Heidegger tra Oriente e Occidente. Il destino planetario della tecnica 9788878703728

Dal fondamento filosofico dell’abitare al destino planetario della tecnica europea, come momento, il più inquietante del

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Italian Pages 126 Year 2009

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Heidegger tra Oriente e Occidente. Il destino planetario della tecnica
 9788878703728

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SYRAKOUSAI – 10 –

Collana diretta da Dario Giugliano, Manlio Iofrida, Silvano Petrosino

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HARTMUT BUCHNER

HEIDEGGER TRA ORIENTE E OCCIDENTE Il destino planetario della tecnica con scritti di Martin Heidegger a cura di Andrea Cudin

BULZONI EDITORE ROMA

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TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 978-88-7870-372-8 © Heidegger by Klostermann Verlag © 2009 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]

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INDICE p.

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Kôichi Tsujimura: Il pensiero di Martin Heidegger e la filosofia giapponese .......................................................................................................... »

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Nota bibliografica .......................................................................................................... »

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Note biobibliografiche degli autori dei documenti e del curatore ................................................................................................................................. »

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INTRODUZIONE

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PARTE PRIMA: HEIDEGGER TRA ORIENTE E OCCIDENTE Patria e Pensiero

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Sul problema della lingua materna in Martin Heidegger La questione heideggeriana del linguaggio Una cosa più profonda da vita e morte Natura e destino di mondo

La svolta occidentale di Heidegger

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PARTE SECONDA: DOCUMENTI

Dal ringraziamento di Heidegger

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Martin Heidegger-Takehiko Kojima: Carteggio (1963-1965)

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INTRODUZIONE

Nel 1989, in occasione del centenario della morte di Martin Heidegger, Hartmut Buchner (1927-2004) cura l’edizione di un volume collettivo, Il Giappone e Heidegger, e nell’introduzione scrive: «Martin Heidegger, quando si parlava di Giappone, lamentava ripetutamente la grande unilateralità che caratterizza il dialogo tedesco-giapponese – non solo sul terreno della filosofia – nella misura in cui la parte giapponese da più generazioni recepisce quasi tutto di noi in un processo di assimilazione e traduzione inaudito, mentre noi di loro non conosciamo praticamente nulla o comunque troppo poco, e questo poco spesse volte in traduzioni evidentemente inadeguate» 1. Gli scritti ma anche la vita di Buchner testimoniano a mio giudizio la volontà di rispondere a questo appello heideggeriano al superamento dell’unilateralità del dialogo. È con questa chiave di lettura che si presentano qui al lettore italiano – anteprima assoluta – alcuni testi di un autore sconosciuto ai più: pensare con Heidegger il destino di un occidente sempre meno europeo, lasciando confluire in questa meditazione stimoli provenienti da una profonda familiarità con la tradizione di pensiero giapponese. Studente negli anni ’50 a Friburgo di Fink e soprattutto Heidegger, Hartmut Buchner si distingue tanto da meritare l’«omaggio» del mae-

1 H. Buchner (a cura di), Japan und Heidegger, Jan Thorbecke Verlag, Sigmaringen 1989, p. 15.

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Andrea Cudin

stro, che in Saggi e discorsi pubblica, in appendice al saggio La Cosa, una lettera a lui indirizzata. In quegli stessi anni, insieme all’amico Kôichi Tsujimura, traduce in tedesco uno dei classici del buddismo zen, la storia del bue e del suo pastore 2. Si trasferisce a Kyoto in Giappone, ove insegna, scrive la sua tesi di dottorato sul Simposio di Platone e segue da laico l’iniziazione zen. Rientrato in Germania, per cinque anni lavora con Pöggeler all’archivio Hegel di Bonn, curando l’edizione del quarto volume delle Gesammelte Werke Hegels. Assistente alla facoltà di filosofia di Monaco di Baviera, scrive la tesi di abilitazione su Hegel: chiamato all’Accademia Bavarese delle Scienze per curare l’edizione critica dei testi di Schelling, abbandona il progetto dell’abilitazione, la cui tesi già era pronta per la pubblicazione. È proprio in ragione delle sue competenze in campo editoriale, oltre alla familiarità con il pensiero e la persona di Martin Heidegger e la giovane età, che Buchner fu apparentemente richiesto dapprincipio da Heidegger stesso di curare la Gesamtausgabe, l’edizione delle opere complete del filosofo (HGA). Perché poi questo non si realizzò non è dato di conoscere, nelle sue ragioni profonde, a chi scrive. Certo è che, non appena iniziarono a essere pubblicati i primi volumi della HGA, Buchner si mostrò profondamente critico verso l’impostazione editoriale, cui non mancava di riservare sempre ben documentate polemiche. Forse per questo, successivamente si impegnò a fondo per dare avvio alla pubblicazione in giapponese delle opere complete di Heidegger, assumendone la direzione dell’edizione per parte tedesca. Gli ultimi anni della sua vita li dedicò alla realizzazione di un Archivio Heidegger a Meßkirch, la città natale del filosofo. Tale archivio avrebbe dovuto constare della biblioteca privata di Buchner – oltre 12.000 volumi selezionati con l’intento di comprendere tutto ciò che apparteneva all’orizzonte culturale di Heidegger da un lato, e tutto ciò che era stato pubblicato su Heidegger nelle principali lingue europee ed asiatiche dal-

2 Der Ochs und sein Hirte. Zen Geschichte aus dem alten China, a cura di H. Buchner e K. Tsujimura, Neske, Pfullingen 1958.

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Introduzione

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l’altro – sistemata all’interno del castello di Meßkirch, appositamente restaurato e dotato di sale convegno, studio e alloggio per gli studiosi. L’improvvisa morte di Buchner e gli eventi successivi legati al lascito hanno fatto sì che il progetto fosse accantonato e – per quanto risulta a chi scrive – la «biblioteca Buchner» non ha ancora trovato una collocazione. La storia della fama di Buchner è soprattutto una storia «sotterranea». Personaggio schivo e poco propenso alle regole dell’accademia, ha scritto molto poco, e ancor meno ha pubblicato, quasi sempre in edizioni limitate diffuse tra amici e allievi (gli allievi erano in realtà sempre anche gli amici). Come conoscitore di Heidegger è divenuto famoso piuttosto con le attività seminariali durante gli anni all’università di Monaco. Generazioni di studenti hanno frequentato seminari quali quello su Essere e tempo, svoltosi su otto semestri, e quello su Hegel: il ricordo è sempre di un insegnante che accompagna gli allievi, attraverso una conoscenza straordinariamente minuziosa delle opere, anche inedite, di Heidegger unita a una altrettanto notevole reticenza nell’eloquio, verso una esperienza di pensiero propria piuttosto che alla ripetizione di nozioni. Emblematica a questo proposito resta la relazione conclusiva presentata al simposio ungherese-tedesco su Heidegger del 1990, ove si è limitato a giustapporre testi heideggeriani senza ulteriori indicazioni. Più che una dottrina, insomma, un metodo: di questo metodo l’elemento decisivo è, probabilmente, quello per cui il pensiero heideggeriano va inteso, innanzitutto, nella sua mobilità. Ovvero: a giudizio di Buchner, il pericolo più grave nell’affrontare il pensiero di Heidegger è quello di fermare lo sguardo su concetti, nomi, parole che Heidegger presenta nel tentativo di indicare una esperienza di pensiero, senza vedere in questi dei segnavia assolutamente volatili ed evanescenti di qualcosa che si presenta innanzitutto allo sguardo in una esperienza pensante. Significativa è, ad esempio, la sua cautela, se non aperta diffidenza, nei confronti dell’Ereignis, l’evento che spesso si vede come la parola che meglio indica, che «fissa», l’apice del cammino heideggeriano di pensiero. Nei manoscritti dei Beiträge zur Philosophie (i Contributi alla filosofia di recentissima pubblicazione anche in italiano), il termine com-

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Andrea Cudin

pare spesso come «E.», segnalando, a giudizio di Buchner, la cautela, o meglio la distanza che Heidegger intendeva mantenere da questa parola. Anche l’assenza, nell’edizione dei Beiträge della HGA, di chiare indicazioni di questa strategia presente nel manoscritto costituiva per Buchner una ragione di quella grave perplessità editoriale appena ricordata. L’edizione che si presenta qui al lettore italiano comprende una piccola selezione di alcuni dei testi ritenuti più significativi 3 del percorso di Buchner all’interno del pensiero di Heidegger. La sistemazione è stata scelta dal curatore, al fine di evidenziare ciò che si considera la cifra teorica del lavoro di Buchner, ovvero la spinta decisa del passaggio dal pensiero dell’essere europeo-occidentale a un pensiero planetario che ormai dall’essere ha preso congedo. È qui infatti che sembrano al meglio convergere la minuziosa ricostruzione del pensiero heideggeriano insieme ai frutti della lunga meditazione praticata nel confronto con la tradizione del buddismo zen. Gli scritti di Buchner insomma non sono presentati in ordine cronologico, ma quasi a costituire un percorso che dall’interpretazione di alcuni dei concetti chiave del pensiero heideggeriano (la patria, il linguaggio, i mortali) arriva, attraverso l’indicazione della possibilità del superamento dell’essere (in Natura e destino di mondo), a mostrare, nell’ultimo saggio, una possibile via in direzione di un pensiero (heideggeriano) ormai compiutamente planetario. Accanto alle opere di Buchner si ripresentano al lettore italiano alcuni testi del dialogo tra Heidegger e il pensiero giapponese; la scelta di questi testi non è affatto casuale, gioca anzi un ruolo decisivo per meglio contestualizzare e dunque comprendere l’ambito nel quale si muove la riflessione di Buchner. Essi infatti compaiono citati negli scritti di Buchner che presentiamo, e costituiscono in qualche maniera il riferi-

3 Per il testo di una conferenza del 1996 nel quale si commentano passaggi dai quaderni neri, gli appunti che Heidegger redasse nel corso dell’intera vita e destinati alla pubblicazione soltanto alla fine della Gesamtausgabe, non è stato possibile ottenere l’autorizzazione da parte dei detentori dei diritti di Heidegger.

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Introduzione

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mento dialogico della riflessione di Buchner all’interno del confronto Giappone – pensiero di Heidegger. Per quanto riguarda la traduzione in italiano dei termini heideggeriani si è scelto, ogni volta che è stato possibile, di utilizzare parole già proposte in traduzioni italiane precedenti, supponendo così che la problematicità di alcune soluzioni, ma anche la loro ammissibilità, siano già note ai lettori. Dove questo non è stato possibile, si è optato per soluzioni alternative, segnalando la parola tedesca corrispondente. Così per esempio per Gestell si è ritenuto che im-posizione, proposta da Vattimo, fosse tutto sommato la scelta più opportuna, mentre per stellen ci si è decisi per il verbo posizionare. Nel riportare le citazioni di Heidegger si è anche optato per le traduzioni italiane già disponibili, modificandole alla bisogna e, naturalmente, segnalando la modifica. Un ringraziamento va alla famiglia di Hartmut Buchner per la disponibilità, al prof. Fabio Polidori, per i preziosi suggerimenti bibliografici, e al dr. Klaus Opilik per le indicazioni sulla biografia e bibliografia di Buchner. Sono grato a Miho-chan per la paziente assistenza nella traduzione delle parole giapponesi. Un ringraziamento speciale va a Konrad Markl, antico allievo e amico di Hartmut Buchner, per il costante aiuto e supporto. Andrea Cudin

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PARTE PRIMA: HEIDEGGER TRA ORIENTE E OCCIDENTE

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PATRIA E PENSIERO

Oggi l’autentico pensiero che esplora l’annuncio originario [Ur-kunde] dell’essere, vive ancora soltanto all’interno di «riserve». (Forse perché per la sua provenienza è antico come, alla loro maniera, gli indiani) M. Heidegger, 1959 1

Secondo un famoso detto di Novalis, la filosofia è «propriamente nostalgia, l’impulso a essere ovunque a casa propria». Martin Heidegger cita questo detto una volta, nel corso I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, e precisamente all’interno di una discussione su cosa sia la filosofia. E qui, tra le altre cose, dice: «La filosofia può essere un simile impulso soltanto qualora noi che filosofiamo ovunque non ci sentiamo a casa nostra» 2. Già da quel poco che si è citato si vede che nel rapporto fra filosofia e patria, che in filosofia e patria c’è qualcosa di insolito. A una prima e a una seconda occhiata «l’impulso a essere ovunque a casa propria» si contraddice, nella misura in cui «essere a casa propria» e

1 M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens (1992), p. 152. La traduzione è mia. [N.d.C.] 2 M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit (1992), trad. a cura di C. Angelino, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, il Melangolo, Genova 1992, p. 11 (trad. modificata).

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patria sono sempre qualcosa di attuale e unico, qualcosa di delimitato e finito, mentre l’«ovunque», ovvero innanzitutto in ogni cosa, senza riguardo a cosa e dove sia, dice quasi quanto «da nessuna parte», in nessun luogo determinato, delimitato e radicato, quindi per esempio neppure a Meßkirch o Unoke 3. E quando Heidegger integra il detto di Novalis asserendo che coloro che filosofano ovunque siano non si sentono casa propria, non intende certo negare loro qualcosa come una provenienza da una patria. Heidegger chiarisce infatti l’«ovunque» in questo modo: «Non semplicemente qui o là, neppure in qualunque luogo o in tutti insieme l’uno dopo l’altro, bensì: essere a casa propria ovunque significa essere sempre e allo stesso tempo nella totalità», e prosegue: «Noi chiamiamo questo “nella totalità” il mondo» 4. Pertanto, soltanto qualcuno dotato di una certa furbizia filosofica potrebbe affermare che ciò che Heidegger chiama “mondo” sia l’autentica patria della filosofia; un tempo la filosofia era anche chiamata «saggezza del mondo». Ma così facendo compiremmo una semplificazione, soprattutto nei confronti di Heidegger. Cioè, Messkirch e la «dura e misera» patria del Heuberg, Unoke e la sua regione non sono semplicemente «il mondo», ma piuttosto una sua ben precisa, delineata forma, vale a dire una maturata concrezione di quel «nella totalità» – ciò vale anche quando comprendiamo in ciò che è patria la Svevia-Alemagna, la Germania meridionale, la Germania, l’Europa e così via. D’altro canto ciò che caratterizza il mondo attuale, ovvero il mondo della civiltà tecnica, consiste, secondo una frase della Lettera sull’umanismo di Heidegger, tra le altre cose proprio nella peculiare perdita di patria. «La spaesatezza diviene un destino mondiale» 5, si dice lì, e precisamente per l’uomo moderno. Proprio in ragione di ciò c’è bisogno, come Heidegger scrisse nell’ultima dichiarazione manoscritta pochi giorni prima di morire in oc-

3 Unoke, il paese natale del filosofo giapponese Kitarô Nishida, è gemellata con Meßkirch, paese in cui è nato Heidegger. 4 M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 11. 5 M. Heidegger, Wegmarken (1967), p. 339. Trad. a cura di F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano 1997, p. 292.

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casione del conferimento della cittadinanza onoraria di Messkirch a Bernhard Welte, «della meditazione sul se e come nell’epoca della civiltà mondiale tecnicizzata e uniforme vi possa ancora essere patria» 6. Al posto della nostalgia nel senso di un impulso come in Novalis, compare adesso ciò che Heidegger chiama meditazione, nella quale parla innanzitutto un soffermarsi rammemorante e riflettente, un abbandonarsi rilassato al senso «che regna su tutto ciò che è» 7. Questo senso è già giunto, ma si sottrae e nasconde con e in questo arrivo. Approfondire questo tema significherebbe forse chiedere troppo al nostro piccolo simposio. Per ora può essere sufficiente rimandare in maniera sintetica ad alcune delle cose che, tra le altre, un tema come «La patria della filosofia» può dire riguardo a Heidegger. Innanzitutto vorrei formulare il tema in modo più provvisorio e leggero, e cioè: «Patria e filosofia», ove con filosofia si intende ciò che talora Heidegger chiama pensiero essenziale o dell’essenza. Prendo in considerazione qui in particolare i brevi scritti di Heidegger contenuti nel Messkircher Heidegger-Büchlein 8, come l’ha chiamato una volta il troppo presto scomparso ex sindaco di Messkirch Siegfried Schüle. Va da sé che non tutti i punti salienti verranno toccati, e non tutte le linee essenziali verranno tracciate in una breve conferenza che vuol fornire soltanto spunti per un dialogo possibile.

II Heidegger, che soltanto nel 1955, a 66 anni, ha potuto parlare pubblicamente nella sua città natale, ha ringraziato in tale occasione la patria per tutto ciò di cui l’aveva provvisto per quel lungo cammino. In co-

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Id., Aus der Erfahrung des Denkens, p. 243. Martin Heidegger zum 80. Geburtstag von seiner Heimatstadt Messkirch (1964),

p. 19. 8 Buchner si riferisce al sopracitato Martin Heidegger zum 80. Geburtstag von seiner Heimatstadt Messkirch. (N.d.T.)

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sa consista questa «dote», ha cercato di spiegarlo nel breve scritto Il sentiero di campagna (1949) 9. Ognuno può leggere questo testo per conto proprio. Importante è ora che la patria viene qui intesa come dote, come qualcosa insomma che uno ha ricevuto per il suo cammino senza merito proprio. In questo caso si tratta di un cammino che ha condotto ben oltre la patria in senso stretto e anche in quello più ampio, per esempio persino verso ciò che Heidegger una volta ha chiamato l’ormai necessario «esercizio del pensiero planetario», un pensiero dunque che deve esperire e sostenere dal punto di vista della storia dell’essere la terra in quanto la stella errante 10. Nel corso di questo cammino la dote della patria non è affatto stata abbandonata o persa, sì è piuttosto trasformata, nella maniera della sopraccitata meditazione, in una svolta, proveniente da molto lontano e di altra natura, verso qualcosa come patria. La patria in quanto dote si raccoglie secondo Heidegger nel sentiero di campagna, che altrimenti si chiama Bichtlinger Sträßle. Di questo sentiero di campagna, che attraverso i decenni ha sempre accompagnato il suo pensiero, Heidegger dice: «Quando si affollavano gli enigmi e nessuna soluzione si affacciava all’orizzonte, il sentiero veniva in soccorso» 11. Veniva in soccorso allora quando, già molto presto, il pensiero prese a inoltrarsi per sentieri interrotti. In base a che cosa il sentiero di campagna era in grado di venire in soccorso? Perché, come dice Heidegger, «guida silenzioso il passo sul ciglio del viottolo attraverso l’ampiezza di quell’umile paesaggio» 12. Questa ampiezza in quanto dote essenziale resta presente proprio anche quando il pensiero deve vieppiù muoversi per sentieri interrotti, quando anzi diventa un unico sentiero interrotto. L’ampiezza custodisce quanto di semplice, sereno, libero, e quanto di sempre enigmatico vi è in tutto ciò che è, e la forza di questa enigmati-

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Martin Heidegger zum 80. Geburtstag…, cit., p. 17. Cfr. Vorträge und Aufsätze, Neske (1954), p. 97. Trad. a cura di G. Vattimo, Saggi e Discorsi, Mursia, Milano 1991, p. 64. 11 Martin Heidegger zum 80. Geburtstag…, cit. Trad. di C. Angelino, Il sentiero di campagna, il Melangolo, Genova 2002, p. 13. 12 Ivi, p. 15. 10

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cità sostiene il pensiero anche e soprattutto lì, ove, senza mezzi appropriati, si avvicina ad abissi o imbocca strade senza uscita in ragione dell’incarico che lo richiede nell’estremo bisogno di interrogazione. Questa ampiezza è ciò che fa sorgere qualcosa come mondo e in esso patria: «L’ampiezza di tutte le cose che crescono, che hanno dimora intorno al sentiero di campagna, dona mondo» 13. La quiete che talora sopraggiunge in questa ampiezza rende più udibile l’appello del sentiero di campagna. Heidegger chiede chi parla qui: l’anima, il mondo, dio? E risponde: «Tutto parla della rinuncia nel Medesimo» 14. La dote della patria, che per Heidegger è il sentiero di campagna, si raccoglie per via nella rinuncia – non in una generica rinuncia a questo o quello, ma in quella che dona «la forza inesauribile del Semplice» 15. Sulla base di una antica tradizione intendo qui la rinuncia innanzitutto come la remissione della caparbia volontà di ciascuna cosa che è, così che, ciascuna a suo modo, possa affatto essere ciò che le è stato assegnato di essere: una «cosa» che, lasciando essere l’ampiezza, dona mondo.

III In qualche modo si potrebbe dire che Heidegger, ne Il sentiero di campagna e anche altrove, ha ricondotto a casa la patria nel pensiero. Ma questa sarebbe un’espressione troppo facilmente soggetta a incomprensioni. Una formulazione più cauta suonerebbe: ha custodito la patria nel pensiero. Ma perché non: ricondotto a casa? Perché questo potrebbe portare all’errata concezione per cui qualcosa come patria, inglobata nel pensiero, possa ancora rimanere ciò che era prima in quanto patria, o perfino anche che il pensiero, preso per sé e anche in tutta la sua profondità, possa istituire o fondare qualcosa come patria. Rispetto a questo

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Ivi, p. 19. Ivi, p. 26. Ibid.

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vorrei tener fermo con decisione: pensiero e patria (in quanto dote) possono coappartenersi nel modo enunciato, forse persino aver bisogno l’uno dell’altro, ma soltanto se restano chiaramente distinti tra loro e se entrambi ammettono e non disconoscono reciprocamente questa differenza carica di tensione interna. Fritz Heidegger, cui Martin Heidegger nella dedica di Saggi e discorsi ha scritto «Al fratello così unico», ha detto una volta durante un colloquio su Meßkirch e il suo grande pensatore: «Mio fratello è per loro [per gli abitanti di Meßkirch] affatto inquietante». Credo che questo sia buono e giusto e così debba rimanere. E lo stesso Martin Heidegger in misura crescente ha saputo come nessun’altro quanto la dote della patria non possa e non debba indurre la seduzione di volere, per mezzo di un qualche tipo di pensiero, semplicemente restaurare ciò che è stato, neppure nel senso corrente dei costumi tradizionali. Ma non è proprio Heidegger che cita, con particolare favore e, come sembra, con un certo accento di insistente sfida, un passo di Johann Peter Hebel, che deve dimostrare la necessità di un radicamento nella patria? Il passo suona: «Siamo disposti o no ad ammetterlo, noi siamo piante che debbono crescere radicate nella terra, se vogliono fiorire nell’etere e dare i loro frutti» 16. Heidegger chiarisce queste parole così: «perché riesca a sbocciare un’opera dell’uomo che porti autentica gioia e giovamento, è necessario che l’uomo possa espandersi nell’etere, radicandosi nel profondo seno della propria terra. Etere qui significa: l’area libera che spira nelle altezze del cielo, la regione aperta dello spirito» 17. E in un altro luogo dice a questo proposito: «La terra – nel passo di Hebel questa parola nomina tutto ciò che ci sostiene e circonda, accende e placa in quanto visibile, udibile e tastabile: il sensibile. L’etere (il cielo) – questa parola nomina nel passo di Hebel tutto ciò che noi percepiamo ma non con gli organi del senso: il non-sensibile, il senso, lo

16 Id., Gelassenheit, trad. di A. Fabris, L’abbandono, il Melangolo, Genova 1989, pp. 31-32 e p. 40. 17 Ivi, p. 32.

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spirito. Sentiero e passerella tra la profondità dell’esclusivamente sensibile e l’altezza dello spirito audacissimo è il linguaggio» 18. Ci sono davvero persone che utilizzano persino questa e altre indicazioni del secondo Heidegger come argomenti contro di lui, che si spingono talora fino ad astio e delazione, e persino alla scempiaggine: lui, Heidegger, intenderebbe salvare un idillio kitsch e piccolo borghese di paese o villaggio in stile Blut und Boden in versione elevata; oppure ancora il presunto «provincialismo» del suo pensiero, inteso in modo totalmente negativo, abbisognerebbe di una «urbanizzazione». Ora, da queste opinioni distorte si può cogliere soprattutto come anche grande intelligenza e ottusità abbiano talora bisogno l’una dell’altra. L’accento che Heidegger dà a volte a simili indicazioni, sempre in occasioni molto precise, non è un richiamo a una restaurazione, bensì un cenno verso la rammemorazione di com’era ciò che una volta è stato, affinché gli uomini imparino innanzitutto a meglio esperire la loro attuale spaesatezza, che proviene da ben altro luogo. In ogni caso Heidegger è dell’idea, un’idea assai umana, che possa essere cosa buona e giovevole, nella crescente devastazione della terra (e non soltanto della «natura») e nella sfibrante provocazione degli uomini da parte dell’essenza determinata soltanto tecnicamente, uniforme e omologante ogni cosa (macchinazione, im-posizione), tener fermo e proteggere la patria e la sua essenza, ammesso che per questo vi sia ancora una reale possibilità 19. Ma questo non è in alcun modo il compito urgente e autentico, e la sua possibilità svanisce. In occasione del suo ottantesimo compleanno, nel suo breve ringraziamento per il discorso tenuto da Kôichi Tsujimura, Heidegger dice in modo conciso: «L’aspettativa, già prima assai dubbia, che ciò che è proprio della patria potesse ancora essere salvato in modo immediato, in questa aspettativa non possiamo più proseguire» 20. Che cosa allora?

18 19 20

M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens (1992), p. 150. Ivi, p. 30 e sg. Infra, p. 101.

