HEREDITAS, ADOPTIO E POTERE POLITICO IN ROMA ANTICA 9788876892639


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HEREDITAS, ADOPTIO E POTERE POLITICO IN ROMA ANTICA
 9788876892639

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v< ~'6 . HAf~ PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO TEMPO, SPAZIO, IMMAGINE, SOCIETÀ DELL'UNIVERSITÀ DI VERONA

~e.v-

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI VERONA DIPARTIMENTO TEMPO, SPAZIO, IMMAGINE, SOCIETÀ

-------------II-------------

SERIE STORICO-ARCHEOLOGICA

l. Nogara. Archeologia e storia di un villaggio medievale (Scavi 2003-2008), a cura di F. Saggioro. 2011

2. SILVIA MARASTONI, ATTILIO MASTROCINQUE, BEATRICE PoLETTI, Hereditas, adoptio e potere politico in Roma antica. 2011

SILVIA MARASTONI ATTILIO MASTROCINQUE BEATRICE POLETTI

HEREDITAS, ADOPTIO PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO DI ARTE, ARCHEOLOGIA, STORIA E SOCIETÀ DELL'UNIVERSITÀ DI VERONA

E POTERE POLITICO IN ROMA ANTICA

1. S. MARASTONI, Servio Tullio e l'ideologia sillana. 2009

GIORGIO BRETSCHNEIDER EDITORE ROMA• 2011

PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO TEMPO, SPAZIO, IMMAGINE, SOCIETÀ DELL'UNIVERSITÀ DI VERONA SERIE STORICO-ARCHEOLOGICA - VOL. II

Comitato scientifico e redazionale

INDICE

Patrizia Basso, Alfredo Buonopane, Daniela Cocchi Genick Giuliana Facchini, Attilio Mastrocinque, Simonetta Ponchia Luisa Prandi, Fabio Saggioro, Gian Maria Varanini

Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Pag.

IX

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3

Consulenza scientifica

Olivier De Cazanove (Université de Bourgogne, Dijon) Giuliana Cavalieri Manasse (Soprintendenza Archeologica del Veneto) Christopher Faraone (University of Chicago) Hans Joachim Gehrke (Deutsches Archaologisches Institut) Chris Wickham (University of Oxford)

I. L'EREDITÀ COME STRUMENTO DI LEGITTIMAZIONE DI DIRITTI POLITICI. INTRODUZIONE AL PROBLEMA (Attilio Mastrocinque)

1. La norma della non ereditarietà del potere a Roma . 2. La trasmissione ininterrotta del potere . 3. 4. 5. 6. 7.

Coordinamento editoriale

Attilio Mastrocinque Pubblicazione realizzata con il contributo di

Il.

Il Senato come erede del potere . Usucapio del potere politico . . . . . . Legittimazione del potere . . . . . . . Ereditare la dignitas al potere: ideologia dell'impero romano . Ereditare la dignitas al potere attraverso l'adozione .

LA SEPOLTURA DI ROMOLO

Dipartimento Tempo, Spazio, Immagine, Società Università di Verona

L'EREDITÀ DEGLI AUSPICI

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IV.

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11 12

15 17

23

(Beatrice Poletti)

1. Parentele ed eredità nella successione dei primi re di Roma . 2. Interregno e auspici . . . . . . . . . . . . . . . . . . ISSN 2239-9801

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6

(Beatrice Poletti)

1. La sepoltura dei pezzi del corpo di Romolo . 2. Il compito di seppellire . . . 3. I senatori eredi di Romolo . . . . . . . . III.

»

1

LE ORIGINI DELLA REPUBBLICA E L'EREDITÀ DEI

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29 32

T ARQUINI

(Beatrice Poletti)

ISBN 978-88-7689-263-9

1. La trasmissione degli auspici dai re ai consoli . . . . . 2. I primi consoli e l'eredità politica di Tarquinio il Superbo 3. La trasmissione ereditaria e il diritto dei patrizi agli auspici . 4. L'eredità della Vestale Tarquinia . . . . . . . . . . . . .. .

Tutti i diritti riservati

V.

L'EREDITÀ POLITICA NELLA TARDA REPUBBLICA

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37 41 45 49

(Attilio Mastro-

cinque) PRINTED IN ITALY COPYRIGHT

© 2011 by

GIORGIO BRETSCHNEIDER EDITORE - ROMA Via Crescenzio, 43 - 00193 Roma - www.bretschneider.it

1. L'eredità politica di Caio Mario . 2. L'eredità di Giulio Cesare . . . .

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VIII

VI.

INDICE

L'EREDITÀ POLITICA AL TEMPO DEI SEVERI (Attilio Mastrocinque)

1. L'ascesa al potere di Settimio Severo e l'eredità di Pertinace . 2. Severo figlio di Marco Aurelio . . . 3. Dopo Severo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VII.

Pag. » »

71 75 79 PREFAZIONE

LE AUGUSTE E LA TRASMISSIONE DEL POTERE (Attilio Mastrocinque)

1. Imperatori creati dalle Auguste . . . . . . . . 2. Imperatori che ereditano il nome della madre . 3. Divae.filius . . . . . . . . . . . . . . . . .

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VIII. 'OPTIMA AUTEM HEREDITAs A PATRIBus TRADITUR LIBERrs' (Cic., DE 0FF., I, 33): PATERNITÀ, PATRIA POTESTÀ E CITTADINANZA (Silvia Marastoni)

1. Premessa. 2. L'adozione crea lo statista: Scipione Emiliano . 3. Padri padroni? 4. Bruto il vecchio . 5. Pater e auspicia . 6. Mores (il caso di Silano) . 7. Adelphoe. 8. Conclusioni

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Questo volume nasce dalle ricerche di storia antica condotte in connessione con i corsi universitari della laurea magistrale in Discipline Artistiche e Archeologiche e del Dottorato in Storia dell'Università di Verona. Due allieve di storia romana, Silvia Marastoni - dottoressa di ricerca - e Beatrice Paletti - laureata alla Magistrale -, hanno sviluppato, insieme al sottoscritto, indagini legate al tema della trasmissione del potere a Roma. Gli argomenti trattati sono volti a mettere in luce elementi che concorrevano alla definizione dello spazio e dei modi del politico in Roma, pur non facendo parte dei fattori normativi propriamente detti. Ad esempio, il potere politico non si ereditava, ma chi era erede di un 'uomo politico illustre faceva valere tale eredità e si imponeva facilmente nelle magistrature. Questo ed altri fattori, non rilevanti nel diritto, ma influentissimi nella pratica politica, verranno qui presi in esame. L'impostazione dell'opera, come pure della didattica universitaria e delle ricerche ad essa legate, è insieme storica e giuridica. I tre autori di questo libro hanno avuto più volte modo di partecipare a studi nel campo del diritto, in collaborazione con il gruppo di ricerca dei professori Pierangelo Catalano, Giovanni Lobrano, Francesco Sini e di altri insigni giuristi. Il sottoscritto può vantare una collaborazione ventennale con loro, attraverso la quale più volte si è avuta la possibilità di mettere a confronto esperienze di studio in ambito storico, giuridico, ma anche archeologico, letterario, religioso. Fra gli scopi di tali studi non c'era solo il progresso delle conoscenze, ma anche la valorizzazione degli aspetti migliori, più duraturi, attuali o attualizzabili, della tradizione romana. Il sottoscritto ringrazia la Fondazione von Humboldt, grazie alla quale ha potuto condurre ricerche presso l'Università di Heidelberg, all'Istituto di Storia Antica, nel quale questo volume è stato perfezionato ed arricchito dal punto di vista bibliografico. In particolare, un grazie va al

X

PREFAZIONE

prof. Kai Trampedach, di Heidelberg, della cui ospitalità, nel suo Istituto, il sottoscritto ha goduto per tre mesi di intensa ricerca. La pubblicazione del volume ha potuto avvalersi del sostegno finanziario del Dipartimento Tempo, Spazio, Immagine, Società dell'Università di Verona.

I ATTILIO MASTROCINQUE

L'EREDITÀ COME STRUMENTO DI LEGITTIMAZIONE DI DIRITTI POLITICI. INTRODUZIONE AL PROBLEMA ATTILIO MASTROCINQUE

1. La norma della non ereditarietà del potere a Roma

A Roma il potere politico non era ereditario. Dopo la terribile esperienza di Tarquinio il Superbo, che aveva preso il potere con la violenza, rivendicandolo in quanto figlio di uno dei re precedenti 1 , la magistratura · romana fu definita come non ereditaria, ma elettiva. La non ereditarietà del potere ha fatto concepire la storia dei figli di Tarquinio che cercavano di rientrare a Roma e di Giunio Bruto, che combatté fino alla morte, sacrificando perfino i suoi figli per evitare la possibilità di un ritorno · dei figli del re-tiranno. Antonio ricordò tutto questo al giovane Ottaviano, appena giunto a Roma dopo la morte di Cesare, dicendogli: Ragazzo, se Cesare ti avesse lasciato con l'eredità e il nome anche il potere, sarebbe logico che tu mi chiedessi conto della mia azione politica e che io te ne rendessi ragione. Ma i Romani non hanno mai concesso a nessuno un potere ereditario, nemmeno ai re, scacciati i quali giurarono che non ne avrebbero mai tollerati2.

In anni non lontani Dionisio di Alicarnasso attribuiva a Servio Tullio un discorso, in cui egli giustificava la sua ascesa al trono di fronte alle accuse di Tarquinio il Superbo e dei suoi sostenitori: Quando assunsi il governo della città, essendomi accorto che vi erano delle trame contro di me, volevo affidare il governo al popolo. Dopo aver radunato tutti in assemblea, volevo restituire loro il potere, cambiando questa sovranità, invidia-

1) LIV., II.2.3: «Superbum Tarquinium velut hereditatem gentis scelere ac vi repetisse».

2) Arr., B.c., III.8.

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ATTILIO MASTROCINQUE

ta e piena di dolori più che di piaceri, con una tranquillità scevra di pericoli. Ma i Romani non permisero che io lo facessi, non ritennero giusto proclamare arbitro dello Stato un'altra persona, e invece confermarono me; e con una votazione mi affidarono il regno, che era possesso loro e non vostro, o Tarquinio! Nello stesso modo chiamarono al potere vostro nonno, che pure era straniero e non congiunto al precedente; eppure il re Anco Marcio lasciò dei figli pieni di vigore, non nipoti e fanciulli come voi, quando Tarquinio vi lasciò. Se vi fosse stata una legge comune a tutti per cui coloro che ereditano il patrimonio e le ricchezze dei re defunti ricevono con essi anche la sovranità, non avrebbe ricevuto il potere del defunto Anco vostro nonno Tarquinio, ma il maggiore dei suoi figli . Ma il popolo romano chiamava al governo non l'erede del padre, bensì chi fosse degno del potere: pensava infatti che le ricchezze fossero di chi se le era guadagnate, il regno invece, di coloro ai quali l'avesse dato, poiché è opportuno che quando i padroni muoiono, le ricchezze le ricevano gli eredi naturali per testamento, mentre il regno, quando muoiono quelli che lo conquistarono, è opportuno che lo riprendano coloro che lo avevano inizialmente dato 3 •

Fra i meriti che la storiografia attribuisce all'imperatore Pertinace si menziona quello di non avere nominato Cesare il figlio e di averlo tenuto lontano dal palazzo 4 • Era recentissimo il fallimento della successione ereditaria del potere da Marco Aurelio a Commodo. Nel IV secolo d. C., quando il sistema ereditario del potere sembrava avere trionfato con Costantino e i suoi figli, Giuliano l'Apostata compose due discorsi, il Contra Heracleium e i Caesares, in cui denunciava le sciagure che il sistema ereditario comportava per l'impero 5 • Nel Contra Heracleium Costanzo viene chiamato in modo irrisorio 'l'erede', mentre Marco Aurelio è costretto ad ammettere, nei Caesares, la sua unica colpa: quella di avere nominato suo figlio Commodo quale erede al trono 6 • Verso la fine del IV secolo, gli autori della Historia Augusta ribadirono il medesimo principio, biasimando Floriano per avere ereditato il potere da suo padre, «quasi hereditarium esset imperium» 7 • Nella letteratura moderna la questione della trasmissione potere in età imperiale è dibattuta, mentre la non ereditarietà del potere dei magistrati repubblicani non è messa in dubbio. 3) D10N. HAL., IV.34.1-4; cfr. S. MARASTONI, Servio Tullio e l'ideologia si/lana, Roma, 2009,pp. 180-182. 4) H ERODIAN, LXXIV.7 . 5) Sulla questione cfr. J. BÉRANGER, Julien l'Apostat et /'hérédité du pouvoir impérial, in Banner Historia Augusta-Colloquium, 1970, Bonn, 1972, pp. 75-93 (per la posizione di Giuliano circa Marco Aurelio e la scelta di Commodo come successore: pp. 84-85, 87, 91) . 6) Caesares, 35. 7) Hist.Aug., FLOR. 1; PROB ., 10.11; cfr.TAc ., 6.

