L'anticonformista: Bernardo Bertolucci e il suo cinema 8879231766, 9788879231763


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L'anticonformista: Bernardo Bertolucci e il suo cinema
 8879231766, 9788879231763

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PolõÂmnia Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 17/09/2018

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Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 17/09/2018 In copertina: Rene Magritte, La reproduction interdite, 1937, olio su tela, 81,3665 cm. Rotterdam, Museum Boymans-Van Beuningen. # Rene Magritte - by

SIAE,

1998

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ERMELINDA M. CAMPANI

L'ANTICONFORMISTA BERNARDO BERTOLUCCI E IL SUO CINEMA

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Campani, Ermelinda M. L'anticonformista: Bernardo Bertolucci e il suo cinema. Fiesole (Firenze) : Cadmo, 1998. 158 pp. ; 24 cm (PolõÂmnia ; 3) ISBN 88-7923-176-6 1. Bertolucci, Bernardo

XI ,

791.430233092 (ed. 20)

# 1998, Cadmo s.r.l.

Edizioni Cadmo Via Benedetto da Maiano, 3 50014 Fiesole (Firenze) Tel. (055) 5018.1 Fax (055) 5018.201 [email protected]

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A mio figlio, NicoloÁ

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RINGRAZIAMENTI Tra coloro che mi hanno aiutata e sopportata durante la stesura di questo libro, qui desidero ringraziare Anna Maria Ferretti; Bernardo Bertolucci che si eÁ sottoposto di buon grado alla lettura del manoscritto e mi ha dato informazioni preziose su alcuni retroscena dei film; Stefano Albertini, Alberto Bartolomeo, Russell Berman, Mario Casalini, Guido e Daniela Fink, Fabien Gerard, Franco La Polla, Anthony Oldcorn, Portia Prebys, Massimo Riva, Michael Silverman, i miei colleghi e i miei studenti alla Stanford University. Sono grata all'Archivio Bernardo Bertolucci della Partner A.S.B.L. per aver messo a disposizione il materiale fotografico dei film. E.M.C. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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PRESENTAZIONE

A

gli inizi degli anni Sessanta, qualsiasi forma di coerenza, sia pratica sia teorica, di cui il Neorealismo si era fatto portavoce, aveva da tempo dovuto soccombere sotto i colpi sovversivi che i cineasti italiani del dopoguerra le avevano inferto. Alla morte del Neorealismo contribuirono senza dubbio proprio quei registi che lo avevano inizialmente formulato come estetica progressista e che peroÁ si trovarono, successivamente, a essere confinati all'interno di un programma dogmatico e che si sarebbe rivelato troppo angusto. Non era piu possibile concepire il reale semplicemente nei termini di una categoria che avrebbe garantito una sorta di equilibrio democratico a una serie di elementi potenzialmente diversi e dispersivi. Tale forma di equilibrio andava sempre piu configurandosi come reazionaria e repressiva. Al contempo, appariva sempre piu cruciale il bisogno di lasciare spazio a categorie critiche che servissero a differenziare piu che a omologare: l'elemento operatico e melodrammatico (Visconti), il miracoloso e il sentimentale (De Sica), il grottesco e non-indigeno (Fellini). Sono questi i diversi percorsi narrativi che avrebbero garantito l'affrancamento dal potente isolamento rappresentato da una pratica sociale e da uno stile filmico. La filmografia di Bernardo Bertolucci, in particolare i film da Prima della rivoluzione a Novecento, costituisce la testimonianza piuÂevidente della morte del Neorealismo. Non vi eÁ dubbio che questioni di classe, ideologia, storicitaÁ e sessualitaÁ pervadono la problematica tracciata dal lavoro di Bertolucci e in esso rivestono ruoli strategici ed essenziali. I nuclei narrativi e tematici proposti dal Neorealismo costituiscono il terreno primo su cui tale problematica viene costruita. Ma il lavoro di Ermelinda Campani ha messo in evidenza che eÁsoprattuto un'altra la complessa ereditaÁpaterna con cui i testi di Bertolucci devono affannosamente fare i conti. Come ha potentemente osservato Pasolini, quando scriveva dei suoi primi lavori cinematografici, dire che il Neorealismo eÁ morto non risolve nulla e puoÁ solo essere www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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VIII

motivo di lutto. In effetti, Pasolini aveva compreso molto piu chiaramente di molti altri che «l'ufficialitaÁ» e «l'ipocrisia» erano i due valori che avrebbero preso il sopravvento dopo che le aspettative di coerenza e le speranze di costituire un nuovo ordine sociale erano state ineluttabilmente distrutte, da una serie di vittorie piccolo-borghesi, nelle elezioni tenutesi alla fine degli anni Cinquanta. Il lavoro di Pasolini eÁ di cruciale importanza per comprendere i termini del non indolore abbandono delle ascendenze neorealistiche da parte di Bertolucci. Si puoÁ certamente sostenere che le sovversioni pasoliniane non furono mai del tutto capaci di rompere completamente con una certa forma di pietismo neorealistico, particolarmente per quanto riguarda l'impianto figurativo, e che tale difficoltaÁ rappresentoÁ un grande insegnamento per Bertolucci stesso. E cioÁ che Pasolini probabilmente intendeva come formule alienanti all'interno delle procedure, solitamente normalizzanti, dell'apparato cinematografico (ad esempio, la stridente giustapposizione della musica di Bach che accompagna la scena in cui Vittorio/Accattone litiga con suo cognato nell'aia davanti a casa), producono un effetto alquanto fastidioso perche servono a ostacolare lo svolgersi del pensiero coerente. La critica materialista in Pasolini non puoÁ mai essere separata completamente da un coinvolgimento estatico e irrazionale con una forma di energia che eÁ quasi sempre di tipo passionale, istintivo, sessuale. Sembra comunque che, nei primi film, Pasolini volesse proprio evitare la fluida integrazione degli elementi cinematografici a favore della retorica dell'opposizione e dell'incongruitaÁ lasciata allo stato grezzo; in questo senso, i testi corrono il rischio di un recupero sentimentale. Nonostante questo, Pasolini riesce quasi sempre a portare a compimento un'azione di disturbo nei confronti del pensiero progressista in riferimento a questioni di classe e di lingua ± ad esempio, il suo rifiuto di moralizzare i magnaccia quanto i ladri, la sua mancanza di pietaÁ per il lavoro, la sua insistenza affinche il linguaggio dei borgatari fosse violento e peccaminoso ma al tempo stesso pieno di colore, la luciditaÁ con cui egli venera e al contempo degrada le donne; tutto questo rappresenta la precisa determinazione a dare l'addio definitivo a una forma di pensiero associata al Neorealismo di sinistra. In questo senso, Accattone e Mamma Roma erano chiaramente dei modelli davanti agli occhi di Bertolucci quando all'inizio della sua carriera cinematografica (all'etaÁdi 22 anni) si accingeva a lavorare al suo secondo film, Prima della rivoluzione. In questo testo si puoÁ facilmente rintracciare un gesto dalla doppia valenza che saraÁ tipico del lavoro di Bertolucci fino alla metaÁ degli anni Settanta; per un verso, il film abbraccia, con sensi di colpa ma con fervore, certi ideali e, per l'altro, chiarisce il dubbio intellettuale che Bertolucci vive ed esprime nel suo cinema. Fabrizio rifiuta il suo maestro e mentore, Cesare, www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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IX

insieme a una forma di solidarietaÁ del dopoguerra che egli incarna; vive contraddittoriamente il rapporto con Gina, di cui subisce il fascino; eÁ con frustrazione che fa i conti con la sua incapacitaÁ di aiutare il suo amico Agostino e che critica il partito per il suo fallimento. Tutto questo segnala una precisa differenza generazionale per cui la critica delle istituzioni e dell'azione sociale viene capovolta, come proiettata all'interno, attraverso un gesto parossistico di ansietaÁ e auto-inganno. La preoccupazione travolgente reiterata in numerosi film successivi (da personaggi quali Athos Magnani, Marcello Clerici e Olmo) per l'inganno intellettuale che si configura come disastro politico viene inscenata per la prima volta da Fabrizio che si commuove mentre cerca di citare il Manifesto comunista a Cesare al festival dell'UnitaÁ il primo maggio. Quelle lacrime incarnano un affetto irrisolto che percorre i film, attraversandoli come una scarica di corrente elettrica; eÁirrisolto percheÂnon puoÁ essere contenuto dalla coerenza del pensiero dialettico e perche il desiderio di una trasformazione della storia e delle relazioni umane, di cui le lacrime sono un sintomo o un simbolo, si risolve inevitabilmente in niente; sono lacrime ben diverse da quelle rigenerative versate dalla miracolata Emilia in Teorema di Pasolini; piuttosto, sono il segno di una frustrazione e di una perdita ingovernabile. Nascono dal senso di imprigionamento di chi le versa che si sente preso come in una morsa di nostalgia inspiegabile per qualcosa che non ha mai avuto. Anche le lacrime sono fonte di piacere; un piacere sempre percorso da grandi sensi di colpa. Tradiscono una celebrazione lirica dell'ordine dei significanti borghesi, un attaccamento che sembra molto piu sentito e potente della fredda accettazione della vita borghese rappresentata dall'imminente e ormai ineludibile matrimonio di Fabrizio con Clelia. Questa passione complessa la si puoÁ piu facilmente ritrovare nell'abbigliamento all'inglese di Puck, o nel ricordo di Gianni Amico a Fabrizio che «non si puoÁ vivere senza Rossellini», o nell'ultima luce sulle rive del Po mentre il vecchio pittore lavora. Una gran parte dell'ereditaÁnarrativa, che il lavoro di Ermelinda Campani evidenzia nella filmografia di Bertolucci e che legge nei termini di peso edipico, si manifesta come una sorta di piacere pieno di sensi di colpa non tanto in relazione a significanti di «possesso» borghese ma nell'attaccamento stesso alla narrativa. Il fascino, quasi patologico, che Bertolucci sentiva verso Godard alla fine degli anni Sessanta, lo mette in una posizione radicalmente diversa rispetto a quella degli altri registi italiani nello stesso periodo nei confronti di una pratica filmica che a partire dal 1967 cominciava a insistere su una totale rottura con la narrativitaÁ: la diegesi filmica sembrava non potersi allontanare dai dettami dell'industria. Non a caso, si parlava di «Hollywood/Mosfilm», una definizione che indicava due tipi di cinema reazionario e, nonostante la guerra fredda, analoghi l'uno all'altro. Antowww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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nioni e Pasolini ebbero brevi scambi con Godard; Bellocchio si rifece al suo lavoro, specialmente in La Cina eÁ vicina. Ma Bertolucci eÁ entrato nel pensiero di Godard nel solo modo in cui riusciva ad affrontare problemi di natura intellettuale, cioeÁ attraverso i sensi e lo spirito. La risposta violenta di Godard agli eventi politici a partire dal 1965 denunciava e registrava, con amara ironia, una certa compiacenza della istituzione cinematografica. Ritengo che il potere della critica godardiana abbia esercitato un certo fascino su Bertolucci perche Godard comprese il valore del Neorealismo (che egli avrebbe potuto semplicemente onorare con un tributo opportunista alla Bazin, ma per il quale mostroÁ un vero interesse filmico e critico se si pensa alla passione con cui si accostoÁ a Rossellini) e allo stesso tempo si rese conto che lo stesso Neorealismo andava ineluttabilmente di pari passo con la riflessivitaÁ, come se Verga e Pirandello condividessero lo stesso spazio concettuale. Il teatralismo di Godard, la sua apparente abilitaÁ a tenere posizioni contraddittorie con grande passione e senza alcuna tolleranza alla laissez-faire, sembra aver travolto Bertolucci portandolo alla fase di impasse che ha fatto seguito a Prima della rivoluzione. Ma l'impiego di un cinema borghese per sferrare un attacco alla borghesia si eÁ rivelata una contraddizione troppo insopportabile anche per un dialettico abile come Godard. Apparve piuttosto necessario tagliare completamente i ponti con la rappresentazione narrativizzata. Per Bertolucci una tale rottura sarebbe stata intollerabile; eÁ uno strappo che egli non eÁmai riuscito a compiere. Partner (con i suoi impossibili sosia, le sue parodie dello stile borghese ± le doppie panoramiche a 360 gradi ± e il suo franco avvertimento al pubblico che serve a metterlo in guardia e lo informa che non troveraÁ alcun piacere nel film) rappresenta il livello massimo della rottura con certe convenzioni di cui Bertolucci si eÁ mostrato in grado. Partner si conclude all'insegna della confusione, come se il film avesse cercato di mettere insieme una pratica filmica anti-convenzionale con un modello cinematografico emergente; il testo filmico non riesce a sostenere questa relazione. O meglio, come se Bertolucci avesse interpretato erroneamente il suo stesso rapporto con la pratica filmica di Godard che egli riconosceva come formale e politica piuttosto che come erotica e formale e politica. Una delle questioni importanti su cui Ermelinda Campani richiama costantemente l'attenzione del lettore in questo libro eÁ proprio il grado di passione, erotica e istintiva, che si ritrova in tutte queste relazioni cinematiche; cioÁ, naturalmente, non significa che tali relazioni si riferiscano necessariamente a un genere sessuale particolare ma qualcosa di questi impulsi certamente attraversa questi prestiti formali e queste influenze, cosicche lo spettatore ne percepisce la presenza come un qualcosa che eccede il contenuto stesso di un'inquadratura o di una sequenza. Il piu grande regalo di Bertolucci al www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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suo pubblico consiste nella sua volontaÁ di esplorare ± in un movimento della macchina da presa o in alcune note musicali ± il registro materiale e tangibile dell'apparato cinematografico che daÁvita a questa corrente passionale e ci forza a riconoscerla. Michael Silverman

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CAPITOLO PRIMO

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IL LOGOS PATERNO

Quello del padre eÁ un luogo topico ricorrente nella cinematografia di Bertolucci: nei film, il rapporto tra padri e figli eÁ articolato tra riflessioni edipiche e implicazioni ideologiche mentre la figura paterna, sia essa rappresentata dal fascismo o da un padre traditore, rappresenta sempre un oppressore e repressore dell'(anti-)eroe. L'elemento saturnino del padre castratore eÁ, altresõÂ, collegato alla morte. Muoiono Athos in Strategia, Quadri nel Conformista e Paul in Ultimo Tango. Il discorso del padre nel cinema di Bertolucci ha una illustre genealogia nella biografia personale e professionale del regista. Bernardo eÁ come se avesse avuto tre padri: Attilio Bertolucci, Pier Paolo Pasolini e Jean-Luc Godard. Tutti e tre, in modi differenti, hanno preso parte alla vita di Bernardo e ne hanno condizionato lo svolgimento, sia sul piano pratico che su quello, piu importante, delle idee. L'assidua frequentazione da parte di Bertolucci dei mondi dei tre padri ha corrisposto a tre momenti diversi della sua formazione poetica a cui fanno capo tre film e tre cittaÁ: la Parma di Attilio (Prima della rivoluzione), la Roma di Pasolini (La commare secca), e la Parigi di Godard (Partner). In questi tre film, che simmetricamente corrispondono all'apprendistato degli anni Sessanta, il mondo paterno costituisce una sorta di alter ego del Bertolucci esordiente e, come tale, anticipa l'Edipo cine-psicoanalitico che egli tematizzeraÁ, proprio con gli strumenti appresi dai padri, nei film successivi. Mentre Attilio e Pasolini rappresentano la parola scritta, cioeÁ il logos paterno e, per cosõ dire, la scena primaria, Godard diventa una sorta di revisione secondaria, ovvero la teoria cinematografica d'oltralpe. Pasolini eÁ la figura privilegiata della mediazione e del passaggio dalla poesia al cinema, essendo stato egli stesso poeta e regista; Godard, invece, nella teoria, rappresenta la distanza critica dal passato e l'estrema autoriflessivitaÁ cinematografica. Attilio eÁ il padre biologico e poetico di Bernardo. SaraÁ proprio grazie a lui, poeta, critico letterario e cinematografico insieme a Pietro Bianchi, che Bernardo, molto giovane, verraÁ in contatto con il mondo della letteratura prima e del cinema poi. Mio padre non mi portava solo al cinema. Mi dava da leggere le sue poesie, mi www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo primo

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parlava della letteratura, mi faceva conoscere la pittura. Non parlava mai come un teorico, e io potevo verificare immediatamente la veritaÁ di quello che mi diceva 1.

Cinema, poesia, pittura ± il mondo quasi vichiano del «fare» e del «conoscere» ± sono i termini di una conversazione tra padre e figlio che, nel ricordo, si profila idillica e calda di affetti. Nel contesto dell'identificazione anche cinematografica con il padre poeta, Bernardo si presenteraÁ come il poeta della Parma stendhaliana, di passioni giovanili e di ironia. Il suo primo esordio eÁ rappresentato da una raccolta di poesie (In cerca del mistero), che gli valse il premio Viareggio nel 1962. A presentare il volume al Viareggio fu Pier Paolo Pasolini che vide nelle poesie di Bernardo la premonizione della poesia del futuro. Il testo, che a Pasolini faceva anche ricordare il proprio Usignolo della Chiesa cattolica 2, eÁ segnato dalla nostalgia per una Parma e una giovinezza che Bertolucci stava per lasciarsi dietro. Ispirate a motivi concreti e popolate da personaggi della campagna parmense, dai suoi compagni di giochi, le poesie, se rilette alla luce dei film, diventano anche una sorta di repertorio di immagini e di contenuti che il cineasta non abbandoneraÁ mai, anzi, che riproporraÁ, portandolo a compimento, sullo schermo. Ben presto, cosõÂ, Bernardo si dedicheraÁ esclusivamente al cinema operando un taglio netto, ma solo apparente, con la letteratura e con il mondo del padre. Ho iniziato a scrivere poesie per imitare mio padre e ho smesso di scriverle quando ho cominciato a fare dei film, per differenziarmi da lui. Ho scritto poesie fino al giorno dell'inizio delle riprese del mio primo film fatto dentro l'industria. Dopo la prima inquadratura della mia vita non ho piu scritto poesie 3.

La letteratura, da forma espressiva familiare e privilegiata, diventa una sorta di avversario edipico che Bertolucci peraltro non escluderaÁ mai e per il quale, invece, troveraÁ una precisa collocazione nei suoi film che, nella maggior parte dei casi, sono liberamente tratti da romanzi o da racconti. Nei testi cinematografici, la necessaria interconnesione tra letteratura, cinema e realtaÁ viene risolta attraverso un percorso immaginario che parte dalla realtaÁ, attraversa il mondo metaforico della fiction letteraria e cinematografica, e torna a un reale ridotto a immagine di se stesso. I film di Bertolucci, infatti, appaiono sempre a metaÁ strada tra mediatezza e immediatezza: l'una eÁ riscontrabile nella sempre crescente tensione al rigore cinematografico, l'altra invece scaturisce da un'ottica soggettiva e poetica che si risolve in un necessario bisogno di parlare, in forma media1 2 3

ENZO UNGARI, Scene madri di Bernardo Bertolucci, Milano, Ubulibri, 1987, p. 12. PIER PAOLO PASOLINI, L'usignolo della Chiesa cattolica, Milano, Longanesi, 1958. FRANCESCO CASETTI, Bernardo Bertolucci, Firenze, La nuova Italia, 1978, p. 12.

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Il logos paterno

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ta, della realtaÁ (diverso saraÁ il rapporto di Pasolini con la realtaÁ, e vano il suo tentativo di trovare una sorta di reale neutrale, al quale si oppone una ineluttabile visione soggettiva di esso). Ho sempre pensato, senza preoccuparmi di verificarlo scientificamente, che la macchina da presa, prima di essere uno strumento di registrazione sia uno strumento che proietta, che promette di copiare ma in realtaÁ daÁ qualcosa invece di prenderla. Tutto il cinema che ho fatto fino a ieri esprimeva una fiducia un po' paradossale nella realtaÁ come fonte di ispirazione. Paradossalmente, perche a forza di avvolgerla con lo stile della rappresentazione, con il teatro, ma soprattutto con il plot, con il romanzo, essa veniva scarnificata dal cinema, fino a ridursi a una specie di scheletro, e lo scheletro di un corpo lo si indovina ma non lo si vede. Gli scheletri sono cosõÁ imbarazzanti e poco presentabili che li si nasconde perfino negli armadi 4.

Il brano, involontariamente, ricorda la meditazione di Pirandello sulla «azione» della macchina da presa colta non come un passivo strumento di registrazione, ma come magica macchina di creazione e rivelazione. Qui, sostanzialmente, Bertolucci ribadisce i termini del suo cinema che, al taglio naturalistico, preferisce quello autoriale, un cinema che si prefigge come scopo la giustapposizione tra realtaÁ e teoria, tra l'immagine visiva e la parola scritta. L'iniziazione cinematografica di Bertolucci, ancora non ufficiale, avverraÁ prima del trasferimento (di tutta la famiglia) a Roma, con due brevi film a 16 mm, La morte del maiale e La teleferica girati entrambi nell'inverno del 1956-57 nell'appennino parmense (anche il giovane Godard aveva iniziato con dei cortometraggi a soggetto di argomenti vari; uno di questi, OpeÂration beÂton, riguarda la costruzione di una diga e mostra bidoni di cemento trasportati da una teleferica). L'interesse di Bertolucci per il cinema era assecondato anche dalla fervida attivitaÁ cinematografica a Parma in quegli anni. Pur trattandosi di un centro di provincia, Parma era stata sede di un circolo GUF che raccoglieva appassionati di cinema, tecnici e registi dilettanti e che diede inizio alla propria attivitaÁ il 30 aprile 1937 con la proiezione, al Cinema-Teatro Petrarca (oggi Ariston), di Fortunale sulla scogliera (Dupont, 1930) presentato da Pietro Bianchi, il direttore del giornale cittadino; inoltre, grazie ai buoni rapporti che il cineclub parmense intratteneva con la Cineteca Nazionale di Roma, nella cittadina emiliana vennero successivamente proiettati vari film abbastanza rari. L'atmosfera `cinematografica' di Parma non era sfuggita ad Attilio che notava: 4

E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 216.

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Capitolo primo

che madre benigna questa cittaÁ. Noi non avremmo mai pensato di tradirla, tanto ci bastava, noi dico, Betti, Zavattini, Guareschi, Pietro Bianchi, Minardi, che vi abbiamo avuto vent'anni negli anni dell'entre deux guerres. I piu giovani, oltre a una smodata curiositaÁ per i contemporanei, avevano preso pure una bella cotta per il cinema e andavano contagiando un po' tutti 5.

Attilio Bertolucci, che ogni domenica pomeriggio portava i figli al cinematografo, si lascioÁ contagiare dalla nuova arte e intraprese una carriera anche di critico cinematografico. La sua collaborazione a varie riviste specialistiche lo conferma. Egli divenne il critico titolare della «Gazzetta di Parma»; ne inauguroÁ il primo numero, uscito dopo un periodo di censura, con una recensione entusiastica di Roma cittaÁ aperta di Rossellini (1945); collaboroÁ a La critica cinematografica (1945-48), fondata e diretta da Antonio Marchi, una rivista le cui posizioni teoriche erano tutte a favore dell'autonomia del cinema dalle altre arti secondo canoni che risentivano del dibattito cinematografico piu vasto. Era di quegli anni, infatti, la questione relativa all'autonomia del cinema dalle altre arti e alla necessitaÁ che il cinema si rivolgesse direttamente alla realtaÁ. La discussione formale, che riguardava le nozioni di cinema cinematografico, contenutismo, neorealismo e realismo, aveva coinvolto su posizioni diametralmente opposte critici quali Barbaro, Chiarini, Zavattini e Aristarco. Nel 1949, Attilio collaboroÁ a «Sequenze», una rivista di cinema a carattere monografico diretta da Luigi Malerba; Aristarco ne aveva curato un numero dedicato a «Il colore nel film», mentre al Bertolucci poeta era stato affidato un numero dal titolo significativo di «Letterato al cinema». Attilio Bertolucci, inoltre, scrisse il testo per un documentario (Nasce il romanico) che ottenne il primo premio come miglior cortometraggio d'arte a Bruxelles nel 1950; fu uno dei promotori di un convegno sul neorealismo al quale partecipoÁ anche Zavattini, e fece parte di numerosi comitati cinematografici, tra cui la nona edizione del «Salso Film e Tv Festival». Nel 1961, la famiglia Bertolucci si trasferõ a Roma; qui Attilio continuoÁ a dedicarsi al cinema in qualitaÁ di critico per un programma della RAI di Vigorelli (nella stessa trasmissione Pasolini si occupava di poesia e Gadda di teatro). Ricorda Bernardo Bertolucci: Mio padre mi insegnava a vedere il cinema, a capire il cinema, ad amare il cinema. Il mio amore per il cinema dipende quindi in gran parte dal suo amore per il cinema, come il suo amore per la campagna viene fuori dall'amore di mio nonno per la campagna. Io ho avuto la fortuna di poter guardare a una cultura, anche cinematografica, che esisteva prima di me, di avere delle radici, magari per potermene liberare 6. 5 6

R. CAMPARI, Parma e il cinema, Parma, Banca del Monte di Parma, 1986, p. 19. F. CASETTI, Bernardo Bertolucci, cit., p. 30.

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Il logos paterno

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L'educazione estetica di Bertolucci eÁ anche «educazione sentimentale»; eÁ, fin dall'inizio, una storia di padri, di tradizioni paterne che si tramandano antichi amori e che sono anche modi di «vedere», di «capire» e di «rappresentare» il reale. In queste parole, eÁ giaÁ ravvisabile uno scenario edipico (che Bertolucci continueraÁ a reiterare ossessivamente nei suoi film): Bernardo considera la cultura paterna come «una fortuna» ma al tempo stesso come qualcosa di cui eÁ necessario liberarsi. Bernardo mutuoÁ, prima di tutto dal padre, quell'amore per la cultura, letteraria prima e cinematografica poi, che doveva portarlo alla sua attivitaÁ successiva. Parma, ancor prima di Roma e Parigi, divenne il teatro per un'elaborazione, seppur ancora approssimativa, delle sue idee sul cinema. Un cinema che parte innanzi tutto dalla letteratura e dalla parola scritta, che attraverso il logos si avvicina alla realtaÁ e che eÁ contrassegnato da un marcato senso estetico e da un rapporto dialettico e conflittuale con la poetica paterna intesa in senso lato.

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La commare secca (1962). Francolicchio e Pipito con due ragazze. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

CAPITOLO SECONDO

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PIER PAOLO PASOLINI E LA COMMARE SECCA

Pier Paolo eÁ sempre stato per me una figura paterna. E cosõÂ, quando mi ha parlato male di Ultimo tango, io ho avvertito un senso di liberazione. Piu me ne parlava male, piu mi si distruggeva come figura paterna 1.

L'arrivo nella capitale e l'incontro con Pasolini segnarono l'inizio ufficiale del lungo rapporto di Bertolucci con il cinema. Nel 1961, venne presentato al cinema Lux di Parma Accattone, il primo film di Pasolini con Bertolucci come aiuto-regista; l'anno successivo, in anteprima al cinema Centrale della cittaÁ, fu presentato il primo film di Bertolucci, La commare secca, in una serata alla quale parteciparono anche Pier Paolo Pasolini ed Elsa Morante. La commare secca (un titolo tratto dalla poesia romanesca di Belli che eÁ un po' la storia di un incontro con Roma, la Roma pasoliniana) eÁ tratto dall'omonimo racconto di Pier Paolo Pasolini e, attraverso la concatenazione di una serie di episodi, tecnicamente molto diversi tra loro, inscena gli interrogatori dei presunti assassini di una prostituta romana, il cui corpo privo di vita eÁ stato trovato ai margini del parco Paolino, sulle rive del Tevere 2. Alcuni degli indiziati, interrogati dalla voce fuori campo di un commissario di polizia, sono personaggi tipicamente pasoliniani: un ladro, detto il Canticchia, specializzato nel rubare le borsette alle coppie che si appartano nella pineta dell'EUR; un mantenuto, elegante e violento, il Califfo; un soldato, Teodoro Cosentino; due adolescenti, Francolicchio e Pipito, dai modi strafottenti ma anche timidi e insicuri di fronte a due ragazze della loro etaÁ. Ciascuno dei personaggi espone il proprio alibi e cosõ facendo parla della propria vita, che il film mostra mentre la voce fuori campo dell'indiziato la racconta. Commare eÁ costruito come Rashomon (Akira Kurosawa, 1950) perche la storia eÁ messa insieme da vari personaggi che raccontano diverse versioni dello stesso fatto. Per lo stesso motivo il primo film di Bertolucci fa anche venire in mente Quarto potere (Orson Welles, 1941) dove, nel 1 2

F. CASETTI, Bernardo Bertolucci, cit., p. 28. P.P. PASOLINI, «La comare secca», in Ragazzi di vita, Milano, Garzanti, 1976, pp. 217-241.

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Capitolo secondo

tentativo di svelare il mistero di una parola pronunciata dal morente Xanadu, un certo Thomson, curatore di un telegiornale, intervista cinque persone ciascuna delle quali racconta una storia diversa e soggettiva. La veritaÁ dietro il mistero, o una sua versione presumibilmente oggettiva, puoÁ solo trapelare dalla somma delle varie testimonianze. In Commare c'eÁ in nuce l'estetica ricerca del «reale neutrale» pasoliniano. Il film ha la struttura del collage inframmezzato e tenuto insieme dal ritornello anaforico della pioggia che interrompe l'azione e introduce le sequenze in cui la camera spia la prostituta, ignara del proprio destino, che si sveglia e si veste. La pioggia eÁ anche il nesso temporale che collega le azioni non in progressione lineare ma concentrica, e rappresenta una intuizione strutturale nuova e originale rispetto al testo di partenza. Bertolucci ottenne la sceneggiatura e la regia del film quasi per caso. Dopo il successo di Accattone, Tonino Cervi comproÁ il soggetto di La commare secca e lo offrõ a Pasolini che stava giaÁ pensando a Mamma Roma e lo rifiutoÁ. Pasolini fece il nome di Bertolucci e di Sergio Citti per la sceneggiatura e, ancora, quello di Bertolucci per la regia. Quando la regia del film venne offerta a Bertolucci, egli accettoÁ. Pasolini, in un certo senso, regaloÁ a Bertolucci l'idea per il film. Il regalo che ha reso possibile l'esordio di Bernardo si presta anche a una lettura simbolica relativa appunto al significato del dono (cfr. il Saggio sul dono di Marcel Mauss 3). L'atto del donare spesso coincide con un momento iniziatico di cui rappresenta la celebrazione. La cosa ricevuta in dono non eÁ un elemento inerte, ma conserva lo spirito del donatore: regalare qualcosa significa, infatti, donare qualcosa di se stessi. Nella fattispecie, a maggior ragione, il dono di Pasolini eÁ dono di se stesso (considerando soprattutto l'alto grado di indentificazione da parte di Pasolini con il proprio lavoro inteso come esperienza totalizzante), e ha un valore iniziatico-propiziatorio perche apre la strada della carriera cinematografica a Bertolucci. Ancora, l'atto del donare innesca un meccanismo a cui eÁ difficile sottrarsi: ricevere un dono obbliga il ricevente ad accettarlo e a ricambiarlo. Ma ricambiare il dono significa accettare una sfida simbolica e il ricevente deve dimostrare di non essere inferiore al donatore. In un certo senso, il regalo, da parte di Pasolini a Bertolucci, era a sua volta un modo di `ricambiare un dono' per interposta persona. Infatti, Attilio Bertolucci, nel 1960, essendo giaÁ un poeta affermato a differenza di Pasolini, lo aveva aiutato a pubblicare Ragazzi di vita presso l'editore Garzanti. Appena uscito, Commare venne liquidato dalla critica molto superficialmente; si parloÁ di «pasolinismo senza Pasolini». EÁ ovvio che la collaborazione di Bertolucci ad Accattone e il soggetto di Commare sono sembrati sufficienti 3

MARCEL MAUSS, Teoria generale della magia, Torino, Einaudi, 1991, pp. 153-292.

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Pier Paolo Pasolini e La commare secca

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per motivare un giudizio cosõ scontato, e vero solo in parte poiche l'andamento lirico e le intuizioni narrative presenti nel film sono giaÁ molto lontane dal primo Pasolini e rappresentano una sorta di anticipazione dei film successivi di Bertolucci. Semmai, della Commare secca si puoÁ parlare come di un film paradossale perche eÁ pasoliniano nel soggetto, e quando cerca di allontanarsi da Pasolini attraverso lo stile, diventa pasoliniano nel desiderio di sovversione. Di differenze e somiglianze tra il primo esperimento cinematografico di Bertolucci e il Pasolini, regista e romanziere, ce ne sono molte, oltre al fatto che Accattone, contrariamente a Commare, ottenne un grande successo, anche di pubblico. Bertolucci, nella sceneggiatura, ha operato una serie di scarti rispetto al testo di partenza, di cui, peraltro, ha conservato lo spirito: quello di un mondo fermo, immobile e chiuso a contatti esterni, di un'esistenza che si dispiega al livello della necessitaÁ e dell'istinto. Perche fermo nel tempo e oggettivato, Bertolucci rappresenta questo mondo da una prospettiva ad esso esterna, quasi volesse distanziarsi dalle provocazioni pasoliniane. Tra le differenze bisogna notare che la vittima dell'assassinio nel racconto di Pasolini eÁ un omosessuale, nel film di Bertolucci eÁ una prostituta e il colpevole, non a caso, nella sua versione, diventa un friulano che vive a Roma. Inoltre, mentre il racconto di Pasolini procede secondo un ordine logico-cronologico lineare, che rappresenta la fede pasoliniana nella razionalitaÁ del reale, Bertolucci isola momenti del testo di partenza per poi riunirli quasi sovrapponendo l'uno all'altro. Il film di Bertolucci, infatti, all'inizio ripropone singolarmente ogni episodio del soggetto pasoliniano giustapponendo le varie scene tra loro, fino all'agnizione finale quando tutti i pezzi che compongono il testo filmico concorrono a dare una immagine unitaria del racconto e a fornire allo spettatore gli elementi utili a capire lo svolgimento dei fatti. Il testo del film eÁ, per cosõ dire, fermo per piu di metaÁ: infatti, gli episodi che lo compongono, descrivendo la realtaÁ dai diversi punti di vista dei personaggi, finiscono per diventare un ritratto, mai approfondito, dei personaggi stessi piuttosto che rappresentare un effettivo passo in avanti nella storia. Lo spettatore familiarizza con la tipologia dei frequentatori del parco Paolino, ma non riceve informazioni utili a scoprire chi abbia ucciso brutalmente la prostituta. Come nel Pasticciaccio gaddiano, ogni racconto riporta all'inizio delle indagini quasi ad indicare che, per ricostruire i motivi e l'assassinio della prostituta, eÁ necessario leggere le diverse scene una sull'altra e non una dopo l'altra. SaraÁ solo alla fine che il film comporraÁ questa immagine della realtaÁ davanti ai nostri occhi quando, scoperto l'assassino, la camera ci forniraÁ le immagini, adesso giaÁ sovrapposte e complete, dei fatti. Commare riguarda, dunque, la morte di una prostituta; ed eÁ proprio nel www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo secondo

rapporto istituito con la morte che risiedono una differenza e una somiglianza sostanziale tra il primo film di Bertolucci e una certa poetica pasoliniana. Bertolucci non conferisce alla morte il valore mitico-sacrale ed elegiaco che a essa attribuisce Pasolini. Ma al tempo stesso, il pasolinismo di Bertolucci consiste proprio nell'uso tecnico-narrativo che egli fa della morte della prostituta. Scrive Pasolini in Empirismo eretico: Finche io non saroÁ morto, nessuno potraÁ garantire di conoscermi veramente, cioeÁ di poter dare un senso alla mia azione che, dunque, in quanto momento linguistico, eÁ mal decifrabile. [...] La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita: ossia sceglie i suoi momenti veramente significativi [...] e li mette in successione. [...] Solo grazie alla morte, la nostra vita serve ad esprimerci. Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che eÁ costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti pianisequenza, come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita 4.

EÁ una riflessione di tipo agostiniano: la vita (o l'opera d'arte o un testo poetico, dice Sant'Agostino nelle Confessioni ) eÁ intellegibile solo da un punto di vista retrospettivo; eÁ nella «fine» o nella morte che il senso della vita, o di un testo, emerge. Il rapporto tra montaggio, autobiografia e morte, realtaÁ e sua interpretazione, reso celebre giaÁ nei primi film di Pasolini verraÁ ripreso da molti autori tra cui l'Antonioni di Blow-up (1966). In questo film, il fotografo-demiurgo Tom, cercheraÁ inutilmente di capire la veritaÁ del «reale» attraverso una fotografia che, distorta, rivela l'immagine enigmatica di un corpo morto. Analoga a questa poetica eÁ la funzione della morte della prostituta in Commare perche organizza e dispone gli eventi che costituiscono il film: per un verso, le varie sequenze che immortalano la prostituta nei suoi gesti quotidiani (si sveglia, si prepara il caffeÁ, si mette il rossetto, si aggiusta i capelli e prende l'abito dall'armadio), per l'altro, quelle che si riferiscono ai presunti assassini. Bertolucci diventa pasoliniano in questa visione non trascendentale (e per questo poco pasoliniana, se ci si perdona il gioco di parole), della morte che risulta una brillante metafora del cinema che uccide la realtaÁ fermandola e, come tale, la rende leggibile, le conferisce un significato. Il montaggio diventa sinonimo di morte, esso traduce ovvero conduce oltre: il montaggio conduce il cinema al significato, ferma la storia e la cristallizza in un presente storico. La morte-montaggio seleziona quelli che Pasolini chiama sintagmi viventi e compie dunque una concreta trasposizione del pragma della vita, la realtaÁ, in quanto linguaggio, in una unitaÁ semantica che puoÁ cosõ dotarsi di un proprio senso altrimenti insesprimi4

P.P. PASOLINI, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, p. 235.

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Pier Paolo Pasolini e La commare secca

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bile per le eventuali e continue modificazioni cui andrebbe incontro se non fosse soggetta ad alcuna fine. In altre parole, la morte diventa insieme un'assoluzione dell'esistenza e una sorta di immediata sistemazione di cioÁ che era informe e confuso. Nel suo primo film, Bertolucci riprende alcuni elementi del discorso formale di Accattone soprattutto per quanto riguarda la fotografia che eÁ nitida e disadorna; inoltre, Accattone e Commare condividono un uso controllato ed essenziale delle dissolvenze, e la predilezione per la frontalitaÁ dei campi e controcampi delle figure e delle facce; ma, mentre i vari episodi di Commare sono costruiti con movimenti di macchina che sintatticamente rimandano ad una sorta di grammatica generativa, in Accattone affiorava giaÁ un certo manierismo attraverso un'operazione stilistica per la quale il materiale lessicale viene incanalato nella frase sintattica solo dopo essere stato brutalmente ammassato, e dove la liberazione non eÁ interna ai personaggi ma interna all'opera, una liberazione poetica che percorre tutto il film. Commare eÁ soprattutto il film di un cineasta alla ricerca di una forma. L'abilitaÁ lirico-tecnica di Bertolucci, da vero cine-amatore, eÁ evidente nell'uso eccessivo dei giochi di macchina. Da un lato le riprese lunghe e ininterrotte che conferiscono un tono impressionistico alle immagini delle cose (viene in mente l'idea del cinema come un lungo piano-sequenza della realtaÁ di cui parla Pasolini) e dall'altro il susseguirsi di situazioni talvolta anche banali, da repertorio. Il film che, per certi versi, eÁ snobisticamente ambizioso diventa anche una sorta di palestra di esibizioni e di citazioni: le prime inquadrature di Commare evocano l'Antonioni di L'avventura (1960), La notte (1961) e L'eclisse (1962), e la sua predilezione a mostrare strutture urbane che rimpiccioliscono la figura umana; Bertolucci mette in scena anche alcuni significanti neorealisti seppur riletti in chiave pasoliniana, quali l'impiego di attori non professionisti e la qualificazione del personaggio attraverso l'ambiente (il soldato Cosentino eÁ una riscrittura dei soldati di PaisaÁ). In Commare, peraltro, eÁ evidente anche l'assidua presenza degli insegnamenti d'oltralpe da cui Bertolucci eredita la propensione per film di `situazione' e la ricerca di una via registica improntata, (sulla scia di Rossellini), alla piu libera e intuitiva espressione, tipica anche di Truffaut. La presenza di Pasolini eÁ comunque quella piu ingombrante e, per cosõ dire, eÁ sia interna sia esterna al film: in un caso, perche Pasolini eÁ il primo referente di Bertolucci, nei contenuti e nella tecnica da dissacrare, nell'altro perche favorisce in tutti i modi la realizzazione di Commare. Nell'iniziazione cinematografica di Bernardo, Pasolini si sostituisce ad Attilio, suo grande amico e poeta piu maturo, giaÁ famoso e affermato. EÁ plausibile ritenere che proprio il legame tra Attilio e Pasolini legittimasse www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo secondo

quest'ultimo agli occhi di Bernardo. Inoltre, Pasolini, che mostrava di apprezzare e capire il mondo poetico-ideologico di Attilio, poteva altresõÂ rappresentare per il giovane Bernardo un modo di interpretare il mondo del padre. Il primo, intensissimo e imbarazzante, incontro tra Bernardo e Pasolini lo si deve proprio ad Attilio che Pier Paolo era andato a trovare a casa. Bernardo lo racconta cosõÂ: mi ricordo un giorno, (da pochi mesi eravamo a Roma), una domenica pomeriggio proprio nell'ora in cui i miei genitori facevano la siesta, suonoÁ il campanello ed andai ad aprire. C'era un giovane con un ciuffo bruno, un vestito blu dalla festa, che mi dice che si chiama Pasolini e che vuole parlare con mio padre. Io ho sentito qualcosa di molto intenso immediatamente in quest'uomo [...] allora invece di farlo entrare mentre andavo a chiamare mio padre, lo chiusi fuori sul pianerottolo delle scale 5.

Bernardo, che all'epoca aveva 15 anni, scambioÁ Pasolini per un ladro e solo dopo che suo padre, rassicurandolo, gli disse che aveva appena sbattuto la porta in faccia ad un grande poeta, si decise a farlo entrare. E nonostante questo primo incontro, nacque un saldo rapporto di amicizia tra loro, inizialmente caratterizzato dallo scambio di cortesie poetiche e successivamente dalla collaborazione cinematografica. Questo incontro, che Bertolucci ricorda cosõ lucidamente per la grande impressione che gli ha fatto, in un qualche modo, risulta anche sintomatico di come si svilupperaÁ il rapporto tra i due registi perche Bertolucci, nella sua carriera, continueraÁ a sentire qualcosa di molto intenso in Pasolini e cercheraÁ a lungo di `chiudergli la porta in faccia'. Pasolini e Bertolucci si sono scambiati (un altro dono): delle poesie; Pasolini ne aveva giaÁ dedicata una ad Attilio intitolata A Bertolucci e contenuta in La religione del mio tempo 6. Pasolini dedicoÁ a Bertolucci A un ragazzo, un componimento che avraÁ incidenze sull'universo metaforico di Bernardo. Articolato attraverso una serie di distici di ispirazione pascoliana (e.g., L'aquilone), il poemetto evoca l'apprendistato di Bernardo, la sua muta interrogazione dei padri, il suo «voler sapere» la storia recente italiana. Ma a Bernardo si sovrappone la memoria di Guido, il fratello di Pasolini ucciso durante la Resistenza. Se da una parte Pasolini investe Bernardo del ruolo di fratello, che rimpiazza quello perduto, dall'altra parte egli ripropone l'enigma della morte, lo stesso enigma della morte di Guido, vittima del fascismo o dell'antifascismo. Sul piano puramente testuale, Pasolini evoca, con tono nostalgico, le immagini di vita di campagna tipiche dell'universo poetico di Attilio Bertolucci. In una chiosa 5 6

Bertolucci a GIOVANNA GRIGNAFFINI, Un ladro alla porta, «Cinema & Cinema», 43, 1985, p. 11. P.P. PASOLINI, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1995, pp. 61-67.

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Pier Paolo Pasolini e La commare secca

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esplicativa al componimento, Pasolini scrive: «Il ragazzo eÁ Bernardo Bertolucci, figlio di Attilio Bertolucci, e ora bravissimo poeta lui stesso». Bertolucci, invece, scrisse per Pasolini un componimento contenuto nella sezione «A mio padre» di In cerca del mistero. A PASOLINI Vicino a te, timida come una sposa era la mia emozione unica spia dell'umiltaÁ provinciale che riposa in me, che scopro fragile poesia. Per questo ho potuto vedere nei tuoi giovinetti il tesoro del sesso salvarsi: e cadere, traditi, per una colpa non loro, proprio quei giovinetti in cui l'asprezza dei sensi m'era parsa una salvezza. Ma se poi ti allontani e nei tuoi versi la disperazione eÁ furia, la speranza polvere, non vedo per i tuoi giovinetti diversi stracci, dagli antichi, in cui vivere, se tu non sei come me, come noi, comunista nell'anima, sulla pelle, se non ci aiuti tu che puoi e vuoi farlo. Usa la tua ribelle passione per i giovinetti traditi se non per noi poveri borghesi pentiti.

La lirica ha i toni del componimento d'occasione e mima il lessico pasoliniano. L'autore riprende alcuni contenuti della poesia che Pasolini gli aveva dedicato rivolgendosi a lui con un tono tra il paterno e il paternalistico, tipico di chi conosce il mondo e, di conseguenza, non nutre speranze. La risposta di Bertolucci eÁ tutta giocata tra il senso di rispetto e di subordinazione verso Pasolini soprattutto nei primi dieci versi che quasi citano A un ragazzo e con esso dialogano: «Col sorriso confuso di chi la timidezza / e l'acerbitaÁ sopporta con allegrezza» (Pasolini), «Vicino a te, timida come una sposa» (Bertolucci). «I ragazzi» pasoliniani qui diventano «giovinetti.» Questi primi versi forniscono, chiara, l'immagine di un Bertolucci sedotto intellettualmente da Pasolini. La poesia assume anche i toni del componimento intimo e personale soprattutto quando Bernardo paragona la propria emozione e timidezza a quella di una sposa e continua parlando di se al femminile (si noti, a questo proposito, anche l'uso di parole quali `timida', `fragile', `umiltaÁ' che normalmente non pertengono all'universo maschile). Inoltre, l'emozione www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo secondo

e l'imbarazzo, di cui parla Bertolucci nella prima quartina, sembrano essere gli stessi che egli ha sperimentato nel corso del primo incontro con Pasolini quando, secondo le sue parole, ha sentito «qualcosa di molto intenso» in quell'uomo. Nonostante l'attacco, Bertolucci chiarisce subito di non essere disposto ad abbracciare totalmente l'ideologia di Pasolini come si capisce dal tono indeciso di «m'era parsa una salvezza». Questa titubanza, peraltro, diventa presto un deciso distacco da un Pasolini che, a sua volta, si allontana in un mondo di disperati al quale Bertolucci non vuole dedicarsi completamente. Dunque, la comprensione di Pasolini, la stessa che egli ha per i proletari, si rende necessaria anche nei confronti di quei «borghesi pentiti», poicheÂ, se per il friulano «l'asprezza dei sensi» eÁ sempre una salvezza, Bertolucci non ha queste illusioni e la sua rimane una sorta di rottura/non-rottura dal mondo borghese (Partner eÁ il suo film piu sessantottesco), giocata tra lo scetticismo e il buon senso che tradisce la mancanza di disponibilitaÁ a tagliare completamente i ponti con la tradizione (proprio come accade a Fabrizio nel film successivo a Commare). CosõÂ, mentre Pasolini era pronto a bruciare tutto per il suo mondo utopico (tale poiche altamente soggettivo, privato, violento e sacrale), Bertolucci filtra quel mondo attraverso la cultura e la formazione pur rimanendone condizionato, idealmente, in quel «sogno di una cosa» pasoliniano che saraÁ alla base della tessitura sia di Novecento sia di Tragedia di un uomo ridicolo. Bertolucci, come dichiara nel suo componimento, rimane a metaÁ strada, non riesce ad essere altro se non ``un borghese pentito''. Questa dialettica rimarraÁ irrisolta nel suo cinema che, anzi, saraÁ tutto incentrato sulla ossessiva riscrittura e la costante interrogazione dei due mondi a cui Bertolucci sente conflittualmente di appartenere. Anche la seconda parte del componimento, che teorizza un certo distacco da Pasolini, di fatto, peroÁ, eÁ una risposta prevedibile ad A un ragazzo, dove l'autore apprezzava la voglia di «sapere» e la non-contaminazione dei pensieri del giovane Bertolucci investendosi del ruolo di fratello maggiore-padre, assolvendo all'impegno di dare spiegazioni e risposte impossibili, e iniziando il giovane Bertolucci a un mondo destinato a rivelarsi deludente. E se la curiositaÁ e l'affinitaÁ di certi interessi avvicinano Bertolucci a Pasolini, le esperienze e le due vite diverse non possono che deporre a favore di una notevole distanza tra i due: in Bertolucci «aleggia la vita», ma nel suo «coetaneo sottoproletario», come nel mondo pasoliniano, trionfa la morte. EÁ la stessa morte che affiora nel distico finale di A un ragazzo dove, con un monito che che ha il sapore di un presagio nefasto, Pasolini rende manifesta l'impossibilitaÁ da parte di Bertolucci di avere una risposta alle sue domande e, cosõ facendo, ne teorizza la distanza da seÂ, poicheÂ, per sapere, Bertolucci dovrebbe vivere la morte di un mondo www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Pier Paolo Pasolini e La commare secca

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che non gli appartiene. EÁ una morte come fine sacrale di una vita violenta, e unica soluzione predeterminata che offra una via d'uscita dal mondo (cfr. Accattone e Mamma Roma, 1962). Lo scambio di cortesie poetiche assume particolare significato se si nota che Bernardo e Pasolini si conobbero, innanzi tutto, come poeti e che Pasolini sostituõ Attilio in qualitaÁ di lettore privilegiato delle poesie del figlio. Entrambi, come eÁ accaduto a molti registi italiani, da poeti e letterati sono diventati cineasti, ma mentre Bertolucci ha abbandonato la parola scritta per il cinema, in Pasolini le due forme espressive sono sempre coesistite (Accattone eÁ contemporaneo a La religione del mio tempo, mentre Il Vangelo secondo Matteo, 1964, eÁ coevo a Poesia in forma di rosa) 7. Nella macchina da presa Pasolini diceva di vedere un naturale strumento per la prosecuzione del discorso fino ad allora svolto con la parola (nella convinzione che il letterato potesse fare romanzi con la camera); inoltre, per la grande vicinanza tra le tematiche e i motivi ricorrenti che avevano ispirato i suoi libri e quelli dei film (la fame, l'iniziazione all'amore, gli incontri con le prostitute, gli omosessuali, il bagno nel Tevere, le passeggiate lungo itinerari geografici ben definiti), egli arrivoÁ al cinema, in un certo senso, privo di titubanze e giaÁ esperto. L'incontro pasoliniano (non proprio imprevedibile) con la tecnica diventoÁ, immediatamente, lingua e idea del mondo maturata figurativamente e finalmente esplosa nella sua rappresentazione. Il cinema, pensava Pasolini, eÁ la lingua della modernitaÁ che egli peroÁ intendeva come manifestazione dell'effimero: la modernitaÁ aveva ben poco a che vedere con gli imperituri classici. Pasolini ha ribadito piu di una volta la continuitaÁ tra i due momenti della sua carriera artistica definendo l'esperienza cinematografica e quella letteraria come «forme analoghe»; ma se nella sua narrativa eÁ possibile avvertire la presenza dell'autore come esigenza di sinceritaÁ e rivelazione del gioco narrativo, nella sintesi delle immagini del suo cinema Pasolini acquistoÁ una sorta di razionalitaÁ concreta del visibile e la perfetta presenza soggettiva nella oggettivitaÁ del personaggio. Mentre Pasolini affermava di voler utilizzare la macchina da presa come una macchina da scrivere, Bertolucci sosteneva che, girando Accattone con Pier Paolo, aveva la sensazione che Pasolini stesse scoprendo, o inventando, proprio in quel momento il linguaggio cinematografico: 7 «In realtaÁ non c'eÁ mai stato un passaggio [dalla letteratura al cinema], ho sempre pensato di fare del cinema. Prima della guerra pensavo che sarei venuto a Roma a fare il Centro Sperimentale, se avessi potuto. Questa idea di fare del cinema, vecchissima, poi si eÁ arenata, si eÁ sperduta. Infine ho avuto l'occasione di fare un film e l'ho fatto. Se prendete, ad esempio, alcune pagine di Ragazzi di vita, vi rendete conto che sono giaÁ visive. CioeÁ nella mia letteratura esiste una forte dose di elementi cinematografici. Avvicinarsi al cinema eÁ stato quindi avvicinarsi a una tecnica nuova che giaÁ da tempo avevo elaborato». P.P. PASOLINI, Una visione del mondo epico-religiosa, «Bianco e Nero», 6, 1964, p. 25.