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IV Ho già detto: il pensiero da solo non può fondare o istituire qualcosa come patria; chi si aspetta questo non sa cos’era patria, né cosa significa pensare. Il pensiero fa sufficiente fatica a tenersi sobrio e sempre di nuovo smarrito sul suo cammino, e a risalire pensando alla sua provenienza. Come potrebbe altrimenti Heidegger dire: «Possiamo osare il passo indietro al di fuori della filosofia verso il pensiero dell’essere [Seyn] non appena siamo diventati familiari nella provenienza del pensiero» 21. E non per caso come motto per il frontespizio dell’edizione giapponese dell’opera omnia di Heidegger, i cui primi volumi vengono pubblicati proprio in questi giorni, fu scelto: «Il cammino in direzione di ciò che è bisognoso di interrogazione non è avventura ma ritorno a casa». Da tale essere familiari nella provenienza del pensiero, da tale ritorno a casa del pensiero sorge anche la già ricordata meditazione «sul se e come nell’epoca della civiltà mondiale tecnicizzata e uniforme vi possa ancora essere patria» 22, cosa che non significa semplicemente: patria ancora in senso tradizionale! Alla fine degli anni Trenta si legge, nella sua radicalità, come la meditazione sia il coraggio «di rendere massimamente bisognosi di interrogazione la verità delle proprie presupposizioni e il campo dei propri obiettivi» 23, così in seguito si aggiunge ancora qualcosa. Meditazione è inoltre – anche solo parlando del divenir familiare del pensiero nella sua provenienza – «La serenità, nella quale tutto si rasserena, diviene chiaro e trasparente». Un tale pensiero meditante si muove all’interno del tra rammemorante del non-più della patria in senso tradizionale e del non ancora di un diverso, nuovo senso di patria, di un nuovo fondamento e terreno, di un abitare completamente mutato dell’uomo su questa terra. Se ora patria, secondo un passo di Heidegger, è ciò «che ci sostiene,

21

M. Heidegger, Aus der Erfahrung des Denkens (1992), p. 82. Ivi, p. 243. Id., Holzwege (1950), p. 75. Trad. a cura di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 71 (trad. modificata). 22 23

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determina e fa prosperare nel cuore del nostro Esserci», allora dovremmo innanzitutto imparare a rinunciarvi, e cercare di conquistare una posizione in quel tra. L’atteggiamento fondamentale che Heidegger suppone per gli uomini di questo tra è «l’abbandono di fronte alle cose» 24 del mondo tecnico, assieme all’«apertura al mistero» 25. Qui lui intende il «mistero» come il tratto fondamentale di ciò «che si mostra e allo stesso tempo si ritrae» 26. Ciò che è oggi in questa maniera, così bisognoso di pensiero, lui lo chiama «il senso del mondo della tecnica» 27. La rinuncia alla patria potrebbe però significare anche qualcosa di ancora diverso, se essa fosse capace di uscire d’un balzo dalla semplice tensione tra il non più della patria passata e il non ancora di una nuova, futura modalità di patria, al di fuori quindi di una tensione che alla lunga non può sostenerci nel cuore del nostro Esserci e farci crescere e prosperare. Ma saltar fuori verso cosa? All’indietro, verso una dimensione che si trova affatto aldilà di patria e spaesatezza. Questo sarebbe allora per così dire un luogo situato ancora aldilà di qualcosa come volgersi e sottrarsi. Forse è un luogo che innanzitutto lascia prosperare ciò che Heidegger chiama «la serenità sapiente» e «l’inesauribile forza del Semplice» 28. Forse non è neppure semplicemente il luogo del pensiero, ma della provenienza del pensiero. Alcune cose indicano come Heidegger tenga sempre presente nel suo pensiero il soggiorno nello struggente tra del non-ancora e del non-più della patria, così che quel luogo aldilà di patria e spaesatezza, ovvero in qualche modo il luogo dell’assenza di luogo, traspare come assegnato al pensiero nel senso di ciò che è sempre taciuto in un silenzio eloquente [Verschwiegenes und Erschwiegenes]. Io non so se questo luogo è forse lo stesso di cui ne va nella filosofia del luogo di Nishi-

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Id., L’abbandono, cit., p. 38. Ivi, p. 39. Ibid. Ibid. Id., Il sentiero di campagna, cit., p. 26.

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da. In tutt’altra maniera, dovrebbe trattarsi di un luogo dell’oblio, così come l’ambito della filosofia occidentale pensato da Heidegger è quello dell’oblio dell’essere. Più o meno come si legge nella poesia di un antico e sconosciuto maestro Zen: da quando son vecchio ho del tutto scordato Buddha-Dharma in piedi da solo nel quieto giardino conto le prugne cadute.

A partire da qui anche la determinazione della filosofia di Novalis può ricevere un senso tutto diverso. «… essere ovunque a casa propria» non si adatta proprio all’uomo che vive in un simile luogo? La filosofia dovrebbe allora innanzitutto rinunciare a voler essere sempre solo filosophia, sempre solo una ricerca del sophon. Giacchè fintanto che essa è «soltanto» questo, le resta preclusa la «patria» nel senso dell’abitare in tale luogo. Comunque sia, vorrei concludere questa breve conferenza riuscita un poco anarchica con un passo di Hannah Arendt in memoria di Martin Heidegger, poiché il tempo che ci resta questa mattina, che è un regalo che Meßkirch fa a noi tutti, deve essere riservato al dibattito: Coloro che vengono dopo di noi, quando commemorano il nostro secolo e i suoi uomini e a essi tentano di restar fedeli, possano non dimenticare anche le devastanti tempeste di sabbia che hanno sconvolto tutti noi, ognuno alla sua maniera, e nelle quali tuttavia furono possibili qualcosa come quest’uomo e la sua opera 29.

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H. Arendt, Dem Andenken Martin Heideggers, Klostemann, Frankfurt 1977, p. 9.

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SUL PROBLEMA DELLA LINGUA MATERNA IN MARTIN HEIDEGGER

Buon giorno! Le riflessioni heideggeriane sulla lingua materna, scarse e raccolte in alcuni dei suoi scritti tardi, appartengono all’ambito di quella (profonda e ricca) meditazione cui Heidegger ha dato il nome di In cammino verso il Linguaggio. L’«in cammino» non intende qui il metodo con cui il linguaggio viene rielaborato e messo sotto controllo da scienza e filosofia, piuttosto indica una strada fuori dall’irretimento dell’uomo di oggi in attività impensate nella loro provenienza essenziale, indietro verso un più iniziale luogo essenziale dell’uomo. In cammino verso il linguaggio significa: imparare a fare esperienza di quel luogo cui l’uomo appartiene nella sua essenza, cioè in quanto mortale e dotato di linguaggio. Non è ora il momento per mostrare come questo interrogare nell’esperienza, e cioè nell’azione nel suo senso più alto, sia in relazione con la più iniziale questione fondamentale della verità dell’essere: per entrambi ne va della stessa cosa. In tedesco, per indicare l’essenza interna di una lingua, il suo cuore o la sua anima, e allo stesso tempo le sue possibilità, abbiamo la parola «spirito della lingua» [Sprachgeist]. In una conferenza su J. P. Hebel, poeta alemanno contemporaneo di Goethe, Heidegger si interroga su ciò che lo spirito di una lingua vera – cioè cresciuta in una lunga tradizione – racchiude, dunque custodisce e rende disponibile per gli uomini. La risposta è: «[Lo spirito della lingua] custodisce in sé i non appariscenti ma portan-

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ti rapporti con dio, il mondo, gli uomini e le loro opere e azioni. Ciò che lo spirito della lingua racchiude è quell’Altezza, che tutto sovrasta, da cui ogni cosa riceve la propria provenienza in modo tale che essa ha valore e dà frutti». (Non possiamo riferire qui in virtù di quale dimensione essenziale dello spirito della lingua essa può fare questo; si rimanda all’opera di Heidegger dal titolo indicativo di In cammino verso il Linguaggio.) A partire dallo spirito della lingua così descritto possiamo inizialmente comprendere ciò che Heidegger intende nella formula tradizionale di «lingua materna». Quando Heidegger dice che non c’è linguaggio in generale ma il linguaggio è sempre una lingua particolare e concreta, questo non significa altro che: per quanto detto, il linguaggio in quanto tale è reale sempre soltanto come madrelingua; le lingue materne non sono diverse specie della categoria «linguaggio», il parlare autentico del linguaggio avviene piuttosto sempre come lingua materna. «Il linguaggio» dice Heidegger «è sempre (cioè anche oggi nel destino planetario) la lingua concreta, in cui i popoli nascono, crescono e abitano secondo il destino». Il linguaggio è allora lingua materna nella misura in cui ci fa crescere e abitare, alla sua maniera destinale, all’interno di quegli invisibili e determinanti rapporti con il mondo, gli dei e gli uomini. È allora proprio questo far-crescere e -abitare che dona autenticamente all’uomo la Patria, non intesa qui nel senso sentimental-provinciale di «patria» come una pseudosicurezza comoda e senza pericolo, bensì nel senso di quel luogo che sempre concede all’uomo il cammino dalla nascita al mistero della morte, quel cammino sotto il cielo e sulla terra, in gioia e dolore, nello stare insieme con gli altri uomini, presso le cose e nella solitudine della morte. Ciò che è essenziale nella lingua materna già contiene in sé allora l’autentico problema della patria dell’uomo, che risiede nel cammino. Così Heidegger può anche dire, in una recente conferenza su «Linguaggio e patria» 1: «Su questa terra non vi è la patria. Patria è sempre 1 La conferenza Heimat und Sprache (1960) è pubblicata in Aus der Erfahrung des Denkens (1992). Trad. di R. Cristin, Linguaggio e terra natia, in Aut-Aut, n. 235, 1990, pp. 3-24.

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questa (dunque già sempre una patria determinata) e in quanto tale destino (cioè qualcosa di consegnato, affidato, attribuito, assegnato all’uomo). Il linguaggio è, detto a partire dal suo regnare, sempre lingua di una patria, lingua che sorge in un luogo familiare, e che parla nel riparo della casa paterna». Il parlare la lingua materna, da parte di noi uomini, avviene nel parlare con gli altri e con sé, ovvero già sempre anche nell’ascoltare. Questo parlare con gli altri e con se stessi è il senso autentico della parola greca dialegesthai, dalla quale deriva la parola «dialetto». «Dialetto» non significa dunque inizialmente una particolare lingua di provincia, ma piuttosto quel dialogo all’interno del quale gli uomini tra loro scelgono, sviluppano e si affidano quei rapporti sempre particolari e per loro essenziali col mondo, con dio e con gli altri uomini. Ogni lingua cresciuta storicamente e divenuta feconda, era dapprima e ancora oggi è nella sua essenza più profonda: dialetto – e soltanto in ragione di ciò ha potuto e può talora giungere a una importanza e una portata mondiale. «La parlata (cioè il dialetto)» dice Heidegger «è la segreta fonte di ogni lingua matura», da cui affluisce tutto ciò che lo spirito della lingua custodisce in sé. [Notiamo qui la questione, da che cosa può dipendere il fatto che una lingua materna radicata nel dialetto si può spingere alla sommità della capacità di dire e dare forma nella storia del mondo – si pensi per esempio soltanto a quella attica, il dialetto parlato come lingua materna da Platone e Aristotele – un’altra invece, per nulla inferiore quanto a rapporti essenziali, dal punto di vista della «storia del mondo» pare addormentata, o addirittura in pericolo di essere sopraffatta.] L’analisi heideggeriana del linguaggio in quanto lingua materna sa di appartenere a un istante del mondo estremamente minaccioso per l’uomo nella sua essenza – e non soltanto nella sua presenza, e che pretende da lui il massimo della meditazione e insistenza. È un istante del mondo che mette in questione tutti i rapporti e le relazioni dell’uomo istituiti sino a qui, anche e soprattutto il rapporto fondamentale tra l’uomo e il linguaggio. «Il rapporto dell’uomo nei confronti del linguaggio», dice Heidegger, «è [oggi] compreso in un mutamento di cui noi ancora non misuriamo la portata». Tale mutamento, che minaccia l’essenza del

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linguaggio in quanto tale, proviene dall’essenza della tecnica moderna, per Heidegger cioè da un destino essenziale della metafisica occidentaleuropea, da cui l’uomo oggi viene reclamato sempre più in maniera esclusiva, senza che egli veda in alcun modo ciò che gli accade veramente. Il linguaggio appare qui sempre più come semplicemente un ben tarato strumento dell’uomo reclamato dall’essenza della tecnica moderna – come strumento della comunicazione e dell’informazione oppure, ma in fondo è lo stesso, come l’ultimo prodotto esteriore di quell’io moderno che inutilmente riflette nel vuoto della sua assenza di patria. L’uomo, che neppure sa più oggi da dove, verso dove e perché, si sforza invano di divenire il signore della tecnica moderna, per divenire così ancor più inevitabilmente il servitore di questa potenza mondiale originariamente europea – quest’uomo diventa, nel senso della lingua materna, sempre più muto. Il linguaggio come mero mezzo di comunicazione, come mezzo di informazione e come puro materiale dell’espressione non può più infatti parlare a partire da quel rapporto ricco di mondo e fondante il mondo che era lo spirito della lingua un tempo assegnatosi agli uomini. Heidegger dice una volta, nella conferenza «Patria e linguaggio»: «Tuttavia nel momento in cui noi prestiamo attenzione a ciò che viene nominato (ovvero linguaggio e patria), intendo nel momento della nostra epoca del mondo, i radicati rapporti tradizionali tra linguaggio, lingua materna, dialetto e patria sono già sconvolti. L’uomo sembra perdere la lingua assegnatasi concretamente nel destino e restare in questo senza parole, sebbene mai a memoria d’uomo si sia parlato di tutto senza interruzione e in ogni dove. L’uomo appare esser divenuto privo di patria […] benché non si trovi più un posto sulla terra in cui l’uomo non si stia sistemando e persegua le sue attività». Dunque: non si è mai parlato quanto ora, e spesso con le migliori intenzioni – e allo stesso tempo l’uomo resta sempre più senza parole. Si è preso possesso di quasi tutta la terra, l’uomo si appresta già alla conquista del cosiddetto spazio – e diviene sempre più privo di patria. C’è qualcosa non in ordine in ciò che vi è di più profondo – forse è nell’«ordine» del mondo determinato dall’essenza della tecnica moder-

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na: ma da dove viene il fatto che in questo mondo noi uomini diveniamo sempre più privi di patria e sempre più muti nel senso della lingua materna – nonostante, anzi con e in ogni progresso e anche ogni tentativo di restaurazione, mosso da buone intenzioni ma privo di un terreno solido? Cosa vorrebbe la meditazione heideggeriana sulla lingua materna in questo nostro tempo che, secondo Heidegger, minaccia nel suo nucleo, ovvero nella sua essenza, il radicamento dell’uomo? – e come potrebbe tale meditazione non essere fraintesa? Sarebbe un grossolano fraintendimento se si volesse intendere il tentativo heideggeriano come una fuga nel passato, in un idillio, come una restaurazione o qualcosa del genere. Ancor meno Heidegger vorrebbe, come fa per esempio la filosofia moderna con la logistica, consegnare l’essenza del linguaggio allo sconvolgimento della tecnica moderna. Ciò che la meditazione heideggeriana vorrebbe, è di aiutare ad aprire vie sulle quali l’uomo di oggi impari sufficientemente ad interrogare con spirito di meditazione e con perseveranza da dove, per quale via e verso dove la nostra epoca riceva la sua determinazione più profonda, ovvero allora per esempio su cosa si fondi l’essenza della tecnica, la quale fa saltare tutti i rapporti precedenti, cosa questa che si annuncia all’uomo attraverso la perdita del radicamento della sua essenza, nell’estremo divenir senza parole né patria. Tale meditazione abbisogna dell’abbandono a ciò che oggi è e spinge gli uomini. Tale meditazione tuttavia non può avvenire in una lingua la cui essenza o la cui rovina si determina dalla misconosciuta pretesa dell’essenza della tecnica moderna. Questo tuttavia significa tra l’altro: la meditazione sull’essenza più profonda e sulla autentica provenienza storica della nostra epoca abbisogna di quel linguaggio che nella sua essenza permane lingua materna, seppure in un senso mutato. [E non è sicuramente un caso, è anzi la prova della genuinità per esempio della profonda e liberante interpretazione heideggeriana dell’essenza della tecnica moderna così come la ritroviamo in numerosi testi, il fatto che parli un linguaggio il quale è nobilissima lingua materna, in un senso alto e gradevole, mai antiquato o provinciale.]

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LA QUESTIONE HEIDEGGERIANA DEL LINGUAGGIO

In un’opera da poco pubblicata, In cammino verso il Linguaggio 1, Heidegger, nel corso di un colloquio con un giapponese, formula le stazioni sin lì percorse della sua interpretazione del linguaggio, e afferma quanto segue: Al pensiero che si sforza di corrispondere all’essenza del linguaggio, l’orizzonte su cui protende lo sguardo resta in tutta la sua ampiezza ancor velato. Per tale ragione non vedo ancora se ciò che tento di pensare come essenza del linguaggio, valga anche per l’essenza del linguaggio orientale; se alla fine – e la fine sarebbe insieme l’inizio – possa giungere all’esperienza pensante un’essenza del linguaggio, la quale offra la certezza che il dire europeo-occidentale e il dire asiatico-orientale vengano a colloquio in un modo nel quale canta Qualcosa che sgorga da un’unica sorgente 2.

E un po’ più avanti, contestualmente alla discussione della parola giapponese per linguaggio, koto-ba: «Essa indica altro da quello che pro-pongono i termini Sprache, løgoq, lingua, langue e language nell’accezione metafisica in cui sono normalmente intesi. Da molto tempo provo, quando vengo riflettendo sull’essenza del linguaggio, come una specie di riluttanza a usare la parola “linguaggio”» 3.

1 M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache (1959). Trad. a cura di A. Caracciolo, In cammino verso il Linguaggio, Mursia, Milano 1990. 2 Ivi, p. 88. 3 Ivi, p. 118.

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Ciò che Heidegger dice qui a partire dall’esperienza di un lungo, cauto ed errante cammino del pensiero, ci può proteggere dal pericolo di spacciare il suo tentativo di meditare l’essenza del linguaggio – tentativo che si spinge molto all’indietro e molto in avanti – per delle affermazioni semplici e facili da maneggiare. Non si tratta per Heidegger di enunciare proposizioni sul linguaggio e la sua essenza muovendo da un certo punto di vista e, così aggirandolo, ricondurlo a un concetto. Si tratta piuttosto di un compito ben più difficile e originariamente modesto, quello di pensare l’essenza del linguaggio in un modo che grazie a tale meditazione e già in essa si prepara e suscita una possibilità di esperienza del linguaggio in quanto linguaggio, in sé già anche esperienza dell’essenza dell’uomo. Gli uomini sono infatti, secondo una antica e autorevole tradizione occidentale, quegli esseri che sono ciò che sono grazie al linguaggio. La meditazione sull’essenza del linguaggio si trova al centro del pensiero heideggeriano. Per poterla intuire anche soltanto in modo vago nella sua portata e significato sarebbe allora necessario aver presente l’intero pensiero di Heidegger. Questo resta fino a oggi un compito che non è stato neppure intrapreso – neanche lì ove è lecito supporre una buona conoscenza degli scritti heideggeriani. Tralasciamo le ragioni di questo. Nello sguardo dell’interpretazione heideggeriana del linguaggio è inoltre sempre compresa la tradizione, sin dall’inizio del pensiero occidentale. Tuttavia, in quella interpretazione parla qualcosa che nella tradizione non era ancora giunto alla parola. Pertanto, se si volesse tentare di raggiungere la dimensione dell’interpretazione heideggeriana attraverso una analisi comparativa di natura storico-linguistica con le attuali concezioni del linguaggio, ciò rimarrebbe un inizio inadeguato. A ciò si aggiunge come il cammino di Heidegger verso il linguaggio esplicitamente rifiuta di essere inteso o frainteso con una filosofia del linguaggio. La cosa più importate resta quella di vedere innanzitutto l’ambito cui la questione heideggeriana del linguaggio appartiene. Già in quanto ambito di una interrogazione del linguaggio, questo può essere solamente la dimensione essenziale del linguaggio stesso, se la questione

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del linguaggio è ancorata al proprio oggetto. La questione del linguaggio resta così ancorata al proprio oggetto ove essa si sa pretesa e chiamata da ciò di cui interroga. Nella conferenza «L’essenza del linguaggio» Heidegger dice: Quando noi poniamo una domanda al linguaggio, una domanda sulla sua essenza, già del linguaggio deve esserci stato fatto dono. Se vogliamo porre una domanda sull’essenza, sull’essenza cioè del linguaggio, allora anche del significato di essenza ci deve essere stato fatto dono. Domanda a e domanda su presuppongono, come sempre, che ciò cui e su cui va la domanda abbia già fatto giungere la parola sollecitatrice. Ogni principio di ogni domanda si trattiene già all’interno dell’appello di ciò che viene messo in questione 4.

[Se si volesse considerare questo semplicemente come un «circolo della comprensione», farebbe forse parte di quella «fretta del pensiero» da cui secondo Heidegger dobbiamo prescindere nella meditazione del linguaggio.] Di conseguenza avremmo ottenuto già molto, persino forse l’elemento decisivo, se divenisse visibile almeno da lontano ciò che la questione del linguaggio in Heidegger ha di mira e dove essa si trattiene. Procediamo ora così, con una brevità quasi irresponsabile ma necessaria, soffermandoci su tre parole di Heidegger dette a partire dall’ambito dell’interrogazione del linguaggio, le quali si ripresentano, con alcuni cambiamenti e con diverse direzioni dello sguardo, in numerosi scritti heideggeriani. L’intero carattere e il modo del dire heideggeriano sul linguaggio ci impediscono di considerare queste parole come asserzioni definitive sul linguaggio. Noi possiamo utilizzarle soltanto come una specie di «formule di viaggio» o cenni da un cammino verso il linguaggio, e dobbiamo aver sempre coscienza del fatto che esse provengono dalla rigorosa struttura e dalla libera ampiezza di un ricco cammino di pensiero, e che non stanno per conto loro così come noi le prendiamo adesso.

4

Ivi, p. 139.

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1) Il primo detto è contenuto nella Lettera sull’umanismo, e dice: «Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio» 5. 2) Il secondo passo lo prendiamo dalla più importante opera della meditazione heideggeriana sul linguaggio; In cammino verso il Linguaggio. Nel saggio ivi contenuto Il linguaggio, nel quale Heidegger tenta di raggiungere l’autentico parlare del linguaggio attraverso l’interpretazione di una poesia di Georg Trakl, si legge: «Per questo riflettiamo sulla domanda: come stanno le cose relativamente al linguaggio? Per questo domandiamo: come regna il linguaggio in quanto linguaggio? Rispondiamo: il linguaggio parla. È questa davvero una risposta? Probabilmente sì, qualora divenga chiaro cosa significa parlare» 6. A questo aggiungiamo ancora due righe da una conferenza su Johan Peter Hebel: «Con lo sguardo sul linguaggio cresciuto storicamente – sul fatto che esso è lingua materna – possiamo affermare: propriamente parla il linguaggio, non l’uomo. L’uomo parla solo nella misura in cui corrisponde al linguaggio» 7. 3) Ancora una citazione da Il linguaggio: «Il linguaggio parla in quanto suono del silenzio. Il silenzio placa, riportando il mondo e le cose nella loro essenza» 8. Sul punto 1). Oggi si assume volentieri anche una frase come «Il linguaggio è la casa dell’essere» in quanto prova del modo di pensare heideggeriano «poetizzante» e metaforico, e con questo si rinuncia allo stesso tempo a interrogarsi su cosa ciò possa significare – prescindendo anche completamente dal fatto che, con una tale caratterizzazione, in

5 6 7 8

Id., Id., Id., Id.,

Segnavia, cit., pp. 267-268. In cammino verso il linguaggio, cit., p. 28 (trad. modificata). Hebel – der Hausfreund, in Aus der Erfahrung des Denkens (1992), p. 43. In cammino verso il linguaggio, cit., p. 41 (trad. modificata).

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modo voluto o meno, sembra che si conosca bene l’essenza del dire poetico e lo si intenda come una sciocchezza non vincolante e superficiale. Si tralascia anche intenzionalmente quel che si manifesta in maniera crescente all’interno dei dialoghi di Heidegger con la poesia: e cioè come per Heidegger la necessità di un confronto col dire poetico non sorge tanto da ciò che giunge alla parola nel poetare e nel pensare, quanto in ragione del fatto che entrambi, pensiero e poesia, si trovano in una vicinanza esemplare con il linguaggio. Questo significa: il tipo di dialogo tra pensare e poetare intrapreso da Heidegger è soprattutto al servizio di una interpretazione dell’essenza del linguaggio. Se questa stessa interpretazione nella sua essenza possa ancora essere chiamata filosofica o poetica nel senso corrente, oppure in nessuno dei due modi, è una cosa che ci si può chiedere in maniera adeguata soltanto quando sono esperiti in senso originario la dimensione del linguaggio stesso e i modi del prenderne le misure. Quando Heidegger una volta dice che il pensiero abita in prossimità del poetare e d’altro canto che il poetare è, alla sua maniera, un pensare originario, questo non significa allora che l’uno debba o possa venir determinato dall’altro; si tratta piuttosto di giungere in quel luogo a partire dal quale sia il poetare che il pensare si trovano a coappartenersi nella vicinanza. Heidegger è alla ricerca dell’essenza del linguaggio proprio in quanto questo luogo. Il discorso provvisorio sul linguaggio in quanto «casa dell’essere» dà nome a una coappartenenza o persino a una identità tra essere e linguaggio. Ciò che dapprincipio fa soprattutto problema è l’espressione in genitivo della «casa dell’essere», cui non trova appiglio il nostro comune modo di rappresentare. Tale espressione dà nome a qualcosa che ha una lunga tradizione ma che è allo stesso tempo qualcosa d’altro. In Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio Heidegger riferisce: «Nel semestre estivo del 1934, tenni un corso che recava per titolo “Logica”. Si trattava in realtà di una meditazione sul løgoq, all’interno del quale cercavo l’essenza del linguaggio» 9. Ritroviamo oggi la meditazione sul løgoq in tutta

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Ivi, p. 89 (trad. modificata).

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una serie di opere di Heidegger; per confrontarsi con l’interpretazione heideggeriana del linguaggio si dovrà sempre passare attraverso tale meditazione. Noi questo non possiamo farlo ora, dobbiamo tuttavia nel nostro contesto considerare almeno il passo che segue, tratto da L’essenza del Linguaggio: «… tra le primissime cose cui diede voce il pensiero occidentale rientra il rapporto tra cosa e parola, e precisamente nella figura del rapporto tra essere e dire. Questo rapporto soprende il pensiero in modo così subitaneo e sconvolgente da dirsi in una sola parola. Essa suona: løgoq. Questa parola in uno come nome dell’essere e come nome del dire. – Ma ancora più sconcertante è per noi il fatto che in tutto questo non si fa un’esperienza pensante del linguaggio, nel senso cioè che il linguaggio stesso, in base a quel rapporto, giunga propriamente a dirsi» 10. L’espressione del linguaggio come «casa dell’essere» intende mostrare quello Stesso a partire dal quale linguaggio ed essere, essere e dire si coappartengono. Il linguaggio non viene qui rappresentato come «casa dell’essere» nel senso che in esso o grazie al suo aiuto si parla dell’essere – un tentativo che, per ragioni essenziali, finirebbe col mordersi la coda. «Essere», nel suo tratto fondamentale di svelamento che rischiara e nasconde, abita già sempre nel linguaggio, è per così dire «accasato» in quanto parlare autentico del linguaggio stesso, nella misura in cui il tratto fondamentale del parlare è il dire, ovvero il lasciar-apparire che raccoglie e mostra. Heidegger una volta dice «Il darsi all’aperto, unitamente all’aperto stesso, è l’essere stesso» 11. Tale darsi regna nel parlare del linguaggio. L’interpretazione heideggeriana del linguaggio non è così un percorso secondario rispetto alla questione fondamentale dell’essenza dell’essere, questa domanda attorno all’essere invece, nel cammino verso il linguaggio, intende portarsi nel suo luogo adeguato. Sul punto 2). Anche le altre due «formule di viaggio» possono essere ora discusse, anche se solo per accenni. «Il linguaggio parla. – L’uo-

10 11

Ivi, p. 146. Id., Segnavia, cit., p. 287.

