Michelangelo Antonioni 8880337696, 9788880337690

Michelangelo Antonioni nasce a Ferrara nel 1912. Il suo cinema unisce l'indagine psicologico-esistenziale alla forz

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Italian Pages 144 [136] Year 2013

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Michelangelo Antonioni
 8880337696, 9788880337690

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Giorgio Tinazzi è docente di Storia e critica del cinema presso l’Università di Padova. Ha pubblicato libri su Luis Buñuel, Robert Bresson, François Truffaut e sul rapporto tra cinema e letteratura. Ha curato Il cinema italiano degli anni ’50, Cinema e letteratura del neorealismo, Michelangelo Antonioni. Identificazione di un autore, Il cinema francese attraverso i film. Ha curato, con Carlo Di Carlo, l’edizione degli scritti, delle interviste, dei progetti non realizzati di Antonioni (Cinecittà International, poi Marsilio Edizioni). Dirige la collana “Saggi cinema” di Marsilio. È componente del comitato scientifico della Storia del cinema italiano (Centro Sperimentale di Cinematografia, Marsilio Edizioni). Editrice viale Abruzzi [email protected] www.castoro-on-line.it Progetto grafico: In copertina: L’eclisse © 2013 Editrice Il Castoro srl ISBN 978-88-8033-813-0 ebook by ePubMATIC.com

Il 72,

Studio

20131

Castoro Milano

Tapiro,

Venezia

Giorgio Tinazzi

Michelangelo Antonioni

MICHELANGELO ANTONIONI

 

Indice Antonioni su Antonioni Michelangelo Antonioni Filmografia Nota bibliografica

La formazione

L’esperienza più importante che ha contribuito, io penso, a fare di me quel regista che sono – buono o cattivo non spetta a me dirlo – è l’ambiente in cui sono cresciuto, vale a dire l’ambiente borghese. È stato questo mondo che ha contribuito ad indicarmi una certa predilezione verso certi temi, certi personaggi, certi problemi, certi conflitti di sentimenti e psicologie. Io arrivavo un po’ tardi, in quegli anni attorno al 1950, in cui quella prima fioritura di film, pur così valida, incominciava già a dare segni, secondo me, di una certa stanchezza. Fui quindi indotto a pensare: che cosa, in questo momento, è importante esaminare, prendere cioè come argomento delle proprie storie, delle proprie vicende, del proprio fantasticare? E mi è sembrato che fosse più importante non tanto esaminare i rapporti tra personaggi, per vedere che cosa di tutto quello che era passato – la guerra, il dopoguerra, tutti i fatti che ancora continuavano ad accadere e che erano tanto importanti da non lasciare un segno sulle persone, sugli individui – che cosa era rimasto di tutto questo dentro i personaggi, quali erano non dico le trasformazioni della loro psicologia o del loro sentimento, ma i sintomi di quella evoluzione e la direzione nella quale cominciavano a delinearsi i cambiamenti e le evoluzioni che poi sono avvenuti nella psicologia e nei sentimenti e forse anche nella morale di queste persone. Il cinema: autobiografia e altro

Questa sincerità, questo essere in un modo o nell’altro autobiografici, questo versare nella botte del film tutto il nostro vino, cos’altro è se non un modo di partecipare alla vita, di aggiungere qualcosa di buono (nelle intenzioni almeno) al nostro patrimonio personale, della cui ricchezza o povertà gli altri giudicheranno? È evidente che, essendo un film uno spettacolo pubblico, per suo tramite i nostri fatti privati cessano di essere tali per diventare pubblici anch’essi. E nel dopoguerra, in quel periodo così pieno di fatti gravi, così denso di ansie e di paure riguardanti il destino del mondo intero, era impossibile parlare d’altro. Penso che gli uomini di cinema debbano sempre essere legati, come ispirazione, al loro tempo, non tanto per esprimerlo e interpretarlo nei suoi eventi più crudi e più tragici… quanto per raccoglierne le risonanze dentro di noi, per essere noi registi sinceri e coerenti con noi stessi, onesti e coraggiosi con gli altri. È l’unico modo, mi sembra, di essere vivi. È qualcosa che tutti i registi hanno in comune, credo, quest’abitudine di tenere un occhio aperto al di dentro e uno al di fuori di loro. A un certo momento le due visioni si avvicinano e come due immagini che si mettono a fuoco si sovrappongono. È da questo accordo tra occhio e cervello, tra occhio e istinto, tra occhio e coscienza che viene la spinta a parlare, a far vedere. Non si può essere autobiografici oggi che nella misura in cui si riesce a rendere nel film il proprio stato d’animo quotidiano. Ecco perché preferisco girare nei luoghi veri, che mi forniscono costantemente delle suggestioni nuove. Quando si parla di improvvisazione, bisogna ricordare che essa implica dei cambiamenti che toccano tutto il film; questo non si può dunque scrivere che man mano che si gira. Il pericolo più grande per chi fa del cinema consiste nella straordinaria possibilità che esso offre di mentire. Autenticità o invenzione, o menzogna. L’invenzione che precede la cronaca. La cronaca che provoca l’invenzione. L’una e l’altra congiunte in una stessa autenticità. La menzogna come riflesso di una autenticità da scoprire. La maggior parte dei registi mente, ne sono profondamente convinto… È così facile servirsi

del cinema che pochissimi, oggi, arrivano a dimenticare l’efficacia del mezzo che hanno tra le mani. Il cinema

Vedere è per noi una necessità. Anche per il pittore il problema è vedere. Ma mentre per il pittore si tratta di scoprire una realtà statica, o anche un ritmo se vogliamo ma un ritmo che si è fermato nel segno, per un regista il problema è cogliere una realtà che si matura e si consuma, e proporre questo movimento, questo arrivare e proseguire, come nuova percezione. Non è suono: parola, rumore, musica. Non è immagine: paesaggio, atteggiamento, gesto. Ma un tutto indecomponibile steso in una sua durata che lo penetra e ne determina l’essenza stessa. Ecco che entra in gioco la dimensione tempo, nella sua concezione più moderna. È in questo ordine di intuizioni che il cinema può conquistare una nuova fisionomia, non più soltanto figurativa. Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere. La tecnica

Arte fondamentalmente figurativa, il cinematografo come la pittura ha il suo mezzo di rappresentazione formale nell’apparenza esterna della natura e degli individui, purché lasci chiaramente trasparire la loro interiorità. Si badi bene: apparenza, non materia; perciò si rende indispensabile un rapporto preciso tra spirituale e sensibile, l’ottenimento del quale coincide: da un lato con la trasfigurazione dell’aspetto reale del mondo in pura illusione d’arte, dall’altro con il colore, i cui passaggi, differenze e sfumature, consentono la trasfigurazione medesima… Basta tenere per valida l’asserzione per cui il cinema in bianco e nero sta al cinema a colori come il disegno sta alla pittura. Il colore ha, nella vita dei nostri giorni, un significato e una funzione che non aveva nel passato. Sono certo che, presto, Il bianco e nero diventerà veramente del materiale da museo. Non esiste il colore in assoluto. È sempre un rapporto. Un rapporto tra l’oggetto e l’osservatore (addirittura lo stato fisico dell’osservatore), tra l’oggetto e la direzione dei raggi che l’illuminano, tra la materia di cui è formato l’oggetto e lo stato psicologico dell’osservatore, nel senso che entrambi si suggestionano a vicenda. L’oggetto cioè con il suo colore ha una determinata suggestione sull’osservatore e questi contemporaneamente vede il colore che in quel momento ha interesse o piacere a vedere in quell’oggetto. I suoni, i rumori e le voci, così come vengono registrati dal microfono hanno una forza di suggestione mai raggiungibile con il doppiaggio. Io penso che la musica ha avuto e può continuare ad avere una grande funzione nel cinema perché non c’è arte alla quale il cinema non possa attingere. Nel caso della musica poi attinge quasi materialmente, quindi il rapporto è ancora più stretto. Mi pare però che questo rapporto si vada trasformando. Perché quella che era la funzione della musica fino ad una decina di anni fa, oggi non esiste pù. Si chiedeva alla musica di creare nello spettatore una particolare atmosfera, per cui le immagini arrivassero più facilmente allo spettatore stesso… Questo. mi sembra un rapporto sbagliato, un rapporto che non ha niente a che vedere con il cinematografo, proprio perché si tiene volutamente ai margini del fatto cinematografico, è un rapporto che si stabilisce tra musica e spettatori, al di fuori dell’immagine. Personalmente sono molto restio a mettere musica nei film, proprio perché sento il bisogno di essere asciutto, di dire le cose il

meno possibile, di usare i mezzi più semplici e il minor numero di mezzi. E la musica è un mezzo in più. Io ho troppa fiducia nell’efficacia, nel valore, nella forza e nella suggestività dell’immagine per credere che l’immagine non possa fare a meno della musica. È rarissimo che io abbia delle inquadrature già fissate in mente. È chiaro che nella fase di preparazione di un film un regista si crea delle immagini nella mente, ma è sempre pericoloso innamorarsi di queste immagini pensate, poiché poi si finisce per rincorrere l’immagine astrattamente pensata in una realtà che non è più la stessa che ci appariva a tavolino. Invece è molto meglio adeguarsi ad una nuova situazione, anche perché – e il discorso si allarga un po’ – voi sapete che oggi le sceneggiature non sono più le cosiddette sceneggiature di ferro, ma vanno diventando sempre meno dettagliate, sempre meno tecniche. Sono degli appunti che il regista fa, è una falsariga sulla quale si lavora nel corso delle riprese. Se ho utilizzato quella tecnica, fatta di inquadrature molto lunghe, di carrelli e panoramiche che seguivano ininterrottamente i personaggi… l’ho fatto istintivamente. Però, riflettendoci adesso, riesco a capire perché fossi indotto a muovermi in quella direzione. Ritenevo, in effetti, che fosse giusto non abbandonare i personaggi nei momenti in cui, esaurito l’esame del dramma o perlomeno quello che del dramma interessava, le punte drammatiche più intense, il personaggio rimaneva solo con se stesso, con le conseguenze di quelle scene o di quei traumi o di quei momenti psicologici così violenti che avevano avuto indubbiamente su di lui una determinata funzione e l’avevano fatto progredire psicologicamente verso un ulteriore momento. Mi sembrava opportuno seguirli anche in questi momenti apparentemente secondari, nei quali sembrerebbe che non ci fosse alcun motivo di vedere che facce avessero o quali fossero i loro gesti, i loro atteggiamenti. Io credo che più che l’intelligenza, sia necessario sollecitare l’istinto dell’attore, in qualsiasi modo, anche con trucchi. Cercando di fare capire all’attore quello che deve fare, chiarendogli le ragioni più riposte, si rischia di rendere meccanica l’azione dell’attore, oppure di renderlo in un certo senso regista di se stesso. L’attore di cinema deve arrivare alla ripresa in uno stato di verginità. Più il suo sforzo sarà di carattere intuitivo, più il risultato sarà spontaneo. L’attore di cinema deve lavorare non sul piano della psicologia, ma su quello della fantasia. E la fantasia si accende da sola, non ha interruttori che le dita possano premere in qualsiasi momento. Ciò che mi ha pesato di più è quella che comunemente si chiama la grammatica del cinema, un certo modo di girare, di risolvere le sequenze per mezzo di campi, controcampi, movimenti stabiliti ecc.; questa tecnica convenuta, la tecnica grazie alla quale d’altro canto si sono fatti tanti bei film, non corrisponde più oggi a quella che deve essere la vitalità di un film. Un film deve essere più fluido, cioè legato a contingenze particolari. Lo stile

Per quanto mi riguarda, all’origine c’è sempre un elemento esterno, concreto. Non un concetto, una tesi. E c’è anche un po’ di confusione, all’origine. Probabilmente il film nasce proprio da questa confusione. La difficoltà consiste proprio nel mettere ordine. Sono convinto che dipende non soltanto da un’attitudine ma anche da un’abitudine della fantasia. Detesto i film programmatici. Cerco semplicemente di raccontare, o meglio di mostrare delle vicende e spero che queste vicende piacciano, anche se sono amare. (…) Tu mi chiedi dei film di denuncia… Secondo me i film di denuncia non servono a niente. Tutte le cose restano come prima, un’analisi della situazione in Italia dimostra proprio questo. Il film è un prodotto che viene dimenticato subito. Il cinema non influenza affatto

coloro che dovrebbe influenzare. Ho eliminato molte preoccupazioni e sovrastrutture tecniche, ho eliminato quindi tutti quelli che potevano essere i nessi logici del racconto, gli scatti da sequenza a sequenza per cui l’una sequenza faceva da trampolino alla successiva; proprio perché m’è sembrato, e ne sono fermamente convinto, che oggi il cinematografo debba essere piuttosto legato alla verità che alla logica. Ciò che mi interessa ora è di mettere i personaggi in contatto con le cose, perché sono le cose, gli oggetti, la materia, che hanno un peso oggi. Mi sono sempre preoccupato di cercare di dare, attraverso un particolare impegno figurativo, una maggiore suggestione all’immagine, per far sì che un’immagine composta in un particolare modo, aiutasse me a dire quello che io volevo dire con quella inquadratura, e aiutasse lo stesso personaggio a esprimere quello che doveva esprimere, e cercasse inoltre un rapporto tra personaggio e fondo, quello cioè che sta dietro al personaggio. Accusavano di calligrafismo i miei film. Io, invece, cercavo spasmodicamente l’immagine giusta per quel che volevo esprimere: il calligrafismo mi pare il contrario del mio sforzo. I personaggi. L’ambiente

Non vogliamo, qui, dar consigli a chicchessia e tantomeno suggerire trame. Ci basti dire che vorremmo una pellicola avente a protagonista il Po e nella quale non il folclore, cioè un’accozzaglia d’elementi esteriori e decorativi, destasse l’interesse, ma lo spirito, cioè un insieme di elementi morali e psicologici; nella quale non le esigenze commerciali prevalessero, bensì l’intelligenza. Oggi, in un clima bene o male normalizzato, quello che conta non è tanto il rapporto dell’individuo con l’ambiente, quanto l’individuo in sé, in tutta la sua complessa e inquietante verità. Che cos’è che tormenta e spinge l’uomo moderno? Di quello che è accaduto e accade nel mondo, quali sono le risonanze dentro di lui? Se l’uomo oggi è più solo, è perché la comunicazione è diventata più difficile. Ciò avviene, credo, proprio perché non riusciamo a ritrovarci in questo ambiente. Forse il disagio è dovuto anche al fatto che la tecnica precede in modo così allarmante la vita, restandone separata. I sentimenti. La crisi

Oggi nasce un uomo nuovo, con tutte le paure, i terrori, i balbettii di una gestazione. E quello che è ancora più grave, quest’uomo si trova subito alle spalle un pesante bagaglio di sentimenti che non è neanche esatto definire vecchi e superati, sono disadatti piuttosto, condizionano senza aiutare, impacciano senza suggerire una conclusione, una soluzione. Eppure l’uomo pare che non riesca a sbarazzarsi di questo bagaglio. Agisce, ama, odia, soffre sulla spinta di forze e di miti morali che non dovrebbero, oggi, alla vigilia di raggiungere la Luna, essere quelli dei tempi di Omero; eppure lo sono. Delle sue cognizioni tecniche o scientifiche sbagliate l’uomo è disposto a sbarazzarsi subito. Mai veramente come oggi la scienza è stata tanto umile, così poco apodittica. Nei sentimenti regna invece la stilizzazione più assoluta. Noi, in questi ultimi anni, li abbiamo approfonditi, vivisezionati, analizzati fino all’esaurimento. Di questo siamo stati capaci, ma non di trovarne di nuovi, non di avviare almeno a una soluzione questo scompenso sempre più grave e accentuato tra uomo morale e uomo scientifico. Oggi sarebbe d’aiuto trovare tutte quelle regole che mostrano come e perché l’universo è fisso – in che modo questo dinamismo si sviluppa e agisce. Allora forse saremmo in grado di

spiegare molte cose, forse persino l’arte, perché i vecchi strumenti di giudizio, le vecchie estetiche, non ci sono più di alcun aiuto – a tal punto, che non sappiamo più cos’è bello e cosa non lo è. Non so perché io abbia incominciato a interessarmi, nel cinema, ai sentimenti piuttosto che ad altri temi più scottanti, come la guerra, il fascismo, i problemi sociali, la nostra vita di allora. Non che questi altri temi mi lasciassero indifferente, c’ero dentro e li vivevo, sia pure in modo abbastanza solitario. Deve essere stata una mia esperienza sentimentale finita in modo inesplicabile. Di questa fine non dovevo chiedere ad altri che a me stesso il perché. E questo perché si univa a tutti gli altri e insieme diventavano un solo smisurato perché, un massiccio spettacolo che aveva per protagonista l’uomo. L’uomo di fronte al suo ambiente e l’uomo di fronte all’uomo. Che cosa credete che sia l’erotismo oggi imperante in letteratura e nello spettacolo? È un sintomo, il più facile magari, il più afferrabile della malattia dei sentimenti. Ma non si sarebbe erotici, cioè ammalati di Eros, se Eros fosse sano e per sano intendo giusto, adeguato alla misura e alla condizione dell’uomo. C’è un disagio, invece, e come a tutti i disagi l’uomo reagisce, ma reagisce male, soltanto sulla spinta erotica, ed è infelice. I documentari

Quando giravo il mio primo documentario, alla fine del ’42, Visconti girava Ossessione. Gente del Po era un documentario sulla pesca, sul trasporto con i battelli, sui pescatori: uomini cioè, non cose e luoghi. Ero, senza saperlo, sulla stessa linea di Visconti. Mi ricordo molto bene che il mio rammarico era di non poter dare a questa materia uno sviluppo narrativo, cioè di non poter fare un film a soggetto. Il secondo ordine di osservazioni che mi ha portato verso una certa strada è stata una stanchezza istintiva che sentivo già da parecchio tempo verso quelle che erano le tecniche e i modi di racconto, normali e convenzionali, del cinematografo. Questo vincolo l’ho cominciato ad avvertire istintivamente fin dai miei primi documentari, soprattutto da N.U., che avevo già girato in modo piuttosto diverso da quello fino ad allora conosciuto (vi ricordo comunque che io avevo cominciato già nel ’43 a girare il mio primo documentario, che poi fu finito nel ’47). Fino ad allora avevo cominciato a occuparmi, anziché delle cose, o dei paesaggi, o dei luoghi, come di solito si faceva in Italia, delle persone, in un modo più caldo, molto più benevolo, molto più interessato. Per quel che riguarda la forma del documentario, e soprattutto di N.U., io sentivo il bisogno di eludere certi schemi che si erano venuti formando e che pure erano allora validissimi… Cercai di fare un montaggio assolutamente libero (dico forse una parola un po’ grossa, ma questo era nelle mie aspirazioni più che nei risultati; i risultati non voglio giudicarli), libero poeticamente, ricercando determinati valori espressivi non tanto attraverso un ordine di montaggio che desse con un principio e una fine sicurezza alle scene, ma a lampi, a inquadrature staccate, isolate, a scene che non avessero nessun nesso l’una con l’altra ma che dessero semplicemente un’idea più meditata di quello che io volevo esprimere e di quella che era la sostanza del documentario stesso; nel caso di N.U., la vita degli spazzini in una città. Cronaca di un amore

Così ho cominciato con Cronaca di un amore, in cui analizzavo la condizione di aridità spirituale e anche un certo tipo di freddezza morale di alcune persone dell’alta borghesia milanese. Proprio perché mi sembrava che in questa assenza di interessi al di fuori di loro, in questo essere tutti rivolti verso se stessi, senza un preciso contrappunto morale, senza una molla che facesse scattare in loro ancora il senso della validità di certi valori, in questo vuoto interiore vi fosse materia sufficientemente importante da prendere in esame.

I vinti

Troppe discussioni, troppe lotte ho dovuto sostenere, troppe limitazioni mi sono state poste, troppi compromessi ho dovuto accettare, anche ideologici, soprattutto nei riguardi dell’episodio italiano. Io so soltanto questo: che I vinti, nel suo insieme, è abbastanza lontano dal film che avrebbe potuto essere… I vinti non rappresenta un approfondimento e uno sviluppo dei temi dai quali sono partito e che mi sono cari. È piuttosto una deviazione, che però mi ha consentito di chiarire a me stesso una serie di problemi tecnici ed estetici: il rapporo tra la macchina da presa e la realtà, il modo di guardare questa realtà. Perché freddo? Perché intellettuale? Perché mi sforzo di scoprire un’angolatura diversa da quella… come posso dire…? Pietistica del realismo italiano? La signora senza camelie

Troppi rumori, troppe parole, troppi scandali hanno accompagnato la realizzazione del film: adesso dovrei misurare ogni frase, censurare ogni pensiero, e allora che valore avrebbero le mie dichiarazioni? Posso dire solo che, personalmente, considero, La signora senza camelie un passo in avanti rispetto a Cronaca di un amore: sul piano tecnico e su quello umano, quindi sul piano stilistico. Il fatto poi che si tratti di un film sul cinema italiano (su certo cinema italiano) non ha altro significato che questo: se il cinema italiano può ormai permettersi di guardare a se stesso, questo è un segno di maturità, un dato positivo. Tentato suicidio (Amore in città)

Ci tenevano – tranne forse due casi veramente toccanti – a farmi credere che avevano proprio voluto morire, e avevano ripetuto il gesto più volte e che, tutto sommato, erano stati scalognati a non riuscirci. Non solo, ma erano pronti a rifarlo, trovandosi domani nella medesima situazione. Ho cercato di suscitare nel pubblico la ripugnanza del suicidio attraverso lo squallore spirituale dei personaggi. Le amiche

Il paesaggio aveva un’importanza relativa in un film così specificamente psicologico. Dirò di più: non ho mai avuto nemmeno la preoccupazione della fedeltà a Pavese… Portare sullo schermo il racconto così com’è sarebbe stato non solo impossibile, ma forse dannoso a Pavese stesso. Il cambiamento di linguaggio porta inevitabilmente a modifiche sostanziali… Quello che mi auguro è di poter fare un giorno o l’altro un film in pieno accordo col produttore, senza scandali, senza interruzioni, ossia in condizioni normali. Niente di più: normali. Non ho mai avuto questa fortuna. Il grido

I critici francesi hanno parlato di una nuova formula: il neorealismo interiore. Io non avevo mai pensato di dare un nome a quella che per me è sempre stata, fin dai tempi di quel documentario sui malati di mente, una necessità: guardare dentro l’uomo, quali sentimenti lo muovano, quali pensieri, nel suo cammino verso la felicità o l’infelicità o la morte. Certo è un film chiuso, difficile. «Umile di un’umiltà misteriosa» ha scritto un critico. E forse è vero. Tempo fa io stesso l’ho rivisto e mi sono stupito nel trovarmi di fronte a tanta nudità, a tanta solitudine, come certe mattine quando la nostra faccia riflessa nelllo specchio ci spaventa. L’avventura

In questo film il paesaggio è una componente non solo indispensabile, ma quasi preminente. Ho sentito il bisogno di spezzettare molto l’azione, inserendo in molte sequenze inquadrature che possono sembrare formalistiche o non essenziali, inquadrature di tipo addirittura documentario (una tromba d’aria, il mare, il passaggio dei delfini, cose di questo genere), ma

che in realtà per me sono indispensabili, poiché servono l’idea del film. Do sempre molta importanza ai personaggi femminili, poiché credo di conoscere meglio le donne degli uomini. Penso che attraverso la psicologia delle donne si possa meglio filtrare la realtà. Esse sono più istintive, più sincere. La notte

Nel corso delle varie fasi di lavoro su questo soggetto, io non ho fatto altro che sfrondarlo di tutto quello che prima c’era; tutti gli altri personaggi sono quasi spariti, sono solo rimasti, proprio nudi come li avete visti, i due personaggi principali. Anche tutti i fatti che prima arricchivano il soggetto, che erano molto più precisi, più legati, in un certo senso, li ho eliminati proprio per lasciare che la storia avesse il suo corso intero e che addirittura raggiungesse, se era possibile, “una suspence” interna, che non avesse più un legame con l’esterno se non attraverso gli atti dei personaggi, che corrispondevano poi ai loro stessi pensieri, alle loro angoscie. L’eclisse

A Firenze per vedere e girare l’eclisse di sole. Gelo improvviso. Silenzio diverso da tutti gli altri silenzi. Luce terrea, diversa da tutte le altre luci. E poi buio. Immobilità totale. Tutto quello che riesco a pensare è che durante l’eclisse probabilmente si fermano anche i sentimenti. È un’idea che ha vagamente a che fare con il film che sto preparando, una sensazione più che un’idea, ma che definisce già il film quando ancora il film è ben lontano dall’essere definito. Tutto il lavoro venuto dopo, nelle riprese, si è sempre rapportato a quell’idea o sensazione o presentimento. Non sono più riuscito a prescinderne. Deserto rosso

C’è una ragione che mi fa considerare Deserto rosso come molto differente rispetto ai miei film precedenti: non parla di sentimenti. Arrivo a dire che i sentimenti non vi hanno niente a che vedere. In questo senso, le conclusioni alle quali arrivano i miei altri film sono tenute, qui, per scontate. Prima erano i rapporti dei personaggi tra di loro che mi interessavano. Qui, il personaggio centrale è confrontato parimenti con il retroterra sociale, e questo fa sì che io tratti la mia storia in un modo assai diverso. In mezzo agli alberi ci passano le navi, ormai. È il secondo porto d’Italia Ravenna, lo sapete? Il mito della fabbrica condiziona la vita di tutti, qui, la spoglia di imprevisti, la scarnifica, il prodotto sintetico domina, prima o poi finirà per rendere gli alberi oggetti antiquati, come i cavalli. Dare per scontata la fine del bosco, fare di un pieno un vuoto, sottomettere scolorendola questa antica realtà alla nuova, che è altrettanto suggestiva: non è questo che avviene qui da anni in un flusso che non si ferma mai? Blow-up

Non intendo girare a Londra per mostrare quel che è la città oggi, nel volto e nell’anima. La mia decisione di ambientarvi il film deriva dal fatto che, valida in senso assoluto, cioè dovunque, la storia, come pure la psicologia dei personaggi che le danno vita, assume, io ritengo, nel mondo della Londra di oggi, un sapore e un respiro di assai più intensa carica. Si allargano gli orizzonti intellettuali, si impara a guardare il mondo con altri occhi, ci si libera del provincialismo, forse anche del quietismo che qui in Italia ci sta addosso come una cappa, si attua una nostra rivoluzione intima che, come tutte le rivoluzioni, ci dà alla fine qualcosa che assomiglia molto alla libertà. Arrivo a dire: la crisi del personaggio del film è stata un po’ anche la mia, so di essere diverso da prima, proprio nel modo di stare di fronte alla

realtà. Il mio fotografo… rifiuta di impegnarsi, eppure non è un amorale, un insensibile e io lo guardo con simpatia; rifiuta di impegnarsi perché si vuole tenere disponibile per qualche cosa che verrà, che ancora non c’è. Allora [per Deserto rosso] avevo molto lavorato col teleobiettivo per ottenere delle prospettive appiattite, per comprimere esseri e cose e costringerli ad aderire gli uni agli altri. Questa volta, niente di simile. Al contrario, ho tentato di allungare le prospettive, di mettere aria tra gli esseri e le cose. Nei miei precedenti film ho tentato di esaminare le relazioni tra un individuo e un altro – il più delle volte la loro relazione amorosa, la fragilità dei loro sentimenti e così via. Ma in questo film nessuno di questi temi ha rilievo. Qui la relazione è tra un singolo e la realtà – le cose che lo circondano. Non ci sono storie d’amore in questo film, anche se vediamo relazioni tra uomini e donne. L’esperienza del protagonista non è sentimentale o amorosa, ma piuttosto riguarda la sua relazione col mondo, con le cose che si trova di fronte. ( Zabriskie Point

L’idea del film era maturata poco a poco in me nel corso della mia permanenza negli Stati Uniti: ma è la scoperta del luogo chiamato Zabriskie Point, nel cuore della Valle della Morte, che è stato lo choc cristallizzatore dell’opera. La storia del ragazzo che ruba un aereo e che è ucciso dalla polizia è un fatto accaduto qualche mese fa. Forse il film è la storia di una ricerca, d’un tentativo di liberazione. In un senso interiore e privato. Ma a confronto con la realtà provocatoria dell’America intera. Se le esistenze private non sono più districabili dalla realtà confusa e violenta che quotidianamente le assedia, la colpa non è mia, e non lo è neppure dei miei personaggi. È un dato, un fatto. Del resto la sceneggiatura è stato un lavoro di cambiamento continuo, l’invenzione quotidiana ha preso il posto ben presto del lavoro preparato e programmato a distanza. Non sono un sociologo, il mio film non è un saggio sugli Stati Uniti: si situa al di sopra dei problemi precisi e particolari di quel paese. Ha essenzialmente un valore etico e poetico. Chung Kuo (Cina)

In realtà non è un film sulla Cina quello che ho girato, ma sui cinesi. Ricordo di aver chiesto, il primo giorno della discussione, cos’era secondo loro ciò che simboleggiava più chiaramente il cambiamento avvenuto nel Paese dopo la liberazione. “L’uomo”, mi avevano risposto. I nostri interessi dunque almeno in questo coincidevano. Ed è all’uomo più che alle sue realizzazioni o al paesaggio che ho cercato di guardare. Intendiamoci, ritengo la struttura politico sociale della Cina di oggi un modello, forse inimitabile, degno del più attento studio. Ma il popolo è ciò che mi ha colpito di più. Che cosa, precisamente, mi ha colpito nei cinesi? Il loro candore, la loro, onestà, il rispetto reciproco. Ho avuto l’impressione, osservando la gente lavorare, che ciascuno accetti il compito a cui è destinato, anche il più gravoso, in pace e con la coscienza di fare una cosa utile alla comunità, sentimento molto radicato nei cinesi d’oggi. Nel mio breve soggiorno in quel paese (poco più di un mese) non ho notato che questo sentimento entri in conflitto con l’individualità. Non ero andato in Cina per comprenderla, ma solo per vederla. Per guardarla e per registrare quello che passava sotto i miei occhi. Professione: reporter

In questo film non ho giocato con la realtà. L’ho guardata con lo stesso occhio con cui il

protagonista, un reporter, guarda gli eventi di cui riferisce. L’oggettività è uno dei temi del film. È di se stesso che il personaggio si libera, della propria storia, non della storia in una accezione più globale, tanto è vero che quando scopre che l’uomo di cui ha assunto l’identità è un uomo di azione, che opera dentro i fatti e non un semplice testimone dei fatti, tenta di assumerne non più la sola identità, ma anche il ruolo, il ruolo politico. Ma la storia dell’altro, così concreta, così costruita sull’azione, si rivela un peso troppo grosso per lui. Il mistero di Oberwald

È la prima volta che mi cimento con un dramma a fosche tinte e l’impatto è stato tutt’altro che morbido. Diciamo che ho fatto del mio meglio per attutire l’urto. Avendo in mano le telecamere si parte dal presupposto che essendo strumenti che riproducono, con assoluta fedeltà, o volendo con assoluta falsità, il colore, è a questo che bisogna pensare per mettere insieme le immagini relative alla storia che si vuole raccontare. Mi sono sentito finalmente libero di lasciarmi andare a certi gesti tecnici. Non è un film di, è un film diretto da. Identificazione di una donna

La novità di Identificazione rispetto ai miei film precedenti sta nel fatto che non ci sono crisi nei personaggi, ma conflitti… Il nucleo della storia sta proprio in questa dialettica tra personaggio reale e ideale, tra le donne della sua vita e quelle della sua fantasia; che poi a un certo punto finiscono per confondersi, tanto che il protagonista – questo non è detto ma si dovrebbe intuire – non sa più se cerca una donna per sé oppure una donna per il suo film. Il protagonista è uno che guarda ciò che gli accade con un occhio professionale e sentimentale al tempo stesso. Le due cose sono ormai inscindibili. I brani che compaiono in questo “montaggio” sono tratti da scritti di Michelangelo Antonioni o da interviste. Per un quadro complessivo si rimanda a Fare un film è per me vivere e ai volumi 4 e 5 del “Progetto Antonioni”, citati nella Nota bibliografica.

Il testo che segue, fino a Zabriskie Point è del 1973; fino a Identificazione di una donna del 2002.

Michelangelo Antonioni è uno dei registi sui quali si è scritto di più. Tracciare un suo profilo – un altro – non è facile, o, almeno, comporta dei rischi. Intanto, c’è la tentazione di stabilire una serie di riferimenti e di definizioni sicure, di stilare bilanci. E sarebbe un errore perché il cinema oggi vive di tempi brevi, che bruciano rapidamente schemi e formule (Antonioni è dentro questo cinema, ha camminato in sincrono con alcune sue tendenze): «Mi accorgo – ha detto a suo tempo Godard – che una volta, tre o quattro anni fa, avevo delle idee sul cinema, oggi non ne ho più». Il critico, naturalmente, avverte il disagio di questa instabilità e, per rimediarvi, è propenso a cercare i punti fermi che non esistono più, a fabbricarsi etichette che gli consentano di capire, o di sistemare la materia. Chi non si è imbattuto in certe formule (dall’alienazione all’angoscia) che pretendevano di circoscrivere l’opera di Antonioni? Ora, nulla è più improduttivo d’una operazione del genere, soprattutto per un autore che ha voltato le spalle alle tendenze dominanti e ha con ostinazione sviluppato una sua ricerca personale, assumendosene, complessivamente, la piena responsabilità. C’è, poi, il rischio, data la vastità della saggistica esistente, che si finisca per riprendere, e rimestare pedissequamente, i temi già affrontati dal discorso critico, ricadendo magari nei vecchi equivoci. Antonioni potrebbe anche essere un buon test per scoprire gli sfasamenti metodologici di cui la critica ha sofferto. Così, per non rischiare (ma il rischio non è inerente alla operazione critica?), si può essere indotti a sacrificare la molteplicità dei piani di cui si compone la ricerca antonioniana, e a estrarre da essa un filo conduttore univoco che quella molteplicità comprimerebbe e mortificherebbe, con i risultati facilmente immaginabili. Far cenno a questi ostacoli non significa saperli senz’altro evitare. Antonioni dunque, è un autore difficile. Lo è stato (e lo è) per se stesso, come testimoniano le costanti difficoltà da lui incontrate con i produttori, ai quali il suo rigore ha sempre dato fastidio; lo è stato con gli apparati repressivi sociali, come la censura, perché ha toccato di frequente i punti deboli che la rete dei “valori” copriva; lo è stato per il pubblico, con il quale non ha mai avuto un contatto semplice, e che ha conosciuto anzi vuoti clamorosi (basti pensare all’accoglienza decisamente ostile riservata alla proiezione a Cannes dell’Avventura, quando il regista aveva già, si può dire, i suoi bravi titoli di merito). D’altronde, fino a un certo punto, i resoconti degli incassi sono oggettivi testimoni. È autore difficile, infine, per la critica: parlando in generale non si può dire che il riconoscimento della sua “novità” sia stato immediato; i ritardi sono sintomatici, così come alcune “consacrazioni” tardive, che talora avevano più l’aria di risarcire una colpa che di riesaminare i film o verificare gli errori. Quando il sentore di novità si è però diffuso, sono giunti anche, puntuali, gli scolari; e la “scolastica” antonioniana ha avuto il suo fulgore. Non si trattava, cioè, del debito che si poteva pagare (ma non era necessario) a un autore importante ma, per molti registi soprattutto giovani, di una ripresa dall’esterno di moduli stilistici o di orecchiamenti tematici (gli antonionismi, come d’altronde i godardismi, per taluni sono stati vezzi obbligatori, coperture reputate sicure). Eppure, non a caso, il nostro autore non apparteneva a una “scuola” né intendeva fondarla. Certa critica, come vedremo, trovava difficoltà ad accettare il costante interesse di Antonioni per il dato linguistico. L’influenza idealistica, o meglio di un’estetica idealistica in formato ridotto, spingeva a mettere da parte il fatto tecnico-espressivo, come momento “secondo”, per andare dritta ai significati, saltando quindi in realtà l’opera e la sua complessità costitutiva, il suo farsi. Quando ciò non succedeva, potevano però imporsi altre divisioni: si riconosceva l’importanza dello stile, ma lo si lasciava agli addetti ai lavori, cercando invece di isolare i vari aspetti delle opere, sociologico o psicologico o più strettamente narrativo, senza sottolineare la parzialità di tali indagini e la necessità, per una visione complessiva, di intendere l’intrecciarsi dei piani, sia pure per affermarne ove fosse il caso, lacune o magari alcune contraddizioni.