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Capitolo secondo

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Quando Pasolini metteva su un binario antidiluviano e faceva una carrellata, io avevo la sensazione che fosse la prima carrellata della storia del cinema, vedendola poi in proiezione 8.

Pochi anni piu tardi, Bertolucci affermava: Io cercai di entrare, con un procedimento mimetico, nel mondo di Pasolini scrittore e cineasta, cosõ come lo avevo conosciuto sul set di Accattone dove avevo lavorato come assistente. [...] L'esperimento riuscõÁ e alla fine la sceneggiatura de La commare secca risultoÁ un buon esempio di manierismo, nel senso di «aÁ la manieÁre de». [...] Nel momento in cui Cervi mi ha chiesto di fare la regia mi sono reso conto che la direzione che dovevo prendere, se volevo fare un film mio, andava contro il lavoro di mimesi svolto nello scrivere la sceneggiatura. [...] Stavo per fare il mio primo film e dovevo proteggerlo dalle cose che amavo ma che non mi appartenevano 9.

La tensione mimetica e il suo contrario sono la stessa cosa, seppur invertita di senso: imitare o prendere le distanze da qualcuno non eÁ altro che ribadirne la grande ingerenza nel proprio mondo. E, se per un verso eÁ vero che Bertolucci non ha mai sposato completamente l'ideologia politica e cinematografica di Pasolini, per l'altro non l'ha nemmeno completamente rinnegata. La pretesa anti-mimetica, inoltre, non descrive solamente l'apprendistato di Bernardo ma anche l'elaborazione di una poetica che riscoprisse il rapporto tra cinema e realtaÁ. Il Bertolucci post-realista rimarraÁ a lungo un pasoliniano del cinema-veritaÁ: a parte il terzo episodio di Commare, anche Strategia eÁ, in un certo senso, lo dice Bertolucci stesso, una sorta di cinema-veritaÁ della memoria; analogamente, in La via del petrolio, il documentario che Bertolucci ha girato per la televisione, si assiste al passaggio da una dimensione narrativa da cinema-veritaÁ (nella prima parte) ad un'altra, marcatamente pasoliniana, dove il mondo viene visto attraverso la soggettivitaÁ del personaggio 10. Va da se che le corrispondenze (e le dissonanze) piu eclatanti tra il mondo pasoliniano e quello di Bertolucci sono facilmente identificabili in Commare. In fondo, Bertolucci e Pasolini hanno esordito al cinema insieme (se si eccettuano le sporadiche collaborazioni di quest'ultimo come sceneggiatore ad alcuni film di Bolognini e il contributo a Le notti di Cabiria, 1956 di Fellini). Bertolucci sembra aver mutuato dall'universo pasoliniano l'estetica del cinema soggettivo, personale nella visione e nella rappresentazione del mondo, ma al tempo stesso, un cinema dal taglio 8

In viaggio con Bernardo, a cura di Roberto Campari, Parma, Pratiche, 1994, p. 26. E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 29. 10 Mette conto sottolineare l'assonanza tra il titolo del documentario di Bertolucci e il lavoro di Pasolini (uscito postumo) che si chiameraÁ Petrolio. 9

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Pier Paolo Pasolini e La commare secca

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oggettivo, storicistico, capace di dare una immagine universalizzata della realtaÁ. Anche il marxismo e il freudismo di Bertolucci vengono da Pasolini che peroÁ li avrebbe presto radicalizzati trasformandoli in ideologia e mito; Bertolucci, al contrario, eÁ sempre rimasto legato a queste forme prefabbricate di interpretazione della realtaÁ e ad una interpretazione piu ortodossa di entrambe. Nella primavera del '67, Bertolucci in una lettera a «Cinema & Film» scriveva: L'idea che voi facciate del cinema attraverso la vostra rivista, non mi eÁ venuta leggendo quello che dice Pasolini e cioeÁ che la realtaÁ eÁ un cinema in natura, un lungo infinito piano sequenza, per esempio in questo momento c'eÁ una invisibile macchina da presa che sta registrando me che parlo e voi che ascoltate: casomai la straordinaria affascinante scoperta di Pasolini eÁ una conferma a quello che dico. Ma per me eÁ molto piu semplice: voi fate del cinema facendo della critica, come Godard fa della critica facendo del cinema 11.

EÁ rintracciabile nella lettera la figurazione di un'idea di cinema che coniuga Pasolini e Godard. Bertolucci sembra voler combinare il cinema realista e quello autoriflessivo. Di fatto, il suo cinema resteraÁ a metaÁ strada tra realismo e metacinema e a metaÁ strada tra l'avanguardia pasoliniana e quella godardiana. Bertolucci continueraÁ la lettera fino a farla diventare una sorta di pasoliniana sceneggiatura della realtaÁ dove un Pasolini-Socrate, che avrebbe rubato questo ruolo a Rossellini, parla a un gruppo di giovani all'EUR e spiega loro le sue idee sul cinema come lingua scritta della realtaÁ; Bertolucci, a questo punto della lettera, si chiede: Quale saraÁ la sequenza successiva? Dove andremo? Nel cinema, dice Barthes, succede sempre qualcosa, c'eÁ sempre un seguito, una storia... Ma filmare eÁ vivere, e vivere eÁ filmare. EÁ semplice, nello spazio di un secondo guardare un oggetto, un volto, e riuscire a vederlo ventiquattro volte. Il trucco eÁ tutto qui 12.

Tutto il mondo eÁ cinema, dunque. Bertolucci, analogamente a Pasolini, pur entro i limiti imposti dallo schermo, si muoveraÁ verso un cinema che intende affermarsi come strumento di dominio linguistico sul reale. 11 BERNARDO BERTOLUCCI, Lettera, «Cinema & film», 1967, 2, p. 254. La lettera eÁ indirizzata ai redattori, Gianfranco Albano, Piero Anchisi, Adriano ApraÁ, Luigi Faccini, Luigi Martelli, Maurizio Ponzi, Claudio Rispoli, Stefano Roncoroni. Bertolucci condivide la posizione critico-teorica della rivista. Tale posizione, che si inserisce nel dibattito cinematografico di quegli anni e che eÁ stata chiarita nell'editoriale del primo numero (cfr. «Cinema & film», 1966-67, 1, p. 3), riguarda la necessitaÁ di svolgere una ricerca che porti a una collocazione storica del cinema nel campo complessivo della cultura. Il titolo stesso della rivista eÁ giaÁ una dichiarazione precisa in questo senso perche risulta tutta a favore di una linea specialistica e tecnicistica che, secondo ApraÁ e i suoi, dovrebbe garantire al cinema il ritrovamento della sua identitaÁ artistica nel panorama culturale complessivo. 12 Ibidem.

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Capitolo secondo

Infatti, di fronte alla fittizia armonia di una cinematografia che voleva sostituirsi alla realtaÁ (il sogno americano), tutti e due sentivano il bisogno di qualcosa che permettesse di arrivare ad un vero cinema di contestazione, nel quale attuare un preciso programma di presa di coscienza del linguaggio. In entrambi la critica della realtaÁ avverraÁ, con metodi e risultati diversi, attraverso la critica del linguaggio e la conseguente messa in crisi dell'una e dell'altro. In questo senso, la loro filmografia si inserisce a pieno in quel cinema autre che eÁ il cinema «senza dominio» indicato da Godard. EÁ il cinema che contesta il «cineÂma de papa» come lo aveva definito Truffaut. La loro saraÁ una filmografia che infrange il meccanismo narrativo tradizionale e il principio dominante della storia come concatenazione logico-cronologica degli eventi; quel cinema che muta, rispetto al passato, il valore della figurativitaÁ dell'immagine, il codice iconografico che l'aveva regolata e il tipo di rapporto schermo-spettatore al quale essa era stata subordinata; un cinema che si muove verso un discorso impostato secondo i canoni espressivi del reÂcit libero che impongono la fondazione di una nuova gnoseologia cinematografica e l'attribuzione di nuovi significati agli elementi costitutivi del discorso filmico. Nel cinema di Pasolini, la scelta linguistico-formale eÁ legata a una scelta ideologica e nasce da una accentuata coscienza tecnico-stilistica sviluppata in funzione di una visione formalistica del mondo (non a caso, egli abbandoneraÁ il romanzo in favore di un cinema globale, suffragato dalla sintagmatica del film narrativo, che, meglio della parola scritta, puoÁ identificarsi con la vita, ovvero «la lingua scritta dell'azione», attraverso lo strumento privilegiato, il piano-sequenza). La filmografia di Bertolucci non eÁ fondata sulla stessa determinazione ideologica: il regista si muove piu nell'ambito di una concezione che mira a sproblematizzare la sintassi dei film di Pasolini. Mentre i film di Pasolini sono segnati da una iterazione monocorde e ossessiva tesa ad indicare l'impossibilitaÁ di salvezza e il suo personale viaggio verso la morte della creativitaÁ, Bertolucci, si sposta verso le soluzioni formali del cinema classico americano ma non prima di aver completato la sua incursione nel mondo di tutti i suoi «padri».

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CAPITOLO TERZO

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PRIMA DELLA RIVOLUZIONE E L'AUTORE

Facendo La commare secca avevo cercato di apppropriarmi di Roma strappandola a Pasolini e al suo sguardo. Con Prima della rivoluzione ho cercato di sottrarre Parma a mio padre. EÁ stata la ripetizione di un regicidio 1.

Prima della rivoluzione (1964) eÁ il secondo film di Bertolucci. Dopo l'incursione romana di Commare, questo lavoro sancisce il ritorno del regista a Parma e la celebrazione della cittaÁ che per prima ha rappresentato il cinema. Prima della rivoluzione eÁ anche un ritorno ad Attilio, a cui Bernardo sottrae la propria cittaÁ attraverso Stendhal, il poeta della caducitaÁ dell'immagine. Se Commare era stato erroneamente considerato al meglio un film elegante ma freddo, la critica eÁ concorde nell'attribuire a Prima della rivoluzione il valore di opera prima, corredata com'eÁ dalla necessaria dimensione autobiografica, da una certa ambizione stilistica e dall'irruenza di un regista giaÁ in controllo del mezzo tecnico. Il film, ambientato a Parma tra la primavera e l'autunno del 1962, si apre con una sequenza che riprende la corsa di Fabrizio, il protagonista, mentre sta entrando in chiesa, e recita ad alta voce alcuni versi della Religione del mio tempo che parlano di una fede cristiana e borghese 2. Dopo la citazione pasoliniana, il film procede con il racconto dell'educazione sentimentale e la crisi ideologica di Fabrizio, un giovane borghese che si ribella all'ambiente a cui appartiene, attraverso l'impegno politico (desidererebbe iscriversi al PCI), e tenta un rinnovamento della identitaÁ personale (lascia Clelia, la ricca fidanzata dalla bellezza marmorea che la sua famiglia aveva scelto per lui). Il dramma di Fabrizio, che eÁ lo stesso condiviso dal giovane Bertolucci (e descritto nella poesia dedicata a Pasolini), nasce dall'indecisione: per certi versi, sente la necessitaÁ di ribellarsi all'ideologia borghese senza peroÁ riuscire mai a distaccarsene del tutto. Attorno a lui ci sono tre figure importanti: Agostino, un amico che annega all'inizio del film anche se la sua presenza rimane forte nel corso di tutta la vicenda; Cesare, un maestro comunista, e Gina, la giovane sorella della madre di Fabrizio che, malata di nervi, da Milano eÁ 1

E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 35. P.P. PASOLINI, La religione del mio tempo, cit., p. 80: «EÁ borghese / Questa fede cristiana, nel segno / Di ogni privilegio». 2

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Capitolo terzo

venuta a Parma a curarsi. Tra Fabrizio e Gina nasce un breve e intenso rapporto d'amore che corrisponde all'inizio dell'affrancamento (attuato attraverso un tentativo di trasgressione radicale) del giovane dal suo ambiente borghese. La contestazione di Fabrizio, peroÁ, si riveleraÁ solo una parentesi, «una breve vacanza», che suggerisce l'idea di un interludio festoso e provvisorio prima di un rientro nella norma, una sospensione di ogni ordine, e la corrispondente discesa nel vuoto di se stessi. Per Bertolucci «vacanza» eÁ anche lo spazio illusorio in cui si pensa di aver trovato la risposta ad ogni possibile domanda. Fabrizio lasceraÁ che Gina ritorni a Milano e confesseraÁ a Cesare di non riuscire a staccarsi completamente dal mondo borghese: «Per me ± dice ± l'ideologia eÁ stata una vacanza; speravo di vivere gli anni della rivoluzione e invece vivevo prima della rivoluzione, poiche si eÁ sempre prima della rivoluzione quando si eÁ come me». Il successivo matrimonio con Clelia sancisce la sconfitta di Fabrizio e la concomitante rinuncia a qualsiasi velleitaÁ rivoluzionaria. L'ascendente stendhaliano del racconto eÁ fin troppo trasparente. Si dovrebbe, innanzi tutto, sottolineare che proprio nel 1958 Tomasi di Lampedusa aveva proposto una sua lettura della Certosa di Parma in filigrana al Gattopardo, che Visconti avrebbe trasferito sullo schermo nel 1963. Bertolucci, peroÁ, si identifica con Fabrizio piu direttamente. Egli eÁ un personaggio chiaramente autobiografico: eÁ un borghese, cinefilo e simpatizzante comunista, che vive l'ambiguitaÁ, l'incertezza e l'impossibilitaÁ per un borghese appunto di essere marxista. Del romanzo, nel film, rimangono anche i nomi di alcuni dei protagonisti, Fabrizio, Gina e Clelia. Ad accomunarli eÁ l'impulso all'agonia, la volontaÁ di compiere atti eroici (ed erotici) in una storia rivoluzionaria. Film e romanzo condividono anche la messa in scena del disorientamento di una classe sociale: ma mentre la borghesia nel romanzo soffre e risente ancora della mancanza di identitaÁ nazionale, la stessa classe, nell'Italia da tempo unificata del film, viene presentata con caratteri volti ad esaltarne i difetti e le contraddizioni. Prima della rivoluzione, presentato nel 1964 a Cannes nel corso della «Settimana della critica», vinse il premio «Jeune critique» e quello dell'«Associazione internazionale della gioventu». Eppure, i cronisti italiani a Cannes non ne parlarono bene o non ne parlarono affatto. Un'accoglienza altrettanto fredda venne riservata, sia dalla critica sia dal pubblico, alla prima italiana del film. I critici italiani intrattenevano ancora un legame molto stretto con il neorealismo e mostrarono poca dimestichezza, nonche scarso interesse, nei confronti di un'opera che, pur nel retaggio neorealista, era giaÁ proiettata verso le avanguardie francesi; i loro colleghi d'oltralpe, invece, avevano capito che il film interpretava e rappresentava certi ideali francesi (che sarebbero diventati quelli sessantottini) attraverso le citazioni (miste alle ossessioni perwww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Prima della rivoluzione e l'autore

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sonali del regista) dei dibattiti piu vasti attorno al cinema. Al ventritreenne Bertolucci i «Cahiers du cineÂma» dedicarono diversi articoli oltre ad un prestigioso Entretien. Se ai tempi di Cabiria (1914) parlare dell'autore del film significava riferirsi a D'Annunzio (che aveva parzialmente contribuito alla stesura delle didascalie) e non al regista-produttore Giovanni Pastrone, negli anni Sessanta anche in Italia (con un certo ritardo rispetto alla Francia) il regista del film doveva essere soprattutto un autore. Dopo Astruc e la cameÂra stylo, dopo la politique des auteurs, essere regista-autore del film significava esprimere una personalitaÁ d'artista, una propria poetica e una personale visione del mondo. La grammatica filmica, la scelta degli attori e le tematiche dovevano rappresentare scelte estetiche e formali a lungo termine che il primo film serviva ad enunciare e a chiarire. Il cinema, non piu semplice spettacolo, diventava scrittura e il primo film si costituiva a dichiarazione di poetica. Poiche la regia non era piu solo messa in scena ma piuttosto scrittura, l'autore doveva dunque manifestare la propria personalitaÁ artistica giaÁ nella prima opera. Dal primo film doveva emergere un programma, una visione e uno stile che fossero il piu lontani possibile dalle leggi di mercato. Bertolucci, con Prima della rivoluzione, inizia il suo personale percorso formale e contenutistico che lo accompagneraÁ in molti dei suoi film successivi; comincia a delineare il suo discorso critico e provocatorio sulla realtaÁ contemporanea, esprime le sue idee politiche e poetiche, mostra un notevole distacco dagli schemi interpretativi tradizionali elaborati da una cultura superata. Prima della rivoluzione eÁ l'opera che chiarisce l'intertesto autoriale di Bertolucci, nei contenuti e nello stile; inscena la sua volontaÁ di essere «autre» (non solo auteur) e, una volta assimilata l'autoritaÁ dei padri, il conseguente desiderio di diventare egli stesso il logos del proprio discorso. Tecnicamente, il film eÁ costruito attraverso il susseguirsi di blocchi narrativi precisati da didascalie che hanno anche la funzione di integrare il racconto. Ci sono infatti alcuni cartelli che, mentre situano cronologicamente gli avvenimenti, sottolineano anche lo stacco netto tra i vari episodi ed insieme, secondo Casetti, rinviano ad un ordine complessivo superiore, ma di non facile comprensione. Bertolucci mostra chiaramente una predilezione per tagli frequenti e inaspettati, per un uso volutamente sbagliato delle dissolvenze e per una grammatica filmica modernista che interferisce costantemente con l'aspirazione dello spettatore di godersi il film attraverso una volontaria sospensione dell'incredulitaÁ. Ad esempio, ``sbagliato'' eÁ il montaggio della conversazione tra Cesare e Fabrizio durante l'allestimento della Festa dell'UnitaÁ al Parco Ducale di Parma. In un dialogo girato nello stile classico, ovvero girato in maniera canonica, la posizione dei due personaggi coinvolti deve restare inalterata agli ocwww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo terzo

chi degli spettatori e questo indipendentemente dal punto di vista della telecamera. Questo non avviene nel montaggio del dialogo tra Cesare e Fabrizio e crea uno spiazzamento nello spettatore oltre a sottolineare l'inizio della rottura del rapporto tra i due. In quanto a scelte stilistiche, Prima della rivoluzione, contiene giaÁ anche numerosi riferimenti espliciti a Godard. Un esempio per tutti: mentre cominciamo a sentire le note di Ricordati (Gino Paoli), la macchina da presa ci mostra la metaÁ di un cartellone cinematografico su cui leggiamo «La donna...». A questa scena fa seguito un taglio e una panoramica su Fabrizio, poi altro taglio e inquadratura sul secondo pezzo del cartellone che recita «...eÁ donna» 3. Bertolucci, in questa sequenza, cita il titolo di un film di Godard (del 1961) ma, altrettanto chiaramente, cita lo stile godardiano, visto che la sequenza viene ingiustificatamente divisa in due tronconi discontinui e temporalmente ambigui. Il film eÁ costruito con uno stile ellittico, le immagini sono pittoresche, tutto il testo eÁ percorso da momenti che ricordano il cinema del primo Godard e del primo Truffaut. Bertolucci vuole spiazzare lo spettatore e distanziarlo dalle vicende del film che sono articolate in modo complesso e inusitato. Sono giaÁ ampie le concessioni all'idea del film come testo autoriflessivo. Il montaggio eÁ anti-mimetico, a tratti sembra volutamente sbagliato, eÁ godardiano. Se il montaggio eÁ trasgressivo e sincopato, analogamente sovversive sono le singole sequenze che sono scansionate e contrapposte come blocchi decisamente autonomi. La sequenze che registrano le cadute di Agostino dalla bicicletta sono rese attraverso punti di vista della macchina da presa coincidenti e sono caratterizzate da attacchi spiazzanti, quando ripetitivi, quando resi per mezzo di un cambiamento di piani senza che a cambiare fosse anche l'angolatura. Ugualmente trasgressiva eÁ la sequenza finale, quella dopo la celebrazione del matrimonio borghese di Fabrizio. Nelle scene all'uscita dalla chiesa, Bertolucci istituisce un gioco di rimando tra il commento sonoro e l'alternanza delle inquadrature 4. Opera prima di Bertolucci, Prima della rivoluzione eÁ anche il vero esordio al cinema di Roberto Perpignani che pure aveva giaÁ lavorato per un anno come montatore cinematografico con Orson Welles. Perpignani avrebbe successivamente collaborato con gli altri registi della nouvelle vague italiana, da Bellocchio, ai Taviani, a Orsini, a Samperi. Commentando le scel3 Il film di Godard narra le vicende sentimentali di una donna che vorrebbe avere un figlio dall'uomo con cui vive. Lui invece si rifiuta perche non vuole sposarla e la consiglia, quasi per gioco, di farsi mettere incinta da un posteggiatore d'auto innamorato di lei. La donna esasperata, lo prende sul serio, mette in atto il tutto e, nel finale commovente, glielo confessa. 4 MARCO ZAMBELLI, Il montaggio cinematografico: Roberto Perpignani, «Cineforum», 26, 1986, 1-2, pp. 17-29.

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Prima della rivoluzione e l'autore

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te di montaggio di Prima della rivoluzione, Pasolini aveva parlato di «montaggio di poesia». Nei nuclei narrativi, Prima della rivoluzione (dove si parla spesso di cinema: si ricorderaÁ il lungo discorso di Gianni Amico su Godard, su Rossellini e quello su Nicholas Ray, e l'annuncio, alla festa dell'UnitaÁ, della morte di Marilyn Monroe) anticipa le tematiche dei film successivi: la passione politica tanto sbandierata ma mai portata fino in fondo e vissuta in maniera conflittuale; il dramma psicologico della definizione dell'identitaÁ di un giovane mai maturo; l'amore incestuoso e la morte; il motivo del viaggio di Gina che, piu di un viaggio da Milano a Parma, sembra un movimento psicologico; le contraddizioni e le seduzioni della borghesia; il mondo di Verdi e dell'opera. A questo proposito, esemplare e viscontiana, eÁ la sequenza dell'inaugurazione della stagione lirica al Teatro Regio di Parma che eÁ come una cronaca dal vero con brani documentaristici (girati appositamente) e insieme interpretazione, attraverso primi piani di lucida analisi, di una societaÁ fuori del tempo, che vede, compiaciuta, solo se stessa. Tra il pubblico del Regio si nota Wally Toscanini. Il dramma psicologico che affligge Fabrizio eÁ lo stesso che turba, secondo sfumature di intensitaÁ diversa, tutti i personaggi dei film successivi di Bertolucci. E gli stilemi che fanno la loro comparsa in Prima della rivoluzione saranno ripercorsi, approfonditi e riscritti nel corso di un lungo itinerario cinematografico tutto speso all'insegna del dubbio e del conflitto con il paterno mondo borghese. Come tale, Prima della rivoluzione eÁ il piu bertolucciano dei primi tre film di Bertolucci. Intanto, sancisce il distacco ideologico da Pasolini a cui il film rende lo stesso un tributo, poi precisa alcune coordinate stilistiche (quelle della trasgressione programmatica) che resteranno come parte integrante dell'intertesto autoriale di Bernardo per molti film a venire; anche i contenuti (l'amore, la morte, la politica), anticipano nuclei narrativi che il regista non abbandoneraÁ mai; infine, Prima della rivoluzione mette in scena una personalitaÁ d'autore che saraÁ tesa alla ricerca di un mistero mai chiarito. Un autore che mostra talento e genio e la cui raggiunta maturitaÁ saraÁ ancor piu evidente nei film successivi.

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Prima della rivoluzione (1964). Gina (Adriana Asti) e Fabrizio (Francesco Barilli). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

CAPITOLO QUARTO

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JEAN-LUC GODARD E PARTNER

La mia formazione di cineÂphile, esclusivo, fazioso e intollerante, era diventata destino grazie a un film che per me eÁ stato fondamentale: A bout de souffle. A quel tempo Pier Paolo non amava Godard. Avevo visto A bout de souffle a Parigi, e appena il film arrivoÁ in Italia dissi a Pier Paolo di andarlo a vedere. Stavamo girando Accattone e lui, con una scusa o con l'altra, non ci andava mai fino a che, un giorno, si decise e entroÁ in un cinema di periferia, non lontano dai luoghi delle nostre riprese 1.

La maturitaÁ espressiva di Bertolucci non si rivela in Partner, il suo terzo lungometraggio che, presentato al Festival di Venezia nel 1968, venne ricevuto assai male soprattutto dai critici benpensanti. La critica italiana, infatti, trovoÁ il film troppo difficile e, come tale, inadeguato ad un artista comunista (come si autodefiniva Bertolucci) che, in quanto tale, non si poteva permettere il lusso o il piacere di comporre per una eÂlite. EÁ evidente, in queste critiche, il segno della negazione dell'estetica che eÁ il marxismo la cui pretesa eÁ quella di stabilire la prioritaÁ della comunicazione sull'espressione. Farsi capire, per un artista, dovrebbe essere piu importante che esprimersi. EÁ altrettanto chiaro che di Partner non era stato capito o quantomento apprezzato il potenziale assolutamente rivoluzionario. Il film eÁ il risultato di una lunga pausa riflessiva, durata quattro anni, Áe un'opera palesemente teorica e volutamente difficile, attraverso cui l'autore sembra liberarsi definitivamente dall'influenza della generazione cinematografica italiana ``della Resistenza'' per abbracciare completamente le teorizzazioni francesi e, piu specificatamente, godardiane. Partner eÁ soprattutto il film della revisione secondaria ovvero rappresenta un atto razionalizzante che mette in pratica, e in scena, la presa di coscienza da parte di Bertolucci delle teorie avanguardistiche francesi e del mondo di Godard. EÁ l'opera della palese riflessione teorica sul mezzo cinematografico nel tentativo di pervenire ad un chiarimento del rapporto tra il cinema e i suoi alter-ego, nonche quello di Bertolucci con un altro dei suoi padri. Dopo aver reagito con l'azione alla scena primaria (di Attilio e di 1

E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 29.

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Capitolo quarto

Pasolini), Bertolucci teorizza il proprio cinema (insieme al teatro), ovvero la rappresentazione, attraverso Godard che diventa il doppio del regista, una sorta di padre-sosia. Il film, liberamente tratto da Il sosia di Dostoevskij, racconta di Giacobbe (Pierre Clementi), un intellettuale francese che insegna all'Accademia di Arte Drammatica di Roma. Si intuisce immediatamente lo spessore simbolico del nome biblico. Giacobbe eÁ sempre legato a EsauÂ: si tratta dei due fratelli rivali che lotteranno per il diritto di primogenitura finche Giacobbe la usurperaÁ con un piatto di lenticchie. Il tema centrale del film eÁ quello del doppio e della sua percezione. In realtaÁ, ci sono una serie di doppi: quelli speculari (i due Giacobbe), c'eÁ la doppiezza psicologica e politica (che verraÁ ri-tematizzata in Novecento), e quella estetica (parola/testo da un lato e immagine/cinema dall'altro). Il film tratta il tema del doppio in una maniera riconducibile allo stilema classico delle ben note convenzioni letterarie. Partner, infatti, potrebbe essere stato tratto da qualsiasi altro romanzo sul doppio perche il rapporto tra i sosia nel film fa parte di canoni giaÁ noti, di quell'archetipo secondo cui i due personaggi sono le due facce della stessa medaglia: uno rappresenta la passivitaÁ, la paura, l'altro l'azione e la spinta irrazionale. Il Giacobbe di Bertolucci concepisce idealmente la vita e il teatro come un tutt'uno, e lo scopo della sua esistenza eÁ quello di attuare il «teatro della crudeltaÁ», ovvero la rivoluzione. Giacobbe, d'altra parte, eÁ anche una sorta di inetto pirandelliano, un timido, un inibito, un uomo incapace di prendere una qualsiasi decisione e tantomeno di intraprendere un'iniziativa pratica. A questo ci pensa il suo sosia che si insinua progressivamente nella vita piatta del professore, sostituendosi a lui. In sostanza, Giacobbe, spinto dal desiderio schizofrenico di essere diverso (che eÁ il tema del doppio e che corrisponde al desiderio e alla rivalitaÁ mimetica), proietta nel suo doppio, come emanazione del proprio inconscio, le qualitaÁ che vorrebbe possedere lui. Ecco allora che Giacobbe II riesce a sedurre, rapire e uccidere Clara; oppure non esita a insegnare ai propri studenti a costruire una bottiglia Molotov; o ancora, non ci pensa due volte prima di affogare, in un mare di schiuma, una bella venditrice di detersivi e, con lei, il mondo del consumismo. Ma soprattutto, Giacobbe II riesce a dare vita allo happening teatrale nelle strade e, per un momento, ad attuare il grande desiderio di Giacobbe I, ovvero l'unificazione di teatro e vita che eÁ come dire l'eliminazione di ogni dualitaÁ e doppiezza. Lo happening peroÁ falliraÁ. Giacobbe II inizieraÁ a perdere quel grande senso di fiducia in se stesso mentre Giacobbe I ne acquisteraÁ almeno un po'. Alla fine del film, quando i due uomini sono ormai una sola persona, il doppio scavalca il davanzale di una finestra, si allontana lungo il cornicione, si butta nel vuoto dimostrando, ironicamente, che il doppio eÁ la morte, la www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Jean-Luc Godard e Partner

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radicale alteritaÁ di ogni pretesa unitaÁ. Tutto il film, parafrasando Cocteau, non eÁ altro che la messinscena della «morte al lavoro» nel tempo che passa tra immagini che si sovrappongono e che prendono il posto della narrazione. Per Cocteau, la morte al lavoro era metafora dello specchio e del cinema; per Bertolucci diventa la inevitabile lettura di Godard e insieme del proprio cinema. Partner inscena l'impossibilitaÁ per un intellettuale borghese come Giacobbe (e Bertolucci) di compiere un'autentica rivoluzione, riproponendo quindi lo stesso motivo di Prima della rivoluzione. Il testo filmico ruota essenzialmente attorno a due cardini: oltre al rapporto tra il protagonista e il suo sosia, l'altro epicentro del dramma eÁ quello in cui confluiscono diversi universi in un groviglio inestricabile, la vita, la letteratura, il cinema e il teatro. Il rapporto tra cinema e teatro, che viene presentato come uno sdoppiamento, eÁ analogo e complementare a quello tra Bertolucci e il suo sosia in questo film, Godard. Come Giacobbe che eÁ affetto da una malattia da attore (dopotutto, soffre di uno sdoppiamento di personalitaÁ), anche il film eÁ sdoppiato perche sovrappone teatro e cinema, visto che il tema di Partner eÁ il teatro, mentre i suoi modi sono quelli del cinema. Lo statuto cinematografico del film eÁ costantemente reiterato da una serie di metafore (i giochi di specchi), da richiami espliciti (Clara eÁ truccata come le dive degli anni '30), da uno stile che rende volutamente percettibile la grammatica filmica (i lunghi piani sequenza, la grande insistenza sui movimenti di macchina, la sintassi interrotta, la giustapposizione arbitraria di molte sequenze). Ma il protagonista di tutto il film eÁ il teatro e lo spettacolo: Giacobbe eÁ un professore di teatro, la sua vita e la sua professione dipendono dalla rappresentazione teatrale, i suoi ideali, in particolare quello dell'improvvisazione politica, sono gli stessi del Living Theatre (giaÁ noti a Bertolucci che, con il Living, aveva lavorato su Agonia). Ma alla pari di Giacobbe I e II che diventano la stessa persona (mano a mano che il film procede scompaiono le differenze, benche minime, tra i due), cosõ teatro, cinema e vita subiscono una metamorfosi che li intreccia in uno spettacolo unico. L'idea di teatro, cinema e vita viene riassunta nella citazione da Artaud (tratta da Il teatro e il suo doppio) che Giacobbe I legge, ad alta voce, seduto nella propria stanza: Alla visualizzazione grossolana di cioÁ che eÁ, il teatro, grazie alla poesia, contrappone le immagini di cioÁ che non eÁ. D'altronde, considerata in quanto azione, non si puoÁ paragonare una immagine cinematografica che, per quanto poetica sia, eÁ limitata dalla pellicola, a una immagine teatrale che obbedisce a tutte le esigenze della vita 2. 2

ANTONIN ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1968, p. 214.

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Capitolo quarto

Questa affermazione, cosõ anticinematografica, viene smentita, almeno nelle intenzioni, da un film che vuole valorizzare insieme teatro e cinema come dimostra la scena, visivamente complessa, in cui Giacobbe e il suo doppio parlano del valore dello spettacolo teatrale. Mentre loro continuano a ripetere la parola «teatro», l'immagine filmica va in dissolvenza, lo schermo si oscura e un'altra voce (forse quella di Bertolucci), sussurra: «cinema». La cifra stilistica di Partner sta tutta nell'anti-realismo, nel costante tentativo di ricordare che il film eÁ un'illusione; lo reiterano costantemente tutti quei blocchi narrativi contrapposti dove ogni sequenza eÁ una sorta di cellula autonoma opposta a quella che la segue o che la precede. Bertolucci ha filmato Partner con colori primari e molto artificiali (quelli preferiti da Godard), e ha girato il film a schermo panoramico, inquadrando i personaggi in composizioni a 90 gradi (cioeÁ riprendendoli frontalmente per enfatizzare la bidimensionalitaÁ dello schermo cinematografico). Le riprese sono statiche e molto lunghe, come quelle che Godard aveva affinato nel corso dei primi anni Sessanta. Anche la musica di Partner eÁ di stampo godardiano: Ennio Morricone ha tagliato la colonna sonora in frasi brevi e incomplete che fanno da sfondo a quella che Metz chiamerebbe la «giustastruttura» del film. Il rapporto di Bertolucci con Godard e con il teatro diventa in un qualche modo schizofrenico: egli predica contro Godard, mentre in realtaÁ, lo rifaÁ a modo suo. E l'idea di fondo resta la stessa: Noi sopprimiamo la scena e la sala, sostituendole con una sorta di luogo unico, senza divisioni ne barriere di alcun genere, che diventeraÁ il teatro stesso dell'azione. SaraÁ ristabilita una comunicazione diretta tra spettatore e spettacolo, fra spettatore e attore, perche lo spettatore, situato al centro dell'azione saraÁ da essa circondato e in essa coinvolto. [..] Non rappresenteremo testi scritti, ma tenteremo ± partendo da temi, da episodi o da opere note ± saggi di regia diretta 3.

Sembra, questo, l'ideale futurista di una tecnica che abolisce distanze (anche le distanze critiche) e coinvolge. La rappresentazione libera, infatti, viene proposta come unica via d'uscita dal mondo e come liberazione dall'incubo della societaÁ capitalistica aborrita da Giacobbe I e apertamente contestata in tutto il film. Lo spettacolo, sia esso cinema o teatro, eÁ l'unica risposta che consenta l'abbandono della vita vera per quella falsa, la speranza attraverso la mediazione, poiche nulla eÁ naturale, o meglio, come dice Giacobbe parafrasando Baudelaire, «anche la natura non eÁ naturale». Il cinema diventa il doppio della realtaÁ, una sorta di sosia della realtaÁ, pronto a prenderne il posto secondo una procedura edipica. 3

A. ARTAUD, Il teatro e il suo doppio, cit., pp. 211-213.

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Jean-Luc Godard e Partner

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Partner inscena anche un altro rapporto tra due sosia: quello tra Bertolucci e Godard. Per certi versi Bertolucci eÁ un po' come Giacobbe I, mentre Godard assomiglia di piu a Giacobbe II. Bertolucci, in quanto non-militante, eÁ come Giacobbe I, e Godard incarna le qualitaÁ che Bertolucci vorrebbe avere; alla pari di Giacobbe I, invidia e ammira il suo sosia. L'invidia eÁ quella che leggiamo in Versus Godard 4 (un titolo ambiguo che indica in Godard un avversario, anche se «versus» implica, al contempo, l'andare verso, il dirigersi verso), dove Bertolucci, reduce da un periodo di quasi totale inattivitaÁ e di esperimenti poco riusciti, taccia di volgaritaÁ il francese che era in grado di fare anche due o tre film all'anno e che, come i neorealisti, riusciva a non farsi sfuggire niente della realtaÁ quotidiana. Per contro, Partner tradisce la voglia di Bertolucci di misurarsi con Godard che eÁ un po' il padre di tutti i cineasti contemporanei. Come Godard e Bertolucci, anche Giacobbe e il suo doppio amano stare di fronte alla telecamera e raccontare storie che sono solo indirettamente collegate all'azione e che servono soprattutto a manifestare le loro sensazioni e i loro desideri. L'altro nucleo del film eÁ rappresentato dalla satira della societaÁ consumistica, a cui il cinema nella sua essenza non sfugge, e dalle implicazioni politiche ad essa connesse. Detersivi e Vietnam sono l'immagine metaforica di due aspetti della societaÁ contemporanea al film, della quale Bertolucci coglie lo spirito e contesta i principi. In sostanza, la guerra del Vietnam si collega alla rivoluzione da fare interna al film e insieme, questi due temi rimandano alle discussioni sul cinema politico degli anni Sessanta (e rappresentano anche una delle battaglie che Bertolucci combatte contro la societaÁ borghese). Il tema del Vietnam eÁ innanzi tutto godardiano (Il bandito delle 11, Pierrot le fou, 1965). Ma mentre i film di Godard entrano spesso nel dibattito politico a loro coevo, in tutta la filmografia di Bertolucci solo Partner eÁ focalizzato su un tema politico contemporaneo al film. Per gli altri suoi lavori, Bertolucci predilige la politica del passato attraverso cui criticare indirettamente il proprio tempo, alla Gramsci. Nella guerra del Vietnam gli intellettuali europei colgono l'occasione di mettere a fuoco il loro rapporto con gli Stati Uniti d'America, la loro egemonia intellettuale nell'Occidente e nel mondo. Ma il ``Vietnam'' eÁ rappresentazione, eÁ soprattutto la televisione, una guerra tradotta in immagini quotidiane e immediate. Anche l'episodio della venditrice di detersivi che viene annegata da Giacobbe (I o II?) parodizza la satira del consumismo godardiana degli anni Sessanta. La donna, sopra le palpebre, ha degli occhi dipinti, cosiccheÂ, quando le abbassa, di fatto sembra continuare ad avere gli occhi puntati sulla realtaÁ. Questo effetto puoÁ essere un'allusione al Cocteau di La bella e la bestia (La belle et la beÃte, 1946) o al Godard del Disprezzo (Le meÂpris, 4

B. BERTOLUCCI, Versus Godard, «Cahiers du cineÂma», 186, gennaio 1967, pp. 28-30.

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Capitolo quarto

1963), dove appaiono statue con occhi dipinti (si tratta di un'allusione a cui Bertoluccci torneraÁ piu tardi in Strategia, nel primo piano del busto di Athos Magnani-padre, posto al centro della piazza di Tara). Politica e rappresentazione, guerra del Vietnam e consumismo sono le faccie della stessa medaglia, di un film che riguarda lo spettacolo della politica e insieme la politica dello spettacolo e che non fa altro che reiterare il rapporto tra ideologia e rappresentazione. Partner eÁ anche la celebrazione dell'insegnamento di Godard (sia nella militanza politica sia nelle scelte formali), portata all'eccesso. Bertolucci, come il Godard degli anni Sessanta (fino al '68, quando il francese inizioÁ ad abbracciare il radicalismo), si muove tra uno sperimentalismo e un classicismo, che corrispondono rispettivamente alla volontaÁ di sconvolgere gli schemi formali del cinema tradizionale e insieme al desiderio di rendere omaggio ai grandi maestri di quel cinema. Ad un certo punto, sembra che Godard e Bertoluccci si copino addirittura a vicenda: in La gaia scienza (Le gai savoir, inverno 1967-68) c'eÁ una sequenza dove il personaggio interpretato da Jean-Pierre LeÂaud mostra come si fa a costruire una Molotov, proprio come Giacobbe in Partner (i due registi si conoscevano in questo periodo). Bertolucci e Godard hanno ognuno al proprio attivo un adattatamento da Moravia: rispettivamente del Conformista e del Disprezzo, che nella versione cinematografica viene giocato tutto a favore di una narrazione volutamente interrotta che attiri l'attenzione dello spettatore verso lo stile e la creazione del significato. Malato di ipergodardismo, Bertolucci riusciraÁ a guarire attraverso una rottura con Godard che del resto, analogamente a quella con il mondo di Pasolini, non saraÁ mai definitiva. Il teatro verraÁ riutilizzato prepotentemente nella tessitura di Strategia e in La luna. Anche Ultimo tango contiene dei rimandi a Partner quando sottolinea il potenziale seduttivo dello spettacolo. Ultimo tango cita Partner anche nella scelta dei colori che sono tutti godardiani, dal rosso, all'arancione e alle tonalitaÁ del blu. Inoltre, Bertolucci, come Godard, non perderaÁ mai di vista il cinema americano-hollywoodiano che per entrambi rappresenta una sorta di inesauribile repertorio di generi. Anche quella che per Godard era un'ossessione, il cinema inteso come esperienza artistica totalizzante, non lasceraÁ mai Bertolucci, la cui filmografia esprime la volontaÁ di aprire il cinema (come in passato succedeva all'opera) a tutte le forme artistiche per poi comprenderle in seÂ. Il Bertolucci influenzato da Godard non esclude altresõ la presenza, per interposta persona, di Pasolini: in Partner lo ritroviamo nel personaggio interpretato da Ninetto Davoli. Mentre l'assimilazione del mondo di Attilio e di Pasolini ha corrisposto ad un procedimento che si eÁ articolato nell'azione immediata volta a mettere subito in discussione quei mondi, nel caso di Godard, Bertolucci sembra aver voluto dimostrare le sue qualitaÁ di cineasta capace di rifare www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Jean-Luc Godard e Partner

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Godard alla perfezione, di riprodurlo cosõ pedissequamente da creare un film tanto godardiano che Godard stesso non ha mai fatto. Il gesto mimetico, cosõ radicale, delimita e conferma le iniziali ragioni creative dell'arte di Bertolucci ed evidenzia la necessitaÁ tutta personale di istituire un rapporto dialettico con i padri che servisse da chiarimento delle proprie posizioni in quanto regista ed autore. Commare, Prima della rivoluzione e Partner rappresentano l'apprendistato estetico e ideologico di Bertolucci maturato in uno dei decenni piu significativi del cinema italiano. Sono altresõ espressione di una fase pseudo-mimetica dei padri pur aprendosi a riflessioni personali e moderniste (che verranno riprese nei film successivi) sul cinema. Bertolucci sembra voler giaÁ intendere il proprio cinema come un genere che comprende in se tutte le forme artistiche, un cinema apollineo e dionisiaco che inizia con il racchiudere in se i padri e quello che loro rappresentano aprendosi, al contempo, ad un discorso autoriflessivo. Il cinema di Bertolucci nasce giaÁ come scrittura, come un metalinguaggio tutto incentrato sull'estetica della visione (che diventeraÁ l'argomento principale anche dei film successivi), come un lungo viaggio che ha per tema il cinema stesso, che parla costantemente di cinema attraverso una grammatica filmica commentativa piu che descrittiva e che esprime un certo disagio ideologico e psicologico del regista.

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Partner (1968). Giacobbe (Pierre Clementi). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

CAPITOLO QUINTO

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LES AUTEURS: ATHOS, MARCELLO E PAUL

Tutti i personaggi dei film di Bertolucci hanno un padre: ci sono i padri anagrafici e ancora vivi, quelli morti, i padri ideologici, per non parlare degli altri personaggi maschili che, pur non essendo padri, si comportano come tali. Non si tratta mai di figure neutrali, al contrario, esse ricoprono un ruolo importante nel condizionare la vita psicologica e ideologica dei figli, cioeÁ dei protagonisti dei film. Tali protagonisti sono sempre personaggi maschili mentre le figure femminili solitamente ricoprono ruoli marginali, ineluttabilmente escluse come sono dal discorso narrativo. La strategia del ragno, Il conformista e Ultimo tango articolano il rapporto con la figura paterna attraverso una narrativa che non segue una traiettoria tradizionale, ma si fonda su una sorta di rete in cui si intersecano discorsi di ideologia, sessualitaÁ, politica e soggettivitaÁ; una rete, o tela di ragno se si preferisce, decifrabile attraverso una griglia interpretativa edipica che ha una sua motivazione tanto nella topografia intellettuale del regista quanto nel processo di significazione cinematografico tout court. I tre film fanno capo allo stesso «intertesto autoriale»: il marxismo, la borghesia e la psicoanalisi. Agli inizi degli anni Settanta, Bertolucci si era iscritto al PCI ed aveva iniziato a fare analisi. La militanza politica, che lo inseriva in quella illustre tradizione di artisti impegnati nel sociale (Zavattini, Visconti, per citarne solo due), rappresentava anche un modo di affermare la propria identitaÁ sociale: l'adesione al comunismo era la risposta ideologica alla classe sociale borghese da cui Bertolucci proveniva. La psicoanalisi freudiana, riconosciuta dalla cultura italiana solo a partire dagli anni Cinquanta, costituiva un attacco piu indiretto all'ideologia borghese oltre a rappresentare un modo, per Bertolucci, di decifrare la propria identitaÁ artistica. EÁ Bertolucci a parlare di Strategia del ragno in questi termini: Trovo che sia un film molto misterioso che assomiglia a una terapia psicoanalitica. [...] Io credo che il film, per me, eÁ soprattutto un film parallelo ai primi tre o quattro mesi di psicoanalisi, che ho fatto. Ho cominciato a fare un'analisi introspettiva nel febbraio dell'anno scorso e il film eÁ del luglio, quindi eÁ un film che non so se avrei fatto allo stesso modo se non ci fosse stato questo avvenimento nella mia vita. E la cosa che mi ha molto colpito www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quinto

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eÁ che mentre scrivevo la sceneggiatura, ero molto consapevole di tutti gli ingredienti di tipo psicoanalitico che vi mettevo dentro, anche se molto mediati, molto indiretti 1.

Strategia del ragno venne girato per conto della televisione italiana che lo mandoÁ in onda ben due volte in meno di una settimana: domenica 25 ottobre 1970 e il venerdõÁ successivo. Nello stesso anno, il film venne presentato alla Mostra del Cinema di Venezia dove ottenne un grande successo di critica. Strategia eÁ liberamente ispirato al Tema del traditore e dell'eroe di Borges, che, a sua volta, riguarda l'investigazione del misterioso assassinio di un eroe della rivoluzione irlandese ucciso in un teatro nel corso di una rappresentazione di Shakespeare. Nel racconto di Borges si legge: L'azione si svolge in un paese oppresso e tenace: Polonia, Irlanda, la repubblica di Venezia, un qualche stato sudamericano o balcanico. [...] Diciamo (per comoditaÁ narrativa) l'Irlanda. Diciamo il 1824 2.