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mo parla solo nella misura in cui corrisponde al linguaggio» – questo è detto innanzitutto per la necessità di difendersi dall’opinione dominante secondo la quale il linguaggio è inteso prima di ogni altra cosa come uno dei mezzi di espressione a disposizione dell’uomo, e il parlare del linguaggio è prima di ogni altra cosa un’attività dell’uomo posto come soggetto dell’azione. Contrariamente a una caratterizzazione del linguaggio come esternazione sonora di movimenti dell’anima o dello spirito – caratterizzazione questa cresciuta su una precisa e autorevole tradizione ontologico-metafisica –, come attività dell’uomo e come una esposizione concettual-visiva del reale e dell’irreale, Heidegger intende dire come prima di tutto si tratti di giungere nel parlare del linguaggio e di meditarlo senza distrazioni in ciò che gli è proprio. Le «formule di viaggio» ricordate sono spiegate da Heidegger ne Il linguaggio come segue: «È al linguaggio che lasciamo la parola. Non vorremmo né fondare il linguaggio in qualche cosa di estrinseco e altro rispetto a esso, né vorremmo spiegare per mezzo del linguaggio altro dal linguaggio stesso» 12. E poco dopo, a proposito della frase «Il linguaggio è linguaggio»: «Tale affermazione non ci porta a un fondamento che è estrinseco al linguaggio, e nulla ci dice riguardo al problema se il linguaggio sia per caso il fondamento di altro da sé. La frase [Satz] «il linguaggio è linguaggio» ci lascia sospesi sopra un abisso, finché noi reggiamo ciò che dice» 13. L’eccentrica e misteriosa «formula di viaggio», che si mostra sulle prime come un purismo semplice e incomprensibile, «Il linguaggio è linguaggio» ovvero «Il linguaggio parla», è certamente pronunciata a partire da uno sguardo anticipatore su ciò a partire dal quale qualunque cosa appartenga al parlare del linguaggio, al linguaggio in quanto linguaggio, è già sempre reciprocamente raccolta in unità. Heidegger chiama questa unità «il profilo» [Aufriß] del linguaggio, in quanto «l’insieme dei tratti di quel disegno che salda in unità l’aperta libertà del linguaggio» 14. «Il profilo è il disegno del linguaggio, la strut12 13 14

Id., In cammino verso il linguaggio, cit., p. 28. Ivi, p. 29 (trad. modificata). Ivi, p. 197 (trad. modificata).

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tura di un indicare entro il quale i parlanti, il detto e il suo non detto sono disposti a partire da ciò che è appellato» 15. Nella frase «Il linguaggio è linguaggio» è racchiusa la pretesa di non dare voce al linguaggio – come è sempre accaduto – a partire da uno o più suoi aspetti rilevanti o da singoli tratti che appartengono sì al profilo e da esso innanzitutto ricevono la propria essenza, ma che, presi di per sé, nascondono proprio il suo luogo essenziale. Ne Il cammino verso il Linguaggio – il pezzo sin qui migliore della sua interpretazione del linguaggio – Heidegger tenta di corrispondere a tale pretesa. Non mi è possibile, nel corso di questa breve relazione, seguire i singoli passi di questo cammino, i quali nel corso della trattazione si rivelano infine essere il movimento interno del profilo del linguaggio stesso. Dobbiamo limitarci qui alla citazione di due passi un poco più lunghi, i quali essenzialmente indicano l’ambito dell’interpretazione. Dopo che, a proposito di un serrato confronto con Aristotele e in particolare Humboldt, Heidegger ha elaborato il già ricordato tratto fondamentale del parlare, cioè il dire in quanto mostrare, lasciar-apparire, -vedere e -sentire, il profilo del linguaggio viene sviluppato a partire dal dire: «Diciamo di certo cose ovvie, eppure tuttavia non considerate in tutta la loro portata, richiamando quanto segue. Parlare l’uno all’altro significa: dire l’un l’altro qualcosa, mostrare reciprocamente qualcosa, confidarsi scambievolmente ciò che è stato mostrato. Parlare l’uno con l’altro significa: dire insieme di qualcosa, mostrare reciprocamente ciò che la cosa chiamata in discorso, viene nel discorso dicendo di sé, ciò che essa di per se stessa porta all’evidenza. Il non-detto non è soltanto ciò cui è mancata l’espressione fonica, bensì il non-detto, il non ancora mostrato, il non ancora giunto a manifestarsi. Ciò che deve di necessità restare inespresso viene trattenuto nel non-detto, rimane – in quanto inattingibile a ogni mostrare – nel nascosto, è mistero. L’appello parla come un detto nel senso di un messaggio il cui parlare non ha bisogno di espressione fonica. Il parlare, in quanto dire, rientra nel profilo del linguaggio, profilo

15

Ivi, pp. 197-198.

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in cui si delineano modi del dire e del detto, nei quali ciò che è presente o assente si annuncia, si accorda o si nega: si mostra o si sottrae. Le linee del profilo del linguaggio sono date dal dire nella molteplicità delle sue figure e nella corrispettiva diversità del suo provenire. Relativamente a queste linee del dire, chiameremo il linguaggio nel suo insieme il Dire originario [die Sage], riconoscendo che fino a questo punto ciò che imprime unità a quelle linee non è ancora ravvisare» 16. Successivamente, Heidegger interroga proprio «ciò che imprime unità a quelle linee». In questo, Heidegger vede come il dire, in tutta la molteplicità delle linee e degli elementi che si coappartengono, sia un mostrare. A questo proposito, un po’ più avanti, dice: «Il Dire originario [Sage] è mostrare. In tutto ciò che ci volge la parola, che ci tocca come oggetto di parola o parola, che ci si accorda, che in quanto non-detto è in attesa di noi, non solo – ma in quello stesso parlare che noi veniamo mettendo in atto regna il mostrare: è in virtù di questo che ciò che è presente appare, ciò che è assente dispare. Il Dire originario non è affatto l’espressione linguistica, aggiunta in un secondo momento, di ciò che appare: vero è piuttosto che ogni cosa che appare e dispare poggia sul mostrare del Dire originario. […] Il Dire originario domina e compone in unità la libera distesa della radura [Lichtung] cui quanto appare deve – per disparire – allontanarsi, in cui è scritto che l’essere presente e l’essere assente – quale che sia il modo della presenza e dell’assenza – manifesti e dica a se stesso. Il Dire originario è la raccolta che unisce l’in sé molteplice apparire, il quale lascia esser presso di sé ciò che è mostrato» 17. L’appena citata «libera distesa della radura» è, secondo un altro passo heideggeriano, quella «ampiezza [Weite] nella quale terra e cielo, dio e uomo si raggiungono» 18, cioè si assicurano reciprocamente in molteplici modi. Heidegger chiama questi quattro, nel loro raccolto appartenere reciproco, la «quadratura», e con questo pensa il mondo. Il lin-

16 17 18

Ivi, pp. 198-199 (trad. modificata). Ivi, p. 202 (trad. modificata). Ivi, p. 166 (trad. modificata).

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guaggio in quanto linguaggio, cioè nell’intero del suo profilo, quest’ultimo determinato dal Dire originario che mostra, e questo in quanto Dire originario della libera ampiezza, nella quale si incontrano i quattro ambiti del mondo, è la stessa cosa che l’essenza del mondo, in cui ogni cosa è ciò che è. La «formula di viaggio» «Il linguaggio è linguaggio» intende riportare il linguaggio nella custodia di quella libera ampiezza, dalla quale ogni dire proviene e cui ogni Dire originario appartiene. Sul punto 3). Come terza parola-guida avevamo assunto la frase «Il linguaggio parla in quanto suono del silenzio». Ciò che queste parole dicono, se esperito adeguatamente, non si lascia più spiegare, giacché non vi è più nulla di ciò grazie a cui il «suono del silenzio» potrebbe essere fondato. Esso stesso è quell’abisso cui intende rimandare la frase «il linguaggio è linguaggio». In conclusione diamo ancora una piccola indicazione: questa frase appare lontanissima dalla nostra ovvia concezione secondo cui il linguaggio è parlato dagli uomini e grazie agli uomini, e soprattutto parla in quanto esternazione dell’uomo. E tuttavia cosa significa qui «parlare», e in che modo è l’uomo, se appartiene alla quadratura del mondo e se il parlare si determina dal Dire originario della quadratura del mondo? Già prima abbiamo ascoltato il pensiero di Heidegger secondo cui l’uomo parla soltanto nella misura in cui corrisponde al linguaggio attuale, e cioè corrisponde al regnare attuale del Dire originario. Corrispondere significa qui altrettanto che: prestare ascolto a, e poi, in un senso semplice ed essenziale: rispondere. Quindi tale pensiero innanzitutto dice: l’uomo parla soltanto prestando ascolto al Dire originario in quanto essenza del linguaggio, e a partire da questo ascolto anticipatore dice ciò che è da dire. Anche il tacere resta determinato dal tratto fondamentale del dire. Heidegger mostra, in parte già anche in Essere e tempo, che l’ascoltare non è soltanto l’opposto al parlare umano, ma anche come esso in quanto dire sia già in sé un ascoltare, come insomma l’ascoltare preceda in modo impercettibile il parlare dell’uomo, in quanto quell’aprirsi e restare aperto per ciò che è da dire, per ciò che si mostra e si sottrae, per ciò che è già determinato dal citato Dire originario in quan-

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to essenza del linguaggio. Soltanto a partire da questo ascolto o forse ascolto anticipatore del Dire originario che dispone e regna su ciò che è libero e ampio nella radura del mondo, l’uomo può, alla sua maniera, parlare. «Ha» il linguaggio nella misura in cui la sua essenza è abbandonata dalla libera ampiezza [die freie Weite] negli ambiti del mondo, a questo appartiene e, ascoltandolo, dice ciò che è proprio dell’uomo. L’aperta ampiezza e ciò che è libero nella radura che raccoglie il mondo non è questo o quell’ente, anzi, non è nulla di ontico, non è una cosa e neppure uno degli ambiti del mondo, uno dei quattro della quadratura. In quanto ciò che è disposto e regnato dal Dire originario che mostra, indica e lascia incontrare, così che vi è mondo, l’Aperto della libera ampiezza resta, nel modo più impercettibile, ciò che regge, sostiene e accorda anche il Dire originario stesso. In quanto Dire originario, il linguaggio parla in ciò che mostra, dà o trattiene, sempre già a partire dalla dimensione di quell’aperta ampiezza nella quale si incontrano vicendevolmente gli ambiti del mondo, senza che mai l’Aperto e il Libero della radura possa essere mostrato, e cioè detto, in quanto tale. Esso «è accasato» in quanto Dire originario iniziale, e cioè sempre inizialmente non-detto, che accade nel mondo, in quanto suono del silenzio. Il linguaggio in quanto Dire originario parla nel modo per cui riconduce già e sempre di nuovo lì, da dove proviene, tutto ciò che esso mostra e riporta reciprocamente all’altro. Il «suono del silenzio» nomina qualcosa di impensabile (e inconcepibile), fintantoché pensare significa soltanto e unicamente: rappresentare qualcosa, e fondarlo nella rappresentazione. Ma il «suono del silenzio» non è qualcosa di inaudibile e di inaudito per gli uomini, non appena essi si lascian determinare senza distrazioni ad abbandonarsi all’obbedienza della loro essenza. L’uomo non può mai portare questa essenza davanti a sé, a stargli contrapposta – ma può mettersi in cammino per giungere a essa; un tale cammino potrebbe essere per esempio quello chiamato da Heidegger con una ambiguità tutta da considerare, «cammino verso il linguaggio». Col suo stile unico e inimitabile, Heidegger indica un simile cammino, quando intende gli uomini in quanto «i

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mortali». Lui determina gli uomini in quanto quegli esseri che «sono capaci della morte in quanto morte». Essere capaci della morte in quanto morte significa: abitare nella manifestatività del nulla – ove quella «manifestatività» e questo «nulla» probabilmente non sono due cose diverse, bensì una e la stessa. Questa stessa altro non è tuttavia che «quell’ampiezza aperta e libera» della radura che lascia apparire raccolti i quattro ambiti del mondo senza però mai apparire essa stessa in quanto qualcosa, che in questo suo non-apparire è coprimento, e che è stata individuata come il luogo essenziale del Dire originario. In un’unica fuga [Fuge], difficile da concepire e tuttavia sempre presente e semplice, si coappartengono in quanto lo Stesso: l’essenza del linguaggio (il Dire originario), l’essenza del mondo (quadratura) e l’essenza degli uomini in quanto mortali, capaci della morte in quanto morte. Tale semplice fuga mostra in ciò che Heidegger si è disposto a pensare in quanto «l’essere» oppure «la verità dell’essere», e che chiama l’evento [Ereignis].

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UNA COSA PIÙ PROFONDA DA VITA E MORTE

Discorso commemorativo in occasione del 25. anniversario della morte di Martin Heidegger. Messkirch, 26 maggio 2001. Per Brigitte Buchner con gratitudine Molte volte sorprende chi appena vi ha pensato F. Hölderlin, L’emigrazione

Egregia famiglia Heidegger, egregi presenti e amici! Non aspettatevi che tessa qui lodi, né «un profluvio di elogi», come qualcuno una volta ha detto – nei confronti di un maestro così singolare sarebbe dopotutto soltanto presunzione. Ma non fate conto neppure con qualche storia edificante sull’essere – ciò sarebbe affatto inadeguato nei confronti di un uomo per il quale, nel corso di una lunga e singolare vita di pensiero, il discorso dell’essere è divenuto sempre più bisognoso di interrogazione. Vorrei invece ricordare la frase con la quale Heidegger iniziò nel 1950 a Bühlerhöhe la conferenza commemorativa dell’amico e collega Max Kommerell, prematuramente scomparso: «Come potrebbe una

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commemorazione riuscire meglio che facendoci pensare?». Noi dobbiamo essere molto più modesti e forse dire: che raccogliendo l’eredità del suo pensiero [Mitdenken e Nachdenken]? Uno spunto in questo senso vorrebbero darlo in occasione del 25. anniversario della morte le brevi considerazioni che seguono sull’importanza della morte e del morire nel pensiero di Martin Heidegger. Per iniziare ci serviamo di alcune parole con cui Martin Heidegger, nella conferenza degli anni 1959/60 Terra e cielo di Hölderlin, chiarisce la chiusa di un testo di Hölderlin giuntoci in modo singolare. Tale chiusa dice: «La vita è morte, e la morte è anche una vita» (Hell. VI, p. 27, verso 99). Al verso 49 della bozza della poesia Grecia, che Heidegger commenta in questa conferenza, si parla di «amore per la vita». E facendo seguito all’appena citato «La vita è morte, e la morte è anche una vita», Heidegger afferma apparentemente ex abrupto: Pertanto, ciò che al verso 49 viene chiamato «amore per la vita» custodisce qualcosa di più profondo. Nel suo giungere, la morte si dilegua. I mortali muoiono la morte nel corso della vita. Nella morte, i mortali divengono inmortali 1.

Per poter mettere a fuoco anche solo da lontano la dimensione a partire dalla quale Heidegger pensa in questi termini, c’è bisogno di richiamare l’analisi della morte di Essere e tempo – per così dire un punto cardinale e di rottura dell’intera trattazione, e poi il discorso di molto successivo sugli uomini in quanto mortali. Una cosa tuttavia si può già dire a partire da quanto è stato citato: se l’«amore per la vita» include la morte, allora ciò che qui è chiamato «vita» non può essere contemplato soltanto per la sua opposizione alla morte, allora la morte non può essere contemplata solamente in quanto conclusione della vita. Entrambi, vita e morte, si coappartengono a partire da qualcosa di «più profondo».

1 M. Heidegger, Hölderlins Erde und Himmel, in Hölderlin-Jahrbuch, vol. 11 (1958-1960), p. 27. Trad. a cura di L. Amoroso, La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano 1998, p. 198.

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La necessità di un’analisi della morte è motivata in Essere e tempo innanzitutto dalla struttura essenziale dell’Esserci, dalla maniera cioè in cui l’uomo è in grado di essere il suo -ci. Tale struttura essenziale si era rivelata essere la «cura», ovvero l’Esserci è l’unitaria coappartenenza dell’essere-avanti-a-sé (esistenza) nell’essere-già-presso (del mondo – fatticità) in quanto essere-presso (intramondano) l’ente che si incontra (deiezione). Semplificando: nell’avanti-a-sé l’Esserci è le sue possibilità, e la questione è se, come e quando l’Esserci, esistendo nelle sue possibilità e in quanto tali possibilità, è un tutto – per così dire nessuna possibilità può più giungere. L’Esserci esiste come intero soltanto nel momento in cui ha raggiunto la sua «ultima» possibilità. La morte incombe in modo insuperabile sull’Esserci in quanto tale ultima possibilità. Quando questo ha raggiunto tale possibilità – qualunque cosa ciò significhi – non è più. Decisivo è ora – senza che si possa purtroppo mostrarlo qui in dettaglio – che e come Heidegger non ponga l’uomo in quanto Esserci esistente come qualcosa di semplicemente presente cui accade questo e quello e cui molte cose possono succedere, persino la sua fine in quanto morte come, per così dire, ultimo elemento di un presunto costrutto vitale, bensì che la morte in quanto possibilità d’essere dell’Esserci si dischiuda solo nell’«essere-per-la-morte» in quanto possibilità estrema: L’Esserci, allo stesso modo che, fin che è, è già costantemente il suo «non-ancora», è anche già sempre la sua fine. Il finire inteso con la morte non significa affatto un essere alla fine dell’Esserci, ma un essere-per-la-fine da parte di questo ente. La morte è un modo di essere che l’Esserci assume da quando c’è. «L’uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire» 2.

Dell’«essere-per-la-morte» Essere e tempo fornisce nei relativi paragrafi – in particolare dal 46 al 53 – una fenomenologia pura, ovvero una messa in evidenza della cosa stessa, assieme ad una esibizione molto

2 Id., Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927, trad. di P. Chiodi Essere e tempo, Longanesi, Milano 1992, p. 300.

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convincente di ciò che a essa non appartiene ma che sempre si impone come apparentemente decisivo, sebbene spinga la cosa in altre dimensioni oppure la rimuova o nasconda. Mettendo Essere e tempo in evidenza tali tendenze al rimuovere e nascondere da parte dell’Esserci – preso nel suo innanzitutto e per lo più quotidiano –, procede passo passo verso il fenomeno puro. Tali tendenze al nascondere si ritrovano ovunque, per esempio in una concettualità inadeguata, nella quale si cerca di cogliere il fenomeno innanzitutto e per lo più, iniziando da un confuso e non approfondito concetto di «vita», e giungendo ad altrettanto poco approfonditi tentativi di avvicinarsi al fenomeno della morte con inadeguate rappresentazioni della fine quali cessare, ultimare, sparire e così via. All’interno della fenomenologia pura della morte, l’analitica esistenziale della morte si rivela come pre-ordinata sotto ogni punto di vista alle domande della biologia, psicologia, teodicea, teologia e così via 3. Il paragrafo 52, che tratta di «l’essere-per-la-fine quotidiano e il concetto esistenziale integrale della morte», mostra come la morte in quanto possibilità caratteristica «è sempre presente» 4, e precisamente in contrapposizione alle sue tendenze al rimuovere e nascondere ciò che per l’Esserci è in maniera autentica. Questo autentico essere per la morte in quanto una, anzi la possibilità caratteristica dell’Esserci, porta la morte ad apparire, nell’«anticipazione della morte», come «… la possibilità dell’Esserci più propria, incondizionata, certa e come tale indeterminata e insuperabile» 5, come «… la possibilità dell’incommensurabile impossibilità dell’esistenza» 6, e come possibilità non presente per l’Esserci in quanto semplicemente l’ultima a venire, bensì quella che dischiude sin dall’inizio, in quanto possibilità di possibilità fattuali, l’Esserci nella sua anticipazione, nella sua esistenza. Così, la morte, in quanto possibilità, assume un ruolo centrale nella questione della possibilità

3 4 5 6

Cfr. ivi, p. 304. Ivi, p. 311. Ivi, p. 315. Ivi, p. 319.

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della comprensione dell’essere. Con la fenomenologia pura della morte e del morire si apre una dimensione totalmente altra, che inizia a far saltare i concetti tradizionali dell’essere. Per poter intuire qualcosa della scottante attualità e del rigore di questa fenomenologia pura della morte – l’unica che vi sia ad oggi – mi si consenta di citare un passo un poco più lungo tratto dal paragrafo 53 di Essere e tempo, che ha come titolo «Progetto esistenziale di un essereper-la-morte autentico»; questo restituisce infatti, meglio di qualsiasi benintenzionata e nei suoi limiti anche legittima biografia, qualcosa di chi Martin Heidegger stesso era – infatti lui per primo ha sempre di nuovo realizzato ciò che dice qui. Allo stesso tempo questo passo contiene una prima risposta alla questione del poter-essere-un-intero dell’Esserci: La possibilità più propria e incondizionata è insuperabile. L’esser-per questa possibilità fa comprendere all’Esserci che su di esso incombe, come estrema possibilità della sua esistenza, la rinuncia a se stesso. L’anticipazione non evade l’insuperabilità come fa l’essere-per-la-morte inautentico, ma, al contrario, si rende libera per essa. L’anticipante farsi libero per la propria morte affranca dalla dispersione nelle possibilità che si presentano casualmente, di guisa che le possibilità effettive, cioè situate al di qua di quella insuperabile, possono essere comprese e scelte autenticamente. L’anticipazione dischiude all’esistenza, come sua estrema possibilità, la rinuncia a se stessa, dissolvendo in tal modo ogni solidificazione su posizioni esistenziali raggiunte. Anticipandosi, l’Esserci si garantisce dal cadere dietro a se stesso e alle spalle del poter-essere già compreso, e dal divenire «troppo vecchio per le sue vittorie» (Nietzsche). Libero per le possibilità più proprie e determinate dalla fine, cioè comprese come finite, l’Esserci sfugge al pericolo di disconoscere, a causa della comprensione finita propria dell’esistenza, le possibilità esistenziali degli altri che lo superano; oppure, misconoscendole, di ricondurle alle proprie, per sfuggire così alla singolarità assoluta della propria effettiva esistenza. Come possibilità insuperabile, la morte isola l’Esserci, ma solo per renderlo, in questa insuperabilità, consapevole del poter-essere degli altri che ci con-sono. Poiché l’anticipazione della possibilità insuperabile apre nel contempo alla comprensione delle possibilità situate al di qua di essa, essa porta con sé la possibilità dell’anticipazione esistentiva dell’Esserci intero, cioè la possibilità di esistere concretamente come poter-essere intero 7.

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Ivi, pp. 320-321.

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Nei due capitoli successivi di Essere e tempo (dal paragrafo 54 sino al 66), l’anticipazione della morte nella sua interezza e autenticità si compie in direzione della «decisione anticipatrice», che non deve essere fraintesa in senso decisionistico, ma che piuttosto ha lo sguardo rivolto innanzitutto verso l’estrema apertura 8 dell’uomo per il Ci abissale del suo poter-essere più proprio – cosa questa indispensabile per lo svolgimento della cosiddetta questione dell’essere. In seguito, nella versione dell’«Origine dell’opera d’arte» contenuta in Sentieri interrotti, si dirà: La «decisione» [Ent-schlossenheit] di cui si parla in Essere e tempo non è il semplice atto di decidere da parte di un soggetto, ma è il passaggio dell’Esserci dall’imprigionamento nell’ente all’apertura dell’essere 9.

Prima della seconda indicazione, cioè quella del discorso degli uomini in quanto mortali, è opportuna una osservazione intermedia: sebbene contenga piccole ma importanti annotazioni sul tema «essere-perla-morte» e «esser-ci ed esser-via», con questa seconda indicazione noi saltiamo, con una eccezione, l’opera principale della fase mediana del pensiero di Heidegger, i Beiträge zur Philosophie (i Contributi alla filosofia) scritti nella seconda metà degli anni Trenta. In un certo senso saltiamo il mutamento della questione fondamentale heideggeriana dalla questione del senso dell’essere alla questione della verità dell’essere assieme alla questione dell’essere, dell’essenza della verità 10. L’eccezione è costituita da una nota dei Beiträge sul significato dell’«essere-per-la-mor-

8 Dal Glossario in appendice all’edizione di Essere e tempo citata (p. 543): «Non deve sfuggire la parentela fra Entschlossenheit [decisione] ed Erschlossenheit (Apertura)». Entrambe le parole contengono il verbo schliessen, chiudere, così che, propriamente, l’Erschlossenheit, così come l’Aufgeschlossenheit cui si fa riferimento qui, contengono in tedesco un riferimento alla dimensione di chiusura che la parola italiana apertura non restituisce. [N.d.T.] 9 M. Heidegger, Holzwege (1950), p. 55. Trad. di P. Chiodi, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 53. 10 A questo proposito rinviamo al lavoro di Christian Müller Der Tod als Wandlungsmitte. Zur Frage nach Entscheidung, Tod und letztem Gott in Heideggers «Beiträge zur Philosophie», Duncker & Humbolt, Berlin 1999. Una monografia intelligente e di ampio respiro della scuola friburghese di Von Herrmann.

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te» per il pensiero. Deve bastare qui una citazione parziale da «L’essere per la morte». Heidegger si difende qui, attorno al 1937/38, dalla critica di un presunto nichilismo della sua analitica della morte, e dice: Ma non bisogna nemmeno dissolvere l’uomo nella morte e dichiararlo una mera nientità, bensì al contrario: includere la morte nell’esser-ci per dominarlo nella sua ampiezza abissale e misurare così appieno il fondamento della verità dell’essere [Seyn].

E poi: Non c’è bisogno che tutti attuino però questo essere [Seyn] per la morte e assumano il sé dell’esser-ci in tale autenticità: questa attuazione è piuttosto necessaria solo nell’orizzonte del compito della posizione del fondamento [Grund-legung] della domanda sull’Essere [Seyn], un compito che non resta certo limitato alla filosofia. L’attuazione dell’essere per la morte è un obbligo solo per i pensatori dell’altro inizio, ma ogni uomo essenziale, tra coloro che in futuro saranno creativi, può esserne a conoscenza. L’essere per la morte non sarebbe colto nella sua essenzialità se non desse agli eruditi in filosofia l’occasione per squallidi motteggi e ai giornalisti il diritto di dirsene saputi 11.

Passiamo ora alla seconda indicazione. Attorno alla metà degli anni Quaranta, dopo il 1945, Martin Heidegger comincia il lavoro preliminare per una grande opera o parte di essa, che tra gli altri avrebbe dovuto avere il titolo di Il sentiero di campagna. Qualcosa come un «estratto» autosufficiente di quest’opera, incompiuta ma presente in dettagliati lavori preliminari, sono in qualche modo quelle conferenze che furono tenute inizialmente alla fine degli anni Quaranta col titolo di Sguardo in ciò che è: La cosa – L’imposizione – Il pericolo – La svolta 12. In modo completo, tali conferenze sono state pubblicate per la prima volta solo nel 1994 nel volume 79 della Gesamtausgabe, per di più in una versione determi-

11 M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (1989), p. 285. Trad. a cura di F. Volpi, Contributi alla filosofia, Adelphi, Milano 2007, p. 285. 12 Einblick in das, was ist – Das Ding – Das Gestell – Die Gefahr – Die Kehre.

