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Italian Pages XII,366 [376] Year 1993
STUDI VENETI
Collana diretta da | GAETANO COZZI e GHERARDO ORTALLI
Alfredo Viggiano
Governanti e governati Legittimita del potere ed esercizio dell’autorita sovrana nello Stato veneto della prima eta moderna
Fondazione Benetton / Edizioni Canova
ISBN 88-86177-09-7
Copyright © by Fondazione Benetton, Treviso © by Edizioni Canova, Treviso Tutti i diritti riservati I edizione giugno 1993
Sommario
VII Premessa, di Pierangelo Schiera
XI Ringraziamenti
Governanti e governati 3 1. Venezia e la Terraferma: una difficile integrazione
51 2. L’Avogaria di Comun e la tutela della legalita. Dalla citta capitale al Dominio: le forme del controllo e della mediazione Nella citta di San Marco, 59; Nello Sta-
to da Terra, 67 147 3. Una magistratura per lo Stato da Terra: gli Auditori novi-Sindaci Formazione e attribuzioni, 147; La crisi
di una magistratura, 167 179 4. Il Consiglio dei Dieci e il problema del-
| autorita nello Stato territoriale della se-
conda meta del Quattrocento 275 5. Permanenze e trasformazioni in un’eta di crisi: percezioni dell’autorita e pratiche del potere nel primo Cinquecento
319 Lista delle abbreviazioni 321 Bibliografia utilizzata 345 Indice dei nomi e luoghi
Premessa
A scorrere le pagine di questo volume con cui Viggiano esordisce nella storiografia professionistica, si resta colpiti dall’evidenza con cui un dato emerge su tutti: quello dell’autorita come carattere distintivo della sintesi di potere intorno a cui consiste lo “Stato territoriale”, forma tipologica moderna in cui si traduce pero, quasi letteralmente, l’anti-
ca formula di “Stato da Terra”. Che per Venezia il richiamo alla “terra” avesse a lungo un significato particolare, complementare e quasi negativo della sua essenza marinara, é cosa ovvia. C’é da chiedersi pero se la specificita veneziana fosse davvero cosi spinta da escludere ogni peso “politico” e “costituzionale” all’elemento della terra o se invece quest’ultimo finisse
anche li per giocare un ruolo importante nella costituzione del tema del potere e della sua organizzazione, e quindi nella stessa collocazione della Serenissima nel sistema degli Stati in formazione — prima in Italia, poi su altra scala in Europa — fin dalla primissima eta moderna. Il libro di Viggiano é un solido libro di storia delle istituzioni veneziane, ma qua e la ne emerge la tentazione di voler affrontare proprio questo tema. Infatti esso presenta — quasi in modo emblematico, proprio a causa dell’emblematicita del caso veneziano — l’intera gamma di varianti a cui il tema sottosta: dalla tutela della legalita alla necessita del controllo, al ricorso alla mediazione, attraverso le due strade non autoescludentesi del dominio e dell’integrazione, entrambe sostan-
zialmente orientate, come si é detto, all’affermazione dell’autorita e VII
PREMESSA
all’esercizio efficace di pratiche di potere da parte della ““dominante”’.
Gia da cio si puo intuire la modernita storiografica della ricerca svolta. Essa non si limita al tentativo di ricostruire un percorso istituzionale, gia di per sé irto di difficolta per la complessita degli istituti coinvolti, ma vuole dedicarsi anche alla lettura di quel processo in chiave sistemica, con riguardo alle nuove forze che entrano in gioco e dei reciproci scambi politici che esse intrattengono. S’impongono allora, mi pare, tre livelli principali di considerazione. Il primo tocca un aspetto solo apparentemente esterno del “caso veneziano”, ma in
realta intrinseco alla sua stessa “costituzione”. Mi riferisco alla duttilita ammirevole con cui la Repubblica seppe, per lunghissimo tempo, affrontare la somma crescente dei problemi posti dalle nuove realta territoriali della terraferma con il ricorso ad istituzioni preesistenti che, nell’adattarsi alle nuove funzioni di dominio o di potere del centro, si vennero progressivamente esse stesse modificando, facilitando cosi il processo di crescita anche se, inevitabilmente, qualche volta ponendo problemi di equilibrio all’intero sistema. II caso dell’Avogaria di Comun é, in questo senso, esemplare. Anche procedendo da cio, é forse possibile provare ad evidenziare, in secondo luogo, la logica costituzionale preminente della Serenissima, consistente nella preoccupazione di salvaguardare e possibilmente
incrementare l’unita e la centralita del comando, non solo nel rapporto fra il centro dominante e le comunita periferiche, ma anche alinterno delle stesse istituzioni centrali. La finale compattazione delle funzioni decisorie in capo al Consiglio dei Dieci é la spia pit evidente di questa tendenza. Risulta allora convalidata — ed € questo il terzo punto — l’ipotesi di lavoro complessiva di Viggiano, consistente nel dare importanza prioritaria al tema della legittimita del potere, dedicando grande attenzione all’atteggiamento dei nuovi governati nei confronti dei governanti dominanti. Da questo punto di vista, é posto nel giusto risalto il tentativo riuscito, da parte di Venezia, di sostituire una nuova unitaria ragione di governo (per non dire di Stato) alle molteplici e in parte casuali immagini di autorita (relative alla Chiesa, o all’Impero, o anche semplicemente alle patrie comunali) che connotavano in precedenza la situazione della terraferma. VIII
PREMESSA
Che l’autore sia riuscito a tenere in equilibrio queste facce diverse del problema, conferendo alla trattazione un andamento unitario, senza per questo trascurare la solidita dell’informazione su ciascuno dei punti considerati, é testimonianza non solo della perfetta padronanza del materiale documentario considerato ma anche della bonta dei criteri interpretativi impiegati nella ricostruzione. Cid acquista particolare risalto nella trattazione che l’autore compie dell’attivita delle magistrature coinvolte, esaminate anche alla luce delle competenze professionali dei loro membri. L’Avogaria di Comun, gli Auditori novi,
il Consiglio dei Dieci sono trattati non solo per quanto concerne la loro intrinseca attivita amministrativa, ma anche in rapporto al contatto sempre pit diretto dei sudditi di terraferma col governo centrale e alla necessita emergente, in capo a quest’ultimo, di raggiungere e garantire una gestione unitaria del potere: indice quest’ultimo inequivocabile anche dell’ottica mutata con cui il patriziato veneziano Seppe progressivamente convertire i propri interessi politici dall’esclusiva vocazione marinara originaria a quella, piu matura e sofisticata,
propria di un vero e proprio Stato territoriale. La cifra ricorrente di questo lavoro é insomma quella dell’attenzione alle “permanenze e alle trasformazioni” che, in altre parole, significa una scelta di campo decisa per lo svolgimento costituzionale della vita politica e della stessa organizzazione del potere. In quest’ottica pit larga si diluisce con la dovuta sapienza l’attenzione tecnica per i caratteri specifici delle diverse istituzioni, cosi come acquista uno spessore pill pieno e ricco di contenuti il tema, altrimenti un po’ arido e scontato, della contrapposizione fra Dominante e Terraferma. Nella stessa linea s’inserisce il motivo pil spiccatamente storico-giuridico, relativo all’incontro di due tradizioni giuridiche diverse: quella dei centri di terraferma, di impronta romanistica, e quella del diritto vigente nella Dominante. Effetto importante di cid ma anche segno ulteriore della sapienza politica veneziana, é stato il persistente ricorso, da parte soprattutto degli Auditori novi, alla tecnica dell’equitas, vero e proprio strumento di progressivo adeguamento costituzionale della realta esistente ai nuovi bisogni emergent. Non mi pare di dover aggiungere altro a questa presentazione. Il libro di Viggiano é un libro tecnico, che esige una lettura circostanziata ed attenta da parte degli esperti a cui eminentemente si rivolge. IX
PREMESSA
Per una volta pero — ma ormai nel panorama italiano, soprattutto fra i giovani, il caso sta diventando sempre piu frequente — la precisione tecnica non offusca del tutto la linea di svolgimento degli eventi, pur nella complessita dei rapporti e degli scontri in cui essi si tradussero. Per questo motivo il libro puo offrire gradite sorprese anche a lettori non specialistici: che vogliano perfezionare lo studio della storia costituzionale veneziana, ad esempio, nel difficile trapasso dalPeta fervida delle origini a quella del consolidamento e del rattrappimento del potere; o che vogliano trovare qualche elemento nuovo per instaurare tentativi di comparazione fra il famoso caso veneziano e Pandamento che in altri, piu remoti casi d’Europa, ebbe la cosiddetta “formazione” dello Stato moderno. Pierangelo Schiera
Xx
Ringraziamenti
Il libro che si offre all’attenzione del lettore é frutto della rielaborazione della ricerca svolta nell’ambito del corso di dottorato in “Storia della societa europea” dell’Universita di Venezia, per gli anni 1986-1990.
Il primo affettuoso pensiero va agli amici conosciuti nel corso dell’esperienza del dottorato, alle tante discussioni, serie e conviviali, alle molteplici curiosita che si sono generate nell’ascoltare il dipanarsi di tanti e cosi diversi percorsi intellettuali. E a loro e a Marino Berengo, coordinatore solerte e attento, sempre disposto a spronare e a consigliare, che va il primo doveroso ringraziamento. Nel corso di questi anni ho contratto molti debiti. Vorrei esprimere la mia riconoscenza a Gigi Corazzol, Giuseppe Del Torre, Reinhold
Mueller, Michael Knapton, Gherardo Ortalli, Giorgio Politi, Gian Maria Varanini, Andrea Zorzi: le discussioni che ho avuto con loro, gli scambi di impressioni e di idee, concordi o discordi che fossero, i generosi consigli archivistici o bibliografici che mi hanno offerto, assieme alle indicazioni di possibili sviluppi e a discorsi sul metodo, costituiscono una parte imprescindibile di questa ricerca. Desidero ringraziare anche Giorgio Chittolini ed Elena Fasano Guarini, i quali, nell’ambito di seminari da loro coordinati, rispettivamente alle Universita di Pisa e di Milano, mi hanno offerto l’opportunita di esporre e di chiarire, attraverso la discussione, a me stesso alcune linee della
ricerca che qui si presenta. Luciano Pezzolo e Claudio Povolo, al di la della passione per la storia delle realta venete e veneziane che ci accomuna, mi hanno XI
RINGRAZIAMENTI
dato il sostegno della loro amicizia in un momento per me difficile. Ho contratto con loro un debito di riconoscenza che non sara facile sanare. Gaetano Cozzi mi ha trasmesso, fin dagli anni dell’Universita, la curiosita ed il gusto per i temi della giustizia e del potere, della formazione dello Stato e della legittimita, di cui questa ricerca costituisce il risultato. Gran parte delle ipotesi avanzate e dei problemi affrontati in queste pagine sono frutto del suo insegnamento e del suo esempio, intellettuale ed umano. Gli sono grato per il dialogo sempre stimolante che ha avuto con me nel corso di questi anni, e senza il quale questo libro difficilmente avrebbe visto la luce. Spero di non aver troppo disatteso alle sue speranze. Dedico questo lavoro, con tutto il mio affetto e la mia profonda riconoscenza, ai miei genitori.
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Governanti e governati
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Venezia e la Terraferma: una difficile integrazione
In tempi recenti si ¢ da piu parti sottolineata la necessita di considerare il tema delle origini e delle strutture dello Stato del Rinascimento, secondo categorie interpretative pit duttili rispetto a quelle adottate per il passato, in modo di poter cogliere la dinamica dei rapporti tra governanti e governati senza ridurne la complessita e lirriducibilita a schemi precostituiti1. Ne é uscito corretto l’uso di un concetto “forte” di Stato “inteso come nucleo di sovranita piena e compiuta, non condizionato da interferenze e condizionamenti esterni, concentrato a definire l’autorita del Principe e del suo governo, capace di irraggiarsi e di informare di sé l’organizzazione politica della societa intera, dei corpi, degli individui, delle comunita”. Si viene cosi ad incrinare l’immagine di una razionalita immanente al processo di costruzione statale?, che si dispiegherebbe attraverso un sempre piu deciso assorbimento di nuclei di potere non appartenenti a quella dimensione, e attraverso la costituzione di un apparato fiscale, burocratico e giudiziario dotato di tecniche sempre pit: formalizzate e “impersonali”. Tale messa in discussione di una categoria troppo
astrattamente definita ha determinato una attenzione su quelle forme di potere, di organizzazione politica, che si situano al di fuori di quel presunto processo di centralizzazione. La storia dello Stato viene cosi ad essere interpretata non tanto come sviluppo di una forma di organizzazione politica che dispiega le proprie potenzialita attraverso un processo di gerarchizzazione e disciplinamento delle varie istanze politiche e giurisdizionali che la contrasterebbero, quanto 3
GOVERNANTI E GOVERNATI
piuttosto come storia di corpi e ceti (citta, organismi territoriali, giurisdizioni signorili e feudi) che conservano una sfera d’autorita e d’influenza riconosciuta come legittima dal nuovo Principe*. Ceti ed organismi la cui vicenda non si pone come marginale o residuale di fronte ad un processo di incipiente modernizzazione, bensi in posizione com-
plementare rispetto al potere centrale. Le prime forme di statualita
che emergono dal periodo tardo-medievale nell’Italia centrosettentrionale sarebbero quindi caratterizzate da una tensione tra Prin-
cipe e corpi locali, regolata da una serie di accordi e patti di varia natura, che rimanda alla struttura tipica dello Standestaat diffuso in numerose regioni europee>. Secondo un altro indirizzo storiografico, anche questo tentativo di definire la struttura dello Stato del Rinascimento ed i suoi modi di funzionamento, partendo dall’analisi degli elementi periferici, ma isti-
tuzionalmente organizzati, non é ancora sufficiente a rendere conto della complessa tessitura della realta che si vuole indagare. Esistono altre forme di organizzazione politica piu informali, ma non per questo meno capaci di plasmare e di determinare gli atteggiamenti dei detentori dell’autorita: parentele, reti di protezione, fazioni e rapporti di patronato. Il potere di comando si situa formalmente all’interno della ben ordinata gerarchia delle istituzioni fondate o legittimamente riconosciute dal Principe, ma trova il suo impulso direttivo al di fuori di esse*. Secondo questa prospettiva, istituzioni e diritto non possiederebbero alcuna autonomia rispetto al potere di influenza dei vari gruppi sociali organizzati. Per cogliere l’essenza del conflitto politico, delle forme concrete di legittimazione dell’autorita, del grado di coinvolgimento di ceti ed individui nel processo decisionale, é piu opportuno soffermarsi sulla natura dei networks e sul funzionamento delle strategie particolari, piuttosto che sulla pratica delle istituzioni, dedicando una maggior attenzione nel definire |’intima natura dei poteri “paralleli”, spesso celata dal linguaggio delle istituzioni ufficiali, rispetto ai meccanismi pubblici di gestione deil’autorita’. La crisi di un modello teleologico e forte dello Stato e la difficolta di adottare per le formazioni statali della prima eta moderna termini quali “burocrazia”, “accentramento”, “assolutismo”, “modernizzazione-uniformazione”, sembrano dunque lasciare spazio alle interpre-
tazioni pil. disparate e divergenti: da una parte la svalutazione di 4
VENEZIA E LA TERRAFERMA
tutto quello che attiene la sfera del diritto e delle istituzioni, a tutto vantaggio di una indagine su cio che accade al di fuori delle stanze del potere, dei luoghi ufficialmente deputati al “politico”, per cogliere la vera realta del fenomeno nei legami familiari, nei sistemi di parentela, nel ruolo giocato da associazioni, clan, gruppi d’influenza; dall’altra, un nuovo modo di guardare alla storia delle istituzioni, che non le isoli astrattamente dal contesto di cui fanno parte, ma che sia capace di evidenziare piuttosto la complessa dinamica interna che le anima, di cogliere le varie modalita con cui quelle si rapportano alla struttura sociale. Lo Stato del Rinascimento viene a configurarsi, quin-
di, come un sistema composito all’interno del quale si possono distinguere molteplici forme di diritto, di gestione dell’apparato amministrativo e giudiziario, diversi modi di intendere e di interpretare |’au-
torita, sia dalla parte dei governanti, che da quella dei sudditi. Secondo questo approccio interpretativo, il processo di costituzione dello
Stato non appare né come univocamente tendente ad assorbire e ad eliminare enclaves particolaristiche in vista di un fine ben determinato, ma neppure viene ridotto a soggetto puramente passivo, esposto alle piu diverse influenze, terreno di scontro delle parti che aspirano ad esercitare il potere, semplice definizione lessicale che non rappresenta alcun interesse collettivo®. Il problema di fondo consiste quindi nel cercare di definire, al di la delle resistenze, i momenti di sintesi e di mediazione nel rapporto tra governanti e governati; di comprendere attraverso quali strumenti e quali culture si determini una immagine dell’autorita, ma anche come questa venga recepita dai sudditi. Si tratta quindi di tenere presente sia la permeabilita dell’apparato statale ad altre forze e ad altre culture, che lo sviluppo autonomo di funzioni proprie, la capacita di incidere in determinati settori, di disciplinare o di orientare i comportamenti di ceti e di individui,
sociali. ]
di formalizzare in misura sempre crescente le regole di comportamento
cui si sarebbero dovuti attenere i membri delle istituzioni e i gruppi Il caso dello Stato territoriale veneziano, come si viene costituendo nel corso del XV secolo, sembra rappresentare una sorta di suggestivo laboratorio per la verifica di tale impostazione. Da una parte una citta capitale con una classe dirigente che si era plasmata sull’attivita marittima, che orientava le sue scelte politiche, il suo modo di inten5
GOVERNANTI E GOVERNATI
dere la giustizia, di percepire i rapporti tra gli uomini, sulla base di quella originaria inclinazione’, orgogliosa della sua incontrastata /ibertas, dell’intuizione di quei caratteri che la distinguevano dagli altri Dominii, e che di li a poco verranno elaborati nelle prime forme del “mito” della citta di San Marco?®; dall’altra parte il mondo della Terraferma, nella sua complessa strutturazione politico-istituzionale, nelle diverse forme di organizzazione sociale che lo costellavano: citta, comunita, giurisdizioni feudali. Quali forme assume il rapporto politico che si viene a stabilire tra governanti e governati? Quali le influenze reciproche, i condizionamenti? Quali le istanze che venivano recepite dal Principe; quali i motivi per cui i corpi locali invocavano l’intervento dell’autorita centrale? Per cercare di rispondere a queste domande si é€ scelta un’ottica particolare. Ci si é¢ soffermati sulPattivita di istituzioni di potere che giocarono un ruolo fondamentale nella formazione di alcuni caratteri originali della politica del diritto della Serenissima, e che rappresentarono il principale anello di collegamento tra Principe e sudditi nello Stato territoriale veneto della prima eta moderna. Perfettamente attinente ai fini del discorso che vogliamo svolgere la definizione di istituzione data da Roland Mousnier: “une institution c’est d’abord une idée directrice, l’idée d’une fin déterminée de bien public a atteindre, par des procédures prévues et imposées, selon un comportement obligatoire. Cette idée a eté acceptée par un groupe d’hommes qui se sont chargés de mettre en ceuvre des procédures et d’atteindre cette fin. C’est l’idée directrice et les procédures qui font de ce groupe d’hommes une institution” !!. Ed é grazie all’identificazione con una idea direttrice e al riconoscimento in procedure comu-
ni, continua Mousnier alludendo alla situazione francese, che esiste una giustizia e non solo dei magistrati, una proprieta e non solo dei proprietari, un Consiglio di Stato e non solamente dei Consiglieri. Per interpretare correttamente il senso, la direzione, dell’attivita di una Istituzione é tuttavia necessario, secondo lo storico francese, considerare, nel modo meno formalizzante possibile, il nesso tra procedure e idee del diritto o della giustizia — potremmo definirle ideologie, senza alcuna intenzione valutativa — e quei gruppi sociali che erano chiamati ad incarnarle!2. L’idea direttrice dunque scaturisce non solo da editti, leggi, regolamenti, ma anche ed a maggior ragione 6
VENEZIA E LA TERRAFERMA
dalla corrispondenza amministrativa, dalle sentenze, dall’azione cosciente o incosciente di adattamento alle realta particolari e di interpretazione delle norme da parte di giudici, officiali, magistrati. Ma questo ancora non basta: per comprendere esattamente la valenza di quell’ “idea” si deve cercare di cogliere le modalita attraverso cui viene recepita dalla societa, come essa venga influenzata e modificata dagli atteggiamenti e dalle sensibilita collettive. Alla fine del Trecento, terminata la guerra di Chioggia, Raffaino Caresini, Cancellier grande della Repubblica, affermava con decisione: “proprium Venetiarum esse mare colere, terramque postergare; hinc enim divitiis et honoribus abundat, inde saepe sibi proveniunt scandala et errores” 13. Nel momento in cui il patriziato veneziano poneva in essere quelle scelte che dovranno a lungo determinare la politica della Serenissima, orientandone gli interessi sempre piu verso l’entroterra padano, mondo del mare e dei commerci e mondo della Ter-
raferma erano visti ancora in termini dicotomici. Un dualismo profondo, che le necessita politiche ed economiche di mantenere aperti gli sbocchi commerciali verso Europa continentale non riuscivano certo a sanare. L’acquisto della Terraferma definisce un momento di svolta di primaria importanza nella societa e nello Stato: le stesse sensibilita collettive, il senso dello spazio e del tempo — che si erano modellati sui ritmi commerciali dell’invio delle galere ricolme di merci verso l’oriente —, conoscono profonde modificazioni!*. La terra: la maggior certezza che essa poteva offrire di un produttivo investimento dei propri capitali rispetto alle rischiose attivita marittime incrinava la tradizionale compattezza della classe dirigente veneziana'°, “fissava un diverso equilibrio — come ha scritto Aldo Mazzacane — tra gli antichi ideali e la nuova fisionomia dello Stato, del patriziato che lo governava e che in esso si risolveva, dell’ideologia politicoreligiosa che lo sorreggeva”!*. Le possibilita, create dalla conquista dello Stato da Terra, di godere di benefici ecclesiastici, di numerose cariche di governo, di pit diffuse proprieta terriere, non potevano non provocare assestamenti e trasformazioni all’interno del ceto di governo della Serenissima?’. Nel passaggio tra il dogado di Tommaso Mocenigo a quello di Fran-
cesco Foscari, dunque, la Terraferma si trasforma da entroterra della laguna a Dominio territoriale, e nello scontro riassunto idealmente 7
GOVERNANTI E GOVERNATI
nei discorsi dei suoi due massimi rappresentanti del XV secolo!® — attorno al problema degli svantaggi e dei vantaggi connessi alla politica di espansione verso la “Lombardia” — si evidenzia quella sorta di carattere originale della storia politica e sociale della Serenissima, del suo atteggiamento di fondo nei confronti delle realta soggette, costituito da una continua oscillazione tra separatezza e integrazione!?. L’insieme degli interrogativi che si pongono alla nostra attenzione potrebbe essere cosi riassunto: in cosa consistono i criteri di legittimazione dell’autorita della Repubblica di San Marco? Attraverso quali modalita la classe dirigente veneziana ha cercato di fondare un germinale senso di obbedienza sulle molteplici realta ad essa sottoposte? Come é stata recepita dai sudditi l’imposizione di un sistema giuridico e amministrativo, estraneo alle loro tradizioni? Prima di intraprendere una analisi pil minuziosa ed interna degli stili giudiziari degli organismi cui abbiamo gia accennato, é opportuno identificare preventivamente quali percezioni, e quali forme del potere e dell’autorita, quali sentimenti di appartenenza e quali tradizioni, si muovevano all interno del mondo della Terraferma, si sovrapponevano, confliggevano, oO si integravano con il modello veneziano.
Il mito politico certamente pit diffuso a tutto il Quattrocento, e comune a vasti strati delle popolazioni venete, é sicuramente quello dell’ Impero. Accoglienze trionfali avevano salutato 1 passaggi dei vari re dei romani, da quello di Sigismondo (1436) a quello di Federico
Ill (1489)2°. Un mito che, al di la degli effetti coreografici, poteva inficiare la stessa legittimita del dominio veneziano sulla Terraferma. Legittimita che si fondava su due principi, espressione di due differentie complementari visioni della sovranita: la spontanea dedizione delle citta soggette e lo ius belli?!. Attraverso la prima si pensava presumibilmente di far passare una immagine della nuova autorita, paterna e tollerante, che non urtasse le suscettibilita e le resistenze dei centri appena conquistati; la seconda suonava come una piu netta e decisa affermazione di sovranita, pil’ consona alla percezione di sé del patriziato veneziano come terzo e indipendente potere, oltre al papato e all’impero2?. Venezia non ne faceva una questione di principio, e la possibilita di poter godere di un cosi ampio dominium, assieme alla considerazione del pericolo della perdita dello Stato — assai forte almeno fino alla fine degli anni trenta del secolo —, la spin8
VENEZIA E LA TERRAFERMA
geva ad adottare una linea compromissoria. Se alcuni giuristi della Terraferma, o estranei al patriziato, — pensiamo a Pietro del Monte — affermavano che tutte le giurisdizioni temporali derivassero e non potessero che essere delegate dall’imperatore??, nella citta capitale non
si aprivano certo le porte ad un pericoloso dibattito sui fondamenti della sovranita. I] 23 marzo 1437 il Senato aveva commesso all’ambasciatore Marco Dandolo di convincere il re dei romani della legittimita dell’acquisizione della Terraferma veneta da parte della Repubblica2*. Lo stesso anno Sigismondo moriva con la tenue consolazione di un formale riconoscimento della sua autorita da parte della rivale, ma con il rimpianto di non essere riuscito nell’impresa di sottrarre le terre della “Lombardia” a chi le aveva indebitamente occupate, ai “rebelles nostri veneti”, come si era espresso con tono accorato in una lettera del 1426 al vescovo di Trento?°. Forse proprio perché il riconoscimento della “superiorita” imperiale da parte della Repubblica sembrava non avere alcun effetto pratico, mentre il potere veneziano si rafforzava con il trascorrere degli anni, Venezia mostrava una notevole tolleranza rispetto alle varie fogge assunte, nei diversi strati delle popolazioni soggette, dal nostalgico attaccamento all’antica autorita: chi ricercava la nomina, presso la cancelleria del re dei romani, di Conte Palatino, nella speranza che questo titolo legittimasse una posizione di preminenza all’interno della cerchia urbana e facilitasse l’accoglimento al collegio dei notai; chi faceva scolpire i simboli imperiali sulle mura del palazzo avito; chi menzionava nelle ultime volonta la suprema autorita terrena; chi faceva incidere sulla pietra tombale, assieme alle insegne familiari, quelle
dell’imperatore2°. C’era anche chi otteneva, dallo stesso imperatore, la solenne investitura di una qualche giurisdizione: il vicentino Marco Thiene veniva nominato, nel 1461, conte di Quinto, con il potere di esercitare il “merum et mixtum imperium et gladii potestatem” 2’. In realta, le funzioni politiche e giurisdizionali del nuovo dominus risultavano pressoché nulle. Segni di una scarsa presa ideale ed emotiva della politica della Repubblica presso ampie fasce dei ceti eminenti delle citta soggette, di un disagio tollerato da Venezia nel corso
del XV secolo finché si manifestava in forme esteriori e non ne metteva in discussione |’autorita sovrana, non si trasformava in progetto politico e in aperta ribellione, quale si verificd negli anni delle 9
GOVERNANTI E GOVERNATI
guerre d'Italia, quando ampi settori delle classi dirigenti delle citta della terraferma veneta accolsero trionfalmente, all’indomani della tragica giornata di Agnadello, la “liberazione” dai tiranni veneziani per mano di Massimiliano d’Asburgo?®. Di tale particolare atteggiamento della Serenissima fa fede il fatto che, ancora nel 1483, in una citta tranquilla e, secondo la tradizione, scevra da livori antimarciani quale Treviso si tollerasse che, sulla facciata principale del bel palazzo del-
la Ragione, campeggiasse “una gran aquila, in demonstratione che fu terra dell’Imperio”?*?. Anche a Padova si consentiva, senza avvertire un eccessivo disagio, a che nel palazzo del Capitano, “bellissimo, primo, ut multi dicunt, de Italia”, lillustrazione delle benemerite opere
del rappresentante della Serenissima fosse circondata dai ritratti di “cuti li Imperadori et viri illustri”, quasi che il ceto eminente patavino intendesse bilanciare, con il prestigio della tradizione e di una autorita “altra”, la pretesa autocelebrativa dei nuovi domini>°, Molteplici fattori di ordine politico, diplomatico, giuridico, ma anche riguardanti la sensibilita collettiva, il senso della tradizione, andavano dunque progressivamente erodendo la persistenza dell’idea del-
Pautorita imperiale quale fonte alternativa al dispiegarsi della sovranita veneziana. Esistevano altre realta all’interno dello Stato territoriale veneto in cui l’avvenuta subordinazione ad un potere esterno e distante accentuava il sentimento della propria particolarita, rafforzava l’attaccamento alla propria piccola patria. Avremo modo di tornare piu volte nel corso di questa ricerca sulla fondamentale posizione rivestita dalle citta del Dominio, e sulle resistenze che esse opponevano ad ogni tentativo operato dall’autorita veneziana mirante a diminuire o a circoscrivere privilegi ed autonomie tanto tenacemente affermate. Un orgoglio civico che si sostanziava di molteplici elementi. Gia nella scelta del lessico politico, dei termini con cui il ceto diri-
gente di una citta come Vicenza percepiva la propria identita, e nel diverso contenuto attribuito a quegli stessi termini da parte delle magistrature della Dominante, si riesce ad avvertire il senso di una differenza e di una frizione. James Grubb ha notato come 1 vicentini inviati quali ambasciatori nella capitale — allo scopo di regolare i conflitti che opponevano la citta ai comitatini, o per affermare la lesione di certe prerogative urbane, causata dall’attivita dei rappresentanti veneziani — ricevessero delle commissioni in cui la comunita IO
VENEZIA E LA TERRAFERMA
berica si autoproclamava “respublica” 31. Un uso terminologico pericoloso, o per lo meno azzardato, in quanto sembra richiamare quel-
idea di libero comune propria dell’eta medievale, suggerire |’intenzione di una quasi totale autonomia. Proprio all’indomani di quella sollevazione che coinvolse parte delle classi dirigenti della Terraferma dopo la sconfitta di Agnadello, i patavini proclamarono con orgoglio la rinascita della loro “Repubblica” 3?. Nettissima su questo punto la posizione assunta da Venezia. L’affermazione di un umanista e uomo politico del prestigio di Francesco Barbaro, nella prima meta del Quattrocento, non lascia alcuno spazio a sottili distinzioni: in una epistola in cui si occupava della situazione bresciana aveva con-
trapposto nettamente le due realta: “respublica nostra”, che non poteva comprendere citta o territori del Dominio, da una parte, e “civitas vestra”, dall’altra33. Un concetto che veniva ulteriormente esplicitato in un consilium, sollecitato dalla stessa Serenissima, in cui il giurista Bartolomeo Cipolla dimostrava dottamente l’illiceita dell’assunzione di quel termine da parte delle realta particolari soggette alla Serenissima. Solo ai veneziani poteva toccare questo privilegio in quanto la citta di San Marco risultava “superiorem... non recognoscens” 3+, Una analoga divergenza investiva anche !’uso del termine civitas. Sulla definizione dicosa fosse una citta, gli stessi giuristi dell’epoca proponevano differenti interpretazioni. Per alcuni quella realta era costituita semplicemente dall’insieme degli individui e delle istituzioni comprese nel-
la cerchia muraria. Per altri assumeva una forte connotazione territoriale, venendo a designare il potere di irraggiamento e la volonta di controllo da parte del ceto dirigente urbano sul territorio circostante**. Un problema, questo, di fondamentale importanza per la definizione della struttura costitutiva della societa europea 2°. La Serenissima non sanci
mai in modo definitivo la validita delle pretese avanzate dai ceti dirigenti delle citta soggette di un totale riconoscimento della legittimita della sottomissione del contado alla loro autorita. In numerosissimi provvedimenti normativi emanati da Venezia nel corso del XV secolo, e nel
rispondere a petizioni avanzate dalle citta suddite, si distingueva sempre, eal termine civitas veniva giustapposto quello di districtus. In altri casi ancora non si parlava neppure di civitates, ma si definiva l’insieme delle realta sottoposte ad una legge come communitates : un “livellamen-
to” semantico, che suona come una discreta affermazione di autorita.
II
GOVERNANTI E GOVERNATI
Il senso di identificazione con la patria cittadina poteva anche arricchirsi di altre valenze. Un ruolo fondamentale di aggregazione sociale, di vincolo collettivo per la societa italiana del tardo Medioevo e della prima eta moderna é certamente rappresentato dalla religione. I Principi che estendevano la loro autorita sopra i territori da poco acquisiti non potevano non confrontarsi con la molteplicita di forme di organizzazioni associative e di potere, di credenze e di riti incardi-
nati in quelle aree e radicati nel tempo. I nuovi signori, per vedere riconosciuta come legittima l’autorita da loro esercitata in questo delicatissimo settore, dovevano agire con estrema circospezione, evitando
il rischio di scompaginare tutta una serie di equilibri e di realta, in cui il gioco dei risentimenti, delle invidie e degli interessi individuali si confondeva con i pit difficilmente definibili momenti della religiosita, delle forme assunte dalla pieta e dalla carita. Per il periodo di cui ci stiamo occupando si é riscontrata nei detentori dell’autorita civile una tendenza all’incremento delle facolta di
intervento e di controllo in materie attinenti la sfera della vita religiosa?’. Tale funzione si realizzava non soltanto attraverso provvedimenti concernenti |’organizzazione istituzionale e la definizione dei poteri di comando, ma anche attraverso la promozione di modelli rituali, di forme di autorappresentazione e di glorificazione che si sovrapponevano ad uno spazio tradizionalmente occupato dai legittimi officianti delle funzioni ecclesiastiche. Si potrebbe ricordare a tale proposito l’importanza che assume nel Tre e Quattrocento la chiesa del comune, che giunge in pit di un’occasione a mettere ombra alla cattedrale, sede del vescovo3®. Un processo di sacralizzazione del potere, che e stato indagato nelle sue origini, per quello che riguarda le grandi monarchie europee, sotto l’aspetto dottrinale — la produzione dei canonisti e dei giuristi a servizio del Principe —, con una particolare attenzione per lo sviluppo delle istituzioni, e per il momento piu strettamente antropologico 2’. Nella sua versione italiana, per la zona centro-settentrionale, tale processo non raggiunge gli esiti che conosciamo per la Francia o l’Inghilterra a causa della carenza di legittimita dei detentori dell’autorita, determinata dalle lotte tra le fazioni che dilaceravano il tessuto di centri urbani di grande o media entita, dalle convulse e reiterate successioni dinastico-signorili, dalla intrinseca debolezza degli apparati di governo, connessa ad una assai 12
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poco convincente elaborazione dottrinale capace di “sacralizzare” strutture di potere dai confini cosi maldefiniti. Venezia, in questo con-
testo, sembra rappresentare una sorta di via intermedia tra le profonde trasformazioni che si notano nei grandi agglomerati continentali e la endogena debolezza propria di tante citta-stato della penisola. Il patriziato legittima la propria autorita grazie alla sapienza con cui forgia una specie di religione civile, definita dal mito della assoluta impersonalita del potere e delle istituzioni e della suprema equita
di coloro che le occupano*®; grazie alla raffinata elaborazione di un rituale civico che riesce ad integrare funzionalmente le diverse componenti della societa*!; grazie alla straordinaria duttilita con cui quel-
lo stesso ceto dirigente si pone rispetto alla chiesa locale e alla San-
ta Sede*?.
Di fronte alla nuova realta del Dominio si penso di usare la religione in funzione di sottile pressione propagandistico-psicologica, e, piu
effettualmente, come mezzo di controllo e disciplinamento sociale, allo scopo di creare una maggior coesione tra governanti e governati? Come si ponevano culti e chiese locali all’interno del processo di costruzione statale quattrocentesco? Un primo tentativo di risposta a tali quesiti potrebbe essere fornito da una analisi sul terreno, finora poco battuto per quanto riguarda la prima eta moderna, del culto dei santi*?. “L’onore della citta e il culto del santo patrono sono i primi elementi di questa coscienza collettiva opposta alla campagna — pagana prima, feudale poi — ed essi sono inscindibili”: cosi ha scritto Sergio Bertelli, esprimendo con una formula sintetica gli elementi di fondo di una vicenda che unisce l’epoca del tardo Impero alla realta italiana dei secoli XIV e XV 44. Un culto che, nella turbolenta eta dei liberi comuni, sta anche a significare la legittimazione ideologica della parte che ha avuto il sopravvento sulle altre**, e che in ogni caso rappresenta un forte momento di identificazione collettiva, un potente vettore di consenso: il patrono come defensor civitatis, antemurale
di fronte alle minacce provenienti dall’esterno, taumaturgico risanatore delle piaghe prodotte dal conflitto delle fazioni entro le mura cittadine‘*. Si é notato altresi che, con la crisi degli ordinamenti comunali, tende ad affievolirsi la devozione nei confronti dell’antico patrono, cui si sostituiscono altri santi: é il Principe, ora, che tenta di imporre nuove figure devozionali, in grado di accrescere con la loro 13,
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aura Ccarismatica una autorita dalle fondamenta assai fragili*”. Un’in-
tenzione che sembra incontrare tenaci resistenze: in alcuni casi, infatti, si verifica, patrocinata soprattutto dai membri dell’ordine benedettino, una sostanziosa ripresa del culto per le antiche figure dei patroni, in chiara contrapposizione a quelle promosse dai Principi*®. Un indicatore, sia della forza espansiva degli Stati quattrocenteschi, della capacita, o dell’intenzione, di formare organismi territoriali piu compatti, che della diffusione, della tenuita, o della vivace sopravvivenza dei tanti localismi, puo essere quindi fornito proprio dalla scelta del santo protettore. A questo punto sembra opportuno chiedersi, tornando nei territori della Repubblica, quali angoli riuscisse a raggiungere l’ombra paterna di San Marco. A Padova il “patron et protetor”
— secondo quanto annotava nel 1483 Marin Sanudo, al seguito di Marco Sanudo, suo zio, nominato sindaco per la Terraferma veneta — risulta essere San Prosdocimo, che fu vescovo della “terra” nel periodo medievale**. Un’analoga, e non certo casuale assunzione a patrono di un antico vescovo da parte delle citta soggette, si puo notare anche a Verona, con San Zenone — la cui splendida chiesa era posta fuori le mura, “magnificentissime extructa, et dotata opulentissime de intrada”*°. A Brescia, invece, il bisogno di rafforzare l’identita collettiva, fortemente minata dal succedersi di Milano e Venezia nel ruolo
di Dominante, trova il punto di coagulo nella venerazione dei santi Faustino e Giovita, grazie alla miracolosa protezione che questi avevano elargito all’opulenta citta lombarda quando, nel corso del conflitto tra il Duca Filippo Maria e la Serenissima, il condottiero Nicolo Piccinino ne aveva cannoneggiato le mura turrite*!. A Vicenza si era invece adottato San Vincenzo, il cui culto si era gia affermato durante il periodo signorile nel XIV secolo, con chiari intendimenti propagandistici, legati, non ultimo, alla assonanza lessicale tra il nome del patrono e quello del centro berico *?. Anche in quei centri minori visitati con tanta curiosita da Marin Sanudo vivissimo appare il culto per la memoria o per le reliquie di santi per nulla apparentati a miti e vicende pit o meno recenti e€ comunque legate alla capitale lagunare. A Maderno, piccola comunita nella riviera salodiense, “che sempre si a tenuto per San Marco”, il culto per San Erculiano, “protector dil locco et heremita”, sta a rappresentare metaforicamente la volonta di autonomia dal centro bre14
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sciano: il patrono, infatti, quando era vescovo di Brescia, “refudando li doni dil mondo”, abbandono la citta e visse in solitudine in un luogo posto nelle vicinanze della comunita. Alla sua morte, quando tutte le campane di “quelli lochi circumvixini sono per lor medesime”, si apri una controversia tra Brescia e la Magnifica Patria, che raggruppava istituzionalmente le diverse ville e giurisdizioni della Riviera. Per dirimerla, le due parti decisero di porre il corpo del defunto in una piccola barca, allo scopo di affidare al flusso delle acque e al giudizio divino il peso della pronuncia definitiva, che non poté non sancire la superiorita dei diritti dei salodiensi*?. Il rapporto tra governanti e governati sul terreno della materia ecclesiastica coinvolgeva ovviamente anche una dimensione molto piu terrena. Una dimensione in cui le esigenze di governo del Principe — di controllo sociale, e di tutela della quiete dei sudditi — si scontrano con complessi meccanismi di gestione del potere a livello locale. Benefici e prebende ecclesiastiche sono ambite a tutti i livelli della gerarchia sociale: una gamma amplissima di cariche che va dalle riccamente dotate sedi vescovili ai capitoli delle cattedrali, dalle collegiate alle abbazie, fino alle cospicue prepositure urbane, alla miriade di umili pievi rurali, alle piccole chiese parrocchiali disseminate per il territorio. Negli Stati quattrocenteschi in via di consolidamento le pretese di chi deteneva |’autorita erano costrette a confrontarsi con istanze e ambizioni dalle pit diverse provenienze sociali e geografiche: dalle richieste, spesso confliggenti tra loro, avanzate da membri eminenti dei patriziati urbani, a quelle fatte proprie dai rappresentanti delle giurisdizioni separate o delle signorie locali, a quelle di singoli
che ambivano al godimento di una sinecura, di un piccolo beneficio che potesse garantire una rendita costante, anche se non cospicua, tale da fornire sicurezza ed un minimo di agio in un’eta cosi tormentata**, La tenace persistenza del potere di influenza, grazie alla facolta di presentazione e di patronato dei candidati, goduta da ceti ed istituzioni di potere locali — comunita e giusdicenti — si inserisce in un quadro caratterizzato da un’estrema fluidita. La necessita di vedere riconosciuti i propri diritti e gli aspri conflitti che appaiono quasi endemici a tutti i livelli della gerarchia delle istituzioni ecclesiastiche, richiedono l’intervento di un’autorita che sia in grado di risolverli e di placarli. T5
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Negli Stati italiani quattrocenteschi non é difficile notare a tale pro-
posito un vuoto di potere legittimante: da una parte vi sono le autorita civili alla ricerca di una strumentazione legislativa e di tecniche di governo per poter meglio definire gli ambiti di intervento e di giurisdizione, prive come sono del potere e della tradizione propria delle grandi monarchie europee°?; dall’altra parte, l’autorita della Chiesa romana, che conosce nel periodo terminale del Medioevo le ferite difficilmente rimarginabili della cattivita avignonese e dello scisma, assieme al turbamento provocato dalle piu avanzate spinte conciliari. Anche in questo settore, quindi, gli Stati della penisola stanno vivendo un periodo di intensa creativita e di sperimentazione politicoistituzionale: le soluzioni differiscono profondamente, ma nella repubblica di Venezia come in quella fiorentina, nel ducato di Milano come nelle corti dell’ Italia padana**, non é difficile scorgere tratti caratterizzanti comuni, tendenti ad un sostanziale incremento delle prerogative e dei poteri di intromissione in materia religiosa da parte del Principe. Anche in questo caso, i confini della patria locale ed il senso di identificazione che poteva derivare dal riconoscimento di quelli
nella sensibilita collettiva e nelle regole del gioco politico, tendono a stemperarsi e a confondersi nei margini di patrie “altre”: la capitale in cui risiede il Principe, di recente fondazione, e quella, dalle origini
piu remote, da cui il Papa governa la cristianita. _ “La struttura statuale della Repubblica aristocratica veneziana — ha scritto Angelo Ventura — assicura che i rapporti di soggezione tra i sudditi e la Dominante siano oggettivamente determinati dalla legge” 5”. La precoce coscienza di una struttura in qualche modo impersonale della legge e dell’autorita, che coinvolge fin dal tardo Trecento il patriziato veneziano*%, si intreccia costantemente con il gioco dei privilegi, delle passioni e degli interessi dei singoli, si complica
a causa dei legami di clientela o di stirpe dei sudditi tra di loro, tra essi e 1 nobili veneziani, e a causa delle mille connessioni politicoistituzionali e culturali che legano Venezia e il Veneto a Roma®’. L’am-
pia produzione legislativa quattrocentesca, tesa a rafforzare i diritti sovrani dell’autorita civile della Serenissima in materia religiosa, attraverso la definizione degli ambiti giurisdizionali di competenza °°, ci restituisce, con ricchezza di particolari, il senso delle preoccupazioni del patriziato veneziano, ma non riesce a celare le profonde crepe 16
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e le contraddizioni interne al sistema. “Omnes leges mundi, tam divi-
ne quam humane, clamant pias defunctorum voluntates servandas esse inviolabiliter et immutabiliter”: questo il solenne proemio di una parte del Pregadi del 1480, che manifestava la volonta di contrastare la tendenza per cui i commissari incaricati delle esecuzioni testamentarie di numerosi “subditi et cives” dello Stato da Terra, spesso in accordo con gli stessi testatori, rimettevano nelle mani della curia romana o del Sommo Pontefice le ultime volonta di quelli®!. La proibizione di impetrare brevi o concessioni, del tipo di quelle citate, alla
curia, veniva accompagnata dalla comminazione di una pena assai severa per i contravventori: cento ducati d’oro e dieci anni di bando dalla citta e distretto di appartenenza. Anche in questo caso, mondo veneziano e ambiente della terraferma si pongono dialetticamente uno di fronte all’altro, all’interno di un processo sinuoso ed articolato in cui le forme di integrazione possono coesistere con le pit diverse resistenze.
Il rafforzamento dei poteri di controllo dei governanti in funzione di mediazione-composizione dei conflitti tra le parti, o di legittimazione di accordi stipulati tra di esse, viene sollecitato da molteplici istanze e trova riscontro nella prassi dei consigli eminenti della capitale. Il 3 febbraio 1432 i Consiglieri ducali proporranno al Pregadi la ratifica della compositio cui erano addivenuti i procuratori del priore
e dei monaci del monastero domenicano di San Nicolo di Treviso, e quelli dei Collalto, che nella zona del Trevigiano compresa tra Conegliano e il Piave, godendo del privilegio del merum et mixtum imperium cum potestate gladii e dell’aggregazione al patriziato veneziano fin dal 1306, erano riusciti a costruire nel corso delle generazioni uno staterello quasi indipendente®?. L’ente ecclesiastico teneva “certas possessiones” nei pressi del castello di San Salvatore, sottoposto alla giurisdizione comitale. I suoi rappresentanti lamentano di non poterlo visitare a causa della distanza di quel luogo da Treviso; le terre inoltre
sono “male tractate a laboratoribus earum... sunt male in ordine” e, se non si provvedera subito, si ridurranno ad essere “totaliter inculte et silvestres”. Per tale motivo si chiede alla Serenissima che sancisca la validita dello strumento stipulato dalle parti, che stabilisce la quota del passaggio di proprieta alla famiglia feudale, di alcuni livelli, e la fine delle controversie civili che erano seguite su questa “differentia” ®?. 17
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L’irrobustimento di certe funzioni di comando, che sembra caratterizzare l’agire dei governanti nel periodo successivo alla conquista dello Stato da Terra, non riesce ad impedire che altri motivi, di ordine politico-istituzionale, sociale e culturale insieme, producano uno iato profondo tra sudditi e Principe. Una legge del Senato del 14 giugno 1437 aveva proclamato che 1 benefici ecclesiastici all’interno del Dogado e delle province soggette fossero conferiti ai “civibus nostris” enon a “forensibus” ®*. Un decreto che sembra scaturire da esigenze
di diversa provenienza. Da una parte risulta evidente la volonta di arginare l’intromissione papale nella nomina a prebende e dignita interne allo Stato, dall’altra si cerca di creare — in una fase di ancora assai difficoltoso radicamento dell’autorita della Dominante —, attraverso l’attribuzione di benefici ai componenti delle pit prestigiose famiglie patrizie, una struttura capace di controllare le inquietudini che serpeggiavano tra le varie fasce della societa dello Stato da Terra, e di generare, attraverso il prestigio e la suggestione che potevano derivare dalla forza della religione, quel sentimento di obbedienza nei confronti del Principe, che i rappresentanti laici stentavano tanto ad imporre. E un’intenzione cui probabilmente mancano, in questo periodo, le caratteristiche di progettualita, ma che verra suggestivamente
ripresa, in un diverso clima politico, assumendo toni di drammatica urgenza, nelle pagine di Domenico Morosini: le ragioni del senso di rifiuto dell’autorita veneziana, cosi diffuso nel Dominio, vanno ricercate, secondo l’autore del De bene instituta, nel numero troppo elevato di patrizi che governano senza alcuna coscienza le podesterie loro assegnate®*. Allo scopo di invertire la rotta verso cui lo Stato si stava cosi pericolosamente avviando, Morosini indicava la necessita di irrobustire il potere di punire detenuto dai rettori delle citta maggiori, lasciando agli ecclesiastici opera di coinvolgimento ideologico dei sudditi. Un altro motivo che puo aver prodotto la parte del 1437, va ricercato nella possibilita di rimunerare i pit fedeli tra i cives veneziani. Ad essi potevano bastare le prebende di una ben dotata chiesa di campagna o le entrate di un presbiterato. I! quasi assolutistico contenuto della legge che abbiamo appena ana-
lizzato risulta, alla prova dei fatti, una petizione di principio, l’enucleazione di un’intenzione politica, una minaccia, piuttosto che I’espressione di una volonta determinata a perseguire i propri scopi, al 18
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di la di ogni inframmettenza. La necessita di raggiungere in qualche modo un compromesso con i cittadini originari della Repubblica, di premiare benemeriti e fideles, e il pieno controllo esercitato dal patriziato della dominante sulla designazione dei vescovi attraverso il sistema delle probae in Senato, e quindi dell’avvenuto riconoscimento da parte del Papa di una sorta di diritto di presentazione © costringevano la Repubblica ad attenuare, in diverse occasioni, il rigore del dettato legislativo. Restava tuttavia di vastissima portata l’occupazione delle principali sedi del Dominio da parte dei veneziani: nel periodo che va dalla prima acquisizione della Terraferma (1405) agli anni cinquanta del XVI secolo, si é notato che, nelle dodici sedi vescovili del Dominio, su 111 prelati che furono nominati ben 85 — pari al 76% — facevano parte del corpo sovrano. | restanti 26 erano ripartiti tra benemeriti della Repubblica non indigeni (4), 13 forenses — ma di cui si erano vagliati con attenzione i titoli — e soltanto 8 erano sudditi dello Stato®’. Nessuno studio é stato intrapreso per quanto riguarda i benefici minori. Non sembra tuttavia arbitrario avanzare l’ipotesi del verificarsi di una analoga linea di tendenza: il Senato emanava, nel 1488, un severo decreto per ovviare all’accaparramento di cariche ecclesiastiche, anche di infima importanza, da parte di nobili veneziani®*. La crisi della mercatura non spingeva evidentemente solo alla ricerca insistente, e spesso priva di scrupoli, di uffici statali, quella parte del patriziato della Dominante dotata di minori fortune — in notevole aumento a partire dagli anni centrali del secolo®’. La caccia a prebende e a dignita sotto l’ala protettiva della Chiesa da parte di membri del corpo sovrano proponeva, quindi, una serie di problemi, sia di ordine interno che di ordine esterno: come tutelare ’immagine maestosa di un ceto integro, solidale e ordinato — che invece nella realta risultava sempre pi frantumato e privo di coesione; come, e fino a che punto, risarcire i sudditi di cui si erano gia limitati tanti diritti ed erose sfere d’autorita? In ogni caso, al di la degli adattamenti contingenti determinati dal trasformarsi degli equilibri intrinseci al ceto dirigente e dalla duttilita con cui si dovevano seguire le imprevedibili pieghe della politica estera, per quello che riguarda i rapporti con la sede apostolica, permane, come elemento strutturale di lungo periodo, la centralita dell’elemento veneziano nella gestione delle res ecclesiasticae. 19
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Una centralita percepita come atipica non solo, come naturale, dai sudditi della Terraferma, ma anche dagli abitanti degli Stati confinanti. Gian Giacomo Caroldo nella sua relazione dallo Stato di Milano, letta in Senato nel 1520, cercava di spiegare perché 1 “milanesi senza dubio non amano veneziani”, e perché non si sarebbero sottomessi mai al dominio della Repubblica’°. Uno dei motivi piu rimarchevoli consisteva proprio nel fatto che “nel Stato di Milano non vi é alcun francese abia un sol beneficio: tuti li benefici sono de subiecti al dominio o de qualche forestier per favor de corte de Roma”; qualora governasse la vicina rivale “quasi tutti li benefici seriano de’ viniziani... adeo che milanesi non averiano cosa alcuna””?. Ai sudditi dello Stato da Terra che volevano godere il frutto di una qualche rendita ecclesiastica non rimanevano troppe soluzioni. Due componenti della eminente famiglia patavina degli Scrovegni percorreranno la via del servizio ad un altro Principe. Giacomo dimostra, nei mesi tra l’agosto e il settembre 1453, di essere ben addentro ai meccanismi di accesso alla provvista beneficiaria diffusi nel ducato sforzesco: mentre occupa la prestigiosa carica di podesta di Novara, cerca ripetutamente — grazie all’opera di mediazione degli influentissimi Gaspare Vimercati, Angelo Simonetta e Sceva da Corte — di ottenere per il figlio Enrico una delle rendite abbaziali che si stavano rendendo disponibili per vacanza relativamente ad alcuni monasteri riccamente dotati, dicendosi disposto a versare per una di queste, Lardirago, la somma di 4000 ducati 72. Se situazioni del genere non sembrano essere avvertite dall’autorita veneziana come lesive di certe prerogative sovrane, non altrettanto si puo dire di altri atteggiamenti, meno episodici ed individualmente circoscritti, che configuravano una sorta di diffusa extraterritorialita all’interno di un organismo che si pretendeva strutturato e compatto. Nel 1424 una parte del Pregadi lamentava come fosse ormai divenuta una consuetudine “quod cives et subditi nostri”, comparendo di fronte a vescovi ed altri prelati dei
luoghi del Dominio, al momento di impetrare una grazia, il riconoscimento di certi diritti, o di richiedere, come sottolinea efficacemente la deliberazione, che gli ecclesiastici fungessero da mediatori con 1 rappresentanti laici dell’autorita sovrana, usassero il termine “Monsignor et similiter”7>. I] legislatore non poteva che riprovare tale
tendenza diffusa nelle popolazioni soggette, da cui, assieme alla 20
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nostalgia per un passato in cui la potesta politica, coniugando temporale e spirituale, si fondeva nella figura del vescovo, emergevano interessi molto terreni’‘*. Venezia non poteva neppure tollerare un’altra “consuetudo”, per cui quegli eminenti ecclesiastici — suggestionati dalla patina arcaica che rivestiva le istituzioni religiose delle citta di Terraferma, o mossi dalla volonta di crearsi spazi autonomi di gestione del potere, attraverso la formazione di legami clientelari a livello locale, e attraverso lo sfruttamento dei vincoli di parentela, amicizia e solidarieta a livello centrale — avevano iniziato ad attribuirsi i titoli di “Duces, Marchiones vel Comites terrarum quarum sunt prelati”. L’eventualita che si formasse una sorta di microautorita ad opera di quegli stessi elementi che avrebbero dovuto annullare la propria individualita, in quanto parti della sovranita, in vista del bene pubblico, l’incrinatura nella compattezza istituzionale della Dominante determinata dall’assunzione
di stilemi e attribuzioni nobiliari estranee alla cultura della citta di San Marco: erano questi alcuni pericoli cui la minacciosa severita delle
leggi non riusciva a porre rimedio. Tutti sanno “quantum repugnat intentioni Terre” che qualcuno “sibi attribuat maiorem potestatem” di quella che gli é stata concessa, aveva tuonato la parte che abbiamo appena analizzato, ma la realta dei fatti non era stata scalfita’>. La diffusione quattrocentesca della cronachistica municipale obbediva, al di la della rinascita del gusto erudito-antiquario, ad un profondo bisogno, alla necessita di radicare in un passato mitico la propria identita e la propria vicenda storica’®. E difficile, forse impossibile, comprendere quale rapporto possa intercorrere tra un fenomeno di natura eminentemente politico-istituzionale — quale la costruzione dello Stato territoriale — e lo sviluppo di taluni atteggiamenti culturali; mi sembra comunque legittimo porre il quesito, al di 1a della valenza meramente storico-erudita. Pensiamo, ad esempio, al tema della rinascita della cultura umanistica nelle citta della Terraferma e nella stessa Venezia. C’é da chiedersi quanto la diffusione di certi modelli intellettuali, di certi linguaggi, abbia contribuito ad eliminare le barriere tra classi dirigenti delle citta soggette e patriziato della capitale, o abbia piuttosto allargato ulteriormente lo iato che le separa-
va. A Padova, tra i pit entusiasti scopritori delle ossa di Antenore, 21
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vi saranno alcuni dei ribelli che, nel 1435, cercheranno di rovesciare il regime veneziano, per reinsediare alla guida della citta Marsilio da
Carrara’’. Il gusto per le antiquitates non si esauriva quindi semplicemente nella ricerca di mitiche genealogie e nel culto per 1 codici e per la numismatica, ma rispondeva anche ad una esigenza dei ceti cittadini pit latamente politica, ad un bisogno di fondare la legittimita della propria posizione e delle proprie prerogative di fronte al nuovo Principe. Tuttavia si ha ’impressione che quello slancio e quell’entusiasmo di
ricerca potessero anche produrre un incremento delle possibilita di incontro tra governanti e governati. La creazione di un ambito spaziale e politico ampio, resa possibile dalla costituzione dello Stato territoriale, facilitava e accelerava il processo di interscambio e di colle-
gamento tra centri maggiori e centri minori della Terraferma, nonché tra tutti questi e la capitale. La ricezione e l’interiorizzazione da parte del patriziato della capitale di certi stilemi della nuova sensibilita nei confronti dell’antico — di una cultura cioé che veniva a sovrapporsi e a completare quella piu antica e quasi connaturata alle origini della citta di San Marco, di stampo mercantile-commerciale — ebbero delle conseguenze estremamente importanti, destinate a caratterizzare l’immagine della citta lungo tutto l’arco dell’eta moderna. Fin dai primissimi anni del Quattrocento si crea quel nesso inscindibile tra studia humanitatis e potere, tra pensiero e crescente organizzazione dell’ordinamento statale: il mito dell’originaria libertas della
Repubblica, come quello della citta senza mura, la cui difesa era demandata alla solidarieta ed alla compattezza dei ceti e degli ordini che componevano la variegata geografia urbana, contribuiva a legittimare la funzione direttiva del patriziato, a neutralizzare l’idea delPinfrazione all’ordine costituito da parte di singoli o di gruppi, e soprattutto a irrobustire e a rendere sempre pit evidenti quelle idee di Status e di Dominium, che, sviluppatesi per vie autonome ed originali fin dall’inizio del XIV secolo”®, si rivelavano estremamente funzionali al momento dell’espansione verso la Terraferma veneta”?. Tra le principali caratteristiche di questa ibridazione tra cultura classica e fondazione dello Stato si possono isolare lo sviluppo di un lessico politico e di una retorica dai caratteri ben definiti, di una epistolografia 22
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che consentiva di tenere, per il tramite di un corpo di ambasciatori in via di organizzazione, relazioni diplomatiche, che, nella prima meta del Quattrocento, non avevano ancora assunto quel carattere di stabilita caratteristico delle formazioni statali “moderne”, con le varie potenze italiane ed europee ®°. A testimonianza di una fusione tra valori civici, funzione politica e gusto dell’antico, si potrebbe portare l’esempio del numero sempre crescente di membri del patriziato che assumono nominativi tipici della classicita, abbandonando quelli pit tradizionali ed autoctoni®?. La straordinaria diffusione di iscrizioni pubbliche ed epitaffi, che si rifanno in qualche modo alla rinascita del gusto per l’antico e che possono corrispondere alle piu diverse intenzioni politiche — dalla difesa della specificita della piccola patria da parte dei sudditi, alla imposizione di precise immagini della giustizia e dell’autorita da parte del Principe —, viene testimoniata dalle suggestive annotazioni di cui fu autore Marin Sanudo, nel corso dell’itinerario che il giovane € curiosissimo patrizio veneziano compi, nel 1483, attraverso lo Stato da Terra®?, I patavini tenevano a mettere in grande evidenza gli “epithafii” dedicati a Tito Livio ®?; i bresciani invece avevano trasmesso
ai sindaci veneziani il senso del loro orgoglio civico, sottolineando le antichissime origini mitologiche della comunita: “si chiamava civitas Herculei, et Herculle vi habito — scrive Sanudo — et nela citadella vechia é uno palazo antiquo dove é molte antigita che dura ancora... et sono molti epithapii per i qual se dimostra la sua antigita” **. A Verona le moltissime reliquie stavano a dimostrare come la citta “fusse antiqua”: I’“epigramma” inciso su una colonna accanto alla porta
Borsari narrava delle glorie del periodo imperiale-augusteo ®>. Nei centri minori il gusto per l’antico tendeva a stemperare le valenze pil. apparentemente politiche, autonomistiche ed autocelebrative, per lasciare uno spazio centrale alla rappresentazione della potesta veneziana. A Rovigo — “terra belissima casizada magnifice, et case pareno palazi” — si era pensato di arricchire una delle porte illustrandola con le immagini di una delle fatiche di Ercole “che nella silva nemea amazo el Lione”, ma non sembra proprio che si debba caricare la pittura di eversivi significati politici, tanto pit che il leone marciano campeggiava sopra la loggia, affiancato dall’“arma Moce-
nica del Ser.mo nostro Principe”, e di quella di Giovan Francesco 23
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Venier, primo provveditore inviato dal Collegio a reggere il centro rodigino °°, Nella loggia di Riva del Garda era inciso con estrema cura “uno privilegio in lettere magiusculle scripto in memoria aeterna”, ma la classica rivendicazione particolaristica veniva equilibrata dalla costruzione di una “caxa di Comun” ad opera del rappresentante veneziano, sulla cui facciata era posto l’epitaffio “Franciscus Thronus Rippae Provisor, has aedes publicas aere publico fieri curavit”®’. In altri casi l’adozione di stilemi classicheggianti stava ad indicare una pill decisa volonta, da parte dei governanti, di trasmettere ai sudditi
immagine della Repubblica quale saggia erogatrice di una giustizia equa ed imparziale, grazie alla quale poter meglio amalgamare una realta tanto composita ed eterogenea, e fondare il sentimento della legittimita della nuova autorita. A Motta, piccola podesteria del distretto trevigiano, il rettore aveva fatto apporre sulla “bella loza” con il “San Marco grando” la significativa iscrizione “Antonio Condulmaro pretore | Aequa lance hominum cunctos examinet actus, | immota legum dogmata mente sequens: | Non sinat immunes rectos, expellat iniquos | Quisquis vult justi nomini esse regens” ®8. Termini ancora piu solennemente aulici potevano essere letti da chi fosse capitato a Rovereto: “sopra una porta nel mexo di la terra” 1 rappresentanti
della Serenissima avevano fatto incidere “Securi dormite omnes; custodiet urbem Pervigil hanc, cives, aliger ipse Leo”, cui faceva eco sotto
la nuova loggia “riconzada per Piero Venier”, campeggiante ovviamente il leone alato, “Sum Leo quo nullus possidet latius orbe | Imperium: paret terra fretumque mihi, | Et Justiciam facio: caveat sibi quisque malorum; Ulciscor scelera qui secat ense meo”®?. Ancora a Pirano, una piccola podesteria dell’Istria, Marin Sanudo avra modo di notare come, nella piazza al centro della comunita, sventolasse uno stendardo con inciso a chiare lettere: “Aliger ecce Leo; terras, mare,
sydera carpo”°. Circolazione di una cultura e di un linguaggio e intensificazione dei rapporti tra patriziato veneziano e ceti eminenti locali concorrono anche al rafforzamento di quel modello di governo paternalistico, sui cui effetti pratici si dovra tornare nel corso di questa indagine. Risulta estremamente significativo il contenuto del pit celebre degli elogia municipali, quello posto come proemio all’edizione della revisione statutaria veronese del 1450, elaborato da un allievo di Guari24
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no, Silvestro Lando, e a cui collaborarono, tra gli altri, alcuni dei pit importanti umanisti-politici locali, quali Bartolomeo Cipolla e Pierfrancesco Giusti®!. Questo proemio esaltante il magnifico sito della citta atesina — tanto da farle meritare, fin dalle pit lontanissime eta, l’appellativo di “minore Gerusalemme*2” — e i trascorsi gloriosi della citta, che all’epoca di Cangrande e Mastino II della Scala era stata quasi arbitra dei destini della penisola — estendendo il proprio dominio fino a Feltre e Belluno da un lato, e Brescia, Parma e Lucca dall’altro —, patria dei due Plinii, di Catullo e di Guarino, terminava con un alto elogio della moderata libertas che la politica della Serenissima concedeva alle citta soggette. Verona si era sempre retta con buone leggi. Non sempre eccellenti si erano dimostrati 1 suoi governanti: come tiranni l’avevano tenuta Ezzelino e gli Scaligeri, Gian Galeazzo Visconti e Francesco da Carrara. Soltanto assoggettandosi a Venezia la citta aveva conosciuto il vero significato della liberta: nei meno di cinquant’anni intercorsi dalla sottomissione alla citta di San Marco — concludeva Silvestro Lando — avevano regnato la pieta, la giustizia, la religione. A Verona erano rimaste la liberta di convocare il Consiglio e di deliberare, di eleggere 1 propri magistrati e di governare il territorio. Alla capitale erano demandati i compiti piu gravosi, le spese ed i pericoli, ma soprattutto la tutela della quiete dei sudditi: “nos quidem sumus in arce quasi verae ac tranquillae libertatis constituti et ab intestinis seditionibus liberi et ab externis perturbationibus tuti” 93. La saggezza, il senso di equilibrio e l’equita con cui la Serenissima reggeva i popoli soggetti, configuravano agli occhi
dei veronesi — per mezzo di una proiezione ideologica in cui si mischiavano captatio benevolentiae e speranza del mantenimento degli equilibri costituiti e delle sfere di autonomia locali — idea del governo perfetto. Tutti gli altri popoli non sfuggivano al funesto dilemma tra regia potestas e res popularis, entrambe caratterizzate da instabilita e carenza di legittimita: “in utraque multiplices, varias, calamitosasque rerum mutationes”. I sudditi della Repubblica godevano invece dei vantaggi derivanti da una condizione di dipendenza non
umiliante: “nobis relinquant nostram hanc parendi et imperandi conditionem, nobis relinquant nostrum hunc moderatae libertatis status” ?*.
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GOVERNANTI E GOVERNATI
Discontinuita e uniformita, integrazione e differenziazione: le due
polarita del rapporto tra governanti e governati, ora si escludono, ora si intersecano, dando vita — almeno per questa fase iniziale della costruzione dello Stato da Terra — ad un sistema fluido, difficilmente definibile in modo univoco. Quando si considera la sfera piu strettamente attinente alla politica del diritto, ¢ opportuno chiedersi quali fossero le regole procedurali e le fonti giuridiche che si giudicarono maggiormente adatte a re-
golare e formalizzare il rapporto tra citta capitale e centri soggetti. Si € gia osservato come Venezia fondasse la legittimita del suo potere sul diritto di conquista, da una parte, e sulla “spontanea dedizione” dei centri del Dominio, dall’altra, e come queste due fonti obbedissero a due differenti logiche politiche, e a due differenti sensi della sovranita, che si confondevano e si sovrapponevano®’. L’affermazione dello ius belli, come principio fondante del dominio sulla Terraferma — le cui conseguenze pratiche, sul lungo periodo, avrebbero potuto essere quelle di un potere esercitato al di sopra di ogni possibile interferenza ed influenza dei corpi locali —, sembra valere pit sul piano contingente ed eccezionale — l’esigenza di domare definitivamente citta come Verona, assai renitenti a sottomettersi all’autorita della Serenissima — e di fronte alle rivendicazioni imperiali. Pit vicina al-
la logica interna della formazione dello Stato territoriale, indicativa dei suoi incerti inizi e della coscienza che la classe dirigente veneziana aveva degli strumenti di controllo a sua disposizione, risulta l’affermazione per cui la legittimita del potere della Serenissima era fondata sulla libera deditio delle citta. Che la tanto decantata spontaneita delle deditiones possa risultare alla prova dei fatti alquanto dubbia, ha una importanza secondaria. I] modello di Stato e di autorita che questa particolare concezione delle modalita attraverso cui si era realizzata la conquista postulava, prevedeva un rapporto tra Principe e sudditi in cui, pur essendo chiarissimo che la sovranita risiedeva solo da una parte — e che pertanto la struttura giuridico-formale di tale rapporto si distingueva fondamentalmente dagli Herrschaftvertrage, dai patti di Signoria stipulati tra uguali, tipici dell’area tedesca —, si dava ampio spazio a concessioni, a deroghe, al mantenimento delle autonomie dei centri assoggettati, nei vari settori dell’amministrazione della giustizia, della gestione delle risorse, dei meccanismi 26
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di controllo sulle strutture di potere locali. L’instaurazione di questo tipo di polarita tra governanti e governati é determinata dai Pacta stipulati al momento della conquista veneziana®*. La nota fondamentale che risuona nei documenti prodotti dai centri soggetti consiste nella richiesta di mantenimento della legislazione statutaria. Venezia, fin dall’inizio, aveva risposto a tutti allo stesso modo: la normativa statutaria sara mantenuta, salvo il diritto di correggere, annullare o introdurre modifiche, qualora lo si fosse ritenuto opportuno. Avremo modo di vedere come il richiamo a tale fonte caratterizzi quasi ossessivamente la conflittualita interna ai corpi del Dominio e tra questi
e la Serenissima; e attraverso quali modalita venisse applicato quel principio sovrano affermato con tanta solennita da parte dei rappresentanti della Repubblica. Lo Statuto rappresentava uno dei momenti pit alti della percezione della propria identita e della propria specificita da parte dei ceti dirigenti delle comunita della Terraferma: l’insieme delle norme civili e penali in esso contenute, le ordinate disposizioni regolative dell’elezione ai consigli civici e delle procedure dei tribunali, il mito di una scienza secolare che vi si era depositata, in una specie di intangibile sacralita, rappresentavano la sintesi politico-giuridica e la proiezione ideale di cio che la citta, in concreto, era, e di cid che avrebbe voluto essere. Negli statuti si poteva incarnare il senso della stabilita e dell’impermeabilita delle istituzioni cittadine ad ogni influsso esterno, Paffermazione della continuita di un regime politico attraverso le diverse dominazioni. Solo nel 1419, alla distanza di quindici anni dalla sottomissione della citta all’egida veneziana, i rappresentanti patavini si peritavano di chiedere alla Serenissima di poter espungere il nome ed il simbolo dei Carraresi dalla antica edizione statutaria®’. Vene-
zia non sembra allarmarsi eccessivamente della potenziale delegittimazione della propria autorita che una simile disattenzione poteva pro-
vocare. Un senso di estraneita che la capitale mostrera soprattutto nei confronti degli statuti di localita minori, di quei centri — piccole citta o borghi murati — dalla definizione istituzionale piuttosto fluida, sul problema della cui posizione nell’ambito dello Stato territoriale torneremo nel corso di questa ricerca ?®. Si pensi agli statuti di Pordenone che portavano ancora nel 1609 la formula di giuramento ai duchi d’Austria, sotto il cui governo erano stati raccolti. Allo stesso 27
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modo gli statuti delle tre podesterie del Polesine (Rovigo, Badia e Len-
dinara) verranno purgati dal nome degli antichi domini, i duchi di Ferrara, solo a meta del secolo XVII. Ancora pit significativo e il fatto che, pur avendone rivendicata la facolta, la Serenissima non si intromise mai nell’opera di revisione delle fonti statutarie, quale si realizzo nella prima meta del Quattrocento nei centri maggiori del Dominio, e che scaturiva dalle necessita di adattare una normativa, perenta o contraddittoria, ai nuovi problemi di ridefinizione dei ruoli politici ed istituzionali all’interno della compagine statale, e di controllo di una conflittualita sociale sempre piu pronunciata. La Serenissima Signoria lascio infatti lavorare indisturbate le commissioni di giuristi locali che provvidero alle varie riforme, per poi approvarne l’operato’?. Non esistevano solamente le dottissime raccolte degli statuti cittadini. Si e notato come, nel corso del ’400, si sviluppi in modo straordinario la formazione di norme statutarie da parte di comunita rurali, o di piccole organizzazioni territoriali!°°. Un fenomeno, questo, che si puo interpretare in diversi modi. Da una parte é ipotizzabile che esso sia il prodotto di una certa differenziazione di funzioni e di fortune all’interno alla societa contadina: |’emergere di tensioni interne ad un sistema sociale ancora poco articolato renderebbe necessaria la creazione e la codificazione di norme elementari regolanti 1 diritti della comunita — quali uso delle terre, l’elezione alle cariche municipali, o l’ammontare delle sanzioni — prima affidate alla consuetudine!°!. Ma é probabile che vi concorrano anche altri elementi. I] sentimento di identita di una comunita poteva essere messo in discussione dalle influenze e dalle interferenze apportate da elementi
esterni. Anche in questo caso risulta centrale il ruolo rivestito dalla citta. La legittimazione degli statuti urbani da parte della Serenissima aveva tra le sue conseguenze anche quella di una maggior pressione di natura giurisdizionale e fiscale sulle campagne circostanti. Il processo — che rappresenta uno dei caratteri originali della storia italiana — determinato dalla spinta espansiva prodotta dai centri urbani e diretto all’integrazione e alla sottomissione dei contadi, affondava certamente le sue origini nel periodo comunale e signorile, ma conosce, nel periodo della formazione dei nuovi organismi territoriali e nel riferimento ad una nuova autorita, un momento di svilup28
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po e di ridefinizione!°?. In questo ambito, il moltiplicarsi di raccolte normative a livello di piccole comunita nel corso del XV secolo, potrebbe essere interpretato come volonta di vedere riconosciuta dalla Serenissi-
ma una sfera di autonomia, una sorta di zona franca che sfuggisse alla sempre crescente pressione economica, fiscale, giurisdizionale eserci-
tata dalle citta. Nel corso di questa ricerca cercheremo di capire se emerga, nel corso del Quattrocento, una tendenza, non episodica o congiunturale, da parte del ceto emergente di questa societa contadina in via di crescente istituzionalizzazione, a porsi direttamente di fronte al Principe tentando di superare i filtri interposti dai vari corpi locali. A differenza della Repubblica fiorentina, Venezia non aveva scelto
la via della radicale uniformazione tra diritto della Dominante e diritto dei centri soggetti, e della complessiva ridefinizione degli assetti politici locali!®?. Il diverso atteggiamento di fondo delle classi dirigenti delle due Repubbliche puo essere percepito proprio partendo dall’attenzione con cui esse guardarono alla riforma degli statuti delle comunita rurali. Firenze intervenne massicciamente, creando una apposita magistratura, obbligando i rappresentanti delle comunita piu renitenti ad inviare nella capitale le raccolte riformate. A Venezia si segui la via opposta. Nei registri del Senato non é possibile trovare notizia dell’approvazione di uno statuto presentato da qualche comunita rurale: i politici veneziani preferivano lasciare quell’importante prerogativa nelle mani dei patriziati dei centri maggiori!%. Alto il prezzo, in termini di delega di potere ai centri soggetti, che il governo della Serenissima doveva pagare per tenere lo Stato. Come si avra modo ampiamente di vedere, gran parte delle conflittualita e delle resistenze che si instaurano tra centro e periferia passano attraverso la definizione ed il peso che si doveva attribuire alla legislazione statutaria urbana. Si deve tuttavia subito anticipare che la particolare immagine di due realta politico-istituzionali, quali Venezia ed il Dominio, ruotanti attorno ad orbite parallele che non si intersecano mai, debba andare probabilmente sfumata. Era proprio l’azione esercitata dalle magistrature della capitale (pensiamo soprattutto agli Auditori novi dotati di poteri ispettivi straordinari per quello che riguardava l’amministrazione delle giustizia!°*) a provocare le prime fratture di quel denso reticolo di regole e di pratiche politiche su cui 29
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si costituiva la stabilita dei vari reggimenti urbani. Fin dagli anni venti e trenta del secolo si erano levate alte le lamentele dei rappresentanti dei collegi dei dottori giuristi, contro la lesione delle antichissime consuetudini attorno agli appelli sulle cause civili/°*. I giudici d’appello veneziani intervenivano in questioni — questo il senso delle rimostranze — che la disciplina statutaria prevedeva fossero delegate all istituto del Consilium sapientis. La norma riguardante il Consiglio del savio
consisteva nell’opportunita offerta alle parti di poter demandare la risoluzione di cause — o perché particolarmente controverse e irte di complessi problemi giuridici, o per timore di un lungo trascinamento delle stesse presso 1 tribunali cittadini — all’intervento di un esperto del locale Collegio !°’. Le varie ambasciate che giunsero a Venezia, da quella di Treviso nel 142418, a quelle di Padova nel 14321°°, o di Vicenza, l’anno successivo!!°, verranno accolte a larga maggioranza dall’assemblea dei Pregadi. Tuttavia quello dell’intromissione della giustizia veneziana nel settore del diritto civile costituiva un pro-
blema destinato a riemergere pit volte nel corso del XV secolo. Si pensi alla clamorosa manifestazione di protesta di cui si rese protagonista il consiglio civico patavino nel 1498, con la minaccia di distruzione della raccolta statutaria locale, le cui norme risultavano con-
tinuamente disattese dai rappresentanti veneziani!"?. Risulta assai probabile che, sul lungo periodo, la creazione di un nuovo e piu ampio spazio politico determinato dalla formazione dello Stato territoriale, incrini equilibri e funzioni tradizionali, ne legittimi altre, modifichi le forme della conflittualita e faciliti la formazZione di nuovi sensi di appartenenza. Si pensi ad esempio al potere di attrazione esercitato dalla capitale. Una capacita di concentrazione delle controversie e di intervento a livello centrale che sembra oltrepassare la stessa volonta della classe dirigente veneziana. Nel 1441 ambasciatori vicentini chiedevano la licenza di costruire una loro Do-
mus nella citta di San Marco, allo scopo di poter meglio trattare gli affari che riguardavano il centro berico, grazie all’istituzione di una propria rappresentanza stabile!!2. I] Senato rispondeva con un netto diniego. L’atteggiamento della Serenissima sembra tuttavia mutare ver-
so la fine del secolo, quando, nel 1492 e nel 1500, il Consiglio dei Dieci viene chiamato ad intervenire con tutta la sua severita, per regolare la gestione di alcune case delle rappresentanze locali!!*. Gia 30
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nella seconda meta del secolo, Verona, prima tra tutti i centri della Terraferma, era riuscita ad ottenere dalla Serenissima che un suo advocatus potesse stabilirsi a Venezia a spese della comunita!!*. A poco a poco la classe dirigente lagunare cominciava a comprendere che dalla fastidiosa presenza dei rappresentanti dei centri della Terraferma, oltre agli svantaggi arrecati dal moltiplicarsi innaturale delle cause,
poteva ricevere indubbi benefici. Tenere le citta suddite “dentro” la citta capitale consentiva di trasmettere il mito della Dominante e si trasformava in uno strumento di condizionamento e di controllo sulle tensioni e sulle opinioni dei governati'?». La stessa possibilita di conoscenza e di influenza sulle persone e sui meccanismi del potere puo essere colta anche ponendosi dalla parte
dei governati. Silvestro Rambaldo, l’advocatus veronese a Venezia, nelle missive inviate al consiglio civico, si dilungava sul ruolo delle varie istituzioni della Dominante, suggeriva presso quale tribunale era pil opportuno introdurre quella tale causa, esponeva le proprie opinioni attorno alla possibilita di rivolgere una certa istanza a quell’avogadore di Comun 0 a quel capo dei Dieci, suggerendo quale di essi risultasse pit incline a favorire gli interessi della citta — in caso di una controversia con il contado —, o fosse particolarmente sensibile in materia di disattenzione dei privilegi locali. La forza gravitazionale rappresentata dal centro marciano si riflette anche in altri settori dell’amministrazione pubblica. Il 2 giugno 1436
il capo di Quarantia Bernardo Marcello e i consiglieri ducali denunciavano ai senatori le pratiche di “certi doctores et advocati forenses”, i quali, in numero sempre crescente, placitavano numerosissime cause in Quarantia, in Pregadi e presso i tribunali minori, le cosiddette “Curie Palatii”11*°. Una cosa sconveniente da diversi punti di vista (“multis respectibus”, come si limita a registrare evasivamente il cancelliere), soprattutto per il fatto che in tal modo si veniva a ledere la funzione essenziale di quegli avvocati, che, soli, secondo le leggi della Serenissima, godevano del privilegio di poter entrare nei collegi e nei tribunali veneziani!!”. A norma di legge, per essi, nominati dal Maggior Consiglio o eletti “per gratiam”, non sussisteva l’obbligo dell’addottoramento “in iure”. In questo si puo riconoscere l’influsso esercitato dalla forma peculiare del diritto veneziano, dove non contava tanto la capacita di distinguere quale delle varie auctoritates 31
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meglio si adattava alla risoluzione di una questione specifica, quanto piuttosto l’abilita nel convincere i componenti di assemblee, spesso assai affollate, attraverso argomentazioni suggestive, fondate su principi elementari di equita. II fatto che giuristi della Terraferma potessero discutere nei tribunali veneziani, secondo le regole di una tradizione giuridica diversa da quella a cui erano stati educati, poneva il problema della ricezione o del rifiuto di quelle forme. Piuttosto rigida la soluzione proposta dal Marcello: d’ora in avanti “nullus forensis, quisquis sit”, potra sostenere cause a Venezia, se non “pro forensibus”. Aveva quindi preso la parola un altro capo della Quarantia, Pietro Grimani. Per lui la richiesta del collega doveva andare cosi corretta: solo nel caso che qualche nobile o cittadino della capitale fosse parte in Causa in una controversia con un “forense”, e le ragioni di questo venissero difese da un dottore o un avvocato delle citta della Terraferma, solo in quel caso poteva far tutelare 1 propri interessi da un altro avvocato esterno. Una soluzione che prendeva atto dell’impossibilita di tener separati i due sistemi. Fu proprio questa seconda
proposta, pil empirica, che venne approvata, seppure a strettissima maggioranza (quarantacinque voti contro trentasette) dal consiglio dei Pregadi. La parte appena citata consente di introdurre un tema di ordine piu generale e di centrale importanza per questa ricerca. Qual é il ruolo giocato dalle diverse culture giuridiche nel processo di legittimazione dell’autorita? Qual e la funzione realizzata dagli uomini di legge — doctores, tecnici del diritto, avvocati e procuratori, giusdicenti o docenti presso lo studio patavino — nell’accelerare o nell’ostacolare il processo di integrazione tra governanti e governati? Si é gia detto della contraddizione strutturale, vigente all’interno dello Stato veneto, tra
diritto della Dominante e diritto comune, osservato presso tutte le realta soggette. A cio si deve aggiungere un ulteriore motivo di contrasto determinato dalla coesistenza di una gerarchia delle fonti giuridiche, sedimentata negli statuti locali e a cui i Rettori veneziani si sarebbero dovuti strettamente attenere secondo quanto stipulato nei pacta, con le commissioni di investitura degli stessi rappresentanti della
Serenissima inviati in Terraferma, all’interno delle quali si era stabilita una gerarchia non sempre collimante con quella statutaria, ed in cul sovente si aprivano amp) varchi al ruolo ricoperto dall’arbitrium, 32
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da quella facolta di intervento discrezionale propria di un corpo sovrano!'8, Quello che si vuole qui sottolineare é l’ampio rimescolamento di uomini e linguaggi, di culture fondate sulla consapevolezza di un legame con il sapere giuridico-classico, da una parte, e pratiche di risoluzione dei conflitti di impianto decisamente meno tradizionale, dall’altra. Nel 1479, certamente sollecitato dalle ansie del ceto dirigente cittadino, il podesta di Bergamo Sebastiano Badoer proponeva al voto del Pregadi severi provvedimenti nei confronti di quei “malignos homines” che quotidianamente si recavano a Venezia, facendo sostenere le varie spese alle comunita da loro rappresentate, “multes
et varias lites suscitando... cum incredibili jactura miserabilium personarum”?!?%, II flusso di uomini e il gioco degli interessi, che rischiava di infrangere continuamente il delicato equilibrio tra Principe e sudditi su cui si reggeva il sistema, non conosceva una sola direzione.