Il film di Bertolucci, che racconta una storia il cui meccanismo di fondo eÁ molto simile a quella di Borges, precisa e modifica le coordinate del luogo in cui si svolgeraÁ l'azione: Tara, un punto qualunque della Bassa Padana, un paese rinascimentale, un luogo tra Ferrara e Mantova o tra Parma e Reggio Emilia, dove si arriva con un trenino locale della linea Parma-Suzzara, proprio come quello da cui scenderaÁ Athos Magnani nella prima scena del film. Tara, eÁ noto, non esiste: non corrisponde a nessun paese della Bassa Padana e insieme a tutti; Tara eÁ un luogo ideale e soprattutto metafisico. Strategia eÁ stato girato nella zona di Sabbioneta e conserva, enfatizzandoli (anche attraverso l'immagine di alcuni quadri di Ligabue, pittore della Bassa, che si alternano a quelli di Edward Hopper, di Magritte, alle evocazioni di Morandi, e alle immagini metafisiche di De Chirico) tutti i caratteri del mondo rurale tanto caro a Bertolucci. Queste coordinate pittoriche non sono soltanto orpelli ornamentali o richiami estetizzanti. Nel silenzio del loro mistero le opere di questi pittori impongono il senso del rapporto tra cinema e pittura che cineasti di prestigio nella tradizione italiana (Visconti e soprattutto Pasolini) avevano variamente impiegato. Di Pasolini conosciamo giaÁ l'impiego della pittura che diventa metafora unificante dell'affresco che saraÁ il film 3. Per Bertolucci, 1 SEBASTIAN SCHADHAUSER, GIANNA MINGRONE, ELIA CHALUJA, Conversazione con Bertolucci, «Filmcritica», 209, 1970, p. 350. 2 JORGE LUIS BORGES, «Il tema del traditore e dell'eroe», Finzioni, Torino, Einaudi, 1955, pp. 126-130. 3 L'universo estetico di Pasolini e il suo gusto pittorico affondano le radici nelle lezioni di Roberto Longhi, appassionatamente seguite negli anni universitari. E le immagini sacre sono il serbatoio a cui Pasolini attingeraÁ per conferire ai suoi film un tono solenne e sacrale ma, nel contempo, volutamente dissacratorio. In La ricotta (1963), Pasolini ricrea a tableaux vivants la Deposizione di Cristo di Rosso Fiorentino. Pasolini ridipinge nell'artificio delle immagini in movi-

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la pittura evoca il mutismo delle immagini, diventa una sottile contropartita all'angosciosa interrogazione che il protagonista del film faraÁ del mistero del passato, del mistero del padre, e del silenzio greve che incombe, minaccioso, sulle sue interrogazioni. Strategia crea un'atmosfera regionale, «familiare» e al contempo defamiliarizzata; eÁ un film che rispetta e inscena lo spirito della Bassa Padana, parla di antifascismo e soprattutto riesce a fornire allo spettatore un quadro che ha un rilievo di alta suggestione. Se per un verso il vero tema ispiratore di questo film eÁ l'amore di Bertolucci per la sua terra descritta anche attraverso una galleria di personaggi padani, specialmente di vecchi, che vengono rappresentati con carnale umorismo, per l'altro, dietro l'apparenza bucolica e umoristica, il film nasconde un tessuto complicato (e noir, per un verso): quello di una tela (di ragno, appunto) che annoda fittamente vari elementi: il delitto politico, i rapporti di amicizia e di parentela, il problema privato e la memoria collettiva, nonche il presunto eroismo di certi antifascisti borghesi. Si direbbe che Bertolucci abbia fatto propria la poesia che anni prima Pasolini gli aveva dedicato. Il protagonista del film eÁ il personaggio di Athos Magnani (sdoppiato in padre e figlio e interpretato dallo stesso attore, Giulio Brogi), un giovane che non ha mai conosciuto il padre (morto prima della sua nascita), di cui porta lo stesso nome, e che vive a Milano. Chiamato a Tara da Draifa (l'amante ufficiale di suo padre, come si definisce, orgogliosa, la donna), Athos-figlio viene proiettato nel mondo mitico e fermo della cittaÁ paterna che eÁ il teatro di tutto il film. Egli, spinto dall'insistenza della donna, inizia a investigare sulla morte mitico-misteriosa del padre, un eroe antifascista. Suo malgrado (se ne vorrebbe andare da Tara), viene imprigionato in una tela complicata che lo costringe a ripercorrere alla rovescia la storia del padre per arrivare a scoprire che l'uomo, invece di essere l'eroe acclamato da tutti, era, in realtaÁ, un traditore e che la sua morte, al teatro del paese, non era niente altro che una messa in scena; ovvero, il padre era morto veramente il 15 giugno 1936, ma non per mano di un fascista venuto da Cremona (come voleva la misteriosa storia-leggenda); ad ucciderlo erano stati i suoi stessi compagni che, d'accordo con lui, per nascondere un suo imperdonabile tradimento, da vigliacco lo trasformano in eroe. Dai racconti dei tre amici e compagni del padre, Athos apprende che costoro avevano organizzato un attentato che avrebbe dovuto uccidere Mussolini la sera dell'inaugurazione della stagione operistica di mento alcuni particolari del Giudizio universale della Cappella degli Scrovegni a Padova nella sequenza dell'ultimo episodio del Decameron (1971). La Storia della vera croce di Piero della Francesca eÁ il modello per le sequenze del Cristo davanti ai giudici nel Vangelo secondo Matteo (1964). C'eÁ anche l'omaggio al Cristo morto del Mantegna nel finale sacro, poetico e tragico di Mamma Roma (1962). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quinto

Tara, durante la rappresentazione del Rigoletto. A morire, peroÁ, non fu il Duce, ma Athos Magnani che, nell'imminenza dell'azione concreta, si era tirato indietro denunciando il complotto alla polizia; Athos-figlio eÁ folgorato dalla rivelazione: scoperta la veritaÁ, decide di tornare a Milano, sennoncheÂ, pronto per partire dalla stazione di Tara, si accorge che i treni non passano, i giornali non sono arrivati, e sulle rotaie sta crescendo l'erba. Il mondo del reale si apre a visioni surreali mentre il treno carducciano ritarda e Athos si cala nell'enigma irrisolto ± risolto nell'immagine ± dell'erba che copre i binari in una stazione completamente deserta. Strategia eÁ il primo film di Bertolucci ad ottenere un unanime successo di critica e di pubblico. Il film esprime con completezza la profonditaÁ del mondo poetico del regista e insieme il ritrovamento di quella evocazione lirica delle sue origini provinciali. Dopo il velleitarismo lirico di Prima della rivoluzione, e la trasfigurazione onirica di Partner, Bertolucci sembra aver trovato la maturitaÁ espressiva in Strategia che eÁ girato con una mano sicura e tutto giocato sull'equilibrio tra un corposo realismo padano e una chiara vocazione al surrealismo (si pensi, ad esempio, all'episodio del leone la cui testa imbandita di frutta viene servita a tavola). L'indagine di Athos Magnani-figlio eÁ una specie di viaggio nella memoria atavica, nel preconscio. Egli rompe la ragnatela delle menzogne, ma si trova avviluppato in una nuova tela inestricabile, eÁ dapprima estraneo, poi intimorito e finalmente soggiogato dall'enigma che intende chiarire. La strategia del ragno eÁ un'altra interrogazione di Bertolucci su se stesso, sulla sua condizione di intellettuale borghese e marxista e le contraddizioni che ne derivano. Tara eÁ una specie di regno dei morti (popolato di vecchi e bambini). EÁ il luogo dell'artificio e della memoria. EÁ l'inconscio. I treni non passano piu a Tara perche non sono mai passati. Anche il nome Tara evoca atavistici fardelli: la «tara» o «tarato» 4. Strategia eÁ la storia di un uomo che ritorna a casa e scopre che non puoÁ piu uscirne ed eÁ la mise en sceÁne della progressiva investigazione da parte di Athos-figlio della vita del padre fino all'agnizione finale: la scoperta della realtaÁ dietro la leggenda. Il film mostra il faticoso raggiungimento della presa di coscienza di un evento represso (dal padre, dai suoi amici, da Draifa), e al procedimento secondo cui il protagonista, e insieme a lui lo spettatore (scopofilico), pervengono alla conoscenza. Athos padre e figlio sono rispettivamente il materiale inconscio e conscio della stessa persona e il discorso del film (l'investigazione di Athos-figlio eÁ assimilabile al procedimento di investigazione psicoanalitica) eÁ la messa in scena della talking cure freudiana di cui vanifica, al tempo stesso, lo sco4 Jefferson T. Kline riconduce «Tara» a «tarantola»; per il critico dunque la cittadina eÁ la metafora della ragnatela che imprigiona Athos figlio.

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po principale, quello cioeÁ di ristabilire un equilibrio di massima tra materiale represso e realtaÁ. Infatti, quella finale saraÁ solo una catarsi apparente, e Athos-figlio, pur avendo scoperto la realtaÁ del padre, saraÁ costretto a reiterarne la finzione, non tanto per questioni di natura politico-ideologica (ad esempio, quella di continuare, per interposta persona e a posteriori, a screditare il fascismo), quanto per una necessitaÁ e una debolezza tutta psicologica. Il personaggio di Athos (padre e figlio) diventa una sorta di metafora dell'analisi, una immagine dell'introspezione psicoanalitica: esplorare Tara eÁ mettere a nudo la propria psicologia, scoprire i meccanismi che hanno costituito la propria identitaÁ. Athos, alla fine, non potraÁ piu lasciare il paese perche nessuno puoÁ fuggire al proprio io. Nessuno puoÁ eludere la propria storia alla pari del film che non puoÁ esistere al di fuori delle implicazioni edipiche che presenta. Fin dall'inizio, Strategia chiarisce che le due persone, Athos padre e figlio, sono una sola (sono cioeÁ l'espressione del processo primario e secondario, conscio e inconscio, della stessa persona). Le prime sequenze sono costruite con un lungo carrello laterale che segue Athos-figlio nel suo ingresso a Tara (scende dal treno, nota che c'eÁ una strada che porta il suo nome ± ovvero quello di suo padre) e danno avvio a quell'atmosfera onirica che informa gran parte del testo che per un verso cita il De Chirico pittore dei sogni (psicanalisi e surrealismo) e per l'altro, Lacan (che esce dal mondo surrealista e inaugura la logoterapia ± discours). Successivamente, la camera offre una panoramica sulla piazza centrale del paese, fino a quando il carrello vero e proprio si rimette in moto non appena Athos entra sotto i portici, per arrestarsi quando egli interpella due uomini anziani a proposito di un albergo. Il carrello riparte, ripesca Athos che era uscito di campo e aveva lasciato i due signori a discutere su quale albergo consigliargli. Poi un'altra sosta sul cartello «Circolo giovanile Athos Magnani», il tempo di leggerlo, e Athos eÁ di nuovo fuori campo. Altra partenza, altro inseguimento, e la camera raggiunge Athos giaÁ fuori dai portici: a questo punto, egli eÁ fermo e sta guardando qualcosa sul nostro asse visivo che peroÁ eÁ coperto dalle sue spalle: l'oggetto che Athos-figlio si eÁ fermato ad osservare eÁ una statua, piu precisamente, eÁ il busto di suo padre. Il carrello si muove di nuovo, Athos riprende a camminare attraversando (in diagonale) la piazza; questa volta eÁ il busto del padre che, quando la macchina ce ne offre il primo piano, copre Athos-figlio inglobandone l'intera figura. Questo movimento di macchina, costruito in maniera perfettamente simmetrica, suggerisce una sorta di passaggio dell'uno dentro l'altro, unisce i due personaggi e i loro destini. Le prime inquadrature sono un'esplorazione che termina con un raffronto e la conseguente unificazione tra due persone con lo stesso nome (e, ce ne accorgeremo poco dopo, lo stesso volto): un padre e un figlio, appunto. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quinto

Ci sono molti altri casi in cui la camera insiste nel suggerire che i due uomini sono la scissione di uno solo. Non appena Athos-figlio trova l'albergo, la reazione dell'albergatore contribuiraÁ a rendere manifesta la sorprendente somiglianza tra il giovane e suo padre («Uguali! uguali!» esclama). Lo stesso accade a casa di Draifa: la somiglianza tra i due viene reiterata (a beneficio dello spettatore), dalla inquadratura in cui la donna mette Athos figlio davanti alla fotografia, appesa al muro, di suo padre. «Dio, come gli somigli!» dice Draifa, mentre noi verifichiamo immediatamente l'esattezza della sua osservazione. Uguali, appunto, identici, tanto identici che i due personaggi sono l'uno immagine speculare dell'altro; solo il loro abbigliamento eÁ diverso: Athos-figlio in giacca e camicia, senza cravatta, il padre con giacca sahariana (significante del fascismo), e fazzoletto rosso al collo (significante della Resistenza). Ancora, mentre nella stessa scena, in casa di Draifa, la camera inquadra in primo piano un'altra fotografia del padre, si sente la voce fuori campo del figlio che sembra parlare per lui. Come Athos-padre e Athos-figlio diventano la stessa persona, cosõ presente e passato diventano un tempo solo (il tempo della psiche di un unico personaggio), attraverso le dissolvenze che li raffrontano prima di fonderli in un unicum, in un tempo condensato. Athos-figlio, scendendo dal treno nelle prime inquadrature del film, entra nel mondo e nel tempo della memoria, quello degli anni Trenta (sono pochissimi, nel film, gli elementi che ci indicano il contrario), da cui non potraÁ piu uscire, intrappolato nella tela del ragno. EÁ il mondo dell'inconscio in cui il tempo si eÁ fermato. La fissitaÁ del tempo, eÁ suggerita anche dall'uso particolare e anticonvenzionale delle dissolvenze e dei tagli. C'eÁ una sequenza che, in questo senso, eÁ esemplare; Gaibazzi (splendida macchietta e attore non professionista che incontreremo di nuovo a fare piu o meno la stessa cosa in La luna) racconta ad Athos-figlio di Athos-padre mentre eÁ tutto intento a verificare la stagionatura dei culatelli; i tagli e le dissolvenze sono molto significativi perche si tratta di tagli godardiani, non codificati e dall'effetto straniante. Un taglio con dissolvenza o con l'inserimento di un diaframma nero (come accade nella scena in questione), crea, nello spettatore, l'aspettativa di un cambiamento di tempo e/o di spazio: un taglio, cioeÁ, canonicamente presuppone uno spostamento. In questa scena, non accade cosõÂ. Tutta la sequenza tagliata si svolge nello stesso spazio (il locale dove sono custoditi i culatelli), e il tempo della diegesi filmica eÁ fermo, non cambia. A cambiare eÁ il tempo del racconto di Gaibazzi che, nel suo discorso ad Athos-figlio, alterna commenti sui culatelli ad alcuni ricordi legati ad Athos-padre. L'insistenza sui tagli apparentemente ingiustificati, induce a ravvisare uno spostamento tutto psicologiwww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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co, invita a leggere la sequenza come una giustapposizione di due momenti vicini la cui contiguitaÁ eÁ data dal fatto che essi appartengono alla stessa persona che, nel suo presente, si appresta a rivivere il proprio passato psicologico. Il tempo di Strategia eÁ fermo, come incastrato tra passato e presente; Bertolucci ha parlato del tempo del film come «presente del passato» 5. Nel film non ci sono azioni significative al presente (e niente che ce lo segnali, fatta eccezione per l'inquadratura della locandina del film, al cinematografo di Costa, dove verraÁ proiettato L'occhio caldo del cielo, 1961, di Robert Aldrich, un film sui conflitti tra le generazioni 6): tutto eÁ determinato dal passato e ne eÁ la progressiva ricostruzione. Il condizionamento del passato sul presente, eÁ analogo a quello dell'incoscio sul conscio. C'eÁ un'altra sequenza nel film dove passato e presente sono confusi e condensati; si tratta del momento in cui Athos, che passeggia con Draifa, chiede alla donna come fosse suo padre con lei. Draifa, allora, si volta verso la camera e la narrazione eÁ al passato; in questo passato-presente, assistiamo ad una sequenza, di viscontiana memoria, in cui Draifa avvolge Athos-padre in una fasciatura per la schiena 7. Dopo un'inquadratura sull'immagine allo specchio di Draifa e del suo amante, si torna al presente e vediamo la donna camminare con Athos-figlio. Nuovo taglio, nuovo flashback e nuovo ritorno al passato dove Athos-padre e Draifa parlano della loro relazione. Poi, ancora il presente di Draifa che si sdraia sull'erba e continua a parlare con Athos-figlio. Finalmente, ecco il finale della scena: inquadratura in cui Athos-padre guarda fuori dalla finestra di casa di Draifa per vedere la cattura del leone; la camera eÁ posizionata dietro di lui ma, lentamente, inizia ad indietreggiare per poi rivelare un primo piano di Draifa (Athos-padre rimane di spalle sullo sfondo), che, con lo 5

GIOVANNA GRIGNAFFINI, Conversazione, «Cinema & Cinema», 21, 1979, p. 97. The last sunset, questo eÁ il titolo originale del film, racconta di un bandito e di uno sceriffo (Rock Hudson e Kirk Douglas), che, giunti ad una fattoria, si prestano ad aiutare la famiglia che vi abita a trasferire una mandria nel Texas. La famiglia eÁ composta da marito, moglie e figlia. La moglie aveva avuto una relazione con il bandito che, ora, si innamoreraÁ della figlia. Solo alla fine del film, il bandito scopriraÁ che la ragazza di cui si eÁ innamorato eÁ, in realtaÁ, sua figlia. Sconvolto da questa rivelazione cercheraÁ la morte per mano dello sceriffo. 7 Questa scena ricorda iconograficamente una sequenza di Senso (Visconti, 1954) con la stessa attrice, Alida Valli. Nel film di Visconti, saraÁ Franz, il giovane amante della donna, ad avvolgere attorno al busto di lei una sorta di filo per allacciare il corpetto. Strategia contiene altri rimandi a Senso: l'uso del melodramma verdiano, che fa da sfondo attivo alle azioni, e l'approccio gramsciano, quindi indiretto, ma non meno pungente, alla storia contemporanea attraverso quella passata. Anche le inquadrature di esterni, a macchina da presa statica, di Tara in Strategia e di Venezia in Senso, sono spesso analoghe: la piazza di Tara come le strade di Venezia assomigliano piu a simmetrici palcoscenici teatrali che a realistici scorci di cittaÁ. Dietro a quella di Visconti c'eÁ la Venezia del Fuoco di D'Annunzio e di Morte a Venezia di Mann. Nel gioco delle citazioni viscontiane vale anche notare che la Valli ricompariraÁ nel ruolo della signora Pioppi in Novecento. Al matrimonio di Alfredo e Ada canta la romanza dal Trovatore che Livia Serpieri ascoltava nel palco della Fenice, «D'onor sull'ali rosa». 6

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Capitolo quinto

sguardo rivolto alla destra del nostro schermo, narra gli eventi al presente parlando ad Athos-figlio. Questa sorta di aside di Draifa conclude una intera scena, costruita come giustapposizione di passato e presente, mirata ad unificare i due tempi e i due uomini. Il tempo eÁ fermo anche per quanto riguarda gli amici di Athos-padre (Gaibazzi, Costa, Rasori); i tre uomini, infatti, rimangono sempre gli stessi nel corso di tutto il film, non invecchiano ne ringiovaniscono, sia che vengano ritratti nel loro passato antifascista (quello dei flashback), sia nel presente della memoria. Il rapporto tra presente e passato eÁ una questione teorica importante; il cinema per un verso eÁ riproduzione del reale, presente storico, eterno presente; per l'altro, in quanto narrazione, il cinema eÁ necessariamente al tempo passato. Il cinema come riproduzione del mondo eÁ sempre al presente poiche eÁ nel presente che il mondo esiste. Come ragionamento, storia e coscienza del soggetto il cinema eÁ assoggettato alla stessa norma che Sartre aveva evidenziato come caratteristica di ogni storia; ovvero, ogni storia, nel momento in cui comincia eÁ giaÁ finita. In questo senso, Strategia, nel gioco dei tempi commenta sul cinema e sulle sue regole espressive. I riferimenti al cinema si fanno ancora piu evidenti quando si pensa che Strategia eÁ tutto giocato su una serie di rimandi all'elemento visivo, quello della rappresentazione. L'atto del vedere si contrappone a quello della cecitaÁ (emblematicamente rappresentata dalle strane palpebre godardiane della statua di Athos-padre nel bellissimo primo piano in soggettiva ± quando Athos vi gira attorno), ed eÁ un altro riferimento alla psicoanalisi (la malattia eÁ frequentemente indicata come impossibilitaÁ a vedere) e al cinema 8. Nel film, il protagonista deve far luce su un evento importante. Per fare cioÁ eÁ necessario vedere e ri-vivere quanto successo e quanto immagazzinato nell'inconscio, attraverso il flashback. Il sottotesto a questo stilema eÁ rappresentato dalla pittura enigmatica dei metafisici che per Bertolucci eÁ un altro modello del cinema. Anche il film di Bertolucci, come il cinema classico hollywoodiano, traduce il procedimento di scoperta e di cura in termini visivi. Non siamo di fronte ad un racconto tra paziente e psicoanalista in quanto tale, ma 8 Un esempio in questo senso eÁ rappresentato da Io ti salveroÁ (Spellbound, Hitchcock, 1945), in cui il protagonista principale potraÁ guarire dal trauma che lo affligge solo quando saraÁ in grado di ricordarlo e quindi di rivisualizzarlo. La sua malattia si manifesta non a caso con crisi in cui egli perde la vista e i sensi. Anche Athos figlio sembra soggetto a questo tipo di crisi come quando, ad esempio, chiuso al buio in una stalla, eÁ completamente disorientato e ritorna alla realtaÁ dopo aver ricevuto un misterioso pugno in viso. Questo episodio eÁ emblematico del senso di confusione che Athos-figlio sperimenta. Ancora, in Io ti salveroÁ i ricordi del protagonista poco a poco gli tornano alla mente in forma `spostata' rispetto al fatto vero (ad esempio, egli eÁ turbato dalla vista delle righe verticali e da una immagine simile ad una pista da sci innevata: si capiraÁ solo alla fine della cura e del film che queste immagini stanno per lo scivolo, una linea chiara e verticale, dove egli aveva involontariamente spinto suo fratello procurandone la morte); cosõ i ricordi di Athos diventano progressivamente consci grazie alle informazioni mai esplicite, `spostate' rispetto alla realtaÁ, sempre verosimili ma mai vere, degli amici di suo padre.

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siamo posti nella posizione privilegiata del voyeur poiche la ricostruzione del passato di Athos viene fatta davanti ai nostri occhi. Noi vediamo, dunque, il percorso psicoanalitico, vediamo i tasselli che lo compongono, vediamo un film che enfatizza l'atto del vedere e il mezzo per vedere: il film stesso nel suo farsi e il teatro. Athos Magnani per conoscere la veritaÁ su Athos Magnani, si identifica nella caratterizzazione filmica di Athos Magnani, e ne carpisce una parziale realtaÁ, in quanto, al momento di emanciparsi dal film che ne ha condizionato il comportamento nel comportamento, viene meno alla necessitaÁ e al coraggio del reperto storico che ha dissepolto e si ricoinvolge nella simulazione e nella colpa; rivedendo la propria vita anteriore, i flashes delle precedenti metamorfosi, Athos Magnani che parla alla gente di Tara si ferma al momento di dire la veritaÁ e ritesse l'antico gioco del falso-vero eroismo 9. Strategia (in quanto messa in scena che racconta di una messa in scena) eÁ metafora della cura (quella che Freud iniziava a praticare tra il 1880 e il 1885) come una mise en sceÁne, appunto. E non a caso, il represso presenta sempre un problema di visione: Athos non vede chiaro nel passato, ha paura che gli amici di suo padre lo prendano in giro. Egli vedraÁ chiaro, solo in una delle ultime sequenze del film, quella dello specchio a teatro, se stesso, il padre e la veritaÁ di 25 anni prima. Il film diventa una sorta di metatesto, cioeÁ un godardiano commento sull'atto di fare cinema e sul modo in cui il cinema viene percepito dallo spettatore. Come i quadri di Magritte, che il film cita e che sono opere meta-realistiche, cosõ Strategia si fonda sulla nozione centrale di un certo modernismo, ovvero che il significato primario dell'espressione immaginativa (pittura, romanzo, poema, musica, film) eÁ il significante, cioeÁ l'opera stessa e la sua realtaÁ formale. Racconto politico, metafora psicoanalitica, ma Strategia eÁ soprattutto una metafora cinematografica, eÁ un omaggio al cinema tout court. Il nome del paese dove si svolge l'azione eÁ un fin troppo chiaro riferimento a Via col vento, 1939 (oltre a essere, come ricorda Bertolucci, assonante con nomi di paesi emiliani quali Luzzara o Suzzara), di cui Strategia conserva anche quel tono di melodramma agrario nel mito della terra; l'arrivo del treno, dal campo lungo al primo pia9 Strategia, come L'uomo che uccise Liberty Valance (1962) di John Ford, ripercorre tappe di una leggenda, arrivando alla veritaÁ finale che la contraddice, ma la leggenda e il mito rimangono intatti. Il film, ambientato nei primi anni del '900, racconta di un senatore che torna al paese dove era cominciata la sua brillante carriera politica, per assistere ai funerali di un oscuro cow-boy. Rispondendo alle domande dei giornalisti che vogliono sapere perche abbia deciso di partecipare a quei funerali, egli racconta che lui e il cow-boy erano innamorati della stessa donna. Quando il senatore, allora giovane e inesperto avvocato, era stato sfidato da un pistolero, il cow-boy gli aveva salvato la vita uccidendo il suo sfidante. Ma il cow-boy aveva lasciato la gloria dell'eliminazione del terribile pistolero al senatore che costruõ su questa prodezza la sua fama che gli permise di vincere le sue prime elezioni. Scoperta la veritaÁ, i giornalisti decidono di tacerla per lasciar vivere la leggenda.

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Capitolo quinto

no, nella prima scena del film eÁ una precisa citazione, un inequivocabile rimando all'enunciato cinematografico per eccellenza, quello dei LumieÁre. L'arrivo del treno e la stazione iniziale sono anche metafora del viaggio che nel film diventa strano e impossibile visto che avverraÁ nella memoria e nella psiche del protagonista. Il piano-sequenza iniziale eÁ anche da intendersi come scoperta progressiva del reale, come associazione di passato-presente che il cinema in generale (e questo film, in particolare) consente facendosi una sorta di gesto della memoria. Bertolucci aveva usato il piano sequenza anche in Partner con lo scopo di dimostrare la radicale innaturalitaÁ delle cose, e di esplorare il giaÁ previsto e il deciso; in Strategia sottolinea l'atto della scoperta e catalizza la rivelazione e come tale diventa una sorta di reazione allo stile godardiano di Partner e rappresenta, al contempo, un ritorno all'evocazione lirica delle origini provinciali di Bertolucci (Prima della Rivoluzione). Ma, oltre al cinema, in Strategia c'eÁ anche il teatro, che eÁ il senso della teoria: infatti, le inquadrature (quella del piazzale della stazione, quella della piazza di Tara, quella del pranzo che Athos-figlio e Draifa consumano insieme seduti davanti a un grande affresco che raffigura paesaggi di campagna ed eÁ un tipico fondale da teatro), sono tutte frontali e simmetriche e ricordano il palcoscenico teatrale. Il teatro eÁ altresõ il luogo dove avverraÁ la presa di coscienza finale, e il posto prescelto per la messa in scena del delitto del padre. Tara, con le sue piazze squadrate, e le sue vie che si aprono a portici laterali, gli amici di Athos-padre, che sembrano recitare un copione, sono tutti elementi che contribuiscono a rendere ancor piu evidente l'elemento della messa in scena; eÁ questa una ulteriore citazione viscontiana visto che anche la Venezia in Senso eÁ volutamente falsa, teatrale. Il teatro che Stategia cita costantemente eÁ quello dell'opera verdiana e non eÁ una novitaÁ perche l'opera e il teatro sono motivi ricorrenti nella costruzione drammatica dei film di Bertolucci. Mette conto, peroÁ, sottolineare la risonanza simbolica del Rigoletto nell'azione della Strategia perche Rigoletto narra la storia di un padre-buffone che, per proteggere Gilda, insidiata dal duca di Mantova (che eÁ un tipo di «principe» machiavelliano o stendhaliano), tenta di ucciderlo e finisce con l'uccidere la figlia. La macchinositaÁ della trama ha solo accessoria e generica attinenza all'azione della Strategia. Mentre nell'opera verdiana eÁ il padre a sbagliarsi sull'identitaÁ della figlia, nel film eÁ il figlio a rendersi conto che l'identitaÁ di suo padre eÁ diversa da quella che conosceva. Opera e teatro non fanno altro che reiterare il motivo del vedere. L'atto di vedere consente di ricostruire e di curare. Il mito di Edipo ± che interroga la Sfinge, ma non sfugge alla tragedia (uccide il padre e sposa la madre) e si acceca (come modo di non vedere piuÂ, una punizione che peroÁ gli permette www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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anche di vedere piu profondamente l'orrore tragico della sua esistenza) ± eÁ iscritto in filigrana al film. Strategia presenta un soggetto diviso tra diversi imperativi: il lavoro dell'analista eÁ quello di interpretare le varie voci del soggetto diviso e di normalizzarle; il ruolo del film eÁ di inscenare tale (irraggiunta) normalizzazione. Il protagonista dovraÁ cioeÁ rivivere, o ri-mettere in scena, il proprio passato, per rendere cosciente cioÁ che era inconscio. In Al di laÁ del principio del piacere Freud sostiene che il malato non puoÁ ricordare tutto cioÁ che in lui eÁ rimosso, egli eÁ piuttosto indotto a ripetere il contenuto del rimosso nella forma di un'esperienza attuale, anzicheÂ, come vorrebbe il medico, a ricordarlo come parte del proprio passato. Il medico deve far sõ che il paziente riviva una certa parte della sua vita passata, e provvedere, d'altro lato, affinche egli conservi un certo grado di razionale distacco, che gli permetta di rendersi conto del fatto che quella che gli appare come realtaÁ eÁ in effetti soltanto l'immagine riflessa di un passato dimenticato. Se si raggiunge tale obbiettivo, vuol dire che si eÁ riusciti a far sõ che il malato raggiunga il successo terapeutico che, da questa convinzione, dipende 10. In altre parole, il paziente deve ri-sperimentare alcune porzioni della sua vita passata analogamente ad Athos figlio che, nel film, rivive e ri-sperimenta il «suo» passato. Athos (e lo spettatore) vede i luoghi della vita del padre, parla con i suoi amici e con la sua amante: egli, in una parola, ricopre il ruolo del padre morto. Anche la ripetizione del delitto del padre, l'assassinio figurato che si consuma nella violazione della tomba, eÁ un'altra sequenza importante nella terapia di Athos: in questa scena, Athos figlio cancella la data di nascita e di morte del padre, cancellando cosõ anche il proprio anno di nascita, lo stesso in cui il padre eÁ morto. Poco dopo, il figlio si appresteraÁ a rivivere il momento dell'uccisione del padre al teatro dove, esattamente come 25 anni prima, eÁ radunata tutta la gente di Tara per assistere al Rigoletto e alla contestuale nascita di un eroe. Attraverso la ripetizione, alla fine, la talking cure porta alla scoperta della realtaÁ, una realtaÁ che eÁ sempre stata a Tara, ma che era stata repressa. Il padre «vinceraÁ» perche costringe il figlio a vivere nel suo mondo, a rimanere intrappolato nella sua tela e a rivivere la sua messa in scena. Tutte le sequenze in cui compare il padre sono in flashback (il canale attraverso il quale si manifesta l'inconscio), e, da morto (ovvero da represso, in termini psicoanalitici), egli condiziona la vita del figlio; il padre eÁ l'inconscio, che la piscoanalisi configura sempre come elusivo e come una sorta di criminale colpevole. Inoltre, se si nota, con Freud, che (1) l'inconscio eÁ obbligato ad esprimersi solo attraverso la presenta10

SIGMUND FREUD, Al di laÁ del principio del piacere, Torino, Boringhieri, 1975, pp. 33-34.

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Capitolo quinto

zione di cose e di fatti per i quali spetta alle attivitaÁ coscienti operare una razionalizzazione e che (2) nel discorso dell'inconscio il passato ha prioritaÁ sul presente, eÁ evidente che l'inconscio si materializza nella figura di Athos-padre e nel mondo di Tara. Mentre il conscio cerca di stabilire la conoscenza attraverso la logica, l'inconscio cerca di distruggerla poiche per esso il tempo non passa, la storia non progredisce; i procedimenti dell'inconscio sono «fuori del tempo», non sono cioeÁ cronologicamente ordinati, non sono alterati dal tempo, il quale eÁ anzi una nozione che non puoÁ essere loro applicata 11. La cura, dunque, non funziona, il figlio non risolve il proprio problema ma al contrario, diventa parte del problema del padre. Messo a confronto con la duplicitaÁ e fallibilitaÁ del padre, non ha altra scelta che restare in silenzio e perpetuare il mito; giacche propagarne la scoperta equivarrebbe ad accettare la castrazione. Athos-figlio potrebbe minacciare l'intimitaÁ del padre e usurparne il trono ma un tale «parricidio» (secondo la terminologia freudiana) ingaggerebbe il figlio nel ruolo del padre (in quanto si eÁ giaÁ proiettato come imitazione del padre), cioeÁ, egli stesso nel ruolo di eroe e traditore. Strategia eÁ carico di commenti metacinematografici e intesse una finissima tela metaforica sul cinema. I temi sono quelli ricorrenti, teatro, cinema, doppio, padre, politica, rappresentazione; i modi sono quelli di un testo modernista tutto all'insegna dell'autoreferenzialitaÁ estetica e che, nel suo farsi, esplicita i propri procedimenti espressivi. Con Strategia, Bertolucci dice dell'importanza della psicanalisi nel suo cinema, parla di padri e di figli, mette in scena una cura che non ha successo perche il suo cinema sembra trovarsi a proprio agio nel contesto di una problematica edipica. Il conformista riprenderaÁ molti degli stessi motivi.

11

S. FREUD, «L'inconscio», Psicologia e metapsicologia, Roma, Newton, 1992, p. 98.

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La strategia del ragno (1970). Athos-figlio (Giulio Brogi) e Gaibazzi (Pippo Campanini). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 17/09/2018 Il conformista (1970). Marcello (Jean-Louis Trintignant) con suo padre (Giuseppe Addobbati). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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CAPITOLO SESTO

IL CONFORMISTA: IL PADRE SIMBOLICO E IL CINEMA COME SOGNO

Il tempo dei miei film, anzi di tutti i film, eÁ molto vicino a quello dei sogni. Mi sembra che tutto il cinema sia fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni 1.

Il conformista eÁ il primo grande film commerciale di Bertoluccci: fatto con la Paramount e con un budget superiore a quello dei film precedenti, si avvale di un attore di fama internazionale, Jean-Louis Trintignant, e della presenza di Dominique Sanda, che aveva finito da poco CosõÂbella cosõÂdolce (R. Bresson, 1969). Opera impressionista nella sua esagerazione dello spazio e allucinata negli spostamenti e distorsioni di quanto il personaggio percepisce, il film riprende il tema della visione, la nozione del padre simbolico, la scena primaria, il sogno e il cinema risultando, in una ulteriore riflessione modernista sul cinema e la sua identitaÁ, sulla realtaÁ e la rappresentazione. Tutto comincia nel 1938, a Parigi, dove Marcello Clerici e sua moglie Giulia ± due nomi «romani» che comparivano anche nell'omonimo romanzo moraviano da cui il film eÁ tratto e che sottolineano la mitologia fascista di Roma ± trascorrono alcuni giorni in viaggio di nozze 2. Le prime inquadrature mostrano Marcello che esce dall'hotel in cui alloggia per salire su una macchina alla cui guida c'eÁ Manganiello, un agente dell'OVRA (Opera Volontaria Repressione Antifascismo). L'automobile lascia Parigi e inizia a percorrere strade di campagna in una giornata d'inverno. Il viaggio in macchina finisce poco prima della conclusione del film e rappresenta la cornice che tiene insieme i numerosi flashback attraverso cui Marcello racconta a Manganiello, e a noi, la storia della sua vita. Quando egli aveva tredici 1

E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 11. Il rapporto di Moravia con il cinema eÁ molto stretto. Sono almeno una dozzina i film di ispirazione moraviana e altrettanti quelli a cui egli ha contribuito come sceneggiatore, giaÁ fin da prima della guerra. Risale al 1951 un cortometraggio narrativo di cui Moravia curoÁ anche la regia, dal titolo EÁ colpa del sole. Tra i film tratti da romanzi di Moravia vale ricordare La provinciale (Soldati, 1953), La romana (Zampa, 1954), Racconti romani e Racconti d'estate (Franciolini, 1955 e 1958), La ciociara (De Sica, 1960), Agostino (Bolognini, 1962), La noia (Damiani, 1963), Il disprezzo (Godard, 1963), Gli indifferenti (Maselli, 1964), L'amore coniugale (Maraini, 1970). Moravia ha anche collaborato per molto tempo al settimanale L'espresso in qualitaÁ di critico cinematografico. 2

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Capitolo sesto

anni, Lino, un autista, tentoÁ di sedurlo; Marcello riuscõ a sparargli e, convinto di averlo ucciso, a scappar via. Diciotto anni dopo, Marcello eÁ un funzionario ministeriale e sta per sposare Giulia una ragazza piccolo-borghese e assolutamente normale. Tanto normale da sembrare a Marcello la garanzia piu assoluta anche della propria normalitaÁ che egli sente minata dal ricordo dell'episodio con Lino, e dalla situazione familiare (suo padre eÁ ricoverato in un istituto per malati di mente, sua madre eÁ una tossicomane e anche una ninfomane). Da funzionario fascista, Marcello chiede di recarsi a Parigi, per conto della polizia politica, per avvicinare uno dei rifugiati politici antifascisti piu noti, il professor Quadri, suo vecchio insegnante di universitaÁ che Marcello a suo tempo apprezzava ma che, ora, si prepara ad uccidere. Consumato il brutale assassinio, ed esorcizzato il vecchio e presunto delitto attraverso il nuovo, Marcello torna in Italia. Il film ce lo mostra la sera del 25 luglio 1943 in casa con la moglie e la figlia, mentre la radio annuncia la caduta di Mussolini. Marcello esce di casa con il suo amico cieco, il fascista Italo, e, vagando nel Foro Romano (che eÁ il luogo dell'arte monumentale fascista), incontra e riconosce Lino. Marcello, con una dislocazione evidente, accusa Lino dell'asassinio di Quadri e Italo di essere un fascista. Opera elegante e ricca di invenzioni formali, Il conformista ricrea, con grande fascino, l'atmosfera degli anni Trenta. Si capisce subito che l'incontro con la Parigi di Renoir si eÁ rivelato piu stimolante che l'astratta e un po' nevrotica adorazione di un tempo verso Godard (a cui Bertolucci sembrerebbe non aver piu niente da invidiare visto che anche lui era riuscito a fare due film in un anno). Il Conformista eÁ soprattutto un film metafilmico, un film che parla di cinema, eÁ un testo modernista e una sorta di dichiarazione poetica di Bertolucci. In un certo senso, questo film sta a Bertolucci come 8 1/2 (1963) sta a Fellini, come Blow-up (1966) sta ad Antonioni, come Effetto notte (1972) sta a Truffaut e come Stardust Memories (1980) sta a Woody Allen. Nel testo del Conformista sono intessute la poetica e la politica cinematografica del regista che circa a metaÁ del film, per primo, fa esplicito riferimento al mito della caverna di Platone come metafora ante litteram del cinema 3. A Parigi, Marcello e Quadri ricordano una delle lezioni che il professore aveva tenuto in Italia nel 1929 e che riguardava il mito della caverna. Mentre il professore parla, Marcello chiude una finestra: tutta la luce nella stanza entra solo da un'altra finestra-proiettore-fuoco della caverna e l'inquadratura, mezza al buio e mezza illuminata, ricorda l'interno di un cinematografo; Marcello muove le mani e produce ombre sul muro che rendono con efficacia il con3 JEAN-LOUIS BAUDRY, The Apparatus, «Camera Obscura», 1, 1976, pp. 104-126. Il saggio eÁ una lettura teorica dell'analogia tra il cinema e il mito della caverna..

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Il conformista: il padre simbolico e il cinema come sogno

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cetto delle illusioni, attraverso un gioco di luci e di ombre. Il discorso fra i due assume anche una forte carica ideologica quando Marcello e Quadri si soffermano sul concetto di realtaÁ (o di realtaÁ occultata dal fascismo, come il professsore suggerisce riferendosi alla situazione italiana), e di ombre come riflessi della cose scambiate per realtaÁ. Bertolucci usa il mito della caverna anche come metafora del mondo politico fascista, un mondo di puri simboli senza realtaÁ mentre Marcello pare insidiosamente suggerire a Quadri che lui, nel corso del suo magistero, portava gli studenti non alla luce del sapere socratico, ma al buio dove solo la sua voce risuonava. Marcello ricorda al professore che egli era solito chiudere le imposte delle finestre quando entrava in classe poiche voleva che gli studenti si concentrassero sulla sua voce, sul suono delle sue parole. Certo, il riferimento a Platone eÁ un riferimento originale al cinema (eÁ stato Bertolucci il primo a notarlo). Oggi eÁ nota l'analogia esistente tra il mito della caverna di Platone, il cinema e il sogno (Metz); le immagini della realtaÁ al cinema, nel sogno e nel mito della caverna sono simulacri il cui senso si produce attraverso i meccanismi della condensazione, spostamento e regressione. Questi meccanismi, che servono a capire il funzionamento del sogno e ad interpretarlo, sono analoghi alle figure retoriche della metonimia e della metafora e, nel testo cinematografico, sono resi attraverso il montaggio. Inoltre, come le ombre viste dai prigionieri platonici non sono ombre della realtaÁ ma ombre di simulacri della realtaÁ, cosõ le immagini del cinema sono ombre di simulacri (gli attori e il set) della realtaÁ. Anche per il soggetto che sogna vale la stessa regola: egli sognando vede immagini che scambia per la realtaÁ ma che stanno per qualcos'altro. Film, sogno e mito della caverna presuppongono la presenza di uno spettatore; il loro senso dipende, ovvero, dallo spettatore. Il prigioniero di Platone eÁ l'unico per cui hanno significato le ombre, lo spettatore eÁ l'unico per cui esiste il film, e il soggetto sognante eÁ l'unico per cui esiste il sogno. Lo spettatore-sognatore-prigioniero eÁ in uno stato di a-motricitaÁ, di regressione e scambia, piu o meno consciamente, le immagini della realtaÁ per realtaÁ vera e propria. Nietzsche, in La nascita della tragedia aveva giaÁ parlato del sogno come presupposto di ogni arte figurativa, come luogo di apparenze in cui tutto eÁ possibile e in cui si trova il senso vero dell'arte e della vita 4. Lo spettatore-sognatore-prigioniero eÁ impegnato nell'atto di vedere, in una pulsione voyeurista che secondo Bertolucci eÁ alla base del suo desiderio di fare cinema: [...] la ragione per cui si fa del cinema (o almeno per cui lo faccio io): per una spinta di tipo voyeuristico. Il voyeur eÁ condannato a ripetere lo sguardo terrificato del bambino puntato sui genitori che fanno l'amore.[...] Freud dice che il bambino non ha bisogno di vedere il coito dei genitori gli eÁ sufficiente e al 4

FRIEDRICH NIETZSCHE, La nascita della tragedia, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 21-26.

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Capitolo sesto

tempo stesso inevitabile immaginarlo. Ricordando l'ubicazione delle stanze della casa in cui vivevo quando ero bambino, e conoscendo il pudore insano di mio padre, credo di aver avuto esperienza di una scena primaria immaginata e non reale. Il mio cinema eÁ stato molto determinato, per certi versi, addirittura modellato, da questo ricordo 5.

Bertolucci non esplora e non eÁ cosciente delle ampie risonanze delle metafore fondamentali del suo cinema. Il brano infatti opera una riduzione meccanica della metafora del voyeur ± che eÁ la tentazione dello spettatore di sentirsi Dio, di trasformare continuamente il mondo in spettacolo per il suo divertimento ± a cifra solo psicanalitica. Pur nondimeno, il voyeur implica anche che l'essenza della visibilitaÁ del mondo eÁ una funzione di prospettiva. Nel Conformista l'impossibilitaÁ a muoversi (significante del fascismo, dell'immobilismo ideologico) eÁ tipica di Marcello. L'inibizione motoria e l'obbligo a guardare sempre in una direzione (reso necessario dalle catene al collo e ai piedi nel caso dei prigionieri platonici) sono una condizione condivisa anche dallo spettatore cinematografico e da Marcello che ± metaforicamente ± guarda sempre nella direzione del conformismo e del fascismo. Parimenti, Marcello vive nella memoria di una memoria (l'ombra di un'ombra), scambia l'immagine che vuol dare di se per la realtaÁ. La caverna di Platone eÁ il mondo dei simulacri e della pura rappresentazione poiche le ombre proiettate dalla luce sono confuse con la realtaÁ. Marcello, in quanto soggetto sognante e come tale voyeurista, ricopre un ruolo assimilabile a quello dello spettatore cinematografico. In altre parole, egli eÁ una sorta di spettatore filmico nel film. Anche nella scena finale del Conformista, quando Marcello si aggira per Roma di notte, tra le rovine e nel buio piu completo se non fosse per la luce di fuochi che bruciano scoppiettando lõ vicino, Bertolucci torna a riferirsi alla caverna di Platone. In questo caso, peroÁ, Marcello ne infrange una regola fondamentale: stanco di guardare le ombre della realtaÁ, si volta e guarda in faccia la camera e gli spettatori. Cosõ facendo, rompe l'illusione, commenta sulla finzione cinematografica, interrompe la volontaria sospensione d'incredulitaÁ necessaria al film, quanto al sogno e al mito della caverna. EÁ solo a quel punto che Marcello scopre la veritaÁ e capisce la realtaÁ della propria vita. Marcello, alla fine del film, guardando in faccia lo spettatore commenta sul cinema di Bertolucci (almeno sul cinema del primo Bertolucci) che eÁ volutamente anti-commerciale e che attraverso un uso anti-convenzionale della camera (e cioeÁ con una grammatica filmica intrusiva) ricorda costantemente al proprio spettatore che egli sta guardando un film. Il finale del Conformista spiega esattamente come Bertolucci, da autore, intende il proprio cinema 5

E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 195.

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Il conformista: il padre simbolico e il cinema come sogno

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che deve appunto rappresentare una sfida costante per lo spettatore ed ingaggiarlo in una partecipazione stilistica al testo, un testo problematico e pieno di intoppi. Il sogno si fonda sul complesso edipico esattamente come Il conformista in cui ci sono tre famiglie senza un padre e almeno tre padri, in un certo senso, senza una famiglia. Alla famiglia di Marcello manca il padre poiche egli eÁ relegato in un manicomio a rappresentare il delirio del logos, l'eclisse della legge e della ragione; il padre di Giulia eÁ morto. Anche la nuova famiglia, quella composta da Giulia, Marcello e dalla loro figlia, eÁ senza un padre ``vero'' visto che l'incombente pazzia di Marcello e, soprattutto, la sua non piu latente omosessualitaÁ diventano esplicite. Marcello Clerici, d'altra parte, ha almeno tre padri: quello biologico, ex-fascista, che descrive Hitler come uno squilibrato, uno che faceva discorsi da pazzo, un furioso, esattamente come Bertolucci presenta il padre di Marcello. Poi c'eÁ il padre rifiutato, cioeÁ l'amante della madre (anche lui non a caso un autista come il seduttore di Marcello), che egli fa uccidere dopo la scena, a forte sfondo sessuale, in cui la donna (la madre), eÁ sdraiata a letto seminuda; e, finalmente, c'eÁ il padre simbolico e ideologico, ovvero il professor Quadri. Marcello stima e odia il professore (si sente tradito da lui quando egli abbandona l'insegnamento a favore del suo auto-esilio politico), si innamora di sua moglie (incesto? o inabilitaÁ di fare i conti con il suo Altro da se al femminile?), organizza la sua uccisione. Il professor Quadri eÁ anche il personaggio che rappresenta Godard: eÁ un maestro per Bernardo, eÁ un rivoluzionario anti-fascista, vive a Parigi e, addirittura, Bertolucci gli attribuisce il vero numero di telefono e l'indirizzo di Godard. CioÁ che accomuna i tre padri eÁ soprattutto l'atteggiamento del figlio che trasferisce i caratteri dell'uno all'altro e di riflesso su se stesso, nella sua ossessiva ricerca di una figura paterna simbolica e di una origine che legittimi e dia senso alle dispersioni laterali della sua psiche. Il legame che intercorre tra i padri eÁ analogo a quello esistente tra i tre autisti del film che, peraltro come «conduttori», ricoprono anch'essi il ruolo di padre assieme a quello di alter-ego del protagonista. Alberi eÁ l'autista che droga la madre; e Manganiello, l'autista che, lo suggerisce ironicamente il suo stesso cognome, eÁ il manganello del fascismo 6; Lino, il seduttore di Marcello, eÁ l'autista piu importante. Rappresenta il fascismo (indossa una uniforme), lo status quo e il potere (porta una pistola). L'attrazione di Marcello nei confronti del fascismo eÁ il surrogato di quella nutrita verso Lino, che eÁ interpretato da Pierre Clementi a cui Bertolucci aveva precedentemente affidato il doppio ruolo di Giacobbe I e II in Partner. Clementi aveva lavorato con Pa6 Manganiello eÁ la resa filmica di un personaggio veramente esistito, che aveva lo stesso nome ed era uno dei capi dell'OVRA.

