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Italian Pages 192 [196] Year 1998
T.J. KLINE
EFFETTO CINEMA
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1 film di BERNARDO BERTOLUCCI
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T. JEFFERSON KLINE
1 film di BERNARDO BERTOLUCCI Cinema e Psicanalisi
GREMESE EDITORE
Per l’edizione italiana 1’ Autore e l’Editore desiderano gentilmente ringraziare Elena Marco, Metka Kosak, Sevilla Delofski, Julie Oudot, Jocelyn Cousins, Corbett & Keene, Hercules
Bellville, Jean-Paul Dorchain e l’attenzione indefessa della PARTNER asbl. per la supervisione del testo, la filmografia e la ricerca iconografica.
Titolo originale: Bertolucci’s Dream Loom. A Psychoanalytic Study of Cinema. © The University of Massachusetts Press, 1987 © T.J. Kline, 1993 © Bernardo Bertolucci, 1993 per l’intervista su Piccolo Buddha © Fabien Gerard, 1993 per la prefazione Traduzione dall’inglese: Marcello Cavagna Fotografie: Archivio PARTNER asbl., T. J. Kline, Archivio Bertolucci, Sahara Limited Company Copertina: Antonio Dojmi Foto di copertina: Sahara Limited Company Fotocomposizione:
Graphic Art 6 - Roma Fotolito:
Bondani Blc. - Roma
Stampa: Tipografia Società Poligrafica Futura ‘93 - Ariccia (Roma)
© 1994 GREMESE EDITORE s.r.l. Casella postale 14301 - 00149 Roma Tutti i diritti riservati. Nessuna parte del presente volume può essere riprodotta, registrata 0 trasmessa, in qualsiasi modo o con qualsiasi mezzo, senza il preventivo consenso formale dell’Editore.
ISBN 88-7605-797-8
Dagli
Appennini
all'Himalaya
Mai, nella storia di Hollywood, una produzione indipendente europea era stata premiata da tutti i professionisti del cinema americano come quella sera del 12 aprile 1988, che fece quasi “imperatore” il regista, appunto, de L'ultimo imperatore. Allo stesso tempo, le nove leggendarie statuine dorate che ricompensavano Bertolucci e i suoi collaboratori giustamente riportavano l’attenzione anche sull’iter esemplare di questo autore venuto dalla poesia, le cui nove opere precedenti ora meritavano di essere rivisitate alla luce di nuove prospettive. Di vecchia famiglia parmigiana, Bernardo Bertolucci ebbe i natali in campagna, a Baccanelli, il 16 marzo 1941. La mamma, Ninetta, nata Giovanardi a Sidney, di madre irlandese, era allora insegnante di Lettere, mentre il babbo — il poeta Attilio — faceva il professore di Storia dell’arte, e anche il critico cinematografico sulla gloriosa Gazzetta di Parma. Interrogata qualche anno fa, l’anziana maestra di Bernardo lo ricordò come un alunno «quasi perfetto» ma anche un pochino disordinato «che portava il collettino bianco di traverso e non si faceva mai tagliare i capelli». Se non gli era molto piaciuta la matematica, spiccava subito invece
«la mente
eccezionale»,
nonché
la gran bontà e disponibilità
verso gli altri: «Appena vedeva un compagno in difficoltà, gli diceva: “Tu scrivi il tema. Ma prima di consegnarlo fammelo vedere che te lo correggo io!”». Di quegli anni, a Bernardo invece piace forse di più ricordare i momenti di libertà, che da bambino usava dividere «tra le mucche e i libri». Ma appena fu in età di accompagnare il padre in tram verso la città — alla maniera di certi personaggi di Murnau —, i due complici andavano a sognare insieme gli stessi sogni al buio del Lux o del Supercinema Orfeo, dove Attilio svolgeva il suo lavoro di critico, instillando naturalmente, prima in Bernardo, poi nel secondogenito Giuseppe, la passione per la Decima musa.
Perciò non deve meravigliare il fatto che, appena quindicenne, il ragazzo, già esperto di René Clair, di Jean Renoir e di John Huston, tra-
scorresse le ferie girando, con una cinepresa da 16mm ricevuta In prestito, due brevi film finanziati coi soldini che aveva in tasca. La prima pellicola raccontava di un pomeriggio di mezz’estate in cui il piccolo Giuseppe si perdeva con due cuginette in un bosco dell’Appennino durante una spedizione in cerca di una vecchia teleferica distrutta; la seconda catturava il rito dell'uccisione del maiale nel podere famigliare, a novembre.
Intanto, nei primi anni Cinquanta, Attilio aveva deciso di abbandonare l'insegnamento per trasferirsi con i suoi nella capitale, dove potersi dedicare ad attività sempre più letterarie. Nelle stesso condominio di
Monteverde
sarebbe venuto ad abitare, qualche anno dopo, anche
(©,
La famiglia Bertolucci al completo, ca. 1958.
Roma, fine anni Cinquanta:
il poeta adolescente di In cerca del mistero qui assorto nella lettura de Il passaggio di Enea di Giorgio Caproni.
l’amico Pier Paolo Pasolini, che Attilio aveva aiutato a pubblicare da Garzanti il romanzo Ragazzi di vita. Lo scrittore stava allora per iniziare le riprese del primo film come regista e, conoscendo la passione del giovane vicino di casa, offrì a Bernardo di fargli da aiuto sul set di Accattone. Correva l’anno 1960. L'esperienza doveva rivelarsi decisiva: sull’onda del successo di Accattone, un produttore «forse colto da un accesso di follia», commenta
Bertolucci, propose all’aspirante regista non solo di sceneggiare ma anche di dirigere La commare secca, ugualmente tratto da un soggetto pasoliniano ambientato nel giro della prostituzione di borgata. Così, a soli ventun anni, Bernardo Bertolucci divenne, quasi suo malgrado, uno
dei più giovani registi professionisti nella storia del cinema. Il film, buttato nell’“arena” della Mostra veneziana del 1962, si scon-
trò subito con gran parte della critica, specialmente italiana. Il fatto che, il giorno prima, il nostro enfant prodige avesse vinto il prestigioso Premio Viareggio per la sua raccolta di versi /n cerca del mistero — categoria Opera Prima — non giovò probabilmente all’interessato, e alcuni critici non esitarono ad esortare «Bertolucci Junior» a lasciar perdere il cinema per dedicarsi ai suoi cari versi... Come spesso succede in questi casi, doveva realizzarsi proprio il contrario! «Essendo la poesia il regno di mio padre» ricorda il regista, «dovetti per forza trovare un linguaggio che fosse invece tutto mio. E la mia vocazione era di scrivere delle storie usando la macchina da presa».
Il secondo lungometraggio di Bertolucci, Prima della rivoluzione, girato nel 1963, fu definito un film più “personale” — nel senso che era
questa volta anche in parte autobiografico. Scritto in collaborazione con
Gianni Amico, narra una stagione nella vita di un giovane comunista di buona famiglia parmigiana che non per caso porta lo stesso nome dell eroe della mitica Certosa di Stendhal. La sua crescente disillusione di fronte alle nuove aspirazioni consumistiche del proletariato nel quale aveva riposto tutte le sue speranze, farà poi tornare il Fabrizio bertolucciano in seno alla propria classe, ponendo anche fine a una relazione clandestina con la zia Gina, interpretata nel film da Adriana Asti, allora
compagna del regista nella vita.
Sopra, a sinistra: il giovanissimo regista e i suoi altrettanto
giovani
attori nel bosco di eucalipti de La commare secca (1962).
A destra: Bertolucci fa da maestro al posto di Morando Morandini nella scena finale di Prima della rivoluzione (1964).
Nel 1961, il ventenne Bernardo
Bertolucci faceva da aiuto regista al vicino di casa Pier Paolo Pasolini sul mitico set di Accattone.
Nel 1967 Sergio Leone chiese all'autore di Prima della rivoluzione di scrivergli il trattamento di C'era una volta il West.
Nonostante qualche premio a Cannes, Prima della rivoluzione non incontrò però il suo pubblico fino all’uscita a Parigi in una sala del Quartier Latin, nel dicembre 1967. Solo allora gli studenti francesi che,
da lì a poco, sarebbero diventati gli “arrabbiati” del Maggio ’68, sentirono di riconoscere in Fabrizio un’eco profetica della loro stessa scontentezza. Dall'altra parte dell’Atlantico, invece, i critici del New York Festival cominciavano a salutare unanimi il giovane «Orson Welles di Parma», sempre ignorato dal pubblico in patria. Nel frattempo, la tarda uscita di Prima della rivoluzione all’estero aveva costretto il giovane professionista a un lungo periodo di inattività, a stento compensato dal lavoro documentaristico de La via del petrolio, e dall'episodio Agonia nel film collettivo Vangelo 70 (distribuito solo nel 1969, col nuovo titolo Amore e rabbia), che iniziò Bertolucci alla dram-
maturgia molto particolare del Living Theatre di Julian Beck. La ruota della fortuna doveva riprendere a muoversi nella direzione giusta quando, nel 1967, Sergio Leone affidò al Nostro, insieme a Dario Argento, il soggetto di C’era una volta il West, che grazie all'apporto dei due giovani cinéphiles contiene in realtà un’impressionante serie di citazioni alla Godard
di tutti i vecchi western
da loro più amati — di cui probabil-
mente Leone stesso rimase sempre ignaro!
Di nuovo “in sella”, Bernardo persuase allora il cugino Giovanni Bertolucci a fargli da produttore per imbarcarsi insieme nel progetto di un terzo lungometraggio, girato in presa diretta e in Technicolor, e nell’aprile 1968 iniziavano le riprese di Partner, moderna trasposizione
Julian Beck e i membri del Living Theatre nel mediometraggio Agonia, ispirato alla parabola evangelica del Fico infruttuoso (1967).
del Sosia di Dostoevsky con, come doppio protagonista, il francese Pierre Clémenti. Subito stravolta dai fatti del Maggio parigino, la sceneggiatura andò praticamente
riscritta sul set, seguendo
giorno per
giorno l’attualità proveniente dalla Francia, fino a trasformare il film in una cronaca allucinata dell’incontro tra un intellettuale introverso e il suo “doppio”, un rivoluzionario, portando alle estreme conseguenze il famoso motto: «L’imagination au pouvoir!». | Presentato in competizione a Venezia, il film, poco risolto sul piano stilistico, fu giudicato con molta severità da quasi tutti, regista compresO. Lo stesso anno, tornata la calma dopo la tempesta, Bertolucci fece però la scelta di contestare a suo modo certe posizioni estremistiche degli stessi contestatori, prendendo la tessera del PCI.
Partner, In diretta contrapposizione alla frenesia tutta nevrotica di ia del Strateg ivo una serenità quasi olimpica caratterizzò l’anno success appena lisi psicana della ne ragno, concepito durante le prime settima Tema del traditoiniziata dal cineasta. La trama, liberamente ispirata al a padana che cittadin magica una in svolge re e dell'eroe di Borges, si Taro, rivisitato fiume il lungo tato ambien western sembra uscita da un
Il regista al lavoro con Pierre Clementi sul set di Partner (1968).
le regioni più da Magritte e De Chirico. In questo viaggio attraverso passo l’inpasso psiche, Bertolucci ci invitava a seguire profonde della
iotta antifascista, per fare dagine condotta dal figlio di un “eroe” della
irent'anni prima. luce sul misterioso assassinio del padre avvenuto di questo film reaonisti protag due i erano Alida Valli e Giulio Brogi d’es-
anche nel circuito lizzato per la RAI, ma distribuito con successo
l’inizio di un ricco s0sai. Questa felicissima esperienza segnava pure della fotografia, Vittorio dalizio tra il cineasta e il suo nuovo direttore Storaro.
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Dopo la lavorazione de Il conformista (1970) Bertolucci incontrò il montatore Franco Arcalli, che diventerà anche suo cosceneggiatore.
Appena compiuto l’ultimo giro di manovella di Strategia del ragno, nell'estate 1969, Bertolucci ne posticipò il montaggio per poter iniziare immediatamente i preparativi de // conformista, coproduzione italo-franco-tedesca con Jean-Louis Trintignant, Stefania Sandrelli
Sanda. Il film, tratto dal romanzo
e Dominique
di Moravia, presenta, anche questa
volta, un conflitto edipico sullo sfondo del Ventennio
Nero, attraverso il
quale il regista riuscirà a disegnare il lucidissimo ritratto di una “vocazione totalitaria”. // conformista, che beneficiò questa volta della distri-
buzione internazionale della Paramount, doveva pure essere il primo notevole successo commerciale di Bertolucci, e venne subito salutato dai vari Coppola, Scorsese, Schrader e De Palma come il primo “classico” del nuovo decennio — perfetto esempio, per questa giovane generazione di cineasti americani, di opera capace di sviluppare una ricerca d’autore, catturando anche un largo pubblico.
Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi.
Il cineasta e Jean-Pierre Léaud,
preparano una scena nell’appartamento di Ultimo tango a Parigi (1972).
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Le clamorose polemiche che accompagnarono l’uscita di Ultimo tango a Parigi oscurarono invece il vero e proprio “scandalo” di questo film, di natura forse più profondamente
estetica che meramente
erotica. Invero
lo spettacolo di uno maturo mostro sacro hollywoodiano quale Marlon Brando che accetta di togliersi tutte Ie maschere di una carriera davanti all'obiettivo per mettere a nudo la propria anima, non era ancora cosa
molto comune nel 1972. «Un film che ha mutato il volto di un’arte» lo definì allora l'autorevole Pauline Kael, paragonando lo sconvolgimento del pubblico in occasione della première del film a New York, con l’impressio-
ne suscitata dalla storica prima rappresentazione de La sagra della primavera di Stravinsky, a Parigi, nel 1913. Per il resto, non rimane che au-
gurarsi che le schiere di spettatori che speravano di imparare tutto quello che avrebbero voluto sapere ma non avevano mai osato chiedere sul mitico pas de deux argentino, si siano lasciate anche vincere dall’inaudita
potenza emotiva di questo cupissimo dramma della solitudine. Condannato poi in Italia, al termine di un isterico processo, il regista per poco non finì sul rogo insieme alla sua pellicola, per ritrovare il diritto di voto solo cinque anni dopo. Nonostante l’evidente equivoco, il fenomenale successo di cassetta di Ultimo tango a Parigi era valso a Bertolucci una solida credibilità commerciale. Lo stesso produttore, Alberto Grimaldi, gli diede così la necessaria libertà per impegnarsi nell’epica impresa di Novecento, girato per ben dodici mesi a cavallo tra il 1974 e il 1975. Scritta insieme al fratello Giuseppe e al montatore “Kim” Arcalli basandosi sulla stessa memoria famigliare che avrebbe prodotto anche La camera da letto di Attilio Bertolucci, questa ambiziosa epopea lunga cinque ore, con cast internazionale, narrava la nascita dell’utopia rivoluzionaria dei lavoratori della terra, in Emilia, dall’inizio del secolo fino alla caduta del Fascismo. In centro al racconto, i destini paralleli di un padrone e di un contadino
cresciuti nello stesso podere: nemici di classe ma fratelli di sangue, nei quali si riconoscono facilmente le due facce di un autore da sempre iravagliato dal “peccato originale” di non essere nato povero...
Attraverso la presenza di Francesca Bertini in Novecento (1976), Bertolucci rendeva
anche omaggio al cinema dell'inizio del secolo.
Voluto come una specie di «monumento alle contraddizioni del sistema capitalista», era prevedibile che questo film-sfida, contenente quasi più bandiere rosse che in tutta la storia del cinema sovietico, uscisse di programmazione negli Stati Uniti dopo solo qualche giorno, sia pure In una versione già amputata di settantacinque minuti. Più cinica ancora sarà finalmente la sua ricomparsa nelle sale americane in versione integrale nel 1991 — ormai annientato il pericolo rosso!
S Durante una pausa di Novecento, il regista (di spalle) in
Tra Anna Maria Gherardi e Burt Lancaster, il regista
Durrenberger, collaboratrice anche di Luis Bufivel.
"falso testamento” in Novecento (1976).
discussione con la segretaria di edizione Suzanne
sostituisce Romolo Valli durante le prove della scena del
Bertolucci dirige una scena di massa di Novecento (1976). All’estrema sinistra,
l’aiuto regista Clare Peploe. A destra, l'operatore Enrico Umetelli. Con pareri non meno contrastanti fu presentato alla Mostra veneziana del 1979 La /una, che racconta di una cantante operistica trasferita
a New York e del suo difficile rapporto col figlio tossicodipendente, durante un viaggio che li porterà in Italia. Il tema dell’incesto, cui più volte Bertolucci aveva alluso in precedenza come chiaro fantasma di trasgressione sociale, viene qui affrontato per la prima volta alla luce del giorno. In realtà, man mano che la storia del film va avanti, le convenzioni melodrammatiche che abitano i vari personaggi interpretati dalla diva sul palcoscenico cominciano a prendere il sopravvento sulla sua vita privata, al punto di stravolgere in alcuni momenti il comune senso della ragione...
Allo scopo di contrappuntare le forti tensioni psicologiche di questa sua “opera” cinematografica, il cineasta volle pure ricordarsi talvolta di certi effetti da commedia “sofisticata”, ma sembra che il cocktail Verdi-
Sirk-Lubitsch, preparato con la complicità, tra l’altro, della stessa signora Bertolucci, la regista inglese Clare Peploe, abbia sconcertato non pochi spettatori. Il pubblico più affezionato non doveva essere meno sorpreso da La
tragedia di un uomo ridicolo, sugli schermi nel 1981. Il film ci porta nuovamente nella campagna parmense, ma gli ex partigiani comunisti di Novecento sono oggi diventati i “nuovi ricchi” dell’industria agro-alimentare, e quindi anche i perfetti bersagli per i primi sequestri di persona registrati nella regione. Infatti, pochi minuti dopo l’inizio dell’azione, il padrone Ugo Tognazzi assisterà dal tetto del caseificio al rapimento del figlio, il quale a un certo punto verrà ucciso dai terroristi, per poi tornare misteriosamente in vita! Va precisato che la volontaria confusione della trama ricorda alcuni noti «incubi narrati da un ubriacone» — per dirla con Sadoul — tipo // falcone maltese o Il grande sonno. E forse lì si trova una delle chiavi stilistiche di questo film assai onirico, nato anche dalla frustrazione del regista di non aver potuto concretizzare in quegli anni l'ambito progetto di Piombo e sangue, dal giallo molto “nero” di Dashiell Hammett.
Bertolucci, Mark aa e Enzo
Ungari con Pu Cich, fratello di Pu Yi.
Presto però gli anni Ottanta dovevano aprire insospettati orizzonti all'universo bertolucciano quando, nel 1982, un collaboratore del Marco Polo televisivo portò a Roma una copia dell’autobiografia dell’ultimo imperatore di Cina, in cui Bertolucci subito individuò il fascino di un desti-
Incontro sul set della Città Proibita, nel 1986, tra Dacia Maraini, Alberto Moravia e Bertolucci.
Chino su John Lone, Bertolucci cerca
col mirino il punto di vista idoneo per riprendere il tentato suicidio di Pu Yi (L'ultimo imperatore, 1987).
Il regista col giovane pechinese Wu Tao nella parte di Pu Yi adolescente.
no vissuto come un sogno, che gli offriva anche la possibilità di compiere, attraverso lo sfarzo di un affresco quasi viscontiano, che ricorda pure altre affinità col grande “condottiero marxista”, la dovuta sintesi dei temi da lui sviluppati per i primi vent'anni di carriera. Se il processo improvvisato in mezzo all’aia, nella scena finale di Novecento, aveva fallito a trasformare il padrone Alfredo Berlinghieri in un umile lavoratore della terra come Olmo, ora sarebbe riuscita la “rieducazione” di Pu Yi a trasformare il Signore di Diecimila Anni in un semplice giardiniere? In altre parole, sembra chiedersi Bertolucci al termine di una lunghissima esperienza analitica, fino a che punto è possibile per un individuo trasformare il proprio destino — e rinascere un giorno a se stesso?
A destra, l'attore cinese Ying
Ruocheng, che ne L'ultimo imperatore
era il direttore del carcere, e tornerà a lavorare in Piccolo Buddha.
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Attilio Bertolucci in visita sul set romano de L'ultimo imperatore.
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Di ritorno da questo primo soggiorno lontano dall’Italia, che certo altro non era che un viaggio sempre più profondo alla scoperta di se stesso, Bernardo Bertolucci aveva un appuntamento a Tangeri col romanziere del Tè nei deserto, l’ottantenne Paul Bowles, per attraversare insieme il nudo labirinto del Sahara in cerca di risposte ad alcune domande fondamentali. Alla sconfinatezza dell’ambientazione faceva qui contrappunto lo sguardo decisamente intimistico portato sui due protagonisti, Kit e Port Moresby, una coppia di intellettuali americani in viaggio in Africa nell'immediato dopoguerra, in fuga sia dai valori della codire siddetta civiltà occidentale che dai loro propri sentimenti — per non esistensapore di tema questo caso, a Non identità. dalla loro propria — cozialista risultò molto congeniale allo sceneggiatore Mark Peploe prosono che quelli firmò gnato del regista — che, negli anni Settanta, Antonioni. dell’ultimo babilmente anche i migliori soggetti
iniziata Per completare con Piccolo Buddha la «trilogia dell’altrove» appello pure farà cci Bertolu volta terza la per tore, con L'ultimo impera izzato nei koal suo produttore inglese Jeremy Thomas, ormai special . All’origine zionale interna o lossal indipendenti europei miranti al mercat di autentici gruppo un da l’altro tra dell’inconsueto progetto, interpretato dell’Himavalli alle fondo in troupe la monaci tibetani che ospitarono
giullare di Dio laya, si ritrova senz'altro il ricordo di Francesco, imparare oggi di za dell’amatissimo Rossellini, ma anche, forse, l'urgen e spiritua-
pragmatismo tutti insieme qualcosa in più dall'Oriente, dove le due facce della come i, lità continuano a funzionare, da vari millenn stessa medaglia. diversamente da Pu Forse si potrebbe aggiungere che, non molto e dei suoi antenati, riYi, il principe Siddhartha fuggì il palazzo-prigion sofferte prove, raggiunse nunciò al conforto dei suoi privilegi e, dopo
Il regista e il suo produttore inglese Jeremy Thomas, all’epoca de Il tè nel deserto (1990).
Bernardo Bertolucci, insieme al
fratello Giuseppe, durante la
lavorazione di Piccolo Buddha (1993).
quella pace interiore che fece di lui il “Buddha”. Diversamente da Puc: è di propria volontà che Siddhartha abbandonerà la vita mondana, e anche dirigerà da solo la sua “rieducazione”, consapevole che qualsiasi cambiamento, qualsiasi reincarnazione, qualsiasi rivoluzione, finisce prima o poi in un fuoco di paglia se non nasce in partenza nel cuore profondo di ogni individuo.
Tutti ricordano che, come il suo “doppio” Bernardo Bertolucci, il Fabrizio di Prima della rivoluzione si aggirava pasolinianamente in cerca dell’«Uomo Nuovo» capace di fare da padre al proprio padre. E tutti ricordano pure, nello stesso film, la lettura ad alta voce di Gina, del libro
del monaco buddista Milarepa... Gina come Arianna? Fin dal 1964, l’Alpha e l'’Omega della ricerca erano pure lì sullo schermo, a pochi metri l’uno dall'altro. Per riunirli, un po’ alla maniera di Joe che riunisce Giuseppe e Caterina nel finale de La /una, al regista rimaneva solo da compiere la prova del labirinto attraverso le buie viscere dei dieci film venturi, per imbattersi finalmente, non nel Minotauro, bensì nella foto di
un bambino biondo che, un paio di anni fa, fece notizia sui giornali dopo essere stato riconosciuto da un gruppo di Tibetani quale “reincarnazione” del loro defunto maestro. In questo senso, le ultime immagini di Piccolo Buddha echeggiano davvero le parole di Fabrizio: «lo volevo un Uomo Nuovo; un’umanità di figli che siano padri per i loro padri...».
Collegamenti di questa natura, che tentano di ricostruire la verità segreta di una creazione giocando con i vari elementi costitutivi dell’opera, quasi ci trovassimo di fronte a un sogno o un puzzle (che poi sarebbe la stessa cosa), sono sempre pericolosi e perciò vanno legittimati solo in rarissime occasioni. Indubbiamente, una di queste occasioni è stato l’incontro tra il cinema di Bernardo Bertolucci e il lavoro d’interpretazione portato avanti da T. Jefferson Kline nei saggi raccolti in questo volume. Se l’artista rimane pur sempre il protagonista e l’analista il solito voyeur, per molti anni una comune sensibilità aveva portato sia il regista che il suo spettatore privilegiato ad esplorare, ognuno in cerca del proprio mistero, lo stesso “buco nero” che viene chiamato Inconscio. Perciò, Bertolucci e Kline, nonostante non lavorino sulla stessa sponda del fiume — anzi dell’Oceano —, parlano tutti e due la stessa lingua, e forse solo in queste condizioni l’analisi poteva risultare così costruttiva. Nell'edizione originale, il titolo completo del libro fa anche esplicito riferimento all’affascinante «telaio del sogno» (dreamloom) sul quale, giorno e notte, film dopo film, continua a lavorare Bernardo Bertolucci,
secondo Kline. Difatti, è proprio ad una straordinaria discesa nelle miniere di un re sognatore che ci invita l’autore, nelle pagine che ora se-
guono. Fabien S. Gerard
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Introduzione
Mi starebbe bene se i film divenissero un modus vivendi... Purtroppo, c'è ancora una specie di specchio o di cristallo da attraversare... Ho detto di specchio o di cristallo perché, al di là, ogni cosa si muove come in un altro mondo. Bernardo Bertolucci
Bertolucci e lo specifico del cinema «Che ci fa qui l’amore?» grida la donna anziana nella giuria del concorso di ballo in Ultimo tango a Parigi: «Andate al cinema se volete vedere l’amore!». E così sarebbe stato per
cammina accanto a me. Fare un film è un modo di vivere. Se togliamo il titolo del film e la parola “Fine”, e mettiamo i film tutti insieme, avremo le sembianze di un uomo, di un autore, trasferito in molti e diversi personaggi, naturalmente. Ma il film è uno solo.
tutta l’Italia, se la censura non avesse messo all’indice questo
film considerato dalla critica d’oltreoceano come «il film più potentemente erotico della storia del cinema».' Negli Stati Uniti il film fu un successo immediato che valse al suo autore una fama internazionale, coronata quindici anni più tardi dai nove Oscar de L’ultimo imperatore. Però, gli argomenti politicamente impegnati e psicologicamente conturbanti del cinema di Bertolucci non hanno mai smesso di inquietare lo spettatore italiano. Anzi, alcuni critici in Italia propendono a credere che il meglio sia stato dato nei film di marca e ambiente italiani: La commare secca, ad esempio, Prima della rivoluzione, Il conformista, e persino Novecento, hanno una vena di assoluta autenticità che sembra mancare ai film usciti in seguito. Da Partner in poi si può osservare la presenza di un gusto transalpino. In Partner e in Ultimo tango a Parigi sono rinvenibili tracce, per così dire, ‘“godardiane”. Ne La luna, lo spettro dell’ America compare all’orizzonte; ne L’ultimo imperatore e Il tè nel deserto ci sono culture dense di esotismo. E Piccolo Buddha contribuirà poco a invertire questa tendenza. Tutto ciò porterebbe a illazionare che Bertolucci abbia perso di vigore, che il suo cinema sia meno sconvolgente, inadatto a sostenere l’intensità del genio creativo dei primi capolavori. La tesi di questi saggi è di asserire che l’opera bertolucciana ha sofferto di una interpretazione parziale, se non miope; i singoli film sono giustamente valutati e debitamente apprezzati se posti in una luce diversa: quella di un solo grande quadro. Lo stesso regista, del resto, avallò questa ipotesi:
Il cinema nella vita non è un momento eccezionale. Vorrei che il cinema andasse di pari passo con la vita. Io sto sempre facendo un solo film... È un solo film, anche se ci sono più titoli o capitoli. È lo stesso, e
«Il film è uno solo». Si potrebbe anche dire: è «una sola poesia». L'esordio di Bertolucci fu appunto in qualità di poeta, figlio di un altro grande poeta, Attilio Bertolucci. La sua prima ed unica raccolta di poesie, In cerca del mistero (1962), premiata col Premio Viareggio nel 1962, presentava molti dei temi e delle immagini che avrebbero caratterizzato il cinema a venire. Che voglia di scappare via da Roma, senza dir niente
in famiglia e alla gente che mi saluta per via,
se scopro che cosa muta sulle gote e nella pupilla di una madre — come brilla e arde la figura seduta felice ed obbediente della bruna giovane in una fotografia! Perdonami se sai amare la viltà di tuo figlio, intento a soffrire a voce alta, per farsi sentire.’
Il ricordo della madre in questa poesia “incapsula” (secondo l’espressione di Gil Noam) gran parte della creatività cinematica di Bertolucci, poiché vedere la madre e essere visto dalla madre sono due facce della stessa medaglia: vale a
dire, la ricerca di un’identità.' La maniera in cui la poesia de-
linea lo sguardo materno — quando la frase «se scopro che cosa muta» estende questa proiezione nel campo cinematico? — suggerisce che il cinema è la matrice di uno sguardo creativo. La volontà del poeta di «soffrire a voce alta» per farsi udire, gemella sguardo materno ed espressione poetica. Ven-
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Il conformista (1970). Davanti a Marcello, il professor
Quadri ripete la “messinscena” del suo corso su Platone (Jean-Louis Trintignant).
Da un certo punto di vista, l’intera opera di Bertolucci può essere compresa come una guerra di indipendenza — ambivalente, prolungata — da due figure paterne: il padre anagrafico, Attilio, e Pier Paolo Pasolini, il padre eletto. Quest'ultimo — di cui dirà in una poesia: «Vicino a te, timida
ticinque anni dopo Bertolucci avrebbe eloquentemente definito la propria opera una lunga sequenza di «scene madri». Quanto all’azione’, i suoi film, con riguardo al tema della madre, conoscono un'evoluzione dalle prime figure materne, non più che surrogati, alla madre incestuosa de La luna. Lungo questa traiettoria il regista svolgerà una ricchissima meditazione sulla ontologia cinematica e la figura materna. Ma questa definizione potrebbe anche essere «scene antipadre», tali sono le proporzioni che assume la lotta contro la figura paterna. La carriera di Bertolucci era iniziata come poeta, imitando le orme del padre. Dal giorno in cui iniziò la lavorazione del primo film, chiuse «definitivamente con la poesia», così ha dichiarato.* Ciò nonostante, rimase preso da «un bisogno competitivo di trovare la propria identità cinematografica». Un altro linguaggio, questa volta “più sensuale” attirò dunque Bertolucci. Ma anche codesto fu il padre ad insegnarglielo. Non solo Attilio fu la sua influenza poetica maggiore, ma: «Mio padre mi insegnava a guardare il cinema, a capire il cinema, ad amare il cinema. Il mio amore per il cinema dipende quindi in gran parte dal suo amore per il cinema». Questo indebitamento diede subito il via a una reazione emulativa: «Jo ho avuto la fortuna di poter guardare a una cultura, anche cinematografica, che esisteva prima di me, di avere ) delle radici, magari per potermene liberare».
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come una sposa/era la mia emozione» —, dando al giovane Bertolucci la prima occasione di accostarsi al cinema, costituì l’influenza maggiore dei primi lavori. Questo complesso paterno verrà figurato in molti modi e tematizzato in diverse forme. La raffigurazione più lampante si trova in Strategia del ragno, dove il protagonista è l’esatto sosia del'padre defunto. Se la libertà dall’autorità paterna passa attraverso il conflitto tra linguaggio poetico e cinematico, si può agevolmente sostenere che il rapporto testo letterario-film sia stato centrale nelle opere giovanili. Se Bernardo Bertolucci definisce La commare
secca come
«un film non veramente
mio», è pro-
prio perché il soggetto e il linguaggio verbale appartenevano a Pasolini.
I tre film successivi
(Prima della rivoluzione,
Partner, Il conformista) sono adattamenti di testi letterari. Essi danno libero sfogo alla scontro con l’autorità (meno presente, ma non meno simbolica) del logos paterno, e in tutta l’ambivalenza e l’angoscia che questo comporta. La risonanza di questo tema si estende a tutta l’opera bertolucciana. Raggiunge però un'intensità particolare in questi film, e rappresenta la soluzione più complessa e creativa al problema dell’identità, o per Bertolucci, se vogliamo, della voce poetica, anzi, dell’“immagine” poetica. Sotto questo termine confluiscono le due problematiche che avrebbero informato l’attività cinematica che intercorre tra gli anni 1963-1968: identità personale ed espressione cinematica.
Scene madri o scene padri che si voglia, i film nel complesso presentano una «ricerca frenetica di identità».! Il titolo del florilegio poetico può essere considerato anticipatore: In cerca del mistero. Tuttavia, identità e specifico del linguaggio cinematico rimangono difficili da scoprire, ancor più da manipolare: «Ho molte storie» disse Bertolucci della sua opera, «e mi starebbe bene se i film divenissero un modus vivendi... Purtroppo, c’è ancora una specie di specchio o di cristallo da oltrepassare... Ho detto di specchio o di cristallo perché al di là ogni cosa si muove come in un altro mondo, vi si entra e vi si esce, è sempre così».!! «Poiché ora vediamo attraverso un vetro offuscato» si legge ai Corinzi 2:13, «ma poi, di fronte; ora so in parte, ma poi conoscerò come pure 10 sarò conosciuto». Le parole di San Paolo si adattano bene a descrivere il processo della psicanalisi e l'impresa cinematica di Bertolucci: in tutti e due la barriera (sia essa l'inconscio, 0
lo «specchio o il cristallo» di Bertolucci) deve essere “tradotta” per mezzo di una dinamica interpersonale di auto-espressione e analisi. Il progetto di Bertolucci può essere allora definito come: uno sforzo che cerca di «vedere chiaramente al di là dello specchio o del cristallo». Come l’immagine sulla celluloide, che per essere vista deve essere proiettata attraverso una lente da una sorgente di luce, così la conoscenza € l’identità di Bertolucci passano per il cinema. Parimenti: l'immaginario, implicito ed esplicito, dei suol film deve essere proiettato attraverso la lente dell’analisi, se
si vuole apprezzarlo pienamente. Bertolucci disse: «Tutti i
in miei film sono stati fusi nello stampo dell’analisi, fondata sono non tutto, dopo e — onirico e material sul parte massima
della forse i film fatti di materia onirica? I film non sono fatti
stessa materia dei sogni?».!
L'ultimo imperatore (1987). Incatenati come i “prigionieri”
di Platone, i collaborazionisti guardano sfilare le ombre del passato sullo schermo del carcere (John Lone).
Come dimostreremo più avanti, la particolarità del genio di Bertolucci consiste nell’avere creato una matrice di ottiche attraverso le quali permettere allo spettatore la comprensione del particolare linguaggio del cinema, specifico e opposto a quello letterario. Trasferendo in immagini i personaggi di Stendhal, Dostoevsky e Moravia, Bertolucci adottò una particolare “ottica” psicanalitica: «La psicanalisi è sulla mia camera come un altro obiettivo, oppure uno strumento che sia contemporaneamente un obiettivo, un dolly, un carrello, qualcosa che costituisce uno strumento di lavoro addizionale con tutte queste capacità sommate insieme». Questa metafora deriva evidentemente dalla esperienza diretta della psicanalisi che Bertolucci intraprese in quel periodo. Ma il linguaggio della psicanalisi si impose da solo per un altro motivo non meno profondo. Bertolucci avrebbe stabilito un nuovo linguaggio cinematico contro la ‘’autorità” dei modelli in termini che, per dirla con Christian Metz, erano «specifici» al mezzo cinema, e che sono universalmente considerati essenziali alla relazione che lega lo spettatore all’atto filmico. Come se stesse seguendo le orme di Bertolucci, la filmologia ha privilegiato i seguenti caratteri, o specificità, della raffigurazione cinematica: l’esposizione di immagini in movimento a un soggetto passivo immobile dentro uno spazio buio; la proiezione delle immagi-
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ni su uno schermo; il rapporto intimo e personale che lo spettatore ha con esse;" l’inevitabile assenza di ciò che invece viene rappresentato come autenticamente presente, è la relazione tra la presenza assente e le dinamiche del desiderio. Jean-Louis Baudry ha suggerito che fin dal tempo della caverna di Platone l’uomo ha sempre cercato di riprodurre immagini che corrispondessero ad un’impressione di realtà, un tentativo di ripetizione, di ritorno agli stati primordiali: cioè, «l’immobilità forzata del bambino alla nascita, privo dei mezzi di movimento», e «l’immobilità del sognatore (anch’egli necessariamente immobile) che ripete sia lo stato post-natale, che la vita intrauterina».'° Baudry è così convinto delle affinità tra infante, sognatore e spettatore cinematografico che giunge a teorizzare che un bisogno psichico di cinema avrebbe preceduto e presieduto addirittura alla sua invenzione tecnica. Roland Barthes vide nella predisposizione stessa dello spettatore uno stato preipnotico, che lo invita a «tuffarsi in un cubo buio, anonimo, e indistinto che permette a questo festival degli affetti che chiamiamo film... un’erotizzazione dello spazio». L’erotizzazione e le tendenze preipnotiche della posizione di spettatore rimandano inevitabilmente ai parallelismi notevolmente elastici del cinema con i sogni e con il sognare. Ne L’interpretazione dei sogni Freud afferma che il sogno è l’espressione dei desideri inconsci che, inaccettabili
allo stato conscio, emergono durante il sonno quando l’attività cosciente di censura si rilassa. Postulò che tale rilassamento non fosse completo; ma che la mente inconscia era ob-
bligata a smascherare i propri desideri per non disturbare la consapevolezza dormiente. Chiamò tali smascheramenti: «censura»; e le immagini dei sogni trattenuti: il «contenuto manifesto»; i desideri smascherati nel contenuto manifesto: il «contenuto latente»; e il processo attraverso il quale la mente
Jean-Louis Trintignant ne Il conformista (1970) e John Lone
ne L'ultimo imperatore (1987).
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traduce i desideri nell’immaginario del sogno: il «lavoro oniTICO».
Secondo questa teoria, e soprattutto quella post-freudiana, il lavoro onirico si compie attraverso una serie di meccanismi, alcuni dei quali principali: come la condensazione, il raddoppiamento e lo spostamento, chiamati da Freud «processi primari». La loro traduzione verbale (la narrazione del sogno e la sua interpretazione) rientra nella categoria che prende il nome di: «processi secondari», o elaborazione secondaria. I processi primari, secondo Freud, sono responsabi-
li della natura onirica del sogno: in particolar modo la loro «sovradeterminazione»,
o capacità di assumere contempora-
neamente significati diversi, e talvolta opposti. Come se stesse teorizzando la relazione tra cinema e sogno, Jean-Baptiste Pontalis definì il lavoro onirico come: «un insieme di operazioni che trasformano un materiale assai eterogeneo — “derivante” dal corpo, dal pensiero, dai “residui” del giorno — per rielaborarlo in un prodotto. Insomma, una sequenza di immagini che tende verso una forma narrativa e nella quale si intersecano nei punti nodali catene quasi infinite di rappresentazioni».! Per la filmologia odierna è ormai assodata l’analogia tra cinema e sogno. Rimangono da stabilirne la modalità, e la misura! Profondamente consapevole dei collegamenti tra film e sogno, Bertolucci ebbe a dire: «Nei sogni come nel ci-
nema, o nel cinema come nei sogni, si ha la grandissima libertà di potere lavorare per libere associazioni. Il cinema è una lingua che usa segni tolti dalla realtà... il cinema è fatto di materia grezza tessuta sul telaio del sogno».”° Sia il cinema che i sogni «tessono» (per usare l’espressione di Bertolucci) sequenze d'immagini, che per forma sono analoghe alla narrazione composta di «rappresentazioni in catena». Benché ci sia (e ci sarà sempre) disaccordo a questo proposito,” molti teorici credono, parafrasando la Bibbia,
che: in principio era l’immagine. La scrittura e il linguaggio in sé, come Susan Sontag ha notato, sarebbero sempre allora un’interpretazione.”* Così il cinema, con la sua predominanza dell’immagine, godrebbe di una affinità privilegiata con i sogni e con i processi inconsci, la cui natura è iconica. Per quanto riguarda il contenuto latente dei sogni e il processo primario del pensiero, altre affinità col cinema sembrano emergere. Peter Wollen scrive:
Proprio come in un sogno, nel cinema questa struttura e i processi inconsci che formano il contenuto latente non sono completamente nascosti. La bellezza della censura del sogno consiste nel fatto che nasconde quanto basta i desideri inaccettabili, per permettere al sogno di emergere, e impedire di scorgere la censura al lavoro! Essa maschera e si rivela allo stesso tempo. Il cinema rivela il suo lavoro latente in molti modi; ma il più importante è la rapidità con la quale è capace di muoversi da un’inquadratura ad un’altra, creando un effetto di condensazione.” La teoria eisensteiniana del montaggio (di cui l'esempio più famoso è l’inquadratura di una folla accoppiata a quella di un gregge) articolava una tecnica profondamente consapevole al servizio di un’espressione metaforica.?* Ma il film non ha bisogno dello stesso grado di auto-consapevolezza per produrre gli effetti della condensazione: basta una singola immagine, potente, inserita in un contesto adeguatamente carico di significati per condensare all’istante numerose connessioni, disparate, e persino autocontraddittorie o illogiche. Bertolucci nota a questo proposito: «È molto difficile immaginare che qualcosa nei miei film significhi solo quella cosa; una cosa significa sempre altre cose e spesso il suo contrario».? Comunque, finché la condensazione e lo spostamento quali processi primari «rifiutano ogni condizionamento all’interno dei confini dell’unità-parola», rimangono essenzialmente proprietà del «linguaggio» cinematico.”* In quanto operazioni, essi sono più inconsci che consci, e «sarebbero proprio l’opposto di tutto il pensiero; vere e proprie operazioni anti-pensiero».?' Come tali, nel film, potrebbero rimanere indecifrabili, se il film non avesse la tendenza a combinare i processi primari e secondari: cioè, contiene immagini e dialogo, come pure altri materiali testuali.” Poiché le immagini cinematiche sono rappresentazioni della fantasia e funzionano come desideri spostati (del regista come autore o dello spettatore come partecipante di quelle fantasie), è ipotizzabile che lo spostamento faccia parte degli aspetti essenziali del cinema. «Lo schermo» rincalza Stanely Cavell «fa apparire lo spostamento come una condizione naturale». Il commento di Cavell lega nettamente la produzione del cinema (come espressione conscia/inconscia del desiderio del regista) al consumo del cinema (come l’identificazione conscia/inconscia dello spettatore con quella rappresentazione).
Ogni film... è una rete di affermazioni differenti, che si incrociano, si contraddicono le une le altre, e fini-
scono elaborate in una versione finale “coerente”. Come un sogno, il film che lo spettatore vede è, per modo di dire, “la facciata del film”, il prodotto finale della “revisione secondaria” che nasconde e maschera il processo che rimane latente nello “inconscio” del film. Qualche volta questa “facciata” è talmente istoriata, polita, o satura di elementi disparati, che è impossibile vedere al di là di essa, 0 meglio, di vedervi qualcosa che non siano i personaggi, il dialogo, la trama... In altri casi invece, paragonando altri film, è possibile decifrare, non un messaggio coerente o una visione del mondo, ma una struttura che soverchia il film e gli imprime un certo tipo di scarica di energia.” caAltrove Wollen aggiunge: «Il film non è una comuni una in ato zione, ma un artefatto che inconsciamente è struttur certa maniera».
Non solo lo spostamento costituisce un fattore.
fondamentale per il regista (che attinge dal capitale emotivo della propria vita per formulare una rappresentazione), ma si ripercuote sullo spettatore attraverso una forte tendenza identificativa con le immagini proiettate in quanto immagini.* A questa triade proiezione/identificazione/schermo si aggiunge un altro parallelismo tra cinema e sogno. La proiezione, sostiene Leo Bersani, può essere comune a molte forme di espressione artistica in quella «frenetica difesa contro il ritorno alla superficie della consapevolezza di immagini e sensazioni pericolose; pertanto, l’individuo ha l'imperativo di mantenere certe rappresentazioni o affetti relegati al mondo, e non all’io». Colui che fa il film e colui che lo vede possono cospirare insieme nell'attribuire alle immagini proiettate le fantasie che preferiscono credere esistenti “là fuori”, indipendentemente da loro. Vale la pena di notare che questa tendenza alla proiezione può non essere limitata a un solo personaggio. Finché il film è analogo a un sogno, il film come complesso unitario può rappresentare la proiezione dello spettatore, propai 21
Maria Schneider e Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi (1972).
DO)
Debra Winger e John Malkovich ne Il tè nel deserto (1990).
prio come il sogno in quanto complesso unitario rappresenta il sognatore.” Inoltre qualche ragione ci porta a credere che il locus delle proiezioni identificatorie per lo spettatore e il sognatore sia lo schermo. La teoria di Bertrand Lewin, «lo schermo del sogno», propone un processo onirico così prossimo a quello cinematico, che si potrebbe inferire che il film abbia, a livello inconscio, il significato di riprodurre quanto più fedelmente il processo del sognare. Benché spettatore filmico e sognatore non siano perfettamente consapevoli dello schermo in Sé, l’esistenza di questo, come una superficie bianca sulla quale le fantasie sono proiettate, suggerisce l’analogia con il seno materno, /ocus di un’ambivalenza profonda. Joyce Mc-
Dougall scrive a proposito delle visioni di amore-odio proiettate sul seno della madre che l’infante «divora con gli occhi e con la bocca»: Questa condensazione dell’esperienza primordiale di chiunque fa del seno la fantasia di un amore tenero e distruttivo tra i due partner. Senza dubbio è funzione dell’artista rendere comunicabile e tollerabile ciò che non lo è: cioè, la violenza immanente all’esperienza infantile e che permane inconscia in ogni essere umaDOS: Se è vero che il cinema, come il sogno, basta per suscita-
re tali complessi arcaici e antitetici, allora può darsi che il desiderio di vedere film derivi da alcuni dei desideri “perversi” che attivano i nostri sogni: fantasie regressive della scena primaria, tendenze sadomasochiste, e feticismo in generale. Pro-
prio come Freud definì l’attività del sognare «una psicosi allucinatoria normale», si potrebbe per analogia chiamare il cinema una «fantasia normale perversa». Ciò non significa accusare il facitore di un film o il suo fruitore, ma piuttosto un’esplorazione dei modi in cui ciò che è normalmente considerato perverso è nei fatti perversamente normale. Il desiderio esplicito di Bertolucci era di fare film che, in qualche
modo, costituissero una “analisi” e allo stesso tempo creasse-
voyeuristico di ricreare la scena primaria porta Susan Sontag a definire la fotografia come voyeurismo,” e Stanley Cavell ad asserire che «le condizioni ontologiche del film lo rivelano costituzionalmente pornografico». La relazione tra l’atto del guardare un film e la scena primaria va oltre una tendenza meramente pornografica: si spinge verso considerazioni di ordine ontologico. E se insistiamo qui su questa affinità è perché siamo consapevoli delle ricchissime implicazioni per l’opera di Bertolucci, e per il cinema in generale. Ecco cosa dice Guy Rosolato: La scena primaria costituisce, tra tutte le fantasie inconsce, un nucleo dove le origini sono segnate in modo particolare: innanzitutto, come una fantasia originante: genetica, e persino filogenetica, vis-d-vis dell’individuo; in secondo luogo, come nesso per soddisfare la curiosità sulle origini, sulla nascita, sulla procreazione, sull'identità, sulla filiazione, e sulla parentela: in questo senso (per il figlio maschio) la paternità può essere inclusa in questa fantasia. La scena primaria può così essere considerata come la più generale, e tuttavia la più concentrata, delle fantasie.‘
Tra le fantasie e le direzioni prese dalla fantasia della scena primaria sono incluse le fantasie della castrazione (considerata da molti teorici psicanalitici francesi come centrale),'” l’incesto (naturalmente), il sadismo e la violenza, lo
specchio e il doppio.'* Ognuno di questi temi assumerà una particolare importanza per Bertolucci, finché la sua opera si soffermerà a riflettere sulle dinamiche della psiche e del cinema. Un aspetto ulteriore, ed ugualmente essenziale, di queste dinamiche correla il cinema al fenomeno del desiderio stesso: il cinema, più di ogni altra forma d’arte, opera simultaneamente come presenza e assenza. In nessun’altra forma d’arte l’impressione di realtà riveste un potenziale così elevato, né le rappresentazioni che vediamo sono così presenti.* Ecco come Christian Metz descrive questo dualismo:
ro «un cinema che guardasse a se stesso, un cinema che, con-
frontandosi col linguaggio che si era scelto, parlasse di cinema»! Se i film di Bertolucci sembrano contenere, più che in misura “normale”, elementi “perversi” (incesto, feticismo, masturbazione, sodomia, bestialità, pederastia) lo si deve, come dimostreremo, a un profondo interesse, qualunque sia stato il risultato, nelle dinamiche inconsce che il cinema sprigiona tra l'avventura cinematica e la posizione dello spettatore. Benché fino ad ora ci siamo rivolti alle analogie tra spettatore e sognatore, allo scopo di affinare la percezione di tali dinamiche, è necessario estendere la similitudine ai desideri che attivano il sogno. Abbiamo paragonato lo stato del sognatore a quello dello spettatore: seduto, passivo, in una sala buia, guarda, attraverso il foro di una serratura o di una finestra, un’unica sorgente di luce, il cui fascino riposa principalmente sulla rappresentazione, quasi reale, del movimento. Non dovrebbe sorprendere che la posizione dello spettatore sia affine a quella del voyeur che, pure spiando anonimamente dalla serratura, partecipa, assente, all’azione. Ma spingiamoci oltre. E vogliamo sostenere che la scena vista è sempre potenzialmente o simbolicamente una scena primaria, che rievoca «nel bambino l’insieme della conoscenza inconscia e della mitologia personale sulle relazioni sessuali umane, in special modo quelle dei suoi genitori». Questo tentativo
Lo sdoppiamento (possibile) poiché si tratta di un’opera di finzione si trova preceduto, nel cinema, da un primo sdoppiamento, sempre già compiuto, che instaura il significante. L’immaginario per definizione combina in sé una certa presenza e una certa assenza... L’atto della percezione è reale (il cinema non è un fantasma), ma il percepito non è veramente l’oggetto, è la sua ombra, il suo fantasma, il suo doppio, la sua riflessione in una nuova sorta di specchio... Allo stesso modo, per comprendere il film (tout court) è necessario che io percepisca l’oggetto fotografato come assente, la sua fotografia come presente, e la presenza di questa assenza come significante... La finzione cinematografica è piuttosto sentita come la presenza quasi reale di questo irreale.” Nello sperimentare questo dualismo di presenza e assenza, ci ritroviamo al centro della metafisica del desiderio stesso, sempre basato su una mancanza o assenza (temporale).* Se siamo calamitati al film, lo siamo a qualche livello inconscio, poiché l'assenza presente dell’oggetto che vediamo in un film incarna la natura del desiderio stesso, che è sempre il tentativo di fare risorgere il piacere. LS)DD
Due momenti da Il conformista (1970) e Piccolo Buddha (1993). Ridirezionare il desiderio dal suo oggetto originario è spesso fonte di perversione; paradossalmente è anche la fondazione dell’ego, e la sola sua possibilità di coesione. Senza un tale ridirezionamento, il bambino resterebbe per sempre bloccato nella dipendenza dell’oggetto materno. Si può comprendere allora che la perversione, come struttura è generalizzata nell’esperienza umana primordiale, e solo susseguentemente incorporata in forme “normali” di comportamento.” È appunto nella consapevolezza di questo insieme di dinamiche che esiste la possibilità di trasformare la struttura della perversione in uno stato creativo. In questa giuntura si inserisce la nostra meditazione sul cinema: qui incontra l’autoconsapevolezza cinematografica di Bertolucci. Vedere una struttura perversa nella relazione che lega lo spettatore all’immagine proiettata non vuol dire condannare il cinema. AI contrario, mancare di vedere questa struttura significa permettere allo spettatore e al regista di protrarre una complicità feticista, tendente alla ripetizione ossessiva e all’infinito dello stesso copione, in primo luogo voyeuristico, il cui messaggio latente potrebbe per sempre rimanere represso. Rivelare quella ossessione come parte integrante dell’esperienza cinematica permette non solo di comprendere lo speciale linguaggio del cinema, ma di riportare il cinema verso una nuova e meno feticistica relazione con il suo spettatore. In questo senso, potremmo dire con Winnicott, che il film funziona come uno «spazio transizionale»: uno spazio nel quale, mentre da un parte le spinte primarie potrebbero essere completamente soddisfatte, dall’altra l’oggetto primario resta completamente irraggiungibile.® Malgrado la sua rassomi-
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glianza culturale con il modello perverso per il quale una scena data è ripetuta senza progressione all’infinito, lo spazio transizionale permette la crescita e lo sviluppo, purché ci sia un bilanciamento tra la domanda interna ed esterna. In questo spazio potenziale, l’illusione non è più una forma di isola-
mento o/e sintomo di alienazione, ma la via a una creatività potenziale. Il film è destinato a rimanere un feticismo poten-
Marlon Brando e Giovanna Galletti in Ultimo tango a Parigi
John Malkovich e Campbell Scott ne Il tè nel deserto (1990).
sua conoscenza e zialmente distruttivo, finché nasconde alla gurazioni laconfi sue le tore a quella del suo anonimo spetta apre la pos, ersa” “perv natura sua la tenti. Mettendo a nudo sviluppo e allo , ttiva sogge inter ività sibilità a una creat come assenza, il film all’analisi. Grazie alla sua vera essenza vivo”, ma può aspiranon ha nessuna speranza di “vedere in amente, grazie a chiar re. a certe condizioni, di vedere più
(1972).
quel vetro che così spesso filtra, distorce, e oscura la visione della realtà. In questo senso l’opera di Bertolucci unisce all’esplorazione delle strutture psichiche individuali un’analisi del linguaggio filmico. Dalla poesia al cinema: l’iter del regista poeta, figlio di un poeta, può essere compreso come una rivolta contro la parola paterna. Eppure, paradossalmente, il lavoro analitico che presiede ai suoi film può essere interpretato come un lungo sforzo proteso al ristabilimento della figura materna e paterna, volto alla scoperta di un linguaggio nuovo, autonomo, finalmente pieno. È un processo rivoluzionario che conta undici film compiuti nell’arco di trent'anni. Durante questo travaglio Bernardo Bertolucci non sembra mai avere perso di vista le connessioni tra il concetto analitico del desiderio, nelle sue manifestazioni di perversione, voyeurismo, doppio, morte e trascendenza, e le proprietà puramente cinematiche che corrispondono a quelle domande. È del suo particolare genio avere saputo tradurre quelle domande in uno stile cinematico che, come Rosolato ha notato, «è anche l'inconscio che parla tra le righe e che ci piace ascoltare». Infatti, come dimostreremo. la “traduzione” delle forme tradizionali del discorso letterario assume il ruolo del doppio inquietante che consiste sia in una rivolta contro la “autorità” di quella tradizione che nella creazione di un linguaggio cinematografico nuovo, autoconsapevole per ammissione del suo autore e risultante dalle specifiche proprietà del film. Paradossalmente, la rivoluzione (conscia e inconscia) dello stile di Bernardo Bertolucci sarebbe cominciata “nella dolcezza del vivere prima della rivoluzione”.
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NOTE ' Pauline Kael, “Last Tango in Paris”, in The New Yorker, 28 ottobre 1972, pp. 130-133. ? Bernardo Bertolucci [da ora in poi: B.B.] a Joseph Gelmis, “Bernardo Bertolucci” in The Film Director as Superstar, New York, Doubleday, 1970, p. 117. ? B.B., In cerca del mistero, Gremese Editore, ried., 1988, p. 17. ‘Sull’incapsulamento (encapsulation): Vd. infra, capitolo su L'ultimo imperatore, nota 24. D.W. Winnicott ha molto da dire in proposito, su questo processo materno e su come il bambino guadagna un'identità sommaria a partire dallo sguardo della madre. Vd. infra, capitolo su Ultimo tango a Parigi. $ Preferiamo “cinematico” a “cinematografico”, perché epurato della radice greca “grafia”, e pertanto più prossimo sia all’etimologia e all’ontologia della parola “cinema”: “movimento” (in greco kinema, kinematos). 6Vd. il libro Scene madri, Ubulibri,
1982, p. 195, a cura di Enzo Ungari,
ried. 1988 con un aggiornamento di Don Ranvaud per quanto riguarda L'ultimo imperatore. ? Serie di fatti e situazioni su cui si fonda lo svolgimento di un’opera d’arte drammatica o narrativa.
*B.B. a Francesco Casetti, in Bertolucci, Il castoro cinema, La Nuova Italia, 1975, p. 2: «Dal giorno in cui cominciai a lavorare con Pasolini, smisi di scrivere poesie. La Poesia era stato uno strumento di espressione finché non avrei trovato il mio vero mezzo: fare film. Ecco perché ogni film che faccio è... una specie di poesia, o almeno un tentativo». Charles Michener, “Tango: the Hottest Movie”, in Newsweek, 12 febbraio 1973, p. 37. ° Casetti, cit., p. 30. '’Ibid. p. 3. !! B.B. a John Bragin, “A Conversation with Bernardo Bertolucci”, in Film Quarterly 20, n.1, autunno 1966, p. 43. 'B.B. a Jean A. Gili, in Le cinéma italien, Union Générale d’ Editions, 1978,
p. 58.
“Ibid. p. 59. 4 Stanley Cavell nota che «nel guardare un film, il senso di invisibilità è un'espressione della moderna privacy o anonimità», in The World Viewed, Cambridge, Harvard University Press, 1979, p. 40. Jean-Louis Baudry, “Le Dispositif: approches métapsychologiques de l’impression de réalité’ in Psychanalyse et cinéma. Communications n. 23, febbraio 1975. Il luogo rappresentato in queste immagini, secondo Baudry, è: «Lutero della madre, il suo ventre, nel quale aspiriamo a rientrare».
! «Potrebbe anche darsi che non ci fu un’invenzione augurale del cinema. Prima della fine dei risultati di un progresso tecnico e di una certa organizzazione sociale (necessaria per la sua realizzazione e perfezione), il cinema sarebbe innanzitutto l’oggetto del desiderio... una forma di soddisfazione, dimenticata, persa, che la tecnologia del cinema avrebbe lottato per reinstaurare in un modo o nell’altro». Ibid., p. 63.
‘Roland Barthes, “En sortant du cinéma”, in Psychanalyse et cinéma. Communications, cit., pp. 104-105. Vd. anche Iouri Lotman, Esthétique et sémiothique du cinéma, Editions Sociales, 1977, pp. 27 ss. !8 Freud, L’interpretazione dei sogni. Opere Vol. 3, Boringhieri, 1973. ‘Pontalis, Entre le réve et la douleur, Gallimard, 1977, p. 241.
°°B.B. a Gili, cit., p. 43. ?! Pontalis, cit., p. 241. Vd. anche dello stesso autore, Après Freud, Gallimard, 1968, pp. 47-48. ®Vd. Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, Garzanti, 1977, p. 100. ® Georges Poulet, per esempio, scrive nella prefazione a Litterature et sensation di J.P. Richard: «Da qualche parte in fondo alla coscienza, dall’altro lato di quella regione dove tutto è diventato pensiero, nel punto opposto attraverso cui si è penetrati, vi è dunque stata, e ancora vi è, una certa luce, vi sono degli oggetti e anche degli occhi per percepirli. La critica non può contentarsi di pensare un pensiero. Deve risalire, di immagine in immagine, tutto il sentiero fino alle sensazioni» (citato in Todorov, cit., pp. 98-99). E Richard aggiunge: «L'intenzione fondamentale... al suo livello più elementare... è il livello della sensazione pura, del sentimento bruto o dell'immagine nel suo farsi» (Ibid., p. 99). Jean Dubois perse-
gue un tema simile in Grammaire structurale du frangais, p. 15, argomentando che «le condizioni per una trascrizione grafica di un messaggio sono la seria con-
seguente perdita di informazioni» (citato in Guy Rosolato, Essais sur le symbolique, Gallimard, 1969, p. 288). “Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, 1978, p. 6. © Peter Wollen, “The English Cine-Structuralists”, in Film Comment 9, n.3, maggio-giugno 1973, p. 47. °° Wollen, “Eisenstein’s Aesthetics”, in Signs and Meaning in the Cinema, Bloomington, Indiana University Press, 1972, pp. 167-168. 7 Vd. Chasseguet-Smirgel, Pour une psychanalyse de l’art et de la créativité, Payot, 1971, pp. 82 ss. * Vd. Wollen, cit., pp. 19-73. © Citato da Barthélmy Amengual, “Portrait de l’artiste en jeune homme avant la trentaine”, in Bernardo Bertolucci, Etudes Cinématographiques, n. 122126, a cura di Michel Estève, 1979, p. 33. “Christian Metz, Cinema epsicanalisi, Marsilio, 1989, p. 202.
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"Ibid. p. 280. l ®Vd. ibid. pp. 281, 324. ®Cavell, cit., p. 41. Per una discussione sul rapporto tra spostamento e desiderio vd. Leo Bersani, Baudelaire and Freud, Berkley, University of California Press, 1977, pp. 60-61. 4 Sandor Ferenczi commentò così il rapporto scopofilia e erotismo: «Ci sono casi di polluzioni notturne con orgasmo accompagnate psichicamente da visioni di paesaggi semplicemente magnifici... In questi esempi è come se l’intero spettro delle sensazioni genitali possibili fosse trasposto nella sfera ottico estetica... una sinestesia. La sensazione ottica in sé e per sé non è esente da immissioni erotiche, e la scopofilia gioca una parte importante nell’eccitamento sessuale», in The Theory and Practice of Psychoanalysis, Hogarth Press, 1926, 1950, p. 300 (traduzione nostra). 1 * Bersani, cit., p. 129. Baudry, cit., p. 66, ha notato la stretta connessione tra la proiezione psicologica e quella cinematica: «Il sogno, disse Freud, è una proiezione, e, nel contesto in cui se ne serve, il termine proiezione evoca sia l’uso analitico come meccanismo difensivo consistente nell’attribuire all’esterno rappresentazioni e affetti che il soggetto rifiuta di riconoscere come propri; sia un uso che può essere cinematografico, in quanto è una questione di immagini che, una volta proiettate, ritornano al soggetto sotto forma di realtà percepita come esterna».
»Pontalis, cit., p. 201, nota che la proiezione può essere equivoca: «Qualche volta il termine designa il fatto che le percezioni sono più o meno deformate dalle paure e dai desideri soggettivi; in altri casi radicalmente diversi, designa un’operazione che costituisce sia l'oggetto che il soggetto, per metà esterno e per metà interno, un'operazione che dà la realtà piuttosto che presupporla». In questo senso, la proiezione implicata nell’arte può iniziare un processo localizzato nella fantasia e vedere nella realtà un senso terapeutico. Ciò si applicherebbe soprattutto a un cineasta come Bertolucci, capace di servirsi del proprio lavoro creativo come una sorta di analisi. Vd. Chasseguet-Smirgel, cit., p. 83; Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, 1980, p. 40; Rosolato, cit., p. 221; e Nick Browne “The Spectator-in-the-Text: The Rethoric of Stagecoach”, in Film Quarterly 29, n.2, inverno 1975-1976, p. 36. *B.D. Lewin, “Sleep, Mouth and Dream Screen”, in Psychoanalythic Quar-
terly 15, 1934, p. 420. “Joyce MeDougall, Théatres du Je, Gallimard, 1982, pp. 162-163. Baudry (cit., pp. 67-69) asseconda le conclusioni di McDougall e teorizza che il nostro completo avvilupparci sullo schermo è una continuazione della fase orale. ‘Citato da Baudry, cit., p. 71. ''B.B..a Bragin, cit., p. 42.
‘ «Siamo affascinati, senza vederlo direttamente, da questo brillante, immobile, e tuttavia danzante, spazio» scrive Barthes dell’esperienza cinematica: «ogni cosa accade come se un lungo raggio di luce illuminasse il buco della chiave che stiamo tutti guardando, sotto l'incantesimo di questo buco... Devo essere nella storia... ma devo anche essere da un’altra parte; una sorta di spazio immaginario senza fondo, e, come un feticista scrupoloso, coscienzioso e organizzato, è ciò che io esigo da un film», Barthes, “En sortant du cinéma”, cit. pp. 105-106. * MeDougall, “Primal Scene and Sexual Perversion”, in International Journal of Psychoanalysis, n. 53, 1972, p. 372. McDougall insiste sul fatto che la scena primaria non designa necessariamente (o si appoggia su) una ricorrenza, supposta attuale, del bambino che ricorda il coito dei genitori. È piuttosto una fantasia costuita da diverse fantasie e da componenti reali. Per una trattazione ancora più incisiva di questa relazione tra cinema e scena primaria, vd. Chasseguet-Smirgel, cit., p. 86. Metz insiste: poiché il soggetto del film ignora lo spettatore che lo guarda, il film diviene una scena primaria del tipo specificamente edipico, cit., p. 69; vd. anche pp. 87-90. *Sontag, cit., p. 10; vd. anche pp. 12, 13, 22-23, 55. ‘ Cavell, cit., p. 45.
‘’Rosolato, cit., pp. 204-206. ‘Vd. Bersani, cit., p. 57. * Vd. Rosolato, cit., pp. 206-209. * Vd. Lotman, cit., pp. 25-26. ° Metz, cit., pp. 48, 60, 70. Cavell, cit., p. 42, scrive: «... Quella specifica simultaneità tra presenza e assenza che soltanto il cinema saprà soddisfare»; e Barthes, La Camera chiara, cit., pp. 77-78, vede il noema della fotografia quale riferimento alla «cosa necessariamente reale che è stata posta dinnanzi all’obiettivo... che la cosa è stata là... e tuttavia immediatamente separata; è stata sicuramente, inconfutabilmente presente, e tuttavia è già differita»; vd. anche Sontag, CILPIALSE °' Vd. Bersani, cit., pp. 37-38. ° Vd. Pontalis, cit., pp. 186. © D. W. Winnicott, The Maturational Processes and the Facilitating Environment, Hogarth Press, 1965, p. 14. Dal punto di vista dello sviluppo questo è lo stadio nel quale l’infante trasferisce l’attenzione dagli oggetti primari agli oggetti secondari. McDougall, Yhéatres..., p. 13, lo vede in termini perticolarmente cinematici: «Tutti gli schemi culturali sono presenti; una sorta di spazio-tempo dove le forze umane essenziali sono in gioco». Altrove ella lo definisce «teatro di transizione», fatto che rimanda a un «direttore di scena» e a dei «ruoli» attribuiti ad altre parti dell’io. “Rosolato, cit., p. 354.
1962
La commare secca
Lo scandalo del contraddirmi, dell'essere con te e contro di te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere;
del mio paterno stato traditore - nel pensiero, in un'ombra di azione mi so adesso attaccato nel calore. Pier Paolo Pasolini '
La ricerca di un linguaggio La sequenza iniziale de La commare secca potrebbe servire come microstruttura dell’intera opera di Bertolucci. La mdp mette a fuoco l’arcata di un ponte moderno. Si ode un'auto fogli, che l’attraversa, e subito dopo si vede una miriade di cesui o finiscon e ponte dal ano sventol che come coriandoli, ficarta di pezzi dei volo il segue mdp La ine. spugli dell’arg giache donna no a terra, dove si depositano sul corpo di una ressione ce riversa. Su questa inquadratura appare in sovrimp ci fosnon se come ata comport è il titolo del film. La mdp si io paesagg il e donna della esanime se differenza tra il corpo ipanoram mdp la mentre ancora, ano romano. I fogli svolazz qui appare ca dalla testa ai piedi e viceversa, fino alla mano: autore come nei titoli di testa il nome di Pier Paolo Pasolini Citti Sergio e cci del soggetto, poi quelli di Bernardo Bertolu come autori della sceneggiatura. a di Bertolucci) Questo film (e per forza di cose il cinem
ni. Infatti, disindeve la sua genesi, per modo di dire, a Pasoli ni a suggerire al namoratosi del soggetto, fu lo stesso Pasoli la sceneggiatura produttore Tonino Cervi di commissionare ucci e SerBertol rdo ai suoi amici e aiuti su Accattone Berna gio Citti.
a scrivere. lo E infatti, grazie a lui, la cominciammo to mimetico, nel cercai di entrare, con un procedimen
così come lo mondo di Pasolini scrittore e cineasta, avevo ladove avevo conosciuto sul set di Accattone, il mio lare model di i vorato come assistente. Cerca del fatto ero mi che ea all’id rapporto con Citti in base nto erime L'esp . Paolo Pier con suo modo di procedere La commare secriuscì e alla fine la sceneggiatura de rismo, nel senso ca risultò un buon esempio di manie di à la manière de.°
lascia perplessi. Ma il successo di questo esperimento ggiatori non scene due i che ntare Bertolucci continua a racco fedelmente l’universo solo cercarono di riprodurre piuttosto
di delle borgate e dei suoi abitanti, ma ebbero l’impressione ne... citazio e semplic avere introdotto «qualcosa di più di una cioè, i movimenti interni di un ipotetico film di Pasolini». CerSenonché le cose presero una piega diversa, quando Bertoa e propos la e , invaghì ne se iatura, vi, letta la scenegg lucci. Ecco cosa ricorda il regista:
Nel momento in cui Cervi mi ha chiesto di fare la regia, mi sono reso conto che la direzione che dovevo il prendere, se volevo fare un film mio, andava contro giatusceneg la e scriver nello svolto mimesi di lavoro ra. Dovevo girare il film contro lo stile in cui l’avevo scritto. In caso contrario il mio film, il mio primo fare film, sarebbe stato un film di maniera. Stavo per che cose dalle gerlo proteg dovevo e film il mio primo o. enevan appart mi non che ma amavo
il film E a Morando Morandini disse anche: «Girai tutto
con la consapevolezza di quella condanna,
della critica che
fficina pasom'avrebbero fatto: è un film della scuola, dell’o ragioni nte, icame ammat progr mente, voluta liniana. E cercai . e punte di contrasto con il lavoro di Pier Paolo» oniano I pezzi di carta che sventolano giù dal ponte testim niana pasoli a giatur sceneg pertanto le briciole di un’elaborata il fatto avesse ucci Bertol se zione che avrebbe patito la distru apssima primi la atto quest’ in scere ricono film. E come non scritta a causa parizione dell’urgenza di eliminare la parola confessato: aveva delle sue implicazioni paterne? Bertolucci
o gli scaSono gli anni in cui scendevo quattro a quattr
nel quartiere lini di Via Giacinto Carini 45, a Roma,
abitavamo al borghese di Monteverde Vecchio. Noi gli portavo quinto piano, Pier Paolo al primo. Quando e con un sempr a una mia poesia il suo giudizio partiv avrebbe che vo Pensa sorriso impercettibile e muto. ro, ma all’alt nto mome un da potuto mettersi a urlare erano di sguar suoi i e i silenz suoi I non lo faceva mai. si. discor i lungh di più eloquenti
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Nato un 16 marzo come Bertolucci, il “Canticchia” era anche appena più giovane del suo regista (Francesco Ruiu).
Ma oltre al soggetto di Pasolini, esistevano anche le poesie e gli articoli del padre, Attilio, che Bernardo «amava senza che gli appartenessero» e che avrebbe accantonato per seguire il proprio impulso creativo. Poiché era negli accordi fare un film da una sceneggiatura di Pasolini, gran parte del mondo pasoliniano sarebbe rimasto intatto: come 1 soliti ragazzi di borgata e il loro tipico linguaggio figurato. Ciò che Bertolucci doveva abbattere era niente meno che «la reinvenzione del linguaggio cinematografico» come l’aveva definito osservando Pasolini sul set di Accattone. Era come se fosse «la prima volta della storia del cinema...
[Pasolini] era come qualcuno che non era andato a
scuola e che era costretto a inventare la scrittura». E in quanto autore, Pasolini si impose subito come il regista che aveva osato mettere a confronto l’intera tradizione del cinema neorealista con i propri «esperimenti stilistici assolutamente radicali», di marca personale.* Pasolini aspirava a «produrre una nuova poesia».° Questi esperimenti, come Accattone, implicavano una relazione complessa col realismo. Benché Pasolini riconoscesse che «c’è un naturalismo fatale, inalienabile nel meccanismo stesso del cinema»"° ciononostante dichiarò: «Odio la naturalezza. Ricostruisco tutto... il mio amore feticistico per le “cose” del mondo, mi impedisce di considerarle naturali. O le consacra o le dissacra con violenza, una per una: non le lega in un giusto fluire, non accetta questo fluire. Ma le isola e le idolatra, più o meno in-
tensamente, una per una». Uno dei primi agenti dell’istanza
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pasolinina antinaturalistica fu, pertanto, il montaggio, fortemente frammentario, eterogeneo capace di mettere a dura
prova logica narrativa e significato. Per quanto riguarda la cinescrittura, Pasolini si oppose vivamente all’ideologia di Bazin, fondata sul naturalismo, sul concetto di linearità, di continuità, e sulla predominanza del
piano sequenza. Ad essi sostituì un senso di immobikità frutto della cosiddetta frontalità: inquadrature di fronte abbastanza lunghe, correlate a inquadrature di panorami ampi, lenti, simmetrici per movimento e ritmo. Come Naomi Greeene ha sottolineato: «Il senso di immobilità che pervade il cinema di Pasolini dà un'impronta ieratica e rituale ai suoi film anche se operano contro l’impressione di naturalismo». Pasolini accentua questo senso di ‘frontalità” e immobilità grazie alla citazione filmica di opere pittoriche rinascimentali. «Non posso concepire immagini, panorami, o composizioni di figure al di fuori della mia iniziale passione per l’arte del ’400 nella cui pittura l’uomo è al centro della prospettiva... e per conseguenza attacco sempre frontalmente», aspetto che faceva parte di una strategia che Pasolini chiamava: il «mio magma stilistico; che si compone di elementi, di materiali tratti da vari settori della cultura : prestiti dai dialetti, poesie popolari, musiche popolari o classiche, riferimenti all’arte pittorica, architettonica, alle scienze umane». Un elemento particolarmente importante di questo «magma» era l’uso della musica: la Passione secondo San Matteo di Bach fu usata in Accattone come un «commento irrazionale»,!° intendendo-
lo come un sentimento «epico che sbocca nel sacro, nel religioso».' Infatti, Pasolini scrisse: «La mia visione del mondo
è sempre nel suo fondo di tipo epico-religioso».'* Questo senso religioso si acuiva particolarmente rispetto al tema della morte: «L’atto della morte... secondo me è l’aspetto dell’esistere più mitico ed epico... a un livello di puro irrazionalismo».' In Empirismo eretico Pasolini avrebbe sviluppato considerevolmente questa idea della morte, estendendola in una specie di ermeneutica del cinema: Finché io non sarò morto, nessuno potrà garantire di conoscermi
veramente, cioè di potere dare un senso
alla mia azione, che dunque, in quanto momento linguistico, è mal decifrabile. E dunque assolutamente necessario morire, perché, finché siamo vivi, manchiamo di senso, e il linguaggio della nostra vita (con cui ci esprimiamo, e a cui dunque attribuiamo la massima importanza) è intraducibile; un caos di possibilità, una ricerca di relazioni e di significati senza soluzione di continuità. La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi (e non più ormai modificabili da altri possibili momenti contrari o incoerenti), e li mette in successione, facendo
del nostro presente, infinito, instabile e incerto, e dunque linguisticamente non descrivibile, un passato chiaro, stabile, certo, e dunque linguisticamente ben
descrivibile... Solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci. Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani-sequenza come possibili soggettive infinite) quelle che la morte opera sulla vita.” Questa visione trascendente della morte còlta attraverso
una metafora sul montaggio riassume l’intero corpus della filosofia cinematica di Pasolini. Tale doveva essere il dono e il fardello che il giovane Bertolucci doveva “diseredare” dal suo mentore se avesse voluto imboccare la propria via. Nessuna meraviglia dunque se La commare secca si apre su una scena di morte. Ella avrebbe permesso a Bertolucci di prendere le distanze da Pasolini pur tributandogli un apparente omaggio. Mentre una miriade di pezzetti di carta svolazzano sul corpo esanime, Bertolucci filma la mano della prostituta, mettendo in sovrimpressione dapprima il titolo del film, poi, il nome di Pasolini, e poi il suo. Letteralmente Pasolini aveva «messo in mano» a Bertolucci il soggetto del film. Senonché, non appena passiamo dalla firma di Pasolini a quella di Bertolucci, la donna passa da un'affermazione metafisica delle ad una puramente strutturale. Leila Weiss, a proposito madre donne dei primi film di Bertolucci, nota che: «Quella è là per ripetere nient'altro ancora che il nome del padre». attiBertolucci avrebbe detto: «Penso che girando il film ero conre intravede a vo comincia cose: rato e ispirato da diverse sacralità di fusamente la mia identità di cineasta... Il senso di veraVolevo manca... mi e mancava mi Pasolini Pier Paolo in fosse che mente raccontare come il tempo opera: qualcosa
che tutto e per tutto simile alla morte al lavoro, cioè il tempo
Altrove aggiungeva: «Pier Paopassa e la morte all'opera» morte è sacra lo ha una visione della morte tutta classica, la la morte è secca commare La Ne come nelle tragedie greche. mente semplice È . minuscola emme la con cantata in minore,
il passare del tempo, lo sgranarsi delle ore di una giornata, il quotidiano dei personaggi che di passare alla storia non hanno né il destino né la vocazione... La morte della donna è quasi un raccordo, una spaziatura, qualcosa che si inserisce tra un uomo e un ragazzo che passeggia e si ripara dallo scroscio del temporale. La frase di Cocteau, “le cinéma est la mort au travail”, si adatta benissimo a La commare secca». In questo modo la morte della prostituta ne La commare secca sembra avere un peso appena poco più esistenziale e psicologico di quanto non ne avesse la morte del maiale in uno dei primi cortometraggi di Bertolucci: serve primariamente come pretesto per ciò che Raymond Queneau avrebbe chiamato «un esercizio di stile». In verità il film, costruito at-
torno alla sua assenza, fornisce all’opera la fine adeguata. La prima volta che la scorgiamo, la donna è morta. Ma in vita, svolge la funzione di raccordo: per ciascuna delle quattro storie raccontate all’ispettore della polizia, costituisce l’espediente grazie al quale lo spettatore si rende conto che ognuna delle storie è simultanea. In ognuno dei racconti di Canticchia, Bustelli, Teodoro e Pipito si fa cenno a un temporale. A ciascuna di queste occasioni Bertolucci taglia dalla storia raccontata alla stanza della prostituta nell’atto di: (a) svegliarsi; (b) scaldarsi una tazza di caffè; (c) mettersi il rossetto e riav-
viarsi i capelli; (d) andare all’armadio, togliere l’abito e la borsetta. La sua vita progredisce lenta e dolorosa se messa a confronto alle vite operose che gli altri uomini raccontano all’ispettore. In ciascuna delle storie ella compare come parte della scenografia notturna del parco, intravista da lontano. Ella è puramente il raccordo grazie al quale ognuna di queste storie è legata alle altre, una semplice annotazione spaziale che permette allo spettatore di allineare le diverse storie all’interno della cornice cronologica di una giornata. Proprio per il suo valore strutturale, la presenza assente della prostituta permette a Bertolucci enorme libertà. Ogni personaggio è libero di raccontare una giornata romana qualsiasi non dovendo badare alla coerenza con l’intrigo principale. Così Canticchia può raccontare della spavalderia con la quale ruba borsette e radioline agli innamorati nei giardini dell’EUR. Bustelli è il ritratto di un prosseneta smidollato, succube in tutto e per tutto di Esperia, sua moglie, con i cui soldi non solo si veste da damerino, ma corteggia anche altre donne. Pipito racconta di un pomeriggio con Francolicchio, dell’incontro di due ragazze, del tempo trascorso insieme a bighellonare, e del furto di un accendino a un omosessuale per pagare il pranzo galante progettato per il giorno seguente. Il militare Teodoro, semplice di spirito, racconta il tempo passato ad abbordare le ragazze per strada, o ad ammazzare la noia al Colosseo, e infine del pisolino notturno nel parco Paolino. Ogni personaggio è il fulcro di una storia a sé stante e ogni storia risalta più nella sua qualità di cinéma vérité che in quella di fornire preziose indicazioni alla soluzione di un
misterioso omicidio. Quanto alla vittima dell’omicidio, ella funziona più come assenza che presenza. Con una sola eccezione. Nella versione dell’omicida non si menziona il temporale: pertanto i movimenti della prostituta sono dimenticati. Aumenta così il divario tra: narrazione e immagini. Ciò che vediamo, che poi non è la storia che l'omicida racconta all’ispettore, è lo svolgersi di una giornata a un ritmo che, paradossalmente — rispetto a quanto abbiamo visto fino ad ora della prostituta — pare accelerarsi. Ma nel momento in cui la giornata riprende un ritmo normale è iro-
nicamente troncata.
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Il “Sindaco” insegna ai ragazzi come si rubano borsette
e radioline alle coppie nei giardini dell’EUR (a sinistra, Vincenzo Ciccora).
possono mentire, le immagini no. «Il è precisamente perché il cinema non solto l’omicidio molto prima della l’omicida narra una versione distorta
Cinema è la verità». Ed mente che abbiamo ripolizia, poiché mentre e frammentaria della vi-
cenda, il film fa vedere una verità terribile, e incontrovertibi-
A dire il vero, il divario è in atto sin dagli inizi. Nella sequenza di apertura, Bertolucci attacca su Canticchia, con un’inquadratura frontale (di pasoliniana memoria), mentre la mdp avanza verso di lui. E quando risponde alle domande
le. E lo spettatore non ha esitazione ‘alcuna a mettersi dalla parte visiva (piuttosto che parlata) del cinema di Bertolucci . Tuttavia il cinema è già qualcosa di più della verità. Proprio come Pasolini aveva sentito il bisogno di andare al di là
dell’ispettore (fuori campo), Bertolucci dà il via ai flashback
del neorealismo, Bertolucci ora sentiva il bisogno di andare
corrispondenti; ma poiché discrepanti con il racconto di Canticchia, siamo posti nell’urgenza di operare una scelta: optare per la versione narrata dalla voce o quella narrata dalla mdp? Vediamola nei dettagli. Canticchia comincia a raccontare: «So” uscito alle quattro e mezzo pe’ cerca’ llavoro... È ’n sacco de tempo che non c’ho lavoro... c'avevo appuntamento co” ddu’ preti... Avevano ’na lettera de raccomandazione pe’ me». Contemporaneamente alle sue parole, sullo schermo vediamo una lunga panoramica sull’orizzonte romano, quindi uno zoom indietro e a sinistra a cogliere Canticchia che scende per la scarpata fuori casa. Segue l’inquadratura di un cavallo, e di un carretto sul quale il ragazzo è seduto: presumiamo che il ragazzo abbia strappato un passaggio. Sulle parole (fuori campo): «C’avevo un appuntamento co’ ddu’ preti» vediamo due bellimbusti (i futuri complici) che gli rivolgono dei lazzi. In questa prima parte i flash-back generano discrepanze evidenti tra il resoconto fatto all’ispettore e ciò che vediamo: le immagini propalano una verità che la voce occulta. Bertolucci stabilisce immediatamente un confronto: le parole
al di là del neorealismo e del cinema epico-religioso di Pasolini. Per il giovane parmigiano, la nuova direzione era lirica: «Per me» dirà «il cinema è anzitutto poesia. Con la macchina da presa [da ora in poi: “mdp”] in mano io provo esattamente le stesse emozioni liriche di quando compongo versi». Altrove aggiunse: «Ogni episodio ha quasi un taglio a sé stante
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e ciò che li accomuna è la ricerca di uno stile, da parte mia che non avevo mai girato un metro di 35 mm, ma che avevo
visto molti film». Poiché questa ricerca di stile si era costituita attorno al rigetto dell’opera di Pasolini, Bertolucci si voltò
significativamente alla Francia per ispirarsi. Allontanandosi da Pasolini, dice: «Io invece avevo pensato al cinema da sempre e la mia formazione di cinéphile, esclusivo, fazioso e intollerante, era diventata destino grazie a un film che per me è stato fondamentale: A bout de souffle».» Come avrebbe confessato più tardi, «Quando feci il mio primo film, mi consideravo piuttosto un regista francese che italiano. Ero influenzato dalla Nouvelle Vague e dai loro esperimenti. Il cinema italiano era un po’ in ribasso. Aveva toccato vette mo-
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cappotto per farsi una cena con le loro ragazze Pipito e Francolicchio pagheranno carissimo il furto di un (Alvaro D’Ercole e Romano Labate).
numentali e con il neorealismo si era espresso nella sua interezza dopo la seconda guerra... Ma a quel tempo erano apparsi i film di Godard e Truffaut, che ponevano la questione di cosa era il cinema — la grande interrogazione — poiché il cinema era finalmente giunto a guardarsi allo specchio... Così lo scopo non divenne quanto il film avrebbe potuto simulare la realtà attraverso la tecnica e la prossimità, ma piuttosto divenne l’interrogativo dell’essenza del cinema — come rappresentazione, riflessione della realtà».?° E così la ricerca di stile di Bertolucci ne La commare secca assunse un tono particolarmente godardiano. In verità, non appena il film passa dal racconto che Canticchia fa davanti all’ispettore alla messa in opera (cioè, le immagini) delle parole, la mdp di Bertolucci si mostra talmente attiva che trova un uguale solo in A bout de souffle. Sulle parole: «Sono uscito alle quattro e mezzo per cerca’ llavoro», vediamo la panoramica sul paesaggio di Roma che termina in un’inquadratura in campo lungo del ragazzo che scende la scarpata davanti a casa. Quindi la mdp zumma per seguirne la discesa. Una volta in basso, Bertolucci taglia a un piano americano del cavallo, poi di nuovo a un’inquadratura di Canticchia se-
duto dietro al carretto. Due altre inquadrature ci portano in modo abrupto sui due “preti” che lo stanno aspettando, quindi a una serie di inquadrature dei tre, ora complici, mentre corrono attraverso il boschetto (prefigurando la celebre corsa di Strategia del ragno). A questo punto, Bertolucci ricorre ad una elaboratissima carrellata, per passare drammaticamente dall’ombra di un’arcata alla luce e cogliere i tre che l’attraversano. Mentre Sindaco avanza furtivo verso una coppia allungata tranquillamente sull’erba per rubarne la borsetta, la mdp lo segue da dietro, quasi complice del delitto. Per il resto della sequenza, il lavoro della mdp comunica molto più l’atto consapevole del filmare che dare informazioni pertinenti, in quanto le attività dei tre ladri rappresentano un racconto frammentario e scucito. A un certo punto la mdp scende persino a livello del terreno per accompagnare Canticchia che si avvicina al transistor. Qui, come altrove, la cinescrittu-
ra di Bertolucci arriva a creare un’enorme suspense grazie alla scelta dell’angolatura che strozza la prospettiva, impedendo di farci prevedere la fine dell'avanzata di Canticchia. A un certo punto, quando allunga la mano sul transistor, un’altra — dalla parte opposta — entra in campo, e l’afferra, sorprendendo lui e lo spettatore. Non c’è dubbio che ad ogni momento della sequenza il piacere della mdp è tanto ravvisabile quanto le azioni descritte. Con altrettanto brio è filmato l’episodio di Bustelli (in ispecie la zuffa con Esperia e la fuga, riprese con la mdp a spalla) e in quello di Francolicchio e Pipito (la passeggiata a Villa Sciarra con le ragazze). Più tardi Bertolucci avrebbe dichiarato: «La commare secca esprimeva prima di tutto il rifiuto della frontalità, dal punto di vista della pittura quattrocentesca, che identificavo con Accattone». Nonostante il chiaro omaggio al cinema francese della Nouvelle vague nella sequenza d’inizio, ritroviamo una certa ironia. Fu Pasolini a formulare l’idea di «cinema di poesia», caratterizzato da un’ingerenza positiva ed apprezzabile della macchina da presa: «La lingua della poesia è quella in cui si sente la mdp, allo stesso modo che nella poesia vera e propria si sentono immediatamente gli elementi grammaticali con funzione poetica; allorché nella lingua della prosa non si sente la mdp, cioè, non sentiamo espresso lo sforzo stilistico, la presenza dell’autore non compare». Benché la maniera di
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Bertolucci di fare sentire la mdp differisca radicalmente da quella di Pasolini, il solo atto di ascriversi alla corrente del cinema di poesia rendeva omaggio al regista di Accattone. Forse a causa di questa consapevolezza Bertolucci introdusse un sottile ma inconfondibile “scherzo” nella prima sequenza (allo stesso modo che avrebbe fatto ne // conformista “uccidendo” Godard). Quando Canticchia rilascia la sua data di nascita, riferisce il giorno il mese e l’anno di Bertolucci! Identificato il regista nel ragazzo, questo è collegato con i due “preti” uno dei quali (Sindaco) assomiglia in modo stupefacente a Pasolini. In questa sequenza Canticchia/Bertolucci si loda da solo («anvedi aho!... oggi so’ teribbile... me sento da fa’ piagne’ tutti ennamorati de Roma»), mentre Sindaco/Pasolini più tardi si diverte della sua bravata andata in fumo («Che è! Stamo ner dumila, e ancora te fai fa’ ste pre-
potenze?... Aho!... Se’ proprio bono a fa’ gniente»). Sin dalle prime scene del film una vaga rivalità edipica si instaura tra il “collega” anziano e quello giovane. A ben vedere è Canticchia e non Sindaco cui è dato il compito di narrare la scena alle autorità, determinando pertanto il punto di vista dell’intera storia. Vale anche la pena di notare che Canticchia non vive proprio secondo le proprie attese: il mancato furto del transistor (cioè, strumento e veicolo della voce) è inscenato con apparente vanteria, ma termina in una confusa e meschina apologia quando si fa cogliere sul fatto. E il fallimento è filmato con l’intenzione di contrastare drasticamente con le precedenti ambizioni di grandiosità. Quale metafora delle ambizioni personali di Bertolucci cineasta agli albori, la sequenza rivela una qualità ironica doppia: infatti simbolizza un altro concetto pasoliniano sul cinema: l’idea dell’«altro film», o del cosiddetto «discorso libero indiretto». Benché
quanto segue si riferisce a Prima della rivoluzione, le osservazioni di Pasolini potrebbero bene essere adatte anche a La commare
Secca
:
Gli unici momenti espressivamente acuti del film sono appunto le “insistenze” delle inquadrature e dei ritmi di montaggio, il cui realismo d’impianto... si carica attraverso la durata abnorme di un’inquadratura o di un ritmo di montaggio, fino ad esplodere in una sorta di scandalo tecnico. Tale insistenza sui patticolari, specie su certi particolari degli excursus, è una deviazione rispetto al sistema del film: è la tentazione a fare un altro film. È insomma la presenza dell’autore, che trascende
il suo film, in una libertà abnorme,
e
minaccia continuamente di piantarlo, per la tangente di un’ispirazione improvvisa, che è poi l’ispirazione latente dell’amore per il mondo poetico delle proprie esperienze vitali... Insomma, sotto la tecnica prodotta dallo stato d’animo disorientato, incoordinante, assil-
lato dai particolari, attratto da attenzioni coatte ecc. ecc. della protagonista, affiora continuamente il mondo com'è visto dall'autore non meno nevrotico: dominato da uno spirito elegiaco elegante e non mai classicistico.” Il fallimento di Canticchia rappresenta maggiormente il desiderio latente per un altro svolgimento dei fatti. Né Pasolini avrebbe potuto meglio descrivere l’impresa ambiziosa di Bertolucci: difendere una «libertà abnorme» atta a trascendere costantemente i limiti del film, come imposto originaria-
L'assassino friulano viene individuato in una balera grazie al rumore caratteristico degli zoccoli di legno (Renato Troiani).
mente dal soggetto di Pasolini; libertà che “minaccia continuamente di abbandonarli”, quanto meno negli eccessi stilistici. Ma persino questo «altro film», benché cerchi di sovvertirlo, rientra ironicamente nel progetto pasoliniano. Non sembra esserci via di scampo, finché Bertolucci si adopera a sovvertire un regista il cui intimo proposito era di essere “eretico” rispetto al cinema tradizionale. L’intero film ruota attorno a questo paradosso: è pasoliniano nel soggetto, e quando cerca di sovvertirlo attraverso lo stile, è pasoliniano nel desiderio di sovversione. Il paradosso spiega perché: da una parte, il soggetto del film (la morte della prostituta e l’inchiesta) è nient'altro che un pretesto di stile, e, dall’altra parte, perché la consapevolezza dello stile assurge a puro esercizio piuttosto che svolgimento di un soggetto.