Nello stesso 1479 un altro provvedimento del Senato testimonia di una “pessima consuetudo” introdotta da qualche tempo nelle citta e nelle terre del Dominio!2°. Risultava da numerose relazioni giunte nella capitale che alcuni patrizi veneziani “advocant et agunt causas coram quibuscumque rectoribus, magistratibus et judicibus nostris”, emettendo sovente, di fronte ai fedeli sudditi, “verba inconvenientia et ignominiosa... cum dedecore suo et parvo honore nostri Dominii”. Si é notato come, con l’inizio del XV secolo, si fosse ormai affievo-
lito, all’interno della cultura giuridica veneziana, il dibattito attorno al rapporto tra diritto proprio, legge e consuetudine !2'. Il carattere “aperto” del patrimonio statutario andava esaurendosi, e se, ancora nel Trecento, Riccardo Malombra, consultore della Repubblica e docente nello Studio patavino, poteva teorizzare che la “conservatio boni
status reipublicae” poteva essere garantita anche attraverso il superamento e l’aggiornamento del patrimonio statutario per le vie interne della “scientia iuris” !2?, assai significativamente una legge emana-
ta dal Senato, il 3 maggio 1401, sanciva la completa emarginazione dei doctores legum dal processo politico-interpretativo, che ormai era demandato alle assemblee ed agli organismi legislativi, imponendo agli Avogadori di Comun di cancellare tutte le pustille reperibili negli statuti!23. Al sapere giuridico non rimaneva che il compito “di organizzare la pratica giudiziaria e amministrativa, o di argomentare tutt’al pit, sul piano formale e ideologico le varie scelte politiche” '*. 33
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In questo contesto, al momento della costituzione dello Stato territoriale, era forse impossibile per i giuristi, ridotti in condizione decisamente subalterna e impossibilitati, a causa della “chiusura” del patriziato della Dominante, ad accedere ai livelli direttivi e decisionali della politica della Repubblica, sottrarsi al dilemma tra divenire apologeti dell’ordine costituito o trasformarsi in tecnici-funzionari al servizio del nuovo Principe. Nella fluida realta quattrocentesca sembra,
tuttavia, che gli spazi entro cui esprimere un disagio, sia dal punto di vista pratico che ideologico, siano ancora piuttosto ampi. Dall’esame sull’amplissima produzione di consilia quattrocenteschi, condotto da Aldo Mazzacane, emerge una realta culturale sottilmente ambigua !2°: i giuristi evitano di spingere alle estreme conseguenze il tema del rapporto tra diritto veneto e diritto comune, cosi come cercano di non affrontare il problema delle eventuali ripercussioni politiche determinate dal riconoscimento della piena legittimita del dominio veneziano sulla Terraferma. La “superiorita” dell’autorita della Serenissima non poteva essere discussa, ma in numerosi consulti redatti dai pit prestigiosi giuristi dello Studio patavino sembrano emergere crepe ed incrinature, affermazioni di principio e larvate asserzioni, che stanno a testimoniare della orgogliosa tenuta della cultura giuridica locale, fondata sul diritto comune. Jacopo Alvarotti, dottore patavino di primo piano e componente di una famiglia di giuristi che godeva di notevole prestigio, sia all’interno delle mura cittadine che nel circuito delle istituzioni statali!?®, nella sua Lectura in usus feudorum non affronta direttamente l’interrogativo della superiorita gerarchica tra diritto imperiale e diritto veneto. Ribadisce, tuttavia, con vigore la vigenza delle leggi feudali, in quanto recepite dalla legislazione imperiale, e pertanto assolutamente vincolanti per tutti i popoli e per tutti i Principi, compresi coloro “qui de facto non recognoscunt superiorem”!27. In tal senso l’Imperatore doveva essere considerato “Dominus totius mun-
di”, ma tale riconoscimento non poteva impedire di individuare la legittimita della libertas della Serenissima: questa dipendeva in certo modo dall’autorita imperiale, ma godeva anche di una sorta di autonomia, in quanto “fundata in mari”. Con una maggiore capacita argomentativa, il veronese Bartolomeo Cipolla, ben insediato nelle strutture di potere della citta atesina, e 34
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pronto a proclamare esplicitamente che “Dominium Venetorum non recognoscat superiorem” !2°, allo stesso momento, nel suo De interpretatione legis extensiva, redatto nel 1469, affermava, sulla scorta di Baldo e di altre autorita, l’impossibilita di estendere alla Terra-
ferma, anche in via sussidiaria, il diritto veneziano, fondato sulPequitas 129, La duplicita e le tensioni interne dell’ordinamento dello Stato si rifrangevano dunque sulla produzione dottrinaria e sull’attivita consultiva dei giuristi. Solo un secolo pit tardi il patriziato della Serenissima comincera ad avvertire l’importanza di quel ceto, ai fini
della legittimazione del potere e della mediazione tra Venezia e la Terraferma!*°. I] ruolo svolto dai giuristi, sia dal punto di vista consultivo che da quello teorico, nella fase costitutiva dello Stato territoriale veneto, non sembra assumere quindi quella posizione centrale che é possibile riscontrare nell’esperienza della Repubblica fiorentina o in quella del Ducato di Milano1!?!. Risulta molto difficile percepire il senso di disagio, quasi di perdita di identita, che sembra cogliere numerosi giuristi operanti all’interno dello Stato territoriale veneto. Se l’ottica del veronese Cristoforo Lanfranchini, sdegnato per il fatto che le cariche pubbliche cittadine vengano attribuite piu ai milites che ai doctores, puo ancora essere interpretata come il prodotto di una variante interna di quella pit generale crisi del ruolo del giurista nella citta-stato tra Medioevo ed eta moderna !32, nulla meglio della vicenda di Leonardo Amaseo, nell’inquieta ricerca, continuamente frustrata, di una sede in cui far valere la virtu della sua dottrina, ci puo restituire l’immagine dello sradicamento dalla piccola patria comunale, assieme al tentativo di inserimento nella nuova realta politico-istituzionale, che dovette coinvolgere numerosi tecnici del diritto tra fine ’400 e inizi ’500 133. Proveniente da una famiglia impiegata nel commercio di spezie e pellami fino alla generazione precedente la sua, Leonardo, assieme al fratello Gregorio, anch’egli umanista, era riuscito a far riconoscere I’origine nobiliare veronese del suo ceppo. L’introiezione di stili propri dell’umanesimo giuridico non gli consentiva, tuttavia, di bilanciare l’incon-
trovertibile mutamento avvenuto nei rapporti tra il diritto e la politica 13+, Leonardo non aveva ottenuto le cariche tanto ambite di lettore in diritto e arti o di docente nello Studio patavino o bologne-
se, o nelle scuole di Udine e di Venezia. La continua frustrazione 35
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di quel ruolo di teorico che giudicava il piu consono alla sua cultura e alla sua preparazione, riservava, nelle lettere di Leonardo, orgogliosi accenti!35: ma tutto il suo comportamento denotava la coscienza che, per lui, le possibilita di un remunerativo e continuo impiego si potevano realizzare soltanto sotto l’ombra protettiva del leone di San Marco. Terminata con scarsissime soddisfazioni la sua esperienza di avvocato presso le Corti di palazzo marciane, Leonardo, nei primi decenni del secolo, si era procacciato sufficienti appoggi per entrare in quel circolo ristretto di giuristi impiegati come coadiutori dei Rettori inviati in Terraferma. Abbiamo notizia di sue esperienze nelle corti pretorie di Padova e di Treviso. Esperienze prestigiose, ma sporadiche, indicative di un disagio e di una diffidenza che nessuna ragione consentiva di superare; ed é per questo che risultano estremamente significativi 1 due tentativi di tornare ad esercitare la professione in una dimensione pit locale: nel 1531 Leonardo aveva aspirato, senza successo, a diventare procuratore dell’abbazia di Rosazzo, nella Patria del Friuli, che deteneva anche particolari poteri giurisdizionali; tra il dicembre 1528 e il gennaio del 1529, ricevuta la notizia che il patriarca di Venezia Marco Grimani cercava di ottenere il favore del Pontefice nel conferimento dell’ufficio di podesta di Firenze a Vincenzo Emiliani, inviava al fratello Romolo una sconsolata missiva: “s’el me venisse de simile podestarie et altri officii par mi, ch’io mi potesse levar di qua, Dio’l sa ch’el faria voluntiera”!*°. Il fatto che i diretti rappresentanti dell’autorita sovrana — Podesta e Capitani — fossero assistiti da un certo numero di tecnici, non costituisce certo un carattere originale dello Stato veneto: si tratta infatti di una realta istituzionale gia nota per tutto il periodo medievale e ampiamente diffusa in altre aree regionali, come la Toscana e la Lombardia!%’. Sembra sussistere, tuttavia, una particolare accezione “veneta” del rapporto tra tecnici del diritto, che svolgevano il loro compito allinterno dei tribunali pretori della Terraferma, e i politici!3®.
Cerchiamo di mettere in evidenza alcune tematiche — provenienza, modalita di impiego e di controllo, possibilita di carriera — che riguardano i cosiddetti Assessori!3’. Uno di essi Giovanni Bonifacio, operante tra la fine del XVI e Pinizio del XVII secolo, precisa come la legislazione ha previsto che i patrizi veneziani eletti alle cariche dello
Stato da Terra abbiano facolta di nominare, nei centri pit. cospicui, 36
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“alcuni Dottori di leggi”, laureati a Padova, con la clausola, simile a quella prevista per i Podesta chiamati a reggere le citta medievali, che “devono essere forestieri et non di quella Citta dove hanno da giudicare”!4°, Alla fine del Cinquecento il numero degli Assessori ope-
ranti nello Stato veneto ammontava a trentuno: a Padova e Verona venivano eletti quattro giudici; tre a Brescia, Bergamo e Vicenza; via decrescendo per i centri di minor prestigio: due a Udine, Treviso, Rovigo e Crema, uno soltanto a Feltre, Belluno, Cividale del Friuli, Salo, Palma e Conegliano. A queste, per il ’400, si deve aggiungere Ravenna, dove il Podesta e Capitano era coadiuvato da un Vicario. Vi era ovviamente una gerarchia nel prestigio delle sedi — chi occupava la carica di Vicario a Padova doveva certo riceverne pit lustro rispetto a chi era eletto a Conegliano —, cosi come delle funzioni esercitate all’interno di una stessa corte: gli uomini che fungevano da Giudici del maleficio o da Vicarii, a Verona o Vicenza, si distinguevano certamente dal personale nominato alla carica di Giudice delle vittuarie, della ragione, o del grifone. Da un esame dei dati di cui siamo in possesso per il periodo che va dal 1486 al 1509, si puo riscontrare che gli incarichi pit prestigiosi venivano concessi ad un numero non troppo ampio di individui, con la tendenza a creare una sorta di circolarita e di iterativita delle nomine, all’interno di quest’ambito piu ristretto, tenendo sempre presente l’interdizione, stabilita per legge, di servire per due volte consecutive nella stessa corte. Nelle sedi che possiamo definire minori, e soprattutto nei gradi inferiori delle corti pretorie delle citta piu importanti, in rarissime occasioni si incontrano piu di una volta gli stessi nominativi, che piuttosto scompaiono senza lasciare ulteriore traccia. La differenza tra le carriere dei vicentini Girolamo Ferramosca o Giovanni dalla Scroffa, dei patavini Conte Alvarotti e Bonifacio Bonfilio, o del bergamasco Giorgio de Grinis — per citare 1 casi piu notevoli —, rispetto a tanti nomi che ricorrono negli elenchi dei nominati, risulta evidentissima!*!. Impossibile stabilire con esattezza, a causa dell’incompletezza della documentazione, se l’embrionale formazione di un ceto di ufficiali al servizio dello Stato, che ci sembra emer-
gere dalla lettura dei documenti, sia un fenomeno localizzabile agli ultimi anni del secolo, tanto significativi per la storia delle istituzioni di potere, oppure no. E in ogni caso, questo, un dato che si dovra 37
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tener presente al momento di valutare l’ipotesi di un mutamento della politica del diritto della Serenissima, a partire dagli ultimi anni del secolo, che passa per una intensificazione dei poteri repressivi delle maggiori podesterie della Terraferma. Ancora piu difficile risulta intuire come quei rapporti di amicizia e clientela, evocati da Leonardo Amaseo, tra membri del patriziato della Dominante e giuristi della Terraferma, potessero orientare carriere e fortune. Quali pressioni potevano spingere un nobile veneziano, magari eletto per la prima volta ad un reggimento della Terraferma, a scegliere un certo collaboratore piuttosto che un altro? Vi era una circolazione di informazioni e di notizie all’interno della classe dirigente, che potrebbe aver dato luogo alla costituzione di un ceto di specialisti, dotato delle caratteristiche di stabilita e continuita che fanno presagire una germinale struttura burocratico-amministrativa? Quanto, infine, guardando alla questione dalla parte dei sudditi, il legame con Venezia poteva significare una legittimazione di potere a livello locale, oppure il disancoramento dalla patria comunale e l’inserimento in un diverso circuito istituzionale? Gli unici indicatori del fenomeno che stiamo cercando di cogliere risiedono nelle sporadiche indicazioni, a fianco dei nominativi degli eletti, di chi svolse la fun-
zione di “piezo”, o garante, o di chi giurd per procura a nome del diretto interessato. Per Girolamo de Salodio, giudice del maleficio a Treviso nel 1493, aveva giurato un patrizio del prestigio di Paolo Antonio Miani, piu volte consigliere dei Dieci e savio del Consiglio 42. Allo stesso modo, nel 1503, Andrea Dandolo aveva garantito delle capacita del vicentino Antonio Lonigo, uno degli assessori di maggior rilievo dell’ultimo Quattrocento !43: giudice del maleficio nel 1488
e vicario nel 1492, 1495 e 1502 a Padova, giudice del maleficio a Brescia nel 1489, vicario a Verona nel 1493, a Crema nel 1503 e€ a Treviso nel 1498 e 1503. In quello stesso 1503 Alvise Zorzi aveva giurato, dietro procura, a nome di un altro giurista della citta berica, Girolamo Barbarano, scelto quale giudice del maleficio alla corte pretoria trevigiana. Anche altri giuristi destinati ad aver minore fortuna
e a ricoprire soltanto eccezionalmente le cariche pubbliche di cui ci stiamo occupando, riuscivano ad ottenere qualche appoggio all’interno della composita trama, di uomini e di istituzioni, propria della Serenissima: Pietro Manolesso giurera per commissione, al posto di 38
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Girolamo dalla Scroffa, vicario a Feltre nel 1487, cosi come fara Nicolo Dolfin, per Jacopo da Feltre di Bassano, chiamato lo stesso anno alla carica di vicario di Belluno. E stato notato come, nel corso del XV secolo, si realizzi una crescita, ed in certi casi la fondazione, di collegi dei giuristi in numerose citta della Terraferma'!*+. Le norme sempre piu stringenti, emanate in sede locale, che riducevano I’accesso ai collegi ai soli membri del patriziato urbano, testimoniano non solo di un processo sociale e politico che assomiglia ad una serrata oligarchica interna alle mura delle tante patrie cittadine, ma obbediscono, a nostro avviso, anche ad uno stimolo esterno. II processo di costituzione dello Stato imponeva la formalizzazione e l’istituzionalizzazione delle resistenze e della rivendicazione dei diritti locali messi in discussione, ed il diritto costituisce il terreno dove piu frequenti e pronunciati sono i motivi d’attrito tra governanti e governati. Ora il fatto che da questi organism, cosi organizzati e fortemente radicati in una dimensione particolaristica, escano degli individui destinati a svolgere una mansione giuridico-
amministrativa in una dimensione sovralocale, pone degli interroga-
tivi di natura politica di non facile soluzione. Una prima e parziale risposta puo venire dal considerare quali siano le zone di provenienza dei nostri Assessori, se siano localizzabili in modo uniforme per tutto il territorio sottoposto alla Serenissima, se riguardino solo i centri maggiori, oppure anche le piccole cittadine. Notevole l’afflusso di Assessori da citta del prestigio di Verona e Padova*5, Vicenza che sembra costituire il centro in cui il reclutamento dei collaboratori dei Podesta conosce maggior fortuna: pensiamo al frequente ricorrere di tanti nomi, da Giovanni Scroffa a Girolamo Ferramosca, da Marco e Giovanni da Schio ad Antonio Lonigo, da Girolamo Barbarano a Marco Loschi. Se dietro le carriere intraprese dagli Assessori provenienti dai centri maggiori si possono intuire legami di natura personale e clientelare con gli influenti membri del patriziato veneziano incaricati di reggere le citta del Dominio, senza risposta resta la questione sulle modalita di accessione alla carica da parte di tanti giuristi che uscivano dai modesti ceti eminenti di tante cittadine della Terraferma. E stata la fortuna oppure una ben determinata strategia a realizzare gli interessi di un Jacopo de Guizarotis di Salo — al maleficio a Padova 39
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nel 1491 —, di Battista de Visatis di Conegliano — giudice dell’aqui-
la a Padova nel 1489, assieme a Donato Becorio di Serravalle, alle vittuarie —, o ancora di Nicolo de Mezanis giudice dell’aquila, ancora a Padova, nel 1495, o di un Girolamo de Montesilice di Maderno, che ricopre la carica di vicario a Vicenza nel 1500?
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NOTE 1 Galasso, Miti e realta, pp. 127-130; Chittolini, Stati padani, p. 11. 2 Chittolini, Stati padani, p. 12. 3 A questa messa in discussione di categorie giuspubblicistiche “forti”, un gran-
de contributo é stato apportato da discipline quali l’antropologia storica e la sociologia del diritto. Cfr. ad esempio Gil, Un’antropologia delle forze; Raggio, Faide e parentele. 4 Cfr. il saggio di Berengo che pose per primo la questione in questi termini, I] Cinquecento, e le pit recenti sintesi di Fasano Guarini, Gli Stati dell’Ttalia centro settentrionale, pp. 492-520, e di Varanini, Dal comune allo Stato regionale, pp. 425-458. 5 Sul cosiddetto Stato per ceti cfr. i fondamentali articoli di Gerard, Regionalismo e sistema per ceti; Mayer, I fondamenti dello Stato moderno; Naf, Le prime forme dello “Stato moderno”, pp. 21-49, 51-68, 193-219. Da vedere anche gli studi di Lamprecht, Gierke, Maitland, Bloch, Lousse, Oestreich, Auerbach, contenuti in Societa e corpi. Si deve tuttavia precisare che !’analogia tra questa forma di Stato e quelle italiane ¢ solamente formale. La realta costitutiva dello Stato per ceti ¢ infatti determinata dalla polarita tra Imperatore, principi e signorie rurali, soppiantate nelle realta italiana dalla precoce espansione della citta, sulla cui centralita ed autonomia rispetto ad altre esperienze europee, si é soffermato Berengo, Citta francesi e citta italiane, pp. 109-123. Sulla fondamentale funzione urbana di unificazione economica del territorio e sulla formazione di un mercato regionale egemonizzato dalle citta, avanza interessanti proposte Knapton, City Wealth and State Wealth, pp. 183-209. Vicens Vives, La struttura amministrativa statale, pp. 23-25, ha distinto per Europa continentale due diverse modalita — che corrispondono a ben precise aree geopolitiche — di esercizio dell’autorita sovrana del Principe, che si realizza in tutti i casi attraverso la mediazione di detentori di potere a livello locale. In un’ampia zona questa funzione di mediazione la realizzano, controllando direttamente le masse dei “Villani, dei semiliberi, e, in certi posti, dei servi”, i “delegati dei proprietari giurisdizionali, siano essi laici o ecclesiastici”. Un secondo strato é formato dalle “siurisdizioni autonome dentro |’ambito riservato all’autorita del Principe”. Questo strato ¢ composto da quei “corpi, organismi e collegi privilegiati” sorti dalla rivoluzione commerciale; anche in questo caso — come in quello della diffusione della signoria rurale — non viene certo messa in dubbio la legittimita del potere del sovrano, ma risulta ben chiaro che questo non dispone del “denaro, delle milizie e della giustizia se non attraverso o mediante l’acquiescenza di tali corp1”: definizione che pud valere — tenendo ben presente la prepotenza dello sviluppo urbano — anche per I’Italia del centro-nord. Cfr. anche la sintetica messa a punto di questi problemi in Poggi, La vicenda dello stato moderno, pp. 65-94, e Schie-
ra, Lo stato moderno. 6 Per una prima definizione di questi problemi, cfr. Bertelli, Ceti dirigenti e dinamica del potere, pp. 23-25. Centrale in questa prospettiva euristica é |’in-
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dagine sulla Corte: cfr. su questo argomento la rassegna di Merlin, I/ tema della corte, pp. 203-244. Sulla impossibilita di intendere il modello delle Corti padane, quale “schema complessivo dell’organizzarsi politico delle societa rinascimentali”, cfr. le persuasive considerazioni di Chittolini, Stati padani, p. 21, e di Fa-
sano Guarini, Modellistica e ricerca storica, pp. 605-634. ” Cfr. Mozzarelli, Corte e amministrazione, p. 261, dove parla di “irriducibilita alla dimensione statuale” degli assetti politici delle societa dell’eta del Rinascimento.
§ Chittolini, Stati padani, p. 25. > Cfr. su questo il suggestivo saggio di Tucci, La psicologia del mercante ve-
neziano, pp. 5-60. 10 Gaeta, L’idea di Venezia, pp. 561-641; Id., Alcune considerazioni sul mito di Venezia, pp. 58-75. Una serrata analisi politico-ideologica dei trattatisti veneziani del Quattrocento, in cui emerge, come tratto unificante, la concezione della superiorita e dell’unicita del modello lagunare, viene condotta da Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, pp. 513-563. Sulle origini di questa ideologia si era gia soffermata Fasoli, Nascita di un mito, pp. 445-479. Cfr. ora Grubb, When Myths, e Robey-Law, Venetian Myth.
11 Mousnier, Les institutions, vol. I, p. 5. 12 Tbid., pp. 6-7. 13 Raphaini de Caresinis (Raffaino Caresini), Chronica, 1343-1388, p. 58. 14 Cfr. le pagine suggestive di Tenenti, I/ senso dello spazio e del tempo, pp. 75-118. 13 Cfr. Woolf, Venice and the Terraferma, pp. 51-88; e Ventura, Considerazioni sull'agricoltura, pp. 674-722. 16 Mazzacane, Lo Stato e il Dominio, p. 578. 17 Ventura, I/ Dominio di Venezia nel Quattrocento, pp. 167 e sgg. 18 Su questo tema cfr. Cozzi, Politica, societa, istituzioni, pp. 24-26. 19 Moltissimi spunti in questa linea interpretativa sono contenuti nell’ampio saggio di Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto, pp. 495-539. 20 Grubb, Firstborn of Venice, p. 37. 21 Per una interpretazione in questo senso delle deditiones, cfr. Ventura, Nobilta e popolo, pp. 36 e sgg. Assai persuasive le fini osservazioni di Law, Verona and the Venetian State, pp. 11-12. Da vedere anche Menniti, Providebitur; Id., Le dedizioni e lo stato regionale; Id., La “fedelta vicentina”’. 22 Cfr. ad esempio quanto riporta Bouwsma, Venezia e la difesa della liber-
ta, pp. 83-90. 23 Sul problema del riconoscimento o del misconoscimento della legittimita dei possessi della Serenissima da parte dei giuristi della Terraferma, e quindi del loro grado di integrazione con o di esclusione dalla sfera di influenza della Dominante, cfr. Mazzacane, Lo Stato e il Dominio, pp. 591-593. 24 A.S.V., S. S., reg. 14, cc. 35v-36v. Puo essere interessante notare che il Senato diede anche informazioni all’ambasciatore, perché trattasse direttamente
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con il vicario imperiale Brunoro della Scala, per la titolarita su Verona e Vicenza. L’investitura sulla Terraferma che in quell’occasione l’imperatore aveva concesso, non comprese Verona e Vicenza: evidentemente Brunoro aveva rivendicato i suoi diritti ereditari sulle due citta. Solo alla sua morte la Serenissima Signoria aveva commissionato ad un altro ambasciatore di completare l’acquisizione
della Terraferma, Ivi, Sindicati, reg. 2, c. 48r. .
25 Law, Verona and Venetian State, p. 11. 26 Grubb, Firstborn, p. 43. 27 Ibid., p. 47. 28 Sul “tradimento” delle classi dirigenti delle citta di Terraferma, cfr. Ventura, Nobilta, cap. IV; Cervelli, Machiavelli, pp. 105 e sgg. 29 Marin Sanudo, Itinerario. Sulla composizione di quest’opera cfr. Cozzi, Marin Sanudo, p. 299. 30 Ibid., p. 25. 31 Grubb, Firstborn, p. 112. 32 Sanudo, Diarii, t. X, coll. 154-167. 33 Tl passo é citato da Mazzacane, Lo Stato e il dominio, p. 591. 34 Bartolomeo Cipolla, Omnia opera, p. 543. 35 Per una analisi delle posizioni dottrinarie di alcuni importanti giuristi che operarono nella terraferma veneta nel XV secolo — Bartolomeo Cipolla, Giovanni Bertrachini, Nicold de Milis —, e per le successive citazioni dei rappresen-
tanti del Dominio e di quelli veneziani, cfr. Grubb, Firstborn, pp. 24-25. Per un inquadramento di fondo della tematica dal tardo medioevo alla prima eta moderna, ed un esame delle varie posizioni che sulla definizione di citta hanno assunto Weber, Pirenne, Ottokar, Glissen, Fasoli, Tabacco, Sestan, cfr. Bertelli,
Il potere oligarchico, pp. 1-S. 36 Berengo, La citta di antico regime, pp. 662-692. 37 Cfr., anche per quello che segue, la sintesi di Hay, La Chiesa, e i moltepli-
ci spunti in Prosperi, Intellettuali e Chiesa, pp. 159-252. 38 Tbid., pp. 173-174. 39 Tl rimando d’obbligo é per le ancora fondamentali opere di Bloch, I re taumaturghi, e, soprattutto sul versante della dottrina, Kantorowitz, I due corpi del re. 40 In questo senso va interpretato l’atteggiamento del patriziato nei confronti del Doge, almeno per il periodo di cui ci stiamo occupando. Nel corso del ’400, la tendenza — di cui si cercheranno di cogliere alcuni tratti salienti nel corso di questa ricerca — verso un restringimento oligarchico ed a una gestione del potere maggiormente autoritativa rispetto al passato aveva investito anche la figura dogale. La sovranita della legge rischiava di venire soppiantata dall’arbitrio di
un singolo, che in realta non poteva che essere un primus inter pares, e come tale sottoposto agli obblighi di tutti gli altri nobili: “esistette... nel patriziato della Serenissima una mistica della propria conservazione”, cosi ha scritto Tenenti, Il potere dogale, p. 197, e il suo massimo esponente non poteva che uniformarsi a tale logica. Nella logica dell’infrazione di questo sistema va letta la clamoro43
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sa deposizione di Francesco Foscari. Nel corso del XVI e XVII secolo la figura dogale, e la sacralita che la avvolge, sembrano conoscere un mutamento semantico, in parallelo alle profonde trasformazioni politico-sociali interne al patriziato: su tutto questo, osservazioni assai penetranti ibid., pp. 199-216. 41 Su questa tematica é¢ da vedere Muir, I! rituale civico. 42 JT] discorso sulle istituzioni ecclesiastiche veneziane e sui rapporti tra Stato e Chiesa nella prima eta moderna non é stato ancora affrontato approfonditamente. Alcune interessanti ipotesi sono avanzate da Prodi, The Structure and Organization, pp. 409-430. 43 Cfr. a tale proposito Prosperi, Intellettuali e Chiesa, pp. 173-174. 44 Bertelli, I/ potere oligarchico, p. 150. 45 Ibid., p. 155. 46 Moltissimi esempi che testimoniano del moltiplicarsi del significato civile e politico attribuito alla figura del patrono sono nella classica opera di Peyer, Stadt und Stadtpatron. 47 Intellettuali e Chiesa, p. 174, con numerose esemplificazioni soprattutto per quanto concerne 1 ducati dell’Italia centrale. 48 Zarri, Aspetti dello sviluppo, pp. 249-250. Per la contrapposizione tra culto del patrono di origine cittadina e culto imposto dal nuovo detentore dei diritti di signoria, cfr. Trexler, Ritual Behaviour, pp. 125-144. 49 Sanudo, Itinerario, p. 26. 50 Ibid., p. 96.
5t Ibid., p. 70. 52 Ibid., pp. 108-109, e Grubb, Firstborn, pp. 131-133. 53 Ibid., p. 88. Lo stesso senso di una scelta legata alla affermazione di una ideologia particolaristica traspare, anche se meno clamorosamente, nei casi di
Riva che aveva eletto per patroni S. Martino e S. Alessandro, di Noale per S. Felice e Fortunato, di Feltre per S. Vittore, di Conegliano per S. Leonardo, di Oderzo per S. Giovanni Battista, di Motta di Livenza e Sacile per S. Nicolo, di Portobuffolé per S. Prosdocimo, di Cividale per S$. Donato, rispettivamente
alle pp. 90, 116, 121, 126, 127,128, 130, 129, 138. 54 G. Chittolini, Note sulla politica ecclesiastica, pp. 195-208; Id., Stati regionali e istituzioni ecclesiastiche, pp. 152-153. ‘5 Diritti propri di un corpo sovrano che comprendevano, secondo quanto scrive Chittolini, Note sulla politica, pp. 194-195, i “diritti di avvocazia ( Votgei), possibilita di conferire liberamente benefici, diritti di visita, di controllo, di tassazione del patrimonio ecclesiastico”. 56 Del Torre, La politica ecclesiastica, pp. 387-426; Ansani, La provvista dei benefici, pp. 1-113; Bizzocchi, Chiesa e potere. ‘7 Ventura, I/ Dominio, pp. 177-178. ‘8 Tenenti, La nozione di “stato”, pp. 85-87. 59 EF da ricordare che una delle conseguenze dei processi di costituzione degli Stati territoriali all’interno della penisola e della concomitante perdita del potere
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di influenza della Chiesa romana nei territori d’oltralpe, non poteva non portare ad una intensificazione dei rapporti tra curia e strutture ecclesiastiche regionali, collegate ovviamente ai ceti dirigenti di quegli stessi Stati. Il simbolo della raggiunta istituzionalizzazione di questa sorta di italianizzazione della curia é dato dalla composizione del Sacro Collegio in cui i cardinali occupano la funzione di “rappresentanti quasi istituzionali a Roma di Stati italiani o di grandi famiglie signorili”: Chittolini, Stati regionali e strutture ecclesiastiche, p. 157, n. 9. 60 Numerose leggi emanate nel corso del secolo in materia beneficiaria sono raccolte in A.S.V., Compilazione leggi, b. 81.
61 Tvi, S. T., reg. 8, c. 113v, 21 dicembre 1480. 62 Sulla controversia cfr. ivi, S. Mi., reg. 58, c. 95v. Sulla storia della famiglia Collalto, sui molti membri che servirono come comandanti militari la repubblica, e sui diritti feudali che questa vantava sui castelli di San Salvatore e Collato, nonché sulle ville di Barbisano, Refrontolo, Colfosco, Susegana, Santa Lucia, Falzé e Sernaglia, sulle vaste proprieta terriere nel distretto trevigiano, accumulate nel corso delle generazioni, nonché sul giuspatronato detenuto sulla grande abbazia benedettina di Sant’Eustachio, l’unica monografia resta quella di Battistella, I Conti di Collalto. Cfr. anche quanto scrivono Del Torre, I! Tre-
vigiano, p. 38, e Zamperetti, I piccoli principi, pp. 53-56. 63 Su questa linea sarebbe da svolgere una ricerca sulla funzione svolta dal Senato nel corso del secolo. Esemplare della modalita di intervento di cui si sta trattando risulta la parte proposta dai Consiglieri ducali all’attenzione del Pregadi il 14 aprile 1436, in A.S.V., S. Mz., reg. 59, c. 153r. “Aliqui cives Vincentie” ed alcuni abitanti della villa di Musone si erano rivolti alla Serenissima Signoria perché risolvesse l’annosa controversia che li opponeva all’abbazia di Santa Giustina di Padova, in quanto desideravano affrancarsi dagli obblighi di versamento di una decima che dovevano a quei canonici regolari. I] quadro giurisdizionale era ulteriormente complicato dal fatto che quella villa apparteneva amministrativamente al “districtus” vicentino, ma rientrava nella giurisdizione ecclesiastica della diocesi di Padova. Ed era di fronte al vicario episcopale di questa citta che gli avvocati dell’importante ente ecclesiastico avevano rivendicato la legittimita degli antichi diritti. “Ut cessent lites et scandala qua in preterito pro dicta causa evenerunt”, cosi supplicano i vicentini, si permetta di risolvere il conflitto “per viam compositionis”, anche con I’intervento del vicario episcopale, ma non senza la vidimazione finale del Pregadi. Sull’importanza della congregazione di Santa Giustina e sul suo ruolo all’interno dello Stato territoriale, cfr. Zarri, Aspetti dello sviluppo, pp. 220-221. Un altro provvedimento dall’analogo contenuto in A.S.V., S. T., reg. 3, c. 27r. In questo caso il consiglio della capitale ratifica, alla presenza di un oratore inviato da Ravenna, la “concordia et compositio” realizzata gia nel 1434 tra il clero ed i laici di quella citta “in facto feudorum, livellorum seu bonorum emphiteoticorum et livellariorum”.
64 Cozzi, Politica, societa, istituzioni, p. 239. 45
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65 Domenico Morosini, De bene instituta. Sulla composizione e sul! importanza di quest’opera, su cui ritorneremo nel corso della nostra indagine, cfr. Cozzi, De bene instituta, pp. 405-458. 66 Cenci, Senato veneto, pp. 313-354. 67 Del Torre, Stato e Chiesa. Cfr. anche Prodi, Structure and Organisation, pp. 417-418.
68 AS.V., S. T., reg. 10, c. 122r, 4 novembre 1488. 6? Cozzi, Politica, societa, istituzioni, p. 120. 70 Relazione del ducato di Milano, p. 22. 71 Ibid.
72 Ansani, La provvista dei benefici, p. 34. 73 ALS.V., S. Mi., reg. 55, c. Ir, 11 marzo 1424. 74 Grubb, Firstborn, p. 223. 75 Ibid.
76 Gaeta, Storiografia, pp. 1-91. 77 Su quest’episodio ed in generale sul problema, Pastore Stocchi, La cultura umanistica, pp. 93-94. 78 Tenenti, La nozione di “Stato”. 7”? King, Umanesimo e patriziato, pp. 16-18. 80 Pastore Stocchi, La cultura umanistica, pp. 95 e sgg. 81 Cozzi, Ambiente veneziano, pp. 501. 82 Sanudo, Itinerario. 83 Ibid., p. 27. 84 Ibid., p. 70. 85 Ibid., p. 96. 86 Ibid., pp. 44-45. 87 Ibid., p. 90. 88 Ibid., p. 128. 89 Ibid., p. 94. 90 Ibid., p. 150. 91 Cfr. quanto scrive Avesani sull’edizione statutaria veronese e sulla figura del Lando, La civilta delle lettere, pp. 99-102. 92 Cfr. il Proemium nell’edizione Statutorum, cc. 1v e sgg. L’attribuzione di piccola Gerusalemme e ac. Sr-v: “in primis namque scriptores haebraici a Sem Noe filio eam conditam tradunt posteaque minorem Hierusalem munitione locorum, agrorum amoenitate, fructuum affluentia, situs fere totius similitudine vocitatam. Nam et in hunc husque diem apud nos, ut loca eadem, sic maxime montis Domini, qui est Olivetus montis Calvarii, vallis Domini, Nazareth, Bethleem, Sepulchri nomina consequentia prestant: qua laude vetustatis nulla maior aut praestantior proferri potest”. Ed ancora nello stesso luogo Silvestro Lando volle ripetere con ancora maggiore retorica, riecheggiando il profeta Isaia: “Tu
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altera Hierusalem surge, illuminare veneto sidere, a quo tibi religio, iustitia, libertas illuxit”. Da notare infine che nella seduta del Consiglio cittadino si decise di cambiare la vecchia leggenda del comune di Verona Est iusti latrix urbs hec et laudis amatrix, con Verona minor Hierusalem Divo Zenoni Patrono, cfr. Avesani, La civilta, p. 100. Al momento di descrivere la realta veronese Marin Sanudo sembra ricalcare quasi letteralmente il proemio statutario: “Verona, a scriptori Hebraici nominatissima et a Sem filgio di Noé edificata, et Hierusalem minor vocitata, perché in questo zorno el monte Oliveto, la valle Calvaria, Nazareth et Bethlem dura et denominati, dimonstrando l’antigita sua”, Itinerario, p. 96. 93 Statutorum, c. 2v, introduzione che cosi prosegue: “Age quod Venetae Reipublicae regimen sic institutum habetur, ut etiam ab ipso illo celsiore ducali solio libera permittatur cuique provocatio, ut non minus inopi adversus iniuriam, quam divitiori aditus pateat liceatque cuique coram tum dicere quod libeat, tum audire quod cupiat, unde clementiam cum animadversione coniunctam nocentes, boni autem dignitatem cum commodis et honore permistam ab illa senatoria maiestate ac ducali sede reportant: sub qua est cuique rerum suarum liber usus, sub qua uxorum pudor ac pudicitia inviolata, sub qua liberorum coniugia non coacta, sub qua denique arbitria hominum non circumscripta”. 94 Ibid., c. 6r. 95 Cfr. nota 21. 96 Per una interpretazione di questi Pacta, fortemente caratterizzata dal momento autoritativo e impositivo da parte della Dominante, cfr. Ventura, Nobilta e popolo, pp. 40-45. Menniti Ippolito, Providebitur sicut melius, ha analizzato come alcune realta particolari, in area bresciana, si ponessero di fronte al Principe al momento della conquista. Cfr. anche Cozzi, Politica, societa, istituziont, p. 221.
97 A.S.V., S. Mi., reg. 55, c. 91r. 98 Cozzi, La politica del diritto, p. 265. 99 Ibid., pp. 265-268. Conflitti tra la capitale e le citta soggette potevano eventualmente sorgere non tanto sui contenuti delle raccolte normative, sui quali per l’'appunto Venezia non intervenne mai, quanto piuttosto sul diritto sovrano, sem-
pre affermato con vigore da quest’ultima, di poter correggere, annullare o apportare modifiche. Verona nel 1450, protestera per l’invio di una ducale che approvando le riforme statutarie, comprendeva quella clausola. Per i veronesi, questo contraddiceva con i privilegi accordati al momento della conquista nel 1405. Ma le loro rimostranze vennero respinte, e il testo della ducale venne inserito nella
stessa edizione degli statuti, cfr. Law, Verona and Venetian State, p. 16. 100 Su questo tema, e con interessanti considerazioni di ordine generale, cfr. Chittolini, Legislazione statutaria, pp. 93-114. Per lo sviluppo di tale fenomeno in area veneta cfr. le varie edizioni di Statuti. 101 Sul tema della stratificazione sociale interna ad una comunita veneta e la dislocazione di nuovi equilibri tra i suoi componenti in un’eta di profonde modifiche dell’assetto della proprieta della terra, di diffusione di nuove forme contrattuali, provocate dall’avvento di nuove tecniche di bonifica, cfr. per il Quat-
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trocento le interessanti pagine di De Sandre Gasparini, Contadini, Chiesa e con-
fraternita. 102 Galasso, I carattert originali; Chittolini, Introduzione, pp. 43-44. 103 Chittolini, Ricerche, pp. 292-352. 104 Per una discussione di questi problemi cfr. Berengo, Ravenna; Grubb, Alla ricerca; e cfr. anche Bonfiglio-Dosio, La condizione giuridica. 105 Cfr. infra, cap. III. 106 Sui Collegi dei giuristi veneti nel corso del Quattrocento mancano studi complessivi. Mistura, I giudict, offre qualche interessante notizia sull’istituzione dei collegi e sulla normativa statutaria di essi. Qualche cenno in Grubb, Firstborn, e alcuni esempi in Roberti, I/ Collegio padovano, pp. 171-249. Cfr. anche Betto, Il collegio dei dottori, pp. 68-69. 107 Cfr. Cozzi, La politica del diritto, pp. 281-282. 108 AUS.V., S. Mi, reg. 55, c. 37r-v. 109 Twi, reg. 58, c. 44r. 110 Ibid., c. 99r-v.
111 Hay, Law, Ltalia del Rinascimento, p. 148. 112 AS.V., S. T., reg. 1, c. 34r. 113 Cozzi, Politica, societa, istituzioni, p. 220. 114 Scroccaro, Dalla corrispondenza dei legati, pp. 625 e sgg. 115 Sulla formazione delle rappresentanze stabili, cfr. Morpurgo, Le rappresentanze delle popolazioni, pp. 869-880. Qualche cenno anche in Borgherini Sca-
rabellin, I/ rappresentante di Padova, pp. 365-415. 116 ALS.V., S. Mz., reg. 59, c. 161r. 117 Gasparini, I giuristi veneziani, pp. 167-185. 118 Per una esauriente analisi di questi temi, cfr. Cozzi, La politica del diritto.
119 AS.V.,S. T., reg. 8, c. 36r, 29 gennaio 1479. Nella deliberazione conclusiva del Pregadi si legge che, da quel giorno in avanti, nessuna comunita potra inviare nunzi oO rappresentanti a Venezia, secondo quanto gia si era decretato per le citta. Tale misura accoglie certamente la volonta del centro maggiore, indirizzata a ridurre le possibilita di un troppo diretto rapporto tra comunita rurali e potere centrale, ma rappresenta anche un allargamento della sfera di controllo dell’autorita statale. Una ancora larvale intenzione di disciplinamento che si puo riscontrare anche nell’obbligo, fatto alle comunita, di annotare “expensa ali-
qua” nei libri della comunita. Nel caso che quelle spese non fossero decretate “per ipsorum, consilia congregata”, si dovra procedere ad una “specificatio distincta”, precisando a quali settori siano dirette, “et qua de causa facte fuerunt”. Ogni quattro mesi, inoltre, le comunita dovranno sottoporre all’esame dei rettori i libri contabili cosi prodotti. 120 Tbid., c. 41r, 6 marzo 1479. 121 Cfr. quanto dice al proposito Cracco, La cultura giuridico-politica, pp. 238-271. Interessanti precisazioni anche in Mazzacane, Lo Stato e il Dominio, pp. 579-580. 48
VENEZIA E LA TERRAFERMA
122 Besta, Riccardo Malombra, pp. 102-103. 123 Td., Su talune glosse, pp. 404-405. 124 Mazzacane, Lo Stato e il Dominio, p. 580. 125 Tbid., p. 581. 126 Alcune interessanti notizie si possono rinvenire in Fano, Notizie storiche, pp. 218-244; Blason Berton, Una famiglia di giuristi, pp. 112-119. 127 Citato in Mazzacane, Lo Stato e il Dominio, p. 595. 128 Tbid., p. 596. 129 Per un commento a quest’opera cfr. ibid., p. 597. Alle cc. 38v-39r del De interpretatione legis extensiva, Venetiis, 1557, il principio enunciato veniva meglio specificato e rapportato alla prassi politico-istituzionale. Gli Auditori novi, la Quarantia, e gli altri “Consilia” della capitale, erano tenuti a seguire “rigorem iuris civili, vel Statuta scripta, omissa equitate non scripta, sicut tenebantur primi iudices Padue vel Verone, quia iudex appellationis in sententiando tenetur servare illud ius, quod tenebatur observare iudex cause principalis, quia eis succedit ut confirmator vel infirmator, ut dicit eleganter Baldus...”. Per una messa a punto dell’ambiente in cui i giuristi citati venivano ad operare, e sul tema del rapporto tra diffusione di una retorica di stampo umanistico e diritto, cfr. Ascheri,
Giuristi, pp. 42-73. 130 Cfr. Barzazi, Consultori in iure, pp. 223-251. 131 Cfr, Martines, Lawyers and Statecraft, e Di Renzo Villata, Scienza giuri-
dica, pp. 65-145; Id., La vita del diritto, pp. 147-169. 132 [opera di Cristoforo Lanfranchini cui si allude ¢ Tractatus seu questio utrum preferendus sit doctor an miles, Biblioteca Nazionale Marciana, Inc. 689. Sulla crisi del ruolo del giurista tra tardo Medioevo e prima eta moderna, cfr. Sbriccoli, L’interpretazione dello statuto; interessanti considerazioni anche in Ascheri, Giuristi, umanisti, eId., Giuristi consulenti. Per una considerazione pit generale, fondamentali le pagine di Van Caenegem, Judges. 133: Amaseo Gregorio e Leonardo, Azio Giovanni Antonio, Diarit udinesi, pp. XV-XLV dell’introduzione, a cura di Joppi, per la ricostruzione della vita di Leonardo, con citazioni di numerose lettere inviate ai familiari. 134 In una lettera inviata da Venezia il 24 giugno 1499, scriveva al fratello Gregorio che “benché li legisti habiano pit salario che le altre profession, questa si é una corruptela ch’é stata indutta, perché, per la carestia de libri per lo passado solo li optimi citadini studiavano in jure, et per esser de conto tegnievano la cosa in presio, et perché erano pochi”. Per recuperare l’antico lustro connaturato alla professione era necessario costruire quell’ideale di uomo universale che solo la filosofia poteva consentire: “in humanita se contien tutte le scientie del mondo et non é scientia né profession alcuna pit politica del quella, né pit cossa da Signor Principe”. E continuava: “le altre profession son tutte immerse in profonda barbarie, et maxime leze, le quali muderanno anche loro stile et torneranno nel suo antiquo stato, perché li antiqui, si artisti come legisti, tutti erano doctissimi humanisti”, ibid., p. XLV.
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GOVERNANTI E GOVERNATI
135 Ancora nel 1499, scriveva di essere certissimo “col tempo esser de primi, et de reputation et de guadagni, perché sono pochissimi che vaglia et mancho ch’abia a valer”, ibid., p. XX XVIII, lamentando di non essere stato capace di coltivare le giuste relazioni con quei patrizi veneziani che lo avrebbero potuto alutare. 136 Ibid.; per un piu ampio quadro delle vicende riassunte e per la citazione
della lettera, cfr. ibid., pp. XXXIX-XLII, e XLII. 137 Martines, Lawyers. 138 Per una serie di spunti su quanto fin qui detto, cfr. il saggio di Povolo, Il Giudice Assessore, pp. 5-38, che costituisce l’introduzione all’importante trattatello L’Assessore. 139 Per i dati che da questo punto verranno citati, salvo diversa indicazione,
la fonte é A.S.V., Av. C., Giuramenti dei rettori, b. 1, che copre gli anni 1486-1509. 140 Bonifacio, L’Assessore, p. 49. 141 Incontriamo Girolamo Ferramosca quale giudice del maleficio a Padova nel 1486 e 1488, accede quindi alla ancora piu prestigiosa carica di vicario sempre a Padova alla fine del 1489. Ancora con lo stesso incarico a Crema nel 1491, a Brescia nel 1495, ancora a Padova nel 1494 e 1498, infine a Treviso nel 1500. Conte Alvarotti di Padova occupo praticamente senza soluzione di continuita le maggiori cariche per quasi quindici anni: vicario a Brescia nel 1488 e 1498, a Bergamo nel 1493 e 1500, a Verona nel 1491 e 1504, a Vicenza nel 1495, 1497 e 1502. Appare assai probabile che le tre elezioni, dal 1485 al 1488, di Giovanni dalla Scroffa — giudice del maleficio a Padova, poi vicario a Brescia e a Bergamo — siano la parte conclusiva di una piu lunga carriera. Ugualmente significativa la vicenda di un Bonifacio Bonfilio, che, dal 1487 al 1501, sara tre volte vicario a Treviso, due volte a Brescia, una a Vicenza e Verona. 142 AS.V., C. X, Giuramenti dei rettori, reg. 1, passim. 143 Ibid., passim. 144 Cfr., oltre alla bibliografia alla nota 123, i dati di Grubb, Comune privilegiato, pp. 52-53. 145 A.S.V., C. X, Giuramenti dei rettori, passim, basti ricordare, per Verona, alcuni nominativi che ricorrono pit volte nei nostri registri, quali Alberto de Albertis, Girolamo Bravo, Bartolomeo e Tommaso Tomei, Michele e Ludovico Cipolla. Per Padova sono da ricordare, oltre al gia citato Conte Alvarotti, Salione Buzzacarini, Antonio da Bassano, Alvise Barisone, Jacopo de Galeatiis, Pasqualino de Mastellariis, Giovanni Antonio Pasini.
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L’Avogaria di Comun e la tutela della legalita. Dalla citta capitale al Dominio: le forme del controllo e della mediazione
Cosi Domenico Morosini, nel suo trattato De bene instituta re publica, scritto alla fine del ’400, sintetizzava il compito della magistratura dell’Avogaria di Comun: “tuetur leges, libertatem defendit, vim persequitur et civitatem in securitate ac equalitate et legum observantia
continet”. Nessuna repubblica attuale o del passato, aggiungeva con una punta di orgoglio civico l’autore veneziano, poteva vantare una istituzione cosi efficace, nessuna “philosophorum traditio” aveva trasmesso ai posteri un cosi felice connubio di prassi politico-amministrativa e adesione a valori ideali!. Tutela della legalita e difesa della
liberta che si realizzavano attraverso una severa ed attenta opera di repressione penale contro i “sicarios, latrones, homicidas” e i falsificatori di monete che infestavano la citta, contro i “violatores” di vergini, contro i “fures sacrarium edium” ed i bestemmiatori; tutela della legalita che significava controllo della correttezza delle procedure dei tribunali civili e penali, corrispondenza delle sentenze emanate con
la normativa stabilita dai consigli, accoglimento delle suppliche interposte dai sudditi (“audire querelas omnium”) e di tutti gli appelli sugli atti dei rappresentanti veneziani in Terraferma in materia di giustizia penale. Tutela della legalita che, secondo il Morosini — che pure vagheggiava una soluzione della crisi costituzionale e sociale della
Serenissima in senso autoritario ed oligarchico —, avrebbe trovato il suo momento pit alto in un’azione, tutta politica, di bilanciamento istituzionale. Il Doge ed i suoi “assidentes” detengono “summam potestatem” — tanto che li si designa con il termine “Dominium”? —, 51
GOVERNANTI E GOVERNATI
€ possono “nonnumquam plus velle quam leges et iura permittant”, tuttavia, affinché non esercitino “immoderatius” una cosi ampia autorita discrezionale, il legislatore ha stabilito che, qualora questi ordinassero alcunché “contra leges”, sia in facolta degli Avogadori di introdurre il caso al giudizio dei Consigli, “ne quiquam concedatur maior potestas quam ex leges et libertas patiatur” >. Marin Sanudo nella prima stesura del 1493 del suo trattatello De origine, situ et magistratibus* — certamente meno programmatico, ideologico e sofferto rispetto a quello del Morosini — fornisce una vivida immagine dell’attivita degli Avogadori. Numerosissimi i compiti delegati ai tre patrizi veneziani che venivano eletti alla carica per la durata di sedici mesi. Nessuna deliberazione di un “conseio” veneziano poteva ritenersi valida se ad esso non partecipava almeno un Avogadore. Singolarmente o collegialmente gli Avogadori avevano facolta di “metter parte”, proponendo sanzioni e pene, e “metter ballotta”, partecipando cioe anche alla votazione, in ogni consiglio o tribunale. Questa liberta era tuttavia limitata da una eccezione assai importante: non si estendeva al Consiglio dei Dieci*. Qui agli Avogadori era consentito, secondo il criterio della rotazione, di prendere parte alle sedute, di inquisire i rei, coadiuvando i Capi e gli Inquisitori del Consiglio, di esprimere la loro valutazione sulle diverse questioni che venivano esaminate, ma non era loro attribuita la facolta di voto. In penale agivano come giudici di primo grado per delitti di particolare gravita commessi nella capitale, ma anche come giudici d’appello sulle sentenze pronunciate dai Rettori veneziani inviati ad ammiunistrare citta e centri minori dello Stato da Terra, e sull’attivita giudiziaria di alcune magistrature veneziane — cui erano attribuiti compiti ispettivi e di tutela dell’ordine pubblico — quali i Signori di Notte, 1 Cinque alla Pace, i Capi di Sestier. Piu limitata, secondo la testimonianza del Sanudo, l’ingerenza degli Avogadori nel settore dell’amministrazione della giustizia civile: per cio che riguarda la citta capitale, essa non poteva estendersi oltre alla facolta di controllo su procedure e terminazioni delle cosiddette Corti di Palazzo. Per gli appelli in civile provenienti dalla Terraferma Si era invece istituita la magistratura degli Auditori‘. Vale la pena tuttavia di sottolineare come i continui sconfinamenti degli Avogadori nel settore della giustizia civile e degli Auditori in quello del52
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
la giustizia penale — soprattutto grazie alla facolta di sindacamento dell’attivita dei rappresentanti veneziani — sono alla base di un conflitto, spesso assai aspro, che accompagna la vicenda delle due istituzioni per tutto il corso del XV secolo. Un altro fondamentale momento della funzione rappresentata dagli Avogadori consiste nel controllo sulla legittimita delle nascite e dei matrimoni dei patrizi’. Assai rilevante, a detta del nostro autore, il lustro di cui godevano gli Avogadori all’interno del sistema costituzionale veneziano: “quando vanno con la Signoria preciedono i Cai del Conseio di X, et conclusi-
ve hanno grandissima auttorita et é uno dei principali membri over officii di questa Repubblica”. Tale prestigio non sembra, tuttavia, dipendere tanto dalle specifiche competenze o dalla cultura e capacita di cui erano in possesso i singoli chiamati ad occupare la carica, quanto
piuttosto dal fatto che gli Avogadori erano incaricati di tradurre nella prassi quell’esigenza di equitas con cui il patriziato veneziano si pro-
poneva al proprio interno come corpo di uguali di fronte alla legge: al di la dell’importanza delle diverse funzioni rappresentate, tutti 1 nobili veneziani, dal pit umile ufficiale periferico ai Capi del Consiglio dei Dieci, ai Procuratori di San Marco, fino allo stesso Doge, detenevano la medesima frazione di sovranita. Esigenza di equitas, di giustizia esercitata imparzialmente, anche nei confronti dei governati, con una forte enfasi sul potere interpretativo e discrezionale del giudice, al di sopra del formalismo dottrinale. Un modo di concepire lesercizio dell’autorita fortemente radicato presso 11 patriziato veneziano; un modo di proporsi ai sudditi che coinvolgeva l’intera classe dirigente, ma che doveva trovare la sua sintesi operativa proprio nellattivita degli Avogadori®: é per questo che Marin Sanudo li definiva “observadori della lezze”?. Emergono dalla lettura di questi trattati quattro-cinquecenteschi alcune funzioni caratterizzanti l’operato dell’Avogaria. Una magistratura le cui competenze giurisdizionali appaiono divise tra citta capitale e mondo della Terraferma, tra ambiente veneziano e ambiente veneto!°, venendo a costituire l’anello di congiunzione tra sistemi giuridici, socio-istituzionali e culturali tanto eterogenei. E su questo terreno che il rappresentare il ruolo di “observadori della lezze” assume una rilevanza tutta particolare. Cosa puo significare difesa della legalita, in rapporto alla complessa politica del diritto adottata dalla 53
GOVERNANTI E GOVERNATI
classe dirigente veneziana, duttile e ricca di sfumature, in cui I’elemento equitativo e discrezionale — il sentire la legge “quale garanzia di giustizia e di uguaglianza”!! — si sovrapponeva, si confondeva e conviveva con la necessita di rispettare le autonomie politico-giudiziarie che le citta soggette ritenevano legittimamente fondate sulla base del-
le pattuizioni?
Uno studio sugli atti degli Avogadori di Comun consente di cogliere la pluralita di significati e le molteplici sfaccettature di cui si pud sostanziare il termine “diritto”. “Diritto — ha scritto Lawrence Friedman — puo significare tanto le regole quanto le strutture che le creano o le applicano” !?: il corpo legislativo, cioé, e le magistrature che sono chiamate a far osservare l’applicazione delle norme. Ma viene
definito soprattutto dal rapporto complesso tra la forma assunta da quelle strutture e da quelle regole ed il loro concreto funzionamento nella realta. Un continuo interscambio tra inputs — determinati dalle varie componenti che formano la struttura di una societa, portatrici di norme, regole di condotta e mentalita, non necessariamente codificate a livello legislativo, ma non per questo meno efficaci e reali —, e outputs — costituiti dalla risposta a quelle istanze in termini di azione politico-giuridica da parte dei detentori dell’autorita, a sua volta determinata da norme e valori “culturali”, da ben definite idee di legittimita e giustizia‘>. Il tema della struttura e del sistema degli appelli, inserito in tale ottica, risulta di fondamentale importanza. E attraverso la gestione degli appelli che i detentori dell’autorita possono conoscere le tensioni che agitano i sudditi, comprendere ed eventualmente neutralizzare i motivi dei rancori e delle violenze, esercitando al contempo un’azione di controllo sull’attivita degli stessi rappresentanti veneziani in terra-
ferma. E su questo terreno che si puo verificare la capacita di centralizzazione dell’attivita giudiziaria da parte dei governanti, cosi come misurare la tenuta delle persistenze particolaristiche rappresentate da fasce sociali, corpi organizzati, “poteri” dalla diversa configurazione istituzionale (giurisdizioni feudali, comunita rurali, borghi e civitates). Il momento che si potrebbe definire “operativo” dell’attivita degli Avogadori di Comun, e delle magistrature d’appello in generale, consisteva nel potere di “intromettere” gli atti e le sentenze dei giudici di primo grado, in seguito ad una querela della parte lesa ‘+: nel caso 54
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
in cui gli Avogadori ritenevano quegli atti o quelle sentenze, nella forma
e nella sostanza, corrispondenti alla lettera della legge li laudavano, come si diceva, rendendoli immediatamente esecutivi. Quando invece riconoscevano la legittimita delle ragioni dell’appellante, avevano facolta di portare la questione al giudizio dei massimi consigli politico-
giudiziari della capitale. L’analisi che segue é stata condotta su tutte le intromissioni avoga-
resche riportate nei registri della magistratura dal 1430 al 150015. Prima di passare ad una indagine “interna” per comprendere le ragioni di chi si appellava, e le risposte che a quelle istanze venivano fornite dai rappresentanti veneziani, ¢ opportuno:soffermarsi su qualche dato quantitativo. Sono state conteggiate le intromissioni alle sentenze emanate dai Rettori, sia per lo Stato da Terra che per lo Stato da Mar, agli atti e terminazioni degli Auditori nuovi e vecchi, alle lettere, mandati e decisioni dei Consiglieri ducali, alle pronunce di tutte le magistrature di primo grado della capitale, sia per il civile che per il penale. I] dato che emerge con immediata evidenza e quello della sostanziale tenuta ed uniformita del potere di controllo degli Avoga-
dori lungo l’arco di tutto il secolo. Per quello che riguarda gli anni trenta, si possono registrare 40 intromissioni nel 1436, 34 nel 1437, 33 nel 1438, 37 nel 1439. Se ci spostiamo al cuore del decennio successivo notiamo 29 intromissioni nel 1446 !°, 33 nel 1448, 36 nel 1449,
34 e 38 nel 1450 e 1451. La documentazione per il decennio 1455-1464 ci restituisce una media di 26 intromissioni all’anno, con un leggero calo quindi rispetto alle rilevazioni della prima meta del secolo!7. Per il decennio successivo (1465-1474) ci si assesta su una media annuale di 31 intromissioni e considerando gli ultimi vent’anni del secolo la media risulta di 33 intromissioni, ma con punte note-
volissime: pensiamo alle 44 del 1496 e alle 50 del 1497. Al di la di questi dati grezzi € opportuno soffermare |’attenzione su un’altra tendenza che emerge dalla lettura degli atti avogareschi e che potrebbe essere cosi sintetizzata: mentre fino alla prima meta degli anni Trenta il rapporto tra interventi sollecitati dai sudditi del Dominio e intromissioni riguardanti conflittualita interne alla capitale vede una netta maggioranza delle seconde — confermando in tal modo la particolare configurazione urbana della magistratura —, la 55
GOVERNANTI E GOVERNATI
situazione sembra mutare nel periodo immediatamente successivo. An-
cora qualche cifra: nel 1434 delle 24 intromissioni realizzate complessivamente solo 6 — esattamente il 25% — fanno riferimento ad atti o sentenze pronunciate da Auditori, Rettori o Consiglieri ducali, in seguito ad istanze interposte dai sudditi del Dominio. Nel 1434 la percentuale risulta superiore, attestandosi al 33%. Negli anni successivi le oscillazioni sono notevolissime e non consentono di indicare linee coerenti di sviluppo: ancora il 33% nel 1438, ma ben il 46% nel 1437 e il 39,8% nell’anno precedente, per poi scendere al 16,5% nel 1439. E con gli anni Quaranta che il rapporto tra interventi riguardanti il Dominio e quelli riguardanti Venezia sembra invertirsi. Pur tenendo conto di alcune lacune archivistiche — che, tuttavia, non sembrano poter modificare sostanzialmente una esplicita linea di tendenza —, se consideriamo il periodo 1441-1450 la percentuale di intromissioni su atti dei Rettori, Auditori e Consiglieri ducali si attesta attorno al 64% del totale, per salire, nel corso del decennio successivo, al 74%, al 76% per il decennio 1461-1470, e al 79 e 75% rispettivamente per gli anni che vanno dal 1481 al 1490 e dal 1491 al 1500. Una trasformazione di fondo che orienta sempre pit l’operato delPAvogaria verso il variegato mondo della Terraferma, e che sembra obbedire ad una richiesta di intervento sempre crescente. Prima di intraprendere |’analisi dei diversi casi sottoposti al giudizio degli Avogadori, sembra opportuno evidenziare un ulteriore elemento strutturale emerso dalla lettura delle intromissioni, che dovra essere tenuto presente al momento di porre il quesito attorno ai motivi della diminuzione di certe prerogative avogaresche nel corso del XV secolo. Si ricordera come Marin Sanudo avesse posto tra le facolta caratterizzanti l’operato degli Avogadori quella consistente nel portare le intromissioni da loro realizzate all’esame del consiglio o del tribunale che sembrasse loro maggiormente adatto a giudicarle. Tuttavia, scorrendo i registri della magistratura, si pud notare come, nel corso del °400, questa possibilita di articolare il proprio intervento su una pluralita di livelli politico-istituzionali fosse adoperata dagli Avogadori in maniera molto limitata. Anche in questo settore si pud collocare una cesura attorno alla meta degli anni quaranta del secolo. Se prendiamo in considerazione il quinquennio 1435-1439, periodo in cui intervento degli Avogadori sembra particolarmente intenso, possiamo 56
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
notare come le cause siano introdotte indifferentemente alla Quarantia o al Minor Consiglio (61 contro 66). Ancora nel 1446 e 1447 il rapporto appare sostanzialmente equilibrato (con un totale di 20 intromissioni in Quarantia contro 22 in Minor Consiglio): equilibrio che si spezza nettamente negli anni successivi: nel 1448 solo 3 casi su 29 vengono sottoposti al voto dei sei Consiglieri ducali, 4 su 34
e 3 su 38 nel 1450 e 1451. Tra la corte di appello dei Quaranta e gli Avogadori si stabilisce, quindi, nel corso del secolo, un rapporto sempre pit continuo. Nel Minor Consiglio sedevano i sei Consiglieri ducali e il Doge '*: un nucleo ristretto, i cui componenti appartenevano all’élite del patriziato della capitale: entravano in Senato e nel Consiglio dei Dieci, facevano parte della Serenissima Signoria, venivano sovente eletti alle cariche pit prestigiose dello Stato da Terra e da Marea quelle che costituivano una sorta di anticamera al Dogado di Provveditore all’arma-
ta, o di Procuratore di San Marco. Respiravano l’aria della grande politica, occupavano la carica per soli sei mesi ed erano sottoposti ad una mole di lavoro ingentissima: dal rispondere alle domande di grazia interposte dai sudditi, al sottoporre all’esame del Maggior Con-
siglio o del Senato “parti” e terminazioni sulle pit diverse materie; dalle necessita dell’approvvigionamento urbano alle riforme della giu-
stizia civile e penale, dai problemi sollevati attorno alla riscossione delle imposte a quelli della pace e della guerra. Quando gli Avogadori si rivolgevano ai Consiglieri affinché esprimessero il loro giudizio sulla legittimita di atti e sentenze emanate dai Rettori, o sulla validita di un testamento o di un compromesso, erano portati ad applicare per cultura e per necessita criteri eminentemente politici. Diverso il discorso per quello che riguarda la Quarantia. Questa istituzione aveva perduto, nel corso del XIV e XV secolo, le proprie prerogative politiche — era stata creata, analogamente al Pregadi, con la funzione di commissione consultiva del Maggior Consiglio —, pur mantenendo quelle giudiziarie e trasformandosi nel massimo tribunale d’appello della Serenissima!*. Nel corso del Quattrocento, proprio come conseguenza dell’incremento dell’attivita giudiziaria provocata dalla formazione dello Stato da Terra, si era prima deciso di sdoppiarla in civile e criminale, infine in civile nuova e civile vecchia — la prima per gli appelli provenienti dal Dominio, la seconda per 57
GOVERNANTI E GOVERNATI
quelli della capitale?®. Marin Sanudo fa notare come, alla fine del secolo, un componente della Quarantia avesse la possibilita di restare in Carica per ventiquattro mesi consecutivi?! — passando dalla criminale alla nuova alla nuovissima. Era inoltre prevista una paga per
seduta (8 lire di grossi). I] che rendeva presumibilmente interessato il patriziato che sedeva in queste corti ad allungare liter delle cause, e a giudicare con condiscendenza 1 numerosi cavilli interposti dagli avvocati delle parti??. Si puo anche avanzare l’ipotesi che la frattura tra patriziato ricco e patriziato povero?? — frattura che tende ad allargarsi proprio a partire dalla seconda meta del XV secolo, determinata dall’incremento demografico e dalla conseguente difficolta di rag-
giungere una carica pubblica da parte dei meno fortunati2+ — trovasse un momento di istituzionalizzazione proprio a livello dei componenti le Quarantie. Non si puo non ricordare a questo proposito Pintervento dei due Capi della Quarantia criminal, Gabriel Bon e Francesco Falier, con cui si era presentata all’attenzione del Maggior Consiglio la proposta di legge “de despensar a’ poveri zentilhomeni che
ne ha officio settantamila ducati all’anno”. Per recuperare il denaro senza gravare troppo sulle casse dello Stato, si doveva convincere 1 Rettori inviati in Terraferma ed in Levante a servire “da bando”, cioé gratuitamente, per otto mesi. Durissima la reazione del Collegio: se i due non avessero ritirato la parte, sarebbe intervenuto il Consiglio dei Dieci. In quanto i due persistevano nella loro volonta di presentare la legge, vennero confinati a vita a Nicosia2°. Non doveva essere indifferente per un Avogadore di Comun portare una intromissione al giudizio del Minor Consiglio o della Quarantia. L’atmosfera politica che avvolgeva i due organismi era diversa, come differenti risultavano le procedure, i riti ed i criteri di intervento.
L’Avogaria di Comun era una magistratura dalle molteplici attribuzioni, ma agli occhi del legislatore e dei sudditi doveva realizzare quell’esigenza di legalita e di certezza del diritto, particolarmente avvertita in un’eta ricca di cosi violente e repentine trasformazioni. II processo di costruzione statale, le nuove forme di legittimazione del potere, le profonde modificazioni sociali e demografiche, sia all’interno della citta capitale che delle province soggette, richiedevano istituzioni capaci di assicurare la pace ed il buon ordine, e tali richieste 58
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
si facevano tanto piu insistite quanto pill quei mutamenti sconvolgevano assetti costituiti, mettevano in discussione mentalita e culture sedimentate2*. L’analisi condotta sugli interventi degli Avogadori puo aiutare a comprendere quali fossero, all’interno dello Stato territoriale veneto, le forme primitive assunte da questo nuovo rapporto tra societa ed autorita.
Nella citta di San Marco Si é gia evidenziato come, fino agli anni cinquanta del ’400, gran parte degli appelli interposti agli Avogadori, provenisse da patrizi, cittadini o popolani della capitale. Emerge dalla lettura delle intromissioni avogaresche un senso puntiglioso della necessita di rispetto delle procedure e della lettera della legge e delle consuetudini: il 26 luglio 1438 il Minor Consiglio confermera le proposte dei tre avogadori, che avevano ritenuto fondati i motivi dell’appello loro interposto da un famulus del Doge, condannato dai Cinque alla Pace?’ per aver ferito, nel corso di una “rixa” un officiale delle Rason Vecchie. La sentenza non doveva ritenersi valida in quanto, per la lettera della sua Promissione, soltanto il Doge aveva giurisdizione di “punire familiam suam pro rixis factis in palacio sine sanguinem”?®, Nel marzo del 1439 tale Bartolomeo carpentarius, inquisito per un furto, aveva vista accolta la sua istanza dagli avogadori Andrea Dona e Ludovico Storlato, in quanto alcune “testificationes” — in base alle quali era stato chiamato a presentarsi ai magistrati entro otto giorni, con la minaccia del bando dalla citta in caso di disobbedienza — raccolte contro di lui dai Signori di Notte? andavano giudicate “preter omne debitum veritatis et equitatis”?°: uno dei due testimoni, il barcaiolo Iseppo, risultava infatti essere “ignarus et grossus”, e aveva reso la sua versione “ex timore et non ex veritate”; l’altro non aveva ancora raggiunto eta prevista dagli statuti veneziani per deporre
di fronte ad un tribunale?'. L’avogadore Francesco Loredan, il 24 dicembre 1432, aveva convinto i componenti del Minor Consiglio che certe “pene et precepta” imposte dai Signori di Notte, non potevano essere considerate valide, in quanto non erano state registrate “in aliquo libro authentico, sed in quondam folio” 32. Matteo Vitturi, l’anno successivo, aveva riven59
GOVERNANTI E GOVERNATI
dicato il rispetto della lettera dei Capitolari della magistratura, revocando la modificazione operata dai suoi predecessori che avevano ridotto, da 100 a 50 ducati, l’ammontare di una sentenza pronunciata dai Signori di Notte: tale atto andava ritenuto illegale in quanto gli Avogadori “per se solos non possunt se impedire de aliqua sententia que excedat summam ducatorum viginti” 33. L’intervento degli Avogadori veniva spesso invocato dai veneziani del °400 anche allo scopo di risoluzione dei vari tipi di conflitti che investivano la sfera della giustizia civile. Un settore questo di cruciale importanza, perché coinvolgente la pit. profonda delle emozioni e dei sentimenti, il senso della stirpe o della famiglia, gli affetti coniugali, il rispetto dell’autorita paterna. La ramificazione delle magistrature civili, le cosiddette Corti di Palazzo 3‘, offriva, ai sudditi ed ai patrizi della capitale, la possibilita di vedere risolte di fronte ai rappresentanti dell’autorita pubblica — per via di compromesso o attraverso l’emanazione di una sentenza — le dolorose conflittualita che potevano sorgere sull’attribuzione di una dote, sulla concessione di una commissaria, sulla tutela dei pupilli, sull’interpretazione di un codicillo testamentario o sulla validita o meno di una promessa matrimoniale?>. Forse nessuna materia come quella testamentaria é€ cosi soggetta, in una societa di antico regime, al gioco delle frodi, degli inganni o delle sottigliezze degli avvocati. Attraverso l’espressione delle ultime volonta, il testatore raccomandava la propria anima a Dio e trasmetteva agli eredi beni materiali e valori immateriali, codici morali e comportamentali che essi avrebbero dovuto conservare, per tradurli, a loro volta, alle generazioni future; in tal senso si potrebbe dire che nulla é pit conservativo della disciplina che regola il sistema successorio, nulla meglio delle tensioni e degli scompensi che lo attraversano esprime le trasformazioni e le crisi cui ¢ soggetta una societa 3°. Da un esame delle intromissioni avogaresche, si pud notare come i giudici, oltre all’attenzione dedicata a far si che fossero correttamente applicate le leggi scritte, godevano, per la stessa complessita della materia e varieta dei comportamenti sociali, sfuggenti alla rigida lettera della norma, di ampi spazi per applicare il criterio dell’equita, allo scopo di dirimere le controversie attraverso l’applicazione della loro “bona coscientia”. Nel 1435 gli Avogadori accoglievano l’appello 60
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
di Cristina vedova di Polo Zane, che aveva chiesto fosse ritenuto ille-
gittimo il testamento rogato dal figlio, morto all’eta di venticinque anni, con cui questi aveva trasferito tutti i suoi beni ai parenti del padre>’, Fin dalla nascita, aveva affermato la donna, era “cecus et immobilis et hebetis ingenii et intellectus” e non doveva pertanto
esser ritenuto “capax ad ultimam voluntatem ordinandum et disponendum”??. Pit’ sofferta e contrastata la discussione svoltasi lo stesso giorno,
in Minor Consiglio, attorno alle ragioni di un altro appello interposto da un nobile veneziano agli Avogadori. Filippo Fignolo aveva invocato l’intervento avogaresco rivendicando una parte dell’eredita del fratello Nicolo, appena defunto 3°. Questi, nel 1430, quando era ancora “sanus mente et corpore”, aveva disposto che certi suoi legati testamentari, “sancte et legitime... pro bono anima sua”, andassero in parte ad enti assistenziali e caritativi, in parte al fratello. Temendo, inoltre, qualche inganno e volendo assicurarsi che le sue volonta non corressero il rischio di essere fraintese, aveva posto di sua mano un codicillo: “item lascio che se alchun me fasse far alchun testamento per forza..., non sia de alchun valor sel non é scritta questa riga”. Nel 1435, colpito dalla peste, il protagonista di questa vicenda, sollecitato dalla moglie, aveva modificato il suo testamento a favore di quest’ultima. Gli Avogadori giudicarono si dovesse considerare valida la prima stesura, espressione della lucida volonta di un uomo, piuttosto che la seconda, determinata da una probabile prevaricazione e dallo sconvolgimento interiore, frutto della coscienza dell’approssimarsi della fine. Ci si rivolgeva dunque all’Avogaria per vedere tutelati i propri diritti O i propri interessi: i soggetti di tali istanze potevano essere influenti esponenti del patriziato, cittadini ricchi e privilegiati, come figure pil. umili ed oscure, dalla difficile collocazione*°. La tutela della legalita si sostanziava di una preoccupazione per il rispetto delle procedure, delle formalita, cui si accompagnava una attenzione particolare alla sfera dei diritti e delle ragioni dei singoli*!. Il caso piu clamoroso e contrastato dell’intero periodo, fu quello sollevato dagli avogadori Pietro Michiel e Pasquale Malipiero, che, all’inizio del 1446, sottoposero una loro intromissione al vaglio del Maggior Consiglio *?.
Il mandato dei Consiglieri ducali, a giudizio dei due magistrati, 61
GOVERNANTI E GOVERNATI
doveva ritenersi illegittimo, in quanto contraddiceva la lettera di una parte emanata dallo stesso Maggior Consiglio il 28 dicembre 1444, con cui si proibiva di edificare “hospitales” in citta, e perché non considerava i dettagliatissimi lasciti testamentari di due “cives”, in spregio a “omne jus divinum et humanum, nam omnia jura clamant quod testamenta infringi aut rescindi non debeant”*?. I Consiglieri avevano, infatti, obbligato 1 commissari del primo a contribuire con i denari residui del defunto “ad opus et costructionem unius hospitalis magnifici”, e per lo stesso scopo avevano tentato di contravvenire alle pie intenzioni del secondo, secondo le quali, sopra un non meglio specificato “territortum seu palude”, si sarebbe dovuto edificare, sempre
con le sue “pecunie”, un monastero per |’ordine camaldolese, a perenne testimonianza dell*“amore vero et perfecto” che sentiva nei con-
fronti della sua citta. Concludendo la loro appassionata difesa, gli Avogadori avevano evocato I’antica libertas della Repubblica, che non
poteva non irradiarsi su una materia tanto delicata‘*‘. Un altro dato da tener presente nel valutare l’intervento dell’ Avogaria sul lungo periodo, é costituito da una differenza “qualitativa”, tra prima e seconda meta del 400, nella capacita di controllare la legalita delle procedure delle istituzioni centrali. Capacita di controllo che appare esercitata in modo intenso e continuo su molti settori della vita pubblica, fino a tutti gli anni quaranta del secolo, per poi affievolirsi.
L’avogadore Luca Tron, il 18 maggio 1439, richiama i Pregadi al rispetto della lettera di una legge del Maggior Consiglio del 1403, con cui si era stabilito che nessun nobile veneziano potesse “ab aliquo Dominio vel communitate habere aliquam provisionem, donum vel stipendium”, pena l’ineleggibilita a qualsiasi carica. Tale normativa era stata contraddetta dall’elezione ad una non meglio specificata ambasciata di Folco Contarini, che aveva servito e dimorato per anni presso il Duca di Mantova‘*s. La necessita di osservare gli “ordines Venetiarum”, e pill specificatamente la legge dei Pregadi del 30 ottobre 1309 che ordinava che “judices seu offitiales de prole sive sciata
mulierum non debent sedere ad difinendum lites”, cosi come era gia stato proibito a quelli “de prole virorum”, viene invocata dall’avogadore Loredan, nel 1432, allo scopo di impedire l’appello interposto agli Auditori vecchi da Maria Contarini, in seguito ad una sentenza 62
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
pronunciata dai Giudici di Petizion, nella causa che la vedeva opposta ad Azzone Trevisan. I Capi della Quarantia avevano illegalmente stabilito che Davide Contarini, membro dello stesso tribunale e imparentato con Maria, potesse “porre ballotta” nella votazione conclusiva*®. La necessita di conservare le “consuetudines” della citta, codificate negli statuti (dove si era stabilito che 1 giudici d’appello non potessero ricevere testimonianze o allegazioni che non erano state prodotte nel primo grado di giudizio), viene rivendicata con successo dagli
Avogadori, nel corso del 1440, per annullare una intromissione degli Auditori vecchi su una sentenza dei Giudici di Petizion*’. La lesione della normativa contenuta negli statuti cittadini, attorno alla giurisdizione dei Procuratori di San Marco sulle commissarie delle “do-
micelle” di eta superiore ai 14 anni, é alla radice di un’intromissione,
realizzata il 26 aprile 1453 in opposizione ad una parte approvata dai Pregadi*®.
Il prestigio goduto dagli Avogadori in questo periodo li investiva anche della funzione di garanti dell’osservanza della Promissione dogale, di quell’insieme, cioe, di norme, di obblighi, di prescrizioni, accumulatesi nel corso del tempo, cui il Doge, il massimo rappresentante della costituzione repubblicana, doveva strettamente attenersi*?. Nel corso del 1432 gli Avogadori annullavano un mandato arbitrariamente emanato dal celebre Francesco Foscari, il doge dell’espansione verso la Terraferma, con cui si era prescritto ai Provveditori alle Biave che consentissero a certi mercanti di consegnare quella quan-
tita d’orzo che si era stabilita — allo scopo di approvvigionare la capitale — “non obstante quod terminus fuit preteritus”°°. Nel 1453 Tommaso Duodo e Nicold Bernardo sottoponevano al giudizio della Quarantia una loro intromissione con cui si voleva bloccare un ordine del doge, il quale aveva ingiunto ai Giudici di Petizion di non rendere esecutiva la sentenza da loro pronunciata su di una controversia commerciale sorta tra i due fratelli Antonio e Tommaso Malipiero>?.
Quell’atto, a detta dei due magistrati, contrastava con la lettera di un capitolo della Promissione, in cui si diceva che il “Serenissimus Dux” era tenuto a “ducere ad complementum quascumque senten-
tias sibi presentatas et eas dilatare non debeat”. |
Allo stesso modo gli Avogadori prestavano un’estrema attenzione nel riprovare quell’esorbitare dalla propria giurisdizione di cui molto 63
GOVERNANTI E GOVERNATI
spesso si rendevano protagonisti i Consiglieri ducali. Nel 1433 conobbe un largo successo l’opposizione degli Avogadori nei confronti di un tentativo dei Consiglieri di limitare la fondamentale prerogativa della magistratura, consistente nel provare la legittimita dei titoli dei patrizi veneziani per |’ammissione in Maggior Consiglio*?. Nel 1442 una analoga affermazione di superiorita delPAvogaria di fronte a deliberazioni miranti a circoscriverne e ridurne le competenze risuona nella accorata difesa del proprio operato sostenuta da Andrea Morosini e provocata da un mandato dei Consiglieri ducali, con cui si imponeva all’avogadore di non intromettersi ulteriormente nella causa, di natura fiscale, tra alcuni nobili di casa Barbo e gli ufficiali alle Rason Vecchie°?. Se avesse ottemperato a tale “determinatio”, affermava il Morosini, non solo l’“officium Advocarie” sarebbe precipitato “ad ruinam et desolationem” in brevissimo tempo, ma, soprattutto, si sarebbe
provocato un gravissimo danno per limmagine della magistratura: percio non si poteva tollerare “ullo pacto” che i Consiglieri stabilissero, secondo criteri discrezionali, che alcuni sudditi “ducerentur per Advocatores”, mentre ad altri fosse consentito di eludere la legge. La funzione di controllo esercitata dagli Avogadori non sembra essersi limitata alla sfera alta del potere veneziano, all’operato del Doge e dei suoi Consiglieri, ma estendersi anche alle pratiche di magi-
strature cosiddette minori. I Provveditori di Comun dovevano sopportare una severissima ammonizione e vedere annullate le “littere patentes” da loro vergate, a causa dell’eccessiva leggerezza con cui avevano concesso il “privilegium civilitatis” e nominato “civis originarius” tale Pietro Pesquina, consentendogli in tal modo di esercitare il compito di magister nella zecca della capitale ‘+. Nel 1440 ancora l’avogadore Luca Tron rivendicava l’antica “libertas” della magistratura, contraddetta dalla forma illegale ed inusitata di una parte votata dalla Quarantia criminal in cui si denunciava la negligenza degli Avogadori, per non essere stati capaci di por-
tare al giudizio dei Consiglieri un patrizio colpevole di peculato°. Tale determinazione doveva essere ritenuta illegittima, in quanto “con-
tra omnem debitum Justicie et equitatis et ad subvertendum penitus officium Advocarie”**. 64
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
Tra le competenze avogaresche che si sviluppano nel corso del XV secolo riveste un particolare interesse quella inerente la materia matrimoniale. I] 22 marzo 1425 il consigliere ducale Daniele Vitturi sottoponeva al voto del Senato una parte, con cui si intendeva delegare agli Avogadori !’applicazione di un insieme di norme tendenti a regolare scottanti questioni, che andavano dall’ammontare delle doti al ruolo dei mediatori e dei padrini, alle violenze ed agli inganni, che
erano all’ordine del giorno”. Nel 1455 l’avogadore Andrea Dona, dimostrando di aver recepito lo spirito della legge, richiamava I’osservanza degli “ordines” della citta, disattesi nella stipula del “pactum nuptiarum” tra Marco Magno e Marina Cicogna, in quanto la stesura della “carta dotis” era proceduta “ex sola auctoritate dicti Sier
Marci sed non quod in rei veritate de voluntate partium”*®. Nel leggere le sentenze dell’ Avogaria, ed in generale la legislazione statale, non si riscontrano casi clamorosi di sovrapposizione o espliciti conflitti giurisdizionali tra istituzioni laiche e poteri ecclesiastici,
sembra piuttosto di essere in presenza di una sorta di complementarieta. E opportuno ricordare come nella citta di San Marco vigesse da antica data una simbiosi assai stretta tra autorita civile ed ecclesiastica, che affondava le radici in una comune concezione del ruolo sacrale dell’autorita statale*?. Nel 1446 gli avogadori Cristoforo Moro e Pietro Michiel intentavano un processo nei confronti di Marco Molino, capitano della piazza di San Marco ®°. Questi, “oblitus omni timore Dei et periculo anime sue”, aveva subornato alcuni testimoni ed il notaio Domenico Balancier, convincendoli ad affermare, “contra veritatem”, di fronte al vicario del patriarca, che il nobile della Patria del Friuli Pagano Savorgnan aveva promesso di dargli in matrimonio la figlia Lucia, e di aver presenziato all’atto della “desponsatio*®!”. Gli avogadori accoglievano l’appello del Savorgnan, che aveva lamentato l’inganno perpetrato ai suol danni, riconoscendo i testi colpevoli di spergiuro e condannando il Molino alla pena assai severa di due anni di carcere®. Lo stesso anno Cristoforo Moro riceveva il disperato appello di Lena, moglie di tale Nicolé Chepsi*®?. Questi, “diabolico spiritu ducto”, allo scopo di impedire alla donna di proseguire la causa di separazione iniziata presso la curia episcopale, l’aveva rapita e rinchiusa in una casa da cui avventurosamente era riuscita a fuggire. L’intervento dell’avogadore prevedeva 65
GOVERNANTI E GOVERNATI
?annullamento del contenzioso e la condanna al bando per il violento. La tutela dell’ordine delle famiglie, del senso dell’onore e dell’autorita, i principi della religione su cui si doveva reggere la ben ordinata repubblica: questi alcuni dei motivi che stanno alla base delle richieste di intervento all’Avogaria. Quell’immagine attribuita alla magistratura, di garante della legge e della pace sociale che abbiamo visto ricorrere con tanta insistenza nelle opere dei trattatisti del Quattro e Cinquecento, sembra trovare un oggettivo riscontro in una prassi costituita da una molteplicita di interventi su pit piani. Per quello che riguarda la capitale si nota, per questa prima meta del secolo, una quasi com-
pleta compenetrazione e reciprocita tra le attese di chi si rivolgeva agli Avogadori e la risposta che veniva loro data: sussisteva tutto un patrimonio di valori comuni, civici e collettivi, che non veniva messo in discussione e che coinvolgeva i membri della classe dirigente, assieme ai cittadini, e alle altre fasce sociali. In tal senso si potrebbe dire che, all’interno della citta di San Marco, il problema della legittimita del potere non si pone, o si pone soltanto limitatamente: le tensioni e gli scompensi, cosi come ci vengono rivelati dalla documentazione giudiziaria e normativa quattrocentesca, le conflittualita che attraversano la societa veneziana, dal livello intrafamiliare a quello politicoistituzionale, postulano forme di risoluzione e di intervento in cui la fonte
dell’autorita non viene mai revocata in dubbio. E necessario a questo punto spostare l’attenzione dal vivacissimo, ma compatto, mondo lagunare verso quella realta pit ampia e complessa stratificata, che stava
prendendo forma nei primi decenni del ’400, lo Stato da Terra. Il 19 settembre 1430 una legge approvata dal Maggior Consiglio esordisce mettendo in rilievo la stretta connessione intercorrente tra l’espansione verso la Terraferma, la necessita di un’amministrazione della giustizia capace di neutralizzare il risentimento o il misconoscimento della sovranita della Serenissima da parte dei sudditi e l’attivita degli Avogadori di Comun: “Cum, ex gratia onnipotentis Dei, sub dominio nostro pervenerit multae civitates et loca, et quanto plus status
noster crescit tanto magis dominatio nostra debet inclinare ad dandam expeditionem subditis et fidelibus suis, quibus nulla est charior et gratior res quam accipere debitam expeditionem...”°*. Intenzioni ottime, ma di non semplice realizzazione. Gli estensori della legge lamentavano la scarsa solerzia e ’imprecisione con cui gli Avogadori 66
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
attendevano a questo aspetto particolare della loro attivita: le stanze occupate dai magistrati in palazzo ducale ridondavano di fascicoli pro-
cessuali richiesti ai Rettori, di domande di grazia, suppliche ed “appellationes” dei sudditi che giacevano inespedite. Per ovviare a tale inconveniente si era pensato di obbligare un notaio dell’Avogaria a tenere un registro e ad annotare in esso le varie “petitiones” interposte.