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I _ L'EREDITÀ COME STRUMENTO DI LEGITTIMAZIONE DI DIRITTI POLITICI

3

La norma, per l'epoca imperiale, era quella della scelta del migliore, il quale, per altro, poteva benissimo essere anche il figlio. La migliore testimonianza su questo sistema di trasmissione dei poteri è un brano pliniano del Panegirico di Traiano: Tra l'adottato e colui che adottava non c'era alcuna parentela, nessun legame, se non il fatto che la vostra comune virtù vi rendeva degni l'uno di essere scelto, l'altro di scegliere. Così tu non sei stato adottato, come una volta fecero altre persone, per soddisfare una sposa. Tu sei stato preso come figlio non da un su_ocero, ma da un principe e il divo Nerva è divenuto tuo padre con lo stesso sentimento che lo rendeva padre di tutti. Non sarebbe il caso che un'adozione avesse luogo diversamente se fosse fatta da un principe. Quando si affida il Senato, il popolo romano, l'esercito, le province, gli alleati a una sola persona si può accettare come successore solo il figlio nato dalla moglie e si può cercare l'erede (heredem) del potere supremo solo all'interno della propria casa? Non si guarderà intorno su tutti i cittadini e non si riterrà come il più prossimo, il più intimamente legato colui che sia stato giudicato il migliore e che sia stato trovato più simile agli dei? Chi deve comandare a tutti deve essere scelto fra tutti. Non si tratta di dare un padrone a dei vili schiavi, in modo che ci si possa accontentare di un erede 'necessario' 8, ma per un imperatore di dare un principe ai Romani. Non adottare colui che tutti concordano avrebbe regnato anche senza adozione sarebbe stato atto di arroganza e tirannia 9 •

2. La trasmissione ininterrotta del potere

In realtà, il criterio ereditario della successione al potere non era sancito da nessuna legge generale, ma esercitava sempre una notevole influenza sulla scelta dei successori, persino nel periodo repubblicano, nonostante fosse forte allora lo spirito di uguaglianza fra i cittadini. Diciamo che la trasmissione ereditaria era nella forma mentis romana. Lo spirito di uguaglianza faceva sì che il magistrato cedesse il potere alla fine del mandato e lo rimettesse nelle mani del popolo, senza ambire, anche se in modo latente, a cederlo a uno dei figli. Ma, al di là di questo, chi otteneva il potere veniva tendenzialmente visto come l'erede del suo predecessore. Come si vedrà, la prima successione del potere, quella fra Romolo e Numa, fu concepita dal pensiero storico romano filosenatoriale come una trasmissione ereditaria da Romolo al Senato, e dal Senato a Numa. Perfino il passaggio del potere fra Tarquinio il Superbo e i primi consoli 8) Cioè scelto fra i parenti stretti, distinto dall'erede domesticus o voluntarius o extraneus. 9) PuN., Pan. Traiani, 7.4-6. Cfr. i discorsi sull'adozione di Pisane e di Antonino in TAc ., Hist., 1.15-16 e CAss. Dio LXIX.20.2.

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ATTILIO MASTROCINQUE

I - L'EREDITÀ COME STRUMENTO DI LEGITTIMAZIONE DI DIRITTI POLITICI

ebbe bisogno, nella mentalità giuridica romana, di essere coonestato da una trasmissione ereditaria e per questo furono inventati il consolato effimero di Tarquinio Collatino e la parentela di Bruto coi Tarquinii. L'eredità e l'appartenenza alla linea gentilizia tendenzialmente coincidevano. Secondo la legge delle XII Tavole, i membri della gens ottenevano l'eredità di colui che non aveva eredi né aveva testato: «si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. Si adgnatus nec escit, gentil es familiam habento» 10 • L'origine stessa del nomen gentile, risalente al VII secolo a.C., era legata alla necessità della trasmissione dell'eredità 11 • Talora colui che faceva testamento e designava un erede al di fuori della famiglia, poneva come condizione (condicio nominis ferendt) che egli assumesse il suo nome 12 . Quindi non era vero soltanto che l'erede portava il nome del defunto, ma anche che chi ereditava tendenzialmente doveva assumere il nome del defunto. Colui che porta il nomen eredita, ma era vero anche che colui che eredita deve ereditare anche il nomen. Il pensiero storico romano concepiva l'esercizio del potere politico come una linea continua fin dalle origini, in cui non ci doveva essere interruzione, ma soltanto un passaggio da un magistrato all'altro in una forma simile a quella dell'eredità. Se non si tiene conto di questa forma mentis romana, non si può capire nemmeno l'ascesa al potere di Augusto, che raccoglieva l'eredità politica di Cesare. Ciò che gli studiosi moder--

ni non hanno messo a fuoco è che non l' imperium, ma la dignitas all' imperium veniva trasmessa, e tale dignitas era soprattutto di natura auspicale, riguardava la capacità di comunicare con gli dèi_e di ottenere il loro favore. Tacito 13 usava un'espressione, capax imperii per definire chi avrebbe avuto titolo, da ogni punto di vista, a diventare imperatore. Questa capacitas non era, come in età repubblicana, di natura auspicale, ma dipendeva dal talento personale, dal prestigio e dall'ascendenza familiare. All'epoca di Tacito non la benedizione auspicale, ma la Providentia deorum che guidava nella scelta del nuovo imperatore 14 • L'imperatore Giuliano, nel suo Contra Heracleium, racconta come gli dèi, ed in particolare Helios e Zeus, lo avessero scelto per guidare l'impero e come Athena lo avesse dotato delle virtù (simboleggiate da armi divine) necessarie per comandare e governare. È ben noto che l'ideologia del patriziato antico prevedeva proprio un passaggio ereditario del diritto agli auspici, e quindi al consolato, dai Patres ai loro discendenti. Il nucleo elitario del Senato rivendicava a sé il fondamento del potere magistratuale. La pretesa dei patrizi, attraverso la consuetudine, fu considerata vincolante e quindi il passaggio ereditario della dignitas ebbe valore di legge, fino all'epoca delle leggi Licinie-Sestie. Non si ereditava pertanto il consolato, ma la dignitas al consolato. Se teniamo conto di questa latente idea del passaggio ereditario del (diritto al) potere, possiamo capire, per esempio, come Giulio Cesare poté diventare il capo del partito dei populares gestendo l'eredità di Caio Mario. Comportandosi da suo erede, e rivalutandone la memoria, egli ottenne di essere l'erede del potere di Mario sui populares. La gestione dell' eredità politica era una pratica che non poteva tradursi immediatamente nel passaggio del potere e nel conferimento di cariche magistratuali, ma poteva porre le basi per tale conferimento. In età imperiale la questione degli auspici era diventata molto marginale, perché riguardava i consoli e nessun imperatore ebbe il potere perché aveva diritto agli auspici. La questione si era semplicemente modificata, ma era tutt'altro che scomparsa. Infatti l'imperatore ereditava dal predecessore il cognomen 'Augustus', che esprimeva la capacità di ottenere dagli dèi l' aiuto e il consiglio necessario per rendere perfetta l'azione politica. L' auctoritas

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10) Tab. V, 4 (FIRA2, I, p. 38 = ULP., fr. 26, 1; cfr. tab. V, 7). 11) M . CRISTOFANI, Diffusione de/l'alfabeto e onomastica arcaica nell'Etruria interna settentrionale, in Aspetti e problemi de/I' Etruria interna. Atti VIII Conv. Studi Etrusci ed Italici, Orvieto 1972, Firenze, 1974, pp. 307-324; ID., Il sistema onomastico, in L'etrusco arcaico, Firenze, 1976, pp. 99-115; Io., Antroponimia e contesti sociali di pertinenza, in Saggi di storia etrusca arcaica, Roma, 1987, pp. 107-125; H. R1x, Zur Ursprung des riimisch-mittelitalischen Gentilnamensystems, ANRW l.2, Berlin-New York, 1972, pp. 700-748; G. COLONNA, Nome, gentilizio e società, SE XLV, 1977, pp. 175-192; cfr. anche L.-R. MENAGER, Systèmes onomastiques, structures familiales et classes socia/es dans le monde gréco-romain, SDHI XLVI, 1980, pp. 147-235; B. LINKE, Von Verwandtschaft z um Staat, Stuttgart, 1995, pp. 72-74; G. FRANCIOSI, Preesistenza ~ella 'gens' e 'nomen gentilicium', in Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana, I, a cura di G. Franciosi, Napoli, 1984, pp. 3-33. 12) Cfr. Dig. XXXVI.1.65.10, XXXIX.5.19.6; ed il famoso cosiddetto 'testamento di Dasurnio' CIL VI, 10229 (la cui lettura è stata corretta più volte; cfr. soprattutto W. Ec K, Zum neuen Fragment des sogenannten Testamentum Dasumii, ZPE XXX, 1978, pp. 277-295; J. TATE, New Thoughts on the 'Will of Dasumius', «Zeitschrift der Savigny-Stiftung ftir Rechtsgeschicte. Romanistische Abteilung» CXXII, 2005, pp. 166-171, ove ulteriore bibliografia); cfr. recentemente H. LINDSAY, Adoption in the Roman vVorld, Cambridge, 2009, pp. 83-86. Secondo una branca della tradizione, il testamento di Cesare poneva questa condizione nei confronti di Ottaviano: cfr. W. ScHMITTHENNER, Oktavian und das Testament Ciisars, «Zetemata» IV, Miinchen, 19732, pp. 58-60.

13) TAC., Hist., I.49, II.77 . 14) R. FEARS, Princeps a diis electus: the Divine election ef the Emperor as a Politica/ Concept at Rome, Roma 1977 («Papers and Monographs ofthe Amer.Acad. in Rome» 26);]. P. MARTIN, Providentia deorum. Recherches sur certains aspects religieux du pouvoir impérial romain, Roma, 1982.

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ATTILIO MASTROCINQUE

I - L'EREDITÀ COME STRUMENTO DI LEGITTIMAZIONE DI DIRITTI POLITICI

patrum aveva una natura analoga 15, solo che il Genius dell'imperatore aveva una natura simile a quella degli dèi ipercosmici, la cui esistenza sembra essere stata valorizzata a partire dalla tarda repubblica, mentre i magistrati repubblicani e i Patres interloquivano soltanto con gli dèi cosmici 16 • Qui non si tratta di discutere del concetto giuridico di successio in universum ius, o successio per universitatem, ma della trasmissibilità ereditaria di una dignitas. Quel concetto, sviluppato soprattutto da Carl von Savigny 17 , presuppone che l'erede subentrasse nella personalità del defunto e, visto che egli lo rappresentava nella società, di conseguenza subentrava nel suo patrimonio. Tale teoria della universitas è stata ampiamente contestata da Pietro Bonfante 18 , secondo il quale gli autori antichi che parlano di universitas usano una metafora o una finzione, che indica la successione di diritti e doveri che non possono essere separati. La questione della dignitas non è invece affrontata nella problematica dell'eredità romana, ma essa era di fondamentale importanza nella vita politica, anche se non si trattava di un bene materiale. Basti pensare all'uso in privato e in pubblico delle imagines maiorum: esse erano ostentate per significare che una persona aveva fra gli antenati persone importanti e, in particolare, magistrati pubblici, e questo indicava che tale persona doveva essere considerata digna 19 .

sidente dei comizi, cioè uno dei consoli uscenti, creava i nuovi consoli, che vedevano confermato il loro potere da una legge curiata de imperio. I problemi di trasmissione emergevano quando entrambi i consoli morivano durante la loro magistratura e in questo caso gli ex consoli patrizi, che costituivano il consesso dei Patres in Senato, presiedevano i comizi per creare i successori. In questo modo la linea del passaggio dei poteri non veniva interrotta, perché i Patres erano stati consoli in passato. La pseudostoria della morte di Romolo e della sua successione assume il ruolo di un mito di fondazione dell'interregno, che è, per l'appunto, la prassi messa in atto in caso di morte di entrambi i consoli. Nessun erede di un sommo magistrato romano può succedergli, perché l'erede dell'imperium e degli auspicia è il Senato, ed è il Senato a mettere in atto le procedure corrette per la scelta del successore 20 . I senatori seppelliscono, ciascuno una parte, il corpo del primo re, perché spetta loro, come eredi, la gestione dei funerali e l'istituzione di riti per il culto del defunto. Gli auspici pubblici, qualora fossero morti improvvisamente entrambi i consoli, ritornavano ai Patres, cioè ai senatori che già avevano ricoperto il consolato e che, in epoca repubblicana antica, erano il nucleo del patriziato. Si nominavano dieci Patres e ciascuno dei dieci, uno alla volta, aveva la facoltà di convocare i comizi per eleggere i nuovi consoli, e se nessuno di loro riusciva nel compito, si procedeva alla scelta di una seconda decuria, fino a che non si fosse arrivati ali' elezione dei nuovi consoli. Colui che aveva presieduto le votazioni elettorali 'creava' i due consoli e questo verbo tecnico, creare, indica un rapporto diretto fra il presidente dell'assemblea comiziale e i nuovi eletti. Tale rapporto era necessario, perché il presidente aveva gli auspici e all'atto della 'creazione' li trasmetteva ai nuovi consoli. Il principio ispiratore di queste norme è così espresso da Cicerone: «Ma quando non ci fossero consoli o dittatore, gli auspici spettino ai Patres ed essi designino colui che possa creare ritualmente i consoli nei comizi 21 ».

