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Donne
interpreti della Bibbia nell’Italia della prima età moderna COMUNITÀ ERMENEUTICHE E RISCRITTURE
Donne
interpreti della Bibbia nell’Italia della prima età moderna COMUNITÀ ERMENEUTICHE E RISCRITTURE
Erminia Ardissino
Collection | Études Renaissantes Dirigée par Philippe Vendrix & Benoist Pierre
2020
centre d'études supérieures de la renaissance Université de Tours - Centre National de la Recherche Scientifique
Impaginazione, progetto grafico e copertina Alice Nué - CESR © 2020, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of the publisher. ISBN 978-2-503-59103-2 E-ISBN 978-2-503-59104-9 DOI 10.1484/M.ER-EB.5.121255 ISSN 1783-0389 E-ISSN 2565-9529 Printed in the EU on acid-free paper. D/2020/0095/302
In copertina: Hans Memling, The Annunciation, ca. 1465–70, oil on wood, New York, The Metropolitan Museum of Art, Gift of J. Pierpont Morgan, 1917.
Ringraziamenti Questo volume è il frutto di un lungo percorso, cui hanno contribuito a vario titolo diversi studiosi. A loro va la mia più viva riconoscenza. Con questo progetto partecipai al COSTAction IS 1301 Project New Communities of Interpretation. Contexts, Strategies and Processes of Religious Transformation in Late Medieval and Early Modern Europe, diretto da Sabrina Corbellini, che ringrazio per averlo accolto e per i molti utili scambi di opinioni e prospettive di ricerca. Un vivissimo pensiero di gratitudine va a Élise Boillet, con cui ho lavorato e ancora lavoro nel suo progetto “The Laity and the Bible. Religious Reading in Early Modern Europe”, che mi ha consentito di fare ricerca con una fellowship, finanziata dall’Institute for Advanced Studies Le Studium – Loire Valley, Orléans, presso il Centre d’études supérieures de la Renaissance (CESR) di Tours. All’allora direttore di Le Studium, Nicola Fazzalari, e ai direttori del CESR che ho incontrato, Philippe Vendrix e Benoist Pierre, va la mia gratitudine, anche per aver accolto il volume nella loro collana Études Renaissantes. Estendo il mio grazie a tutti gli studiosi dei due centri e ai partecipanti del COST, perché ho trovato lì comunità scientifiche assai vivaci e straordinariamente collaborative. Infine (last but not least!) desidero dimostrare il mio grato pensiero verso coloro cui sono debitrice a vario titolo da lunga data: ai miei direttori di tesi di dottorato, Giuseppe Mazzotta a Yale e Agostino Sottili (in memoriam) in Cattolica (Milano), cui devo sempre moltissimo, ai professori che hanno ispirato alcune mie scelte, Robert Babcock, Andrea Battistini, Louis Dupré, Claudio Scarpati, ai colleghi cui mi lega una diuturna amicizia, umana e intellettuale: Maria Teresa Girardi, Elisabetta Selmi, Pierantonio Frare, Alessandro Vettori. Un ricordo particolare va al compianto Eraldo Bellini.
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Avvertenze Nelle trascrizioni dai testi antichi gli interventi sono limitati all’essenziale: distinzione di u da v anche nei titoli, modernizzazione degli accenti, dei segni diacritici e della punteggiatura, regolarizzazione delle maiuscole secondo l’uso moderno. Il Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto Italiano dell’Enciclopedia, si citerà con il solo titolo, seguito dal numero del volume e dall’anno di pubblicazione. Il testo biblico di riferimento è Biblia sacra iuxta vulgatam versionem, a cura di R. Weber et al., Stuttgart, Deutsche Bibelgeselshaft, 1985 (1969). I libri biblici sono abbreviati secondo l’uso consueto: Gn = Genesi Ex = Esodo Nm = Numeri Idc = Giudici 1-2 Sam = Primo e secondo libro di Samuele 1-2 Re = Primo e secondo libro dei Re Est = Libro di Ester Iud = Libro di Giuditta Tb = Libro di Tobia Iob = Libro di Giobbe Ps = Salmi Prv = Proverbi Sir = Siracide o Ecclesiastico Ct = Cantico dei Cantici Ger = Geremia Lam = Lamentazioni
Dn = Daniele Mt = Vangelo secondo Matteo Mc = Vangelo secondo Marco Lc = Vangelo secondo Luca Gv = Vangelo secondo Giovanni At = Atti degli Apostoli 1-2 Cor = Prima e seconda lettera ai Corinzi Eph = Lettera agi Efesini Eb = Lettera agli Ebrei Rom = Lettera ai Romani 1-2 Tim = Prima e seconda lettera a Timoteo
Ap = Apocalisse
Il volume è inedito. Solo alcuni passi del capitolo su Lucrezia Tornabuoni riprendono l’introduzione all’edizione di Lucrezia Tornabuoni, Poemetti biblici. Istoria di Ester e Vita di Tubia (Lugano, Ancora, 2015) da me curata. Ringrazio l'editore per la concessione a utilizzare quelle pagine. 9
Introduzione Molte sono le pubblicazioni di questi ultimi decenni che portano nel titolo il binomio donne/Bibbia1. Tale abbondanza è rivelatrice di interessi che si sono fatti strada negli studi solo di recente, sotto l’impulso concomitante dello sviluppo dei gender studies, che hanno allargato l’attenzione alle donne, determinando nuove esigenze conoscitive e nuove prospettive d’indagine, dell’estensione delle ricerche ad ambiti meno esplorati, su cui la documentazione archivistica, guardata con specifica attenzione e nuove aperture, si è rivelata di un’inattesa ricchezza, e ancora per un nuovo interesse verso le problematiche religiose suggerito dall’agenda storico-politica.
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Senza contare le pubblicazioni sulle donne nella Bibbia, ma solo quanto riguarda l’epoca qui considerata, abbiamo anzitutto i contributi del gruppo internazionale di studio Bible and Women (, consultato il 26/05/2020), di cui diamo la versione in italiano, ma il gruppo pubblica i suoi contributi in quattro lingue (inglese, tedesco, spagnolo, oltre all’italiano, editi da Society of Biblical Literature-Press per l’inglese, da Hohlhammer per il tedesco, da Editorial Verbo Divino per lo spagnolo): Donne e Bibbia nella crisi dell’Europa cattolica (secoli xvi–xvii), a cura di M.L. Giordano e A. Valerio, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2014; Donne e Bibbia nel Medioevo. Secoli xii–xv tra ricezione e interpretazione, a cura di K.E. Børresen e A. Valerio, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2012; La Querelle des Femmes. La Bibbia e le donne, a cura di A. Muñoz Fernàndez e X. Von Tippelskirch, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, in stampa. A questi si possono aggiungere: Bibbia, donne, profezia a partire dalla Riforma, a cura di L. Tomassone e A. Valerio, Firenze, Nerbini, 2018; Le donne della Bibbia. La Bibbia delle donne. Teatro, letteratura, vita, a cura di R. Gorris Camos, Fasano, Schena, 2012; Donne e Bibbia. Storia ed esegesi, a cura di A. Valerio, Bologna, EDB, 2006; La Bibbia nell’interpretazione delle donne. Atti del Convegno di studi del Centro Adelaide Pignatelli, Napoli, 27–28 maggio 1999, a cura di C. Leonardi, F. Santi e A. Valerio, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2002. Per l’ambito anglosassone: Women and the Bible in Early Modern England. Religious Reading and Writing, a cura di F. Molekamp, Oxford, Oxford University Press, 2013; Women’s Bible Commentary, a cura di C.A. Newsom, S.H. Ringe, J.E. Lapsley, Louisville, Westminster John Knox Press, 2012; Writing Lives. Women and the Bible in Early Modern England, a cura di K. Sharpe e S.N. Zwicker, Oxford, Oxford University Press, 2012; Feminist Interpretation. The Bible in Women’s Perspective, a cura di L. Schottroff, S. Schroer e M.T. Wacker, tr. ing. M. e B. Rumscheidt, Minneapolis, Fortress, 1998. Dalla Francia, ma con una prospettiva europea: Les femmes et la Bible de la fin du Moyen Âge à l’époque moderne. Pratiques de lecture et d’écriture. Italie, France, Angleterre, a cura di É. Boillet e M.T. Ricci, Paris, Champion, 2017.
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In particolare per l’Italia, che nella prima età moderna ha conosciuto una partecipazione femminile alla vita culturale e religiosa che si può dire straordinaria in confronto al panorama europeo e globale, si è arrivati tardi rispetto ad altri contesti europei, non tanto per l’indagine sul ruolo svolto dalle donne, quanto per l’esplorazione (e quindi valorizzazione) del fenomeno religioso e del contributo femminile all’interno delle sue dinamiche2. Ora l’ambito di ricerca è dunque in grande fermento e sta offrendo contributi capaci di modificare profondamente la narrazione della storia culturale dell’Italia all’epoca, quindi di mutare la percezione che abbiamo sempre avuto del contributo femminile alla vita intellettuale di quella fervida stagione3. Perché allora proporre un’indagine che pone nuovamente il focus sulle donne e su come hanno interagito con il testo sacro per eccellenza del mondo cristiano? Quali nuove prospettive e conoscenze si possono offrire? E su quali basi? Proprio nella risposta a quest’ultima questione sta la ragione prima della proposta, poiché tanti e di tale rilievo sono i testi che abbiamo messo insieme da poter offrire sostanziali apporti, che possono, se non rivoluzionare le conoscenze acquisite, certo almeno integrarle e arricchirle, rivoluzionando però il quadro finale: la rappresentazione della cultura e letteratura della prima età moderna in Italia4. 2
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Per ‘prima età moderna’ intendiamo infatti il periodo che in genere chiamiamo Rinascimento, ma esteso ad includere la seconda metà del Quattrocento e il primo Seicento, che in Italia di fatto furono ambedue periodi già e ancora caratterizzati da istanze culturali molto simili a quelle del pieno Rinascimento. Ovviamente molteplici sono gli studi che hanno affrontato il contributo delle donne italiane alla vita religiosa nella prima età moderna, derivati sia dalle discipline storiche sia dalla critica letteraria, il cui titolo però non include il binomio donne-Bibbia, si pensi anche solo ai fondamentali studi di Gabriella Zarri. Non si possono qui elencare tutti gli studi, a cui si rimanderà di volta in volta a seconda delle problematiche trattate. Per uno sguardo complessivo si veda la sezione Religion nel The Ashgate Research Companion to Women and Gender in Early Modern Europe, a cura di A.M. Poska, J. Couchman e K.A. McIver, Farnham, Ashgate, 2013, pp. 13–172. La critica letteraria ha prestato relativamente poca attenzione a questa tipologia di testi, ovviamente non mancano gli studi sulle singole voci, da Vittoria Colonna, a Lucrezia Marinella, le più studiate, ma anche su Moderata Fonte, Arcangela Tarabotti, Laura Battiferri, studi che citeremo di volta in volta nei capitoli pertinenti. Solo recentemente i contributi di Virginia Cox restituiscono in qualche modo l’ampiezza di questa produzione femminile, anche se l’attenzione della studiosa è rivolta alle scritture femminili in genere, profane e sacre: Virginia Cox, Women’s Writing in Italy, 1400–1650, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2008; Ead., The Prodigious Muse. Women’s Writing in Counter-Reformation Italy, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2011. I recenti volumi della serie La Bibbia nella letteratura italiana (editi da Morcellania, Brescia) offrono alcuni utili saggi (nel volume V. Dal Medioevo al Rinascimento, a cura G. Melli e M. Sipione, 2013: Guido Laurenti, «Le poetesse e la Bibbia: Vittoria Colonna, Veronica Gambara e Gaspara Stampa», pp. 569–590; nel volume VI. Dalla Controriforma all’età napoleonica, a cura di T. Piras e M. Belponer, 2018: Sabrina Stroppa, «Le mistiche e la Bibbia del Seicento», pp. 191– 218). Il Dizionario biblico della letteratura italiana, dir. da M. Ballarini, Milano, ITL, 2018, per il periodo qui considerato offre i seguenti articoli: Maria Teresa Girardi, «Colonna Vittoria e altre
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Mettendo insieme i molti tasselli di riscritture bibliche per mano di donne che dai poemetti biblici di Lucrezia Tornabuoni, ovvero dalla seconda metà del Quattrocento, all’azione drammatica di Maria Clemente Ruoti, della quarta decade del Seicento, passando per gli scritti di Vittoria Colonna, le sacre rappresentazioni di Antonia Pulci e Raffaella Sernigi, i pamphlet polemici in difesa della dignità della donna di Lucrezia Marinella e Arcangela Tarabotti, le narrazioni in ottava rima di Moderata Fonte e ancora di Lucrezia Marinella, gli avvii di poemi epici biblici di Laura Battiferri e Maddalena Salvetti Acciaioli, i sermoni di Domenica da Paradiso, le traduzioni dei salmi o i commenti di Laura Battiferri e di Chiara Matraini, vi è materiale in abbondanza per creare un capitolo della letteratura italiana al femminile tutto improntato sulla Bibbia, dialogante con le storie e i testi sacri oltre che con il canone letterario italiano, tale da mostrare l’incidenza che questa produzione ebbe nella storia della letteratura italiana5. La critica si è tardi accorta di queste presenze: se due dei poemetti biblici della Tornabuoni hanno dovuto attendere il secondo decennio del nuovo millennio per uscire a stampa, nonostante fossero una rara testimonianza di poesia nel ‘secolo senza poesia’, per di più di mano femminile, sarà evidente la disattenzione che la critica ha avuto nei confronti di questo universo, tanto da rendere nuova e necessaria appunto una riflessione mirata a questa produzione. Tale trascuratezza è spiegabile con il disinteresse tutto italiano per certi ambiti di ricerca, che riguardano le espressioni spirituali, di cui un emblematico esempio è dato dalla carenza di studi sulla sterminata produzione rinascimentale di poesia spirituale, di cui parlava già Amedeo Quondam in uno storico saggio, che ha solo parzialmente smosso le acque6. La novità però dei testi che abbiamo raccolto e che qui studiamo è anche quella di essere testimoni di una specifica ricezione della Bibbia e di un peculiare indirizzo
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petrarchiste», pp. 267–272; Simona Brambilla, «Macinghi Strozzi Alessandra», pp. 545–547; Maria Grazia Bianchi, «Pulci (Tanini) Antonia», pp. 797–800, Luca Mazzoni, «Tornabuoni Lucrezia», pp. 968–971. Il focus qui sono le riscritture bibliche, come chiariremo più avanti, quindi si sono ignorate scrittrici che mostrano di avere presente la Bibbia, ma che non ne fanno oggetto specifico di rielaborazione, come avviene per molte mistiche e per altre scrittrici che sulla Bibbia si sono fondate, ma che non hanno prodotto una riscrittura, come Veronica Gambara, Olimpia Morata, Giulia Gonzaga, Maria Maddalena de’ Pazzi, Caterina Vigri, Camilla Battista da Varano. E tuttavia, anche seguendo solo questo obiettivo, si sono tralasciati alcuni importanti contributi, come il discorso mariano di Maddalena Campiglia o le rime sul rosario di Francesca Turini Bufalini, perché l’altro criterio del nostro percorso è determinato dalle comunità ermeneutiche, elemento aggregante dei lavori indagati, secondo coordinate intellettuali (più che geografiche), come si vedrà più avanti. Amedeo Quondam, «Note sulla tradizione della poesia spirituale e religiosa», Studi e (testi) italiani, XVI, 2005, pp. 127–282. Si veda ora l’ulteriore contributo sul tema: Id., «Note sulla tradizione della poesia spirituale e religiosa (parte seconda)», in Lirica e sacro tra Medioevo e Rinascimento (secoli xiii–xvi), a cura di L. Geri e E. Pietrobon, Roma, Aracne, 2020, pp. 129–248.
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interpretativo da parte dello stesso universo femminile con cui le autrici si sono trovate a interagire. Non solo essi sono il frutto del contesto in cui sono maturati e con cui dialogano inevitabilmente, costituendo degli apporti dinamici all’interno delle comunità che li hanno prodotti, ma si rileva anche l’esistenza di un fil rouge che li lega e che sembra attestare che le loro autrici erano tra loro in dialogo, un dialogo assai spesso ‘virtuale’, che avveniva talora a distanza di anni, anche dopo la morte della scrittrice, con il testo da lei lasciato. Come scrive Xenia von Tippelskirch, che sulla lettura delle donne in quest’epoca ha condotto importanti studi, «La lettura è una prassi che implica sempre interazioni sociali, a partire dall’ovvia relazione che si instaura tra lettore e scrittore. Pur essendo apparentemente un’esperienza individuale, con essa si diventa parte di una comunità di lettori7». Firenze, Venezia, e il circolo valdesiano che interessò il Centro Italia si sono imposti alla nostra considerazione come comunità interpretative femminili sulla base delle risultanze che queste donne interpreti ci hanno lasciato. L’interazione di cui danno testimonianza le loro scritture è ovviamente anzitutto quella con la realtà in cui sono maturate, ma anche e soprattutto quella che abbiamo potuto rintracciare dai testi, cioè quella che si è creata leggendo e che in seguito ha determinato gli interessi, i pensieri, le linee interpretative, le scelte scrittorie di chi è venuto dopo. Ho così individuato delle comunità ermeneutiche generate dall’interazione tra le scrittrici (o le loro scritture), oltre che sulla base di un dialogo intenso con la restante parte della comunità in cui le autrici sono vissute8. Le donne si leggevano, leggevano la realtà che le circondava e si posero in dialogo, un dialogo vivo e fecondo,
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Xenia von Tippelskirch, Sotto controllo. Letture femminili in Italia nella prima età moderna, Roma, Viella, 2011, p. 9. Il concetto di comunità di lettori è desunto dal capitolo «Communautés de lecteurs» di Roger Chartier, Culture écrite et société. L’ordre des livres (xive–xviiie siècle), Paris, Albin Michel, 1996, pp. 133–154. Con il termine ‘comunità ermeneutica’ (che sarà meglio spiegato più avanti, cfr. infra) traduco il concetto di communities of interpretation, che è maturato negli studi storici e nella critica letteraria e che risulta molto appropriato per gli studi religiosi. In questo ambito il concetto è alla base del Cost Action New Communities of Interpretation: Contexts, Strategies and Processes of Religious Transformation in Late Medieval and Early Modern Europe, diretto da Sabrina Corbellini, che in effetti si proponeva lo studio dei nuovi gruppi ermeneutici che si erano creati a fianco della respublica clericorum dal momento in cui i laici erano divenuti protagonisti sullo scenario religioso (su questi aspetti si veda il Memorandum of Understanding del Cost IS 1301: file:///Users/ mac/Downloads/IS1301-e.pdf ). Per lo più il concetto si applica alle comunità di lettori che nel periodo tardo-medievale effettivamente si creavano per beneficiare della lettura dei testi, ma non meno valido appare per quelle imagined communities che si creavano su comuni ideali, principi, letture, opinioni. Per una prospettiva storica cfr. Kathryn A. Smith, «A ‘Viewing Community’ in Fourthenth-Century England», in The Social Life of Illumination. Manuscripts, Images, and Communities in the Late Middle Ages, a cura di J. Coleman, M. Cruse, K.A. Smith, Turnhout, Brepols, 2013, pp. 121-176.
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anche se spesso ‘virtuale’, che conferma una linea interpretativa che sollecitava le autrici e che evidentemente rifletteva le esigenze che il contesto ispirava. Accostarsi alla Bibbia All’origine c’è la lettura. Si sa che per le donne l’accesso all’istruzione è venuto tardi, molto tardi, e che fu ostacolato enormemente dal ruolo sociale assegnato alla donna sulla base delle sue funzioni familiari, come se non potessero, quelle funzioni stesse di madre e domina, giovarsi di una migliore istruzione9. Si sa che, tranne rare e splendide eccezioni, solo con l’Umanesimo si iniziò a pensare, in casi molto fortunati, di offrire anche alle figlie la possibilità di un’istruzione, che talora giunse ad altissimi livelli, come furono i casi di Isotta Nogarola e Cassandra Fedele, e che nello stesso periodo altre donne giunsero per loro volontà a crearsi gli strumenti per l’accesso al mondo della parola scritta, come avvenne per Margherita Bandini Datini, che apprese a scrivere solo con il marito e per la sua attività10. Si sa che la svolta avvenne nella società mercantile della prima età moderna, che fu moderna anche in questo, per le opportunità offerte alle donne di accedere all’universo della scrittura, e che la stampa accelerò in molti modi tale accesso, rendendolo più eco9
Sull’apprendimento della lettura e scrittura da parte delle donne in Italia all’epoca si possono vedere: Christiane Klapisch-Zuber, «Le chiavi fiorentine di Barbablù. L’apprendimento della lettura nel secolo xv», Quaderni storici, LVII, 1984, pp. 111–171; Tiziana Plebani, Il ‘genere’ dei libri. Storie e rappresentazioni della lettura al femminile e al maschile tra Medioevo ed età moderna, Milano, FrancoAngeli, 2001, pp. 39–40; Judith Bryce, «Les livres des Florentines. Reconsidering Women’s Literacy in Quattrocento Florence», in At the Margins. Minority Groups in Premodern Italy, a cura di S.J. Milner, Minneapolis, University of Minnesota Press, 2005, pp. 133–161; Tiziana Plebani, «Scritture di donne nel Rinascimento italiano», in Il Rinascimento italiano e l’Europa. II. Umanesimo ed educazione, a cura di G. Belloni e R. Drusi, Treviso, Angelo Colla, 2007, pp. 243–263; Luisa Miglio, Governare l’alfabeto. Donne, scrittura e libri nel Medioevo, Roma, Viella, 2008, in particolare pp. 57–76; Sabrina Corbellini, «The Voice of Silence: Women, Books and Religious Reading in the Late Medieval European Urban Environment», in Ser mujer en la ciudad medieval europea, a cura di J.A. Solorzano Telechea, B. Arizaga Bolumburu e A. Aguiar Andrade, Logroño, IER, 2013, p. 457–474; Tiziana Plebani, Le scritture delle donne in Europa. Pratiche quotidiane e ambizioni letterarie (secoli xiii–xx), Roma, Carocci, 2019; Luisa Miglio, «Per la conoscenza della cultura grafica delle donne (xv–xvi): qualche riflessione e pochi esempi», Women Language Literature in Italy. Donne Lingua Letteratura in Italia, I, 2019, pp. 13–30. 10 L’ampia educazione umanistica sui classici ricevuta da Isotta Nogarola (ma anche dalla sorella Ginevra) e da Cassandra Fedele è ben nota. Cfr. Margareth L. King e Albert Rabil, Her Immaculate Hand: Selected Works by and about the Women Humanists of Quattrocento Italy, Binghamton, Center for Medieval and Early Renaissance Studies, 1983, pp. 11–13; Lorenzo Carpané, «Nogarola, Isotta», in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXVIII, 2013, pp. 680– 683; per Cassandra Fedele cfr. Franco Pignatti, «Fedele, Cassandra», in Dizionario Biografico degli Italiani, XLV, 1995, pp. 566–568; l’introduzione di Diana Robin a Cassandra Fedele, Letters and Orations, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2000, pp. 3–16. Per la Datini si veda T. Plebani, Le scritture delle donne in Europa, op. cit., pp. 40–41; Ann Crabb, The Merchant of Prato’s Wife. Margherita Datini and her World, 1360–1423, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 2015.
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nomico, dotandolo di utili strumenti, dando alla parola stampata una divulgazione popolare (anche se a questo livello la fruizione non era diretta, ma per lo più mediata, ovvero fruita con l’ascolto di letture)11. Si sa anche che, se la Chiesa cattolica da una parte limitava l’accesso ai libri e persino al suo libro per eccellenza, dall’altra la stessa Chiesa con le scuole della dottrina cristiana favorì l’alfabetizzazione a livello massiccio, di ‘putte’ e di ‘putti’, che ebbero così modo di avere minimi strumenti per la pratica della lettura12. Se molti erano i mezzi di conoscenza della Bibbia, la predicazione sopra tutti, l’ascolto di letture ad alta voce, l’iconografia, gli spettacoli (a vari livelli: dalla recita canterina al mistero sacro, alla sacra rappresentazione), nessuno eguagliò la lettura come strumento di autocosanpevolezza e come incentivo alla produzione di scritture, nessun altro strumento consentì allo stesso modo alla donna di essere agente della sua scrittura. Infatti solo la lettura offrì la possibilità di dare il via a un rapporto diretto con il libro sacro, creando così le condizioni per domande e offerte, anche femminili, a cui furono molto sensibili tipografi e operatori editoriali. Anche se è vero che leggere non significa automaticamente emanciparsi, perché l’accesso ai testi soprattutto per le donne era filtrato da un controllo sociale a vari livelli (ecclesiastico, statale, ma anche familiare e locale) che impediva una libera fruizione di quanto poteva essere a disposizione, va tuttavia sottolineato che la lettura fu un ineguagliato fattore di agency per le donne, perché «la lettura nutre la scrittura», perché solo dalla consapevolezza data dalla lettura si genera la forza di cimentarsi in una prova destinata a diventare pubblica13. È in effetti nella seconda metà del Quattrocento che si hanno in Italia i primi rilevanti interventi di donne protagoniste della scrittura, che tra l’altro proprio con la Bibbia si confrontarono e dalla Bibbia trassero ispirazione, perché quello era il libro con cui le donne più si relazionarono (o, in sostituzione, i libri di devozione dalla Bibbia ispirati)14. In questa pratica viene anticipato quanto avverrà per i laici 11 «La civiltà tipografica fu un fattore decisivo di cambiamento per lo sviluppo dell’alfabetizzazione delle donne, le donne rappresentavano le capofila dell’universo popolare» (T. Plebani, Le scritture delle donne in Europa, op. cit., p. 59). Si vedano i fondamentali studi di Elizabeth Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, tr. it. D. Panzieri, Bologna, Il Mulino, 1985 e Le rivoluzioni del libro. L’invenzione della stampa e la nascita dell’eta moderna, tr. it. G. Arganese, Bologna, Il Mulino, 1995. 12 Sull’alfabetizzazione dovuta alle scuole della dottrina cristiana cfr. Miriam Turrini, «“Riformare il mondo a vera vita christiana”: le scuole del catechismo nell’Italia del Cinquecento», Annali dell’Istituto storico Italo-Germanico in Trento, VIII, 1982, pp. 407–489. 13 La citazione da T. Plebani, Le scritture delle donne in Europa, op. cit., p. 18, in cui si trova anche una dettagliata analisi di questi meccanismi. I limiti posti alla lettura per le donne nella prima età moderna sono sottolineati da X. von Tippelskirch, Sotto controllo, op. cit. 14 Sulla scrittura in ambito devozionale in genere: Katherine Gill, «Women and the production of religious literature», in Creative Women in Medieval and Early Modern Italy. A Religious and
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del mondo protestante del xvii secolo nel Nord Europa. Come ha rilevato Kate Narveson, la lettura della Bibbia trasformò il lettore, creando nuove identità e nuove abilità, in primis di scrittura: Encountering the Bible turned people into skilled readers and, even more excitingly, into writers. In particular, it gave women a literary voice with new levels of authority and self-awareness. By the mid-17th century, the experience of Bible reading and the many forms of writing that it prompted had brought about a profound change in English culture15.
Lo stesso possiamo dire delle donne italiane, con un anticipo di un secolo almeno, che trovarono nella lettura della Bibbia una fonte d’ispirazione per le loro scritture. Con l’affermarsi della scrittura femminile e della soggettività delle donne, queste ebbero a disposizione nuove modalità di comprendere se stesse, di interpretare gli accadimenti, di narrare la propria esperienza con il trascendente. La scrittura generò una crescente consapevolezza che nel rapporto con i testi sacri trovò alimento e fondamento16. La Bibbia era ovviamente centrale non solo per la cultura femminile. Molti sono i dati che attestano una vigorosa presenza della Bibbia tra le letture degli Italiani. Il censimento dei volgarizzamenti biblici ha conteggiato 344 manoscritti17; quello delle Bibbie italiane a stampa dei secoli xv e xvi conta novantun edizioni, parziali o totali, in centotrenta anni18. Alle traduzioni occorre aggiungere i rifacimenti per la liturgia, le riscritture, le riorganizzazioni compendiarie o erudite, le ricodifica-
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Artistic Renaissance, a cura di E.A. Matter e J. Coakley, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1994, pp. 64–85; Donna, disciplina, creanza cristiana dal xv al xvii secolo. Studi e testi a stampa, a cura di G. Zarri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1996. Kate Narveson, Bible Readers and Lay Writers in Early Modern England: Gender and SelfDefinition in an Emergent Writing Culture, Aldershot, Ashgate, 2012. Cfr. Adriana Valerio, «La Bibbia al centro. La renovatio ecclesiae e l’emergere della soggettività femminile (sec. xii–xv)», in Donne e Bibbia nel Medioevo, op. cit., pp. 15–43: 16–17. Cfr. Lino Leonardi, «I volgarizzamenti italiani della Bibbia (sec. xiii–xv). Status quaestionis e prospettive per un repertorio», in Bibles italiennes, Mélanges de l’École Française de Rome, Moyen Âge, CV, 2, 1993, pp. 837–844: 864. Si tratta dell’«Inventario dei manoscritti biblici italiani», a cura di M. Chopin, M.T. Dinale e R. Pelosini, premessa di Lino Leonardi, indici di J. Dalarun, ibid., pp. 863–886. Si veda ora anche la descrizione dettagliata di 134 manoscritti biblici in Le traduzioni italiane della Bibbia nel Medioevo. Catalogo dei manoscritti (secoli xiii– xv), a cura di L. Leonardi, C. Menichetti e S. Natale, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2018. Si vedano poi i contributi relativi alla tradizione manoscritta in La Bibbia in italiano tra Medioevo e Rinascimento. La Bible italienne au Moyen Âge et à la Renaissance. Atti del Convegno Internazionale, Firenze, Certosa del Galluzzo, 8–9 novembre 1996, a cura di L. Leonardi, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 1998. Edoardo Barbieri, Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento. Storia e bibliografia ragionata delle edizioni in lingua italiana dal 1471 al 1600, Milano, Editrice Bibliografica, 1991–1992. Cfr. anche Edoardo Barbieri, Panorama delle traduzioni bibliche in volgare prima del Concilio di Trento, Milano, CRELEB–Università Cattolica, 2011; Giampaolo Garavaglia, «Traduzioni bibliche a stam-
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zioni in funzioni varie, per la meditazione, la devozione, l’intrattenimento19. Della fecondità della presenza della Bibbia per gli Italiani è inoltre testimone la letteratura, che da san Francesco a Dante, da Petrarca a Boccaccio, da Ariosto a Tasso, da Bembo a Marino (per parlare solo dei secoli di nostro interesse), insieme con molti minori che hanno attinto abbondantemente alla Bibbia, rende evidente quanto il testo biblico fosse presente nelle abitudini di lettura degli Italiani, laici ed ecclesiastici, più o meno colti20. Dopo la condanna all’Indice delle traduzioni bibliche, gli Italiani rimasero desiderosi di tali letture, specie le donne, come dimostrano abbondantemente le ricerche d’archivio che ci hanno restituito, per lo più in lettere, la domanda costante che veniva rivolta alle autorità ecclesiastiche per impetrare il permesso di disporre di una Bibbia volgare, in particolare da e per le suore21. Il libro pa tra Quattrocento e Settecento», in Bibles italiennes, op. cit., pp. 857–862; Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, La Bibbia. Edizioni del xvi secolo, a cura di A. Lumini, Firenze, Olschki, 2000. 19 Rimando per documentare l’importanza di questi mediatori al Repertorio della letteratura biblica a stampa in volgare (ca 1462–1650), a cura di E. Ardissino e É. Boillet, Turnhout, Brepols, in stampa, che conta più di 3500 voci che attestano la pervasività di questo genere sul mercato librario italiano; si vedano anche: Lino Leonardi, «The Bible in Italian», in The New Cambridge History of the Bible: From 600 to 1450, a cura di R. Marsden e E.A. Matter, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 268–287; Emidio Campi e Marian Delgado, Bibles in Italy and Spain, in The New Cambridge History of the Bible. From 1450 to 1750, a cura di E. Cameron, Cambridge, Cambridge University Press, 2016, pp. 358–383; Gli Italiani e la Bibbia nella prima età moderna. Leggere, interpretare, riscrivere, a cura di E. Ardissino e É. Boillet, Turnhout, Brepols, 2018. 20 Per la Bibbia in Dante: Stanley V. Benfell, The Biblical Dante, Toronto, University of Toronto Press, 2011; Carolynn Lund-Mead e Amilcare Iannucci, Dante and the Vulgate Bible, Milano, Bulzoni, 2012; Giuseppe Ledda, La Bibbia di Dante, Torino, Claudiana, 2015; in Petrarca: Giovanni Pozzi, «Petrarca, i Padri e soprattutto la Bibbia», in Id., Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 143–189; Giulio Goletti, «“Scriptura qua utimur”: la Bibbia del Petrarca», Quaderni Petrarcheschi, XVII-XVIII, 2007–2008, p. 629–677; in Boccaccio: Lucia Battaglia Ricci, «La Bibbia nelle opere di Giovanni Boccaccio. Un contributo agli studi», in Antichi e moderni, studi in onore di Roberto Cardini, a cura di L. Bertolini e D. Coppini, Firenze, Polistampa, 2010, pp. 51–62; Matteo Leonardi, «Boccaccio “gran maestro in Iscrittura”. La citazione delle Scritture in funzione ironica e tragica nel Decameron», in «Umana cosa è aver compassione degli afflitti…». Raccontare, consolare, curare nella narrativa europea da Boccaccio al Seicento. Atti del Convegno di Torino per il settimo centenario di Boccaccio (12–14 dicembre 2013), a cura di E. Ardissino, G. Carrascòn, D. Dalmas e P. Pellizzari, numero monografico di Levia Gravia. Quaderno annuale di letteratura italiana, XV–XVI, 2013–2014, pp. 31–46; in Tasso: Ottavio Ghidini, Tasso tra Liberata e Conquistata: la Bibbia, i Padri, la liturgia, Bologna, I libri di Emil, 2019; per Ariosto, Bembo, Marino si vedano le relative voci rispettivamente di Uberto Motta, Valentina Marchesi, Rosaria Antonioli nel Dizionario biblico della letteratura italiana, op. cit., pp. 67–75, 113–117, 582–588. In generale Sotto il cielo delle scritture: Bibbia, retorica e letteratura religiosa (secc. XIII–XVI). Atti del Colloquio organizzato dal Dipartimento di italianistica dell’Università di Bologna, Bologna, 16–17 novembre 2007, a cura di C. Delcorno e G. Baffetti, Firenze, Olschki, 2009. 21 Sulle censure relativamente alla Bibbia fondamentale è Gigliola Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471–1605), Bologna, Il Mulino, 1997; Church, Censorship and Culture in Early Modern Italy, a cura di G. Fragnito, tr. ing. A. Belton, Cambridge, Cambridge University Press, 2001; Gigliola Fragnito, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2005. Si vedano anche Vittorio
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sacro era davvero entrato nella quotidianità e negli affetti dei laici, che non sapevano rinunciarvi, e da qui si generò una domanda che trovava nelle riscritture, anche da parte di donne, la risposta. Le riscritture che qui presentiamo non nacquero in seguito a tale domanda (forse con la sola eccezione degli scritti biblici di Lucrezia Marinella), ma servirono per rispondere a questa domanda di letture fondanti la fede. Le scrittrici non si indirizzavano solo alle donne, ma implicitamente il loro pubblico era costituito da quelle in grado di leggere, per cui rispondevano ai loro gusti, mettendo in campo figure femminili che potessero interessarle in qualche modo. Se le testimonianze sono molteplici, occorre ancora porsi la domanda, che abbiamo indicato per prima: Come le donne hanno interagito con il testo sacro per eccellenza del mondo cristiano? Quali furono i loro canali di accesso? Quale Bibbia ebbero per le mani, se sapevano leggere? Le donne avevano ovviamente molte modalità di accesso alla Bibbia, prima ancora della lettura, come abbiamo detto, vi erano l’iconografia, il canto (le laudi soprattutto), gli spettacoli, le processioni, le feste, anche civili, tutte occasioni in cui in qualche modo il testo sacro interferiva con l’ideazione. Giocavano un ruolo istruttivo anche le forme devozionali in genere, le preghiere in comune, la recita dell’officio, del rosario, le quarantore: tutti modi per sviluppare la conoscenza della storia della salvezza. Vi erano anche canali più ristretti, come gli incontri spirituali, le conversazioni, le letture condivise22. Sopra tutti però la predicazione era sicuramente il tramite per eccellenza dell’accostarsi al mondo biblico: diretta a tutti, offriva molto senza necessità di saper leggere23. Il ca-
Frajese, Nascita dell’Indice. La censura ecclesiastica dal Rinascimento alla Controriforma, Brescia, Morcelliana, 2008; Giorgio Caravale, L’orazione proibita. Censura ecclesiastica e letteratura devozionale nella prima età moderna, Firenze, Olschki, 2003 (edizione inglese: Forbidden Prayer. Church Censorship and Devotional Literature in Renaissance Italy, tr. ing. P. Dawson, Farnham, Ashgate, 2011). La domanda di letture da parte di donne è ben documentata da Gigliola Fragnito, «Censura ecclesiastica e identità spirituale e culturale femminile», Mélanges de l’École Française de Rome, Italie et Méditerranée, CXV, 2003, pp. 287–313; cfr. anche X. von Tippelkisch, Sotto controllo, op. cit., pp. 100–117. 22 Sulle modalità di fruizione del testo biblico fino alla prima età moderna: Gordon Campbell, «“Fides ex Auditu”, Hearing and Reading the Bible», in Lay Readings of the Bible in Early Modern Europe, a cura di E. Ardissino e É. Boillet, Leiden-Boston, Brill, 2020, pp. 21–32. 23 Adriana Valerio sottolinea per esempio come gli scritti delle mistiche appaiano influenzati nel Medioevo dai Passionpredigt, i sermoni sulla Passione, e come le opere di Domenica da Paradiso risentano della scuola esegetica domenicana e della predicazione del Savonarola: cfr. Adriana Valerio, «Per una storia dell’esegesi femminile», in La Bibbia nell’interpretazione delle donne, op. cit., pp. 3–21: 8–9. Rita Librandi individua l’influenza dell’oratoria sacra nella scrittura di Caterina da Siena: cfr. Rita Librandi, «Stile e traduzione delle citazioni bibliche nelle Lettere di Caterina da Siena», in Donne e Bibbia nel Medioevo, op. cit., pp. 265–274: 267–268; Ead., «La Bibbia riportata di Caterina da Siena», in The Church and the Languages of Italy before the Council of Trent, a cura di F. Pierno, Toronto, PIMS, 2015, pp. 111–127. In generale sulla comunica-
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techismo per i fanciulli era il fondamento di queste pratiche, anche se non sempre trattava della Bibbia; esso consisteva piuttosto nei principi del Credo e della vita religiosa, nell’insegnamento dei Comandamenti, delle preghiere basilari e di un orientamento generale sui fondamenti teologici e spirituali della vita cristiana, che davano la chiave di comprensione delle varie esperienze. Se l’accesso avveniva tramite la lettura, ovviamente un privilegio di poche, è difficile dire quale Bibbia era nelle mani delle donne. Abbiamo la Bibbia di Lyon, una versione volgare che sappiamo destinata a Lucrezia de’ Medici24. Ma Isotta Nogarola avrà letto una Bibbia latina, come pure, un secolo dopo, Laura Battiferri, che traduce i salmi penitenziali. Ci sono però anche abbondanti testimonianze di donne che leggevano la Bibbia volgare25. A loro peraltro i traduttori l’avevano destinata, come si legge nella lettera che introduce la traduzione del Malerbi e nella prefazione della traduzione del Brucioli (presto messa all’Indice)26. Nel mondo cattolico il testo di riferimento era, prima e dopo Trento, la Vulgata, ma molte delle notizie che abbiamo sulle letture bibliche di donne appartengono alle comunità eterodosse, che si svilupparono in Italia nella prima metà del Cinquecento, che potevano usare anche la Bibbia del Brucioli o quelle stampate fuori d’Italia. In ogni caso la Bibbia era filtrata dai commenti e da una sedimentazione di glosse, oppure era conosciuta tramite parafrasi, per cui non è facile ricostruire la fonte da cui originano le riscritture27.
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zione omiletica: Eliana Corbari, Vernacular Theology and Audience in Late-Medieval Italy, Berlin, De Gruyter, 2013. Edoardo Barbieri, «Sulla storia della Bibbia volgare di Lione», La Bibliofilia, XCIX, 1997, pp. 211– 233; Annarosa Garzellli, «Una Bibbia miniata per Lucrezia Tornabuoni: l’apporto di Gherardo e di Monte», in Cicli e immagini bibliche nella miniatura. Atti del VI congresso di Storia della Miniatura, Urbino 3–6 ottobre 2002, a cura di L. Alidori, Firenze, CentroDi, 2003, pp. 231–240. Si vedano gli interessanti esempi offerti da Lucia Felici, «“Col capo velato”. Castelvetro, san Paolo e le eretiche modenesi», in Le donne della Bibbia. La Bibbia delle donne, op. cit., pp. 93–110; Tiziana Plebani, «Nascita e caratteristiche del pubblico di lettrici tra Medioevo e prima età moderna», in Donna, disciplina, creanza cristiana, op. cit., pp. 23–44; S. Corbellini, «The Voice of Silence: Women, Books and Religious Reading in the Late Medieval European Urban Environment», art. cit.; Ead., «Donne e Bibbia nell’Italia tardomedievale: letture e lettere», in Les femmes et la Bible de la fin du Moyen Âge à l’époque moderne, op. cit., pp. 19–36. Un notevole esempio di donne lettrici, persino produttrici di libri, è la comunità religiosa di San Iacopo a Ripoli, che a fine Quattrocento gestiva una tipografia. Cfr. Edoardo Barbieri, «Per il Vangelo di san Giovanni e qualche altra edizione di San Iacopo a Ripoli», Italia medioevale e umanistica, XLIII, 2002, pp. 383–400. Rimando alle citazioni che riporto nel capitolo «Venezia scritturale», vedi ultra. È quanto sostengono anche Ferrer e Valette per le riscritture bibliche da loro considerate: «L’œuvre seconde est une appropriation de réécritures antérieures ou de filtres institutionnels. Il n’existe pas vraiment de tête-à-tête mais un brassage virtuose de sources diverses, une accommodation personnelle d’écrits préexistants, une émulation d’auteurs à auteurs […]. La réécriture sous-tend une histoire du texte biblique qu’elle sélectionne suivant des critères théologiques et des exigences poétiques, propres à chacune». Véronique Ferrer e Jean-René Valette, «La Bible
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Non sempre i manuali di comportamento rivolti alle donne favorivano la lettura della Bibbia. Se il diffusissimo trattato De institutione feminae christianae di Luis Vives raccomandava di non esporre le giovani a testi pericolosi, ma di mettere a loro disposizione i libri del Nuovo Testamento e alcuni testi dei Padri della Chiesa, altri manuali, come il diffuso Decor puellarum, ritenevano alcuni libri biblici pericolosi28. Ma era la tradizione stessa a portare la Bibbia nelle mani delle donne. Il modello fondativo della dimestichezza delle donne con la Bibbia era offerto da quelle donne che condivisero con san Gerolamo le letture bibliche e a cui erano indirizzate lettere sulla sua traduzione29. Per la familiarità delle donne con la Bibbia nella prima età moderna una spinta fondamentale venne dagli ordini mendicanti, che coinvolsero profondamente i fedeli e cambiarono la vita e lo sviluppo delle città italiane. Il loro messaggio evangelico attrasse molto le donne, sul modello di santa Chiara d’Assisi e santa Caterina da Siena. Se Chiara, fondatrice di un ordine monastico, quello delle Clarisse, di larghissima e immediata diffusione nell’Italia e nell’Europa medievale, sul modello di Francesco, ha lasciato pochissimi scritti, dalla sua esperienza e dalla sua regola monastica è però evidente quanto la sua spiritualità fosse fondata sul modello evangelico, che era assunto a vera scuola di vita, come raccontano molti episodi della sua biografia. In tutti i suoi scritti sono riconoscibili diversi riferimenti scritturali e soprattutto risulta ben evidente il motivo biblico centrale della spiritualità francescana, ovvero vivere la perfezione del Vangelo, mettendo in atto una perfetta imitatio Christi. L’osservanza del Vangelo è un principio ribadito ripetutamente nelle regole: per lei, come per Francesco, il vero libro era Cristo30. Quello francescano fu il primo contesto in cui le donne poterono sviluppare in ampia misura il loro contributo alla vita religiosa e la loro battaglia per difendere il loro modo di concepire una vita dedicata a Dio. Sono ben note le enormi difficoltà che Chiara incontrò nell’avere approvata la sua regola, e come alla fine la sua battaglia fosse persa, ma il fatto che un ordine indipendente fosse creato e autorizzato all’interno della spiritualità francescana rappresentava già una conquista nell’affermare la diversità della voce femminile e il suo diritto a svilupparsi. littéraire», in Écrire la Bible en français au Moyen Âge et à la Renaissance, a cura di V. Ferrer e J.-R. Valette, Genève, Droz, 2019, pp. 261–294: 286. 28 Cfr. X. von Tippelskirch, Sotto controllo, op. cit., p. 182. Di Giovanni da Dio da Venezia il Decor puellarum fu pubblicato già nel 1471 (Venezia, Jenson), su cui: Dilwyn Knox, «Civility, Courtesy, and Women in the Italian Renaissance», in Women in Italian Renaissance Society and Culture, a cura di L. Panizza, New York, Legenda, 2000, pp. 2–17. 29 Cfr. Andrew Cain, The Letters of Jerome. Asceticism, Biblical Exegesis, and the Construction of Christian Authority in Late Antiquity, Oxford, Oxford University Press, 2009. Ringrazio Claudio Moreschini per avermi segnalato questo saggio. 30 Martina Kreidler-Kos, «“Come una seconda Rachele, avendo sempre presente il punto di partenza”. Chiara d’Assisi e la Bibbia», in Donne e Bibbia nel Medioevo, op. cit., pp. 219–235.
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Nacque così una prospettiva antropologica bifocale in ambito religioso che molto contribuì allo sviluppo della spiritualità femminile. In questa sua lotta per seguire le orme di Francesco per una vita di assoluta povertà la familiarità con la Bibbia fu per Chiara un importante supporto31. Altrettanto evidente è il fondamento biblico della spiritualità di santa Caterina da Siena, ma meglio esplicitato e presentato nelle sue opere con ripetuti riferimenti alle Sacre Scritture, che talvolta la senese cita fedelmente, altre volte adatta al proprio discorso, con amplificazioni o riduzioni, per renderle funzionali al contesto a cui l’opera è destinata, a rafforzamento del suo messaggio32. Assai spesso Caterina aggiunge la sua interpretazione ai passi che cita, facendo leva sulle conoscenze condivise dal destinatario e creando quasi un commento al passo33. Anche per lei il messaggio fondamentale è quello evangelico, a cui adatta la propria vita. Molto spesso cita e usa le lettere paoline, ma soprattutto è l’insegnamento di Cristo a dare vigore alla sua parola. Cristo è il «libro della vita», la «catedra» da cui viene ogni insegnamento evangelico, la «scuola del Verbo derelitto34». La parola scritturale si fonde per lei con quella profetica in modo inscindibile, infondendo forza al suo messaggio. Il valore della Bibbia è rapportato a Cristo, in lui tutto si è manifestato, ma resta da realizzarsi la dimensione storica della Chiesa che ha nell’Apocalisse il suo ultimo capitolo. L’esempio di santa Caterina risulta nell’Italia della prima età moderna assai incisivo, perché offrì alle donne una modalità alternativa di vivere la
31 Sul seguito di santa Chiara presso le donne si vedano: Giovanni Gonnet, «La donna presso i movimenti pauperistico-evangelici», in Movimento religioso femminile e francescanesimo nel secolo xiii. Atti del VII convegno internazionale Assisi 11–13 ottobre 1979, a cura di R. Rusconi, Assisi, Società Internazionale di Studi Francescani, 1980, pp. 101–129; Movimento religioso e mistica femminile nel Medioevo, a cura di P. Dinnzelbacher e D. Bauer, Milano, Edizioni Paoline, 1993; Uno sguardo oltre: donne, letterate e sante nel movimento dell’Osservanza francescana. Atti della prima giornata di studio sull’Osservanza francescana al femminile (Foligno 2006), a cura di P. Messa e A.E. Scardella, Assisi, Porziuncola, 2007, pp. 25-77, in particolare pp. 54-63. 32 Cfr. Rita Librandi, «Stile e traduzione delle citazioni bibliche nelle Lettere di Caterina da Siena», in Donne e Bibbia nel Medioevo, op. cit., pp. 265–274; Francesco Santi, «La Scrittura nella scrittura di Caterina da Siena», in Dire l’ineffabile. Caterina da Siena e il linguaggio della mistica, Firenze, SISMEL-Edizione del Galluzzo, 2006, pp. 42–69; Id., «La Bibbia di Caterina da Siena», in La Bibbia nell’interpretazione delle donne, op. cit., pp. 77–84. Sulle pratiche scrittorie di Caterina: Marina Zancan, «Lettere di Caterina da Siena», in Ead., Il doppio itinerario della scrittura, Torino, Einaudi, 1998, pp. 113–153. 33 Sulle modalità traduttorie della Bibbia da parte di santa Caterina, si veda Jane Tylus, «Early Modern Women Translators of the Sacred», Women Language Literature in Italy. Donne lingua letteratura in Italia, I, 2019, pp. 31–43, in particolare 34–35. 34 Le citazioni sono tratte dalla lettera a Raimondo da Capua in Santa Caterina da Siena, Le lettere, a cura di U. Meattini, Milano, Ed. Paoline, 1987, p. 1135, n. 226. Una esemplificazione di passi su Cristo-libro è nel saggio di F. Santi, «La Bibbia di Caterina da Siena», op. cit., p. 80.