Anche per Antonioni si possono osservare le conseguenze di opposte deleghe o simmetriche deformazioni: da parte di taluni a ipostatizzare gli elementi linguistici, a slegarli dal contesto dell’opera nel quale agiscono (e che agiscono), a diventare analisi asettica o “neutrale” o oggettuale che dir si voglia, che è alle volte elegante bizantinismo. Oppure, d’altro lato, c’è stata la tendenza a un grezzo contenutismo, anche se camuffato o di ritorno, che mirava più che altro alla critica del commento o della parafrasi; in fondo era l’inclinazione di chi, senza troppe distinzioni, si lasciava andare alla “routine” dei temi e faceva dell’autore l’interprete privilegiato delle angosce contemporanee o della crisi del nostro apparato sociale, o di chi cercava in lui (come in altri) un compagno di strada, accettandolo per certe consonanze (ideologiche e più genericamente “di gusto”) e mettendosi in sospetto quando il discorso andava, o va, in altra direzione. Ne scaturiva una specie di critica dei paradigmi, o dei valori privilegiati, in una sintomatica confusione tra autore (o magari le sue dichiarazioni) e opera, o tra poetica e opere; la critica rischiava di diventare un doppione – come per altre forme espressive, ma per il cinema c’era (e c’è) la generosa stampella della sceneggiatura. A guardar bene, già all’inizio si poneva il problema in termini difettosi: l’intimismo, preteso o reale, di Antonioni è un superamento o una involuzione del neorealismo? Premeva, almeno sembra, più giudicare una tendenza che collocarla storicamente. L’esame poi si complicava quando, come è giusto, si cercavano alcuni addentellati dentro e fuori del cinema che aiutassero a decifrare il retroterra culturale di Antonioni. Alcuni erano pertinenti, perché non generici, altri assai meno, perché si era maggiormente propensi a sfiorare alcuni aspetti che a dare indicazioni per comprendere i nodi dei significati o la complessità della forma; altri infine erano svianti, perché si finiva (come si vedrà) con lo sminuire la novità specifica che il regista perseguiva, e che riguardava l’uso del proprio mezzo espressivo. Esaminiamo alcuni di questi riferimenti, con la riserva di riprenderli più avanti, nell’analisi dei vari film. Per l’aspetto stilistico, ci si è rifatti – parlo soprattutto degli anni Sessanta –, per esempio, a Joyce (la rottura della frase e dei suoi schemi, il continuo della memoria e del presente, il monologo interiore…), a Flaubert (la costante attenzione allo stile, vero oggetto dell’opera…), a Robbe-Grillet, e in genere alla “scuola dello sguardo” – soprattutto per il secondo periodo del regista (l’oggettività analitica, il distacco, il peso e il significato delle cose, la loro descrizione fenomenica…). Per talune consonanze sotterranee, si è pensato alle suggestioni di certo esistenzialismo (Camus, in particolare), all’intimismo cecoviano (specificando, però, i termini di pertinenza), a Pavese naturalmente (forse con troppo puntuali “simmetrie”, che ad altro non si riducevano che al gusto della citazione), a Scott Fitzgerald, verso il quale il debito di Antonioni era più che una suggestione (dobbiamo dare importanza al fatto che tra i libri della ragazza scomparsa nell’Avventura c’è Tenera è la notte?). All’autore americano lo avvicinano, in alcuni film, il senso del disfacimento della società che esamina, l’impossibilità di “riscatto”, il vero dietro la facciata (Gatsby), la capacità di creare personaggi tipici e rappresentativi (in formula, Tailleur ha detto che la vicinanza c’è «per l’ambiente che descrive, per la facilità dello stile, per la romantica inquietudine»). C’è da dire inoltre che l’incertezza può essere complicata – in qualche caso – anche da suggerimenti dello stesso autore. Vi sono insomma, tra critica e autore, divergenze che possono risultare controproducenti. Come quando si vuol far dire ad Antonioni ciò che non gli è proprio. Penso ai dissensi nei confronti dell’aspetto “sociologico” di alcuni film, come Zabriskie Point, cui si è rimproverata una superficiale e scarsamente motivata analisi dell’America del dissenso, dimenticando che l’interesse vero muoveva in altra direzione. Antonioni è nato a Ferrara il 29 settembre 1912, da una famiglia della media borghesia della

città. La vita provinciale è lo sfondo delle sue esperienze giovanili, senza particolari punte di interesse. Dopo aver frequentato l’Istituto Tecnico, si laurea a Bologna in Economia e Commercio. Durante gli anni universitari, compie alcune esperienze teatrali, con un gruppo di amici; ma quello che assume rilievo è in seguito la sua collaborazione come critico cinematografico al «Corriere padano», sul quale scrive sino al 1939. Inizia a girare un documentario su un manicomio, ma non gli è possibile portarlo a termine. Nel ’39, appunto, lascia Ferrara per Roma. L’incontro con la grande città non è facile, naturalmente, e comporta anche difficoltà pratiche; lavora per un po’ in un ufficio, poi entra come redattore alla rivista «Cinema», e si iscrive al Centro Sperimentale di Cinematografia. Sono due esperienze di un certo peso: la prima perché lo mette in contatto – direttamente o indirettamente – con un gruppo di persone (Barbaro, Zavattini, Angioletti, Mida e altri) che fanno capo alla rivista e la rendono ricca di fermenti; la seconda – anche se limitata ad alcuni mesi – perché gli permette di realizzare uno short. Licenziato da «Cinema» (con cui mantiene, però, una saltuaria collaborazione), ha modo di partecipare alla stesura di Un pilota ritorna, di Roberto Rossellini. Dopo un periodo di difficoltà, ottiene dalla Scalera Film un contratto, come aiutoregista, per un film (in coproduzione) di Marcel Carné, Les visiteurs du soir. Non è un’esperienza facile, la Francia era allora occupata, i rapporti con Carné (sul quale scriverà poi un saggio importante) non sono dei migliori. Ne trae comunque qualche suggerimento interessante. Costretto dagli eventi a tornare in Italia, riesce, nella situazione caotica in cui si trovano le strutture cinematografiche, a iniziare (1943) il suo primo cortometraggio. È Gente del Po: il ritorno a terre che conosce, una storia di ambienti e di persone, uno stile già per molti versi orientato verso il “realismo” che caratterizzerà il nostro cinema del dopoguerra (in quello stesso Periodo Visconti gira Ossessione, proprio nelle terre del Po). È un prologo molto importante dell’opera di Antonioni, come si vedrà. Non può però concluderlo, i fatti lo costringono a lasciare Roma e a cercare rifugio altrove. Finita la guerra rintraccia il materiale girato, lo monta e finisce il documentario (1947). L’anno seguente realizza N.U., un documentario sugli spazzini, e L’amorosa menzogna, una breve inchiesta sul mondo dei fumetti; tema questo che ritornerà più ampiamente in un soggetto, sviluppato più tardi da Federico Fellini (Lo sceicco bianco). Nel frattempo, Antonioni ha collaborato alla sceneggiatura di Caccia tragica (diretto da Giuseppe De Santis), e messo a punto – con Visconti – due progetti non portati a compimento: Furore e Il processo di Maria Tarkowska. Nel 1950 ottiene, dopo varie traversie, il finanziamento per il primo lungometraggio, Cronaca di un amore. Non è certo un film agevole, le novità anche stilistiche sono molte, il successo scarso. Per giunta, il fallimento della casa di produzione interrompe il proseguimento delle visioni. Da allora, e per quasi tutti i film, le difficoltà di Antonioni sono state notevoli. Con i produttori, anzitutto, che lo hanno sempre considerato un autore scomodo e di scarsa sicurezza commerciale: Le amiche, Il grido, L’avventura conobbero gravi intralci economici sia prima che durante la lavorazione, ma anche Deserto rosso, che pure sembrava il più “regolare”. La censura, poi, gli ha procurato molte noie: sono note le disavventure dei Vinti, del Grido, dell’Avventura, e anche di altre opere. A seguito dell’insuccesso del Grido (commerciale, e anche di critica) parve che il regista dovesse rinunciare a proseguire l’attività. Qui si inserisce la sua parentesi teatrale. Forma (1957) una compagnia con la Vitti, Sbragia, la Lisi, Marisa Pizzardi, Anna Nogara. La prima intenzione sarebbe di mettere in scena Tra donne sole, di Cesare Pavese, racconto dal quale trarrà poi il soggetto per Le amiche. Deve però rinunciare, e allora pensa a una sua commedia (ricavata, con Elio Bartolini, da un soggetto cinematografico), Scandali segreti, e poi a I am a

camera di John Van Druten, di cui cura la regia nello stesso 1957. La parentesi teatrale non è però fruttuosa, la compagnia si scioglie. È il periodo in cui Antonioni ripiega su attività cinematografiche secondarie: partecipa alla realizzazione di un film “mitologico”, dirige la seconda unità della Tempesta di Lattuada. Nel 1959 può, tuttavia, iniziare la lavorazione dell’Avventura, che riesce a terminare superando grandi difficoltà produttive. Anche se l’accoglienza al Festival di Cannes è incerta – male accolto dal pubblico, ma sostenuto da una parte della critica –, il film ha poi un esito soddisfacente, soprattutto in Francia. Più tardi anche una parte della critica si mette al passo. D’ora in avanti Antonioni sembra incontrare minori ostacoli, e avere la possibilità di esprimersi con maggiori garanzie. Non per questo, come vedremo, si può dire che la sua vita di autore sia stata facile. Da questi cenni biografici si ricavano anche gli spunti che possono contribuire, sia pure indirettamente, a chiarire il retroterra dell’autore. Da un lato, la cronistoria delle vicende realizzative dei vari film rende conto delle difficoltà di gestazione e di crescita, che incidono sull’opera (basti ricordare che I vinti arrivò allo spettatore mutilato e praticamente irriconoscibile), e della ostinazione del regista a non cedere ai compromessi. Dall’altro lato, alcune esperienze possono aver influito soprattutto come trasmissione di umori, come fatti formativi. Mi riferisco per esempio alla permanenza a «Cinema» e, ancor prima, all’attività di critico sul «Corriere padano» (per questo rimando al volume Écrits, ora anche in italiano, citato nella Nota bibliografica). Anche l’esperienza con Carné ha lasciato qualche traccia, ma marginale, inferiore comunque a quanto taluni hanno ipotizzato: «Non credo di aver imparato molto da lui» ha dichiarato Antonioni. Si può dire sia stato soprattutto un tirocinio tecnico, ma non si può escludere che certe suggestioni siano penetrate: penso se non altro alla capacità di creare “atmosfere” caratterizzate dalla presenza di dominanti stilistiche, o forse a filtri ideologici vicini all’influenza prevertiana (il tema della condanna e del destino il pessimismo di fondo). L’acuta analisi che il nostro autore ha fatto di “Marcel Carné parigino” sfiora aspetti che potremo ritrovare nelle sue opere; quando, a proposito di Le jour se lève dice che «il film è l’ultimo disperato colloquio di un uomo con la propria memoria» potremmo vedere – con una forzatura, certo – la prefigurazione di alcune atmosfere del Grido. Ma anche quello di Prévert, il quale formava con Carné il binomio più in vista del cinema francese d’anteguerra, rappresenta, più che un riferimento preciso, una indicazione di quegli umori che il cinema, ma soprattutto alcune letture, andavano creando in Antonioni. Senza attribuire ai dati biografici un significato restrittivo (quasi che i suoi film siano nati come confessioni, senza contatti con il mondo esterno), credo vadano sottolineati alcuni fattori riguardanti il clima in cui egli si formò e – in senso più lato – le esperienze di una generazione. L’ambiente borghese è quello che Antonioni ha conosciuto, e vissuto ambiguamente, come consolazione e insoddisfazione si direbbe; certo, è quello che si sente in grado di analizzare, di cui meglio cercherà di mettere in evidenza gli elementi di crisi e distruzione (la facciata e la chiusura e il disagio). Era poi, la sua, la situazione della provincia. Ripeto, non conviene cadere in forme di biografismo limitante, ma credo che a questa componente “provinciale” si possano far risalire non solo dati caratteriali ma un più ampio atteggiamento. Perché dall’ambiente Antonioni sembra aver tratto la spinta recettiva di quel contrasto acuto tra vecchio e nuovo che costituirà, nelle varie articolazioni, il perno della sua opera: un contrasto vissuto, ma soprattutto visto, e percepito come altrove, dall’interno ma più ancora – contraddittoriamente – da lontano o addirittura da estraneo. L’atteggiamento è, poi, improntato a un considerevole rigorismo, a una matrice moralistica che, come elemento di giudizio, rappresenterà in seguito una sorta di filone emergente nei film, come tratto aggressivo ma talvolta anche come predisposizione limitativa, non priva di rigidezza.

La dimensione “provinciale” può forse anche giustificare il modo in cui certe esperienze vengono recepite. Ecco, la recettività e la mediazione: la capacità di aprirsi, di guardare e giudicare, di filtrare (le esperienze, anche culturali), ma pure – talora – il rischio di non decantare a sufficienza, assorbendo spinte culturali non sempre vagliate. Oppure, per altro verso, si può notare una propensione a intellettualizzare, a riportare in qualche modo l’esperienza a uno schema elaborato che permetta di distanziare le cose. Di nuovo, la vicinanza e il distacco, come atteggiamento e non come limiti. Non saranno poi due facce fondamentali dello stile di Antonioni, sia pure sviluppate in chiave diversa? La borghesia, si diceva, come situazione preferita dall’autore. Si è parlato spesso di lui come critico della borghesia, e sta bene: la decadenza per corrosione interna, lo svuotamento dei supposti valori, la crescita di nuovi feticci, il vuoto e la noia dietro le apparenze, la “malattia dei sentimenti” che si manifesta e si sviluppa, rappresentano per molti film le caratteristiche somatiche del milieu sociale analizzato, l’aggancio all’ambiente che appare costante. Ma non basta constatare la presenza di alcuni temi (per formula: Antonioni specchio, della “crisi” ecc.); occorre spingersi oltre, e vedere come egli abbia messo, in discussione il ruolo stesso di un autore all’interno delle strutture. Facendo ciò egli è andato chiarendo anche (l’altro punto cui accennavo) le lacerazioni di una generazione. La quale, trovatasi a operare nel periodo postresistenziale, avvertiva l’insufficienza delle vecchie proposte (spesso era l’indicazione di riprendere il discorso prefascista interrotto, un mettere tra parentesi gli anni di “malattia”, in fondo il crociano heri dicebamus), ma non ne scorgeva delle nuove, in grado di risolvere radicalmente le gravi contraddizioni che si erano aperte nella realtà. Anzi, e di più, essa osservava il progressivo moto di una restaurazione, magari mascherata (ancora la borghesia, il suo consolidamento). Anche da questa situazione nascevano, come vedremo, le divergenti spinte verso un soggettivismo che in qualche modo sviluppasse un’operazione di “recupero”, e verso uno sguardo al tessuto connettivo della società che si era riformata. Tra storia, insomma, e pieghe interne dell’individuo; o – in termini di “racconto” – tra individuo e ambiente. Perciò, il mondo borghese esisteva anche come elemento storico, oltre che come dato culturale e biografico. Il cinema italiano, negli anni del dopoguerra, era solo passato accanto alla borghesia, vedendola, specie con il neorealismo, o come elemento di contrasto implicito (di fronte al dramma di vivere delle classi subordinate), o come decadenza scontata, o come materia di una deformazione grottesca (Miracolo a Milano, per intenderci). Ora si trattava di prendere atto della lezione morale del neorealismo (di quel bisogno, come Antonioni ha detto, di «sorprendere la teoria coi fatti») e, insieme, di osservare i moti sociali di assestamento. Di compiere perciò anche una riflessione mediata. I rapporti di Antonioni col neorealismo non sono stati lineari o univoci, ma abbastanza complessi. Era necessario passare attraverso la consapevolezza, che era frutto del neorealismo, ma anche arrivare a una consapevolezza del neorealismo. Perché per esempio, non occorreva tanto tradurre in chiave intimista (come lo stesso regista dichiarò) quel movimento (o meglio quel “clima”), quanto radicalizzarne i punti di arrivo emblematici: prendere la matrice per fare senz’altro del cinema “borghese”, criticamente all’interno dell’assetto che si andava consolidando. Ma all’interno, va detto, di una borghesia, quella italiana, priva di chiare strutture, senza radici culturali e storiche, quindi anche senza un solido retroterra su cui contare. Era un’operazione complessa, che da un lato chiariva una situazione sociale, e dall’altro poneva problemi di orientamento (che cinema fare?). La situazione sociale, abbiamo detto, era anche il riflesso di un ripiegamento, denotava la difficoltà o la mancanza di alternative, faceva ritrovare egemone una classe che si credeva ridotta nel suo potere, permetteva di osservare il lavoro di ricostruzione basato molto sull’apparenza (quindi sul falso), le nuove forme di una

vecchia conservazione. Da qui il rifiuto di alcuni registi e la reazione alla consolazione “rosa” cui molto cinema si stava abbandonando, e che era un parlar d’altro facendo finta di continuare il discorso. La matrice culturale borghese portò allora Antonioni a scoprire, o riscoprire, i fatti individuali. Era una presa di coscienza coerente, ma fu anche un limite avvertito, e che lo spinse ad articolare in seguito sempre più il rapporto personaggio-ambiente. Dietro egli si portava la sua vena di rigorismo, che lo induceva a cercare una nuova funzione per un autore (nozione ancora non in voga). Si può ora cominciare a comprendere come si ponesse, in quel momento, il problema delle scelte specifiche: come fare cinema. Non si trattava, insomma, di partire da un punto di arrivo (certa stanca chiave intimista del neorealismo) quanto di rinunciare ad alcune sicurezze per uno sviluppo sotto molti aspetti nuovo. Emergevano alcuni temi intorno al nodo centrale dei rapporti tra personaggio e ambiente, in un progressivo dissolvimento del primo nel secondo. Tuttavia, occorreva anche porsi il problema del modo, della forma con cui aggredire questi temi: sino a fare, a un certo punto, di tale problema l’oggetto del proprio cinema. Antonioni ha affrontato sin dall’inizio la questione del linguaggio, intendendo come un cinema di “critica” dovesse andare avanti con una progressiva consapevolezza stilistica. Le linee di sviluppo, storicamente, sono quindi più d’una, e conoscono passaggi graduali, oppure si intersecano tra loro. Questi cenni possono contribuire a inserire Antonioni nel periodo che suole definirsi di crisi del neorealismo. Vorrei aggiungere che il discorso potrebbe anche essere avviato verso quello, più ampio, della crisi dell’“impegno”, inteso come rapporto diretto tra artista e società. Antonioni lo visse soprattutto come necessità di trasferire l’impegno nelle direzioni che abbiamo indicato, e quindi di mediarlo (e sono proprio i termini di questo trasferimento che rivelano la complessa matrice del suo cinema e anche i possibili limiti). Mediarlo, tra l’altro, filtrandolo attraverso alcune esperienze culturali europee: Renzi, parlando di Antonioni e altri, ha detto che la loro era anche una reazione a certo sociologismo restrittivo sviluppatosi nel dopoguerra. Per Antonioni si trattava di assorbire esperienze (cinematografiche, umorali, culturali) diverse: da questo lavoro di elaborazione potranno nascere sì alcune deformazioni prospettiche, ma anche l’ampiezza del respiro, l’apertura. Il riflesso specifico dell’intento di mediazione si avverte subito nella necessità di fare dello stile un momento di ricerca e di decantazione. Bisognava dunque mettere in discussione certe tendenze del cinema ma anche, nello stesso tempo, chiedersi qual è il ruolo del cineasta e – più generalmente – dell’intellettuale o dell’artista. Come la matrice borghese del regista si riversò sulla borghesia oggetto di indagine, così questa riflessione divenne oggetto di alcuni film, direttamente o indirettamente (La notte, Blow-up). In entrambi i casi, le difficoltà, magari alcune incertezze, di una parte del cinema antonioniano nascono da tale “travaso”. Ma mi pare importante questa consapevolezza che si trova in lui; più ancora quando è indiretta che non quando è esplicita. E trovo che la critica, in un dibattito che si stava sviluppando soprattutto fuori del cinema, avrebbe dovuto in quegli anni facilitare o portare alla luce questo aspetto. Tornando ad Antonioni, possiamo constatare che sotto questo profilo il suo rapporto con la realtà è duplice. Da un lato vi è l’impatto diretto, che parte da alcuni aspetti della società per giungere sino all’individuazione delle forze di sviluppo o di deformazione (i modi di produzione diremmo, se il termine non fosse troppo preciso), dall’altro v’è il discorso mediato, e in questo senso autobiografico: la funzione dell’artista, l’autoriflessione dell’arte (Blow-up). Le linee naturalmente si intersecano. Alle spalle esiste, poi, un nucleo centrale persistente, la cui complessità si può ridurre, per formula, al rapporto tra individuo e ambiente, alla dialettica tra vecchio e nuovo. L’uomo d’oggi vive in un intervallo di precarietà compreso tra il crollo delle vecchie

sicurezze e l’instabilità o l’estraneità delle proposte, tra l’immobilità dei suoi sentimenti e la radicale modifica dell’ambiente, tra la certezza della scienza e le paure antiche. Sono le deformazioni interne che interessano Antonioni, il falso che l’ambiente o le strutture sociali possono determinare. A ben vedere, già i primi documentari rivelano, sia pure in nuce, alcuni di tali interessi: da un lato gli esorcismi antichi, i riti, le paure (Superstizione), dall’altro l’artificiosità del mondo dell’evasione, la cartapesta dei miti creati (L’amorosa menzogna). Il discorso ovviamente si allargherà e si complicherà. Si allargherà, coinvolgendo il rapporto fra l’eredità “umanistica” e il progresso scientifico (ma sono poi sicurezze queste?): «Oggi il mondo – ha detto Antonioni – è insidiato da uno scompenso gravissimo tra una scienza tutta proiettata consapevolmente nel futuro, disposta a rinnegare se stessa quotidianamente pur di acquistare una frazione di questo futuro e un mondo morale irrigidito, stilizzato, che tutti avvertiamo per tale e che pur tutti concorriamo a mantenere in piedi per viltà o per pigrizia». È questo vuoto storico, questo trapasso doloroso, a provocare l’attrito fra individuo e individuo, l’estraneità all’altro, l’ostilità all’ambiente. È un intervallo senza confini precisi, e ciò comporta la grande recettività dell’autore ma anche, forse, talune sue difficoltà. L’impossibilità, o l’incapacità, della trasformazione, rende talvolta vaghi i termini di riferimento: ossia, da un lato la staticità dei sentimenti e dall’altro l’avanzare del nuovo. Alle volte insomma (sotto questo aspetto parziale) la difficoltà del regista consiste nell’“organizzare” l’analisi, al di sopra di echi, note, impressioni: l’apertura antonioniana nasce proprio dalla capacità di percepire questa situazione difficile, di tradurla in racconto; il limite probabilmente sta nella prevalenza del dato esistenziale. Ma non insisterei troppo. Il punto di partenza infatti non è tanto analitico quanto descrittivo, la paura del futuro si direbbe: «è un film del futuro» ha detto puntualmente Antonioni a proposito dell’Eclisse. Proprio con questo film sembra concludersi la parabola. L’estraneità del mondo, delle cose, la loro immanente e rarefatta materialità provocano l’assenza dell’uomo, la perdita di dimensione dello spazio; «l’uomo, spogliato di se stesso, assorbito dalla materia o respinto da essa, non vive più che in uno sguardo assente». Questo rapporto con l’ambiente si ramifica nel tema del falso o dell’estraneità. L’ambiente è allora la città (Le amiche, La notte, L’eclisse), luogo tipico della mercificazione e della distrazione per tanta cultura occidentale dell’ultimo secolo; oppure la fabbrica (Deserto rosso) e prima ancora il “mondo” dell’autore, come nuovo artefatto che rivela tutti i contrasti e i valori fittizi (La signora senza camelie, e anche la prefazione ai Tre volti). Si diceva che il discorso di Antonioni si allarga e anche si complica. A lui interessano le situazioni di trapasso, gli scompensi che provocano i bruschi accostamenti. Da un punto di vista storico possiamo cogliere, per esempio, i vuoti del dopoguerra, i meccanismi di integrazione e di riassettamento, e anche il dissidio violento con la società e il bisogno di affermazione (I vinti); aveva ragione Cavallaro (in un saggio acuto che analizzava soprattutto le ascendenze biografiche e generazionali) quando insiste sulla matrice provinciale, che permette al regista di avvertire maggiormente queste situazioni d’urto. Da un punto di vista sociale ci sono gli attriti dei rapporti tra classi diverse o dei rapporti di integrazione (La signora senza camelie, Cronaca di un amore, Le amiche) e ci sono anche i drammi individuali – intimi, si diceva – osservati (Il grido) in una classe che una distorta visione non aveva considerato sotto tale profilo (troppa letteratura aveva fatto di questa problematica il “patrimonio” di una data zona sociale). Andando avanti, emerge l’analisi del vuoto e dell’erosione di una classe che partecipa direttamente, nel profitto, alla produzione (la “trilogia” dell’Avventura, La notte, L’eclisse e poi Deserto rosso). Da un punto di vista esistenziale vien fuori il disagio dei sentimenti, l’accostamento dei fatti che hanno perso la vecchia “logica”, il caso. Antonioni ha sempre

prediletto questa dimensione individuale (forse individualistica), l’esame di un particolare “modo di vivere”, piuttosto che l’indagine delle radici sociali, o strutturali (ma il termine è equivoco). Un simile quadro dei rapporti precari, tesi tra qualche cosa che permane e qualcos’altro che vien meno, può riflettersi anche nella narrazione, proprio per quella parallela tendenza del regista a tradurre tutto in stile. Perché i film stessi, alcuni in particolare, sembrano muoversi in una zona intermedia, dove da un lato c’è una forza di “costruzione” (i fatti, i raccordi, ecc.), dall’altro una di rarefazione (i prolungamenti, i tempi morti in cui nulla succede, ecc.). Si veda l’atteggiamento che l’autore assume nei confronti del personaggio: da un lato, sembra “sostenerlo”, usufruendo dell’organizzazione romanzesca, dei punti di forza tradizionali, magari dei passaggi narrativi obbligati o convenzionali (le sequenze chiarificatrici, il crescendo dei fatti); dall’altro lo lascia andare, lo insegue per coglierne i comportamenti, per spiarlo standogli addosso, fino quasi a metterlo tra parentesi come vero “personaggio” (cioè psicologia, sviluppo). Contano anche, e di film in film sempre di più, i momenti apparentemente non significativi; diceva Antonioni, già nel 1958: «Una delle mie preoccupazioni girando è quella di seguire il personaggio finché non sento la necessità di staccare. Seguirlo non per partito preso, ma perché mi sembra importante stabilire, cogliere di questo personaggio i momenti che appaiono meno importanti, e che non sono meno importanti». Torna a galla la duplice spinta dalla quale parte l’autore: quella che lo indirizzava verso l’introiezione (le psicologie, ciò che – con facile definizione – si disse il suo neorealismo interiore) e quella invece che conduceva verso il fuori (le cose, l’ambiente, i tempi morti). Per ipotesi, si potrebbe esaminare come il neorealismo desse la preminenza ai fatti, e come la “crisi” cui ho accennato abbia indotto Antonioni a sviluppare la sua dialettica interna: interiorizzando, ma ribaltando anche – e sempre più – questo aspetto individuale negli eventi, nei comportamenti. La modifica, inoltre, è graduale, nello svolgimento dei film. Dalle psicologie come luogo primo da esplorare l’autore passa all’analisi del comportamento come rivelazione di un determinato atteggiamento; fino a che tronca questo cordone ombelicale, e il comportamento diventa un dato oggettivo da analizzare, senza un necessario punto di riferimento nel personaggio. Si è parlato molto, e si parla, di comportamentismo come di una delle tendenze del cosiddetto “nuovo cinema”: in questo senso mi pare che Antonioni vi sia pienamente coinvolto. Il rapporto personaggio-ambiente trova nell’ultimo Antonioni (a partire da Blow-up) nuove dimensioni, che risolvono gli attriti e le deformazioni, ma solo in apparenza. Certo, l’apertura verso nuovi ambienti, verso diversi tessuti sociali (la Londra di Blow-up, l’America di Zabriskie Point) ha significato anche scioglimento di alcuni nodi antichi, almeno nelle vecchie forme. Per altro verso tuttavia, è stata anche una maniera di ritagliare una porzione di quel mondo e di riproporre le ambiguità e le rotture che l’autore si porta addosso, per autocriticarsi tenendo conto dei dati nuovi, delle aperture che avvertiva, dello spazio nuovo che percepiva. In questa scoperta – contrariamente a quanto potrebbe suggerire un itinerario progressivo – si sono andate perdendo le connotazioni determinanti dell’ambiente (di carattere sociologico, si direbbe). Per taluni critici ciò ha voluto dire – specie per l’America di Zabriskie Point – un approdo alla genericità, mentre mi pare che la spinta di Antonioni agisse in altra direzione, verso una metafora che partisse dai nuovi dati storici; ed è questo salto, dal dato alla metafora, che credo vada giudicato. In fondo allora, possiamo accorgerci che anche i film che precedono Cina sono le prove di uno “stato d’animo” che si è andato consolidando, ma anche continuamente verificando a contatto con le nuove esperienze e le vecchie insicurezze. La Cina, dicevo, va considerata a parte: una sorta di salto, di primo approccio con un ambiente radicalmente diverso, che prima di tutto va visto.

Si è parlato all’inizio del problema dello stile, cioè del modo in cui Antonioni si pone di fronte a questi temi. La sua attenzione allo stile era anche una parziale revisione del neorealismo, per il quale i problemi linguistici c’erano, ma sembravano venir dopo. Ma era soprattutto una riflessione, per lui necessaria, sul mezzo usato, e quindi sulla sua funzione. Sia pure gradualmente, Antonioni si rese conto della funzione conservatrice degli apparati e delle istituzioni, artistiche in senso lato (viene in mente Brecht, che vedeva in essi lo strumento di organizzazione del consenso e di filtro depuratore delle novità). In particolare, il regista probabilmente intuì che il sistema di reificazione tende a sclerotizzare anche gli strumenti linguistici, e che un cinema critico doveva esserlo anche a livello formale. Naturalmente, questa è una forzatura del “già detto” che ogni artista compie, ma credo si possa affermare che per Antonioni ebbe un carattere speciale, proprio per il suo cosciente porsi all’interno di certe strutture; e non a caso la considerazione del mezzo comunicativo è stata spesso un fatto ritornante e un punto di arrivo (Blow-up) di una fase della sua ricerca. Per queste ragioni è importante osservare come il regista utilizza o riscopre, sottraendoli alla tradizione, gli elementi costitutivi del linguaggio. Conviene perciò soffermarsi, anche se sommariamente, su questa analisi, tanto più perché l’attenzione alla forma è stata più volte scambiata per formalismo, come tendenza generale anziché come considerazione particolare. Niente certo esclude che il giudizio critico possa mettere in evidenza – nei vari casi – una degenerazione della forma, ma l’importante è non trarne un giudizio generale, e perciò generico e fuorviante. Si può partire (ma ci torneremo) dall’esame dell’utilizzazione antonioniana dello spazio e del tempo come precise categorie espressive, e dalla loro organizzazione nel contesto specifico. E si possono intanto sottolineare certi aspetti erroneamente considerati come “marginali”; alludo, per esempio, alla rappresentazione, puntigliosa e sempre studiata, degli interni, cioè dell’ambiente visto come sfondo significante. Tutti i film potrebbero essere citati in tal senso. Ricordiamo solo la diversità connotativa degli ambienti nei tre episodi dei Vinti (fot. 1, fot. 2, fot. 3), oppure la differenza tra Il grido e la cosiddetta “trilogia” (L’avventura, fot. 4, fot. 5, La notte, fot. 6, L’eclisse, fot. 7), e Blow-up.

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L’attenzione è, però, sempre focalizzata su tutti gli elementi. Sono rare le inquadrature casuali in Antonioni: «La recitazione – ha detto – ha valore in rapporto all’inquadratura; una battuta detta da un attore di tre quarti è diversa da una battuta detta di faccia o di profilo: assume un altro valore, un altro significato». E ancora: «Una determinata battuta, detta contro un muro o detta contro lo sfondo di una strada, può cambiare di significato». Quando il regista si accostò (tardi) al colore, lo fece con uno studio che sembrò rischioso. Tuttavia anche Il grido, per paradosso, era un film a colori, giacché le varie tonalità del bianco e del nero (fot. 8), e l’utilizzazione dei grigi, divennero parte rilevante dello stile, non “riproduttivo” ma creativo, con tutte le forzature che la ridottissima gamma di “colori” permetteva. Non si trattava di sottolineare momenti o sequenze che trovassero in altro modo (o

altrove) la loro forza. Lo stesso valeva per la musica, quasi sempre basata su pochi strumenti, limitati accordi, poche note in mezzo a lunghi silenzi, mai pleonastica, ossia già inutilmente ripetitiva, intesa ad ampliare o mettere in risalto certi aspetti della vicenda già visualizzati. Così si dica dei rumori, dei suoni, per molti versi riscoperti: perché non li si deve considerare elementi dell’impressione di realtà, e utilizzare come mimesi naturalistica, ma anch’essi come un vero materiale compositivo, in accordo o disaccordo con le immagini; si può citare L’Avventura, soprattutto la prima parte (per questo film furono registrati un centinaio di nastri con vari tipi di rumori). Il punto culminante della ricerca credo sia la Cina, dove i suoni hanno un valore, si può dire, pari all’immagine.

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La ricerca accanita delle possibilità degli elementi costitutivi poneva però precisi problemi specifici. Lo studio si spostava ancor più acutamente verso il loro rapporto e la loro coordinazione temporale. È in gioco anche lo sfruttamento di quelli che la semiologia ha definito i codici non specifici, cioè non prettamente cinematografici ma più pertinenti ad altre forme di comunicazione. Il problema – per Antonioni e per molti altri (si pensi a Godard) – non è quello di impiegarli assimilandoli, cadendo nell’equivoco di rendere tutto “cinematografico” e perciò svuotando tali codici della loro specificità, ma di conservare la loro autonomia: la specificità sta, allora, nella “messa in relazione”. Si ricordino certi elementi pittorici e più semplicemente coloristici che, inseriti da Antonioni nel film e quindi anche nella sua dimensione temporale, ricevono il significato esatto da questo rapporto dialettico fra autonomia e messa in relazione. La “purezza” del linguaggio, cara a tanto “nuovo cinema”, risiede sovente, per paradosso, nell’impurità, in una contaminazione tipica e specifica. Così, per esempio, acquista tutto il suo peso l’inserimento dell’elemento casuale, non motivato, non direttamente attinente alla vicenda o alla narrazione: questa intrusione dell’accidentale, e queste diramazioni, si caricano come vedremo di un significato non marginale. In tale quadro mi pare vada discussa la pretesa “letterarietà” di Antonioni, che può essere difetto o tendenza. È difetto quando è didascalismo, cedimento a suggestioni esterne, è tendenza (serve cioè a qualificare la scelta stilistica) quando denota l’apertura delle opere, la loro disponibilità nei confronti dello spettatore chiamato in causa, la possibilità di sottrarsi ad alcune consolidate convenzioni cinematografiche. Diventa soprattutto qualcosa di non generico quando con essa si vuole alludere al modo di organizzare il materiale espressivo secondo coordinate temporali. Se vedute in tal modo, alcune obiezioni mosse al nostro autore possono sembrare non scontate. Come quella di scrivere “difficile”, che nasce spesso – nei suoi confronti e nei confronti d’altri dalla convinzione che la scrittura debba essere chiara perché la

realtà è lì, decifrabile e senza zone d’ombra. Ma quando essa si mostra, com’è, ambigua e contraddittoria, profondamente contrastata, anche il modo di accostarla si complica, e non per compiacimento. Si dice ancora: Antonioni è calligrafico. Può essere vero, in singoli casi, ma non scambiamo l’attenzione allo stile, con tutte le implicazioni cui si è accennato, per stilismo gratuito (chi ha parlato, a proposito de l’Avventura, di dannunzianesimo aveva le idee confuse, o troppo chiare). Torniamo, anche per questa via, a chi discute di Antonioni “romanziere”. Può essere un’indicazione utile, per comprendere la rottura di alcuni canoni cinematografici che si ritenevano necessari e l’acquisizione di strutture narrative più “libere”, ma può anche essere un errore, per chi non intende il carattere particolare della novità rappresentata dal regista: la sua originalità, occorre ribadirlo?, è cinematografica. Si parlava di convenzioni rifiutate. È stato spesso in ossequio a questo che si è accusato Antonioni di scarso approfondimento psicologico dei personaggi; andiamo a rileggere alcune critiche all’Avventura e ce ne renderemo conto. Ma perché la psicologia doveva essere un passaggio obbligato, se il regista cercava proprio un’altra dimensione dell’indagine filmica? Quanto allo stile, dunque, occorre anche tener conto delle dispersioni, dei pleonasmi, dell’allentamento della narrazione che gli sono stati rimproverati. Vedremo analizzando alcuni aspetti stilistici che tali tendenze facevano parte proprio della ricerca del regista, della sua “novità”, e che proprio in questo senso si è prevalentemente esercitata la sua influenza sul cinema contemporaneo. I tempi morti, i momenti in cui l’azione non va avanti, in cui il tempo acquista una predominanza espressiva, sono elementi di quella che – non solo per Antonioni – è stata definita la dedrammatizzazione, ossia il tentativo di sottrarsi a una drammatizzazione ottenuta attraverso il crescendo dei fatti, e la loro organizzazione regolata secondo un arco pressoché costante. L’allentamento è allora decantazione, dimensione interna più che esterna, esplorazione di gesti o momenti reputati, senza perché, insignificanti: lavoro col tempo e sul tempo. Spesso i nodi drammatici, i passaggi obbligati si disperdono in piccoli fatti rappresentativi (sorta di contrappunti “non drammatici”) o, in analisi degli eventi e dei comportamenti. Certo, non tutto è nuovo. Anche quello dalla tradizione fu un distacco graduale. Occorrerà quindi di volta in volta vedere come e in che misura gli elementi tradizionali permangano nell’opera del regista; come, in altre parole, la dialettica tra vecchio e nuovo, tipica del nostro autore, si avverta anche a livello di stile. Naturalmente non varrà pretendere uno sviluppo lineare da chi ha operato entro certe contraddizioni, né tanto meno far coincidere sempre questa analisi con un giudizio di valore, secondo una facile identità di “rottura” e novità. Si tratta piuttosto di intendere la differenza fra un cinema che tendeva alla codificazione e un cinema che, forse programmaticamente, fosse un “campo di possibilità”. È un discorso generale, che si applica a certo cinema moderno (cito ancora, e non per comodo, Godard), il quale talvolta si configura proprio come analisi e interrogativo sulle possibilità dell’arte: il film della crisi è prima ancora crisi del film. Un esame di molta arte contemporanea confermerebbe l’ipotesi. L’arte diventa ricerca sul segno, constatazione della perdita della sua “sicurezza” (la crisi dell’arte come valore, come ragione, ecc.) ma anche della sua insostituibilità: in questa contraddizione sta, almeno in parte, la sua spiegazione. Osserviamo due punti di arrivo di Antonioni: L’eclisse e Blow-up. Il vuoto che si coglie nei significati, la nullificazione dei rapporti, sono anche la scoperta del nulla che l’immagine si porta addosso (il finale del primo film, l’ambiguità sostanziale di tutto il secondo) ma anche della possibilità di “scoperta” che attraverso essa si può attuare. Vediamo, ora, quel che Antonioni si porta dietro, cominciando dalle accennate indulgenze decadentistiche, sia a livello di forma che di significati (il rapporto passato-presente e il suo aspetto “suggestivo”, la ricerca del perduto: Le amiche; Lidia nella Notte ecc.). Forse è la

manifestazione di una tendenza verso il didascalismo o il moralismo. Alle volte, come in alcune parti della Notte, diventa ribaltamento in superficie di un’analisi che vuol essere sintomatica di un ambiente; altre volte la si avverte nei dialoghi, o in singoli episodi: la donna “assediata” nell’Avventura (fot. 9, l’erotismo come manifestazione), l’inchiostro versato dall’architetto protagonista (il progetto cui ha rinunciato), gli “incontri” della passeggiata di Lidia nella Notte (fot. 10), la danza nell’Eclisse (fot. 11, l’esotico come superficiale evasione), il marinaio turco nel Deserto rosso (fot. 12, l’evasione impossibile, la mancanza di comunicazione). In altri casi il regista ricorre all’inserto “significativo” (certi episodi di ambiente, da Cronaca di un amore all’inizio dell’Avventura) o ad artifici narrativi (il registratore di Valentina, la lettera di Giovanni nella Notte). Probabilmente a questa tendenza – in fondo abbastanza marginale – va fatto risalire lo schematismo nella rappresentazione di personaggi intellettuali (da Sandro nell’Avventura, per quel che riguarda il suo aspetto “professionale”, al Giovanni della Notte, al Riccardo dell’Eclisse), derivante dalla prevalenza di elementi di giudizio, non privi di implicanze mediatamente autobiografiche.

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Parlando dello stile, si può osservare come in certi film lo sforzo coerente di sottrarsi alla costruzione (e in fondo anche di vincere la resistenza del segno) porti Antonioni alquanto in là, col rischio che l’adesione formale diventi un’allusione fine a se stessa. Ma è un pericolo che non va frainteso, o preso in considerazione secondo formule. Il discorso ritorna sulla ricerca intorno alle possibilità del cinema, che non vanno obbligatoriamente in direzione narrativa (si prende come base l’ipotesi che il cinema sarebbe condannato a collegare i fatti secondo un necessario rapporto di causa ed effetto). Alle volte quella di Antonioni è una direzione che si potrebbe definire saggistica, altre volte è più vicina a certe istanze della poesia, con le immagini che si collegano per analogia, che valgono per la loro forza di richiamo o di suggestione. Quello che occorreva – in linea generale – era un cinema che si sottraesse alle garanzie del già dato. A tal punto che la scomposizione del mezzo diventi l’oggetto del film: siamo a Blow-up, all’interrogativo sul ruolo del proprio fare artistico. Risaliamo un po’ indietro, descriviamo a grandi linee il processo interno di alterazione delle modalità narrative in Antonioni. Il punto di partenza è ancora il personaggio, la sua consistenza e il suo essere al centro del racconto. La sua progressiva “crisi” metterà via via in discussione le strutture del film, e questa dissoluzione partirà proprio dalle premesse intimistiche, dall’attenzione all’interno, riflettendo più in generale la crisi dell’individualismo borghese, della fiducia nel soggetto come agente di storia. In questo senso si attenua (o scompare) l’urto “classico” dell’individuo con l’ambiente, si affievolisce quella contrapposizione in termini netti che dava luogo anche a una determinata narrazione (sono cose note). Come si vedrà nell’analisi delle singole opere, l’“arco” narrativo (inizio, sviluppo, conclusione ecc.) a poco a poco si

allenta, si distende, fino a sostituire la costruzione con l’osservazione e l’analisi. La “perdita del personaggio” si unisce alla perdita di quelle sicurezze che, in qualche modo e sia pure in un contesto “tragico”, si accompagnavano al suo tragitto psicologico e alle possibilità di osservarne ogni svolgimento. Il punto di arrivo è una sorta di oggettualità nata dalla scomposizione dell’ambiente: come un nuovo vedere dove il massimo di obiettività (la tanto sottolineata freddezza di Antonioni), lo sguardo da spettatore disinteressato scoprono invece le ambivalenze, la non univocità del significato. Un esempio parziale potrebbe essere già dato dall’episodio di Amore in città, dove la registrazione coincide con la ricostruzione. Certamente l’attitudine diventerà poi anche quella dello sguardo, della constatazione («Il mondo – come scrisse Robbe-Grillet – non è né significativo né assurdo, semplicemente è»). Le suggestioni del nouveau roman sono state presenti ad Antonioni in una fase del suo sviluppo. Il silenzio di Robbe-Grillet, di cui ha parlato Barthes, sul «cuore romantico delle cose non è un silenzio allusivo o sacrale, è un silenzio che fonda irrimediabilmente il limite dell’oggetto, non il suo al di là», ed è stato per alcuni aspetti il traguardo del regista, almeno sino all’Eclisse. Ma Antonioni sembra sentire anche il peso dell’eredità significativa che l’oggetto ha perso. C’è una carica che nasce ancora dal rapporto soggetto-oggetto: la sua insomma è ancora una descrizione “con aggettivi”, anche se privativi; un’oggettività dove senti, appunto, la profonda incrinatura dei rapporti tra il soggetto e l’esterno: i personaggi non agiscono solo con la loro presenza, ma anche con il forte alone che emana dalla loro crisi come agenti di una storia. Lo stesso vale, ad esempio, per il paesaggio; il quale connotato dapprima liricamente (Il grido, per citare il caso più pregnante), si va spogliando di tali attributi, cui però non rinuncia sino in fondo (una funzione simile l’assolve, parzialmente, anche nella fase che per comodità diremmo “metaforica”, di Blow-up e Zabriskie Point). Il rapporto con la realtà è dato dunque da un’alternanza di soggettività e oggettività (troveremo ancora una certa analogia con Godard?). In questo senso si dovrebbe discutere della pretesa freddezza di Antonioni; e non rimproveriamogli poi, per questa via, quello che è stato invece un preciso rifiuto del sentimentalismo o del pietismo. Una simile alternanza la ritroviamo anche nei confronti dei personaggi: per un verso l’autore è con loro (avvertiamo anche stilisticamente: i primi piani, il paesaggio in funzione soggettiva), per un altro se ne distacca. È un modo – ha detto – di guardarli «di fuori e di dentro, di vederli da lontano per mostrarli più da vicino». In questa chiave, tra intimismo e lucidità razionale, si possono vedere già i primi film; ed è una dialettica che si svilupperà in seguito. Bisogna tenerne conto anche quando si parla della matrice autobiografica. Prima si accennava, per comodo, a una propensione ultima verso la metafora. Sembra sia il caso di Blow-up e Zabriskie Point; c’è sì l’adesione al dato (gli aspetti “sociologici”, il ritratto d’ambiente) ma vi è anche la capacità del salto (per insistenza stilistica, per sovradeterminazione) verso l’allusione generale. In realtà, le due tendenze si intersecano, con attriti e pericoli, ma importa che questa duplicità di linee sia presa in considerazione. Forse, la tendenza ha origini più antiche: Antonioni ha sempre mirato a imbrigliare il casuale che progressivamente faceva irruzione anche nei suoi film, spingendolo verso il simbolo, oppure – meno impegnativamente – verso l’allusione. Questa è, alla fine, la sua forza maggiore. Muovendo da tali punti, che qui schematicamente supponiamo come provvisori punti di partenza e di arrivo, Antonioni non ha seguito un percorso lineare, perché egli – lo ripetiamo – è dentro le contraddizioni, e non cerca i superamenti facili. Anche per questo il suo atteggiamento verso il cinema è complesso. Per concludere sull’aspetto stilistico, vorrei sottolineare che, se la posizione del regista può essere vista alla luce della “rottura” attuata nel linguaggio onde sottrarsi alle convenzioni, è opportuno uscire dal generico chiedendosi: rottura di che cosa e verso che cosa? Solo con un’analisi dettagliata di questo tipo si può comprendere

