mistero. « In realtà le panoramiche erano due — precisa Antonioni. — In mezzo alla scena c’era una colonna in ombra: quando la panoramica arrivava alla co¬ lonna, io sovrapposi i due fotogrammi e tagliai; l’interruzione c’era, ma inav¬ vertibile ». Vogliamo vedere in questa invenzione un preannuncio della pre¬ dilezione antonioniana per le inquadrature lunghe? Richiamato sotto le armi, l’aspirante regista deve interrompere i suoi esperimenti con la cinepresa. Dell’esperienza militare (fra il 1942 e 1943 fre¬ quenta il corso allievi ufficiali, « ero nei telegrafisti ») Antonioni conserva un ricordo non del tutto negativo: « Ti aiuta a formarti un carattere. Se vuoi so¬ pravvivere, soprattutto in tempo di guerra, devi darti veramente da fare ». Se pensiamo a tutto ciò che l’allievo telegrafista riesce a realizzare durante l’anno e mezzo di servizio militare, dobbiamo riconoscere che si è dato da fare davvero: collabora alla sceneggiatura di Un pilota ritorna di Rossellini (storia di un pilota italiano catturato dagli inglesi; il soggetto è di Vittorio Mus-

solini); scrive un soggetto, « La casa sul mare », storia di una famiglia di pe¬ scatori; approfittando di speciali licenze fa da aiuto in due film, / due Foscari (storia della rivalità tra due famiglie veneziane del Rinascimento) e Les visiteurs du soir di Marcel Carnè. Mentre, come vedremo, l’esperienza con Carnè si rivelerà un disastro, l'incontro con Fulchignoni, suo ex insegnante al Centro, e con l’operatore Ubaldo Arata, consente all’aiuto di completare il suo apprendistato tecnico. Le capacità inventive dimostrate dal giovane assistente nel manipolare gli obiettivi, nell’ottenere certi effetti — fotografare il bianco senza ricorrere, come si faceva allora, a ombre (frasche, inferriate) o tinture — impressio¬ nano il vecchio operatore. Le raccomandazioni di Ubaldo Arata al produttore Scalerà hanno un effetto immediato. Concluse le riprese de / due Foscari, Scalerà chiama Antonioni e gli domanda: « Vuoi andare in Francia a fare la co-regia di un film con Marcel Carnè? ». Un po’ come Orson Welles in Ame¬ rica, in Europa in quegli anni Marcel Carnè era “il” fenomeno, l’artista che aveva spezzato le barriere in nome di una autentica libertà. « Rappresen¬ tava un contenuto nuovo, certe velleità di rivolta, un fervore polemico e questo ci entusiasmava. Allora avevamo bisogno di entusiasmarci ». Da¬ vanti all'accoglienza glaciale riservatagli dal maestro parigino (« Chi è quello lì? Se ne vada! » avrebbe gridato il “piccolo” Carnè vedendosi comparire da¬ vanti quell’italiano alto, elegante) il co-regista si guarda bene dal tirare fuori il contratto. « Non potevo mica dirgli: “Guardi che io conto quanto lei!”. Me ne vergognavo, e in fondo era ridicolo ricordarglielo. Mi limitai a dire che mi mandava Barattolo per fargli da assistente. Carnè protestò, poi disse: “D’ac¬ cordo. Lei ha degli occhi; allora guardi”. E se ne andò ». Nella sua volumi¬ nosa « Autobiografia », infarcita di una quantità incredibile di nomi e fatti, spesso di scarso rilievo, il maestro parigino non nomina nemmeno il suo as¬ sistente italiano. « Non credo di aver imparato molto da lui » conclude Anto¬ nioni. « Devo dire che era un istintivo, un gran tecnico, e questa è la cosa che mi è servita di più. Penso di aver imparato da lui ad angolare la mac¬ china in un certo modo, qualche accorgimento tecnico, niente più. Devo dire che non mi piaceva nemmeno il suo modo di dirigere gli attori ». A parte la delusione-Carné (l’unico interlocutore che riesce a trovare sul set è Alain Cuny; dieci anni dopo l’attore gli farà da assistente per l'episodio francese de / vinti-), il viaggio oltralpe riserva ad Antonioni almeno un in¬ contro eccezionale. « Un giorno entrai in una libreria e mi capitò fra le mani “L’étranger” di Camus. Aprii il libro alla prima pagina. Quell’inizio strepitoso

Nizza 1943, assistente di Carnè sul set de Les visiteurs du soir (Carnè è il primo da sinistra, Antonioni l’ultimo). La foto è del celebre operatore G.R. Aldo.

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Sopralluoghi per Gente del Po.