Nello Stato da Terra L’esperienza maturata nel corso del ’300, in seguito alla conquista dei domini da Mar®*, la nomina di nobili veneziani, fin dagli anni venti del ’200, alla carica di Podesta nei comuni della Marca trevigiana e in seguito, nel pil. ampio entroterra veneto con lo stabilirsi delle Signorie dei Caminesi, Carraresi, Scaligeri®*, costituivano un bagaglio di conoscenze di pratiche di governo, di forme di diritto e di realta socio-istituzionali assai diverse da quelle vigenti nella citta marciana. L’amministrazione di un territorio “esterno” non rappre-
senta quindi una assoluta novita per una parte del patriziato, ma é solo con il ’400 che si creano le condizioni per un salto qualitativo determinato dalla complessita socio-istituzionale del Dominio da Terra, a causa della densita della rete di podesterie piccole e grandi che Ve-
nezia aveva gettato sui nuovi territori. Tutto cio significava un ingente impegno organizzativo ed umano: secondo il diarista Girolamo Priuli erano ben trecento i nobili veneziani che vivevano grazie all’esercizio di una carica pubblica nello Stato®’, ma poneva soprattutto un intricatissimo problema politico. L’attivita dei rappresentanti veneziani poteva urtare il senso di liberta e di autonomia dei ceti diri-
genti dei centri maggiori della Terraferma: gli oratori padovani inviati all’Imperatore nel 1509, all’indomani della sconfitta di Agnadello, lamentavano la secolare oppressione dei “3000 tyranni veneti”, che aveva ridotto quei cittadini a “umbre e simulacri” di uomini®, Difficolta di governo e resistenze che investivano anche i centri minori, dove venivano inviati sovente nobili di secondo piano, privi di una cultura specifica, incapaci di comprendere il senso del loro incarico. A tale proposito é opportuno ricordare come tra i progetti di riforma avanzati a fine secolo da Domenico Morosini vi era quello di eliminare la presenza veneziana dai piccoli borghi del Dominio; 67
GOVERNANTI E GOVERNATI
quella presenza cosi capillare poteva infatti risultare, ai governati, particolarmente odiosa*®’. L’>impegno veneziano, secondo il trattatista, doveva risultare moderato, non si doveva mai offrire ai sudditi un’im-
magine in cui prevalessero l’alterigia o la prepotenza: per questo la Repubblica doveva limitarsi ad inviare propri rappresentanti, scelti
tra i pi esperti e prestigiosi, solo nei centri maggiori’°. La figura del Rettore riveste un’importanza centrale per comprendere l’impatto dell’amministrazione veneziana presso 1 sudditi: era attraverso questi suoi rappresentanti che Venezia poteva far sentire la propria presenza, trasmettere una determinata immagine dell’autorita e della legge. Al Rettore erano delegati fondamentali compiti di mediazione, di comunicazione di esperienze e di notizie tra governanti e governati, di composizione e neutralizzazione delle controversie pit aspre all’interno delle mura cittadine, dei continui conflitti che opponevano le citta ai territori, comunita a comunita’!. Rientrava nei suo! doveri trasmettere il senso della imparzialita e della inesorabilita della giustizia veneziana, ma, al contempo, non gli era consentito di uscire dai binari di una politica del diritto orientata dal centro, in cui le prerogative e le autonomie locali non venivano messe in discussione. Ma come doveva impedire che il suo operato creasse presso le popolazio-
ni soggette l’impressione che a governarle fosse stato inviato un corpo estraneo alle loro tradizioni e alla loro cultura, il Rettore, al contempo, doveva evitare di cadere nell’eccesso opposto, di legarsi cioe troppo strettamente a questo 0 a quel gruppo di pressione locale, di illudere i sudditi di aver trovato, anche dopo la partenza del rappresentante veneziano dalla citta, un fedele ed amichevole intercessore presso il Principe in caso di eventuale necessita. Il Senato, con una legge del 25 marzo 1425, demandava all’Avogaria l’osservanza delle formalita di rito che i rappresentanti veneziani dovevano osservare quando si incontravano, l’uno entrante, per assumere la carica, l’altro uscente, alle porte delle citta’?. Da qualche tempo infatti era invalsa la pessima consuetudine, per cui i due si intrattenevano in lunghissimi “sermones”, che non producevano certo
presso 1 sudditi che li ascoltavano “illum bonum et notabilem effectum” che ci si poteva augurare. D’ora in avanti, sotto la pena assai severa della privazione di ogni incarico pubblico per la durata di due anni e di cinquecento ducati di penale per i contravvenienti, i rappre68
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
sentanti veneziani si sarebbero dovuti limitare alle forme di prammatica: “ego vobis consigno istud regimen, nomine illustrissimi Dominii Venetiarum... ego accepto”’?. Il gusto per l’autocelebrazione, la volonta di porsi su di un piedistallo — qualita che contraddicevano con la impersonalita e la continuita proprie della funzione rettoriale —,
erano stigmatizzate, il 24 luglio 1458, da un’altra parte senatoria, con cui si denunciava che i Rettori “pro honorando ingressus ad regimina eis dessignata venire faciunt ad civitates armigeros sub illa jurisditione allogiatos”, fino alla distanza dal centro urbano di trenta miglia, con gravissimo danno per gli abitanti delle comunita rurali, che dovevano sostenere l’onere e le spese degli alloggiamenti’‘. Fin dai primissimi anni del ’400 aveva preso corpo, tra le varie facolta attribuite all’Avogaria, anche quella di inquisire in prima istanza i Rettori che non si fossero comportati in modo consono al prestigio ed all’autorita che rappresentavano. Nel 1410 alcuni “subditi” della
podesteria di Motta, appartenente al distretto trevigiano, erano ricorsi agli Avogadori per denunciare i soprusi e le angherie commesse ai loro danni dal podesta Matteo Viaro7*>. Questi aveva costretto gli
abitanti del luogo, ledendo i loro antichissimi diritti, a procedere al taglio di alcuni alberi nei boschi appartenenti alla comunita, e a vendere il frumento sul pubblico mercato ad un prezzo stabilito arbitrariamente da lui, minacciando il pignoramento dei beni dei disubbidienti. Ma cio che era piu grave, il rappresentante veneziano, con la pretesa di controllare tutte le cause civili e penali che agitavano quel piccolo territorio attraverso |’imposizione di pene pecuniarie esorbitanti, aveva ridotto alla poverta alcuni sudditi, ed esautorato i poteri dei meriga, tradizionalmente incaricati dell’amministrazione della giustizia a livello locale. La pena proposta dagli Avogadori veniva confermata all’unanimita dai componenti del Minor Consiglio. Il colpe-
vole di tali eccessi — oltre a risarcire in moneta le parti lese — era condannato alla privazione di tutti gli incarichi pubblici, sia a Venezia che in Terraferma, per la durata di dieci anni. Nel 1424 gli Avogadori dimostravano altrettanta severita nell’inquisire il podesta di Rovereto Lazzaro Moro, denunciato dai “cives” della giurisdizione a lui sottoposta’®. Il rappresentante veneziano aveva
cercato di colpire uno dei suoi ufficiali, il connestabile Bertolo da 69
GOVERNANTI E GOVERNATI
Urbino, rivolgendogli alcune gravissime offese (“proditor, ribaldus, poltronus, rofianarus”). Tale incontrollato risentimento nasceva dal fatto che il malcapitato aveva consegnato al Moro una lettera ducale, con cui gli si ingiungeva di liberare un cittadino da lui incarcera-
to. Il rettore, conquistato da un “odio diabolico” nei confronti del suo collaboratore, lo aveva inquisito, accusandolo di omicidio senza alcuna prova o testimonianza d’appoggio. Quando poi quello era fuggito, aveva cercato di congregare “omnes homines Rovoredi” al grido di “arme arme”. Una simile concezione, decisamente privata e violenta del proprio ufficio, viene riprovata dagli Avogadori, ancora nel corso del 1424 in seguito ad istanza dai “distrectuales” di Portobuffolé — altra podesteria del distretto Trevigiano’’. Il processo — terminato con la privazione per il colpevole di ogni officio e beneficio per la durata di cinque anni — constava di dodici accurati capi d’accusa, comprendenti la minuta descrizione di arbitri e violenze. L’azione pili grave di cui il rappresentante veneziano si era macchiato consisteva in una sorta di vendetta, compiuta ai danni di alcuni abi-
tanti del luogo — sotto la forma di azioni penali per motivi puramente fittizi e immaginari —, provocata dal fatto che questi si erano appellati alla capitale ed avevano ottenuto lettere ducali in difesa dei loro diritti7®.
E interessante notare come nessuna legge quattrocentesca stabilisca formalmente la principale prerogativa avogaresca esercitata nei confronti dei rappresentanti inviati in Terraferma, e cioé quella consistente nel potere di intromettere ai consigli veneziani atti e terminazioni da quelli pronunciate. Un conflitto, questo tra Avogadori e Rettori, di lunghissima durata e che si puo dire affondi le proprie radici nelle stesse modalita di costruzione dello Stato territoriale, nella difficolta di contemperare la difesa della legalita con l’efficacia dell’azione giudiziaria, il rispetto delle prerogative e della normativa statutaria locale con l’espansione di una legislazione “centrale” che a quelle
Si sovrapponeva. In questo senso, come osserva Cozzi, “l’attivita di intromissione degli Avogadori aveva una rilevanza politica, non solo giudiziaria”®°. Attraverso quali strumenti di governo era possibile man-
tenere la quiete e l’ordine pubblico? Qual era il discrimine che separava il rappresentare, come aveva scritto Polo Morosini, il ruolo di difensori degli oppressi, da una parte, e il costituire, dall’altra, uno 70
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
strumento di legalizzazione delle pretese dei prepotenti, che potevano magari inviare a Venezia abilissimi avvocati, per eludere con eterni cavilli l’azione della giustizia? Oltre a questo, l’ampia possibilita di appello che Venezia consentiva ai sudditi non veniva in qualche modo a costituire una sorta di delegittimazione della funzione rap-
presentata dagli Avogadori? | Indubbiamente anche per chi cercava di svolgere il proprio incarico in Terraferma con la maggior dedizione possibile, con un assoluto senso di servizio alla Repubblica, il compito di giudicare rappresentava certo un’operazione complessa: da una parte l’arbitrium, che si annidava fin dentro le commissioni dei Rettori delle citta di maggior importanza e che veniva concesso con larghezza ai patrizi mandati a presiedere le podesterie minori®!; dall’altra, l’obbligo del rispetto delle leggi e delle procedure conservate nei ponderosi volumi statutari. Non doveva essere semplice contemperare |’attenzione per il rispetto delle procedure e delle formalita con quell’esigenza, avvertita da una parte della classe dirigente veneziana fin dai primi decenni del ’400, indicata con tanto vigore dal savio del Consiglio Matteo Vitturi, nell’esordio di una parte, sottoposta, il 21 febbraio 1445, al vaglio del Senato: “... convenit honori et debito nostri Dominii, quod Rectores nostri in nostri regiminibus presidentes jus et justiclam cum celeritate ministrent” ®?.
Il motivo dell’ignoranza dei rappresentanti veneziani della legislazione locale ricorre frequentemente, per tutto il secolo, negli appelli accolti dagli Avogadori. Un tale, nel 1431, aveva richiesto |’intervento della nostra magistratura, in quanto il podesta di Legnago gli aveva comminato la pena del bando perpetuo, con l’aggiunta, in caso di cattura, del taglio della testa**. La sentenza andava annullata in quanto contrastante con le “antiquas consuetudines” della comunita che si reggeva in penale secondo gli Statuti veronesi, i quali prevedevano per i condannati “in absentia”, come per il nostro caso, il bando “ad inquirendum”, e non “ad decapitandum”. Il 10 dicembre dello stesso anno gli Avogadori invalidavano una
sentenza del podesta di Vicenza, con cui si era comminata la pena del bando perpetuo ad un omicida 8+. La lettura del processo rendeva evidente il fatto che il delitto non era stato commesso con premedita-
zione, bensi era proceduto “ex pura et simplice rixa”, e pertanto, 71
GOVERNANTI E GOVERNATI
secondo la norma statutaria, non meritava una punizione tanto seve-
ra, bensi il bando a tempo dalla citta e territorio. La non osservanza degli “statuta tervisina” era invocata dall’avogadore Cristoforo Moro, allo scopo di evidenziare l’illiceita della con-
danna pronunciata, nel 1445, dal podesta e capitano di Treviso ®>. In questo caso un tale era stato bandito da Treviso, Ceneda ed i rispettivi distretti, con l’accusa di avere commesso un omicidio nella persona di un certo Pietro. In realta questi, secondo quanto prescriveva la raccolta statutaria del luogo, poteva esser ucciso “impune”, in quanto condannato al bando come violento, ladro e rapitore di donzelle. Nel 1441 gli Avogadori accoglievano |’appello del nobile vicentino Antonio Braschi, che aveva impetrato la revisione di una sentenza pronunciata ai suoi danni dal podesta di Vicenza Matteo Barbaro ®®. L’eminente cittadino aveva narrato come il rappresentante veneziano, essendo “eius partialis inimicus”, avesse formato un processo “contra veritatem”, accusandolo “de vicio sodomicii”, ed inol-
tre si era rifiutato di ascoltare i testimoni che l’inquisito aveva prodotto in sua difesa: questo elemento “arbitrario” e discrezionale nelPazione del rappresentante veneziano confliggeva con le procedure stabilite dagli “statuta Vincentie”. L’avogadore Marco da Pesaro riconosceva, il 30 aprile 1483, la legittimita dell’appello di un tale, bandito dal podesta di Bassano dalla
citta e dal suo distretto e da tutti i territori da Terra e da Mar, e condannato alla decapitazione in caso di disobbedienza, in quanto complice del rapimento di uno dei pit eminenti “cives” bassanesi, Giovanni Antonio del Bayo 8’. A giudizio dell’avogadore la condanna an-
dava annullata, in quanto l’inquisito non era stato citato in giudizio secondo la normativa prevista dagli statuti bassanesi “quando delictum requirit penam amissionis vitae”. Nel 1500 sara una clausola degli statuti vicentini ad essere richiamata dall’avogadore Nicold Michiel al momento di realizzare la sua intromissione contro un mandato del podesta Francesco Foscari®*. Questi aveva ordinato ai Notai del Sigillo del Comune di ritenere di “nullius valoris vel momenti”, e di espungere da tutti i registri di cancelleria in cui risultasse annotata, una sentenza con cui si condannava un “civis”, colpevole di omicidio, al bando
da Vicenza e territorio. In base alla normativa statutaria tale determinazione doveva ritenersi assolutamente illegittima, in quanto il reo 72.
_ L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
non aveva ottenuto dalle sorelle o dal padre dell’ucciso la concessione di una carta di pace, di quell’atto, cioé, dotato di validita pubblica e redatto alla presenza di un notaio, su cui avremo modo di tornare. A testimonianza di una pluralita di funzioni rappresentate dalla ma-
gistratura, e di una sostanziale elasticita da parte dei patrizi che la componevano nell’interpretazione delle principali funzioni di governo — soprattutto per gli anni che vanno dal 1430 alla pace di Lodi — si pone il conferimento ai Rettori di facolta giurisdizionali pit ampie,
in casi ritenuti di particolare gravita, rispetto a quelle previste nelle pattuizioni con le citta soggette, o registrate nelle commissioni degli stessi rappresentanti veneziani. Puo essere indicativa di questa tendenza l’intromissione realizzata dall’avogadore Andrea Dona, il 26 gennaio 144089. Si era appellato a Venezia il nobile patavino Andrea Zacchi, condannato nel 1435 da Andrea Storlato, allora podesta di Padova. Risultava, dall’esame condotto dall’avogadore sulle scritture processuali, che Nicolo Camposampiero — appartenente ad un/altra influente famiglia nobiliare della citta, e definito dal Dona “homo se-
ditiosus, male conditionis et fame” — aveva assoldato alcuni sicari allo scopo di uccidere un altro civis. Il piano era fallito. Le indagini del rappresentante veneziano e dei suoi officiali si erano concentrate, fin dall’inizio, sul Camposampiero, e tuttavia questi, in seguito ad un superficiale interrogatorio, era stato rilasciato. Non pago dello scampato pericolo, il nobile si era trasformato in solerte accusatore, fomentando nel rappresentante veneziano il dubbio che ad organizzare il delitto fosse stato Marco Zacchi. Il podesta, a giudizio di Andrea Dona “contra omne jus et equitatem”, aveva sottoposto l’inquisito alla tortura, dietro evidenti pressioni, affinché confessasse il suo crimine. Il clima di faida coinvolgente varie famiglie viene evidenziato da un altro particolare che ci consente di percepire il potere di condizionamento sull’apparato istituzionale esercitato da lignaggi e consorterie. Il nobile Prosdocimo de Conti ed altri “cives” si erano presentati alle carceri, allo scopo di indurre l’inquisito a confessare, promettendogli che avrebbero intercesso a Venezia per la sua assoluzione e minacciandolo di morte in caso di rifiuto. Alla fine lo Zacchi riconosceva conveniente inchinarsi a tanto influenti richieste, e pertanto subiva, secondo quanto pattuito, una condanna pecuniaria assai severa, ma riusciva a scampare alla pena capitale prevista dagli statuti 73
GOVERNANTI E GOVERNATI
per il tipo di crimine di cui era accusato. Secondo l’avogadore, la con-
fessione doveva ritenersi inattendibile, perché estorta “contra debitum juris, ... contra Deum, jus et justiciam”. L’incartamento processuale veniva rimandato al podesta di Padova, affinché procedesse ad emanare una sentenza esemplare secondo la sua retta coscienza e secondo la qualita del caso, in deroga alla normativa statutaria. Nel corso del 1446 una analoga logica politica sembra determinare l’intromissione realizzata dagli avogadori Pietro Michiel e Cristoforo Moro nei confronti di una sentenza del podesta di Vicenza, Vittore Barbaro®®. Due abitanti di Camisano, un grosso borgo del distretto vicentino, accusati di parole e gesti ingiuriosi rivolti al vicario del luogo — una carica che spettava per privilegio ad un “civis” del capoluogo — erano stati condannati alla pena del bando perpetuo da gran parte dei territori sottoposti alla giurisdizione della Serenissima: Vicenza, Verona, Padova, Treviso, Bassano. Si puo ipotizzare che tanta severita fosse dovuta al fatto che la terminazione del rappresentante veneziano era stata sottoposta al voto dei componenti del Consolato, il massimo tribunale cittadino, deciso a reprimere esemplarmente quella plateale lesione dell’immagine dell’autorita urbana sul territorio*!. Il dispositivo della sentenza prevedeva anche la confisca di tutti i beni e proprieta goduti dai due accusati, e stabiliva che, in caso di mancata osservazione del bando, i colpevoli potessero essere offesi “licite et impune... sine metu alicuius pene”. Gli avogadori confermavano la liceita dell’appello, giudicando la condanna “ultra debitum et excessive lata”, e incaricavano il podesta di Vicenza di riconsiderare il caso con maggior mitezza, senza attenersi alla normativa prevista dagli statuti berici, “secundum conditionem et qualitatem” degli inquisiti??. Tutta una serie di provvedimenti avogareschi sembra essere diretta alla corretta definizione dell’autorita e delle prerogative dei rappresentanti veneziani inviati nei centri minori della Terraferma, in quel-
le piccole sedi di podesteria dove, come aveva lamentato Domenico Morosini, piu accentuata poteva risultare la propensione alla corruzione, ed in cui patrizi dalla cultura politica e dalle esperienze umane piuttosto limitate potevano scambiare l’arbitrium loro concesso con Parbitrarieta: qui la stessa confusione tra confini giurisdizionali e con74
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
fini geografici poteva contribuire ad alimentare presso le popolazioni soggette un senso di sfiducia e di ripulsa nei confronti dei nuovi governanti”?, Il 17 luglio 1444 gli avogadori Andrea Dona e Matteo Vitturi proponevano in Minor Consiglio l’annullamento di alcune sentenze pronunciate dal podesta di Portobuffolé contro alcuni contadini di una villa del distretto °*. Questi erano stati condannati alla pena di quindici giorni di carcere ed al pagamento di cinquanta lire, in quanto avevano impedito con la violenza il pascolo ad alcuni uomini nel bosco di Scuriate, posto ai confini tra la podesteria di Oderzo e quella di Portobuffolé. Gli avogadori avevano fondato la loro proposta di annullamento sul fatto che — come avevano potuto constatare personalmente — il luogo in cui si era verificato lo scontro apparteneva alla giurisdizione di Oderzo, e quindi era al rettore di quel luogo che spettava il compito di istituire il processo >. Gia il 25 settembre 1436 gli avogadori avevano fatto sospendere, sempre in Minor Consiglio, una sentenza del podesta di Serravalle, con cui si condannava il cancelliere del vescovo di Ceneda ad un anno di carcere e al bando da Ceneda, Serravalle e Treviso, a causa di alcune violenze di cui si era reso protagonista?*®. Quell’atto andava giudicato emanato “contra leges” ed arbitrariamente, in quanto non era stata ancora definita la “differentia” sussistente tra il rappresentante veneziano a Serravalle e quello di Castelfranco. Quest’ultimo rivendicava il diritto di punire il cancelliere, affermando che il delitto era stato commesso sul territorio sottoposto alla sua giurisdizione. Per porre termine alla controversia, cosi dannosa per |’immagine della ben ordinata Repubblica, gli avogadori proposero di invitare i due rettori a comporre amichevolmente tra di loro la querela attorno alla “facultas puniendi”. I] richiamo al rispetto di quanto era stato definito nelle commissioni che accompagnavano ogni rappresentante veneziano inviato nel Dominio, tanto nelle citta maggiori che nei borghi, sostanzia alcuni interventi dell’Avogaria, venendo a costituire un efficace strumento di controllo sull’attivita dei rettori. Nel 1432 gli avogadori intimavano al podesta e capitano di Sacile di attenersi a quanto prescriveva la sua commissione, che gli vietava di intromettersi “in remittendo vel revocando aliquas sententias vel condemnationes, tam civiles quam 75
GOVERNANTI E GOVERNATI
criminales, latas per se vel per suos precessores sed ipsas exequi”’’. La necessita di rispettare la normativa inscritta nelle commissioni veniva ribadita dall’avogadore Polo Correr al momento di intromettere, nel corso del 1434, una sentenza del podesta di Padova Marco Giustinian °*, In questa occasione il rappresentante veneziano non si era attenuto alla clausola che stabiliva il veto di modificare terminazioni di cui si erano resi autori altri rettori, condannando una donna per adulterio “ad standum in carceribus ad voluntatem dicti mariti”
e alla perdita della dote°’. Nel 1456 gli avogadori accoglievano l’appello di Girolamo Partistagno, nobile friulano, che lamentava il fatto che i suoi presunti aggressori fossero stati assolti dal Luogotenente della Patria!°°. Per questo
si era stabilito di richiamare al rispetto delle sue commissioni il rappresentante veneziano, il quale, delegando al suo vicario le indagini sul fatto di sangue e il compito di istituire, aveva contravvenuto alla clausola delle sue commissioni che specificava: “ad solum Locumtenens spectat cognitio delictorum criminalium”. Anche il podesta e capitano di Ravenna veniva severamente ammonito dagli avogadori, nel
1469, in quanto, dopo la pubblicazione di una sentenza penale da lui pronunciata, aveva aggiunto “indebite” talune “declarationes”, contro la norma che stabiliva che nessun rettore veneziano potesse “aliquod addere vel minuere in condemnationibus per eos pronunclatis” 1°, Da altri interventi avogareschi emerge la preoccupazione che i Rettori
potessero offrire ai sudditi un’immagine differente da quella di saggi e paterni mediatori tra sudditi e Principe e che assumessero essi stessi — perché succubi di gruppi di pressione locali, o perché spinti dall’orgoglio e dalla volonta di protagonismo — il ruolo di interpreti delle leggi e delle procedure. Nel 1472 l’avogadore Vitale Lando, in risposta ad una supplica interposta a Venezia dagli ambasciatori di Schio/°2, faceva votare alla Quarantia l’annullamento di alcuni “capitula edita... super gubernatione castri Scledi” dal podesta di Vicenza con la collaborazione degli influenti Deputati ad utilia locali e approvati dal Consiglio dei Cinquanta e dei Cento, in quanto “non est de foro rectorum imporre novas leges... contra antiquas leges, statuta, consuetudines et privilegia” delle localita soggette. Nel 1448 Andrea Morosini proponeva ai componenti del Minor Consiglio l’inci76
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
sione di una “pronuncia seu declaratio” del podesta di Bergamo ?!®?. Il rappresentante veneziano, nel notificare a un “civis” che la Serenissima Signoria gli concedeva benevolmente la “gratia” che aveva impetrata per poter godere dei benefici dell’eredita paterna, aveva arbitrariamente aggiunto che coloro i quali si fossero sentiti danneggiati da tale determinazione avrebbero potuto appellarsi “non obstante ali-
quo lapsu temporis”. Taluni interventi avogareschi correttivi di sentenze emanate dai rettori sembrano essere informati all’intenzione di trasmettere alle popolazioni soggette l’idea di una giustizia efficace e al contempo mite, capace di colpire e di punire, ma anche di ammonire con moderazione e senza eccessi. Nel 1439 Silvestro Morosini definiva “contra Deum,
jus et justiciam et contra omnem equitatem” una terminazione pronunciata dal podesta di Castelfranco con cui si condannava un tale, colpevole di aver testimoniato il falso nel corso di un processo, ad un mese di carcere, a cinquecento lire di piccoli, e a non essere accettato come testimone “in aliquo judicio”!°*. Questa parte della sentenza, a detta dell’avogadore, andava invalidata, in quanto privava il presunto colpevole della possibilita di accedere, com’era suo diritto, al secondo grado di appello. Il 31 marzo dello stesso anno ancora Silvestro Morosini contestava l’eccessiva severita di una pronuncia del
podesta di Montona, piccola sede di podesteria in Istria, con cui si ordinava che un condannato al bando a vita, prima di essere espulso dalla comunita, fosse sottoposto, alla presenza di tutta la popolazione, ad una ulteriore umiliazione simbolica: insignito di “coronis papireis pictis diabolicis imaginibus” e posto su di un asino, sarebbe stato
condotto “per castrum et burgos Montone”?®, In tale contesto risultano di notevole interesse anche i motivi addotti da Francesco Sanudo e Federico Corner nel proporre |’annullamento di una condanna a morte decretata, nel corso del 1474, dal provwveditore a Riva nei confronti di un tale1°°. L’estremo provvedimento era stato adottato dal rappresentante veneziano in quanto !’accusato avrebbe pronunciato “verba certa pertinentia ad illustrissimum Dominium nostrum”, in una non meglio definita villa esterna alla giurisdizione della Riviera e della stessa Repubblica marciana. Non esisto-
no purtroppo elementi sufficienti a definire con maggiore chiarezza i contorni della vicenda, si puod tuttavia ipotizzare — o almeno que77
GOVERNANTI E GOVERNATI
sta risulta essere la linea interpretativa adottata dagli Avogadori — che il provveditore fosse stato colto da un eccesso di zelo, e avesse inteso una innocua o sventata discussione come una proditoria lesione della sovranita veneziana. La condanna andava pertanto ritenuta “minus quam debite lata”, perché non teneva in alcuna considerazione la figura dell’individuo inquisito: una “personam rudem... ignorantem et nesciam”?!°’, Difficile valutare l’impatto mentale e di immagine prodotto dall’attenzione usata dagli Avogadori nell’accogliere gli appelli che veniva-
no loro interposti dai sudditi, fossero questi potenti rappresentanti delle classi dirigenti urbane, o membri di borghi e ville di media e piccola entita. Indubbiamente di tanto variegata e sfaccettata attivita non si pud dare una valutazione univoca. Quello che si puo fin da ora notare é come, attraverso il sistema degli appelli, tenda a formarsi nel corso del ’400 un reticolo di relazioni tra centro e periferia, all’interno del quale si sviluppano forme di comunicazione politica tra governanti e governati. Una delle modalita di formazione di un potere legittimo nello Stato veneto assume la forma di una difesa strenua, da parte dei detentori dell’autorita, delle regole e delle procedure stabilite. I] “mito”, in via di formazione, attorno alla magistratura, l’atmosfera che circondava l’operato dei suoi componenti, le norme e le leggi che via via allargavano la sua giurisdizione, rendevano |’Avoga-
ria lorganismo adatto ad incarnare e a rappresentare questa particolare funzione. In questo contesto il conflitto tra Avogadori e Rettori, che é tratto caratterizzante di lungo periodo della politica del diritto della Serenissima, non é solo indicativo di talune disfunzioni del sistema, di un diffuso disordine politico-amministrativo, ma é anche sintomo di un atteggiamento profondamente radicato nella cultura politica del patriziato veneziano, di quel cercare di contemperare il momento della legalita e dell’equita con quello dell’autorita. Nel 1432 veniva annullata una condanna al bando, emanata dal podesta di Verona Andrea Morosini contro Francesco Brenzoni, nobile cittadino e vicario della comunita di Villa Bartolomea!°®. Questi avrebbe cercato di “extorquere denarios” a certi affittuali della piccola comunita, colpevoli di una aggressione, minacciando che in caso di resistenza li avrebbe fatti convenire “ad banchum malefitiorum”. 78
L>AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
A giudizio degli avogadori, l’azione del rappresentante veneziano era
viziata da un pericoloso eccesso di zelo: non tutte le testimonianze invocate dalla parte erano state ascoltate e talune accuse specifiche non risultavano pienamente provate dagli atti processuali. Inoltre il rettore non poteva costituire lo “judex idoneus”, in quanto lo stesso, da quello che risultava da una certa lettera di cui si era venuti a conoscenza, inviata dallo stesso al Brenzoni, nutriva un deprecabile “odium”
nei confronti del veronese. Con analoghe motivazioni, nel corso del 1435, Lorenzo Cappello e Andrea Mocenigo portavano all’esame della Quarantia l’appello di Pietro Cerati di Vicenza!°’. Il rettore veneziano lo aveva condannato alla privazione in perpetuo di tutte le cariche di nomina urbana, in citta e nel territorio, in quanto, nella veste di vicario del grosso borgo di Thiene, avrebbe fatto fuggire un tale che era la incarcerato dietro ordine dello stesso rappresentante veneziano. Secondo gli avogadori tale sentenza doveva ritenersi emanata “contra Deum, jus et justiciam”, in quanto, dall’esame delle scritture processuali, nessuna delle
colpe attribuite al Cerati risultava provata!?°. Dalla documentazione sino ad ora analizzata, relativa soprattutto alla prima meta del secolo, non emerge, se non episodicamente, una delle tematiche giuridiche e politiche che coinvolge pit profondamente
i maggiori potentati della penisola: quello del rapporto tra prova e applicazione della pena!!!. Era questo un problema che, nel corso del tardo Medioevo e della prima eta moderna, in un momento cioe di crisi dei sistemi giudiziari di diritto comune, non poteva piu restare circoscritto ai trattati dei giuristi. Inadeguatezza dei modelli normativi alle diverse forme di infrazione dell’ordine della societa; percezione della necessita di controllare e di legiferare su diversi comportamenti fino ad allora tollerati; trasformazione e diffusione della procedura inquisitoria; attenzione per le forme e le modalita di accertamento della verita, dell’escussione dei testi, della posizione giuridica degli imputati: nello Stato veneto le difficolta suscitate dal mo-
do in cui tali realta si intrecciavano, dando vita ad un processo cumulativo, non potevano ovviamente essere superate per le vie ordinarie della scientia iuris, dell’esperienza teorica di un ceto di giuristi compatto e fedele attorno al detentore dell’autorita, come avveniva 79
GOVERNANTI E GOVERNATI
nei coevi organismi statali della penisola. Nei territori sottoposti alla Repubblica di San Marco lo scioglimento di quell’accumularsi di problemi restava demandato alla tradizionale strumentazione politicoistituzionale, alle varie magistrature, ognuna con il suo stile e la sua prassi consuetudinaria, alla buona coscienza e alla cultura dei giudici. Nel 1487 lPavogadore Giovanni Morosini invalidava linquisitio e la condanna pronunciate dal podesta di Vicenza contro Cecchino Cecchini, “tanquam furem et homicidam”?!!?, Il bando nei confronti del reo doveva ritenersi emanato “contra omnem justiciam et veritatem”; Pinquisizione risultava “iniuste, indebite et minus quam legitime” formata, in seguito ad un attento esame degli indizi raccolti. Ancora pit netta nel delineare lassoluta sproporzione tra carico delle testimonianze, raccolta del materiale probatorio e interrogatorio dell’inquisito, da una parte, ed emanazione della sentenza, dall’altra, risulta
intromissione realizzata nel 1497 da Pietro Duodo e Antonio Loredan'!3. Il podesta di Este aveva condannato una giovane donna con estrema severita: “ad amputationem capitis et ad conseguentem combustionem”, per essere stata “causa et indutrix” di un omicidio particolarmente efferato. Tale deliberazione, a detta degli avogadori, andava giudicata illegale, in quanto non fondata su “sufficientibus et necessariis inditiis”, e basata su una confessione “extorta et sugesta” alla stessa donna, “et ex mala et periculosa media et ex imbocationibus et ex gravis admonitionibus sibi factis”. In altre occasioni la percezione dello iato che separava la pronuncia della sentenza dal corretto accertamento delle prove, veniva espressa secondo I’assunzione di una terminologia piu tradizionale. “Nimis ri-
gorose, severe et excessive data, considerata natura, qualitate et circumstantiis”: cosi, nel 1498, veniva giudicata dall’avogadore Antonio Loredan la sentenza emanata da Bernardo Bembo, podesta di Bergamo, con cui si bandiva in perpetuo dalla citta e territorio e si privava del notariato Giovanni Boselli, contumace, per aver contraffatto il nome del rappresentante veneziano in una lettera inviata al vica-
rio di Zogno, a proposito di una certa causa civile1!4. Non sempre il giudizio espresso dagli Avogadori attorno alla coerenza tra insieme delle probationes e deliberazione conclusiva si risolveva in un addolcimento della pena. Nel 1493 Antonio Boldt introduceva all’attenzione delle Quarantie criminale e civile, per l’oc80
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
casione riunite, il caso dell’ “expeditio” realizzata dal rappresentante veneziano a Vicenza nei confronti di un esponente di una delle famiglie pit influenti del capoluogo berico, Francesco Pagello!15. Questi era stato accusato di aver aggredito, in compagnia di alcuni “socii”, il vicario del podesta: un reato che si configurava, agli occhi dell’avogadore, come “monopolio, secta, inobedientia et renitentia” e quindi punibile con la massima severita. La sanzione era risultata di notevole levita, e questo, sempre a sentire il Boldt, perché non si era provveduto alle debite “interrogationibus et inquisitionibus ad veritatem habendam”, e non si era fatta alcuna “experientia ad habendam veritatem prout fieri debeat”. Per questo motivo si doveva procedere ad una riapertura del fascicolo processuale e ad una piu corretta considerazione della posizione del principale imputato. Se questo tentativo dell’avogadore era destinato ad incontrare una accoglienza particolarmente favorevole da parte dei membri delle Quarantie, un destino meno felice conobbe un’altra contemporanea intromissione intentata dallo stesso Boldu!!*. Siamo ancora in presenza di un caso di violenza sollevato da alcuni esponenti del ceto eminente vicentino. Alcuni membri della famiglia Merzari erano stati accusati di essere i principali aggressori e uccisori di Bernardino da Porto.
Il processo formato dal podesta nei confronti di quelli aveva portato all’accusa di omicidio “semplice”, preterintenzionale, e non “pensato et ex proposito secuto”, come invece era apparso al giudizio del Boldu, dopo aver considerato le “probationes postmodum assumpte ad continuationem et ampliorum probationem”, ordinate come supplemento di indagine dallo stesso avogadore. E opportuno sottolineare come il caso qui analizzato contenga una serie di interessanti implicazioni di natura sociale e culturale. La vicenda si presenta come una vera e propria faida interfamiliare: ce da chiedersi come i detentori dell’autorita percepissero e interpretassero il peso delle circostanze aggravanti, e il ruolo di quelle attenuanti, nel giudicare una forma di risoluzione dei conflitti e di affermazione di superiorita a livello locale, antropologicamente cosi distante dai formalizzatissimi rituali vigenti nella citta di San Marco??’. A tale proposito é interessante notare come, in alcune intromissioni realizzate dagli Avogadori, una attenuazione o una revisione delle condanne pronunciate dai Rettori non viene motivata con la mancata 81
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applicazione della normativa statutaria cittadina, o con il tradimento di pit elementari considerazioni di giustizia ed equita, quanto piuttosto con la ricezione di regole informali di comportamento, non codificate in alcuna raccolta normativa, cosi diffuse in sede locale. Regole che, secondo una visione rettilinea dei processi di formazione statale, nella loro natura quasi privatistica dovrebbero porsi in aperta contraddizione con la volonta del Principe tendente ad assicurare la quiete dei sudditi, attraverso |’attuazione di una politica del diritto caratterizzata da un maggior grado di certezza e di uniformita rispetto al passato. Esemplificativo di quest’ordine di problemi risulta il caso dell’annullamento di lettere ducali inviate al podesta di Cittadella, realizzato, nel 1479, da Nicolo Mocenigo!!8. Attraverso quelle missive il rappresentante della Repubblica nella podesteria patavina
veniva investito del potere di bandire da tutte le terre del Dominio tale Jacopo Forameio e altri suoi otto complici, tutti “distrectuales”, in quanto “assassinos, homicidiaros, vagabundos et publicos latrones”. Lettere troppo severe, secondo I|’avogadore, e non stilate secon-
do una “vera informatione”: da un esame degli atti processuali era infatti risultato che tra gli accusati e la parte offesa intercorrevano “antiqua inimicitia et cause inimicitiarum”. Che il motivo della vendetta potesse essere concepito, da parte di chi giudicava, come una circostanza attenuante per fatti di sangue di notevole gravita, evidenziando in questo modo i limiti di intervento di uno Stato che si poneva in funzione di pacificatore delle conflittualita, viene anche dimostrato da un’altra vicenda risalente al 1488 119. L’avogadore Nicold Muazzo riconosceva la legittimita dell’appello in-
terposto da Antonio de Rota di Bergamo, il quale contestava il contenuto di una lettera inviata dal podesta all’illustrissimo Dominio, in cui si affermava che l’omicidio di cui era accusato, doveva ritenersi “proditorie commissum”. La condanna era risultata estremamente severa: bandito dai territori sottoposti alla Serenissima, Antonio si era visto confiscare anche tutti i beni. L’impugnazione della sentenza da parte dell’avogadore si fondava sull’opinione che I’“informatio” redatta dal rappresentante veneziano a Bergamo, doveva considerarsi “male et indebite lata... stante inimicitia et capitali odio”, tra il reo e tale Matteo de Bognatis. 82
___VAVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA Puo risultare perfino ovvio che le preoccupazioni primarie della classe dirigente veneziana fossero dirette a chiarire quali dovessero essere i criteri secondo cui amministrare correttamente la giustizia pena-
le. La necessita della sicurezza e della quiete pubblica, la stessa domanda di protezione e di intervento che saliva da ampi settori della Terraferma veneta, il mito della giustizia e dell’equita che si andava formando nella Venezia quattrocentesca: tutto cid puod contribuire a spiegare, come, pur tra mille incertezze, discrasie e resistenze, cominciasse a determinarsi una primitiva forma di integrazione tra mondo veneziano e mondo veneto. Altra complessita e altra difficolta di interpretazione si presentano quando si passi a considerare il settore della giustizia civile, dove il grado di impermeabilita dei sistemi culturali e politici — lagunare e di Terraferma — sembra assai pronunciato. Nella citta capitale gli atti degli Avogadori in questo settore sembrano rispecchiare ed interpretare — in quanto funzionali ed omogenei a quelle — le istanze pit profonde che emergono dalla struttura sociale, rappresentando il momento della pacificazione delle conflittualita pit: diffuse. Decisamente pit controverso e difficile risulta il rapporto tra il diritto e gli istituti della Serenissima e quelli del pit articolato e diversificato mondo della Terraferma. Agli Auditori novi, istituiti nel 1410, era affidato il compito di valutare la legittimita degli appelli interposti dai sudditi sugli atti giudiziari dei Rettori in materia civile. Ma quello che costituiva il motivo di maggior interesse e originalita, era l’obbligo per 1 magistrati, stabilito per legge, di compiere, al termine del mandato ordinario di sedici mesi, una sorta di “itinerario” lungo tutta l’area dello Stato da Terra, allo scopo di soccorrere tutti coloro reputassero di essere stati danneggiati da sentenze o provvedimenti dei rappresentanti veneziani e dei loro officiali, e che non fossero in grado di sostenere una onerosa e defatigante causa presso i tribunali della capitale. In tal modo la giurisdizione sulla materia civile si allargava al penale, apportando una diminuzione di potere e di immagine della piu antica e prestigiosa Avogaria. Fin dai primi anni del secolo si ha notizia della sovrapposizione tra le due giurisdizioni e degli inevitabili conflitti che ne seguivano. Nel 1413 si presentavano “coram ducali Dominio”, gli avogadori Francesco Foscari, Bartolomeo Nani e Giovanni Moro, e Andrea Valla83
GOVERNANTI E GOVERNATI
resso!2°, Un cittadino padovano era stato condannato dal rettore veneziano per indebita occupazione di alcune terre. Sull’episodio non ci vengono fornite ulteriori notizie, se non che quel tale aveva interposto un appello al Vallaresso. A questo punto erano intervenuti gli avogadori, eccependo che il potere di intromissione degli auditori sulle sentenze dei rappresentanti veneziani era limitato: non potevano intervenire ad esempio sugli atti pronunciati “contra speciales personas tenentes et occupantes bona communis et communi spectantia” — tra i quali doveva essere evidentemente classificato quello di cui si discuteva. C’era inoltre una precisa clausola inclusa nei Capitolari della magistratura, che prevedeva che gli appelli su quel tipo di sentenze dovessero ricadere sotto la giurisdizione dell’Avogaria. II sindaco invece continuava ad affermare che la commissione con cui il Senato l’aveva inviato in Terraferma gli attribuiva “plenariam libertatem” di giudicare tutti gli atti dei rappresentanti veneziani e dei loro officiali. Alla fine i consiglieri ducali diedero ragione agli avogadori, concedendo loro la facolta di concludere l’esame della questione. I] 3 marzo 1415 ancora il Senato cercava di organizzare ruoli e competenze delle due magistrature !?!. Gli effetti prodotti dalla parte non
sembrano aver sortito un risultato positivo, se, ancora nel 1474, una legge emanata dal Maggior Consiglio lamentava una grave irregolarita di cui si erano macchiati gli avogadori. Questi, “auctoritate propria sine Consiliis”, hanno “principiato depennar alcuna intromission degli Auditori novi over Sindici dalli suoi libri proprii, scrivendo circa quelle diffinitivamente”, ponendosi in tale modo nella posizione di giudici “della sua propria opinione” !22. Nel sistema politico-giudiziario veneziano veniva attribuita una gran-
de importanza all istituto dell’arbitrato, per cui le parti in causa allo scopo di evitare la dispendiosa e spesso interminabile sequela di sentenze ed appelli che involgeva le cause civili, ricorrevano al giudizio di una commissione di esperti per la soluzione della controversia. La sentenza cosi ottenuta, una volta approvata da un rappresentante del potere statale, diveniva inappellabile 123. La procedura, pur con notevoli varianti locali, risulta assai diffusa, tra Medioevo e prima eta moderna, nell’intera penisola. Assolutamente non percepita come un ostacolo all’affermazione della loro autorita da parte dei Principi, 34
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
era pertanto rispettata, o addirittura incoraggiata, quale strumento di controllo e disciplinamento delle conflittualita sociali e, quindi, di legittimazione della propria autorita!2*. Nella citta marciana l’istituto del compromesso, pomposamente denominato inappellabiliter more veneto, assumeva i toni della particolare sensibilita con cui la societa
veneziana percepiva la legge: solennita, ma anche informalita ed efficacia !25, Il problema della fortuna della giurisdizione arbitrale nello Stato da Terra, delle eventuali resistenze che gli vennero opposte, de-
gli strati sociali che lo incoraggiarono, resta ancora tutto da indagare. Cosi come meriterebbe un’analisi particolareggiata il tema della eventuale ricezione nelle citta della Terraferma dell’arbitrato more veneto, e del suo rapporto con altre forme di composizione delle liti previste dalla legislazione statutaria locale. E certo che a Venezia si avvertiva chiaramente la valenza tutta politica della questione. A Treviso, gia nel corso del ’300, la normativa viene praticamente imposta dalla Serenissima Signoria; a Bergamo sembra incontrare particolari resistenze da parte del ceto dei giuristi locali, mentre per Verona si conoscono sollecitazioni e tentativi miranti ad inserirla negli statuti cittadini 12°,
La particolare intenzione di salvaguardare I’integrita di un istituto di cosi fondamentale importanza nella risoluzione di “differentie” su doti, eredita, transazioni commerciali, risoluzioni contrattuali, informa alcuni interventi avogareschi tesi a contrastare l’eccessiva facilita con cui gli Auditori derogavano alla normativa compromissoria vigente nei centri soggetti. Nel 1445 Pavogadore Luca Tron affermava solennemente, contro l’intromissione operata dai sindaci Marco Contarinie Tommaso Michiel nei confronti di un compromesso, vidimato dal podesta di Padova, e risolutivo di una controversia ereditaria coinvolgente una famiglia cittadina, l’assoluta inappellabilita per quel tipo di atti, sancita dagli statuti!2”7. Nel 1485 Costantino Priuli intrometteva un atto del sindaco Filippo Boldu, con cui si impediva I’e-
secuzione di una “interpositio auctoritatis” del podesta e capitano di Treviso, che confermava la legittimita di una “compositio, concordia et transactio”!28, Con quest’atto si stabiliva definitivamente la validita di una donazione di tale Vincente, figlia di Donino, a favore di un “civis”. A giudizio del sindaco tale donazione era stata illecitamente estorta, e si doveva intendere di nessun valore “tanquam 85
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facta a persona mentecapta, que de iure donare non potest”. Concludendo la sua requisitoria l’avogadore affermava, di fronte a qualsiasi tipo di esigenza o di considerazione, che su atti “acceptis de voluntate partium” non si poteva accedere ad ulteriori gradi d’appello'2?. La stessa necessita di salvaguardare l’istituto arbitrale da possibili stravolgimenti determinati dalle interessate pressioni di una delle parti in causa, é presente anche in un intervento dell’avogadore Francesco Foscarini, con cui, nel 1488, si invalidava una terminazione dell’auditore Domenico Baffo 13°. Questi aveva giudicato di nessun valore la ratifica di un compromesso, ad opera del podesta di Vicenza, risolutivo di una complessa controversia tra un membro della nobile ed influente famiglia Trissino ed un suo livellario. Un’analoga volonta caratterizza il procedimento, intentato dagli avogadori nel corso del 1489, che portera all’annullamento di due lettere inviate dagli auditori al capitano di Bergamo, in quanto scritte “male et indebite” e “ad suscitandum diuturnam litem”!?!. Ad interporre appello erano stati alcuni affittuali del vescovo della citta, che si sentivano lesi da una pronuncia arbitrale, nella quale non si era riconosciuto il “verus valor melioramentorum bonorum” da loro ottenuto. Gli auditori, in questo caso, avevano indebitamente ordinato la convocazione di “novi testes”, e l’immediata formazione di una nuova commissione di esperti “extimatores”. La difesa di regole giuridiche e di forme politiche tipiche della Ter-
raferma attraversa numerosi altri interventi realizzati dagli Avogadori. Si pensi, ad esempio, all’intromissione determinata a colpire, nel 1448, leccessiva liberta che si erano attribuiti i “Provisores et Sindici
generales a parte Terre Firme”!32. Questi avevano intromesso un mandato del podesta di Vicenza, che aveva imposto “cum pena” al vicario di Orgiano — nominato tra i “cives” che sedevano nel consiglio della citta berica — “quod non permitteret secare seu secari facere fenum”, in precisi tratti di terra definiti dal documento, ad alcuni “homines et consortes” sottoposti alla sua giurisdizione. Non vengo-
no riportate ulteriori notizie sui motivi determinanti il conflitto tra il rappresentante veneziano e il vicario locale, e sulle cause di ordine sociale ed istituzionale che possono averlo provocato. Molto chiare risultano invece le motivazioni addotte dagli avogadori nel giudi86
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
care lillegittimita degli atti emanati dai sindaci: essi contrastavano con la norma degli statuti vicentini che interdiva l’appello “a sententiis interlocutoriis, non habentibus vim diffinitive sententie”, quali era-
no quelle prodotte dal rappresentante veneziano a Vicenza??>. La stessa esigenza di un rispetto “ad litteram” della legislazione locale viene affermata, nel corso del 1447, dall’avogadore Zaccaria Bem-
bo, cui si erano rivolti i rappresentanti di Gemona, una grossa comunita della Patria del Friuli!3+, danneggiata, a detta di quegli ambasciatori, da due interventi sindacali, con i quali si era decretata la nullita di una “declaratio seu determinatio” pronunciata dal Luogotenente della Patria. Il rappresentante veneziano aveva delegato ad un consilium sapientis di Udine la risoluzione di una controversia confinaria tra gli appellanti e Artegna. L’avogadore eccepiva sulla legit-
timita di entrambi gli atti dei sindaci: sul primo in quanto le Constitutiones della Patria rendevano con grande chiarezza le modalita di assunzione delle cause al consilium sapientis (dove recitavano: “petente parte altera, Locumtenens tenetur causam committere...”); sul secondo in quanto emanato “contra determinationem Dominii factam alias in casu simili, prohibentem Auditores posse entrare in opinionem Sindicorum”. E interessante notare come il ricorso alla normativa statutaria della citta maggiore sembri costituire ultimo appiglio per singoli o comunita
estranee ad una logica di potere “urbana”, per vedere risolte a proprio favore le controversie in cui si trovavano invischiate. Un sintomo,
questo, della forte capacita di attrazione culturale che possedeva la complessa normazione depositata negli statuti, ma forse anche l’espres-
sione di un sottile calcolo politico da parte di soggetti che avevano colto la particolare propensione veneziana nell’intendere la vigenza del diritto statutario quale strumento di legittimazione dell’autorita. Con la motivazione che la sentenza era ormai passata “in re judicata, ex forma statutorum Vincentie”, gli avogadori accoglievano, nel 1467, l’appello interposto dai rappresentanti dei comuni della montagna del vicariato vicentino di Malo!3°. In prima istanza i diritti di questi erano stati riconosciuti in una terminazione dei rettori, con cul si era stabilito fosse risolta a loro favore la questione della ripartizione della quota d’estimo che li vedeva opposti ai pit ricchi e popolosi comuni della pianura dello stesso vicariato. L’appello di primo gra87
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do su cui erano intervenuti gli auditori, che avevano giudicato secondo criteri discrezionali, ed il successivo agli avogadori, risultano essere la conseguenza inevitabile di tale lungo conflitto. Altre intromissioni avogaresche appaiono determinate dalla volonta di moderare la tendenza, riscontrabile nell’attivita dei Sindaci, ad esorbitare dalla giurisdizione di loro competenza, ad interpretare con eccessiva larghezza le facolta inquisitive loro concesse, sovrapponendo
la propria autorita a quella dei Rettori. Esemplare di questa funzione, come della capacita di contemperare esigenze differenti e spesso contrastanti, risulta l’intromissione realizzata nel 1466 dall’avogadore Pietro Michiel 3°. I sindaci avevano
concesso a tale Jacopino de Frascarolis, bandito dal podesta di Bergamo, un salvacondotto con cui avrebbe potuto recarsi in citta, per produrre alcuni testimoni e far riaprire il processo. Erano stati gli stessi sindaci a condurre l’esame delle testimonianze, e sembravano seriamente determinati nell’intenzione di intromettere la sentenza a Venezia. A questo punto il rappresentante veneziano, per tutelare l’imma-
gine della propria autorita, aveva richiesto l’intervento dell’Avogaria. Immediata la risposta: i sindaci ricevevano un mandato che ingiungeva loro di annullare entro tre giorni il salvacondotto emanato, e di desistere dalla volonta di presentare il caso nei tribunali della capitale. Altrettanto netta era risultata la ricusazione di quell’ordine. L’avogadore aveva allora espresso la sua opinione: tollerare l’atteggiamento dei sindaci avrebbe apportato “maximam verecundiam Dominii nostri et scandalum et murmurationem subditorum nostrorum”. Limitando in tal modo la loro giurisdizione si intendeva probabilmente garantire al rappresentante veneziano a Bergamo il potere di svolge-
re una efficace azione di tutela dell’ordine pubblico e, al contempo, di salvaguardare i diritti del condannato, concedendogli la possibilita di interporre il suo appello agli avogadori, che avrebbero giudicato 1 suoi diritti “secundum bonam coscientiam” !37. Un analogo gioco di raffinati dosaggi tra l’esigenza di non incrinare il difficile equilibrio che si riteneva opportuno stabilire nelle citta del Dominio tra Rettori e poteri locali, e la necessita di creare una immagine dell’autorita non arbitraria ma anche non scolorita, saggia e paterna, e tuttavia incisiva ed efficace, sembra potersi riscontrare anche nell’azione intrapresa, nel 1477, dagli avogadori Bernardo Ca88
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
pello e Pietro Priuli, nei confronti di un atto del sindaco Andrea Gradenigo 138. Monaldino Monaldini, cancelliere del podesta di Padova, aveva denunciato l’illegalita di una “additio” apposta dal sindaco al taglio di una sentenza del rappresentante veneziano. Questi aveva definito le rispettive competenze dei “notarii” — appartenenti al ceto di governo locale — e dei “cancellarii” — di nomina esterna, e pertanto meno legati a gruppi di potere cittadini — nella formazione dei processi penali. A detta dell’appellante, il podesta, al momento di raccogliere le testimonianze e le prove dei diritti dell’una e dell’altra parte, non si era attenuto alla corretta procedura prevista dagli statuti, agendo sommariamente, e stabilendo indebitamente che la parte soccombente avrebbe potuto rivolgere il suo appello soltanto all’Avogaria. Secondo gli avogadori, il sindaco, nel motivare la sua intromissione, aveva giustamente addotto l’evidente irregolarita procedurale di cui era responsabile il rettore, ma, allo stesso tempo — “preter libertatem ipsi sindico attributam tam per officium suum quam per intromissionem suam...” — aveva ritenuto fosse suo compito precisare le competenze delle parti in causa}>?.
Negli ultimi due decenni del secolo il sistema degli appelli, come si era fino ad allora configurato, e, pit specificamente, il ruolo degli Avogadori quali tradizionali interpreti-mediatori tra mondo veneziano e mondo veneto, sembrano attraversare una crisi. Risultano sempre piu numerose le intromissioni motivate da formule vaghe e imprecise — come quella, che si ripete con frequenza quasi ossessiva, per cui l’atto di un certo ufficiale doveva ritenersi illegittimo, in quanto quello avreb-
be agito “contra id quod facere poterat aut debebat” —, ben distanti dalle articolate ragioni di natura giuridica, politica, o etico-religiosa, con cui gli Avogadori arricchivano i loro interventi nella prima meta del secolo. Anche se é dimostrabile un leggero ma non sostanziale aumento quantitativo — per il decennio 1430-1440 gli atti di annullamento da parte degli avogadori sono ventisei, trentatre per il periodo 1441-1450, per salire a quarantadue negli anni tra 1481 e 1490 —, Pindagine risulta sostanzialmente infruttuosa, se, al di sotto della superficie delle cifre, non si tenti di cogliere quali siano le reali esigenze che determinano certi provvedimenti. E opportuno avanzare qualche cauta ipotesi a tale proposito. Si puo ritenere che il ricorrere di stilemi 89
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stereotipi non sia semplicemente provocato da una scarsa solerzia nella
registrazione cancelleresca, ma rifletta altresi una difficolta a tradurre — come era avvenuto fino ad allora — le sempre piu articolate istanze dei sudditi in un linguaggio comprensibile per chi era abituato a interpretare il diritto secondo criteri prevalentemente equitativi. Di quest’ordine di problemi testimoniano numerose discussioni agitate nei tribunali d’appello della Serenissima. Nel 1479 gli avogadori cercavano di intromettere una lettera scritta al podesta di Brescia dal sindaco Vittore Marcello, attorno ad una controversia tra la citta ed un ente ecclesiastico per la proprieta di alcune terre'*°. Un altro intervento avogaresco dello stesso anno contestava un ordine degli auditori con cui si intimava al podesta di Vicenza di non procedere ulteriormente nel giudizio di una causa ereditaria interna ad una famiglia cittadina, “et omne innovatum retractando usque ad ius cognitionem” !*!, Le due proposte degli avogadori venivano accolte dal tribunale solo alla terza votazione, e con la strettissima maggioranza di due voti. Ancora meno fondate dovevano risultare ai Quaranta le considerazioni con cui gli avogadori cercarono di convincerli della legittimita dell’appello loro rivolto, sempre nel 1479, da una certa Agnese, moglie di Cristoforo de Fantulis di Vicenza14*. La donna aveva presentato una denuncia scritta al podesta veneziano contro i fratelli Zecchini di Marostica, accusandoli di aver prodotto certi “falsa instrumenta”, a sostegno di loro diritti di proprieta su alcune terre poste nelle pertinenze della cittadina. Sia la sentenza di primo grado che il successivo appello, sostenuto dagli avogadori, erano risultati sfavorevoli ad Agnese. Alla prima votazione tutti i componenti del tribunale veneziano si erano astenuti; alla seconda pochissimi avevano preso parte. Al di la delle questioni di merito, si era probabilmente eccepito che sulla controversia erano gia state pronunciate due sentenze conformi, il che impediva, per legge, un terzo grado d’appello. L’intromissione avogaresca veniva approvata solo grazie alla regola, vigente nella Serenissima, per cui “non sinceri in tercio consilio non computantur”. Dalla lettura di questi documenti si evidenziano i motivi dell’incapacita — a causa delle modalita di formazione politica o di acculturazione — e del disinteresse con cui parte dei patrizi che ricoprivano 90
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
la prestigiosa carica di avogadore si avvicinava alla risoluzione di con-
flitti che, a causa della loro complessa articolazione, postulavano un insieme di conoscenze ed una attenzione che non tutti potevano, o avevano intenzione, di possedere. Fattori che non sembrano esaurirsi nella semplice dimensione biografica o nella trama di una congiuntura di breve periodo, ma che riflettono piuttosto una pit generale crisi della giustizia civile coinvolgente sia le istituzioni centrali che le diverse realta della Terraferma. In alcune intromissioni di fine secolo ricorrono ancora le motivazioni che, in precedenza, avevano accompagnato con successo I|’operato degli avogadori nel corso di numerosissime cause intentate nei confronti dei rappresentanti in Terraferma: scarsa attenzione alle formalita, eccessiva discrezionalita, ignoranza delle leggi veneziane e della legislazione statutaria locale; ma queste non sembrano possedere pit la stessa capacita di suggestione e di convincimento presso i giudici della Quarantia. Nell’atteggiamento che si riflette nelle votazioni dei patrizi che compongono le maggiori corti d’appello emerge una sostanziale messa in discussione delle norme cui la legislazione e la tradizione avevano delegato il controllo di legalita. Si puo ipotizzare, dietro l’insuccesso di tanti tentativi avogareschi, non solo la scarsa preparazione 0 una non pronunciata vocazione dei membri della prestigiosa magistratura per Pargomentazione e la retorica, ma anche il sorgere, presso i Quaranta, di una modalita di opposizione politica e di resistenza istituziona-
le nei confronti del processo di chiusura oligarchica e di concentrazione della facultas puniendi nelle mani del Consiglio dei Dieci1*?; modalita di opposizione che puo anche non esplicitarsi in una cosciente
e ben determinata posizione ideologica, ma esprimersi in una frammentata ed episodica delegittimazione delle regole che la classe dirigente veneziana si era posta allo scopo di controllare il flusso delle istanze provenienti dallo Stato da Terra. Sintomo indicativo di un disagio profondo e della perdita di identita di una componente del corpo sovrano della Serenissima, un altro ostacolo che si frapponeva al processo di integrazione tra governanti e governati. Nel 1489 poco convincente — e pertanto messa in minoranza con dodici voti contrari, undici “non sinceri” e solo nove favorevoli — era apparsa ai membri del tribunale la motivazione addotta dall’avogadore Francesco Loredan nell’intromettere una terminazione dei
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GOVERNANTI E GOVERNATI
sindaci, intervenuti quali giudici delegati, attorno ad una causa tra il condottiero Giovanni Antonio Scarioto e la pupilla e nipote di quello, Paola!4*. Uno dei motivi del contendere verteva sul quesito se le par-
ti dovessero convenire in giudizio a Verona o a Vicenza. I sindaci, esprimendo in tal modo opinione favorevole agli interessi dell’uomo d’armi, avevano sentenziato che il dibattimento si doveva svolgere nella
citta atesina, ma questo, secondo il nostro avogadore, andava “contra formam iuris et consuetudinis”. Quella pronuncia infatti ledeva due principi incorporati nello “ius civile”: il primo, di basilare importanza, consisteva nella formula per cui “actor debet sequi forum rei”; il secondo, depositato “ex privilegio” nella normativa statutaria, favoriva definitivamente Paola, e chi sosteneva i suoi diritti: stante,
infatti, la sua “pupillare etate... non potest extrahi extra provinciam suam”. Ancora nel 1489 l’avogadore Bernardo Bembo vedeva vanificato, anche se per pochissimi voti, il suo tentativo di annullare un atto degli auditori favorevole ai diritti della comunita di Gruntorto, che era
stata, invece, condannata dal podesta di Padova a consegnare trenta campi al proprietario cittadino Francesco Dottori'*5. Il Bembo aveva contestato la legittimita dell’intervento degli auditori, in quanto non era stato registrato dal notaio e coadiutore della magistratura “in libris autenticis dicti oficii”, bensi “in quodam foleo bombacino” allegato al processo. Lo stesso richiamo a considerazioni pit sostanziali non sembra incontrare maggiore successo: nel 1492 gli avogadori Antonio Boldt e Domenico Bollani vedevano smentita la loro opinione che una “admonitio seu citatio”, inviata dai sindaci al podesta di Oderzo in seguito alla denuncia di alcune irregolarita da quello compiute nell’amministrare la giustizia in civile, fosse da considerar-
si emanata “contra consuetudinem observatam et contra omnem honestatem et equitatem”, perché non erano state accolte le prove e le giustificazioni che il rappresentante veneziano aveva prodotto a suo discarico !*6,
Il tradizionale armamentario giuridico-istituzionale che fino ad allora aveva garantito la legittimazione dell’autorita veneziana sembra, quindi, perdere la propria funzionalita di fronte alla crescente pressione esercitata sugli organismi di potere centrali ad opera di soggetti politici minoritari rispetto alle giurisdizioni urbane: gruppi consor92
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
tili, comunita rurali, giurisdizioni signorili, che entrano a far parte a pieno titolo della dialettica istituzionale tra centro e periferia. Con la differenza di tre soli voti passera, nel 1491, l’intromissione perfezionata da Girolamo Badoer su due sentenze pronunciate dai rettori di Verona, risalenti al 1458 al 1469147. “Fundata super falsa causa et contra formam statuti Verone”, aveva tuonato l’avogadore, riconoscendo in tal modo la legittimita dell’appello interposto dal gruppo consortile de Cermisonibus, in lite con i “consortes” di Centignano a proposito dei diritti vantati dai primi sopra un certo pascolo, e di un conflitto sorto attorno ai cosiddetti danni dati, che sarebbero stati inferti dai coloni dei secondi a certe proprieta. Soltanto perché, secondo le leggi veneziane, nel corso della terza votazione non si dovevano computare i “non sinceri”, lo stesso avogadore riusciva ad ottenere l’annullamento di una ducale inviata a Bergamo, con cui si ordinava ai rettori, adempiendo a quanto richiesto in una supplica impetrata dalla comunita di Collegnola in causa con il civis Antonio Soardi, che giudicassero senza ricorrere all’ausilio del Consiglio del Savio 1*®.
Ancora pit significativi di questi quasi insuccessi, risultano quelli completi cui andarono incontro due tra 1 piu prestigiosi component della magistratura: Bernardo Bembo e Baldassarre Trevisan. In questo caso non puo essere addotta quale motivazione dello scacco la scarsa pratica delle istituzioni, né la completa ignoranza del diritto vigente nel Dominio: come avremo modo di vedere nell’ultima parte di questo capitolo, entrambi gli avogadori risultano addottorati in diritto presso lo Studio patavino. I] Bembo, nel corso del 1495, aveva cercato di eccepire, senza successo, sulla legittimita di un consilium e di una successiva sentenza, emanati dagli auditori novi nella controversia tra Bernardino Collalto e sua moglie Giulia!*?. Quegli atti, a detta dell’avogadore, erano stati realizzati “cum disordine”: |’au-
ditore Andrea Trevisan risultava essere figlio di Marco, componente della Quarantia, il quale, contro la lettera delle leggi, aveva preso parte alla votazione. Inoltre quella stessa prima votazione doveva giudicarsi quanto meno affrettata. Infatti, nello stesso periodo, le parti stavano discutendo la causa di fronte alla Serenissima Signoria, che si era riservata di stabilire “an bona essent feudalia an libera”, e quindi
se direttamente sottoposti al controllo di Venezia. Anche la dottrina e le capacita oratorie messe in mostra da Baldassarre Trevisan non do93
GOVERNANTI E GOVERNATI
vettero suggestionare troppo i giudici delle Quarantie, che ritennero insufficenti le motivazioni con cui l’avogadore aveva cercato di mettere in discussione alcuni consilia degli auditori vecchi, attorno alla gestione della commissaria di Antonio de Lismaninis ‘°°, Secondo il Trevisan, Bernardino Priuli — che contestava le modalita secondo cui i Procuratori di San Marco controllavano quella commissaria — non era stato citato “juridice et debite”. Una delle piu interessanti prerogative attribuite all’Avogaria era racchiusa nel potere di controllo e intromissione esercitato sugli atti che i sei Consiglieri ducali inviavano ai rappresentanti in Terraferma'*!.
Sanudo, sottolineando lo straordinario prestigio goduto dalla magistratura alla fine del ’400, aveva precisato come nessun consiglio poteva essere convocato in assenza dei Consiglieri ducali: “senza almeno quattro di questi il Principe non puol aldir né deliberar alcuna cossa,
né far scrivere alcuna lettera pubblica, se quattro conseieri non sottoscrive di sua mano” !>?. Tali lettere dovevano essere osservate “per
leze”, fino a quando su di esse non veniva esercitato il diritto di “taglio” da parte degli Avogadori, nei casi in cui essi avessero scorto un’evidente lesione della legalita. Grazie allo strumento delle “littere” — inviate in misura massiccia ai Rettori del Dominio da Terra e da Mar in seguito ad una loro istanza di chiarimento o alla notifica di un dato provvedimento — risultava praticamente illimitato il raggio delle materie toccate dalla giurisdizione dei Consiglieri: da quella fiscale, e quindi di intervento nelle controversie tra citta e distretti e nei conflitti interni alle stesse comunita, a quella giudiziaria, in civile e in penale, e quindi di supervisione dell’attivita dei Rettori, a quella riguardante la materia beneficiale. Riflettendo attorno alle modalita dell’intervento avogaresco sui mandati dei Consiglieri ducali si puod cogliere la dialettica, interna al si-
stema giuridico veneziano, tra tendenza ad una gestione pit diretta e discrezionale della politica del diritto, da una parte, e difesa della legalita, delle consuetudini, degli assetti costituiti, dall’altra. Numerosissimi appelli interposti agli Avogadori, rivendicanti |’illegittimita dei mandati dei Consiglieri — provenissero da enti ecclesiastici o da giurisdizioni feudali, da comunita rurali 0 da rappresentanti delle istituzioni urbane, da singoli individui o da corpi parti94
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
colari —, richiamavano concordemente l’attenzione dei governanti veneziani alla tutela delle autonomie e dei privilegi concessi. Il 29 maggio 1429 il Senato confermava la liceita di un’intromissione avogare-
sca, determinata dalla risentita protesta del vescovo di Ceneda, facendo annullare le ducali inviate al podesta di Serravalle, con la motivazione che i consiglieri avevano agito “contra id quod facere poterant et debebant”!*3. Infatti, non solo avevano oltrepassato |’ambito giurisdizionale di loro competenza, evitando di sottoporre la materia al vaglio dei Consilia veneziani, ma avevano anche contraddetto al privilegio concesso dal Senato che attribuiva al vescovo ampia “libertatem et iurisdictionem in temporalibus et spiritualibus”. II rispetto del pieno diritto detenuto dal vescovo di Feltre di riscuotere la decima su tutto il legname condotto “per mercatores” sul territorio sottoposto alla sua giurisdizione, era difeso con successo nel 1448 dall’avogadore Zaccaria Bembo, contro un precedente mandato dei consiglieri al podesta e capitano di Feltre, con cui si stabiliva che il nobile veneziano Giovanni Morosini fosse esentato dal pagamento della decima fino a quando non fosse stata definita la causa che lo opponeva all’alto ecclesiastico!**.
Allosservanza dei loro antichi privilegi, confermati benignamente dalla Serenissima, si richiamavano nel 1452, ottenendo piena ragione dagli avogadori, anche i conti di Cesana, giusdicenti sull’omonimo contado, ottenendo |’annullamento di una ducale, che li sottoponeva alla contribuzione della rata d’estimo con la comunita di Feltre'>>.
L’Avogaria, proprio in quanto tutrice della legalita, sembra realizzare quel compito di garante della molteplicita dei diritti vigenti, di tutela della pluralita e dell’autonomia delle varie forme di giurisdizione e delle diverse autorita sottoposte alla Serenissima. Esemplari delle attese, da una parte, e dell’applicazione, dall’altra, di questo modo
di intendere la legalita risultano due questioni sollevate dagli ebrei residenti a Padova!**. Nel 1438 Pavogadore Andrea Dona portava all’esame del Senato la “querela” di Giacobbe di Mosé da Santa Lucia, uno dei cinque ebrei che detenevano la condotta “ad fenerandum” nella citta 157. L’appellante lamentava l’indebita intrusione di uno dei cittadini pit influenti, I’“egregium artium et medicine doctor” Stefano Dottori, che, in veste di deputato ad utilia, aveva ottenuto una ducale a conferma di una sua decisione con cui si investiva della con95
GOVERNANTI E GOVERNATI
dotta un altro ebreo. L’avogadore accoglieva l’appello in quanto quella
lettera contraddiceva il nono capitolo della condotta, approvato dal Senato veneziano, che stabiliva non potesse essere accettato alcun con-
duttore se non per volonta unanime degli altri cinque conduttori. Nel
1448, ancora gli ebrei patavini invocavano il rispetto di una parte del Senato che ingiungeva loro: “quod ipsi Judei non possint sepeliri facere in cimiterio suo Padue aliquod cadaver”, sotto pena di 100 ducati, venendo cosi a soffocare una antica consuetudine che connotava fortemente il senso di identita e di comunita di quella minoranza !°°. Nel 1443 1 notai e altri non meglio specificati “officiales” dei castelli e borghi fortificati del trevigiano vedevano riconosciute le pretese da loro avanzate di controllo sulla struttura amministrativa del
territorio, contrastate decisamente dai rappresentanti del centro maggiore!5*, Piu volte i loro privilegi erano stati comprovati da leggi e decreti del Pregadi e del Maggior Consiglio, eppure non erano stati per nulla considerati dal decreto dei consiglieri ducali con cui si precisava al podesta e capitano di Treviso che “nullus districtualis civitatum terrarum vel locorum” sottoposti alla Serenissima, potesse ri-
coprire la carica di giudice, notaio, cancelliere, “in aliquo castello, districtus, civitatis de quo nativo est”. Nel 1470 gli avogadori appoggiavano i diritti della comunita di Tre-
venzolo che chiedeva di essere sottoposta alla giustizia veneziana e non, come aveva invece stabilito una ducale, alla giurisdizione ecclesiastica del monastero di San Giorgio in Braida‘®®. Pochi anni pit tardi era il comune di Quero, nel distretto trevigiano, ad esibire all’avogadore Pietro Priuli lantichissima gratia concessa dal Senato nel 1370, messa in discussione da alcune ducali con le quali si era intimato al podesta e capitano veneziano che nell’opera di scavo del canale del Brenta, ordinata dalla Serenissima, “nulla eis valeat exemptio”, e che pertanto quegli uomini vi dovevano essere costretti, anche con la forza, “si negligentiores et tardiores se reddere vellent”1*!. Nel 1475 ricorrevano agli avogadori gli ambasciatori delle valli bresciane di Ledro e Tignale in quanto i consiglieri, “contra formam privilegiorum” concessi dal “Dominium... ob multiplicia eius merita”, avevano accolto le istanze dei rappresentanti della Riviera di Salo e scritto al provveditore veneziano, che, da allora in avanti, per tutte le cause riguardanti crediti contratti dagli uomini delle valli nella giurisdizio96
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
ne della Riviera, si fara “justicia” di fronte al rappresentante della Se-
renissima, e non piu nelle mani dei vicari locali®. L’esigenza della tutela della legalita, che rendeva cosi duttile e ricettiva alle istanze dei sudditi la struttura dell’intervento avogaresco, non poteva non essere sollecitata da chi con pit convinzione, dottrina e capacita di argomentazione, come i giuristi e i doctores delle citta maggiori, era in grado di sostenere la posizione eminente del proprio diritto. Nel 1454, quando un civis bresciano riuscira ad ottenere una ducale che lo investiva, per i meriti acquisiti nel recente conflitto conclusosi con la pace di Lodi, della carica di podesta di Salo, gli oratori di Brescia non incontreranno alcuna difficolta ad ottenere ragione presso gli avogadori, in quanto quella nomina da parte delPautorita centrale ledeva una antica prerogativa spettante per privilegio al centro urbano!®3. Nel 1481 veniva invalidato un mandato dei consiglieri ducali al podesta di Bergamo con cui si raccomandava caldamente al rappresentante veneziano di eleggere, quale vicario della Val Seriana inferiore, un tale che aveva presentato le sue credenziali alla Serenissima Signoria, in deroga alla consuetudine sancita dagli statuti, che attribuiva il compito di procedere a quella nomina al Consiglio civico!**,
Gli ambasciatori dei “nobilium et civium subditorum” di Verona e di Padova ottenevano, nel 1464, l’annullamento di alcune ducali inviate ai rettori delle due citta!®*. Il giudizio di non legittimita degli atti dei consiglieri verteva sul fatto che, contrariamente a quanto determinato da una legge del Senato del 1454, quelli avevano ordinato che i conduttori di pecore, che si erano recati con le loro greggi “extra Dominium”, dovevano essere sottoposti al solo pagamento di un “datium antiquum”, al momento di rientrare nei territori sottoposti alla giurisdizione della Serenissima. Ad una deliberazione del Collegio dei XII savi, intervenuto su delega del Senato, facevano ricorso, nel 1481, i rappresentanti del Collegio dell’Arte della lana di Vicenza, riuscendo a convincere gli avogadori dell’assoluta arbitrarieta di una ducale che consentiva alle “fedelissime” comunita di Arzignano, Valdagno e Cornedo — tutte sedi di un vicario di nomina urbana — di poter inviare, senza alcuna restrizione, i loro panni alle fiere che si tenevano annualmente in citta’®®. Nel corso del 1482 comparivano alla presenza degli avogadori al97
GOVERNANTI E GOVERNATI
cuni ambasciatori bresciani per difendere non solo il prestigio di una
delle piu cospicue ed influenti famiglie cittadine, ma anche allo scopo di riaffermare la superiorita del diritto statutario locale '*’. L’avogadore Michele Trevisan confermava la legittimita della protesta bresciana contestando la validita delle ducali con cui si erano incaricati 1 rettori di essere “auditores et cognitores... servatis servandis jus et justiciam” nella causa in corso tra i pupilli ed eredi di Giorgio di Martinengo e le figlie del fratello di quest’ultimo. Quelle lettere andavano cassate in quanto “male, indebite, et subrepticie impetrate”, e contrarie alla forma degli statuti di Brescia, che prevedevano listituto del consilium sapientis per la risoluzione di quel tipo di controversia.
C’erano altri settori della societa veneta che sembrano intendere in diverso modo I’attivita e la funzione dell’Avogaria, il suo ruolo di mediazione politica, il suo rappresentare il momento della legalita. Si puo ipotizzare che proprio quelle esigenze di equita e di tutela degli oppressi, che tanto faticavano ad essere tradotte nella prassi via via che ci si allontanava dalla citta marciana, incontravano un momento di interessante integrazione con le elementari istanze del rispetto
delle “antique consuetudines” rivendicate da parte di piccoli borghi o di comunita rurali. Per meglio comprendere le trasformazioni cui vennero sottoposti i rapporti tra centro e periferia sarebbe indispensabile avere a disposizione la serie completa delle lettere che gli avogadori inviavano ai rettori, e che risultano quasi completamente irreperibili per tutto il XV secolo'*®, Alcuni degli atti superstiti sembrano offrire qualche appoggio alle ipotesi che stiamo avanzando. Nel 1492 Pietro Balbi accoglieva la querela presentata dagli uomini della comunita di San Felice, i quali si erano lamentati del fatto che il rappresentante veneziano, dietro interessate pressioni, e “absque iuris cognitione”, li aveva privati, “contra ius, honestatem et equitatem”, degli antichissimi diritti di pascolo di cui godevano da lungo tempo’®?. L’avogadore ordinava che non si permettesse “modo aliquo, ipsos homines de facto
privari et spoliari”. Domenico Bollani, in seguito a suppliche interposte da varie “communitates”, ingiungeva ad Agostino Foscari, podesta e capitano di Treviso, di far osservare inviolabilmente |’“anti98
____LAVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
quissima consuetudo”, la quale prevedeva che “bona ipsa communalia et pascua nullatenus possint dividi”?”°. Una analoga modalita di ricezione, secondo il ctiterio dell’equita, dei diritti dei comitatini emerge, con una certa evidenza, anche in alcuni interventi riguardanti l’endemico e dilacerante conflitto tra citta e contado. Nel 1452 si era presentato agli avogadori tale “Tulianus”, notaio, con il titolo di “procurator et nuntius districtualium tervisini districtus”, e aveva pronunciato una “gravissima querella”!7!. Una ducale, che il podesta e capitano di Treviso avrebbe provveduto a rendere esecutiva, stabiliva che i tre cives incaricati di provvedere alla revisione dell’estimo dei distrettuali potevano anche comminare condanne, qualora fossero venuti a conoscenza di frodi. Le conseguenze di tale mandato erano risultate disastrose: quei cittadini avevano immediatamente provveduto a formare “multas inquisitiones”, accusando
gli astuti villici del tentativo di “defraudare aliqui in uno campo terre, alii in dimidio, nonnulli in aliqua minima parte”. Per questo motivo, cosi prosegue la supplica con una certa enfasi, i beni di molti di loro,“quasi omnes”, erano stati pignorati. Gli avogadori, accogliendo in pieno l’istanza loro rivolta, ottenevano dalla Quarantia |’annullamento del mandato dei consiglieri e la restituzione “cum integritate et absque diminutione” delle eventuali condanne pecuniarie gia riscosse!??, Analoghi criteri si possono riscontrare anche in una piu tarda intromissione con cui l’avogadore Pietro Priuli confermava la legittimita dell’appello interposto nel 1479 dai “distrectuales” di Padova’’?. I consiglieri, al termine di un fitto scambio di lettere con il rappresentante veneziano, avevano stabilito che il conflitto che opponeva “cives et rusticos”, a proposito di presunte usurpazioni di proprieta e della messa a coltura di alcuni terreni boschivi, fosse definitivamente risolto a favore dei cittadini, e avevano ingiunto ai villici di astenersi, da allora in avanti, “ab omni novitate”, allo scopo di evitare ogni possibile violenza. Per l’avogadore la lettera dei consiglieri doveva rite-
nersi di nessun valore, in quanto emanata “contra omnem iustitiam et equalitatem”, a causa della evidente prevaricazione di una parte nei confronti dell’altra: “quia cives in quorum favorem tantum fuit facta dicta suspensio, remanserunt et remaneant in possessione ...ad damnum et preiuditium dictorum rusticorum”. 99
GOVERNANTI E GOVERNATI
Nei registri di Raspe dell’Avogaria emerge con frequenza sempre maggiore, via via che ci si avvicina alla fine del secolo, avanzata da parte di piccoli centri, di comunita di valle periferiche 0, pit in generale, di quelle ancora primitive e poco articolate organizzazioni di distrectuales, la richiesta di tutela dei privilegi accordati dalla Serenissima e continuamente messi in discussione ed erosi dai piu influenti corpi intermedi, venendo a stabilire, in tal modo, un pit diretto legame con i governanti. Nel 1475 la Quarantia confermava il giudizio dell’ avogadore Pietro Priuli sulla illegittimita di alcuni mandati dei consiglieri ducali, con i quali si era imposto ai governatori alle entrate di non molestare ulteriormente alcuni uomini della comunita infeudata di Sanguinetto, nel distretto veronese, imponendo a quelli l’obbligo di soluzione dei debiti contratti con l’antico giusdicente Alvise Dal Verme, il quale era stato privato della giurisdizione in quanto traditore della Repubblica. Secondo l’avogadore quei mandati andavano annullati, in quanto 1 consiglieri “non habent libertatem sine auctoritatem consiliorum nostrorum, sic disponentibus legibus nostris, dare, vel donare, vel remittere, bona, debitores et pecunias spectantes Dominio nostro” !7*. Gia nel 1465 l’avogadore Francesco Foscari, accogliendo la supplica rivoltagli da alcuni rappresentanti della comunita di Orzivecchi, infeudata ad Agostino Martinengo, invocava l’annullamento di una ducale con cui, in ottemperanza ai desideri espressi dal giusdicente, si erano ordinate la costituzione di un notaio “ad banchum vicariis”, l’aumento del salario che gli uomini di Orzi dovevano versare allo stesso, e la costruzione di un carcere. Nel motivare questa intromissione l’avogadore, oltre ad addurre il grave “preiudicium” derivato alla comunita, aggiungeva il motivo della
lesione di una legge del Consiglio dei Dieci, con cui si era decretato che una ducale non potesse essere ritenuta valida se non era stata sot-
toscritta dalla mano di almeno quattro Consiglieri7°. Ancora maggior interesse riveste la richiesta di intervento rivolta agli avogadori dai procuratori di alcune famiglie della comunita di Sant’Eufemia, nel pedemonte bresciano, in quanto mette bene in evidenza come una legge dello Stato — nella fattispecie quella emanata dal Consiglio dei Dieci, riguardante le formalita cui i Consiglieri dovevano attenersi nel sottoscrivere i loro mandati —, potesse risultare
funzionale alla regolazione di un conflitto locale intracomunitario, 100
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
venendo a sovrapporsi ad uno strato di usi, consuetudini, mentalita, che pure Venezia aveva legittimato. In questo caso gli appellanti avevano protestato contro il mandato dei consiglieri, con cui si era decretato che solo le “antique familiae” della comunita potessero godere delle immunita ed esenzioni concesse dalla Serenissima, e non le “familiae de novo reducte ad habitandum in ipsis locis”!7®. Per risolvere un analogo conflitto, anche se con differenti motivazioni, interveniva, nel 1480, l’'avogadore Tommaso Trevisan, il quale, sentite le reiterate proteste avanzate dalla comunita di Calcinate, sempre nel distretto bresciano, invalidava una ducale, con cui si era deliberato che la controversia sorta tra “novi” e “veteres incolle” di quel luogo fosse risolta a favore dei primi. In questa occasione 1 consiglieri non avevano tenuto conto dei privilegi concessi alla comunita, e delle “provisiones” emanate dal capitano di Brescia, Francesco Diedo, “super reformatione et observantia novi estimi generalis territorii brixiensis”?!7’.