il suo rapporto col cinema convenzionale. Perché egli usa anche schemi consolidati, soprattutto narrativi: i generi, ad esempio (il “giallo” di Cronaca di un amore, il “giallo alla rovescia” dell’Avventura), che gli servono per convogliare l’attenzione dello spettatore verso obiettivi diversi, entrando nelle maglie del congegno e dilatandole, fino a romperle, oppure osservando, analizzando, sfruttando le possibilità che gli sono offerte. Anche lo schema melodrammatico è ripreso, o almeno alcune sue componenti (i primi due film), con analoghi intenti di “distrazione”. Alternanze e permanenze nello stile fanno da specchio a certe costanti ideologiche, che ricompaiono concitate o diluite o decantate, e sono rimesse in discussione. Conviene allora sottolineare il fondo che potremmo definire romantico del regista, o – meglio – il suo operare sotto la spinta di un romanticismo “aggiornato”, e dentro le sue ambivalenze: tra sentimento e fatto (ha detto Cavallaro: «in questa difficilissima zona intermedia è la casa dello stile, il linguaggio»), avvertendo il distacco tra la coscienza e l’oggetto, il dissidio tra ragione e sentimento. Distacco che sembra appianarsi nell’“intermondo” di Blow-up, dove vi sono ancora i vecchi temi ma come sciolti in un apparente universo comunicante (la fotografia per il tutto), senonché, questa sorta di epochè copre ma non elimina le fondamentali ambivalenze, che restano al centro; e che si ritrovano al fondo anche della spinta verso l’“utopia” di Zabriskie Point. Esaminiamo all’origine alcune di queste venature romantiche. C’è un pessimismo di fondo, un dolore di constatazione che ricorda Prévert (giunto ad Antonioni attraverso Carné); ha ragione a insistervi Di Giammatteo, anche a proposito delle Amiche: «Il naturalismo romantico della linea Carné-Prévert, un cinema di origine letteraria, di ideologia populista, resiste nell’opera di un autore disincantato del dopoguerra italiano». In sintesi, è il tema della fatalità a suggestionarlo; ricompare anche quando la condanna dei personaggi sembra legata a cause storiche, quindi modificabili. È una contraddizione che Antonioni abbandonerà a fatica, conseguenza di due tendenze non convergenti: analizzare l’esperienza sciogliendovi dentro tutto, e rimandare ad altro, a un prima che ci si porta addosso. Anche nella scelta della tipologia dei personaggi si scorge una netta propensione: la donna è sempre vista come possibilità di percepire gli attriti e le difficoltà, come filtro della crisi, più istintualmente legata alla recettività: «C’è in lei – ha detto il regista – un acume istintivo che l’uomo non sempre ha» (tanto che alcuni personaggi femminili manifestano talvolta una certa enfasi). Torna conto, forse, ricordare qui un fatto interessante. Tra i suoi progetti ce n’era uno che doveva essere dedicato ai vari tipi di donna, ai vari mestieri, in modo da comporre un ritratto generale: «Mi trovai a pensare alla donna, non come siamo soliti pensarci noi uomini: alla donna come argomento, come tema da rappresentare». Romantico – anche se questa è chiaramente una catalogazione di comodo e scolastica – è in fondo lo stesso tema del contrasto, quello generale tra vecchio e nuovo, e alcune sue articolazioni particolari (il contrasto, per esempio, tra erotismo e morte, che si coglie, accennato, in alcune sequenze). Questi nuclei si sono a poco a poco assottigliati. Antonioni se n’è progressivamente distaccato, ma ne resta pur sempre l’alone (l’ambiguità, i contrasti, le analogie). Conta, comunque, non giudicare un peso quella presenza o quei residui, ma preoccuparsi di osservare come vengono espressi, quale attualità, anche e soprattutto formale, l’autore riesce a dar loro. Che senso ha, ad esempio, prendere le distanze dall’origine romantica del Grido, senza chiedersi in che modo essa prenda corpo e si sviluppi assieme alla “messa in situazione” dei personaggi? Stiamo attenti, dunque, alle classificazioni, che neppure in questa sede riusciamo a evitare. Questi cenni, infatti, dovrebbero tener conto dei ricambi o delle confluenze, come quelle – per

esempio – di certo esistenzialismo. Uso i termini con cautela, magari con beneficio di inventario. Anche se le letture o le ascendenze culturali possono essere precisate una per una, si rischia di agganciare il regista a una matrice troppo impegnativa, a una determinazione ideologica stretta. Spesso invece le ascendenze sono mediate, e agiscono come semplici suggestioni. Pur con tali precisazioni, sembra lecito il riferimento all’esistenzialismo, per quel che riguarda il fuori e per quel che riguarda gli altri. Il condizionamento del soggetto proviene dall’ambiente, ma anche dagli eventi; le nostre scelte devono tener conto di quanto incide il meccanismo dei fatti, della loro refrattarietà alla nostra azione, del loro peso obiettivo, della irreversibilità dell’evento. Il rapporto fondamentale tra scelta e destino non rimanda ad altro, a qualcosa che stia prima dell’esperienza, ma si articola qui e ora. Il tema dell’assurdo e lo scacco, di cui si è spesso parlato a proposito di Camus, valgono anche – e non genericamente – per il nostro autore. Lo spettro delle nostre possibilità, la libertà umana, si scontrano con i limiti dell’esperienza intersoggettiva, e – dentro l’individuo – si coagulano nel peso del prima, del tempo, del passato irrecuperabile, del bagaglio del vissuto che c’è in noi. Per il protagonista del Grido si è detto: «È la sua stessa libertà che si fissa in destino». I limiti si trovano anche nell’altro. Il “pensar duro” sartriano lascia una traccia. L’esperienza dell’uscire da sé, del comunicare, si conclude in conflitto, il rapporto conosce l’incrinamento, o la rottura; le difese diventano coperture, falsità. Perché è necessario mentire? ci si chiede nella Nausea. Resta l’aspirazione all’autentico, ma spesso si intuisce il tradimento. Anche la positività di un rapporto si rivela fragile, esso diventa sostituibile: Claudia nell’Avventura “si sostituisce” ad Anna. Di fronte a tale stato di cose Antonioni ha qualcosa da proporre? Direi di no, anche se il recupero di un’autenticità perduta appare come uno spiraglio nel buio, ma forse è soltanto un termine di paragone, un modo per chiarire la difficoltà, il contrasto con quello che si va mostrando. Il regista ha detto più volte che non ama i film a tesi: non cerchiamo troppo, in lui come in altri, la proposta di una via d’uscita. Occorre chiedersi, piuttosto, come questi significati reggano la costruzione stilistica. Si ritorna insomma alla forma. Ci si accorge allora che sull’osservazione, sulla decantazione, sull’apertura prevale talvolta la predisposizione, da intendersi come un lavoro precedente, di carattere intellettualistico, che indirizza la costruzione narrativa e l’articolazione dei nodi problematici. Ma – nuovamente – non si tratta di un’osservazione di carattere generale, bensì di una verifica da compiere di film in film. Nel Grido, ad esempio, lo sviluppo narrativo ha una precisa attinenza col grumo tematico: i ritorni drammatici, la “ciclicità”, appaiono “sciolti” e non predisposti; il film – come altrove – si chiude su se stesso, in un ritorno che è la condanna. In altre opere c’è, al finale, una sospensione, che condensa tutta l’ambiguità, o l’incertezza del dopo: «spogliato di ogni finalità, il gesto ultimo non rientra nell’universo dei valori assoluti ma in quelIo numerico della successione temporale». La non decifrazione, l’ambiguità sono le note conclusive dell’Avventura (fot. 13), della Notte (fot. 14), dell’Eclisse (fot. 15), di Blow-up (fot. 16). Anche l’accettazione di Giuliana in Deserto rosso non ha il senso di una svolta ma di un compromesso. A guardar bene anche il finale di Zabriskie Point è oscillante: immaginazione, attesa, o non, piuttosto, “esplosione” dello sguardo?

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Il grido mette in chiaro alcune di queste contraddizioni. Il film è come un momento di scopertura (un’autobiografia senza confessione, però) dove l’urgenza della materia trattata appare risolta in stile. L’adesione simpatetica al personaggio si accompagna a un quasi lucido distacco, come se l’autore avvertisse la tensione tra sentimento e forma. L’at tenzione per l’individuo, e per il suo rapporto di immedesimazione-distacco con l’ambiente, fa sì che il paesaggio sia sentito come motivo plastico, ma anche (e prima), come umore personale, come suggestione biografica depo sitata nel fondo. Perciò Antonioni sembra indotto, da una parte, a “lasciar andare” il personaggio, a seguirlo nella sua autonomia, e dall’altra ad agire sulle cose per “significarlo”. Ideologicamente, oscilla tra una visione deterministica e il motivo esistenziale della scelta. Entro questa dialettica si chiarisce anche il duplice impegno del regista: sulla storia (l’attenzione ai fatti, il milieu storico), e sulla forma. Lo psicologismo della tradizione borghese si fa problema di struttura. I piani si intersecano, e non è facile districarli per scoprire come vengano abbandonati i modi tradizionali di far cinema. La “trilogia”, a cominciare dall’Avventura, sottolinea questo progressivo abbandono; si attenuano i nessi tradizionali, i raccordi canonici, l’arco narrativo, per lasciar spazio a un narrare più snodato e libero: «Credo importante oggigiorno che il cinema si rivolga verso questa forma interna – ha detto Antonioni – verso questi modi assolutamente liberi, così come libera è la letteratura, così come libera è la pittura che arriva all’astrazione». Snodandosi, la “frase” cinematografica poggia sulla predilezione per il montaggio interno, per l’inquadratura lunga che non spezza l’azione e i movimenti, che non cerca sottolineature (i primi piani, il crescendo narrativo). In generale, soprattutto a partire da un certo momento, il cinema di Antonioni sembra mettere in discussione l’usuale principio di causalità a favore di una distensione degli avvenimenti sullo stesso piano, in quella che potrebbe essere definita la compresenza dei fatti: è il tentativo di dare un senso al non costruito, di recuperare alla significazione le componenti accidentali, i tempi morti, gli elementi casuali. Il legame tra le sequenze è ottenuto spesso per analogia, la narrazione talora si frantuma in brani non collegati secondo stretta necessità. L’analisi si sposta progressivamente (non senza ritorni o negazioni) dall’individuo allo sfondo. Si passa poi – come si è detto – dalle psicologie ai comportamenti. Per l’ambiente, dice Antonioni: «una storia può nascere anche in questo modo: osservando l’ambiente che poi sarà il contorno. Nel cinema è spesso un modo efficace perché consente di raggiungere più facilmente una coerenza figurativa». Anche l’attore è un elemento che deve tendere a una sorta di neutralità nelle mani del regista; è nota la sua posizione in proposito: «L’attore di cinema non deve capire, deve essere. Mi si obietterà che per essere bisogna capire. No. Se così fosse, l’attore intelligente sarebbe il

migliore. La realtà ci dimostra spesso il contrario… L’attore di cinema deve arrivare alla ripresa in stato di verginità. Più il suo sforzo sarà di carattere intuitivo, più il risultato sarà spontaneo». La predilezione per gli aspetti “irriflessi” denota il tentativo non tanto di cogliere le note caratteristiche del personaggio ritenute “centrali”, quanto di osservare i gesti come le cose, di sezionarli per afferrarne, come dei fatti, le risonanze non immediate. Perciò Antonioni rifiuta di predisporre la recitazione (come rifiuta di predisporre gli altri elementi compositivi). Questo, per evitare sottolineature, per dar peso ai momenti non motivati. Anche per tale via egli tenta di aprire l’opera nei confronti dello spettatore, senza indirizzarlo in senso univoco. Naturalmente, come per gli altri aspetti, non sono solo il casuale o il non costruito a prevalere, ma si instaura anche quella dialettica tra predisposizione e fluidità che corre sotto tutti i film, con diverse accentuazioni. Parlando dell’utilizzazione degli elementi espressivi si ritorna al passaggio obbligato delle categorie di spazio e tempo. Conviene analizzarle un po’ da vicino. Lo spazio non ha mai giocato in Antonioni un ruolo subordinato, cioè secondario o passivo, come abbiamo già visto a proposito della funzionalità degli interni. Allargando il discorso potremmo notare il progressivo inserimento della dimensione spaziale come elemento primario e autonomo. Dapprima troviamo un ambiente in funzione del personaggio: le caratterizzazioni ancora psicologiche, le denotazioni sociologiche, il milieu. In seguito, staccandosi man mano dal personaggio, il regista tende a porre i vari elementi sullo stesso piano: gli ambienti, gli sfondi, le cose, l’uomo tra quelle (si pensi all’Avventura, fot. 17). Le cose, appunto, vanno perdendo la loro dipendenza proiettiva in funzione di racconto per acquistare un loro autonomo essere presenti. In generale, lo spazio assume spesso un valore a sé, diventa oggetto come il tempo: il film, per i suoi significati (il vuoto, l’ambiguità ecc.) vive anche delle risonanze della sua non significatività, «Lo spazio – ha scritto Scalia – è uno spazio non prospettico, malgrado le apparenze». E questa perdita di dimensione balza in primo piano. A molteplici compiti, insomma, adempie lo spazio, con la sua non univocità segnica («Se lo spazio regna nell’universo di Antonioni è ormai a titolo di segno e non di sfondo»). Prendiamo l’esempio del paesaggio e osserviamo i vari modi in cui è utilizzato: è sfondo significante (Cronaca di un amore), è contrappunto drammatico (Il grido: l’apertura o la chiusura, la monotonia, l’ossessione), è occasione narrativa (gli “incontri”), ed è anche valore a sé (Il grido: le cose, la nebbia, gli argini per quello che sono): «com’è fotogenico il vento» ha scritto Antonioni.

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Così è anche per le cose: da una parte (aImeno nelle prime opere) esse sono viste in funzione di “proiezione”, messe a significare quaIcosa d’altro, e da un’altra parte cominciano a significare per sé, il racconto si disperde e le introietta, il retaggio romantico-evocativo “si fissa” oggettivamente, il loro essere nello spazio acquista tutto il significato. In sostanza, lo

spazio non è mai un elemento statico. Si assiste, però, a una sua progressiva fluidificazione, parallelamente anche allo sviluppo del tempo come vero oggetto dei film antonioniani. Il tempo, dunque. Prima di parlarne come elemento espressivo, conviene rifarsi a quanto già detto sul tempo come dimensione esistenziale, mettendo in risalto come esso diventi un dato non recuperabile, un residuo e un prolungamento della crisi: la progettualità dell’individuo incontra la refrattarietà del tempo, e il suo peso ne constata la progressiva scomparsa come tempo vissuto e la trasformazione in un tempo “vuoto”, sospeso. Ciò si riflette anche sulle cose. Antonioni rifiuta la “tragedia” (il réfus de la tragédie di cui hanno parlato gli esponenti del nouveau roman), almeno come forza di rivelazione e di implicito recupero, ma conserva pur sempre un senso romantico del contrasto: le cose, per esempio, sono guardate come prive di senso, ma nel contempo anche come relazionate al progetto umano. E il tempo vive di questa drammaticità, si stabilisce e si modifica: il soggetto avverte il movimento dei fatti e della storia, e la propria inadeguatezza a essi, la propria insufficienza di fronte alle cose (l’evento che provoca mutamento), sente il peso dell’esistenza che permane tra scelta e determinismo. Questo aspetto “sostanziale” dello spazio spiega meglio la sua trasmutazione in segno. Il quale entra nei film sia come elemento narrativo che come elemento compositivo. Si è già detto dello studio che il regista compie sui rapporti tra gli elementi linguistici e sul loro distendersi in durata: non si distinguono fra loro, ma costituiscono «un tutto indecomponibile steso in una sua durata che lo penetra e ne determina l’essenza stessa» (Antonioni). Come elemento narrativo il tempo serve sia a decantare, ossia a sottolineare (le insistenze ecc.), sia ad aprire vuoti, a lasciare intervalli, a dilatare, ad attenuare (la sdrammatizzazione). Queste restrizioni, o insistenze, permettono anche di organizzare gli eventi in modo non naturalistico, e di dare una diversa consistenza all’elemento figurativo. Per questa via, a volte, il discorso di fondo assume la dimensione della metafora. La struttura drammatica di taluni film si avvale della possibilità offerta dalla confluenza di dimensione esistenziale e narrativa. Nel Grido, per esempio, il protagonista ritorna (come il film si chiude su se stesso) al punto di inizio, e, malgrado il passaggio del tempo (che la narrazione ha sottolineato), scopre che il suo nucleo sentimentale è rimasto inalterato: in questo sfasamento sta il suo dramma. Si può dire, anzi, che la discrepanza tra tempo e motivi interiori, visti come poli “tragici”, sia il nodo di molte opere antonioniane. Lo stesso regista, come abbiamo visto, parla di arretratezza dei sentimenti e di avanzamento del mondo, di stasi e di cambiamento. E lo spazio stesso entra in questa dialettica, come visualizzazione di permanenze o di mutamenti. In tale intersezione di piani risiede spesso la chiave stilistica dei film, il rapporto tra stile e ideologia. Inserito in questo modo nella narrazione il tempo acquista una dimensione psicologica. Quando Antonioni parla di stilizzazione dei sentimenti penso alluda proprio a una simile “messa in stile”: il non finito, i prolungamenti, le pause forniscono il peso della temporalità, esprimono quella che si è detta la durata interiore. Una durata che l’autore progressivamente estroverte. Così, lo spessore del tempo – specie in alcuni film – diventa anche la dimensione psicologica oggettiva dei personaggi. Come si attuano la dilatazione o la restrizione temporale? Tecnicamente vi si può giungere attraverso l’uso del montaggio interno, con il piano sequenza che segue e non spezza l’azione, oppure attraverso l’insistenza sui gesti “inutili”, sui tempi morti, sulle cose anziché sui personaggi (i silenzi, i rumori o l’accompagnamento musicale dilatano l’apparato figurativo). Altre volte contano le digressioni, la descrizione di fatti o cose non direttamente attinenti all’azione o al momento narrativo, la ripresa di fatti “non rappresentativi”, cioè di comportamenti più che di gesti con significato psicologico (la narrazione stessa è sovente strutturata in questo modo, perché si distende senza essere in rapporto di causa ed effetto con i

fatti). È da chiedersi ora quale può essere la funzione dei momenti di stasi, quando il film sembra non “procedere”: dilatazione temporale, insistenza significativa sulle cose, chiamata in causa dello spettatore; oppure – come ultimo cenno – spunto per generare un’alternativa stilistica: queste sequenze servono talora da contrappunto, producendo dei pieni o dei vuoti che consolidano un’atmosfera nel film e connotano la sua durata (per esempio creando uno spazio, una sorta di eco, tra due fatti significativi). Per completare il quadro stilistico di Antonioni occorre esaminare alcuni moduli ricorrenti, alcune caratteristiche di una ricerca formale che rende facile anche per lo spettatore disattento individuare la paternità dei film. In quasi tutti compare un “prologo”, una sorta di anticipazione di temi (e forme) che si svilupperanno in seguito. Esso assolve a una doppia funzione: oggettiva, fornendo la nota dominante che in qualche modo dovrà indirizzare, o condizionare, la lettura dell’opera (l’abbandono del Grido, la morte nella Notte, il contrasto e l’ambiguità in Blow-up); soggettiva, stabilendo un rapporto non “neutrale” con lo spettatore, fornendogli certe indicazioni e aprendogli varie possibilità di interpretazione. Chiarisce, inoltre, il rapporto con i personaggi e l’ambiente: spesso contiene qualcosa che fa uscire i fatti dall’abituale “banalità”, dal grigiore, come se ne fosse sconvolto un ordine, se si facesse saltare il dente di un ingranaggio (dallo scarto che produce l’immissione brusca del passato in Cronaca di un amore all’ombra della scomparsa nell’Avventura). A tale scopo, come si è visto, Antonioni si serve anche di determinati schemi narrativi, magari rovesciandoli (si ricordi la definizione di “giallo alla rovescia” per l’Avventura). Lo sviluppo della narrazione conosce fasi alterne e complesse. Schematicamente, due sono le fasi essenziali: una prima in cui prevale la costruzione (siamo ancora vicini a un coordinamento dei fatti secondo una logica di densità drammatica), e una in cui la densità si allenta e si dirada. Naturalmente, le due fasi si richiamano, perché la prima presenta già chiari gli elementi di digressione, le intromissioni significative (Le amiche, per esempio), e la seconda non rinuncia, talora, ai momenti esplicativi (La notte). Il film-cerniera – per questo e per altri aspetti – mi sembra Il grido. Poi, con l’Eclisse, prevale decisamente la seconda tendenza. Anche il modo in cui viene strutturata la “storia” è, soprattutto all’inizio, sensibile ai contrasti o alle analogie di costruzione; mi riferisco alle vicende narrate che servono di sostegno l’una all’altra: la stessa storia in situazioni diverse oppure il contrappunto (dallo “sfondo” della vicenda del mediatore e dell’indossatrice in Cronaca di un amore fino a quella dell’operaio di Medicina e della moglie in Deserto rosso); oppure le storie che si sviluppano sullo stesso piano, come nelle Amiche. Persino quando la costruzione appare più serrata, non vi è mai l’adesione convenzionale al fatto. Già Cronaca di un amore è la dilatazione di un fatto o di un meccanismo narrativo (il “giallo”), ma si può citare anche il terzo episodio dei Vinti. Il procedimento sarà ripreso in seguito, perché il regista ama penetrare nelle pieghe dell’evento, smagliarlo scrutandolo, dando rilievo al non motivato; ha ragione Fink: «Antonioni non racconta ma verifica: studia quanto è già accaduto… e ci restituisce il “fatto” illuminato nelle sue ragioni intime». Per questo, anche, la realtà è spesso restituita a brani, discontinua, attraverso due procedimenti stilistici apparentemente contrastanti: o mediante la continuità temporale (data per esempio dal piano sequenza) che perciò funziona da contrappunto, oppure mediante una frantumazione (l’uso di frasi più brevi, i frammenti di cose o di fatti; per i personaggi è l’uso del campo e del controcampo, che ritorna ad esempio nell’Avventura, nella Notte, soprattutto nell’Eclisse, fot. 18).

FOT. 18

Il rilievo concesso al non motivato rende significative anche le digressioni – il racconto che si ramifica, i fatti che non hanno attinenza – cui si è già accennato. Possono avere una funzione narrativa, allentando la tensione drammatica, ma servono anche, e contemporaneamente, a coinvolgere nel film altre porzioni di una realtà, reputata marginale, colta attraverso tratti o attimi, sorpresa dalla macchina da presa e integrata nei significati. Così si attua l’inteferenza delle linee portanti del film, senza una netta dististinzione tra momenti necessari e contingenti, tra momenti espressi e inespressi, tra significati chiari e ambigui. Il regista rinuncia progressivamente alla concitazione dei fatti. Di essi coglie, piuttosto, gli influssi o i prolungamenti; già Tentato suicidio (L’amore in città) si può leggere in questa chiave: un gesto e i suoi echi, quel che rimane, i segni, le immagini (i luoghi) riviste e perciò caricate. Oppure rinuncia allo sviluppo, almeno nel senso della progressione, dell’accumularsi dei significati uno dopo l’altro (Moravia ha parlato di una realtà situazionale). Per questa ragione alcuni film si possono definire dell’attesa: non perché creino un clima esterno di “suspense”, ma perché lasciano un alone di attese tradite. Ecco perché molte opere di Antonioni sembrano svolgersi in una zona intermedia di narrazione: da un lato c’è – come si è già detto – una forza che lega i fatti, costruisce la “storia”, dall’altro una tensione stilistica che dirada la concatenazione, penetra nel tessuto della storia e ne spezza i legami. Questa ambiguità dell’autore può essere vista anche in altro modo, come fiducia nel segno (il regista della visione, appunto) ma anche come constatazione della perdita di un significato univoco. È un argomento che potrebbe riallacciarsi a quello più generale sulla crisi semantica delle arti, sulla perdita della sicurezza referenziale del segno, sulla sua morte come corrispondente di un significato. Ma come vive Antonioni tale morte? Rispondendo a questo interrogativo ci

accorgeremmo che, se da un lato egli sente la “crisi” come precarietà, difficoltà del proprio mezzo, dall’altro riesce a celebrarla, recuperandola esteticamente. Il decadentismo dell’autore, allora, avrebbe un senso non generico. Antonioni utilizza spesso la scansione del film in blocchi, e le scansioni si riflettono anche all’interno, nei particolari. Per esempio, attraverso l’uso studiato dei cambiamenti di inquadratura, che instaurano un rapporto dialettico (in certi casi alternando momento soggettivo, visione del personaggio e momento oggettivo). Il montaggio del regista potrebbe anche essere studiato da questo punto di vista. Chiaretti ha messo inoltre in luce, opportunamente, il rapporto personaggio-inquadrature, il tradizionale modo di divisione in scene: «La scena teatrale e cinematografica muta quando si perde un personaggio e se ne introduce uno nuovo. Nel cinema l’introduzione di un nuovo personaggio nella scena significa, abbastanza usualmente, il prossimo cambio di inquadratura. Antonioni abbatte questa barriera, scioglie questo vincolo». Le “novità” linguistiche sono dunque da cogliere nelle diverse articolazioni del discorso specifico, e un’analisi diventa necessaria. Riservandoci poi, in fase di giudizio, di esaminare la loro funzionalità. Si è già detto che Antonioni resta in certo modo fedele ai propri temi. Un’indagine critica ha osservato come spunti o ramificazioni si trovino anche nei soggetti non realizzati (v. bibliografia). L’insistenza (soprattutto a partire da alcuni film) attorno a nuclei di significato può condurre l’autore a una sorta di ipertrofia, a voler dire di più, a investire i segni di significati ultimi: la spinta alla metafora, se facilita il salto dal dato percettivo alla sua polisignificanza, può anche essere un rischio di deviazione, di arricchimento eccessivo (magari, per una contraddizione cui faremo cenno, ottenuto, per impoverimento dell’immagine). I nuclei tematici sembrano irradiarsi, da un nodo di base, la situazione di disagio – più volte ricordata – dovuta all’attrito tra il vecchio e il nuovo, tra realtà mobile e permanenza sentimentale. Il tempo, quel tempo dei personaggi, è spesso premuto tra il peso del passato e il frantumarsi del progetto, tra una ambigua nostalgia che pare raccogliere gli obiettivi dell’esistenza individuale e un futuro che li disperde. Per questo Antonioni crea una situazione di scompenso sul piano psicologico e di riflesso su quello narrativo, che gli permette di osservare delle situazioni significative, le quali diventano cioè tali alla luce del momento e del luogo. Creata questa situazione egli insegue i gesti, le parole, i silenzi, per sottolineare la loro perdita di significato: oppure, sintomaticamente, la loro chiamata in causa, il loro uscire dalla banalità, quindi il loro acquisto di significato. E questo, tanto per il presente che per il passato. Ecco perché la nostalgia è ambigua, perché i personaggi (in un certo senso, come il regista) sembrano oscillare tra un vagheggiamento e una lucida analisi che dissecca ed elimina la dimensione lirica: ancora, tra distacco e partecipazione. Questo atteggiamento ambivalente spiega, in fondo, la duplice spinta che il regista subisce: quella che parte dall’individuo per sfociare in una situazione generale, nella “condizione umana”, e quella che intende situarla nelle sue componenti storiche, fondando il momento dell’analisi. Sul piano individuale contano, allora, l’inaridimento prodotto dall’abitudine, la perdita di valore per effetto di ripetizione, la fungibilità degli atteggiamenti, delle persone, dei fatti (i gesti, le cose riviste, la dispersione del senso). Ma con questo convive anche una dimensione storica, magari con difficoltà. Emergono allora i meccanismi sociali, il milieu borghese o alto borghese, il sistema produttivo, quantunque avesse ragione già nel ’57 Cavallaro quando diceva che il problema dei rapporti con l’ambiente si poneva in sede non politica ma estetica e morale. In una situazione di progressivo inaridimento, i personaggi cercano inutili vie di uscita: il ritualismo di alcuni cerimoniali, l’evasione, l’erotismo. Quest’ultimo diventa, anzi, uno dei test del disagio e dell’insoddisfazione, un tentativo di recupero delle possibilità che si sono affievolite e di cui resta l’involucro. Anche quando sembra “sciogliersi” in un ambiente

diverso, in una libertà non costretta (Blow-up e Zabriskie Point), che tende ad assumere significati più ampi della situazione rappresentata, l’erotismo lascia sempre un’ambiguità di fondo, o magari l’ombra “fatale” dello scacco o della morte. Dopo queste premesse, si può tentare di ripercorrere storicamente l’opera di Antonioni, per vedere come resistano gli elementi strutturali convenzionali e quali innovazioni via via intervengano, senza con questo sostenere, ripeto, che un tale giudizio debba coincidere con un giudizio di valore. Partiamo dai documentari, nei quali possiamo trovare anticipazioni di temi, momenti stilistici o figurativi, anche se non cadremo nella tentazione di vedere in essi soltanto la prefigurazione di elementi posteriori. Gli spunti tematici sono raggruppabili in alcuni blocchi: il rapporto “falso” con l’ambiente, il falso anzi alimentato come mitologia collettiva (L’amorosa menzogna); lo slittamento verso l’inautentico: le vecchie paure, le difese ma anche i rituali vuoti (Superstizione); l’interesse specifico per la collocazione dei personaggi: il protagonista e il suo sfondo (N.U.) – lo sfondo, il teatro quotidiano, era anzi il vero protagonista di un cortometraggio non realizzato, Scale – o, più ampiamente, l’uomo e il suo luogo di vita, la presa di contatto con la realtà (Gente del Po). Già i rischi sono presenti, come la tentazione del moralismo o certi compiacimenti formali, ma, ovviamente, interessano di più la ricerca tecnica, le novità stilistiche, il taglio del racconto, la capacità di penetrazione, il modo di legare le sequenze, attraverso brani “illuminanti” più che secondo uno stretto coordinamento narrativo, nello sforzo di costruire un’“atmosfera”. Gente del Po fu cominciato nel ’43 e finito, cioè montato, nel ’47. Nel volume dedicato al Primo Antonioni si riferisce che il regista utilizzò solo il 30 per cento del materiale girato, perché il resto era stato rovinato in sviluppo. Vi si respira già l’aria del neorealismo: l’ambiente, il gusto dei particolari, la quotidianità dei fatti, i personaggi “minori” (la lavandaia, fot. 19, la chiatta-casa), i gesti consueti (la favola raccontata alla bambina, fot. 20). Inoltre, anche senza forzare troppo il testo, possiamo trovare motivi dell’Antonioni posteriore. Lo stesso regista attribuisce molta importanza (biografica, si direbbe, ma soprattutto stilistica) a questo documentario: «Appena mi fu possibile tornai in quei luoghi con una macchina da presa. Così è nato Gente del Po. Tutto quello che ho fatto dopo, buono o cattivo che sia, parte di lì». C’è la suggestione dell’instabilità (la chiatta, il viaggio), ma più ancora quella di una vita, nonostante tutto, in dimensione (il tempo, la lentezza dei fatti), dei gesti naturali (il giovane che va a fare l’amore in riva al fiume). E vi sono indicazioni stilistiche: l’ambiente (fot. 21), la piazza, le case sugli argini (che ritroveremo nel Grido), semplici umori (il mulino abbandonato: il “vecchio”), o moduli appena accennati, come le divagazioni (il cavallo bianco che corre sugli argini, fot. 22) e le ellissi (le immagini della bufera).

FOT. 19

FOT. 20

FOT. 21

FOT. 22

N.U. (Nettezza Urbana) è del 1948. Oggi, ci interessa soprattutto per la ricerca d’ambiente: la città, i gesti scanditi, gli oggetti. Le immagini bastano da sole (fot. 23, il commento parlato, fin che c’è, è assai scadente), sostenute da una musica studiata, che già si basa su pochi accordi di alcuni strumenti (in particolare, pianoforte e sax). Non mancano le anticipazioni figurative: i bambini, la coppia che passeggia nella luce bianca del lungotevere (fot. 24). Né mancano le tentazioni cui si accennava: certo gusto insistito per l’immagine, o qualche debolezza didascalica (lo spazzino che guarda una vetrina di generi alimentari; la coppia che straccia il biglietto).

FOT. 23

FOT. 24

L’amorosa menzogna (1948-49) è un documentario sul mondo dei fumetti. All’autore importa osservare come è costruito un mito: la falsità, la posa (fot. 25) o il sentimentalismo (acuito dal commento musicale di Serenata celeste). Poi, guardando dietro la facciata, trova i gesti quotidiani dei protagonisti, la loro vita senza orpelli (il ritorno a casa in bicicletta, il barbiere). Stilisticamente, vi sono alcune cose da notare: l’insistenza sul particolare della bambina che balla per imitazione, contrappuntato con i primi piani di quelli che osservano; un certo bisogno di sovraccaricare l’effetto di una situazione, come nell’atteggiamento di “quello che non condivide” il successo del divo (l’umorismo, già da allora, non è il forte di Antonioni).

FOT. 25

L’indagine che l’autore ha svolto con Superstizione (1949) è in realtà la modificazione – cui fu costretto – di un’idea più ampia e articolata. In quel che resta si può scoprire l’interesse per

il tema dell’ambiguità degli atteggiamenti. Il rito come difesa (la morte, il malocchio ecc.), che rimane tutto in superficie, e suona falso. Ma forse c’è qualcosa di più e di diverso: il senso delle cose caricate di significati ulteriori per un’abitudine inveterata al simbolo. Tutti temi, comunque, che si sviluppavano compiutamente solo nel soggetto originale. Degli altri cortometraggi non merita discutere perché presentano un interesse marginale. Il primo lungometraggio (1950) è Cronaca di un amore. Occorre anzitutto vedere come il regista utilizzi una struttura narrativa (quella del giallo) che, essendo consolidata in un genere, può far leva sulle abitudini percettive dello spettatore. Collocato nell’ambiente dell’alta borghesia milanese e complicato da alcune caratteristiche tradizionali che all’ambiente sono legate (il triangolo sentimentale, il suo intrigo), il film consente un’indagine – il termine calza – nelle maglie di questa struttura (l’immagine per il tutto: le foto iniziali della protagonista). Antonioni può analizzare i fatti e i comportamenti dei personaggi alla luce di un’ombra (il passato, la morte) introdotta subito dopo la descrizione ambientale: Paola esce da teatro, vede Guido, e il meccanismo si mette in moto. Rischia anche di restarne prigioniero, come testimonia il bisogno di concatenare talora i fatti in modo stretto, di sottolineare certi passaggi, ma il suo interesse preminente è rivolto altrove. Verso il milieu sociale, prima di tutto. Per il salto di classe che ha compiuto, Paola sente il disagio, subisce il senso di distruzione incombente, lei che ormai è integrata in quella società: l’autore sottolinea la sua provenienza da una media borghesia provinciale, anche attraverso il contraltare dell’amica che vive ancora a Ferrara (messo in luce dalla splendida scena del colloquio con l’investigatore privato, fot. 26). C’è, dunque, un disagio individuale di Paola (il passato, le occasioni perdute), ma non c’è rimpianto, se non in superficie. Ciò che conta è il qui e ora, il resto serve a complicare il presente; ha ragione Fink: Antonioni con «un cinema senza flashback e senza anticipazioni ama recuperare la dimensione temporale in un adesso denso di grovigli non risolti, gravido di inquietanti minacce; sospeso, comunque, in una sua ingannevole e tesa immobilità».

FOT. 26

Lo sfondo, verso il quale si rivolge l’atteggiamento critico, è rappresentato dal mondo del marito. Il tono è quello della falsità e del rituale: la storia milanese inizia, appunto, con il dopo teatro (fot. 27); altre scene chiariranno la situazione, la visita alla sarta, il bridge (qui Antonioni usa un metodo che svilupperà in seguito: spezza le scene e i dialoghi in brevi frammenti “rivelatori”, correndo il rischio di cadere nella “pennellata di costume”, nel bozzetto).

FOT. 27

L’attrito fra i due mondi (quello del marito e quello che fu di Paola e che non si è emancipato) è introdotto da Guido. La sequenza sintomatica – il distacco, l’essere fuori posto – è la festa di beneficenza (fot. 28), quando Paola acquista il vestito e poi lo lascia all’indossatrice. Quello è l’ambiente dell’apparenza: perciò il regista rinuncia allo studio delle psicologie, manifestando per la prima volta quella tendenza verso il comportamento che sempre più lo caratterizzerà. Se ne vedono le tracce anche nella struttura narrativa, dove il congegno dei fatti lascia il posto ai loro prolungamenti: «Il film non punta mai sull’azione, ma sulle conseguenze dell’azione». Per gli effetti di dilatazione (il passato che è parte del presente) e di decantazione (ciò che dei fatti resta sul fondo), il tempo acquista un’importanza compositiva primaria. È anche per questo che i personaggi sono spesso spiati, tallonati dalla macchina da presa (si pensi alla lunga sequenza, fot. 29, fot. 30, senza stacchi del dialogo sul ponte, dove l’obiettivo cerca di inseguire – sottolineandolo stilisticamente il momento cruciale di una situazione difficile, in cui alcuni nodi sembrano sciogliersi).

FOT. 28

FOT. 29

FOT. 30

Sin dal primo film, dunque, lo stile è il momento primo della ricerca. La struttura a blocchi è studiata accuratamente e si avvale di raccordi significativi, in modo tale, ad esempio, che il presente, il tempo di narrazione, sia caricato di riferimenti (l’indagine del detective privato sul passato di Paolo) e sospeso (i fatti, la storia dei personaggi). Si notano i contrappunti, storie primarie e secondarie si intrecciano (il mediatore e l’indossatrice hanno la funzione di elementi di risonanza). Contano anche i gesti non significativi dei personaggi. Si sa che Antonioni ricorreva talvolta all’artificio di continuare a seguire con la macchina da presa la Bosè (Paola) anche dopo che aveva ordinato la sospensione delle riprese, perché gli interessavano i momenti vuoti e automatici, le pieghe dei comportamenti. Costante è, poi, lo sforzo di trasferire tutto nelle immagini, di oggettivare i fatti (gli sfondi – ancora il dialogo sul ponte; gli interni – la casa di Paola, la pensione di Guido), di creare situazioni (il Planetario dove i due si incontrano), di caricare le atmosfere: uno spazio disteso come sfondo per il dialogo concitato all’Idroscalo, le vie di una Milano riscoperta, le luci livide di alcuni esterni. Il discorso è più generale, e riguarda l’utilizzazione degli sfondi urbani: Milano è caratterizzata dalla continuità e dalla ripetitività dei percorsi, è il presente, il tempo immediato; Ferrara è spazio prospettico (fot. 31), memoria che arriva e penetra nel presente. Tempo e città si pongono fin d’ora come fattori interferenti. L’attenzione ai motivispaziali è evidente anche nei particolari, per alcune soluzioni stilistiche (il dialogo di Paola e Guido che salgono le scale, fot. 32), per inquadrature preferite (il dialogo dei due di spalle in automobile, che ritroveremo con la stessa angolazione nel dialogo tra il console e la moglie nella Signora senza camelie), per motivi figurativi (il “mosso” dello sfondo all’Idroscalo, fot. 33, il rugby; analogamente, il tennis nell’ultimo episodio dei Vinti), perfino per certi tic personali (il mendicante che fischia all’uscita dei personaggi dal Planetario, e il fischio diventa poi commento musicale: particolare che

ritroveremo nei Vinti). Già la musica costituisce elemento a sé, non è una sottolineatura: le poche note di due o tre strumenti, il contrappunto sottile (nuovamente, il dialogo all’Idroscalo).

FOT. 31

FOT. 32

FOT. 33

Il tessuto dei significati tocca già punte caratteristiche. Si delinea il rapporto tra caso e destino («Bastava fare un gesto, dire una parola», dice Paola a Guido pensando al loro passato; e ancora: «È terribile pensare cosa può cambiare in un momento»). Il passato non è un recupero ma un peso, il film si svolge in una zona dove si proietta l’ombra lunga della perdita. Le scelte non sono ritrattabili, è impossibile ricostruire. Così il finale acquista rilievo: dapprima i due si guardano senza finzioni («Adesso non possiamo più, non lo senti?»), poi cercano di nascondere questa scelta imposta («A domani?», «Sì», ma subito Guido ordina al taxi di andare alla stazione). Dopo le battute di dialogo, rimane il gioco figurativo, la macchina da presa

decanta ancora il dopo: Paola, una macchia bianca (cioè una presenza figurativamente disforme), è ripresa in piano medio, poi in primo piano, col viso in lacrime (fot. 34, la sottolineatura), poi in campo intero con l’automobile che si allontana (la situazione definitiva). Anche nell’ultima inquadratura si alternano distacco e partecipazione, come in tutto il film. Gli esempi non mancano. Si veda la sequenza che succede alla separazione tra Paola e Guido (una punta drammatica): la macchina da presa insegue i gesti di lei nel suo ambiente, la tallona attraverso la casa fino a che la donna diventa un oggetto figurativo (una macchia nera sul bianco del letto); un’apparente digressione prima della telefonata (ripresa in primo piano).