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vita cristiana, senza la chiusura in luoghi deputati, ma in una comunità di terziari in contatto con il mondo35. La partecipazione dei laici alla vita religiosa, che gradualmente si era affermata dal xii secolo in Italia e in Europa soprattutto con la costituzione delle confraternite, aveva favorito anche l’intervento femminile, coinvolgendo le donne in un ruolo attivo che consentì di impegnare i loro carismi per la comunità36. Le nuove possibilità offerte dalle attività delle confraternite o delle compagnie devozionali e l’apertura ai laici per l’organizzazione della vita religiosa offriva alle donne nuove occasioni per un magistero attivo, anche come mecenate o in opere di carità, e soprattutto un ruolo creativo nella scrittura e nelle arti sacre37. Il nostro studio conferma quanto la storiografia ha ormai accertato, ovvero che anche nel mondo cattolico la riforma tridentina non significò per le donne solo
35 Sul seguito di Caterina: Karen Scott, «Urban Spaces, Women’s Networks, and the Lay Apostolate in the Siena of Catherine Benincasa», in Creative Women in Medieval and Early Modern Italy. A Religious and Artistic Renaissance, op. cit., pp. 105–119; Karen Scott, «Catherine of Siena Apostola», Church History, LXI, 1992, pp. 34–46; «Virgo digna coelo». Caterina e la sua eredità. Raccolta di studi in occasione del 550o anniversario della canonizzazione di santa Caterina da Siena (1461–2011), a cura di A. Bartolomei Romagnoli, L. Cinelli e P. Piatti, Roma, LEV, 2013. Sulle forme di religiosità laicale per le donne rimando a Giulia Barone, «Società e religiosità femminile (750–1450)», in Donne e fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di L. Scaraffia e G. Zarri, Bari, Laterza, 2009, pp. 61–114, in particolare pp. 87–99; Gerald Parsons, The Cult of Saint Catherine of Siena. A Study in Civil Religion, Aldershot, Ashgate, 2008; Il velo, la penna e la parola. Le domenicane. Storia, istituzioni e scritture, a cura di G. Zarri e G. Festa, Firenze, Nerbini, 2009. 36 Sul ruolo crescente dei laici nella vita religiosa e sul ruolo delle confraternite, essenziali sono: Bernard Hamilton, «Religion and the Laity», in The New Cambridge Medieval History, c.1024– c.1198, a cura di D. Luscombe e J. Riley-Smith, Cambridge, Cambridge University Press, 2004, vol. II, pp. 499–533; Scripture and Pluralism. The Study of the Bible in the Religiously Plural Worlds of the Middle Ages and the Renaissance, a cura di T. Heffernan, Leiden-Boston, Brill, 2005; «Wading Lambs and Swimming Elephants». The Bible for the Laity and Theologians in the Late Medieval and Early Modern Era, a cura di W. François e A. den Hollander, Leuven-Paris-Walpole, Peeters, 2012; sul rapporto tra il mondo laico e la Bibbia: Sabrina Corbellini, «Reading, Writing, and Collecting: Cultural Dynamics and Italian Vernacular Bible Translations», Church History and Religious Culture, XCIII, 2013, pp. 189–216; Discovering the Riches of the Word. Religious Reading in Late Medieval and Early Modern Europe, a cura di S. Corbellini, M. Hoogvliet e B. Ramakers, Leiden-Boston, Brill, 2015. Sulle confraternite: Studi confraternali: orientamenti, problemi, testimonianze, a cura di M. Gazzini, Firenze, Firenze University Press, 2009; Brotherhood and Boundaries/Fraternità e barriere. Convegno nazionale di studi, Pisa, Scuola Normale Superiore, 19-20 settembre 2008, a cura di S. Pastore, A. Prosperi e N. Terpstra, Pisa, Edizioni della Normale, 2011; A Companion to Medieval and Early Modern Confraternities, a cura di K. Eisenbichler, Leiden-Boston, Brill, 2019. 37 La storiografia ha di recente sottolineato il contributo delle donne nell’arte sacra, nella musica, persino nell’editoria: Kymberly Montford, «Convent Music: an Examination», in The Ashgate Research Companion to Women and Gender in Early Modern Europe, op. cit., pp. 75–94, e nello stesso volume, Catherine E. King, «Lay Patronage and Religious Art», in ibid., pp. 95–114. Per l’Italia I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, a cura di G. Pomata e G. Zarri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005.
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una ferrea costrizione all’interno dei paradigmi dottrinali e comportamentali ordinati dai decreti, ma consentì pure un margine di autonomia che permise loro di sviluppare la devozione e trovare i canali appropriati perché essa fosse efficace e rispondesse alle loro attese. La Chiesa della Controriforma fu per fortuna molto più fluida nella realtà di quanto i decreti abbiano cercato di determinare. Alcune donne trovarono modalità di apertura sia quando avevano scelto il chiostro per la loro vita, sia quando si realizzarono nel matrimonio, sia con la forma di vita alternativa consentita dagli ordini terziari, che combinava vita comunitaria e condizione laicale38. Ma le donne al momento dell’emanazione dell’Indice che proibì i volgarizzamenti (1558), soprattutto dell’Indice Clementino (1596), restarono prive di uno strumento vitale, un supporto spirituale quotidiano a cui non sapevano rinunciare. Per le monache la privazione della Bibbia significò un restringimento di orizzonti pari, se non maggiore, della stretta clausura imposta dal disciplinamento cattolico. Comunità ermeneutiche Una consistente linea femminile percorre la storia dell’esegesi dei testi sacri, tale da generare un’ermeneutica originale, un’appropriazione personale delle Scritture da parte delle donne39. Anche se, istruendo Lucrezia Borgia nei primi decenni del Cinquecento, l’agostiniano Antonio Meli si atteneva ancora al metodo tradizionale dell’esegesi medievale dei quattro sensi della Scrittura, le donne italiane del Rinascimento rifiutarono in genere l’interpretazione teologica e allegorica dei secoli precedenti40. La Bibbia «non era per queste donne testo da studiare, ma 38 Molti sono gli studi sulla vita conventuale all’epoca, in particolare: Mary Laven, Monache. Vivere in convento nell’età della Controriforma, tr. it. F. Barbierato, Bologna, Il Mulino, 2004; Silvia Evangelisti, Storia delle monache, Bologna, Il Mulino, 2012. Un quadro riassuntivo è offerto da Elizabeth A. Lehfeldt, «The Permeable Cloister», in The Ashgate Research Companion to Women and Gender in Early Modern Europe, op. cit., pp. 13–32. Sulla vita comunitaria laicale si veda nella stessa raccolta: Susan E. Dinan, «Female Religious Communities beyond the Convent», in ibid., pp. 115–128. In generale Women in Reformation and Counter-Reformation Europe: Public and Private Worlds, a cura di S. Marshall, Bloomington, Indiana University Press, 1989; Time, Space and Women’s Lives in Early Modern Europe, a cura di A. Jacobson Schutte, T. Kuehn e S. Seidel Menchi, Kirksville, Truman University Press, 2001, in particolare il saggio di Gabriella Zarri, «The Third Status», pp. 181–201 (nella versione italiana: «’Il terzo stato’», in Tempi e spazi di vita femminile tra Medioevo ed età moderna, a cura di A. Jacobson Schutte, T. Kuehn e S. Seidel Menchi, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 311–334). 39 Per le interpretazioni femminili della Bibbia: Patricia Demers, Women as Interpreters of the Bible, Mahwah, Paulist, 1992; Marla Selvidge, Notorious Voices. Feminist Biblical Interpretation 1500– 1920, New York, Continuum, 1996; Gerda Lerner, «One Thousands Years of Feminist Biblical Criticism», in The Creation of Feminist Consciousness. From the Middle Ages to Eighteen-Seventy, Oxford, Oxford University Press, 1993, pp. 138–166; Handbook of Women Biblical Interpreters. A Historical and Biographical Guide, a cura di M.A. Taylor e A. Choi, Grand Rapids, Baker Academic, 2012. 40 Gabriella Zarri, «Bibbia e mistica alla corte estense: letture esegetiche per Lucrezia Borgia», in Le donne della Bibbia. La Bibbia delle donne, op. cit., pp. 63–92.
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piuttosto parola viva che interrogava il presente e rispondeva alle sue sfide41», per cui traevano dalla Bibbia una pedagogia di vita, modelli agiografici, comprensione delle visioni mistiche, materia per l’annuncio profetico. L’elaborazione era dunque personale, per cui la Bibbia si traduceva in una pluralità di espressioni che indicano bene come il testo sacro fosse una fonte in grado di generare diversi livelli di pensiero e linguaggio42. Essa ispirava storie, lessico, metafore, modelli, consentiva di andare verso un’interpretazione attualizzata, applicata tanto alla dimensione spirituale quanto alla vita quotidiana. Dell’originalità dell’esegesi femminile è prova anzitutto il fatto che le donne abbiano tutte dovuto superare l’interpretazione misogina dell’episodio edenico e scongiurare il negativo giudizio che gravava su di esse come eredi della responsabilità di Eva nel peccato originale43. Inoltre dovevano trovare una risposta all’ostracismo paolino che vietava loro la partecipazione attiva nella vita della Chiesa (si legge in 1 Cor 14, 34: «Mulieres in ecclesia taceant non enim permittitur eis loqui», e in 1 Tim 2, 12: «docere autem mulieri non permitto neque dominari in virum sed esse in silentio»). Ma dalle stesse Scritture nasceva la risposta: la prefigurazione della Vergine come anticipazione della salvezza di Gn 3, 15 e la presenza di Maria e delle donne sotto la croce divennero mezzi di sublimazione della donna. Inoltre i modelli biblici delle donne dell’Antico Testamento hanno giocato un ruolo importante nel conferire alle donne della prima età moderna autorevolezza e identità, rappresentando esempi di forza e di vigore per quelle che dovevano assumere ruoli di potere. E ancora, la conversione della Maddalena e la sua presenza nei momenti cruciali della passione e resurrezione offrirono modelli straordinari di adesione a Cristo44. 41 A. Valerio, «La Bibbia al centro. La renovatio ecclesiae e l’emergere della soggettività femminile», art. cit., p. 35. 42 A. Valerio, «Per una storia dell’esegesi femminile», op. cit., pp. 10–11; vedi anche Elisabeth Goessmann, «La nostra responsabilità per la storia della salvezza. La tradizione dell’interpretazione della Bibbia da parte delle donne», in Donne alla riscoperta della Bibbia, a cura di K. Walter e M.C. Bartolomei, Brescia, Queriniana, 1988, pp. 190–198. 43 Sull’argomento la bibliografia è ovviamente molto ampia, ci limitiamo a segnalare i testi esegetici fondamentali e la bibliografia di sintesi: Agostino, De Genesi ad litteram e De civitate Dei xi–xiv; Ambrogio, De paradiso; Pietro Comestor; Historia scholastica, liber Genesis 17; Pietro Lombardo, Sententiae II; Tommaso, Summa theologiae, I, II, 81 e II, II, q. 163, a. 4, arg. 1. Bibliografia generale: Elaine Pagels, Adamo, Eva e il serpente, Milano, Mondadori, 1990; Philip C. Almond, Adam and Eve in Seventeenth Century Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1999; Kurt Flasch, Eva e Adamo. Metamorfosi di un mito, tr. it. T. Cavallo, Bologna, Il Mulino, 2004; Maschio e femmina li creò. L’elaborazione religiosa delle differenze di genere, a cura di M. Borsari e D. Francesconi, [Modena], Banca Popolare dell’Emilia Romagna, 2004. 44 Sull’impiego della figura della Maddalena all’epoca si vedano le pagine di Karen-Edis Barzman, «Gender, Religious Representation and Cultural Production in Early Modern Italy», in Gender and Society in Renaissance Italy, a cura di J.C. Brown e R.C. Davis, London-New York, Longman, 1998, pp. 213–233: 224–230.
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Dalle risultanze delle nostre ricerche appare evidente che per le interpretazioni e riscritture della Bibbia giocò un ruolo determinante il contesto in cui si trovò inserita la scrittrice45. Le nostre donne non sfuggono al principio «All learning takes place within some kind of community, whether it be a formal place of instruction, a religious community, or simply an informal network of two or more friends46». Questo paradigma, che sottende un recente studio sulla trasmissione intellettuale, appare evidente per i gruppi di scrittrici che prendiamo in considerazione, che infatti si possono vedere legate da affinità ermeneutiche distinguibili nella comunità di appartenenza. Firenze, Venezia e Centro Italia non sono per noi tanto geografie, quanto reti intellettuali che sottendono anche indirizzi interpretativi. Per i primi due casi, la città rappresenta un riferimento, perché luogo della circolazione di idee e di libri, dove esistono circoli letterari o accademie, dove in molti modi si generano scambi che a loro volta contribuiscono a far avanzare e indirizzare la produzione intellettuale anche a livello di riscrittura religiosa. Il terzo luogo è creato dallo scambio che avviene a livello epistolare o con la lettura e la predicazione, scambio comunque vitale e generatore di idee e di coinvolgimenti, ma basato su reti di comunicazione più che su un dato spaziale. Non possiamo non concordare con Plebani: […] specifici luoghi hanno una grande importanza in quanto spazi di aggregazione e di scambio – conventi, corti principesche, scenari urbani, accademie, salotti, circoli, sette religiose, botteghe artigiane, mercati, manifatture e caffè – […] vi era pure una socialità più sotterranea che si incarnava nelle reti epistolari, nelle conversazioni a distanza, che hanno dato modo alle donne di coltivare relazioni, sentimenti, pensieri, stili letterari, superando ostacoli e rompendo le barriere della solitudine47.
Le donne del Rinascimento appartenevano talora anche a veri e propri circoli letterari, in cui le loro opere erano conosciute e circolavano48. Inoltre le scrittrici erano 45 Per la storia dell’esegesi mi sono riferita a Henning Graf Reventlow, History of Biblical Interpretation. Volume III. Renaissance, Reformation, Humanism, tr. ing. J.O. Duke, Atlanta, The Society of Biblical Literature, 2010; Willian Yarchin, History of Biblical Interpretation: A Reader, Peabody, Hendrickson, 2004; sempre valido, per le considerazioni sulla mutabilità dell’esegesi cristiana nei secoli, Pier Cesare Bori, L’interpretazione infinita. L’ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Bologna, Il Mulino, 1987. 46 Constant J. Mews e John N. Crossley, «Introduction», in Communities of Learning: Networks and the Shaping of Intellectual Identity in Europe, 1100–1500, a cura di C.J. Mews e J.N. Crossley, Turnhout, Brepols, 2011, pp. 1–7: 1. 47 T. Plebani, Le scritture delle donne in Europa, op. cit., p. 20. 48 Gli studi sulla partecipazione femminile ai circoli letterari in Europa hanno fatto luce su queste forme di collaborazione. Judie Campbell, che si è occupata delle scritture intorno alla questione della Querelle des femmes prodotte in circoli intellettuali della prima età moderna (Ead., Literary Circles and Gender in Early Modern Europe. A Cross-Cultural Approach, Aldershot, Ashgate, 2006), indica come «Literary circles» quei «groups whose members are writers and whose main
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tra loro in comunicazione e stringevano reti di supporto, strumento spesso utile per farsi accettare nei circuiti dell’intellettualità. La «rigogliosa letteratura femminile» del Rinascimento italiano mostra la forza dei legami intellettuali e del clima culturale, capace di supportare le scrittrici49. Non sempre si tratta, per le nostre comunità ermeneutiche, di veri e propri circoli, alla maniera dei circoli individuati dalla storia letteraria europea, ma la connessione fra scrittori e scrittrici, almeno in Italia, nel xvi secolo, ha generato risultati sorprendenti, come mostra Diana Robin mettendo insieme la storia letteraria con la storia del libro e la storia religiosa50. L’affermazione del volgare rappresentò uno stimolo per queste forme di relazione e di attività intellettuale. La rivoluzione bembiana ha offerto grandi opportunità di espressione, perché, anche se fondata sull’imitazione, offrì un lessico e delle espressioni duttili per esprimere l’interiorità, gli affetti, i pensieri, tutte forme che non riguardarono solo la poesia amorosa, ma anche la vita dell’anima e l’esperienza spirituale51. Non a caso le donne approfittarono del modello petrarchesco-bembiano, creando un filone di poesia che dall’imitazione consentiva però di dare voce alla propria soggettività52. Il petrarchismo femminile fu un veicolo non solo di modelli, ma fu anche essenziale per la creazione di una diversa soggettività, di cui la poesia
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connections involve their mutual literary and philosophical interests» (la citazione a p. 4). Altra definizione, più ampia, offerta per uno studio sulle realtà inglesi, include i legami religiosi come collante di un circolo letterario. Cfr. Literary Circles and Cultural Communities in Renaissance England, a cura di C.J. Summers e T.-L. Pebworth, Columbia, University of Missouri Press, 2000, pp. 1–2. Proiettato su realtà europee: Early Modern Women and Transnational Communities of Letters, a cura di J. Campbell e A. Larsen, Farnham, Ashgate, 2009. Utile, anche se mirato a realtà diverse da quella italiana qui presa in considerazione, sono anche le raccolte di saggi Female Communities 1600–1800. Literary Visions and Cultural Realities, a cura di R. D’Monté e N. Pohl, Basingstoke, MacMillan, 2000; Medieval Women in their Communities, a cura di D. Watt, Cardiff, University of Wales Press, 1997. Dionisotti, studioso antesignano di molte intuizioni critiche, afferma, nel suo saggio sulla «Letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento», che «le donne fanno gruppo»: Carlo Dionisotti, Geografia e storia della Letteratura Italiana, Torino, Einaudi, 1977, p. 238. Intendiamo qui l’affermazione in senso ampio, includendo appunto gruppi epistolari e legami ‘virtuali’ di lettrici. Diana Robin, Publishing Women. Salons, the Presses, and the Counter-Reformation in Sixteenth Century Italy, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2007. Sul volgare per la religione, anche se focalizzato sugli eterodossi, molto utile è il recente studio di Franco Pierno, La parola in fuga. Lingua italiana ed esilio religioso nel Cinquecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018, in particolare pp. 65–112. Ma già Dionisotti aveva sottolineato il nesso che nuova lingua e letteratura hanno instaurato con Evangelismo e riformismo religioso: C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, op. cit., in particolare pp. 227–254. Sulle petrarchiste: L’una et l’altra chiave. Figure e momenti del petrarchismo femminile europeo. Atti del Convegno internazionale di Zurigo 4–5 giugno 2004, Roma, Salerno, 2005; Paola Vecchi Galli, «Donna e poeta. Metamorfosi cinquecentesche», in Petrarchismo. Un modello di poesia per l’Europa, a cura di L. Chines, Roma, Bulzoni, 2007, p. 289–216; Giorgio Forni, Pluralità del petrarchismo, Pisa, Pacini, 2011.
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spirituale di Vittoria Colonna mostra bene la novità53. Lo scambio intellettuale nel periodo da noi considerato è ormai veicolato dall’italiano, poiché il volgare è la lingua non solo degli illetterati e del popolo, ma anche dei letterati che poterono ritrovare nella letteratura dei principi in cui riconoscersi. Accanto a queste comunità reali esistevano i circoli determinati da reti di scambi informali, che fossero gli scambi epistolari, il movimento dei predicatori, le raccolte poetiche andate a stampa. Spesso queste reti trovavano nella stessa città, nelle parrocchie, nelle confraternite, nei conventi, la loro prima configurazione e si affiancavano senza necessariamente contrapporsi alla res publica clericorum. I gruppi di laici coinvolti nelle congregazioni o in genere in attività religiose, si configurano all’epoca come nuovi gruppi che promuovono la formazione religiosa e l’emancipazione del mondo laico54. Lo scambio epistolare inoltre da sempre ha rappresentato un modo di creare comunità di apprendimento che permettevano all’individuo di articolare idee condivise sulla base di comuni indirizzi culturali o religiosi55. Le raccolte poetiche poi mostravano interessi comuni e tendenze condivisibili, coinvolgendo largamente le scrittrici56. Le donne non erano sole, poiché, per avere riconosciuta la propria voce come autorevole, necessitavano di una comunità che le riconoscesse. Alle spalle di una donna interprete c’è sempre un gruppo che le ha per primo riconosciuto il diritto di intervenire, di essere letta o ascoltata, come avveniva per le donne con carismi profetici o mistici. In genere era la comunità che spingeva queste donne a parlare, a far sentire la loro voce. Anche per queste ragioni la lingua non poteva che essere il volgare. Le comunità che abbiamo individuato sono vere e proprie comunità ermeneutiche. Firenze, Venezia, l’Italia centrale, viste dalla prospettiva della letteratura biblica femminile, offrono delle costanti interazioni, mostrando quanto la storia intellettuale, ma anche civile e culturale della prima età moderna, a cui queste donne presero parte, sia debitrice della diuturna frequentazione della lettura della Sacra 53 Giovanna Rabitti, «Vittoria Colonna as Role Model for Cinquecento Women Poets», in Italian Renaissance Culture and Society, op. cit., pp. 478–497. 54 Importanti studi in questa direzione sono Andrew Gow, «Challenging the Protestant Paradigm. Bible Reading in Lay and Urban Contexts of the Later Middle Ages», in Scripture and Pluralism. The Study of the Bible in the Religiously Plural Worlds of the Middle Ages and the Renaissance, op. cit., pp. 161–191; Christian Jacob, Lieux de savoir. Espaces et communautés, Paris, Michel, 2007; Cultural Exchanges in Early Modern Europe. Vol. 3. 1400–1700, a cura di F. Bethencourt e F. Edmond, Cambridge, Cambridge University Press, 2007. 55 Sulla ricchezza degli scambi epistolari femminili si vedano almeno: Meredith K. Ray, Writing Gender in Women’s Letter Collections of the Italian Renaissance, Toronto, Toronto University Press, 2009; Per lettera. La scrittura epistolare femminile tra archivio e tipografia secoli xv–xvii, a cura di G. Zarri, Roma, Viella, 1999. 56 Cfr. Louise G. e William G. Clubb, «Building a Lyric Canon; Gabriel Giolito and the Rival Anthologists (1545–1590)», Italica, LXVIII, 1991, pp. 332–344.
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Scrittura. Il confronto con la Bibbia e la sua esegesi determinò oltre che la storia religiosa, anche la vita civile, come è ben noto. Non solo i modelli di santità e le giustificazioni del potere affondavano le loro radici nel libro della cristianità, ma molte delle manifestazioni e parte dell’identità di queste città si costruirono con e sulla Bibbia57. Le donne non si sottrassero a tale relazione e loro stesse svilupparono a loro modo un dialogo con il testo sacro. A Firenze, tra l’età del Magnifico e quella di Ferdinando I, prevalse una lettura che favoriva l’interazione sociale e politica, che promuoveva l’ingresso della donna ad ogni livello sociale, assegnandole un ruolo propositivo e costruttivo nella compagine civile. Lo si vede nei suggerimenti dei poemetti biblici di Lucrezia Tornabuoni e nella rappresentazione biblica di Antonia Pulci, nella preoccupazione civile della mistica Domenica da Paradiso e nella traduzione della quinta Lamentazione di Laura Battiferri, nei poemi e rappresentazioni sul popolo d’Israele di Raffaella Sernigi, Maria Clemente Ruoti, Laura Battiferri, Maddalena Salvetti Acciaioli58. A Venezia invece prevalse una lettura individuale, che mirava a dare alla donna una consapevolezza e una dignità nuova. Fin da Cristina da Pizzano (meglio nota come Christine de Pisan), che a Venezia ebbe i natali, passando per Isotta Nogarola, veronese (ma pur sempre dell’area politica e culturale della Serenissima), poi (più di un secolo dopo) per Moderata Fonte e Lucrezia Marinella, le donne usano il testo biblico per valorizzarsi come persone libere. Così, fino ad arrivare alle rivendicazioni di suor Arcangela Tarabotti, che a metà Seicento legge la Bibbia contro le interpretazioni misogine del suo tempo e difende la dignità della donna anche rispetto all’uso inveterato nella Chiesa, nella società e nelle famiglie, di prevaricare l’autonomia delle figlie con pratiche quali le monacazioni forzate, rendendole «simie veramente59». Viene da chiedersi quale influenza ebbe la struttura politica su queste linee interpretative, e se la struttura repubblicana, dove solo la dogaressa aveva un ruolo nella compagine politica, non fosse meno inclusiva per le donne rispetto a quella della corte signorile, dove le donne rappresentavano il potere e potevano agire in sua funzione (non solo per il governo delle reggenti, ma anche in alcune questioni pubbliche di ogni tempo, come la beneficenza). 57 Quanto la Bibbia sia stata un fattore di modernità sotto vari aspetti è oggetto dei saggi raccolti in Lay Readings of the Bible in Early Modern Europe, op. cit. 58 Su Firenze come comunità culturale, anche se mirato allo studio delle reti artistiche, si veda il saggio di Paul D. McLean, The Art of the Network. Strategic Interaction and Patronage in Renaissance Florence, Raleigh, Duke University Press, 2007. 59 Arcangela Tarabotti, La semplicità ingannata, a cura di S. Bortot, Padova, Il Poligrafo, 2007, p. 190. Sulla linea interpretativa veneziana una sintesi è esposta in Erminia Ardissino, «Women Interpreting Genesis in Early Modern Italy. Arguments Supporting Gender Equality», in Lay Readings of the Bible in Early Modern Europe, op. cit., pp. 276–298.
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Nel Centro Italia della prima metà del Cinquecento sono la lezione di Juan de Valdès e la predicazione di Bernardino Ochino a fare da elemento aggregante, capace di determinare una adesione creativa da parte di innumerevoli donne, da Caterina Cibo a Giulia Gonzaga, che leggono la Bibbia in funzione del discorso sulla salvezza. Da qui matura la poesia spirituale di Vittoria Colonna e, forse, anche (a fine secolo) la scrittura biblica di Chiara Matraini. L’impulso a usare la Bibbia per superare l’oppressione delle società patriarcali che caratterizza l’esegesi di Moderata Fonte, Lucrezia Marinella, Arcangela Tarabotti, non scalfisce le letture fiorentine o del Centro Italia; e viceversa, l’interesse a giocare un ruolo nel disegno politico non sembra riguardare Venezia e il Centro Italia, o il problema della salvezza per sola fide non sembra riguardare le riscritture bibliche veneziane e poco quelle fiorentine. Riscritture Le risultanze qui presentate costituiscono la risposta alla domanda di mezzo: quale utilità riveste questa ricerca? Si sono individuate delle modalità di elaborazione nella lettura, nell’interpretazione, e nella scrittura delle donne, che nella storia delle idee e nella storia della consapevolezza del genere si presentano come nuove, forse anzitutto perché inesplorato è stato nel suo complesso il genere di testi che qui abbiamo preso in considerazione. Possiamo infine fare nostro, anticipando di qualche decennio, il giudizio di Susan Dinan: «One of the ironies that confronts any historian looking back on earlier Reformation scholarship is the fact that the behaviour of Catholic women in the seventeenth century hardly leaves one with the impression that they were passive or living static lives60». Le donne trovarono cioè vie alternative per vivere la fede anche al di là del matrimonio o dei muri del convento, nonostante il disciplinamento voluto e imposto dalle gerarchie61. La riscrittura di passi biblici fu una di queste. Che cosa intendiamo per riscrittura? Si tratta di una categoria assai ampia che genericamente può essere considerata nella tipologia che Gérard Genette ha definito come «palinsesti». Essa include sia la traduzione (ovvero il testo di second degré più fedele all’originale) sia il rifacimento lirico, narrativo, teatrale (che può allonta-
60 Susan Dinan, «Female religious Communities beyond the Convent», in The Ashgate Research Companion to Women and Gender in Early Modern Europe, op. cit., pp. 115–128: 119. 61 Sulle donne nei terzi ordini: Daniel Bornstein, «Spiritual Kinship and Domestic Devotions», in Gender and Society in Renaissance Italy, op. cit., pp. 173-192; Luigi Mezzadri, «I Terzi Ordini e la spiritualità femminile», in La sponsalità dai monasteri al secolo. La diffusione del carisma di sant’Angela nel mondo. Atti del Convegno internazionale di studi (Brescia-Desenzano 2007), a cura di G. Belotti e X. Toscani, Brescia, Centro mericiano, 2009, pp. 57-83; Mendicant Cultures in the Medieval and Early Modern World. Word, Deed, and Image, a cura di S.J. Cornelison, N. BenAryeh Debby e P. Howard, Turnhout, Brepols, 2016.
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narsi anche molto dall’originale)62. Può essere in prosa o in poesia: la forma conta solo per le norme che impone. Tra questi generi si collocano le parafrasi, i commenti, i riassunti, e per il nostro ambito, le meditazioni, i sermoni, generi che possono avere gradi molto diversi di fedeltà. In realtà nella riscrittura la fedeltà è solo di base, ovvero necessaria per quel tanto che consente di riconoscere una dipendenza e una volontà di riproporre in forma nuova un testo che ispira il rifacimento. Nella riscrittura infatti si aggiungono talora elementi fittizi, come eventi di pura invenzione con personaggi totalmente estranei all’ipotesto, o considerazioni che sviluppano la base in modo autonomo, che molto aggiungono al testo-fonte, ma senza impedire di riconoscerne la matrice e soprattutto senza tradirlo o tradirne lo spirito. La riscrittura delle Sacre Scritture ha una lunga tradizione, fin dalle origini l’annuncio della buona novella si è avvalso di elaborazioni letterarie che hanno voluto facilitare o rendere i testi sacri più consoni alla costruzione di messaggi comunicativi. Pur nella salvaguardia del contenuto originario, è stata talvolta cercata una forma più adatta alla sua trasmissione. È il caso dell’invenzione detta diatessaron, ovvero armonizzazione dei Vangeli per cui Taziano il Siro ha disposto la storia di Gesù in sequenze accordate su tutti i Vangeli, una forma che ha avuto lunga fortuna raggiungendo, dal secondo secolo d.C., la soglia della modernità63. Ma molti generi letterari, forse tutti, furono veicolo di riscritture bibliche nell’era cristiana. Ad esigenze narrative oltre che cherigmatiche rispondono anche quelle riduzioni o contaminazioni cui sono sottoposti i testi sacri, aggiustamenti assai comuni nel Medioevo europeo, come le diffusissime Meditationes vitae Christi, e per l’età moderna le meditazioni sul Rosario64. 62 Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, tr. it. R. Novità, Torino, Einaudi, 1998, p. 464–465. Per le riscritture bibliche fondamentale è il recente Écrire la Bible en français au Moyen Âge et à la Renaissance, op. cit., specialmente i saggi di Véronique Ferrer e Jean-René Valette, «La Bible ‘littéraire’» e Gilbert Dahan, «Post-face – Réécrire l’Écriture», rispettivamente a pp. 261–294 e 737–751. 63 Sul diatessaron come genere: William L. Petersen, Tatian’s Diatessaron: its Creation, Dissemination, Significance, and History in Scholarship, Leiden, Brill-Boston, 1994; Tjitze Baarda, Essay on the Diatessaron, Kampen, Kok Pharos, 1994; Marie-Émile Boismard, Le Diatessaron de Tatien à Justin, Paris, Gabalda et C., 1992. Per l’Italia: Venanzio Tedesco, Alberto Vaccaro e Marco Vattasso, Il diatessaron in volgare italiano. Testi inediti dei secoli xiii–xiv, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1938; Francesca Gambino, «Un Diatessaron in terzine dantesche di fine Trecento», in La scrittura infinita. Bibbia e poesia in età medievale e umanistica. Atti delle giornate internazionali di studio presso l’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, Firenze 26–28 giugno 1997, a cura di F. Stella, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2001, pp. 537–580; Sabrina Corbellini, «Retelling the Bible in Medieval Italy. The Case of the Italian Gospel Harmonies», in Retelling the Bible. Literary, Historical, and Social Contexts, a cura di L. Doležalová e T. Visi, Frankfurt am Main, Peter Lang, 2011, pp. 213–228. 64 In genere sulle riscritture bibliche e sui loro generi letterari: Retelling the Bible, op. cit.; Erminia Ardissino, «Biblical Genres across the Long Sixteenth Century: Italy as a Case-Study», in Religious Transformation in Late Medieval and Early Modern Europe. Bridging the Chronological,
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L’adattamento del testo sacro ad esigenze comunicative si fa più pressante con l’affermarsi dei volgari e con il crescere della domanda di letture bibliche che si sviluppa con l’ingresso dei laici nella vita della Chiesa e con la conseguente espansione della domanda di conoscenza religiosa. Non si tratta solo della conversione in sacre rappresentazioni o in testi meditativi e devozionali, le modalità più popolari di riscrittura biblica, ma anche di narrazioni con cui si poteva offrire in lettura (o in ascolto) un testo più fluido, meglio fruibile, più dilettevole e rispondente al gusto del pubblico e alle sue attese. La Bibbia non solo venne quindi intensamente tradotta in tutta Europa, ma anche adattata ad esigenze che non sempre erano religiose in prima istanza, ma che invece più precisamente rispondevano agli indirizzi letterari, ad esigenze retoriche, alle norme che regolavano la costruzione dei testi e che erano dominanti nel panorama creativo ed editoriale all’epoca. Le riscritture bibliche, anche femminili, rielaborano, centrandosi più o meno su figure assunte a modelli, un episodio della Bibbia, una sequenza narrativa, magari aggiungendo materia estranea alla Bibbia, presa dagli apocrifi o di totale invenzione, necessaria però alla ricodificazione per il teatro o nella narrazione65. La Bibbia è però un libro particolare, in quanto voce di Dio trasmessa tramite la parola umana, Verbum Dei. Essa ha sempre una connotazione sacra che richiede un rispetto e una salvaguardia a cui si impegna lo scrittore (o la scrittrice) che vuole entrare in agone con l’originale (a meno che non voglia programmaticamente sfidarla, come avviene per i libertini66) e che impedisce di allontanarsi dal dettato originale. La parola biblica è tra l’altro una parola di grande complessità che implica necessariamente l’interpretazione. Non solo, essa vuole anche insegnare e ‘assogettare’ il lettore67. A queste funzioni si ascrivono anche le riscritture. Nella riscrittura biblica infatti c’è oltre a un grado di letterarietà che la colloca all’interno di un sistema letterario (di un canone), anche un alto grado di ‘religiosità’, che intende riproporre un testo biblico, assegnandogli quasi le stesse funzioni dell’originale, Linguistic, Confessional and Cultural Divides (1350–1570), a cura di É. Boillet e I. Johnson, LeidenBoston, Brill, in stampa. 65 Quanto fosse difficile riscrivere la Bibbia e quanto fosse necessario operare con delle aggiunte è bene mostrato da Giovan Battista Andreini nella sua riscrittura Adamo, per cui si veda Erminia Ardissino, «I poemi del Seicento sul paradiso terrestre e il modello tassiano», in Dopo Tasso: percorsi del poema eroico. Atti del Convegno di studi, Urbino, 15 e 16 giugno 2004, a cura di G. Arbizzoni, M. Faini e T. Mattioli, Padova, Antenore, 2005, pp. 395–422. 66 Sull’interpretazione libertina della Bibbia, cfr. Jean-Pierre Cavaillé, «Some Irreligious Uses of the Bible in the Early Modern Period», in Lay Readings of the Bible in Early Modern Europe, op. cit., pp. 49–62. 67 La peculiarità della narrazione biblica è molto chiaramente sottolineata da Erich Auerbach nel capitolo «La cicatrice di Ulisse» del suo Mimesis. Il realismo nella letteratura Occidentale, tr. it. A. Romagnoli e H. Hinterhäuser, Torino, Einaudi, 1956, pp. 3–29. Il saggio di Auerbach è ripreso anche da V. Ferrer e J.-R. Valette, «La Bible ‘littéraire’», art. cit., pp. 261–294.
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cioè di parola di Dio che necessita di interpretazione in funzione didascalica. La ricreazione letteraria in realtà ha già operato l’interpretazione, ha già decifrato i misteri dell’originale e ha già iniziato un processo di adattamento del testo sacro all’esperienza del mondo, se non altro attraverso la tradizione religiosa di appartenenza. «Lorsque des écrivains – poètes, dramaturges, romanciers – s’intéressent à une figure biblique, c’est cet arrière-plan qui intervient à chaque fois, selon des modalités qui dépendent du contexte religieux et culturel ou sein duquel ils ont évolué68». Tra l’ipotesto e la riscrittura, nel caso della Bibbia, si pongono quindi tutta una serie di testi, una sedimentazione di glosse e di parafrasi che non è sempre facile identificare. Le parole, le figure, le storie, trasportate in altri testi, hanno acquistato inevitabilmente significati nuovi. Reciprocamente i riadattamenti biblici hanno avuto un certo influsso sullo sviluppo delle letterature volgari; infatti la letterarietà della Bibbia incise profondamente sulle letterature europee, per la tipologia dei personaggi, per le modalità narrative, per le espressioni liriche (si pensi anche solo al modello dei Salmi in rapporto alla poesia, non solo devota)69. Inoltre con la Riforma, e l’influenza della Riforma anche nei paesi cattolici, la letteratura assunse ampiamente l’impegno di essere funzionale alla missione di testimonianza e di parenesi, per cui si intensificò la produzione di riscritture bibliche, che poi, nella seconda metà del xvi secolo, furono guardate con occhio sempre più sospettoso, nello sforzo di depurare la materia canonica e sacra dalle contaminazioni apocrife e leggendarie, fittizie e profane (sforzo parallelo a quello di reprimere l’uso superstizioso e magico del testo biblico). Nondimeno, il gusto per le storie bibliche si mantenne. La produzione femminile di riscritture bibliche costituisce un quadro ricco, che consente di affermare che l’ambito religioso fu fervido di suggerimenti e fecondo di nuovi attitudini per le donne. La Bibbia si offriva come pretesto nel vero senso della parola: pre-testo, ovvero, essendo un testo noto e familiare, era assunto come modello, da cui trarre ispirazione per chi veniva da una cultura letteraria basata essenzialmente sull’imitazione e sui modelli. Sicuramente l’esempio di devozione femminile che si riversava nella scrittura era di indubbia utilità per una Chiesa, che, 68 Ibid., p. 266. 69 Molto interessanti sono le riflessioni proposte da Ferrer e Valette su come la letteratura medievale si sia formata modellandosi sulla Bibbia, cfr. V. Ferrer e J.-R. Valette, «La Bible ‘littéraire’», art. cit., pp. 268–278, d’altra parte l’influenza biblica sulla letteratura europea è argomento dell’importante libro di Northop Frye, The Great Code: The Bible and Literature, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1982 (edizione italiana: Il grande codice. La Bibbia e la letteratura, tr. it. G. Rizzoni, Torino, Einaudi, 1986), a proposito del quale Ossola scrive: «La Bibbia fondò la letteratura e le letterature l’hanno gelosamente riscritta, hanno lottato con essa, con la sua grandiosa epica e domestica quotidianità» (Carlo Ossola, Il continente interiore, Venezia, Marsilio, 2010, p. 59).
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preoccupata del contenuto dei libri, cercava di controllare severamente le scritture e le letture dei fedeli, con la censura e le attività di correzione, e auspicava una letteratura che si offrisse a modello etico più che per l’intrattenimento. La scrittura devota creava meno problemi di accettabilità per una donna, e si proponeva come testo fruibile anche dagli uomini70. La letteratura biblica offriva inoltre molte possibilità di imitazione e reinvenzione, dai modelli eroici di santità, come Maria Maddalena o la stessa Vergine Maria, alle eroine dei libri storici, come Ester o Giuditta, dalla voce lirica di David, alle problematiche di genere ispirate all’episodio edenico, dalle parabole evangeliche che offrivano, oltre che storie, anche metafore e lessico alla vita di Gesù. Di qui l’abbondanza delle riscritture che qui studiamo. Conclusioni Il saggio si occupa di donne scrittrici, certamente le élites culturali, ma consente comunque di sviluppare una miglior comprensione di un fenomeno culturale assai più ampio, che dimostra come letture e riscritture bibliche da parte delle donne abbiano avuto un ruolo nella transizione alla modernità. Anzitutto la ricchezza di questo quadro dimostra la centralità che il tema religioso aveva per la vita intellettuale delle donne nell’Italia della prima età moderna. I generi letterari esperiti sono quanto mai variati, si va dal teatro alla lirica, dal trattato al poema eroico, dal sermone alla traduzione. Abbiamo infatti voluto considerare tutta la produzione, facendoci guidare dalla necessità di studiare i contenuti, ma anche i contesti e l’orizzonte esegetico in cui l’opera è situata. Queste sono riscritture, non commenti (tranne i commenti ai salmi penitenziali di Chiara Matraini), per cui obbediscono spesso più alle leggi del genere letterario che al rispetto della fonte che riscrivono, guardata con fedeltà solo relativa. Le donne, appartenenti a diverse classi sociali, diversi orientamenti religiosi, diverse comunità, hanno diversamente risposto con i loro testi (che spesso sono le uniche risultanze che abbiamo), rifiutando le ipocrisie o adeguandosi alle richieste del potere, trovando forme di autonomia interiore e maturando nuovi indirizzi spirituali e letterari, cercando di intensificare le proprie conoscenze anche con la lettura e lo scambio intellettuale, adeguando spesso anche la propria esperienza
70 Scrive a proposito Virginia Cox: «[…] the figure of the pious and refined female writer was one of considerable discursive utility to male clerical letterati, representing in many ways an ideal to which secular men might be encouraged to aspire […] religious writing offered fewer problems of decorum for women that did writing on most secular subjects […] religious literature was often more gender-egalitarian than secular literature in its representational norms». V. Cox, The Prodigious Muse, op. cit., p. xix.
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quotidiana alle proprie convinzioni71. Talora hanno modificato tali convinzioni e i loro rapporti con le comunità di appartenenza, per cui risulta inadeguato classificarle come appartenenti a una confessione specifica. Crediamo nell’utilità di questo nostro lavoro sia perché recupera i testi e crea un repertorio disponibile per ulteriori studi, ma anche perché considerare le comunità in cui le donne si sono trovate ad operare mette in dialogo la loro interpretazione con quella corrispondente che deriva dagli uomini, religiosi e laici. Integrare le donne e le loro letture nella storia della ricezione biblica significa dare spessore a questi lavori, assegnare loro un ruolo nella storia dell’esegesi e nella storia delle idee. Possiamo concordare con quanto si legge per uno studio sulla realtà inglese: Assigning a different place to women’s writings – at the centre rather than the margins of intellectual and literary exchange – revises the map by which we have been reading the culture of the early modern period. It does not merely include women in the diagram: it reveals that their absence has left gaps in our knowledge concerning crucial cultural developments.72
Sarebbe incauto affermare che questi testi abbiano inciso sulle scelte delle gerarchie ecclesiastiche e sulle direzioni prese nelle alte sfere della Chiesa di Roma, ma esse hanno avuto conseguenze, perché hanno determinato il modo di capire il testo sacro al di fuori dell’ambito liturgico, hanno interpretato e trasmesso la sensibilità religiosa di certi ambienti e come la storia della salvezza era compresa. Tutto questo risulta evidente, nonostante la scarsità di interesse che la critica letteraria italiana vi ha prestato. Ma anche per altre realtà culturali, non sempre le donne che hanno riscritto la Bibbia hanno ricevuto attenzione come interpreti73. Guardare alla Bibbia si rivelava per le donne come un tesoro a portata di mano, che oltretutto assegnava dignità alla loro persona. In un’epoca di grandi rivolgimenti, in cui anche la lettura e l’interpretazione della Bibbia incontrarono nuove motivazioni e nuovi principi (dalla scoperta del valore degli studi filologici alla di71 Sulle pratiche domestiche Domestic Devotions in Early Modern Italy, a cura di M. Corry, M. Faini e A. Meneghin, Leiden-Boston, Brill, 2018 e Domestic Devotions in the Early Modern World, a cura di M. Faini e A. Meneghin, Leiden-Boston, Brill, 2018. 72 Kimberly Anne Coles, Religion, Reform, and Women’s Writing in Early Modern England, Cambridge, Cambridge University Press, 2008, p. 1. Proprio la realtà inglese è la più studiata. Si vedano English Women, Religion, and Textual Production, 1500–1625, a cura di M. White, Burlington, Ashgate, 2011; Michele Osherow, Biblical Women’s Voices in Early Modern England, Farnham, Ashgate, 2009; Women and the Bible in Early Modern England. Religious Reading and Writing, op. cit. 73 Si veda il saggio introduttivo Nancy Calvert-Koyzis e Heather E. Weir, «Assessing their Place in History: Female Biblical Interpreters as Protofeminists», in Strangely Familiar: Protofeminist Interpretations of Patriarchal Biblical Texts, a cura di N. Calvert-Koyzis e H.E. Weir, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2009, pp. 1–14, che dimostra, con relativa bibliografia, l’assenza di studi sui contributi femminili all’esegesi biblica, in particolare per il periodo 1500–1920.
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vulgazione concessa dalla stampa, dalla domanda dei laici alla domanda di maggior coerenza ai principi della fede, dall’interesse per le spinte riformistiche al desiderio di controllo tridentino), la Bibbia acquisì una centralità non solo religiosa nell’Europa della prima età moderna, anche in Italia, anche per le donne74. Il libro sacro era la base fondamentale per la guida religiosa e per il governo della Chiesa, ma era anche essenziale per molti aspetti della società: per determinare i principi etici, specie in questa età in cui l’etica aristotelica manifesta i suoi limiti; come modello comportamentale, per l’educazione (sia religiosa sia sociale), persino per le scelte alimentari e suntuarie; per determinare le relazioni familiari, per giustificare il potere politico e creare i riti civili, per le attività creative (dalla musica alle arti visive); per ispirare indirizzi di pensiero e sentieri conoscitivi, per le pratiche di lettura e scrittura, per nuove forme drammatiche, poetiche, narrative; per regolare le attività professionali nuove e vecchie, per inquadrare le nuove scoperte e interpretare fatti storici, per creare pattern simbolici. La Bibbia era anche un fattore di acculturazione e di alfabetizzazione per gli strati più bassi della società, essendo il libro più familiare nel periodo. Questo vale in specie per coloro che non possedevano un significativo bagaglio cognitivo, che talora possedevano un solo libro, che era per lo più un libro biblico, o semplicemente ne ascoltavano la lettura o le interpretazioni (prediche, soprattutto). In Italia, come nel resto dell’Europa, la modernità era fondata ancora su basi religiose, e la Bibbia era un punto di riferimento per tutte le trasformazioni culturali e sociali. Anche se la critica letteraria, orientata anzitutto verso il canone, vi ha prestato poca attenzione, l’importanza della Bibbia nella storia del pensiero e della cultura in Italia non può mai essere eccessivamente sopravvalutata. Infine le donne, che avevano sperimentato varie forme di ostracismo e di scarsa credibilità, e dunque di scarsa fiducia nelle proprie possibilità di contribuire al dibattito intellettuale, trovarono nella Bibbia un valido supporto, atto a sostenere il diritto a partecipare alla circolazione delle idee. Le Sacre Scritture le aiutavano a ottenere uno spazio, a far ascoltare la loro voce in una Chiesa e una società decisamente riluttanti a riconoscere loro un diritto a partecipare in pubbliche attività. Mostrando la partecipazione delle donne nel più ampio contesto delle letture, interpretazioni e scritture sulla Bibbia possiamo ricostruire un ricco filone di pensiero femminile in Italia, che è stato troppo a lungo trascurato e la cui complessità non è stata neppure percepita.
74 Cfr. Henning Reventlow, The Authority of the Bible and the Rise of the Modern World, London, SCM, 1984; Lay Readings of the Bible in Early Modern Europe, op. cit.
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Parte prima
Firenze biblica
Introduzione Il catalogo dei manoscritti di traduzioni bibliche in italiano per i secoli xiii-xv registra un’assoluta preminenza della produzione toscana rispetto alle restanti regioni d’Italia1. Questa notevolissima diffusione dei volgarizzamenti biblici in quest’area non è riconducibile solo al prestigio della lingua, che induceva alla conversione del testo sacro nella forma che era il mezzo di comunicazione comune ormai autorevole all’epoca, ma è dovuta anche a una lunga tradizione di letture, riflessioni, rielaborazioni, che hanno reso familiare la Bibbia nella città del fiorino e che sono poi maturate appieno nell’età umanistica e mediceo-laurenziana, poi savonaroliana. La cultura fiorentina era, come quella di tutta l’Europa cristiana, impregnata di biblismo. Ma è importante sottolineare che Firenze aveva trovato nella Bibbia una modalità per far interagire cultura e potere, laici e clero, economia e arte, aristocrazia e popolo, tanto da offrire un lascito che non solo conferma che la Bibbia rappresentò il «grande codice» dell’arte e letteratura fiorentine, ma che attesta anche come essa abbia saputo attrarre popolo e classi dirigenti in un comune discorso con forme di produzione e mediazioni estremamente feconde2. Sarebbe incongruo distinguere il versante latino e quello volgare della cultura biblica fiorentina, perché ambedue sono rivelatori e concordi nell’interesse biblico, ma la produzione volgare attesta una diffusione capillare, anche in quegli strati della società di solito estranei
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Si parla di «incontrastata (e scontata) prevalenza dei codici provenienti dalla Toscana» nell’introduzione a Le traduzioni italiane della Bibbia nel Medioevo. Catalogo dei manoscritti (secc. xiii– xv), a cura di L. Leonardi, C. Menichetti e S. Natale, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2018, pp. XLVII–L. Si veda l’«Inventario dei manoscritti biblici italiani», a cura di M. Chopin, M.T. Dinale e R. Pelosini, premessa di L. Leonardi, indici di J. Dalarun, in Bibles italiennes, Mélanges de l’École Française de Rome, Moyen Âge, CV, 2, 1993, pp. 863–886. «Grande codice» è, tradotta in italiano, metafora di William Blake; per il suo significato e le modalità di influenza sulla letteratura si veda Northrop Frye, The Great Code: The Bible and Literature, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1982 (tr. it. G. Rizzoni, Torino, Einaudi, 1986). Ivan Illich parla invece della Bibbia come «vigna»: Ivan Illich, Nella vigna del testo: per una etologia della lettura, tr. it. A. Serra e D. Barbone, Milano, Raffaello Cortina, 1994.