Malgrado questo «scandalo dell’essere con te e contro di te»? (come avrebbe detto Pasolini), Bertolucci tentò di creare
un Rashòmon italiano, benché sul film di Kurosawa si esprimesse in questi termini: Mi ricordavo che in Rashòmon si vedevano diverse versioni dello stesso avvenimento, ma lavorando a La commare secca non ci ho mai pensato seriamente. Liberarmi dai modelli era così imperativo che non avrei mai potuto ispirarmi direttamente al film di un altro, Pasolini o Kurosawa. Il tempo delle citazioni, perfino delle autocitazioni, sarebbe arrivato anche per me, ma molto più tardi, quando il sentimento della mia identità si è fatto più preciso." In questa frenetica ricerca della propria identità, Bertolucci riuscì a differenziarsi da Kurosawa riempiendo il suoRashòmon con una pletora di scene che non hanno niente a che fare col valutare uno stesso evento da una prospettiva di22 2)
versa. Se queste scene scorrono via con il film, è perché co-
stituiscono il locus di quello «altro film» di cui Pasolini parlava. In essi, piuttosto che nel “soggetto” che tratta di un misterioso omicidio, Bertolucci comincia a preparare il terreno per i film a venire. Ed è in qualità di “anticipazioni” di sequenze future che possiamo apprezzare la scena dell’affogamento di Francolicchio, ripetuta in Prima della rivoluzione;
oppure quella, assai onirica, dei complici che corrono nel bosco come in Strategia del ragno; o quella della “danza della
pioggia” che prefigura il ballo di Jean-Pierre Léaud e Maria Schneider nel temporale di Ultimo tango a Parigi; o del ballo finale, con il suo valore di identificazione e verità, come ne La tragedia di un uomo ridicolo; o del ruolo dell’ispettore che riemergerà negli interrogatori de L'ultimo imperatore. Ecco Bertolucci:
Il film è la ricerca di uno stile capace di restituire poeticamente la sensazione del tempo che passa... Al cinema è possibile inventare un tempo che non è il tempo della letteratura, nemmeno quello del teatro o della pittura. È molto più vicino al tempo della musica o della poesia... Nel mio film il passare del tempo è bi-
sbigliato come un segreto, con una che quasi nessuno se ne accorge... secca questa è un’intuizione oscura, pevole; credo di averla approfondita Vie
voce così bassa Ne La commare non molto consanei film successi-
Anche volendo paragonare il film alla musica e alla poesia, Bertolucci non può sfuggire all’indebitamento che ha verso Pasolini e il padre poeta.* In verità cercò di «bisbigliare» i segreti della propria originalità ai margini de La commare secca. Se il film comunica una restituzione poetica della sensazione del tempo che passa, produce anche un’inquietante anticipazione del futuro di Bertolucci così come appare dai film successivi, nella cui coerenza Bertolucci potrà dare ascolto alla «intuizione oscura» che lo permeava e creare una serie di capolavori mai visti prima nella storia del cinema. Se, ne La commare secca, Bertolucci si rese conto che «il re(gista) è nudo», almeno era diventato un regista, i cui film
avrebbero costituito la “via regia” sia per il proprio inconscio che per quello del suo pubblico.” Rimase a Prima della rivoluzione incoronare questo giovanissimo principe dello schermo.
NOTE ! Pier Paolo Pasolini, “Le ceneri di Gramsci”, in Poesie, Garzanti, 1975, p.
73. ? B.B. a Ungari, cit., p. 29.
? Ibid., p. 29. ‘Ibid., p. 29. ‘ B.B.
a Morando
Morandini,
“Bernardo
Bertolucci”,
in Quaderno
A.LA.C.E, n. 11, 1973, p. 4. ° B.B. in Le regole di un'illusione, A.A.V.V., Associazione Fondo Pier Paolo Pasolini, 1991, pp. 29-30. ? Ibid., pp. 29-30. * Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, 1960, p. 435.
° Ibid., p. 326. !° Pasolini, “Le cinéma selon Pasolini”, intervista a cura di Bernardo Bertolucci e Jean-Louis Comolli, in Cahiers du cinéma, n. 169, agosto, 1965, p. 22. !! Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, 1972, p. 235. Vd. anche Jon Halliday, Pasolini su Pasolini, Guanda, 1992, p.119. * Naomi Greene, Pier Paolo Pasolini: Cinema as Heresy, Princeton University Press, 1990, p. 44. !* Greene, per esempio, tratta della ricreazione de La deposizione di Pontormo ne La ricotta, ibid., p. 63. “ Pasolini, Mamma Roma, Rizzoli, 1962, p. 140. 5 Pasolini a Jean Duflot in // sogno del centauro, Editori Riuniti, 1983, p. 110.
ottobre 1981, p. 46.
!
© B.B. a Joél Magny, citato in “Bibliographie commentée de Bernardo Bertolucci”, in Cinéma 81, n. 274, cit., p. 52. © B.B. a Ungari, cit., p. 30. “* Citato in “Bernardo Bertolucci: regista”, RA/ Segreteria Centrale, Schede del servizio stampa. © B.B a Ungari, cit. p. 29. °° Vd. Ric Gentry, “Bertolucci directs Tragedy of aRidiculous Man”, in Millimeter 9, n. 12, dicembre 1981, p. 58. Altrove Bertolucci aggiunse: «Nel 1960 mi sentivo più un regista francese che italiano». (Bernardo Bertolucci: «Ho sempre in me un film che voi non avete ancora visto», in Cinéma 81, n. 274, cit., p. 44). ” B.B. A Ungari, cit. p. 30. * Pasolini a Bertolucci e Comolli, cit., p. 22. ” Pasolini, Empirismo eretico, cit., pp. 185-186. ‘° Pasolini, “Le ceneri di Gramsci”, in Poesie, cit., p. 73. ‘' B.B. a Ungazri, cit. p. 30.
© Ibid. p. 31; e Morando Morandini, cit. p. 5. * Per l’insistenza di Pasolini sulla musica, vd. supra, nota 16.
‘* Con Pier Paolo Pasolini, a cura di Enrico Magrelli, Bulzoni, 1977, p. 36. ' Pasolini a Duflot, cit., p. 108.
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!* Pasolini, “Una visione del mondo epico-religiosa”, in Bianco e Nero, giugno 1964, p. 13. ‘ Pasolini a Halliday, cit., p. 60. °° Pasolini, Empirismo eretico, cit., p. 245. °! Leila Weiss, “Le nom du père: le secret des mères”, in Cinéma 81, n. 274,
“ B.B a Ungari, p. 72. Freud definì i sogni come la «via regia» che mena all’inconscio.
Prima della rivoluzione
1964
L'essenza dell'immagine è di essere più inaccessibile e misteriosa del pensiero dell'essere più intimo; non svelata eppure manifesta, con la caratteristica della assenza come presenza che costituisce l'attrazione e il fascino delle Sirene. Maurice Blanchot
Stendhal o la presenza assente All’inizio di Prima della rivoluzione Bertolucci pone una sequenza insolita. Si tratta dell’incontro di Fabrizio (Francesco Barilli) e Agostino (Allen Midgette), l’amico, davanti all’abi-
tazione di Cesare (Morando Morandini). Mentre Fabrizio si avvicina alla mdp, udiamo poco alla volta una sarabanda, e il rumore di una bicicletta. Per alcuni istanti Fabrizio esce dall’occhio della mdp. Una volta che Agostino, per la prima volta, compare in bicicletta, inizia a ruotare intorno a Fabrizio: una sorta di “sarabanda” con la bicicletta: entra e esce
dall’inquadratura. Uscito per l’ultima volta, udiamo un fracasso — la bicicletta caduta —, accompagnata dalle parole: «Stai lì! Questa è per mio padre». Il rumore di una seconda caduta, sempre fuori campo, gli strappa un: «E questa è per mia madre!». La mdp di Bertolucci rivela un’incapacità incredibilmente frustrante nel catturare il preciso momento della caduta. In ciascuna della cinque cadute, Agostino viene mancato dall’occhio della mdp: montato fuori 0 addirittura nascosto dal corpo di Fabrizio. In conclusione: non vedremo mai una sequenza per intero. L’ultima caduta, nascostaci ancora una volta dal corpo di Fabri-
della sceneggiatura, Bertolucci aveva scritto: «Per quanto riguarda il suono, comincerei col dire: andiamo a sentire le immagini di Weekend e andiamo a vedere il suono del film di Straub su Bach». In tutta tranquillità possiamo dire che la sequenza di Agostino in bicicletta ci invita a “vedere” il rumore della bi-
leologia stessa — del film, poggiavano sul realismo, al quale ogni elemento cinematografico avrebbe dovuto essere subordinato. La fiducia nella condizione ontologica della realtà lo condusse a condannare il montaggio e le sequenze brevi come anticinematiche. Le sue preferenze andavano alla profondità di campo, che nel suo pensiero massimizzava l’effetto realista. Vedeva in Flaherty il campione: «La mdp non può vedere tutto al primo colpo d’occhio» scriveva a proposito dell'americano «ma almeno cerca di non tralasciare nulla di ciò che ha scelto di vedere». Altrove non mancò di lodare Welles per la sua «riluttanza a frammentare un evento 0 analizzare i suoi riverberi drammatici all’interno del tempo, come una tecnica positiva che produce risultati migliori, di quanto non avrebbe mai fatto il classico sminuzzamento d’inquadrature».° La mdp di Bertolucci che manca «ciò che ha scelto di vedere» e la volontà di «frantumare nel tempo un evento» getta così il suo autore in aperta rivolta contro ciò che era ancora considerato, nonostante i crescenti dissensi di Godard e di
cicletta che cade, e in modo generale ci esorta a riesaminare
Pasolini, l'estetica filmica dominante.
la relazione che normalmente siamo chiamati a instaurare col film e la sua estetica. Al contrario, questa scena in qualche modo ambigua può rappresentare il punto focale di una complessa meditazione sull’estetica del film che Bertolucci avanza in Prima della rivoluzione. Mentre il dialogo della scena enuncia esplicitamente alcuni dei temi del film (il rapporto masochistico col padre, la madre, e l’Io, di cui l’allusione a // fiume rosso rappresenta un’altra versione importante del conflitto edipico),’ Agostino tenta di completare in bicicletta una serie di giravolte attorno al protagonista — Fabrizio —, che a sua volta è incapace (0 non vuole) imitarle, e le cui cadute pertanto restano fuori campo, invisibili. In questo preciso momento, Bertolucci con il solo stile cinematografico ha evocato lo stato dello spettatore e la sua predisposizione a vedere (secondo le norme della grammatica filmica), il tema dell'assenza, e le problematiche della rivoluzione. Ognuno di questi temi era destinato a divenire fondamentale nella successiva maturazione cinematografica; ciascuno di essi, inoltre, esercita una funzione cruciale nel film. Se de La commare secca disse che non fu «non proprio
Nei suoi articoli Godard era entrato in aperta polemica con le teorie baziniane.” L'affermazione più succinta di quella critica la si ritrova in La chinoise : «L'arte non è il riflesso della realtà; è la realtà di quel riflesso». Nella sua Critica alla teoria filmica, Brian Henderson argomenta che Godard prese come riferimento il ’700 in Francia (in particolare, quel periodo appena antecedente alla rivoluzione) quale «metafora lato sensu» della battaglia estetica che aveva intrapreso. Al-
zio, strappa ad Agostino un: «E questa è per me!». L'unica risposta di Fabrizio è: «Dai, andiamo al cinema insieme. Andiamo a vedere // fiume rosso». Fino a questo punto, la mdp di Bertolucci ha dimostrato un grado di mobilità eccezionale. Il film si apre con un’inquadratura a mano di Fabrizio che corre, frammista a primi piani, riprese aeree, carrellate per le vie di Parma e persino un camera-car per piazza Garibaldi. Tanto questi movimenti di mdp appaiono ricercati, quanto quelli della sequenza tra Fabrizio e Agostino impacciati. O meglio: pare vi sia una non volontà a seguire l’azione nel suo svolgimento completo. Per ben cinque volte l’epilogo dello “spettacolo” di Agostino termina “invisibile”. Anni dopo, nella introduzione al testo
suo», di Prima della rivoluzione dichiarò:
«Voglio fare un
film che sia proprio mio». E più avanti, sempre nella stessa intervista: Un regista deve cominciare a prendere posizione non solo nei confronti del mondo e la società che descrive, ma anche nei confronti dell’arte che crea. Sarebbe interessante vedere i film che diventano consapevoli di quello che sono come la musica ha fatto, come la letteratura ha fatto. Cioè sarebbe interessante avere un cinema che rifletta su se stesso, un cinema che parli di cinema... La storia è importante fino a un certo punto: nel film il rapporto tra le inquadrature è indipendente dai bisogni della storia... Ogni angolo ha il suo particolare valore.‘
Bertolucci non è certamente il primo regista a sottolineare l’importanza dello stile sul contenuto. Tuttavia, privilegiare la consapevolezza piuttosto che l’imitazione era andare controcorrente rispetto alle tendenze teoriche della filmologia di allora. Per il suo alfiere André Bazin, l’ontologia — la te-
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ludendo a Diderot, in modo
speciale, ribadiva la preferenza
per un ordine naturale di cuore e mente contro l’applicazione generale all’arte di un canone prestabilito: ad esempio, l’ontologia baziniana del reale. Con parole che sono particolarmente consone alla nostra analisi, Henderson sostiene:
L’autonomia dell’opera, la sua condizione di totalità rivale del reale, è per Bazin letteralmente impensabile. Pertanto, egli degrada qualsiasi genere di forma, ad eccezione di quella sottomessa al reale. L’enfasi di Bazin sull’arte, la sequenza, serve per mantenere il ci-
nema in una sorta di infanzia o adolescenza sempre dipendente dal reale, cioè, su un altro livello, che il
proprio.
È
Contro l’adolescenza ‘forzata’ del film, anche Pasolini si era ribellato. In Officina, fondata con Gian Carlo Ferretti, Pa-
solini offrì «la prima revisione critica di tipo razionalista del neorealismo... il quale, benché avesse origini marxiste... tendeva ad attribuire troppa importanza a un certo sentimentalismo».'° Come Prima della rivoluzione stessa, anche Pasolini «descrive la crisi dell’intellettuale borghese imbrigliato da certe forze storiche».!! Ferretti descrive il loro sforzo come una: «Analisi socio-politico-linguistica riguardante i problemi di stile e linguaggio, la loro giunzione, e la storia degli intellettuali e le classi sociali; una analisi chiaramente distinta sia dalla branca della stilistica della critica ermetico-modernista, sia dalla critica orientata verso contenuti di ispirazione marxista».!° Benché Pasolini denunciasse del neorealismo l’impiego di una lingua sviluppatasi nel periodo neofascista, non riuscì tuttavia a prospettare una letteratura alternativa. La descrizione di Naomi Greene su Pasolini indica quanto prossimi a Bertolucci fossero i suoi dilemmi politici e la sua estetica:
Agostino, l’amico suicida di Fabrizio, i cui capelli «sembravano le piume di un canarino» (Allen Midgette).
«Una creatura bifronte, Pasolini era scisso tra la nostalgia per la cultura del passato, alla quale cercava di rinunciare (benché profondamente radicata in lui come individuo, era ancora una cultura di classe), e l’anelito per una nuova società e una nuova cultura, ancora da fondare»." Prima della rivoluzione apparve nel bel mezzo di questa crisi del linguaggio poetico. E avrebbe aggiunto alla lotta paradossale di un gruppo di marxisti contro il predominio del neorealismo la “voce” di Bertolucci. Le cadute, invisibili, in bicicletta sono a malapena gli unici esempi della nascente rivolta contro il predominio di quella lingua cinematografica. Persino l’altra caduta di Agostino, quella finale, visto che non lo si vedrà più dopo le giravolte in bicicletta, è mancata dalla mdp: infatti, tre sequenze più tardi, Fabrizio osserverà impotente la polizia trasportare via gli abiti di Agostino dalla riva del fiume Enza, dove si era affogato. Troppo tardi per “catturare” questa scena, la mdp, ora, dispiega la sua abilità nell’eseguire precisamente il movimento che avrebbe dovuto compiere per “vedere” Agostino in bicicletta nella scena precedente: una panoramica di Fabrizio in primo piano si prolunga in una carrellata circolare dello stesso mentre guarda in direzione dell’acqua, il locus dell’“assenza” di Agostino. Ciò che Bertolucci ha qui realizzato è la messinscena stilistica di una presenza assente, dap-
prima spaziale, indi temporale. Infatti, persistendo nel rifiuto di realismo la mdp: è presente, ma immobile, nella sequenza delle cadute in bicicletta; è “assente”, ma mobile, in quella dell’affogamento. Fabrizio è obbligato a ricorrere alla parola, nella sequenza successiva, per descrivere Agostino: «Agostino... era biondo, i suoi capelli sembravano le piume di un canarino...». Da questo ritratto emerge subito la natura metaforica della descrizione. È evidente che la rivoluzione che qui si attua opera all’interno della più grande cornice del realismo, tuttavia contro l’impensabile subordinazione alle forme tradizionali dell'estetica dominante. In termini stilistici, la presenza assente di Agostino tematizza un altro importante livello del film. Infatti, l'ambientazione a Parma, i nomi e le relazioni dei principali personaggi (Fabrizio; Gina; Clelia) fanno pensare alla Certosa di Parma.
Tuttavia, a parte la coincidenza di luoghi e nomi dei personaggi, ed una allusione en passant al luogo di nascita di Stendhal (Grenoble) che si vede sulla ghirlanda funeraria di Agostino, il romanzo sembra non svolgere un ruolo determinante nel film. Non solo sembrano assenti i riferimenti al canovaccio, ma manca proprio il tono intimo del romanzo stendhaliano. «Un piacere non adulterato» scrive del romanzo un critico: «La Certosa di Parma è, per il lettore, una grande gioia, che corrisponde precisamente alla gioia di
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«Maturità è tutto»
ripete Cesare, il maestro elementare che fa anche da mentore a Fabrizio (Morando Morandini).
Stendhal provata nello scriverlo... È quasi la felicità estatica di una odissea perfettamente liberante»." Il tono di Prima della rivoluzione, tuttavia, rinvia più a Flaubert che a Stendhal e evoca l’ennui della poesia di Baudelaire piuttosto che il sublime della prosa di Stendhal." Sorge legittima la domanda: perché Bertolucci si sia preoccupato di alludere a Stendhal quando l’allusione rimane così poco sviluppata? La risposta giace nella straordinaria e complessa meditazione sul rapporto cinema e letteratura, che Bertolucci abborda in Prima della rivoluzione. Il romanzo di Stendhal e il film di Bertolucci occupano una relazione curiosamente simmetrica alla dialettica franco-italiana. Stendhal, disgustato e alienato dalla vanità e stupidità della società borghese del suo Paese nella prima metà dell’800,
scelse di ambientare il romanzo in un'Italia romanzata, che assomigliava più a quella del Rinascimento delle Cronache italiane che non all’Italia del tempo. Per lo scrittore, gli Italiani sembravano potenzialmente sprovvisti della vanité che caratterizzava la vita sociale, i costumi amorosi e la politica francesi. «In confronto ai francesi, gli italiani» scriveva «sono molto più tormentati dai sospetti e dalle folli idee suggerite loro da un’ardente immaginazione: ma provano gioie più intense e sanno farle durare più a lungo».'° Guardando con attenzione Prima della rivoluzione, non si può mancare di cogliere e apprezzare l’ironia dell’allusione bertolucciana a Stendhal; infatti, se l’autore francese trovò in Italia la fonte di una «ardente immaginazione», il cineasta italiano, messo a confronto con l’impasse culturale della propria società degli anni Cinquanta e Sessanta, mutua la sua ispirazione oltralpe. Una nostalgia transalpina pervade entrambe le opere, una esplicitamente, l’altra implicitamente, permeandosi reciprocamente. Sul piano dei personaggi, altre importanti discrepanze emergono. Il Fabrice di Stendhal diventa e rima-
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ne un rinnegato sociale, persino sotto il mantello talare; preferisce la solitudine della prigione alla folla della società ed è letteralmente consumato dalla passione per un’inaccessibile Clelia Conti. Il Fabrizio di Bertolucci si lamenta della propria incapacità a ingaggiare una simile rivolta: «Avevo avuto la sensazione che per noi, figli della borghesia, non ci fosse scampo». Tronca la relazione con Gina per contrarre matrimonio con una ragazza di estrazione borghese (ironicamente dal nome
di Clelia), sebbene scialba. E il suo maestro
(Mo-
rando Morandini) lo taccia di parlare «come un libro». Se il Fabrizio di Bertolucci finisce col rendersi conto del fallimento dei suoi ideali, è precisamente perché, come dice: «Parlo come un libro, perché è così che devo parlare per essere convincente». E ironia della sorte, un critico ha imputato al Bertolucci di Prima della rivoluzione il medesimo malanno," quando è proprio nel rifiuto dell’autore a lasciare parlare «come un libro» il suo film, che il film articola il suo messaggio più profondo: anzi, ciò che è riuscito a fare, contrariamente al suo stesso protagonista, è stato di tradurre le tematiche letterarie di Stendhal nella lingua cinematografica. Così facendo,
Bertolucci compie il suo primo grande passo nella creazione di «un cinema che guarda a se stesso, un cinema che parli di
cinema... nel confrontare la lingua che si è scelto»."* Il più chiaro ed esplicito rigetto della “letterarietà”’ cinematografica discende dal mantenere un certo discorso brechtiano sul cinema.' La mdp inquadra la metà di un cartellone cinematografico «La donna...», mentre l’audio reintroduce il tema «Ricordati...» di Gino Paoli, un tema musicale che ab-
biamo già incontrato nella scena precedente (questa volta suonato su clavicembalo senza libretto). Il cartellone è interrotto
da una panoramica su Fabrizio; quindi, la mdp rivela la seconda metà del cartellone: «è donna». Una sequenza identica di Fabrizio, che supera per strada una donna sorridente, ripete
«A Parma si mangia troppo. Prima si
mangia, poi si parla di quello che si è mangiato: è come
mangiare due volte» (Emilia Borghi, Giuseppe Meghenzani,
{ K
lole Lunardi, Adriana Asti, Domenico Alpi).
(IAZIAS
il messaggio, questa volta però inquadrando il cartellone nella sua interezza: «La donna è donna». Bertolucci ha riprodotto qui una allusione puramente stilistica al cinema di Godard coll’infrangere la tradizionale (cioè, secondo Bazin) sequenza cinematografica in due tronconi temporalmente ambigui, discontinui e sovradeterminati. (Il gioco della mdp su una donna, mentre la metà del cartellone segnala «...è donna», aumenta il valore semantico del cartellone cinematografico che altrimenti non avrebbe avuto). Nel tempo in cui lo spettatore, leggendo «La donna è donna», coglie l’allusione completa, grafica o testuale, a Godard, Bertolucci ha già completato una resa stilistica e puramente cinematografica di quella allusione. Inoltre, il suono e le immagini non procedono come sistemi paralleli di un effetto realistico (come esse funzionano quando la musica è usata per accrescere l’effetto emotivo della sequenza), ma sono usati per commentarsi vicendevolmente. Mentre la sequenza divide la prima metà del manifesto dalla seconda, le parole assenti della canzone («Ricordati il film che abbiamo veduto...», cantate nella scena precedente) esor-
tano gli spettatori a ricordare che cosa hanno appena visto, se vogliono comprendere il senso di tutto. Qui Bertolucci ha evitato l’uso del montaggio-come-metafora (rimanendo fedele al più esteso principio baziniano della sequenza): tuttavia «ha spezzato un evento per analizzare i suoi riverberi drammatici all’interno del tempo» (in diretta violazione della teoria baziniana del realismo).?
Il dialogo tra Fabrizio e l’amico all’uscita del Supercinema Orfeo rafforza la affermazione stilistica precedente. Gianni Amico, che interpreta il ruolo dell’amico, era uno degli stretti collaboratori di Bertolucci in Prima della rivoluzione, e la sua presenza in questa sequenza conferisce un particolare peso a quelle parole.” Bertolucci dice di questa scena: «Feci questa sequenza quasi per gioco, poiché sentivo il bisogno di
un respiro a questo punto». L’amico in realtà ripete quasi parola per parola le idee di Bertolucci sul cinema: E tu puoi vivere senza Hitchcock e Rossellini?... Voi dite che Resnais e Godard
fanno dei film di evasio-
ne... Une femme est une femme è più engagé di tutti i film di De Santis e Lizzani, e in un certo senso, anche di Francesco Rosi... Il cinema è un fatto di stile... e lo stile è un fatto morale.
Durante questa esposizione teorica, Bertolucci ha inserito un’altra allusione cinematografica. Infatti, e rivelando la sua passione per Hitchcock, ecco come il regista mette in bocca all'amico di Fabrizio le sue teorie: «Un angolo, una ripresa nel film hanno la loro moralità. Un carrello può ad esempio essere morale o non morale... C’è un’etica nello stile di molti registi: per esempio, in Godard lo stile è già un modo per vedere il mondo. In Rossellini pure». L’amico poi passa allusivamente a Fabrizio la sua sciarpa. Teorie e sciarpa come ‘marchi’ strettamente personali di Bertolucci diventano tanto una velata allusione figurativa a Hitchcock, quanto uno pseudo “cameo” del regista nel suo stesso film. Un altro lato di questo scherzo giace nella sua allusione alla Certosa di Parma, alla letteratura e alla relazione tra letteratura e cinema. Per tutta questa sequenza, Fabrizio interpreta il ruolo del tipico spettatore che ha prestato solo scarsa attenzione al film che ha appena visto, preoccupato come è dalla sua personale vicenda d'amore. Quando l’amico gli domanda perché non sta attento, Fabrizio risponde: «Sono innamorato, ecco...». E, in diretta allusione al suo omologo nel romanzo di Stendhal, aggiunge: «Mi accorgo che non mi era mai successo prima. Non sapevo cosa volesse dire». La risposta dell'amico è capitale:
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Ah, bene allora, il problema diventa di contenuto, non è più di stile... Credevi che l’amore fosse una sovrastruttura, vero? Invece, la donna è donna... Capitano delle cose nella vita di cui subito profondamente non si afferra il senso. Eppure sono importanti, ti cambiano anche. Una carrellata, per esempio, è stile, ma lo stile è un fatto morale... Trecentosessanta gradi di carrello, trecento-
sessanta gradi di moralità (il corsivo è nostro). La bellezza di questo tono “libresco” è che il suo messaggio (e la cinescrittura di Bertolucci) costantemente sovverte la sua qualità letteraria. La mdp è inusualmente attiva durante questa scena, ma per la maggior parte di essa evita l’amico, che pertanto pronuncia fuori campo quasi tutto il discorso. Così, benché la corversazione non sia tolta dal sonoro, Ber-
tolucci usa le immagini di questa sequenza come contrappunto, piuttosto che mero rinforzo o sottolineatura della progressione narrativa. Non appena l’amico dice (sempre ancora fuori campo): «Il cinema è un fatto di stile», la mdp si muove da un primo piano di Fabrizio a un’inquadratura dei due che siedono di fronte. Quindi, l’amico conclude la frase: «Ma lo stile è un fatto morale». Come lo spezzamento del titolo di Godard, Bertolucci sovverte la regola del dialogo: campocontrocampo. Lo stile e la scelta di un’inquadratura sono, per parafrasare l’amico, tra «quei fenomeni che accadono il cui
significato profondo non appare a prima vista», ma che rimane ciononostante fondamentale. AI «sono innamorato» di Fabrizio, l’amico risponde con una dialettica che oppone il contenuto di Stendhal e la sovrastruttura dell’amore
(Sull’amore di Stendhal) al rigore stili-
stico ed etico (cioè, politicamente impegnato) di Une femme est une femme di Godard. La questione allora si profila come: in quale modo lo stile di Bertolucci si evolve? In che modo imita, o risponde al contenuto di Stendhal? La risposta è già adombrata nella forma espressiva scelta per questa sequenza: poiché è attraverso lo stile particolarmente cinematografico, attraverso la selezione di inquadrature, angoli, e via discorrendo, che la questione può propriamente essere percepita e strutturata. Il Fabrice di Stendhal accede all'amore meno facilmente del Fabrizio di Bertolucci. Trascorre più della metà del romanzo interrogandosi se ciò che sente per le donne è veramente amore. Numerose volte giunge alla conclusione che la sua natura non è fatta per conoscere l’amore. Alla fine è pronto per proclamare: «Je suis amoureux!» nel momento preciso nel quale due condizioni hanno reso quell'amore impossibile: in primo luogo, è vero che è vicino, ma fisicamente separato dall’oggetto del suo amore; e in secondo luogo, quest'amore è per motivi sociali e familiari irraggiungibile. Opera gigantica, complicata da numerosi intrecci secondari e intrighi politici, La Certosa di Parma subordina tutti gli eventi e i personaggi alla scoperta rivoluzionaria e capitale di Fabrice, cioè Clelia, e al riscontro della loro impossibile unione. Stendhal ribatte questo punto quasi per costrizione, in quanto architetta la fuga di Fabrice dalla Torre Farnese soltanto per reiterare ed enfatizzare il desiderio del giovane eroe di essere reimprigionato vicino a, ma non insieme all'oggetto del suo desiderio. I particolari dell’imprigionamento di Fabrice sono degni di nota: l’intera struttura è interessante per il suo aspetto regressivo. La Torre Farnese è tristemente conosciuta. Essa si trova «nella famosa cittadella di Parma, il terrore di tutta
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la Lombardia. Siccome è molto alta, centottanta piedi, dicono, la si scorge da molto lontano, in mezzo all’immensa pianura» (CP, 88). Stendhal inventa gratuitamente la leggenda che la torre sia stata «costruita in onore di un principe ereditario che, diversamente da Ippolito, figlio di Teseo, non aveva mostrato di sgradire le attenzioni della giovane matrigna. La principessa morì in poche ore; il figlio del principe, invece, fu rimesso in libertà soltanto diciassette anni-più tardi, per salire sul trono alla morte del padre» (CP, 252-253). La cella
nella quale Fabrice è relegato è costruita in modo tale da es-
sere sopraelevata e separata dalle mura della torre: cioè, è
uno spazio a se stante, in qualche modo esente dai confini spaziali ordinari. Fatto che giustifica, prima di entrare nella cella, Fabrice esclama: «Questa è una prigione?» (CP, 254) e ripete: «Ma è possibile che questa sia veramente una prigione? — e intanto guardava l'immenso panorama... le stelle... in questa aerea solitudine! Qui è come essere mille leghe più in alto delle meschinità e le cattiverie del mondo» (CP, 256).
In questo spazio isolato dal mondo, Fabrice perde subito la cognizione del tempo,” che, più tardi, apprenderemo corrispondere a un periodo di nove mesi (CP, 321): è in altre parole un grembo con una vista. Ma quella vista è ripetutamente ostruita dalla costruzione e ricostruzione di un cieco, e per ricavare una piccola apertura Fabrice impiega la corona del rosario a mo’ di sega: da quel pertugio potrà scorgere Clelia e i suoi uccelli. Stendhal insiste sulle origini incestuose di questa torre atte, finemente, a puntualizzare la funzione materna di Clelia. Ridotto a uno stato infantile, totalmente passivo, nel quale ricrea da voyeur l’attività della scena primaria, Fabrice è nutrito e protetto da Clelia; e una volta liberato, de-
sidera solamente tornare a questo riserbo originario egocentrico e materno. Nel romanzo il locus reale dell’incesto diviene non quello evidente (Fabrice-Gina), ma piuttosto quello simbolico (Fabrice-Clelia). Il Fabrice di Stendhal è soddisfat-
to solo quando si riduce allo stato di voyeur, nel quale pur vedendo l’oggetto del suo amore, gli è materialmente impossibile raggiungerlo. La presenza assente di Clelia diventa la conditio sine qua non del piacere. Inoltre, è fuori dubbio che il romanzo (e la finzione) può continuare finché esiste questa tensione tra assenza e presenza. Con l’unione di due presenze nella realtà, la letteratura cessa (il romanzo
termina brusca-
mente quando Fabrice e Clelia diventano consapevoli della loro condizione di amanti). Il voyeurismo è, naturalmente, una forma di perversione. Ma non è ristretto soltanto a individui sessualmente aberranti. Ciascuno di noi lo pratica inconsciamente quando sogna. L'analisi di J.-B. Pontalis sul sogno sposa brillantemente quanto Stendhal ha descritto nella Torre Farnese:
I sogni hanno una speciale relazione con il visibile, nel senso in cui ne sono una rielaborazione, che ci permette di vedere, solo perché essi ripresentano ciò che è impossibile e vietato: «La scena del bambino non può più essere riottenuta» (Freud). Una delle fun-
zioni dei sogni è di rendere presente una certa assenza, doppiare il visibile con l’invisibile, essere perfetti pur essendo parziali. Sognare è possedere a distanza... E come se, da ultimo, il modello originario della
percezione fossero i sogni; come se la percezione originaria fosse onirica. Si potrebbe, seguendo questa linea di pensiero, argomentare che ogni sogno è la figurazione della madre o che la madre è un sogno.”
Distesa in mezzo a tutte le sue fotografie, Gina interroga ansiosamente il proprio passato (Adriana Asti).
Per Fabrice la scena infantile oggetto del desiderio può solo essere giocata in questo ambito aspaziale e atemporale, dove l'assenza è resa come presente, dove la parzialità è percepita come completezza, e dove Fabrice con successo riesce a possedere a una certa distanza questa figura materna: in pratica, un sogno! È significativo, inoltre, che per Clelia la possessione è concepibile solo come un evento invisibile: di conseguenza, impossibile in realtà. Perché, per la fedeltà votata a suo padre, ha giurato di non guardare mai più Fabrice, e di acconsentire a riceverlo solo nel buio della notte (come un sogno!). Lo scambio di sguardi alla luce del sole divelle questo sogno e, analogamente a Orfeo e Euridice, questo conduce alla fine dell’idillio.* Diversamente da Fabrice, ma come il sogno, ella tenta di raddoppiare il visibile con l’invisibile. Il contenuto simbolico del romanzo di Stendhal si incentra pertanto sulla messinscena del sogno, come la matrice creativa fondamentale della vicenda. Il loro è un giardino d’infanzia regressivo. Ciò che Pontalis parafrasando Winnicott chiama «spazio transizionale»:
Una realtà che non ha altra qualità che essere là 0 confondersi con la superficie proiettata di una realtà interna, di un sistema fantasmatico chiuso... L’io individua se stesso in uno spazio intermedio tra l’esterno e l’interno, tra l’io e il non-io, tra il bambino e la madre... un giardino d’infanzia. Dal gioco all’io (dal
Jeu al je): tale è questo movimento continuo, costantemente reinventato, senza alcuna linearità nel suo evolversi. Qualcosa che non ha posto prende posto... Nella sua presenza-assenza, si tratta di un testimone di un evento mai sperimentato... Assume significato proprio per non dovere essere mai realizzato.” Come lettori di Stendhal, leviamo in alto la pagina stampata, invocando la materializzazione di presenze impossibili. La presenza assente di Clelia ricapitola le nostra dinamiche “transizionali” con il libro; e la sua versione di questo gioco della distanza — finta possessione — introduce niente meno che una variazione sul tema della possessione. La sequenza della torre possiede una rassomiglianza inquietante con le dinamiche del cinema. Se è vero che «la presenza delle parole è la prova dell’assenza di ogni altra cosa», la fotografia, come è Clelia nella sua volière, costituisce il caso specifico di quell’immagine che non può essere posseduta. Maurice Blanchot osserva che: «L'essenza dell'immagine è di essere proiettata tutta all’esterno, senza intimità, e tuttavia più inaccessibile e misteriosa che il pensiero della più recondita essenza; senza significato, eppure nell’atto di fare appello al più profondo significato possibile; non rivelata eppure manifesta, avente quella assenza-come-presenza che costituisce l’attrazione, il fascino delle Sirene». Stanley Cavell definisce questo tipo di desiderio, il desiderio per «quella specifica simultaneità della presenza e assenza che solo il cinema sod-
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disfa».* E, come se stesse discutendo il desiderio di Fabrice di sbirciare Clelia attraverso il foro che ha praticato nella finestra a tramoggia, Susan Sontag nota:
suo autore rispose: «Sapere, voglio sapere». E aggiunse: «Il pubblico non sa che cosa è un film; occorre insegnarglielo. Questo è ciò che più mi interessa».? Come quei cittadini (e come Fabrizio stesso che emerge, più avanti, da sotto il car-
Il possesso di una macchina fotografica ha trasformato una persona in qualcosa di attivo, in un voyeur. [...] Il fotografare ha instaurato con il mondo un rapporto voyeuristico cronico che livella il significato di tutti gli eventi. Fotografare è essenzialmente un atto di
tellone di Donna è donna), lo spettatore del film non sa: vuo-
non-intervento. [...] Ma il fotografo è un qualcosa di più di un osservatore passivo. Come il voyeurismo sessuale,
è un modo, per lo meno,
tacito ma spesso
esplicito, di sollecitare ciò che sta accadendo perché continui ad accadere. Fare una fotografia significa avere interesse per le cose quali che sono, desiderare che lo statu quo rimanga invariato.* Dovrebbe essere evidente, allora, come, coscientemente o incoscientemente, Stendhal introduce una meditazione profondamente simbolica sulla fantasia e il sogno; e, ante lit-
teram, sulla relazione col cinema. Come lo spettatore di un film, il Fabrice di Stendhal preferisce il segregamento oscuro del suo spazio privato: attraverso il foro (ripraticato, quando otturato), come un voyeur gode dell’erotismo dell'immagine, anche se irraggiungibile. Alla libertà insita nell’atto del possedere, Fabrice preferisce fare ritorno a questo spazio confinante/liberante per reinscenare il suo voyeurismo. Ancora una volta come lo spettatore di un film, egli preferisce, potremmo dire, la pellicola al reale (the reel to the real). Bertolucci sembrerebbe allora avere accolto de La Certosa di Parma la meditazione metapoetica che occupa la parte centrale e la conclusione. Piuttosto che riprodurla pedissequamente nel personaggio di Clelia in funzione di presenza assente, il regista ha preferito appropriarsene e approfondirla, passando per una dialettica visiva: opporre Clelia a Gina, esponenti di due diverse attitudini stilistiche. Linda Williams con assoluta puntualità percepisce l'opposizione tra una mdp statica, che oppone Clelia, «e ogni cosa che è associata con la parte della città che Fabrizio ha denunciato»,
a una «mdp
nervosa e investigatrice» che Bertolucci punta su Gina.® Clelia, infatti, è in qualche modo esterna al rivolgimento
interiore e all’evoluzione politica che Fabrizio attraversa. Il film si apre con la corsa di Fabrizio mentre varca l'immenso portale di una chiesa, recitando La religione del mio tempo di Pasolini:
le soltanto emozionarsi senza doversi confrontare con l’esperienza. «Dal momento in cui i poeti parlano della realtà, sono anche etici... Nello stile mi pongo problemi morali» disse Bertolucci.* La circostanza che il borghese e lo spettatore cinematografico sono assimilati dal fatto che «non vogliono sapere» è la risonanza del presente. È la dinamica della situazione filmica nel rapporto con la consapevolezza e la coscienza sociale. L’invocazione iniziale di Fabrizio si conclude con una ripetizione: «Mi viene in mente se sono mai nati, se il presente risuona dentro di loro come in me risuona e non può consumarsi». La parola seguente è «Clelia!». La presenza assente che risuona senza consumarsi è, naturalmente, la Clelia della
torre-prigione di Stendhal; cioè, l’immagine cinematografica stessa, apprezzata unicamente nella sua natura di riproduzione superficiale della realtà. «Clelia è quella parte della città che io ho rifiutato» dice Fabrizio. «È di purezza» la sceneggiatura indica «che vien voglia di turbare». Clelia è la relazione non giudicata e non giudicante con l’immagine, ingenuamente rappresentata da una visione romantica (del cinema), che una visione più consapevole (lo stile morale di Bertolucci) cerca di disturbare. È in parte per questa ragione, che Linda Williams nota: «Clelia e ogni cosa che è associata con la parte della città... [sono] presentate in composizioni prevalentemente statiche..., in perfetta armonia, da una mdp tenuta ben fissa, in contrasto con l’agitazione di Fabrizio, filmato invece con una mdp instabile». Da notare che la mdp di Bertolucci non manca mai, al contrario, ciò che si proponeva di mostrare di Clelia. Escluse le scene iniziali e finali ambientate in chiesa, Clelia rimane
una pura immagine, ripresa con una mdp statica; e non la sentiremo mai più dire una parola nell’intero film. Per presentarla Bertolucci si serve di un montaggio tradizionale, e non per niente originale, accoppiandola alla statuaria religiosa, nell’intenzione di enfatizzare le relazioni che legano la casta sociale, la religione e l'iconografia: lo stile, un montaggio tradizionale, e un'immagine pura, superficiale, piuttosto statica, sono tutti qui uniti per esprimere una religiosità borghese. Clelia, poi, sparisce dal film. Ricompare nelle ultime sequenze, a teatro: distaccato e separato da Clelia, Fabrizio è
...questa fede cristiana E borghese nel segno Di ogni privilegio di ogni ripetizione... Non appena termina l’invocazione pasoliniana, guarda subito 1 cittadini lì riuniti, e dice: Non vogliono sapere... La loro coscienza non vuole capire, eppure hanno la realtà sotto gli occhi, e loro, gli attori, si rifiutano alla realtà dei loro personaggi, della loro scena... Ecco: io vedo delle figure fuori dalla storia, remote... Mi viene in mente se sono mai nati, se il presente risuona dentro di loro come in me risuona e non può consumarsi.
Alla domanda: quale fosse l’intenzione di questo film? il
diventato totalmente ossequente al mondo borghese. Ancora una volta, Clelia è percepita come un’immagine silenziosa; bella nella sua classicità, è comparata verbalmente ad un ritratto del Parmigianino. Più significativo ancora, è il ritorno di Fabrizio nella oscurità del suo palco, in quel mondo chiuso su se stesso e costituito da immagini provenienti dall’esterno. Proprio come nel romanzo stendhaliano, l’interdizione imposta da Clelia è rispettata: non vedremo mai più il suo volto. Infatti, numerose
volte nella sequenza del matrimonio,
la
mdp si mette a fuoco sulla nuca di Clelia, senza però mai farla “vedere” in volto. Come i personaggi di Stendhal, Fabrizio è ricondotto allo stato di una presenza assente, ma questa volta attraverso una forma puramente cinematografica. Se Clelia è «questa dolcezza di vivere che non posso accettare», lo stile cinematografico che la inquadra corrisponde a un momento nel cinema che giace, per continuare la para-
«Tua mamma è fatta come me». Dopo l’amore, Fabrizio e
Gina frugano tra le reliquie nascoste nella vecchia
tipografia (Francesco Barilli con Adriana Asti, di spalle).
frasi dell’occhiello in apertura del film, «prima della rivoluzione» (quando è ormai assodato essere stata iniziata per opera di Godard e capeggiata in Italia da Bertolucci). L’espediente scelto per presentare Clelia, prepara il terreno per la messinscena di Gina (Adriana Asti). E la prima comparsa della zia di Fabrizio è introdotta grazie a una dissolvenza, che confonde la sua immagine con quella della madre: le due donne a braccetto, quasi fossero un unico corpo, si allontanano dalla mdp. La fusione della madre e della zia enfatizza, naturalmente, la relazione incestuosa che risulterà tra Fabrizio e Gina; ma serve anche a innescare una serie cospicua di meditazioni autoriflessive.! Per sottolineare la natura estremamente autoconsapevole o metacinematografica del personaggio di Gina, Bertolucci ce la presenta in una sequenza nella quale la vediamo interpretare la propria presenza cinematografica contro la propria assenza fotografica. Vestita di bianco, cosa che ha l’effetto di volere dissolverne il corpo in pura luce, Gina siede pressoché immobile al centro di un letto matrimoniale; e dispone attorno a sé, come se intenta a fare un solitario, un mazzo di foto-
grafie. Grazie a inquadrature ravvicinate ne vediamo i contenuti: Gina da piccola col padre; poi, da adolescente con altri uomini; infine, donna matura. Ciascuna di queste fotografie “sparpagliate” sul letto contrasta con la “vera” Gina che sta loro davanti. Ancora una volta la mdp di Bertolucci inco-
raggia a meditare sulla presenza assente che è la fotografia: e, di conseguenza, il cinema.‘ Le fotografie di Gina ci esortano a riconoscere che anche lei non va oltre la pura e semplice immagine fotografica; e che noi dobbiamo sì interrogarci grazie a questa autoconsapevolezza cinematografica cosa significa guardare (o fare) un film, ma non fermarci, bensì spingerci ben oltre l’illusione della realtà impressionata sulla pellicola. L’insistenza con la quale Gina studia la propria immagine enfatizza la qualità fortemente regressiva, diremmo persino onirica (e di conseguenza materna), del suo stato psichico. Tale peculiarità, indissolubile dal ritratto fotografico come genere, faceva dire a Barthes: «La Fotografia è infatti l’avvento di me stesso come altro». In altri termini, essa ripete all'infinito il momento che Lacan chiamava «lo stadio dello specchio», il momento al quale l’altro è iscritto in sé come parte costituente dell’Io.*# Questa sequenza di Gina delinea così un nesso straordinario, sia a livello del personaggio che a livello metacinematografico, dei temi che concernono e l’identità e il desiderio edipico.* Come /ocus dell’incesto (con Fabrizio), Gina rappresenta l'impossibile unione con la madre che è desiderata dal bambino durante la fase edipica. In quanto fotografia, ella ripete il tempo presente delle immagini cinematografiche «che risuona in noi senza alcuna possibilità di consumarsi». Come potenziale figura di madre incestuosa, ella invita e respinge la tendenza alla fantasticheria, normalmente attivata dal cinema stesso. Se Clelia rappresenta l’accettazione statica dell’illusionismo romantico nel cinema, Gina costantemente invita lo spettatore a prendere coscienza del suo stato.
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«È troppo comodo fare l'esame di coscienza solo quando non si ha più una lira in tasca». L'incontro con Puck allo Stagno Lombardo (Francesco Barilli, Morando Morandini, Goliardo Padova, Adriana Asti, Cecrope Barilli).
Come se ella fosse consapevole della sua dimensione di immagine, a un certo punto troviamo Gina sostare a lungo davanti a uno schermo televisivo, in modo da apparire (ma non lo è proprio) un'immagine trasmessa dal televisore. Un gioco analogo, ma con la radio di Cesare ci fa riflettere sulla “realtà” parziale di voce e immagine. E, infatti, Gina in questo film non smette di lanciare messaggi
ambivalenti,
che
possono indirizzarsi tanto a Fabrizio (a livello di voyeur e di figlio incestuoso), quanto allo spettatore come voyeur (sul piano vuoi metacinematografico, vuoi onirico). Al tavolo della cena, nella loro prima sequenza insieme,
Fabrizio rigido e statico di fronte a Gina, riassume quella ricercatezza libresca che avevamo incontrato quando sermoneggiava contro Agostino. Dopo aver descritto Agostino e il suo “mito”, Fabrizio si lamenta: «A volte uso stupidamente le stesse parole di Cesare sperando che siano più limpide delle mie... E pensare che neanche io, con le mie pretese di fargli da maestro, anche io non ho mai capito niente di Agostino». Numerose volte la mdp torna su Gina, che a riprese alterne tiene le mani a conchiglia sulle orecchie in segno di rifiuto di quel linguaggio visibilmente artefatto; poi, con una mano si copre l'occhio, significando chiaramente l’“appiattimento” di Fabrizio, rendendolo come Clelia, puramente bidi-
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mensionale e senza profondità. I gesti di lei “esprimono” cinematograficamente la confutazione visiva della verbosità letteraria di Fabrizio. Nella scena successiva dei due, Gina parla per prima in una serie di messaggi ambivalenti indirizzati al nipote e allo spettatore. Dopo aver cercato di divertire Fabrizio senza riuscirvi, Gina gli ordina: «Non guardarmi con quegli occhi». Questa consapevolezza è ripetuta poco più tardi quando dice: Prima di tutto perdonami e ti prego, non indagare... Sono così delicata che mi sentirei di colpo in prigione. Non capisco se in te c’è solo curiosità o qualcosa d’altro, qualcosa di più... ma mi sono accorta che tu ti sei accorto. La tua faccia si abbuia tutta insieme. La tua faccia si rischiara tutta insieme. C’è solo un rimedio alle mie pene: gli altri, le persone, tu... E c’è la medicina della noia che mi ha portato fin qui, dalla lontana città di Milano. Qui è in corsa parallela con le nuvole che si rincorrono. Le nuvole rincorrono altre nuvole e tu rincorri me che rincorro te... Mio nipotino parmigiano. Senza dirti niente ti ho detto tutto... Non indagare, non indagare, non indagare.
La posizione autocosciente di Gina la porta a rendersi conto di essere un personaggio filmico cosciente che noi, come spettatori, stiamo scrutando. Si ode la sua voce fuori cam-
po, mentre ville, alberi, la campagna e il cielo scorrono fuori dall’automobile in corsa, illuminando e oscurando i nostri sguardi puntati sullo schermo. La fragilità del suo personag-
gio la fa sentire come se fosse in prigione: un’ulteriore allusione alla torre-prigione, capitale in Stendhal, e che ricorrerà più avanti, in un modo specificamente metacinematografico.
Questa conversazione ambivalente si prolunga nella se-
quenza successiva. Come Fabrizio, la vediamo vestirsi nella
stanza vuota, che un tempo accoglieva la tipografia, e ora è il locus dell'immagine dell’incesto. Gina immediatamente lo apostrofa: «Hai voluto guardarmi mentre mi vestivo, mentre mi tiravo su le calze, mentre mi mettevo le mutande... Che cosa straordinaria! Ti ho deluso? Tua mamma è diversa, ma è fatta come me»: in quanto voyeurs, il cinema funziona come il nostro sogno, la nostra scena primaria. Eccoci a nostra vol-
ta seduti al buio a guardare una scena incestuosa, dove il bambino ha preso il posto del genitore e dove la madre compie il tradimento. Improvvisamente il soggetto di questa scena ci assale: «Tua mamma è diversa, ma è fatta come me».
La chiarissima allusione di Bertolucci alla metapoetica della prigione/prisma di Stendhal avviene nell’unica sequenza che in Prima della rivoluzione ha luogo nella torre. In modo piuttosto interessante, il ruolo di Clelia nella trascrizione cinematografica è stato usurpato dalla incestuosa Gina, e il contenuto metapoetico del romanzo è stato sostituito da una soluzione che appartiene al cinema. Infatti, nella stessa torre dalla quale il Fabrice di Stendhal osservava Clelia, Fabrizio
fa sedere Gina a una sorta di tavolo e dichiara: «Questa che vedi si chiama camera ottica: è un gioco di specchi. È magico, ma è vero, però è magico». In questo gioco di specchi rinascimentale, l’immagine Technicolor che all’improvviso appare in contrasto con la fotografia in bianco e nero del film, ha «qualcosa di favoloso nella sua autenticità». Quando guarda sulla piazza sottostante appare l’immagine di un Fabrizio che salta e balla dalla gioia. Tuttavia rimane solo un'immagine, in quanto Gina mormora: «Che bello, lo ruberei questo trucco che mi fa parlare con te quando non ci sei». «Questa macchina» è naturalmente il cinema stesso; e le parole di Gina possono essere ancora intese come rivolte allo spettatore. Questa allusione burlesca alle vicende che in Stendhal hanno luogo nella torre-prigione indica quanto integralmente Bertolucci abbia compreso il valore di quei passaggi come una riflessione sulla presenza assente dell’immagine. Ancora: come se fosse consapevole del suo stato di immagine, ma questa volta in un film compiuto, Gina dichiara: «Tu sei contento, lo so, ma... sento che non durerà. E inutile,
cosa vuoi, finirà che ti ricorderai di me come se fossi morta. Poi passerà dell’altro tempo e tu mi avrai già dimenticata... Andrà a finire che mi odierai. Che colpa ne ho, io? Io non ti avevo promesso niente e tu non puoi, non devi avercela con me... Dov'è che se1?». Per un verso, Prima della rivoluzione può essere compreso nella sua interezza come una meditazione sulla presenza assente del cinema. Ma dove Bertolucci si appropria in modo geniale di questo punto focale del romanzo stendhaliano lo si vede quando trasforma questa scena d’amore da «problema di contenuto», in «fatto di stile», laddove lo stile, in quanto tale, diviene un «fatto morale» quando riscritto nelle temati-
che dell’imitazione, dell’autorità e della rivolta. Come /ocus di una fantasia incestuosa diretta verso la madre, Gina assomiglia al sogno e al lavoro onirico. Proprio
come Fabrizio pare discendere alle «porte del sogno» all’inizio del film, così Gina sembra costantemente entrare e riengli specchi. La sua apparizione in trare nel film attraverso scena avviene quando il suo doppio, la madre di Fabrizio, si
specchia. Quindi, segue la sequenza dove lei fissa attentamente le fotografie sul letto, mentre nelle sequenze seguenti, Bertolucci in una foggia quasi ossessiva accosta Gina agli specchi. Infatti, è attraverso uno specchio nel bar che la sentiamo dire a Fabrizio quanto sia difficile sostenere il ritorno, poiché «le cose non sono mai le stesse... e anche le persone, i luoghi». Poi, la vediamo riflettersi nelle vetrine sia quando passeggia per fare compere sia nelle sequenze del crollo emozionale. Nella scena dell’interminabile notte trascorsa nella sua stanza da letto, sembra trafitta dallo specchio e persino tenta di ravviare i capelli dalla immagine riflessa. Quando lei e Fabrizio s'incontrano dopo l’infedeltà di questa con uno sconosciuto, ella sembra parlargli attraverso lo specchio; e esce dallo specchio e dalla vista dello spettatore simultaneamente. Infine, sempre gli specchi inquadrano e circondano illoro ultimo incontro nel foyer del teatro. E grazie ai famosi precedenti di Carroll e di Cocteau che risulta chiaro quanto gli specchi siano intimamente collegati alla morte e all’attività onirica.# Le associazioni di Gina fatte in sogno quando pensa alla morte propria e del padre confermano ciò: «Anche a quel funerale, quello di mio pa..., quello di tuo nonno. La sua morte l’avevo sognata tante volte, e nel sogno morivo sempre anch’io. Non è pazzesco quanto si è vivi vicino alla morte? Come non si possa condividerla con loro, entrare con loro nella loro cassa. Si è più vivi che mai». Come il personaggio principale del sogno, Gina doppia la madre di Fabrizio, ma doppia anche la piccola Evelina, la ragazza nella torre. Come Evelina, una delle foto di Gina la ritrae contro un albero. Gina definisce questa piccola tormentatrice «una streghina spettinata»; e di se stessa allo specchio «un mostro coi capelli scarmigliati». Entrambe si fanno trasportare da azioni completamente ossessive: Evelina canta maniacalmente una canzone di cui ogni strofa contiene la frase: «volta la carta e si vede», mentre Gina in una scena seguente colleziona affannosamente fotografie di riviste. Analisi psicanalitiche del lavoro onirico mostrano che tra i personaggi del sogno esiste una tendenza simile allo sdoppiamento; che nei sogni, l'elemento della condensazione permette non solo agli opposti logici di esistere simultaneamente, ma persino al senso cronologico di esimersi da un funzio-
namento normale.‘ E come luogo di elezione di sogno e di irrazionalità, Gina costantemente pronuncia affermazioni autocontradditorie. Infatti, per due volte ribadisce che la cronologia non funziona per lei. «Vedi vorrei che niente si muovesse più. Tutto fermo fisso come in un quadro e noi, dentro, fissi anche noi» dice nella camera ottica: «Guarda qui, niente
più maggio, giugno, luglio... settembre». E a casa di Cesare dichiara: «Il tempo non esiste», mentre procede ad illustrare questa tesi con una favola. Le sequenze tra Gina e Fabrizio centrano un reinscenamento dell’intera lotta edipica.** Nella sequenza in cui la famiglia di Fabrizio assiste al funerale, Gina rimane nell’auto con Fabrizio, che ha appena trasgredito l’ordine paterno di accompagnarlo. Abbandonandosi a raccontare la sua passata vita milanese, Gina articola inconsciamente la struttura latente del sogno: «Mi impegno nella trasmissione dei pensieri. Ho un dono infallibile. Suono il triangolo... Faccio tre bagni al giorno... Piango sempre... rido sempre... Non mi piacciono i grandi... gli adulti... No, non sono mai seducenti... Almeno guarda nella mia direzione!». La mdp è eccezionalmente attiva in questa sequenza: ai
finestrini dell’auto visti in carrello vengono intercalati primi
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piani, piani americani e zumate. All’improvviso Gina, vista per ultima sul sedile posteriore dell’auto guancia a guancia con Fabrizio, è ripresa fuori dall’auto che picchietta al finestrino e confuta ciascuna delle previe asserzioni. La natura dislocata e autocontraddittoria di questa sequenza è abbastanza onirica e aumenta mano a mano che Gina ripete a parole la scena di Agostino: «Non è vero che io so andare in bicicletta. Cado sempre», per uscire subito dopo dall'occhio della cinepresa. Ancora una volta, la mdp mobile e industriosa di Bertolucci si rivela “incapace di seguire”, ottenendo l’effetto di accentuare il momento cinematografico. Riproponendo in questa citazione una scena precedente, Bertolucci introduce una versione metaforica e cinematografica dello stesso tema: Gina è mostrata senza soluzione di continuità con sei diverse paia di occhiali bizzarri. Come spettatori del film, vediamo solo quel prisma che per noi Bertolucci ha scelto. Come Gina, assumiamo una serie di differenti ottiche quali la mdp del film ci presenta. La più memorabile di tutte queste scene oniriche è quella che rassomiglia più a un sogno: è la sequenza dell’amore “immaginario” tra Gina e Fabrizio. Grazie a un montaggio accorto, i due sembrano occupare lo stesso letto, mossi apparentemente da una comune ondata di desiderio. I tagli da un letto all’altro — che ricordano l’Atalante di Jean Vigo — reintroducono con insistenza il tema della presenza assente, argomento centrale nella meditazione di Bertolucci sul romanzo di Stendhal e sulle problematiche legate ai sogni. Se ancora una volta l’accento è messo sull’aspetto onirico, è perseguito al fine di dissuaderci dal partecipare con leggerezza all’illu-
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sionismo tradizionale e romantico del cinema per guidarci oltre la realtà apparente. Questa fantasia termina in un finto atto sessuale. Ma numerose sequenze dopo, Gina conduce la fantasia all’atto, quando adesca lo sconosciuto e finiscono all’albergo del Gallo d'Oro. Nel momento in cui Fabrizio scopre l’“infedeltà”, la mdp reinscena nuovamente l’affermazione di Gina quando asseriva il suo talento nell’interpretare il triangolo: Gina all’angolo di una strada guarda ripetutamente ora lo sconosciuto ora Fabrizio, ognuno leggermente fuori fuoco, e all’estremità di un angolo immaginario, di cui la donna funge da fulcro. Ancora una volta, Bertolucci mette in opera il conflitto edipico primario in termini puramente cinematografici, passando attraverso il desiderio e il tradimento, ma dirigendosi al crocevia del sogno. Queste sequenze oniriche non partono grammaticalmente da altre sequenze del film; cioè, non sono distinte da dissolvenze, effetti flou, o altri effetti analoghi della grammatica filmica tradizionale che intendono produrre il sogno. Esse funzionano nell’isotopo del realismo del film e come tale
Mentre il popolo dimostra di continuare ad «accettare ciecamente SUS che gli si dà», Fabrizio si sente sempre più isolato alla Festa dell'Unità (Francesco Barilli).
possiedono un peso e significato uguale a quelle scene non strettamente oniriche. Ognuna di queste scene tratta un’incipiente rivolta edipica contro la tradizione della famiglia che, a livello contenutistico, conduce solo al desiderio impossi bile
dell'unione con la madre, tanto apertamente fantasticata quanto realmente insoddisfatta. E questo è il livello più
profondo dei sogni edipici, secondo Freud: ai quali Pontali s
aggiunge: il vero locus del sogno è la madre." Ma se Fabrizio personifica l’idealista, e rimane intrappolato al livello elementare del sogno, il film invece cerca, mediante un’inces-
sante autoconsapevolezza, di progredire al livello latente del sogno: verso l’analisi, verso una potenziale metamorfosi, e da ultimo, alla scoperta di un nuovo linguaggio che possa trascendere la miopia della tradizione e della struttura familiare. E in questa luce che possiamo comprendere dove regista e personaggio divergono. L'evoluzione di Fabrizio è circolare e conduce ad un’impasse. Discepolo di Cesare (allusione forse a Cesare Pavese), Fabrizio si paragona ad uno dei piccioni che affollano i piedi della statua di Garibaldi: «Il mio Garibaldi è Cesare, anche lui sul suo piedestallo». Piuttosto
che uguaglianza e cameratismo, Fabrizio preferisce un’adorazione della figura paterna schiavizzante, statica e persino sconsiderata.? Il suo impegno politico conduce quasi immediatamente da questa posizione imitativa, attraverso sermoni arrabbiati e farisaici, ad un’accettazione indifferente della propria condizione di borghese. Punisce Puck perché sfaticato e ipocrita: «È troppo comodo» Fabrizio ironizza: «mettersi a fare l’esame di coscienza solo quando non si ha più una lira in tasca... il fatto è che dei casi... come quello suo ce ‘ne sono troppi in Italia». Più tardi, estende la critica al partito e al proletariato: «Il popolo accetta ciecamente... In vent'anni il popolo non si è formato neppure uno straccio di coscienza». Egli critica il partito per non avere aiutato Agostino e proclama: «Io volevo un Uomo Nuovo, un'umanità di figli che siano padri per i loro padri». L’autoconsapevolezza cinematografica invade persino la scena nella quale Cesare e Fabrizio discutono il fallimento degli ideali rivoluzionari di quest’ultimo. Non era trascorso molto tempo da quando Fabrizio aveva detto: «Va tutto alla malora; la gente prende ciecamente ciò che le si dà» quando viene interrotto da due lavoratrici del partito che parlano del suicidio di Marilyn Monroe: ancora una volta il cinema è intercalato in una conversazione politica. E, quasi come un deus ex machina del teatro classico, ecco apparire un enorme carro che viene spinto goffamente in direzione della mdp sul quale i ragazzi del fiume Enza, Guglielmo e Enore, reinscenano il suicidio di Agostino. Questa associazione puramente visiva (tipica di una produzione onirica), accoppiata con il Leitmotiv di Agostino, fornisce la traccia per il seguente commento di Fabrizio: «Che cosa ha fatto il partito per A gostino?». In conclusione: una discussione puramente verbale, cioè, letteraria, di disillusione politica è contrastata con un
tour de force cinematografico. Colto nella natura essenzialmente letteraria della sua struttura tradizionale, la «visione di una “nuova umanità”» di
Fabrizio si riduce a una versione della lotta edipica narrata in Totem e Tabù, dove i figli usurpano il posto del padre senza realizzare nessuna rivoluzione nella gerarchia. Freud ci ricorda che il desiderio di divenire padre di se stessi non è altro che una copertura per il desiderio di avere per sé la propria madre. Cesare non è cieco alle conseguenze che implica la
visione di Fabrizio: «Ormai sei fuori e credi di essere più
dentro degli altri. Il tuo problema è un altro. Se tu avessi più coraggio, parleresti di Gina». Gina stessa apostrofa il nipote «Sei stupido, presuntuoso». E soggiunge: «Tu parli, parli, credi di capire tutto e invece non capisci niente o nessuno». Infatti, sia la parola che l’ordine appartengono a quelle origini strettamente letterarie che limitano la visione del mondo di Fabrizio. Da ultimo, la sua posizione politica di fronte al partito e alla gente non trascende mai il livello della relazione fondamentalmente edipica che instaura con Gina. È un flirt effimero, giovanile, con una rivolta mai attuata. In entrambi, egli sogna di scalzare l’ordine paterno, ma può solo pensare di rimpiazzare quel sistema con un altro di struttura analoga: «Figli che siano padri per i loro padri». E a questo riguardo, è significativo che il film si avvia alla conclusione parallelamente al Macbeth di Verdi con una delle scene finali al Regio di Parma. La visione della rivolta di Fabrizio è più leggendaria, regicida e sterile, che innovatrice e potenziale. Questo tipo di ribellione e usurpazione non è altro che l’illusione del progresso marxista attraverso la rivoluzione. Ogni cosa è mediata da una tradizione letteraria: «D'accordo, parlo come un libro stampato perché io devo parlare come un libro per essere convincente». Così Fabrizio può meramente ricapitolare il passato. Alla fine egli ammette che: Ho una febbre... che mi fa sentire la nostalgia del presente. Mentre vivo, sento già lontanissimi i momenti che sto vivendo. Così non voglio modificarlo, il presente. Lo prendo come viene. Ma il mio futuro di borghese è nel mio passato di borghese. Così, per me, l’ideologia è stata una vacanza, una villeggiatura. Credevo di vivere gli anni della rivoluzione, e invece vivevo gli anni prima della rivoluzione. Perché si è sempre prima della rivoluzione quando si è come me.
Fabrizio finisce, come le immagini di Stendhal nella torre, coll’essere
nient'altro che un’altra presenza
assente,
un'immagine senza volto. Così la sua «nostalgia del presente» è esattamente quella della presenza assente della fotografia, senza stile morale a cui imprimere una direzione. La sua visione è modellata sui libri che ha letto e sull’ordine che si sente di imporre a coloro che gli stanno attorno. Bertolucci, comunque, ha usato la nozione della presenza assente in un modo molto più innovatore. Piuttosto che seguire il contenuto del suo modello e la sua autorevolezza, egli cerca di reinterpretare quella tradizione attraverso una rivolta stilistica. Piuttosto che scalzare l'autorità del libro al fine di prenderne il posto (sarebbe stato il caso della rivoluzione che, conchiuso il cerchio, fa nuovamente ritorno su se stessa, alla stasi o alla mera ripetizione), Bertolucci opera all’interno di essa per rovesciarla con una rivoluzione nella visione, con un tentativo di creare un nuovo linguaggio e un nuovo stile consono ad un nuovo mezzo di espressione. Dobbiamo, allora, comprendere quanto profondamente ambigua e ambivalente sia stata la relazione del cineasta con Stendhal. Bertolucci rimane ‘fedelmente sovversivo” col reinscrivere accuratamente le più stimolanti e feconde strutture letterarie di Stendhal in elementi intimamente cinematografici. Ritorniamo un'ultima volta al romanzo di Stendhal per meglio apprezzare la natura della fedeltà sovversiva di Bertolucci. La genealogia personale di Fabrice è (in questo molto
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Dopo la rottura con Gina, Fabrizio assiste all'apertura della stagione lirica con la fidanzata, Clelia (Francesco Barilli e Cristina Pariset).
Allora possiamo capire meglio i consigli che Fabrizio rivolge ad Agostino: «Qualsiasi cosa, la politica, anche la poesia, può servire! Ma devi lottare dall’interno». Seguendo l'esempio di Pasolini e Godard (un altro padre transalpino), Bertolucci, attraverso l’ «ambiguità e l’incertezza» della sua relazione con Stendhal, aveva cominciato a sollevare una
simile a Prima della rivoluzione) assolutamente equivoca. Nato diversi mesi dopo il ritiro delle forze di occupazione napoleoniche, Fabrice è costretto ad occupare la casa e portare il nome del padre presunto, il marchese del Dongo, personaggio ignobile e pusillanime. Il padre naturale, siamo piuttosto condotti a credere, è il tenente Robert, un francese focoso, responsabile per «la prevalente euforia e l’espansione di ogni cuore» (CP, 10). Stendhal nota che: «La partenza dell’ultimo reggimento austriaco segnò il collasso delle vecchie idee: rischiare la propria vita era una moda. La gente vide che, per essere veramente felici dopo secoli di apatia, era necessario amare... con un'amore genuino e lanciarsi in atti di eroismo» (CP, 4). «La storia del tenente Robert era più o meno quella delle truppe francesi... erano amate» (CP, 9). Come l’ambiguità della paternità franco-italiana di Fabrice, i modelli del film sono due: Pavese e Stendhal. Bertolucci mantiene un’attitudine di fedeltà sovversiva a ciascuno, in quanto il film rifugge da una rivolta aperta contro la struttura del potere borghese regnante. Imita così le azioni di Cesare (Pavese) e trascura la sua dottrina a favore di un rifiuto individuale e puramente stilistico per accettare del mondo la visione estetica imperante (di Stendhal).
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questione dalla portata rivoluzionaria: «Che cosa significa fare un film?».° E la risposta non consisteva nel copiare pedissequamente l’intreccio e l'immaginario della letteratura presa a modello; piuttosto, significava un riesame delle strutture più ricche e feconde della letteratura alla luce di un linguaggio cinematografico appropriato, e attraverso uno stile specificamente cinematografico, al fine di promulgare una nuova comprensione di quei contenuti — di psicologia e politica — meno facilmente accessibili. Benché Fabrizio citi la parte conclusiva del Manifesto Comunista quando dice: «I Comunisti non sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono essere raggiunti soltanto con il rovesciamento violento...» e Cesare conclude al posto del giovane borghese in lacrime «soltanto con il rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente», è il più giovane dei due che non può, ciononostante, rimettersi ad un’azione politica. Riproducendo il fallimento di Fabrizio per inscenare questo programma testuale, Bertolucci stava perseguendo un cammino già intrapreso da Pasolini: «Che è semplicemente tanto necessario quanto legittimo per
l’intellettuale di sinistra esprimere la sua crisi ideolo gica e sentimentale al fine di contribuire pubblicamente alla lotta di classe». L’insuccesso del personaggio di Fabrizio come esponente di coloro «che sono rimasti borghesi con la violenza e l’inerzia di una psicologia determinata dalla storia» è sufficientemente drammatico per puntare alla volta di una «nuova poesia».* Dietro l’impasse di Fabrizio si sente l’appello di Pasolini per questa nuova poesia; dietro Pasolini, la replica immediata di Bertolucci sotto forma di un nuovo «Sti-
le morale».
Il film morale, dunque, stava emergendo per Bertolucci
come una nozione rivoluzionaria che fondava i principi morali non sulle tradizioni solenni dell'etica borghese, ma su un tentativo di realizzare e massimizzare la piena potenzialità del veicolo di comunicazione. «La cosa fondamentale nel ci-
nema» diceva «è continuamente reinventarlo e riscoprirlo».?° Così facendo, egli stava obbedendo a quella voce rivoluzionaria che riposa al fondo dello sforzo artistico autentico: «Di tutti i nostri prodotti artefatti» nota Guy Rosolato «l’arte, su tutti, richiede una mobilità esemplare di fronte alla legge: si potrebbe meglio dire che le sue regole devono essere costantemente inventate, o fare in modo che ci appaiano inesauribilmente nuove; a questo proposito la creazione artistica sempre porta la rivoluzione dal suo interno». Col ridirezionare le problematiche di Stendhal verso una meditazione su ciò che si vede e come si vede, e la relazione della percezione (cinematografica) nei riguardi di configurazioni oniriche più profonde e psicologiche, Bertolucci aveva iniziato una rivoluzione che avrebbe portato avanti in un modo molto diverso in Partner.
NOTE ' B. B., “L’ambiguité et l’incertitude au miroir”, in L’Avant-scène 82, giugno 1968, p. 7. ° Marsha Kinder nota nonostante questa allusione al film di Hawks 7/ fiume rosso: «Se in superficie appare essere una osservazione fuggevole che evita il dolore emotivo di Agostino riguardante il suo conflitto edipico, il film particolare
che Fabrizio (o piuttosto Bertolucci) sceglie di menzionare, in realtà, indirizza la
medesima questione edipica, e in uno stile, benché diverso da quello di Bertolucci, che allora era rivoluzionario nella sua stessa espressione. Così, mentre questa osservazione appare insensibile e fugace in superficie (come la maggior parte del cinema di larga platea), è in verità... abbastanza risonante e complicata, per non dire profonda (proprio quelle qualità che Bertolucci stava reclamando per il suo
cinema anti-baziniano). Questa maniera di trattare un’allusione cinematografica è
molto simile alla maniera che egli impiega per La donna è donna di Godard e è naturalmente analoga alla (o forse ne è un microcosmo) maniera con la quale egli illustra la complessa relazione col romanzo di Stendhal». Comunicazione personale di Kinder all’autore. * B.B. a Bragin, cit., pp. 39, 40. * Ibid., pp. 42, 44. ° Vd. Brian Henderson, A Critique of Film Theory, New York, E. P. Dutton, 1980, pp. 16-61. ° Ibid., pp. 22-23. "In Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, a cura di Jean Narboni, Belfond, 1968. * Henderson, cit., p. 65. ° Ibid. p. 89. '° Greene, “Gramsci, Pasolini: the Role of the Intellectuals and the Organization of Culture”, in Praxis, numero speciale dedicato a Gramsci, in via di pubblicazione. !! Ibid. !° Ibid. 4 Ibid. “ Beatrice Didier, “Postface” a Stendhal, in La Chartreuse de Parme, Gallimard (Folio), 1972, p. 577. Balzac aggiunge: «Beyle ha fatto un libro dove il sublime esplode capitolo dopo capitolo», p. 626. ! J. L. Bory, in Le Nouvel Observateur, 17 gennaio 1968, ha notato: «Prima della rivoluzione si compie all’interno dell’applicazione tetra, una serenità amara,
che sono quelle de L’éducation sentimentale (ora in L’Avant-scène, n. 82, cit., p. 49). Vd. anche Roger Greenspun, “Before the Revolution”, in Film Comment 10, n. 3, maggio-giugno 1974, pp. 22-23.
!* Stendhal, La Certosa di Parma, Cde Spa, 1983, p. 74. D'ora in avanti citato nel testo come CP seguito dal numero della pagina. ” Vd. John Thomas, “Before the Revolution”, in Film Quarterly 20, n. 1, autunno 1966, p. 55. !# B.B a Bragin, cit., p. 42. '’ La presenza di Brecht nel film è resa materialmente attraverso la ripresa di un manifesto che annuncia una sua opera teatrale, e che Gina incontra sulla via per la stazione; la presenza implicita, invece, sta nei numerosi titoli che rompono
la corrente realistica del film, cioè, la citazione di Talleyrand che apre il film, o inserti quali: «Il mattino di Pasqua, le campane appena slegate, volavano per la città... Essi dormivano profondamente» o: «Continuavano a dormire; un vero scandalo, perché in casa erano già tutti pronti per la messa». 2 Henderson, cit., p. 22-23.
?! Va da sé che è augurabile molta discrezione nella interpretazione dei nomi di un testo, benché l’“amico” sia interpretato da Gianni “Amico”, che nei titoli compare come stretto collaboratore di Bertolucci e senza dubbio presta la voce alle teorie personali del regista. Abbastanza curiosamente, il termine riappare in una frase di alta intensità emotiva che troviamo in Strategia del ragno, quando gli abitanti di Tara ripetono, incutendo terrore: «Qui siamo tutti amici». Ciò può essere interpretato come un'espressione della condensazione, nella quale, nei sogni, tutti i personaggi rappresentano in qualche grado il portatore del sogno stesso. Come per il nome del cinema “Orfeo”, riapparirà con enorme significato in Ulti mo tango; vd. infra, capitolo su Ultimo tango a Parigi. © B.B., a commento della sceneggiatura di Prima della rivoluzione. © B.B. a Bragin, cit., pp. 42, 44. Bertolucci continua: «I film italiani che più mi piacciono sono quelli di Rossellini. Mi piace anche il cinema francese, soprattutto Godard. Ma Rossellini è il più grande di tutti. È uno dei primi casi di cinema veramente aperto... lo stile di Rossellini è uno stile profondamente morale; uno stile con la propria etica». “ Cfr. l'affermazione di Fabrice: «Ti voglio bene, ho per te la più devota amicizia, ecc., ecc., ma non sono capace di amare». CP, 154. © Vd. Georges Poulet, “Stendhal et le temps”, in Revue internationale de Philosophie, n. 16, 1962, pp. 395-412. °° Stendhal più tardi compara Fabrice agli uccelli di Clelia (CP, 229), e, significativamente, Fabrizio si paragona a «uno dei piccioni che beccano sulla piazza sotto la statua di Garibaldi. Il mio Garibaldi è Cesare». ? Pontalis, cit., pp. 76-77. * Vd. supra nota 21. © Pontalis, cit., pp. 197-199, 213. ‘ Per una discussione della letteratuara come un «oggetto transizionale» vd. Murray Schwartz, “Critic, Define Thyself?, in Psychoanalysis and the Question of the Text, a cura di Geoffrey Hartman, Baltimore, John Hopkins University Press, 1978. !" Blanchot, “Faux pas”, citato in Pontalis, Après Freud, Gallimard, 1968, p.
284. © Blanchot, Le livre à venir, citato in Barthes, La camera chiara, cit., p. 106. Cavell, cit., p. 42. * Sontag, cit., pp. 10-12. Cfr. Cavell: «Le condizioni ontologiche del film lo rivelano come inerentemente pornografico», cit., p. 45. Vd. anche Metz, cit., pp. 83-90. © Linda Williams, “Stendhal and Bertolucci: the Sweetness of Life before the Revolution”, in Literature/Film Quarterly 4, n. 3, 1976, p. 218. Il saggio della Williams è un saggio sensibile e illuminante sugli stili visivi di Prima ; tuttavia, le sue conclusioni ci paiono perdano di vista alcune implicazioni notevoli del film. © B.B. a Gelmis, cit., p. 120. B.B. a Bragin, cit., p. 42. # Ibid. p. 44. © Williams, cit., pp. 217-218. ‘* L’incesto come tema doveva ricomparire nelle opere successive di Bertolucci quali Strategia del ragno, Ultimo tango a Parigi, e soprattutto ne La luna. '! Barthes, cit., p. 78, ha scritto a proposito della fotografia: «Nella Fotografia, contrariamente a quanto è per tali imitazioni, io non posso mai negare che /a
cosa è stata là. Vi è una doppia posizione congiunta: di realtà e di passato. E siccome tale costrizione non esiste che per essa, la si deve considerare, per riduzio-
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ne, come l’essenza stessa, come il noema della Fotografia. Ciò che io intenzionalizzo in una foto (non parliamo ancora del cinema), non è l’ Arte e neppure la Comunicazione, ma la Referenza, che è l’ordine fondatore della Fotografia». * Cfr. le seguenti osservazioni della Sontag, cit. pp. 9, 15: «Le fotografie oltre a dare all’individuo il possesso immaginario di un passato reale, lo aiutano ad impadronirsi di uno spazio nel quale vive insicuro. 3) Far fotografie, che è un modo di attestare un’esperienza, è anche un modo di rifiutarla, riducendola a una ricerca del fotogenico, trasformandola in un'immagine, in un souvenir. [...] Una fotografia è insieme una pseudopresenza e l’indicazione di un'assenza. [...] Le fotografie sono un modo di imprigionamento della realtà: compresa come recalcitrante, inaccessibile [...]».
4 Barthes, cit., p. 14. *# Jacques Lacan, “Le stade du miroir”, in Revue francaise de psychanalyse 13, 1949, pp. 449-455. # Barthes, cit. p. 41, nota: «Dinanzi a queste fotografie è come se io fossi sicuro di esserci stato o di doverci andare. Ora, parlando del corpo materno Freud dice che: “Non c’è nessun altro luogo di cui si possa dire con altrettanta certezza che ci siamo già stati”. L'essenza del paesaggio (scelto dal desiderio) sarebbe allora questo: heimlich, che risveglia in me la Madre (niente affatto inquietante)». 4 Vd. infra capitolo su Ultimo tango a Parigi. ‘? Freud, cit., pp. 277 ss. 58 In una scena, esclusa dalla versione finale, il tema specificamente edipico è enfatizzato. Fabrizio per un momento perde Gina nella folla e grida: «Dove sei? Non ti sento più!»... Dove sei?», poi emette un penetrante, rauco urlo infantile: «Mammaaaaaaaa!». ‘ Elementi visivi inesplicabili permeano l’intero film: ad esempio, nella scena del crollo di Gina (successiva al suo incontro con la piccola Evelina), la mano di Fabrizio è mostrata per tre diverse volte che stringe la spalla della zia che avanza. Ogni inquadratura è leggermente diversa, tuttavia ciascuna deve occupare un momento cronologico identico nel “realismo” della narrazione logica. In una scena precedente, durante l’elogio di Agostino, si hanno quattro dissolvenze di Fa-
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lì leggermente diversa. brizio, quattro volte rimpiazzato da un’inquadratura anche essere menzionati) Nessuno di questi esempi di montaggio (0 altri che potrebbero da un modo onidiverso o considerat , “realismo” qualche un a ascritto può essere rico o cinematograficamente autoconsapevole. York, Basic 5 Freud, cit., cap. 6. Vd. anche E. Said, Beginnings, New dove tocca lo Books, 1975, pp. 168-169: «Questo è l’ombelico del sogno, il luogo edipico che è sconosciuto... il groviglio in ultima analisi si riferisce al complesso ... uno sconvolgimento della normale sequenza della famiglia a causa dell’incesto del mito freudiana retazione nell’interp diviene familiare idillio un stato è che ciò degli oppodella tragedia greca, un complesso groviglio, e quasi insopportabile, sti».
S! Pontalis, Entre le réve..., cit. pp. 76-77. è tutto» 5 Tra le molte allusioni a Pavese è la citazione di Cesare: «Maturità da La luna ei falò; le ripetute allusioni al suicidio (Agostino, Marilyn Monroe); e la lettura di Moby Dick, fatta a scuola da Cesare alla fine del film nella mirabile traduzione di Pavese. © Persino quando rimanda a Pavese, Bertolucci allude a Stendhal, in quanto 26). l’immagine di Fabrizio e gli uccelli è tratta dalla Certosa di Parma (vd. nota Le conseguenze dell’atteggiamento eccellente di Fabrizio saranno esternate da Marcello e dal Professor Quadri ne // conformista . S“ In maniera piuttosto interessante, quale ulteriore collegamento tra il romanzo e il film, Bersani ha visto ne La Certosa il desiderio di Stendhal di essere padre di se stesso. “Stendhalian Prisons and Salons” in Balzac to Beckett, New
York, Oxford University Press, 1970, pp. 102-103. ss Freud: «Su un tipo particolare di scelta oggetuale dell’uomo» in Contributi alla psicologia della vita amorosa, Opere, cit., Vol. 6, p. 411. 5 B.B., “L’Ambiguité...”) cit., p. 7. Greene, cit., p. 18. * Ibid. 5 Bertolucci “L’ambiguité...”, cit., p. 7. © Rosolato, cit., p. 173.
Partner
1968
Il teatro non potrà ritrovare se stesso, costituire cioè uno strumento di autentica illusione, se non fornendo allo
spettatore veridici precipitati di sogni nei quali il suo gusto per il delitto, le sue ossessioni erotiche, la sua primitività, le sue chimere, il suo senso utopistico della vita e delle cose, persino il suo cannibalismo, si
riversino su un piano non convenzionale e illusorio, ma interiore. Antonin Artaud
Il sosia e il suo doppio «Girando Prima della rivoluzione», diceva Bertolucci, «mi sono trovato davanti alla paura di chiarire la mia posizione ideologica e al desiderio di esorcizzarla. La mia adesione al marxismo, passionale e romantica, era segnata dalla paura di essere prima o poi assorbito di nuovo dall’ambiente borghese da cui provenivo. Il personaggio di Fabrizio è l’esorcismo di
questa paura».' In Partner, invece, il regista sembra cimentarsi nel contrario: esorcizzare la paura di precipitare in un radicalismo troppo spinto. La conseguenza fu un'assoluta instabilità. Gli anni di attesa che separarono Prima della rivoluzione da Partner furono «quattro anni di elucubrazioni a vuoto, di riflessioni teoriche che non erano mai accompagnate da una pratica».° Durante quel periodo, Bertolucci non riuscì a tro-
vare i fondi per girare nessun film. Girò tuttavia un documentario di tre ore per la RAI dal titolo La via del petrolio.’ Scrisse con Dario Argento il trattamento di C'era una volta il West* per Sergio Leone e anche un soggetto più personale, Natura contro natura, che non verrà mai realizzato. Era la storia di tre uomini: un poeta, un omosessuale e un
estremista politico. Si incontrano per caso e stipulano un patto: osare una bella impresa, come
nelle favole; e ritrovarsi
per scambiarsi le avventure. Il poeta si prefigge come meta di leggere le sue poesie a colui che considera il proprio “maestro”: Pasolini. Il militante vuole organizzare un gruppo di azione politica nella periferia romana. L’omosessuale sceglie di scambiare i pantaloni con il ragazzo con cui fa l’amore. «Ma questa prova è quella che ricordo meno nei dettagli e nel significato»* Bertolucci aggiunge. Tutti e tre falliscono nell’impresa. Il poeta mentre sta per gettare alcune delle sue poesie nel giardino di Pasolini, fiducioso nel vento, si ritrova faccia a faccia con Pasolini, e questo incon-
tro, così reale gli impedisce di portare a termine la sua messinscena, e non osa mostrare le sue poesie. Il politico si impadronisce di uno di quei tram che portano dal centro della città verso la periferia e la campagna, lo battezza Potemkin, e svolge un seminario di indot-
trinamento politico con un gruppo di giovani burini. Le sue parole venivano fraintese al punto che era costretto a scappare, a rifugiarsi sul campanile di una chiesetta di campagna, e riusciva a scappare alla reazione violenta dei burini inferociti solo grazie a uno stratagemma molto umiliante, quello di travestirsi da prete. L’omosessuale finiva in un luna-park, costretto a partecipare a quello spettacolo eseguito da motociclisti acrobati e spericolati che si chiama “Il pozzo della morte”. Sentiamo ancora Bertolucci: «Ogni personaggio aderisce a alcuni dei desideri e delle fantasie dei giovani di qualche anno dopo, nel ‘68: la rivalutazione della poesia, l'impegno politico alla sinistra del PCI e la beatificazione dell’omosessualità... Natura contro natura aveva qualcosa in comune con Partner». In realtà non solo le vicende dei tre personaggi terminano con l’inversione dei ruoli (l’omosessuale parteciperà a un gruppo politico, sarà il militante a scambiarsi d’abito, e il poeta finirà faccia a faccia con il noto cantore dell’omosessualità), ma insieme si fondono per collimare perfettamente con i(1) personaggi(o) di Giacobbe in Partner. Perché incapa-
ce di integrare queste tendenze conflittuali — militante, poeta e omosessuale — Giacobbe dirà alla fine del film: «Ho fallito» e esce dalla finestra. Il suo aspetto poetico-romantico entra a tal punto in conflitto con la sua posizione militante e con la sua palese omosessualità che dapprima strangola la venditrice di sapone, poi le indossa i propri pantaloni e termina uccidendo Clara in un modo analogo su un autobus in Vaticano. «La natura non è naturale» dirà Giacobbe non appena esce da un vespasiano sul lungotevere, alludendo chiaramente al film precedente: la Natura è contro natura.* Quest’ affermazione e il titolo stesso del progetto bastano a suggerire quanto completamente schizofrenico sia Partner. Infatti, Bertolucci, lamentandosi del lungo periodo di inattività precedente al film, disse: «Partner è il mio film meno naturale...
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Da patoio intellettuale frustrato, Giacobbe trascina la sua malinconia per la città, con un libro su Murnau sotto il braccio (Pierre Clementi).
un film schizofrenico sulla schizofrenia».° Per essere precisi,
questa qualità schizofrenica era dovuta non solo alla molteplicità dei piani già presente nel progetto precedente, ma anche, e forse a maggior ragione, all’ispirazione letteraria del film: un racconto di Dostoevsky, // sosia." Come La Certosa di Parma per Prima della rivoluzione, la presenza de // sosia in Partner è troppo impercettibile per meritare persino che i nomi dei personaggi coincidano. L’attenta progressione al disintegramento del personaggio che troviamo in Dostoevsky è qui quasi interamente trascurata e relegata in margine al film da una pletora di elementi assenti invece nell’originale russo. Mentre Yakov Petrovich Goljadkin è un oscuro funzionario che al lavoro incontrerà difficoltà con il sosia, aggressivo e smaliziato, fino a dovergli cedere il proprio incarico, il Giacobbe di Bertolucci è (in apparenza) un professore di arte drammatica del Centro Sperimentale di Roma, che non incontra alcun attrito nell’ambiente di lavoro con il suo rivale. Non solo Yakov scade nella scala gerarchica della sua professione, ma colui che ha preso le «maniere di Goljadkin» si insinua persino nella «casa della fidanzata del nostro eroe, la
Clara Olsufyevna ed entra nelle sue grazie». Il lento disinte-
allorché il consigliere titolare Yakov Petrovich Goljadkin si destò dopo un lungo sonno» (S, 159): l'evento è situato cronologicamente; il personaggio nominato è collocato «nella città di Pietroburgo, nella capitale, in Via Sei Botteghe, al quarto piano di un gran casone d’affitto» (S, 159). Il narratore sembra rispettare dal suo personaggio una distanza oggettiva: lo segue alla terza persona; usa le virgolette per distinguere la voce di Goljadkin dalla sua; introduce annotazioni logiche, causali e cronologiche, quali ad esempio: «la ragione
di ciò era...» (S, 164); Oppure: «su tutte le torri di Pietrobur-
go che indicano e battono le ore scoccò la mezzanotte in punto, quando il Signor Goljadkin, fuori di sé corse sul lungofiume della Fontanka» (S, 201). Spesso il narratore enfatizza la sua cognizione sullo stato demente del personaggio. Parimenti designa Goljadkin come «il nostro eroe»; 0, meno ironicamente come «il nostro consigliere titolare». Distingue con cura il personaggio iniziale da quello futuro, il sosia: quando vi si riferisce parla del signor Goljadkin «maggiore» e del signor Goljadkin «minore». Raramente interviene per riaffermare i limiti artistici della propria posizione narrativa: «Oh se fossi poeta!... Ma lo riconosco, lo riconosco piena-
mente, io non potrei descrivere tutta la solennità del momen-
to» (S, 187). A costo di ostinarsi a ribadire che il narratore
non è un poeta, l’autore sottotitola il romanzo «Poema pietroburghese». Dunque: è precisamente tra queste due istanze contraddittorie che Dostoevsky ha creato una struttura veramente straordinaria. Ciò che inizia da un punto di vista narrativo come un rapporto oggettivo di un'esperienza potentemente soggettiva è lentamente e insidiosamente eroso dalle allucinazioni del personaggio. Piuttosto che dire: «Il nostro pensò di avere visto il suo sosia», il narratore riconduce tutti gli elementi, quotidiani e fantastici, della narrativa, nello stesso isotopo
gramento del personaggio di Yakov senior s’incentra nell’umiliazione sofferta in casa di Clara. Là è scoperto dal misterioso e terribile Dr. Rutenspitz, e costretto a sparire in una carrozza per vie scure e sconosciute. Benché Giacobbe venga espulso senza cerimonie dalla casa di Clara per il motivo, tra gli altri, di stare a testa in giù sulle scale, di fare il
verso del gallo e danzare da solo un tango, riesce ciò nonostante a prendere la fuga con Clara. Mentre l’ex suggeritore Petroushka fa finta di guidare un’auto ferma, simulando il rumore del motore, sul sedile posteriore Giacobbe “seduce” Clara brutalmente. Dopo quella scena, il ricorso al testo di Dostoevsky sarà sempre più scarso: è come se l’intera materia fosse andata dimenticata. In breve, Bertolucci trasforma la storia di Dostoevsky da una tragedia comica a una black comedy, facendo posto ad altre considerazioni. Come aveva fatto servendosi de La Certosa di Parma in Prima della rivoluzione, il regista riduce e distorce il testo di partenza sollevando molte domande sulla scelta del testo dostoevskyano quale modello. Lo capiremo chiarendo ciò che è peculiare nel testo di Dostoevsky, e quale uso Bertolucci ha fatto di questo tratto distintivo. Il sosia (1846) presenta una struttura narrativa unica nella letteratura del doppio. L’opera impiega apparentemente una struttura tradizionale: un narratore, onnisciente, racconta le disavventure e il collasso psicologico di Yakov Goljadkin. Familiari sono le numerose paline narrative disseminate lungo il testo. Ad esempio: «Mancava poco alle otto del mattino,
psicologico. Benché a un certo punto riconosce che «le avventure del signor Goljadkin... sono... nel loro genere del resto abbastanza curiose» (S, 190), questa oggettività è completamente persa la pagina successiva, quando per un intero paragrafo la sua posizione e quella di Goljadkin si confondono:
Ma non fa nulla che sia lì in piedi [nascosto nell’andito, sulle scale di servizio dell’appartamento di Olsufij Ivanovic]... Sta benino.