FOT. 34

Gli aspetti romantici sono presenti ed evidenti, nella scelta del personaggio (la donna che avverte gli attriti e il malessere della nuova condizione alto-borghese), in alcune situazioni (l’amore nella pensione). Antonioni ne rimane a volte imbrigliato, come nel meccanismo della storia a tre, tanto è vero che in certi casi sente il bisogno di sottolineare stilisticamente alcuni “passaggi” (il dialogo concitato tra Paola e Guido ripreso sul pianerottolo dal basso). Ma in generale riesce a staccarsene, e in tal modo utilizza mediatamente i congegni del meccanismo narrativo, per frantumarlo e dilatarlo, studiando soluzioni stilistiche che con gli aspetti romantici della storia non hanno più alcun rapporto. Parlare dei Vinti significa vedere quel che rimane del progetto originale, che fu osteggiato – come è noto – dai produttori e dalle censure, italiana e francese (per rendere “positive” le vicende sono state introdotte alcune frasi all’inizio e alla fine, evidentemente imposte e di comodo). «È un film abbastanza lontano da quello che avrebbe potuto essere», disse Antonioni. Si tratta della testimonianza dell’impatto con l’ambiente da parte della generazione uscita dalla guerra, quando l’aggressività dei nuovi “miti” si innesta sulla fragilità psicologica dei giovani. Il “mito” alimentato dall’ambiente (il bisogno di “sentirsi protagonisti”) è veduto appunto come il mondo del falso, il riflesso degli squilibri di una società sottoposta a bruschi cambiamenti. Antonioni esamina l’ambiente, fin quasi a ricavarne un “documento” sociologico, ma non trascura l’elaborazione stilistica: due atteggiamenti che, convivendo nel film, rivelano la costante bipolarità di interessi del regista. L’aspetto a suo tempo più apprezzato fu quello della riproduzione, in tre modi stilistici diversi, dei tre ambienti nazionali in cui si svolgono i fatti. Tuttavia, la novità del film non si esaurisce qui, va anche considerato lo sforzo di rendere sintomatici gli spaccati parziali che vengono presentati. Perciò interessa il tono generale del film, che mira – come si diceva – alla ricostruzione: le fotografie iniziali sembrano convalidare la tendenza antonioniana all’“indagine”, e fornire il carattere della “cronaca”, appunto una cronaca dei vinti. Ma esiste anche la ricerca stilistica: lo studio del luogo di azione nell’episodio francese, e (più ancora) l’analisi del comportamento in quello inglese, in cui l’autore si preoccupa di scrutare le ragioni

del gesto (il delitto del giovane), la sua apparente normalità, e come esso sembra stemperarsi nell’ambiente (il quale è, insieme, elemento figurativo e sintomo sociale). L’episodio francese rivela sin nella prima sequenza gli intenti, e anche i limiti, del regista. Con pochi cenni si dà la chiave dell’ambiente, prima gli esterni e poi i rapidi interni: la matrice del fatto si trova in quella piccola borghesia di cui vediamo, apparentemente poco significativi, alcuni rapidi elementi caratterizzanti. Su questo sfondo sono tratteggiati i personaggi, i giovani sbandati che compiranno un delitto gratuito. Nella freddezza del racconto si avverte, però, la dolorosa partecipazione a quella gratuità, quantunque – ed è il limite – le motivazioni dei fatti (l’evasione, ecc.) siano presentate in modo troppo frettoloso. Lo sforzo stilistico emerge quando l’autore penetra nel “luogo del fatto”, quel bosco visto nella possibilità che offre di distendere i gesti, e anche di fornirne una ragione, rendendoli più lievi (le cose, la casa diroccata) e perciò più pesanti, per quello che non giustificano. Si scopre allora una discrepanza tra il blocco centrale da una parte e le premesse e le conseguenze dall’altra, ma bisogna pure tener conto delle difficoltà realizzative e dei limiti di metraggio. L’episodio italiano, il più mutilato, risulta quasi irriconoscibile rispetto al progetto, poiché sono scomparsi i riferimenti politici (il neofascismo) che potevano dargli un’angolazione. Mancando questi, tutto appare sommario, quasi sempre di tono cronistico. Rimangono alcuni brani stilistici: la ricostruzione del “fatto” cerca qualche appiglio che la giustifichi, come nello sforzo (in parte riuscito) di seguire un personaggio alla luce della tensione che subisce e proiettandola nei gesti, nei luoghi, nella gente. Qualche buon risultato figurativo, come la partita a calcio (il movimento dello sfondo, che sarà ripreso – con esiti diversi – nell’episodio inglese, e che avevamo visto anche in Cronaca di un amore) non impedisce di constatare che i fattori positivi si disperdono nel grigiore dell’episodio perché la sutura dei fatti con l’ambiente non avviene, o avviene in modo sbrigativo (ad esempio: dice troppo poco la festa in casa di Marina, il dialogo “cruciale” di Marina e Claudio è schematico, la caratterizzazione dei genitori appare frettolosa, i toni alti nel finale sono chiaramente fuori fase). I termini di riferimento, cioè gli elementi che potrebbero rendere emblematico il caso, sono scarsi. Ma siamo pur sempre in presenza – per le ragioni dette – di un avanzo di film, e non di un film. L’episodio inglese (che nel 1962 fu inserito anche in un film antologico, Il fiore e la violenza) mi pare una delle cose migliori di Antonioni. Qui la concentrazione stilistica non diventa allusione, ma costituisce un pieno tutto denso. La base realistica si decanta, tanto che Bazin ha potuto parlare di realismo stilizzato. La freddezza analitica con cui è descritto il caso dello psicopatico rivela l’intento non di cercare giustificazioni ma di studiare le pieghe di un’ostentata “normalità” che appiattisce anziché far emergere le punte drammatiche. In tal modo Antonioni riesce anche a rendere il caso tipico, giacché il tema dell’esibizione rappresenta la maschera di una “sicurezza” falsa (ecco perché il protagonista è un vinto), che vuole essere, ed è, la rottura della cristallizzazione e il suo riversarsi in una estroversione tutta preordinata. Il tono dell’indagine (il giornalista, il fatto ecc.) s’incrina per lasciare il posto alle elaborazioni stilistiche, allo studio di un comportamento. Con ciò, il fatto, non si restringe né si appiattisce, ma è approfondito per virtù d’introspezione. Le stesse digressioni (la corsa dei cani, per esempio) servono a disegnare il carattere del protagonista e a darci note sottili. L’ambiente è sempre vivo (la casa di Hallan, fot. 35, la periferia di Saffron, fot. 36), gli allentamenti (la scena dell’omicidio) e i contrappunti forniti anche dal “colore” (le gradazioni del grigio) sono funzionali. Quell’ambiente inglese lo ritroveremo, sia pure con diverso aspetto, in Blow-up.

FOT. 35

FOT. 36

Il fatto (il delitto) è ricostruito e mostrato insieme alla confessione dell’assassino, introdotta a incastro. L’autore si mantiene in una posizione ambigua, sospeso fra partecipazione emotiva (rara) e distacco. Si notino: la “lontananza” anche cromatica del prato dell’omicidio, i pochi accordi musicali, e poi il lungo brano finale in funzione di “prolungamento” (la telefonata, fot. 37, la partita a tennis, fot. 38) che è una splendida chiusura rivelatrice.

FOT. 37

FOT. 38

Alcune costanti si sono andate consolidando nell’opera di Antonioni, tanto che le ritroviamo nella Signora senza camelie (1952-53), che si avvicina maggiormente al primo film. La sconfitta, la vuota storia di Clara e della sua parabola di attrice, si ripercuotono sull’ambiente, il cui tono basilare è la falsità, la fragilità: molte sequenze insistono su questo aspetto del mito (o del consumo) del cinema, come quella che si svolge contro i fondali di cartapesta, o la scena di erotismo artefatto che ha per protagonista Clara nel film in lavorazione (anche il tipo di inquadratura contribuisce a rendere significativo lo sfondo, fot. 39). Già la sequenza iniziale è indicativa: Clara passeggia incerta in un ambiente magniloquente, quello del cinema Fiamma dove si proietta il suo ultimo film di successo. La macchina da presa spia il suo comportamento, e osserva soprattutto (si ricordi l’inizio di Cronaca di un amore) il dopo dello spettacolo, i rapporti artificiosi che continuano lo “spettacolo”: sono «una normale appendice di quel teatro e di quel cinema, un limbo casuale e momentaneo fra la platea e l’automobile» (Fink). I rapporti fra le persone sanno di costruzione e di isolamento: il dialogo tra Gianni e Clara sembra il dialogo di un film, artificioso, e normale insieme.

FOT. 39

Quello di Antonioni, come si vede, sta già diventando un discorso mediato. Se il cinema è il suo ambiente, egli non solo lo analizza ma ne sente la mercificazione («Sesso politica religione tutti assieme vanno bene», dice il produttore Ercolino, interpretato da Gino Cervi); più ancora, e indirettamente, comincia a interrogarsi sulla sua funzione, sul suo ruolo (su se stesso, se si vuole). L’ambiente sociale non è più la solida borghesia milanese, ma quella degli “arrivati”, artefatta perché economicamente fragile. Anche in questo caso (come in Cronaca di un amore) la protagonista proviene da un altro ambiente (faceva la commessa). Anche per questo riesce a mettere in luce il disagio della situazione: l’artificiosità dei miti e del successo, e – di più – la

precarietà dei rapporti in un mondo in cui sentimenti e denaro sembrano continuamente mischiarsi. Ad Antonioni non interessa il confronto con un ambiente più “naturale”: la piccola borghesia da cui esce Clara è tutta nel personaggio sciocco e superficiale della madre. Invece, l’ingresso in un ambiente “diverso” permette alla protagonista (ancora un ruolo femminile recettivo) di cogliere il cinismo e la mediocrità: il marito e il console anticipano molti personaggi maschili dell’Antonioni posteriore. Il regista non vede la possibilità di un’alternativa, o comunque di un personaggio in qualche modo “positivo”, come dimostra la sfocata caratterizzazione di Lodi (Alain Cuny), una figura inconsistente, che serve unicamente da occasione, narrativa e psicologica. Con lui Clara comincia a prendere coscienza, intuisce la necessità di chiarire i rapporti: «Tutto mi sembrava finto, ero finta anch’io» (un bisogno di far luce che costringerà il console a rivelare la sua doppiezza, la sua povera fatuità). Il meccanismo, cioè l’artificiosa mescolanza di interno ed esterno che vige in quell’ambiente, porta Clara allo scacco, rendendo inutili i tentativi di alternativa o di “evasione” (la storia sentimentale, o un diverso tipo di film). Il finale è l’accettazione, il ripiegamento, e anche la maschera: «È un film bellissimo – dice Clara – sono felice, proprio quello che volevo», e un primo piano la coglie poco dopo in lacrime. Stilisticamente La signora senza camelie si snoda attorno a uno schema melodrammatico, ma anche in questo caso sono le decantazioni e le diramazioni che ci interessano, le scansioni delle sequenze, i contrappunti delle storie parallele (quella di Renata, l’amica), certi moduli di costruzione o di impostazione dell’inquadratura. Per la costruzione, cito un particolare: la sottolineatura che la vicenda (la sovrapposizione di carriera e vita sentimentale) riceve dal montaggio parallelo della sequenza dopo la proiezione del film alla Mostra di Venezia, i flash del dopocinema, lei col console per le calli della città (fot. 40, fot. 41). Quando sembrerebbe, come in altre scene, che l’attenzione fosse rivolta al fatto, eccone il “prolungamento”, ecco la macchina da presa penetrare dentro il fatto, osservare i gesti. Analogamente, dopo l’abbandono del console, quello che conta è il comportamento, contano i movimenti, con il sottofondo di poche note (un piano, un sassofono).

FOT. 40

FOT. 41

L’inquadratura tende appunto ad analizzare. Perciò, spesso il movimento dei personaggi è studiato dentro il quadro, come per esempio nelle due sequenze in cui sono ripresi dall’alto due momenti cruciali, il pubblico dopo la proiezione veneziana, i personaggi nella stanza dove Gianni ha tentato il suicidio. Gli sfondi figurativi non sono mai casuali; si noti la insistita scenografia del falso che sovente compare (l’incontro col console, fot. 42, ecc.). Alle volte è la gente anonima che si muove sullo sfondo quasi un’altra faccia della storia (le comparse riprese dall’automobile di Clara e Ercolino, nella parte finale, fot. 43). Altre volte troviamo ampi spazi fermi che fanno da coreografia (l’Eur, nel dialogo col console), atmosfere pesanti (Venezia, il vaporetto, e, in chiusura, una Cinecittà livida, spoglia), interni oppressivi (la casa in cui si gira, la casa di Clara, il vagone letto dove avviene la lite). Si pensi al vuoto scenografico della nuova casa di Gianni, ai particolari kitsch rivelatori (la battaglia di Paolo Uccello aIla parete, ecc.). Anche i particolari tradiscono alcune tendenze stilistiche, come i dialoghi ripresi in tre quarti, o il breve flash sui bambini.

FOT. 42

FOT. 43

Come succede in Cronaca di un amore, il congegno – studiato e sfruttato per altri scopi – prende in alcuni casi la mano. Sono i momenti in cui si avverte la costruzione, e si sente il bisogno di Antonioni di affidarsi a un fatto “catalizzatore” (qui, il tentato suicidio), oppure di usare i sovratoni (le telefonate; le scenate di Gianni) o di chiarire e rendere esplicita la situazione: il dialogo di Clara con Lodi («Se non fosse stato così tremendo, sarebbe stato ridicolo»). Sono, appunto, gli elementi della tradizione e della convenzione che permangono, e che il regista si porta dietro in varia misura. Nel 1953 Antonioni partecipa – con il capitolo Tentato suicidio – al film a episodi Amore in città, una specie di film-manifesto che voleva essere l’applicazione rigorosa della teoria del “pedinamento”, del fatto colto di sorpresa, su cui s’imperniava l’idea zavattiniana. In effetti l’episodio antonioniano radicalizza queste esigenze: interpreti sono gli stessi protagonisti dei tentati suicidi, ricostruiti nei luoghi e secondo le loro indicazioni; l’indagine diretta (le domande rivolte ai protagonisti, posti di fronte a un telone bianco) si prolunga senza soluzione di continuità nella riscoperta “guidata” di ambienti rivisitati; il gesto (una suggestione cara al regista) cerca delle motivazioni, il tempo ricostruito cerca di raggiungere quello reale: il massimo dell’adesione (di verità, si direbbe secondo una definizione che avrà fortuna in seguito) coincide con la ricostruzione. Ma questa, proprio perché viene dopo, altera il tempo e riscopre lo spazio, consente di “caricare” le cose e di portarle a segno, ampliando o restringendo i momenti reali. L’inchiesta, con la sua neutralità, lascia una traccia nei luoghi indagati e nelle persone che li popolano. Antonioni gioca insomma su due piani, adesione e costruzione, e sugli effetti di rifrazione e immedesimazione derivanti dal fatto che i protagonisti sono i medesimi (e in un certo senso la macchina da presa è guidata da loro). Ciò permette anche una esplorazione dietro la facciata (il racconto della ballerina e i movimenti della danza), la creazione di contrappunti (i bambini, tipico motivo del regista). Tuttavia, appunto perché è (assieme a quello diretto, con Zavattini, dall’ex aiuto di Antonioni, Francesco Maselli) l’applicazione più radicale delle teorie cui il film si ispira, l’episodio ne riflette meglio l’equivoco di base: i due piani – realtà, ricostruzione della realtà – finiscono per essere distinti, facendo avvertire la prevalenza della ricostruzione, e perciò di una spettacolarità che si voleva evitare. I gesti rifatti dai mancati suicidi sanno in fondo di falso, e la carica che deriva dalla testimonianza diretta sembra applicata dall’esterno. Paradossalmente (ed è una sintomatica contraddizione) la freddezza dello sguardo fa notare la forzatura. Meglio, allora, riconsiderare l’episodio per le indicazioni di stile, che sono piuttosto deboli: la scoperta di ambienti “comuni” investiti di significati, la suggestione della scia dei comportamenti “prolungati”, la capacità, insita nell’immagine apparentemente neutra, di rivelare la propria poliedricità e ambiguità.

Vecchio e nuovo nello stile emergono più chiaramente con Le amiche (1955), film travagliatissimo, iniziato, interrotto e ripreso tra difficoltà e patteggiamenti col produttore. Per alcuni versi, rappresenta un po’ il punto di arrivo delle precedenti opere, quello in cui meglio si sviluppano il momento psicologistico e quello moralistico. Considerando naturalmente il film in modo autonomo dal testo di Pavese da cui deriva (Tra donne sole), ci appare imbrigliato in elementi tradizionali di racconto, che sembrano in parte neutralizzare la sua capacità di incidenza; in questo senso Baldelli ha parlato di una «riduzione convenzionale cinematografica». Le amiche è il film più articolato, meglio costruito, di Antonioni. Il collegamento fra le sequenze è stretto, secondo un legame causale di tipo romanzesco; sono rari i momenti in cui si sottrae al meccanismo della narrazione e alla sua chiarezza “espositiva”, pochi i momenti di dilatazione, anche se si avvertono alcune tendenze stilistiche: «mediante inquadrature lunghe Antonioni mostra i gesti dei suoi personaggi, non ne isola soltanto i momenti significanti, mentre sembra che di Clelia Pavese colga solo gesti e battute di particolare intensità» (Brunetta). La costruzione ha l’andamento di una parabola, introdotta da un prologo (l’arrivo di Clelia, elemento “estraneo”, e poi il tentato suicidio di Rosetta) che sembra fornire una chiave stilistica e una narrativa: da un lato un’ombra che si proietta sul film (la morte, il disagio), dall’altra le cadenze dell’indagine. La narrazione in un certo senso guarda dietro il gesto (come dietro le fotografie di Paola in Cronaca di un amore), collega i fili dei rapporti, dipana l’atto per capirlo poi. Dal prologo muove lo studio dei rapporti che Clelia intreccia oppure che osserva, in un crescendo culminante nel suicidio di Rosetta, il quale si ricollega non casualmente all’inizio. Da questo punto la parabola scende, i rapporti si sciolgono o si adattano. Clelia rinuncia, prendendo atto della situazione. Il film ha un’articolazione autonoma rispetto al testo pavesiano; studiare oggi il rapporto con Pavese è cosa poco stimolante per un discorso generale. Preme di più sottolineare il diverso tono che Antonioni sembra voler imprimere al quadro di fondo, che per lui è soprattutto il tono della futilità e del vuoto interiore (il momento moralistico dunque). A questo compito il regista si applica con accanimento, per esempio nel modo di presentare i personaggi, caratterizzati esattamente fin dal loro apparire (Momina e Carlo valgano per tutti). La donna è lo specchio, cioè la faccia passiva della situazione, o il chiarimento, cioè la faccia attiva della crisi. È una presentazione a diversi livelli, una serie di variazioni (ogni personaggio femminile, una variazione) di un’unica intuizione-base anche se poi le sfumature che permetterebbero i “travasi” da un personaggio all’altro sono spesso sacrificate da una descrizione a tutto tondo, più funzionale al congegno narrativo. Clelia è la vittima dell’ambiente, ma vi è anche dentro, aspira a integrarsi; la sua “estraneità” le permette dapprima di osservare, poi – entrando – di constatare in prima persona. Ma questa ambiguità, che è un po’ la chiave del personaggio, rischia di vanificarsi, riducendosi a uno schema, come dimostrano alcuni dialoghi: «Quando sento ridurre la vita a un vestito… La vita è fatta di una quantità di cose. Belle o brutte, d’accordo. Ma sono tante e importanti. Ci sono gli affetti…» (a Rosetta), e la scena viene dopo che Clelia ha potuto osservare, al mare, il vuoto e la noia di un rituale (fot. 44). L’“estranea” sente l’insoddisfazione e il limite di quella vita, grazie alla prospettiva da cui si pone cercando una soluzione (il lavoro, l’integrazione) che è un nuovo alibi. Non vede alternative. La sua presa di coscienza (il finale) non è critica, ma è un ripiegamento, come quello di Nene col marito “ritrovato”. Clelia sembra avvertire sia la “chiusura” dell’ambiente che la vocazione della coppia all’autodistruzione; tuttavia, la sua non è una scelta, è l’accettazione di chi da quella chiusura non sa (non può) evadere.

FOT. 44

I personaggi maschili, per contro, sono mediocri. Non riflettono, non sentono le dissonanze o la stanchezza. La fatuità dell’architetto è il parallelo della pochezza, o del cinismo di Lorenzo. Quest’ultimo, però, nella sua inconsistenza di personaggio, mette in luce un difetto di struttura insito nel film: il suo antagonismo – così didascalicamente esplicito – nei confronti della moglie (la rivalità in arte) denota indirettamente il bisogno che Antonioni ha di “sostenere” i personaggi, di crear loro dei contrappunti esemplificativi più che di sviluppare una dialettica. A fronte sta la “positività” di Carlo, un termine di riferimento che alla fine risulta falso, perché è un elemento astratto ricavato da una serie di rapporti costruiti. Si ritrova la prevalenza dell’astrazione anche nel fatto che, rispetto a Pavese, l’accento sul quadro di fondo appare spostato. Nel racconto il personaggio centrale è Clelia, ciò che permette all’autore di rendere evidente il rapporto di accettazione-rifiuto in cui si realizza il processo di integrazione borghese (e questa ambiguità consente di sciogliere nello stile il giudizio). Per Antonioni sembra invece prevalere l’“innocenza” di Rosetta, che costituisce un punto di riferimento piuttosto debole. Il regista insiste sulla “diversità” della ragazza, come nella sequenza al mare e in molte battute di dialogo («Perché dovrei vivere? Per decidere che vestito mi metto? E quando ho deciso, cos’è che mi aspetta?»), e sente soprattutto il bisogno di chiarire i suoi rapporti con Lorenzo. Il fatto, poi, che Antonioni (lo ha notato anche Baldelli) abbia voluto rendere esplicite le ragioni del suicidio di Rosetta (si uccide per amore) pone in luce la necessità di ricorrere al nodo drammatico convenzionale che rientra nella tradizione di molta narrativa. Il regista ha fornito una spiegazione diversa: «Il movente amoroso del suicidio, nel film, non è che la goccia che fa traboccare il vaso di una noia di vivere, di una impossibilità a legare con la vita, che sono i motivi di Pavese». Credo invece che quel movente metta allo scoperto alcuni motivi interni del film, anche se la sequenza del corpo raccolto in riva al fiume (gelida e pietosa, fot. 45) è una delle più belle dell’opera.

FOT. 45

Le parti deboli sono proprio alcune articolazioni narrative, come la banalità del rapporto Clelia-Carlo, nei suoi vari momenti: l’incontro, il bacio, la visita ai luoghi di origine (la Torino popolare, fot. 46), il dialogo sull’impossibilità della loro situazione, il finale. Anche perché la contrapposizione dei due momenti (l’integrazione di Clelia, la “sanità” di Carlo) favorisce lo slittamento del film verso un moralismo piuttosto didascalico. Si pensi, per esempio, al ritorno di CIelia ai luoghi natali (fot. 47), alla “facilità” della situazione e del raffronto, resa evidente dal dialogo: «Se tu non andavi via… se restavi sempre qui, in questo quartiere, potevamo conoscerci… Forse mi innamoravo lo stesso di te… ci sposavamo e ti tenevo sempre qui, in queste strade. Perché io non potrei offrirti di più… Ma certo tu hai tutte le ragioni». Vien fuori un atteggiamento univoco, e in fondo sentimentale (i luoghi e le occasioni perdute), più che quel rapporto ambiguo col passato (confronto e ripulsa, odio e amore) che maggiormente servirebbe – come nel libro – a qualificare il personaggio di Clelia, e il suo processo di assimilazione sociale, e di distacco.

FOT. 46

FOT. 47

Il pericolo del moralismo compare in più punti, favorito dal dialogo. Tuttavia, la scena madre dell’atelier (fot. 48, fot. 49), giocata su uno sfondo mosso e falso (è una bella intuizione) risolve i temi in spiegazione, in nodo drammatico. Ci si accorge allora che ciò succede quando Antonioni vuole entrare in campo, rinunciando a quel distacco che – da solo – potrebbe dare la chiave del giudizio. Il vizio sta probabilmente più indietro ed è rivelato dalla presenza di elementi melodrammatici. Antonioni non vi ricorre per assicurarsi la possibilità di una indagine per dilatazione (è il caso della Signora senza camelie), o come forma tipica di una certa tradizione culturale borghese all’interno della quale fare un discorso di scavo (è il caso del Visconti di Senso, per citare un esempio). Sono, piuttosto, ingredienti di cui Antonioni sente il bisogno per chiarire certi motivi che gli urgono dentro, come nelle scene chiarificatrici (Clelia nell’atelier, fot. 50, Rosetta e Nene nello stesso ambiente), alla presenza di particolari rivelatori (Nene che vede casualmente sulla scatola di cerini del marito lo schizzo di Rosetta), o come nella scena all’osteria, così articolata: a) lo “sfogo”, le cose buttate in faccia (fot. 51) (introdotto dal mendicante, fot. 52, come oggetto di dileggio o di paternalismo): il fallimento, la mediocrità, l’inutilità, il gioco a tre; b) il dialogo tra Lorenzo e Rosetta, sottolineato dall’atmosfera della strada e dalla musica di fondo; c) lo stacco di montaggio che descrive quel che avviene dopo, il suicidio, i gesti freddi.

FOT. 48

FOT. 49

FOT. 50

FOT. 51

FOT. 52

In altri casi troviamo anche i residui di certo sentimentalismo. Alludo non tanto alla sequenza finale, dove non vedrei la “sgradevolezza” che altri ha visto, quanto piuttosto una vena fatalistica con toni crepuscolari; oppure al rapporto di Clelia col passato, sentito come impossibilità di recupero (come si è già detto, la resa stilistica sembra propendere verso una dimensione ristretta, del ricordo che riemerge, in una chiave sentimentale appunto). Talvolta è il dialogo che forza le situazioni verso toni esplicativi. Prendiamo le due scene nell’atelier. I momenti sono ben congegnati, soprattutto nel primo caso. Antonioni osserva i personaggi tutti riuniti (in simmetria con la scena al mare) per scrutare i rapporti, per analizzare il rito – uno dei tanti della mondanità – e il risvolto (la situazione difficile delle due donne). Figurativamente l’intuizione è felice: gli specchi, la messa in scena, il disfarsi degli incontri brevi, gli ordini delle sarte. Ma il dialogo asseconda il bisogno antonioniano di chiarire; è una incrinatura che corre lungo il film, e che induce l’autore a creare situazioni analoghe (probabilmente frutto del lavoro delle due sceneggiatrici, Alba De Cespedes e Suso Cecchi D’Amico). In altri casi invece il dialogo diventa funzionale, proprio perché “esterno”, vuoto, tale da portare gli atteggiamenti in superficie: il tè da Momina, per esempio. Se no, si avverte che è anch’esso un’ingrediente della costruzione, e se ne sente il peso. Pur ricorrendo a una articolazione per nodi obbligati, Antonioni tenta di proseguire “l’analisi” dell’ambiente, e di farla a modo suo, con soluzioni cinematografiche. Vengono alla luce molti particolari non marginali: l’uso della scenografia, volta a indicare sia il senso del falso e dell’artefatto, sia il vuoto di certi rituali (ancora l’atelier, la casa di Momina). Oppure emerge il senso di distacco comunicato da alcune soluzioni stilistiche; per esemplificare cito la coincidenza delle due uniche panoramiche del film, quella di apertura, ancora sotto i titoli di testa, (Torino come facciata), e l’altra sulla spiaggia. In quest’ultima sequenza, la più bella del film, l’ambiente sembra sezionato, scomposto. Si osserva il farsi e il disfarsi delle coppie, la fragilità, la falsità dei rapporti tutti “buttati fuori”, l’erotismo come specchio della situazione, la coppia in pubblico (fot. 53, che diventerà un tema tipico). Il discorso sulla reificazione dei sentimenti trova qui la sua nota stilistica. Le novità formali convivono dunque con elementi di costruzione tradizionali.

FOT. 53

L’abbandono del moralismo e lo scioglimento dello stile nelle contraddizioni individuali danno in un certo senso il passaggio al Grido (1957), che è anche – si può dire subito – un mutamento di qualità. Non direi, visto oggi, che il film rappresenti un passaggio effettivo dal mondo borghese a quello proletario. Lo stesso autore può aver favorito alcuni equivoci facendo pensare a una posizione intellettualistica: «La vita sentimentale della gente del popolo – ha detto – non è meno ricca né meno complessa della nostra». Sotto questa spinta, o per reazione, si è allora parlato di una inadeguata conoscenza del mondo operaio, «tutto rimane … maledettamente esteriore, come visto da un osservatorio distante, come se l’autore fosse già prevenuto contro il suo eroe, come se, invece di un uomo, egli avesse tra le mani un automa». Ora, è vero che assistiamo a una precisa messa in situazione del personaggio, ma non intendiamola in senso strettamente “sociologico” o sociologistico, e stiamo attenti quando parliamo di una estensione del discorso del regista, come a dire: il Carlo delle Amiche era senza “crisi”, l’Aldo del Grido è il rovescio della medaglia. Difficile anche affermare che, in fondo, è pur sempre l’integrazione che interessa l’autore: il proletario subisce una problematica borghese che lo raggiunge senza soluzioni di continuità. Mi pare piuttosto che abbia ragione Cavallaro, quando dice che Antonioni è andato in cerca, col Grido, di somiglianze ed equivalenze, di un identico in forme diverse. Dunque, è anche un problema di forma, nel senso più ampio, anche se la collocazione sociale del personaggio influisce e permette di cogliere reazioni diverse, cioè meno mediate, meno coperte (più spontanee si direbbe, se il termine non fosse inquinato). Il problema della forma è un tema che riemerge. Così, nel film convergono molti elementi, per taluni versi di “ricapitolazione” per altri di anticipazione. La dialettica personaggioambiente può decantarsi seguendo le suggestioni filtrate dell’autobiografia, di una umoralità distesa (è quell’ambiente che Antonioni sente come origine prima, perciò l’importanza che, come si è visto, attribuisce a Gente del Po: quello del Grido, lo chiarì lui stesso, è un paesaggio della memoria). Si incontra, dunque, un nucleo lirico biografico (del protagonista e, mediatamente, del regista) con lo sfondo inteso come “collocazione”: «Basta che Antonioni decida di tornare a quell’ambiente – culturalmente già scoperto e sentimentalmente ancora valido – e di raccontarlo come itinerario non di cose ma di un uomo, di piegarlo, a storia e a presenza di sentimenti, perché il paesaggio, imponendosi, condizioni la vicenda al punto da offrirne addirittura un’interpretazione allegorica» (Bartolini). Partecipazione, allora, ma anche distacco. Se non altro dal clima populista cui poteva essere facile indulgere. Antonioni depura le contraddizioni interne, la malattia («avverto prima la malattia dei sentimenti che i sentimenti»), e ciò gli dà modo di scoprire le sue propensioni e di trasferirle in immagine. Proprio per tale decantazione, in quella forma, il film mostra anche di essere un punto di arrivo. Un approfondimento avrebbe richiesto una dimensione diversa. Lo

scioglimento dell’intreccio biografia-ambiente, con il quale Antonioni si obiettivava, doveva spingerlo poi a uscire da un certo fatalismo, e a legare la malattia a una matrice più precisa (è il bisogno di affrontare la storia, l’altro polo del cinema antonioniano cui ho già accennato). Allora il distacco – che nel Grido è più che altro liberazione – lo porterà ad abbandonare l’interiorità (e i pericoli dello psicologismo) o, meglio, a risolverla nel comportamento o nei fatti. Lo sviluppo del film è lineare. Si potrebbe forse parlare di una spontaneità imbrigliata e fatta costruzione. Si delinea subito l’elemento strutturale costante del prologo, come una cifra che condizioni per lo spettatore l’ulteriore svolgimento del film. Nel Grido è l’annuncio della morte del marito di Irma, la decisione della donna di fare la scelta. È una sorta di molla, dal punto di vista psicologico, narrativo, stilistico. Sotto il primo aspetto, si dipana l’urto con una consuetudine in cui i sentimenti si sono sedimentati, come una dose vitale di cui è impossibile liberarsi: dopo l’abbandono, Aldo non può sfuggire al ricordo di Irma. È la trama delle abitudini messa a repentaglio, un taglio netto operato dal caso, che trasferisce la situazione particolare in una condizione ontologica. L’«insuperabile singolarità dell’avventura umana» sfugge al nostro controllo. Ritornano certe influenze culturali di cui si è parlato. Dal punto di vista narrativo, si può dire sia un film del dopo, della ricerca vinta in partenza. Stilisticamente, ricerca e fatalità diventano tensione e predisposizione, le due forze del film. Dietro vi è l’influsso dell’ambiente, che si avverte sin dall’inizio: Aldo segue Irma nei suoi luoghi, le luci e le cose di tutti i giorni. Sull’ambiente, con la nota di fondo di un’incrinatura radicale, si svolgono gli “incontri” di Aldo. Ancora personaggi femminili, diversi aspetti di una sola intuizione. La coerenza sentimentale di Irma è la condanna di Aldo. Poi Virginia (fot. 54), la benzinara, una provvisorietà opposta e complementare a quella del protagonista: e la loro contrapposizione ha risonanze vive, precise. Oppure Andreina, la prostituta, la disponibilità e la condanna, il vivere ai margini del mondo; o Elvia, il passato irrecuperabile. Compartecipe, la figlia Rosina, testimone e “innocente”, la condanna sin dall’inizio, la lesione (quando assiste alla scena d’amore del padre).

FOT. 54

La struttura passa attraverso vari momenti: a) il “salto” iniziale, l’elemento di disturbo; b) i rapporti tra Aldo e Irma, che culminano nella scena del litigio in piazza (fot. 55, gli altri, l’indifferenza). Stilisticamente vi è già l’osservazione degli atti quotidiani rivisti alla luce della loro profonda incrinatura; c) il vagabondaggio di Aldo; (fot. 56) peregrinare e permanenza dei ricordi; d) gli incontri. Il contrappunto è rappresentato da Rosina, la testimone. I tentativi di inserimento e di recupero, lo scacco, la progressiva marginalità al mondo; e) il nuovo scontro col vecchio ambiente, lo sfondo irrimediabilmente estraneo (il lavoro, la solidarietà perduta). Forse è un elemento che può fungere da catalizzatore di tipo intellettualistico; f) la chiusura. Il

film si ricompone, resta il grido. Lungo tutto il percorso, il ricordo diventa dimensione del presente. Il tempo si amplia, Elvia e Irma ne rappresentano la perdita. Narrativamente sembrano sciogliersi i “nodi”. I ritorni, gli addii sono senza strazio. Antonioni avverte ancora, però, il bisogno del contrappunto (Edera e il fidanzato, Aldo e Irma, le storie parallele) sino a farcene sentire alle volte la forzatura. Altre volte, invece, si distende e inventa una soluzione stilistica efficace, come nella festa da ballo (fot. 57).

FOT. 55

FOT. 56

FOT. 57

L’unità stilistica del film è data dallo stemperarsi della storia come supporto narrativo, nella ricerca della consonanza di un tema dominante con la sua risoluzione in forma; il crescendo dell’opera è un mutar di corda. La solitudine sembra distaccarsi, perde il senso del casuale,

diventa dramma; e tale passaggio avviene gradualmente. Era necessaria dunque la modulazione continua di un’ossessione, col rischio (cosciente e coerentemente sostenuto) che quel distacco significativo che si voleva raggiungere si rivelasse invece qualcosa che stava prima, un dato a priori che spingeva ad assolutizzare l’esperienza. È un film che si snoda (incontri, cose, personaggi) anziché concentrarsi in un pieno drammatico, sono articolazioni di quegli stati d’animo in forma di rappresentazione di cui ha parlato Renzi a proposito del primo Antonioni. Il crescendo è sì nei fatti, nelle punte emergenti, ma anche nei vuoti, nelle “assenze” di dramma, nella coloritura soggettiva, nel tempo che è là. Per questo era indispensabile – come in altri casi, e ancor più – creare un’atmosfera diffusa. Occorreva sfuggire la predisposizione, quella che, non casualmente, lo stesso Antonioni rimproverava al Carné di Quai des brumes nel suo saggio del 1948. Sul filo conduttore dell’emblematico vagabondaggio di Aldo si innestano i temi dell’individualismo antonioniano: il “disancoraggio”, il crollo delle sicurezze, l’inquietudine, l’indifferenza, il sesso. Il caso e il destino si intersecano, vi è il senso di una vita che scorre e si drammatizza, in modo impalpabile e pur evidente. Il ricordo è ineliminabile, il passato preme e chiude. Quello che conta nel film è il presente (non vi sono infatti flashback). Il tempo individuale rompe col tempo storico, e questo è il nucleo drammatico. I sentimenti vivono la precarietà della non prevedibilità: «Allora questi anni… non era vero niente», dice Aldo a Irma, di fronte alla rivelazione. E lei: «Era tutto vero fino a quattro mesi fa» (fot. 58); e poco dopo, ancora Irma: «Sto tanto male che non riesco nemmeno a parlare… Ma cosa posso farci? Ormai è come se non dipendesse più da me». Aldo, ha detto un critico, è schiavo delle passioni, ma probabilmente è qualcosa di diverso; si tratta dell’impossibilità di dare coerenza ai propri sentimenti, di conciliarli col tempo e col luogo; la laicità drammatica di Antonioni è in questa mancanza di dimensione.

FOT. 58

Le alternative non hanno soluzione. Gli altri confermano la condanna, o sono indifferenti (gli operai al ritiro della busta paga, il finale, che indica il rovesciamento, l’atonia di Aldo). Né serve l’“evasione”, come diversivo, come sradicamento, come “favola” (i viaggi immaginati da Virginia, il Venezuela dei racconti del padrone della draga, fot. 59); quest’ultima diventerà un’allusione costante di Antonioni, dall’Avventura a Deserto rosso.

FOT. 59

Su tali note dominanti afferriamo stilisticamente anche il senso di quelle che potrebbero sembrare “digressioni” (se ne è fatto cenno) o motivi plastico-figurativi (la gara dei motoscafi). Sono note cercate come anticlimax, come distensione di un racconto che tende a visualizzare le situazioni. Ma ancor più servono a fornire un tono di fondo come una incrinatura che si insinua nello spettatore. Per esempio, la sottolineatura del tema della pazzia: il padre di Virginia (fot. 60, l’insofferenza, il peso), l’incontro di Rosina. Il disagio come tema generale ha un punto culminante nella follia.

FOT. 60

Constatiamo nuovamente che la digressione ha un preciso motivo in Antonioni: quello di coinvolgere stilisticamente strati di realtà più vasta in quella che è la nota prima del film. Si scopre però, anche in queste operazioni, il pericolo che può minacciare persino certe scelte essenziali, come il simbolismo di marca naturalistica che finisce per lasciare un alone di costruzione. C’è chi ha parlato di una predisposizione episodica. Più limitatamente, direi che solo in alcuni casi l’intelaiatura si vede, se non altro nell’articolazione, pur duttile e aperta, degli “incontri”. Forse perché c’è sotto un nucleo lirico che voleva prevalere, e che talora impone talune scelte, costringendo il regista a subire forse il fascino sottile e un po’ malato della letteratura degli “eroi maledetti”; oppure è l’intimismo che non si manifesta, che non si ribalta tutto nella visione. Ma la proposta complessiva mantiene sicuramente alto il suo valore espressivo. Tale novità è data in Antonioni dai successivi rifiuti che è andato compiendo. Da qui mi pare possa partire l’analisi dell’Avventura. Il personaggio va progressivamente scomparendo, acquista maggiore rilievo l’ambiente, e la preoccupazione dell’autore sembra quella di situarlo storicamente, se non addirittura di dargli una connotazione sociologica. Ma

contemporaneamente – in una duplicità di piani che ora tenderanno a convergere, ora a divergere in modo sintomatico – si accentua il problema delle strutture narrative, e più ancora, la riflessione sulla forma. Anche Antonioni può rientrare per più aspetti in quella zona del cinema contemporaneo che – unitamente a molta arte d’oggi – va riflettendo su se stesso, sulla progettualità artistica nel suo “agirsi”, sulla propria forma (nel senso più pieno) come oggetto. Storicamente, si sa, la problematica nasce da quel nodo centrale dell’estetica che è la “morte dell’arte”. L’avventura è stato uno dei film più travagliati del regista: mesi di interruzione, ritiro del produttore, mancanza di fondi, estenuante lavoro di realizzazione. Ha scritto Antonioni in una lettera: «Mi è capitato di tutto. Scioperi della troupe e di attori. Sostituzione di produttori. Cinque settimane su un’isola senza che nessuno di noi ricevesse l’ombra di un qualsiasi compenso; e a un certo punto non sapevamo più nemmeno da chi dovevamo riceverlo. Siamo rimasti bloccati per più notti sullo scoglio di Lisca Bianca, senza coperte e senza cibo. Veramente dei naufraghi. Abbiamo fatto traversate con mare “forza otto” o “forza nove”, che vuol dire inferno». La storia dei suoi film – si diceva all’inizio – è anche la storia del modo in cui vennero realizzati; e di come alcuni furono fatti ostinatamente in una certa maniera. Ho ricordato le accoglienze a Cannes, e così gli incidenti giudiziari. Non fu certo un film accettato, come si dice, e a ragione e a suo merito vien da sottolineare, se si considera lo standard della produzione di quegli anni, oppure la qualità dei “valori” che si reputavano lesi. Parlando del film, conviene accennare ai temi, per vedere come permangono e come siano resi stilisticamente (la tentazione, è opportuno ripeterlo, rimane quella di fare una parafrasi di Antonioni, criticamente improduttiva, tanto più se si cercano punti di contatto “ideologico”). La possibilità di una complicità col mondo, anche attraverso le cose (il discorso, appunto, sulle cose) approda in effetti all’estraniazione, a quel silenzio finale dell’Eclisse che per molti versi è il punto d’arrivo della ricerca antonioniana di un dato periodo. All’interno di questo “arco” si distendono i temi, le suggestioni che conosciamo, gli interrogativi senza risposta. Ma questa parabola cerca un aggancio, il milieu sociale è anche una cifra e una condizione. Qui gli elementi significativi (la prima parte) non sono molti. Non tanto i dati interessano l’autore quanto i sintomi e la loro decantazione. Lo svolgimento dei film successivi mostrerà la volontà di fornire più dati, e nasceranno alcuni limiti e le difficoltà. Con gli ultimi due film – pur collocati con precisione – avremo invece una tendenza alla metafora. La fungibilità delle nostre sicurezze, la cui scomposizione era stata il tema dominante del Grido, si amplia qui in una osservazione che sembra ancora più “obiettiva”, perché i rifiuti di Antonioni (i contrasti, i nodi drammatici, le chiarificazioni) sono più evidenti. Stilisticamente, gli aspetti “non motivati” prendono maggiore risalto. Parallelamente, per i significati, la presenza del soggetto nel mondo diventa passività, un lasciarsi prendere dai fatti, un rinunciare a incidere. La coppia è, per il regista, votata a una autodistruzione che egli seziona fino al rischio del didascalismo, come in alcuni personaggi secondari, o nell’abituale contrappunto (la fatuità di Raimondo e Patrizia). La donna diventa personaggio più autonomo, positivo – si è detto giustamente – «nel senso che agisce su se stesso e sulle cose, e non è soltanto la proiezione delle illusioni e delle delusioni del maschio»; tenta di intendere meglio la crisi, intuisce che l’amore porta con sé il peso dell’offesa ad altri (qui è Anna; nel Grido era la presenza-simbolo della bambina), sente l’approdo alla pietà come soluzione del ritrovarsi compagni di fuga. Anna scompare, lasciando l’ombra della sua presenza: le caratteristiche di lei che abbiamo appreso sono l’instabilità, l’insicurezza (cerca di attrarre l’attenzione con il pretesto del pescecane), il bisogno di chiarezza, quale emerge dai dialoghi con Sandro, («Credo che dovremo parlare, o sei persuaso che neanche noi ci capiremo?»). Claudia è il perno del film. Chiusa ma disponibile (le scene di gioia istintiva nella pensione

del paese), ambiguamente tesa, avverte sotterraneamente l’instabilità: «Dio mio, è possibile che basti tanto poco a cambiare, a dimenticare? Pochi giorni fa, al pensiero che Anna fosse morta, mi sentivo morire anch’io. Adesso non piango neanche. Ho paura che sia viva. Tutto sta diventando maledettamente facile; persino privarsi di un dolore». Sia pure con qualche scorta didascalica, il personaggio si chiarisce. La sua è una presenza per alcuni aspetti passiva e pur sensibile, spettatrice e pur reattiva. Non è casuale che sia testimone delle scene che modulano il tema dell’erotismo: all’inizio, quando aspetta Anna; in treno, dinanzi al goffo approccio; con Giulia e il principino, nella casa siciliana; con Sandro e la prostituta, nel finale (fot. 61). Essa stessa è oggetto di tesa curiosità nella piazza del paese. Anche questi momenti scandiscono il suo lento processo di assuefazione. L’“integrazione” di Claudia è, allora, integrazione nella routine sentimentale, nel logoramento; lei che – come dice – ha avuto «un’infanzia giudiziosa… Vuol dire senza quattrini». Attraverso lei si avverte l’instabilità come situazione generale: anche gli strumenti vecchi non servono. Il suo gesto finale è la sanzione dell’ambiguità. «I personaggi – ha detto Antonioni – si salvano nella misura in cui tra loro può stabilirsi un legame fondato sulla pietà reciproca, la comprensione, una rassegnazione che non è debolezza ma la sola forza che permette loro di restare assieme, di essere legati alla vita, di opporsi alla catastrofe». Più che una risposta, sembra però un’interrogazione, nata dalla consapevolezza della provvisorietà, che è ineliminabile. Se una progressione c’è nel film, è in questa presa di coscienza ambigua. Alla fine, Claudia è Anna, con una consapevolezza in più.