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agli sviluppi culturali, anche fra le donne, che si mostrano non solo fruitrici ma protagoniste di forme di cultura biblica. Alla radice di questo interesse biblico sta la predicazione degli ordini mendicanti e la diffusione delle confraternite, con la conseguente laicizzazione della religione che interessò Firenze come, se non più, di tutto il resto d’Europa3. Da una parte, gli ordini mendicanti raggiunsero con rinnovate forme comunicative tutti i ceti, anche quelli illetterati, trasformando le forme e i contenuti della predicazione, usando il volgare, trattando problemi concreti ed exempla vicini alla sensibilità comune, umanizzando le figure di riferimento come Gesù e la Vergine4. Dall’altra le confraternite hanno rinnovato la vita religiosa, rendendo il popolo partecipe delle decisioni anche religiose, o comunque inducendoli a essere attivi nella sfera devozionale e cittadina5. Nell’attività delle confraternite si manifesta lo stretto nesso fondativo tra la religione e la città, che a Firenze determina anche la forma interpretativa delle riscritture bibliche delle donne, che vi trova pieno sviluppo a causa della ricchezza
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Cfr. The Politics of Ritual Kinship. Confraternities and Social Order in Early Modern Italy, a cura di N. Terpstra, Cambridge, Cambridge University Press, 2000; Faith’s Boundaries. Laity and Clergy in Early Modern Confraternities, a cura di N. Terpstra, A. Prosperi e S. Pastore, Turnhout, Brepols, 2012; Nicholas Terpstra, «Lay Spirituality», in The Ashgate Research Companion to the CounterReformation, a cura di A. Bamji, G.H. Janssen e M. Laven, Farnham, Ashgate, 2013, pp. 261–279; A Companion to Medieval and Early Modern Confraternities, a cura di K. Eisenbichler, LeidenBoston, Brill, 2019. Sulla predicazione e incidenza degli ordini mendicanti: La predicazione dei frati dalla metà del Duecento alla fine del Trecento, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1995; Carlo Delcorno, «Medieval Preaching in Italy (1200–1500)», in The Sermon, dir. B.M. Kienzle, Turnhout, Brepols, 2000, pp. 449–560; Predicazione e società nel Medioevo: riflessione etica, valori e modelli di comportamento. Atti/Proceedings of the XII. Medieval Sermon Studies Symposium, Padova, 14–18 luglio 2000, a cura di L. Gaffuri e R. Quinto, Padova, Centro Studi Antoniani, 2002; From Words to Deeds. The Effectiveness of Late Medieval Preaching, a cura di M.G. Muzzarelli, Turnhout, Brepols, 2014. Ancora utile Carlo Delcorno, La predicazione nell’età comunale, Firenze, Sansoni, 1974. Per Firenze in particolare: Ronald F.E. Weissman, «Sacred Eloquence. Humanist Preaching and Lay Piety in Renaissance Florence», in Christianity and the Renaissance. Image and Religious Imagination in the Quattrocento, a cura di T. Verdon e J. Henderson, New York, Siracuse UP, 1990, pp. 250–271; Daniel R. Lesnick, Preaching in Medieval Florence. The Social World of Franciscan and Dominican Spirituality, Athens and London, The University of Georgia Press, 1989. Cfr. per le confraternite a Firenze: Douglas N. Dow, «An Altarpiece, a Bookseller and a Confraternity. Giovanbattista Mossi’s Flagellation of Christ and the Compagnia di San Giovanni Battista detta dello Scalzo, Florence», in Space, Place, and Motion. Locating Confraternities in the Late Medieval and Early Modern City, a cura di D. Bullen Presciutti, Leiden-Boston, Brill, 2017, pp. 321–343; Lorenzo Polizzotto, Children of the Promise. The Confraternity of the Purification and the Socialization of Youths in Florence, 1427–1785, Oxford, Oxford University Press, 2004; Konrad Eisenbichler, The Boys of the Archangel Raphael. A Youth Confraternity in Florence, 1411–1785, Toronto, University of Toronto Press, 1998; John Henderson, Piety and Charity in Late-Medieval Florence, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1997; per gli aspetti pubblici della religiosità David Rosenthal, Kings of the Street: Power, Community, and Ritual in Renaissance Florence, Turnhout, Brepols, 2015.
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delle sue tradizioni civili e la specificità del suo quadro politico, ispirato da valori religiosi in cui si rifletteva l’identità cittadina. Firenze in particolare aveva ricevuto l’eco delle parole di due popolari santi toscani come Caterina e Bernardino da Siena, che vi aveva predicato nel 1425, ed era profondamente imbevuta di valori cristiani6. La città, che aveva conosciuto anche l’intensa e severa predicazione del domenicano Giovanni Dominici, poco propenso allo studio dei classici, aveva però poi vissuto l’episcopato di sant’Antonino, discepolo del Dominici ma ben diversamente aperto alla cultura, come dimostrano le sue sintesi della storiografia e teologia cristiane, Summa theologiae (o moralis) e Chronicon7. Antonino aveva saputo anche trasferire il suo pensiero in compendi fruibili dai fanciulli (il catechismo) e dalle donne, con l’Opera a ben vivere, dedicata a Diodora Tornabuoni, sorella di Lucrezia Tornabuoni, e in seconda redazione a Lucrezia8. Forme di divulgazione biblica Emblematici effetti di questo processo di laicizzazione religiosa fiorentina con ricadute letterarie sono sia la produzione laudistica sia la proliferazione dei cantari biblici sia l’abbondanza delle sacre rappresentazioni e la produzione di una letteratura biblica dove il testo sacro non solo è volgarizzato, ma anche proposto in rima, quindi per una fruizione più dilettevole, che serviva di intrattenimento oltre che di devozione. In particolare, lo spettacolo religioso a Firenze, specie nel Quattrocento, assunse un’importanza eccezionale, perché rivestiva anche una funzione civile, era «una vera e propria forma di ‘teatro civile’ finalizzata all’educazione dell’optimus civis, un sistema di ‘edificazione’ dei cittadini9». Le feste che si crearono a fine Trecento (quella dei Magi, con la cavalcata cittadina dei notabili, e le rappresentazioni dell’Annunciazio6
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Sul lascito di santa Caterina e san Bernardino: Nirit Ben-Aryeh Debby, Renaissance Florence in the Rhetoric of Two Popular Preachers: Giovanni Dominici (1356–1419) and Bernardino da Siena (1380–1444), Turnhout, Brepols, 2001; Jane Tylus, «Caterina da Siena and the Legacy of Humanism», in Perspectives on Early Modern and Modern Intellectual History. Essays in Honor of Nancy S. Struever, a cura di J. Marino e M.W. Schlitt, Rochester, University of Rochester Press, 2001, pp. 116–143; Ead., Recliming Catherine of Siena. Literacy, Literature, and the Signs of Others, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2009 (in particolare gli ultimi capitoli). Cfr. Antonino Pierozzi OP (1389–1459). La figura e l’opera di un santo arcivescovo nell’Europa del secolo xv (Firenze, 25-28 novembre 2009), a cura di L. Cinelli e M.P. Paoli, Firenze, Nerbini, 2013; Arnaldo D’Addario, Antonino Pierozzi (santo), in Dizionario Biografico degli Italiani, III, 1961, pp. 524–532; Peter Francis Howard, Preaching and Theology in the Florence of Archbishop Antoninus 1427–1459, Firenze, Olschki, 1995; Maria Pia Paoli, «Antonino da Firenze O.P. e la direzione dei laici», in Storia della direzione spirituale. III. L’età moderna, a cura di G. Zarri, Brescia, Morcellania, 2008, pp. 85–130. Sul Dominici si veda ultra nota 33. Si legge in Antonino Pierozzi, Opera a ben vivere, a cura di L. Ferretti, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1923. Paola Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, Firenze, Le Lettere, 2016, p. XV.
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ne, dell’Ascensione di Cristo e della Pentescoste, con complesse macchine sceniche)10 furono infatti ideate per favorire una rappresentazione identitaria di legittimazione del potere che superasse le divisioni interne di uno stato guidato da cariche istituzionali dallo scarso carisma. La sacra rappresentazione fiorentina fu dunque teatro educativo, al tempo stesso civile e religioso, mirante alla formazione di una coscienza civica oltre che alla memorizzazione dei fondamenti della fede11. A Firenze i legami tra devozione e letteratura a livello popolare erano anche favoriti dalla pratica laudistica, iniziata precocemente con le lodi mariane, prima latine e poi volgari. Le confraternite mariane (a partire dai laudantes della fine del xii secolo) si moltiplicarono già nel Duecento, anche se le prime raccolte di testi laudistici fiorentini risalgono solo alla prima metà del Trecento12. Tra 1270 e 1320 vennero fondate a Firenze una dozzina di confraternite di laudesi, che in seguito continuarono a crescere di numero. La lauda fiorentina è prevalentemente lirica, i temi più frequentati sono mariani e santorali, è animata da spirito eclettico, alla ricerca di una propria identità ‘fiorentina’, parallela al riassestamento istituzionale della città. Nel Quattrocento la tradizione laudistica si fuse con il fenomeno della sacra rappresentazione, di cui il più grande autore (di sacre rappresentazioni e di laude) fu Feo Belcari.
10 Cfr. ibid., pp. 56–108; Nerida Newbegin, Feste d’Oltrarno. Plays in Churches in Fifteenth-Century Florence, Firenze, Olschki, 1996; Paola Ventrone, «I teatri delle confraternite in Italia fra xiv e xvi secolo», in Studi confraternali: orientamenti, problemi, testimonianze, a cura di M. Grazzini, Firenze, Firenze University Press, 2009, pp. 87–113. 11 Nota Ventrone che essa riprendeva lo schema della Summa theologica per confessori del vescovo Pierozzi (P. Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze, op. cit., p. 149). Sulla sacra rappresentazione fiorentina molti sono gli studi, sono essenziali: Sacre rappresentazioni nel Quattrocento, a cura di L. Banfi, Torino, UTET, 1963; Sacre rappresentazioni toscane dei secoli xv e xvi, a cura di P. Toschi, Firenze, Olschki, 1969; Nuovo corpus di sacre rappresentazioni fiorentine del Quattrocento edite e inedite, tratte da manoscritti coevi o ricontrollate su di essi, a cura di N. Newbigin, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1983; Guido Baldassarri, Le laude e le sacre rappresentazioni, in Id., Letteratura devota, edificante e morale, in Storia della letteratura italiana, dir. E. Malato, vol. II, Il Trecento, Roma, Salerno, 1995, pp. 304–314; Dieci sacre rappresentazioni inedite fra Quattro e Cinquecento, a cura di N. Newbigin, Roma, Moxedano, 2009. 12 Sulla nascita e sulla proliferazione di compagnie mariane e di laudesi fiorentine tra Due e Quattrocento vasta è la bibliografia. Sull’incontro, nel Duecento, tra le culture confraternale, mendicante e mercantile, e la lauda: Blake Wilson, Music and Merchants. The Laudesi Companies of Republican Florence, London, Clarendon Press, 1992; sulle compagnie trecentesche Frank A. D’Accone, «Le compagnie dei laudesi in Firenze durante l’Ars Nova», in L’Ars Nova italiana del Trecento. Convegno internazionale sotto il patrocinio della Società internazionale di Musicologia (Certaldo, 17–22 luglio 1969), a cura di A. Gallo, Certaldo, Centro di studi sull’Ars Nova, 1970, pp. 253–280; sull’evoluzione quattrocentesca Frank A. D’Accone, «Alcune note sulle compagnie fiorentine dei laudesi durante il Quattrocento», Rivista italiana di musicologia, X, 1975, pp. 86–114.
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La lauda e la sacra rappresentazione furono fortemente promosse nella cerchia del nuovo potere signorile mediceo13. L’invenzione della stampa a caratteri mobili favorì poi la produzione e circolazione dei primi laudografi a stampa. Anche i Piagnoni di Savonarola si appropriarono di questa tradizione: celebri i loro travestimenti spirituali di canti carnascialeschi (che si accompagnarono all’opera di complessiva ‘spiritualizzazione’ del carnevale)14. Dopo la caduta di Savonarola (il cui culto e le cui laude continuarono comunque ad essere coltivate nei monasteri femminili, e non solo) seguirono alcuni anni di relativa decadenza, fino alla ripresa dovuta al domenicano Serafino Razzi, che nel 1563 mandò alle stampe un’edizione delle laudi che ridiede valore alla pratica, estendendola anche fuori Firenze. La raccolta del Razzi è importante anche come fonte musicale, perché fa una sintesi della tradizione laudistica soprattutto fiorentina e quattrocentesca, accompagnando moltissimi testi con le intonazioni e i ‘cantasi come’, e generando una circolazione che, con san Filippo Neri, raggiunse Roma, dove trovò nuova vitalità all’interno dell’ordine oratoriano15. E ancora in ambito di diffusione popolare delle storie sacre a Firenze si producevano i cantari. Anche se poco considerati dalla critica, il repertorio prodotto da Cioni registra molti cantari biblici, da quelli sulla vita di Gesù (fanciullezza, passione, resurrezione), sulla vita della Madonna (Annunciazione, Assunzione), a quelli sul Battista, sui santi apostoli, sui personaggi del Vecchio Testamento (Giobbe, Sansone, Susanna)16. Di genere orale, la cui tradizione scritta è piuttosto labile, tra i cantari che si recitavano in piazza san Martino si annoverano infatti anche storie 13 Cfr. Renzo Rabboni, Laudari e canzonieri nella Firenze del ‘400. Scrittura privata e modelli nel Vat. Barb. lat. 3679, Bologna, CLUEB, 1991. 14 Sulla lauda mediceo-savonaroliana: Bernard Toscani, «I canti carnascialeschi e le laude di Lorenzo: elementi di cronologia», in La musica a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico (Congresso internazionale di studi. Firenze, 15–17 giugno 1992), a cura di P. Gargiulo, Firenze, Olschki, 1993, pp. 131–142 e Lorenzo de Medici, Laude, a cura di B. Toscani, Firenze, Olschki, 1990; su Savonarola e le laudi savonaroliane: Giulio Cattin, «Le poesie», in Id., Il primo Savonarola. Poesie e prediche autografe dal codice Borromeo, Firenze, Olsckhi, 1973, pp. 191–234; Patrick Macey, «The Lauda and the Cult of Savonarola», Renaissance Quarterly, XLV, 1992, pp. 439–483; Savonarolan Laude, Motets, and Anthems, a cura di P. Macey, Madison, A-R Editions, 1999; Blake M. Wilson, «“Hora mai che fora son”: Savonarola and Music in Laurentian Florence», in Una città e il suo profeta. Firenze di fronte al Savonarola, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2001, pp. 283–309; sulla pratica del «cantasi come»: Mario Fabbri, Laude spirituali di travestimento nella Firenze della Rinascenza. Arte e religione nella Firenze de’ Medici, Firenze, Città di Vita, 1980, pp. 145–158 e Patrick Macey, «Some New Contrafacta for Canti Carnascialeschi and Laude in Late Quattrocento Florence», in La musica a Firenze, op. cit., pp. 143–166. 15 Libro primo delle laudi spirituali […] raccolte dal r.p. fra Serafino Razzi, Venezia, Giunti, 1563. Cfr. Anne Piéjus, Musique et dévotion à Rome à la fin de la Renaissance. Les laudes de l’Oratoire, Turnhout, Brepols, 2013. 16 La poesia religiosa: i cantari agiografici e le rime di argomento sacro, a cura di A. Cioni, Firenze, Sansoni, 1963, rispettivamente pp. 21–39, 59–71, 99, 158–161, 169, 177, 198–204, 215–216, 224.
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bibliche17. Il più celebre e ammirato tra i canterini, Antonio di Guido, mise in ottave una «sposizione del Testamento», nove stanze composte «a preghiera d’un serviziale di S. Maria Nuova18»; a Niccolò cieco, che recitò molte storie sacre in volgare, è attribuita una storia di Susanna19. Il genere ebbe una certa influenza sui poemi della Tornabuoni in ottave, come vedremo. Il primo cantare biblico andato in stampa a Firenze nel 1482 è però di origine senese, La passione di Gesù Cristo di Nicolò Cicerchia. Dell’autore, seguace di santa Caterina, si sa solo che accompagnò la santa ad Avignone nella sua missione presso il papa. I suoi due cantari di argomento evangelico, La passione di Gesù Cristo e La resurrezione di Gesù, furono ripetutamente editi nel secolo degli incunaboli e si presentano come opere di meditazione e devozione ad uso di confraternite20. Firenze se ne appropriò, mandandoli a stampa e arrivando ad attribuirli ad autori fiorentini, al Boccaccio e a Bernardo Pulci. A nome di quest’ultimo l’opera del Cicerchia fu spesso edita, con piccole varianti, accompagnata al ternario su Maria Maddalena: Il pianto della Maddalena, effettivamente del Pulci21. Questi fu anche autore di una Passione e di un capitolo in terzine sullo stesso tema: La passione del nostro Signore Iesù Christo22. Il primo è un poema in 207 ottave, composto, secondo la dedica a suor Annalena Tanini delle Murate di Firenze, per stimolare nei cristiani la partecipazione alle vicende della passione. Così si legge nelle pagine prefatorie: «Et però,
17 Sui canterini in genere I cantari. Struttura e tradizione. Atti del convegno di Montréal 19–20 marzo 1981, a cura di M. Picone e M. Bendinelli Predelli, Firenze, Olschki, 1984; Il cantare italiano fra folklore e letteratura, a cura di M. Picone e L. Rubini, Firenze, Olschki, 2007; Margherita Lecco, Studi sui cantari e su altri testi italiani fra Medioevo e Rinascimento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015; Vittore Branca, Studi sui cantari, Firenze, Olschki, 2014; Luca Degl’Innocenti, «Al suon di questa cetra». Ricerche sulla poesia orale del Rinascimento, Firenze, Società Editrice Fiorentina 2016. Manca però uno studio specifico sui cantari di argomento sacro. 18 Cfr. Lirici toscani del Quattrocento, a cura di A. Lanza, Roma, Bulzoni, 1973–1975, p. 169. 19 Cfr. «La Istoria di Susanna e Daniello, poemetto popolare italiano antico», a cura di A. Parducci, in Romania, XLII, 1913, pp. 34–75; Irene Tani, «Niccolò cieco», in Dizionario biografico degli Italiani, LXXVIII, 2013, p. 387. 20 Niccolò Cicerchia, La passione di Gesù Cristo, Firenze, S. Jacopo a Ripoli, [ca 1482]. Si veda Cantari religiosi senesi del Trecento. Neri Pagliaresi, fra Felice Tancredi da Massa, Niccolò Cicerchia, a cura di G. Varanini, Bari, Laterza, 1965. Un terzo poema del Cicerchia, La vendetta di Cristo, non è biblico, ma tratta di un miracolo avvenuto ai tempi di Vespasiano. 21 Esempio: La passione del nostro signore Giesu Christo. In ottaua rima. Et il pianto della Maddalena. Composto da Bernardo Pulci fiorentino. Nuouamente ricorretta, & ristampata, [Firenze?, ca 1515], in cui la Passione (incipit: O increata maestà di Dio) è quella del Cicerchia. Altre edizioni del 1550 a Firenze s.n.t. e, dopo il 1550, Alle scalee di Badia, s.d. 22 L’edizione critica delle rime di Bernardo Pulci a cura di Fabio Barracalla è in corso di stampa. Cfr. la recente voce di Alessio Decaria, «Pulci, Bernardo», in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXV, 2016, pp. 660–662, gli attribuisce la Passione di Cristo e il Lamento di Maria Maddalena, che esce però solo nel ‘500. Ho visto l’edizione: Bernardo Pulci, De passione Domini, Firenze, Francesco Bonaccorsi, 3.XI.1490 (incipit: Tutti voi che passate per via).
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dilectissima mia, quando leggerai questi versi, fa che tu presti qualche lachryma insieme con quella isconsolata madre a piè del sanctissimo legno inginocchiata et dello suo giusto sangue dipinta23». Il poema è una fedele narrazione della passione secondo i Vangeli sinottici (Mt 26 e 27; Mc 14 e 15; Lc 22, 23 e 24; Gv 18 e 19). L’atto finale della redenzione è letto sulla base delle figure del Vecchio Testamento che prefigurano Cristo, molti sono infatti i riferimenti al testo veterotestamentario. La poesia a Firenze ha visto all’epoca una produzione abbondante in ambito sacro. Come mostra il recente studio di Marco Villoresi, la Vergine fu «copiosamente celebrata anche dalla poesia», generando «un immaginario mariano vivissimo24». Firenze registra anche parafrasi in versi dei Vangeli, che sono attribuite ad Antonio Pucci e sono rimaste manoscritte, in cui i Vangeli sono organizzati secondo l’anno liturgico (117 capitoli in terzine e 93 in altre forme: sonetti e canzoni)25. La fortuna di tutte queste forme è inevitabilmente debitrice della grande valorizzazione del toscano e della poesia promossa da capolavori come la Commedia, i Rerum Vulgarium Fragmenta, il Decameron. Ma pure questa letteratura alta attinge, come si è visto, a piene mani alla Bibbia26. Dante era anche ritenuto autore di una fortunata raccolta dei salmi penitenziali in terza rima, Incomincia gli setti psalmi penitentiali vulgarmente composti, edita per la prima volta a Firenze da Johannes Petri nel 147127, e nel Quattrocento gli è attribuita anche un’altra composizione d’impronta biblica, che ebbe l’onore della stampa: Il credo, uscito dapprima a Roma nel 1475, presso Johann Shurener, poi in ben nove edizioni, per lo più fiorentine28. Questo Credo volgare venne ristampato anche in successive edizioni del poema. Prima ancora che la Commedia apparisse a stampa (Venezia, Vendelinus de Spira,
23 B. Pulci, De passione Domini, op. cit., c. a2r. Sulle suore Murate cfr. Kate Lowe, «Female Strategies for Success in a Male-Ordered World. The Benedictine Convent of Le Murate in the Fifteenth and Early Sixteenth Centuries», Studies in Church History, XXVII, 1990, pp. 209–221 (numero a cura di W.J. Sheils e D. Wood su Women in Church History); ancora utile Giuseppe Zippel, «Le monache d’Annalena e il Savonarola», Rivista d’Italia, III, 1901, pp. 231–249. 24 Marco Villoresi, Sacrosante parole. Devozione e letteratura nella Toscana del Rinascimento, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2014, p. XVII. 25 Sono conservate nei codici ms 2294 e 2760 della Biblioteca Riccardiana di Firenze. 26 Si veda supra nota 20 a p. 18. 27 Pseudo-Dante, Incomincia gli setti psalmi penitentiali vulgarmente composti. E prima Domine ne in furore, Firenze, Johannes Petri, 1471. Cfr. Ester Pietrobon, «Fare penitenza all’ombra di Dante. Questioni di poesia e devozione nei Sette Salmi», L’Alighieri, n.s., LI, 2018, pp. 63–80. 28 Su cui Giuliano Mambelli, Gli annali delle edizioni dantesche, Bologna, Zanichelli, 1931. Dennis E. Rhodes, «The Early Editions of the Credo di Dante», Cambridge Bibliographical Society Transaction, IX, 1990, pp. 531–536; Massimo Seriacopi, Il Credo di Dante, il Compendio della Comedìa di Cecco degli Ugurgieri e il Capitolo di Jacopo Alighieri: qualche notazione, in Id., Intorno a Dante, Firenze, Libreria Chiari, 2004, pp. 49–82.
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1477) questi testi (Salmi e Credo) circolarono largamente, attribuendo al sommo poeta opere che di suo ebbero solo il modello della terzina. La presenza della Bibbia nella letteratura fiorentina è attestata anche in quei ‘minori’ che fanno da sfondo alle tre corone, come Domenico Cavalca o Jacopo Passavanti29. Tutto questo indica bene il grado di penetrazione del testo biblico nelle abitudini di lettura e nelle pratiche dei fiorentini, laici ed ecclesiastici, più o meno colti, un atteggiamento che si rafforzò fortemente con l’Umanesimo. Umanesimo fiorentino e Bibbia L’Umanesimo segnò una continuità, non una frattura in questo universo biblico. Se da una parte la riscoperta e valorizzazione dell’antichità con lo splendore della sua arte autorizzavano a proporre Firenze come la nuova Atene, dall’altra correva parallelo un altrettanto intenso interesse per la Bibbia30. A questo si aggiunse l’eredità dell’ondata di entusiasmo per i Padri portata dal Concilio del 143931. Il ‘ritorno di Platone’ nella Firenze dei Medici era stato infatti preceduto dal ritorno dei Padri della Chiesa, favorito da questo evento, che (dopo Basilea e Ferrara) portò a Firenze dignitari e legati bizantini, tra cui Gemisto Pletone e Giovanni Bessarione. Il lavoro di umanisti come Niccolò Niccoli e Ambrogio Traversari significò anche un ritorno alle Sacre Scritture e l’avvio di una filologia biblica, che ebbe nel secolo successivo importanti sviluppi. La Firenze medicea crebbe infatti sulla stretta collaborazione di umanisti e uomini di Chiesa, anche relativamente alla diffusione e conoscenza della Sacra Scrittura32. 29 Si veda su Cavalca, Edoardo Barbieri, «Domenico Cavalca volgarizzatore degli Actus Apostolorum», in La Bibbia in italiano tra Medioevo e Rinascimento, op. cit., p. 291–328. 30 Sulla continuità tra pensiero cristiano, platonismo e umanesimo si veda: Umanesimo e Padri della Chiesa. Manoscritti e incunaboli di testi patristici da Francesco Petrarca al primo Cinquecento, a cura di S. Gentile, Milano, Rose, 1997. 31 Cfr. Vasile Alexandru Barbolovici, Il Concilio di Ferrara-Firenze (1438–1439). Storia ed ecclesiologia delle Unioni, Bologna, EDB, 2018; Firenze e il Concilio del 1439. Convegno di studi, Firenze, 29 novembre-2 dicembre 1989, a cura di P. Viti, Firenze, Olschki, 1994; Ministero per i beni culturali e ambientali, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Le edizioni a stampa degli atti del Concilio di Firenze del 1439, a cura di P. Pastori, Firenze, Tip. Della Biblioteca Nazionale Centrale, 1989. 32 La storiografia ha però mancato di sottolinearla. Un giudizio di strabismo per gli studi sul Quattrocento, proprio per la separazione tra classicismo e spiritualità, è proposto da Remo L. Guidi, nella prefazione a Frati e Umanisti nel Quattrocento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2013, p. 1. In genere gli studi sulla religione a Firenze si focalizzano sul rapporto tra devozione e politica, mancando, a parte l’acuto saggio di Bausi (Francesco Bausi, «Bibbia e Umanesimo», in La Bibbia nella letteratura italiana. V. Dal Medioevo al Rinascimento, a cura di G. Melli e M. Sipioni, Brescia, Morcelliana, 2013, pp. 363–398), di sondare la profonda radice biblica, peraltro ben attestata, della spiritualità e di molti aspetti della cultura fiorentina. Un’interessante prospettiva, ma sempre più teologica che biblica, è rappresentata da Amos Edelheit, Ficino, Pico and Savonarola. The Evolution of Humanist Theology 1461/2–1498, Leiden-Boston, Brill, 2008. Si vedano inoltre John Monfasani, Criticism of Biblical Humanists in Quattrocento Italy, in Biblical Humanism and
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L’opposizione Cristianesimo-Umanesimo paganeggiante, avanzata a Firenze dal domenicano Giovanni Dominici nel suo Lucula noctis, non aveva avuto presa sulla città33, anzi si può con più sicurezza affermare che Umanesimo e cultura biblica camminarono unitamente e contribuirono insieme a rendere splendida la città di Firenze, nuova Atene, come volevano Salutati e Poliziano, ma anche nuova Gerusalemme, come proponeva Savonarola34. Basti pensare che Marsilio Ficino, promotore del ‘ritorno di Platone’, attuato con le traduzioni e i commenti dei dialoghi platonici e delle opere dei seguaci Plotino e Proclo, oltre che sacerdote, traduttore e commentatore dei mistici scritti di Dionigi Areopagita, era anche commentatore delle epistole di san Paolo e volgarizzatore dei Salmi (o meglio, di un compendio di invocazioni tratte dai Salmi, destinato alla famiglia Medici)35. Firenze conobbe in età umanistica il primo tentativo ‘moderno’ di ricostruzione del testo biblico: già negli anni ‘40 del xv secolo Giannozzo Manetti aveva iniziato una nuova traduzione latina della Bibbia dall’ebraico36. Sebbene l’impresa non fosse
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Scholasticism in the Age of Erasmus, a cura di E. Rummel, Leiden-Boston, Brill, 2008, pp. 15–38; Dennis F. Lackner, «The Camaldolese Academy: Ambrogio Traversari, Marsilio Ficino and the Christian Platonic Tradition», in Marsilio Ficino: His Theology, His Philosophy, His Legacy, a cura di M.J.B. Allen, V. Rees e M. Davies, Leiden-Boston, Brill, 2002, pp. 14–44. Giovanni Dominici, Lucula noctis, a cura di E. Hunt, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1940. Su cui: Claudio Mésoniat, Poetica theologia. La Lucula noctis di Giovanni Dominici e le dispute letterarie tra ‘300 e ‘400, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984; Remo L. Guidi, Colombini, Bernardino da Siena, Savonarola: uomini e simulacri, Roma, Benedictina, 1989; N.B.-A. Debby, Renaissance Florence in the Rhetoric of Two Popular Preachers. Giovanni Dominici (1356–1419) and Bernardino da Siena, op. cit. Su questa pagina della storia intellettuale fiorentina si possono vedere alcuni dei saggi che costituiscono il ricco capitolo «L’età di Firenze (1378–1494)», in Atlante della letteratura italiana, dir. da S. Luzzatto e G. Pedullà, Torino, Einaudi, 2010, I, pp. 292-602; Paolo Viti, «L’Umanesimo toscano del primo Quattrocento» e Paolo Orvieto, «L’Umanesimo toscano del secondo Quattrocento», in Storia della letteratura Italiana. III. Il Quattrocento, dir. E. Malato, Roma, Salerno, 1994, pp. 211–294 e 295–405. Per il commento delle epistole di san Paolo, che si trova alle pp. 425–472 dell’Opera omnia ficiniana (Basilea 1576, rist. an. Torino, Bottega d’Erasmo, 1963), si veda Cesare Vasoli, «Le Praedicationes di Marsilio Ficino», in Letteratura in forma di sermone: i rapporti tra predicazione e letteratura nei secoli xiii–xvi. Atti del seminario di studi, Bologna 15–17 novembre 2001, a cura di G. Auzzas, G. Baffetti e C. Delcorno, Firenze, Olschki, 2003, pp. 9–28. Per il volgarizzamento dei Salmi: Salterio abbreviato di s. Gerolamo (Breviarium Psalterii, in Patrologia Latina CXV, coll. 1451–1456), si veda Paul Oscar Kristeller, Supplementum Ficinianum, Firenze, Olschki, 1937, II, pp. 185–187; Edoardo Barbieri, Panorama delle traduzioni bibliche in volgare prima del Concilio di Trento, Milano, CRELEB-Università Cattolica, 2011, pp. 39–40. In generale: Peter SerracinoInglot, «Ficino the Priest», in Marsilio Ficino: His Theology, His Philosophy, His Legacy, op. cit., pp. 1–13. Sull’esegesi di Ficino: Henning G. Reventlow, History of Biblical Interpretation. Vol. III. Renaissance, Reformation, Humanism, tr. ing. J.O. Duke, Atlanta, Society of Biblical Literature, 2010, pp. 23–29. Su Manetti: «Dignitas et excellentia hominis». Atti del Convegno internazionale di studi su Giannozzo Manetti. Georgetown University-Kent State University, Fiesole-Firenze, 18–20 giugno 2007, a cura di S.U. Baldassarri, Firenze, Le Lettere, 2008; Paul Botley, Latin Translation in the Renaissance. The Theory and Practice of Leonardo Bruni, Giannozzo Manetti and Desiderius
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poi stata compiuta e il suo autore fosse passato a Roma, il tentativo dimostra quanto Umanesimo e cultura biblica fossero strettamente connessi a Firenze. Manetti aveva comunque lasciato a Firenze un’eredità che approdò a fine secolo agli studi biblici di Giovanni Pico della Mirandola, i cui scritti maggiori sono commenti alla Bibbia o dalla Bibbia ispirati37. Il lavoro di Manetti, come quello di umanisti come Niccolò Niccoli e Ambrogio Traversari, significò anche un ritorno alle Sacre Scritture e l’avvio di una filologia biblica, che ebbe poi nel secolo successivo, nelle imprese bibliche di Sante Pagnini e nella scuola ebraica di San Marco, degni successori38. Se così vivo fu l’interesse di filologi e uomini di Chiesa a Firenze per le Sacre Scritture, non meno avvenne sul versante poetico: a metà Quattrocento Domenico di Giovanni da Corella compose un poema in distici elegiaci, Theotocon, sulla Madre di Dio, dedicato a Piero de’ Medici, imitato poi dai poemi latini di Ugolino Verino, autore di una trasposizione in esametri della Bibbia, il Poema sacrum Veteris et Novi Testamenti39. Persino Poliziano compose un Pater Noster in esametri dattilici e due inni alla Vergine40. Anche per l’Umanesimo volgare la letteratura attesta che la Bibbia doveva essere al centro della vita culturale fiorentina, basti pensare a opere come La città di vita
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Erasmus, Cambridge, Cambridge University Press, 2004; Annet den Haan, «Giannozzo Manetti’s New Testament: New Evidence on Sources, Translation Process and the Use of Valla’s Annotationes», Renaissance Studies, XXVIII, 2014, pp. 731–747; John Monfasani, «Criticism of Biblical Humanists in Quattrocento Italy», in Biblical Humanism and Scholasticism in the Age of Erasmus, op. cit., pp. 15–38; H. Reventlow, History of Biblical Interpretation. Vol. III, op. cit., pp. 5–11. Si vedano F. Bausi, «Bibbia e Umanesimo», art. cit., pp. 370–383; Amos Hedelheit, «Reading the Penitential Psalms in Late Fifteenth Century Florence», in «Wading Lambs and Swimming Elephants». The Bible for the Laity and the Theologians in Late Medieval and Early Modern Era, a cura di W. François e A. den Hollander, Leuven-Paris, Peeters, 2012, pp. 41–54. Su Sante Pagnini e gli studi biblici gravitanti intorno al Savonarola e a San Marco, dove il rabbino Blemet, che aveva preso i voti come domenicano nel 1493, insegnava ebraico, si veda Timoteo Centi, «L’attività letteraria di Sante Pagnini nel campo delle scienze bibliche», Archivum Fratrum Praedicatorum, XV, 1945, pp. 5–51; Saverio Campanini, «Pagnini, Antonio Baldino (Sante)», Dizionario Biografico degli Italiani, LXXX, 2015, p. 333. Ancora inedito il poema del Verino, di cui ci sono rimasti solo alcuni libri. Cfr. Francesco Bausi, «Ugolino Verino, Savonarola e la poesia religiosa tra Quattro e Cinquecento», in Studi savonaroliani. Verso il V centenario, Atti del Seminario di studi savonaroliani, Firenze, Accademia di Scienze e Lettere «La Colombaria», gennaio 1995, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 1996, pp. 127–135. Per il Theotocon: Domenico di Giovanni da Corella, Theotocon, a cura di L. Amato, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012; cfr. F. Bausi, «Bibbia e Umanesimo», art. cit., pp. 386–397. Guido Cortassi, «Angelo Poliziano: Padre nostro», in Il sacro nel Rinascimento. Atti del XII convegno internazionale, Chianciano-Pienza 17–20 luglio 2000, a cura di L. Secchi Tarugi, Firenze, Cesati, 2002, pp. 395–404; Maria Accame, «L’interesse di Poliziano per gli autori cristiani. La traduzione di Atanasio», in Volgarizzare e tradurre dall’Umanesimo all’età contemporanea. Atti della giornata di studi 7 dicembre 2011, Università di Roma La Sapienza, a cura di M. Accame, Tivoli, Tored, 2013, pp. 47–81. La traduzione di cui si parla nel saggio riguarda il commento ai Salmi.
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di Matteo Palmieri o il commento alla Commedia di Cristoforo Landino, che alla Bibbia si ispirano41. Ma molte altre prove bibliche poetiche in volgare si possono enumerare nella Firenze del Quattrocento42. Si può affermare che la predicazione biblica di Savonarola non crescesse in un campo privo di corrispondenza, perché la Bibbia apparteneva alla cultura di Firenze alla fine del Quattrocento forse più che in altri centri culturali italiani. La storiografia ha prestato davvero poca attenzione a questa produzione fiorentina biblica in volgare, che è stata invece ricca e abbondante, interessata soprattutto al Nuovo Testamento, in particolare alle figure di Gesù e di Maria43. Molti di questi testi si devono ancora leggere in antiche stampe, incunaboli e cinquecentine, o addirittura in manoscritti. La stessa corte medicea fu coinvolta in questa rielaborazione della Bibbia: non solo Lucrezia, come vedremo, ma anche il figlio Lorenzo compose laudi e rime sacre44. A completare il quadro è pure assai rilevante l’arte patrocinata dai Medici, che nelle figure bibliche trovava modi di proporre modelli identitari. Profezie e vita politica La predicazione di Gerolamo Savonarola, che aveva trovato a Firenze la sua vera dimensione profetica e che si proponeva come guida del popolo fiorentino verso la renovatio che avrebbe dovuto trasformare la città in antesignana di una nuova cristianità, abbandonando, come gli Ebrei, la schiavitù dei beni terreni, conferma questo legame tra città e Sacre Scritture e la sua declinazione in senso sociale e politico45. Infatti Girolamo intese la profezia come strumento dato da Dio per guidare 41 Simon Gilson, Dante and Renaissance Florence, Cambridge, Cambridge University Press, 2005; Alessandra Mita, Matteo Palmieri. Una biografia intellettuale, Genova, Name, 2005. 42 Per una prospettiva sintetica mi permetto di rimandare a Erminia Ardissino, «Poesia biblica a Firenze nell’età del Savonarola», Italique. Poésie italienne de la Renaissance, XXI, 2018 (numero monografico su Poesia e religione, a cura di C. Lastraioli e D. Solfaroli Camillocci), pp. 1–28. 43 Sulla cultura teologica a Firenze si veda il capitolo di Mario Martelli, «Teologia e letteratura», in Id., «Firenze», in Geografia e storia. II. L’età moderna, in Letteratura italiana, dir. A. Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1988, pp. 104–167, che parla per Firenze di un vigoroso sentimento religioso che la critica illuministica e romantica consideravano superato dalla nuova temperie umanistica. 44 Lorenzo de’ Medici, Rime spirituali. La rapresentatione di san Giovanni e Paulo, a cura di B. Toscani, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2000; Daniela Delcorno Branca, «Lucrezia, Poliziano, Lorenzo, note su alcune convergenze fra lirica sacra e lirica profana», Interpres, XIX, 2000, pp. 111–134; Maria Pia Sacchi, «Lorenzo: poesia sacra e sacro nella poesia», in La Bibbia e la letteratura italiana. V, op. cit., pp. 455–470. 45 Sul Savonarola molta è la bibliografia, indichiamo per l’aspetto politico e il profetismo almeno: Lorenzo Polizzotto, La missione di G. Savonarola in Firenze. Contributi storici, Pistoia, Quaderni di Koinonia, 1996; Claudio Leonardi, «Savonarola e la politica nelle prediche sopra l’Esodo e nel Trattato circa el reggimento e governo della città di Firenze», in Per la ricerca e l’insegnamento. Studi in onore di Fausto Fonzi, a cura di O. Confessore e M. Casella, Galatina, Congedo, 1999, pp. 75–86; «Questa è la terra tua». Savonarola a Firenze, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2000; Una città e il suo profeta. Firenze di fronte al Savonarola, a
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il popolo cristiano verso la sua meta finale, la beatitudine eterna. Ovviamente il suo magistero non è pensato come derivato solamente dalla lettura delle Sacre Scritture, come sarebbe per ogni predicatore, ma come rivelazione di Dio, gratis data per il bene dell’umanità46. La sua profezia è diretta alla salvezza dell’umanità, a indirizzare i fedeli verso Dio; la politica non è oggetto della sua profezia, se non nella misura in cui compete alla politica ordinare il vivere pacifico della città, allontanarla dai vizi, dare buone leggi secondo le indicazioni divine. Secondo Savonarola, è sulla base della legge divina che si deve regolare la legge umana che agisce nella storia, ma la guida deve essere nella direzione di Dio anche nella storia47. Coerente con questo proposito di guidare l’umanità alla beatitudine da Cristo promessa anche tramite il governo terreno, egli propose una riforma anche per le donne, che avrebbe dovuto da una parte dare loro indipendenza e dall’altra affidare loro il compito di guida per il rinnovamento della Chiesa e universale. Anche se la riforma delle donne programmata e avviata a Firenze venne poi abbandonata, le donne fiorentine (e toscane) recepirono l’invito savonaroliano e, come Domenica da Paradiso, abbracciarono la proposta e cercarono la realizzazione di una spiritualità che valorizzava la loro missione anche in rapporto alla città e alla loro partecipazione pubblica48. Nelle sue molte prediche sul Vecchio Testamento (su Aggeo, Amos, Zaccaria, sui Salmi, su Ezechiele, infine, ultime, quelle sull’Esodo), Savonarola «interpreta la situazione veterotestamentaria come attuale, e applica questa corrispondenza alla situazione fiorentina, raccogliendo il popolo della città attorno a una finalità politica. […] egli vede in quello fiorentino un vero popolo, un soggetto politico unitario, cura di G.C. Garfagnini, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2001; Una Gerusalemme toscana sullo sfondo di due giubilei, 1500-1525. Atti del Convegno di studi, San Vivaldo, Montaione 4–6 ottobre 2000, a cura di S. Gensini, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2004; Lauro Martines, Savonarola. Moralità e politica a Firenze nel Quattrocento, tr. it. L.A. Dalla Fontana, Milano, Mondadori, 2008; Riccardo Fubini, «Profezia e riforma nel pensiero di Girolamo Savonarola», in Scritture carismi istituzioni. Percorsi di vita religiosa in età moderna. Studi per Gabriella Zarri, a cura di C. Bianca e A. Scattigno, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018, pp. 331–343. 46 Savonarola appare in perfetta coerenza con le definizioni di Tommaso sulla profezia, cfr. Summa theologiae II, II, q. 172, a. 1, ad. 4; II, II, q. 173, a. 5, e concl. Indica queste affinità Loredana Lunetta, «La figura del profeta in Angelo da Vallombrosa, Girolamo Savonarola e Giorgio Benigno Salviati», in Studi savonaroliani. Verso il V centenario, op. cit., pp. 85–92. Sulla contraddizione tra attitudine profetica e teologica in Savonarola, cfr. Stéphane Toussaint, Profetare alla fine del Quattrocento, in ibid., pp. 167–181. 47 Cfr. Alessandro Scarsella, «Luoghi biblici e profezia in Girolamo Savonarola», in La Bibbia nella letteratura italiana. V, op. cit., pp. 435–454; Edoardo Barbieri, «Savonarola Girolamo», in Dizionario biblico della letteratura italiana, dir. M. Ballarini, Milano, ITL, 2018, pp. 881–885. 48 Cfr. Lorenzo Polizzotto, «When Saints Fall Out. Women and the Savonarolan Reform in Early Sixteenth Century Florence», Renaissance Quarterly, XLVI, 1993, pp. 486–525; Id., «Savonarola, savonaroliani e la riforma della donna», in Studi savonaroliani. Verso il V centenario, op. cit., pp. 229–244; Tamar Herzig, Le donne di Savonarola. Spiritualità e devozione nell’Italia del Rinascimento, Roma, Carocci, 2008.
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in analogia con quello biblico, un popolo eletto, ma politicamente eletto49». Nelle sue prediche c’è pure l’aspirazione alla realizzazione di una convivenza sociale equa, che richiedeva il sacrificio dei più ricchi per il bene comune di tutti i cittadini50. È in questo clima che si formò il pensiero del fondatore della scienza politica, che non fu esente da influssi biblici51. È ben noto che, nel delineare la figura del suo principe ideale, Machiavelli, nel capitolo sesto del suo trattato, ne confronta le caratteristiche con Mosé, oltre che con altri personaggi storici o mitologici come Ciro, Romolo, Teseo, e che nell’esortazione finale al dedicatario, Lorenzo de’ Medici, invitandolo a divenire guida di un riscatto dell’Italia, al presente «più stiava che li Ebrei», di nuovo richiama la figura di Mosè, come modello di guida per sollecitare «la virtù d’uno spirito italiano52». Meno noto è che il Segretario fiorentino fu anche (seppur per una minima porzione di testo) traduttore dei Salmi, come appare in un’esortazione alla penitenza, scritta probabilmente negli ultimi anni di vita per una confraternita fiorentina, in cui inserisce citazioni dal cinquantesimo salmo, il Miserere, in latino e in volgare, per accompagnare osservazioni sulla misericordia divina. Se all’avvio cita il versetto introduttivo in latino: «De profundis clamavi ad te, Domine, Domine, exaudi vocem meam», poi invita i fedeli a ripetere le parole di David, il «Profeta», traducendo il seguito: «O Signore, io, constituto nel profondo del peccato, ho con voce umile e piena di lacrime chiamato a te, o Signore, misericordia; e ti priego, e tu sia contento, per la tua infinita bontà concedermela53». La cultura biblica di Machiavelli non sorprende, se si considerano i suoi interessi per l’antichità, della cui politica alcuni libri biblici trattano. Ma
49 Claudio Leonardi, «Savonarola e la politica», in Savonarola e la politica, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 1997, pp. 74–88: 88. Su Savonarola e la politica fiorentina: Donald Weinstein, Savonarola and Florence. Prophecy and Patriotism in the Renaissance, Princeton, Princeton University Press, 1970; Lorenzo Polizzotto, The Elect Nation. The Savonarolan Movement in Florence 1494–1545, Oxford, Oxford University Press, 1994. 50 Lorenzo Polizzotto, «Savonarola e la riorganizzazione della società», in Savonarola e la politica, op. cit., pp. 149–162. 51 Innocenzo Cervelli, «Savonarola, Machiavelli e il libro dell’Esodo», in Savonarola, democrazia, tirannide, profezia, a cura di G.C. Garfagnini, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, Firenze, 1998, pp. 244–298; Luigi Lazzerini, «Machiavelli e Savonarola, l’Esortazione alla penitenza e il Miserere», Rivista di storia e letteratura religiosa, LXIV, 2008, pp. 385–402. 52 Nicolò Machiavelli, Il principe, a cura di M. Martelli, Roma, Salerno 2006, pp. 113–123 e 312. Sui riferimenti biblici del Principe e in altre opere del Segretario fiorentino: John H. Geerken, «Machiavelli Moses and Renaissance Politics», Journal of the History of Ideas, LX, 1999, pp. 579– 595; Christopher Lynch, «Machiavelli on Reading the Bible Judiciously», Hebraic Political Studies, I, 2006, pp. 162–185; Marcia L. Colish, «Republicanism, Religion, and Machiavelli’s Savonarolan Moment», Journal of the History of Ideas, LX, 1999, pp. 597–616 (numero monografico su Machiavelli and Religion: A Reappraisal). 53 Nicolò Machiavelli, [Exortatione alla penitenza], in Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 932–934: 932–933.
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egli aveva anche conosciuto da giovane l’intensa spinta religiosa che Firenze aveva vissuto sotto il reggimento di Savonarola e non sorprende trovare echi del messaggio savonaroliano nei suoi scritti. Questioni bibliche tra Cinque e Seicento In questa Firenze, che non obliò subito con il ritorno dei Medici l’eredità e le rivelazioni savonaroliane, che anzi vide negli eventi del 1527 e 1530 realizzarsi le profezia della punizione divina, la Bibbia continuò a essere un riferimento, anche letterario. Anzitutto l’attenzione si appuntò sui Salmi, soprattutto quelli penitenziali, che erano testi di largo uso non solo per la liturgia, ma anche per la preghiera individuale. Questo spiega non solo la diffusione delle terzine dello Pseudo-Dante, che ebbero una decina di edizioni nel Quattrocento a Firenze, ma anche il fervore delle traduzioni che proprio a Firenze trova esempi notevoli. Infatti presto i fiorentini danno vita a nuove e rinnovate traduzioni dei Salmi penitenziali, su cui si cimentarono umanisti come Girolamo Benivieni, Luigi Alamanni, poi Benedetto Varchi, e persino una donna, Laura Battiferri54. Fiorentino era il cappuccino Lodovico da Filicaja, che a Venezia diede alle stampe due poemi in terzine dantesche, il primo sulla vita di Cristo, il secondo sugli Atti degli apostoli55. Animato dal desiderio di offrire letture edificanti, come sempre più spesso avverrà poi nella seconda metà del secolo, egli, cappuccino, bene rappresenta un momento particolare della spiritualità fiorentina che attraversa, come l’Italia centrale, le turbolenze religiose di metà secolo. A Firenze si raccolsero molti dei seguaci di Juan de Valdès e, come ha dimostrato Massimo Firpo, il messaggio valdesiano ebbe un’eco importante nella città, se il Beneficio di Cristo circolava manoscritto pure negli ambienti di corte. In questo clima la chiesa di San Lorenzo poté essere affrescatta da Iacopo Pontormo con soggetti biblici organizzati secondo lo spiritualismo, quasi un ciclo di istruzione e
54 Per le traduzioni dei Salmi nel Cinquecento cfr. Ester Pietrobon, La penna interprete della cetra. I Salmi in volgare e la poesia spirituale italiana nel Rinascimento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2019, pp. 34–51. Per la traduzione del Varchi: Ester Pietrobon, «Per l’edizione dei Salmi tradotti in versi toscani da Benedetto Varchi», L’Ellisse, XIII, 2018, pp. 53–66. Si veda anche Salmi penitenziali di diversi eccellenti autori [Giolito 1568]. In appendice: la prima redazione delle Lagrime di San Pietro di Luigi Tansillo, a cura di R. Morace, Pisa, Edizioni ETS, 2016, pp. 58–67. 55 La vita del nostro salvatore Iesu Christo, overo Sacra storia evangelica tradotta non solo di latino in volgare, ma etiam in verso per dare materia al lettore di piu suavemente corre el fructo necessario alla vita di ciascuno fedel christiano dallo evangelico arboro, per me inutile servo di Christo frate Lodouico da Filicaia da Firenze frate cappuccino, Venezia, Nicolo da Bascarini, 1548; Gli Atti de gli apostoli secondo san Luca, tradotti in lingua volgare in terza rima. La vita anchora et morte de dodici apostoli di Iesu in quarta rima: per dar materia a quelli che si dilettano del verso, accio che lascino le buggie & favole, & che si esercitano più utilmente, per il reverendo frate Lodouico de Filicaia, Venezia, Al segno della Speranza, 1549.
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volgarizzamento, una visualizzazione per il popolo del piano biblico della salvezza, secondo l’interpretazione valdesiana56. Gli affreschi del Pontorno, sarebbero stati ispirati da Benedetto Varchi, che del Valdès era stato un seguace, salvo poi rientrare nei ranghi dell’ortodossia con l’evolversi della situazione religiosa in Italia. Molte sono le prove che Massimo Firpo porta per dimostrare come gli archetipi del pensiero di Benedetto Varchi, animatore di questo ambiente culturale, si debbano cercare proprio negli scritti di Valdès, influenza che il Varchi peraltro non nascondeva, almeno non nei primi tempi, anche oltre la messa all’Indice del Beneficio di Cristo, salvo poi orientarsi verso espressioni in linea con la Chiesa romana. Intorno al Varchi negli anni ’40 circolavano a Firenze anche altri esponenti dello spiritualismo italiano, in primis Caterina Cibo, che visitò Domenica da Paradiso, e Vittoria Colonna, che seguiva il cappuccino Bernardino Ochino e le sue prediche ovunque57. Fu la frequentazione della Cibo, di Pietro Carnesecchi, di Marcantonio Flaminio a Firenze, a offrire il materiale per i Dialogi sette che Ochino pubblicò nel 1540, in cui tra i dialoganti vi è la Cibo. La divulgazione dei principi del Beneficio di Cristo erano infatti favoriti a Firenze dall’indirizzo platonico-ermetico, che da Ficino si era irradiato e irrobustito attraverso il Cinquecento. In generale tutta la cultura fiorentina, che sotto Cosimo I aveva ritrovato un nuovo fervore grazie anche alle due accademie da lui istituite (Accademia Fiorentina e Accademia del Disegno), era a metà secolo in grande fermento. La presa di potere da parte di Cosimo I era avvenuta in un clima carico di tensioni e conflitti, determinati dall’opposizione repubbicana che si avvantaggiava anche dell’appoggio di papa Paolo III (Farnese), che tra l’altro si intrecciava con l’ostilità sotterranea ma forte dei domenicani di San Marco, tra cui viva era la venerazione di Savonarola. La vicenda degli affreschi di Pontormo in San Lorenzo dimostra bene come la Bibbia fosse strumento di una propaganda antipapale, se non proprio eterodossa, il che prova anche come a Firenze vi fossero grandi movimenti che 56 Cfr. Massimo Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino, Einaudi, 1997, in particolare pp. 92–102. Ma si vedano anche le pagine su Varchi e sull’Accademia Fiorentina in Massimo Firpo, «Riforma religiosa e lingua volgare», in Id., «Disputar di cose pertinente alla fede». Studi sulla vita religiosa del Cinquecento italiano, Milano, Unicopli, 2003, pp. 121–140. Sugli Spirituali si veda anche il capitolo Centro Italia spirituale, qui ultra. 57 Sulla Cibo: Caterina Cybo duchessa di Camerino (1501–1557). Atti del Convegno di Camerino, 28–30 ottobre 2004, a cura di P. Moriconi, Camerino, Tip. La nuova stampa, 2005, in particolare il saggio di Gabriella Zarri, «La spiritualità di Caterina Cibo», pp. 313–331. Sulla Firenze percorsa dalla predicazione di Ochino, si veda Michele Camaioni, Il Vangelo e l’Anticristo. Bernardino Ochino tra Evangelismo ed eresia (1487–1547), Bologna, Il Mulino, 2019. Utile per i risvolti letterari il capitolo di Diana Robin, «Florence, Intimate Dialogues and the End of the Reform Movement», in Ead., Publishing Women. Salons, the Presses, and the Counter-Reformation in Sixteenth Century Italy, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2007, pp. 160–198. Sulla Colonna si veda ultra il capitolo a lei dedicato.