3. Il Senato come erede del potere La normale trasmissione dei poteri da una coppia consolare ad un' altra non poneva problemi: il popolo eleggeva uno dei candidati, il pre15) Sull'auctoritas dell'imperatore:]. BÉRANGER, Recherches sur l'aspect idéologique du prin-

cipat, Base!, 1953, pp. 114-133. 16) Sulla questione: cfr. A. MASTROCINQUE, Des mystères de Mithra aux mystères de jésus, in Potsdamer Altertumswissenschaftliche Beitriige 26, Stuttgart, 2009. 17) C. VoN SAVIGNY, System des heutigen riimischen Rechts, l, Berlin, 1840, pp. 383-384 (il fondamento principale della teoria sta nella giurisprudenza giustinianea, Novella 48pr: «nostris legibus una quodammodo videtur esse persona heredis, et eius qui in eum transmittit hereditatem». Sui molti sostenitori di questa teoria: P. BoNFANTE, Il concetto dommatico dell'eredità nel diritto romano e nel diritto moderno, in Scritti giuridici vari, I. Famiglia e successione, Torino, 1926, pp. 152-187, part. 160-161. 18) Op. cit.; cfr. anche La formazione scolastica della dottrina dell'universitas, lBID., pp. 307-323. 19) K.-J. HòLKESKAMP, Exempla und mos maiorum . Uberlegungen zum kollektiven Gediichtnis der Nobilitiit, in Vergangenheit und Lebenswelt. Soziale Kommunikation, Traditionsbildung und historisches Bewusstsein, a cura di H.-J. Gehrke und A. Moller, Tiibingen, 1996, pp. 301-338, part. 320-323; H. I. FwwER, Ancestor Masks and Aristocratic Power in Roman Culture, Oxford, 1996; J. ARCE, Memoria de los antepasados, Madrid, 2000, pp. 25-36.

20) TH. MOMMSEN, Le droit public romain, trad. fr., I, Paris, 1892, p. 243, non avendo colto la questione, che è puramente ideologica (si veda, per esempio, P. M. MARTIN, L'idée de royauté à Rome, I, De la Rome royale au consensus républicain, Clermont-Ferrand, 1982, pp. 45-47), sostiene semplicemente che i re si sceglievano i successori e che la storia dell'interregno non è credibile. 21) O c., De leg., III.9.10: «Ast quando consules magisterve populi nec erunt, auspicia patrum sunto ollique ex se produnto qui comitiatu creare consules rite possit».

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4. Usucapio del potere politico La pseudostoria romulea presenta una soluzione molto particolare per spiegare come il Senato abbia ereditato la capacità di conferire e trasmettere il potere al nuovo re senza essere il legittimo erede di Romolo, il quale era morto senza lasciare figli né eredi testamentari. Come verrà chiarito nei primi paragrafi, il Senato accedette per eredità ai poteri del re attraverso una forma di usucapione della gestione del diritto agli auspici pubblici, che permetteva di investire il nuovo re dei suoi poteri. Si trattava della pro herede gestio da parte del Senato. Come Giovanni Lo brano 22 ha messo in evidenza, la potestas di un pater familias romano era costituita anche dalla sua capacità auspicale, che veniva trasmessa al figlio. L'eredità, anche quella cui si adiva attraverso la pro herede gestio, non si limitava alla proprietà materiale, ma si estendeva ai poteri e ai doveri che il defunto aveva assunto in vita 23 • D'altronde, Gaio (Inst., II.55) nomina anche i sacra - ovviamente privati - fra quanto doveva passare, senza interruzioni (i casi di hereditas iacens), da un romano al suo erede 24 • L'erede dunque (più che il figlio) aveva a Roma una responsabilità anche nell'assolvere funzioni importanti. La pro herede gestio - la gestione di un'eredità al posto dell'erede, che per i Romani poteva dar luogo alla reale trasmissione ereditaria 25 - si rivelò, nella storia romana, uno strumento efficace per mantenere ininterrotta la linea della trasmissione del potere. E questo si verificò particolarmente nel caso in cui chi deteneva il sommo potere fosse morto senza avere creato i suoi successori. Una prassi del genere non era concepibile nel mondo greco, perché l' usucapio era un fatto tipicamente romano, e la pro herede gestio dava luogo ad una forma di usuca22) G. LoBRANO, Pater et filius eadem persona. Per lo studio della patria potestas, I, Milano, 1984,pp. 51-58. 23) Si veda, fra l'abbondante bibliografia: P. BoNFANTE, Corso di diritto romano, Il, La proprietà, rist. a cura di G. Bonfante e G. Crifò, Milano, 1968, pp. 274-363, part. 282-283; G. COPPOLA, Studi sulla pro herede gestio, I, La struttura originaria del «gerere pro herede», Milano, 1987. La legislazione dell'imperatore Adriano pose dei limiti a questa forma di eredità: GAIUS, Inst., II.57. 24) Per quanto riguarda la successione dei sacra privati, sembra che in un primo tempo essa spettasse a un membro della famiglia ma poi fosse passata all'erede, fosse esso membro della famiglia o meno; cfr. G. FRANCIOSI, Usucapio pro herede, Napoli, 1965, pp. 133-135; A. WATSON, The Law of Succession in the Late Republic, Oxford, 1971, pp. 4-7. I passi principali sono in Cic., De leg., 11.19-21. Ereditare i sacra era una responsabilità non piccola, come si ricava da PLAUT., Capt., 775; Trin., 484; FEST., s.v. «sine sacris hereditas». 25) G. COPPOLA, Studi sulla pro herede gestio, I, cit., p. 54.

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pio 26 • Nel mondo greco, gli statisti che volevano passare per gli eredi di defunti sovrani dovevano far credere di esserne i discendenti 27 . Basti pensare al caso di Andrisco, lo Pseudo-Filippo, che pretendeva di discendere dai re macedoni. Anche a Roma, peraltro, si verificarono fenomeni ·del genere, sia per ottenere indebitamente un'eredità materiale sia per ottenerne una politica. Il risultato finale di tale prassi era paradossale; si gestiva come un' eredità e poi si otteneva qualcosa che non poteva essere ereditato: il potere politico 28 , attraverso l'ottenimento ereditario della dignitas al potere. Lo stesso Dionisio di Alicarnasso, che aveva attribuito a Servio Tullio una sorta di manifesto della non- ereditarietà del potere, in un altro brano attribuisce al medesimo re una sorta di usucapio del potere regale: Ma Tullio, assunta all'inizio la veste di regio tutore - come ho detto precedentemente - si accattivò il popolo con gesti di benevolenza e fu dal popolo stesso designato re. Tuttavia, mostrandosi dopo questi avvenimenti equo e misurato, fugò le accuse di non aver fatto tutto secondo le leggi 29 •

E Cicerone menziona, nel medesimo contesto della occupatio o usucapio del potere, la sepoltura del defunto Tarquinio Prisco: Servio Tullio cominciò a regnare non per ordine, ma per la volontà e la concessione dei cittadini, poiché, quando Tarquinio fu ferito e si diceva falsamente che era vivo, egli, vestito da re, pronunciava il diritto, liberava dai debiti la gente col suo denaro personale, con molta umanità diceva di applicare il diritto per volere di Tarquinio, e non si mise nelle mani dei Senatori, ma, sepolto Tarquinio, consultò il popolo sulla sua persona; ricevuto l'ordine di regnare, introdusse una legge curiata sul suo potere 30 •

26) Non sarà qui necessario sottolineare le distinzioni fra pro herede gestio e usucapio pro herede, sulle quali cfr.A. MANZO, Studi sulla «pro herede gestio», «Index» XIX, 1991, pp. 531-536, part. 533-535; e più in generale: G. FRANCIOSI, Usucapio pro herede, Napoli, 1965;]. W. TELLEGEN, The Roman Law ef Succession in the Letters ef Pliny the Younger, Zutphen, 1982, p. 169. 27) Si veda A. MASTROCINQUE, I miti della sovranità e il culto dei Diadochi, «Atti Istituto Veneto» 137, 1978-79, pp. 71-82. 28) È stata avanzata l'ipotesi che un ristretto gruppo di gentes abbia programmato un'ascesa al consolato ad intervalli regolari: R . DEVELIN, The Practice of Politics at Rome, 3 66-167 B. C., Bruxelles, 1985; ma già J. BÉRANGER, L'Hérédité du principat. Note sur la transmission du pouvoir impérial aux deux premiers siècles, Principatus, Genève, 1975, p. 149; ma si veda contra la recensione di G. Bandelli, «Athenaeum» LXXVI, 1988, pp. 223-230. 29) D10N. HAL., IV:40.3; cfr. S. MARASTONI, ServioTullio e /'ideologia si/lana, Roma, Giorgio Bretschneider, 2009 («Pubblicazioni del Dipartimento di discipline storiche, artistiche, archeologiche e geografiche», Università degli Studi di Verona), pp. 182-183. 30) De rep., 11.37.

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Servio Tullio si comportò come se fosse stato l'erede di Tarquinio Prisco e, dopo qualche tempo, trasformò la sua pro herede gestio, in un imperium legittimato da una lex. Non è certo un caso se il racconto di origine annalistica attribuisce le contestazioni da parte di Tarquinio il Superbo, figlio o nipote del Prisco, ad un momento successivo rispetto alla lex de imperio. Se la contestazione fosse avvenuta prima, la pro herede gestio non avrebbe potuto essere portata a buon fine. Verso la fine dell'era repubblicana le cose cambiarono profondamente e la scomparsa violenta di uno statista poté dare luogo a rivendicazioni personali dell'eredità. Infatti l'eredità politica di Mario non poteva essere accolta dal Senato, perché a quel tempo c'era una incompatibilità ideologica fra la politica mariana e quella senatoriale, e perché il potere di Mario era stato un potere realmente personale, che aveva vincolato i soldati al capo in un modo che mai si era visto prima. La natura diversa del potere di Mario contribuisce a spiegare la sua trasmissibilità. Furono le guerre civili a rinsaldare la natura personale del potere, perché esse ruppero l'unitarietà delle radici di imperium e auspicia; non si poteva più parlare del Senato e del popolo come depositari del potere, ai quali esso ritornava allo scadere del mandato dei magistrati, ma si trattava del Senato e del popolo di Mario oppure del Senato e del popolo di Silla, di Pompeo o di Cesare, di Antonio o di Ottaviano. Tranne Augusto (e Lepido), gli altri grandi protagonisti della fine della repubblica morirono di morte violenta, lasciando vuoti di potere che il Senato e il popolo non erano in grado di colmare, intervenendo con le tradizionali procedure. Il problema di fondo che determinò la guerra fra Pompeo e Cesare e; in parte, anche quella fra Antonio e Ottaviano, fu quello della deposizione dei poteri magistratuali e del loro ritorno al Senato e al popolo. Nessuno dei due capiparte si arrischiava a rinunciare per primo ai poteri, per timore dell'altro e della sua fazione. Il principio ereditario si impose nel corso di questo periodo, attraverso il fondamento dell'eredità regolare o quello, analogo, della gestione dell'eredità al posto dell'erede (pro herede gestio).

5. Legittimazione del potere Certamente la natura del potere degli statisti tardo-repubblicani era diversa da quella degli antichi consoli del V secolo. Tuttavia le apparenze non debbono farci credere che il pensiero politico tardo-repubblicano avesse dimenticato che gli auspici sono alla base del potere magistra-

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tuale. Scrive infatti Cicerone, al tempo del primo triumvirato: «Romolo · mostrò sempre il più grande ossequio agli auspici, culto che noi conserviamo ancor oggi con grande vantaggio per la repubblica» 31 • E ancora: «Avendo regnato Romolo per trentasette anni e avendo posto questi due ottimi fondamenti allo Stato, gli auspici e il Senato» 32 . Se poi osserviamo le emissioni monetali della fine della repubblica, e specialmente del secondo triumvirato, ci accorgiamo di quanto frequentemente la legittimità del potere venisse sottolineata da simboli auspicali e augurali, e in particolare dal lituus 33 . La possibilità che i poteri ritornassero, in caso di vacanza della somma magistratura, al Senato e al popolo non fu dimenticata. Se ne ricordarono perfino i legionari di Germania che, non volendo sottostare a Galba, giurarono nel nome del Senato e del popolo romano 34 • Ovviamente non se ne dimenticò il Senato che, non volendo piegarsi a Massimino Trace, scelse due imperatori all'interno del suo consesso, Balbino e Pupieno, quasi fossero una coppia consolare 35 • Da secoli allora non si usava più convocare i comizi per eleggere i consoli e gli altri magistrati 36 , ma era il Senato ad assolvere a questo compito. Per prima cosa, i due imperatori divinizzarono i loro predecessori, i due Gordiani. 6. Ereditare la dignitas al potere: ideologia dell'impero romano Parlando dell'epoca imperiale, la questione della trasmissione, ereditaria o non ereditaria, del potere supremo diventa controversa presso gli studiosi moderni. Non sarà qui necessario fornire una vasta rassegna critica dei pareri di antichi e moderni sull'ereditarietà del potere imperiale 37 • Infatti, nella 31) Cic., De Rep., II.16. 32) Cic., De R ep,. II .17.1. 33) Qualche esempio: Sesto Pompeo: M. H . CRAWFORD, Roman Republican Coinage, I, Cambridge, 1974, n . 511; Ottaviano: 517.7-8; 537-538;Antonio: 520-522. Si vedano le osservazioni del Crawford, pp. 373-374 e 741, nota 1. Si veda]. R. FEARS, The Coinage ef Q. Cornificius and Augurai Symbolism in Late Republican Denarii, «Historia» XXIV, 1975/1, pp. 592-602. 34) TAC., Hist., 1.56, 74. 35) Su questo frangente storico e le peculiari concezioni della sovranità: M . MAZZA, Le maschere del potere. Cultura e politica nella tarda antichità, Napoli, 1986, pp. 1-93, part. 10-26. 36) Nel 5 d.C. la lex Valeria Cornelia aveva previsto che si creassero delle centurie di senatori e cavalieri, le quali valutavano i candidati, i comizi poi semplicemente conferivano l' imperium. 37) La bibliografia sarebbe abbondante, tanto quanto inutile, visto che non vi ho trovato traccia dell'importazione che si propone in questa sede. Mi limito a fare rinvio ai ca-