FOT. 61

Il personaggio interferente è quello di Sandro, la mediocrità e l’integrazione. Come tutti i personaggi maschili, Antonioni lo sente meno, tanto è vero che indulge alle spiegazioni didascaliche, ravvisando la sua integrazione nella rinuncia all’aspetto “creativo” del lavoro (fa solo i calcoli per un altro architetto). L’insoddisfazione di Sandro rischia di restare in superficie, nel tutto chiaro: tale infatti sembra l’esito della sequenza in cui rovescia l’inchiostro sui disegni del giovane (fot. 62), di fronte alla chiesa. Ma bisogna anche considerare un altro aspetto: la sua professione è per il regista un pretesto, per servirsi dei fondali architettonici, dei movimenti che essi provocano come fatti espressivi del film.

FOT. 62

Di sfondo ai personaggi, come elemento costante, sta l’erotismo nelle sue sfaccettature: la gratuità (gli amici sullo yacht) che nasconde il vuoto, l’esibizione (la donna a Messina), la repressione, il tradimento. Spesso è, anzi, uno specchio deformante, verso il grottesco (l’approccio in treno), ma pur sempre uno specchio. Altre volte si mima, e non è un caso che questo atteggiamento venga ripreso come cifra generale (anche per l’erotismo, dunque, in Blow-up). La narrazione analizza ancora una volta il dopo di un fatto, che permette di osservare i rapporti in un ambiente isolato e “chiuso”, il loro disperdersi e riproporsi. Nella descrizione dilatata degli ambienti la macchina da presa sembra tallonare i personaggi, quasi a smascherarne l’ambivalenza. Le psicologie paiono più rarefatte, lasciando lo spazio agli eventi, alla scoperta delle cose, delle atmosfere, del paesaggio: la scansione della storia è data appunto anche dal mutare del paesaggio, dalla sua nudità o dalla sua tensione (la Sicilia), dalla chiusura spaziale o dalla sua apertura (fot. 63, fot. 64). Non banalmente, può tornare alla mente la lezione di Rossellini, la scoperta delle cose e della significatività dei luoghi d’azione. Certamente l’occhio rosselliniano ha influenzato tanto cinema contemporaneo, e per tale aspetto anche Antonioni. In lui, però, il dato oggettivo non è proiezione o diretta interferenza (quel tutt’uno che era il segreto di Viaggio in Italia), ma piuttosto una significatività mediata, filtrata attraverso influenze stilistiche complesse. Lo spazio in Antonioni diventa elemento di composizione, come più volte si è detto: «Penso – ha dichiarato – che anche questo sia un modo di fare del cinerna-verità. Attribuire a una persona la sua storia, cioè la storia che coincide con la sua apparenza, con la sua posizione, il suo peso, il suo volume in uno spazio». Il contrappunto delle assonanze e delle dissonanze si fa più sottile, lo spazio vi contribuisce.

FOT. 63

FOT. 64

Così come vi contribuisce la narrazione, la quale si diluisce a poco a poco, aprendo una ricerca che si svolgerà lungo tutta la cosiddetta trilogia. Quei brani di realtà sono legati da una sorta di causalità predisposta, che rappresenta una spinta (oscillante fin che si vuole) verso il distacco del segno dal senso, la perdita di una razionalità univoca. Per altro verso può essere la constatazione dell’appiattimento sotto il (e prima del) diverso, e di ciò Antonioni fornisce l’osservazione; come si può parlare allora di dannunzianesimo «svuotato di ogni sanguigno cipiglio»? (Trombadori). Contemporaneamente al dato obiettivo, compaiono i personaggi e la loro espressività. Antonioni usa parecchio i primi piani, e non era sua abitudine: è ancora quella dialettica di distacco e partecipazione che caratterizza sempre più le sue opere. Così è anche nei procedimenti di racconto. Osserviamo per esempio la connessione degli avvenimenti. Un giallo alla rovescia, si è detto, e qui il rovesciamento non è tanto nel fatto (la scomparsa di Anna è data subito e non spiegata), ma nei meccanismi narrativi. Non vi è infatti una sequenza di fatti messi insieme per accumulazione, cioè l’abituale processo di “caricamento” (ed eventuale chiarificazione); vi è piuttosto una distensione, una dilatazione che parte da una premessa volutamente vaga (un “mistero” tutto laico). Il film effettua perciò da un lato un lavoro di scarica (nel senso della “tensione” ecc.), dall’altro una sorta di “caricamento” significativo (i particolari, i segni, le cose ecc.). Vi contribuiscono anche gli elementi espressivi ritenuti marginali: la luce, la musica, i suoni, i rumori (e i silenzi). E più ancora la capacità di scoperta della macchina da presa: si pensi all’uso della panoramica, che indaga, indugia a scoprire l’isola (le cose come l’uomo ecc.), o quel paesaggio del vuoto che è come una cappa che avvolge ed estrania (si ricordi il “nuovo” del villaggio abbandonato, fot. 65); e poi Noto (fot. 66), la rivelazione del barocco, del senso di tensione che è nelle cose, che rende ancor più drammatica la staticità dei personaggi. E il finale (fot. 67, fot. 68, fot. 69), dove si può cogliere la specificità del linguaggio di Antonioni: una situazione che altrimenti risulterebbe banale, o che almeno rischierebbe di scivolare a ogni momento nel patetico, diventa, grazie alle soluzioni figurative, una delle pagine più significative del suo cinema. Si può inoltre notare come, nell’equilibrio dei blocchi, questa sequenza giunge “chiarificatrice” dopo la festa all’albergo (l’apparenza, il rito ecc.). Come costruzione può essere un anticipo della Notte.

FOT. 65

FOT. 66

FOT. 67

FOT. 68

FOT. 69

«Non so se sarà il mio film più bello, so che sarà il più caldo», dichiarò Antonioni mentre girava L’avventura. La notte doveva essere il momento della decantazione dei temi e della forma; non solo un discorso attraverso la forma ma anche sulla forma. Diventa più evidente anche il riferimento alla storia, si precisa il momento analitico, rivolto verso il mondo dell’alta borghesia milanese. Quanto più l’autore si addentra con i film in quel mondo, tanto più cresce la freddezza. Le implicazioni personali sono mediate da una lucida coscienza del mondo (e di sé, si direbbe), in un accentuato disincanto: l’integrazione è un dato esistenziale, ma prima una situazione storica, ambigua perché non cerca riscatti ma alibi (il protagonista non “esce” perché non vuole uscire). Non è un caso che Giovanni Pontano, il personaggio principale, sia uno scrittore in crisi, spento e integrato (come il Sandro dell’Avventura): non tanto forse perché – come dichiarò lo stesso regista con un residuo di intellettualismo – sia più capace di avvertire i momenti di crisi, quanto perché l’assorbimento neocapitalistico toccava – ma al solito senza immagini speculari o, peggio, confessioni – l’autore proprio come intellettuale, come uomo di cinema che agisce in un certo modo, e gli riproponeva in nuova chiave il vecchio rapporto arte-realtà. Poteva essere il modo di chiedersi la funzione dell’arte, ed è quello che salta fuori – con un eccesso di chiarezza – da alcune parole di Pontano: a un certo momento non conta cosa scrivere, ma come scrivere. I vari piani comunque si sovrappongono, e i problemi “strutturali” (intellettuale e società) si uniscono a quelli indiretti (il problema della forma), alle preoccupazioni esistenziali (la fragilità dei rapporti), e ai residui dello psicologismo. Il primo sembra l’aspetto che più impegna Antonioni, e anche che meno soddisfa: penso al didascalismo di alcune sequenze (qui più che nell’Avventura), al discorso sull’integrazione fatto alla festa dell’industriale. Non è solo una debolezza del dialogo – motivo ricorrente – quanto piuttosto una forzatura di fondo che troverà il suo punto di maggiore frizione in Deserto rosso. Sono le secche nelle quali il regista incorre quando accumula i dati “sociologici” di presentazione dei personaggi. La trama dei temi tradizionali sembra allentarsi, ma i temi restano, magari portati alla ribalta con una forzatura (la lettera finale): Antonioni vi è attaccato. Ritorna a questo proposito la domanda: Antonioni si ripete? Con le varianti: scarsità di ispirazione, di invenzione, monotonia? Oppure è piuttosto il suo un lavoro di scavo attorno a certi temi costanti per tradurli in espressione? Com’è naturale, la questione va allora riportata allo stile. Ma accenniamo prima ai temi. Il sesso e l’erotismo sono una indicazione raramente esplicita ma sempre presente, nelle sue sfaccettature: lo spogliarello, l’offerta della ruffiana a Lidia, l’indifferenza del marito, il prologo, dove questa cifra (data dalla ninfomane) fa tutt’uno con

quella data dalla morte annunciata di Tommaso. La coppia si frange nell’indifferenza, e la donna (Lidia) sembra più disponibile, più aperta al recupero; secondo Ferrero, è «uno dei personaggi più esemplarmente autobiografici di Antonioni», e si sa come per il regista vada intesa l’autobiografia. Il parallelo-contrappunto è dato da Valentina (fot. 70, l’incontro tra le due, il loro “gioco” nell’asciugarsi i capelli testimoniano della non refrattarietà della ragazza) ma il personaggio risulta sfocato, frutto probabilmente di una predisposizione, quasi fosse il tassello di un quadro che si voleva completo nelle sue componenti.

FOT. 70

Il finale è la sottolineatura della stasi, l’“ironia del compromesso”. Lo si può forse considerare più arretrato rispetto alla parziale presa di coscienza dell’Avventura. Come spesso avviene in Antonioni, la chiusura che ratifica la soluzione raggiunta s’impernia sull’uso del totale (fot. 71), che immerge le figure in un ambiente significante (le luci incerte del paesaggio).

FOT. 71

Il momento del giudizio rimane e se ne sente talora l’impaccio, anche per lo schematismo di alcune sequenze. Il protagonista è un intellettuale, portato come tale a chiarire situazioni, anche a se stesso, parlando; ed è un modo strano di dare oggettiva consistenza ai personaggi (resi autonomi rispetto all’opera) e di riversare su di loro le propensioni o gli errori stilistici dell’autore. Tanto più che in Giovanni si avverte l’intrecciarsi e il sovraccaricarsi dei vari piani di significato, le loro allusioni “sociologiche” (intellettuale e società, l’aridità “creativa” specchio di quella “esistenziale” ecc.). È una tendenza che troveremo ancora in Antonioni: investire le cose e i fatti di significati più ampi, perdendo in qualche caso la forza di incisione. Altre volte il regista cerca di introdurre il momento del giudizio nello stile, come durante la festa in casa dell’industriale (fot. 72). Si parlò molto, all’uscita del film, di una sorta di

parallellismo con la festa della felliniana Dolce vita. Furono paragoni dettati più che altro da coincidenze esterne e oggi pare che il raffronto giovi poco alla comprensione dell’opera. Ma, nonostante l’improduttività, possono servire a sottolineare la diversa intenzionalità stilistica dei due autori. In Fellini troviamo il rovesciamento e l’ampliamento barocchi, il movimento, delle superfici, il senso cattolico della “difformità”; in Antonioni un tentativo di obiettivare, di ridurre, di porre nel distacco la dialettica. Pensiamo a Steiner e a Pontano, i due intellettuali dei film citati: dovremmo trarre la conclusione che la “crisi dell’intellettuale” era, negli anni Sessanta, osservata con particolare attenzione dal cinema italiano? 0 non piuttosto che, in fondo, attraverso questi personaggi “sintomatici” i nostri registi continuavano a parlare, in vario modo, di se stessi? E ciò a parte la diversa connotazione che assumono: in Steiner prevalgono il dato umorale, l’immedesimazione vitale o la sua sublimazione; per Pontano contano i problemi di un’analisi più descrittiva, pur se piena di venature soggettive.

FOT. 72

Anche stilisticamente si avverte che La notte è un film diverso. Il tessuto connettivo si allenta e si dilata, i contrappunti si diradano, i monologhi figurativi effettuano una “spoliazione” dei personaggi, attraverso ritorni, indugi, ritmi interni. Un tentativo di dar senso alla “fattualità” del film. Come all’inizio, con la macchina da presa più sulle cose che sui personaggi: è il modo di avvertire le dissonanze che costituisce la forza di Antonioni; ha ragione Chiaretti, le uniche sicurezze che ha sono quelle formali, stilistiche. Osserviamo ora la struttura del film. Si possono individuare questi gruppi di sequenze: a) il “prologo”. Serve a fissare le caratteristiche dell’ambiente e gli elementi di rilievo. Per un verso Antonioni ritorna, dopo Cronaca di un amore, a Milano. La città dà il senso di una razionalità diventata fredda astrazione, come la clinica “asettica”. Poi la visita a Tommaso malato (fot. 73), l’ombra della morte (di cui Lidia avrà notizia durante la festa), e l’altro polo dell’erotismo (la ninfomane).

FOT. 73

b) lo sviluppo. Fatti e relazioni. I rapporti di Lidia col marito, il racconto in macchina dell’episodio avvenuto in clinica con la ninfomane, il giudizio di lei: «Un’esperienza così… puoi farci un bel racconto, intitolato I vivi e i morti». Poi il “luogo della messa in situazione dei personaggi”, la presentazione del romanzo di Giovanni. L’insoddisfazione di Lidia, il suo vagabondaggio (fot. 74, fot. 75, fot. 76, fot. 77), gli incontri: le cose, le persone, i suoni, il significato dell’insignificante (il “movimento”, i razzi, le botte tra i giovani). Lidia scopre una dimensione reale e astratta, vera e assurda, consonante e stridente; stilisticamente, è lo sviluppo del contrappunto, il “vecchio” e il “nuovo” delle cose. Quindi, la ripresa dei rapporti tra Lidia e Giovanni, l’indifferenza mascherata.

FOT. 74

FOT. 75

FOT. 76

FOT. 77

c) il night: il “luogo del rituale” (fot. 78).

FOT. 78

d) la serata: il “luogo” delle azioni e dei rapporti, il loro dipanarsi ed essere analizzati, i flash significativi e accennati (i brani di dialoghi, come in altri film); gli incontri (Valentina, Roberto: le “occasioni”). e) il finale. L’ambiguità come punto di arrivo, il falso recupero. Questa stessa articolazione, e più ancora le interne alternanze stilistiche, hanno il duplice significato del distacco e della presenza. Nella seconda parte, per esempio, Antonioni sembra voler creare una specie di dimensione “cronachistica”, ma contemporaneamente si avverte la costruzione, la necessità di riferimenti, di dialoghi chiarificatori (prima con Ghilardini, poi con Valentina), oppure anche di artifici narrativi, per definire o qualificare i rapporti (il magnetofono di Valentina), o per proporre un raffronto (la lettera finale). Torna, quasi un’eco, il tema del tempo, come occasione perduta (Tommaso), come logorio, il compromesso finale. L’ambivalenza dell’atteggiamento dell’autore si può scorgere anche nel suo modo di vedere le cose. Osserviamo proprio la passeggiata di Lidia, il lungo monologo figurativo: da un lato vi è ancora la spinta che viene dal personaggio, le cose e i fatti in funzione di una proiezione psicologica (il suo bisogno di sensazioni, di violenza, il grumo passato-presente); dall’altro essi vanno perdendo questa sorta di dipendenza narrativa per acquistare un loro autonomo essere presenti: la realtà, perduto il rapporto soggetto-oggetto, si va costituendo in significazione (o non significazione). Così, restituendo alle cose la loro “verginità” e la loro ambivalenza, Antonioni rivela il loro universo estraniato: il rapporto personaggio-ambiente diventa dissonante. Siamo all’Eclisse. Obiettivo dell’analisi diviene, perciò, il nostro ambiguo rapporto con la realtà delle cose. L’aggancio, che potremmo definire di carattere storico-sociologico, non vuole essere generico.

Il mondo borghese dunque, che nell’Avventura era stato isolato e quasi sezionato, e nella Notte posto più chiaramente in situazione, nell’Eclisse viene messo a fuoco. Sono due direzioni di ricerca che giustificano, nel film, l’alternanza degli aspetti stilistici, da un lato il pieno dei fatti (la forza ecc.), dall’altro il vuoto degli eventi (i gesti, i silenzi, i tempi morti), il quale comporta – come vedremo – il pericolo della rarefazione. La desacralizzazione di un mondo che sembra tuttora ancorato ai valori, la schematizzazione e la prevedibilità dei sentimenti e la loro fragilità, vengono legati a un contesto per il quale si cerca una definizione: la mercificazione, la realtà produttiva, i meccanismi di accumulazione. In questo senso prende rilievo la lunga sequenza della Borsa (fot. 79, fot. 80): quel mondo non è più solo luogo di azione, sfondo di una storia, ma una realtà che preme o che sovrasta. D’altronde, anche il tono stilistico si stacca dal resto del film, come un aspetto che a tutta prima si può definire documentaristico; ma non lasciamoci trarre in inganno, quella realtà appare decifrabile, si direbbe chiara nei suoi aspetti di esasperazione, solo perché quelli – e Antonioni lo sa – sono gli aspetti macroscopici. Non è insomma una riduzione semplicistica, quanto il frutto d’una capacità di cogliere gli aspetti salienti, di ridurli a stile. Non solo, ma questa deformazione palese rimanda alla non evidenza delle modificazioni nel tessuto interno (psicologico?) dei personaggi.

FOT. 79

FOT. 80

Qui sembrano necessarie due specificazioni. La prima riprende una osservazione generale su Anto -nioni: non chiediamogli, impropriamente, definizioni sociologiche, analisi dettagliate; teniamo conto dei suoi preminenti interessi, pur non mettendo da parte il costante tentativo di agganciare la sua analisi individuale a un contesto che progressivamente si va precisando. La seconda riguarda proprio L’eclisse e questa precisazione. Non sembra che il rapporto ambienteindividuo, e quindi mercificazione-sentimenti, sia posto dal regista in modo grezzo, cioè di causa ed effetto: quel mondo ha perso la misura, per cui i sentimenti si sono sfaldati.

L’intuizione di Antonioni è più sottile, più mediata. La saldatura dei due momenti, quello sociale e quello individuale, va cercata – mi pare si sia notato – nell’astrazione. La mercificazione è riduzione dell’uomo a elemento di scambio, a schema (i numeri della Borsa): è un processo che si dilata, che ci coinvolge, diventa nostra astrazione (perdita di valore) delle cose e dei sentimenti. Certo, adesso si possono sollevare obiezioni, proprio sotto quell’angolatura “storicistica” che difetta al regista, ma solo dopo che si sia individuato questo luogo di intersezione che gli preme far notare. Anche perché, alla fine, e proprio per essere coerente con una sua ricerca interna, Antonioni rivela il pericolo: il tentativo di portare all’estremo la laicizzazione dell’analisi individuale, e lo sforzo di cercare un equivalente stilistico rigoroso, possono far smarrire la “coscienza dei fatti”, fino al limite dell’inespressione. I personaggi rischiano di muoversi in una realtà spettrale che viene osservata e decifrata ma che sta perdendo le sue connotazioni “storiche”. Anche per questa via si avverte la duplice spinta che agisce in Antonioni: l’essere osservatore, fenomenologo, e analista. E la possibile frizione dei due piani può chiarire un limite dell’autore, ma sottolinea anche, direttamente o indirettamente, la sua novità (e anche la sua contemporaneità). La quale sta pure (occorre ripeterlo?) nella constatazione di alcune perdite e nel saperle tradurre in stile. Ecco, allora, che cadono sin dall’inizio le obiezioni di chi cerca nei personaggi (che si vogliono ancora descritti in un modo preciso), determinate caratteristiche, e se queste mancano ci si trova a disagio, non si hanno, più le note chiavi di interpretazione. Come disse Carrocci in un dibattito apparso sul «Contemporaneo» (giugno 1962), assumendo un atteggiamento che, con scoperta polemica, potremmo definire nostalgico: «Secondo me il difetto artistico del film risiede soprattutto in questo: che da parte dei personaggi non c’è una posizione antagonistica rispetto alla società. C’è, da parte del personaggio uomo, la identificazione completa, integrale, col carattere di questa società; e da parte del personaggio donna c’è, non dirò la identificazione, ma un assoggettamento completo e integrale». Questa realtà come sospesa tra un prima e un dopo viene innanzitutto “avvertita” e poi analizzata. Antonioni si muove, proprio per le sue incertezze, in tale situazione di disagio, che si porta addosso le scorie del passato ed è problematicamente tesa verso il futuro, senza chiavi risolutive e senza la lucidità dello storico. Vediamo adesso come la situazione si traduca nella costruzione del film. Si ha quasi l’impressione che esso sia nato da un nucleo centrale (la Borsa) e da un’intuizione-immagine (l’eclisse), che si sono via via allargati, alla ricerca dapprima di nessi e diramazioni, e poi di un collegamento. In quest’opera di ampliamento e decantazione sta la forza dell’opera, e anche il suo rischio di rarefazione. Alla fine, risultano quattro i punti focali del film, centrati attorno a: il prologo, la Borsa, il rapporto Piero-Vittoria come asse centrale (ripresa e proiezione di temi), e l’epilogo. Analizziamoli partitamente. Il prologo. La lunga sequenza dell’abbandono di Riccardo getta l’ombra della privazione, dello scacco, del recupero impossibile (sullo sfondo di un’alba romana, fot. 81, che ricorda forse La notte). Stilisticamente ci sono già le note dominanti che solo la sequenza della Borsa interromperà bruscamente: l’insistenza sui gesti, spesso “inutili”, o sulle cose, i personaggi immersi nelle cose e ancora significanti (l’utilizzazione della profondità di campo oppure dei primi piani), il ritorno a figure sintattiche tradizionali (il campo e il controcampo) accompagnate dalla quasi scomparsa del dialogo (la crisi della parola, per la quale il film vuole essere sintomatico), i lunghi silenzi. L’ambiente assume un rilievo particolare, per i vuoti e i pieni che si corrispondono, per il suo rapporto con i personaggi. Ci sono anche certi annunci figurativi, una sorta di monito dell’astrazione o dell’incubo (il “fungo” della torre dell’acquedotto). Da questo prologo si dipartono i movimenti di Vittoria e i suoi rapporti.

FOT. 81

La Borsa. È introdotta per stacco, ad acuire il contrasto: dopo la casa di lei, dopo l’aeroporto («Si sta bene qui», è l’ultima battuta che precede lo stacco). È l’ambiente che fornisce la nota di fondo, i gesti, l’esasperazione, la dismisura, il tutto “buttato fuori”; e si avverte anche la nota stridente, l’incrinatura dell’annuncio della morte dell’agente di Borsa, ridotto a silenzi e suoni assurdi. Fornisce inoltre il riferimento storico puntuale: l’Italia del “boom” degli anni Sessanta, la sua precarietà, l’integrazione della piccola borghesia (i piccoli risparmiatori) nel meccanismo economico; la diversità di classe è un momento che – come si è visto – Antonioni predilige, e qui è sottolineato dal personaggio della madre di Vittoria (il passato, le foto di famiglia, l’ambiente, la casa). La lunga sequenza della Borsa è ripresa più volte, e intervallata da momenti che permettono ad Antonioni di far depositare alcune situazioni. Dapprima è Vittoria, in casa sua: il suo isolamento, i gesti, i particolari (l’affiche sullo sfondo, la pietra fossile). Poi l’incontro con le amiche, la situazione “tra donne sole”. Antonioni la sente in modo particolare, tanto da immettervi con forza le sue “istanze” (la danza, l’evasione e il razzismo) o la rivelazione della psicologia dei personaggi; non rinuncia, anzi, agli intenti didascalici nella scena citata o nel dialogo: «Sono stanca, avvilita, disgustata e sfasata…», «Ci sono giorni in cui avere in mano una stoffa, un ago, un libro, un uomo, è la stessa cosa» (Vittoria). La Borsa serve anche, chiaramente, da contrappunto: dopo la gita in aereo (fot. 82, qui la dimensione recuperata, lì la dismisura), oppure prima della visita di Vittoria e di Piero alla casa di lei: il vecchio, il peso di ciò che non serve più, ma anche il peso di una situazione economica cui si deve rinunciare («Ecco quello che mia madre teme di più, la miseria», dice Vittoria guardando una vecchia fotografia della famiglia materna).

FOT. 82

Il rapporto Piero-Vittoria. Chiarisce l’ambiguità di Vittoria, la sua disponibilità ma anche il dubbio, il retaggio di una perdita (l’inizio) che si porta addosso. L’unidimensionalità di Piero

(l’integrazione; a suo modo egli non sente il disagio) la rende per un verso sicura – egli è chiaro, tutto in superficie, decifrabile – ma anche la irrigidisce. Stilisticamente, due sono le note dominanti: il contatto con i fatti, la Borsa, Piero nel suo studio, il dopo dei fatti (il crollo in Borsa), il malessere di una integrazione affrettata e caotica: quel crollo colpisce soprattutto i piccoli risparmiatori, chi ha voluto lasciare una vita economicamente marginale. A contrasto c’è, poi, l’esasperato allentamento dei momenti individuali: i comportamenti, la narrazione che si sfalda, le cose – anzi, gli spicchi di cose – i momenti morti. È il riflesso dell’ambiente che ad Antonioni interessa di più, è l’aspetto individuale sul quale lavora per dissezione. L’epilogo. Il dubbio, l’incontro possibile di Piero e Vittoria si offusca, lo stile si rarefà, scompaiono anche i gesti, restano le cose “sconnesse” cioè prive di una connessione significante. La città diventa il luogo dell’estraneità, del frammentarsi dello spazio e perciò del tempo, con un intreccio – qui e altrove naturalmente – che è davvero una delle cifre salienti della “modernità” di Antonioni. Le cose non sono ricordi ma resti di cose, hanno perduto qualsiasi riferimento al soggetto. Ecco, allora, le stesse cose riviste, qualche personaggio (la bambinaia, il fantino col cavallo), i visi astratti, persone che attendono, lo steccato sbrecciato, brandelli che si compongono in elementi informali, la crosta degli alberi alternata alle panoramiche sui luoghi inerti, una notizia sul giornale, bambini che giocano intorno a un annaffiatoio, un aereo che passa, ancora spicchi di cose, poche note musicali, un lampione che si accende (fot. 83, fot. 84, fot. 85, fot. 86, fot. 87, fot. 88). E i rumori finali che irrompono: la realtà tra astrazione e aggressione. L’aridità di cui tanto si è parlato a proposito di questo finale non è una connotazione psicologistica, è la perdita del segno, la sua crisi come riferibilità a qualcosa d’altro. Per questo starei molto attento ad attribuire significati simbolici – che potrebbero essere ovvi – a tali frammenti percettivi.

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Lungo l’asse di questi elementi si vanno chiarendo i personaggi. A cominciare da Vittoria, con la sua radicata ambivalenza. Ancora la donna che sente la dissonanza, lo sfasamento, il disadattamento. Dietro di lei la madre che non capisce, indifferente (Vittoria tenta di parlarle), un passato che opprime, che sa di muffa (fot. 89, la casa). Socialmente, lei tenta di “trovare un posto”, subendo però lo squilibrio di questo processo a tappe brevi. Davanti a lei ci sono Riccardo, l’intellettuale che “si copre” (personaggio, al solito, sfasato pur nelle sue poche caratteristiche), e Piero, l’integrazione, la facilità e il cinismo. La disponibilità di Vittoria si denota nel “gioco” (i cani, e poi il fischio dopo la corsa con Piero, il palloncino lasciato andare), nel tentativo di “recuperare” (l’ingenuità della danza), nella capacità di aprirsi sul mondo (la fisicità delle cose e degli incontri del viaggio in aereo), e più ancora nella possibilità di apertura al rapporto (Piero); ma la sua è una disponibilità problematica, carica di un’ombra che oscura alla fine le cose.

FOT. 89

Anche i temi antonioniani hanno modo di chiarirsi. La brusca irruzione della morte nel meccanismo della Borsa non è pretestuosa, è vista come un fatto. Non a caso il minuto di silenzio («Qui un minuto costa miliardi», dice Piero a Vittoria) è fatto durare proprio un minuto: da un lato perché questo tempo “reale” dà all’avvenimento una sorta di dimensione cronachistica, o – meglio – fattuale (c’è solo il trascorrere del tempo in quel silenzio fittizio); dall’altro, però, questo tempo reale inserito nel tempo convenzionale del racconto provoca una dilatazione che esaspera il fatto stesso, lo fa diventare dissonante. Più avanti, la freddezza della sequenza del ripescamento dell’automobile col morto dal laghetto dell’Eur riprende la stessa nota con lo stesso stile. Ricompare, insieme, la suggestione dell’“evasione”. Sia sotto l’angolatura dell’esotico, il Kenia, l’insistenza sulle fotografie, la sequenza banale della danza (che vuol dare anche, superficialmente, un tocco d’ambiente, con le osservazioni razziste: «E meno male che i negri sono ancora sugli alberi, hanno appena perso la coda, se no ci avrebbero già cacciati via»), sia sotto l’angolatura del diverso spaziale: la bella sequenza del viaggio in aereo, con quella città vista dall’alto, come “in dimensione”. Stilisticamente, si diceva, sono assai palesi le alternanze, i ricercati contrasti. In generale direi che il film si svolge ora in soggettiva, secondo l’ottica dei personaggi e le sue deformazioni, ora in oggettiva, con il personaggio che si perde nelle cose, tra gli ambienti. Analogamente, sembra ora concentrarsi attorno ai fatti, ora invece scandire i vuoti, i silenzi, i brandelli di realtà. Il tempo, allora, si restringe o si allenta smagliando la narrazione, facendo sparire i nessi causali. Di questa disarticolazione narrativa esiste il correlato interno; dice Aristarco: «Antonioni, nel cinema, e con i mezzi specifici ad esso, sembra quasi abbia voluto sperimentare non tanto la realtà da rappresentare, quanto le possibilità insite nell’antifilm di far coincidere la struttura della sua ultima opera con la struttura dell’anima nel suo reificarsi, quale egli la intende, la osserva e la descrive».

Le digressioni diventano pertinenti. Si pensi all’uomo che ha perso in Borsa. Vittoria lo segue, ne spia i gesti, guarda il disegno del fiore che ha tracciato su un foglio. Il comportamento sembra esaurire tutto. Il cordone tra gesti e psicologia si è rotto, essi valgono come tali, come modo di apparire. I gesti lenti dell’amore, il guardarsi le mani, il quasi impercettibile commento musicale esauriscono una sequenza. Spesso il gioco si converte in mimica. Le attese sono scandite dal di fuori. Si ricordi la telefonata prima dell’incontro di Piero e Vittoria: segue un lungo primo piano di lei, poi uno stacco su dei mattoni (fot. 90), lei che compare dietro, è accompagnata nella passeggiata, la macchina da presa scopre oggetti, qualche persona (la bambinaia, il fantino che rivedremo nel finale), lo sfondo delle case in costruzione.

FOT. 90

L’ambiente acquista un rilievo fondamentale. Sin dalla prima sequenza ci si accorge di un particolare stilistico: i personaggi compaiono nel quadro dopo che la macchina da presa si è già soffermata sullo sfondo, oppure vi rimane dopo la loro uscita. D’altronde, tutti gli interni sono descritti nei particolari, e diventano significanti: la casa della madre, quella di Riccardo o di Piero, quella stessa di Vittoria. Talvolta la cura del particolare mira alla composizione astratta, all’informale, col rischio di una ricerca preziosa, come avviene in certe inquadrature “inutili”, una sorta di natura morta: il primo piano di un vaso di fiori con la Vitti di spalle; oppure l’affiche nella casa di lei su cui si insiste prima dell’ingresso del personaggio, che non “muove” quell’ambiente. Anche nei particolari si coglie quel vecchio e quel nuovo dello stile, oppure certe tendenze del regista. L’uso del contrappunto, per esempio: la coppia di sfondo (Anita e il marito), o – stilisticamente – alcuni contrasti per stacco (Piero e Vittoria escono dalla Borsa / stacco / le foto della casa della madre). Il montaggio, dunque, assume notevole rilievo (come, per fare un esempio, in molte parti della sequenza della Borsa). Si è già notato come Antonioni proponga

non infrequentemente (e sin dal principio, sottolineando una battuta) l’uso del campo e controcampo che altri film precedenti sembravano aver abbandonato. È un bisogno di rinforzare la frase che rimane, accanto alle nuove soluzioni, le quali invece provocano una sensazione di aperta insignificanza. I personaggi – Vittoria in particolare – acquistano una loro lucidità. Con ciò Antonioni non sostituisce «alla disperazione di L’avventura e di La notte una fredda calma», perché i toni alti sono sempre stati abbastanza estranei al regista, ma cerca, anche correndo dei pericoli nelle insistenze, l’equivalente stilistico che consenta di trattare questa lucidità. La quale si impone ad esempio nel finale, in quel «pazzo incontro di rette incrociate» dove le cose paiono aver perso il rapporto di significato con il soggetto. Questa messa in crisi del rapporto soggetto-oggetto trova un analogo strutturale nella crisi del personaggio, non più visto come centro della narrazione. Nel finale di L’eclisse sembra culminare una tendenza di tutto il film: il tessuto dell’esperienza ha smarrito il punto di riferimento, e – in parallelo – la narrazione si slabbra, si sottrae ai nessi e ai rapporti, si “sospende”. I personaggi sono ridotti al limite della consistenza. Il loro tempo è come risolto nella stasi spaziale, non v’è più alcuna consonanza con l’ambiente. Nel percepire la generale situazione di disagio, Antonioni opera sui due piani emblematici di un suo dissidio: da un lato utilizza il riferimento storico, dall’altro la riflessione stilistica, che mette in crisi i sistemi di comunicazione. Due sono, allora, le tendenze, a proposito della situazione di crisi individuale: quella, dominante, che deriva dalla tradizione psicologistica (consentendo all’autore di avvertire la crisi e inducendolo a cercare il correlato linguistico); e quella, che potremmo dire di stampo storicistico, che tende ad analizzare le cause, o comunque a “mettere in situazione”. Forse, questa duplice spinta può spiegare la frizione esistente anche in L’eclisse tra i due livelli che per comodo si potrebbero definire della “visione” (come sempre preminente) e della “ideologia”. Livelli che trovano un corrispondente narrativo nella tendenza a “costruire” il racconto (e magari a caricare simbolicamente le situazioni), e nell’astrazione che lo spoglia, lo scarnifica, che porta al silenzio. Due forze del film che sono anche, in generale, le due forze di Antonioni. In questa zona difficile sta la vitalità e la modernità del suo cinema. Questo duplice piano compare in Deserto rosso (1964), che, da tale punto di vista, è la svolta cruciale di Antonioni. Qui sembra prevalere il tentativo di prendere di petto la realtà nelle sue modificazioni strutturali, e il discorso svolgersi nel senso di una maggiore storicizzazione. La “malattia dei sentimenti” appare più direttamente come una conseguenza del sistema, di un certo sistema, anzi, che tende a perdere i caratteri della definizione parziale per riguardare più generalmente (o più genericamente) i fattori che condizionano alcune deformazioni strutturali dell’esistenza. Ma nell’elaborare un simile tipo di analisi Antonioni rivela alcune sue propensioni che possono limitare la precisione del film. Di fatto, analizzando il difficile punto di contatto tra ambiente (storia) e personaggio (biografia), oscilla tra le radicali suggestioni individualistiche e la tendenza verso l’osservazione dell’ambiente nelle sue componenti storico-sociologiche. Il regista – gli si è rimproverato – sembra richiamarsi ancora a un umanesimo di tipo romantico. La proposta che avanza, di fronte al deserto delle cose estraniate, allo sfasamento tra l’uomo e il suo ambiente, è quella del ritorno a una “semplicità” prestrutturale; come dire che elude la questione, perché il concetto stesso di natura oggi è modificato, e non è più questione di regredire verso quel tipo di natura. L’operatività di un discorso attuale, la possibilità insomma di influire sul mondo, non può prescindere da un concetto di individuo (e di realtà-ambiente) che è mutato. La critica che ha invece tentato una specie di recupero della parabola favolistica del film (non è che un episodio, si dice, e comunque è il segno di una mediocrità sostanziale che l’autore ha voluto attribuire alla

protagonista) ha finito col dare risalto alla finale accettazione della realtà operata da Giuliana («io devo pensare che tutto quello che mi capita è la mia vita»). Il rimprovero rivolto ad Antonioni è alquanto discutibile. Certamente esiste questo richiamo al mondo naturale che viene reso esplicito ad un certo momento, ma non darei troppa importanza ad un punto della costruzione dell’opera. Inoltre non metterei da parte l’aspetto stilistico nel quale trovare eventuale conferma dei limiti. Le difficoltà stanno piuttosto nel tentativo di uscire da una prospettiva soggettiva per ampliarne le risonanze, nel momento in cui l’ambiente sembra assumere un peso oggettivo e storicamente determinante (la differenza tra questo film e i precedenti – ha detto il regista – è che qui non si parla di sentimenti). Antonioni insomma sembra incerto – e questa incertezza confessa e ne paga lo scotto coerentemente – tra quelle suggestioni individualistiche alla cui decantazione si è dedicato fino ad ora, e il loro collegamento a un ambiente sociologicamente caratterizzato, del quale scorge i connotati più secondo inclinazione di moralista che di analista. Sintomatico di ciò mi pare il fatto che lo sfondo (la fabbrica e chi la subisce) rimane ai margini, quasi per una sorta di pudore. È un film, si direbbe, girato prevalentemente in soggettiva. I moduli stilistici risentono di alcuni difetti già visti, e qui resi probabilmente più chiari dall’attrito con l’altra componente, sempre stilistica, e cioè l’ambiente. Vediamo per cenni i temi e il risultato. Il personaggio-cardine è Giuliana. Sfasata rispetto al contesto, in dissidio con i fatti che accadono intorno a lei cade vittima di una nevrosi che è perdita di misura, quasi in simmetria con l’ambiente che le sta dietro (una Ravenna in cui il nuovo – la raffineria – è tutto visto, mentre il vecchio è dato per scorci o in modo implicito). Già la sequenza iniziale precisa la estraneità di Giuliana: le lingue di fuoco aggressive, poi lo sciopero (i fatti che non la toccano), la sua regressione sintomatica (chiede il panino per mangiare, fot. 91), la mancanza di contatti, la realtà che si consuma e di cui rimangono i resti (le scorie che osserva). È instabile, ha bisogno di ancorarsi a qualcosa («Quando parto – dice – mi porterei via tutto»). La parabola del film conduce Giuliana all’accettazione finale della sua vita e del mondo. In questo ripiego mi sembra piuttosto lontana la lucidità che si era veduta nei personaggi di L’eclisse. La precisazione dell’ambiente dovrebbe provocare il passaggio dalla dimensione esistenziale a quella reale, ma è pur sempre la prima che interessa, nel fondo, ad Antonioni.

FOT. 91

I personaggi maschili non rappresentano alternative. Alla funzionale integrazione del marito di Giuliana fa da contrappeso il disadattamento, almeno apparente, di Corrado (quasi un personaggio romantico). La sua è una delle articolazioni antonioniane del tema ricorrente della fuga, dell’evasione. Ma non è che un alibi, un diverso tipo di adattamento; per questo non sarà di aiuto a Giuliana. L’altra faccia dell’evasione è quella costretta, gli operai e la Patagonia (fot. 92). Non è più il ricordo “fantastico” del proprietario della draga in Il grido, è la difficoltà

imposta dal rapporto con la produzione. Infine, anche Giuliana vorrebbe “evadere”, ma il suo dialogo col marinaio turco non può avere esito: è il punto di didascalismo più gratuito nel film.