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dall’esegesi delle Sacre Scritture traevano linfa per attività artistiche, politiche e ovviamente anche letterarie, che si ponevano indubbiamente a istruzione dei fedeli58. Anche se l’affermarsi della Riforma Cattolica, con il suo ritorno all’ortodossia e con alcune condanne che particolarmente colpirono Firenze, con l’esecuzione di Pietro Carnesecchi e di Aonio Paleario, segnò l’oscuramento di queste istanze per una spiritualità diversa, nel 1549 Benedetto Varchi propose a Firenze un sermone forgiato strettamente sul Beneficio di Cristo59. E ancora nella seconda metà del Cinquecento a Firenze è viva una forte memoria savonaroliana, devotamente custodita e alimentata dal domenicano Serafino Razzi, autore di una Vita di Girolamo, oltre che della raccolta di laudi, una pietra miliare nell’identità cittadina60. E proprio per una questione biblica nacque nel secolo successivo il primo affaire galileiano, quando cioè l’ambiente fiorentino, che gravitava intorno all’arcivescovo, vide le teorie galileiane in contraddizione con il dettato delle Sacre Scritture. Si è poco evidenziato che proprio l’interesse di Cristina di Lorena, la granduchessa, per la Bibbia e la sua difesa scatenò la questione. Infatti fu nel dicembre 1613, in occasione di un pranzo alla presenza della corte e di alcuni eruditi toscani a Pisa, sede dell’università medicea, che la granduchessa pose insistentemente questioni relativamente alla congruenza fra la Sacra Scrittura e le nuove scoperte galileiane (era appena uscito l’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti)61. Fu Benedetto Castelli a rivelarlo al maestro, avendo dovuto prenderne le difese. Galileo allora decise di preparare una risposta, affidandola a una lettera che volle far circolare ampiamente, senza tuttavia mandarla a stampa, in modo che costituisse una pubblica risposta. Proprio questa lettera, in cui delinea il suo punto di vista circa l’esegesi biblica e l’ambito scientifico, diede adito alla denuncia da parte del domenicano Nicolò Lorini alla Congregazione dell’Indice nel 1615, da cui nacque 58 In questo contesto politico e religioso avvenne la decisione di rappresentare in San Lorenzo il ciclo biblico di impronta valdesiana, che secondo Firpo rappresenta un «manifesto ideologico» attestante l’impegno del duca per un rinnovamento della Chiesa e l’unità dei cristiani. Cfr. la documentata ricostruzione di Massimo Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo, op. cit., pp. 291–339. 59 Benedetto Varchi, Sermone fatto alla Croce e recitato il Venerdì santo nella Compagnia di San Domenico l’anno MDXLIX, in Paolo Simoncelli, Evangelismo italiano del Cinquecento. Questione religiosa e nicodemismo politico, Roma, Istituto Storico per l’Età Moderna e Contemporanea, 1979, pp. 445–451. Si vedano anche le pp. 209–225 della parte introduttiva di Simoncelli. 60 Mancano studi su Serafino Razzi, ma importanti considerazioni sulla sua importanza vengono dal capitolo di Anne Piéjus, «Romaniser la Laude florentine», in Ead., Musique et dévotion à Rome à la fin de la Renaissance, op. cit., pp. 97–154. 61 Del 1613. Su Cristina di Lorena: Francesco Martelli, «Cristina di Lorena: una lorenese al governo della Toscana medicea», in Il Granducato di Toscana e i Lorena nel secolo xviii. Incontro internazionale di studio, Firenze, 22–24 settembre 1994, a cura di A. Contini e M.G. Parri, Firenze, Olschki, 1999, pp. 71–81.
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non tanto un processo a Galileo, le cui espressioni furono dichiarate improprie ma in linea con la posizione della Chiesa, ma la condanna del copernicanesimo. La Lettera a Cristina di Lorena, quasi un trattato, difende, con l’apporto di autorità patristiche, la congruenza fra Sacra Scrittura e cosmologia copenicana e ribadisce l’indipendenza fra indagine scientifica e fede62. Questa vicenda dimostra che la corte medicea era all’inizio del Seicento fortemente interessata a questioni bibliche e che le donne erano coinvolte in tali questioni in prima persona. Donne e Bibbia a Firenze A Firenze la familiarità delle donne con la Bibbia è ben attestata anche dall’epistolografia e dalle dediche, oltre che dalle riscritture che prenderemo in considerazione. La città visse di rimando l’influsso delle due grandi sante che avevano impiegato la Bibbia nei loro scritti molto precocemente: santa Chiara d’Assisi, che sui Vangeli aveva impostato la sua spiritualità e che a Firenze aveva presto sollecitato, con l’aiuto della sorella Agnese, la fondazione di un convento di Clarisse, e santa Caterina da Siena, il cui esempio raggiunse Firenze anche attraverso la predicazione e la considerazione in cui era tenuta come modello di santità da figure locali. Anche se il giudizio sulla donna in epoca pre-rinascimentale è negativo e a lei si riserva soprattutto un ruolo passivo nella società, la lettura delle Sacre Scritture era anche uno specifico oggetto di raccomandazione nei trattati di spiritualità63. Il vescovo Antonino Pierozzi raccomandava alle donne di cui aveva la direzione spirituale la meditazione assidua delle Sacre Scritture. Lo si vede nella lettera a Dada Adimari, in cui la sollecita a meditare le Sacre Scritture e, citando Dante, la invita a ruminarne i testi: La divota orazione presuppone la diligente meditazione, e la meditazione vera, non fantastica, la sacra lezione. Leggi adunque, o veramente odi le sacre Scritture e de’ santi Dottori. Più muove la voce viva, che la morta. Nel ventre della memoria conserva quello che hai mangiato leggendo e udendo il verbo divino, e come pecorella (animale mondo nell’antica legge, perché ruguma e ha l’unghia fessa) ripensa e mastica, meditando quello che hai inteso della vita di Cristo e santi suoi, e sappi distinguere quello si fa per te, secondo lo stato tuo, da quello non si confa sapere64. 62 Galileo Galilei, Lettera a Cristina di Lorena, ed. crit. a cura di O. Besomi, Padova, Antenore, 2012. 63 Si veda per un quadro riassuntivo dell’atteggiamento dei vescovi fiorentini Adriana Valerio, «La predica su Ruth, la donna, la riforma dei semplici», in Una città e il suo profeta. Firenze di fronte a Savonarola, op. cit., pp. 258–261. 64 Cito da Maria Pia Paoli, «Antonino da Firenze O.P. e la direzione dei laici», in Storia della direzione spirituale, III, L’età moderna, a cura di G. Zarri, Brescia, Morcellania, 2008, pp. 85–130: 125, il passo è citato anche da Sabrina Corbellini, Donne e Bibbia nell’Italia tardomedievale: letture e lettere, in Les femmes et la Bible de la fin du Moyen Âge à l’époque moderne. Pratiques de lecture et d’écriture. Italie, France, Angleterre, a cura di É. Boillet e M.T. Ricci, Paris, Champion, 2017, pp. 19–36: 21. Cfr. Romeo Di Maio, «S. Antonino e la donna», Rivista di ascetica e mistica, LIX, 1990, pp. 275–283.
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Anche nel suo trattato Opera a ben vivere il santo vescovo raccomanda di abbinare alla preghiera la lettura e in particolare di meditare ogni giorno sulla passione di Nostro Signore Gesù Cristo, dando delle indicazioni dettagliate e focalizzate sui dolori della passione, suggerendo anche di memorizzarla: «vi ingegnerete con tutto il cuor vostro di aver in memoria [la passione]65 ». L’opera del Pierozzi, dedicata dapprima a Diodora Tornabuoni e poi alla sorella Lucrezia, non riguarda solo la spiritualità ma l’educazione intera della donna, dagli abiti al comportamento. È questa una preoccupazione costante dei direttori spirituali di donne laiche, di cui considerano la collocazione in famiglia, raccomandando i loro compiti di mogli e di madri. A Clarice Orsini, moglie di Lorenzo, è dedicato il salterio abbreviato di Ficino, una raccolta di citazioni dai Salmi volgari, come modelli di preghiere66. Pochi anni dopo, nel 1489, a suor Annalena Tanini del convento delle Murate è dedicata La passione di nostro signore Gesù Cristo di Bernardo Pulci, che dice di aver scritto «da’ tuoi prieghi sospinto e dalle tue sante orationi sostenuto67». Nessuna indicazione fornisce invece Benedetto degli Alessandri nel dedicare la sua meditazione sopra la vita di Gesù Cristo alla «veneranda madre Annalena» (1487)68, e nessuna precisazione neppure vi è nella dedica che Savonarola indirizza per la sua opera di meditazione sui comandamenti alla badessa del monastero delle Murate di Firenze nel 149569. Solo alla chiusura delle loro opere sia Alessandri sia Savonarola chiedono alle lettrici di pregare per l’autore. Savonarola però in altra opera sull’esposizione dell’Ave Maria, dedicata sempre alle suore delle Murate nel 1496, aggiunge infine di aver scritto per coloro che non sanno di grammatica «et maximamente per le virginelle di Christo ancille della Regina delli Angeli», sottolineando la mancata conoscenza del latino da parte delle suore e aggiungendo ancora la richiesta di preghiere «in remissione» dei suoi peccati70.
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Per la citazione dantesca, cfr. Purgatorio, XVI, 99: «Nullo, però che ‘l pastor che procede, / rugumar può, ma non ha l’unghie fesse». Cfr. S. Antonino e la sua epoca. Atti del convegno tenutosi a Firenze, 21–23 settembre 1989, a cura di G. Agresti, Firenze, Convento S. Marco, 1989. A. Pierozzi, Opera a ben vivere, op. cit., p. 136. Su cui O.P. Kristeller, Supplementum Ficinianum, op. cit., II, pp. 185–187. Cfr. la lettera dedicatoria che precede B. Pulci, De passione Domini op. cit. Benedetto degli Alessandri, Meditatione & contemplatione sopra la vita del nostro signiore Iesu Christo compilata per Benedecto di Bartolomeo de gli Alexandri cittadino fiorentino alla veneranda & devota madre Annalena. Firenze, Francesco Bonaccorsi, 1487. Su madre Annalena si veda G. Zippel, «Le monache d’Annalena e il Savonarola», art. cit. Girolamo Savonarola, Operetta molto divota composta da frate Hieronymo da Ferrara dell’ordine de frati predicatori sopra e dieci comandamenti di Dio diricta alla Madonna o vero Badessa del monisterio delle Murate di Firenze: nella quale si contiene la examina de peccati dogni et qualunque pechatore: che e utile et perfecta confessione. Firenze, [Bartolomeo de’ libri], 24.X.1495. Girolamo Savonarola, Expositione del Reverendissimo in Christo frate Hieronymo da Ferrara dell’ordine de predicatori sopra la oratione della Vergine gloriosa. Composta da lui in lingua vulgare
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Negli anni ‘60 del xvi secolo a Giovanna d’Austria, regina d’Ungheria e Boemia, granduchessa di Toscana, sono dedicate dal loro editore, i Giunti (Filippo e Iacopo), le pericopi della Messa tradotte da Francesco Cattani da Diacceto71. Infine il domenicano Silvano Razzi nel prefare l’opera sul rosario del fratello Serafino, che dedica a due suore, suor Margherita Guadagni e suor Faustina Poggi, del Monastero Camaldolese di San Giovanni Battista (detto Boldrone) di Firenze, scrive: Avendo io per lunga prova, nello spazio di quasi cinque anni, che sono stato al servizio di codesto vostro ven. monasterio, veduto che di rari doni abbia Dio benedetto adornato gl’animi vostri e particolarmente (per tacere l’altre vostre virtù) con quanta pazienza e con che forte animo e tranquillo avete amendue, già più anni, sopportato, sì come ancor fate, così gravi e lunghe infermità, e che di niuna delle cose di questo mondo vi dilettate, né di alcuna sentite né gusto né piacere, eccetto che di continuamente leggere et essercitarvi nella lezione de’ sacri libri, i quali veramente non sono altro (a somiglianza di coloro che fanno viaggio per mare) che quella carta con l’aiuto et avvertimento della quale con molto più agevolezza, che non si farebbe, e più sicuramente caminiamo il peregrinaggio di questa vita72.
Razzi afferma dunque la dedizione delle due consorelle alla lettura delle Sacre Scritture. Ancora più notevole è il fatto che a ispirare quest’opera sia stata un’altra suora, suor Cornelia Strozzi del monastero di San Paolo di Orvieto, alle cui consorelle è poi donata. Anche solo percorrendo gli apparati paratestuali si comprende come a Firenze la cultura biblica fosse ampia e diffusa anche fra le donne nella prima età moderna, generando di conseguenza una produzione di riscritture che si può dire assai ricca, cui si affianca un non meno ricco lascito di scritture di visionarie.
ad instantia di certe devote suore Ferrarese. [Firenze, Bartolomeo de’ Libri, 1496], b4v. 71 Francesco Cattani da Diacceto, Pistole, lezzioni et vangeli, che si leggono in tutto l’anno alla messa, secondo la consuetudine della Sagrosanta Romana Chiesa. Nuovamente tradotti in volgare fiorentino dal Reuerendo M. Francesco de Cattani da Diacceto [...] Con aggiunta d’alcune messe & festiue & votiue, non più impresse in questa lingua. Alla serenissima Giovanna d’Austria […], Firenze, Giunti, 1566. 72 Serafino Razzi, Rosario della gloriosissima vergine madre di Dio. Maria, avvocata di tutti i peccatori penitenti. Composto nuovamente in ottava rima con alcune annotazioni in prosa, Firenze, Bartolomeo Sermartelli, 1583.
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Le narrazioni bibliche di Lucrezia Tornabuoni La Firenze della seconda metà del Quattrocento è il mondo in cui si muove Lucrezia Tornabuoni, moglie di Piero de’ Medici, madre di Lorenzo. Nulla si sa della sua educazione e formazione culturale, su cui si possono proporre solo congetture, basandosi sull’ambiente umanistico e religioso in cui crebbe. La prima notizia certa che la riguarda è quella del suo matrimonio, all’età di diciassette anni, con Piero de’ Medici, figlio di Cosimo il Vecchio, celebrato il 3 giugno 1444. Da quel momento la giovane donna è al centro di notizie che appartengono alla vita di corte e che ne danno un’immagine gioiosa, ma anche presto afflitta da problemi di salute1. L’assunzione del potere da parte di Piero alla morte di Cosimo rappresentò l’inizio di nuove responsabilità anche per Lucrezia, che condivise con il marito la funzione pubblica, gestendo i rapporti con le famiglie anche nemiche, i matrimoni dei figli e delle figlie in modo da costruire una rete di alleanze politiche, l’attività caritativa della corte. Particolarmente importante fu il suo ruolo nella scelta di Clarice Orsini come moglie di Lorenzo, un’opzione che portò la famiglia Medici a un orizzonte italiano, oltre quello regionale o cittadino2. Rimasta vedova il 13 luglio 1469, vide crescere il suo ruolo pubblico a fianco del figlio Lorenzo; divenne figura di riferimento per casi difficili, attività benefiche, mecenatismo3. Beneficiarono delle sue elargizioni conventi di suore, giovani donne 1
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Per la biografia Patrizia Salvadori, «Introduzione», in Lucrezia Tornabuoni, Lettere, a cura di P. Salvadori, Firenze, Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento-Olschki, 1993, pp. 3–44, ancora utili sono le notizie offerte da Fulvio Pezzarossa, «Note biografiche», in Id., I poemetti sacri di Lucrezia Tornabuoni, Firenze, Olschki, 1978, pp. 7–36. Si possono inoltre vedere l’introduzione di Jane Tylus a Lucrezia Tornabuoni de’ Medici, Sacred Narratives, a cura di J. Tylus, ChicagoLondon, The University of Chicago Press, 2001, pp. 21–53. Notevoli le lettere a questo proposito, che circostanziano gli eventi per il marito, rimasto a Firenze. Cfr. L. Tornabuoni, Lettere, op. cit., pp. 62–65. Sulla figura di Lucrezia nel contesto politico: cfr. Natalie R. Tomas, The Medici Women. Gender and Power in Renaissance Florence, Aldershot, Ashgate, 2003; Maria Grazia Pernis e Laurie Schneider Adams, Lucrezia Tornabuoni de’ Medici and the Medici Family in the Fifteenth Century,
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senza dote, clero minuto, persone considerate meritevoli, ma sdegnate dalla fortuna (tra cui il poeta Luigi Pulci, che infatti la menziona alla chiusura del suo poema). In questa vivace attività politica e sociale Lucrezia ebbe modo di dedicarsi attivamente alla vita letteraria4. È proprio nel ruolo di sollecitatrice di un poema sulle vicende di Carlo Magno, che sarà poi il Morgante di Luigi Pulci, che è ricordata nelle storie letterarie, ma la sua produzione non è certo priva di significato e riflette i gusti e le tendenze letterarie dell’ambiente in cui si muoveva, teso, come si è visto, alla promozione della cultura biblica volgare. Lucrezia opta per le manifestazioni religiose della poesia popolare, come si riflette nelle laudi e nei cantari, sul cui modello compone i due poemi biblici in ottave, Vita di sancto Giovanni Baptista e Istoria di Iudith, ma non ignora la tradizione più letteraria delle terzine di origine dantesca, di cui si avvertono evidenti influssi in tre poemetti: Istoria di Ester, Vita di Tubia e Istoria della casta Susanna5. Nonostante le riscritture bibliche della Tornabuoni siano tra le prime produzioni poetiche femminili in volgare di una certa estensione e di valore letterario, sono state assai trascurate dalla critica6.
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New York-Berlin, P. Lang, 2006; Marcello Vannucci, Le donne di casa Medici, Roma, Newton Compton Editori, (1999) 2006; John M. Najemy, A History of Florence, 1200–1575, Malden, Blackwell, 2006. Ancora utile: Francis W. Kent, «Sainted Mother, Magnificent Son: Lucrezia Tornabuoni and Lorenzo de’ Medici», Italian History and Culture. Yearbook of Georgetowon University at Villa Le Balze, III, 1997, pp. 3–34. Su Lucrezia scrittrice, oltre alle già menzionate pagine introduttive di Pezzarossa e Tylus, cfr. Natalia Costa-Zalessow, «Lucrezia Tornabuoni de’ Medici», in Scrittrici italiane dal xii al xx secolo, a cura di N. Costa-Zalessow, Ravenna, Longo Editore, 1982, pp. 44–48; Mirella Marietti, «Lucrezia Tornabuoni», in Encylopedia of Italian Literary Studies, a cura di G. Marrone, P. Puppa e L. Somigli, New York, Routledge, 2006, pp. 1887–1889; Rinaldina Russell, «Lucrezia Tornabuoni (1427–82)», in Italian Women Writers: A Bio-bibliographical Sourcebook, a cura di R. Russell, Westport CT, Greenwood, 1994, pp. 431–440, e soprattutto Mario Martelli, Letteratura fiorentina del Quattrocento, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 11–57. Le opere si leggono nelle recenti edizioni: Istoria di Susanna (Amos Parducci, «La Ystoria della devota Susanna di Lucrezia Tornabuoni», Annali delle Università Toscane, X, 1926, pp. 177– 201; Lucrezia Tornabuoni, La istoria della casta Susanna, a cura di P. Orvieto, iconografia di O. Casazza, Bergamo, Moretti e Vitali Ed., 1992), La vita di sancto Giovanni Baptista e Istoria di Iudith in F. Pezzarossa, I poemetti sacri di Lucrezia Tornabuoni, op. cit., pp. 151–49; gli altri in Lucrezia Tornabuoni, Poemetti biblici. Istoria di Ester e Vita di Tubia, ed. crit. a cura di E. Ardissino, Lugano, Ancora, 2015. In traduzione inglese tutti i poemetti, senza testo italiano: Tornabuoni de’ Medici, Sacred Narratives, op. cit. Le laudi si leggono in moderna edizione in Silvia Gazzano, «Le laudi di Lucrezia Tornabuoni. Edizione critica», Interpres, XXXII, 2014, pp. 152–230. Per il quadro della scrittura femminile nel Quattrocento si veda Virginia Cox, Women’s Writing in Italy (1400–1650), Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2008, pp. 1–36, sulla Tornabuoni, pp. 13–15.
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1- le narrazioni bibliche di lucrezia tornabuoni
Le fonti bibliche La lezione del santo vescovo Antonino Pierozzi, che, come abbiamo visto, raccomandava la lettura della Bibbia alle giovani Tornabuoni, fu evidentemente feconda se nella sua maturità Lucrezia, acquisita la familiarità con la Bibbia attraverso un elegante codice contenente tutta la traduzione (ora alla Bibliothèque Municipale de Lyon) e con la padronanza della lingua volgare, frequentata a corte ai massimi livelli, compone ben cinque poemetti biblici. L’impresa di Lucrezia di mettere per la prima volta in rima volgare alcuni dei libri storici della Bibbia, anche nel secolo che vien detto ‘senza poesia’, concilia quindi due caratteristiche della cultura fiorentina: da una parte l’impegno nella divulgazione della cultura biblica, dall’altra il prestigio raggiunto dalle rime volgari italiane. I suoi poemetti sono frutto del primato e delle novità della cultura fiorentina all’epoca, oltre che della familiarità di una donna laica con il testo sacro e della sua intraprendenza nel farsene interprete e divulgatrice. Cinque sono i poemetti composti da Lucrezia Tornabuoni come riscritture di storie bibliche: Vita di sancto Giovanni Baptista, Istoria di Iudith, Istoria della casta Susanna, Istoria di Ester, Vita di Tubia7. Tre di essi ricostruiscono un gruppo compatto di libri storici brevi, quelli di Tobia, Giuditta ed Ester, uno è dedicato a Susanna (dal libro di Daniele), l’altro al Battista (una storia costruita sulle notizie dei quattro Vangeli). Tre sono storie di donne: Giuditta, Ester e Susanna, e due di uomini: Tobia e Giovanni Battista. Se la scelta della materia relativa a quest’ultimo santo può dipendere dall’essere patrono di Firenze, dunque di diretto interesse per una corte che mantiene strettissimi legami con la sua città, per gli altri quattro si sono ipotizzati ragioni principalmente politiche: due storie rispondono alla lotta del popolo di Israele contro i dominatori (Ester e Iudith) e due alla condizione di popolo dominato (Susanna e Tubia). Anche se già il Pulci, nella sua commossa celebrazione di Lucrezia Tornabuoni, menzionava proprio le sue scritture bibliche (con le laudi) alla fine del Morgante, facendola forse autrice anche di una vita di Maria, di cui non si ha notizia, i poemetti biblici restarono manoscritti, fino alle moderne edizioni8. Ma anche se i suoi 7
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Per semplificare, qui di seguito si userà Iudith per la Ystoria di Iudith, Battista per la Vita di Sancto Giovanni Baptista (ambedue citati dall’edizione curata da Pezzarossa, seguiti dal numero di strofa), Susanna per la La istoria della casta Susanna (citata dall’edizione curata da Orvieto, seguito dal numero del verso), Ester per la Istoria di Ester, Tubia per la Vita di Tubia, citati dall’edizione da me curata, con l’indicazione del libro e del verso. Scrive il Pulci, con parole di devota riconoscenza, che in paradiso la Vergine «applaude» nel «riveder la sua devota», che «canta or forse le sue sante laude. // Quivi si legge or della sua Maria / la vita, ove il suo libro è sempre aperto; / e di Esdra, di Iudit e di Tobbia / quivi si rende giusto premio e merto; / quivi s’intende or l’alta fantasia / a descriver Giovanni nel deserto / quivi cantano or gli angeli i suoi versi / dove il ver d’ogni cosa può vedersi». Luigi Pulci, Morgante, Milano, Rizzoli, 2016, XXVIII, 133. Per «Esdra» dovrà intendersi «Ester», ma per la «vita di Maria»
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poemetti non ebbero un esito a stampa, avendo avuto probabilmente solo circolazione in una cerchia ristretta, valgono come un esemplare accesso e riscrittura del testo sacro9. L’operazione di Lucrezia ha significato anzitutto in sé, come fruizione e interpretazione delle Sacre Scritture e come testimonianza peculiare di una sensibilità femminile, che vuole trasmettere le storie bibliche, attualizzandole come messaggi educativi per i suoi lettori o ascoltatori, di cui le donne sono evidentemente le privilegiate10. I libri storici (di Tobia, Giuditta, Ester) portano il nome del personaggio principale, che vive un’esperienza di persecuzione, da cui si salva con l’aiuto di Dio, salvando anche il popolo d’Israele, che dimostra nell’evento la fedeltà al suo Dio. Nonostante la coerenza dei soggetti e dei protagonisti, difficile è poter dire che essi costituiscano un progetto organico, con un preciso disegno, poiché sono tre libri diversi nella forma: per la storia di Giuditta, Lucrezia sceglie il metro canterino, l’ottava; per gli altri due sceglie la terzina dantesca. Tutti e tre sono approssimativamente di simile lunghezza: 151 ottave per Iudith (quindi 1208 versi), 1645 versi per Ester, 1382 versi per Tubia. Il più breve tra tutti i poemetti è l’Istoria di Susanna, che racconta il solo episodio deuterocanonico di Susanna, che chiude il libro di Daniele. Composto in terzine, per soli 406 versi, sviluppa ancora un episodio storico, incentrato su un solo personaggio, protagonista e perseguitato, anche se la storia fa parte di un libro profetico e visionario, che annuncia, con molte visioni, la venuta del Messia. forse non è necessario pensare che Lucrezia si fosse dedicata a una scrittura con questo soggetto, poiché il verso del Pulci può anche solo proporre che in paradiso si può ‘leggere la vita di Maria’, in quanto lì tutto appare pienamente in verità. 9 Per la datazione si può solo far riferimento a una lettera di Angelo Poliziano, in cui dice di restituirle i poemetti che sono piaciuti. (Angelo Poliziano, Prose volgari inedite e prose latine e greche edite ed inedite, a cura di I. del Lungo, Firenze, Barbera, 1867, pp. 72–74, lettera XXV, datata 18 luglio 1479). 10 Per gli studi sulle scritture bibliche della Tornabuoni: Gerry Milligan, «Unlikely Heroines in Lucrezia Tornabuoni’s Judith and Esther», Italica, LXXXVIII, 2011, pp. 538–564; Jane Tylus, «Teaching Tornabuoni’s Troublesome Women», in Teaching Other Voices: Women and Religion in Early Modern Europe, a cura di M.L. King e A. jr Rabil, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2007, pp. 55–74; Luciana Borsetto, «“Storie di Giuditta” in Europa tra Quattro e Cinquecento: Il ‘Cantare’ di Lucrezia Tornabuoni», in «Il poema di Marko Marulić (Exordium e Narratio: Prime ricognizioni)», Colloquia Maruliana, VII, 1998, pp. 95–126; Sophie Stallini, «Giuditta sulla scena fiorentina del Quattrocento: Donatello, Lucrezia Tornabuoni e l’anonimo della Devota rappresentatione di Iudith ebrea», in Giuditta e altre eroine bibliche tra Rinascimento e Barocco. Atti del seminario di studio, Padova 10–11 dicembre 2007, a cura di L. Borsetto, Padova, Padova University Press, 2011, pp. 11–34; Paola Cosentino, Le virtù di Giuditta. Il tema biblico della ‘mulier fortis’ nella letteratura del ‘500 e del ‘600, Roma, Aracne, 2012; ancora utili: Mario Martelli, «Lucrezia Tornabuoni», in Les Femmes écrivains en Italie au Moyen Âge et à la Renaissance, a cura di G. Ulysse, Aix-en-Provence, Publications de l’Université de Provence, 1994, pp. 51–86; M. Martelli, Letteratura fiorentina del Quattrocento, op. cit., pp. 11–20.
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La vita di sancto Giovanni Baptista è il più diverso dei cinque poemetti, perché non riprende un libro o un passo già organizzato, ma si compone di elementi tratti dai diversi passi evangelici relativi alla storia del Battista, dall’annuncio della sua nascita alla morte. Il metro scelto è l’ottava (159 strofe). Anche qui il personaggio è un perseguitato, ma la sua storia include gli eventi precedenti la sua nascita, dunque il miracolo del mutismo di Zaccaria, l’annunciazione di Maria, e la sua visita a santa Elisabetta. L’articolato intreccio corrisponde a quelle versioni congiunte dei quattro Vangeli, dette Diatessaron, che univano in una sola narrazione tutti i fatti della vita di Gesù11. Le storie seguono abbastanza fedelmente le vicende tramandate nei libri biblici che ne sono la fonte, anche se Lucrezia dimostra di saper costruire abilmente un intreccio, perché, anche quando ha a disposizione una fabula ben strutturata, riesce a modificarla con anticipazioni o posticipazioni, secondo la necessità della narrazione; sa inventare dialoghi, inserire descrizioni, specie di giardini e della vita a corte. Pochi sono i cenni che troviamo nei poemetti sul rapporto con la fonte. Per Iudith Lucrezia scrive che ‘legge’ («lego», Iudith str. 2) la storia, ribadendo la fedeltà all’originale, che poco prima aveva detto essere in prosa («l’ho trovata così scripta in prosa», Iudith str. 3). In Ester accompagna un nome con l’affermazione «com’i’ trovo truovo scritto» (Ester III, 48). Per Tubia afferma la sua fedeltà, giustificando che le vicende non sono invenzione («Non son questo farnetico né sogno, / ma ben si truova nelle storie antiche / et io a riferirle assai agogno», Tubia II, 125–126). E così, in chiusura, confermando il numero di anni che visse ancora il vecchio Tobia dopo gli eventi, aggiunge l’espressione «come il libro pone» (Tubia VIII, 142), alludendo anche qui a una dipendenza da un testo. Nel Battista, quando racconta del miracolo di Zaccaria, reso muto per non aver creduto all’annuncio della nascita del figlio, si legge: «E giunto a casa, nel Vangel trov’io, / la suo compagna concepette il figlio, / ma ella sì celava il suo disio / ben cinque mesi, così truovo et piglio» (Battista str. 19). Anche qui dunque la poetessa dichiara di avere di fronte il testo sacro e di attingervi. Ma proprio in questo poemetto si rintraccia un ribadito «sì com’io sento» (str. 68, 101 e 109), a proposito del vestirsi di pelle di cammello da parte del santo e del suo dormire in terra, quindi a proposito dei preparativi di Erodiade per i festeggiamenti per Erode. Il verbo impiegato («sento») fa pensare all’ascolto, magari di una predica, di un cantare o di una sacra rappresentazione o di una narrazione o della lettura dei Vangeli o delle pericopi domenicali12.
11 Per i diatessaron si veda supra la nota 63, p. 31. 12 La pratica della lettura condivisa era comune particolarmente per la conoscenza biblica: cfr. Gordon Campbell, «“Fides ex auditu”. Hearing and Reading the Bible», in Lay Readings of the
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Sarebbe importante individuare la fonte utilizzata da Lucrezia. Sebbene i suoi poemetti si affianchino alla produzione dei canterini, di trasmissione orale, i poemetti storici sono costruiti con precisione, ripercorrendo con fedeltà i racconti biblici, perciò non possono essere considerati ricostruzioni poetiche fondate su memorizzazioni o racconti orali. Nell’atto della scrittura c’era davanti a lei un libro, un codice, un testo, che la donna seguiva, anticipando un atteggiamento che diverrà comune alle donne in Europa dopo la Riforma13. Si può ipotizzare che si basasse su un precedente volgarizzamento, su una di quelle storie che circolavano numerose, ma nessuno dei testi presi finora in considerazione sembra coincidere con le storie di Lucrezia14. Più probabile è che Lucrezia si basasse su un volgarizzamento delle Sacre Scritture, genere, come abbiamo visto, assai comune nella Toscana del Quattrocento15. Poco plausibile è invece che ricorresse a una Bibbia latina, lingua con cui le donne all’epoca, anche con buona educazione, non avevano familiarità. Poco possiamo arguire dal confronto con la pregevole Bibbia volgare oggi conservata nella Bibliothèque Municipale de Lyon, in due volumi, segnati 1367 (già 1240) e 1368 (già 1241), commissionata da Lucrezia Tornabuoni e a lei destinata16, poiché ci sono rimasti solo il secondo e il terzo volume dell’intera opera, che contengono solo i libri che vanno dall’Ecclesiastico a Ezechiele, per il primo manoscritto, di cui dunque interessano solo i ff. 117r–127r, con il libro di Daniele, in cui è narrata la storia di Susanna; mentre il ms 1368 contiene il Nuovo Testamento, quindi interessa per i quattro Vangeli, che forniscono la materia per la vita del Battista.
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Bible in Early Modern Europe, a cura di E. Ardissino e É. Boillet, Leiden-Boston, Brill, 2020, pp. 21–32. Lucrezia si presenta come un’antesignana di quelle donne che scrivevano con la Bibbia davanti, come Narveson rappresenta le donne inglesi del Seicento. Cfr. Kate Narveson, Bible Readers and Lay Writers in Early Modern England. Gender and Self-Definition in an Emergent Writing Culture, Farnham, Ashgate, 2013; Donne e Bibbia nel Medioevo (secoli xii-xiv) tra ricezione e interpretazione, a cura di K.E. Børresen e A. Valerio, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2011; Les femmes et la Bible en Europe à la fin du Moyen Âge et à l’époque moderne. Pratiques de lecture et d’écriture. Italie, France, Angleterre, a cura di É. Boillet e M.T. Ricci, Paris, Champion, 2017. Per la storia di Tobia era disponibile la trascrizione Il libro di Tobia, che ora leggiamo in Scrittori di religione del Trecento: volgarizzamenti, a cura di G. De Luca, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954, pp. 363–379, ma non è la fonte della Tornabuoni; neppure lo sono I libri di Tobia, di Giuditta e di Ester. Volgarizzamento antico tratto da un codice della Marciana, a cura di C. Cittadini, G. Bottari e A. Martini, Venezia, Società Veneta dei Bibliofili, 1844. Altra bibliografia si veda F. Pezzarossa, I pometti sacri di Lucrezia Tornabuoni, op. cit., pp. 61–63, ma nessuna trascrizione qui menzionata si presenta come possibile fonte. Non indica fonti neppure J. Tylus nelle pagine introduttive a L. Tornabuoni, Sacred Narratives, op. cit., pp. 42–45. Un confronto con la Bibbia del Malerbi esclude la possibilità che fosse il testo della Tornabuoni. Cfr. Edoardo Barbieri, «Sulla storia della Bibbia volgare di Lione», La Bibliofilia, XCIX, 1997, pp. 211–233; Annarosa Garzelli, «Una Bibbia miniata per Lucrezia Tornabuoni: l’apporto di Gherardo e di Monte», in Cicli e immagini bibliche nella miniatura. Atti del VI congresso di Storia della Miniatura, Urbino 3–6 ottobre 2002, a cura di L. Alidori, Firenze, Centro Di, 2003, pp. 231–240.
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Manca invece il primo volume che conterrebbe le storie di Tobia, Ester e Giuditta. Il confronto fra il manoscritto lionese e i testi poetici della Tornabuoni mostra una notevole vicinanza per la Istoria della casta Susanna. Vi sono riprese di stilemi, aggettivazioni ricorrenti, che insieme sembrano indicare una possibile dipendenza. Difficile è asserire con certezza che Lucrezia si servisse proprio di quel volgarizzamento biblico per ricavare l’invenzione poetica, ma da un sistematico confronto risulta che alcune lezioni della storia di Susanna sono assai prossime al volgarizzamento lionese derivato da Daniele 1317. Purtroppo l’esame del poema sulla vita del Battista né conferma né smentisce questi risultati, ma in questo poema Lucrezia è molto più inventiva. Sulle esili informazioni relative al precursore di Cristo date dai Vangeli non si sarebbe mai potuto costruire un poemetto. Alcuni episodi, come i dettagli su Giovanni nel deserto, non hanno origini evangeliche; i dialoghi (tra Erodiade ed Erode, tra Salomé e la madre, tra Giovanni e i carcerieri) non possono che essere invenzione letteraria. Inoltre la storia è fondata su tutti i quattro Vangeli uniti per i passi relativi a Giovanni18. Sembrerebbe più ovvio che a fornire la trama sia stata allora una di quelle compilazioni dei quattro Vangeli concordati o intersecati o armonizzati in uno, che circolavano ampiamente. Il poemetto inizia riferendosi ai Vangeli di Giovanni e Luca: «Parlane Giovanni Evangelista» (str. 6) e «narra sancto Luca nel Vangelo» (str. 8), e precisamente si ribadisce la fedeltà al racconto evangelico: «Nel Vangel trov’io» e «così truovo e piglio» (str. 19). Ma poiché in questo poemetto Lucrezia usa per ben tre volte il verbo sentire: «Sì com’io sento» e «così sento» (str. 68, 101 e 109), la fonte di Lucrezia potrebbe anche essere una delle molte narrazioni fiorentine della vita del santo19. Storie per educare le donne Le fonti sono riprese narrativamente anzitutto, ovvero la scrittrice cerca di offrire un testo coeso e ben organizzato, che possa evidentemente servire da intrattenimento oltre che per la devozione. Ma la piacevolezza dei suoi racconti non è priva
17 Per una dimostrazione delle dipendenze mi permetto di rimandare alle tavole inserite nel saggio Erminia Ardissino, «“Così truovo e piglio”. Lucrezia Tornabuoni interprete della Bibbia nella Firenze medicea», in Lectures et écritures féminines de la Bible en Europe aux xive et xviie siècles, op. cit., pp. 37–60. 18 Pezzarossa però evince una sola dipendenza, del verbo «arrapare» (Battista, str. 105) che vede derivato da Mt 9, 12 «et violenti rapiunt illud». F. Pezzarossa, I poemetti sacri, op. cit., p. 88. 19 Feo Belcari, Rappresentazione di San Giovanni Battista (Firenze, Bartolomeo de’ Libri, ca 1490) o l’anonima Rappresentazione di san Giovanni Battista quando gli fu tagliata la testa, Firenze, Bartolomeo de’ Libri, s.d. Cfr. Paola Ventrone, «Sulle feste di san Giovanni a Firenze: Firenze 1454», Interpres, XIX, 2000, pp. 89–101.
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di insegnamenti. Sembrerebbe che la lettura e riscrittura delle storie sacre sia condotta per derivarne insegnamenti civili, oltre che devozionali. I significati da lei estratti servono per negoziare una posizione della donna nella società, come protagonista che tiene in mano le fila delle vicende, anche se con rispetto dei ruoli altrui. Lucrezia visse momenti drammatici della storia fiorentina, come la congiura contro Piero del 1466 e la congiura dei Pazzi contro Lorenzo del 1478 (in cui perse il figlio Giuliano)20. Dunque non è fuori luogo immaginare che le figure di donne bibliche che lei rappresenta riflettano in qualche modo i problemi da lei vissuti. Infatti non scrive ad esempio su Ruth e Noemi (Libro di Ruth), donne bibliche che appartengono a un mondo privato, della casa e della famiglia: le donne che la interessano sono quelle che operarono per la salvezza della loro gente contro la persecuzione di figure oppressive, come Oloferne e Amam. Sono donne capaci di decisioni coraggiose in momenti drammatici, fedeli a Dio e alla sua etica, in grado di imporre la giustizia sull’iniquità, disponibili a mescolare pubblico e privato, operando per il bene di tutti. Anzi proprio l’intersezione fra mondo domestico e spazio pubblico, fra luoghi degli affetti (persino della sessualità e procreazione) e dimensione sociale, sembra sollecitare l’interesse e la poesia di Lucrezia, che volentieri si sofferma a meditare sulla funzione della donna dentro e fuori casa21. Nell’interpretazione dei poemetti di Lucrezia infatti si è sempre dato molto peso alla lettura politica, assegnando loro un significato in funzione del ruolo giocato dall’autrice nella corte22. L’altro importante risvolto che si è sottolineato nell’interpretazione di queste opere è la presenza femminile. Si tratta di storie che vedono protagoniste donne: Giuditta, Susanna, Ester, ma anche la storia di Tobia sottolinea la figura di Sara, perseguitata dal demonio Asmodeo. Persino la storia del Battista contempla diverse figure femminili: la Vergine, Elisabetta, Salomé e sua madre Erodiade, su cui l’autrice si sofferma più che sui personaggi maschili. Viene da pensare che proprio il ruolo della donna biblica, come modello di comportamento, possa essere una ragione di questi poemetti. Il monito indirizzato alle donne nel poemetto su Ester: «Donne, non apparate da costei! / State prudente e con gran discrezione, / con diligenza udite i detti miei» (Ester III, 10–13), espresso quando la regina Vasti, troppo su20 Cfr. Riccardo Fubini, «L’età delle congiure. I rapporti tra Firenze e Milano dal tempo di Piero a quello di Lorenzo de’ Medici», in Florence and Milan, a cura di C.H. Smyth e G.C. Garfagnini, Firenze, La Nuova Italia, 1989, pp. 189–216. 21 Mette bene in luce questi aspetti per Iudith e Ester il saggio di G. Milligan, «Unlikely Heroines in Lucrezia Tornabuoni’s Judith and Esther», art. cit. 22 Cfr. il sopracitato saggio di Milligan e le pagine introduttive di J. Tylus a L. Tornabuoni, Sacred Narratives, op. cit. Sul valore politico del poemetto su Giuditta si veda Sophie Stallini, Le théatre sacré à Florence au xve siècle. Une histoire sociale des formes, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, 2011, pp. 225–230.
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perba, viene cacciata dal re Assuero, conferma, se bisogno ve ne fosse, che le donne sono un pubblico privilegiato delle sue versificazioni23. D’altra parte tutta l’attenzione all’abbigliamento, al comportamento di una donna in pubblico, alle relazioni che le figure femminili instaurano con gli altri personaggi, attestano una predilezione per le problematiche di genere, che apporta la nota più orginale a questi scritti, piuttosto fedeli alla Vulgata. Inoltre vi è una trama di consigli e suggerimenti destinati alle donne, utili per la loro vita, che percorrono tutti i poemetti. Questa rete sapienziale conferma l’intenzione dell’autrice di spianare probabilmente le difficoltà per le sue simili più giovani. Infatti la sola notizia certa che abbiamo sulla fruizione dei poemetti è che erano goduti dalle nipoti (le figlie di Lorenzo) e altre donne, che se ne divertivano, come scrive il Poliziano24. Alla ricerca di una motivazione per queste scritture, credo si sia trascurato di interrogarsi proprio sul loro valore come storie sacre, sulla volontà della Tornabuoni di applicarsi alla ricostruzione di un discorso biblico in volgare in una cultura fortemente interessata alla dimensione spirituale e teologica, e persino biblica, ma anche attentissima a valorizzare il veicolo espressivo e la sua tradizione. Porre in rima nel «dolce edioma» (Ester II, 21) le storie bibliche significa certo coltivare la devozione e la conoscenza della storia della salvezza, raggiungendo un pubblico non abituato al latino (le donne soprattutto), ma anche nobilitare a usi alti una lingua che doveva diventare vessillo della grandezza di Firenze, di cui è testimonianza la Raccolta Aragonese, preparata da Lorenzo tra il 1476 e il 1477, quindi ancora in presenza della madre25. Lucrezia è attratta dalle storie, dalla narrazione, di cui sfrutta il fascino e la forza coesiva e trasmettitrice di valori. Abituata probabilmente ad ascoltare la lettura di poemi cavallereschi (forse anche i canterini), dimostra di sapere che la narrazione è uno degli strumenti più preziosi a livello culturale, in quanto attraverso i racconti è possibile negoziare significati comuni e veicolarli in modo piacevole. Sa che l’ascolto di storie accresce la coesione sociale e reitera valori e credenze, trasmette 23 Così sostengono anche Tylus nell’introduzione all’edizione inglese (L. Tornabuoni, Sacred Narratives, op. cit., pp. 21–53) e G. Milligan, «Unlikely Heroines in Lucrezia Tornabuoni’s Judith and Esther», art. cit. Anche Adriana Valerio suggerisce che la regina Ester era «l’emblema di donna che, assumendo la parola, rompe il silenzio imposto e cambia il percorso degli avvenimenti» (Adriana Valerio, «Per una storia dell’esegesi femminile», in La Bibbia nell’interpretazione delle donne, op. cit., p. 16. 24 Lo rivela la lettera di Poliziano già citata in nota 9, che informa anche che la nipote della scrittrice, Lucrezia, ha imparato a mente uno dei poemetti (A. Poliziano, Prose volgari, op. cit., p. 74). 25 Sulla Raccolta Aragonese: Maria Clotilde Camboni, «La formazione della Raccolta Aragonese», Interpres, XXXV, 2017, pp. 7–38; Giancarlo Breschi, «La Raccolta Aragonese», in Antologie d’autore: la tradizione dei florilegi nella letteratura italiana. Atti del Convegno internazionale di Roma, 27–29 ottobre 2014, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, Roma, Salerno, 2016, pp. 119–156.
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modelli comportamentali e indirizzi politici. Già Dante aveva sottolineato come le storie di Troia, Fiesole e Roma, raccontate in famiglia dalle madri mentre filavano, fossero un elemento caratterizzante della Firenze del buon tempo antico (Paradiso XV, 125–126). I poemi di Lucrezia si pongono in questa linea, in più hanno un’ambizione politico-sociale-religiosa che si realizza attraverso la parola letteraria, che raggiunge qui livelli alti. I suoi versi sono infatti impreziositi e innalzati anche con prestiti danteschi26. Lucrezia si dimostra abile narratrice, capace di costruire uno stretto dialogo con il suo pubblico, alla maniera dei canterini, ma anche secondo modalità tratte indubbiamente dal modello di Dante. Riscrivere la Bibbia Come si presenta Lucrezia nella veste di mediatrice biblica e quale rapporto instaura con il testo sacro? Non molte sono le riflessioni teoriche contenute in questi poemetti, per lo più si trovano nella parte iniziale, nel luogo dell’invocazione e proposizione, in cui Lucrezia giustifica la richiesta di grazia per condurre in porto la sua opera con l’obiettivo che si prefigge27. Anzitutto invoca, anzi occorre precisare: prega, poiché è questo il termine reiterato in ognuno degli incipit dei cinque poemetti. Nella Vita di sancto Giovanni Baptista la preghiera è rivolta alla Trinità nella prima strofa, alla Vergine Madre nella seconda: «Al nome sia del Padre Onnipotente / et del Figliuol ch’è somma sapienza, / dello Spirito Sancto foco 26 Si notano qui e là riprese di espressioni dalla Commedia: «Folle volo» (Inf. XXVI, 125) in Tubia I, 45; Vasti è definita «dispettosa» come Micol (Purg. XI 69) in Ester II, 87; nel giardino si godono i «freschi mai» (Purg. XXVIII, 36) in Ester II, 22; l’immaginazione poetica è chiamata «fantasia» (Par. XXXIII, 142) in Ester; «facea ghirlandette» (Rime LVI) si dice in Susanna; «Or udirai, lettor» in Tubia I, 142 richiama «Or ti riman, lettor» di Par. II, 22; le tre rime in «Cristo» di Battista str. 75 sembrano riprendere quelle di Par. XIV, 103–108 (Dante, Divina Commedia, a cura di G. Petrocchi, Torino, Einaudi, 1975). Altri esempi si trovano nelle note di commento alle edizioni curate da Pezzarossa e Ardissino. 27 Sulle strategie traduttorie della Tornabuoni: Jane Tylus, «Early Modern Women as Translator of the Sacred», Women Language Literature in Italy. Donne Lingua Letteratura in Italia, I, 2019, pp. 31–44. In generale all’epoca: Lino Leonardi, «”A volerla bene volgarizzare…”: teorie della traduzione biblica in Italia (con appunti sull’ ‘Apocalisse’)», Studi Medievali, XXXVII, 1996, pp. 171–201; Sabrina Corbellini, «Vernacular Bible Manuscripts in Late Medieval Italy: Cultural Appropriation and Textual Transformation», in Form and Function of the Medieval Bible, a cura di L. Light e E. Poleg, Leiden-Boston, Brill, 2013, 261–281; Sabrina Corbellini, «“Se le scienze e la scrittura sacra fussino in volgare tu le intenderesti”. Traduzioni bibliche tra Medioevo e Rinascimento in manoscritti e testi a stampa», in Dynamic Translations in the European Renaissance. Atti del Convegno internazionale, Università di Groningen, 21–22 ottobre 2010, a cura di P. Bossier, H. Hendrix e P. Procaccioli, Roma, Vecchiarelli, 2011, pp. 1–21; Sabrina Corbellini, «La diffusione delle traduzioni bibliche nella Toscana medievale. Il ruolo delle confraternite», in Brotherhood and Boundaries. Fraternità e barriere. Convegno nazionale di studi, Pisa, Scuola Normale Superiore, 19-20 settembre 2008, a cura di S. Pastore, A. Prosperi e N. Terpstra, Pisa, Scuola Normale Superiore 2011, pp. 227–247.