... per il momento tenendosi nascosto e intanto osservando solamente il corso della vicenda generale da spettatore estraneo. Lui, signori, ora osserva soltanto. Anche lui ora potrebbe entrare... e perché non entrare (SN191), Grazie a un gioco di duplicità espositiva estremamente fine, il narratore stabilisce la sua posizione di osservatore oggettivo, aderendo da una parte alla rigorosa grammatica dell’esposizione narrativa, ma violandola ad ogni occasione. Significativamente, non solo la voce del narratore e il suo punto di vista sono intrappolati nello sconvolgimento interiore di Goljadkin, ma involontariamente dice che Goljadkin ha usurpato il suo proprio ruolo: quello dello «osservatore esterno... che guarda soltanto».!! Nel momento in cui Goljadkin scopre la presenza nelle sua vita del doppio (Goljadkin minore), il narratore si rivela completamente, benché impercettibilmente, come un ulteriore — la triplice copia — Goljadkin. vi(SS)
Il fatto che Dostoevsky li chiami il signor Goljadkin maggiore e il signor Goljadkin minore stringe maggiormente l'ulteriore rapporto di doppio con il narratore. Il Goljadkin minore esprime una fantasia edipica di imitazione/obbedienza seguita dal tradimento e dall’usurpazione. Costui, «l’altro Goljadkin» (il nome Giacobbe implica usurpazione e rivalità) usurpa la posizione professionale, economica e affettiva del signor Goljadkin maggiore. Il sosia è l’epitomo della duplicità. Questo modello di obbedienza al primato del più anzia-
no origina un'intensa rivalità, impercettibilmente ma senza dubbio riprodotta a livello della narrazione, finché il punto di
vista del narratore non è esso stesso irretito e indebolito da quello della sua creatura. Da ultimo questo espediente narrativo serve a disorientare il lettore come disorienta Yakov Goljadkin. Il narratore dà l'impressione di costruire, quando in realtà lavora segretamente a sabotare ogni distanza critica: promuove l'adesione del lettore a interpretare un altro sosia di Goljadkin, scatenando in conseguenza una complessa riflessione sulla relazione tra narrazione e psicologia. L'adattamento bertolucciano del romanzo prende spunto inizialmente da questa posizione metanarratologica, quale implicazione attiva e passiva del doppio. Partner si apre con un primo piano di Giacobbe (Pierre Clémenti) colto nel momento di leggere un libro su F.W. Murnau e il suo mitico Nosferatu. Già qui Bertolucci riassume fulmineamente l'ambiguità narratore-personaggio propria al testo dostoevskyano. Infatti, Giacobbe è disturbato dai rumori. È quando si toglie la cera dalle orecchie che lo spettatore può identificare quei rumori come la voce di un cameriere. Se nel romanzo compete al narratore, la grammatica cinematografica tradizionale insegna, a parte casi specifici, che la determinazione del punto di vista spetta agli “occhi” della mdp e alle “orecchie” della banda sonora. (Come il narratore dirige la nostra attenzione sulle vicende del personaggio del romanzo, la mdp e il suono in sincrono focalizzano la nostra attenzione uditiva e visiva sulle immagini che saranno “lette” in sequenza). Attutendo il suono per simulare la cera nelle orecchie, Bertolucci ha spostato l’autorità assoluta del narratore dalla mdp a una posizione condivisa dalla mdp e dal personaggio. Inoltre, la riduzione sonora concomitante dell’accompagnamento musicale ne aumenta l’effetto. I tamponi di cera hanno ridotto non solo quei suoni che Giacobbe come personaggio dovrebbe udire, ma anche gli altri (come la musica) destinati tradizionalmente al solo spettatore. Appannando la dicotomia personaggio-narratore, Bertolucci brillantemente riduplica l’ambiguità del punto di vista narrativo già presente in Dostoevsky, dove narratore e personaggio si fondono impercettibilmente." La violazione delle convenzioni oggettive e soggettive provocata dalla colonna sonora interviene sin dall'inizio. Ma l’adombramento delle volontà del narratore e del protagonista si allarga ad altri aspetti del film: come la composizione all’interno dell’inquadratura, la cinescrittura e il contenuto. Le composizioni di Bertolucci aumentano in misura proporzionalmente diretta alla scissione di Giacobbe. Per esempio: quando Giacobbe lascia il caffè e attraversa la strada, un tronco divide per un istante il nostro campo visivo: vale a dire la nostra percezione, indirizzandola politicamente. Su questo elemento divisorio è incollato un manifesto del Vietnam, anch'esso ripartito drammaticamente in una metà rossa e una blu. A questa stregua, fenomeni di divisione dello
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di schermo ricorrono tanto frequenti quanto la duplicazione di pila dalla nte ntalme Giacobbe: egli stesso è diviso orizzo lmente libri nella sua stanza, quando questa è divisa vertica scherlo Clara, di festa alla sione l'intru dagli stessi. Durante
rto mo è nuovamente scisso: il gradino di una scala all’ape
un sembra separarlo da Clara. Una volta cacciato dalla festa,
albero si frappone tra Giacobbe e la sua ombra mentre boxano. Subito dopo è il muro di un giardino a dividere orizzon gigante e osa mostru ra un’omb talmente lo schermo. Quando comla notte, nella be Giacob re insegui sca appare e sembra
i e, posizione è frammentata da un’altra facciata in matton
poi, da una banda bianca. Questa dispersione compositiva prosegue per tutto il film. Un'altra mescolanza di narratore e personaggio si produce alla festa di Clara. In questa parentesi «deliziosamente personale», Giacobbe danza da solo; la mdp opta per una serie di primi piani di lui e di Clara invece di un’inquadratura che comprenda i due rimasti a distanza l'uno dall’altra. L’insieme di questi primi piani (come in Prima della rivoluzione la scena della “camera da letto”, composta da inquadrature singole di Fabrizio e Gina) dà l'impressione che Giacobbe stia realmente ballando con Clara: con un espediente ingegnoso il regista ha oggettivato visivamente le fantasie di Giacobbe. Questa mescolanza dei punti di vista conduce a una messa in scena cinematica del doppio che il testo non raggiunge. Dostoevsky insiste, come è ovvio, sulla identità fisica dei due
al punto da risultare per gli altri indistinguibile. Per esempio: «Nessuno, assolutamente nessuno si sarebbe attentato di determinare quale precisamente fosse il vero Goljadkin e quale il falso, quale il vecchio e quale il nuovo, chi l'originale e chi la copia» (S, 214, il corsivo è nostro). Altrettanto, benché il
narratore e il protagonista del romanzo “cospirino” per farci credere che Yakov ha per davvero visto il suo doppio, i sosia rimangono nel testo ben distinti: l’intruso bene in evidenza come Goljadkin minore, ovvero «l’amico perfido del signor Goljadkin». La fusione personaggio-narratore eseguita da Bertolucci, e sposata alle proprietà del cinema, produce un raddoppiamento del processo che alla fine elimina ogni certezza (quindi, primato) di identità tra l'originale e l’imitazione. Benché qualche spettatore abbia cercato di separare le caratteristiche di Giacobbe («un’incapace per natura che aspira ardentemente all’abilità di persuasione, se non di comando») da quelle del sosia («una forte personalità a fianco del più debole Giacobbe»), non c’è in realtà materia certa dalla quale ricavare una tale distinzione. Entrambi i doppi entrano e rientrano nella loro stanza artificialmente arredata senza il beneficio di nessun supporto testuale. Se nel romanzo di Dostoevsky chiunque si confonde sull’identità dei due Goljadkin, l’autore risparmia al lettore ogni incertezza. Bertolucci invece getta lo spettatore in questa incertezza, staccandosi dalla sua fonte: qui riposa la differenza cruciale tra la semantica testuale e quella cinematica. Quando sullo schermo le due immagini di Pierre Clémenti occupano posizioni speculari, non c’è più nessuna soluzione di continuità alle loro identità: lo spettatore vive l’incertezza ontologica dei personaggi, percependo un qual certo fantastico." Che questa ambiguità riposi sulla percezione e sullo aspetto visivo, è ancora più indicativo. In questo caso la riproduzione speculare non solo fa crollare tutte le strutture ragionevoli alla base dell’organizzazione visiva, ma assimila
Sergio Tofano è Petroushka, il padrone di casa che fa anche da cameriere a Giacobbe.
questa scena fantastica ai motivi della scopofilia e della «trasgressione dello sguardo».!° Benché superficialmente distante dalle problematiche di Prima della rivoluzione, vale a dire del vedere e dell’essere visti, la comparsa del tema del doppio in Parmner scatena una pioggia di considerazioni sulla complessità della percezione: speculare (il doppio nello specchio), psicologica (i doppi mentre esprimono opinioni del mondo conflittuali), politica (padrone/*originale” e schiavo/“copia”), o estetica (l’opposizione parola/testo e immagine/cinema). La riflessione bertolucciana sulla relazione doppio-percezione comincia nella scena d’apertura, quando Giacobbe, seduto al tavolo di un caffè, legge un libro sul Nosferatu di Murnau, film fantastico sul conflitto amore-odio e sulla crudeltà del rapporto. Quale giustificazione per non avere udito la domanda del cameriere, Giacobbe risponde: «Guardavo le figure». Questa messinscena (altrimenti gratuita) è da legger-
si come metaforica del rapporto Bertolucci-Dostoevsky (e col modello in generale). Questa risposta riapre la discussione sulla relazione romanzo-film già abbozzata in Prima della rivoluzione. La riduzione di un’opera letteraria in film (e viceversa) risiede precisamente a livello delle immagini mentali; la natura metaforica della parola deve scendere a un com-
promesso (come la materialità dell'immagine cinematica, del resto). Questa forma di traslazione implica: imitazione (a livello del significato) e rifiuto (a livello del significante) in misure apparentemente uguali.'” Come Goljadkin, che dupli-
ca l’originale, così la resa filmica di un testo e, inversamente, lo “scrivere” un film, sono quasi obbligati a formare una figura difficilmente intelligibile: anche l'imitazione, considerata sulle prime fedele, deve sempre mettersi in rapporto di rivalità e di “ri-posizionamento” rispetto all’originale. Ma se Bertolucci sembra riaprire “vecchi” dibattiti, già oggetto di analisi in Prima della rivoluzione, questa volta vengono esaminati in dettaglio, e messi in relazione col cinema politico, in generale, e, in particolare, con la contemporanea rivoluzione estetica francese del maggio 1968. Dietro il libro che Giacobbe legge in questa prima sequenza si nasconde una pistola, allo stesso tempo appartenente e distinta dal libro, come ciò a cui il testo politico aspira (capacità di affettare la vita in modo esplosivo/radicale) e come ciò a cui potrebbe condurre. Come la differenza che separa la forza e l'immediatezza del testo dall’azione politica, la pistola simbolizza il divario tra la letteratura e il suo doppio: la vita. Usata per sparare al pianista, la pistola accenna ironicamente anche all’incapacità del film di parlare di nient'altro che di se stesso — dei suoi altri doppi —, in questo caso il cinema francese della Nouvelle Vague. Benché questa sia una citazione evidente al film del 1960 di Truffaut, Partner contiene nel complesso una quantità di allusioni al “maestro”: Godard. Già in Prima della rivoluzione l’amico cinéphile di Fabrizio ne magnificava il cinema «morale» e «politicamente impegnato», allorché Bertolucci sperimentava alcune delle sue teorie e tecniche visive. Part-
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Dietro le montagne di libri, imobili dipinti sulle pareti fanno dell’appartamento dell'insegnante di arte drammatica un vero teatro (Pierre Clémenti).
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ner può essere considerato come un cospicuo tributo — per non dire un esorcismo — all’influenza di Godard, cineasta politico. Fin dal 1963, e con Le petit soldat, Godard aveva firmato opere densamente politiche come: / carabinieri (1963), Il bandito delle undici (1965), Due o tre cose che so di lei (1966), Il maschio e la femmina e La cinese (1967). Con gli ultimi tre, Godard aveva impresso al suo cinema una virata,
allontanandosi dalla “cooptazione” borghese verso una posizione di pura “irrecuperabilità”. Week-end (1968) si concludeva ambiguamente sulle parole «Fine... del cinema», senza
che ci fosse nessuna ambiguità nei suoi sforzi successivi con Gorin per rendere il proprio cinema non commerciale. Partner indulge in generale sull’antiaristotelismo di Godard, senza impedirsi di fare allusioni specifiche ai suoi film.'* Già Godard, in Le petit soldat, aveva espresso bene il potere relativo de La condizione umana di Malraux sotto il tiro di una pistola, scena alla quale la sequenza di apertura di Partner rinvia forse. In quel film, gli attori si emancipano dalla loro schiavitù di attori gettandosi simbolicamente da una finestra: altra scena che prefigura l’uscita dei due Giacobbe alla fine di Partner. La presenza di Godard può essere riconosciuta anche nella sequenza della venditrice di detersivo, di cui l'equazione capitalismo-prostituzione richiama // maschio e la femmina, dove Catherine, «figlia di Marx e Coca-Cola» dà un’interpretazione del sesso quale prodotto di mercato e corrisponde alla schiacciante pubblicità nel suo lavaggio automatico. Ma si richiama anche a Due o tre cose che so di lei, dove una catasta di scatole di detersivo diventa metafora dell’intero paesaggio cittadino. In un’altra scena, le pile di libri nel soggiorno anticipano il bisogno di Giacobbe di usare la letteratura per ostacolare il sentimento. Ne La cinese è lampante il tentativo di Godard di sposare
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un immaginario statico ad un numero abbondante di citazioni. Nel film, costruito quasi in forma di trattato sulle sorti storiche e politiche, gli attori — in particolare Jean-Pierre Léaud, che Bertolucci avrebbe usato ironicamente in Ultimo tango a Parigi — passeggiano, libri alla mano, leggono e declamano. Mentre Godard faceva risorgere Brecht, Bertolucci ricorreva a molti dei metodi discorsivi di Godard per riscoprire Antonin Artaud." Come Jean-Pierre Léaud apre La cinese in una declamazione imbarazzata, Pierre Clémenti
(nei panni di Giacobbe)
appare, poco prima in Partner, parzialmente nascosto da una pila di libri, mentre istrionicamente legge brani tratti dal 7eatro e il suo doppio di Artaud: «La cosa veramente diabolica e autenticamente
maledetta
della nostra epoca, è l’attardarsi
sulle forme artistiche, invece di sentirsi come condannati al rogo che fanno segni attraverso le fiamme»? Mentre siede in questo spazio, che più tardi chiamerà la sua camera oscura (cioè, la mdp), Giacobbe accende e spegne la luce in un’alternanza che fa pensare ai movimenti a/ rallentatore dell’otturatore di una mdp, o di un proiettore di cinema. Al contenuto politico che discende da un tale prendere a prestito Godard, Bertolucci aggiunge il proprio tocco: una riflessione cinematica inscindibile da quella politica: Anche la sala di proiezione è una camera oscura. Spesso nei miei film ci sono dei personaggi che guardano, e molte volte l’ottica del film — lo sguardo 0ggettivo della mdp — può essere scambiato o identificato con quello soggettivo di un personaggio che però a un certo punto entra in campo e diviene prigioniero del suo stesso sguardo.”
Lo sguardo (cioè, quello del suo doppio), che imprigiona
Giacobbe ama follemente Clara ma non sa come farsi
accettare dall'oggetto
del suo edo (Stefania Sandrelli).
Giacobbe, lo equipara, come il martire di Artaud sul rogo, alla vittima che lancia segnali all’altro suo sosia, lo spettatore del film. Bertolucci costantemente interpreta la consapevolezza estetica e politica di Artaud attraverso l’ottica del cinema. La scenografia dipinta, patentemente contraffatta, serve come uno sfondo pesantemente ironico per la lettura del successivo brano, tolto da Artaud, e che Giacobbe proclama: Noi sopprimiamo la scena e la sala, sostituendole con una sorta di luogo unico, senza divisioni né barriere di alcun genere, che diventerà il teatro stesso dell’azione. Sarà ristabilita una comunicazione diretta fra spettatore e spettacolo, fra spettatore e attore, perché lo spettatore, situato al centro dell’azione, sarà da essa circondato e in essa coinvolto (AA, 211).
L'ironia di citare un passaggio simile in un film, e per bocca di un personaggio situato in una scenografia contraffatta, sommerso non dall’azione ma da montagne di libri, è indicativo del processo cinematico stesso. Soltanto al cinema ci saremmo accorti dell’artificialità di questa scenografia, patentemente in contrasto con la fotografia di ambienti “natunerali”. Non così a teatro, dove le scenografie sono sempre accettate e proposte cessariamente artificiali, e sono pertanto Cicome naturali. Questa ironia è aumentata dalla successiva
tazione. rapGiacobbe, il testo di Artaud in mano, legge: «Non temi, da o partend — emo tenter ma scritti, testi presenteremo da episodi o da opere note — saggi di regia diretta» (AA, 213). Chiaramente Giacobbe viola il comando: lo legge letteral conoopere di fa cci mente! Tuttavia l’impiego che Bertolu un alsciute (Dostoevsky e Artaud stesso) rappresenta pure
trettanto grado di fedeltà. Il rapporto di Bertolucci con Artaud diviene esplicitamente doppio nella successiva citazione. Sempre Giacobbe: Alla visualizzazione grossolana di ciò che è, il teatro, grazie alla poesia, contrappone le immagini di ciò che non è. D'altronde, considerata in quanto azione, non si può paragonare una immagine cinematografica che, per quanto poetica sia, è limitata dalla pellicola, a una immagine teatrale che obbedisce a tutte le esigenze della vita (AA, 214).
La ripartizione del potere tra cinema e teatro è una discussione senza termine. Qui è importante rivelare che Giacobbe sforza l’ambivalenza del testo di Artaud (avrebbe mai immaginato che questo passaggio sarebbe stato citato in un film?), ricapitolando tutte le strutture del film fino ad ora esaminate. «Teatro... Teatro... Teatro...», ripetono a vicenda ben quindici volte Giacobbe e il suo doppio. Ma non appena l’immagine del doppio svanisce dalla vista, viene sussurrata fuori campo la parola: «Cinema!». Questo brevissimo dialogo riassume in nuce quanto sentita sia l’ambivalenza di Bertolucci nei riguardi del realismo cinematico. Come cineasta, era costretto dalle limitazioni evocate da Artaud. Ciononostante, lavorò alla loro demolizione grazie a un approccio antitestuale, e improvvisato:
Vorrei spiegare meglio cosa intendo per improvvisazione. visto che ne abbiamo parlato molte volte e ha un peso così importante nella realizzazione dei miei film. Nel momento in cui scrivo una sceneggiatura sono molto meticoloso e esigente. La riscrivo continuamente, senza essere mai completamente soddisfat-
SH
to... Tutto questo per avere un copione finale che sia il più vicino possibile alla mia idea del film. Poi arriva il momento delle riprese e la sceneggiatura non la apro, non la guardo nemmeno... Per me l’improvvisazione è il contrario dell’anarchia e nasce dalla convinzione che non si può mentire alla mdp perché essa filma sempre la verità... E alla fine l’improvvisazione non è altro che il matrimonio, sapientemente condotto o assecondato,
tra la finzione e il documen-
tario.” L’improvvisazione in Partner potrebbe non essere palese in sé e per sé: c’è indubbiamente il tentativo di “sposare” il documentario, o lo stile del cinéma vérité (le numerose inquadrature per le strade romane) con la finzione (la “fedeltà” di Bertolucci al testo di Dostoevsky). Questa ricerca dell’improvvisazione indirizza inevitabilmente Partner verso le tecniche del Living Theatre e verso un atteggiamento politico scomodo.” Gran parte delle lezioni di Giacobbe nei panni dell’insegnante all’ Accademia di arte drammatica ha come argomento la demistificazione brechtiana del realismo cinematografico: quali la rivelazione della macchina dell’illusione (cioè, la macchina che produce ragnatele) e le tecniche della recitazio-
ne. Dei suoi corsi di arte drammatica si serve per allontanarsi dalle nozioni tradizionali di teatro e muoversi verso un’altra piattaforma, potenzialmente sovversiva. La dettagliata spiegazione della fabbricazione di un “cocktail Molotov” è seguita da lezioni sul teatro della guerriglia dal vero, tenute nel traffico romano delle ore di punta. Nel film, le maschere accecano e nascondono; i cartelloni rossi e blu bipartiscono lo schermo, ricordando allo spettatore il Vietnam lacerato, emblematico di una divisione analoga nella società. Gli occhi dipinti della venditrice di detersivi servono a separare l’espressione dal sentimento, mentre racconta a Giacobbe come le insidiose maglie del capitalismo l’hanno ridotta alla prostituzione. Alla fine del film, Giacob-
be tiene un discorso sull’imperialismo americano (gran parte del quale fu espunto dalla versione finale). Quindi inveisce contro il pubblico in una esortazione/insulto: «Scommetto che non avete capito niente... Basta che vi guardiate intorno. Accanto a voi... c'è lui: il vostro Giacobbe (perché lo avete anche voi). È quello che voi vorreste essere...
Liberate la
belva e la festa si farà. E sarà permanente!». Se Bertolucci vìola la posizione anticinematica di Artaud col semplice fatto di fare un film, rimane però fedele per altri
zioni di realtà e di rimpiazzarle con quel doppio di realtà di cui Artaud sognava: Si tratta dunque di fare del teatro una funzione, nell’accezione prima di questo termine; qualcosa di così localizzato e preciso come la circolazione del sangue nelle arterie, o lo sviluppo apparentemente caotico delle immagini del sogno nel cervello; e questo mediante una concatenazione efficace, un autenti-
co soggiogamento dell’attenzione. Il teatro non potrà ritrovare se stesso, costituire cioè uno strumento di autentica illusione, se non fornendo allo spettatore veridici precipitati di sogni nei quali il suo gusto per il delitto, le sue ossessioni erotiche, la sua primitività, le sue chimere, il suo senso utopistico della vita e delle cose, persino il suo cannibalismo, si
riversino su un piano non convenzionale e illusorio, ma interiore (AA, 206-207).
Questo doppio del teatro, il sogno, dimora all’incrocio di tutti i piani del film. Se 7! sosia di Dostoevsky è una fonte importante per Parmer, non lo è solo per le ambiguità narrative discusse in apertura del capitolo, ma anche perché // sosia può considerarsi come un testo sul sogno. Ecco come il racconto si apre: «Yakov Petrovich Goljadkin... per un paio di minuti stette a giacere immobile nel suo letto, come chi non sa ancora bene se dorma ancora 0 sia già desto, se esista nella veglia o nella realtà tutto ciò che intorno a lui sta succedendo, oppure sia il seguito del suo disordinato fantasticare in sogno» (S, 159). Questa incertezza tra la realtà e il sogno è precisamente l’incertezza del sogno stesso. Quando Goljadkin incontra il suo sosia per la seconda volta, il narratore annota:
Colui che adesso stava seduto dirimpetto al Goljadkin era il:‘terrore del signor Goljadkin, vergogna del signor Goljadkin, era l’incubo di signor Goljadkin, in una parola ero lo stesso Goljadkin... No. Questo era un altro
signor era la ieri del signor signor
Goljadkin, tutto diverso, ma, in pari tempo, anche in
tutto simile al primo... «Che è questo, un sogno o no?» si domandava il signor Goljadkin (S, 214)._ Questa incertezza onirica non sarà mai risolta. Nonostante il tentativo “eroico” del narratore di stabilire una cronologia spaziale e temporale, Goljadkin si trova ripetutamente in luoghi inaspettati senza sapere come vi sia arrivato:
aspetti agli ideali fondamentali di Artaud. Così, benché tradi-
sca il testo di Artaud, anche se il film lo cita, il film si ingaggia in un inseguimento della crudeltà artaudiana con mezzi firmati continuamente Godard. Giacobbe sguinzaglia l’isteria sia sugli studenti suoi che sulla sua compagna, provocando i primi all’azione sociale, al grido: «Buttiamo via le maschere», e uccidendo inaspettatamente la seconda. Non solo questa crudeltà è un baccanale, ma insegna il valore più profondo della crudeltà artaudiana: «Noi non siamo liberi. E il cielo può sempre cadere sulla nostra testa. Insegnarci questo è il primo scopo del teatro» (AA, 196).
inabituale: «Il nostro eroe non camminava,
Socialmente, politicamente, camente, il Partner di Bertolucci prodotti culturali che operano (e di Artaud, cercando di verificare
tando tutti a terra sulla sua strada — contadini, donne e bambini» (S, 302). Altre volte Goljadkin, come Alice di Carroll, sperimenta la deformazione delle dimensioni dovuta a una logica assai peculiare: «Si era in qualche modo rannicchiato
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psicologicamente ed estetipropone una riscrizione dei non operano) come la peste e imprigionare le nostre no-
Goljadkin... si guardò in giro, e con sua meraviglia, notò che si trovava già nel vestibolo del dipartimento... Egli non soltanto non si era finora accorto di quest’ultima circostanza, ma nemmeno
si era accorto,
né rammentava in quale modo si fosse improvvisamente trovato in cappotto, con le galosce, e col suo cappello in mano ($, 291). Altre volte, Goljadkin è catapultato nello spazio in modo ma volava, but-
in sé, probabilmente per ascoltare con più comodità» (S,
mente tutto ciò?... (S, 712). Tutto avveniva come
292). Gli eventi lo sovrastano:
sempre nel sogno, quando si scavalcano lo spazio e il tempo, e le leggi della natura e dell’intelletto, e ci si ferma solo sui punti attorno ai quali fantastica il cuore
«Tutto ciò avveniva soltanto
così, in qualche maniera, in modo inesplicabile, e protestare in quell’occasione sarebbe stata fatica inutile» (S, 301): esat-
tamente come accade nei sogni, il cui linguaggio, apparentemente logico durante il sogno, ma vago e bizzarro alla luce del giorno, diventa abituale per Goljadkin. Esponendo il proprio caso a Sua Eccellenza (un’altra figura paterna non altrimenti specificata), ‘il nostro eroe” dice: «Una tale, una tale cosa” dissi a Sua Eccellenza» (S, 130). Altrove si domanda: «Che faccio ora?... Sii coraggioso, parla, e naturalmente con una certa nobiltà. “Questo e quello”, dirò, “eccetera eccetera”» (S, 139).
Alla fine, le esperienze di Goljadkin diventano indissociabili da quegli eventi che lui stesso identifica come sogni. Il lungo sogno di Goljadkin (S, 273-274), che occupa il centro della narrazione, comincia in immaginari trionfi, ma termina nella «vergogna e nella disperazione»:
Senza avere coscienza di sé, pieno di vergogna e di disperazione, il perduto e assolutamente retto signor Goljadkin si diede a correre: dove lo portavano le gambe, in balia del destino, all'impazzata; ma ad ogni suo passo, ad ogni colpo della sua gamba sul granito del marciapiede, balzava fuori come di sottoterra, un altro perfettamente simile, e per la depravazione del cuore ripugnante, signor Goljadkin. E tutti questi individui perfettamente simili, subito dopo la loro apparizione, si buttavano a correre uno dietro l’altro, e in
una lunga serie come una fila di oche si stendevano e arrancavano dietro il signor Goljadkin maggiore, cosicché non c’era luogo dove poter fuggire da quei perfetti simili, cosicché al signor Goljadkin... mancava il fiato dall’orrore... cosicché tutta la capitale fu infine stipata di quei perfetti simili... Intorpidito e agghiacciato dall’orrore, il nostro eroe si destava, e intorpidito e agghiacciato dall’orrore sentiva che anche nella veglia si passava il tempo ben poco allegramente (S, 274).
Più tardi il narratore sovrappone il sogno alla realtà, quando annota: «Ogni cosa stava accadendo come nel sogno del signor Goljadkin maggiore» (S, 104). Quando le cose vanno persino peggio, Goljadkin si accorge che «al signor Goljadkin sembrò che gli stesse succedendo qualcosa di noto. Per un attimo cercò di rammentarsi se il giorno prima non avesse presentito alcunché... in sogno... per esempio...» (5, 301). Vale la pena notare qui che le disavventure di Goljadkin sono oniriche negli stessi termini con i quali Dostoevsky intende un sogno: I sogni, com'è noto sono una cosa stranissima: una cosa ti si presenta con terrificante chiarezza, con una finitezza di particolari minuziosa, da oreficeria; su altro invece sorvoli, come se non te ne accorgessi affat-
to, per esempio, sullo spazio e sul tempo. I sogni li indirizza, pare, non la ragione, ma il desiderio, non la testa ma il cuore e intanto, quali ingegnosissime cose ha operato a volte la mia ragione nel sogno! Nello stesso tempo le accadono nel sogno delle cose affatto inconcepibili... Perché la mia ragione accetta perfetta-
(S, 714).* Insistere sulla struttura onirica dell’opera non significa, come accade spesso, rimuoverla dalla realtà per radicarla a un livello più profondo della dimensione psicologica, nel regno dei processi primari. Servendosi della condensazione, del raddoppiamento e dello spostamento, Dostoevsky rimuove la storia dal livello meramente episodico per indagare sia gli anfratti della psiche sia la struttura narrativa che si attiva a seguito di ogni serio tentativo di raccontare l’onirico. Come Jung ha rilevato i personaggi dei sogni sono quasi sempre proiezioni del sognatore: «Il complesso del lavoro onirico è fondamentalmente... un teatro nel quale il sognatore interpreta simultaneamente
se stesso, la scena, l’attore, il
promotore, l’istigatore, il produttore, l’autore, il pubblico e la critica... Nel sogno tutte le figure sono la personificazione dell’individualità del sognatore».* Raccontando il suo sogno, poi, il sognatore inevitabilmente fa la cronaca dei doppi.°° Inoltre, se prestiamo fede a Jung, il sogno contiene sempre i complementi (in termini simbolici) inconsci e compensatori degli elementi consci: cioè, il sogno è un doppio simbolico della vita allo stato cosciente.” Secondo Charles Rycroft, l’atto del sognare (supponendo pure che i suoi contenuti non siano un doppio) coinvolge il sognatore in un genere atipico di divisione psichica: «Sognare è un caso speciale dell’attività mentale riflessiva nella quale l'Io si divide in due, in cui una parte osserva, discute, pondera, resiste alle
implicazioni delle... idee presentategli dall’altra... in un simbolismo non discorsivo».* Secondo Rycroft, allora, il voyeurismo sembrerebbe convenire perfettamente alla vera struttura del sognare, benché a livello molto profondo la connessione tra sogni e cinema permanga diversa. In Dostoevsky la sovrapposizione del narratore e del protagonista riduplica la divisione onirica tra osservatore e attore. Facendo sprofondare il narratore nell’abisso psicologico di Goljadkin, Dostoevsky implica una relazione tra l’atto del riportare una cronaca — del narrare (narrer francese) e lo stato di pazzia (narre tedesco). Staccarsi quanto basta dal mondo per raccontarlo comporta un processo di alienazione e di sdoppiamento. Il sogno di Goljadkin, alla fine, costituisce l’iperbole dell’ellissi aperta dall’alienazione e riduplicazione implicita nell’atto di narrare. Come // sosia di Dostoevsky, Partner si comprende meglio se lo si intende come un precipitato del sogno. Il film procede sui binari di una condotta narrativa irriconoscibile, che salta da una scena incomprensibile ad un’altra ugualmente incomprensibile: da Giacobbe che uccide un pianista non identificato, Bertolucci salta a Giacobbe seduto al buio nella sua stanza, dove montagne di libri nascondono in parte mobili dipinti sulla parete in trompe-l’@il. Un altro salto, e siamo da Petroushka, mentre si rammenta i tempi remoti di quand'era suggeritore in teatro. Poi, andiamo a casa di Clara. Da là. nella stanza di Giacobbe che si rimira allo specchio. Quindi torniamo di nuovo da Clara: Giacobbe giace a testa in giù sulle scale, fa i versi del gallo, poi si lancia da solo in un tango ricercato e narcisistico. Nella frescura della notte, Giacobbe boxa con la sua ombra, ma fugge dal terrore una volta che questa si è fatta improvvisamente gigantesca. E così è
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L'ombra che insegue Giacobbe di notte per la città lo aiuterà a scavalcare tutti gli ostacoli della vita anche di giorno.
tutto il resto del film: un andirivieni imprevedibile, e per associazioni, da scenografie improbabili a situazioni inverosimili. Nessuna evoluzione è autoevidente. Una volta introdotto l’altro Giacobbe come sosia, i due diventano virtualmente indistinguibili, aumentando il senso di incoerenza. Gli omicidi, le fantasie da ghigliottina, le assurdità, le dissolvenze in nero, le panoramiche di 360°, e da ultimo la chiusura stessa del film, non possono essere inquadrati in nessuna logica narrativa. Come la voce narrante di Dostoevsky si fa irretire nel processo di allucinazione, così la narrativa di Bertolucci sperimenta la condensazione, la frammentazione e lo strutturarsi del sogno per associazioni. E come il sogno essa non ha un epilogo: semplicemente svanisce dalla coscienza. Come
ho rilevato in precedenza, il cinema è un modo
ideale per rendere la struttura del sogno. Parmer si avvicina bene alla convinzione di Havelock Ellis: «Il più comune dei sogni è sempre un'immagine vivente e in movimento... un caleidoscopio costantemente in evoluzione». Rycroft conferma questa lettura della struttura inusualmente onirica di Partner, quando dice: «I sogni assomigliano più ai film che ai libri... sono meno organizzati, meno unificati, meno condensati... Essi assomigliano più facilmente a chi stia cercando a tastoni la metafora adeguata piuttosto che a colui che l’ha già trovata». Un film caleidoscopico, frammentario, relativamente disorganizzato come Partner, si avvicina spontaneamente alla struttura di base dei sogni. Nei suoi scritti sul sogno Dostoevsky ammoniva contro la tendenza dell’elaborazione secondaria a iperstrutturare il messaggio manifesto." Come se fosse un seguace del pensiero di Dostoevsky, Bertolucci ha prodotto un “contenuto manifesto” relativamente destrutturato, ma
così potentemente simbolico da assomigliare a ciò che Michel Tournier chiama il «diabolico», quando: «il simbolo, impossibile a stabilizzarsi, prolifera, si insinua ovunque, e si
frammenta in migliaia di significati che non significano più niente». Come Giacobbe alla fine del film, Tournier ammonisce sui pericoli del diabolico: «Non cercate di comprenderlo. Non cercate di trovare la cosa alla quale il segno si riferisce. In quanto questi simboli sono diavoli e non significano più niente». “Il contenuto latente” di questo sogno può essere così decifrato facendo ricorso alla struttura ripetitiva ripetuta dal personaggio e dall’autore. Il Giacobbe di Bertolucci, come lo Yakov di Dostoevsky, funziona come replica/rigetto esatto dell’originale. Diversamente dall’originale, ma parimenti alla nozione artaudiana del doppio, non contende né distrugge l’originale meglio di quanto già fa: cioè, tradendolo così impercettibilmente da diventare indistinguibile. L’intima struttura dell’ambivalenza implicita nell’atto di rendere cinematicamente un testo riassume la struttura del doppio al centro del racconto dostoevskyano. Ora: sia ricorrendo al testo come un’alternativa sia usurpandolo, Bertolucci ha saputo discernere e fedelmente riprodurre la struttura ambivalente propria dell’originale. La sua ambivalenza è perfettamente bivalente: in questa combinazione di rifiuto del piano aneddotico e di fedeltà alla struttura, Bertolucci dà ancora prova di avere assimilato il testo di Dostoevsky: la formulazione simbolica della relazione tra il fenomeno del doppio e la configurazione edipica. Rank sintetizza le implicazioni psicanalitiche del fenomeno del doppio: «Il doppio che personifica il narcisistico amore di se stessi, diventa un rivale inequivoco nell’amore sessuale; o piuttosto: originalmente creato come il desiderio di difesa contro la terribile distruzio-
ne eterna, egli riappare nella superstizione come il messaggero della morte».* Come una versione minore del proprio padre (e creata dall’antico desiderio parentale di sconfiggere la morte per mezzo della progenia), il maschio allo stadio edipico imita il padre, contende la madre al padre nelle sue fantasie e fantastica di sostituirsi al padre in tutto e per tutto. Il fenomeno del doppio in Partner implica una maggiore esternazione patologica, in forma di specchio, del conflitto edipico, implicando l’elevamento del figlio a pari del padre, suscitandone poi la rivalità, e alla fine il tanto sognato annientamento della figura originale. «Un film è un sogno, e il regista è un sognatore» ha affermato categoricamente Bertolucci: «Tutti i personaggi di un sogno sono sempre il sognatore. Qui il sognatore è il padre e anche i due figli»*. In questa “oniroturgia”* il padre e i figli sono spinti verso una forma di eguaglianza. La soluzione felice dello stadio edipico tende al riconoscimento dell’equilibrio necessario tra emozioni in conflitto: l'imitazione e la ribellione. Bertolucci (se non Giacobbe)
ottiene un successo già nel semplice fatto di comprendere questa relazione nei confronti dell’autorità di Dostoevsky e Artaud. Come la teoria di Artaud sul doppio, il film lotta attraverso la crudeltà per mettere in discussione le nozioni di realtà tradizionalmente accettate. Ma contrariamente all’ideale di Artaud (tuttavia come Dostoevsky) Bertolucci accetta volontariamente i limiti di una forma prescritta. Nel suo rapporto col modello del doppio (francese e russo), il regista costante-
mente riassume la struttura inevitabilmente ambivalente dell’imitazione e del rifiuto. Grazie a un’enorme consapevolezza ci porta a comprendere l’intero fenomeno del doppio, e innalza il proprio lavoro a un livello uguale, per lo meno in autorità, al loro. Nella sua opera realizza una struttura altrettanto apprezzabile sia a livello artistico che a livello di psicologia dei personaggi. Come i suoi due Giacobbe, la sua opera e quella dei suoi modelli stanno in un nuovo rapporto: l’ambivalenza di un’imitazione strutturata al punto da eguagliare piuttosto che ripetere il modello, ottiene l’effetto che (compresa nella sua struttura più profonda) «non un’anima si sarebbe cimentata a dire chi era... il vecchio e chi il giovane, chi l’originale e chi la copia» ($, 48).
Il film pertanto adombra una risoluzione felice del conflitto edipico, implicitamente simbolizzato dalla configurazione del doppio. Basta la sola scoperta della possibilità di un bilanciamento dell’autorità, come appare in Partner, perché il bambino trovi la prima istintiva soluzione alla sua «frenetica ricerca di identità». Bisogna ammettere che questa risoluzione si nasconde dietro una serie di immagini apertamente disturbanti — la duplicità del carattere, il violento rigetto delle donne, e l'uscita finale dei due “partner” dalla finestra. Come la ricchezza del materiale drenato in un sogno, il film presenta una pletora di elementi “perversi”. In verità, Bertolucci disse di Partner : «Fu il film che mi fece soffrire di più». Parte di quella sofferenza fu dovuta certamente al
«rapporto che cercavamo e teorizzavamo tra il film e lo spettatore [che era] un rapporto perverso, costruito con i meccanismi, in fondo molto prevedibili, del sadomasochismo».* La giustificazione di questa posizione riposava nella continua analisi dei temi abbordati in Prima della rivoluzione: che cosa, e come, lo spettatore vede al cinema.
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Il doppio, che occupa sempre più spazio nella vita del suo padrone, si rivela anche un violento sovversivo (Pierre Clementi). n
Tra il Dottor Giacobbe e Mister Hyde, chi sarà stato l'assassino della provocante venditrice di detersivo? (Pierre Clémenti e Tina Aumont).
Dietro i nostri film c’era il sadismo di un cinema che imponeva allo spettatore l'obbligo di estraniarsi dalla sua parte emotiva, che intendeva forzarlo a tutti i costi alla riflessione, che lo metteva in conflitto violento con la sua scarsa preparazione cinematografica.” Tuttavia imitare la “irrecuperabilità” politica di Godard e le nozioni di crudeltà di Artaud spinse Bertolucci verso un rapporto con lo spettatore molto diverso da quello fruito in Prima della rivoluzione. Più che una riflessione autoconsapevole, Partner evocava un rifiuto autoabnegante:
Ma c’era anche il masochismo di fare cose che nessuno voleva vedere, di realizzare dei film che il pubblico
rifiutava. La paura di un rapporto adulto col pubblico ci faceva rifugiare in un cinema perverso e infantile. Da questo punto di vista, Partner è veramente una specie di manifesto del cinema del ‘68. L'idea di straniamento che il film assume e cerca di imporre è equivoca sul piano culturale, a causa di una cattiva lettura di Brecht."
Partner rappresenta al meglio il necessario avanzamento nello sviluppo dialettico di Bertolucci verso un nuovo linguaggio cinematico. Se Prima della rivoluzione rappresentò un tentativo di esorcizzare la paura di scivolare nel tradizionalismo borghese sul quale era cresciuto, servì anche come terreno di scontro di due stili cinematici. Allo stesso modo, Partner può essere letto come l’esorcismo di una tendenza radicale, nella quale Bertolucci non poteva in nessun modo rientrare; rappresenta ugualmente una virata a sinistra (in termini politici) della sua lotta stilistica prece-
dente. In Partner la creatività personale del regista consisteva nel dare battaglia all’influenza frammentaria e politicamente senza compromessi di Godard. Ecco come riassunse questa lotta: Eppure anche in Partner, che considero il mio film più irrisolto, c'è un abbandono alla magia del cinema, un desiderio di visionarietà soffocato e respinto. Partner è il grido di qualcuno che viene scorticato vivo, un film schizofrenico sulla schizofrenia, così come
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qualche anno prima, ma con meno infelicità, Prima della rivoluzione era stato un film ambiguo sull’ambiguità.” In conclusione, l’incontro con Godard, Dostoevsky e Artaud si pone sullo stesso piano di quello con Stendhal, prima di loro. Imitare un modello non è, e non può essere semplicemente un duplicato del modello. Ancora una volta, la lotta di Bertolucci con l’autorità delle fonti lo conduce a una comprensione della natura della rappresentazione stessa.
Come Derrida direbbe: «La rappresentazione non duplica niente». Il film, come ogni rappresentazione, è «un doppio che non riduplica niente di semplice, che precede nulla, nulla cioè, e in ogni caso, che non sia già un doppio». Per quanto disturbante, questo complesso interscambio di originali, doppi, struttura narrativa, e necessità psicologica, produssero in Bertolucci, quanto meno, la catarsi da un iper-godardismo. Liberato, avrebbe continuato la riflessione personale sull’identità individuale e cinematica in altri film, egualmente ricchi, spesso non meno conturbanti.
«Può un ragno rimanere imprigionato dalla ragnatela che ha tessuto?» sembra chiedersi Giacobbe vent'anni prima di Pu Yi (Pierre Clémenti).
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£
NOTE ' B.B. ° Ibid. * Ibid. * Ibid. ° Ibid. * Ibid.
a Ungari, cit., p. 36. p. S1. pp. 45 e 239. p. 51. p. 43. pp. 43-44. "Ibid. p. 44. Altri punti in comune con il progetto mai realizzato: la falli-
mentare militanza di Giacobbe, la sua allusione al prete che morì in un vespasiano perché aveva «troppi bottoni», e l’implicito omaggio del film a Pasolini.
* Ibid. pp. 51-52 ° Ibid. p. 52 " Dostoevsky, // sosia, in Racconti e romanzi brevi, Sansoni, 1980. D'ora in avanti citato nel testo come S seguito dal numero della pagina. !' Questa confusione è ripetuta più tardi dal narratore: «A sua volta, Andrei
Filippovich non somigliava affatto in quell’attimo solenne a un consigliere di collegio e caposezione in un dipartimento... no, egli sembrava a qualche altra coSa... non so che cosa precisamente, ma non un consigliere di collegio. Egli stava più in alto! Infine... Oh! perché non possiedo il segreto dello stile sublime, potente, dello stile solenne... Io non dirò nulla pur non potendo non osservare... Non starò a descrivere.», ibid., p. 188. ! La teoria filmica più recente ha fatto molto più posto allo spettatore nell’atto di guardare un film. Vd. Browne, cit., p. 36. " Gordon Gow, “Partner”, in Films and Filming 17, n. 4, 1971, PISSAVA: Geoffrey Nowell-Smith, “Partner”, in Sight and Sound 37, n. 1, inverno 1968-69, p. 34. !“ Todorov, cit., p. 32, suggerisce perché questo momento dovrebbe essere così inebriante: «Il fantastico implica quindi un’integrazione del lettore nel mondo dei personaggi, si definisce mediante la percezione, da parte del lettore, degli avvenimenti riferiti». © Todorov, ibid., p. 123, nota che il fantastico implica sempre «la rimessa in discussione del confine tra spirito e materia». Genera sempre dei temi che includono la «moltiplicazione della personalità, l'abbattimento delle barriere tra soggetto e oggetto, e infine, la trasformazione di tempo e spazio». Ibid. p. 126. !* Todorov, ibid. pp. 124-126, nota che: «Possiamo ancora caratterizzare questi temi dicendo che riguardano essenzialmente la strutturazione del rapporto tra l’uomo e il mondo; in termini freudiani, siamo nel sistema percezione-coscienza... a tal punto che si potrebbe designare tutti questi temi come “temi dello sguardo”... In particolare saranno gli occhiali e lo specchio a permettere di penetrare nell’universo meraviglioso... La “ragione” si dichiara contro lo specchio che non offre il mondo, ma un’immagine del mondo, una materia smaterializzata, insomma, una contraddizione nei confronti della legge di non contraddizione... La visione pura e semplice ci scopre un mondo piatto, senza misteri. La visione indiretta è la sola via verso il meraviglioso. Ma questo superamento della visione, questa trasgressione dello sguardo, non sono il suo simbolo stesso, e quasi il suo elogio più grande? Gli occhiali e lo specchio divengono l’immagine di uno sguardo che non è più semplice mezzo perché l’occhio si congiunga con un punto dello spazio, che non è più puramente funzionale, trasparente, transitivo. In un certo modo, questi oggetti sono sguardo materializzato od opaco, una quintessenza dello sguardo». !" L’ambivalenza opera, in questo caso, anche a livello delle vicende minori, dove troviamo un grado inferiore di fedeltà (per esempio l’incontro di Yakov col
sosia e la sua visita a casa di Klara Olsufyevna), e per lo meno un rifiuto analogo (le avventure di Giacobbe vanno ben oltre al di là del modello russo). * Domandatogli una volta se osservasse la teoria aristotelica di un inizio, di un centro e di una fine, Godard rispose: «Sì, ma non necessariamente in quell’or-
dine».
‘ Artaud sarà riesumato dal movimento studentesco del 1968. ©’ Antonin Artaud, // teatro e il suo doppio, Piccola Biblioteca Einaudi, 1968, p. 133. D'ora in avanti citato nel testo come AA seguito dal numero della pagina. ° B.B. a Ungari, cit., p. 196. 2 Ibid. pp. 215-216. ©” Bertolucci notò che il Living Theatre fu una delle influenze maggiori di questo film. Vd. ibid. pp. 44, S1. * Dostoevsky, // sogno di un uomo ridicolo, in Racconti e romanzi brevi, Sansoni, 1980, p. 712. Altrove nello stesso testo, Dostoevsky aggiunge: «Pur comprendendone le parole non potevo, non potevo mai penetrarne tutto il significato. Esso rimaneva come inaccessibile al mio intelletto, in cambio il mio cuore pareva penetrarsene inconsciamente e sempre di più», p. 720. ° C. G. Jung, Dreams, Princeton University Press, 1974, p. 52 (traduzione nostra).
‘ Secondo Erwing Rohde, ai tempi di Omero questo processo duplicatore dei sogni era considerato essere la loro esplicita funzione: «Secondo la concezione omerica, è là, nell’essere umano, completamente permeato dalla propria anima, che risiede, come un ospite straniero, un doppio, più debole, il suo Io distinto dalla psiche, il cui regno è il mondo dei sogni. Quando l’altro s'è addormentato, inconsapevole di se stesso, il doppio è sveglio e attivo». Citato in Otto Rank, The Double, New York, New American Library, 1979, p. 60 (traduzione nostra). ? Jung, cit., pp. 38, 60-61, 101. © Charles Rycroft, The Innocence of Dreams, New York, Pantheon, 1979, p. 45. Freud nota: «Il sognatore e i suoi desideri possono essere solo comparati a un amalgama di due persone distinte ma legate da un qualche elemento forte che hanno in comune» (citato in Rycroft, p. 107, traduzione nostra). Vd. anche B.D. Lewin, Dreams and the Uses of Regression, New York, International University Press, 1958, pp. 19-20, e Leon L. Altman, The Dream in Psychoanalysis, New York, International University Press, 1969, p. 31. © Havelock Ellis, The World of Dreams, Boston, Houghton Mifflin, 1911, pp. 20-21. ‘“ Rycroft, cit., p. 165. " Dostoevsky, cit., p. 733. © Michel Tournier, // re degli ontani, Garzanti, 1987. * Rank, cit., p. 86. * B.B. a Ungari, cit., p. 222. * Questo neologismo verrà perdonato quando il lettore incontrerà la definizione di Bertolucci per La luna come «mielodramma». Vd. infra, capitolo su La luna. * B.B. a Casetti, cit., p. 3. ” B.B. a Ungazri, cit., p. 52. * Ibid. Ibid. ‘° Ibid. ‘' Ibid. # Jacques Derrida, La dissémination, Editions du Seuil, 1972, p. 234.
Strategia del ragno
1970
La retina è una ragnatela dei più sottili, delicati, sensibili nervi del corpo che si allineano dietro l'occhio. Denis Diderot
I labirinti di Villa Borges «Eppure anche in Partner, che considero il mio film più irrisolto», Bertolucci ebbe a dire, «c'è un abbandono alla magia
del cinema».' Se Strategia del ragno rivaleggia con Partner in questa irresolutezza — lo stesso regista lo definì «un film sull’ambiguità della storia»° — rimane ciò nonostante un’opera la cui “magia” è molto più evidente e accessibile. Sotto molti punti di vista entrambi i film appartengono allo stesso segno: sono potentemente onirici, trattano esplicitamente del doppio e traggono spunto da modelli letterari. Tuttavia Strategia del ragno rispetto a Partner attua tanto una rivolta (come la tarantella sta alla tarantola) quanto
un’iterazione. A seconda del grado di sensibilità che lo spettatore ha verso il carattere bivalente di Bertolucci, non sba-
glieremmo di molto se dicessimo che Parmer è da percepirsi piuttosto come un’angoscia infernale e incomprensibile, che termina in una rottura globale del processo narrativo. Senza una struttura narrativa più consistente di quella che appare in Partner, l'illustrazione della frammentazione della personalità — un tema evidentemente necessario all’evoluzione creativa di Bertolucci — rischia di finire puramente incompresa. Risulta chiaro quanto fosse divenuto imperativo per il suo autore trovare una struttura sulla quale fondare una rappresentazione artistica che fosse intelligibile allo spettatore e fedele a ciò che, alla fine, è un procedere irrazionale. Con Stra-
tegia del ragno Bertolucci ha scoperto un idioma che pare metterlo pienamente a suo agio sia con il pubblico sia con i temi a lui cari. Parte di questo mutamento può essere attribuibile al fatto che il 1969 segnò per Bertolucci l’incontro con la psicanalisi nello stesso tempo in cui «Strategia rappresentava l’inizio di un’apertura... il tentativo di passare dal cinema di monologo al cinema che permetteva il dialogo». Se fosse così, il progresso della psicanalisi potrebbe essere misurato in termini di movimento dai doppi del soggetto (come parti divise dell'Io) ai doppi dell’oggetto (come l’Io e gli altri). In qualità di dop-
pi del soggetto, i due Giacobbe in Partner rappresenterebbero aspetti di un ego in conflitto con se stesso. In qualità di doppi dell’oggetto, i due Athos Magnani di Strategia del ragno si dirigono verso un altro livello di conflitto psichico, quello che chiama in causa la letteratura (il suo rapporto col
film), e quello del film con lo spettatore in un modo interamente originale. E qui, invece di un conflitto di guerriglia ingaggiata indiscriminatamente su tutti gli artefatti culturali, Bertolucci sceglie come veicolo un viaggio di ritorno. Il protagonista del film, Athos Magnani (Giulio Brogi), torna al proprio paese natale, Tara, dopo più di trenta anni di assenza. A convocarlo è Draifa (Alida Valli), la «compagna ufficiale» dell'omonimo padre defunto, per indagare e finalmente smascherare l’assassinio del padre. Costui, Athos Senior (interpretato ugualmente da Giulio Brogi) fu a suo tempo un sì acceso antifascista, che la toponomastica di Tara gli rende tuttora omaggio con una lapide e un busto («Eroe, vigliaccamente assassinato dal piombo fascista, il 15 giugno 1936»). Poco alla volta Athos ricostruisce la vicenda del padre e il complotto architettato con altri tre complici — Gaibazzi, Rasori e Costa — contro il Duce: assassinarlo durante l’inaugurazione del teatro cittadino, appunto il 15 giugno del 1936. L’assassinio sarebbe dovuto avvenire durante la rappresentazione del Rigoletto, nel preciso istante in cui Rigoletto canta a squarciagola:
«Ah, la maledizione!».
Sennon-
ché il complotto viene svelato. I cospiratori scampano di poco alla prigione. A questo punto Athos scopre con sorpresa la singolare coincidenza che il padre fu «vigliaccamente assassinato» durante il Rigoletto e nel preciso istante che era stato previsto per il Duce. Persuaso della colpevolezza di Draifa e dei tre complici, Athos interrompe l’inchiesta per andarsene con l’ultimo treno. Alla stazione di Tara, però, le note del Rigoletto si mescolano misteriosamente alla brezza serale, costringendolo a tornare in paese; da qui nel teatro municipale, e qui, nello stesso sedile che il padre aveva occupato proprio quella notte del 15 giugno di trenta anni prima, Athos sta spiando i tre “assassini”, seduti nel palco di
fronte al suo. Rileva perfettamente come uno per volta spariscano dal loro sedile finché improvvisamente il presentimento lo getta in preda al panico. Ma ecco che nello specchio che gli sta accanto riconosce i tre complici che adesso aspettano sulla soglia del palco. Ora capisce perché suo padre non fece nessun tentativo di fuga: «Non si è voltato perché l’uomo che ha visto allo specchio era uno che conosceva bene». A questo punto sono invece i tre a fargli la rivelazione: il padre non è l’eroe che la città crede. Fu Athos a svelare il complotto alla polizia e a decidere di espiarne il delitto, in modo
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Appena sbarcato a Tara, Athos Magnani si trova confrontato
René Magritte, La riproduzione vietata, 1937 (Coll. Museo Beijmans-van Beuningen, Rotterdam).
da far risultare la sua morte come opera dell’atrocità fascista. Il figlio decide di non rivelare il tradimento del padre; e tiene un discorso agli abitanti di Tara col quale ribadisce la fama eroica del padre. Quindi ritorna alla stazione; il treno viene annunciato dapprima con dieci minuti, poi con venti minuti, e alla fine con mezz'ora di ritardo. Passeggiando lungo il binario, nota che la gramigna ha attecchito persino sulle rotaie e che pertanto nessuno treno può esservi transitato da settimane Per comprendere pienamente questo viaggio di ritorno, una serie di aspetti formali devono essere presi in considerazione. In apertura del film, Athos scende da un treno in modo quasi identico a quello del marinaio che lo precede. E parallelamente, uno di fianco all’altro, camminano lungo la ban-
Freud ha definito il romanzo familiare, la nostalgia e il pericolo. : Poi, Athos riprende il cammino da solo ed entra in città: un intrico di labirinti, una “città-sogno” ricostruita ad ogni passo dalla notevole cinescrittura di Bertolucci. Mentre cammina sotto un porticato seicentesco, Athos assiste al battibecco di due anziani, quasi una slapstick comedy; poi, incontra un vecchio seduto sotto l’insegna: «Circolo giovanile Athos Magnani»; poi, è la volta di due ottuagenari, seduti, schiena contro schiena. Ecco: assistiamo qui al funzionamento tipico del sogno nella sua caratteristica di giustapporre, come se niente fosse, elementi tra di loro in contraddizione. Questa serie di contraddizioni visuali costituisce una specie di premessa che annuncia la struttura del sogno nella quale il protagonista si è inoltrato. Analizziamo una delle sequenze più sorprendenti di tutto il film: la mdp si avvicina e si ferma sulla nuca di Athos, come se cercasse di entrarvi, poi mette a fuoco il nome della via che egli sta leggendo sulla targa. Muovendosi però da destra a sinistra obbliga lo spettatore a leggere «Via Athos Magnani» all'indietro! A Tara, “città dei Re”, questa “via regia” sarebbe la «via regia» di Freud che mena all’inconscio: il so-
con l'immagine speculare del padre «vigliaccamente assassinato dal piombo fascista» (Giulio Brogi, di spalle).
china e il viale della stazione. Quindi Athos si ferma a osser-
vare questo “doppio” in uniforme mentre esegue una manovra pseudomilitare che sembra tracciare per terra una linea immaginaria di confine; infine si stravacca su una panchina ed esclama: «Tara!» — luogo dei mitici re irlandesi, nome della piantagione persa in Via col vento, le prime due sillabe del più temuto dei ragni, pertanto un’evocazione di ciò che
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gno. L’inversione della scritta ad opera della cinescrittura, il collocare questo viaggio tra la testa senza faccia, imperscrutabile, e l’uomo che legge il proprio nome sulla placca, rinforzano entrambi la natura onirica, direi megli o, surreale della scena, come regressiva, interiore e egoce ntrica. Questa scena costituisce la prima di una serie di allusio ni
al lavoro surrealista di René Magritte, la cui opera annovera
il tema inquietante della nuca. Il famoso quadro La riprodu-
zione vietata (il cui titolo fa curiosamente da eco al contenuto
dell’intero film) è assai simile per struttura alla scena in questione. Nel dipinto un uomo,
visto da dietro, si scruta allo
specchio che ne riflette soltanto la nuca invece che il volto. L’allusione a Magritte è qui sia prolettica che inquiet ante: prolettica per il fatto che Athos scoprirà la “verità” sul padre/se stesso a teatro, guardando nello specchio; inquietante perché, dal momento che la tradizionale tecnica della ritratti stica e i primi piani del film sono collegati al fenomeno dello specchiarsi, lo spettatore finisce coll’essere imbrigliato in questo processo onirico, nel quale l’Io è percepito come ente distinto nella distorsione di uno specchio.° La riproduzione vietata potrebbe quasi essere una metafora dell’esperienza cinematica. A proposito del lavoro di identificazione dello spettatore nel momento di guardare un film, Nick Browne ha notato che:
Il luogo dello spettatore rispetto al narratore è stabilito, benché non limitato, dall’identificazione con i personaggi e da quello che gli uni vedono degli altri. Più specificamente, il suo “luogo” si identifica vicendevolmente con colui che vede e colui che è visto... (co-
me accade normalmente allo specchio). La posizione dello spettatore non è stabilita dalla topografia della mdp all’interno della scena. Al contrario, benché la posizione dello spettatore sia strettamente collegata alle sorti e ai punti di vista dei personaggi, la nostra analisi suggerisce che l’identificazione, nel significato originario di legame affettivo, non abbisogna di assimilarsi al personaggio con cui condivide il punto di vista, e tanto meno alla mdp disincarnata (o “priva di realtà”). Naturalmente lo spettatore è in molti luoghi allo stesso tempo: con lo spettatore immaginario, con lo spettatore immaginato, e allo stesso tempo nella posizione di valutare e rispondere alle esigenze di tutti e due. Ciò suggerisce che, come nei sogni, lo spettatore del film è un soggetto plurale: nella sua lettura egli è e non è se stesso.’ Questa singola sequenza, dunque, contiene in nucleo la relazione dei contenuti di Strategia con le dinamiche del sogno e dell’atto cinematico stesso. Appare chiaro come Bertolucci non ha rinunciato a riflettere sulla natura e sullo stile del mezzo di espressione, benché abbia abbandonato la ricerca frenetica, quasi schizoide, di Partner. Ma per poter misurare giustamente la presenza di Magritte nel film, ora vediamo in quali termini Bertolucci racconta la collaborazione col suo direttore della fotografia, Vittorio Storaro:
Ci siamo incontrati nel 1969 e gli ho proposto di fare la fotografia di Strategia del ragno. Dalle prime discussioni ho capito che era inutile parlare di toni caldi o freddi e di luce contrastata. Dovevo fare degli esem-
pi. Mi sono fatto imprestare dalla libreria Bocca un libro su Magritte e l’ho studiato a lungo con Vittorio. Oltre a Ligabue e ai naîf jugoslavi, la luce di Strategia del ragno si ispira a Magritte....* Non solo l’imbrunire è un momento archetipico del sognare, ma l’uso che Magritte fa di quel momento (e quindi Bertolucci) rappresenta un’iperbole dello stato di sogno, del surrealismo che, nelle parole di André Breton, si fonda «sull’onnipotenza del sogno... un certo punto della mente al quale vita e morte, reale e immaginario, passato e futuro, comunicabile e incomunicabile, alto e basso, cessano di essere percepiti come contraddittori»? Numerose altre allusioni a Magritte promuovono la qualità onirica del film. Verso la fine in particolare, quando Athos ritorna alla stazione, deciso ad andarsene da Tara, la mdp lo inquadra attraverso due finestre provocando un effet-
to strano e misterioso, che fa pensare a L’elogio della dialet-
tica di Magritte. Non appena lascia la stazione, richiamato in città dalle arie del Rigoletto, incappa in una serie di personaggi, figure immobili, tra le quali due, quasi incorporee, in piedi su una sedia, sono molto simili al Go/conda di Magritte. Quando Athos siede a teatro durante il Rigoletto, la mdp zumma avanti e indietro per quattro volte sul palco dei “cospiratori”, sottolineando puntualmente ogni scomparsa: i quattro momenti ricapitolano in sequenza sia il gioco del nascondino, che L’uomo col giornale di Magritte. Queste molteplici allusioni a Magritte fanno esse stesse parte di uno spettro più ampio degli effetti onirici destinati a instaurare una somiglianza tra la struttura di un film e quella di un sogno. Negli adulti i sogni sono spesso caratterizzati: da un’irrazionalità del punto di vista, dalla condensazione di più luoghi in uno, da una stravagante giustapposizione di scene razionalmente sconnesse, dallo spostamento e dal doppio. Strategia del ragno è caratterizzato in generale da un dinamismo bizzarro della mdp. Se l’architettura dei sogni poggia su un processo inconscio autonomo e indipendente dal pensiero razionale, l’obiettivo di Bertolucci potrebbe essere inteso come uno strumento di tale processo. E a questo riguardo, il regista disse un giorno, quasi stesse parlando dell'inconscio stesso: «Ciò che conta è ciò che accade all’interno della mdp... Alle volte la mdp dimentica i personaggi e va a vedere qualcosa senza nesso alcuno».' La normale grammatica filmica prescrive che un film sia ripreso da una mdp fissa che permetta allo spettatore di afferrare un punto di vista costante vis-d-vis del mondo riprodotto. Se la mdp fa carrelli, panoramica o zumma, lo può fare muovendosi da un’origine a un punto stabilito. Rompere sistematicamente destabilizza l'orientamento dello spettatore. La mdp di Bertolucci si abbandona a tali eccessi. Per esempio: nella scena che segue il primo incontro con Draifa, Athos cammina accanto alla bicicletta sotto un porticato rischiarato da lampioni; si dirige verso due uomini impegnati in un battibecco. Non appena li incrocia i due gli aprono un varco: venendo incontro alla mdp, Athos sembra passarvi attraverso. Immediatamente dopo, essa compie un'inversione del punto di vista di 180°, dando l'impressione che Athos stia per ricalcare i suoi passi. Il mutamento di posizione sarebbe completamente disorientante se non fosse per i due anziani che, invertiti di posto, consentono allo spettatore di risituarsi. Spostamenti onirici del genere non sono'infrequenti in Strategia. Durante la prima conversazione tra Athos e Drai-
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fa, un fotoritratto del padre è appeso al muro, alle spalle dei due. La mdp lo inquadra a più riprese: ad ogni volta il ritratto muta leggermente: o è l’acconciatura 0 è l'abbigliamento (la comparsa della cravatta, ad esempio). Nessuna spiegazione razionale è o può essere data per tale soluzione di continuità.
Ancora:
nella stessa sequenza,
la luce esterna
cambia dal giorno alla notte senza spiegazione. E quando Draifa lascia la tavola e passa nella stanza attigua, tutto avviene in una carrellata (parallela rispetto al suo spostamento). Proprio come era successo con la caduta di Agostino dalla bicicletta in Prima della rivoluzione, la mdp “manca”
il momento in cui Draifa sviene sulla soglia della porta. La sensazione di non riuscire ad arrivare a tempo, il vano infruttuoso tentativo di seguire l’essenziale, e il frequente spostamento (raggiunto in Strategia da numerose soluzioni di continuità di montaggio, che senza spiegazione catapultano Athos da una luogo ad un altro) sono tutti aspetti comuni al lavoro onirico. L'inserzione dei flashback serve a disorientare maggiormente il già complesso proposito narrativo del film. E, se la grammatica filmica tradizionale vorrebbe limitarli alla sola funzione mnemonica atta a conservare la versione “fedele” dei fatti, «senza fare la men che minima concessione all’il-
lusionismo da flashback»," in ognuno di essi i personaggi hanno la stessa età di trentatre anni dopo. Il più onirico di tutti interviene allorquando Draifa (dopo che Athos si lamenta del fatto che Gaibazzi, Rasori e Costa hanno preordi‘ nato la versione delle loro storie), stesa in mezzo al grantur-
co, racconta l’episodio del padre e del leone. A questo punto è una serie di rapidi tagli in avanti e indietro, che hanno per soggetti, ora Draifa e Athos senior, ora Draifa e Athos junior. A un certo momento, Draifa, mentre siede nella stanza con Athos padre, si rivolge improvvisamente ad Athos figlio fuori campo, dicendogli: «Era l’ultima volta che l’ho visto vivo». Sono esempi di questo genere che costituiscono senza dubbio una violazione inammissibile alla grammatica filmica. È lo stile di Bertolucci a indicarci per primo che tali vicende sono prodotto dell’invenzione. In verità, la loro composizione presenta, sia per stile, che per contenuto, una notevole somiglianza col contenuto manifesto del sogno-tipo. A proposito di questo Freud nota: Così quasi in ogni parte sono risultate vistose omissioni, un fastidioso ripetersi, evidenti contraddizioni: indizi che tradiscono cose che non si intendevano comunicare. Nella deformazione di un testo vi è qualcosa di simile a quanto avviene nel caso di un delitto: la difficoltà non è nell’esecuzione del misfatto, ma nell’occultamento delle tracce. Si potrebbe dare alla parola deformazione il doppio senso che le spetta, anche se oggi non ne fa uso. Non dovrebbe solo significare: modificare nella forma, ma anche: portare in un altro luogo, spostare altrove. Perciò in molti casi di deformazione del testo possiamo immaginarci di trovare nascosto altrove, sia pure modificato e avulso dal contesto, il materiale soppresso e ripudiato. Solo che non sempre è facile riconoscerlo." In Strategia lo spostamento è certamente il meccanismo portante. Se il sogno è un linguaggio occulto che può essere interpretato a partire soltanto dalla ricerca di ciò che si na-
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sconde negli interstizi del contenuto manifesto, così pure a sono gli aneddoti sulla vita del padre di cui Athos viene come rà accorge si ci storia conoscenza. Col procedere della tutte quelle deposizioni intendono nascondere gli indizi del tradimento, conducendo contemporaneamente alla scoperta del delitto. Se i sogni sono trame opache intrecciate di fili così trasparenti da permetterci di gettare uno sguardo su ciò
i che li circonda: se sono così ben costruite da dissimulare
pericoli, così pure lo sono.i miti tramati dagli “amici” con cui Athos ha a che fare. Il contenuto manifesto fornito da
di Draifa, Gaibazzi, Rasori e Costa è esso stesso un tessuto
invenzioni studiate ad arte allo scopo di simulare e dissimulare contemporaneamente: una vera e propria strategia da ragno. Norman O. Brown ci rammenta che nella mitologia del popolo Vao: Vige la credenza che una volta colti dalla morte sì arrivi sulla soglia di una caverna... dominata da un terribile mostro-femmina, dalle apparenze di una donnaragno o quelle di un orchessa antropofaga... dalle mandibole immense, o dall’organo genitale a due valve gigantesche, che si aprono e si chiudono per divorare. All’imbocco della caverna si trova disegnato sulla sabbia dal mostro un dedalo, chiamato “il sentiero”. Non appena il morto si avvicina, il mostro-femmina rade al suolo metà del disegno, e spetta al morto ri-
comporlo o finire divorato."
Il personaggio di Draifa funziona in modo assai simile alla donna-ragno della tradizione Vao. Ella è sia Aracne, l’architetto, sia Arianna, la guida (fallace) in questo labirinto di
storie nel quale Athos deve farsi un varco verso la verità mostruosa che affetta la memoria del padre. Come Ariacne," assume il doppio ruolo di eroina-guida e di traditrice servendosi a proprio uso e consumo del progetto di Athos. Il filo di mitologica memoria che gli tende quale lessico al labirinto si trasforma progressivamente in una mimesi del labirinto, una ragnatela mistificante e intricata. i Questo ruolo di Draifa è reso in modo assai grafico all’inizio del film. Ella vive in una sorta di villa fiorita, che
assomiglia a un nido o a una tomba. Quando Athos vi giunge per la prima volta, la mdp compie in cerchio, lungo il perimetro del giardino, una panoramica circolare di 360°. Al centro, in piedi, troviamo Draifa, in attesa che Athos, la mdp e lo spettatore si focalizzino su di lei. Solo poi, compresa nel suo incedere simile a una processione, lo conduce, senza guardar-
lo, nei recessi del suo mondo. Penetrati alla fine in un giardino più interno, si gira improvvisamente e, tenendolo sotto la mira dello sguardo, gli dice: «Non avere paura». Poi, lo guida in altri luoghi, inaccessibili, per metterlo finalmente accanto al ritratto del padre. Là gli dice: «Vedi come gli somigli. Athos tale e quale, sputato. Athos risuscitato». Draifa sin dal principio cattura Athos in un reticolo di identificazioni col padre, dal quale non sembra esservi via di scampo. Come il bambino allo stadio edipico — o come la fantasia regressiva del sognatore — Athos ode ripetutamente la voce: «Sii come tuo padre, ma non assomigliargli troppo!». In questo film egli è il bersaglio di allusioni in conflitto: i messaggi di seduzione di questa figura materna e il dominante e scomodo mito del padre. Circondata dalle reliquie dell'amante defunto, Draifa propone al figlio di scovare gli
A chiamare Athos a Tara, è stata Draifa, che un tempo fu l'amante di suo padre (Alida Valli). assassini del padre e diventare il nuovo eroe di Tara. Sconvolto a tal punto dalla prospettiva di reiterare il ruolo del padre, Athos minaccia di andarsene. Draifa sviene, simulando il decesso: come un ragno. Athos corre in suo aiuto, cadendo inesorabilmente nelle sue trame. Esempio di un incontro di consapevolezze: Draifa, della propria teatralità, e Bertolucci della propria arte cinematografica usata in questa scena: la stilizzata panoramica circolare, la variazione abrupta dal giorno alla notte, il mutamento della scenografia, e il fallimento della mdp a “cogliere” il crollo di Draifa, diretta allusione al tour de force di Prima della rivoluzione. La scena costituisce un invito a meditare la relazione tra la sequenza che stiamo guardando (il tentativo di seduzione ad opera di Draifa) e la dinamica psicologica del cinema stesso (lo schermo del sogno nella cui trappola seducente cade lo spettatore). Una volta iniziata, la ragnatela si dipana in una serie di “trame” che implicano il padre di Athos. Ogni contribuzione di Draifa alla rievocazione di questi ‘ricordi’ include, senza ambiguità, riferimenti personali ad Athos. Nel suo racconto dell’episodio del leone, Draifa rammenta visivamente le ultime ore trascorse con il padre in un modo che esprime inequivocabilmente l'intensa ambivalenza propria. Quando costui le rinfaccia la sua baldanza sessuale, lei lo sta avvolgendo, a mo’ di trottola, in una benda medica, in un gesto che richiama sia “l’imbobinamento” di una pellicola, sia l’attività del ragno mentre mummifica una preda. La versione bertoluccia-
na della relazione uomo-donna fu del resto espressa in termini analoghi:
In natura è normalmente la donna che divora. Geneticamente, nel corso dei secoli, alcuni maschi ne hanno capito il meccanismo e il pericolo. I ragni cominciano con l’avvicinarsi alla femmina restando però a una distanza di sicurezza. Eccitandosi all’odore della femmina, si masturbano, convogliano lo sperma in bocca e prendono tempo per riguadagnare le forze dopo l’orgasmo. Poiché è così che vengono divorati, dopo l'eiaculazione, quando sono deboli. Più tardi, inseminano la femmina, avvicinandosi lo stretto necessario, proteggendosi dal suo attacco nel momento di fiacca... Ciò che può svilupparsi (tra un uomo e una donna) è solo la possessione... la distruzione dell’oggetto amato."
Questa scena contempla un palese ammonimento. In entrambe le sue implicazioni, sia cinematiche (la bobina) che extra-cinematiche (la realtà), la Distanza è un requisito del piacere. A più riprese Bertolucci reinserisce questo monito nel sistema circolatorio del film. A casa di Rasori, vediamo Athos gustare un’enorme pietanza di trippa, mentre due vecchie, tenute con cura a distanza, lo osservano ai vetri di una porta chiusa a chiave. A parte Draifa e queste due recluse, non ci sono altre donne in tutta Tara! Una sola eccezione:
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Presto la villa di Draifa si rivela una fin di piante e di fiori dalla quale diventa sempre più difficile andare via (Giulio Brogi e Alida Valli).
quando, condotte in città al rimorchio di un carretto, come
bestiame, siederanno all’uscita del teatro per ascoltare le musiche del Rigoletto. Quanto a Athos, lui non incontrerà che vecchi, sempre pronti a proclamare la loro fratellanza («Qui tutti siamo amici»). Persino il nome Athos è l’evocazione del più famoso monastero greco, dal cui perimetro sono categoricamente banditi tutti gli esseri viventi di sesso femminile. Ogni elemento a Tara sembra ribadire la lezione che la distanza è un prerequisito per il continuo godimento del film e del dramma in corso. Con straordinaria sapienza Bertolucci ha ancora una volta suggerito la comprensione della relazione che lega lo spettatore al suo film. Se, come è stato ampiamente teorizzato,'° lo spettatore cinematografico è uno dei tanti tipi di voyeur, la sua relazione con lo schermo è conforme a quella del voyeur con l’oggetto percepito. Nuovamente Bertolucci è riuscito a trasformare poco a poco lo spettatore in un doppio dell’attore attraverso il processo di identificazione. Come Athos, lo spettatore è simbolicamente imbobinato in una relazione che garantisce al suo piacere uno “stretto ed accurato bendaggio” nelle regole che governano l’esperienza cinematografica. Come voyeur cinematografico, egli sceglie un luogo ben piazzato alla distanza minima dall’evento filmico. La sua “assenza presente” com-
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binata con la “presenza assente” delle immagini proiettate costituisce la conditio sine qua non del piacere: un’identificazione temporaneamente e meramente immaginaria, e una consumazione inevitabilmente differita. Avendo così rappresentato visivamente la trappola nella quale il padre è caduto e la sua simbolica castrazione, Draifa sentenzia: «Era l’ultima volta che l’ho visto vivo». Quindi procede nel tentativo di ridurre Athos a figlio o, in alternativa, a quello di elevarlo al rango del padre defunto. I gesti di lei appaiono sempre equivoci (come il suo nome, Draifa: il femminile di Dreyfus, simbolo in Francia dell’ambiguità, tra il traditore e l’eroe). Infatti, in alcune occasioni, come quan-
do Athos la segue a casa, lo caccia via come se fosse un moccioso, dicendo: «Io ho da fare». In altre, c'è uno sforzo concomitante di forgiarlo a somiglianza del padre, vuoi virilizzandolo (vestendolo con giacca e sciarpa di quest’ultimo) vuoi intrappolandolo ed evirandolo: «Non puoi più andartené».
Veniamo a Gaibazzi, Rasori e Costa. Ciascuno rinforza questi messaggi conflittuali dando una versione personale del mito dell’eroe defunto: «Noi tre eravamo delle bestie... contavamo poco... Tuo padre era un’altra cosa. Una personalità straordinaria... Una vita eccezionale!». Ciononostante Athos perseguita il salvataggio del padre, atto che lo proietta, in termini psicanalitici, nello stesso suo ruolo: quello di amante della madre. Contemporaneamente riceve il messaggio che non potrà mai raggiungere lo stato mitico dell’eroe. Il mito del padre irresistibile e vendicativo è ripetuto senza pietà, a seconda delle varianti, dai filatori di questa favola: Draifa ci-
ta Macbeth, Giulio Cesare, Otello; Gaibazzi evoca Ernani, così pure Tom e Sam di Un ballo in maschera, nel quale il protagonista è ucciso dal suo migliore amico. Costa racconta la sua versione accanto a un manifesto cinematografico de L’occhio caldo del cielo, che rimanda inevitabilmente alla figura di Apollo. Il nome Athos stesso potrebbe fare riferimento al personaggio dei 7re moschettieri di Dumas, anch'egli tradito e avvelenato da un amico.'’ Inoltre, lungo l’arco del film la musica di Rigoletto fornisce un sicuro obbligato di mitica dimensione. «Verdi corrisponde per me — e così per il figlio di Athos Magnani — a una dimensione mitica» disse Bertolucci «e ciò funziona molto bene con la struttura mitica del padre. La musica mitica per un personaggio mitico».' Tutto l’insieme delle allusioni mitiche — e ce ne sono a iosa! — corrisponde perfettamente al breve racconto di Borges, Tema del traditore e dell’eroe, di cui il film è un libero adattamento. In questo testo: «altri aspetti dell’enigma inquietano il protagonista venuto ad indagare. Sono di carattere ciclico: sembrano ripetere o combinare fatti di regioni remote, di remote età».'° Tra queste recenti messinscene emergono elementi tratti dal Giulio Cesare, dal Macbeth, dall’ Ernani, ecc. Nel racconto originale di Borges, il padre «fu ucciso in teatro, ma l’intera città era un teatro, e gli attori erano legioni, e il dramma, coronato dalla sua morte, si estese per molti giorni e per molte notti». (L’ Athos senior di Bertolucci ripeterà consapevolmente questo passo di Borges sulla torre che sovrasta la città poco dopo che il suo tradimento è stato scoperto dai tre amici). Come in Borges, l’ Athos junior del film diventa cosciente del “modello di versi ripetuti” e di “labirin-
Nel 1936 il padre di Athos era stato il capo di un piccolo gruppo di ribelli locali che avevano progettato di assassinare il Duce (Giulio Brogi, con Pippo Campanini). ti concentrici” troppo pensati per essere accidentali. Gli sono fornite troppe tracce, perché fallisca clamorosamente nel rintracciare la verità, e cioè, che il supposto eroe è in verità il traditore dei suoi compagni. Come nella novella «egli sospetta che l’autore li abbia interpolati, cosicché anch'egli faccia parte dell’intreccio».?° Queste scoperte sono una cosa sola con la natura dell’impianto edipico, poiché la risoluzione del suddetto conflitto implica nel bambino la scoperta che il padre è sia eroe (0ggetto di imitazione ed emulazione) sia traditore (in qualità di seduttore della madre). Entrambi riproducono la natura vera dei sogni e della loro interpretazione; infatti, la circolarità del film metaforizza la circolarità delle identità ingarbugliate, multipli e spesso in conflitto, del “romanzo familiare” in (stretta) connessione col sogno (edipico). L’impasse per il bambino è completa. Messo a confronto con la duplicità e fallibilità del padre, non ha altra scelta che restare in silenzio o aderire al mito; giacché propalarne la scoperta — il figlio crede — equivale a rischiare la castrazione, ovvero minacciare l’intimità del padre e rischiare di usurparne il trono. Un tale “parricidio” (secondo la terminologia freudiana) ingaggerebbe il figlio nel ruolo del padre (in quanto si è già proiettato come imitazione del padre), cioè, egli stesso nel ruolo di eroe e traditore!
Trent'anni dopo, Athos ritrova e interroga gli ex compagni di suo padre, in cerca di una nuova verità (Giulio Brogi e Tino Scotti).
Strategia del ragno dimostra piuttosto brillantemente il doppio vincolo che sembra inesorabilmente condannare il figlio a ripetere l’immagine paterna a prescindere da qualsiasi scelta adotti. Costretto a smascherare il vero assassino del padre, l'indagine conduce Athos a teatro. Non solo: nello stesso palco nel quale il padre fu ucciso. E sedendo su quel sedile, all'improvviso riceve con orrore un'illuminazione: il padre riconobbe l’assassino nello specchio, ecco perché non fece nessuno sforzo per scappare! Sulle prime Athos fraintende le ovvie implicazioni di questa scoperta (vale a dire i tre uomini nello specchio). Ma nei fatti, quell’“altro” dello specchio, è come lo spettatore nella sala cinematografica buia e come il bambino nello stadio dello specchio di Lacan: egli stesso.” Al termine di questa scoperta, Athos ripete l’esperienza del padre, e la nostra, duplicando simbolicamente nello specchio il padre. Come doppio del padre, quale contropartita, ricapitola e usurpa la paternità; cioè, egli è un eroe (nella fantasia) e un traditore (nel suo rifiuto di impegnarsi). In qualsiasi direzione si muoverà, egli sembra destinato a incontrare un ulteriore modello di ripetizione. Temere i tre amici gli vale un’altra ripetizione: quella della fuga. Come il padre trentatre anni addietro, questo volo nel bosco è colto grazie al montaggio in una straordinaria dimostrazione di parallelismo, che permette di saltare continuamente dal padre al figlio e dal figlio al padre. Cosciente del fatto che il padre è stato ridotto da Draifa ad un rivale meramente fraterno, e frustrato nel desiderio di ricavarne un'autorità che l’avrebbe aiutato e sostenuto a trovare la propria identità, per Athos il cammino sembra volgere solo alla disillusione della ripetizione. Accorgendosi che il ritorno alle origini conduce solo alla scoperta delle medesime cose, Athos si scaglia contro il simbolo della storia di famiglia: la tomba paterna. Prima, ne cancella la data di nascita (1900) e, senza volerlo, anche la propria (1936), giacché nac-
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que poche settimane dopo l’assassinio; quindi dissacra il ritratto del genitore (e inevitabilmente anche il proprio). Padre e figlio sono sprofondati l’uno nell’altro come una sola entità, distruggendo, o piuttosto ““destoricizzando” la storia di famiglia. Senza gerarchia e autorità non ci può essere evoluzione, storia, intrigo. Questa scena era stata preannunciata dalla più misteriosa mise-en-scène del film, quando Athos avvicinatosi alla statua del padre, cerca di aggirarla, cercando di andare dietro al mistero della identità. Ma la statua ruota con lui, rinviandogli addosso senza pietà i propri tratti fisici, sotto forma di un’immagine piatta che riproduce una folle e assoluta uguaglianza. Il pessimismo di un tale impianto di strutture, sulle prime, sembra ritrovarsi in Partner: a tal punto è imbevuto di un'estetica “modernista” che insiste su strutture frammentarie (piuttosto che gerarchiche), su tropi metonimici (piuttosto che metaforici), e su relazioni fraterne (piuttosto che pater-
ne).° Tuttavia, curiosamente, la presenza di Magritte suggerisce un’altra interpretazione, meno pessimista. Se la sua opera è significativa rispetto al tema onirico, per forza di cose eleva esponenzialmente gli esiti della rappresentazione e dell’illusione. C'è una scena nel film che direttamente evoca quest'altro aspetto. Costa accetta di incontrare Athos nel cinema all’aperto di sua proprietà. E racconta del padre, mentre si incammina verso il fondo del cortile. Una volta sotto lo schermo, alza la tela bianca, lasciando vedere al di là un lussureggiante giardino, e che presumibilmente ricopre la funzione alla quale sono votati molti dei film proiettati là sopra. Ora, molte pitture di Magritte amplificano questo risultato. Tele capaci di rendere indistinta la scena dipinta dal suo modello sono infatti riflessioni sull’atto della rappresentazione stessa. Nel saggio Questa non è una pipa, Michel Foucault discute la differenza tra somiglianza e similitudine nell’opera
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Per quale oscura ragione, l'eroe chiese di venire ammazzato dai suoi stessi compagni? (Giulio Brogi, con Pippo Campanini e Franco Giovannelli).
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Nessuno riesce a scappare dal magico bosco in cui ora cominciano a confondersi il passato e il presente (Giulio Brogi). di Magritte. Quanto osserva è straordinariamente pertinente alla struttura fondamentale di Strategia del ragno. Magritte dissociò la similitudine dalla somiglianza, e mise la prima in gioco contro la seconda. La somiglianza ha un “modello”, un elemento originario (nel senso suo più transitivo, cioè, non solo “primo” ma anche “generatore’’) che ordina e gerarchizza il crescente numero di copie, di una fedeltà sempre inferiore, che possono essere tolte da esso. La somiglianza presuppone un riferimento primario che prescrive e classifica. La similitudine si sviluppa in serie che non hanno né testa né coda, e che possono essere seguite in una direzione o nell’altra, che non obbediscono a nessuna gerarchia, ma che si propagano da piccole differenze in mezzo a piccole differenze. La somiglianza serve la rappresentazione, che la governa; la similitudine serve la ripetizione, che si estende sopra di essa. La somiglianza fonda se stessa su un modello al quale deve ritornare e rivelare; la similitudine si irradia a simulacro come una relazione indefinita e reversibile del simile al simile.”
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In modo assai analogo a quanto ha fatto Draifa con la “bobina” di lino, il rapporto di Athos con l’immagine del padre pare irretirlo in un labirinto inestricabile di similitudini e di ripetizioni infinite che paiono escludere qualsiasi progresso. Tuttavia, il film di Bertolucci, come Partner e Prima della rivoluzione, conferisce al testo che intende “rappresentare” un altro tipo di relazione. Il testo dello scrittore è foggiato sulla figura della ripetizione, sui “modelli di versi ripetuti” e di “labirinti concentrici”,
nuove
messinscene
di miti, trage-
die, melodrammi e leggende precedenti. Indiscutibilmente esistono punti di contatto tra 1’ Athos di Bertolucci e quello di Borges, in quanto non v’è dubbio che il film ripete queste ripetizioni. Ma l’intuizione del primo consiste nell’incorporare queste ripetizioni (interne) senza avere bisogno di riprodurre la struttura nel suo complesso. Per il resto, e per aspetti non secondari, Strategia del ragno prende le distanze da Borges. Mentre il testo dello scrittore rimane per forza di cose sempre in potenza («Ho immaginato questo intreccio di una storia che un giorno forse scriverò»), Bertolucci ha finalmente compiuto il progetto, realizzando un film. È vero che poi Borges “dice” la storia che si promette un giorno di raccontare, ma lo fa in maniera astratta
Scoperta la verità, la ragnatela della memoria farà di Tara il sepolcro anche dei vivi (Giulio Brogi). e ipotetica. Bertolucci, dal canto suo, non riproduce pedissequamente e sterilmente l’originale. Trascende ancora una volta i limiti dell’imitazione testuale. E traduce l’intima potenzialità del testo di Borges — esso stesso emblematico della natura non realizzata di tutti i testi scritti nei confronti delle immagini della realtà che cercano di provocare, in uno stile cinematografico che è sia consapevolmente “realizzato” che profondamente originale. La presenza di Magritte nel film serve a rammentare che il cinema non può aspirare a copiare o ripetere una qualche preesistente realtà. Deve piuttosto adattarsi ad essa in termini propri. Ancora una volta, riconosciamo il dialogo tra Bertolucci e Bazin. L’intima potenzialità centrale alla strategia narrativa di Borges è stata qui rimpiazzata dal suo equivalente filmico: una struttura onirica che eleva ogni elemento della narrativa “originaria” dallo stato potenziale alla portata di immagini che godono della forza della realtà dei sogni. Così facendo, Bertolucci ha riasserito che cosa è fondamentale al cinema: la sua struttura onirica, che permette allo spettatore di ingaggiarsi in un vedere creativo (e non semplicemente passivo). Il regista riesce persino a rendere visiva questa differenza: quando Athos incontra
Beccaria al teatro municipale, un montaggio non realistico di Bertolucci li fa saltare da un sedile a un altro, senza transizione o spiegazione. Questa scena riproduce metonimicamente
ciò che Nick Browne
chiama «l’abilità [dello
spettatore cinematografico] ad essere in molti luoghi alla volta».® L’intero film allora funziona, per un verso, come la metafora dell’intrinseca differenza tra cinema e letteratura, senza limitarsi però al tentativo elementare di filmare un sogno. Benché d’aspetto apertamente onirico, il film si mantiene di-
stante dal ricalcare meramente il processo onirico. Quanto agli effetti stilistici — che così prepotentemente confortano l’interpretazione onirica — Bertolucci vi ricorre sì, ma memore dei principi da lui già espressi sullo stile di un film. Questa autoconsapevolezza nei confronti del cinema e la stretta relazione coi sogni dovrebbero avvisarci che Strategia del ragno non è soltanto l’illustrazione di un sogno: essa riguarda l’interdipendenza cinema-sogno e attiene alle problematiche della rappresentazione, da sempre al centro di qualsiasi interpretazione. Alla fine del film, Athos è chinato sulle rotaie del treno. Mira la gramigna, le ragnatele, altrettanto confinanti, che ha
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intrecciato. Il monito è: non verrà nessun treno a sottrarlo dalle pene del confronto con l’identità del genitore. Non verrà nessun treno a sottrarlo dalla inesorabile e penosa contemplazione della similitudine. Temi anch'essi considerati da Borges, sebbene in un altro testo:
ne visiva assai fedele di questo altro testo, questa «imminenza della rivelazione che non accade» appartiene piuttosto ad Athos che non a Bertolucci. Se il nesso di questo sogno è, in termini freudiani, «un groviglio che non può essere sbrogliato»? (siamo tentati di dire “ultimo groviglio”, ma sarebbe
La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti
scolpiti dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi, vogliono dirci qualcosa, o qualcosa dissero che non avremmo dovuto perdere, o stanno per dire qualcosa; questa imminenza di una rivelazione, che non si pro-
ce, un ventre la cui funzione, come John Perry ha notato «è quella di distruggere e ricreare, di dissolvere e risintetizzare, di divorare e rigenerare». Ecco, la genialità del film consisterebbe nell’avere lavorato al livello dell’azione narrativa una versione della lotta edipica come impasse, cercando con-
duce è, forse, il fatto estetico.?
temporaneamente, a livello dello stile cinematografico, di an-
Se Strategia del ragno sembra essere una rappresentazio-
dare al di là di un modello autorevole per affermare il processo creativo stesso.
prematuro), quel nesso, l'inconscio stesso, è anche una matri-
NOTE ' B.B. a Ungari, cit., p. 52. ? Amengual, cit. ? B.B. a Aldo Tassone, Parla il cinema italiano, Il Formichiere 1979, p. 51. 4 Non è un riferimento gratuito, perché anche il testo di Borges sulla quale il film si basa fa allusione a un parallelo italo-irlandese. La città in questione è Sabbioneta. Per l’ottima ricostruzione cinematica della città, Vd. Amengual, cit., p. 37; Joél Magny, ibid., p. 61. ‘Questo saggio assai perspicace di Roud sul conflitto edipico in Strategia fallisce non sapendo individuare la qualità onirica del film e le risultanti distorsioni e condensazioni che caratterizzano quel lavoro. Richard Roud, ‘Bertolucci’s Spider's Stratagem”, in Sight and Sound 40, n.2, primavera, 1971, pp. 61-64.
? Nick Browne, “Rhéthorique du texte spéculaire”, in Psychanalise et cinéma, Communications 23, cit., p. 208. * B.B. a Ungari, cit., p. 117, 63; vd. anche Jonathan Cott, “A Conversation with Bernardo Bertolucci”, in Rolling Stone, 21 giugno 1973, p. 46. ° André Breton, Manifeste du Surréalisme, Gallimard, 1985, pp. 26, 123 (traduzione nostra). Confusioni in questo film sorgono riguardo a coloro che sono morti: ad esempio, nella prima conversazione Athos domanda a Draifa se Gaibazzi e gli altri sono morti. Lei risponde di sì, poi si ravvede e nega. '° B.B. a Cott, cit., p. 44: vd. anche “A Week-end with Bertolucci”, The New School, 15-16 giugno 1985. "! Andrew Sarris, “Films in Focus”, in Village Voice, New York, 8 ottobre,
1970, p. 53, argomentò che «Bertolucci alza le mani davanti alla prospettiva di restaurare il passato con scene in costume, senza concedere niente all’illusionismo da flashback... il passato non è che l’insieme di tutte quelle persone litigiose fra noi che si aggrappano alla vita come i reietti di una cerimonia di sopravvivenza di Samuel Beckett». Ciò che Sarris tralasciò di apprezzare è la decisione di mescolare immagini del passato con il presente su una base di parità: una caratteristica frequente dei sogni. 12,, Freud, L'uomo Mosè e la religione monoteistica, in Opere, cit., p. 369.
‘ Norman O. Brown, Love’s Body, New York, Random House, 1966, pp. 42-43. Brown continua in termini che sarebbero estremamente pertinenti a Ultimo tango: «La donna penetrata è labirinto. Una volta entrati in essa, si emerge all’interno di un nuovo mondo. Il pene è il ponte; il passaggio a un altro mondo è il coito; l’altro mondo è una caverna-ventre. L'uomo della caverna trascina ancora la donna della caverna alla caverna di lui; qualsiasi coito è fornicazione (da fornix, apertura sotterranea arcuata). E la caverna nella quale il coito ha luogo è la tomba; un rito ctonico della fertilità... La morte è il coito e il coito è la morte. La morte è genitalizzata come un ritorno al ventre, coito incestuoso... Vita e morte, uguagliate», p. 48. Vd. anche p. 41.
“ Siamo debitori di J. Hillis Miller per la sua eccellente trattazione di questo personaggio shakespeariano, che appare in Troilo e Cressida, 5.2. Vd. “Ariacnes's Broken Woof”, in Georgia Review 31, n. 1, primavera 1977, pp. 44-60. !° B.B. a Gideon Bachmann: “Every Sexual Relationship is Condemned: an Interview with Bernardo Bertolucci”, in Film Quarterly 26, primavera, 1973, pp. 3-4. Per quanto riguarda l'aspetto dell’imbobinamento, vd. la qualificazione di «sbobinamento» di Tom Conley come «i cocci di tutta la rappresentazione, frammenti e brandelli che ci portano a catturare continuamente la nostra primaria e per sempre visiva comprensione del mondo che tocchiamo con mano». “Reading Ordinary Viewing”, in Diacritics, primavera, 1985, p. 8. '* Metz nota che: «La “pulsione percettiva”, contrariamente ad altre pulsioni sessuali, illustra concretamente l’assenza del suo oggetto attraverso la distanza in cui essa lo mantiene e che fa parte della sua stessa definizione: distanza dello
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sguardo, distanza dell’ascolto... Il voyeur ha molta cura di mantenere uno scarto, uno spazio vuoto, tra l’oggetto e l’occhio, l'oggetto e il proprio corpo: il suo sguardo blocca l’oggetto a giusta distanza, come nel caso di certi spettatori di cinema che stanno bene attenti a non essere né troppo vicini né troppo lontani dallo schermo. Il voyeur mette in scena nello spazio la spaccatura che lo separa per sempre dall'oggetto, mette in scena la sua stessa insoddisfazione (che è esattamente ciò di cui ha bisogno come voyeur) e quindi anche la sua “soddisfazione” per quel tanto che essa è di tipo propriamente voyeurista. Colmare quella distanza significa rischiare di appagare anche il soggetto, di portarlo a consumare l’oggetto (l'oggetto divenuto troppo vicino e che così egli non vede più), di portarlo all’orgasmo e al piacere del corpo, dunque all’esercizio di altre pulsioni, mobilitando il senso del contatto e mettendo fine al dispositivo scopico», cit., pp. 63-64 (traduzione nostra).