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letteratura moderna non si trova un'impostazione come quella che stiamo proponendo, che non tratta di eredità del potere, ma della dignitas. Fra i moderni, alcuni sostengono che il potere imperiale non passava per lo meno come principio teorico - per via ereditaria 38 , mentre altri 39 sostengono che il passaggio del potere era essenzialmente ereditario, più o meno come nelle monarchie. Se vogliamo conoscere la questione nei dettagli, senza pretendere di dare una definizione troppo semplice, e pertanto semplicistica, in una questione che non era né semplice né riducibile a modelli che non le erano propri, come quello delle monarchie, allora dobbiamo esaminare che tipo di eredità passava e che tipo di successione di padre in figlio veniva a stabilirsi fra i vari imperatori. Una semplice osservazione basta a destituire di fondamento il confronto con le monarchie medievali e moderne: il periodo che va da Nerva agli Antonini vide affermarsi una scelta intermedia fra eredità e scelta, una scelta già adottata in età augustea: quella del successore adottato come figlio. L'idea dell'adozione del migliore è estranea all'ideologia dei monarcati, sia antichi che moderni e prova l'esistenza di un rifiuto dell'idea pura e semplice di trasmissione di padre in figlio. Nel contempo però esso prova anche che si sentiva la necessità di trasmettere la dignitas in forma ereditaria.

zione fittizia, in genere affiancandole una pro herede gestio, che comportava sempre gli atti di pietas filiale nei confronti del defunto. A Roma pater non era colui che aveva gene.rato fisicamente il figlio (che era detto parens o genitor), ma colui che esercitava la funzione del pater familias, vale a dire la patria potestas 40 • Di fronte al diritto romano era il pater, non il genitor, che aveva il compito di creare il cittadino e di trasmettergli le virtù civiche romane 41 • Pertanto la trasmissione dei diritti entro le famiglie non era un fatto di sangue - oggi si direbbe 'di cromosomi' -, ma di diritto. Il patriziato vantava il diritto esclusivo agli auspici, ma non si trattava di un diritto che si trasmetteva attraverso le generazioni fisiche umane, ma attraverso l'eredità, era cioè una trasmissione giuridica e non fisica. Ottaviano era plebeo e divenne patrizio quando fu adottato da Cesare, mentre Clodio divenne plebeo, da patrizio che era, quando fu adottato da un plebeo, Publio Fonteio.

7. Ereditare la dignitas al potere attraverso l'adozione Apparentemente il successore nell'impero ereditava il potere e quindi assumeva su di sé qualcosa che normalmente spetta al figlio, pertanto il successore si comportava anche compiendo atti che spettano ad ogni erede - il culto funerario in primis -. Quando il predecessore aveva scelto il successore attraverso l'adozione, la trasmissione ereditaria era completa, mentre quando non c'era stata l'adozione si ricorreva spesso a due soluzioni: si divulgava una falsa adozione, oppure si sosteneva una figliapitoli di E DE MARTINO, Storia della costituzione romana, IV1, Napoli 19742 , pp. 403-448; V, 1975 2 , pp. 219-252. 38) TH. MoMMSEN, Le droit public romain, trad. fr., V, Paris, 1892, p. 448; L. HoMo, Les institutions politiques romaines, Paris, 1927, p. 283. 39) J. CARCOPINO, César, in G. BwcH, J. CARCOPINO, Histoire romaine, II, Paris, 1936, pp. 489-1059; J. GAGÉ, De César à Auguste, RH CLXXVII, 1936, pp. 279-342; A. VoN PREMERSTEIN, Von Wérden und Wésen des Prinzipats, «Abh. Bayer. Akad. Wiss., Phil.-hist. Abt., N. E» 15, 1937; J. BÉRANGER, L'Hérédité du principat. Note ;ur la transmission du pouvoir impérial aux deux premiers siècles, in Io., Principatus, Genève, f975, pp. 137-152 (= REL XVII, 1939, pp. 171-187); M. MAZZA, Le maschere del potere. Cultura e politica nella tarda antichità, Napoli, 1986, pp. 3-10, ove bibliografia.

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Abbiamo visto come l'esercizio di funzioni desse luogo a diritti: Pro herede gestio L'onore dei funerali spetta all'erede. Chi celebra i funerali diventa l'erede. Condicio nominis ferendi L'eredità passa ai figli o ai gentili che portano il medesimo nomen. L'erede deve assumere il nomen di colui da cui ha ereditato.

L'epoca dell'ascesa al potere di Settimio Severo presenta delle analogie con la tormentata età tardo-repubblicana. Essa mostra come la pratica della pro herede gestio potesse essere portata alle sue estreme conseguenze e potesse presentare aspetti giuridicamente paradossali, per cui la proprietà transitiva venne applicata in questo modo: L'eredità passa dal padre al figlio. Colui che ha ottenuto l'eredità diventa figlio.

40) Cfr.A. ERNOUT,A. MEILLET, Dict. étymol. de la langue latine, Paris, 19674, p. 487. Sulla posizione giuridica del pater Jamilias cfr., tra la sconfinata bibliografia: TH. MOMMSEN, Romisches Staatsrecht, III.1, Leipzig, 1887, pp. 13-18; E. SACHERS, Pater familias, RE XVIII, pp. 212-57; M. KAsER, Das romische Privatrecht, Miinchen, 197l2, pp. 54-65; G. LoBRANO, Pater et filius eadem persona. Per lo studio della patria potestas, I, Milano, 1984. 41) Y. THOMAS, Roma: padri cittadini e città dei padri (II secolo a.C.-II secolo d.C.). Storia della famiglia, a cura di A. Burguière et al., I, Paris, 1986, trad. it., Milano, 1987, pp. 197-236.

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Settimio infatti, al fine di presentarsi come l'erede del potere dei suoi predecessori, si scelse un nuovo padre, cambiò il suo nome, come se l'. adozione_ potesse essere eseguita da un figlio, e dopo che il padre adottivo era g1a morto. Severo celebrò quella particolare cerimonia che sostituiva il funerale: la consecratio, cioè la divinizzazione del suo legittimo predecessore, Pertinace. Qualche anno più tardi egli si scelse un nuovo padre, Marco Aurelio, e conseguentemente si premurò del culto post mortem del suo nuovo fratello, Commodo, che fu divinizzato. Probabilmente nessuno più di Severo approfittò dell'opportunità offerta dalla pro herede gestio e la portò a situazioni che appaiono paradossali di fronte alla tradizione giuridica, situazioni le quali rappresentano il totale trionfo di una prassi politica che stiamo qui per presentare, quella dell' ereditarietà della dignitas al potere.

II LA SEPOLTURA DI ROMOLO BEATRICE POLETTI

1. La sepoltura dei pezzi del corpo di Romolo Iniziando secondo un criterio di priorità cronologica, si tratterà ora del primo re di Roma e, in particolare, del problema della tomba di Romolo, strettamente connesso col problema della sepoltura del suo cadavere. Un passo di Plutarco 1 è molto significativo al riguardo:

)

Di Romolo, scomparso all'improvviso, non furono visti né parte del corpo né avanzi della veste. Alcuni tuttavia congetturavano che i senatori, sollevatisi contro di lui, l'avessero ucciso nel santuario di Vulcano e, fatto a pezzi il corpo, ognuno ne avesse nascosto un pezzo nelle pieghe della veste e se lo fosse portato via. Altri invece pensavano che la sparizione non fosse accaduta nel santuario di Vulcano, né alla presenza dei soli senatori, ma che fosse avvenuta fuori, nei pressi della palude detta della Capra, mentre Romolo teneva un'assemblea; che all'improvviso si fossero verificati in cielo fenomeni straordinari e indescrivibili, incredibili alterazioni. La luce del sole si sarebbe offuscata, sarebbe calata una notte che non era placida né serena, ma agitata da terribili tuoni e scossa da ogni parte da raffiche di vento e da pioggia scrosciante. Allora la folla, che era accorsa numerosa, si sarebbe dispersa, mentre i potenti si radunarono l'uno accanto all'altro. Quando la bufera cessò e tornò la luce, il popolo convenne nel luogo di prima alla ricerca del re, pieno di rimpianto; ma i potenti non permisero che si affannassero a cercarlo; invece invitarono tutti a onorare e venerare Romolo poiché era stato innalzato tra gli dèi: da buon re sarebbe divenuto per loro un dio propizio.

Qualunque sia stata la causa della sua sparizione, Romolo morì dopo aver regnato, secondo la tradizione, per trentasette anni. A parte alcuni cenni all'istituzione di un culto a lui tributato 2, le fonti non riportano 1) PwT., Rom., 27. 6-9. 2) Cfr. Dro N. HAL., II. 63, 3; Lrv., I. 16, 3.

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altre notizie sul seppellimento di Romolo e le onoranze funebri che gli sarebbero spettate. Solo Dionisio di Alicarnasso riferisce che i Patres, dopo aver ucciso e fatto a pezzi il corpo del re, li seppellirono in segreto 3 :

Per capire questa tradizione è necessario fare una breve digressione sul valore della sepoltura dei defunti presso i Romani.

Avendo ordito una congiura contro di lui, decisero di ucciderlo: il piano sarebbe stato attuato in Senato e il cadavere sarebbe stato fatto a pezzi perché non fosse visto, poi i congiurati sarebbero andati via occultando ciascuno un pezzo sotto la veste e quindi gli avrebbero dato sepoltura di nascosto.

2. Il compito di seppellire

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Gli autori antichi, a parte Dionigi, tacciono sulla sepoltura del primo re, che pure costituiva un aspetto molto importante della società romana (in realtà, il trattamento e i rituali riservati ai defunti sono aspetti basilari in ogni civiltà antica). Probabilmente molti filoni della tradizione sostenevano che il re fosse scomparso e rapito fra gli dèi, per cui il corpo non fu trovato. Il filone che invece parla del corpo di Romolo f~tto a pezzi e sepolto doveva seguire delle ragioni molto diverse e particolari, visto che furono i senatori a seppellire i pezzi, nei loro campicelli. Angelo Brelich ha proposto l'identificazione di Romolo con Quirino in un'epoca remota ed ha enfatizzato il carattere agrario del dio, basandosi sul fatto che la festa dei Quirinalia coincide con quella dei Fornacalia, durante la quale il farro veniva tostato nei forni di ciascuna curia. Egli giunge all'affermazione di «un'originaria e fondamentale identità tra Romulus e Quirinus», che avrebbe le sue radici proprio nella religione indigena primitiva 4 e riconduce la morte di Romolo alla tradizione dei 'dema', personaggi di miti agrari di fondazione dei popoli del Pacifico; · · nel suo lavoro è ancora presente la forza delle suggestioni della teoria di Frazer sui cosiddetti 'dying gods' 5 • Per contro,Joachim Classen ha rilevato come l'identificazione di Romolo con Quirino non fosse attestata prima della fine dell'età repubblicana, quando si stava affermando la divinizzazione di Cesare 6 • Va notato che la tradizione sullo smembramento e la sepoltura sembra ispirata da idee antitiranniche (Romolo sarebbe stato ucciso perché era diventato un tiranno) e non prevede la divinizzazione del re ucciso. 3) D10N. HAL., II. 56, 4. 4) A. BRELICH, Quirinus, una divinità romana alla luce della comparazione storica, SMSR XXXI, 1960, pp. 63-119, p. 103 ss. 5) J. FRAZER, The Golden Bough. A study in Magie and Religion, London, 1922. 6) C.J. CLASSEN, Romulus in der riimischen R epublik, «Philologus» CVI, 1962, pp. 174203; cfr. A. MASTROCINQUE, Romolo (la fondazione di Roma tra storia e leggenda), Trento, 1993, pp. 56-58.