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nata; ulteriori versioni di La cosa, L’imposizione e La svolta erano già state pubblicate da Heidegger stesso in altre occasioni. Nel cosiddetto Ding-Vortrag, la conferenza sulla Cosa del 1950 apparsa dapprima nel 1950 e poi nel 1954 pubblicata all’interno di Saggi e discorsi, Heidegger parla – per quanto mi è dato di sapere – per la prima volta in pubblico esplicitamente, in modo determinato e per così dire «definitorio» degli uomini come mortali. Questa conferenza contiene tra l’altro un progetto di ciò che Heidegger ora pensa come «mondo». «Mondo» è la concorde reciprocità di cielo e terra, divini (celesti) e mortali, chiamati i quattro ambiti del mondo. A questa quadratura del mondo [Weltgeviert] appartengono dunque «i mortali». Si chiamano così perché, come dice Heidegger, «… possono morire. Morire significa essere capaci della morte in quanto morte» 13. In quanto mortali, cioè coloro che sono capaci della morte in quanto morte, gli uomini sono traspropriati al mondo nel senso della quadratura, e soltanto in quanto i così traspropriati sono propriamente capaci di essere i mortali. Heidegger espone in dettaglio come, in quale maniera essi siano capaci di questo. Per noi si tratta innanzitutto di chiedere cosa significa: essere capaci della morte in quanto morte. Cosa indica questo in quanto? Per dirlo nella terminologia di Essere e tempo, non è né un in quanto apofantico, né uno ermeneutico. Heidegger ha detto una volta che vi sarebbe anche un in quanto «liberante». Allora i mortali sarebbero coloro che sono capaci di liberare la morte alla sua essenza. E cosa sarebbe la morte liberata alla sua essenza? Detto in breve, ma anche in modo aperto a insidie e fraintendimenti: la pura rivelazione del nulla – ove naturalmente il «nulla» non sarebbe l’oggetto della manifestazione, ma la rivelazione stessa, la quale è in sé, in quanto «nulla», puro nascondimento. Va in questa direzione la determinazione della morte, contenuta nella conferenza sulla Cosa, in quanto «più alto riparo dell’essere» e allo stesso tempo in quanto «scrigno dell’essere» 14. Come

13 14

Ivi, p. 119. Ibid.

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esperienza di tale pura rivelazione, ciò che inizialmente era stato designato come «anticipazione della morte» dovrebbe ora essere ripensato. Ciò che rivelazione significa qui, lo conosciamo da numerose locuzioni heideggeriane: la svelatezza (Ωl¸ueia), la radura – che è radura per il nascondersi, il Ci, la vastità libera e aperta, l’Aperto, l’Apertura, la verità dell’essere, il Vuoto, la contrata, la contrada dell’inclinazione, e altre ancora. Parole fondamentali dunque di un regno pressoché inesauribile e incommensurabile. Ne L’origine dell’opera d’arte – nella versione del 1949 di Sentieri interrotti, che sviluppa un concetto del mondo diverso da quello successivo della quadratura – si dice, contro la sempre dominante concezione per cui vi sarebbe soltanto l’ente e l’ente nel suo tutto, e nient’altro: Ma tuttavia, al di là dell’ente, ma non via da esso, anzi in cospetto di esso, qui si rivela un Altro. Nel mezzo dell’ente nel suo tutto, domina [west] un luogo aperto. C’è [ist] una radura. Questa, pensata a partire dall’ente, è più essente di ogni ente. Questo Centro aperto non è circondato dall’ente; al contrario, è questo Centro che – come il nulla, noto a malapena – circonda ogni ente 15.

Nel corso del suo decennale soliloquio con Hölderlin, Heidegger parla di questo Centro anche nella conferenza Terra e cielo di Hölderlin. Riflettendo sulle parole di Hölderlin nella bozza di poesia Grecia, si parla lì delle voci del destino che risuonano, che Heidegger intende come destino, cioè l’invio [Schickung] del mondo nel senso della quadratura. In quanto voci del destino, cielo e terra, i celesti e gli uomini – ovvero i mortali, risuonano ciascuno a suo modo. Ciò che Hölderlin chiama «il tenue rapporto infinito» viene ulteriormente pensato come il rapporto tra questi quattro ambiti del mondo: in-finito perché «… i suoi estremi e i suoi lati, gli ambiti del rapporto, non stanno per conto loro separati e unilaterali, ma invece, sollevati dalla loro unilateralità e finitezza, si coappartengono in modo in-finito nel rapporto che li tiene assieme a partire dal Centro in modo continuo» 16. Anche i celesti (divini)

15 16

Id., Sentieri interrotti, cit., p. 38. Id., La poesia di Hölderlin, cit., p. 25.

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sono, a loro modo, sottoposti al destino, appartengono alla quadratura in quanto uno dei quattro. Il Centro del rapporto infinito è quello stesso Centro di cui parla Heidegger nel testo sull’origine dell’opera d’arte, e che regna [waltet] per i mortali in quanto la pura manifestazione del nulla, lo Stesso di radura e nascondimento. Secondo un’altra poesia di Hölderlin, Mnemosyne, possiamo, anzi dobbiamo vedere questo Centro del rapporto infinito come ciò che viene lì chiamato «l’abisso». Nei versi dal 14 al 19 si dice: … non tutto possono i Celesti. Prima i mortali raggiungono l’abisso. Si volge così l’eco insieme a loro. Lungo è il tempo ma il vero avviene 17.

Sino a questo Centro, sino a questo abisso giungono coloro che sono capaci di morire, ovvero della morte in quanto morte. Anche questi versi, probabilmente, sono stati per Heidegger uno stimolo per trovare, a metà degli anni Trenta, la parola «evento» (Ereignis). «Evento» non sarebbe allora soltanto la parola fondamentale, ma anche la parola abissale – da usarsi pertanto con estrema prudenza, esitazione e riflessione. E ancora: essere i mortali in e in quanto «essere per la morte», diviene allora per Heidegger il nome principale degli esseri umani. Si tratta dunque di mettere in moto e di mantenersi in un pensiero che rende possibile agli esseri umani sin dall’inizio il morire, cioè l’imparare a morire, e dunque di farsi carico di questo Uno e lo Stesso, dunque dell’espropriazione [Enteignis] nell’evento[Ereignis], dell’evento nell’espropriazione. Tale imparare, il render possibile tale imparare e pensare, è sempre più messo in pericolo da ciò che Heidegger in Sguardo in ciò che è chiama il pericolo, che regna nell’essenza della

17 F. Hölderlin, «Mnemosyne». Trad. a cura di E. Mandruzzato, in F. Hölderlin, Le liriche, Adelphi, Milano 1977, p. 695.

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tecnica e, in quanto essenza della tecnica, nel Gestell, e ha la stessa provenienza, proviene cioè anch’esso dal Centro. Questo non può essere discusso qui – vi rimando espressamente a quei passi nei quali viene trattato il rifiuto del poter morire 18. Io non so se Heidegger, all’inizio del passo sulla morte e il morire citato da Terra e cielo di Hölderlin parli in modo un po’ più comprensibile. E cosa significherebbe qui «comprendere»? Non potrebbe significare, rispetto a una questione sotto ogni punto di vista così singolare: divenire più enigmatico e bisognoso di pensiero? Il passo dice: Pertanto, … [l’] «amore per la vita» custodisce qualcosa di più profondo. Nel suo giungere, la morte vien meno. I mortali muoiono la morte nel corso della vita. Nella morte, i mortali divengono in-mortali.

Nello stile di Heidegger – cui bisogna prestare assolutamente attenzione – «divengono in-mortali» significa qui in primo luogo: perdere il poter morire, vivere una vita nel senso dell’«amore per la vita», liberarsi dal «fardello dell’Esserci», o, come ben dice un antico modo di dire: passare ad altra vita – naturalmente non «a favore» di una eternità o aldilà pensata in modo puramente ontico oppure lasciata impensata. Le parole di Heidegger potrebbero anche essere un segreto conforto nel commiato da una persona amata, una persona di «amore per la vita», che ci lascia o ci ha lasciato. Prima di concludere, anche per poter riportare una parola di saluto dal Giappone, lasciamo ancora una volta la parola a Martin Heidegger. Si tratta di una annotazione del 1947 tratta dalle già citate bozze per Il sentiero di campagna, che riassume tutto quanto detto e lo lascia aperto: Se noi per una volta non pensiamo l’uomo come essere vivente [Lebewesen] ma come essere della morte [Todes-Wesen], cioè umano, se noi seguiamo questo umano nella sua essenza e facciamo esperienza dell’uomo mortale, giungiamo in un ambito in cui, pensando l’essenza umana, abbiamo inevita-

18

HGA vol. 79, p. 56 e sg.

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bilmente già pensato l’essere. L’essenza umana dell’uomo, non l’uomo in quanto essere vivente, è l’essere.

I mortali; la parola nomina l’uomo, nella misura in cui la sua essenza viene esperita a partire dall’essenza della morte e cioè dall’espropriazione[Enteignis] nell’evento[Ereignis]… La parola di saluto da Kyôto è giunta pochi giorni fa al telefono dal professor Kôichi Tsujimura. Mi ha pregato, ove possibile, di trasmettere in occasione di questa commemorazione una breve poesia del grande poeta giapponese di haiku Matsuo Bashô (1644-1694). L’amico Tsujimura negli anni ’50 usava spesso parlare di Bashô con Heidegger a Friburgo; lui vede, se capisco bene, una segreta parentela nel modo in cui Bashô e Heidegger hanno percorso ed esperito il loro cammino. Tradotto, l’haiku di Bashô recita: Questa strada! Non un viandante – Sera d’autunno. Nella versione romaji: kono michi ya yuku-hito nashi ni aki no kure

Il titolo giapponese dell’haiku è: shoshi, qualcosa come: pensato.

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NATURA E DESTINO DI MONDO

I Innanzitutto vorrei dire alcune parole sull’argomento del nostro convegno, che nel sottotitolo esplicativo suona: «I compiti della storia della filosofia dopo [nach] Martin Heidegger». Il dopo mi sembra essere qui di una ambiguità estrema: da un lato, inteso in modo puramente storico nel senso del latino post, dall’altro nel senso di in accordo con, in riferimento a, riguardo a, in latino secundum. Ora è così, che Heidegger stesso ha messo in questione in maniera così sostanziale e ampia la storia della filosofia e ciò che ci è stato tramandato come filosofia, che dovrebbero appena esser definiti e fondati in maniera adeguata il senso, la portata e i limiti di una storiografia filosofica che si intenda a partire da lui. Io non credo che ciò sia già accaduto in modo soddisfacente nei tentativi già realizzati di filosofia ermeneutica, di concezioni decostruttivistiche oppure di quel patchworkpensiero che si autodefinisce «postmoderno». Per quanto alcuni di questi tentativi possano essere seri e dotti – ed è di grande importanza che essi vengano intrapresi –, altrettanto non si riesce a liberarsi dall’impressione che questi sempre di nuovo stendano un velo sull’in sé inesauribilmente ricca cosa del pensiero heideggeriano, che la strappino al suo luogo naturale, e che conducano proprio a ciò contro cui Heidegger ha mostrato la necessità di una distruzione, da lui sempre di nuovo esercitata nel corso della sua intera vita di pensiero: a una ipostatizza-

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zione e fissazione di genuine esperienze e vie di pensiero in un fondo di tradizioni storiche, e cioè al suo sradicamento o affossamento o comunque lo si voglia chiamare. Ciò che secondo me ancora oggi importa in una tale situazione, e cioè nei confronti di Heidegger, sarebbe questo: –



– –





pensare a fondo le questioni fondamentali poste da Heidegger, per nulla comprensibili nell’immediato e sino a oggi ampiamente incomprese, e apprendere un modo adeguato dell’interrogazione. innanzitutto lasciar giungere e tenere aperti nel loro fondamentale carattere di passaggio – con la serietà e costanza necessarie e l’opportuna modestia – gli orizzonti di pensiero epocali dischiusi da Heidegger e le indicazioni destinali in essi incluse. prender atto e tener ferma la multidimensionalità e complessità del pensiero heideggeriano. non lasciarsi distogliere dall’esperienza e conoscenza secondo cui la singolarità e unicità epocale del pensiero di Heidegger sempre di nuovo e in misura crescente si ritira dietro a un senso di gran sconcerto e, se posso esprimermi così, di intoccabile enigmaticità. riconoscere che questo pensiero stesso è un evento che non si lascia ri-fare [nachmachen] perché non si lascia fare [machen], ragion per cui non si può giammai venirne a capo [fertig werden]; probabilmente anche questo è uno dei motivi per cui alcuni cervelli non- o semi-filosofici si sono ora specializzati nel farla finita [fertig machen] con Heidegger; e infine chiedersi sempre di nuovo se ciò che noi intendiamo con «capire», e che perseguiamo come «comprensione» in tentativi storico-filosofici di rielaborazione, sia adatto e sufficiente per incontrare in modo adeguato un pensiero come quello heideggeriano.

Che poi Heidegger non ci renda le cose facili proprio anche rispetto ai temi storico-filosofici dominanti – interessi che forse un giorno cambieranno grazie a lui – ce lo mostra un passo della seconda metà degli anni Trenta, col quale questa premessa – anche tutto ciò che segue resta di necessità premessa – si conclude:

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L’attuazione della domanda dell’essere non ammette imitazioni. Qui le necessarietà del cammino si danno rispettivamente nella storia in quanto uniche. Che esse da un punto di vista «storiografico», appaiono «nuove» e «originali», non può qui in alcun modo orientare il giudizio. La padronanza storica della storia del pensiero occidentale diventa sempre più essenziale, e la diffusione di un’erudizione filosofica «storiografica» o «sistematica» sempre più impossibile. Infatti ciò che occorre non è far conoscere nuove rappresentazioni dell’ente, bensì fondare l’essere umano [das Menschsein] nella verità dell’essere, e preparare tale fondazione nel pensiero che raggiunge l’Essere e l’esserci 1.

L’ultimo capoverso, inoltre, formula proprio il compito centrale dei Beiträge zur Philosophie, i «contributi alla filosofia» del anni 1936-1938/39. II Il tema di questa relazione è: Natura e destino di mondo; dovrebbe forse chiamarsi, in modo un po’ più comprensibile: La natura – e il destino di mondo. Per scelta, non vorrei svolgere questo argomento a mo’ di saggio, bensì, se possibile, far sì che l’occuparmi di questo sia già una parte del dialogo tedesco-giapponese, tenendo d’occhio cioè la situazione del dialogo in quanto tale. Perché, tra gli altri, è stato scelto questo tema per un convegno tedesco-giapponese su Heidegger, e cosa ha a che fare con qualcosa come «distruzione», «traduzione» e «tradizione»? Detto apertamente: immediatamente e a prima vista non molto. Mi si permettano tuttavia quattro indicazioni: 1) Il tema scelto ha qualcosa a che fare con la situazione del mondo, nella quale e in quanto la quale noi siamo, con ciò che Heidegger chiama il «planetario» e riguardo cui noi, che ci piaccia o no, parliamo allora tra l’altro anche di distruzione, traduzione e tradizione. Io sono convinto che noi non possiamo corrispondere a e venire a capo della pretesa heideggeriana di un «esercizio del pensiero planetario» 2 con i mezzi e metodi

1 2

M. Heidegger, Contributi alla filosofia, cit., pp. 107-108. Id., Segnavia, cit., p. 372.

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dello sguardo della storia della filosofia. La questione sarebbe allora: quale forma dovrebbe assumere uno sguardo della storia della filosofia il quale vuol essere nelle condizioni di concorrere e contribuire all’esercizio del pensiero planetario? Quale distruzione sarebbe inizialmente necessario operare, per esempio dei metodi, dei punti di vista, delle questioni e degli apparati concettuali delle scienze umane – da operare proprio anche per non lasciar morire nuovamente, all’improvviso, il progetto heideggeriano di mondo e destino, il suo interrogare e dire in generale, negli schemi tradizionali delle scienze umane e dunque renderlo innocuo? 2) Quando si parla della «natura» e del «destino di mondo», si potrebbe intenderlo nel senso del patrimonio tradizionale della metafisica moderna, dunque nel senso della contrapposizione di due ambiti dell’ente, «natura» e «storia», o nel senso dell’antica distinzione metafisica di «natura» e «mondo degli uomini» nelle sue molteplici caratterizzazioni e variazioni epocali – come se si trattasse allora di indagare la variante heideggeriana di questa tradizione. Ma non è questo il caso; Heidegger infatti si sottrae, con la sua questione sul senso dell’essere, molto presto a questa tradizionale distinzione. Già nelle lezioni sulla storia del concetto di tempo del 1925, pubblicate postume nel 1979 con il titolo di Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, si dice subito all’inizio, parlando di natura e storia in quanto ambiti delle scienze oggettive: Noi intendiamo evidenziare storia e natura in tal maniera, che le vediamo prima dell’elaborazione scientifica, che vediamo entrambe le realtà nella loro realtà. Questo significa tuttavia: ottenere un orizzonte sul quale poi storia e natura possono esser fatte risaltare. Questo stesso orizzonte deve essere un campo di situazioni [Sachbestände] su cui storia e natura risaltano. I Prolegomena per una fenomenologia di storia e natura trattano dello scoprimento di questo terreno. Sul cammino di una Storia del concetto di tempo cerchiamo di intraprendere tale compito di scoprimento dei fatti [Tatbestände] che sono prima di storia e natura e dalle quali queste ottengono il loro essere 3.

3 Id., Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, HGA vol. 20, p. 7. Trad. di R. Cristin e A. Marini, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, il Melangolo, Genova, 1992. Vedi anche il passo di una lettera di Heidegger a Löwith del 20 agosto 1927: «La “natura” dell’uomo non è qualcosa di per sè, e attaccata all’anima. La questione è: vi è la pos-

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Ciò che segue nella parte principale di queste lezioni, è una «bozza» di Essere e tempo, sino all’analitica della morte e della coscienza, un’analitica dunque dell’Esserci in quanto essere-nel-mondo e della sua temporalità – da intendersi insomma come «l’elaborazione di un orizzonte, a partire dal quale storia e natura possono esser fatte risaltare». Se Heidegger, detto in modo impreciso, determina questo orizzonte in quanto «temporalità» o «tempo» per poi, almeno secondo il programma originario, lasciarlo scaturire dalla «temporalità» in quanto il senso dell’essere che è stato trovato, allora si perde l’intenzione dell’intero approccio se, senza riflettere, si affrontano e fissano la storia e la storicità fondate sulla temporalità nuovamente a partire dal patrimonio della tradizione ontologica, per quanto mutata, della distinzione tra natura e storia, tra natura e mondo degli uomini. 3) C’è un ulteriore aspetto, assai serio, attuale e scottante, della trattazione di natura e destino di mondo. Intendo ciò che negli ultimi anni è stato chiamato la «suggestione ecologista» del pensiero heideggeriano, in particolare di quello tardo, e che sempre più viene messo in risalto 4. C’è sicuramente qualcosa di giusto in ciò, resta tuttavia pensato in modo insufficiente e, come forse si mostrerà in seguito, questo sbaglia nel punto decisivo. Il già citato accenno heideggeriano a una dimensione precedente alla tradizionale e per noi divenuta così ovvia di-

sibilità di ottenere una simile linea fondamentale o linea guida per l’interpretazione concettuale dell’Esserci a partire dalla natura, oppure dallo “spirito” – o da nessuno dei due –, bensì originariamente a partire dall’intero della costituzione d’essere, in cui, con un intento concettuale, l’esistenziale ha un primato per la possibilità dell’ontologia in generale. Infatti, l’interpretazione antropologica è realizzabile ontologicamente solo sul fondamento di una chiarificata problematica ontologica in generale». Citato in: K. Löwith, Zu Heideggers Seinsfrage: die Natur der Menschen und die Welt der Natur (Sämtliche Schriften vol. 8), Stuttgart 1984, p. 280. Rispetto alla concezione di Löwith, che emerge anche qui, per cui l’approccio heideggeriano tralascia o quantomeno non considera a sufficienza «la natura – attorno a noi e in noi», resta da chiedersi se Löwith abbia mai considerato in modo adeguato la portata e la provenienza della questione heideggeriana del senso, della verità dell’essere. 4 Cfr. soprattutto il saggio Ökologische Sensibilität in der Spätphilosophie Heideggers, contenuto nel valido libro di Kah Kyung Cho, Bewusstsein und Natursein – Phenomenologischer West-Ost-Divan, Freiburg/München 1987, pp. 32-67.

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stinzione tra natura e storia, tra natura e mondo degli uomini e così via dovrebbe imporci quanto meno la massima cautela e riserva di fronte a un utilizzo, affrettato a causa delle gravi pressioni, delle affermazioni e pensieri heideggeriani in favore del cosiddetto movimento ecologista. Lo stesso Heidegger, a 82 anni, in una lettera del 22 febbraio 1971 all’amico conte Podewils, allora segretario generale dell’Accademia bavarese di belle arti, accenna in modo brusco e secco a quale sia l’ambito all’interno del quale bisognerebbe pensare i problemi che necessitano del nostro agire e che soltanto in modo superficiale posso essere chiamati «ecologici»: «A che serve la tutela dell’ambiente, se per l’uomo sorge l’assenza di mondo, e tutto viene livellato per la disponibilità di tutto per tutti, e ciascuno si affretta per prender parte a questo inquietante processo?» 5. «Assenza di mondo» – questo deve esser visto nella direzione del già citato elemento planetario! Bisognerebbe inoltre chiedersi se – per quanto urgente essa ovviamente sia – una tutela dell’ambiente che resta presa nella «disponibilità» possa portare nel Libero del mondo. Resta inoltre da chiedersi se tutte le urgenti, serie e benintenzionate strategie di sopravvivenza hanno una chance, nel momento in cui restano cieche rispetto a ciò che Heidegger chiama il «destino di mondo», e che costituisce l’autentico evento dell’essere umano. È poi prima di tutto da notare come anche ciò che Heidegger chiama «assenza di mondo» appartenga al «destino di mondo». 4) Un impulso a porre il tema «La natura e il destino di mondo» al centro del nostro convegno giunge infine dal fatto che questo è un convegno tedesco-giapponese su Heidegger. Non c’è un colloquio con amici filosofi giapponesi sul pensiero heideggeriano e sulla sua proiezione planetaria, senza che da parte giapponese non si introduca nel discorso il significato di «natura» in Giappone, ovvero come venga tradotta in giapponese la nostra parola, fondamentale dal punto di vista metafisico, «natura»: shizen o zinen, anche se questa sembra indicare qualcosa di

5 Lettera pubblicata in Ensemble 10. Internationales Jahrbuch für Literatur, pubblicazione della Bayerische Akademie der schönen Künste, München 1979, p. 205.

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molto diverso dalla «natura» della tradizione filosofica occidental-europea. Per il nostro colloquio potrebbe essere importante e utile esperirne qualcosa, proprio in ragione del fatto che io vedo un pericolo reale, e per questo anche fecondo, nell’opporre alla storicità o «destino» heideggeriani questo cosiddetto concetto giapponese di natura, o meglio esperienza della natura, a partire dalla tradizione metafisica della distinzione di natura e storia, natura e mondo degli uomini e così via, distinzione cui Heidegger stesso tenta di sottrarsi. Forse, ciò che Heidegger chiama «destino» [Geschick] è qualcosa di affatto astorico, se commisurato alla rappresentazione tradizionale di accadere [Geschehen] e storia [Geschichte]. Heidegger non intende il «destino» a partire dall’accadere e dalla storia, «destino» indica per lui piuttosto qualcosa come assegnazione [Zuweisung], destinamento [Zuschickung], invio [Schickung], ma anche questo non nel senso di fatum, sorte [Schicksal]. Kôichi Tsujimura, che oggi purtroppo non può essere tra noi, e che, non solo per il Giappone, è penetrato nel pensiero heideggeriano al massimo della profondità e dunque dell’erranza, nel suo discorso celebrativo per l’ottantesimo compleanno di Heidegger Il pensiero di Martin Heidegger e la filosofia giapponese 6 ha parlato anche di quell’esperienza giapponese della «natura» nel contesto del morire nel Giappone antico. Tsujimura pone in risalto una profonda divergenza tra la tradizione spirituale del Giappone antico da un lato, e dall’altro una vita determinata da una tradizione spirituale europea e da scienza e tecnica europee, ovvero, secondo Heidegger, dalla volontà per la volontà. Tsujimura scrive: Questo ora non significa naturalmente che noi giapponesi non abbiamo alcuna volontà, ma dice che la natura regna al fondo della volontà. La volontà nasce nel primo e ultimo fondamento dalla natura, e sparirà nella natura, la quale natura si sottrae a ogni oggettivazione scientifica, è tuttavia sempre presente ovunque. Natura, in giapponese shizen o zinen, significa: essere come è da se stesso – in breve: esser se stesso ed essere-vero. Per questo la «natura» in

6 Il testo del discorso di Tsujimura è presente nella seconda parte del presente volume. [N.d.C.]

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giapponese antico significava quasi lo stesso che «libertà» e «verità». Tale visione della natura è stata approfondita dalla «concezione buddista della finitezza e del vuoto» di tutte le cose 7.

Bisogna chiedere qui: se la parola tradizionale giapponese per «natura» significa quasi lo stesso che esser se stesso, libertà e verità, dove giunge quando funge da traduzione per la «natura» pensata in modo occidental-metafisico? Certo anche il fªsei øn pensato in maniera aristotelica significa qualcosa che sorge ed è presente da se stesso, ma qui il «da se stesso» è già pensato a partire dalla distinzione con il t™xnh øn, è insomma in qualche modo già pensato a partire dall’orizzonte della t™xnh. – Con questa indicazione intendo interrompere la seconda premessa. III Nelle due parti che seguono bisogna tentare di giungere un po’ più vicino alla tematica «La natura e il destino di mondo», ovvero all’intenzione in essa contenuta. Vorrei innanzitutto presentare, come indicatore di direzione, un breve passo dall’opus magnum heideggeriano intitolato Beiträge zur Philosophie, i Contributi alla filosofia, della seconda metà degli anni Trenta (1936-1938/39), che per struttura letteraria è stato paragonato sicuramente a ragione con La volontà di potenza di Nietzsche; il fatto che sia preannunciato nella HGA come un «trattato» è foriero di gravi incomprensioni. Otto Pöggeler ha abbozzato più volte il progetto dell’opera, che apparirà a breve per la prima volta nell’ambito della HGA 8. I Beiträge nel loro complesso si intendono come necessaria preparazione del passaggio del primo inizio del pensiero occidentale verso il suo altro inizio, cosa che tuttavia non può essere presa e compresa in senso storico, bensì piuttosto così che il primo e l’al-

7

Cfr. infra, p. 95. Cfr. O. Pöggeler, Der Denkweg Martin Heideggers (1963), pp. 144 e sgg. Trad. di G. Varnier, Il cammino di pensiero di Martin Heidegger, Guida, Napoli 1991, p. 181. 8

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tro inizio sorgono proprio dal centro più interno del loro coappartenersi ed esser distinti. Lascio per ora in sospeso la questione se i Beiträge costituiscano l’autentica e decisiva opera di Heidegger – molto presto la si intenderà sicuramente così. Conosco i Beiträge già da molti anni, e preferisco considerare quest’opera del periodo intermedio di Heidegger come un «segnavia», seppur eccezionale, del cammino heideggeriano di pensiero, un cammino che, considerata la multidimensionalità della cosa del suo pensiero, muta profondamente anche successivamente a quest’opera. I Beiträge sono disposti secondo le seguenti sezioni principali: la risonanza, il gioco del passaggio, il salto, la fondazione, i Futuri, l’ultimo dio. Prima di queste sezioni principali vi sono ancora una breve premessa e una lunga sezione «Sguardo anticipatore». Poi vi è (nel dattiloscritto a mia disposizione) ancora una lunga sezione «L’Essere» [das Seyn], della quale si dice che tenta ancora di afferrare il contenuto complessivo dei Beiträge. Per tenore, impostazione e stile, i Beiträge lasciano l’impressione dell’opera di un autore cui una voce interna dice: prima che il tempo sia scaduto, devi tentare di dire in un unico grande progetto tutto ciò che sei stato incaricato di pensare. Il breve passo da citare porta il titolo di «La natura e la terra», e si trova nella sezione «Il salto», sulla quale, nel testo numero 39 si dice: «la risonanza e il gioco del passaggio sono il terreno e il campo per il primo slancio del pensiero iniziale verso il salto nel regnare dell’essenza dell’essere [Seyn]». Il salto apre prima le mai percorse ampiezze e i coprimenti di ciò verso cui deve spingersi la fondazione dell’Esser-ci appartenente al richiamo [Zuruf] dell’(E) 9. Il passo «La natura e la terra», nell’elenco numerato dei passi contenuto nell’indice dei Beiträge, porta il nr. 180 (nr. 155 nell’HGA vol. 65). Se si tengono presenti le pubblicazioni di Heidegger degli anni ’40 e ’50, si lascia per ora in una certa misura comprendere anche senza un’approfondita conoscenza dei Beiträge:

9

E = Ereignis, evento.