Un altro momento del controllo esercitato dagli Avogadori sulla legalita degli atti emanati dai Consiglieri ducali consisteva nella facolta di intromettere le gratiae concesse a sudditi e comunita della Terraferma!78. Formalmente tali gratiae venivano elargite dal Maggior Consiglio, dopo essere passate al vaglio preventivo della Quarantia, tuttavia sia l’accoglimento delle richieste che le proposte conclusive venivano filtrate e orientate dai Consiglieri. La possibilita di revocare una sentenza ritenuta troppo severa, o di concedere un officio a sudditi che si erano rivelati fedeli alla Serenissima, attraverso lapplicazione di una procedura estremamente rapida ed efficace, puo rappresentare una delle modalita con cui il potere sovrano si legittimava agli occhi dei sudditi, offrendo un’immagine di sé improntata a paternalistica benevolenza. L’ottenimento di una grazia rendeva pos-
sibile evitare, a chi si sentiva ingiustamente danneggiato, la lunga e defatigante trafila dei vari gradi d’appello, cosi come poteva favorire la risoluzione di annosi conflitti interni alle comunita del Dominio. Un istituto, questo della gratia, che rispondeva funzionalmente alla particolare struttura economica e sociale della citta capitale1”?; ma che, adattato e proiettato sul mondo della Terraferma, aveva finito con il creare una serie di problemi di non semplice soluzione. Una IOI
GOVERNANTI E GOVERNATI
legge del Senato, risalente al 1446, cercava di mettere ordine nelle procedure attinenti le concessioni di gratiae interposte al Maggior Consiglio attorno a “penis personalibus vel vite, banni, sanguinis, carcerorum privationisque consiliorum nostrorum vel aliquorum officiorum nostrorum que per nostra consilia conferuntur” !®°, Sotterfugi ed
imbrogli reiterati ostacolavano, in modo sostanziale, il corretto funzionamento della macchina giudiziario-amministrativa: i processi condotti dagli Avogadori e dai Rettori “per hunc modum facile interrompuntur et revocantur”, con gravissimo danno per la “famam et hono-
rem dominationis nostre”. L’obbligo di osservanza alla lettera delle nuove regole veniva demandato agli Avogadori di Comun!8!, Anche da questo particolare angolo visuale emergono, con una nitidezza forse
ancora maggiore, alcuni temi gia incrociati nel corso di questa ricognizione: il difficile equilibrio tra arbitrium e legalita, tra clemenza ed autorita, tra intervento diretto e gestione mediata dei conflitti. E opportuno far notare come il controllo di legittimita sulle gratie concesse dai consiglieri spettasse de facto agli avogadori gia molto prima dell’emanazione della normativa appena citata‘!8*, che venne quindi a legalizzare una pratica ed una consuetudine diffusa ed accettata. Bisogna prestare una particolare attenzione anche alla scansione cronologica: la facolta di intervento degli avogadori su questo tipo di atti sembra scomparire dopo il decennio 1440-1450. Questo si deduce ex silentio dalla documentazione archivistica, che per la seconda meta del secolo non riporta una sola intromissione a tale proposito. E probabile che tale dato non sia semplicemente determinato da una scarsa solerzia nella registrazione cancelleresca, ma possa anche essere interpretato come il prodotto di quell’ampio assestamento delle norme e delle procedure regolanti i rapporti politici e giudiziari tra governanti e governati, situabile attorno alla meta del XV secolo. Agli Avogadori si chiedeva di bilanciare con sapienza esigenze contrastanti, di segnare con duttilita il discrimine tra discrezionalita e pri-
vilegio. Nel 1445 accoglievano l’appello di “quamplurimum personarum” della villa di Fabbrigo, sita nel territorio patavino, in quanto la grazia con cui si consentiva a Giovanni da Ponte di costruire un mulino sul fiume Musone, era stata chiaramente pronunciata “in eorum preiuditium” +83, Cosi come a danno dell’appellante Nicolo Cochiari da Peschiera, con l’aggravante del sotterfugio, era stata ema102
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
nata, nel 1446, una grazia, con cui si concedeva al figlio adottivo del connestabile di Zara di poter succedere al padre nella carica: contrastando in tal modo con una aspettativa di cui godeva da anni il povero Nicolo 184.
Nel 1444 Cristoforo Moro portava al giudizio del Minor Consiglio l’appello di Giovanna e Beatrice, rispettivamente vedova e sorella di Andrea Segusino del distretto di Treviso, il quale aveva testato “per breviarium”, senza lasciare, cioé, in scritto le sue ultime volonta, ed in
assenza di un notaio!8>. Le donne avevano protestato contro l’invio di una ducale con cui si ordinava al podesta e capitano veneziano di ascoltare, “non obstante aliquo cursu temporis”, “dicta et attestationes” di coloro che risultavano presenti al momento dell’ordinazione del testamento, come se quello “ab inicio fuisse scriptum per notarium”. Gli avogadori avevano fondato la loro eccezione di legittimita sul fatto che i consiglieri non avevano richiesto informazioni al podesta di Treviso, come avrebbero dovuto fare, ma al podesta di Asolo; non avevano ascoltato i procuratori delle due appellanti; non avevano inoltre rispettato una precedente sentenza del rappresentante veneziano con cui erano stati assegnati a quelle donne i “bona” dello scomparso. Lo stesso anno |’avogadore Niccolo Bernardo chiedeva alla Quarantia l’annullamento di una grazia con cui si era concesso ai massarii della chiesa di San Michele di poter vendere o affittare una “domus” del defunto “magister Coradinus”, civis trevigiano, in quanto chiaramente contrastante con le ultime volonta di quello 1*°.
Una delle prerogative cui i ceti dirigenti delle citta soggette si dimostravano pit tenacemente abbarbicati era costituita dal potere di concedere il privilegium civilitatis a uomini provenienti dal contado 187. L’opportunita offerta dal privilegio di accedere alle pit importanti cariche urbane e la concreta speranza di poter godere di un
regime fiscale assai vantaggioso rispetto a quello previsto per gli abitanti del territorio, rendevano estremamente ambita la qualifica di civis!8®. Un processo di natura sociale ed istituzionale di lunga durata, che investiva profondamente anche la sfera della sensibilita collettiva1®?: il sentirsi inserito in una realta quale quella urbana, che rendeva liberi al solo respirarne l’aria; i risvolti intellettuali di quel’accentuarsi della dicotomia tra citta e contado, che conosce nel Ve103
GOVERNANTI E GOVERNATI
neto un interprete di eccezione in Bartolomeo Cipolla, con la diffusione della satira del villano, o con il dispregio, ormai motivo culturale dominante, verso gli exercentes opera ruralia'®°, Venezia non mise mai in discussione la facolta — detenuta dalle citta soggette fin dalle primitive deditiones — di attribuire lo ius civilitatis secondo le procedure statutarie: non una legge del Senato o del Consiglio dei Dieci viene a sovrapporsi a questo ampio settore di autonomia locale. Ai rappresentanti della Repubblica inviati in Terraferma era concessa la sola prerogativa di confermare e legalizzare cid che le magistrature urbane avevano gia decretato. Difficile intuire se, da parte della Serenissima, vi fosse un calcolo politico, tendente a lasciare che certi aspri motivi di conflittualita si riassorbissero e si risolvessero al di fuori della giurisdizione statale, oppure se vi fosse una costitutiva incapacita — dovuta alla debolezza degli strumenti “operativi” di governo — di incidere su un tessuto di potere e di pratiche
legittimate da una lunga tradizione, oppure se si trattasse, ancora, di un problema di “cultura”, di disinteresse, di incomunicabilita. Ai fini del nostro discorso puo essere interessante notare come le uniche inframmettenze ad una realta politica tanto impermeabile fossero rappresentate da appelli interposti alla nostra magistratura. Seppure in modo intermittente ed episodico, ancora una volta, l’accentuarsi delle conflittualita locali genera una domanda di intervento che porta ad un allargamento della sfera del potere pubblico. Solo ricorrendo agli avogadori, che intromettevano la ducale inviata al podesta di Vicenza con cui si era decretato |’annullamento del privilegio della cittadinanza ottenuto dall’appellante, Filippo Guidotti del vicariato di Orgiano riusciva, nel corso del 1430, a porre termine ad un annoso conflitto che lo opponeva alla comunita di cui era nativo!*!.
Secondo gli avogadori, l’atto dei consiglieri era privo di valore, in quanto non apparteneva al loro “foro” occuparsi di quella materia. Analoghe motivazioni ricorrevano in un’altra intromissione realizzata nel 1442, quando tale Giuliano ed i suoi fratelli de Mansuedo, creati cives di Portobuffolé, come dimostrava l’atto vidimato dal rettore ve-
neziano (con cui si stabiliva chiaramente che i loro nomi fossero cancellati dall’estimo rurale “et positi ad sustinendum angarias cum civibus de intus”), manifestavano agli avogadori la loro contrarieta
nei confronti di una ducale inviata al podesta, che sospendeva di 104
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
fatto il privilegio di cui godevano!*?. Nel 1443 saranno gli eredi di tali Bertolino e Andrea Moro di Casale, una piccola villa del distret-
to trevigiano, ad ottenere piena ragione dall’avogadore Matteo Vitturi!93. In questo caso gli appellanti avevano avuto buon gioco nell’opporre ad una ducale che prescriveva loro — secondo quanto previsto dagli statuti — l’obbligo di risiedere in citta, qualora avessero voluto continuare a godere il beneficium civilitatis, una gratia concessa ai loro avi in virtu dei loro grandissimi meriti, contro la quale, concludeva l’avogadore, “consiliarii nullo modo ire poterant et debebant”. Secondo quanto gia notato per la citta capitale, buona parte dellattivita di controllo esercitata dagli Avogadori era orientata a frenare gli eccessi di giurisdizione di cui i Consiglieri ducali cosi sovente si rendevano responsabili. Nel 1444 l’avogadore Andrea Dona, accogliendo le querelle di ventidue abitanti della villa di Fossalunga, intrometteva una ducale emanata “contra Deum et iusticiam” e contro la forma degli statuti cittadini, con cui i consiglieri avevano attribuito al podesta e capitano di Treviso la facolta di formare una “inquisitio” nei confronti dei principali responsabili di due proditorie uccisioni!94. Lo stesso anno gli avogadori impugnavano una ducale inviata al podesta di Montagnana, con cui si ingiungeva al rappresentante veneziano di non consegnare per nessun motivo al podesta di Vicenza quattro individui accusati di violenze e catturati alla porta della cittadina1*5. I consiglieri, nel loro mandato, avevano inoltre stabilito che il rettore del centro minore, “habito bono consilio et de-
liberatione”, potesse disporre dei rei “sicut discretioni et conscientie ipsius videretur”. L’illegittimita della ducale risultava, a giudizio degli avogadori, evidente, in quanto le aggressioni di cui si erano resi colpevoli gli inquisiti erano state commesse nel territorio vicentino, e quindi il diritto di punirli non poteva che spettare, secondo il dettato delle commissioni e della stessa normativa statutaria, al rettore del centro maggiore!’°. Non rientra affatto tra le liberta dei consiglieri quella di poter “per se solos et absque consiliis ordinatis” esimere qualcuno dalla pena del bando: con queste motivazioni Cristoforo Moro otteneva, nel 1445, ?annullamento di una ducale con cui si rendeva noto ai rettori di Brescia e al capitano della Riviera di Salo che dovevano ritenere assolto 105
GOVERNANTI E GOVERNATI
dal bando un tale che aveva commesso un omicidio1*’. L’avogadore Francesco Sanudo intrometteva, nel 1477, un mandato con cui i consiglieri intimavano, contro ogni regola, al sindaco Antonio Boldt di riesaminare la causa e di procedere secondo “ius summarium et ex-
peditum”, nonostante avesse gia laudata una sentenza emanata dal podesta di Brescia, nella disputa vertente tra tale Bartolomeo Landi ed il gruppo consortile dei “Moroni”, attorno ai diritti su una fonte d’acqua!?®, Ancora lo stesso avogadore giudicava legittimamente fon-
date le proteste degli uomini di San Daniele, nella Patria del Friuli, in quanto 1 consiglieri, nel notificare al luogotenente con il mezzo di una ducale una deliberazione del Senato — con cui si stabilivano pene molto severe contro certi abitanti della comunita resisi colpevoli di alcune violenze —, avevano apposto una “additio”, gravemente offensiva dell’onore e dell’immagine di quella giurisdizione, nonché “indebita”, in quanto non proceduta “cum auctoritate et mente Consilii Rogatorum, sed copulata” da quattro consiglieri!%°. Significativamente proprio negli ultimi anni del secolo, in quel periodo cioé in cui si comincia ad avvertire una diminuzione delle prerogative della magistratura, da alcuni interventi degli avogadori traspare una sorta di orgoglio costituito dalla coscienza di rappresentare una funzione centrale nel sistema costituzionale veneziano: la necessita di salvaguardare l’antica “libertas” dell’ “officitum Advocarie”
andava anteposta a qualsiasi considerazione fondata sull’opportunita politica o sull’immediato vantaggio personale. II fascino esercitato dall’antichita dell’istituzione, assieme alla coscienza di dover conservare cio che la caratterizzava principalmente, contrastando la con-
giuntura sfavorevole, orientano una serie di interventi avogareschi. Il 31 ottobre 1487 Francesco Foscarini e Domenico Bollani non esitarono ad attaccare duramente quei consiglieri che avevano loro imposto di portare al Collegio l’esame della delicata controversia sorta tra la comunita di Cologna e la magistratura veneziana dei Provveditori al Sal, sull’ incanto del dazio del sale?°. Se si fosse ottemperato al mandato ducale, avevano cosi concluso il loro intervento i due avogadori, si sarebbe tradita la principale caratteristica procedurale delP Avogaria, consistente nella “libertas et facultas... eundi ad illud con-
silium ad quod sibi videbitur”. 106
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
Analoghe motivazioni venivano addotte da Antonio Boldd, il 9 luglio 1492, per convincere la Quarantia della illegittimita di una ducale (in quanto “non est de foro dictorum Consiliariorum talia mandare contra officium Advocarie”) con cui si ordinava ai rettori di Verona di non obbedire in alcun modo a precedenti lettere avogaresche attorno all’aspro conflitto che opponeva i famuli dei vicariati di nomina urbana e la citta, da una parte, ed i saltari, appoggiati dalle comunita rurali, dall’altra2°!. E forse opportuno soffermarsi brevemente su questa vicenda, in quanto consente di evidenziare non solo il tipo di controllo e di intervento esercitato dall’Avogaria sulla legalita dei procedimenti delle istituzioni veneziane, ma anche le modalita di risoluzione, su pit piani, di conflitti locali e di ricezione-trasformazione di certe istanze politico-amministrative che provenivano dalla Terraferma. Nella maggior parte dei casi, a causa della quasi assoluta mancanza della documentazione preparatoria che doveva poi sfociare nella vera € propria intromissione (lettere ai e dei Rettori, suppliche e allegazioni delle parti), non risulta possibile comprendere cosa esattamente
gli Avogadori recepissero degli appelli che da singoli o comunita venivano loro interposti, se vi fosse cioé uno iato, terminologico o concettuale, tra quelle richieste e le arringhe che i Consiglieri ducali oO i componenti delle Quarantie dovevano ascoltare. Nel caso veronese ora citato una qualche maggior luce deriva dalla lunga durata del conflitto tra citta e territorio, che ha prodotto una sedimentazione archivistica, sia a livello locale che a livello di istituzioni centrali2°.
Innanzitutto € opportuno notare che la vicenda coinvolge i vicariati direttamente dipendenti dal comune, e non quelli privati, e si situa in una fase di inasprimento delle tensioni, determinata dalla volonta del centro urbano di accrescere, per il tramite dell’istituzione vicariale, il proprio potere di controllo sulla campagna. I] motivo del conflitto derivava dal fatto che, nel corso del secondo Quattrocento, 1 famuli, derogando alle mansioni previste per loro dagli statuti (per i quali i coadiutori dei vicari erano tenuti a rendere esecutivi i loro mandati, a notificare le denunce, ad effettuare il pignoramento dei
beni), avevano cominciato a sovrapporre la loro autorita a quella tradizionale dei saltari nei compiti di guardie campestri. Era ovvio che i cives tendessero a concentrare negli ufficiali direttamente di107
GOVERNANTI E GOVERNATI
pendenti dal vicario la funzione di polizia e di tutela delle loro proprieta, mentre le comunita vedevano nella diminuzione delle prerogative dei saltari, direttamente eletti dalle vicinie rurali anche se dipendenti dal giusdicente cittadino, un chiaro attacco alle loro consuetudini, alle loro informali, ma ben radicate regole politiche. Ne scaturivano scontri durissimi, che raggiunsero I’acme negli anni 80-90 del secolo2°3, quando i rettori veronesi vennero raggiunti dalla duca-
le che ingiungeva loro di non permettere “ullo pacto quod vicari et potestates istius agri ducant secum plures famulos quod ex forma statutorum deputati sint”. La citta non sembra essersi arrestata nemmeno di fronte a questo mandato che la richiamava all’osservanza dei propri statuti, ed aveva evidentemente proseguito nella sua opera di pressione sulle istituzioni centrali: € a questo punto che si situa l’intromissione avogaresca. Nella sua ultima difesa dei diritti dei comitatini, Antonio Boldt non adduce norme statutarie, né sviluppa considerazioni sui “pauperes districtuales” o sul ruolo dei due corpi, urbano e territoriale, all’interno della provincia veronese — com’era stato
fatto in precedenza —, si limita piuttosto ad affermare severamente Pillegittimita di un intervento che limitasse la “libertas” dell’Avogaria di inviare lettere ai Rettori2%. Si é gia sottolineato come un settore di fondamentale importanza nel processo di costruzione statale e di affermazione della sovranita, é indubbiamente quello costituito dalla materia beneficiaria. Sul terreno del conflitto attorno al conferimento dei grandi benefici ecclesiastici del Dominio si concentrava lo scontro giurisdizionale tra Venezia e Roma?°>: un problema di sovranita e di autorita verso |’esterno che assume tonalita sempre pit aspre nel corso del secolo, ma anche un problema di controllo politico interno. II conferimento di un importante vescovado ad un esponente del patriziato veneziano poteva risultare certamente uno strumento di coinvolgimento dei sudditi, forse piu diretto ed efficace di quello rappresentato dall’attivita delle magistrature civili, ma poteva comportare anche dei rischi non indifferenti: di un legame troppo stretto con la corte romana, dello stemperarsi del senso delle antiche virt civiche e del mito del repubblicanesimo, dell’orbitare attorno ad una diversa “patria” rispetto a quella nativa. 108
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
Ma c’era anche un problema di autorita e di sovranita verso l’interno, e questo soprattutto a proposito del conferimento dei benefici minori che suscitava “in seno alla classe dirigente veneziana — come ha scritto Gaetano Cozzi — un malessere piu sottile, pit insistente, pit insidioso, perché concerneva un numero ben pit rilevante di persone, ed era strumento pil! ampio di disaffezione nei confronti dello Stato, dei suoi ideali, dei doveri e dei compiti che esso imponeva, non-
ché di corruttela capillare”2°*. E proprio in quest’ultimo settore, di diffuse, indomite e pericolose microconflittualita, che, significativamente, aveva modo di farsi valere la particolare funzione di controllo della legalita rappresentata dall’Avogaria. Nel 1430 gli avogadori ottenevano in Minor Consiglio l’annullamento di una ducale con cui si ordinava all’arcipresbitero di Marostica di rendere esecutive alcune bolle papali, ottenute dalla comunita in una causa che la vedeva opposta ai frati minori sui diritti della cappella di Sant’Antonio?°’. In questo caso, secondo gli avogadori, i consiglieri non avevano tenuto in considerazione una legge emanata dal Senato nel 1407, con cui si proibiva a chiunque di scrivere “in favorem vel in contrarium alicuius de facto alicuius benefitii, salvo quod superioribus illorum qui forent in benefitiis”. L’intervento avogaresco, chiarendo le modalita di applicazione della parte del Pregadi, creava cosi 1 presupposti per la risoluzione del conflitto — che stava anche provocando un fastidioso contrasto tra potere civile e potere ecclesiastico, in quanto della causa era stata investita anche la curia vicentina —, e annullava nel contempo i rischi di ripercussioni che simili controversie potevano apportare sotto il profilo dell’ordine pubblico. La medesima necessita di controllo sulle tensioni che potevano essere alimentate dalla rivendicazione dei contrastanti diritti di comunita e di ecclesiastici investiti di un beneficio, emerge anche da un/‘altra intromissione del 143028. La ducale ricevuta dal capitano di Vicenza, con cui gli si imponeva di sequestrare tutti 1 redditi e proventi spettanti al beneficio di San Secondo e Santa Giustina di Zansano, doveva ritenersi di nessun valore, in quanto proceduta “propter malam informationem” data ai consiglieri da alcuni “homines” della comunita, “qui occupant indebite bona et possessiones dicti benefitii”. Nel 1452 l’avogadore Andrea Dona difendeva i diritti della comunita di Parenzo d’Istria, in causa con l’abbazia camaldolese di San Mi109
GOVERNANTI E GOVERNATI
chele di Lemo, a proposito della giurisdizione su alcuni mulini: anche in questo caso la ducale era stata inviata “ex mala informatione”, in quanto i procuratori dell’ente ecclesiastico, rivolgendosi ai consiglieri, avevano taciuto di un precedente compromesso formalizzato
dalle due parti alla presenza di arbitri e del podesta veneziano?°°. Modalita di intervento e tipologia delle conflittualita che sembrano permanere immutate fino agli ultimi anni del secolo. Nel 1481 Francesco
Priuli si pronunciava sull’immediata cassazione di una ducale inviata al podesta di Monselice perché “subrepticie et ex falsa narratione et suggestione dicti Francisci, et suppressione veritate, male et indebite scripta et contra id quod dicti Consiliarii de ture facere poterant et debebant”2?°.
Un/’azione di difesa della legalita e di tutela della normativa statale che si poteva intrecciare a consuetudini locali, a interessi particolari sedimentati da lungo tempo, ad esigenze elementari connaturate alla sfera della devozione, determinate da una stretta connessione tra sacro e profano, tra sentimento religioso e processo di identificazione della propria identita terrena?!!. Nel corso del 1488 l’avogadore Francesco Foscarini accoglieva la supplica interposta dal comune di Brenno in Valcamonica, che rivendicava i propri diritti di giuspatronato sulla chiesa di San Maurizio — in conformita ad una pratica che sembra ancora largamente diffusa nell’Italia quattrocentesca2!2 — di cui era stato invece investito Pietro Martinengo2!3. Nel 1480 Francesco Priuli aveva difeso le ragioni dei rappresentanti della comunita di Piove di Sacco nella causa che la vedeva opposta ai canonici non residenti nella chiesa di San Martino?!*, Secondo l’avogadore le ducali, invia-
te nel corso di quello stesso anno al podesta veneziano di Piove, si dovevano giudicare illegittime, in quanto i consiglieri non potevano derogare a quanto stabilito da precedenti prescrizioni che obbligavano arcidiacono e canonici “aut residentiam facere aut subrogare substitutum”. Aspri conflitti, quindi, attorno alle prebende ecclesiastiche, in cui una delle parti, attraverso deformazioni o notizie tendenziose, poteva ottenere ampia soddisfazione dal Dominium2)5, Negli ultimi due decenni del secolo alcuni appelli provenienti sia dalla capitale che dal Dominio trovavano il loro motivo ispiratore nella mancata o nella distorta applicazione della normativa di legge e della correttezza delle procedure proprio da parte di coloro che IIO
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
avrebbero dovuto tutelarle in sommo grado. Anche questo puo essere interpretato come un sintomo di quella crisi funzionale che coinvolge la nostra magistratura a partire dagli anni 60-70 del Quattrocento, di quella perdita di centralita nel sistema di mediazione tra Venezia e la Terraferma, e all’interno della struttura costituzionale veneziana, di cui, nel corso di quest’indagine, si sono gia colti alcuni significativi momenti. Dietro numerose petizioni provenienti dai sudditi
si puo ancora avvertire come in questi fosse sostanzialmente mutato, rispetto agli anni centrali del secolo, il modo di percepire l’autorita sovrana, e come la conoscenza acquisita dei meccanismi istituzionali che collegavano centro e periferia consentisse ai governati di orientare decisioni e sentenze. Indicativa di quest’ordine di problemi é l’intromissione perfezionata nel corso del 1494 da Benedetto Trevisan2'*. I rappresentanti della Riviera di Salo avevano chiesto l’annullamento di una “additio” apposta a una lettera avogaresca inviata al rappresentante veneziano a Salo e al podesta di Brescia nel lontano 1467, con cui si era negata alla comunita di Venzago la separazione dalla giurisdizione di appartenenza. L’avogadore riteneva che le precisazioni con cui i suoi predecessori avevano completato la suddetta lettera avogaresca — che recitavano “attento quod partes ambe intervenerunt cum earum advocati et disputarunt causam”, soffermandosi soprattutto alla corretta
interpretazione che si doveva dare ad una parte del Pregadi del 27 settembre 1466 — non potevano non essere considerate se non come un “malum et pessimum et periculosum exemplum”. Nessun avogadore aveva infatti facolta di specificare ai rappresentanti inviati in Ter-
raferma i termini del dibattito che si era svolto nelle aule giudiziarie veneziane, o le modalita del contendere, ma soltanto notificare loro, rispettando cosi le rigide formalita stabilite per la stesura delle lettere avogaresche, che da allora in avanti essi si sarebbero dovuti strettamente attenere alla lettera della deliberazione del Senato. Una ulteriore limitazione dei poteri discrezionali ed interpretativi della legalita di leggi e provvedimenti attribuiti all’Avogaria risuona in un’altra discussione promossa, dallo stesso avogadore, ancora nel 1494217, La questione riguardava eminenti famiglie appartenenti al patriziato della Dominante, ed é probabilmente per il peso dei concreti interessi in gioco, oltre che per la rilevanza costituzionale della
III
GOVERNANTI E GOVERNATI
vicenda, che la discussione si svolse in Pregadi, analogamente ad altri interventi, su cui avremo modo di soffermarci tra breve, risalenti a questi ultimi anni del ’400. Quello di cui si eccepiva la legittimita era un mandato dell’avogadore Antonio Boldu ai giudici del Procurator, a proposito della causa riguardante una commissaria che coinvolgeva parte delle famiglie Ruzini, Dandolo e Bernardo, ed i Procuratori de Ultra. IJ Boldu, nella sua intromissione approvata dalla Quarantia, era riuscito ad apporre una clausola per cui i suddetti giudici non dovevano “procedere ad ulteriora nec aliquid innovare”, rinunciando ad un mandato di comparizione emanato nei confronti di alcuni “testes”. Nell’accogliere l’appello che gli era stato impetrato, il Trevisan si pronunciava apertamente contro il diritto del suo collega di “reformare judicium, inhibendo et precipiendi dictis judicibus quando et quomodo in eo casu procedere debeant”: egli infatti si sarebbe dovuto limitare ad inviare ai magistrati del Procurator un “exemplum dicte partis, et illis precipere quod illa observare deberent sine aliqua alia interpretatione nec sensu”, che a quella si potessero attribuire2?8. Dunque, avogadori che impugnano le determinazioni di altri avogadori: segno evidente di un travaglio profondo. Com’era possibile per individui che rimanevano in carica per un periodo circoscritto — anche se coadiuvati da un gruppo di notai e cancellieri — controllare la legittimita di tante leggi, sentenze, pronunce emanate in misura sem-
pre maggiore dai piu diversi consigli e tribunali della capitale, o dai patrizi inviati a reggere le pit disparate realta del Dominio, fossero essi podesta e capitani dei centri urbani di maggior rilievo, o castellani nelle remote e assai poco remunerative zone di confine? Come era possibile individuare il nocciolo di verita presente negli appelli, distinguendolo da una eventuale volonta di ingarbugliare le carte da parte dei vari contendenti? Non doveva essere semplice, infine, dirimere controversie che non rientravano in alcuno schema consuetudinario O normativo, oppure che, al contrario, potevano cadere sotto il dominio di una legislazione contraddittoria al suo interno. Alcune questioni sollevate negli anni Novanta ci restituiscono con grande evidenza il senso di queste difficolta e di questo travaglio. I] 3 settembre 1492 il doctor et eques Domenico Bollani proponeva ai membri del Minor Consiglio l’annullamento di un mandato di cui si era reso autore il suo collega Antonio Boldt2!*. Questi, a proposito di una non TI2
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
meglio specificata controversia che aveva coinvolto alcuni membri della
famiglia Marin, aveva acconsentito che potesse intervenirvi lillustre giurista Giovanni Campeggio. “Contra leges nostras”, a detta del Bollani, le quali ordinavano che non si consentisse ad alcun “advocatum forensem non notatum in cancellaria nostra” di intromettersi in procedimenti giudiziari che si svolgevano a Venezia. Tale opinione non convinse del tutto 1 componenti del consiglio: solo quattro su sette si dissero favorevoli. Quell’intervento suscitO ancora maggiori perplessita ad Antonio Boldu, che, il giorno successivo, sottopose al giudizio di legittimita della Quarantia i “precepta” del suo collega: erano questi che andavano contro gli ordini della citta e, specificatamente,
della legge emanata dal Pregadi I’8 agosto 1489, la quale, in deroga alla parte citata dal Boldu, stabiliva un’eccezione per i “doctores legentes” nello Studio patavino, tra i quali il Campeggio??°. Gia nel corso dell’anno precedente un aspro conflitto tra due membri dell’Avogaria aveva agitato le aule dei tribunali veneziani. Il 5 agosto
1491 Nicolo Michiel aveva eccepito, di fronte ai componenti delle due Quarantie riunite, sulla liceita di una intromissione di Domenico Bollani, con la quale si era deciso che nell’appello successivo ad una assoluzione “lata in arengo” dal podesta di Brescia, si leggessero le “scripture formate in causa principali”22!. L’intromissione, a detta del Michiel, era stata “male et indebite facta”, in quanto, in forza della facolta trasmessa agli Avogadori “per formam legum et ordinum” della
citta, non rientrava nella giurisdizione della magistratura occuparsi di quella particolare categoria di sentenze. In ogni caso, nel corso delle sedute delle Quarantie, non si sarebbero dovute leggere le “scripture
cause principalis, de qua non agitur aut tractatur”, ma ci si sarebbe dovuti attenere alla lettera delle disposizioni legislative veneziane e degli statuti bresciani. Pur approvata, tale pars era stata immediatamente rimessa in discussione dall’avogadore Andrea Cappello, in quan-
to “disordinate processa et posita, quia non fuit datum juramentum consilio” 222. Nicolo Michiel, al termine di questo articolato gioco delle parti, era tornato sulla prima intromissione di Domenico Bollani: la “terminatio et cancellatio” di cui quest’ultimo si era reso autore doveva ritenersi indebita, perché contraria a cio che l’'avogadore poteva fare “ex suo mero et simplici officio”, contro “morem, observantiam, et stillum officii Advocarie”, nonché in contraddi113
GOVERNANTI E GOVERNATI
zione con una legge del Consiglio dei Dieci e gli statuti di Brescia 2??.
Non erano certo mancati, nello stesso torno di anni, solenni pronunciamenti difensivi delle originarie prerogative della magistratura, ma anche questi sembrano rivestirsi di una patina particolare, risentire del clima di incertezza e di precarieta che pervade la politica del diritto della Serenissima negli ultimi decenni del secolo. Nel corso del 1476 Jacopo Zorzi e Andrea Diedo si erano tenacemente opposti ad un intervento d’autorita dell”“illustrissimum Dominium”, con cui si era ordinato al podesta di Padova di non tenere in alcuna considera-
zione le lettere avogaresche inviate ai rettori dello Studio patavino sulle procedure di elezione del presidente dell’Universita dei giuristi 22+.
Nel 1491 Leonardo Grimani riusciva a far approvare dai membri della Quarantia — con la stretta maggioranza di soli tre voti — la sua intromissione ad alcune terminationes emanate dal consigliere du-
cale Nicolo Trevisan e dai capi delle Quarantie, per cui, allo scopo di meglio valutare i contenuti di certi “capitula” presentati dai “presidentes parochianorum” di San Bartolomio — con cui si rivendicavano i diritti della comunita alla nomina del proprio reggente spirituale —, si ordinava fossero esaminati taluni “testes” 225. Un intervento inac-
cettabile, a detta del Grimani: gli autori del mandato non detenevano “aliquam libertatem aut auctoritatem” nei confronti dell’Avoga-
ria, presso cui si stava gia da tempo dibattendo della questione. Gli avogadori “non habent superiores nisi collegas suos”, ed il solo modo per bloccare un procedimento in corso presso il loro ufficio,
era quello di sottoporre la proposta al giudizio dei Consilia della capitale. La preoccupazione avvertita da alcuni avogadori per il crescente depotenziamento delle facolta della magistratura, e per le conseguenze che potevano derivarne sotto il profilo costituzionale, emerge dalla tendenza a introdurre alla attenzione del Senato questioni e dal diffe-
rente rilievo politico ed istituzionale e dai pid disparati contenuti. E ipotizzabile che in tal modo si cercasse di eludere o frenare quella sorta di biforcazione costituzionale che portava, da una parte, come abbiamo gia avuto modo di sottolineare, ad un legame, sempre pit stretto e frustrante per chi interpretasse il ruolo che gli era stato asse-
gnato con coraggio ed intraprendenza, tra Avogadori e Quarantie; dall’altra, come si vedra nel prossimo capitolo, ad un irrobustimento 114
___VAVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
dei margini di intervento del Consiglio dei Dieci sul terreno giurisdizionale occupato dalle pid tradizionali magistrature. Era cosi possibile evitare o ammortizzare quella che agli occhi di piu componenti del patriziato veneziano doveva apparire come una pericolosa virata oligarchica, senza ricadere nella confusione, nel disordine o nella disattenzione con cui molti dibattimenti venivano probabilmente accolti dai giudici delle Quarantie. Si riteneva che il Pregadi raccogliesse i migliori, i pit esperti e i pit saggi tra i membri della classe dirigente veneziana, e solo all’interno di esso si poteva conservare la tanto minacciata centralita della magistratura, e tutelare i tradizionali equilibri sui quali si reggeva il complesso sistema istituzionale veneziano. In questa sede, tuttavia, non sempre i solerti interventi degli avogadori incontravano una felice accoglienza. Nel 1481 Tommaso Trevisan cerchera, senza fortuna, di far annullare l’ordine che gli era stato rivolto dai consiglieri ducali di sottoporre alla proba dell’eta il giovane patrizio Benedetto Gisi di Marco?2¢. Questi, una volta eletto, il 23 ottobre 1480, alla carica di provveditore a Soave, si era presentato all’ Avogaria dichiarando di aver compiuto i venticinque anni, come era stato anche confermato dal padre. II Priuli si era rifiutato di ricevere la prova in quanto le leggi della Repubblica decretavano chiaramente che chiunque risultava eletto ad un ufficio avrebbe gia dovuto essere stato sottoposto a quell’esame. I senatori, tuttavia, ritennero non troppo preoccupante la lesione di quella consueta procedura, bocciando a larga maggioranza l’intromissione: ben 75 di essi si dichiararono contrari, contro 24 incerti e solo 25 favorevoli. Analoga sorte era toccata l’anno precedente ad un altro tentativo, operato dello stesso Priuli, di convincere il prestigioso consesso della illiceita di un ordine dei savi del Consiglio per cui si era consentita l’elezione di Polo Dolfin alla carica di savio agli Ordini, in difformita alle procedure stabilite da una parte del Senato del 1437727. A testimonianza che ‘| Senato non era intenzionato a seguire gli Avogadori e ad incorag-
giare i loro tentativi di rimettere in discussione nomine a cariche prestigiose con motivazioni avvertite piu come cavillose, che ispirate ad un sentimento pieno di tutela legalitaria, potrebbe essere citata la severitd con cui venne giudicata la proposta di Alvise Lando di far
decadere Zaccaria Barbaro dalla carica di savio del Consiglio***. A detta dell’avogadore, nell’elezione di poco precedente, si era 115
GOVERNANTI E GOVERNATI
trascurata una norma del Pregadi, risalente al 1464, con cui si stabiliva che tutti i Savi appena nominati, sia che si trovassero in cit-
ta, sia che, per qualsiasi motivo di ordine pubblico o privato, non vi fossero, dovessero “acceptare” entro otto giorni, pena la perdita dell’incarico.
Maggior interesse, rispetto a questi ultimi analizzati, rivestono alcuni interventi degli avogadori — realizzati in consiglio dei Pregadi — tesi ad affermare la superiorita di taluni diritti eminenti della Dominante, percepiti come inalienabili e non sottoponibili ad alcuna pattuizione, sopra diritti particolari, appartenenti ad individui, gruppi o ceti. Gia nel 1417 gli avogadori erano stati chiamati in causa per dirimere una controversia vertente tra il monastero di Santa Giustina di Padova ed alcuni “conductores” di fitti, livelli e valli da pesca site in localita non meglio specificate22°. La preoccupazione dei magistrati veneziani sembrava, in quest’occasione, tutta concentrata ad impedire che venissero indebitamente diminuiti gli “iura Ducatus Veneciarum, taciturnitate temporum”. I procuratori, intervenuti a nome delle monache presso |’Avogaria, avevano infatti esibito un certo cataStico in cui si dimostrava la non liceita delle “pensiones annuas” che gli affittuali versavano alla Serenissima Signoria, in cambio del godimento dei diritti d’uso. Quel documento, a giudizio degli avogadori che ebbero il modo di esaminarlo, doveva ritenersi assolutamente illegittimo, in quanto in contraddizione con diritti e giurisdizioni che la Repubblica deteneva “a tempore quo non extat memoria in contrarium”. Se questo caso € situabile, cronologicamente parlando, in quel periodo di ancora tenue percezione di certe funzioni sovrane, di lento € contrastato passaggio dal concetto di commune Veneciarum a Dominium, non altrettanto si pud dire di un’altra vicenda sottoposta al giudizio dei senatori nel 1455, in un momento cioé di cruciale trasformazione dell’assetto istituzionale della Repubblica23°. Grandissimo clamore aveva sollevato, dunque, il procedimento di intromissione nei confronti della concessione senatoria, risalente al 1437, con cul si investiva Trussardo Calepio del feudo nobile e gentile della Val Calepio?3!. Il giusdicente era riuscito cosi ad accorpare sotto il suo controllo vari diritti e giurisdizioni sparse sul territorio, appartenenti a vari ribelli alla Serenissima. Il giudizio di illegittimita avanzato da116
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
gli avogadori era stato sollecitato, con ogni probabilita, sia da quegli stessi domini loci puniti da Venezia, a causa del loro tradimento, con la spoliazione dei beni, sia da numerosi procuratori delle comunita che chiedevano piena autonomia nei confronti dei prepotenti signori, denunciando le gravissime interruzioni dell’autorita della Repubblica di cui i giusdicenti si erano resi protagonisti, e le palesi falsificazioni della realta, grazie alle quali quegli stessi erano riusciti ad ottenere felici condizioni per l’esercizio del proprio dominio???. Trussardo, infatti, oltre ad aver nascosto al Principe la vera entita della realta giurisdizionale a lui sottoposta, si era reso colpevole, per quanto risultava agli avogadori, dell’indebita appropriazione di ville e castelli sui quali non poteva vantare diritti ad alcun titolo. L’investitura del vicariato della valle, con tutte le utilita connesse, andava pertanto revocata. Quel luogo di tanta importanza per il “nostrum Statum” andava quindi posto sotto il controllo dei rettori di Bergamo, che avrebbero provveduto a riaffittarlo. I senatori preferirono, tuttavia, anteporre alle ragioni di fatto e di diritto rivendicate dagli avogadori la considerazione tutta politica della sicurezza dello Stato in una congiuntura tanto pericolosa, esprimendo chiaramente la volonta di non urtare la suscettibilita di un alleato fedele: ben cinquanta degli intervenienti votarono contrariamente a quanto proposto dagli avogado-
ri, rispetto ai ventotto favorevoli e ai sedici astenuti. Ugualmente sollecitato a definire il difficile rapporto tra autorita statale e sfera di autonomia concessa a quelle che i documenti archivistici sovente definiscono come speciales persone, risulta il tentativo di intromissione operato da Bernardo Bembo nel 1501233. L’avogadore eccepiva sulla legittimita di un capitulum compreso in una legge del Senato, con cui si stabiliva di sottoporre ad un regime fiscale omogeneo tutta una serie di realta giurisdizionali ed economiche che, nelle maglie lasciate aperte dall’incertezza legislativa, avevano goduto di larghi margini per eludere e disattendere le richieste finanziarie provenienti dal centro23*. A interporre appello erano stati in questa occasione due patrizi veneziani, Angelo Trevisan e Francesco Marcello, i quali, il 27 giugno 1483, avevano ottenuto, in cambio di 10.000 ducati, il possesso della Gastaldia di San Dona, ponendo cosi le fon-
damenta per una sorta di signoria rurale dalle prerogative giurisdizionali assai limitate, ma dotata di una serie consistente di diritti 117
GOVERNANTI E GOVERNATI
pubblici, soprattutto nel settore economico235. I due erano riusciti a convincere della validita della loro posizione lavogadore. Questi aveva dichiarato che il capitolo era stato “male et indebite” posto, “contra dignitatem nostri Domini”, e contraddittorio con la promissione fatta ai nuovi signori che stabiliva l’assoluta esenzione per quello
che riguardava decime e novali. Nettissima anche in questo caso la bocciatura della proposta: sessantasette senatori si opposero ad essa, solo tredici i favorevoli e ventuno coloro i quali preferirono non dichiararsi?%°,
Alla conclusione di questo esame delle intromissioni avogaresche che ci sono sembrate maggiormente significative, lungo un arco di circa settant’anni, ¢ opportuno tornare agli interrogativi di partenza. E possibile cioé riconoscere la formazione e la permanenza di uno “stile” dell’Avogaria? E, sotto il profilo dei rapporti con il Dominio, Pattivita di questa magistratura favorisce o inibisce, creando un ulteriore diaframma, il processo di integrazione tra Venezia e le realta soggette? Mi sembra sia pit’ semplice rispondere alla prima di queste domande. E credo si possa farlo in senso affermativo: al di 1a delle modificazioni e degli spostamenti del raggio di intervento, per via di legge o a causa di nuove realta che emergevano e di cui abbiamo cercato di sottolineare i momenti piu significativi, e a prescindere da una certa difficolta interpretativa, generata dai problemi di fonti su cui ci siamo soffermati, si puo affermare che é possibile riscontrare negli interventi avogareschi una sorta di filo rosso, una modalita di intervento che mantiene una sua continuita. Si € potuto notare come in numerose occasioni nelle parole degli avogadori si riverberasse in modo originale e partecipato quell’idea per cui la magistratura era stata creata: la necessita di tutelare il principio della legalita, di addolcire il rigore delle leggi e delle pene con la clemenza e l’equita, di rappresentare il momento della mediazione e della pacificazione, sia all’interno del corpo sovrano, che nei confronti dei governati. E molto probabile che l’eccessivo zelo con cui alcuni patrizi eletti all’Avogaria interpretavano il proprio ruolo creasse non pochi problemi. Questo soprattutto in quella particolare congiuntura che va dalla pace di Lodi agli anni delle guerre d'Italia, in cui, anche nella citta di San Marco, emergeva in tutta la sua drammaiti118
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
cita il problema dell’immagine e della funzione dell’autorita. Quellappoggiare continuamente le richieste dei sudditi contro mandati o sentenze degli organismi di governo, quell’ostacolare la giurisdizione dei Rettori, poteva indubbiamente favorire, sul lungo periodo, la formazione, presso le popolazioni soggette, di un sentimento di obbedienza nei confronti del potere, ma di certo non contribuiva a risolvere alcuni dei problemi che nel corso del secolo diventeranno sempre pit scottanti: il peso dei privilegi e delle autonomie, il contrasto sempre piu serrato tra citta e territori. Si imponeva la necessita di un intervento pil! coordinato, meno oscillante: questo era richiesto, pur nella diversita delle situazioni, dai vari settori della societa del Domi-
nio, di questo era cosciente la parte pili avvertita del patriziato veneziano2?”, Tuttavia, mai, neppure nei momenti in cui la funzione rappresentata dall’Avogaria venne giudicata politicamente inopportuna, e si decise di porre limiti alla sua giurisdizione, si ritenne utile
soffocare del tutto ideale che essa rappresentava. Difficile rispondere all’interrogativo attorno al grado di ricezione dell’immagine dell’Avogaria e, pit in generale, della funzione delle istituzioni statali, da parte dei sudditi. Cosa significa, ad esempio, che il numero degli appelli provenienti dalla Terraferma non sembra incrementare nel corso del secolo, come invece sarebbe naturale immaginare? E ipotizzabile che, dopo un periodo di iniziale sviluppo, diminuisca la fiducia dei governati nella reale efficacia del sistema degli appelli impiantato da Venezia? Infine, si puo supporre che in vari settori della societa veneta emerga una domanda di giustizia e di intervento, sostanzialmente diversa da quella che l’Avogaria po-
teva offrire?
La certezza della legge, nel suo significato pil intimo — che coinvolge maggiormente la sfera della sensibilita che quella del diritto —, era un bisogno profondamente avwvertito dai pit diversi strati sociali. Nelle intromissioni che abbiamo analizzato emerge anche questa corale richiesta di tutela-protezione dei propri diritti, sia che provenga dagli ambasciatori delle citta maggiori, orgogliose dei loro antichi privilegi, sia che venga avanzata dai rappresentanti di quei borghi 0 castelli, di quelle piccole comunita rurali, degli organismi valligiani, che alla volonta espansionistica di quelle citta opponevano le proprie consuetudines, i privilegi e le grazie concesse dalla Serenissima. Questa 119
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struttura socio-istituzionale frastagliata e polimorfa si riverbera e lascia la sua impronta sugli organismi di governo, sullo Stato, influenza le sentenze delle magistrature, contribuisce alla formazione di una normativa e di un linguaggio politico comune. Ma c’é da chiedersi se la particolare ricettivita ed elasticita caratterizzanti l’operato delPAvogaria di Comun, e le modalita del suo intervento tendente a le-
gittimare quella pluralita di diritti, costituissero ’unica forma di mediazione-intervento che i governanti di uno Stato quattrocentesco potevano garantire e che i sudditi richiedevano, oppure se ne sussistessero altre, piu dirette o incisive. Prima di completare il quadro sulle magistrature d’appello veneziane, intraprendendo !’esame dell’attivita degli Auditori novi, é opportuno soffermare l’attenzione su alcuni dati riguardanti le figure e le carriere degli Avogadori. Abbiamo considerato un campione di 95 patrizi veneziani eletti alla carica negli anni che vanno dal 1440 al 1490738. Il primo dato di un certo interesse é quello costituito dalPeta in cui i magistrati entrano in carica. Le medie sono sempre riduttive della complessita della realta, e soprattutto di una realta cosi sfumata e non facilmente decifrabile come quella che stiamo sottoponendo ad analisi, ma possono servire ad indicare delle linee di tendenza che altrimenti sfuggirebbero: 185% degli avogadori considerati venne eletto alla prestigiosa magistratura in un’eta compresa tra i 5O ed i 60 anni. Poche le eccezioni: Andrea Bembo di Domenico fu nominato avogadore per la prima volta nel 1441 — segui una seconda elezione nel 1446 — quando aveva solo trentasei anni; Daniele Priuli di Nicolo non ne aveva pit di trentanove quando fece il suo ingresso nella magistratura, appena terminato il suo incarico di capitano di Bergamo. Se per uomini di quest’eta |’elezione alla prestigioSa Magistratura poteva trasformarsi in un palcoscenico d’eccezione da cui spiccare il lancio per un cursus honorum di tutto rispetto, dalPaltro capo della piramide demografica del patriziato veneziano |’essere nominato Avogadore poteva offrire la suggestiva conclusione di una esistenza spesa al servizio delle Repubblica. Si pensi al caso di Alvise Lando di Marino, che avendo gia occupato due volte la carica di savio del Collegio ed essere entrato in tre occasioni in Consiglio
dei Dieci, sara eletto avogadore nel 1479, alla non pit tenerissima eta di sessantanove anni, cui faranno seguito altre due nomine nel 120
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
1481 e nel 1483, 0 a quello di Marino Malipiero di Troiano, avogadore a sessantacinque anni nel 1467. Lo stesso anno egli aveva, tuttavia, preferito abbandonare la carica, perché chiamato a reggere come podesta la citta di Verona. Successivamente, prima di morire nel 1478, riusciva ancora a mettersi in mostra come Provwveditore all’Armata nella guerra contro il Turco, per poi sedere in altre due occasioni (1473
e 1475) in Consiglio dei Dieci: un’esperienza, quest’ultima, per lui non nuova in quanto aveva gia fatto parte del supremo tribunale in almeno cinque occasioni nel decennio precedente la sua elezione ad avogadore. Nella quasi totalita dei patrizi nominati alla carica nell’eta compresa tra i cinquanta ed i sessant’anni, si nota, per tutto il periodo considerato, una sostanziale uniformita sia nelle modalita di accessione alla carica, che nelle possibilita di ulteriori avanzamenti verso le ambitissime nomine a Savio grande o a Procuratore. Un problema centrale questo del rapporto tra eta dei patrizi veneziani che occupavano qualche ruolo pubblico e trasformazioni della struttura costituzionale, sul quale si avra occasione di ritornare??’. Quella citata era la fascia d’eta entro cui si pensava che un membro della classe dirigente della Serenissima avesse maturato quell’esperienza politica ed umana che gli avrebbe potuto consentire di reggere i compiti gravosi e complessi, cui era chiamato in ragione dalla posizione privilegiata che occupava nella gerarchia sociale. Se consideriamo infatti non solo le elezioni all’Avogaria di Comun, ma anche quelle al Consiglio dei Dieci, a Savio di Terraferma'e del Consiglio, a Consigliere ducale, alle podesterie dei centri maggiori del Dominio, si puo notare come fosse proprio entro quell’arco vitale di una decina d’anni che si esaurisse la parte piu intensa della vicenda politica di un patrizio della Serenissima, e come debba pertanto essere corretta, almeno per il periodo qui evocato, l’affermazione di Finlay di una struttura di governo della Venezia del Rinascimento fondata sulla “gerontocrazia”*°.
Si potrebbero citare anche a questo proposito alcuni casi esemplari: Vitale Lando di Marino, nato nel 1421, sara due volte avogadore, a quarantasei e cinquant’anni; occupera due reggimenti tra 1 piu gravosi, Udine e Verona, a quarantotto e a cinquantatré anni (ma gia a quaranta, nel 1461 aveva ricoperto l’incarico di podesta e capitano di Ravenna); nominato savio di Terraferma (tre volte), consigliere 121
GOVERNANTI E GOVERNATI
Ducale (2), savio del Consiglio (3) ed una volta anche al Consiglio dei Dieci, vedra troncata la sua brillante carriera da un poco piacevole episodio: fu infatti condannato dal “tribunale supremo” per aver svelato segreti di Stato2*!. Analogo a questo, anche se non funestato da un incidente finale, il cammino politico percorso da Francesco Venier di Dolfin, avogadore a quarantanove e cinquantatré anni. Nei quattro anni che separano le due elezioni, aveva avuto modo di conoscere i problemi della Terraferma veneta come rettore di Padova e di Udine e di essere chiamato a far parte dei Dieci. Nel 1475, a soli cinquantasette anni, fu nominato alla carica di procuratore de ultra, che occupo fino alla sua morte avvenuta nel 1485. E la storia di Benedetto Trevisan di Francesco sembra quasi suggerire l’ipotesi che, pur nella estrema informalita del sistema politico-istituzionale veneziano — che non comprendeva alcuna norma su blocchi o impedimenti per chi non avesse occupato certe cariche per accedere ad altre, neppure una sorta di rudimentale cursus honorum —., vi fossero, tuttavia, dei percorsi obbligati, che dovevano attraversare tutti coloro che avrebbero rappresentato la Repubblica nei consessi e negli offici di maggior importanza. Benedetto Trevisan, dunque, nei tredici anni che dividono la prima nomina in Avogaria nel 1480, quando aveva cinquantadue anni, dalla terza nel 1493, era stato due volte in Consiglio dei Dieci, in un’oc-
casione savio del Consiglio, ma anche podesta di Padova, nel 1481, e luogotenente della Patria del Friuli nel 1491 242. Gia da questi dati si pud vedere come non era improbabile che, in un breve arco di tempo, un avogadore potesse essere nominato rettore, O viceversa. Senza riprodurre una lunga teoria di nomi, puo risultare indicativo il dato per cui il 45% dei patrizi eletti alla prestigiosa magistratura d’appello occupo anche una carica importante nel Dominio. Mi sembra sia una percentuale assai significativa: in numerose intromissioni nei confronti di atti e sentenze di rettori o sindaci é probabile, quindi, che si riflettesse un elemento di conoscenza personale e diretta di fonti giuridiche e problemi concreti243. E questo un dato indicativo come quello che ben sette avogadori su dieci (66%), per il periodo considerato, vennero nominati consiglieri ducali o savi del Consiglio, diciannove ottennero la nomina a procuratore di San Marco e ben otto di loro salirono al Dogado: Cristoforo 122
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
Moro, Nicolo Marcello, Pietro e Giovanni Mocenigo, Marco e Ago-
stino Barbarigo, Andrea Vendramin, Nicolo Tron. L’altro elemento che vale la pena di sottolineare, e che consente di avanzare alcune ipotesi sul reale grado di coinvolgimento del patriziato veneziano verso i problemi dello Stato da Terra, é costituito dal numero di Avogadori che raggiunsero il dottorato in diritto2‘*‘. Solo 13 dei patrizi eletti avevano ottenuto il prestigioso riconoscimento presso lo Studio patavino. Ora, se consideriamo che furono quarantotto i membri della classe dirigente veneziana che meritarono, nello stesso periodo, il titolo di doctor in utroque, e ricordando come le “leze” imponessero agli Avogadori di giudicare in appello se-
condo la normativa statutaria locale nutrita di diritto romanoimperiale, si puO notare come non si pensasse di attingere a questa riserva per evitare i consueti disordini di cui si rendevano cosi spesso colpevoli i componenti della magistratura. Anche da questa particolare angolatura si presenta quello che é forse il maggior problema interpretativo della politica del diritto della Serenissima: la mancata integrazione tra diritto veneto e diritto della Terraferma. Dalle sentenze dell’ Avogaria che abbiamo esaminato tale problema emerge in tutta la sua complessita. Non che tra i due sistemi giuridici non si stabilissero collegamenti, lasciti ed imprestiti — basti pensare a quanto det-
to sul tema del compromesso more veneto, o alle richieste da parte dei sudditi di una giustizia esercitata secondo equita, o alla stessa ricezione nelle leggi veneziane di certi motivi tipici del diritto locale —,
ma per tutto il periodo di cui ci stiamo occupando, non venne mai avanzata una proposta che potesse configurare la formazione di un sistema pil coeso e compatto, attraverso una chiara e univoca gerarchia delle fonti di diritto, per cui il Dominio potesse apparire sempre meno come una pluralita di soggetti politici differenti. Il conservatorismo tipico del patriziato veneziano preferiva differire le soluzioni chirurgiche o probabilmente traumatiche, e delegare all’attivita amministrativa quotidiana la risoluzione dei conflitti che via via si presentavano. E questo atteggiamento si ripercuoteva ovviamente a livello della stessa composizione interna delle magistrature, dei modelli
di formazione del personale politico.
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GOVERNANTI E GOVERNATI
NOTE 1 Domenico Morosini, De bene instituta republica, p. 101. 2 Cfr. Cozzi, Politica, societa, istituzioni, pp. 100-102. 3 Polo Morosini, nel suo De rebus ac forma reipublicae venetae, pp. 321-352, scritto a meta Quattrocento, cosi definisce il ruolo degli Avogadori: “Est preterea supremum et auctoritate perspicuum trium advocatorum tribunal quo nil civitate sanctius, cum communes omnium opressorum omnium advocati dicun-
tur; nil scelestis legumque transgressoribus magis formidabile providentur” (p. 256). 4 Sanudo, De origine, pp. 97-98. 5 Sul rapporto e la conflittualita tra le due istituzioni, cfr. infra, pp. 147 e sgg.
6 Cfr. infra, cap. Ill. 7 Da Mosto, L’archivio, p. 68. § Cozzi, Autorita e giustizia, pp. 100-101. Ancora Sanudo ci riferisce di un’al-
tra prerogativa avogaresca dall’aspetto fortemente simbolico: “E obligato uno Avogador per settimana, ogni prima Domenicha di Quaresima a Gran Conseio andar in renga e stridar tutti quelli — o zentilhomeni, o altri, mentre i viveno — che hanno robbato li danari di San Marco, et quello i robbono et sono stati condannati”. Infine un altro aspetto che vale la pena di sottolineare: “non hanno alcun salario fermo, acciocché, volendo vadagnar, si affatichi a trovar li mensfatti”, De origine, p. 98. ? Gasparo Contarini, Della repubblica, pp. 91-92, ribadiva, in fase di piena creazione del mito di Venezia, che il “principale officio” degli Avogadori consisteva nella “guardia delle leggi, cioé che in parte veruna non si offenda le leggi”. 10 Cozzi, Ambiente veneziano e ambiente veneto. 11 Td., Autorita, p. 100. 12 Friedman, Il sistema giuridico. 13 Per Papplicazione in concreto di una metodologia storico-giuridica fortemente attenta alla dimensione empirica del concreto funzionamento delle istituzioni e del loro intreccio con la storia della societa, cfr. le esemplari ricerche di Strauss, Law, Resistance and the State e lo studio di Kagan, Lawsuit and Litigants concentrato ad analizzare il fenomeno della “litigiosita”, secondo categorie sociologiche ed antropologiche. 14 Sull’intromissione cfr. Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto, p. 242; Grecchi, Le formalita del processo criminale, I, pp. 217-218; Tentori, Saggio sulla storia politica, XI, pp. 37-38. Per trattazioni pit recenti cfr. Dudan, Sindacato d’Oltremare, pp. 132-133; Caro Lopez, Gli Auditori Nuovi, p. 271; Cozzi, La politica del diritto, pp. 287-288; Ferrari, I contraddittori nelle magistrature d’appello, pp. 119-120. 15 A.S.V., Av. C., Raspe, regg. da 3647 a 3667. 16 Solo 16 le intromissioni realizzate nel 1447, ma in questo caso il registro presenta ampie lacune e vuoti di registrazione. 124
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17 Si deve tuttavia sottolineare come le registrazioni di sentenze ed intromissioni siano gravemente lacunose per il periodo che va da inizio agosto 1456 a fine marzo 1457 (solo 2 casi); cosi anche per il periodo ottobre 1462-marzo 1463 (nessuna intromissione). 18 Cozzi, Politica, societa, istituzioni, p. 101; Sanudo, De origine, pp. 91-92. 19 Maranini, La Costituzione di Venezia, pp. 190 e sgg. 20 Cozzi, Politica, societa, istituzioni, p. 108; cfr. anche quanto dice Donato Giannotti, Della Repubblica, pp. 134-135. 21 Sanudo, De origine, pp. 113-114. 22 Knapton, I] Consiglio dei Dieci, p. 255. 23 Cozzi, La politica e la giustizia, pp. 91-97. 24 Muazzo, Del governo antico, c. 119r, in cui si nota l’incremento dei componenti del Maggior Consiglio nel periodo che va dal 1437 al 1530; cfr. anche quanto dice Beltrami, Storia della popolazione, pp. 71-77, e Davis, The Decline, pp. 35 e sgg. 25 Malipiero, Annali veneti, p. 691. 26 Per la rilevanza europea di questo problema cfr. Guenée, L’Occident, pp. 139-140, sul tema del re giusto e saggio, centralissimo in tutta la trattatistica politica francese e inglese del XV secolo, il cui compito principale consisteva nel “facere justitiam, judicium et tenere pacem”. Sulla giustizia come categoria fondamentale del pensiero politico medievale cfr. anche Zdekauer, Iustitia, pp. 384-425, partendo dall’analisi del celebre quadro di Lorenzetti sul Buon governo, dove la giustizia si asside in posizione centrale, tra la sapientia che la sovrasta e la concordia, a lei sottoposta. Cfr. anche la suggestiva analisi condotta da Kantorowitz attorno al concetto di Justitia mediatrix, in I due corpi del re, p. 97. 27 “Sono sopra le custion et feride date per la Terra, et qui data la querela di qualche custion, o desnuar de arme o feride, essamina li testimoni”, con il potere di condannarli: cosi Sanudo, De origine, p. 137. 28 A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3648 (II), c. 8r. 29 “Sono sie, uno per Sestier”, scrive Marin Sanudo, De origine, pp. 129-130. Hanno degli ufficiali ai loro ordini, si alternano con i Capi di Sestier, per garantire la custodia notturna della citta. Alla fine del ’400 la loro giurisdizione penale era ancora piuttosto ampia: potevano sottoporre gli inquisiti al tormento della corda — il che non era concesso ai Cinque alla Pace —, condannare schiavi, schiave e bestemmiatori, ed erano dotati di poteri di indagine indubbiamente efficaci. Ancora Sanudo: “Hanno auttorita di far aprir cadauna porta di Venetia, per cer-
car quelli lo pareno, et non volendoli aprir, li pud metter pena et buttarli zoso la porta”. 30 A.S.V., Av. C., Raspe, 3648 (II), c. 17r. In questa occasione, la registrazione dell’intervento degli Avogadori mette in luce pratiche, procedure e sensibilita, che andrebbero studiate analiticamente. Su queste tematiche le ricerche condotte da Pavan-Crouzet, Police de moeurs, pp. 241-248; Recherches, pp. 339-356; Violence, pp. 903-936. 125
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31 Per un altro caso di annullamento di una testimonianza, cfr A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3648 (II), c. 34r, 14 novembre 1438: il nobile Jacopo Baseggio, accusato dell’omicidio della moglie, doveva aver certo tirato un respiro di sollievo quando era stata giudicata illegittima la deposizione resa dalla cognata ad altri avogadori, in quanto “non ydonee accepta nec de jure lata... contra omne jus et veritatem”’.
32 Ibid., reg. 3648 (1), c. 71r. 33 Ibid., 10 luglio 1433. 34 Sulle attribuzioni giurisdizionali di questi tribunali a fine °400, cfr. quanto
dice Marin Sanudo, De origine, pp. 133-134. 35 FE opportuno far notare come manchino studi riguardanti il 400, non tanto di storia sociale del patriziato, quanto sul ruolo delle istituzioni, e sul rapporto tra diritto e societa. Pur avendo a disposizione una ricchissima documentazione archivistica di processi e sentenze delle corti di Palazzo. Esemplare, da un punto di vista metodologico, la ricerca condotta da Nehlsen von Stryk, L’assicurazione marittima. 36 A questo proposito sono da vedere le suggestive osservazioni di Owen Hughes, Struttura familiare. Per una impostazione generale del problema cfr. Ferrari, Successione per testamento.
37 A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3648 (I), cc. 84v-85r. 38 Per un caso simile cfr. ibid., reg. 3649 (II), c. 106r, 20 novembre 1450: sono gli eredi di Paola Pisani, a rivendicare il loro diritti agli Avogadori: sarebbero stati esclusi dal godimento dei beni ereditari in base ad un testamento rogato dalla madre “tempore quo ipsa domina Paula non erat sana mentis et ... ab omni vero et recto judicio aliena”. In questo caso, tuttavia, i Quaranta non ritennero verosimili le testimonianze portate dagli avogadori a sostegno della loro intromissione, e la bocciarono alla terza votazione con 19 voti contrari contro 13 favorevoli, e 3 astenuti. 39 Ibid., c. 85r-v. 40 Cfr. ad esempio l’appello interposto agli avogadori Andrea Morosini e Nicolo Bernardo, dai fratelli del connestabile dell’esercito veneziano Giorgio Schiavio morto “ab intestato” nel corso delle guerre con il Duca di Milano, ibid., c. 771, 4 aprile 1449, con il duro conflitto che si scateno tra di essi per accaparrarsi i beni del defunto. 41 Cfr. ad esempio le motivazioni con cui gli avogadori Polo Correr e Leonardo Giustinian fanno riformare il testamento di Isabetta, moglie del nobile Zaccaria Natal, ibid., reg. 3648 (I), c. 111v, 2 maggio 1436. Nell’annotarlo presso i pubblici registri, come era suo obbligo, il cancelliere ducale aveva sostituito, in una certa “cedula”, il termine “maritande” con “maritate”. 42 Ibid., reg. 3649 (I), cc. 101v-102r. La discussione dovette risultare particolarmente accesa, in quanto l’interpretazione degli avogadori non venne accolta alla prima votazione, ed alla seconda ottenne 174 voti favorevoli, 130 contrarl, mentre 27 componenti del Maggior Consiglio si astennero. 43 Con analoghe motivazioni, perché cioé “contra omnia jura mundi”, gli avo126
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gadori accolgono I’appello dei figli di Marco Stornelo, che, “inhumanissime”, li aveva esclusi dalla linea ereditaria (ibid. , reg. 3648 (II), c. 68r, 12 settembre 1440),
e di Cristina Vicemano da Candia, figlia, in seconde nozze, del nobile Marco e di Cristina Baseggio. Il padre aveva rogato un testamento prima di risposarsi e non l’aveva pit aggiornato, ibid., reg. 3649 (II), c. 104r, 26 gennaio 1446. Per un’altra querela dei figli contro il padre, ma questa volta di famiglia non no-
bile, cfr. ibid., c. 70v, 2 giugno 1447. I figli di Nicold Bartolomei “aromatarius”, chiedono sia annullato il testamento da lui rogato nel 1435, quando aveva un unico figlio e godeva di “optimas facultas”. Ora i figli sono 10 e sono esclusi, “contra jus et humanitatem”, dall’eredita. 44 Un altro caso di notevole interesse, in cui si mischiarono interessi pubblici e interessi privati, discussione sul ruolo delle istituzioni e necessita di tutelare specifiche forme di diritto, fu quello proposto dagli avogadori all’attenzione della
Quarantia, il 28 giugno 1440, ibid., reg. 3648 (II), c. 64r. I Procuratori di San Marco, quali tutori del testamento del nobile Andrea Zen, “dominus” dell’isola di Andros, avevano richiesto ai componenti della magistratura di pronunciarsi sulla illegittimita di alcuni atti dei giudici del Procurator. Questi avevano accolto
un appello di alcuni parenti dello Zen per cui la moglie doveva essere privata della sua parte di eredita, in quanto “maritata secundum leges et consuetudines Imperii Romanie”. Gli avogadori accoglieranno l’appello, in quanto i giudici, “assumentes in se officium et magistratum nullatenus eis concessum”, avevano con-
traddetto una deliberazione del Senato, che stabiliva il contrario. Cfr. anche le motivazioni con cui venne annullato il testamento di Guglielmo de Bonromeis: per gli avogadori era stato “relevatum in publica forma in clausolis generalibus, non cum illa verborum et iuris solemnitate”, previste dagli Statuti, ibid., reg. 3648
(I), c. 113r, 20 giugno 1436. 45 Ibid., reg. 3648 (II), c. 44r. 46 Ibid., reg. 3648 (1), c. 63r, 21 marzo 1432. 47 Ibid., reg. 3648 (II), c. 69r-v, 2 settembre 1440. 48 Ibid., reg. 3650 (I), cc. 74v-75r, 26 aprile 1453. 49 Musatti, Storia della Promissione.
50 A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3648 (I), c. 62r. , 51 Ibid., reg. 3650 (I), c. 72v, 11 giugno 1453. 52 Ibid., reg. 3648 (I), cc. 76v-77r, 29 gennaio 1433. Chojnacki, Il raggiungimento della maggior eta, cita le leggi di fine ’300 e inizio ’400 su questa materia, pp. 68-69. Un caso particolarmente interessante é quello riguardante il pro-
cedimento per l’ammissione al Maggior Consiglio di Vito Leon. di Zanotto di Vito, A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3649 (II), 8 marzo 1448: il dubbio sulla legittimita dei titoli di Vito sorgeva dal fatto che il nonno, nel 1418, aveva contratto un matrimonio con Franceschina Morosini. Tra i due intercorreva un grado di consanguineita che avrebbe loro interdetto la celebrazione delle nozze, se non fossero riusciti ad ottenere una dispensa dalla curia romana. Dopo qualche anno, addivenuto “ad discordiam” con la moglie, Vito aveva procurato di dimostrare che quella dispensa non era legittima. A questo punto erano intervenute, 127
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sollecitate da Franceschina, le magistrature della capitale, bloccando alcune lettere papali che ordinavano al vescovo di Torcello di comunicare l’annullamento
del vincolo matrimoniale. Inoltre avo di Vito, “non contentus, immemor Dei ac anime sue, in contemptum mandatorum ducalis dominationis ac in obrobrium dicte D.ne Franceschine”, aveva contratto un altro matrimonio con Agnesina Coco, convincendo suo padre Giovanni di non essere stato mai sposato. Era stato per questo privato di tutti i diritti: ci si chiedeva se fosse lecito riammettere il nipote — come poi si fece, dopo un lungo dibattimento — nei ranghi del patriziato.
53 Ibid., reg. 3649 (I), c. Sr-v, 14 luglio 1442. 54 Ibid., reg. 3649 (II), 10 aprile 1448, c. 100r?. Dall’intromissione non si riesce a cogliere chi possa aver interposto l’appello. Comunque gli avogadori giudicheranno quella concessione illegittima, in quanto pronunciata “contra omnem veritatem”: dall’esame da loro condotto era infatti risultato che il padre era nato
in Puglia, e che lo stesso Pietro non era certo nativo della citta di San Marco. ‘5 Particolarmente interessante la figura di questo avogadore, su cui comunque ritorneremo: a parecchi anni di distanza, nel 1450, quando venne rieletto alla carica, si rese protagonista di un’altra accesa discussione in Senato attorno ad un problema giuridico-costituzionale di notevole importanza (ibid., reg. 3649 (I), cc. 97v-98r, 20 marzo 1450): si doveva stabilire se, partendo dall’interpretazione del paragrafo 116 del Capitolare della magistratura, fosse compito degli Avogadori punire Andrea Dona, resosi colpevole di indebita appropriazione di denaro pubblico — come pretendeva il Tron —, oppure se — come intendeva il suo collega Nicolo Dolfin — quel tipo di reato rientrasse sotto la giurisdizione dei Consiglieri ducali. Alla fine prevalse questa seconda opinione. 56 Ibid., reg. 3648 (II), c. 71r. °7 Twi, S. Mz., reg. 55, c. 100v. Cosi esordiva la legge: “Modi qui observantur in facto nuptiarum sunt in maximum detrimentum huius rei publicae et contra illos qui vivere capiunt virtuose...”. °8 Ivi, Av. C., Raspe, reg. 3649 (I), c. 91r, 7 luglio 1445. 5? Cfr. quanto dicono Prodi, The Structure, pp. 414, 417 e Chittolini, Stati regionali, p. 159. 6° A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3649 (II), cc. 2v-3r, 28 marzo 1446. 61 Cfr. Klapisch-Zuber, Un’etnologia, pp. 91 e sgg. 62 Per un altro caso di falsificazione di un contratto nuziale, cfr. A.S.V., Av. C., reg. 3649 (I), c. 96r, 6 ottobre 1445. In questa occasione Paolo Belaver, “oblitus omni timore Dei et Dominii nostri”, denunciato al tribunale ecclesiastico da tale Elisabetta, che asseriva essere sua moglie, aveva presentato uno “instrumentum” notarile — sottoscritto tra gli altri dal nobile Andrea Mocenigo di Lazzaro —, in cui si affermava che a quel tempo Paolo viveva con un’altra moglie. Interrogati dall’avogadore sulla loro presenza al momento della stipula di quell’atto, tutti 1 presunti testimoni avevano negato recisamente. In quanto assente, si concessero al Belaver otto giorni per comparire alla magistratura civile, altrimenti
sarebbe stato bandito in perpetuo da Venezia. 63 Ibid., reg. 3649 (II), cc. 15v-16r, 12 novembre 1446. 128
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64 Ivi, Av. C., Capitolari, reg. 3, alla data, cc. non numerate. 65 Cozzi, Politica, societa, istituzioni, pp. 8-11. 66 Pezzolo, Podesta, pp. 57-59. 67 Cfr. Ventura, I/ Dominio, p. 181. 68 Sanudo, Diarii, VIII, coll. 468-469. 6? Cozzi, Domenico Morosini, pp. 416-417. 70 Morosini, De bene instituta, p. 190, concludeva la sua disamina proponendo che tutti gli altri “beneficia” delle citta suddite e dei loro territori, fossero assegnati ai cittadini di esse, cosicché “si sors ei ademit libertatem non parum eis condonet benignitas imperantis, qua fiat ut socios potius in urbem admisisse se putent quam dominos recepisse”. 71 Per una riflessione generale sul senso dell’attivita dei Rettori, cfr. Cozzi, Politica, societa, istituzioni, pp. 216-219; Scarabello, Nelle relazioni, p. 487.
72 A.S.V., S. Mi., reg. 55, c. 101r. 73 Gia l’8 agosto 1407, ibid., reg. 47, c. 152v, si era stabilito che gli Avogadori potessero punire i Rettori che, al momento di lasciare i loro reggimenti, conducevano “in sua comitiva multos ex nobilibus et civibus dictorum locorum”, alcuni dei quali erano per questo costretti ad abbandonare i loro offici, “cum sinistro suorum agendorum”. Si era pertanto richiesto che i Rettori non potessero costringere i sudditi ad accompagnarli per una distanza superiore alle cinque miglia dalla cinta muraria. Tuttavia questa parte non passo. Cfr. ibid., reg. 55, rispettivamente alle cc. 128v e 129r, i testi di altre due leggi dello stesso anno, che allargavano ulteriormente la giurisdizione degli Avogadori sull’attivita dei Rettori: il 18 giugno, sempre il Senato, condannava la pessima abitudine, per cui i rappresentanti veneziani in Terraferma chiedono ed ottengono dal Collegio la “gratia” di poter vendere i cavalli, che vengono loro attribuiti dalla Commissione. Ed ancora il 18 giugno — entrambe le parti sono proposte dai Savi di Terraferma — riprova un’altra pericolosa consuetudine per cui i Rettori e gli altri “officiales” loro sottoposti, attraverso “licenze”, concesse con troppa larghezza dallo stesso Senato, riescono a stare “per multos dies, pro negociis suis, extra regimina et officia sua”. D’ora in avanti, per tutto il tempo in cui, per qualsiasi motivo, saranno assenti, perderanno il loro “salarium”. 74 Ivi, S.T., reg. 4, c. 76v. In questo caso si ordinera agli Avogadori di far osservare ai Rettori la norma che interdiva loro di convocare armigeri, tranne quelli residenti entro la distanza di tre miglia dalla cinta muraria urbana, sotto la pena di duecento ducati.
73 Ivi, Av. C., Raspe, reg. 3646, c. 77r. 76 Ibid., reg. 3647 (II), cc. 74v-75r; la condanna viene pronunciata il 28 novembre e con essa il Moro viene privato in perpetuo di ogni carica pubblica, sia nella capitale che nei domini. Per Rovereto e la sua particolare configurazione istituzionale, cfr. Knapton, Per la storia del dominio, pp. 203-209; Bellabarba, Istituzioni politico-giudiziarie, pp. 175-231. 77 A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3647 (II), c. 82r-v, la sentenza viene pronun129
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ciata dai componenti il Minor Consiglio, il 23 marzo 1425. 78 Cfr. anche il processo intentato contro il podesta di Castelbaldo, in segui-
to alle proteste degli abitanti del luogo, il 30 gennaio 1432, ibid., reg. 3648, c. 61r. Il rappresentante veneziano, “dum deberet esse vigil ad tranquillam et bonam gubernationem dicti loci et subditorum dominii nostri”, la notte usciva dal “castrum”, disattendendo ad un ben preciso obbligo registrato nella sua commissione, e intratteneva rapporti illegittimi con la moglie di uno dei piu importanti rappresentanti della comunita. Verra condannato ad un anno di carcere inferiore, al pagamento di 500 lire di piccoli, e alla non rielezione ad un incarico statale per cinque anni. 79 Non é dato trovare alcuna notizia nei registri 1-4 della magistratura (Capitolari), come nella legislazione del Senato e del Maggior Consiglio.
80 Cozzi, Note sopra ’Avogaria, p. 550. 81 Ibid., p. 556. 82 AVS.V., S.T., reg. 1, c. 67r. 83 Tvi, Av. C., reg. 3648 (I), c. 52r, 18 giugno 1431. Il richiamo al rispetto degli statuti del centro maggiore, in quest’occasione Padova, é presente anche in un appello di un abitante di Montagnana, che aveva chiesto agli avogadori il taglio di una sentenza pecuniaria, pronunciata dal rappresentante veneziano che amministrava la giustizia in quel borgo: ibid., c. 108v, 16 febbraio 1436. 84 Ibid., cc. 58v-S9r. 85 Ibid., reg. 3649 (I), c. 107r, in Minor Consiglio. Alla stessa data, ancora Cristoforo Moro, fara “tagliare”, in quanto contraria agli statuti locali, una sentenza del podesta di Padova. Per un altro caso trevigiano, cfr. ibid., reg. 3649 (II), c. 76v, 3 aprile 1449. 86 Ibid., reg. 3650 (I), cc. 23v-24r, 19 novembre 1441. Per l’annullamento di una sentenza di Jacopo Antonio Marcello, provveditore e podesta a Crema, in quanto non aveva osservato gli ordini e gli statuti urbani sul giuramento dei testimoni, cfr. ibid., c. 69r, 16 maggio 1453. 87 Ibid., reg., 3655, c. 78r-v. 88 Ibid., reg. 3659 (I), c. 17r, 9 ottobre 1500. 89 Tbid., reg. 3648 (II), cc. 54v-55r. 90 Ibid., reg. 3648 (I), c. 106v, 19 febbraio 1446 in Quarantia. 91 Sul tribunale del Consolato e sugli ampi privilegi di cui godeva, cfr. infra,
pp. 214 e sgg. 92 Puo essere interessante notare come non sempre, a livello di istituzioni centrali, si approvasse l’inclinazione di taluni avogadori ad accogliere gli appelli di chi chiedeva si giudicasse con maggior mitezza e che si considerassero tutta una serie di circostanze attenuanti: si veda ad esempio come la Quarantia bocciasse, con 18 voti contrari, 8 favorevoli e 9 astenuti, l’intromissione di Ludovico Storlato e Marco Lippomanno contro una sentenza del luogotenente della Patria che prevedeva il bando da tutta la giurisdizione del Friuli per due individui colpevoli di un’aggressione. “Sententia lata nimis excessive”, avevano detto gli avogadori: 130
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é stato provato dalla lettura degli atti processuali che i due avevano “causam justam offendendi”, ibid., reg. 3648 (II), c. 45r-v, 22 maggio 1439. Con una maggioranza ancora pit larga, i componenti della Quarantia, 15 voti contrari, 3 per la proposta avogaresca e 11 astenuti, bocceranno, il 15 dicembre 1445, una intromissione dell’avogadore Cristoforo Moro su una sentenza di bando da Treviso e territorio pronunciata dal podesta e capitano di Treviso, contro quattro uomini, accusati di “percussiones”, ibid., reg. 3649 (I), c. 100r. 93 Cosi come non si poteva accettare che immagine dell’autorita di questi rettori risultasse troppo sbiadita o insussistente. Il 25 maggio 1429, gli avogadori, giustificati che fossero i motivi dell’appellante, facevano annullare dal Minor Consiglio una sentenza pronunciata da Michele Fontana, notaio e cancelliere del podesta di Marostica, su una controversia civile sul titolare della proprieta di alcuni campi, in quanto prodotta da giudice incompetente. Infatti, per una norma prescritta nelle sue commissioni, il rappresentante veneziano avrebbe dovuto giudicare personalmente quella causa, e non delegarla ad un suo subalterno. Il
caso é ibid., reg. 3648 (I), c. 37r. 94 Ibid., reg. 3649 (I), c. 64r. 95 Dello stesso tenore |’intromissione ad una sentenza del podesta di Montagnana, ibid., reg. 3648 (II), c. 122v, 6 maggio 1438. Due fratelli abitanti in una piccola comunita erano stati condannati ad un bando — non altrimenti precisato — e, in caso di cattura, al taglio della mano, per aver tenuto in casa una giovane che era stata rapita. Gli avogadori accoglieranno l’appello in quanto i due erano gia stati assolti dal podesta di Este “sub cuius districtu erant constituti”.