La morte costituisce sempre un momento di passaggio, non solo per chi lascia questa vita, ma anche per i suoi congiun~i; es~a, i1:1fatti, rapp~esenta un evento traumatico, che muta e scompagma 1 ordme della vita quotidiana. Per questo è necessario eseguire una serie di at~i ~it~ali che, da un lato, favoriscano il transito del defunto dal mond~ dei vivi a quel7 lo dei morti e, dall'altro, reinseriscano i vivi nel loro ordme normale • La società - e in particolare la famiglia del defunto - ha perciò bisogno di ritrovare mediante il compimento del rito, il suo equilibrio. Per ~uanto riguarda l'età romana arcaica, no~ sono ri~aste, purtroppo, che scarse fonti letterarie sui rituali funerari (tralasciando, la do_cumentazione archeologica sulle necropoli, che per questa fase e relativamente ricca); alcune fanno riferimento alle leges regiae, tradizionalmente attribuite a Numa: si tratta principalmente di disposizioni di carattere religioso sulla regolamentazione del lutto 8 • Vi son?, poi, le norme c?ntenute nelle XII Tavole per vietare le sepolture ali mterno del pomerium, 9 e per limitare il lusso dei corredi e le lamentazioni funebri • Si trovano, . 7) «Allo spirare del periodo di lutto il morto è definitivamente mort? [ ... ] Viene così raggiunto il momento mitico del regno dei morti, in cui il _defunt? acq~1sta ui:ia condizione di esistenza più stabile e ritualmente controllata [... ] S1 compie cosi, mediata dagli orizzonti tecnici mitico-rituali, que~a 's_e~onda ?1-or~e' culturale che l'uomo proc~ra all~ 'prima morte' naturale, ridischiudendo il d1ntto dei v1v1». E. DE MARTINO, Morte e pianto rituale, Torino, 1975, p. 213. Cfr. C. AMroLO, Il lusso funerario e la città arcaica, AION ArchStAnt VI, 1984,pp. 71-102,p. 72. , , . 8) Cfr. PLUT., Num., 12.3: «Egli fissò anche la durata del lu_tto secondo~ eta e_1l tempo». FEST., 190 L.: «Itaque in Numae Pompili regis legibus scriptum . esse: s1 n_o?1"1ne fulminibus occisit, ne supra genua tollito. Et alibi, homo si fulmine occ1sus est, e1 msta nulla fieri oportet». 9) Anche se tali leggi furono stilate alla metà d:l v_ secolo, è p~obabile che risalg~no, almeno alcune, ad un periodo anteriore alla compilazione decemvuale. Cfr. ':fàb. X (m Cic., De leg., II. 23, 58-62): «Hominem mortuum in urbe ne sepehto neue unto._.. hoc plus ne facito: rogum ascea ne polito. Mulieres genas ne ra~unto ~eue lessum fu~e_ns ergo habento. Homine mortuo ne ossa legito, quo post funus fac1at. Qm coronam pant ipse pecuniaue eius honoris uirtutisue ergoduitur ei [... ) Neue aurum addito. At cui auro dentes iuncti escunt. Ast in cum ilio sepeliet uretue, se fraude esto». (Un morto non sia né seppellito né bruciato entro la città . .. Non si faccia più di questo : il legno del rogo non venga levigato con l'ascia ... Le donne non si graffino le guance e durante la sepolt~ra non intonino lamentazioni. Di un uomo morto non si raccolgano le ossa per fare p01 un funerale solenne. A chi è stato incoronato per merito suo o della sua famiglia o per particolare va-

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tuttavia, numerose notizie negli autori di età posteriore, che fanno evidenti riferimenti a usanze molto antiche. Un aspetto essenziale che traspare da tutte le testimonianze in proposito per il buon esito dei riti funebri (ovvero per permettere che il morto completasse il passaggio alla sua nuova dimora, e per garantire alla famiglia il ritorno all'equilibrio precedente al lutto) concerne, come si è sopra accennato, il seppellimento del defunto. Questa pratica era sempre accompagnata da un sacrificio espiatorio, che gli eredi del defunto erano tenuti a compiere: l'uccisione della porca praesentanea. Di tale sacrificio abbiamo notizia da Veran~o (da identificare verosimilmente con Veraniv Placco, contemporaneo d1 Varrone, che compose le Pontifìcales Quaestiones), citato da Festo (p. 296 L.): . Praesen(tanea) porca dicitur, ut ait Veranius, guae familiae purgandae causa Cereri immolatur, quod pars quaedam eius sacrifici fìt in conspectu mortui eius, cuius funus instituitur.

Il grammatico Mario Vittorino 10 conferma la definizione di Festo inserendo una distinzione tra questo sacrificio e uno affine, noto attra~ verso altre fonti come porca praecidanea: Non est, ut emendastis, 'porca praecidanea', sed 'praecidaria', guae frugum causa immolatur. Qui iusta defuncto non fecerunt aut in faciendo peccarunt, his porca contrahitur, quam omnibus annis immolari oporteat, antequam nouam (frugem), guae dapem mereat, de suo capiant; 'praecidanea' dieta, quod ante caeditur, ~ua1:1 frug~m capiant. At illa, guae et in re et [in] praesente mortuo, quem ~ond1tun su~t, 1mmolatur, quia tex ea capere non possint ad quodt iusta faciant, praesentanea uocatur.

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Il sacrificio della porca praesentanea era quindi un'offerta che i familiari dedicavano, al momento dei funerali, per purificare se stessi, la loro casa, e anche la dimora del defunto; la cerimonia si concludeva, secondo l'uso, con un banchetto, il silicernium 11 • Invece, il sacrificio della porca l?re, p~ò essere messa la corona. E non deve essere usato oro. Neppure se i denti sono stati lega~1 con. oro. Se però egli viene sepolto o bruciato con l'oro, sia considerato illecito). Sulle hnntaz10m del lusso funerario nel VI e nel V secolo cfr. G. COLONNA, Un aspetto oscuro del Lazio antico. Le tombe del VI- V secolo a. C., PP XXXII, 1977, p. 136 ss. 10) MAR. VICTOR. , Ars Grammatica, IV. 108. 11) Cfr. FEST., p. 68 L.: «Exuerriae sunt purgatio quaedam domus ex qua mortuus ad sepolturam ferendus est, quae fit per euerriatorem certo genere scoparum adhibito»; e p. 3 L.: «Funus prosecuti redeuntes ignem supergradiebantur aqua aspersi; quod purgationis genus uocabant suffitionem»; sul banchetto funebre cfr. p. 377 L. : «Silicernium erat genus farcirninis, quo fletu familia purgabatur» .

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praecidanea veniva compiuto nel caso specifico in cui si fosse omesso di inumare un cadavere secondo gli iusta, cioè di seppellirlo con i riti dovuti. Così ci tramanda Varrone (nel commento di .Nonio Marcellino, p. 163 M. = 240 L.) 12 : «Praecidaneum est praecidendum.Varro de Vita Populi Romani lib. III: "quod humatus non sit, heredi porca praecidanea suscipienda Telluri et Cereri. Aliter familia pura non est"». Anche in Gellio (NA., IV 6, 7-9) troviamo menzione di questo sacrificio, sebbene egli descriva, in realtà, le vittime che normalmente si definiscono non praecidaneae ma succidanae, ovvero immolate per riparare a un sacrificio non gradito agli déi o non andato a buon fine; inoltre l'autore nomina anche le feste praecidanae, che sono pressoché ignorate dalle altre fonti --' almeno con questo nome; è probabile che il medesimo termine potesse essere usato per designare sacrifici differenti: Eadem autem ratione uerbi 'praecidaneae' quoque hostiae dicuntur, guae ante sacrifìcia sollemnia pridie caeduntur. 'Porca' etiam 'praecidanea' appellata, quam piaculi gratia ante fruges nouas captas immolare Cereri mos fuit, si qui familiam funestam aut non purgauerant aut a:liter eam rem, quam oportuerat, procurauerant. Sed porcam et hostias quasdam 'praecidaneas', sicuti dixi, appellari uolgo notum est, ferias 'praecidaneas' dici id, opinar, a uolgum remotum est 13 •

Il sacrificio che si è fin qui descritto è evidentemente un rito molto arcaico, officiato originariamente in onore di Tellus e Ceres (come risulta dal passo di Varrone, la nostra fonte più antica a questo proposito), divinità agrarie che avevano, però, un legame antico e profondo anche con 12) Cfr. FEST., p. 250 L.: «praecidanea agna uocabatur, quae ante alias caedebatur. Item porca, quae Cereri mactabatur ab eo, qui mortuo iusta non fecisset, id est glebam non obiecisset, quia mos erat eis id facere, priusquam nouas fruges gustarent». In un passo mutilo di Festo (p. 242 L.) si legge - secondo la ricostruzione di Lindsay: «(Porca praecidanea prod)ucta syllaba (secunda, non breui pronuntiata est), ut ait L. Cin(cius, quia immolari Cereri sole)t familiae pur(gandae causa, et a praecidendo) praecidanea dicitur. (Id Aelius et aliud ali) quod genus hostiae quod (ante nouam frugem caeditur prae)cidarium appellabat ... (purifi)catur ex tribus pu(rae aquae sparsionibus fac)tis cum tribus liba(tionibus de lacte melle uino)». Secondo Catone (De Agri cult., 134) il rito sarebbe puramente agrario: «Prisquam messim facies, porcam praecidaneam hoc modo fieri oportet. Cereri porca praecidanea, porco fernina, priusquam hasce fruges condas [. .. ]». 13) «Per lo stesso principio linguistico si dicono praecidanee le vittime che vengono immolate il giorno prima dei sacrifici solenni. Porca praecidanea è infatti chiamata la scrofa che si deve immolare per propiziare Cerere prima che maturi il nuovo raccolto, quando, essendosi verificato in casa un lutto, non si sia provveduto alla necessaria purificazione o lo si sia fatto in modo non regolare. Che la scrofa e certe vittime, come ho detto, praecidanee, è cosa da tutti risaputa; ma che certe festività sian chiamate praecidanee, ritengo non sia conosciuto dal volgo» .

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la sfera ctonia e il mondo infero: i morti dovevano essere resi alla terra· il piaculum serviva a placare le due divinità nel caso di infrazione dell; ius Manium, quando per una ragione accidentale un cadavere non poteva essere inumato. Un passo di Festo (p. 68 Lindsay) mostra quale importanza accordassero i Romani al dovere di seppellire i defunti: «Euerratior uocatur qui iure accepta hereditate iusta facere defuncto debet· qui si non fecerit, seu quid in ea re turbauerit, suo capite luat» 14 . (Colui che, doro a~er ac~ett~to l' er~dità secondo il diritto, non porta a compi:::' mento_1 suoi obblighi verso 11 defunto, pagherà la sua negligenza). Il ri~or~ ~1 questa sentenza si spiega se si pensa all'idea che avevano gli antteht m genere dei morti insepolti; era sufficiente allo scopo di placare i Mani un'inumazione simbolica: per un lungo periodo, infatti, il rito più diffuso rimase l'incinerazione, ma si seppelliva comunque un arto, o meglio una sua parte, solitamente un dito, che rappresentava, per una sorta di sineddoche, il corpo intero. Varrone (L.L., V. 23) descrive chiaramente come il rito venisse così rispettato 15 : . .. et quod terra sit humus, ideo is humatus mortuus qui terra obrutus. Ab eo, quom Romanus combustus est, si in sepulcrum eius abiecta gleba non est; aut si os exceptum est mortui ad familiam purgandam, donec in purgando humo est opertus (ut Pontifices dicunt, quoad inhumatus sit), familia funesta manet. Et dicitur humilior qui ad humum demissior, infimus humillimus, quod in mundo infima humus.

Un passo di Cicerone (De Leg., II. 22, 55 e 57) chiarisce e conferma i testi di Veranio e Varrone: Neque necesse est edisseri a nobis, quae finis funestae familiae, quod genus sacri~cii Lari ueruecibu~ fiat,_ quem ad modum os resectum terra optegatur, quaequae m porca contracta mra smt, quo tempore incipiat sepulcrum esse et religione teneatur [.. )· Siti dicuntur ii, qui conditi sunt. Nec tamen eorum ante sepulcrum est, quam msta facta et porcus caesus est. Et quod nunc communiter in omnibus ~ef olti uenit usu, ut humati dicantur, id erat proprium tum in iis, quos humus ~n~ecta contexerat, eumque morem ius pontificale confirmat. Nam prius quam in os 1mecta gleba est, locus ille, ubi crematum est corpus, nihil habet religionis: iniecta ~leba tumulu~ [et humatus est, et gleba] uocatur, ac tum denique multa religiosa mra conplect1tur. Itaque in eo, qui in naue necatus, deinde in mare proiectus esset, decreti P. Mucius familiam puram, quod os supra terram non exstaret; porcam

. 14) Cfr. MARCIAN., D., XI. 7, 39: «(corpus) iustae sepolturae datum, id est terra cond1tum». 15) Cfr. FEsT., p. 135 L.: «Membrum abscidi mortuo dicebatur, cum digitus eius dicebatur, ad quod seruatum iusta fierent reliquo corpore combusto».

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heredi esse contractam et habendas triduum ferias et porco femina piaculum pati; si in mari mortuus esset, eadem praeter piaculum et ferias 16 •

Il testo ciceroniano è molto importante per lé considerazioni fatte finora. In esso vengono presentati entrambi i sacrifici esaminati: il primo descritto si può identificare con la porca praesentanea (anche se qui Cicerone nomina un porcus), ed è necessario affinché la sepoltura possa considerarsi un luogo religiosus 17 ; il secondo riguarda solo il caso in cui l'erede non potesse assicurare l'inumazione dell' os resectum per l'assenza del cadavere (con l'esclusione dei morti annegati), ed è la porca praecidanea di cui scrive Varrone. Nei testi dei grammatici, in epoca successiva, i due sacrifici vengono confusi, probabilmente perché il primo sacrificio non era più in uso o non più obbligatorio 18 • A chi spettava l'onere del seppellimento, un rito arcaico e fondamentale? E qual era la normativa della giurisprudenza romana? Nelle fonti finora citate viene più volte nominato l'heres, come colui che ha il dovere di compiere i sacrifici prescritti. Egli ha l'onere morale del seppel16) «E non è necessario che siamo noi a spiegare, quali siano i termini del lutto di famiglia, che genere di sacrificio si debba fare ai Lari con dei montoni, come si debba ricoprire di terra l'osso reciso, quali siano le norme stabilite per il sacrificio della scrofa, in quale momento il sepolcro incominci ad essere tale e ad essere oggetto di venerazione religiosa .. . Si dicono sepolti quelli che sono stati inumati. Eppure non è ancora un sepolcro, se prima non sono celebrate le esequie e sacrificato un maiale. E quello che ora comunemente si dice per tutti i sepolti, che sono detti inumati, questo allora si riferiva in modo specifico a quelli che erano stati ricoperti con la terra gettatavi sopra, ed il diritto pontificale conferma questa usanza. Prima infatti che venga buttata la terra sull'osso, il luogo ove il corpo è stato cremato non ha alcun significato religioso; ma buttatavi sopra la terra, allora dalla terra prende il nome di tumulo il luogo dove è inumato, e soltanto allora diventa soggetto di molti diritti religiosi. Così P. Mucio stabilì che la famiglia di colui che sia stato ucciso su di una nave ed il cui corpo sia stato gettato in mare, sia da considerarsi pura, perché non ne resta l'osso insepolto; che l'erede debba soltanto sacrificare la scrofa, che si celebrino le ferie per tre giorni e che si faccia un sacrificio espiatorio con una scrofa; ma se il defunto fosse morto in acqua, non si procede all'espiazione né alle ferie» . 17) Interessante la distinzione tra il 'sacro', che presuppone un intervento umano, e il 'religioso', carattere indipendente dalla volontà umana: la tomba è res religiosa in quanto occupata da un morto. Cfr. FEST., p. 366 L. : «ad quod per se religiosum est, non utique [sacrum est, ut sepulchra], quod et [non sacra sed religiosa sunt]», Cfr. F. DE V1sSCHER, Le droit des tombeaux romains, Milano, 1963, p. 63; C. SANTI, Alle radici del sacro: lessico e formule di Roma antica, Roma, 2004. 18) Per un'analisi dettagliata sui sacrifici della porca praecidanea e praesentanea, cfr. H . LE BoNNIEC, Le culte de Cérès a Rome. Des origines ,à la fin de la République, Paris, 1958, pp. 91107; P. BoYANCÉ, Le culte de Cérès à Rome, in Etudes sur la religion romaine, E. F. R., Roma, 1972, pp. 53-63. Inoltre, cfr. J. ScHEID, Contraria facere: renversements et déplacements dans /es rites funéraries, AION ArchStAntVI, 1984, pp. 117-139.