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ardente, / il quale ‘ priego […] // Ancor priego la Madre di Dio vera» (Battista str. 1–2). Nel poemetto Iudith l’invocazione è rivolta al solo Gesù: «Figliuol di Dio, o nostro buon Giesù, / o Figliuol di Maria Vergine Madre», in una preghiera che si estende per tutta la prima ottava, per ricordare il valore dell’Incarnazione, fino a debordare anche qui all’avvio della seconda: «Per la tuo carità, Signor, ti priego […]». (Iudith str. 1–2). Negli altri tre poemetti, quelli in terzine, l’invocazione è limitata ai primi versi, ed è rivolta a Dio: «Nel nome tuo, o Signor glorioso, / richiamo perché se’ la scorta mea / […]», si legge all’avvio dell’Istoria di Ester (I, 1–2). In quella di Susanna: «O Dio d’Abraam, o Dio benigno et forte, / o Dio d’Isaach, tu se’ giusto et vero, / Dio di Iacob, i’ non vo’ altra scorte / che te, Signor, […]» (Susanna vv. 1–4), vengono cioè chiamati in causa i Patriarchi, sulle cui gesta si basa la fede giudaica. Nella Vita di Tubia l’invocazione è arricchita da appellativi che insistono sulla bontà e clemenza divina: O glorioso, eterno, o magno Iddio, bontà infinita, o vera maiestate, de’ porgi aiuto al mio nuovo disio, Signor, se mai usasti caritade verso d’alcun che ti prieghi umilmente ch’aiuti la sua buona voluntade, grazia ti chiego, o Signor mio clemente, […]. (Tubia I, 1–7)
Lucrezia colloca dunque inequivocabilmente le sue scritture sotto l’insegna della protezione divina e nella divina volontà iscrive tutto il suo lavoro. Le invocazioni appaiono come un atto di fede, perché sono rivolte a Dio Padre (in Ester, Tubia, Battista), alla Trinità (Susanna), a Gesù (Iudith); in due casi (Iudith e Battista) viene invocata anche la Vergine Maria. Sebbene l’avvio «nel nome» di Dio sia modalità consueta nei cantari, non si può ignorare che significa anche dare valore cherigmatico all’operato poetico28. La poesia viene così consacrata dall’impegno di scrivere in nomine Domini, favorirne la conoscenza, la fede e il culto. Infatti la poetessa esplicita ripetutamente che il suo scopo è di accrescere la devozione. Nella Vita di sancto Giovanni Baptista dichiara il suo rispetto per ciò che sta per narrare, chiedendo di essere resa diligente («facci diligente») e la «grazia» di «racontar con reverenza», in modo da rispettare l’«honore» del santo, concetto ribadito anche nella conclusione: «mi potrò dar vanto / d’aver racconto morte et suo nazione, / che a me et ad altri cresca divozione» (Battista str. 1–2). All’avvio del poema su 28 Evidente somiglianza nelle invocazioni si rileva per esempio nei Cantari religiosi senesi del Trecento, a cura di G. Varanini, Bari, Laterza, 1965.
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Ester appare persino una vera e propria espressione di fede, che fa parte dell’invocazione: «Chi segue Te, sì truova il ver riposo» (Ester str. 1, 3), che è evidentemente una precisazione estranea al contesto, ma che dichiara l’importanza per l’autrice di riporre fiducia in Dio, di operare nel suo nome. L’invocazione è anche luogo in cui il poeta dichiara, in atto di umiltà, la sua indegnità al compito. La poetessa chiede «scorta» (Susanna e Ester) o «ingegno» (Ester e Battista) o «valore» (Susanna) sufficienti a portare a termine l’impresa. Ma la più decisa giustificazione del suo lavoro è nel Battista, in cui si dichiara ignara della «ragione» (la tecnica) del versificare. Proprio la devozione genera in lei la presunzione di poter riuscire nell’impresa: So ben che questa è troppo grande impresa a chi non ha de’ versi la ragione, et ch’i’ sarò da chi ‘ntende ripresa, ma spero pur ch’aranno discrezione veggendo la mia mente tanto accesa, com’i’ ho detto, a questa devozione che sempre ho auto, et non per altra cosa: così l’amor mi fa presuntuosa. (Battista str. 7)29
Nell’invocazione è anche implicitamente definita la modalità del suo lavoro, il suo impegno di fedeltà al sacro testo. I poemi appaiono evidentemente come riscritture di una materia preesistente, a cui la scrittrice intende mantenersi fedele. Il lavoro di scrittura appare qui evidentemente come la resa di materiale tratto da fonti diverse: il suo obiettivo è di «far la su opera intera», per cui le necessita «’ngegno, / di trarla insieme, et metterla […] in rima» (Battista str. 1–2). La poetessa si pone in stretta dipendenza dall’operato divino, che deve informare, spingere, commuovere, svegliare, assecondare, incoraggiare il suo lavoro poetico. L’invocazione si traduce non solo in preghiera, ma in un intimo dialogo con Dio, di cui immagina la risposta incoraggiante: «E’ par che tu mi dica “Non temere, / ripiglia il tuo cantar pur col mio nome, / che tu n’ara’ onore e gran piacere. / Segui coi versi tuoi e dira’ come […]”» (Ester II, 16–19). Nell’altro luogo deputato per le dichiarazioni di poetica, la chiusura di ogni poemetto, Lucrezia talora aggiunge qualcosa, ma poco, a quanto ha già detto nell’incipit. Gli explicit ridicono l’impegno nell’opera di annuncio, ispirata da Dio, che si avvale però delle componenti 29 Proprio in questo poema un’estesa dichiarazione di inadeguatezza della poetessa, quando presenta le parole di Cristo, rivela di non poterle riferire tutte: «Et così disse queste degne cose / et assai più, ch’io non ho racontate / perché non basterebbe rime o prose / benché io abbia buona voluntate. / Io so ch’io sono entrata in vie ombrose / et uscir ne vorrei per caritate / di quel ch’è nel principio, et a suo ‘stanza / priego che aiuti la mia ignoranza» (Battista str. 116).
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tipiche della parola poetica: il piacere e il godimento. In Ester, dove l’epilogo, come l’invocazione, è più complesso, non solo Lucrezia aggiunge di aver così compiuto con l’aiuto di Dio il disegno iniziale, ma suggerisce che l’opera è ispirazione divina: «mi mostrasti questa fantasia», usando un termine di dantesca memoria, e «m’acendesti el core», che suggerisce ancora l’intervento divino sulla sua volontà: il qual [Signore] per grazia mio fragile legno condotto ha in porto d’ogni dubbio fore e sodisfatto in parte al mio disegno. Io ti ringrazio e benedico l’ore che mi mostrasti questa fantasia, all’operetta m’acendesti ’l core e se’ venuto meco in compagnia. Come mi promettesti m’hai contenta e mostro m’hai continuo la via, e con passi veloci e non già lenti senza alcuna fatica alfine ho giunto onde la mente mia lieta diventa. E qui m’aresta e fermat’è ’l mio punto. (Ester X, 142–155)
L’obiettivo di questi poemetti non sempre appare esplicitato, ma, se lo è, in genere è orientato a rendere gradevole con la rima il racconto. In Iudith alla terza strofa la poetessa rinnova la richiesta di grazia, per «farla in rima in modo che piacessi», e in Tubia dice di averla messa in versi affinché «piaccia a tutta gente», così anche in Ester l’obiettivo è «fare in modo che piacesse» (Ester I, 8). Altrove si propone anche di abbreviare la narrazione per evitare il tedio: «per non tediar, abreviando» (Ester VII, 156), quasi a voler trasmettere con gradevolezza la storia d’Israele e instillare nei lettori piacere oltre che devozione. Il pubblico a cui si dirige è diversamente figurato: è un lettore per i poemetti in terzine, che quindi ha sottomano il libro e legge: «Or udirai, lettor, gran maraviglia» (Tubia I, 143), «prima da te, lettor, vo’ che sia intesa» (Susanna v. 23), mentre è un uditore per i poemi in ottave: «sta, auditor, con l’intellecto desto» (Battista str. 133), «udite come» (str. 20) e «come voi udite» (str. 25), identico a un’espressione in Iudith «come voi udite» (Iudith str. 64). A parte la chiusura del poemetto su Susanna, di cui si dice che è un’«operetta che si legge e ode» (Susanna v. 400), dagli appelli al lettore si ricava quindi qualche ulteriore informazione sul genere: evidentemente l’ottava è scelta per la recitazione, la terzina come forma di un testo più meditativo e impegnativo, da leggere. Lucrezia mantiene comunque in ambedue i casi un fitto dialogo con il suo pubblico, proponendo spesso indicazioni narrative. Oltre agli appelli sopra menzionati, si possono trovare molti casi che dimostrano questa cordialità narrativa, che riguarda sia i poemi in ottave sia quelli in terzine: «perché s’intendin meglio i mie’ sermoni» 71
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(Ester I, 43), «El resto seguirò sanza dimoro» (ibid. I, 126), «ora ritornerò al parlar primo» (ibid. III, 14), «E’ mi convien un poco adietro fare / perché s’intenda me’ quel che vo’ dire» (Iudith str. 7), «come racont’ho» (Tubia II, 2 e III, 133). Nel raccontare dunque viene richiamata l’attenzione anche sul procedere della diegesi. Per definire la narrazione a volte Lucrezia usa il termine «raccontare» (Ester e Battista) a volte «dire» («dire una storietta», Iudith e Battista). «Storietta» è anche il termine usato per il poema di Tobia. Invece è interessante l’affermazione di voler «fare opera intera» sia per la storia del Battista, che infatti è un aggregato di diversi tasselli del Nuovo Testamento, sia per la storia di Ester, forse perché è la più lunga e articolata. Se il dettato biblico è per lo più rispettato, vi sono scarti che paiono significativi. Lucrezia salta la genealogia del libro di Ester. Evita lunghe preghiere: se nella Vita di sancto Giovanni Baptista dà voce alla preghiera della Vegine dopo l’annuncio, creando una notevole traduzione del Magnificat (Battista str. 28–30), nella storia di Tobia è completamente ignorata la preghiera di lode che chiude le peripezie e le sofferenze del padre. Invece della preghiera, che impiega ben 23 versetti della Vulgata, Lucrezia si limita a dire che recitò «lungo sermone» (Tubia VIII, 140). Sorprende questo taglio (a meno che non fosse della sua fonte), mentre vengono accettate alcune ripetizioni30. Appare evidente che proprio la narrazione è lo strumento amato da Lucrezia, e che la preghiera è ignorata forse perché interrompe il flusso del racconto, che delizia ed educa in sé, tanto da essere ripreso dalle voci dei protagonisti. Si può dire che la religiosità che ne emerge non è intaccata, ma appare più pratica che contemplativa, anche se le preghiere che sono contenute nella narrazione e conservate mostrano una personalizzazione che dona loro una forte intensità31. L’interpretazione Lucrezia Tornabuoni si colloca come scrittrice biblica tra le precedenti riscritture canterine. per lo più anonime, e i poemi latini, ben più complessi, del Sannazaro e del Vida, o quelli volgari di Teofilo Folengo o di Lodovico da Filicaia, fruiti in pieno Rinascimento da un ampio e variato pubblico, che andava dai signori al popolo32. I 30 Dopo il ritorno di Tobia figlio, le vicende sono raccontate ancora ben due volte (una volta da Tobia ai genitori e una seconda volta per chiedere come remunerare l’angelo-compagno) senza tagli. Dunque il lettore legge per ben quattro volte le avventure del giovane Tobia, perché nella proposizione iniziale erano già anticipate. 31 Anche in Ester è eliminata una delle preghiere di Mardocheo (cap. VI), ma la preghiera di Ester prima di presentarsi ad Assuero è persino allungata (V, 27–72), forse proprio perché espressa dalla voce femminile della protagonista. 32 Cfr. Mario Chiesa, «Poemi biblici fra Quattro e Cinquecento», Giornale storico della letteratura italiana, CLXXIX, 2002, pp. 161–192; Francesca Gambino, «“Epica biblica”: spunti per la
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suoi poemi sono contemporanei alle Vita della Vergine e Vita di Cristo del piacentino Antonio Cornazzano, che però hanno lo scopo di illustrare i grandi temi teologici che avevano larga fortuna all’epoca33. La trascrizione biblica di Lucrezia appare come la trasposizione di vicende antiche al presente, un’attualizzazione di principi che sono anzitutto sociali e civili, ma informati e radicati nel rapporto con il divino. Molto spesso la narrazione si traduce in regole di comportamento, in indicazioni etiche, che attestano anzitutto «l’indole religiosa» della donna34. All’inizio della storia di Tobia, in cui l’insieme della vita del vecchio Tobia è mostrata come ricompensata da Dio, stimolo per tutti a seguirne l’esempio, si legge: «Et in cotal maniero so’ po’ quegli / remunerati dal lor buon Signore, / che ’l servon per insin che vengon vegli» (Tubia I, 19–21)35. La fiducia in Dio e la necessità di affidarsi a lui domina tutte le storie: ognuno dei personaggi mostra a suo modo quanto l’individuo sia precario e l’esperienza terrena sia incerta, ma su Dio si possono porre solidi fondamenti. Tranne il Battista, tutti i personaggi sono in fondo dei vincitori che, dopo aver attraversato difficili momenti, hanno ottenuto la vittoria, ma nelle peripezie hanno mantenuto una solida fede, quindi dall’alto è venuto soccorso. Nel piccolo poemetto dedicato a Susanna il principio è reiterato molto spesso, più che altrove, e appare quasi come un leit-motif nella narrazione: «chi ha confidenza / in te con isperanza e ferma fede: / reintegrato è con gran magnificenza» (Susanna vv. 13–15), «chi mette in te il suo effecto / con vera fede e vive a tuo speranza / ogni pena gli torna poi in dilecto» (ibid. vv. 355–357), «Provide Dio a questa, come sòle / a tutti que’ c’hanno speranza et fede: / tutti gli exalta et honorar gli vuole» (ibid. vv. 387–389). La storia si chiude ancora con un’eco appunto sulla potenza della narrazione nell’ispirare comportamenti: «chi quest’operetta legge e ode / pres’ha compassion dell’innocente» (ibid. vv. 400–401). Alla stabilità divina fa da contraltare la precarietà terrena. La fiducia è necessaria perché in realtà i piani umani sono come sabbia e polvere, su cui nulla si può costruire. La vanità del mondo è sottolineata spesso dalla Tornabuoni. Nella storia di definizione di un genere medievale», La parola nel testo, III, 1999, pp. 7–44; Marco Faini, «La tradizione del poema sacro nel Cinquecento», in La Bibbia nella letteratura italiana. V, op. cit., pp. 591–608. 33 Sul Cornazzano si rimanda a Roberto Bruni e Diego Zancani, «Antonio Cornazzano: le opere a stampa», La bibliofilia, LXXXVI, 1984, pp. 1–61. 34 Traggo l’espressione dal saggio di Simona Iaria, «Un discepolo di Ambrogio Traversari: fra’ Michele di Giovanni Camaldolese», Italia Medievale e Umanistica, XLV, 2004, pp. 243–294: 270, che pubblica due lettere del frate alla Tornabuoni sulla devozione a san Romualdo, le lettere a pp. 292–293. Ringrazio la studiosa per avermi segnalato il saggio. 35 Tobia è usato nella cultura rinascimentale come modello delle tre virtù teologali: fede speranza carità. Cfr. Tobie sur la scène européenne à la Renaissance, suivie de Tobie, comédie de Catherin Le Doux (1604), a cura di A. Cullière, Bern-New York, Berlin, Peter Lang, 2015.
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Ester, quando Amam cade in disgrazia e passa dalla sua alta funzione presso il re al patibolo, la narratrice commenta: O mondo vano, tu se’ pien d’errore che niuna cosa è in te stabile e ferma e di letizia presto fai dolore, beato quel che da’ tuo’ colpi scherma. (Ester VIII, 151–154)
L’osservazione apre una parentesi nel racconto, una riflessione che richiama il lettore o ascoltatore a delle verità ineludibili, di cui ha già avuto la prova. Dopo il brivido offerto dalla narrazione, il pathos suscitato dalle vicende, c’è l’assioma morale che colloca la vicenda in un disegno più ampio che riguarda tutti e sistematizza i principi su cui è attivato il consenso. Anche in Tobia l’avvertenza contro la vanità del mondo è presentata in modo evidente, inserendola nel filo del racconto: Vedesi tutto ’l dì nostri disegni, che nessun ne riesce a buon fine, e non ci giova sottigliezza o ’ngegni. E molte volte per rose le spine ne prenderem, se non porgessi aiuto alle non conosciute e gran ruine. E quante volte al mondo è già acaduto domandar cosa e come l’arà auta, in poca d’ora poi se n’è pentuto. (Tubia III, 100–107)
Ancor più esplicito è il messaggio in un passo introduttivo della Iudith, «Hor chi volesse raccontare i regni / che son poi per la superbia desolati» (Iudith str. 6), che ribadisce la vanità dei successi terreni. Se la storia di Susanna è emblema della fede, quella di Giuditta lo è dell’umiltà. Fin dall’avvio infatti si avverte: «così interviene a chi in superbia abonda / […] chi va senza ragione et non seconda / Idio così lo fa poi humiliare» (Iudith str. 5), che conclude una precedente osservazione sul «vizio superbo», che molto dispiace a Dio (ibid. str. 4). Contro la superbia vi è una pronuncia esplicita ancora quando si parla degli iniziali azzardati propositi di Nabucodonosor. Il narratore avverte il lettore: Or intendimi bene quel ch’io ti dico ed abbi il tuo intellecto ad questo accorto: che chi esce sì fuori della ragione merita il danno et poi la diligione. (Iudith str. 27)
Il distico che chiude l’ottava qui ha quasi la forma di un proverbio. Spesso gli insegnamenti di Lucrezia passano appunto attraverso brevi sententiae che sembrano riecheggiare modi di dire, valori accertati, come appaiono nella letteratura coeva. Il proverbio viene incastonato nella narrazione: quando in Ester si anticipa l’errore della regina Vasti, il narratore inserisce la sentenza: «ma poco giova a chi tardi si 74
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pente» (Ester I, 33), e più avanti, quando si commenta la caduta di Amam, aggiunge «e ben è ver che chi la pietra gitta / a.llui ritorna non perdendo lena» (ibid. VIII, 146–7). Ancor più incisiva, perché resa memorabile dal chiasmo, è l’osservazione: «chi è crudel crudeltà truova» (Tobia I, 149), efficacissima nella sua brevità. Quella di Lucrezia è una sapienza popolare che altrove riguarda persino il corpo: «Il dormir come il cibo ci notrica», «la natura vuol recreazione» (Tobia II, 61–2). La vita quotidiana nella sua umile regolarità appare come uno degli interessi più vivi in queste narrazioni. Si può estendere a tutti i cinque poemi quanto Pezzarossa rileva per alcuni episodi della Vita di Tubia: «l’atmosfera quotidiana e realistica anima scene tracciate con precisione descrittiva e scioltezza figurativa36». Il tema dei rapporti familiari è tra quelli dominanti, Lucrezia Tornabuoni sembra costruire su queste storie un messaggio pedagogico del quotidiano, basato sul rispetto reciproco di genitori e figli, uomini e donne, su una meditata considerazione della vita, non solo come disegnata da una superiore potenza provvidenziale, ma anche come organizzata da sapienti regole trasmesse di generazione in generazione. Quando Tobia sta per partire con Sara dalla casa dei suoceri, Lucrezia mette in bocca alla madre della giovane alcune raccomandazioni per la figlia, valide per ogni sposa che si appresta a vivere nella casa del marito, con i genitori di lui: E disse: «Figlia mia, fa che tu faccia al suocer tuo et alla suocera onore, al tuo marito ancor mai non dispiaccia e la casa governa con amore, in modo che non possi esser ripresa di negligenzia o di nessuno errore». Sara dicea: «Vostra parola ho intesa e priego Iddio che tal grazia mi doni che sia a’ lor voler pronta e accesa». (Tubia VII, 61–69)
Sono tutte queste semplici regole di vita civile, che riflettono certo anche gli orizzonti dell’autrice. Lucrezia è attenta anche alle convenzioni sociali, che sono rispettate, anzi rinsaldate. Per esempio una delle aggiunte alla sua narrazione (rispetto alla Vulgata) riguarda proprio la decisione di Assuero di dare alle ragazze convenute doni, perché si possano maritare, che corrisponde a una delle attività di governo a cui si dedicava Lucrezia nella Firenze medicea37. 36 F. Pezzarossa, Poemetti sacri, op. cit., p. 71. Si tratta degli episodi del capitolo VII, quando i genitori attendono il ritorno del figlio. Non si deve tra l’altro dimenticare che proprio Firenze era erede di una notevole attenzione alla famiglia, come attesta il trattato di Leon Battista Alberti. Sull’argomento: Christiane Kaplish-Zuber, La famiglia e le donne nel Rinascimento a Firenze, tr. it. E. Pellizer, Bari, Laterza, 2004. 37 Cfr. Ester III, 145 e ss. Per le attività benefiche della Tornabuoni in favore di povere ragazze da marito cfr. N. Tomas, The Medici Women. Gender and Power in Renaissance Florence, op. cit.,
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Si può sostenere che con le sue storie Lucrezia rispondesse anche alle esigenze di un’etica moderna, nel momento in cui una nuova società con nuovi valori cercava una sua identità anche attraverso comportamenti che rinsaldassero i nessi civili. Anche se per questi poemi non riusciamo a dimostrare una circolazione ampia, essi sono però il frutto di un mondo che coltivò la familiarità con la Sacra Scrittura, specialmente in ambito femminile, di cui sono prova anche i successivi drammi sacri di Antonia Pulci e l’apostolato di Savonarola presso le donne38. Su questi principi si basa quindi l’etica quotidiana e civile di una città che si profilava non solo come la nuova Atene, ma anche come la nuova Gerusalemme. Le laudi Molta più fortuna dei poemetti biblici ebbero le laudi composte da Lucrezia. La recente edizione critica elenca per le laudi ben ventun manoscritti quattro-cinquecenteschi (per lo più conservati a Firenze, ma anche a Bologna, Milano, Roma, Venezia, Rimini, Siena, München, Toledo, Vaticano) e edizioni tutte parziali: undici quattro-cinquecentesche, una seicentesca, una settecentesca, segno di una indiscussa fortuna attraverso i secoli, non solo del genere, ma anche del contributo di Lucrezia, fino alle edizioni moderne dovute più alla ricostruzione filologica e storica che all’interesse per la materia39. Il corpus è esiguo: solo otto componimenti, di cui quattro sono direttamente di materia evangelica. Due laude sono per la festa del Natale (Ecco el Messia e Venitene pastori). La prima offre diversi elementi tratti dai Vangeli sinottici, come l’accenno ai pastori che vegliano e che sono invitati ad andare ad adorare Gesù (ma le prime strofe sono un interessante invito rivolto a angeli, Patriarchi, profeti, anime sante, con uno sguardo retrospettivo sull’Antico Testamento), il riferimento alla povertà di Gesù («Vo ’l troverete nato / tra ’l bue e l’asinello / in vil panni fasciato») e la visita dei Magi: E Magi son venuti dalla stella guidati con lor ricchi trebuti in terra inginocchiati et molto consolati,
pp. 56–57. 38 Su Antonia Pulci si veda ultra il capitolo sulle riscritture teatrali; sul Savonarola e le donne cfr. Tamar Herzig, Le donne di Savonarola. Spiritualità e devozione nell’Italia del Rinascimento, Roma, Carocci, 2014. 39 Cfr. S. Gazzano, «Le laudi di Lucrezia Tornabuoni. Edizione critica», art. cit.
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1- le narrazioni bibliche di lucrezia tornabuoni adorando el Messia et la madre Maria40.
La seconda (Venitene pastori) considera gli effetti della nascita di Gesù. Anche qui vi è un cenno alla sua nudità, a Giuseppe e Maria, al bue e all’asinello, ma contempla piuttosto la presenza dei cori angelici che cantano la gloria del re vittorioso, che «patir vuole pe’ nostri errori» (infatti alcuni testimoni aggiungono una strofa che riporta il canto angelico: «Gloria in cielo all’alto Dio / e in terra pace sia41»). Una laude (Ben venga osanna) è un sunto della vita di Gesù, dalla nascita «nel fieno / tra l’asinello e ’l bue / […] / come predetto fue», la visita dei pastori e dei magi, l’entrata in Gerusalemme («e cala il Salvatore / giù dal Monte Uliveto; / gridava el popul lieto / ad alta voce “Osanna”»), il tradimento di Giuda, il bacio nel Getzemani, fino alla crocifissione, tutto in sei strofe di sei settenari a rima xx ababbx. Ecco el Re forte è una lauda per la Pasqua. Il Risorto è celebrato per la discesa agli inferi e la salvezza dei morti. Menziona i Patriarchi, con cui si celebrano le lodi: Abele, Noè, Mosè, Abramo; alla sua «corte» sono nominati anche Giovanni Battista, Simeone e i santi innocenti, contenti della loro morte per essere con Lui. L’ultima strofa sono parole di Gesù, che spiega appunto il riscatto dovuto alla sua morte: Venuti siate al regno tanto desiderato, poi che nel santo legno i’ fu’ morto e stratiato e ho ricomperato tutta l’humana sorte42.
Nella seconda strofa si trovano anche riprese dal salmo XXIII: «Quis est iste rex gloriae? Dominus fortis et potens: Dominus potens in proelio. Adtollite portas, principes vestras, et elevamini portae aeternales» (Ps 23, 7–10). Una laude è sulla Pentecoste: Viene ’l messaggio, e sembra riprendere le parole dell’antifona Veni Creator Spiritus: «Vieni, Spirito vero, / entra ne’ nostri pecti, / facci l’animo intero, / purga e nostri difetti / […] // […] Accendi e nostri sensi, // conferma e nostri cuori, / […]43». Due componimenti sono inviti alla devozione: Gesù invita l’anima a contemplarlo (Contempla le mie pene, o peccatore); l’anima parla a Gesù meditando sui segni della passione (O Signior mio, ben fu l’amor tuo forte). Infine un componimento, molto ritmato e sonoro, Non mi curo più di te, è una rinuncia al mondo e alle tentazioni del Nemico per seguire Gesù. 40 41 42 43
Cfr. Ibid., p. 213. Ibid., p. 216. Ibid., p. 221. Per le riprese dal Veni Creator Spiritus cfr. Ibid., p. 188.
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I testimoni manoscritti provengono per lo più da casa Medici o conventi e confraternite, in particolare da quelli legati al Savonarola, e attestano come le laudi di Lucrezia abbiano avuto anzitutto una circolazione locale a scopo devozionale privato (non liturgico) o conventuale, in un ambito fortemente segnato dalla predicazione del domenicano ferrarese44. Un codice è stato copiato di mano del Savonarola stesso e altri riconducono ai suoi seguaci, così come di ambito savonarliano è l’edizione cinquecentesca curata dal domenicano Serafino Razzi, promotore del culto di Savonarola. «Sembra quindi che le laudi di Lucrezia siano entrate a far parte del repertorio utilizzato da Savonarola e dai suoi seguaci e cultori. […] L’altro polo significativo di diffusione dei testi di Lucrezia è costituito da confraternite e monasteri45». Circolarono cioè in ambienti che facevano da luogo di contatto tra le élites e il popolo artigiano46, presentano un linguaggio alla portata di tutti, con frequenti ripetizioni e anafore che ne facilitavano la memorizzazione. Il carattere drammaturgico ne facilitava il reimpiego nelle sacre rappresentazioni (alla fine si cantava sempre una lauda). La loro dipendenza dal testo biblico è dovuta alla loro stessa natura di testi para-liturgici e devozionali. Risulta evidente anche da questi testi l’impegno e la partecipazione al canto devozionale del mondo laico, signorile, anche intellettuale, e alla diffusione e conoscenza della Bibbia nella Firenze medicea, neoplatonica, ficiniana. Il Quattrocento fiorentino aprì così la strada al grande sviluppo della letteratura biblica in volgare dei secoli successivi.
44 Ibid., p. 177. 45 Ibid., p. 182–183. Un codice apparteneva al convento benedettino delle Murate, che nel 1515 aveva più di 200 religiose, un secondo ai benedettini della Badia, un terzo ai cistercensi della Badia di Settimo; un codice apparteneva alla confraternita o compagnia dei Bianchi o Battuti (Ivi, p. 185). 46 Cfr. Daniela Delcorno Branca, «Lucrezia, Poliziano, Lorenzo, note su alcune convergenze fra lirica sacra e lirica profana», Interpres, XIX, 2000, pp. 111–134.
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Interpretazione scritturale nei sermoni di Domenica da Paradiso
Interpretare san Paolo La più straordinaria difesa del diritto delle donne a interagire con la comunità ecclesiale in materia biblica e a offrire la propria interpretazione è quella espressa da Domenica da Paradiso in un suo sermone del 13 gennaio 1534, rivolto alle sue consorelle e trascritto sotto dettatura dal suo padre spirituale, Francesco Onesti da Castiglione, canonico di San Lorenzo di Firenze1. Lei stessa mette in campo il noto passo di san Paolo, «Mulieres in ecclesia taceant» (1 Cor 14, 34), che impediva alle donne di intervenire nelle assemblee, ribaltandone però il significato a sua difesa e dichiarando quindi il diritto delle donne a parlare in chiesa. Richiesta da Caterina Cibo, venuta a visitare la sua comunità nel gennaio 1534, di spiegare il vangelo del fico maledetto (Lc 13, 6–9), Domenica risponde scusandosi2:
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Francesco Onesti da Castiglione fu suo direttore spirituale dal 1506 al 1542, era stato precettore di Pier Francesco, figlio di Lorenzo de’ Medici; non ci ha lasciato opere, tranne appunto la documentazione relativa a Domenica da Paradiso, rimasta però manoscritta fino ai nostri giorni. Su Domenica da Paradiso si possono vedere Adriana Valerio, Domenica da Paradiso. Profezia e politica in una mistica del Rinascimento, Spoleto, Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, 1992; Isabella Gagliardi, Sola con Dio. La missione di Domenica da Paradiso nella Firenze del primo Cinquecento, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2007. Si vedano anche per i legami con il Savonarola: Lorenzo Polizzotto, «When Saints Fall Out: Women and the Savonarolan Reform in Early Sixteenth-Century Florence», Renaissance Quarterly, XLVI, 1993, p. 486–525; Tamar Herzig, Le donne di Savonarola. Spiritualità e devozione nell’Italia del Rinascimento, Roma, Carocci, 2014, passim. Sulle modalità di trascrizione delle parole della visionaria cfr. Rita Librandi, «Nota critica», in Rita Librandi e Adriana Valerio, I sermoni di Domenica da Paradiso: Studi e testo critico, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 1999, pp. CLIII-CLXXIX: CLXII. Sui rapporti tra Domenica da Paradiso e Caterina Cibo: Adriana Valerio, «Caterina Cibo e la spiritualità savonaroliana attraverso il magistero di Domenica da Paradiso», in Munera parva. Studi in onore di Boris Ulianich, a cura di G. Luongo, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 1999, II, pp. 141–154.
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parte prima - firenze biblica Io farò come disse san Paulo, che quando lui predicava, quelle donne che havevono udito la predica sua facevano rumore e strepito e parlavano, e san Paulo disse ch’elle tacessino in chiesa e tornassino a casa, e domandassino a’ lor mariti, e facessonsi dire quel ch’elle non intendevano. Et a quel modo disse che la donna tacesse e non facesse le prediche in chiesa. Et io uso andare in casa al mio sposo, quando io sento qualche cosa ch’egli ha ditto, lui o qualcun altro, considerando che lo spirito santo parla spesso e non discende e non dichiara tutte le cose. Vuol che si ricorra a lui e che e suoi servi si exercitino e che faccino come dice lo evangelio de la prieta pretiosa: cerchinne tanto che la trovino, e poi quando è trovata faccinne festa. In tutte le cose che ha parlato Iesù Christo vi è sensi et allegorie mirabili; bisognia ricorrere a lui3.
A conclusione chiude il ragionamento, con cui aveva aperto il lungo sermone, in cui il fico sterile è identificato con Lutero e i suoi seguaci, ribadendo di aver parlato su ispirazione: «io son venuta in casa et ho domandato el mio sposo, come disse san Paulo, che mi amaestri et inspirassi, e mi facessi parlare sopra questo evangelio» (Sermoni, 156), ribadendo quindi che le sue parole sono ispirate da Dio. Se san Paolo indica alle donne un comportamento sottomesso ai mariti, Domenica rivendica la sua scelta di sposa di Cristo per difendere un dono che sente proprio, quello della parola, di cui reclama la legittimità. Nonostante sulla predicazione femminile gravasse un divieto teologico e giuridico stabilito già dal Decretum Gratiani, e seguito da ripetuti interventi delle gerarchie e conciliari, che ne confermavano la validità, lei predicò alle sue monache per tutta la vita4. Sebbene persino Savonarola vietasse alle donne di intervenire, Domenica riuscì invece ad affermare la sua autorità nell’annunciare e nell’interpretare la parola di Dio, lasciandoci dieci sermoni trascritti dal suo padre spirituale5. Venne seguita e ascoltata da numerosi fedeli, persino la corte medicea si interessava a lei6.
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La citazione è dall’edizione dei sermoni di Domenica: A. Valerio e R. Librandi, I sermoni di Domenica da Paradiso, op. cit., pp. 143–144. D’ora in poi le citazioni dai sermoni si indicheranno solo con Sermoni, seguito dal numero di pagina. Il concetto è ribadito nella lettera alla Cibo, cfr. I. Gagliardi, Sola con Dio, op. cit., pp. 213–214. Cfr. Adriana Valerio, «Le prediche di Domenica da Paradiso tra esperienza mistica e riforma della Chiesa», in R. Librandi e A. Valerio, I sermoni di Domenica da Paradiso, op. cit., pp. XIII– LXXVIII: XXVIII–XXX; I. Gagliardi, Sola con Dio, op. cit., pp. 213–215. Sulla predicazione delle donne cfr. Women Preachers and Prophets Trough Two Millenia of Christianity, a cura di E. Mayne Kienzle e P.J. Walker, Berkeley, University of California Press, 1998; per l’Italia Adriana Valerio, «La predicazione femminile dagli anni pre-tridentini alla prima metà del Seicento», in La predicazione in Italia dopo il Concilio di Trento tra Cinquecento e Settecento, a cura di G. Martina e U. Dovere, Roma, Erizioni Dehoniane, 1996, pp. 177–206. Si legge nelle Prediche sopra Ezechiele: «Sta bene alla donna stare cheta e non stare sempre a cicalare». Girolamo Savonarola, Prediche sopra Ezechiele. Edizione Nazionale delle opere di Girolamo Savonarola, a cura di R. Ridolfi, Roma, A. Belardetti-Firenze, Tip. Giuntina, 1955, p. 305. Sul rapporto di Domenica con i Medici cfr. Adriana Valerio, Domenica da Paradiso. Profezia e politica in una mistica del Rinascimento, op. cit., in particolare pp. 57–76.
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2- interpretazione scritturale nei sermoni di domenica da paradiso
Quello di san Paolo è un passo con cui Domenica si confronta più di una volta, e che usa sempre a sua difesa, segno dell’importanza che assegna al suo proprio messaggio e della serietà con cui porta a compimento il dono della parola. La sua lettura dimostra anche la libertà che rivendica nell’interpretare le Sacre Scritture, non attenendosi all’esegesi tradizionale. Il diritto delle donne a parlare in pubblico era stato persino oggetto di un intero suo sermone, oggi perduto, ma di cui si parla nella trascrizione di una visione avuta nel 1507, in cui Domenica dice di aver ricevuto la visita di san Paolo, che la confortava per avere correttamente interpretato le sue parole, sostenendo che Dio si serve di molti strumenti per la sua opera di salvezza, tra cui anche la donna: Aveva la sposa di Cristo [Domenica da Paradiso] fatto un sermone alle sue figlie spirituali il dì 4 di luglio 1507, nel quale, essendo io [Francesco Onesti, il trascrittore] presente con due altri suoi padri spirituali (erano in quel tempo tre suoi padri) sentimmo che tra l’altre cose ella esplicò quelle parole di s. Paolo a’ Corinzi, Taceant mulieres in ecclesija, così eruditamente che restammo grandemente ammirati. La notte seguente, dubitando lei non avere forse fatto qualche errore nell’esplicazione delle dette parole e d’aver detto qualcosa che dispiacessi a Dio e che egli avessi ciò permesso per li suoi peccati, e sopra di ciò facendo orazione, gli apparve s. Paolo Apostolo, risplendente d’un meraviglioso splendore, quale le disse esser mandato dal suo sposo a confortarla, che ella non sospettassi aver detto alcuna cosa contro la verità: imperoché le cose che ella aveva detto non l’aveva dette da per essa, ma ispirata dal Signore e che aveva detto cose vere, ancorché da molti non intese bene7.
Anche in altri sermoni Domenica ricorda il divieto paolino, superandolo con un energico e acuto slancio interpretativo. L’interpretazione le consente infatti di negoziare il significato di un testo che, se preso alla lettera, la costringerebbe al silenzio. Nel sermone del giorno dei Santi pronunciato per le monache del monastero il 1 novembre 1526 si riporta la preghiera espressa prima di comporre il sermone, in cui si rivolge a Dio come a suo sposo, mettendo in atto con fiducia la raccomandazione paolina al modo da lei interpretato:
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Sermoni, 157. Interessante anche il seguito, in cui si dice come san Paolo spiegherebbe il senso delle proprie parole, che sarebbero state dette per evitare strepiti in chiesa, ma egli si dichiarerebbe del tutto favorevole alla predicazione anche delle donne: «imperoché lo spirito di Dio spira dove egli vuole: o sia donna o sia uomo, lì bisogna aprir la porta e darli luogo. Io in dette parole non ho inteso di fare resistenza allo Spirito Santo, né potevo fargliela sì come alcuno gliela può fare. Laonde io non ebbi pensiero in dette parole di proibire la predicazione ad alcuno anzi dissi che nessuno doveva tacere, ma parlare senza rispetto quello che il Signore li faceva dire. E dopo di me sono state molte donne le quali, ripiene di Spirito santo, hanno predicato la vita e dottrina, delle quali è celebre nella santa Chiesa, e l’anime loro sono beate nella gloria del Cielo, perché predicando non errorno, ma feciono la volontà del loro sposo, né fecero contro le mie parole». Sermoni, 158.
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parte prima - firenze biblica San Pagolo disse alle donne che tacessino in chiesa, et a casa domandassino e lor mariti. Io intendo che san Pagolo dicesse ch’elle non facessino strepito in chiesa, ma quel ch’elle non intendevano andassino a domandarne gli sposi loro. Io vengo a te sposo, benché indegnia, a domandar quel ch’io non intendo et èmmi a proposito el ditto di san Pagolo. Non farò strepito in chiesa, ma vengo a la casa della potentia tua, e qui mi poserò e tanto picchierò che tu per la tua misericordia mi risponderai. (Sermoni, 98)
Nell’interpretare questo passo, vediamo già in atto il suo procedere ermeneutico, che è basato su una lettura piana e fedele della Scrittura sacra, che viene suffragata dalle visioni e da altri passi biblici, soprattutto evangelici, quindi trasportata nel contesto della vita vissuta, per cui ricava indicazioni precise e applicabili. Sebbene riconosca alle donne una condizione di inferiorità: «le donne, che sono più debile di memoria, d’intellecto, di lettere», ritiene che possano essere più avanti nella conoscenza dei misteri divini, perché Gesù mostra nell’episodio della penitente in casa del fariseo Simone (Lc 7, 36–50), quando dice che le sono perdonati molti peccati, che «la donna, la quale è più debile, più abiecta d’intellecto, lascia adrieto Simone, e ch’ella va inanzi, e che ella ha conosciuto el Salvatore, e che ella l’ha amato» (Sermoni, 10–11). È questa una prova che con l’amore ci si può avvicinare ai misteri della redenzione con maggior cognizione di quanta ne abbiano i sapienti del mondo. Spesso nelle sue prediche ricorda le parole di Gesù, che il regno dei Cieli è riservato ai piccoli, qualificando così alcune figure che per la loro semplicità superano la sapienza non solo del secolo, ma anche di molti prelati presuntuosi e supponenti. Si può dire che Domenica faccia eco ai principi del De docta ignorantia di Nicola Cusano, anche se non c’è bisogno di ricorrere a fonti che non può aver frequentato (semmai può eventualmente averne sentito parlare), perché dalle stesse Sacre Scritture poteva derivare in abbondanza il sostegno al valore della semplicità dei poveri di spirito, al sapere ispirato dallo Spirito, che è vera sapienza, un sapere ben superiore al sapere terreno che è scientia, ma non vera sapientia. Un approccio inusuale alla Bibbia Domenica non si arroga un diritto, ma necessita di giustificarsi e giustificare la sua parola. Non solo per lei era necessario superare la diffidenza e il divieto verso la predicazione femminile, ma anche giustificare la sua condizione di analfabeta, di illetterata e quindi non abituata ai libri e alle scritture. La visionaria apparteneva infatti a una famiglia contadina ed era analfabeta. Era nata nel 1473 nel Borgo di Paradiso, alla periferia Sud di Firenze, da umile famiglia di cognome Del Nardo o Narducci; il padre era ortolano e morì quando Domenica aveva solo sei anni, una perdita restata per lei incolmabile; non ebbe alcuna istruzione, anzi fu coinvolta presto nel
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lavoro manuale, che sentì sempre come più adatto a lei8. La sua infanzia ed adolescenza furono «costellate di visioni, apparizioni, “sante ispirationi”. Crebbe a stretto contatto con il divino, per cui sentiva Cristo come padre, amico, confidente. Lo stesso valeva per la Vergine Maria, nei confronti della quale Domenica sviluppò una solida devozione fin dalla prima infanzia9». Le visioni, che si succedono per tutta la vita, arrivano presto (a 12 anni la prima) e sono raccontate in tutte le sue opere, affidate a generi diversi: il dialogo, il sermone, la lettera, il trattato, il ricordo (alla maniera fiorentina)10. Nelle visioni sperimenta sempre un incontro con le figure della storia della salvezza, che si materializzano ai suoi occhi: Cristo, la Vergine, gli angeli, Abramo, san Paolo, che la istruiscono. Iniziò presto a frequentare il convento brigidino di Santa Maria, situato nel suo borgo, ne vestì anche l’abito (senza però prendere i voti e continuando a vivere in casa). Il 15 settembre del 1485 si proclamò sponsa Christi e da quel momento portò l’anello coniugale11. Fondò in seguito una comunità di donne devote, molto vicina ai domenicani di San Marco e al Savonarola, poi ai suoi seguaci12. Si rese infine autonoma fondando il monastero della Crocetta, per cui ottenne l’autorizzazione del vescovo e del pontefice nel 1515. Le sue seguaci erano per lo più donne di umili origini, ma riuscì a creare una fitta rete di relazioni in cui univa direzione spirituale e consigli per il vivere civile, legando a sé anche esponenti della famiglia Medici. Fu spesso perseguitata, oggetto di accuse ripetute, di eresia e di simulazione, ma riuscì sempre a liberarsi, tanto da non lasciare dubbi né sulle visioni né sulla 8
Le fonti per la biografia e tutte le notizie relative a Domenica sono costituite principalmente dai documenti coevi. Ma fondamentali sono gli Annalium vite Beatae Matris sororis Dominice de Paradiso, redatti dal suo padre spirituale Francesco Onesti da Castiglione. Dopo il 1542 sono il confessore Raffaello Talenti o le consorelle a fornire, ma in modo assai meno dettagliato, alcune notizie sulla visionaria. Per il periodo precedente il 1506 è lo stesso Onesti a riassumere e fornire le notizie che trae dai documenti a sua disposizione. Gli Annalium furono rivisti da Domenica, che personalmente dettò le correzioni. Sono conservati nell’Archivio del Monastero della Crocetta, ora trasferito nell’Archivio Domenicano di Santa Maria Novella, AMC ms 2. Cfr. I. Gagliardi, Sola con Dio, op. cit., pp. 4–7. 9 Ibid. p. 13. 10 Le opere edite sono: Domenica dal Paradiso, Scritti spirituali, a cura di G. Antignani, Poggibonsi, Edizioni Tipolito Arti Grafiche Nencini, 1984; R. Librandi e A. Valerio, I sermoni di Domenica da Paradiso: Studi e testo critico, op. cit.; Le «substantie» dei sermoni e delle visioni di Domenica da Paradiso (1473–1553), a cura di R. Piro, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2004. Per i manoscritti del Monastero del Paradiso, ora a Santa Maria Novella, si veda Rosanna Miriello, I Manoscritti del Monastero del Paradiso di Firenze, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2007. Per i generi della scrittura religiosa cfr. Eduard Norden, Agnostos theos: Dio ignoto. Ricerche sulla storia della forma del discorso religioso, a cura di C.O. Tommasi Moreschini, Brescia, Morcelliana, 2002. Le substantiae sono la sintesi delle sue visioni come trascritte dalle consorelle. 11 I. Gagliardi, Sola con Dio, op. cit., p. 14. 12 I rapporti con il Savonarola sono studiati da I. Gagliardi, Sola con Dio, pp. 3–99; T. Herzig, Le donne di Savonarola, op. cit.; L. Polizzotto, «When Saints Fall Out», art. cit.
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sua santa vita. Le persecuzioni iniziarono con il divieto di frequentare la chiesa del monastero di Santa Brigida nel 1499, forse in quanto savonaroliana13. Nel 1501 fu convocata presso il tribunale arcivescovile con il sospetto di mancata ortodossia14, e nel 1507 le fu rifiutata la comunione15. Se su queste accuse poco si sa, anche se sono ricostruibili dagli scritti su di lei, meglio noto è l’episodio in cui fu accusata di portare l’abito domenicano impropriamente, nel 1509. L’accusa, portata davanti al vescovo, diede poi origine alla costituzione del suo ordine, che porta sì l’abito domenicano, ma con una croce rossa sul petto per sua distinzione16. Più significativa è l’attenzione che ricevette da parte di Pietro Querini, camaldolese, che in occasione del capitolo metropolitano del suo ordine, svoltosi a Firenze nel 1513, si insospettì su Domenica tanto da volerla inquisire. Solo la morte del Querini, avvenuta improvvisamente nel 1514, salvò la donna da un processo che avrebbe potuto essere molto pericoloso17. Ma questo evento lasciò Domenica quasi inconsapevole. Quella che più la coinvolse fu la denuncia per eresia al tribunale diocesano da parte del domenicano Tommaso Caiani nel 151918. Alcune sue proposizioni furono giudicate eretiche e venne processata. Fu in quest’occasione che scrisse una lunga difesa che costituisce la risposta ai «murmuratori sua», in cui difende il suo diritto di spiegare le Sacre Scritture19. Tuttavia dalle accuse Domenica uscì anche questa volta indenne. Ma la visionaria vestì anche il ruolo di accusatrice: fu lei a smascherare la falsa santità di Dorotea di Lanciuola, intorno a cui si era creata una venerazione infondata, anche se sostenuta dal domenicano Tommaso Caiani20. Non apprese mai a leggere e a scrivere, almeno stando a quanto viene affermato da lei stessa e dagli scritti su di lei, anche se la presenza dei libri nella sua vita è molto importante21. Non ha lasciato nulla di suo pugno; ha dettato, per lo più ai suoi discepoli o alle sue guide spirituali, quanto intendeva comunicare, generando un immenso lascito di scritti. Domenica affermava coerentemente un sempre identico principio: Cfr. I. Gagliardi, Sola con Dio, op. cit., p. 29. Cfr. Ibid., p. 38. Cfr. Ibid., pp. 76 e ss. Cfr. Ibid., pp. 91 e ss. Cfr. Ibid., pp. 186–191. Cfr. Ibid., pp. 191–197. La lettera è interamente edita alle pp. 510–534, in Adriana Valerio, «“Et io expongo le Scripture”: Domenica da Paradiso e l’interpretazione biblica. Un documento inedito nella crisi del Rinascimento fiorentino», Rivista di storia e letteratura religiosa, XXX, 1994, pp. 499–534. 20 Sulle persecuzioni si veda I. Gagliardi, Sola con Dio, op. cit., pp. 23–99; sulla vicenda di Dorotea, ibid., pp. 79–87; Adriana Valerio, «Domenica da Paradiso e Dorotea di Lanciuola: un caso toscano di simulata santità agli inizi del ‘500», in Finzione e santità tra Medioevo ed età moderna, a cura di G. Zarri, Torino, Rosemberg & Seller, 1991, pp. 129–144. 21 Nelle regole per le sue seguaci prescrisse il dovere di imparare a leggere. Cfr. ultra nota 26. 13 14 15 16 17 18 19
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2- interpretazione scritturale nei sermoni di domenica da paradiso Io non so leggere né scrivere, et sono usa a mazolare cavolo e cipolle perché da piccolina fui hortolana. Se voi trovate ch’io exponga la Sacra Scriptura per virtù del mio exercitio, riprendetemi come presumptuosa. Io non so nulla, confessovi ch’io sono stata presso a vent’anni in questa ciptà di Firenze, credo chiaro et certo non havere a memoria e nomi di venti casati, perché naturalmente non ho memoria, et non tengo a mente un nome d’una persona, se non mi è detto parecchie volte. Però non vi dolete di me, ch’io exponga la Sacra Scriptura. Io vo allo studio quando ho a scrivere, inginocchiomi e fo oratione, et priego Dio che mi facci dire quel che è l’honor suo. Fo come la Cananea, chieggo i minuzoli che mi son dati, ingegnomi darne qualcuno. Dico quello che ’l mio sposo Jesù mi manda a bocca senza pensar nulla, et dico ch’io mi struggo di vedere scrivere sì adagio, perché mi abondano tanto le sententie, le allegorie, ch’io mi distruggo havere aspectare lo Scriptore, et dire sì adagio, et batto di qua e di là, piglio que’ sensi e quelle allegorie, che giungono in su la lingua senza pensarle. Però rispondo ch’io non expongo la Scriptura quando è in me, ma porgo quello che ’l Signore mi mette in bocca. […] lui fece parlar l’asina, non è gran fatto che facci parlar me […]22.
Pur nella consapevolezza della sua estraneità al mondo della parola scritta e della sua personale inadeguatezza, esercita un severo controllo sulle scritture che traducono le sue parole. Infatti i trascrittori registrano sempre questa sua supervisione attenta e scrupolosa. Si fa rileggere quanto scritto e suggerisce correzioni, aggiunte, note, chiarimenti, «preoccupata di non falsare la verità (cioè quella che in tutta onestà di coscienza ella riteneva essere la verità)23». Ma i suoi stessi trascrittori ritenevano la sua parola emissione divina, per cui cercavano di non alterarla, facendosi garanti di autenticità per ciò che riportavano. L’ansia pastorale la rende molto attenta al processo di trasmissione del Verbo, la parola del suo Sposo, e accuratamente si procura i mezzi per realizzarla. Il controllo avviene però anche, in modo più razionale, attraverso il confronto con le Sacre Scritture. Il diritto-dovere di interpretarle e di annunciarle in pubblico è per lei questione essenziale e cerca di autorizzarsi sulla base dell’ispirazione che le viene dall’alto, quasi a mettere in atto quanto san Paolo scrive a proposito del predicatore ispirato dallo Spirito santo, «non in persuasibilibus humanae sapientiae et eloquentiae, sed in ostensione Spiritus et virtutis» (1 Cor 2, 4). Domenica si rimette totalmente alla parola di Dio che trova nel Vecchio e nel Nuovo Testamento e all’ispirazione divina, affermando di non essere che una trasmettitrice, tanto che
22 A. Valerio, «“Et io expongo le Scripture”», art. cit., pp. 529–530. L’asina di Balaam che parla è in Num 22, 28. 23 I. Gagliardi, Sola con Dio, op. cit., p. 7. Su alcuni aspetti di oralità e sul processo di trascrizione, per quanto risulta dalle sue parole, si veda Erminia Ardissino, «Domenica da Paradiso entre mistique e predication», in Les femmes prophètes et mystiques: entre sainteté et hérésie du xiiie au xviie siècle, a cura di É. Boillet e H. Michon, in corso di stampa.