96 Ibid., reg. 3648 (I), c. 116r. 97 Ibid., c. 64r. Il promotore dell’istanza a Venezia risultava essere Federico conte di Porcia, nobile castellano della Patria del Friuli, intervenuto a titolo di procuratore della piccola comunita di Sant’Avvocato, sottoposta alla sua giurisdizione. Il predecessore del Barbo aveva risolto a favore di questa villa una controversia che la vedeva opposta alle comunita di San Martino e di San Leonardo a proposito di certi “confines campanearum et territorium”. Le comunita danneggiate avevano interposto appello agli auditori novi — che tuttavia avevano “laudato” la sentenza di primo grado —, e quindi avevano atteso Parrivo del nuovo
rappresentante veneziano per rivendicare la bonta dei loro diritti, ottenendo finalmente un verdetto favorevole. 98 Ibid., c. 97r, 30 luglio 1434, in Minor Consiglio. 99 La regola che stabiliva che i Rettori in carica non potessero intervenire su atti dei loro predecessori, e che l’ulteriore grado d’appello doveva essere valutato dalle magistrature veneziane, viene affermata recisamente anche nell’intromissione realizzata dagli avogadori in Minor Consiglio, il 29 novembre 1444, ibid. , reg. 3649 (I), c. 73v. Il podesta e capitano di Mestre, che faceva parte del distretto di Treviso, aveva delegato ad un consilium sapientis del capoluogo una causa “super quadam possessione turbata” e taglio di fieno, nonostante una precedente pronuncia del rappresentante veneziano. Per un caso penale cfr. ibid. reg. 3648 (II), cc. 68v-69r. Gli avogadori intromettono una sentenza del podesta 131
GOVERNANTI E GOVERNATI
di Padova Andrea Dona, in quanto, gia sotto il regime di Ludovico Storlato, il condannato era stato inquisito e assolto, perché “per tormenta purgavit indicia”. 100 Ibid., reg. 3650 (II), cc. 72v-73r, 14 giugno 1456. 101 Ibid., reg. 3653 (I), c. 23r-v, 16 ottobre 1469.
102 Ibid., cc. 18v-19r, 4 agosto 1472. La comunita di Schio era ricorsa agli Avogadori anche in un/’altra occasione, il 4 settembre 1477, protestando
contro la condanna pronunciata dal podesta e dal Consolato contro il “decanum et commune Scledi”, colpevoli di non aver ottemperato ad un ordine di cattura nei confronti di un tale bandito da Vicenza per omicidio. In questo caso l’appello era stato accolto in quanto “non constat de culpa ipsorum hominium qui etiam nescentes erant de dicta condemnatione”, ibid., reg. 3654 (II), cc, 35v-36r. 103 Tbid., reg. 3649 (II), c. 61r, 5 agosto 1448. 104 Ibid., reg. 3648 (I), c. 122r. 105 Ibid., c. 111r. Cfr. ibid., c. 83r, 10 luglio 1433. Giorgio Parvenzano, civis di Isola d’Istria, vede accolto il suo appello dagli avogadori e dal Minor Consiglio. Il podesta veneziano lo aveva condannato “tanquam persona infamis” alla privazione della cittadinanza, a non poter essere pit accettato quale testimone in alcun giudizio, e ad una infamante cavalcata su un asino per le vie cittadine, in quanto avrebbe affermato il falso su una “differentia” che aveva con altri cittadini. Gli avogadori ordineranno al rappresentante veneziano di rivedere il processo e di pronunciare una sentenza piu mite. 106 Ibid., reg. 3654 (I), cc. 4v-5r, 1 dicembre 1474. 107 Ugualmente indicativa dell’attenzione prestata dall’avogadore Francesco Sanudo ai motivi procedurali e alle ragioni degli imputati, ¢ Pintromissione realizzata, il 30 gennaio 1455, nei confronti di una sentenza del podesta di Vicenza, Castellano Minotto, ibid., c. 5v. Il rappresentante veneziano aveva condannato alla pena del bando definitivo, e alla decapitazione in caso di cattura, una certa Jacopa Milani, distrettuale, dopo averla accusata dell’infanticidio di una figlia appena nata. Questa sentenza, secondo l’avogadore, andava ritenuta “minus quam debite et juridice lata”: in quanto assente, infatti, ’imputata poteva essere condannata “ad inquirendum” — cioé con una sorta di formula dubitativa — e non “diffinitive”.
108 Ibid., c. 61r, 29 gennaio 1432. 109 Ibid., c. 104r, 8 luglio 1435. ‘1° Gli esempi si potrebbero moltiplicare, soprattutto a partire dagli anni 1440-1450, periodo in cui si pud collocare un aumento del potere di controllo esercitato dagli Avogadori nei confronti dei Rettori, sia nei centri maggiori che in quelli minori. Nel periodo intercorrente tra il giugno 1445 e il marzo 1447 si possono contare 17 intromissioni di atti dei Rettori con motivazioni analoghe a quelle appena citate: cfr. ad esempio quella sulla ineseguibilita di una sentenza del podesta di Mestre, in quanto l’appellante era gia stato assolto dalla medesima accusa dal podesta di Noale, ibid., reg. 3648 (I), c. 89r, e quelle contro gli atti dei rappre132
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
sentanti veneziani a Cittadella, Treviso, Padova, Vicenza, per arbitrarieta ed insufficiente escussione dei testi, reg. 3649 (I), cc. 85r-v, 88r-v, 7 e 13 giugno. 111 Alessi Palazzolo, Prova legale e pena. 112 A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3656 (II), c. 53v, 8 novembre 1487.
113 [bid., reg. 3658 (I), c. 120r, 9 febbraio 1497. 114 Ibid., c. 172v, 6 giugno 1498. Ad una analoga motivazione era ricorso lo stesso avogadore nel proporre l’annullamento di una sentenza del podesta di Parenzo. Questi aveva condannato il caput iuratorum del Comune, al bando dalla terra e da tutte le cariche pubbliche, a causa di alcune irregolarita amministrative da quello commesse. La sentenza, a detta del Loredan, risultava “cum diversis et importantibus disordinibus processa”, mancante com’era delle “legitime citationes”. Oltre a cid, ed in questo si pud avvertire l’aspetto pit interessante del’intromissione, la sentenza sarebbe stata fulminata “in solemnissimi die risurrectionis Domini”, e resa esecutiva il giorno successivo, contro cid che si doveva “ex reverentia onnipotentis Dei”, e “ex debito et honesto modo” di amministrare la giustizia.
115 Ibid., reg. 3657 (Il), c. 74r, 27 giugno 1493. 116 Tbid., c. 76v, 15 luglio 1493, per maggiori informazioni sull’episodio, cfr.
anche le cc. 76v-77r. 117 Sul tema della modalita di intervento da parte dell’autorita veneziana su questo tipo di conflitti, cfr. infra, cap. IV. 118 A.S.V., Av. C., reg. 3654 (II), c. 84r, 10 marzo 1479, in Quarantia. 119 Ibid., reg. 3656 (II), c. 84r-v, 17 settembre 1488, in Quarantia. 120 Ibid., Capitolari, reg. 1, c. 185r-v. 121 [bid., c. 186r-v. 122 Tbid., c. 188v. 123 Per la legislazione quattrocentesca veneziana e la procedura, cfr. Cozzi, La politica del diritto, pp. 283-284. L’autore distingue anche le fattispecie in cui arbitrato costituiva una giurisdizione obbligatoria. Cfr. anche Ferro, Dizionario del diritto, t. I, alla voce “arbitrato”, e t. II alla voce “compromesso”. 124 Martone, “Arbiter, arbitrator’. 125 | osservanza sulla regolarita delle norme e procedure regolanti la normativa compromissoria era, di fatto, delegata all’Avogaria anche per la capitale, grazie al potere di intromissione e di intervento sugli atti e terminazioni di tutte le corti civili cittadine. Cfr. A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3649 (I), cc. 44v-45r, 13 marzo 1444. Da troppo tempo si stava trascinando di fronte alla Curia del Forestier, senze concrete speranze di soluzione, una causa tra 1 mercanti Regino Panigarola e Jacopo di Usnago. Per risolvere la controversia le parti in causa avevano nominato quali “arbitros e arbitratores comunes” i due nobili veneziani Paolo
Pisani e Pietro Morosini, attribuendo loro “plenariam libertatem” di giudizio, e la possibilita di eleggerne un terzo, secondo la consuetudine, in caso non si fossero trovati d’accordo. Le sentenza, confermata dal Forestier, era risultata sfavorevole al Panigarola. Da qui l’appello interposto agli avogadori, che lo acco133
GOVERNANTI E GOVERNATI
glieranno, portando la loro intromissione, data la delicatezza della questione, all’esame del Senato. Alla fine l’atto verra annullato, in quanto il Pisani risultava debitore di una certa somma nei confronti del soccombente, e pertanto giudice inidoneo e non “super partes”. Sulle procedure arbitrali a Venezia cfr. anche Leicht,
Mediatores e Arbitri. 126 Cozzi, La politica del diritto, pp. 284-285. 127 AS.V., Av. C., Raspe, reg. 3649 (I), c. 94r-v, in Minor Consiglio. 128 Ibid., reg. 3656 (I), c. SSv. 129 Cfr. anche il caso in ibid., reg. 3656 (II), c. 28r-v. Lo stesso Filippo Boldu si vedra costretto, ancora dall’avogadore Priuli, a dover giustificare il proprio operato di fronte ai componenti della Quarantia, in quanto aveva annullato un compromesso cui erano addivenute nel 1482, alla presenza del podesta e capitano di Treviso, Susanna, moglie di Jacopo Zavarese, morto “ab intestato”, assieme alla figlia Marietta, ed il notaio Massariotto, a nome della moglie, che, in quanto legata al defunto da un vincolo di parentela non meglio specificato, affermava di vantare alcuni diritti sull’eredita. Come per il caso precedente, non é possibile sapere se la presenza del sindaco abbia contribuito a riaccendere rancori sopiti da tempo, che la sentenza compromissoria aveva solo apparentemente placato, oppure se, come affermava il Boldt, realmente al momento di stipulare il compromesso “de iure et de facto more veneto” si fossero registrate irregolarita. Ad ogni modo la proposta dell’avogadore, anche in quest’occasione, incontrera un’accoglienza quasi unanime.
130 Ibid., cc. 68v-69r, 3 luglio 1488. 131 Ibid., c. 95r-v, 10 febbraio 1489. 132 Ibid., reg. 3649, cc. 48v-5Or. 133 La stessa motivazione viene addotta dall’avogadore Nicolo Muazzo, che, il 15 settembre 1486, proporra alla Quarantia la risoluzione di una sorta di controversia giurisdizionale intercorrente tra il luogotenente della Patria Girolamo Contarini, e ’auditore Domenico Baffo, ibid., reg. 3656 (II), c. 3r. Un aspro contenzioso sul diritto sopra un mulino divideva due rami della nobile famiglia Porcia. Una delle parti aveva chiesto l’intervento del rappresentante veneziano a Udine, in quanto per nulla soddisfatta di un non meglio precisato “mandato” del massimo organo politico-istituzionale locale: il Parlamento. Per questo il luogotenente aveva ordinato l’immediata sospensione di quell’atto e avocato a sé il processo. A questo punto il documento lascia ipotizzare che alcuni componenti della famiglia abbiano chiesto l’intervento dell’auditore, allo scopo di dilatare ulteriormente i tempi del giudizio definitivo. L’avogadore stabilira che ogni inframmettenza sull’operato del luogotenente deve essere reputata illegittima, in quanto la “suspensio mandati” — che rientra nelle sue normali competenze — risulta essere un atto interlocutorio e quindi non appellabile. 134 Ibid., c. 33r, 17 maggio 1447, in Minor Consiglio. Ancora Zaccaria Bembo, lo stesso giorno (ibid., c. 33v-r), aveva fatto ricorso alle Constitutiones, per determinare il proprio giudizio di illegittimita di una intromissione del sindaco Paolo Foscolo, cui si era appellato il capitano della giurisdizione feudale della 134
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
Meduna, chiedendo |’annullamento di tre sentenze penali emanate dal Luogotenente veneziano, nei confronti di tre abitanti del luogo. In questa occasione, come per il conflitto tra il vicario di Orgiano e il podesta di Vicenza, sembra che Pappello all’Avogaria venga promosso dagli stessi rappresentanti veneziani in Terraferma, che chiedono sia ripristinata la loro autorita, messa in discussione dallemergere dei particolarismi. Paradossalmente il ricorso alla fonte statutaria da parte dei rettori diviene uno strumento di legittimazione di un pit diffuso potere d’intervento.
135 Ibid., reg. 3652, c. 75r. |
136 Tbid., reg. 3649 (II), cc. 10r-11v, 27 maggio 1446, in Quarantia. 137 Per un’altra intromissione su una sentenza del podesta di Bergamo, cfr. ibid., reg. 3656 (I), c. 81r-v, 8 luglio 1485, con cui si accoglie l’appello del conte Maffeo Gambara, condannato al bando da citta e territorio, per le gravi violenze che aveva commesso. 138 Ibid., reg. 3654 (II), c. 37r, 16 settembre 1477, in Quarantia. 139 Lo stesso 16 settembre gli avogadori avevano fatto annullare in Quarantia, le intromissioni dei sindaci su alcune sentenze del podesta e capitano di Rovereto e Val Lagarina, ibid., cc. 37v-38r. A leggere il costituto dei sindaci le colpe di cui si era macchiato Alvise Querini non erano certo lievi: aveva preteso quindici ducati da tale Petro Burgeto, per assolvere suo figlio accusato di omicidio; aveva, con lo stesso sistema, ottenuto dieci ducati dalla comunita di Brentonico, per “lodare” una sentenza pronunciata dal vicario della stessa “pro feno secato in quodam prato contra consuetudinem illorum de Brentonico”; aveva disobbedito a lettere avogaresche che gli ingiungevano di non pretendere “caratos” (utilita) per sentenze del Consiglio del Savio. Venuti a conoscenza di quegli eccessi, 1 sindaci, senza esitazione, avevano emanato una sentenza, pretendendo fosse resa subito esecutiva. Gli avogadori avevano accolto l’appello del Querini, giudicando che la “libertas” che i sindaci si erano attribuita doveva ritenersi “excessiva”, poiché era ferma intenzione della Serenissima che si giungesse alla condanna dei suoi rappresentanti solo dopo aver dibattuto nei tribunali o nei consigli della capitale, ed inoltre perché non erano stati considerati alcuni capitoli prodotti dal Querini a sua difesa. Pertanto, cosi si era deliberato, annullata la parte dispositiva dell’atto sindacale, resti ferma l’intromissione dei sindaci che al momento del dibattimento in Quarantia saranno affiancati dagli stessi avogadori. I] 24 settembre (ibid. , c. 38r), il Querini veniva condannato a sei mesi di carcere chiuso, alla privazione in perpetuo di ricoprire incarichi a Rovereto, e alla restituzione di tutte le somme indebitamente estorte. Su questa vicenda cfr. anche Knapton, Per la storia del Dominio, pp. 259-261. 140 AS.V., Av. C., Raspe, reg. 3655 (I), c. 7v, 9 maggio 1479. 141 Ibid., c. 4r. 142 Ibid., c. 12r-v. 143 Knapton, Il Consiglio dei X. 144 A S.V., Av. C., Raspe, reg. 3657 (1), c. 6r-v, 3 agosto 1489. 145 Ibid., reg. 3656 (II), cc. 92r-93v, 19 febbraio 1489. 135
GOVERNANTI E GOVERNATI
146 Ibid., reg. 3657 (II), c. 50r, 5 novembre 1492. Si erano rivolti ai sindaci tale Antonio Bortoloni ed alcuni suoi “socii”, condannati dal podesta di Padova, Zaccaria Barbaro, alla pena pecuniaria di cinque ducati, per aver snudato le armi ed aver “dannificato” siepi e fossati in alcune pezze di terra poste nelle vicinanze della villa di Fiesso, appartenenti ad uno dei maggiori enti ecclesiastici veneziani, il monastero di San Biagio e Cataldo. Ancora con una schiacciante maggioranza la Quarantia aveva laudato, il 30 marzo 1486, una pronuncia dell’auditore Filippo Bold, con cui si decretava che i saltari delle comunita di Valstagna, Olmo e Campolongo, facenti parte del vicariato vicentino di Angarano, potessero procedere nei confronti di tale Pietro sutor, “juxta formam manifesti”, contrariamente a quanto aveva stabilito una terminazione del podesta di Marostica. A detta dell’avogadore quella pronuncia doveva ritenersi “male et indebite emanata”, in quanto “nec in appellatione, nec in principali iuditio”, secondo quanto determinato dalla forma delle legge, si erano sentite le ragioni di Pietro, ibid., reg. 3656 (I), c. 77v. 147 Ibid., reg. 3657 (I), c. 68r, 29 aprile 1491. 148 Tbid., c. 72v, 17 giugno 1491. Da numerosi altri casi emerge la difficolta delle istituzioni centrali nel dirimere controversie civili in cui il gioco degli interessi personali e particolaristici si mischiava a pil generali rivendicazioni per il rispetto delle consuetudini o delle procedure formalizzate negli statuti. I] 14 ottobre 1494, alla conclusione di un ampio dibattito, ’avogadore Giovan Francesco Pasqualigo vedra annullato il suo tentativo di intromettere una sentenza emanata dai rettori di Brescia favorevole alla comunita di Travagliato. Questa aveva richiesto e ottenuto che due famiglie native del luogo fossero sottoposte al pagamento del dazio dell’imbottatura, ma tale deliberazione risultava in contraddizione con il fatto che i membri delle stesse famiglie erano gia stati creati cives bresciani e che pertanto sostenevano gia “onera et factiones” con la citta, ibid., reg. 3658, c. 24r-v. Molte difficolta a fare accogliere la sua opinione, di netta riprovazione riguardo ad una sentenza emanata dal luogotenente della Patria, aveva incontrato, nel corso dello stesso anno, Antonio Boldu, al quale si era appellata la comunita di Tolmezzo. I nunzi di questa avevano rivendicato il rispetto della forma di “privilegia, statuta et consuetudines”, messi in discussione da un atto del rappresentante veneziano a Udine, ibid., c. 17r, 19 agosto 1494. 149 Ibid. , 3658 (I), c. 60v, 2 settembre 1495. La sentenza emanata dagli auditori rimane “bonificata” grazie a 21 voti contrari all’opinione dell’avogadore, 3 favorevoli e 9 astenuti. 150 Ibid., c. 86v, 22 marzo 1496. 151 Cfr. infra. 152 Sanudo, De origine, pp. 91-92. 153 AS.V., Av. C., Raspe, reg. 3648 (I), c. 22r. Nel primo mandato dei consiglieri del 27 agosto 1428, si affermava che tutti i cenetensi che godevano di proprieta nel distretto di Serravalle dovessero essere sottoposti al dazio dell’imbottatura. Quest’ordine venne reiterato il 19 dicembre dello stesso anno. Il 3 dicembre i consiglieri avevano concesso al rappresentante veneziano a Conegliano 136
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
di “inquirere veritatem et accipere omnem informationem” su certi capitoli prodotti dalla comunita di Serravalle contro il vescovo. Lo stesso giorno un/altra ducale avvisava l’ecclesiastico del procedimento aperto nei suoi confronti, e che pertanto non si permettesse di compiere “ullam novitatem”. Infine, il 23 dicembre, i consiglieri avevano concesso che il podesta di Conegliano, in deroga alla sua commissione, “propter examinationem fiendam”, potesse risiedere e pernottare al di fuori della sua giurisdizione. Alcune indicazioni su conflitti giurisdizionali che investirono la zona nel ’400 in Cozzi, Paolo Paruta. 154 A.S.V., Av. C., reg. 3649 (II), c. S1r, 29 aprile 1448. 155 Tbid., reg. 3650 (I), cc. 56r-57v. 156 Varanini, Appunti, pp. 615-628. 157 A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3648 (II), c. 35r-v. 158 Ibid., reg. 3649 (II), c. 63v. 159 Ibid., reg. 3649 (1), c. 73r-v. 160 Ibid., reg. 3653, c. 42r, 17 ottobre 1470. 161 Ibid., reg. 3654 (II), c. 6r, 10 febbraio 1476. Lo stesso avogadore realizzera, il 31 luglio 1477 (ibid., c. 27r), ?intromissione di un’altra ducale inviata al podesta e capitano di Treviso, in cui si stabiliva che la meta dell’ammontare dell’affitto per la posta delle pecore, dovesse andare al “Fonticus”, in quanto scritta “ex mala informatione” e “in preiudicium maximum jurium omnium districtua-
lium territorii tarvixini”. 162 Ibid., reg. 3654 (I), c. 34v, 2 ottobre 1475. Favorevole ai diritti rivendicati dal centro maggiore della Riviera é una intromissione di poco successiva. Illegittime le ducali scritte al provveditore e capitano della Riviera, che lo informavano di ritenere “laudata” una sentenza del rettore salodiano — di nomina bresciana — con cui si obbligava la comunita a riattare una certa strada, aggiungendo inoltre che non considerasse in alcun modo le lettere degli auditori “qui causam ipsam intromisit”, in quanto non rientrava nella giurisdizione dei consiglieri l’impedire il corso “gravaminis et appellationis a sententiis latis per rectores” (ibid., c. 46r-v, 12 luglio 1476). Sulla struttura amministrativa di Salo e della riva occidentale del Garda, la Magnifica patria benecense, cfr. Scotti, La Magnifica Patria, pp. 243-275. Il territorio era diviso in sei quadre, che riunivano in tutto 36 comuni. Nel 1478 gli avogadori saranno costretti ad annullare una gratia con cui si concedeva agli uomini del comune di Tuscolano, sottoposto alla giurisdizione della quadra di Materno, una certa autonomia per quello che riguardava la bassa giustizia, “inter sese de cetero ius facere seu dicere possint, sine aliquo impedimento usque ad summam ducatorum quattuor”. Quella lettera doveva ritenersi “per subrepticium modum impetrata”, in quanto ai consiglieri non era stata consegnata una responsiva del provveditore della Riviera, che spiegava come la concessione di quella gratia contraddicesse la forma dei privilegi di Maderno (A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3654 (II), c. 87r, 20 aprile 1478). 163 Ibid., reg. 3650 (II), c. 16v. 164 Ibid., reg. 3655 (II), c. 29v. 137
GOVERNANTI E GOVERNATI
165 Ibid., reg. 3651 (II), c. 68r. 166 Ibid., reg. 3655 (II), cc. 8v-9r. 167 Tbid., c. 43v, 6 maggio 1482. E interessante notare come, analogamente ad altre situazioni che sono state analizzate trattando degli auditori, i giudici della Quarantia non sembrano troppo convinti da questo tipo di argomentazioni, che tendevano a diminuire le possibilita di intervento da parte delle istituzioni veneziane. Ci vollero tre votazioni per approvare l’intromissione avogaresca e all’ultima passO con 17 voti favorevoli, 9 contrari e 6 “non sinceri”. 168 Gli unici registri archivisticamente reperibili sono Ivi, Av. C., Lettere,
666/2 (per il periodo 1410-1414) e 667/3 (marzo-settembre 1492). 169 Ibid., reg. 667/3, c. 44v, 11 aprile 1492. 170 Ibid., c. 261r, 6 settembre 1492. Cfr. anche le lettere avogaresche del 17 marzo ai rettori di Verona, emanate in risposta a capitoli presentati da alcune comunita del distretto in materia di divisione del carico fiscale tra la citta e il territorio (c. 15r); il mandato al podesta di Padova con cui gli si ordinava di valutare secondo la sua “coscientia” le ragioni dei “rurales” della comunita di Cinto, sottoposta alla giurisdizione del vicariato di Arqua, che protestavano per gli eccessivi pignoramenti subiti sui loro beni (c. 46r, 16 aprile); e la lettera a favore dei Sette Comuni vicentini dell’altopiano, che lamentavano la lesione di alcuni loro antichissimi privilegi giurisdizionali, ibid., c. 46r, 16 aprile ec. 64v, 8 maggio 1492.
171 Ibid., Raspe, reg. 3650 (I), c. 44r. 172 Per il caso di un’altra cassazione di una ducale perché scritta “ex mala informatione et in preiudicium maximum iurium omnium districtualium territo-
rii tervisini’, cfr. ibid., reg. 3654 (II), c. 27r, 31 luglio 1477. 173 Ibid., reg. 3655 (1), cc. 1Ir-2v. 174 Tbid., reg. 3654 (I), c. 19r, 9 giugno 1465. 175 La riprovazione di una analoga disattenzione della corretta formalita con cui dovevano essere vergate le ducali, si ritrova nell’intromissione di Benedetto Trevisan, intesa a tutelare i diritti della comunita di Camposampiero, ibid., reg. 3655 (II), cc. 28r-29v, 22 novembre 1481, cosi come anche nell’intromissione perfezionata dagli avogadori Lorenzo Moro e Nicolo da Molin, contro alcuni mandati dei consiglieri attraverso cui si era inteso regolare la questione attorno alla giurisdizione del podesta di Castelbaldo, in materia di danni dati, ibid., reg. 3652, c. 61r, 5 marzo 1467. Nel 1481 Pavogadore Trevisan eccepiva sulla legalita di alcune ducali inviate ai rettori di Brescia — con le quali si ordinava che “omnes tam exempti quam non exempti, privilegiati et non privilegiati, separati et non separati territorii Brixie”, dovevano contribuire “pro rata sua” alla riparazione di strade, fossi e ponti —, in quanto quelle lettere erano risultate “fitticie, suspectissime et false”: infatti, nei “registri litterarum” della cancelleria maggiore non Si era ritrovata alcuna copia di esse, “nec in aliqua filcia apparent, nec reperitur aliqua minuta illarum”, ibid., reg. 3655 (II), c. 16r-v, 23 luglio 1481. 176 Ibid., reg. 3652, c. 7v, 16 luglio 1465. Con la stessa motivazione, l’avogadore Andrea Vendramin, accoglie l’appello dei nunzi della Val Seriana Superiore che 138
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
esibivano iloro privilegi, contrastati da una ducale, con cui si stabiliva che certi gruppi
consortili potessero godere di esenzioni daziarie (ibid., c. 9r, 9 agosto 1465). 177 Ibid., reg. 3655 (I), c. 82r, 17 ottobre 1480. Per un altro interessante conflitto, risalente al 1452, interno ad una comunita, su cui l’Avogaria ebbe modo di intervenire, cfr. ibid., reg. 3653, c. 52r. Una ducale aveva concesso a trentacinque case “sive massaricios” di poter costituire “unum commune separatum ab ipsa villa Cornedi”, ¢ il diritto di poter eleggere “per tempora futura” un proprio Degano. All’autonomia giurisdizionale, cosi dichiarata, si aggiungeva quella amministrativa-fiscale: al nuovo Comune si concedeva infatti la completa segregazione dal vecchio, anche nella compilazione dell’estimo locale e nella riscossione dei dazi. La risoluzione dei consiglieri conteneva, a giudizio del Priuli, un grave vizio di procedura: pur incaricando i rettori di Vicenza di condurre un esame preliminare dei diritti e delle ragioni delle parti, non si era ordinato loro di valutare le “contradictiones” che la comunita aveva in animo di rappresentare, né di inviarle, in seguito, “in scriptis Dominio nostro, sicut disponunt leges nostre”.
178 Per le origini di tale procedimento nel diritto amministrativo veneziano, cfr. Mor, I] procedimento per “gratiam”. 179 Ibid., p. XLVII. 180 A.S.V.,S. T., reg. 1, c. 54r, 26 agosto, decreto sottoposto ad una votazione del Maggior Consiglio, 111 settembre successivo. 181 A testimonianza dell’urgenza dei problemi apportati dalla troppo disinvolta concessione di grazie, e degli scompensi che cid poteva causare sia a livello amministrativo che di immagine dell’autorita, pud essere letta un’altra legge, del 22 settembre 1447 (ibid., c. 79r), approvata dal Senato dietro proposta del capo di Quarantia Francesco Venier: si rendeva “necessarium providere” alle quotidiane richieste di gratia interposte “coram Dominio... ex subditis et fidelibus nostris terrarum et locorum a parte Terre”, che imploravano la remissione “de pecuniis” che dovevano, per diverse ragioni, alla Serenissima. Si doveva infatti sapere che quelle “gratie sepius transeant cum danno et incommodo negotiorum nostri Dominii propter responsiones que non fiunt dictis supplicationibus cum illa forma et ordine cum quo fieri deberent”. Pertanto si incaricavano i cancellieri dei rettori e camerlenghi inviati in Terraferma di tenere un registro ordinato, in cui verranno annotate le motivazioni delle suppliche e le risposte dei rappresentanti veneziani, le cui copie verranno inviate a Venezia. 182 Che venne tuttavia recepita con notevole solerzia. Cfr. ad esempio il caso in Ivi, Av. C., Raspe, reg. 3649 (II), c. 49r, 8 marzo 1448. Giovanni Totermanis di Bergamo raccontava agli avogadori come, “inscius et ignorans”, si fosse appellato all’auditore Paolo Foscolo, in quanto il podesta di Bergamo si era rifiutato di rendere esecutiva unanon meglio specificata gratia che il “Serenissimum ducale Dominium” gli aveva concesso. Tuttavia l’auditore aveva confermato l’atto del rappresentante veneziano, “in maximum damnum et preiuditium” dell’appellante. Tale sentenza doveva ritenersi, a detta dell’avogadore Andrea Morosini, macchiata da un grave vizio di legalita, “contra libertatem traditam” all’auditore, in quanto “hec appellatio spectabat officio Advocarie, cui pertinet facere observare gratias concessas 139
GOVERNANTI E GOVERNATI
per Dominium”. II 5 agosto dello stesso anno, Andrea Morosini realizzava ]’intromissione sull’atto del podesta Andrea Gritti, in quanto non rientrava nei compiti del rappresentanti veneziani inviati nel Dominio, quello di discutere o di impedi-
re il beneficio di una gratia, concessa ai sudditi, ibid., reg. 3649 (II), c. 61r. 183 Tbid., reg. 3649 (I), c. 86r-v. 184 Ibid., reg. 3649 (II), c. 4r. 185 Tbhid., reg. 3649 (II), c. 63r. Per un caso analogo, cfr. ibid., (I), c. 59v, 12 agosto 1444. 186 Ibid., reg. 3649 (II), c. 52v, 20 maggio 1448. 187 Cfr. Law, “Super differentiis”, pp. 5 e sgg. 188 Per un inquadramento generale sul tema della citta cfr. Berengo, La citta,
pp. 662-692. 189 Frugoni, Una citta. 190 Su Cipolla cfr. Varanini, I/ distretto, p. 105. Per la satira del villano, Milani, Le origini. 191 A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3648 (I), cc. 36v-37r. 192 Ibid., reg. 3649 (I), cc. 12v-13r. Uno degli interessi di questa vicenda consiste nel fatto che, gia nel corso del XV secolo, fosse pacificamente accettata la qualifica di civitas per un borgo come quello in questione. Sul problema politico della legittimazione di fronte all’autorita statale di realta istituzionali e sociali, che non possono esser definite ville — per la loro struttura interna complessa —, ma che non possiedono neppure le caratteristiche della citta. Questa tematica verra pill ampiamente ripresa nel prossimo capitolo. Per un inquadramento di ordine generale cfr. Chittolini, Quasi citta, pp. 3-26. 193 AS.V., Av. C., Raspe, reg. 3649 (I), c. 84r, 23 giugno 1444. Gli avogadori concludevano la loro arringa chiedendo che gli inquisiti fossero inviati al podesta di Vicenza, affinché “in casu ipso procedat et disponat secundum formam iuris”. 194 Ibid., c. 69r. In questa occasione gli uomini, convocati dal rappresentante veneziano, temendo un lungo processo, ed una condanna che vedevano preannunciata nell’ordine che quello aveva ricevuto di procedere per via d’inquisizione, si erano visti costretti ad abbandonare le loro case e a vagare “per aliena loca cum totali consumptione et dispersione familarum suarum”. La rubrica statutaria cul quegli uomini si erano appellati recitava che “homines communium et villarum debent et tenentur ad quacumque rixam accedere”, quello che cioé avevano fatto, e per questo secondo |’avogadore “nullum damnum aut nullam penam merebantur”. 195 Ibid., c. 58v, 24 settembre 1445. 196 Per un altro conflitto di competenze, verificatosi nel corso del 1432, tra rappresentanti veneziani, e per un’altra indebita intromissione dei consiglieri ducali cfr. ibid., reg. 3648 (I), c. 69r. L’avogadore Paolo Correr propone al Senato la cassazione di una ducale con cui si erano informati il podesta di Verona e quello di Legnago che la controversia che li opponeva doveva ritenersi sospesa fino a quando il Collegio avesse pronunciato il suo parere. Il Correr fonda il giudizio
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L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
di illegittimita dell’atto dei consiglieri adducendo il motivo che la “differentia” tra i due rettori — vertente sul fatto che entrambi ritenevano propria prerogativa il giudicare una causa tra i commissarii del cittadino veronese Gasparo Aleardi e il monastero di San Francesco di Legnago — era gia stata risolta dagli avogadori di Comun, che, dopo aver esaminato le sentenze pronunciate dai due rappresentanti veneziani, avevano deciso fosse confermata — rendendola in tal modo inappellabile — quella del podesta di Legnago. 197 Tbid., reg. 3649 (II), c. 92r. 198 Ibid., reg. 3654 (II), c. 4r-v, 20 gennaio 1477. 199 Ibid., c. 2r, 17 dicembre 1476. Questo il tono della aggiunta invalidata: “Et non desistatis per omnem modum dare perfectam executionem usque ad integram satisfactionem illius sententie, ut illi de Sancto Daniele incommodo et damno suo cognoscant et sentiant maiores esse justicie vires quam violentie et protervitates sue”. Per un altro intervento degli avogadori contro indebite additiones interposte dai consiglieri ad un decreto del Senato, cfr. ibid., reg. 3655, (II), cc. 25r-27r: in quest’occasione erano state sei ducali con cui si erano stabiliti aumenti di salario a doctores che tenevano una lettura nello Studio patavino. 200 Ibid., reg. 3656 (II), c. 53r. 201 Tbid., reg. 3657 (Il), c. 3r. 203 Sul conflitto sorto attorno ai famuli vicariorum, cfr. Varanini, Il distretto di Verona, pp. 148-151, e Scroccaro, Dalla corrispondenza, pp. 634-635, dove si accenna alle numerose richieste delle parti, ora al Collegio, ora all’Avogaria. Era presumibilmente questa particolare preoccupazione dimostrata dalle istituzioni veneziane nei confronti del problema, con la disponibilita di alcuni avogadori a far riaprire questioni e conflitti che sembrano ormai sopiti. E il caso dell’intromissione realizzata nel 1491 da Girolamo Badoer a favore di alcune famiglie di una piccola comunita sottoposta al vicario di Montorio, che avevano chiesto fossero considerate illegittime due sentenze — risalenti addirittura al 1458 e al 1469 — con cui i rettori di Verona, quali giudici d’appello, avevano laudato due precedenti atti del giusdicente “super controversia damnorum datorum”. L’avogadore accoglieva l’appello, in quanto quelle sentenze erano state “male et indebite facte contra jus et justiciam”, a danno e pregiudizio di quelle famiglie, perché non furono citate in giudizio al tempo della prima sentenza, “nec auditis aut intellectis eorum iuribus, et quia fundate sunt super falsa causa et contra formam statutorum fidelissime communitatis Verone”, A.S.V., Av. C., Raspe, reg.
3657 (I), c. 68r, 29 aprile 1491. 203 Waranini, I/ distretto di Verona, p. 149, cita anche le giustificazioni addotte dal sindaco della comunita di Vigasio, convocato dal vicario Pierfrancesco della Torre, per spiegare le violenze commesse dagli uomini sottoposti alla sua giurisdizione: “se li vicarii non havesseno usato per la mazor parte usate et con-
sentite a lhor nodari et famegi pur assai manzarie... lor non sarieno entrati in questa lite di famegi”. Ma riferendo dell’episodio un letterato cittadino, Ludovico Cendrata, non esitera a parlare di “rusticana rabies diu conans deglutire civium fructus et humanum sanguem absorbere”. 141
GOVERNANTI E GOVERNATI
204 In tal modo l’intervento dell’Avogaria, ponendosi come momento ultimo di mediazione e di risoluzione della controversia tra citta e distretto, tende anche a definire competenze ruoli ed autorita degli organismi di governo veneziani. Un analogo spostamento dalla difesa dei diritti delle parti che si appellavano all’Avogaria a considerazioni di natura politico-costituzionale, é¢ presente in numerosi altri interventi di questi anni. Molto significativa la motivazione con cui Vin-
ciguerra Dandolo ottiene in Quarantia la cassazione di una ducale, con cui si intimava ai rettori di Verona di non tenere in alcuna considerazione due mandati degli auditori novi su una proprieta messa all’incanto dalla Camera fiscale della citta, e “super certis damnis datis”, A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3656 (II), cc. 70Qv-71r, 5 maggio 1489. In precedenza Francesco Sanudo aveva accolto l’appello di una comunita della Val Seriana in cui questa dichiarava che i propri diritti erano stati conculcati da una “incisio et depennatio” operata dagli stessi avogadori, nel 1472, di una sentenza dei sindaci, favorevole alla stessa comunita, sulPallibrazione nella quota d’estimo di due abitanti che pretendevano di godere il privilegio dell’esenzione. In questo caso l’incisione degli avogadori doveva ritenersi “minus quam debite facta et processa”, in quanto non era stata introdotta nei consigli “que solent et debent esse judices oppinionum et intromissionum ip-
sorum advocatorum”, ibid., reg. 3654 (II), c. 40r-v, 10 dicembre 1477. 205 Cozzi, Politica, societa, istituzioni, pp. 239-242. 206 [bid., p. 245. Per una comparazione con la politica adottata dallo Stato di Milano e dagli altri Stati italiani in generale cfr. Ansani, La provvista dei benefici.
207 A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3648 (I), c. 38r-v. 208 Tbid., reg. 3648 (I), c. 35r. 209 Tbid., reg. 3650 (I), c. 46v. 210 Ibid., reg. 3655 (II), c. 13r, 5 luglio 1481. Attraverso quella ducale si prendeva atto della “aserta renuntia” da parte di tale Bartolomeo de Tarvixio dell’ordine dei predicatori a continuare la causa che lo opponeva al patavino Francesco Vercellense, dottore in utroque, sul godimento del beneficio dell’ospedale di Santa Maria e Santi Giacomo e Sebastiano di Monselice, e con cui si poneva “in tenutam et corporalem possessionem” dell’ente il figlio del giurista patavino. Con la piu tradizionale motivazione, e cioé che le ducali, favorevoli ai frati di Santa Maria
delle Grazie, erano state emanate “contra formam capitularis Consiliariorum, qui se non possint nec debent impedire de his causis que possunt per alias curias terminari”, l’'avogadore Francesco Morosini, accogliera l’appello interposto da tale Pietro Manzoni di Brescia, in lite ormai da molti anni con quell’ente ecclesiastico, ibid., reg. 3654, c. 50r, 7 marzo 1476. 211 Per un inquadramento di ordine pit generale, oltre a De Sandre, Contadini, chiesa, confraternita, sono da vedere le suggestive pagine di Le Bras, La chiesa e il villaggio. 212 Sulla sopravvivenza quattrocentesca di tale pratica, cfr. Hay, La chiesa, pp. 83 e segg. 713 A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3656 (II), cc. 84v-85r, in Minor Consiglio. 214 Ibid., reg. 3655 (1), c. 44r-v. Cfr. anche l’accoglimento da parte dell’Avo-
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L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
garia dell’istanza avanzata dai rappresentanti di Conegliano e |’annullamento di ducali inviate nel 1481 al rettore veneziano. Con quelle lettere si era stabilito che, a favore di tale Giovanni Caroncello fossero poste “in executione” alcune bolle apostoliche a proposito del possesso della pieve di San Leonardo di Conegliano, da cui doveva pertanto essere rimosso !’attuale presbitero. “Male et indebite scripte”, avevano sentenziato gli avogadori, perché contrastanti con precedenti mandati ducali, e soprattutto con la legge del Pregadi del 5 marzo 1459, secondo la quale “non poterant ipsi Consiliarii absque auctoritate consilii rogatorum talia mandare”, in quanto l’utilita del beneficio suddetto, come risultava dalle deposizioni di alcuni testimoni, superava i cento ducati, ibid., reg. 3655 (II), cc. 31v-32v, 4 gennaio 1482. 215 Per il controllo della corretta applicazione delle leggi da parte degli avogadori, cfr. anche ibid., reg. 3655 (II), c. 65v, 23 dicembre 1482. Alvise Lando riusciva a convincere la Quarantia dellillegalita dell’atto del podesta capitano di Ravenna con cui si era concesso ad Antonio del Carretto il privilegium civilttatis, anche se era risultato che lo stesso, secondo quanto prescrivevano gli statuti per l’ottenimento del titolo di cives, aveva sostenuto per 21 anni “onera et factiones” reali e personali con la citta. Il privilegio tuttavia, secondo l’avogadore, era stato “dolose factum”, ed in frode delle leggi della Serenissima che proibivano a chiunque non sia “cives natione Dominii nostri” di conseguire benefici ecclesiastici nello Stato da Terra. Il 23 ottobre dello stesso anno Alvise Badoer intromette le ducali con cui i consiglieri avevano accolto l’appello loro interposto dal frate Francesco Fabbri dell’ordine degli Umiliati di Crema, in lite con Marco Cristiani, dello stesso ordine, sulla collazione della prepositura di Santa Marina di Crema: quelle lettere erano da annullare in quanto impetrate “per falsam informationem” e contro cid che i consiglieri avevano decretato gia nel lontano 1473, “de consensu ambarum partium”, ibid., c. 62r. Nello stesso periodo verranno considerati altri appelli di analoga natura: il 19 gennaio 1483, ibid., cc. 66v-67r. Con le medesime motivazioni addotte nella intromissione appena analizzata, si eccepira della legittimita di alcuni mandati dei consiglieri ducali al podesta e capitano di Ravenna allo scopo di risolvere la controversia che vedeva in campo il canonico Francesco Mazzone e il presbitero Nicolo da Drivasto, per la concessione della prebenda di Sant’Agata Maggiore. Ancora Alvise Lando fara annullare alcune ducali con cui si era stabilito che la giurisdizione sul monastero di Santa Croce fosse di pertinenza dell’ordine dei Crociferi, ibid., cc. 90r-91v.
216 Ibid., reg. 3658, cc. 18v-19v, 4 settembre 1494, in Quarantia criminal. 217 Tbid., c. 4r, 18 aprile 1494. 218 Tintromissione verra convalidata a larga, ma non clamorosa maggioranza dai senatori: 75 di essi votarono a favore, 10 preferirono astenersi, e 20 si pronunciarono contrari. Per un altro interessante caso civile in cui venne giudicato esorbitante dalla corretta giurisdizione un intervento avogaresco, cfr., ibid., c. 7v-r, 12 maggio 1494. In questo caso si era appellata all’avogadore Andrea Cappello Cecilia, vedova di Alessandro Marin, contestando la parte fatta votare al Pregadi dall’avogadore Domenico Bollani, con cui si era deliberato che un 143
GOVERNANTI E GOVERNATI
non meglio specificato “instrumentum”, rinvenuto nelle filze del notaio Francesco a Valibus, e a lei favorevole, si dovesse ritenere redatto “contra omnem veritatem”. Troppi difetti procedurali e sostanziali macchiavano, a detta del Cappello, Pintervento del Bollani: quella parte era stata “male et indebite posta”; nelParchivio dell’Avogaria non era stata riprodotta alcuna copia dello strumento notarile in questione; una delle parti in causa, “de cuius honore et preiuditio agebatur”, non era stata citata in giudizio; infine, avevano preso parte alla seduta del Pregadi, alcuni patrizi “qui ex forma legum nostrarum” non avrebbero dovuto intervenire, “sed debebat expelli”. Tuttavia la Quarantia boccera questa intro-
missione con 19 voti, contro 10 astenuti e solo 3 favorevoli. 219 Ibid., reg. 3657 (II), c. 44v. 220 [bid., c. 45r. 221 Ibid., cc. 78v-79r. 222 Ibid., c. 81v, 18 agosto 1491, in Minor Consiglio. 223 Ibid., cc. 82v-83r, 2 settembre 1491, in Quarantia criminal. 224 Ibid., reg. 3654 (I), c. 55r, 26 aprile 1476. 225 Ibid., reg. 3657 (II), c. 2v, 14 novembre 1491. 226 Ibid., reg. 3655 (II), c. 7v, 2 maggio 1481. 227 Ibid., reg. 3655 (1), c. 44r, 20 ottobre 1480. 228 Ibid., c. 48v, 12 febbraio 1481. 229 Ibid., reg. 3647, cc. 3v-4r, 5 aprile 1417. 230 Ibid., reg. 3652 (I), c. 37r-v, 10 giugno 1455. 231 Per alcune indicazioni a questo proposito, cfr. Zamperetti, I piccoli prin-
cipi, pp. 178-179, e 181. 232 Ibid., p. 178. Questo tipo di pressioni non poteva non emergere dalle stesse
istanze avanzate dagli avogadori. Il conte Trussardo, al momento di avanzare le sua proposta per l’investitura come benemerito, “multa falsa exposuerat et vera occultaverat”. Tra queste falsificazioni, tendenti ad irrobustire presso la Dominante i suoi diritti, si potrebbe citare quella per cui aveva narrato di aver gia ottenuto “in feudum” dal Capitano generale una non meglio definita possessione, per il valore di 600 ducati. Non veritiera era pure risultata l’affermazione — grazie alla quale il giusdicente aveva ricevuto un risarcimento di 200 ducati — per cui il “castrum Calepii” era andato interamente distrutto. Assolutamente fraudolente altre due asserzioni avanzate da Trussardo in quell’occasione: per la prima i suoi fratelli sarebbero stati uccisi dal Duca di Milano; per la seconda, — avanzata con l’evidente intenzione di scaricare dalle spalle della famiglia un carico fiscale indesiderato — le entrate dell’intera giurisdizione sottoposta alla potente famiglia, dazi compresi, non superavano i 100 ducati. Cosa che non poteva risultare in alcun modo credibile, quando si consideri, come evidenziava la relazione redatta dall’avogadore Antonio Diedo inviato nella valle con un mandato ispettivo straordinario, che la giurisdizione comprendeva ben 112 “ville” e 25 “castella” A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3652 (I), c. 37r-v, 10 giugno 1455. Per un’altra questione, meno intricata nelle valenze giurisdizionali di quella ap144
L’AVOGARIA DI COMUN E LA TUTELA DELLA LEGALITA
pena citata, cfr. l’intromissione di Pietro Foscarini sulla sentenza di confisca ordinata dai Provveditori sopra Camere nei confronti delle proprieta dell’“egregius doctor” Jacopo Lana di Brescia, ibid., reg. 3654 (I), c. 82v, 21 novembre 1476.
233 Ibid., reg. 3659 (I), c. 28r, 8 gennaio 1501. 234 Quel capitolo recitava: “Dechiarando etiam che al pagar delle ditte decime se intendano tuti et singuli j qualli habiano gastaldie, boschi et altre possessioni over valle et altri beni, livelli et pheudi et decime de la Sig.ria nostra: qualli fin hora hanno recuso pagar, solo excusation de certo capitulo de i loro inconti che dice che siano assolti de decime, le quali decime se intendano de j novali pertinenti al vescovo, de le qual se faxeva mention ne li capitoli de le affictation avanti che maj per la Sig.ria n.ra fossero poste decime, de le qual decime questo Conseio mai ha voluto exceptuar alguna persona come é ben raxonevolle”, ibid. 235 Zamperetti, I piccoli principi, pp. 92-93. 236 In questo contesto vale la pena di segnalare un altro caso di questo periodo, per molti versi simile a quello sopra citato. I] 23 luglio 1500 l’avogadore Pietro Morosini porra l’eccezione di legittimita nei confronti di una sentenza di un suo predecessore con cui si era annullato un atto dei giudici del Procurator. L’intervento di questi giudici aveva risolto la controversia vertente tra Bernardo Barbarigo, erede del defunto doge Agostino, intervenuto a nome della moglie Ursia, figlia di Agostino Foscarini, il quale rappresentava I’altra parte in causa. Il conflitto, lasciato aperto da complesse clausole ereditarie, verteva sul possessum et introitum della gastaldia e decima di Bovolenta, nel distretto di Padova. “Male et indebite datum... per libertatem attributam” agli avogadori, questa la motivazione del Morosini approvata dal Pregadi, in quanto la giurisdizione degli atti testamentari riguardanti il massimo esponente della Repubblica rientrava nelle competenze dei gastaldi e dei sopragastaldi, in A.S.V., Av. C., Raspe, reg. 3659 (I), c. 78v. Questa intromissione venne approvata dal Pregadi, allo stesso modo di un’altra di cui furono promotori Pietro Giustiniani e Francesco Sanudo, il 9 luglio 1474, con cui si ingiungeva ai rettori di Verona di non tenere in alcuna considerazione alcune lettere ducali che avevano ricevuto lo stesso anno. Con quel mandato i consiglieri avevano ordinato che fosse assegnata ai patrizi veneziani Pietro Soranzo e fratelli dal Banco, Giovanni Francesco Bragadin, Giovanni Corner e fratelli, la terza parte di Villa Bartolomea, “cum omnibus et quibuscumque jurisdictionibus, juribus et vicariatu” ad essa connessi. Lettera “minus quam debite emanata” a detta degli avogadori, perché in contrasto con quanto deliberato in Pregadi il 16 settembre 1436, ibid., reg. 3653 (II), c. 66v. 237 Cfr. infra, cap. III. 238 |e fonti archivistiche utilizzate, A.S.V., Segretario alle voci, Misti, regg. 4-7; ivi, Av. C., Prove d’eta per magistrati, regg. 2-3, e ibid., Balla d’oro, regg. 1-3. Per l’elezione al Consiglio dei Dieci, cfr. ivi, C.X, Misti, regg. 11-29. Per le notizie biografiche, salvo differente indicazione ho utilizzato A.S.V., Barbaro, Arbori, e Cappellari, Campidoglio veneto. 239 Cfr. infra, pp. 167-168. 240 Finlay, La vita politica, pp. 165 e sgg. 145
GOVERNANTI E GOVERNATI
241 Malipiero, Annali, pp. 668-670, ricostruisce la vicenda in cui fu coinvolto il Lando assieme a suo cognato Lorenzo Zane. Per un esame del caso e della condanna cui fu sottoposto cfr. A.S.V., C.X, Misti, reg. 19, cc. 79v-80v, 28 agosto 1478; e ibid., reg. 20, cc. 46v, 131v-132r, 23 febbraio e 31 maggio 1483, per un riesame della sentenza che lo condannava non troppo severamente al confino a Vicenza. Dopo di questa data non si trovano piu notizie sulla vita di questo patrizio, ma da un provvedimento del Senato a favore del figlio Marino, ri-
sulta che non fosse pit in vita nel 1485, Ivi, S. T., reg. 9, c. 162r. Cfr. anche quanto dice King, Umanesimo e patriziato, pp. 385-386, sul livello della sua cultura umanistica e sul sodalizio con due figure intellettuali del livello di Bernardo Giustiniani e Ludovico Foscarini, che tra l’altro ricoprirono anch’essi la carica di Avogadore. Della sua competenza giuridica fa fede una parte
del Senato del 1457, A.S.V., S. T., c. 45r. 242 F gli esempi si potrebbero moltiplicare. Zaccaria Trevisan di Zaccaria, doctor et miles, nato nel 1414, fu avogadore nel 1456, nel 1459 e nel 1464. Importanti gli incarichi che gli vennero affidati nel governo del Dominio: podesta di Verona a soli trentacinque anni, luogotenente della Patria del Friuli nel 1453, capitano di Brescia nel 1457, podesta di Padova nel 1462. Dal 1451 al 1465 ebbe anche modo di essere due volte consigliere ducale, quattro volte savio di Terraferma e in tre occasioni savio del Consiglio. La morte lo coglie a soli cinquantadue anni impedendogli di raggiungere traguardi ancora piu prestigiosi. Un destino analogo a quello di Barbone Morosini, anch’egli addottorato in diritto: nato nel 1414, e morto a quarantacinque anni mentre era podesta a Bergamo, avogadore nel 1455, era gia stato tre volte savio di Terraferma, capitano a Verona (1453) e in un’occasione consigliere dei Dieci. Cfr. anche quanto dice King, Umanesimo e patriziato, sulla sua profonda cultura umanistica e giuridica lodata da Ludovico Foscarini e Flavio Biondo, pp. 600-601. Un ultimo caso per la prima meta del Quattrocento. Marco Lippomanno anch’esso doctor in utroque, nato attorno al 1390, fu avogadore nel 1439. Cinque volte savio di Terraferma, tre volte consigliere, due volte savio del Collegio, tre in Consiglio dei Dieci; podesta di Padova nel 1440 e luogotenente della Patria nel 1443. 243 E anche opportuno sottolineare come quattordici degli avogadori considerati avessero occupato due volte la carica di rettore. 244 QOltre alle fonti archivistiche veneziane gia segnalate che riportano accanto al nome degli eletti alle varie cariche, anche se quelli erano doctores 0 equites, sono da vedere Zonta-Brotto, Acta graduum academicorum, vol. I, che comprende tutti gli addottorati allo Studio patavino dal 1406 al 1450.
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Una magistratura per lo Stato da Terra: gli Auditori novi-Sindaci
Formazione e attribuzionti Nello specifico settore del controllo sugli atti dei rappresentanti in-
viati in Terraferma una funzione analoga a quella degli Avogadori svolgevano gli Auditori novi. Si é gia visto come la loro attivita fosse avvertita con un certo rancore da quel ceto di giuristi delle citta soggette alla Repubblica — si trattasse di Padova o Udine, di Treviso o di Bergamo, di Verona o di Brescia —, che controllava l’amministrazione della giustizia civile, e come gli stessi Avogadori fossero sovente chiamati ad intervenire per rimediare alla gravi disattenzioni o agli arbitri di cui spesso gli Auditori si rendevano colpevoli. A questo punto sembra opportuno chiedersi, al di la del naturale effetto di distorsione che l’interporre un appello o presentare dei capitula por-
tava con sé, quali fossero le effettive competenze attribuite a questa magistratura, quale in concreto il comportamento di chi la componeva, quali in definitiva i motivi di resistenza e di opposizione, sia a livello di istituzioni di governo che locali, che sembrano coinvolgerla nel corso del secondo Quattrocento. “Ditemi ancor quando i magistrati di fuora danno le sentenzie contra povere persone (come spesso avviene, perciocché le differenze nascono tra poveri come tra ricchi, ed i mali sono da poveri come da ricchi
commessi: ma i poveri, per non poter spendere, non possono gia ricorrere a Vinegia, o siano le loro cause criminali o civili, perciocché di tutte parlo), avete voi sopra questo ordinazione alcuna per 147
GOVERNANTI E GOVERNATI
la quale i poveri possino ancora eglino, avvenga che dalla poverta siano impediti, ottenere la loro ragione?”. Questa la precisa domanda che il fiorentino Donato Giannotti, nel suo dialogo Della Repubblica de’ Viniziani, immagina sia posta dal suo concittadino Giovanni Borgherini al patrizio veneziano Trifon Gabriel!. Certamente in un autore dalle forti simpatie repubblicane come Giannotti?, non poteva mancare la curiosita per un’istituzione che rappresentava una ben precisa funzione politica e che, nonostante alcuni poco riusciti tenta-
tivi tardo quattrocenteschi*, non era mai riuscita ad imporsi nel panorama costituzionale fiorentino. I] Gabriel nella sua risposta aveva insistito sullo stretto nesso, vigente all’ interno di ogni repubblica ben ordinata, che collegava un efficace funzionamento delle istituzioni di governo con l’obbedienza dei sudditi e il mantenimento dell’ordine pubblico. Solamente se ai governati viene offerta la possibilita di “vivere quietamente, senza essere oppressati, stanno contenti né mai con-
citano tumulto alcuno”; anche i pit ambiziosi, “vedendo il popolo viver contento, sono costretti a star quieti”. Per questi motivi di ordine politico, cosi concludeva il patrizio veneziano, la Repubblica aveva istituito, con decreto del Maggior Consiglio del 12 ottobre 1410,
la magistratura degli Auditori novi‘. Per Gasparo Contarini, che scrive nello stesso periodo del Giannotti, ’immagine proposta dall’autore fiorentino non costituirebbe altro che un mito, certamente funzionale ad un’idea politica, ma privo ormai di ogni concreta efficacia pratica: quello degli Auditori era a suo tempo un “magistrato molto illustre”, ma ora doveva considerarsi definitivamente “oscurato”*. Ci si deve interrogare, se si ritiene plausi-
bile l'affermazione del Contarini, che comunque sembra suffragata dalle testimonianze archivistiche, sui motivi che hanno provocato la crisi irreversibile della magistratura degli Auditori. Giannotti aveva sottolineato come il momento pit qualificante dellattivita degli Auditori fosse costituito dall’obbligo di compiere, al termine del loro mandato ordinario della durata di sedici mesi, un itinerario per la Terraferma veneta “accidcché se alcuno il quale non avesse potuto ricorrere a Vinegia ad appellare, si volesse lamentare, non sia privato di tale faculta”*®. Tuttavia nulla meglio di un’operetta anonima, redatta attorno alla meta del XV secolo, ci restituisce il senso delle intenzioni che avevano determinato la creazione della magistra148
UNA MAGISTRATURA PER LO STATO DA TERRA
tura, del ruolo di mediazione tra governanti e governati che ad essa veniva attribuito, del rituale e delle procedure cui gli eletti si dovevano attenere’. L’autore di questo breve trattato specifica come I’“officium Syndicatus” comportava una trasformazione ed un allargamento, dal civile al penale, del potere e della giurisdizione attribuita agli Auditori. Sia nel periodo per cosi dire “ordinario”, sia in quello “straordinario”, questi erano tenuti a giudicare applicando “leges et statuta” delle citta soggette, dovendo al contempo svolgere un’opera di razio-
nalizzazione amministrativa e di pacificazione sociale: “in tota jurisdictione veneta omnibus populis humanitate et vultus hilaritate jura describere et nihil non scriptum relinquere et super omnia semper retinere authoritatem maximam huius magistratus fidei suae commissi”®. Era necessario definire con precisione i limiti dell’azione che i Sin-
daci potevano intraprendere nei confronti dei Rettori, allo scopo di evitare fastidiose conflittualita e di non ingenerare presso i sudditi un’immagine distorta dell’autorita veneziana. Un’attenzione che non si limitava alla sfera dell’attivita giurisdizionale, ma che investiva anche il cerimoniale. I Sindaci innanzitutto, “ante eorum discessum”, erano tenuti ad informare i Rettori della data esatta in cui sarebbero entrati nella loro giurisdizione, in modo che questi potessero far pubblicare un proclama “vulgari sermone” comprensibile a chiunque si sentisse danneggiato da sentenze o atti del rappresentante veneziano?. I Rettori erano inoltre tenuti a provvedere all’alloggio dei magistrati itineranti, che non doveva quindi gravare sulle comunita, fornendo loro una “domus idonea cum lectis et aliis rebus necessariis”. I patrizi inviati a governare le citta della Terraferma erano anche sottoposti all’obbligo di attendere i Sindaci una o due miglia fuori dalla cinta muraria, tranne che a Padova e Verona. Una delle maggiori preoccupazioni del legislatore sembra essere quel-
la della ricerca di un equilibrio tra le diverse immagini dell’autorita statale che Rettori ed Auditori incarnavano presso i sudditi. Un raffinato gioco di dosaggi, dietro cui si puo scorgere il timore che I’istituzione del sindacato potesse rappresentare, agli occhi dei governati, una occasione per mettere in discussione |’autorita e la legittimita dei rappresentanti stabili della Repubblica. Per questo, al momento di attraversare la citta, i Rettori precedevano i Sindaci; questi ultimi, invece, al momento di dare “publicam audientiam” sedevano nella 149
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loggia del comune in una posizione gerarchicamente superiore. Analoghe esigenze ideologiche o propagandistiche ispirano un’altra norma, per cui i Sindaci non avrebbero mai dovuto dimostrare “malum animum” verso quei Rettori “qui se male gessissent”, mentre, al momento di lasciare la citta, avrebbero dovuto lodare “coram populo” quelli che avessero ben governato. Appena attraversate le porte della citta, era obbligo dei Sindaci procedere ad una rilettura del proclama in volgare, che, nella sua enunciazione, sembra offrire loro la facolta di procedere attraverso criteri equitativi e discrezionali, e di intervenire per via d’inquisizione in casi, non meglio specificati, di particolare gravita. Tuttavia questa pienezza di poteri veniva limitata da alcune precisazioni tendenti a ricostituire una sorta di diaframma politico-istituzionale tra gli stessi Sindaci e quei soggetti che la legge proclamava di voler tutelare. Allo scopo di accertare la verita sulle denunce loro presentate, era dovere dei Sindaci convocare dodici “ex primariis civibus”, scelti soprattutto tra coloro che avevano intrattenuto una qualche “practicam et familiaritatem” con i Rettori veneziani. Era questa rappresentanza di esponenti del ceto di governo locale dai sentimenti non antiveneziani, tra le cui fila non é difficile ipotizzare vi fossero dottori in diritto, che doveva richiamare i Sindaci al rispetto delle “leges et statuta”, dei privilegi giurisdizionali urbani. La volonta di carpire la benevolenza dei giudici inviati dalla Serenissima da parte dei ceti eminenti locali poteva tuttavia andare ben oltre le rigorose e definite formalita stabilite dalla legge. A Brescia, nel 1483, i Sindaci vennero accolti cosi: la comunita “la note... ne fé una matinada”, scrive Marin Sanudo, con tanto di “soni di lauti, dolcimelli, tamburlini, flauti, tromboni... et poi trombe con pyfari”!°. La mattina successiva si fece ricevere dai tre patrizi Nasino dalla Stella, quale cancelliere della citta, con “uno mirabile presente”, segno di be-
nevolenza e di affetto nei confronti dei rappresentanti dell’autorita del Principe, consistente in “3 marzapani con le arme de li Syndici”!". Alla fine della loro missione, in caso di “manzarie” commesse da-
gli ufficiali veneziani, i nostri magistrati dovevano tenere l’udienza “in lodiis aut palatiis publicis”, e affinché fosse manifesta a tutti i sudditi
la buona volonta della Repubblica erano tenuti a restituire i denari cosi indebitamente estorti. 150
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E necessario precisare che la documentazione archivistica, assai scar-
sa, concernente gli Auditori-Sindaci non consente di trarre conclusioni di ordine generale sul tipo di quelle rese possibili dall’ampia serie di sentenze ed intromissioni degli Avogadori di Comun!?. Tuttavia si puo affermare, pur tra mille cautele, che le episodiche testimonianze conservate permettono di avanzare una serie di ipotesi sul particolare ruolo di mediazione esercitato dalla nostra magistratura. Cerchiamo di distinguere natura degli appelli e modalita degli interventi. Ad un primo livello potrebbero essere posti quei provvedimenti su atti e sentenze dei Rettori, riguardanti controversie su riscossione di fitti, pignoramenti di beni, vendite di campi o di proprieta. Indicativi a tale proposito alcuni atti di quei patrizi veneziani che compirono, nel 1461, il tradizionale itinerario in Terraferma con il titolo di “Auditores novi sententiarum, Advocatores, Provisores et Sindici generali a parte terre” 13. Il 12 marzo risolvono “ex arbitrio” tre controversie che erano sorte tra conduttori di terre a livello e proprietari a Valle d’Istria!*. Cosi come non esitano a dettare norme precise al podesta di Portobuffolé, nel distretto di Treviso, allo scopo di regolare un conflitto sorto sul prezzo di vendita della legna sul pubblico mercato!*. Con la motivazione che era contrario al pit elementare senso di giustizia e di umanita, i sindaci annullano, sempre a Portobuffolé, il decreto con cui il rappresentante veneziano aveva ordinato la messa all’incanto della proprieta di un tale, che, condannato “pro possessione turbata”, non poteva risolvere la condanna pecuniaria che gli era stata comminata, a causa della sua poverta!*. A Oder-
zo, accogliendo le suppliche di alcuni abitanti delle ville di San Michele e Villanova, invalidano diversi ordini di pignoramento emanati dal rappresentante veneziano, in quanto si era proceduto “indebite” a danno dei poveri “districtuales” 1’. Il 26 marzo viene giudicata “excessiva” pronuncia dal podesta di Asolo, con cui si ordinava la messa in vendita di una casa “murata cum duabus tegentibus, curtivo et orto” nella villa di Pagnano, a causa di un debito di 40 lire contratto dal proprietario nei confronti del denunciante!8. Nella stessa occasione
i sindaci manifestano allo stesso rettore la loro volonta di intromettere alla Quarantia civile una sentenza di condanna da quest’ultimo emanata nei confronti di due contadini della villa di Pagnano, accusati dai rappresentanti del comune di Crespano di aver danneggiato, 151
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cavalcato e condotto al pascolo animali sui “bona communis” !®. Interventi di questo tipo mettono bene in luce il particolare ruolo di pacificazione sociale e di diffusione dell’ immagine di buon governo che doveva essere rappresentato dai Sindaci. Un modo di risolvere i conflitti secondo il criterio dell’equita e della giustizia, che sembra venire incontro direttamente, senza deformazioni di tipo culturale o politico, alle attese di chi si rivolgeva loro. Si pensi alle richieste dei rappresentanti dei “distrectuales” di Castelfranco, che, il sedici aprile, ottenevano dai sindaci un mandato con cui si richiedeva al rappresentante veneziano di ascoltare le loro rimostranze sulla composizione dell’estimo ad opera dei “cives” e che facesse giustizia “prout videbitur”2°. Disposizioni ancora pil precise aveva ricevuto il podesta di Camposampiero2'. Qui i “distrectuales”, lamentandosi delle infinite “manzarie” perpetrate dai “precones” — officiali del borgo incaricati dell’amministrazione della bassa giustizia, della notifica delle condanne e dell’esecuzione delle sentenze —, avevano chiesto fos-
sero resi operativi alcuni precedenti mandati dei sindaci, con cui si stabiliva che i “precones” non potessero essere piu di dieci. Allo stesso modo alcuni “distrectuales” di Monfalcone, nella Patria del Friuli, definiti “batitores furmenti”, chiedevano ed ottenevano dai sindaci ?annullamento di un atto del podesta veneziano con cui si proibiva la vendita sulla pubblica piazza del prodotto del loro lavoro??. Una attivita questa dei sindaci inviati con mandato ispettivo per lo Stato da Terra nel corso del 1461, che dovette risultare particolarmente efficace se verra ancora ricordata e mitizzata dai rappresentanti delle comunita della Valmarena, infeudata ai Brandolini, nel distretto di Treviso, quando, nel 1512, implorarono la Serenissima Signoria affinché ripristinasse i loro diritti di caccia e di pesca, regolati da “antiquissime consuetudines” e ora conculcati dai giusdicenti?3. Era ancora a ordini emanati da questi sindaci che si riferivano, il 9 marzo 1497, ottenendo udienza al Senato, i “nuntii” delle comunita di Motta e Oderzo, Serravalle e Portobuffolé, sedi di podesteria nel trevigiano?*. Notevolmente efficace appare l’azione dei sindaci a livello di queste piccole podesterie, borghi o terre fortificate in cui risiedeva un rappresentante veneziano. Realta locali, queste, di difficile identificazione, e che si stanno solo recentemente affermando alPinteresse della storiografia: definibili “quasi citta”, in quanto non 152
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possiedono la complessa articolazione di ceti e di poteri civili ed ecclesiastici, l’ampiezza giurisdizionale e le facolta di controllo su un ampio territorio che caratterizzano le realta urbane, ma gia distinte dalla piu elementare stratificazione che connota la condizione delle piccole comunita rurali che costellano la Terraferma veneta25. Puo essere interessante sottolineare come il cancelliere dei sindaci, che redasse il registro di interventi da cui prende le mosse il nostro discorsO, non esiti a definire “civitates” centri come Castelfranco, Castelbaldo, Monfalcone o Camposampiero, Rovereto o Sacile, e “cives” i loro abitanti, mentre tutti coloro che non vivono entro le mura del piccolo centro vengono qualificati come “distrectuales”. Tale scelta lessicale, pit che rappresentare il riconoscimento delle aspirazioni di questi centri minori ad essere “citta”, sembra piuttosto essere riconducibile ad una passiva ricezione dell’influsso prodotto dall’occasionale incontro tra governanti e rappresentanti di quelle realta particolari in cui stava cominciando ad emergere un orgoglioso sentimento di identita. Nel corso del primo periodo del governo della Terraferma — a differenza di cid che si verifichera a partire dagli anni ’50 del XV secolo, quando cioé si pose alla classe dirigente veneziana il problema politico della difficile gestione dei privilegi e delle auttonomie delle comunita soggette — sembra proprio che fossero le stesse istituzioni so-
vrane, in primis il Senato, ad investire l’intervento dei giudici itineranti di ampi poteri discrezionali, o a legittimarlo a livello di istanza giurisdizionale superiore. Nel 1432 i Pregadi demandano agli auditori in carica l’esame delle istanze di quei bergamaschi che si erano rivolti alla Serenissima perché fosse loro consentito l’appello di sentenze “diffinitive” pronunciate dai rettori veneziani: sentite tutte le “querele” che vi si presenteranno, si era cosi ingiunto agli auditori, con piena liberta, finché non sembrera opportuno al “consilium Rogatorum” di provvedere diversamente?°. Il 17 giugno 1417 i senatori ritennero che si dovessero eseguire “ad litteram” le “determinationes” dei sindaci, i quali, allo scopo di sedare le “differentie... pro terminis pasculis et confinis” intercorrenti tra le ville di Paderno e Merlengo del distretto tarvisino, erano stati incaricati dallo stesso consiglio di giudicare “non obstantibus actis et sententiis quas et que ipse partes habuerunt” e di portare le loro pro153
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poste a quei “consilia” che a loro sarebbe sembrato opportuno, “ut cessent dicti errores et multa inconvenientia que sequi possint inter tam bonas communitates”2’. Gli stessi tre patrizi inviati in Terraferma saranno oggetto di un altro intervento del Senato, il 21 agosto dello stesso anno2®. Abbiamo ricevuto le lettere con le quali ci avete notificato l’esecuzione dei nostri mandati riguardanti le asprissime con-
troversie insorte tra comunita appartenenti ai distretti di Este, Montagnana e Verona a proposito di opere di arginatura dei corsi d’acqua, avevano esordito i componenti del prestigioso consesso veneziano. Ora abbiamo sentito essere sorti nuovi motivi di frizione, pertanto “damus vobis libertatem dictas differentias superiores et principales terminandi et diffinendi per illum modum et cum illa libertate” con le quali vi commettemmo le precedenti2’. Gia nel corso del primo periodo di governo sulla Terraferma, presso i settori maggiormente avvertiti della classe dirigente veneziana, si manifestano un’attenzione e una preoccupazione nei confronti della ma-
gistratura degli Auditori, una germinale percezione dei problemi politico-istituzionali connessi alla sua istituzione, in cui sembra di scorgere l’anticipazione di quei temi e dibattiti e provvedimenti propri del
pil. avanzato XVI secolo°. Al centro della accesa discussione che si svolse in Senato il 6 marzo 1416 erano stati posti dai savi sopra le entrate alcuni interrogativi che sembrano connessi alle stesse caratteristiche originarie dell’istituzione: con quali modalita doveva intendersi il rapporto tra l’autorita conferita per via ordinaria agli Auditori e l’autorita che questi potevano esercitare nel corso dell’ispezione nello Stato da Terra? Il potere loro attribuito di giudicare e di correggere si doveva limitare ai soli rappresentanti eletti direttamente nei consigli della Serenissima, o si poteva anche estendere alle giurisdizioni locali, sopra quell’insieme di funzioni e organizzazioni politicoistituzionali cui la Serenissima aveva delegato ampie sfere di comando e di controllo a livello locale 31? I savi che per primi avevano preso la parola nel corso della sessione del Pregadi si erano soffermati sui
numerosi dispacci inviati nella capitale dai rettori che lamentavano Pindebita occupazione di “territoria et bona nostri communis” ad opera di sudditi, e avevano sottolineato la difficolta di intervenire efficacemente a causa del mancato invio nel Dominio degli Auditori, a partire
dal 1413. Per ovviare a tali inconvenienti si era proposto che si ren154
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desse possibile ai magistrati di “exercere et facere sindicatum generaliter cum libertate plenaria contra omnes”, attraverso le stesse moda-
lita di intervento dei Sindaci inviati gia da tempo in Levante, e che gli Auditori non si dovessero “impedire” nella giurisdizione degli Avogadori di Comun. A questa parte, che ottenne |’assenso di quarantun
senatori, rispose il savio del Consiglio Leonardo Mocenigo con un intervento di segno diverso: secondo la sua opinione i compiti degli Auditori-Sindaci si dovevano limitare a quanto decretato dalla deliberazione istitutiva della magistratura del 1411, e quindi soltanto agli atti emanati dai Rettori e dagli “officiales” delle loro “familie”. Per tutto cid che riguardava altre “speciales persone” il giudizio doveva rimanere agli stessi rappresentanti veneziani inviati in Terraferma e agli Avogadori. Questa seconda proposta raggiungera la maggioranza (sessantadue i voti favorevoli e diciassette i “non sinceri”). Il sindacato degli ufficiali era esercitato con scarsa solerzia ed in modo troppo intermittente, questo lamentavano anche i savi del Consiglio ed i savi di Terraferma il 16 ottobre 1432, e pertanto, “pro hortamine et salute fidelium subditorum nostrarum terrarum et locorum nostrorum a parte Terre”, si rendeva necessaria l’elezione di due “solemni sindici” 32. Questi, secondo la proposta dei Savi, dovevano venire nominati dallo stesso Pregadi, e non dal Maggior Consiglio, come era di prassi per gli Auditori. Dalla lettura di questo documento si deduce l’impressione che si volessero sottrarre 1 compiti tradizionali di sindacamento degli officiali alla magistratura, o per lo meno di limitarli, e di giustapporre ad essa una istituzione maggiormente collegata con gli organi centrali di governo e dotata di poteri latamente commissariali e discrezionali, composta da individui di piu provata esperienza >>.
A tale proposta, che alla fine risulto maggioritaria, se ne affianco un’altra: autori i capi della Quarantia Lorenzo Muazzo e Filippo Tagliapietra. E manifesto a tutti, cosi avevano iniziato il loro intervento, che gli Auditori “qui aliquando soliti erant ire ad ipsum sindicatum, ob maximas occupationes suas ire non possint”; inoltre i territori sottoposti al dominio della Serenissima sono aumentati, rispetto alla istituzione del 1411, e a Vicenza, Padova e Verona si sono aggiunte la Patria del Friuli, Brescia, Bergamo e Cremona. Per questo si doveva creare una nuova mano di Auditori, che si chiameranno T55
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novissimi, i quali riceveranno gli appelli ed eserciteranno il sindacato
nelle province di oltre Mincio, mentre quelle che stavano al di qua del fiume, rimarranno sottoposte alla giurisdizione degli Auditori novi>*,
Pit che dagli accesi dibattimenti consiliari qualche risposta all insieme dei quesiti che ci siamo fin qui posti puo essere fornita dall’analisi di alcuni dati contenuti nel gia citato sindacato esercitato dagli auditori nel 1461. Se a Treviso gli atti di annullamento o le notifiche di revisione delle sentenze del podesta e capitano veneziano ammontano a dodici, ben pit intensa ed efficace appare I’attivita dei giudici itineranti nelle podesterie minori: tra Oderzo, Motta e Serravalle si possono contare ben cinquantuno interventi, diciassette a Noale, venti a Castelfranco, quindici ad Asolo. Passando al Padovano si puo vedere come di fronte ai soli dodici interventi nel centro maggiore, se ne possono riscontrare ben ventuno a Cittadella e diciotto a Camposampiero. Se consideriamo i dati che é possibile trarre per le due province di Verona e Vicenza si puo intuire una linea di tendenza analoga: nel centro berico i sindaci non riescono ad intervenire su piu di sei atti del rappresentante veneziano, mentre nelle due maggiori sedi di podesteria del distretto, Marostica e Bassano, realizzano, rispettivamente, quindici e ventidue interventi. A Verona se la sbrigano con dodici pronunce; a Soave e Peschiera annullano sedici e dodici atti oO sentenze dei rappresentanti veneziani. Infine nella Patria del Friuli, solo sette atti del luogotenente vengono ritenuti passibili di una qual-
che reprimenda, contro i dodici del rappresentante a Portogruaro o i quindici di quello di Cividale. Cifre grezze che meritano qualche approfondimento. Innanzitutto si puo notare la disparita quantitativa tra interventi nei centri maggiori e in quelli minori. Molto probabilmente uno dei motivi di questa differenza va ricercato nella cultura politica, nella preparazione e nella personalita dei patrizi che la Serenissima inviava in Terraferma, e che non era certamente la stessa in quelli che la rappresentavano nelle sedi piu prestigiose e in quelli che erano chiamati ad amministrare la giustizia nelle meno illustri localita della Terraferma veneta. Un forte potere di influenza doveva certamente essere esercitato da quei primarii cives e quei giuristi che accoglievano 1 Sindaci, e di cul purtroppo non si riescono a percepire con maggiore precisione 156
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le fisionomie. In citta ricche di privilegi giurisdizionali come Verona o Vicenza, o in un’area come quella friulana cosi densamente popolata di feudi, la pressione esercitata dai rappresentanti locali non doveva risultare ininfluente ai fini della determinazione dell’attivita dei Sindaci. Eppure proprio i ceti dirigenti delle citta soggette dimostrano una crescente irritazione di fronte all’operato dei magistrati straordinari veneziani. E questo non tanto, o non solamente, per le ferite inferte all’orgoglio di eminenti cives dal rapido e disinibito procedere di alcuni sindaci: pensiamo, ad esempio, al caso del nobile udinese Francesco di Belgrado contro cui era stato istituito un processo per violenza carnale, che pero giaceva inespedito a causa di cavilli giudiziari interposti dai suoi avvocati: i sindaci ordineranno al luogotenente della Patria di amministrare “ius et iusticiam” secondo la qualita del caso, nel pit breve tempo possibile +>. In un altro caso, un “livellario” del nobile vicentino Francesco Loschi, grazie ad un mandato dei sindaci, riusciva ad ottenere che una vertenza che lo vedeva opposto al pit potente cittadino non venisse discussa di fronte al tribunale del Consolato, bensi alla presenza del solo podesta veneziano assistito dai suoi assessori>°. Il disagio e le resistenze che a livello urbano vengono innescate dall’attivita dei Sindaci-Auditori sembrano essere determinate da motivi meno episodici 0 personalistici di quelli appena citati e trovare invece le proprie ragioni d’essere in una serie di azioni giudiziarie e di prov-
vedimenti con cui la stessa funzione di controllo giurisdizionale, che le citta pretendevano di esercitare sul territorio, veniva messa in discussione. Dell’appoggio offerto dai giudici veneziani a comunita che invocavano il rispetto delle loro consuetudines, di fronte alle pretese di controllo urbano, sancite dagli statuti, forniscono un’interessante testimonianza alcune risoluzioni sindacali su controversie che investiva-
no i vicari veronesi e le comunita del distretto sottoposte alla loro giurisdizione. Nel 1444 i sindaci annullavano una sentenza del podesta favorevole alle prerogative urbane e al vicario di Castagnaro Nicol6 da Ronco, il quale pretendeva che gli uomini sottoposti alla sua giurisdizione gli versassero il salario di venti lire mensili per le condanne ed i bandi che aveva emanato, secondo quanto dettavano gli statuti3”. Quelli del comune, congregati in “vicinia”, avevano pro-
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testato “quod hoc facere non debent, quia non sunt consueti facere”. Del carattere di esemplarita attribuito alla disputa, testimonia il fatto che vi presenziassero tre eminenti giurisperiti cittadini — Francesco Giusti, Bartolomeo Pellegrini, Guglielmo Aleardi —, e molti altri, “tam cives quam districtuales”. Che i sindaci tendessero a non curarsi molto della tradizionale gerarchia delle fonti di diritto, a cui pure erano tenuti ad attenersi, viene testimoniato anche dall’intromissione che riuscirono a perfezionare in Quarantia, nel corso del 1471, nei confronti di un’altra sentenza emanata dal podesta di Verona, con cui si stabiliva che gli “homines” del comune di Nogarola “fuisse et esse obligatos ad observantiam statu-
torum communis Verone” nella lite che li opponeva ai nobili fratelli Antonio e Ludovico Nogarola, sulle modalita di elezione del vicario 3°. Anche il ceto dirigente vicentino non accolse probabilmente con molto
favore un severo mandato inviato dai sindaci al podesta, nel quale si affermava il pieno diritto di Schio nell’opporsi alla pretesa della citta, che — contro le “antique consuetudines” — voleva imporre alla comunita certe “honorantias insolitas” 3°. Ancora nel 1494 i sindaci Giovanni Badoer e Benedetto Vitturi accoglievano favorevolmente una petizione dei “consoli et homeni” del comune di Sergnano, in quan-
to non poteva ritenersi in alcun modo equo un mandato del rappresentante veneziano a Crema, con cui si era stabilito che 1 membri della piccola comunita, con pena di cinquanta ducati in caso di disobbedienza, non dovessero in alcun modo “né segar herba né far fenj” *°.