FOT. 92

La “malattia” sembra, però, estendersi. Non tanto l’operaio di Medicina (è stato anche lui in clinica), quanto il bambino di Giuliana è rappresentativo; il suo apparente adattamento (i giocattoli, il robot) nasconde l’insicurezza. Così simula la malattia, per attirare l’attenzione (un’eco della simulazione di Anna in L’avventura?). Su questa trama di rapporti si inseriscono alcuni tipici “richiami” antonioniani, che talora risultano estranei, perché il loro collegamento alla vicenda, tramite le psicologie o i fatti rivelatori, può apparire piuttosto pretestuoso; c’è insomma qualcosa di costruito. Il film si chiude su se stesso, l’ambiente schiaccia il personaggio, non consente né una maggiore conoscenza, né la costruzione di un nuovo individuo, di un suo modo di agire sulla realtà. Antonioni vuol fornire ancora la testimonianza di un rapporto tra un passato che tramonta e un presente che impaurisce. Corre il rischio però, più indiretto che diretto, che con questa rinuncia (l’abdicazione di Giuliana) si torni ad attribuire alla macchina, alla tecnica, ai fenomeni storici insomma, un valore a sé su cui non si agisce. In questo dissidio sta, forse, la “crisi” di Antonioni, anche se poi l’abdicazione finale non è che la conseguenza logica di una visione che corre lungo tutto l’arco del film. Il problema parrebbe quello di un adattamento da trovare, di un’“assenza di futuro” da colmare: si tratta di conciliare il dissidio tra lo sgretolamento dei valori tradizionali, l’insufficienza dei sentimenti e il dominio della tecnica (il futuro programmato) con uno sforzo di accettazione che lascia, più che un vuoto angosciato o un nuovo interrogativo, quasi una sorta di riappacificazione. Anche Giuliana appartiene ai vinti, ma la sua sconfitta ha un altro significato. Il film è questa storia di adattamento, del tentativo di superare la nevrosi. Ma a guardar bene la soluzione può anche apparire propensa all’estetismo. Potrebbe, cioè, essere tradotta nei termini stessi in cui è posto il disadattamento (perdita dei colori, cioè della “forma” naturale). Sarebbe una specie di recupero, ma in termini astorici, di quel mondo disumanizzato: «È troppo semplicistico dire – ha dichiarato Antonioni nell’intervista a Godard – che io accuso questo mondo industrializzato, inumano, dove l’individuo è schiacciato e condotto alla nevrosi. La mia intenzione invece (anche se si sa molto bene da dove si parte, ma mai dove si finirà) era di tradurre la beltà di quel mondo, dove anche le fabbriche possono essere molto belle…». Il rapporto uomo-ambiente si risolve per via di sensazioni. Non si pretendono, è chiaro, “soluzioni” o risposte dal regista. Si tratta, piuttosto, di vedere come in Deserto rosso le disuguaglianze del tessuto ideologico si riflettano, proprio per la preminenza dell’urto frontale con la realtà, nella struttura narrativa e formale. Perciò acquistano grande rilievo gli aspetti tecnico-espressivi e quelli dello sviluppo del racconto. Non sono aspetti secondari, che vengano dopo, ma i primi problemi da risolvere. Il

colore, innanzi tutto (si può notare come, non casualmente, sia questo un fatto stilistico che nello stesso periodo vanno affrontando registi come Resnais, Fellini, Bergman, con i quali corrono anche sotterranee analogie). Per Antonioni è un problema di forma, e perciò di mediazione: «Se c’è ancora dell’autobiografia – ha detto – è nel colore che la si può trovare». Il rapporto personaggio-ambiente si amplia e si ramifica proprio grazie al colore. La “perdita di realtà” per Giuliana è vista anche attraverso il mutamento o il modo di subire i termini plastici. Per questo il colore è costruito; esso deve creare da un lato la corrispondenza o le analogie (un rapporto quindi anche con l’inconscio del personaggio), dall’altro tradurre l’oggettività di certe situazioni in termini cromatici. I personaggi, Giuliana soprattutto, agiscono sui colori e “sono agiti” dai colori (volendo si può dire che anche Antonioni cade talora in questa identificazione, quando si lascia prendere dalla “bellezza” o dalla “forza” del materiale espressivo). Intervengono le deformazioni soggettive (fot. 93, il corridoio dell’albergo di Corrado) e i dati oggettivi (i muri, prima del personaggio, le strade di Ravenna, fot. 94). Ma anche le deformazioni hanno ora un lato oggettivo, ora un aspetto di sensazione, quasi di tattilità; alla fine è questo aspetto a prevalere attraverso intenzioni figurative, composizioni ritmiche, suggestioni. Lo spazio diventa – proprio grazie al colore – più mobile, più deformabile. Un gioco di vuoti (l’angoscia: la via di Ravenna dove c’è il negozio di Giuliana, l’interno, fot. 95, l’irrealtà dello sfondo quando esce con Corrado) o di pieni (la sopraffazione: la baracca).

FOT. 93

FOT. 94

FOT. 95

La struttura del film, si è detto, ruota intorno alla parabola di Giuliana, laddove interferisce con i rapporti verso gli altri personaggi. All’interno della parabola si ritrovano richiami a temi già consolidati del regista, come quello della morte, l’incubo della nave che arriva come un fantasma, o la noia dell’erotismo ritualizzato (la baracca, che ricorda un po’ il night di La notte). C’è una tendenza al didascalismo, come si può vedere da certi contrappunti (la moglie e l’operaio di Medicina), dalle insinuazioni soggettive (la fuga, il marinaio), da alcuni particolari (il giornale gettato a terra: «Pensa, è di ieri», dice Giuliana). Dai dialoghi infine, per esempio: «Tu dici che io devo guarire, io dico che devo vivere»; «Chissà – dice Giuliana, mentre guarda una carta geografica – se al mondo c’è un posto dove si possa stare meglio». Sono i momenti in cui Antonioni sente il bisogno di sottolineare, e ricorre allora (qualche volta) anche al primo piano: «Ho fatto di tutto per inserirmi nella realtà», dice la protagonista poco prima della “dichiarazione” finale. In realtà, questo bisogno di adottare toni schematici mette in rilievo la giustapposizione di piani di cui si parlava in principio, cioè la necessità di saldare comunque il momento individuale a quello storico-ambientale. Da tale difficoltà di congiungere fatti stilisticamente distinti nasce il senso di frizione che il film può dare. Perché il discorso sulla “perdita della forma”, e il tentativo di organizzare formalmente questo disordine interno, lasciano vitalmente aperti i termini del problema. La confluenza o il distacco dei piani (ambiente-storia, personaggio-psicologia, stile-struttura-costruzione) si percepisce in Deserto rosso come rottura, come crisi personale dell’autore. E Antonioni sente la necessità di manifestare nel film le contrastanti spinte che lo dominano. Questo è poi, indirettamente e coerentemente, un modo di chiedersi che senso abbia far cinema. Nel 1965 Antonioni cura la prefazione a I tre volti, film a episodi confezionato da De Laurentiis per il lancio di Soraya nel mondo del cinema. L’opera è vuota e banale, scopertamente al servizio di un progetto divistico-commerciale; una campagna di stampa la sostiene, gli effetti sono accuratamente studiati (la principessa “triste”, la donna delusa), gli interrogativi fasulli agitati con finto interesse (ha doti di attrice?). Il film che ne risulta è una mistura di rotocalco aggiornato e di novellistica vecchio stile ma su carta patinata. La premessa antonioniana è l’unica che si salvi e abbia un senso, ma va anche detto che il rischio di farsi coinvolgere nell’operazione c’era, sia per la presenza di ingredienti obbligati (e in fondo accettati), o – più sostanzialmente – perché l’autore correva il pericolo di fare da puntello “intellettuale” alla manovra con una raffinata presentazione editoriale. Si salva, però, e ci interessa perché ritroviamo nonostante tutto qualcosa del nostro autore. Il tono è quello della “ricostruzione”del fatto, secondo un procedimento che il regista ben conosce. Poi, c’è la volontà di smontare l’“artificio”, di scoprirne i meccanismi, di sentirne il falso: ritorna, insomma, la pregnante intuizione di La signora senza camelie, del cinema come messa in

scena, come merce, dove scompare l’individuo. Non ci sono però intenti psicologici (chi ha voluto vedere un’analisi della protagonista era fuori strada), ad Antonioni interessa pedinare i gesti, scrutare i comportamenti, osservare la costruzione di un “mito”. Il pericolo, oltre che nella partecipazione all’operazione, era anche nella resa stilistica. Nel fare cioè un esercizio privato, in cui le insistenze (le strade, gli sfondi, le lunghe inquadrature dell’“apparato”) trovassero in sé la giustificazione e si trasformassero in un elegante gioco di citazioni che rimbalzasse in superficie. Ma è così solo in parte. Per Deserto rosso parlammo di “crisi”. A questo punto Antonioni fa un apparente “salto”. In effetti, radicalizza il discorso. Blow-up si pone soprattutto come ricerca autonoma sulle strutture dell’operazione artistica, quasi emarginando la conflittualità. I temi tradizionali, i nuclei dialettici appaiono come disseccati o disciolti; la riflessione sulla forma (l’immagine, quindi anche il ruolo dell’arte, ecc.) porta a conclusione il momento più chiaramente mediato del regista, e proprio dietro le sembianze di una spontaneità nel procedimento narrativo (la scioltezza, la ricchezza delle immagini, l’improvvisazione, un film che si fa). Una prima lettura può appunto scoprire l’agile struttura del film che appare come una sorta di “sospensione” di giudizio sulla realtà, accolta nel suo immediato manifestarsi. Anche ad un primo approccio, tuttavia, non si ha l’impressione che si tratti di un’opera libera, perché già si avverte quello che una più attenta analisi rivelerà, si scorgono gli interrogativi dietro le certezze, le zone d’ombra che permangono dietro lo sciogliersi delle immagini, vale a dire dietro il “nuovo” (un aspetto che troveremo anche in Zabriskie Point). Ne esce un’opera ambivalente e dai piani ribaltati. L’immagine è presa per il tutto, come osservazione su alcune strutture della realtà. La casualità dell’arte del fotografo di moda diventa discorso di Antonioni su se stesso, sul senso della propria operazione, su quella costruzione che argina l’“irruzione dell’informe”. Dietro a ciò troviamo ancora, quasi dotati di un’esistenza spettrale, i dissidi tradizionali dell’autore: il vecchio e il nuovo, sin dal principio (la sequenza al ricovero, fot. 96), e poi nell’ambiente, in alcuni personaggi (il venditore di robe vecchie), e ancora la morte-mistero, la morte sotto l’amore (la fotografia), i rapporti fungibili. Ma in evidenza è messo il carattere dell’ambiguità (la scoperta di un delitto attraverso l’ingrandimento di una fotografia è una vera scoperta? e il delitto è un vero delitto? ecc.) non come punto di arrivo di una falsa neutralità, di una sospensione falsamente fenomenologica, quanto proprio di una “riduzione” che vuol eliminare gli aloni semantici per ricondurre l’attenzione ai momenti primi, recuperando le zone ritenute marginali della realtà.

FOT. 96

Non è tanto questione di “obiettività” ma del valore obiettivo di far cinema come maniera di affrontare la realtà. Uno sforzo di interrogarsi che si ribalta anche in finzione. È un modo, l’unico per l’autore, di chiedersi qual è il proprio ruolo, ma anche di “salvarsi”, per tirarsi fuori dalle difficoltà o darsi una giustificazione; per aprirsi e, in fondo, anche mentire. Il problema,

dunque, è più complesso di quello che potrebbe sembrare se si considerasse con troppa facilità il passaggio dal mondo alla sua immagine, cioè da Deserto rosso a Blow-up come un’evasione o un disimpegno. Ma il pericolo sta nella possibilità (o no) di superare le contraddizioni nello stile, di riproporre e sublimare nell’immagine i vecchi dissidi. Antonioni infatti, in questa sorta di “ricapitolazione” in forma di interrogativo, sembra sciogliere i nodi tragici, portandoli alla sdrammatizzazione, alla totale laicizzazione. Questo riproporre anche le forme giustifica le citazioni interne: l’utilizzazione del traliccio del “giallo” (da Cronaca di un amore a L’avventura) come mezzo per scoprire e “incrinare”, per fare indagine (le foto iniziali di Cronaca di un amore, fot. 97); il recupero di un ambiente, quello di I vinti; il tema del fotografo che ritrae la coppia (il cinema come scomposizione e analisi dei rapporti, tipico di Antonioni).

FOT. 97

Blow-up è una sorta di nuovo vagabondaggio (una città, Londra) senza urli, osservato ponendosi alcune domande senza risposta. I vecchi temi sono visti senza toni patetici o angoscie: penso per esempio all’erotismo, risolto in gioco (le due ragazze, fot. 98) o in naturalità (l’amico e la moglie). Ma il porre tutto sulla medesima superficie, senza spessori o sottolineature, come se fosse un film girato al “presente indicativo”, rende reversibili le radicate dicotomie (vero-falso, realtà-illusione). L’indifferenza si risolve in interrogativo, il protagonista che “scivola” sui fatti alla fine partecipa alla finta partita a tennis.

FOT. 98

Il massimo di obiettività (la riproduzione fotografica del reale) coincide con l’indecifrabilità: «Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque una

sua ragione di essere», ha scritto Antonioni nella prefazione ai Sei film. La realtà può convertirsi nella sua mimica: il tema della “posa” – le fotomodelle – è uno sfondo generale, la mimica dell’atto sessuale di Thomas su Verushka un particolare (fot. 99). Il senso del costruito, della cartapesta, riprende l’intuizione del cinema come “fabbrica” – tipico di La signora senza camelie e della prefazione a I tre volti. E ancora emergono la donna oggetto, la gestualità meccanica, l’inutilità delle cose (l’elica: «Cosa nei fai?», «Niente, è bella», fot. 100), la consumabilità degli oggetti rituali: «La chitarra muta è in realtà una reliquia. Ma una volta fuori dal luogo del culto, fuori del raggio d’azione in cui opera la finzione ritualistica, l’oggetto perde totalmente il proprio significato» (G.V. Slover).

FOT. 99

FOT. 100

Alla fine salta fuori la realtà-irrealtà di un mondo che ti costringe alla reificazione illudendoti sull’esistenza di una seconda dimensione. Parrebbe che i due piani – lo stile e la storia o l’ambiente – che spesso abbiamo visto sovrapporsi o giustapporsi, arrivino a coincidere attraverso due momenti: 1) l’interrogarsi sul ruolo dell’arte-immagine 2) nell’epoca dei consumi. Antonioni correva il rischio di restare dentro la spirale, o di uscirne corroso malgrado le intenzioni, di fare insomma proprio un’opera consumabile, di riporto, cattivante nelle sue irresoluzioni. L’apparenza può essere quella di un cinema di “pedinamento”. Invece c’è una precisa volontà di scomposizione, che nasce probabilmente da un tentativo di liberazione (da alcuni schemi intellettualistici, ad esempio), per immettersi nei tempi brevi di una civiltà (quella tecnologica) che urta, affascina, aggredisce, in un ritmo che ha bruciato i trapassi. È come un mettere tra parentesi che non significa essere “senza passioni”, quanto esserne al di là, attento al momento costitutivo, al modo (il mezzo, l’immagine, il cinema) di penetrare la realtà. Qui è ciò che sta oltre l’immagine che interessa, ciò che emerge dalla sua scomposizione (l’ingrandimento): per questo la sequenza è insistita. Siamo in una zona diversa da quella di

Alain Resnais (L’anno scorso a Marienbad) per il quale l’interscambiabilità sta nell’immagine già al suo costituirsi prima di ogni scomposizione: la realtà è ambigua già al suo apparire. In Blow-up si insiste sul divario tra immagine (realtà nel suo apparire) e sua indagine (ingrandimento), si giunge anzi ad affermare che il più di significato che essa può avere (i colori, il mondo hippy, la facilità dell’incontro) sembra coincidere con un più di ambiguità. Come si è visto è infatti questa la cifra generale: la stilizzazione come “innaturale naturalità”, l’ambiente, il colore, come apparentemente significanti al massimo, e pur distanti. Gli elementi significanti, messi in relazione, perdono di chiarezza anche se raggiungono la loro completa obiettività. Il fatto ha, oltrettutto, una colorazione soggettiva, riguardando le possibilità dell’autore di attingere la realtà e di trovarla sfuggente. La soggettività sciolta (e come assorbita dall’ambiente) ricompare, con la sua capacità e impotenza; per questo la chiave stilistica sta ancora nell’alternanza di distacco e partecipazione. Alla fine Antonioni sembra essere dalla parte del fotografo protagonista, del suo scacco, delle risonanze esistenziali che maschera: la fragilità di chi sembrava avere un rapporto aperto con l’ambiente. Anche l’articolazione narrativa si adegua. La struttura composita dei film precedenti si rafforza, i piani diventano interscambiabili, e lo spettatore è chiamato dentro al film che si fa, per cogliere le varie possibilità di significato e di interpretazione. Accanto all’occhio che vede, per dirla con Merleau-Ponty, vi è l’occhio che immagina. Per questo, in fondo, il punto di arrivo è la mistificazione delle “soluzioni” e delle “obiettività”. In tal senso ha ragione Slover: «Attraverso lui (il protagonista) e insieme a lui, giungiamo gradualmente a identificare nell’impulso alla finzione, nell’impulso a modellare la realtà ricavandola da un apparente assunto come reale, la spiritualità che domina l’universo del film». Si guardi la sequenza finale: la macchina da presa segue in soggettiva la pantomima della partita a tennis (fot. 101), l’autore è dentro, il fotografo partecipa alla recita (fot. 102), e in questa sua partecipazione è sorpreso dal campo totale finale (fot. 103), che sembra voler abbracciare la realtà (quella realtà per la realtà) in tutta la sua ampiezza, come obiettivizzata. Torna nel campo, isolato, il solo protagonista, disancorato dagli strumenti obiettivi e dalle sicurezze.

FOT. 101

FOT. 102

FOT. 103

Poteva essere un’operazione rischiosa. Il sottofondo irrazionale, lungi dal costituire, di per sé, un limite espressivo, può diventarlo – secondo una tendenza che viene ancora da Deserto rosso – quando il momento formale (il bello, insomma) sembra porsi come soluzione che da sola basti a superare le contraddizioni. Farsi prendere dal gioco, allora, potrebbe voler dire introdurre sì nel messaggio del film l’ambiguità, ma risolverla poi esteticamente nella forma. L’apparenza è copertura (drammatica anche), ma è pure fascino. D’altronde l’ambiente esercita un certo richiamo su Antonioni, il quale per un po’ ne è attratto, ma cerca anche di esserne un analizzatore. Sotto questa veste mira, anzi, alla metafora, ai significati complessi. Ambiente e spinta metaforica. Siamo a Zabriskie Point. «In effetti non conosco un film girato in America da un europeo che sia un capolavoro, a parte gli europei trapiantati definitivamente. Sono molto dubbioso per il mio film. Non vedo perché dovrei riuscirci proprio io». Antonioni, all’inizio della ripresa del film, sembrava rendersi conto del rischio, intuiva che il film rappresentava una svolta e che i punti di appoggio – nella duplice direzione delle sue opere (il prima) e della nuova realtà (il poi) – gli venivano meno. Della difficoltà dell’impatto con la realtà era cosciente, perché la complessità e la contradditorietà di quella situazione apparivano chiaramente. Nello stesso tempo avvertiva come pressione emotiva alcuni motivi ricorrenti; si trattava forse di ritrovare, o verificare, una conflittualità di fondo, magari alcuni temi che in Blow-up – punto estremo di una parabola coerente – si erano in un certo senso allentati. Si sentiva dunque a disagio, viveva una sorta di intervallo, con la necessità di verificare i problemi che il film precedente aveva posto, gli interrogativi che aveva lasciato aperti. Zabriskie giunge a questo punto. Offre la possibilità di un nuovo, parziale recupero della soggettività, ma ancor più ribaltata nei dati fenomenici di una precisa realtà. Il regista, tuttavia, la affronta non tanto – o non solo – con la propria “cultura” (ovviamente), quanto – prima

ancora – con il suo bagaglio di temi e di forme cinematografiche. L’errore quindi sarebbe, come è stato per molta critica, quello di pensare a un “ritorno” (dopo Blow-up) ai temi “sociologici”, allo scontro frontale con la realtà; salvo rimproverargli poi, con una tipica prevaricazione sull’opera, di «aver visto l’America da europeo», di aver piegato la realtà «alle sue intenzioni», di aver fatto insomma opera di interpretazione. Invece, non si trattava tanto di un rapporto diretto con quel mondo, ma, in maniera più complessa, dell’intreccio del rapporto tra individuo e ambiente e del problema dello stile. Muovendo da una situazione concreta (l’America della contestazione), Antonioni arriva, di mediazione in mediazione, ai suoi temi esistenziali. Scrive Di Giammatteo: «Partito dall’intenzione di fare un film sull’America, Antonioni ha fatto, come sempre, un film sul destino dell’uomo». Al fondo troviamo, infatti, ancora i temi a lui congeniali: il caso, che qui assume un rilievo particolare, il suo innestarsi sulle scelte umane, l’incontro, il fallimento, la morte. È in questa prospettiva che il film credo vada analizzato, magari per constatare il divario (in taluni punti) tra intenzioni e reali interessi. Cominciamo col chiarire le linee di sviluppo. La parte iniziale serve, attraverso brevi flash, a presentare e a inquadrare sul loro sfondo i personaggi. Rispetto al solito, il “prologo” appare ampliato, per una ragione di “sostanza” e per una più propriamente stilistica. Sotto il primo aspetto, Antonioni tenta di storicizzare le contraddizioni e di definire la situazione ambientale, sia pure per scorci essenziali; sotto il secondo, si sforza di passare dall’ambiguità alla decifrazione, in una tipica alternanza di freddezza e partecipazione. Il tono dello stile cambia, questo inizio propone – si può dire – più stili. Per contro, la situazione ruota attorno ai due poli noti, individuo e ambiente. Antonioni qualifica Mark come uno che rifiuta tutto, anche un dissenso che rischia la standardizzazione; il rifiuto estremizzato dell’accettazione è visto come la caratteristica di una certa America. Ma vuole, insieme, restituire in qualche modo il tono dominante dell’ambiente: la violenza (la morte, che ritorna alla fine del film, non come groppo esistenziale irrisolto, bensì come realtà storicizzata), il potere, l’insofferenza diventata modo di vita (il razzismo dell’armaiolo), le facce della “negatività dentro l’establishment”; per altro verso vi è l’alternanza vero/falso (la “cosificazione”, il montaggio dei visi e dei manichini, il denaro come “macchina”), la riproposta della dialettica vecchio/nuovo. Solo che in questo caso il vecchio sembra essere ciò che era il nuovo negli altri film: quei preannunci che avevamo visto altrove (e che creavano lo squilibrio ma offrivano anche certe sicurezze intellettuali) sono qui la realtà, come solidificata. Colpisce il fatto che questa realtà s’imponga come realtà unica, una totalità che cerca di emarginare il dissenso, ma all’interno della quale esplodono (ecco, il nuovo) le contraddizioni, le quali in un certo senso crescono «spontaneamente». Dal prologo si dipartono le due linee “liberatrici” dei protagonisti (termine logicamente di comodo, per Antonioni a questo punto), secondo un intreccio ridotto al minimo, centrato sui fatti decantati, non spinti a una significazione seconda o diversa. Le linee si articolano fluidamente su questi punti: a) l’incontro di Mark e Daria; b) la separazione; c) il mondo della riflessione o, più generalmente, un modo di sentire le cose che è come una spontaneità riflessa. a) Forse diversamente dalle intenzioni, questo è il punto focale del film, l’aspetto individuale che Antonioni avverte e scioglie, in cui le giustapposizioni vengono meno, l’intersezione dei piani non crea più frizioni. Si sviluppa – sentita come regressione vitale – la proposta della “spontaneità”, già presente in Blow-up: ora è messa a fuoco come contrapposizione radicale a una società standardizzata e oppressiva, aggressiva e indifferente. È una sorta di Love-in. Si ritrova la dimensione degli “altri”: la ripopolazione della valle (fot. 104), l’amore che si sovrappone alla morte, come un valore primigenio (il venire dalla terra), l’erotismo come liberazione, fatto che si espande. È la ricerca di una dimensione perduta, anche attraverso una gestualità restituita ai suoi significati (in questo senso il richiamo al Living sembra pertinente).

Ad Antonioni interessa, è chiaro, la situazione della coppia (fot. 105), i sentimenti che si liberano e si muovono in uno spazio e in un tempo dilatati, utopici. La “Valle della morte” è, per questo, anche il punto di raccolta narrativo di ciò che precede e il punto di partenza del seguito (la separazione, la morte ecc.). In quella sequenza personaggi e ambiente diventano una cosa: il lungo carrello sulla sabbia prima di scoprire l’automobile di Daria, e la panoramica da lei e Mark di spalle allo sfondo rivelano subito questa tendenza stilistica; la chiave figurativa sta nel tentativo di rendere la naturalità di una situazione innaturale, rovesciando una dialettica abituale e cercando di ridurre a “gioco” il ritrovamento dei “resti”. Il film ridiventa tutto di cose, recuperate al “bello”; la dialettica consiste nella mutazione del paesaggio sull’identico della situazione.

FOT. 104

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Lo stile dilata le sensazioni. La vastità del paesaggio è prima di tutto una suggestione: «un paese di questa vastità – ha scritto Antonioni – con queste distanze e con questo orizzonte, non può non essere condizionato, nel senso del sogno, dell’illusione, della tensione, della solitudine, della fede, dell’innocenza, dell’ottimismo e della disperazione, del patriottismo e della rivolta, dalle sue dimensioni». Ma diventa subito motivo stilistico, lo spazio è ancora una volta elemento significante. Il film si sviluppa anzi, quasi è dominato, da due grandi intuizioni visivospaziali: il volo (l’aria) e la valle della morte (la terra). In queste indicazioni di fondo si articolano i temi della fuga, dell’amore, o dell’amore-gioco (il lunghissimo dialogo tra l’aereo e l’automobile, fot. 106). L’“evasione” non è più la favola di altri film o la proposta (l’isola di Deserto rosso), ma un fatto: segna il distacco dalla città-mostro; partendo da due reazioni diverse Daria e Mark si incontrano. La regressione (il ritorno alla natura) cerca di perdere i caratteri della genericità, e articola, magari a fatica, un suo spontaneo rapporto con l’ideologia libertaria. Qui riappare però l’ambiguità di fondo, perché Antonioni di fronte a questo fatto

avverte ancora un senso di impotenza, la restrizione che gli deriva dal suo punto di vista individuale: non ha proposte da fare, e non ne vede in atto (l’inizio del film è in tal senso molto significativo). Lungo questo dilatato “viaggio all’inferno” sono inseriti (come in altri film) rapidi incontri di Daria con alcune figure minori fortemente caratterizzate e caratterizzanti. Si tratta, ora, di digressioni ampie e corpose: i bambini disadattati (fot. 107, i bambini, ancora, come contrappunto) che giocano con relitti di cose, l’incontro al bar, i “marginali” di tanti film, il vecchio con i colori (fot. 108). Troviamo, poi, i “messaggi dall’altro mondo”: il poliziotto (fot. 109), l’americano medio (fot. 110), tipi che ricordano ciò che Daria ha lasciato, i modi di vita consolidati.

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b) La dilatazione prosegue lungo il duplice asse dei ritorni dei due personaggi. La narrazione si tende attraverso i vuoti, per far risaltare la splendida pagina della morte di Mark. Quel che avviene dopo è centrato su Daria, ed è tutto in senso antipsicologistico: comportamento, paesaggio, cose, alternanza di immagine e suono (tipico l’annuncio della morte, con la macchina da presa sulla vegetazione di cactus, lo stacco musicale, lei di spalle, poi in piano ravvicinato). La donna è ancora, per l’autore, capacità recettiva, possibilità di salto. A questo punto (nel passaggio verso il punto c) riemerge una certa frizione iniziale; da un lato vi è la direttrice più autentica di Antonioni, il fenomenologismo (che trova il momento culminante in Blow-up), il suo cinema comportamentista; dall’altro, certamente meno forte, c’è la volontà analitica. Zabriskie Point non è, e probabilmente non vuole essere, un’analisi dell’America del dissenso (non valgono quindi certi rimproveri di parzialità, vaghezza, non motivazione ecc.), ma contiene pur sempre un certo discorso sul potere, sulla reificazione, sui

rapporti irreali, sull’oppressione del numero e dello schema. L’attrito nasce perché Antonioni è immerso in una prospettiva individualistica, scarsamente tipizzante; lui stesso, a proposito del film, ha detto che è una fantascheria, il racconto di vicende personali e particolari di alcuni personaggi. Il suo vero interesse è qui. Non si può certo sostenere che Antonioni volesse proporre – come è parso da certe critiche – un cinema di denuncia, frontale, o (peggio) univoco e mistificatorio nella sostanza; lo stile ha una connotazione diversa, è ellittico, mediato in scomposizioni, alternanze, scorci. È nello stile, dunque, che vanno cercate le carenze, se ci sono, senza proporre interpretazioni che accettano l’autore come “poeta” e non come “sociologo”, magari sottolineando la precarietà delle motivazioni o il punto di vista europeo. Occorre vedere allora come alcuni contrasti si riflettano nei dati stilistici, perché presenti una certa difficoltà per il regista l’incontro tra sensazione e costruzione, tra lo sguardo e l’intento di comporre una parabola, tra elementi in qualche modo predisposti (malgrado egli lavorasse “corpo a corpo con la realtà”) e la grande capacità di assorbimento dei dati reali. Tali attriti derivano dal fatto che i significati storici (l’Ame rica, la contestazione, ecc.) premevano fortemente; e Antonioni sembra avvertire tale pressione. Anche per questo è possibile scoprire con chiarezza le novità stilistiche, l’opera aperta, la narrazione fluida, le cose che acquistano significato di per sé. Sono proprio le novità stilistiche a far sentire un certo attrito fra la tendenza a comporre un film “libero”, disponibile, e l’intento di far simbolo, di riprodurre in qualche modo le cadenze della parabola. Tutto ciò vede riflesso nei vari elementi compositivi: la successione e la scansione delle sequenze, l’uso dei contrasti (l’America della facciata e dell’integrazione contrapposta a quella dell’“irregolarità”), l’uso del montaggio, l’utilizzazione dei fattori figurativi e sonori, e del dialogo (ancora debole). Mi pare si comprenda meglio, così, tra le grandi innovazioni e la parziale permanenza di coloriture didascaliche, il significato della parte finale, l’esplosione “immaginata” da Daria Fot.111, la sua insofferenza che si coagula, l’urlo del negativo. L’intento del film – lo si è visto per tutta la sua durata – era quello di esasperare il dato oggettivo per farlo lievitare in fantasia. La visione si dilata e allo sguardo, ancora una volta, è affidata la conclusione della parabola.

FOT. 111

Chung Kuo (Cina) (1972) sembra un ritorno alla fase documentaristica, ed è vero, se non altro perché il regista mette da parte ogni intento di “costruzione” o di penetrazione. Qui prevalgono la constatazione, la recettività dell’obiettivo, la sua apertura disincantata ma anche – si direbbe – di superficie. Lo stesso autore, d’altronde, ha precisato che sono «appunti di viaggio», volendo con ciò circoscrivere la portata di un’indagine su una realtà troppo diversa e storicamente nuova. Non mi pare, tuttavia, che si tratti di un puro e semplice ritorno indietro, perché alcune ricerche stilistiche, a lungo depositate, non sono state compiute invano: quella specie di depurazione, che ha tentato di “liberare” l’occhio e di condurlo a una osservazione

neutrale ma aperta, e la spinta al “prolungamento”, dei gesti, sulle cose, dei fatti. Questa volta il nuovo contesto è radicalmente senza possibilità di confronto, perciò Antonioni concentra l’indagine sull’ambiente e sui personaggi che lo vivono. Non sovrappone schemi e non proietta i suoi vecchi temi o le consolidate ambiguità. Non intende nemmeno scoprire all’interno quella realtà. Si accosta alla Cina con il metodo dell’osservazione e basta: un limite ma anche una scelta. Ne viene fuori una Cina vista da un “visitatore” discretamente attento, incline e costretto all’impressione: un occhio aperto ma anche parziale, frammentario, senza capacità (e volontà, probabilmente) di analisi. «È una confessione di ignoranza – ha scritto Fortini – preferibile ad una ignoranza camuffata». Non parlerei, come qualcuno ha fatto, della conclusione di una trilogia del “nuovo” (Blowup, Zabriskie Point, Chung Kuo), perché ciò confonderebbe le cose. Non solo, ovviamente, per l’assoluta impossibilità di vedere uno sviluppo (o anche semplice legame) tra i diversi contesti storici affrontati, ma anche per l’atteggiamento del regista, che non è rimasto uguale. Di fronte a una realtà, come quella cinese, che è del tutto altra, abbandona la chiave individualistica e le suggestioni cui è sempre stato sensibile: in un certo senso se ne libera (occorre specificare che non si tratta di meglio o di peggio?), e libera la sua capacità di osservazione. La dimensione (frantumata) è quella della quotidianità. L’atteggiamento recettivo lo induce al distacco (la bella sequenza del parto con l’agopuntura) e, più spesso, alla partecipazione, quando scopre, insistendovi, il sapore vivo dei molti aspetti “comuni” di quella realtà. Non ha spiegazioni da dare, e, quando le ha, sono incerte e malsicure, per ora registra, talvolta interroga. Questi appunti di viaggio hanno il pregio dell’onestà, del pudore. Il limite – implicito, quasi dichiarato – è quello di un descrittivismo spezzettato. Il commento parlato (di Andrea Barbato) vuole ridursi a pochi suggerimenti, con il pericolo della fretta (forse, però, bisognerebbe anche sapere quali “filtri” la televisione ha imposto). Per questo Antonioni osserva, e sfrutta l’occhio. Si rifugia nella visione, recupera i visi o i gesti nella distensione dell’apparenza, tentando di estrarre quello (tanto o poco) che l’immagine può dare, e ciò giustifica anche alcune insistenze, che sembrano maggiori del dovuto. Per un verso ha ragione Moravia quando dice che è una Cina vista come «un puro oggetto da descrivere», separando quindi l’osservazione dal contesto. Esiste tuttavia un legame sia pure esile, e comunque generale, dato che Antonioni cerca di connettere sempre la realtà a una dimensione “comune”, a livello d’uomo: sono i cinesi i veri protagonisti, si dice quasi subito nel film, e in questo senso alcune immagini vogliono “dire di più”, sono cioè implicitamente caricate anziché impoverite o ridotte all’osso. Il «grande repertorio di volti, gesti, abitudini» (come si definisce il réportage) nasce anche da un lavoro di avvicinamento, o di riduzione: ricordo per esempio il modo in cui il “grande” (cioè il vecchio magniloquente) è riportato al nuovo metro quotidiano. Quello che l’autore vuole offrirci è, appunto, la vicinanza delle cose e delle persone, così viste: una forma di partecipazione, ma anche il pericolo di sfuggire sì all’esotico ma non rinunciando alla ricerca di difficili consonanze. Così come il rischio dell’oggettualità quotidiana qui consiste nell’annullare lo spessore alle cose; si resta con poco in mano per non voler aggiungere. Quest’ultimo mi pare un rischio cosciente, uno scotto che Antonioni sa di dover pagare. Registrare significa anche dar peso ad alcuni aspetti tecnici, cominciando dal colore. «Qui ogni mattina – ha scritto Antonioni – tra le cinque e mezzo e le sette e mezzo, le strade si tingono di blu». Ricordiamo alcuni momenti di particolare risalto: le modulazioni che il colore assume, i grigi e i verdi della carrellata iniziale sulla strada, gli smorzamenti di tono di alcune vie della Pechino vecchia (fot. 112, fot. 113) le chiazze di luce con cui si inizia la seconda parte (le riprese nella provincia dello Honan), le tonalità di verde della cittadina di Soochow («che a noi ha ricordato Venezia»). Alle volte è proprio il gusto coloristico a prevalere, come quando si

insiste, seguendo un gruppo di contadini che vanno al lavoro, sulla stridente macchia gialla di un ombrello. Anche i rumori hanno un peso particolare, come elemento della sensibilità recettiva della fattualità, oppure come particolare, come elemento significante: si noti com’è resa quasi solo attraverso il rumore la scena “antica” del grano macinato con la pietra trascinata da un mulo. Che la cifra della quotidianità sia quella che interessa si può capire dalla prima inquadratura, sulla piazza grande, il luogo delle parate; l’obiettivo dirotta l’attenzione: noi preferiamo osservare – si dice – quelli che si mettono in coda per farsi fotografare (fot. 114). Su questa scia sono tutte le riprese dei “brani di vita”, la gente, le strade, i mercati, colti magari con la macchina da presa nascosta. Spesso l’analisi si sminuzza: la preparazione del pranzo nella casa dentro la fabbrica, il primo piano e la voce della donna che cuce a macchina (fot. 115), i bambini che inseguono il presidente del villaggio, ecc. Altre volte prevale la freddezza dell’osservatore, come nella bella sequenza del parto (fot. 116, visi, mani, pochi particolari, i palpiti, qualche rumore di fondo, il viso e le parole di lei).

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Anche dove il discorso tocca i grandi problemi, Antonioni preferisce la dimensione della “semplicità”, i dati comuni, come quando constata il modo in cui la politica si scioglie nei gesti quotidiani (il commento alle frasi di Mao, in una comune agricola, mentre i contadini mangiano). Altre volte si dilunga, e anche si disperde, nei gesti o nei particolari (i bambini protagonisti della scuola, la galleria di visi che va costruendo). Bastano questi cenni per segnalare il pericolo: la “curiosità” può scivolare nell’aneddotica o proporre ridondanze inutili (la terza parte lo dimostra) se non compiacimenti gratuiti, come in alcune insistenze che rivelano, malgrado le intenzioni, il distacco del “viaggiatore”. In fondo, però, questo è stato davvero un viaggio: «un bagno di pulizia», ha detto Antonioni. Non ha toccato, è da credere, il fondo dei dubbi. Le vecchie insicurezze avranno

modo di riproporsi. È accaduto, puntualmente, con Professione: reporter, che ripone interrogativi in parte già avanzati ampliandoli: una sorta di dilatazione del dubbio. L’aspetto riflessivo – o autoriflessivo – del cinema di Antonioni significa soprattutto capacità di riallacciare temi, o “luoghi”, nodi privati o situazioni oggettive, ridiscutendoli e riformandoli, studiando cioè il modo di rimetterli in forma e di decantarli stilisticamente. Questa verifica può far saltare fuori le contraddizioni, spesso vitali, del suo cinema. In questo senso Professione: reporter è un film cruciale nella carriera del regista, perché i due strati che talora si intersecano nei suoi film creando frizione sembrano quasi chiarirsi: un intento significativo (che potremmo qualificare di costume o sociologico), che può arrivare qualche volta al didascalismo, e la sua dissoluzione antinarrativa, l’andar oltre, cercando l’incisione della metafora attraverso la dissezione e l’ampliamento di risonanza del fatto. Alle volte si ha l’impressione di un dato di partenza, di una suggestione captata, e di una successiva apertura, di una rottura verso altri scopi, verso situazioni più congeniali, verso soluzioni di stile. Queste appaiono come uno sforzo di riesaminare, e quindi di rendere problematiche, le antiche categorie del mostrare e del raccontare, e di riconsiderare il loro legame, spesso partendo dalla complessità dell’elemento originario, l’immagine. In entrambe le direzioni c’è un’ambivalenza di fondo: la sicurezza apparente della visione lascia il posto, una volta che l’indagine prosegue, all’incrinatura, all’alone, al non definibile, analoga sorte tocca alla narrazione. Antonioni, lo si è notato, non rifugge dallo schema consolidato, proprio il “giallo” sembra attirarlo, sia pure solo come meccanismo base; anche in questo film l’impianto (il “mistero” con alcune sue diramazioni) è mantenuto. Poi però il lavoro è di rottura delle linee di racconto, per cogliere l’eco dei fatti, i gesti pedinati, le rifrazioni, i momenti opachi; un simile generale movimento verso aspetti ambigui denota una propensione alle zone d’ombra del senso: è proprio la «sottigliezza del senso» di cui parla Barthes. Forse perciò si ha l’impressione, laddove l’intreccio di base torna come necessità di “svolgimento”, di sentire una certa difficoltà, come una restrizione all’apertura, all’“av ventura” stilistica. Professione: reporter è, anche relativamente a questi due aspetti schematicamente riassunti, un film di particolare importanza, nel quale – è bene dirlo subito – talune scorie sono come concrezioni di alcuni film precedenti, e restano sul fondo piuttosto che emergere. Partiamo ad esempio dalle prime sequenze, particolarmente riuscite: si avverte l’esito di un ampliamento della suspense in un senso interno di attesa, si colgono i continui prolungamenti sul paesaggio (fot. 117) e le anticipazioni, il peso del casuale, e la qualificazione del personaggio (la recettività, la ricerca, il rischio, il fallimento), tutta mediata, mai “detta”. Su questo ampio prologo si innestano in seguito l’elemento dell’intreccio (quel pirandellismo di cui, ovviamente, si è parlato) e l’addentellato “storico” che si chiarirà in seguito (il mercante d’armi, i ribelli). Il pericolo può essere duplice, e riaffora nella parte centrale: quello di una narrazione che “prende” o si svolge dimostrativamente, e lo sforzo di concretizzare l’aggancio politico, volutamente lasciato nello sfondo. Uno sforzo che fa sentire in qualche punto il peso della costruzione, ma che denota pure la voglia di Antonioni di captare l’“aria del tempo”, di dare punti di riferimento alla sua “curiosità” per i fatti.