!” Robert Chapetta, “The Meaning is not the Message”, in Film Quarterly 25, n. 4, estate, 1973, p. 17. !# B.B. a Goldin, “Bertolucci on The Conformist” , in Sight and Sound, 40, n. 2, primavera 1971, p. 65. '’ Jorge Luis Borges, “Tema del traditore e dell’eroe” in Finzioni. Vd. Tutte le opere, vol. I, Mondadori, 1988, p. 723. °° Ibid., pp. 723-724. ?" Come nota Said, cit., p. 163: «Il labirinto al centro del sogno in ultima analisi si riferisce al complesso d’Edipo che è uno stravolgimento della normale sequenza familiare a causa dell’incesto... Il successiva “ingarbuglio” dei ruoli oppone resistenza a una comprensione sequenziale ordinaria, in quanto l’autore originale della linea familiare, il padre, è assassinato e il suo posto usurpato dal figlio. Ciò che sopraffa Edipo è il fardello delle identità plurali, incapaci di esistere all’interno di una sola persona. In un siffatto caso l’immagine di un uomo nasconde dietro la sua facciata significati multipli e determinazioni (motivazioni) multiple. Ciò che è stato un romanzo familiare diventa nell’interpretazione che Freud dà della tragedia greca, un complesso incrociarsi, quasi insopportabile, di opposti». 2 Vd. supra, capitolo Prima della rivoluzione, nota 46.
© Said, cit., p. 66. Said usa anche la figura della genealogia come metafora per la narrativa in una maniera assai illuminante: «Lo scopo principale dello sviluppo di consapevolezza della narrazione è di sposare la promessa inaugurale al tempo: per essere, in altre parole, il corso di un tale matrimonio, il termine del quale è la scoperta, la spiegazione, la genealogia. La storia narrata rappresenta il processo generativo — letteralmente, nella sua rappresentazione mimetica di uomini e donne nel tempo, metaforicamente nel senso che, da sola, genera una successione e una moltiplicazione di eventi secondo la maniera della procreazione umana; tuttavia la storia del romanzo dell'Ottocento documenta la crescente consapevolezza di un vuoto/margine tra le rappresentazioni della narrativa di finzione e il fruttuoso, e produttivo, principio della vita umana. Questi sono cammini divergenti che eventualmente diventano l’un l’altro completamente irrilevanti», ibid., p. 146. “ Michel Foucault, Ceci n'est pas une pipe: sur Magritte, Fata Morgana, 1973, p. 44 (traduzione nostra). © Vd. Browne, cit. ” Borges, “La muraglia e i libri” in Altre Inquisizioni, Tutte le opere, vol. II, cit., pp. 909-910. ? Per una trattazione sulle implicazioni di questo «groviglio», vd. Said, cit., pp. 168 ss. * John W. Perry, Lord of the Four Quarters, New York, Braziller, 1966, Pp.
16. 21-22.
Il conformista
1970
Comunque siano andate le cose, comunque siano state,
fu ciò nonostante un sogno, perché non si sarebbe
potuto spiegare in maniera razionale.
Alberto Moravia
Edipo nella caverna «Strategia del ragno e Il conformista hanno in comune il tema del tradimento, la presenza del passato che ritorna e il peso della figura paterna» disse Bertolucci alla loro uscita nel 1970. «La differenza è che ne /! conformista il figlio, Trintignant, tradisce il professor Quadri (la figura paterna), mentre in Strategia del ragno è Athos padre ad avere tradito. In ogni caso si tratta di due parricidi che suppongono un passato e una memoria».' A vedere questi due film come l’uno essendo in un certo senso il doppio dell’altro, possiamo apprezzare quanto fondamentale al Bertolucci di quegli anni fosse la figura del “tradimento”. Un tale slittamento di interesse (dal
tradimento del padre a quello del figlio) è denso d’implicazioni: per il film, per l'evoluzione della filmologia bertolucciana, e per la comprensione delle dinamiche del cinema stesso. Se ci soffermiamo all’azione, le dinamiche del tradimento spiccano chiare: Marcello Clerici (Jean-Louis Trintignant), un tempo brillante allievo del professor Quadri, sceglie Parigi quale meta della sua luna di miele per tradire e uccidere l’antico méntore (Enzo Tarascio). AI personaggio di Quadri tocca certamente il ruolo di figura paterna, visto che Clerici stesso è, per così dire, “orfano” di padre, visto che costui è rinchiuso in un manicomio. I ricordi che Marcello nella sua giovinezza fascista ha del suo insegnante sono fortemente ambivalenti:
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Un giovane dei Parioli sogna di attraversare Roma per portare i fiori ad una ragazza di viale delle Milizie (Jean-Louis Trintignant).
benché Quadri fosse il bersaglio degli studenti, il suo carisma intellettuale esercitò senza dubbio un impatto durevole su Clerici, nonostante le opinioni politiche divergenti. Quale antifascista in esilio a Parigi, l'integrità di Quadri, come quella di Athos senior, è sospetta: traditore o eroe? E Clerici non sa decidersi. Ciononostante, tradisce Quadri. E in quel momento, anche i propri ideali fascisti, e se stesso, quando, invece di agire, preferisce assistere dall'auto all’assassinio di Quadri e della moglie, trucidati nei boschi della Savoia. Nel momento cruciale del film, Clerici è incapace di agire sulla base e in forza delle sue convinzioni fasciste: incapace di alzare persino un dito per salvare la donna che ha istigato nella sua vita la più grande delle passioni. Le motivazioni dell’assunzione di questo incarico rimarranno un mistero persino per le autorità fasciste che gli hanno incaricato la missione. Clerici può veramente essere assimilato a Athos Magnani senior. Entrambi sono gli architetti di complotti volti ad assassinare figure paterne diventate politicamente ostili, ma senza rispettare alla lettera il progetto del piano. In entrambi i film, l’intima connessione tra tradimento e auto-tradimento, tra le identità distinte di padre e figlio, offuscano notevolmente i contorni dei protagonisti. Ne /l conformista il tradimento è in atto a vari livelli. Una scena in particolare illumina eloquentemente numerosi altri aspetti del film. Durante
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la famosa serata parigina, il
professor Quadri domanda a Clerici di recapitare a Roma una lettera a favore della causa antifascista: Clerici, da buon fa-
scista, si rifiuta. Inaspettatamente, Quadri lo ringrazia. Confessa che la richiesta era tutta una messinscena: un pretesto per metterlo alla prova. L'episodio è un esempio eccellente di tradimento ad entrambi 1 livelli: paterno e filiare. Quadri si è servito di un’abile astuzia per incastrare Clerici; ma il rifiuto di quest’ultimo sembra giustificare ironicamente la sua assoluzione proprio nel momento culminante del suo tradimento. L'incidente, poi, figura il tema della realtà e dell’ apparenza, fulero del loro precedente dibattito. Benché tolta dall'omonimo romanzo di Moravia, cui si ispira il film,’ la sequenza devìa considerevolmente dall’originale, emblematizzando il rapporto di Bertolucci col testo letterario. Mentre nel romanzo, Quadri si limita a ringraziare Clerici per non avere accettato la missione (pp. 241-242), nel film Quadri apre la busta e mostra a Clerici il foglio in bianco. La lettera di Quadri, allora, funziona come un segno gratuito — in riferimento al rapporto che ha con l’originale moraviano e con la necessità di esistere o meno nell’azione del film — della non affidabilità dei testi. Profferita da Quadri, il professore che Marcello sente di dover tradire per ristabilire la propria identità, questa lettera potrebbe anche rappresentare il romanzo di Moravia e il rapporto del film con esso. Quasi ogni esempio di documento scritto che appare in questo film è caricato di senso: la Letteratura non cessa di tendere trappole, ovvero contiene testi vuoti, falsi, o indecifrabili: in breve, il testo sembra non essere né attendibile, né affidabile.
Dei quattro scritti messi in scena nel film, due presuppongono il padre anagrafico di Marcello. In entrambi i casi, lo scritto e l’attività dello scrivere enfatizzano il conflitt o e l’ambiguità che avvolge la relazione col padre. Nel primo esempio, la madre di Giulia produce una lettera anonima diffamatoria: si propala la presunta malattia venerea di Marcello, ereditata dal padre. Vale a dire: attraverso l’attività sessuale il padre ha tradito il figlio. Ma, Giulia riconosce lo zampino dello “zio” Perpuzio, la figura paterna della sua adolescenza, che sin dall’età di quattordici anni la sottomette a una tirannia sessuale. Come significante, la lettera esprime il tradimento paterno a vari livelli; benché l’episodio non sia
estraneo al testo di Moravia, la sua inserzione nel contesto
del film gli conferisce una connotazione diversa e, nei fatti, ironica. Come testo, denuncia consapevolmente l’autorità del padre di Marcello; inconsapevolmente, autodenuncia il testo e l’autore/genitore Perpuzio. Inoltre, il semplicismo dell'equazione psicologia-eredità (biologica), benché figuri in Moravia, può essere letto, in questo contesto, come una critica al romanzo, che a livello narrativo indulge esattamente in tale sorta di teorizzazioni. Se al figlio è data la parte del traditore, il padre, o comunque la figura autoritaria, non è esente dal biasimo. Il secondo esempio di scritto di provenienza paterna determina ancora più nettamente l’ambivalenza del rapporto di Bertolucci con la “autor-ità”. Quando Marcello rende visita al padre nell’asilo psichiatrico, il vecchio è seduto in un immenso foro — reminiscenza architettonica del palazzo fascista — intento a scrivere come un matto. Nel romanzo di Moravia, il figlio ascolta abbastanza disinteressatamente gli sproloqui del padre. Nel film, Clerici strappa il manoscritto dalle mani del padre e lo brandisce in aria ridicolizzandolo; quindi con la mano del padre nella sua firma l’atto matrimoniale, atto che attribuisce un’uguale autorità al padre, come origine, e al
La madre di Giulia
legge la lettera
anonima a Marcello e alla fidanzata (Yvonne Sanson, con Jean-Louis
Trintignant e Stefania Sandrelli).
figlio, come progenie. Subito dopo Marcello lo colpevolizza, costringendolo a ricordare gli omicidi e le torture commessi da squadrista; lo pungola, fino a provocare la reazione del
padre che chiede, incrociando le braccia, di essere immobi-
lizzato nella camicia di forza. Qui Marcello ricade in un’altra equazione, anche se inconscia, tra il padre e se stesso: egli ripeterà presto crimini analoghi al servizio dello stesso regime. Per di più, riformulerà questa autoaccusa nella sequenza del confessionale. Dando prova di ripudiare, ma contemporaneamente imitare l’autorità, l’intera sequenza ritrae efficacemen-
te l'ossessione di Marcello. Chiaramente, lo scrivere, per Bertolucci, continua a essere terreno di conflitto, fonte di intensa ambivalenza. Persino la sceneggiatura del film, come testo, risultò un campo di battaglia: Spesso il cinema si limita ad essere la mera illustrazione di una storia. Quello è il più grande pericolo in cui si incorre facendo un film tratto da un romanzo. Molti registi usano le loro sceneggiature come se avessero cominciato da un romanzo; semplicemente fanno un film illustrato della sceneggiatura. D'altro canto, anch'io comincio da una sceneggiatura molto precisa, ma solo al fine di distruggerla... Scrivere una sceneggiatura per me è un'esperienza letteraria... quando scrivo, non posso pensare alle riprese perché scrivere è scrivere. Le parole sono parole, non immagini... devo essere completamente libero quando faccio le riprese. Non posso seguire la sceneggiatura.
Chiaramente nel film la scelta del lessico non è indifferente: ci avvisa che il testo non può essere ignorato; che deve essere distrutto per guadagnare la libertà. Le linee di battaglia, tracciate molti anni prima, continuano a restare attuali.
Marcello e la madre visitano il padre folle nel cortile del manicomio (Milly, Jean-Louis Trintignant, Giuseppe Addobbati). 82
Bertolucci dice: «Prima cercai di fare dei film per desideri o, per bisogno di fare qualcosa di diverso da quanto aveva fatto mio padre. Egli era un poeta e io volevo competere con lui, ma facendo un’altra cosa. Cominciai anch’io col scriver e poesia, ma mi accorsi che avrei perso la battaglia, così dovetU trovare un terreno diverso sul quale competere».* Il conflitto padre-figlio, così fermamente condotto attorno ai temi del /ogos paterno ai danni dell’immagine filiale, continua a ossessionare e animare // conformista. Ma Bertolucci, quantunque intelligenti e accorte siano le sue critiche al testo, non è soddisfatto del risultato. La scena centrale del film, la rievocazione del mito della caverna. sposta la critica di Bertolucci su un altro piano. Nell’appartamento di Quadri Marcello rammenta le lezioni su Platone: Immagina un grande sotterraneo in forma di caverna. All’interno, degli uomini che vi abitano fin dall’infanzia, tutti incatenati e obbligati a guardare il fondo della caverna. Alle loro spalle, lontano, brilla la luce di un fuoco. Tra il fuoco e i prigionieri, immagina un muro, basso, simile alla piccola ribalta sulla quale il burattinaio fa apparire i suoi burattini... E ora cerca di immaginare degli uomini che passano dietro quel muretto portando delle statue di legno e di pietra... le statue sono più alte di quel muro... i prigionieri incatenati di Platone! Che cosa vedono?... La rievocazione “fedele” delle lezioni di Quadri potrebbe apparire come un omaggio alla precedente relazione di maestro e discepolo. Ma nei fatti è un semplice espediente per di-
stogliere l’attenzione del professore dalla segreta e perversa intenzione del suo ex allievo. Durante la citazione del brano tolto dalla Repubblica di Platone, una luce sparata, proveniente dalla finestra, staglia Quadri in silhouette come su uno schermo: creando l’impressione di un’ombra contro un “muro” di luce, raffigura, senza accorgersene, il celeberrimo testo sull’illusione e la realtà, simbolizzando la tragedia del vivere. Questo tour de force luministico racchiude molti aspetti del film. Quadri mette in guardia Clerici sul pericolo di certe sue illusioni, ma in quel momento è reso lui stesso dall’illuminazione della scena una semplice illusione, riducendo in tal modo la forza del suo messaggio.° Ricorrendo ai nessi visivi esistenti tra una caverna buia e un gioco di silhouettes, Bertolucci brillantemente sposta il tema della condizione umana, caro al testo platoni-
co, su una molteplicità di altri significati. Se, come Jean-Louis Baudry ha argomentato,’ le illusioni narrate e discusse nella descrizione platonica o freudiana dell’“altra scena” sono in verità delle deformazioni, o dei “sintomi” in termini freudiani, allora il prigioniero di Plato-
ne, come lo psicotico di Freud, è vittima di allucinazioni allo stato di veglia. La difesa contro queste illusioni finisce, ironicamente, per essere il conformismo stesso. In verità, Joyce Mc Dougall argomenta che: «La normalità è un iperadattamento al mondo reale», e che «nessuno dubita che il conformismo eretto a ideale è allo stesso tempo una psicosi compensata». La scena in questione, allora, metaforizza tutto quanto l’approccio conformistico di Clerici nei confronti della realtà. Nel ruolo di prigioniero metaforico della caverna di Pla-
Primo incontro con l'agente speciale Manganiello per una missione in forma di viaggio di nozze all’estero (Jean-Louis Trintignant e Gastone Moschin).
tone, Clerici assume anche la posizione passiva dello spettatore, simile in molti momenti a quella dello stesso spettatore del film. In verità sono precisamente le analogie tra la caverna e il cinema che Baudry sviluppa in questo saggio sulle origini della settima arte. L’immobilità dei prigionieri sulla quale Platone insiste non differisce, sostiene Baudry, dalla primissima immobilità che sperimentiamo come tale, e cioè, «quella del bambino alla sua nascita, privo com'è di mezzi di locomozione; quella del dormiente che ripete, come è risaputo, lo stato postnatale, e persino la vita intrauterina; ma anche quella che lo spettatore della sala buia di un cinematografo sperimenta, sprofondato nel suo sedile». Bertolucci più tardi confessò che la sequenza mirava in verità al cinema, «perché
leggendo la caverna di Platone, la caverna è esattamente come il teatro e il retro è lo schermo e Platone dice che c’è un fuoco e che delle persone vi camminano davanti, cosicché il fuoco proietta le ombre sul retro della caverna. È l’invenzione del cinema»."° Ora questa interpretazione polivalente della “scena della caverna” ne Il conformista suggerisce che, ancora una volta, Bertolucci non ha solo costruttivamente riflettuto sulla differenza tra il testo scritto e il cinema, ma si è incentrato sul rap-
porto dell’ontologia del cinema con quella dell’uomo. Bertolucci qui “tradisce” due testi: quello di Platone e quello di Moravia. Indurisce pertanto la sua posizione nei confronti della scrittura. Ma con un atto di sovversione, Bertolucci illu-
stra, in una forma rimarchevolmente condensata, come il cinema, nella sua lingua, coinvolga lo spettatore nell’esperienza più essenziale. Un altro livello di “tradimento” è qui in atto. L’allusione al cinema e la trasformazione di Quadri a un'immagine bidimensionale, in bianco e nero, non esclude che il professore sia il simbolo di uno dei méntori cinematografici di Bertolucci. In verità, l'indirizzo di Quadri e il suo numero di telefono — 17, rue St. Jacques, tel. MED 15.37 — appartenevano allora a Jean-Luc Godard. Bertolucci confessò: Il conformista è la storia di me e Godard. Quando diedi al Professor Quadri il numero di telefono di Godard e il suo indirizzo, lo feci per ischerzo, ma più tardi mi dissi: «Beh, forse tutto questo ha un significato... Io sono Marcello e faccio film fascisti e voglio uccidere Godard che è un rivoluzionario, che fa film rivoluzionari e che fu il mio maestro».
“Uccidere” Godard e suo padre, il poeta, spianò a Bertolucci la via libera a un terra vergine. E l'impresa consisteva nel tracciare un percorso tra la reiezione assoluta della narrativa proposta e sostenuta da Godard, che avrebbe isolato quest’ultimo sempre più, o il conformarsi al testo scritto: il sentiero giaceva nell’imitazione, conscia o inconscia, di un altro regista francese, che era riuscito a coniugare la narrativa tradizionale a una estetica nuova, assai cinematografica. Con Tirate sul pianista Truffaut aveva fornito un modello, di cui si trova allusione in Partner, direttamente imitato in questo film (in ispecie la sequenza dell’assassinio di Quadri). Il nucleo della creatività di Bertolucci consisteva ancora una volta nel forgiare uno stile cinematico che potesse rendere l’interezza del romanzo di Moravia, senza scadere in un’imitazione pedissequa. Poiché ovviamente Moravia costituisce l’autorità in fatto di testo, esplicitamente imitato e implicitamente contestato
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nel film, diventa cruciale scoprire sotto quali altre angolature Bertolucci ha modellato il romanzo in uno stile propriamente cinematico. L'azione del film è molto più “fedele” all’azione del romanzo di quanto Bertolucci non abbia fatto negli altri suoi film tratti da testi letterari. Forse perché al tempo de // conformista, il rapporto cinema-letteratura era meno inquietante, nel film si sforzò di ritenere molti elementi della strut-
tura narrativa di Moravia, spostando la questione della specificità del cinema su altri elementi del film, meno manifesti. Innanzitutto, la prima e più importante deviazione dal romanzo di Moravia giace nel rifiuto di riprodurre la cronologia sistematica del romanzo e la sua causalità, concepite dal romanziere a sostegno della sua teoria del determinismo psicanalitico.
Dai giochi d’infanzia, sadici e violenti, che Marcello ri-
corda nel giardino dei genitori fino all’ultimissimo tradimento, Moravia segue la progressione del protagonista con una cronologia rigorosa quasi asfissiante, oberata di presagi. Ad esempio: il disinteresse dei genitori conduce il fanciullo Marcello alla castrazione simbolica di un «bel cespo di margherite gremito di fiori bianchi e gialli, oppure un tulipano dalla corolla rossa ritta sul gambo verde, oppure ancora una pianta di calle dagli alti fiori bianchi e carnosi... che cadevano pulitamente a terra presso la pianta, lasciando ritti gli steli decapitati» (pp. 8-9). Il narratore nel romanzo di Moravia sottolinea che per Marcello «fu inevitabile» passare da questi atti simbolici alla strage di una dozzina di lucertole; e da «un senso di eccitazione ilare e bellicoso» alla “uccisione” del gatto di famiglia. In quest’ultima incursione, Marcello si accorge «del segno indubbio che, in un modo misterioso e fatale, era predestinato a compiere atti di crudeltà e di morte» (p. 19). Questi segni premonitori della sua anormalità servono come contesto al momento psicologico centrale del romanzo. Lasciatosi sedurre da Lino, l’autista pederasta, Marcello impugna la pistola, realizzando e simbolizzando l’inversione obbligatoria dei ruoli; e “uccide” il perverso Lino. Per il resto del romanzo Moravia segue diligentemente il protagonista nei suoi tentativi falliti di espiare il “crimine” di infanzia attraverso «una certa mortificata e grigia normalità» (p. 68). Si sottopone a un totale conformismo: maritarsi alla donna apparentemente più ordinaria, monotona, materialista e borghese che possa incontrare; andare a confessarsi prima del matrimonio («era un anello di più, come pensò, nella catena di normalità con la quale egli cercava di ancorarsi nelle sabbie infide della vita», aggiunge Moravia [p. 89] qualora non ce ne fossimo accorti); e «pensava di essere normale, si-
mile a tutti gli altri, quando si raffigurava la folla in astratto, come un grande esercito positivo e accomunato dagli stessi sentimenti, dalle stesse idee, dalle stesse mete del quale era consolante far parte»; aggregarsi dunque, nonostante per quella folla di individui «provasse insieme ripugnanza e distacco», e per cui gli sia «impossibile riconoscersi in loro» (pp. 71-2). Naturalmente è di un’ironia pesante che il partito fascista ratifichi il piano di tradimento (e simbolicamente di assassinio) che deve avere luogo a Parigi durante la luna di miele. Piuttosto che anonimità e espiazione, Marcello trova all’interno dei ranghi fascisti un destino persino più crudele: così che la «figura di Giuda, il tredicesimo apostolo, si confondeva con la propria, ne sposava i contorni, era la sua» (p. 177). Moravia non solo illustra il Fascismo come una perversione
difficilmente repressa. Ma solleva una doman da, più generale, sulla natura del conformismo: ogni volta che Marcello crede di avere sposato la normalità, scopr e una nuova forma di perversione. La moglie presunta “normale” non solo è la
figlia naturale della concubina di un noto avvocato romano, ma è appena uscita da una relazione omoerotica . Il sacerdote
che confessa Marcello esige in penitenza per “l’assassinio” di Lino qualche preghiera sommaria. Ma esprime vivo interesse nei particolari del loro incontro sessuale. Il Quadr i di Moravia «anzi li sacrificava con disinvoltura [i suoi adepti antifascisti] in azioni disperate che si potevano giustificare soltanto in piani a lunghissima scadenza e comportanti, appunto, per necessità, una crudele indifferenza per la vita umana»
(p.
168). L’omonima Lina, moglie di Quadri, non solo duplica il nome del perverso chauffeur, causa del “peccato originale” di Marcello, ma riproduce sulla moglie fin troppo accondiscendente di Marcello la seduzione omoerotica di Lino (p. 211). A questa scoperta, Marcello cerca riparo in un parco, rischiando invece l’abbordaggio di un anziano signore in una limousine nera. Il messaggio martellante del romanzo di Mo-
ravia è: la normalità, come la immagina Marcello, è un’illu-
sione. La società è un aggregato di individui polimorfic amente perversi: In questo mondo balenante e oscuro, simile ad un crepuscolo tempestoso, queste figure ambigue di uomini donne e di donne uomini che si incrociavano raddoppiando e mescolando la loro ambiguità, sembravano alludere ad un significato anch'esso ambiguo, legato, tuttavia, come
gli pareva, al suo destino e alla com-
provata impossibilità di uscirne (p. 213).
Moravia insiste a più riprese su questo tema: ogni personaggio può rappresentare la distorsione dell’omologo corrispondente. Lino, lo chauffeur omosessuale invaghito della sua pistola, è riduplicato sia dall’autista fascista (Orlando nel libro, Manganiello nel film) che dall’autista giapponese amante della madre (e per conseguenza “padre” di Marcello), sia dall’anziano signore del parco che da Lina. Lina è ritratta a Ventimiglia come il doppio di una prostituta (e pertanto la madre promiscua di Marcello), ma anche come il doppio di Giulia. E Quadri duplica non solo il padre di Marcello, ma anche Orlando/Manganiello e i fascisti. Con determinazione Moravia si applica a costruire un’enorme eppure semplice equazione: tutti i personaggi convergono nell’immagine composita del genitore malvagio. Questa superflua tendenza a esplicitare, attitudine che i critici, tutt'altro che simpatetici, non hanno dimenticato di criticargli, è rispecchiata dall’uso del destino sul quale l’autore insiste sopra ogni modo. Moravia allude spesso alla tragedia greca in generale, e al mito di Edipo in particolare. Fin dal primo assaggio di violenza, Marcello scopre «un segno inequivocabile della sua predestinazione, in una maniera misteriosa e fatale, a compiere atti crudeli e mortiferi» (p. 19),
passaggio che comporta, anche se di sfuggita, una similitudine con il Tema del traditore e dell’eroe di Borges.'® Mentre Borges escogita un “modello di linee ripetute” per rendere la relazione misteriosa tra la letteratura e il suo doppio, Moravia costruisce una struttura pesante per alloggiare una versione poco fantasiosa del determinismo freudiano. Marcello è prigioniero, Moravia si sofferma a ricordarcelo, della
trappola di cui si è avvertiti e che, anzi, si vede distin-
tamente e nella quale, tuttavia, non si può fare a meno di mettere il piede? Oppure, addirittura, una maledizione di... cecità insinuata nei gesti, nei sensi, nel sangue?... una fatalità intima, oscura, nativa, imperscrutabile... come un'indicazione all'imboccatura di una strada funesta... Egli sapeva che questa fatalità
voleva che egli uccidesse: ma ciò che lo spaventava di
più non era tanto l’omicidio quanto di esservi predestinato, qualunque cosa facesse (p. 50). «Come
il cartello all’imbocco
di una strada sinistra»,
l'insistenza con la quale Moravia ribadisce certi temi lascia poco spazio all’immaginazione. Il romanzo infatti offre un eccellente trampolino all’adattamento cinematografico di Bertolucci, in quanto troviamo nel romanzo una sorta di testualità iperbolica. Chiaramente, il doppio, le configurazioni edipiche, e il livello mitologico del romanzo di Moravia furono tutti aspetti che attrassero Bertolucci e che sentiva come: «una memoria della mia memoria». Ma per il lettore-cineasta quella memoria sarebbe stata inesorabilmente filtrata dal cineasta-lettore. Se Strategia del ragno fu influenzato dalla «vita e dalle memorie dell’infanzia: Baccanelli, Sabbioneta, la campagna di quando ero un fanciullo», 7/ conformista fu influenzato «dal cinema... dalle memorie dei film americani e francesi degli anni Trenta».! Se, sul piano dell’azione, ciò che attrasse Bertolucci al
romanzo di Moravia fu «l’ambiguità del protagonista», sul piano stilistico Bertolucci voleva chiaramente cimentarsi nel montaggio e servirsene per rendere la letterarietà del testo. Fino ad allora Bertolucci aveva considerato il montaggio una specie di autopsia o castrazione di un corpo vivente, tale e quale era abbandonato dopo l’attività della mdp. Con 7/ conformista avrebbe scoperto che «anche durante il montaggio è possibile, come durante le riprese, lasciare una porta aperta sul caso e sull’azzardo..., che anche in fase di mon-
taggio sì può improvvisare... che il montaggio non è solo un lavoro analitico ma anche di scoperta dei segreti contenuti nel ventre del film che non verrebbero mai alla luce se ci si vietasse una manipolazione del materiale».' Così, alla cronologia soffocante del romanzo di Moravia, Bertolucci Oppose l’improvvisazione e la rivelazione; alla letterarietà di Moravia, egli propose «la memoria della memoria»: un ricordo del passato visto attraverso l’ottica del cinema, un cinema ricatturato. Alla figura dei doppi presente in Moravia, egli oppose una meditazione sullo sdoppiamento nel suo processo primario: ma sempre già risolto, che, secondo Christian Metz, è la natura stessa del significante cinematografico. Il film si apre su un’inquadratura di Marcello in penombra, assonnato e allungato su un letto. Una luce al neon illumina a intermittenza la stanza: fuori dalla finestra, un’insegna rossa: ESTAN (sorta di participio presente del verbo essere). Senza accorgersene Marcello assume la posizione analoga di Charles Aznavour, in una scena di Tirate sul pianista di Truffaut, proiettando a intermittenza sullo spettatore persino le stesse luci e ombre. Il telefono squilla, scuotendolo dal torpore. D’istinto allunga la mano sul ricevitore. Mormora qualche parola. Riaggancia; si alza, e mentre si dirige verso la porta raccoglie il cappello dal letto scoprendo il sedere di una donna nuda che sta ancora dormendo. Nella strada davanti all’hotel, ferma un’auto; vi scivola dentro. Ha inizio
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A Parigi, Marcello e Giulia si incontrano col professor Quadri e sua moglie (Jean-Louis Trintignant e Stefania Sandrelli con Dominique Sanda e Enzo Tarascio).
l'inseguimento di un’altra auto: è un mattino brumoso e innevato a Parigi. Questa introduzione è degna dei film polizieschi americani degli anni Quaranta, ed è un omaggio a Dashiell Hammett, la cui Messe rossa Bertolucci ha cercato di realizzare per molti anni. Nessun contenuto sarà spiegato od esposto per le vie ordinarie della narrazione: con un ordine cronologico qualsiasi, per esempio. Lo spettatore dovrà ricavare tutti gli elementi utili alla comprensione della storia da una serie di flashback che si apre a ventaglio a partire da un tempo “presente” assiomatico — la corsa in auto da Parigi alla Savoia — e che si prolunga in una appendice di situazioni che di per sé non obbediscono ad alcuna cronologia. L'uso che Bertolucci fa dei flashback non è ordinario: per lo stravolgimento del criterio cronologico e per la tendenza a sovrapporre flashback su flashback. La progressione degli eventi avviene per libera associazione piuttosto che per via logica. Ogni sequenza offre immagini e/o fornisce informazioni che devono essere immagazzinate e lette per associazione piuttosto che per analisi. Il lettore/spettatore è costretto a guardare il film come uno psicanalista: raccogliere tracce per formare un’interpretazione. La qualità estremamente cinematografica di questa esposizione è che l’autorità “narrativa” del film è rivestita dal processo associativo del personaggio principale unitamente a una camera onnisciente. Evitando di replicare la voce narrante di Moravia, Bertolucci ha, per usare l’espressione di Nick Browne, ubicato lo spettatore nel testo filmico simultaneamente in più luoghi, ottenendo un effetto analogo semmai alle identità multiple oniriche. Il primo flashback del film porta lo spettatore in uno studio radiofonico: Marcello sta, come è suo solito, ascoltando, e guardando. Non per niente, il suo stato passivo è enfatizzato dalla parete di vetro che lo separa (come le porte-vetrate
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nella casa di Rasori) dal gruppo di coriste che canta “Chi è più felice di me”, un’aria in voga in quegli anni. La camera di Bertolucci dimentica di indugiare sui riflessi di Marcello nel vetro, alludendo forse alla funzione di specchio insita nel cinema. Questa sequenza, l’incrocio di un pot-pourri di programmazione radiofonica (le coriste, l’allocuzione sul Fascismo, lo zufolio per simulare il cinguettio degli uccelli) pone un seria ipoteca sulla credibilità di quanto stiamo vedendo. Inserita in questo balenare di situazioni c’è l'inquadratura di Marcello, che rasentando 1’ Ara Pacis si staglia contro l’iscrizione latina che sfugge alla decifrazione. Qualunque sia, il “monito” che si voleva attribuire al testo non è recepito dallo spettatore: e per l'impatto visivo e per la rapidità del montaggio. Vedendo il film per la prima volta, non è possibile situare queste scene, vuoi logicamente vuoi cronologicamente: s0lo dopo ripetute visioni è possibile assemblare quei pezzi in una vera e propria sequenza cinematografica. Un improvviso stacco, e ritorniamo allo studio di registrazione, ora immerso nel buio: Marcello si sveglia (forse dal sogno che lo spettatore ha appena visto) e si trova di fronte a un personaggio misterioso il cui ingresso nello studio ci è rimasto precluso. I due conversano. Scopriamo che il misterioso personaggio è un agente fascista inviato per informare Marcello che la proposta di una missione in forma di “luna di miele” a Parigi è stata accolta. Un altro stacco, e Marcello si trova, altrettanto inspiegabilmente, in un palazzo fascista dall’architettura immensa. Flashback e flashforward, da e verso l’auto in corsa per le strade innevate, imbrogliano ulteriormente le piste della possibile trama del film. In aperto contrasto con l’accurata cronologia e razionale esposizione dell’azione in Moravia, Bertolucci regala allo spettatore un contenuto e una struttura che possono essere s0-
lo riconosciuti e descritti come onirici, e implicitamente cine-
Un'improvvisa
passione per Anna, la moglie del professore, precipita Marcello in un turbamento che porterà a tragiche conseguenze (Dominique Sanda).
matici. Queste scene non solo mancano di coerenza causale e cronologica; ma procedono per associazione, condensazione, spostamento e replica: tutte tecniche del lavoro onirico. La prova schiacciante dell’esistenza di queste strutture interessa Dominique Sanda e la sua misteriosa apparizione in tre fogge diverse. Il testo di Moravia la riduce a un doppio esplicito di Lina, riducendola a un comodo espediente. Nel film, l'impatto, l’ipotetica interpretazione, e persino l’inspiegabile ricomparsa sotto fattezze irriconoscibili, sono lasciati alla valutazione dello spettatore. La resa cinematografica di questo doppio occupa uno spazio maggiore di quanto non faccia il romanzo, trasferendo sullo spettatore il compito di associare e organizzare il materiale visivo. Il ruolo principale della Sanda è nei panni della moglie del professore Quadri (Lina nel romanzo,
Anna nel film). Da rilevare che il primo
riferimento ad Anna al “tempo presente” (il viaggio in automobile verso la Savoia), rispetto alla “cronologia” del film, viene suscitato da Marcello, attraverso la rievocazione di un sogno: «Ho appena fatto uno strano sogno. Ero cieco e voi mi portavate in Svizzera in una clinica per farmi operare... Ed era il professor Quadri che mi operava. L'intervento riusciva. Riacquistavo la vista e ripartivo con la moglie del professore». In questo sogno, Marcello mette in opera un processo di condensazione:
di sé e di Italo, l’amico cieco (che, ormai
vecchio, Marcello denuncerà con accanimento alla fine del film); di sé e del padre, rinchiuso in una clinica psichiatrica; di sé e di Hitler, al quale si riferiscono i termini usati precedentemente per descrivere il padre; di sé e di Quadri, visto che assume nel sogno il posto di Quadri. Si tratta di uno scenario edipico completo: l’allusione all’ansia di castrazione del bambino
(la cecità),
la minaccia
manifesta
di
quell’ansia (l'operazione di Quadri), e l’unione felice con la
madre
(la moglie
di Quadri).
È interessante
notare
che
Manganiello (Gastone Moschin) nel sogno figura come autista, e quindi come doppio di Lino, l’autista pederasta che sedusse Marcello da bambino. La cecità di Marcello potrebbe anche significare il rifiuto, e delle fantasie sessuali maschili, e dei sogni di una vendetta assassina. La Svizzera. cioè le montagne Savoiarde, condensa la destinazione del viaggio presente (dove Marcello ucciderà veramente Quadri) con uno stato di neutralità, cioè il perfetto conformismo che ha nascosto agli occhi di tutti la perversità di Marcello: ciò che Joyce Me Dougall ha chiamato «una psicosi ben compensata».! E in modo sorprendentemente congruente al contenuto e alla struttura dell'intero film, ogni elemento di questo sogno compare, in forma manifesta o latente, nel film; e ognuno subisce una distorsione analoga del processo primario, ovvero del lavoro onirico. La condensazione, lo spostamento, e lo sdoppiamento, sono gli equivalenti strutturali di una serie di elementi fantastici e/o onirici che permeano il narrato. Quando Marcello visita per la prima volta l'appartamento di Giulia, una concorrenza di scenografia, costumi, e illuminazione conferisce al complesso della scena un effetto di striature ossessive e inesplicabili, che suggerisce l’ambivalenza emozionale che invade Marcello, e, senza dubbio, la prigione del matrimonio in cui ben presto entrerà. Nel loro viaggio a Parigi, la scenografia fuori del finestrino del treno è patentemente falsa. Bertolucci dice che:
voleva avere due livelli. Uno era il livello realistico all’interno del treno e l’altro era una sorta di film nel film. Una finestra come una lanterna magica. Così, all’esterno il tempo è molto surrealistico, assai magico, perché nell’arco di due minuti avete l’alba e il tra-
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monto, e ci sono anche alcune dissolvenze nella finestra, ma non nel treno."
Viaggio fantastico per davvero! Bertolucci sottolinea quanto indecisa sia la posizione di Marcello facendogli recitare, durante il viaggio in treno, una poesia di D’ Annunzio, poeta decadente che non nascose le sue simpatie per il Fascismo, e che celebra l’edonismo senza ritegni morali o scrupoli di coscienza. Il bordello a Ventimiglia è inesplicabilmente grandioso. La scrivania e gli scaffali dell’ufficio di Raoul, per una qualche inspiegabile ragione, sono ingombrati di noci. Lasciando l’ufficio, Marcello inscena improvvisamente, pistola alla mano, tre pose, e conclude con una simulazione
del suicidio,
puntandosi la canna alla tempia. L’apparizione della Sanda nel bordello è misteriosa: anche qui la si vede solo di sfuggita, come era successo nella scena della visita al ministro fascista. Ma soprattutto, aspetto fondamentale, non l'abbiamo ancora incontrata nel ruolo di Anna Quadri! Così il “fattore riconoscimento”, perché possa radicarsi nello spettatore, non può agire che confusamente. E solo retrospettivamente: non può essere verificato che a una seconda visione del film. Infatti molti spettatori sono sorpresi di apprendere che la Sanda interpreta tre ruoli. Da ultimo, l’effetto di questa cronologia unisce Anna nel ruolo di “prostituta” e in quello di ‘“maîtresse fascista” producendo una sorta di identificazione subliminale, piuttosto che esplicita: effetto specifico all’ontologia del montaggio cinematografico, ma fin troppo esplicito nel
romanzo. Una volta a Parigi, Anna non si sottrae alle attenzioni di
Marcello, nonostante non le piaccia per niente: soluzione questa, permissibile soltanto in sogno. E quando Marcello cerca di scoprire l'indirizzo della scuola di danza, lo toglie da un'etichetta nuova ma incollata a mala pena su una scarpetta da ballo visibilmente usata! È risaputo che nei sogni, presente e passato si mescolano, ignorando qualsiasi contraddizione logica. Durante la famosa serata parigina, ancora una volta Marcello prende il nostro posto di spettatore passivo mentre guarda Anna e Giulia in uno dei balli più sensuali e visivamente straordinari che siano mai stati filmati. E quando Marcello le raggiunge, lo fa in un modo “paranoide”: tutto il pubblico che danza si stringe attorno a lui, accerchiandolo in una sorta di bobina umana
(memore
dello “imbobinamento”
in
Strategia del ragno ), e avvolgendolo come una mummia: 0 come il corpo di colui che sta sognando. Questa sequenza evoca per associazione due altre sequenze: quando Marcello da bambino è sopraffatto sessualmente da un gruppo di scolari; e quando gli allievi di Quadri lo circondano improvvisamente e lo scortano come guardie del corpo nello studio del professore. E come per enfatizzare l’ aspetto metacinematico della scena del ballo, la mdp di Bertolucci mette a fuoco una foto di Laurel e Hardy che appare enigmaticamente sulla finestra della balera a Joinville, quasi a ricordarci: «Siete al cinema!». Alla luce dell’ampio lavoro onirico che permea tutto il film, possiamo allora apprezzare la fantastica resa dell’assassinio di Quadri, come appendice onirica del sogno, che Marcello ha appena raccontato a Manganiello. L'intera sequenza è consapevolmente modellata su due movimenti, o momenti distinti, ma di uguale importanza: da una parte, il richiamo alle varie versioni cinematografiche dell’omicidio di Giulio Cesare nel foro, che costituisce un'ulteriore allusione, impli-
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cita e potente, all’architettura romana che alloggia il comando fascista; e, dall’altra, le scene finali di Tirate sul pianista di Truffaut. In questo film, un’auto, simile a quella di Quadri, s’inerpica per una strada alpina, tortuosa e innevata, verso un destino tragico: una donna verrà uccisa sulla neve da più sicari, mentre cerca di fuggire. Questo sommesso omaggio alla ritrascrizione di Truffaut di un romanzo gangster americano rafforza l'allineamento di Bertolucci sulle posizioni di un cinema sperimentale, pur tuttavia popolare, ribadendo il suo disaccordo con una posizione politica, così apertamente impopolare, sostenuta da Godard.
La nebbia che avvolge questa scena è la resa più prossima al cliché del sogno che Bertolucci sia mai riuscito a fare nei suoi film. Il momento in cui Quadri esamina il finto cadavere nell’auto che di traverso intralcia la via, accoppia silenzio e immobilità in una suspense straordinaria. Quindi, innumerevoli assassini spuntano, come dal nulla, dagli alberi immersi nella nebbia. E sono filmati in una tale maniera che i loro coltelli sembrano ficcarsi senza fine nel corpo di Quadri: quasi un ricorso a un fermo fotogramma che potremmo chiamare “attivo”: che costringe il tempo ad arrestarsi, senza però arrestare, come dovrebbe essere di conseguenza, l’azione. Curiosamente, nonostante i colpi di pugnale inferti in una cadenza ritmata, il maglione di Quadri lascia trasparire soltanto tracce superficiali di sangue. Anna, invece, raggiunta alla schiena dai colpi di pistola degli inseguitori, mostra un volto inverosimilmente insanguinato, indubbiamente imbrattato di vernice rossa. Bertolucci disse di questa scena: «Ho pensato che questa esagerazione del sangue su Anna era una sorta di compromesso con il mio vecchio significato, cosicché il pubblico potesse pensare: “Non è vero, non è vero, non CIVELOME
L’omicidio del padre è una fantasia... È un’immaginazioE
Ciò che rende questa scena particolarmente metacinematica è l’immobilità di Marcello. Sta seduto per tutto il tempo dell’omicidio, sbirciando dal finestrino, spettatore ancora una
volta di questo dramma classico. Persino quando Anna gli si precipita incontro e preme e deforma il volto contro il vetro, Marcello resta immobile, paralizzato: come gli schiavi incatenati di Platone, o come
il sognatore che ha impersonato
lungo tutto il film. Questa positura, complice ‘attivamente passiva” di una violenza repressiva e mortale, metaforizza con estrema violenza il fascismo di Clerici, e denuncia dolorosamente il potenziale fascismo della posizione, cosiddetta a-politica, dello spettatore nell’atto di guardare un film. Ancora una volta, in qualità di spettatori messi a confronto con
la violenza di tali immagini, siamo costretti a identificarci con Marcello e ad imitarne con riluttanza il comportamento; ancora una volta, Bertolucci ci spinge a valutare la nostra relazione con l’immagine. Quando Anna abbandona l’auto e scappa per il bosco, la camera a spalla di Bertolucci assume esattamente la posizione degli assassini, lanciati nell’inseguimento: ora perdono la donna di vista, ora saltano maldestra-
mente un ostacolo dopo l’altro, infine distolgono lentamente lo sguardo dal corpo morente. Da una complicità passiva siamo stati impercettibilmente, ma indubitabilmente, mossi ver-
so una repressione attiva: un’ulteriore indicazione allarmante dei possibili sviluppi che la nostra tendenza di spettatori può assumere, portando a identificarci (come il sognatore) con
tutte le posizioni offerte dal film. Senza dubbio questa è la motivazione che sta dietro la disinvolta autoaccusa di Bertolucci: «Io sono Marcello e faccio film fascisti perché voglio
Torna a galla l'episodio con Lino, l'autista omosessuale che Marcello crede di aver ammazzato da bambino (Pierre Clementi e Pasquale Fortunato).
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uccidere Godard che è un rivoluzionario». Detto questo, non possiamo che prendere atto del modo col quale ogni regista produce le dinamiche atte a suscitare la reazione dello spettatore a seguito della manipolazione del cinema. La “morte” fantastica di Anna corona un personaggio la cui presentazione non si allontana molto dal terreno dell’onirico. Apparsa quale oggetto del desiderio del sogno che Marcello racconta in auto, ella già esercita su di lui una attrazione
potente e inesplicabile, come poi vedremo dal loro “primo” incontro. Bastano pochi minuti trascorsi nell’appartamento a Parigi, che Marcello la trascina in una stanza e la bacia. Dal punto di vista visivo, tuttavia, come ho avuto modo di notare,
questo non è il loro primo incontro: Marcello l’ha già scorta nelle braccia del ministro fascista che avalla l'assassinio di Quadri. La scena è di per sé notevole, in quanto coreografata come una classica scena primaria. Recatosi nel palazzo del ministro, Marcello si trova, improvvisamente
e senza molte
spiegazioni, dietro un tendaggio a spiare, come un moccioso impertinente: un sala lunga, larga, enorme come una navata; sul fondo una scrivania, quella del ministro, dalla quale una
donna, seduta, le gambe ciondolanti, fissa di soppiatto Marcello; poi si stende (languidamente e) non senza provocazione, sul tavolo, sotto le mani esperte del ministro. Per la terza volta nel film, Marcello occupa la posizione dello spettatore: dal punto di vista strutturale e dal punto di vista psicologico. Più tardi, Marcello renderà visita alla madre le cui gambe verranno filmate identicamente, ciondolanti, mentre il figlio
volontaria associazione suscitata da una situazione analoga (Marcello che ferma l’auto di Manganiello con un’alzata perentoria del braccio, identica al gesto del piccolo Marcello che ferma l’auto di Lino) durante il lungo viaggio verso la Savoia. Solo retrospettivamente lo spettatore può comprendere il valore della sequenza e capire che Marcello ha già proiettato su Manganiello il ruolo di Lino; come lo ha fatto con Alberi, l’autista che approfitta della tossicodipendenza di sua madre. Infatti, il loro primo incontro avviene dopo un inseguimento: Manganiello segue in auto Marcello, che a piedi si dirige dalla madre. Ma lo spettatore non è a conoscenza dell’episodio della seduzione di Lino, al quale la scena allude. Grazie al montaggio Bertolucci preserva il “segreto nel ventre del film”, alludendovi invece per via indiretta, in una specie di
“sintomatologia”: l’intera scena è filmata con la camera obliqua a 45°: squilibrio premonitore. Marcello, immediatamente impaurito, allunga il passo cercando di sottrarsi all’auto che lo insegue. E vi riesce, barricandosi dietro l'enorme cancello
di ferro battuto della villa della madre che richiama quelli della strada che attraversava da bambino sulla limousine di Lino. Qualche sequenza più tardi Marcello lascia inequivocabilmente intendere a Manganiello di volersi sbarazzare di Alberi, l'autista della madre: un atto che simbolicamente condensa la vendetta nei confronti di Lino (vestito identicamente
all’autista giapponese), origine del suo senso di colpa, e nei confronti di Manganiello stesso, in qualità di doppio di Lino. a Man-
le cerca le scarpe sotto il letto e trova la siringa, simbolo del-
Ma ancora una volta, Marcello non agisce: bisbiglia
la sua dipendenza sessuale. Dopo la scena nella quale il gigo-
ganiello la soluzione desiderata, e poi sgattaiola via, comportandosi esattamente come il bambino che, coprendosi gli 0cchi, crede di essere invisibile. Ciò che impedisce a questo trattamento della struttura del doppio di non divenire greve è il montaggio: l’episodio con Lino accade dopo le sequenze con Manganiello, avendo l’effetto di illuminarlo solo retrospettivamente: come un sogno resterà confuso, ma “farà senso” soltanto dopo l’interpretazione. La relazione con Lino funziona come l’ossessione specifica di Marcello: persino come la sua compulsione a ripetere. L’avvenimento più eclatante di questa struttura ripetitiva coinvolge Anna (maldestramente chiamata Lina da Moravia). Durante la sequenza nella quale seduce Giulia, ella riproduce con impressionante fedeltà — ma a posizioni invertite — i gesti con cui Lino aveva sedotto Marcello: si inginocchia “innocentemente” tra le gambe di Giulia e le appoggia la testa sul ginocchio. Bertolucci situa Marcello in un piccolo vestibolo buio e lo coniuga allo spettatore del film nell’apprezzamento voyeuristico di questa scena primaria, proprio come aveva fatto quando aveva messo Marcello a spiare il doppio di An-
lo della madre viene eliminato da Manganiello,
Bertolucci
stacca su un’inquadratura di Marcello in auto, che sfreccia verso la Savoia. In quest'occasione, senza troppo convinzione dice: «Dobbiamo salvarla»: non sappiamo se parla della madre o di Anna. Come ho altrove indicato, la Sanda riappare ancora in un altro momento, precisamente durante l’inesplicabile sosta ligure di Marcello. L'architettura e i volumi spaziali grandiosi del bordello di Ventimiglia richiamano visivamente, e il palazzo ministeriale, e l’asilo psichiatrico del padre di Marcel-
lo. Atteggiandosi a prostituta, fra le braccia di Manganiello, la Sanda grida: «Sono pazza», evocando sia la scena primaria, alla quale abbiamo assistito in precedenza, sia le condizioni psichiche del padre di Marcello. Così quando costui la ritrova a Parigi nell’appartamento di Quadri, ella è già diventata, anche se subliminalmente per lo spettatore, l’oggetto del suo desiderio: madre/prostituta/vittima. Poiché raffigura la condensazione del partner sessuale di varie figure di autorità, ella diviene per definizione desiderabile. La figura di Anna suscita fantasie di amore, di tradimento, e di salvataggio, coincidenti a quelle sperimentate normalmente dal bambino nella fase edipica. Dalla condensazione delle “esperienze” con Anna, discende lo spostamento su Quadri dei sentimenti di vendetta e salvataggio di Marcello. L’altra principale condensazione del film riguarda 1 personaggi di Lino, di Manganiello e di Ki, vale a dire “Alberi”, lo chauffeur giapponese della madre. L'incidente di Lino è centrale nel romanzo di Moravia: è un momento logico e fatale nell’evoluzione violenta di Marcello, è l’unico motivo consapevole della sua volontà ossessiva di conformismo. Nella struttura onirica di Bertolucci, la sequenza in cui Lino seduce Marcello compare in un flashback abbastanza tardo nell'economia del film, e soltanto come il prodotto di una in-
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na nell’ufficio del ministro. La differenza tra le due situazioni consiste nel fatto che Marcello assiste alla ripetizione inquietante della propria seduzione da bambino, qui in versione femminile. Vale la pena di ricordare che, nella versione “ori-
ginale” della seduzione, Lino si scioglie i lunghi capelli, e si fa chiamare Mme Butterfly, imprimendo sufficiente ambiguità sessuale all’avvenimento in modo da rendere la seduzione di Anna una replica ancora più sconcertante. Inoltre, la riduplicazione della seduzione, a ruoli invertiti, in sé allude a
un’altra imitazione: Marcello che imita lo zio Perpuzio nella seduzione di Giulia, come questa gli confessa in treno; e se nella confessione occupava il ruolo passivo, nella ‘“ri-creazione” della scena in treno occupa quello attivo. La sequenza in cui Anna seduce Giulia porta ad effetto,
senza mai esplicitamente asserirlo, una condensazion e meravigliosamente ricca dei livelli, dei contenuti e dei personaggi del film: Anna duplica indissolubilmente Lino (come seduttore omosessuale), la madre, la prostituta e Marcello stesso, data la tendenza inconsapevole di quest’ultimo a proiett are elementi di relazioni precedenti su tutti quanti gli stanno intorno. La sequenza spiega inoltre la tendenza del sogno verso la sovradeterminazione di significato: infatti si impegn a in una fantasia di appagamento del desiderio di seduzione. poiché se Anna duplica Lino, Marcello nel più profondo vorrebbe essere sedotto da lei! Alla fine, Marcello che in questa scena prende la posizione di voyeur, ripete il comportamento che ha assunto sin dall’inizio: assistere sempre piuttosto che partecipare! E duplica, in questo modo, la posizione dello spettatore, permettendogli di proiettare se stesso in alcuni se non in tutti questi ruoli condensati. Sotto le spoglie di un intrigo politico psicologicamente complesso, Bertolucci ha potuto tessere impercettibilmente una critica al conformismo del suo spettatore (e di se stesso) nei ruoli predeterminati dalla natura dell’esperienza cinematica, dove a uno sdoppiamento primario a livello dell’immagine sempre fa seguito uno
sdoppiamento a livello del personaggio. Per contenuto ed iconicità, questo film prende le distanze dai precedenti, pure conservando intatta l’attenzione alla ontologia cinematografica, tematica ricorrente e di portata sostanziale nella opera di Bertolucci fino a // conformista. La posizione di voyeur sarà ripetuta ancora una volta, l’ultima: alla fine del film, Marcello si imbatte, con ineffabile sorpresa, in Lino: vivo. Lo trova alle prese con un ragazzo di vita, mentre cerca di sedurlo con lo stesso protocollo di tanti anni prima. La reazione di Marcello è immediata: se Lino non è morto, egli allora non è mai stato un assassino, e pertanto non può essere imputato della morte di Quadri. Ma Quadri è morto! Marcello trova la soluzione più ovvia nel proiettare la propria colpevolezza su Italo. E prende violentemente a insultarlo, a denunciarlo alla folla, lui, l’amico cieco e indifeso, simbolo dell’ottenebramento e del fascismo che Marcello ha tanto a lungo abbracciato. Nella scena finale, vediamo Marcello guardare ambiguamente il letto sul quale giace nudo il ragazzo appena abbordato da Lino: un altro doppio (ma qui il corpo nudo mette tutto a nudo!). L’occhiata e la relazione suggerita sono ambigue, come ogni altra azione
Il professor Quadri e la moglie verranno assassinati dai fascisti sotto gli occhi di Marcello (Jean-Louis Trintignant e Dominique Sanda).
o gesto di Marcello, che non ha mai smesso di usare delle figure di autorità come capri espiatori per un crimine non commesso e un desiderio di espiazione mai assopito. Ecco come la qualità frammentaria, misteriosa e onirica del film, può essere compresa come «una memoria della mia memoria», come una trascrizione cinematica completa, esente da errore, della fatica letteraria di Moravia. Riarrangiandone la cronologia per conformarsi a un processo puramente associativo, Bertolucci non solo sfugge a molte delle limitazioni narrative del romanzo, ma riesce con successo in un esempio notevole di cinema cinematografico. Ubicando il principale punto narrativo in Marcello e nella propria onnisciente mdp, il regista diffonde una moltitudine di identità, tipicamente onirica (e cinematica). In questa luce, gli elementi 0ggettivi del romanzo, che tendono ad affaticare inutilmente la buona fede del lettore, possono essere inquadrati come le associazioni mentali,
o come il travaglio onirico, della consape-
volezza del protagonista; e in tal modo predispongono lo spettatore a identificarsi non solo con quella consapevolezza, ma con il vero e proprio ordito del film. Così facendo, Bertolucci educa implicitamente lo spettatore e lo avverte direttamente dei pericoli (potenzialmente fascisti) del guardare. La genialità di questo film consiste nell’avere trasformato con successo la struttura narrativa, piuttosto tradizionale, del romanzo di Moravia in un’architettura nuova e assai significativa, senza tralasciare in nessun momento e a nessun livello dell’opera il rapporto tra il testo originale e il film. Di-
versamente da Strategia del ragno, il figlio ne Il conformista non è più prigioniero della ragnatela tessuta dal padre. Se uccidere il padre è il suo “destino”, Marcello fallisce, laddove Bertolucci
riesce, portando ad effetto i suoi “omicidi”
(di
Moravia e di Godard) ed elevandoli a livello puramente simbolico e creativo.” In quanto copia e in quanto parricidio, // conformista di Bertolucci non solo ci invita a riconsiderare la relazione obbligatoriamente ambivalente, e teorizzata, tra l'autorità e la creatività, ma estende quella teoria a un territorio nuovo
€
importante: la relazione tra testo e immagine. Come tale è un’impresa logoclastica e iconocentrica. Sarebbe bene, a questo punto, dotare il sogno di Marcello di un’ulteriore interpretazione: «Ero cieco e voi mi portavate in Svizzera in una clinica per farmi operare dal professore... Riacquistavo la vista e ripartivo con sua moglie». In qualità di spettatori, solo il viaggio fantastico dentro uno spazio psicologicamente protetto (che è l’operazione di questo film) e, specificatamente,
attraverso l’ottica del discorso di Quadri
sulla caverna di Platone, ci mette in grado di comprendere fino in fondo la natura di un film. Una volta compresa e accolta la nostra posizione di spettatori, possiamo apprezzare la dinamica del desiderio e della fantasia, sempre in atto al cinema. Rimaneva a Ultimo tango a Parigi il compito di estendere e approfondire questa meditazione sulla natura dell’esperienza cinematica.
NOTE ' B.B. a. Ungari, cit., p. 71. ? Alberto Moravia, // conformista, Tascabili Bompiani, 1951. } Amos Vogel, “Bernardo Bertolucci: an Interview”, Film Comment 7, n. 3, autunno, 1971, p. 26; B.B., “Seminar”, in Dialogue on Film 3, n. 15, aprile 1974, pp. 14, 16. ‘ Citato in Roud, cit., p. 61. ° Per confrontare, invece, la versione originale di Platone, vd. La Repubblica, in Tutte le opere, Firenze, Sansoni Editore, 1961, libro 7, p. 1018. * Bertolucci non ha mantenuto tutti i nomi originali nel suo film. E se così ha fatto è per la polivalenza del lemma quadro, al singolare e al plurale; o per il rinvio a quadra, da cui l’espressione, dare la quadra a qualcuno: mettere qualcuno in ridicolo; o a quadraio. ? Baudry, cit., pp. 56-72. î Joyce McDougall, Plaidoyer pour une certaine anormalité, Gallimard, 1978, pp. 220-221. ° Baudry, cit., p. 58. Baudry teorizza anche sul rapporto tra lo schermo del cinema e lo “schermo del sogno”, convinto com'è dello stretto rapporto tra cinema e sogno: «E evidente che lo schermo del sogno è un residuo di tracce mnestiche arcaiche. Ma si potrebbe supporre inoltre, cosa altrettanto importante, che esso apre alla comprensione di ciò che potremmo chiamare il dispositivo formatore
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e la “scena primitiva” del sogno che si fonda in piena fase orale». Si BaBreSeinang CIO !! Goldin, cit., p. 66.
! Vd. supra, capitolo su Strategia del ragno. ! B.B., “Seminar”, cit., p. 116 “ B.B. a Ungari, cit., p. 71. ! Tassone, cit., p. 54. !' B.B. a Ungari, cit., p. 72. !" MeDougall, cit., p. 221. BB SCMINALCIUAIPoloa
‘° Ibid. °° Vd. la seguente osservazione di Said: «Ogni testo mette da parte un discorso ordinario al fine di mettere in luce la composizione testuale la cui autorità proviene da due fonti: gli originali antichi, il cui stile sta per essere copiato, e l’apparenza del testo presente sotto forma di una durata preservata. Mettere mano a un testo significa cominciare ad allontanarsi dall’originale; è entrare nel mondo del testo-come-inizio, copia e parricidio. Il motivo edipico che sta in agguato dietro molte discussioni sul testo... fa ancora più senso, se consideriamo il testo-copia come un totem, e la produzione di tale testo come l’atto incipiente di parricidio di cui Freud parlava in Totem e tabù», cit. p. 209.
Ultimo tango a Parigi
On
Gira nel vuoto la dorata ruota
Di cavalli e leoni, e odo l'eco
Dei vecchi tanghi di Arolas e Greco Che vidi già ballare sulla strada In un istante che emerge isolato, Senza prima né poi, contro l'oblio, Ed ha il sapore di ciò che è perduto, Di quanto è stato perso e ritrovato.
Jorge Luis Borges!
Orfeo rivisitato «Stasera si recita a soggetto!» grida un’euforica Jeanne (Maria Schneider), mentre per la terza volta entra nell’appartamento di rue Jules Verne. Benché non manchino allusioni a Pirandello e a Verne, il film segnò uno spartiacque nella carriera del suo autore: per la prima volta navigava senza l’ausilio di un modello letterario. Con // conformista Bertolucci
aveva scoperto che il cinema possedeva uno stile e un linguaggio propri, pienamente capaci di esprimere in modo autonomo, se ne fosse il caso, la matrice letteraria. Il fantasma di Attilio/Laerte sembrava temporaneamente pacificato. «Devi sempre tenere aperta una porta sul set per la quale entri un visitatore inaspettato. Questo è il cinema!» Jean Renoir avrebbe detto a Bertolucci alcuni anni dopo Ultimo tango a Parigi. Ma il giovane regista aveva già fatto sua questa
«Conoscerò il mondo, l'universo, ma non scoprirò mai la verità su di te» confessa Paul davanti alla salma di Rosa, la moglie suicida (Marlon Brando, con Veronica Lazar).
risultano a prima vista poiché, come altri adattamenti (Jean Cocteau, Jules Verne, Marcel Camus e Tennessee Williams), il lavoro di Bertolucci è più una per-versione che una rienunciazione del mito. L'analisi del film mostrerà le connessioni. Ultimo tango a Parigi, in breve, racconta di un uomo maturo (Paul) e una giovanissima donna (Jeanne). S’incontrano
lezione: sia Marlon Brando (nella parte di Paul) che Maria Schneider (in quella di Jeanne) ebbero, rispetto ai loro ruoli, enorme libertà d’invenzione. Se dobbiamo credere agli attori e al regista, «la porta» rimase aperta dal primo all’ultimo giorno di lavorazione del film. Il visitatore al quale Renoir alludeva era però molto particolare. «La parola moderna per il concetto greco di fato è l’inconscio» avrebbe detto Bertolucci: «L’inconscio è il fato dei miei film». E da quest’inconscio emerse una figura della mitologia greca, che avrebbe strutturato il film in modo estremamente coerente, senza togliere niente alla grandissima libertà d’improvvisazione degli interpreti. Infatti un ricco intreccio di allusioni al mito di Orfeo, rivisitato in chiave moderna, permea l’opera dall’inizio alla fine. Secondo la leggenda, Euridice, moglie di Orfeo, muore morsa da un serpente, mentre cerca di eludere le profferte di Aristeo. Inconsolabile per la perdita dell’amata, con la sua poesia e il suo canto Orfeo muove a pietà le divinità degli Inferi. Così ottiene il permesso di scendere nell’ Ade a ricondurre Euridice alla luce del sole, ma ad una sola condizione, diabolica: che Orfeo non si giri a guardarla. Ma Orfeo non resiste, disobbedisce e la perde per la seconda volta. Le convergenze tra i personaggi del film e del mito non
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a Parigi in un appartamento vuoto e sfitto nei pressi del Quai de Passy. L'uomo ha perso da qualche giorno la moglie, Rosa, suicida. È disperato. Vorrebbe riaverla. L’uomo e la donna mettono in atto una serie di violente fantasie erotiche. Lasciato l'appartamento per l’ultima volta, Paul insegue Jeanne fino casa di lei, dove viene ucciso dalla ragazza con un colpo
di rivoltella all’addome. Una prima chiave di lettura potrebbe intervenire a racconto avanzato: accanto al feretro della moglie, Paul pronuncia una lunga apostrofe, intrisa da un acuto senso di colpa, mista a collera e rancore. L'orientamento della scena risulta allo spettatore difficile: Paul, è ancora nell’appartamento di rue Jules Verne? O nel bordello di proprietà della defunta Rosa? E a chi sta parlando? Per un momento si ha l’impressione che stia ancora parlando a Jeanne, con la quale ha appena trascorso un momento di grande emozione: in esso la esortava, in pegno d'amore, a «scopare un porco» scannato. L’apostrofe al capezzale di Rosa è cruciale: illumina la relazione coniugale di Paul, motiva la ricerca del nuovo appartamento, e giustifica la complessità della relazione con Jeanne. Accanto al letto di Rosa, imbandito di fiori, Paul intona un lamento, che si trasforma presto in accusa cieca, violenta, im-
potente: Rosa era una «maledetta troia» e «una bugiarda vigliacca, cagna»; il suo suicidio (col rasoio di Marcel, l’aman-
te) è un tradimento. Paul delira, lacrima sul cadavere: «Un marito, anche se vivesse duecento anni, non riuscir à a capire
nulla sull’esistenza vera di sua moglie. Conoscerò il mondo,
l'universo, ma non scoprirò mai la verità su di te, mai. Mia
moglie, chi era?»?. Interrogarsi sull’identità dei genitori, così frequente in
Strategia del ragno, ribadisce qui l’ossessione di avere una risposta, e allo stesso tempo ne segna la preclusione. Paul è costretto a cercare altrove la soddisfazione dei sentimenti di comunione, comprensione e vendetta. A questo proposi to sceglie uno dei temi più ricorrenti in Bertolucci: il doppio. L’immediata ripetizione delle parole «maledetta troia», e altre ripetizioni visive e verbali, suggeriscono che Jeanne funge come doppio della defunta moglie. L’ambivalenza erotico-espressiva riversata su Jeanne può essere interpretata come uno spostamento delle frustrazioni e della collera destinate a Rosa. Bertolucci si serve del mito di Orfeo per esplorare le implicazioni nascoste del tentativo di recupero o ristabilimento psichico di questa figura moglie/madre, che Paul rincorrerà per tutto il film. Ultimo tango a Parigi si apre con una girandola di riprese densamente simboliche, deliberatamente allusive. Dapprima vediamo Paul; poi Jeanne, che lo raggiunge e lo sorpassa. A quel punto la mdp lega in una panoramica il ponte e il fiume: l’enfasi cade sull’azione di attraversare il fiume? (nella mitologia greca l’attraversamento dello Stige prelude all’Ade). Jeanne così precede Paul al Quai de Passy, nome la
cui etimologia costituisce un’altra allusione alla morte: Passy — passaggio — trépasser (morire). Inoltre la mdp ce lo mostra da una angolazione specifica, atta a sottolineare la forma cavernosa e arcuata del ponte. Dopodiché, seguono brevi inquadrature di poliziotti in crocchio che paiono sorvegliare l’argine opposto, in ciò che possiamo considerare come una tempestiva allusione ad un’altra famosa interpretazione del mito di Orfeo: l Orphée (1950) di Cocteau, nel quale sempre la polizia francese, in uniforme, vigila il regno della Morte. Superato questo necessario corpo di guardia, al quale bisogna aggiungere una vecchietta, che digrigna letteralmente i denti a Jeanne, ritroviamo la ragazza in rue Jules Verne: det-
taglio apparentemente irrilevante, se non ci si rende conto che la toponomastica della città è stata mistificata. L'attuale rue Jules Verne è situata lontana dal Quay de Passy, nel cuore dell’undicesimo arrondissement. Ancora una volta Bertolucci allude al celebrato film di Cocteau che faceva di Parigi una città immaginaria.
In esso, Orfeo, smontato
dall’auto a
Grenelle (cui alluderà poi il nome della stazione della metropolitana dove Jeanne e Tom
verranno
alle mani), cammina
fin sopra le Buttes-Chaumont, quindi arriva a Place des Vosges. Inoltre il nome «Jules Verne» rinvia direttamente al romanzo Le chàteau des Carpathes, altra ritrascrizione della leggenda di Orfeo. Appena prima di varcare il portale del palazzo dove è situato l’appartamento da affittare, Jeanne si attarda visibilmente a guardare l’ora al polso. Altra significativa allusione al film di Cocteau, nel quale la Principessa si ferma ripetutamente nelle vie di Parigi a consultare l’ora, benché inseguita da Orfeo, ma anche ad Alice nel Paese delle Meraviglie di Carrol, in cui il Cappellaio Matto è perennemente assillato dal tempo, fino al momento di attraversare lo specchio. Una volta oltrepassata la porta d’ingresso la ragazza si imbatte subito in una figura sinistra. Una portinaia africana la investe con voce rauca: «Ne succedono di cose strane qui»
(UTP, 12). E dapprima nega l’esistenza di un appartamento vacante; poi, stando dentro la portineria, produce suo malgrado il “doppione” della chiave, lo tende a Jeanne, le afferra la mano, la tiene prigioniera per alcuni istanti, angoscianti, scatenandosi in una risata isterica. Secondo il mito, le Eumenidi presiedono il vestibolo dell’ Ade; chiuse in gabbie si scagliano contro chiunque arrivi. Rinveniamo figure malefiche analoghe nell’Orfeu negro di Camus e in Orpheus Descending [La discesa di Orfeo] di Tennessee Williams, trasposto quest'ultimo nel magnifico Pelle di serpente (1959) di Sidney Lumet con Anna Magnani e... Marlon Brando. Il romanzo di Robert Alley, tratto dal film, descrive la voce della portinaia come «immensamente vecchia. Era come se Jeanne stesse tentando di guadagnare l’entrata di un qualche inframondo minaccioso ed oscuro, e il guardiano della porta fosse spinto ad allontanarla. Questa donna anziana, come Caronte alle porte dell’Inferno, concedeva l’ingresso ai supplicanti dietro il versamento di un obolo; Jeanne si domandava se sarebbe scomparsa nelle viscere dell’edificio». Il luogo diviene «un luogo fuori dal mondo, dove non c’erano persone vere che fanno le cose che fanno le persone vere, solo i depravati e i quasi-morti».' Infatti, Jeanne si gira giusto in tempo per scorgere la mano di qualcuno che mette fuori dalla soglia dell’appartamento una bottiglia vuota, accanto ad altre; ritira il braccio e scompare in silenzio. L'entrata di Jeanne nell’appartamento, la cui forma circolare della sala da pranzo è di dantesca memoria, diviene nient'altro che un’altra allusione alle precedenti versioni del mito. Mentre attraversa una porta, la mdp panoramica da un’inquadratura diretta di Jeanne al riflesso di lei nello specchio: l'impressione è che per entrare nella stanza Jeanne deve passare attraverso lo specchio. Anche l’Orfeo di Cocteau per raggiungere l’Ade è costretto a passare attraverso lo specchio della sua camera da letto. «Gli specchi» diceva Cocteau «sono porte per le quali la Morte viene a prendere le anime». Per cui, ogni volta che Paul e Jeanne ritornano nell’appartamento, sono proiettati in esso con soluzione di continuità, infran-
gendo il normale continuum spazio-tempo nella maniera più sconcertante; come è altrettanto sconcertante l’insistenza con la quale il regista inquadra gli specchi per registrare i loro volti e le loro azioni. Quando Paul al telefono dice allo sconosciuto: «Qui non c’è nessuno», sta annunciando la morte simbolica della coppia, per preparare il terreno all’intricata relazione che avrà luogo in quello «spazio privilegiato». Il primo incontro di Paul e Jeanne continua sulla nota dello specchio, enfatizzandone l’allusione, fino ad evocare un mondo quasi infernale, parallelo ma remoto dalla realtà quotidiana. Questa struttura trova rinforzo dal fatto che, come più tardi veniamo a sapere, Paul ha lasciato dietro di sé un doppio nella figura di Marcel (Massimo Girotti).” La scena suc-
cessiva in cui viene discusso l’arredamento dell’appartamento (dove deve finire la poltrona o il telefono, come regolare l’uso del bagno), getta le basi del ruolo di Jeanne come surrogato di Rosa. Non a caso, poco più avanti uno dei misteriosi traslocatori che porta in casa inutili mobili si rivolge a Jeanne scambiandola per la moglie di Paul. E l’imprevedibile incontro sessuale che termina la scena, contribuisce senza ombra di dubbio al raddoppiamento Jeanne/Rosa, sia nell’identificare la prima come la compagna di Paul, sia nell’etichettarla come donna facile, accusa che Paul più tardi eleverà alla defunta Rosa. Se si pensa poi che la re-
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lazione di Jeanne con Paul costituisce un tradimento ai danni di Tom (Jean-Pierre Léaud), immediato è il parallelismo col tradimento di Rosa ai danni di Paul.
Si Rea]
et
È DI ia
Più tardi nel bagno dove Rosa si è tolta la vita, una cameriera (Catherine Allégret) reinscena languidamente davanti a Paul il suicidio della padrona. Rinarrando il taglio delle vene, esplicitamente reintroduce il tema del doppio con le parole: «C'erano i poliziotti... si sono divertiti a farmi rifare tutti i suoi movimenti... Ho dovuto rifare tutto come lei» (UTP, 22), tanto che Paul con rabbia l’afferra ai polsi e al collo. Questo impulsivo accesso d’ira nei confronti della donna che si comporta come un raddoppiamento esplicito di
7 È bi
Rosa ristabilisce l’elemento dello spostamento, fondamentale nel film. Quando ritorna nell’appartamento, incoraggiata dall’intimità acquisita, Jeanne domanda a Paul il suo nome. Così facendo la donna attenta alla sacralità della legge che governa la loro storia. Furioso, Paul inveisce: «Non ho nome... Tu non ti chiami in nessun modo, e io neppure. Niente nomi... Perché non abbiamo bisogno dei nomi, qui. Dimenticheremo tutto, gli altri, quello che facciamo, casa nostra, tutto» (U7P, 29-30). Questo assoluto divieto di contemplare il passato e la geografia delle reciproche identità equivale alla metafora del comando divino che impone a Orfeo di non voltarsi. E la trasgressione futura di Paul a quelle regole, da lui stesso imposte, quando i due alla fine del film riattraversano il fiume, sarà la condanna fatale alla loro relazione, come la disubbidienza di Orfeo. La ragazza allora fugge gridando: «È finita!». Infatti, similitudine inquietante se si pensa alla leggenda di Orfeo, quando viene il momento per la donna di rivelare la propria identità, Paul fallisce nel tentativo di ricuperare questa figura materna: in risposta all'uomo che ora le chiede come si chiama, lei sussurra: «Jeanne». Ma in quel preciso istante gli scarica un colpo di pistola al ventre. Ancora una volta come nel mito, Jeanne ha subito una metamorfosi e da Euridice è passata a Menade castrante.È Tuttavia la mera coincidenza di queste allusioni non delucida esaustivamente il film. Per arrivare ad apprezzare queste figure mitologiche è però necessario interpretare il mito. E, come Freud ha fatto con la leggenda di Edipo, riconoscere che i miti sono in realtà i paradigmi di processi mentali 0, testualmente: «i residui deformati di fantasie di desiderio di intere nazioni, e cioè i sogni secolari della giovane umanità».° Poiché il mito di Orfeo è in massima parte un'evidente messinscena della fantasia di salvataggio, ci soffermiamo prima su questo aspetto del funzionamento mentale per permettere una comprensione maggiore del film. La prima e la più ovvia delle domande da sollevare è: chi sta per essere salvato? Con le ricorrenti allusioni al mito, se-
condo la versione che ne fa Cocteau, e in particolare l’insistenza sull’attraversamento dello specchio, Bertolucci suggerisce una risposta alla domanda: se consideriamo che nell’Orfeo e ne Il sangue di un poeta di Cocteau lo specchio serve primariamente per riflettersi, attraversare lo specchio equivale a una fantasia di autoesplorazione. Michel Serres ha dimostrato come, in un’altra versione del mito di Orfeo allusa in questo film, il Chateau des Carpathes, la figura di Orfeo insegue la sua stessa immagine dentro un “luogo sacro”, e quando percepisce l’immagine dell’amato (in questo caso se stesso) sullo schermo, vi si tuffa dentro causando l’esplo-
sione di tutto lo spazio circostante, generando la pazzia definitiva!°.
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Per tre giorni consecutivi, Paul e Jeanne si daranno appuntamento nell’appartamento vuoto di rue Jules Verne (Marlon Brando e Maria Schneider).
Ultimo tango a Parigi è straordinariamente analogo. La chiave all’auto-recupero di Paul non riposa solo nell’impiego dello specchio-immagine (al quale faremo ritorno), ma anche nella corretta identificazione della figura Rosa/Jeanne. Rosa, ricordiamolo, ha funzionato per Paul primariamente come una figura materna e uxoria. È lei che lo ha “adottato” e mantenuto per anni, anche senza mai concedergli devozione completa. E Paul è consapevole che l’amante di sua moglie è in certi versi il proprio doppio. Come “lettori” dell’opera di Bertolucci non possiamo mancare di vedere in questa configurazione un riferimento allo sdoppiamento di Athos Magnani (in Strategia del ragno). Rosa, come Draifa, diviene un oggetto di intensa ambivalenza: l’oggetto di un amore tanto desiderato e l’odio verso una traditrice. Il ruolo della madre è reiterato visivamente quando la giovane cameriera, straordinariamente rassomigliante alla madre di Rosa (Maria Michi), reinscena il suicidio di questa, dicendo: «Ho dovuto rifare tutto come lei» (UTP, 22). Più tardi, davanti alla salma di Rosa (Veronica Lazar), Paul osserverà
sarcasticamente: «Sei il capolavoro di tua madre!» (UTP, 99). E alla madre di Rosa dirà: «Rosa le assomigliava molto... Le hanno sempre detto che vi assomigliavate lei e Rosa?». E questa risponde: «Due sorelle». E Paul non man-
cherà di sfogarsi a più riprese sulla cameriera e sulla madre. D.W. Winnicott ha rilevato la funzione di specchio che la madre ha nello sviluppo del bambino: «Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre?... Se stesso. In altre parole, la madre guarda il bambino e ciò a cui ella assomiglierà dipende da ciò che ella scorge, lì davanti». Tale funzione, che nella normalità dei casi subisce enormi trasformazioni nel comportamento adulto, costituirebbe in questo caso un travisamento dell’interpretazione, se non fosse per diversi fattori: l’insistente presenza di specchi nel film (specialmente in scene gravate dal problema dell’auto-definizione e del regresso) e la presenza di Francis Bacon nei titoli di testa.
Le due pitture che occupano alternativamente lo schermo impongono immediatamente la problematica dell’identità che pervaderà l’intero lavoro. In questo senso, nel suo saggio sulla madre e il suo ruolo di specchio, Winnicott vede in Bacon una continua allusione allo specchio e all’identità:
Francis Bacon... l’esasperante e scaltro e conturbante artista del nostro tempo che continua a dipingere il volto umano significativamente distorto... si sta guardando nel volto della madre, ma con qualche distorsione in sé che fa impazzire sia lui che noi... Le facce di Bacon sembrano essere quanto mai lontane dalla percezione del reale; nel guardare le facce egli mi sembra che cerchi penosamente di essere visto, il che è alla base del guardare creativo."
Winnicott cita uno dei suoi pazienti: «Non sarebbe orribile se il bambino guardasse nello specchio e non vedesse nulla?».! Detto con parole di Winnicott, la domanda potrebb e essere: «Non sarebbe orribile se io guardassi nel volto della Madre e fossi incapace di scorgere la mia persona?», interrogativo che Bertolucci ha così inquietantemente catturato nella scena davanti alla Rosa defunta, maschera impassibile alla quale Paul si rivolge per rinvenire un qualche segno della propria identità, o di quella della moglie." La madre di questa (la cui somiglianza rimarrà sempre un'ossessione per Paul) indossa nella vita una maschera d’imperturbabilità analoga. E c’è un’ulteriore allusione all’indifferenza di Rosa; quando Paul lascia la stanza del suo doppio, Marcel, egli mormora: «Sinceramente mi domando che cosa trovasse in lei» (UTP, 76). Condensando l’espressione di ansietà, diretta qui su un oggetto esplicito, la domanda si potrebbe formulare altrimenti: «Mi domando che cosa mai trovasse in me». A proposito dell’uso delle pitture di Bacon, Bertolucci disse: «Portai Marlon alla mostra su Bacon e dissi: “Vorrei che tu fossi così». Se è generalmente vero per il volto di Brando, che si impegna ad essere plastico e torturato dall’inizio alla fine, non lo è in nessun modo più vero che nella scena della presenza assente di Rosa: nel bagno schizzato di sangue, luogo del suicidio di Rosa, Brando passa dietro uno schermo di vetro zigrinato così che la sua faccia risulta assumere le stesse distorsioni tipiche delle figure di Bacon. È precisamente il momento nel quale Paul nel modo più disperato cerca di ricuperare l’immagine materna persa. Più tardi, dopo la sua esemplare punizione nei confronti di Jeanne e la famosa tirata sulla famiglia (la cosiddetta scena della sodomizzazione), la mdp cattura ancora Brando che giace sul pavimento, il corpo contorto, come la prima figura di Bacon che vediamo nei titoli di testa. La fantasia di salvataggio di Orfeo, allora, risponderebbe ad un recupero di Rosa completamente ambivalente: servendosi di Jeanne come surrogato, Paul tenta di riavere la moglie sia in termini riparatori che vendicativi. Questa duplice motivazione spiegherebbe perché Brando interpreta un ruolo imperscrutabile e temperamentale, oscillando dalla tenerezza all'improvviso sadismo e violenza. Per Paul il bisogno di recupero è, come abbiamo suggerito sopra, rivelato in modo assai eloquente dalla capacità di riflesso insito nel ruolo della madre: un progetto di auto-salvataggio, uno sforzo di risanamento dell’identità. Per quanto riguarda Jeanne, che interpreta per Paul il ruolo simultaneo di oggetto sessuale e surrogato materno, si potrebbe assistere a un altro livello di auto-salvataggio in atto: La madre ha donato la vita al bambino e non è facile sostituire questo dono singolare con qualche cosa di equivalente. Attraverso un lieve mutamento di significato, com'è facile avvenga nell’inconscio — equiparabile all'incirca al modo in cui nella coscienza i concetti confluiscono l’uno nell’altro — il salvare la madre acquista il significato di donarle o farle un bambino, naturalmente un bambino come si è noi stessi. La distanza dal significato originario del salvataggio non è eccessiva, il mutamento di significato non è arbitrario. La madre ci ha donato la vita, la nostra, e in compenso le doniamo un’altra vita, quella di un bambino che ha la massima rassomiglianza con noi stessi. Il figlio
Di
Paul rompe per primo il “patto del silenzio” tra i due amanti, raccontando a Jeanne la propria adolescenza (Marlon Brando e Maria Schneider).
guaggio primitivo o nel linguaggio dei sogni, dove «i concetti contraddittori sono stati intenzionalmente combinati, non al fine di produrre un terzo concetto... ma solo per impiegare quel composto, per esprimere il significato di uno delle sue parti contraddittorie», questo comando ad una volta proibisce (a livello manifesto) e insieme incoraggia (a livello latente)
dimostra la sua riconoscenza desiderando di avere dalla madre un figlio che sia uguale a lui stesso, vale a dire nella fantasia di salvataggio egli si identifica completamente con il padre. Tutte le pulsioni, di tenerezza, di riconoscenza, di concupiscenza, di sfida, di autonomia, sono soddisfatte da quell’unico desiderio di essere il proprio padre."
una particolare comportamento. Pertanto Paul è libero di regredire e sperimentare stadi anteriori dello sviluppo sessuale: desiderio edipico allo stato puro, onanismo,'* erotismo anale, e persino bestialità (con il topo morto). L’ultimissima espressione di questo desiderio regressivo e completamente narcisistico ricorre negli ultimi momenti trascorsi nell’ appartamento. Ecco come Paul si descrive (nel contesto, però, le sue parole hanno un valore ironico):
Di nuovo, è possibile capire quanto enormemente Strategia del ragno permei Ultimo tango a Parigi. Come il doppio di Paul e come l’amante di Rosa/Madre, Marcel occupa una posizione strutturalmente identica a quella di Athos Magnani. Se, come Bertolucci ha dichiarato, l’intera relazione tra Jeanne e Paul è «una ricerca evidente per l'autenticità» diviene evidente che questa ricerca non può essere condotta senza il chiarimento (impossibile) sull’identità della madre e del padre.” L’apostrofe ad Athos Senior: «Chi era Athos Magnani?» è ora rivolta anche alla madre. In questo spazio privilegiato, per forma e colore paragonabile ad un grembo, perfetta rappresentazione di quella parte dell’ego non in conflitto, Paul annuncia il divieto orfico di voltarsi e di conseguenza cerca di eliminare la memoria, la cultura, la civiltà e tutto ciò che significano, in termini di tabù, inibizioni, repressioni e difese. Proprio come nel lin-
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Vuoi che questo potente e luminoso guerriero costruisca una fortezza dove tu possa rifugiarti, per non avere mai più paura, per non sentirti sola, per non sentirti esclusa. È questo che cerchi, vero?... Be”, non passerà molto tempo che si costruirà lui una fortezza per te, fatta con le tue tette, con la tua vagina, con il tuo odore, con il tuo sorriso. Una fortezza dove lui si sentirà al sicuro e così stupidamente virile che vorrà la tua riconoscenza sull’altare del suo cazzo (UTP, 95-96).
Neppure questo è l’unico esempio dell’urgenza eminentemente narcisistica che affligge Paul. Ad un certo punto Jeanne gli grida: «Ma tu non mi stai a sentire. Quando ti parlo ho l'impressione di parlare al muro. La tua solitudine mi pesa addosso. Non t’importa niente degli altri. Sei un egoi-
sta». Sappiamo che ogni lavoro creativo comprende una certa misura di narcisismo, come nei sogni e nelle fantasie,!° e che sotto tensione nervosa il soggetto narcisista può regredire da forme socialmente evolute a forme primarie delle relazioni in oggetto.” Ciò che deve stupirci qui è l’intricatezza con la quale Bertolucci ha ordito gli aspetti riflessivi del narcisismo (i temi dell’autosalvataggio e dello specchio) con il significato più profondo del mito di Orfeo. In un saggio di rara acutezza sulla natura di Orfeo, Jean Normand ha descritto il mitico bardo della commedia di Tennessee Williams come: Poeta, paria, pervertito fattosi martire... Orfeo rappresenta... una vita libera, nomade, irresponsabile, una sessualità senza complessi, che si può guadagnare solo al prezzo di rinunciare a tutte le sicurezze e a tutti i tabù. È uomo di un’altra epoca che porta con sé un altro mondo. I suoi tre tratti sono la chitarra (qui si legge bongos), le sue ali, e la sua natura animale. E un animale ambiguo il cui sangue è caldo o freddo a secondo del suo stato (o metamorfosi). «O dieses ist Tier, das es nicht giebt» la bestia inesistente di Rainer Maria Rilke dei Sonetti a Orfeo, che affascina le donne e disturba gli uomini... Orfeo è quella cosa che non ha nome, volto, espressione, quella cosa che è nascosta, sconosciuta, quella cosa che nell’uomo è straniera all’uomo (almeno è quanto lui crede), il suo inconscio, le sue intuizioni, i sogni che non osa richiamare, o realizzare, la Poesia, la poesia che porta in seno con la quale non fa nulla o con la quale distrug-
«Non potrai liberarti di questo senso di completa solitudine finché non avrai guardato la morte in faccia» dice Paul a Jeanne (Maria Schneider).
ge... La verità di Orfeo è la verità della poesia, un’opera della vita che ognuno deve strappare dai poteri della morte: è la lotta eterna di Eros contro Thanatos. Orfeo è come gli altri uomini, diviso tra le pulsioni creative e quelle distruttive.” L’aspetto interessante è che il Paul di Bertolucci rifiuta gli appellativi: preferisce le urla e i grugniti animaleschi alla parola; e persegue il suo sogno erotico sempre sul filo della morte. Finalmente proclama a Jeanne, la sua volente/nolente Euridice: «Tu sei sola. Sei tutta sola. E non potrai liberarti di questo senso di completa solitudine finché non avrai guardato la morte in faccia. E poi neppure: questa è solo una romantica stronzata. Finché non sarai capace di guardare nella morte, nel buco del suo culo, sprofondando in un abisso di paura. E allora forse, solamente
allora, forse riuscirai a trovarlo»
(UTP, 96). Per Paul l’associazione tra amore e amore di se stessi sembra convergere a metafore di analità, di grembo materno e di morte: una prefigurazione verbale di quella che sarà la sua posizione — fetale — al momento di morire.” Ecco il commento di Bertolucci a proposito di questa relazione tra sesso, narcisismo e morte: «Mi sono reso subito conto mentre giravo che quando si mostrano le profondità... ci si affoga, come nelle acque della solitudine, mista a morte,
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Jeanne visita sua
madre, la vedova del
colonnello, per annunciarle il prossimo matrimonio (Maria
Schneider e Gitt Magrini).
di una relazione vissuta nella nostra società occidentale e borghese... Il sesso è molto vicino alla morte come sensazione». Il film diviene una danza vertiginosa che corre sul confine incerto tra Eros e Thanatos, un viaggio così persistentemente orfico da essere inquietante. Nelle sue diverse versioni del mito orfico, Cocteau ripetutamente insiste sulla relazione del narcisismo primario con la morte. «Gli specchi» diceva «sono le porte attraverso le quali la Morte entra nelle nostre anime, e attraverso i quali Orfeo entra nel regno della Morte». È già stata notata in precedenza l’allusione allo specchio in Francis Bacon. Bertolucci la estende per includervi la nozione di decomposizione e di morte: «Brando assomiglia ai personaggi di Francis Bacon... il suo volto ha la stessa plasticità devastata». E non dimentica di citare Cocteau : «Fare cinema, vuol dire filmare la morte al lavoro».® Ma il lavoro di Bacon costituisce anche per Bertolucci un ulteriore richiamo. Non solo le sue pitture sembrano segnalare istanze di identità, oltreché l'equazione tra narcisismo e morte, ma si intrecciano a un altro anelito fondamentale e permanente nel regista: l'identità della creazione cinematografica. Anzitutto, l’opera baconiana implica un lungo dialogo con “’l’atto del riflettersi”: «Contemplare una pittura di Bacon è come guardare dentro uno specchio e riconoscervi le nostre stesse paure e afflizioni». John Rothenstein aggiunge che Bacon ha scelto la tecnica di invetriare la tela «convinto che un gioco fortuito di riflessi possa intensificare i dipinti... col permettere allo spettatore di vedere riflesso il proprio volto». Winnicott correla Bacon a un processo di crescita che nel bambino è fondamentale: «Nel guardare le facce egli mi sembra che cerchi penosamente di essere visto, il che è alla base del guardare creativo. Mi accorgo che sto mettendo insieme appercezione e percezione postulando un processo storico (nell’indivi-
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duo) che dipende dall’essere visto. Quando guardo sono visto, così io esisto. Ora posso permettermi di guardare e di vedere. Ora guardo creativamente e ciò che io appercepisco lo percepisco anche ».°” In modo non diverso, lo spettatore di Ultimo tango a Parigi guarda e vede attraverso un vetro. Nel precedente Conformista Bertolucci aveva irresistibilmente alluso al ruolo dello spettatore come voyeur e aveva pure suggerito le associazioni legate alle dinamiche dell’esperienza filmica. In Tango ci presenta un'analisi che non è. più meramente allusiva. Il talento di Bertolucci consiste nell’aver sollevato questioni di contenuto che sono fondamentali all'esperienza filmica in quanto tale. È persino ancor più straordinario che egli usi un singolo punto nodale (più precisamente, proprio ai margini del film) per alludere a questioni tanto diverse ma così intensamente correlate: l’atto del guardare, del riflettersi, l’identità, l’ontologia. L'atto dello specchiarsi suggerito nella pittura di Bacon ci riporta indietro alla questione del doppio nel film, questa volta a un doppio la cui funzione è quasi completamente metacinematografica. Fin qui ho esplorato le relazioni del doppio che congiungono Paul a Marcel, e Jeanne a Rosa, essendo queste le relazioni direttamente informative dell’interscambio tra i personaggi del film. Tom, comunque, funge come il più intricato doppio di tutti: nel suo personaggio gli aspetti psicologici si intrecciano ai livelli metacinematografici dell'intero lavoro. Nella scena del suo arrivo a Parigi, le arcate metalliche della Gare St. Lazare riprendono il motivo visivo del primo incontro tra Jeanne e Paul (l’intelaiatura della metropolitana a Passy). Il fidanzato di Jeanne, Tom, sbuca da un treno e
tenta sul binario di “catturarla” con un entusiasmo e una licenza che rivaleggiano con quelli di Paul. Con una differen-
Jeanne ritrova il
fidanzato, Tom, un
giovane regista della Nouvelle Vague che pretende di seguirla 24 ore su 24 a 24
immagini per secondo
(Maria Schneider e Jean-Pierre Léaud).
za: che qui sono esternati nei riguardi del cinema come mezzo di espressione. In questo incontro, un tecnico della troupe di Tom, mentre si perde in declamazioni romantiche, piazza un microfono, dalla forma fallica, davanti al volto di Jeanne. Ogni volta che Jeanne e Tom s’incontrano, questo fallo tristemente artificiale entra in campo cercando di sostituirsi col «pene-felicità»°* di Paul. Per tutto il film siamo costretti a riconoscere lo stesso esplicito parallelismo comportamentale tra Paul e Tom, espresso in termini di spostamento da una forma puramente sessuale (pornografica) a una forma puramente visiva (fotografica) di interazione. Jeanne ad un certo punto esasperata gli ricorda: «Smettila di girare. È te che devo sposare non la tua Arriflex» (U7P, 84). Ironicamente, sarà con Tom e non con Paul che Jeanne lamenterà: «Potresti chiedermi almeno se ci sto... Approfitti di me! Mi costringi a fare cose che non ho mai fatto!... Mi sono stufata di farmi violentare» (U7P, 21, 71). Nel loro primo incontro, tuttavia,
Tom è incapace di comprendere il fondo di sarcasmo e parodia che vibra nella voce della ragazza, e in risposta a questi stucchevoli eccessi romantici, grida: «Magnifique! Coupez!». E Bertolucci obbedisce: taglia, sollevando domande sulla rilevanza del film che stiamo vedendo, e sulla relazione col film di Tom, che invece vediamo in fase di lavorazione. L’importanza di queste domande viene enfatizzata nella scena seguente: troviamo un curioso ritratto di Paul nel bagno dove Rosa ha commesso il suicidio. Se il ruolo di Tom è di doppiare con la mdp il comportamento erotico di Paul, questo sembra rispondere con un doppio metacinematografico suo proprio. Filmato ripetutamente dietro il vetro smerigliato del bagno, il suo volto assume, come abbiamo già detto, le esatte distorsioni delle pitture di Bacon, mentre la cameriera rilascia la propria deposizione alla polizia, e così tornano a
galla le interpretazioni salienti della biofilmografia di Bran-
do: «Tipo irrequieto il tuo padrone! Sai che ha fatto il pugile?... Poi trafficava nel porto di New York... S’è ritrovato in Sud America a fare il rivoluzionario. Se ne è dovuto andare ed è sbarcato a Tahiti... Prende la malaria e un bel giorno eccolo a Parigi e trova una con un po’ di soldi». Come hanno rilevato Beverle Houston e Marsha Kinder, ciascuna di questi indicazioni corrisponde a un ruolo cinematografico di Brando: pugilatore in Fronte del porto, rivoluzionario in Viva Zapata, navigatore ne Gli ammutinati del Bounty.® Che la biografia di Paul sia infatti la biografia filmica di Brando suggerisce che: come attore, dovrebbe includere, sia pure implicitamente, la parte di Val nella versione filmica dell’ Orpheus Descending di Tennessee Williams; e che questa enorme consapevolezza di Brando come attore accentua ulteriormente nello spettatore la percezione di Ultimo tango a Parigi come film. Inoltre, amplifica il raddoppiamento di Paul da parte di Tom nel ruolo di regista: doppio che sarà condotto con estrema complessità e finezza nell’arco del film. All’interdizione di menzionare il passato si contrappone il caparbio entusiasmo di Tom nel voler catturare e imprigionare sulla celluloide quel passato. Ossequente a Paul che con le parole: «Niente nomi!... Non è più bello così; senza sapere nulla?» (U7P, 29, 40), proclama il proprio manifesto, Bertolucci stacca sulla casa di campagna, nel momento in cui la mdp di Tom compie la propria discesa, simbolica e impotente, su Jeanne. Infatti, lo sentiamo dire: «La camera è in alto... scende lentamente su di te. Poi si allontana come se tu andassi indietro, verso l’infanzia». Qui Tom parodia la mitica discesa del suo collega più carnale, come sempre spostando le sue pulsioni sessuali sulla mdp. Quasi un'appendice naturale del divieto di Paul, Jeanne cerca di scoraggiare l’investigazione di Tom, ammonendolo: «È malinconico guardarsi indietro». Ma Tom non capisce, né capirà, e grida invece:
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«Meraviglioso... È la tua infanzia... tutto quello che sto cercando... Come un’automobile, tu ora ingrani la marcia indietro! Chiudi gli occhi. Vai indietro, continua, ritrova la tua giovinezza! Hai 15 anni, 14, 13, 12, 11, 10, 9» (U7P, 44). Jeanne ripete l’ammonimento, levando in alto un ritratto del cuginetto del cuore; ma Tom è dimentico. Da notare: Tom, in questa scena, la riprende attraverso il vetro, come se già non bastasse la distanza che li separa. Esasperata da una tale maniacalità, e anticipando i racconti d’infanzia di Paul in campagna, Jeanne legge un componimento di scuola in cui la mucca è descritta come interamente «rivestita di cuoio»; e invece degli equivalenti gergali per il membro maschile, che Paul elencherà poco più avanti in varie lingue, riporta dal dizionario la definizione della parola «mestruazione». L’esplorazione superficiale e verbale di Tom ha sostituito la sete carnale di Paul. Bertolucci insiste su questo raddoppiamento per tutto il film. Per esempio: subito dopo ritroviamo Paul e Jeanne nuovamente nell’appartamento sulla “nave pirata”, quando il regista taglia e salta alla scena dell’Atalante sul canale Saint Martin. Non solo qui Jeanne e Tom sostituiscono la presenza fisica con mdp e attrezzatura cinematografica, ma terminano approdando su una allusione cinematografica a Jean Vigo. Ogni cosa che Tom fa o pensa sembra “contaminata” dal ci-
nema. E mentre Paul e Jeanne hanno appena scoperto i loro nomi orfici con una serie di grugniti e grida animalesche, Tom e Jeanne producono una parodia vuota di questo linguaggio con una serie infantile di «sì» e di «no».