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Capitolo sesto

solini in Porcile, 1969 (il Julian antropofago), sarebbe stato scelto da Liliana Cavani in I cannibali (1988), ed era molto vicino al gruppo del Living Theatre. Pierre Clementi eÁ arrivato a Bertolucci carico di storia ed eÁ la citazione pasoliniana e francese che il regista si concede in questo film; lo si vede pochissimo nel Conformista, ma la sua presunta uccisione condiziona tutto il testo e Marcello di cui Lino simboleggia la vera natura, quella che egli rifiuta razionalmente di accettare. Nell'ambito delle citazioni interne ai film di Bertolucci, vale notare che la scena in cui Lino si sveste, togliendosi l'uniforme, eÁ analoga a quella in Strategia dove la ragazzina che lavora a casa di Draifa e che sembra un maschio, si toglie il cappello che, nascondendo i suoi capelli lunghi, celava anche la sua vera identitaÁ. Quando i capelli le scendono sulle spalle, diventa evidente che si tratta di una ragazza e ci si spiega percheÂ, poco prima, fosse intenta a darsi lo smalto alle unghie 7. Nel Conformista, quando Pierre Clementi si toglie l'uniforme e il cappello, scendono i capelli lunghi sulle spalle dell'uomo che istituiscono un forte contrasto con la sua immagine in uniforme e fanno subito dubitare della sua sessualitaÁ. Lino, togliendosi i vestiti, sembra anche liberarsi della sua apparente mascolinitaÁ. Con Lino si consuma la scena primaria di tutto il film: la seduzione e la conseguente (supposta) uccisione. La vita da conformista di Marcello saraÁ tutta spesa, attraverso la ripetizione, ad esorcizzare quell'esperienza che, peraltro, affiora in molti momenti del film secondo la pratica, onirica, dello spostamento e della condensazione. La scena in cui Anna s'inginocchia ai piedi di Giulia per sedurla (davanti agli occhi del voyeur Marcello), ricorda visivamente l'episodio della seduzione di Marcello da parte di Lino. Ancora, la relazione prematrimoniale di Giulia con il vecchio Prepurzio eÁ complementare e simmetrica a quella di Marcello in quanto iniziazione ± ciascuna, per cosõÂ dire, «diversa» o «perversa» ± al sesso. In treno, in viaggio verso Parigi, Giulia confessa al marito (una confessione parallela a quella che Marcello rende al prete) la sua relazione con l'anziano uomo e descrive il loro primo incontro con dovizia di particolari: Marcello ripete i gesti di Prepurzio. Come per i padri, anche tra gli autisti esiste un legame profondo nella psiche di Marcello: Lino assomiglia a Manganiello e ad Alberi, sono tre autisti e tre figure in uniforme; quando Manganiello su ordine di Marcello uccideraÁ Alberi, questo atto simbolicamente condensa la vendetta contro Lino (in quanto autista e origine del senso di colpa di Marcello) sul padre (Alberi eÁ l'amante della madre di Marcello) e su Manganiello (che portando in macchina Marcello, facendo da suo autista, eÁ una sorta di doppio di Lino). 7 Nel Conformista, con un gesto seduttivo, Anna Quadri daraÁ lo smalto a Giulia. Questo gesto a Bertolucci fa venire in mente il mito di Lolita.

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Il conformista: il padre simbolico e il cinema come sogno

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Questi personaggi maschili, oltre ad essere dei padri e autisti sono anche collegati al fascismo: Lino indossa un'uniforme che lo fa sembrare un militare, il padre di Marcello, pazzo in un manicomio (che ricorda il gabinetto del ministro, per le linee squadrate, l'architettura imponente e l'atmosfera kafkiana, e che si contrappone alle linee curve della casa di Quadri, un anti-fascista) eÁ, egli stesso, come Hitler (lo aveva descritto, come dice Marcello a Italo all'inizio del film, come «un pazzo... che faceva discorsi da squilibrato»). Manganiello eÁ il fascismo, oltre ad essere il padre che deve istruire Marcello. Italo Montanari (dal nome nazionalista) eÁ cieco come l'ideologia malata che rappresenta; egli eÁ cieco come l'Edipo re di Pasolini, che, a differenza dell'Edipo di Sofocle, attacca la Sfinge e la uccide; successivamente diventa cieco e la sua condizione eÁ emblematica del suo rifiuto primordiale di capire e accettare il proprio destino. Anche Quadri eÁ una figura che si ricollega al fascismo essendone l'alter ego. La scena del manicomio in cui eÁ rinchiuso il padre biologico di Marcello eÁ stata girata sul tetto del Palazzo dei congressi dell'EUR disegnato dall'architetto del regime Adalberto Libera. I personaggi maschili sono padri (simbolici e rappresentano i supporti istituzionali, lo Stato, la politica, di quei valori che definiscono la posizione paterna nei termini di repressione, privilegio e potenza) e rendono ragione di un film tutto costruito sull'elemento edipico che riapre il discorso del sogno. Innanzi tutto, Marcello sogna. Il suo sogno, che racconta a Manganiello in macchina, eÁ carico di motivi psicologici. Egli sogna di essere diventato cieco (malattia psicologica o ideologica?), di venir operato da Quadri e, riavuta la vista, di scappar via con Anna. Questo sogno eÁ corredato da tutti i piu tipici elementi edipici: l'ansia della castrazione (operazione) che viene superata e accoppiata a una vittoria edipica (fuga con Anna). Il sogno di Marcello eÁ metonimia del sogno piu grande, quello del film. Oltre alla uccisione presunta di Lino e a quella vera di Quadri (entrambi sono assassini edipici), Marcello, e con lui Bertolucci, deve fare i conti con il logos paterno, con la parola scritta che eÁ l'avversario edipico per eccellenza. In manicomio, dopo uno scontro con il padre, Marcello gli prende la mano e lo obbliga a firmare un testamento senza nemmeno farglielo leggere. Questo episodio non compare nel romanzo di Moravia e, ovviamente, si presta molto bene ad una lettura simbolica: sembra un atto vendicativo da parte di Bertolucci nei confronti di Attilio, di Pier Paolo o Moravia. Obbligare il padre a scrivere significa prenderne il posto. Piu avanti nel film, c'eÁ un'altro episodio importante; durante una delle serate parigine, a cena, il professor Quadri chiede a Marcello di recapitargli a Roma una lettera che sarebbe servita alla causa fascista. Marcello rifiuta e Quadri lo ringrazia dicendo che la richiesta era solo un pretesto per metterlo alla prova. Mentre nel romanzo l'episodio finisce a questo punto, www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo sesto

nel film, Quadri apre la busta e mostra a Marcello il suo contenuto che eÁ un foglio bianco. Questa sequenza, che chiude uno dei cerchi edipici del film, sembra emblematizzare il rapporto ideale di Bertolucci con il testo scritto che diventato bianco, senza parole, non eÁ piu in grado di comunicare. Sogno, complesso edipico e meditazione sul cinema informano sia i contenuti sia la struttura e lo stile del film. Nel testo, niente segue l'ordine cronologico lineare e tutto eÁ costruito secondo giustapposizioni tra presente e passato, tra tempo dell'azione e tempo della riflessione; il tempo del film eÁ un continuo flashback nel flashback, eÁ il tempo della coscienza, della memoria e della interioritaÁ, eÁ un tempo psicologico e corrisponde ad una sorta di riduzione della storia a fantasmagoria. Ci vorranno ben due terzi del film prima che il passato si metta in pari con il presente. L'insistenza sui flashback e la prima inquadratura del film in cui Marcello eÁ a letto sono la via d'ingresso nel mondo del sogno. Lo stile del film eÁ allucinatorio e come tale riflette la coscienza spostata del protagonista; anche l'uso dei tagli, insieme a quello dei flashback, eÁ la resa filmica dei pensieri di un personaggio che entra ed esce dal sogno e che alterna momenti di luciditaÁ a stati confusionali. Lo stile del film eÁ una analogia visiva dello stato mentale di Marcello. Il conformista, inoltre, inscena tutte le tecniche che Freud descrive come facenti parte dei meccanismi latenti del sogno 8. La regressione: Freud spiega che nel sogno, la pulsione ha un movimento regressivo; da svegli le nostre pulsioni da sensoriali diventano motorie secondo un procedimento progressivo, mentre, nel sogno, la pulsione percorre lo stesso itinerario in senso inverso, da motoria diventa sensoriale. Il conformista eÁ un film regressivo perche all'inizio del film eÁ giaÁ successo tutto e gli spettatori, analogamente a Marcello, hanno solo la possibilitaÁ di ripercorrere, all'indietro e attraverso la visione, le tappe di una storia che si eÁ giaÁ consumata (i flashback sembrano, psicanaliticamente, voler indicare che il senso lo si trova nella retrospezione e che non vi eÁ futuro). La a-motricitaÁ del sogno eÁ, altresõÂ, una caratteristica tipica di Marcello che eÁ incapace di cambiare la sua condizione come evidenzia il linguaggio del suo corpo che manca completamente di spontaneitaÁ. In questo senso, il Marcello di Bertolucci ha un sapore virgiliano perche eÁ mera ombra sempre in attesa di incarnazione. Alcune scene del film sono girate in modo chiaramente onirico come la fantasiosa (ed onirica, appunto) resa dell'assassinio di Quadri. L'intera scena eÁ consapevolmente modellata sulla versione cinematografica dell'assassinio di Cesare e, nonostante tutte le pugnalate, Quadri non perde una goccia di 8

S. FREUD, L'interpretazione dei sogni, Torino, Boringhieri, 1973, p. 223.

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Il conformista: il padre simbolico e il cinema come sogno

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sangue. (Il conformista, in questo senso, sovverte il realismo psicologico di Moravia e soprattutto le convenzioni cinematografiche coeve). Anche la scena dell'uccisione di Anna Quadri eÁ onirica (l'atmosfera nebbiosa del boschetto), e complementare (per l'abbondanza eccessiva di sangue) a quella del marito. Il principio della condensazione regola i flashback che non operano secondo un regime di causalitaÁ ma sono impostati su un accumulo dei tempi dell'azione. Tutta la vicenda, infatti, eÁ vissuta in una dimensione in cui non valgono le successioni ma solo le sovrapposizioni e le stratificazioni di cui Marcello saraÁ il mediatore e il filtro soggettivo. Un esempio di condensazione e insieme di spostamento eÁ quello relativo ai personaggi interpretati da Dominique Sanda. L'attrice appare nel film tre volte in tre ruoli diversi: prima, eÁ sdraiata sulla scrivania del ministro fascista, poi eÁ nei panni di una prostituta tra le braccia di Manganiello a Ventimiglia e, infine, eÁ Anna Quadri, la moglie del professore. Dominique Sanda ricopre i tre ruoli di madre, prostituta e infine di vittima. Uno dei principi strutturanti del Conformista eÁ l'allucinazione, la riproduzione di eventi in modo distorto, soggettivo e non chiaro mentre la metafora centrale al testo filmico eÁ il rapporto tra la cecitaÁ e la visione. La macchina da presa storta rappresenta l'onirico, e, piu significativamente, onirico eÁ il procedimento alla base della serie di identificazioni o condensazioni che il film inscena. Il film eÁ organizzato, per intero, secondo il punto di vista di Marcello, che vede la realtaÁ in modo distorto. Marcello eÁ la fonte della prospettiva della camera e lo stile cognitivo del protagonista diventa quello di Bertolucci secondo un buon esempio della soggettiva libera indiretta che Pasolini considerava l'equivalente cinematografico del discorso libero indiretto della letteratura. Marcello eÁ il voyeur per eccellenza. Egli eÁ lo spettatore del film nel film. Ad un certo punto egli dice a Quadri: «i prigionieri di Platone ci somigliano» e, in questo modo, sancisce un parallelo tra se stesso ± prigioniero della sua diversitaÁ e del fascismo ± e i prigionieri di Platone che eÁ come dire gli spettatori cinematografici. Lo spettacolo che egli osserva eÁ quello della sua vita. Un totale fallimento poiche modellata su una immagine della realtaÁ che risulta infondata, o meglio, fondata su un equivoco edipico. Marcello, che assomiglia sempre di piu all'eroe virgiliano che muore giovane nell'Eneide, eÁ una sorta di paranoico la cui vita eÁ tutta spesa nel tentativo di difendersi dall'omosessualitaÁ. Egli vive in uno stato di continua fissazione sulla scena primaria, che viene reiterata piu volte nel corso del film. Ne Il conformista c'eÁ una scena che ho girato quasi senza rendermi conto del suo significato ± il che non succede poi troppo di rado ± ma che in seguito, con un po' di sinceritaÁ, sono riuscito a chiarirmi durante una seduta www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo sesto

psicoanalitica. Trintignant rientra all'Hotel d'Orsay, rigido nel suo cappottone, oppresso da un fardello di morte. [...] Apre la porta della sua camera e entra in una piccola lobby dalla quale, grazie ad una seconda porta, si accede alla camera da letto vera e propria. La penombra fitta lo avvolge e attraverso la fessura della porta socchiusa spia il corpo della moglie, distesa sul letto, le sue gambe nude che dondolano oltre il bordo. Davanti a Stefania Sandrelli c'eÁ Dominique Sanda inginocchiata sul pavimento. EÁ una scena di vaga seduzione omosessuale, attraversata da un brivido erotico. Ma aldilaÁ del significato narrativo diretto, la situazione ricorda la scena primaria. Oggi mi sembra che tutto il mio cinema sia in qualche modo contenuto in questa scena 9.

L'ammissione eÁ irreversibile! La scena primaria della seduzione di Marcello o quella della seduzione di Giulia ad opera di Anna Quadri o, ancora, quella del ministro fascista (significante paterno) che si scambia effusioni con una donna enigmatica sono al centro del testo filmico e della coscienza di Marcello. Egli eÁ un voyeurista, cioeÁ uno spettatore dentro al film che a sua volta eÁ un'opera iconocentrica fondata sul gusto per la figurazione, sul valore della percezione visiva. Marcello nell'ultima scena, guardando direttamente dentro la camera, si rivolge agli spettatori quasi ad invitarli a riconoscere di essere stati sedotti dal potere del cinema. Bertolucci, che ha saputo cogliere lo spirito alla base dell'idea moraviana di conformista (la simpatia di Moravia andava all'eroe dell'Ottocento, al ribelle, all'uomo che voleva distinguersi dagli altri, invece gli era insopportabile l'eroe del nostro tempo, l'uomo che vuole essere del tutto uguale agli altri, al servizio di ideologie conformiste), ha articolato questa nozione in un film caratterizzato dalla contaminatio piscoanalitico-politica (il padre di Marcello ripete come se fosse uno slogan: «Strage e malinconia») e incentrato sulla problematica edipica e la sua messa in scena come prisma di un discorso filmico piu ampio. Vale sottolineare che la conclusione del film diverge da quella del romanzo. Nel romanzo, l'automobile su cui fugge inutilmente Marcello insieme a Giulia e alla loro bambina viene colpita da una scarica di mitra. La morte di Marcello eÁ simbolica della morte del fascismo. Per Bertolucci la conclusione eÁ la finta liberazione degli istinti repressi di Marcello e al contempo risulta in una psicanalizzazione della liberazione storico-politica dell'Italia il 25 aprile 1945. Nel finale del romanzo muoiono tutti, fatalmente, sotto i colpi di una mitragliatrice. Bertolucci ha riletto e tradotto questo finale secondo la propria ottica di tipo psicanalitico. Alla fine del film eÁ l'inconscio che si muove dentro a Marcello, gli si rivela, ed egli, per la prima volta, riesce a capire se stesso.

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E. UNGARI, Scene madri, cit., pp. 191-192.

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CAPITOLO SETTIMO

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ULTIMO TANGO

Ho sempre desiderato incontrare una donna in un appartamento deserto, che non si sa a chi appartiene, e fare l'amore con lei senza sapere chi eÁ, e ripetere questo incontro all'infinito, continuando a non sapere niente 1.

Utimo tango a Parigi eÁ uno dei film di Bertolucci di cui si eÁ parlato piu a lungo. La vicenda eÁ nota: presentato in prima mondiale all'Alice Tully Hall del Lincoln Center di New York nell'ottobre 1972, il film venne censurato in prima istanza e approvato in appello dalle Commissioni di censura che decisero per 13 secondi di tagli complessivi. Apparve in Italia l'anno successivo, doppiato e peggiorato rispetto all'originale bilingue franco-inglese. Successivamente sequestrato, solo a distanza di anni il film eÁ stato assolto e ha ripreso a circolare. Oggi si trova anche in videocassetta con una certa facilitaÁ (a differenza di Partner di cui esiste la videocassetta italiana con sottotitoli in inglese negli Stati Uniti mentre risulta del tutto introvabile in Italia). Ultimo tango racconta una storia di amore e di morte ambientata in una Parigi nebbiosa e piovosa di fine inverno fotografata splendidamente da Storaro. A Parigi si incontrano i destini, congiunti occasionalmente, di Paul e Jeanne. Paul eÁ un americano di quarantacinque anni, diventato il proprietario di un hoÃtel de passe ± metafora che sottolinea la sua inappartenenza, da espatriato ± appartenuto alla moglie morta suicida. Jeanne eÁ una ragazza borghese che ha poco piu di vent'anni. Paul ha alle spalle una vita avventurosa, un matrimonio fallito (sua moglie aveva un amante a cui aveva regalato una vestaglia da camera uguale a quella del marito), e il dolore per il suicido della moglie; Jeanne, invece, appartiene alla buona borghesia parigina, eÁ figlia di un colonnello caduto in Algeria ed eÁ fidanzata con Tom, un giovane regista della televisione che ha la fissazione del cinema-veritaÁ. Paul e Jeanne si incontrano in un appartamento vuoto. Lui sembra essersi rifugiato lõ con la sua angoscia; lei sta ispezionando l'appartamento perche ne cerca uno da affittare. Poche parole tra i due precedono il loro primo amplesso che daÁ inizio a quella che si rive1

E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 90.

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Capitolo settimo

leraÁ una storia d'amore eccezionale di cui Paul detta le regole (non possono dirsi i propri nomi e nemmeno parlare del proprio passato), che Jeanne accetta curiosa e affascinata. L'unico tipo di rapporto che Paul concepisce eÁ dunque quello del sesso, dei corpi: l'unico luogo dove questo rapporto eÁ possibile eÁ l'appartamento di rue Jules Verne. Quando Paul, dopo un lungo e tormentato monologo accanto al cadavere della moglie, ha come esorcizzato la sua angoscia e propone a Jeanne una relazione piu normale, Jeanne la rifiuta percheÂ, venuto meno l'eccitamento della trasgressione e del mistero, vede Paul per quello che eÁ: un uomo molto piu vecchio di lei, il proprietario di un alberghetto equivoco, un fallito. La loro storia d'amore si deteriora come sembra simboleggiare il topo morto trovato nel letto del ``loro'' appartamento. Dopo un tango che Paul la costringe a ballare e dopo la proposta di matrimonio, Jeanne gli spara e lo uccide. Il corpo di Paul rannicchiato a terra, su un terrazzo, in posizione fetale eÁ l'immagine che chiude il film come un veristico dramma ottocentesco. Il film contiene gli stilemi cari a Bertolucci: il tentativo di superare la nevrosi con il sesso, il tema psicoanalitico del padre (Paul per Jeanne eÁ l'immagine di un padre da distruggere per non esserne a sua volta distrutta), il tema del doppio (Paul e l'amante della moglie, Paul e Tom, Paul e il padre, Paul e Bertolucci), la polemica contro l'istituzione del matrimonio e l'ideologia borghese (mentre Paul sodomizza la donna la costringe a ripetere una serie di affermazioni contro la famiglia e la borghesia), l'amore tra l'affettuoso e l'ironico per il cinema (c'eÁ qualche riferimento a Godard, a Vigo e al Truffaut del Jean Pierre LeÂaud-Tom), e infine un gusto figurativo nei riferimenti espliciti a Francis Bacon. L'intrecciarsi convulso di queste tematiche fa di Ultimo tango una sorta di film esistenzialista, tra il romantico e il decadente, che in un senso esprime la difficoltaÁ di un uomo ad uscire dall'isolamento a cui sembra averlo condotto la societaÁ, mentre nell'altro eÁ un'ulteriore meditazione di Bertolucci sul cinema. Il rapporto tra i due protagonisti eÁ fondato sul non detto, sul silenzio e sulla casualitaÁ. Romanticamente, sembra che solo l'anonimitaÁ sessuale sia la vita e l'unica forma di amore mentre l'identitaÁ sociale eÁ la morte. EÁ solo nell'appartamento che il sesso puoÁ aver senso come autenticitaÁ, mentre fuori, il mondo e il film-veritaÁ che Tom gira, con Jeanne come protagonista, sono ineluttabilmente ± e paradossalmente ± fiction. Per Paul il rifugiarsi nell'appartamento eÁ un po' come un isolarsi dal mondo delle apparenze borghesi e istituzionali e dal ricordo di una esistenza fallita, nell'angoscioso tentativo di trovare la propria identitaÁ almeno in quella dimensione animalesca che sembra l'unica non mistificabile. La nuova realtaÁ che cosõ si crea dentro all'appartamento, pur costruzione astratta e artificiosa proprio perche eÁ basata su una convenzione come quella di considerarsi soli al mondo, senza passato e senwww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ultimo tango

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za futuro, eÁ l'unica vera e accettabile. Ultimo tango, diventa anche il dramma dell'estraneitaÁ sentimentale, il cui nucleo eÁ nella ricerca dell'assoluto attraverso la morte della ragione. L'amore che il film inscena eÁ tutto consumato nel segno della vita e della morte, di cui il tango che i protagonisti ballano eÁ metafora; eÁ fondato sull'incomunicabilitaÁ, sul silenzio sordo della morte della moglie di Paul prima e di lui stesso poi. Amore, amour fou, e morte, dunque, secondo un topos giaÁ noto, non sono altro che le facce della stessa medaglia ovvero dell'idea che l'erotismo eÁ come l'approvazione della vita fin dentro la morte. L'incomunicabilitaÁ e l'isolamento dei due personaggi fa venire in mente quei rapporti interpersonali alla Sartre che sono insieme necessitaÁ esistenziale e processo autodistruttivo della personalitaÁ per cui all'uomo non resterebbe altro che dibattersi all'interno di due poli negativi quali l'individualismo e la massificazione. Analogamente al Conformista, i cui due poli, a detta di Morandini, erano sesso e fascismo, Ultimo tango eÁ tutto giocato nel rapporto tra eros e ideologia. Nella fattispecie, l'elemento sessuale, quello politico (che si qui si manifesta nella sfera del privato piu che in quella del sociale), e cinematografico vengono articolati attraverso una prepotente messa in questione dell'elemento figurativo-visivo. Mentre nel Conformista c'eÁ una sorta di psicologicizzazione dell'elemento politico, Ultimo tango, per converso, inscena una politicizzazione dell'elemento psicologico-sociale, di cui il sesso diventa insieme metafora e atto catartico. Ultimo tango eÁ un altro film sul cinema: il testo rivisita almeno quattro epoche cinematografiche: gli anni Trenta nell'ambientazione parigina, nell'albergo di terz'ordine; gli anni Quaranta presenti con alcune maschere di quel periodo (Girotti, Maria Michi e la Galletti); gli anni Cinquanta del Bertolucci spettatore di cinema e del Brando attore di quel cinema; e la nouvelle vague scherzosamente caricaturata nel personaggio interpretato da Jean Pierre LeÂaud. Stilisticamente, il film eÁ caratterizzato dal susseguirsi di episodi tra il reale e il visionario anche se sono cancellate le istanze ribelli che avevano caratterizzato la diegesi dei film precedenti di Bertolucci e la narrazione segue un percorso lineare. La cronologia eÁ rispettata, c'eÁ un inizio, un climax e una fine, c'eÁ un rapporto di causa-effetto tra i vari eventi, i flashback sono pochi e riferiti ad un passato recente. Le sequenze dall'effetto piu straniante sono quelle all'inizio del film dove la camera, ossessivamente, mostra Paul e Jeanne in situazioni simmetriche e in `incroci pericolosi'; daÁ il senso, in crescendo, dell'imminenza del loro incontro. Le sequenze, solo all'occhio dello spettatore, diventano una sorta di preparazione preliminare all'incontro tra l'uomo e la donna. La narrativa ruota tutta attorno al personaggio maschile. L'interpretazione di Marlon Brando eÁ mirabile, e ci si chiede come sarebbe stato Ultimo tango senza di lui (Bertolucci aveva pensato in un primo tempo di www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo settimo

affidare la parte di Brando a Jean-Louis Trintignant). Brando, che era giaÁ un attore affermato all'epoca delle riprese di Ultimo tango, sembra essere interprete di un film su se stesso. Il personaggio di Paul pare realizzare, infatti, una sorta di mito dell'improvvisazione che evoca i moduli della Commedia dell'arte, sia perche Brando daÁ a Paul il suo carattere (scontroso e iroso), sia perche gli daÁ anche una parte del suo passato (si ricordi il monologo in cui Brando racconta brandelli autentici della sua giovinezza nello Utah). Di fatto, sembra proprio che Brando non reciti, che non interpreti alcuna parte, diventando, in questo senso, una «maschera nuda» pirandelliana, cioeÁ un attore che eÁ protagonista di se stesso (il Brando di Ultimo tango ricorda quello di Un tram che si chiama desiderio, Kazan, 1951, dove l'attore recitava la parte di un operaio, rozzo e brutale, che violenta la cognata alcolizzata fino a quando la poveretta viene ricoverata in manicomio; in entrambi i casi si tratta di un Brando molto piu convincente di quello del Padrino, F.F. Coppola, 1972). Anche la Schneider, in un certo senso, interpreta se stessa ma, a differenza dell'attore americano, arriva a Ultimo tango come debuttante, inesperta al cinema e al rapporto che il film le impone con Paul. Di questo era ben consapevole Bertolucci che notava: Brando eÁ il riassunto fisico e culturale di molti americani, da Hemingway a Norman Mailer a Henry Miller, cosõ come LeÂaud eÁ il mio passato da cineÂphile. I due personaggi maschili sono pieni di ricordi mentre il personaggio femminile non ha alcuna memoria, eccetto il fatto di essere fisicamente molto francese, con un corpo che ricorda un po' le donne di Renoir padre e di Renoir figlio, quelle ragazze che possono camminare serenamente sui cadaveri di chi le ama 2.

Bertolucci, che qui sembra suggerire una genealogia tra pittura e cinema (presentati ancora una volta come binomio, analogo a quello tra padre e figlio), riconosce e gioca abilmente con le innegabili differenze tra i due protagonisti del film: quelli maschili sono il risultato di una stratificazione di ruoli, Jeanne (abusata fisicamente da Paul e psicologicamente da Tom), eÁ invece un personaggio infinitamente sottile. Quando il Paul/Brando getta la maschera trasgressiva e sceglie un ruolo (quello di marito), egli tradisce Jeanne, dopo l'iniziazione a una sessualitaÁ infernale. Mentre di Jeanne sono noti il passato e il presente, la sua famiglia, i suoi desideri, di Paul non sappiamo quasi niente. Le uniche informazioni sul suo passato vengono elencate dalla donna che pulisce la camera dell'albergo dove si eÁ suicidata sua moglie; l'uomo ha fatto un po' di tutto, ha indossato varie maschere (che, in gran parte, corrispondono ai ruoli interpretati da Bran2

E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 123.

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Ultimo tango

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do nei suoi film): eÁ stato un pugile, un attore, un suonatore di bongo, uno scaricatore di porto, un rivoluzionario, un giornalista in Giappone, un marinaio a Tahiti. Il rapporto tra Paul, Jeanne e la narrativa fa del film un altro capitolo dello stesso discorso che Bertolucci ha iniziato con Strategia e Il conformista. Anche Ultimo tango eÁ una riflessione sul cinema. L'impostazione autoriale del film corrisponde ad una narrazione esclusivamente fondata sul personaggio maschile che si arroga tutte le posizioni di soggetto. Il ruolo piu evidente di Paul eÁ quello di amante sciovinista e violento; fin dall'inizio, eÁ il personaggio in controllo: egli detta il ritmo e le regole della relazione con Jeanne. Ad esempio, nella sua volontaÁ di vivere il sesso come pulsione istintiva al di fuori dei modelli comportamentali previsti dalla societaÁ civile e borghese, egli impone il segreto sui loro nomi, indica che la loro relazione esiste solo all'interno delle quattro mura dell'appartamento parigino. Che Paul sia in controllo eÁ altresõ evidente dal fatto che eÁ sempre lui a prendere ± brutalmente e con violenza ± l'iniziativa nei loro incontri sessuali. L'iconografia dei loro amplessi serve, peraltro, a reiterare lo stesso motivo. L'uomo, poi, si rivolge a Jeanne fin dall'inizio, usando il «tu» mentre la ragazza usa il «lei» (anche dopo il loro primo rapporto quando Jeanne passa dal «lei» al «tu», a seguito di una violenta reazione di Paul a una sua domanda, la donna torna ad usare il pronome formale ± significante di distacco, paura e sottomissione). La loro relazione eÁ regolata da un codice grammaticale tipico del linguaggio borghese mentre l'incomunicabilitaÁ e l'isolamento dei due personaggi tradisce il senso di un discorso tutto speso all'insegna dell'alienazione. Paul eÁ un personaggio misterioso che non si lascia conoscere ne dalla ragazza ne dallo spettatore: mentre Jeanne eÁ quasi sempre svestita, la nuditaÁ di Paul non compare. EÁ stato Bertolucci stesso a sostenere in un'intervista che, in un certo senso, essendosi identificato con Brando, mostrare la nuditaÁ dell'attore avrebbe corrisposto a mostrare la propria 3. L'identificazione di Bertolucci con Brando non sembra affatto casuale. Essa corrisponde alla necessitaÁ dell'autore di identificarsi con il personaggio che eÁ suo portavoce non tanto (e non solo) per quanto riguarda i contenuti del film ma piuttosto in relazione alla produzione di senso. A dire il vero, Bertolucci aveva girato molte scene in cui Brando compariva nudo, ma non resiste poi alla tentazione snobistica di tagliarle. Ripensati oggi, quei tagli gli sembrano un modo di castrare il padre. L'altro ruolo maschile di Paul eÁ quello di padre. Egli ha i modi del padre-padrone nei confronti di Jeanne, eÁ sensibilmente piu vecchio di lei e appare come un uomo navigato. Verso la fine del film, si comporta chiaramente da padre e suggerisce alla ragazza di fare un bagno e poi le dice: «Su, bevi 3

CHARLES MICHENER, `Tango': the Hottest Movie, «Newsweek», 7 February 1973, p. 56.

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Capitolo settimo

per far contento papaÁ». Ma c'eÁ di piuÂ, Paul eÁ padre come lo era stato suo padre che egli descrive come un violento e un ubriacone; diventa anche il padre di Jeanne quando ne indossa il chepõÂ. Piu Paul viene investito del ruolo paterno, piu Jeanne (che all'inizio del film portava capelli acconciati mentre verso la fine li porta ricci e sciolti come una ragazzina) viene ridotta al ruolo di figlia. Paul incarna anche due tipologie diverse di padri: quello trasgressivo e quello borghese (in questo senso epitomizza il conflitto, lo stesso di Prima della rivoluzione, di Bertolucci verso i due mondi). Come padre trasgressivo egli permette a Jeanne di vivere una rottura dal mondo borghese dal quale lei proviene e di rigettare la repressione patriarcale e sessuale di quel mondo; ma quando, alla fine del film, dichiara il suo amore a Jeanne e le propone una vita entro gli schemi sociali che egli, fino a quel momento, aveva contestato, Paul diventa il padre borghese e la donna non sa piu che farsene: lo uccide e si costruisce un alibi (che eÁ molto simile a quello di Bette Davis, la Leslie Crosbie di Ombre malesi ± The letter, W. Wyler, 1940 ± che uccide il suo amante); piu generalmente, Ultimo tango cita una serie di film classici hollywoodiani che raccontano di amori consumati all'insegna della passione e volutamente denigratori delle regole della moralitaÁ borghese: Sono innocente (You Only Live Once, F. Lang, 1937), Lettera da una sconosciuta (Letter from an Unknown Woman, M. OphuÈls, 1948), La donna del bandito (They Live by Night, N. Ray, 1949), La donna che visse due volte (Vertigo, A. Hitchcock, 1958). Paul eÁ un macho e un violento. La sua violenza e la sua rabbia sono dovute all'inspiegabile suicidio della moglie e sono causate dal dramma psico-sessuale che l'uomo sta vivendo. SaraÁ la morte a consacrare il passaggio di Paul da oppressore violento a vittima indifesa, tanto indifesa che il suo corpo morto a terra eÁ nella posizione del feto (significante di regressione psicologica). Morente, Brando sussurra «Our children!» («I nostri figli!»). Poi, quando Bertolucci gli ha chiesto di mormorare l'ultima parola che doveva essere come un rantolo incomprensibile, l'attore ha scelto di dire «Tetiaroa», che eÁ il nome dell'isola di Tahiti di sua proprietaÁ. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, anche come vittima Paul ha potere, si tratta di un potere che egli sottrae al personaggio femminile. Ultimo tango come storia d'amore ha tutti i topoi di quel genere cinematografico. Primo fra tutti la musica. A partire dal titolo, come ogni storia d'amore che si rispetti, il film conferisce una notevole importanza alla musica che eÁ quella di Gato Barbieri e ha il compito di rappresentare l'irrapresentabile, l'ineffabilitaÁ del sentimento e l'intensitaÁ dell'atto erotico; il commento musicale eÁ il fondamento emotivo della narrativa e i ritmi africani del bongo (assieme alla fugace immagine del saxofonista nero), danno un respiro esotico a tutta la storia. Come in un classica storia d'amore, Ultimo tango inscena la scomparsa improvvisa di uno dei due amanti che sembra compromettere definitivamente il loro www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ultimo tango

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rapporto; quando Paul abbandona l'appartamento sembra che egli abbia deciso di abbandonare Jeanne per sempre. E proprio mentre la donna parla di matrimonio e di figli a Tom, Paul riappare ripulito e pronto a chiederla in sposa. Tutto fa sperare nel lieto fine, anche la scena del ballo che sembra il momento del fatale ricongiungimento tra i due (i balli nei film di Bertolucci accompagnano sempre i momenti cruciali della storia). In Ultimo tango la coppia balla un tango, una danza che rappresenta una sorta di deumanizzazione dei corpi. La love story, come Ultimo tango, eÁ un genere filmico femminile in cui anche l'uomo eÁ soggetto ad una sorta di femminizzazione; come ha fatto notare Roland Barthes, c'eÁ sempre qualcosa nell'uomo innamorato che eÁ femminizzato. A queste affermazioni fanno eco le parole, piu programmatiche che teoriche, di Bertolucci: Brando all'inizio eÁ un personaggio brutale e aggressivo che subisce lentamente un processo di de-virilizzazione, fino a farsi sodomizzare dalla ragazza.

Il procedimento di femminizzazione e de-virilizzazione di Paul, che lo condurraÁ allo stato di impotenza tipico del borghese e della donna, si chiarisce mano a mano che il film procede. In certe situazioni, Brando si comporta da donna: cade in preda di attacchi isterici (la parola `isteria' deriva dalla parola greca che sta per `utero') e, come un'isterica, non si cura del proprio aspetto, non si veste bene e porta la barba lunga; in una sequenza, piange rannicchiato vicino al muro dell'appartamento coprendosi in parte il viso secondo un'iconografia tipicamente femminile. Altre sequenze che lo riguardano sono girate al femminile; alla fine del film, quando rincorre Jeanne su per le scale, la sua figura viene ripresa dall'alto delle scale e risulta rimpicciolita. Paul (a differenza di Jeanne che il film mostra anche all'aperto), compare sempre dentro all'appartamento o a una casa, e quindi eÁ legato alla domesticitaÁ che eÁ normalmente un luogo femminile. Nel film, Paul istituisce un rapporto plurisoggettivo con la narrativa che gli conferisce ruoli contraddittori e intercambiabili. EÁ grazie a questo personaggio che il film procede. EÁ in Paul che si chiarisce e si manifesta il senso intimo del film. I diversi ruoli di Paul gli conferiscono potere sul testo. Egli eÁ un divo e l'alter-ego del regista, rappresenta il cinema al maschile, un cinema inteso come stupro incestuoso. Nel film, c'eÁ un denudamento quasi completo del cinema come forma simbolica patriarcale e, nell'amour fou che Ultimo tango mette in scena, si chiarisce il rapporto di Bertolucci con lo schermo cinematografico. La sua eÁ una sorta di automistificazione; egli vede nel triangolo edipico e nelle rivalitaÁ mimetiche una paradossale certezza dell'io, espressa attraverso il tentativo di giungere al fondo buio delle passioni che sono recitate e teatralizzate. Bertolucci, che non si dichiara un pensatore, non daÁ nessuna soluzione alla questione edipica (il nucleo principale del film) il cui ruolo eÁ quello di costituirsi a modulo narrativo. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo settimo

La psicoanalisi, il Paul-Brando (per un verso maschera nuda e per l'altro strumento plurisoggettivo), il sesso e la morte servono al regista per fare una riflessione sulla rappresentazione e sull'atto di fare cinema; un cinema caratterizzato da originalitaÁ espressiva e inteso come eÂcriture. In questo senso, Bertolucci si fa autore e la sua esperienza eÁ riconducibile all'«operazione nouvelle vague italiana» In quanto autore dei film, Bertolucci si identifica con i personaggi maschili che mette in scena. Athos, Marcello e Paul sono una sorta di «altro da se» del regista, parlano per lui e, nella loro identitaÁ frammentata, nel loro essere decentrati contribuiscono a far sõ che il testo filmico compia la decostruzione del realismo classico costituendosi a cinema modernista. Il cinema di Bertolucci ha come fine la rivelazione delle modalitaÁ della percezione; la scoperta, attraverso il viaggio della memoria e dell'immaginazione, del progetto (che eÁ come dire del sogno, dell'utopia) delle apparenze del mondo e dell'immagine della storia.

Ultimo tango a Parigi (1972). Paul (Marlon Brando) e Jeanne (Maria Schneider). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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CAPITOLO OTTAVO

BERTOLUCCI E LE «SUE» DONNE: LA LUNA

Ho fatto per la prima volta un personaggio femminile, cosa per me molto difficile, e un punto di forza poteva essere quello di darle un retroterra in cui io potessi trovare una certa identificazione, di offrirle, in un certo senso, la mia memoria 1.

La luna, presentato alla Mostra del cinema di Venezia (1979), non ottenne critiche positive (al film venne contestata la scarsa credibilitaÁ dei contenuti e la superficialitaÁ nella trattazione), e scatenoÁ violente reazioni da parte delle femministe italiane. Bertolucci, interpellato da J.T. Kline a proposito di questo film, afferma: Tutti i miei film riguardano il padre. Finalmente ne La luna mi sono accorto che questa figura era una copertura o un filtro per la madre la cui importanza viene alla fine rivelata 2.

Quello in questione eÁ dunque un film sulla madre, ovvero sulla funzione sociale che piu di ogni altra eÁ associata alla nozione di femminilitaÁ. I film sulle madri, nella tradizione hollywoodiana e non solo, sono film sentimentali (una sorta di cinema delle emozioni), e trattano del rapporto, spesso contrastato, tra madri e figli inscenando innumerevoli sacrifici e sofferenze. Sono i film che fanno piangere e che, in quanto tali, tradizionalmente trovano in un pubblico femminile il proprio referente privilegiato. La teoria cinematografica li ha definiti «melodrammi-materni». La luna, oltre a rappresentare l'occasione per alcune osservazioni sui personaggi femminili, costituisce una tappa importante nell'ambito dell'itinerario del regista: eÁ il film in cui il Bertolucci-auteur inizia a fare spazio al Bertolucci-soggetto e dove la significazione non eÁ consegnata ne alla figura autoriale, ne a uno o piu personaggi maschili ma al pre-testo melodrammatico, significante paterno, che eÁ insieme struttura e contenuto del film, griglia intepretativa nonche referente ideologico. In particolare, la significazione, affidata a personaggi maschili nei film precedenti, in La luna non eÁ consegnata 1

G. GRIGNAFFINI, Conversazione, cit., p. 96. Citato da JEFFERSON T. KLINE, I film di Bernardo Bertolucci, trad. Marcello Cavagna, Roma, Gremese, 1994, p. 126. 2

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Capitolo ottavo

a Caterina (come ci si aspetterebbe, visto che la donna eÁ la protagonista di un film in cui sono quasi del tutto assenti «uomini veri»), ma le viene sottratta dal testo, o meglio, viene spostata metonimicamente dal personaggio femminile al testo filmico. Il titolo eÁ carico di risonanze simmetriche. «Luna» prima di tutto comporta le sue molte facce mutevoli che si esprimono nei suoi altrettanto mutevoli nomi: Diana, Cinzia, Tricia, Ecate, ecc. Come astro nel firmamento essa ruota perennemente attorno al Sole di cui riflette la luce, mai sua. Ma la luna eÁ anche emblema legato alle pratiche magiche della notte, a riti misteriosi, o «tenebrosi», ai cicli mestruali e agli umori lunatici e folli. C'eÁ da chiedersi se Bertolucci ± poeta di In cerca del mistero e letterato per interposta persona ± che nel suo film giocheraÁ con le dimensioni infernali dell'emblema, non sia consapevole dei sensi segreti con cui la tradizione poetica italiana piu canonica ha investito quest'emblema. BasteraÁ qui ricordare che Dante nei primi canti del Paradiso (III-V) fa della luna la residenza delle donne (Piccarda e Costanza), che Ariosto nell'Orlando Furioso (Canto 32) rappresenta la luna come luogo della felicitaÁ dove il cervello del folle Orlando eÁ depositato. Il film inizia con un prologo: una donna e suo figlio percorrono in bicicletta una strada di campagna; il bambino eÁ dentro il cestino della bicicletta e tiene gli occhi fissi sul volto della madre dietro il quale scorge la luna piena, in cielo; poco a poco, il bambino sovrappone e confonde le due immagini. La donna eÁ Caterina, una cantante d'opera italoamericana, che aveva studiato il bel canto a Parma, il bambino eÁ Joe. La luna racconta delle vicende domestiche e di carriera di Caterina e delle vicissitudini tra adolescenza e droga di Joe. La donna, separata dal primo marito, vive con un secondo compagno e con il figlio. Quando il compagno di Caterina muore, i rapporti tra madre e figlio degenerano. Joe inizia a drogarsi e Caterina decide di mostrargli tutto il suo amore, cercando di andarci a letto. Dopo un susseguirsi di scene madri, il film raggiunge il climax finale suggerendo la ricostituzione della famiglia originaria sancita dalla ricomparsa del primo marito di Caterina, cioeÁ il padre di Joe. Tutti i problemi si risolvono magicamente con un finale che lascia intravvedere un «... e vissero felici e contenti...». Non senza una punta di malignitaÁ, la trama, chiosata, risulterebbe piu o meno cosõÂ: l'uomo abbandona la donna in carriera (si sa, famiglia e lavoro vanno raramente d'accordo), la donna sola non riesce a educare il figlio e nemmeno a trarre soddisfazione dal proprio lavoro. Sfaldata l'istituzione famiglia (quella che il Marlon Brando/Paul in Ultimo Tango aveva fortemente criticato e in cui successivamente aveva sperato di rifugiarsi), la vita di Caterina eÁ un continuo insuccesso, diventa una discesa progressiva e ineluttabile nella disperazione. Solo quando la famiglia www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Bertolucci e le «sue» donne: La luna

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si ricostituisce (l'uomo torna e, con un ceffone ± Joe ne aveva proprio bisogno ± sistema tutto), i problemi si risolvono, artificialmente, attraverso quello che la teoria chiama surplus space e che nel film corrisponde al raggiungimento di un equilibrio cosõ come viene sancito dai paradigmi dell'ideologia borghese in riferimento alla famiglia. Viene da chiedersi, come aveva fatto Morando Morandini in una recensione del film apparsa sul Corriere della Sera (La luna, 8 settembre 1979): «Ma i soprani di oggi sono davvero cosõ sciocchi e nevrotici?» La chiusa positiva del film, che ha per protagonista Caterina, non risolve le contraddizioni e non corrisponde affatto all'affermazione del personaggio femminile; semmai, eÁ una sorta di regressione, una chiusura circolare che riporta la storia all'inizio e che cancella, lasciandoli irrisolti, i problemi posti dal testo nel corso del suo svolgimento; in effetti, i personaggi sembrano essere segnati da destini immodificabili perche la conclusione de La luna risulta una sorta di riscrittura del prologo: si tratta di due scene primarie. Il prologo: mentre Joe tossisce e piange perche gli eÁ andato di traverso il miele che Caterina gli aveva fatto succhiare dal suo dito, la madre balla il twist con un uomo, di cui si vede a malapena la sagoma controsole, che tiene in mano un pesce e un coltello. La conclusione: Joe, chiamando il padre a raggiungere Caterina alle Terme di Caracalla, inscena una rappresentazione in cui, questa volta, la madre, a distanza, sul palcoscenico, prende il posto che era stato del figlio, la stessa impotenza, l'impossibilitaÁ di vederci chiaro; mentre Joe era abbagliato dal sole, Caterina ha i riflettori del palcoscenico puntati su di lei. La scena primaria, di cui Freud parla a piu riprese, e non sempre negli stessi termini, eÁ una fantasia primaria, appunto, da parte del bambino che vede o, piu spesso, immagina il rapporto sessuale tra i genitori. EÁ come uno spettacolo dal quale il bambino risulta ineluttabilmente escluso, a distanza e che subito non capisce. Il voyeurismo, reale o immaginario, che la scena primaria comporta, prevede sempre la concreta assenza dell'oggetto del desiderio perche presuppone una distanza ora dello sguardo, ora dell'udito. Questa distanza implica una forma di necessaria passivitaÁ nonche una serie di identificazioni immaginarie. Il bambino non puoÁ esercitare alcun controllo sui suoni e sulle immagini della sessualitaÁ dei suoi genitori e risulta invece controllato, travolto da quanto vede o sente. La distanza tra il bambino e la scena primaria eÁ analoga a quella che separa lo spettatore dallo schermo cinematografico. Nel prologo, la scena primaria, metafora del cinema, vede Joe nella posizione dello spettatore; nella conclusione, Bertolucci mette in scena gli stessi attori a dire che niente eÁ cambiato se non la posizione di Caterina che, nel finale, eÁ esclusa dalla scena primaria, come lo eÁ stata da tutto il film; infatti, La luna inizia e finisce con la stessa famiglia ovvero www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo ottavo

l'unico spazio in cui il personaggio femminile ha una propria identitaÁ simbolica e immaginaria. All'interno di questa cornice (una bella famiglia all'inizio e una bella famiglia alla fine) succede il finimondo. La colpa eÁ di Caterina che, nelle prime scene del film, con un gesto dal chiaro risvolto erotico, fa succhiare al figlio neonato un po' di miele dopo essersene imbevuta il dito; questa sequenza torna alla mente piu avanti quando il rapporto incestuoso tra madre e figlio si fa esplicito; inoltre, questa stessa scena ha il suo corrispettivo in un'immagine identica e rovesciata: se all'inizio del film eÁ la bocca di Caterina a inseguire il miele che scivola lungo il corpo del bambino, successivamente saraÁ Joe a leccare il viso sporco della madre, restituendole la stessa equivoca attenzione. Ancora, quando Caterina, in procinto di partire per Roma, vieta a Joe di accompagnarla, il figlio le risponde: «Posso farlo io tutto quello che fa papaÁ»; una chiara premonizione del destino che legheraÁ Joe e Caterina: nella mente della madre (o in quella del figlio?), Joe si sostituiraÁ al padre per colmarne l'assenza in un film che comincia proprio con un'inquadratura del «nome del padre» (di Bertolucci); si ricorderaÁ, infatti, che sul muro di un magazzino di Brooklyn si legge il nome di Pasolini; poco piu avanti, nel film, Pasolini ricompariraÁ, per interposta persona, anche nel personaggio di Franco Citti, il gay che tenteraÁ di sedurre Joe in un bar comprandogli un cono di gelato. Tutto il film eÁ dunque consumato in funzione dell'assenza dell'uomo e di una famiglia per Caterina, che servirebbe ad assicurare la soggettivazione (sociale e simbolica), della donna e che, distrutta, la lascia svuotata della soggettivitaÁ e priva di una identitaÁ. Caterina (e non suo figlio Joe), trovandosi senza marito, eÁ la vera orfana del film. SaraÁ solo la riapparizione del padre a salvare la donna, il figlio e la narrativa che si dispiega in funzione dell'assenza di costui. A questo proposito, eÁ emblematico l'episodio in cui Caterina, che aveva deciso di smettere di cantare, in realtaÁ, ritrova la voce e canta di fronte al figlio e al marito ritrovato. Il reimpossesssarsi della voce da parte di Caterina ha una duplice valenza: per un verso, garantisce il lieto fine anche sul piano professionale; ma, in un altro senso, quello simbolico, Caterina ha una voce ed un ruolo come `soggetto' soltanto in relazione alla ricostituzione della famiglia visto che lei, in quanto attrice, oltretutto, eÁ identificata solo in ruoli creati per lei da altre persone: la voce le serve per dire parole non sue, la sua identitaÁ si attiva solo in funzione di uno spettatore interno ed esterno al film. In La luna comunque c'eÁ un po' di tutto: le personali debolezze di Bertolucci, le sue ossessioni narrative, la sontuositaÁ, le strizzatine d'occhio regionalistiche e la grande retorica operistica, i sentimenti e le situazioni estreme, la decadenza e una chiusa aÁ sensation. Ma in La luna c'eÁ sowww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Bertolucci e le «sue» donne: La luna

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prattutto il melodramma e c'eÁ la psicoanalisi, entrambi informano la struttura quanto i contenuti del film, entrano nell'economia del racconto con una esplicita funzione di modalitaÁ narrativa. Intanto, il melodramma; della psicoanalisi ci si occuperaÁ piu avanti 3. Qualche esempio: nel finale della Luna lo scioglimento ambiguo e drammatico della vicenda avviene alle Terme di Caracalla, dietro e davanti il palcoscenico con una significativa sintonia di cesure, di stacchi e di crescendi tra realtaÁ filmica e finzione melodrammatica. Il melodramma deborda dal palcoscenico allo schermo: non eÁ citazione ma eÁ parte integrante della struttura narrativa del film che, nel Bertolucci modernista, significa anche ribadire quella caratteristica del melodramma capace di coinvolgere lo spettatore nella propria struttura narrativa. Ora, il melodramma non riguarda solo La luna ma viene citato anche in Prima della rivoluzione e Strategia per fare solo due esempi, mentre con una certa avanguardia teatrale (il Living Theatre), Bertolucci aveva collaborato in Partner. I riferimenti al melodramma sono citazioni dirette o indirette, quando al Rigoletto, quando alla cultura patriarcale che sottende la tradizione melodrammatica italiana. In La luna, il melodramma eÁ, innanzi tutto, una delle piu importanti autocitazioni, rappresenta un ritorno a Verdi e a Parma: Bertolucci non solo daÁ a Caterina la sua memoria ma la fa andare anche a Parma, nella Parma di Attilio Bertolucci, alla ricerca di quella figura paterna rappresentata dal suo maestro di canto. In questo senso, il melodramma diventa citazione biografica e regionale oltre a tradire quell'amore aristocratico di Bertolucci per la tradizione e per la citazione colta, o piu semplicemente per il «gusto italiano». Il ritorno all'opera lirica rappresenta anche il ritorno alle radici rurali nostrane: tornare a Verdi significa tornare al grande romanzo borghese ottocentesco (cfr. Novecento), condividere la profonda adesione di Verdi alla realtaÁ familiare di quel secolo e apprezzare la sua capacitaÁ di calare nella vita reale l'ideologia dominante, ovvero quella borghese-patriarcale. Con il melodramma, Bertolucci cita anche Luchino Visconti quando afferma: «Io amo il melodramma perche si situa proprio ai confini della vita e del teatro. Ho tentato di rendere questa mia predilezione nelle prime sequenze del film Senso. CioÁ che piu mi affascina eÁ il personaggio della ``diva'', questo essere insolito il cui ruolo nello spettacolo oggi bisognerebbe poter rivalutare. Nella mitologia moderna, la diva incarna il raro, lo stravagante e l'eccezionale» 4. Dicevamo che Bertolucci cita Visconti e in questo senso, se ci si perdona il bisticcio di parole, torna a citare se stesso 3 Bertolucci mi ha parlato del film come di un «mielodramma», ovvero di un melodramma in cui l'amore materno, rappresentato nelle scene iniziali dal miele, verraÁ sostituito con l'eroina. 4 Citato da G. Callegari, N. Lodato (a cura di), Leggere Visconti, Parma, Pratiche, 1977, p. 68.