Questa modalita di risoluzione delle controversie secondo criteri equitativi e non formalistici sembra incontrare i favori anche di quei sudditi non direttamente sottoposti all’autorita di un rappresentante veneziano residente in una sede di podesteria. Il 15 marzo 1461 i nostri magistrati accoglievano la supplica di un tale che chiedeva di non essere rilasciato nelle mani degli ufficiali del vescovo di Ceneda*'. L’alto
prelato affermava di detenere il diritto di punirlo, in quanto quello si era reso colpevole di un’aggressione con ferite nei pressi del bosco “de la Nadega” che rientrava nella sua giurisdizione. I giudici veneZiani avevano invece stabilito che la potestas iudicandi spettasse al rettore veneziano di Serravalle. Pochi giorni dopo, con modalita analoghe, 1 sindaci intervennero, avocando il caso nelle mani dello stesso podesta, ordinandogli di giudicare un tale colpevole di danni alle 158
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culture, e sospendendo di fatto i privilegi giurisdizionali invocati dei signori di Cordignano (i discendenti dell’uomo d’arme Guido Rangoni che reggevano il feudo dal 1454) ??. Anche in una zona cosi densamente costellata di giurisdizioni feudali come la Patria del Friuli si pud riscontrare, in numerose circostanze, la presenza dei Sindaci. Nell’agosto del 1484, poiché era stata pronunciata “in damnum et preiuditium” della comunita di San Giorgio, infeudata agli Spilimbergo, doveva essere annullata, secondo |’opinione dei magistrati veneziani, una sentenza del luogotenente della Patria del Friuli, che ad istanza dei nobili giusdicenti, aveva ordinato il pignoramento di beni appartenenti ai comitatini*>. Il 10 giugno 1504 i sindaci convinceranno i componenti del tribunale della Quarantia della legittimita dei diritti rivendicati dalle comunita di Santo Stefano e di San Pietro di Comelico, che, attraverso i loro nunzi, si erano lamentate di una “pronuntia” del luogotenente Paolo Calbo**. In seguito ad una precisa istanza dei nobili Nicolo e Antonio di Brazaco e Odorico di Castello, i quali, rivendicando la piena giurisdizione su un certo “monte de Secis”, avevano protestato per l’indebita occupazione e per una serie di violenze commesse dai “villici”, il rappresentante veneziano a Udine aveva ordinato che fosse mandato ai podesta ed agli uomini delle comunita che “sint et esse debeant in concordio cum prefatis nobilibus... et solvere bannum curie consuetum de omnibus iuribus, violenciis et ex sfortiis” di cui erano stati accusati. Non sembra lecito trarre dalla lettura dei documenti citati anacronistiche conclusioni sulla modernita o la precocita di un certo modo di porsi dello Stato nei confronti dei sudditi. Si pud comunque affermare che in piu di una occasione i sindaci realizzarono un’opera di raccordo tra centro e periferia, di incremento delle conoscenze sociopolitiche attorno alle realta soggette e di parziale uniformazione delle pratiche giudiziarie e della legislazione. Si potrebbe citare a tale proposito la parte di cui furono autori Daniele Barbarigo, Pietro Barozzi
e Giovanni da Lezze appena tornati dal loro itinerario per lo Stato da Terra, votata dal Senato il 22 giugno 1458*%°. I tre riferivano di aver ricevuto, nel corso del loro mandato ispettivo, “infinite querelle et gravamina” riguardanti una “parva et pessima consuetudo” invalsa da qualche tempo per cui i rettori e i loro vicari, “pro subscriptione 1$9
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omnium sententiarum” di qualunque entita, “etiam minimi valoris, tam diffinitivarum quam interlocutoriarum”, costringevano i sudditi, contro la loro volonta, “ad faciendum relevari sententias” allo scopo di ricevere un ducato per ogni atto registrato nei libri dei notai delle loro corti. In caso di disobbedienza delle parti 1 rappresentanti vene-
ziani emettevano mandati di pignoramento di beni. Le proposte dei tre patrizi, tendenti a determinare le quote precise sulle utilita spettanti ai giusdicenti veneziani in Terraferma per i diversi ordini di atti, venivano approvate a larga maggioranza. Dietro altri importanti provvedimenti emanati a Venezia nello stesso
periodo, miranti a ridurre la pratica del pignoramento dei beni dei comitatini debitori e ad ammortizzare le pericolose conseguenze che tale pratica poteva indurre sul piano sociale, non é difficile scorgere il ruolo svolto dagli Auditori-Sindaci che, come abbiamo gia avuto modo di sottolineare, proprio in questo settore nevralgico della amministrazione giudiziaria a livello locale realizzavano un importante compito di mediazione e di definizione delle conflittualita. Il 2 dicembre
1458 il savio di Terraferma Lorenzo Moro lamentava, con vibrante retorica, |’“inhumana consuetudo” a causa della quale “multi et infiniti subditi nostri et districtuales ad extremam miseriam deducuntur”, si vedono costretti ad abbandonare i territori del Dominio “et vagare per alienas terras cum pauperculis familiis suis”**. Infatti per ogni debito, sia di natura pubblica che privata, a quei distrettuali venivano pignorati “animalia sua a laborerio, que ponuntur in hospitiis cum maxima expensa et venduntur cum eorum totali consumptione’”, innescando un processo di crescente pauperizzazione: le “possessiones” andavano incolte, ed anche le casse dello Stato non ricevevano certo molti vantaggi dalla diffusione di quella pratica: i “dacia nostra... et alia debita” non venivano pagati. Per tutti questi motivi, cosi delibereranno i Pregadi, si commettera a tutti i Rettori dello Stato da Terra di diffondere alla lettera il testo della legge quando stabilisce l’assoluto veto per questo tipo di pignoramento, e di intervenire con decisione in tutte quelle situazioni in cui la loro autorita venisse invocata. Nel 1461 ancora Lorenzo Moro, rivestendo in questa occasione la carica di consigliere ducale, assistito dal collega Gerolamo Barbarigo, ricordera ai senatori la “pars utilissima approvata” tre anni prima e chiedera, incontrando un ampio consenso, che sia estesa anche 160
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a quei pignoramenti riguardanti “carrus, vomeres, falces et alia instrumenta pertinentia ad agricolturam”*’. In altre occasioni l’intervento dei Sindaci era sollecitato dall’inclinazione di tanti Rettori ad interpretare l’esercizio del proprio officio come una fonte straordinaria d’entrata e di gratificazione pecuniaria piuttosto che, secondo quanto dettavano le regole auree di una ideologia repubblicana in via di formazione, come servizio e annullamento
dell’interesse personale per il trionfo del bene del “commune Veneciarum”. Gia nel 1415 una parte lamentava che, contrariamente a quanto stabilito dalla legge, gli Auditori nel riscuotere le utilita loro spettanti — che venivano definite carati nel vocabolario amministrativo veneziano — per |’“incisione” delle sentenze che intromettevano nei consigli giudiziari, non si curavano di riporne la meta nelle casse statali, ma le intascavano per intero*®. Mezzo secolo piu tardi, il 16 giugno 1460, il savio di Terraferma Francesco Contarini chiedeva ai Pregadi di emettere un decreto che ponesse freno ad un abuso di cui da qualche tempo — secondo quanto avevano protestato numerosi sudditi del Dominio, sia per via epistolare che presentandosi personalmente alla sua presenza — si erano macchiati gli Auditori*?. Questi esigevano carati — con grave detrimento “pauperum subditorum et contra formam ordinum et antiquas et bonas consuetudines” — anche per quelle sentenze che, sebbene sottoposte al procedimento di intromissione, “ad consilia vel collegia non deducuntur”, venivano risolte dalle parti in causa “ad concordiam vel compositionem... aut de voluntate earum partium ad primum consilium sive collegium sine ulla disputacione”. D’ora in avanti,
sara questa la deliberazione approvata dal Senato, se qualche magistrato esigera una qualche utilita per le sentenze risolte attraverso un compromesso tra le parti, dovra versare di suo agli Avogadori di Comun il doppio di quella somma. Altre due deliberazioni senatorie risalenti a questo periodo comunicano il senso — al di la delle tentazioni di un’aneddotica concentrata a porre in rilievo gli abusi del malgoverno, o della mancata razionalizzazione degli apparati — delle frizioni e delle resistenze che impedivano la creazione di un sistema giudiziario piu coeso e compatto, meno caratterizzato dal sempre risorgente dualismo tra Venezia e la Terraferma. Nel 1450 furono 1 presidenti della Quarantia
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Girolamo Michiel e Agostino Barbarigo a ricordare gli “equissimi et optimi ordines” contenuti in una legge del 3 marzo 1439, regolativi delle procedure della pit importante corte d’appello veneziana, affinché tutti indifferentemente potessero vedere risolte le cause che li coinvolgevano*°. Nella sezione dispositiva di quella parte si era ricordato che, per ovviare al disordine amministrativo provocato dalla crescita degli appelli civili provenienti dallo Stato da Terra, gli Auditori novi dovevano alternare l’introduzione delle loro intromissioni alla Quarantia con gli Auditori vecchi — magistratura con giurisdizione sugli appelli in merito a sentenze civili emanate nella citta capitale e nel Dogado —, “ut causas suas expedire possent”, in modo che la Quarantia potesse emettere il suo giudizio di legalita, un mese sugli atti dei magistrati inviati in Terraferma, e il mese successivo su quelli emanati a Venezia. Tale principio risultava tuttavia disatteso nella pratica: quegli ordini “minime observantur, imo illi habent consilium qui maiorem habent amicitiam”. Legami di protezione e di tutela generati da rapporti di affinita, clientela o parentela che sbilanCiavano tutto da una parte il difficile equilibrio che la petizione di principio della vecchia legge aveva cercato di sancire. A risultare naturalmente svantaggiati da tale stato di cose erano i “subditi forenses”, 1 quali costretti a trascorrere lunghi periodi nella citta di San Marco nell’attesa di essere chiamati in giudizio, “hic stant cum eorum gravissimis sinistris et expensis, raro aut numquam expediunt contra omnem humanitatem et contra honorem et intentionis huius civitatis”. Alla fine del dibattimento i senatori approvavano la richiesta mirante a ripristinare la lettera delle antiche provvisioni, ed emanavano una dettagliata regolamentazione dell’operato degli avvocati e dei procuratori che intervenivano nelle corti. Troppe le istanze che giungevano dallo Stato da Terra, tante che la maggior parte di esse giaceva inevasa: questo lamentera, sempre alla presenza dei Pregadi, un altro presidente di Quarantia, Jacopo Lando, il 16 dicembre 146051. Anche in questa occasione il legislatore veneziano cercava di ovviare agli inconvenienti che si erano presentati non tanto con un atto politico, orientato a riconsiderare il ruolo degli Auditori all’interno del contesto costituzionale veneziano, bensi pluttosto attraverso una intensificazione del controllo esercitato dai notai e dai cancellieri. In questo senso si rendeva obbligatorio per i 162
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burocrati che servivano gli Auditori di “tener conto de tutte le cause intromesse” e di notificarle al notaio della Quarantia, “el qual debia notar quelle sopra do libreti alfabetadi”. Gli stessi dovevano inoltre ricordare ai presidenti della Quarantia “che in altre lite non pono intrar che ne le prime intromesse”. Tornando alla realta della prassi amministrativa ¢ opportuno notare come gli interventi sindacali che incontriamo nelle dense raccolte di lettere ducali o nei pochi registri sopravvissuti, annotati direttamente dai cancellieri della magistratura, soprattutto quando riguardino zone ad ampia diffusione di poteri signorili, lascino trasparire una articolazione di rapporti socio-istituzionali a livello locale e una tipologia della conflittualita che non si risolve nel mero contrasto tra comunita e giusdicenti. Lo stato attuale della ricerca e le stesse carenze della documentazione non consentono di andare oltre la soglia delle ipotesi, ¢ opportuno tuttavia porsi alcuni quesiti. Qual era il potere di controllo esercitato in concreto dai numerosi domini loci sui gruppi umani loro sottoposti? E possibile riscontrare una qualche linea di tendenza uniforme, nel corso del XV secolo, da parte della
classe politica veneziana, in ordine al problema della sovranita sulle varie enclaves signorili e feudali diffuse nello Stato da Terra? La formazione della nuova entita territoriale, le esigenze di sicurezza e di difesa militare in aree di confine, di prelievo fiscale, di tutela dell’ordine pubblico ad essa connesse, porta ad una ridefinizione del ruolo della feudalita — come avviene ad esempio nello stesso torno di anni per il ducato di Milano 5? — ad un suo inserimento nei circuiti istituzionali dello Stato, ad un depotenziamento delle sue funzioni pit tradizionali? La necessita di una mediazione tra governo centrale e sudditi non poteva realizzarsi se non con il tramite di quelle forme di potere che preesistevano allo stabilimento dell’autorita della Repubblica di San Marco, ma la dinamica politico-istituzionale, innescata dal radicamento delle funzioni sovrane in un nuovo Principe, creava i presupposti per uno spostamento degli equilibrilocali, per una diversa dislocazione delle forze, favoriva l’emersione di nuove figure politiche, di quel ceto, ad esempio,
di procuratori, avvocati e giuristi su cui abbiamo gia soffermato la nostra attenzione, che ricercavano, inserendosi nel reticolo di relazioni determinato dalla formalizzazione di un piu articolato rapporto tra centro e periferia, la possibilita di una legittimazione. 163
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Si potrebbe citare quale esempio I’intromissione realizzata in Quarantia da Alvise Dona, il 7 giugno 1486, nei confronti di una terminazione pronunciata nel 1474 dal luogotenente della Patria Marino Malipiero con cui si era decretato che nella controversia, “occasione seccationis certi feni... in montibus Maiasii”, vertente tra 1 “communia et homines” sottoposti alla giurisdizione consortile dei nobili Toppo
e la comunita di Traverso, infeudata agli omonimi giusdicenti, venissero rispettati i diritti di quest’ultima*?. Dove si deve sottolineare che la possibilita di revisione di una sentenza, a dodici anni di distanza dalla sua emanazione, non puo che attribuirsi al fattivo intervento di un avvocato locale, quale Gerolamo de Villa, che condusse la causa fino ai tribunali della capitale. Nel corso del 1470, i sindaci, accogliendo la supplica loro interposta dagli “homines” della comunita di San Giorgio, denunciavano l’illiceita di una pronuntia del rappresentante veneziano a Udine**. Questi
aveva decretato il pignoramento di tutta una serie di beni appartenenti alla villa, in seguito alla causa tra quei comitatini ed 1 giusdicenti Ettore e Francesco Spilimbergo, riguardante la giurisdizione van-
tata da entrambe le parti, in base ad antichi diritti e consuetudini, su certi boschi e pascoli. Gli auditori, lette le scritture presentate dai contendenti e sentite le dimostrazioni degli avvocati e procuratori che le rappresentavano, avevano deciso di accogliere la richiesta di composizione espressa da quelli: le parti in causa eleggeranno un “ratator” per ciascuna; in caso di discordia sara lo stesso luogotenente a nominarne un terzo; tutte le misurazioni ed il controllo dei vari “iura” dovranno essere svolte entro quattro mesi e qualora i “ratatores” risultassero “negligentes”, rientrera nell’arbitrio del rappresentante veneziano emettere dei mandati che li obblighino a concludere nel piu breve tempo possibile. Nel corso del 1483 i rappresentanti della comunita di San Daniele, sottoposta alla giurisdizione del vescovo di Aquileia, nella supplica
interposta ai sindaci, avevano fatto incidentalmente riferimento all’esigenza che “pacta et privilegia principalia observentur”, ma, allo scopo di attribuire maggior vigore allo loro proposta, avevano pensato bene di allegare una diversa fonte di diritto: la parte del Senato del 24 marzo 1482 che interdiva gli Avogadori e i Sindaci, tanto da Terra che da Mar, dall’“audire aliquem conquerentem de 164
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sententiis factis per Rectores... contra absentes et legitime citatos”*>. Si era probabilmente ritenuto pill opportuno riconoscere la legittimi-
ta della normativa statale, piuttosto che perseguire in maniera troppo insistente il principio della superiorita delle prerogative giurisdizionali locali. Una favorevole accoglienza incontré anche la suggestiva supplica interposta dalla comunita di Tresnize, rivoltasi in prima istanza alla Serenissima Signoria, che aveva delegato il giudizio sulla questione ai sindaci: “imperamus vos efficiatis ita res ut pauperes isti causam non habeant ad nos huius rei gratia revertendi... ne huismodi querimonie ad nos deferatur”**. E opportuno soffermarsi brevemente su questa vicenda in quanto il documento presentato a Venezia mette in luce una certa tipologia della conflittualita a livello locale, ed un modo di cercare una legittimazione politica da parte di una di quelle comunita poste in aree di confine che ponevano problemi di controllo politico e giurisdizionale di non semplice risoluzione. I rappresentanti di Tresnize, piccola villa appollaiata “sopra le montagne” circostanti Cividale, avevano narrato come quella possedesse “da 200 in 300 anni in qua” e forse di piu, dato che non risultava “nissuna memoria... in contrario”, un monte chiamato “Stepha... per uso et per pascolo de i loro animali... senza contradictione de alcuna persona”, econ il solo obbligo di versamento al gruppo consortile dei Tolmino “per honoranze de alcunj soj caxali che hanno in dicto monte formazi doi a ’hano de pensione”. Da qualche tempo il godimento dei beni comuni era revocato in dubbio: un tale Guarniero da Manzano, “homo richo”, faceva, infatti, condurre in quel monte, affittato dai consorti, “una gran quantita de piegore” ed aveva inoltre ottenuto un mandato dal luogotenente veneziano con cui, sotto la pena di cento ducati, si ingiungeva alla comunita di non opporre alcuna resistenza e di consentire che gli animali pascolassero, “cossa questa — avevano proseguito i comitatini — contra ogni forma de raxone”. Tale mandato era stato emanato, aggiungevano i supplicanti, al solo scopo di privarli della loro “antiqua raxone”. Per meglio convincere i magistrati veneziani della legittimita delle loro rivendicazioni, gli appellanti non si erano limitati al solo ricorso alla consuetudine: avevano anche citato — e cid costituisce una traccia particolarmente rilevante di quella sorta di acculturazione politica maturata presso un 165
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ceto locale composto, se non da veri e propri tecnici del diritto, almeno da “pratici” dei meccanismi e dei linguaggi delle istituzioni — la legge del Senato che stabiliva che chi aveva tenuto una possessione per oltre cinquant’anni “sub uniforme pensione, per nissuna raxone possa esser chazato, ma se intenda livello”. Infine, a dimostrazione di una scaltrita conoscenza della elasticita e del pragmatismo, degli accidentali percorsi giurisdizionali e politici attraverso i quali i patrizi della capitale arrivavano a pronunciare i loro giudizi, gli uomini di Tresnize dopo aver accampato le ragioni del diritto locale, della consuetudine e dell’equita, quelle del diritto dell’autorita statale e quindi
della legge scritta, completavano la loro abilissima captatio benevolentiae adducendo il motivo della sicurezza della Repubblica: in caso di abbandono di quei monti, i “nemici” avrebbero potuto invadere
indisturbati le terre di San Marco. La particolare inclinazione da parte dei nostri magistrati ad interpretare in modo sin troppo estensivo il ruolo di raddrizzatori di torti e di garanti di una giustizia esercitata secondo il criterio dell’equita e della bona coscientia, cui si poteva talvolta mescolare l’intenzione di mettersi in luce attraverso atti ed interventi lesivi del prestigio e dell’autorita dei potentes locali, non sembra arrestarsi neppure di fronte
a componenti dello stesso patriziato veneziano. E il caso dell’accoglimento della supplica interposta nel 1470 dalla comunita Pontepossero*’, nel distretto veronese, i cui rappresentanti avevano chiesto fosse
annullato il mandato del podesta con cui si ordinava loro “teneantur et debeant relaxare” a Nicolo Grimani “omnia casamenta nemora et terras tam aratorias quam vigras” di cui erano soliti pagare per fitto la terza parte; e che il nobile “tanquam dominus et patronus ipsorum bonorum” potesse fare “omnem suam voluntatem”>®. Gia nel 1467 i sindaci avevano giudicato “male et indebite lata, contra jus et justiciam” e in grave pregiudizio degli uomini della stessa comunita la sentenza pronunciata dal doctor Antonio de Calbis, vicario del podesta di Verona*?. Questi aveva decretato che nella controversia che opponeva Grimaldo Grimani, figlio di Nicold, ai “laboratores de Pontepossero”, il patrizio veneziano potesse “libere disponere et uti ac frui” delle proprieta di cui godeva nella giurisdizione del territorio veronese, e che potesse “percipere, habere et exigere pro sua parte
omnes et singulos redditus, fructus, decimam et alia, ac colligi et 166
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laborari facere” le stesse proprieta, “pro suo libito, secundum formam
et tenorem sue emptionis”.
La crisi di una magistratura “In damnum et preiuditium” della parte che si era appellata, “con-
tra ius, iusticiam et equitatem”, “contra id quod facere poterat”. Queste le scarne motivazioni che ricorrono nelle lettere e nelle intromissioni degli Auditori-Sindaci che ci sono state conservate. Risulta difficile, partendo da questa documentazione, comprendere la mentalita e l’atteggiamento di chi si appressava a compiere l’itinerario per la Terraferma. Non doveva essere un compito semplice quello
che i Sindaci si preparavano a svolgere: da una parte sussisteva lobbligo di giudicare secondo la normativa statutaria locale, di attenersi alle leggi emanate nel corso del ’400, dall’altra si presentava loro l’opportunita di mettersi in luce, di assurgere ad un ruolo da protagonisti, nel controllatissimo sistema politico-giudiziario veneziano, grazie alla forza di suggestione esercitata su di loro da una cultura percepita come diversa, da un mondo lontano costituito, oltre che da sfarzose citta, da borghi fortificati da ville e comunita rurali, giurisdizioni separate: un atteggiamento di cui l’Itinerarium di Marin Sanudo costituisce lo straordinario documento antropologico. James Grubb, dovendo definire sinteticamente la vicenda della magistratura degli Auditori-Sindaci nel corso del XV secolo, ha parlato di “esperimento fallito”®°, e Gaetano Cozzi ha rilevato come il loro
operato rappresentasse il “punctum dolens” del sistema politicoamministrativo veneziano*!. Allo scopo di chiarire meglio questo pun-
to, € opportuno chiedersi innanzitutto, analogamente a quanto gia fatto per gli Avogadori di Comun, chi fossero i Sindaci. Se venissero scelti tra le fila di quella parte del patriziato che possedeva gia una notevole esperienza politica ed il prestigio, che solo l’aver fatto parte dei pit prestigiosi consigli veneziani o l’aver ricoperto importanti incarichi civili o militari nello Stato da Terra poteva determinare, oppure se appartenessero a quella nobilta minore che gia nel corso del °400 comincia a delinearsi; e soprattutto sarebbe importante compren-
dere quale fosse il loro livello culturale. 167
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A causa della carenza documentaria, non é possibile ricostruire tutti
i nominativi degli auditori nominati prima del 1466. Da questa data al 1502 si € cercato di vedere quanti tra i novantanove eletti, che si possono isolare con una certa esattezza, abbiano anche ricoperto le cariche di Avogadore, Consigliere dei Dieci, Rettore. Secondo questo calcolo, solo ventuno divennero avogadori nel prosieguo della loro carriera. Di questi ventuno solo quattordici divennero membri del Consiglio dei Dieci, 0 riuscirono ad essere eletti in una sede di podesteria importante. Quella di Sindaco-Auditore, non era dunque una carica che sembra necessariamente spalancare, per chi vi era eletto, possibilita di carriera particolarmente allettanti. Degli altri settantotto nominativi non si trovano infatti ulteriori tracce, ed é probabile che per alcuni patrizi ’opportunita di ricoprire la carica di Auditore costituisse il massimo scopo di una vita politica trascorsa all’interno delle
aule delle corti d’appello o in attesa di una carica negli uffici minori o nelle piccole podesterie dello Stato da Terra e da Mar, che potesse
loro garantire una sorta di sinecura. Tornando ancora ai ventuno patrizi che riuscirono a percorrere un cursus honorum di tutto rispetto, gestendo con maggiore abilita la rete degli appoggi e delle protezioni, o sfruttando meglio le proprie capacita, si deve notare come vi furono sostanzialmente due momenti, all’interno dell’arco cronologico considerato, in cui il passaggio dalla carica inferiore di Auditore a quelle superiori avvenne con una certa frequenza: tra i ventidue eletti per il periodo 1466-1474 ben dieci divennero avogadori — e sette di questi riuscirono anche ad entrare in Consiglio dei Dieci. Nei dodici anni successivi al 1474, solo tre auditori riuscirono nell’intento, mentre negli anni che vanno dal 1486 al 1493, dei ventitré eletti alla magistratura, sette riuscirono ad accede-
re alle cariche pit prestigiose. Infine se consideriamo il periodo 1493-1502, al solo Nicolo Salomon, nominato auditore nel 1499, venne offerta la possibilita di diventare avogadore nel 1516 e nel 1520, ma il suo nome non compare mai nelle liste dei nominati alle cariche
di Podesta o Capitano, o dei membri del Consiglio dei Dieci. Paragonando questa situazione a quella degli avogadori, balzano immediatamente all’occhio differenze profonde: diversa l’attenzione con cui gli uomini venivano scelti, diverso il prestigio che i componenti delle due magistrature detenevano. Ci sono anche altri dati che, 168
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confermando questa diversita, ci offrono la possibilita di mettere ulteriormente a fuoco una sorta di figura tipo dell’Auditore: in nessun caso un nobile nominato alla carica venne rieletto alla stessa; nessuno di essi, prima di svolgere il sindacato, si poteva vantare di aver gia occupato un posto di podesta o capitano nelle maggiori citta della Terraferma. Tutti questi dati concorrono a delineare una immagine abbastanza precisa del personale eletto alla carica di Auditore. Ci si deve chiedere quanto l’adozione da parte della nostra magistratura di criteri equitativi e non formali al momento di giudicare, fosse determinata da una precisa scelta politico-culturale, rappresentasse il portato di una sensibilita, oppure si configurasse come una palese disattenzione nei confronti della corretta procedura, dovuta alla scarsa conoscenza della legislazione statale. Di fronte a tali interrogativi non si possono avanzare che ipotesi: é difficile, infatti, valutare il livello di acculturazione politica del ceto dirigente veneziano nel corso del ’400 — anche se recentemente é stata pubblicata un’opera che sembra offrire interessanti valutazioni in questa direzione®. Analogamente a quanto gia notato per l’Avogaria, un indicatore significativo delle capacita dei componenti della magistratura — e forse anche a maggior ragione, rispetto alla pil prestigiosa magistratura d’appello, in quanto la risoluzione delle conflittualita civili abbisognava di un livello di preparazione certamente pill accurata — potrebbe essere offerto dal numero di addottorati in diritto allo Studio patavino; ma anche in questo caso, i dati non risultano particolarmente interessanti®>.
Un altro indicatore puo essere costituito dalla pit o meno giovane eta degli Auditori al momento di occupare la carica. In questo caso ad una considerazione di tipo giuridico-culturale, se ne sovrapporrebbe una di tipo antropologico-comportamentale. L’agire dei giovani, che cercavano di mettersi in luce all’interno del selettivo sistema istituzionale veneziano, sembra essere caratterizzato da un notevole spirito di intraprendenza, di spregiudicatezza, spesso di alterigia — che si contrappone specularmente all’immagine tutta fermezza e saggezza che il patriziato cercava di trasmettere al suo interno e presso i sudditi. E da un primo sondaggio abbastanza esaustivo, risulta che un certo numero di Auditori rientrasse in questa prima fascia di eta. 169
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Negli ultimi due decenni del secolo sembrano venir meno le funzioni principali che stavano alla base della istituzione della magistratura,
quali il rappresentare una fondamentale cinghia di trasmissione, di informazione e di collegamento tra governanti e governati, ed il permettere a ceti, individui ed istituzioni locali di stabilire un contatto diretto con i rappresentanti del potere centrale. Le ragioni che si possono addurre a spiegazione di questa sorta di crisi che coinvolge la magistratura, negli anni che vanno dalla guerra di Ferrara alle guerre d'Italia, sono sostanzialmente di ordine politico. Nel corso della seconda meta del XV secolo i rapporti tra centro e periferia avevano subito un processo di articolazione e complessificazione crescente **.
Si erano infittiti 1 provvedimenti, ma si erano altresi moltiplicate le resistenze. Venezia, fin dal momento delle pattuizioni, aveva fondato la legittimita della sua autorita delegando alle citta soggette ampie porzioni del potere di controllo e di intervento sulle conflittualita e sulle istituzioni locali, ma attraverso una politica del diritto pit duttile e sfumata, di cui abbiamo cercato di indicare alcuni momenti, aveva anche lentamente eroso e limitato prerogative e funzioni delle stesse citta. In quegli anni di fine secolo, e nei primi, ancora piu difficili, del successivo, é probabile che quel tipo di politica non fosse pit adatto alla particolare congiuntura: nel momento di maggior pericolo non si poteva rischiare la fedelta dei centri maggiori, ed uno dei modi per dimostrare a questi la benevolenza della Repubblica era quello
di garantire il massimo dei privilegi accordati. La limitazione delle prerogative degli Auditori e degli Avogadori da parte dei maggiori organi legislativi®*, non sarebbe, quindi, tanto da ricercare nel fatto che l’attivita delle magistrature d’appello veniva a ledere quei privilegi, quanto in un diverso modo, pit rigido, da parte della Dominante di guardare agli stessi°°. Domenico Morosini, in una pagina del suo trattato De bene instttuta republica — opera di notevole densita problematica, nel suo continuo ondeggiare tra il vagheggiamento di una mitica repubblica di stampo platonico, e concreta analisi critica della situazione politicoistituzionale veneziana —, si sofferma brevemente sulla nostra magistratura, all’interno della pil ampia sezione dedicata all’Avogaria di Comun°’, L’immagine dei Sindaci, come ci viene restituita dalle pagine del Morosini, sembra ricalcare quella pit tradizionale, quasi una 170
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riproduzione della descrizione dell’anonimo, su cui ci siamo gia soffermati: ogni Sindaco avra il compito di “sentire querimonias”, di assistere i sudditi, qualora questi siano stati ingiustamente trattati dai rappresentanti veneziani: “et tibi sufragetur — rivolgendosi cosi ad un ideale lettore — si fueris circumventus ac improbum audatia graviter ulciscatur”. L’autore sembra tuttavia differenziarsi dal suo anonimo predecessore, che aveva sottolineato l’unicita e la straordinarieta dell’esperienza sindacale veneziana, affermando che l’istituzione veneziana poteva essere paragonata a quella di altre “civitates” e di altri “imperia”, che “sindicos in annos singulos... mittunt ad socias civitates”. Pud apparire deludente tanta brevita, in un’opera cosi
ricca di proposte e di analisi, tuttavia si deve notare con interesse come un autore quale il Morosini, interprete dell’indirizzo oligarchico ed autoritario che stava prendendo piede tra le file del patriziato alla fine del XV secolo, voglia salvaguardare alcune funzioni di controllo proprie dell’istituzione sindacale. Ben diverso il giudizio, cosi netto ed icastico, di un Gasparo Contarini, tranciato alla fine del processo di assestamento interno alla classe dirigente veneziana e al termine delle terribili guerre d'Italia: quello degli Auditori era un “magistrato molto illustre”, ma ora doveva considerarsi definitivamente
“oscurato”®?,
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NOTE 1 Giannotti, Della Repubblica, anche per la successiva citazione del Gabriel,
pp. 128-130. 2 Sull’argomento e l’opera di Giannotti, Albertini (von), Firenze, pp. 145-166. 3 Connell , I] commissario, p. 610, cita alcune Consulte che avevano nutrito
il dibattito politico a Firenze nel 1497, durante il Gonfalonierato di Francesco Valori, in cui fu proprio la magistratura veneziana degli Auditori, a fornire il modello per tutta una serie di interventi. 4 Sullorigine della magistratura e sulle loro facolta di sindacamento degli atti dei rappresentanti veneziani, cfr. Dudan, Sindacato, pp. 5-25; Cozzi, La polttica del diritto, pp. 288-292; Caro Lopez, Gli Auditori; Viggiano, Considerazioni. Piu in generale sul problema del sindacamento degli ufficiali cfr. Crescenzi, Il Sindacato. 5 Contarini, Della Repubblica, p. 110. 6 Giannotti, Della Repubblica, p. 129. 7 Per il testo cfr. Sanudo, Itinerario, pp. I-V. 8 Ibid., p. Il: come assistenti dei Sindaci, si era stabilito vi fossero un cancelliere ed un coadiutore — il primo deputato “ad civilia”, il secondo “ad criminalia” — pit un “famulus”, di cui non vengono specificate le competenze. > Questo proclama, in volgare, recitava testualmente: “a tutti sia noto e manifesto che sel fussi alcuna persona che volesse lamentar e gravarsi d’alcune estorsioni, violentie, manzarie, trabutamenti, over altri mensfatti commessi per li spettabili signori podesta e capitani, camarlinghi, vicari, zudesi, cancellieri, contestabili, cavalieri et altri delle loro famiglie (...), over sel fussi alcuna persona che
volesse appellarsi de alcuna sententia, condannason, over altro atto judiciario, debba comparir avanti ai prefati signori Auditori, Avogadori, Provveditori e Sindaci infra termini de di otto prossimi, cum fermissima speranza di ricevere compimento de ras6n e giustizia, perché cosi é l’espressa intention della prelibata illustrissima Signoria nostra”. 10 Ibid., p. 73. 11 Ibid., e le offerte non si erano fermate qui. La comunita aveva infatti donato ai Sindaci anche “X scatolle di confeto, 6 torzi bianchi, do bazilli de pignoca confetada, molti altri bazilli de zervelladi e salzizoni, et lengue”, per finire con
tre “peze di formaio”. 12 Per le fonti quattrocentesche dirette sull’attivita degli Auditori-Sindaci, cfr.
A.S.V., A. ., buste 184, 185, comprendenti, la prima, un registro di lettere inviate ai rettori per il periodo 1472-1474, e un registro assai deteriorato, compilato durante il sindacato del 1461; la seconda i Capitolari ed un registro di lettere ai rettori del 1455S. 13 Ivi, A. n., Sindacato, b. 184, le carte non sono numerate. 14 J Sindaci erano partiti proprio dall’Istria il primo di marzo, ed avevano avuto modo di intervenire su 42 appelli provenienti dalle podesterie di Giusti172
UNA MAGISTRATURA PER LO STATO DA TERRA
nopoli (attuale Capo d’Istria) Pisino, Umago, Valle, Pirano, Isola. 15 [bid., 17 marzo. 16 Ibid., alla data. 17 Ibid., 19 marzo. 18 [bid., alla data. 19 Ibid., alla data. 20 Ibid., 8 aprile. 21 Ibid., 13 aprile. 22 Ibid., 13 marzo. 23 Cfr. le varie suppliche riportate in Buogo, La Valmarena. Sulla giurisdizione dei Brandolini cfr. quanto scrivono Gasparini, Signori e contadini, pp. 312-343, e Ballancin, Cenni sull’amministrazione, pp. 164-168. 24 A.S.V.,S.T., reg. 12, cc. 189r-195v. Gli oratori delle comunita, “graviter dolentes”, lamentavano il fatto che da un certo tempo era stata introdotta dai rettori veneziani una “certa iniqua consuetudo”, per cui i “distrectuales” erano costretti a vendere loro “blada, fena et ligna” a prezzi molto pit bassi del consueto. 25 Per una trattazione del problema, a proposito dell’Italia settentrionale, cfr.
Chittolini, Quasi citta. :
26 AS.V., S. Mi., reg. 58, c. 164v, 22 dicembre 1432. 27 Ibid., reg. 52, c. 28v.
28 Ibid., c. 41r. |
29 Per un’altra risoluzione secondo analoghi criteri, cfr. ibid., reg. 55, c. 100v, attorno alla controversia tra le podesterie di Vicenza e Cittadella e discussa in Senato il 22 marzo 1425, la cui risoluzione, per quanto si viene a sapere, era stata in precedenza delegata ai rettori di Asolo e Castelfranco, con possibilita di accedere in appello a quello di Padova. La questione si trascinava da troppo tempo e le parti in causa non dovevano nutrire eccessive speranze di risoluzione se richiesero — “pro cessatione expensarum, laborum et litium” — che fossero investiti di ampi poteri ispettivi e decisionali gli auditori che stavano per intraprendere il tradizionale itinerarium. Il prestigioso consiglio veneziano — pur con notevoli e significative incertezze al suo interno: in quarantanove si espressero a favore della richiesta, in ventitré si astennero e ancora ventitré furono i contrari — commissiono ai sindaci di recarsi al luogo della “differentia”, “et videre ea ad oculum, audire iura partium ac decidere et diffinire et ponere confinia... pro quiete partium”. Per simili vicende ricorrenti nello stesso giro di anni cfr. anche la decisione sull’ennesima controversia confinaria tra comunita appartenenti alle giurisdizioni signorili di Zumelle e della Valmarena, sempre nel distretto di Treviso, o quella,
determinata da analoghi motivi, tra gli bomines di Farra e quelli di Campiglia, nella Valmarena, rispettivamente, ibid., c. 21v, 17 giugno 1427 ec. 187r, 20 maggio 1428. 30 Cfr. a questo proposito Povolo, Aspetti e problemi, pp. 151 e sgg. 31 ALS.V., S. Mi., reg. 51, c. 107r. 173
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32 Ibid., reg. 58, cc. 150v-151r. 33 A testimonianza, tuttavia, di una deficienza che sembra piuttosto di ordine culturale che istituzionale si pud notare come rifiutassero la nomina, accampando motivi di impegno politico in altre magistrature veneziane, o in affari cor-
renti, i primi eletti alla nuova carica Ermolao Vallaresso e Pietro Lando, e in seguito Nicolo da Molin e Triadano Gritti, ibid. Il 27 ottobre 1432, vennero definitivamente eletti ancora il Vallaresso e Andrea Foscolo, ma il 27 gennaio del 1433 non erano ancora partiti, “et hoc propter defectum pecunie”. Percio si era ordinato che 600 ducati “exacti” dalla magistratura finanziaria del Cattaver servissero alla bisogna. Per queste vicende ed altri particolari cfr. ibid., cc. 152v e 174r. Per la commissione e la quota di utilita spettanti a questi sindaci, cfr. ibid., cc. 205v-206v, 22 maggio 1433. 34 T capi della Quarantia avevano proposto che gli Auditori novissimi occupassero la loro carica per due anni, alla fine dei quali eserciteranno il sindacato per il penale, “in partibus Lombardie”, nei confronti dei Rettori, “vicarios, cancellarios, iudices, socios milites”. 35 Tvi, A. w., b. 184, 13 marzo 1461.
36 Ibid., 20 aprile 1461. 37 Tvi, Ducali, reg. 11, c. 85v. Lo stesso anno i sindaci avevano invalidato, in quanto contraria alla “iustitia” ed in pregiudizio degli uomini della comunita di Minerbe, una sentenza del rettore di Verona con cui si era stabilito che il versamento del salario al vicario spettasse alla comunita. In questa occasione il giusdicente veronese aveva inutilmente allegato tra i suoi diritti un privilegio accordatogli dal Senato nel 1439, ibid., cc. 86v-87r. Per un altro interessante intervento dei sindaci in appoggio ad una supplica proveniente da una piccola comunita del Veronese, cfr. ibid., c. 74r-v, 9 novembre 1439. Gli uomini della comunita di Nogara lamentano che per i bandi e le denunce sui danni che vengono commessi “in pratis et possessionibus suis, solvi consueverat soldi quinque”, mentre da qualche tempo in qua Verona aveva imposto che la pena fosse raddoppiata. 38 Tbid., reg. 12, c. 137v. Sulla particolare configurazione di tale giurisdizione — creata dagli Scaligeri nel 1336 per Bailardino Nogarola, e dotata del merum et mixtum imperium, devoluta allo Stato marciano nel 1409 e smembrata ben presto in un gran numero di vicariati retti da giusdicenti privati, depotenziata, di fatto, dei primitivi ed amplissimi privilegi giurisdizionali —, cfr. Varanini, La “Curia” di Nogarole, pp. 45-263, e Zamperetti, I piccoli principi, pp. 125-129, e 136-137. 39 A.S.V., A. n., Lettere, b. 184, cc. non numerate, cfr. anche Grubb, Fir-
stborn, p. 65; sul contrasto con Vicenza p. 68. 40 A.S.V., A. n., Lettere, b. 184, c. non numerata. Anche in questo caso la citta aveva cercato di legittimare il suo intervento citando una precisa norma della
redazione statutaria. 41 Ibid., alla data. 42 Ibid., Sindacato, 17 marzo 1461. Sulla particolare conformazione giuri174
UNA MAGISTRATURA PER LO STATO DA TERRA
sdizionale di Cordignano, cfr. Stefani, Cordignano, pp. 13-39; Cauz, Notizie storiche, pp. 166-176 e 180 e sgg; Del Torre, Le strutture amministrative, p. 37. Un regesto dell’infeudazione si trova in I libri commemoriali, p. 106.
43 A.S.V., Luogotenente della Patria del Friuli, Ducali, b. 271, reg. 6, c. 8r-v, 28 settembre 1470. Si potrebbero citare altri atti giudiziari che videro protagonisti gli auditori, rispondenti ad una logica analoga. Lorenzo Zorzi intromise in Quarantia una sentenza del luogotenente Giovanni Emo perché pronunciata “ad damnum et preiuditium” della comunita di Marano, riguardo alla controversia intercorrente tra questa e i “venerabili domini”, fratelli de Presenis,
su boschi e valli da pesca, ibid., b. 273, reg. 9, c. 52r-v, 11 giugno 1483. Cfr., anche l’intromissione dell’auditore Vittore Marcello — con la motivazione che era stata “male et indebite facta” — contro una sentenza del luogotenente favorevole ai “nobiles castellani” Della Torre, con cui si costringevano gli uomini del comune di San Vito “ad nonnullas angarias , carigas et opera manuales facien-
das”, in quanto si dovevano ritenere “subditos finitimos, contiguos et propinquos” del castello di Villalta, ibid., b. 273, reg. 9, cc. 149v-150r, 3 aprile 1490. 44 Ibid., b. 274, reg. 11, cc. 130v-131r. I giudici itineranti veneziani avevano giudicato che quella sentenza era stata pronunciata “contra jus et justiciam” e in grave pregiudizio degli uomini della comunita. 43 Ivi, S. T., reg. 4, c. 119r. 46 Ibid., c. 94r. 47 Ibid., c. 183v, 20 ottobre 1461. Puo essere interessante notare che, non é dato sapere se allo scopo di convincere una parte del Consiglio renitente con un argomento che metteva a tacere eventuali opposizioni basate sul fatto che un provvedimento simile avrebbe potuto incrinare l’equilibrio tra ceti dirigenti della Terraferma e classe politica veneziana, i propositori cercheranno di legittimare la liceita del provvedimento, notando come una disciplina simile a quella che si cercava di far approvare era compresa in alcune delle normative statutarie locali: “in aliquibus ex terris nostris per statuta ipsarum prohibitum est similia instrumenta accipere pro pignore”. Per la particolare sensibilita con cui alcuni componenti del ceto dirigente veneziano guardassero a questo problema, da vedere l’intervento in Pregadi di Matteo Vitturi del 22 gennaio 1457, che, appena rientrato nella capitale, in veste di ex
podesta e capitano di Feltre propose una correzione delle tariffe spettanti agli ufficiali sottoposti ai rettori veneziani — ai quali ultimi “tuto el di vien rechiami del tal ingorde spexe” e che, tuttavia, sono “impotenti per esser cusi el consueto” —, esordendo: “comzo sia cossa che nel territorio feltrin sia assai villazi et sia extrema povertade, dove per i contestabili et i cavalieri tuto el di vano fazando pegni, si de spicial persone chome de colte, cum grandissima spexa de quelli ven
pigneradi e grandissima utilita de quelli ufficiali”, cfr. ibid., c. 25r. 48 Ivi, S. Mi., reg. 51, c. 3r, 3 marzo 1415. Per ovviare a tale grave inconveniente, questo il dispositivo deliberativo della parte, i magistrati delle Rason novissime, dotati di ampi poteri ispettivi in campo fiscale, venivano incaricati di “diligenter inquirere et se informare de omnibus sententiis incisis propter placi175
GOVERNANTI E GOVERNATI
tare Auditorum..., et facta bona inquisitione ac habita omni informatione necessaria superinde habeant libertatem, auctoritate huius consilii, possendi cogere illos Auditores” a restituire le utilita eccedenti entro quindici giorni, con la pena, nel caso di un non solerte adempimento del mandato, di una maggiorazione di quindici soldi per lira.
49 Tvi, S. T., reg. 4, c. 146v. 50 Ibid., reg. 2, c. 152r, 10 settembre 1450. 51 Jbid., reg. 4, c. 161r. Gia dai nostri saggi progenitori, cosi aveva esordito il Lando, “fo preso che le chause prima intromesse per gli Auditori prima fosse menade ai conseglii el qual ordene non se ha possudo mandar ad execution... cum grande molestia del Principe e de la Terra”. 52 Cfr. Chittolini, Infeudazioni, pp. 36-100; Petronio, Giurisdizioni feudali, pp. 351-402. 53 A.S.V., Luogotenente della Patria del Friuli, Ducali, b. 273, reg. 9, c. 64v. Altri casi si potrebbero affiancare a questo. Era stato il doctor utriusque, Cristoforo de Reginis a convincere il sindaco Marco Sanudo che la condanna di Bonifacio Bonfio, vicario del luogotenente della Patria, andava annullata perché “contra jus et justiciam... et ad damnum et preiuditium” della comunita di Ronchi. In base alle Constitutiones friulane — aveva cosi sentenziato il giurista della corte pretoria — andavano tassate sulle entrate della piccola villa “damna, expensas et interesse”, a causa delle violenze che alcuni incogniti provenienti da Ronchi, avevano portato alle “possessiones” di tale Tommaso Tommasi da Monfalcone, il quale aveva giurato “ad sacra Evangelia, manu tactis scripturis”, ibid., c. 43r-v, 22 ottobre 1484. Di notevole interesse anche il caso che vide protagonisti gli auditori Antonio da Canal e Marco Loredan. Nel 1491 i due magistrati avevano introdotto in Quarantia civile la “pronuntia” del luogotenente Luca Navagero, seguita alla denuncia avanzata dal capitolo aquileiese e del comune di Morsano, sottoposto alla potente giurisdizione ecclesiastica, nei confronti della comunita di Porpetto, i cui uomini “roncaverunt et distruxerunt nemus pacifice possessum per capitulum”. I giudici d’appello ricuseranno |’ampia delega attribuita al giurista Marco da Portogruaro e gli atti che da quella erano seguiti, in quanto “in preiuditium fisci”, ibid., c. 174v, 19 agosto 1490, e cc. 184v-185r, 6 aprile 1491. Assai ricche di risvolti giurisdizionali, con tanto di intervento di “advocati et procuratores” delle parti, sia in sede locale che nelle aule dei tribunali della capitale, risultano altre due intromissioni degli auditori del 1495. [1 13 aprile in Quarantia civile novissima viene annullato un mandato del luogotenente Paolo Barbo, con cui si era stabilito che nella causa tra le comunita di Maniago e Montereale, non fossero ammessi alcuni capitula prodotti dalla prima, ibid., cc. 63r-64v. Il 17 aprile dello stesso anno Alvise Gradenigo e Nicolo Mocenigo giudicheranno legittimo il ricorso dei fratelli Pietro e Giovanni della gentilizia famiglia dei Prampergo contro un atto del rappresentante della Serenissima a Udine, Priamo Tron. Questi aveva decretato che il pignoramento di beni ordinato da Simone di Prampergo, terzo fratello, ai danni di alcuni coloni della comunita di Monte176
UNA MAGISTRATURA PER LO STATO DA TERRA
nars, sottoposta alla sua giurisdizione, fosse da annullare. L’eccezione sollevata dalla parte appellante si fondava sulle disposizioni testamentarie di Pietro Giovanni, padre dei contendenti, in cui si erano specificate le quote d’eredita e la divisione delle giurisdizioni spettanti ai successori.
54 Ibid., b. 271, reg. 6, c. 19r, 28 agosto 1470. 55 Ibid., b. 273, reg. 9, c. 15r, 2 settembre 1483. 56 Ibid., cc. 106v-107r. 57 Per l’acquisto della giurisdizione da parte dei Grimani nel 1410, poiché il condottiero Taddeo del Verme risultava insolvente presso la Camera fiscale, cfr. Varanini, II distretto veronese, pp. 64 e 191, nonché Zamperetti, I piccoli principi, p. 136.
58 AS.V., A. n., Lettere, c. 187r. 59 A.S.Vr., Ducali, reg. 12, c. 80r, 10 giugno 1467. La Quarantia aveva tuttavia “lodato” l’atto dell’assessore del rappresentante veneziano Francesco Bon, ritenendo insufficienti le motivazioni addotte dai sindaci.
60 Grubb, Firstborn of Venice, p. 148. 61 Cfr. quanto afferma Cozzi, Politica del diritto, p. 268; Law, Verona and the Venetian State, pp. 15-16, ritiene, partendo dalla documentazione di un caso veronese, che |’azione degli auditori fosse priva di ogni efficacia e sostanzialmente velleitaria: non potendo apportare nessuna modificazione agli assetti di potere costituiti e creando presso i sudditi un senso di confusione ed incertezza. 62 King, Umanesimo e patriziato. 63 Le serie archivistiche da cui sono tratti i seguenti dati sono: A.S.V., Av. C., Balla d’oro, regg. 1-3, e ibid., Prove d’eta. Si sono considerati 99 nominativi di patrizi eletti alla carica per il periodo 1466-1502. Di questi solo 5 risultano addottorati a Padova: Giacomo da Molin , Zorzi Pisani, Andrea Trevisan, Francesco Morosini, Giovanni Badoer, negli anni, rispettivamente, 1462, 1482, 1486, 1492 . L’altro dato che mi sembra essere interessante sottolineare é quello che nessuno degli Auditori, una volta terminato il proprio mandato, verra rieletto. 64 Si pensi ad esempio alla formazione dei primi Corpi Territoriali, rappresentanze dei distrettuali, che si oppongono alla citta sulle ripartizioni delle quote d’estimo. Cfr. ad esempio Parzani, II territorio di Brescia, pp. 49-75; Varanini, Il distretto veronese, pp. 15-44; Vendramini, Le comunita rurali; Belotti, Storia
di Bergamo, pp. 7-24. Per il pit tardo sviluppo, Zamperetti, I sinedri dolosi e Knapton, II territorio vicentino. 65 Cfr. cap. IV. 66 Su questa tendenza pit restrittiva nell’interpretazione dei privilegi e delle pattuizioni, cfr. le due leggi in A.S.V., C.X, Misti, reg. 24, cc. 194v-195r, e reg. 25, cc. S4v-S5r. 67 Morosini, De bene instituta, p. 88. 68 Contarini, Della Repubblica, pp. 110-111.
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Il Consiglio dei Dieci e il problema dell’autorita nello Stato territoriale della seconda meta del Quattrocento
“Est preterea decemvirorum consilium, in quo princeps sexque consultores assistunt, et si quem in principem principatumque deliquisse constiterit, indelibili ille poena mulctatur. Maximo itaque terrore extat
consilii huius tremenda sententia”!. Cosi Polo Morosini sintetizzava, a meta 400, il ruolo e immagine autoritaria e terrifica trasmessa dal Consiglio dei Dieci. Il patrizio veneziano nella sua trattazione aveva comunque anteposto a questa pur importante funzione politica, quella ragione di cui era portatrice la pid antica magistratura delPAvogaria di Comun. Marin Sanudo, nel 1493, sottolineava come il rapporto di potere e prestigio tra le due istituzioni fosse ormai tutto sbilanciato a favore dei Dieci?: sebbene gli Avogadori avessero ancora la precedenza nelle funzioni pubbliche e nei cerimoniali, la fama e Pautorita che circondavano il Consiglio risultavano ben maggiori. Anche se le sue attribuzioni sono circoscritte ad un numero ben preciso di materie, non si puo ignorare, cosi prosegue il diarista veneziano, che negli ultimi tempi si siano decisamente allargate: “ancora governano altre cosse et casi severi”, ed é “magistrato molto tremebondo” e “secretissimo”. Negli stessi anni, con ancora maggior icasticita, Domenico Morosini, tenace assertore di una politica pit efficace e diretta, aggiungeva: “hic magistratus tenet locum principis tiranni, si non ex toto ex maxima parte” ?: la sua funzione, cosi sembra affermare il trattatista, non deve essere eccessivamente limitata, in quanto solo questo organismo puo salvaguardare la suprema salute della Repubblica, eliminando e reprimendo i “mali mores”. Nell intervallo 179
GOVERNANTI E GOVERNATI
di mezzo secolo che separa le definizioni dei tre autori, nella diversa accentuazione che le contraddistingue, si dipana un processo composito e sinuoso all’interno della struttura costituzionale veneziana, al cui centro si dispongono i problemi del rapporto tra autorita e legalita, della trasformazione del linguaggio giuridico e politico, della pratica delle istituzioni, della relazione tra le norme e |’emergere di nuove realta politiche e sociali che le minacciano, le corrodono, le trasformano. Quali erano esattamente 1 poteri trattenuti nelle mani dei diciassette patrizi — il Doge, i sei consiglieri ducali e i dieci consiglieri ordinari — che costituivano la magistratura? E questo un interrogativo a cui non si puo rispondere univocamente. L’assorbimento, anche tem-
poraneo, da parte dei Dieci di importanti funzioni politico-amministrative, la serrata dialettica con gli altri organismi costituzionali veneziani, il problema del rapporto con l’Avogaria di Comun, rendono necessaria una indagine, attenta a cogliere il rilievo delle congiunture, le continue variazioni di competenze, il processo di interazione tra emanazione di una normativa e prassi quotidiana dei componenti della magistratura. Ci si deve chiedere se quello che tanto stupiva i contemporanei, quel senso di una autorita che colpiva inesorabilmente e si dispiegava con pienezza di poteri, riproducesse un’emozione determinata dal ricordo, gia quasi ammantato dai toni della leggenda, degli interventi pit clamorosi che recavano l’impronta del Con-
siglio dei Dieci, quali la decapitazione del doge Marin Faliero e del conte di Carmagnola, o la deposizione per indegnita del doge Francesco Foscari — che, d’altra parte, non esorbitavano dalle competenze per cui era stato istituito il Consiglio all’indomani della congiura di Marco Querini e Baiamonte Tiepolo —, o fosse provocato piuttosto
da motivi strutturali, quali, ad esempio, la costante applicazione del rito inquisitorio, cioe di quel particolare tipo di procedura, di origine medievale, che garantiva segretezza e rapidita*, anche grazie a quellelemento di grandissimo rilievo psicologico, per cui il reo doveva difendersi da solo dalle accuse dei giudici: “quelli che entrano ne le mani dil conseio di X no si pol difender con avocati, ma quando !’esaminano, sbara il palazo”, annotava Marin Sanudo®. Si puo ancora ipotizzare che quella nuova ed inconsueta immagine di gestione dell’autorita che tanto suggestionava i trattatisti rappresentasse la percezione, 180
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
non ancora formalizzata, del momento di emersione di un lungo processo in cui le istanze piu diverse, frazionate e contraddittorie che venivano dal mondo della Terraferma, e le stesse tensioni interne alla classe dirigente veneziana, si confondevano e si sovrapponevano. Una legge votata dal Maggior Consiglio nel 1468 cercava di definire le competenze dei Dieci. Nel proemio di questa parte, dopo aver ricordato come i “progenitores” avevano sempre cercato di mantenere “in culmine Consilium nostrorum Decem”, in funzione della “dignitas” e dell’“auctoritas” che gli erano state originariamente attribuite, si sottolineava come, negli ultimi tempi, i Consiglieri avevano cominciato ad esorbitare dalle loro competenze. Era quindi necessario farli rientrare nell’ambito della loro giurisdizione abituale, che riguardava i casi di tradimento, la repressione di “proditiones et sectas” dei “tractatus terrarum” e di ogni episodio che avrebbe potuto provocare una “turbationem pacifici Status nostri”, la punizione dei casi di sodomia, e la facolta di controllo sulle Scuole Grandi, e sulla Cancelleria Ducale®. Un settore di intervento di fondamentale importanza nei rapporti con i sudditi dello Stato da Mare da Terra, quale quello della tutela delle pattuizioni e dei privilegi concessi dalla Serenissima, veniva sottratto al Consiglio e restituito al controllo dell’Avogaria di Comun. Ma questo tentativo di sistemazione legislativa non dovette risultare troppo efficace. Nel 1497 Domenico Malipiero notava nei suoi Amnali, con una punta di rammarico e con il senso dell’ineluttabilita del nuovo ordine di cose che si era instaurato, che “certo il conseio de pochi é pericoloso”, e che, disattendendo alla norma
della legge del 1468, il Consiglio dei Dieci “sotto ombra de far le co-
se pill secrete i se assume purassa’ cose che no spetta a loro”’. Ma quali erano queste “cose” sulle quali indebitamente il Consiglio avrebbe allargato la sua ombra? Come, concretamente, quella nuova idea dell’autorita informava di sé leggi e provvedimenti, in materie solo apparentemente “minori”? Su quali settori della vita assoCiata, e in seguito a quali istanze si sviluppava quell’opera di controllo e disciplinamento? Quale il rapporto con gli altri organismi di potere veneziani (dal Senato al Collegio, dall’Avogaria agli Auditori novi)
che a vario titolo erano occupati dai problemi amministrativi e giudiziari riguardanti la Terraferma veneta? Infine, tornando all’interrogativo principale di questa ricerca, l’azione del Consiglio contri181
GOVERNANTI E GOVERNATI
buisce ad allargare il solco che divide la citta capitale dalla Terraferma, oppure tende a ridurre |’incidenza di quel diaframma, creando i primi presupposti per la formazione di uno Stato dalle strutture piu compatte e unitarie? Analizzando l’attivita dei Dieci nel corso del Quattrocento, si desume |’impressione — anche visiva, al solo sfogliare i ponderosi registri fittissimi di leggi e provvedimenti che datano dall’inizio degli anni cinquanta del secolo — di una specie di punto di svolta situabile negli anni, per usare il referente della politica estera, delle guerre con Alfonso d’Aragona, re di Napoli (1449) e della ripresa del conflitto con il duca di Milano Francesco Sforza (1452); anni in cui continuava a campeggiare e si faceva sempre piu minaccioso il pericolo apportato da Maometto II*®. Con la pace stipulata a Lodi nel 1454, Venezia oltre alla riconferma del proprio dominio su Brescia e Bergamo, otteneva, delle terre che aveva cosi aspramente conteso allo Sforza,
soltanto Crema; al duca di Milano restavano la tanto ambita Ghiara d’Adda e Caravaggio, Vailate, Treviglio, Brignano, Rivolta. Erano stati anni di durissimi sacrifici per la Repubblica, di impegno severo per i suoi uomini migliori. Le vicende belliche che avevano coinvolto la citta di San Marco, avevano altresi provocato un’accelerazione di quel
processo di avvicinamento tra governanti e governati, messo a nudo contraddizioni e manchevolezze della politica del diritto veneziana. Risulta quasi naturale che in questi momenti di particolare tensione, tanto i governanti che i governati avvertissero la necessita di un irrobustimento del momento autoritativo, dell’efficacia e della chiarezza degli ordini, nonché del superamento delle regole imposte dal sistema veneziano costruito attorno al principio dell’intermediazione e del controllo reciproco delle istituzioni. Proprio l’esigenza di conservare intatto il pacificus Status noster (espressione che ricorre retoricamente in tante parti emanate dai Dieci), e il dovere di garantire la sicurezza del corpo sovrano e dei sudditi nei momenti di difficolta, durante le piu difficili emergenze, favorivano un allargamento straordinario del raggio d’intervento del Consiglio. Una volta poi esauritesi le dure necessita, connaturate alla straordinarieta della congiuntura, in una struttura istituzionale, come quella dello Stato veneziano, ancora in via di formazione e alla ricerca, spesso affannosa, di regole da dare al proprio agire politico, dovevano permanere, come un’i182
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
nerzia, come un’incrostazione, usi e consuetudini amministrative, modi
di concepire l’autorita e l’intervento. Questa specie di processo di sedimentazione di pratiche e di allargamento delle facolta giurisdizionali dei Dieci emerge con notevole evidenza, sia per Venezia che per la Terraferma, a partire dagli anni cinquanta del XV secolo. Se ci si limita all’ambito della capitale pud apparire quasi fisiologica la tendenza all’assorbimento delle diverse funzioni ed istanze giudiziarie, anche minori, grazie alla particolare enfasi sul momento dell’autorita, che caratterizza fin dalle sue origi-
ni il Consiglio, e alla crescente urgenza del problema dell’ordine pubblico®. Analogamente a quanto accadra negli anni successivi alla sconfitta di Agnadello!°, anche se con un rilievo emozionale minore,
le guerre con il duca di Milano, l’incombenza del pericolo turco, la grave crisi nel settore degli approvvigionamenti, assieme alla fame ed alla carestia, potevano certo contribuire a creare quel clima particolare di precarieta, di angoscia: nell’orizzonte mentale di governanti e governati si presupponeva un legame inscindibile tra punizione divina e peccati degli uomini. La giustizia assumeva caratteristiche quasi religiose, di risarcimento e di espiazione nei confronti della divinita.
Questa patina arcaica usata per raffigurare il diritto, questo porre il potere in funzione di interprete della volonta di Dio — fondando su questo aspetto uno dei momenti della propria legittimita —, si pud riscontrare nel proemio di una legge del 145911, con cui si stabilivano le norme per l’elezione di un “capitaneus” del Consiglio dei Dieci — dotandolo del potere di eleggere nove “socios” — allo scopo di estirpare dalla citta il funesto vizio della sodomia '?: “sicut per divinas scrip-
turas dare habetur onnipotens Deus, abbominans peccatum sodomie et volens de hoc facere demonstrationem, emisit iram suam super Civitates Sodome et Gomorre, (et) mundum subinde huius scelerati peccati causa submersit et devastavit”, che é quello che accadra a Vene-
zia se non si provvedera al pit presto. Anche se con minor evidenza retorica e drammatica, esigenze ana-
loghe a quelle espresse in questa legge, miranti a realizzare un pit stretto disciplinamento dei comportamenti collettivi e della pratica delle istituzioni, si riscontrano con notevole frequenza in altri provvedimenti dello stesso periodo. Nel marzo del 1456 i capi del Consiglio Leo Duodo e Nicolo Tron dovettero accogliere con una certa
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GOVERNANTI E GOVERNATI
apprensione la relazione dei Capi di Sestier e dei Signori di Notte!3. Uno degli obblighi a cui erano sottoposti i componenti di queste magistrature consisteva nel registrare i nominativi di tutti coloro che ottenevano dai Capi del Consiglio la licenza di portare armi. In un sistema politico in cui non si era ancora sviluppata la coscienza di un controllo capillare di polizia, e di razionalizzazione ed organizzazione delle forze dell’ordine, i detentori del potere, pur senza rinunciare alla funzione sovrana che consisteva nel controllare e punire, non avevano la possibilita di esercitare il “monopolio della violenza” in tutta la sua ampiezza. Non si poteva che delegare ad una parte della societa le esigenze di tutela e di difesa. Per questo motivo 1 Dieci concedevano con una certa frequenza a patrizi che facevano parte dei tribunali o che, a causa di una qualunque funzione pubblica o privata da loro esercitata, potevano correre qualche pericolo, la possibilita di essere tutelati da un certo numero di uomini armati. Era questa una necessita che non poteva non creare quei problemi e quelle contraddizioni che l’interessante relazione dei Capi di Sestier e dei Signori di Notte mettevano in luce. In citta oltre mille individui possedevano armi: “multi principales” tra i patrizi veneziani, che avevano ottenuto la licenza, venivano accompagnati da squadre di violenti, spesso assai numerose, composte per gran parte da “populares” di infima condizione. Da una parte si stigmatizzava la poco opportuna meésal-
liance tra patrizi ed uomini che appartenevano ai gradini pit bassi della gerarchia sociale, incrinando quell’immagine di compattezza e di esclusivita propria della nobilta veneziana, dall’altra si cominciavano ad intuire le ripercussioni che una simile pratica poteva provocare, in direzione di una delegittimazione del potere e di un disconoscimento dell’autorita ‘+. Questo lamentava anche una legge del 1469 dal significativo esor-
dio: “erat olim in civitate nostra erga Dominium et bonum statum patrie nostre tanta reverentia et tantus timor non disobediendo, ut omnis civis quanto maior et dignor reputabat tanto obedientior et humilior erat ad omnia mandata Dominii”, ora invece, affermavano scon-
solati i capi del Consiglio, nessuno ottempera pit agli ordini dei Signori di Notte e dei Capi di Sestier15. Si avvertiva come non fossero facilmente conciliabili le esigenze di estensione dei poteri di controllo sull’ordine pubblico con le tradizionali forme di delega agli stessi sog184
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
getti sociali delle funzioni di tutela e difesa della propria incolumita. E il senso di questa contraddizione che si coglie nel risultato della votazione con cui i Dieci bocciarono, “post longam disputationem” e con lo scarto di due soli voti, la proposta dei capi mirante a limitare Pindiscriminata concessione di licenze d’armi.
Nel corso di questi anni |’intervento dei Dieci su questioni penal, sia a livello legislativo che processuale, conosce una notevole intensificazione. Il 27 aprile 1457 i Dieci riprendevano severamente i componenti della magistratura dei Signori di Notte!®, i quali non rispettavano in alcun modo le norme stabilite “juxta ordines et antiquas consuetudines”, al momento di procedere contro gli accusati di omicidio: da quella che stabiliva che solo con il consenso di tutti e sei i membri della magistratura si potesse permettere ad un inquisito di vedere le scritture e le accuse che lo riguardavano, a quella che ordinava che il nome dell’ucciso e dell’omicida, dei testi e del luogo in cui si era verificato il delitto fossero annotati “in uno quaterno pergameno”. Per ovviare a questi scompensi i capi del Consiglio proporranno che i Signori di Notte non potranno pit assolvere nessuno se non alla presenza del Doge e dei suoi Consiglieri, che ogni processo formato da loro verra posto in una “capsa”, le cui chiavi saranno tenute dagli Avogadori di Comun, che nessuno potra avere in visione le scritture processuali, finché l’accusato non sara “carceratus”. Uno degli aspetti di maggior interesse riscontrabile nell’attivita del Consiglio di questi anni é quello costituito dalla funzione di disciplinamento e formalizzazione delle procedure esercitato sulle istituzioni cittadine e sullo stesso comportamento “civico” del patrizi. Il 26 aprile
1455 si proibiva ai Consiglieri ducali di portare “vestes lugubres”, in quanto non “decentes nec convenientes” a coloro che dovevano rap-
presentare il Dominium‘’. Nella stessa occasione i capi del Consiglio, in base al principio che la “dignitas Consiliarie” costituiva il “principale membrum” della Signoria, risolvevano la controversia sulla precedenza nelle cerimonie pubbliche che opponeva i Consiglieri ai Pro-
curatori di San Marco?®. |
Nel 1457 i Dieci emanavano una severissima parte contro quella pratica, invalsa da qualche tempo nei “collegiis et arengis”, per cui un numero sempre crescente di patrizi, “contra bonos et antiquos 185
GOVERNANTI E GOVERNATI
mores huius civitatis”, avevano iniziato a chiamarsi reciprocamente con il termine di magnifici??. La difficolta di conciliare le esigenze di tutela degli equilibri costituzionali con la garanzia del corretto funzionamento delle istituzioni, e la necessita, avvertita con urgenza dal patriziato, di un maggior controllo politico e di un intervento d’autorita per superare le numerose impasse determinate dalla pletoricita del sistema polisinodale ve-
neziano, in cui decisioni, parti e sentenze delle varie magistrature e consigli tanto sovente si contraddicevano e sovrapponevano, appaiono
come i temi di fondo della legislazione e della prassi dei Dieci. Piu che nelle definizioni teoriche della trattatistica, una specie di non del tutto consapevole dibattito sulla natura del potere e dell’autorita e sul ruolo delle istituzioni, analogamente a quanto avverra a Firenze negli stessi anni2°, si svolge nelle stanze dei consigli politici, in primis del Consiglio dei Dieci. Nel corso del 1458 si discussero proprio i problemi sollevati dallo straordinario allargamento del raggio d’autorita del Consiglio. I] 23 agosto i capi richiamavano i consiglieri al rispetto di una vecchia legge del Maggior Consiglio del 1414 con cui si decretava che, per rendere valida una riunione dei Dieci, dovessero essere presenti almeno sette dei suoi membri?!. I] 25 settembre dello stesso anno veniva eletta una Zonta di venti membri allo scopo di procedere ad una sorta di corre-
zione interna, giustificata dall’immotivata intromissione del Consiglio in alcuni settori della vita statale e costituzionale2?. I capi ed i consiglieri ducali autori delle proposte, avevano per prima cosa rimarcato come i Dieci, “a modico tempore citra”, avevano cominciato ad ingerirsi nelle questioni riguardanti la Promissione ducale, con-
tro cid che potevano fare e contro la giurisdizione del Maggior Consiglio?*. Dietro le consuete formule retoriche (la necessita del prov-
vedimento era giustificata “pro quieto et evidenti bono Status nostri, multis respectibus satis notis”; il Consiglio era stato creato “non ad concitanda scandala, inconvenientia et pericula in civitate, sed ad sedandum et providendum non sequatur”), si avverte la preoccupazione per la crescita di una struttura politica che sembra mettere in discussione
la stessa immagine della “costituzione” veneziana, basata sull’equilibrio tra il principio d’autorita ed il principio di legalita, e sul controllo incrociato esercitato dalle varie istituzioni. Per tale motivo, sempre 186
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
in quell’occasione, ci si peritava di porre un freno alla troppo frequente emanazione di lettere, mandati e terminazioni di cui si rendevano autori i Capi del Consiglio23. L’ultimo intervento di correzione riguar-
dava un’altra funzione che i Dieci si erano arbitrariamente arrogata — diminuendo Il’autorita del Maggior Consiglio, definito “Dominus” dello Stato — consistente nel sottrarre la “facultas judicandi” e la possibilita di occupare cariche pubbliche, a tutti i parenti ed affini di “prin-
cipales et magnos nobiles”, condannati al bando?*. Ancora, attraverso una parte emanata nel 1461, si cercava di disciplinare le competenze dei Capi del Consiglio e le procedure con cui questi dovevano accogliere le varie suppliche e istanze di quella “maxima multitudine personarum” che quotidianamente si riduceva alla loro presenza?°. Di un indebito allargamento della giurisdizione del Consiglio nei confronti di magistrature che tradizionalmente erano sottoposte al con-
trollo dei Pregadi, testimonia la legge con cui, il 23 agosto 1458, i Dieci stabilivano norme severissime allo scopo di regolare l’annuale elezione di un organismo dell’importanza della Zonta del Senato?°. Il “principale fundamentum” della “stabilitas” della nostra Repubblica consiste nel fatto che le materie “qua in nostris consiliis cum laudatione et consensu omnium sunt disputata et diffinita”, vengano rese esecutive nel pit breve lasso di tempo possibile: cosi esordiva un’altra
parte emanata dal Consiglio lo stesso anno, che ordinava di non indugiare ulteriormente su una proposta della magistratura finanziaria dei Savi sopra le Camere, gia approvata dal Senato a larghissima maggioranza e “cum magna utilitate”*”. Le Quarantie, civile e penale, erano
sottoposte, all’inizio del 1459, ad una severa regolamentazione attraverso una legge che prevedeva anche la modalita di intromissione delle cause da parte di Auditori, Sindaci e Avogadori2®. E ancora, allo scopo di ovviare ai “multa inconvenientia et disordines” che da qualche tempo si verificavano nell’esame delle prove per eta dei patrizi prodotte al Maggior Consiglio, i Dieci ammonivano gli Avogadori affinché facessero rispettare le leggi e le “bonas consuetudines”, e po-
nevano la legge sotto il loro diretto controllo: da allora in avanti si sarebbe potuto infatti ricorrere contro le determinazioni avogaresche ai soli Capi del Consiglio2?. Il 19 aprile 1464 venivano formalizzate dai Dieci con l’intervento di una Zonta — a sottolineare l’importanza 187
GOVERNANTI E GOVERNATI
della materia — le regole da osservare durante le ballottazioni delle varie “mani” di elettori che avrebbero dovuto nominare il Doge*?. Non si puo tralasciare di accennare ad un’altra fondamentale prerogativa di controllo esercitata dai Dieci: quella sull’apparato burocratico e pit specificamente sulla Cancelleria 31. Gaetano Cozzi ha notato come, nel corso del °400, si facesse progressivamente strada nel mondo politico veneziano il convincimento che “fosse necessario sostenere l’azione di governo con un apparato amministrativo compatto e disciplinato, affidato a uomini che fossero appositamente preparati a reggerlo e che dessero garanzie di saperlo fare in virtu della propria tradizione familiare” e del loro senso civico 37. Le guerre, con tutti
i problemi logistico-organizzativi che comportavano; la necessita di intrattenere rapporti politico-diplomatici sempre piu articolati con 1 vari principi; la stessa incidenza dei problemi sollevati dalla formazione dello Stato da Terra, e quindi del difficile rapporto con citta e comunita, territori e feudi, rendevano sempre pit necessaria e inderogabile la costituzione di una burocrazia organizzata razionalmente. E questo senso di crescita quasi organica della pianta-Stato — e degli aggiustamenti che tale sviluppo rendeva necessari sotto il profilo dell’ordinamento —, che si riflette in una parte emanata dal Consiglio dei Dieci nel 1458 33: poiché “per gratiam et clementiam onnipotentis Dei Status nostrus auctus est, ut omnes intelligunt et sperandum
est quod de bono in melius augebitur”, era necessario inventariare e rubricare le “multe leges et ordines” che si trovavano scritte “in multis
librorum voluminibus” appartenenti ai vari consigli e magistrature. A questo scopo i consiglieri dei Dieci dovranno nominare tre notai di Cancelleria “qui ad hanc rem et non ad aliud attendere debeant”, fino a quando non avranno realizzato la loro opera. Era quindila necessita di tenere sotto stretto controllo questo cardine dell’organizzazione politico-amministrativa della Repubblica a determinare |’intervento dei Dieci. Un decreto del 24 giugno 1462 3+, ricordando le numerose recenti “provisiones” del Consiglio riguardanti la Cancelleria, emanate allo scopo di regolare il controllo sulle “scripturas secretas”,
di stabilire il numero di secretarii e notarii, di determinare quali fossero le loro funzioni e l’ammontare dei loro salari35, formalizzava cio che ormai era da tempo invalso nella prassi: “pro evidenti bono 188
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
nostri Status” si decretava di rendere la Cancelleria “totaliter subiec-
ta” ai Dieci, con l’eccezione riguardante |’elezione del Cancellier Grando, che restava sottoposta alla giurisdizione del Maggior Con-
siglio 3°. |
Abbandoniamo |’ambiente veneziano ed i suoi problemi di instabili equilibri istituzionali, ma non ancora attraversato dalle dilaceranti tensioni di inizio Cinquecento, per rivolgere la nostra attenzione verso il complesso sistema di potere della Terraferma veneta. Anche qui si applicano le categorie di governo che avevano caratterizzato I’attivita dei Dieci nella capitale? Quali i settori in cui l’intervento dei Dieci, viene invocato con pill urgenza e da quali soggetti sociali, o organismi di potere? L’autorita dei Dieci ha modo di dispiegarsi anche nel Dominio, quali opposizioni incontra? Un episodio che mette bene in luce il particolare atteggiamento che sembra svilupparsi nel corso di questi anni in Consiglio dei Dieci é quello relativo al tentativo di riforma del consiglio civico veronese del 1462. Gia nella prima meta del ’400 l’intervento della Serenissima sulla composizione delle istituzioni di governo delle citta di Ter-
raferma si era fatto avvertire. Il Senato, nel corso del 1446, aveva provveduto a portare da sessanta a cento il numero dei cives patavini eleggibili alla carica di consigliere in citta, per ovviare a quegli scandali “qui possint occurrere et etiam murmurationibus aliquorum bonorum civium” 3’. L’obiettivo principale di questo intervento, sollecitato da alcuni cittadini che cercavano di impedire che le principali cariche del comune fossero cooptate all’interno di un gruppo di potere sempre piu ristretto, sembra consistere nella ricostituzione di certi equilibri locali, allo scopo di evitare scontri e tensioni che avrebbero potuto portare ad una delegittimazione dell’autorita veneziana. Analoghe considerazioni si potrebbero proporre per un altro intervento del Pregadi, con cui, nel 1422, si era ordinata l’istituzione di un Consiglio dei Cento a Vicenza. In questa occasione ad invocare la riforma erano stati alcuni rappresentanti del ceto di governo della citta berica, che si sentivano gravemente danneggiati dalla strisciante concentrazione delle leve di potere dell’amministrazione locale nelle mani degli otto Deputati ad utilia, a scapito del piu antico e rappresentativo consiglio civico 38. 189
GOVERNANTI E GOVERNATI
Una diversa disposizione dei toni e degli argomenti, una differente accentuazione del ruolo di controllo che doveva essere esercitato da rappresentanti del potere veneziano, una pit diretta e attiva intromissione nella disposizione delle normative e delle procedure, sembrano riflettersi nella parte dei Dieci del 30 gennaio 1462°. Sempre pit spesso accade, cosi iniziava quella deliberazione, che nell’annuale elezione del consiglio dei “quinquaginta et XII civium Verone”, molti soggetti che
avevano ampiamente dimostrato di essere “fidelissimi amatores Status et honoris nostri Dominii”, ne rimanevano esclusi, a causa di una certa “passione animi electorum”. In questa occasione, nel determinare l’intervento veneziano, sembrano assumere maggior rilievo le esigenze politiche di sicurezza e la necessita di appoggiare quella
parte di cittadini veronesi leali verso la Repubblica: per questi motivi i rettori dovevano possedere rispetto a quell’elezione una certa autorita “in retribuendo honorem illis fidelibus qui noscunt dignos gratia nostra”. D’ora in avanti, cosi proponevano i capi del Consiglio, i rappresentanti veneziani a Verona avranno liberta di nominare a quel consiglio venti tra i cives che a loro sembreranno maggiormente degni di accedervi. Era questa una proposta fortemente innovativa rispetto alla tradizione, una modalita di integrazione con una sezione di una classe dirigente locale che non era stata ancora esperita. Tuttavia il tentativo
di orientare in modo diverso il rapporto tra governanti e governati in questo delicatissimo settore era destinato non solo a rimanere isolato, ma anche a naufragare ben presto. La resistenza opposta dal ceto dirigente veronese, che non poteva sopportare un cosi netto abbassamento della propria autorita, assieme a considerazioni di ordine pratico e politico, al timore che un simile provvedimento, anziché placare, potesse ulteriormente alimentare il sentimento di repulsione nei confronti della Serenissima, provocarono un brusco arretramento, e la parte del 30 gennaio ebbe cosi corso solo per alcuni mesi*°. Analogamente a quanto si verificava nella capitale, i criteri di rapidita e discrezionalita con cui i Dieci procedevano nel settore della concessione di prebende, cariche, uffici, si adattavano perfettamente a certe attese dei sudditi del Dominio. Le risposte che il Consiglio dei Dieci diede a quelle suppliche non possono essere semplicemente motivate con una sorta di volonta gra190
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
tificatoria nei confronti di individui che, per diversi motivi, si erano dimostrati fedeli alla Serenissima. II filtro esercitato dai Dieci su grazie e simili concessioni sembra rispondere ad una domanda di legittimazione e di sicurezza da parte di taluni, che viene recepita attraverso le tradizionali procedure delle concessioni per gratiam, ma adattata secondo considerazioni piu prettamente politiche. Anche in questo settore l’attivita del Consiglio dei Dieci non viene certamente ad esautorare quelle del Senato o del Collegio, quanto piuttosto a sovrapporsi ad esse. Una simile modalita di intervento, in cui campeggiava una valutazione tutta politica delle ripercussioni che certe determinazioni potevano provocare sugli assetti e gli equilibri locali, faceva aggio sull’usuale criterio della benevolentia, ed il leggendario pa-
ternalismo veneziano si arricchiva di una sfumatura decisamente discrezionale. Si comprendeva con sempre maggior chiarezza come la concessione di gratiae non implicasse soltanto problemi procedurali, ma coinvolgesse anche una dimensione pit latamente politica: vi erano
degli strumenti di governo attraverso i quali creare una sorta di primitiva e ristrettissima cerchia di fideles della Serenissima, e bilanciare le resistenze ed i livori antiveneziani di tanta parte delle classi politiche delle citta della Terraferma? Al di la di tutto si intuiva probabilmente come la pratica premiale rendeva possibile ovviare a tensioni e conflittualita che si determinavano attorno ai poteri locali, lasciando che quei duri contrasti si fiaccassero e perdessero di intensita, prima che si potessero ripercuotere sulle istituzioni di governo centrali. Indubbi vantaggi scorgevano anche quei sudditi che cercavano, all’ombra dello Stato, il sigillo della legittimazione di una posizione di prestigio che potevano aver raggiunto, oppure che intravvedevano, nel nuovo modo di porsi in rapporto con l’autorita statale, la possibilita di una ascesa sociale e politica, che la fitta strutturazione della rete degli interessi locali rendeva pit difficile ed incerta. Il 26 aprile 1458 I’“egregius et fidelissimus” padovano Simone de Chizolis interponeva la sua supplica ai capi del Consiglio, affinché tre suoi figli, “doctores preclarissimi, intelligentes et doctos”, potessero ottenere la nomina alla carica di assessore, potessero far parte cioé della corte di un rettore veneziano anche nella citta di origine, e quindi
in deroga alla legislazione statale*!. I capi concederanno all’appellante quanto richiesto: i suoi figli avrebbero potuto servire nelle curie 191
GOVERNANTI E GOVERNATI
podestarili di Padova, o Vicenza, o Treviso, a loro discrezione*?. Questo della nomina dei propri collaboratori da parte dei rappresentanti veneziani é un tema di notevole interesse. Si € gia notato come ai patrizi veneziani eletti alle podesterie maggiori dello Stato da Terra veniva concessa la facolta di scegliere quegli Assessori che li avrebbero dovuti assistere nel disbrigo dell’attivita giudiziaria. Tale prerogativa poteva, tuttavia, entrare in contrasto con le gratiae, benevolmente concesse ai sudditi dai maggiori consigli della capitale. Due diverse modalita di assunzione di un personale burocratico, che tuttavia appartengono allo stesso orizzonte culturale. La scelta degli “ufficiali”, almeno fino agli anni cinquanta del secolo, restava affidata a criteri di tipo privatistico-paternalistico, e non obbediva certamente ad una necessita tecnica e razionale. Era in questa situazione, ancora cosi fluida e non regolamentata, che si potevano determinare conflitti intricati, sia all’interno del corpo sovrano della Serenissima, che
tra patrizi veneziani e sudditi. Nel 1458 il luogotenente della Patria Ettore Pasqualigo aveva chiesto si concedesse a Francesco, uno dei figli di Simone de Chizolis, Pinca-
rico di assessore ad Udine. Andrea Contarini, eletto podesta di Padova, aveva immediatamente protestato con i capi: quell’ “officiale” aveva gia ottenuto la carica di vicario nella citta che lui era stato chiamato a reggere, “non vigore gratie... sed sponte et libere propter suam sufficientiam”. Convocate le parti, i Dieci avevano risolto la contro-
versia appoggiando le ragioni del podesta patavino. Nel 1462 si era presentato ai capi il podesta di Vicenza, lamentando le modalita di attribuzione dello “judicatus iuris” della citta al figlio di Marchionne Pellegrini di Verona: contravvenendo alla consuetudine, il nome del giudice non era stato sottoposto al vaglio del Maggior Consiglio, venendo in tal modo a conculcare il diritto che gli spettava di nominare un uomo di sua fiducia. II dibattito che si svolse nelle aule del Consiglio in seguito a questa istanza assunse toni piuttosto accesi, tanto che si giunse alla votazione con due proposte differenti. I due capi Nicolo Soranzo e Jacopo Barbarigo suggerirono una soluzione di compromesso: si acconsenta alla richiesta del rettore di Vicenza, ma si conceda al Pellegrini un officio di analogo prestigio, quale quello di vicario del luogotenente a Udine. Il loro col-
lega Maffeo Michiel scelse invece una linea pit rigida (che passo 192
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
con la larga maggioranza di dodici voti contro due): le determinazioni del Consiglio dei Dieci non potevano essere messe in discussione da alcuno, e pertanto il podesta di Vicenza doveva portare con sé quel vicario, senza ulteriori resistenze*>.