FOT. 117

Sul rischio della forzatura, e su alcune marginali ripetizioni o cadute (per citare un esempio: la “parabola” del cieco che ha riacquistato la vista, raccontata dal protagonista prima della splendida sequenza finale) prevalgono però senz’altro le aperture, la ricerca di uno stile che fluidamente si va facendo, la risoluzione in forma del rapporto tra personaggio e ambiente. Quest’ultimo fondamentale intento arriva a un’oggettivazione che è la maturazione del migliore Antonioni, una linea di tendenza che – sintomaticamente – si ritrova in alcune “punte” avanzate del cinema d’oggi. Come in altri film, e forse di più, anche in Professione: reporter lo spazio si carica di significati, basti pensare a quante soluzioni drammatiche sono affidate (stemperandole) all’articolarsi di sfondi mai inerti; questo cinema di assenze è fatto di pieni incombenti ma più spesso di vuoti carichi di senso. D’altronde l’interesse all’ambiente-forma motiva l’adozione, peraltro non nuova, dello schema narrativo del viaggio: sul piano stilistico esso significa l’aprirsi al diverso e al non prevedibile, riesplorare cioè i legami tra errare e vedere; sul piano della qualificazione del personaggio serve a ribadire la dimensione dell’avventura e dell’incertezza. Un film «intimista di avventure» ha detto Antonioni. L’adesione dell’autore alla sua materia diventa manifesta nelle molteplici ramificazioni “essenziali” nella situazione della coppia e nelle sue diramazioni; in un secondo momento anche il riferimento storico è avvertito in modo non precostituito, resta quasi allusivo, parte da un “dolore” che ha prima e altrove le sue radici. Locke-Robertson è probabilmente il più corposo dei personaggi maschili di Antonioni, si direbbe quasi il Mark di Zabriskie Point accresciuto; è complesso, sfugge a indicazioni, con una dose di ambiguità che lo rende il perno della narrazione e dello sviluppo ideologico, a mezzo tra accettazione, disponibilità e presa di coscienza. Il personaggio di successo in crisi era già stato al centro di altri film di Antonioni, scrittore o architetto o fotografo; qui è posto subito di fronte alla problematica con maggiore decisione, il fallimento di uno scopo (il reportage sui ribelli), la tentazione dell’identità. Un fatto (la morte) lo spinge al mutamento, ma l’approdo è impossibile; da parte di molti si è fatto il nome di Pirandello, le radici possono però essere altre, suggestioni che corrono dentro a molta cultura contemporanea; e lo sviluppo di Antonioni è autonomo e originale. Veniamo a contatto con fasce non definibili dell’esistenza: cambiare è anche portarsi addosso se stesso, mutare di identità non significa trovare l’identificazione, cioè un punto fermo tra fuga (il passato) e ricerca (il futuro). La trama esistenziale diventa complessa, Locke “scappa da tutto” ma non si libera della sua storia e della sua cultura. Il privato ha un fondo di incertezza: scappo da una moglie, da una casa, da un figlio adottivo, da un buon lavoro, da tutto, tranne da alcune cattive abitudini di cui non riesco a liberarmi; per altro verso, quando lei gli chiede – ancora – da cosa fugge, le dice di guardare

indietro, non c’è nulla (fot. 118). Le vecchie abitudini sono i “codici antichi” (il pubblico, per restare alla formula), di cui parla il suo alter ego, l’inadeguatezza del nostro modo di concepire una realtà mobile. Sono anche i codici di una cultura (e di un modo di essere) che si avvicina, magari per giudicarla, a una diversa cultura (e a un diverso modo di essere) con un’ottica fissa, egotista (l’intervista allo stregone). Il tema della fuga diventa accettazione del provvisorio, tentativo di costruirlo in progetto (il caso, le coincidenze di cui parla lei); tra scelta e destino, tra intervento e passività, arrivando alla morte. Su questo traliccio esistenziale si incardina un’altra indicazione: un mestiere (cioè un rapporto col mondo) e un mezzo (le immagini, cose vaghe afferma Robertson al magnetofono) sono rimessi in discussione. La falsa obiettività dell’immagine (e dello sguardo), la realtà seconda e più vera da scoprire erano il tema di Blowup: qui sono gli inserti televisivi, le interviste. «Cosa vedi?» chiede Locke nel finale, e poi racconta la storia del cieco. L’interrogativo è ancora sulla visione, come un riprovare, un ribattere, un riportare alla “doppia faccia” delle cose, quasi a sottolinearne l’apparente non significatività, l’essere l’“eco banale” di quello che sta succedendo; il piano-sequenza avvolge e coinvolge, in un tutto che «abolisce ogni simbolizzazione della durata reale, identificandosi».

FOT. 118

A questo punto l’interrogativo sembra allargarsi e riguardare in generale i modi e le forme della riproduzione e la loro capacità di “rendere” il reale. Torna allora a emergere l’ambivalenza del mondo delle immagini, la suggeriscono in particolare alcuni studiati “incastri”: i flashback che si legano al presente, il passato sondato e ripercorso per mezzo delle interviste lasciate, il racconto del vecchio a Barcellona (fot. 119) che “stacca” sulla scena della fucilazione.

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Sullo sfondo di queste interferenze ci sono, tutti mediati, gli interrogativi del regista sul proprio linguaggio e sulle implicazioni che può avere. Questa è una direzione utile a capire la modernità di Antonioni. Professione: reporter però, come si diceva, ha anche agganci storici. Il passaggio dal piano esistenziale a questo piano è lento, anche confuso, le intersezioni sono solo suggerite. Perciò l’accostamento ai fatti, la loro accettazione non può essere precisa (mai “indicazioni” in Antonioni); eppure una presa di coscienza c’è, «dipende da che parte stai» dice lei, quasi a spingerlo. I “connotati” cambiano, la moglie nega di riconoscerlo, la ragazza invece non esita. È lei infatti l’altro polo che progressivamente si va determinando, da caso, “incontro” (la prima volta, a Londra, è un’intuizione felice) a presenza; in questo personaggio sradicato sembrano confluire le suggestioni del provvisorio di molti film precedenti, e la collocazione sociale (gli studenti, gli hippies) che viene da Zabriskie Point. La sua disponibilità ha i caratteri di una certa spontaneità, ma mi pare senza i residui romantici che altre volte sentivamo in Antonioni (la fisicità di certi comportamenti – lei ripresa da dietro l’automobile che corre tra gli alberi – ricorda la Vitti nella pensione siciliana di L’avventura); la sua propensione ad accettare la mancanza di ancoraggi e di punti fissi porta come retaggio una congenita labilità. Come sempre, la recettività della donna in Antonioni si accompagna alla presa di coscienza: è la spinta per Locke (lo lascia, in un primo momento, dicendogli che non le interessa «la gente che rinuncia»), una sorta di supporto al suo muoversi incerto («Lui credeva a qualcosa», riferendosi a Robertson), l’accettazione, il riconoscimento finale; i segni dell’esistenza (ecco l’aspetto romantico che riappare) le sono davanti: «Non è strano come succedono le cose, come ce le costruiamo?». La riuscita messa a fuoco di questo personaggio non trova un corrispondente esito in quello della moglie, troppo legata all’andamento narrativo e allo svolgimento dimostrativo; è il passato che incalza, la sua verifica posteriore (il giudizio sui documentari e su Locke: accettava troppo). Interferiscono però richiami – un po’ schematici – di altri personaggi, la mancanza («Lo ami ora che non c’è», dice l’amante), la sostituibilità («Se fai uno sforzo riesci a reinventarlo») che ricordano da vicino note e battute della Claudia di L’avventura. Non è un caso, direi che – come retroterra “esistenziale” – si avverta soprattutto questo film dietro a Professione: reporter. Vanno però aggiunti, come si è detto, interrogativi lasciati da Blow-up. Su tale tematica la messa in forma di Antonioni ripropone alcuni aspetti tipici di allargamento dei moduli narrativi. L’asse portante testimonia ancora l’esistenza di due forze che agiscono sul racconto, creando quell’equilibrio difficile di cui si è già detto, e che è forse la chiave del nuovo modo di procedere del regista: da un lato una forza che tende a dilatare in senso antinarrativo, dall’altra una spinta organizzata dei fatti che li riunisce; è un equilibrio

difficile, dicevo, perché l’intersezione è nella maggior parte dei casi una viva forza dialettica, ma non mancano punti di frizione (facevo cenno prima ai momenti “dimostrativi”, anche in questo film). Ma la prima forza è senz’altro preminente, la nota antonioniana più evidente. Conviene far cenno alle tendenze attraverso le quali si manifesta, in Professione: reporter, la dilatazione di cui si parlava; gli “allungamenti” della parte iniziale (il deserto prima, l’albergo poi) possono essere un esempio: i gesti, i comportamenti, i prolungamenti delle azioni sul paesaggio, i tanto citati tempi morti che contribuiscono a creare un clima che si proietterà sul resto del film. Anche la parte centrale è ricca di digressioni (basti pensare al matrimonio), che sono un po’ l’indice privilegiato dell’ingresso del casuale nello svolgimento della narrazione o nella stessa inquadratura. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto si può notare la tendenza abbastanza insistita a far cogliere dalla macchina da presa persone “estranee” prima dell’ingresso in quadro dei protagonisti (passanti per strada, i due che si incontrano in aereoporto…); altre volte sono cose o fatti o movimenti (le automobili prima del dialogo cruciale: «Scappo da tutto…»); oppure è lo sfondo che precede l’inquadratura o permane a sospendere o allungare il collegamento con la sequenza seguente. È un modo parziale per decantare l’ampia funzione significativa dell’ambiente che va dalle contorsioni dell’architettura di Gaudí (fot. 120, fot. 121) al peso dei silenzi nella Plaza de Iglesia (fot. 122, due ricordi della tensione barocca di Noto e del silenzio del paese abbandonato in L’avventura?). La città si conferma uno dei luoghi prediletti di Antonioni, volutamente alternata a sfondi radicalmente diversi. In questo film la città è il pieno, il passato, il vissuto, da cui parte la fuga verso gli spazi larghi, o il marginale, il periferico. Visione e spazio si intersecano. Nella sequenza finale, uno dei momenti più riusciti di tutto il cinema di Antonioni, la restrizione – l’inizio all’interno, fot. 123 – e la dilatazione dell’inquadratura (fot. 122, fot. 124 senza soluzione di continuità stanno a chiarire la mobilità segnica dello spazio che è una delle maggiori conquiste stilistiche dell’autore.

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D’altronde, questo affidare allo sfondo non più una funzione subalterna ma una preminenza che si direbbe oggettuale, corrisponde – lo abbiamo già notato – anche all’intento di evitare luoghi e modi tipici della drammatizzazione cinematografica: attraverso i prolungamenti il fatto, centro dello sviluppo, viene eluso o negato. La scena d’amore o la morte finale ne sono un esempio; nel secondo caso non si vede “quello che conta”, tutto è sciolto nella fluidità della visione: l’immagine è come abbassata, normalizzata, si coglie il banale o il riflesso del fatto (i pochi gesti attinenti all’azione centrale), legati nel tutt’uno del piano-sequenza. Il tempo, dopo lo spazio, si sviluppa in tutta la sua intensità drammatica, senza che alcuna punta emerga sulla spinta del racconto. La sua integralità registra l’assenza, la morte. La messa in forma raggiunge l’aspetto più funzionale. Proprio la forma è il centro di interesse dei film seguenti, a cominciare da Il mistero di Oberwald. Antonioni accetta la proposta di trarre un film da L’aquila a due teste di Cocteau, girando per la prima volta e integralmente con le telecamere; il turgido melodramma dello scrittore francese serve da base, o da pretesto, per una sperimentazione tecnica. Altre volte, come si è detto e ripetuto, il regista si è servito di generi, come schemi portanti su cui attuare modifiche, derivazioni, deviazioni verso altri obiettivi; questa volta invece il genere è accettato, in tutte le sue componenti melodrammatiche (amore e morte in un universo chiuso, per ridurre a formula); ciò per mantenere le distanze dalla materia e poter “liberamente” agire sulla forma, anzi proprio sulla sua base tecnologica. L’impatto naturalmente c’è, e Antonioni ne è cosciente: «È la prima volta che mi cimento con un dramma a fosche tinte e l’impatto è stato tutt’altro che morbido». Cosa c’è di antonioniano in questa storia? Solo qualcosa, o probabilmente niente; perché l’interesse è oltre, e proprio per questo il regista prende le mosse da temi a lui alquanto “lontani”, quasi volesse che il distacco tra significati e mezzo venisse avvertito. Si tratta insomma di sperimentare su una materia se non estranea almeno “indipendente”; lui stesso ha avallato questa interpretazione: «Era una storia detestabile, che non mi piaceva affatto, ma ho avuto un sospiro di sollievo. Mi sono sentito veramente libero di fare dei gesti tecnici: non è un film di, è un film diretto da». Non sono mancati alcuni interventi sul testo di Cocteau, sono state abbassate alcune punte drammatiche e si sono “asciugati” alcuni dialoghi, l’attenzione è comunque per il mezzo elettronico, anche se l’autore tenta una commistione, quasi ricordando la cinepresa; ha dichiarato infatti l’operatore Luciano Tovoli: «Secondo me è il film direi più “cinematografico” che mi sono trovato a fare. In fondo Antonioni ha ripudiato l’impostazione standard della tecnica televisiva, la molteplicità di impiego delle diverse macchine, l’immediatezza. Ha voluto rimandare, giustamente, a una riflessione successiva, di montaggio, quello che il mezzo televisivo impone come fatto immediato. Ha girato, non ha soltanto registrato simultaneamente».

Più che una parentesi questo film è un passaggio. Disimpegno? Non direi; il lavoro su una materia distante, e quindi in qualche modo “astratta”, gli permette di agire direttamente sul film anziché sul materiale profilmico come altre volte (ricordate gli alberi dipinti per le riprese di Deserto rosso?), è uno svincolo definitivo dal realismo ottenuto attraverso il mezzo riproduttivo per eccellenza, la televisione. Luce e colore diventano chiaramente fattori arbitrari se in alcuni casi l’arbitrarietà è ampia (il gioco degli interni, e poi la cavalcata fot. 125, fot. 126, fot. 127, fot. 128 in esterni), in altri casi – e più spesso – le modifiche all’immagine sono parziali: forse è il timore di cadere nella facilità degli effetti, forse c’è l’intento di coinvolgere lo spettatore fornendogli un termine di paragone “reale”.

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La trasformazione dell’immagine, che già Antonioni aveva faticosamente studiato con la pellicola, diventa ora “gioco” aperto. Un punto di arrivo? Una liberazione? Sì e no; sì astrattamente parlando, per tutto ciò che la sperimentazione ha comportato; no per l’impaccio che si è andato rivelando. I rischi non erano infatti pochi; c’era quello di farsi imbrigliare dal meccanismo narrativo (e l’operazione di “asciugamento” non parve aver giovato); c’era la tentazione di attribuire un eccesso di valore simbolico al colore; c’era in fondo la possibile inclinazione a lasciarsi prendere dalla novità, dalla possibilità di creare effetti proprio dalla “libertà” di cui si parlava. Questi rischi sono risultati alla fine effettivi, così l’operazione, mantenendo intatto il suo interesse, si è però andata circoscrivendo. Non è da escludere, naturalmente, che la “distanza” dal soggetto abbia avuto un peso rilevante; vale allora la pena di ricordare quello che Antonioni ha dichiarato proprio sul set di questo film: «Il mistero di Oberwald è una cosa che non mi riguarda per niente… Mi riguardava invece (un soggetto tratto) da un racconto di Calvino, Il viaggiatore notturno. La storia di un uomo che litiga con la propria amante, le sbatte il telefono in faccia, e poi, anziché richiamarla, decide di andare a trovarla, anche se lei abita in un’altra città. E il film è la storia del viaggio con i suoi tre diversi livelli, quello realistico, quello del ricordo, quello dell’immaginazione. E con il cambiare della situazione e degli stati d’animo dovevano cambiare i colori. Dovevo girarlo in elettronica…». Identificazione di una donna è il primo film (su pellicola) girato in Italia dopo Deserto rosso. Antonioni riprende volutamente una situazione decantata (i rapporti di coppia) e alcune emergenze tematiche già attraversate; aggiunge però naturalmente alcuni elementi nuovi. Investe ancor più il personaggio maschile (Niccolò) di significati emblematici, perché ne fa un regista che cerca di costruire un film: la crisi, dunque, investe la sfera esistenziale e quella professionale, che sempre più tendono a interferire, a sovrapporsi e quasi a confondersi. Di fronte, o accanto, ci sono due personaggi femminili che articolano la problematica della difficoltà: Mavi, mobilmente irrequieta, la cui scomparsa lascia interrogativi e ferite, e Ida, che propone un rapporto più “piano”, e che per questo provoca le punte più drammatiche del film (il distacco finale). Sullo sfondo si muovono due figure complementari, la sorella di Niccolò e l’amica di Mavi incontrata in piscina, due generazioni e due modi di porsi di fronte ai sentimenti. Su questo traliccio di racconto Antonioni sembra voler riandare al già conosciuto, con l’intento di riproporre ma forse anche di liberarsi. Nella storia c’è infatti qualcosa che pesa (sovrabbondanze e didascalismi), e l’autore stesso sembra aver percepito la difficoltà, alla fine del film ha infatti dichiarato: «Vorrei liberarmi dalla cappa dei sentimenti per stare più sui fatti. Vorrei sentirmi sollevato dal grande peso di dover esprimere dei sentimenti, avere meno

preoccupazioni per quello che è lo snodarsi delle vicende, lasciare insomma che siano i fatti a parlare». Il vero centro di interesse di quest’ultima opera andava già chiarendosi in questa direzione; i ritorni tematici cercavano di avere il senso della ridiscussione, e avevano proposto uno spostamento: il personaggio femminile infatti perno di altri film e anche di questo, è qui però anche il perno del film da fare «Non conosco ancora la storia – dice Niccolò – ma so che il personaggio principale è una donna, un sentimento che ha forme femminili». Nella vita, parimenti, è alla ricerca di una donna. Raccontare, e raccontare per immagini, pone il problema del rapporto tra il fatto e il suo riflesso, e – per mediazioni successive – tra finzione e realtà. L’interrogativo che resta al fondo di Identificazione di una donna sembra questo. Per avviare a questa domanda complessa e “antica” occorreva proprio partire dal riflesso, cioè dallo stile. Dilatare indicazioni di film precedenti voleva dire allora praticare la variazione. Mostrare e raccontare sono ancora le due categorie con cui cimentarsi, con cui confrontare il proprio cinema. Gli elementi della narrazione già conosciuti (il “giallo”) vengono forniti quasi subito, così come il taglio dello spazio, prima e sopra il personaggio fin dai titoli di testa. La cifra iniziale proietta in seguito i suoi connotati: i luoghi («cercare un personaggio significa cercare dei luoghi, dei fatti», dirà poi Niccolò), i comportamenti, i tempi lunghi della descrizione. Antonioni ripropone nuclei narrativi in parte già percorsi (la “scomparsa” di Mavi ricorda naturalmente L’avventura), si inoltra in ambienti conosciuti al suo cinema (il ricevimento, fot. 129), si affida a spie indicative (l’erotismo, qui affrontato con alcune “arditezze”); su questa via si pongono alcune citazioni (il dialogo con Ida al galoppatoio, fot. 130), o suggestioni figurative, come la duplicazione degli specchi in alcune sequenze (si pensi, ad esempio, alla conclusione della prima lunga scena d’amore). Ci sono in particolare delle presenze significative, soprattutto la pregnante insistenza sulla fotografia come fattore “da cui partire”: la foto su «Time» provoca la ricerca di Mavi, e più ancora l’attenzione viene portata sull’immagine (le foto appese, il ritratto di Louise Brooks attaccato alla finestra, fot. 131) concepita come grumo iniziale della storia progettata da Niccolò. Più volte Antonioni ha ribadito come alcune immagini siano state il momento originario di un film; paradossalmente, ma non tanto, ha detto che il soggetto di Il grido gli venne in mente guardando un muro.

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Il regista non disdegna poi le punte “forti” del racconto, come la rivelazione della paternità; d’altro canto già Professione: reporter partiva da un fatto eccezionale. Accanto a queste articolazioni si vanno ponendo, e progressivamente rivelando come prioritarie, le spinte allo stemperamento: spazi che si aprono e si prolungano, o si chiudono (vetri, finestre), azioni osservate a lungo fino a ridursi a gesti, rumori, sguardi, come nella citatissima sequenza nella nebbia (un ricordo di Deserto rosso?, fot. 132).

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La dilatazione, dicevo, Antonioni, quasi giocando sul doppio sguardo – il suo e quello di Niccolò – si abbandona a momenti di descrizione “pura”; si può portare un esempio: dopo la sequenza della festa, che si conclude con un’inquadratura su uno sfondo senza personaggi, viene introdotta per stacco una sequenza tutta di “tempi morti” (una finestra precede l’ingresso in quadro del protagonista / PP sui ritagli di un giornale / Niccolò li attacca alla parete, li guarda, l’inquadratura insiste sulla parete / uno specchio riflette una porta che si apre / Niccolò entra in camera da letto, guarda Mavi che dorme). Da un punto di vista generale si osserva che l’attenzione dello spettatore è attratta per un verso, perché una “storia” rimane, e per l’altro verso è dirottata, e in modo più sensibile. Ciò è ottenuto, come altre volte, inserendo nella narrazione digressioni, indizi, frammenti, elementi casuali o solamente figurativi: c’è una successione, non una gerarchia degli interessi, ha scritto Barthes. Si insiste a giocare su legami e rapporti di forme, arrivando a «sequenze tonali» (Cuccu). Lo sguardo sulle cose, intensificato, identifica ma lascia anche un alone irrimediabile di opacità o – magari – di mistero. L’indeterminatezza narrativa, di cui si è già parlato, nasce proprio da questa convinzione. Per questo la drammaticità viene colta nel suo porsi in visione; si può citare ad esempio la struttura delle ultime lunghe sequenze, che traggono forza dal rapporto tra pieni e vuoti: la laguna (fot. 133), gli interni in albergo, con un attentissimo uso dei piani, il ritorno a casa simmetrico all’inizio.

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La messa in forma si rivela l’interesse principale. Questo riprovare il già fatto, rimetterlo in discussione, porta quasi inevitabilmente ad alcuni interrogativi conclusivi, al “che film fare”; la fantascienza è un’ipotesi, perché «non si può mai dire nella fantascienza che cosa è verosimile e che cosa no», questa parte del dialogo finale di Identificazione di una donna lascia spazio al dissolversi delle immagini in colore, in un colore eccessivo accompagnato da rumori. E il dopo («E dopo?» è l’ultima battuta del film) a inquietare: il dopo della verosimiglianza? Quelle immagini dissolte sanciscono forse che il cinema non può più porsi in rapporto diretto con l’esperienza, che sarà definitivamente altro. Il mondo dell’immagine non è mai, in Antonioni, fine a se stesso: rimettere in discussione il nostro rapporto con l’esperienza che si organizza in immagini è per lui un’operazione non solo estetica. Interrogarsi sulla natura, e la funzione del proprio linguaggio, e più ancora «sulle proprie condizioni di possibilità» (De Vincenti) vuol dire riproporre domande di fondo, il rapporto tra cinema e realtà, tra l’autore e quello che avverrà in quel “dopo” già cominciato. Sono dubbi antichi per Antonioni, che ritornano con insistenza e con nuove argomentazioni. E il suo modo di stare addosso al tempo che vive. Nel 1995, dopo tredici anni di forzata assenza, Antonioni realizza Al di là delle nuvole; nel frattempo ha firmato, dopo Roma, alcuni brevissimi cortometraggi (Noto, Mandorli, Vulcano, Stromboli, Carnevale), che sono in realtà delle elaborate e molto belle composizioni di immagini. Ha ricevuto anche l’offerta da Alain Robbe-Grillet di interpretare un suo film, La fortezza, ma il progetto non è andato in porto. Al di là delle nuvole è un’operazione complicata e complessa. Complicata in particolare per le conseguenze della malattia improvvisa che ha colto il regista nel 1985, e che gli ha lasciato menomazioni sul piano della deambulazione e del linguaggio; tornare a girare è quindi, per lui, anche una sfida e un’avventura (umana, oltre che professionale). Lo fa con l’assistenza di Wim Wenders, garante presso la compagnia assicurativa del buon esito dell’impresa, e ancor più co-sceneggiatore e autore della “cornice” del film, cioè del prologo, di un intermezzo e dell’epilogo. Operazione del tutto inconsueta questa; ma non si tratta certo di un lavoro a più mani, il film (a parte gli inserti dichiaratamente wendersiani) è del tutto attribuibile all’autore di Il grido. La complessità nasce dal senso generale che assume Al di là delle nuvole (che trae spunto e sviluppa quattro racconti contenuti in Quel bowling sul Tevere: “Cronaca di un amore mai esistito”, “La ragazza, il delitto…”, “Non mi cercare”, “Questo corpo di fango”); è una riproposta partecipe e disincantata con temi e forme rivisti – è il caso di dirlo – che mantiene fin dove è possibile il carattere del richiamo allusivo. Anche per Identificazione di una donna si è parlato di ritorni e riproposte, quasi (o davvero) con intento liberatorio. Questa volta la distanza (il tempo trascorso, forse l’esperienza personale) sembra dare il tono di un bilancio

senza pesi ulteriori o risvolti. Si può parlare di leggerezza; e non a caso il termine è stato usato da Bernardo Bertolucci in un suo articolo “a caldo”, che reagiva a certe caute accoglienze “di stima” con cui il film era stato da più parti accolto alla Mostra del Cinema di Venezia. D’altronde la leggerezza (come “sottrazione di peso” al linguaggio) richiama le calviniane Lezioni americane: e l’accostamento tra l’autore delle Città invisibili e il regista non è certo azzardato; tra l’altro, se n’è fatto cenno, da un racconto di Ti con zero Antonioni avrebbe voluto trarre un film; il progetto ha per titolo “Il colore della gelosia”. Una prima chiave per inoltrarsi in questa complessità può essere fornita, magari indirettamente, proprio dalla “cornice” wendersiana (una sorta di “omaggio” in prima persona). A legare i quattro episodi del film è infatti la figura di un regista, che sta cercando di “definire” un film da fare, che ricerca insomma una storia, o elementi per una storia, e che perciò è portato a riflettere sul suo lavoro. Per “fissare” i suoi spunti si serve di una macchina fotografica; è un riferimento consistente a Blow-up, ma anche ai “professionisti dell’immagine” protagonisti di Professione: reporter e Identificazione di una donna. È un richiamo evidente dell’autore di Nel corso del tempo ad Antonioni, ma anche a se stesso, perché la problematica della riproduzione e delle sue implicazioni sono una sorta di sotterraneo filo rosso che lega i due registi. Non a caso il film si conclude (è sempre Wenders a girare l’epilogo) con una frase (già citata cfr. p. 110) tratta letteralmente dalla prefazione ai Sei film di Antonioni, che sottolinea il fondo ambiguo, o il “mistero”, dell’immagine. Al di là delle nuvole è dunque – come si diceva – anche (e ancora) un film di riproposta. E la “somiglianza” del regista-Malkovich con Antonioni è insistita; le parole che accompagnano inizialmente i suoi percorsi marcano il suo essere “visceralmente legato all’immagine” (fot. 134), quindi alla sua problematicità (richiamata, appunto, dal finale) e alla sua “difficoltà” («Come è difficile vedere quello che è davanti ai miei occhi»); e sono parole dell’autore di Blow-up.

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È da dire che questo intento di adesione al mondo antonioniano – prima si parlava di omaggio – è forse la causa delle infiltrazioni didascaliche della “cornice”, particolarmente sensibili nell’intermezzo. Le parole non giovano – qui e altrove – in questo film di immagini; didascalismo e pensosa concettosità appesantiscono non poche battute del dialogo. Forse però si può anche ricordare quel che disse una volta Antonioni: «Alla parola, da Cronaca di un amore in poi, ho chiesto solo che non “tradisse” l’idea visiva». Proviamo allora a esaminare la riproposta di Al di là delle nuvole. Al centro di questi frammenti (gli episodi) di un discorso amoroso ci sono ancora figure di donne. Donne che mettono in moto una storia (terzo episodio), che confessano un passato (secondo), che esigono una scelta (terzo), che aspettano («Io aspetto sempre» dice Carmen nel primo capitolo), che

rinunciano (ultimo episodio), che sono abbandonate (primo), o che non vogliono essere abbandonate («Non lasciarmi», ripete Patrizia-Fanny Ardant). E sul tema dell’abbandono Antonioni allenta; nel racconto da cui è tratto Cronaca di un amore mai esistito si parla di un bambino morto a due anni, e il film omette questo riferimento forte. Ma sono anche donne che esibiscono un corpo (in due momenti si parla addirittura di odore e profumo del corpo); qui il regista aggiunge, perché nel racconto “La ragazza, il delitto…” non c’è la scena d’amore. L’altro aspetto è però quello del corpo negato, «Vorrei andar via dal mio corpo» afferma la protagonista dell’ultimo capitolo; due facce di un’identica presenza. A donne poi sono soprattutto affidati gli sguardi, donne che guardano, e sono guardate, visi insistiti e indagati (i primi piani di Fanny Ardant – fot. 135 – e Irène Jacob – fot. 136 – a conclusione dei rispettivi episodi). Non a caso su figure di donne, e con le frasi relative all’immagine, si conclude il film.

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La riproposta non poteva comunque non essere anche formale. A caratterizzarla è innanzi tutto l’uso degli spazi; e quasi a sottolineare questa propensione nel prologo c’è il lungo percorso del regista. Di continuo ci sono spazi che si impongono, che interferiscono (il gioco calcolato di interni ed esterni del primo capitolo, e ancor più il rapporto tra il chiuso della chiesa e le strade della città nell’ultimo, fot. 137), che si aprono (l’appartamento a vetrate), che si rimandano, si richiamano (le scale, topos antonioniano per eccellenza, fot. 138), che si riflettono. Anche nei particolari si nota questa attenzione: Carmen che guarda dalla finestra (fot. 139), e poi la ragazza a Portofino (fot. 140). Tutto il film peraltro è caratterizzato dal movimento di personaggi in uno spazio, all’interno di appartamenti o per le vie di una città.

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La città, appunto. Antonioni, si sa, rappresenta un capitolo di assoluto rilievo, nella storia del cinema, circa l’uso di spazi urbani; la città, ebbe a scrivere, come punto di incontro dei nostri ricordi con i nostri desideri, uno spazio-tempo che il cinema fa suo, esprimendolo ritmicamente. Proprio l’interferenza fra spazio e tempo giustifica la collocazione del primo episodio, quasi un’impronta, una coloritura di fondo. Ferrara è la città della memoria, e quella del primo film (e persino il titolo lo rammenta); si può riandare molto indietro, a un racconto giovanile (Strade a Ferrara, non raccolto in Quel bowling sul Tevere), dove muri, e alberi, e case sono “stampati a memoria”. Anche se l’episodio del film, diversamente dalla fonte, è ambientato ai giorni nostri, la dimensione del ricordo è in quelle immagini, che vengono fuori da una scrittura (i racconti) dove si sono depositate. Non ci sono però solo spazi significativi, ma anche schemi narrativi. La sospensione, e l’attesa, sono – come è stato più volte sottolineato – modi di essere del racconto antonioniano: e come non rintracciarli nell’apertura e nella conclusione di Al di là delle nuvole? E l’intrigo “giallo” solo alluso nel secondo episodio non rimanda in qualche modo a Blow-up, o magari all’Avventura? Ma anche altri congegni narrativi sono accennati; il terzo episodio infatti è una storia che si sviluppa da una storia iniziale raccontata, o inventata, e dà luogo poi a due storie che si specchiano (quella di Patrizia e di Carlo). Dietro alle forme, i temi costanti. Sono racconti di separazioni, e «l’essere separati» del resto è il tema principale di Antonioni, come ha scritto Wenders; sono incontri ripresi e poi lasciati, come a Ferrara (ed è un caso che i protagonisti si ritrovino fuori da un cinema?). Sono narrazioni anche di rinunce. Antonioni allenta: se il primo film era la “cronaca” di un amore incrinato dal peso di un passato, ora la “cronaca” del primo episodio riguarda un incontro

rimandato e non concluso. E la sublimazione è ben più evidente nell’ultimo episodio, perché la rinuncia è frutto di una scelta radicale; anzi, tutta la storia si colora a posteriori alla luce della frase finale, che sancisce proprio la rinuncia; «Domani entro in convento di clausura», e il regista scriveva nel libro «che fu la battuta che chiude l’episodio a colpirmi». Anche l’accettazione delle regole ha un suo “mistero”, e la fa una donna. «Che stupendo inizio di film – proseguiva – ma è un film che per me finisce qui». È diventata la conclusione di un film realizzato, di un fatto estetico e di un atto di coraggio. Nel 2004 Antonioni firma Il filo pericoloso delle cose, episodio del film Eros (gli altri due episodi sono Equilibrium di Steven Soderbergh e La mano di Wong Kar-wai). È un’opera stancamente di maniera, con alcune blande suggestioni antonioniane sullo sfondo: una coppia in crisi, l’erotismo, il paesaggio, due figure femminili. In realtà la crisi è tutta detta, mal servita dalla sceneggiatura, il paesaggio appare di comodo, guardato per la sua attrattiva manifesta, le apparizioni femminili inconsistenti. Si ha quasi l’impressione di un film su commissione. Antonioni e le arti

Conviene, riprendendo magari taluni spunti sparsi nelle analisi già fatte, sviluppare sotto un profilo generale alcune considerazioni sul rapporto di Antonioni con gli altri linguaggi espressivi. Si può infatti affermare che egli sia l’autore del nostro cinema più attento a questi ricambi; assieme a Visconti, che però si pone su un altro piano. Può essere utile tracciare alcune linee di tendenza. a) utilizzo e trasformazione di forme “altre”: incroci, assimilazioni, punti di incontro nei quali le possibilità autonome del cinema interferiscono con capacità diverse. Interferenze, ma non commistioni spurie, gli “ibridismi” di cui ha parlato lo stesso Antonioni. La musica. Se ne è già discusso, per esempio a proposito di Cronaca di un amore e Il grido. In linea generale si può dire che se questo cinema – lo si è ripetuto più volte – privilegia lo sguardo, è però anche un cinema dell’ascolto. E per analizzare, sia pure molto rapidamente (si rimanda quindi al libro di Calabretto indicato in bibliografia), questo aspetto si possono indicare alcune esigenze di fondo. La prima delle quali riguarda l’utilizzazione della musica, che non adempie (con l’eccezione, almeno parziale di Le amiche) una funzione descrittiva o di rinforzo della narrazione. C’è quindi un rifiuto di quella che solitamente si definisce “musica di accompagnamento”, e la via seguita è quella dell’essenzialità, di una riduzione, di un togliere insomma, secondo una tendenza di alcuni autori di punta del cinema della contemporaneità (viene in mente il nome di Resnais, o la posizione provocatoriamente radicale di Bresson). Ma se la musica è l’aspetto più rilevante dell’antonioniano allestimento sonoro, un’importanza quasi simile assume la colonna rumori, concepita non tanto come riproduzione realistica quanto come apporto autonomo alla costruzione dell’opera (si pensi, per esempio, a L’avventura). Siamo lontani, come per tutto questo cinema a partire dall’immagine, da un intento mimetico, e vicini invece, in modo diverso se non opposto, a una idea di ritmo, in sintonia con la visione. Anche il silenzio conta; nello Sguardo di Michelangelo, ad esempio, solo nel finale si sentono, in sottofondo, le note della musica di Pierluigi da Palestrina. Detto allora in linea generale: il paesaggio, così importante, è anche un paesaggio sonoro. I rapporti con la pittura (con una certa pittura, naturalmente) sono stati spesso messi in luce, sottolineando in particolare – anche in questo caso e ancor più – la sottrazione del colore a intenti mimetici. Basti pensare alla sua prima utilizzazione, in Deserto rosso, al “movimento” che si viene a creare tra perdita e accentuazione. E si potrebbe tornare a ripetere che anche le gradazioni del bianco e nero (basti riferirsi al Grido) sono insinuazioni coloristiche. Dietro a questo uso c’è una generale sensibilità che porta Antonioni ad avere alcune dichiarate predilezioni: si va da Piero della Francesca («Piero è il pittore che amo di più»), a Paolo

Uccello alla modernità di Pollock («I suoi quadri hanno un ritmo straordinario») a Mark Rothko, con cui ci fu un incontro nel 1962, da Malevi a Kandinskij a Morandi. E se, in alcuni film, si trovano riferimenti si può dire che non sono casuali; persino negli arredi delle case si trovano esempi: il dipinto di Balla riprodotto nella casa di Mavi in Identificazione di una donna, la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello nella casa di Gianni e Clara nella Signora senza camelie e, nello stesso film, Le muse inquietanti di De Chirico, pittore che rappresenta un “richiamo” forte per Antonioni, il Sironi di La caduta che compare nello studio di Pontano nella Notte. A questo proposito però penso occorrano due precisazioni. La prima permette, come sempre succede per gli autori cinematografici “di punta”, di affermare che se di influenze si può parlare, si tratta spesso di un moto pendolare, di un dare e avere: quali influssi ha avuto il modo di vedere di Antonioni? In secondo luogo conviene sottolineare che nei suoi film si tiene lontano dalla citazione, dal riferimento esplicito, quello che gli interessa è l’attitudine, il modo di guardare. Proseguendo, ci si deve confrontare con l’affermazione che il cinema di Antonioni è anche un cinema di spazi. E potevano non esserci ricambi con l’architettura, presente direttamente come luogo di azione, o come richiamo (un esempio può venire dal rapporto tra interni ed esterni in molti film)? Certo, è necessario ribadirlo, si tratta primariamente di un utilizzo della possibilità autonoma del cinema di usufruire di ambientazioni (la città, per fare un esempio) e più ancora di esprimere uno spazio (i finali dell’Eclisse e di Professione: reporter bastano per tutto), addirittura di generare una storia; ma l’apertura, la sua curiosità, accettano suggestioni o suggerimenti “altri”. b) punto di partenza. Antonioni ha più volte affermato che alcune storie, forse tutte, gli sono venute in mente da un’iniziale immagine, o da più immagini che finiscono con il dilatarsi, inseguirsi, comporsi progressivamente: «È sempre da un paesaggio, da un luogo, da un posto dove ho voglia di girare che nasce il soggetto dei miei film». Alle volte però la spinta è venuta dalla pagina scritta: derivazione (Le amiche, da Pavese), ripresa (Cocteau per Il mistero di Oberwald), spunto (Blow-up, da Cortázar), si potrebbe persino pensare al Piovene del suo “primo progetto per film” (Terra verde). In alcuni casi, come si è detto e si ribadirà più avanti, è da propri racconti che prende le mosse. Altre volte il punto di appoggio può essere indiretto; giustamente Sandro Bernardi per Tecnicamente dolce (progetto non realizzato, arrivato quasi a esserlo) ha ricordato un autore, Conrad, amato dal regista (in questo caso quello di Cuore di tenebra). A ogni modo torna l’avversione antonioniana per gli ibridismi, cui si è fatto cenno: «Conveniamo tutti, mi pare, che non c’è niente di peggio della pittura letteraria, della musica letteraria, o della letteratura cinematografica». Il ricambio tra linguaggi è altra cosa. c) riflessione. Lo sguardo di Michelangelo, girato nel 2004, può essere attribuito alla categoria dei “film sull’arte”, cui apporta un notevole tasso di originalità. L’impianto è scheletrico: Antonioni (già malato, con un incedere incerto) entra in San Pietro in Vincoli e si avvicina al Mosè di Michelangelo (fot. 141), lo contempla, finisce con il toccarlo. È un “incontro”, l’oggetto (la statua) e il soggetto (Antonioni) si rimandano, come se si guardassero reciprocamente. L’essenzialità della forma si complica in realtà per assenza (il silenzio), per il suo rifarsi a elementi “iniziali” come il movimento, la luce, lo spazio. Intervenendo ed esponendosi in prima persona il regista riesce in un’operazione complessa, che dà allo sguardo la sua capacità di intervento, quasi una sua “tattilità”, e alla materia (il marmo) la forza della leggerezza, quella “sottrazione di peso” di cui ha parlato Italo Calvino.