Quando
Tom alla fine entra nell’appartamento di rue Jules Verne, propone la propria forma d’intimità: «Avrei voluto filmarti tutti i giorni... al mattino appena ti svegli... alla sera quando vai a letto.. . quando fai il tuo primo sorriso... Da notare che l’ossessione di Tom a #05 catturare l’immagine della compagna lo situa all’intersezione delicata e cruciale tra regista e spettatore. Infatti, in qualità di doppio di Bertolucci, non sembra dispiaciuto di cedere a Paul il ruolo attivo di compagno che gli compete, preferendo assumere una posizione più distante (e sicura). Bertolucci disse di questa relazione: «Léaud è il mio passato di cinéphile».? E lo è indubbiamente riconoscibile in via simbolica in sequenze quali la prova dell’abito matrimoniale, dove incontriamo Tom che, rapito dall’estasi, paragona la fidanzata a Rita Hayworth, Lauren Bacall o Ava Gardner... Che Léaud rappresenti il passato da cinéphile del suo autore lo vediamo anche quando, come in Prima della rivoluzione, la sua mdp manca in frequenti occasioni ciò che dovrebbe cogliere: per ben due volte durante l’intervista con Jeanne nella casa di campagna la mdp semplicemente perde il passo con l’azione. Mentre Jeanne ricorda episodi di infanzia, la sua balia, affe-
AI concorso di ballo, Paul rivela finalmente la propria identità a Jeanne e confessa di volerla prendere come legittima sposa (Marlon Brando e Maria Schneider).
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zionata e razzista, intercala i propri; Tom ordina all'operatore con la mdp a spalla di voltarsi subito e inquadrarla, ma questa più veloce sparisce, ora sbattendoci in faccia la porta ora lasciandoci interdetti davanti a un ritratto di De Gaulle. E quando scoprono i bambini arabi che defecano nel giardino,
la troupe di Tom li rincorre: ma invano, troppo tardi per catturare ciò che la mdp di Bertolucci ha invece già catturato. Anche Paul nella sua’ costante e complessa interpretazione del doppio di Tom, rievoca questo passato di Bertolucci, quando del suo passato rammenta l’episodio della pipa. La saliva colava dalla pipa di un tale, e Paul raccon ta di come cercava sempre di non lasciarsi sfuggire l’istante in cui sarebbe caduta (come successe alla mdp di Bertol ucci con la caduta di Agostino in Prima della rivoluzione): «Mai lho
imbroccata. Mai ho visto cadere la goccia» (U7P, 50).
Se vogliamo interpretare queste scene alla luce del lavoro precedente di Bertolucci, allora esse ne rappresentano l’esatta evoluzione stilistica: dall’atteggiamento radicale e peculia re di Prima della rivoluzione a una nuova esplorazione delle dinamiche dell’esperienza cinematografica, meno manifestamente sovversive, ma più determinate ed incisive. Tom, proteso a restituire senso alla propria identità, incanala i suoi sforzi lungo un duplice spostamento dei propri desideri: negli elementi “legittimi” del fare un film, e nella proiezione dei suoi desideri su Jeanne. Sono questi gli elementi che spingono compulsivamente cineasta e spettatore a spiare la scena primaria della coppia nell’ appartamento. Winnicott, di cui abbiamo già riportato le impressioni sull’uso delle pitture di Bacon, suggerisce inoltre come esse corrispondano alla ricerca frenetica di identità che assilla i protagonisti; ma quelle osservazioni possono altrettanto applicarsi a quell'altra problematica, tipica del cinema bertolucciano: la “autoconsapevolezza del cinema”. Nell’estratto del saggio sopracitato, Winnicott con argomentazioni convincenti correla Bacon al problema del vedere e dello essere visto: «Quando guardo, sono visto, così io esisto. Ora posso permettermi di guardare e vedere. Ora guardo creativamente e ciò che appercepisco, lo percepisco anche». In nessun luogo il percepire è più “praticabile”, e in ultima istanza più potenzialmente creativo (in un senso ontologico), che nel cinema. Mentre
Paul cerca di essere percepito e di percepirsi nel volto inanimato di Rosa, e più tardi nel volto e nel corpo (specchio e doppio) di Jeanne, lo spettatore del film si comporta analogamente: inconsciamente soddisfa quella pulsione con il voyeurismo. Infatti, la vera essenza del cinema implica una condensazione fondamentale e uno spostamento esatto a quella che Brando sullo schermo esterna per noi. Se per Brando il problema è un recupero narcisistico dell’identità, per noi, potenzialmente, niente di diverso. Infatti, il fenomeno psichico del voyeurismo è un desiderio che si fonda sulla fantasia della scena primaria. Come Leo Bersani ha notato:
Il desiderio è un movimento: nel senso di essere un'attività mentale designata a riattivare una scena del passato connessa all’esperienza del piacere. Immediatamente esso si allontana dall’oggetto desiderato, per sviluppare una fantasia desiderante, già inclusiva di una certa soddisfazione. E fondamentale desiderare che questa si stacchi permanentemente dal suo oggetto per trovare nuove rappresentazioni. I desideri repressi sembrano essere “es-pressi”. Ma per essere esternati, devono, per così dire, divenire ‘“ec-centrici” a se stessi, e scavalcare la censura, mentre circolano
in mezzo a “immagini” innocenti. Lo spostamento è una delle prime strategie del desiderio inconscio: infatti, desiderare è muoversi verso altri luoghi. E quei
luoghi sono rappresentazioni: vale a dire le immagini della fantasia. Lo spettatore, nella veste di voyeur, riassume emblematicamente e inconsciamente il paradigma messo in scena dal comportamento simbolico e manifesto di Paul in rue Jules Verne. Ma diversamente da Paul, e similmente a Tom.* lo spettatore spia clandestinamente attraverso il “foro della serratura” dell’obiettivo, o dello schermo; e partecipa, benché assente, all’azione. Inoltre, la scena che ci viene mostrata è sempre potenzialmente o allegoricamente una scena primaria, nel senso che evoca nel bambino «l’intero complesso di conoscenze e di mitologia personale che aleggia attorno al sesso, in particolare quello dei genitori».* Le «condizioni ontologiche inerentemente pornografiche del film»* sono in questo modo simbolicamente trasferite da Paul, e dal suo
comportamento, su Jeanne. Ma la relazione tra l’atto del guardare cinematografico e la scena primaria va ben al di là di una tendenza meramente erotica: involge problematiche di ontologia personale (piuttosto che esclusivamente cinematografica):
La scena primaria [sostiene Guy Rosolato] costituisce, tra tutte le fantasie inconsce, un nucleo dove le origini sono tracciate in modo speciale. In primis, come fantasia originante: il genetico di fronte all’individuale e persino al filogenetico; secondariamente, come il nesso della curiosità riguardo alle origini, alla nascita, alla procreazione, all’identità, alla filiazione, e alla paternità... La scena primaria può essere così considerata come la più generale, e tuttavia la più condensata delle fantasie. Ecco come il voyeurismo, che inizialmente sembra una mera perversione del desiderio normale, è, grazie alla sua connessione con la fantasia primaria, un fenomeno potenzialmente ontologico. Come spettatori, può anche darsi che siamo attratti dalle immagini proiettate sullo schermo, come fossero una forma “innocente” di ciò che sono ritenute essere mere pulsioni perverse; ma, in ultima istanza, esse ci informano sulle nostre origini, dandoci l’occasione di recuperarle. Del resto si può anche vedere Ultimo tango a Parigi come un avvertimento
sullo «sguardo creativo» (Winnicott).
Nella regressione, puramente fisica, in ricerca della persa identità, Paul scopre in sé pulsioni sadiche, vendicative e macabre sempre più profonde. Per alcuni spettatori il turbamento psicologico provato dalla visione di Tango deriva da una simile scoperta nell’atto di praticare il voyeurismo. Se la funzione primaria di Jeanne è di fungere da specchio alle fantasie regressive di Paul, allora risulta come un tradizionale 0ggetto sessuale cinematografico. Ma nei fatti Jeanne conduce una vita propria, e matura motivazioni personali: è spinta a recarsi nell’appartamento di rue Jules Verne per ragioni tanto complesse quanto quelle che vi portano Paul. Come doppio di Rosa, anche Jeanne ha due amanti: Tom e Paul. Come il Marcel di Rosa, Tom si riduce alla fine a una semplice immagine, persino meno. Egli ha successo solo nell’evocare e promettere immagini future. Mentre Rosa compie il suicidio, perché sembra incapace di fare nulla se non far proliferare una serie di amanti vestiti e alloggiati in modo identico, Jeanne istintivamente si muove in direzione di uno spazio dove può mettere un fermo a questa prolifera-
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Una lunga carrellata lungo gli ChampsElysées per seguire Paul che rincorre disperatamente la sua Jeanne (Maria
Schneider e Marlon Brando).
zione di superfici (il matrimonio ‘“pop”) e raggiungere qualche profondità. Su un altro piano ancora, ricordiamo che nell’appartamento del padre a Parigi, finisce per caso nelle mani di Jeanne la fotografia di una domestica, berbera, nuda fino alla cin-
tola. L’irritazione della madre («Razza forte, i Berberi. Ho provato a tenerne una in casa, ma sono delle pessime domestiche» UTP, 86) fa sospettare le infedeltà del marito colon-
nello. Jeanne, tuttavia, riconosce nella donna sulla fotografia l'oggetto sessuale del padre e percepisce il sorgere di una intensa gelosia e compassione. Quanto a noi ci è data la possibilità di vedere Jeanne stessa in quella fotografia, sia come oggetto sessuale di Paul (all’interno della vicenda del film), sia come unafotografia di nudo (come una attrice di cinema in Ultimo tango a Parigi!). Proprio perché il padre è defunto, il ritorno di Jeanne nell’appartamento dei genitori può essere inteso come un viaggio di recupero, molto simile a quello di Paul. Ella vuole ‘riprendersi suo padre” sia per soddisfare il bisogno di amore e accettazione che normalmente il genitore del sesso opposto offre, per punirlo dell’infedeltà (verso la Madre, verso se stessa) e dello sfruttamento razzista e sessista delle donne.
Raggiunto l'appartamento dei suoi, Jeanne non esista a
difendersi sparando allo sconosciuto che ha appena forzato la porta di casa. 104
Paul, a questo punto, cade a proposito: si presenta come il capro espiatorio perfetto: e perché sembra soddisfare le necessità regressive-erotiche della donna, e perché si prospetta come l'oggetto della vendetta. Come Paul e il suo temperamento instabile, così l'umore di Jeanne oscilla da una possessione sessuale dell’uomo, immediata e aggressiva, ad espressioni più ostili e punitive: si veda la scena in cui lo costringe a prendere la scossa con l’impianto difettoso del fonografo; ma soprattutto si ricordi che è lei a prenderlo in trappola, costringendolo a infrangere il patto del silenzio da lui stesso imposto. Se l’identità di Jeanne, come quella di Paul, è inestricabilmente connessa a quella dei genitori, ella imposta la relazione con Paul in modo che costui assurga a figura paterna. Se questi gesti di recupero sono permissibili entro lo “spazio privilegiato” dell’appartamento, essi sono, come le fantasie del cinema stesso, inaccettabili alla luce del giorno. E a quel punto, Jeanne non riflette più: reagisce! Quando Paul la insegue, lei lo guida prima nella sala da ballo, dove
reinscenano una farsa della loro relazione passata e dove la ragazza, prima di fuggire di nuovo, lo masturba in modo equivoco. Poi, lo porta nell’appartamento dei suoi, dove rifiuta di riconoscerlo: anzi, reagisce come fosse aggredita da un maniaco. Paul, addirittura, indossa il copricapo militare che era del padre ufficiale: rivelando definitivamente e senza più alcuna ambiguità le sue intenzioni, e ribadendo ancora una volta la figura del doppio. Jeanne gli risponde con un colpo di pistola: e sparando proprio nei genitali, riafferma violentemente l’inaccettabilità di un tale abuso. Paul barcolla, fino al balcone e, come segno della sua regressione infantile appiccica la gomma sotto la ringhiera: quindi si accascia in posizione fetale e muore. Nella carrellata indietro dell’appartamento, la mdp coglie nel vetro della finestra, accidentalmente, il riflesso di un tecnico della troupe di Bertolucci. Un altro che guarda, guardato a sua volta!
A conclusione: l’intuizione geniale del film sta nell’aver fatto confluire in un lavoro unico diversi e numerosi aspetti del pensiero: l'aspetto mitico, quello psicanalitico e quello cinematografico. Si potrebbe dire di Jeanne la congiunzione di questi temi: ella rappresenta l’oggetto spostato della ricer-
ca orfica di Paul, l’immagine proiettata dell'impulso artistico di Tom, e l’oggetto posto a distanza del voyeurismo del voyeur. Nell’intreccio di questi valori, il film non costituisce
solamente uno spettacolo per lo spettatore, ma mette alla prova proprio la qualità di essere spettatore in quanto spettatore. L’anziana signora, giudice della sala da ballo, indignata e fuori di senno, urla a un Paul stralunato: «Che ci fa qui l’amore? Andate al cinema per vedere l’amore!». E così abbiamo fatto. L’eco del film ha raggiunto una straordinaria risonanza, se dobbiamo prestare fede alla critica che ha assicurato essere «il film più potentemente erotico della storia del cinema». Concentrandosi sull’ossessione di Paul a volere penetrare il corpo di Jeanne e sui tentativi frenetici di Tom per filmarlo, Bertolucci ha reso gli spettatori consci del ruolo di voyeurs, e da ultimo, della loro attrazione verso la scena primaria. Viaggiando attraverso questo film, possiamo meglio capire fino a quale punto il cinema sia esso stesso un’esperienza orfica: la discesa nelle tenebre di uno spazio protetto nello sforzo di ricuperare, attraverso le immagini, un'origine
persa.
NOTE ' L’occhiello è estratto dalla poesia di Borges “El tango”, in Tutte le opere, Clt p.79: ? B.B., Ultimo tango a Parigi, Einaudi, 1973. Da ora in avanti citato nel testo come U7P seguito dal numero della pagina. è Ferenczi, cit., pp. 356-357 (traduzione nostra), ha dato questa spiegazione
analitica delle implicazioni del ponte: 1. Come il membro maschile che unisce i genitori durante l’atto sessuale; 2. Come un importante veicolo tra “Val di là” (la condizione del non ancora-nato e del grembo) e il “qui” (la vita); 3. Come un ritorno al grembo, all’acqua, alla Madre Terra, dove il ponte è anche il simbolo del sentiero alla morte; 4. Come una rappresentazione formale delle transizione in genere. L'analisi ferencziana unisce i temi della sessualità, della regressione, e della morte, ciascuno dei quali giocherà un ruolo notevole in questo film. La portinaia serve anche da legame tra l'appartamento di rue Jules Verne e il bordello, che alberga una comunità caraibica di musicisti indiavolati: un’allusione a Orfeu negro di Marcel Camus. 5 Robert Alley, Last Tango in Paris, New York, Dell, 1973, pp. 13-14 (traduzione nostra). 6 B.B. a Colette Godard, “Bernardo Bertolucci: on s’exprime toujours par ses défenses”, in Le Monde, 11-12 dicembre 1972, p. 14. ? La stanza di Marcel espone bene in vista una foto-ritratto di Albert Camus, i cui saggi sul suicidio e l’assurdo potrebbero costituire il substrato filosofico del film. Ma sotto l’allusione palese ne sta un’altra: il bisticcio visivo «Marcel/Camus» non rinvia anche al regista di Orfeu negro? $ In Pelle di serpente (Sidney Lumet, 1959) il personaggio di Brando è ucciso da un incollerito razzista che invece di dirigere sulle fiamme il getto d’acqua dell’estintore lo punta su Brando, obbligandolo a indietreggiare e perire nell’incendio. ? Freud, “Il Poeta e la fantasia”, in Opere, cit., vol. 5, p. 382. !° Michel Serres, Jouvences sur Jules Verne, Editions de Minuit, 1974. !! Winnicott, “La funzione di specchio della madre e della famiglia nello sviluppo infantile”, in Gioco e realtà, Armando Editore, 1974, p. 191.
! Ibid. p. 194. 3 Ibid. p. 198.
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4 Ibid. p. 194. Bertolucci disse pure di Brando: «Brando sente, in un certo senso, di essere tanto il figlio della moglie che il padre della ragazza». B.B. a Ba chmann, cit., p. 114. is B.B. a Kline, in “A Week-end with Bertolucci”, 15 giugno 1985.
6 Freud, “Su un tipo particolare di scelta oggettuale dell’uomo”, in Contri-
buti alla psicologia della vita amorosa, Opere, cit., vol. 6, p. 411. !” Bachmann, cit., p. 6. !# Vd. Freud, cit. ! Freud, “Il Poeta e la fantasia”, cit.; vd. anche, Due voci di enciclopedia: “Psicanalisi” e “Teoria della libido”, Opere, cit., vol. 9.
® Freud, ibid.
2 Jean Normand, “Le poète, image de l’étranger: l’Orphée de Tennessee Williams”, in French American Review 4, n. 2, autunno 1980, pp. 76-77 (traduzione nostra). 2 Icommenti di Bertolucci su questa scena sono particolarmente utili a questo proposito: «All’inizio del film lui è supervirile... ma piano piano perde la sua virilità. A un certo punto si fa sodomizzare dalla ragazza: retrocedendo, è tornato alla fase anale. Diciamo la fase sadico-anale. Poi, retrocede ancora e giunge nel grembo di Parigi, morendo con la madre-Parigi tutt'intorno a lui... C°è un chiaro arrivo nella morte. Quando stavamo progettando il film, tutto ciò era solo nel mio subconscio. La ricerca della mia mdp l’ha chiarito per me. L’irrazionale è diventato lucido». B. B. a Bachmann, cit., p. 7. 2 Ibid. pp. 4-7. “ Jean Matter, “Le mythe de Narcisse dans l'Orphée de Jean Cocteau”, in Psyché n. 6, 1951, p. 251, nota: «Narciso innamorato di se stesso può solo essere innamorato della Morte, in quanto la contemplazione di sé è fatalmente congiunta col pensiero della Morte. Lo specchio è un sentiero inevitabile per giungere alla Morte. Se Orfeo si rifiuta di ritirarsi davanti alla Morte, è perché la Morte lo attrae; e perché lui la ama. Egli ama la Morte come ama la madre il cui fato è strettamente legato al proprio. Narciso, per tradizione, proviene da una fissazione. Il giovane ama in se stesso l’oggetto dell’amore di sua madre. Orfeo è, letteralmente, pieno di se stesso. È per questo che egli non ascolta nessuno, fuorché la Morte... la Morte è bella, potente e inaccessibile... attributi della madre agli occhi del bambino». Vd. anche Freud, cit., e Lacan, cit., p. 454, intese il narcisismo correla-
to agli «istinti di distruzione, persino di morte» e notò: «L’evidente relazione della libido narcisistica con la funzione alienante dell’Io». * B.B. a Colette Godard, cit. % John Rothenstein, in Francis Bacon: Catalogue raisonné, Thames and Hudson, 1964, p. 15. ? Winnicott, cit, p. 194. ®* Gioco intraducibile tra «happiness» e «happy-penis», neologismo creato da Brando durante la ripresa della scena. ® Marsha Kinder e Beverle Houston, “Bertolucci and the Dance of Danger”, in Sight and Sound 42, n. 4, autunno 1973, p. 189. ®© E sarà solo un caso che Jean-Pierre Léaud abbia recitato da ragazzo nel 7'estament d’Orphée di Cocteau? B.B. a Ungari, cit., p. 90. è Winnicott, cit., p. 194. Bersani, cit., pp. 37-38. * In inglese, «peeping Tom» vale «guardone» (Ndt). 3 MeDougall, “Primal Scene and Sexual Perversion”, cit., p. 372. * Cavell, cit., p. 45. # Rosolato, cit., pp. 79-80. # Kael, cit, p. 130.
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Novecento
1976
Se torno indietro e rileggo il diario di lavorazione di Novecento, mi accorgo che a un certo punto ho
contratto la diplopia... vale a dire che vedevo doppio. Più mi sforzavo a concentrarmi, più vedevo doppio. Precisamente eravamo al nono mese delle riprese. Bernardo Bertolucci
Le due facce della rivoluzione È difficile immaginarsi una transizione più radicale tra Ultimo tango a Parigi e Novecento. Tango raccontava alcuni giorni dell’intimità tormentata di una coppia in una grande metropoli moderna. Quattro anni dopo Bertolucci ci dà un film epico sulla vita rurale della Bassa Padana lungo l’arco di mezzo secolo. Il candore col quale il regista diagnostica i sintomi psicologici che lo afflissero a un certo punto delle riprese sorprende, se si pensa a quanto consapevoli fossero gli “intenti” che poneva alla base di questo progetto: Ogni cosa che accade in questo film a livello personale è relegata ad avere un significato più ampio, storico. È la storia di un popolo, dei contadini di quest'area geografica, un popolo che sviluppa la propria creatività per costruirsi una storia. Una storia nel senso marxista.'
contadini ad attuarli durante le riprese e pertanto non si può dire che siano stati loro ad avere trasformato i/ film, come il regista sostiene. Questa confusione tra film e realtà storica, accoppiata all'altra confusione, delle istanze personali a svantaggio di quelle storiche, costituisce l’ossessiva «diplopia» di Novecento. In altre occasioni Bertolucci confuse gli stessi propositi del film. Lo definì per esempio «violentemente documentaristico»; e con una certa ingenuità dichiarò pure: «La dialettica che nei miei film è stata sempre quella di padre/figlio, ora diviene la contesa tra padrone e contadino, tra sfruttatore e sfruttato». Conoscendo i suoi film precedenti possiamo affermare che la dialettica non si riduce al binomio padre/figlio, ma si apre a ventaglio, in una cascata di metafore, sempre dialettiche, allo stesso modo che il paio padrone/contadino. Benché il regista abbia sostenuto che «l’idea principale di Novecento consisteva proprio nel piegare le necessità narrative e drammatiche all’ingresso nel film di materiali umani, culturali, sociali decisamente documentaristici: i materiali del mondo
Nonostante il tentativo di imporre un’interpretazione marxista, Bertolucci appare stranamente confuso sui propositi del film. Per esempio, avremmo potuto aspettarci: «Ogni cosa che accade a livello personale è relegata in un ambito di importanza inferiore rispetto alle preoccupazioni storiche». AI contrario, l'aspetto personale è destinato ad avere «un impatto più ampio, un significato storico». Questa inversione involontaria dei termini rivela che le istanze personali del film si sono infatti interposte tra lo spettatore e la storia che avrebbe dovuto essere mostrata. Sintomatico di questa distorsione è il fatto che la cronaca della rivoluzione rurale in Italia è interpretata da attori di fama internazionale: Depardieu, De Niro, Lancaster, eccetera e non da un eroe collettivo ed ano-
nimo. Inoltre, Bertolucci disse: «Un film che era cominciato con l’occuparsi di ciò che sembrava essere l’agonia della cultura contadina è stato trasformato dai contadini stessi, che riuscirono a passare da un momento pre-politico degli inizi del secolo a una coscienza politica di molto più ampio respiro». La storia italiana tra il 1900 e il 1945 può avere cono-
sciuto i cambiamenti descritti da Bertolucci, ma non furono i
dei contadini emiliani», in seguito ha confessato:
«[cercai di] favorire la fusione di queste due necessità, di superare il documentario e la finzione, per arrivare a qualcosa che mi sembra molto vicino alla rappresentazione dell’ideologia, a un’ideologia espressa in termini poetici».? Altrove nota che il film procede «attraverso numerosi episodi; il primo e il più importante [dei quali] è lo sciopero dei contadini nel 1908, che unì contadini di varia estrazione: lavoratori alla giornata, fittaiuoli, affittuari, mezzadri, braccianti, ecc. Que-
sti sono i momenti storici che in qualche modo abbiamo elaborato e manipolato»..‘ In verità, il famoso quadro // Quarto Stato di Giuseppe Pelizza da Volpedo, posto a sfondo dei titoli di testa del film, funge con ironia da glossa all’ambivalenza delle intenzioni di Bertolucci. Dipinto a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, doveva corrispondere allo spirito della “pittura sociale”. Ecco come pensava Pelizza: «Tento la pittura sociale... la mia aspirazione all’equità mi ha fatto ideare una massa di popolo, di lavoratori della terra, i quali, intelligenti, forti, robusti, uniti, si avanzano come fiumana travolgente ogni ostacolo che si frappone per raggiungere il luogo ov'ella trova equilibrio».
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Il Quarto Stato, il famoso quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo che fa da sfondo ai titoli di testa del film. Quindi: «L'arte deve dare al popolo il ritratto di lui, ma abbellito». Pare che Pelizza tenesse a partecipare all’esposizione parigina dell’anno 1900. Ma la lavorazione subì un ritardo, sicché la tela venne esposta solo nel 1902. Alla sua presentazione, l'entusiasmo della critica fu magro; l'artista ne rimase deluso. Impiegato quale ritratto repellentemente realistico o pateticamente sentimentale della classe operaia, il pubblico accolse con riserva questa versione idealizzata. Si aggiungano le dimensioni dell’opera, e il suo contenuto politico, e si comprende quanto lo rendessero difficile da esporre; in definitiva, non raggiunse mai, né tanto meno impressionò il largo pubblico al quale era destinato. La scelta di questo dipinto da parte di Bertolucci prende subito le tinte dell’ironia. Esso esprime la combinazione ambigua di realismo e idealizzazione caratteristiche dell’opera del regista e preannuncia misteriosamente certe difficoltà di distribuzione incontrate dal film. L'ironia è persino ravvisabile nell’ideazione abbastanza cinematica della tela di Pelizza: piuttosto che avanzare «come fiumana travolgente ogni ostacolo che si frappone», l'avanzata dei contadini è ritratta come la coreografia di una chiamata alla ribalta: invitando all’applauso, tre figure “conducono” il gruppo, a sua volta singolarmente isolato per attitudine, gestualità e disposizione: esso non spicca, ma forma una massa di sfondo inerte. Questa pittura indica chiaramente la contraddizione insita nella visione bertolucciana della massa. Non solo la scena sociale è “manipolata” (come direbbe Bertolucci) o “abbellita” (come direbbe Pelizza). Ma in entrambi i casi la massa cerca
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di farsi spazio, assumendo la funzione di scenografia dietro due o tre figure guida. Servirsi di Sterling Hayden, Depardieu e la Sandrelli equivale ad adombrare «i materiali umani, culturali, sociali, decisamente
documentaristici,
del mondo
dei contadini emiliani» che popolanolo sfondo essendo il soggetto ufficiale del film. Inoltre, questa dualità di intenti scaturisce da un’opera la cui risonanza oscilla scomodamente tra una storia senza un saldo indirizzo dialettico e una storia i
cui motivi inconsci sono in lotta permanente con quelli manifesti. Questi parallelismi (apertamente ironici) tra il dipinto e il film rinnovano, ancora una volta, la riflessione di Bertoluc-
ci sul rapporto tra pittura e cinema quale strumenti di interpretazione della realtà. L’interferenza di considerazioni prettamente estetiche e personali in ciò che fu presentato come un impegno marxista sembra riportare il regista a Prima della rivoluzione. Sprovvisto di quella consapevolezza politica ed estetica, Novecento ripete, sia pure in un'ottica diversa, l’intera problematica del cinema politico interpretato da un autore borghese: «Faccio
sempre un solo film» disse Bertolucci. E in nessun'altra opera come questa, un solo film interferisce così completamente, anche se implicitamente, con i propositi dell’artista. La sequenza iniziale conforta subito il sistema di opposizioni colte nel dipinto di Pelizza. Una lenta panoramica in campo lungo segue un partigiano che attraversa un prato soleggiato con un gregge al pascolo; improvvisamente la mdp si focalizza sul suo volto che si altera di terrore. Dalla boscaglia saetta una mitragliata; l’uomo stramazza a terra, i visceri
si riversano sull’erba in un effetto “violentemente documentaristico”. I primi piani e l'inquadratura in campo lungo si oppongono: per movimento e per tempo. L'effetto di queste opposizioni cinematiche si ripercuote sul contenuto: la lontananza — il distacco — e la visione pastorale da una parte; la vicinanza — l’avvicinamento — e la violenza dall’altra. Quale
considerazione generale potremmo addurre che la scopofilia sembra essere connessa alla violenza. Quale considerazione specifica a Novecento, la sequenza presenta in microstruttura la tendenza del film: passare abbastanza rapidamente da quadri di sapore pastorale e rurale a primi piani appassionati e spesso violenti dei personaggi, in particolare quelli eroici: Olmo (Gérard Depardieu), Leo Dalcò (Sterling Hayden) e Anita (Stefania Sandrelli). C'è naturalmente nel film, come
in tutti quelli precedenti, la predominanza dell’interesse psicologico (le principali interrelazioni sono segnate dalla violenza) a scapito dell’ambito socioculturale
o documentaristi-
co. «Trasformare il destino in inconscio», Bertolucci argomentò, «interessa anche i rapporti tra sessualità e politica». L'espressione “violentemente documentaristico” serve così come metafora di questa struttura duale. La sequenza successiva “incapsula” l’altra coppia di opposizioni complementari, già apparse nel quadro di Pelizza: il realismo del documentario, da una parte, e una forma di
manipolazione, abbellimento, o idealismo poetico, dall’altra. Questa sequenza — le donne nei campi — si apre con una inquadratura sul fieno, dal quale — come la coreografia di un musical americano — vengono estratte contemporaneamente le forche. Quindi, la mdp panoramica in cima al covone, da
dove una giovane contadina (Anna Henkel) sta scrutando la campagna circostante, quando, indicando un punto fuori dallo schermo, si infervora e racconta: «Tante cose vedo! Vedo un mucchio di briganti neri che scappano... Vedo uno dei nostri... gli va incontro senza fucile... Ha solo un bastone in mano. Dio, che botte gli dà!». E la sceneggiatura indica: «La ragazza ha gridato con gioia verso un punto imprecisato della campagna, là dove [i suoi occhi]... fingevano di vedere la scena. In realtà laggiù c’è soltanto un casolare, un vecchio seduto sulla soglia, al sole».’ Poiché niente può essere visto, secondo la sceneggiatura: «Allora tanto vale inventare» (N, 7). La ragazza grida di nuovo: « “Oh donne, cosa vedo!... Vedo uno su un cavallo bianco. Se vedeste che polverone che fa. Sembra Olmo”». Ma il testo ammonisce ancora: «Malgrado la voce eccitata, gli occhi lucidi e la commozione autentica, la ragazza ha ancora inventato. D’improvviso però interrompe la sua cronaca fiabesca... È ritornata alla realtà. “Quelli scappano... scappano!! Brutte bestie... ve la diamo noi! Sono Attila e Regina!» (N, 7). Così facendo Bertolucci ha richiamato la nostra attenzione sulla sottile alternanza ludica tra due tipi di visione: quella “mitologica”, che si propone di interpretare l’invisibile (ciò che il regista chiamerebbe la manipolazione), e quella “visibile” che si reclama dal reale (e che Bertolucci chiamerebbe
questa volta il documentario). Il momento in cui la ragazza “finge di vedere” ciò che rimane fuori campo riassume sia il rapporto dell’onirico con lo stato di veglia, sia quello dell’esperienza filmica con la realtà. I sogni, la fantasia, cosa vediamo e perché vediamo un film, rimangono la preoccupazione maggiore di questo film, e di tutta l’opera di Bertolucci. Mescolando il reale al fantastico, la giovane contadina duplica la posizione del regista in quanto “rielabora e manipola” un momento
storico. L'inserimento nella realtà (ciò che
vediamo sullo schermo: Attila e Regina in fuga) dell’illusione (ciò che non vediamo sullo schermo: la ragazza che dice di vedere Olmo su un cavallo bianco) “preannuncia” l’episodio del ritorno di Olmo col cavallo bianco di Ada: in tale occasione sarà accusato di violenza e omicidio dell’adolescente, crimini in verità perpetrati da Attila e Regina. Poiché la sequenza accade prima (cronologicamente) ma dopo (nello svolgimento del film) il suo preannuncio, il vederla acquista un carattere atemporale: come nei sogni appunto. Questa tendenza alla condensazione è affermata nel piano generale della struttura drammatica del film che nelle parole del suo autore riguarda una sola giornata: Un giorno, il 25 aprile 1945, include l’intero secolo.
Lo abbiamo preso come una sorta di giorno simbolico sul quale è sguinzagliata, sul quale fiorisce questa utopia contadina; e questo giorno include tutti i fatti condizionanti, tutti i fatti necessari.* Ancora una volta, inconsapevolmente forse, Bertolucci “scivola”. Il 25 aprile può anche simbolizzare l’intero secolo: ma non può «includere tutti i fatti necessari». Questa condensazione del valore metaforico con quello fenomenico («i fatti necessari») dà un'immagine fedele della strategia filmica generale di Bertolucci. Ci sono qui due elementi strutturali messi a contatto: il passaggio da un campo lungo che coglie un momento bucolico, a un primo piano di un individuo colto in un momento di violenza. Questa apertura, densa di simboli, preannuncia la struttura complessiva della prima parte del film: il movimento dal realismo documentaristico, che ritrae la vita socio-economica dei contadini emiliani, a una serie di fatti che posso-
no essere intesi come visioni oniriche in atto di rivelare il processo di condensazione, peculiare del sogno. A questi due binomi, essenziali nell'economia del film, Bertolucci ne in-
treccia un terzo che compare già nella sequenza iniziale, se non prima, nel dipinto di Pelizza. Come abbiamo notato in precedenza, la disposizione dei contadini ne // Quarto Stato dà l'impressione di una rappresentazione drammatica: quasi una chiamata alla ribalta del trio di testa, nel quale il braccio teso della donna invita all’applauso. Non diversamente Bertolucci intercala un grado inusuale di stilizzazione, o coreografia teatrale, in un film per altri versi documentaristico. È come se Fisenstein si fosse sovrapposto a Dostoevsky. Come se ne La linea generale il processo di stilizzazione della collettività a eroe si trasformasse gradatamente in una versione di Yakov (// sosia ) o di Raskolnikov (Delitto e castigo). Dopo la sequenza coreografata delle donne e delle forche, un flashback ci riporta al 1901, l’anno della nascita ‘“gemellare” di Olmo e Alfredo. La scena si apre su Gobbo (Giacomo Rizzo), il buffone del villaggio che, vestito come se uscisse da un’opera verdiana, corre per i campi ripetendo a squarciagola «Verdi è morto! Verdi è morto», scena che può giustificarsi solo se intesa come una parodia della precedente, quella pastorale. La musica del Rigoletto imprime poi una nota comica alla tragicità della situazione. Udiamo staccarsi sulle note le grida di una partoriente. Invece dell’inquadratura che ci aspetteremmo, Bertolucci mostra un gruppetto di bambini, che appollaiati su una scaletta, imitano con un cocomero il parto che si sta svolgendo nella stanza accanto. Poi, Bertolucci salta alla casa padronale, dove sotto le fine-
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Studi sul teatro della stalla hanno rivelato che si tratta di spontaneo (ora in via di estinzione) di dramma genere un contadino. Esso si perpetua durante i mesi più freddi dell’anno, ed ha luogo appunto nella stalla: l’unico spazio caldo e abbastanza ampio nel quale alla sera potersi riunire. Qui i contadini recitano una commedia in cui l’ordine tradizionale dei ruoli è invertito: l'esempio più ricorrente è il padrone che diventa servitore. In quest’universo balenante e oscuro, ogni parametro è sovvertito; persino il linguaggio subisce le distorsioni comiche.’ Si potrebbe affermare che il processo primario del pensiero (la condensazione e lo spostamento dei sogni) ha avuto la meglio. Una violenza, ma soltanto fantastica, è indirizzata contro tutte le forme prescritte di ordine so-
cio-psicologico. E tuttavia questa ribellione contro l’ordine rimane per tradizione occultata (nascosta tra gli animali e agìta sotto una farsa che permette il rilascio di un'emozione sovversiva senza effetto tangibile). AI massimo del suo portato rivoluzionario il teatro della stalla interroga l'ordine sociale, finendo col garantire lo statu quo. L'essenza di questo teatro riposa su due tematiche care a Novecento: la compulsione a ripetere continuamente lo stesso materiale, e lo scioglimento (edipico) perenne dell’autorità. Al fondo, i moventi di questo teatro sono ambivalenti: la compulsione a ripetere è psicanaliticamente legata al desiderio di morte,'° quando il conflitto edipico, derivante come è da occulte origini sessuali, è attribuibile al più profondo istinto per la vita. Una tale ambiguità è, come vedremo, endemica a tutta la fattura di Novecento. L’intero film è iscritto ambiguamente nel genere “opera realistica buffa”, un ibrido di Olmi, Verdi, Rodgers e Hammerstein!. Nonostante l’enorme cambiamento di tono da una sequenza all’altra, siamo spesso avvisati della qualità consapevolmente teatrale di ciò che vediamo. In quasi tutte le scene madri del film, Bertolucci sovrappone alla sua versione della
storia contadina una pellicola di teatralità. A volte questa “patina” si presenta sotto forma di coreografia: i contadini che colpiscono Attila coi chicchi di grano per protestare contro l’imposizione della “tassa” sulla loro parte del raccolto. Questa messinscena.rafforza ulteriormente l’eroismo della solidarietà contadina di fronte allo sfratto di Oreste: la risposta corale dei contadini e la loro resistenza passiva, in forma di balletto, corrisponde
I due patriarchi: in alto, il padrone Alfredo Berlinghieri (Burt Lancaster); in basso, il contadino Leo Dalcò (Sterling
Hayden). stre della camera da letto della nuora, il padrone Alfredo Berlinghieri (Burt Lancaster) e Gobbo inscenano anch'essi una farsa del parto. A conclusione di questa ouverture comica, il
padrone e il patriarca dei suoi contadini si ingaggiano in una polemica nettamente stilizzata, quasi una danza. Alfredo invita Leo a brindare ai neonati. Leo continua a falciare l’erba: lo stesso fanno gli altri sedici contadini, ribadendo il rifiuto in una coreografia degna di Oklahoma! Ogni volta che Alfredo tende la bottiglia a Leo, questo affila la falce, mentre la mdp parte in una panoramica sui sedici braccianti schierati su una sola linea: essi pure nell’atto di affilare le lame, seguendo lo stesso tempo e ritmo. La resa burlesca e teatrale di una dialettica padrone/servo costituisce qui un’allusione al “teatro della stalla”, tipico dell'Emilia.
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stilisticamente
all’orchestrazione della carica a cavallo dei soldati. AI primo contatto i cavalli si sparpagliano (mimando lo scompiglio precedente dei contadini) prima che riescano a consolidarsi spontaneamente in gruppo. Ma il regista ha già predisposto lo spettatore alla teatralità di questo episodio, quando in una scena precedente, carabinieri a cavallo intervengono durante uno spettacolo di burattini: la loro carica è la riproduzione reale esatta della parodia della repressione politica che i burattini stanno inscenando, e anticipa la prossima scena, lo sfratto di Oreste. Persino in momenti meno solenni, la messinscena adotta un tono curiosamente teatrale e onirico. Durante la processione funebre a commemorazione degli anziani bruciati vivi nell’incendio della Casa del Popolo appiccato dai fascisti, Olmo e Anita, non riuscendo a suscitare neppure un minimo di partecipazione popolare, sono al colmo della sopportazione. Abbandonati, percorrono e scrutano invano le vie deserte.
Finché la mdp inquadra lentamente un punto lontano, là dove prende a levarsi misteriosamente nell’aria la musica di una banda (che ricorda l’ingresso di Agostino in bicicletta in Pri-
ma della rivoluzione), e dove altrettanto misteriosamente co-
merda nel cervello...» (N, 70); un esercizio di autoumiliazio-
nel fienile, nella quale Ada (Dominque Sanda) si finge cieca: ecco avviarsi la dialettica cardinale di Novecento: la pretesa
ne (quando confessa alla giovane contadina la propria impotenza) e questo momento tragicomico si conclude con il suicidio. Al vederlo, Leo, brontola sarcastico: «Ah se poteste vedervi adesso, signor Alfredo! Però, non siete morto da padrone. Ma che bisogno c’era di slegare tutte le vacche, eh? Per farmi lavorare di più? Forse... forse la verità è che... quando un uomo non fa niente per tutta la vita ha troppo tempo per pensare. E a forza di pensare diventa un rimbambito» (ND): Ciò che è significativo in questa scena è il modo in cui il padrone entra, come per incanto, nel regno e nel ruolo immaginari a lui consacrati dal teatro della stalla. È come se il ri-
mincia a fare capolino un corteo funebre che si dirige verso i due. Qui “scende il sipario” e termina “l’atto primo” di Novecento, senza che sapremo mai se questa processione appartiene al topos del realismo del film o all’altro, enunciato all’inizio, al quale appartiene l’affabulazione della contadina quando in cima al covone ha una visione che vuole ardentemente (fare) percepire (anche a noi). Permettere e persino promuovere questa commistione di onirismo e realismo sembra piacere a Bertolucci. Infatti questa scena contrasta in modo uguale alla scena, immediatamente precedente, della danza
borghese di non riuscire a vedere-ciò-che-è in opposizione all’illusione contadina di vedere-ciò-che-potrebbe-essere. Questa opposizione «diplopica», erede di Prima della rivoluzione, domina il trattamento bertolucciano della partizione contadina e di quella fascista. La sublimazione dell’universo contadino è ottenuta da una luce dorata di Vittorio Storaro, dall’epica colonna sonora di Ennio Morricone e dalla coreografia di Bertolucci. La risultante è un senso generale di intima innocenza e purezza che permea la vita rurale, il cui apogeo è nel “rito del passaggio”. Filmato in una sorta di Ultima Cena, il piccolo Olmo (Roberto Maccanti), imbevuto in un alone dorato, attraversa
la tavola imbandita dei Dalcò per ascoltare da Leo il credo dei contadini e ricevere, infine, la benedizione paterna. Chia-
ramente nessuno di questi momenti si iscrive nel genere del documentario o del realismo socialista. Il “grande finale”, ad esempio, nel quale l'immenso gonfalone rosso si trasforma in una tenda che accoglie il “processo” di Alfredo è senza dubbio di marca operistica." Queste scene ingenuamente idilliche contrastano visibilmente con il trattamento del matrimonio di Alfredo (Robert De Niro), che inaugura il periodo dell’orrore fascista. Tanto le scene dei contadini sono filmate in un’aura di sogno, quanto il matrimonio è immerso in un'atmosfera tenebrosa, minacciosa, da incubo, ossessionato da un tema musicale fred-
do, e culminante nell’omicidio dell’adolescente. Questo mo-
mento cinematico è così orripilante che sia la violenza sessuale che l’assassinio sono visti come se fossero filmati da Ada (Dominique Sanda) in procinto di diventare cieca. Attila (Donald Sutherland) che ruota per i piedi il piccolo Patrizio, sfracellandone la testa contro il muro della cantina è filmato con la stessa annebbiata “incapacità a vedere” che in Prima della rivoluzione aveva caratterizzato la caduta di Agostino dalla bicicletta. Questo gruppo di scene contadine consapevolmente teatrali fa eco ad altri momenti del film altamente orchestrati: la falsificazione molieresca del testamento o la scena farsesca dell’anziano Alfredo Berlinghieri col nipotino (Paolo Pavesi)
che turbano la quiete della cena. Numerose scene, benché la direzione sia meno presente, professano in maniera dimessa la loro fedeltà alla rivoluzione pacifica dei rituali del teatro della stalla. In particolare, la sequenza del suicidio del padrone re-inscena puntualmente il significato latente e la struttura profonda di questa forma di spettacolo. Si parte dalla danza dei contadini magnificamente coreografati in riva al fiume per terminare al vecchio Alfredo nella stalla tra le mucche. Un linguaggio osceno e banale è parte integrante della scena: «Splich... splach... mucche piene di latte e merda... Sai quale è la vera maledizione? Latte e
Nell'arco di una sola generazione, cambieranno sia gli attrezzi che i veri padroni della Bassa padana (in basso, Romolo Valli, Donald Sutherland, Laura Betti, Gérard
Depardieu).
«Tutto quello che è tuo è mio, e tutto quello che è mio... è mio anche quello!». Tornata la pace, la nuova coscienza di classe divide Alfredo e Olmo (Robert De Niro e Gérard
Depardieu). tuale drammatico ripetuto incessantemente, quasi in modo compulsivo, avesse il potere di controllare e evocare la realtà che rappresenta. Come ne // Quarto Stato, come nello spettacolo dei burattini, e come la ragazza sul covone, la sequenza nella stalla libera una riflessione sui poteri dell’illusione: la Fantasia sembra avere facoltà di disciplinare, se non direttamente predire, la “realtà” del film. Questo potere “profetico” è confessato implicitamente in una delle ultime scene, quando il ragazzo Leonida (il cui nome di guerra è Olmo) dapprima spara accidentalmente a un ritratto del patriarca Alfredo Berlinghieri e poi minaccia di uccidere l’altro Alfredo, suo nipote, nella stessa stalla in cui il padre e il nonno morirono. Questa scena riveste un triplice significato: 1. Leonida e Alfredo hanno già iniziato a recitare la scena del simulato processo nel quale Alfredo come “padrone” verrà ucciso, ma risparmiato come persona fisica (un’altra appendice del teatro della stalla, e di Strategia); 2.
Nell’esposizione del racconto la scena con Leonida precede (per ordine delle sequenze) e segue (per cronologia) l’impiccagione “originaria” (come il cavallo bianco della sequenza di apertura, narratologicamente atemporale); 3. Le due scene soddisfano pienamente la compulsione a ripetere una configurazione sostanzialmente edipica (di conflitto tra il massimo di dipendenza dall’autorità e l'esigenza opposta della sua distruzione). Come Freud ha scritto: «La ripetizione di un ma-
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teriale represso appartenente all'esperienza di un passato recente... ha a che fare inevitabilmente con il complesso edipico e i suoi derivati. Ciò che appare essere la realtà è nei fatti solo un riflesso di un passato dimenticato.»! Infatti Novecento si abbandona in riflessioni su un passato non completamente dimenticato invece che dipanare la progressione della storia (marxista). La morte di Leo e del nipotino Olmo fanno parte di queste ripetizioni: entrambi muoiono in pace addossati ad un albero, in un momento integrante e reintegrante, rispondendo semmai a un vago e lontano appello della morte, come il nome di Olmo implicherebbe.! Queste scene accentuano inoltre la relazione tra la ripetizione (come compulsione) e l’interpretazione (rap-presentazione: il film).
Spostare l’interesse del film dalla massa all’individuo permette a questo numero di ripetizioni di fagocitare la dialettica padrone-contadini. Un trattamento analogo Bertolucci riserva al Fascismo. Non è impossibile trarre dal comportamento di Attila un’analisi politica della funzione del Fascismo nell’Italia prebellica: ad esempio, che i fascisti riuscirono con successo a inserirsi politicamente tra la casta morente degli agrari e la classe irrequieta del proletariato contadino. Accettando quest’ipotesi si renderebbe difficilmente giustizia all’impatto di Attila nel film. Infatti, Attila obbedisce allo stesso modello di ripetizione che associa le tre generazioni di padroni: finisce nella stalla, anzi nel porcile. Che poi il nome «Attila» si avvicini a quello del padre e poeta «Attilio», rattizza per l’ennesima volta il conflitto con l’autorità. Nel complesso Attila è meno rappresentativo del Fascismo che di ciò che potremmo chiamare il “complesso di Laio”. L’atroce
omicidio del piccolo Patrizio occupa una posizione centrale nella cronologia dei fatti, e viene raffigurato come una ellissi dalla quale il fanciullo viene brutalmente espulso.'° Già l’omicidio era stato prefigurato dalla testa insanguinata di Attila quando compie la sua smargiassata uccidendo il gatto con una testata. La compulsione all’atrocità di queste due scene allontana momentaneamente Attila dal suo status politico per fermarsi invece sul suo stato psicanalitico, nella figura di Laio. L’allontanamento dei bambini durante lo sciopero del 1908 suggerisce anche la potenziale dannosità del padrone (del padre) verso gli innocenti. Né chiamare «Oreste» lo sfrattato dal padrone è una scelta ingenua. Complessivamente c’è una forte propensione a rappresentare il conflitto edipico come una lotta protratta in cui il padre, sostanzialmente malvagio, ha la facoltà di affamare, smembrare e persino bruta-
lizzare i “figli”. Ribadire il tema di Edipo e di Laio secondo variazioni diverse attesta la volontà narrativa di Bertolucci di preservare la compulsione a ripetere. Né sorprende la diplopia che lo afflisse durante le riprese: tutti questi conflitti sono oniricamente condensati, proiettati e spostati sul doppio, configurazione capitale nell’intero lavoro. Questo Leitmotiv, opera tra e attraverso l’opposizione dialettica padrone-contadini, contribuendo ulteriormente a confondere e dissolvere la forza dell’analisi dialettica storica che il film potrebbe altrimenti assumere. La figura del doppio in Bertolucci è a questo punto della sua filmologia saldamente fondata. Novecento narra di due ragazzi nati lo stesso giorno d’estate e la cui paternità è incerta. Non è escluso che sia l'anziano padrone Alfredo il pa-
Ottavio, lo zio viaggiatore, insegna ad Alfredo come sopportare i tempi difficili attraverso “il sogno della ragione” (Werner Bruhns). dre del “bastardo” Olmo, visto come non si fa scrupoli a sedurre le contadine nelle stalle e vista la sconosciuta paternità del bambino. Inoltre non è impossibile che Alfredo sia il padre di entrambi i bimbi, data l’inettitudine del figlio Giovanni. Il buffone Gobbo ne celebra la nascita con una poesia: Ecco l’estate il caldo è soffocante son nati due bambini
pochi metri distante... Li volle unire insieme lo scherzo del destino
il figlio del padrone e il bastardo contadino... (N, 31)
Li volle unire insieme lo scherzo del destino. Infatti, il destino li unisce assiduamente in una configurazione di doppio come mai abbiamo incontrato nell’opera di Bertolucci. Da adulti Alfredo dirà: «Siamo gemelli... facciamo sempre a metà noi due. Quel che è suo è mio e quel che è mio è mio anche quello...» (N, 142). Questa battuta maschera appena la reale predominanza tra i due: Alfredo può essere più facoltoso, ma è Olmo a reclamare un primato naturale: lui è nato prima. È lui che inizia
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Nel fienile, Alfredo seduce Ada, un’elegantissima poetessa futurista presentatagli da Ottavio (Dominique Sanda e Robert De Niro) 114
Alfredo al giochi erotici e alle competizioni che scandiscono e acuiscono la dialettica padrone-contadino di tutto il film. Già dal loro primo incontro, Olmo bambino s'inserisce tra Alfredo e la sua amichetta Nina; poi, insegna a quel suo coetaneo, infagottato come un damerino, come
«si scopa la ter-
ra». Bertolucci tiene a rimarcare la goffaggine di Alfredo che emula, gesto dopo gesto, dapprima un combattimento simulato e poi un finto atto sessuale. I due sono messi a confronto anche nel momento del rito della tavola: il montaggio parallelo mette in risalto la calda intimità della famiglia Dalcò contro la glaciale ipocrisia dei Berlinghieri. Il piccolo Alfredo è costretto a ingoiare le rane che Olmo aveva infilzato sul filo di ferro attorno al cappello. E le vomita: altro esempio del dominio simbolico che Olmo esercita anche a distanza sul suo amico-padrone. Tra le colture dei bachi da seta, nel sottotetto, Olmo inizia Alfredo all’arte della masturbazione, e lo istruisce sul significato dell’espressione «socialisti dalle tasche buche»: altra metafora sessuale. Più tardi i due praticheranno quest'arte nel campo di grano vicino al vecchio Dalcò che sta per morire, mentre mugugna le ultime proteste contro i soldati fautori del padrone. Da adulti, rievocano i giochi dell’infanzia: quando Olmo, di ritorno dalla guerra, schiocca ad Alfredo un bacio sonoro sulle labbra. Buona parte della forza della lotta che i contadini menano contro un padrone ingiusto è dissipata dal regista nell’insistere a volerla “tradurre” nelle prodezze sessuali dei giochi d’infanzia. Mentre il film procede, malgrado le frequenti allusioni storiche, la relazione di Olmo e Alfredo continua a assomigliare più ai due volti di Giacobbe in Parmner che ai due opposti esponenti di una lotta di classe. E sempre una figura femminile funge da fulcro a questo instabile equilibrio: come, per esempio, la lavandaia epilettica che stesa nuda tra i due ne tiene in mano i sessi, come per misurarli. Questo “gioco”, come tutta la maggioranza dei loro comportamenti
Anita, una maestra elementare profuga dal Friuli, diventerà la moglie di Olmo e la madre di sua figlia (Stefania Sandrelli).
sistere, sottraendosi al soccorso. E come da piccolo si era in-
mento semplice, e non dialettico, dal tragico (i primi scioperi e l’avvento del Fascismo) al comico (il processo nel quale Alfredo è condannato a morte e risparmiato contemporanea-
serito tra Alfredo e Nina, da adulto Olmo “cattura” Ada, nel
mente), alla farsa (i due vecchi che riducono la “lotta di clas-
scherzosi, diventa pesante quando Alfredo, forzandola a bere il rosolio, ne causa un attacco epilettico, al quale rifiuta di as-
giorno del suo matrimonio, in una rete per uccelli, senza che i due possano mai più liberarsi da un fascino reciproco. Ada riuscirà ad evadere dal proprio alcolismo e a fuggire dal matrimonio per trovare Olmo. E se costui ha le qualità per mettersi alla testa dei contadini, e Alfredo per abdicare alla condizione di padrone, la particolare relazione, alla quale sono soggetti visivamente e tematicamente, mai oltrepassa lo stadio della emulazione e del complesso edipico. La più eloquente tra queste ripetizioni speculari sigilla l’intero film. Si tratta del gioco che Olmo insegna ad Alfredo e che Freud avrebbe definito «fort-da»: stendersi paralleli dentro le rotaie durante il passaggio del treno.!* Nell’ultima scena del film, Alfredo e Olmo, ormai vecchissimi, insistono
nella loro disputa infantile. Alfredo ripete il gioco che Olmo gli aveva insegnato, questa volta sdraiandosi di traverso, la testa sulla rotaia, come un guanciale, trasformando il “gioco” in un prevedibile suicidio, che ricorda il nonno e la sua morte da “teatro della stalla”. La scena costituisce una ripetizione visiva così impressionante da ribadire la seguente riflessione: ogni evento, a causa di forze psicologiche di gran lunga superiori alle politiche, è destinato a ripetersi senza metamorfosi considerevole, e sempre in forma spostata o deviante. Se mai esiste una qualche evoluzione all’interno di quedi ripetizioni, essa è rinvenibile in uno spostasistema sto
se” a una bega). In Novecento, come l’analisi di Marx sul Bonapartismo (definita da Jeffrey Mehlman
«una ludica imi-
tazione del tragico»), le ripetizioni sostitutive della rivoluzione risultano in collisione con la storia locale, corrompendo strettamente ogni valore cronologico." Piuttosto che affermare un processo storico o dialettico, il film disfa e la dialettica e la storia. La storia è sommersa dalla ripetizione degli eventi e dalla circolarità della narrazione che riporta il film al suo inizio; un progresso dialettico qualsiasi di tali eventi è perennemente negato con forza nel momento in cui avvengono. Condannando il padrone, per poi liberarlo, e arrendendosi alla prima personificazione dell’ autorità che attraversa la loro aia, i contadini di Novecento riattribuiscono al concetto di rivoluzione la connotazione ripetitiva inerente all’etimologia del termine, ma antitetica, politicamente, al suo significato. Bertolucci ha ragione allora, quando definisce quella minuscola repubblica «un'utopia»: essa non avviene né dentro, né fuori la cronologia del film. Nei dizionari la parola rivoluzione può essere definita come: «un moto orbitale attorno a un punto», oppure, «un improvviso rovesciamento politico prodotto all’interno di un dato sistema». «Il moto orbitale attorno a un punto» può di per sé descrivere alternativamente: 1. La configurazione Edipo/Laio (Attila che assassina il bambino: scena che rimanda
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Sotto la guida di Anita, le contadine della Bassa danno il via a una
sofferta resistenza contro
i nuovi soprusi
dei padroni.
alla danza de I! conformista e alla “mummificazione” di Athos — Draifa che lo benda — in Strategia del ragno); 2. Il progresso politico (mosso nel film dalla ripetitività drammatica più che dalla dialettica); 3. La struttura stessa del film
(che termina dove comincia); e 4. Il movimento della pellicola (mentre si svolge o si avvolge di bobina in bobina) e dell’occhio (mentre segue gli eventi sullo schermo cinematico). È la somma di queste accezioni che forma il significato latente del film, inconscio forse, ma certamente capitale. In questo senso il titolo del film “incapsula” l’idea del cinema stesso nel suo perpetuo deviare dalla esposizione storica degli eventi narrati per concentrarsi su un destino sempre già preinscritto nei rapporti personali: molto simile in ciò al nostro incessante desiderio voyeuristico di continuare a sperimentare la scena primaria nello scuro della sala cinematografica. Non solo, ma il titolo stesso dell’opera ripete la condensazione delle strutture sopracitate. L'italiano contempla un unico termine per dire e l’anno nel quale inizia il film (e lo riassume) e il secolo nel quale la “storia” si dipana. Annuncia e denuncia proprio il concetto della evoluzione cronologica 0 storica, focalizzandosi invece su questa inquietante struttura ripetitiva. Come Marx nella sua visione del Bonapartismo, così Bertolucci in quella della “rivoluzione” agraria sembra originare una sorta di circolazione dei termini non più assimilabile a una configurazione dialettica. I termini (politici o psicologici) in Novecento non sono simmetricamente opposti, ma ripetuti in una configurazione speculare (diplopica). In questo film sono così numerosi gli elementi che vengono duplicati, sincronicamente o diacronicamente, che pressoché ogni sequenza può aspirare ad occupare la posizione della struttura ripetitiva. Da ultimo, in queste insistenti ripetizioni, che ad ogni volta sembrano implicare potenzialmente un movimento dialettico della storia, prevale solo il ritorno, in apparenza, l’esatto opposto della rivoluzione.” Questa circolazione fantasmatica dei termini, la presenza del misterioso, della condensazione, del doppio, e una compulsione a ripetere, indicano che, per un aspetto, il film stesso rappresenta ciò che Freud definì «l'urgenza inerente alla vita organica di restaurare uno stato primitivo delle cose che l’entità vivente è stata
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obbligata ad abbandonare sotto la pressione di forze esterne di disturbo... l’espressione dell’inerzia inerente alla vita organica». Se la struttura ripetitiva in Novecento suggerisce un «desiderio di morte», è nel senso che si incontra assai frequentemente nei sogni: quella struttura in cui l'emozione è così continuamente spostata che il suo stimolo d’origine svanisce e non può essere reimpiegato come sorgente di un nuovo affetto.” Infatti, l’intera struttura di Novecento (e della maggior parte dei film dell’autore) è, come nei sogni, una struttura aperta, nella quale il pensiero del processo primario predomina. I tre anni di preparazione di Novecento dovevano portare Bertolucci a confessare durante le riprese: Non abbiamo ancora scritto la fine. In ogni caso la fine rimane abbastanza aperta. Abbiamo una rosa di idee, ma... i film prendono sempre una strada diversa da quella che si prevede... specialmente un film come questo. Sono come battelli nella notte, come un galeo-
ne che parte. Lo si fa partire, ma poi prende la propria direzione. Così, per il momento,
abbiamo
lasciato la
fine aperta.’
Di questi commenti risulta evidente il parallelismo con la struttura del sogno (si confronti: «I film prendono sempre una strada diversa da quella che si prevede» con la definizione di Freud «La via regia all’inconscio»; si noti: «battelli nel/la notte»; e poi, «prende la propria direzione»); a livello inconscio sussiste invece una considerevole allusione al proprio film. Il paragone «battelli nella notte» o «galeone che parte... nella propria direzione» evoca una sequenza e un personaggio particolari, entrambi “spettacolari”, la cui analisi rimane difficile se vogliamo ricondurli agli “intenti” ufficiali posti da Bertolucci a fondamento del film. E il galeone giocattolo sospeso sopra il capezzale di Alfredo bambino che introduce nel film la figura dello zio Ottavio (Werner Bruhns). E non a caso vediamo dapprima l’ombra del galeone che si staglia sulle onde della carta da parati. Ottavio è il “regista” di questo “film”: diletta il nipote, e ci ricorda quel gioco di ombre cardinale ne // conformista.” Il
Regina e Attila, la coppia di “mostri”, le cui ambizioni assai
comuni rappresentano
però l'emergenza di una nuova classe
sociale (Laura Betti e Donald Sutherland).
piccolo Alfredo, esoticamente
avvolto in un turbante. parla
subito di fuggire. Ottavio rappresenta il locus e l'agente della fuga: grazie all’assenza, alle ombre, all’oppio, alla diversità sessuale, al cavallo bianco, e al cinema stesso. E per il nipote mette in scena giochi di ombre. Infatti, quando fotografa voyeuristicamente i ragazzi nudi sulle rocce, vi allude come «la mia fotografia... segreta». E non appena Ada viene a conoscenza di questo segreto, domanda di essere fotografata anche lei. Ottavio la esaudisce, dicendo: «Ferma», mentre la mdp blocca l’immagine sull’attrice nuda, facendo coincidere per un istante l’ossessione di Ottavio e la nostra. Come il regista o lo spettatore, Ottavio non partecipa mai direttamente alle lotte politiche del dramma storico. Ad esse preferisce l'osservazione, il voyeurismo, la fotografia, i sogni, l’oppio. E quando la situazione diventa orripilante ed insostenibile, Ottavio si ritira, quasi cambiasse di scena. Tutto ciò che fa è evocare le problematiche del desiderio (o l’assenza), capitali nella struttura della fotografia.” Il voyeurismo di Ottavio è spesso imitato dalla mdp di
Il 25 aprile 1945 finisce una lunga notte durata vent'anni mentre, in mezzo
all’aia, i contadini
processano utopicamente il padrone sotto il grande gonfalone rosso.
Bertolucci che preferisce “riprendere” la scena attraverso porte e finestre: attraverso le porte chiuse della stalla seguendo il vecchio Alfredo Berlinghieri che tenta per l’ultima volta di sedurre la giovane contadina; scivolando nella camera da letto dove il piccolo Alfredo scopre che la voce del padre si sostituisce a quella del nonno defunto, per dettare un testamento a suo favore; dandoci di Ada e Alfredo, che fanno l’amore nel fienile, un punto di vista privilegiato; oppure di Olmo, Alfredo e la lavandaia nudi, stesi a letto: o ancora della grottesca esibizione di Attila e Regina, della violenza e dell’omicidio del ragazzo. Come in Ultimo tango e ne Il conformista, la cinescrittura di Bertolucci inizia sulle note di un voyeurismo seducente e passivo, per mutarsi — quasi un'estensione naturale del voyeurismo — in violenza, con la quale lo spettatore è chiamato a confrontarsi. La fine aperta di Novecento non contempla Ottavio. Costui rimane una presenza assente, come la tentazione al film/sogno, che così ampiamente rappresenta e illustra. Questa presenza evanescente avanza l’ipotesi che il titolo Nove-
cento possa avere un terz’ultimo valore. Oltre a coincidere con la morte di Verdi, che schiude il nuovo secolo, l’anno millenovecento è anche quello della pubblicazione dello studio psicologico più importante del secolo: L’interpretazione dei sogni di Freud. Seducente e traumatico, colmo di ripetizioni dei momenti cruciali, denso di spostamenti e condensa-
zioni. il film di Bertolucci «subordina il suo discorso solo sporadicamente e superficialmente agli imperativi logici; esso costituisce una modalità di pensiero che è libera (nel senso di libere associazioni), intrapresa col fine di vedere, implicante una serie di cambiamenti abrupti, atti di penitenza virtuale e diniego». Benché ci serva ironicamente, questo passaggio di Laplanche, tolto dalla sua critica a A/ di là del principio del piacere di Freud, è adattabile a Novecento. Accoppiato alle strutture del sogno usate nel film, rivela un nesso con la “Interpretazione drammatica” dove, proprio come nei sogni, il piacere seducente e il dolore traumatico sono insistentemente mescolati.” Poiché si tratta di un film che aspira ad attribuire al livello personale un impatto storico più esteso, il film può essere considerato come un “ricordo di copertura”, che raggruppa elementi apparentemente insignificanti, ma inconsciamente preziosi, in una struttura che maschera, e tuttavia preserva, ciò che la psiche non può permettersi di perdere." Esso è, a tutti i livelli, profondamente conservatore mentre allo stesso tempo permette l’apparizione di uno slancio progressivo. Questo “ricordo di copertura” è il locus della proiezione (le emozioni del regista e dello spettatore che riesce a provocare)
nte). e della protezione (ciò che nasconde, sia pure malame oggetto di stato suo il tra fluttua nto Novece Come un sogno, zione transizionale (uno spazio virtuale che permette la costitu
(lo spadell’Io attraverso l’esperienza metaforica) e il feticcio
nezio pietrificato di un canovaccio fantasmatico, la ripetuta di ore Mediat a).* psichic gazione dell’Io, una pseudorealtà zio dallo ficato personi qui tore, questi due poli, l’autore-sogna Ottavio, rappresenta niente meno che una versione del cinema. Le illusioni copiosamente indotte da Ottavio sono congruenti con quelle prodotte da Bertolucci. Esse costituiscono il tentativo necessario, a condizione che sia estremamente
consapevole, di collegare la realtà interiore e il mondo esterno per raggiungere un riconoscimento intersoggettivo.*® Per Bertolucci in particolare, queste opposizioni binarie, siano esse
interno/esterno, illusione/realtà, poesia/documentario, alla fi-
ne mirano sempre alla sua cura primaria: il cinema. Se Novecento dà l'illusione di riprodurre la rivoluzione contadina, contiene anche in germe uno sconvolgimento nella comprensione delle meccaniche della nostra illusione, la quale, come il film, sia è vitale per la crescita intersoggettiva,
sia si fonda sulla disillusione e sul potere di figurare l’assenza. La genialità di Novecento è di avere attirato la nostra consapevolezza sui numerosi e diversi rapporti che legano tra loro politica, psicologia e la natura del cinema quale esperienza cognitiva totale. Se Ottavio non torna alla fine del film, è soltanto perché le chiavi dei suoi paradisi artificiali e altri ritorneranno (come tutte le fantasie represse) ne La luna, dove
Bertolucci affronterà più pienamente ancora l’esperienza del sogno: sognato per il gusto di sognare.
NOTE 'B.B. a Gideon Bachmann, cit., p.13. ? Ibid. 3 B.B. a Ungari, cit., p. 180. *B.B. a Bachmann, cit., p.13. s Il Quarto Stato, a cura di Aurora Scotti, Mazzotta, 1976, pp. 96, 105. ‘ B.B. a Vogel, cit., p. 26. ? Bertolucci, Novecento, atto primo, Einaudi, 1976, p. 6. D'ora in avanti citato nel testo come N seguito dal numero della pagina.
$ B.B. a Bachmann, cit., p.12. ° In un manoscritto inedito Paolo Braghieri parla del «teatro della stalla». ‘© Freud, A/ di là del principio del piacere, Opere, cit., vol. 9. !! Coppia famosa di compositori di musical, come Oklahoma. !? Vd. Pauline Kael, “Hail Folly”, in The New Yorker 52, n. 10, 31 ottobre 1971, pp. 148 ss. !? Freud, cit. 4 Vd. Goethe, // re degli Elfi (1782). iS Vd, Freud, cit. ‘6 Vd. Strategia del ragno, în cui c'è un “duello” lungo 360° con la statua rotante del padre. Athos junior prefigura il prillo del bambino che conduce al cerchio assassino. i? Vd. la scena dell’amputazione dell’orecchio del contadino: inevitabile vedervi la prefigurazione della castrazione. !$ Vd. Freud, cit., sull’esperienza del «fort-da» e sulla compulsione a ripeteTC: !? Vd. Mehlman, Repetition and Revolution, Berkley, University of California Press, 1977, pp. 11-12. 2° Ibid., p. 13. Come se stesse scrivendo sul film di Bertolucci, invece che sull’analisi di Marx, Mehlman aggiunge: «La storia di un una ripetizione grottesca viene così ad essere marcata dall’insistenza ripetitiva di una struttura specifica: un rapporto speculare — o reversibile — è superato per eccedenza da un'istanza eterogenea, di segno negativo, la cui situazione è quella della deviazione o dello
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spostamento in rapporto a uno dei poli dell’opposzione iniziale... aprendo la strada alla farsa», p. 14.
ADI APN9Sì 2 In questo senso il film può essere compreso come un «movimento eterogeneo che emanciperebbe senza fine una dimensione unheimlich, indifferente alle distinzioni tra verità/errore, soppressione/soppresso». Ibid. pp. 40-41. 3 Freud, cit., pp. 67-68.
“ Ibid. p.70. % Vd. Mehlman, cit., p. 32: «Qualsiasi siano le fantasie psicologiche che lo accompagnano, in origine l’ipotesi dell’istinto di morte, nei sogni e nei sintomi isterici, si riferisce a un processo di espressione di tensione che passa da un’immagine all’altra svuotandola completamente di emozione: cioè, il fatto di uno spostamento inconscio come “pensiero del processo primario”». % B.B. a Bachmann, cit., p.12. ? Vd. supra, capitolo su // conformista. ® Vd. Sontag, cit., p. 15: «Una fotografia è insieme una pseudo-presenza e una indicazione di assenza... le fotografie sono incitamenti a fantasticare. Quel senso di irraggiungibilità che possono evocare alimenta direttamente i sentimenti erotici di coloro per i quali la desiderabilità è accresciuta dalla distanza». ® Jean Laplanche, Life and Death in Psychoanalysis, Baltimore, John Hopkins University Press, 1976, p. 107 (traduzione nostra). è Ibid., p. 107: «L’interpretazione dell’attore e l’imitazione artistica degli adulti, diversamente da quella dei bambini, sono destinate a una platea; non risparmiano allo spettatore (per esempio, nella tragedia) le esperienze più dolorose, e tuttavia possono essere sentite come altamente godibili. Questa è la prova che, anche sotto il dominio del principio del piacere, ci sono mezzi e maniere sufficienti per tradurre ciò che in sé è spiacevole in un oggetto di ricostruzione e rielaborazione mentale». » Vd. Pontalis, Entre le réve..., cit., p. 84.
è Ibid., pp. 49-51. ® Ibid. p. 98.
La luna
19709
Mentre filmavo La luna, mi sono ritrovato a girare esattamente negli stessi punti che Gina percorre in Prima della rivoluzione quando decide di SR Cercando un'inquadratura nel mirino della mdp ho perso l'equilibrio e sono caduto... come se tornando a Parma e portandoci la madre avessi osato troppo e mi fossi messo in una situazione insostenibile. Bernardo Bertolucci
Sogno (ma forse no) «Dopo che ebbi terminato Novecento», ricorda Bertolucci: «cominciai ad avere un sogno ricorrente legato al primo ricordo della mia vita: mia madre mi trasporta sulla sua bicicletta e io vedo il suo viso ancora giovane vicino a quello antico della luna che dondola nel cielo sopra di lei».' Il “testo” di questo sogno doveva essere trasposto direttamente in una
delle scene iniziali de La luna, lasciando intendere che la materia prima alla quale si era ispirato erano i suoi ricordi più remoti e i suoi sogni. Comunque, nonostante Bertolucci avesse rimarcato che «la scena di apertura è derivata da una dei miei primissimi ricordi», altrove ha fermamente negato che il film sia autobiografico.’ Il «tentativo di scoprire qualcosa della madre e del figlio» è anche «una ricerca del presente e del passato, una terapia che mi consente, come la psicanalisi, di essere in ar-
Nei ricordi d'infanzia di Joe, solo la figura della madre ha
un viso, che si confonderà sia col profilo del Circeo che con la faccia della luna (a sinistra, Jill Clayburgh). monia con me stesso, di accettarmi e di comunicare con gli altri... un tipo di comunicazione di massa molto estesa». Non si può fare a meno di essere colpiti dalla natura autocontraddittoria dei propositi, espressi come se fossero la stessa idea: da una parte, «una terapia che... mi permette di essere in armonia con me stesso» e, dall’altra, «un tipo di comunicazione di massa molto estesa». Nello svelamento di questo apparente paradosso giace la comprensione del film e il valore che occupa nell’opera del regista. Bertolucci aveva detto a proposito de // conformista: «È un ricordo del mio stesso ricordo»; e aveva spiegato che si trattava dei sui ricordi di cinema. Con l’esperienza de La luna questa affermazione assume un significato del tutto nuovo, genera una relazione col cinema degna di essere osservata: presa nella sua singolarità essa è diversa da qualsiasi altro suo film; inserita nel complesso bertolucciano può sintetizzarli tutti. All’inizio del film, il giovane Joe (Matthew Barry) e Douglas (Fred Gwynne), suo padre presunto, stanno su un balcone, non lontano dall’East River. Joe lancia una sfida: chi dei due riesce a lanciare la palla da tennis oltre il fiume. La mdp segue il lancio, oltre la darsena, vicina, e si ferma sulla scritta «Pier 14» (letteralmente: molo 14), nel momento
in cui la palla scompare dalla vista. Il nome di Pasolini su un magazzino di Brooklyn apre ciò che deve divenire una meditazione di intenso autoriferimento: la relazione di Bertolucci con l’autorità e col cinema. In questa scena due padri adottivi sono evocati: Douglas, il cui vanto di colpire con la palla la città è tanto vacuo quanto la promessa di rimanere con Joe; e, Pier Paolo Pasolini,
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morto tre anni prima dell’inizio delle riprese de La luna.* Il rapporto di Joe con Douglas è apparentemente ingenuo, in realtà è mostruosamente edipico. Il figlio comincia col blandire sua madre, Caterina (Jill Clayburgh), perché lo lasci accompagnarla in Italia. Eccolo, con voce sommessa e melliflua: «Ma io voglio andare in Italia insieme a te... Posso fare tutto quello che fa papà... Posso farlo anch'io, e meglio!».ì Conoscendo la complessità creativa che il regista ha fatto scaturire dal tema della rivalità edipica (Strategia del ragno, Il conformista), la trasparenza quasi semplicistica del carattere freudiano di questa scena pare sorprenderci, e deluderci. L'attore Fred Gwynne (la cui carriera cinematografica si era limitata all’interpretazione di un solo personaggio ispirato alla figura del mostro di Frankenstein nella nota serie televisiva americana «La famiglia Munster») svolge nei panni di Douglas la caricatura di un padre che va eliminato. Pochi istanti dopo la scena in cui Joe asserisce di essere migliore del padre, Douglas morendo stroncato da un infarto nella Mercedes bianca sul marciapiede di casa, rende un favore al “figlio”. Quest’eliminazione senza cerimonia del “padre”, anzi di qualsiasi figura paterna,° sembra concretizzare un senso di intima liberazione, subito rimosso però.
La complessità di questa scena dovrebbe avvisarci della latente intricatezza di un film, rifiutato dalla critica dietro il pretesto di inautenticità e di eccesso di simbolismo.” Ma c’è un altro elemento dell’episodio tra padre e figlio, che non dovremmo tralasciare. La sequenza si conclude con Douglas che ritrova una gomma appiccicata sotto lo scorrimano del balcone. «Cristo» mormora: «lascia la gomma in ogni angolo, quel ragazzo», riferendosi naturalmente a Joe. Ma come non pensare a Brando, che in Ultimo tango a Parigi moriva rannicchiato sul balcone, dopo avere appiccicato la gomma allo stesso posto: è la prima di una serie di allusioni, non ca-
suali, che Bertolucci tributa ai suoi film. Infatti, il desiderio di Joe di accompagnare la madre in
Italia collima con quello di Bertolucci: rivisitare luoghi e scenari dei film antecedenti. La catena di rimandi comincia ancora in terra americana. A parte l’episodio della gomma, la morte in auto di Douglas allude visivamente a quella del Professore Quadri. La sola differenza consiste nel capovolgimento dei ruoli: è la figura del padre, Quadri, che si avvicina alla macchina chiusa e non riesce a destare la figura accasciata sul volante! Ne La /una sarà Joe ad avvicinarsi allo stesso modo. «Morto, morto, morto» mormorerà. Vista alla luce dei
film precedenti, l’inversione dei ruoli suggerisce l’assunzione involontaria della figura paterna ad opera di Joe. Come scopriremo, l’intera esperienza italiana costituirà un delicato mutamento di enfasi per Bertolucci. Il funerale di Douglas rivela due allusioni. Mentre Joe e la madre siedono sul sedile posteriore della limousine sul punto di lasciare il cimitero, alcuni degli astanti si premono ai loro finestrini, schiacciandosi contro il vetro in modo misterioso: proprio come il volto agghiacciato di Anna Quadri durante l’assassinio del marito ne // conformista. In Prima della rivoluzione, invece, al funerale di Agostino, Gina e Fa-
brizio occupano nell’auto una posizione identica a quella di Joe e Caterina. Bertolucci disse di questa “coincidenza”: Prima della rivoluzione racconta la storia di un incesto, ma più inconsapevole e rimosso. Gina è la zia di Fabrizio. Mentre facevo il film ero convinto che raccontare l’amore tra una zia e un nipote fosse solo un modo, non troppo insolito, anzi abbastanza classico, per presentare un rapporto dove l’uomo è più giovane, più immaturo e più inesperto della donna. Avevo la sensazione di rifarmi a una convenzione neutra, piena di precedenti letterari, e mi dicevo che Gina avrebbe potuto benissimo essere un’amica di famiglia. Non mi rendevo conto che la sorella della madre è quasi una madre. Un dato che mi ostinavo a considerare stru-
Caterina Silveri è una diva di fama internazionale che vive a New York col figlioe il marito Douglas
(Jill Clayburgh e Fred Gwynne).
mentale e anagrafico celava il desiderio di mettere in scena la storia d'amore tra una madre e un figlio... Ho impiegato più di dieci anni di analisi perché Prima della rivoluzione divenisse La luna e perché la zia divenisse la madre. Vediamo qui come Bertolucci imputa alla sua esperienza psicanalitica ciò che equivale ad un rigetto globale del simbolico in favore di una interpretazione del tutto esplicita dell’incesto. In questa chiave le scene iniziali altro non sono che un esempio di appagamento del desiderio edipico, già “trasposto” dal regista dal piano metaforico a quello metonimico: è come se Baudelaire avesse optato di divenire Zola al fine di “chiarire” il concetto di correspondences. Per quanto deludente il mutamento di registro potrebbe sembrare, possiede almeno un corollario affascinante: il termine «ricordo di copertura» reso anche letteralmente, potrebbe perdere ne La luna parte del suo spessore psicologico in termini di resa del personaggio, e acquisire invece una nuova risonanza cinematografica. Nel termine «incesto» non più «si annida e per sempre si conserva» un segreto materno. Adesso il suo significato è stato più semplicemente spostato (in un movimento piuttosto frequente nella psicanalisi) su un altro livello: quello stesso del film. L’estrema autoconsapevolezza, ormai risaputa, delle riflessioni di Bertolucci su La luna è qui associata ad una così profonda e consapevole ripetizione, che l’autore sembra abbia voluto elevare la figura della ripetizione (tanto largamente sviluppata in Novecento) a modello di tutta la sua opera. Infatti, una volta in Italia, Joe e la madre rivisitano sistemati-
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La morte improvvisa di Douglas sarà per Joe l'occasione di accompagnare la madre in Italia nella sua tournée europea (Matthew Barry e Jill Clayburgh).
camente i set dei film italiani di Bertolucci. A Roma, per esempio, Joe percorre e ripercorre gli itinerari che erano già di Giacobbe in Partner. Quando Caterina fugge l’insostenibile incompatibilità col figlio, scappa fino a Parma, per le stesse strade di Prima della rivoluzione. E proprio in quell’occasione Bertolucci ebbe la famosa “caduta” con frattura di ambedue i gomiti per avere osato, come egli rammenta, «riportare la madre a Parma».... Vicino a Parma, Caterina ritrova Villa Verdi, quindi insieme a Joe attraversa la campagna emiliana. Come la psicanalisi stessa, il loro è un «voyage à deux, senza una mappa su una strada sconosciuta»? durante il quale riscoprono la mitica aia di Novecento. A questo proposito Bertolucci spiegò: «Il passato deve essere attraversato in un modo o nell’altro», poi, aggiunse: Caterina e Joe entrano in automobile dentro un’inquadratura di Novecento e guardano la corte in cui i contadini si sono riscattati con l’utopia del 25 aprile. Quando madre e figlio penetrano e trafiggono in soggettiva la Corte delle Piacentine, il suono per qualche secondo scompare. Oggi come allora Demessio Dalcò sta scaricando il fieno. Poi il suono ritorna, l’inquadratura prosegue, si ritorna al presente. La soggettiva viene contraddetta e la camera panoramica
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su Joe e Caterina che da spettatori tornano ad essere attori.!°
Questo momento di silenzio, tipico omaggio alla memoria dei defunti, sembrerebbe il tentativo di lasciare «riposare in pace» immagini troppo vivide del recente passato cinematografico di Bertolucci. Tuttavia, niente più di quel gesto allude meglio al lamento di Brando accanto alla salma di Rosa in Ultimo tango: «Conoscerò il mondo, l’universo, ma non scoprirò mai la verità su di te, mai». Vogliamo suggerire con questo che il contenuto materno in questo film è stato spostato inconsciamente altrove, e che Jill Clayburgh stessa funge sullo schermo come il ricordo di qualche altra matrice: il suo status di aztrice del cinema americano denota questa strategia di spostamento. Quando Caterina e Joe arrivano all’osteria, luogo dell’incesto, chi sbuca dal passato cinematografico del regista, se non l’indimenticabile assaggiatore di culatelli di Strategia del ragno, facendoci anche ricordare che Alida Valli è pure apparsa nel prologo del film, nella casa sul mare? La scena dell’incesto all’osteria cristallizza la relazione intima che esiste tra i livelli narrativi e metacinematografici dell’intero lavoro di Bertolucci. «A causa del tema che La luna racconta» sostenne il regista «era inevitabile andare fino
in fondo, accettare tutti i rischi di una discesa nel passato che era costituita anche dai film del mio passato. Un film sulla fantasia incestuosa deve essere attraversato da quel movimento violentemente autoerotico e incestuoso che sta dietro l’autocitazione».' Non c’è dubbio che il piano narrativo (la vicenda della tossicodipendenza, dell’incesto e della ricerca
del padre scomparso) sia indissolubilmente legato al cinema e allo stile cinematografico. Grazie alla sua qualità autointerpretativa, La luna va intesa non solo come il film tra i più vigorosamente metacinematografici di Bertolucci, ma anche il più violentemente autoreferenziale. Chi è questa “madre” promotrice di fantasie incestuose? I film precedenti di Bertolucci e la partitura de La luna forniscono molteplici ed intriganti risposte. In Strategia del ragno si inferisce fortemente che il contenuto materno rappresenta il luogo del sogno e, in fine, del cinema stesso. Ne La luna un montaggio sensibile concorre direttamente a questa interpretazione.
Nel prologo che apre il film, vediamo Caterina leccare il miele dal braccio del figlioletto sulla terrazza assolata di una casa sul mare. L'arrivo del marito di Caterina, Giuseppe (Tomas Milian) interrompe e frantuma questa “luna di miele” tra madre e figlio, creando, per chiunque verrà coinvolto, ciò che Bertolucci ha chiamato un «mielodramma».” L’uomo e la donna si scatenano in una danza selvaggia. Con una mano Giuseppe ondeggia un pesce, con l’altra brandisce un coltellaccio da pescatore, mentre oscilla il suo corpo sotto un sole accecante, incurante se questi arnesi possano causare un impatto traumatizzante (anche se simbolico) sul figlio. E infatti,
il piccolo Joe non tarda a farsi sentire: scoppia in un pianto a dirotto davanti a questa «danza di guerra barbarica», che finisce col risultare una versione abilmente mascherata della scena primaria. Il regista chiamò La luna una «danza d’inconsistenza, una danza d’incoerenza, una danza di confusione»: in questo senso l’imbarazzante twist del prologo vale come vigorosa metafora dell’incesto e della scena primaria che si in-
contreranno nel film."
il piacere stesso di sognare. Quasi tutte le sequenze sembrano alludere ad un mondo irreale. Bertolucci ha detto: «Se non vedo film, non ho nessun desiderio di farne. Infatti, prima di fare un film, vado spesso al cinema. Come qualcuno che sogna e non desidera smettere di sognare».' L'equazione tra il filmare e il sognare pervade tutta quest'opera. Il viaggio da New York a Roma è esso stesso un viaggio a cavallo del sogno, perché parte dalla “sepoltura” di Joe e Caterina nell’enorme e lugubre limousine del funerale (che rimanda visivamente alla morte di Douglas) e termina,
senza soluzione di continuità, dentro un’altra limousine che si fende la via tra i monumenti di Roma. «A undici anni» ricorda Bertolucci «fui spedito a Roma, e mi sembrò come di andare all'Inferno». Questa versione di Roma assomiglia, infatti, «ai lontani confini dell’ Impero». In questa città labirintica è Arianna (Elisabetta Campeti) la prima guida di Joe, ed è colei che lo introduce alla sua prima esperienza formativa: il film Niagara, con Marilyn Monroe. In un senso, trovarsi in un cinema non significa altro che ricapitolare i suoi primi ricordi come voyeur di un’altra scena primaria. Come Marcello Clerici ne // conformista, Tom in Ultimo tango a Parigi e Ottavio in Novecento, Joe doppia la nostra posizione di spettatori. Ma crea altrettanto un raddoppiamento curioso di quel ruolo: seduto in un angolo in pe-
i
In altra sede disse: «La luna rappresenta il momento in cui trovai il coraggio di puntare la mdp, per modo di dire, sulla scena primaria». E aggiunse: «Freud dice che il bambino non ha bisogno di vedere il coito dei genitori, gli è sufficiente e allo stesso tempo inevitabile immaginarlo. Conoscendo il pudore insano di mio padre, credo di avere avuto esperienza di una scena primaria immaginata e non reale. Il mio cinema è stato molto determinato, per certi versi addirittura modellato, da questo ricordo immaginario... Lo stile de
La luna è molto rivelatore sulle istanze segrete della mia natura di cineasta».! Dopo questa scena violentemente incestuosa, ritroviamo Caterina in bicicletta, che per una notte di luna piena si allontana da casa col piccolo Joe seduto in un cestino attaccato sul manubrio rivolto verso la madre che pedala e rischiarato sia dal sorriso di lei che dal chiarore della luna. Questa seconda parte del prologo fornisce l’altro tema dominante de La luna: cioè, il figlio non sembra più riprendersi dall'immagine della madre associata alla luna e dal sogno infinito che ella genera per il suo Endimione. La mitologia classica parla di:
Un bel giovane, il cui sonno sul monte Latmo commosse tanto il cuore della dea Luna che scese a baciarlo e a giacere al suo fianco. Si svegliò per accorgersi che era scomparsa; ma le attenzioni delle quali fu contornato furono indimenticabili tanto che il giovane pregò Zeus perché gli concedesse l’immortalità e un sonno perpetuo." «Dormire, per forza sognare»: il sogno sembra costituire ad ogni livello di questo film l’oggetto primario. Sognare per
A Roma, Caterina si dedica tutta alle pae de Il trovatore,
allestito al Teatro dell'Opera (Jill Clayburgh).
qualche modo irreale e quasi onirica per il figlio, soprattutto perché trascorre la maggior parte del tempo in scenari teatrali continuamente fittizi, lei che sembra ossessionata dal movimento e dalla mitologia, siano essi incontrati sui diversi palcoscenici, che nella sua casa romana, uno spazio completamente irreale, e che Bertolucci descrisse come «visto attraverso gli occhi di Joe... perso nei lontani confini dell’Impero».!