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Capitolo ottavo

quando citava Visconti in Strategia. Inoltre, Caterina, come i suoi corrispettivi viscontiani (Giovanna in Ossessione, Nadia in Rocco e i suoi fratelli), distrugge e si autodistrugge, domina il figlio in modo aggressivo e soffocante. La luna eÁ un testo melodrammatico nei contenuti e nella struttura (per un verso, l'opera verdiana, e per l'altro il genere del melodramma romantico-materno, di cui l'effigie della luna in cielo eÁ una sorta di emblema; differenza, questa, alquanto estranea alla critica italiana che raramente opera il necessario distinguo tra il melodramma verdiano come opera in musica e fenomeno nostrano, e la nozione di melodramma come la intendono gli anglosassoni ± Elsaesser, Wood, Brooks ± o i francesi ± il meÂlo). Oltre alle sequenze giaÁ citate, in La luna sono diverse le concessioni che il film fa al melodramma: i vasti movimenti della macchina da presa, l'esagerazione delle panoramiche verticali, i moduli di luce e di colore chiaramente espressionisti. Ma La luna, oltre a citare Verdi, appartiene anche al genere cinematografico del melodramma romantico-materno. In questo senso, il melodramma imprime una forma al testo, riconduce tutto il film e la significazione ai canoni che regolano questo genere (un genere «al femminile» insieme ai film gotici e alle storie d'amore), strutturalmente circolare, in cui i materiali sono distribuiti e articolati secondo una successione di spostamenti e di identificazioni, senza mai pervenire ad una vera soluzione, ne sul piano ideologico ne su quello simbolico. Il genere filmico del melodramma (e il sottogenere melodrammamaterno), eÁ stato fatto oggetto di una serie importante di ricerche da parte della teoria cinematografica recente soprattutto a seguito del rinnovato interesse, a partire dagli anni Sessanta, per gli studi teatrali. Nell'ambito di questi studi, eÁ stato adottato un nuovo atteggiamento anche nei confronti della mise en sceÁne, rivalutata in quanto tale, ovvero come espressione estetica con un valore preciso e di supporto dell'elemento tematico. Il melodramma cinematografico (in particolare, la filmografia di Douglas Sirk) ha trovato una fortuna notevole pur sollevando molte questioni soprattutto relative all'apparente contraddizione, immanente al genere, tra la componente psicoanalitica (collegata a quella della mise en sceÁne), e quella realistica. Alla domanda su come possano coesistere realismo e psicoanalisi nell'ambito del melodramma, ha risposto per primo Geoffrey Nowell-Smith che, escludendo la loro incompatibilitaÁ, ha fatto notare che il genere melodramma si fonda sulla compresenza di entrambi. Nato per la classe borghese, il melodramma aveva lo scopo di inscenare i problemi privati di quella classe: i rapporti famigliari, le relazioni generazionali e quelle tra i sessi. D'altro canto, poiche (secondo i canoni borghesi) proprio questi erano anche gli argomenti da reprimere ideologicamente, www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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essi venivano espressi simbolicamente attraverso l'enfasi eccessiva sulla mise en sceÁne. Lo scopo del melodramma era quello di riempire lo spazio lasciato vuoto dagli imperativi etici tradizionali e offrire soluzioni narrative a conflitti politici, economici e sociali nell'ambito del personale, della famiglia: il luogo dove si riconcilia l'inconciliabile. Da qui, lo stretto rapporto tra melodramma e psicoanalisi come discorso sulla struttura e i conflitti (drammatici, appunto) in seno alla famiglia, il luogo deputato a presentare quello che l'ordine sociale proibisce e reprime. Esattamente come un melodramma, La luna eÁ focalizzato sulle relazioni familiari e sui rapporti tra persone unite da legami di sangue, sulla famiglia intesa come punto di convergenza tra ordine simbolico e valori sociali borghesi. Caterina, infatti, nella riunificazione della famiglia, ritrova il suo ruolo sociale e simbolico. Il melodramma come La luna, per motivi socio-ideologici, non fa altro che salvaguardare la sopravvivenza dell'unitaÁ famigliare da cui consegue la possibilitaÁ, da parte dell'individuo (si tratta sempre di personaggi femminili), di acquisire un'identitaÁ che rappresenta anche una posizione nel sistema; una posizione entro la quale l'individuo puoÁ essere «se stesso» e «a casa». Nel melodramma, come ne La luna, i personaggi assumono ruoli psichici primari, quali Padre, Figlio, Madre, Famiglia e generalmente sono passivi e impotenti cioeÁ non agiscono in modo da imprimere la propria volontaÁ sugli eventi ma sono gli eventi ad agire sui personaggi a cui il melodramma conferisce una identitaÁ in negativo, attraverso l'assenza e la sofferenza. L'impotenza di Caterina (la sua castrazione), eÁ subito evidente poiche la donna eÁ incapace di condurre una vita «normale». EÁ un personaggio passivo percheÂ, da apparente soggetto della narrazione eÁ, in realtaÁ, l'oggetto: eÁ incapace di reagire e di sottrarsi a quel destino che eÁ deciso per lei dai canoni borghesi che regolano la struttura narrativa del film; il suo destino risulta essere culturalmente predeterminato. Se, sulla scorta di EÂmile Benveniste, definiamo la soggettivitaÁ (sia in ambito fenomenologico sia in ambito psicologico), come la capacitaÁ da parte del soggetto di dire «io» 5, da cui derivano il senso di unicitaÁ, quello di unitaÁ e di identitaÁ nonche la contestuale appropriazione del linguaggio, non possiamo non osservare che sono diversi i modi in cui Caterina eÁ costretta a non poter dire «io». Innanzi tutto, la giaÁ citata incapacitaÁ di cantare e poi l'incesto. Secondo Deleuze e Guattari 6 l'incesto di per se eÁ impossibile, non esiste. Perche l'incesto si dia, devono verificarsi le seguenti condizioni: (1) eÁ necessaria la presenza fisica di persone unite da legami di sangue, (2) nel corso 5 6

EÂMILE BENVENISTE, Problemi di linguistica generale, Milano, Il saggiatore, 1994, p. 224. GILLES DELEUZE, FEÂLIX GUATTARI, L'anti-Edipo, Torino, Einaudi, 1975.

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dell'atto incestuoso, tali persone devono mantenere i loro nomi, quelli che indicano la loro posizione e la loro identitaÁ (Madre, Sorella, Zia, ecc.) simbolica. Secondo Deleuze e Guattari, queste due condizioni non si danno mai contemporaneamente: nell'atto incestuoso sono presenti le persone fisiche ma prive del proprio nome poiche tale nome eÁ inseparabile dalla proibizione per tali soggetti di essere partner. Caterina non rinuncia all'incesto ma eÁ costretta, dall'assenza del marito e di un padre, a rinunciare al proprio nome. Perdere il nome significa perdere, ancora una volta, l'identitaÁ, quella identitaÁ che le era stata conferita non in quanto individuo ma piuttosto come portatrice di un segno psichico. Un tipo di esperienza analoga eÁ quella di Jeanne in Ultimo tango perche l'amore, simbolicamente incestuoso, tra lei e Paul si consuma dietro l'espresso divieto (sancito dall'uomo) di comunicarsi il proprio nome. In La luna eÁ Caterina ad indirizzare il proprio desiderio verso il figlio; in questo senso, si colloca in perfetta sintonia con il tema dei melodrammi-materni, dove il figlio (o talvolta la figlia) spesso, e alquanto apertamente, assume il posto del padre nella vita sessuale della madre. In ogni caso, nei melodrammi-materni eÁ sempre la donna a macchiarsi di questa colpa, eÁ la sessualitaÁ femminile ad indirizzare il proprio desiderio nella direzione sbagliata. Come per il melodramma, anche al discorso dell'incesto dei contenuti ne corrisponde uno stilistico-strutturale. E se il melodramma eÁ l'autocitazione per eccellenza, in La luna ce ne sono molte altre percheÂ, come ha affermato Bertolucci: «Un film sulla fantasia incestuosa deve essere attraversato da quel movimento violentemente autoerotico e incestuoso che sta dietro l'autocitazione» 7. E allora solo alcune delle piu importanti citazioni del film: La luna rimanda a Prima della rivoluzione sia per la relazione incestuosa tra Gina e Fabrizio sia per i riferimenti al sottotesto melodrammatico e verdiano che informano il film. In Prima della rivoluzione, come in La luna, c'era anche una figura paterna, Cesare, un maestro elementare come Giuseppe, il padre naturale di Joe. Inoltre, come la sequenza finale di Prima della rivoluzione che si svolge a teatro, in presenza di tutti i protagonisti del dramma (Gina, Fabrizio, la fidanzata e i rispettivi genitori), cosõ alla fine di La luna, in un teatro, «sfilano» davanti allo spettatore Caterina, Joe, Giuseppe e la ragazza di Joe. Ancora, Prima della rivoluzione era stato per Bertolucci una sorta di ritorno a Parma e al padre; analoga valenza ha il viaggio di Caterina, che torna dal suo maestro a Parma. Poi c'eÁ Strategia, da cui vengono presi a prestito la nonna paterna di Joe (la Draifa), l'esperto di culatelli amico di Athos-padre e il contesto operatico di tutto il film. Giovanna Grignaffini ricorda che «la luna del prologo [di La luna] eÁ la stessa che in Strategia del ragno compare 7

E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 191.

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un attimo prima che la rinnovata messa in scena della morte di suo padre, da parte dei tre amici, diventi per Athos Magnani il modo per riafferrare e, nello stesso tempo perdere definitivamente, un confuso ricordo del passato» 8. Sul modello di una scena nel Conformista, viene riscritta quella che ritrae Joe e Caterina nella limousine di ritorno dal cimitero. L'atteggiamento voyeurista delle persone che dai vetri della macchina spiano Caterina e il figlio eÁ analogo e complementare al voyeurismo di Marcello che, da dentro la macchina, rimane impassibile davanti alle urla strazianti di Anna Quadri. Inoltre, questa scena cita Prima della rivoluzione, dove, ad un altro funerale, quello di Agostino, Gina e Fabrizio occupano nell'auto una posizione identica a quella di Joe e di Caterina. Anche la scena di Caterina in ginocchio davanti al figlio nel suo camerino ricorda la scena primaria del Conformista quando Lino, in camera sua, seduce Marcello. Ancora, all'inizio di La luna, il secondo padre di Joe sembra raccogliere il chewing-gum dallo stesso posto (il terrazzo di una casa borghese), in cui l'aveva attaccata Paul prima di morire: passaggio di testimonio? Infine, il motivo dell'omosessualitaÁ sia dell'amico di Caterina che di Franco Citti sono riferimenti al padre poetico-cinematografico di Bertolucci, Pasolini. L'autocitazione eÁ anche un atto di presunzione da parte del Bertolucci ormai affermato metteur en sceÁne, che, come ha indicato lui stesso, daÁ a Caterina e, noi aggiungiamo, al film la propria memoria. Melodramma e identitaÁ, incesto e psicoanalisi, in La luna diventano tutte facce della stessa medaglia: quella di un film che, come la sua protagonista, soffre di isteria e, in particolare, di isteria di conversione. Definita da Freud, l'isteria di conversione si manifesta attraverso una serie di sintomi fisici che sono espressione di un'idea repressa. Questi sintomi, nel melodramma, sono rappresentati dalla musica e dalla mise en sceÁne che, per un verso enfatizzano il carico emotivo di una certa azione e per l'altro, lo sostituiscono. Sintomi dell'isteria sono presenti sia nel corpo del film sia in quello della sua protagonista. Caterina incarna la definizione che Lacan daÁ di «desiderio isterico», ovvero il «desiderio di un desiderio insoddisfatto», cambia umore in modo repentino e spesso inspiegabile, viene frequentemente ritratta in atteggiamenti che tradiscono una crisi di nervi. Si ricorderaÁ, inoltre, una delle sequenze iniziali del film in cui l'occhio della camera si fissa sul corpo della donna, ne accarezza le fattezze per fermarsi su un primo piano del viso di lei, non tanto per enfatizzarne la bellezza (tra l'altro, in questo senso e nel corso di tutto il film, Bertolucci non tratta 8 G. GRIGNAFFINI, Cronaca in margine a un film che sale: `La luna', «Cinema & Cinema», 21, 1979, p. 88.

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bene l'affascinante Jill Clayburgh, fotografata da Vittorio Storaro in maniera antidivistica), quanto piuttosto, per far notare che Caterina sta prendendo una pillola: il riferimento alla malattia (le donne sono spesso malate di nervi), eÁ fin troppo evidente. Il comportamento di Caterina diventa una sorta di mappa testuale di sintomi di quella pulsione repressa (tesa al superamento della castrazione, e trasferita ± secondo una pratica di condensazione e spostamento ± sul figlio), che eÁ causa delle «nevrosi di transfert» tra cui appunto l'isteria. L'isteria di conversione eÁ legata al processo narrativo, sia per quanto riguarda i sintomi, sia per la terapia (talking cure). Ad essere narrativizzato in La luna eÁ il corpo femminile mentre il soggetto donna eÁ muto. Il suo corpo eÁ il veicolo attraverso il quale si manifesta e parla l'isteria secondo un procedimento metonimico: il problema psichico represso, viene espresso attraverso sintomi psicosomatici che sono letteralmente una messinscena: il sintomo rende visibile cioÁ che non lo eÁ, e il corpo diventa un testo, enigmatico ma decifrabile. Isterico eÁ anche il testo del film: La luna si fonda sulla cifra stilistica dell'interruptus, condensando istericamente e melodrammaticamente diverse categorie discorsive tra cui il road-movie (il viaggio da New York a Roma a Parma), il dramma, il comico, l'ironico (la gag di Roberto Benigni che trasporta faticosamente un pesante tendone nel salotto di Caterina). Il film inscena forti contraddizioni e bruschi cambiamenti di tono e la significazione si fonda specificatamente sull'assenza di struttura, su di un susseguirsi di emozioni, su inizi e interruzioni che assoggettano il testo a continui cambiamenti. Bertolucci non risparmia la giustapposizione arbitraria di scene che creano un effetto straniante: la sequenza in cui viene ripresa la limousine in cui si trovano Joe e Caterina dopo il funerale del marito di lei diventa, senza soluzione di continuitaÁ, un'altra limousine che percorre le strade di Roma e da cui scendono Joe e una sua amica. La luna vive anche di momenti isolati, carichi di intensitaÁ emotiva, parossistici e strutturati secondo il procedimento delle scene madri melodrammatiche. EÁ Bertolucci stesso a parlare del film come di una successione di scene madri: [In La luna] non c'eÁ solo una scena madre dopo l'altra, ma spesso, al centro della scena, c'eÁ la madre vera e propria, o se preferisci, la prima donna dato che Caterina eÁ entrambe le cose, e non eÁ mai l'una senza essere anche l'altra, madre di Joe e primadonna dell'opera 9.

Il testo del film eÁ isterico in quanto si tratta di un melodramma con al centro una prima donna e insieme una madre, essa stessa incarnazione del melo9

E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 195.

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dramma e della minacciosa scena primaria su cui il melodramma si fonda. Il fatto che Caterina eÁ sempre primadonna e madre istituisce un legame ancora piu stretto tra melodramma verdiano e genere cinematografico, tra mise en sceÁne e incesto, tra identitaÁ del personaggio e del film, tra l'isteria del testo e della donna. Caterina eÁ una primadonna ma anche una madre piena di problemi, tutti causati direttamente o indirettamente dall'assenza del padre: Caterina non ha una identitaÁ perche non ha un marito, Joe si droga perche non ha un padre. O cosõ sembra suggerire il testo filmico. Scena primaria, conflitti e melodramma ruotano tutti attorno al problema edipico. Il dramma edipico, il dramma psicoanalitico per eccellenza (alla pari dell'isteria, il primo caso della psicoanalisi, il primo testo dell'inconscio), occupa una posizione di rilievo in La luna che, lo abbiamo giaÁ detto, inizia e finisce con la rappresentazione della scena primaria. E allora, alla fine di un film isterico e melodrammatico, incentrato sul dramma edipico, per far sõ che il padre vero torni, e per risolvere i conflitti, eÁ necessaria la morte di chi ne ha preso il posto: il figlio. Ma non saraÁ la droga ad uccidere Joe, quanto invece, simbolicamente, saraÁ egli stesso a decretare la propria morte. Si ricordi, a questo proposito, la scena in cui il ragazzo, ritrovato suo padre, che non lo (ri-)conosce, gli comunica che suo figlio eÁ morto. SaraÁ questa rivelazione a indurre Giuseppe a recarsi da Caterina. Ad una analisi simbolica, la sequenza eÁ chiaramente edipica: la fine del film presenta Giuseppe, il padre di Joe, in una veste filiale e non paterna (l'uomo vive in casa con sua madre con un sottotesto parallelo a quello di Joe e di Caterina), mentre Joe nel corso di tutto il film ha svolto il ruolo di padre. Dunque, saraÁ solo grazie alla morte simbolica di Joe (un parricidio, l'assassinio edipico), che Giuseppe potraÁ riavere il suo spazio come padre e riconquistare Caterina che, nell'ultima scena del film, dal palco di Caracalla (dove sta provando Un ballo in maschera, la storia, non a caso, di una donna contesa tra due uomini uno dei quali muore), tende melodrammaticamente il braccio verso la famiglia ritrovata, mentre la camera offre un primo piano del ragazzo che sorride. Caterina canta «Ei muore» e lo spettatore eÁ lecito che si chieda: chi muore? Un personaggio teatrale o Joe, verso cui eÁ rivolto il braccio teso di Caterina? In ultima analisi, il finale di La luna rappresenta il trionfo del Bene sancito dal ritorno di Giuseppe dopo che l'assenza del padre aveva lasciato un vuoto riempito dal superego materno, irrazionale e arbitrario, che aveva impedito lo svilupparsi di relazioni sessuali normali e possibili solo sotto l'egida della metafora paterna. Tutto eÁ bene quel che finisce bene; il melodramma di Bertolucci si chiude con il riconoscimento collettivo del Male da una parte (l'incesto e la droga) e della Virtu (la Famiglia) dall'altra. Nella chiusa positiva del melodramma, a differenza di quanto www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo ottavo

accadrebbe in una commedia, non assistiamo all'emergere di una societaÁ e di una situazione nuova che si forma intorno alla giovane coppia riunita, piuttosto siamo di fronte alla ricostituzione dell'antico stato di innocenza, che ha espulso ogni elemento pericoloso e puoÁ riaffermare i propri valori immutabili. L'espulsione del Male si risolve in una conferma, una restaurazione. Un finale cosõ poco credibile ed eccessivamente positivo, formalmente, ben si adatta al dramma delle esagerazioni che il film ha messo in scena. La chiusa di La luna eÁ evidentemente un'iperbole dello happy ending che nel film in questione, non trova una plausibile giustificazione nei contenuti fino a quel momento esposti. Stilisticamente, proprio per questo motivo, la conclusione eÁ ``adatta'' al resto del film: eÁ melodrammatica perche eÁ sensazionale; eÁ iperbolica messa in scena svuotata di ogni significato; eÁ operatica restaurazione della famiglia; eÁ straniante apparizione del Bene. Ma, la chiusa, perche positiva, pare altresõ una citazione parodica e provocatoria del finale del genere della «commedia» all'americana (non certo all'italiana); la cosa non puoÁ stupire visto che la filmografia recente, ma non solo, di Bertolucci tradisce una certa ascendenza hollywoodiana; per il regista, il cinema classico americano ha da sempre costituito un interlocutore importante del proprio lavoro. In La luna, la citazione hollywoodiana finale eÁ demistificazione e parodia. I critici avevano ragione nel sottolineare la poca credibilitaÁ della chiusa del film che peroÁ hanno subito liquidato senza notarne il significato intrinseco. Non pare infatti azzardato cogliere nella caricatura dello happy ending il riaffiorare del conflitto e del dubbio bertolucciano, quello tra borghesia e anti-borghesia, tra padroni e contadini, che ha sempre sotteso la sua coscienza come i suoi film. Nella poesia giovanile dedicata a Pasolini, Bertolucci si definiva un «borghese pentito»; in tutti i suoi film, da Prima della rivoluzione a Novecento, da Tragedia di un uomo ridicolo a Strategia del ragno, al Conformista, il regista mette in scena il suo conflitto privato il cui correlativo oggettivo storico eÁ la dialettica di classe, la lotta tra fascismo e comunismo. La luna, tutta all'insegna dell'opera melodrammatica, di cui sposa i contenuti ideologici, trasforma la chiusa in una parodia di quel mondo. Il finale eÁ un po' come la messa in scena del pentimento di Bertolucci o, se si preferisce, rappresenta il suo tentativo (peraltro riuscito) di restare eternamente in bilico tra due mondi dialetticamente contrapposti senza mai pervenire ad una sintesi risolutiva (alla sintesi non giunge nemmeno Novecento che eÁ la materializzazione marxista della dialettica hegeliana in cui il regista fa intravvedere la possibilitaÁ dell'uccisione dei padri che peroÁ risulta ineluttabilmente rimandata). La luna, un film sostanzialmente a-politico, ma ideologicamente molto vicino al mondo patriarcale operistico-borghese, affida alla chiusa il ruolo di www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Bertolucci e le «sue» donne: La luna

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commentare politicamente e parodisticamente proprio quel mondo che Bertolucci non eÁ disposto ad abbracciare in toto ma neppure a rifiutare completamente. Il finale, in effetti, dovrebbe redimere Bertolucci e il film proprio per la poca credibilitaÁ che gli eÁ stata contestata; a conclusione di un testo incentrato sul melodramma, Bertolucci sembra voler dire che a quel mondo non crede del tutto nemmeno lui. Lo mette in scena, lo lascia parlare, lascia che la restaurazione prenda corpo in tutta la sua artificialitaÁ che, del mondo borghese, rappresenta una caricatura parodica e una critica nemmeno del tutto velate. Se nei contenuti assistiamo al trionfo del Bene, nella forma, questo film sancisce il trionfo del testo. Il Bertolucci di La luna eÁ regista sicuro e affermato, tiene la mano salda sul testo che peroÁ sceglie di far parlare al posto di se stesso e dei personaggi. Mentre nei film precedenti per Bertolucci avevano parlato rispettivamente Fabrizio, Athos, Marcello e Paul, qui il regista daÁ a Caterina la sua memoria ma le toglie una voce. Lei non parla: al suo posto parla il corpo, l'isteria, metafora del testo e del melodramma. Caterina resta un segno vuoto: una cantante lirica senza voce in un mondo dove manca la coerenza tra l'ordine simbolico e il reale. La luna, in questo senso, si colloca all'apice della piramide rovesciata, che si puoÁ prendere a metafora del percorso del regista, e rappresenta un momento di apparente interregno giaÁ insidiato dalla presenza (che si faraÁ esplicita soprattutto con L'ultimo imperatore) di un nuovo Bertolucci pronto a diventare il rinnovato soggetto maschile dei suoi film e a tematizzare il problema edipico in seno ad un contesto esotico per riservarsi di disperdere e l'uno e l'altro nelle inquadrature maestose e negli spazi enormi del TeÁ nel deserto e di Piccolo Buddha, salvo poi tentare di riconcettualizzarli in Io ballo da sola.

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La luna (1979). Joe (Matthew Barry) e Caterina (Jill Clayburgh). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

CAPITOLO NONO

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NOVECENTO

Da anni, Bertolucci promette di iniziare a lavorare al Terzo Atto di Novecento, ma per il momento sono due gli Atti del film (uscito nel 1976) che, per lunghezza (si tratta di tempi viscontiani) e per complessitaÁ, sembrano ciascuno un film a se stante. In realtaÁ, i due Atti sono tenuti insieme dallo stesso stile (non sempre dallo stesso ritmo), dagli stessi attori e dal progredire del racconto che copre una cinquantina d'anni di storia italiana attraverso la vita di due famiglie, i Berlinghieri e i DalcoÁ. Tutto il film eÁ un grande flashback; si apre il 25 aprile 1945 quando la guerra eÁ appena finita e gli ultimi fascisiti vengono catturati. Novecento inizia (ma in realtaÁ finisce) nello stesso momento storico in cui si era concluso Il conformista. Cronologicamente, infatti, l'inizio del racconto del film eÁ l'anno 1900, quando nascono, nello stesso giorno, due bambini: uno, eÁ Alfredo, erede di una famiglia di padroni e l'altro eÁ Olmo, figlio illegittimo di contadini con un nome (di un albero grande, forte e relativamente diffuso nell'Appennino tosco-emiliano) che lo lega indissolubilmente alla terra; le loro vite procedono parallelamente e sono la metonimia visiva della dialettica politico-ideologica che attraversa la prima metaÁ del '900. Olmo e Alfredo da bambini, giocano insieme ma, crescendo, si fa sempre piu chiara la loro appartenenza a due classi sociali diverse e si fanno sempre piu esplicite le diverse ascendenze che condizioneranno le loro vite. Mentre Olmo e Alfredo diventano adulti, i vecchi muoiono e i contadini, presa coscienza del loro stato, cominciano a fare i primi scioperi. La storia di Olmo e Alfredo si intreccia metaforicamente con quella, piu grande, delle due classi sociali che essi rappresentano e a cui appartengono. Alla fine del film, il fascismo e i padroni saranno sconfitti: Alfredo saraÁ processato in pubblico ma non verraÁ ucciso perche dovraÁ servire da esempio perpetuo della vittoria del popolo sui padroni. Con un flash-forward, alla fine del film, Bertolucci mostra Olmo e Alfredo che ormai vecchi si ritrovano a fare gli stessi giochi con cui si divertivano da bambini; riuniti, da amici e nemici, come sempre. Olmo e Alfredo, alla fine sono diventati esattamente come i loro nonni, Leo DalcoÁ e Alfredo Berlinghieri. La musica del film eÁ di Ennio Morricone. Il cast eÁ internazionale e hollywoodiano: comprende Burt Lancaster, Robert De Niro, GeÂrard Depardieu www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo nono

e Donald Sutherland, ma anche Stefania Sandrelli che aveva giaÁ lavorato con Bertolucci nel Conformista e Alida Valli, la viscontiana contessa Livia Serpieri (Senso, 1954) e poi la Draifa di Strategia del ragno. Novecento, che eÁ sostanzialmente un affresco barocco con contenuti storico-ideologici, lascia un grande spazio anche ai sentimenti e alle emozioni (la rabbia, l'amore, la gelosia, l'amicizia) tradendo, anche in questo, un gusto hollywoodiano. Inoltre, eÁ il primo film di Bertolucci ad accantonare quasi completamente il gusto per l'autoriflessivitaÁ metacinematografica e in cui (hollywoodianamente o commercialmente) la grammatica filmica non interferisce con i contenuti della storia, non rappresenta, cioeÁ, un'intrusione nello svolgersi del racconto a cui pare, invece, essere del tutto asservita. Nonostante tutte queste strizzatine d'occhio al cinema d'oltreoceano, che secondo la maggior parte dei critici fanno di Novecento un'epica hollywoodiana, appunto, il film ebbe un destino assolutamente travagliato quando venne distribuito negli Stati Uniti. Troppo lungo e troppo dichiaratamente politico, per non dire propagandistico, Novecento venne censurato, tagliato, mal distribuito e alla fine non apprezzato. Il poema storico di Bertolucci non ottenne il successo auspicato nemmeno in Italia, tanto che dopo quest'esperienza il regista cominceraÁ ad incontrare alcune difficoltaÁ nel reperire finanziamenti per i suoi film (un destino, questo, condiviso da altri grandi registi italiani; Fellini era uno di loro). La metafora del film, come eÁ stato notato da tutti i critici, eÁ il quadro corale di Giuseppe Pellizza da Volpedo intitolato Il quarto stato. L'immagine di Volpedo raffigura con marcato, eppur idealizzato, realismo una massa compatta di lavoratori, uomini e donne, che insieme marciano con forza per manifestare i propri diritti. I colori del quadro (prevalentemente marroni e verdi) sono gli stessi del film e analogo eÁ pure l'ideale socialista ben esemplificato dall'immagine dei lavoratori. L'idealismo e il realismo del quadro sono vicini ad un visione neorealistica del mondo, piu alla Visconti che alla Rossellini, perche i due uomini che insieme alla donna (con in braccio il bambino) guidano il gruppo intero, assomigliano per barba e cappello a Giuseppe Verdi, e ricordano le ascendenze operistiche che danno il tono a tutto il film. Pellizza da Volpedo era un esponente del divisionismo, un movimento pittorico sotteso da un atteggiamento intellettualistico volto verso l'apprezzamento delle nuove scoperte scientifiche e caratterizzato, un po' come accade nel mosaico, dall'idea di tenere separati i colori che non venivano piu mescolati nella tavolozza ma usati puri e distribuiti in piccoli puntini e linee sul quadro. Il divisionismo come frammentazione strutturale dell'immagine eÁ, giaÁ di per seÂ, una metafora del cinema dove l'immagine si forma appunto attraverso la disgregazione e la ricongiunzione (l'idea del montaggio ejzenstejniana). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Novecento

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Nel quadro di Volpedo, completato tra il 1890 e il 1900 e custodito al Museo d'arte moderna di Milano, c'eÁ tutta la visione di Bertolucci del Novecento. Questo secolo, interpretato nei termini dialettici della lotta di classe, diventa anche un monumento autobiografico perche eÁ tra aspirazioni comuniste e provenienza borghese che si consuma il dramma estetico e ideologico di Bertolucci, cosõ come egli lo propone a piu riprese nei suoi film. I personaggi di Olmo e Alfredo, che sono nati nello stesso giorno (quasi fossero una persona sola), sono la proiezione di uno sdoppiamento tutto personale, del regista, lo stesso che anni prima egli aveva confessato nella poesia dedicata a Pasolini. Olmo e Alfredo sono ripresi nelle stesse inquadrature oppure vengono ravvicinati e raffrontati attraverso il montaggio parallelo e alternato tra diverse sequenze; in ogni caso, essi sono i sosia del Bertolucci comunista e del Bertolucci borghese e ripropongono quella dialettica mai risolta e centrale a tutto il suo cinema. La campagna eÁ quella emiliana a pochi chilometri da Parma, vicinissima alla Tara di Strategia del ragno. Bertolucci la fa diventare insieme un paesaggio familiare e uno spazio mitologico adagiato sulle rive del Po, il grande fiume, e ideale scenario su cui si svolge una vicenda contraddittoria e fatta di forti passioni. Le vite parallele e separate dei due protagonisti del film si articolano sullo sfondo delle vicende politico-sociali della prima metaÁ del ventesimo secolo. Lotte di classe, fascismo e Liberazione marcano il passaggio delle stagioni politiche; la vita contadina eÁ ritmata dal passare delle stagioni della natura a ciascuna delle quali corrisponde un rito, dalla mietitura all'uccisione dei maiali (cfr. il cortometraggio La morte del maiale), al rito del pranzo che meglio di ogni altro chiarisce le divisioni di classe; c'eÁ poi il rituale della caccia e i festeggiamenti per il matrimonio di Alfredo che sono insieme citazioni viscontiane e figurazioni del melodramma ottocentesco che eÁ iscritto in filigrana al testo del film. Eventi che si susseguono, stagioni che cambiano, eppure il film rimane all'interno di un tempo sospeso e mitico, quello del presente storico. In fondo, in Novecento non cambia assolutamente niente perche il testo traccia una cerchio perfetto e perfettamente chiuso visto che l'inizio e la fine del film sono due immagini identiche e speculari. Anche i protagonisti, che per molti versi aspirano a costituirsi a personaggi «reali» (un realismo lukacsiano), al contempo sono dei «tipi»: rispettivamente, il tipo del contadino e il tipo del borghese. A queste due tipologie che dividono il mondo in due parti simmetriche, appartengono anche le figure parallele ad Olmo e Alfredo, tutti i contadini da una parte e tutti i fascisti e i padroni dall'altra. In un film tutto speso a favore di una ricostruzione storica della prima metaÁ del ventesimo secolo, Bertolucci sospende la narrativa dalla Storia e la trasforma in racconto mitico ed esemplare, fuori dal tempo. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo nono

Il melodramma agrario ottocentesco di Bertolucci chiarisce fin dall'inizio le sue coordinate. Il film si apre con un tributo a Giuseppe Verdi (un'altra citazione viscontiana, ma anche un'autocitazione). Uno dei personaggi del film, che si chiama Rigoletto, annuncia la morte di Verdi proprio nel giorno in cui, nell'Emilia carnale e passionaria, nascono due bambini. Mentre Olmo e Alfredo crescono, Bertolucci fa resuscitare Verdi. Infatti, i riferimenti operatici che per il regista significano anche un ritorno a casa nonche il potere seduttivo esercitato su di lui da una certa cultura, abbondano in tutto il film. Verdi compare anche in La luna e in Tragedia di un uomo ridicolo: in un caso il contesto operatico interagisce con lo svolgersi della vicenda e nell'altro resta come potente riferimento sottostante agli eventi essendo stato soppresso dalla prima evidenza della narrativa. Melodramma agrario, romanzo storico, film-celebrazione dell'ideale socialista, Novecento, legge il nostro secolo come un'epica delle lotte di classe. Il film diventa il tentativo di attuare la materializzazione marxista della dialettica hegheliana tra servo e padrone. Le figure fenomenologiche dello spirito, che si manifesta nel suo farsi attraverso la storia, sono, nel film, le due posizioni simboliche, dialettiche e fondate sulla contraddizione, rispettivamente di Olmo e di Alfredo. Nella visione hegheliana, ogni finito non puoÁ esistere solo in se stesso perche altrimenti sarebbe assoluto, ma si riferisce necessariamente ad altro da seÂ, che ne svela la sua insufficienza e ne rappresenta la negazione; il pensiero speculativo non si ferma alla contraddizione ma ne coglie l'unitaÁ nella figura della sintesi, che si costituisce come superamento della contrapposizione dialettica, salvo poi farsi essa stessa generatrice di un'altra dialettica. Il percorso dialettico di Novecento, al pari di quello di molti altri film di Bertolucci, non arriva mai alla sintesi: Olmo e Alfredo attraversano una serie di vicende ma sembrano non cambiare mai. I due non si trasformano, anzi, continuano a ricoprire ciascuno il proprio ruolo che era stato anche quello dei loro rispettivi nonni. Continuano ad inverarsi reciprocamente, l'uno ha bisogno dell'altro per vivere e per asserire la propria identitaÁ. EÁ questo, dunque, il vero motivo per cui Alfredo non viene ucciso con la caduta del fascismo; lasciato in vita come esempio perpetuo, in realtaÁ, con la sua presenza garantisce la sopravvivenza ai contadini, come contadini, alla lotta di classe e al Ventesimo secolo che, secondo Bertolucci, eÁ il secolo borghese-marxista. Alla fine del film, Alfredo eÁ seduto su una sedia, qualcuno lo vorrebbe uccidere ma Olmo si oppone sostenendo: «Il padrone eÁ morto ma Alfredo Berlinghieri eÁ vivo e non dobbiamo ucciderlo!» A chi gli chiede il percheÂ, egli risponde: «Perche lui cosõ eÁ la prova vivente che il padrone eÁ morto». Poco dopo, saraÁ Anita, la figlia di Olmo, a chiarire l'apparente contraddizione insita nelle parole del padre. SpiegheraÁ, infatti, che il tribunale popolare ha deciso di condannare Alfredo alla «morte eterna». Una morte www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Novecento

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eterna, in vita, eÁ il destino riservato al padrone che resta, seppur spogliato simbolicamente del suo potere, a rappresentare se stesso, un padrone senza potere ma pur sempre un padrone. La dialettica del film ha, evidentemente, anche un tono dichiaratamente marxiano perche Bertolucci riduce tutta la storia (quella del film, ma soprattutto quella del Ventesimo secolo) a una lotta di classe. Olmo e Alfredo sono innanzi tutto degli «esseri sociali» soggettivizzati in virtu del lavoro che svolgono, ovvero della classe sociale a cui appartengono. Bertolucci opera una materializzazione marxiana della dialettica idealistica di Hegel, traducendo la logica in questione materialista, attinente cioeÁ a una visione economica della realtaÁ. Il film, dunque, non arriva alla soluzione della dialettica ne hegeliana ne marxiana perche il fascimo viene sconfitto ma Alfredo sopravvive; Bertolucci lascia volutamente irrisolta la contraddizione anche in termini psicanalitici. Novecento e i suoi personaggi sono incastrati all'interno di un'eterna fase dello specchio perche il film inizia e termina allo stesso modo: due uomini anziani, uno il padrone, l'altro il contadino, scherzano insieme. All'inizio si tratta di due nonni, alla fine di due nipoti anch'essi peroÁ ormai nonni. Nella psicanalisi lacaniana, il superamento della fase dello specchio corrisponde alla creazione dell'identitaÁ dell'io e contestualmente all'ingresso nell'ordine simbolico. Il bambino percepisce se stesso per la prima volta come diverso dall'altro e come «unitaÁ». Questo tipo di superamento eÁ estraneo al cinema di Bertolucci e a questo film, in particolare, che eÁ tutto speso all'insegna dell'inseguimento dei padri. L'aspettativa dell'uccisione edipica, peroÁ, viene disattesa perche il testo eÁ fermo alla fase dello specchio che il regista esemplifica, ossessivamente, come una lotta che rimane irrisolta. Alfredo e Olmo sono la metafora di relazioni spirituali e materiali, dell'antagonismo e del conflitto che Bertolucci rinviene all'interno della societaÁ italiana della prima metaÁ del Novecento. Quello che il regista manca di notare eÁ che il Novecento eÁ piuttosto il secolo della tragedia dello spirito, di una danza tragica in cui i limiti vengono scompigliati, i confini tracciati e poi annullati. La danza eÁ diventata vera danza della morte (o Totentanz). Bertolucci, al contrario, abbraccia i principi di un radicale materialismo e interpreta la prima metaÁ del Novecento alla stregua di un dualismo manicheistico che si esprime in un eterno conflitto tra il Bene e il Male. La storia di Novecento diventa anche un'entitaÁ personalizzata e sembra la risposta al desiderio di onnipotenza del regista; per un verso, questo lunghissimo film cerca di avvicinarsi alla vita vera di cui registra lo svolgimento, soprattutto nei dettagli, con l'impiego di tempi quasi del tutto fedeli a quelli del reale; per l'altro, Novecento eÁ un'opera narcisisticamente chiusa in un'adorazione del regista di se stesso. Bertolucci utilizza le vicende di inizio sewww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo nono

colo per reiterare il suo intimo e personale conflitto tra il mondo borghese e quello comunista. Il film mette chiaramente a fuoco queste ansie, placandole con una retorica apertamente consolatoria dopo aver tracciato un tenace itinerario storico e ideologico che poggia sul valore e il senso intimo della rivelazione profonda interna al film: l'idea fissa che Bertolucci ha della propria identitaÁ divisa. Nel prisma delle sue proiezioni personali, Bertolucci ritrova la misura delle proprie paure private e storiche. Se Novecento mette sistematicamente in discussione. i compiaciuti miti della piccola borghesia padana esso ripropone, allo stesso tempo, un mito ancora piu fondamentale: la possibilitaÁ della vita eroica attraverso il superamento di un conflitto che, peroÁ, non avviene mai. La parabola narrativa del film ha un senso chiaro: i dissidi violenti tra mondo contadino e mondo dei padroni non sono placabili se non attraverso una loro costante ripetizione. I termini della rappresentazione e la stessa esistenza del film, anzi, dipendono proprio dalla ripetizione del confronto diretto e drastico tra i due mondi che risultano, alla fine, entrambi demistificati dall'esperienza e dal rapporto privato dei protagonisti. La struttura filmica del grande flashback opera da metafora della reversibilitaÁ del tempo, della storia e dell'esperienza. Analogamente, anche la retorica rovescia la linearitaÁ del senso in piu direzioni, e il film inaspettatamente si trasforma in visione iconoclastica del passato. La lotta di classe rimane come una eterna risposta, per molti versi reazionaria e, al contempo, carica di nostalgie elegiache. Novecento, cioeÁ, si risolve in una fondamentale messa in atto del mito originario, quello della lotta di classe come presupposto ad una soluzione che Bertolucci continua ad eludere. Il Bertolucci di questo film, un melodramma che daÁ voce alle passioni, diventa, in chiave raffinata, un punto di incontro tra Visconti e Pasolini, tra l'opera e la borghesia e la lotta di classe; ma dietro a Novecento si scorgono anche ascendenze neorealiste (l'idealizzazione di chi sta dalla parte giusta), si puoÁ intravvedere un certo D'Annunzio delle passioni mostrate e vissute fino in fondo (le scene che ritraggono i fascisti, Attila e Regina) e il Gramsci che guarda al passato con l'intenzione di parlare al presente. Bertolucci ha voluto creare ancora una volta il suo teatro personale delle iperboli e delle passioni tutte messe in scena sullo sfondo della bellezza (che il film fa diventare) incomparabile della campagna emiliana.

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Novecento (1976). Alfredo (Robert De Niro) e Olmo (GeÂrard Depardieu). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Novecento (1976). Olmo (GeÂrard Depardieu) e Alfredo (Robert De Niro). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

CAPITOLO DECIMO

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LA TRAGEDIA DI UN UOMO RIDICOLO

Ulteriore ritorno a Parma, La tragedia di un uomo ridicolo eÁ uscito nel 1981. Senza Vittorio Storaro, che era impegnato con F.F. Coppola e con Warren Beatty, Bertolucci ha affidato la fotografia a Carlo Di Palma. Il film eÁ uno dei meno noti di Bertolucci sia in Italia sia all'estero eppure, secondo alcuni critici (ad esempio Guido Fink che si dice d'accordo con Alberto Moravia), La tragedia di un uomo ridicolo «eÁ uno dei piu belli e dei piu intriganti tra i film di Bertolucci» 1. Il titolo eÁ ossimorico e abbastanza enigmatico visto che si parla di «tragico» e di «ridicolo». La tragedia eÁ quella all'italiana di un piccolo-industriale (un allevatore di maiali che eÁ proprietario anche di un caseificio) della Bassa, Primo Spaggiari, a cui sparisce, forse rapito, il figlio (la scomparsa eÁ tanto enigmatica quanto quella di Anna nell'Avventura, Antonioni, 1959). Ridicolo eÁ Primo che crede di poter ingannare tutti, quando, al contrario, saraÁ lui ad uscire beffato e raggirato da una storia in cui gli eventi prenderanno una piega inaspettata. Alla fine del film (un lungo monologo), la sua voce narrante parla agli spettatori e chiede loro di provarsi a risolvere un mistero la cui comprensione a lui sfugge. La vicenda eÁ relativamente semplice e raccontata in modo assolutamente lineare. Primo vede il rapimento del figlio Giovanni attraverso un binocolo che proprio lui gli aveva regalato nel giorno del suo compleanno. Poco prima, durante i titoli di testa, Primo Spaggiari era stato inquadrato, in primo piano, mentre dormicchiava e sognava con il cappello calato sugli occhi. Il film, dunque, si apre con una giustapposizione, tipica di Bertolucci, tra la possibilitaÁ di vedere e il suo esatto contrario; ma questo attacco sul voyeurismo (in fondo Primo si era ritrovato spettatore non invitato del rapimento del figlio) resta un cenno del tutto inesplorato, perche Tragedia di un uomo ridicolo non faraÁ grandi concessioni alla passione metafilmica di Bertolucci. Per il resto del film, Primo vede molto poco, come indicano le numerose sequenze che lo ritraggono in primo piano mentre guarda nel vuoto essendo incapace di capire la realtaÁ attorno a seÂ. Il nucleo narrativo del film eÁ tutto incentrato sul 1 GUIDO FINK, La tragedia di un uomo ridicolo, in R. Campari e M. Schiaretti (a cura di), In viaggio con Bernardo, Venezia, Marsilio, 1994, p. 104.

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Capitolo decimo

tentativo di comprendere il rapimento di Giovanni che procede parallelamente alla ricerca dei soldi necessari a pagare il riscatto del figlio. Primo e la moglie vivono una crisi matrimoniale e di identitaÁ. Primo non sembra voler rinunciare al proprio allevamento (si riferisce alla sua piccola industria come a un Fort Knox e alla Pianura padana come al proprio mare, che eÁ insieme l'inconscio e metafora imperialista, una sorta di mare nostrum). Primo si eÁ guadagnato a fatica nel corso degli anni la sua piccola industria che non sta andando affatto bene; la moglie, nel frattempo, cerca conforto alla sua pena fuori di casa. L'industriale, che si trasforma in una sorta di investigatore, si fa aiutare e imbrogliare da Laura, la ragazza del figlio (operaia nella ditta di Primo e studentessa di Economia e commercio) e da Adelfo, un garzone del porcile che nel tempo libero studia teologia e che eÁ amico dei due giovani. Adelfo e Laura gli fanno credere che Giovanni eÁ morto. Essendo in brutte acque e ormai convinto della morte del figlio, Primo decide di non dirlo a nessuno e di cercare ugualmente di trovare i soldi, un miliardo, per pagare il fantomatico riscatto; la cifra, enorme per quegli anni (che erano gli anni dei primi drammatici rapimenti in Italia), in realtaÁ sarebbe servita a Primo per pagare i propri debiti e rilanciare la sua attivitaÁ. Gli unici a conoscenza di questo piano erano i due giovani, Laura e Adelfo, ai quali il ridicolissimo industriale promette di trasformare la propria ditta in una cooperativa (il socialismo che vince sul capitalismo) della quale egli si sarebbe autoproclamato presidente a vita. AndraÁ tutto a monte percheÂ, misteriosamente come era scomparso, il figlio di Primo ricompariraÁ alla fine del film tra le braccia della madre con cui balla un liscio. Era tutta un'illusione? Regista e sceneggiatore del film, Bernardo Bertolucci ha voluto Ugo e Ricky Tognazzi, rispettivamente padre e figlio nella vita, ad interpretare Primo e suo figlio Giovanni. Ugo Tognazzi ha ricevuto il Nastro d'Argento come migliore attore e la Palma d'Oro al Festival del cinema di Cannes nel 1981. Il nucleo narrativo di questo film eÁ tipicamente bertolucciano: ci sono un padre e un figlio che si ingannano a vicenda; c'eÁ la Bassa Padana ormai teatro collaudato e sfondo partecipe delle vicende edipiche alla Bertolucci; c'eÁ il socialismo e il comunismo e c'eÁ anche la metafora dell'Italia presa nella morsa terroristica proprio negli anni contemporanei all'uscita del film (gli «anni di piombo», quelli delle stragi e dei grandi rapimenti). Il terrorismo, peroÁ, eÁ uno spettro accennato attraverso il rapimento ma sostanzialmente lasciato fuori dalla storia padana che invece preferisce costituirsi a racconto, tra il politico e l'intimista, di una tragedia appunto (la scomparsa del figlio) che Primo decide di trasformare in una opportunitaÁ. Il presunto sangue versato da Giovanni sarebbe dovuto diventare il concime simbolico che avrebbe messo fine al periodo di crisi economica attraversato dalla azienda agricola del padre. Tragedia di un uomo ridicolo contiene riferimenti ad altri due film padani: Prima della rivoluzione e Strategia del ragno che, peroÁ, sono stilisticawww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La tragedia di un uomo ridicolo

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mente molto piu complessi e articolati. La tragedia che colpisce il personaggio di Ugo Tognazzi eÁ complementare e parallela a quella di Athos junior e senior. Anche in Tragedia di un uomo ridicolo, c'eÁ una figura assente che lascia enigmatiche tracce di seÂ, da decifrare, e la cui assenza condiziona lo svolgimento della storia. Come Strategia, anche questo film si conclude con un tradimento, il padre tradisce la «memoria» del figlio (quando vuole utilizzare i soldi del riscatto a favore della sua azienda), ma ne viene ineluttabilmente tradito dalla sua inaspettata ricomparsa in scena. Primo cerca di prendere il posto del figlio (tanto che corteggia Laura), ne ricostruisce la storia e il presunto rapimento proprio come Athos junior. Sia nell'uno sia nell'altro caso, si ha la sensazione che i testimoni (naturalmente conoscono piu cose dei protagonisti) facciano di tutto per portare fuori strada gli «investigatori»; eÁ eclatante il caso degli amici di Athos senior che lo mitizzano agli occhi del figlio omettendo di informarlo su particolari importanti che consentirbbero (anche al pubblico) di capire cosa fosse effettivamente successo. Anche in Tragedia di un uomo ridicolo il protagonista, Primo, eÁ tenuto all'oscuro di molti particolari della vicenda nonostante il fatto che egli viene posizionato dal testo come narratore; la sua voce fuori campo, che potrebbe sembrare quella di un narratore onniscente, in realtaÁ eÁ in prima persona e quindi racconta i dubbi e i misteri che affliggono Primo piuttosto che le certezze di un testo che a Primo stesso, come allo spettatore, sfuggono. I luoghi e le preoccupazioni di Tragedia di un uomo ridicolo sono gli stessi degli altri film padani di Bertolucci, incluso Novecento. L'attaccamento alla terra (cfr. Tara), i padroni e i lavoratori, i padri e i figli, la passione emiliana, il fascismo, il viaggio in una storia tutta da ripercorrere. Il socialismo eÁ un'altro nucleo importante del film: quando Primo riunisce tutti i suoi operai per comunicare loro le gravi difficoltaÁ finanziarie in cui versa la piccola industria, propone loro un ideale di solidarietaÁ socialista che peroÁ non verraÁ mai attuato. Gli operai, per contro, parlano di «occupazione», di «scioperi», della stessa «lotta di classe», che era giaÁ stata tipica di Novecento. Maurizio Viano qualche anno fa ha scritto un libro sul cinema di Pier Paolo Pasolini 2, e nel capitolo dedicato a Mamma Roma (Pasolini, 1962) propone delle osservazioni convincenti a proposito del film. In buona sostanza, Viano considera Mamma Roma la risposta di Pasolini al neorealismo idealizzato rosselliniano, e legge il film come l'ideale continuazione di Roma cittaÁ aperta (Rossellini, 1946). L'Anna Magnani di Pasolini eÁ la figurazione di quanto sarebbe accaduto a Pina (la Magnani rosselliniana) se invece di essere stata brutalmente assassinata dai tedeschi fosse sopravvissuta alla guerra. Mamma Roma eÁ un personaggio che tenta di cambiare le proprie condizioni sociali, diventando una mercante di verdura; lo sforzo di borghesizzarsi eÁ la 2

MAURIZIO VIANO, A Certain Realism, Berkeley University Press, 1993.