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La natura e la terra La natura – estrapolata dall’ente per mezzo della scienza della natura – cosa le accade con la tecnica? La crescente – o meglio svolgentesi sino alla propria conclusione distruzione della «natura». Cos’era essa un tempo? Il luogo dell’attimo della venuta e del soggiorno degli dei – allorché essa poggiava ancora nel regnare dell’essenza dell’essere [Seyn]. Da allora essa è divenuta un ente e poi perfino l’opponente alla «grazia» e dopo tale destituzione è stata completamente esposta alla costrizione della macchinazione calcolante e dell’economia. Infine è rimasta come «paesaggio» e occasione di svago e questo ora anche calcolato nella sua progressione al gigantesco e adattato alle masse. E poi? È questa la fine? Perché tace la terra in questa distruzione? Perché ad essa non è consentito il conflitto con un mondo, perché a essa non è consentita la verità dell’essere. Perché no? Perché quella cosa gigantesca che è l’uomo diviene tanto più grande quanto più piccola diventa? La natura deve essere abbandonata e consegnata alla macchinazione? Siamo ancora in grado di tentare di nuovo la terra? Chi accende quel conflitto nel quale essa trova il proprio spazio aperto, nel quale essa si chiude ed è terra? 10

La prima ragione per cui riporto questo passo sta nel fatto che esso rende visibile, in un modo semplice, chiaro e percettibile, una distinzione essenziale che Heidegger pone tra natura e terra, mostrando anche allo stesso tempo la provenienza e necessità di una simile distinzione. Chiaramente Heidegger prende qui congedo dalla «natura», cioè dalla tradizionale determinazione ed esperienza fondamentale metafisicooccidentale di natura, in favore, se posso esprimermi così in breve, di ciò che successivamente sarà chiamato destino di mondo. Detto con ancor maggiore prudenza: Heidegger si trova qui sul cammino del passaggio verso una tale presa di congedo. A mio giudizio si apre così, detto di passata, una adeguata possibilità per un reale confronto dialogante con la già citata determinazione ed esperienza fondamentale giapponese-orien10

Contributi alla filosofia, cit., p. 285. [La traduzione qui è nostra, N.d.C.]

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tale di «natura». Bisogna anche tener presente come qui Heidegger tralasci il modo in cui la natura è presente nella grande poesia. I primi due capoversi del passo citato nominano la natura nei suoi poli estremi all’interno della storia del primo inizio del destino occidentale: in quanto ancora fondata sul regnare dell’essenza dell’essere [Seyn] (ci si riferisce qui a ciò che Heidegger ha sempre di nuovo e sempre in modo nuovo pensato come il regnare originario della f¥siq), e in quanto oggetto delle scienze della natura e affetta dalla tecnica, cosa questa che in seguito pensa in quanto disponibilità [Bestand] nel disporre [Bestellen] dell’imposizione [Gestell], la natura per così dire allora nel contesto della modernità occidentale. Ciò che Heidegger designa nei Beiträge come «macchinazione», lascia già risuonare ciò che più tardi si chiamerà l’imposizione in quanto essenza della tecnica – ma non preannuncia soltanto la «tecnica», bensì l’essenza dell’imposizione in quanto destino essenziale della verità dell’essere nel primo inizio del pensiero occidentale. Non è possibile nel contesto di questa relazione interpretare fino in fondo il breve passo «La natura e la terra»; vorrei tenere fermi qui soltanto due pensieri di Heidegger, e cioè da un lato la risposta alla domanda: «Perché tace la terra durante questa distruzione?»: «Perché ad essa non è consentito il conflitto con un mondo, perché ad essa non è consentita la verità dell’essere», e dall’altro la domanda in chiusura del passo: «Chi accende quel conflitto nel quale essa [scil. la terra] trova il proprio spazio aperto, nel quale [scil. spazio aperto] essa si chiude ed è terra?». Noi conosciamo dal saggio heideggeriano sull’opera d’arte questo discorso del conflitto e del confliggere del conflitto tra terra e cielo, nel quale viene aperto e conquistato il mezzo e il centro della terra. Il rapporto di cui lì si parla tra terra e mondo resta decisivo anche, a mio giudizio, nei Beiträge. Cito, poiché è più chiara, dalla versione più tarda dell’Origine dell’opera d’arte: Il mondo è l’aprentesi apertura delle ampie vie delle opzioni semplici e decisive del destino di un popolo storico. La Terra è la non costretta apparizione del costantemente chiudentesi, cioè del coprente-custodente. Mondo e Terra sono essenzialmente diversi l’un dall’altro e tuttavia mai separati. Il Mondo si fonda sulla Terra e la Terra pervade il Mondo. […] La Terra non può fare a meno dell’a-

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perto del Mondo se deve essa stessa, in quanto Terra, apparire nel libero slancio del suo chiudimento. Il Mondo a sua volta non può dileguarsi dalla terra se deve, come regione e percorso di ogni destino essenziale, fondarsi su qualcosa di sicuro 11.

Non ho certo bisogno in questa sede di segnalare come Heidegger, all’interno della relazione tra l’aprentesi apertura del mondo e il chiudersi della terra, tenta di pensare il conflitto tra svelatezza (la Lichtung) e velatezza all’intero dell’essenza in sé conflittuale della verità dell’essere. Così, ancora nel saggio sull’opera d’arte, un po’ più avanti si dice: «[…] il Mondo non è senz’altro l’Aperto, corrispondente all’aprirsi della radura [Lichtung], e la Terra non è senz’altro il chiuso, corrispondente al nascondimento […] Mondo e Terra sono sempre, e in virtù della loro stessa essenza, in conflitto e in lotta. Solo come tali essi prendono il loro posto nella lotta di illuminazione e nascondimento. La Terra pervade il Mondo, e il Mondo si fonda sulla Terra soltanto nella misura in cui si storicizza la verità come lotta originaria tra aprirsi della radura e nascondimento» 12. Ancora una volta: mondo e terra sono pensati qui a partire dal regnare in sé conflittuale dell’essenza della verità dell’essere. Heidegger sottolinea spesso ed esplicitamente: il mondo non è, il mondo mondeggia; parimenti, riguardo la f¥siq iniziale, si dice che essa non è, bensì regna, e che la verità dell’essere dispiega la sua essenza [west]. Non si tratta di un poetizzante e incantatorio capriccio linguistico, e neppure uno sfuggire nell’«indicibile» bensì, se ascoltato con rigore, vorrebbe propriamente dire: ciò che è da pensare in quanto mondo e che ci pretende nella nostra essenza, non è mai un ente, e neppure un øntvq øn, o un’idea somma, e nemmeno un Êperoyrånioq tøpoq, così che non si potrà mai dire: esso è. Il mondo piuttosto regna in quanto luogo di ogni «è», cioè dell’essere e della sua verità. Con ciò si intende inoltre che il mondo, nel significato che dobbiamo pensare, non può mai essere fondato da qualcosa, sia anche dal sommo ente, e tanto meno allora

11 12

Id., Sentieri interrotti, cit., pp. 33-34 (trad. modificata). Ivi, p. 40 (trad. modificata).

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da uno dei momenti che al mondo appartengono. Si chiarisce allora anche, ma non solo, il discorso sul «destino».

IV La seconda e vera ragione per la quale abbiamo presentato la citazione del passo dei Beiträge su «La natura e la terra», e il suo legame col rapporto terra-mondo del saggio sull’opera d’arte, è evidentemente ancora qualcosa di diverso. Vorrei segnalare che, e come, questo rapporto in seguito è decisamente mutato, con il cosiddetto ciclo di conferenze di Brema del 1949/50 Einblick in das, was ist (Sguardo in ciò che è), quindi nelle conferenze La cosa, L’imposizione (in seguito: La questione della tecnica), Il pericolo e La svolta 13. Sino a oggi – così è almeno per me – la ragione per questo mutamento resta avvolta nell’oscurità, e i citati Beiträge non la chiariscono. Importanti scritti di Heidegger del periodo immediatamente successivo ai Beiträge, che potrebbero forse far luce, non sono ancora stati pubblicati. Uno dei testi chiave del mutamento, della svolta, del periodo tra i Beiträge e Einblick in das, was ist, è il saggio La determinazione del nichilismo secondo la storia dell’essere, redatto nel 1944/46 e contenuto nel secondo volume del Nietzsche. Chiunque voglia capire qualcosa del tardo Heidegger deve passare per questo saggio. Visto dal di fuori, o comunque in modo schematico, il mutamento sta nel fatto che di qui in avanti la terra, all’interno del mondo pensato come quadratura, non è più per così dire l’avversario del mondo nel conflitto tra aprirsi della radura e nascondimento, nel dispiegarsi cioè dell’essenza [Wesung] della verità dell’essere, e che con questo l’intero rapporto tra l’aprentesi apertura e il chiudentesi mettere al riparo [Bergung] deve essere qualche cosa di fondamentalmente diverso. Apparte-

13 Id., Bremer und Freiburger Vorträge (1994). Trad. a cura di P. Jaeger e F. Volpi, Conferenze di Brema e Friburgo, Milano, Adelphi 2002.

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nendo la terra nella quadratura, in quanto la quale il mondo mondeggia, essa appartiene nel mondo stesso; essa è, insieme al cielo, ai mortali e ai divini, uno dei quattro del mondo. Con ciò, anche il mondo è pensato diversamente che nel saggio sull’opera d’arte e nei Beiträge. È troppo impreciso affermare semplicemente che Heidegger pensa adesso il mondo come quadratura. Il mondo piuttosto è ciò che lascia coappartenere terra e cielo, i divini e i mortali «a partire da se stesso nella semplicità della concorde quadratura», mentre ciascuno dei quattro rispecchia a suo modo l’essenza degli altri e riflette in tal modo se stesso in ciò che gli è proprio all’interno della semplicità. Questo rispecchiare che lega nel Libero è il gioco della traspropriazione, che confida ciascuno dei quattro a ciascuno degli altri: «Nessuno dei quattro si irrigidisce in ciò che ha di specificamente proprio. Invece, ognuno dei quattro, all’interno della loro traspropriazione, è espropriato in modo da divenire qualcosa di proprio. Questo espropriante traspropriare è il gioco di specchi della quadratura. In virtù di esso i quattro sono legati nella semplicità che li affida l’uno all’altro. – Il facente avvenire traspropriante gioco di specchi della semplicità di terra e cielo, divini e mortali, noi lo chiamiamo il mondo» 14. È noto che Heidegger sviluppa questo concetto di mondo [Weltwesen], che sarebbe affatto travisato se lo si volesse intendere come l’immagine utopica di un mondo futuro, mettendo in questione l’essenza della vicinanza e innanzitutto ciò che nella vicinanza è, la cosa in quanto cosa. Mi sembra importante, anzi decisivo per la comprensione della questione, il fatto che in questo contesto Heidegger parli della cosa in quanto cosa – e non dell’ente, o dell’ente in quanto ente, e che nei passaggi chiave si parli del mondo in quanto gioco di specchi della semplicità dei quattro – e non più dell’essere e del regnare della verità dell’essere. Certo ne parla ancora nel corso di Sguardo in ciò che è, ma lo fa come di qualcosa che, detto molto in breve, si è concluso in un superamento, o ancora come qualcosa che non è più adeguato per dire il mon-

14

Id., Saggi e discorsi, cit., p. 119.

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do in quanto quadratura e la cosa in quanto riunione che avvicina il mondo. L’«essere» e il regnare della sua essenza restano ora in qualche modo, detto nuovamente molto in breve, riservati all’imposizione, la quale non solo dà nome all’essenza della tecnica, ma è anche da pensare all’indietro sino alla f¥siq iniziale e alla u™siq in essa contenuta, poi sino all’essere-presente in quanto pro-veniente [Herstand] e oggetto, e poi sino a che infine (l’essere-presente) diviene la disponibilità [Bestand] negatrice della cosa nell’ordinare [Bestellen] dell’imposizione. Ma neppure questo, cioè il fatto che gli invii epocali dell’essere nel primo inizio del destino occidentale siano raccolti nell’essenza dell’imposizione, è ciò che mi importa qui. Cosa allora? A questo proposito devo citare ancora una volta un passo da Sguardo in ciò che è, e precisamente da Il pericolo, testo che Heidegger non ha pubblicato; è vero che ciò di cui parla qui ritorna anche in La questione della tecnica e La svolta, ma in modo talmente breve da risultare quasi incomprensibile. Tale citazione abbisogna probabilmente ancora di una esitazione preparatoria, non per creare suspance ma per segnalare l’ambito a partire dal quale parla ciò che è pensato nella citazione. Questo deve avvenire per mezzo di alcune citazioni da diversi scritti, in particolare del tardo Heidegger: 1) In Saggi e discorsi, tra le annotazioni di Oltrepassamento della metafisica ve ne è una, che è probabilmente della prima metà degli anni ’40, la quale dovrebbe meravigliare, se non scioccare, chiunque abbia a cuore il cosiddetto «pensiero dell’essere» heideggeriano: «Il fatto che l’uomo si trovi necessariamente, come animal rationale – e cioè, ora, come l’essere vivente che lavora – a errare attraverso i deserti della devastazione della terra potrebbe essere un segno che la metafisica accade a partire dall’essere stesso e che l’oltrepassamento della metafisica accade come superamento [Verwindung] dell’essere» 15. 2) Nell’introduzione a Che cos’è metafisica?, pubblicato nel ‘49 con il titolo Il ritorno al fondamento della metafisica, Heidegger dice, nel

15

Ivi, p. 46 (trad. modificata).

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contesto dell’interpretazione di un famoso passo di Cartesio sulla metafisica, che il suo pensiero, cioè quello di Heidegger, va, visto ancora dal punto di vista della metafisica, nel fondamento della metafisica: «Ma ciò che così appare ancora come fondamento, presumibilmente, se viene esperito a partire da esso stesso, è qualcosa di altro e di ancora non detto, per cui anche l’essenza della metafisica è altro dalla metafisica» 16. 3) Nel testo del 1953/54 Da un colloquio nell’ascolto del linguaggio – Tra un Giapponese e un Interrogante, relativamente all’uso della parola «essere» nel pensiero di Heidegger, si dice che questo uso ha dato adito a gran confusione, e che comunque la ragione di ciò risiede nella cosa stessa: «Questa parola fa infatti parte del patrimonio del linguaggio della metafisica, e io la assumevo invece come termine centrale di un tentativo che della metafisica si sforza di evidenziare l’essenza, segnandone così anche i limiti» 17. 4) Verso la fine della conferenza Hegel e i Greci, tenuta nel 1958 a Heidelberg, pubblicata per la prima volta nel 1960 e rivolta a HansGeorg Gadamer, Heidegger si interroga circa la coappartenenza di svelatezza e presenza, al¸ueia e oysºa: «Sono entrambe dello stesso rango essenziale? Oppure è solo la presenza che dipende dalla svelatezza e non viceversa questa da quella? Allora l’essere avrebbe a che fare con lo svelamento, ma non lo svelamento con l’essere» 18. 5) In La questione dell’essere, titolo posteriore dello scritto in onore di Ernst Jünger, Heidegger espone la necessità d’ora in poi di scrivere, ma in primo luogo pensare, la parola essere come essere: «Dopo quanto si è detto, però, il segno della barratura a croce non può essere un segno meramente negativo di cancellazione. Piuttosto esso indica le quattro contrade della quadratura, e la loro riunione nel luogo dell’incrocio» 19. Dunque: i quattro ambiti della quadratura del mondo possono sorgere e regnare, e cioè raccogliersi specchiando e giocando, soltanto

16 17 18 19

Id., Segnavia, cit., p. 319. Id., In cammino verso il Linguaggio, cit., p. 97. Id., Segnavia, cit., p. 389. Ivi, p. 360. Il corsivo è di Buchner [N.d.C.].

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quando – per riassumere quanto sin qui detto – il luogo della loro semplicità porta a compimento un superamento dell’essere, ovvero l’ha già compiuto. A partire da un tale superamento dell’essere, e soltanto in quanto questo, è da intendersi il progetto heideggeriano della quadratura del mondo e con essa il congedo o il superamento del concetto metafisico di natura a favore del sorgere del mondo. Certo, tutti e cinque i passi citati parlano ciascuno in un diverso contesto, ma tutti rimandano allo Stesso, cioè per noi innanzitutto a una grande confusione [Beirrung], la quale proviene da ciò che talora Heidegger chiama l’«erranza» [Irre]. Per poterle rivolgere lo sguardo c’era bisogno, non solo qui e ora, dell’esitazione che abbiamo appena tentato. In Il pericolo Heidegger dice inizialmente – e chiama questo un «inevitabile sentiero dell’erranza» il quale, poiché percorso consapevolmente, potrebbe essere ripercorso all’indietro a tempo opportuno – che si potrebbe operare un movimento della rappresentazione dal mondo in quanto quadratura, più precisamente in quanto gioco di specchi dalla semplicità dei quattro, verso l’essere dell’ente a noi familiare, e cioè in quanto custodia della verità dell’essere. Egli nota poi che il mondo, così rappresentato, è sottomesso all’essere, «mentre in verità l’essenza dell’essere si dispiegherebbe a partire dal nascosto mondeggiare del mondo» 20. Nel regnare del mondo allora la verità dell’essere è custodita nella dimensione, nella regione dalla quale proviene e cui appartiene. Anche nell’imposizione, o meglio nell’essenza dell’imposizione, la verità dell’essere domina, ma nella maniera per cui essa ostruisce proprio la dimensione, la regione cui appartiene. «L’imposizione» prosegue Heidegger «è l’esser-presente in quanto tale che domina nel modo del diniego della cosa: l’essere stesso […] Mondo e imposizione sono lo Stesso». Dunque, l’imposizione in quanto regnare dell’essenza dell’essere espelle l’essere dalla verità e custodia della sua essenza, destituisce l’essere dalla sua ve-

20 Questo e i passi che seguono sono tratti dal dattiloscritto a mia disposizione di Sguardo in ciò che è. Heidegger parla qui espressamente di rappresentare [vorstellen]. (N.d.A.)

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rità. E ora l’annunciato passo da Il pericolo, un passo che allo stesso tempo permette di riconoscere ciò che si intende qui con «pericolo», e che dichiara la reale ragione per cui l’essenza della tecnica porta il nome di imposizione, dichiara cioè dove si vede l’autentica e più profonda essenza dell’imposizione stessa: Mondo e imposizione [Gestell] sono lo Stesso. In modo diverso, essi sono l’essenza dell’essere. Il mondo è la custodia dell’essenza dell’essere. L’imposizione è il completo oblio della verità dell’essere. Lo Stesso, l’essenza in sé diversa dell’essere si trova, a partire da se stessa, in una contrapposizione, e precisamente nel modo per cui il mondo, in una maniera nascosta, si esclude [entsetzt] nell’imposizione. L’imposizione tuttavia non soltanto si discosta [absetzt] dal nascosto mondeggiare del mondo, bensì l’imposizione, ordinando [bestellend] nella disponibilità [Bestand] tutto ciò che è presente, incalza [zusetzt] il mondo con il compimento dell’oblio del suo mondeggiare. Incalzando in tal modo, l’imposizione persegue [nachstellt] nell’oblio la verità dell’essenza dell’essere. Tale perseguire è l’autentico posizionare [Stellen], il quale avviene nell’essenza dell’imposizione. In questo perseguire si fonda quel posizionare dell’imposizione, il quale pone [stellt], alla maniera dell’ordinare della disponibilità, tutto ciò che è presente nella totale incuria della cosa. L’essenza più interna del posizionare, in quanto il quale l’imposizione regna, è il così caratterizzato perseguire.

In questo perseguirsi dell’essere stesso col proprio oblio, così prosegue Heidegger, l’essere in quanto essere è il pericolo della sua stessa essenza. È probabilmente legato a questo anche il più volte ripetuto pensiero di Heidegger per cui l’essenza dell’essere ovvero la verità dell’essere abbisogna dell’uomo per la sua custodia. Questo inaudito pensiero del tardo Heidegger, per cui l’essere stesso persegue se stesso nel proprio oblio, intende portare allo sguardo la costellazione della nostra epoca relativa, ma non soltanto più, alla storia dell’essere, e lascia che il cammino heideggeriano si raccolga [einkeheren] dalla questione del senso dell’essere e della verità della sua essenza, attraverso la questione dell’essenza della verità, nel superamento dell’essere stesso. Non posso in questa sede approfondire ulteriormente il che e il come la «natura» sia conservata [aufgehoben] nella cosa che riunisce il mondo, nel mondo si trattiene e il mondo avvicina, nella misura in cui le

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cosiddette «cose naturali» avvengono in quanto cose del mondo. In chiusura vorrei piuttosto venire a parlare di ciò che Heidegger richiede come il sempre più necessario esercizio del pensiero planetario: nel contesto di un congresso tedesco-giapponese questo mi sembra essere infatti un pensiero importante, e mi sembra anche avere qualcosa a che fare con la questione del senso e della portata del tradurre.

V Il discorso sul «planetario» Heidegger l’ha sicuramente ripreso da Ernst Jünger, ma mentre per Jünger questo è soltanto il nome di un processo che avvolge la terra intera (e cioè la mobilitazione totale), io presumo che Heidegger gli attribuisca, un poco tra le righe, un diverso significato. In Oltrepassamento della metafisica c’è il passo nr. 26, che Otto Pöggeler mi ha detto essere del 1942 21, e che comincia con le parole: «I segni dell’ultimo abbandono dell’essere…» 22. In conclusione a questo passo, che per il punto di vista sulla metafisica contiene quanto di più tagliente e sconvolgente è mai stato detto da un pensatore sul nazionalsocialismo in quanto segno dell’ultimo abbandono dell’essere, si dice: «La terra appare come il non-mondo dell’erramento. Essa è, dal punto di vista della storia dell’essere [seynsgeschichtlich], l’astro errante» 23. Astro errante: questa è, in un certo modo, la traduzione letterale

21 Cfr. il riferimento nel testo all’assegnazione del premio Goethe da parte della città di Francoforte al chimico R. Kuhn. 22 M. Heidegger, Saggi e discorsi, cit., p. 60. 23 Ivi, p. 64. Questo passo era già stato pubblicato in Ernst Barlach – Dramatiker, Bildhauer, Zeichner, Darmstadt 1951, in occasione della prima di Der Graf von Ratenburg di Barlach, col titolo Seinsverlassenheit und Irrnis (Abbandono dell’essere ed erramento). È significativo per lo spirito e il livello dei più recenti, e talora ampi, assai poco seri ed estremamente tendenziosi pamphlet su Heidegger e il suo temporaneo coinvolgimento nel movimento nazionalsocialista agli esordi del III Reich (Victor Farias, Hugo Ott, Pierre Bourdieu, Rainer Marten e altri) il fatto che non si tenga conto o comunque non si prenda assolutamente sul serio un testo come Seinsverlassenheit und Irrnis, e ancor meno il riferimento heideggeriano al fatto che le lezioni su Nietzsche tenute tra il 1936/37 e il 1940, nel mezzo del III Reich, costituiscono il suo autentico

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di pianeta (in greco plånh, il perdersi, il girovagare). Esercizio del pensiero planetario significa allora: esercizio in un pensiero che deve esperire e pensare il pianeta, l’astro errante, in quanto tale, e che deve appena cominciare a vedere e lasciar giungere quell’«erranza» cui si è fatto cenno prima e poi in quanto tale superarla. Una tale erranza inizia già con la parola «essere»: «Il discorso dell’“essere” caccia il rappresentare da un imbarazzo all’altro, senza che la sorgente di questo disorientamento voglia mostrarsi» 24. Sempre nel contesto della pretesa di un esercizio del pensiero planetario, dice ora Heidegger: Anche qui non occorrono né doti né atteggiamenti profetici per pensare che, per il costruire planetario, sono imminenti degli incontri a cui coloro che oggi vanno incontro non sono affatto preparati. Questo vale in ugual misura sia per il linguaggio europeo sia per quello asiatico-orientale e soprattutto per l’ambito del loro possibile dialogo. Nessuno dei due, infatti, è in grado di aprire e istituire da sé questo ambito 25.

Questa affermazione è estremamente stupefacente proprio rispetto, se posso dire così, a quell’orientamento occidental-europeo di Heidegger. Stupefacente soprattutto se si prende sul serio ciò che dice nel tardo ciclo di lezioni friburghesi Che cosa significa pensare? (1951/52), per cui il destino della nostra essenza europea storico-destinale si mostra nel fatto che «il nostro soggiorno terreno poggia sul pensiero anche quando tale soggiorno è determinato dalla fede cristiana…» 26.

confronto anche con il nazionalsocialismo (Cfr. l’intervista con Der Spiegel, Ormai solo un dio ci può salvare. Intervista con lo «Spiegel», a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987, p. 129). 24 M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 357. 25 Ivi, pp. 372-373. La dichiarazione di Heidegger nell’intervista con Der Spiegel, che potrebbe essere fraintesa, per cui «dallo stesso luogo del mondo nel quale è sorto il moderno mondo tecnico, possa prepararsi anche un rovesciamento» (trad. it. cit. p. 149) deve esser vista secondo me nel contesto del passo appena citato de La questione dell’essere. Infatti, «lo stesso luogo del mondo» (e non l’uguale luogo del mondo!) non indica un luogo geografico da qualche parte in Europa, rimanda invece verosimilmente a quell’«ambito» del dialogo per cui nessuna delle due parti è matura. 26 M. Heidegger, Was heißt Denken? (1954). Trad. di U. Ugazio e G. Vattimo, Che cosa significa pensare?, Sugarco, Milano 1978-1979, p. 180.

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Il soggiorno occidentale nel mondo si fonda secondo Heidegger sul pensiero, allo stesso tempo tuttavia ci troviamo oggi in una situazione nella quale, secondo Heidegger, ci attendono incontri per i quali né il linguaggio occidentale né quello orientale sono maturi. «Nessuno dei due, infatti, è in grado di aprire e istituire da sé questo ambito». Se le cose stanno così – e molto, se non tutto, parla da tempo a favore di ciò – allora il semplice tradurre da una lingua all’altra, preso per se stesso, non può nulla, fintanto che resta preso nel movimento da entrambi i lati. Il tradurre può però forse qualcosa, ed è allora necessario, quando resta in sé già sempre un tra-durre e un pre-ascolto in quell’«ambito» che nessuno dei due «è in grado di aprire e istituire da sé».