E sembra incapace di allontanarsi da queSti scenari immaginari, quando poi attraversa con la Mercedes bianca, simile a quella in cui Douglas morì, i luoghi del passato cinematografico di Bertolucci. La funzione dell’automobile sembra avere molte affinità di significato con l’Orphée di Cocteau, quando serve a collegare i personaggi all’aldilà (come nel caso di Douglas), o al sogno di marca narcisistica. Proprio nel loro ultimo viaggio, Joe si addormenta in grembo alla madre e si sveglia all’arrivo. In modo significativo il regista disse: «Mi piace sempre dormire nell’auto che mi porta sul set».?° Quando Caterina arriva a Sant'Agata, a Villa Verdi, esclama: «È la mia famiglia, questa... per me è come se fosse me stessa, mio padre, mia madre, tutto il mio mondo»
(L, 113): in questo modo getta le fondamenta della propria genealogia nell’opera lirica in cui è, per lo meno nelle apparenze, “solo” un’attrice. «Verdi corrisponde per me a una dimensione mitica» Bertolucci aveva detto durante la lavorazione di Strategia del ragno.” Come donna di spettacolo (doppio figurativo di Bertolucci stesso), Caterina è incapace di trovare e fondare la sua ontologia nel reale. Da ultimo, il film diviene un’iperbole che si stende sull’intero lavoro del regista, come accade a Don Chisciotte alla fine del romanzo,
Paracadutato in terra straniera, Joe inizia una relazione
sempre più “pericolosa” con Arianna (Matthew Barry e Elisabetta Campeti).
nombra vive la propria scena primaria al posto del pubblico che guarda La luna, divenendo in questa esperienza contemporaneamente soggetto e oggetto della scena primaria, singolare resa cinematografica di autoerotismo simbolico. Secondo la sua consueta ed eccezionale autoconsapevolezza, Bertolucci rifletteva a film compiuto:
Oggi mi sembra che tutto il mio cinema sia contenuto in questa scena primaria tra Anna e Giulia osservata da Marcello ne // conformista, e girando La luna, ho aperto il ventaglio delle possibilità di questo particolare modo di guardare, in una specie di catalogo di possibili scene primarie: nel cinema quando Joe e Arianna guardano Marilyn in Niagara; poi, sempre vista dagli occhi di Joe, a teatro, quando la madre canta «Tacea la notte placida», e c'è un movimento di dolly in erezione con Jill Clayburgh che si solleva insieme al nostro sguardo. Per non parlare dell’inizio del film. Joe, tuttavia, ripete la posizione di voyeur della scena primaria ancora una volta quando, come Tom nel negozio da sposa in Ultimo tango, al termine della rappresentazione lirica al Teatro dell'Opera si nasconde tra i costumi della madre nel suo camerino. Caterina, però, è destinata a rimanere in
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quando l’opera incontra la propria mitologia.” In qualità di spettatore dei miti di sua madre, Joe non fa meglio con la propria ontologia. Come già abbiamo avuto modo di osservare, Roma stessa, con il suo intricato labirinto
urbano e la sua guida Arianna di sapore mitologico, svolge la funzione di un paesaggio onirico. Ma Joe non tarda ad abbandonare Arianna e Caterina, per intraprendere il proprio “viaggio”: il mondo dei sogni dell’eroina. Se da piccino si era trovato ingarbugliato in una matassa di lana, provando allo tesso tempo un senso di unione è allontanamento dalla madre, da adolescente attraversa un groviglio di strade romane: questa volta lascia una traccia del proprio “progresso”, segnando i muri col gesso, altro simbolo della sua nostalgia per Arianna/imago materna, anche se si allontana da lei per immergersi in un labirinto di narcisismo. L’eroina procuratagli dalla madre in un momento di necessità, e la assenza di questa al suo risveglio, suggeriscono, come la figura dello zio Ottavio in Novecento, la complicità di lei a fondare quell’abito mentale che abitua a un perpetuo stato onirico. Quando in fine lo porta all’incesto, ci fa assistere non solo ad una scena primaria, ma alla scena primaria del
cinema autoerotico di Bertolucci: Joe, il voyeur/sognatore si trova avvinghiato a una madre/imago che personifica il mito, il sogno e l’ontologia del cinema stesso. Tale nesso così violentemente autoriferente manda in corto circuito l’unione e riporta Joe alla ricerca del vero padre. Quando alla fine ritrova Giuseppe, il padre rimasto lungamente assente, costui è impegnato a disegnare per terra una mappa del cielo; e il figlio lo aiuta a completare una luna, invece di distogliere il padre. E come primo scambio materiale, anche se per un equivoco, si scambiano le scarpe, simbolo di movimento e/o morte. E nell’unico scambio verbale che han-
no, Joe si limita a conferire al padre false notizie della propria morte: cioè, invece di richiamare il padre al proprio ruolo, il figlio preferisce darsi per morto, incatenandosi, ancora una volta, al mito, al sogno e sfuggire alla realtà. La «riunificazione» conclusiva della famiglia ha luogo al teatro di Caracalla, consacrata dal finale trionfante di un Ballo in maschera, mentre madre, padre e figlio sono tenuti distinti e separati. Anche questa scena è interamente immersa in un tipo di teatralità auto riflessiva. Bertolucci spiegò: L’opera di Verdi in Prima della rivoluzione divide Fabrizio da Gina e lo unisce a Clelia che rappresenta un po’ il suo destino borghese. Ne La luna il finale del Ballo in maschera separa Caterina da Joe e unisce il ragazzo a suo padre. Il melodramma è immanente al dramma dei personaggi, ma a un certo punto trabocca dal palcoscenico e li inghiotte, in un palco del Regio come tra le rovine di Caracalla. Dei fili invisibili muovono i personaggi, li trascinano e li fanno barcollare. Questi fili sono i loro sguardi: gli sguardi nella sequenza dell’Opera in Prima della rivoluzione tracciano un grafico appena marcato. Ne La luna si mette in moto una dinamica di sguardi così complessa che si arriva a una specie di gioco delle parti tra inquadrature oggettive e punti di vista soggettivi, seguendo le scansioni musicali del Ballo in maschera.* Persino la «soluzione conclusiva» de La luna è un mez-
sto lavoro ci sono molti esempi di processo primario del pensiero: in termini di condensazione, il film è particolarmente ricco. Benché sia vero che «ogni personaggio in questo film ha almeno due volti», potrebbe anche essere provato che per ogni due personaggi vi è un unico volto. Infatti, come guida di Joe in Italia, Caterina interpreta 1° Arianna del mito, e viene ciò nonostante doppiata da un’altra Arianna, sua coetanea; entrambe offrono il loro corpo a quell’adolescente smarrito, e ciascuna gli regala una “dose” nel giorno del suo compleanno: Arianna al compleanno di Joe, e Caterina alla propria festa. In questa scena, entrambe occupano il ruolo di metteur en scéne che era di Ottavio in Novecento. Sul versante maschile, invece, ogni padre doppia non solo l’altro ma anche il figlio. Infatti, Joe sostiene di poter fare tutto ciò che fa il patrigno; e prende in auto il posto del patrigno defunto. Quale condensazione del padre italiano, Joe scambia le scarpe con esso e poi scopre che entrambi sono innamorati delle rispettive madri. Nei panni del seduttore omosessuale del bar dove il ragazzo imita John Travolta, |’ attore Franco Citti non è solo un doppio visivo del padre italiano, ma anche di uno dei primi “padri” del regista: Pier Paolo Pasolini. Questa incertezza a proposito della sessualità dei genitori suggerisce le condensazioni del padre, dell’omosessuale e dell’amica Marina (Veronica Lazar) in quanto seduttrice lesbica di Caterina. Invece Caterina, che ricerca una figura paterna in Verdi e nella sua musica, suggerisce una condensazione delle figure di madre e figlio. Da ultimo, l’intero film può essere letto, in chiave onirica, come un ballo velata-
zo per l’auto-citazione (a Prima della rivoluzione), un’occa-
sione per diffondersi sulla lirica e sul teatro dei burattini. Più semplicemente il film non può sfuggire dal suo modello circoscritto di riferimento. La sua matrice rimane quella onirica. Come fosse il copione di un sogno di Bertolucci, in que-
Caterina si impegnerà a strappare il figlio alla spirale della tossicodipendenza sfidando anche gli ultimi tabù (Jill Clayburgh e Matthew Barry).
Il labirintico viaggio di Joe «ai confini dell'impero americano» lo porta a ritrovare il padre italiano che non aveva mai conosciuto (Tomas Milian e Matthew Barry).
mente in maschera nel quale ciascun personaggio può sostituirsi all’altro. Una delle ragioni per cui questo diventa possibile è dovuta al grado di proiezione che si attua dall’inizio alla fine. Se il film può essere “letto” dal punto di vista di Joe, allora gran parte del comportamento fantastico del padre e della madre va visto come pura proiezione: il desiderio di Caterina di trovare un padre e l'attaccamento del padre italiano alla madre. Invece, se il film si legge dal punto di vista di Caterina, i sentimenti incestuosi di Joe (la cena, le seduzioni) si leggono come mere proiezioni del desiderio. Il film esegue anche una notevole serie di spostamenti: la luna e l’eroina per Joe; l’opera lirica e la voce per Caterina; l'insegnamento e la creazione di un universo fittizio (il disegno) per Giuseppe non sono che pochi impressionanti esempi di questo fenomeno. Come copione di un sogno, il film differisce dalle precedenti fantasie di appagamento del desiderio di Bertolucci per il suo alto grado di autoriferimento. Staccandosi dai precedenti, La luna sembra presentarsi quasi esclusivamente come un oggetto da analizzare o da interpretare, anche se rimane relativamente inaccessibile, benché esternato. Come è, apparterrebbe meglio alla classe dei sogni che sono sognati per essere analizzati: quei sogni che i pazienti «hanno sognato... direttamente come sogni, con lo scopo di essere raccontati». Anche l’eccezionale profusione di commenti rilasciati da Bertolucci corrobora questa interpretazione. Gran parte de La luna è dedicata a renderci consapevoli dello stato onirico del film. Ma soprattutto vuole appartenere a
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quell’insieme di fantasie, che ci ricordano quei pazienti in analisi che partoriscono sogni solo per differire l'oggetto reale dell’analisi, e finiscono in un complicato sistema di autoinganno.?° Comprendere quest'altra funzione del lavoro onirico ne La luna, significa rievocare in che modo il film stesso e il processo del sogno nascono congiunti alla figura materna. A ragione, e forse in qualche modo inconsciamente, Bertolucci disse a proposito de La luna: «Tutti i miei film riguardano il padre. Finalmente, ne La luna mi sono accorto che questa figura era una copertura o un filtro per la madre la cui importanza viene alla fine rivelata»: forse, ma non solo ironicamente, nel modo esplicito che risulta dal racconto. Se il sogno è, come Freud proclamò, «un corpo materno: mal collocato», allora l’attività del sognare (senza badare al contenuto) costituirebbe di per sé sempre un tentativo di continuare un’unione impossibile con la madre, al di là di tutte le coa-
zioni temporali.?* In questo modo possiamo comprendere meglio la nostalgia per (e l’impossibilità di) quell’unione, in qualità di singola soddisfazione del desiderio! Sia il sogno che il film sono proiettati su uno schermo, o quanto meno, presuppongono uno spazio che consenta la rappresentazione. Ma questo schermo ricopre ironicamente una valenza duale che ricava il suo valore dai significati antitetici della parola: come luogo di proiezione e come strumento di protezione. Se lo schermo
stesso è l’ambito (e il seno) materno, come
ha
suggerito Lewin, allora il sogno (o il film) rimandano alla madre; infine, esso funge realmente da oggetto transizionale per il bambino, in quanto correla il sognatore alla madre col renderla assente.? Ma protegge dalla madre, facendo di più che assicurare la sua assenza. Nei sogni sognati per l’analisi, secondo Pontalis, il sognatore valorizza un aspetto inusuale dell’attività onirica:
Il sogno... come la rappresentazione di un altrove, garante di un perfetto doppio, o di una messa in scena, di un “teatro privato”, con la sua permuta di ruoli... concede la facoltà di non assumerne nessuno... Può risultare di una qualche utilità il funzionamento di un tale meccanismo (del sogno) pressappoco come lo scrittore adopera i suoi metodi di scrittura: la condensazione, che raccoglie in un'immagine le impressioni provenienti da registri multipli o contraddittori, soddisfa il nostro desiderio a negare la differenza radicale: l'obbligo a simbolizzare... Il desiderio di spostamento di nuovi legami all’infinito con lo scopo di non perdere nulla. Lo spostamento offre la possibilità di non rimanere mai in stasi, ma di assegnarsi un punto elusivo, evanescente. Il soggetto si identifica con lo spostamento
stesso, come
con un fallo, che è ovunque e in
nessun luogo, nulliquità più che ubiquità.” La posizione di questo specifico sognatore mostra ancora una rassomiglianza inquietante sia coi contenuti del film, sia con la relazione che Bertolucci intesse col film e col cinema in generale. La condensazione dei personaggi ne La luna e la serie di movimenti simbolici, al di là di una collocazione consueta, verso uno spazio fantastico, o spazio atemporale, corrispondono a questo tipo particolare di bisogno del sognatore: evitare un punto fisso di riferimento. Nel discutere il suo film ideale, Bertolucci evocò il movimento come la vera essenza dell’arte cinematografica: «Tutto il mio piacere è la mdp, nel movimento è tutta la mia decisione». E in altra oc-
gia col ragno, nella cui relazione «la femmina divora il maschio». La danza del ragno, questo «approccio minimale» alla femmina divoratrice, rimanda alla definizione de La luna data dal regista: «Danza dell’inconsistenza, danza di incoerenza, danza di confusione»;
ma richiama anche l’identifi-
cazione con lo spostamento stesso che abbiamo appena finito di discutere. Per di più, questo gioco di perversità, congiunto alla perversione autoconsapevole dell’uso dei sogni ne La luna, presenta notevoli analogie con la struttura della perversione stessa?” che spesso è il risultato dell’idealizzazione che il figlio fattura attorno alla madre, in assenza di una significativa immagine paterna. Nella maggior parte dei casi, ciò conduce alla proiezione degli aspetti distruttivi del genitore dello stesso sesso ai danni di quello del sesso opposto, risultante in un senso presuntuoso di colpa. Profili sessuali aberranti sono coercitivi, implicano sempre il gioco e sembrano richiedere uno spettatore anonimo. La costruzione di illusioni essenziali, che non devono essere alterate, solleva domande su ciò che è reale, similmente a quanto fa il sogno.*
casione esclamò: «Dove sto andando? Non lo so... Un film è per davvero un’avventura; saltare su un’imbarcazione e an-
dare col vento che ti porta in nessun luogo».” Il nessun luogo di Bertolucci, la sua «ricerca del mistero»,* risuona notevolmente simile a un sognatore che si era identificato con lo spostamento o la «nulliquità» stessa. Alla luce della particolare autoconsapevolezza che La luna ha nei riguardi dell’incesto, unito a una componente incestuosa di autoriferimento,
l’intera produzione bertolucciana
può essere potenzialmente ricondotta alla struttura dello spostamento costante, all’attrazione-rifiuto dell’oggetto materno, idealizzato, fantasticato. Prima della rivoluzione, Strategia del ragno, Il conformista, Ultimo tango a Parigi, Novecento, e La luna, riguardano esplicitamente il rapporto capitale di approccio-rifiuto della figura materna. Questa danza dello spostamento, alla fine, funge da scudo, da protezione contro L’interno, contro l'ammissibilità dell’unione alla figura materna, contenuta dallo schermo del
sogno in qualità di proiezione, ma suggerita anche da qualsiasi immaginabile sospensione del movimento.” Non sorprende allora, nonostante la speciale valenza di doppio di Caterina e di Joe, che il momento
cruciale de La
luna rappresenta un tentativo di seduzione incestuosa ad opera della madre (lo schermo del sogno come oggetto materno) che è contrastato e spostato dal figlio (lo schermo come proiezione protettiva). Joe abbandona il corpo divorante e inerte della madre per praticare un gioco di autopenetrazione con l’ago (la siringa dell’eroina), e rimpatriare nel sogno. La scena è in tutto e per tutto emblematica della tendenza interamente
(e in questo
caso
morbosamente)
narcisistica
dell’esperienza che procura il sogno.” Parlando a proposito di Strategia del ragno e Ultimo tango a Parigi, Bertolucci è tornato almeno tre volte sull’analo-
A Caracalla, Joe diventa il “regista’ della propria guarigione riunendo finalmente le due figure che erano fuggite dalla prima scena della sua vita (Jill Clayburgh e Thomas Milian). (i
127
Grazie alla sua “perversione” della funzione normale del sogno, grazie alla tendenza verso una compulsione alla ripetizione di tutti e due (sia i temi fondamentali, sia gli specifici elementi degli altri film di Bertolucci), La luna enfatizza la propria “pienezza di gioco”. Come tale, svolge una sorte di appendice all’opera del regista. Contenuto e struttura personalissimi, associati a una elevata autoconsapevolezza di stare facendo un film e, da ultimo, all’identificazione con lo spostamento stesso, suggeriscono che l’elemento di ‘“perversione” all’interno dell’attitudine registica di Bertolucci possa essere di fatto un’iperbole per il cinema in generale. L’esperienza cinematografica e l’ubicazione dei suoi film, in particolare, sarebbero la matrice (nel senso materno del termine)
di un’assenza presente, che trova posto al centro del suo e del nostro desiderio per il cinema: un desiderio di essere presenti, ma anche, assenti (oltreché assenti da noi stessi).
La quasi voyeuristica manipolazione dei suoi attori («A volte li devi ingannare. A volte li devi provocare. A volte li devi violentare in un certo senso»), il suo bisogno per uno
spettatore specificamente anonimo, e la sua insistenza sulla giocosa ricchezza di significati e su temi sessuali perversi, sia seducono l’identificazione dello spettatore (come doppio o sognatore), sia lo tengono a distanza. Nell’inscenare il desiderio di «essere amati e rifiutati allo stesso tempo», Bertoluc-
ci riepiloga al suo pubblico le dinamiche cardinali del sognoper-l’analisi, della perversione e, in fine, dell’esperienza cinematografica stessa. Noi diventiamo inconsapevolmente doppi, e diventiamo immagine paterna e materna in ciò che alla fine, e forse inevitabilmente, è un’esperienza di film “incestuoso”: la nostra identificazione costante con Joe e Caterina (che sono il doppio e la negazione l’uno dell’altro). Poco da meravigliarsi, allora, che Bertolucci abbia visto una relazione tra le fantasie incestuose che punteggiano La luna a livello narrativo e la “incestuosa e autoerotica” natura dell’autocitazione. E manca di poco il segno quando insiste nel dire che «il mio cinema era stato molto determinato, per certi versi addirittura modellato, dal ricordo immaginario della scena primaria». Nel suo desiderio di sradicare le differenze, Bertolucci sembra essere entrato nel cinema al fine di insistere sulla posizione di permanente spostamento: proprio e dello spettatore. Forse, questa è un’altra ragione per la quale l'automobile è così ubiqua ne La luna. In quanto per Bertolucci, il sonno perpetuo di Endimione traboccante di sogni, come il sonnellino in auto di Joe, rannicchiato in grembo della madre (quasi stesse imitando il suo regista che cerca di sognare mentre si reca sul set), riepiloga una mobilitazione della fantasia, fon-
damentale per l’impresa cinematografica.
NOTE ! Ungari, cit., p. 127. ? Vd. B.B. a Lee Tsiantis, ‘“Bertolucci’s Luna ”’, in Chairman’s Choice 4, n.1, inverno 1980, p. 12. ° B.B. a Piera Fogliani,
“Bertolucci:
la faccia nascosta
della Luna”,
in
Grazia, 21 ottobre 1979, p. 67. * Il regista si sofferma su questa connessione in un intervista con Jean A. Gili, “A propos de La luna”, in Etudes cinématographiques, n. 122-126, pp. 18-19. ° George Malko, La luna, Sperling & Kupfer Editori, 1979, pp. 14-15. D'ora in avanti, citato nel testo come L, seguito dal numero della pagina. f B.B. a Casetti, cit., p. 28. ? Vd., tra gli altri, Vincent Canby, “Bertolucci’s Luna ”, in New York Times,
7 ottobre1979. * B.B. a Ungazri, cit., pp. 35-36. ° In questi termini, Joyce McDougall, in Théatres du Jeu, cit., p. 19. ‘° B.B. a Ungazri, cit., p.191. ! Ibid. !° Ibid., p. 192. Infatti il film è più connesso all'ambito operistico che al melodramma. Tuttavia, quando venne rimarcata l'insistenza di Bertolucci sul termine «melodramma», ricorse allora alla locuzione «nuova drammaturgia», la cui «ambizione è di essere amata e rigettata allo stesso tempo». B.B. a Rob Baker, “Bernardo Bertolucci: in Defense of Luna”, Soho Weekly News 7, n. 2, ottobre 1979, p. 67. ! Ibid., p. 8. !* B.B. a Ungari, cit., pp. 191,193. ! Vd. la voce “Endymion”, in The Reader's Encyclopedia, New York, 1965, pp. 314-315 (traduzione nostra). ! B.B., “Dialogue on Film: Bernardo Bertolucci”, in American Film, gennaio-febbraio 1980, p. 36. !? Ibid. p. 42. !* B.B. a Ungari, cit., p. 192. ” B.B., “Dialogue on Film”, cit., p. 113. ° Conversazione dell’autore con B.B., 15 e16 giugno 1985. ® B.B. a Goldin, cit., p. 65. ©? Vd. “Don Chisciotte”, in Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli,1967, pp. 61 ss. © B.B. a Ungari, cit., p. 36. * B.B., “Dialogue on Film”, cit., p. 38.
128
© Pontalis, “Dream as Object”, in International Review of Psychoanalysis 1, 1973, p. 130 (traduzione nostra). °° Pontalis, ibid., cita quei «pazienti che faranno un sogno dopo l’altro e, senza posa, manipoleranno immagini e parole. Il sogno incessantemente muoverà il paziente più lontano dell’autoriconoscimento, mentre il paziente reclama di cercare [il sogno] attraverso l’autointerpretazione... Egli ruba da se stesso i propri so-
gni». ? B.B. a Tassone, cit. * “Sognare” argomentò Pontalis, cit., p. 127: «è soprattutto uno sforzo per mantenere un'impossibile unione con la madre, per preservare una totalità indivisa, per muoversi nello spazio atemporale». s
?° Ibid. p. 128. 2MbIANpal32! ° B.B., “Dialogue on Film”, cit., p. 41. °° Ibid. p. 38. 8 Vd. Bertolucci, In cerca del mistero, cit.
* Vd. Pontalis, cit., p. 132, che descrive questa protezione utile «contro l’incesto consumato con la madre, incesto che combina: gioia e terrore; la penetrazione e l’atto della divorazione; il corpo nascente e il corpo pietrificato». * Vd. ibid., p. 135: «Alla fine, il processo del sogno (del sogno-per-l’analisi) è dirottato lontano dalla sua funzione principale — produrre appagamento del desiderio, o farlo emergere in superficie — verso, piuttosto, l'essere assunto come fine a se stesso. Il sognatore che si aggrappa a se stesso per non essere gettato alla de-
riva».
°° B.B. a Baker, cit., p. 8. ® In linea generale per il trattamento della perversione siamo debitori di Joyce McDougall, “Primal Scene and Sexual Perversion”, cit., pp. 371-384. * «In molti modi» nota McDougall, ibid., pp. 377 e 379, «il gioco perverso è comparabile a un sogno... e rassomiglia a un palcoscenico al quale mancano alcune concatenazioni verbali... E un contenuto manifesto, che fa uso di processo del pensiero primario: inversione, spostamento ed equivalenti simbolici... Il pervertito ha creato una mitologia sessuale, il cui vero significato non riconosce più, come un testo dal quale passaggi importanti siano stati rimossi... L'illusione deve essere riproposta all'infinito, e questo aiuta ad evitare il pericolo del recupero attraverso la delusione». * B.B., “Dialogue on Film”, cit., p. 38. * B.B. a Ungari, cit., p. 192.
La tragedia di un uomo ridicolo
1981
Qualunque scherzo, benché di eccellente fattura, la
ragione abbia giocato sui miei sogni... Ma che importa se erano sogni o no, fintantoché mi hanno rivelato la Verità? Dostoevsky, Il sogno di un vomo ridicolo
Incubi ‘famigliari’ Verso la fine del film, Primo Spaggiari (Ugo Tognazzi) si esercita, tutto agitato, a riprodurre il proprio autografo che servirà a firmare le cambiali del riscatto. Lo rimira e dice, fuori campo: «Persino la mia firma era cambiata. O ero cambiato i0?». La stessa domanda dobbiamo porcela a proposito di questo film: era cambiato Bertolucci? O era la sua firma che era cambiata? Un tale intendimento sembrava assillarlo quando dichiarò: «Volevo fare un film “sporco” dal punto di vista stilistico, dal punto di vista strutturale. Non volevo una bella grafia».' Infatti confessò: «Ho sentito il successo come
una sorta di pesante ricatto» (termini che ritornano nel film, finendo con l’identificarsi col protagonista). «Così il tentativo di fare qualcosa di diverso ne La tragedia di un uomo ridicolo è un modo di provare a fuggire da questo ricatto. Ogni volta devo assumere molti rischi e non avere paura di deludere il pubblico che si aspetta da me un certo film — che aspetta sempre le stesse immagini. Spero che non sarà deluso. Ma se anche lo fosse...».? In verità, La tragedia di un uomo ridicolo è così apparentemente diverso dai film precedenti che alla presentazione nel 1981 fu accolto con diffidenza, per dir poco, dalla maggioranza di critica e pubblico. Gaston Haustrate per esempio:
Nel campo di granoturco dove è stato rapito il figlio Giovanni, l'industriale Primo Spaggiari (Ugo Tognazzi) ritrova per terra la scarpa del giovane. 130
«Da qualsiasi parte lo si prenda, è difficile giustificare la confusione (volontaria?) dell’ultimo film di Bertolucci». Jac-
ques Fieschi, in Cinématographe, rincarò la dose: «La tragedia di un uomo ridicolo si dipana secondo falsi piani, le ambiguità sono delle impasses... A un piano superiore, ben s’intende, il proponimento dimora sempre viziato da un’affettazione che mina il gesto artistico senza mai investirlo».? Pauline Kael che aveva magnificato Ultimo tango a Parigi questa volta si sbarazza sbrigativamente: «Non una scena che va da
qualche parte. La visione di Bertolucci è ingrigita e mediocre al cuore... è il film di un vecchio».' Bertolucci ripiegò sulla difensiva, spiegando a pubblico e critica, frustrati per l’ambiguità della fine del film, che il film era in verità politico, ma non riguardava il terrorismo: «Ho scelto di non entrare nei dettagli deplorevoli del terrorismo». Ma se il film non è sul terrorismo, su che cosa è?
A prima vista, il film si muove in un’atmosfera da thriller. Primo Spaggiari, un agiato industrialotto parmense assiste impotente dal tetto del suo stabilimento al rapimento del figlio Giovanni (Ricky Tognazzi). La moglie di Spaggiari (Anouk Aimée) comprende immediatamente che un riscatto sarà richiesto. Insiste perché il marito rediga l'inventario delle proprietà. Primo viene avvicinato dalla ragazza del figlio, Laura (Laura Morante); indi da Adelfo (Victor Cavallo) un
“operaio-prete” che sembra godere di un qualche contatto con i rapitori. Tutti questi dettagli stimolano, come è prevedibile, lo spettatore. Ma la vicenda si complica. Primo, quando apprende da Adelfo che il figlio è stato ucciso, invece di de-
sembrava accoglierlo a livello del personaggio. Il film, diversamente dagli altri, è visto nell’ottica del padre, invece che del figlio. «E la prima volta che assumo l’ottica del padre. Nei miei film: la ricerca del padre, l’interrogazione sul padre, l'aggressività verso il padre, la pazzia del padre, sono un ritornello. Qui, invece, è il padre “padrone”. È la prima volta che il padre è il soggetto di un film, e che l'ottica passa attraverso i suoi occhi». La scelta di Tognazzi era intimamente legata alla fattura del film. Prima di scrivere la sceneggiatura, Bertolucci ne discusse con Tognazzi. Alla fine il regista lo scelse: «questo uomo radicato nella valle del Po» e che assomiglia alle statue dell’ Antelami nel battistero di Parma: Credo di avere ritrovato in Tognazzi un insieme di ricordi e incontri, una serie di esperienze che sono profondamente legati a questa terra. Con lui non ho mai bisogno di ricreare, di puntualizzare, di mettere in scena, se non cose che sono già in lui, nella sua espe-
rienza immediata o nella sua memoria."
Scegliere Tognazzi significò per Bertolucci fare ritorno a uno ambiente familiare: Parma. In numerose occasioni il regista aveva lasciato trapelare: la sua «nostalgia per un film italiano»; il bisogno di fare «un film completamente italiano», situandolo nel genere del «cinema italiano minore», e
collegandolo al suo bisogno di «ritrovare la lingua italiana». «Non si finisce mai con l’autobiografia» Bertolucci osservò,
sistere dalla colletta del denaro necessario, intensifica gli
«se la mettete alla porta, rientra dalla finestra». E così La
sforzi con la segreta ambizione di rifinanziare il caseificio, servendosi della morte del figlio come “concime” per far uscire l’azienda dalla crisi che sta incontrando. Con il denaro per il riscatto si accorda con Laura e Adelfo per collettivizzare il caseificio a favore degli operai, a condizione di esserne eletto presidente a vita. Inventano una missiva con i dettagli del pagamento. Primo e Barbara consegnano una valigia di un miliardo di lire in un bosco limitrofo. Il giorno dopo in una discoteca locale Giovanni viene liberato. Alle domande «da chi» e «a chi il riscatto è stato pagato?» Primo risponde: «A voi [spettatori], lascio il compito di risolvere l'enigma di un figlio rapito, morto e risuscitato». Il film termina in questa totale oscurità. Non c’è da meravigliarsi se i critici non trovarono una risposta. Pochi, Serge Toubiana e Jacques Siclier tra gli altri, hanno suggerito saggiamente che: «In tutta onestà è meglio non pronunciarsi senza averlo rivisto». E tale è la nostra esperienza con ogni film di Bertolucci. Infatti, l’assenza quasi assoluta di sequenze sui “terroristi”, ad esclusione della scena del rapimento, ci invita a cercare altrove il significato del film. L’interrogazione sulla firma sollevata dal protagonista del film rimane capitale. Affermando: «non volevo una bella grafia»’ Bertolucci stava in realtà attirando l’attenzione sull’importanza dello stile cinematico, visto che la “calligrafia” e la cinematografia hanno costituito poli di attrazione e rifiuto della figura paterna. Fedele a se stesso, Bertolucci produce un film in cui ogni momento di scrittura è sospetto. Le prime due lettere, scritte presumibilmente da Giovanni, sono assai sospette (per le ragioni che spiegheremo in seguito). La terza è, poiché vediamo Primo dettarla a Laura, flagrantemente falsa. Particolarmente curioso resta il fatto che rifiutando l’ambito paterno a livello della “calligrafia”, Bertolucci
tragedia di un uomo ridicolo si ambienta proprio nella nativa Parma e nella campagna emiliana. Ma non è soltanto la campagna della sua adolescenza, è anche la scenografia dei suoi film “italiani”: Prima della rivoluzione, Strategia del ragno e Novecento. La tragedia di un uomo ridicolo include abbondanti allusioni a questi film. Per di più, i boschi in cui Primo e Barbara camminano con la valigia provengono direttamente dal primo cortometraggio di Bertolucci: La teleferica (1956): «È là che ho realizzato il mio primo film a quindici anni» ricorda Bertolucci «e venticinque anni dopo vi ci sono dunque ritornato». I maiali, l'uccisione e il rito che ne consegue, rievocano Novecento; ma anche un altro suo cortometraggio, La morte del maiale (1956). Come ogni altro film, vi è una citazione all’opera lirica: quando Primo, nelle scene finali del film, canta «Di Provenza il mar, il suol» tolto dalla
Traviata (un’allusione non solo ai propri film ma anche a Ossessione di Visconti). Parma naturalmente è la Parma di Prima della rivoluzione; anche se Bertolucci sostenne che era più vicina a Strategia: «[La tragedia è] l’immagine speculare di Strategia».' Primo, come nome, fa pensare a Prima. E Bertolucci vide «in Primo la forza utopica che mi fa pensare a Novecento».! Anzi disse che La tragedia di un uomo ridicolo è «come, in un certo modo, il terzo atto di Novecento», dove Primo «è un po’ ciò che sarebbe divenuto Olmo se avesse seguito la via che gli avrebbe tracciato la nostra società».! Insistere sulle origini non è per Bertolucci una semplice celebrazione dell’Italia: Parma ha avuto il privilegio di conoscere l’occupazione francese, vi si pronunciano le ‘“r” moscia come in Francia, abbiamo degli architetti, pasticcieri, falegnami francesi... È una città dalla doppia identità, molto
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emiliana, dunque terranea, un poco pesante, e allo stesso tempo, molto influenzata dalla Francia."
Si aggiunga a questa duplicità il fatto che i film più “italiani” del Bertolucci di quel tempo sono sempre stati da lui considerati molto “francesi”: Non mi sono mai sentito veramente un regista italiano. Quando ho cominciato, il cinema italiano era il neorealismo che si stava degradando in commedia all'italiana e io amavo i registi francesi: Godard, Resnais, Truffaut. A volte chiedevo persino ai giornalisti di fare interviste in francese...
Cosa appare difficile in questo film è dunque, da una parte l’amore di Bertolucci per le sue origini e dall’altra la soluzione di continuità con esse. L'intero film è girato sotto il segno dell’ambiguità e dell’ambivalenza, simbolizzato non solo dalla “transalpina” Parma, ma anche dalla figura femmini-
le interpretata da Barbara. Barbara (Anouk Aimée) personifica molta di questa ambivalenza culturale. Bertolucci disse di lei: Anouk, a mio avviso, interpreta l'ironia, vero privile-
gio borghese. Primo ha origini contadine, sposa una donna elegante, borghese e francese, per avere una sorta di promozione sociale, cosa molto comune in Emilia... allora ciò che mi affascinava, all’inizio, era la reazione chimica di queste due fisionomie così diverse: lui così romanico come una scultura del battistero di Parma, che io immagino d’inverno, immobile, con la neve sulle spalle, e lei, così leggera, evanescente, così francese. Questa reazione chimica contrastante
Per Primo e Barbara inizia una lunghissima attesa, mentre l'assenza di Giovanni si fa sempre “più acuta presenza”
mi piace.”
(Ugo Toganzzi e Anouk Aimée).
AI di là delle loro differenze culturali nazionali, Barbara e Primo incarnano pure la differenza di classe: Sono due classi sociali che si affrontano. Barbara — e il portamento di Anouk l’implica — proviene dall’alta borghesia francese: a vent'anni ha studiato restauro a Parma, cosa che spiega i suoi legami con la pittura, il suo falso Pissarro, ecc. Poi ha incontrato questo excontadino, che si è arricchito. Originaria di una famiglia pigra, ella è affascinata dal suo materialismo. Durante tutto il film le due classi sono a confronto. Primo guarda Barbara con ammirazione e rabbia, per via della classe che ha... Barbara gli invidia l'energia e la vitalità. La scelta di Anouk è dialettica rispetto a Tognazzi.”
A nostro avviso, Bertolucci ha dato il meglio di sé nel momento in cui integrava l’aspetto politico a quello psicanalitico, Marx a Freud. Ora: i commenti del regista sulla relazione Primo/Barbara suggeriscono nuovamente, e a dispetto di tutta la discussione sul mutamento di firma, che il centro reale di interesse poggia su temi che possiamo considerare cari al suo autore, come le proprie origini, la struttura onirica, e la configurazione dei personaggi all’interno della famiglia. Il film inizia con una rievocazione delle due culture che lo dovranno permeare. La mdp punta sulla campagna emilia-
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na, mentre due veicoli attraversano l’inquadratura: una piccola FIAT, simbolo della città, e un’enorme trebbiatrice, simbolo dell’agricoltura e dei campi che dominano il paesaggio. Dopodiché Bertolucci lascia gli esterni e mostra i resti di una ricca tavolata. Gradualmente compare sullo schermo l’immagine di Primo che, stravaccato nella sua poltrona d’ufficio in un pisolino postprandiale, la testa riversa, emette grugniti di sonno. A questo punto fa il suo ingresso la voce fuori campo di Primo: «Stavo sognando... Stavo sognando...». L’espediente formale della voce fuori campo permette allo spettatore di recepire il film come il testo di un sogno: quello di Primo. Infatti, Bertolucci chiamò le scene nei boschi de La teleferica, poi rivisitati in questo film, «un sogno di un pomeriggio di mezz’estate».? In altra sede, il regista ha osservato che in origine una fine diversa era stata prevista per La tragedia:
Primo si svegliava dopo la scena della balera. Questa chiudeva il cerchio prima di arrivare alla sequenza d'inizio, dove è l’incubo. La storia doveva essere un sogno, come l’anticipazione di qualche cosa che sarebbe accaduta. La tonalità corrispondeva alla pesantezza di stomaco dopo una festa di compleanno dove si ha bevuto molto. Nel tono del racconto alla prima persona, il film ha forse mantenuto questa qualità onirica e di incubo dell’inizio.”?
to improvvisamente da capogiri, e il maresciallo Angrisani (Vittorio Caprioli) si trasforma in medico, mentre gli misura il polso. Quando dal nulla spunta un elicottero e volteggia sulla proprietà Spaggiari, Primo si precipita a chiamare la polizia. Gli dicono al telefono: «Eccolo!». Primo ripete senza comprendere: «Eccolo», allorquando il maresciallo, comparso improvvisamente sulla soglia della porta, risponde: «Eccomi». Quella comparsa da il via ad un dialogo assai onirico: Maresciallo: Voi avete bisogno di tranquillità... altro che elicotteri... Dovremmo parlare più spesso... C’è la variabile impazzita...
l’imprevedibilità...
lei, e il
buco nero, il vuoto pieno, che sarebbe la mutazione dell’oggetto stellare. [Mentre cammina per la stanza inciampa comicamente]. Adesso mi chieda: «Che cosa c’è di così inquietante in una lettera via aerea?». Primo: Dovrei domandarle: «Che cosa c’è di inquietante in una lettera via aerea? Io chiedo a lei questo?». Maresciallo: Sì, mi domandi: «Che cosa c’è di così inquietante in una lettera via aerea?». Primo: Che cosa c’è di inquietante in una lettera via aerea? Maresciallo: C'è di inquietante che noi sappiamo che lei ha ricevuto una lettera via aerea a mano. Vorrei vederla. Barbara: Impossibile. L’ho mangiata. Maresciallo: La cosa è ancora più inquietante
Se Bertolucci avesse mantenuto questo finale, critica e pubblico avrebbero cambiato opinione.” Ma accoglierla avrebbe significato violare una costante nella “firma” del regista: l'enorme incertezza, caratteristica del sogno (e del cinema), tra fantasia e realtà, tra il rappresentare e il percepire. Rifiutando di ricorrere alla scelta “facile” del sogno, Bertolucci aumenta l'ambiguità e la varietà dei riferimenti. “Leggere” invece il film come una via di mezzo tra l’attività del sogno e la realtà, significa andare all’incontro della plurivalenza del testo. Bertolucci a sua volta rivendicò di essersi appoggiato su un montaggio molto libero, mescolando a volontà la cronologia per «lasciare navigare il film come un work in progress».° «Navigare» rimanda sia alla tecnica che alla metafora impiegata per Novecento: «navi nella notte e il galeone che salpa». Si potrebbe vedere Primo come una caricatura di Ottavio, quando, con il berretto da capitano di lungo corso, prosegue la metafora di Ottavio e del galeone giocattolo, in funzione di sogno: «Ecco il capitano di lungo corso che sale sul ponte di comando. La nave è il tetto del mio caseificio, il mare la pianura».* Leggere il film come il sogno di Primo “spiegherebbe” la presenza multipla degli elementi onirici: l’abrupto salto dal giorno alla notte, da una stagione all’altra, come altrettanti cambi di tono imprevedibili. Uno di questi ricorre quando Primo parla agli operai in assemblea all’indomani del sequestro. Inizia: «Le cose vanno molto male», per saltare subito ai «papaveri» in un modo oniricamente associativo. I papaveri: sinonimo di oppio e pertanto dei sogni. La serietà dell’inchiesta della polizia è costantemente disturbata da interruzioni di momenti comici inappropriati. Per esempio: chiamato a testimoniare sul sequestro, Primo è col-
Durante la sequenza, recitata come fosse più un vaudeville che un’investigazione di polizia, il maresciallo sa più di quanto dovrebbe logicamente sapere e tuttavia fa finta di ignorare ciò che dovrebbe sapere. Se c’è un uomo ridicolo in questo film, ne sarebbe certamente candidato. Il successivo intervento della polizia pare un’invasione di extraterrestri. La retata è istruita con la serietà ridicola di un film di fantascienza di seconda categoria. Le uniformi, esagerate per la circostanza, rasentano la parodia. In un’altra sequenza che deve avere sconcertato buona parte dei critici, Primo cammina per le strade di Parma. Seguito da una strana coppia di altoparlanti bianchi, cerca di eluderli, compiendo per due volte dietrofront. Alla fine, come se fosse la prima volta, Adelfo lo riconosce. Attraverso gli altoparlanti gli spiega: «La macchina è di un mio amico sindacalista» una rivendicazione che non giustifica lo straordinario lavoro di cinescrittura che Bertolucci spiega per la scena. Sostenendo che non può guidare e parlare allo stesso tempo — benché ne abbia appena dato prova — la conversazione riprende inspiegabilmente sotto la pergola di una trattoria, mentre si odono le fucilate dei cacciatori. La mdp di Bertolucci lascia i due per inquadrare la morte di una lepre — reminiscenza sia de La regola del gioco di Renoir, che di Novecento. Non solo nessuna spiegazione sarà mai fornita, ma questa strana sequenza è seguita da un’altra, ugualmente sibillina: Primo spia la domestica che con un’amica balla nella cucina al ritmo di un’assordante musica rock. Primo insiste: che continuino a ballare. Afferra persino la ragazza e compiono insieme qualche passo. Poi lascia la cucina, trangugiando un po’ di liquore già versato in un bicchiere e si contempla allo specchio sbottando: «Il tempo non passava mai. Mi sentivo così inutile, così ridicolo». Poi canticchia: «Son contento di morire, ma mi dispiace. Mi dispiace di morire, ma son contento». Questo chiasmo illogico accade in con-
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La somma richiesta dai
rapitori equivale esattamente al valore del caseificio che Primo ha impiegato un'intera
vita a mettere in piedi (Anouk Aimée e Ugo Tognazzi).
temporanea con un chiasmo visivo con lo specchio, facendo pensare all’Orphée di Cocteau, “contento” di morire nello specchio. Nella scena successiva Barbara misteriosamente fa dono a Primo di una seconda lettera del figlio sequestrato. Vi si dice: «Cara mamma, da ragazza, a Cherbourg ti avevano dato il soprannome di Pazienza. Ora ti prego di essere paziente. Qui non mi trattano troppo male, ma al buio ho delle strane vertigini, e di notte mi piscio addosso come quando ero bambino». Un materiale simile proviene piuttosto da una libera associazione onirica che da un atteggiamento razionale di fronte a un sequestro. Quando Primo si reca da Adelfo, presumibilmente con il fine di raccogliere informazioni, scopre al muro una collezione di fotografie di Giovanni e Adelfo. In una i due si baciano. Primo sbotta: «Allora son proprio amici!». Questa fotografia getta nuova luce sulla relazione di Giovanni con Laura e
Adelfo, nonostante la prima reazione di Primo sia di lasciare la casa e recarsi nelle toilette esterne. Due altri momenti meritano di essere notati per la loro qualità onirica: Primo e la domestica; e Primo in banca.” Primo
(alla domestica):
Di” un po’, venivano
spesso
degli amici a trovare Giovanni, quando io non c'ero? Donna: Spessissimo. Primo: Gente strana? Donna: Stranissima. Primo: Brutte facce? Donna: Bruttissime... Signor Primo, mi lascia la pagina dei morti? Il dialogo con il banchiere è altrettanto “stranissimo”. Primo siede in un ufficio, alle sue spalle un bosco sulla carta da parati in trompe-l’ail. L'impressione è che Primo è in un
"LUI
Ad informare Primo
della morte del figlio sono due operai, Laura e Adelfo, con la cui
complicità il padrone ora immagina una truffa per salvare la sua azienda (Victor Cavallo e Laura Morante).
Primo e Barbara raggiungono il punto dove vanno consegnati i soldi del riscatto, in
fondo ad una valle dell'Appennino
parmense (in primo piano, Ugo Tognazzi).
bosco, e il banchiere in ufficio. Ogni inquadratura del ban-
chiere — sghemba - sbilancia lo spettatore. Questa allusione alla cifra visiva de // conformista (Manganiello che insegue Clerici in auto) suggerisce che una delle maniere nelle quali Bertolucci accentua la qualità onirica di questo film è attraverso l’irruzione di frasi o situazioni di altri suoi film. Ad esempio: Adelfo interrogato da Primo sotto la pergola: «Nomi no. Non si aspetti dei nomi». Questo è Brando in Ultimo tango a Parigi: «No names here!». Il cappello da capitano, ricevuto dal figlio per il compleanno, lo mette nella stessa posizione letale di Brando, appena prima di essere ucciso in Tango. E i binocoli e la pistola lanciarazzi, sempre regalatigli dal figlio, enfatizzano metacinematicamente la violenza che caratterizza quel film. In seguito, quando gli elicotteri fanno irruzione nella proprietà Spaggiari e il colonnello (Renato Salvatori) la interroga, Barbara sviene imitando fedelmente Draifa (Strategia del ragno). E come Athos junior, il poliziotto è costretto a sollevarla di peso e adagiarla in un luogo tranquillo. In un’altra sequenza, quando Primo racconta a Laura la propria vita, senza alcuna giustificazione apparente la ragazza si finge cieca, come Ada in Novecento, e mormora: «Mi viene in mente Giovanni. Ha una benda sugli occhi, e i suoi rapitori giocano a mosca cieca con lui». Ce ne sono a iosa di queste irruzioni oniriche da scombussolare completamente la logica del “proponimento” narrativo di questo film apertamente enigmatico. E la confluenza di tutti questi prestiti di marca onirica, provenienti dai film precedenti, avviene alla fine di La tragedia di un uomo ridicolo. Primo si ritrova in una discoteca ad ascoltare musica rock e guardare Adelfo che danza da solo quasi a ripetere lo stesso stato di trance di Laura. Improvvisamente una banda locale inizia a interpretare un valzer, che rammenta la melodia della balera in Strategia del ragno. Primo si porta in prossimità della vetrata e scorge Barbara che balla con Giovanni. Questo porta un’unica scarpa, essendo stata l’altra persa durante il rapimento. Il simbolismo della scarpa persa (la castrazione parziale, quasi mortale inflitta dal padre) accoppiata al fatto che Giovanni stia danzando con la madre (evocazione della relazione incestuosa in Prima della rivoluzione e La luna) lasciano Primo letteralmente sbalordito:
ma se rimane
senza parole, la sequenza testimonia eloquentemente la forza del lavoro onirico in questo film. Il sogno di Primo opera, come ci si aspetterebbe dalla teoria psicanalitica e dalla pratica bertolucciana, su una moltitudine di piani. AI suo livello base, meta-psicologico, la presenza del sogno serve a scavalcare la censura: l’ Autorità e la logica. (A livello dell’azione del film, la polizia in uniforme evoca ripetutamente il ruolo che Breton assegnò allo stato di veglia come «fenomeno di interferenza». Invece di fornire una soluzione al rapimento attraverso una investigazione scientifica, impedisce semplicemente agli altri personaggi di raggiungere la loro risoluzione emotiva del complesso romanzo di famiglia). La presenza del sogno preannuncia che la linea narrativa non sarà lineare, logica e coerente, ma piut-
tosto «tutto ciò che arriva dalle profondità della notte scura... una massa di episodi così strana da confondermi».?° Il grugnito col quale Primo ci saluta in apertura del film è profetico: questo sogno sarà un incubo. Prende avvio da un affronto masochistico del figlio: «Caro papà. Sei il perfetto industrialotto cafone...» ma scivola, a vendetta di quell’affronto, in un desiderio sadico: il sequestro del figlio. Ma non dobbiamo dimenticare che nei sogni, tutti i personaggi possono facilmente essere il sognatore stesso. Qui, il comportamento di Primo potrebbe giustificare un’interpretazione tale. Infatti, prima di aprire i regali del figlio, Primo scopre due fotografie: «Io a venticinque anni... io oggi». Le fotografie non solo suggeriscono la condensazione nel sogno di epoche e periodi (eventi contemporanei condensati con eventi precedenti della vita di Primo alla stessa età del figlio), ma lasciano anche Primo «difficilmente capace di riconoscer[si]». Non c’è da meravigliarsi quando dice al maresciallo: «[Giovanni] mi ha guardato quando /o spinsero nell’auto», identificandosi sadomasochisticamente con questo doppio di sé. Le fotografie e i regali del figlio conducono Primo allo specchio: «Lo so che sono ridicolo. L'ho scoperto quando avevo cinque anni. Però ci ho il mio stile». Di nuovo: la condensazione dell’infanzia e della maturità, combinate qui con l’attraversamento dello specchio “alla Cocteau”, insistono sullo stato del sogno. Le figure di questo sogno sono essenzialmente la famiglia: padre, madre, figlio, e — poiché si tratta della ragazza
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di Giovanni —, figlia. Bertolucci aveva dichiarato infatti che La tragedia di un uomo ridicolo «riguarda quel misterioso gruppo italiano che è la famiglia». La sostanza di questo sogno sembra essere una messa in opera della “sacra famiglia” evocata da Brando in Ultimo tango: «Santa famiglia... sacrario di tutti i valori... dove bambini innocenti sono torturati fino a che non hanno detto la prima bugia... dove la volontà è rinfrancata dall’autoritarismo e dalla repressione... dove la coscienza è uccisa da ciechi egoismi... Famiglia tu sei il covo di tutti i vizi sociali». Quale singolare sviluppo di questa esplosione in Tango, La tragedia di un uomo ridicolo realizza un canovaccio la cui-originalità è nella configurazione ambivalente di legame e tradimento di ogni singolo membro della famiglia. Giovanni, che si presume essere la vittima del sequestro,
prepara con cura il padre per l’evento offrendogli proprio i binocoli attraverso i quali sarà spettatore del rapimento. Più tardi, Laura rivelerà sia la vergogna che la gelosia di Giovanni nei confronti del padre. Dirà a Primo: «Tu non sai quante volte Giovanni aveva pensato di rapirti per finanziare certi suoi compagni, che poi compagni non sono». Questa confessione suggerisce che Giovanni possa avere veramente architettato il proprio rapimento per perseguire i suoi scopi. E però, tornato dal padre, alla fine del film, lo bacia con sincero affetto. Quando complotta con Adelfo — apparentemente collegato coi “terroristi” — Laura sembra far parte dei principali sospetti. Per altro verso sembra non farne parte, mostrando costernazione per il sequestro di Giovanni: ora stringendo al petto la scarpa persa nel campo di granturco, ora piangendolo nella pioggia, o sul suo ritratto, quando incontra Primo a casa di Adelfo. Tradisce Giovanni lasciandosi baciare da Primo. Poi sembra tradire anche lui; infatti, benché stia al piano di questo, dichiara ad Adelfo: «Ho un piano segreto che neppure il padrone conosce». Laura rappresenta così in uguale misura la figura del desiderio e il castigo dello stesso. Primo piange come un bambino la scomparsa di Giovanni; ma poi lo tradisce. Dapprima facendo resistenza a qualsiasi idea di riscatto: «Il caseificio era nato nello stesso tempo che Giovanni»,
venderlo «sarebbe come
suicidarmi». Indi,
tradisce moglie e figlio baciando incestuosamente Laura: «Non ho mai paura prima. La morale non esiste. Quello che conta è la sincerità. La morale semmai viene dopo». Persino quando crede che Giovanni sia morto, architetta un piano per un falso pagamento del riscatto così da utilizzare la morte del figlio a profitto della fabbrica: rifinanziandola! Per Primo, Giovanni rappresenta sia l’immagine di sé nella giovinezza, sia semplicemente il “concime”. Forse il più interessante di questi tradimenti potenziali riguarda Barbara. La prima volta che la incontriamo, Barbara
osserva il marito errare in mezzo al granturco. Poi lo segue sull’argine, in prossimità dell’auto. Il suo volto, come una maschera tragica greca, è impassibile, immobile. In un gesto simbolico, scivola giù dall’argine, e quando Primo le tende il braccio, lo trascina con sé. Subito Barbara comincia a parlare di un possibile riscatto (che in verità non sarà mai domandato dai “terroristi”’) al quale bisognerà far fronte. Le sue prime parole nel film sono: «C'è abbastanza soldi? Ce ne sono? Dimmi se c'è abbastanza soldi?» ricordando quanto mai il personaggio di Iago mentre dice a Otello: «Infila il denaro in questa bisaccia». Quella stessa notte nel caseificio costringe Primo a fare l’inventario dei beni, annotandoli minuziosa-
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mente in francese su un block notes. Nell’unico accesso d’isteria, suona come ciò che potrebbe essere il tema latente di questo sogno: «Quanti maiali abbiamo? Quanti maiali abbiamo®», e lo ripete nove volte. «Certe volte mia moglie mi fa venire voglia di essere morto», confessa Primo agli operai l'indomani. Ma il ruolo di Barbara non si ferma qui. Come per magia, scopre delle lettere via aerea che non sono mai state imbucate. Lei (narcisisticamente) è il destinatario, la grafia sembra
quella di Giovanni. Più di un indizio nel film indica lei come l’autrice delle stesse — del resto il suo passato come restauratrice potrebbe farlo pensare. La loro comparsa arriva non appena l’inventario delle proprietà è terminato e, guarda caso, la cifra richiesta si avvicina sensibilmente all’ammontare dei beni. Riporta a casa la seconda lettera, finita non si sa come,
nelle mani della sua “numerologa” (Olimpia Carlisi). La lettera finisce sulle parole: «Dicono che un miliardo basterà. Ti supplico di seguire parola per parola». Barbara ascolta distrattamente come se sapesse già il contenuto. Ma quando Primo tristemente inventa: «E un abbraccio per papà» Barbara, incredula, balza in piedi, come se sapesse che quella frase non facesse parte della lettera. «Questa non l’ha scritta... l’ho aggiunta io», specifica triste e ingenuamente Primo, ignaro della reazione della moglie. Barbara ascolta di soppiatto Laura e Primo che combuttano, e si ritrova magicamente nei porcili quando i tre cospiratori architettano il falso pagamento. Con tutta probabilità ella ha udito il piano, ma non lascia trapelare nulla. Con gli strozzini dà saggio di grande savoir-faire, ma sviene alla prima domanda della polizia. Messa a confronto con la falsità dell’ultima
lettera che richiede
il pagamento,
conclude:
«Questa lettera è falsa, hai ragione tu. Se questa lettera è falsa, allora vuole dire che Giovanni è morto. Allora facciamo finta che è vera. Sono pronta a giurare che è vera... Non dirmi niente. Non voglio sapere niente. Faremo esattamente come dice la lettera. Parola per parola. E Giovanni tornerà a casa vivo». Barbara è stranamente complice delle autorità, tuttavia accompagna Primo al pagamento del riscatto, lo costringe a rivelare che le valigie sono state premeditatamente scambiate; persino spara su di lui «per averla delusa terribilmente». E alla fine è lei a mettere il denaro nell’‘“essiccatoio” abbandonato in fondo al bosco. Se consideriamo il pagamento del riscatto come un’idea proveniente da Primo, i soli che possono avere incassato il riscatto sono: Laura e/o Barbara stessa. Nessun “terrorista” avrebbe potuto saperlo. Attraverso il film, Barbara è ripetutamente associata ai maiali (la vedia-
mo nell’atto di contarli; o di tagliare e mangiare fette di prosciutto quando Primo racconta la sua vita a Laura), mentre Primo è associato al latte e a quel «miracolo del latte che diventa formaggio» — un capovolgimento dell’identità sessuale che di per sé è abbastanza onirico. Il ritorno di Giovanni confonde ulteriormente la logica di questo «enigma di un figlio rapito, morto e risuscitato». Alla fine del film, Giovanni balla (incestuosamente) con Barbara.
Poi si mette tra Barbara e Laura davanti a un Primo incredulo. La genialità di questo film è di avere creato un’assoluta indecifrabilità sui destinatari della colpa: o piuttosto, di avere ripartito la colpa tra tutti i membri della “sacra famiglia”. Poco prima della fine, Primo mormora pasolinianamente: I figli che ci circondano sono dei mostri, più pallidi di come eravamo noi, con gli occhi spenti. Trattano i pa-
Mentre Giovanni riappare finalmente salvo, Primo si rifiuta di cercare dicapire «l'enigma di questo figlio rapito, morto e resuscitato» (Ugo Tognazzi, Laura Morante, Ricky Tognazzi, Anouk Aimée).
dri con troppo rispetto oppure troppo disprezzo. Non sono più capaci di ridere, sghignazzano, e sono cupi e soprattutto non parlano più. Non si sa mai se col loro silenzio chiedono aiuto o se stanno per spararti addosso. Sono dei criminali.’
L’accusa può essere rivolta parola per parola ai membri della famiglia Spaggiari: a Primo, che Barbara definisce mostro: a Barbara, che mescola suppliche e pistolettate e attraversa il film immobile come una maschera. Senza volerlo, il sogno di questo uomo ridicolo suggerisce che ogni membro della famiglia funziona come un doppio degli altri in una configurazione incestuosa e omicida. Durante il suo sogno Primo va a letto con la moglie e madre, Barbara; ma anche con la “figlia”, Laura. Laura gli confessa di temere Adelfo. Dirà: «[è] proprio come un padre». Le foto di Adelfo e Giovanni insieme suggeriscono sul piano simbolico la stessa coppia di termini: “padre” e figlio. E Barbara
danza con Giovanni per portare la figura dell’incesto a pieno compimento. «Tu, famiglia del cazzo» vomitava Brando in Tango. Ciascuno mette in scena per gli altri il desiderio e il corrispondente castigo. «Forse siamo noi i veri terroristi?» mormora Adelfo. «Siamo proletari in apnea sotto la superficie liquida della storia» risponde Laura. La “storia liquida” è la perfetta descrizione del lavoro onirico: una confusione non lineare, ricca di incertezze, e di un violento desiderio sadomasochistico. Se il film descrive la «culture à la dérive» dell’Italia di allora, secondo Bertolucci ed altri,’ spiega anche la sua relazione col cinema. Primo e Barbara costituiscono i volti del conflitto franco-italiano di Bertolucci e si può anche dire che “la reazione chimica” che producono” costituisce “l’identità doppia” di questo film che tanto richiama Prima della rivoluzione: «Molto emiliano, terraneo, un po’ lordo, e allo stesso tempo molto influenzato dalla Francia». Se il francesismo di Bertolucci fomenta una sufficiente distanza critica da rendere conto dell’ironia del film, la sua italianità rende invece conto delle qualità oniriche del lavoro. Per non tralasciare quelle autobiografiche, spesso indistinguibili da quelle metacinematiche. E come ne L'ultimo imperatore dove finirà per identificarsi con Pu Yi, ne La tragedia di un uomo ridicolo Bertolucci sembra identificarsi, suo malgrado, con Primo. Quando Primo afferra i binocoli nuovi di zecca e osserva gli operai al lavoro, riveste sia la posizione di Bernardo che di Giovanni. Sentiamo il regista:
Il film comincia sul regalo che il figlio fa al padre: i binocoli. Delega dunque al padre quello che dovrebbe essere l’Edipo vissuto dal figlio, gli delega il voyeurismo. In generale, è il figlio che assiste alla scena primitiva, che dunque esercita, comincia a esercitare il voyeurismo. In questo caso è il padre. Guarda, e per il fatto di guardare è punito: per il voyeurismo, perché vede, perché assiste coi binocoli al rapimento... Dunque di già una punizione del voyeurismo.”
Benché in questa dichiarazione Bertolucci non annoveri esplicitamente il proprio voyeurismo, è chiaro che attraverso la mdp si sostituisce ai binocoli di Primo, quando clandestinamente spia: un uomo che si scaccola; o il deretano formoso di una ragazza che raccoglie pomodori. Più tardi, quella mdp si attarderà, come ipnotizzata, sul seno nudo di Laura. Mentre Primo sussulta in un «Mio dio che tette», il regista rende visivamente appieno l’eccitazione. Ma implicitamente egli non si nascondeva che il voyeurismo castigato lo avrebbe riguardato proprio come il protagonista: «Stavo parlando di castigo e pensavo a Cannes. Il film è stato punito, si è pensato di liquidarlo a parole... non dico che non ne sono in parte responsabile, devo esserlo in qualche modo, ma non ho trovato ancora quale...».* In qualità di autore sempre più celebrato, Bertolucci era arrivato anche a capire le responsabilità e i legami ridicoli, come il “ricatto” del successo. In una conferenza stampa a Prades, in Francia, ecco come ritrasse il suo rapporto con l’industria cinematografica: Il cinema riflette sempre la realtà del paese in cui si svolge. L'Italia non fa eccezione... In Italia gli esercenti nell'ombra hanno le più grandi responsabilità, poiché affermano: «Noi rappresentiamo il pubblico»: illusione totale, menzogna, che mostrano il nostro stato. Così tutto il cinema italiano che resta al di fuori dell’industria è un'avventura. Non vi è mai program-
ne da una consapevolezza: non è più il figlio che reagisce contro l’autorità, ma incarna egli stesso quella figura. Se il film assume il punto di vista del padre per la prima volta nell’opera dell’autore, registra senza dubbio l'inevitabile conflitto tra padre e famiglia, tra autorità e intimità, tra logica e sogno. Conflitti che Bertolucci predilige esprimere attraverso 1 sogni di un personaggio come Primo. Sia Primo che Bernardo sono consapevoli delle intricate relazioni della famiglia nei loro progetti, e dell’inevitabile altalena tra le responsabilità di una gestione imprenditoriale e quelle di una “vita famigliare”. Per entrambi, i sogni esprimono la bellezza ma anche le terrificanti complicazioni della vita contemporanea. Questo «misterioso gruppo italiano che è /a famiglia»*' può rivelarsi un incubo a causa dei desideri in conflitto, a causa della diffidenza e della confusione di identità. Ma ha un fascino al quale né Primo, né Bernardo possono resistere: È un film completamente italiano. Ne sono orgoglioso. Questo è un film sull’Italia di oggi. È come un’auto italiana, un maglione italiano. Il film avrebbe potuto essere fatto solo in Italia, e riguarda le difficoltà nelle quali oggi si trovano persone che conosco.” Che il film non sia tecnicamente una “tragedia”, ma piuttosto il suo “sogno ridicolo”, Bertolucci lo ammette apertamente:
Dostoevsky ha pure scritto una novella intitolata // sogno di un uomo ridicolo. Bisogna interpretare il titolo lato sensu. Penso che oggi in Italia si è così tragici che si è ridicoli. E quando ci si vede così ridicoli, si ridi-
venta tragici. C'è uno stretto legame tra me e quei due sentimenti; quando mi guardo allo specchio, mi trovo ridicolo. È per questo che il film in fin dei conti non è né una satira né una tragedia, ma si situa nel va e vieni
dei due termini.*
ma. [Ma] tutto il cinema è politico.”
La problematica della responsabilità e della interpretabilità dei gusti del pubblico, della prevedibilità e dello spirito di avventura indica quanto profondamente Primo e Bernardo condividano un'esperienza comune. E non solo da “industriali”. Ognuno ha una propria famiglia: «Dovete innamorarvi della realtà davanti alla mdp» Bertolucci afferma. «Ma la struttura non è la stessa cosa che la sceneggiatura. È una struttura molto più intima. Si può improvvisare sulla struttura. Cioè: quando apportate dei cambiamenti non solo modificate il disegno complessivo, ma anche la direzione del film, cosicché la struttura è veramente una parte intima di coloro che stanno facendo il film — non solo del regista, ma anche dell’operatore, della troupe, degli attori. Ciò che si fa, lo si fa in quanto famiglia, e lo si fa in modo che ognuno sia veramente quello che è». L'aspetto inquietante dell’affermazione è il modo in cui coinvolge sia i disegni di Primo che di Bertolucci: Primo è profondamente scettico nei confronti della scrittura ed è desideroso di piegare a propri fini la “sceneggiatura” delle lettere del riscatto. Quanto a Bernardo, l’autorità e la scrittura sono un volta di più fonte di sospetto, proseguendo la diffidenza verso la sceneggiatura e la scrittura in generale. Tuttavia l'evoluzione, “la firma cambiata”, provie-
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Ma non appena Bertolucci filma Primo nell’atto di guardarsi allo specchio per scoprire la profonda angoscia dell’inconscio, verità spesso inammissibili che lo rendono “ridicolo”, così pure lo spettatore-voyeur del film è portato a scoprire le proprie tendenze sadomasochistiche, mettendo in scena un ulteriore livello di «punizione del voyeurismo» alla quale il regista alludeva prima. Insomma, Bertolucci ha cambiato o non ha “cambiato firma”? Forse non così radicalmente. La complessità di questo film rispecchia in misura notevole quella delle altre sue opere e in questo senso «il cinema si ritrova a guardarsi nello specchio».* Ma il regista aggiunge:
Sono però consapevole del fatto che si fa sempre lo stesso film inconsciamente, e per un tale motivo bisogna osare e essere diversi quando si fanno [dei film].#
Per lui la differenza ne La tragedia di un uomo ridicolo era correlata a ciò che Barthes ha definito «la macchina desiderante»:
Tutti i miei film sono delle «macchine del desiderio». Hanno sempre detto al pubblico: «Vi amo. Voglio es-
sere amato da voi. Vi desidero. Vi prego: desideratemi». Questo film non dice così. Ne La tragedia non c’è desiderio, nessun personaggio ne desidera un altro, forse perché è un film alla prima persona visto attraverso gli occhi di un padre, ma anche perché corrisponde a un momento della mia vita nel quale desideravo meno. E infatti ho fatto questo film in uno stato di beatitudine... di felicità senza desiderio.‘ Ancora una volta, Bertolucci inconsapevolmente si identi-
fica con la figura del padre — ma attraverso un curioso tentativo di eliminazione del desiderio. Che la sua strategia non funzioni (e come descrizione del film e come difesa dall’assun-
zione dell’autorità) non sorprende. La tragedia di un uomo ridicolo evoca sì il desiderio attraverso un assetto voyeuristico e sadomasochistico che nasce in Primo e continua in Bernardo, e da Bernardo finisce nello spettatore. Ma se l'assunzione dell’autorità deve essere punita, il desiderio stesso è, come Bertolucci sa molto bene, solo differito: non eliminato. Per quanto ambivalente e ambiguo questo canovaccio del sogno appaia, Bertolucci aveva completamente ragione a suggerire che il film meriti una seconda visione. Ciò che vi emerge è una percezione di quanto difficile il successo possa essere e quanto pesante il fardello dell’autorità. Sarebbe rimasto a L’ultimo imperatore consolidare questa consapevolezza.
NOTE e
' B.B. a Michel Ciment, “Entretien avec Bernardo Bertolucci”, in Positif, n. 248, novembre 1981. Ric Gentry aggiunge con sensibilità: «Stilisticamente ne La tragedia di un uomo ridicolo... non rinveniamo nessuna movenza tipica della sua firma visiva». “Bertolucci Directs Tragedy ofaRidiculous Man”, in Millimeter 9, n. 12, dicembre 1981, p. 56. ? B.B. a David Lapin, “After the Revolution? A Conversation with Bernardo Bertolucci”, in Literature/Film Quarterly 12, n. 1, 1984, p. 25. ? Gaston Haustrate, “La tragédie d’un homme ridicule”, in Cinéma 81, n. 271-272, luglio-agosto 1981, p. 129. Jacques Fieschi, citato in “Biofilmographie commentée de Bernardo Bertolucci”, Cinéma 81, n. 274, cit., p. 59. Queste opinioni vennero condivise dalla stampa americana. Richard Corliss scrisse: «Bertolucci ha scelto di non mettere alla prova il pubblico... ma semplicemente di confonderlo», “The Politics of Melodrama”, in Time, 15 febbraio 1982, p. 64. Stanely Kauffmann aggiunse: «Bertolucci... fa del suo meglio per oscurare [il problema] facendo della posa con il suo cinema», “What°s Missing is Costa-Gavras”, in The New Republic, 10 marzo 1982, p. 26. ‘ Pauline Kael, “The Current Cinema: Carry Your Own Matches”, in The New Yorker, 8 marzo 1982, p. 127. ° BB. a Ciment, cit., p. 24. 6 Jacques Siclier, in Le Monde. Vd. anche Serge Toubiana, in Cahiers du cinéma, n. 330, dicembre 1981. ° B.B. a Ciment, cit., p. 21. * B.B. a Pascal Bonitzer e Serge Daney, “Entretien avec Bernardo Bertolucci”, in Cahiers du cinéma n. 330, cit., p. 25. ° B.B. a Lapin, cit., p. 24.
'° Ibid.
!! B.B. a Jean Gili, “La tragédie d’un homme ridicule”, in La Revue du cinéma n. 366, novembre 1981, pp. 37-38. !! B.B. a Bonitzer e Daney, cit., pp. 26-27; Pauline Kael, cit., p. 125; Ciment, CILSIPAZ0: 3 B.B,, “La force de l’inconscient”, in L’Avant-scène Cinéma n. 256, 15 novembre 1980, p. 7. BiBaCimenticità\pi22:
is BB. a Bonitzer e Daney, cit., p. 25. ‘s B.B. a Ciment, cit., p. 21. ! Ibid., pp. 21-22. !* Ibid., p. 22; B.B. a Bonitzer e Daney, cit., p. 29. !° B.B. a Maurizio Fabbri, “Bertolucci: non sono un regista italiano”, in La stampa, 27 gennaio 1982, p. 17. Vd. anche «Mi sono sentito sempre un po’ ba-
stardo nel cinema italiano», B.B. a Bonitzer e Daney, cit., p. 26; e «Sono stato influenzato dalla Nouvelle Vague e dai loro esperimenti col cinema dell’epoca
[1964]», B.B. a Ric Gentry, cit., p. 58; vd. anche: «Ero molto estremista. Ho sempre in me un film che non avete ancora visto», in Cinéma 81, n. 274, cit., p. 44. © B.B. a Bonitzer e Daney, cit., pp. 28-29. ' B.B. a Ciment, cit., p. 19.
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% Ibid., p. 24. Bertolucci più avanti notò che aveva scritto il film in quaranta giorni, lavorando solo di notte, e che il film stesso fu fatto in «un’atmosfera di delirio». Ibid., p. 22; vd. anche B.B. a Bonitzer e Daney, cit., p. 22. ® Almeno un critico ha sottolienato che Bertolucci si sarebbe trovato «più a suo agio in un film veramente sognato», Petr Kral, “La tragedia di un uomo ridicolo de Bernardo Bertolucci”, in Positif n. 244-245, luglio-agosto 1981, p. 106. * Per una discussione della maniera in cui la confluenza della rappresentazione e percezione è comune sia ai sogni che al cinema, vd. Baudry, cit., pp. 56-
728 % B.B. a Ciment, cit., p. 22. ? Gideon Bachmann, cit., p. 9. ® Vd. infra, capitolo su Novecento per la figura di Ottavio come “regista” del sogno del giovane Alfredo. Altre sono: la visita di Barbara dalla numerologa; lo strano incontro dei tre cospiratori nel porcile; e la curiosa maniera in cui Adelfo e Laura, nella penultima scena del film, si precipitano a sedersi al posto l’uno dell’altra. !° Breton, in Manifeste du Surréalisme (traduzione nostra).
'! B.B. a Gentry, cit., p. 56. * B.B., Ultimo tango a Parigi, cit., pp. 79-80. ® La citazione si ispira agli Scritti corsari di Pasolini. Vd. anche B.B. a Bonitzer et Daney, cit., p. 28; e B.B. a Ciment, cit., p. 23. 3 Vd. Marcel Martin, “Le cinéma italien est-il encore de gauche?”, in Revue du cinéma, n. 372, maggio 1982, pp. 126-128. 5 B.B. a Bonitzer et Daney, cit., p. 29. ‘ Ibid. * Ibid. # Ibid. ® B.B. in Cinéma 81, n. 274, cit., pp. 43-44. ‘° B.B. a Gentry, cit., pp. 60-62. ‘! Ibid., p. 56. ‘° Ibid. * B.B. a Ciment, cit., pp. 23-24. * B.B. a Gentry, cit., p. 58. *° Ibid. + B.B. a Lapin, cit., pp. 22-23.
L’ultimo imperatore
1987
Lo strumento psicanalitico che mi aiuta a allontanarmi dal documento storico che il film non vuole essere, per
guadagnare una dimensione intima e privata, questo
strumento diviene allo stesso tempo una pistola caricata a salve. Perché in Cina la nozione dell'individuo è completamente diversa dalla nostra.' Bernardo Bertolucci
Il Dragone sul divano Se Bertolucci con L’ultimo imperatore, per dirla con Michael Sragow, «fa nella Città Proibita la sua versione di Marx», si
può anche sostenere che la Cina non ha provocato nessun deragliamento dal modello freudiano nell’opera del cineasta. L'azione e il luogo possono essere altri, ma il film porta l’impronta inconfondibile dell’autore de /! conformista, Ultimo tango a Parigi e Novecento. Tra lo sfarzo e le meraviglie del Palazzo di Pechino sulla fine della Cina Imperiale e le tristi carceri della Rivoluzione di Mao, la mdp di Bertolucci va a scovare e isolare sullo schermo un primo piano, strettamente cinematografico, del contenuto di un vaso da notte: gli escrementi del piccolo imperatore di tre anni Pu Yi. La reazione immediata è di sgranare gli occhi: forse l’obiettivo è stato erroneamente puntato? Dimenticare, per lo spettatore, è la reazione immediata. Ad ogni modo, non si può trascurare il fatto che questa ripresa sia il frutto di una scelta precisa, quantunque “ineffabile” sia il suo contenuto. Se “merda” è di fatto l’imprecazione più comune nel linguaggio corrente, un sinonimo elastico che assume molteplici significati da “difficoltà”, a “condotta riprovevole”, a ‘“oppio”, il lemma raramente denota la cosa che designa in origine. Quanto più acquisisce diritto di cittadinanza al cinema, tanto più l’oggetto in ispecie è stato garbatamente velato dai predecessori di Bertolucci. Le eccezioni si contano sulle dita. Una di queste, in particolare, è così analoga a questa scena da fungere da “intertesto” al film: stiamo parlando de La presa di potere da parte di Luigi XIV. Nel film di Rossellini, regista che Bertolucci annovera tra i cineasti dell'Olimpo, i tre medici di Mazzarino, con fare riguardoso, portano alle nari il vaso da notte del loro Cardinale morente; ne inalano profondamente gli odori, quindi sentenziano: «Non possiamo fare più nulla». Nella versione di Bertolucci ansiosi eunuchi concentrano la loro (e la nostra ) attenzione su cinque palline tonde di sterco imperiale e sussurrano: «Più verdura per 0ggi! E niente carne». Ma, dato che il film si apre con il tentato suicidio di Pu Yi in una stanzina della stazione ferroviaria sul
confine russo, la domanda di Rossellini non appare meno pertinente: può, dunque, essere salvato? L’interrogazione solleva numerose altre domande, dando altrettante risposte: salvato da che cosa? Per che cosa? In che modo? La risposta giace nel complicato modello delle ripetizioni che non appariranno nuove allo spettatore che già conosce Bertolucci. Però L’ultimo imperatore è diverso dagli altri film di Bertolucci. È girato per la maggior parte in Cina. È più specificamente biografico, meno romanzesco dei lavori precedenti. L'eroe appare a prima vista carente di spessore psicologico e determinazione se messo a confronto con uno qualsiasi dei personaggi creati in passato dal regista. Per questo, Vincent Canby ha “accusato” Bertolucci di avere tessuto un'epica senza un eroe epico. Pu Yi, ha scritto Canby, «fu un incidente meteorologico, un inerte, piuttosto vacuo centro dell'uragano politico che gli imperversava attorno... una nullità rispetto alle personalità eccezionali che... forgiarono la sua vita completamente amorfa».È In questo modo sembra esile la “connessione” con tutta la produzione anteriore (ad eccezione forse de // conformista), finché non ci si sofferma sul fatto che l’opera cinematica di Bertolucci consiste in due filoni: o riflessioni profondamente disturbanti, che riguardano le implicazioni psicanalitiche del cinema e dell’atto del guardare un film (ad esempio Ultimo tango a Parigi); o meditazioni sul ruolo che l’individuo borghese ricopre alla luce di una prospettiva storica marxiana (ad esempio Prima della rivoluzione, Partner, Strategia del ragno, Novecento). Nessun altro cineasta — quanto meno italiano — ha perseguito con tanta risolutezza l’analisi tra Marx e Freud in termini cinematici. Nessuno ha combattuto più duramente e a lungo con la propria posizione di membro di una classe privilegiata nella lotta contro i privilegi. Nessuno ha affrontato così coraggiosamente la necessità di comprendere la relazione tra le forze dell’inconscio che governano la vita dell’individuo e le forze più ampie della Storia preposte a regolare la vita della collettività. E nessuno ha mai capito meglio che il cinema è il locus ideale per l’esplorazione delle connessioni tra la teoria marxiana e quella freudiana. Infatti, il cinema è, come ricorda Walter Benja-
141
in luce in rapporto alla novità dell’avvenimento e della personalità storica corrispondente. Questo significa che l’individualità e la specificità sono aspetti integranti della tipicità. Ma la valorizzazione della fedeltà al dettaglio va di pari passo con un riguardo decisivo al modo di vita tipico in un determinato luogo e momento.° Volendo
seguire l’orientamento
marxiano,
l’attenzione
minuziosa al personaggio si raggiunge solo quando ci si riferisce alle caratteristiche generali del conflitto di classe dell’individuo. In questo modo, Lukacs, Goldman ed altri af-
fermano che la rappresentazione di un personaggio per mano di quegli importanti difensori del realismo che erano gli scrittori dell'Ottocento, per esempio Zola, potrebbe essere attendibile, per non dire autentica: fino al punto da dimostrare una relazione causale tra il dettaglio biografico e il più ampio
contesto di forze storico-sociali che hanno “determinato” quel dettaglio.” Un approccio psicanalitico, invece, metterebbe il dettaglio non alla luce della sua tipicità, ma precisamente alla luce della sua marginalità. È nella «psicopatologia della vita quotidiana», nei lapsus freudiani, negli errori, nei sogni e nell’eccesso, che le tracce delle forze inconsce devono es-
sere trovate. Come Frederic Jameson ha recentemente osservato:
Dentro la Città Proibita dove Pu Yi viene incoronato imperatore a soli tre anni, la vita quotidiana sembra essersi fissata in un rituale teatrale più volte millenario.
min, sia l’arte della collettività per eccellenza nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, sia il mezzo ideale per avviarci «alle ottiche inconsce: proprio come la psicanalisi fa con gli impulsi inconsci».° Ciononostante, il matrimonio di questi due aspetti è sempre, anche nel migliore dei casi, problematico. La difficoltà di qualsiasi sforzo tendente a conciliare (sia per opera del teorico che dell’artista) la visione marxiana con quella freudiana risiede nella natura proprio opposta del nucleo dei due approcci. Stabilita la priorità di interesse a vantaggio delle forze storiche predominanti, la letteratura marxiana (e, per sua natura, la confezione di un film) verrebbero valutati in base al loro realismo: L'autenticità del realismo doveva essere raggiunta, e giudicata, dal valore di un equivalente cognitivo: più specificamente, i tratti dominanti e tipici di un’esistenza socialmente conflittuale in un luogo e in un momento contingenti. La tipicità, dunque, è la considerazione portante. Una situazione storicamente tipizzata è anche solo in minima parte diversa da qualsiasi momento storico precedente, e merita di essere messa
142
Il tentativo di coordinare una critica marxista e freudiana affronta — ma come se fosse esplicitamente articolato nella forma di un problema — un dilemma che in realtà è inerente alla critica psicanalitica come tale: e cioè, quello dell’inserimento del soggetto o, con una terminologia differente, la difficoltà di fornire un punto di mediazione tra i fenomeni sociali e quei fatti che debbono essere chiamati privati (piuttosto che meramente individuali). Solo ciò che per la critica marxista è già manifestamente sociale — nelle questioni quali il lavoro in relazione al contesto sociale o storico, o lo stato del suo contenuto ideologico — è invece nella maggior parte dei casi solo implicito in quella critica psicanalitica, più specializzata o convenzionale,
che
crede di non avere interesse in materie sociali o estrinseche a lei.
Bernardo Bertolucci è uno dei pochi creatori moderni capace di comprendere la complessità dei requisiti marxiani e freudiani insiti nell’opera d’arte; e che sembra sapere come tradurli in prassi. Infatti, nell’ultimo ventennio il suo lavoro è stato dedicato non solo ad esplorare i meandri del pensiero marxiano e freudiano, ma anche la specificità dell’espressione cinematografica di quel pensiero. All’acme della diatriba che verteva sull’arte e sulla rivoluzione negli anni Sessanta, Bertolucci era intervenuto dicendo:
La trasformazione del Destino in Inconscio concerne il rapporto tra la sessualità e la politica. Credo che la più importante scoperta che ho fatto dopo il Maggio 68, fu che volevo che la rivoluzione non aiutasse i poveri, ma me stesso. Volevo che il mondo cambias-
se, ma per me. Scoprii il piano individuale all’interno della rivoluzione politica. La mia massima è: «Servi te stesso», perché soltanto servendo se stessi si è capa-
ci di servire la gente: vale a dire, far parte della gente, e non servirla.° Novecento e Ultimo tango a Parigi sono i film nei quali la relazione degli imperativi marxiano (la società) e freudiano (l'individuo e l'inconscio) vengono esplorati più in fondo: il primo in termini storici, il secondo in termini individuali. L'ultimo imperatore appare assai diverso dagli esiti pre-
cedenti: ciononostante, eredita gli straordinari (sia pure torturati) progressi dell’immaginazione cinematica di Bertoluc-
ci. Vale a dire: la rivelazione della complessa relazione tra il cinema come fatto di voyeurismo collettivo e le implicazioni politiche di quella scoperta (Ultimo tango); l'allontanamento dai dettagli del biografismo, sempre irretiti nel groviglio della problematica marxiana e freudiana appena descritta da Ja-
meson, per centrare l’interesse sulla maniera in cui la ripetizione funziona rispetto alla storia dell’individuo e della società, come indice del pensiero sia freudiano che marxiano (Novecento)! Infatti, può essere argomentato che la ripetizione sia l’unico tropo comune alla problematica freudiana, marxiana e cinematografica. E potrebbe essere proprio a causa dello slittamento d’interesse di Bertolucci (cioè, dall’analisi di un personaggio a una esplorazione delle strutture che lo determinano e che stabiliscono la nostra relazione verso personaggi immaginari o realmente esistiti) che fa dire a critici, quali Canby, come L’ultimo imperatore sia «un elegante opuscolo da viaggio», nel quale «l’occhio è intrattenuto gradevolmente, mentre il centro dello schermo rimane morto».'° Ma il cinema di Bertolucci merita ed esige un diverso tipo d’approccio, un occhio rivolto meno al centro che ai lati, meno alla storia nel suo evolversi che alle strutture impercettibili dell’opera nel rivelare la loro complessità
attraverso la ripetizione di considerazioni intorno a se stessa. In questo senso la scena del vaso da notte costituisce il nesso delle ripetizioni marxiane e freudiane presenti nel film. La storia, scrisse Marx, rileggendo Vico, in verità non fa che ripetersi. Marx inaugura il suo Diciottesimo Brumaio di Luigi Bonaparte osservando che: «Hegel nota, da qualche parte, che tutti i grandi avvenimenti e tutti i personaggi storici ricorrono, per così dire, due volte. Ma tralasciò di aggiungere: la prima volta in modo tragico, la seconda in modo farsesco».!! Infatti, Marx definì la rivoluzione Bonapartista del 1848 come «un’ineffabile commedia... un deplorevole spettacolo...». Osservò che, se la prima Rivoluzione Francese «corre lungo una parabola ascendente», con la Rivoluzione del 1848 accade proprio l’opposto: «corre lungo una parabola discendente» e è caratterizzata da «combinazioni, la cui prima clausola condizionale, è la separazione; lotte, la cui legge prima è l’indecisione; sommosse inutili e selvagge in nome della pace; una predicazione grave e solenne della pace in nome della rivoluzione; passioni senza verità, verità senza passioni; eroi senza gesta eroiche, storia senza avvenimenti (!): sviluppo degli eventi, la cui esclusiva forza motrice sembra essere il calendario, che per giunta si consuma nella costante ripetizione di se stesso...».! Lo spettatore bertolucciano ricorderà che Novecento aveva costituito la prima cellula di meditazione su questo movimento oscillatorio dalla tragedia alla parodia: in quel caso era la storia della classe contadina." In esso, lo sviluppo storico
All'indomani della fondazione della repubblica cinese, il precettore Reginald F. Johnston è la prima persona ad aprire gli occhi del giovane sovrano (Peter O'Toole).
non era stato concepito soprattutto nei termini di dialettica, quanto piuttosto nei termini di un semplice cambiamento di registro: dalla tragedia (i primi allarmi e l'avvento del fascismo), al comico (il processo fantoccio nel quale Alfredo vie-
ne ucciso e graziato contemporaneamente), alla farsa (Olmo e Alfredo che degradano la loro “lotta di classe” ad una scaramuccia infantile). In breve, Bertolucci immerse la storia in una circolarità onirica che attraverso un cammino a ritroso ricondusse il film ai suoi esordi, cancellando sistematicamente qualsiasi progresso dialettico degli eventi, nel momento preciso del loro accadimento. Come la visione marxiana del Bonapartismo, la visione bertolucciana della “rivoluzione” agraria «sembra mandare in corto circuito sia la dialettica che la lotta di classe... nella sua inassimilabilità a qualsiasi totalizzazione dialettica». Per conseguenza, i termini in Novecento (siano essi politici o psicologici) non sono opposti simmetricamente, ma ripetuti in una assimilazione speculare. Così numerosi sono gli elementi di questo film a trovare il loro doppio sia sincronico che diacronico, che quasi tutte le sequenze potrebbero facilmente andare ad occupare la posizione della struttura ripetitiva. Da ultimo, in questa insistenza sulla ripetizione, che ad ogni isolato momento sembra potenzialmente sottintendere un movimento dialettico della Storia, c’è solo
Nel segreto della Camera rossa, il quindicenne Pu Yi fa la conoscenza della nuova imperatrice Wan Jung (Wu Tao e Joan Chen).
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un ritorno inquietante, in apparenza (e ideologicamente, almeno), che è proprio l'opposto della rivoluzione. Questo mobilissimo interscambio dei termini, la presenza dell’ignoto e del mistero, della condensazione, del doppio e della coazione a ripetere tutto, indicano che da una parte Novecento aveva rappresentato «l’urgenza inerente alla vita organica di reinstaurare uno stato precedente delle cose (inerzia) che la entità vivente era stata obbligata ad abbandonare sotto il disturbo e la pressione di forze esterne»: in breve, una specie di desiderio di morte freudiano.! Il risultato, sempre in Novecento, fu l’insistenza sulla relazione inestricabile, ciononostante paradossale, della Storia collettiva (marxiana) e della storia dell’individuo (freudiana). La struttura ripetitiva ne L'ultimo imperatore è non meno
seducente e non meno cruciale nella comprensione della complessa interrelazione tra piano storico e individuale, presenti nel film. Nella sequenza del vaso da notte, Pu Yi (Richard Vuu) siede sul “trono” (come il defectorium è spesso definito in modo enfatico), sopraelevato, a sovrastare un mo-
dellino giocattolo della Città Proibita: la posizione enfatizza la funzione della defecazione, venendo ad occupare paradossalmente uno sproporzionato senso di importanza e potere. Data e accettata la sostituzione del vero trono con il vaso da camera, e la sostituzione della città vera con il modellino, questa scena ha un’aria spensierata, se non persino comica, che avremo modo di incontrare altre volte lungo l’arco del film; e sarà in forma di variazioni, quando la ricorrenza di ogni occasione (premonitrice inquietante) condurrà il giova-
ne imperatore alla tragedia finale. La variante meno equivoc a di tutte queste scene si trova nella sequenza precedente all’incoronazione. Bertolucci sovrappone il piano storico e quello individuale, qui diametralmente opposti. Ben appollaiato e in alto sul suo altro trono, Pu Yi gode di una prospettiva analoga a quella che gode dal suo vaso da notte. Poi, scende dal trono per avere, in un indimenticabile colpo d’occhio, tutti i cortigiani della Città Proibita, prostrati nel cortile della Suprema Armonia per rendergli omaggio. Questa scena dell’incoronazione del mitico “Signore dei Diecimila anni”, valutata nella prospettiva storica, si carica di implicazioni smisuratamente tragiche e sintomatiche: sia perché rappresenta il continuamento della dominazione sulla Cina per mano di un sistema imperiale corrotto e dispotico, sia perché adombra la rivoluzione del 1908, momento capitale per la storia cinese. Né la incoronazione, né la rivoluzione, tuttavia, erano destinate a costituire eventi unici ed isolati. Ciascuno è ripetuto esplicitamente. Ecco come Bertolucci descrive il ricorrere di questi eventi: In Manciuria, Pu Yi si fa costruire un altare del Cielo come a Pechino, in modo che la sua nuova incorona-
zione abbia un forte legame con il passato... C'è questo altare del Cielo in un paesaggio di frontiera industriale, fabbriche che nascono nella desolazione, ciminiere che si intravedono in lontananza. Ci sono cam-
melli che fanno “cotao” all'imperatore e limousine nere con personaggi in costumi Manciù.'
L’insistente allusione figurativa alla scena del passato, accoppiata con la sua metamorfosi a vacuo e desolato simulacro dell’originale, offre l'occasione all’imperatrice Wan Yung (Joan Chen) di esclamare: «È tutta una farsa». La struttura nel suo complesso non può mancare di evocare l’analisi marxiana della ripetizione. Che Pu Yi avrebbe finito per diventare un fantoccio nelle mani dell’occupante giapponese in Manciuria, preda di un sistema di estorsione che convertì il suo governo in una mera copertura dell’egemonia straniera, conferma la profezia marxiana che tali ricorsi storici si avviano per la strada della tragedia e terminano per il ghigno della farsa. Sul piano personale e psicologico, invece, la stessa sequela produce un altro tipo di interpretazione. Vissute dalla parte di Pu Yi (un'ottica alla quale ci è dato il privilegio di prendere parte grazie al casting e alla cinescrittura del regista), le due incoronazioni hanno un valore opposto. Inoltre, la straordinaria magnificenza della prima rimarrà per sempre incomprensibile per l’imperatore, allora infante. Tanto più significativo è questo momento dal punto di vista storico, quanto la sua portata sembra sfuggire al bambino che, divenuto impaziente e presto intollerante di un rituale
Prigionieri nel proprio palazzo, l’imperatore e la sua corte vengono espulsi da un Signore della guerra (in primo piano, Joan Chen e John Lone).