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limento quale successore del defunto, e il dovere di sopportare le spese della sepoltura in quanto destinatario del patrimonio ereditario. Si è vista la testimonianza di Festo a riguardo: egli riferisce espressamente che «qui iure accepta hereditate iusta facere defuncto debet» 19 • Ulpiano, sullo stesso argomento, scrive:

0 no· accettazione, poiché i giuristi distinguono se sia compiuto «animo heredis [. . .] aut pietatis aut custodiae aut pro suo» 22 • Se l'erede seppellisce il defunto si cerca quindi di determinare se ciò sia fatto animo heredi. Ai funerali poteva, infatti, provvedere qualcuno estraneo alla famiglia o all'eredità, magari solo per ragioni affettive, o semplicemente per portare a compimento un'incombenza trascurata dai familiari (è questo il caso dell'obbligo fatto ai liberti); anche se questo comportamento non avrebbe dovuto avere conseguenze economiche, in realtà si creava una situazione di ambiguità, dovendosi valutare il significato da attribuire alle esequie. Infatti, pur non essendo erede, il funerator, poiché aveva eseguito la sepoltura, poteva agire in qualità di erede (se heredem putat 23 ).

D., Xl. 7, 4: Scriptus heres prius quam hereditatem adeat patrem familias mar=: tuum inferendo locum facit religiosum, nec quis putet hoc ipso pro herede eum gerere: finge enim adhuc eum deliberare de adeunda hereditate. D., Xl. 4, 18, 8: Plerique filii cum parentes suos funerant, uel alii qui heredes fieri possunt, licet ex hoc ipso neque pro herede gestio neque aditio praesurnitur tamen ne uel rniscuisse se necessarii uel ceteri pro herede gessisse uideantur, solent testari pietatis gratia facere se sepulturam. D., XXIX. 2, 20, 1: ... et ideo solent testari liberi, qui necessari existunt, non animo heredi se gerere quae gerunt, sed aut pietatis aut custodiae causa aut pro suo, ut puta patrem sepeliuit uel iusta ei fecit: si animo heredis, pro herede gessit; enimuero si pietatis causa hoc fecit, non uidetur pro herede gessisse.

L'onere dei funerali incombeva generalmente sul pater familias (o sul .filius, che, alla morte del pater, diventava pater familias), ma si trasferiva all'erede nel caso in cui il defunto avesse fatto testamento 20 ; i funerali dovevano essere pagati col patrimonio del defunto, e l'erede aveva la responsabilità dell'esecuzione delle spese funerarie, responsabilità che emergeva soltanto dopo l'effettivo conseguimento dei beni. Nella coscienza sociale, in realtà, l'onere economico e quello morale formavano un unico munus, che gravava sulla persona in quanto chiamata all'eredità, ovvero in previsione che essa diventasse effettivamente heres. Da quanto si evince da Ulpiano, la sepoltura del defunto non costituiva di per sé un atto di gestione ereditaria (pro herede gestio), salvo che fosse fatta con animus di erede. La pro herede gestio era una forma di accettazione dell'eredità nel caso in cui il chiamato all'eredità tenesse un comportamento da cui si potesse argomentare la sua precisa e non equivoca volontà di essere erede; costui alla fine poteva vedere riconosciuta la sua proprietà dei beni in questione. Si trattava dunque di stabilire l'effettiva volontà di una o più persone dagli atti compiuti in relazione all'eredità del defunto: «pro herede autem gerere non esse facti quam animi» 21 • La ricerca dell' animus è il criterio seguito per giudicare se l'atto comporti 19) FEST., p. 68 L.; Cfr. p. 30. 20) Cfr. D., XI. 7, 31. 21) D., XXIX. 2, 20.

3. I senatori eredi di Romolo Riportando la questione alla morte di Romolo, si è visto come gli autori del suo seppellimento fossero stati i Patres; ma prima di giungere a conclusioni affrettate sulla natura di questo gesto, mi sembra opportuno fare altre precisazioni sul concetto di hereditas o successio. Con questi termini si intende designare il complesso dei rapporti che si trasmettono dal defunto ad altre persone 24 ; heres è colui che acquisisce l' hereditas e subentra in locum et ius defuncti 25 • In età arcaica il termine Jamilia era del tutto equivalente a quello di hereditas ed indicava tutto quello di cui si componeva la vita familiare; i rapporti si perpetuavano in linea di discendenza agnatizia nell'ambito della famiglia o della gens; il vero erede era il suus heres, cioè il filius che si trovava sotto la patria potestas del defunto al momento della sua morte, tanto che rispetto a lui non aveva luogo alcuna chiamata per legge né occorreva accettazione (aditio) . I figli erano, infatti, eredi necessari, per cui acquistavano senza possibilità di rifiuto l'eredità paterna, né il padre poteva escluderli dall'eredità. Il testamento appare come rimedio nel caso di mancanza di figli; per mez22) D., XXIX. 2, 20, I. 23) D., XI. 7, 14, 11. Cfr. C. BEDUSCHI, Hereditatis aditio, Milano, 1976, pp. 73-93. Nel commento di Ulpiano la sepoltura non comportava di per sé l'accettazione dell'eredità, ma secondo Beduschi è plausibile sostenere che nella giurisprudenza classica la sepoltura fosse considerata a tutti gli effetti una pro herede gestio. 24) GA1us, Institutiones, II. 14: «Incorporales sunt guae tangi non possunt, qualia sunt ea quae iure consistunt, sicut hereditas ... Nec ad rem per(tinet, quod in hereditate res corporales con)tinentur; ... nam ipsum ius successionis . . . incorporale est» . 25) D., VIII. 4, 13 e II. 13, 9, I.

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zo di esso il testatore adottava un estraneo, che pertanto gli succedeva come filius. Alla morte del pater Jamilias il gruppo familiare non restava compatto sotto un nuovo capo (cioè l'erede), ma si scindeva in tante Jamiliae quanti erano i filii, che diventavano a loro volta patres familiasl--6 • L'erede prendeva lo stesso posto del defunto, aveva le medesime attribuzioni, diritti, obblighi: il figlio era heres nominis, pecuniae, sacrorum del padre. Oggetto dell'eredità erano, infatti, il patrimonio (inclusi debiti e crediti), i rapporti di patronato, e soprattutto quegli elementi strettamente legati alla stirpe, quali lo ius sepulchri e i sacra (ovvero il culto privato degli antenati) che si tramandavano gelosamente come retaggio esclusivo della famiglia; l'ingerenza o partecipazione di un estraneo era sempre considerata con orrore, come pure l'inumazione di un abusivo nel sepolcro familiare 27 .

ne di · un secondo gruppo di dieci senatori, che governano a loro volta per cinque giorni ciascuno. Il procedimento si ripete e tra il regno di Romolo e l'elezione di Numa trascorre così ben un anno. Gli interreges vengono scelti dai senatori, non sono investiti per volere del popolo. La durata abnorme di questo primo interregno (il più lungo che la tradizione ricordi per il periodo monarchico) viene spiegata dagli storici antichi attraverso i contrasti tra Romani e Sabini e l'indecisione nella scelta della stirpe del re; tale lunghezza, tuttavia, permette che la quasi totalità dei senatori rivesta il ruolo di interrex. Grazie alla divisione in decurie, inoltre, l'interregno risulta un'istituzione collegiale, che coinvolge tutti i membri del Senato: non esisteva ancora, per quest'epoca, la distinzione tra Patres e conscripti; di conseguenza, i senatori sono tutti atti a rivestire la carica di interrex. Questo dato emerge anche dal racconto delle altre fonti, sebbene siano riportati numeri differenti per la composizione del Senato e la durata individuale della carica. Secondo Dionisio di Alicarnasso, i Patres erano duecento; anche lo storico greco descrive con grande precisione e minuzia di dettagli il funzionamento della nuova istituzione:

Gli autori antichi in genere non parlano di figli del primo re e di Ersilia e questo fatto, in apparenza strano, serviva per eliminare in partenza ogni possibilità di trasmissione ereditaria del potere da Romolo a uno dei figli. Eredi di Romolo furono, come vedremo, i senatori. Livio narra che il potere regio passò all'assemblea dei Patres. Essi, in numero di cento, formano dieci gruppi di dieci senatori ciascuno. Ogni gruppo elegge un suo capo, perciò i dieci eletti formano una sorta di collegio che si pone al governo dello stato. Il potere è delegato ad ognuno di loro per la durata di cinque giorni: esso resta perciò uno e indivisibile, ma viene esercitato individualmente solo per breve tempo; Allo scadere del cinquantesimo giorno le decurie proseguono con l' elezio-

26) Il principio della trasmissione in linea di discendenza maschile era enunciato in una norma delle XII Tavole, V 4, 5: «Si intestato moritur, cui suus heres nec escit, adgnatus proximus familiam habeto. Si adgnatus nec escit, gentiles familiam habento». In mancanza di agnati acquistano l'eredità i gentili, per i quali manca il criterio della prossimità di grado, poiché essi non possono provare alcuna parentela, ma solo deducono, dal nomen comune, la discendenza da uno stesso antenato. Per il testo dr. Cic., De Inu., II. 50, 148 e Rhet. ad Her., I. 13, 23: «paterfamilias uti super familia pecuniaque sua legassit, ita ius esto»; per un commento sulla norma cfr. P. Voci, Linee storiche del diritto ereditario romano: dalle origini ai Severi, ANRW II. 14, 1982, pp. 392-448; inoltre, A. MAGDELAIN, Les mots 'legare' et 'heres' dans la loi des XII Tables, Ius Imperium Auctoritas. Etudes de droit romain, E. F. R., Roma, 1990, pp. 659677 . Per un approfondimento sulla figura e il ruolo sociale e giuridico del pater fami/ias, cfr. G. LoBRANO, Pater et filius eadem persona. Per lo studio della patria potestas, Milano, 1984. 27) Per ulteriori dettagli, soprattutto per questioni più prettamente giuridiche, rimando ai manuali e, in particolare: B. BIONDI, Diritto ereditario romano, Milano, 1954; e P. Voci, Diritto ereditario romano, 1-11, Milano, 1956.

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L'anno successivo non fu eletto alcun re dei Romani, ma una certa magistratura, chiamata da loro interregno, aveva la supervisione degli affari pubblici, essendo stata creata all'incirca nel modo seguente: i patrizi che erano stati chiamati al Senato da Romolo, che erano, come ho detto, in numero di duecento, si divisero in decurie; poi quando molti erano stati scelti, i primi dieci sopra i quali cadde la scelta furono investiti dagli altri del massimo potere della città. Non regnavano, comunque, tutti insieme, ma in successione, ognuno per cinque giorni, durante i quali detenevano sia i fasci sia le altre insegne del potere regale. Il primo [interrex], dopo che il suo mandato era scaduto, passava il governo al secondo, e questo al terzo, e così via fino all'ultimo. Dopo che i primi dieci avevano regnato per la durata stabilita di cinquanta giorni, altri dieci ricevettero l'incarico da loro, e poi da quelli a turno altri ancora. Ma in breve il popolo decise di abolire il ruolo delle decurie, irritato dai passaggi di potere, poiché i senatori non avevano tutti gli stessi propositi o le stesse capacità. Perciò i senatori, riunendo la popolazione in assemblea per tribù e curie, permisero ad essa di considerare la forma di governo e stabilire se desideravano affidare gli affari pubblici a un re o a un magistrato annuale. Il popolo, tuttavia, non prese la scelta su di sé, ma delegò la decisione ai senatori, intimando che sarebbe stato soddisfatto con qualunque forma di governo che gli altri avessero approvato. Tutti i senatori erano d'accordo di stabilire una monarchia, ma una lotta sorse sulla questione da quale gruppo il futuro re sarebbe stato eletto 28 •

28) DION. HAL., II. 57.