Il motivo del sovrapporsi da parte dei Dieci alla giurisdizione ordinaria degli altri consigli e magistrature si pud riscontare anche in altri settori nevralgici della vita statale. Si pensi, ad esempio, al tema del controllo esercitato sullo Studio patavino, e cioé sull’isti-
tuzione preposta alla formazione intellettuale e professionale pit importante e prestigiosa dello Stato. Nell’attenzione dimostrata dal patriziato veneziano nei confronti dello Studio vi era certamente un motivo di ordine strettamente politico. Un decreto del Senato del 1444 imponeva a tutti i sudditi di addottorarsi presso lo Studio patavino, sotto la pena, qualora essi avessero frequentato altre universita, della non validita, all’interno del Dominio, del titolo da loro ottenuto**. Una volonta di accentramento e di controllo cui si Opponevano resistenze profondamente radicate. Ancora una parte
del 1458 lamentava che, nonostante le precedenti “provisiones”, “cives et subditi terrarum et locorum nostrorum” continuavano ad addottorarsi “ad aliena loca et studia nobis non subiecta... in facultate canonica vel civili vel in artibus vel medicina”, con grave detrimento del nostro Dominio e dello stesso Studio‘. Da allora in avanti tutti i “cives originarii” della capitale, quelli nominati “ex privilegio o decreto” delle citta soggette alla Serenissima Signoria, e i distrettuali delle stesse che contravverranno alla legge, non potranno gode-
re “aliquo privilegio, prerogativa, aut benefitio quod de iure vel consuetudine doctoribus competere possint”. Allo scopo di scoraggiare del tutto quella pratica, si precisava che nessuno dei sudditi laureati in diritto al di fuori dei confini dello Stato poteva far parte dei collegi dei giuristi delle citta di appartenenza, né si poteva commettere ad essi l’esame di alcuna causa “tanquam consultori’, né poteva essere assunto quale giudice, vicario od assessore, dai rettori veneziani. Divieti ugualmente severi, quali la proibizione di far parte dei collegi cittadini e di esercitare la professione all’interno dei con-
cina ed Arti. |
fini dello Stato, erano infine stabiliti per gli addottorati in Medi-
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GOVERNANTI E GOVERNATI
Per tutto il corso del ’400 il controllo giurisdizionale su questioni attinenti lo Studio viene, quindi, esercitato dal Senato**. Tuttavia sovrapposta a questa, anche se in maniera ancora congiunturale, occasionale, sollecitata dalle piu disparate richieste di singoli o determinata da gravi disordini che potevano coinvolgere listituzione universitaria, si pone !’azione dei Dieci, anticipando linee e modalita di intervento, che conosceranno una ripresa e uno sviluppo solo nel corso del XVI secolo 4’. [1 12 maggio 1458 il patrizio veneziano Domenico Bragadin, “conductus ad legendum in philosophia et loica”, chiede ai capi del Consiglio di poter godere dello stesso salario del suo predecessore, il preclarissimo Paolo della Pergola **. La sua richiesta viene accolta senza
esitazioni, come accadra a quella di Giovanni da Prato, “juris utriusque doctor” e lettore di istituzioni civili nello Studio, che, nel 1459, aveva narrato come fosse per lui impossibile maritare una figlia da oltre tre anni, costituendo per lei una degna dote, in quanto la Camera fiscale
di Padova non risolveva il credito che aveva contratto con lui*’. Il 18 maggio 1457 si presentavano ai capi alcuni “scolares” dell’ “Uni-
versitas artistarum”, implorando l’annullamento dell’elezione del loro rettore, in quanto non sarebbero state rispettate le procedure stabilite dai loro statuti particolari. Se non si provvedera subito: “scandala multa oriri possent in ipso Studio, et bonum sit quod huismodi discordie cessent”, questa l’opinione di Andrea Venier e di Albano Cappello, che avevano posto ai voti di scrivere al podesta di Padova affinché procedesse all’elezione del rettore dell’Universita “juxta formam statutorum”, e secondo quanto avevano decretato precedenti lettere avogaresche °°. Anche in una materia tanto delicata, quale quella inerente la politica beneficiale e, pit in generale, i rapporti con il potere ecclesiastico e con la corte pontificia, in un settore in cui, come abbiamo gia notato trattando dell’Avogaria, si potevano intrecciare problemi di controllo su microconflittualita sociali e necessita di difendere il senso dell’autorita dello Stato, si puo avvertire la tendenza a concentrare nelle mani dei Dieci fondamentali funzioni di giurisdizione e di controllo, a scapito delle piu tradizionali magistrature. Nel gennaio del 1458 il presbitero patavino Antonio de Lanzis e un tale che aveva con lui una “differentiam” su un certo beneficio ecclesiastico del ter194
____I¥ CONSIGLIO DEI DIECIE IL PROBLEMA DELL'AUTORITA
ritorio avevano richiesto l’intervento risolutivo del Consiglio *!. I capi Francesco Bon e Domenico Diedo si chiedevano, prima di esaminare i diritti e le ragioni delle parti, se quella materia fosse di competenza della magistratura ed avevano concluso negativamente: “vadant ad superiores suos... de beneficiis ecclesiasticis nolumus nos impedi-
re”. La proposta era, tuttavia, passata per un solo voto (otto contro sette), a dimostrazione delle incertezze della classe dirigente veneziana sulla definizione dei poteri del Consiglio. L’intervento su questo tipo di conflitti, e le modalita adottate nella definizione della controversia ora evocata, non costituiscono certamente motivi originali della politica ecclesiastica veneziana: decidere nell’uno o nell’altro senso, poteva rivestire un preciso significato politico-istituzionale all’interno dell’ampio processo di riassestamento nella struttura costituzionale, ma non investiva, in ogni caso, la sfera della legittima sovranita della Serenissima. Maggiori e pit incisive facolta decisionali venivano sollecitate quando i sudditi offrivano alla curia romana l’opportunita di indebite intrusioni nella giurisdizione della Repubblica, impedendo di fatto le possibilita di una soluzione negoziale e compromissoria: qui l’intervento dei Dieci poteva dispiegarsi senza remore. Estremamente indicativa a questo proposito la discussione che si svolse nelle aule del Consiglio nel corso del 146352. Il “prudens vir” Giovanni Langusco pretendeva che 1 mo-
naci di San Raffaele, titolari della chiesa di Santa Maria “in monte Lispide”, nel distretto di Monselice, venissero privati di quel beneficio, in virty di un “privilegium” concesso da papa Urbano V. Questo documento dimostrava come quel beneficio “in sancte romanae €cclesiae esse fundatum” e che apparteneva “ad ius et proprietatem ipsius ecclesiae”. Per la Serenissima, il Papa non aveva alcun diritto di rivendicare titoli di legittimita: non lo poteva fare per ragioni giuridiche, non lo poteva fare per ragioni politiche. Allo scopo di affermare le prime, i Dieci si erano serviti dell’opera di un giurista patavino, Corrado di Monreale, che aveva dimostrato l’inconsistenza delle pretese pontificie, sulla base di due bolle emanate nel 1214 e nel 1224 da Onorio III e da Gregorio IX; per rivendicare le seconde, : Dieci avevano trovato i toni pit congeniali: dal momento in Cul Si & dimostrato che la materia del contendere pertineva di diritto “Dominio et Statui nostro, et jurisdictioni Padue et paduani districtus”, 195
GOVERNANTI E GOVERNATI
e non agli interessi dei particolari, “non est tacendum neque etiam est disputandum neque standum in contentione judicii cum papa”; ogni eventuale velleita di riaprire la questione “tacitanda et suffocanda est”. Ancora pit severe le clausole riguardanti il Langusco: tutti i privilegi, strumenti e scritture che quello aveva raccolto per dimostrare la legittimita dei suoi titoli sarebbero stati requisiti, con |’ingiunzione “quod de tali materia non loquatur amplius, neque palam neque secreto, cum aliqua persona mundi, si cara habet gratiam nostri Dominun”’.
Una analoga durissima reprimenda da parte del Consiglio dei Dieci, la dovette subire, nel corso del 1461, tale Francesco de Tergesto5}. Questi aveva impetrato ed ottenuto presso la curia papale alcuni benefici a Treviso, Padova “et alia loca” dello Stato da Terra, e in forza di queste investiture aveva iniziato a molestare, cosi riportavano i capi, “aliqui cives nostri”. In un primo momento, “pro reverentia Summi Pontifici”, ci si era limitati ad ammonire il responsabile di quella situazione con “verba convenientia et necessaria”, concedendogli un beneficio nel distretto di Treviso. Ma quello, evidentemente non soddisfatto e incurante di tali ammonizioni, aveva citato presso un tribunale romano il nobile Carlo Zen, allo scopo di privarlo di un canonicato a Piove di Sacco di cui era legittimamente investito. All’ordine dei capi dei Dieci che imponeva al patrizio di non uscire dai confini della Serenissima, aveva risposto la giustizia ecclesiastica con il sequestro del “redditus beneficii”. A questo punto, dopo un ultimo tentativo di intercessione presso la curia per il tramite del Patriarca di Venezia, cui Francesco aveva risposto con “tali forma verborum ut videatur velle contendere cum nostro Dominio”, ai Dieci non restava
che la scelta della linea pit rigida: la privazione perpetua di tutti i proventi che potevano derivare dal godimento di qualsiasi beneficio all’interno dello Stato. Nella deliberazione conclusiva veniva approvata una clausola che stabiliva che, da allora in avanti, la trattazione delle “materias ecclesiasticas”, in quanto concernenti la pace e la quiete dello Stato, dovessero rientrare definitivamente nella giurisdizione del
Consiglio. Nel periodo immediatamente successivo, quando si presento la necessita di riformare il monastero veneziano di Santa Maria dell’Orto, furono i Dieci, anche se si servirono del Patriarca quale
intermediario, ad interloquire con Roma‘. 196
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
La stessa volonta di concentrazione dell’autorita ed un’ancora piu robusta affermazione di tono giurisdizionalistico impronta la proposta di legge del 9 maggio 1465, con cui i capi del Consiglio resero vani diversi tentativi dei savi del Consiglio di mettere in discussione la parte di Francesco Michiel, che ricopriva la carica di savio agli Ordini, sulPimposizione della decima del clero**: da allora in avanti, cosi si era
stabilito, tutti coloro che avrebbero voluto disputare o avanzare proposte in questa materia, si sarebbero dovuti presentare ai Dieci, “quod solo Consilio spectat declarare, cognoscere et diffinire tales materias” °°. L’esigenza di evitare “scandala et inconvenientia qua sequi possent”
aveva indotto, nel marzo del 1463, i capi del consiglio Lorenzo Soranzo e Andrea Vendramin a rispondere con grande severita alle lettere inviate loro dai rettori di Verona: dovevano ritenersi gravissime le “innovationes” apportate dal vescovo della citta Ermolao Barbaro: non solo perché alimentavano ulteriormente il conflitto con la citta — che aveva pit volte spedito a Venezia i suoi ambasciatori — in materia di giurisdizione*”, ma anche perché rappresentavano una indebita diminuzione della sovranita della Repubblica**. L’alto ecclesiastico aveva infatti proibito ai confessori di dare l’assoluzione a tutti coloro che, “ex feudis, decimis et possessionibus” venduti dalla Camera fiscale della citta, non avessero ricevuto l’investitura dalle sue mani e non pagassero la decima. Ordinate ai confessori, cosi si era deliberato, a nome del Consiglio dei Dieci, di non obbedire agli ordini dell’Episcopio; lo stesso vescovo, terminata la Quaresima, in cui doveva provvedere alla “cura animarum”, si sarebbe dovuto presentare ai capi del consiglio%?. Una analoga affermazione di piena sovranita ricorreva, nel settembre
del 1489, in seguito ad istanze avanzate da alcuni “fideles” abitanti di Ceneda®°. Il vescovo di quella localita era riuscito a far approvare alla corte pontificia la revisione di alcune norme statutarie concernenti l’ammissione al consiglio civico, “mutando in omnibus et per omnia formam et ritum hactenus observatum cum murmuratione et scandalo” degli abitanti. Durissima la parte proposta dai capi del consiglio: l’aver sottoposto all’approvazione della Curia la riforma statutaria, é cosa infinitamente piu grave delle singole modifiche alle nor-
me. Contraddice, infatti, la forma di una “compositio” stipulata tra il vescovo e la sua diocesi nel 1430, con nefaste conseguenze: i fede197
GOVERNANTI E GOVERNATI
lissimi cenetensi vengono, in tal modo, a trovarsi sottomessi alla sede apostolica, e sottratti “ab obedientia et iuramento prestito Dominio nostro”. Per questi motivi, concludono 1 capi, é necessario convocare immediatamente il prelato a Venezia, dove, nell’aula del supremo tribunale, conoscera quanto sono risultate “moleste” le novita che aveva cercato di introdurre. Le aspettative, gli inputs, che provenivano dai diversi richiedenti trovavano risposta, quindi, in una struttura notevolmente ricettiva. Ad una lettura degli atti emanati dai Dieci, nel corso degli anni centrali del secolo, ci si crea ’impressione di una istituzione dai confini ancora abbastanza fluidi, in cui a leggi e provvedimenti che possono essere interpretati come tentativi di realizzare una certa concentrazione dei poteri di comando, un coordinamento piu organico delle varie funzioni statali, facendo scorgere nuovi modi di interpretare la propria sovranita, succedono altre leggi e altri provvedimenti tendenti
a restaurare precedenti e pit tradizionali modalita di controllomediazione. Come per |’Avogaria, non é possibile tracciare neppure per il Consiglio dei Dieci una linea uniforme e progressiva che dovrebbe congiungere gli inizi, caratterizzati da incertezze e contraddizioni, agli sviluppi successivi, in cui emergerebbe un patriziato sempre piu cosciente della propria funzione egemone e della propria autorita. Le discussioni e le deliberazioni realizzate dai Dieci riflettono, allo stato nascente, la pluralita di istanze e di culture politiche presenti all’interno della classe dirigente veneziana.
Uno dei dati che caratterizza maggiormente I’attivita del tribunale, nel periodo che prendiamo in considerazione, é rappresentato dalla ampiezza della facolta normativa e dalla crescente formalizzazione delle regole tese a inquadrare l’insieme delle procedure istituzionali e dei rapporti politici tra Venezia e il Dominio. Nei proemi delle parti si nota una precisione nella definizione terminologica, nella ricezione di stilemi e lessici propri del sistema-giuridico istituzionale della Terraferma, e una capacita di giocare su pit piani, alternando il momento autoritativo con il pit tradizionale armamentario retoricopaternalistico, che non si possono riscontrare, per quanto abbiamo visto, nelle deliberazioni del Senato o dello stesso Consiglio dei Dieci della prima meta del secolo. Si percepisce come, agli occhi del patri198
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
zZiato veneziano, la costituzione dello Stato da Terra non implicava pit’ solamente problemi di sicurezza e di occasionale controllo politico, ma rendeva obbligatorie alcune scelte. Quello che si pud notare in queste leggi é la coscienza che i problemi del governo della Terraferma, sollevati dall’attivita dei rappresentanti veneziani e dalle sempre piu frequenti istanze avanzate dai sudditi, richiedevano risposte specifiche, piu: tecniche e pit precise. AlPinterno di questa logica tendente ad apportare chiarezza in cid che prima era confuso ed indeterminato, puo essere iscritta una parte risalente all’inizio del 1460°1, che, come altri provvedimenti del periodo, risente della preoccupazione per la sicurezza e per la tutela dello
Stato, ma che sembra determinata anche dalla volonta di una presa di contatto con le realta del Dominio di ordine pit generale *2. Non c’é nessuno, lamentavano i capi dei Dieci che la proposero, che, al momento di deliberare attorno a “civitatibus, castellis et provinciis, que nostro Dominio, Dei gratia, subiecte sunt”, sia in grado di offrire “particularem informationem de situ locorum, de latitudine et longitudine”, delle diverse realta che cadono sotto la giurisdizione della Serenissima e dei “Dominia” confinanti. Per questo motivo i rettori veneziani, “habito bono consilio” con i pit “pratici et intelligentes” dei cittadini loro sottoposti, provvederanno ad approntare carte particolareggiate delle diverse citta e province (“per signa ventorum et ponentis et orientis, castella, flumina..., et distantia de loco ad locum”). Le “pictura” cosi composte saranno conservate o nella Cancelleria o nella stessa camera del Consiglio dei Dieci. Necessita di conoscenza diretta e controllo delle realta periferiche che emerge anche dalla lettura di altre leggi. L’11 aprile 1456 i Dieci, notando il grandissimo numero di coloro i quali “querunt per viam gratie et aliter obtinere de bonis communis nostri vel possessionibus, decimis, pheudis, livellis, pischeriis, gastaldiis at aliis rebus” (tanto che se non si fosse provveduto al pit presto i “bona” del Dominio sarebbero andati completamente perduti), stabilivano che non si potesse piu procedere a tali alienazioni o donazioni, se non in seguito ad una apposita delega dello stesso Consiglio®?. Al di la dei contenuti specifici e della concreta applicabilita di una certa normativa, una delle modalita di legittimazione del potere consiste nella creazione di leggi e procedure che possano essere ricono199
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sciute come vincolanti, sia da parte di chi le deve rendere esecutive, che da parte di chi a quelle deve obbedire®*. Leggi che appaiano chiare,
solidamente fondate, e non contraddittorie con altre precedenti norme. Indubbiamente la seconda meta del ’400 segna un deciso punto di svolta in direzione di una legislazione pit coordinata, tendente alla regolamentazione del sistema degli appelli, al controllo dell’ordine pubblico, alla sempre pit precisa definizione formale dei compiti e delle procedure cui dovevano sottostare Rettori, Avogadori e Sindaci, Consiglieri ducali. Una parte del 1456 lamentava come i “cives civitatum terrarum et locorum nostrorum a parte terre” e i “deputati ad utilia et provisores” delle stesse citta inviano pressoché quotidianamente 1 loro oratori nella capitale “absque scitu rectorum nostrorum”, senza presentare le lettere credenziali che i rappresentanti veneziani avrebbero dovuto vidimare, e spesso senza neppure dare loro notizia delle ambasciate che stavano per prendere la strada della capitale, cosa che poteva produrre in brevissimo tempo “inconvenientia non parva et periculosa” ®*. Si decretava che, da allora in avanti, tutti gli oratori giunti a Venezia senza la licenza dei rettori, allo scopo di avanzare richieste
su “aliqua re non deliberata neque capta in suis consiliis”, sarebbero stati immediatamente allontanati. E opportuno chiedersi quali realta sociali ed istituzionali possano aver determinato una risoluzione di questo tipo, e quali fossero quei “pericolosi inconvenienti” che si dovevano tanto accuratamente evitare. James Grubb ritiene che questa norma fosse diretta ad ostacolare non tanto il flusso di richieste che dalle citta maggiori della Terraferma raggiungevano la capitale, quanto piuttosto a bloccare il tentativo di comunita rurali e centri minori di
porsi direttamente a contatto con le istituzioni centrali, superando le forme locali di controllo e di intermediazione, e verrebbe quindi a costituire una interpretazione chiaramente filocittadina della conflittualita tra centri urbani e distretti, che negli anni centrali del secolo appare particolarmente sostenuta °*. Era questa una preoccupazione
che puo aver investito i legislatori, ma ad una attenta lettura della parte — e ad un esame di numerosi interventi realizzati dai Dieci degli anni successivi®? — sembra che questa interpretazione non tenga conto di alcuni fattori. Nel proemio della legge si parla di “provisores” e di “deputati ad utilia”, quindi di soggetti e di istituzioni poli2.00
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tiche tipiche del sistema di potere dei centri maggiori o di media importanza e non certo di comunita rurali: il controllo auspicato dalla legge doveva applicarsi quindi anche a quel livello. E pit in generale sulle “forme” del rapporto tra governanti e governati che sembra concentrarsi la preoccupazione dei capi del Consiglio. Pit che legittimare apertamente il ruolo egemonico delle citta soggette sui loro distretti, le si poneva, formalmente, di fronte all’autorita sovrana della Sere-
nissima, sullo stesso piano dei loro interlocutori ed antagonisti. Centrale, quindi, nell’attivita del Consiglio, la preoccupazione per le modalita di applicazione e di interpretazione delle norme emanate dai consigli, per le forme del controllo da esercitare su chi era incaricato di renderle esecutive, per gli strumenti con cui le si doveva comunicare ai sudditi. Una spia del complesso intreccio che teneva legati questi problemi ci viene offerta dalla lettura di una parte discussa in Consiglio dei Dieci, il 2 maggio 1455 °°. I capi avevano richiamato l’attenzione a due provvedimenti del 20 marzo e 11 settembre 1446, emanati dal Maggior Consiglio allo scopo di regolare gli appelli sulle cosidette sentenze “ad inquirendum”, e le formalita cui attenersi nel presentare le “gratias criminales” allo stesso Maggior Consiglio. Erano leggi “sanctissime et iustissime”, in quanto tutelavano l’“honorem et bonum Statum nostrum”, la quiete ed il “pacificum vi-
vere subditorum nostrorum”, avevano ribadito i capi, e tuttavia da qualche tempo risultavano disattese. Per questo si stabiliva, “auctoritate huius consilii”, che d’ora in avanti gli Avogadori di comun, sotto
la pena di 100 ducati, non permettessero né ai loro colleghi, né ai Sindaci, né ai Consiglieri ducali, “tam per viam salvorum conductum, quam litterarum suspensivarum”, di contravvenire a quegli ordini. Si confermavano quindi i precedenti ordini del Maggior Consiglio, sovrapponendo ad essi, allo scopo di renderli pit efficaci, l’autorita del
Consiglio. Il 3 luglio dello stesso anno i capi dei Dieci, ricordando I’ “optima provisio” che é stata appena analizzata, ritenevano opportuno che fosse pubblicata e resa esecutiva in tutto il territorio sottoposto alla Serenissima, cosa di cui non si potevano curare gli avogadori “propter maximas, diversas et continuas occupationes sui officii”©°, Si proponeva, pertanto, di inviare a tutti 1 rettori una copia delle leggi — sia quella del Maggior Consiglio che quella dei Dieci —, in modo che tutti i sudditi potessero venirne a conoscenza. 201
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Problemi analoghi di modalita di rappresentazione della propria autorita e di formalizzazione delle pratiche giudiziarie si incontrano anche in alcuni provvedimenti determinati a regolarizzare il disordinato flusso di informazioni che investiva, nelle due direzioni, Venezia e la Terraferma. Il 27 novembre 1462 i Dieci, stigmatizzando la sempre crescente disobbedienza dei Rettori nei confronti dei “mandata Dominii” — in spregio ad una “lex antiqua” che obbligava i rappresentanti veneziani ad attendere a quegli ordini “bona fide et sine fraude” —, avevano stabilito un aumento della pena pecuniaria da 100 a 200 ducati per tutti i disubbidienti’°®. I! controllo della normativa veniva delegato agli Avogadori, con un ampiamento dei loro poteri discrezionali: bastava ’opinione favorevole di uno solo di essi — e non di tutti e tre come prevedeva la consuetudine — per rendere esecutiva la sanzione, senza passare per il voto dei Consigli. Ai Rettori si concedeva la possibilita di esporre al Dominio i motivi — “prop-
ter periculum aut propter aliquam legiptimam causam” — per cui ritenevano di non poter ottemperare all’ordine; ma in caso di rescritto in cui si imponeva loro di eseguire il mandato, non avrebbero dovuto discutere ulteriormente. Nel 1484, ancora a proposito delle lettere ducali, venivano emanate due leggi con cui si cercava di ovviare ad alcuni inconvenienti, gravi piu sul piano dell’immagine dell’autorita, che su quello della prassi
amministrativa. Con la prima, il 7 maggio, “ut dignitas Dominii nostri et pariter auctoritas Capitum huius Consilii conservetur cum convenienti reputatione utriusque”, si stabilivano le procedure cui da allora:in avanti i Consiglieri ducali si sarebbero dovuti attenere nel commettere ai Rettori l’obbligo di “obedientia” a lettere e mandati che inviavano, in modo che quelle “scriptiones procedant per gravissimos et bene decentes modos et cum plena causa cognitione et cum consequenti maiori reverentia” di chi a quegli ordini doveva sottostare”!. La legge del 15 settembre dello stesso anno ribadiva, “pro conservanda maiestate et decoro Dominii nostri”, l’obbligo di collegialita e di rispetto delle formalita che i Consiglieri erano tenuti ad osservare al momento di emanare “terminationes, gratie vel mandata”, per qualunque affare sia pubblico che privato, in modo che si potesse dire che le loro determinazioni procedevano “ab mente et intentione ipsius Dominii unite et consulte deliberantis et intelligentis”, e non, 202
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come ormai era consueto, “singulatim vel aliter divisos et non conferentes” 72.
I] compito che sembra connaturare gran parte dell’attivita del Consiglio dei Dieci, la tutela cioé dell’immagine della compattezza e del-
Pautorita dello Stato, non poteva non investire anche la definizione del ruolo dei Rettori, in quanto erano proprio i rappresentanti veneziani in Terraferma che, concretamente, pur nella poliedrica varieta delle situazioni locali, avrebbero dovuto trasmettere ai sudditi l’idea dell’autorita del Principe. Anche in questo settore di fondamentale importanza si puo notare come la stessa logica inerente alla costituzione dello Stato da Terra abbia provocato un incremento delle prerogative dei Dieci, a scapito di quelle pit antiche dell’Avogaria — efficacemente esercitate fino agli anni centrali del secolo — ed a una sovrapposizione alla potestas statuendi propria del Senato, senza giun-
gere mai ad esautorarla. Si pensi ad esempio al problema, su cui ci siamo gia soffermati, della regolamentazione del cerimoniale cui i rap-
presentanti veneziani in Terraferma si sarebbero dovuti strettamente attenere. Risale al 1458 una parte che proibisce ai Rettori, che stanno per prendere in carico o per lasciare il reggimento per cui sono stati eletti, di permettere ai sudditi di comporre e pronunciare “sermonem et arengas in laudem suam”, e di rispondere a quegli encomi73.
Nel 1456, in seguito alle “divisiones” intercorse tra il podesta ed il camerlengo di Crema, si era creata nel centro lombardo una situazione di estrema tensione”‘. La lettera inviata nell’occasione dai capi del Consiglio ai due rappresentanti veneziani era attraversata da un senso di severita che assume coloriture inusitate: “intelleximus et non sine cordiali displicentia nostra — cosi esordiva — maximas divisiones et discordias inter vos existentes proter quas ex illis civibus nostris qui sub aliis rectoribus et camerariis nostris consueverat esse et stare uniti...propter hac discensiones vostras videntur divisi, et eorum aliqui sequuntur te potestatem et aliqui te camerarium”. Il conflitto di competenze che opponeva i due patrizi, di cui non vengono fornite ulteriori indicazioni, sembra, quindi, sortire effetti opposti a quelli che erano nelle intenzioni dei governanti: la giustizia in citta non era piu amministrata, e lo spirito di fazione che eccitava il ceto di potere locale, ben lungi dall’essere fiaccato, aveva ricevuto una 2.03
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sorta di legittimazione e trasposizione sotto le insegne di San Marco. L’idea del buon governo — che era necessario trasmettere ai sudditi
di un centro confinante con le terre di un acerrimo rivale, quale il duca di Milano — subiva una gravissima incrinatura: per questo, il mandato assumeva i toni della minaccia. Se non rinuncerete alle vostre discordie “ministrando et faciendo ius et iusticiam unicuique dictorum civium tractando indifferenter”, stabiliremo “contra vos tales tam asperas et acerbissimas provisiones et de brevi” che non soltanto
voi conoscerete quanto ci sia dispiaciuto il vostro comportamento, ma la punizione che vi troverete a subire sara per sempre “ad exemplum omnium Rectorum et officialium nostrorum”. Il rischio che l’immagine del Rettore smarrisse quella funzione di mediazione “super partes”, trasformandosi in momento di coaugulo di interessi particolari, se non addirittura di umori antiveneziani, non lascia ulteriori tracce nella documentazione dei consigli della Serenissima. Una maggior preoccupazione era provocata dal fatto che i Rettori per volonta di protagonismo, per ignoranza delle leggi, o per ec-
cesso di zelo nell’interpretare il ruolo loro affidato, si ponevano sovente in aperta contraddizione con il ceto di potere delle citta soggette, contribuendo ad irrobustire le mai sopite volonta autonomistiche che in quelle si agitavano. “Novimus semper vostram in omni publica et privata actione et administratione modestiam et gravitatem et bonitatem”, questo l’esordio della articolatissima epistola inviata, il 27 settembre 1483, dai capi del consiglio al podesta di Brescia Alvise Lando’5. Ed é€ con grave rammarico che é giunta alle nostre orecchie
la notizia che “vos prorupisse in nonnulla verba contra rapresentantes istam fidelissimam comunitatem”. Parole pesanti, pronunciate al momento in cui la citta aveva chiesto al rettore di rispettare la “formam privilegiorum”, e di rinunciare al giudice del Maleficio, che aveva portato con sé. I privilegi concessi dalla Serenissima Signoria deman-
davano, infatti, alla citta il diritto di nomina di quel giudice. Erano questi gli anni della cosiddetta guerra di Ferrara, gravosissima per Venezia, gravosissima per le citta di Terraferma, costrette a sopportare il peso della congiuntura bellica in termini materiali e di uomini. A tutto cio si aggiungevano i flagelli della carestia, si sommavano gli effetti della peste’°. In un simile frangente non si potevano certo turbare gli equilibri su cui si stava edificando lo Stato. Per questo mo204
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tivo il Lando riceveva l’incarico di emendare pubblicamente le colpe di cui si era macchiato, trasmettendo ai rappresentanti della citta il senso della benevolenza e del rispetto della Repubblica7’. Due i tratti maggiormente caratterizzanti l’attivita dei Dieci nel go-
verno della Terraferma nel corso del secondo Quattrocento: la funzione di tutela delle pattuizioni stipulate tra la capitale ed il Dominio, e — strettamente connesso a questa — il tema del controllo delPordine pubblico. Ci siamo gia soffermati sul ruolo centrale occupato dalla giustizia nella formazione degli organismi statali tra Tre e Quattrocento: la giustizia intesa come strumento di controllo sociale, come primaria modalita nella diffusione di immagini dell’autorita e di legittimazione della stessa da parte dei detentori del potere, ma anche come opportunita, per i sudditi, di modificazione degli equilibri locali, di superamento, per alcuni, della fitta rete di giurisdizioni intermedie, di irrobustimento e di legittimazione, per altri; delle proprie antiche prerogative’®, Cerchiamo di capire se, ed in quali occasioni, venivano applicate da parte del tribunale supremo, e invocate da parte dei sudditi, due delle categorie fondamentali della politica del diritto veneziana, l’equitas e l'arbitrium; in quali altri casi si ordinava la stretta osservanza alla normativa statutaria e come questa veniva integrata e recepita dalla stessa legislazione veneziana. Gia nel 1444, lamentando le continue interferenze operate su molteplici settori della vita locale dagli auditori e dagli avogadori, il Consiglio dei Dieci stabiliva che, in nessun caso, i giudici d’appello potevano intromettersi su materie di pertinenza delle giurisdizioni cittadine, in virtu dei privilegi concessi dalla Serenissima 7°. I capi del consiglio decretavano che, da allora in avanti, il controllo sulle trasgressioni in questa materia passasse sotto la giurisdizione dei Dieci. Ogni
proposta in cui la lettera dei pacta e delle promissiones risultasse in qualche modo sospesa, doveva essere sottoposta al voto del Pregadi, e ritenuta di nessun valore se non approvata da quattro Consiglieri ducali su sei, da due Presidenti su tre della Quarantia criminale e da tre quarti del Consiglio ®°. Questa legge non sembra aver placato le conflittualita e corretto i disordini continuamente insorgenti. Il 27 febbraio 1451 i capi dei Dieci 205
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facevano notare come una troppo disinvolta interpretazione della parte
del 1444 aveva prodotto infiniti “scandala”®!. Non si trattava di un problema di errata lettura del testo normativo da parte di sudditi o magistrati, bensi di una reale ambiguita — che i concreti conflitti ave-
vano ulteriormente approfondito — da chiarire al piu presto: da allora in avanti si dovevano ritenere sottoposte alla precedente legislazione solo le “concessiones, privilegia et promissiones quas nostra Dominatio fecit et concessit communitatibus et locis nostris in prima ac-
ceptatione” e cioé, come si precisava ulteriormente, “quando prima vice venerunt ad petendum ea de gratia illa talia prima capitula”. Tutte le controversie che potevano sorgere in merito ai pacta e alle promissiones successivamente stipulate, sarebbero state giudicate “per illos ad quos spectat secundum ordines nostros Venetiarum”. E questa una precisazione interessante, indicativa di quello sforzo di chiarimento,
da parte della classe dirigente veneziana, dei propri compiti e delle proprie prerogative nei confronti delle realta del Dominio, ma anche sintomo di un problema che, come d’altra parte ha indicato l’esame condotto sulle intromissioni degli Avogadori, appare sempre piu pressante. Quale atteggiamento assumere di fronte alla crescente domanda di legittimazione che avanza dal mondo della Terraferma? Come
rispondere, con quali strumenti, con quale autorita, alle istanze dei sudditi riguardanti la concessione di nuovi privilegi — che in qualche occasione potevano sovrapporsi o contraddire quelli pit antichi — o la ridefinizione del proprio rapporto con l’autorita centrale? Dall’esame dei due provvedimenti del 1444 e del 1451 il ruolo del Consiglio dei Dieci esce definito con una certa precisione: al tribunale supremo
ed ai Pregadi restava affidato il compito, piu strettamente politico, della tutela delle pattuizioni originarie; alle tradizionali magistrature d’appello — in primis all’ Avogaria — la tutela delle varie concessioni
e privilegi su questioni specifiche, che si erano succedute nel tempo. Tuttavia si avvertira ben presto come la limpidezza del dettato legislativo si intorbidisse a contatto con l’esercizio quotidiano del potere. Il fatto che le leggi emanate dai Dieci, tendenti a disciplinare la complessa materia, si susseguano sempre piu precise e sempre piu frequenti sta a testimoniare di una certa inefficacia pratica delle stesse, come dell’urgenza di un problema di cui si percepiva ormai con una certa chiarezza la valenza politica ®?. 2.06
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Nel corso del secondo Quattrocento si erano pit volte presentati ai capi del consiglio “nuntii” ed ambasciatori delle citta soggette: da Verona a Vicenza, da Bergamo a Padova, da Brescia ai rappresentanti delle varie giurisdizioni della Patria del Friuli. Nel rispondere alle loro querele, il 9 luglio 1455, i Dieci ribadivano la necessita che Avogadori e Auditori osservassero alla lettera la normativa riguardante i privilegi®?. La facilita con cui essi tendevano a recepire le istanze
pit diverse, senza tener conto dei vari diritti locali di fatto vigenti, causava — cosi lamentava la parte — “non parvam confusionem, scandalum et maximas murmurationes inter subditos nostros”, tanto che, come si concludeva con una certa enfasi retorica, i sudditi chiedeva-
no “quod a modo detur eis talis ordo et lex quod intelligant qualiter vivere et se regere et gubernare habeant”. E opportuno notare come il tono dei capitula presentati a Venezia nel corso del secondo Quattrocento dalle comunita soggette — caratterizzati da una certa enfatizzazione retorica e da una asprezza che mettono in secondo piano la tradizionale captatio benevolentiae — sembri differenziarsi sostanzialmente da quello dell’analoga documen-
tazione della prima meta del secolo, in cui dominava un pit pacato senso delle forme ed una pit distaccata precisazione delle proprie prerogative. Pensiamo a quella sorta di dettagliatissimi cahiers de doléances esposti dagli ambasciatori bergamaschi al Pregadi il 23 marzo 1461 8: i giudici d’appello veneziani intervengono in tutta una serie di materie spettanti per privilegio alla citta: dalle procedure concernenti l’imbussolatura dei nominativi dei cives da eleggere ai vicariati del territorio, al controllo esercitato su diversi ordini di sentenze — pronunciate dai vicari bergamaschi, dai rappresentanti del locale collegio dei giuristi o dallo stesso rappresentante veneziano — che dovevano ritenersi inappellabili. Si trattava delle sentenze sui “danni dati”, “de turbata possessione”, quelle compromissorie (le quali ultime, secondo la normativa statutaria, dovevano essere definite “ad arbitrium boni viri”), quelle cosiddette “late in arengo”. Inoltre, sindaci ed avogadori esercitavano indebitamente un potere di controllo su questioni e controversie concernenti gli ufficiali di nomina urbana — di competenza dei sindaci bergamaschi —, nonché sugli atti e sentenze dei vicari delle ville e degli ufficiali della camera dei pegni, che avrebbero dovuto essere 207
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eventualmente giudicati in primo grado dal rappresentante veneziano. Il 9 marzo del 1468 gli ambasciatori vicentini lamentavano un ulteriore aspetto negativo provocato dall’illegittima ingerenza dei giudici d’appello veneziani nei meccanismi di potere locali®>. Se i tempi
recenti avevano conosciuto uno straordinario aumento della criminalita, nella citta e nel distretto, cid era dovuto essenzialmente al fatto che l’esecuzione delle condanne, una volta pronunciate, veniva sospesa da sindaci, avogadori e dagli stessi rettori, “diversis modis et variis viis” °°. Stabilendo un ardito ed alquanto interessato parallelo tra la drammatica emergenza nel settore dell’ordine pubblico e disattenzione dei patti e dei privilegi, si implorava fosse restituita all’antico splendore la giurisdizione cittadina del Consolato ed osservata la normativa statutaria sulle sentenze “late in arengo”. Solo integrando Pesercizio dell’autorita da parte delle magistrature statali con gli istituti giuridici locali — questa l’intenzione politica che sottende tutto l’argomentare dei vicentini —, Venezia avrebbe visto riconosciuta la propria autorita; solo concedendo ampio spazio di intervento ai tribunali locali, Venezia avrebbe potuto garantire la pace e la quiete dei sudditi. Anche in questa occasione la risposta dei Dieci non uscira dallusuale binario: in nessun caso i rappresentanti veneziani potranno sospendere lo svolgimento di un processo nel tribunale cittadino, oO impedire la pubblicazione di qualsiasi sentenza. Nel corso del secondo Quattrocento la tutela dei patti e dei privilegi tornera — in seguito ad una legge del Maggior Consiglio — per il periodo 1468-1486 nelle mani degli Avogadori di Comun, per poi essere riattribuita ai Dieci; infine nel 1487 verra ripristinata, almeno formalmente, la distinzione del 1444 tra pacta originari e successive concessiones: la giurisdizione dei primi al Consiglio dei Dieci, delle seconde all’Avogaria 8’.
La logica politica connessa alla costituzione dello Stato territoriale e la necessita di risolvere con rapidita e risolutezza i diversi problemi che via via si presentavano, contribuivano ad alimentare Pespansione del potere di controllo esercitato dai Dieci. Tuttavia, a leggere le risposte dei componenti del Consiglio alle richieste dei nunzi delle citta della Terraferma, si nota una sostanziale persistenza
nell’atteggiamento di fondo. Si pensi alla parte emanata il 24 ottobre 1502 con cui, unificando vari capitula prodotti dagli amba2.08
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sciatori di Brescia, Verona e della Patria del Friuli, si richiamavano
gli Auditori novi all’osservanza della normativa sul consilium sapientis 88, Le stesse note di biasimo e di protesta risuoneranno negli anni durissimi della ricostruzione dello Stato, in seguito alla sconfitta di Agnadello®?. C’é da chiedersi a questo punto come si debba interpretare |’appa-
rente immutabilita del linguaggio politico in questa specie di gioco delle parti, per cui alle alte proteste dei rappresentanti delle citta soggette, in seguito ai ricorrenti disordini creati dai giudici d’appello, i Dieci rispondevano esprimendo solennemente la propria volonta di tutelare |’assetto costituito. Si tratta cioé di capire se nell’attivita del Consiglio dei Dieci — che, ¢ opportuno ribadire, non viene inteso come organismo estraneo 0 eccentrico rispetto alla “costituzione” veneziana, quanto piuttosto come istituzione in cul si coagulano ed emer-
gono in modo dinamico linee di tendenza, sviluppi ed arretramenti che sono comuni alla classe dirigente della Serenissima — si produca una sfasatura tra il reiterato assunto “conservatore”, per cosi dire, espresso nella normativa, e la quotidiana prassi amministrativa. Se la differenza sostanziale tra mondo veneziano e mondo veneto, che quelle leggi sembrano sancire con tanta efficacia e addirittura esaltare come strumento privilegiato di governo, non possa essere in qualche modo sfumata. Ci si dovra altresi chiedere, infine, se, sia da parte dei detentori della sovranita, che da parte dei sudditi, inizi a modificarsi la percezione del senso stesso di cid che costituisce il privilegio.
Assai numerose risultano le richieste di osservanza dei patti e dei privilegi interposte ai Capi dei Dieci da parte dei rappresentanti di borghi o di comunita minori. In molti di questi casi le risoluzioni adot-
tate dai Dieci non sembrano discostarsi troppo da quelle con cui tradizionalmente si dirimevano queste controversie, e non sembrano prefigurare in alcun modo un diverso rapporto tra Stato e comunita. Potevano verificarsi dei conflitti in cui le parti in causa rivendicavano entrambe la legittimita e la preminenza dei propri diritti. Nel 1458 i Dieci decidevano in senso favorevole a Capodistria il conflitto che la opponeva alla piccola comunita di Duecastelli?°. Entrambe le comunita invocavano il rispetto del privilegio concesso dalla Serenissima consistente, per la prima, nel diritto di eleggere uno dei cives del locale consiglio alla carica di podesta nella localita minore; per 209
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la seconda, nella facolta di nominare alla stessa carica un patrizio veneziano. Nella terminazione del Consiglio con cui si accoglievano le pretese del centro giustinopolitano, vi era probabilmente l’intenzione — analogamente a quanto era stato deliberato in molte occasioni dalla Serenissima Signoria?! — di “creare nel Dominio delle circoscrizioni amministrative, aventi al loro centro le citta maggiori”, presiedute da rettori di una certa esperienza e quindi in grado di garantire una efficace azione di controllo sui centri minori®?. La stessa impermeabilita nel recepire istanze che avrebbero configurato in modo troppo diretto il rapporto tra centro e periferia, e ridefinito la mappa dei rapporti tra poteri locali, emerge anche in altri contesti. Nel 1465 i procuratori delle comunita di Montichiari e Calcinate venivano rimandati al rettore di Brescia, con tutte le scritture e gli iura che avevano prodotto, allo scopo di risolvere la controversia attorno ai diritti su un corso d’acqua??. Troppo dispendioso per loro mantenersi a Venezia per tutto il tempo che |’esame della complicatissima causa avrebbe richiesto — cosi avevano stabilito i Dieci — enon dicosi fondamentale importanza per la quiete del nostro Stato. Una analoga discrasia tra richiesta di un intervento efficace e volonta o opportunita di realizzarlo si presenta anche nella controversia che oppone Bergamo alle “communitates” delle valli a proposito della disciplina riguardante i “cives de novo creati” **. I capi del consiglio avevano proposto una parte che, accogliendo sostanzialmente le richieste dei valligiani, derogava alla normativa statutaria e quindi al rispetto delle pattuizioni. I consiglieri ducali avevano invece affermato che in nessun caso si poteva contravvenire a quanto promesso alla fedelissima citta di Bergamo: ne andava dell’onore della Repubblica. Vi erano evidentemente modi differenti di intendere il rapporto con il Dominio, che in questo caso si espressero anche a livello di votazione: sette voti ad una proposta, sette all’altra. Per questo motivo si preferi differire la definizione della causa ad un’altra occasione,
e far tornare ai luoghi natii i rappresentanti delle parti®°. Pit che la volonta di accentrare, si avverte in questi provvedimenti il senso di uno Stato i cui spazi di intervento si sono ampliati e che non riesce a concepire la propria funzione, in questo tipo di controversie, se non nei termini dell’arbitro saggio e paterno. L’autorita si impone per via indiretta, riconoscendo la legittimita della molteplici210
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ta dei diritti e della pluralita dei centri di potere. Questo naturalmente non esclude che l’esigenza di chiarezza nella definizione politica dei conflitti passi in secondo piano. Nel 1463 i Dieci significativamente stabilivano la superiorita dei diritti vantati da Brescia rispetto a quelli della Riviera di Sald a proposito della “differentia” che le divideva sulla giurisdizione del Capitano — patrizio veneziano — in materia di esecuzione dei mandati di pignoramento di beni nei confronti di debitori®®. La citta pretendeva che questa funzione passasse nelle mani
del Podesta di Salé, nominato dal consiglio civico bresciano, in forza del privilegio concesso dalla Serenissima nel 1440; i rivieraschi fondavano la loro richiesta sul fatto che quelle attribuzioni erano state fissate una volta per tutte in seguito all’elezione del 1433, con cui il Maggior Consiglio della Serenissima aveva nominato il primo Capi-
tano di quel centro. Una risoluzione di segno analogo conclude nel 1468 anche la contesa giurisdizionale tra Verona e la comunita di Ronca, con una sentenza favorevole alla citta®’. Gli ambasciatori veronesi affermavano che, grazie alle pattuizioni stipulate “in prima adeptione” tra Venezia e la citta, tutto il territorio doveva essere sottoposto alle gravezze che via via venivano imposte. Anche i procuratori della comunita esibivano tanto di privilegi confermati dalla Dominante, e che forse ave-
vano ancora maggior vigore, secondo quanto dicevano, perché gia vigenti al tempo dei Della Scala. Anche nell’accoglimento di altre richieste, sia di singoli che di particolari, i criteri di legittimazione e di controllo adottati dai Dieci, non sembrano distaccarsi troppo da quelli tradizionali. Si pensi all’accoglimento della supplica interposta ai capi del consiglio da Paolo da Gussago a nome dell’omonima comunita, appartenente alla quadra bresciana della Franciacorta, con cui si chiedeva che quella fosse reintegrata nelle antiche prerogative. La Serenissima Signoria aveva condannato la comunita di Gussago alla perdita dei privilegi di cui godeva negli anni precedenti la guerra con il Duca di Milano, in quanto “ribelle” all’autorita della Serenissima. Questo era falso, aveva affer-
mato Paolo: “Ipsi de Gusago semper steterunt constantes in fide nostri Dominii”, e quando si consegnarono ai nemici lo fecero in quanto le truppe veneziane avevano abbandonato il territorio, ed in seguito a precisi accordi segreti stipulati con i rappresentanti della Repub211
GOVERNANTI E GOVERNATI
blica?’. Nel 1468 i nunzi della Valpolicella avevano fatto ricorso ad un suggestivo armamentario retorico allo scopo di legittimare la richiesta di esenzione dalle opere militari e dalla ricostruzione della rocca di Legnago, alle quali era stato sottoposto l’intero territorio veronese??.
“Fiat ut petitur”, avevano risposto i Dieci, riservandosi pero il potere di derogare a questo privilegio in occasioni di particolare urgenza!™. L’accoglimento di questa e di altre analoghe suppliche, da parte dei Dieci, con la scarna e tradizionale motivazione di “fiat ut petitur” — da quella dei Sette Comuni vicentini che rivendicavano l’osservanza dei loro antichissimi privilegi sul trasporto del sale, conculcati dalla citta'®!, a quella dei rappresentanti dei quattro vicariati di Avio, Ala, Mori e Brentonico, che chiedevano di non essere citati “ad ius” in civile a Rovereto e di essere giudicati solo dal loro vicario, in modo che “sua privilegia, statuta et consuetudines sue sibi observentur et conserventur’ '°? — risultano indicative del criterio di legittimazione
dell’autorita di fronte a nuclei di potere posti in una posizione geografico-diplomatica assai delicata. Aree di confine e zone di recente acquisizione: qui l’esigenza della sicurezza dello Stato e la necessita di evitare tensioni sociali difficilmente controllabili non conoscevano altre vie praticabili che quelle gia percorse. Il 9 febbraio 1466 i rappresentanti del piccolo centro di Sant’Alberto, nel distretto di Ravenna, imploravano i Dieci, che accoglieranno la supplica, di non essere sottoposti alla disciplina prevista da un decreto dello stesso Consiglio, che prevedeva l’annullamento di tutte le “exemptiones” in materia fiscale riguardanti la citta e il territorio, se queste non erano state sottoposte a preventivo controllo del Senato!°?. Siamo “pauperes pischatores”, avevano affermato gli abitanti di quella comunita, vivia-
mo di questo; non lavoriamo la terra e le nostre abitazioni sono circondate da paludi.
In forza delle varie leggi che abbiamo gia ricordato, il Consiglio dei Dieci aveva assunto in proprio il potere di controllo sulle sentenze cosiddette “late in arengo”, cioé su quegli atti giudiziari, che essendo stati emanati secondo le formalita di rito previste dagli statuti, dovevano ritenersi inappellabili!°*, riservandosi tuttavia la facolta di concedere deroghe a quella normativa. Non era certo questo un problema meramente formale. Per quello che riguarda la categoria di sen212
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
tenze in questione, é possibile notare come, negli anni precedenti la pace di Lodi, Consiglieri, Avogadori e Sindaci avevano largheggiato nel concedere ai sudditi la facolta di poter interporre i loro appelli, “non obstante lapsu temporis”, su sentenze gia passate in giudicato!. Era un modo di dimostrare ai governati la benevolenza e la moderazione della Serenissima, di trasmettere una immagine della giustizia soccorritrice dei deboli e degli oppressi; ma questo costituiva un criterio di legittimazione del potere che si rivelava poco adatto alla pit dinamica realta dei rapporti tra sudditi e Principe che si viene disegnando negli anni centrali del secolo. Crescita della tensione tra le citta ed i loro distretti; emergenza del problema dell’ordine pubblico; definizione del ruolo dei Rettori e degli organismi d’appello della Serenissima; ricerca di un difficile equilibrio tra rispetto delle autonomie e del funzionamento degli organismi di potere locali e istituzioni veneziane: realta sociali e culturali che ora cozzavano l’una contro Paltra, ora trovavano margini di un compromesso, talvolta ricercavano forme di integrazione. Tutto cio richiedeva un intervento duttile, ma anche coordinato, capace di soppesare la validita delle ragioni di principio che venivano addotte, tenendo sempre presenti le valenze politiche ed umane implicite nei vari conflitti. E questo l’insieme dei problemi che emerge dalle discussioni che coinvolsero i Dieci attorno alla legittimita di certi appelli o di certi provvedimenti dei Ret-
tori, riguardanti le sentenze “late in arengo”!. Il 27 giugno 1459 Pavogadore Alvise Foscarini si presenta ai capi del Consiglio chiedendo che gli venga concessa la facolta di accogliere appello interposto da trentaquattro distrectuales condannati dal podesta di Vicenza?!°’, Il Foscarini aveva riferito che, nel corso dello stesso anno, alcuni individui, banditi da Cittadella e distretto, avevano osato rientrare nei confini di quella podesteria apportando “damna et molestia” nei confronti degli abitanti. Il rappresentante veneziano, venuto a conoscenza che gli scellerati si erano riuniti “in quadam domo agri vincentini”, aveva ordinato al suo cavaliere e agli altri suoi ufficiali di dirigersi “ad villas circumstantes domum ipsorum bannitorum”, e di ingiungere a tutti gli abitanti di quelle comunita Pobbligo di collaborare alla cattura dei, rei “sub pena indignationis nostri Dominii”. In seguito a questo mandato si erano resi disponibili a collaborare con le forze di giustizia i trentaquattro “di2.13
GOVERNANTI E GOVERNATI
strectuales” che si appelleranno all’Avogaria. Alla fine — pur con notevolissime difficolta, in quanto i malviventi avevano opposto una forte
resistenza — l’operazione era riuscita. Tuttavia, quando il podesta di Vicenza venne informato di alcuni inevitabili atti di violenza che avevano accompagnato la cattura, introdusse il caso al giudizio della Consolaria, tribunale cittadino che vantava ampie prerogative nel settore dell’amministrazione della giustizia penale. Qui i comitatini vennero condannati “in arengo”, non considerando, a detta dell’avogadore, che non avevano agito di loro spontanea iniziativa, bensi in ottemperanza ad un ordine di un rappresentante dell’autorita pubblica. Lo stesso avogadore aveva concluso chiedendo gli venisse concesso Parbitrium procedendi, secondo quanto gli dettava la sua coscien-
za: in tal modo, oltre all’annullamento di una sentenza chiaramente iniqua, avrebbe realizzato uno dei compiti di primaria importanza per un membro della Repubblica, quello di sovvenire i “pauperes”. I capi dei Dieci accoglievano con ampia maggioranza tali richieste. Emergono dall’analisi del caso appena citato alcuni spunti che ée opportuno sottolineare. Innanzitutto il giudizio sulla legittimita degli appelli, per i casi di maggior importanza, passa dalla giurisdizione degli Avogadori a quella dei Dieci; si realizza un controllo pit diretto ed efficace sull’autorita dei Rettori; viene messo in discussione, anche se indirettamente, il potere di controllo del Consolato cittadino. E forse opportuno soffermarsi brevemente sul ruolo e la composizione di questo istituto “privilegiato”. I] Consolato era Tribunale penale di cui godevano solo alcune citta del Dominio veneto: prestigiosi quelli di Verona e Vicenza, per l’ampiezza dei poteri di cui godevano, pit limitata l’importanza di quelli di Feltre e Belluno!®. Composta nei due centri maggiori da quattro membri “laici” e quattro “doctores”, la giurisdizione consolare rappresentava non solo uno strumento di controllo politico per i ceti dirigenti urbani sulle conflittualita sociali che percorrevano la citta e le campagne, ma soprattutto una delle modalita di resistenza alla penetrazione del diritto veneto e dei suoi istituti; in sostanza costituiva uno dei simboli di cui si poteva sostanziare l’orgoglio civico, di una cultura e di una
sensibilita fortemente radicate nel tessuto di una comunita. Date queste prerogative doveva risultare quasi ovvio che la convivenza dei componenti del tribunale con i rappresentanti dell’autorita centrale 214
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
non doveva essere troppo facile, e non infrequenti i conflitti di competenza!°’, Anche in questo particolare settore dell’amministrazione giudiziaria si pud notare, tra i membri del patriziato veneziano che sedevano nel Consiglio, un atteggiamento assi difficilmente definibile in modo univoco. Il 27 agosto 1466 il nobile vicentino Matteo Valmarana chiedera che la fondatezza dell’accusa che gli era stata opposta dal rettore veneziano, e€ cioe di essere l’autore di un’aggressione al fratello, fosse
esperita da un console cittadino, come stabilivano gli statuti, e non, secondo quanto era stato ordinato, dal giudice del Maleficio!?°. I Dieci approveranno la petizione, ma solo con la stretta maggioranza di nove
voti contro sei. Meno incertezze aveva suscitato la richiesta dei capi del consiglio di rimettere al solo giudizio del tribunale cittadino il caso di un certo “caballarius” vicentino. Questi, accusato di aver aggredito una donna, per evitare una condanna pecuniaria — che non avrebbe potuto sostenere in quanto “pauperissimus” — prevista dalla normativa statutaria, aveva implorato il giudice del Maleficio che intercedesse per lui, allo scopo di ottenere una composizione con la parte offesa1!?, In questi casi il rispetto per le prerogative locali si fondava su considerazioni insieme di ordine pratico e di immagine: non era opportuno sostenere un contenzioso o alimentare diffidenze nel ceto di potere locale, per questioni in cui sostanzialmente l’onore della Repubblica non veniva messo in discussione. Ma, in altre occasioni, quando si riteneva opportuno trasmettere ai sudditi il senso di una giustizia esemplare “erga omnes”, la qualita dell’intervento assumeva un segno differente. Il 26 aprile 1464 i capi concedevano agli avogadori di intervenire, nonostante la sentenza fosse stata pronunciata in arengo, sullappello interposto dalla moglie di un certo Pietro Chaim, abitante nella comunita di Bertesana nel distretto vicentino!!2. La donna affermava che il marito aveva stipulato un contratto di livello con un non meglio specificato civis, per ridurre dieci campi incolti “ad aratum
et vitigationem”, versando in cambio dieci staia vicentine di frumento !13. Dopo anni di lavoro durissimo, la terra offriva al livellario il notevole rendimento annuo di 60-70 staia di frumento e “sex mastella vini”. Ma il relativo benessere, conquistato con anni di sa215
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crifici, era stato di breve momento: chiamato a combattere in Morea, “pro fide catholica et pro Statu Sancti Marci”, nella guerra in cui la Repubblica intendeva opporsi alle mire espansionistiche di Mao-
metto II, il Chaim non era pit tornato. Mentre si stava compiendo il suo infelice destino, I’ “affictator” l’aveva fatto condannare in Consolaria “pro afficto non soluto”. Dopo qualche tempo si era presen-
tata alla moglie, costretta nel frattempo ad abbandonare il fondo e ridottasi a servire in una casa di Vicenza, |’opportunita di far valere i suoi diritti di fronte ai sindaci veneziani. I quali, una volta tornati a Venezia, avevano richiesto ai capi dei Dieci una autorizzazione a procedere per giudicare della legittimita della sentenza emanata dalla giurisdizione vicentina. I presidenti del consiglio avevano tuttavia preferito delegarne l’esame agli avogadori, precisando loro che tenessero in massima considerazione sia la palese violenza esercitata nei confronti del Chaim e della sua famiglia, che un grave vizio giuridico che rendeva illegale l’intero processo, rappresentato dall’aver giudicato “in absentia” della parte accusata e dall’aver sentenziato in un tribunale con
giurisdizione penale una controversia che pertineva al civile+!*. Sempre per rimanere nell’ambito vicentino un’altra vicenda, di poco successiva, assume carattere quasi di esemplarita, in quanto convergono in essa vari motivi: da quello della frizione interna al mondo dei governati (citta e comunita) — da cui possono scaturire differenti € spesso contrastanti domande d’autorita — a quello delle modalita di intervento esercitate dalla Serenissima, sia nei confronti dei corpi locali, che riguardo agli stessi rappresentanti veneziani. I] 27 marzo 1463 si erano presentati ai capi del consiglio i procuratori degli homines di Castelgomberto, una piccola comunita del distretto vicentino, riferendo della “differentia” che li opponeva ai nobili Trissino, attorno agli antichi diritti di pascolo e di decima!!*. Quegli iura, conservati tanto gelosamente “in forma scripta”, erano stati sottratti ai comitatini grazie ad un assalto compiuto, “armata manu”, dai nobili e da alcuni loro complici alla casa del sindaco della villa. Il Collegio, ricevuta una lettera informativa dei rettori di Vicenza, aveva immediatamente inviato loro l’ordine “quod causa ipsa non poneretur in Consolaria” — si paventavano evidentemente collusioni tra membri del tribunale cittadino e la potente famiglia —, ma che la definissero da soli, coadiuvati dai loro assessori. I Trissino, allo scopo di evitare 216
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
un procedimento giudiziario che certo, fin dall’inizio, non si presen-
tava per loro sotto i migliori auspici, erano riusciti ad ottenere che la citta stabilisse — analogamente a quanto fece per quel Matteo Val-
marana che abbiamo gia incontrato — di inviare a Venezia ambasciatori che protestassero ai membri del Collegio lillegittimita della ducale, in quanto lesiva degli antichi privilegi di Vicenza. Questi erano riusciti cosi convincenti che i membri del Collegio avevano revocato il precedente mandato, e ordinato ai rettori di istituire il processo all’interno del Consolato. Alla fine era stata comminata una condanna nei confronti dei violenti, ma di cosi lieve entita, secondo i rappresentanti della comunita, da tradursi in una effettiva assoluzione: si trattava infatti di una sanzione pecuniaria, che non faceva menzione di una doverosa restituzione degli antichi diritti. I capi del consiglio decretavano, a quel punto, che la supplica fosse rimessa al giudizio degli Avogadori di Comun, indicando tuttavia i criteri cui essi si
sarebbero dovuti strettamente attenere: non considerate per nulla i documenti prodotti dai Trissino nel giudizio di primo grado, giudicate secondo la vostra coscienza, non considerando la normativa statutaria: “casus iste sit valde importans, ob quod pro honore Dei, intuitu justicie et debito nostro sit providendum”. Provvedimenti come quelli citati testimoniano di una intensificazione dei rapporti tra centro e periferia a meta ’400. Vi si avverte, dalla parte del Principe, una ricerca di soluzioni attraverso cui duttilmente far conciliare esigenze apparentemente divergenti: disciplinare le procedure delle magistrature d’appello senza depotenziarne la basilare funzione; la necessita di osservare la pluralita dei diritti e delle
giurisdizioni locali e sviluppo di un atteggiamento meno tradizionale, tendente a rafforzare il ruolo delle istituzioni centrali. E indubbiamente significativo del livello di percezione della sovranita esercitata su di una realta, quale quella dello Stato territoriale, di cui si iniziavano a scorgere con maggior precisione contorni e strutture, che a Venezia non si avvertisse alcuna contraddizione tra legittimazione della
pletoricita dei poteri locali, variamente dislocati, e un tipo di intervento che incrinava di fatto la compattezza di alcune prerogative detenute dai sudditi “ab immemorabili”. Di questa notevole elasticita esercitata nella ricerca di soluzioni istituzionali che, pur non rompendo con il senso della tradizione, potes217
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sero anche consentire di considerare in modo pit dinamico i rapporti tra centro e periferia, ci viene offerta una interessante testimonianza nella discussione, avvenuta nelle aule del Consiglio nel 1467, attorno al ruolo dei Sindaci. I! 27 maggio di quell’anno l’intervento dei Dieci pose fine ad un’annosa e contrastata vicenda che aveva visto quali protagoniste alcune comunita rurali site nella podesteria di Castelfranco, da una parte, ed alcune famiglie patrizie veneziane che godevano di proprieta in quei luoghi, dall’altra!!*. Risultava, dunque, che alcune “mani” di capi del consiglio avevano prodotto “terminationes et mandata” — dietro istanza del nobile veneziano Nicolo Miani — con cui si sottraeva all’esame dei Sindaci una causa riguardante “possessiones turbate”!!7. Successivamente, e questa volta dietro supplica di “quorundam communium villarum Castrifranchi’, altri capi produssero “in illa materia aliquas terminationes in contrarium”, revocando in tal modo le precedenti deliberazioni. Dopo qualche tempo, le comunita si erano nuovamente presentate ai capi, protestando il fatto che le ultime determinazioni non erano state osservate. La risposta era stata piuttosto severa: simili “civiles altercationes” non convengono al giudizio del massimo tribunale veneziano, “nec ad capita spectet terminare aut iubere in similibus”. Si precisava che “una manus capitum” non aveva facolta di revocare, se non con l’intervento dell’intero “consilium”, cio che un’altra mano aveva decretato in precedenza. Pertanto, tutte le terminazioni che erano state prodotte nel corso degli anni dovevano ritenersi nulle. Le due parti in causa, qualora fossero intenzionate a proseguire la controversia, si sarebbero dovute rivolgere agli altri “officia” della citta, agli avogadori o agli stessi auditori. L’ultima clausola indicava con precisione la limitazione
dei poteri dei capi: da allora in avanti non avrebbero pit potuto ingerirsi in materia civile1?8, Altri due documenti ci permettono di inquadrare meglio le valenze di questa vicenda. Il 30 dicembre 1466 il Consiglio dei Dieci sottopose a giudizio cinque terminazioni dei propri capi, riguardanti la controversia tra nobili delle famiglie Moro e Pesaro e la comunita di San
Martino, anch’essa riguardante danni alle proprieta!!*°. Una prima
sentenza, pronunciata dal podesta di Castelfranco, era risultata favorevole ai patrizi della capitale. Quando la comunita si era rivolta ai sindaci, con il chiarissimo intento di evitare una annunciata 218
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
intromissione, 1 membri delle due famiglie patrizie avevano chiesto Pintervento dei capi. I nobili veneziani godevano probabilmente di appoggi tra i componenti del grande tribunale ed avevano ottenuto inizialmente una fin troppo facile vittoria: un mandato aveva imposto ai Sindaci di rinunciare alla loro volonta di proseguire l’azione giudiziaria, e questi, “pro reverentia mandati capitum”, avevano docilmente obbedito. Ma a questo punto, al di la del caso particolare, all’interno delle aule del tribunale si era svolto un dibattito attorno a punti fondamentali della politica del diritto veneziana, quali le competenze giurisdizionali dello stesso Consiglio ed i limiti di intervento delle magistrature d’appello, delegate e straordinarie. La prima proposta era venuta dai capi del Consiglio Girolamo Barbarigo e Girolamo Molin. Questi, sottolineando lo stretto rapporto di dipendenza nel caso in questione tra le “determinationes capitum” e la possibilita concessa ai sindaci di perfezionare la loro intromissione, avevano argomentato che, qualora tale prassi fosse stata legalizzata, le conseguenze sul piano politico-istituzionale sarebbero risultate gravissime: la magistratura degli Auditori-Sindaci, una volta privata del potere che maggiormente la caratterizzava, avrebbe finito con l’essere una pleonastica appendice del massimo tribunale veneziano, priva di qualsiasi autonomia; il Consiglio dei Dieci, assumendo quelle prerogative che, secondo la legge, non potevano spettargli, si sarebbe trasformato nel perno centrale del sistema istituzionale veneziano. Pertanto tutti gli atti fino ad allora prodotti dalle parti dovevano ritenersi nulli e riconsegnati ai sindaci, che li avrebbero presi in considerazione, senza subire ulteriori interferenze da parte dei capi. Un diverso modo di considerare la questione era stato avanzato dal terzo presidente del tribunale, Vittore Cappello. Nelle sue parole, prive delle articolate considerazioni e dei fini distinguo dei colleghi che lo avevano preceduto, tese a riaffermare la piena validita dell’intromissione, non sembra riflettersi la volonta di un controllo diretto esercitato sull’attivita
dei Sindaci, quanto piuttosto il desiderio di concludere una annosa controversia, e la preoccupazione di evitare future frizioni all’interno del sistema. Incertezze e dubbi che presero anche 1 consiglieri al momento di votare: su quattordici presenti, otto si espressero favorevolmente alla seconda proposta, tre furono per la prima e tre si astennero.
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GOVERNANTI E GOVERNATI
Di questa sia pur ancora intermittente affermazione di diritti sovrani, di questa accentuazione della gerarchizzazione delle diverse istan-
ze giudiziarie, e della subordinazione del principio di legalita alle esigenze politiche necessarie a tener saldo lo Stato e ad ottundere le tensioni che attraversavano in misura sempre crescente il patriziato veneziano, chi pago il prezzo maggiore fu proprio l’Avogaria di Comun.
Nel marzo del 1461 i capi del consiglio ordinavano agli avogadori di non procedere ulteriormente nell’inquisizione cui stavano sottoponendo il nobile Priamo da Lezze, accusato di un tentativo di corruzione nei confronti di alcuni componenti del Maggior Consiglio !2°. La facultas puniendi i membri del patriziato della Serenissima che si macchiavano di quella colpa — cosi si era affermato — spettava di diritto al solo tribunale supremo. Un conflitto di competenze forse ancora piu significativo é quello che oppose, nel 1462, l’avogadore Polo Bernardo ai capi del consiglio‘2!. Il Bernardo stava controllando la legittimita della richiesta di Giovanni Francesco Cavalli, sulla sua ammissione al Maggior Consiglio, e quindi alla nobilta veneziana. I capi ritenevano che il giudizio dovesse rientrare nella giurisdizione del Consiglio: infatti il padre di Giovanni Francesco, Giovanni, era stato condannato in quanto ribelle alla Repubblica di San Marco, e tutte le scritture e le “attestationes”, che l’avogadore pretendeva di esaminare si trovavano nelle stanze dei Dieci, e non potevano essere viste da alcuno se non dai componenti dello stesso consiglio '2?. Il Bernardo non sembra aver accettato a cuor leggero questa diminuzione di una importante prerogativa, che, almeno nella prima meta del secolo, era stata esercitata dall’Avogaria e dal Senato!23, e per questo aveva cercato di far riaprire il caso, ma la risposta dei capi era risultata in questa occasione ancora piu severa !2*. Ancora nel 1465 il Consiglio era intervenuto per bloccare una intromissione che gli avo-
gadori stavano perfezionando nei confronti di una sentenza pronunciata dal podesta di Vicenza, intorno ad una “differentia” vertente tra comunita limitrofe dei territori vicentino e padovano, con seguito di aggressioni e trafugamento dei cippi confinari!2>. In questa occasione l’interessamento del Consiglio era stato determinato dal timore degli ulteriori “scandala” che sarebbero sorti tra 1 sudditi delle due province in caso di una insufficiente definizione della controversia, e dalla volonta di censurare il mandato degli avogadori. Questi, sol220
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
lecitati dagli ambasciatori patavini, avevano sovrapposto indebitamente la loro autorita a quella del consiglio dei Pregadi, dove si era stabilito l’invio di una commissione di cinque savi straordinari, dotati di ampi poteri inquisitivi e deliberativi, i quali non avevano fatto ancora ritorno nella capitale!°. Il 24 settembre 1455 i Dieci decretavano I’illiceita dell’intromissione operata dagli avogadori su una sentenza di Triadano Gritti, podesta di Padova, che aveva condannato all’impiccagione alcuni ladri 2’. Non si erano accettate le “probationes” ed i testimoni dei condannati, questa l’eccezione di legittimita sollevata dagli avogadori; ma a tali considerazioni, secondo i capi del consiglio, andavano anteposte altre esigenze giuridiche e politiche. Innanzitutto l’intromissione contraddiceva gli statuti patavini — era stata infatti osservata alla lettera la procedura prevista da quelli nella fase di escussione dei testi —; ma era soprattutto Il’“honor” della Repubblica che imponeva di intervenire con estrema severita, in quanto il “taglio” realizzato dagli Avogadori avrebbe potuto provocare “multa mala et inconvenientia”, e gia nelle citta dello Stato da Terra, cosi si chiudeva l’intervento dei Dieci, “multi murmurant”, per l’incapacita dei governanti veneziani di provvedere al bene dei sudditi e di stabilire una effettiva pace sociale.
Come avremo presto modo di dimostrare, a partire dagli anni ’80 e 90 del Quattrocento, sembra che all’interno del patriziato si sviluppi una sorta di diversa sensibilita nel modo di guardare ai problemi dell’ordine pubblico e, piu in generale, all’amministrazione della giustizia penale12®. E in questa congiuntura che il processo di depotenziamento di talune prerogative avogaresche, a tutto vantaggio della creazione di un rapporto pit immediato tra Rettori e Consiglio dei Dieci, conosce un ulteriore incremento. Significativa in questo senso la lettera inviata il 9 febbraio 1484 dai capi dei Dieci ad Andrea Bernardo, podesta di Vicenza}. Questi aveva inviato una lunga scrittura a Venezia, con cui indicava i suoi motivi di opposizione nei confronti di una serie di lettere avogaresche, che gli imponevano di sospendere |’inquisizione cui stava sottoponendo un cittadino accusato di furto e falsificazione monetaria. I capi loderanno la fermezza sempre dimostrata dal Bernardo nel purgare la citta da uomini “malis et scelerosis”, e gli ingiungeranno di ritenere “nulli et non scripti” i man-
dati degli avogadori, in quanto la falsificazione monetaria, poiché
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GOVERNANTI E GOVERNATI
doveva rientrare nella categoria del “crimen lesae maiestatis”, non po-
teva che ricadere sotto la giurisdizione dei Dieci13°. Una durissima reprimenda la dovette subire anche l’avogadore Nicolo Muazzo. Gli “eximi doctores et equites oratores” della citta di Vicenza, si erano presentati nel 1486 ai capi del Consiglio, per dolersi dell’annullamento di alcune ducali, inviate dalla Serenissima Signoria
al rappresentante veneziano nel centro berico, di cui si sarebbe reso protagonista l’avogadore, per favorire gli interessi della comunita di Lonigo 13!, Le ducali confermavano i privilegi ottenuti dalla citta nel 1405, a proposito della quota d’estimo cui dovevano essere sottoposte le proprieta rurali dei cives, sulla estensione della giurisdizione in penale ed in civile del podesta veneziano di Lonigo e sulle ripartizioni tra le comunita del territorio — con I’ esenzione per la citta — per contribuire alla riparazione della rocca leonicense. I capi del Consiglio, accogliendo le richieste degli ambasciatori, affermeranno che non rientrava nelle competenze degli Avogadori l’occuparsi di conflitti giu-
risdizionali riguardante le pattuizioni “in prima adeptione”. Stabilirono inoltre P’invio di un mandato ai rettori di Vicenza, affinché tale deliberazione fosse osservata “constantissime”; agli oratori si diede notizia della definizione della questione “cum illa bona et grata forma verborum que conveniunt fidei illius fidelissime communitatis” !32.