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all’inizio dei suoi sermoni e spesso nel corso di essi pronuncia il versetto del salmo 51, invocando Dio a ispirarla in modo che lei possa darne lode: «Domine labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam24». La conoscenza biblica che Domenica manifesta potrebbe essere il frutto di un proprio avvicinamento alle Sacre Scritture per vie orali (prediche, conversazioni, ascolto di letture) o per mezzo di un faticoso processo di tarda alfabetizzazione e decifrazione personale. I riferimenti biblici potrebbero anche essere suggerimento dello scrivente, che è per lo più il suo direttore spirituale, quindi sacerdote ben competente in fatto di Bibbia e certo anche indotto per la sua autorità a filtrare le parole e renderle, anche senza eccessive interferenze, conformi al dettato della Chiesa o a forme di devozione convenienti. Non avendo altri scritti di questi mediatori non possiamo neppure giungere a definizioni e contrario, isolando caratteristiche tipiche della scrittura del mediatore. Ma la facilità con cui Domenica si muove tra le Sacre Scritture, citando i libri più frequentati (Vangeli, lettere paoline, Salmi, Genesi) induce a credere che fosse lei a elaborare questi riferimenti, che risultano
24 Onesti scrive nel cappello introduttivo al sermone del 25 maggio 1523: «El principio del suo parlare fu questo: “Domine labia mea aperies” e con tutto il resto come seguita qui. // Domine labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam. Prego Dio che apra la bocca mia e la lingua mia possa annuntiare la laude sua e le parole sue», quindi inizia il sermone «Dilette figliuole mie, io desideravo farvi un sermone de lo Spirito Santo» (Sermoni, 29). Anche nel raccontare la visione prima della predica del Natale 1524, a predica avviata, invoca Dio con il salmo «“Domine labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam”. Deh, apri le labra mia, che annuntino e parlino del Messia el quale è incarnato per noi», continuando poi a trattare del «gram-mysterio» dell’Incarnazione (Sermoni, 47). In modo più complesso alla vigilia della festa della purificazione di Maria Vergine, considerando la necessità di studio per predicare, così prega: «Ecco e mia libri e quali ho a squadernare et aprire. Domine, apri le labra mia e dammi del pane, come tu desti a la Cananea, e dell’acqua, come tu desti a la Samaritana, a ciò che io possa correre per la mia città a dire le laude tua» (Sermoni, 67). Ripete la stessa preghiera (Sermoni, 68) fin che le giunge l’apparizione che le spiega i misteri delle «quarantine» (i molti casi di quaranta giorni proposti dalla Bibbia), anche alla fine Dio la invita a pregare e le promette di esaudirla: «Hor va e fa el sermone della dichiaratione, e dì: “Domine, apri le labra mia!” Et io l’aprirò, e farotti tanto veloce nel dire che parrà che tu scoppi el petto, et la bocca non potrà supplire et exprimere quello che dirai» (Sermoni, 94). Ancora nel sermone del 1 novembre 1526, dopo molte preghiere per avere ispirazione, «scalza e in tonacella, in camiscia» si inginocchia all’altare della sua cella e prega: «Domine labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam. E dissi: “Deh Signiore, apri le labra mia, a ciò ch’io venga ‘ annuntiar le laude tua”» (Sermoni, 99). Così anche per la predica del 24 agosto 1533, davanti alla Cibo: «E riposata ch’i’ fui un michino, e velato un poco l’ochio, scesi a terra del letto e cominciai a dire: “Domine labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam. Signiore, apri le labra mia e fa che io annuntii e dica le laude tua”» (Sermoni, 127). In questi tre ultimi casi la preghiera è detta al momento della preparazione del sermone. Ancora nel sermone del 13 gennaio 1534, dopo aver giustificato la sua posizione nei confronti del versetto paolino, precede il sermone con la preghiera: «Però ricorro a te, altissimo Dio e dico: “Domine labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam”. Priegoti Signiore, che tu apra le labra mia a ciò che io dica le laude tua» (Sermoni, 144).
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talora frequentissimi nei suoi scritti e convogliati in formule sempre simili, con un lessico assai semplice e popolare. Domenica raccomanda ai suoi seguaci di «leggere e meditare le divine Scritture, e queste ogni persona ancorché rozza e ignorante le può leggere, cioè scrutare e meditare25». Nelle costituzioni dell’ordine da lei fondato si indica che le suore devono imparare a leggere, chi non lo fa ogni giorno è persino punito: «Ogni dì andate tre volte ad imparare a leggiere a chi vi sarà ordinato et per ciascun dì chi manchassi senza licentia habbi a mangiare in terra pane e acqua26». Profonda appare la consapevolezza che la Sacra Scrittura deve essere conosciuta e interpretata, e che va studiata, meditata o, come dice lei in linguaggio fiorentino e dantesco, «rugumata27». Si riporta che si facesse leggere il vangelo la sera prima di predicare e pregava affinché le fosse ispirato quello che doveva dire. Spesso la preghiera che precede i sermoni e la loro preparazione si risolve in una visione, come avviene nel maggio 1523, quando deve predicare sulla Pentecoste, per cui dice: «Chiedevo che mi fusse insegnato quel che io havessi hoggi a dirvi dello Spirito sancto, e subito io mi sento fuora de l’uscio de la cella murmurio e certi parlamenti» (Sermoni, 30). In effetti racconta che, aperto l’uscio, vede davanti a sé «tre bellissimi giovani e uno venerabile vecchio», che si rivelano essere Abramo con i tre angeli che apparvero al patriarca alle querce di Mamre (Gn 18, 1–21). I tre giovani incarnano Fede Speranza Carità, che consentono di chiarire il significato del dono dello Spirito, ovvero ciò che comporta il dono delle lingue dato agli Apostoli nella Pentecoste, per cui può infine costruire il suo sermone. In esso sottolineerà la necessità di aprire l’anima allo Spirito, il quale donerà la piena comprensione dell’Incarnazione, invitando gli ascoltatori a inebriarsi del dono della salvezza: «Doviamo ricordarci de la passion sua, per quella destarci ed accenderci, infiammarci ne l’amor suo […] alhora, ebrie de l’amor di Dio, favellerete con nuove lingue, con lingue di fuoco canterete nuovi canti, nove laudi con altro gusto, con magior fervore che habbiate fatto infin qui» (Sermoni, 42). Anche nel successivo sermone, fatto la festa dell’Epifania del 1525, ricorre a una visione per spiegare il «gram-mysterio» del Natale. Inizia rivelando che la notte avanti il Natale, pregava per conoscere quello che doveva predicare il giorno successivo:
25 A. Valerio, «“Et io expongo le Scripture”», art. cit., p. 528. 26 La regola è la quinta delle Costituzioni, riportate in I. Gagliardi, Sola con Dio, op. cit., pp. 355– 358: 356. 27 A. Valerio, «“Et io expongo le Scripture”», art. cit., p. 531. Il verbo è usato da Dante in Purgatorio, XVI, 99: «Nullo, però che ’l pastor che procede, / rugumar può, ma non ha l’unghie fesse» (Dante, Divina Commedia, a cura di G. Petrocchi, Torino, Einaudi, 1975).
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parte prima - firenze biblica Deh dammi gratia che io possa dire questa nocte qualche bella cosa, dammi la lectione, che io non so leggere. Tu se’ la vera scientia, da te esce tutte le doctrine e tutte le sapientie, e da te ho avuto ogni cosa, e per ogni cosa sono ricorsa a te. Tu hai ditto: «Bussate e vi sarà aperto, chiedete e saravvi dato»; io busso e chieggo: «Aprimi e dammi la imbeccata, a ciò che io possa imbeccare le mie figliuole e ‘ mia figliolini». Allhora mi fu aperto l’uscio di cella et entroron dentro tre bellissimi giovani e dissono: «Pax vobis». (Sermoni, 46)
I tre giovani sono «cancellieri» del Signore e la portano in una «bella stanza, grande e spaziosa», dove si svolge un convito, iniziando così una lunga e complessa visione in cui lei è incaricata da Dio di annunciare la Sua parola: «Figliuola, io t’ho dato molta doctrina: va hora e parla de l’advenimento del mio figliuolo. Questo è l’ordito: va, tessi, va riempi e fatti dal principio e dì: “Domine labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam”» (Sermoni, 51). Interpretare la Bibbia I dieci sermoni conservati sono tutti a spiegazione di passi evangelici, riportati più o meno dettagliatamente all’avvio del discorso. Sono tutti basati sull’interpretazione allegorica, ma si differenziano a seconda se contengono o meno delle visioni. Il primo sermone, datato 29 luglio 1515 (Sermoni, 3–7), quindi all’inizio della vita della sua comunità, spiega la parabola dell’amministratore infedele lodato da Gesù (Lc 16, 1–8). Il procedere sembra riflettere la difficoltà di accettare la lode per un’azione immorale, infatti la donna identifica il fattore con gli ipocriti, come Giuda che si allontana da Gesù, cancellando i debiti verso il Messia. Sembra che la donna si senta impossibilitata a lodare il comportamento ingannevole e identifichi l’amministratore con altre figure negative, come i sacerdoti che non curano il gregge. Solo saltuariamente riconosce che è la sollecitudine nell’operare ciò di cui parla Gesù, un atteggiamento positivo, se usato nel bene, che è il vero messaggio della parabola. Il sermone del luglio dell’anno successivo è dedicato alla donna che lava i piedi di Gesù a casa del fariseo Simone (Sermoni, 9–15), che per lei è la Maddalena ovvero la discepola che per prima vede Gesù risorto. La donna è lodata per essere inebriata di Gesù: è portata a modello senza interpretare la sua vicenda: «E non bisogniò chiamare Magdalena come Simone, né favellarle per parabola, né per figura, perché ella aveva fatto da dovero: era inebriata, et el suo intellecto, el suo cervello, el suo core era tutto posato in Gesù» (Sermoni, 12). Domenica la collega alla figura di uno di quei piccoli che Gesù indica come destinatari del regno dei cieli (Mt 18, 1–5): «La Magdalena era piccolina; non agiugneva a la mensa, ma stava sotto la mensa: era una parvulina e possede el regno celorum» (Sermoni, 13). Lodando la donna penitente, incita quindi ad andare incontro a Gesù, uscendo da se stessi. 88
2- interpretazione scritturale nei sermoni di domenica da paradiso
Domenica sottolinea anzitutto la necessità dell’interpretazione della Sacra Scrittura, perché la buona novella è offerta da Gesù stesso sotto forma di parabole che richiedono una spiegazione: tutte le parole del nostro Salvatore sono molto mirabili e molto mysteriose, dico che molte cose ha detto per parabola e per molte figure e similitudini, acciò che essendo noi agnellini non habbiamo poi alcuna scusa al dì del iudicio. Nessuno potrà dire che non habbi potuto mangiare de’ cibi della sacra scriptura: e però el nostro Salvatore, come padre, ha parlato per parabola. (Sermoni, 3)
Spesso insiste sulla necessità di trovare il significato che si nasconde nelle parole del vangelo: «Che significa questo?», «Che mysterio è questo?» si chiede, perché «il Signiore favella per parabola» e constata: «In tutte le cose che ha parlato Iesù Christo vi è sensi et allegorie mirabili» (Sermoni, 144–145). In esse lei trova «il mare magnum della scienza e sapienza il quale nel parlare non mancava né sminuiva ma continuamente si accresceva» (Sermoni, 158). La sapienza cristiana è metaforizzata in un’espressione latina («mare magnum») che doveva aver sentito e catturato per la sua efficacia, è un’immagine che veicola con concretezza l’ampiezza universale del messaggio divino. Così infatti ribadisce in un altro sermone, sottolineando la finalità salvifica di questa sapienza: Quando io vengo a te che io ho udito qualche evangelio e qualche parabola che tu hai ditta, mi si rapresenta un mare magno che corre per tutto ’l mondo; e questo veggo che significa, perché de la bocca tua è escito un mare per dar da bere e rinfrescare e populi. (Sermoni, 144)
Il suo linguaggio è sempre molto concreto, spesso Domenica sottolinea la natura di cibo e bevanda spirituale delle parole del Testamento, necessarie all’alimentazione dell’anima. Cifra squisitamente personale di questa donna, che ha fatto lavori materiali, soprattutto agricoli, è infatti un linguaggio corposo che appare nei paragoni e nelle metafore. Nella Visione del tabernacolo, dove fa parlare Cristo, amplifica la metafora evangelica delle pecorelle come seguaci, dettagliandola: Le povere pecorelle mentre che le si vedono esser guidate ne le pasture buone et le son condotte all’inferno, perché tutti i pastori con i lor principe insieme sono infermi e hanno assai male e della infirmità loro le sua pecorelle ancora infettano talmente che così inferme abbandonano la allegra et buona pastura, perché l’hanno perso il gusto loro. Io sono quella buona et allegra pastura, ma non gustono et non pascono l’erbe mia, ma erbe aride et corrotte pascono et fradice […].28
28 Domenica, Scritti spirituali, op. cit., II, p. 229.
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Le osservazioni sulla vita animale, che lei conosce per l’esperienza di contadina, nutrono anche le allegorie, che possono però derivare da testi letterari, come i bestiari, che appaiono in filigrana nella lettera ai «murmuratori», quando interpreta le figure dell’episodio dell’arca, il corvo e la colomba: «el corvo significa l’homo sensale et appicato al mondo», «questa colomba significa el servo, la serva di Dio», che sembrano riprendere le interpretazioni dell’Esopo toscano dei frati e dei mercanti, un testo largamente circolante a Firenze anche tramite l’uso che ne facevano i predicatori dal pulpito29. Il sermone del 17 ottobre 1518 sul capitolo di Mt 22 è dedicato alla parabola del banchetto nuziale (Sermoni, 19–22)30. È l’occasione per ribadire la sensibilità di Gesù di parlare secondo le necessità dei suoi interlocutori, ed è pure occasione di un’invettiva contro il clero. Come i farisei del tempo di Gesù non capivano la sua parola e quella dei profeti, così anche oggi i sacerdoti non comprendono che la buona novella è annunciata per tutti. Nella visione Dio parla così: Datele bere un miccino, a ciò che ella dichiari la visione della quarantina. Cotesto bere le darà la doctrina, la dichiaratione. Et a questo modo andrai in pace e farai el sermone, et [a] questo modo harai apieno quel che harai domandato a me: harai veduto et harai inteso molti mysterii. […] Figliuola m’è piaciuto e piace in te et in ogniuno che cercherà e che exclamarà per intendere quel che non intende. Tu hai cerco intendere quel che non intendevi: hai trovato, hai udito quel che non odivi. Hor va e fa el sermone della dichiaratione, e di’: «Domine, apri le labra mia!» Et io l’aprirò, e faròtti tanto veloce nel dire che parrà che tu scoppi el petto, e la bocca non potrà suplire ad exprimere quello che dirai. (Sermoni, 94)
Gesù stesso è stato modello e interprete delle sue parabole: «Quel che è dichiarato ai discepoli è dichiarato a tutti quelli che sono electi di Dio, e che servono a Dio» (Sermoni, 6); «El Signiore poneva le parabole secondo le scientie e doctrina che era ne’ principi e nelli pharisei» (Sermoni, 18). L’interpretazione e l’esposizione sono momenti ben distinti per Domenica, di cui è consapevole. Si legge in un sermone del febbraio 1526: «Ho fatto el preambulo e la narrazione della visione: hora faremo la dichiarazione. State attenti col nome di Dio» (Sermoni, 75). La sua è «un’esegesi contemplativa che coglie nel testo sacro, misticamente assunto, gli elementi di edificazione per una fede operosa31». Lo sforzo di lettura allegorica la induce per esempio a collegare le «quarantine» dei due Testamenti, ovvero tutte le volte in cui è menzionato il numero qua29 Si veda in moderna edizione a cura di V. Branca, Venezia, Marsilio, 1989. 30 Quello del 28 aprile 1521 è sull’Ascensione (Gv 16) e quello del 25 maggio 1523 è sulla Pentecoste, di cui si è già detto (rispettivamente Sermoni, 23–27 e 29–44). 31 A. Valerio, Domenica da Paradiso, op. cit., p. 8.
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ranta (quaranta i giorni del diluvio, quaranta i giorni e le notti di Mosè sul Sinai, quaranta i giorni dal Natale alla Purificazione di Maria, quaranta i giorni del digiuno di Gesù nel deserto, quaranta i giorni dalla resurrezione all’ascensione). In questa ricorrenza trova «gran mysterio», che spiega ricorrendo a una serie di ripetute visioni nell’Avvento precedente, che la portano a incontrare molteplici personaggi e entrare in luoghi diversi, fin che ottiene dal Signore di bere ad una coppa, che è la dottrina, che le consente di spiegare il numero quaranta. Citazioni dalle Sacre Scritture compaiono spesso e ovunque nelle sue opere e nei discorsi a lei attribuiti, perfettamente amalgamate con altri argomenti, come se fossero state profondamente interiorizzate. In una delle Substantiae si legge che un suo discepolo osservava quanto spesso la donna riportasse le parole di Gesù (Mt 26, 41): «Un suo figliolo gli haveva alla grata ricordate quelle parole che disse el Signiore a’ sua discepoli, cioè: “Lo spirito è prompto, ma la carne è inferma”, dicendogli come più volte l’haveva udito da.llei ne’ sua sermoni32». Il dovere dell’annuncio Come si vede nella lettera ai «murmuratori», la sua parola è detta trasmettere un dono divino, che lei ha ricevuto e che intende comunicare. Però non vi meravigliate di qualche expositione fatta per me di nuovo perché Dio eterno non ha fatto le cose sue a un tratto. Non detto contra la Bibbia, non tocco i testi de la Scriptura, non gli biasimo, non gli danno, ma laudogli, perché son dettati da Lui; è pane di Cristo, mangio anch’io perché trovo che m’invita, perché egli invita ogniuno. Vorrebbe che ognuno parlasse di lui et hallo caro. Et io parlo di lui, non danno, ma qualche parola et senso che lui mi mette in bocca, lo dico: è adornamento, non è falsare la Scriptura. Quando e predicatori predicano, predicano eglino semplicemente gli evangelli et le epistole che occorrono et non altro? No, né predicherebbono parecchi per mattina. Ma tocco che gl’hanno e sensi di quelli, fanno poi le allegorie, expiannano el pane, spezonlo et tolgono e corbegli de la multiplicatione che è detta di sopra, et danno a mangiare a populi con nuove allegorie, nuovi sensi, chiamano le pecorine et a chi danno un’erba et a chi un’altra. […] Potrestemi dire: «Che ti bisognia di scrivere, chi ti stringe? Essendoci tanti dottori che hanno scripto?». Rispondo che mi strigne la fame et la sete del mio Signior […] Bisogna porre richiamo a lui et se lui mi darà silentio, tacerò, obbedirò. Et farò come il bue, andrò ragumando quel che ho mangiato, et penserò a la bontà sua et a lui chinerò el capo33.
In questa lettera, indirizzata ai suoi calunniatori nel 1519, Domenica, che era accusata di eresia, fa una specie di consuntivo per difendersi dalle accuse che l’avevano 32 Le «substantie» dei sermoni e delle visioni di Domenica da Paradiso, op. cit., p. 7. 33 A. Valerio, «“Et io expongo le Scripture”», art. cit., pp. 530–531; cfr. I. Gagliardi, Sola con Dio, op. cit., p. 211.
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portata davanti al tribunale diocesano. Parla delle sue scelte alla luce di passi scritturali che spiega con interpretazione allegorica. Inizia con l’episodio di Susanna e i vecchioni (Dn 13, 1–64), raccomandando di imparare dall’innocenza e dalle preghiere di Susanna, perché «si scuopron meglio gli inganni con l’orationi che con le murmurationi34». Continua usando la parabola del seminatore e della zizzania (Mt 13, 24–30), che traduce in un invito a non perseguitare, ma a stare forti e attendere Dio, a non seminare «la zizzania della murmuratione35». Quindi porta l’esempio della sorella di Mosè, che iniziò a mormorare contro di lui dopo il passaggio del Mar Rosso, inducendo anche altri Ebrei a diffidare della loro guida (Ex 15, 20–21), mostrando che Dio «teneva conto della murmuratione la quale era fatta contra sua servi36». Aggiunge ancora la parabola del vignaiolo, che chiama operai ripetutamente (Mt 20, 1–6), ma alla fine gli operai della prima ora mormorano contro di lui per avere ricevuto la stessa paga di quelli dell’ultima e «cominciorno a suscitare tanta malignità contra di lui che era uno stupore37». Anche Giuda è ricordato per aver «murmurato». Ella non condanna i suoi calunniatori, ma li invita a parlare bene degli operai chiamati da Dio: «Su poniamo fine a tutte le ciarlerie, facciamo gara a chi meglio fa. Murmuratori mia, non siate tanto facili a murmurare. Et voi, cari figliuoli e figliuole, non parlate di loro se non tutto bene, acciòché non siamo di quelli operai ripresi […]38». Questo invito segna la fine della pars destruens della lettera, a cui segue la pars construens, in cui invita a seguire le indicazioni divine, usando altri esempi scritturali, da Noè, che segue l’indicazione divina costruendo l’arca (Gn 6, 5–7), alla sposa del Cantico dei Cantici (Ct 2, 10–13 e 4, 81), esempi che servono però anche ad una lettura allegorica dell’arca, interpretata come la Chiesa, sposa di Cristo39. Anche in questi episodi trova casi di «murmuratori», come il figlio di Noè, quando scopre il padre ubriaco (Gn 9, 20–27). Anche l’invito ai giudici a giudicare rettamente secondo verità, portando l’esempio di Salomone giudice tra le due donne che si contengono il bimbo (1 Re 3, 16–28) è attinto alla Bibbia. L’ultimo blocco di interpretazioni bibliche è volto in positivo, ancora attraverso letture allegoriche dell’arca di Noè e di altri episodi biblici, per sottolineare i doni che Dio ha fatto agli umili, soprattutto «il pane de’ comandamenti» e Gesù risorto. Invita i suoi interlocutori
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A. Valerio, «“Et io expongo le Scripture”», art. cit., p. 512. Ibid., p. 514. Ibid., p. 525. Ibid., p. 518. Ibid., p. 519. Su altre possibili interpretazioni dell’arca nella storia dell’esegesi biblica, si veda ultra il capitolo su Vittoria Colonna, nota 21, p. 285.
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a guardarsi dal «murmurare40», giustificando precisamente il suo operato come risultato non della propria volontà, ma della volontà divina: «Però, dilettissimi, parlo perché el Signiore mi fa parlare quello ch’io non intendo et ch’io non so, et ch’io non conosco, perché mentre ch’io dico non l’ho considerato et non lo considero per proferirlo. Lascio fare a Iesù Christo et quello che mi fa dire quel dico. Confortovi che vi posiate in pace41». L’ultima parte della lettera contiene l’invito «a tenere unita la cità», a «lascia[re] governare el gonfalone, a la Signoria», a «sta[r]e in pace e tenere unito el populo», invito che viene declinato in termini allegorici, ovvero la città è l’anima, il gonfalone è la ragione, la Signoria sono le operazioni, il popolo è i sensi. Nonostante questa lettura, il linguaggio è strettamente politico e si allinea con molti altri inviti simili della Narducci, che dimostrano il suo coinvolgimento negli eventi sociali e politici del suo tempo, non solo prevedendoli nelle visioni, ma anche intervenendo con consigli e suggerimenti. Se nei sermoni la sua attenzione è posta soprattutto all’azione dei sacerdoti e dei prelati, che condanna per l’arroganza e per privare il gregge del pane necessario della parola, nelle visioni percepisce i pericoli imminenti, come il sacco di Roma, per cui consiglia penitenze e preghiere. Nel sermone del 6 gennaio 1525 racconta di una visione che le annuncia grandi tribolazioni: apparve quivi Iesù, e volsesi a’ cinque giovani e quali intorno a quella tavola havevano ogniuno una bandiera involta, e disse: «Mandate giù, svolgete quelle bandiere». E disse a me: «Voltati e guarda». In una vidi la spada sanguinosa, nella seconda era el morbo, nella terza la fame, nella quarta erano turchi armati per acqua e per terra, nella quinta era la Chiesa in un mare, undeggiata, percossa et assediata da cristiani e da infedeli, in tanta tempesta ch’el’havessi ad essere distrutta. E Iesù disse: «Tu vedi: io ho ordinato che in questo 1525 venghino molte percussione, e non solo in questo ’25, ma in altri pel futuro». (Sermoni, 55)
Queste profezie sono state riferite ai tragici eventi che occorsero in Italia nel 1527 con il sacco di Roma, che ella annuncia anche a papa Clemente VII con due epistole, la prima del 9 gennaio 1523, in cui genericamente mette in guardia contro «le discordie dei christiani» e lo invita a fare in modo che «tutta la gregge di Jesu Christo» sia ridotta «a paci et tranquillo stato», per cui lo sollecita a indire «molte orationi, nella città et fuora della città, acciò che Dio per sua misericordia volga i cori de’ Principi» e lei stessa vi si impegna con le sue consorelle42. La seconda è del 14 febbraio 1526, in 40 Ibid., p. 525. 41 Ibid., p. 531. 42 Epistola della Venerabile Madre suora Domenica fondatrice et dotatrice et perpetua vicaria del suo monasterio di sancta croce in Firenze in via Ventura, al santissimo papa Clemente VII, confortandolo a fare
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cui rivela tutta la sua consapevolezza delle «tribolationi et flagelli che sono oggi nella Italia43». Nella lettera la profezia si appoggia a riferimenti scritturali: È giunto quel giorno del flagello di Dio, el quale già più anni ho sentito nell’orecchi mia, cioè Dio voler flagellare la Italia et la Chiesa per i suoi peccati. Propter peccata veniunt adversa. Sodoma, et molte altre città et luoghi sono stati per e peccati sommersi. Se fussino tornati a penitentia havrebbono trovato misericordia da Dio. Come trovò la città di Ninive, che credettono al Profeta et feciono penitentia, placarono l’ira di Dio, et fu perdonato loro, et cessò el flagello. Noè, quando fece l’arca, prediceva el diluvio, et i populi si facevano beffe di lui, cioè de la parola di Dio. Dio mandò el diluvio, et conservò quelli che erano ne l’arca. […] Ho trovato el Signiore molto turbato inverso di noi, dolendosi che la fede sua va per terra et io chiedendo pure misericordia, et domandandola più volte, et alla gloriosa Vergine, ho ricevuto risposta che lui è preparato a farla se noi tornassimo a penitentia44.
Chiede perciò al papa di imporre digiuni e preghiere, dando una serie di precise indicazioni, chiedendo confessioni e comunioni, di non bestemmiare, suggerendo un’organizzazione ferma sotto un capitano spirituale. La sua profezia politica ha un carattere apocalittico, ma riflette anche un profondo interesse per il popolo che deve subire le calamità e soffrirne. Ancora più avanti ricorre all’esempio degli Egizi, liberati dal dominio del Faraone, e di Mosè che con la sua preghiera ha impedito la distruzione del popolo d’Israele, dando prova della virtù dell’orazione. Infatti anche per dare l’acqua alla Samaritana, Gesù volle che fosse lei a chiederla: «chiede l’acqua della fragilità umana per bersela, vuolci dare l’acque della grazia sua et che corriamo liberi et espediti come fece lei a chiamare el populo45». Domenica realizza anche in questo modo quel rapporto diretto con il testo sacro, che fu obiettivo dell’Umanesimo, specie fiorentino. La sua semplicità non le impedì di essere circondata dagli intellettuali del tempo. Costituì una comunità femminile intorno a cui gravitavano umanisti come Sante Pagnini e Domenico Benivieni, che prestarono attenzione alla «dimensione mistica della fede, che relativizza le speculazioni dotte degli intellettuali46». L’intrecciarsi della sua vita con figure come Girolamo Savonarola, Bernardino Ochino, i papi Leone X, Clemente VII, Paolo III, la sua partecipazione alle vicende della Chiesa e della Firenze in cui visse, l’abbondanza dei suoi testi e il loro interesse, la sua laicità nonostante gli impegni e oratione e penitentia per la pace universale, in A. Valerio, Domenica da Paradiso, op. cit., p. 154. 43 Al sopra ditto santo padre Clemente VII, nella quale predisse le tribulationi inanzi che Roma andasse a sacco, et chel ditto sancto padre fussi pregione, in A. Valerio, Domenica da Paradiso, op. cit., p. 155. 44 Ibid., p. 156. 45 Ibid., p. 157. 46 A. Valerio, «Le prediche di Domenica da Paradiso tra esperienza mistica e riforma della Chiesa», art. cit., p. XX.
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i carismi religiosi, l’eco della sua esperienza, generarono non solo seguaci, ma anche grande interesse, provato dalle molte vite dedicatele nei secoli successivi persino da autorevoli scrittori di religione, che attestano l’importanza della sua figura47. Morì nel 1553, in seguito fu anche avviato il processo di canonizzazione, patrocinato dai Medici, ma non si è mai concluso48. Il rinnovamento spirituale da lei auspicato si rivolgeva alla comunità ecclesiale in toto, che desiderava guidata da buoni pastori, come il vangelo propone. Le accuse che lei rivolgeva alla Chiesa del tempo, che si possono ben vedere come inscritte nel solco delle profezie savonaroliane, erano frutto di un preciso giudizio sulla Chiesa e sui suoi errori nella storia, di cui si era nutrito il profetismo fin dalle origini. La sua esperienza è interessante proprio perché concilia misticismo e politica, società e visioni, ma particolari sono anche quei passi in cui le memorie d’infanzia o il suo lavoro contadino si uniscono all’ermeneutica biblica, rendendo uniche le sue parole, in cui individuiamo la forza di una donna, cresciuta senza istruzione, nell’articolare complesse materie teologiche e nell’interpretare le Sacre Scritture in modo decisamente convincente.
47 La biografia andata alle stampe è Ignazio del Nente, Vita e costumi e intelligenze spirituali della Venerabile Madre suor Domenica da Paradiso, Venezia, Michele Miloco, 1662 (ristampato nel 1664). Altre vite furono edite nei secoli successivi, su cui Gagliardi, Sola con Dio, pp. 304–305. Sono rimaste manoscritte e appartengono all’Archivio del Monastero della Crocetta, ora trasferito a Santa Maria Novella, Firenze: Francesco Onesti da Castiglione, Annalium vitae Beatae Matris Dominicae de Paradiso I e II, AMC ms 2; Id., Ephemerides seu Diarius vite B.M. Sorororis Vite Dominice a Paradiso, AMC ms 1; Anton Maria Riconesi, Annali della Vita della Venerabile Vergine e sposa di Nostro Signor Gesù Cristo suor Domenica del Paradiso, AMC Armadio B; Filippo Maria Baldassarre di Giovambattista Scarlatti, Ristretto della vita di suor Domenica del Paradiso, Biblioteca Moreniana Firenze, Ms Moreni 331. 48 Sul processo: Anna Scattigno, «La costruzione di un profilo di santità femminile nella Firenze del xvii secolo», Annali di Storia di Firenze, VIII, 2013, pp. 145–170. Domenica è ricordata anche dal Guerrazzi nel suo romanzo storico L’assedio di Firenze, su cui A. Valerio, Domenica da Paradiso, op. cit., p. 59.
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Teatro biblico femminile in città e nei conventi: Antonia Pulci, Raffaella Sernigi, Maria Clemente Ruoti Un fecondo ambito di trasmissione e divulgazione bibliche, frequentato anche dalle donne, è quello che si presta alle rappresentazioni teatrali. A Firenze la sacra rappresentazione aveva raggiunto nel Quattrocento una funzione importante nella compagine sociale e politica oltre che religiosa della città, una funzione che mantenne per tutto il secolo successivo e raggiunse la soglia del teatro moderno. Paola Ventrone, che sul teatro fiorentino ha dato importanti contributi, riconduce la complessità del sistema comunicativo teatrale fiorentino quattrocentesco all’imponente sforzo di evangelizzazione messo in atto dalla Chiesa del Due-Trecento e dagli ordini mendicanti, che rinnovarono la comunicazione e predicazione per raggiungere tanto i ceti colti quanto quelli illetterati1. In particolare l’obiettivo di avvicinare la storia di Gesù alla sensibilità popolare, umanizzandone le figure principali, trovò nella rappresentazione drammatica uno strumento efficace, capace di incidere nella memoria dei fedeli.
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Paola Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, Firenze, Le lettere, 2016, pp. 1–38. Per un’essenziale bibliografia sul teatro sacro fiorentino cfr. Sacre rappresentazioni del Quattrocento, a cura di L. Banfi, Torino, UTET, 1963; Giovanni Ponte, Attorno a Savonarola. Castellano Castellani e la sacra rappresentazione fiorentina tra ‘400 e ‘500, Genova, Fratelli Pagano Tipografi Editori, 1969; Sacre rappresentazioni fiorentine del Quattrocento, a cura di G. Ponte, Milano, Marzorati, 1974; Nuovo ‘corpus’ di sacre rappresentazioni fiorentine del Quattrocento, a cura di N. Newbigin, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1983; Nerida Newbegin, «The World Made Flesh. The Rappresentazioni of Mysteries and Miracles in FifteenthCentury Florence», in Christianity and the Renaissance. Image and Religious Imagination in the Quattrocento, a cura di T. Verdon e J. Henderson, Syracuse, Syracuse University Press, 1990, pp. 362–368; Paola Ventrone, Lo spettacolo religioso a Firenze nel Quattrocento, Milano, Università Cattolica del S. Cuore, 2008; Sophie Stallini, Le théâtre sacré à Florence au xve siècle: une histoire sociale des formes, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle, 2011.
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Annunciazione, Ascensione, Pentecoste furono le prime feste religiose messe in scena da compagnie laudistiche; si ripetevano a Firenze quasi ogni anno dalla fine del Trecento anche con complesse scenografie. Unitamente alla processione dei Magi e alle celebrazioni per la festa di San Giovanni, queste celebrazioni costituivano un importante strumento di formazione identitaria della comunità cittadina su basi tanto religiose quanto civili. Anzitutto queste feste, che diedero poi origine alle sacre rappresentazioni fiorentine, assumevano una funzione parenetica importante, in quanto offrivano una rappresentazione dei misteri della salvezza facilmente assimilabile e memorizzabile, in linea con il messaggio ecclesiale, ma in modalità ancor più efficaci di quanto potessero fare la predicazione o l’indottrinamento catechetico. Inoltre le feste, anche se religiose, svolgevano una funzione di pubblica utilità come strumento identitario e identificativo del prestigio del potere, per cui funzionavano bene come mezzo di consenso. Era stato lo stesso santo vescovo Antonino Pierozzi a incoraggiare i cittadini facoltosi a usare in modo responsabile il denaro per l’onore di Dio e il bene della città (espressione che divenne persino una formula in uso per le richieste di finanziamento come per le elargizioni del governo repubblicano)2. In particolare la riflessione umanistica sull’educazione, seguita alla riscoperta dei classici, indusse a prestare maggiore attenzione alla formazione dei giovani, trovando nella recitazione drammatica una modalità utile alla loro educazione: incitando alla moralità e ai buoni costumi, si educava anche un civis responsabile. La sacra rappresentazione fu dunque a Firenze uno strumento pedagogico duplice, ovvero religioso, per celebrare le feste e trasmettere i princìpi delle storie della salvezza, e politico, per progettare un cittadino «secondo principi di onestà, rettitudine, attenzione al bene comune, e costituì uno strumento importante per la formazione morale, religiosa e politica delle future generazioni della Firenze Medicea3». Proposta in volgare, con un messaggio chiaro ed efficace, dalla forte presa per il coinvolgimento emotivo che generava, per l’immedesimazione nelle vicende dei personaggi, di facile memorabilità grazie all’adozione dell’ottava canterina, la sacra rappresentazione fiorentina racchiudeva efficacemente in sé tutti gli obiettivi retorici, delectare movere docere, favorendo l’assimilazione dei messaggi: la sacra rappresentazione non fu solo il risultato dello zelo educativo di uomini devoti, ma costituì una vera e propria invenzione pedagogica giunta a
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Si veda P. Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, op. cit., p. 96. Il Pierozzi giustifica anche l’uso delle scene, avendo compreso la funzione civile degli intrattenimenti mondani: «approvava la messainscena di storie sacre e pie […] sempre a patto che l’operazione si svolgesse onestamente». Ibid., p. 116. Ibid., pp. 142–144.
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3- teatro biblico femminile in città e nei conventi rifinire la messa a punto di un sistema formativo, concordemente progettato dall’arcivescovo [Pierozzi] e dal ceto dirigente mediceo, destinato a coinvolgere un imponente numero di giovani e di fanciulli. […] Frutto della sensibilità pedagogica dell’umanesimo fiorentino, che fu al tempo stesso civile e religioso, la sacra rappresentazione costituì un capolavoro ideologico nella concezione dell’educazione dei fanciulli e giovani, concepita non tanto come organizzazione del consenso diretta o imposta dalle élites dirigenti, quanto come formazione di una coscienza civica del bene comune sentita dai cittadini stessi a livello individuale e collettivo4.
La fonte biblica di questi spettacoli, neotestamentaria in prevalenza, è subito evidente. Le feste fiorentine danno figuratività alla memoria degli eventi fondanti la storia della salvezza. Interpretano, espandono, rappresentano il mistero che si celebra nella liturgia e che si ricorda nella predicazione, su cui si fonda la preghiera individuale e collettiva, e la vita quotidiana5. A questi spettacoli si aggiunsero le processioni e le celebrazioni per il San Giovanni, che diedero un’ulteriore spinta verso la dimensione identitaria atta alla legittimanzione degli elementi sociali partecipanti (non solo le confraternite, ma anche i maggiorenti), in un rito di glorificazione ed esaltazione della città, «come luogo nel quale le virtù civili, morali e religiose si inveravano6». Proprio a questa sua funzione di strumento di indottrinamento morale e civile si può ricondurre la scrittura da parte di Lorenzo de’ Medici della Rappresentazione dei santi Giovanni e Paolo, che non è biblica (trattando di due santi martiri dell’età di Diocleziano)7, ma che bene mostra come con abili riferimenti autobiografici, egli proponga il ritratto dell’optimus princeps, dedito al bene comune, ritratto che doveva raggiungere e persuadere i cittadini «a credere nello spirito di servizio e nell’altruismo con i quali egli dichiara di aver sempre esercitato la propria autorità8». Lorenzo infatti, pur mitigando l’impegno della città alle feste e ridimensionando la cerimonialità pubblica, a causa sia delle contrastate vicende politiche sia di una sorta di conversione che lo avvicinava alla severità del Savonarola, non ridimensionò mai le sacre rappresentazioni, che anzi continuarono con nuovi apporti. Addirittura si registrò nei suoi tempi un’estensione dell’esperienza pedagogica 4 5
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Ibid., pp. 150 e 166. I temi coprono sia il Vecchio sia il Nuovo Testamento, si accentrano sulle figure emblematiche, come la Vergine (molte sono le feste dell’Annunciazione), il Battista, Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Ester, Tobia, Giobbe, Mosé, la parabola del figliuol prodigo, Lazzaro, Marta. Cfr. Alfredo Cioni, Bibliografia delle sacre rappresentazioni, Firenze, Sansoni, 1961. P. Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, op. cit., p. 204. La prima edizione: Lorenzo de’ Medici, Rappresentatione dei santi Giovanni et Paulo, [Firenze, Francesco Bonaccorsi, ca 1485]. Ebbe diverse altre edizione nel secolo successivo. P. Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, op. cit., p. 239.
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teatrale alla forma latina, con rappresentazioni agiografiche della Schola cantorum della cattedrale fiorentina9. Fu solo con il reggimento del Savonarola che l’allestimento delle sacre rappresentazioni iniziò ad essere considerato disdicevole e condannato, riducendo l’impiego dei fanciulli delle confraternite a modelli e incitatori alle virtù e all’abbandono dei vizi. Anche le feste di San Giovanni vennero ridotte alla sole processioni senza gli spettacolari artifici degli anni precedenti, e così rimase anche durante il periodo del governo di Soderini. Ma la tradizione delle sacre rappresentazioni fu mantenuta viva dalla pubblicazione a stampa di vecchi (di Feo Belcari) e nuovi testi (di Castellano Castellani) con illustrazioni, che ne continuarono la funzione educativa10. Anche se le edizioni furono in un primo tempo solo fiorentine, ma costanti per tutto il ‘500, esse ne velocizzarono indubbiamente la distribuzione e resero disponibili i testi come repertorio per le recite anche nei conventi. Infatti proprio alle suore si rivolge l’editore Giunti nel 1555 nel ripubblicare le sacre rappresentazioni esistenti: Ma perché altri non può di continuo orare, né sempre attendere a leggere libri spirituali, ho più volte pensato fra me medesimo che non disconverrebbe punto alla santissima professione di tutte le Vergini dedicate al servigio di Dio l’havere talhora alle mani qualche honesto libro da pigliare con esso consolatione di spirito. Però prima a honor di Dio, et poi a sodisfattion vostra, ho procurato di ridurre insieme buona parte di Rappresentationi et feste di santi et sante altre volte stampate, e alcune anchora non più poste in luce11.
Le sacre rappresentazioni a stampa amplificarono perciò la possibilità di allargare l’educazione cristiana a un ampio raggio di lettori o fruitori, anche semplici illetterati, che magari ne ascoltavano la lettura o beneficiavano della comunicabilità ed efficacia mnemonica delle azioni sceniche. «Per questo insieme di ragioni le sacre rappresentazioni divennero una componente imprescindibile dell’immaginario religioso, un filtro attraverso il quale visualizzare più realisticamente le storie sacre […]12».
9 Cfr. Ibid., pp. 246–257. 10 Ad esempio Feo Belcari, La rapresentatione di Abram e Isacco fu edita nel 1485, 1490, 1492 ca, 1495 ca, 1496 ca, 1500, 1515, 1525, 1536, 1545, 1546, 1550 ca, 1553, 1560 ca, 1562, 1566, 1568, 1570, 1575, 1579, 1585, 1589, 1590, 1601; La rappresentatione et festa della annuntiatione di nostra Donna nel 1500 ca, 1515, 1528, 1533, 1536, 1540, 1554, 1566, 1568, 1572, 1580, 1581, 1586. Di Castellano Castellani La rappresentazione della resurrettione di nostro Signore Giesu Christo fu edita nel 1500 ca, 1510 ca, 1515 ca, 1550, 1572; la sua Rappresentatione della cena et passione di Christo uscì nel 1519, 1529, 1572, 1580. 11 Il primo libro di rappresentationi et feste. Di diversi santi & sante del Testamento Vecchio, & Nuovo, composte da diversi auttori, nuovamente ricorrette & ristampate: fra lequali ve ne sono di molte non piu venute in luce. Con una tavola di tutto quello, che nel presente libro si contiene, Firenze, Eredi di Bernardo Giunta, 1555. 12 P. Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, op. cit., p. 330.
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Una parabola per Antonia Pulci La sacra rappresentazione raggiunse a Firenze alla fine del xv secolo anche dignità di genere letterario, fondata sulla cura dell’aspetto formale e poetico della scrittura. Nella quarantina di sacre rappresentazioni fiorentine che sono giunte a noi alcune sono di una donna, anzi in ambito teatrale si colloca la prima opera femminile andata a stampa: la Rappresentazione di santa Domitilla di Antonia Pulci, che uscì in una miscellanea fiorentina di sacre rappresentazioni nel 1490 circa13. L’opera biblica di Antonia Pulci, La rapresentatione del figliuol prodigo, prodotta nella Firenze laurenziana, è anche la sua opera di maggior successo, in quanto a riedizioni, perché ristampata fino ai primi decenni del Seicento14. Essa ben corrisponde agli intenti evidenziati per i poemetti di Lucrezia Tornabuoni, ovvero di divulgare una parabola evangelica offrendo anche un’etica attuale, un messaggio utile
13 Incomincia la rapresentatione di Sancta Domitilla vergine facta & composta in uersi per mona Antonia donna di Bernardo Pulci lanno MCCCCLXXXIII; Incomincia la rapresentatione di Barlaam et Josafat composta per Bernardo Pulci; Comincia la rapresentatione di Santa Guglielma composta per mona Antonia donna di Bernardo Pulci; Incomincia la rapresentatione di Ioseph figliolo di Jacob; Rapresentatione di sancto Francesco composta per mona Antonia donna di Bernardo Pulci; Incomincia la rapresentatione della Reina Ester; Incomincia la rapresentatione della Natività di Christo; Incomincia la rapresentatione di sancto Antonio della Barba romito; Incomincia la rapresentatione di san Francesco come converti tre ladroni et fecionsi frati, [Firenze, Antonio Miscomini, 1490–1495]. Per le moderne edizioni Nerida Newbigin, «Antonia Pulci and the First Anthology of Sacre rappresentazioni (1483)», La Bibliofilia, CXVIII, 2016, pp. 337–361; Antonia Pulci, Florentine Drama for Convent and Festival: Seven Sacred Plays, a cura di J. Wyatt Cook e B. Collier Cook, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1997; Antonia Pulci, Saints’ Lives and Bible Stories for the Stage. A Bilingual Edition, a cura di E. Weaver e J. Wyatt Cook, Toronto, Centre for Reformation and Renaissance Studies, 2010. Non esiste una moderna edizione italiana delle opere di Antonia Pulci. 14 Ebbe ben altre dodici edizioni, l’ultima nel 1627 (Venezia e Treviso, Angelo Reghettini, 1627). Su Antonia Pulci: Elissa Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy: Spiritual Fun and Learning for Women, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 97–104; Elissa Weaver, «Antonia Tanini (1452–1501), Playwright, and Wife of Bernardo Pulci (1438–1488)», in Essays in Honor of Marga Cottino-Jones, a cura di L. White, A. Baldi e K. Phillips, Firenze, Edizioni Cadmo, 2003, pp. 23–37; Franco Cardini, «La figura di Francesco d’Assisi nella Rappresentatione di Sancto Francesco di Antonia Pulci», in Il Francescanesimo e il teatro medievale. Atti del convegno nazionale di studi, San Miniato, 1982, Castelfiorentino, Società storica della Valdelsa, 1984, pp. 195–207; Lauro Martines, Strong Words: Writing and Social Strain in the Italian Renaissance, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2001, pp. 64–69; Judith Bryce, «“Or altra via mi convien cercare”: Marriage, Salvation, and Sanctity in Antonia Pulci’s Rappresentatione di santa Guglielma», in Theatre, Opera, and Performance in Italy in Honor of Richard Andrews, a cura di B. Richardson, S. Gilson e C. Keen, Leeds, Society for Italian Studies, 2004, pp. 195–207; Encyclopedia of Italian Literary Studies, a cura di G. Marrone, P. Puppa e L. Somigli, New York, Routledge, 2007, pp. 1515–1516; la voce di Elissa Weaver, «Pulci Tanini, Antonia», in Encyclopedia of Women in the Renaissance, a cura di D. Robin, A. Larsen e C. Levin, Santa Barbara, ABC-Clio, 2007, pp. 304–306. Per una prospettiva particolare, ovvero sulla vedovanza: Anna Wainwright, «Teaching Widowed Women, Community, and Devotion in Quattrocento Florence with Lucrezia Tornabuoni and Antonia Tanini Pulci», Religions, IX, 2018, pp. 1–13.
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al suo tempo. Antonia Tanini (1452/4–1501), figlia di un mercante, Francesco, e di una donna romana, Jacopa, nel 1471 sposò Bernardo Pulci, dal cui nome è meglio conosciuta15. Alla morte del marito professò come terziaria agostiniana, condividendo con altre «ammantellate» l’ultima parte della sua vita. Compose diverse sacre rappresentazioni, per lo più di natura agiografica, che sembrano dirette all’educazione delle donne16. La rappresentazione del figliuol prodigo mette in scena la parabola evangelica riportata solo da Luca (Lc 15, 11–32). Non è la sola opera di questa autrice, ma è la sola di argomento biblico, le altre sono storie dedicate per lo più a sante: santa Domitilla, santa Teodora, santa Guglielma, Rosana, ma anche a santi: san Francesco d’Assisi e sant’Antonio. Le furono attribuite anche le due sacre rappresentazioni del marito Bernardo, Barlaam e Josafath e L’angelo Raffaello, ma senza fondamento. Come le sacre rappresentazioni di produzione fiorentina, La rappresentazione del figliuol prodigo è composta in ottave di endecasillabi, il metro dei poemi cavallereschi e dei cantari. Ha in prosa solo le didascalie, ben distinguibili dal testo ed evidentemente inserite per suggerire le modalità di rappresentazione, per la recita e per la scena. Proprio per le sacre rappresentazioni dei coniugi Pulci (la prima coppia che collabora professionalmente nella storia letteraria) si nota una più articolata struttura drammatica, per cui i loro testi rivelano un’elaborazione che sovrasta l’intento prettamente religioso, con effetti spettacolari e una tendenza al realismo. Nella rappresentazione evangelica di Antonia vengono infatti inseriti personaggi secondari ispirati alla realtà quotidiana, con la funzione di meglio precisare il messaggio, ma anche di allentare la tensione dello spettatore e arricchire la vicenda. La Rappresentazione del figliuol prodigo prende il via con una scena cittadina, dove un gruppo di giovinastri, capeggiati da un certo Randellino, gioca in piazza. Il Prodigo viene attirato da questa compagnia e perde tutti i suoi denari. Anche se la parabola evangelica è una delle più lunghe e distese dei Vangeli, non abbiamo questa scena, che è attualizzante e serve per rendere il messaggio adatto alla società 15 Autore della Rappresentatione di Barlaam e Josafat, della Rappresentatione dell’angelo Raffaello e Tobia e di diverse opere in poesia. Sulla coppia: Georges Ulysse, «Une couple d’écrivains. Les sacre rappresentationi de Bernardo et Antonia Pulci», in Les femmes écrivains en Italie au Moyen Âge et à la Renaissance. Proceedings du Colloque International Aix-en-Provence, 12–14 novembre 1992, a cura di G. Ulysse, Aix-en-Provence, Publications de l’Université de Provence, 1994, pp. 177–196. 16 P. Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, op. cit., pp. 180–184. Il suo primo biografo, Antonio Dolciati, un agostiniano che nel 1528 compose un eulogio di Antonia come fondatrice dell’ordine terziario agostiniano fiorentino, la fa autrice di molti altri testi, poesie e laudi, così come di altre sacre rappresentazioni, di cui dà ancora due titoli: Joseph e David e Saul. Ma le pubblicazioni o manoscritti che possono avvicinarsi per il titolo non danno notizie dell’autore. Cfr. E. Weaver, Convent Theatre, op. cit., pp. 98–99.