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Nel racconto di Plutarco, invece i senatori erano centocinquanta; il potere sarebbe stato detenuto individualmente dai senatori, non divÌsi- in decurie, per la durata di appena dodici ore ciascuno:

pio pro herede e interregno, poiché quest'ultimo determina una situazione transitoria; quando è cessata, l' interrex trasferisce i poteri al successore legittimo, mentre nel caso dell'usucapione, chi ha acquistato il titolo di erede lo conserva per sé 31 . Se ciò è vero in generale, a mio avviso, tale principio non si applica nel caso del primo interregno; anzi, non sarebbe azzardato affermare che il primo interregno fu descritto tenendo conto della prassi giuridica della pro herede gestio, in modo tale che l' eredità di Romolo non passasse a suoi eventuali figli, ma ai Patres in forma legale. Ipotizzando una ricostruzione plausibile dai resoconti degli storici antichi, Romolo fu assassinato per volere o per opera dei Patres; come movente si potrebbe supporre il dispotismo, ma, a differenza dei tiranni greci, egli non fu ucciso da un eroico tirannicida, bensì dalla collettività dei capi delle gentes. Non credo sia un'affermazione rischiosa, visto il tradizionale antagonismo tra il Senato, che tendenzialmente agisce come un organo compatto, e i titolari del potere esecutivo, accentrato stabilmente nelle mani di uno o di pochissimi governanti che, quando non sono espressione del Senato stesso, trovano in esso una forte opposizione. L'assemblea dei Patres è considerata una creazione di Romolo; si è visto come il primo re non abbia ricevuto da alcuno il proprio potere, né abbia avuto bisogno di farsi eleggere (nonostante la versione 'democratica' di Dionisio di Alicarnasso 32); mentre Numa e gli altri tre re successivi furono scelti dal Senato o dal popolo con approvazione del Senato. Gli ultimi tre re, invece, che s'impossessarono del potere in maniera non tradizionale, cercarono di sminuire le funzioni dell'assemblea, proprio come sembra abbia fatto Romolo verso la fine del regno: una volta consolidato il suo potere, anche militarmente, e godendo di un largo consenso popolare (ricordiamo l'affermazione di Livio secondo cui egli era amato più dal popolo e dai soldati che dai senatori 33), tentò di ridimensionare le mansioni del Senato, lasciandogli una funzione quasi meramente consultiva. Questo doveva essere un motivo più che sufficiente per il progetto dell'assassinio; d'altra parte, la storia romana in ogni sua epoca e almeno fino ali' età imperiale avanzata è infarcita di episodi di

Sebbene fossero tutti d'accordo di farsi governare da un re, erano in contesa e in disaccordo non solo sulla persona, ma anche sulla stirpe che doveva fornire il capo dello stato [ ... ] Perché la divisione non provocasse il caos, data la mancanza di autorità, mentre il governo era sospeso, i Patres, i quali erano centocinquanta, disposero che ciascuno di loro a turno, rivestendo le insegne regali, celebrasse i sacrifici rituali agli dèi e sbrigasse gli affari dello stato per sei ore della notte e sei ore del giorno. Ai capi sembrò che questa divisione del tempo assicurasse l'uguaglianza dei due gruppi, e che la rotazione del potere avrebbe eliminato ogni motivo di malevolenza nel popolo, quando avesse visto che nel medesimo giorno e nella medesima notte la stessa persona diventava da re privato cittadino. Questa forma di governo i romani la chiamano interregno 29 •

La durata abnorme di questa forma provvisoria di governo, corrispondente a un anno esatto 30 • Credo si possa stabilire un parallelo tra questo fatto e l'istituto giuridico dell'usucapio pro herede. Nell'antico diritto romano e fino al primo secolo dell'impero, questa non è altro che l'usucapio applicata alla hereditas nel suo complesso: col possesso di beni ereditari protrattosi per un anno il possessore, oltre ad acquisire il dominio sugli oggetti effettivamente posseduti secondo i principi dell'usucapione, diventa senz'altro erede, pur non essendo chiamato né per legge né per testamento. L' usucapio comporta perciò acquisizione della hereditas: non solo il dominio delle . cose possedute, ma addirittura il titolo e la qualità di erede con tutte le relative conseguenze; i Romani, infatti, concepivano l' hereditas come uniuersitas, ossia come complesso patrimoniale, diverso dalla somma delle singole cose che la compongono. Quando l' hereditas comprendeva anche elementi incorporali, l' usucapio pro hèrede poteva valere anche per queste (sebbene normalmente l'istituto dell'usucapione non valesse per le cose non suscettibili di possesso). Inoltre l' usucapio pro herede si applicava solo in mancanza di eredi e non richiedeva né iusta causa né bona .fides. Quest'usanza fu introdotta probabilmente con un fine pratico: prefiggere un termine per l'accettazione dell'eredità, onde evitare un'eccessiva vacanza nella titolarità dei beni. Il Biondi ha affermato che non può proporsi il paragone tra usuca29) PwT., Num., 2. 6 e 9-10. 30) Cfr. Liv., I. 17, 5-11; D10N .

HAL.,

Il . 57; PwT ., Numa, 2. 9-10.

31) Cfr. B. BIONDI, Diritto ereditario romano, Milano, 1954, pp. 316-317. Per una trattazione esaustiva sull'istituto dell'usucapio pro herede dr. A. CASTRO SÀENZ, Aproximaciòn a la usucapio pro herede, RIDA XLV, 1998, pp. 143-208. 32) Cfr. D10N . HAL., Il. 6, 1. 33) Cfr. Liv., I. 15, 8: «Multitudini tamen gratior fuit quam patribus, longe ante alios acceptissimus militum animis».

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questo genere che di volta in volta servivano a ribadire il ruolo del'-Senato entro la tradizione storica e storiografica romana. Romolo ricevette l'investitura regale direttamente da Giove; la sua eredità materiale era la città stessa di Roma, ma la sua eredità spirituale, nonché essenziale strumento di governo, erano gli auspicia, proprio in virtù della sua elezione divina. Scopo dei Patres non era solo sbarazzarsi di un regnante che non agiva soddisfacendo pienamente i loro interessi, ma regnare essi stessi grazie all'eredità di Romolo. Non essendo suoi eredi legittimi, essi dovettero acquisire l'eredità comportandosi come se lo fossero, perché solo così, secondo la giurisprudenza romana, potevano essere riconosciuti come suoi eredi. Per prima cosa, quindi, seppellirono il suo corpo, e poi cercarono di usucapirne il regno e il diritto agli auspici. La pratica dell'interregno, secondo la tradizione, divenne assai impopolare e suscitò un aspro malcontento, al punto che si dovette procedere all'elezione di un nuovo re. Ma il tentativo dell'usucapione era riuscito, poiché i Patres da quel momento in poi furono riconosciuti come titolari legittimi degli auspicia, che tornarono loro ad ogni successiva vacanza di potere. Peraltro questa prima successione pose le basi per la rivendicazione dei patri,zi di ereditare in maniera esclusiva il diritto agli auspici. Tale lettura delle fonti non ha ovviamente alcuna pretesa di attibuire loro storicità: questa trattazione verte non sulla storia, ma sull'ideologia romana. Ritengo verosimile, infatti, che gli autori antichi abbiano forgiato la leggenda romulea basandosi su categorie ideologiche, religiose e giuridiche a loro familiari e su istituti già consolidati al tempo in cui scrivevano, tali da poter giustificare, anche per un passato ormai remoto, determinati fatti, diritti e comportamenti.

III L'EREDITÀ DEGLI AUSPICI BEATRICE POLETTI

1. Parentele ed eredità nella successione dei primi re di Roma

Per l'età arcaica dunque si può parlare di un vero e proprio regime giuridico della famiglia, che sopravvive a livello ideologico fino a tutta l'età classica: il carattere dominante è quello della struttura parentale e, infatti, funzione del sistema ereditario è assicurare la continuità al suo interno, in modo che i beni non escano dalla gens 1 • Queste considerazioni, però, sembrerebbero ad uno sguardo superficiale non valere per la successione al regno in età monarchica. In realtà è possibile smentire questo assunto. Nessuno dei primi quattro re morì trasmettendo direttamente il proprio potere a un figlio o dopo aver nominato egli stesso un successore. Del primo interregno e dell'elezione di Numa non sarà il caso di trattare diffusamente qui; sarà sufficiente per ora ricordare che egli fu designato re dal Senato 2 • Plutarco, però, riporta a proposito del re sabino un dettaglio tutt'altro che trascurabile; egli avrebbe sposato Tazia, la figlia di Tazio, di cui era, perciò, genero: Godeva di grande rinomanza e reputazione, tanto che Tazio, il quale regnò a Roma insieme con Romolo, e aveva una sola figlia, Tazia, lo prese come genero. Numa non si inorgoglì per il matrimonio e non si trasferì presso il suocero: rimase in Sabina a curare il padre vecchio, e anche Tazia preferì la tranquilla vita da privato cittadino del marito ali' onore e alla gloria che avrebbe potuto conoscere a Roma grazie al padre. A quanto si dice, Tazia morì dopo dieci anni di matrimonio 3 • 1) Si è ipotizzato che l'istituto dell'hereditas arcaica non comportasse in realtà un trasferimento di poteri, ma solo di cose corporali, cioè di patrimonio; contro questa teoria, E De Martino ha giustamente osservato come nelle idee arcaiche tutti i poteri venissero considerati in senso materialistico, pur non essendo realmente cose corporee. Cfr. DE MARTINO, Storia della Costituz ione Romana, I, Napoli 19722 , pp. 20-24. 2) Cfr. LIV ., I. 17-18; DroN. HAL., Il . 58, 3; PLUT., Numa, 3. 1-5. 3) PLUT. Num., 3. 8-10.

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Se il racconto di Plutarco dipendesse direttamente dal pensiero storico romano 4, non potrebbe certamente essere una casualità il legame di parentela che si instaura tra Numa e Tito Tazio: costui, già re dei Sabini, aveva governato in diarchia con Romolo, ed era morto forse proprio per mano di quest'ultimo, come sospettarono in molti 5 . Probabilmente l'elezione di Numa, genero di Tazio, fu pensata per risarcire i Sabini della perdita del loro re, nominando successore di Romolo, che aveva fatto assassinare Tazio, un sabino suo discendente. Alla morte di N urna fu il popolo a proclamare re Tullo Ostilio: «Inde Tullum Hostilium, nepote Hostili, cuius in infirma aree clara pugna aduersus Sabinos fuerat, regem populum iussit; Patres auctores facti» (Liv., I. 22, 1). Il fatto che vorrei qui sottolineare è il legame di parentela tra Tullo e Osto Ostilio, il quale, come si è già detto, era compagno di Romolo 6 ; verrebbe da sospettare che il personaggio di Osto sia stato introdotto nella leggenda non solo per nobilitare i natali di Tullo, ma anche per avallarne l'elezione al trono. Il terzo re, infatti, suo discendente in linea agnatizia (come prova la continuazione del nomen Hostilius), aveva senza dubbio ereditato dall'avo un'aura di prestigio e autorità; la fama che Osto si era meritato grazie alle sue imprese ed inoltre il legame con Romolo, contriburono affinché, alla morte di Numa, la scelta cadesse proprio sul nipote Tullo Ostilio, auita quoque gloria 7 • La fine di Tullo, tuttavia, non fu altrettanto gloriosa 8 •

Morto costui, il potere tornò, secondo consuetudine, ai senatori che nominarono un interrex 9 • La procedura di elezione del re sembra assumere un carattere più formale, quasi istituzionalizzato: il potere viene detenuto da un interrex (ovvero dal Senato), il quale convoca e presiede i comizi che procedono ali' elezione del nuovo re. Anche in questo caso valgono le considerazioni fatte per i re precedenti: nonostante il re sia scelto dal popolo con l' approvazione del Senato, viene nominato un parente di Numa Pompilio. Anco era nato dalla figlia del re e da Numa Marcio, che era stato scelto tra i senatori come primo pontefice della religione romana 10 • Ci troviamo nuovamente di fronte al discendente di un personaggio importante, in questo caso pure investito di un potere sacrale. Quando morì, il popolo elesse Lucio Tarquinio Prisco, il cui vero nome sarebbe stato Lucumone, figlio di Demarato da Corinto. Trasferitosi a Roma, Lucio Tarquinio era riuscito a mettersi in vista e ad entrare nelle grazie del re; raggiunse una tale intimità con Anco Marèio da farsi nominare per testamento come tutore dei suoi figli 11 • Egli aveva però ben altre ambizioni:

4) E non dovuto all'invenzione estemporanea o al capriccio di un singolo storico o antiquario, romano o greco che fosse. 5) Cfr. PLUT., Num., 5. 5: «[Romolo] si attirò cattiva fama di aver tramato contro il suo collega Tazio, e ha procurato cattiva fama ai senatori, con il sospetto di essere stato ucciso da loro». Cfr. Liv., I. 14, 2-3: «[ .. .] nam Lauinii cum ad sollemne sacrificium eo uenisset concursu facto interficitur. Eam rem minus aegre quam dignum erat tulisse Romulum ferunt, seu ob infidam societatem regni seu quia haud iniuria caesum credebat». 6) Gli eruditi romani credettero che l'iscrizione del lapis niger fosse un testo in onore di Osto Ostilio (D10N. HAL. III. 1, 2) oppure un'epigrafe greca che celebrava le imprese di Romolo (D10N. HAL., Il. 54, 2); sul problema costituito da questa e da altre iscrizioni arcaiche, conosciute dagli antiquari tardorepubblicani, cfr. C. AMPOLO, La storiogrefìa su Roma arcaica e i documenti, in Tria corda. Scritti in onore di A. Momigliano, Como, 1983, pp. 9-26. 7) Lrv., I. 22, 2. Secondo Dionigi di Alicarnasso (111. 1, 2-3), Osto Ostilio era originario di Medullia e, trasferitosi a Roma, aveva sposato la sabina Ersilia, da cui ebbe un figlio (il futuro padre di Tullo); Osto fu un cittadino così insigne e tanto vicino a Romolo che fu seppellito per volontà degli stessi re (Romolo e Tazio) nella parte principale del Foro, e onorato con una stele. Nella versione dello storico greco, la decisione del popolo di nominare re Tullo fu avallata non dal Senato ma da segni degli dèi. 8) Cfr. Lrv., I. 31, 8: «Ipsum regem tradunt uolentem commentarios Numae, cum ibi quaedam occulta sollemnia sacrificia Ioui Elicio facta inuenisset, operatum his sacris se ab-

Liv., I. 35, 1-2, 6: Iam fiJii prope puberem aetatem erant. Eo magis Tarquinius instare ut quam primum comitia regi creando fierent. Quibus indictis sub tempus pueros uenatum ablegauit. Isque primus et petisse ambitiose regnum et orazione dicitur habuisse ad conciliandos plebis animos composi tam [ ... ] Haec eum haud falsa memorantem ingenti consensu populus Romanus regnare iussit.