I] 23 dicembre 1493 il Consiglio dei Dieci, unitamente alla Zonta, interveniva in un’altra delicatissima materia, ordinando la revoca delle lettere avogaresche, con le quali si informava il rettore di Feltre sulle procedure da far rispettare attorno alla ballottazione per |’ingresso nel consiglio civico !?3. Il mandato degli avogadori cercava di dirimere la “differentia” che divideva “nobiles et populares”, a detta dei Dieci eccitata da questi ultimi, e che doveva ritenersi aliena “a pacifico sta-
tu illius civitatis”. $i doveva pertanto seguire “constantissime et inviolabiliter” lo statuto redatto nel 1451, che comprendeva le norme di accessione al Consiglio. La diminuzione delle prerogative avogaresche ad opera del Consiglio dei Dieci si realizza, nello stesso volger d’anni, in altri fondamentali
settori della vita dello Stato. Quando, nel 1497, gli avogadori intromisero l’investitura “de bonis pheudalibus” concessa agli eredi del conte
Vinciguerra Collalto, nella causa — su cui presto ci soffermeremo piu estesamente — che li vedeva opposti ad un altro ramo della fa222
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
miglia, i Dieci stabilirono che, data l’estrema delicatezza della questione, “que respectu pheudi recogniti ab Dominio nostro principaliter est materia Dominii nostri”, l’intromissione venisse discussa in Senato !34, Ancora piu esplicitamente lesiva della decantata liberta de-
tenuta dagli Avogadori di introdurre, a loro discrezione, nei diversi consigli e tribunali della Serenissima, gli interventi di cui erano autori, risulta un’altra legge dei Dieci, emanata nel 1498, nel cui dispositivo si affermava l’obbligo per la nostra magistratura d’appello di portare tutte le intromissioni a deliberazioni del Pregadi all’interno dello stesso consiglio !35. Dalla lettura della parte si evince che questo prov-
vedimento di carattere generale era stato provocato dal fatto che la solenne investitura, secondo la forma delle bolle apostoliche, del vescovado di Ceneda a Francesco Brevio, approvata in Senato e posta “unanymiter” da capi del Consiglio, savi del Collegio e consiglieri du-
cali, era stata sospesa dagli avogadori per irregolarita. Della maggior preoccupazione con cui la classe dirigente veneziana guarda, a partire dalla seconda meta del XV secolo, a possibili focolai di resistenze antimarciane, e alla formazione ed organizzazione, in sede locale, di nuclei di potere alternativi a quello della Serenissima, nonché delle volonta espresse e delle incertezze con cui si cercO di porvi rimedio, offrono una rilevante testimonianza altri interventi realizzati dai Dieci. Prima di soffermarci su quelli che ci sono apparsi maggiormente significativi, ¢ opportuno sottolineare come, quasi a voler legittimare l’ampiamento della sfera d’influenza su un numero sempre piu ampio di settori della vita politica e amministrativa, il Consiglio ricorra, nel motivare le parti emanate nel corso del tempo, a quella terminologia che avrebbe dovuto adattarsi soltanto ad una ristrettissima serie di infrazioni. Nei solenni proemi delle leggi riguardanti la capitale e la Terraferma, come nelle lettere ai Rettori ed agli altri rappresentanti veneziani nel Dominio, ricorrono, sempre pill frequentemente, stilemi quali quello della necessita di tutelare ad ogni costo la “quiete e la tranquillita” dei nostri fedeli sudditi, O, ancora piu esplicitamente, quello della necessita di “sedare scandala” che potrebbero sorgere, qualora si usasse una mano troppo leg-
gera. Ancora una volta si puo notare come nel processo che porta alla costituzione di una immagine dell’autorita e del potere legittimo meno opaca e contraddittoria, concorrano molteplici fattori, presenti 223
GOVERNANTI E GOVERNATI
sia nel mondo dei governanti che in quello dei governati: istanze particolaristiche vivacissime in vaste zone delle realta soggette, che si rivolgono al centro, ponendosi come rappresentative degli interessi generali della comunita, allo scopo di eliminare o delegittimare una delle
parti con cui sono in conflitto, coesistono con la volonta, da parte veneziana, di indirizzare la politica delle istituzioni in modo pit incisivo e coerente con lutile dello Stato. Ne emerge un’idea della sovranita non rettilinea o uniforme, ma composita e stratificata, cui concorrono diversi livelli di razionalita politica e di sensibilita, dando luogo a soluzioni originali, anche se non sempre efficaci. Per quello che riguarda Venezia puo destare qualche perplessita solo a chi consideri maggiormente la lettera delle disposizioni legislative piuttosto che la logica, che si sta cercando di delineare, interna all’istituzione, l’azione intrapresa, nel 1472, dai capi del Consiglio allo scopo di annullare una parte proposta in Pregadi dai presidenti della Quarantia criminal ‘3°. Qualora fosse stata accolta la proposta di questi ultimi, che prevedeva di eleggere i sei consiglieri ducali non pit uno
per sestiere, bensi tre per la zona de citra e tre per la zona de ultra, si sarebbe in qualche modo, a detta dei capi, mutata la forma “optimis regiminis”, “fructuosam ad hunc usque diem”, ma soprattutto si sarebbe contraddetta la “sapientem prospicentiam maiorum nostrorum”, che, al momento di emanare la legge, si erano ispirati “ad optimum finem quietis civitatis”. L’esigenza di conservare |’“extrinseca et intrinseca quiete et tranquillitate Status nostri” era invocata dai Dieci, sempre nel 1472, allo scopo di affermare la legittima autorita del governo marciano, messa in discussione da una pratica sempre piu diffusa13”. Risultava che da qualche tempo “cives et subditi” dello Stato da Terra si rivolgessero a “Domini et Dominii” estrinseci, “tam ecclesiastici quam seculares”, allo scopo di ottenere grazie, mandati sospensivi o salvacondotti, attraverso cul venivano interrotte sentenze o procedimenti giudiziari — iniziati dai Dieci o dai rappresentanti veneziani in Terraferma — che li riguardavano. In molte occasioni, per compiacere i potentes che si rivolgevano alla Serenissima, e con i quali si intrattenevano magari proficui rapporti diplomatici, era necessario rispondere affermativamente a quelle richieste con tanta solennita impetrate. Giunti a questo punto, tuttavia, questa l’opinione dei componenti del Consiglio, 224
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’ AUTORITA
era necessario porre termine a tanta “corruptella”, stabilendo pene pecuniarie e afflittive assai severe. Ai fini del discorso che stiamo svolgendo, risultano di ancora maggior interesse gli interventi rivolti alla tutela del “buono Stato” e della quiete dei sudditi del Dominio. Sollecitata dagli ambasciatori trevigiani é la severa provvisione decretata dal Consiglio all’inizio del 1470138, I rappresentanti della comunita avevano chiesto ai capi di porre un freno, in qualsiasi modo, alle “secte et conventicule et clandestine addunationes, cum juramento et statuta”, che da qualche tempo si congregavano, con evidente “periculo Status, diminutione regimi-
nis potestatis Tervisii, et scandalo et perturbatione quietis civitatis”. La causa che aveva suscitato la protesta dei membri del consiglio civico e determinato l’accoglimento della querela da parte del massimo tribunale della Serenissima, é da ricercare in alcune riunioni segrete del collegio notarile con successive nomine di “ambaxtatores” da inviare a Venezia. I Dieci, dopo aver convocato nella capitale ed esaminato le risposte di ben ventidue notai del collegio, aveva stabilito che quelli, da allora in avanti, avrebbero potuto riunirsi solo dopo aver ottenuto la licenza del rappresentante veneziano, e alla presenza sua, o del suo vicario, come esigeva la legge. In un’altra deliberazione dei Dieci si erano affermate, nel corso del 1464, analoghe esigenze di controllo da realizzarsi direttamente per opera dei rappresentanti veneziani'!>’. Il luogotenente veneziano residente a Udine aveva inviato ai capi del consiglio una relazione in cui si narrava di “secreta consilia, convocationes, addunationes” organizzate dai sette deputati ad utilia della citta. Questi provvedevano a cooptare, al termine di ogni anno, i propri successori, nonché ad eleggere e mandare oratori “ad diversa loca, sine ulla scientia Locumtenentis”. Vi erano tuttavia altri motivi, pit inquietanti e di difficile decifrazione, che avevano determinato il rappresentante veneziano a rivolgersi all’alta autorita dei Dieci. “Per suas prudentes astucias”, richiedendo a Venezia il rispetto delle consuetudines locali, o approfittando dell’ignoranza e della disattenzione dei luogotenenti succedutisi nel corso degli anni, i deputati udinesi erano riusciti, di fatto, a ottenere il pieno riconoscimento di privilegi e regole politiche locali che ledevano la giurisdizione del Dominium e la volonta di controllo della Serenissima. Dalla lettura della parte risulta difficile comprendere 225
GOVERNANTI E GOVERNATI
se ’emergere della questione sia determinato da un conflitto interno al ceto che deteneva il potere in citta, oppure da una eventuale frizione tra questo e gli altri organismi rappresentativi della Patria del Friuli — comunita, castellani, ecclesiastici —, oppure, ancora, costituisca la risultante di un contrasto che lo oppone al rappresentante della Serenissima. Dal contenuto e dal tono delle materie su cui si era aperto il contenzioso, si potrebbe propendere per l’ultima eventualita. Il rappresentante veneziano aveva infatti espresso la sua opinione sul pericolo che sarebbe derivato per l’ordine dello Stato se si fosse seguitato ad acconsentire a cheil giudizio “stratarum et fluminarum”, spettante, secondo i pacta, alla giurisdizione luogotenenziale, andasse al Consiglio del Savio, e, in secondo luogo, a che i feudi, esaurita la linea di discendenza maschile, pervenissero alle femmine delle famiglie giusdicenti, invece di tornare “in nostrum dominium”. Questioni assai delicate, quin-
di, che toccavano settori essenziali della vita della societa friulana. E interessante sottolineare come lo scontro tra istituzioni locali e potere centrale, trasferendosi da Udine alla capitale, assuma una tonalita diversa, piu intensa, e si trasformi in un dibattito sul ruolo politico da attribuire alle consuetudini locali ed ai privilegi, e sui margini di intervento discrezionale dello Stato. E la tranquillita dei nostri fedeli sudditi, cosi affermavano i capi dei Dieci, che obbliga a fare chia-
rezza attorno a questi problemi. In realta, piu che di una necessita di tutela dell’ordine pubblico, quello che maggiormente sembra sollecitare l’intervento dei componenti del Consiglio consiste nel definire esattamente sfere di competenza e attribuzioni giurisdizionali. In questo tentativo emergono criteri di valutazione eminentemente pragmatici: la messa a punto concettuale di termini quali privilegium o consuetudo non viene affidata alle sottili definizioni dei doctores legum, quanto piuttosto viene definita dalla volonta che emerge nei mag-
giori consessi politici. Nel tentativo operato dagli oratori udinesi a Venezia di convincere la Dominante a confermare “primorum suorum privilegiorum, immunitatum et consuetudinum’”, si era subodorata l’intenzione di sottrarre definitivamente al controllo del luogotenente l’insieme delle discipline in questione. La risposta era stata nettissima: non si accondiscendera alla richiesta, in quanto contrastante con l’onore e lutile del Dominium, e con il quieto vivere dei sudditi. D’ora in avanti non si replichera pit a tali richieste esplicitate in 22.6
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
“generali”. Le consuetudini, avevano cosi concluso 1 Dieci, “variant secundum numerum et tempora”. E questa sorta di relativismo culturale a sganciare dai tradizionali stilemi retorico-politici la discussione attorno alla legittimita delle pattuizioni. Venezia garantira la retta osservanza di consuetudini e privilegi, purché questi non contraddicano alla jurisdictio della Serenissima, cosa che verra valutata volta per volta, “particulariter”. Con analoghe motivazioni, — “ad sedandum scandalum’, e per evitare “perturbationes Status nostri” — veniva respinto l’ennesimo tentativo intrapreso nel 1470 dalla comunita di Schio, allo scopo di ottenere la tanto agognata separazione da Vicenza !*°. Gli ambasciatori del centro berico avevano lamentato la proterva volonta degli scledensi, che, contrariamente a quanto determinato da numerosi mandati dei Dieci emanati nel corso degli ultimi anni, continuavano ad osteggiare in ogni modo I’autorita del vicario di nomina urbana, e
ad inviare rappresentanti e procuratori a Venezia, per sostenere la propria posizione. “Imponatur perpetuum silentium” agli abitanti della comunita “si cara habent gratiam nostri Domini”, avevano infine tuonato i capi dei Dieci, lasciando risuonare, nell’indefinita minaccia di
ritorsione il senso del proprio risentimento e l’impazienza di veder conclusa una vicenda che avrebbe potuto costituire un pericoloso esem-
pio per altre inquiete realta locali. Una ancora piu significativa affermazione di sovranita informa gli interventi realizzati dai Dieci in merito alla vicenda che vede coinvolti, nel corso del 1471, i conti di Collalto, detentori di ampi poteri giurisdizionali nel distretto trevigiano‘*!. Vinciguerra Collalto aveva impetrato alla Dieta imperiale un particolare privilegio, per vedere legittimate alla successione alcune figlie. Il fratello Carlo si era invece rivolto ai capi del Consiglio: questi avevano immediatamente deciso di trattenere nella cancelleria il “privilegium” che quello aveva presentato a difesa dei propri diritti, decretando inoltre che nessuno avrebbe potuto esaminarlo senza licenza dei capi. Ugualmente si era pensato di inviare lettere a Polo Morosini e Zuanne Emo, allora oratori presso l’imperatore, per impedire loro di trattare con la Cesarea Maesta sulla scottante materia. Se i conti hanno cara la nostra benevolenza — concludono i Dieci — d’ora in avanti dovranno sottoporre solo al giudizio delle magistrature veneziane tutte le controversie 227
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sorte tra di loro, e se non smetteranno di nominarsi in tutti gli atti pubblici “comites Tervisii” si accorgeranno presto “quantum nobis displicuit et molestum est”. Anche se alla fine verranno adottate procedure di risoluzione del conflitto di stampo tradizionale, attraverso la delega agli avogadori di giudicare “secundum ordinem nostrorum”, vale la pena di evidenziare |’intenzione politica con cui 1 consiglieri dei Dieci reagirono alla lettura di alcuni dispacci, inviati dai rettori di Vicenza nel 1464 1*. Nel corso dell’anno, all’interno della comunita di Montecchio Maggiore, Si era scatenata una faida tra “factiones”: una denominata “Marchesca”, l’altra “Gonzaghesca”. A capo di quest’ultima si era posto tale “Scaramucio”, che aveva iniziato “mille modi opprimere et tirannidem inducere hominibus et incolis ipsius loci”. Dalla lettura della parte e dagli accenni che si fanno ai processi istituiti dai rappresentanti veneziani a Vicenza, risulta evidente che, dietro |’etichetta delle fazioni, non si nascondevano ben definiti progetti alternativi, eversivi dell’autorita della Serenissima o filoveneziani, bensi una concretissima lotta tra consorterie diretta all’appropriazione delle risorse locali. In questo caso si potrebbe scorgere quel complesso gioco di “idiomi
politic”, innescato dalla formazione dei nuovi organismi territoriali e dalla pluralita di forme di comunicazione rese possibili da quella, che determina nuove modalita di dispiegamento dei conflitti, e una diversa configurazione del rapporto tra centro e periferia!*3. L’ap-
propriazione di categorie “forti”, appartenenti alla sfera politicostatuale, da parte di uno dei gruppi locali, avrebbe come scopo quello di ottenere una legittimazione dai detentori della sovranita. La ricezione di tale intenzione all’interno dei circuiti istituzionali, organizzati per mediare il rapporto tra Venezia e la Terraferma, non puo non creare una serie di tensioni tra istituzioni locali e centrali, di sovrapposizioni di istanze autoritative, di riviviscenze autonomistiche. Piu ancora che ad una assai improbabile affermazione di una volonta di centralizzazione della funzione politico-giudiziaria, l’attivita dei Dieci, sembra, anche in questo caso, orientata verso la difficile opera di coordinazione e di gerarchizzazione delle differenti realta dotate di poteri di comando. Inquadrate in questo contesto anche le diverse € apparentemente contraddittorie deliberazioni dei Dieci sul caso di Montecchio Maggiore rendono bene, assieme ad altre che abbiamo 228
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avuto modo gia di analizzare, la tonalita fortemente dinamica della vita statale nella seconda meta del ’4001*4. “Certum est quod omnis hominum congregatio nocet Statui nostro”, cosi esordisce una legge del Consiglio dei Dieci del 22 settembre 1468: le “addunationes”, le “congregationes gentium”, di cui giungono notizie sempre piu numerose a Venezia, costituiscono un vero pericolo
per la Repubblica, e potrebbero addirittura provocare una “mutationem regiminis” !*5: cid che era accaduto alle Repubbliche di Genova e di Firenze, a causa della tolleranza e della disattenzione dei governanti. In nessuna parte emanata precedentemente dal Senato o dallo stesso Consiglio dei Dieci era risuonata tanto forte la preoccupazione per il controllo dell’ordine pubblico, mai si era postulata con tanto vigore la centralita della giustizia penale nel processo di costruzione dello Stato. Violenze contadine, delegittimazione del ruolo di controllo delegato alle citta soggette, sistematica derisione dell’onore della
Repubblica affidato alla figura dei Rettori: tutto cid che veniva denunciato nel provvedimento dei Dieci, rendeva necessaria una azione di controllo e di polizia pit efficace di quella fino ad allora esercitata. Per raggiungere tale scopo si era deciso in quell’occasione di investire i rettori di un potere straordinario: nessuna riunione di pit di quattro uomini doveva ritenersi legale; all’arbitrium dei rappresentanti veneziani era demandato il potere di punire i contravventori con Pesilio e con la sanzione pecuniaria che sarebbe loro sembrata pit opportuna!*°, Di notevole interesse anche l’ultima clausola di questa parte, che, ancor pil che da esigenze di repressione giudiziaria, sembra determinata dalla volonta di un controllo pit diretto sugli organismi amministrativi locali: allo scopo di evitare che cives e villici considerassero illecita la “solita consuetudo honestorum consiliorum et addunationum” da loro esercitata, si decretava che ogni riunione o assemblea cittadina doveva ritenersi legale solo se autorizzata e presenziata dal rappresentante veneziano. Anche per le ville e le comunita minori valeva lo stesso criterio, solo che l’autorita legittima di controllo veniva trasferita ai vicari di nomina urbana o ai giusdicenti locali. Significativamente, anche in una legge in cui si afferma la superiorita del potere di punire dell’autorita sovrana rispetto alle varie giustizie locali, 2.29
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rimangono affidati a queste ampi spazi di autonomia nel ruolo di sor-
veglianza e controllo delle realta politico-istituzionali sottoposte a Venezia. Ci si é soffermati su questa parte in quanto in essa trovano un momento di sintesi temi e problemi connessi alla costituzione dello Stato da Terra. Secondo quanto sostengono Lenman e Parker, il proces-
so di formazione degli organismi statali europei tra la fine del Medioevo e il XVIII secolo conosce un momento fondativo nell’emergere di un sistema penale centralizzato, con una autorita sovrana che si pone in posizione ora di controllo ora di fondazione delle norme del diritto penale, e che sovraintende alla amministrazione della giustizia, attraverso un corpo di giudici e funzionari!*”. E un processo complesso e articolato che incontra molteplici resistenze. Il progressivo allontanamento dell’amministrazione della giustizia e della repressione dalle strutture sociali, “la separazione dell’ordinamento e dell’esercizio del potere da ogni concorso di gruppi mutevoli per consistenza e per interessi rappresentati” — che, secondo quanto sostiene Giovanni Tabacco, avrebbe inizio, per quello che riguarda IItalia centro-settentrionale, nei secoli XIII e XIV 148 — si puo realizzare so-
lo passando attraverso una fase di mediazione-compromesso con le varie istanze giudiziarie e d’autorita diffuse nella societa, con procedure e forme di composizione dei conflitti che sfuggono alle possibilita di controllo diretto dell’autorita sovrana. Partendo dai problemi sollevati dalla legge emanata dai Dieci nel 1468, ci si deve chiedere se e come si realizzino nello Stato territoriale veneto le prime forme di organizzazione della giustizia penale e di unificazione del sistema di controllo sulla societa; attraverso quali strumenti, con quale continuita, grazie a quali istituzioni essa prenda cor-
po, quali siano le eventuali varianti alla forse troppo schematica dicotomia tracciata da Lenman e Parker. Prima di intraprendere l’analisi concreta, si rende necessaria una ulteriore precisazione. I] tipo di fonte su cui é possibile condurre un esame articolato per il tardo Quattrocento (risultando molto carente il materiale processuale e piu ricca invece la registrazione cancelleresca delle sentenze e della legislazione) 1+?, obbliga il ricercatore a con-
centrare la propria attenzione piu sulla attivita dei governanti che sugli atteggiamenti delle popolazioni soggette. Quella che ci viene re230
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stituita non é tanto l’oggettiva e quantificabile situazione dell’ordine pubblico in un dato periodo, né la rilevanza di certe forme di devianza rispetto ad altre, quanto piuttosto l’insieme, spesso contraddittorio, delle modalita con cui l’autorita pubblica, nel rispondere ad istanze di sicurezza e protezione che venivano dalle piu diverse fasce sociali della societa veneta, percepiva il proprio ruolo, intendeva 1 fondamenti dell’ordine sociale, concepiva i limiti non oltrepassabili dell’onore, interpretava i conflitti!*°. Nelle citta che cadranno sotto |’egida della Serenissima nel periodo tra tardo Medioevo e prima eta moderna sembra ampiamente diffusa la pena del bando'!*!. Tale sanzione veniva irrogata nei confronti di chi si fosse rifiutato di comparire, una volta citato, di fronte ai tribunali, o fosse fuggito. Lo scopo principale determinante la comminazione della punizione del bando non consisteva solamente nella semplice espulsione del reo dalla citta e dal territorio sottoposto all’autorita che aveva pronunciato la condanna, ma soprattutto nella perdita della pace, di quella entita che nei territori di lingua tedesca viene definita con il termine di friedlosigkeit, che rende assai bene la valenza antropologica, piuttosto che giuridico-formale, di questa particolare forma di sanzione. In forza di essa chiunque veniva trovato all’interno dei confini della localita da cui era bandito poteva essere catturato, oO impunemente ucciso. Per il “captore” o l’“interfettore” era previsto anche un “premio”. Questo poteva consistere in una certa somma di danaro, oppure nella facolta di “liberare” un condannato dal bando, reintegrandolo, in tal modo nella societa. Il sentimento di estraneita, di perdita di identita individuale e di allontanamento dalla piccola patria, lo smarrimento del legame, di basilare importanza all’interno del sistema di relazioni umane e politico-istituzionali che stia-
mo indagando, che univa il singolo alla stirpe, al clan o al ceto di appartenenza, il terrore della cattura o dell’uccisione da parte degli stessi membri della comunita: queste alcune delle possibili conseguenze
previste dalla normativa bannitoria. A questo punto, quello che si deve cercare di comprendere é¢ se il recepimento, da parte dell’autori-
ta sovrana, di una simile modalita di repressione-esclusione potesse costituire uno strumento di governo e di estensione del potere di comando — all’interno di una particolare congiuntura, in cui ai processi di differenziazione e gerarchizzazione delle istituzioni centrali fa231
GOVERNANTI E GOVERNATI
ceva riscontro una crescente articolazione ed organizzazione della societa e degli organismi di potere della Terraferma —, oppure se rappresentasse un correttivo inadatto al gravoso compito di garantire la quiete e l’ordine; ed anzi un ulteriore motivo di insoddisfazione dei sudditi per il governo veneziano, di messa in discussione della sua legittimita. Se nel corso del Medioevo questo istituto, di origine germanicobarbarica, era stato ampiamente accolto nella legislazione statutaria delle citta della Terraferma, non altrettanto puo dirsi di Venezia!*?. Nei due piu importanti testi legislativi di questo periodo redatti nella citta di San Marco, la Promissio maleficiorum emanata nel 1181 dal Doge Orio Mastropiero e la Promissio malefici di Jacopo Tiepolo del 1232, la pena del bando non trova alcuno spazio. Viene tuttavia citata in alcune parti del Maggior Consiglio, ed é possibile riscontrarne effetti pratici in alcune sentenze trecentesche della Quarantia cri-
minale e del Consiglio dei Dieci. In generale si puo comunque affermare che, per i secoli XIII e XIV, sembra sussistere una sorta di renitenza da parte della classe dirigente veneziana a recepire |’istituto. Difficile dire da quali elementi tale resistenza possa essere stata determinata: se dall’estraneita culturale rispetto alla tradizione giuridica che ispirava la normativa nelle zone dove pit robusta sussisteva influenza del modello imperiale, oppure se da considerazioni di ordine pratico, quali il timore di un aumento delle tensioni e violenze che la concessione della facolta di uccidere un bandito poteva provocare. I problemi sollevati dall’applicazione della normativa premiale, del suo uso e del suo abuso, emergono con grandissima evidenza fin dai primissimi anni della conquista della Terraferma. Le esigenze di difesa e di tutela della sicurezza dei sudditi, |’endemico clima di violenza diffuso nelle campagne, le resistenze nei confronti dell’autorita che
sovente assumevano la tonalita dell’offesa, anche armata, da parte di gruppi eminenti di cittadini o di membri di famiglie che non riconoscevano la legittimita del nuovo Principe, un clima diffuso di microconflittualita che non era certo possibile controllare attraverso gli ancora troppo deboli apparati repressivi statali!5? inducevano la Serenissima Signoria ad emanare, nel corso del terzo e del quarto decennio del ’400, una serie di mandati con cui si prescriveva ai Ret232
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
tori di assolvere tutti quei banditi che lo desiderassero, qualora avessero promesso |’assoluta fedelta a Venezia15*. Questa non poteva che essere una soluzione parziale e contingente di un problema molto pit esteso e generalizzato. Un problema di ordine pubblico e di controllo sociale, che con gli anni era destinato a perdere le caratteristiche di eccezionalita per entrare nella sfera ordinaria dell’amministrazione giudiziaria, ma anche un problema di difficile ricezione di norme culturali estranee alla tradizione della citta lagunare, che implicava alcuni cambiamenti nell’apparato legislativo ed istituzionale, del modo di
atteggiarsi di fronte ai sudditi. |
Che Venezia non fosse inizialmente troppo condiscendente nei confronti di una estensiva applicazione della normativa sul bando, lo dimostra una legge emanata dal Senato il 3 luglio 1414155. I savi del Consiglio avevano in quell’occasione denunciato gli “orrenda facino-
ra” perpetrati da qualche tempo nelle citta e nei distretti del Dominio, soprattutto in quello vicentino. La colpa di tale stato di cose andava attribuita alle consuetudines e agli statuta che permettevano |’esenzione dalla condanna per chiunque — e quindi anche per chi fosse gia stato condannato alla pene del bando — presentasse un “bannitum vivum vel mortuum”. Si stabiliva che, da quel momento, tali norme non dovessero piu aver corso (con la parziale eccezione di Vicenza): all’uccisore o al captore non veniva concessa la facolta di liberare un bandito, bensi un premio in denaro di cento ducati. Inoltre da allora in avanti i rappresentanti veneziani avrebbero potuto bandire i colpevoli dei crimini pit efferati, realizzati allo scopo di incamerare una taglia, da tutto il territorio della Repubblica. II tentativo di porre argine alla spirale senza fine di vendette e violenze che la antica legislazione dei luoghi sottoposti a Venezia portava con sé, non ebbe una buona riuscita: ancora il Senato lamentava, a distanza di qualche tempo, che ben milleduecento banditi infestavano il territorio vicentino, oltre mille quello veronese1*°. Ben presto l’atteggiamento piuttosto rigido dei governanti della Serenissima era destinato ad ammorbidirsi: le severe restrizioni stabilite dalla normativa appena citata venivano largamente eluse nel concreto esercizio della giurisdizione penale. Nel 1434 i rettori patavini rendevano noto al Senato il gravissimo stato dell’ordine pubblico: furti
ed omicidi nella citta, “assassinamenta, raptum mulierum” e altre 233
GOVERNANTI E GOVERNATI
enormita — tra cui alcuni casi di parricidio — nelle campagne circostanti!*”, La causa andava ricercata nel fatto che i due Capitani del Devedo — nominati dal consiglio civico, ed incaricati dell’organizzazione di una rudimentale forza di polizia, anche se sottoposti, come la legge in questione tendera a sottolineare, all’autorita dei rappresentanti veneziani — disponevano di solo otto cavalli per ciascuno, e cio era insufficiente per realizzare un’azione repressiva veramente
efficace. Il Senato concedeva pertanto che, straordinariamente e solo per quell’anno, i Capitani potessero disporre di quindici cavalli, ma soprattutto decretava che qualsiasi bandito che ne uccidesse un altro Si potesse ritenere assolto dalla pena. Anche in questa occasione venivano tuttavia poste alcune limitazioni, quali quelle di escludere dal beneficio i colpevoli di omicidio premeditato (“pensato”) e di rapimento di donne. Ancora il Senato, nel 1443, cercava di arginare la caccia indiscriminata di cui erano oggetto i banditi: questi si sarebbero dovuti tenere ad almeno quindici miglia dai confini del territorio loro interdetto. Si aggiungeva inoltre che qualora fossero stati catturati entro quello spazio, avrebbero dovuto essere consegnati al rettore veneziano}°®,
Una legislazione poco uniforme, questa della prima meta del XV secolo, modellata pit dalla congiuntura che da una complessiva visione del problema, contraddetta dalle concrete necessita di amministrazione della giustizia. La stessa intenzione espressa dalla legge del 1414, con cui si tentava, pur fra mille incertezze, di imporre sul Dominio una politica del penale che si rifacesse al modello veneziano, verra presto abbandonata. Quella parte — cosi esordiva in Senato, il 13 giugno 1438, il consigliere Matteo Vitturi — veniva totalmente elusa proprio da coloro che ne avrebbero dovuto garantire !’efficacia: 1 Rettori veneziani, cui era stato demandato il compito di applicare la pena del bando solo in casi di straordinaria gravita, la comminavano “pro omni homicidio vel delicto”, con grave danno del Dominio sia dal punto di vista dell’immagine che dell’utilita 15°. I suddi-
ti, per questo motivo, “vadunt vagabundis cum eorum familiis per loca et territoria aliena, et ex hoc territoria nostra dishabitantur et terra et loca nostra non habitantur et fiunt bona”. Si proponeva un ritorno all’antico. Da allora in avanti i rappresentanti veneziani avrebbero potuto comminare la pena del bando attenendosi strettamente 234
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a quanto stabilito dalla normativa statutaria locale. Solo in casi straordinari il Senato avrebbe potuto concedere deroghe alla parte appena
approvata. Lo stesso atteggiamento, oscillante e contraddittorio, minato da una continua incertezza di fondo, si puo anche riscontrare in alcune deliberazioni di fine secolo. Nel 1494 l’assemblea dei Pregadi, per ovviare alla spirale di violenza innescata dall’accoglimento delle istanze pro-
venienti dalla Terraferma e al fenomeno di una troppo spesso indiscriminata caccia all’uomo, votava l’abolizione dell’insieme delle norme
fino ad allora emanate concernenti i premi per la cattura o per l’uccisione dei banditi/®°. II tentativo di sottoporre l’intero Dominio ad un criterio valutazione di tipo, per cosi dire, veneziano, non incontrera una buona accoglienza. I componenti del Consiglio dei Dieci, dibatterono ampiamente, nel corso del 1489, attorno agli strumenti da adottare per ovviare alle “addunationes” cui potevano prendere parte anche piu di cinquanta uomini, i quali, in ragione della legislazione statutaria locale confermata da Venezia, potevano impunemente uccidere banditi!*!, Per questo motivo lo Stato da Terra era percorso da una catena di crimini di inaudita efferatezza, compiuti “vigore legum et ordinum” anche all’interno dei luoghi sacri, “tam per insidias et appostate, quam aliter”. Si era notato come, in numerose occasioni, fossero uccisi individui condannati alla sanzione del bando per infrazioni di lieve entita. Secondo i capi che proposero la parte era necessario riconsiderare la normativa fino ad allora in vigore, limitandone Pestensione con alcune precisazioni: 1 banditi condannati alla pena
per non aver risolto una sanzione pecuniaria, e quelli per i quali si era sancita I’“amissionem alicuius membri”, avrebbero potuto essere “impune offendi et occisi... solum per purum homicidium, et non appostate vel pensate”. Cio che nella disposizione legislativa dei Dieci che stiamo analizzando si scontrava con una pratica vigente nella Terraferma era la clausola per cui, in caso di “monopolium sive adduna-
tionem” di pit: di cinque uomini, riunitisi allo scopo di uccidere un bandito, quelli dovevano essere sottoposti a giudizio come se la loro azione fosse stata diretta contro un uomo libero. Anche in questa occasione, tuttavia, le pressioni giunte dal Dominio riuscirono ad avere la meglio sulla volonta limitativa ed uniformatrice espressa dai governanti!®, 235
GOVERNANTI E GOVERNATI
Analogamente a quanto sottolineato per taluni aspetti del diritto civile, anche nel settore del diritto penale si puo notare una certa permeabilita del diritto veneziano rispetto a quello vigente nella Terraferma. Permeabilita che si evidenzia a livello di legislazione generale (come nel caso della normativa premiale), ma che, ancor piu significativamente, coinvolge la prassi quotidiana dei giusdicenti, informa attese, comportamenti, modalita di risoluzione dei conflitti, e che, tuttavia, non significa totale adeguamento o passivita nei confronti del sistema giuridico diffuso nel Dominio. Di fronte alla necessita di rispettare istituti, formalita e procedure, radicati nelle mentalita e incardinati funzionalmente nella struttura sociale e politica delle varie realta che compongono lo Stato da Terra, Venezia si pone in modo dialettico, riuscendo a ritagliare, sopra quell’insieme di robuste tradizioni, i margini per un intervento duttile ed efficace, a creare gli interstizi entro cui filtrare la propria idea di autorita. Giorgio Sommariva, in uno dei suoi sonetti pil robustamente realistici, descrive i furori di un villano, il quale, messa mano al coltello, aveva minacciato un rivale!*3. Per tale motivo era stato denunciato a Padova al tribunale del Giudice dell’Aquila, di fronte al quale aveva profferito ulteriori violente minacce nei confronti dell’offeso: “Mes-
sere, e’ non ge dia, ma su na furia e’ g’ara ben do se ’! me fusse pi imbraga tra i pie”; a questo punto era intervenuto un tale “ch’era ivi”, consigliando le parti : “andé e conzé-lla con ve piase. Da’ vintiquattro soldi e fa la pase”. Non era quella del poeta dialettale veronese la trita ripetizione di un topos retorico, quanto piuttosto la riproduzione — sia pure deformata dagli stilemi della satira contro il villano e da un’immagine dell’autorita locale tutta improntata di moderazione e di sorridente paternalismo — di una pratica sociale che sembra assai diffusa '®*. Solo una ardua ricognizione negli archivi notarili della
Terraferma potra, forse, consentire di percepire in modo meno impressionistico l’estensione della pratica e la reale funzione svolta dalla stipulazione delle cosiddette carte pacis, di quegli atti, cioé, con cui le parti in causa — fossero esse costituite da singoli individui, da famiglie, o da gruppi consortili estesi — addivenivano ad un compromesso, dietro la specifica promessa di non offendersi ulteriormente.
Puo risultare interessante notare come i membri del Pregadi, in alcune occasioni, estendendo ai Rettori la facolta di bandire da tutto il 236
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Dominio gli autori di crimini particolarmente efferati, preciseranno l’'ammontare della taglia per chi consegnera il reo vivo o morto, e con-
cederanno, straordinariamente, la possibilta agli autori della cattura o dell’uccisione di poter assolvere dalla pena un bandito per purum homicidium, purché fosse in possesso di una “carta pacis ab offensis”.
Vale la pena di sottolineare, per tutto il corso del ’400, la cautela nell’adozione, da parte veneziana, della clausola di “liberar bandito”. Diversamente da quanto é stato verificato per i secoli XVI e XVII'*5, la facolta di liberare un bandito veniva concessa con estrema parsimonia, quasi con il timore dell’inevitabile spirale di vendette e ritorsioni che l’adozione del provvedimento, nonostante la precisazione riguardante la carta di pace, poteva provocare!®*, Nel 1456 ad esempio
tale facolta venne concessa solo due volte, in entrambi i casi al podesta di Cittadella!®”. Nel primo caso per l’uccisione di un tale e per il rapimento della moglie di quello commessi da un “distrectualis” appoggiato da quindici soci. Nel secondo, per la cattura di uno dei protagonisti di una serie di “robarie et assassinamenta” compiuti nel
territorio a partire dal 1442. Nel ricordare la parte del Pregadi del 1446, emanata proprio per ovviare a quelle violenze e quindi estesa a tutto lo Stato, la quale prescriveva precisi limiti alla facolta di “liberar bandito”, i consiglieri ducali che ne proporranno I’applicazione nel caso specifico, significativamente, quasi a suggerire l’eccezionalita della richiesta ed il suo fondamento su necessita di ordine politico, aggiungeranno che quella facolta andava comminata non in applicazione al dettato legislativo, quanto “pro exemplo aliorum, ut omnes habeant causam capiendi huiusmodi siccarios, qui sicut sentitur multiplicant in diversis locis nostris”. Negli anni che vanno dal 1478 al 1483 (al culmine, cioé, dell’emergere del problema dell’ordine pubblico, di fronte ad una ondata di violenze che coinvolgeva, come si avra modo di vedere, soprattutto le campagne) la facolta di “liberare bandito” non verra mai attribuita, nelle specifiche delibere del Pregadi!®*. Tuttavia la sostanziale cautela e quella certa dose di mitezza con cui i governanti cercavano di arginare, sia attraverso misure ordinarie che con provvedimenti eccezionali, il dilagare della criminalita, non potevano non cedere il passo, di fronte alla marea montante degli illegalismi individuali e col-
lettivi e alla sempre piu pronunciata richiesta di intervento, ad un 2.37
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atteggiamento piu severo, all’accoglimento di quelle istanze — provenienti sia dai centri maggiori della Terraferma, che da una parte dello stesso ceto dirigente marciano — le quali miravano ad un’espansione della normativa premiale alle pit diverse fattispecie penali, ad un irrigidimento nel sistema delle sanzioni!®?. Tra le forme di controllo politico e giudiziario pid ampiamente diffuse non solo nella Terraferma veneta, ma in tutta l’area che aveva vissuto il fenomeno della crescita della giurisdizione cittadina, a scapito del contado, vi é quella, registrata tanto spesso negli statuti urbani, per cui la comunita rurale si doveva ritenere responsabile delle infrazioni e dei delitti commessi da singoli e gruppi all’interno del suo territorio 7°. Il riconoscimento della personalita giuridica, tenacemente perseguito da tante comunita nel corso del tardo Medioevo e della prima eta moderna, aveva cosi la sua controparte in una sostanziale perdita di autonomia ed in una subordinazione giurisdizionale al centro
maggiore. Venezia, nel corso di tutto il Quattrocento, non mettera mai in discussione il principio della responsabilita collettiva. Sembra di poter riconoscere, tuttavia, anche in questo delicato settore, la capacita della Serenissima di assorbire e di integrare nel proprio sistema
un fattore estraneo, e di trasformarlo, sul lungo periodo, in un elemento di affermazione di autorita. Di questo complesso intreccio tra rispetto dell’assetto di potere locale e ragioni dello Stato, che si pone in posizione di interprete-mediatore delle diverse esigenze, fa fede una discussione svoltasi in Senato nel 1487 17!. Silvestro Rambaldo si era presentato a Venezia nella veste di “advocatus et defensor” della citta
di Verona, ed aveva ricordato la “provisio facta et qua observatur in aliquibus locorum et territorium nostrorum”, per cui le comunita erano tenute a “manifestare delinquentes”. Provvedimento che risultava disatteso, in quanto in seguito a reiterati danni alle colture nelle proprieta del monastero di San Giorgio in Braida, provocati da alcuni comitatini del distretto di Cologna!’?, non era stata prodotta alcuna denuncia al rappresentante veneziano, pertanto “necessarium est dare modum ut huiusmodi errores non transeant impuniti et efficere ut homines villarum sint vigiles”, in modo che ciascuno possa godere dei frutti della sua proprieta, “securus esse et vivere sine rancore’”, concludeva il rappresentante veronese. Dietro questa istanza si pud leggere la trasparente intenzione del centro urbano di vedere legitti238
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mata la propria volonta di controllo su un distretto, come quello colognese, che godeva di un certo margine di autonomia!7?. Ad ogni modo la risposta veneziana, pur senza disconoscere la fondatezza di quanto lamentato da Verona, tendera a eludere l’obiettivo di ordine pit generale che si era prefisso la citta, attribuendo al solo podesta di Cologna la piena autorita di bandire i colpevoli da tutto il Dominio. Per i sudditi la normativa e la prassi che si andava costituendo attorno al bando poteva rappresentare un mezzo di coinvolgimento e di legittimazione all’interno dell’orbita statale; per i governanti, un utile strumento di controllo sulle diverse forme di violenza. L’interrogativo che a questo punto sorge quasi spontaneo é se |’adozione e lapplicazione di quella norma abbia concretamente allargato, nel corso del 400, la sfera d’influenza del potere centrale, abbia irrobustito idea di sovranita, rappresentando un efficace sistema di neutralizzazione delle conflittualita. L’eterogeneo insieme dei provvedimenti adottati dal Senato ci introduce al cuore del problema dei vari modi in cui poteva essere percepita |’infrazione all’ordine della societa. Quali eventi sollecitavano i governati a rivolgersi al Principe? Quali motivi spingevano i rappresentanti veneziani in Terraferma nel chie-
dere alla capitale un allargamento del potere giurisdizionale da loro detenuto? Come venivano recepite queste pressioni all’interno degli organismi legislativi e giudiziari della Serenissima? E stato notato come tra i caratteri costitutivi dell’autorita negli Stati della prima eta moderna giochi un ruolo fondamentale il concetto dell’onore dell’officiale. Concetto che, smarrendo la originaria valenza feudale-cavalleresca, assume una coloritura tutta particolare e risulta assai difficilmente definibile con una formula univoca. Per l’area lombarda, una suggestiva documentazione archivistica consente di cogliere una sostanziale bipolarita, una continua oscillazione — sia nelPattivita degli ufficiali inviati a rappresentare l’autorita nelle podesterie del Dominio, sia nelle intenzioni del Principe — tra la percezione di un ruolo sopraindividuale di pacificazione e tutela dell’ordine pubblico, e l’adeguamento alle pressioni e alle aspettative locali, sovente di protezione di una delle parti in conflitto’’*. A Venezia la particolare struttura della classe dirigente, il fatto che in una Repubblica gli “officiali” incaricati dell’amministrazione della giustizia, non fossero dei sottoposti all’autorita sovrana, bensi 239
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parte della stessa, per cui una offesa rivolta loro non poteva essere assolutamente confusa con un atto “privato”, ma veniva immediatamente percepita nella sua valenza sovrapersonale, favoriva la creazione di quel sentimento dell’“honor Status nostri” — con la conseguente esigenza di una giustizia capace di colpire in modo inesorabile ed esemplare — che si irrobustisce negli ultimi due decenni del secolo, e che informa, sempre pit esplicitamente, 1 provvedimenti del Pregadi. Nel registrare la concessione della licenza di bandire da tutto il Dominio alcuni feltrini che avevano offeso, nel 1486, Francesco Pasqualigo, podesta e capitano in quella localita, si era deciso di anteporre, una premessa di ordine generale a giustificazione del provvedimento: “quoniam, ut omnes intelligunt, nihil pernitiosum esse posset Statui
nostro quam premittere quod audatia e insolentia temerariorum et presumptosuorm esset ea qua vetaret ne rectores nostri possent administrare jus et justiciam indifferenter erga omnes” !7*. Nel 1489 condizioni di favore ed una taglia estremamente vantaggiosa verranno stabilite per tutti coloro che accuseranno o consegneranno alle forze di giustizia quei “temerarii”, protagonisti, secondo quanto aveva scritto il podesta di Rovereto, dell’uccisione di un custode del castrum di Liz-
zana, e dell’incendio di alcune abitazioni dei saltari, “custodientes agrum nostrum predictum”!7°, Un sentimento dell’onorabilita degli ufficiali, di quello che rappresentavano e della necessita di tutelare il loro quotidiano operare, che tuttavia non sembra suggerire ai governanti l’adozione di strumenti di intervento e repressione straordinari. La percezione dell’emergenza di un certo problema non si identificava ancora con la messa a fuoco della sua specificita, con la precisa delimitazione dei suoi contorni. In questo contesto l’adozione da parte dell’autorita statale della normativa premiale dimostra la sua funzionalita rispetto agli equilibri giurisdizionali e alle categorie mentali
che li sottintendevano: l’intensificazione del potere di intervento dei Rettori, in deroga alla legislazione locale, si inserisce in una trama di regole e di procedure di tipo tradizionale. Ancora una volta l’allargamento della sfera dell’autorita statale non poteva che riflettersi in un contesto estremamente differenziato, cosi come doveva fare i conti con la catena di mediazioni e la diffusione di contropoteri su cui ci siamo gia soffermati. 2.40
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
Il peso della consuetudine, il ruolo giocato dalla legislazione locale, le pressioni esercitate dai ceti dirigenti piu avvertiti dello Stato da Terra, non potevano non essere recepite nei provvedimenti adottati dal Senato. Tuttavia non potevano impedire che si rafforzasse l’immagine dell’autorita dello Stato. Gia a partire dagli anni 60 del secolo é possibile notare un incremento della concessione di poteri discrezionali ai Rettori dei centri maggiori, in deroga alla lettera statutaria!’”. E che questo non costituisse meramente un problema di ordine pubblico, ma che investisse pil direttamente la realta dei rapporti giurisdizionali tra Venezia e la Terraferma, viene testimoniato dalle rimostranze avanzate, il 21 aprile 1496, dagli oratori bresciani, per il fatto che era stata attribuita al podesta la facolta di bandire gli aggressori dell’egregio cittadino Jacopo de Feroldis, presidente del prestigioso collegio dei giuristi, in difformita alla procedura prevista dalla normativa locale1’®. Esigenze di razionalizzazione e di unificazione nella politica e nel-
la prassi del diritto, che, sia pure in maniera ancora intermittente, sollecitate dai rappresentanti veneziani in Terraferma o avanzate dai membri dei consigli della capitale e mosse dalle esigenze pit: diverse, cominciavano a farsi avvertire. Il 3 novembre 1470 il podesta e il capitano di Vicenza chiedono ed ottengono la conferma di un loro ordine con cui, “ex officio... sequendo morem rectorum Verone”, ave-
vano interdetto l’uso di “arma offensibiles” nella citta e nel territorio, sia di giorno che di notte, revocando tutte le licenze fino ad allora concesse!7°, I] Pregadi, accogliendo l’istanza, ne ordinava la validita anche per Padova e distretto. Nel 1484 i capi della Quarantia Girolamo Loredan e Giovanni Marcello, sottoponendo al vaglio dello stesso consiglio la loro proposta, riescono a far estendere “ad omnia loca et civitates” dello Stato da Terra il contenuto di un decreto emanato a Verona dal provveditore sopra le Camere Francesco da Lezze'®°. Questi, dotato di ampi poteri ispettivi ed incaricato di controllare la gestione finanziaria e amministrativa di tutte le Camere fiscali del Dominio, aveva notato come, nella citta atesina, le “multe condemnationes” comminate dai rappresentanti veneziani fossero registrate “confuse et inordinate”, in modo che risultava impossibile procedere “ad satisfactionem capitalis”. La causa era da ricercarsi nella nessuna puntualita degli scrivani delle Camere — che affittavano la carica alla quale erano stati eletti — e 241
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nella scarsa solerzia con cui i rappresentanti veneziani esercitavano la loro facolta di controllo. Nell’agosto del 1472 ancora il Senato, nel rispondere ad una solenne ambasciata veronese e ad alcune lettere inviate dal podesta informative dello stato del conflitto tra comune e giusdicenti dei vicariati privati e, piu particolarmente, della prassi
instaurata dall’abbate di San Zeno che amministrava la giustizia alPinterno dello stesso palazzo dei rettori, proclamava la assoluta indivisibilita ed unicita del Dominium di fronte alla virulenza di quelle spinte particolaristiche!*!. La parte emanata dal Pregadi, sottolineando
come ormai apparisse “scissa et bipartita omnis civilis iurisdictio in diminutione honoris et dignitatis nostri Dominii”, per cui “quasi plura essent Veronae dominia, plurifaria et distincta iurisdictio”, tantoché si poteva parlare di “plures potestates”, affermava il principio per cui Pultimo appello doveva in ogni caso rientrare nelle competenze del rappresentante veneziano, e stabiliva che, da allora in avanti, pur restando ai detentori degli “iura vicariatus” il diritto di nominare i vicari, il giuramento di questi ultimi doveva essere ricevuto solo dalle mani dei rappresentanti veneziani. Altri provvedimenti senatorii, tendenti alla amplificazione del potere bannitorio dei Rettori dello Stato da Terra, stanno ad indicare le preoccupazioni e la modalita di rappresentazione, da parte della classe dirigente veneziana, nei confronti di comportamenti apertamente illegali, che scaturivano, quasi naturalmente, dall’aggravarsi e dal modificarsi di specifiche forme assunte dai conflitti sociali. E stato notato come negli Stati territoriali dell’Italia settentrionale del XV secolo
non si incontrino quelle violente manifestazioni interne alla societa rurale — prodotto del risentimento e della miseria e provocate dalallentamento dei tradizionali legami di solidarieta di ceto, di protezione e di tutela 18? —, di aperta ribellione verso |’autorita costituita, che aveva conosciuto l’Europa trecentesca e che vengono descritte quali
Pinevitabile prodotto delle tensioni sociali strutturali, che caratterizzarono il continente nell’epoca “pre-moderna”!®3. A queste pit diffuse, generali e tragiche esperienze, farebbe seguito, per il periodo e per l’area considerata da questa ricerca, una pluralita di microconflittualita, di episodi reiterati di disubbidienza, di simboliche lesioni all’immagine dell’autorita — di cui si sono gia analizzati alcuni esempi — che tuttavia non sembra mai caratterizzarsi come cosciente messa 2.42
___IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
in discussione della legittimita del governo della Serenissima. Alla ma-
turazione di questa sorta di disarticolazione interna al mondo rurale concorsero una pluralita di ragioni, esogene ed endogene ad esso. Da una parte si € notato come, proprio nel corso del *400, si verifichino fenomeni quali il sorgere di nuove realta economiche e sociali, un rinnovato interesse per la produttivita della terra, il diffondersi di contratti che favorivano, maggiormente che in passato, il movimento di beni e di capitali, e la ristrutturazione delle aziende agrarie1®*. Su questi
motivi, legati all’evoluzione dei rapporti di produzione, si innestano le ragioni dello Stato. Pensiamo all’aggravamento del carico fiscale, quale si verifica nella Terraferma veneta, richiesto dall’autorita centrale per far fronte ad una serie di impellenti urgenze, prima fra tutte quella militare1#5. Un carico fiscale che, per i meccanismi di gestione, divisione e riscossione, veniva a pesare in modo diseguale sulle citta e sui loro distretti, favorendo i patriziati urbani a danno dei comitatini. Le conseguenze di tutto cid: un pesante indebitamento del ceto rurale; l’emergere di una certa differenziazione di fortune al suo interno; il venir meno di quei diritti comunitari che rappresentavano per quello un importante punto di aggregazione e di identificazione ‘°°. A tutto questo si devono aggiungere le crisi congiunturali con il loro
tradizionale portato di fame, epidemie, carestie. Dall’intrecciarsi di questi vari momenti scaturiva una violenza parcellizzata, atomizzata, percepita dai governanti come posta in uno spazio vuoto. Pochi solitamente i complici segnalati per le diverse forme
di infrazione dell’ordine pubblico; scarsissime o nulle le solidarieta di ordine familiare o comunitario, che pure dovevano stabilirsi; stereotipe, superficiali e, ancor piii spesso, inesistenti le motivazioni di fondo che avevano prodotto un certo risentimento. Dai registri delle magistrature e dei consigli veneziani viene alla luce una tipologia di intervento estremamente variegata, che sembra adattarsi alle diverse congiunture, priva di uniformita, ma capace di cogliere in modo pragmatico, nella selva di istanze e petizioni provenienti dalla Terraferma, la possibilita di illustrare in modo convincente peculiari capacita di governo, di esternare ai sudditi il senso di una giustizia infallibile, e, soprattutto, di garantire tutela e protezione a quei ceti o individui che potevano rappresentare un importante strumento di mediazione tra governanti e governati.
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Indicativa a tale proposito la severita con cui si procede, nel corso del 1480, nei confronti degli autori di un “crimen et delictum spurcissimum et absurdum atque atrocissimum” !8’, I temerari si erano spinti fino al punto di rapire e di violentare nella villa di Rosa, giurisdizione di Bassano, una figlia vergine di Giovanni Antonio dal Baxo, del quale si sottolinea la posizione di preminenza raggiunta: “qui ex primariis comitatinis eisdem districtus est”. Nell’occasione, oltre al mandato con cui si delegava al podesta veneziano la facolta di bandire i delinquenti da tutte le terre del Dominio e dai navigli armati e disarmati, si era deciso di allargare l’informazione a tutti i rettori del Dominio, affinché i colpevoli venissero puniti in modo esemplare. I] processo di differenziazione — di ruoli, di fortune, di opportunita — che sembra coinvolgere il mondo delle campagne in questo periodo, lo scardinamento del sistema normativo che aveva scandito 1 ritmi della vita rurale, il formarsi di una serie di legami da parte di individui e gruppi con autorita e realta “esterne”, non potevano che fomentare, in chi da quel circuito rimaneva escluso, il sentimento delodio e dell’insofferenza, innescare il meccanismo della violenza. E quanto si riesce a scorgere dietro un altro provvedimento del Senato, con Cui si risponde ai rettori di Vicenza che avevano chiesto pieni poteri — affinché la punizione costituisse “exemplum et terrorem aliorum qui in posterum similia committere non audeant” — per poter
individuare e punire gli autori di un altro caso atroce!**. Il delitto in questione era stato consumato nella villa di Viraga, all’interno delle “possessiones” dell’eminente cittadino berico Antonio Loschi: due individui — “instigati diabolico spiritu, nulla precedente inimicitia neque scandalo” — avevano assalito e trucidato con tredici ferite il fattore del Loschi. Tensioni e lacerazioni che si potevano esprimere in atti disperati, contro obiettivi o funzioni che rappresentavano, a diversi livelli ge-
rarchici, ’ordine e l’autorita!®’, ma che pil spesso — e non poteva non essere diversamente, dato l’approfondirsi della divaricazione tra mondo urbano e mondo rurale — emergevano in tutta la loro virulenza nei continui danneggiamenti alle proprieta, nelle aggressioni e negli omicidi dei cives, negli attacchi agli strumenti di controllo e ai simboli dell’egemonia esercitata dalla citta!°°. Tensioni e lacerazioni di cui i governanti sembrano cogliere in misura crescente |’emergen244
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za (almeno a partire dagli anni ’70 del secolo), assieme alla necessita di disporre di strumenti adatti ad un intervento piu articolato e continuo. Era a questo livello che si cominciavano a cogliere le insufficienze e le contraddizioni prodotte da un uso indiscriminato dello stru-
mento del bando. Insufficienze che si palesano in tutta la loro ampiezza qualora si consideri l’altro grande problema strutturale che si presentava ai governanti veneziani sotto il profilo dell’ordine pubblico, e cioé quello del controllo e della repressione delle tensioni tra famiglie eminenti, della sequela di aggressioni e vendette che insanguinavano le strade dei centri cittadini!?!. Scontri, faide, lesioni simboliche dell’autorita e del prestigio delle altre famiglie; modi di condurre la lotta da parte di individui per la superiorita politica, o per il riscatto da una posizione subordinata, ben distanti dalle formalizzate procedure cui quegli stessi erano sottoposti nelle aule dei consigli civici. Sintomi di un’in-
quietudine che Venezia non poteva non cogliere, ma che probabilmente stentava ancora a focalizzare in tutta la loro concreta pericolosita. Anche in questa materia prevale la dimensione della distanza dal centro. Distanza mentale e culturale, ancor prima che geografica. Difficolta di percepire le valenze e le conseguenze dei vari conflitti, ma anche di superare la catena delle intermediazioni politiche e giurisdizionali, che, a vari livelli, si frapponevano tra centro e periferia.
Intensificazione e riorganizzazione del rapporto tra Rettori e capitale; nuovo sentimento dell’onore dello Stato; lento emergere di un indirizzo politico-amministrativo piu autoritativo rispetto al passato: linee di tendenza che é possibile riscontrare, amplificate, nell’attivita del Consiglio dei Dieci. Un allargamento delle competenze del-
Pautorita pubblica che, oltre a quanto gia detto, trova un ulteriore fattore di legittimazione nella focalizzazione e nell’articolazione del concetto di crimen lesae maiestatis 192. Si pensi ad esempio al signifi-
cativo esordio di una parte emanata nel 1475 che recita: “cum cid sia che le coadunation de ogni sorta siano periculose al stado nostro e€ apartegni a questo Conseio propter crimen lesae maiestatis”, per giustificare la comminazione di pene severe nei confronti di chi, compiendo atti di contrabbando — e cioé di un tipo di infrazione che fino ad allora non aveva destato eccessive preoccupazioni presso i go245
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vernanti, e che con molta difficolta veniva percepita come tale dagli stessi sudditi — usasse violenza, sia a Venezia che nei domini da Ter-
ra e da Mar, verso i pubblici ufficiali'!?. Nel 1484 una analoga motivazione viene addotta dal Consiglio nella commissione con cui Si invia un avogadore di comun nella podesteria di Piove di Sacco, allo scopo di fare piena luce e di istituire il pro-
cesso nei confronti di quei “comitatini” delle ville di Sant'Angelo e San Polo, che, “facta adunatione et monopolio”, si erano recati nella “curia” del rappresentante veneziano!**. Qui avevano bloccato le porte
delle abitazioni dello stesso rettore, del cancelliere e del commilitone, “ad finem quod non possent exire ad remediandum”, ed in tal modo
erano riusciti a liberare alcuni carcerati. La deliberazione stabiliva, una volta raccolte tutte le testimonianze che all’avogadore sembreranno necessarie, l’avocazione del giudizio al Consiglio dei Dieci. L’istituzione del processo, nel caso appena analizzato, era stata sottratta al rettore del centro minore e rimessa nelle mani di un avogadore e del podesta di Padova sotto la cui giurisdizione Piove di Sacco ricadeva. Allo stesso modo si procedeva per garantire alla giustizia i colpevoli dell’aggressione con ferite, che si configurava quale “cri-
men lesae maiestatis”, compiuta in una villa del distretto, ai danni di Nicolo Lippomanno, podesta di Oderzo!**. Per questo il podesta e capitano di Treviso verra investito di poteri straordinari — potendo inviare i due “capitanei ad vetita”, accompagnati da un sufficiente numero di uomini a cavallo, “tam in tota jurisdictioni sua quam alibi in nostro Dominio” —, allo scopo di stanare quei facinorosi, che sarebbero quindi stati giudicati dal Consiglio dei Dieci. Con la stessa procedura verra concessa “amplissima potestas et auctoritas” al podesta di Castelfranco che aveva denunciato ai capi dei Dieci il “turpissimum et detestandum facinus”, realizzato da alcuni incogniti, consistente nel deturpamento dell’immagine di San Marco dipinta “in vellario quoddam posito sub logia istius loci” !%°. Un rapporto sempre pit articolato questo che si viene quindi a stabi-
lire tra Consiglio dei Dieci e Rettori negli ultimi anni del secolo, di fronte all’?emergenza del problema dell’ordine pubblico, evidenziato dal numero crescente di leggi generali e provvedimenti particolari, ma ancor piu dalla precisione dei dispacci, dall’acribia e dalla cautela con 246
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
cui si cerca di penetrare il groviglio delle motivazioni che possono aver
spinto un nobile cittadino o un comitatino ad infrangere l’armonia della ben instituta repubblica, dal controllo stretto esercitato sulla formazione del processo, dal sistema di accertamento della verita, dalla continua avocazione di cause a Venezia, o dalla delega di funzioni sovrane ai patrizi inviati in Terraferma. Nel 1484 1 Dieci, per ovviare allo scandaloso comportamento di alcuni cittadini veronesi che, con lettere e libelli diffamatori, avevano offeso membri di famiglie eminenti, concederanno ai rappresentanti veneziani di intervenire secondo la procedura inquisitoria propria del Consiglio, in quanto quelPinfrazione andava giudicata non tanto come “iniuriam privatam”, quanto piuttosto come “turbationem pacifici Status nostri” 1°”. Si pensi anche all’informazione, di poco successiva, con cui si ordinava al po-
desta e capitano di Rovereto di procedere “per illum cautiorem, desteriorem, et secretiorem modum et tempus quibus fieri potest” nei confronti di tale Sebastiano Calcagnino e soci — autori di atti violenti nei confronti di alcuni “laboratores terre”, ma soprattutto sospettati di nutrire simpatie antiveneziane!8.
Un altro problema inerente alla quiete dei sudditi, cui abbiamo gia accennato, che, a causa della sua particolare urgenza, pud aver accelerato la promozione di procedure pit articolate e definite, meno generiche e meno vincolate alla sopravvivente catena delle intermediazioni politiche e culturali, ¢ certamente quello dello scontro, occasionale o organizzato in partiti e fazioni, tra famiglie emi-
nenti delle citta del Dominio, e, pit in generale, della violenza nobiliare!*°. Fenomeno, questo, che nel periodo di cui ci stiamo occupando non aveva certo ancora assunto la virulenza che conoscera di qui ad un secolo, né si era rivestito di quelle coloriture decisamente eversive ed antistatali che lo caratterizzeranno per un lungo periodo, ma che pone, tuttavia, gia a partire da questi anni, alla classe dirigente veneziana ardui problemi di disciplinamento e repressione, di immagine dell’autorita e di esatta percezione delle valenze dei conflitti. A Venezia si poteva comprendere come il garantire l’impunita per certi delitti costituisse certamente un elemento delegittimante dell’autorita sovrana, soprattutto presso le fasce ed i ceti sociali pit esposti. Esercitare una giustizia veramente efficace nei confronti di una real247
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ta, come quella dei ceti eminenti dello Stato da Terra, impermeabile ad ogni forma di irreggimentazione, contrassegnata da un esacerbato sentimento dell’onore e dell’orgoglio, usa a regolare a modo proprio e per vie interne, pacificamente o con la violenza, le differenze insorgenti all’interno delle famiglie o tra le diverse parentele, poteva rappresentare un problema insormontabile. I] potere di influenza e di condizionamento che gli inquisiti esercitavano a livello locale, riusciva a neutralizzare e a rendere ininfluenti indagini ed inquisitiones. Il 27 giugno 1489 gli avogadori di Comun, inviati a Padova con il compito di istituire un processo per un gravissimo episodio di violenza, vedranno bocciata dal Senato, a larghissima maggioranza, la proposta da loro avanzata “de procedendo” nei confronti dell’influente Antonio Dotto, civis et eques*°°. Questi, “postergata justitia et omni timore nostri Domini’, con la protezione e Pausilio di suo genero, Antonio Capodivacca, nella villa di Noventa aveva aggredito ed ucciso Antoniolo, figlio del dottore “in utroque” Giovanni Antonio Camposampiero, dopo aver convocato “monopolium et guarnimentum hominum bannitorum”. Resistenze locali e difficolta di accertamento della verita venivano denunciate nel 1492 ai capi dei Dieci anche da Girolamo Vendramin, luogotenente della Patria a Udine?°!. Questi aveva sospeso la formazione del processo riguardante una “rixa” che aveva coinvolto alcuni membri della nobile famiglia Savorgnan, da una parte, e il civis Jacopo Giusto ed i suoi affini, dall’altra, giustificandosi con il motivo che, procedendo diversamente, “tota illa civitas” avrebbe potuto al pit presto “concitari ad arma”. I Dieci giudicarono necessario, che, pur di fronte al rischio di un acutizzarsi dello scontro tra fazioni, che evidentemente coinvolgeva gruppi di famiglie, il rappresentante veneziano procedesse alla punizione che meglio conveniva alla gravita dei delitti commessi: solo in questo modo, attraverso una azione determinata ed efficace, si sarebbero potute evitare le conseguenze del tanto temuto “popularem tumultum”. Si era inoltre stabilito che l’eventuale appello alla sentenza pronunciata dal luogotenente avrebbe dovuto, data la delicatezza del caso, essere interposto allo stesso Consiglio. Una procedura, questa, decisamente straordinaria ed inusuale, che incontro all’interno dello stesso tribunale non poche resistenze: nove dei suoi com-
ponenti votarono a favore e otto si dichiararono contrari. 248
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
Allo stesso modo amplissimi poteri venivano concessi, nel 1494, ai rettori di Vicenza che avevano riferito ai Dieci come il civis Jacopo Poiana, nonostante il bando “ad inquirendum” da tutto il Dominio pronunciato contro di lui, continuasse a tenere “audacibus et factiosis condicionibus”, dimorando in una sua possessione del distretto2°. I Dieci ordinavano al capitano veneziano di riunire una “comitiva” di stipendiarii, per recarsi personalmente alla suddetta villa e catturare il Poiana, facendo perquisire la “colombara”, di cui si parlava nelle lettere inviate a Venezia, e di raderla al suolo in caso di rinvenimento di “schioppetti” o balestre. Una notevole ampiezza e discrezionalita nelle modalita di intervento e nelle procedure di indagine veniva concessa ai rettori in altri casi che possono accostarsi a quelli citati. Ancora nel 1494 ci si preoccupava di garantire alla giustizia pit severa, avocando a Venezia il processo formato dal podesta e capitano di Bassano, provocato dall’adunazione di numerosi uomini armati, organizzati da Valerio e Bernardino, figli dell’egregio cittadino Giovanni del Sale e autori di tutta una serie di gravi violenze, commesse il giorno della festa del santo patrono2°®?. Ordini di tono analogo venivano fatti pervenire al Luogotenente della Patria perché accertasse la verita delle accuse che avevano coinvolto Federico Cesalta, “unus ex primoribus civibus” di Monfalcone, incaricandolo di completare I’istituzione del processo iniziato dal rettore
del centro minore. Ad un esame del materiale processuale, condotto dai capi del Consiglio, non era infatti risultato che |’accusato fosse Pautore di quei discorsi, “alieni a bono Statu nostro”, che gli erano stati addebitati. Per cui, cosi concludevano i presidenti del tribunale, quanto raccolto “non est nobis visus sufficiens ad promovendum nos ad procedendum ad ulteriora”; si era anzi avanzato il sospetto — richiedendo pertanto al rappresentante veneziano a Udine di condurre “studiosam et secretam operam de volendo intelligere nomen denuntiantis” — che le gravissime accuse, di sedizione e di infedelta alla Serenissima, di cui era stato fatto oggetto l’inquisito, fossero l’interessato prodotto di un conflitto che affondava le sue radici nella societa locale. L’impressione che deriva dalla lettura dei tanti provvedimenti e mandati emanati dal Consiglio dei Dieci negli ultimi anni del ’400 é quella 2.49
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di un faticoso tentativo di centralizzazione e uniformazione della attivita giurisdizionale dei Rettori. Un processo complesso e sovente ancora contraddittorio, come si é visto, che sembra obbedire ad una logica interna, dei cui fini ampi settori della classe dirigente veneziana dimostrano di non avere ancora piena coscienza. I problemi sollevati in questi anni, come traspaiono dai documenti che abbiamo analizzato — dal funzionamento dei meccanismi di avocazione e di delega, alla focalizzazione di un nuovo modo di intendere la funzione del Rettore; dalla sempre piu frequente sospensione dei privilegi istituzionali e giurisdizionali delle realta soggette, al tentativo di disciplinare nuove forme di infrazione dell’ordine sociale, allargando in tal modo la sfera di influenza e di controllo dell’autorita statale; dal ruolo centrale rivestito dal Consiglio e, al suo interno, dai capi, nell’amministrazione della giustizia penale, al sempre pit contraddittorio rapporto tra legalita e autorita —, si porranno, con il nuovo secolo, al centro dell’attenzione dei governanti, venendo a costituire quell’insieme di motivi di fondo, che informeranno il dibattito attorno alla politica del diritto della Serenissima. La cautela e il timore delle conseguenze di un troppo incisivo intervento sulle strutture di potere costituite e l’avanzare di una concezione piu spregiudicata dei compiti dello Stato sono tratti caratterizzanti che sovente informano e si confondono nello stesso intervento, tanto da rendere non troppo agevole l’identificazione del motivo emergente o dominante. Nella speciale commissione con cui, all’inizio del 1489, ?avogadore Girolamo Zorzi viene inviato a Padova, per risolvere una
situazione di estrema delicatezza, si precisa come questi, dopo aver convocato in luogo opportuno 1 deputati ad utilia ed il cancelliere della
comunita, dovra, “premissa illa bona et grata forma verborum qua videbitur bene accomodata et pertinens”, dichiarare quanto cara sia la fedelissima citta alla Serenissima?°*. Ben presto, tuttavia, i cerimoniali e le formule retoriche, dovevano lasciare spazio alla sostanza dei fatti. Alcune denunce segrete, fatte pervenire ai capi del Consiglio, avevano configurato tutta una serie di inadempienze procedurali e di vere e proprie prevaricazioni, funzionali alla copertura di un omicidio, che si presumeva commesso da un nobile eques della famiglia Borromeo, che sedeva nel civico consiglio. Una rete di protezione e di omerta che sembra aver coinvolto i vertici stessi dell’organiz250
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zazione istituzionale locale: per questo si era richiesto ai deputati di rendere conto all’avogadore dei motivi che li avevano distolti dal “dare
querellam” al tempo debito all’autorita pubblica. Al rappresentante veneziano si concedeva inoltre piena liberta di esaminare i processi giacenti inespediti nell’officium maleficiorum del podesta, “faciendo, tam circa examina quam aliter, omnia illa que ipse judicaverit esse secundum honorem et justiciam Dominii nostri et intentionem huius consilii”. L’avogadore avrebbe dovuto infine esplicitare direttive ancora
pit severe riguardanti gli stessi rettori: all’ammonizione di non sottomettersi alle influenze e alle pressioni esercitate dagli influenti cittadini loro sottoposti, si aggiungeva la prescrizione di amministrare la giustizia, civile e penale, “solecitissime et diligentissime”, secondo criteri discrezionali e informati da una visione politica: “que est sola via, ut omnes intelligunt, quod ultra satisfactionem popularem resultat ad maximus decus Dominii nostri et honorem regiminum suorum”. Nello stesso periodo i Dieci elessero un avogadore straordinario, Domenico Bollani, incaricandolo di recarsi a Verona e di fare piena luce su alcune scritture pervenute a Venezia, contenenti “multa concernentia turbationem pacifici Status nostri”, soprattutto a carico di Pietro de Salernis e fratelli2°*. Gli argomenti della denuncia andavano “veraciter compresi”: per l’onore dello Stato, e per garantire il “pacificum vivere et consolationem illius civitatis”. Per questo si concedeva all’avogadore piena autorita di istituire il procedimento giudiziario, facendosi coadiuvare da quella familia — cancellieri, scrivani, coadiutori, tecnici del diritto — che a lui sembrava piu opportuna. Alla fine di questa informazione, in cui pur emergono con una certa chiarezza elementi procedurali non tradizionali, una precisazione lascia intravvedere quell’oscillazione nel giudizio e quell’incertezza cui abbiamo accennato, quasi una ritrosia di fronte all’assunzione di una
piu diretta responsabilita, la volonta di mantenere il Consiglio nell’alveo della consuetudine: l’avogadore potra mandare gli inquisiti a Venezia, dove, valutata la condizione delle prove, si decidera se si tratti “de rebus spectantibus huic consilio”. L’impulso indirizzato verso una pit diretta forma di intervento su determinati settori della vita associata, sulle norme di comportamento e su precise infrazioni dell’ordine pubblico, poteva quindi entrare in conflitto non solo con la pluralita e le tradizioni particolaristiche
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delle diverse societa locali, ma anche con le cautele di chi, all’interno del gruppo dirigente della Serenissima, paventava le conseguenze di un ampiamento — sia per gli equilibri interni alla cerchia costituzionale veneziana, sia per quelli concernenti l’insieme dei rapporti con i sudditi — delle “ragioni” dello Stato e della discrezionalita che a quelle
era connessa. Ancora una volta modalita differenti di intendere gli strumenti atti a legittimare l’autorita, che riescono a coesistere in un equilibrio instabile, senza provocare lacerazioni insanabili, e che trovano nella funzione rappresentata dai Dieci un interessante momento di sintesi. Si pensi, ad esempio, alle lettere responsive inviate nel 1486 ai rettori di Padova, con cui li si informa sui provvedimenti da prendere “ut cessent inconvenientia nocturna”, di cui si erano resi responsabili sedici incogniti, 1 quali “insultum et impetum accerrimum fecerunt contra custodias nocturnas”?°°. I rappresentanti veneziani vengono informati della necessita di rafforzare il sistema di vigilanza presso le porte e lungo le mura della citta e della possibilita di comminare pene, in deroga agli statuti urbani, a chiunque portasse armi “nocturno tempore”. Tuttavia, e questo é l’aspetto che maggiormente interessa in questa sede, si ordina ai rettori di non citare mai, “in omnibus proclamationibus fiendis”, il nome del Consiglio dei Dieci, quale autore dei provvedimenti adottati, facendoli piuttosto apparire come se fossero stati emanati dai rappresentanti veneziani “in loco”. Timore delle ripercussioni che un intervento eccessivamente severo avrebbe potuto generare presso i sudditi, volonta di non incrinare le tradizionali sfere di competenza delle singole istituzioni e delle procedure che ne connaturavano l’operato, e avocazione della funzione giudicante nelle mani dei capi dei Dieci — con tutte le conseguenze che potevano derivare da cid — costituiscono gli elementi caratterizzanti della discussione che si svolge — su proposte contrastanti degli stessi capi — nelle aule del Consiglio nel corso del 1493, sulle misure da adottare nel caso di “insultus et rixe cum adunatione armatorum”
ad opera del civis bresciano Apollonio de Bonis nella persona di un altro cittadino, Giovanni Francesco de Bochis. Secondo Giovanni Pisani la questione non poteva che rientrare nella giurisdizione del supremo tribunale: i rappresentanti veneziani, una volta formato “processum secretissimum, diligentem et veridicum”, dovranno inviarlo al piu presto ai capi del Consiglio, che si riserveranno di trasmettere 252
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
ulteriori informazioni. Francesco Badoer e Andrea Venier erano invece dell’opinione che, data la qualita del delitto, organo piu adatto ad amministrare “jus et justiciam” fosse l’Avogaria di Comun. Sara quest’ultima proposta a prevalere, con nove voti favorevoli contro sei. Se dalla documentazione del Senato deriva la sensazione che |’autorita centrale si servisse dell’attivita giudicante degli ufficiali periferici in funzione di risoluzione dei conflitti che via via si presentavano, facendo prevalere il momento della mediazione — anche se attraverso una certa formalizzazione e unificazione dei limiti di intervento dei rettori — rispetto ad un criterio maggiormente decisionale, dalla lettura delle deliberazioni del Consiglio dei Dieci si ricava l’impressione che, all’interno dell’apparato istituzionale delle Serenissima, si intuisse una diversa modalita per legittimare la propria autorita, consistente nell’uso della procedura processuale come attuazione di scelte politiche2°’. Secondo quanto gia affermato nella trattazione del problema degli appelli, non si vuole indicare una sorta di divaricazione netta tra due funzioni opposte incardinate in istituzioni separate luna dall’altra, quanto piuttosto il permanere di funzioni, culture e modalita di intervento, all’interno di un sistema caratterizzato
ancora da una notevole fluidita2°.
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NOTE 1 Polo Morosini, De rebus, p. 259 2 Sanudo, De origine, pp. 99-100. 3 Per la trattazione di Domenico Morosini, riguardante il Consiglio dei Dieci, cfr. De bene instituia, pp. 112-114. 4 Sul tema dell’uso del rito inquisitorio da parte dei Dieci, cfr. Cozzi, La giustizia e la politica, pp. 103-104; su questa procedura cfr. anche Fulin, G/’Inquisitori dei Dieci, pp. 40 e sgg. e Maranini, La costituzione di Venezia dopo la Serrata, pp. 455-460. 5 Oltre al gia citato Sanudo, De origine, cfr. anche Giannotti, Della Repubblica de’ Viniziani, pp. 116-117, si sofferma dettagliatamente sulla procedura segreta: “E notate, che quando hanno a dare sentenzia d’alcuno reo (...), non puo quello reo, né per se stesso né per altri agitare e difendere la causa sua in detto Consiglio: ma comparisce dinanzi a’ Capi, e di tutto quello che egli dice, se ne piglia nota e quando la causa da’ Capi é introdotta in Consiglio, bisogna che alcuno di loro pigli questa impresa di difenderlo: altramente non puo essere in alcun modo difeso. E ciascuna loro sentenza manca di provocazione; né da altri pud essere mutata, se non da loro stessi o da’ successori, se la cosa é tale che si possa mutare”. 6 Il testo di questa legge, in A.S.V., Maggior Consiglio, Libro d’oro, reg. 8, c. 111r. 7 Malipiero, Annali veneti, p. 492 § Cozzi, Politica, societa, istituzioni, pp. 39-47. ? Pavan-Crouzet, Police de meurs, e Ead., Violence, société et pouvoir. 10 Cozzi, La giustizia e la politica, pp. 100 e sgg., e Cervelli, Machiavelli e la crisi, pp. 380 e sgg.
11 AS.V., C.X, Misti, reg. 15, c. 169r, 14 febbraio 1459. 12 Su questo tema ricco di implicazioni etico-religiose, politiche e di mentali-
ta, cfr. Martini, I] “vitio nefando”. 13, A.S.V., C.X, Misti, reg. 15, c. 89r, 31 marzo 1456. 14 Era questo un momento di gravissima e straordinaria urgenza: un’altra parte dei Dieci, dell’11 agosto 1456 (ibid., c. 103r), stabilisce che vengano armate quattro barche con sedici uomini per ciascuna e quattro capi, direttamente eletti dai Capi del Consiglio, allo scopo di difendere da ladri et “malos homines” le abita-
zioni di “nobiles et boni cives”, che avevano abbandonata la citta, “in modum quod valde evacuata est”, a causa dell’infuriare della peste. 15 Tbid., reg. 17, c. 67r. Altri provvedimenti per ovviare a questo problema in ibid., c. 85r, 30 agosto 1469 e cc. 144v-145r, 22 gennaio 1471. 16 Ibid., reg. 15, c. 121r. Cfr. anche la parte del 4 maggio dello stesso anno con cui si rafforza una precedente deliberazione del Maggior Consiglio del 7 luglio 1450, in quanto i Signori di Notte, non osservavano la norma che imponeva loro di raccogliere le denunce di “medicos ac barberios”, per i casi di omicidio 254
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL AUTORITA
o di gravi lesioni, ibid., c. 122v. 17 Ibid., c. 46r. L’osservanza di questa norma veniva posta sotto la giurisdizione degli Avogadori, che avrebbero imposto la pena di 100 ducati a tutti i consiglieri che avessero contravvenuto ad essa. 18 Ibid.: nelle processioni ed in tutte le altre occasioni era invalsa la consuetudine, cosi osservavano i Capi, per cui un Procuratore seguiva il Doge e precedeva un Consigliere, quindi i membri delle due istituzioni si alternavano. Anche questa norma veniva sottoposta al controllo degli Avogadori. Per un inquadramento generale del problema, cfr. Muir, Il rituale civico. Analogamente, il 12 settembre 1459, un’altra parte dei Dieci, giudicava fosse conveniente alla funzione esercitata dagli Avogadori e dai Capi del Consiglio, “vestire habitum dignum officio suo, presertim quando sedent” in Maggior Consiglio ed in Pregadi. D’ora in avanti, quelli saranno tenuti a portare “vestes coloris”, e non di “lanas brunas” sotto pena di 100 ducati. L’unica eccezione alla norma era consentita in caso di morte dei genitori, dei fratelli e dei figli, per la durata massima di sei
mesi, ibid., c. 187r. 19 Ibid., c. 121r, 20 aprile 1457. 20 Di grande interesse a questo proposito l’opera di Martines, Lawyers and Statecraft. 21 AS.V., C.X, Misti, reg. 15, c. 160v: “Cum sit summo studio et diligentia procurandum quod ea qua tractantur in isto Consilio non discrepent ad ordinibus qui a Maiori Consilio dati sunt”, cosi esordivano in quell’occasione i Capi del Consiglio.
22 Ibid., c. 162r-v. 23 Ibid., c. 162r. Se cid era impedito per legge ai Consiglieri ducali (almeno quattro di loro dovevano sottoscrivere “mandata e terminationes” perché questi fossero esecutivi), i cui atti, in ogni caso, anche se legittimamente emanati, potevano essere sottoposti al controllo degli Avogadori, a maggior ragione lo si doveva impedire ai Capi dei Dieci, “qui non habent superiorem”. Pertanto si doveva ordinare che tornassero alle originarie attribuzioni, consistenti nell’introdurre la discussione delle varie parti ai consiglieri. 24 Ibid., c. 162v. “Divisio regni” annuncia “ruinam et desolationem”, avevano cosi esordito i propositori di questa norma. E avevano proseguito: per nessun motivo “huic nostre civitate et unito regimini convenit separare a se similes sibi”, né si doveva coinvolgere nella colpa di un singolo quelle case, che “sua originaria nobilitas et libertas sibi naturaliter contulerunt”.
25 Ibid., reg. 16, c. 18r, 6 maggio 1461. 26 Ibid., reg. 15, c. 158r. 27 Ibid., c. 160r-v, 17 ottobre 1458. 28 Ibid., c. 167r. Con questa legge si concedeva agli Avogadori di Comun amplissima facolta di procedere discrezionalmente contro coloro che si rendevano colpevoli di “pregerie”, cioé del tentativo di influenzare i giudici, minacciando o tentando di corrompere o facendo valere i propri legami familiari o di clan. 255
GOVERNANTI E GOVERNATI
Su tale fenomeno e sulle sue implicazioni sociali ed istituzionali per i primi anni
del XVI secolo, cfr. Cozzi, La giustizia e la politica, pp. 124-125. 29 AS.V., C.X, Misti, reg. 15, cc. 45v-46r. 30 Ibid., reg. 16, c. 117r. Si obbligavano gli stessi elettori a denunciare o ai Capi del Consiglio o agli Avogadori di Comun “per sacramentum secretissime” 1 contravventori. 31 Sulla cancelleria e sulla formazione di un ceto di burocrati nel corso del °400, sulle loro origini e la loro cultura, cfr. la ricerca di Neff, The Chancellery, condotta su un’ampia base documentaria. 32 Cozzi, Politica, societa, istituzioni, p. 142.
33, AS.V., C.X, Misti, reg. 15, c. 156r, 26 luglio 1458. Sembra che i capi del Consiglio che proposero la parte, Orsato Giustiniani e Gerolamo Barbarigo, percepissero anche un altro pericolo, quello che all’interno di un ceto privilegiato com’era quello dei Cancellieri, si formasse una sorta di élite di individui che avevano “pratica et intelligentia” del gran numero di leggi emanate nel corso del tempo. Era necessario provvedere affinché non “pauci, sed multi”, nei momenti di necessita, fossero a conoscenza della normativa. Si intuiva probabilmente come il possesso privilegiato della conoscenza delle leggi e delle procedure potesse creare notevoli problemi non solo all’interno del ceto dei burocrati, ma anche tra questi e il patriziato, o almeno una parte dei esso. Era questo un problema delicatissimo di ordine costituzionale, che pud contribuire a spiegare il nesso sempre piu stretto che si verra a stabilire tra Consiglio dei Dieci e burocrati. Ed era proprio sui caratteri di quel legame che si concentreranno i nobili fautori delle correzioni del Consiglio nel 1582-1583 e nel 1628; cfr. su questo Cozzi, Politi-
ca, socteta, istituzioni, p. 143. 34 ALS.V., C.X, Misti, reg. 16, c. 65v. 35 Cfr. Pimportante intervento di poco precedente alla legge sopra citata in ibid., c. 64r, 2 giugno 1462. 36 A conferma di questa domanda di legittimazione che viene interposta sia da singoli che da istituzioni al Consiglio dei Dieci, cfr. la supplica, sulla quale non é stato possibile rinvenire altri particolari, interposta dai notai che rogavano a Venezia, ibid., reg. 15, c. 7Or, 27 agosto 1456. Questi avevano chiesto di poter costituire “unum collegium” per motivi che purtroppo la deliberazione dei Dieci non specifica. I capi Lorenzo Loredan, Stefano Trevisan e Vittore Cappello avevano proposto che si confermassero le istanze dei notai, ma che gli “ordines et reformationes quas facere voluerint debeant obstendere capitibus huius consilii et approbari per capita antedicta”, ma non avevano certo convinto i consiglieri della bonta dei loro argomenti: solo quattro infatti votarono a favore e dodici furono i contrari. Vi era probabilmente dietro la proposta dei notai quel bisogno di organizzazione e di controllo interno che aveva determinato la formazione dei collegi notarili della Terraferma. Alla radice del rifiuto opposto dai Dieci Si puo ipotizzare il timore, se non proprio della costituzione di un contropotere almeno, della istituzionalizzazione di un corpo che era pit facile controllare attraverso i canali tradizionali. 256
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
37 ‘Tvi, S. T., reg. 2, c. 6r, 4 ottobre 1462. Con questa legge si stabili inoltre una contumacia di un anno per ogni deputato uscente, e si proibi la contemporanea elezione di due membri appartenenti alla stessa casata. Per una analisi di questa
riforma cfr. Ventura, Nobilta e popolo, pp. 80-82. 38 Jvi, S. Mi., reg. 54, cc. 87v-88r; Ventura, Nobilta e popolo, pp. 120-125, ricorda come le norme stabilite in Pregadi vennero accolte negli statuti cittadini del 1425. 39 A.S.V., C.X, Misti, reg. 16, c. 5Ov. 40 Law, Venice and the “Closing” of Veronese Constitution, pp. 94-98, per la ricostruzione del dibattito che si svolse a Verona, e per le forme di “resistenza”, attuate da una parte cospicua della classe dirigente locale. Cfr. anche Varanini, Note sui Consigli, pp. 390 e sgg.
41 A.S.V., C.X, Misti, reg. 15, c. 150r. 42 Cfr. anche ibid., reg. 16, c. 40v, 13 ottobre 1461, dove al fedelissimo Simone, in quanto fu con la sua famiglia tra i “principali” che fecero fallire il “tractatus” antiveneziano di Jacopo Scrovegni, viene concessa la possibilita di godere per due rettorati della carica di cancelliere a Piove di Sacco. 43 Ibid., c. 47v. Con una legge messa ai voti nella stessa seduta, si cercava di mettere ordine nella controversa materia. I capi avevano richiamato gli estremi di una parte del Consiglio risalente al 14 febbraio 1453 che proibiva ai membri dello stesso organismo, sotto la pena di cento ducati, di concedere vicariati, “cancellerias, scribanias, massarias, connestabelarias, cavalcarias at alia similia”. Tale deliberazione come si vede da tanti episodi non viene osservata. Andra pertanto ribadita, con una importante precisazione tendente a legittimare eventuali futuri margini di intervento discrezionale da parte dei Dieci: “reservata libertate istius consilii pro casibus status qui occurrent in futurum”. Per conflitti analoghi
a quelli sopra analizzati, cfr., ibid., reg. 15, c. 1611; reg. 16, cc. 38r, 79r, 80r, 101r. 44 Cozzi, Politica, societa, istituzioni, pp. 225-226. 45 A.S.V., S. T., reg. 4, c. Sr, 22 settembre 1458. 46 Come é stato efficacemente dimostrato da Dupuigrenet Desroussilles, L’Universita di Padova, passim. 47 Knapton, Il Consiglio dei X, p. 239, e Tagliaferri, L’amministrazione ve-
neziana in Terraferma, p. 131. 48 AS.V., C.X, Misti, reg. 15, c. 151r. 49 Ibid., c. 187r, dove si possono anche leggere le norme che i capi del Consi-
glio detteranno ai rettori patavini per estinguere il credito. 50 Ibid., c. 124r. Questo episodio rivela un certo dibattito interno alle istituzioni veneziane sul ruolo e la funzione del Consiglio dei Dieci, ed il rapporto tra questo e l’Avogaria di Comun. Torneremo pit dettagliatamente su questo aspetto, per il momento basti ricordare come anche il terzo capo del consiglio, Nicolo Miani, aveva preso la parola per sottolineare come queste materie fossero indegne del prestigio e dell’autorita del supremo tribunale, che spettavano agli Avo-
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GOVERNANTI E GOVERNATI
gadori e che era giusto che questi esercitassero la loro giurisdizione, secondo quanto stabilivano le leggi della Serenissima. Gia l’anno precedente, si ricordava, quella
differentia aveva superato le mura dello studio patavino ed era giunta all’esame dei Capi, che avevano ordinato agli Avogadori di risolverla “de eorum voluntate”, favorendo il rettore — atto che era proceduto, questa la conclusione cui sembra giungere il Miani, con evidente diminuzione della liberta dell’antica magistratu-
ra. Tuttavia, la proposta verra votata solo da quattro consiglieri contro dieci. 51 Ibid., c. 144r. 52 Ibid., reg. 16, cc. 95v-96r. 53 [bid., c. 47r, 17 dicembre 1461. 54 Ibid., cc. 18v-19r. 55 Sulla imposizione della Decima agli ecclesiastici, cfr. Del Torre, Venezia
e la Terraferma, pp. 85 e sgg. 56 AS.V., C.X, Misti, reg. 16, c. 196r. 57 Sulla figura di Ermolao Barbaro e la sua non pacifica convivenza con Ve-
rona, cfr. Marchi, Ermolao Barbaro il vecchio, pp. 311-318. 58 AS.V., C.X, Misti, reg. 16, c. 85r, 9 marzo 1463. 59 Nell’ottobre dello stesso anno i capi stabiliranno che il giudicare su quella “differentia” non spettava ai Dieci, in quanto per la maggior parte si trattava di “bona fiscalia vendita per Cameram nostram”, una materia su cui, cioé, si era sempre deliberato in consiglio dei Pregadi, ibid., c. 102v, 7 ottobre 1463. Dove é ancora interessante notare come il patriziato veneziano affidasse al Consiglio dei Dieci, in questa congiuntura di meta °400, una funzione quasi di sondaggio, di sperimentazione di talune inedite soluzioni politiche. Una modalita di esercizio dell’autorita, che ben lungi dal realizzare uno svuotamento dei tradizionali organi di governo e dall’annullare le consuete forme e procedure, costituisce tuttavia una modalita di concentrazione del potere e di coordinamento delle diverse istanze, che venivano sia dalle istituzioni veneziane che dalla societa della Terraferma.Un potere di intervento, questo raggiunto dai Dieci nella delicatissima materia ecclesiastica, che trovera modo di manifestarsi, nel corso del secolo, anche in modo piu diretto nei confronti degli altri organi sovrani: il 28 giugno 1486 i Dieci annullavano una parte del Senato, emanata il giorno prima, con cui si convalidava il conferimento in commenda, registrato in una bolla pontificia, dell’abbazia benedettina di San Giorgio in Bosco, sita nella diocesi di Ceneda, al reverendo Nicolo Franco, legato papale a Venezia. I capi avevano immediatamente ordinato che “contrascripta pars non exequatur, sed sit et remaneat irrita et non habeat executionem et effectum”, in quanto contrastante con precedenti deliberazioni
del Consiglio, risalenti al 1483, con cui si era concesso il beneficio, del valore di 250 fiorini annui, all’abbate Antonio Graziadei, ivi, S.T., reg. 10, c. 16v. 69 Ivi, C.X, Misti, reg. 22, c. 100v, 17 settembre 1489. 61 Ibid., reg. 15, c. 59v, 17 febbraio 1460. Questo provvedimento é anche citato in Almagia, Monumenta Italiae, p. 12. 62 Knapton, I/ Consiglio dei X, p. 246 e Mallett, Mercenaries and their 2.58
IL CONSIGLIO DEI DIECI E IL PROBLEMA DELL’AUTORITA
Masters, p. 88, che nota come in tutta una serie di aspetti della “war policy” solitamente controllati da Senato — quali la tutela delle aree di confine, di vigilanza su condottieri della Repubblica investiti di feudi, di controllo sulle fortificazioni —, vi sia, nel corso del secondo Quattrocento, una crescente intrusione del Consiglio dei Dieci. 63 A.S.V., C.X, Misti, reg. 15, c. 90v. Allo scopo di rendere ancora pit severa l’applicazione di questa legge, i capi che la proposero fecero mettere ai voti anche alcune “strettezze”: le concessioni su cui d’ora in avanti si pronuncera il Consiglio, non saranno ritenute valide, se non ci sara la partecipazione di una Zonta di almeno dieci membri, e se non riceveranno almeno i tre quarti delle ballotte. 64 Friedmann, I/ sistema giuridico, pp. 203-209.
65 A.S.V., C.X, Misti, reg. 15, c. 94r. 66 Grubb, Firstborn, p. 45. 67 Cfr. infra, pp. 215 e segg. 68 AS.V., C.X, Misti, reg. 15, c. 47r. L-importanza della questione é confermata dal fatto che, come avveniva solo per i maggiori problemi costituzionali o riguardanti la sicurezza dello Stato, venne nominata una Zonta di 30 membri
allo scopo di garantire una discussione il pit completa ed articolata possibile. Alla fine la proposta dei capi ottenne una larga, ma non completa, maggioranza: 20 voti favorevoli, 6 contrari e 4 astenuti. Si stabili, infine, che quella legge non poteva venir revocata se non dallo stesso Consiglio con la Zonta.
69 Ibid., c. 60r. 70 Ibid., reg. 16, c. 79v. La sollecitudine dei Dieci era determinata anche dal fatto, come recita la parte, che il “periculosus morbus” della disobbedienza aveva contagiato anche “Judices et offitiales” della capitale. 71 Ibid., reg. 22, c. 21r. Per ottenere questa sorta di aumento della forza coattiva dei loro mandati in virté dell’intervento dei capi dei Dieci, i Consiglieri che sottoscrivevano la Ducale dovevano essere almeno quattro. 72 Ibid., c. 61r. Si era stabilito che il rispetto di questa legge fosse posto sotto il controllo dei capi del Consiglio e degli Avogadori di Comun. 73 Ibid., reg. 21, c. 114r-v. Il potere di punire questo tipo di infrazione, con una ammenda di 100 ducati veniva lasciato all’Avogaria. Si imponeva inoltre che le clausole di rito previste per i Rettori: “ego accepto hoc Regimen nomime Dominii venetiarum” e “consigno vobis hoc regimen nomine Dominii Venetiarum”, fossero registrate in tutte le commissioni dei rappresentanti veneziani, in modo che essi non si potessero pili scusare “per ignorantiam”.
74 Ibid., reg. 15, c. 111v, 24 novembre 1456. 75 Tbid., reg. 21, c. 114r-v. 76 Cfr. Cozzi, Politica, societa, istituziont, pp. 67-68, sulla guerra di Ferrara, ma soprattutto sulle ripercussioni di ordine mentale sul patriziato. 77 Cosi si concludeva significativamente Pepistola dei capi del Consiglio: procurate di convocare 1 rappresentanti della fedelissima citta, “et cum omni bona,
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GOVERNANTI E GOVERNATI
larga et dulci forma verborum extinguere et emendare hoc scandalo et pariter abstergere studeatis” ogni rancore che potrebbe allignare nei loro cuori; “intenditis toto tempore vostri regiminis observare inviolabiliter et inconcusse” i privilegi e gli statuti cittadini (la sottolineatura ¢ mia). Vi ammoniamo che, d’ora in avanti, nei confronti dei bresciani “tam in particulari, et tam verbo quam opere, quod manifeste et per bonos effectos ostendatis et probetis illis vos gerere pacatissimum et iustissimum animum erga eos”. Alla fine si ordinera di inviare al Con-
siglio dei Dieci il giudice che era stato alla radice di tanto scandalo. 78 Cfr. per la situazione generale degli Stati italiani, Chittolini, Introduzione, pp. 20 e sgg. 7”? AS.V., C.X, Misti, reg. 12, c. 155r, 27 giugno 1444. 80 Ventura, Nobilta, p. 43, legge in termini forse troppo estensivi la volonta politica espressa da questa legge. Secondo Ventura proprio lo stabilirsi delle cosiddette “strettezze”, dimostrerebbe che Venezia “non si sentiva affatto vincolata da tali pretesi patti”. In termini pid elastici e concreti, rispetto a quella che sembra la realta di fatto dei rapporti di potere tra la Dominante e la Terraferma, si esprime Law, Verona and the Venetian State, p. 13, che ritiene che dietro tale proposta, oltre alle esigenze di corretto funzionamento delle istituzioni, vi fosse innanzitutto l’intenzione di raggiungere una specie di compromesso tra i “principi giuridici” e le pil pragmatiche esigenze politiche. Su questa linea anche Knapton, I/ Consiglio dei X, p. 242.
1 A.S.V., C.X, Misti, reg. 14, c. 30v. 82 Cfr. i vari provvedimenti del 1449, 1450 e 1454, in ibid., reg. 13,c. 101r, e reg. 14, cc. 33v e 125v-126v: i primi due sono di ordine pit generale, nel terzo campeggiano le proteste degli ambasciatori patavini contro gli interventi degli auditori-sindaci che non si attenevano alla commissione del Maggior Consiglio che ordinava loro di controllare solo l’operato dei rettori e delle loro “familie”, e non degli ufficiali di nomina urbana, com’era stato concesso per privilegio alla citta. 83 Ibid., reg. 15, c. 61v. E interessante notare come la tradizionale risoluzione adottata dai Dieci non incontri pid P’incondizionata approvazione dei patrizi veneziani, come viene dimostrato dall’incerto risultato della votazione (solo otto i voti favorevoli alla proposta, contro quattro contrari e tre “non sinceri”), ma, tuttavia, né in questa occasione, né in altre successive, si penso di assumere una differente posizione di principio. Si era inoltre stabilito di porre la legge “pro informatione et contentamento communitatum et subditorum nostrorum”, sia nelle commissioni dei Rettori che nei capitolari degli Auditori, affinché “per ignorantla se excusare non possint”. | 84 Ivi, S. r., reg. 5, ¢. 181r. Si pud notare come anche in questo settore l’amrato ql enna da regal ee nab cenanene st
di Comun. Bach, © Come si ¢ gia notato, degli Avogadori . Bee