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Capitolo decimo

sua vera colpa e saraÁ la causa principale, quanto implicita, della morte del figlio. Pasolini libera il suo film della visione idealizzata neorealista e lo trasforma in un racconto «realistico» la cui tesi consiste nella convinzione che il capitalismo agisce da ineluttabile corruttore, anche della Magnani che era stata antifascista, partigiana, poi prostituta e proletaria. Non pare del tutto azzardato rinvenire un analogo percorso all'interno del cinema di Bertolucci. L'Olmo di Novecento diventa Primo. EÁ evidente che Olmo e Primo sono interpretati da due attori diversi, inoltre, uno eÁ vedovo e ha una figlia, l'altro eÁ sposato e ha un figlio maschio. Queste sono tutte differenze importanti che naturalmente farebbero apparire il raffronto tra i due abbastanza improbabile. Inoltre, Novecento mostra Olmo da vecchio e si vede bene che egli non eÁ Primo. Ma vi sono anche delle corrispondenze significative. Primo, l'industrialotto borghese eÁ comunista, vive nella stessa campagna di Novecento, in un momento storico successivo a quello della grande epica padana e sarebbe plausibile sostenere che uno come Olmo (giaÁ carismatico e intraprendente contadino), caduto il fascismo, fosse riuscito a mettere insieme una piccola fortuna in quella terra da lui cosõ amata e conosciuta. In fondo, la pianura padana, anche oggi, eÁ piena di famiglie tradizionalmente contadine che negli anni sono riuscite a trasformarsi in piccoli industriali, con tanto di allevamenti e di sofisticate macchine agricole che testimoniano una certa raggiunta agiatezza. E poi, eÁ Primo stesso a ricordare che suo padre e suo nonno erano stati dei contadini. Anzi, piu precisamente, Primo racconta tutta la sua storia: aveva abbandonato la scuola all'etaÁ di nove anni; successivamente aveva iniziato a lavorare la terra, era poi passato a mungere le vacche; dopo le stalle era riuscito a diventare autista del camioncino del latte, un lavoro che lo faceva sentire un «eroe del socialismo». Dopo il servizio militare, non a caso nella Brigata Garibaldi, Primo era riuscito ad aprire un caseificio nel 1960 con dodici operai che lavoravano per lui. La parabola del successo sembra giunta nel film a una conclusione poicheÂ, a seguito del rapimento del figlio e della crisi economica dell'industria, Primo era sul punto di vendere la propria attivitaÁ. Primo, da ex-contadino (nel passato era come Olmo) eÁ diventato il prototipo del piccolo-borghese (non a caso si chiama «Primo»), che riesce a creare la propria attivitaÁ salvo poi diventare del tutto incapace di gestirla. Il momento storico eÁ cambiato e dai primi del Novecento siamo arrivati alla seconda metaÁ del secolo. Tragedia di un uomo ridicolo diventa una sorta di Terzo Atto di Novecento, in cui i contadini sono diventati a loro volta padroni. La dialettica peroÁ non eÁ risolta, la sintesi eÁ irragiungibile perche Primo eÁ un altro padrone che deve fare i conti con il figlio anti-borghese e con i lavoratori della sua azienda. Si trova dalla parte opposta a quella che era stata di Olmo ma invischiato nella stessa dialettica perche anche lui ha bisogno di un alter ego per affermare la www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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La tragedia di un uomo ridicolo

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propria identitaÁ sociale e personale. E Primo, da borghese, viene punito dalla storia analogamente a quanto era accaduto a Mamma Roma. La sostanza di questi raffronti: Bertolucci ha giaÁ fatto il Terzo Atto di Novecento. In Tragedia di un uomo ridicolo, il regista ha raccontato, con uno stile analogo, un altro capitolo della stessa storia; si eÁ soffermato sul periodo storico-sociale successivo a quello in cui vissero i Berlinghieri e i DalcoÁ, eÁ rimasto nella stessa terra e ha riproposto la stessa dialettica. Il risultato eÁ che non cambia niente. L'eterno ritorno che era giaÁ stato di Novecento, viene riproposto anche qui, inalterato, come assolutamente immodificabile eÁ il trascorrere delle stagioni e del tempo che regolano la vita contadina; Tragedia di un uomo ridicolo registra il passaggio dell'autunno e dell'inverno. Anche in questo film anti-epico e anti-eroico, un film minore per caratteristiche e per dimensioni, Bertolucci non risparmia i dettagli della vita in campagna; se in Novecento, l'uccisione del maiale era eseguita secondo regole e sistemi tradizionali, nell'azienda di Primo Spaggiari tutto eÁ meccanico e automatico. Come Novecento, anche Tragedia di un uomo ridicolo eÁ raccontato attraverso un grande flashback lineare; Primo narra eventi giaÁ accaduti, al passato. Si obbietteraÁ che egli usa anche il presente, di tanto in tanto, ma questo serve solo a riaffermare il senso di mistero e di confusione che restano nella sua mente nei confronti di una vicenda oscura. Per poter raccontare la storia, Primo deve averla giaÁ vissuta. Primo eÁ un padre borghese che ha un allevamento di maiali. Come tale assomiglia marcatamente anche al signor Klotz, l'industriale tedesco, padre di Julian in una delle due parti di Porcile (Pasolini 1969), quella dedicata al mondo contemporaneo. Anche Klotz eÁ un borghese e un allevatore di maiali. Anche lui ha un figlio che non capisce, che si vergogna del padre e che rappresenta una sorta di straniero interno alla famiglia. Il contestatissimo film pasoliniano eÁ stato citato da Bertolucci in altre occasioni. Pierre Clementi che in Porcile eÁ il Julian antropofago del mondo vulcanico e primordiale, viene scelto da Bertolucci per interpretare l'autista omosessuale-pedofilo, Lino, nel Conformista; Jean Pierre LeÂaud che eÁ il Julian della Germania contemporanea e che moriraÁ sbranato dai maiali, avrebbe interpretato in Ultimo tango il ruolo di Tom, il fidanzato ufficiale di Jeanne ossessionato dal cinema-veritaÁ; Herdhitze, che nel film di Pasolini eÁ il borghese amico-nemico del padre di Julian, pronto a ricattarlo salvo poi diventarne socio, eÁ interpretato da Ugo Tognazzi. Porcile si spinge su versanti molto complessi, sia sul piano delle idee sia su quello tecnico; il senso del film viene dalla giustapposizione di montaggio tra le due storie completamente indipendenti, eppure collegate (perche l'una eÁ il conscio e l'altra l'inconscio), che il testo inscena. La Tragedia di un uomo ridicolo, per contro, eÁ un film piuttosto conformista. Bertolucci non sfiora nemmeno le preoccupazioni pasoliniane e si ferma su un terreno molto piu sicuro, quello della lotta eterna tra capitalisti e anti-capitalisti che si trawww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo decimo

duce anche nel conflitto edipico tra padri e figli. Eppure, Porcile sembra configurarsi come l'ideale riferimento a monte della Tragedia di un uomo ridicolo. I due film hanno in comune due padri capitalisti e due figli «rivoluzionari» (ciascuno dei figli compie la propria rivoluzione contro i padri) e la stessa ideologia. Julian arriveraÁ alla morte, sbranato dai maiali; Giovanni si fa credere morto per smascherare l'ipocrisia del padre, che eÁ un falso socialista. Porcile eÁ la sintesi pasoliniana tra Marx e Freud, mette a fuoco il condizionamento della storia sull'individuo e il tentativo dell'inconscio di sfuggirvi. I maiali del film di Pasolini erano un segnale ambivalente: macellati dai contadini per il padrone, erano la metafora del punto d'incontro tra oppressori e oppressi. I maiali rinchiudevano in se il senso sottile della polemica anti-capitalista insieme alla questione sessuale, quella della perversione. Bertolucci si appropria dello stesso significante sia in Novecento sia in Tragedia di un uomo ridicolo (i suoi due film sul Ventesimo secolo), senza arrivare ad alcuna soluzione. Il figlio del signor Klotz, morendo sbranato dai maiali, si ricongiunge sacralmente alla natura. Secondo Pasolini in quel tipo di morte risiede il senso del sacro e dell'umano; eÁ il luogo della libertaÁ, il vero sacrificio antiborghese, la vera rivoluzione. Bertolucci ferma la sua storia molto prima; si tiene all'interno di un terreno piu sicuro, quello dell'eterna dialettica mai risolta, perche lui, a differenza di Pasolini, eÁ in fondo solo un «borghese pentito».

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Content accessed by Alma Mater Studiorum - Univ. di Bologna [IP address 137.204.24.180] on 17/09/2018 La tragedia di un uomo ridicolo (1981). Giovanni (Ricky Tognazzi), Barbara (Anouk AimeÂe) e Primo (Ugo Tognazzi). Foto fuori scena. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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CAPITOLO UNDICESIMO

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UNA REINCARNAZIONE IN VITA

Nous avons tous eÂte ± jusqu'aÁ quatre ans ± l'Empereur de Chine 1.

L'ultimo imperatore, Il teÁnel deserto e Piccolo Buddha sono film sull'Oriente e rappresentano il trionfo del soggetto che prende il posto dell'autore e dello spettatore e diventa il centro assoluto della narrativa. L'occidentale Bertolucci nell'esotico (sia esso l'Africa, o l'Oriente propriamente detto, quindi l'India, o l'Estremo Oriente, ovvero la Cina e il Giappone) vede la metafora della dislocazione che sembra essere la condizione necessaria alla scoperta del soggetto inteso come un io dislocato, appunto, nello spazio. Si tratta di un soggetto che poteva affermarsi soltanto «a distanza» dai padri in un contesto che, pur ereditando problematiche note, fosse, anche fisicamente, spostato rispetto al mondo dialettico dal quale Bertolucci era partito e da cui aveva preso corpo la maggior parte dei suoi film. In questo senso, il nuovo soggetto di Bertolucci eÁ reincarnato, e pare quasi la profezia avverata di quanto il regista sosteneva in Prima della rivoluzione, dove veniva auspicato un mondo in cui «i figli siano i padri dei loro padri». L'Oriente di Bertolucci eÁ quello che da sempre occupa un posto speciale nell'esperienza e nell'immaginario dell'Europa occidentale. EÁ un luogo spazialmente non troppo lontano dall'Europa, sede delle sue colonie, dove le lingue e le civiltaÁ europee hanno avuto origine; nondimeno, l'Oriente eÁ uno dei piu ricorrenti e radicati simboli del Diverso 2. In quanto Diverso eÁ, per sua natura, inconoscibile e diventa il luogo dove Bertolucci cerca di trovare una risposta al suo mistero, lo stesso su cui si interrogava ai tempi della sua raccolta di poesie giovanili. La Cina per me piu che una fuga eÁ stata un rifugio. Ero a disagio dentro progetti che non riuscivo a realizzare, ultimo: Red Harvest dal libro di Hammet con Jack Nicholson come protagonista. Dopo «l'uomo ridicolo» non ho piu avuto la voglia di fare un film in Italia 3. 1

SERGE DANEY, Un defile au Sahara, «Cahiers du cineÂma», 439, 1991, p. 48. EDWARD W. SAID, Orientalismo, Torino, Bollati-Boringhieri, 1991, pp. 3-4. 3 Cosõ Bertolucci nell'intervista di FABIO FERZETTI, Illuminato da effetti speciali, «Il messaggero», 6 novembre 1993. 2

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Capitolo undicesimo

Dopo una lunga parentesi di sei anni che ha fatto seguito all'esperienza per molti versi deludente di Tragedia di un uomo ridicolo, Bertolucci eÁ tornato alla ribalta con L'ultimo imperatore, presentato in prima mondiale il 4 ottobre 1986 al Festival del cinema di Tokyo. Il film, un kolossal, eÁ valso al regista ben nove Oscar. Del kolossal, L'ultimo imperatore conserva tutti gli stilemi: masse, grandi scenari e forti sentimenti. Il film conta sessanta personaggi di primo piano, piu di diecimila comparse e ha all'attivo un budget di ventitre milioni di dollari (in aggiunta ai soldi inglesi di Jeremy Thomas, il produttore, alla realizzazione del film ha contribuito anche la Repubblica popolare cinese), oltre ad essere costato al regista dieci mesi di riprese e tre anni di lavorazione complessiva. Le scenografie sono monumentali, ci sono riprese verticali con la gru, campi totali e scope; il tutto eÁ un perfetto esempio di quel titanismo cinematografico che eÁ normalmente considerato agli antipodi del cosiddetto film d'autore. Dopo Ultimo tango, Bertolucci sceglie un altro titolo in cui compare la parola «ultimo» che per il regista sembra segnare l'esperienza limite, una cesura del tempo, una scansione psicologica e storica. Proprio questo accadde nell'Ultimo imperatore che mette in scena gli eventi della vita di Pu Yi 4 adattando molto liberamente il libro intitolato The Last Emperor 5 del corrispondente di «Newsweek» Edward Behr. Analogamente a Strategia, anche questo film racconta della Bildung (rovesciata) o della metamorfosi di una societaÁ e soprattutto di un individuo che da imperatore diventa un cittadino comune. La storia inizia nel 1908 a Pechino quando un bambino di tre anni viene portato via dalla madre e dalla sua casa per essere condotto nella CittaÁ Proibita, il cuore dell'antica Cina. Dopo qualche giorno, Pu Yi, cosõ si chiama il bambino, viene posto sul Trono del Drago e incoronato «Signore dei diecimila anni, nuovo Figlio del cielo». A distanza di quattro anni, la Cina diventa una repubblica, la dinastia Ching eÁ costretta ad abdicare e si conclude il regime imperiale durato oltre tremila anni, ma il giovane imperatore sembra essere l'unico a non accorgersene. Mentre le convulse rivoluzioni della storia moderna trasformano il mondo esterno, la ormai anacronistica vita medievale nella CittaÁ proibita continua immutata. Dentro quella che si riveleraÁ una prigione, secondo un evidente paradosso, Pu Yi eÁ libero di fare tutto quello che vuole circondato da mogli e da piu di millecinquecento eunuchi. All'etaÁ di diciotto anni Pu Yi, sposato con due mogli, viene cacciato dalla CittaÁ proibita e comincia a ren4 Esiste anche un altro film sulla vita dell'imperatore Pu Yi che si intitola Il drago di fuoco ed eÁ del cinese Li Hangxiang. 5 New York, Futura Publications, 1987.

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dersi conto dei grandi cambiamenti. Aiutato dal suo pigmalione occidentale, lo scozzese Sir Reginald Johnston (interpretato in maniera affascinante da Peter O'Toole), l'imperatore fugge a Tientsin godendosi per alcuni anni la vita da playboy. Nel 1931, con l'invasione della Manciuria da parte del Giappone, Pu Yi accetta l'invito dei giapponesi a tornare nella terra dei suoi avi e a diventare imperatore del nuovo stato fantoccio del ManchukuoÁ. Egli diventa cosõÂ un imperatore-marionetta e lo strumento del sogno panasiatico dell'imperatore Hirohito. Questa decisione marca l'inizio di una tragedia di un uomo ridicolo e della Cina. Sconfitto il Giappone, il regno nominale finisce in mano ai russi. Fallito il suicidio, Pu Yi viene consegnato ai comunisti cinesi nel 1950. Dopo dieci anni di rieducazione politica, ovvero di carcere, in cui i cinesi credono fermamente, Pu Yi ottiene il perdono e un posto di giardiniere all'Orto botanico di Pechino. Muore nel 1967 dopo aver condotto una vita condizionata dalle vicende storiche della Cina di questo secolo. Gli avvenimenti in flashback (il film inizia con il tentato suicidio di Pu Yi), che raccontano la magra esistenza dell'imperatore, ne daÁnno una immagine certamente non prevista dai coproduttori di Pechino, visto che la sua esperienza umana lo rende vittima del potere e della storia e offre l'occasione per fare una riflessione su entrambi che sfocia in una sottile polemica antiautoritaria. L'ultimo imperatore eÁ innanzi tutto un film storico al quale eÁ stata subito contestata la poca aderenza alla realtaÁ dei fatti. Secondo gli storici, il personaggio cinematografico rappresenta una versione troppo idealizzata di Pu Yi mentre quello vero sarebbe stato un uomo mezzo cieco, un ubriacone corrotto e depravato. Bertolucci avrebbe ignorato la veritaÁ storica e tradito persino la verosimiglianza visto che la sua messinscena, sempre a detta degli storici, manca completamente di plausibilitaÁ documentaria. Il regista eÁ stato accusato di aver tradito la vera cultura e il vero spirito della Cina e il film ha riaperto la querelle tra il cinema o la fiction e la Storia, con i fautori della veritaÁ storica contrapposti a quelli della veritaÁ poetica. I rapporti tra materiali storiografici e finzione narrativa sono analoghi a quelli intercorrenti tra filologia e poesia; in ogni caso, il racconto storico per costituirsi a veritaÁ poetica non puoÁ non essere fondato sul diritto a una reinvenzione libera da troppi vincoli e da preoccupazioni filologiche e archeologiche. In particolare, il racconto storico, per diventare memoria viva, deve necessariamente farsi storia immaginativa il cui senso profondo non nasce dallo statico e sterile recupero filologico di relitti del passato ma da una loro riscrittura lirica. Bertolucci ha optato per una riscrittura lirica della Storia e ha voluto seguire il destino di una persona piuttosto che la Storia stessa tanto che la via scelta per raccontare la vita dell'imperatore eÁ quella della favola. Le grandiose composizioni delle scene e dei costumi non danno mai la senwww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo undicesimo

sazione asettica della ricostruzione, ma piuttosto quella della suggestione e della fantasia mentre la vicenda umana di Pu Yi, che psicologicamente eÁ anche molto autentica e reale, si svolge sullo sfondo di una vicenda storica decisamente in secondo piano. I nuclei narrativi dell'Ultimo imperatore, sono, al solito, il marxismo e il freudismo, che eÁ come dire la storia e la psicologia o, ancora, la storia e l'individuo. Formalmente impeccabile, stilisticamente sfarzoso e lontano dal cinema-veritaÁ del Bertolucci degli esordi, il film eÁ accademico e raffinato, eÁ uno spettacolo magico e un punto di arrivo nella ricerca narrativa, visiva e cromatica dell'identitaÁ narrativa del regista e di Storaro. I costumi, le scenografie e la musica ne fanno un melodramma storico (ad esempio, l'impianto famigliare) che eÁ fondato su una narrativa ellittica piena di simboli e di allusioni. La grande epopea storica alterna pagine corali, analoghe a maestosi affreschi, ad altre dedicate all'uomo e alla sua solitudine; tutte poggiano sulle dinamiche della fotografia di Vittorio Storaro (che oscilla continuamente tra carrello, gru e camera a spalla), su indicazioni storiche, pittoriche e psicologiche; il racconto, strutturato attraverso un abile gioco di flashback, procede secondo diversi livelli che intrecciano passato e presente (la fissitaÁ nella corte dell'imperatore e i cambiamenti politici), la storia intima e privata dell'uomo e la storia collettiva. Il film eÁ diviso in due parti: la prima eÁ operistica e si svolge idealmente su un enorme palcoscenico dove la dominante cromatica eÁ il giallo-rosso, lo spazio eÁ dilatato e il senso di profonditaÁ eÁ reso attraverso un abile gioco ironico delle parti che viene sapientemente giustapposto alla storia emotiva dell'imperatore e ai traumi della sua infanzia (l'assenza del padre, il distacco dalla madre, la sua morte, la sua solitudine). La seconda parte, che eÁ come un secondo film, comincia con l'uscita dalla CittaÁ Proibita; c'eÁ un cambio di ritmo, di tempo e di colori che si trasformano nelle tonalitaÁ del verde, dell'azzurro e del marrone. Anche gli sfondi cambiano, cosõÂ come il registro dei toni narrativi, mentre i conflitti tra i personaggi si moltiplicano. L'ultimo imperatore eÁ letteralmente la sintesi cronologica di una sessantina d'anni e riguarda il passaggio di una societaÁ dal periodo feudale a quello moderno. Questo eÁ lo scenario che fa da sfondo dialettico alla vita di Pu Yi, uno straordinario mezzo di illusionismo, un attore, la cui vicenda (di oltre due ore e mezzo) solo apparentemente visione soggettiva eÁ, invece, una immagine riflessa, oggettiva e straniante del destino scelto da altri per lui. Pu Yi eÁ soggetto agli eventi e non il soggetto degli eventi come parrebbe di primo acchito; tutto si svolge in sua funzione ma egli non ha potere; eÁ la figura centrale del racconto, filtro storico, proiezione di potere e, ironicamente, eÁ anche preso a simbolo delle possibilitaÁ di camwww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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biamento dell'uomo. Come personaggio eÁ condizionato da psicoanalisi e marxismo, come uomo eÁ prigioniero di entrambi. L'imperatore eÁ un prigioniero a vita anche se ricopre una posizione di comando e solo quando perde il potere si illude di diventare libero. Inizialmente, eÁ prigioniero della corte imperiale, poi dei giapponesi e successivamente della Repubblica Popolare che fa di lui il prototipo del pentitismo. Il dramma dell'imprigionamento e della libertaÁ eÁ reso attraverso il montaggio parallelo tra il tempo della CittaÁ Proibita, o della corte del ManciukuoÁ, e quello della prigione dove compaiono gli stessi pesanti portoni, gli stessi guardiani, le stesse divise, gli stessi educatori, in un passato e un presente psicologici che sono come un tutt'uno. Storicamente, invece, la fissitaÁ del passato, quella raccontata attraverso il film della CittaÁ Proibita, si contrappone alle grandi trasformazioni della Cina del presente. Entrambe si innestano sul tragitto di un uomo che passa dall'onnipotenza, piu o meno illusoria, alla normalitaÁ mentre il film traccia la parabola di un attore costretto (bambino dai compatrioti, adulto dagli invasori) a recitare una parte su un palcoscenico. Dallo sfondo corale dell'Ultimo imperatore emerge, dunque, un'unica figura: quella di Pu Yi, un uomo solo, la cui solitudine dura una vita intera ed eÁ resa evidente dalle eloquenti immagini di segregazione che ricorrono spesso nel testo; sono molte le porte che si chiudono davanti a lui e molte sono le circostanze in cui l'imperatore rincorre le persone care (la nutrice, la madre, la moglie). Tutta la vita di Pu Yi eÁ segnata da eventi e da rapporti sconvolgenti: la visita della madre sette anni dopo il violento distacco che verraÁ «rifiutata» con dolore; il morboso rapporto con la bellissima e giovane balia che continua a offrire all'imperatore, ormai adolescente, il proprio seno (sembra un'eco felliniana); gli animaletti amati e uccisi con dispetto (il grillo); la claustrofobia del Palazzo Imperiale. Pu Yi eÁ un anti-eroe, una figura plurisoggettiva, eÁ un personaggio psicologicamente complesso e una figura politica con una vita privata assolutamente fuori dall'ordinario. La sua storia, oltre a riproporre il conflitto dialettico, caro a Bertolucci, tra la decadenza aristocratica e la rivoluzione proletaria (quello di Novecento, per intenderci), si fonda su un'altra lotta (giaÁ centrale nel Conformista e in Ultimo tango), quella dell'individuo che si scontra con l'influenza esercitata dalle forze soggettive e storiche. In questo senso, L'ultimo imperatore diventa anche un'opera autobiografica percheÂ, pur essendo stato girato agli antipodi di Parma, non azzera completamente il background del regista che esplora un nuovo universo, ma proietta su di esso i simulacri del proprio passato solo parzialmente svuotati della tensione che li caratterizzava. L'imperatore eÁ sia il soggetto della storia sia soggetto alla Storia, www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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quindi il suo oggetto. Pu Yi eÁ il protagonista principale di un film e di una storia che ruota attorno alla sua vita; ma la vita dell'imperatore eÁ anche sottoposta a quanto la Storia ha deciso per lui. Pu Yi deve semplicemente ricoprire il ruolo scelto per lui da altri, deve accettare di diventare imperatore. Pu Yi eÁ anche il personaggio principale di un film nel film. All'interno della CittaÁ proibita e successivamente a ManchukuoÁ eÁ come se tutti recitassero una grande commedia paradossale. Il paradosso consiste nel fatto che la messa in scena serve a tener l'imperatore all'oscuro della realtaÁ nell'illusione che il set possa sostituire il mondo stesso (una finzione che, in questo caso, prende corpo in tutta la sua realtaÁ). E, mentre il pubblico, cioeÁ il popolo cinese, ha abbandonato la rappresentazione ormai da tempo (essendo consapevole dei grandi cambiamenti avvenuti in Cina), Pu Yi rimane l'unico attore e spettatore principale di una storia assurda che esiste solo per lui. Egli eÁ un attore, in un certo senso, inconsapevole del proprio ruolo, e, al tempo stesso, eÁ lo spettatore della messa in scena di cui eÁ partecipe; eÁ come una rappresentazione allegorica dello spettatore cinematografico. Intanto, la storia di Pu Yi eÁ una storia di superficie e relativa all'atto di vedere (l'imperatore vorrebbe vedere quello che accade fuori della CittaÁ Proibita; il suo tutore vuole farlo vedere sia convincendolo a mettersi un paio di occhiali, sia raccontandogli la vita degli Occidentali). Il voyeurismo eÁ reiterato a piu riprese: ad esempio, Johnston scruta sempre l'imperatore. Gli eunuchi lo esaminano nel corso di tutte le sue funzioni, analogamente ai giapponesi e alle guardie carcerarie. Inoltre, alla pari dello spettatore cinematografico che si identifica con il fascio di luce della camera e ha l'illusione di poter vedere tutto (in realtaÁ vede solo quello che il film vuole fargli vedere), Pu Yi immagina di vedere e di percepire tutto nella sua malattia da onnipotenza quando, in realtaÁ, il suo eÁ un mondo di immagini filtrate da chi gli sta attorno (non a caso Johnston gli racconta come vivono gli Occidentali omettendo di informarlo sui cambiamenti politici nel mondo a lui circostante). Pu Yi eÁ circondato da mediatori che gli raccontano solo una certa realtaÁ: dapprima sono gli eunuchi a parlargli della vita, poi Johnston che gli propone modelli affascinanti e lontani dal suo modo di sentire, poi i giapponesi che lo mettono a capo di un governo fantoccio, e infine i maoisti durante la rieducazione. Come accade allo spettatore cinematografico, che non vede mai l'immagine di se stesso nello schermo, Pu Yi eÁ oggetto dello sguardo di tutti, ma non vede mai se stesso e nemmeno vede una rappresentazione di se stesso perche a nessuno eÁ concesso di vestire di giallo come lui, e nessuno puoÁ vivere nel palazzo reale con lui. L'imperatore puoÁ solamente identificarsi con lo spettacolo, come lo spettatore cinematografico che www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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sperimenta identificazioni di tipo primario e secondario con il film. Ad un certo punto del film, Pu Yi osserva le scene che descrivono le atrocitaÁ dei giapponesi e diventa palesemente spettatore ma come lo spettatore che sa della natura fictional del cinema ed al contempo la nega nell'intento di godersi il film, Pu Yi rifiuta di credere ai cambiamenti della Cina e continua a considerarsi il capo del proprio regno; si sente una autoritaÁ, quando, invece lui eÁ solo un simbolo o un burattino manipolato dalla Storia a beneficio di vari regimi politici. Pu Yi infatti nega l'evidenza della realtaÁ esterna alla CittaÁ Proibita anche quando suo fratello gliela fa vedere dall'alto delle mura di cinta del suo impero. Si rifiuta di considerare la CittaÁ Proibita come una farsa e nega di essere diventato una maschera che ricopre un ruolo senza piu alcun senso. Per avere (e dare a suo fratello) la conferma del suo potere, l'imperatore costringe un servitore a bere dell'inchiostro. Da ultimo, come lo spettatore che feticizza l'apparato cinematografico, l'imperatore feticizza il suo regno, l'Impero, anch'esso, apparato cinematografico. Il simulacro/feticcio non eÁ peroÁ sufficiente a «convincere» uno spettatore passivo, non esistono spettatori passivi; anzi, lo spettatore partecipa attivamente al proprio «convincimento». Il simulacro, ovvero una certa immagine della realtaÁ, eÁ solo il mezzo attraverso cui lo spettatore viene aiutato ad autoconvincersi.. L'imperatore eÁ l'Oriente nel senso di spettacolo ma anche un suo spettatore attivo. Come protagonista principale dell'Ultimo imperatore, protagonista di un film nel film e spettatore di entrambi, Pu Yi rappresenta e riunisce in se l'idea di spettacolo: egli eÁ colui che produce lo spettacolo e che, al tempo stesso, ne fruisce. In questo senso, l'imperatore si identifica anche con una certa idea dell'Oriente, esso stesso assimilabile all'idea di spettacolo visto che eÁ sempre sottoposto ad un'interpretazione da parte degli Occidentali che lo riducono a spazio limitato, analogo a quello della scena. L'Oriente eÁ un palcoscenico entro il quale viene confinata una certa idea dell'Est, non eÁ uno spazio illimitato al di laÁ del familiare mondo europeo, ma un'area chiusa, un ampio palcoscenico annesso all'Europa. Il richiamo all'idea di spettacolo e al feticismo ad esso collegato eÁ evidente giaÁ nella scenografia del film che eÁ fatta di veli su veli. I veli o gli schermi non esistono solo nella corte della CittaÁ Proibita ma anche a ManchukuoÁ e nel campo di rieducazione maoista. Il primo velo eÁ una tenda gialla fluttuante che affascina Pu Yi quando, all'etaÁ di tre anni, corre fuori dalla Sala dell'Armonia Suprema, durante il primo giorno del suo regno, per essere salutato in ginocchio da migliaia di fedeli. Un secondo velo eÁ il lenzuolo bianco che fa da diaframma tra Pu Yi e gli eunuchi mentre giocano, e trasforma i compagni di giochi in ombre agli occhi del giovane imperatore. Il terzo velo fa parte di un altro www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo undicesimo

gioco: quello tra Pu Yi e le sue due mogli sotto le lenzuola, rigorosamente di seta; si vedono solo le sagome dei tre corpi mentre poco lontato c'eÁ un fuoco che brucia: eÁ quello che hanno acceso gli eunuchi per la paura che i loro furti fossero scoperti. Questo fuoco eÁ un riferimento, persino troppo esplicito, al mito platonico della caverna. L'ultimo velo eÁ la bandiera della Guardia Rossa di Mao che viene portata dai giovani della Rivoluzione Culturale. Anche lo stile visivo e narrativo del film eÁ composto da vari schermi; sono i diversi veli di ideologia, che rispecchiano i gradi di soggettivitaÁ e di «spettatorietaÁ» di Pu Yi a cui fanno da sfondo i diversi livelli dell'intreccio tra le due storie, quella privata e quella collettiva. Attore e spettatore, Pu Yi eÁ mosso da un unico desiderio di cui l'imprigionamento eÁ una componente necessaria; il desiderio eÁ quello di comandare e l'unico modo per soddisfarlo consiste nell'accettare la condizione di imperatore, ovvero quella di prigioniero. Le componenti psicologiche del suo desiderio sono chiare nella sua fissazione a ritornare alla madre e nella sua ricerca delle origini, che, in entrambi i casi, altro non sono se non il desiderio di un ritorno all'Immaginario. Spesso Pu Yi eÁ ritratto mentre rincorre una immagine della madre; in un caso si tratta della balia, poi della moglie. Ma se il ritorno alla madre non ha successo eÁ soprattutto perche l'impulso che anima Pu Yi eÁ quello di rimanere un imperatore. EÁ un desiderio che posiziona il personaggio, lo condiziona retroattivamente obbligandolo a vivere da prigioniero. La vera madre dell'Imperatore diventa il suo regno perche eÁ solo all'interno della CittaÁ Proibita che Pu Yi sperimenta l'onnipotenza primaria: al centro di quel microcosmo, eÁ convinto che tutto esista solo in funzione dei suoi bisogni. Questo senso di onnipotenza primaria eÁ tipico del bambino ed eÁ una tappa fondamentale nella formazione della personalitaÁ e della identitaÁ che precede quella del passaggio dall'illusione alla disillusione. Attraverso il principio di realtaÁ, il bambino finalmente vede e riconosce i propri limiti; ma Pu Yi non si confronta con la realtaÁ fino a quando vive nel palcoscenico della CittaÁ Proibita. Nella sua corte medievale fuori del tempo, Pu Yi eÁ condannato a un'eterna infanzia, quella di una onnipotenza patologica: la realtaÁ gli eÁ negata e la crescita interrotta. La negazione della realtaÁ esterna eÁ la violenza peggiore che gli viene inflitta. La caduta delle illusioni avverraÁ troppo tardi per Pu Yi che, all'interno del suo regno, viveva come un neonato in braccio alla madre. L'imperatore vive tra la dipendenza dal prossimo e il desiderio di onnipotenza; eÁ un adulto rimasto bambino che troveraÁ un padre nella persona dell'inquisitore chiamato ad indagare sui suoi veri o presunti crimini. Imperatore onnipotente, Pu Yi eÁ un uomo impotente. Non ha alcun potere rispetto al proprio corpo che eÁ appannaggio esclusivo delle balie, degli eunuchi, www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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delle mogli, dei giapponesi e delle guardie carcerarie. La sua mente eÁ palestra di esercitazioni per il tutore. All'imperatore viene preclusa quasiasi possibilitaÁ di compiere anche le piu banali operazioni corporali, quelle legate ai comuni gesti del vivere. Questo, che eÁ un privilegio imperiale, si trasforma in una completa dipendenza dagli altri: Pu Yi rimane sempre come un bambino appena nato che deve essere accudito in tutto pur sperimentando, al tempo stesso, la massima illusione psicologica di onnipotenza che eÁ parallela al massimo grado di vulnerabilitaÁ e di dipendenza sul piano reale dagli altri. Inoltre, se il corpo e la consapevolezza del corpo contribuiscono a dare il senso di seÂ, Pu Yi eÁ costantemente espropriato del proprio corpo e del senso di identitaÁ che ne deriva. La Cina di Bernardo Bertolucci passa attraverso il corpo e la mente del suo ultimo imperatore Pu Yi, che a sua volta la percorre in dimensione temporale per scoprirvi se stesso e disegnare sulla propria vita un tracciato simbolico e psicologico di riferimenti assoluti. Quello dell'Ultimo imperatore eÁ il momento creativo piu importante di Bertolucci perche eÁ il riepilogo della sua carriera cinematografica. Sembra che l'onnipotenza di Pu Yi sia la stessa che il regista sente di avere acquisito nei confronti del mezzo cinematografico del quale ha esplorato nel corso di una lunga carriera il potenziale espressivo. L'ultimo imperatore si pone quasi a riassunto, dopo venticinque anni di attivitaÁ, della carriera di Bertolucci che si conferma come l'erede piu degno dei grandi cineasti italiani, come Luchino Visconti, nella sapienza della messa in scena e nella maturitaÁ espressiva. La parabola di un essere divinizzato, di un figlio del cielo, onnipotente in teoria, ma in pratica ignaro schiavo di regole imposte, che, attraverso amarezze e sofferenze, alla fine diventa un uomo come gli altri eÁ l'itinerario esistenziale dell'imperatore che si accompagna alle violente e radicali trasformazioni di un grande paese. L'imperatore Peter Pan, come il cinema di Bertolucci, non ha piu bisogno dei padri e diventa un personaggio autosufficiente. Egli si sostituisce al film, e diventa lo spettacolo. EÁ con lui e con l'idea di spettacolo che Bertolucci si identifica. La vera redenzione e la liberazione finale (il suicidio?) non eÁ quella di Pu Yi ma quella del film perche Bertolucci ha creato uno spettacolo che si autoproduce e si autosostiene, in cui il personaggio principale eÁ insieme spettatore del film e testo filmico. Lo spettacolo eÁ il luogo per l'espressione dell'Io. Bertolucci si identifica con la sua creazione e si sofferma su una meditazione tutta incentrata sul soggetto e sull'atto di fare cinema che eÁ il luogo della sovranitaÁ del mondo irreale, dei simulacri e delle mere apparenze. Nell'immaginario occidentale, l'Oriente eÁ sempre l'Oriente misterioso e impenetrabile. Bertolucci va in cerca del mistero, ne smonta la struttura e il www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo undicesimo

meccanismo, e lo vanifica. Nella figura dell'imperatore egli scopre se stesso, la propria volontaÁ di potenza, la propria delusoria autocastrazione. Della vita e della storia, metafora centrale eÁ il cinema e le sue costruzioni di cui il regista eÁ prigioniero e al contempo signore. L'ultimo imperatore eÁ un film anche autobiografico ma solo quando sviluppa con forza le inquietudini metacinematografiche del regista.

L'ultimo imperatore (1987). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

CAPITOLO DODICESIMO

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IL TEÁ NEL DESERTO

Presentato in prima mondiale a Parigi il 15 novembre 1990, il film eÁ uscito a pochi anni di distanza dai premi Oscar dell'Ultimo imperatore, dimostrando che Bertolucci ha preferito sfidare di nuovo la critica e il mercato, invece di vivere sugli allori del successo. Dopo la Cina dunque, viene il Sahara, teatro immenso che fa da sfondo a un racconto incentrato sull'analisi dei sentimenti privati e sull'impossibilitaÁ di vivere l'amore da parte di una coppia. Tutta la storia segue la scia del desiderio che si perde e che fa spazio alla crescente angoscia del fallimento (cfr. Ultimo tango). L'idea del film viene da un romanzo di Paul Bowles, lo scrittore americano che scoprõ l'Africa settentrionale durante una vacanza, all'inizio degli anni Trenta, e che si stabilõ a Tangeri, subito dopo il conflitto mondiale, con la moglie, anch'essa scrittrice 1. Il titolo originale del romanzo eÁ The Sheltering Sky («Il cielo che ripara»); in Italia eÁ uscito con il titolo Il teÁ nel deserto (che eÁ il titolo di una delle sezioni del romanzo in cui la prostituta Marhnia racconta a Port, durante una notte di passione prima di rubargli il portafoglio, che tre ragazze avevano deciso di prendere il teÁ nel deserto e trovarono la morte simboleggiata dalla sabbia dentro alle loro tazze). Pubblicato in America nel 1949, il testo di Bowles eÁ fitto di esperienze autobiografiche e condizionato, nella scenografia, dal clima storico culturale e dal paesaggio del Marocco; il tono eÁ lirico e sfuggente, mentre l'alchimia della parola prende il sopravvento sull'azione. Il romanzo, poco noto in Italia, ha invece ottenuto un notevole successo in ambienti anglosassoni: Gore Vidal, ad esempio, considera Bowles uno dei piu grandi romanzieri del nostro secolo. In un'epoca di grandi migrazioni dall'Africa al mondo occidentale, alcuni scrittori, soprattutto statunitensi, hanno compiuto il viaggio inverso; si tratta di una intera generazione, 1 Paul Bowles, nato a New York nel 1910, ha vissuto a lungo a Parigi prima di trasferirsi, nel '49, in Marocco con sua moglie Jane. Autore di romanzi e di racconti, ha affrontato a piu riprese il tema dello scontro culturale tra Occidente e Oriente, e la conseguente perdita dell'identitaÁ da parte dell'occidentale che si lascia ammaliare dal mondo esotico. Jane Bowles ha scritto prevalentemente racconti «pre-minimalisti» caratterizzati dalla predilezione per il dettaglio minimo, il disimpegno nei confronti del coinvolgimento etico e una certa monotonia nel discorso narrativo.

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Capitolo dodicesimo

la beat-generation (con Burroughs e Kerouac in testa), che divenne portavoce del disagio e del malessere giovanile. Bowles eÁ un po' il capogruppo perche ha teorizzato il rifiuto del ritorno nel mondo occidentale e si eÁ completamente abbandonato alla ricchezza culturale umana e fisica del Maghreb. A Bertolucci deve essere piaciuta soprattutto la modernitaÁ della storia della coppia che eÁ protagonista del romanzo e l'attualitaÁ del conflitto interiore che turba i personaggi. EÁ nell'Africa coloniale del `46 che, all'indomani del collasso della civiltaÁ rappresentato dalla seconda guerra mondiale e dalle prime bombe atomiche, sbarcano due coniugi americani, Kit e Port, (scrittrice lei e compositore lui) insieme ad un amico del marito, Tunner. La radio trasmette canzoni di Trenet mentre i manifesti cinematografici annunciano la proiezione di Tutto finisce all'alba (Sans lendemain, OphuÈls, 1939) e un giornale informa che da quel momento in Italia eÁ stato concesso il diritto di voto alle donne. Ma nella cornice suggestiva del film c'eÁ un personaggio in piu rispetto a quelli del romanzo. EÁ un uomo anziano che commenta l'azione talvolta come voce fuori campo, altre volte lasciandosi riprendere: eÁ l'autore del romanzo, Paul Bowles, che diventa personaggio filmico e narratore interpretando, in un certo senso, se stesso. Port crede nel potere terapeutico del viaggio e nell'esotismo e, analogamente a Kit che confida di rinverdire la sua vena di scrittrice in Africa, egli spera di trovare ispirazione attraverso l'esperienza in un mondo sconosciuto. Tunner, invece, eÁ il meno intellettuale dei tre e spera solo di poter fare qualche bella fotografia. Port e Kit vivono una crisi creativa che si aggiunge a quella del loro matrimonio in cui inizia ad insinuarsi Tunner, che si sente sempre piu invaghito della donna. EÁ insperabile che la soluzione ai loro problemi venga dal Sahara e da un viaggio giaÁ di per se disturbato a causa del malessere che la coppia sperimenta al proprio interno; a rendere il viaggio ancor meno piacevole non sono solo le mosche e il caldo ma anche i Lyle, una madre e un figlio yankee e piuttosto strani, che i protagonisti incrociano sempre nelle loro tappe. La madre eÁ un personaggio-caricatura dell'America mondano-deÂmode che per tutta la prima metaÁ del Novecento viaggia per spendere ricchezza, lui eÁ un bambinone avido di dolci, obeso e sempre squattrinato. Kit, Port e Tunner si sentono viaggiatori, come chiariscono all'inizio del film; i Lyle, invece, incarnano la tipologia piu scadente di turisti, innervosiscono ulteriormente Kit e Port e ne sconvolgono i piani. I pochi tentativi della coppia di riaccendere la fiamma si rivelano inutili: marito e moglie, negli alberghi africani via via piu poveri, nudi e sporchi, abitano emblematicamente stanze separate. Durante una tappa tra un viaggio e l'altro Port si ammala di tifo e muore accudito da sua moglie. Il film indugia sull'agonia di Port e sulla disperazione di Kit, quasi a suggerire che di fronte www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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all'irreparabile possa rinascere la possibilitaÁ di comunicare attraverso le lacrime e con il corpo stretto per proteggere quello del compagno febbricitante. In realtaÁ, saraÁ solo un recupero dei sentimenti fine a se stesso dal quale Kit esce stordita e liberata al tempo stesso. L'ultimo capitolo la vede tra le braccia di un nomade affascinante, che la traveste da uomo per nasconderla alle altre mogli; poi, dopo essere stata aggredita dalla folla di un mercato, Kit ricompariraÁ nel caffeÁ di partenza quando ormai eÁ chiaro che non potraÁ (e nemmeno vorraÁ) piu ritornare in America. Questa la trama di un film corredato da una lunga serie di citazioni: ci sono i manifesti del film di Max OphuÈls, eloquenti come una premonizione perche il film racconta la storia di Evelyne (una donna alle prese con due uomini, uno che la tiraneggia e l'altro che la ama) che vorrebbe andare nel nuovo mondo e invece sparisce inaspettatamente e per sempre nella nebbia lungo la Senna. Evelyne scompare analogamente a Kit che perde il senso del seÂ, inghiottita in un mondo che non conosce. Un'altra citazione affiora dalla cappellliera di Kit dove si intravede Bosco di notte (Night Wood), il romanzo scritto da Djuna Barnes in occasione del suo soggiorno a Tangeri nel 1934, e che surrealisticamente racconta della passione omoerotica di una coppia di donne analizzata da un medico-uomo che indossa abiti femminili. EÁ chiaro il riferimento ai tre protagonisti del film e all'intreccio di passioni che li riguarda. Verso la fine del film compaiono i manifesti di Tempesta di GreÂmillon (Remorques, 1940), con Jean Gabin; questo sembra un omaggio al realismo popolare francese o anche italiano alla Amedeo Nazzari, un riconoscimento cioeÁ per un tipo di cinema che sottende a quello di Bertolucci sempre alle prese con il rapporto dialettico tra realtaÁ e una certa nozione di fictio poetica. Uscendo per un momento dal forte della Legione Straniera dove il marito sta agonizzando, Kit si toglie le scarpe come Marlene Dietrich nel finale di Marocco (1930). La Dietrich, fatalona cantante, si spoglia di tutto nel deserto come Kit in un film dove la caratterizzazione dei personaggi eÁ tutta al negativo ed eÁ resa attraverso una serie di sottrazioni. Alla prosecuzione del viaggio nel deserto (che eÁ il viaggio nel testo) corrisponde la progressiva cancellazione dell'identitaÁ, la perdita della familiaritaÁ dei personaggi con se stessi e verso il reale. Kit parte come personaggio, subisce una serie di sottrazioni dell'io, fino a diventare una sorta di segno vuoto alla fine del film. La trama del TeÁ nel deserto mette in evidenza l'impossibilitaÁ di essere felici nell'amore ed esprime la difficoltaÁ di comunicare. Il deserto eÁ la metafora del malessere di vivere che si risolve in un disfacimento dell'individuo. Deserto viene dal latino deserere, ovvero `abbandonare'. L'abbandono o la spoliazione da ogni sovrastruttura per arrivare al centro dell'individuo nell'intento di cogliere il senso e il valore dell'esistenza, eÁ il tema centrale del www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo dodicesimo

film che eÁ esemplificato, per certi versi, dalla sensualitaÁ primitiva degli uomini blu, i tuareg. La ricerca dell'identitaÁ e dell'amore eÁ resa anche attraverso il topos classico dell'erranza. Anche in questo caso vale precisare che «errare» ha la duplice connotazione di `viaggiare' ma anche di `sbagliare'. Nel film, il topos del viaggio eÁ capovolto, cioeÁ sbagliato, perche l'avventura africana intrapresa dalla coppia nell'intento di ricomporre il proprio rapporto, si riveleraÁ una esperienza alienante. Bastano i loro bagagli a visualizzare il disfacimento e il progressivo impoverimento psicologico: le tante valigie che si trascinano dietro al momento del loro arrivo in Africa diminuiscono via via. Le valigie diventano un ineluttabile calendario che si sfoglia marcando le tappe esistenziali dei personaggi che, piu si inoltrano in Africa, piu si vanifica il tentativo di trovare una rinnovata identitaÁ. L'itineranza si risolve in un'illusione di salvezza per i protagonisti mentre invece consente a Bertolucci di filmare l'Africa in tutti i suoi aspetti: la povertaÁ, l'esempio del tributo versato al dominio coloniale, le malattie devastanti, gli onnipresenti insetti, ma anche i grandiosi paesaggi e le popolazioni ricche di cultura e di storia. Con un evidente paradosso, sembra inoltre che i personaggi non abbiano corpo. Port, ad esempio, muore di freddo in Africa ossia d'una malattia quasi astratta, che non ha alcun rapporto con il clima. Analogamente, Bertolucci girando l'Africa non fa vedere una stilla di sudore e, con l'eccezione delle mosche che infastidiscono i viaggiatori, tutto il film eÁ teso a far emergere la metafisica del viaggio, la trascendenza della malattia, la vertiginosa luciditaÁ di un ragionamento inesplorato senza alcuna necessitaÁ di un rapporto con la vita. Filmato in modo supremo per quanto riguarda gli esterni (vale ricordare un esempio per tutti: la gita in bicicletta di Kit e Port sullo sfondo di un paesaggio amplissimo dove cielo e terra si confondono) nel film non mancano inquadrature mirabili degli interni (ad esempio le sequenze iniziali degli alberghi barocchi e decadenti). Le scene che riprendono l'agonia di Port nella cittaÁ straniera o in punto di morte nella stanza completamente vuota, quasi a simboleggiare l'infinito, danno il senso di uno stile virtuosistico e fortemente teorico. Il merito in questo eÁ di Storaro. A dir il vero, eÁ tutto bello nel TeÁ nel deserto. Il Sahara eÁ filmato a tratti realisticamente, a tratti eÁ un paesaggio manipolato e artificiale; lo stesso vale per i personaggi che sono sottoposti ad uno sguardo talvolta molto realistico e in altri casi mitizzante. Anche i costumi di James Acheson e la musica di Horowitz e Sakamoto sono splendidi. Tutto eÁ cosõ bello che il film sfiora il manierismo. In certe parti colpisce di piu l'apparato scenico che il dramma umano dei personaggi. La sofferenza di Kit si stempera nella bellezza esteriore ± le dune, ancora la luna, i tuareg ± www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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e, quando perde l'aggancio intimo, sembra risolversi unicamente in una effettistica scenografia naturale. Bertolucci filma la sua Africa che non eÁ poi cosõ diversa dal Kenia, il Tanganica e l'Uganda di Pasolini. EÁ un'Africa ormai senza piu sofferenza, privata di quel dramma del vivere che sarebbe potuto essere il centro segreto del film e avrebbe potuto metterlo al riparo dai pericoli di una facile spettacolaritaÁ da kolossal. Il teÁ nel deserto assomiglia a Ultimo tango non solo perche vi sono sequenze parallele tra i due film (ad esempio, l'ingresso dell'albergo dove si fermano i protagonisti a Tangeri ricorda quello del palazzo dell'appartamento in Rue Jules Verne), o perche i nomi di Paul e Jane Bowles (i personaggi del romanzo che nel film diventano Port e Kit) sono gli stessi di quelli dei protagonisti di Ultimo tango; i due film si somigliano perche contengono al loro centro l'esperienza alienante di una coppia che vive isolata dal mondo e di due donne che, in forme diverse, riusciranno in un qualche modo a sopravvivere. Kit, prigioniera di una impossibile comunicazione con l'altro sesso, dopo la morte del marito continua a non riuscire a comunicare. Con Port che se ne va, la storia finisce e comincia l'emozione del deserto sconfinato, che eÁ come dire il silenzio. Debra Winger quasi non parla piuÂ. A differenza di Ultimo tango, Il teÁ nel deserto trae il proprio senso da preoccupazioni estetiche piu che ideologiche. Sono l'individuo, il cinema e un nuovo rapporto con il testo scritto a dare il senso alla storia. Nel deserto e nella non-comunicazione verbale, Bertolucci pare aver trovato, una prima risposta alla questione dell'avversario edipico del cinema: la letteratura. Il teÁ nel deserto ha un forte autoconsapevolezza filmica e mentre L'ultimo imperatore era speso a favore del trionfo del soggetto, Il teÁ nel deserto mostra la vittoria del cinema sul testo scritto, a un tempo significante paterno e padre castratore del soggetto, appunto. Innanzi tutto, l'adattamento filmico eÁ fedele al libro. SaraÁ perche il tema del libro da cui il film eÁ tratto si addice ad un regista abituato a parlare delle «intermittenze dell'anima» e del problema dell'identitaÁ, sia esso inserito nel contesto della CittaÁ Proibita, o nello spazio infinito del TeÁ nel deserto o in quello mistico-favolistico di Piccolo Buddha. Il teÁ nel deserto eÁ anche un film sulla nostalgia, sul tempo che passa sullo sfondo di un deserto che eÁ la natura perennemente se stessa. In questo senso eÁ radicalmente diverso dall'Ultimo imperatore che cala nella storia mutevole della Cina il dramma personale. Il deserto eÁ immagine dell'identico e dell'omogeneo che peroÁ muta la forma come la superficie del mare. Il tema del libro richiama le radici profonde del cinema di Bertolucci: il disfacimento fisico, l'erotismo, il Potere, il desiderio di assoluto, il paradosso ineliminabile dell'artista che non puoÁ vivere che attraverso l'artificio la veritaÁ della sua anima, il suo bisogno di assoluto. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo dodicesimo