— “Ho ricevuto un telegramma dall'asilo: ‘Madre deceduta, funerali domani, distinti saluti’” — mi convinse a comprare subito il romanzo, uscito da poco. Lo lessi e sentii la voglia di farne un articolo che mandai al settimanale “Il Cosmopolita”. Credo di essere stato il primo in Italia a parlare di Camus ». Scaduta la licenza, il nostro sottufficiale rientra a Roma più che mai de¬ ciso a fare del cinema. Dopo due assistentati non poteva certo aspirare a ri¬ durre per lo schermo il romanzo esistenzialista di Camus. L’unica porta aperta ad un esordiente, nel 1942, era quella del documentario. Il primo ar¬ ticolo pubblicato da Antonioni su « Cinema » si intitolava “Per un film sul fiume Po”. Il testo era corredato di una decina di fotografie scattate dall’au¬ tore. Vi si leggeva: « Vorremmo una pellicola avente a protagonista il Po, nella quale non il folclore destasse l’interesse ma lo spirito, cioè l’insieme di elementi morali e psicologici ». Il documentario, che realizzerà nei primi mesi del 1943 sfruttando un'altra licenza ottenuta grazie all appoggio di un funzio¬ nario dell’Istituto Luce che lo protegge, si intitolerà Gente del Po. Per una cu¬ riosa, storica coincidenza, a pochi chilometri di distanza dal luogo dove l’ex assistente di Carnè gira il suo primo documentario, Luchino Visconti — ex assistente di Renoir — gira il suo primo film, Ossessione, ispirato ad un ro¬ manzo americano di Cain e destinato a diventare un caso. Senza saperlo, i due debuttanti di genio si muovono sulla stessa linea, quella di una presa di contatto diretto con una realtà, quotidiana e provinciale, incontaminata, che il cinema del regime aveva trascurato. La differenza è che il regista ferrarese lo fa senza mediazioni letterarie. Se Antonioni avesse avuto un po’ più di for¬ tuna, Gente del Po avrebbe potuto diventare, a buon diritto, il manifesto del (nascente) “neorealismo”. Il precipitare della situazione politica (l’8 settembre 1943 l’Italia si trova divisa in due) impedisce ad Antonioni di portare a termine il montaggio del film. Quando, finita la guerra, il regista riesce a mettere le mani sul materiale — i repubblichini lo hanno trafugato al nord — si accorge che gli ultimi tre¬ cento metri risultano inutilizzabili: errore di sviluppo oppure boicottaggio? Della sequenza conclusiva, quella del temporale alle foci del fiume, si pos¬ sono vedere soltanto le prime inquadrature. « È un peccato, perché il resto era impressionante — commenta Antonioni. — Quel pezzo di terra diven¬ tava una palude di fango. Dentro le capanne di paglia si mettevano i bambini sui tavoli per non farli annegare, e si appendevano lenzuola al soffitto per

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trattenere l’acqua che veniva già dal tetto. Il cinema di allora evitava accura¬ tamente questi argomenti, il governo fascista li proibiva. Non vorrei sem¬ brare presuntuoso, ma capitò a me di trattarli per primo. Nessuno lo sa e quindi me lo riconosce, ma questo fatto di essermi inventato il neorealismo da solo, intimamente, mi dà una certa soddisfazione ». Dopo l’8 settembre 1943, la vita nella capitale diventa impossibile per quegli ufficiali che, per essersi rifiutati di andare al nord con i repubblichini, a tutti gli effetti vengono considerati dei disertori. « Molte volte corsi il rischio di farmi prendere dai tedeschi — ricorda Antonioni. — Un giorno l’autobus sul quale mi trovavo fu fermato in via Nazionale, all’altezza della Galleria. Sotto la minaccia delle mitragliatrici spianate, i viaggiatori dovevano scen¬ dere dalla porta anteriore, e dopo la perquisizione venivano rimandati sulla vettura dalia porta di dietro, lo avevo la borsa piena di copie del giornale clandestino del Partito d’Azione, “Italia Libera”; se mi prendevano mi spedi¬ vano subito in Germania. Per cavarmela inventai un trucco abbastanza pe¬ ricoloso: feci in modo di rimanere l’ultimo della fila di quelli che scendevano, mi staccai impercettibilmente dalla fila e mi misi a sedere tranquillamente come se fossi il primo di quelli che salivano. Mi è andata bene ». Per sfuggire alle retate dei tedeschi Antonioni si rifugia per qualche mese in Abruzzo, a casa di Antonio Pietrangeli, un redattore di « Cinema ». Ma ben presto la vita diventa troppo periclosa anche sulle montagne. Tornato clandestinamente nella capitale — « un viaggio spaventoso » — l’ex ufficiale si nasconde in casa di Francesco Pasinetti. C’è anche Giorgio Bassani. « La casa di Pasinetti sorgeva vicino all’Accademia Germanica. Quando cominciarono i bombardamenti degli alleati — una mattina apro la finestra e vedo cadere una bomba sul palazzo di fronte — abbiamo caricato i mobili su un carretto e siamo andati a casa di certi amici che avevano la¬ sciato Roma ». In attesa dell’arrivo degli alleati (giugno 1944), Antonioni si guadagna qualche soldo facendo il traduttore: « Atala » di Chateaubriand, -


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