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fiorentina di fino Quattrocento, i cui vizi furono persino condannati dalla volontà riformatrice dei Piagnoni. Uno di questi era proprio il gioco: le carte da gioco erano infatti una delle vanità che si gettava ai roghi dei bruciamenti delle vanità, suggeriti da Savonarola di lì a qualche anno. La prima pubblicazione della rappresentazione non è databile, avvenne a Firenze, senza indicazioni di editore e di anno, forse nei primi decenni del ’500; non avvenne dunque durante la vita dell’autrice, morta nel 1501 a quarantanove anni17. Non abbiamo manoscritti che la attestino, ma l’attribuzione non è discussa; è stata giudicata la meno riuscita delle sue sacre rappresentazioni, che infatti furono pubblicate già intorno al 1490 (le Rappresentazioni di santa Domitilla, santa Guglielma, san Francesco), ma fu quella di più lunga durata editoriale18. La rappresentazione, come di consueto per quelle fiorentine, è aperta da un prologo: «L’angelo annuncia» e chiusa da un epilogo «L’angelo dice» e «Seguita l’angelo». Tutti e due gli annunci sono brevissimi e consentono di orientare l’ascoltatore verso una più devota fruizione della storia, infatti l’angelo non parla di cosa si vedrà nella storia, ma del dono della redenzione ad opera di Cristo: O giusto Redentor, pien di clemenza, che per noi in croce il tuo sangue versasti, o infinita et somma sapienza, più che te stesso immenso Dio ci amasti, per la divina tua somma potenza al ciel per tua pietà ci revocasti. Accendi il nostro cuor di sonno zelo che recitar possiamo il tuo vangelo19.
17 Antonia Pulci, La rappresentatione del figliuol prodigo nuovamente stampata. Composta per mona Antonia di Bernardo Pulci, [15..], 1550, 1572, 1573, 1579 (due edizioni), 1583, 1584, 1585, 1590 ca, 1606, 1610, 1614, 1615, 1620, 1626, 1627. Konrad Einsenbichler, «From Sacra Rappresentazione to Commedia Spirituale. Three Prodigal Son Plays», Bibliothèque d’Humanisme et de Renaissance, XLV, 1983, pp. 107–113; Pietro Delcorno, In the Mirror of the Prodigal Son: The Pastoral Uses of a Biblical Narrative, Leiden-Boston, Brill, 2017, particolarmente pp. 251–309, ovvero il capitolo: «The Layman, the Woman, and the Priest: Three Florentine Dramas on the Prodigal Son». Delcorno ha studiato anche la parabola evangelica di Lazaro, pure riversata in sacre rappresentazioni fiorentine (ma nessuna di mano femminile): Pietro Delcorno, Lazzaro e il ricco Epulone. Metamorfosi di una parabola fra Quattro e Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 2014. 18 Per l’edizione del 1490 circa, si veda supra nota 13. Per l’attribuzione vedi: di James W. Cook, «Antonia Pulci and Her Plays», in A. Pulci, Florentine Drama for Convent and Festival, Seven Sacred Plays, op. cit., pp. 3–38: 27. Cook la definisce «her weakest effort». 19 Si cita dall’edizione: Antonia Pulci, La rappresentatione del figliuol prodigo nuouamente stampata, Firenze, Iacopo Chigi, 1572, c. A1r. D’ora in poi per i riferimenti si darà solo Prodigo, seguito dal numero di carta.
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L’opera si pone quindi un intento parenetico, proponendosi di recitare il vangelo e stimolare all’amore di Gesù, di cui si sono elencati i doni nella stessa invocazione. Di lui si dicono le qualità: clemenza, sapienza, potenza, ma soprattutto lo si esalta per la salvezza donata con il sacrificio della croce. Anche la chiusura è ugualmente proiettata su una dimensione più alta, richiamando verso la riconoscenza per la misericordia divina: Grazie rendiamo a Dio con puro core, che sempre è preparato a perdonarci. Non è sì scelerato peccatore ch’el benigno Iesù da sé discacci, quantunque habbi commesso grande errore, purché si voglia scior da falsi lacci et ritornar col core humiliato a.llui, nel regno suo sarà esaltato20. O tutti voi che la devota storia del Vangel sacro contemplato havete, al vero Dio che è nella eccelsa gloria con puro effetto grazie renderete, che v’amaestri d’aquistar vittoria in queste spoglie dove involti siete acciòché al fin di questa breve vita vi sia concessa la gloria infinita. (Prodigo, c. A4v)
Quasi a rinforzare l’effetto educativo, si sottolinea in chiusura la disponibilità divina al perdono, al recupero del peccatore, purché si umili, quasi riprendendo un’altra massima evangelica: «chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18, 14). Anche nella successiva strofa si riprende l’obiettivo di insegnare a render grazie a Dio, a chiedere ammaestramento per la vita terrena. L’obiettivo della drammatizzazione non poteva essere meglio chiarito: la salvezza eterna dei presenti. Segue la rappresentazione, come di consueto, una lauda detta di Feo Belcari, Signore Dio, una invocazione per la difesa contro gli attacchi della tentazione, per rafforzare la fede21. L’aspetto più interessante è il fatto che sia rivolta al femminile (chi invoca parla di sé come donna). Con l’avvio della vicenda è lasciato da parte ogni obiettivo parenetico e ci si trova in una piazza. Il dramma si apre con l’incontro di due amici: «El figliuol prodigo truova uno chiamato Randellino et dice […]». Il protagonista propone 20 Tra le due ottave di chiusura si ribadisce: «Seguita l’Angelo» (Prodigo, c. A4v). 21 La lauda non si legge in Feo Belcari, Sacre rappresentazioni e laude, a cura di O. Allocco-Castellino, Torino, UTET, 1920. Ma Tenneroni (Annibale Tenneroni, Inizii di antiche poesie italiane religiose e morali, con prospetto dei codici che le contengono e introduzione alle Laudi Spirituali, Firenze, Olschki, 1909, p. 241) riporta che è attribuita a Belcari ancora nella prima delle quattro ristampe delle Laudi a cura di G. Galletti. Firenze, Molini, 1863. Ringrazio Matteo Leonardi per l’indicazione.
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un gioco («la bassetta»), per cui l’altro è tanto ben disposto da chiamare un ulteriore compagno, il Riccio. Subito si avverte la famigliarità e l’abitudine al gioco dei protagonisti, infatti il Riccio nel rispondere afferma che ha le «carte del beretta», poiché non saprebbe andare senza. Il Prodigo si mostra eccessivamente generoso, tanto che Randellino lo mette in guardia: «Facciamo adagio: deh, non ischerzare. / Tu se’ nelle tue poste troppo magno / non vedi tu ch’io non ho da pagare? / Per mia fé, ch’i’ non vo’ far tal guadagno» (Prodigo, c. A1v). Il linguaggio è quello del gioco, della scommessa, esposto con brio in ottave inframezzate dalle didascalie, a mostrare la rapidità delle battute e dell’azione. Randellino vince e invita tutti a bere e a godere. Solo il Prodigo, che ha perso, si isola a commentare la sua sfortuna e a fare nuovi propositi di gogliardia: O maledette carte, o ria fortuna iniquo avverso et doloroso fato non credo che già mai sotto la luna un huomo simile a me fussi trovato. Di mille poste almen ne tirassi una ben mi posso chiamare sventurato. I’ non son ancor chiaro, io voglio andare la rendita al mio padre a dimandare. Certo chi non s’arrischia non guadagna: io voglio andare a provar mia ventura e poi nel mondo cercar ogni campagna et darmi ogni piacer senza misura. So che la rendita mia sarà magna, chi ha assai danar può ir senza paura, questo mondo è di chi sel sa godere e vo dar bando a ogni dispiacere. (Prodigo, c. A1v)
Basterà questa citazione a mostrare l’intento morale ed educativo di Antonia, persino debordante rispetto a quello evangelico. Nessuno dei propositi del Prodigo è condivisibile. Da una parte l’autrice rispetta l’esile trama della parabola, ma la farcisce di figure e dialoghi che la rendono non solo atta a reggere uno spettacolo, a dare consistenza psicologica ai personaggi, ma anche a contribuire a convogliare principi di educazione sociale e politica. Il dramma prosegue con la richiesta da parte del Prodigo della sua parte di eredità, motivandola con il desiderio («fantasia») di «voler pel mondo a spasso andare». Il padre cerca di resistere alla richiesta, di mettere in guardia il figlio dai pericoli che rischia: O figliuol mio, tu se’ troppo ostinato vogli pensar, per Dio, quel che tu fai, tu sai che in tanti vezzi t’ho allevato alcun disagio non provasti mai,
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parte prima - firenze biblica fusti sempre uso a esser governato, hor per le terre altrui stentando andrai. Misero, non voler far tale errore; deh, non ti lassar vincere al furore. (Prodigo, c. A2r)
Sprezzante, il figlio gli risponde, suggerendogli di non perdere altro tempo, che a nulla varranno le sue preghiere; ma il padre non desiste, divenendo sempre più affettuoso, per mostrare al figlio non solo i rischi a cui va incontro impreparato, ma anche quanto è prezioso ciò che abbandona così incautamente, e pregandolo persino di non abbandonarlo nella vecchiaia. Più il padre esprime parole affettuose, più il figlio reagisce in modo sprezzante, dimostrando la molestia che gli causano le parole del padre e caparbiamente affermando la volontà di partire. Infine il padre ordina ai cassieri di dargli la sua parte (in ducati veneziani), ma accompagna la decisione con parole amare di delusione «Misero, ché per mio mal ti creai, / questi diletti mi son riservati, / di te che in tanti vezzi t’allevai» (Prodigo, c. A2v). Il dialogo tra padre e figlio mostra una sottile penetrazione psicologica, assegnando a ciascuna delle figure parole che sempre meglio le delineano: il padre come generoso e prodigo di attenzioni, il figlio come superficiale e sprezzante. Questo carattere emerge anche nelle successive parole e azioni del Prodigo, che inveisce contro il cassiere e non conta i ducati che gli vengono dati (per la fretta, ma anche per incuria). Il padre, con realismo, osserva con amarezza questo atteggiamento e commenta: Sempre cercando vai di far quistione e non si vuol così correre a furia, figliuol, tu se’ ben fuor d’ogni ragione a voler fare a torto a costui ingiuria. Conosco la tua mala conditione, misero, a me che m’ho recato auguria. Quel che tu hai fatto in questa tua partenza in te non regna senno né prudenza. Ancor non hai di qui fatto partita et veggo che quistion cominci a fare, ohimé dolente et trista alla mia vita, figliuol, tu vorrai pur mal capitare. Per te la mente mia tutta è smarrita, perché tu vuoi per l’altrui terre andare, bisogneratti esser più temperato, là per mio amor non sarai riguardato. (Prodigo, c. A2v)
Sono tutti aspetti che Antonia inventa, formando dalla semplice parabola evangelica dei personaggi con uno spessore umano e morale, che indubbiamente fanno 106
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riflettere e inducono a preparare l’animo alla catarsi finale. Anche se Antonia non era consapevole delle caratteristiche del rinascente teatro greco-latino, riesce con acume a mettere in atto un processo che inevitabilmente conduce all’immedesimazione e alla conseguente moralizzazione. Nella scena della partenza del Prodigo, Antonia fa intervenire anche il fratello, che invoca il Prodigo perché non causi tanta sofferenza al padre; lo ammonisce ad aver compassione della sua vecchiaia, e alla fine, viste inutili le sue parole, lo invita accoratamente alla prudenza. Ma come già detto dal padre, questa è proprio la virtù che manca al Prodigo, e ben lo dichiarano le parole che rivolge a se stesso alla partenza, pronosticando una vita di festa: «Sempre potrò per mia fé trionfare / e danar certo non mi mancheranno / […] / et vo’ sempre pensar di far festa / et non vo’ che pensier mi dien molestia» (Prodigo, c. A2v). Giunto in piazza, il Prodigo incontra sette compagni che si offrono di stare con lui. Sembrerebbe una scena coerente con il caso, ma viene proposta in forma allegorica, i sette «compagnoni» sono le incarnazioni dei vizi capitali: il capitano è Superbia, seguono Avarizia, Invidia, Ira, Accidia, Gola, Lussuria. Ogni personaggio/peccato si qualifica in un’ottava. Nonostante la negativa galleria di questi quadri, ovviamente il Prodigo è ben felice di averli per compagni, appoggiandosi ai propri danari e rifiutando ogni fatica. La scena cambia, riportando all’azione il fratello e il padre, che ora si affida alle cure di chi gli è rimasto e gli consegna il governo dei propri averi, rimettendo in lui ogni speranza, come «bastone» della sua vecchiaia. Le loro parole sono all’opposto del precedente dialogo con il Prodigo: qui il padre indica il compito del figlio rimastogli non con generiche frasi, ma con precise indicazioni di come avere cura delle proprietà. Si tratta di una lezione che non appartiene alla parabola evangelica, ma che ha un risvolto non solo morale ma anche amministrativo, a modello di comportamenti da tenere per il passaggio da padre in figlio delle proprietà, molto utili per una società fondata sulla ricchezza di proprietà private, come era Firenze. Il figlio lo rassicura con parole esemplari: «Ciò che tu dì sia fatto volentieri / lievati padre dal cuore ogni doglia / […] / la mente tua d’ogni pensier spoglia» (Prodigo, c. A4r). Di nuovo la scena muta per lasciare campo al Prodigo, già stracciato, che rimpiange ciò che ha perduto, ora che si trova senza denaro e persino senza cibo. Egli formula dentro di sé la propria decisione di ravvedersi e il discorso che deve tenere al padre. Questa parte risulta fedele al vangelo, dove si dettaglia bene il processo di pentimento percorso dal Prodigo, con parole che vengono riformulate quasi identiche all’incontro con il padre dopo il ritorno («Pater peccavi in caelum et coram te et iam non sum dignus vocari filium tuum», Lc 15, 18–19 e 21). Lo stesso fa Antonia, che appena varia un poco il discorso del Prodigo: 107
parte prima - firenze biblica Habbi pietà di me, padre clemente, merzé, merzé del mio passato errore, poi che stato ti son disubibiente, accettami per tuo servitore. So che parato è Dio a chi si pente di perdonargli, come buon Signore, per suo amor, padre, mi perdonerai non per figliuol, per servo mi terrai. (Prodigo, c. A4r)
Come nella parabola evangelica, il padre reagisce con gioia al ritorno del figlio e ordina per lui la veste più ricca. Non solo, ma il padre nella sacra rappresentazione rivolge anche una preghiera a Dio per ringraziarlo di saper «in un punto ristorar molt’anni». Chiedendo poi dove il figlio sia stato e cosa gli sia capitato, dà modo di completare le informazioni offerte dalla parabola, ovvero parlare del modo negativo di spendere i denari in gioco, femmine, taverne, feste, etc. quindi della carestia sopraggiunta, della miseria e del pentimento. Solo a questo punto il padre ordina di ammazzare il vitello «sagginato» (grasso) per fare festa, perché può dire che il figlio è risuscitato. Inizia il convito, con tanto di benvenuti da parte del padre e di felicitazioni da parte degli invitati. A questo punto torna l’altro figlio, che, come nella parabola, è intristito da tanta generosità del padre verso il Prodigo. Ma le parole affettuose del padre e l’invito a lasciare ogni invidia, gli giovano, così che cambia atteggiamento. Interessante è il fatto che la conclusione è diversa da quella della parabola, promuovendo uno spirito di concordia familiare. Nel vangelo il figlio rimasto fedele si indispettisce per la generosità del padre e le ultime parole sono del padre che cerca di ammansirlo. La rappresentazione si chiude invece con parole di simpatia e apprensione del figlio fedele verso quello prodigo: un ulteriore insegnamento che va nella direzione della pace e della conciliazione familiare, della fraternità vissuta. La libertà interpretativa con cui è messa in scena la parabola, per mezzo del particolare rilievo dato alla vita dissipata del prodigo e dei suoi compagnoni, opera una ricostruzione d’ambiente anacronistica, ma efficace in funzione didascalica e morale. Quasi mette in secondo piano il messaggio evangelico del perdono. Lo scopo di quest’opera era infatti devozionale e sociale, ma evidentemente anche politico e civile, dimostrando bene come la sacra rappresentazione fosse «un potente strumento di informazione, di riflessione e di commento sull’attualità cittadina e sui problemi e i conflitti che ne investivano la collettività22».
22 P. Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, op. cit., p. 297. Cfr. Konrad Einsembichler, «Confraternities and Carnival: the Context of Lorenzo de’ Medici’s Rappresentazione di SS. Giovanni e Paolo», Comparative Drama, XXVII, 1993, pp. 128–140; cfr. anche Stefano Carrai, «Lorenzo e l’Umanesimo volgare dei fratelli Pulci», in Lorenzo de’ Medici. New Perspectives, a cura di B. Toscani, New York, Peter Lang, 1993, pp. 1–21.
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Una precedente opera, dal titolo fortemente locale, Rappresentatione del vitello sagginato, metteva in scena la stessa parabola per la confraternita della Purificazione23. Opera di Piero Muzi, responsabile della Confraternita, presenta sempre in ottava rima la parabola e conferma l’interesse della città a sconfiggere vizi che dilapidavano i patrimoni e dilaniavano le famiglie24. Muzi accentua la lettura allegorica della parabola, mettendo in scena anche il personaggio del Libero Arbitrio (in funzione di cassiere), oltre ai sette vizi capitali, invenzione che contribuisce a dare uno spessore teologico a questo dramma, che recupera anche la riflessione che sulla parabola era stata condotta nella patristica e nell’esegesi scolastica25. Attestato da numeori manoscritti, tutti molto diversi, ebbe pure una versione a stampa, senza indicazione d’autore, ma sostanzialmente coincidente con il testo modernamente edito (differisce solo perché contiene il racconto del Prodigo sulle sue vicende e manca invece del canto finale Deh sappiatevi guardare, un avvertimento contro le devianze giovanili26). A breve distanza dalla drammatizzazione di Antonia anche Castellano Castellani compose una rappresentazione del figliuol prodigo, con cui crea un teatro d’ambiente ancora più marcato di quanto abbia fatto Antonia27. Pure Castellani punta contro il gioco delle carte, ma è un compagno a ispirare nel Prodigo l’idea di riscuotere la sua eredità. Anche in questo caso i dialoghi sono ricchi di «puntuali e istruttivi riferimenti alle usanze fiorentine sulla gestione del patrimonio familiare28». I dettagli sulla società del tempo da parte di Castellani sono ancora più precisi, facendo un vero quadro delle consuetudini dei giovani di Firenze, espresso con un vivace linguaggio metaforico. Qui la discesa verso la perdizione del giovane è persino meglio illustrata, con la rappresentazione delle astuzie e degli inganni operati nei suoi confronti, resi anche più facili dall’abbandono dei buoni costumi insegnatigli dal padre e imparati dalla Chiesa. La parabola evangelica diventa qui, non tanto l’argomento dell’opera, quanto il pretesto per indurre quei fanciulli fiorentini che si mostravano riottosi 23 Sulla confraternita della Purificazione: Lorenzo Polizzotto, Children of the Promise. The Confraternity of the Purification and the Socialization of Youths in Florence 1427–1785, Oxford, Oxford University Press, 2004; Ann Machette, «The Compagnia della Purificazione e di San Zanobi in Florence: a Reconstruction of its Residence at San Marco, 1440–1506», in Confraternities and Visual Arts in Renaissance Italy: Ritual, Spectacle, Image, a cura di B. Wisch e D. Cole Ahl, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 74–101. 24 Edita in N. Newbegin, Nuovo ‘corpus’ di sacre rappresentationi, op. cit., pp. 31–55; sull’opera P. Delcorno, In the Mirror of the Prodigal Son, op. cit., pp. 256–273. 25 Si vedano a proposito le considerazioni di Delcorno, ibid. pp. 267–268. 26 La rappresentatione del vitello sagginato, Firenze, Bartolomeo de’ Libri, ca 1490. Per la descrizione dei testimoni della versione del Muzi cfr. N. Newbegin, Nuovo ‘corpus’ di sacre rappresentationi, op. cit., p. 33; il racconto e il canto finale sono a pp. 54–55. 27 Castellano Castellani, Rappresentatione del figliuolo prodigo, Firenze, Zanobi della Barba, 1515. 28 P. Ventrone, Teatro civile e sacra rappresentazione a Firenze nel Rinascimento, op. cit., p. 294.
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parte prima - firenze biblica ad aderire alla riforma savonaroliana ad abbracciarla senza riserve, per non incorrere alla dannazione eterna. E l’efficacia di questo monito è affidata dall’autore al vortice discendente nel quale dal peccato del gioco si passa a quello dell’inganno con cui viene estorta l’eredità, a quello della gola, ancora del gioco, della fornicazione, della bestemmia e, infine, del degrado allo stato bestiale. Buco nero della caduta nel vizio, ricorda e fermamente ribadisce il Castellani, è la taverna, la cui frequentazione non lascia agli avventori scampo dal peccato29.
Per la natura popolare del genere delle sacre rappresentazioni risulta evidente l’impegno e la partecipazione del mondo laico, anche signorile, anche intellettuale, alla diffusione e conoscenza della Bibbia nella Firenze medicea, che è anche la Firenze neoplatonica e ficiniana. Il Quattrocento fiorentino convogliò l'interesse per la letteratura biblica in forme del volgare, aprendo la strada per notevoli sviluppi successivi, con il contributo attivo delle donne che leggevano, interpretavano e s’impossessavano del messaggio biblico, proprio nel momento in cui «si andava affermando un nuovo modello di santità femminile, che accentuava il coinvolgimento attivo delle donne nella vita religiosa, politica e sociale della loro città30». La fortuna della sacra rappresentazione a stampa caratterizzò anche il rilancio della sacra rappresentazione in età post-savonaroliana, quando venne ripresa per la sua efficacia pedagogica per la formazione del civis devotus, che aveva consentito l’intensa stagione della Firenze-Gerusalemme. Un Mosè per suor Raffaella Sernigi Grazie alla pratica del teatro nei conventi femminili, il genere fu ancora frequentato a metà cinquecento da Raffaella Sernigi che pubblicò una Rapresentatione di Moise quando i Dio gli dette le leggie. In sul monte Synai31. Come ha dimostrato Elissa Weaver, il teatro nei conventi femminili corrispondeva non solo al talento di una suora che poteva esprimersi nella drammatizzazione, ma rispondeva anche alla domanda di intrattenimento devoto e formativo della comunità stessa e dei familiari, soprattutto di genere femminile32. 29 Ibid., p. 297. 30 Tamar Herzig, Le donne di Savonarola. Spiritualità e devozione nell’Italia del Seicento, Roma, Carocci, 2014, p. 21. 31 Firenze, Giuseppe di Pietro da Treviso, 1560 circa, ristampata poi nella raccolta di sacre rappresentazioni fiorentine del 1578. Sulle pratiche drammatiche nei conventi femminili si veda E. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy, op. cit. Dedicato agli spettacoli che si tenevano nel monastero della Crocetta (quello di Domenica da Paradiso) nel Seicento, è lo studio di Kelley Harness, Echoes of Women’s Voices. Music, Art and Female Patronage in Early Modern Florence, ChicagoLondon, The University of Chicago Press, 2005. 32 E. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy, op. cit., passim. Si veda anche Katherine Gill, «Women and the production of religious literature», in Creative Women in Medieval and Early
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A fine Quattrocento e inizio Cinquecento le sacre rappresentazioni dovevano essere comuni, se Serafino Razzi ne lamenta la scomparsa, perché sostituite da commedie mondane: «in vece delle feste, e rappresentazioni che si facevano, commedie, e altri così fatti giuochi poco dicevoli in luoghi santi e fra persone religiose33». Così come abbiamo visto nella prefazione della giuntina, le suore sembrano attive e intraprendenti organizzatrici di spettacoli e la pratica, anche se relativa alla rappresentazione della contemporaneità, anche devota, piuttosto che ai fatti eroici delle storie sacre, si estese durante gli anni della riforma cattolica, coincidente con il Concilio di Trento. «Authorities may have allowed, even encouraged, the practice of convent theatre in this period in an effort to appease the nuns, many of whom found themselves newly bound to observe clausura, often against their will and that of their families34». Offerte per le feste di carnevale principalmente, ma anche a Natale o per le feste dei Santi, le rappresentazioni conventuali femminili sono interessanti testimonianze dell’uso letterario e popolare del testo biblico. Anche qui quello che motiva l’attività è principalmente la sua funzione pedagogica in veste di intrattenimento, ma c’era anche una componente di richiamo che dava lustro al convento. Per lo più sono registrate rappresentazioni svolte dalle novizie; in apertura, negli intermezzi e in conclusione, si cantavano laudi; le scenografie erano anche elaborate; in genere si svolgevano nei refettori o in stanze appropriate35. Agostiniana del convento di Santa Maria della Disciplina o Monastero del Portico, appena fuori Firenze, Raffaella Sernigi (1473–1557) fu badessa per trentacinque anni, fino alla morte36. La sua Rappresentazione di Mosè ebbe due edizioni, è in ottava rima, in un atto, e si presenta come una classica sacra rappresentazione, basata sul racconto delle vicende del libro dell’Esodo dal capitolo 19 al capitolo 35, private delle prescrizioni che il testo veterotestamentario riporta37. Il prologo anche in questo caso rimanda a una più generale educazione religiosa e morale, se non civile, infatti si dice che Dio diede le leggi del decalogo per «suo clementia», per salvare e aiutare l’umana natura:
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Modern Italy. A Religious and Artistic Renaissance, a cura di E.A. Matter e J. Coakley, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1994, pp. 64–85; sulle attività culturali nei conventi all’epoca si veda I monasteri femminili come centri di cultura fra Rinascimento e Barocco, a cura di G. Pomata e G. Zarri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2005. Citato da E. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy, op. cit., pp. 53–54. Ibid., p. 58. Ibid., p. 66. Della sua vita non sappiamo altro. Cfr. ibid., pp. 123–126. Non tratta dei capitoli dal 20 al 30 di Esodo.
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parte prima - firenze biblica Et volse ad Moisè la legge dare acciò che al viver nostro ordine dessi: viveva l’huomo allhor come bestiale et operava quel che più piacessi, al senso suo et come animale l’appetito seguia pur che potessi adempier quello e contentar suo voglia o di bene o di mal sie che si voglia38.
L’angelo anticipa tutta la vicenda in nove ottave, menzionando chiaramente la fonte biblica («nell’Exodo si legge e dice aperto / come el Signor la dette, et questo è certo»), in questo discorso la narrazione è più coerente con la fonte di quanto non sia nella drammatizzazione. La vicenda ha inizio con Mosè che va sul monte Oreb per pregare e sente la voce di Dio che lo chiama, per cui si pone in attenzione per eseguire il volere divino. Sernigi elabora però la trama, perché la concessione dei comandamenti e il loro elenco, che si legge in Esodo 20, nella drammatizzazione viene spostata alla fine, inserendo i comandamenti al posto delle leggi che costituiscono la base della legislazione della Torah per gli Ebrei. La drammatizzazione quindi non segue fedelmente il libro dell’Esodo, anche se fondamentalmente non lo tradisce. L’autrice crea, sulla base della sua fonte, una vicenda articolata e coinvolgente, usando elementi diversi tratti dal libro biblico, ma organizzati in modo da creare la sua storia, un intreccio articolato. Nelle parole dell’angelo annunziatore, più fedele alla fonte biblica, si parla anzitutto delle tavole che vengono date a Mosè, quindi, in secondo luogo, della ribellione, mentre nella drammatizzazione prima avviene l’episodio del vitello d’oro, poi quello delle tavole. Il confronto con il testo biblico può essere utile per capire il procedere della Sernigi. All’avvio si parla di Mosè chiamato da Dio «più e più volte»; egli, non vedendo nulla, si genuflette per pregare. Questo richiamo ripetuto di Dio non è negli incontri che vengono raccontati in Esodo successivamente all’uscita dall’Egitto, ma in quelli precedenti, nei primi incontri di Mosè con Dio sul monte Oreb, di cui si parla in Esodo 3, dove infatti si dice che Dio lo chiamò «Mosè, Mosè» (Ex 3, 4). Inoltre è qui, e non più avanti, che Dio indica a Mosè di togliersi i sandali dai piedi (Ex 3, 5), mentre nella rappresentazione sono indicazioni date da Dio all’avvio: «O Moisè, Moisè attendi / […] et prima che tu salga su al monte / ti scalza, e scigni
38 Raffaella Sernigi, La rapresentatione di Moise quando i Dio gli dette le leggi. In sul monte Synai. Nuovamente ristampata, in Il terzo libro di feste, rappresentationi, et commedie spirituali, di diversi santi, e sante, del Testamento vecchio & nuouo, composte da diversi autori. Nuovamente poste insieme, e parte non piu stampate. Aggiuntovi nel fine vna scelta di laude spirituali. Con la tavola di quel che nell’opera si contiene, Firenze, s.i.t., 1578, con lettere d’ordinamento GGG, c. A1v. D’ora in poi si indicherà con Moisé, seguito dal numero di carta.
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e scuopriti la fronte». In Esodo 19, 3, che coincide con l’inizio della narrazione sull’alleanza e il decalogo, si dice solo «Moyses autem ascendit ad Deum, vocavitque eum Dominus de monte et ait». La rappresentazione offre ampio spazio alle preghiere di Mosè e al suo dialogo con Dio, anzi è all’interno di questo scambio che vengono presentati alcuni degli eventi. Per esempio la durata del tempo trascorso sul monte è presentato come indicazione data da Dio: «Starai qui in sul monte et orerai /quaranta giorni e notte digiunando», e non come narrazione «et fuit ibi quadraginta diebus et quadraginta noctibus» (Ex 24, 18) o come risultanza dell’assenza di Mosè dal campo: «Fuit ergo ibi cum Domino quadraginta dies et quadraginta noctes» (Ex 34, 28). Viene sempre indicato l’atteggiamento umile di Mosè di fronte a Dio, che si genuflette prima di pregarlo. Ad esempio, quando prega Dio di non infierire contro il suo popolo, Sernigi dice: «Moisè salendo al monte con le man levate al Cielo, ginocchioni dice», mentre in Esodo si legge semplicemente: «Moyses autem orabat Dominum Deum suum dicens» (Ex 32, 11). La reazione di Dio è in Esodo riassunta in poche parole: «Placatusque est Dominus, ne faceret malum, quod locutus fuerat adversus populum suum» (Ex 32, 14), mentre nella rappresentazione occupa ben tre ottave. Risponde il padre eterno e dice: «O Moisè, tu hai certo trovato grazia nel mio conspetto e conosciuto, t’ho et farò quel che tu m’hai pregato, al mio popol placabil farò e lor tributo, libererollo d’ogni suo peccato, pur che si guardi, e del mal sia pentuto, fermo et constante sia infino a morte poi del mio regno gli aprirò le porte. Ma la mia faccia qual cerchi vedere, Moisè mio, questo i’ non vo’ fare, farotti sempre quanto vuo’ piacere questo non debbe né può sopportare huomo che viva, perché non ha el potere. Quando fia tempo te l’arò a mostrare, hor piglia queste leggi, e al popul mio observar le farai per me, suo Dio. El lor tinore, o Moisè, è quanto di queste sante leggi ch’io ti dono Son cose che convien ch’ognun sia presto ad osservarle, imperò che le sono la lor salute, et ciaschedun sie desto. Così dirai al mio popol, che buono
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parte prima - firenze biblica per lor sarà, se quel ch’io dico fanno, se non, sarà lor pena e danno». (Moisé, c. A3v)
Molto spazio è dato anche ai fratelli di Mosè, Aronne in primis, ma anche a Giosuè e Miriam, che invece nel capitolo sul decalogo di Esodo hanno davvero un ruolo minimo. Giosuè compare solo in 24, 12, quando accompagna Mosè sul monte per ricevere le tavole, mentre nella rappresentazione agisce spesso e interviene con suoi discorsi ripetutamente. Ad Aronne, che pure nell’Esodo ha un ruolo importante, viene dedicata molta attenzione: per esempio viene descritta la sua vestizione a sacerdote (come in Esodo); Mosè si rivolge a lui con lunghe raccomandazioni. Ovviamente il suo ruolo nella gestione della domanda di un idolo è essenziale, ma nella rappresentazione, oltre a questo, riveste un ruolo decisivo nell’azione drammatica. Anche la sorella Miriam interviene e parla nella scena. Sernigi introduce anche personaggi nuovi, per esempio «Nicco vecchio», evidentemente uno degli Anziani, che pure interviene più volte. Viene data così consistenza alla rappresentazione con l’aggiunta di personaggi e dialoghi. Del tutto inventato è il coro che gli israeliti intonano per il vitello d’oro, per cui la Weaver ipotizza che forse questa e altre parti erano messe in musica e persino danzate39. In effetti oltre al canto di adorazione in latino, che sembra effettivamente dare sfogo all’irrazionale («Ooo impotente vitulum nostrum ooo / […] indignissime et vane vitulum nostrum ooo / […] o miser vir que querit vitulum nostrum ooo / […]», Moisé c. A4r), vi sono altre indicazioni di feste. Quando Mosè sta per partire, prima dei quaranta giorni sul Sinai, una lunga didascalia indica la scena dove sono presenti quasi tutti i personaggi intorno a Mosè, e alla fine la didascalia recita: «Et così da l’altra parte delli huomini che habbino scudieri et uno banditore et fate festa suoni o canti o colezione» (Moisé, c. A2v). Alla fine, come in ogni sacra rappresentazione, si canta una lauda «Deh, laudiam con gran fervore / la divina sapienza / che per la suo gran clemenza / tratto c’ha del gran dolore», che anzitutto ricorda il sacrificio di Cristo, quindi incita a rispettare i comandamenti per poter «al ciel salire»: «fa che la legge divina, / che da Dio t’è stata data / non la metter in ruina / né l’aver dimentichata, / da te sia ben osservata / per amor del tuo Signore». La lauda ricorda anche gli episodi messi in scena: «Mosè dico che tanto / col preghar vinse il protervo / popul suo che tanto acerbo / contro te commisse errore40».
39 E. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy, op. cit., pp. 124–126. 40 Moisé , c. B3r. Non ho trovato la fonte della lauda. Non è neppure nella raccolta di Serafino Razzi, Primo libro delle laudi spirituali, Venezia Giunti, 1563 (ristampa anastatica: Bologna, Forni, 1969).
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Nonostante l’intensità del rapporto particolare di Mosè con il suo Dio anche in questo caso la drammatizzazione investe elementi politici. Oltre che una funzione religiosa, le leggi ne assumuno anche una civile, per il percorso del popolo di Dio in terra e nella storia: Allhor mi disse «I’ ti vo’ dar le leggi el modo che possiate al ciel salire; piglierai queste, e al popul le leggi et sopra tutto fa che ubbidire mi faccia. Chi nol fa tu lo correggi di mala morte lo farai morire. Senza rispetto e solo a l’honor mio vo che riguardi, perché sono il tuo Dio». (Moisé, c. A2r)
Anche Raffaella Sernigi conferma dunque l’uso politico della riscrittura biblica, o almeno, insegnando il rispetto delle leggi divine, insegna anche il rispetto della costituzione sociale di uno stato che su quelle si fonda. Altra opera drammatica di ispirazione veterotestamentaria e di mano femminile, che non ha avuto però l’onore della stampa, è la Traghedia di Eleazzaro ebreo in prosa, pure in cinque atti (che ormai è la misura della riconquistata classicità teatrale41). Vi si leggono alcuni momenti di comicità, nonostante la tragica conclusione, che vede il martirio del giusto Eleazaro, rispettoso delle leggi divine e perciò perseguitato. Composta da Maria Grazia Centelli, domenicana del convento di san Vincenzo di Prato, intorno al 1580 è basata su 2 Maccabei 6, 1–31, presenta il vecchio Eleazaro come un modello di martire, per cui molte sono le considerazioni di stampo parenetico che accompagnano l’azione42.
41 Si legge nel manoscritto 2974 sempre della Biblioteca Riccardiana. Su cui E. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy, op. cit., pp. 134–141, vedi Armando Maggi, «Un caso di intertestualità claustrale nell’inedito La tragedia di Eleazzaro ebreo», Studi e problemi di critica testuale, XLVIII, 1994, pp. 58–71. Maggi, che pubblica qui una scena del primo atto, rileva lo spessore interpretativo dell’autrice. 42 Elissa Weaver offre un ricco regesto di opere teatrali scritte nei e per i conventi da suore, sottolineando che la sua lista rappresenta solo una parte di un repertorio che inizia a emergere. E. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy, op. cit., p. 135. Segnala anche altre due opere drammatiche di ispirazione biblica che però non hanno indicata l’autorialità, che potrebbe non essere femminile: una Commedia di Judith, in sei atti, in versi, riportata dal ms riccardiano 2976, vol. 4, scritta sicuramente per una recita conventuale; e la Commedia della persecuzione di David in cinque atti, il cui manoscritto è appartenuto a suor Laura di Candeli del convento di Santa Maria degli Angeli in via della Colonna a Firenze; datato 1568, è conservato alla Biblioteca Riccardiana di Firenze, ms 2977, vol. 3, su cui E. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy, op. cit., pp. 133 e pp. 141–148.
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Un Giacobbe per suor Maria Clemente Ruoti A quasi un secolo di distanza, nel 1637, un’altra suora, Maria Clemente Ruoti pubblicò un’opera teatrale: Giacob patriarca, azione drammatica in cinque atti con relativi cori43. Nata sul Mugello, Ottavia Ruoti (1609/10–1690) a nove anni entrò nel convento di San Girolamo sulla costa di San Giorgio e prese i voti nel 162144. Nulla si sa della sua educazione. Ricoprì diversi incarichi, incluso quello di vicaria. Nel 1649 per le sue doti letterarie fu ammessa tra gli accademici Apatisti, alle cui riunioni probabilmente non partecipò mai, impossibilità di cui si lamenta nella prefazione alla sua opera stampata. La sua azione drammatica su Giacobbe non appartiene più al genere della sacra rappresentazione, ha alle spalle un secolo di teatro umanistico-rinascimentale e coincide con la nascita del teatro moderno, anche se convertito ancora per una destinazione spirituale, per essere fruito in monasteri o conventi da un pubblico particolarmente interessato ai risvolti educativi, morali e devozionali del teatro. Nella dedica a Vittoria della Rovere infatti suor Maria Clemente mostra questa consapevolezza: A verginella rinchiusa fra queste quattro mura la via del Parnaso, serenissima Gran Duchessa, è non pur malagevole, ma quasi incognita. Le Muse par che aborriscano cotanta semplicità. Ogni lume poetico nelle ceneri di quest’abito resta offuscato. L’armonia del verso da orecchio fasciato di grosse bende mal può distinguersi. Le reghole del dire e del poetare con quelle dell’ubbidire e del sopportare non si confanno, perché quelle ricercan la lezione varia e frequente, e conferenza quasi continua, e queste pochi libri concedono e limitati; e le conversazioni de’ letterati, come alla nostra professione troppo contrarie, ci proibiscono. Onde non sarà maraviglia se questa mia operetta non sarà dotata di quelle parti che si ricercano a drammatico componimento45.
L’opera è in endecasillabi sciolti principalmente (alcuni versi sono più brevi, dove più intensi sono gli affetti, alcuni anche in rima), ha intermezzi musicati e pure certi
43 Maria Clemente Ruoti, Giacob patriarca. Azione drammatica, Pisa, Francesco delle Dote, 1637. Su cui: Elissa Weaver, «Suor Maria Clemente Ruoti e la Bibbia nel teatro dei monasteri femminili», in Donne e Bibbia nella crisi dell’Europa cattolica (secoli xvi–xvii), a cura di M.L. Giordano e A. Valerio, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2014, pp. 171–182; E. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy, op. cit., pp. 179–192. Sull’autrice Elissa B. Weaver, «Suor Maria Clemente Ruoti (1609 or 1610–1690)», in Italian Women Writers: A Bio-bibliographical Sourcebook, a cura di R. Russel, Westpoint CT, Greenwood Press, 1994, pp. 368–374. 44 Il convento di San Girolamo o San Giorgio (dal toponimo) era famoso a Firenze per avere ottime cantanti. Cfr. Suzanne Cusick, Francesca Caccini and the Medici Court. Music and the Circulation of Power, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2009, pp. 277–278; Warren Kinkerdale, The Court Musicians in Florence during the Principate of the Medici, Firenze, Olschki, 1993. 45 M.C. Ruoti, Giacob patriarca, op. cit., p. n.n. D’ora in poi si indicherà, per le citazioni, solo Giacob seguito dal numero di pagina.
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momenti dell’azione prevedono di essere musicati. Tratta della vicenda narrata nei capitoli 31–34 di Genesi, ovvero del ritorno di Giacobbe alla sua terra, vent’anni dopo essere fuggito per aver carpito l’investitura e la benedizione di Isacco al posto del fratello Esaù. Rimasto per tanti anni a lavorare come pastore presso il suocero Laban, dopo aver sposato Lia e Rachele ed aver generato molti degli undici figli, ritorna al padre46. Ma le vicende drammatizzate dalla Ruoti riguardano piuttosto i personaggi minori, le mogli e i figli, più che il patriarca Giacobbe. L’azione ha un’intelaiatura biblica, ma ruota intorno ai conflitti tra Giacobbe e il suocero Laban e tra le sue due mogli prima, poi è arricchita con episodi in gran parte di invenzione, come le fughe di due giovani donne (Dina e Norminda), i pericoli da loro vissuti, le difficoltà per salvarle, tradimenti e pacificazioni. Sono anche creati personaggi che non appartengono alla storia biblica, come appunto Norminda, che ama e sposerà, dopo molte peripezie, incluso un travestimento da maschio, il primo figlio di Giacobbe, Ruben. Non sono d’invenzione invece alcune vicende che toccano Dina, ultimogenita di Giacobbe, che a dispetto delle raccomandazioni del padre si reca alla città di Salem, dove viene rapita e violentata dal figlio del re, Sichem. Questa vicenda è infatti narrata nel capitolo 34 di Genesi. Ma mentre il racconto biblico, dopo un’apparente pacificazione, continua con le ostilità e la vendetta dei figli di Giacobbe sugli abitanti di Salem, Ruoti chiude il suo dramma con il matrimonio dei due giovani e con la pace fra la tribù di Giacobbe e la grande città, un evidente messaggio politico. Alla fine infatti tutti gli intrighi si appianano grazie all’umiltà e alla fede di Giacobbe, che riesce a sventare la volontà di vendetta dei suoi stessi figli e a stipulare favorevoli accordi con i nemici. A tutti gli effetti, come scrive Weaver, l’opera appare come «un romanzo pastorale» o, si può dire, come un dramma pastorale, secondo un genere che era asceso alla moda nei decenni precedenti, con l’Aminta di Torquato Tasso e il Pastor fido di Giovan Battista Guarino. Se i personaggi sono biblici, poco abbiamo di biblico nell’azione drammatica. Vi è però il racconto delle due visioni di Giacobbe, che non sono inserite come episodi, ma appunto come narrazioni che vengono fatte da personaggi che avrebbero assistito senza essere visti. Così nell’atto primo, scena settima, viene raccontato, a mo’ di informazione su Giacobbe, il sogno della scala di Gn 28, 12–15 («Sentisti mai narrar di quella scala / che l’Eterno Fattor vent’anni sono / a Giacobbe mostrò di qui non lungi?», Giacob, 18) a prova dei favori che Dio gli concede con l’impegno di fare grande il suo popolo. Nella visione sono attribuite a Dio queste parole: «A Giacobbe e alla tua / progenie eletta questa terra in dono / concederò. Feconderò tua prole / che l’arena del mare, del ciel le stelle / 46 Precisamente l’inizio della drammatizzazione corrisponde con Gn 31, 17 e la conclusione con Gn 34, 24.
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numerar sia più facile a i viventi» (Giacob, 19). Nella scena seconda dell’atto quinto, Aram racconta poi di aver assistito alla lotta di Giacobbe con l’angelo: Là vicino al Giordan trovai Giacobbe, che prostrato porgea calde preghiere al sommo Re dell’Eterea, chiedendo perdon de’ falli suoi, grazia e vita per voi. Io mi fermai lontano a rimirare, ascoso in un cespuglio. Ed ecco viene armato di splendore in volto umano o fusse angelo o Dio, che ciò non posso di sicuro affermarmi. E dice: «Sorgi, ch’io qui venuto son per lottar teco». […] Salta in piedi Giacobbe e a quel s’avventa e con le braccia il cinge, e quei gli annoda il collo, e d’atterrarlo usa gran forza. Or lo tira, or lo spinge, or verso il cielo l’alza, or alla terra lo percuote. […] Sorge intanto dal mar la vaga aurora ad annunziare in oriente il giorno, onde il campion volto a Giacobbe disse: «Lasciami, il giorno viene e partir voglio io». Cui rispose Giacobbe: «Io non intendo lasciarti pria che tu mi benedica». […] L’altro allor soggiunse: «Non sarà più Giacobbe il nome tuo, ch’Israele sarai da tutti detto, che suona ‘quel che vide in faccia Dio’». (Giacob, 73–74)
Come si vede, la narrazione è fedele a quanto racconta Genesi 32, 23–29, così come era fedele per il sogno della scala. Anche il messaggio ribadito spesso dai personaggi positivi, soprattutto Giacobbe, ma anche dal figlio Giuseppe e dalla moglie Rachele, è in linea con la figura del patriarca e con la sua fede. Si intuisce la volontà dell’autrice di trasmettere con questa azione drammatica un insegnamento che va nella direzione di avere fiducia in Dio, che provvede alle vicende dei suoi fedeli e se ne cura. Fin dal prologo è evidente questo intento, infatti per le parole introduttive è proposto un personaggio allegorico, Timor di Dio, che determina il messaggio: «Ma timor santo, che bear può l’alme / in terra, e farle poi del Cielo eredi. / Quello stesso timor son io, che in tanti / perigli accompagnò Giacobbe, il pio, / e d’ogni impresa il fè vittorioso / come fo sempre a chi nel cuor m’accoglie» (Giacob, n.n.). 118
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Questa presentazione, che passa poi a lodare la granduchessa Vittoria della Rovere, che sembra essere stata presente alla rappresentazione, conferma l’obiettivo educativo e anche parenetico della seppur romanzata drammatizzazione delle vicende di Giacobbe, volendo insegnare appunto che Dio è riferimento necessario per il bene eterno, ma anche terreno. Se Giacobbe rappresenta sicuramente l’amor di Dio, passano tra le righe anche altri messaggi di pratica convivenza: alle donne si raccomanda di essere soggette al marito, a tutti di non pretendere di conoscere tutto, di saper al caso dissimulare («dissimular talor è senno grande», Giacob, 5), ai giovani di ubbidire ai genitori e di non allontanarsi dalle raccomandazioni, perché pericoloso (come succede a Dina). Insegna che la vendetta non porta frutti buoni: «trionfar dell’ira / nel fervor dell’offesa, è vera gloria / e lodata vittoria», recita il coro dell’atto quinto (dove «vittoria» chiama in causa ancora la dedicataria), e già prima il coro dell’atto terzo aveva cantato: «frenare il conceputo sdegno / è più virtù che conquistare un regno» (ibid., 51). Vi sono anche riflessioni sui casi umani, una filosofia che indirizza a cogliere la fuggevolezza della vita: «la beltade è don celeste / che passa in un momento» (ibid., 26); «E la speranza? / un sogno, un’apparenza, un’ombra, un’aura / che lusinga i viventi. Ma il desio / in fummo spesse volte si risolve» (ivi, p. 11) 47; e di Amore si dice: «Questo mendace nume / che sol nell’ozio ha vita e forze acquista / pria diletta, ma al fin turba e contrista / e chi folle presume / in lui fondar sua spene / morir gli è forza, o viver sempre in pene» (ibid., 69). In alcuni casi l’ambientazione pastorale è più insistita, come nel coro dell’atto primo dove si incita alla caccia, o nell’atto secondo, scena seconda, quando Dina descrive l’attività dei pastori in brevi settenari: «Mentre il lanuto armento / guidano al fresco i saggi pastorelli / lungo liquido argento / di vaghi fiumicelli / all’aura chioma intessero bei fiori / forse lacci di mille amanti cuori» (ibid., 27). Ma prevalgono gli intrighi e i colpi di scena delle vicende dei giovani, che trasformano questa storia biblica in romance. Suor Maria Clemente Ruoti compose almeno un’altra opera teatrale, Natal di Cristo, in tre atti in prosa con qualche brano in versi, che rimase però manoscritta, sebbene il manoscritto contenga i privilegi di stampa con data 165848. La rappresentazione non è focalizzata sulla Natività, ma include diverse storie, tra cui la profezia della Sibilla Tiburtina, che avrebbe annunziato all’imperatore Augusto la nascita 47 Le parole sembrano ricalcare la lezione di Paolo Aresi, che sulla base di passi dai Proverbi e dai Salmi, definiva la speranza sogno, ombra. Paolo Aresi, Della tribolazione e suoi rimedi, Tortona, Nicolò Viola, 1624, pp. 708–717. 48 Manoscritto ms 2783 della Biblioteca Riccardiana di Firenze. Cfr. E. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy, op. cit., p. 192.
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del figlio di Dio, personaggi anche allegorici, come Verità e Errore, e vicende comiche, in un proliferare di azioni che culminano nelle celebrazioni della festa, di cui le donne sono in qualche modo anticipatrici. Weaver sottolinea la peculiarità del messaggio di quest’opera, rivolto alle donne: «the Natal di Cristo shows that women can be strong and virtous, the agents of God’s will on earth. […] In this play Maria Clemente Ruoti has taken on an expanded role: she is not only convent playwright but also spokenperson to the world for her convent sisters and her sex49». Quasi coeva alla prima opera della Ruoti è un’altra composizione rimasta manoscritta, la Rappresentazione dell’evangelica parabola delle dieci vergini tolta da san Matteo al XXV, di suor Maria Costanza degli Ubaldini50. Datata 1636 è dedicata a Michelangelo Buonarroti il Giovane, con cui la suora era in corrispondenza e che dichiara suo mentore. In tre atti di endecasillabi e settenari, mette in scena la parabola evangelica, dandole consistenza e piacevolezza anche per mezzo di cori e della musica, con scene cantate non solo negli intermezzi. Vi sono personaggi allegorici positivi (Verginità) e negativi (Superbia e Stoltizia), perché tutta la vicenda riflette allegoricamente sulla monacazione, ovvero sulla scelta di alcune donne di vivere come spose di Cristo, drammatizzazione in cui le suore potevano evidentemente specchiarsi. In questi due ultimi casi le suore-scrittrici non solo rispondevano a una domanda di materiale biblico nella forma più facilmente proponibile per un pubblico largo, che potesse beneficiare dell’insegnamento scritturale anche senza avere accesso ai libri, ma si facevano pure portatrici di un messaggio che valorizzava le virtù femminili e il ruolo delle donne nella storia della salvezza, fornendo anche modelli da seguire e sostegno nelle loro scelte, sulla base della certezza di un premio finale.
49 Ibid., pp. 179–192. 50 È conservato all’Achivio Buonarroti, ms 94, su cui E. Weaver, Convent Theatre in Early Modern Italy, op. cit., pp. 193–197.