Il testo di Livio è particolarmente interessante: Tarquinio avrebbe allontanato i figli di Anco Marcio al momento delle elezioni, mandandoli a caccia; egli li privò così della possibilità di partecipare ai comizi, evidentemente per timore che uno di loro venisse designato re. Tale atteggia-

didisse; sed non rite initum aut curatum id sacrum esse, nec solum nullam ei oblatam caelestium speciem sed ira Iouis sollecitati praua religione fulmine ictum cum domo conflagrasse». Il nome Hostus è inconsueto a Roma, mentre è attestato nelle lingue italiche; è noto, ad esempio, presso i Veneti; sull'argmoneto si veda A. PRosooc1M1, I riti dei Veneti antichi. Appunti sulle fonti, in Orizzonti del Sacro, Culti e santuari antichi in Altino e nel Veneto orientale, Atti del Convegno (Venezia 1-2 dicembre 1999), a cura di G. Cresci Marrone e M. Tirelli, Roma, 2001, pp. 5-35. 9) Lrv., I. 32, 1: «Quo (= dall'interrex) comitia habente Ancum Marcium regem populus creauit; Patres fuere auctores. Numae Pompili regis nepos filia ortus Ancus Marcius erat». 10) Cfr. Lrv., I. 20, 5: «Ponteficiem deinde Numam Marcium Marci filium ex patribus legit eique sacra omnia excripta exsignataque attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae tempia sacra fierent, atque unde in eos sumptus pecunia erogaretur» . 11) Cfr. Pm.,VI. 11a, 7; Crc., De Rep., Il. 19 e Tusc.,V 37, 109; Lrv., I. 34; D10N. HAL., III . 46-47; STRAB., V 2, 2 e VIII. 6, 20.

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mento si potrebbe giustificare solo pensando che un'idea dell'ereditarietà del potere regio fosse radicata nell'animo comune, aldilà delle formali pratiche di elezione. Coesistono dunque nella tradizione la teoria della scelta del re tramite interregno e quella dell' ereditarierà della carica; infatti, in un passo successivo, Livio narra come i figli di Anco si sentissero pieni di sdegno per essere stati privati con la frode del trono; perciò concepirono un piano per attentare alla vita di Tarquinio, nella speranza che il potere sarebbe poi passato a loro, Anci regis uirile stirpe, invece che a Servio Tullio, straniero e schiavo 12 • Questo dimostra che, in presenza di figli maschi, il potere sarebbe stato trasmesso a loro; in assenza di questi, il trono sarebbe stato assegnato comunque a loro discendenti, in linea con la concezione romana dell'eredità. Non mi sembra perciò del tutto appropriata l'affermazione di I. E. M. Edlund, secondo cui «there was no set order for a succession from father to son, and secondly that the throne seemed to be opened to anyone who had enough courage to seek it, even with violent means» 13 . Se questa conclusione può calzare per la storia dei Tarquini, non si può dire altrettanto per quella dei re precedenti, nella quale è possibile ravvisare, come si è cercato di dimostrare, una sorta di schema di successione basato sulla parentela (anche se non direttamente di padre in figlio).

A questo punto ritengo necessario introdurre alcune considerazioni sul tipo di mol).archia che i Romani tradizionalmente si attribuiscono e riconoscono come loro prima forma di governo per meglio comprendere il carattere del nuovo istituto. La monarchia romana non si può definire né elettiva, né ereditaria (almeno non nel senso moderno del termine): il regno non passa mai di padre in figlio, ma il principio ereditario, come si è visto poc'anzi, non può essere completamente negato. L'istituzione

dell'interregnum, ovvero il fatto che in assenza del re il potere si trasferisca ai capi dei gruppi familiari, è un indizio del fatto che la base dello stato romano probabilmente era in origine una pluralità gentilizia. Il re, da Numa in poi, detiene dunque il potere per mandato; alla sua morte, se egli non aveva designato un successore, la direzione della comunità viene affidata ai Patres. Il Senato resta così il depositario del potere sovrano; l'interregno, infatti, conferiva a ciascun senatore l'esercizio a turno del potere, per un periodo che la tradizione (eccetto Plutarco) stabilisce di cinque giorni. L'interrex non è investito però di imperium (che è, in sostanza, la facoltà di comandare militarmente); il suo ruolo principale è la prosecuzione di quegli atti rituali, quali l'interrogazione della volontà divina, necessari per la continuità della vita cittadina e soprattutto per l'elezione di un nuovo capo. L'espressione che si ritrova nelle fonti antiche come tipica per la designazione e che in età repubblicana era ufficialmente usata per definire l'elezione dei magistrati è creatio: essa indica il procedimento di nomina del monarca (in età repubblicana dei magistrati supremi) in cui interviene attraverso gli auspicia la volontà degli dèi. La creatio assume per il tramite divino la forma e il contenuto di un solenne rito religioso, in cui l'indicazione · della persona da eleggere è data dall'esito degli auspicia, che vengono interpretati dall'interrex. Dato il carattere sacrale di questa, come di molte altre istituzioni, è certo che una larga influenza nella vita pubblica dovette spettare ad alcuni collegi religiosi, in primo luogo a quello degli auguri. Uno dei principi fondamentali del diritto romano, che sopravvive per tutta la sua storia, è che nessun atto ufficiale potesse essere compiuto senza l'avallo divino; gli atti più importanti della vita pubblica richiedevano costantemente l'approvazione degli dèi. La facoltà di mettersi in contatto con la divinità è una prerogativa del rex, in qualità di optimus augur, ma, data la complessità della scienza augurale, si rendeva talvolta necessaria la consultazione dei membri del collegio depositario di tale tradizione. Romolo è celebrato dalle fonti come il primo augure 14; egli pre-

12) Liv., I. 40, 2-4: «Tum Anci filii duo etsi antea semper pro indignissimo habuerant se patrio regno tutoris fraude pulsos, regnare Romae aduenam non modo uicinae sed ne Italicae quoque stirpis, tum impensius iis indignitas crescere si ne ab Tarquinio quidem ad se rediret regnum, sed praeceps inde porro ad seruitia caderet . . . Cum commune Romani nominis tum praecipue id domus suae dedecus fore, si Anci regis uirili stirpe salua non modo aduenis sed seruis etiam regnum Romae pateret. Ferro igitur eam arcere contumeliam statuunt». 13) I. E. M. EoLUND, Must a King die? The Death and Disappearance of Romulus, PP XXXIX, 1984, p. 402.

14) Cfr. Crc., De Diu., I. 89: «Omnino apud ueteres,.qui rerum potiebantur, iidem auguria tenebant; ut enim sapere sic diuinare regale ducebant: [ut] testis est nostra ciuitas, in qua et reges augures et postea priuati eodem sacerdotio praediti rem publicam religionum auctoritate rexerunt»; e I. 107: «Atque ille Romuli auguratus pastoralis, non urbanus fuit, nec fictus ad opiniones imperitorum, sed a certis acceptus et posteris traditus. Itaque Romulus augur, ut apud Ennim est, cum fratre item augure [... ]»,segue la citazione per intero del testo enniano; Liv., I. 6, 4-7, 3: «Quoniam gemini essent nec aetatis uerecundia discrimen facere posset, ut di quorum tutelae ea loca essent auguriis legerent qui nomen nouae urbi daret, qui conditam imperio regeret, Palatium Romulus, Remus Auentinum ad

2. Interregno e auspici

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se per la prima volta gli auspici al momento della fondazione di Roma, come ricorda Ennio 15 . Egli stesso dunque, secondo le fonti, compì· il rito auspicatorio sulla sua investitura, e non avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che l'assemblea . dei Patres ancora non esisteva, e nemmeno i collegi religiosi. L'auspicazione romulea si presenta come un'opera~ione di ~iritto sacro, che agisce non solo sulla sua persona, ma conferisce alla città lo statuto di luogo inaugurato. L'espressione auspicio augurioque, usata per definire l'attività rituale dei gemelli, nel momento in cui interrogano la volontà di Giove, abbina tuttavia due termini che, in età repubblicana, andranno a denotare due sfere distinte. L' auspicium diventa una caratteristica peculiare dei soli magistrati; per le magistrature superiori si trova in genere associato all'imperium, che da esso discende (auspiciu':11 imperiumque), a denotarne le due attribuzioni ufficiali: «De caelo ausp1cari ius nemini est praeter magistratum 16 ». Inoltre, il termine auspicium si presta a designare tanto il diritto agli auspici, proprio delle magistrature superiori, quanto l'attività auspicale stessa 17 • Gli auspicia publica era-

no ritenuti un monopolio dei magistrati patrizi, e questo fatto perdurò fino all'epoca delle leggi Licinie Sestie. Gli auguri non potevano sostituirsi ai magistrati nell'esercizio di questa funzione, alla quale non partecipavano se non a titolo consultivo. L'opposizione tra auspicia e auguria corrisponde alla separazione di competenze tra magistrature e sacerdozi 18 , ma non riguarda la tecnica rituale, che consiste in entrambi i casi nell'osservazione dei segni divini. 19 Stando alla tradizione, per l'età monarchica non si può parlare di una vera distinzione fra i due poteri, quello politico e quello religioso, i quali tendono ad accumularsi nelle stesse mani, quelle del rex augur. L'immagine di Romolo che prende i primi auspicia è di grande importanza per lo sviluppo della tradizione e dell'ideologia politica romana. Gli auspici romulei assicurano al suolo urbano la benevolenza divina: ciò è implicito proprio nell'etimologia di quei due termini usati da Ennio, auspicio augurioque, di cui il primo indica l'attività auspicale di Romolo (l'osservazione degli uccelli) e il secondo il risultato (il potere di 'accrescimento' fornito dai segni favorevoli); inoltre, come si è visto, l'inauguratio in-

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inaugurandum templa capiunt. Priori Remo augurium uenisse fertur, sex uoltures; iamque nuntiato augurio cum duplex numerus Romulo se ostendisset, utrumque regem sua multitudo consalutauerat: tempere illi praecepto, at hi numero auium regnum trahebant. Inde cum altercatione congressi certamine irarum ad caedem uertuntur; ibi in turba ictus Remus cecidit. Volgatior fama est ludibrio fratris Remum nouos transiluisse muros; inde ab irato Romulo, cum uerbis quoque increpitans adiecisset, "sic deinde, quicumque alius transiliet moenia mea, interfectum". Ita solus potitus imperio Romulus; condita urbs conditoris nomine appellata». 15) 1.77-97 Vahlen: «Curantes magna cum cura cumcupientes / Regni dant operam simul auspicio augurioque. / Remus auspicio se deuouet atque secunda_m / Solus auem seruat. At Romulus pulcher in alto / Quaerit Auentino, seruat genus altmolantum. / Certabant urbem Romam Remoramue uocarent. / Omnibus cura uiris uter esset 111duperator: / Expectant, ueluti consul cum mittere signum / Volt, omnes auidi spectant ad carceris _oras / Quam mox emittat pictis e faucibus currus: / Sic expectabat populus atq~e ore tlm~bat, / Rebus utri magni uictoria sit data regni. / Interea sol albus recess1t 111 mfera noctls; / Exin candida se radiis dedit icta foras lux; / Et simul ex alto longe pulcherrima praepes / Laeua uolauit auis, simul aureeus exoritus sol. / Cedunt de caelo ter quattuor corpora sancta / Auium, praepetibus sese pulchrisque locis dant. / Conspicit inde sibi data Romulus esse priora, / Auspicio regni stabilita scamna locumquei». 16) VARR., NON., p. 131 L. _ 17) La distinzione tra magistrati superiori e magistrati inferiori si effettua proprio 111 base agli auspicia, come spiega Gellio, citando il primo libro del trattato dell'augure Messalla, De Auspiciis. Il passo, inoltre, chiarisce la gerarchia di poteri che, mediante la diversa entità degli auspicia, si instaura tra le varie magistrature (NA., XIII. 15, 1-4): «In ed1cto consulum, quo edicunt, quis dies comitiis centuriatis futurus sit, scribitur ex uetere forma perpetua: "Ne quis magistratus minor de caelo seruasse uelit":