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LA SVOLTA OCCIDENTALE DI HEIDEGGER 1

I In quanto segue vorrei segnalare, attraverso alcune osservazioni affatto provvisorie, come nel pensiero di Heidegger – e in particolare del tardo Heidegger – vi sia una concezione dell’occidente, la quale si distingue in modo radicale dalle nostre concezioni correnti e tradizionali di terra del mattino e terra della sera, Oriente e Occidente. Prima di procedere tuttavia, intendo citare un passo tratto dall’ultimo corso di Heidegger, quello del semestre estivo del 1952, grazie al quale diviene chiaro in quale situazione di bisogno si trovi secondo lui il pensiero, cioè ciò che chiama anche il «pensiero essenziale», rispetto alla costellazione della nostra storia mondiale. Il corso ha per titolo Cosa significa pensare?: Il pensiero, o più esattamente il tentativo e il compito di pensare, stanno entrando in un’epoca in cui le grandi esigenze che il pensiero tradizionale credeva di soddisfare e pretendeva di dover soddisfare diventano caduche. Il cammino della domanda «Che cosa significa pensare?» corre già all’ombra di questa caducità. Quattro frasi bastano a caratterizzarla: 1. Il pensiero non porta al sapere come vi portano le scienze. 2. Il pensiero non comporta una forma di saggezza utile alla vita. 3. Il pensiero non risolve gli enigmi del mondo.

1 Svolta traduce qui la parola tedesca Wendung. Cfr. a questo proposito M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 110 in nota. [N.d.C.]

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4. Il pensiero non procura immediatamente forze per l’azione. Finché continuiamo a subordinare il pensiero a queste esigenze, sopravvalutiamo il pensiero e gli chiediamo troppo 2.

Credo che dobbiamo prendere molto sul serio ciò che Heidegger dice qui a partire da una paziente esperienza di pensiero, anche soprattutto nel momento in cui intendiamo comprendere e appropriarci di qualcosa del suo proprio pensiero, qualcosa di proprio del suo pensiero. Le grandi esigenze dunque, che il pensiero tradizionale, che la filosofia europeo-occidentale tradizionale «credeva di soddisfare e pretendeva di dover soddisfare» sono diventate caduche di fronte all’epoca che ci sta dinnanzi e che già ci domina. Come si dice altrove, «il pensiero sta scendendo nella povertà della sua essenza provvisoria» 3. Da un lato ci può essere qui una grande liberazione, dall’altro l’inizio di una presa di coscienza di una possibilità e un compito del pensiero affatto diversi, che è ciò di cui si tratta nel corso citato. Mi si concedano ora due ricordi personali, i quali mi hanno occupato mentre preparavo il tema «La svolta occidentale di Heidegger».

II 1) Circa dieci anni fa Nishitani-sensei aveva invitato a cena Kôichi Tsujimura, Shizuteru Ueda e signora, mia moglie e me, presso un antico ristorante giapponese, bello e buono, del quartiere di Nanzen-ji 4. Dopo aver incontrato Nishitani-sensei presso la sua abitazione, abbiamo continuato a piedi oltre il Yoshida-yama in direzione di Nanzen-ji, e abbiamo dovuto attendere un bel po’ prima di poter attraversare una strada rumorosa e assai trafficata. Dopo essere finalmente riusciti a passare dall’altra parte, Ueda-san si fermò improvvisamente e disse ex abrupto:

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M. Heidegger, Cosa significa pensare?, cit., p. 264. Id., Segnavia, cit., p. 315. Nanzen-ji è un quartiere di Kyoto. [N.d.C.]

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«Vede signor Buchner, questa è la condizione nella quale noi giapponesi dobbiamo vivere quotidianamente: lì il mondo del traffico moderno e la strada dominata dalla tecnica, e qui, su questo lato, l’antico quartiere Nanzen-ji, il mondo antico che è la nostra provenienza e nel quale ci sentiamo o ci sentivamo altrettanto o autenticamente a casa. Ogni giorno noi giapponesi dobbiamo affrontare questa spaccatura». La spaccatura che si è aperta qui si potrebbe designare come quella tra l’antico modo di vita e l’antica patria giapponese da un lato, e civiltà mondiale tecnico-scientifica, «occidentale», dall’altro. Questo il primo ricordo. Il secondo è il seguente: 2) Nel corso dei festeggiamenti per l’ottantesimo compleanno di Heidegger a Meßkirch il 26 settembre 1969 fu non per caso un giapponese, il mio caro amico Tsujimura, a tenere il discorso celebrativo dal titolo Il pensiero di Martin Heidegger e la filosofia giapponese 5. In quell’occasione anche Tsujimura-san ha parlato della spaccatura nel cuore dell’Esserci giapponese, e cioè la spaccatura tra «da un lato il nostro proprio (dunque giapponese) modo di vivere e pensare secondo natura, dall’altro il modo di vivere e pensare occidentale, profondamente determinato dalla volontà e imposto dall’esterno». Tsujimura-san ha spiegato questo ancor più da vicino nel suo discorso. Heidegger, nel ringraziare, è entrato nel merito di queste argomentazioni. Ha prima ricordato un passo della sua Lettera sull’umanismo del 1946: «La spaesatezza è il destino del mondo» 6 – cosa questa che non significa che questa o quella umanità abbia perduto la sua patria, bensì che qualcosa come patria nel senso tradizionale va sparendo, ha perso la sua forza portante per gli uomini dell’epoca che domina e che sta ancora giungendo. Questa fondamentale spaesatezza si nasconde dietro un fenomeno che Heidegger chiama brevemente «civiltà mondiale», la quale è comparsa nel secolo scorso «anche in Giappone». Questo «anche» mi sembra piuttosto singolare, perché allora dice anche: non solo presso di voi in Giappone, ma anche presso di noi in Germania e in Europa.

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Cfr. infra, pp. 93-102. M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 292.

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Poi, Heidegger definisce in modo breve e convincente la parola «civiltà mondiale»: «civiltà mondiale, questo significa oggi: supremazia delle scienze naturali, supremazia e priorità dell’economia, della politica, della tecnica» 7. Tutto il resto non è neppure più sovrastruttura, bensì soltanto una struttura laterale fatiscente. Heidegger continua: «Noi ci troviamo all’interno di questa civiltà mondiale». E poi segue una frase sulla quale io allora, lo dico apertamente, mi sono un poco arrabbiato, poiché l’avevo trovata troppo confusa – probabilmente a causa del fatto che non riflettevo nell’ambito a partire dal quale essa poteva essere detta, cioè l’ambito di ciò che io intendo chiamare la «svolta europea» di Heidegger. La frase, l’affermazione che aveva suscitato il mio malumore, dice chiaro e tondo: «Per questo il nostro stato di bisogno, caro Tsujimura, è lo stesso che il vostro». Allora pensavo: come può Heidegger, proprio lui, dire qualcosa di simile, visto che il bisogno della civiltà mondiale per noi in Europa, sin qui chiamata «occidente», è qualcosa che è provenuto da se stesso, dalla sua storia e dalla sua provenienza, mentre per gli uomini giapponesi è qualcosa che giunge dal di fuori, non è qualcosa che deriva dalla loro propria provenienza e patria. È tuttavia evidente che Heidegger intendeva: questo stato di bisogno è veramente lo stesso (che non significa necessariamente: uguale) per Oriente e Occidente, esso va anche alle radici di ciò che si è finora chiamato l’Occidente. Detto in modo un poco semplificato, esso estranea rispetto a se stesso anche ciò che sinora si è chiamato la terra del tramonto, l’Occidente, e lo rende, in un senso originario e molto semplice, spaesato e senza fondo. Quand’è così – e per Heidegger è certamente così –, allora, in ciò che comunemente e ovviamente si chiama Occidente, cultura occidentale e spirito occidentale, deve essere presente e all’opera qualcosa che in un certo modo gli appartiene, ma così, che gli è estraneo, che è rimasto sconosciuto e impensato. Questo qualcosa che resta impensato in ciò che

7

Cfr. infra, p. 103.

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sin qui l’Occidente è, permane naturalmente in tutto e per tutto il suo impensato, ovvero qualcosa in cui il suo pensato fino a questo momento oscilla e vive, ma anche qualcosa che si sottrae e si cela in questo oscillare e vivere. Così per esempio già in un corso del 1942/43 si dice: «Questo, e soltanto questo, e cioè il fatto che (presso i Greci) l’essenza della verità inizia come Ωl¸ueia, così che allo stesso tempo si vela, è l’evento della storia dell’occidente [das Ereignis der Geschichte des Abendlandes]» 8. Detto in maniera formale: se questa differenza decisiva tra il sinora pensato occidentale e ciò che è considerato specifico dell’Occidente (cui appartiene anche la filosofia fino a oggi) da un lato, e l’impensato di questo pensato dall’altro, viene alla luce, viene visto, mantenuto in una sempre rinnovata meditazione e tenuto aperto, allora è nelle cose che anche il concetto di «occidentale» subisca di necessità una trasformazione. Proprio questa trasformazione accade nel pensiero di Heidegger, e precisamente così, che egli corrisponde nel pensiero a una svolta decisiva. In quanto segue si parlerà di questo, almeno per accenni. Ci arrangeremo presentando soltanto alcuni passi significativi, i quali lasciano vedere qualcosa del mutamento (nel concetto di Occidente) e di quella svolta (nel pensiero di Martin Heidegger).

III Si designa oggi volentieri il pensiero di Heidegger con lo slogan «pensiero dell’essere». Questa è tuttavia a mio giudizio una caratterizzazione foriera di incomprensioni, giacché trascura che, in che senso e da dove la posizione fondamentale europeo-occidentale dell’essere è divenuta per Heidegger bisognosa di essere pensata. Già la prima grande e incompiuta opera Essere e tempo mostra in modo chiaro e schietto che non ne va semplicemente “dell’essere” in quanto istanza ultima del pen-

8 M. Heidegger, Parmenides (1982). Trad. a cura di F. Volpi, Parmenide, Adelphi, Milano 1999, p. 262.

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siero, bensì di ciò che Heidegger si assegna di pensare in quanto senso, ovvero orizzonte determinante per il sorgere di qualcosa come essere nel senso della costante presenza. Tale questione del senso dell’essere in generale – e non del significato di un qualsiasi ente nel suo essere – si trasforma in seguito nella questione della verità dell’essere e, con essa, dell’essenza della verità (Ωl¸ueia). In questo contesto non posso chiaramente approfondire ulteriormente questo tema. Importante ora è di tener fermo il fatto che Heidegger, nel corso del lungo cammino, percorso con grandissima perseveranza, della sua cosiddetta «questione dell’essere», è giunto infine a una concezione, rivoluzionaria per la filosofia, su come stanno le cose con l’essere stesso nel pensiero europeooccidentale sino a oggi, e cioè: che l’essere stesso, nel suo tratto fondamentale di costante presenza, si sottrae alla sua propria verità, ovvero al luogo del suo sorgere. Più precisamente: in quanto essere nel senso tradizionale, si sottrae alla sua verità, e manca la custodia della sua essenza. Questo però significa: fintantoché il pensiero si tiene all’essere in quanto istanza ultima, decisiva e dominante ogni cosa, allora esso non potrà mai giungere alla dimensione della verità dell’essere. Ciò che al mattino del pensiero europeo-occidentale si è svelato [sich lichten] in quanto essere, e che determina l’essere in quanto costante presenza, si è sottratto proprio in questo carattere di aprirsi della radura [Lichtung]. La radura [Lichtung] dell’essere, o ciò che talora Heidegger chiama l’«aperto» o l’«apertura», nel prosieguo del pensiero europeo-occidentale si cela – semplificando – a favore di un consolidamento e di una stabilizzazione sempre crescenti di ciò che si chiama l’ente, di tutto quello cioè che è considerato, e che deve essere considerato, essente. Heidegger giunge alla concezione per la quale proprio all’interno del pensiero europeo-occidentale tradizionale, dove cioè ne va soltanto e unicamente dell’essere-presente dell’ente nella stabilità, nulla è dell’essere stesso e del suo ambito dell’aprirsi della radura. Fintantoché ci teniamo soltanto all’essere dell’ente e cioè all’essere in favore dell’ente, questo essere costituisce, se posso esprimermi così, il più grande e insuperabile ostacolo al giungere nel suo ambito essenziale e di aprirsi della radura. In uno dei suoi saggi meno ascoltati degli anni Quaranta, scritto nel corso del suo

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confronto pluriennale con Nietzsche, dal titolo La determinazione del nichilismo secondo la storia dell’essere, Heidegger afferma – e facendo così a mio giudizio piazza pulita di ogni cosiddetto «pensiero dell’essere»: Nietzsche riconosce l’ente in quanto tale. Ma in tale riconoscimento, riconosce egli anche l’essere dell’ente, e cioè Esso stesso, l’essere, cioè in quanto essere? Assolutamente no. L’essere viene determinato in quanto valore, e dunque come una condizione posta dalla volontà di potenza, dall’«ente» in quanto tale, chiarita a partire dall’ente. L’essere non è riconosciuto in quanto essere. Tale «riconoscere» significa: lasciar regnare l’essere in tutta la sua problematicità a partire dallo sguardo sulla sua provenienza essenziale; ciò significa: sostenere la questione dell’essere. Questo tuttavia indica: meditare sulla provenienza dell’esser-presente e della stabilità, e tenere così il pensiero aperto alla possibilità: l’«essere» potrebbe, in cammino verso l’«in quanto essere», rinunciare alla propria essenza in favore di una determinazione più originale. Il discorso dell’«essere stesso» resta sempre un discorso interrogativo 9.

Considerato a partire da qui, sarebbe assai più saggio e meno foriero di incomprensioni designare come “pensiero dell’essere” il pensiero europeo-occidentale tradizionale, da cui Heidegger ha preso congedo, e cioè la metafisica da lui pensata in quanto tale, e al contrario il pensiero heideggeriano, in un modo tutto ancora da pensare, come “pensiero del superamento dell’essere”. Sarebbe allora da riflettere soprattutto se e come un pensiero che prenda congedo dall’essere debba anche essere un pensiero che supera l’essere.

IV Nel pensiero heideggeriano, che supera l’essere e ne prende congedo, ciò che viene spesso chiamato la civiltà mondiale tecnico-scientifica appare come una manifestazione dell’essenza della tecnica. Tale tecnica, come Heidegger la pensa dal punto di vista della storia dell’essere e in un modo per noi affatto strano, determina secondo lui l’epoca che

9

Id., Nietzsche II, cit., pp. 337-338. Trad. di F. Volpi, Nietzsche, Adelphi, Milano 1994.

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sta raggiungendo il suo limite ultimo ed estremo del pensiero e della vita sin qui europeo-occidentali e ora divenuti planetari. Nella potenza del pensiero tecnico-scientifico e nel modo di vivere a esso corrispondente si vede per lo più la ragione principale dell’europeizzazione del mondo intero. Questo è sicuramente corretto. Ed evidentemente questa potenza ha una natura per la quale anche gli uomini di culture completamente diverse non possono resisterle, e fondamentalmente non ne hanno neppure alcuna intenzione – al contrario. Per Heidegger, questa potenza, la quale indica una potenza dell’essere in quanto assoluto posizionare, è la ragione essenziale per cui, come abbiamo sentito, la spaesatezza è divenuta destino mondiale. Molto in breve si può dire che ciò che dispiega la sua essenza e potenza in questa potenza giunge dal dominio d’essere, che si occulta e resta irrisolto, del pensiero europeo-occidentale. L’esser sopraffatto del pensiero europeo-occidentale tradizionale da parte della strapotenza dell’essere, assieme al restare irrisolto dell’essere stesso nel pensiero europeo-occidentale, è indice, all’interno del pensiero di Heidegger – che è di natura diversa e sorge da un luogo diverso –, di un’epoca nella quale il pensiero europeo-occidentale tradizionale è trasposto in un ambito che non può più esser visto e risolto a partire dal pensiero tradizionale preso di per sé. Heidegger, in una lettera a Takehiko Kojima, fornisce una concisa descrizione di ciò in cui egli vede l’essenza della tecnica; dice: Il discorso sull’europeizzazione del mondo coglie qualcosa di giusto. Esso resta tuttavia una superficiale formula storico-geografica finché tralasciamo di meditare sullo specifico della potenza del posizionare [Stellen]. Questo richiede innanzitutto di domandare se il nostro pensiero e la sua tradizione abbiano la predisposizione a mettersi in ascolto dell’appello di questa potenza, e a dire in modo adeguato il posizionare che in essa regna. Persino il pensiero europeo-occidentale, il quale per primo è stato toccato e determinato [gestellt] da questa potenza del posizionare, nella forma che ha sin qui avuto non è in grado di interrogare la potenza del posizionare nel suo tratto specifico 10.

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Cfr. infra, p. 114.

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E più avanti: Se seguiamo lo sguardo che ci mostra ciò che regna all’interno del mondo tecnicizzato, esso ci concede allora la possibilità di una esperienza decisiva. La potenza del posizionare custodisce in sé, se pensata in modo sufficiente, la promessa per cui l’uomo può giungere in ciò che è proprio della sua determinazione, se si tiene preparato a trattenersi con pazienza all’interno della domanda più bisognosa d’essere interrogata. Questa pensa su ciò in cui si cela lo specifico di ciò che il pensiero europeo-occidentale tradizionale ha dovuto sino a oggi rappresentarsi sotto il nome di «essere».

Il dire di Heidegger parla qui sino nella parola meno appariscente con inaudita cautela. Potremmo tentare di corrispondergli soltanto se considerassimo ogni parola nel suo peso. Ciò non è possibile nel corso di questa serata. Vorrei soltanto mettere in risalto come, secondo la concezione di Heidegger, la forma del pensiero europeo-occidentale tradizionale non è più sufficiente per riflettere in modo adeguato su ciò che adesso è, su ciò che adesso riguarda la terra tutta. Nell’essenza della tecnica in quanto potenza del posizionare si mostra qualcosa che certamente ha un’impronta europeo-occidentale, e dunque planetaria, ma che proprio in quanto tale impronta si sottrae nella sua essenza alle possibilità del pensiero europeo-occidentale tradizionale. L’epoca determinata dall’essenza della tecnica in quanto potenza del posizionare e fare illimitato è e non è più europeo-occidentale in senso tradizionale.

V Heidegger vede – se intendo bene – le possibilità future delle grandi culture mondiali tradizionali sotto l’aspetto del se e in che misura esse sono in grado di aprirsi e andare incontro, a partire da quanto è loro Proprio, in modo pensante (e forse non più soltanto “in modo pensante”) alla potenza del posizionare che regna nell’essenza della tecnica e della sua verità. Solo così posso intendere una frase che Heidegger scrive nel 1949 in una lettera a Karl Jaspers, quando questi gli inviò il suo libro Origine e fine della storia. In questo libro Jaspers espone il concet-

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to di “tempo assiale”, che sorge da una concezione empirica e non-lineare della storia mondiale, secondo la quale le grandi culture della storia del mondo sarebbe sorte quasi simultaneamente ma in modo del tutto indipendente le une dalle altre. Heidegger nota: Il fatto che Lei pensi la simultaneità e la sincronia dei secoli cinese, indiano e occidentale in quanto tempo assiale, mi sembra essenziale. Si cela qui infatti un asse-del-mondo, il quale potrebbe anche divenire un cardine sul quale ruota la moderna tecnica-del-mondo 11.

Questo può significare soltanto che ciò che è sorto nei grandi secoli citati si deve esporre a qualunque costo all’essenza della tecnica determinata in maniera planetaria, per liberarla nel suo Proprio e lì superarla. Questo significa anche un superamento della potenza del posizionare, che regna nell’essenza della tecnica, in quanto ultima ed estrema forma di ciò che sin qui si è chiamato Occidente. In quanto ultima ed estrema forma di ciò che sin qui è stato l’Occidente, essa fornisce al concetto di Occidente un altro significato, e cioè quello di un Occidente da pensare in modo planetario, che non sussiste più nella distinzione tra Oriente e Occidente. Così Heidegger dice, in un modo particolarmente stringente ed anticipatore nel saggio Il detto di Anassimandro, che per lui costituisce la frase guida del pensiero europeo-occidentale tradizionale: Siamo forse alla vigilia della più mostruosa trasformazione della Terra intera, e del tempo e dello spazio storico a cui essa è legata? Siamo alla vigilia di una notte che prelude a un nuovo mattino? Ci mettiamo in cammino verso il luogo storico di questa sera della terra? Sta nascendo solo ora questa terra della sera [Land des Abends]? Questa terra della sera [Abend-Land] diverrà – al di sopra dell’“Occidente” [Occident] e dell’“Oriente” e attraverso ciò che è europeo – il luogo della storia da venire più originariamente destinata [geschickt]? 12

11 M. Heidegger-K. Jaspers, Briefwechsel, a cura di W. Biemel e H. Saner, Klostermann, Frankfurt 1990. Lettera di Heidegger a Jaspers, nr. 134 del 21/9/1949, p. 186. 12 M. Heidegger, Sentieri interrotti, cit., p. 303. [trad. modificata]

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Terra della sera e terra del mattino, Oriente e Occidente sono stati i nomi di una precisa costellazione della storia mondiale, la quale tuttavia – questo è ciò che intendevo suggerire con il mio contributo – è divenuta caduca per mezzo di ciò che oggi è. Oriente e Occidente, oppure, per esempio, Giappone e Germania, sono ora, per così dire, province di un Occidente di cui fare esperienza in un modo diverso. Un’altra costellazione pare voler sorgere, e quand’è così, dobbiamo metterci su cammini per noi nuovi e diversi. Permettetemi di concludere con una poesia di Gottfried Benn – un poeta che come nessun altro ha sofferto le devastazioni e le oscurità del nostro secolo. La poesia viene dal ciclo poetico Epilog 1949 composto di cinque parti e contenuto nel volume Marea ebbra 13. L’ultimo verso di questa poesia composta da tre strofe è stato citato da Martin Heidegger in conclusione del ciclo di conferenze Sguardo in ciò che è, nel quale egli riflette sulla costellazione dell’attuale epoca del mondo: Ein Grab am Fjord, ein Kreuz am goldenen Tore, ein Stein im Wald und zwei an einem See –: ein ganzes Lied, ein Ruf im Chore: ‘Die Himmel wechseln ihre Sterne – geh!’ Das du dir trugst, dies Bild, halb Wahn, halb Wende, das trägt sich selbst, du musst nicht bange sein und Schmetterlinge, März bis Sommerende, das wird noch lange sein. Und sinkt der letzte Falter in die Tiefe, die letzte Neige und das lezte Weh, bleibt doch der große Chor, der weiterriefe: die Himmel wechseln ihre Sterne – geh.

In italiano qualcosa come: Una tomba al fiordo, una croce nei pressi della porta d’oro, una pietra nella foresta e due vicino un lago –:

13 B. Benn, Trunkene Flut (1949), p. 109. Trad. di A. M. Carpi, Flutto Ebbro, Guanda, Parma 1989.

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un canto intero, un chiamo corale: ‘i cieli cambiano le loro stelle – vai!’ Questa immagine che ti portasti, mezza illusione mezza svolta, questa si regge da sola, non devi stare in pena e le farfalle, da marzo sino alla fine dell’estate, questo ancor a lungo sarà. E quando l’ultima farfalla affonda nelle profondità, l’ultimo goccio e l’ultimo dolore, tuttavia resta la gran corale, che ancora chiama: i cieli cambiano le loro stelle – vai.

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PARTE SECONDA: DOCUMENTI

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KÔICHI TSUJIMURA IL PENSIERO DI MARTIN HEIDEGGER E LA FILOSOFIA GIAPPONESE

Illustre prof. Heidegger, Illustre signora Heidegger, Gentilissimo sindaco Schüle, Signore e signori, È un grande onore non soltanto per me, ma anche per la filosofia giapponese, il fatto che io possa qui, in occasione della celebrazione dell’ottantesimo compleanno del nostro grande pensatore, tenere il discorso ufficiale. Per questa ragione ringrazio di cuore coloro che hanno organizzato questa cerimonia. La ragione per la quale un incarico così prestigioso è stato affidato a me, un giapponese sconosciuto, risiede probabilmente nel fatto che io, allievo giapponese di Heidegger, vengo, per così dire, da lontano. Dietro a questo venire da lontano c’è però un cammino davvero lungo, sul quale molti giapponesi hanno tentato, e oggi sempre più tentano,, di giungere nei pressi di quel luogo presso il quale soggiorna il pensiero del nostro maestro. Permettetemi pertanto di rammentare per un momento alcuni significativi predecessori su questo cammino. Era il 1921 quando un giapponese ha studiato per la prima volta con il nostro pensatore, durante il suo periodo di insegnamento a Friburgo. Il suo nome è T. Yamanouchi, successivamente fondatore del seminario di filosofia greca dell’università di Kyôto. Un anno dopo, nel 1922, a Friburgo arrivò il mio insegnante H. Tanabe. Egli fu, a mio pare-

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re, il primo scopritore dell’importanza del pensiero heideggeriano – non soltanto in Giappone, ma forse anche nel mondo intero. Nel suo saggio del 1924, Una nuova tendenza della fenomenologia – la fenomenologia della vita di Heidegger, si può già intuire una prima versione di Essere e tempo. Tanabe ha proseguito il suo dialogo filosofico con il pensiero di Heidegger sino alla sua morte nel 1962, ed è rimasto il principale pensatore giapponese. Negli ultimi anni della sua vita, una volta mi disse: «A mio giudizio Heidegger è l’unico pensatore dai tempi di Hegel». Poi giunse a Marburgo il barone Sh. Kuki. A lui noi giapponesi dobbiamo la prima interpretazione affidabile di Essere e tempo. Morì troppo presto – nel 1941 1. Durante gli inquieti anni Trenta, il mio insegnante e predecessore sulla cattedra dell’università di Kyôto K. Nishitani seguì i corsi di Heidegger su Nietzsche tenuti a Friburgo. È grazie alla profonda interpretazione di Nishitani che ci sono divenute accessibili le riflessioni del tardo Heidegger, per esempio quelle contenute nel suo saggio sull’Origine dell’opera d’arte. Egli appartiene, a mio parere, a coloro che hanno compreso Heidegger nel modo più profondo. Così, da noi in Giappone, in particolare presso l’università di Kyôto, c’è una assimilazione e una tradizione del pensiero heideggeriano che prosegue da quasi mezzo secolo. Anche per conto dei miei insegnanti e precursori che ho appena ricordato devo così testimoniare in questa sede profonda stima e gratitudine nei confronti del professor Heidegger. Il cammino davvero lungo di cui parlavo prima segnala come il pensiero di Heidegger stia per noi in un rapporto assai rilevante con la filosofia giapponese. Ecco pertanto il titolo di questo discorso celebrativo, che per parte nostra intende essere un discorso di ringraziamento: Il pensiero di Martin Heidegger e la filosofia giapponese. Per mostrare un poco questo rapporto, dovremmo procedere innanzitutto da una determinazione essenziale e da uno stato essenziale di bisogno della filosofia giapponese. Se si prende la filosofia giapponese nel senso della filosofia in Giappone, allora anche lì si ritrovano qua-

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Aveva 53 anni. [N.d.C.]