Nel TeÁ nel deserto interviene un elemento nuovo rispetto al romanzo; nel film, Paul Bowles compare come attore-narratore e, melvillianamente, eÁ l'unico vero sopravvissuto tra tutti i personaggi. L'autore, che Bertolucci trasforma in narratore, osserva e (questa volta pirandellianamente) ha di fronte i suoi personaggi che vede disporsi nel dramma. EÁ una sorta di testimone muto, che parla solo attraverso il pensiero in due sequenze, una all'inizio e l'altra alla fine del film. L'ultima inquadratura del film lo mostra con gli occhi che guardano in un punto imprecisato mentre la sua voce fuori campo ricorda ancora una volta il desiderio di assoluto: «tutto sembra senza limite»; Bertolucci sembra, per un momento, volersi aprire ad una problematica dell'assoluto che va al di laÁ delle contingenze storiche. Ma lascia il discorso inesplorato. Paul Bowles diventa dunque il narratore del film, lui che, in un certo senso, l'ha raccontato per primo attraverso il romanzo. Egli assomiglia straordinariamente al Serafino Gubbio pirandelliano e a Bertolucci stesso. Il romanzo di Pirandello, uscito dopo vent'anni di lavoro, nel 1925, con il titolo definitivo I quaderni di Serafino Gubbio operatore, eÁ una riflessione profonda e complicata sul rapporto tra narrazione letteraria e narrazione cinematografica, oltre ad essere un evidente sintomo del rapporto contrastato, di amore-odio, da parte di alcuni intellettuali italiani di inizio secolo nei confronti del cinema, la nuova macchina. Serafino, personaggio piu lugubre che serafico, eÁ sia un operatore cinematografico (come l'Alfredo-Philippe Noiret di Nuovo Cinema Paradiso, Tornatore, 1989), sia uno scrittore; egli, infatti, passa i giorni dietro il proiettore e trascorre le notti scrivendo un diario, che eÁ una sorta di autobiografia. Alla fine del film perderaÁ la parola, diventeraÁ muto, lasciando quindi che il proiettore e le parole scritte parlino per lui. Come narratore-operatore eÁ onniscente, come scrittore eÁ un soggetto morto perche il diario e l'autobiografia, pur presupponendo un io onniscente, presuppongono anche che quell'io sia morto; l'autobiografia eÁ il genere del doppio (uno stilema caro a Bertolucci) perche ha bisogno di un «io» che ha vissuto e di un «io» che giudica. L'autobiografia, in sostanza, ha bisogno di un «io» morto da ricostruire attraverso la memoria. Paul Bowles nel film eÁ un Serafino Gubbio, operatore-narratore per un verso e soggetto morto per l'altro, perche eÁ un personaggio autobiografico come il romanzo che ha scritto. Bowles eÁ la figura del doppio: in se riunisce letteratura e cinema. Egli eÁ la metafora del narrare che Bertolucci inserisce in un film apparentemente animato da altre preoccupazioni, ma, in realtaÁ incentrato proprio sul tema della narrazione. Anche Il teÁ nel deserto eÁ un film metacinematografico e forse il testo in cui Bertolucci inizia a dare una prima risposta a uno dei conflitti di fondo del suo cinema, ovvero il rapporto tra cinema e letteratura, tra parola scritta e immagine, tra logos paterno e cinema. La maggior parte www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Il teÁ nel deserto

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dei film di Bertolucci eÁ tratta da romanzi e ha riempito pagine tutte spese ad analizzare le questioni, ormai esaurite, di adattamento e «fedeltaÁ» del film al romanzo. Non eÁ questo il tema che il regista affronta nel TeÁ nel deserto. Il film, nella figura di Bowles, identifica l'atto del narrare. Bowles come Serafino eÁ sia la figura del narratore classico sia il suo opposto. Il fatto eÁ che Bowles e Serafino sono dei narratori muti, istanze astratte, pure presenze. Come narratore, Bowles vive fino alla fine della storia ma a differenza del suo ruolo da autore, nel film egli eÁ privato della prerogativa di modificare gli eventi e i personaggi. PuoÁ solo raccontare e commentare una storia che non eÁ piu sua. Come tale, egli diventa un oggetto o una funzione del discorso. La critica si eÁ limitata a vedere nelle apparizioni filmiche di Bowles un omaggio al creatore di Port, Kit e Tunner. Bertolucci in realtaÁ si eÁ spinto molto piu avanti. Riducendo Bowles a personaggio del film, Bertolucci si appropria del testo come autore, ne riafferma la propria totale paternitaÁ attraverso una operazione che consiste nel prendere l'altro padre, quello del racconto scritto, e inglobarlo nella propria storia. Verso la fine del film, la parola (di Bowles, di Kit e degli altri personaggi) lascia spazio alle immagini che sono il linguaggio piu penetrante e piu efficace. Il cinema, sembra dire Bertolucci, parla per immagini e supera edipicamente il testo scritto. In questo senso, il regista diventa ancor piu pirandelliano. Pirandello auspicava la creazione di un cinema che fosse completamente sganciato dalla letteratura e in cui il visivo avesse la supremazia sul narrativo (i futuristi parlavano di un cinema che fosse una pura sinfonia di immagini), «bisogna assolutamente liberare il film dalla letteratura [...] il cinema dovrebbe trasformarsi in pura visione cioeÁ dovrebbe cercare di realizzare il suo effetto nella stessa maniera che un sogno (tanto quanto una pura visione) influenza lo spirito di una persona addormentata» 2. Bertolucci che eÁ un grande affabulatore, per immagini e per parole, con Il teÁ nel deserto sceglie di far parlare solo le ombre, le bellissime immagini che ha costruito con Storaro. Il teÁ nel deserto costituisce il distacco finale dalle preoccupazioni dei primi film e dalla loro grammatica complicatissima. Qui tutto eÁ lineare, chiaro, solare come le lunghe giornate nel deserto; a parlare non sono piu le parole ma la costruzione del discorso eÁ completamente affidata alle immagini.

2

F. CALLARI, Pirandello e il cinema, Venezia, Marsilio, 1991, p. 18.

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Il teÁ nel deserto (1993). Kit (Debra Winger). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

CAPITOLO TREDICESIMO

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PICCOLO BUDDHA

Ad un certo punto del film Gina citava un passaggio di Milarepa. Diceva: «So benissimo che il Tempo non esiste... E conosco una storia molto piu antica del vostro Proust... C'era una volta un vecchio eremita, come te (accennando a Cesare), che aveva un giovane discepolo, come lui (accennando a Fabrizio). Entrambi camminavano per la campagna. Un giorno il maestro disse: ``Ho tanta sete. Mi porteresti un bicchier d'acqua''? Il giovane subito prese una stradina che portava a una fontanella. E al di laÁ della fontana, scorse una valle verdissima e...»; Fabrizio la interrompe: «E laÁ incontroÁ una donna meravigliosa e affascinante, come te, ed ebbero molti figli, e visse con lei per tanti anni. Dopodiche scoppio una grande epidemia. Tutti morirono, tranne lui. Nel frattempo era invecchiato. Disperato, partõÁ per la campagna e camminoÁ a lungo, giungendo infine al posto dove aveva lasciato l'eremita. E chi vide? Il vecchio maestro che era ancora laÁ: ``Ma quanto tempo ci hai messo ± gli disse ± per portarmi un bicchiere d'acqua! EÁ tutto il pomeriggio che aspetto!''» E Gina conclude: «Vedi... il Tempo non esiste» 1.

La prima di Piccolo Buddha (1993) eÁ andata in scena nel cinema parigino Gaumont Italie. A vedere il film c'era anche Tenzin Gyatso, proclamato Dalai Lama all'etaÁ di tre anni, nel 1939, e premio Nobel per la Pace nel 1989. Alla fine del film, il Dalai Lama ha regalato a Bertolucci una sciarpa di tela bianca che eÁ un dono carico di simboli e riservato solo alle personalitaÁ fuori del comune. Piccolo Buddha inizia con un prologo che riguarda la reincarnazione di una capra. L'animale sta per morire sacrificato da un sacerdote agli dei, ma ride perche sa che rinasceraÁ come sacerdote. La capra, poco dopo, si mette a piangere perche molte vite prima anche lei era stata un sacerdote che immolava gli animali in sacrificio e il destino del suo carnefice la intristisce. Finito il prologo inizia il racconto. Una giovane coppia di Seattle, Dean e Lisa, trova alla porta della propria casa, che si affaccia sull'oceano, un gruppo di monaci tibetani di stanza in America capeggiati dal Lama Norbu. I monaci sono andati ad informarli che il loro figlio Jesse, di 1 J.T. KLINE, I film di Bernardo Bertolucci, cit., p. 174. L'interesse per il buddhismo si manifesta giaÁ in Prima della rivoluzione.

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Capitolo tredicesimo

otto anni, potrebbe essere la reincarnazione del Lama Dorjie. Dopo incredulitaÁ e sospetti, Dean, a seguito di una crisi personale, si convince ad ascoltare i monaci e decide di accompagnare il figlio in Bhutan. All'interno di questa cornice narrativa, prende corpo la storia del fondatore del buddhismo, il principe Siddharta. A raccontare la sua vita a Jesse saraÁ il vecchio Lama; mentre una mano apre un libro illustrato, la voce del Lama comincia a parlare della storia di Siddharta, dalla nascita all'illuminazione finale, e una serie di flashback la mostrano allo spettatore. Figlio di re, cresciuto nel lusso e nella felicitaÁ, Siddharta scopre solo da adulto la malattia, la povertaÁ e la morte. Abbandona la reggia e la famiglia (anche lui, come Pu Yi esce dal palazzo per scoprire la vita), si spoglia di ogni avere, e cerca una liberazione nel mondo dell'ascetismo. Vive all'insegna della rinuncia, umiliando il corpo e le sue esigenze, per sei anni. Successivamente, capisce che eÁ inutile contrapporre il corpo all'anima e vivere in completo ascetismo, perche la giusta via eÁ quella di mezzo. Intanto, Jesse e suo padre, arrivati in Nepal e poi in Bhutan, scoprono che ci sono altri due piccoli candidati (come nel 16mm La teleferica, che Bertolucci aveva girato da giovanissmo, anche qui, ci sono tre bambini), che, analogamente a Jesse, dovranno essere sottoposti a varie prove per capire in quale di loro si fosse incarnato il Lama. I tre piccoli rivivranno il combattimento finale di Siddharta contro le forze del Male e dell'illusione, che si materializzeranno davanti ai loro occhi mentre Lama Norbu continua il suo racconto. Alla fine del film si scopre che Lama Dorjie si eÁ incarnato ± corpo, parola e mente ± in tutti e tre i bambini. Dopo questa rivelazione, che precede di poco la morte di Lama Norbu, Jesse e suo padre tornano a casa, a Seattle. Questo film, spielberghiano e disneyano com'eÁ, fa venire in mente il romanzo di Herman Hesse, Siddharta, che gode di grande popolaritaÁ tra gli adolescenti. Anche nel film, la storia di Buddha eÁ raccontata con l'ingenuitaÁ di una evocazione mitologica e fiabesca soprattutto nelle sequenze relative all'antica India, in cui visse Siddharta. Bertolucci si eÁ impadronito della leggenda conferendole un tono e una forza visionaria che evocano il Pasolini di Mille e una notte (1974) ma che, al contempo, non si allontanano molto dal romanzo di Hesse. Piccolo Buddha eÁ costituito da almeno due parti diverse; una eÁ la vicenda contemporanea (Seattle e l'Occidente) che eÁ girata con colori freddi e bluastri, i colori della depressione e di un quotidiano sempre uguale a se stesso; sono colori analoghi a quelli che, nell'Ultimo imperatore, Bertolucci e Storaro hanno usato per filmare il mondo esterno alla CittaÁ Proibita. La leggenda di Buddha, invece, eÁ filmata con colori caldi e festosi, con le stesse tonalitaÁ utilizzate all'interno della CittaÁ Proibita nell'Ultimo imperatore e nell'appartamento in cui si incontrano Paul e Jeanne in Ultimo Tango. Il mondo www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Piccolo Buddha

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di Siddharta eÁ mitico e fuori dal tempo. Le due parti del film ne comprendono altre al loro interno: il racconto intimista e personale della coppia in crisi (Dean e Lisa); ancora, il viaggio, esemplificato dal pellegrinaggio in Bhutan; il rapporto padre-figlio o educatore-discepolo tra Jesse e Lama Norbu (Lama Norbu eÁ interpretato dallo stesso attore, Ying Ruocheng, che figurava nell'Ultimo imperatore nei panni dell'«analista» che aveva strappato a Pu Yi la sua confessione in carcere). Nei contenuti, dunque, Piccolo Buddha ripropone le questioni a cui Bertolucci ha abituato il proprio pubblico: il rapporto tra padri e figli, il disagio esistenziale, l'impatto con la veritaÁ o con la realtaÁ, le ambiguitaÁ della psicologia dell'uomo. Come nel TeÁ nel deserto, anche in Piccolo Buddha il viaggio ha una funzione salvifica, eÁ un tentativo (in questo caso, poco approfondito) di trovare se stessi, attraverso il confronto con l'Altro da seÂ. Ricchezza e povertaÁ, uno dei temi di Novecento, viene accennato anche in questo film seppur completamente privato delle implicazioni ideologiche. Come nell'Ultimo imperatore e in Ultimo tango, anche in Piccolo Buddha ci sono due mondi, uno «interno», rassicurante quanto fittizio, e uno «esterno» e apparentemente piu reale. In Piccolo Buddha questi nuclei narrativi restano solo come citazioni senza che il regista si soffermi ad approfondirle. Ci sono anche gli autobiografismi, tanto che alcuni critici hanno ravvisato nella figura di Lama Norbu (un guru, affascinante, a volte incomprensibile, apparentemente mitissimo, sempre ipnotico), un riferimento o un omaggio ad Attilio Bertolucci, il che trasformerebbe il film in un «film di famiglia». Se si vuole portare fino in fondo la metafora secondo cui Lama Norbu sarebbe Attilio, allora, in virtu del rapporto che egli instaura con Jesse, non si puoÁ far a meno di osservare che Jesse, giaÁ doppio di Siddharta, rappresenta Bernardo, eÁ cioeÁ una figura autobiografica in senso lato. Il doppio eÁ il mito narcisistico dell'io che vuole raggiungere le proprie proiezioni immaginarie. La storia di Narciso eÁ la storia del conoscersi. Jesse e Siddharta sono l'uno il sosia dell'altro perche il testo istituisce numerose corrispondenze tra i due. Jesse agli inizi del film eÁ ritratto mentre eÁ intento a giocare nel cortile della scuola con i compagni. Anche Siddharta giovane (Keanu Reeves), viene mostrato mentre gioca al kabadi con altri ragazzi nel cortile del palazzo. Jesse e Siddharta si autobattezzano: il bambino americano si immerge totalmente nella vasca da bagno mentre sua madre lo sta lavando. Siddharta si autobattezzeraÁ nelle acque del fiume dopo essersi ricreduto riguardo alla vita ascetica. Entrambi, inoltre, sono destinati a perdere la madre, quella di Jesse rimarraÁ in America, esclusa dall'esperienza del figlio, mentre quella di Siddharta moriraÁ molto giovane. Ancora, mentre Siddharta e Jesse si accingono ad abbandonare ciascuno il proprio mondo (rispettivamente il Palazzo reale www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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e l'Occidente) per scoprirne uno nuovo (ovvero un Oriente che eÁ sconosciuto a tutti e due) si trovano emblematicamente circondati da persone che dormono. Jesse osserva tutti i suoi compagni di viaggio che stanno ancora riposando mentre l'aereo eÁ quasi giunto a destinazione; analogamente, Siddharta troveraÁ tutti addormentati all'alba del giorno in cui lasceraÁ il palazzo di suo padre. Siddharta, inoltrandosi nella foresta, dona i suoi abiti regali a un mendicante, e Jesse, appena giunto in Nepal, regala il suo cappello a Raju. Sia Jesse che Siddharta compiono giochi magici con l'acqua: il primo fa galleggiare la scodella con le ceneri di Lama Norbu al largo di Seattle, l'altro fa risalire la corrente a una scodella di riso. Corrispondenze o reincarnazioni? In questo film, Bertolucci non riesce a far a meno di riproporre il tema del doppio, esemplificato dalle due vite parallele di Jesse e Siddharta, entrambe spese alla ricerca della veritaÁ. Anche la lontananza temporale tra i due sembra azzerata dal montaggio parallelo delle loro vite. In Piccolo Buddha, il doppio eÁ un doppio reincarnato, eÁ il topos in cui i figli prendono (sempre secondo un procedimento edipico) il posto dei padri. Lo stile del film presenta una novitaÁ importante. Si tratta degli effetti speciali che sono molto diversi dalle accelerazioni del movimento, i cambi di luce, le sovrimpressioni, gli sdoppiamenti del personaggio (alla Cocteau), tutti artigianali (e cioeÁ fatti in macchina) di Partner e degli altri film. Ci sono sequenze, volutamente false (e quindi ancor piu cinematografiche), in cui i fiori di loto si schiudono ai piedi di Siddharta, gli alberi s'inchinano davanti a lui e un cobra enorme si protende sopra la sua testa per ripararlo dalla pioggia. L'uso degli effetti speciali ha contribuito ad aprire una sottile polemica da parte di Bertolucci contro il cinema spettacolare-hollywoodiano di Spielberg che negli stessi giorni dell'uscita del Piccolo Buddha ha invaso i cinematografi con Jurassic Park (1993), un film tutto di effetti speciali. Agli effetti speciali in Piccolo Buddha fa da sfondo un andamento narrativo molto lineare in cui il mondo contemporaneo eÁ la cornice giustapposta alle immagini del mondo di Siddharta. Quella dell'Occidente, peroÁ, eÁ una storia non raccontata. La madre di Jesse lasciata a casa a rappresentare l'Occidente compare solo all'inizio e alla fine del film e Dean, che invece gode del privilegio di accompagnare il figlio in Bhutan, non eÁ mai personaggio attivo e, invece, si limita ad ascoltare e a guardare quello che i monaci mostrano a suo figlio e agli altri due bambini. Le identificazioni o `reincarnazioni' servono ad esemplificare il tema centrale del buddhismo che, a sua volta, si adatta perfettamente all'idea che sottende il film perche Buddha abolõÁ tutti gli dei e le divinitaÁ ponendo l'uomo al centro, secondo una sorta di umanesimo religioso. Cosõ Bertolucci, che, avendo accantonato se non parzialmente risolto il conflitto con il mondo dei padri, trova nel rinnovato interesse verso il soggetto www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Piccolo Buddha

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e il cinema(-cinematografico) un grande punto di forza e una nuova vena espressiva. La storia di Siddharta e del buddhismo culmina con il raggiungimento della Illuminazione. Nel film si capisce chiaramente che il Nirvana altro non eÁ se non la vittoria di Siddharta sul proprio io: il Principe combatte il Male che, secondo uno stilema di Bertolucci, eÁ la sua immagine speculare, il suo perfetto sosia, eÁ un'altra versione di se stesso. Bertolucci spiega l'idea centrale del film: Credo che racconti del bisogno di una religiositaÁ senza Dio, perche per i buddhisti Dio non c'eÁ, e di conseguenza non c'eÁ neanche il Diavolo. Il Male non eÁ fuori ma dentro di noi: il nostro «ego» 2.

Il procedimento narcisitico di autoconoscenza, esemplificato dall'immagine del doppio, porta alla scoperta dell'io che racchiude in se la dialettica tra Bene e Male e quella tra realtaÁ e immaginario. In un film di sentimenti e di emozioni, il regista affronta il tema del buddhismo per tornare, da reincarnato, alla questione del cinema che diventa un racconto tutto visivo e a favore del soggetto. Siddharta, interpretato in maniera del tutto improbabile da Keanu Reeves, vive un sogno ad occhi aperti (il Nirvana) e il film parla della realtaÁ come di una illusione che deve essere trascesa. La realtaÁ eÁ qualcosa di labile e caduco, come il bellissimo mandala di sabbia che una mano distrugge in un attimo, spazzandolo via. Bertolucci torna all'ego, ad una soggettivitaÁ in piena formazione. Il suo Bildungsroman iniziato trent'anni prima ha raggiunto il compimento. Il regista sceglie l'io che eÁ qui preso nella sua pienezza: il Bene e il Male, si asserisce, sono in lui. Il film esemplifica il desiderio della interioritaÁ dell'io e il buddhismo eÁ la coordinata di questa maturazione. Ma il buddhismo come filosofia religiosa implica anche la radicale negazione della Storia e per il Bertolucci rivoluzionario, il gesto dovrebbe essere carico di gravi lacerazioni. Se le questioni morali sono reperibili nel cerchio della propria soggettivitaÁ, la Storia (razionalitaÁ, politica, leggi, metasoggettivitaÁ) perde consistenza. In questo nebuloso misticismo naturalistico (che eÁ anche la moda piccolo-borghese dell'Occidente in una fase ben precisa della sua storia), Bertolucci, che non ha serie preoccupazioni filosofiche ma registra i risvolti esistenziali, non indica strade nuove da percorrere o misteri da esplorare. Sembra quasi che si tratti di soluzioni tecniche e di formule da impiegare per dare «profonditaÁ» ai film. La sua distanza da Spielberg, dopotutto, in questi film non eÁ notevole. La sfida cinematografico-intellettuale al fondo della realizzazione di Bertolucci eÁ anche il motivo del tempo, annunciato dalla favola del vecchio eremita e rifratto nella mitologia della reincarnazione o, per restare nell'ambito della cultura occidentale, e piu precisamente di Hesse, nell'e2

J.T. KLINE, I film di Bernardo Bertolucci, cit., p. 174.

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Capitolo tredicesimo

terno ritorno di Nietzsche. La reincarnazione eÁ una forma di eterno ritorno. L'errore che gli ermeneuti nicciani compiono di solito eÁ di capire o spiegare questo motivo letteralizzando, come se l'eterno ritorno significasse che ognuno di noi si troveraÁ a rivivere di nuovo il proprio passato. Sarebbe, questa, la piu violenta delle punizioni, perche vorrebbe dire che ognuno di noi eÁ prigioniero del tempo e dell'eterno. La teoria dell'eterno ritorno, che eÁ una delle formulazioni piu ardue di Nietzsche, non consiste tanto nell'abolizione del tempo, piuttosto, eÁ la messa in questione della linearitaÁ del tempo; eÁ l'idea del futuro come passato. Bertolucci visualizza per noi questo motivo del tempo: eÁ il cinema, attraverso il soggetto reincarnato, la metafora che rende piu profondamente e accuratamente il senso misterioso del tempo che circola, ritorna su se stesso, si esaurisce, e risorge. Il cinema rappresenta l'immagine del tempo come evanescenza radicale e radicale ritorno. O, se si vuole, l'eterno ritorno eÁ la memoria che torna. Per rendere quest'intuizione sarebbe stato necessario che Bertolucci sondasse, attraverso introspezioni, la coscienza interiore (dove risiede, a suo dire, il Male). Sarebbe stato necessario che Bertolucci «perdesse» il mondo reale per incamminarsi sui percorsi dell'immaginario. Ma Bertolucci, in questo film, sceglie la superficie delle cose, gli accostamenti geografici (per svuotare di senso le stesse separazioni geografiche e la storia), l'annullamento fiabesco e narrativo di passato e presente. Il fatto eÁ che il tempo resiste e non eÁ manipolabile come pura interiorizzazione agostiniana. E resiste la morte, come Borges, Calvino e Pasolini coglievano con luciditaÁ.

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Piccolo Buddha (1993). Siddharta (Keanu Reeves). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

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I BALLI NEL CINEMA DI BERTOLUCCI

Io ballo da sola (1996) racconta della vacanza toscana di Lucy Harmon, una ragazza americana di diciannove anni. Lucy raggiunge una bella villa in campagna dove vive una coppia di vecchi amici di famiglia, Ian e Diana Grayson, e i loro figli. Oltre a Lucy, nella lussuosa casa colonica ci sono molti ospiti: una giornalista italiana, Noemi, titolare di una rubrica di «posta del cuore»; un avvocato americano, Richard Reed; un mercante d'arte, anziano ed eccentrico, Monsieur Guillaume; e un drammaturgo inglese, ammalato terminale di cancro, Alex Parrish. Il viaggio eÁ il topos piu classico dell'avventura della conoscenza e Lucy va in Toscana proprio con l'intento di svelare alcuni misteri. Desidera ritrovare un ragazzo italiano che non ha mai dimenticato, NicoloÁ Donati, al quale pochi anni prima, ospite dagli stessi amici con sua madre, aveva dato il suo primo bacio; e poi vuole svelare il mistero legato al diario della madre, Sarah, una poetessa morta suicida qualche anno prima. Il diario e le poesie della madre (che Bertolucci fa apparire in sovrimpressione in molte sequenze), diventano per Lucy insieme un mistero e una chiave di lettura del mondo che la circonda. La giovane americana vuole anche scoprire l'identitaÁ di suo padre, che in una notte di agosto del 1975, amoÁ la madre in un oliveto toscano. Lucy, con la sua presenza lascia un segno profondo nelle vite degli abitanti della villa; parimenti, l'esperienza toscana cambia anche Lucy che era arrivata nel Chianti da adolescente ma riparte per l'America da donna. Il film registra le tappe della perdita dell'innocenza di una giovane ragazza e segna il solo apparente ritorno registico in Italia di Bernardo Bertolucci dopo i quindici anni che lo avevano visto impegnato nella «trilogia orientalista». Pare che a Bertolucci sia venuta l'idea del film, che ha il sapore di un racconto alla Henri James, dopo una visita ad amici in Toscana. La sceneggiatura eÁ stata scritta insieme a Susan Minot (una scrittrice americana, la cui prosa eÁ essenziale e sobria, quasi minimalista); la Minot, alla sua prima esperienza con una sceneggiatura, si eÁ sempre dichiarata un'ammiratrice dell'opera di Bertolucci. Il produttore, Jeremy Thomas, ha finanziato il film e si eÁ occupato della distribuzione con la Fox Searchlight Pictures della 20th Century Fox. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quattordicesimo

Il cast: il ruolo di Lucy, la turista americana, eÁ andato a Liv Tyler, una giovane attrice americana (figlia della modella Bebe Buell e del cantante degli Aerosmith, Steve Tyler), che, sebbene abbia celebrato il suo diciottesimo compleanno sul set, eÁ giaÁ apparsa in tre produzioni statunitensi. Il premio Oscar Jeremy Irons interpreta Alex, l'amico di famiglia molto ammalato che ha deciso di trascorrere gli ultimi giorni di vita con i piu vecchi e cari amici. Sinead Cusack (la moglie di Jeremy Irons nella vita) eÁ la donna (moglie e madre) che tiene insieme la strana famiglia allargata. Suo marito, l'artista Ian Grayson, eÁ interpretato dall'attore irlandese Donald McCann, incluso nel cast dopo che Bertolucci lo aveva visto recitare in The Steward of Christendom al London's Royal Court Theatre. Ian ha una vaga somiglianza fisica con Bertolucci e veste degli stessi colori di Buddha e di Lama Norbu. Stefania Sandrelli eÁ tornata a lavorare con Bertolucci dopo tanti anni dalle esperienze del Conformista e di Novecento. Jean Marais eÁ il commerciante d'arte. Marais eÁ un vero mito dello schermo e uno degli attori preferiti di Cocteau che gli aveva affidato il ruolo di protagonista in La bella e la bestia (1946) e in Orfeo (1950). I due film giocano con le belle immagini e con i sentimenti, soprattutto La bella e la bestia, la cui morale eÁ la vittoria dell'amore su tutto. Il cast comprende anche giovani attori italiani e inglesi. Darius Khondji eÁ il direttore della fotografia che lavora con Bertolucci per la prima volta. I luoghi dove eÁ stato girato il film, nell'estate del 1995, sono assolutamente splendidi. EÁ il cosiddetto «Chiantishire», visto che la maggior parte delle case coloniche che vi si trovano sono di proprietaÁ di inglesi. E nel Chianti, che nel film diventa la terra di nessuno, Bertolucci fa radunare un eterogeneo gruppo di persone che ben poco hanno a che vedere con l'Italia e che interagiscono tra di loro senza alcuna apertura verso il resto del mondo. Il paesaggio intenso fa da sfondo al microcosmo riunito nella casa colonica e da contrasto alla poca consistenza narrativa della storia. Il paesaggio eÁ reso con colori forti che vanno dal rosso profondo all'arancio «terra di Siena». La casa, dove boccaccescamente ogni personaggio racconta la propria storia che eÁ la propria vita, eÁ una fattoria su una collina dalle parti di Castel Brolio nel mezzo dei famosi vigneti del Chianti e con una vista che si estende a sud, fino alla Torre del Mangia di Piazza del Campo a Siena. Secondo il racconto di Bertolucci, i Grayson, la coppia radical-chic di artisti, si sono trasferiti in quella casa da molto tempo e l'hanno trasformata da fattoria in costosissima villa di nobile rusticitaÁ. Le stanze della casa e il giardino sono costellati da enigmatiche sculture in terracotta, che assomigliano a quelle etrusche, opere dell'artista Matthew Spender, amico di Bertolucci. Spender, figlio del poeta inglese Sir Stephen Spender, ha anche collaborato al film in veste di consulente artistico ed ha assistito www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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I balli nel cinema di Bertolucci

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Donald McCann nel ruolo dello scultore. Nello studio di Ian ci sono alcuni lavori di Spender, per la maggior parte bassorilievi su pannelli di legno. Ma tra le sculture di Spender, c'eÁ un pezzo che ha un valore narrativo e ideologico importante. Si chiama Le spettatrici; sono quattro figure sedute su una ripida panchina, intente a contemplare una scena di teatro o di opera che si svolge davanti ai loro occhi. La scultura eÁ l'immagine concreta di una forma di spettatorialitaÁ del film all'interno del film. Se Bertolucci, nella sua vena modernista, usa la scultura come un commento esplicito della spettatorialitaÁ in generale (il voyeurismo), in particolare fornisce anche una chiave di lettura sul genere di film che ha fatto. La teoria cinematografica ha ampiamente documentato che il ruolo dello spettatore, ovvero di colui che eÁ possessore dello sguardo (ideologia, cultura), eÁ prevalentemente inteso come un ruolo di genere maschile. Esistono, peraltro, forme di spettatorialitaÁ femminile ma sono vere soprattutto per un certo genere di film, le storie d'amore o i film che «fanno piangere». La scelta di inserire Le spettatrici, del film nel film, chiarisce il tono del racconto che eÁ leggero, fatto di amore, di crescita (il vero mistero che Bertolucci svela eÁ il passaggio di Lucy dall'adolescenza all'iniziazione adulta, attraverso il sesso) e di contemplazione estetica, tanto di Liv Tyler quanto del paesaggio toscano quasi naõÈf e da cartolina. Il soggetto della contemplazione delle Spettatrici non eÁ solo il film ma anche lo spettatore esterno ad esso. Le statue, in sostanza, sono l'unico relitto della meditazione metacinematografica di Bertolucci. Immagine speculare dello spettatore cinematografico, la scultura delle Spettatrici ricorda sostanzialmente due cose: che stiamo guardando un film e che eÁ un film «da donne». Se il cinema eÁ «azione», la spettatorialitaÁ, in questa versione di Bertolucci, eÁ contemplazione e Le spettatrici sono proprio l'empiria del vedere intesa come ammirazione estetica passiva e ben lontana dalla pressione ermeneutica interlocutrice che i film del primo Bertolucci imponevano a chiunque vi si accostasse. Erano film che chiedevano di essere partecipati dagli spettatori con la stessa intensitaÁ che era stata del loro creatore. Qui, invece, Bertolucci predilige il modulo cinematografico nell'estetismo estenuato fino a farlo diventare un segno vuoto e completamente avulso da qualsiasi contesto. Il regista invita, innanzi tutto, a contemplare un paesaggio naturale che eÁ bellissimo; il mondo che circonda la casa colonica eÁ esattamente come un quadro. In esso, la vita dell'ordine naturale eÁ sempre assolutamente elegiaca, arcadica, contemplativa e, in un certo senso, resa con una certa erudizione; la natura del Chianti eÁ il mito, sacro, dell'eterno ritorno soprattutto perche eÁ sempre uguale a se stessa e nella sua bellezza risulta immagine irreale e mitica di un mondo che, al contrario eÁ molto reale. Tragico infatti eÁ tutto quanto riguarda i personaggi che vivono cowww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quattordicesimo

me in una sospensione temporale e in assoluto distacco dal mondo circostante; tragico eÁ il passare del tempo che lascia il proprio segno nella vita degli uomini e non in quella dell'ordine naturale. L'elegia del paesaggio non ha vita; la campagna, che era carnale e piena di fisicitaÁ in Strategia del ragno e in Novecento (o che diventava il paesaggio urbano alienante nei film di Parigi e di Roma) qui eÁ ridotta a sfondo piatto, a un altro deserto sempre uguale a se stesso e tanto bello quanto innaturale. Bertolucci sembra aver perso di vista il suo mito personale della «rosa bianca» appreso da suo padre Attilio e al quale il regista si eÁ riferito a piu riprese in interviste. La «rosa bianca» che Attilio usa in una poesia per riferirsi alla moglie era anche un fiore che cresceva in fondo al giardino di casa Bertolucci. Per Bernardo, il poter immediatamente verificare la poesia e l'immaginazione attraverso il confronto con la realtaÁ eÁ stato fonte di ispirazione e un modello creativo, almeno fino a un certo punto della sua carriera 1. In Io ballo da sola, non eÁ possibile ravvisare alcuna verifica della «rosa bianca». Il Chianti esiste ed eÁ bellissimo, ma non eÁ quello che descrive Bertolucci; la realtaÁ trasfigurata dall'immaginazione prende il sopravvento e il posto del reale. Il verso di una poesia della madre di Lucy che appare in sovrimpressione e che sollecita a «guardare la veritaÁ in faccia» eÁ su una pagina che la ragazza immediatamente brucia perche Io ballo da sola «guarda in faccia» solo la bellezza che non eÁ la realtaÁ ma una sua versione immaginata e riscritta. Il racconto del film eÁ suggestivo ma fondamentalmente ambiguo perche eÁ popolato piu da maschere che da personaggi veri. La prima maschera eÁ quella del paesaggio. Poi ci sono gli stereotipi del gruppo di adulti, ciascuno con una propria crisi personale e una qualche disillusione con cui convivere. Nell'eremo dorato, i personaggi sono inconsistenti e accomunati solo da una sufficienza snobistica verso tutto cioÁ che li circonda. Ognuno di loro eÁ una maschera di un luogo comune. Il piu credibile eÁ Jeremy Irons, gli altri non sanno trasmettere alcuna emozione e trasformano la storia del film in un rituale vuoto e assolutamente superficiale, tutto fondato sul gusto per le apparenze e le convenzioni estetiche; in realtaÁ, questa scelta poteva diventare lo strumento simbolico di una riflessione sulla realtaÁ che, peroÁ, Bertolucci evita di fare. Liv Tyler eÁ maschera di una forma di bellezza pura e fresca; di lei si innamorano tutti, compresa la macchina da presa che la rappresenta come figura eterea e irreale quanto il paesaggio. La ragazza eÁ oggetto dello sguardo sia della camera di Bertolucci sia di quella videocamera che appare, enigmatica, all'inizio del film quando Lucy eÁ in treno e dorme ascoltando musica con le cuffie nelle orecchie. In questo senso, Lucy assomi1

E. UNGARI, Scene madri, cit., p. 12.

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I balli nel cinema di Bertolucci

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glia molto a Jeanne in Ultimo tango; anche lei era inseguita dalla camera maniacale e ossessiva del fidanzato Tom che era intento a mettere insieme un film-veritaÁ sulla donna. Del videoamatore che ha ripreso Lucy, peroÁ, si perde traccia ben presto nel film. In compenso, la ragazza continua ad essere osservata dagli abitanti della villa e dai pochi toscani che la incrociano nel corso della sua vacanza. Ad esempio, lo scrittore in fin di vita, che occupava la stanza da letto attigua a quella della ragazza, quando eÁ trasportato in ospedale ormai morente, trova il fiato per ringraziare Lucy e afferma, nell'originale inglese, «I so enjoyed watching you». Lucy, chiaramente, ha lo stesso valore del paesaggio toscano, anche lei daÁ piacere quando viene guardata. La contemplazione estatica sembra essere l'unica forma di comunicazione tra i personaggi del racconto e il solo modo attraverso cui il film vuole comunicare con il proprio spettatore. Alex, lo scrittore, non eÁ l'unico a «guardare» Lucy. Il corpo della giovane donna eÁ soprattutto oggetto dello sguardo e dell'interesse artistico di Ian che scolpisce una Lucy-Dorian Gray (un romanzo, quello di Oscar Wilde tutto sul culto della bellezza, come il film di Bertolucci) nel corso del film. In questo senso, anche Ian ruba la bellezza alla ragazza. La progressione della scultura, che poco a poco prende forma nelle mani sicure ed esperte del suo creatore, eÁ assolutamente parallela a quella della formazione di Lucy. Quando la ragazza soffre, Ian assesta un gran colpo al pezzo di legno, destinato a diventare la scultura-ritratto di Lucy e a condividere con lei anche la sofferenza. Piu Lucy scopre l'amore e i buoni sentimenti, piu si addolciscono, sotto la mano dello scultore, i tratti del viso della statua che verraÁ finita in tempo per la fine del film, proprio quando anche Lucy saraÁ ormai diventata una «donna fatta». La scultura eÁ l'alter ego o la sosia della donna; ne immortala, per l'eternitaÁ, la bellezza iscrivendola, alla pari del paesaggio, in uno spazio mitico. La statua eÁ l'immagine attraverso cui Lucy scopre se stessa, interiormente ed esteriormente, e si ricongiunge al ricordo della madre che anni prima aveva anch'essa posato per Ian. L'artista Ian eÁ il demiurgo, il creatore dentro al film. Come ogni creatore ha un'aria misteriosa, a tratti appare quasi un uomo pericoloso, senz'altro eÁ un personaggio ambiguo e poco rassicurante. Egli sembra aver pieno accesso anche all'anima di Lucy oltre a godere del privilegio (che peraltro non viene negato a nessuno) di guardarla. Per la fine del film eÁ legittimo domandarsi se la vera Lucy sia la scultura, i cui solchi sembrano voler registrare il destino della ragazza, e se Ian non sia in effetti l'alter ego del regista dentro al film. Ian, dopotutto, eÁ l'autore della sua Lucy che per la fine del film sembra «piu vera» della Lucy di Bertolucci, la cui poca consistenza come personaggio va assottigliandosi sempre piu con il procedere della storia. In fondo, la Lucy di Io ballo da sola ha un destino complementare e opposto a quello di Pinocwww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quattordicesimo

chio. Da personaggio in carne (peraltro poca) e ossa si trasforma in scultura lignea, prendendo corpo in tutta la sua realtaÁ come oggetto di contemplazione; una volta trasformata in scultura, Lucy non potraÁ piu sfuggire a questo destino. La presenza di Lucy nella villa lascia un segno profondo nelle vite e nelle emozioni di chi vi si trova. Intanto la giovane rappresenta la sensualitaÁ e l'innocenza che gli altri paiono aver perso da tempo. Poi, la sua energia giovanile sembra voler scuotere tutti da quello stato di letargia ben esemplificato dal pisolino pomeridiano che Ian e la moglie stavano schiacciando quando la ragazza li ha raggiunti. La presenza di Lucy cambia le abitudini degli abitanti della villa tanto che Ian che erano anni che non lavorava di notte decide invece di farlo. La moglie e la sua amica si spiegano un tale mutamento di abitudini sostenendo che eÁ la presenza di una vergine nella casa ad aver cambiato le cose. Quando Alex, il malato, che era diventato anche il confidente di Lucy, crede che la ragazza abbia completato la sua missione (che corrisponde all'iniziazione sessuale), le sue condizioni di salute peggiorano velocemente e deve essere portato in ospedale. In un certo senso, eÁ come se avesse perso la motivazione profonda, la nuova ragione di vita (una vita vissuta vicariamente attraverso la giovane donna) per rimandare il crollo. Lucy, un ospite misterioso, sconvolge la vita nella villa e ne esce se non sconvolta certamente cambiata. Gli adulti vivono nel ricordo degli anni Sessanta (cosõ cari a Bertolucci), nel sogno utopico di quell'epoca e appartengono piu o meno alla stessa generazione di Bertolucci. Lucy, invece, eÁ come l'intrusione degli anni Novanta nel mondo ormai fermo e datato di quegli adulti. Lei arriva, non capisce e non eÁ capita, ma porta un cambiamento, nuove emozioni e nuovi misteri nella vita di tutti. In questo senso (e con un complimento), Lucy assomiglia all'ospite misterioso di Pasolini in Teorema (1968). Il film, dopo aver presentato i membri di una famiglia della ricca borghesia industriale, racconta del soggiorno di un ospite che fa preannunciare il suo arrivo e la sua partenza da una lettera consegnata dal postino. L'ospite sconvolgeraÁ la vita della famiglia (che non saraÁ piu la stessa dopo il suo arrivo), come viene esemplificato in una delle scene finali in cui il padre si trova nel deserto a vagare senza meta mentre lancia un grido disperato. La peculiaritaÁ dell'ospite in Teorema consiste nel fatto che egli riusciraÁ a possedere tutti i membri della famiglia, a sconvolgere le loro vite per poi lasciarli soli di fronte alla realtaÁ vera e svelata, da parte di ciascuno, di se stesso. Teorema, che Pasolini dice di aver elaborato nei termini di una tragedia, affida all'ospite misterioso il compito di liberare dall'ipocrisia i membri della famiglia. Come in Io ballo da sola, anche in Teorema ci sono poche parole e molte immagini. Il film di Bertolucci, incentrato sul sesso (chi www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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I balli nel cinema di Bertolucci

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aveva fatto l'amore con la madre di Lucy? Con chi scopriraÁ il sesso Lucy stessa?) attraverso la nuditaÁ e il gusto per l'apparenza esemplifica il bisogno (diventa ben presto un'urgenza) di svelare la veritaÁ. Non si tratta solo della veritaÁ dietro i misteri che Lucy sta indagando quanto la veritaÁ del corpo, che, paradossalmente, prenderaÁ forma quando la scultura saraÁ completata e ne avraÁ preso il posto. Anche quello del corpo e del sesso, entrambi luoghi del sacro per Pasolini, resta un discorso che Bertolucci accenna appena attraverso il sesso mostrato, quello discusso e immaginato, attraverso la morte imminente di Alex e la nausea che prenderaÁ alquanto inopportunamente la giovane Lucy. Il corpo da ammirare eÁ scolpito invece nell'eternitaÁ della scultura di legno che diventa il luogo del vero, la realtaÁ disvelata dietro le apparenze. Lucy come l'ospite in Teorema eÁ una presenza destabilizzante; mentre il fim di Pasolini, peroÁ, era ferocemente provocatorio e teso a fare del sesso uno strumento del sacro che avrebbe smascherato e ridotto al nulla la facciata ipocrita della borghesia, il film di Bertolucci eÁ piuttosto una convenzionale celebrazione della bellezza, un ritorno nostalgico e molto «rosa» agli anni Sessanta. L'ospite in Teorema eÁ latore del sacro come religione immanente, Lucy eÁ una ventata di freschezza, presto dissolta, nella vita alquanto insulsa di un'accozzaglia disomogenea di persone. Per Pasolini, l'ingresso dell'ospite nella vita dela famiglia in Teorema eÁ come un intervento del sacro che libera la famiglia dalla calcificazione delle convenzioni borghesi, per entrare in un mondo nudo, spoglio ma altamente simbolico. Teorema eÁ carico di figurazioni epifaniche, l'angelo-ospite pasoliniano eÁ un po' come l'angelus novus di Benjamin e di Rilke, e forse di Montale. In Pasolini, l'angelo diventa l'interprete, il messaggero dell'annuncio e dell'enigma della divinitaÁ; eÁ la presenza che sconvolge l'ordito ordinario, eÁ percioÁ l'irruzione del sacro nel tempo. E se nella storiografia letteraria (Dante e Beatrice) si parla di «donna angelicata», quello di Pasolini eÁ un angelo omoerotico che cancella le barriere naturalistiche. Per Pasolini il sacro eÁ la crisi del naturalismo. Il naturalismo come schema letterario che era riaffiorato nel realismo o neorealismo e che privilegia le apparenze e la catena di cause ed effetti della storia o della narrazione. Le sollecitazioni piu profonde sono venute a Pasolini dal pensiero francese: Georges Bataille e Rene Girard soprattutto. Per Bataille il sacro eÁ la degradazione stessa, la messa in discussione di ogni gerarchia e lo si ritrova nell'eros, nell'estasi e nella profanazione (una certa mistica della natura si ritrova in D'Annunzio ± il senso panico del sacro; il sacro come totalizzazione). Girard fa un'analisi radicale del sacro come la violenza stessa; il sacro eÁ la ipostasi della violenza, che eÁ sempre rimossa, sempre mistificata ed occultata. Il sacro eÁ la rivelazione della violenza. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quattordicesimo