Fuori dalle mura della Città Proibita, una nuova vita piena di pericoli aspetta l'ex imperatore (John Lone). noioso e prolisso, interrompe spassosamente la cerimonia e trotterella attraverso la vasta sala del trono fino al velo imperiale, attratto sia dal colore giallo che dalla forma fluida che segrega il raduno delle masse dal cerimoniale segreto. (Questo schermo luminoso dietro il quale migliaia di occhi guardano rapiti non può mancare di evocare la relazione personale di Bertolucci col cinema e sbocca ancora su un altro insieme di allusioni che inscrivono accuratamente L'ultimo imperatore nella linea della autoconsapevolezza che il regista possiede nei confronti del suo mezzo di espressione. Per lo sviluppo psichico di Pu Yi, lo schermo ricopre invece un’importanza di gran lunga superiore: costituisce, prima ancora di essere simbolo del suo potere, il precursore di quel velo di cui si servirà, adolescente, per organizzare un gioco sensuale con i propri eunuchi. Infatti, vedremo più avanti quanto questi due livelli siano intimamente intrecciati.) Posto dinanzi al grandioso spettacolo dei sudditi che si prostrano in un omaggio contro natura, Pu Yi li riduce, attraverso il prisma della curiosità infantile, a un solo uomo e alla sua gabbietta per grilli: un’altra esperienza che avrà bisogno di ripetere più avanti nella vita. Il trattamento che Bertolucci riserva a questa struttura (l’esperienza narcisistica del trono posto in alto e la sensazione concomitante di onnipotenza) è di una complessità ammirevole: intrecciate alla serie di variazioni su questa sequenza, sono momenti la cui importanza psichica risulta nella esatta valenza contraria a quella (ascendente/discendente) individuata nella struttura storica. Come già rilevato, in termini psicanalitici, la scena dell’incorona-
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zione duplica, strutturalmente e figurativamente, la scena del vaso da notte, ed è una versione dell’esperienza primaria che sì aggrava progressivamente. A proposito della ripetizione strabiliantemente fedele di questa scena nella incoronazione manciuriana, Bertolucci stesso osservò: «In Manciuria, Pu Yi fa costruire un altare del Cielo ... in modo che la sua nuova incoronazione abbia un forte legame con il passato. Invece che in pietra bianca abbiamo costruito questo altare in terra battuta. È un esempio della condensazione che ho dovuto fare, che ho cercato di fare durante tutto il film».'5
Abbiamo voluto richiamare l’attenzione sul materiale impiegato per la costruzione del nuovo trono, perché chiaramente simbolizza il legame analitico tra il vaso da camera (il suo contenuto) e l’incoronazione:
qui, condensati
in ciò
che Bertolucci stesso chiama «quella ‘“coazione a ripetere”, l’onnipotenza del bambino durante l’infanzia».! È chiaro che, per Pu Yi, questa sequenza di ripetizioni assume implicazioni sempre più tragiche sul piano personale, in quanto è in Manciuria che scoprirà irrimediabilmente i limiti e i pericoli del suo desiderio narcisistico infantile di onnipotenza. Quando Bertolucci parla della condensazione in opera in quest’ultima variazione sul tema, egli riconosce implicitamente il ruolo determinante del passato sul presente. Paul Russell ha sostenuto che la coazione a ripetere è un’esperienza vissuta come totalmente determinata dal presente, ma che solo coniugata al passato può essere interamente compresa; vale a dire: «un ricordo che appare come un evento del giorno presente». Ciò che mette in moto la coazione a
ripetere è «un qualche trauma originario e prototipico».?° Quel trauma remoto può essere collegato al vaso da notte e al suo analogo, l’incoronazione — 0 può essere collegato a un altro gruppo di variazioni che sono parallele e spesso si intersecano con il gruppo appena elaborato. Ricordiamo che nella scena del vaso da notte il piccolo imperatore gode una vista aerea del modellino della Città Proibita. Per contraddistinguersi dalle varianti della scena del vaso da notte sviluppata nelle due variazioni, la vista aerea di Pu Yi ricorre pure in altre scene nelle quali egli scala letteralmente i tetti della città per guadagnare una vista spettacolare sul suo “Impero”. La prima volta egli è accompagnato dal fratello minore, Pu Chieh (Henry Kyi), che lo informa di non essere più l’imperatore, giacché il rivoluzionario Sun Yat-sen ha appena fondato una Repubblica. Che la rivoluzione si realizzi all’esterno, non è meno rilevante: rimane infatti l’evento storico che mutò per sempre il panorama politico della Cina. Quanto al fatto che si ripetesse varie volte nell’arco di mezzo secolo per mano di un qualche “Signore della guerra” sta a confermare l’adagio marxiano che la Storia giuoca prima il ruolo di tragedia e poi di farsa. In breve, la scena della “sala del trono” costituisce anche il nesso di una sequela di richiami visivi alla caduta dell’impero cinese e del fermento politico che fece seguito. Ma ancora, il punto di vista di Pu Yi esige un ulteriore livello di interpretazione. L'imperatore scopre la rivoluzione a colpo inferto. Il fratello, Pu Chieh, è il primo che osa discutere l’assoluta autorità imperiale (come spesso accade con l’ingresso in famiglia di un fratellastro che si contenda l’affetto dei genitori); esigendo da Pu Yi prove tangibili della sua onnipotenza ne provoca l’amore proprio. Dapprima, Pu Chieh sfida l’esclusivo
diritto del fratello di portare il giallo imperiale: affronto al narcisismo dell’imperatore che produce la sequenza dell’inchiostro: Pu Yi (Tijger Tsou) ordina all’eunuco “Piedone” (Zhang Liangbin), di trangugiare la boccetta di inchiostro verde (evidente analogo figurativo della scena del vaso da notte; in secondo luogo, tentativo istintivo di Pu Yi di ricreare quel momento
anteriore di narcisismo illimitato). Ma Pu
Chieh non si contenta; e spinge l’affronto alle estreme conseguenze: informa personalmente il fratello della sua destituzione e del rivolgimento di potere avvenuto fuori dalle mura del Palazzo. Ed a conferma di ciò montano su una impalcatura per assistere dai tetti all’arrivo in automobile nella Città Proibita (alla quale l’ingresso agli uomini, ad eccezione degli eunuchi, è proibito) del primo Presidente della Repubblica, Yuan Shih-kai. La loro scalata condurrà Pu Yi a scoprire che la sua onnipotenza è stata ridotta a una farsa, e il suo palazzo
a una prigione. È merito di Bertolucci se ciascuna di queste “scene madri” è esattamente costruita nella stessa maniera della struttura generale del film: la loro particolare posizione permette allo spettatore di leggerle sia in avanti che a ritroso, in una maniera che non solo rispecchia il progresso diegetico dell’opera ma anche il processo della psicanalisi! Rammentiamo che la storia del film inizia nel 1950, alla stazione sul confine russo: è la scoperta del tentato suicidio di Pu Yi (John Lone), nel bagno, davanti allo specchio, dopo essersi lungamente fissato, il volto in penombra. Quindi, per una parte, la storia del film retrocede: gli inchini di coloro che lo riconoscono alla stazione ferroviaria permettono di agganciarci alle primissime memorie della sua infanzia: l’incoronazione. Per un’altra parte, la storia si proietta in avanti: l’incarceramento e la detenzione, situate cronologicamente dopo
Una cugina
dell'imperatrice, Gioiello d'Oriente, è stata
incaricata dai giapponesi di vincere le reticenze di Wan Jung al ritorno del marito sul trono del Drago (Maggie Han e Joan Chen). 147
il tentato suicidio. Infine, il film passa alla sua morte anagrafica: è il 1967. La scena nella quale Pu Yi vede il Presidente della Repubblica (più anziano di lui, usurpatore della preminenza imperiale) evoca nel film, per associazione, niente meno che due altri insiemi di variazioni. Il primo riguarda una serie di imposizioni di autorità che provengono dall’esterno: l’elegante tutore scozzese R.F. Johnston (che, come il Presidente,
arriva in automobile; così pure i giapponesi che orchestreranno il desiderio più riposto e carezzato di Pu Yi: farsi portare alla propria incoronazione in limousine). Il secondo riguarda le varie chiusure delle porte che, nella vita di Pu Yi intervengono sempre a marcare la perdita definitiva di quelle che sono le figure materne. Tre sequenze in particolare enfatizzano nel giovane imperatore l'aumento della propensione alla ripetizione. Anche se si tratta di un flashback, la prima delle separazioni accade immediatamente dopo il tentato suicidio alla stazione: siamo nel 1905, Pu Yi, allora di tre anni, è sottratto senza preamboli
alle tenerezze della madre. Il trauma sarà ripetuto, poco dopo l’ingresso nella Città Proibita del Presidente della Repubblica. Se la separazione dalla madre sarà mitigata nel tempo dai seni copiosi della nutrice Ar Mo (Jade Go), l'improvvisa scomparsa di questa seconda madre, che lo allatta fino all’età
Imperatore per la seconda volta, Pu Yi si accorge troppo tardi di essere solo un fantoccio nelle mani dell’invasore giapponese (John Lone).
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di undici anni (!) non può risultare meno tragica. Pu Yi la insegue attraverso gli stretti corridoi della Città Proibita mentre la trasportano via in portantina, per perderla definitivamente dietro due enormi portali che gli sbarrano l’accesso al mondo esterno. Quando la madre muore, la reazione di Pu Yi è di correre alle porte della Città Proibita: ma si scontrerà ancora una volta contro un picchetto di guardie, che gli ostacolano sinistramente la strada. Il risentimento che nasce, si concretizza in due azioni autodistruttive. Nella prima scaglia contro la porta un topolino bianco, che usava gelosamente custodire come beniamino sotto la tunica (sfracellando così la vita di questo oggetto transizionale). Nella seconda, ripete la salita sui tetti della Città Proibita, mettendo questa volta in pericolo la propria vita. Ma il gesto sottintende il desiderio di rivivere un momento primordiale di onnipotenza (la vista aerea dal vaso da notte e le scene dell’incoronazione), ora però, ironicamente rappresentata da un momento di impotenza (il Presidente che lo sostituisce nella sua posizione di onnipotenza). Questi impulsi contraddittori sono tipici delle coazioni a ripetere. Come Paul Russell rileva, sono coazioni
che, consapevolmente almeno, preferiremmo non ripetere. Per complessità e forza, tuttavia, paiono godere di un’intelligenza superiore alla nostra, e funzionare piuttosto come «un fato, una nemesi, una maledizione... un fuoco fatale» governate, sembrerebbe, «da una qualche ignota attrazione maligna: incomprensibile, incontrollabile». In questo senso, la coazione a ripetere può, è vero, essere considerata come un atto volitivo, visto che normalmente si ignora di averla desiderata.”
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Dietro le quinte, sarà Mr Amakasu a dirigere il destino di Pu Yi fino alla tragedia di Hiroshima (a destra,
Ryuichi Sakamoto).
Questa descrizione della coazione a ripetere nei termini di tragedia si applica perfettamente alle azioni che Pu Yi è, per così dire, obbligato a reinscenare, e che comportano, a livello personale, implicazioni tragiche sempre maggiori. Russell nota che «Freud può anche avere avuto ragione o torto a proposito dell’istinto di morte, ma ciò che è più pertinente è la distruttività letale, la tendenza al suicidio, la coazione a ripetere».? Ed è proprio su un tentato suicidio che sboccherà questo insieme di ripetizioni. Ma la serie include un episodio tragico più straordinario ancora; perché al di là della paura di una paternità e del narcisismo, a Pu Yi non è dato di amare la moglie, cosicché l’imperatrice Wan Jung si lascia cadere in comportamenti irrazionali, volti ad attirare l’attenzione del marito: durante la cerimonia d’incoronazione ad esempio ingoia le orchidee (quale sostitutivo degli organi maschili, che le sono rifiutati); poi, circuisce lo chauffeur, con la pretesa di dare a Pu Yi un erede imperiale. Ma l’autista viene assassinato dai giapponesi, come il neonato; finché Wan Jung viene rapita in modo esattamente speculare alle due precedenti figure materne: e Pu Yi ripete lo stesso inseguimento, scontrandosi ancora una volta contro gli immensi portali che un picchetto di guardia gli chiude in faccia. E senza topolino, questa volta... «Proprio come “la consapevolezza nasce sulle ceneri di un ricordo”, la coazione a ripetere sorge al posto di una relazione: ... è la ricerca di una relazione perduta, una relazione di cui si ha bisogno per maturare... Dal punto di vista funzionale, possiamo intendere la coazione a ripetere come un resistere all’affetto, un ricordare emozioni»? Come tali, le ripetizioni scandiscono regolarmente ogni livello di questo film. Ulteriori esempi di ripetizione si hanno nell’ossessione di Pu Yi per il velo giallo che lo teneva separato dalle masse in adorazione nel giorno dell’incoronazione. Più avanti ricor-
rerà, in sostituzione, al gioco del lenzuolo: gioco di riconoscimento sensuale per ristabilire il contatto fisico con gli eunuchi; e per ricreare, sul piano psicologico, l’onnipotenza della scena del trono. Questo gioco avviluppante viene ripetuto con le mogli a letto, con le quali l’unica forma di sessualità genitalizzata è un gioco “polimorfosamente” perverso sotto le lenzuola. Come le altre ripetizioni, comunque, il piacere è quasi sempre masochistico: proprio durante questa ultima variante dell’ossessione del lenzuolo, avviene la rivoluzione a palazzo: Pu Yi vi risponde con un’altra ripetizione della sua impotenza proprio nel luogo che, una volta, soddisfaceva il suo narcisismo indiscusso. In pratica, ogni volta che si ha ripetizione di un fatto appartenente alla prima parte della narrazione, quella imperiale per intenderci, si tratta della messinscena di un sentimento reale di affetto. Inoltre, è una ripetizione che implica una sostituzione crescente di un atto inconsciamente autodistruttivo nel momento in cui un’integrazione dell'Io sarebbe augurabile. In quest'ottica, è da notare che i due momenti più coraggiosi (e rivoluzionari) nella maturazione di Pu Yi riguardano l’adozione degli occhiali da vista e il taglio del codino. Benché consapevolmente interpretati come affermazioni di indipendenza, entrambi simbolizzano con ironia l’autocastrazione. Nessuna meraviglia se Canby ed altri propendono a vedere ne L’ultimo imperatore un film epico senza un eroe epico. Se Pu Yi pare immune da passioni, una tale deficienza aderisce perfettamente all'analisi che Bertolucci compie su questo personaggio. Fino a questo punto, dunque, egli dota progressivamente il protagonista di uno sviluppo psicologico tragico, che bene rappresenterebbe ciò che Gil Noam chiama un “incapsulamento” (encapsulation): in questo caso, significa una forma di ripetizione compulsiva, designata per esprimere l’impotenza del personaggio e le risposte di tendenza analmente maso-
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Rimpatriati dai russi nel 1950, i collaborazionisti
vengono mandati in campi di rieducazione perché comprendano gli errori del periodo precedente. chista ad ogni evento traumatico. Noam ha spiegato che la coazione stessa a ripetere può essere compresa come parte di un quadro più esteso nel quale, malgrado il processo maturativo globale dell’Io, alcune esperienze sono restie all’integrazione dentro un sistema di sviluppo più elevato; anzi, rimangono allogate nella loro configurazione precedente, anche quando esiste una struttura maggiormente sviluppata. Così, ciò che Noam definisce un «deragliamento prematuro» potrebbe essere nell’Io la causa di una linea di sviluppo separata, che permette alla struttura precedente di coesistere, in forma incapsulata, con strutture successive evolute. Noam nota che «spesso la perdita che segue a un distacco da costruzioni interpersonali solide e conosciute» va ad acquisire la forma di detto incapsulamento; in questo modo una persona può trovarsi ad aver ottenuto «una maggiore complessità e una più estesa autoconsapevolezza», sperimentando contemporaneamente una quantità di alienazione incapsulata in un recesso della psiche, risultante da un trauma originario (e ripetuto). Come
se stesse anticipando il risul-
tato potenzialmente tragico dell’evoluzione di Pu Yi, Noam scrive: «Spesso la alienazione si tramuta in odio dell’Io, col
suicidio che diventa un aspetto della teoria dell'Io». Il film di Bertolucci sembra esternare questa visione negativa dell’incapsulamento a partire dal momento in cui (in Manciuria) le ripetizioni compulsive di Pu Yi assumono proporzioni inevitabilmente tragiche e culminano (alla stazione ferroviaria) nel tentativo di suicidio. Cioè: una risposta immu-
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tata ad uno stimolo traumatico indica una grado minimo di crescita interattiva (trasformazione) e mostra nel soggetto i sintomi della tendenza a circoscrivere le risposte a ripetizioni (masochistiche) già sperimentate, conducendo a una sensazione di sterilità e, alla fine, di morte. Per certo, questo è quanto Freud ha voluto intendere legando la coazione a ripetere a un «istinto di morte».?° Con quanto detto finora, abbiamo argomentato che le figure, marxiana e freudiana, della ripetizione tendono a muoversi in direzioni opposte: collidendo in un momento di farsa storica (l’episodio manciuriano) e di personale tragedia (la perdita della moglie e del figlio). Senza dubbio il film di Bertolucci (come l’opera omnia) apparirebbe intollerabilmente granitico se la figura immutabile della ripetizione fosse l’aspetto predominante del suo stile. Ma, non è il caso! Non si tratta di una pura coincidenza che il film ritorni al suo punto di origine, immediatamente dopo che le ripetizioni compulsive di Pu Yi assumono proporzioni sproporzionatamente tragiche e culminano nel tentativo di suicidio. A_questo punto Bertolucci inscena la più inquietante ripetizione: proprio come allora l’infante Pu Yi aveva sottoposto alla scienza dei suoi eunuchi il contenuto del vaso da notte («Più
verdura per oggi. E niente carne»), così oggi l’uomo maturo Pu Yi sottopone il contenuto dei suoi diari a un medesimo trattamento. Il direttore del carcere (Ying Ruocheng) tratta quegli scritti precisamente come eccessivi e li critica in termini straordinariamente identici a quelli usati per gli escrementi del bambino: «Meno date, più umiltà, meno grandeur».” Per la prima volta nell’opera di Bertolucci ecco l’apparizione di un personaggio che si erge ad analista! Se la storia di questo film è «la storia di una metamorfosi», come il regista dichiara, «di molte metamorfosi, da imperatore a cit-
tadino, da bruco a farfalla, da drago a giardiniere»” afferma zioni che da sole sottintendono cambiamenti fondamentali nel personaggio di Pu Yi; se l’evoluzione di Pu Yi non è altro che «il viaggio dal buio alla luce, metaforicamente, un viaggio verso la pienezza della luce»” (un’affermazione che ha anche implicazioni cinematografiche), allora ci devono essere spiegazioni più profonde di quei cambiamenti. Ora, Noam
argomenta che l’“incapsulamento” (come ri-
sulta dalla coazione a ripetere) non è per forza una struttura
prestabilita, immutabile, visto che funziona dinamicamente
con altri aspetti dell’Io, sia inter che intrapersonali. Noam definisce questi aspetti duraturi dell’Io: «temi cardinali», destinati a soccorrere l’individuo nell’organizzazione della propria vita secondo quadri interpersonali e intrapsichici. Questi “temi cardinali” si fondano sul proseguimento dei rapporti personali e sul ricordo di ciò che abbiamo vissuto, e costituiscono una “biografia di significati” atta a trasformare gli elementi, che prima erano mere ripetizioni, in una rielaborazione con mutazioni rilevanti. Per il fatto che un individuo è composto di numerosi temi cardinali, prosegue Noam, può darsi che alcuni di questi agiscano positivamente a vantaggio di quelli arcaici, tuttora incapsulati; causando tensione, spingono verso i momenti fondamentali della riorganizzazione nei quali, in conseguenza di queste trasformazioni, «nuovi stili e nuove narrative vengono creati». Noam paragona tali trasformazioni ripetitive ai temi musicali e letterari, capaci di generare piacere ed euforia piuttosto che disperazione.” E i temi cardinali, come i temi musicali, possono essere «elabo-
rati e riorganizzati attraverso il processo di aggiustamento. Tuttavia ogni riorganizzazione richiede un ritorno a quelle parti dell’Io che sono incapsulate, al fine di favorire l’integrazione». In termini di sviluppo della personalità queste trasformazioni permettono un ritorno a/e una risoluzione dei complessi incapsulati o paralizzati.** La più sottile ripetizione accade durante gli episodi che si svolgono in carcere. Se il primo inquirente (Ric Young) biasima l’ormai maturo Pu Yi (in misura calcolata, bensì, per rievocare le umiliazioni
di onnipotenza, è il direttore del carcere ad assumere l’interrogatorio. Sedutosi dietro Pu Yi, inizia a sollecitare altre memorie, una serie di flashback che questa volta hanno sul film un impatto molto diverso. Bertolucci ha chiaramente simbolizzato l’analogia tra il direttore, le esperienze formative che discendono da Johnston e la figura dell’analista; egli stesso paragona questo brainwashing a una “psicanalisi coatta” e conclude: «Si può arrivare a capire nel profondo i propri errori, quindi a cambiare... Alla fine della sua vita, quando ritorna ad essere un uomo come tanti altri, un uomo normale, Pu Yi è un buon cittadino».* Sotto lo stesso segno delle sessioni (implicite e) filmiche “da lavaggio del cervello” tra il direttore del carcere sempre seduto dietro l’‘“analizzando” (Pu Yi), troviamo una nuova
serie di ripetizioni. Questa volta partono da una presentazione del narcisismo imperiale e arrivano alla ritrascrizione (entro le mura della prigione) della medesima scena, ma in presenza della collettività o, in altre parole, in circostanze “normali”. In ognuna, la figura di Pu Yi progredisce da una posizione di superiorità o di isolamento verso una posizione di inserimento. La più informativa di queste varianti implica nuovamente il ricordo dell’incoronazione: la matrice di pressoché tutte le ripetizioni. Si tratta della sequenza in cui Pu Yi, ancora bambino, si affaccia da sotto il velo sul cortile della Suprema Armonia, stracolma di cortigiani accuratamente coreografati. Più avanti nel film, quando la Città Proibita viene sostituita dal cortile del carcere, la mdp si focalizza su un gruppo di detenuti, anch'essi coreografati: mentre si esercitano nelle ginnastica quotidiana Pu Yi è mescolato tra costoro e non in disparte. Assodata questa figura ripetitiva, è
dell’infanzia), il direttore del carcere evoca invece un altro
“tema cardinale” in tutta la sua integrità: la rispettabile relazione del giovane Pu Yi col tutore Johnston. Come Bertolucci ha osservato: il film è «il conflitto tra Pu Yi e il suo rieducatore, quindi, è il conflitto tra l'ex Imperatore motivato da quella “coazione a ripetere”, l’onnipotenza del bambino durante l'infanzia, che non crede di potere essere ricuperato alla società, e il direttore della prigione, fiducioso che l’uomo possa cambiare». Ma è significativo che il primo ricordo che questa analisi strizzacervelli, che le autorità del carcere chiamano confes-
sione «dentifricio» riesce ad estrarre è l'espulsione degli eunuchi dalla Città Proibita: per la quarta volta, Bertolucci registra l’impulso di Pu Yi a voler proiettare sul suo mondo l’onnipotente e autodistruttiva vista aerea. Si tratta della sequenza in cui la sua voce fuori campo commenta il fallito tentativo di instaurare la riforma: dapprima tagliando il proprio codino; poi, ordinando l’espulsione in massa degli eunuchi (fuoriescono dalla Città Proibita in processione, trasportando i loro organi sessuali in piccoli vasi). Questa confessione comprende ironicamente un “errore” marxiano e freudiano: l’autocastrazione e l’orgoglio, ora quasi inseparabilmente fusi e inquadrati come deficienze caratteriali del giovane. Dopo che il primo inquirente ha dimostrato come il diario di Pu Yi servisse da scudo per manifestare il suo desiderio narcisistico
Sotto la guida del direttore del carcere, inizia per Pu Yi un’“analisi” del proprio passato lunga dieci anni (John Lone e Ying Ruocheng]. I5I
Dopo alcuni anni, la matricola 981 si distingue meno dagli altri prigionieri e viene finalmente liberato dai comunisti.
significativo il momento in cui Pu Yi è pubblicamente rimproverato dal direttore per avere svegliato 1 compagni di cella mentre orinava di notte. Il rimando al trono imperiale rimette Pu Yi in una posizione narcisistica, in contrasto con la rieducazione all’igiene personale e con l’integrazione originale al mondo ordinario. Non è fuori luogo qui riprendere gli interrogativi sollevati all’inizio e in particolare il paragone implicito con La presa di potere da parte di Luigi XIV di Rossellini: «può essere salvato? Salvato da che?». Tali domande acquistano chiarezza, sul piano storico e psicologico, mano a mano che il film procede. In termini psicanalitici, se Pu Yi è malato, lo è per quel narcisismo letale e distruttivo dovuto ai ricordi della primissima infanzia, accoppiati con le ripetute sottrazioni delle figure parentali e al successivo transfert di questa sensazione nella coazione a ripetere. In termini marxiani, gli stessi sintomi vanno sotto un altro nome: consapevolezza imperialista di classe. Ma se esiste un “tema cardinale”, il cui contenuto po-
sitivo è commisto ad altri di contenuto negativo, esso riposa nell'educazione al rispetto inizialmente impartita a Pu Yi da Johnston, e completata dal direttore della prigione. Il ‘“verdetto” di Bertolucci su questo punto potrebbe essere, come spesso è stato negli altri suoi film, assai ambiguo. Discutendo la trasformazione del suo protagonista, egli nota:
posa così leggera sull’acqua da non venirne mai inghiottita. Egli guarda negli occhi il suo rieducatore ed entrambi pensano la stessa cosa: è cambiato? È veramente cambiato?” E il film sembra inferire la tesi del cambiamento. Ma, come molte altre, la questione è per Bertolucci polivalente: può riguardare non solo il protagonista, ma anche la Cina e lo stesso regista! Infatti: quando Pu Yi esce dal periodo di rieducazione, il complesso delle ripetizioni è lontano dall’essere completo. Da una parte, è vero che Pu Yi inizia il suo vero primo atto di magnanimità durante il corteo delle Guardie Rosse quando prende le parti del suo ex rieducatore, ora messo alla berlina. Questa scena può essere interpretata come la ripetizione di un tema cardinale positivo: l’arrivo di Johnston rispecchia quello dell’ex direttore del carcere. Infatti Johnston è attorniato da una calca inasprita di studenti, i cui slogan, di sapore taoista, inneggianti al rispetto, non divergono molto dagli insegnamenti, di sapore maoista, del direttore. Dall’altra parte, benché sembri pienamente inserito nel nuovo ruolo di giardiniere, Pu Yi è ancora ossessivamente attrat-
to dal trono che insediava da bambino; anzi, riesuma persino l’antica gabbietta del grillo donatagli dal primo tutore, il mandarino Chen Pao-shen. L’apparizione di un grillo vivo (lo stesso?) nella gabbietta, solleva immediatamente
Pu Yi può essere visto come una crisalide che si tramuta in una farfalla dalle ali grandi e delicate, che si
Oz
la do-
manda: che cosa ancora rimane nell’inconscio di Pu Yi del ruolo precedente di imperatore di Cina e di membro onnipo-
tente di un romanzo familiare? L'aspetto fantastico diversifica questa conclusione da quella di Novecento, dove i due protagonisti ripetono esattamente gli stessi giochi che compivano da piccoli, lasciando a intendere una ripetizione farsesca del processo
storico, che in altra sede avrebbe invece
condotto a mutamenti considerevoli. Certamente l’esame storico di Bertolucci ne L’ultimo imperatore è ambiguo. L’elaborata coreografia delle Guardie Rosse non può mancare di rievocare due altri passaggi del film: il corteo di giovani dimostranti che circondano Johnston al suo arrivo a Palazzo e che sembrano votati a lottare per la rivoluzione del proletariato cittadino; e la coreografia della massa dei cortigiani nel cortile della Città Proibita. Come ripetizioni della prima, queste due scene reinfatizzano il tema marxiano di sottofondo: che nella Storia la successione di ogni ripetizione tende progressivamente alla farsa. Che la Rivoluzione culturale di Mao dovesse ricevere un tale trattamento sembrerebbe inverosimile se non ricordiamo che in questa stessa sequenza Bertolucci inserisce un gustoso scherzo visivo, volgendo in ridicolo quel momento, importante solo in apparenza: come dei cortigiani gli operai in bicicletta si fermano tutti con molta disciplina a un semaforo verde e ripartono al rosso. E non si tratta di una coincidenza (perché niente è davvero casuale nell’opera del Nostro!): le Guardie Rosse che ripetono la rigida coreografia dei cortigiani rafforza il presentimento, già visibile nelle svariate gigantografie del Presidente Mao, che la vera identità dell’ultimo imperatore è più complessa di quanto si possa pensare: complessa non solo alla luce della sua reinterpretazione della Rivoluzione, ma anche alla luce delle connessioni trale problematiche della Storia,
della persona (psicologia) e del cinema, che sono sempre dimorate nel cuore di Bertolucci. A questo proposito egli ci racconta: Mao provava una certa simpatia per Pu Yi. Una volta, a una riunione del Comitato Centrale ha detto: «Mi arrivano notizie che il mio predecessore si sta comportando molto bene». Gelo in sala. «Ma che cosa vorrà dire?», si chiedono tutti. Mao scioglie il gelo con una fragorosa risata: «Ma certo... Pu Yi, l’ultimo Imperatore, è il mio predecessore».
Questo è il tipo di scherzo che poteva essere raccontato solo da Mao... o da Bertolucci, che osa rappresentare sullo schermo in termini così vividi la più perversa delle ripetizioni. L’insistenza di Mao a volere ripetere gli avvenimenti della Rivoluzione, l’invasione di migliaia di autoritratti per le strade della città, ci fanno toccare con mano ancora una volta la giustezza della profezia marxiana: di tutte, la farsa culminante è quella che vede Mao impersonare la propria boutade. Ora, grazie a una virata imprevista, Bertolucci aggiunge il suo tocco. Ecco come aveva visto dall'Italia, nel 1968, il nuovo “sconquasso” cinese: «Vivevo la Rivoluzione Culturale come una grandiosa rappresentazione, con un vecchio regista di nome Mao Dzedong, che dirige milioni di comparse giovanissime concepite e allevate apposta. Mi attraeva soprattutto l’estetica della Rivoluzione Culturale, come teatro nelle strade: post-Living Theatre, pre-Pina Bausch».” Così, grazie a un’abile dialettica, Bertolucci inserisce l’atto di fare
cinema nel cuore della problematica della ripetizione storica (e psicologica) stessa. Se dunque, Mao è un regista, allora ci
aspetteremmo che Bertolucci si paragoni all’imperatore. Don Ranvaud glielo chiese in questi termini: Riguardando le fotografie del lavoro in Cina, mi viene spontaneo di leggere quello che dicevi a proposito della “coazione a ripetere” di Pu Yi durante la sua vita come una definizione accurata della pulsione del cinema nelle tue vene. Migliaia di personaggi che fanno “cotao” davanti al vero Imperatore che è seduto sul trono/dolly con la capacità di spiccare voli inebrianti verso il cielo del desiderio. La prima risposta di Bertolucci a questa osservazione fu: «Credo che l’associazione imperatore-regista sia troppo immediata, limpida e divertente per essere vera... L'ultimo imperatore è il meno autobiografico dei miei film». L’argomento fu accantonato, a livello cosciente, per proseguire la lunga conversazione. Prima di lasciarsi, tuttavia, il regista, come spinto a riconsiderarlo, ritornò su questo punto in occasione di un’altra domanda: Come diceva Lampedusa nel Gattopardo: «Tutto deve cambiare perché tutto rimanga com'è». Soprattutto mi sembra di essermi affacciato per un istante su un universo in cui il cambiamento avviene perché un individuo è parte di una collettività e riesce ad accettarlo fino in fondo. Una persona ne rappresenta tante altre e loro rappresentano lui. In questo senso avevi ragione tu: «L’empereur c'est moi!».! Questa seconda risposta rappresenta un'evidente condensazione dei molteplici piani del film. Se il regista si definisce imperatore, indubbiamente il primo dei significati è quello della sua identificazione con Pu Yi. Così facendo (contrariamente al suo espresso diniego) rende il film “autobiografico”. Se, quando è Bertolucci stesso a definirlo, il film è «un apologo morale e politico che mi coinvolge, il viaggio di un uomo dal buio verso la luce», allora possiamo dire che il “viaggio” corrisponde al risveglio politico di Pu Yi e alla scoperta bertolucciana del film, “la lumière”, quale strumento di espressione sia dell’Io che della collettività, nei quali il regista cerca albergo. In questa doppia autobiografia, le ripetizioni di Pu Yi si duplicano come ripetizioni delle scene non della vita di Bertolucci, ma di quelle già viste nei suoi film precedenti. Disse a proposito delle riprese all’interno della Città Proibita: Era come girare a Sabbioneta, o alla Gare d’Orsay, in uno di quei “décors naturels” costruiti centinaia di anni fa, ma paradossalmente da allora in attesa della mdp. La paura di perdermi nel labirinto senza avere in mano il filo di Arianna che mi porta fuori è completamente sparita... «Può un ragno rimanere imprigionato della ragnatela che ha tessuto?»: così si chiede Pu Yi a diciotto anni.* Sabbioneta, naturalmente, è la cittadina nella quale fu girato Strategia del ragno; la Gare d’Orsay è lo scenario di alcune vicende de // conformista e di Ultimo tango. Che Bertolucci dovesse evocare il labirinto come la fonte della sua trepidazione e metaforizzarlo nell’immagine della ragnatela che Pu Yi ha filato da solo, condensa l’allusione ai film prece-
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Mescolato ai turisti, il cittadino Pu Yi torna a visitare la sala del trono dove ritrova magicamente il grillo della sua infanzia. denti, alla biografia di Pu Yi e alle ossessioni personali del regista. Nel capitolo dedicato a Strategia del ragno, abbiamo addotto che l’immagine di Arianna fu determinante per il cineasta: condensava il ruolo di reggitore e di prigioniero delle trame del proprio progetto narrativo. Quella scena è doppiamente significativa: suggerisce, infatti, l’intima ambivalenza dell'urgenza narcisistica nel momento preciso della creazione. In questo senso possiamo dire che Bertolucci supera con successo gli aspetti negativi delle ferite narcisistiche di Pu Yi toccando un narcisismo creativo. E il regista avrà pure tecnicamente ragione quando asserisce che L’ultimo imperatore è il meno autobiografico dei suoi film. Ma non possiamo dimenticare che egli ha definito la propria biografia come «la memoria della mia stessa memoria». In questo contesto il gioco sensuale di Pu Yi che si fa identificare attraverso il lenzuolo trasparente comporta ricche implicazioni sull’interscambio di identità che Bertolucci compie mediante il grande schermo. Ora, ad un altro livello, siamo costretti a interpretare che, riconoscersi “imperatore” significa impiegare l’identico termine che nel 68 aveva usato riferendosi a Mao: l’agi-
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tatore di «milioni di giovani», all’insegna di un'estetica sia rivoluzionaria che strettamente personale. Il suo lavoro sul set (come descritto sopra da Ranvaud) così straordinariamente prefigura il suo lavoro nel buio della sala di proiezione. Spostare il registro dell’identità da Pu Yi a Mao significa evocare il ruolo profondamente rivoluzionario che il cineasta ha sempre cercato di esercitare con i propri film. In questa senso, L'ultimo imperatore, entra, o meglio ri-entra, a fare parte della schiera delle opere che si allineano sotto l'emblema di una meditazione ulteriore sul cinema: 1. Vuoi come una forma di voyeurismo della scena primaria (così dice Bertolucci quando descrive il proprio lavoro sul set): 2. Vuoi come un discorso sul ruolo dei «ricordi che appartengono allo schermo»; 3. Vuoi come una riflessione sui prismi, quale la distorsione (le scene che implicano l’adozione degli occhiali da parte dell’imperatore); 4. Vuoi come una cronistoria implicita del modo in cui il cinema è stato espropriato per finalità reazionarie (si veda l’uso nel film di materiale di repertorio girato dai giapponesi), anche quando si cerca di produrre l’effetto inverso. (Basta ricordare il modo in cui Ultimo tango, per esempio, si sforzò di articolare
una critica al voyeurismo e fu attaccato come sfruttamento del corpo femminile). Come tale, la meditazione ne L’ulti-
mo imperatore risulta paradossalmente assai autobiografica, quando sviluppa con forza le sue inquietudini metacinematografiche. L'aspetto più straordinario di questo straordinario film è il modo in cui due meditazioni apparentemente così dicotomiche vengono intrecciate: la teoria marxiana della ripetizione, sentita come una precipitazione dalla tragedia alla farsa, e la teoria freudiana della coazione a ripetere, intesa come l’anticamera alla tragedia. Così facendo, Bertolucci sembra avere compreso quanto prossima sia la credenza marxiana (e cioè che la farsa è il passaggio obbligatorio verso la liberazione delle masse «dal peso della tradizione»)! alla lezione freudiana della teoria della coazione a ripetere, che «può essere pensata come un desiderio a disfare la situazione traumatica, per fare ritorno al modo in cui le cose erano prima della lesione»: cioè, liberare l'individuo dal «peso» della tradizione psichica!. «Per quanto ripetitiva» nota Russell «la coazione a
ripetere è sempre un nuovo evento... l’apparente ripetitività ha a che fare col bisogno, diciamo, di preparare il palcoscenico a un processo di induzione lungo e infinitamente complesso che è necessario, se mai qualche reale cambiamento deve accadere». Per quanto demoniaco e distruttivo il modello della ripetizione possa apparire, quando abbandonato alla sua degenerazione, è anche, e sempre,
sia nella visione freudiana che
marxiana, segno del bisogno di liberarci da modelli devastatori e arcaici. Non appena la trama di queste due visioni è tessuta, ecco sorgere un evento inquietante. Il volto di Pu Yi assomiglia sempre di più in modo strabiliante al ritratto di Mao; e al volto di Mao si sostituisce inconsciamente quello, niente meno, del regista: l’ultimo degli ultimi imperatori, la cui opera, prendendo a prestito le parole di Russell, è destinata a «preparare il palcoscenico» per una evoluzione e una trasformazione della nostra consapevolezza, quella che possediamo nei riguardi del cinema.
NOTE ' B.B. a Alain Philippon e Serge Toubiana, “Sur les traces de Pu Yi”, in Cahiers du cinéma, n. 401, novembre 1987, p. 10. ? Michael Sragow, “Bertolucci Makes his Marx in the Forbidden City”, in San Francisco Examiner, 6 dicembre 1987. ? Vincent Canby, “‘Last Emperor’, an Epic”, in The New York Times, 20 novembre 1987. ‘Ci sono in verità molte connessioni evidenti tra questi due film, di cui certamente la minore non è il carattere imperturbabile e passivo dei protagonisti: Marcello e Pu Yi. Forse, il parallelo visivo più sbalorditivo, e quello che collega le preoccupazioni metacinematiche del film a quelle de // conformista, è l’esplicito voyeurismo delle scene di omosessualità femminile. Ne // conformista, Marcello prende il posto di spettatore, mentre Anna seduce Giulia nella stanza d'albergo a Parigi. Ne L’ultimo imperatore, la scena nella quale Gioiello d'Oriente seduce l’imperatrice è immediatamente seguita dall’inquadratura di un occhio che spia attraverso lo spioncino della porta in carcere. S Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, 1966, p. 45. Stefan Morowski, “Introduction”, in Marx and Engels on Literature and Art, St. Louis, Telos Press, 1973, p. 31. ? Vd. per es., Lukacs, “Tolstoy and the Development of Realism”, in Marxists on Literature, a cura di David Craig, Penguin Books, 1975, pp. 282-345. # Frederic Jameson, “Imaginary and Symbolic in Lacan: Marxism, Psychoanalythic Criticism, and the Problems of the Subject”, in Literature and Psychoanalysis, a cura di Shoshana Felman, Baltimore, John Hopkins University Press,
1982, p. 33. ° B.B. a Amos Vogel, cit., p. 26. ‘© Canby, cit. !! Marx, The Eightenth Brumaire of Louis Bonaparte, New York, International Publishers, 1935, p. 13.
!° Ibid., pp. 36-37. !3 Vd. supra capitolo su Novecento. ‘ Jeffrey MehIman, cit., p. 13. !s Vd. Freud, A/ di là del principio del piacere. ‘i Enzo Ungari & Don Ranvaud, Scene madri, cit. p. 281.
! Ibid., p. 282. !# Ibid., p. 281. !? Ibid., p. 248.
20 Paul L. Russell, “Necessary Attachments, Necessary Losses: the Role of Loss in the Repetition Compulsion”, ancora inedito, coperto dal diritto d’autore, presentato a Symposium il 26 marzo 1988, pp. 3-5.
© Ibid., p.4. 2 Ibid., p. 8. 2 Ibid., pp. 3, 8,9.
“ Gil Noam, “ A Constructivist Approach to Developmental Psychology”, in Developmental Psychopathology and its Treatment, a cura di E. D. Nannis e P. A.
Cowan, San Francisco, Jossey-Bass, 1988, pp. 109-113. ZII PNLI3:
°° Vd. Freud, A/ di là del principio del piacere, cit. ? Questa non è, a proposito, la prima volta che si vede un processo cinese nel lavoro di Bertolucci. Lui stesso nota che la scena del processo al padrone, in Novecento, era ricavata da fotografie che aveva visto dei processi dei contadini cinesi (Scene madri, p. 238 ). Né il rifiuto della scrittura è un tema nuovo per Bertolucci. Le sue interviste sono seminate da dichiarazioni ambivalenti se non addirittura di rivolta aperta nei confronti della scrittura. 21b1dpa2/3: ” Ibid., p.277. * Noam, cit., p. 113. *' Ibid., p. 114. In un’altra metafora Noam chiama queste dinamiche una “sinfonia”: «Simili a una sinfonia ripartita nei suoi movimenti, ogni grado evolutivo dello sviluppo ha la propria organizzazione interna, il proprio ritmo e stato d’animo. Tuttavia, i temi di fondo che ricorrono lungo tutta la composizione, subendo continue modificazioni, appartengono ciascuno a un movimento separato. Ciò che appare a prima vista come una ripetizione, spesso finisce con l’essere una rielaborazione con mutazioni rilevanti. Come con una sinfonia, ci si può focalizzare sui movimenti sopravvenenti e le loro differenze di tempo 0 tono, oppure ci si può focalizzare sulla continuità di “un progetto musicale” sovrastante». Noam, “The self, Adult Development and the Theory of Biography”, in Self, Ego, and Identity-Integrative Approaches, a cura di Lapsely, Daniel K. and F. Clark Power, New York, Springer-Verlag, 1988, pp. 15-16. Altrove Noam estende il paragone al cinema, quando sostiene che «sarebbe un errore inquadrare le categorie dell’equilibramento, dell’integrazione e dell’analisi dei temi cardinali come funzioni separate. Piuttosto, li vedrei come strettamente intricati. Un po’ come la fotografia, che si fonda sulla relazione tra luce, velocità e distanza, l'Io comporta numerose e complesse funzioni...», ibid., p. 115 LIDIA pal: 4 B.B. a Ranvaud, cit., p. 248. * Ibid., p. 249. i Ranvaud, ‘After the Revolution”, in American Film, ottobre 1986, p. 21. #* B.B. a Ranvaud, cit., p. 249. ” Ibid., p. 237. Il lettore ricorderà che il Living Theatre era protagonista del mediometraggio Agonia (1967). 3 Ibid., p. 261. * Ibid., p. 261. ‘° Tbid., p. 282. ‘! Ibid., p. 238. ‘ Tbid., p. 276. # Vd. supra capitolo su Strategia del ragno. # Questo tema sarà sviluppato nel successivo film, // tè nel deserto. In esso il regista effettua il transfert di identità dal protagonista maschile a quello femminile. 4 Vd. supra capitolo su La luna. 4 Intervista videoregistrata. * Marx, cit., p. 116. 4 Russell, cit., p. 6. * Russell, cit., p. 10.
Il tè nel deserto
1990
— Lei è me. Che cosa devo fare? — Mollate l'Inferno. E la vostra caduta sarà arrestata dal tetto del Paradiso.
Djuna Barnes, La foresta della notte
Agonia, smarrimento e redenzione «La paura di perdermi nel labirinto senza avere in mano il filo di Arianna che mi porta fuori è completamente sparita», diceva Bertolucci dopo L’ultimo imperatore. E aggiungeva: «Ma può un ragno rimanere imprigionato dalla ragnatela che ha tessuto?». Il premio Oscar 1988 per la migliore regia sembrava avere dissipato molte delle incertezze che adombravano la sua relazione col pubblico, e che per anni lo avevano impensierito. Tuttavia considerare quel film come “politico” presuppone l’apprezzamento di una complessità di materiali che è possibile soltanto dopo lo “svelamento” dell’“intimista” Il tè nel deserto.” Il paragone con il filo di Arianna e il ragno lascia trasparire ossessioni che vanno ben al di là di quelle di Pu Yi. In esse vi ritroviamo gli intrecciati interessi autobiografici e filmici che risalgono ai primi lavori. I termini “labirinto”, “ragno” evocano Strategia del ragno, e V’intensa riflessione sul padre come eroe e come traditore che attraversano il film. E rimandano ineluttabilmente alla metafora bertolucciana del ragno messa in scena in Ultimo tango a Parigi: che ogni relazione tra uomo e donna è “maledetta”. Bertolucci si accostò al romanzo di Paul Bowles, // tè nel deserto, sulla via della Cina. Benché lavorasse al personaggio di Pu Yi, era contemporaneamente occupato da Jane e Paul Bowles (alias Kit e Port Moresby). Anzi: sarebbero presto assurti a ossessione: «Lessi // tè nel deserto mentre mi recavo in Cina... e mi ammalai subito. Infatti, mi identificai quasi completamente nella figura di Port... che considero un personaggio agonizzante». Questa affermazione unita a quelle contemporanee sul ragno e il labirinto conduce a risultati sorprendenti. Insieme suggeriscono un dato nuovo: l’assenza di paura mista a un persistente senso di agonia. Se l’identificazione con Pu Yi ne L’ultimo imperatore fu capace di fare sospettare l’idea di un “possibile cambiamento”, restò a Il tè nel deserto realizzare la partitura che permettesse al labirinto, al ragno, alla liberazione e all’agonia di coesistere in
una nuova cornice. Nella domanda: «può un imprigionato dalla ragnatela che ha tessuto?» me di questa nuova relazione. Bertolucci si ragno: ma non in termini di minaccia, bensì
ragno rimanere troviamo il geridentifica con il di matrice. Con
ogni evidenza il “possibile cambiamento” riposava sull’intreccio di identificazioni di segno opposto. Qualunque fosse lo stato d’animo del regista, il passaggio dallo splendore imperiale all’intimità desolata de // tè nel deserto appare, a tutta prima, come un cambiamento enorme. Dapprima, in senso puramente geografico: // tè nel deserto rappresenta per il cineasta una direzione veramente nuova. Paul Bowles narra l’iter di tre americani che sbarcano in Nord Africa per viaggiare senza meta precisa. Port Moresby appare spinto da un fuoco personale: da una parte mettere a repentaglio i propri limiti psicologici e, dall’altra, ricuperare un’intimità profonda, e maturata, con Kit. Non si capisce bene quale sia il ruolo nell’avventura del loro amico Tunner — onnipresentemente impacciato — di cui Kit, dirà subito al marito: «È comunque il tuo problema, non il mio».* Arrivati a Tangeri, Port trascorre una notte di passione e terrore con una prostituta berbera, Marhnia. I tre americani decidono al-
lora di partire per Boussif. Ma l’arrivo dei Lyle — Eric e la madre — sconvolge i loro piani. I Lyle si offrono di dare un passaggio in auto ai Moresby. Port accetta. Kit decide di non lasciare Tunner da solo e prendono insieme il treno. Lo champagne di quest’ultimo tende una trappola a Kit e finisce per vincerne le resistenze. Al risveglio, i due si ritrovano nel-
lo stesso letto. L'incidente sarà taciuto, ma Kit sospetta che Port sappia di lei e Tunner (7D, 86).
Lo stesso pomeriggio, Port e Kit si recano in bicicletta su un’altura limitrofa. Mentre contemplano il piatto e sconfinato deserto (nelle parole di Bowles): «rotto qua e là da aguzze creste di roccia che si levavano al di sopra della superficie, simili a pinne dorsali di altrettanti mostruosi pesci» Kit si rattrista infinitamente rendendosi conto che «pur avendo tanto spesso le stesse reazioni, gli stessi sentimenti, non arrivavano mai alle medesime conclusioni, perché 1 loro rispettivi scopi, nella vita, erano quasi diametralmente opposti... A volte pensava... se fosse stata in grado di diventare com’egli era, sarebbe riuscita a trovare la via dell’amore, dato che l’amore per Port voleva dire amare lei: l'eventualità di un’altra donna non si poneva nemmeno» (7D, 84). Visto il grado di narcisismo che avvolge Port, la frase: «l'eventualità di un’altra donna non si poneva nemmeno» indica fino a che punto Port possa amare un essere al di là di se stesso. Del silenzio che li
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Pochi giorni dopo l’arrivo a Tangeri, Port si lascia portare portafogli (Amina Annabi).
sotto la tenda di una giovane prostituta berbera che gli ruba il
sovrasta, Port dice: «Sai... il cielo qui è stranissimo. Spesso quando lo guardo ho la sensazione come di una cosa solida, lassù, che ci protegge da quello che c’è dietro» (TD, 85). Quando Kit domanda: «Ma che cosa c’è, dietro?», Port risponde: «Niente, credo. Soltanto oscurità. Notte assoluta» (TD, 85). La stessa notte, Port ritorna sull’altura a contemplare il panorama: «Nel ritornare verso Boussif, si rese conto che non avrebbe mai potuto dire a Kit d’essere stato lassù. Kit non avrebbe capito quel suo desiderio di tornarvi senza di lei. O forse, rifletté, avrebbe capito fin troppo bene» (TD, 87). Port trascorre il resto del viaggio ad architettare il piano per come disfarsi dello sventurato Tunner. Finalmente riuscirà a disporre di se stesso e godere della massima libertà. Ma il cielo non sembra proteggere Port dalle tenebre che vi stanno dietro: anzi, gli è di impedimento. Dopo Boussif è la volta di Aîn Krorfa dove Eric Lyle sottrae abilmente a Port il passaporto, simbolo rimanente della sua identità. Tuttavia per Port la vita appare già una caso risolto: La vita... è come fumare una sigaretta. Le prime boccate hanno un sapore meraviglioso, e non pensi nemmeno che possa mai esaurirsi. Poi cominci a prenderlo per scontato. D’improvviso ti rendi conto che si è consumata quasi tutta, e proprio allora ti accorgi che sa proprio di amaro... O forse sarà che vivere è un vizio, come fumare. Non fai che dire di voler smettere, ma in realtà continui imperterrito (7D, 140). Il demone auto-distruttore che lo alberga spinge Port da Ain Krorfa a Bou Noura. Quindi a EI Ga’a. Durante il tragitto è colto dal tifo. Kit riesce a farlo trasportare su un mezzo di fortuna fino all’avamposto di Sbà dove, in una squallida cella accomodata a stanza d’ospedale, Port lentamente si spegne, finendo per essere «una cloaca in cui i processi chimici continuano... il tabù supremo, impotente e terrificante al di là di ogni ragione» (7D, 182). Durante l’agonia Port sussurra: «Sono lontanissimo e tutto solo» (7D, 184). E quando la morte sopraggiunge, Bowles scrive: «Vide soltanto il cielo
sottile che si stendeva in alto a proteggerlo. Lentamente si sarebbe formata una fessura, il cielo si sarebbe ritirato, ed egli avrebbe visto quello che non aveva mai dubitato vi fosse, al di là, avanzare verso di lui con la velocità di un milione di venti» (7D, 199).°
Morto Port, il primo pensiero che passa per la mente a Kit è un ricordo. Si ricorda di avere pensato che «se Port fosse morto prima di lei, in sostanza non avrebbe creduto che fosse morto, ma piuttosto che fosse in qualche modo rientrato in sé per restarvi, e che mai più egli avrebbe avuto coscienza di lei; così che in realtà sarebbe stata lei quella che avrebbe cessato di esistere» (7D, 202-203). Decide di gettarsi allo sbaraglio, e si getta nel deserto: sarà il suo battesimo. Infatti,
prima di tuffarsi nelle sabbie del deserto, farà il bagno in un giardino illuminato dalla sola luna (questa scena è stata tolta nel montaggio finale del film). ... rimase nuda nell’ombra. Sentiva nascere dentro di sé un’intensità strana. Nel guardarsi attorno, in quel giardino silenzioso, aveva l’impressione che, per la prima volta dai giorni della sua infanzia, stava vedendo gli oggetti con chiarezza. Improvvisamente la vita era là, e lei c’era dentro, non stava osservandola dalla
finestra... Mentre s’immergeva completamente, le venne fatto di pensare: «non sarò mai più isterica». Quel genere di tensione, quel grado di preoccupazione per se stessa, sentiva che mai più li avrebbe raggiunti in vita sua... finì il bagno in silenzio, l’eccesso di euforia ormai svanito; ma la vita non si allontanò da lei. «E qui e resterà», mormorò tra sé... focalizzando la sua mente su quella sensazione di gioia concreta che aveva ricatturato. L’aveva sempre saputo, lei, che esisteva, proprio al di là delle cose, ma tanto tempo prima aveva accettato di non averla come condizione naturale di vita. Poiché ora l’aveva ritrovata, la gioia
di esistere, diceva a se stessa che se la sarebbe tenuta stretta, qualsiasi sforzo potesse costare (7D, 211-212). La metamorfosi culmina nell’incontro con la prima carovana Tuareg alla quale si consegna. Nel romanzo Kit viene violentata più volte dai capi della spedizione, un anziano e Belgassim, le cui attenzioni sono contraccambiate da Kit. So-
lo allora scopre che: «si era abituata ad agire senza la consapevolezza di compiere l’atto. Faceva soltanto le cose che scopriva di stare già facendo» (7D, 237). Una volta giunti nel villaggio di Belgassim, dall’altra parte del Sahara, Kit viene obbligata a vestirsi con abiti maschili. Una volta scoperta la sua vera identità, Belgassim è costretto a sposarla, ma la segrega in una tugurio. Da allora Kit esisterà solo per il piacere occasionale dell’uomo: «immersa in un’aura di spensierata contentezza, stato che in breve tempo aveva finito per prendere per scontato, e poi, come una droga, per trovare indispensabile» (7D, 251). Ma per timore di incappare nella vendetta delle altre mogli di Belgassim, Kit fugge dall’harem e trova rifugio da Amar, il primo uomo che incontra sulla via del villaggio. Più tardi viene fatta trasvolare nel porto mediterraneo dell’inizio per raggiungere Tunner. Invece di ricongiungersi finalmente all'amico che l’aspetta ansioso nell’auto del consolato, Kit si mescola alla folla araba e fugge su un tram in direzione del “capolinea”. Giudicare fiacco il romanzo di Bowles sarebbe ingiusto. È vero che non sembra toccare il cuore dei sentimenti né trovare un punto di risoluzione. In quanto al “battesimo” che segue la morte di Port, Kit non approfitta per rinascere, ma per cadere piuttosto a capofitto nella «perdita di consapevolezza», nella «spensierata contentezza», e concludere nella pazzia rifiutando (come Ada in Novecento) «di aprire gli occhi» (TD, 265). L’interpretazione di Bertolucci non è inferiore per ricchezza e complessità al suo modello letterario. Se per definirla si dovesse ricorrere una lista di categorie si penserebbe subito all’ossimoro. Essa è come molte altre sue opere: rispettosamente ribelle, oniricamente realistica, oggettivamente autobiografica, estraneamente intima, cinematicamente letteraria e/o fedelmente infedele. E, come è per molti altri dei suoi lavori, il film può essere meglio compreso se sottoposto a un'analisi della relazione col “modello”. Bertolucci ha sempre aspirato a tessere relazioni complesse con i testi che adattava. Quanto a // tè nel deserto Bertolucci dichiara: «La sceneggiatura è estremamente fedele al libro». È la prima volta forse che il cineasta non si sentiva antagonista a un testo, che non pensava a «distruggerlo».* E in verità all’inizio riscontriamo una fedeltà sorprendente all’azione del romanzo. Tuttavia Bertolucci aggiunge: «Avrei
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Ad accompagnare Kit e Port nel periplo in Nord Africa è l’amico Tunner, che cercherà anche di sedurre Kit
(Campbell Scott).
potuto scegliere di fare un film letterario. Ma con /! tè nel deserto non volevo fare un film letterario... Volevo raccontare
gru, ormai in disuso, campeggia la scena. L'abbandono in cui si trova la dice lunga sullo stato primitivo dell’ Africa: non a caso seguono alle inquadrature di New York e sono combinate con il gruppetto di ragazzetti cenciosi che, sbucati dal nulla, trasportano le valigie dei protagonisti. Tuttavia ci troviamo di fronte a un tropo classico della pratica cinematografica: il dolly, di cui Bertolucci si serve per avvisare la sensa-
la loro storia attraverso... la chimica dei film». Ora, una ma-
zione di isolamento che avvolge i tre. Altrettanto, ci viene ri-
niera per evitare di fare un film letterario è di insistere sul cinema come mezzo di espressione e con quasi certezza farne il soggetto del film fino dalle prime inquadrature. Il romanzo comincia al risveglio di Paul a Tangeri, nella stanza d’albergo. Il film invece su una serie di immagini di repertorio di New York: i coriandoli! — fogli svolazzanti che ricordano quelli della prima sequenza de La commare secca — volano dai grattacieli; il mercato ittico di Fulton; il Radio City Music Hall e la metropolitana; e con molta ironia l’ingresso del famoso night “El Morocco”. Le immagini sottolineano ad arte il contrasto con il mondo “primitivo” e desolato del Nord Africa. Tuttavia dicono di più: la luce straordinariamente radiosa di Vittorio Storaro, in contrasto con le immagini rozze dei titoli di testa, accentua maggiormente la natura filmica delle immagini che stiamo guardando. Possiamo persino udire la voce del doppio che, in Partner, sussurra: «Cinema!». Bertolucci nutre questa autoconsapevolezza filmica servendosi di una serie di allusioni cinematografiche. Le prime immagini del porto di Tangeri ce lo confermano: Kit (Debra Winger), Port (John Malkovich) e Tunner (Campbell Scott) sono trasportati al molo da una barca a remi. Qui un’enorme
cordato il meccanismo del cinema non appena udiamo la prima battuta di Tunner: «Terra ferma». Come per aumentare il
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divario tra film e letteratura, Kit apre la sua valigetta. Lì,
mentre Tunner cerca di immortalarla in una foto notiamo il titolo del libro Night Wood di Djuna Barnes." Prima di arrivare al Grand Hotel, la mdp indugia sull’esterno del cinema Alcazar dove si proietta Sans lendemain (Tutto finisce all’alba, 1939) di Ophiils, titolo che suona come presagio alla vicenda dei personaggi, e che annuncia la natura intertestuale di questo film. Più tardi, Port incappa in alcuni ragazzetti che per la strada ne portano a tracolla la reclame. Quando Kit alla fine del film ritorna negli stessi paraggi incrocia un ragazzetto che porta a tracolla il manifesto di Remorques (Tempesta, 1940) di Grémillon. Quando di nuovo Kit abbandona l’auto, ella incrocerà ancora due cartelloni dello stesso film. E vediamo anche la gru del molo della prima sequenza, questa volta però inquadrata da un punto elevato sopra la città. Queste citazioni non sono inutili. Sans lendemain
racconta la storia di Evelyne (Edwige Feuillère)
alle prese con due uomini: uno che la tiranneggia e uno che l’ama. Alla fine del film invece di prendere il treno per Le
Havre e salpare per il nuovo mondo, sparisce nella nebbia, inaspettatamente e per sempre, lungo la Senna. Pertanto il film di Ophiils potrebbe funzionare per Kit come presagio. La réclame di Remorques che riappare alla fine del film costituisce una conferma intertestuale del fato di Port. Il film di Grémillon, interrotto dalla guerra, mai terminato, distribuito tale e quale, comprendeva anch’esso sequenze di finzione e documentari. Alla fine del film, Jean Gabin, capitano di un rimorchiatore, svanisce in una tempesta, che Philippe Esnault vede come: «la cattura dell’uomo reale intrappolato nei sogni».! Tali allusioni segnalano sia la differenza tra cinema e letteratura che le allusioni al cinema (7D, 46, 64) e alla lavorazione vera e propria di un film (7D, 49), cui anche Bowles ri-
corre. Basti menzionare alcune metafore tolte dal linguaggio cinematografico: «Quell’angolo della stanza era come un fotogramma isolato e proiettato isolatamente sullo schermo nel bel mezzo del flusso di immagini in movimento»
Al Grand Hotel, i viaggiatori incontrano Eric Lyle e sua madre, il cui itinerario, PertoPre, corrisponde spesso al oro (Timothy Spall e Jill Bennett). to... È la fisicità dei due — dei corpi, della pelle, delle facce, degli occhi, delle bocche — che diventa così forte. È come se la loro presenza biologica si sostituisse a quella letteraria». Senza dubbio la marca di Bowles la troviamo nelle fantasticherie interiori che imbevono i personaggi imprimendo al romanzo un taglio inesorabilmente esistenzialista.'* Port, per esempio, non può fare un passo senza meditarvi sopra: «E gli passò per la testa che una passeggiata attraverso la campagna era una sorta di epitome del passaggio attraverso la vita stessa. Non ti concedevi mai di assaporare i particolari; dicevi: un altro giorno, ma sempre con la segreta consapevolezza che ciascun giorno era unico e definitivo, che non vi sarebbe
(7D, 201).
mai stato un ritorno, un’altra volta» (7D, 112). Kit non smet-
Bertolucci poi, ed è qui la sua genialità, saprà imprimere un’inquietante ambiguità al valore metacinematico di quelle immagini. La seconda impresa volta a disfarsi della letterarietà del testo di Bowles, Bertolucci la compie sbarazzandosi di quasi tutti imonologhi interiori. «Pensai meglio di dimenticare tutte le voci interiori» disse. «Non mi interessa il labirinto dei loro pensieri. Voglio raccontare la loro storia attraverso l’emozione e il comportamento, lasciando alla loro apparenza
te di valutare la sua posizione esistenziale e psicologica: «Aveva l'impressione di vivere in un sogno terrificante che rifiutasse di arrivare alla fine. Non aveva coscienza del tempo che passava; al contrario sentiva che si era fermato, ed era diventato una cosa statica, sospesa in un vuoto. Eppure, sotto sotto c’era la certezza che a un dato momento non sarebbe stato più così... ma a questo non voleva pensare, per timore di tornare ad animarsi e di ricominciare ad essere consapevole del trascorrere di secondi interminabili, perché il tempo
esteriore la funzione di essere specchio della loro interiorità,
aveva ricominciato a passare» (7D, 72). Persino Tunner non
che combinata con il paesaggio darà forma al loro isolamen-
riesce a sottrarsi
a momenti di riflessione: «Senza dubbio la
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A Bou Noura, Port riesce a seminare sia Tunner che i Lyle
per ritrovarsi finalmente solo con Kit (John Malkovich e Debra Winger).
ragione principale per la quale aveva tanto tenuto ad accompagnare Port e Kit in quel viaggio era che con loro, come con nessun altro, avvertiva una resistenza ben definita ai suoi incessanti tentativi di dominio morale, per il che, in loro compagnia, era costretto a impegnarsi molto più a fondo... dava alla sua personalità l’esercizio di cui aveva bisogno» (TD,
56). Eliminando questa sorta di ritratto interiore, Bertolucci porta ad effetto, mi sembra, due conclusioni paradossali: da una parte arriva ad appiattire i personaggi rischiando di passare sotto silenzio le loro motivazioni. Dall'altra parte, liberandoli dai monologhi interiori, frequentemente pomposi e laboriosamente “esistenziali”, dona loro una patina di mistero corrispondente all’esotismo dei paesaggi. Bertolucci conferma: «Ciò che mi interessa ne // tè nel deserto non è dove la vicenda va a parare, ma ciò che è e ciò che fa nel suo evolversi. È una storia che riguarda il mistero dei personaggi e della coppia, il mistero della loro chimica. La cosa interessante è il mistero in se stesso, non la sua soluzione o risoluzione».'° All’udire «mistero» non si può non pensare ai riflessi che la parola getta sul passato del regista. Come sappiamo sin dalla giovinezza Bertolucci è stato «in cerca del mistero». Ma se andiamo a indagare quale «mistero» egli ab-
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bia sottinteso all’assenza dei monologhi interiori (presenti invece nel modello letterario), appariranno subito le differenze. Il romanzo, stando al suo autore e alla corrispondenza con la moglie, fu alquanto autobiografico. Bowles stesso ammise che: «la struttura e il carattere del paesaggio sarebbero stati sostituiti dalla... memoria, rinforzando ogni scena con dettagli tolti dalla vita quotidiana durante quel giorno di scrittura. Non sapevo che cosa avrei scritto il giorno successivo poiché non l’avevo ancora vissuto».!” Secondo Millicent Dillon, Jane Bowles scrisse al marito che si era riconosciuta in Kit e lo aveva riconosciuto in Port; anzi, che il mo-
do in cui Kit vedeva la vita era il suo. Per lei si trattò di una profezia.'* Bowles difese il carattere immaginario del romanzo sostenendo: «Jane pensava che Kit fosse Jane Bowles. In un certo modo lo era, naturalmente, ma non lo era. Sapete come vanno queste cose; ci si serve di un modello vivente per costruire un personaggio mitico». Qualunque argomentazione egli apporti, non può mancare a chiunque legga l’autobiografia di Bowles, la corrispondenza di Jane Bowles e il romanzo, di notare una sconcertante relazione tra ciò che Bowles chiama immaginazione e vicende autobiografiche.?° Dettagli come l’ossessione di Jane per i presagi, o il terrore dei treni, o il senso di intimità colmo di ten-
sione che apparteneva alla coppia, sono trasportati a piè pari nel romanzo. L'approccio filmico di Bertolucci al contenuto autobiografico del romanzo è impercettibile, ma denso. Colpisce ad esempio nella scelta di Debra Winger la straordinaria rassomiglianza con Jane Bowles. Di ritorno dal set Bertolucci
disse: «Paul [Bowles] mi disse che quando Jane morì, la vita per lui smise di avere significato. Ora qualcosa di Jane è peo genico da Debra, e il mio set è infuocato di passio-
ne».
La mdp, che tra gli effetti personali di Kit scova e cattura una copia del romanzo di Djuna Barnes La foresta della notte, segnala sia il ruolo della Barnes a Tangeri (il suo libro risale al soggiorno del 1934), sia accenna ai costumi sessuali dei coniugi Bowles sui quali il film sorvola. La foresta della notte racconta surrealisticamente da passione di una coppia omoerotica di donne, così some è analizzata da un medico che, al posto di quelli maschili, veste abiti femminili. Il testo è permeato da riflessioni che richiamano quelle de // tè nel deserto. Ad esempio: State attenti a chi amate, perché un amante che muore, per quanto dimenticato, porterà qualcosa di voi nella tomba (FN, 156-157). Per trattenerla... non c’era altro modo che la morte (p. 74). Posso ritrovarla solo nel
mio sonno o nella sua morte; in entrambi lei mi ha dimenticata (p. 140). Ella non è nella vostra vita, siete voi che siete nel suo sogno, non ne uscirete mai (p.
155). Una donna sei tu, còlta mentre ti volgi in preda al panico; sulla sua bocca tu baci la tua (p. 152). Che cos’è questo amore che proviamo per l’invertito, ragazzo o ragazza che sia? In ogni storia d’amore che abbiamo letto era di lui che si parlava. La ragazza perduta: che altro è se non il Principe ritrovato? (p. 146) Questi passaggi evocano4 rapporti tra: il sogno, la morte e la confusione di identità sessuali che aleggiano come fantasmi sul film. L’esplicita relazione omoerotica del libro esplica, grazie alla citazione en passant, ciò che Bertolucci ha preferito occultare: che «l’interesse sessuale reciproco dei
Port si ammala improvvisamente arrivando a El Ga'a,e
la coppia prosegue subito verso il forte di Sba, dove forsei
francesi potranno curarlo (Brahim Oubana, John Malkovich, Debra
Winger).
Bowles fosse stato effimero, e che entrambi accolsero amori
omosessuali. Tanto gli exploits di Paul erano sottintesi quanto quelli di Jane erano eccessivi... Ma mentre i loro cammini spesso erano divergenti, il loro legame era indistruttibile».® Se la “diversità” della coppia è stata lasciata in ombra nel film (l’unica allusione è nella scena notturna tra Paul e Eric
Lyle nella stanza d’albergo a Ain Krorfa), vagamente ne pervase tuttavia tutta l'atmosfera. Un altro riferimento alla vicenda personale dei Bowles riguarda gli anni di matrimonio che Bertolucci riduce a dieci (calcolandoli dalla conclusione
del libro di Paul), quando nel romanzo Kit ricorda a Port che sono dodici.”* Quando Bertolucci discute la natura autobiografica del libro tuttavia emerge un curioso parallelismo tra scrittore e cineasta: «Dovete comprendere che nel libro, Kit e Port corrispondono a Jane e a Paul; tuttavia per costui ciò è inaccet-
tabile. Ha stabilito una certa simmetria con la vita, una geometria dell’equilibrio. Non riesce ad ammettere che questo libro è il suo specchio». Chi sia «costui» è ambiguo e dà a pensare, visto che lo specchio, come tropo, è tipico piuttosto dei feticci di Bertolucci che di Bowles. I nomi poi di Jane e Paul non solo designano i nomi dei Bowles, ma anche sono gli stessi dei protagonisti di Ultimo tango a Parigi! Così a forza di insistere sui dettagli autobiografici di Bowles, Bertolucci maschera il fatto che // tè nel deserto è anche uno specchio dei propri “fantasmi” cinematografici! In questo senso si potrebbe dire che // tè e La foresta della notte funzionano come schermi dietro i quali un’altra vicenda è stata messa in scena. Il regista prosegue: «Questa è la chimica dei film. La letteratura parla la lingua della metafora, poiché le parole sono metaforiche. Il cinema parla la lingua della realtà, poiché invece delle parole usa la realtà. Il cinema è sempre cinéma-vérité».?° Ebbene: cos’è questa vérité che Bertolucci dichiara
Dopo una folgorante agonia, Port muore
lasciando Kit sola sull'orlo del deserto (John Malkovich e
Debra Winger).
appartenere al cinema? Che la mdp catturi immagini degli oggetti fisici che le stanno davanti, già Bazin ne aveva fatto un cavallo di battaglia nel suo principio di realtà. Vittorio Storaro tuttavia corregge subito la cosiddetta formula «chimica» filmica di Bertolucci:
Bernardo non vede nessuna storia in termini realistici. Crea sempre un duello tra il conscio e inconscio. Abbiamo lavorato insieme così a lungo che c’è una sorta di chimica tra noi due. Con la mdp, lui forgia la grammatica dell’immagine. Io scrivo con la luce...” Altrove Bertolucci conferma la dichiarazione di Storaro:
Fare un film è un qualcosa in progress. Alla fine si ha qualcosa di diverso: ciò è quanto gli dà vita. Non riesco a pianificare un film secondo una sceneggiatura o uno storyboard. Ho bisogno della mdp. Ho bisogno degli attori. Non posso farlo a tavolino. Ho bisogno della realtà che mi sussurri all’orecchio. Se lasciate la porta aperta alla realtà, il profumo della realtà è così forte che finirà con l’aggiungere qualche cosa. Esso attacca e entra e s’infiltra: è questo che mi piace.
Ciò che entra, una volta che la sceneggiatura è stata messa da parte, è la presenza delle opere precedenti, e in particolar modo Ultimo tango a Parigi.” Lo stesso regista ammise che il film «assomiglia molto a Ultimo tango, contiene la stessa tensione romantica»,* e confidò a Richard Corliss che Malkovich gli ricordava Brando: «Due monoliti, impassibili, assolutamente immobili, e dal primo momento condannati»." Entrambi sono dei viaggiatori (e non turisti) come la donna delle pulizie ricorda a Brando in Ultimo tango e come Port e Kit diranno a Tunner.® In tutti e due i film Bertolucci
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conduce 1 suoi personaggi al di là di uno specchio d’acqua in uno spazio protetto, al di fuori del normale continuum spazio-tempo, che in Ultimo tango a Parigi è V’appartamento di rue Jules Verne, e ne // tè nel deserto il Grand Hotel di Tangeri, il cui ingresso un poco assomiglia al mitico palazzo parigino. All’interno, Jane e Paul, Kit e Port occupano isole separate di luce. Kit è immersa in una luce chiara, tendente al blu; Port in una rossa, terribile, infernale. E si propaga alle pareti della stanza in modo quasi identico alla strana intonacatura rosso-aranciata dell’appartamento di Parigi. Quando Port va nella stanza di Kit, trasporta con sé questo impressionante bagno di sangue. Più tardi, in un’inquietante inversione rispetto ai personaggi di Ultimo tango, Port obietta alla guida araba che la ragazza che gli è stata proposta.è una prostituta. «Una prostituta?» ripete la guida con la stessa intonazione incredula di Maria Schneider. Infatti Jeanne ribadiva che non sopportava minimamente di essere associata all’idea di prostituta — tanto più quando scoprì che il padre, colonnello, aveva conservato la fotografia di un’amante berbera dei tempi dell’avventura coloniale. La fotografia di questa formosa ragazza anticipa Marhnia ne // tè nel deserto. L’evidente condensazione della figura di Paul col padre di Jeanne suggerisce a quale punto il personaggio di Port rappresenta un’assimilazione degli aspetti negativi delle figure maschili di Ultimo tango a Parigi. In verità, l'avventura notturna con Marhnia appare come un tentativo confuso di rigenerare la figura di Kit. Questa parentesi che si risolve in un incubo a Tangeri riassume l’intera tendenza vendicativa e distruttiva di Port. Secondo Bowles: «Port prova il desiderio di rinforzare i legami sentimentali [tra se stesso e Kit]» a tal punto che «la cosa stava assumendo una importanza enorme per lui. Alle volte si diceva che,
nel suo subconscio, aveva avuto in mente proprio questo quando aveva concepito quella spedizione...» (TD, 88-89). Il
Port di Bertolucci è però meno articolato e si tormenta interrogandosi sulla sua relazione («forse abbiamo tutti e due paura di amarci troppo»), senza dimenticare — come Bertolu cci stesso argomenta — che «sta cercando qualcosa che in ultima analisi — penso — è la morte». Un’esigenza simile spiega la presenza degli specchi. Tra le prime sequenze quella in cui Port esce dalla stanza al Grand Hotel per passare in quella di Kit: a tutta prima la mdp sembra incapace di localizzare la moglie, nascosta come è dalle valigie. Finalmente la scova in uno specchio che riflette. In un altro momento, la mdp inquadra Kit e Tunner, ma distinti e doppiati in uno specchio ciascuno, come se, assenti dalla loro presenza fisica, fossero le loro superfici a parlarsi. Benché in Bertolucci lo specchio giuochi generalmente per lo spettatore la funzione di identificazione nell’economia filmica," in questo caso suggerisce anche in quale misura tra i personaggi la concezione dell'amore sia intimamente connessa all’amore di se stessi e alla autocontemplazione. Probabilmente l’esempio macroscopico ci è fornito da Kit quando, facendo una smorfia allo specchio, imita il saluto affettato di Tunner («Hey, ciao!») che incontrerà aprendogli la porta della stanza. E come in Ultimo tango a Parigi l’uso degli specchi rendeva omaggio all’ Orphée di Cocteau, qui la corsa frenetica di Port suggerisce piuttosto il desiderio narcisistico di andare al di là delle apparenze superficiali per rivendicare una qualche disperata pretesa della propria relazione con Kit.*
Mentre Paul, in Ultimo tango, sembra intraprendere il viaggio orfico per riguadagnare la moglie, compiendo l’ultimissimo viaggio di “esilio dal mondo”, Port tende piuttosto a vendicarsi (7D, 189). In entrambi i film, la loro relazione è
ambivalente, disperata, dolorosa. Infatti, Bertolucci ha detto del protagonista de // tè nel deserto: «La sua anima segreta è la cognizione del dolore, la nostalgia per la sofferenza». Bowles scrisse del deserto come «un vasto oceano di sabbia dalle turbinanti creste cristallizzate e dal silenzio assoluto... come qualcosa di paralizzato... negazione di movimento, sospensione di continuità» (7D, 192). Il passaggio rivela una stupefacente affinità con la descrizione che Bertolucci fa dell’appartamento di rue Jules Verne, come uno spazio fuori dallo spazio e dal tempo. Infatti, la sequenza in cui Port osserva Kit stesa tra le tombe del cimitero di Aîn Krorfa vale come virtuale citazione del suo omologo in Ultimo tango a Parigi quando afferma: «No names here». A quel punto Ryuichi Sakamoto sembra rifarsi brevemente al tema musicale di Tango riuscendo a comunicare il medesimo senso di isolamento dei personaggi. In Ultimo tango a Parigi, Paul, brillo e senz’accorgersi di scivolare in un abisso, esegue in modo egregio una parodia licenziosa del tango. In una ripetizione persino parodica di questa parodia, a El Ga’a Port, delirante, insiste per eseguire la danza del ventre: steso per strada e in fin di vita accompagna col battito delle mani il ritmo di un flauto. Ultimo tango è così presente ne // tè nel deserto che nella stanza del fortino
In questa scena tolta dalla versione definitiva del film, Kit faceva il bagno di notte nell’oasi prima di incontrarsi con i nomadi (Debra Winger).
Per varie settimane, la carovana di Belqgassim attraversa
l'oceano di sabbia con un'insolita passaggera (Eric Vu-An e Debra Winger). sistemata a ricovero, il colonnello ricorderà sarcasticamente alla coppia: «Siete a Sbà e non a Parigi». Ma la stanza è troppo simile a quella di Tango per passare inosservata. Entrambe sono spoglie, meno un materasso steso sul pavimento. I grugniti animaleschi di Paul sono rimpiazzati dai grugniti di dolore di Port. Paul chiedeva a Jeanne di raggiungerlo sulla «nave pirata», Port dice soltanto a Kit: «Stavo solo cercando di tornare indietro... ma non penso che ci sia tempo». Poi, come se fosse Paul sulla bara di Rosa: «Tutti questi anni che ho vissuto per te e non lo sapevo, e ora lo so, ora tu fe ne stai andando via» (il corsivo è nostro). Così totalizzante è il nar-
cisismo di Port che è impossibile sapere se il pronome personale «tu» si riferisce a Kit o a se stesso. Fin qui, le similitudini sono inquietanti. Parlando della coppia ne // tè nel deserto, è come se Bertolucci stesse descrivendo quella di Ultimo tango:
Non è sull’impossibilità dell’amore. Ma l’impossibilità di essere felici in amore. Kit e Port non si rendono conto che la coppia moderna è una specie in pericolo. Le coppie sono così attaccate dal mondo esterno che creano un tipo di fusione, una simbiosi. E ciò le porta eventualmente alla crisi. Si guardano negli occhi e dicono: «Chi sono? Chi sei?».” Frasi che rimandano a un’altra: «Ogni relazione sessuale è condannata»* o alla battuta di Brando: «Un marito anche se
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vivesse duecento anni non riuscirà mai a capire nulla sull’esistenza di sua moglie, mai. Conoscerò il mondo, l’universo, ma non scoprirò mai la verità su di te». Ultimo tango a Parigi terminava con l’uccisione di Paul ma prostrando Jeanne in una confusione mentale completa. Su questi elementi prende avvio // tè nel deserto. E la presenza del primo permette di apprezzare l’enorme differenza con il secondo. Sul suo inconfondibile «telaio del sogno» Bertolucci ha tessuto una nuova trama, meno torturata, ma che presuppone tutto il lavoro precedente, però metamorfosato. In una inquadratura indimenticabile, densa di significati sia metaforici che letterali, Bertolucci filma la transizione tra Port e Kit: la morte dell’uomo, e il “battesimo” della donna. Dall'alto, a perpendicolo, la mdp incornicia i due volti, Port e Kit: l’uomo tiene gli occhi aperti, la donna chiusi.* La prima impressione è che lui sia sveglio (vivo) e lei addormentata (morta). Un attimo dopo, la donna si sveglia e trova l’uomo
morto, con gli occhi spalancati e persi nel vuoto. La scena non può mancare di ricordare l’apertura del film quando vediamo Port, prima capovolto e poi diritto, ripreso a perpendicolo, con gli occhi chiusi, quindi aperti. Quest’inizio, ambiguo per il suo punto di orientamento spaziale e temporale, suggerisce che, ancora una volta, l’intero film potrebbe essere letto come se fosse l’emanazione di un sogno. In quest'ottica, numerosi aspetti ci colpiscono per la loro natura onirica: la barca a remi (che richiama l’apertura di Adele H. di Truffaut);
l’effetto curioso delle teste, come
staccate dai corpi, dei protagonisti che salgono sul molo; l'improvvisa apparizione di un gruppo di ragazzetti, sorti dal nulla; l’incredulità del doganiere davanti a Port che professa di voler fermarsi in Africa per uno o due anni. L'annuncio di questa struttura avviene nella sequenza del caffè, dove i tre
immersi nella penombra ascoltano Port che racconta il proprio sogno: Ho fatto uno strano sogno questa notte. Ero in treno... stava per scontrarsi contro una montagna di lenzuola. A un certo punto ebbi l'impressione che avrei potuto evitare l’incidente se solo avessi potuto aprire la bocca e gridare. Mi accorsi che era troppo tardi, avevo allungato il braccio ma avevo rotto i denti con la mano, come se fossero di gesso. Ho deciso di emettere questi spaventosi singhiozzi del sogno che scuotono come un terremoto.
Bowles invece congeda sbrigativamente il sogno, con ciò considerandolo insignificante nella ontologia del personaggio:
scena memorabile di reciproca agonia, Port esclama: «Forse abbiamo tutti e due paura di amarci troppo»; l’uomo e la donna si abbandoneranno a piangere. Alla morte di Port, Kit imiterà finalmente la “notte brava” del marito a Tangeri: la vediamo scendere un lungo pendio collinare per lanciarsi in un'avventura erotica con un giovane nomade. Ma ora, liberata dallo stato apatico e dall’impulso nichilista del marito, Kit è messa nella condizione di tendere alla vita. Benché il film tralasci di esplicitare i riferimenti al superamento delle loro identità, la ripetizione del sogno e la ripetizione visiva della discesa non riescono a ipotecare l’interpretazione che vuole Kit “impadronirsi” dei sogni di Port. Djuna Barnes scrive: «Ella non è nella vostra vita, siete voi che siete nel suo sogno, non ne uscirete mai» (FN 155). Il riferimento a La foresta della notte, per*opera di Kit, preannuncia l’intero potenziale onirico del film. Bertolucci osserva:
Il treno che andava sempre più veloce era la vita stessa... era un sogno semplice, classico. Il suo particolare significato in rapporto alla sua vita personale non aveva molta importanza. Infatti, onde evitare di doversi occupare dei valori relativi, da un pezzo era arrivato a negare qualsiasi scopo al fenomeno dell’esistenza: era più vantaggioso e confortante (TD, 63).
Kit si lascia trascinare da Port, questo esploratore, questo cercatore, finché è all’improvviso gettata in una situazione dove deve reagire [la morte di Port]. Ella subisce una specie di metamorfosi. In un senso ella diviene Port. Ella va nel deserto, nella notte, e fa esattamente il tipo di cose che Port avrebbe fatto in vita. Nel film, l’abbiamo vista barricarsi dietro i bauli ammassati nelle stanze d’albergo. Ora invece ha una specie di osmosi. Ha la stessa spinta che Port aveva per il rischio e l'avventura. Dopo la sua morte, costui entra ancora nella sua mente. È una prova estrema di grandissimo amore quella di rinunciare, per così dire, alla sua personalità per diventare lui.*
Questo sogno tuttavia suggerisce altro: l’annuncio simbolico di un desiderio di morte: «per affrettarsi ed entrare nel deserto, lasciando dietro di sé nessuna traccia» (TD, 170). Ma inquietantemente mette Port nella stessa posizione di Kit. La sciagura del treno e la rottura dei denti sono chiari
segni della castrazione, che “uguaglia” marito e moglie nell’annullamento dell’alterità reciproca. Gli altri elementi del sogno designano abbastanza chiaramente l’evoluzione di Kit nel romanzo di Bowles: i singhiozzi che la scuotono davanti al marito morente (7D, 185), la pazzia che la riduce al mutismo (7D, 265), il terrore dei treni e la corsa in tram alla fine del film: il famoso «capolinea» (7D, 271). Il sogno, in
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altre parole, rivela la profondissima identificazione di Kit e Port dal punto di vista di Port (cioè di Paul Bowles), a tal
punto che quando muore, lei è obbligata simbolicamente a seguirlo. La messinscena di Bertolucci comporta un'importante variante. Benché siano molti i parallelismi (i singhiozzi, il terrore del treno, ecc.) il risultato è assai diverso. Quando Kit monta sul tram alla fine del film, il «capolinea» è indicato sulla carrozza: «Eckmiihl-Noiseux»: vale a dire il nome del caffè del romanzo. In altre parole, Bertolucci mette a punto per Kit un paesaggio onirico che, benché l’identificazione tra i due protagonisti sia importante, non lega più Kit alla pulsione autodistruttiva di Port, ma piuttosto la rimuove dalla “fine della corsa” e la dirige nuovamente nel caffè dal quale aveva cominciato il viaggio su un sogno raccontato da Port. Infatti, nel momento della morte del compagno, è evidente che il suo sogno è arrivato alla conclusione mentre Kit sta soltanto per iniziare; e che entrambi gli orizzonti del sogno sono velati del “cielo-schermo” dell’orizzonte del sogno di Bertolucci. Emersa dal “sonno” accanto al corpo esanime di Port, Kit esce per la prima volta al di fuori della sfera d’influenza di lui. Abbandona le valigie, dunque la vita precedente, e s’inoltra nel deserto: un luogo che insieme a Port
aveva scorto dall’alto della montagna di Boussif.* In quella
Dall'altra parte del Sahara, l'amante segreta di Belqassim viene segregata e travestita da giovane Tuareg (Debra
Winger). 167
Ora, visto che tutti i personaggi di un sogno vanno visti come sfaccettature dell’Io del sognatore, perché non interpretare il film come il sogno di Bertolucci (trasposto su quello di Paul Bowles)?* Ciò che è particolarmente liberatorio in questo film (staccandosi soprattutto dal suo omologo, Ultimo tango a Parigi) è che il sogno parte dalla sterilità e dal nichilismo (l’istinto di morte) per giungere ad un erotismo vibrante, che Freud vede connesso con la pulsione di vita. In Ultimo tango a Parigi la coppia sembra incapace di tornare alla normalità dopo una passione ineguagliabile, e su questo fallimento il film collassa. Ne // tè nel deserto invece c’è una volontà di abbandonare la parte nichilistica della personalità, incarnata dal «lucertolino» Malkovich‘ per abbracciare la parte avventurosa e vitale, incarnata da Debra
Winger. «È la donna che nel film muta profondamente psicologia» afferma Bertolucci. «L'uomo, invece, rimane un esistenzialista militante a confronto con il mondo arabo». Kit inizia attivamente un viaggio nel “cuore della luce” (e del sole e della luna — facendo pensare a La luna) dove scoprirà un erotismo essenziale. In quel nido di fango e paglia che è la casa di Belgassim, gli amanti ricreano l’ appartamento di rue Jules Verne: ma questa volta per i piaceri dell’amore e senza l’intrusione di ricordi sadici di Tango. Quasi fosse la rielaborazione di una situazione incontrata già in Strategia del ragno, la scena in cui Kit e Belgassim si svolgono reciprocamente il turbante inverte quella in cui Draifa avvolge Athos nelle bende, allo stesso modo di un ragno. Non diversamente da Bowles, Bertolucci veste Kit con abiti maschili facendole seppellire i propri. (La sostituzione dell’abito rievoca La foresta della notte di cui scorgiamo una copia nella valigia di Kit all'arrivo sul molo). Ma qualora volessimo trarre da qui un ulteriore indizio di omosessualità nel romanzo di Bowles,* nel film di Bertolucci proviene piuttosto dalla condensazione delle identità sessuali all’interno della cornice del lavoro onirico, e dalla regressione alla fase primitiva, della stessa identità sessuale.‘ A quanto pare la scelta degli attori si fece anche in questa prospettiva: Vedo John come una figura mitologica, un centauro. Ha le gambe come un cavallo, e le cosce come un calciatore jugoslavo. Mano a mano che si sale diventa più delicato, a tratti quasi femmineo. Mi piacciono gli attori che hanno qualcosa di femmineo in conflitto con la loro mascolinità, e amo le attrici che hanno qualcosa di mascolino in conflitto con la loro femminilità.”°
Belgassim lava i piedi di Kit in un gesto che rinvia a Paul mentre lavava Jeanne nella vasca — l’unico vero momento di tenerezza in Ultimo tango a Parigi — per poi godere l’uno dell’altro senza la minima complicazione. Il bambinetto che spia da una fessura della porta — e che incarna pertanto il voyeur — si volta e ammicca allo spettatore. Kit smette di attendere passivamente alla finestra: è diventata protagonista. La mdp si muove con totale libertà dentro e fuori questo spazio protetto suggerendo la nuova e personale relazione del regista con questa parte del film. Tuttavia, niente nel lavoro di Bertolucci rimane puramente ciò che appare. Queste scene sono simboliche. Come Storaro ci ha ricordato: «Bernardo fomenta sempre un duello
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tra conscio e inconscio». Ma torniamo a Bertolucci: «Credo che il ricordo è la nostra identità. Ma poiché passato e futuro indicano dei termini convenzionali, credo che il passato con-
tenga il futuro. Il futuro è la proiezione del passato». Futuro, presente e passato ora sembrano fondersi in modo sempre più inquietante. Ricordiamo come, ne La commare secca, il film iniziava con lo sventolio di tanti pezzi di carta. Qui invece, durante la prigionia nella casa di Belgassim, Kit strappa le pagine del suo diario e le appende ai travicelli: un atto che ha la facoltà di condensare parte del passato di Bertolucci. E non è anche come se dicesse che le pagine del romanzo di Bowles siano diventate una pura e semplice scenografia del film? Certamente il fatto che la scena inizi con una significativa deviazione dall’originale imprime al seguito del lavoro un taglio molto diverso. Mentre nel romanzo, dal momento in cui si ritrova chiusa nel serraglio, Kit inizia un lento ed irreversibile cammino verso l’amnesia completa e la pazzia, nel film, mai la si vede tanto attiva ed operosa. E quando fugge, pare uscire senza trauma dal periodo di sequestro, anche se la vediamo subito coinvolta nella mischia
del villaggio Tuareg. Ritornata a Tangeri, e cessati i sintomi della malattia, abbandona l'automobile del consolato americano per salire su un tram diretto a Eckmiihl-Noiseux, dalle parti del caffè in cui il film aveva avuto inizio. Il regista commenta:
Così il viaggio di Kit attraverso il deserto è più una liberazione da tutto ciò che le cadde addosso prima... Alla fine del libro, non potevo guardare in faccia questa persona che aveva perso completamente la sua identità. Con il film, pensai che il pubblico non meritasse, dopo tutto ciò che aveva sofferto, vederla sparire. Così ho scelto una fine diversa... poiché ho trovato la fine di Bowles troppo simile a un tunnel senza uscita. Il peso della disperazione è insopportabile. Pensavo che il film non potesse sopportare questa montagna di disperazione.”
Per l’appunto, forse era Bernardo Bertolucci che non era capace di sopportare questa «montagna di disperazione». Durante le riprese di «questo viaggio attraverso il deserto che è piuttosto una liberazione da tutto ciò che le cadde addosso prima», il regista non aveva cominciato a identificarsi con questa attrice che aveva «qualcosa di mascolino in conflitto con la sua femminilità»? Quando Kit appende le pagine del suo diario, non sta compiendo un atto caro a Bertolucci: lasciarsi dietro le spalle la sceneggiatura per «terminare con qualcosa di diverso»? Tuttavia non le proibisce di continuare a scrivere. Infatti la vediamo tracciare sulla carta: «Belqassim è partito. Sono triste? Sono triste?» («Am / blue, am I
blue»). In un significativo parallelo, queste sono le esatte parole cantate da Pu Yi davanti al pubblico occidentale del Country Club di Tientsin ne L’ultimo imperatore. Così facendo, Kit si è assunta l’identità con l’unico personaggio, nell’opera di Bertolucci, che abbia finora rappresentato la via del cambiamento. Ma sentiamo ancora il regista a proposito della sua attrice: Per Debra, Kit divenne la sua vita; non c’era più diffe-
renza tra la vita e il film per lei. La capivo perfettamente, visto che le rassomiglio abbastanza. Quando sono sul set non faccio più differenze. Così tante cose
Per Kit, «il viaggio attraverso il deserto è una liberazione da tutto ciò che le cadde addosso prima...» (Eric Vu-An e Debra Winger).
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della mia vita confluiscono nei miei film, e molte cose dei film confluiscono nella mia vita. È una vera e propria stretta relazione e la sola persona che ho visto assomigliarmi un poco è Debra."
ca del film» aveva prodotto un risultato che non era soltanto diverso per spunto e colorazione emotiva, ma soffriva anche di una “carenza” di altra natura: Quando cominciai a filmare, io e Mark [Peploe] pen-
Se qualche anno prima, in viaggio per la Cina, Bertolucci si era «sentito male» perché si era «identificato moltissimo con Port», sembra essersi servito del processo “terapeutico” del film per trasferire l’identificazione sia su Kit che Debra. Infatti aggiunge: Forse è a causa di questa ferita invisibile che [Debra]
porta da qualche parte. Credo che anch'io faccio film per curare questa ferita. È una ferita nell’anima, e non sappiamo neppure dove la ferita è 0 quale aspetto abbia. Ma è una ferita che in certi momenti diventa la sua bocca, e ho sentito come se avesse bisogno di essere nutrita in quella ferita. E forse è il sesso.”
Bertolucci ha spesso affermato di fare film per guarire ferite.* Qualunque sia la natura della ferita, Debra e Kit impersonano un processo che è sia di integrazione che di redenzione. Benché strappi le pagine del “passato”, ella continua a scrivere nel presente, mettendo in atto, nell’opera di Bertolucci, una relazione nuova, mediante la quale la scrittura uni-
sce «il futuro come una proiezione del passato». Per di più, sembra essere proprio l’immagine del «ragno [non più] imprigionato dalla ragnatela che ha tessuto» di cui si parlava a proposito de L'ultimo imperatore. E il rapporto di Bertolucci con Bowles la dice lunga sulla sua integrazione. Benché il regista all’inizio fosse partito con una sceneggiatura «estremamente fedele al libro», la «chimi-
sammo: «Mio Dio, c’è una carenza letteraria». Ma come potevamo trovare un modo che avesse la presenza della letteratura senza essere letterario? E pensammo: «Mettiamo Paul Bowles in persona nel film. Cosicché avremo l’autore in carne ed ossa, là, che guarda con i suoi occhi qualcosa che ha inventato quaranta anni prima... con la risonanza che ha». Vedete, egli ha contagiato gli attori con questo libro. Lo leggono e lo rileggono. Ho già fatto film tratti da libri, ma non ho mai visto sul set tante copie di un libro durante le riprescal Così per la prima volta Bertolucci pare avere risolto il conflitto tra letteratura e cinema integrando la prima senza perdere niente della specificità del secondo. Non possiamo mancare di accennare, tuttavia, che la letteratura non era solo l’avversario formale del film: ma anche il suo avversario edipico. I numerosi successi letterari del padre Attilio avevano lasciato Bernardo senza altra via che quella di trovare il proprio mezzo di espressione. La scelta del cinema e la realizzazione di dodici film in ventisette anni avevano insegnato al regista che poteva sottrarsi alla letteratura senza perderla completamente, e che poteva finalmente reintegrare la figura paterna nell’esperienza cinematica. «Paul Bowles ha l’età di mio padre... e sono stato nutrito dalla sua saggezza» Bertolucci ha confessato.* In questo senso possiamo proprio interpretare quel «qualcosa che [Bowles] ha creato quaranta anni
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fa» come riferentesi inconsciamente allo stesso Bernardo Bertolucci, in quanto figlio di questa paternità creativa. Così Bowles è posto all’alfa e all’omega del film, nel caffè da dove inizia l’intera avventura e nel quale Kit ritorna da sola. Allora Bowles, mormorando parole che nel libro erano di Port, conclude con una meditazione sul ricordo: e l’au-
uomo — il dolore del passato — la douleur du passé...». Da una parte, egli è l’autore della storia, che vede i
suoi personaggi tornare in vita. Ma è anche il presente, che viene dal dolore... del ricordo. E fantastica, persi-
no redentrice, l’idea che ora sia qui, vivo e vegeto, mentre ammira l’immagine del proprio passato.”
tore e tutti e due i personaggi sono reintegrati: Ma poiché non sappiamo, finiamo per pensare alla vita come a un pozzo inesauribile. Eppure ogni cosa accade soltanto un certo numero di volte, e un ben piccolo numero, in effetti. Quante altre volte ricorderai un certo pomeriggio della tua infanzia, qualche pome-
riggio che sia così profondamente parte del tuo essere per cui tu non possa nemmeno concepire la tua vita senza quelle ore? Forse altre quattro o cinque volte. Forse nemmeno. Quante altre volte guarderai sorgere la luna piena? Forse venti. E tuttavia tutto sembra senza limiti (7D, 203). Compiuto il destino di ognuno, questi pensieri in bocca al narratore comportano un’inflessione diversa da quella che avrebbero avuto se pronunciati da Port. In questa interpretazione, il regista sembra far balenare l’ipotesi che l’integrazione del dolore del passato può aprire la strada alla evoluzione e alla metamorfosi. Bertolucci disse della presenza di Bowles: E fantastico che egli sia ancora qui, ancora in vita... Gli ho chiesto di essere un testimone silenzioso. Gli ho detto: «Vorrei vedere nei vostri occhi il dolore di un
Questo caffè è un posto unico. Nella sua penombra, all’inizio dell'avventura i tre personaggi, frutto dell’immaginazione dello scrittore, si scambiano un’occhiata col loro au-
tore. Sfilando sopra una serie di piccoli specchi appesi alla parete, che assomigliano ai fotogrammi di una pellicola, la mdp giunge a inquadrarli. In questo luogo unico dove inizia e finisce il film sono raggruppati tutti gli elementi che fanno per Bertolucci del cinema «un'immagine del proprio passato»: e del nostro, bene inteso. Nessuna meraviglia dunque se il regista vede nel caffè un «luogo della memoria», in quanto contiene tutti gli elementi della propria formazione cinematografica, ora reintegrati e disposti in modo nuovo e redentore. «Il deserto è un posto così grande, eppure niente va veramente perduto, mai» dice alla fine della storia la signora del consolato americano (7D, 270). Kit, Debra Winger, e Paul Bowles stesso sembrano essere riscoperti là, tolti dal «dolore
del passato». «Are you lost?» «Lei è persa?» domanda Bowles alla sua “creatura” nell’ultima inquadratura del film. «Sì!», lei risponde trionfante. Ecco come Bertolucci rende la possibilità del cambiamento dei sentimenti, della pura fisicità, allontanandosi dall’agonia dei film precedenti. Su questo «Sì» il film si conclude: l'affermazione, vale per se stes-
sa, per il regista, e, speriamo pure, per lo spettatore.