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si tutte le correnti della filosofia contemporanea. Quasi tutte sono state introdotte da Europa e America, non sono dunque per noi endogene. Se noi però con filosofia giapponese intendiamo quella tensione al pensiero che non proviene dal luogo della filosofia occidental-europea, ma sgorga dalla terreno sorgivo della nostra tradizione spirituale, allora questa filosofia è qualcosa di molto raro. In quanto segue intendo la filosofia giapponese in quest’ultimo senso – e questa filosofia si trova in uno stato di bisogno essenziale. Sin dai tempi antichi noi giapponesi siamo gente naturale, in un senso particolare. Questo significa: non abbiamo in noi la volontà di dominare la natura, piuttosto desideriamo vivere e morire in un modo quanto più possibile conforme alla natura. Un giapponese di umili origini una volta, dal suo letto di morte, ha detto ai suoi familiari: «Sto morendo: come le foglie cadono in autunno». E un maestro del buddismo zen, che fu il progenitore dei miei esercizi zen, sul punto di morte rifiutò una iniezione e disse: «A che giova tanta insistenza, a che giova una vita prolungata con tali mezzi?». Piuttosto che la medicina, egli bevve un sorso del suo sakè preferito, e morì quieto. Se considerato nel modo giusto, già qui si può notare una secca opposizione tra l’antica tradizione spirituale giapponese, e una vita determinata dalla tradizione spirituale europea e una determinata da scienza e tecnica europee. In breve, vivere e morire come la natura era in qualche modo un ideale dell’antica sapienza giapponese. Questo ora non significa naturalmente che noi giapponesi non abbiamo alcuna volontà, ma dice che la natura regna al fondo della volontà. La volontà nasce nel primo e ultimo fondamento dalla natura, e sparirà nella natura, la quale natura si sottrae a ogni oggettivazione scientifica, è tuttavia sempre presente ovunque. Natura, in giapponese shizen o zinen, significa: essere come è da se stesso – in breve: esser se stesso ed esserevero. Per questo la «natura» in giapponese antico significava quasi lo stesso che «libertà» e «verità». Tale visione della natura è stata approfondita dalla «visione buddista della transitorietà e del vuoto» di tutte le cose. Per portare alla luce lo stato essenziale di bisogno della filosofia giapponese nel senso descritto, spostiamo per un momento lo sguardo

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sull’altro lato. A partire dall’europeizzazione del Giappone, iniziata circa cento anni fa, abbiamo introdotto con tutte le nostre forze la cultura e civiltà europea in quasi tutte le sfere della nostra vita. L’europeizzazione è stata per noi uno stato storico di bisogno, affinché noi giapponesi potessimo conservare la nostra indipendenza nel mondo attuale, e cioè all’interno della sfera di potenza determinata dalla volontà. Allo stesso tempo, qui risiede il pericolo che noi si possa perdere la nostra propria essenza. Per evitare questo, l’europeizzazione del Giappone è avvenuta più o meno senza un legame interiore con la nostra tradizione spirituale propria. Da allora abbiamo dovuto subire una profonda frattura nel cuore del nostro Esserci, una frattura cioè tra il nostro proprio modo di vivere e pensare secondo natura, e il modo di vivere e pensare occidentale, impostoci dall’esterno, fortemente determinato dalla volontà. Questa frattura interiore resta inizialmente ottimisticamente nascosta– e allo stesso tempo visibile – dal motto nato allora, che diceva: «Spirito giapponese con capacità europea». Con capacità si intende soprattutto la scienza e tecnica contemporanee. La frattura si mantiene presente ancora oggi nella nostra vita quotidiana. Noi, «giapponesi europeizzati», dobbiamo più o meno condurre una doppia vita. Ciò che secondo me dovrebbe essere l’autentico compito di una filosofia giapponese, sarebbe di portare in qualche modo questa frattura interiore a una unità originaria. Questo tuttavia – se si prescinde da alcuni tentativi – non ha ancora avuto successo. La filosofia giapponese è invece del tutto rimasta nella stessa, non mediata frattura dello «Spirito giapponese con capacità europea», persino in misura accresciuta. Molte correnti della filosofia europea che abbiamo tentato di trapiantare nella nostra terra a partire dalla seconda metà del secolo scorso, non potevano mettere radici nel nostro terreno, e sono così quasi tutte rimaste come delle semplici imitazioni, quasi fossero una moda, o furono tutt’al più applicate, come scienza e tecnica, a un particolare ambito della nostra vita sociale. Così, già il nome di «filosofia giapponese» è un segno per il suo iniziale stato essenziale di bisogno. Tale stato di bisogno viene da un lato dal fatto che noi abbiamo accolto la filosofia europea senza un confronto essenziale con la già ricordata fonte della nostra propria

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tradizione spirituale, e dall’altra dal fatto che la gran parte delle correnti filosofiche non era in grado di toccare e di scuotere il terreno sorgivo della nostra vita spirituale. Con il pensiero di Heidegger le cose stanno diversamente. Ciò che con il suo pensiero è divenuto bisognoso di interrogazione, è ciò che noi già sempre siamo e che è così da noi compreso in un qualche modo non oggettivo e che è pertanto sempre tralasciato da parte della scienza e della filosofia. A me sembra che la cosa del pensiero di Heidegger sempre conservi questo carattere. Pertanto, la cosa del suo pensiero si sottrae nella sua verità non appena noi la vogliamo rappresentare, cogliere e conoscere. E così il suo pensiero resta fondamentalmente inimitabile. La cosa più grande del suo pensiero, che può forse essere accennata dall’antica parola greca Alet\ heia (s-velatezza), potrebbe essere esperita in relazione alla filosofia occidentale, e cioè qui metafisica in quanto terreno nascosto della metafisica stessa. La cosa stessa dovrebbe allora aver preteso da parte del pensatore un mutamento del pensiero – un mutamento cioè del pensiero filosofico «in un pensiero altro». Solo grazie a questo pensiero altro, grazie cioè al «passo indietro al di fuori della filosofia», è scorto «propriamente» il «Proprio» del pensiero filosofico e cioè qui dell’essenza del mondo occidentale e dei suoi uomini. Questo è un evento di appropriazione [Ereignis] inaudito. In questo senso, noi giapponesi vediamo nel pensiero di Heidegger uno scorger-si del «Proprio» dell’umanità occidentale e del suo mondo. Rispetto a questo pensiero, anche noi giapponesi dovremmo necessariamente venir rigettati all’indietro sul terreno dimenticato della nostra propria tradizione spirituale. Se mi è permesso ricordare qualcosa di personale, subito dopo il mio primo incontro con Essere e tempo, durante il liceo, ho sentito come per lo meno per noi giapponesi l’unico possibile accesso a una reale comprensione di questo pensiero è nascosto, all’interno della nostra tradizione, nel buddismo zen. Infatti, il buddismo zen altro non è che un penetrare con lo sguardo in ciò che noi stessi siamo. Per tale intuizione noi dobbiamo innanzitutto lasciare da parte ogni rappresentare, produrre, perseguire, occultare, agire, fare e volere, in breve ogni coscienza e sua attività, e ritornare su tale cam-

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mino alla loro fonte. Dice uno dei più grandi maestri zen giapponesi, Dôgen: «Innanzitutto devi imparare… il passo indietro» (Dôgen, Fukanzazengi). Ma che cosa ha a che fare il pensiero di Heidegger con il buddismo zen dell’estremo Oriente? Visto dalla parte di questo pensiero forse niente, giacché si tratta di un pensiero affatto indipendente. Ma da parte nostra abbiamo molto a che fare con quel pensiero. Dobbiamo qui limitarci ad accennare un pochino questa singolare relazione tra il pensiero di Heidegger e il nostro buddismo zen; faremo questo attraverso l’esempio dell’«albero in fiore», del quale Heidegger parla in una occasione 2. Quell’albero fiorisce. Di questo fatto semplice Heidegger parla come segue: «Stiamo davanti a un albero in fiore, e l’albero sta davanti a noi». Chiunque può dire questo. Poi Heidegger riformula la situazione così: «Noi ci poniamo di fronte a un albero, davanti a lui, e l’albero si presenta a noi». Qui già si manifesta ciò che è peculiare del suo pensiero. Normalmente in tedesco si dice: ci (dativo) rappresentiamo un albero. Invece, Heidegger dice: noi ci (accusativo) poniamo di fronte a un albero, davanti a lui. Cosa accade in questa riformulazione? Forse null’altro che la scomparsa del «noi» in quanto soggetto rappresentante e allo stesso tempo dell’«albero» in quanto oggetto rappresentato. È dal tempo di Descartes che pensare significa: io penso, e cioè io mi rappresento. Il fatto che io penso, Descartes lo intende a partire dall’io penso. Cogito significa: cogito me cogitare. Da ciò deriva ancora la filosofia dell’idealismo trascendentale, e si capisce il detto di Schopenhauer: il mondo è mia rappresentazione. Di contro, Heidegger riformula la situazione nel modo sopra descritto. La situazione per cui noi stiamo davanti a un albero in fiore e l’albero sta davanti a noi, il nostro pensatore non la pensa o vede più a partire dall’«io penso», bensì a partire dal «Ci», ove si trova l’albero, questo è il terreno «sul quale viviamo e moriamo». Nella succitata riformulazione, noi «siamo saltati al di fuori dell’ambito corrente delle scienze e persino… della filosofia». Rispetto alla semplice cosa per cui

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M. Heidegger, Cosa significa pensare?, cit., p. 59 e sgg.

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l’albero è lì in fiore, noi, in quanto soggetto rappresentante, e l’albero, in quanto oggetto rappresentato, dobbiamo sparire in un altro «presentarerappresentare». Altrimenti proprio non potremmo guardare nella verità l’albero che lì fiorisce. Questa situazione il buddismo zen la designa per esempio così: «L’asino guarda nel pozzo, e il pozzo nell’asino. L’uccello guarda il fiore, e il fiore guarda l’uccello». Quest’altro «rap-presentare», nel quale l’albero si presenta e l’uomo si pone nel di-fronte all’albero, potremmo designarlo come un rappresentare tranquillo [gelassen], di contro quel «io mi rappresento» potrebbe essere chiamato un rappresentare volitivo. Da questo a quello è necessario un salto. Heidegger parla così di questo salto: innanzitutto noi dobbiamo «saltare sul terreno, sul quale viviamo e moriamo», cioè «sul quale autenticamente stiamo». Grazie a questo peculiare salto viene aperta una contrada, nel quale «siamo l’albero e noi». In questa contrada, chiamata luogo dell’incontro [Gegnet] 3, l’albero ci si presenta in quanto ciò che è, e noi ci poniamo, così come siamo, di fronte all’albero in fiore. Questa contrada è tuttavia quello nel quale già sin dall’inizio abitiamo e nel quale sta l’albero in fiore. Vorrei presentare anche un corrispondente esempio tratto dal buddismo zen. È un Kôan molto famoso, una domanda zen. Una volta un monaco chiese al maestro Chao-Chou: «Qual è il senso per cui il primo patriarca Bodhi Dharma è venuto in Cina?» e Chao-Chou rispose: «Cipresso in giardino». Il monaco domandò ancora: «Maestro – per favore non mostrare con l’aiuto di un oggetto!». Chao-Chou rispose «Io non mostro con l’aiuto di un oggetto». Allora il monaco chiese nuovamente: «Qual è il senso per cui il primo patriarca Bodhi Dharma è venuto in Cina?». Chao-Chou rispose: «Cipresso in giardino». Va da sé che il primo patriarca Bodhi Dharma è andato dall’India in Cina per trasmettere la verità buddista. Pertanto, la domanda del monaco significa: «Qual è la prima e ultima verità del buddismo zen?». E la ri-

3

Cfr. a proposito del temine Gegnet, L’abbandono, cit., pp. 82-83 (nota nr. 7).

[N.d.C.]

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sposta di Chao-Chou è molto semplice: «Cipresso in giardino». Questa risposta splende come un fulmine che abbatte la domanda e con essa il monaco che la pone, e allo stesso tempo fa balenare senza veli la verità richiesta. Con una simile risposta il monaco dovrebbe saltare immediatamente sul terreno, sul quale lui e il cipresso sono. Ma il fulmine non colpisce presso il monaco. Questi infatti non prestava attenzione al rispondere di Chao-Chou, ma soltanto a ciò che era contenuto in esso, e cioè il «cipresso in giardino» in quanto oggetto rappresentato. Perciò ha dovuto pregare: «non mostrare (la verità) con l’aiuto di un oggetto». Poiché il maestro Chao-Chou sin dall’inizio non si era servito di un oggetto per indicarla, la sua risposta suona la stessa di prima. Il monaco tuttavia non giunge al salto, cioè al risveglio. Resta ancora incatenato al rappresentare, vedere e pensare oggettivanti. Se posso aggiungere qualcosa per completare, il signor Chao-Chou non avrebbe avuto bisogno di dare proprio la risposta: «Cipresso in giardino». Dove è l’albero in quanto ciò che è, e noi siamo, così come siamo, tutto questo è pervaso dalla verità buddista, che proprio per questo non ha più bisogno di venir designata propriamente in quanto verità buddista. Il Primo Patriarca non avrebbe proprio avuto bisogno di giungere in Cina attraverso i pericoli del mare. Tuttavia doveva andare. Tuttavia Chao-Chou doveva propriamente dire «Cipresso in giardino». Tuttavia il signor Heidegger deve pensare, interrogare e propriamente dire per esempio: «Dobbiamo innanzitutto saltare sul terreno sul quale viviamo e moriamo». Perché è necessario questo «tuttavia»? perché noi innanzitutto dobbiamo saltare sul terreno sul quale viviamo e moriamo. Perché noi, nell’oblio del terreno sul quale camminiamo, erriamo senza meta. Persino la risposta di Chao-Chou «cipresso in giardino» ci può confondere. Dobbiamo rendere superflua anche una simile risposta. In breve, a me sembra che tra il «salto peculiare» heideggeriano e il nostro «non ne abbiamo bisogno, e tuttavia…» ci sia un profondo rapporto nascosto. Heidegger chiede: «Che cosa succede quando l’albero si presenta a noi, e noi ci mettiamo di fronte all’albero?». Si potrebbe forse rispondere con lui: «La contrada [o piuttosto il luogo del-

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l’incontro] raccoglie, sebbene nulla avvenga, ogni cosa nel suo rapporto a ogni altra, facendola permanere nell’acquietarsi in se stessa» 4. Tale luogo dell’incontro è, detto dal nostro punto di vista, la «dimensione del Buddha», cioè la dimensione della verità. Se il maestro zen giapponese Dôgen avesse sentito la domanda di Heidegger, allora avrebbe forse risposto: «Nell’attimo in cui un vecchio susino fiorisce, avviene nel suo fiorire il mondo» (Dôgen, Shôbôgenzô, capitolo Baika). Alla fine del suo esempio dell’albero in fiore, Heidegger mette in guardia e chiede: «si tratta prima di ogni altra cosa di non lasciar cadere l’albero in fiore, ma di lasciarlo stare là dov’è» 5. Sebbene in un altro contesto, ma fondamentalmente nello stesso senso, anche noi nello zen siamo ammoniti da quel Kôan «Cipresso in giardino»: «Non abbattere, non spezzare quell’albero rigoglioso. Presso la sua fresca ombra infatti riposano gli uomini». Forse possiamo ora, memori di quanto detto, riassumere così: il pensiero di Heidegger e il buddismo zen sono concordi quantomeno nell’abbattere il pensiero rappresentante. L’ambito della verità così aperto, mostra in entrambi una parentela non ancora chiarita ma molto intima. Tuttavia, mentre il buddismo zen non giunge ancora a chiarire in maniera pensante l’ambito della verità ovvero della non-verità relativamente ai suoi tratti essenziali, il pensiero di Heidegger tenta incessantemente di portare alla luce i tratti essenziali dell’Ale\theia (s-velatezza). Questa differenza ci fa notare una lacuna nel buddismo zen – quantomeno nella sua forma tradizionale. Ciò che manca al buddismo zen tradizionale è un pensare e interrogare epocale del mondo. Riguardo tale questione del mondo dobbiamo imparare dal pensiero di Heidegger ciò che è decisivo, e farlo nostro – in particolare il suo inaudito pensiero del Gestell in quanto essenza della tecnica. Altrimenti il buddismo zen stesso diverrebbe un albero secco. Altrimenti nessuna filosofia giapponese potrebbe prendere l’abbrivio dallo zen.

4 5

M. Heidegger, L’abbandono, cit., p. 54. Ibidem.

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Questa serata è una festa. Il nostro vecchio, grande pensatore è tornato a casa. Per festeggiare questo ritorno, vorrei concludere questo discorso celebrativo e di ringraziamento con una poesia antica: «Torniamo a casa! Verso Sud, Nord, Est e Ovest. Nel profondo della notte guardiamo insieme la neve sulle rocce dalle mille stratificazioni».

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DAL RINGRAZIAMENTO DI HEIDEGGER

In questi giorni, e anche ora, torno spesso col pensiero alla festa così ben riuscita per il mio settantesimo compleanno. È come se fosse stata oggi; e tuttavia in mezzo vi è un decennio. In questo breve spazio di tempo il mondo irrequieto ha subito cambiamenti che si sono susseguiti velocemente. L’aspettativa, già prima assai dubbia, che ciò che è proprio della patria potesse ancora essere salvato in modo immediato, in questa aspettativa non possiamo più proseguire. In modo ancor più preciso parla ciò che ho scritto nel 1946 a un amico francese: «La spaesatezza è il destino del mondo» 1. L’uomo moderno si sta sistemando in questa spaesatezza. Ma questa spaesatezza si nasconde dietro un fenomeno che il mio amico Tsujimura ha accennato, e che io chiamo «civiltà mondiale», la quale nel secolo scorso ha fatto irruzione anche in Giappone. Civiltà mondiale, questo significa oggi: supremazia delle scienze naturali, supremazia e priorità dell’economia, della politica, della tecnica. Tutto il resto non è neppure più sovrastruttura, bensì soltanto una struttura laterale fatiscente. Noi ci troviamo all’interno di questa civiltà mondiale. È a essa che il pensiero deve rivolgersi nel confronto. La civiltà mondiale ha raggiunto

1 M. Heidegger, Segnavia, cit., p. 292. In realtà, in Segnavia si dice «la spaesatezza diviene un destino mondiale». [N.d.C.]

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nel frattempo tutta la terra. Per questo il nostro stato di bisogno [Not], caro Tsujimura, è lo stesso che il vostro. Lei si aspetta molto dai cittadini di Meßkirch e da me, con il suo tentativo di rendere «comprensibile» con pochi esempi il buddismo zen. Non posso approfondire questo tema, vorrei piuttosto accennare a un fatto che forse anche lei conosce. Nel 1929 ho tenuto a Friburgo, come successore del mio insegnante Husserl, la conferenza inaugurale dal titolo Che cos’è metafisica?. In questa conferenza si parlava del «nulla»: ho tentato di segnalare come l’«essere», a differenza di ogni «ente», non è un «ente», e in questo senso è «nulla». La filosofia tedesca e anche quella straniera hanno designato la mia conferenza come «nichilismo». Nell’anno successivo, il 1930, un giovane giapponese di nome Yuassa, forse dell’età di suo figlio e dallo stesso aspetto, che l’aveva ascoltata – era al primo semestre – l’ha tradotta in giapponese. Aveva capito ciò che questa conferenza intendeva mostrare. Deve bastare questo come risposta al suo discorso. La ringrazio e la prego di salutare gli amici giapponesi, e in particolare il suo primo insegnante, del quale lei è il successore, professor Nishitani, e di serbare insieme a me la memoria del di lui insegnante, il professor Tanabe, il quale nel 1922, quando anch’io ero un principiante, venne a Friburgo, dove cercai di avvicinarlo ai tratti fondamentali e metodi del «pensiero fenomenologico». Divenne il più importante pensatore del Giappone e morì solitario tra i monti, probabilmente nel modo che lei ha appena descritto.

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MARTIN HEIDEGGER-TAKEHIKO KOJIMA CARTEGGIO (1963-1965) 1

Tokyo, 5 luglio 1963 Illustre, caro professor Heidegger, otto anni son già trascorsi da quando ho potuto renderle visita a Meßkirch, la sua patria. Sulla via del ritorno ho avuto poi la rara occasione di passeggiare e discutere con lei nell’antica città di Costanza, davanti agli occhi i magnifici monti. È stata un’esperienza di tre giorni soltanto, ma la cui memoria risuona lieve e costante in me, come l’ultima voce nel Sentiero di campagna di Meßkirch. Alcuni anni fa, in occasione della commemorazione di un suo concittadino, il compositore Konradin Kreutzer, lei ha tenuto una conferenza dal titolo L’era atomica [L’abbandono]. Quando nel 1959 un giornale giapponese ne pubblicò un riassunto, ci sembrò quasi come se lei, professore, intendesse in realtà rivolgersi a noi giapponesi. Il potere di politici, ricercatori, tecnici, di congressi e comitati non può cambiare nulla al corso

1 Siamo grati a Takehiko Kojima per aver messo a disposizione copia delle quattro lettere di Heidegger. Purtroppo non si è potuta trovare copia della lettera (o lettere) di Kojima a Heidegger. La lettera aperta di Kojima del 5 luglio 1963, assieme alla lettera aperta di Heidegger del 18 agosto 1963, è stata pubblicata inizialmente in Begegnung, Zeitschrift für Literatur, bildende Kunst und Wissenschaft., a cura di Dino Larese, anno 1, n. 4, con il titolo Martin Heidegger, Briefwechsel mit einem japanischem Kollege [Nota di H. Buchner].

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di questo mondo. Se gli uomini, nell’era atomica, non prestano attenzione al «pensiero meditante», sono allora esposti senza difese alla minaccia della tecnica. Persino nel caso che il pericolo della guerra potesse essere evitato, anche allora, e proprio allora, un pericolo ancor maggiore si farebbe avanti. Proprio allora la tecnica ammalierebbe gli uomini, se ne impadronirebbe, li accecherebbe, così che diverrebbero evidenti il pressante dominio del «pensiero calcolante» e la completa assenza di pensiero. Queste sue parole possono aver fatto da ammonimento per la gente di Meßkirch. Per noi giapponesi lei esprime invece un fatto già compiuto. Permetta, professore, che in questa situazione, seguendo l’invito del giornale Yomiuri Shimbun, le invii un saluto dopo molto tempo, e la preghi cortesemente, nella forma di una lettera aperta, di dire alcune parole che ci indichino un cammino. Da quanto tempo attendiamo con nostalgia che lei rivolga a noi una parola. Già si è spento nella nostra storia lo splendore della divinità. È accaduto in modo tanto rapido, vorrei quasi dire in un sol colpo. Specialmente in Giappone l’epoca della notte del mondo diviene sempre più povera. «Essa è già povera a tal punto da non esser più neppure capace di percepire la mancanza di dio in quanto mancanza». In Europa si è sentito l’arrivo della notte del mondo già all’inizio della sera. Nel modo più puro nella poesia di Hölderlin, e anche grazie a Kierkegaard e, verso la fine del secolo, grazie a Nietzsche, come lei ci spiega. Ma proprio allora i nostri padri in Giappone non hanno percepito nulla di questa notte che stava arrivando. Essi hanno atteso piuttosto un «mattino del Giappone», hanno considerato la restaurazione Meiji (1868) come il crepuscolo del mattino. Tale crepuscolo ha significato tuttavia soltanto che il Giappone fu stimolato, in quanto membro del mondo europeizzato, a una nuova crescita. L’interesse dei nostri padri nei confronti dell’Europa era rivolto soprattutto alla civiltà moderna. Anche in Europa, mentre si realizzava il moderno stato centralizzato, ci si abbandonava alla gioia per la ricchezza dello spirito mondiale che si andava affermando. E tuttavia già allora la voce de La nascita della tragedia era udibile con tutt’altro tono. Il Giappone, nel corso dell’ultimo secolo, ha proseguito impassibile sul cammino che conduce all’europeizzazione del mondo. Ha letteral-

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mente abbandonato se stesso per poter accogliere tutto ciò che è europeo. E questo senza aver preparato uno spazio entro il quale poter esercitare tale accoglienza. Ha accolto infine anche la tragedia della bomba atomica. Si può in qualche modo affermare che nessun altro paese sulla terra quanto il Giappone, grazie alla sua peculiarità storica e geografica, era destinato ad accogliere tutto e tutto lasciar coesistere. Oggi tuttavia esso è sommerso del tutto nella quotidianità di questa coesistenza. Il crepuscolo giapponese è come un’imitazione di crepuscolo, tutto avviene come in un sogno a occhi aperti. Sempre maggior produzione, sempre maggior tecnologia, sempre più conferenze. Qui non è più possibile neppure rinvenire traccia degli dei che fuggono. Qui si predica con gran baccano sulla «messa al bando della guerra», e si sogna un’imitazione di pace. Naturalmente il Giappone non è solo in questo sogno a occhi aperti. I figli tardivi dell’Illuminismo europeo: gli Stati Uniti d’America, il Giappone moderno nel mezzo della rivoluzione industriale, la Russia a partire dalla Prima Guerra Mondiale, la Cina a partire dalla Seconda e con essa i nascenti stati asiatici e africani, tutto questo mondo europeizzato al di fuori d’Europa si dirige verso l’assenza di umanità in maniera ben più sconsiderata che la sua stessa madre, l’Europa. La ragione risiede forse nel fatto che i fondamenti del moderno mondo tecnico, posti in Europa, in Europa sono anche radicati in modo più profondo e solido, così che l’agonia dell’umanità che muore, percepibile in questo mondo tecnico, in Europa viene sentita con maggiore forza. Forse è per questo che lì si trova anche il terreno storico sul quale l’uomo può nuovamente essere legato al fondamento dell’essere, venendo il fondamento dell’essere fondato nell’abisso dal quale giunge l’eco dell’agonia. Noi ascoltiamo continuamente la chiamata a una nuova fondazione del fondamento dell’umanità dalla bocca di quei poeti e filosofi europei cui lei, professore, ha giustamente assegnato la loro rispettiva posizione, siano Leibniz o Pascal, Hegel oppure Hölderlin, Nietzsche oppure Rilke. Qui è udibile l’agonia dell’uomo che diviene estraneo al suo fondamento, almeno la volontà di fondamento regna sicuramente qui. Ma nella modernità europea al di fuori dell’Europa, il mondo tecnico-scientifico europeo è stato ovunque accolto come qualcosa di as-

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solutamente necessario, è stato salutato come il primo degli ospiti d’onore. Sin dall’inizio ha scacciato il modo d’essere di ciò che era al servizio di, e ha preso il posto del padrone. Servirlo significava servire il progresso dell’umanità. Ciò fu la ragione per la quale tale mondo tecnico giunse con ben maggiore facilità e rapidità che l’Europa stessa a una autonomia sociale ed economica di proporzioni enormi. Così, la rappresentazione del moderno progresso tecnico ha potuto innalzarsi con tanta facilità alla posizione di sovrano dominio al posto dell’essere dell’uomo. Soltanto così diviene comprensibile allora come i grandi e tecnicamente ed economicamente forti stati extraeuropei possano affrettarsi con tutte le forze sul cammino verso una «guerra tecnica» astratta e assurda sino al ridicolo. Non soccombe in verità l’Europa attuale a una duplice agonia? Da un lato nell’agonia interna dell’autoestraneazione dell’uomo attraverso il destino [Geschick] della sua propria epoca moderna, e dall’altro lato in quella che incombe dall’esterno della catastrofe mondiale dell’umanità, nella quale l’abissale concorrenza tecnica dei nuovi stati nutriti dall’eredità europea sta per trascinare tutto? La seconda minaccia sembra qui «inviare» un destino ancor più ampio, mondiale. Le moderne grandi potenze non europee, senza aver avuto il tempo per attrezzarsi con una cultura propria, sono state per così dire trasferite d’un sol balzo nell’epoca atomica. Tale possibilità astratta estenderà quell’imitazione di mondo, che noi chiamiamo il presente, su tutta la terra? Il mondo presente somiglia a un’acrobazia aerea, nella quale l’uomo è gettato avanti e indietro da una possibilità all’altra. L’uomo stesso diviene lì soltanto ancora un’imitazione d’uomo. Se confrontato con questo attacco alla vita e all’essenza dell’uomo per mezzo della tecnica, come lei professore dice, persino l’esplosione della bomba atomica costituisce un evento marginale. Resta ora per il mondo presente, nel mezzo di una guerra che non si può chiamare guerra e di una pace che non si può chiamare pace, la via per una realizzazione dell’essenza dell’uomo definitivamente chiusa? Si potrebbe pensare che lo stupore di fronte alla verità sia andato perduto per sempre nella minaccia reciproca della concorrenza tecnica internazionale.