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d) produzione. L’attività di Antonioni si è svolta anche nel campo della letteratura, del teatro, della contaminazione (pittura e fotografia: le Montagne incantate). Si può dire in generale che questa produzione va considerata sia per il valore, o il significato, che ha in sé, sia per i rapporti – diretti o indiretti – con la principale creazione filmica, sia – in subordine – per le implicite dichiarazioni di poetica che possiamo trovare. I racconti, come si è già detto, sono raccolti in Quel bowling sul Tevere. E che ci fosse una qualche predisposizione a diventare narrazioni per immagini è testimoniato dal fatto che da tre di essi è tratto Al di là delle nuvole (cfr. pag. 120), che Il filo pericoloso delle cose si rifà alla stessa raccolta, e inoltre che Due telegrammi avrebbe dovuto diventare un film (lo sceneggiò nel 1985 con Rudy Wurlitzer) e che Quattro uomini in mare (sceneggiato con Mark Peploe) è arrivato assai vicino alla realizzazione. Altre volte la tentazione del film si insinua nelle parole, Questo corpo di fango finisce con «Che stupendo inizio di film. Ma è un film che per me finisce qui». Ma i racconti, si diceva, valgono anche per la loro originalità di scrittura: per l’incisività, per l’essenzialità (il “togliere”, come per le immagini), per la descrizione di spazi («Fa parte del mio mestiere osservare le persone nel contesto delle situazioni in cui sono»), di atmosfere, magari per l’attenzione costante agli sguardi. C’è costante un’attenzione a ritratti femminili, che non a caso si ritrovano già nei racconti precedenti a Quel bowling sul Tevere. Ci si accorge allora che, come ebbe a dire il regista, per lui scrivere è «un approfondimento dello sguardo». Temi e forme si ritrovano, come è scontato, anche nei progetti non realizzati (raccolti in I film nel cassetto), che sono pur sempre una forma di scrittura, sia pure “parziale”, perché Antonioni ribadisce che «le parole che non siano dialogo ma descrivono stati d’animo e immagini, in un copione non contano, sono messe lì provvisoriamente per annunciare qualcosa d’altro che è appunto il cinema» (e un’altra volta: «I copioni presuppongono il film, non hanno autonomia, sono pagine morte»). Letti quindi con questa lente che distanzia ci permettono di ritrovare costanti “forti” del regista. In un caso, L’aquilone, scritto con Tonino Guerra, troviamo conferma però anche del suo bisogno, dichiarato, di cimentarsi con forme (o “generi”) per lui desueti, in questo caso la fiaba, «una favola senza tempo» la definisce la fascetta editoriale, e di rincalzo Antonioni aggiunge «un mondo che non è mai stato il mio, per questo mi piaceva». Nella stagione 1957-58 Antonioni mette in scena, come si è ricordato (cfr. pag. 25), Scandali segreti, scritto assieme a Elio Bartolini; l’accoglienza, come segnala Federico Vitella, fu «non tenera»; la critica gli rimproverava di «avere incautamente allestito per il teatro del materiale specificamente cinematografico», di avere disatteso quindi le regole della rappresentazione teatrale. Non potendo, oggi, che rifarsi al testo scritto è però facile cadere

nella tentazione di cercare suggestioni o analogie con situazioni o personaggi cinematografici. La vicenda è collocata in un ambiente medio borghese, con connotazioni tradizionali, di una città di provincia, con scene che si svolgono prevalentemente in un vecchio appartamento che sta per essere abbandonato, «è una di quelle vecchie case di provincia che conservano ancora i segni dell’antica signorilità». Su questo sfondo si intrecciano le storie di due coppie, un «groviglio di rapporti» che viene a sancire il tema antonioniano della sostituibilità dei sentimenti. Qualcosa, evidentemente, richiama L’avventura; il dialogo già riportato (cfr. pag. 75) trova quasi un’anticipazione in una battuta nella seconda parte del testo: «Posso dimenticare che tutto questo… che un mese fa era ancora inconcepibile, invece si è verificato?». A dirla è Diana, una delle due figure femminili su cui si regge l’intreccio; apparentemente diverse, trovano però verso la fine un punto di incontro, dettato dalla loro insoddisfazione, dalla loro capacità di recepire il falso e la precarietà delle situazioni. Di contro ci sono due personaggi maschili, con la loro mediocrità e il loro cinismo, il «vivere da buoni dilettanti». Una conclusione drammatica, una morte casuale (un ricordo di Cronaca di un amore?) chiude la rappresentazione con una sorta di rassegnata accettazione. C’è insomma, in questa vicenda contrastata e contorta, qualcosa di antonioniano, spesso evidente e molto “detto”, con cadute didascaliche; ma c’è anche una convulsione degli eventi, con vere scene madri, che sembra opporsi alla tendenza cinematografica della distensione, della dilatazione dei fattori drammatici. Certamente autonoma, e pur collegata al resto, è la produzione che potremmo definire “pittorica”, le Montagne incantate (fot. 142 e 143). È una “deviazione” tutt’altro che marginale, anzi particolarmente interessante per quel che dice direttamente e per quello che propone indirettamente. Perché queste Montagne sono anche un’operazione di critica, di riflessione, o di autoriflessione. E poiché questa propensione antonioniana, su cui ci siamo già soffermati, è importante, conviene dilungarsi per intenderne tutte le possibili diramazioni, per quel che ci dicono sul colore, sulla riproduzione, e alla fine sul cinema. Si può partire, come quasi tutti hanno notato e lo stesso regista ha sottolineato, da Blow-up; infatti, il procedimento usato richiama da vicino quel processo di “sviluppo” dell’immagine che questo film prende in considerazione. Si tratta di iniziali “tracce” pittoriche, di piccole dimensioni, a tecniche miste, progressivamente ingrandite tramite riproduzione fotografica. Il risultato è “altro”, potremmo provvisoriamente definirlo astratto. Dietro, o al fondo, c’è una indicazione di carattere teorico generale. In primo luogo si riafferma il ruolo della tecnica (qui quella fotografica) come produttrice di senso, come momento costitutivo di un’opera. In questo caso, a com plicare le cose, si tratta di una tecnica che opera su un’altra tecnica compositiva. L’ingrandimento da espansione quantitativa diventa processo qualitativo, che modifica la base originaria nei suoi aspetti percettivi, il colore in particolare.

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FOT. 143

Queste Montagne si inseriscono in un’attenzione costante di Antonioni a forme di trasformazione, rappresentate anche dal suo cinema. E pongono subito interrogativi rilevanti. Fino a che punto può procedere l’ingrandimento? Il limite sembra naturalmente costituito dalla volontà dell’operatore, che sancisce la dimensione come marca d’autore. Siamo nell’area dei multipli pittorici, con una differenza però: in questo caso ci possono essere multipli diversi, perché il procedimento di sviluppo fotografico può modificare in modo diverso lo stesso originale. Già, l’originale; la traccia iniziale rimane, e spesso nelle varie mostre è stata esposta, complicando l’idea di copia. L’opinione di Antonioni è netta, «l’opera è l’ingrandimento, non l’originale», ma forse il problema resta aperto, perché la copia si manifesta come “rivelazione”, il visibile va oltre il visto. Le possibili analogie con, per esempio, i procedimenti litografici vanno adattate alla novità introdotta da questo ingrandimento. Si tratta di interrogativi che riguardano i concetti cardine di riproducibilità (Benjamin incalza…) e di riproduzione. La labile nozione di modernità fa i conti anche con queste categorie. Perché, appunto, la riproduzione denota una volta di più il suo carattere non mimetico, il suo fondo di ambiguità, malgrado l’apparente “oggettività” del mezzo (la fotografia). Riappare, naturalmente, il riferimento a Blow-up, e più in generale a un cinema, quello antonioniano, che ha fatto dell’insistenza dello sguardo una delle sue note formali salienti. Fotografare, inutile dirlo, o riprendere con la macchina da presa è appunto una forma di insistenza. E il residuo di ambiguità, o di “mistero” secondo la dichiarazione riportata (cfr.pag. 97), emerge esplorando le superfici, la loro “ricchezza”. L’orizzonte tende ad ampliarsi proprio verso un approfondimento del “mostrare”, direzione principale delle Montagne (e del cinema, giova ripeterlo). La “naturalità” dell’occhio (in questo caso rinforzato dalla protesi della macchina) rivela invece la sua capacità di intervento sul reale, le sue diramazioni (la memoria), una non evidente propensione a rimandare ad altro, a immaginare. Il punto di partenza è la materia, il colore. Il regista ne ha spiegato la genesi: «Ho cominciato con cose astratte. Un giorno ricomponendo piccoli frammenti di un dipinto strappato mi sono accorto che erano delle montagne. È molto divertente! Uno di questi quadri, visto alla lente, mi procurava strane sensazioni, ero affascinato dalla materia». Il termine materia, appunto, è molto indicativo. La trasformazione “tira fuori” quel che non era visibile (ancora l’idea di “mistero”?), pieni e vuoti, presenze e rimandi, sottrazioni e aggiunte. La fotografia come il cinema, «filmare non è più mostrare ma interrogare il senso del visibile» (José Moure). Il visibile, dunque. Quelle che emergono da questo blow-up sono, forse, delle montagne, linee, limiti e indeterminatezze, profili che lasciano fuori ogni cosa o persona.

Ma, ci si può chiedere, perché queste montagne sono incantate? Forse perché la bellezza delle linee e dei colori produce attrazione e sospensione, un equilibrio incerto tra pieni e vuoti, o forse perché il tempo (che appare “fermato” ma non lo è) tende a sfumare l’immagine, come la luce nell’ultima inquadratura dell’Eclisse. Al fondo, insomma, delle Montagne incantate c’è un forte strato teorico, una riflessione sul suo linguaggio da parte del regista. Le tante considerazioni che si vanno diffondendo, alle volte incautamente, sul rapporto tra cinema e pensiero (cinema e filosofia, per usare la formula) dovrebbero abbandonare l’idea che le immagini, siano o no in movimento, possano solo trasmettere significati problematici, e inoltrarsi una volta di più (qualcuno ce l’ha insegnato…) nel vasto terreno del cinema che produce un proprio autonomo pensiero.

CORTOMETRAGGI 1943/47 | Gente del Po Fotografia: Piero Portalupi; musica: Mario Labroca; produzione: Artisti Associati per la ICET (Milano); durata: 9’. 1948 | N.U. (Nettezza Urbana) Fotografia: Giovanni Ventimiglia; consulenza musicale: Giovanni Musco; produzione: ICET (Milano); durata: 9’. 1949 | L’amorosa menzogna Fotografia: Renato Del Frate; musica: Giovanni Fusco; interpreti: Anna Vita, Annie O’Hara, Sergio Raimondi; produzione: Warner Bros e Produzione Associata Filmus Edizioni Fortuna (Roma); durata: 10’. Superstizione Fotografia: Giovanni Ventimiglia; musica: Giovanni Fusco; produzione: ICET (Milano); durata: 9’. Sette canne un vestito Fotografia: Giovanni Ventimiglia; musica di repertorio; produzione: ICET (Milano); durata: 10’. 1950 | La villa dei mostri Fotografia: Giovanni De Paoli; musica: Giovanni Fusco; produzione: Filmus (Roma); durata: 10’. La funivia del Faloria Fotografia: Goffredo Bellisario e Oscar Ghedina; musica: Teo Usuelli; produzione: Teo Usuelli; durata: 10’. 1983 | Ritorno a Lisca Bianca Soggetto e sceneggiatura: Michelangelo Antonioni; direttore della fotografia: Carlo di Palma; produzione: Rai Tre; durata: 9’ 30’’. 1984 | Fotoromanza (videoclip) Soggetto e sceneggiatura: Michelangelo Antonioni; direttore della fotografia: Luciano Tovoli; produzione: M. La Pira. 1989 | Kumbha Mela Girato nel 1977, edito nel 1989. Produzione: Enrica Fico Antonioni; durata: 18’. 1990 | Roma Soggetto: Michelangelo Antonioni; collaborazione artistica: Giulio Carlo Argan e Maurizio Fagiolo; direttore della fotografia: Carlo di Palma; produzione: Recta Film; durata: 9’ 30’’. 1992 | Noto, mandorli, Vulcano, Stromboli, carnevale Soggetto: Michelangelo Antonioni; fotografia: Felice de Maria; musica: Nicola Sani; produzione: Enel; durata: 8’. 1997 | Sicilia Soggetto: Michelangelo Antonioni; fotografia: Maurizio Dell’Orco; musica: Lucio Dalla; interpreti: Maria Grazia Cucinotta; produzione: Regione Sicilia; durata: 9’. 2004 | Lo sguardo di Michelangelo Soggetto: Michelangelo Antonioni; fotografia: Maurizio Dell’Orco; montaggio: Roberto Missiroli; collaborazione artistica: Enrica Antonioni, Carlo Di Carlo; musica: Magnificat IV toni di Giovanni Pierluigi da Palestrina; produzione: Istituto Luce-Lottomatica; durata: 15’. LUNGOMETRAGGI 1950 | Cronaca di un amore Soggetto: Michelangelo Antonioni; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Daniele Danza, Silvio Giovaninetti, Francesco Maselli, Piero Tellini; fotografia: Enzo Serafin; montaggio: Mario Colangeli; scenografia: Piero Filippone; musica: Giovanni Fusco; interpreti: Lucia Bosè (Paola), Massimo Girotti (Guido), Ferdinando Sarmi (Fontana), Gino Rossi (il detective), Marika Rovsky (l’indossatrice), Rosy Mirafiore; produzione: Franco Villani e Stefano Caretta; durata: 110’.

1952 | I vinti Soggetto: Michelangelo Antonioni, Suso Cecchi D’Amico, Diego Fabbri, Turi Vasile; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Suso Cecchi D’Amico con la collaborazione di Diego Fabbri, Turi Vasile e Roger Nimier (episodio francese); fotografia: Enzo Serafin; montaggio: Eraldo da Roma; scenografia: Gianni Polidori, Ronald Berthon; musica: Giovanni Fusco; interpreti: Etchika Choureau (Simone), Jean Pierre Mocky (Pierre), Jacques Sempey, Henry Poitier, Annie Noël, Guy de Meulan (episodio francese); Anna Maria Ferrero (Marina), Franco Interlenghi (Claudio), Evi Maltagliati (madre di Claudio), Edoardo Ciannelli, Umberto Spadaro, Gastone Renzelli (episodio italiano); Peter Reynolds (Aubray Hallan), Patrick Barr (Ken Watton), Fay Compton, Eileen Moore, Raymond Lovell (episodio inglese). L’episodio inglese, con il titolo “Il delitto”, è stato rieditato in Italia nel film antologico Il fiore e la violenza (1962); produzione: Film Costellazione (Roma) - S.G.C. (Parigi); durata: 110’. 1952/53 | La signora senza camelie Soggetto: Michelangelo Antonioni; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Suso Cecchi D’Amico, Francesco Maselli, Pier Mario Pasinetti; fotografia: Enzo Serafin; montaggio: Eraldo da Roma; scenografia: Gianni Polidori; musica: Giovanni Fusco; interpreti: Lucia Bosè (Clara), Andrea Checchi (Gianni), Gino Cervi (Borra), Ivan Desny (Nardo), Alain Cuny (Lodi), Monica Clay, Anna Carena, Enrico Glori, Laura Tiberti, Oscar Andriani, Gisella Sofio; produzione: Domenico Forges Davanzati - E.N.I.C.; durata: 105’. 1953 | Tentato suicidio (episodio di Amore in città) Soggetto e sceneggiatura: Michelangelo Antonioni; fotografia: Gianni di Venanzo; scenografia: Gianni Polidori; musica: Mario Nascimbene; interpreti: non professionisti (i protagonisti dei fatti raccontati); produzione: Faro Film; durata: 20’. Registi degli altri episodi del film: Zavattini-Maselli, Risi, Fellini, Lizzani, Lattuada. 1955 | Le amiche Soggetto: Michelangelo Antonioni, dal racconto di Cesare Pavese Tra donne sole; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Suso Cecchi D’Amico, Alba De Cespedes; fotografia: Gianni di Venanzo; montaggio: Eraldo da Roma; scenografia: Gianni Polidori; musica: Giovanni Fusco; interpreti: Valentina Cortese (Nene), Eleonora Rossi Drago (Clelia), Madeleine Fischer (Rosetta), Yvonne Fourneaux (Momina), Gabriele Ferzetti (Lorenzo), Franco Fabrizi (Cesare), Ettore Manni (Carlo), Anna Maria Pancani (Mariella), Luciano Volpato, Maria Gambarelli; produzione: Pietro Notarianni per la Trionfalcine; durata: 90’. 1956/57 | Il grido Soggetto: Michelangelo Antonioni; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Elio Bartolini, Ennio de Concini; fotografia: Gianni di Venanzo; montaggio: Eraldo da Roma; scenografia: Franco Fontana; musica: Giovanni Fusco; interpreti: Steve Cochran (Aldo), Alida Valli (Irma), Dorian Gray (Virginia), Betsy Blair (Elvia), Lyn Shaw (Andreina), Mirna Girardi (Rosina), Gabriella Pallotta (Edera), Pina Boldrini, Gaetano Matteucci, Guerrino Campanili; produzione: S.P.A. Cinematografica (Roma) in collaborazione con Robert Alexander Productions (New York); durata: 102’. 1959 | L’avventura Soggetto: Michelangelo Antonioni; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Elio Bartolini, Tonino Guerra; fotografia: Aldo Scavarda; montaggio: Eraldo da Roma; scenografia: Piero Poletto; musica: Giovanni Fusco; interpreti: Monica Vitti (Claudia), Gabriele Ferzetti (Sandro), Lea Massari (Anna), Dominique Blanchard (Giulia), Renzo Ricci (padre di Anna), Esmeralda Ruspoli (Patrizia), Lelio Luttazzi (Raimondo), Giovanni Petrucci (il giovane pittore), Dorothy de Poliolo (la ragazza di Messina), Enrico Bologna, Franco Cimino, Giovanni Danese, Rita Molè; produzione: Cino Del Duca Produzioni Cinematografiche Europee (Roma) - Société Cinématographique Lyre (Parigi); durata: 140’. 1961 | La notte Soggetto e sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Ennio Flaiano, Tonino Guerra; fotografia: Gianni di Venanzo; montaggio: Eraldo da Roma; scenografia: Piero Zuffi; musica: Giorgio Gaslini; interpreti: Jeanne Moreau (Lidia), Marcello Mastroianni (Giovanni), Monica Vitti (Valentina), Bernhard Wicki (Tommaso), Maria Pia Luzi (la ninfomane), Rosy Mazzacurati (Resy), Guido Aimone Marsan (Fanti), Gitt Magrini, Giorgio Negro, Roberta Speroni Fortunati, Ugo Fortunati, Vittorio Bertolini; produzione: Nepi Film (Roma) - Sofitedip e Silver Film (Parigi); durata: 122’.

1962 | L’eclisse Soggetto e sceneggiatura: Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra, con la collaborazione di Elio Bartolini e Ottiero Ottieri; fotografia: Gianni di Venanzo; montaggio: Eraldo da Roma; scenografia: Piero Poletto; musica: Giovanni Fusco; interpreti: Alain Delon (Piero), Monica Vitti (Vittoria), Francisco Rabal (Riccardo), Lilla Brignone (la madre di Vittoria), Louis Seignier (l’agente di borsa), Mirella Ricciardi (Marta), Rosanna Rory; produzione: Interopa Film - Cineriz (Roma) - Paris Film Production (Parigi); durata: 125’. 1964 | Deserto rosso Soggetto e sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra; fotografia (Eastmancolor): Carlo Di Palma; montaggio: Eraldo da Roma; scenografia: Piero Poletto; musica: Giovanni Fusco; musiche elettroniche: da composizioni di Vittorio Gelmetti; interpreti: Monica Vitti (Giuliana), Richard Harris (Corrado), Carlo Chionetti (Ugo), Xenia Valderi (Linda), Aldo Grotti (Max), Rita Renoir (Emilia), Valerio Bartoleschi, Emanuela Paola Carboni, Lili Rheims, Bruno Borghi, Beppe Conti, Giovanni Lolli, Hiram Mino Madonia; produzione: Film Duemila Cinematografica, Federiz (Roma) - Francoriz (Parigi); durata: 120’. 1965 | I tre volti (prefazione: Il provino) Soggetto e sceneggiatura: Michelangelo Antonioni; fotografia (Eastmancolor): Carlo Di Palma; scenografia: Piero Tosi; interpreti: Soraya, Ivano Davoli, Giorgio Sartarelli, Piero Tosi, Dino De Laurentiis, Alfredo De Laurentiis; produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica (Roma); durata: 25’. 1966 | Blow-up Soggetto: Michelangelo Antonioni, liberamente ispirato al racconto di Julio Cortazar La bava del diavolo; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, con la collaborazione di Edward Bond (dialoghi inglesi); fotografia (Metrocolor): Carlo Di Palma; montaggio: Frank Clarke; scenografia: Assheton Gorton; musica: Herbert Hancock; interpreti: David Hemmings (Thomas), Vanessa Redgrave (Jane), Sarah Miles (Patricia), Peter Bowles (Ron), Verushka, Jill Kennington, Peggy Moffit, Rosaleen Murray, Ann Norman, Melanie Hampshire; produzione: Carlo Ponti per la Metro Goldwyn Mayer (Gran Bretagna); durata: 110’. 1970 | Zabriskie Point Soggetto e sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Fred Gardner, Sam Shepard, Tonino Guerra, Clare Peploe; fotografia (Metrocolor): Alfio Contini; montaggio: Michelangelo Antonioni con la collaborazione di Franco Arcalli; scenografia: Dean Tavulatis; musica: composta ed eseguita da Pink Floyd, The Kaleidoscope, Jerry Garcia e altre canzoni; interpreti: Mark Frechette (Mark), Daria Halprin (Daria), Rod Taylor (l’avvocato), Paul Fix (proprietario del caffè), Bill Garaway, Kathleen Cleaver, G.D. Spradlin, l’«Open Theatre» di Jeo Chaikin; produzione: Carlo Ponti per la Metro Goldwyn Mayer (USA); durata: 110’. 1972 | Chung Kuo, Cina Collaborazione e testo: Andrea Barbato; fotografia: Luciano Tovoli; montaggio: Franco Arcalli; suono: Giorgio Pallotta; consulenza musicale: Luciano Berio; produzione: RAI-Radiotelevisione Italiana; durata: 240’. 1974 | Professione: reporter Soggetto: Mark Peploe; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Mark Peploe, Peter Wollen; fotografia: Luciano Tovoli; montaggio: Franco Arcalli e Michelangelo Antonioni; scenografia: Piero Poletto; consulente musicale: Ivan Vandor; interpreti: Jack Nicholson (David Locke), Maria Schneider (la ragazza), Jenny Runacre (la moglie di Locke), Ian Hendry (Martin), Stephen Berkoff (Stephen), Ambroise Bea (Achebe), Jose Maria Cafarel, James Campbell, Manfred Spies, Jean Baptiste Tiemele, Chuck Mc Vehill, Angel del Pozo; produzione: Compagnia Cinematografica Champion (Roma) - Les Films Concordia (Parigi) - CIPI Cinematografia (Madrid); durata: 124’. 1980 | Il mistero di Oberwald Adattamento per lo schermo: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra dal dramma di Jean Cocteau L’aquila a due teste; fotografia: Luciano Tovoli; consulenza per il colore e gli effetti elettronici: Franco De Leonardis; montaggio elettronico: Michelangelo Antonioni e Francesco Grandoni; scenografia: Mischa Scandella; costumi: Vittoria Guaita; collaborazione per le musiche: Guido Turchi; interpreti: Monica Vitti

(la regina), Franco Branciaroli (Sebastian), Elisabetta Pozzi (la madamigella di Berg), Paolo Bonacelli (il conte di Föhn), Luigi Di Berti (il duca di Wallenstein), Amad Saha Alan (Tony); produzione: RAIRadiotelevisione Italiana, Rete 2 TV; durata: 123’. 1982 | Identificazione di una donna Soggetto: Michelangelo Antonioni; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Gerard Brach, con la collaborazione di Tonino Guerra; fotografia: Carlo Di Palma; montaggio: Michelangelo Antonioni; scenografia: Andrea Crisanti; musica originale: John Fox; interpreti: Tomas Milian (Niccolò), Christine Boisson (Ida), Daniela Silverio (Mavi), Marcel Bozzuffi (Mario), Lara Wendel (ragazza della piscina), Veronica Lazar (Carla Farra), Sandra Monteleoni (sorella di Mavi), Enrica Fico (Nadia), Giampaolo Saccarola, Itaco Nardulli, Carlos Valles, Sergio Tardioli, Paola Dominguin, Arianna De Rosa; produzione: Iter Film (Roma) - Gaumont (Parigi); durata: 128’. 1995 | Al di là delle nuvole Regia: Michelangelo Antonioni; soggetto: da Quel bowling sul Tevere di Michelangelo Antonioni; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni, Tonino Guerra, Wim Wenders; fotografia: Alfio Contini; montaggio: Michelangelo Antonioni, Claudio Di Mauro; scenografia: Thierry Flamand; musiche e canzoni: Lucio Dalla, Laurent Petitgand, Van Morrison, U2; interpreti: di “Cronaca di un amore mai esistito” Ines Sastre (Carmen), Kim Rossi Stuart (Silvano); di “La ragazza, il delitto…” John Malkovich (un regista), Sophie Marceau (la ragazza); di “Non mi cercare” Fanny Ardant (Patrizia), Chiara Caselli (Olga), Peter Weller (Roberto), Jean Reno (Carlo); di “Questo corpo di fango” Irène Jacob (la ragazza), Vincent Perez (Niccolò). Prologo, intermezzo, epilogo: regia: Wim Wenders; fotografia: Robby Muller; interprete: John Malkovich. Con l’amichevole partecipazione di Jeanne Moreau e Marcello Mastroianni (intermezzo); produzione: Sunshine – Ciné B – Cecchi Gori Group -Tiger Cinematografica – Road Movies – France 3 Cinèma; durata: 113’. 2004 | Il filo pericoloso delle cose (episodio di Eros) Soggetto: Michelangelo Antonioni, da Quel bowling sul Tevere; sceneggiatura: Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra; fotografia: Marco Pontecorvo; montaggio: Claudio Di Mauro; musica: Enrica Antonioni, Vinicio Milani; interpreti: Christopher Bucholz, Regina Nemni, Luisa Ranieri; produzione: Stéphane Tchalgadjieff per Solaris, Parigi - Domenico Procacci per Fandango, Roma; durata: 30’.

Per una bibliografia esauriente di e su Antonioni fino all’Eclisse si rimanda all’ampio volume antologico curato da Carlo Di Carlo per le edizioni di «Bianco & Nero» (Roma, 1964, pp. 533). Il libro comprende: una biografia, una fotolettura delle opere, alcuni saggi e contributi originali sul regista, un indice di scritti di Antonioni (alcuni dei quali vengono riportati), una antologia di saggi di carattere generale, e l’indicazione bibliografica degli altri, una antologia di recensioni ai film e l’elencazione delle altre. Credo utile, comunque, segnalare sommariamente alcuni dei saggi o delle pubblicazioni di maggior interesse, oggi magari di valore prevalentemente storico. Questi cenni non tengono conto naturalmente delle storie del cinema, dei saggi generali su un periodo del cinema italiano, ecc. G.B. Cavallaro, Michelangelo Antonioni simbolo di una generazione, in «Bianco e Nero», n. 9, settembre 1957. Tino Ranieri, Michelangelo Antonioni, Centro Universitario Cinematografico, Trieste 1958. Fabio Carpi, Michelangelo Antonioni, Guanda, Parma 1958. Renzo Renzi, Michelangelo Antonioni, in «Cinestudio», Quaderni del Circolo Monzese del Cinema, 1959. Bruno Voglino, Michelangelo Antonioni, in «Centrofilm», n. 3, Torino 1959. Paul-Louis Thirard, Michelangelo Antonioni, in «Premier plan», n. 15, dicembre 1960. Vittorio Spinazzola, “Michelangelo Antonioni regista”, in Film 1961, Feltrinelli, Milano 1961. Guido Aristarco, Cinema Italiano 1960 (Romanzo e antiromanzo), Il Saggiatore, Milano 1961. Fernaldo Di Giammatteo e Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni, Centro Universitario Cinematografico, Padova 1961. Pierre Leprohon, Michelangelo Antonioni, Seghers, Parigi 1961. Carlos Fernandez Cuenca, Michelangelo Antonioni, Filmoteca Nacional de España, Madrid 1963. Un posteriore buon repertorio bibliografico è: Ted Perry, René Prieto, Michelangelo Antonioni: A Guide to References and Resources, G.K. Hall, Boston 1986. Un altro punto di riferimento fondamentale è costituito dai volumi editi come parte integrante del “Progetto Antonioni” curato da Carlo Di Carlo per Cinecittà International (Roma). Sono testi pubblicati in lingua francese. Il primo volume (1987, pp. 352, curato da Carlo Di Carlo) contiene un’ampia antologia della critica dal 1954 al 1985. Il secondo (1988, pp. 453, curato da Lorenzo Cuccu) raccoglie, oltre ad alcuni saggi a carattere generale, interventi specifici su Blow-up, Zabriskie Point, Chung Kuo-Cina, Professione: reporter, Il mistero di Oberwald, Identificazione di una donna. Il terzo (1990, pp. 271, fotografico, con saggio introduttivo di Renzo Renzi e una filmografia) è Album Antonioni. Une biographie impossible (anche in edizione italiana). Il quarto (Écrits, 1991, pp. 486 a cura di Giorgio Tinazzi) contiene un’ampia antologia di Antonioni critico, suoi saggi e articoli e riflessioni sul cinema, testi di film non realizzati, racconti, note, ricordi, la biografia generale degli scritti del regista (gli articoli sul colore si possono trovare anche in «Bianco e Nero», n. 6, novembre-dicembre 2001). Il quinto (Entretiens et inédits, 1992, pp. 361, a cura di Carlo Di Carlo e Giorgio Tinazzi) raccoglie interviste (di cui viene fornita anche una bibliografia generale, non esaustiva) e due soggetti inediti. Fuori collana sono usciti: Les images d’Antonioni (1988, a cura di Carlo Di Carlo), con più di duecento fotogrammi tratti da film, e inoltre Cher Antonioni (1988, pp. 110), con articoli prevalentemente sulla produzione degli anni Cinquanta. Il quarto e il quinto volume, rielaborati e diversamente organizzati, hanno dato luogo a due volumi italiani editi da Marsilio. Il primo è Fare un film è per me vivere (Venezia, 1994, pp. 341, a cura di Carlo Di Carlo e Giorgio Tinazzi; edizione americana The Architecture of Vision, Marsilio Publishers, New York 1996), e contiene i principali scritti del regista e le interviste più significative (generali e sui singoli film). Il secondo è I film nel cassetto (Venezia, 1995, pp. 221, a cura di Carlo Di Carlo e Giorgio Tinazzi; edizione spagnola Las películas del cajón, Abada, Madrid 2004;

edizione americana Unfinished Business, Marsilio Publishers, New York 1998) e riporta i testi dei progetti non realizzati. Per completezza si possono vedere anche i soggetti di Scale (in Di Carlo, 1964) e Un documentario sulla donna (in «Tvc», n. 1, agosto-settembre 1966). Un’ampia antologia della produzione critica (con bibliografia) di Antonioni è riportata in: Miche -langelo Antonioni, Sul cinema (a cura di Carlo Di Carlo e Giorgio Tinazzi), Marsilio, Venezia 2004. Per le considerazioni dell’Antonioni critico sul colore si veda «Bianco e Nero», n. 6, novembre-dicembre 2001. Per un’antologia critica su Antonioni possono essere anche consultati i volumetti editi in occasione di alcune manifestazioni dedicate al regista a Milano (Auditorium San Fedele, 1992), Roma (Palazzo delle esposizioni, 1992), Ferrara (Comune, 1993), Ginevra (Festival du film, 1993). Tra i saggi e le monografie (comparsi in volume o fascicoli speciali di riviste) usciti in contemporanea o posteriormente al libro di Di Carlo (1964) serve ricordare: Philip Strick, Antonioni, Motion Publications, Loughton 1963. Peter Covie, Antonioni, Bergman, Resnais, The Tantivy Press, Londra 1963. Roger Tailleur, Paul-Louis Thirard, Antonioni, Editions Universitaires, Parigi 1963. AA. VV., Michelangelo Antonioni (L’homme et l’objet), «Études cinématographiques», n. 36-37, 1964. Aldo Bernardini, Michelangelo Antonioni, Edizioni “I 7”, Milano 1967. Ian Cameron, Robin Wood, Antonioni, Studio Vista, Londra 1968. Pio Baldelli, Cinema dell’ambiguità (Berg man, Antonioni), Samonà e Savelli, Roma 1969. Lorenzo Cuccu, La visione come problema, Bulzoni, Roma 1973. R. Lyons, M. Antonioni’s Neo-Realism, Arno Press, New York 1974. Roy Armes, “M. Antonioni. Figures in a Mental Landscape”, in The Ambiguous Image, Secker & Warburg, Londra 1976. Roland Barthes, Caro Antonioni, Cineteca del Comune di Bologna, Bologna, 1980. AA. VV., M. Antonioni, in «Camera Stylo», novembre 1982. N. Rifkin, Antonioni’s Visual Language, Umi Research Press, Ann Arbor, Michigan 1982. AA. VV., Michelangelo Antonioni. Identificazione di un autore, Pratiche, Parma 1983. Cesare Biarese e Aldo Tassone, I film di Michelangelo Antonioni, Gremese, Roma 1985. Giorgio Tinazzi (a cura di), Michelangelo Antonioni. Identificazione di un autore (vol. 2), Pratiche, Parma 1985. Seymour Chatman, Antonioni, or The Surface of the World, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 1985. Michele Mancini e Giuseppe Perrella, Michelangelo Antonioni. Architetture della visione, 2 volumi, Coneditor, Roma 1986. AA. VV., Michelangelo Antonioni, Luis Cernuda Fondation, Siviglia 1985. Guido Aristarco (a cura di), Su Antonioni, La zattera di Babele, Roma 1988. Nicola Ranieri, Amor vacui. Il cinema di Michelangelo Antonioni, Metis, Chieti 1990. Sam Rohdie, Antonioni, British Film Institute, Londra 1990. Joëlle Mayet Giaume, Michelangelo Antonioni. Le fil intérieur, Yellow Now, Crisnée 1990. Lorenzo Cuccu, Antonioni. Il discorso dello sguardo, Ets, Pisa 1990. René Predal, Antonioni ou la vigilance du désir, Éditions du Cerf, Parigi 1991. Saverio Zumbo, Antonioni. Lo spazio dell’immagine, Ripotes, Salerno-Roma 1995. Aldo Tassone, Antonioni, Flammarion, Parigi 1995. William Arrowsmith, Antonioni: The Poet of Images, Oxford University Press, 1995. Peter Brunette, The Films of Michelangelo Antonioni, Cambridge University Press, 1998. Céline Scemama-Heard, Antonioni. Le désert figuré, L’Harmattan, Parigi 1998. Alberto Achilli, Alberto Boschi, Gianfranco Casadio (a cura di), Le sonorità del visibile, Longo, Ravenna 1999.

David Gianetti, Invito al cinema di Antonioni, Mursia, Milano 1999. José Moure, Michelangelo Antonioni, cinéaste de l’evidement, L’Harmattan, Parigi 2001. Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia 2002. Carlo Di Carlo (a cura di), Il cinema di Michelangelo Antonioni, La Biennale di Venezia-Editrice Il Castoro, Milano 2002. AA. VV., Una poesia per Michelangelo, Il Girasole Edizioni, Valverde 2002. Maria Orsini, Michelangelo Antonioni. I film e la critica, 1943-1995: un’antologia, Bulzoni, Roma 2002. Domènec Font, Michelangelo Antonioni, Cátedra Ediciones, Madrid 2003. Alain Bonfand, Le cinéma de Michelangelo Antonioni, Images Modernes, Parigi 2003. Seymour Chatman, Paul Duncan (a cura di), Michelangelo Antonioni. L’investigation, Taschen, Colonia 2004. AA. VV., Michelangelo Antonioni, Regione Emilia Romagna-Falsopiano, Alessandria, s.d. (ma 2007). Vittorio Giacci, Michelangelo Antonioni. Lo sguardo estatico, Centro Sperimentale di Cinematografia-Associazione B.A. Film Factory, Roma-Busto Arsizio 2008. Laura Rascaroli, John David Rhodes, Antonioni. Centenary Essays, British Film Institute Palgrave Macmillan, Londra 2011. Dominique Paini (a cura di), Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti (catalogo della mostra, Ferrara, 2013), Fondazione Ferrara Arte, 2013. Per la fine del 2013 è annunciata l’uscita del libro di Carlo Di Carlo, un racconto, attraverso le parole di Antonioni, della sua vita artistica, dalla giovinezza al 1985. Per analisi dettagliate su singoli film si vedano anche: Carlo Di Carlo (a cura di), Michelangelo Antonioni, documentalista, Daniela Aronica Edizioni-Festival Internacional de Cine Documental y Cortometraje de Bilbao - Zinebi, 2010 (su tutta l’attività documentaristica); Tullio Kezich, Alessandra Levantesi (a cura di), Cronaca di un amore, Associazione Philip Morris-Progetto cinema, Lindau, Torino 2004; Gian Piero Brunetta, Forma e parola nel cinema, Liviana, Padova 1970 (su Le amiche); George Amberg (a cura di), L’avventura: a Film by Michelangelo Antonioni, Grove Press, New York 1969; Seymour Chatman e Guido Fink (a cura di), L’avventura, Rutgers University Press, New Brunswick 1989; Geoffrey Nowell-Smith, L’avventura, British Film Institute, Londra 1997; Vittorio Giacci, L’avventura, ovvero l’isola che c’è, Centro Studi Eoliani, Lipari, 2000; Federico Vitella, L’avventura, Lindau, Torino 2010; Fernaldo Di Giammatteo, Zabriskie Point, in «Bianco e Nero», n. 5-6, maggio-giugno 1970; G.V. Slover, Blow-up: medium, messaggio, mito e finzione, in «Strumenti critici», n. 5, febbraio 1968; R. Huss (a cura di), Focus on Blow-up, Prentice Hall, Englewood Cliffs (New York) 1971; Jurij Lotman, in Introduzione alla semiotica del cinema, Officina, Roma 1979 (su Blow-up); Philippe Garner, David Alan Mellor, Antonioni’s Blow-up, Steidl, Gottinga 2010. Il libro di Fernando Trebbi Il testo e lo sguardo (Patron, Bologna 1976), è centrato su Professione: reporter (in particolare sulla sequenza conclusiva). Sullo stesso film sono usciti uno studio di Francis Vanoye (in collaborazione con Gabriele Lucantonio) presso le edizioni Nathan (Parigi, 1993), un saggio di Ted Perry in «Film Comment» (n. 11, 1975), un’antologia critica (a cura di Carlo Di Carlo) come supplemento a «l’Unità» (1996). Wim Wenders ha pubblicato un lungo diario, relativo alla lavorazione di Al di là delle nuvole, accompagnato da moltissime fotografie di scena (Il tempo con Antonioni, Edizioni Socrates, Roma 1995). Tra le interviste non comprese in Fare un film è per me vivere vanno ricordate quelle comparse in: «Rolling Stone», 1 marzo 1969; «Écran», n. 36 (1975); «Cinématographe», n. 72, (1981) e n. 82

(1982); «Cahiers du cinéma», n. 342 (1983), «Positif», n. 263 (1983). Sui rapporti con Visconti si veda l’intervista di Lietta Tornabuoni in Album Visconti (a cura di Caterina D’Amico), Sonzogno, Milano 1978. Il testo dell’intervista televisiva di Lino Micciché, in occasione della rassegna “Gli anni Cinquanta visti da Antonioni” di Raidue (1978) è riportato nel citato volumetto edito dal Centro San Fedele di Milano (s.d.). Il testo delle lezioni tenute da Antonioni all’Università di Siena (marzo-giugno 1982, ora in “Bollettino cinema”, Regione Toscana, luglioagosto 1982) è frutto anche di domande di Lino Micciché. Sui singoli film: «Sight and Sound», estate 1964 (su Deserto rosso); «Sight and Sound», 19681969, n.1 (su Zabriskie Point); «Film Quarterly», n. 4, 1975 (su Cina), A chi la Cina? a Fo (testo scritto, in «L’Espresso», ottobre 1972); «Écran», n. 35 (1975) e «La révue du cinéma», n. 298 (1975) (su Professione: reporter); «Cinématographe», n. 84 (1982), «Film Quarterly», n. 4 (1983) (su Identificazione di una donna). SCENEGGIATURE

Presso l’editore Cappelli, nella collana “Dal soggetto al film”, sono state pubblicate le seguenti sceneggiature: Il grido (a cura di Elio Bartolini, 1957), L’avventura (a cura di Tommaso Chiaretti, 1960), L’eclisse (a cura di John Francis Lane, 1962), Deserto Rosso (a cura di Carlo Di Carlo, 1964), Zabriskie Point (introduzione di Alberto Moravia, 1970), Professione: reporter (a cura di Carlo Di Carlo, 1975). Presso Einaudi sono usciti Sei film (Le amiche, Il grido, L’avventura, La notte, L’eclisse, Deserto rosso) nel 1964, Chung Kuo-Cina nel 1974, Identificazione di una donna nel 1983. A Il mistero di Oberwald è dedicato il volume edito dalla Eri (Roma, 1981). Le sceneggiature desunte dalle copie dei film di Deserto rosso, Tentato suicidio, L’eclisse, La notte e Al di là delle nuvole sono state pubblicate da «L’avantscène du cinéma» nel n. 49 del 1965, nel n. 289290 del 1982, nel n. 419 del 1993, nel n. 446 del 1995, e nel n. 449 del 1996. Nella serie retrospettiva dell’editore Cappelli è uscito il volume Il primo Antonioni (a cura di Carlo Di Carlo, 1973) relativo a: I cortometraggi, Cronaca di un amore, I vinti, La signora senza camelie, Tentato suicidio. Comprende inoltre la prima stesura dell’episodio italiano di I vinti e la prima stesura (“Ragioni sentimentali”) di Tentato suicidio. La sceneggiatura di Tecnicamente dolce è stata pubblicata da Einaudi (1976). Il processo di Maria Tarnowska: una sceneggiatura inedita, di Michelangelo Antonioni, Antonio Pietrangeli, Guido Piovene, Luchino Visconti, è stata pubblicata da Editrice Il Castoro (2006). ANTONIONI E LE ARTI

Per l’uso della musica nel cinema di Antonioni fondamentale è: Roberto Calabretto, Antonioni e la musica, Marsilio, Venezia 2012. Opere di Antonioni

Sull’esperienza “pittorica” di Antonioni si vedano: Le montagne incantate, La Biennale, Venezia 1983; Le montagne incantate, Edizioni Carte Segrete, Roma 1992; Le montagne incantate e altre opere, Comune di Ferrara, 1993; Le montagne incantate, Gangemi Editore, Roma 2007. Si veda anche il citato Lo sguardo di Michelangelo (2013). Presso il Girasole edizioni (Valverde di Catania, 1992) è apparso A volte si fissa un punto…, disegni e testi di Michelangelo Antonioni; dello stesso editore anche la raccolta di “appunti” e schizzi con il titolo Comincio a capire (1999). I racconti del regista sono ora raccolti in Quel bowling sul Tevere (Einaudi, Torino 1983; edizione francese Rien que des mensonges, Lattès, Parigi 1985). Alcuni scritti del 1938 e 1939 sono stati raccolti e presentati da Giorgio Tinazzi in «Bianco e Nero», n. 4, luglio-agosto 2001. Nella stessa rivista è apparso (con una nota di Carlo Di Carlo) Storia di un pomeriggio (n. 4, ottobre-dicembre 1997). L’aquilone, scritto con Tonino Guerra, è stato pubblicato da Maggioli, Rimini 1982. Il copione di Scandali segreti è stato pubblicato, a cura di Federico Vitella, da Marsilio, Venezia

2012. Un saggio critico sull’argomento dello stesso Vitella (Michelangelo Antonioni drammaturgo) è apparso in «Bianco e Nero», n. 563, gennaio-aprile 2009. DOCUMENTARI SU ANTONIONI

Michelangelo Antonioni storia di un autore, regia di Gianfranco Mingozzi, Italia- Canada, 1966 (durata 58’). Caro Antonioni, regia di Gianni Massironi, Rai, 1995 (durata 120’). Fare un film è per me vivere (backstage di Al di là delle nuvole), regia di Enrica Antonioni Fico, Arte-Titti Film, Italia-Francia, 1996 (durata 52’). Antonioni su Antonioni, regia di Carlo Di Carlo, Cineteca di Bologna, 2008 (durata 55’). La citata intervista televisiva di Lino Micciché è stata realizzata per la Rai nel 1978.