Per Pasolini, questo eÁ un modo di provocare un allargamento di orizzonti critici, che il cinema come tecnica di apparizioni-apparenze inscena, in quanto eÁ simultaneamente epifania del sacro e sua sovversione. Sovversione perche il cinema trasforma, transustanzia le sostanze in magiche apparizioni o apparenze, le svuota di ogni profonditaÁ. Il cinema eÁ veramente il sacro in senso profondo: eÁ epifania; ed eÁ diabolica caricatura; unisce il demonico e l'angelico, appunto. Io ballo da sola si fonda su un impianto narrativo molto convenzionale e manca di quello stile visivo esotico, delle emozioni che Bertolucci aveva da sempre espresso con un gusto barocco, della potente ambivalenza politica di uomo di sinistra con nostalgie aristocratiche, e della genialitaÁ con cui egli ha costantemente espresso le ambiguitaÁ delle identitaÁ sessuali nei suoi film precedenti. Eppure il film eÁ pieno di autocitazioni. Tutti i personaggi di Bertolucci vanno in viaggio, e quando partono o arrivano trovano tutti che dormono. Il viaggio diventa quindi come una discesa nel mondo del sogno e rappresenta la condizione necessaria all'esistenza del film. Anche Lucy, all'inizio del film, scende da un treno (come Athos junior in Strategia), arriva alla villa in Toscana e trova tutti addormentati per il riposino pomeridiano (cfr. Piccolo Buddha, anche Jesse e Siddharta all'inizio del loro viaggio erano circondati da persone che dormivano). La giovane vuole scoprire la veritaÁ attorno alla morte della madre (analogamente ad Athos junior recatosi a Tara per svelare il mistero della morte di suo padre) che si era tolta la vita (il suicidio eÁ come una affermazione metacinematografica visto che eÁ una teatralizzazione di se stessi e della morte che eÁ un motivo pasoliniano). La madre di Lucy era una poetessa come Attilio Bertolucci mentre Io ballo da sola eÁ un romanzo di formazione analogamente a Piccolo Buddha. La formazione inscenata eÁ quella di Lucy che avviene in un assoluto vuoto storico. Alla giovane donna non eÁ dato altro se non la possibilitaÁ di ripercorre, attraverso il diario della madre, la sua vita. Il diario sembra diventare quindi il sentimento estetico dell'oggettivo e lo strumento attraverso cui l'esistenza della figlia si sovrappone, a distanza cronologica, a quella della madre: Lucy conosce gli amici della madre, ne rimane affascinata e inquietata (come Athos junior) per il loro modo di vivere sospeso un una dimensione irreale, disinibita e libertaria. Lucy cercheraÁ di scoprire l'identitaÁ del suo vero padre tentando di decifrare una poesia della madre. A differenza degli altri film, Bertolucci qui, per la prima volta mette in scena una madre morta, conferendole un destino che era sempre toccato ai padri. In un film che non si puoÁ dire che abbia un punto di vista preciso e la cui storia si svolge al di fuori di ogni contesto, Bertolucci continua ad attingere alle ossessioni della sua carriera, quelle di personaggi che ripetono il passato fino a quando hanno l'illusione di averlo esorcizzato, per raccontare una storia che si rivela peroÁ alquanto banale e priva delle sollecitazioni, ideologiche prima e poetiche poi, che si trovavano nei www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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film precedenti. Sembra quasi che le autocitazioni siano di un Bertolucci che «gioca» a fare Bertolucci. Il titolo inglese del film, come spesso accade, eÁ molto diverso da quello italiano. Stealing beauty, letteralmente «rubando la bellezza», puoÁ riferirsi e alla bellezza della Toscana, rubata dal gruppo cosmopolita degli esteti riuniti nella villa, e alla bellezza disarmante di Lucy, della quale si appropriano coloro che circondano la ragazza. In italiano le cose cambiano; il titolo non fa piu alcun riferimento alla bellezza e invece indica un «io» narrativo femminile (in fondo la Toscana di Bertolucci viene vista e scoperta attraverso gli occhi di Lucy) che dichiara di «ballare da sola». Nessuno dei due titoli chiarisce l'architettura del film che eÁ un po' come una storia investigativa innestata sul processo di maturazione sessuale di una ragazza. Ma il titolo italiano fa riferimento esplicito a uno stilema importante nel cinema di Bertolucci: il ballo e la musica. In ogni film, i momenti cruciali della storia sono evidenziati da musiche che invadono il testo e la narrativa o da diverse danze che coinvolgono i protagonisti. In Commare l'assassino viene riconosciuto mentre balla indossando gli zoccoli che portava la notte dell'omicidio; in Strategia il ballo eÁ un atto di ribellione da parte di Athos-padre che decide di danzare anche se le camicie nere hanno ordinato alla orchestra di suonare una musica fascista. Nel Conformista il ballo in cui Anna seduce Giulia finisce col coinvolgere tutte le persone che danzando si stringono intorno a Marcello mentre lui rimane intrappolato tra la folla, segno evidente del suo essere prigioniero della paranoia. Ultimo tango, fin dal titolo, chiarisce l'importanza della musica e del ballo argentino, un ballo di sensualitaÁ e di amore ma anche di morte; saraÁ proprio il tango, infatti, l'anticamera della morte di Paul. Anche nell'Ultimo imperatore e in Piccolo Buddha i balli non sono una semplice concessione scenografica, ma sono carichi di un valore simbolico ben preciso, ideologico nell'Ultimo imperatore e favolistico in Piccolo Buddha. Tragedia di un uomo ridicolo si conclude con un ballo in cui si assiste alla soluzione, per quanto enigmatica, di un mistero. Primo si daÁ alle danze (al ritmo del punk-rock e poi a quello del liscio) con Laura e Adelfo. La macchina da presa inquadra un paio di gambe che ballano (un piede eÁ nudo, l'altro con la scarpa), e sono quelle del figlio di Primo: scomparso o rapito che fosse, egli ricompare durante le danze. In Novecento sono diverse le scene di ballo ma quella piu importante coinvolge Olmo, Alfredo, Anita e Ada; nel ballo e nello scambio delle coppie si azzerano per un momento le differenze di classe e i quattro protagonisti si giurano eterna amicizia ed eterna lealtaÁ. Ma questa illusione dura giusto il tempo di un ballo che serve, nell'economia del racconto, a chiudere il periodo dell'infanzia e dell'adolescenza (di Olmo e Alfredo) e ad aprire quello della vita adulta. Il ballo, anche qui, peroÁ eÁ un momento di «veritaÁ»: il sodalizio tra Olmo e Alfredo che sembrava essere stato ineluttabilmente infranto dalle vicende storiche e politiche, in realtaÁ riappare inalterato www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quattordicesimo

alla fine del film quando i due, ormai vecchi, si ritroveranno insieme, amici come prima e come prima nemici. Io ballo da sola mette in scena la danza della sensualitaÁ. A far da denominatore comune a tutte queste danze eÁ anche l'ossessione di Bertolucci (la stessa che era stata di Visconti insieme a quella del ballo) verso l'opera dove la musica si fonde con le parole e i corpi sono presi tra recitazione e danza vera e propria. I riferimenti operatici non sono solo nei contenuti dei film ma, piuttosto, si concretizzano nell'ideologia patriarcale che il melodramma italiano e verdiano mettono in scena. L'opera verraÁ messa da parte quando Bertolucci riterraÁ di aver risolto, se non esaurito, il rapporto conflittuale e dialettico con i padri. Ma il ballo resta come stilema sempre presente nella cinematografia di Bertolucci. Il ballo, innanzi tutto, eÁ soprattutto questione di corpi, eÁ questione del ritmo del corpo e della conseguente capacitaÁ dei corpi di muoversi. Il ballo eÁ fondato sul movimento come il cinema: non a caso in inglese la parola `film' eÁ resa con moving pictures o movies, letteralmente «immagini che si muovono»; volendo lo si puoÁ tradurre in «immagini danzanti» (Ejzenstejn aveva giaÁ identificato il ritmo come avente uno stretto rapporto con la rappresentazione). E il ballo, come il cinema, diventa anche desiderio di sconvolgere lo spazio che fa resistenza ai corpi, eÁ una specie di intrusione nella realtaÁ attorno al corpo, e insieme si tratta di una sospensione della realtaÁ. Infatti, il ballo come rito, come ripetizione infinita dello stesso movimento o di sue variazioni si configura come eterno ritorno e, in quanto tale, si colloca al di fuori del tempo. Ci sono peroÁ dimensioni diverse a tutto il discorso relativo al ballare. Viene in mente Nietzsche e la danza dionisiaca come estasi primordiale, come cancellatura di ogni ordine e precipitarsi nel caos dei sensi sfrenati (la sessualitaÁ e la «danza della morte», che eÁ legata al coito, si affiancano a questi motivi). Ma c'eÁ anche la danza apollinea, la danza classica, che vuole tradurre l'armonia in razionalitaÁ. La danza in Bertolucci eÁ un desiderio di mettere in discussione la «razionalitaÁ» attraverso una formula, quella del ballo appunto, che rappresenta un momento di contatto tra natura e cultura. In fondo, il ballo, che eÁ insieme struttura coreografata (ovvero dotata di una sua sceneggiatura) e abbandono al movimento istintivo, eÁ il luogo immaginario dove avviene l'incontro tra reale e fantasia. Per Bertolucci la genealogia della danza riporta senz'altro a Pasolini e a Visconti. Uccellacci e uccellini (1966) esibiva un fotogramma memorabile: la danza degli uccelli; la danza, intesa come linguaggio dell'armonia della creazione, eÁ in Pasolini di ispirazione francescana. La danza nei film di Visconti (da Senso, 1954, a Il gattopardo, 1963) eÁ la danza borghese, quella dell'opera e delle sue primedonne. Poi c'eÁ la danza africana, e si tratta di una forma di danza che appare come preghiera (che eÁ esotica e fa la propria comparsa in www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Ultimo tango), e come rito spesso collegato a momenti iniziatici. La danza come preghiera eÁ presente anche nella liturgia della Chiesa cattolica. I movimenti del sacerdote all'altare seguono regole precise e altro non sono se non una sorta di passo danzante che accompagna, sottolineandoli, i diversi momenti della liturgia, e ne diventa completamento ed espressione rituale: il senso profondo della preghiera si manifesta cosõ anche attraverso il corpo e il movimento. La danza nel cinema eÁ un po' la contropartita del suono; piu precisamente, eÁ la traduzione del suono in corpo. La Commedia dell'arte aveva giaÁ intuito questa dimensione della danza. Il suono della musica e la sua attualizzazione attraverso la danza tradiscono innanzi tutto un ritorno ad una forma di oralitaÁ primitiva della cultura che prenderebbe il posto della lingua scritta; poi il suono, come spazio immaginario eÁ infinito a differenza dello spazio dell'immagine che tende ad essere uno spazio chiuso; questo eÁ vero soprattutto dell'immagine cinematografica che eÁ costretta dentro alla cornice del fotogramma. L'atto di danzare, ancora una volta, si pone come punto di congiunzione tra forze centrifughe e centripete, tendendo la danza stessa per sua natura alla razionalitaÁ e al sovvertimento del razionale, essendo in bilico tra spazio aperto e spazio chiuso. Ma al cinema, la danza eÁ anche danza di colori e di figurazioni, diventando cosõ anche metafora di una visione estetizzante e iconocentrica della vita e del mondo sotto gli auspici della musa della musica e della danza che eÁ Euterpe. Bertolucci eÁ assolutamente consapevole di questo aspetto del cinema (che era giaÁ stato di Pasolini), tanto che egli si ispira costantemente alla pittura, da Rene Magritte a Ligabue, da Hopper a De Chirico o a Francis Bacon. Nel cinema di Bertolucci, la danza, la musica e il ballo rappresentano la razionalizzazione del rapporto tra realtaÁ e fiction, o tra natura e cultura. La danza in particolare diventa il MacGuffin metafilmico del testo. La danza si configura cioeÁ nei termini di momento cinematografico per eccellenza visto che, da un lato eÁ momento coreografico e dall'altro eÁ istinto, eÁ momento dello spirito, o immagine, ma anche espressione della pienezza del corpo, eÁ in sospeso tra culto del falso e ricerca del vero. In Bertolucci, il ballo in quanto metafora del cinema, corrisponde alla metafora del moderno. In altre parole, il ballo diventa il momento spettacolare del mezzo cinematografico perche eÁ un momento estetizzante. Il ballo come il cinema eÁ sia arte, sia tecnica. Il ballo come metafora del cinema ripropone la questione del modernismo di Bertolucci e riporta il discorso nei territori dei suoi padri, soprattutto di Pasolini e di Godard. Se per Pasolini il cinema era linguaggio in quanto linguaggio, per Godard il cinema eÁ tale solo in quanto momento autoriflessivo; eÁ una scrittura per immagini che riflette sul mezzo attraverso cui avviewww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Capitolo quattordicesimo

ne la comunicazione di senso: l'immagine, appunto. Per Bertolucci, il ballo eÁ la metafora dell'immagine cinematografica e il punto di arrivo nella sua ricerca del significato del proprio cinema. Peccato che in Io ballo da sola, a dispetto del titolo invitante, Lucy, e con lei Bertolucci, si siano esibiti in movimenti vuoti, tanto belli quanto asettici e privi di significato. Il film suscita poco interesse anche come esercizio tecnico del genere della pastorale, i cui motivi principali sono l'amore, la musica, la semplicitaÁ, l'ingenuitaÁ della vita rustica, il contatto con la natura.

Io ballo da sola (1996). Lucy (Liv Tyler). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

CAPITOLO QUINDICESIMO

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BESIEGED

Sta per uscire il film Besieged (non eÁ stato ancora deciso il titolo in italiano) che racconta di un certo Mr. Kinski che vive da solo in un palazzo del centro di Roma. A tenergli compagnia e a contribuire al suo isolamento sono i Preludi di Bach e il suo pianoforte. Il film racconta anche di una storia diversa e parallela. EÁ quella di Shandurai, una donna che dall'Africa si eÁ trasferita a Roma per completare gli studi di medicina all'universitaÁ. Per mantenersi, da rifugiata com'eÁ, ha trovato un lavoro alla pari. Lava e stira in cambio di una stanza nel palazzo in cui vive Mr. Kinski. Come in esilio, Shandurai trae conforto dalla musica africana e dalla speranza di rivedere suo marito. Mr. Kinski e Shandurai si incontrano occasionalmente. Il rispetto e la circospezione che contraddistinguono questi incontri rappresentano insieme un punto di contatto e di distanza tra i due mondi che essi rappresentano, entrambi, peraltro, separati dal resto del mondo. Per evitare futili congetture che sarebbero probabilmente smentite dai fatti, si possono solo formulare alcune ipotesi preliminari. L'idea del palazzo come di un mondo a se stante fa venire in mente sia la casa di rue Jules Verne a Parigi, dove si incontravano Paul e Jeanne in Ultimo tango, sia il palazzo imperiale della CittaÁ Proibita dell'Ultimo imperatore o quello in Piccolo Buddha. C'eÁ una casa importante anche in Io ballo da sola. L'altra osservazione riguarda l'accostamento di mondi che Bertolucci ha giaÁ frequentato. Con la trilogia orientalista erano stati gli occidentali a recarsi in luoghi lontani ed esotici. Nell'Assedio, Shandurai porta con seÂ, nel mondo occidentale, un pezzo d'Africa. La musica africana era giaÁ stata ascoltata in Ultimo tango e nel TeÁ nel deserto. Da ultimo, non si puoÁ fare a meno di notare che Roma eÁ stata la cittaÁ di Commare secca, di Pasolini ma anche del Marcello Clerici del Conformista. SaraÁ interessante vedere che tipo di Roma il regista ha deciso di presentarci in questo nuovo film e che tipo di rapporti interpersonali e interculturali metteraÁ in scena.

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Besieged (1998). Shandurai (Thandie Newton) e Mr. Kinski (David Thewlis). www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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FILMOGRAFIA

1955 - La teleferica (cortometraggio). 1956 - Morte di un maiale (cortometraggio). 1962 - La commare secca. Produzione: Cinematografica Cervi di Antonio Cervi. Produttore: Antonio Cervi. Direttore di produzione: Ugo Tucci. Regia: Bernardo Bertolucci. Assistente alla regia: Adolfo Cagnacci. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Sergio Citti, dall'omonimo racconto di Pier Paolo Pasolini. Fotografia (bianco e nero): Gianni Narzisi. Tecnico del montaggio: Nino Baragli. Scenografia e costumi: Adriana Spadaro. Musiche: Carlo Rustichelli, Piero Piccioni. Tecnico del suono: Sandro Fortini. Interpreti: Francesco Ruiu (Canticchia), Giancarlo De Rosa (Nino), Vincenzo Ciccora (Sindaco), Alvaro D'Ercole (Francolicchio), Romano Labate (Pipito), Lorenza Benedetti (Milly), Emy Rocci (Domenica), Erina Torelli (Mariella), Renato Troiani (Natalino), Allen Midgette (Teodoro, il soldato), Marisa Solinas (Bruna), Wanda Rocci (Prostituta), Alfredo Leggi (Bostelli), Carlotta Barilli (Serenella), Gabriella Giorgelli (Esperia), Santinia Lisio (la madre di Esperia), Clorinda Celani (Soraya), Ada Peragostini (Maria), Silvio Laurenzi (omosessuale), Nadia Bonafede, Ugo Santucci, Santina Fioravanti, Elena Fontana, Maria Fontana. Durata: 100 minuti. Formato: 1.66. Proiezioni speciali: Mostra internazionale di Venezia, 1962; London Film Festival, 1962; New York Film Festival, 1967. Premi: New York Film Festival Award, 1967. 1964 - Prima della rivoluzione. Produzione: Iride Cinematografica-Cineriz. Direttore di produzione: Gianni Amico. Soggetto e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Gianni Amico. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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FILMOGRAFIA

Fotografia (bianco e nero): Aldo Scavarola. Tecnico del montaggio: Roberto Perpignani. Musica: Gino Paoli, Ennio Morricone, brani dal Macbeth di Verdi. Tecnico del suono: Romano Pampaloni. Interpreti: Adriana Asti (Gina), Francesco Barilli (Fabrizio), Allen Midgette (Agostino), Morando Morandini (Cesare), Cristina Pariset (Clelia), Cecrope Barilli (Puck), Gianni Amico (l'amico), Domenico Alpi (il padre di Fabrizio), Emilia Borghi (la madre di Fabrizio), Iole Lunardi (la nonna di Fabrizio), Goliardo Padova (il pittore), Guido Fanti (Enore), Evelina Alpi (la bambina), Salvatore Enrico (il sacrestano), Ida Pellegri (la madre di Clelia), Antonio Maghenzani (Antonio). Durata: 112 minuti. Formato 1.85. Pellicola: Dupont. Proiezioni speciali: Semaine Internationale de la Jeune Critique, Cannes, 1964; New York Film Festival, 1964; London Film Festival, 1964. Premi: Prix Max OphuÈls; Prix de la Jeune Critique, Cannes 1964; New York Film Festival, 1964, miglior film. 1965-66 - La via del petrolio (documentario in tre puntate). Produzione: RAI-ENI. Produttore: Giovanni Bertolucci. Direttore di produzione: Giorgio Patara. Regia: Bernardo Bertolucci. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci. Fotografia (bianco e nero): Ugo Piccone. Tecnico del montaggio: Nino Baragli. Direttore artistico e costumi: Adriana Spadaro. Musiche: Carlo Rustichelli, Piero Piccioni. Tecnico del suono: Sandro Fortini. Durata: primo episodio, 48 minuti; secondo episodio, 40 minuti; terzo episodio, 45 minuti. Formato: 16mm. 1966 - Il canale (documentario). Produttore: Giorgio Patara. Regia: Bernardo Bertolucci. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci. Fotografia: Maurizio Salvadori, Ugo Piccone. Tecnico del montaggio: Roberto Perpignani. Musiche: Egisto Macchi. Durata: 12 minuti. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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1967 - Amore e Rabbia: Agonia. Produzione: Castoro Film. Produttore: Carlo Lizzani. Regia: Bernardo Bertolucci. Assistente alla regia: Gianluigi Calderoni. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci. Soggetto: dalla parabola evangelica Il fico infruttuoso. Fotografia: Ugo Piccone (Technicolor e Technicscope). Tecnico del montaggio: Roberto Perpignani. Direttore artistico e costumi: Lorenzo Tornabuoni. Musiche: Giovanni Fusco. Interpreti: Julian Beck (il moribondo), Giulio Cesare Castello (il prete), Milena Vukotic (infermiera), Adriano ApraÁ (chierichetto), Romano Costa e membri del gruppo del Living Theatre. Durata: 28 minuti. Studio: CinecittaÁ Il film eÁ stato girato nel 1967 e intitolato provvisoriamente Il fico infruttuoso; sarebbe dovuto diventare uno degli episodi di Vangelo `70 rimasto allo stadio di progetto; eÁ uscito nel 1969 nel film Amore e rabbia (gli altri episodi di questo film sono stati diretti da Pier Paolo Pasolini, JeanLuc Godard e Marco Bellocchio). 1968 - Partner. Produzione: Red Film. Produttore: Giovanni Bertolucci. Regia: Bernardo Bertolucci. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Gianni Amico, liberamente tratto da Il sosia di FoÈdor Dostoevsky. Fotografia: Ugo Piccone (Technicolor e Technicscope). Tecnico del montaggio: Roberto Perpignani. Direttore artistico: Francesco Tullio Altan. Costumi: Nicoletta Sivieri. Musiche: Ennio Morricone. Direttore della musica: Bruno Nicolai. Tecnico del suono: Mario Magara. Interpreti: Pierre CleÂmenti (Giacobbe I e II ), Stefania Sandrelli (Clara), Tina Aumont (la propagandista), Sergio Tofano (Petrushka), Romano Costa (il padre di Clara), Giulio Cesare Castello (prof. Mozzoni), Antonio Maestri («Tre zampe»), Mario Venturini (il professore), John Ohettplace (il pianista), Ninetto Davoli, Jean-Robert Marquis, Nicola LaguineÂ, Sibilla Sedat, Giampaolo Capovilla, Umberto Silva, Giuseppe Mangano, Alessandro Cane, Sandro Bernardone, David Grieco, Rocchelle Barbiewww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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ri, Antonio Guerra, Vittorio Fantoni, Giancarlo Nanni, Salvatore Samperi, Stefano Oppedisano (studenti). Durata: 105 minuti. Studio: Centro sperimentale di cinematografia, Roma. Proiezioni speciali: Mostra internazionale di Venezia, 1968; New York Film Festival, 1968; London Film Festival, 1968. 1970 - La strategia del ragno. Produzione: RAI TV/Red Film. Produttore: Giovanni Bertolucci. Regia: Bernardo Bertolucci. Assistente alla regia: Giuseppe Bertolucci. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, MariluÁ Parolini, Edoardo De Gregorio, liberamente tratto da Tema del traditore e dell'eroe di Jorge Luis Borges. Fotografia: Vittorio Storaro, Franco De Giacomo (Eastman Color). Tecnico del montaggio: Roberto Perpignani. Direttore artistico e Costumi: Maria Paola Maino. Musiche: brani della Seconda sinfonia di Arnold SchoÈnberg. Tecnico del suono: Giorgio Belloni. Interpreti: Giulio Brogi (Athos Magnani, padre e figlio), Alida Valli (Draifa), Tino Scotti (Costa), Pippo Campanini (Gaibazzi), Franco Giovannelli (Rasori), Allen Midgette (marinaio). Durata: 100 minuti. Formato: 1.66. Proiezioni speciali: Mostra internazionale di Venezia, 1970; New York Film Festival, 1970; London Film Festival, 1970; Edinburgh Film Festival, 1970. Premi: Prix Luis BunÄuel (Francia 1970). 1970 - Il conformista. Produzione: Mars Film (Roma)/Marianne Productions (Parigi)/Maran-Film (Monaco). Produttore: Maurizio Lodi-FeÁ. Produttore associato: Giovanni Bertolucci. Regia: Bernardo Bertolucci. Assistente alla regia: Aldo Lado. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, liberamente tratta dall'omonimo romanzo di Alberto Moravia. Fotografia: Vittorio Storaro (Technicolor). Tecnico del montaggio: Franco Arcalli. Direttore artistico: Ferdinando Scarfiotti. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Costumi: Gitt Magrini. Musiche: Georges Delerue. Tecnico del suono: Mario Dallimonti. Interpreti: Jean-Louis Trintignant (Marcello Clerici), Stefania Sandrelli (Giulia), Dominique Sanda (Anna Quadri), Enzo Tarascio (Luca Quadri), Pierre Clementi (Lino Seminara), Gastone Moschin (Manganiello), Jose Quaglio (Italo), Milly (la madre di Clerici), Giuseppe Addobbati (il padre di Clerici), Yvonne Sanson (la madre di Giulia), Fosco Giachetti (colonnello), Benedetto Benedetti (ministro), Christian Alegny (Raul ), Gino Vagni (Luca), Antonio Maestri (il prete), Christian BeleÁgue (zingaro), Pasquale Fortunato (Marcello da bambino), Marilyn Goldin (ragazza dei fiori ), Marta Lado, Pierangelo Civera, Carlo Gaddi, Franco Pellerani, Claudio Carpelli, Umberto Silvestri. Durata: 108 minuti. Distribuzione: Cic. Formato: 1.85. Studio: CinecittaÁ. Proiezioni speciali: Festival di Berlino, 1970; New York Film Festival, 1970. Premi: BFI Award (Londra 1971); nominato per gli Oscar quale migliore sceneggiatura adattata da un'opera letteraria (Hollywood 1972). 1971 - La salute eÁ malata o I poveri muoiono prima (documentario). Regia: Bernardo Bertolucci. Fotografia: Elio Bisignani, Renato Tafuri. Tecnico del montaggio: Franco Arcalli. Durata: 35 minuti. Formato: 16mm. Distribuzione: Unitelefilm.. 1972 - Ultimo tango a Parigi. Produzione: PEA Cinematografica (Roma)/Les Artistes AssocieÂs (Parigi). Produttore: Alberto Grimaldi. Direttore di produzione: Mario Di Biase, GeÂrard Crosinier. Regia: Bernardo Bertolucci. Assistente alla regia: Fernand Moszkowics, Jean-David LefeÁbvre. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Franco Arcalli. Fotografia: Vittorio Storaro (Technicolor). Tecnico del montaggio: Franco Arcalli. Direttore artistico: Ferdinando Scarfiotti. Costumi: Gitt Magrini. Musiche: Gato Barbieri. Tecnico del suono: Antoine Bonfanti. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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FILMOGRAFIA

Interpreti: Marlon Brando (Paul ), Maria Schneider (Jeanne), Jean-Pierre LeÂaud (Tom), Massimo Girotti (Marcel ) Maria Michi, (la madre di Rosa), Giovanna Galletti (la prostituta), Catherine AlleÂgret (Catherine), Darling Legitimus (la portinaia), Marie-HeÂleÁne Breillat (Monique), Catherine Breillat (Mouchette), Veronica Lazare (Rosa), Luce Marquand (Olimpia), Gitt Magrini (la madre di Jeanne), Rachel Kersterber (Christine), Armand Ablanalp (cliente della prostituta), Mimi Pinson (la presidente della giuria del tango), Catherine Sola (sceneggiatrice televisiva), Mauro Marchetti (cameraman), Dan Diament (ingegnere del suono), Peter Schommer (assistente cameraman), Ramon Mendizabal (direttore d'orchestra), SteÂphane Kosiak, Gerard LeÂpennec. Durata: 129 minuti. Formato: 1.85. Proiezioni speciali: New York Film Festival, 1972. Premi: Prix Raoul LeÂvy (Paris 1973); Nastro d'argento 1973 per la miglior regia; nominato agli Oscar per la miglior regia e il miglior attore protagonista (Hollywood 1974). 1976 - Novecento. Produzione: PEA Cinematografica (Roma)/Les Artistes AssocieÂs (Parigi)/Artemis (Berlin). Produttore: Alberto Grimaldi. Direttore di produzione: Mario Di Biase. Regia: Bernardo Bertolucci. Assistente alla regia: Gabriele Polverosi, Peter Shepherd. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Franco Arcalli, Giuseppe Bertolucci. Fotografia: Vittorio Storaro (Technicolor). Tecnico del montaggio: Franco Arcalli. Direttore artistico: Ezio Frigerio. Costumi: Gitt Magrini. Musiche: Ennio Morricone. Tecnico del suono: Claudio Maielli. Interpreti: Burt Lancaster (Alfredo Berlinghieri ), Sterling Hayden (Leo DalcoÁ), Robert De Niro (Alfredo Berlinghieri, nipote), GeÂrard DeÂpardieu (Olmo DalcoÁ), Donald Sutherland (Attila), Laura Betti (Regina), Stefania Sandrelli (Anita Foschi ), Dominique Sanda (Ada Fiastri Paulhan), Francesca Bertini (suor Desolata, sorella di Alfredo Berlinghieri ), Werner Bruhns (Ottavio Berlinghieri), Romolo Valli (Giovanni Berlinghieri), Anna Maria Gherardi (Eleonora, moglie di Giovanni), Ellen Schwiers (Amelia, sorella di Eleonora), Alida Valli (signora Pioppi), Paolo Branco (Orso DalcoÁ), Giacomo Rizzo (Rigoletto), Antonio Piovawww.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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nelli (Turo DalcoÁ), Liu Bosisio (Nella DalcoÁ), Maria Monti (Rosina DalcoÁ, madre di Olmo), Anna Henkel (Anita, figlia di Olmo), Paolo Pavesi (Alfredo bambino), Roberto Maccanti (Olmo bambino). Durata: 325 minuti. Distribuzione: 20th Century Fox (Pic). Formato: 1.85. Proiezioni speciali: Festival di Cannes, 1977; Mostra internazionale di Venezia, 1977; New York Film Festival, 1977; London Film Festival, 1977. 1976 - Il silenzio eÁ complicitaÁ. Documentario sulla morte di Pier Paolo Pasolini. Regia collettiva coordinata da Laura Betti con la collaborazione di Franco Arcalli, Dario Bellezza, Marco Bellocchio, Sandro Bencivenga, Bernardo Bertolucci, Mario Bolognini, Franco Brusati, Goffredo Bettini, Liliana Cavani, Mauro Di Biase, Carlo Di Carlo, Sergio Citti, Cooperativa Fonorama, Gabriella Cristiani, Ninetto Davoli, Augusto Ferraioli, Donato Galli, Sandro Gennari, Franco La Torre, Dacia Maraini, Nino Marazzita, Mario Monicelli, Enzo Ocone, Ugo Palermo, Elio Petri, Maurizio Ponzi, Edoardo Romeo, Ettore Scola, Enzo Siciliano, Flaminia Siciliano, Paolo e Vittorio Taviani, Lietta Tornabuoni, Studio Vergini. 1979 - La luna. Produzione: Fiction Cinematografica. Produttore: Giovanni Bertolucci. Direttore di produzione: Mario Di Biase. Regia: Bernardo Bertolucci. Assistente alla regia: Gabriele Polverosi, Clare Peploe, Jirges Ristum. Sceneggiatura: Giuseppe Bertolucci, Bernardo Bertolucci, Clare Peploe, da un racconto di Franco Arcalli, Giuseppe Bertolucci, Bernardo Bertolucci. Fotografia: Vittorio Storaro (Eastman Color). Tecnico del montaggio: Gabriella Cristiani. Direttore artistico: Gianni Silvestri, Maria Paula Maino. Costumi: Lina Nerli Taviani. Musiche: brani da Il trovatore, Rigoletto, La traviata, e Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi e da CosõÂfan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart. Tecnico del suono: Mario Dallimonti. Interpreti: Jill Clayburgh (Caterina Silvieri ), Matthew Barry (Joe, suo figlio), Fred Gwynne (Douglas), Elisabetta Campeti (Arianna), Veronica Lazar (Marina), Peter Eyre (Edward), Julian Adamoli (Julian), www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Jole Silvani (guardarobiera dell'opera), Nicola Nicoloso (tenore del Trovatore), Fabrizio Polverini (autista), Sarah Di Nepi (cameriera di Caterina), Roberto Benigni (tappezziere), Massimiliano Filoni (ragazzino), Franco Citti (uomo del bar), Francesco Mei (barista), Stephane Barrat (MustafaÁ), Rodolfo Lodi (maestro di canto), Renato Salvatori (comunista emiliano), Carlo Verdone (direttore di Caracalla), Alessio Vlad (direttore d'orchestra a Caracalla), Enzo Siciliano (direttore d'orchestra, Teatro dell'Opera), Tomas Milian (Giuseppe), Alida Valli (madre di Giuseppe). Distribuzione: 20th Century Fox (Pic). Durata: 116 minuti. Formato: 1.85. Studio: Safa Palatino. Proiezioni speciali: Mostra internazionale di Venezia, 1979; San Sebastiano, 1979; New York Film Festival, 1979. 1981 - La tragedia di un uomo ridicolo. Produzione: Fiction Cinematografica per Ladd Company. Produttore: Giovanni Bertolucci. Direttore di produzione: Mario Di Biase. Regia: Bernardo Bertolucci. Assistente alla regia: Fiorella Infascelli. Aiuto regista: Antonio Gabrielli. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci. Fotografia: Claudio Di Palma (Eastman Color). Tecnico del montaggio: Gabriella Cristiani. Costumi: Lina Nerli Taviani. Musiche: Ennio Morricone. Tecnico del suono: Elvio Sordoni. Mixage: Fausto Ancillai. Interpreti: Ugo Tognazzi (Primo Spaggiari), Anouk AimeÂe (Barbara, sua moglie), Laura Morante (Laura), Victor Cavallo (Adelfo), Olimpia Carlisi (signora Romola), Vittorio Caprioli (maresciallo Angrisani), Renato Salvatori (colonnello Macchi), Ricky Tognazzi (Giovanni, figlio di Primo), Margherita Chiari (cameriera), Gaetano Ferrari (guardiano), Gianni Migliavacca (strozzino), Ennio Ferrari (strozzino), Pietro Longari Ponzoni (strozzino), Antonio Trevisi (direttore di banca). Distribuzione: 20th Century Fox (Pic). Durata: 110 minuti. Formato: 1.80. Pellicola: Kodak. Proiezioni speciali: Festival di Cannes, 1981; Edinburgh Film Festival, 1981. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Premi: Cannes, Grand Prix per la migliore interpretazione maschile a Ugo Tognazzi; Roma, Nastro d'argento, 1982 a Tognazzi. 1987 - Cartolina dalla Cina. Documentario video con estratti dal materiale portato dai sopralluoghi per L'ultimo imperatore. Regia: Bernardo Bertolucci. Soggetto e commento: Bernardo Bertolucci. Montaggio: Gabriella Cristiani. Durata: 10 minuti. 1987 - L'ultimo imperatore. Produzione: Yanco film Co. (Hong Kong), Tao Film (Roma). Produttore: Jeremy Thomas. Regia: Bernardo Bertolucci. Sceneggiatura: Mark People, Bernardo Bertolucci. Fotografia: (colore) Vittorio Storaro. Tecnico del montaggio: Gabriella Cristiani. Direttore artistico: Ferdinando Scarfiotti. Costumi: James Acheson. Interpreti: John Leone (Pu Yi adulto), Joan Chen (Wan Jung), Peter O'Toole (R.J.), Ying Ruo Chen (il governatore), Victor Wong (Chen Pao-Shen), Dennis Du (Gran Li ), Ryuichi Sakamoto (Amakasu), Li Wei (padre di Ar Mo), Richard Vuu (Pu Yi a tre anni ), Tijger Tsou (Pu Yi a otto anni ), Wu Tao (Pu Yi a quindici anni ), Fan Guang (Pu Chieh adulto), Henry Kyi (Pu Chieh a quattro anni ), Alvin Riley (Pu Chieh a dodici anni ), Wo Yun Mei (Wen Hsiu adulta), Cary Hiroyuki Tagawa (Chang), Jade Go (Gran Ciambellano), M.me Soong (Lung Yu), Zhaanh Laing Bin (piedone), Huang Wen Jie (gobbetto). Distribuzione: Columbia Pictures. Durata: 163 minuti. Premi: CeÂsar per il miglior film straniero (Parigi 1988), 4 Golden Globes, tra cui miglior film e miglior sceneggiatura (Hollywood 1987), 9 Oscar, tra cui miglior film e miglior regia (Hollywood 1988), 4 Nastri d'argento tra cui miglior regia, 8 David di Donatello tra cui miglior film, miglior regia e miglior attore non protagonista (Peter O'Toole). 1989 - Bologna. Brevissimo film `subliminale' realizzato per la TV, con mezzi elettronici. Prima proiezione pubblica: estate 1990. Regia: Bernardo Bertolucci. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Montaggio: Gabriella Cristiani. Durata: 13 minuti. 1990 - Il teÁ nel deserto. Titolo originale: The Sheltering Sky. Produzione: Jeremy Thomas per The Sahara Company e TAO Film in associazione con Recorded Picture Company. Produttore: Jeremy Thomas. Regia: Bernardo Bertolucci. Sceneggiatura: Mark People e Bernardo Bertolucci dal romanzo di Paul Bowles The Sheltering Sky . Fotografia: Vittorio Storaro. Tecnico del montaggio: Gabriella Cristiani. Direttore artistico e costumi: James Acheson. Musiche: Ryuichi Sakamoto e Richard Horowitz. Scenografia: Gianni Silvestri. Interpreti: Paul Bowles (narratore), Debra Winger (Kit Moresby), John Malkovich (Port Moresby), Campbell Scott (George Tunner), Jill Bennett (signora Lyle), Timoty Spall (Eric Lyle), Eric Vu-An (Belqassim), Amina Annabi (Mahrnia), Philippe Morier-Genoud (capitano Broussard), Sotigui Kouyate (Abdelkader), Tom Novembre (ufficiale francese), Ban Smail (Smail), Afifi Mohamed (Mohamed), Brahim Oubana (giovane arabo), Carolyn De Fonseca (signorina Ferry), Veronica Lazar (Nun), Rabea Tami (danzatrice), Nicoletta Braschi (danzatrice), Mohamed Ixa (capo carovana). Premi: Associazione critici cinematografici di Boston, 1990: fotografia (Vittorio Storaro); Associazione critici cinematografici di Los Angeles, 1990: musica (Ryuichi Sakamoto e Richard Horowitz); British Academy of Film and Television Arts, Londra, 1990: fotografia (Vittorio Storaro). 1993 - Piccolo Buddha. Titolo originale: Little Buddha. Produzione: Jeremy Thomas, Francis Bouygues. Regia: Bernardo Bertolucci. Aiuto-regia: Serena Canevari, Fabrizio Castellani, Marco Giudone. Assistenti alla regia: Leornardo Celi, Brian Becker, John Leonetti. II unitaÁ e steadycam: Nicola Pecorini. Soggetto: Bernardo Bertolucci, in collaborazione con Fabien Gerard, Giovanni Mastrangelo. Sceneggiatura: Rudy Wurlitzer, Mark People. Consulente buddhista: Dzongsar Khyyenttse Rinpoche. Fotografia: Vittorio Storaro. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Direttore artistico e costumi: James Acheson. Effetti speciali: Richard Convey, Val Waardlw. Montaggio: Pietro ScalõÂa. Assistenti al montaggio: Nick Moore, Fabrizio Palmisano, Daniela Sardoni, Paul Swimburne, Chisako Yokoyama. Musiche: Ryuichi Sakamoto. Distribuzione: Penta e RCS. Interpreti: Keanu Reeves (principe Siddharta), Alex Wiesendanger (il piccolo Jesse), Chris Isaak (il padre di Jesse, Dean), Bridget Fonda (la madre di Jesse, Lisa), Ying Ruocheng (giaÁ vice ministro della cultura della Cina e interprete dell'Ultimo imperatore eÁ il lama Norbu), Sogyal Rinpoche (Kempo Tenzin), Jigme Kunzang (Chompa), Raju Lal (Raju), Greishma Makar Singh (Gita), T.K. Lama (Sangay), Jo Champa (domestica), Khyongla Rato Rinpoche (abate), Surehka Sikri (madre di Gita), Doma Tshomo (Ani-La), Rinzin Dakpa (oracolo), Dzongar Khyentse Rinpoche (giovane Lama), Mantu Lal (Mantu), Rudraprasad Sengupta (re Suoddhodana), Kanika Panday (regina Maya). Durata: 135 minuti. Distribuzione: Penta. Premi: Nastro d'argento, 1994: fotografia (Vittorio Storaro). 1996 - Io ballo da sola. Titolo originale: Stealing Beauty. Produzione: Jeremy Thomas. Regia: Bernardo Bertolucci. Soggetto: Bernardo Bertolucci in collaborazione con Susan Minot. Sceneggiatura: Bernardo Bertolucci, Susan Minot. Fotografia: Darius Khondji. Direttore artistico e costumi: Gianni Silvestri. Musiche: Richard Hartley. Distribuzione: Searchlight Pictures. Interpreti: Liv Tyler (Lucy Harmon), Jeremy Irons (Alex Parrish), Sinead Cusack (Diana Grayson), Donal McCann (Ian Grayson), Stefania Sandrelli (Noemi), Rachel Weisz (Miranda Fox), Jean Marais (M. Guillaume). 1998 - Besieged. Produzione: Fiction srl e Navert Film in collaborazione con Mediaset. Regia: Bernardo Bertolucci. Soggetto: James Lasdun. Sceneggiatura: Clare Peploe e Bernardo Bertolucci. Fotografia: Fabio Cianchetti. www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.

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Costumi: Metka Kosak. Musiche: Alessio Vlad. Interpreti: Thandie Newton (Shandurai), David Thewlis (Mr. Kinski), Claudio Santamaria (Agostino). Bertolucci ha lavorato in qualitaÁ di sceneggiatore per i seguenti film: 1966 - Ballata da un miliardo (regia di Gianni Puccini). 1971 - L'inchiesta (regia di Gianni Amico). Film prodotti per la Fiction Cinematografica. 1980 - Oggetti smarriti, di Giuseppe Bertolucci. 1982 - Sconcerto Rock, di Luciano Manuzzi. 1983 - Io con te non ci sto piuÂ, di Gianni Amico.

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INDICE DEI NOMI Acheson, James 108 Agostino Aurelio (santo) 10 Albano, Gianfranco 17n Aldrich, Robert 39 Alighieri, Dante 66, 127 Allen, Woody 48 Amico, Gianni IX, 23 Anchisi, Piero 17n Antonioni, Michelangelo IX, 10, 11, 48, 87 ApraÁ, Adriano 17n Ariosto, Ludovico 66 Aristarco, Guido 4 Artaud, Antonin 27, 28n Astruc, Alexandre 21 Bach, Johann Sebastian VIII, 133 Bacon, Francis 58, 131 Barbaro, Umberto 4 Barbieri, Gato 62 Barnes, Djuna 107 Barthes, Roland 17, 63 Bataille, Georges 127 Baudelaire, Charles 28 Baudry, Jean-Louis 48n Bazin, Andre X Beatty, Warren 87 Behr, Edward 96 Belli, Giuseppe Gioacchino 7 Bellocchio, Marco X, 22 Benigni, Roberto 74 Benjamin, Walter 127 Benveniste, EÂmile 71 Bertolucci, Attilio 1, 3, 4, 8, 11-13, 15, 19, 25, 30, 53, 69, 115, 124, 128 Bertolucci, Bernardo passim Betti, Ugo 4 Bianchi, Pietro 1, 3, 4 Bolognini, Mauro 16, 47n Borges, Jorge Luis 34, 118 Bowles, Jane 105n, 109 Bowles, Paul 105, 106, 109-111 Brando, Marlon 59-64, 66 Bresson, Robert 47 Brogi, Giulio 35 Brooks, Peter 70 Buell, Bebe 122 Burroughs, Edgar Rice 106

Callari, Francesco 111n Callegari, Giuliana 69n Calvino, Italo 118 Campani, Ermelinda VII-IX Campari, Roberto 4n, 16n, 87n Casetti, Francesco 2n, 4n, 7n, 21 Cavagna, Marcello 65n Cavani, Liliana 52 Cervi, Tonino 8, 16 Chaluja, Elia 34n Chiarini, Luigi 4 Citti, Franco 68, 73 Citti, Sergio 8 Clayburgh, Jill 74 Clementi, Pierre 26, 51, 52, 91 Cocteau, Jean 27, 29, 116, 122 Coppola, Francis Ford 60, 87 Cusack, Sinead 122 Damiani, Damiano 47n Daney, Serge 96n D'Annunzio, Gabriele 21, 39n, 84, 127 Davis, Bette 62 Davoli, Ninetto 30 De Chirico, Giorgio 34, 37, 131 De Niro, Robert 79 De Sica, Vittorio VII, 47n Deleuze, Gilles 71, 72 Depardieu, GeÂrard 79 Dietrich, Marlene 107 Di Palma, Carlo 87 Dostoevskij, FeÈdor 26 Douglas, Kirk 39n Ejzenstejn, Sergej 130 Elsaesser, Thomas 70 Faccini, Luigi 17n Fellini, Federico VII, 16, 48, 80 Ferzetti, Fabio 95n Fink, Guido 87 Ford, John 41n Franciolini, Gianni 47n Freud, Sigmund 41, 43, 44n, 49, 54, 67, 73, 92 Gabin, Jean 107 Gadda, Carlo Emilio 4

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INDICE DEI NOMI

James, Henry 121

Mann, Thomas 39n Mantegna, Andrea 34n Mao, Tse-tung 102 Maraini, Dacia 47n Marais, Jean 122 Marchi, Antonio 4 Martelli, Luigi 17n Marx, Karl 92 Maselli, Francesco 47n Mauss, Marcel 8 McCann, Donald 122, 123 Metz, Christian 28, 49 Michener, Charles 61n Michi, Maria 59 Milarepa 113 Miller, Henry 60 Mingrone, Gianna 34n Minardi, Alessandro 4 Minot, Susan 121 Monroe, Marilyn 23 Montale, Eugenio 127 Morandi, Giorgio 34 Morandini, Morando 59, 67 Morante, Elsa 7 Moravia, Alberto 30, 47n, 53, 55, 56, 87 Morricone, Ennio 28, 79 Mussolini, Benito 35, 36, 48

Kazan, Elia 60 Kerouac, Jack 106 Khondji, Darius 122 Kline, Thomas Jefferson 36n, 65, 113n, 117n Kurosawa, Akira 7

Nazzari, Amedeo 107 Nicholson, Jack 95 Nietzsche, Friedrich 49, 118, 130 Noiret, Philippe 110 Nowell-Smith, Geoffrey 70

Lacan, Jacques 37, 73 Lancaster, Burt 79 Lang, Fritz 62 LeÂaud, Jean Pierre 30, 58-60, 91 Li, Hangxiang 96n Libera, Adalberto 53 Ligabue, Antonio 34, 131 Lodato, Nuccio 69n Longhi, Roberto 34n LumieÁre, Louis e Auguste 42

OphuÈls, Max 62, 106, 107 Orsini, Valentino 22 O'Toole, Peter 97

Galletti, Giovanna 59 Girard, Rene 127 Girotti, Massimo 59 Godard, Jean-Luc IX, X, 1, 3, 17, 18, 22, 23, 25-29, 47n, 48, 51, 58, 131 Gramsci, Antonio 29, 84 GreÂmillon, Jean 107 Grignaffini, Giovanna 12n, 39n, 65n, 72, 73n Guareschi, Giovanni 4 Guattari, FeÂlix 71, 72 Gyatso, Tenzin 113 Hammet, Dashiell 95 Hegel, G. W. Friedrich 83 Hemingway, Ernest 60 Hesse, Hermann 114, 118 Hirohito (imperatore) 97 Hitchcock, Alfred 40n, 62 Hitler, Adolf 51, 53 Hopper, Edward 34, 131 Horowitz, Richard 108 Hudson, Rock 39n Irons, Jeremy 122, 124

Magnani, Anna 89, 90 Magritte, Rene 34, 41, 131 Mailer, Norman 60 Malerba, Luigi 4 Manganiello, 51n

Paoli, Gino 22 Pasolini, Guido 12 Pasolini, Pier Paolo VII-X, 1, 2, 4, 7-19, 23, 25, 26, 30, 34, 35, 51, 53, 55, 68, 73, 76, 81, 84, 89-92, 109, 114, 118, 126-128, 130, 131, 133 Pastrone, Giovanni 21 Pellizza da Volpedo, Giuseppe 80, 81 Perpignani, Roberto 22 Piero della Francesca 34n Pirandello, Luigi X, 3, 110, 111 Platone 48-50, 55

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INDICE DEI NOMI

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Ponzi, Maurizio 17n Proust, Marcel 113 Pu Yi (imperatore) 96-103, 114, 115 Ray, Nicholas 23, 62 Reeves, Keanu 115, 117 Renoir, Auguste 60 Renoir, Jean 48, 60 Rilke, Rainer Maria 127 Rispoli, Claudio 17n Roncoroni, Stefano 17n Rossellini, Roberto IX, 4, 11, 17, 23, 80, 89 Rosso Fiorentino (Giovan Battista di Jacopo) 34n Sakamoto, Ryuichi 108 Samperi, Salvatore 22 Sanda, Dominique 47, 55, 56 Sandrelli, Stefania 56, 80, 122 Sartre, Jean Paul 40 Schadhauser, Sebastian 34n Schiaretti, Maurizio 87n Schneider, Maria 60 Shakespeare, William 34 Siddharta 114-117, 128 Sirk, Douglas 70 Socrate 17 Sofocle 53 Soldati, Mario 47n Spender, Matthew 122, 123 Spender, Stephen 122 Spielberg, Steven 116, 117 Stendhal 19 Storaro, Vittorio 57, 74, 87, 98, 108, 114 Sutherland, Donald 80 Taviani, Paolo e Vittorio 22

Thomas, Jeremy 96, 121 Tognazzi, Ricky 88 Tognazzi, Ugo 88, 89, 91 Tomasi di Lampedusa, Giuseppe 20 Tornatore, Giuseppe 110 Toscanini, Wally 23 Trenet, Charles 106 Trintignant, Jean-Louis 47, 56, 60 Truffaut, FrancËois 11, 18, 22, 48, 58 Tyler, Liv 122-124 Tyler, Steve 122 Ungari, Enzo 2n, 3n, 16n, 19n, 25n, 47n, 50n, 56n, 57n, 60n, 72n, 74n, 124n Valli, Alida 39n, 80 Verdi, Giuseppe 23, 69, 70, 80, 82 Verga, Giovanni X Viano, Maurizio 89 Vigo, Jean 58 Vigorelli, Giancarlo 4 Visconti, Luchino VII, 20, 33, 34, 39n, 69, 70, 80, 84, 103, 130 Welles, Orson 7, 22 Wilde, Oscar 125 Winger, Debra 109 Wood, Sam 70 Wyler, William 62 Ying, Ruocheng 115 Zambelli, Marco 22n Zampa, Luigi 47n Zavattini, Cesare 4, 33

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INDICE

Presentazione CAPITOLO PRIMO

Il logos paterno CAPITOLO SECONDO

Pier Paolo Pasolini e La commare secca CAPITOLO TERZO

Prima della rivoluzione e l'autore CAPITOLO QUARTO

Jean-Luc Godard e Partner CAPITOLO QUINTO

Les auteurs: Athos, Marcello e Paul CAPITOLO SESTO

Il conformista: il padre simbolico e il cinema come sogno CAPITOLO SETTIMO

Ultimo tango

CAPITOLO OTTAVO

Bertolucci e le «sue» donne: La luna CAPITOLO NONO

Novecento

CAPITOLO DECIMO

La tragedia di un uomo ridicolo

VII

1 7 19 25 33 47 57 65 79 87

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CAPITOLO UNDICESIMO

Una reincarnazione in vita CAPITOLO DODICESIMO

Il teÁ nel deserto

CAPITOLO TREDICESIMO

Piccolo Buddha

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

I balli nel cinema di Bertolucci CAPITOLO QUINDICESIMO

INDICE

95 105 113 121

Besieged

133

FILMOGRAFIA

135

BIBLIOGRAFIA

147

INDICE DEI NOMI

153

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