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Una simile concezione escatologica del presente tuttavia è sempre stata estranea agli orientali, in particolare a noi giapponesi. Noi giapponesi ci sentiamo protetti nell’abbraccio della natura. Naturalmente qui non intendo la via del ricordo, sulla quale l’uomo entra nella «Natura» (con la maiuscola), come lei professore segnala in Leibniz. Voglio soltanto dire che per i giapponesi la natura è un diffuso e aperto sentimento d’essere. Non la constatazione della soggettività in quanto libero arbitrio, lo si potrebbe bensì chiamare un giocoso affondare nella «natura asiatica» e nella «astoricità asiatica», come la chiamava Hegel. Pertanto il vento soffia sempre in nostro favore, e sorge una sete che tutto vorrebbe prosciugare. Questa è la ragione per cui il Giappone, come detto in precedenza, ha potuto, e «dovuto», accogliere e lasciar coesistere una accanto all’altra in sequenza la civiltà del continente cinese, il buddismo, la civiltà europea e molte altre correnti di pensiero. Perciò non ci isoliamo dagli altri popoli, ma neppure abbiamo un sentimento escatologico. I giapponesi non incontrano se stessi alla maniera degli europei, il loro genio li fa acclimatare, in accordo con la disposizione d’animo del momento, nell’atmosfera che li circonda. La parola giapponese per «umore» significa infatti all’origine «acclimatizzazione» (prender parte all’aria). Espresso in maniera puramente giapponese, con le parole di un poeta e monaco buddista: «Se si è malati si consideri la malattia come la cosa migliore, se è giunta l’ora di morire si consideri la morte come la cosa migliore. Questo è l’unico modo in cui si può sfuggire all’infelicità». Il suo atteggiamento di «abbandono» è quella fresca disposizione d’animo che segue alla rinuncia a sé, quando l’uomo è completamente affondato nella natura ed è nuovamente emerso dalle sue profondità. Questa disposizione d’animo non parla le fiere parole di uno Zarathustra, che scende dalle alte montagne; essa ci proclama in un sobrio apologo di come, nelle profondità della terra, si nasconda la fonte della vita. Questa chiamata è divenuta canto, dialogo zen, haiku. Per senso ed etimologia, in Giappone «canzone» significa una «chiamata». In silenzio la canzone indicava la vera dimora dell’essere, e invitava a raccogliersi lì. In questo invito si mostrava ai giapponesi come dolore e amore, rinuncia e speranza possano convivere tra loro.

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E tuttavia proprio la quotidianità di questa «illuminazione» giapponese dà origine a una spaventosa stupidità di fronte alla storia. Tale stupidità è simile a una eterna notte bianca, dalla quale non si passa mai a un «mattino del mondo». Questa coabitazione giapponese di giorno e notte impedisce forse l’arrivo della «notte santa» cui potrebbe seguire un vero mattino. Temo che in questa situazione ogni parola debba divenire come la tragedia di Cassandra, e quanto più la parola è vera, tanto più sarà così. E pur tuttavia l’unica cosa cui noi possiamo prestar fede è una simile parola, la quale è in grado, anticipando questo mattino del mondo la cui venuta non possiamo conoscere, di calarsi in questa lunga notte. Possa tale parola giungere a noi sempre di nuovo, rievocare il nostro passato e risuonare sin nel futuro! Con tale speranza attendo, professore, una sua amichevole risposta. Kojima *** Prof. Heidegger 78 Freiburg i. Brsg. Zähringen Rötebuck 47 Germany 10 luglio 1963 Egregio signor Kojima, la ringrazio di cuore per la sua grande lettera dallo sguardo ampio e profondo. Mi è rimasto un buon ricordo della sua visita. Nutro comunque alcuni dubbi se, nella nostra epoca povera di riflessione, una parola in un giornale possa avere un qualche effetto. Ma lo stato di bisogno dell’epoca richiede che si tenti anche uno sforzo limitato, in particola-

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re che questo debba essere inserito in quell’orizzonte mondiale che lei ha esposto. Poiché tuttavia è facile che, a partire dal comune punto di vista europeo, percorsi comuni e il già detto si trovino vicini, sarebbe per me importante, onde evitare ripetizioni e per limitare il testo alle mie proprie riflessioni, conoscere i contributi di Barth, Jaspers e Marcel. Se non è per lei troppo lavoro la pregherei pertanto di inviarmi copia del testo tedesco o francese degli autori citati. Dal 19 luglio sino all’inizio di agosto sarò a 79 Messkirch/Südbaden Hotel Hofgarden Potrei inviarle il mio contributo appena in settembre, il testo deve esser infatti ben meditato in ogni parola. Che ne pensa della proposta che io pubblichi al momento opportuno in un giornale tedesco (per esempio Die Welt) la sua importante lettera e la mia risposta? Le invio, tramite la casa editrice Günter Neske di Pfüllingen, il mio piccolo scritto Die Technik und die Kehre. In ragione dell’argomento non mi aspetto alcun onorario, e mia moglie prega anche di astenersi da regali. Con un lieto ringraziamento per aver avuto sue notizie dopo anni, la saluto cordialmente con i migliori auguri per il suo lavoro Suo Martin Heidegger *** Egregio signor Kojima, con la presente le giunge il mio tentativo di rispondere alla sua lettera del 5 luglio 1963. Spero che il testo non sia venuto troppo lungo e non ponga difficoltà troppo grandi per la traduzione.

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Non mi è ancora chiaro in quale maniera le due lettere potrebbero essere pubblicate qui da noi. La cosa migliore sarebbe un opuscolo ad hoc. Per una cosa del genere d’altronde è troppo breve, almeno agli occhi di un editore. In ogni caso la aggiornerò tempestivamente relativamente al tipo di pubblicazione. Posso anche pregarla di inviarmi tramite la casa editrice, in luogo dell’onorario proposto, 10 copie dell’opuscolo Gelassenheit a cura di H. Buchner e T. Kakihara? Sono contento che la sua lettera mi abbia offerto l’occasione e l’opportunità di dare ai suoi connazionali un piccolo aiuto per riflessioni ulteriori. Con i migliori auguri per il suo lavoro La saluto cordialmente Martin Heidegger *** Illustre collega Kojima! Mi permetta di considerare la sua lettera così profondamente meditata in modo da ricondurne il contenuto a tre domande. In tal maniera potremmo giungere in prossimità della questione del pensiero più bisognosa di interrogazione. 1) Cosa significa europeizzazione del mondo? 2) Cosa intende la sua parola «assenza di umanità»? 3) Dove si mostra una via verso ciò che è proprio dell’uomo?

1) Cosa significa europeizzazione del mondo? Con l’europeizzazione del mondo qualcosa ha preso le mosse dall’Europa e si estende in modo inarrestabile su tutta la terra. Con il nome «Europa» intendiamo l’Occidente moderno. L’epoca moderna è l’ultima della sua storia [Ge-

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schichte] come si è sviluppata sino a qui. Quest’epoca si lascia caratterizzare a seconda dei diversi punti di vista della concezione storiografica [historisch]. Nella misura in cui tuttavia noi intendiamo riflettere su ciò che è specificamente europeo in relazione al suo dominio planetario, dobbiamo chiedere: da dove proviene questo dominio? Da dove trae la sua forza inquietante? Cos’è in essa ciò che domina? Fintanto che noi prestiamo attenzione al rapporto tra l’uomo e il mondo, il suo segno più visibile può essere considerato la tecnica moderna. Sulla sua scorta si è costituita la moderna società industriale. L’immagine corrente interpreta la tecnica come applicazione della fisica matematico-sperimentale in vista della liberazione e dello sfruttamento delle forze della natura. È nella nascita di questa scienza che si vede l’inizio dell’epoca moderna in Occidente, e cioè di ciò che è specificamente europeo. Da dove si definisce ciò che è proprio della moderna scienza della natura? Essa mira a un sapere che garantisca la prevedibilità dei processi naturali. Soltanto ciò che è precalcolabile è considerato essente. Il progetto matematico della natura, che si realizza nella filosofia teorica, e il conforme ad esso interrogare sperimentale della natura, la costringono sotto alcuni aspetti a rispondere. La natura viene così provocata, cioè posizionata [gestellt], a mostrarsi in una oggettività calcolabile. Se pensiamo la tecnica a partire da ciò che è inteso nella parola greca «techne», allora tecnica significa: essere esperti nel produrre. «Techne» indica un modo del sapere. Pro-durre [Her-stellen] significa: porre qualcosa, che in precedenza non si trovava in quanto presente, nel Manifesto, nell’Accessibile e nel Disponibile. Tale pro-durre, cioè ciò che è proprio della tecnica, si compie in un modo peculiare all’interno della storia dell’Occidente europeo attraverso il dispiegamento della moderna scienza matematica della natura. Il suo tratto fondamentale è ciò che è specifico della tecnica, il quale viene alla luce nella sua nuova e autentica forma innanzitutto attraverso la fisica moderna. Per mezzo della tecnica moderna viene dischiusa l’energia chiusa nella natura, ciò che è dischiuso viene trasformato, ciò che è trasformato rafforzato, ciò che è rafforzato accumulato, ciò che è accumulato viene distribuito. I modi se-

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condo i quali viene assicurata l’energia della natura sono guidati, e questa guida deve a sua volta assicurare se stessa. Ovunque regna il posizionare [stellen] provocante, assicurante, calcolante. Nel frattempo il pro-durre di energie si è esteso perfino alla produzione di elementi e materiali che non esistono in natura. A questa potenza del posizionare è sottomesso anche il carattere tecnico della scienza moderna. Si tratta di esperire la potenza del posizionare come ciò che fa apparire ovunque tutto ciò che può essere ed è in quanto disponibilità [Bestand] calcolabile e da assicurare – e soltanto in quanto questo. La potenza del posizionare è così poco un artificio umano che a essa sono sottomesse in egual misura la scienza, l’industria e l’economia, restano cioè da essa disposte [bestellt] nel loro produrre rispettivamente diverso. Ciò che è inevitabile e inarrestabile di questa potenza, estorce l’ampliamento del suo dominio su tutta la terra. Al carattere proprio di questa potenza appartiene che essa sempre oltrepassa sia temporalmente che spazialmente ogni livello di dominio precedentemente raggiunto. Il progresso della conoscenza scientifica e delle invenzioni tecniche appartiene alla normatività del posizionare. In nessun caso esso è soltanto uno scopo posto innanzitutto dall’uomo. In conseguenza di tale dominio della potenza del posizionare le culture nazionali cresciute su una base regional-popolare vengon meno (per il momento oppure per sempre?) in favore del rendere disponibile e preparare una civiltà mondiale. Il discorso sull’europeizzazione del mondo coglie qualcosa di giusto. Esso resta tuttavia una superficiale formula storico-geografica finché tralasciamo di meditare sullo specifico della potenza del posizionare. Questo richiede innanzitutto di domandare se il nostro pensiero e la sua tradizione abbiano la predisposizione a mettersi in ascolto dell’appello di questa potenza, e a dire in modo adeguato il posizionare che in essa regna. Persino il pensiero europeo-occidentale, il quale per primo è stato toccato e determinato [gestellt] da questa potenza del posizionare, nella forma che ha sin qui avuto non è in grado di interrogare la potenza del posizionare nel suo tratto specifico. Se meditiamo su quanto detto diviene dunque chiaro in che misura già soltanto la chiarificazione delle domande che seguono debba restare sul terreno preparatorio della supposizione.

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2) Cosa intende la sua parola «assenza di umanità»? Nella nostra lingua l’espressione «assenza di umanità» non è usata ed è incomprensibile. Dal testo della sua lettera diviene tuttavia chiaro in quale direzione si muovono i suoi pensieri sull’uomo nell’epoca della tecnicizzazione senza limiti. L’uomo si trova sotto la crescente minaccia di perdere la sua umanità. Si intende qui ciò che lo distingue, il suo tratto proprio. Questo può essere rappresentato nel senso dell’interpretazione europeo-occidentale o orientale dell’esser uomo, si pensa in ogni caso a una determinazione dell’uomo di lunga tradizione, che ora è in pericolo di estinguersi. Di conseguenza l’uomo non può più essere quello che era prima della sopraffazione da parte della potenza del posizionare. Più grande del pericolo di tale perdita sembra restare solamente l’altro pericolo: che all’uomo sia impedito di divenire ciò che sinora non poteva ancora propriamente essere. Per poter scorgere questo pericolo, si tratta di chiedere: in che modo l’uomo è esposto alla potenza del posizionare [Stellen]? L’uomo stesso, senza prestarvi attenzione, è posizionato [gestellt], cioè provocato, a rendere disponibile [bestellen] ovunque il mondo, cui appartiene, in quanto disponibilità [Bestand] calcolabile, e allo stesso tempo assicurare se stesso relativamente alle possibilità del disporre [bestellen]. L’uomo rimane così fascinato nella volontà di disporre [bestellen] ciò che è calcolabile e la sua fattività. Consegnato alla potenza del posizionare, l’uomo si ostruisce [verstellt] da solo la via nel Proprio del suo Esserci. Né la minaccia esteriore di una catastrofe mondiale nel senso di un annientamento fisico dell’uomo, né la minaccia interiore del mutamento dell’uomo nella soggettività in sé divaricantesi contengono la minaccia decisiva per l’umanità dell’uomo. Entrambe sono infatti già soltanto conseguenze del destino per cui l’uomo, esposto alla potenza del posizionare, in quanto da essa per essa disposto persegue l’assicurazione della disponibilità [Bestand] del mondo, e così facendo gira a vuoto. A ciò corrisponde la strisciante noia dell’Esserci la quale, in apparenza non causata da nulla e mai veramente confessata, viene sì nascosta dall’industria dell’informazione, del divertimento e dei viaggi, ma in nessun modo eliminata. Nel fatto che ciò che è proprio dell’uomo sia a questi negato dalla potenza del posizionare si trova la più grave minaccia all’umanità dell’uomo. E già si è fatta largo la domanda:

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3) Dove si mostra ancora una via verso ciò che è proprio dell’uomo? Se la potenza del posizionare [Stellen] soverchia l’intero del mondo, allora al di fuori di essa non vi è più alcun ambito ove potrebbe mostrarsi la via che cerchiamo. Pertanto, resta solo la possibilità di esplorare il cammino all’interno dell’ambito del dominio della potenza del posizionare. Ma qui il disporre stesso dell’uomo ostruisce il cammino verso ciò che è proprio dell’esser uomo. Ma che fare se la potenza del posizionare custodisce in sé un abbozzo di ciò che è proprio dell’uomo e di lui soltanto? Se le cose stanno così, allora dobbiamo, per fare esperienza di questo, portare allo sguardo in modo proprio l’esercizio [Walten] del posizionare. Ciò richiede che noi, piuttosto che darci al disporre e osservare il mondo tecnico, arretriamo di fronte all’esercizio del posizionare. È necessario il passo indietro rispetto a ciò. Ma indietro dove? Deve bastare qui di esemplificare la questione attraverso formulazioni negative. Il passo indietro non significa una fuga del pensiero in epoche passate, e soprattutto non intende rimettere in vita l’inizio della filosofia occidentale. Passo indietro non significa qui neppure un regresso in opposizione al progresso che trascina via ogni disporre, dunque un disperato tentativo di fermare il progresso tecnico. Il passo indietro è piuttosto passo al di fuori del tracciato sul quale accadono progresso e reazione. Attraverso questo passo del pensiero, la potenza del posizionare giunge in un aperto contro-, senza per questo divenire oggetto. Per questo passo, la potenza del posizionare diviene visibile nel suo rapporto con il disporre umano delle disponibilità [Bestände] calcolabili del mondo. Si mostra qui: l’uomo è colui che è provocato dalla potenza del posizionare a produrre disponibilità calcolabili. La potenza del posizionare necessita di questa pretesa dell’uomo. Anche l’uomo così preteso appartiene allo specifico della potenza del posizionare. L’esser preteso in tal guisa – questo distingue lo specifico dell’essere umano nell’epoca della tecnica. La potenza del posizionare fa apparire tramite l’uomo l’esser-presente del mondo con il carattere della disponibilità [Bestand] calcolabile e da assicurare. Quel che fa esser-presente ciò che è presente, l’ente se-

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condo un antico nome, noi lo conosciamo in quanto essere. La pretesa dell’uomo, la quale regna nella potenza del posizionare, per il disporre (cioè per l’apertura del mondo in quanto mondo tecnico) testimonia l’appartenenza dell’uomo allo specifico dell’essere. Essa costituisce il tratto più proprio della sua umanità. Infatti, soltanto sulla base della sua appartenenza all’essere l’uomo può percepire l’essere. Soltanto rivolgendo lo sguardo a essa si può dire cosa significa ragione, in che misura questa può essere rappresentata come caratteristica dell’uomo. Uno scritto del 1929 (Che cos’è metafisica?) descrive la situazione per cui l’uomo corrisponde all’appello dell’essere e tiene così pronto un luogo di custodia per la sua manifestazione attuale, con la frase: l’uomo è «il luogotenente del nulla». La conferenza, tradotta in Giappone già nel 1930, fu subito capita in Giappone, a differenza dell’incomprensione nichilista di queste parole che ancora oggi circola in Europa. Il nulla citato qui indica ciò che rispetto all’ente non è mai qualcosa di essente, così che «è» il nulla, ma che tuttavia determina l’ente in quanto tale e viene pertanto chiamato essere. L’uomo: «luogotenente del nulla» e l’uomo: «pastore (non signore) dell’essere» (Lettera sull’umanismo, 1947) dicono la stessa cosa. E tuttavia queste formule parlano ancora un linguaggio inadeguato. Però nella presente lettera si tratta soltanto di riconoscere: proprio lo sguardo sul regnare del posizionare, cioè sullo specifico della tecnicizzazione del mondo, indica una via verso ciò che è il Proprio dell’uomo, la cui umanità viene caratterizzata dall’esser pretesa da parte dell’essere per questo scopo. L’uomo è colui che viene fruito [der Gebrauchte] per questo dalla potenza del posizionare. La sua proprietà consiste nel fatto che egli non appartiene a se stesso. Se seguiamo lo sguardo che ci mostra ciò che regna all’interno del mondo tecnicizzato, esso ci concede allora la possibilità di una esperienza decisiva. La potenza del posizionare custodisce in sé, se pensata in modo sufficiente, la promessa per cui l’uomo può giungere in ciò che è proprio della sua determinazione, se si tiene preparato a trattenersi con pazienza all’interno della domanda più bisognosa d’essere interrogata. Questa pensa su ciò in cui si cela lo specifico di ciò che il pensiero europeo-occidentale tradizionale ha dovuto sino a oggi rappresentarsi sotto il nome di «essere».

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Finché il pensiero non si mette sul cammino che gli è indicato con il passo indietro, continuerà a imperversare con la propria malaessenza un errore che ancora circola ovunque. Esso consiste nella pretesa secondo cui l’uomo dovrebbe divenire signore della tecnica e non dovrebbe restarne più servo. Ma l’uomo non sarà mai signore di quel che determina ciò che è il più Proprio della tecnica moderna. Pertanto non può esserne neppure soltanto servo. L’aut-aut di servo e padrone non giunge nell’ambito dello stato di cose che regna qui. Se si riuscirà a porre sotto controllo l’energia atomica, questo significherà già che l’uomo è divenuto signore della tecnica? Assolutamente no. La costrizione al controllo attesta proprio la potenza del posizionare, palesa il riconoscimento di questa potenza del posizionare, tradisce l’incapacità dell’agire umano di prendere il potere su di essa, allo stesso tempo però contiene un cenno a disporsi in modo pensante [nachdenkend] al segreto ancora celato della potenza del posizionare. Tale pensare non è più da compiersi per mezzo della tradizionale filosofia europeo-occidentale, ma anche non senza di essa, non cioè senza che la sua tradizione, resa nuovamente propria, sia portata su un cammino appropriato. La moderna epoca del mondo, che si è sviluppata in pochi secoli ed è stata preparata da due millenni, non si lascia, né in un sol colpo né tantomeno grazie a un artificio umano, portare alla luce in un modo che l’umanità dell’uomo, salvata in ciò che le è proprio, possa in esso trovare soggiorno per abitare. Friburgo i. Br., 18 agosto 1963

Martin Heidegger ***

Egregio collega! Due anni fa lei ha pubblicato nel suo grande giornale una mia lettera, che costituiva la risposta alla sua ampia domanda. Allora ho ritenuto che anche la sua domanda fosse particolarmente importante per una pubblicazione insieme alla mia risposta in una rivista o grande quotidiano

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europeo. Lei era d’accordo con la mia proposta. Ma da allora non mi sono potuto decidere di mettere queste lettere a disposizione di una pubblicazione, perché nessun giornale – mensile o settimanale – mi è sembrato adatto. Ora uno svizzero mi prega di affidargli entrambe le lettere per il suo giornale. Ho dato il mio assenso volentieri. Prego anche lei di rinnovare la dichiarazione di disponibilità che mi ha dato due anni fa. Ho pregato anche il curatore del giornale svizzero di rivolgersi a lei per il suo consenso. Colgo l’occasione della presente per trasmetterle i miei migliori auguri per le sue cose e per il suo lavoro, e con essi i miei più cordiali saluti Suo Martin Heidegger

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NOTA BIBLIOGRAFICA

Patria e pensiero: conferenza tenuta il 3 maggio 1983 a Meßkirch, in occasione dei festeggiamenti per il gemellaggio tra Unoke, il paese natale del filosofo giapponese Kitarô Nishida, e Meßkirch, il paese di Heidegger. Pubblicata in Heimat der Philosophie, edizioni del comune di Meßkirch, 1987. Sul problema della lingua materna in Martin Heidegger: conferenza per la sede di Kyoto dell’emittente radiofonica nazionale NHK, 21 dicembre 1961. La questione heideggeriana del linguaggio: referato tenuto nel corso di una seduta seminariale presso l’Istituto culturale di Tokyo alla fine del febbraio 1961. La traduzione è stata eseguita su una fotocopia del dattiloscritto originale. Alcune delle numerose note a margine scritte a mano sono purtroppo illeggibili. Una cosa più profonda da vita e morte: discorso commemorativo in occasione del 25. anniversario della morte di Martin Heidegger. Messkirch, 26 maggio 2001. Pubblicato in 380 esemplari fuori commercio. Natura e destino di mondo: conferenza tenuta nel corso di un convegno tedesco-giapponese, e successivamente pubblicata in: Thomas Buchheim (a cura di), Destruktion und Übersetzung. Zu den Aufgaben von Philosophiegeschichte nach Martin Heidegger (Distruzione e traduzione. I compiti della storia della filosofia dopo Martin Heidegger), VCH (Acta humaniora), Weinheim 1989, pp. 39-54. La svolta occidentale di Heidegger: conferenza tenuta nell’estate del 1991 nel corso di un simposio dell’istituto di cultura tedesco-giapponese di

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Hartmut Buchner

Kyoto, e ripetuta nel corso del primo convegno internazionale Nishida-Heidegger a Unoke. Simposio e convegno avevano per tema «verso dove si muovono Oriente e Occidente?». Il pensiero di Martin Heidegger e la filosofia giapponese: discorso celebrativo in occasione dell’ottantesimo compleanno di Martin Heidegger, tenuto su invito della città di Meßkirch il 26 settembre 1969 nella sala di San Martino a Meßkirch. Pubblicato per la prima volta nel 1970 dal comune di Meßkirch, rivisto e ripubblicato nel volume collettivo a cura di H. Buchner: Japan und Heidegger, cit., pp. 159-165. Dal ringraziamento di Heidegger: estratto del discorso di Heidegger seguito alla conferenza di Tsujimura. Martin Heidegger-Takehiko Kojima. Carteggio (1963-1965): Dalla nota di Buchner in Japan und Heidegger, cit, p. 216: «Siamo grati a Takehiko Kojima per aver messo a disposizione copia delle quattro lettere di Heidegger. Purtroppo non si è potuta trovare copia della lettera (o lettere) di Kojima a Heidegger. La lettera aperta di Kojima del 5 luglio 1963, assieme alla lettera aperta di Heidegger del 18 agosto 1963, è stata pubblicata inizialmente in Begegnung, Zeitschrift für Literatur, bildende Kunst und Wissenschaft., a cura di Dino Larese, anno 1, nr. 4, con il titolo Martin Heidegger, Briefwechsel mit einem japanischen Kollege».

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NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE DEGLI AUTORI DEI DOCUMENTI E DEL CURATORE

Martin Heidegger (1889-1976), allievo di Rickert e Husserl, è tra i maggiori filosofi novecenteschi. Docente di filosofia nelle università di Friburgo, di cui sarà rettore dal 1933 al 1934, e Marburgo, e autore di decine di saggi di notevole importanza, nel 1927 pubblica Essere e tempo, indicato spesso come il punto di partenza di diversi indirizzi di pensiero contemporanei: dall’esistenzialismo al rilancio dell’ontologia, dall’ermeneutica alla decostruzione. Dal 1975 l’editore Klostermann di Francoforte ha iniziato la pubblicazione di tutti i suoi scritti, editi e inediti. Takehiko Kojima (1903-1992), studia alle università imperiali di Tôkyô e Kyôto con Nishida e Tanabe, componente dell’Istituto nazionale di cultura di Tôkyô, dal 1952 direttore dell’International Philosophical Research Association of Japan e, fino al 1984, professore all’università Meisei di Tôkyô. Si è occupato in particolare di Aristotele e dell’Ellenismo. Kôichi Tsujimura (1922), studia con Tanabe e Nishitani a Kyôto e con Heidegger a Friburgo. Il centro del suo lavoro è l’interpretazione del pensiero di Heidegger a partire dal buddismo zen. Insieme a Buchner, nel 1968, ha curato la traduzione tedesca di un classico della letteratura zen, la storia del bue e del suo pastore. Andrea Cudin (1972), assegnista di ricerca presso l’Università di Trieste, è stato allievo e collaboratore di Hartmut Buchner. Ha pubblicato articoli su Heidegger e tradotto testi di filosofia dal tedesco.

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Syrakousai

Collana diretta da: Dario Giugliano, Manlio Iofrida, Silvano Petrosino

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S. Petrosino (a cura di), Il potere delle parole. Sulla compagnia tra filosofia e letteratura H. Cixous, Tre passi sulla scala della scrittura L. Berta, Derrida e Artaud. Decostruzione e teatro della crudeltà G. Garelli, Letture Kantiane. L’apparente e il contingente M. Iofrida (a cura di), Après coup – l’inevitabile ritardo. L’eredità di Derrida e la filosofia a venire M. Tasinato, Al di là dell’imitazione. 26 telefonate sulla mímesis A. Stavru, Socrate: mito ed etica della conoscenza F. Polidori, Necessità di una illusione. Lettura di Nietzsche M. Arici, Avventure dell’espressione. La pittura, la musica e la nuova ontologia di Maurice Merleau-Ponty

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