NOTE ' Parlando de // tè nel deserto, Bertolucci a più riprese menziona il fatto che ebbe bisogno di alternare un film «politico», come L'ultimo imperatore, con un
film «intimista». ? The Sheltering Sky è il titolo originale del romanzo. // tè nel deserto, che intitola la versione italiana del romanzo e del film, proviene da un aneddoto raccontato dalla prostituta Mahrnia, nel quale si narra di tre ragazze che recatesi a
prendere un tè nel deserto vi trovano la morte simbolizzata dalla sabbia nei bicchieri. ° Citato in Robert Gerbert, “Love and Sand”, in Interview XXI, n. 1, gennaio 1991, p. 14. * Paul Bowles, // tè nel deserto, Garzanti, 1989. D’ora in avanti citato nel testo come 7D seguito dal numero della pagina. ° Il termine «passaporto» potrebbe richiamare alternatamente: il passato di Port; Port morto; 0, il passe-partout, la chiave che apre tutte le porte. Questo incidente non solo suggerisce un impasse esistenziale per Port, ma è un fatto autobiografico di Bowles. Mentre stava per lasciare il Marocco, Jane pare abbia “dimenticato” i documenti del marito in un cassetto. Come più tardi ebbe ad ammettere, non voleva lasciarlo partire. Vd. l'autobiografia Without Stopping, New York, G.P. Puntnam's Sons, 1972, p. 276. ° Ecco come Bowles ricorda la redazione della scena: «La consideravo come un soggetto difficile da avvicinare con lo stile appropriato. Mi parse ragionevole allora spostare e lasciare il lavoro all’inconscio.» B.B. a Wade Davis, “Souls on Fire”, in Première IV, n. 4, dicembre 1990, p. 83 (traduzione nostra). Ibid. * B.B. a Vogel, cit., p. 26. ° B.B. a Davis, cit., p. 83. ° Più propriamente le immagini fanno riferimento a un’usanza newyorkese dell’epoca, e cioè di celebrare trionfalmente il passaggio in città di personalità in vista, gettando dalle finestre degli uffici le bande perforate dei telex. !! Djuna Barnes, La foresta della notte, Biblioteca Adelphi, 1983. D'ora in avanti citato nel testo come FN seguito dal numero della pagina.
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! Nel romanzo Bowles insiste sul «sistema di presagi» di Jane (7D, 36). Ad es.: «Una gran parte della sua vita era dedicata alla “classificazione dei presagi” che portava a un’irritabilità nervosa e lievemente isterica» (TD, 37-8). «Non era
molto importante il modo in cui si sarebbe comportata... Gli altri presagi indicavano un orrore più vasto, e sicuramente ineluttabile. Ogni volta, salvandosi, non faceva che addentrarsi in una regione di pericolo ancora più grave» (7D, 106). ! Vd. Jean Tulard, Guide des films, 2 voll., Robert Laffont, 1983, alle voci Remorques e Sans lendemain. “ B.B. a Davis, cit., p. 83; Harlan Kennedy, “Radical Sheik”, in American Film, dicembre 1990, p. 33. ‘ Per la critica, vd. Hans Bertens, The Fiction of Paul Bowles, Amsterdam, Editions Rodopi, 1979, pp. 16-58; O. B. Hardison, “Reconsideration: The Sheltering Sky by Paul Bowles”, in New Republic, 27 settembre 1975, p. 64; Richard Lehan, “Existentialism in Recent American Fiction: The Demonic Quest”, in Texas Studies in Language and Literature, n. 1, estate 1959, pp. 181 ss. !° B.B. a Kennedy, cit., p. 56. ‘Cit. in Millicent Dillon, A Little Original Sin: The Life and Work of Jane Bowles, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1981, p. 176. '# Ibid., p. 176. " Ibid., p. 176. °° Vd. P. Bowles, Without Stopping, cit.; J. Bowles, Out in the World: Selec-
ted Letters of Jane Bowles 1935-1970, Santa Barbara, Black Sparrow Press, 1985. Così pure: Michelle Green, The Dream at the End ofthe World: Paul Bowles and the Literary Renegades in Tangier, New York, Haper Collins, 1991; e Dillon, cit. °" B.B. a Bob Spitz, “Bertolucci Captures Rage of a Relationship”, in The San Francisco Chronicle, 1 luglio 1990, p. 24. © Vd. P. Bowles, Without Stopping, cit., p. 167. ©” Michelle Green, cit., p. 3. Dillon, cit., riporta pure che, claudicante a causa di un incidente, Jane, riferendosi con derisione a se stessa, si definiva: una «handicappata, ebrea lesbica» («Crippie, the Kyke Dyke»), affermando in questo modo la sua totale “diversità”.
* Vd. Dillon, cit., p. 159. ° B.B. a Wade Davis, cit., p. 83. © Ibid., p. 83. ? Ibid., p. 85. © B.B. a Kennedy, cit., p. 35. ° Per ragioni di spazio non potremo rendere conto di un'analisi minuziosa dei rapporti con questi altri film. Basteranno alcuni esempi: la sproporzione tra la luce degli interni e degli esterni in treno è presa a prestito da // conformista. Quando Port sta per morire, Kit che proietta un'ombra enorme sul muro richiama Partner. Il chicchirichì del gallo e la testa del leone al mercato africano echeggia-
no Strategia del ragno, mentre i cammelli alla porta del villaggio sono gli stessi delle porte della Città Proibita ne L'ultimo imperatore, ecc. * B.B. a Maurizio Porro, “L’ Africa dell'anima”, in Corriere della Sera, 16 novembre 1990, p. 29. * Richard Corliss, “Tragedy is their Destination”, in Time, 3 dicembre 1990, pi9Sì ® «Un turista» dice Port «è qualcuno che pensa a tornare a casa non appena arriva in un paese straniero». «Mentre un viaggiatore — prosegue Kit — potrebbe anche non tornare affatto». © B.B. a Kennedy, cit., p. 33. * Vd. Christian Metz, cit., e Jean-Louis Baudry, cit. * Jean Cocteau nota con enfasi che «ci si guarda invecchiare negli specchi. Ci avvicinano alla morte», citato da Claude-Jean Philippe, Jean Cocteau, Seghers, 1989, p. 111. * B.B. a Porro, cit., p. 29. ” B.B. a Corliss, cit., p. 95. * B.B. a Gideon Bachmann, cit., pp. 2-9; vd. la colonna sonora di Ultimo tango a Parigi. * B.B., Ultimo tango a Parigi, cit., p. 101. ‘© In Ultimo tango Jeanne teneva in mano, gli occhi chiusi, una fotografia del
cugino Paul. * Altra notevole somiglianza tra i due film: così come Truffaut si identifica con la sua eroina, ritroviamo non poche somiglianze tra Bertolucci e Kit. * Questo momento è stato con cura preparato dall’assenza di specchi nella sequenza precedente. Quando Kit si lamenta nell’albergo di Aîn Krorfa della mancanza di specchi, annuncia l’inizio dell’emancipazione dal ruolo di spettatrice che per Port ha interpretato fino ad allora. * B.B. a Kennedy, cit., p. 33 (il corsivo è nostro).
* Wayne Pounds, Paul Bowles: the Inner Geography, New York, Peter Lang, 1985, argomenta che «tutti e tre i personaggi sono di fatto aspetti di una singola personalità: ne // tè nel deserto il protagonista maschile Port è l'Io sociale, l’identificazione con la razionalità; la protagonista femminile Kit è l’interiorità dell’Io: identificata col sentimento e l’istinto, ella è tendenzialmente regressiva. Tunner rappresenta la caricatura del corpo in relazione alla società e così funziona come un trampolino per Port e Kit». Benché sia d’accordo che i tre possano essere letti come parti di una singola psiche, sosterremmo che tendono a rappresentare spinte, alternativamente, di vita e di morte, in continuo mutamento e dinamica tra loro. * Freud, A/ di là del principio del piacere, cit. ‘° Due critiche al film notano la qualità da «lucertola» di Malkovich: Suzanne Moore parla della «abituale malevolenza lucertolina» , “Travellers” Tales”, in New Statesman Society 86, 23 novembre 1990, p. 30; Corliss cita «l’eminenza lucertolina» dell'attore, cit., p. 95. Inquietantemente, Mick Imlah paragona l’apparizione di Bowles nel film a una «lucertola immacolata», suggerendo con quanto successo Malkovich capti questo aspetto dell’autore, in Times Literary Supplement, novembre 1990, p. 1292. ‘ B.B. a Porro, cit. ‘* Nel romanzo, le altre mogli di Belgassim scambiano Kit per un uomo: «L’eccitazione che provavano nell’avere un giovane sconosciuto che viveva con loro...» (7D,
198)
* Nei Tre saggi sulla teoria della sessualità, Freud conclude che «una disposizione fisica bisessuale originale si trasforma, nel corso dell’evoluzione, in una unisessuale, conservando solo qualche traccia del sesso che è stato atrofizzato», cioè «un certo grado di ermafroditismo anatomico succede nella maggior parte dei casi», Opere, vol. 9, cit. iB'BSalGerbe rac palo: ° B.B. a Davis, cit., p. 85. © B.B. a Gerber, cit., p. 15. La frase sembra un citazione diretta da La foresta della notte della Barnes (FN, 56, 104).
© B.B. a Gerber, cit., p. 15; B.B. a Kennedy, cit., p. 35. “*B:Bra GerDer cit ipalo:
Ibid Spalsi °° Vd. supra i capitoli su Parmer e Ultimo tango a Parigi.
7 “ “ “
B.B. a B.B. a B.B. a Da una
Kennedy, cit., p. 34; B.B. a Davis, cit., p. 87. Porro, cit, p. 29. Kennedy, cit., p. 34; B.B. a Davis, cit., p. 87 (il corsivo è nostro). conversazione con l’autore.
e
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Piccolo Buddha
1955
Guardare il fiume ch'è di tempo e acqua e ricordare che anche il tempo è un fiume, sapere che ci perdiamo come il fiume e che passano i volti come l’acqua.’ Jorge Luis Borges
Dialogo con Bernardo Bertolucci
tata mano a mano che Jesse fa visitare Seattle ai suoi nuovi amici tibetani. Davanti a una statua di Buddha conservata nel museo cittadino, Lama Norbu narra allora dell’educazione a
Il film inizia con l’arrivo di un telegramma che interrompe la lezione di Lama Norbu (Ying Ruocheng) in un antico mona-
stero buddista disperso tra le montagne del Bhutan, nell’Himalaya: forse è stata identificata negli Stati Uniti, dice il messaggio, la reincarnazione di un suo caro maestro, il fu Lama Dorje, deceduto otto anni or sono... Sia pure non più giovanissimo e di salute precaria, Lama Norbu parte alla volta dell’ America per meglio indagare. Appena arriva a Seattle, il monaco a capo della comunità tibetana locale gli racconta come ha fatto conoscenza di una giovane signora, Lisa Conrad (Bridget Fonda) e di suo figlio di sette anni, Jesse (Alex Wiesendanger), il cui tema astrologico, tra l’altro, desta particolare interesse. Quando la delegazione dei tibetani si presenta alla porta di casa, Lisa non può fare a meno di accoglierli. Si intavola subito una vera e propria discussione filosofica, interrotta soltanto dal rientro del marito, l'ingegnere Dean Conrad (Chris Isaak). Soltanto allo-
ra i monaci rivelano che, in un sogno, Jesse è apparso loro niente meno che come la “reincarnazione” del venerato Lama Dorje! Facendo finta di ignorare la visibile reticenza dei genitori, sul punto di partire, Lama Norbu regala a Jesse un magnifico fumetto orientale sulla vita del principe Siddhartha, meglio conosciuto come Buddha. La stessa sera, durante il bagno di Jesse, Lisa inizia la lettura della nascita del principe, mentre sfilano sullo schermo le immagini dell’antica camera da letto in cui la regina Maya viene “visitata” in sogno da un piccolo elefante... Nove, anzi dieci mesi più tardi, nasce Siddhartha nel magico bosco di Lumbini. Tra numerosi prodigi che segnano questa storica nascita, ecco il pupo che si mette subito a parlare e a camminare, e dietro ogni suo passo sbocciano fiori di loto! Sarà un vecchio saggio a dare conferma della missione redentrice del piccolo, provocando però lo sdegno del padre che vuol vedere nel figlio l'erede al trono. Pochi giorni dopo la regina muore improvvisamente, non senza però avere affidato il figlio alle cure della sorella. Seguiamo così l’inizio della storia di Siddhartha, raccon-
palazzo del giovane principe e del fatto che fosse segregato dal padre perché crescesse senza pensieri, lontano dai meandri della vita. Finché un giorno, udendo un bellissimo canto evocatore di terre remote, Siddhartha (Keanu Reeves) decide di uscire da palazzo per andare alla scoperta del mondo. Il padre acconsente, non senza ordinare che vengano sgomberate dal passaggio del corteo tutte le persone anziane e inferme. Ma per strada il principe riesce a scorgere due vecchi che le guardie stanno portando via, balza dal palanchino e li insegue in quella parte della città dove sono stati scartati i vari dannati della terra. Lì assiste per la prima volta ad una cremazione, scoprendo così anche il senso della parola “Morte”. Sarà questa l’esperienza decisiva che lo convincerà ad abbandonare il palazzo per cercare la via che porta alla vittoria sulla sofferenza. L'indomani mattina, nella nebbia dell’alba, fugge da palazzo a cavallo, scambia gli abiti sfarzosi con un mendicante e s’inoltra nella foresta per iniziare un’ascesi lunga sei anni... Dean interrompe brutalmente il racconto di Lama Norbu all'Istituto buddista di Seattle, dove è venuto a visitarlo Jesse, per riportare suo figlio a casa. La notizia della morte improvvisa dell’amico Evan, suo socio in affari, gli procura un nuovo trauma dopo l’intrusione nella vita famigliare di questi assurdi “re magi”, come piombati da un altro pianeta. Al ritorno dal funerale, però, nonostante il profondo scetticismo, decide di accompagnare Jesse sul Tetto del Mondo, dove sarà sottoposto a nuove prove che diranno veramente se è lui la reincarnazione di Lama Dorje. Infatti, nel frattempo si è saputo di altri due bambini quali possibili reincarnazioni del Lama defunto: un piccolo sciuscià di nome Raju, in cui Jesse si imbatterà “per caso” per le strade di Kathmandu,
e Gita, una ragazzina di buona
famiglia che Jesse e Raju si recheranno a incontrare sul confine indiano. Mentre i tre “pretendenti” giocano insieme nel giardino di Gita, improvvisamente l’aria si fa più rarefatta e... Siddhartha appare loro come in un sogno. Seduto in meditazione ai piedi di un albero immenso, egli è sottoposto a
173
Lama Norbu svela ai genitori di Jesse lo scopo della sua visita a Seattle (Ying La: e Sogyal Rinpoche, con Bridget Fonda e Chris Isaak, dii spalle).
BERNARDO BERTOLUCCI - AI 1963, quando Elsa Morante mi regalò la Vita di Milarepa. TJK — Era l’epoca delle riprese di Prima della rivoluzioIles
una serie di terribili prove dal diabolico Mara. Dopo essere riuscito a trasformare in una nevicata di fiori di loto le frecce dell’esercito del Male, ora gli tocca affrontare la propria immagine, il suo doppio che svanirà a sua volta appena questo ‘o’ sarà riconosciuto come un’altra faccia del Maligno. Con quest’ultima prova si conclude la storia di Siddhartha, che ormai raggiunta l’Illuminazione, va chiamato il “Buddha”, vale a dire “il risvegliato”. Il lungo periplo di ritorno verso il monastero ha finito con l’aver ragione delle forze di Lama Norbu, mentre i monaci si rivolgono finalmente all’oracolo. L’imprevedibile risposta dice che ognuno dei tre bambini è in realtà la reincarnazione di Lama Dorje: quale corpo, quale parola, e quale mente. Durante la cerimonia che festeggia i piccoli “reincarnati”, Lama Norbu si ritira discretamente nella pace di una vecchia cappella in attesa di una morte serena, sotto gli occhi di Dean che prova adesso per lui un profondo e sincero rispetto. Alcuni mesi dopo, ognuno dei bambini tornato a casa, disperderà a suo modo la parte delle ceneri di Lama Norbu che gli è stata consegnata prima di lasciare il monastero...
ed ebbero molti figli, e visse con lei per tanti anni. Dopodiché scoppiò una grande epidemia. Tutti morirono, tranne lui. Nel frattempo era invecchiato. Disperato, partì per la campagna e camminò a lungo, giungendo infine al posto dove aveva lasciato l’eremita. E chi vide? Il vecchio maestro che era ancora là: “Ma quanto tempo ci hai messo — gli disse — per portarmi un bicchiere d’acqua! E tutto il pomeriggio che aspetto!”». E Gina conclude: «Vedi... il Tempo non esiste».
TH. JEFFERSON KLINE - Che questo film, nella sua biofilmografia, sia inusuale, è il meno che si possa dire. A quando risale l'interesse per il buddismo?
TJK — Forse possiamo allora leggere in questo racconto la metafora del tempo che separa il primo contatto col buddismo (la richiesta del bicchiere d’acqua) con la realizzazione
174
BB - Infatti. A un certo punto del film Gina passaggio di Milarepa. Diceva: «So benissimo che non esiste... E conosco una storia molto più antica Proust... C’era una volta un vecchio eremita, come nando a Cesare), che aveva un giovane discepolo,
citava un il Tempo del vostro te (accencome lui
(accennando a Fabrizio). Entrambi camminavano per la cam-
pagna. Un giorno il maestro disse: “Ho tanta sete. Mi porteresti un bicchiere d’acqua?” Il giovane subito prese una stradina che portava a una fontanella. E al di là della fontana, scorse una valle verdissima e...»; Fabrizio la interrompe: «E là incontrò una donna meravigliosa e affascinante, come
te,
del film (il dissetarsi)? Secondo la cronologia tradizionale,
sono passati trent'anni. Ma in termini buddista non equivale a nessun ritardo. BB — La sua osservazione è molto Zen... Comunque sia, quello fu il primo incontro. Ce ne furono
TJK — «La forma è vuota, il vuoto è forma...» dice Lama Norbu in Piccolo Buddha. Perché questo film in questo momento?
TJK — Naturalmente lei è nato sotto il segno dei Pesci?
BB — Un giorno qualcuno venne da me con l’idea di fare un film sul Buddha storico. Cominciai ad interessarmene durante la lavorazione de // tè nel deserto. Ma a un certo punto risultò impossibile lavorare insieme a quella persona e decisi di proseguire da solo. «Ma sarà un film molto diverso — gli dissi —, così tu potrai sempre fare il tuo Buddha». Io sentivo il bisogno di un forte collegamento col mondo d’oggi. Così pensai la storia sul bambino reincarnato che mi avrebbe permesso di raccontare una favola come un nonno la racconta al nipote. E la favola era appunto la storia del principe Siddhartha che diventerà il “Buddha”. Così dissi a quella per-
BB — Certo! (sorride)
sona: «Puoi continuare con il tuo “grande Buddha”. Intanto io faccio il mio “piccolo Buddha”».
altri, saltuari, ora casuali ora non. Nel 1983, per esempio, a
Brentwood, negli Stati Uniti, fui iniziato a Padlmasambhava, il grande maestro che introdusse il buddismo in Tibet e che poi Milarepa seguì... E così conobbi anche alcuni Lama tibetani. Seguirono alcune letture, Borges in testa; un'amica mi fece conoscere quella sua poesia sulla reincarnazione: «Un pesce salta fuori dal mare, e un uomo di Agrigento si ricorda che un tempo fu quel pesce».
E naturalmente anche Jesse è dei Pesci Scherzi a parte, un’occasione molto importante fu la scoperta dello Zen in Giappone, agli inizi degli anni Ottanta. Vedendo film giapponesi, soprattutto di Ozu, fu un nuovo tipo di incontro col buddismo. Vedevo il Giappone attraverso il filtro del cinema... Ogni cosa era mediata da Ozu, Mizoguchi, Kurosawa, o registi più giovani come Oshima. Poi ci fu l’episodio della visita sulla tomba di Ozu. La madre di Katzuko Shibata, Madame Kawakita ci disse di cercare una tomba con sopra niente. E tutti la cercavamo senza trovare una sola tomba che non avesse niente scritto sopra. Poi la trovammo. In effetti c’era qualcosa scritto sulla tomba di Ozu ed era appunto «Niente», l’ideogramma «Mu».
Sconvolto dalla morte improvvisa del suo socio, Dean decide di accompagnare i tibetani col figlio verso il misterioso paese di Buddha (Chris Isaak).
TJK — Sono state lanciate molte critiche al titolo del film. Un monaco buddista a Los Angeles ha persino detto: «Solo nella struttura mentale del maschio bianco la figura storico-religiosa più importante del continente asiatico avrebbe potuto essere ridotta a “piccola”». Questo non è, credo, il senso del titolo. BB - Lo so. Certi buddisti integralisti (contraddizione in termini) hanno addirittura tentato di interrompere le riprese a
Kathmandu! In Occidente ignoriamo quasi tutto sul buddismo e davanti a questa nuova idea filosofica siamo come bambini. Così come un libro per i bambini sulla chimica si chiama /! piccolo chimico, uno sul legno si chiama // piccolo
Mentre Jesse e Dean sPegiono verso Oriente con Lama
Norbu, Lisa rimarrà
da sola nella grande casa di Seattle
(Bridget Fonda).
falegname, io pensavo a un piccolo manuale sul buddismo in senso lato. Quindi andai dal Dalai Lama e spiegai che era un film per i “bambini” di tutte le età che non sanno niente (0 quasi) del buddismo. Egli sorrise e disse: «C'è un “piccolo Buddha” in ognuno di noi». Parlava della natura buddista che dorme in ciascuno di noi. È difficile dirlo in questa fase, ma io spero davvero che Piccolo Buddha sia adatto per i bambini “di tutte le età”. Non proprio per i bambini di sei anni, ma piuttosto dai dieci in su, un’età in cui si comincia ad interrogarsi. Prima della scena dell’oracolo, avevo girato una specie di dibattito filosofico in parte improvvisato che, purtroppo, dovremo tagliare. A un certo punto del dibattito Dean chiedeva: «Ma chi è che vince?». Interveniva allora un giovane Lama che era anche il nostro consulente sul set, Dzongsar Khyentse Rinpoche: «Lei deve essere cristiano, vero?» (perché in realtà questo tipo di dualità, vincitori e perdenti, Bene e Male, ecc., è tipicamente cristiana). Poi diceva: «Lei pensa che Dio vi abbia creati e che voi esistete perché Dio vi ha creati. Provate invece a guardare il fatto dalla parte opposta: voi avete creato Dio e Dio esiste perché l’avete creato voi!». «Come sarebbe a dire?» rispondeva Dean, e poi: «Ho letto che i buddisti devono rinunciare ad ogni passionalità!». E il
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Lama: «Ha interpretato male. Il buddismo dice che potete mantenere tutte le passioni che volete, se riuscite a rinunciare al vostro io. Potete sprofondare nella passione, ma dovete abbandonare l’io». Questo era importantissimo, anche se poi dal film ho cercato di togliere quasi tutte le “lezioni” sul buddismo, perché non volevo un film didattico. Il mio consulente buddista Khyentse Rinpoche, parlando in persona, aveva toccato proprio nel segno meglio di qualsiasi sceneggiatura.
TJK — Contempla un'etica il buddismo? Insegna a vivere? BB — Qui non siamo all’università! Io posso soltanto semplificare... Nelle religioni occidentali, teiste, ci sono gli dei e noi esistiamo per il fatto che ci hanno creati. Se c’è un terremoto è la collera di dio, se c’è un evento bello è perché dio è contento... Poi Buddha è venuto a cancellare i venti milioni di divinità dell’induismo. Nel buddismo tibetano, la tensione verso le divinità è sostituita dalla mente e dal suo potere. Per questo si parla di “saggezza folle”. Trungpa Rinpoche, un Lama morto poco tempo fa in America, ci dà veramente l’immagine della posizione attuale nella cultura mondiale del buddismo
tibetano, che è molto diverso, ad esem-
pio, dal buddismo di tradizione Theravada che incontriamo nel sud, a Ceylon... Negli Stati Uniti poteva esprimere tutto, l'incredibile paradosso che si nasconde nel buddismo tibetano. Questa specie di gioia della logica e sofisticazione della dialettica è qualcosa che si è sviluppata a cinquemila metri di altitudine. Fiorì lì, in modo strano, su queste cime straordina-
rie che godevano di minimi contatti col resto del mondo, la saggezza “folle” del potere della mente. Un “bodhisattva”, cioè una persona che ha raggiunto l’Illuminazione, è folle
quando è saggio e saggio quando è folle. «Niente occhi, niente bocca, niente naso, ecc...» (queste sono le parole del Sutra
del cuore che vengono cantate nel film, e forse saranno an-
che un po’ difficili per i bambini, ma sono pure come i versi di una sublime poesia). I tibetani dicono: «Immaginate di essere colpiti dall'amore e dall’odio allo stesso tempo». Questa è saggezza folle.
TJK — Aleggia spesso sul buddismo un fraintendimento. cioè che la rinuncia al mondo è tale da impedire un’etica. Ma Sogyal Rinpoche scrive: «Quale è il vantaggio di sapere che c’è vita dopo la morte? Il vantaggio è che ci rende più responsabili, ci fa comprendere che i pensieri, le parole e le azioni producono conseguenze nella vita presente e futura. Si capisce allora, come dice il Buddha, che ciò che siamo è ciò che siamo stati. E che ciò che saremo è ciò che stiamo facendo. Come Padmasambhava esemplifica, se vogliamo conoscere il passato, guardiamo alla forma e allo stato presenti. Se vogliamo conoscere il futuro, guardiamo dentro le azioni presenti. Essere responsabili per le proprie azioni è, credo, la parte più importante».
BB - Sta parlando del Karma? TJK — Sì, nel senso che Karma e responsabilità sono un po’ la stessa cosa. Ma quest’accezione del Karma è molto legata alla nozione di reincarnazione. Che valore ha la reincarnazione nel film?
BB — Poiché la reincarnazione è il soggetto, il tema del
film, ho cominciato col chiedermi che cosa ne pensassi. (Poi, francamente, credo che un esempio di reincarnazione è sempre esistito nella nostra società attraverso i nonni e i nipoti. I nipoti sono la reincarnazione della generazione trascorsa. In Italia si sa bene: si dà ai nipoti il nome dei nonni!). Insomma
la mia posizione non è complicata: credo profondamente nella reincarnazione in senso lato. Non riesco ad accettare che tutto vada perso. Il pensiero e le opere di certo non lo sono. Però lo sguardo occidentale sulla reincarnazione è completamente diverso dalla concezione induista e buddista. Per costoro il fatto di reincarnarsi è un tipo di condanna inevitabile del “Samsara”, cioè la catena delle nascite e delle morti interrotta solo quando si raggiunge l’Illuminazione. Comunque nelle varie correnti buddiste, esistono pure soluzioni diverse. Per i Theravada di Ceylon e gli altri rappresentanti della tradizione “Hinayana”, il fine ultimo della vita consiste nel raggiungere la beatitudine del Nirvana, e basta. La scuola tibetana invece che appartiene alla tradizione “Mahayana”, è la fusione tra Padmasambhava e le credenze indigene sciamaniche preesistenti all’avvento del buddismo nell’ Himalaya. L’idea geniale dei tibetani è che il bodhisattva che sta sul punto di raggiungere finalmente il Nirvana, può scegliere di rinunciare alla propria beatitudine, reincarnandosi di nuovo allo scopo di prodigarsi per il prossimo. A dire la verità, la mia intima sensazione è sempre stata che i nostri Lama, con la loro incredibile gioia di vivere, hanno così inventato una maniera assai sottile per vincere la maledizione del Samsara, da un parte, e il dolore della separazione, dall’altra. Ho il sospetto che a loro dispiace di andarsene per sempre! In questo senso il Nirvana è molto simbolico.
TJK — Mi ha colpito una frase che lei ha detto prima di cominciare l'intervista: «Ci si crea la propria sceneggiatura».
Lama Norbu e Chompa spiano Jesse in cerca di una conferma che il bambino sia la reincarnazione del loro
defunto maestro (Ying Ruocheng e Jigme Kunzang].
ZA,
Sarà Lama Norbu a raccontare durante il lungo viaggio la storia del principe Siddhartha, nato 2500 anni prima per diventare il famoso “Buddha” (Rudraprasad Sengupta, Kanika Panday, Bhisham Sahni).
Si può pensare di una vita trascorsa a fare film come una catena di reincarnazioni? BB — Credo nella “reincarnazione”, dicevo, però non alla maniera dei tibetani. Non solo credo nella “reincarnazione dei nonni nei nipoti”, ma anche ogni volta che “cambiamo” nella nostra vita, credo che ci “reincarniamo” in qualche modo. A un certo momento, nel film, lo dice anche Dean a Lisa: «Non posso credere alla reincarnazione quando una certa persona pretende di tornare nel corpo un’altra, con tale nome, tale indirizzo, tale telefono ecc. Questo mi pare un po’ troppo!». TJK — Però Piccolo Buddha ispira qualcosa di molto forte, credo. Ho l'impressione che, uscendo dalla proiezione,
un feenager possa anche esclamare: «Ehi, sono un reincarnato!», invece di sparare ai coetanei come succede ora negli Stati Uniti. BB E quello che succede con Jesse quando torna a casa e chiede a sua madre se tornerà quando sarà morta... Mi piace molto questa relazione dei bambini con la morte, così imprevedibilmente naturale. TJK - Allora, cosa vuol dire questa reincarnazione?
TJK — Voglio dire: prendiamo Jesse. Da una parte, ha alcune caratteristiche che richiamano direttamente Lama Dorje: riconosce la sua antica scodella di legno; si tocca l’orecchio esattamente come Dorje nella foto che vediamo, e via dicendo. Vuol suggerire con ciò che è la diretta reincarnazione di Dorje? BB - È questo che vuol suggerire il film.
TJK — C'è di più. Va bene che del Lama Dorje sappiamo pochissime cose, e quindi risulta molto difficile mettere questo a confronto con Jesse. Ma c’è un altro modello nel film che poco a poco diventa quasi un doppio di Jesse: ed è Siddhartha stesso. La prima volta che scorgiamo Jesse, sta facendo una partita coi compagni nel cortile di scuola. Anche la prima volta che il giovane Siddhartha appare, lo vediamo giocare al “kabadi” con altri giovani in un cortile del palazzo. Dopo viene il momento in cui Jesse è nel bagno (la scena fa subito pensare a Brando che lava la Schneider in Ultimo tango) e dice: «Arrivederci mamma!» prima di sparire sott’acqua in una specie di autobattesimo, molto simile a quello di Siddhartha
178
del fiume.
Poi, sia Jesse
che
Jesse cerca di svegliare i compagni di viaggio.
BB - Sì, certo, questi sono chiari riferimenti, affinità. TJK — Penso anche alle montagne: Rainier,
BB - Cos'è veramente?
nelle acque
Siddhartha devono lasciare la famiglia per andare nel mondo a cercare l’Illuminazione. A un certo punto entrambi “perderanno” anche la madre. E come Siddhartha trova tutti addormentati all’alba prima di lasciare il palazzo, così sull’aereo
a Seattle,
è per Jesse
come
la vetta del monte l’Himalaya
per
Siddhartha. Quando Siddhartha s’inoltra nella foresta regala i
suoi abiti a un mendicante e quando Jesse giunge in Nepal dà il suo cappello a Raju. Entrambi compiono giochi magici sull'acqua: Siddhartha fa risalire la corrente alla sua scodell a di riso, mentre Jesse fa galleggiare la scodella con le ceneri di Lama Norbu al largo di Seattle. Siddhartha fugge dal corteo e giunge in una piazza della città dove lavorano decine di vasai e Jesse si ritroverà improvvisamente nella stessa piazza mentre rincorre Raju e suo fratello per i vicoli di Kathmandu. BB I vasai mi incuriosiscono molto. Sono felice che lei abbia notato la ripetizione di questa scena. Il movimento circolare dei vasai è molto importante! TJK — A questo punto sorge la domanda: e se Jesse non fosse soltanto la reincarnazione di Lama Dorje? A me sembra proprio la reincarnazione di Siddhartha, cioè di Buddha... BB — Lo dice lei. E allora gli altri due bambini? Come dice Lama Norbu, succede che alle volte un bodhisattva si reincarna — corpo, parola e mente — in tre bambini distinti. Talvolta anche cinque. TJK — Veniamo a Keanu Reeves. Non è solo un occidentale che interpreta un personaggio orientale, ha anche sembianze assai ambigue, a vari livelli.
Fino all’età adulta, Siddhartha conduce una vita
spensierata nei ricchi palazzi di suo padre (al centro, Keanu Reeves).
BB — All’inizio avevo chiesto al direttore di casting di cercare un possibile Siddhartha indiano. Non trovammo nessuno. Ma anche se fosse stato, pensavo già molto a Keanu Reeves...
Ha un’incredibile
innocenza
nel viso, nello
sguardo, nel modo di muoversi. Anche nella parte del “ragazzo di vita” un po’ shakespeariano di My Own Private Idaho, sono stato subito colpito da quell’innocenza... Forse sono le sue origini, per metà canadese e per un quarto cinese e un quarto hawayano... Comunque c’è la sensazione che nel suo sangue scorra un’altra razza che fa di lui qualcuno “a parte”. TJK — Quale fu la reazione dei nepalesi nei suoi confronti? BB — AI vederlo, credo, furono impressionatissimi dalla bellezza. Ma lo giudicavano troppo magro. I ricchi in Oriente devono rivestire forme opulente. Solo i magri sono poveri. Se in India incontrate una persona obesa per strada, vedrete che in segno di rispetto tutti si inchinano, perché lo reputano ricco (e quando non si inchinano vuol dire che stanno per bastonarlo!) Obesità equivale a ricchezza. Non come in America oggi dove i ricchi sono magri e gli obesi fanno parte della più bassa middle-class. TJK — Ho sentito che per interpretare il ruolo Keanu Reeves si è sottoposto a una dieta rigorosissima. BB — AI momento di girare la “scena dell’ascesi” lungo il fiume, ha digiunato per tre settimane, nutrendosi solo di acqua e succo d’arancia... In realtà volevo rendere l’impressione delle favole in cui il bellissimo principe azzurro spinto da un afflato romantico compie gesta eroiche. Quindi ho pregato Keanu di fare questo piccolo sforzo. E nel film è di una bel-
Nei giardini del palazzo d'estate, quella dell’ozio sembra l’unica
legge dettata dal re Suddhodana (a sinistra,
Keanu Reeves).
lezza mozzafiato... Era anche giusto ciò che lei diceva prima sulla natura bisessuale di Siddhartha.
BB — Dean è un ingegnere scettico e materialista che vive su una nave [in una ricca casa moderna che guarda sul mare attraverso un’enorme finestra].
TJK — Se torniamo alla scena in cui Lisa lava Jesse nella vasca da bagno che sembra una specie di rovesciamento della scena tra Brando e la Schneider; se prendiamo l’androginità | di Siddhartha; e se pensiamo al personaggio di Gita, e al fatto che una donna possa essere la reincarnazione di un uomo, si potrebbe dire che uno dei significati del film è che il buddismo attribuisce al genere sessuale un valore più esteso di quanto non si faccia in Occidente. BB - Però dopo il taglio dei capelli, Siddhartha torna ad avere il look di Keanu che gli conosciamo dai suoi film precedenti. Ma funziona molto bene perché egli è così pieno di compassione. TJK — E la stessa compassione dei Lama che assumono un atteggiamento quasi materno. Come gli eunuchi ne L’ultimo imperatore...
BB — Quando Buddha parlava dei milioni di vite vissute in precedenza, dicendo di essere stato una ragazza, un albero, un delfino, una scimmia, questo significa qualcosa di più all'essere semplicemente “maschio” o “femmina”. I buddisti credono che tutto e tutti hanno una mente. Gli alberi hanno una mente, gli animali hanno una mente, perché dopo la morte le menti cambiano solo ‘“contenitore”, come si dice nella scena della tazza che va in frantumi. TJK — Questo contrasta con l’incrollabile scetticismo di Dean?
180
TJK — Tutto ciò che è vetro nel film è meraviglioso perché Dean e Lisa fanno finta che la loro casa sia aperta all’aria libera, eppure non fanno altro che frapporsi barriere.
BB — Un ingegnere è qualcuno che costruisce muri. Certo, Lisa è più aperta. Ma ciò che volevo dipingere era l’evoluzione di lui. Dean deve cambiare radicalmente atteggiamento a tal punto da accompagnare lui il figlio in Bhutan. E alla fine del viaggio sarà proprio lui ad assistere affascinato e rapito alla morte di Lama Norbu. Ma i protagonisti dei film americani oggi sono così forti che Dean rischia di risultare antipatico a certi spettatori. È fantastico cosa riesce a fare Spielberg... con questo suo geniale talento di girare finti film di serie B. Ho appena visto Jurassic Park. Spende più di sessanta milioni di dollari e fa sembrare poveri persino i film di serie A. Ma per qualcuno che ha fatto ET, o Incontri ravvicinati, la decisione di volare così basso è assai cinica.
TJK — Piccolo Buddha costituisce senza dubbio un antidoto a film come Indiana Jones e il tempio maledetto, fomentatori di non pochi fraintendimenti, sulle altre religioni ad esempio. BB — Purtroppo questo è solitamente l'approccio di Hollywood verso altre culture... TJK —- Cioè verso ‘’l’altro”.
Un giorno, la voce straziante di una ragazza che canta di paesi lontani incuriosisce il principe sulla vita oltre le mura del palazzo. 181
Siddhartha chiede al re suo padre di organizzare un
corteo per andare finalmente alla scoperta del mondo (Keanu Reeves).
BB — Verso l’altro, altre razze, altre religioni. Sono più preoccupato invece per il mio approccio alla famiglia americana, perché quella che è nel film, Lisa, Dean e Jesse, non rassomiglia per niente a quella tipica di tanti film americani d’oggi, scoppiettanti di umorismo ebreo ogni trenta secondi e dove la carta da parati ai muri fa la parte del leone. Questa mia famiglia di Piccolo Buddha è fatta dall’unione di tre solitudini messe insieme. Dean è un ingegnere che ha costruito questa casa molto stilizzata, dove non c’è carta da parati... Ecco: forse la grande differenza tra le famiglie holiywoodiane e quella di Jesse è l'assenza di carta da parati. TJK — Ma ha colto comunque l’esatta verità sulla fami-
glia americana quando fa dire ai monaci tibetani che entrano in casa che è molto “vuota”. Basta questa battuta per capire che lei ha una grandissima capacità di parlare alle persone prive di valori. Ciò che le riesce perfettamente è parlare del “vuoto” assoluto che è oggi al centro della famiglia americana. E mettere immediatamente a portata di braccio qualcosa di solido a cui potersi aggrappare.
BB - Il vuoto riveste per i buddisti un concetto fondamentale. Nel pensiero occidentale non costituisce proprio un valore da raggiungere bensì una specie di condanna. Tutti e tre, in questa casa severa, li vedo come individui che sono stati messi insieme nello stesso luogo ma i cui rapporti sono impediti da una specie di tensione. Ho pensato ad Antonioni e Bergman. Ma il punto è pur sempre la carta da parati. Questi film americani sono quasi tutti girati in studio, e si vede l’artificio, il trucco. Per questo hanno sempre carta da parati. E poiché è dipinta a fiori dà l'impressione di un ambiente anche più falso. E ci sono poi queste solite battute, e un montaggio stereotipato, trito.
182
TJK - Di certo Piccolo Buddha non è un altro film hollywoodiano sulla famiglia! BB — Grazie. Ma c’è sempre un accordo con le platee, costantemente aggredite dalle notizie, dalla realtà, dalla finzione, da tutto. TJK — A cosa mira con la fine del film, dal momento in cui i tre bambini vengono riconosciuti come “reincarnati”’? BB — Nella scena dell’incoronazione,
c’è credo un for-
tissimo sapore di “barbarie” (in senso pasoliniano). Questi canti diventano così selvaggi e si sente tutta la forza arcaica che scaturisce da questo rituale, da questa cerimonia che ci porta al momento
in cui il bambino
ripete: «Niente occhi,
niente bocca, niente naso...» poi «niente Jesse, niente Lama, niente morte, niente paura». In realtà è un’iniziazione, il rapporto tra la morte e ciò che dicono sulla morte. Il breve ritorno del “fantasma” di Lama Norbu è uno dei momenti in cui apprendiamo qualcosa del buddismo attraverso l'emozione piuttosto che la spiegazione. Nell’ultima parte del film si ha davvero una specie di fase catartica dove si può cogliere qualcosa di abbastanza raro, credo: il modo in cui i bambini sono naturali nell’accettare la morte.
TJK — Questo ricorso all’emozione piuttosto che alla spiegazione ci dice anche qualcosa sul rapporto tra il buddismo e la psicanalisi. BB —- Prima di tutto: contesto hindù in cui sono dei. E disse basta agli dei per me è già prefreudiano.
Buddha venne 2500 anni fa nel stati contati circa venti milioni di e mise l’uomo al centro. Questo Scorgo il punto di contatto con
Scappato dall’itinerario
prestabilito dal re per il corteo,
Siddhartha scopre
l’esistenza della vecchiaia, della miseria e della morte (Keanu Reevee e Santosh
Bangera).
Freud quando i buddisti dicono che ogni cosa dipende dal Karma, e cioè l’uomo è l’autore e lo “sceneggiatore”, come dicevo prima, del proprio destino. In ogni momento della nostra vita noi condizioniamo la “vita” ventura, e cioè anche domattina e dopodomani. Freud non parla della vita futura, ma afferma che siamo responsabili per ciò che ci accade. Che è poi la stessa idea che sottende il Karma. Nell’Islam tutto è scritto nel Libro. Nella grecità si parla di Fato. Nel pensiero cattolico il destino è che siamo ancora nelle mani di Dio. Buddha arriva cinque secoli avanti Cristo e scopre ciò che i nostri vari filosofi e psicanalisti “riscopriranno” duemila cinquecento anni dopo. È stupefacente. I tibetani sostengono che con il potere della mente possiamo sia immaginare e distruggere che immaginare e creare, mentre a Ceylon e in Tailandia insistono più sul potere dell’amore e il potere della compassione. Così spesso incontrerete un tibetano che vi parlerà di questo potere incredibile della mente; e poi per “correggersi” vi parlerà dell’amore e della compassione. Il fatto è che i tibetani sono più inclini verso l’esercizio intellettuale. TJK — Per la parte di Lama Norbu ha usato l’attore cinese Ying Ruocheng che ne L'ultimo imperatore svolgeva il ruolo dell’‘“analista”, strappando a Pu Yi la sua confessione in carcere. E ora iei ha appena evidenziato questa connessione tra buddismo e psicanalisi. Quella dell’attore è stata una scelta precisa oppure è stato... il destino?
BB — Freud dice che non si dovrebbe mai incolpare il destino quando attraversando la strada un’auto ci investe. Dobbiamo prendercela anzitutto con noi stessi, cioè con il nostro inconscio che ci ha portato proprio in quella strada in quel momento.
TJK — Veniamo a quest'idea buddista che consiste nello sbarazzarsi dell'io... BB — Anche qui Freud non parla di disfarsi dell’io, parla solo del fatto che c’è un io, e c'è un Super-io (che nel mio
caso è una specie di sentinella interna o giudice interno superiore, che abita dentro di me, giudica sempre e formula poi una sentenza sul nostro operato). TJK — Quindi una connessione c’è...
BB — Credo di sì. Ma, ripeto, la novità straordinaria del buddismo è stata l’abolizione di tutti gli dei e di tutte le divinità. È questa la prima cosa che compie Buddha,
mettendo
l’uomo in una posizione di assoluta responsabilità. Cosicché, a rigor di logica, se c'è un’inondazione forse è perché abbiamo troppo disboscato... Il rapporto tra causa ed effetto è determinante per i buddisti. Per noi suona un po’ prosaico, ma loro dicono con grandissima semplicità: «Causa ed effetto? Se mangiate, defecate!». Così come non esiste nessun movimento nell’universo che non abbia una causa, ogni causa giace in noi stessi. E so anche perché, nel mio film, Mara (lo spirito del Male) appare come l’incarnazione dell’io di Siddhartha. Un anno fa quando stavo lavorando alla sceneggiatura con Rudy Wurlitzer, Khyentse Rinpoche venne a stare con noi, al mare, per due settimane. Un giorno chiesi: «Ma chi è questo Mara, chi è veramente?» e Rinpoche rispose: «Mara è l’io, è il nostro io». Questo getta un altro ponte tra Buddha e Freud. L'incontro con Mara è molto importante nel film, soprattutto dopo la nevicata di petali. Sembra che Siddhartha abbia vinto, poi improvvisamente torna il nemico chiedendo: «Sarai tu il mio dio?». Allora Siddhartha replica in modo mi-
183
La meta del periplo di Jesse sul Tetto del mondo è il monastero di Lama Norbu,
sperduto in fondo a
una valle del Bhutan (in primo piano, Alex
Wiesendanger e Ying Ruocheng).
sterioso: «Architetto non costruirai la tua casa di nuovo», che
significa: «Il mio corpo non sarà ricostruito un’altra volta»; oppure: «Questa è stata la mia ultima reincarnazione». Oppure: «Ora non rinascerò più perché ora ho raggiunto l’Illuminazione!». Poi tocca la terra con la mano dicendo quell’altra frase famosa: «La terra è il mio testimone». È un momento essenziale che viene spesso raffigurato nell’iconografia buddista... Ma il punto di tutto questo è: su cosa ha vinto Buddha? Ha vinto sul proprio i0! TJK — C'è anche l’idea freudiana della ‘“compulsione a ripetere”, così ricorrente ne L'ultimo imperatore e in altri film... BB — Sono i buddisti che hanno inventato il Nirvana proprio per mettere fine al ciclo infernale delle vite e delle morti. Ma come abbiamo visto, i tibetani hanno trovato un modo per reincarnarsi comunque! TJK — Questo vuol dire che il Nirvana è forse meno
interessante della vita. Le utopie sono sempre state più interessanti come tali rispetto al momento in cui vengono realizzate! Meglio forse vivere nell’imperfezione... Poi bisogna confessare che il palazzo in cui Siddhartha vive prigioniero altro non è che una specie di noiosissima perfezione. BB — Allora perché ha accettato così a lungo di restare a palazzo? «Perché non ho mai cercato di uscire?» dice a un certo momento. Poi, rimprovera al re, suo padre: «Perché mi avete nascosto l’esistenza della vecchiaia e della morte?». E questo: «Se non ti ho lasciato andare, è perché ti amo». E Siddhartha risponde: «Sì, ma il vostro amore è diventato una prigione per me. Come potrei io continuare a vivere a palazzo quando so che così tanta gente soffre là fuori?». E il pa-
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dre: «Non hai mai voluto uscire, Siddhartha!». Ecco: questo fatto essenziale non è mai menzionato nei libri buddisti: la complicità di Siddhartha prima del “risveglio” (poiché si sveglia per uscire, e esce per cercare l’illuminazione). Siddhartha è quasi un /diota dostoevskyano quando dice: «Sofferenza? Mai sentita questa parola!». Oppure: «Vecchiaia? Che vuol dire “vecchiaia”?». TJK — Ma in un certo senso questa è la storia di tutti. Siamo noi al momento di scoprire la vita. Non è forse ciò l’incredibile forza di questa storia? Il fatto che tutti siamo stati complici della giovinezza un momento o l’altro prima di emigrare nell’età adulta? Lei si ricorda il Siddhartha di Hermann Hesse? Anche lui trattava molto del bisogno di lasciare il padre...
BB — Anche Pu Yi voleva scappare da palazzo... Perciò sento Piccolo Buddha come una... bomba buddista. Svegliare la gente oggi è diventato un dovere. Il film, credo, ha il vantaggio di essere qualcosa di completamente nuovo, un’esperienza spirituale nella quale la gente può entrare e sentirsi anche molto bene.
film?
TJK — Lei si sente “illuminato” dalla spiritualità del
Nella sequenza americana a Seattle vediamo davanti al museo un’enorme statua moderna con un martello ma senza la falce. Adesso parla di “bomba” per svegliare la gente. Vent'anni fa si interessava al marxismo e al materialismo dialettico. C'è stato un cambiamento di rotta o si tratta di una evoluzione delle posizioni precedenti? BB —- Sì, c’è una continuità nel cambiamento.
Anche se
per me la rivoluzione fu sempre qualcosa di molto spirituale. Questo è il mio sentimento.
TJK - Se consideriamo per un attimo il particolare punto di vista politico del film, la Cina che per lungo tempo rimase il simbolo della sinistra ora reprime il Tibet. E così lo ‘spiritualismo” subisce una specie di rovesciamento politico. Se lei non ha abbandonato la lotta, è la natura della lotta che è mutata?
BB — Questo è proprio ciò che il Dalai Lama simbolizza. Come forse sa, c’è una regione nel Tibet dell’est abitata da una tribù, i Kampas. Dopo l’invasione cinese del ’59 iniziarono un movimento di guerriglia in un campo di addestramento, in Mustang, sostenuto tra l’altro dalla CIA... Nell’?87
o ‘88 il Dalai Lama ordina di sospendere la violenza, e così molti di costoro si sono perfino suicidati, persa ogni motivazione di vivere. Fu un grande rivoluzionamento. In questo modo il Dalai Lama crede di potere raggiungere soluzioni pratiche e politiche senza la resistenza armata. Quello che chiede alla Cina non è più l’autonomia politica ma il rispetto della propria cultura. Per ragioni di Realpolitik i cinesi non rispondono mai, fanno come
se i tibetani non esistessero. E
credo che anche per questo il Dalai Lama non si oppose all’idea di impiegare un attore cinese per la parte di Lama Norbu. Ying Ruocheng è un uomo assai intelligente e coraggioso. Mi auguro soprattutto che tornato a casa non gli strappino poi il cuore dal petto. A ripensarci la repressione che succede in Tibet è quasi una repressione di tipo freudiano, cioè una “rimozione”. In realtà i cinesi cercano di rimuovere i tibetani. TJK — Tornando a Ying Ruocheng... Non so, a me pare che ci siano così tanti riferimenti ai suoi film precedenti in Piccolo Buddha. Ma anche a film di altri.
BB — Il fiume [del cinema] come contenitore di diversi corpi. Sì, è una vecchia storia. Il convento vi passa la stessa minestra in scodelle diverse. Ma quando Siddhartha mette appunto la scodella nel fiume è l’inizio di una nuova vita... Così il fiume diventa il locus di contraddizione e di continuità.
TJK — Come il Mandala, il grande e magnifico disegno realizzato dai monaci con le sabbie colorate. BB — Il Mandala è il film. Il mio film è un Mandala di pellicola; mi basterebbe fare un solo gesto e... via! Rimarrebbe solo il suo ricordo.
TJK — Fortunatamente la pellicola non è la sabbia.
BB — Ma lo sa che i film non sopravvivono neanche mezzo secolo? Oggi li registrano su dischi laser, però non durano lo stesso. Per quanto riguarda l'inquadratura della distruzione del Mandala, sto pensando di montarla forse in fondo ai titoli di coda, quasi fosse una ricompensa ai pochi eletti che saranno rimasti fino alla vera fine del film dopo i titoli di coda. TJK — Sbaglio o questo è anche il primo film nel quale rappresenta un vero sogno, anzi due: uno moderno e uno antico? BB - I miei film sono sempre stati dei sogni, ma il “telaio” è la prigione del sogno. In genere i sogni restano sul telaio. Questa volta due sogni sono sfuggiti per entrare nel
BB - Di altri? TJK — Penso a «Rosebud», il nome della barca nel porto alla fine del film.
BB — Ecco, «Rosebud» fu puro puro caso, cioè puro karma! Avrei anche potuto tagliare la panoramica pochi metri più a sinistra, poi finalmente l'abbiamo lasciata, abbandonandoci appunto al “vento del karma”, come diceva un nostro monaco a Kathmandu. TJK — E quando la folla dei monachelli attornia i tre bambini nel cortile del monastero, pensava alla balera del Conformista? BB - Devo dire che lei vede sempre delle cose che io non vedo mai quando giro film! Per me era forse la semplice ossessione di sentirmi circondato da figure che sono, purtroppo, anche in qualche modo intercambiabili, nient'altro. Forse pure il solito desiderio di qualcosa e la solita paura di ritrovarmi con le spalle al muro.
TJK — Il fiume... I corpi nel fiume ricordano sia La commare secca che Prima della rivoluzione. L'acqua sembra svolgere un significato importante. Ciò che sento, con questi riferimenti al passato, è una specie di “reincarnazione” che si attua attraverso tutti i suoi film... Lei ha parlato di ‘“ossessione” in termini freudiani, ma potrebbe anche avere un significato buddista!
Il principe decide di abbandonare la moglie Yasodhara e il figlio appena nato, per dedicarsi in un bosco alla ricerca della “illuminazione” (Keanu Reeves e Rajeshwaree).
185
In una vecchia
cappella del monastero, Dean
assiste alla
meditazione più lunga
di Lama Norbu (Chris
Isaak e Ying Ruocheng).
film. In realtà sento che i film hanno sempre una qualità onirica. Ma quando si fa un sogno non c’è tanta differenza tra il sogno e la vita di tutti i giorni. Così i sogni nel film non sono molto diversi dalla realtà. Perciò devo mettere un primo piano della regina che balla con il piccolo elefante come per dire: «Attenzione, questo è un sogno!». TJK - Il ballo nel sogno di Maya è importante allo stesso modo che lo sono i balli negli altri film?
BB — No. I balli dei film precedenti sono spesso una specie di momento catartico del protagonista calato nella vita sociale. In questo caso tutti dormono tranne la regina e l’elefante che ballano amorosamente. TJK — Forse l'elefante sarebbe il regista?
BB — Quello del film è un elefante piccolo. Godard definiva Rossellini “vecchio elefante ferito!”. TJK — Borges scrive: «Nel buddismo ogni uomo ha un'illusione, risultante dalla proiezione vertiginosa di una lunga serie di uomini passeggeri e solitari. L’apparenza della
186
continuità che una successione di immagini produce sullo schermo del cinema può aiutarci a capire quest'idea in qualche modo sconcertante»'. Buddismo e cinema sembrano per lui la stessa cosa. E per lei?
BB — Le nostre vite sono fatte di varie sequenze, e ogni sequenza è fatta di varie inquadrature. In questo modo, il cinema è come la vita. Sì.
TJK — Mi rammenta questa scena di Partner, in cui Pierre Clémenti diceva: «Teatro, teatro, teatro...». Poi, fuori campo, la voce anonima del regista concludeva: «Cinema!»
BB — E allora diciamo: «Buddismo,
buddismo. buddi-
smo... Cinema!»
Conversazione registrata a Londra il 19 giugno 1993
'‘J.L. Borges, Arte poetica, in Tutte le opere, cit., p. 1247.
Filmografia
LA COMMARE SECCA 1962
AMORE E RABBIA 1967-69
Regista: Bernardo Bertolucci — aiuto regista: Adolfo Cagnacci — soggetto: Pier Paolo Pasolini — sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Sergio Citti — direttore della fotografia (bianco e nero): Gianni Narzisi - operatore: Emilio Giannini — assistente operatore: Enrico Umetelli — scenografo e costumista: Adriana Spadaro - montaggio: Nino Baragli — assistente al montaggio: Sergio Montanari - musica e direzione musicale: Piero Piccioni, canzoni “Addio, addio” cantata da Claudio Villa,
episodio AGONIA
“Come nasce un amore” di Nico Fidenco - fonico: Sandro Fortini — segretaria di edizione: Elsa Carnevali — direttore di produzione: Ugo Tucci — produzione: Tonino Cervi per la Compagnia Cinematografica
Cervi — origine: Italia — prima proiezione: Mostra Internazionale di
Regista: Bernardo Bertolucci — aiuto regista: Gianluigi Calderone soggetto e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci con i membri del Living Theatre (liberamente ispirato alla parabola evangelica del Fico infruttuoso) — direttore della fotografia: Ugo Piccone (Technicolor - Techniscope) - scenografo/costumista: Lorenzo Tornabuoni —- montaggio: Roberto Perpignani — musica: Giovanni Fusco — fonico: Amelio Verona — produzione: Carlo Lizzani per la Castoro Film (Roma)/Anouchka
Film (Parigi) — origine: Italia/Francia — prima proiezione: 1969 - distribuzione: Italnoleggio — durata: 28'
Venezia, 1962 - distribuzione: Cineriz — durata: 100° INTERPRETI
E PERSONAGGI:
INTERPRETI E PERSONAGGI: Francesco Ruiu ( il “Canticchia”), Giancarlo De Rosa (Nino), Vincenzo Ciccora ( il “sindaco”), Alvaro D'Ercole (Francolicchio), Romano Labate (Pipito), Lorenza Benedetti (Milly), Emi Rocci (Domenica), Erina Torelli (Mariella), Renato Troiani (Natalino), Marisa Solinas (Bruna), Wanda Rocci (prostituta), Alfredo Leggi (Bustelli detto il “Califfo”), Carlotta Barilli (Serenella), Gabriella Giorgelli (Esperia), Santina Lisio (madre di Esperia), Clorinda Celani (Soraya), Ada Peragostini (Maria), Silvio Laurenzi (omosessuale), Allen Midgette (soldato Teodoro Cosentino), Gianni Bonagura (voce del maresciallo), Nadia Bonafede,
Julian Beck (il moribondo) e i 24 attori del Living Theatre (i visitatori), e anche con Milena Vukotic (l'infermiera), Giulio Cesare Castello (il sacerdote), Adriano Aprà, Romano Costa (chierici).
Ugo Santucci, Santina Fioravanti, Elena Fontana, Maria Fontana.
Regista: Bernardo Bertolucci — soggetto, sceneggiatura e commento: Bernardo Bertolucci (consulenza di Alberto Ronchey) — voci: Nino Castelhuovo, Mario Feliciani, Giulio Bosetti, Nino Dal Fabbro, Riccardo
PRIMA DELLA RIVOLUZIONE 1964
Cucciolla e Mario Trejo (anche interprete dell'episodio III) — direttori
LA VIA DEL PETROLIO 1967 Documentario in tre episodi
(I. Le origini, II. Il viaggio, III. Attraverso l'Europa)
della fotografia (bianco e nero, 16mm): Ugo Piccone (I e Il episodio), Regista: Bernardo Bertolucci — aiuto regista: Gianni Amico — soggetto
e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, con la collaborazione alla scen. di Gianni Amico - direttore della fotografia (bianco e nero): Aldo Scavarda - operatore: Camillo Bazzoni — assistente alla camera: Vittorio Storaro — costumista: Federico Forquet — truccatore: Michele Trimarchi - montaggio: Roberto Perpignani — musica: Ennio Morricone, Gino Paoli, Gato Barbieri, brani dal “Macbeth” di Giuseppe Verdi, canzoni “Ricordati” e “Vivere ancora” cantate da Gino Paoli, “Avevo 15 anni”
cantata da Ennio Ferrari — direzione musicale: Franco Ferrara — fonico: Romano Pampaloni - segretaria di edizione: Michelle Barbieri —
Luis Saldanha (III episodio), Giorgio Pelloni (III episodio) - montaggio: Roberto Perpignani — musica: Egisto Macchi — fonico: Giorgio Pelloni - organizzazione generale: Giovanni Bertolucci - produzione: Giorgio Patara per la RAI-TV/ENI - origine: Italia — prima proiezione televisiva: gennaio-febbraio 1967 - durata: 48° (1), 40° (Il), 45° (III). IL CANALE 1967 Documentario girato a Suez durante la lavorazione dell'episodio Il de
direttore di produzione: Gianni Amico - produzione: Mario Bernocchi
La via del Petrolio
Max Ophiils, Prix de la Jeune Critique (Cannes, 1964) — durata: 112‘
Regista: Bernardo Bertolucci — soggetto: Bernardo Bertolucci — diretto re della fotografia (Eastmancolor): Ugo Piccone — operatore: Maurizio Salvadori - montaggio: Roberto Perpignani - musica: Egisto Macchi —
per la Iride Cinematografica (Milano) — origine: Italia — prima proiezione: Festival di Cannes, 1964 — distribuzione: Cineriz — premi: Prix
INTERPRETI E PERSONAGGI:
i
i
1
Francesco Barilli (Fabrizio), Adriana Asti (Gina), Allen Midgette (Ago-
produzione: Giorgio Patara — origine: Italia — prima proiezione:
1967 - distribuzione: Corona cinematografica — durata: 12° (circa)
stino), Morando Morandini (Cesare), Cristina Pariset (Clelia), Domeni-
co Alpi (padre di Fabrizio), Emilia Borghi (madre di Fabrizio), Giuseppe Meghenzani (fratello di Fabrizio), lole Lunardi (nonna di Fabrizio), Ida Pellegri (madre di Clelia), Gianni Amico (cinefilo), Cecrope Barilli (Puck), Goliardo Padova (pittore), Guido Fanti (Enore), Evelina
Alpi (bambina), Salvatore Enrico (sacrestano).
PARTNER 1968 Regista: Bernardo Bertolucci — aiuto regista: Gianluigi Calderone -
soggetto e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Gianni Amico (libera-
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mente ispirato al romanzo ‘Il sosia” di F. Dostoevsky — direttore della fotografia: Ugo Piccone (Technicolor - Techniscope) — operatore: Sa-
Lodi-Fè, Giovanni Bertolucci per Mars Film (Roma)/Marianne productions (Parigi)/Maran Film GMBH (Monaco) — origine: Italia/Fran-
verio Diamanti — scenografo: Jean-Robert Marquis — costumista: Nico-
cia/Germania — prima proiezione: Festival di Berlino 1971 — distribu-
letta Sivieri — truccatore: Lamberto Marini - montaggio: Roberto Perpignani — assistenti al montaggio: Maurizio Mangosi, Giancarlo Veranucci — musica: Ennio Morricone (canzone “Splash” cantata da Peter Boom) — direzione musicale: Bruno Nicolai — fonico: Manlio Magara - segretario di edizione: Fabio Garriba - fotografo di scena: Marilò Parolini — direttore di produzione: Aldo U. Passalacqua = ispettore di produzione: Marcello Papaleo - segretario di produzione: Attilio Viti — produzione: Giovanni Bertolucci per la Red Film — origine: Italia — prima proiezione: Mostra Internazionale di Venezia, 1968 — distribuzione: Italnoleggio — durata: 105 INTERPRETI
E PERSONAGGI:
Pierre Clementi (Giacobbe), Stefania Sandrelli (Clara), Sergio Tofano (Petroushka), Tina Aumont (venditrice di detersivo), Giulio Cesare Castello (prof. Mazzoni), Romano Costa (padre di Clara), Antonio Maestri, Mario Venturini (professori di Arte drammatica), John Ohettplace
(pianista), Ninetto Davoli, Jean-Robert Marquis, Nicole Laguiné, Sy-
billa Sedat, Gianpaolo Capovilla, Umberto Silva, Giuseppe Manga-
no, Sandro Bernardone, David Grieco, Rochelle Barbieri, Antonio Guerra, Alessandro Cane, Vittorio Fanfoni, Giancarlo Nanni, Salva-
tore Samperi e Stefano Oppedisano (studenti). Scena tagliata: Gian
zione: CIC — premi: BFI Award (Londra, 1971), Grand Prix de l'UCC
(Bruxelles, 1971), nominato per gli Oscar quale miglior sceneggiatura adattata da un’opera letteraria (Hollywood, 1972) - durata: 110" INTERPRETI E PERSONAGGI:
Jean-Louis Trintignant (Marcello Clerici), Stefania Sandrelli (Giulia), Gastone Moschin (Manganiello), Dominique Sanda (Anna Quadri), Enzo Tarascio (professor Quadri), Pierre Clementi (Lino), José Quaglio (Italo), Milly (madre di Marcello), Giuseppe Addobbati (padre di Marcello), Yvonne Sanson (madre di Giulia), Fosco Giachetti (colonnello), Christian Alégny (Raoul), Benedetto Benedetti (Ministro), Marilyn Goldin (fioraia), Romano Costa (studente), Antonio Maestri (confessore), Pierangelo Civera (infermiere), Pasquale Fortunato (Marcello bambino), Christian Belègne (zingaro), Gino Vagni Luca (segretario), Marta Lado (figlia di Marcello), Carlo Gaddi, Franco Pellerani, Claudio Carpelli, Umberto Silvestri (sicari). Scena tagliata: Alessandro Haber (cieco ubriaco), Massimo Sarchielli (cieco).
LA SALUTE È MALATA o I POVERI MUOIONO PRIMA 1971
Vittorio Baldi (commissario), Eduardo De Gregorio. Documentario
STRATEGIA DEL RAGNO 1970
Regista: Bernardo Bertolucci — aiuto regista: Giuseppe Bertolucci soggetto e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Eduardo De Grego-
Regista: Bernardo Bertolucci — direttori della fotografia (bianco e nero, 16mm): Elio Bisignani, Renato Tafuri - montaggio: Franco Arcalli - origine: Italia — distribuzione: Unitelefilm — durata: 35°
rio, Marilù Parolini (liberamentre ispirato al racconto “Tema del tra-
ditore e dell'eroe” di Jorge Luis Borges) - direttori della fotografia:
ULTIMO TANGO A PARIGI 1972
rico Umetelli, Giuseppe Lanci — scenografo e costumista: Maria Paola Maino - montaggio: Roberto Perpignani — assistente al montaggio: Giancarlo Venarucci - musica: brani dalla “2a sinfonia camera” di Arnold Schénberg, dal “Rigoletto” e “Attila” di Giuseppe Ver-
Regista: Bernardo Bertolucci — aiuto regista: Fernand Moszkowicz, Jean-David Lefèbvre — soggetto: Bernardo Bertolucci, Giuseppe Bertolucci, Franco Arcalli - sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Franco Arcalli — direttore della fotografia: Vittorio Storaro (Eastmancolor) — operatore: Enrico Umetelli - scenografo: Ferdinando Scarfiotti — arredamento: Maria Paola Maino, Philippe Turlure — costumista: Gitt Magrini — truccatori: Maud Begon, Philip Rhodes montaggio: Franco Arcalli, Roberto Perpignani — assistente al montaggio: Gabriella Cristiani - musica: Gato Barbieri — fonico: Antoine Bonfanti — mixage: Fausto Ancillai — segretaria di edizione: Suzanne Durrenberger — fotografo di scena: Angelo Novi - organizzazione generale: Enzo Provenzale — direttori di produzione: Mario Di Biase, Gérard Crosnier — produzione: Alberto Grimaldi per
Vittorio Storaro, Franco Di Giacomo (Eastmancolor) - operatori: En-
di, canzone “Il conformista” cantata da Mina = fonico: Giorgio Pel-
loni — segretario di edizione: Domenico Rafele — organizzazione generale: Aldo U. Passalacqua — direttore di produzione: Attilio Viti — ispettore di produzione: Nicola Venditti - produzione: Giovanni Bertolucci per la Red Film srl/RAl-Radiotelevisione italiana — origine: Italia — prima proiezione: Mostra Internazionale di Venezia, 1970 -
distribuzione: AIACE - premio: Prix Luis Bufivel (Francia, 1970) —-
durata: 110'
INTERPRETI E PERSONAGGI:
Giulio Brogi (Athos Magnani), Alida Valli (Draifa), Tino Scotti (Costa), Pippo Campanini (Gaibazzi), Franco Giovannelli (Rasori), Allen Midgette (marinaio), Attilio Viti (domatore), Giuseppe Bertolucci (portatore di leone).
la PEA Cinematografica (Roma)/Artistes Associés (Parigi) — origi-
ne: Italia/Francia — prima proiezione: New York Film Festival — di-
stribuzione: UA — premi: Prix Raoul Lévy (Paris, 1973), Nastro
d'argento 1973 per la migliore regia, nominato agli Oscar per la migliore regia e il miglior attore protagonista (Hollywood, 1974), —
durata: 126
IL CONFORMISTA 1970
Regista: Bernardo Bertolucci — aiuto regista: Aldo Lado - soggetto e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci (dall'omonimo romanzo di Alberto
INTERPRETI E PERSONAGGI:
Marlon Brando (Paul), Maria Schneider (Jeanne), Jean-Pierre Léaud (Tom), Veronica Lazar (Rosa), Maria Michi (madre di Rosa), Massimo
Moravia) — direttore della fotografia: Vittorio Storaro (Technicolor) —
Girotti (Marcel), Luce Marquand (Olympia), Gitt Magrini (madre di Jeanne), Catherine Allegret (cameriera), Giovanna Galletti (prostitu-
grini — truccatore: Franco Corridoni — montaggio: Franco Arcalli — as-
tinaia), Marie-Hélène Breillat (Mouchette), Catherine Breillat (Mouchette), Catherine Sola (segretaria di edizione TV), Mauro Marchetti
operatore: Enrico Umetelli — scenografo: Ferdinando Scarfiotti — arredamento: Maria Paola Maino, Philippe Turlure — costumista: Gitt Ma-
sistente al montaggio: Giancarlo Venarucci - musica e direzione mu-
sicale: Georges Delerue, canzoni “Chi è più felice di me?” di C.A.
Bixio, “Tornerai” di Olivieri — fonico: Massimo Dallimonti — segretaria
di edizione: Flavia Vanin - fotografo di scena: Angelo Novi - orga-
nizzazione generale: Aldo U. Passalacqua, Serge Lebeau — ispettori di produzione: Nicola Venditti, Mario Cotone - produzione: Maurizio
188
ta), Armand Ablanalp (cliente della prostituta), Darling Legitimus (por-
{operatore TV), Dan Diament (fonico TV), Peter Schommer (assistente
TV), Mimi Pinson (presidente della giuria), Ramon Mendizabal (direttore d'orchestra), Stéphane Kosiak, Gérard Lepennec (danzatori), Ra-
chel Kesterber (Christine). Scene tagliate: Michel Delahaye (venditore
i Bibbie), Laura Betti (Miss Blandish), Jean-Luc Bideau (capitano della
chiatta).
NOVECENTO 1976
segretaria di edizione: Suzanne Durrenberger — fotografo di scena:
Regista: Bernardo Bertolucci — aiuti regista: Gabriele Polverosi, Clare Peploe, Peter Shepherd — assistenti alla regia: Massimo Arcalli, Giovanni Soldati, Claudio Taddei - soggetto e sceneggiatura: Bernardo
Angelo Novi — direttore di produzione: Mario Di Biase — produzione: Giovanni Bertolucci per la Fiction Cinematografica SpA/20th Century Fox — origine: Italia — prima proiezione: Mostra Internazionale di Venezia 1979 — distribuzione: 20th Century Fox — durata: 116
grafia: Vittorio Storaro (Technicolor) — operatori: Enrico Umetelli, Enzo Tosi — scene: Ezio Frigerio - ambientazione e arredamento: Maria Paola Maino - scenografo: Gianni Quaranta — arredatore: Gianni Silvestri — costumista: Gitt Magrini — truccatori: Fabrizio Sforza,
Jill Clayburgh (Caterina Silveri), Matthew Barry (Joe), Tomas Milian (Giuseppe), Alida Valli (madre di Giuseppe), Fred Gwynne (Dou-
gio: Gabriella Cristiani, Elvio Sordoni — musica: Ennio Morricone —
fonico: Claudio Maielli - mixage: Fausto Ancillai — segretaria di edi-
tori (comunista emiliano), Pippo Campanini (albergatore), Franco Citti (omosessuale), Elisabetta Campeti (Arianna), Stéphane Barat (Mustafà), Nicola Nicoloso (Manrico nel “Trovatore”), Mario Tocci
zione: Suzanne Durrenberger — fotografo di scena: Angelo Novi -
(Conte di Luna nel “Trovatore”), lole Cecchini (parrucchiera dell’ope-
Bertolucci, Giuseppe Bertolucci, Franco Arcalli — direttore della foto-
Maurizio Trani — montaggio: Franco Arcalli — assistenti al montag-
organizzazione generale: Mario Di Biase - direttore di produzione: Paolo de Andreis — produzione: Alberto Grimaldi per la PEA (Roma)/Artistes Associés (Paris)/Artemis Film (Berlino) — origine: Ita-
lia/Francia/Germania — prima proiezione: Festival di Cannes, 1976 — distribuzione: 20th Century Fox —- durata: 315° (circa) INTERPRETI E PERSONAGGI:
Robert De Niro (Alfredo), Gérard Depardieu (Olmo), Stefania Sandrelli (Anita), Dominque Sanda (Ada), Burt Lancaster (Alfredo Berlinghieri), Romolo Valli (Giovanni Berlinghieri), Werner Bruhns (Ottavio), Francesca Bertini (Suor Desolata), Anna Maria Gherardi (Eleonora Berlinghieri), Ellen Schwiers (Amelia), Sterling Hayden (Leo Dalcò), Maria Monti ( Rosina Dalcò), Antonio Piovanelli (Turo Dalcò), Paolo Branco (Orso Dalcò), Liù Bosisio (Nella Dalcò), Edoardo Dallagio (Oreste Dalcò), Giacomo Rizzo (Rigoletto), Laura Betti (Regina), Donald Sutherland (Attila), Alida Valli (signora Pioppi),
Pietro Longari Ponzoni (signor Pioppi), Paolo Pavesi (Alfredo bambi-
INTERPRETI E PERSONAGGI:
glas), Veronica Lazar (Marina), Peter Eyre (Edward), Renato Salva-
ra), lole Silvani (guardarobiera), Rodolfo Lodi (vecchio Maestro), Liana del Balzo (sorella del Maestro), Franco Magrini (medico), Roberto Benigni (tappezziere), Julian Adamoli (Julian), Shara Di Nepi (domestica), Francesco Mei (barista), Mimmo Poli (traslocatore), Massimiliano Filoni (ragazzino), Enzo Siciliano (direttore d'orchestra dell’opera), Alessio Vlad (direttore orchestra a Caracalla), Carlo Verdone, Ronaldo Bonacchi (registi a Caracalla). Scene tagliate: Laura Betti (Ludovica), Lorenzo Tornabuoni (madonnaro).
LA TRAGEDIA DI UN UOMO RIDICOLO 1981
Regista: Bernardo Bertolucci — aiuto regista: Antonio Gabrielli — assistente alla regia: Fiorella Infascelli - soggetto e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci — direttore della fotografia: Carlo Di Palma (Technicolor) — operatori: Massimo Di Venanzo, Michele Picciaredda — sce-
no), Roberto Maccanti (Olmo bambino), Anna Henkel (Anita II), Stefania Casini (Neve), Pippo Campanini (Don Tarcisio), Allen Midgette
nografo: Gianni Silvestri — arredatore: Luigi Urbani — costumista: Lina Nerli Taviani - truccatore: Giuseppe Banchelli - montaggio: Gabriella Cristiani — assistente al montaggio: Elvio Sordoni — musica e
(vagabondo), José Quaglio (Avanzini), Salvatore Mureddu (capitano
direzione musicale: Ennio Morricone (canzone “Horror Movies” ese-
a cavallo), Gabriella Cristiani (Stella), Carlotta Barilli (contadina), Katerina Kosak (Rondine), Sante Bianchi (Montanaro), Girolamo Lazzari (Tigre), Irene Gianni (domestica), Fabio Garriba.
guita da Linda and the Dark) - fonico: Mario Dallimonti — mixage: Fausto Ancillai - segretaria di edizione: Suzanne Durrenberger — fotografo di scena: Angelo Novi - direttore di produzione: Mario Di Biase - produzione: Giovanni Bertolucci per la Fiction Cinematografica SpA / The Ladd Company - origine: Italia — prima proiezione: Festival di Cannes, 1981 — distribuzione: Warner Bros — premio: Grand Prix per la migliore interpretazione maschile a Ugo Tognazzi
IL SILENZIO È COMPLICITÀ 1976 Documentario sulla morte di P. P. Pasolini. Regia collettiva coordina-
(Cannes, 1981) - durata: 110”
ta da Laura Betti con la collaborazione di Kim (Franco) Arcalli, Dario Bellezza, Marco Bellocchio, Sandro Bencivenga, Bernardo Bertolucci, Mauro Bolognini, Franco Brusati, Goffredo Bettini, Liliana Ca-
Ugo Tognazzi (Primo Spaggiari), Anouk Aimée (Barbara, sua mo-
vani, Mauro Di Biase, Carlo Di Carlo, Sergio Citti, Cooperativa Fonoroma, Gabriella Cristiani, Ninetto Davoli, Augusto Ferraioli, Donato Galli, Sandro Gennari, Franco La Torre, Dacia Maraini, Nino Marazzita, Mario Monicelli, Enzo Ocone, Ugo Palermo, Elio Petri,
Maurizio Ponzi, Edoardo Romeo, Ettore Scola, Enzo Siciliano, Flaminia Siciliano, Paolo e Vittorio Taviani, Lietta Tornabuoni, Studio Vergini.
LA LUNA 1979
Regista: Bernardo Bertolucci — aiuti regista: Gabriele Polverosi, Clare
INTERPRETI
E PERSONAGGI:
glie), Laura Morante (Laura), Victor Cavallo (Adelfo), Ricky Tognazzi (Giovanni Spaggiari), Vittorio Caprioli (maresciallo Angrisani), Re-
nato Salvatori (colonello Macchi), Olimpia Carlisi (Romola, la veggente), Margherita Chiari (domestica), Gaetano Ferrari (guardiano), Pietro Longari Ponzoni, Gianni Migliavacca, Ennio Ferrari, Angelo Novi (strozzini), Antonio Trevisi (direttore della banca), Giuseppe
Calzolari (vomo col cappello). CARTOLINA DALLA CINA 1985
Documentario video con estratti dal materiale portato dai sopralluo-
Peploe, Jirges Ristum — soggetto: Bernardo Bertolucci, Giuseppe Ber-
ghi per L'ultimo imperatore.
ro (Eastmancolor) — operatore: Enrico Umetelli - scenografi: Maria Paola Maino, Gianni Silvestri — costumisti: Lina Nerli Taviani, Pino
do Bertolucci - montaggio: Gabriella Cristiani — prima proiezione
tolucci, Franco Arcalli - sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Giuseppe Bertolucci, Clare Peploe — direttore della fotografia: Vittorio Stora-
Lancetti — truccatore: Giuseppe Banchelli - montaggio: Gabriella Cristiani — assistente al montaggio: Elvio Sordoni - musica: brani da “Il trovatore” , “Rigoletto”, “La traviata” e “Un ballo in maschera” di
Giuseppe Verdi, “Così fan tutte” di W.A. Mozart, canzoni “Saint Tropez” cantata da Peppino Di Capri, “Saturday’s Night Fever” cantata dai Bee Gees — fonico: Mario Dallimonti - mixage: Fausto Ancillai —
Regista: Bernardo Bertolucci — soggetto e commento detto da BernarTV: dicembre 1985 - durata: 10° (circa).
L'ULTIMO IMPERATORE 1987
Regista: Bernardo Bertolucci — aiuti regista: Gabriele Polverosi, Serena Canevari, Wang Biao — assistenti alla regia: Nicoletta Pey-
189
ran, Ning Ying, Franco Angeli, Giulio Levi, Fabien Gerard, Basil
grafo: Gianni Silvestri (collaborazione iniziale di Ferdinando Scar-
Pao — sceneggiatura: Bernardo Bertolucci e Mark Peploe, in colla-
fiotti) — art director: Andrew Sanders - arredamento: Cinthia Sleiter - costumista: James Acheson — aiuto costumista: Frank Gardiner -
borazione con Enzo Ungari (dall’autobiografia di Aisin Gioro Pu Yi “Da imperatore a cittadino”) — direttore della fotografia: Vittorio Storaro (Cinemascope, Techincolor) — operatori: Enrico Umetelli,
truccatore: Paul Engelen — montaggio: Gabriella Cristiani — assistente al montaggio: Elvio Sordoni - musica e direzione musicale: Ryui-
Mauro Marchetti — steadicam: Nicola Pecorini — scenografo: Ferdinando Scarfiotti — art directors: Gianni Silvestri, Gianni Giovagno-
chi Sakamoto (musiche africane: Richard Horrowitz), canzone “Je chante” cantata da Charles Trenet - fonico: Ivan Sharrock — segreta-
ni, Maria Teresa Barbasso - arredamento: Bruno Cesari, Osvaldo
ria di edizione: Suzanne Durrenberger - fotografi di scena: Angelo Novi, Alessia Bulgari - organizzazione generale” Denise O'Dell — direttore di produzione: Lucio Trentini - produzione: Jeremy Thomas per la Sahara Company Ltd (Londra) / Tao Film (Roma)/Aldrich
Desideri — costumista: James Acheson - aiuto costumista: Frank Gardiner — truccatore: Fabrizio Sforza - montaggio: Gabriella Cristiani — assistente al montaggio: Elvio Sordoni - musica: Ryuichi
Sakamoto, David Byrne, Su Cong, canzone “Am I blue” di H. Akst & G. Clarke — fonico: Ivan Sharrock - segretaria di edizione: Suzanne Durrenberger - fotografo di scena: Angelo Novi - organizzazione generale: Mario Cotone — direttori di produzione: Attilio
Group - origine: CEE — prima proiezione: Parigi, novembre 1990 -
Viti, Piero Sassaroli, Lamberto Palmieri, Alberto Passone, Stefano
Debra Winger (Kit Moresby), John Malkovich (Port Moresby), Campbell Scott (Tunner), Jill Bennett (signora Lyle), Timothy Spall (Eric Lyle), Eric Vu-An (Belgassim), Amina Annabi (Marhnia), Sotigui Koya-
Bolzoni — produzione: Jeremy Thomas per la Recorded Picture Company (Londra)/Tao Film (Roma) - produttori associati: Joyce Herlihy, Franco Giovalè — origine: Italia - realizzato in collaborazione con la China Film Coproduction Corporation — prima proiezione: Parigi, 1987 — distribuzione: Penta — premi: César miglior film straniero (Parigi, 1988), 4 Golden Globes, tra cui miglior film e miglior sceneggiatura (Hollywood, 1987), 9 Oscar, tra cui miglior film e miglior regia (Hollywood, 1988), 4 nastri d'argento tra
cui miglior regia, 8 David di Donatello tra cui miglior film, miglior regia e miglior attore non protagonista (Peter OToole) - durata:
distribuzione: Penta — durata: 132° INTERPRETI E PERSONAGGI:
te (Abdel Kader), Philippe Morier-Genoud (capitano Broussard), Ben Smail (Smail), Menoer Samiri (autista), Mohamed lxa (capo della carovana), Carolyn de Fonseca (signora Ferry), Veronica Lazar (suora), Nicoletta Braschi (ragazza francese), Paul Bowles (il narratore).
| PICCOLO BUDDHA 1993
158° INTERPRETI
E PERSONAGGI:
John Lone (Pu Yi), Joan Chen (Wan Jung), Peter O'Toole (Reginald Johnston), Ying Ruocheng (direttore del carcere), Dennis Dun (Grande Li), Victor Wong (Chen Pao-shen), Ryuichi Sakamoto (Amakasu), Maagie Han (Gioiello d'Oriente), Ric Young (primo inquirente), Wu Jun Mei (Wen Hsiu), Cary Hiroyuki Tagawa (Chang), Jade Go (Ar Mo), Fumihiko Ikeda (colonnello Yoshioka), Richard Vuu (Pu Yi a 3 anni), Tifger Tsou (Pu Yi a 8 anni), Wu Tao (Pu Yi a 15 anni), Fan Guang (Pu Chieh), Henry Kyi (Pu Chieh a 7 anni), Alvin Riley (Pu Chieh a 14 anni), Lisa Lu (imperatrice Tzu Hsi), Hideo Takamatsu
(generale giapponese Ishikari), Basil Pao (padre di Pu Yi), Liang Dong (madre di Pu Yi), Jian Xireng (Ciambellano), Chen Shu (mini-
stro del commercio), Chen Kaige (capitano della guardia imperiale), Zhang Liangbin (Piedone), Huang Wenjie (Gobbetto), Constantine Gregory (oculista), Michael Vermaaten (giovane americano), Mme Soong (imperatrice Lung Yu), Matthew Spender (giovane inglese), Xu Chunging (capitano delle guardie Manciukuo), Gu Junguo (Tang,
autista), Yang Hongchang (scrivano), Aki Ikuta (medico giapponese).
BOLOGNA 1989
Regista: Bernardo Bertolucci — aiuti regista: Serena Canevari, Fabrizio Castellani, Marco Guidone — assistenti alla regia: Leonardo Celi, Brian Beker, John Leonetti — Il unità e steadicam: Nicola Pecorini —
soggetto: Bernardo Bertolucci, in collaborazione con Fabien Gerard, Giovanni Mastrangelo — sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Rudy Wurlitzer, Mark Peploe — consulente buddista: Dzongsar Khyentse Rinpoche — direttore della fotografia: Vittorio Storaro (Technicolor Technovision) - operatori: Enrico Umetelli, Fabio Zamarion — sceno-
grafo e costumista: James Acheson — art director: Andrew Sanders costumista associato: Frank Gardiner — truccatore: Peter Frampton -
effetti speciali: Richard Conway, Val Wardlaw - montaggio: Pietro Scalìa — assistenti al montaggio: Nick Moore, Fabrizio Palmisano, Daniele Sordoni, Paul Swinburne, Chisako Yokoyama — musica e direzione musicale: Ryuichi Sakamoto — fonico: Ivan Sharrock = segretaria di edizione: Suzanne Durrenberger — maestro delle scimmie: Pascal Marlinge — fotografi di scena: Angelo Novi, Alessia Bulgari, Basil Pao, Peter Riches - organizzazione generale: Mario Cotone direttori di produzione: Attilio Viti, John Bernard — produzione: Jeremy Thomas per la Sahara Company Ltd/Ciby 2000 - origine: Francia — prima proiezione: Parigi, 4 novembre 1993 - distribuzione: Penta distribuzione — durata: 135° INTERPRETI E PERSONAGGI:
Parte moderna: Ying Ruocheng (Lama Norbu), Bridget Fonda (Lisa
Filmino “subliminale” realizzato con mezzi elettronici per la TV in occasione del Mundial 89
Conrad), Sogyal Rinpoche (Kenpo Tenzin), Jigme Kunzang (Chom-
Regista: Bernardo Bertolucci - montaggio: Gabriella Cristiani —
gay), Jo Champa (domestica), Khyongla Rato Rinpoche (Abbate),
proiezione TV: estate 1989, durata: 30” (circa).
Conrad), Chris Isaak (Dean Conrad), Alex Wiesendanger (Jesse pa), Raju Lal (Raju), Greishma Makar Singh (Gita), T.K.Lama (San-
Surehka Sikri (madre di Gita), Doma Tshomo (Ani-La), Rinzin Dakpa
(oracolo), Dzongsar Khyentse Rinpoche (giovane Lama), Mantu Lal
IL TÈ NEL DESERTO 1990 Regista: Bernardo Bertolucci — aiuti regista: Serena Canevari, Hamed Hatimi, Nicoletta Peyran — assistenti alla regia: Claudio Amati, Keltoum Aloui — Il unità: Fernand Moszkowicz — sceneggiatura: Ber-
(Mantu).
Parte antica: Keanu Reeves (Siddhartha), Rudraprasad Sengupta (Re
Suddhodana), Kanika Panday (Regina Maya), Madhu Mathur (Prajapathi), Rajeshwaree (Yasodhara), Bhisham Sahni (Asita), San-
tosh Bangera (Channa), Vijay Kashyap (vizir), Anupam Shyam (Ma-
nardo Bertolucci, Mark Peploe (dall'omonimo romanzo di Paul Bow-
ra), Anu Ehetri, Kavita Hahat, Tarana Ramakrishnan, Saddiya Siddiqui, Anita Takhur (figlie di Mara), Rashid Mastaan (mendicante),
Umetelli, Michele Picciaredda — steadicam: Nicola Pecorini — sceno-
Amar, Narmadapuree (asceti), Nirmalo (contadinella).
les) — direttore della fotografia: Vittorio Storaro — operatori: Enrico
190
Nagabab Shyam, Chritra Mandal, Kumar Lingeshewer, Mahana
Indice
Dagli Appennini all’ Himalaya Introduzione
17
I FILM La commare secca (1962)
2;
Prima della rivoluzione (1964)
35
Partner (1968).
si
Strategia del ragno (1970)
67
Il conformista (1970)
TE,
Ultimo tango a Parigi (1972)
55
Novecento (1976)
107
La luna (1979)
IIS)
La tragedia di un uomo ridicolo (1981)
J29
L’ultimo imperatore (1987)
141
Il tè nel deserto (1990)
a
Il piccolo Buddha (1993)
75
FILMOGRAFIA
187
Collane e volumi di SPETTACOLO nel catalogo GREMESE Biblioteca delle Arti:
Effetto Cinema: C.G. Fava - A. Viganò A. N. G. L.
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RUSSI
STORIA DELLA DANZA E DEL BALLETTO AVVIO ALLA DANZA DANZA E METODO MEDICINA DELLA DANZA | GRANDI BALLETTI FARE L'ATTORE
Gremese/Cultura: P.M. De Santi G. Simonelli - F. Taggi F. Cauli - C.Gambalonga E. Bruno E. Bruno E. Bruno
GUGLIELMINETTI - Arte, scene e costumi di quarant'anni di spettacolo L'ALTROVE PERDUTO Viaggio nel cinema e nei mass media CINEMA FERMOPOSTA Il cinema nei francobolli ELIA KAZAN MARTIN SCORSESE ROMAN POLANSKI
Dizionari Gremese: R. Poppi
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DIZIONARIO DEL CINEMA | FILM - Vol. 1 dal 1930 DIZIONARIO DEL CINEMA | FILM - Vol. 2 dal 1945 DIZIONARIO DEL CINEMA | FILM - Vol. 3 dal 1960 | PREMI DEL CINEMA
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Dialoghi: A. Gillain (a cura di) A. Lanocita E. Giacovelli A. Morrocchesi R.Cohn H. Daiber
Tutte le interviste di FRANCOIS TRUFFAUT sul cinema CINEMA ‘50 LA COMMEDIA DEL DESIDERIO LEZIONE DI DECLAMAZIONE E D'ARTE TEATRALE NUOVO TEATRO AMERICANO 1960-1990 STORIA DEL TEATRO TEDESCO CONTEMPORANEO 1945-1990
Le Stelle Filanti: M. Hochkofler - O. Caldiron A. Bernardini - C. G. Fava G. Essoe - T. Kezich E.G. Laura A. Bernardini O. Caldiron C.G. Fava C.G. Fava - M. Hochkofler
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BERNARDO BERTOLUCCI
La notorietà di Bernardo Bertolucci nel mondo è oggi enorme, e la considerazione di cui gode sia da parte della critica che del pubblico ha pochi termini di confronto tra i grandi cineasti del nostro tempo. Autore capace di vasti affreschi di forte impatto spettacolare (Novecento, L'ultimo imperatore, Piccolo Buddha), come di penetranti analisi intimistiche (Ulfimo fango a Parigi, La luna, Il tè nel deserto), Bertolucci è anche autore ‘letterario’ come pochi, di grande cultura, popolare e intellettuale al contempo (Prima della rivoluzione, Partner, Il conformisfa). A lui, alla sua opera così piena di simboli e significati, T. Jefferson Kline dedica una lucida, appassionata analisi critica, in cui ogni film è letto e interpretato a livello dell'inconscio, cui spesso si richiama lo stesso regista. Ne scaturisce una disamina di rara profondità e acutezza, che ha la densità e l'interesse di un trattato, in grado di portare alla luce i molteplici aspetti dell'opera bertolucciana, senza peraltro abdicare alle esigenze di leggibilità e chiarezza indispensabili per rendere il saggio accessibile anche al grande pubblico. La ricchissima scelta di immagini che lo accompagna fa da confrappunto al testo e si impone come consuntivo di una già straordinaria carriera cinematografica.
T. Jefferson Kline è professore di letteratura francese alla Boston University. Oltre al presente volume su Bertolucci, ha pubblicato André Malraux and the Metamorphosis of Death (New York, 1973) e Screening the Text: Intertextuality in New Wave French Cinema (Baltimore, 1992). Sta attualmente curando la traduzione di Forfune de France di Robert Merle e uno studio sull'autobiografia nei film. Sposato con la psicoterapeuta Julie Anderson e padre di tre figli, è appassionato di musica corale del Rinascimento e di canzoni francesi.
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