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Lamentazioni e salmi di Laura Battiferri Laura Battiferri, nata ad Urbino probabilmente nel 15231, approda a Firenze, patria del secondo marito Bartolomeo Ammannati, scultore già al servizio del duca Guidobaldo II della Rovere poi di papa Giulio III, nel 1555, dopo aver trascorso parte della vita a Roma (almeno cinque anni con il secondo marito, e forse un precedente periodo con il padre, segretario vaticano)2. La Firenze della seconda metà del secolo è quella in cui Cosimo I ha instaurato un governo solido, che promuove anche iniziative di prestigio, come l’Accademia del Disegno, in cui si valorizza l’arte, e l’Accademia Fiorentina, dedicata a lingua e letteratura3. Ambedue iniziative di lunga durata, videro coinvolti all’epoca i migliori ingegni fiorentini, tra cui un giovane Galileo, che all’Accademia Fiorentina nel 1588 offrì due lezioni sulla Grandezza e situ dell’Inferno di Dante, in uno splendido connubio di competenze matematiche e critiche al servizio della poesia di Dante. Laura si inserisce bene nel contesto fiorentino, come mostrano i numerosi componimenti poetici a lei dedicati e pubblicati nella prima delle sue raccolte poetiche
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Questa è la data di nascita (figlia naturale di Giovanni Antonio Battiferri, poi legittimata) indicata sia nella voce Enzo Noè Girardi, «Battiferri (Battiferra), Laura», in Dizionario Biografico degli Italiani, VII, 1970, pp. 242–244. Sia nello studio di Victoria Kirkham, «Introduction», in Laura Battiferra and Her Literary Circle: an Anthology, a cura di V. Kirkham, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2006, pp. 1–67: 11. Ma è proposto invece il 1522 da Luciana Montanari, «Le rime edite e inedite di Laura Battiferri degli Ammannati», Italianistica. Rivista di letteratura italiana, XXIV, 2005, pp. 11–28. Sulla vita della Battiferri, vedi V. Kirkham, «Introduction», art. cit., pp. 11–32. Sul matrimonio con lo scultore e architetto, vedi Victoria Kirkham, «Creative Partners. The Marriage of Laura Battiferra and Bartolomeo Ammannati», Renaissance Quarterly, LV, 2002, pp. 498–558. Sul periodo: The Cultural Politics of Duke Cosimo I de’ Medici, a cura di K. Eisenbichler, Aldershot, Ashgate, 2001; Michel Plaisance, L’Accademia e il suo principe. Cultura e politica a Firenze al tempo di Cosimo I e di Francesco de’ Medici, Manziana, Vecchiarelli, 2004.
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(Il primo libro delle opere toscane)4. Da Firenze la sua fama si estende in Toscana, come mostra l’invito a far parte dell’Accademia degli Intronati di Siena, nella sua patria, Urbino, dove è eletta nell’Accademia degli Assorditi, e fuori da queste aree biografiche, come provano le opere a lei rivolte o dedicate. Di lei si parlava anche nelle corti di Massimiliano II d’Asburgo e di Filippo II di Spagna, attestando una fama cui non corrispose poi l’attenzione della critica5. A Firenze Laura si legò al cenacolo che ruotava intorno al monastero camaldolese di Santa Maria degli Angeli, in cui viveva Silvano (Girolamo al secolo) Razzi, autore di commedie, di un dialogo (Dell’economia christiana e civile, 1568), di cui una delle protagoniste è Laura6, ma soprattutto questa era in stretta relazione, come attestano le lettere e le rime, con Benedetto Varchi, attivissimo animatore della vita culturale fiorentina della metà del secolo7. Si dedicò (Laura) anche ad attività benefiche, in particolare verso i Gesuiti e il loro collegio di San Giovannino8. Le rime La sua prima produzione si colloca inequivocabilmente nel solco del petrarchismo, anche se non è centrata su una storia amorosa. La prima opera poetica, Il primo libro delle rime toscane, edita presso i Giunti di Firenze nel 1560, è composta da 187 componimenti, di cui ben 41 sono di altri autori. Infatti la raccolta è strutturata intorno a una ricca serie di scambi poetici (in genere sonetti) ricevuti da e indiriz-
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Laura Battiferri degli Ammannati, Il primo libro delle opere toscane, Firenze, Bernardo Giunta, 1560. Si legge in moderna edizione: Ead., Il primo libro delle opere toscane, a cura di E.M. Guidi, Urbino, Accademia Raffaello, 2000. Cfr. V. Kirkham, «Introduction», art. cit., p. 34; Victoria Kirkham, «Sappho on the Arno. The Brief Fame of Laura Battiferra», in Strong Voices, Weak History. Early Women Writers and Canon in England, France, and Italy, a cura di P. Benson e V. Kirkham, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2005, pp. 174–196. Fratello di Serafino, fu scrittore prolifico anche di opere devozionali, tra cui una Vita della Vergine e La vita di san Giovanni Battista, e di opere storiche e parenetiche. Su di lui cfr. la voce Pietro Giulio Riga, «Razzi, Girolamo», in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXXVI, 2016, pp. 649–651. Cfr. Umberto Pirotti, Benedetto Varchi e la cultura del suo tempo, Firenze, Olschki, 1971; si veda anche il carteggio di Benedetto Varchi, Lettere (1535–1565), a cura di V. Bramanti, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2008; particolarmente utile Lettere di Laura Battiferri Ammannati a Benedetto Varchi, a cura di C. Gargiolli, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1968; Benedetto Varchi 1503–1565. Atti del convegno, Firenze, 16–17 dicembre 2003, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007; Salvatore Lo Re, Politica e cultura nella Firenze cosimiana. Studi su Benedetto Varchi, Manziana, Vecchiarelli, 2008; Annalisa Andreoni, La via della dottrina. Lezioni accademiche di Benedetto Varchi, Pisa, ETS, 2012. Victoria Kirkham, «Laura Battiferra degli Ammannati, benefattrice dei Gesuiti fiorentini», Quaderni storici, CIV, 2000, pp. 331–354 (numero monografico: Committenza artistica femminile, a cura di S.F. Matthews Grieco e G. Zarri).
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zati a personaggi illustri9. I destinatari sono molto variati, dalle figure del potere locale e non (il Duca di Urbino, Cosimo I, Filippo II di Spagna), spesso anche donne (Eleonora di Toledo in Medici, Maria Tudor, Vittoria Farnese, Virginia della Rovere, Eleonora Cibo, Giulia de’ Medici), a personaggi in vista per ragioni poetiche o artistiche (Michelangelo, Annibal Caro, Benedetto Varchi), ma anche personaggi oggi sconosciuti come il medico Francesco da Monte Varchi, un non identificato Vincenzo Grotti, seguace di Caterina Cibo. Molti sono i religiosi, come il camaldolese Silvano Razzi, il gesuita Claudio Acquaviva, il francescano Agostino de’ Cupiti, papa Paolo III Farnese, il vescovo di Chioggia Gabriele Fiamma, il cardinale Silvio Antoniano, il vescovo Ludovico Beccadelli. Diversi componimenti sono in morte (tra cui quello per Irene di Spilimbergo, edito già nella silloge voluta da Dionigi Attanagi, cui aveva partecipato pure il giovane Tasso)10. Dedicata a Eleonora di Toledo, la moglie di Cosimo I, fin dal primo sonetto, quello di dedica, la raccolta si colloca nel solco petrarchesco: «E forse a par di lui, che su la Sorga / cantando alzò il bel lauro a tanto onore / n’andrei sempre volando in ogni parte11». In effetti la lezione dei Rerum Vulgarium Fragmenta, con influssi dal petrarchismo cinquecentesco, bembiano e dellacasiano in particolare, si vede ovunque, a volte anche molto marcata, con riprese precise di temi e di stilemi, ruotando intorno alla solitudine ricercata e amata, alla considerazione della fuga del tempo, agli anniversari, alla meditazione su di sé e sulla vita, ai conflitti interiori. Pur considerando la stretta fedeltà alla parola petrarchesca, Victoria Kirkham, che ha dedicato alla Battiferri i più accurati studi, ha potuto scrivere però che la sua poesia «trascends mere imitation12». Nonostante i diversi condizionamenti (petrarchista e di scrittura d’occasione) infatti non pochi componimenti sanno prendere una nota personale, come il sonetto XLIX, che loda i luoghi selvaggi intorno a Firenze, il monte Maiano e il fiume Mensola, luoghi dove la famiglia Ammannati possedeva una proprietà, rifugio per Laura, che confessa come lì «compart’io il tempo e i giorni miei
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Victoria Kirkham la definisce «polyvocal anthology», «a virtual salon» che continua «a tradition inherited from the medieval tenzone, revived in the mid-sixteenth century on a cue from Pietro Bembo, and favored by the female Petrarchists» (V. Kirkham, «Introduction», art. cit., p. 36). 10 Cfr. Antonio Corsaro, «Dionigi Atanagi e la silloge per Irene di Spilimbergo (Intorno alla formazione del giovane Tasso)», Italica, LXXV, 1998, pp. 41–61. 11 L. Battiferri degli Ammannati, Il primo libro delle opere toscane, a cura di E.M. Guidi, op. cit., p. 35. Tutte le citazioni da questa prima raccolta sono prese da questa edizione. Sulle rime si veda oltre a L. Montanari, «Le rime edite e inedite di Laura Battiferri degli Ammannati», art. cit.; Virginia Cox, Lyric Poetry by Women of the Italian Renaissance, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2013, pp. 92–97; Virginia Cox, The Prodigious Muse. Women’s Writing in Counter-Reformation Italy, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2011, pp. 55–65. 12 V. Kirkham, «Introduction», art. cit., p. 50.
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migliori», che «’nvidia e reo destin non mi puon torre13». Una serie di dieci componimenti (di cui due madrigali) sono infatti dedicati al luogo, motivati dal sonetto per il medico Francesco, in cui elogia tali luoghi solitari, alla maniera di Valchiusa, che le consentono la realizzazione della solitudine tanto cercata: Così greggi e pastor sempre lontani stian dal bel monte e dal fresco antro, ond’io spesso fuor del mortal me ne volo a Dio, lasciando in terra i pensier bassi e vani14.
Questa non è la sola occasione in cui la poetessa espande l’argomento derivato da un sonetto a un destinatario, costruendo un discorso coeso che riguarda diversi componimenti. A quelli sul piacere della solitudine di Maiano, segue infatti un gruppo di componimenti accomunati dalla tematica spirituale, che derivano dal sonetto dedicato a «Messer Vincenzo Grotti», dove, in chiusura, si menziona Caterina Cibo («la gran donna, ch’io tanto amo, / di dolce Cibo, anzi di manna vera, / l’alma nodre15»). Il sonetto sviluppa un tema religioso, che indica la vicinanza a un gruppo devoto legato alla Cibo, di cui il Grotti deve essere stato un esponente di spicco, una guida: ma il parlar saggio e d’eloquenza pieno il dir di Cristo in stili alti e ornati, sgombrare il cor de’ van pensier gelati, e d’amor caldo e fede empiere il seno, son la cagion perch’io sospiro e bramo esser dell’onorata vostra schiera ov’alberga onestate e cortesia16.
Nella prima quartina menziona una loggia («della loggia il ricco albergo ameno») che Kirkham riconduce alla villa di Benedetto Varchi a Fiesole, ricavando l’identificazione sulla base del cenno che Silvano Razzi fa del luogo nel suo Dell’economia christiana, dove si menziona appunto la Battiferri, che con altri fa visita a Varchi
13 L. Battiferri, Il primo libro delle opere toscane, op. cit., p. 66. 14 Ibid., p. 70. 15 Ibid., p. 72. Sulla Cibo e la sua permanenza a Firenze, quando visitò anche Domenica da Paradiso: Caterina Cybo duchessa di Camerino (1501–1557). Atti del Convegno di Camerino, Auditorium di S. Caterina, 28–30 ottobre 2004, a cura di P. Moriconi, Camerino, Tip. La nuova stampa, 2005. L’unica notizia che ho trovato su un Vincenzo Grotti lo indica dal 1607 al 1612 come priore del convento carmelitano di Santa Maria del Sorbo nel Lazio, ma sembra tardi perché si possa considerare lo stesso. Cfr. La Madonna del Sorbo: Arte e storia di un Santuario della Campagna Romana, a cura di L. Mazzotti e E.M. Sciarra, Roma, Gangemi, 2012, p. 133. 16 L. Battiferri, Il primo libro delle opere toscane, op. cit., p. 72.
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in un luogo che appare come «a spiritual counterpart of the Decameron17». L’appartenenza al gruppo che lega Cibo, Varchi, Razzi, che a Firenze aveva all’epoca un ruolo e una posizione importanti, legato com’era a Cosimo I, ma anche un impegno spirituale sull’onda del valdesianesimo, che ha improntato la cultura fiorentina verso la metà del xvi secolo, risalta già in questa prima raccolta e annuncia quelli che saranno i motivi centrali della sua produzione successiva18. Nella seconda raccolta infatti la poetessa si indirizza decisamente alla tematica spirituale, pur mantenendo l’impronta petrarchista. Il titolo è già indicativo del contenuto: I sette salmi penitenziali di David con alcuni sonetti spirituali. Edito nel 1564 sempre a Firenze presso i Giunti. Il volumetto contiene la traduzione dei sette salmi penitenziali, ciascuno preceduto dal commento e dalla dedica a una figura femminile, con alcuni (nove) sonetti spirituali e due sonetti di Gherardo Spini e Silvano Razzi rivolti alla poetessa in qualità di traduttrice dei salmi. Di quelli spirituali, sette sonetti sono indirizzati a Dio, sotto forma di preghiera, due sono meditazioni sulla propria anima. Nel primo, una specie di dedica a Dio, si parla espressamente di «cangiato stile», derivato da una conversione non solo stilistica e poetica, ma anche esistenziale19: Quanto pur dianzi, ahi lassa, invan cercai farmi a’ miglior, ma sol di fuor simile, quanto pregio stimai terreno e vile, tanto il celeste e te, mio Dio, spregiai. Ecc’or che tua pietà quest’alma ha desto, alto Signore, al suo maggior bisogno; onde ’l suo fallo apertamente vede, ch’a te pentita ogn’or priega mercede, perché con lungo duol m’è manifesto, che quanto piace al mondo è breve sogno20.
17 V. Kirkham, «Introduction», art. cit., p. 42. 18 Cfr. Antonio Corsaro, «Di Laura Battiferri e Michelangelo», Carte urbinati, I, 2009, pp. 17–39. 19 Jane Tylus sottolinea il valore di questo «cangiato stile» come un impegno verso le Sacre Scritture, di cui la Battiferri diverrà traduttrice. Jane Tylus, «Early Modern Women as Translator of the Sacred», Women Language Literature in Italy. Donne Lingua Letteratura in Italia, I, 2019, pp. 31–44: 40. 20 Laura Battiferri degli Ammannati, I sette salmi penitenziali di David con alcuni sonetti spirituali, a cura di E.M. Guidi, Urbino, Accademia Raffaello, 2005, p. 109. Tutte le citazioni da questa raccolta sono prese da questa edizione. Si indicherà solo come I sette salmi penitenziali seguito dal numero di pagina.
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Evidentemente la poetessa sente di aver optato per altri temi, volendo segnare il cambiamento di valori, come di vita, con una svolta poetica. Questa sottolineatura sorprende, se si considera che già nella prima raccolta vi erano sonetti spirituali e che essa si chiudeva con due componimenti di natura decisamente devozionale, come la traduzione dell’Inno della gloria del paradiso21, erroneamente attribuito all’epoca a sant’Agostino, e la traduzione della quinta Lamentazione di Geremia, una scelta che sembrerebbe anticipare la traduzione dei salmi penitenziali e le formule precative dei sonetti spirituali della seconda raccolta. Ma il segnale di una svolta è riconfermato dal secondo sonetto, una richiesta di perdono, che sottolinea il cambiamento poetico: «guarda lo stile, in cui più non ragiono / del finto altrui, ma del tuo vero onore22»; e ancora più marcata è la svolta nel terzo, in cui si oppone «Dafne», nome poetico scelto dalla Battiferri per sé nella sua Egloga23, figura mitologica in cui la poetessa si identificava, all’attuale devota al crocifisso: Ecco colei, lo cui gelato core de l’onesto arder tuo non calse o cale, l’errante Dafne, ch’ogn’or fugge, quale notturno augello, il tuo divin splendore. Eccol’al fine in duro tronco volta, […]24.
Anche nel quarto sonetto, costruito su un’ampia similitudine tra un padre che cerca di riportare il figlio errante sulla retta via e Dio come padre benevolo che vuole ridurre «a tue leggi sante» l’io poetico, che si definisce quale «figlia errante», il motivo è quello della conversione25. Meno diretti alla tematica della palingenesi 21 L’Inno alla gloria del Paradiso è il XXVI capitolo (incipit: «Ad perennes vitae fontem mens sitis arida») delle Meditationes, opera apocrifa ma al tempo considerata del santo di Ippona. Molte erano le edizioni dell’opera all’epoca (si veda per tutte, prossima alla traduzione della Battiferri: Divi Aurelii Augustini Meditationum liber unus. Soliloquiorum lib. 1. Manuale lib. 1, Venezia, Giovanni Griffo, 1552), era anche stata tradotta (Le deuote meditationi di sant’Agostino. Con li soliloquii, et il manuale. Nella volgar lingua tradotte, Venezia, Giovanni Dalla Chiesa, 1544, con numerose riedizioni; il traduttore non è indicato). Enrico Maria Guidi suggerisce che l’interesse della Battiferri per questo testo dipendesse dal fatto che esso «era uno dei punti cardini del riformismo cattolico italiano», cfr. Commento al testo in L. Battiferri, Il primo libro delle opere toscane, op. cit., pp. 148–149. 22 Ibid., p. 110. 23 L. Battiferri, Il primo libro delle opere toscane, op. cit., pp. 154–164. Nell’egloga le dialoganti sono Dafne-Laura e Europa-Leonora Vitelli, si celebrano le vittorie del marito di quest’ultima, Chiappino Vitelli, nella conquista di Siena. Sull’egloga: Victoria Kirkham, «Cosimo and Eleonora in Shepherdland: a Lost Eglogue by Laura Battiferra degli Ammannati», in The Cultural Politics of Duke Cosimo I, op. cit., pp. 149–175. 24 L. Battiferri, I sette salmi penitenziali, art. cit, p. 110. 25 Le citazioni ibid., p. 111.
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spirituale, ma non del tutto estranei, sono gli altri cinque sonetti: una richiesta (il quinto) di aiuto per «innalzar[si] al Cielo», avendo ormai compreso che «tutto è fumo ed ombra / il cieco vaneggiar di noi mortali»; ancora una preghiera (il sesto) per non naufragare «nel fallace mar del mondo infido»; una domanda (l’ottavo) di purificazione dell’anima, che in vista della «fin del lungo e strano / suo esilio» chiede di essere tersa e guidata «al degno e primo nido, ond’ella uscìo col suo bel lume»; una richiesta (il nono) a nome della Chiesa per avere soccorso contro «spaventosa futura alta rovina» delle «nimiche offese26». Il settimo è una preghiera diversa, perché indirizzata all’angelo custode, nei momenti in cui speranza e timore perturbano l’anima: l’una (speranza) conforta per essere la donna creata a immagine e somiglianza di Dio, l’altro (timore) paventa la divina giustizia. Su tutto domina il motivo della fuggevolezza della vita: «’n tanto a guisa di saetta / questa vita sparisce, e vola a morte27». Una terza raccolta era in preparazione quando la morte colse la poetessa nel 1589, essa perciò rimane incompiuta in forma manoscritta (conservata alla Biblioteca Casanatense di Roma, MS 3229)28. Il codice, nella descrizione di Victoria Kirkham, che lo individuò, è così composto: «a “First Part” with 288 numbered poems (fol. 7r–42r) and a “Part Two of Spiritual Rhymes” with eighty-nine numbered poems (fol. 43r–70r). […] The transcription breaks off midway through fol. 70r, after the eighteenth stanza of an untitled epic that begins “Canto il valor de’ primi antichi regi” (I sing the valor of the first ancient kings) and ends, “freddo marmo parea, non donna viva”29 ». La raccolta poetica trascritta in questo manoscritto riprende la precedente produzione, anche di rime pubblicate fuori dalle due raccolte edite, ma la organizza in modo diverso, mostrando l’intenzione di una pubblicazione che fosse inclusiva di tutta la produzione della poetessa (vi sono pure indicazioni tipografiche sotto forma di note, di mano della poetessa, come se si trattasse di una copia destinata appunto alla tipografia)30. Questa raccolta riflette sostanzialmen26 Le citazioni di questo paragrafo sono tutte da ibid., pp. 111–113. 27 L. Battiferri, I sette salmi penitenziali di David con alcuni sonetti spirituali, op. cit., p. 112. Per la devozione dell’angelo custode cfr. Gli angeli custodi. Storia e figure dell’‘amico vero’, a cura di C. Ossola et al., Torino, Einaudi, 2004. 28 Victoria Kirkham, «Laura Battiferra’s ‘First Book’ of Poetry: A Renaissance Holograph Comes out of Hiding», Rinascimento, XXXV, 1996, pp. 351–391; Chiara Zaffini, «In margine alle Rime di Laura Battiferri Ammannati: il manoscritto Casanatense 3229», Filologia e critica, XXXIX, 2014, pp. 116–124. 29 Victoria Kirkham, «Note on Translation», in Laura Battiferra and Her Literary Circle, op. cit., pp. 69–74: 70. 30 Il manoscritto non è autografo, evidentemente Laura (o il marito per lei) stava facendo copiare tutti i suoi componimenti per poterne predisporre un’edizione completa. Il marito si impegnò per il completamento della raccolta, ma inutilmente. Vedi Pietro Pirri SJ, «L’architetto Bartolomeo Ammannati e i Gesuiti», Archivum Historicum Societatis Jesu, XII, 1943, pp. 5–57.
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te le precedenti rime, con qualche variante, in particolare vi si trovano due brevi invenzioni bibliche, ambedue in ottave: una narrazione sul sacrificio di Abramo e l’avvio di un poema epico sul primo libro di Samuele. Lamentazioni Dunque l’impegno della Battiferri per una poesia biblica non è poco, pur lasciando da parte i componimenti spirituali che sulla Bibbia e sul messaggio evangelico si basano e fondano la devozione al crocifisso, così come le sue scelte morali e persino poetiche (vedi il passaggio dallo stile alto petrarchista a quello più umile, che si conforma con quello evangelico), abbiamo di lei la traduzione della quinta Lamentazione di Geremia, dei sette salmi penitenziali, le due brevi narrazioni su Abramo e su Samuele, un’orazione (in prosa) sulla Natività31. Se la traduzione dei penitenziali può essere motivata dall’interesse per una preghiera canonica (come peraltro rivelano le pagine dedicatorie, in cui si sottolinea spesso che sono scritte per offrire preghiere in volgare)32, e in linea pure con una ricca produzione fiorentina, che va dai salmi dello Pseudo-Dante, ripetutamente editi a Firenze nel Quattrocento33, a quelli del Varchi, rimasti manoscritti34, passando per quelli di Gerolamo Benivieni e Luigi Alamanni, pubblicati con le loro altre opere, la traduzione della quinta Lamentazione di Geremia appare più inconsueta35. 31 Non tratteremo di questa breve orazione, contenuta nel manoscritto MS 137 della Biblioteca Comunale Mozzi-Borgetti di Macerata, rinvenuto pure da Victoria Kirkham, di cui si veda il saggio «La poetessa al presepe. Una meditazione inedita di Laura Battiferra degli Ammannati», Filologia e critica, XXVII, 2002, pp. 258–276. Si tratta di una meditazione appunto sulla Natività in cui gli eventi presentati dai Vangeli sinottici sono considerati secondo le indicazioni degli ignaziani Esercizi spirituali, ovvero sperimentati secondo i sensi, e compresi con l’aiuto di riferimenti vetero e neotestamentari. Si veda il commento di Kirkham che accompagna la traduzione «The Orison on the Nativity of Our Lord», in Laura Battiferri and Her Literary Circle, op. cit., pp. 311–318. 32 Le dediche sono tutte rivolte a suore. Cfr. L. Battiferri, I sette salmi penitenziali di David con alcuni sonetti spirituali, op. cit., pp. 45, 57, 68, 93, 101. 33 Uscirono a Firenze nel 1471 e 1490, poi a Venezia, Milano, Bologna, Modena, Vicenza. Su cui Ester Pietrobon, «Fare penitenza all’ombra di Dante. Questioni di poesia e devozione nei sette Salmi», L’Alighieri, n. s. LI, 2018, pp. 63–80; Ead., La penna interprete della cetra. I Salmi in volgare e la poesia spirituale italiana nel Rinascimento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2019, pp. 130–136. 34 Traditi da due codici: codd. mss. II IX 41 e Filze Rinuccini 15 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, sono oggi in stampa in moderna edizione critica e commentata: Benedetto Varchi, De’ Salmi di Davitte profeta tradotti in versi toscani, a cura di E. Pietrobon, Milano, Ledizioni, 2020. Cfr. Ester Pietrobon, «Per l’edizione dei Salmi tradotti in versi toscani da Benedetto Varchi», L’Ellisse, XIII, 2018, pp. 53–66. Desidero ringraziare vivamente la studiosa, che mi ha consentito di leggere in anteprima la traduzione del Varchi dei salmi penitenziali. 35 Girolamo Benivieni, Opere, Firenze, Eredi di Filippo Giunta, 1519, c. 125r–129v (si trovano i salmi 73, 65, 99); ma tradusse e commentò anche i penitenziali: Psalmi penitentiali di Dauid tradocti in lingua fiorentina et commentati per Hieronymo Beniuieni, Firenze, Antonio Tubini e Andrea Ghirlandi, 1505. Quelli dell’Alamanni sono contenuti nelle sue Opere toscane di Luigi Alamanni
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La parola di Geremia aveva in realtà avuto una declinazione fiorentina precoce, infatti, com’è noto, essa fonda alcuni momenti addirittura della poesia dantesca, anzitutto della Vita nova, in cui le parole del profeta sono riprese sia nel sonetto O voi che per la via d’Amor passate, «O voi che per la via d’Amor passate / attendete e guardate / s’elli è dolore alcun, quanto ’l mio grave», Vita Nova 2, 14)36, che traduce un passo della prima Lamentazione, poi pure citato in latino nel commento al sonetto, «O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus» (Lam 1, 12), sia per l’esplicita citazione: «Quomodo sedet sola civitas plena populo! Facta est quasi vidua domina gentium» di Vita Nova 19, 1, che annuncia la morte di Beatrice (citazione ripresa in 19, 8 «pigliano quello cominciamento di Geremia profeta») e che deriva pure dalla prima Lamentazione (Lam 1,1). Inoltre un passo di Geremia (Ger 5, 6) è riconosciuto come una possibile fonte delle tre fiere che Dante incontra all’avvio della Commedia37. La quinta Lamentazione era inoltre stata tradotta in volgare da Girolamo Savonarola e proposta come preghiera quotidiana nel suo Oratione di Hieremia propheta la quale fra Girolamo da Ferrara ha confortato si debba dire ogni dì da qualunche fedele christiano38, edito a Firenze in data non sicura (tra il 1595 e il 1500). Su Geremia pubblicò poi un’esposizione anche il francescano Geremia Bucchio, generale della Provincia fiorentina del suo ordine (francescani minori conventuali) negli anni 1573–1581 (e in precedenza dal 1565 reggente a Siena)39. Insigne biblista,
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al christianissimo re Francesco primo, Firenze, [Bernardo Giunta], 1532, ma anche Lyon, Sébastien Gryphius, 1532, vol. I, pp. 421–435. Dante, Vita nova, a cura di G. Gorni, in Dante, Opere minori, I, dir. M. Santagata, Milano, Mondadori, 2011, p. 832, le successive citazioni a pp. 836, 986 e 992. Cfr. Giuseppe Ledda, La Bibbia di Dante, Torino, Claudiana, 2015, p. 12–13; cfr. su Dante, lettore di Geremia, Rachel Jacoff, «Dante, Geremia e la problematica profetica», in Dante e la Bibbia. Atti del Convegno Internazionale, Firenze 26–28 settembre 1986, a cura di G. Barblan, Firenze Olschki, 1988, pp. 113–123. Girolamo Savonarola, Oratione di Hieremia propheta la quale fra Girolamo da Ferrara ha confortato si debba dire ogni dì da qualunche fedele christiano, [Firenze, Lorenzo Morgiani e Johann Petri, ca 1500]. Sulle traduzioni delle Lamentazioni, si veda Elisabetta Selmi, «Lagrime, pianti, lamentazioni. I volgarizzamenti dei Treni di Geremia e dei Canti profetici tra fine Cinquecento e Settecento», in La Bibbia in poesia. Volgarizzamenti dei Salmi e poesia religiosa in età moderna, a cura di R. Alhaique Pettinelli, R. Morace, P. Petteruti Pellegrino, U. Vignuzzi, Roma, Bulzoni, 2015 (numero monografico di Studi (e testi) italiani, XXXV, 2015), pp. 167–196. Purtroppo la focalizzazione della studiosa è sul Settecento e non prende in considerazione quanto viene prima del Panigarola (Dichiaratione delle Lamentationi di Gieremia profeta. Fatta da frate Francesco Panigarola minore osservante, Roma, Giovanni Osmarino Giliotti, 1586), non considera quindi la traduzione della Battiferri. Geremia Bucchio, Esposizione sopra l’orazione di Gieremia profeta, et sopra il Cantico di Zaccheria. Del reverendo theologo frate Gieremia Bucchio da Udine dell’Ordine Minore Conventuale. Al serenissimo d. Francesco Medici gran principe di Toscana, Firenze, Bartolomeo Sermartelli, 1573).
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si direbbe giunga a Firenze troppo tardi perché possa aver influito sulle scelte della Battiferri relative alla sua traduzione di Geremia. È molto probabile che la poetessa abbia avuto tra le mani la traduzione savonaroliana, a cui la sua molto si avvicina, se si considera che Silvano Razzi, amico della famiglia Ammannati e corrispondente poetico di Laura, era fratello di Serafino Razzi, domenicano, che a Firenze era il promotore della memoria di Savonarola, speranzoso ancora in una riabilitazione del frate bruciato sul rogo. Inoltre ben viva era la memoria del frate in una città che sperava ancora a metà secolo in una riforma della Chiesa, e dove gruppi savonaroliani importanti agivano nel quadro politico e sociale cittadino. Ma perché già Savonarola si era occupato a tradurre solo la quinta Lamentazione e a proporla come preghiera quotidiana? Questa è tra le cinque Lamentazioni quella che meno circostanzia l’occasione del testo, ovvero il lamento per la distruzione di Gerusalemme e la deportazione e prigionia degli Israeliti sotto Nabucodonosor. Mentre le prime quattro sono un lamento per lo stato del popolo, la quinta è formulata come una preghiera rivolta a Dio per chiedere assistenza nella prova. Savonarola, che vedeva in Firenze incarnarsi la nuova Gerusalemme, trovava forse in questa supplica di un popolo forzato nell’esilio di Babilonia un modello per la Firenze mondana dei suoi giorni, avviluppata dalla vanità del secolo, quindi peccaminosa nella babilonia del mondo, ma non priva di fede40. L’edizione fiorentina della savonaroliana preghiera tra l’altro suggerisce una fruizione prettamente femminile, poiché l’immagine del frontespizio dei due fogli (tanta è la consistenza della stampa) riporta in grande un gruppo di suore istruite dal domenicano, più in basso a sinistra per un quarto del foglio l’immagine del Cristo deposto e sotto in un riquadro il volto di Cristo. La poetessa, che forse aveva già in preparazione un libro di preghiere, come è la sua seconda raccolta, quella che contiene i salmi penitenziali tradotti (preghiere) e i sonetti spirituali (che pure sono fondamentalmente preghiere) si sarà sentita attrarre da questa preghiera, con cui il profeta Geremia dava voce a un popolo nella prova. Inoltre l’‘eretico-santo’ la suggeriva come pratica quotidiana. Su Geremia Bucchio si veda: Ricerche religiose del Friuli e dell’Istria, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1984, III, pp. 87–109. 40 Savonarola, è ben noto, ha fondato la sua predicazione sulle Sacre Scritture, quindi non sorprende una traduzione della Lamentazione. La stampa contiene altri tre testi (che seguono): una specie di dichiarazione della Lamentazione, la spiegazione del «Kirieleison», un’invocazione a Dio per le preghiere della sua Chiesa. La dichiarazione in realtà è in forma di supplica, in cui l’autore o l’orante si rivolge a Dio dichiarando che è tempo della misericordia, che tutte le genti temeranno il nome di Dio (in una sorta di profezia che fa eco al Magnificat), auspicando la misericordia divina su coloro che «havevono i ferri a piedi» e per i «figliuoli di chi erano stati uccisi».
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Se la traduzione di Savonarola era in prosa, per la sua traduzione Laura sceglie la terzina dantesca, che la costringe alla rima e alla pienezza del verso, quindi a integrare con piccole aggiunte, in modo da far corrispondere ogni terzina a un versetto41. La fedeltà nel contenuto è rispettata, anche se aggettivi o espressioni arricchiscono il dettato. La traduzione del Savonarola e quella della Battiferri mostrano una notevole somiglianza, che può essere dovuta semplicemente alla comune fonte latina, ma che sembra indicare anche una familiarità della donna con il testo savonaroliano. Riportiamo qui a confronto i primi cinque versetti, con le due traduzioni42: Testo latino
Savonarola
Battiferri
1. recordare, Domine, quid accideret nobis; intuere et respice obprobrium nostrum. 2. hereditas nostra versa est ad alienos, domus nostrae ad extraneos. 3. pupilli facti sumus absque patre, matres nostrae quasi viduae. 4. aquam nostram pecunia bibimus, ligna nostra pretio comparavimus. 5. iugum in cervicibus nostris minabamur; lassis non dabatur requies.
Signore mio, ricordati di quello che ci è advenuto. Et raguarda et considera molto bene el nostro vituperio et la nostra vergognia. La nostra heredità si è voltata et transferita ad altre genti. Et così le case nostre si sono date agli estranei et a forestieri. Per danari et per pecunia habbiamo beuto l’acqua nostra et comperato le nostre legnie a prezzo. Sopra e capi et sopra e colli nostri si vedeva minacciare la morte agli affaticati lassi et stracchi non si dava riposo alcuno.
Ricordati, Signor, di quel ch’a noi miseri avvenne, e guarda e vedi il grave obbrobrio nostro co’ santi occhi tuoi. La nostra eredità cara e soave è rivoltata a gente strania, ed hanno di casa nostra i forestier la chiave. Pupilli fatti siam con pianto e danno, privi de’ nostri genitori, e attorno quasi vedove orbe, le pie madri vanno. L’acqua stessa del nostro almo soggiorno colla pecunia abbiam beuto, quando le leggi nostre si vendean per scorno. Sopra de’ colli nostri il miserando e duro giogo abbiam, lassi, portato d’ogni riposo e d’ogni pace in bando.
La Battiferri offre un testo elaborato, ma in perfetta coerenza con il significato originale. Per esempio nel primo versetto aggiunge solo l’aggettivo «grave» e l’espressione «co’ santi occhi tuoi». Più creativa è l’integrazione del secondo versetto, dove l’aggettivazione «cara e soave» è già una qualificazione ulteriore, ma ancor più creativa è la soluzione «hanno / di casa nostra i forestier la chiave», che però pure non sposta il senso dell’originale. Di questo tipo sono la maggioranza degli interventi traduttori, che quindi non mutano il significato fondamentale della Lamentazione anche nelle sue parti più minute. Talora però la traduttrice è costretta a soluzioni più lontane dall’originale, come per il decimo versetto: «Pellis
41 J. Tylus, «Early Modern Women as Translator of the Sacred», art. cit., pp. 38–43. 42 G. Savonarola, Oratione di Hieremia, op. cit., c. A1r; L. Battiferri, Orazione di Geremia profeta in Ead., Il primo libro delle opere toscane, op. cit., p. 152–154: 152.
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nostra quasi clibanus exusta est propter aestum famis», che viene reso con la terzina: «Or se fame e sete abbiam sofferto / dichinlo pur le nostre aride e scure / carni, che sembran negro forno aperto», dove non solo è invertito l’ordine delle clausole, ma è aggiunta una metafora («forno»)43, pur senza allontanarsi dall’originale né tradendone il significato. Savonarola aveva reso il versetto in modo molto simile: «La pelle nostra è arsa come se fusse stata nel forno et alla faccia delle tempeste della fame», anticipando la metafora del forno44. Questo induce a ritenere che la Battiferri ne dipenda o ne fosse quanto meno influenzata. Invece il versetto sedicesimo, che recita «Cecidit corona capitis nostri: vae nobis, quia peccavimus!», e che Savonarola aveva reso fedelmente con «la corona è cascata dal nostro capo. Guai a noi che habbiamo peccato» è amplificato alla Battiferri in due terzine: La corona real, ch’alta bellezza porgeva al capo nostro, oggi è per terra e noi caduti in infima bassezza. Miseri noi, che solo affanno e guerra procacciato n’abbiam peccando tanto che grave angoscia e duol ne preme e atterra45.
«Maestum factum est cor nostrum» (del versetto 17) è reso con «gli occhi nostri usati al pianto», che permette di continuare traducendo «contenebrati» con «a perpetue tenebre dannati», molto similmente a quanto aveva tradotto Savonarola: «Per questa cagione è fatto maninconoso el nostro cuore et e nostri occhi però sono conturbati 46». La brevità della soluzione della Battiferri permette di anticipare parte del versetto successivo, che genera una serie di anticipazioni fino al versetto 21, che occupa due terzine, dove perciò possono trovare spazio le qualificazioni «amari e rei» per «giorni nostri» e «dolcemente» per «principio47». Nonostante la prossimità tra Savonarola e Battiferri, non vi sono elementi che possano provare una dipendenza, ma neppure che possano negarne la conoscenza. La traduzione della Battiferri è svolta non verbo a verbo, e neppure volgarizzando a senso, ma restituendo fedelmente il valore originale, con poche aggiunte che vanno 43 44 45 46 47
L. Battiferri, Orazione di Geremia profeta, op. cit., p. 153. G. Savonarola, Oratione di Hieremia, op. cit., c. A1v. Ibid. Ibid. Il versetto 21 recita: «Quare in perpetuum oblivisceris nostri, derelinques nos in longitudinem dierum?» ed è tradotto «Dunque per lunghi giorni in pianto amaro / ne lascerai? Deh, a te, Signor clemente, / fa che conversi siamo, e ne fia caro // di convertirci e a te venir sovente: / rinova i giorni nostri amari e rei / sì come dal principio dolcemente». L. Battiferri, Orazione di Geremia profeta, op. cit., p. 154.
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nella direzione di accentuare il carattere della colpa e della penitenza, come all’opposto è accentuata la dolcezza e la nostalgia del bene ricevuto precedentemente da Dio, con la speranza di un ritorno alla benefica alleanza48. Questo atteggiamento fonda la preghiera. Si tratta dunque di una riscrittura biblica che anticipa quanto verrà poi nella pubblicazione successiva, ovvero con la traduzione e il commento dei sette salmi penitenziali, la preghiera per eccellenza del cristiano militante, accompagnati da sonetti in forma di preghiera. I salmi penitenziali Le traduzioni di passi biblici da parte di Laura Battiferri cade in un periodo ormai problematico per le traduzioni bibliche. Come è ben noto, già nel 1558 i volgarizzamenti dalle Sacre Scritture erano stati inclusi nell’emanazione dell’Index librorum prohibitorum sotto Paolo IV, anche se poi in seguito un’apertura si ebbe con l’Indice tridentino, promulgato con la bolla Dominici gregis del 156449. Si può dunque dire che la Battiferri lavorasse ai salmi (e persino alla Lamentazione) in anni assolutamente problematici. Proprio uno dei suoi corrispondenti, Lodovico Beccadelli, vescovo di Ragusa, era membro della commissione che aveva preparato l’Indice, anche se poi, scrivendo nel febbraio 1559 a Michele Ghislieri, allora presidente e commissario generale della Congregazione dell’Inquisizione (poi papa Pio V), aveva espresso la sua preoccupazione sulla difficoltà di sradicare l’abitudine alle Sacre Scritture nella lingua dei popoli (in particolare i suoi della «Schiavonia»)50. Sappiamo inoltre che proprio da Firenze erano venute critiche fondate sulla severità eccessiva verso le Scritture volgarizzate, perché in uno scambio epistolare del 1562 tra Lelio Torelli, auditore alla giurisdizione di Cosimo, e il Beccadelli si rifletteva sull’opportunità di una revisione del decreto di Paolo IV (Indice 1558)51. Si può dire quindi che l’ambiente fiorentino, in specie quello frequentato dalla Battiferri, sen-
48 Sui criteri traduttori per l’epoca si possono vedere: Fedeli, diligenti, chiari e dotti. Traduttori e traduzione nel Rinascimento. Atti del Convegno internazionale di studi, Padova, 13–16 ottobre 2015, a cura di E. Gregori, Padova, CLEUP, 2016; Il tradurre dall’antichità greco-romana al Rinascimento con i riferimenti al contesto europeo, a cura di L. Alcini, Perugia, Guerra, 1998; Douglas Robinson, Western Translation Theory from Herodotus to Nietzsche, Manchester, St. Jerome Publishing, 2002; Translation: Theory and Practice. A Historical Reader, a cura di D. Weissbort e A. Eysteinsson, Oxford, Oxford University Press, 2006; Traduire les Anciens en Europe du Quattrocento à la fin du xviiie siècle, a cura di L. Bernard-Pradelle e C. Lechevalier, Paris, Presses Université Paris-Sorbonne, 2012; Le masque de l’écriture. Philosophie et traduction de la Renaissance aux Lumières, a cura di C. Le Blanc e L. Simonutti, Genève, Librairie Droz, 2015. Sulle traduzioni bibliche: A History of Bible Translations, a cura di P.A. Noss, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2007. 49 Gigliola Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471–1605), Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 111–120. 50 Ibid., pp. 100–102. 51 Ibid., pp. 100–101.
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tisse l’opportunità dei volgarizzamenti biblici. Inoltre i Salmi in volgare, come da tradizione, costituivano un naturale esito per una Chiesa tanto partecipe, come era quella che ereditava il messaggio di un riformatore come Savonarola e di un circolo che viveva l’eco della predicazione di Juan de Valdès. La Battiferri però non sembra evidenziare problemi per la sua operazione. Nella lettera di dedica a Vittoria Farnese della Rovere, sottolinea solo l’incongruenza tra il suo passato da letterata con il nuovo impegno relativo a scritti «divini e misteriosi»: Io sarò forse, Illustrissima ed Eccellentissima Signora, ripresa da tutti quegli, i quali per avventura sapranno come io, che per lo più sempre ho atteso all’umane lettere, sia ora stata ardita di tradurre i Salmi penitenziali di Davit, tanto divini e misteriosi, senz’altra cognizione avere delle Sagre Scritture e, tanto più, avendo questi l’autorità del beato Girolamo, che si vede biasimare ciascuno che, partitosi da simili studi bassi e frali, osi di presente trattare gli alti ed eterni. Ma perché non dovrò io essere, se non lodata, certo scusata, se io non volendo far più lunga dimora co’ poeti e co’ filosofi (ancora che ne’ loro libri si ritrovino infinite cose utili e giovevoli al ben vivere), abbia voluto cominciare, con sincerità di cuore, a chiedere grazia al Signore Iddio con le istesse preghiere del santissimo poeta ebreo52?
Desiderando dunque armarsi delle armi della salvezza, della fede e dello spirito, la Battiferri si è posta a «tradurre in rime toscane le sue [di David] penitenziali canzoni», pregando Dio che le conceda di «aprire queste labbra» (ricordo del salmo conquantesimo, versetto 17: «Labia mea aperies»), affinché, dopo tante offese, possano celebrarne la grandezza. La vecchia «Dafne» dunque si purga e rinnova alla luce dello Spirito e converte definitivamente la sua poesia profana in poesia sacra. La lettera di dedica è datata 26 marzo 1564, una data significativa, che cade solo due giorni dopo la data con cui è promulgata la bolla Dominici gregis, che concede l’apertura ai volgarizzamenti53. Che la Battiferri attendesse almeno questa apertura (peraltro sollecitata da Lodovico Beccadelli) per dare alle stampe il suo testo è forse possibile, ma occorre anche sottolineare che, dopo il divieto del 1558 e prima dell’apertura del 1564, erano usciti sia i salmi del Rangone (Modena, 1560), sia quelli del Minturno (Napoli 1561), sia un salterio abbreviato di san Girolamo (Pesaro, 1560) sia un’edizione della Virtù dei salmi (Brescia, 1561), e forse la parafrasi di Gabriele Fiamma (s.d., s.i.t., presumibilmente però del 1571) (per considerare solo le pubblicazioni avvenute in Italia)54. Quindi a quest’altezza cronologica non doveva esservi 52 L. Battiferri, I sette salmi penitenziali di David, op. cit., p. 33. 53 Ibid. 54 Sui Salmi del Fiamma cfr. Cristina Ubaldini, I Salmi di Gabriele Fiamma ritrovati nella Biblioteca Vaticana (R.I.IV.447), Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2012. La data supposta dalla curatrice è 1571.
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ancora troppa apprensione per le decisioni dell’Inquisizione in materia di volgarizzamenti biblici, almeno non tante quante si avranno nei decenni successivi. Dedicata a Vittoria Farnese della Rovere, duchessa di Urbino, la traduzione dei penitenziali della Battiferri è chiaramente un libro di donna per le donne, infatti ognuno dei sette salmi è dedicato a sua volta a una donna: il primo (Ps 6) a Suor Faustina Vitelli, monaca del monastero delle Murate di Firenze; il secondo (Ps 31) a suor Vincenzia Bardi da Vernio dello stesso monastero fiorentino; il terzo (Ps 37) a suor Luzia Stati del monastero di Chiarito di Firenze; il quarto (Ps 50) a suor Vincenza Biliotti del monastero di Santa Marta di Firenze; il quinto (Ps 101) a suor Giulia Franchi dello stesso monastero; il sesto (Ps 129) alle consorelle suor Angela de’ Virgilli e suor Violante de’ Maschi del monastero di santa Chiara di Urbino; il settimo (Ps 142) alle consorelle suor Cassandra Battiferri e suor Anna Vannuzzi del monastero di Santa Lucia di Urbino. Delle nove donne si hanno notizie solo su Cassandra Battiferri, lontana parente della poetessa, e su Faustina Vitelli, figlia di Chiappino Vitelli, celebrato dalla nostra poetessa nell’Egloga pubblicata nel Primo libro, e dedicatario di tre sonetti della stessa raccolta (XII, XIII, XIV). Tuttavia questa destinazione marcatamente femminile non impedisce alla poetessa di parlare al maschile, ovvero di assegnare all’io poetico connotazioni maschili (poche le occasioni, ma evidenti e indiscutibili: «ond’io tacqui nascoso», «quantunqu’io fussi alato», «ond’io fui colmo di letizia»)55. Ogni salmo è preceduto da un commento, che spiega l’occasione della scrittura da parte di David, come tramandato dalla tradizione. La lettura conduce a vedere la sofferenza fisica o morale come frutto di una colpa, per cui il salmista invoca la misericordia divina, il perdono e la liberazione dal male. Qui si spiega inoltre l’oggetto della richiesta da parte del profeta e cosa il salmo possa insegnare. Infine si aggiunge qualche osservazione sulla traduzione e sull’uso che se ne può fare. Talvolta l’autrice chiude con la richiesta di una preghiera per sé. Il commento è soprattutto fondato su una lettura tradizionale del salmo, ma sono state individuate nell’insistenza sulla grazia delle influenze riformate, precisamente dell’insegnamento del Beneficio di Cristo, perché, più che alle opere, si ricorre alla misericordia di Dio56. Proprio l’insistenza sulla grazia divina è uno degli elementi che inducono a rilevare tali influssi, ben possibili ancora all’altezza del 1560, poi fusi nella spiritualità cattolica (e nel nicodemismo) senza soluzione di continuità. Questa tendenza sarebbe 55 L. Battiferri, I sette salmi penitenziali di David, op. cit., le citazioni rispettivamente a p. 47, p. 51 e p. 77. Sulla traduzione della Battiferri: J. Tylus, «Early Modern Women Translators of the Sacred», art. cit., pp. 38–43. 56 Cfr. Enrico Maria Guidi, «Introduzione», in L. Battiferri, I sette salmi penitenziali, op. cit., pp. 5–27: 8–11.
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confermata, secondo l’editore Enrico Maria Guidi, da alcune scelte lessicali, per esempio nel tradurre «misericordiam» del versetto 4 con «bontade», «grazia» e «pietade» sembrerebbe che la Battiferri prediliga una soluzione che appare come indizio di un’influenza valdesiana57. L’importanza di questa propensione sarebbe confermata dalla scelta della dedicataria, Vittoria Farnese, che aveva fama di protettrice di riformati58. Ma se si accettano questi indizi, ci si chiederà perché poi destinare i singoli salmi a suore ben inserite nella cattolicità. Più che una volontà di proselitismo, sarà piuttosto da vedere in questa mescolanza di elementi eterodossi e ortodossi un atteggiamento non sospettoso, che porterà, in seguito al disciplinamento tridentino, ad assorbire all’interno di una professione strettamente cattolica elementi religiosi disomogenei. Interessanti sono le osservazioni della Battiferri relative alla traduzione, per cui vengono usati variamente i termini «rivolgere», «esprimere […] nella mia propria lingua», «tradurre59», che sembrano indicare una neutralità del traduttore. In verità la poetessa si mostra assai consapevole del procedimento interpretativo che sottendeva una traduzione, infatti per il terzo salmo avverte anche che traduce «anima» con «vita», mostrando consapevolezza del delicato compito60. La ‘traduzione’ tuttavia si presenta con un margine di autonomia rispetto all’originale, autonomia dovuta anzitutto alla scelta metrica. Fin dalla dedica si sottolinea che la traduzione è fatta per destinare i salmi al canto, esprimendo appunto l’intenzione di ‘rivolgere’ «in rime toscane le sue [di David] penitenziali canzoni», perché «unitamente col canto s’accordino e possano essergli [a Dio] accette61». L’intento di proporre un testo per canto è ribadito nell’introduzione dei primi tre salmi: per il primo si dice che intende «rivolgendole [le santissime parole di David] in questa nostra lingua, di loro distendere una lagrimosa e picciola canzonetta»; per il secondo «nella fine invita i giusti ed i buoni a rallegrarsi in Dio, e cantare le sue infinite lodi»; del terzo si dice che ha «tessuta questa piccola canzone com’io ho saputo il
57 Ibid. 58 Sebbene fosse nipote di papa Paolo III Farnese, si era mostrata assai favorevole a rappresentanti delle idee riformate. A Vittoria Farnese era stata dedicata già la Christiani matrimonii institutio di Erasmo (su cui Silvana Seidel Menchi, Erasmo in Italia (1520–1580), Torino, Bollati Boringhieri, 1990, pp. 166, 229, 427–429). 59 Le citazioni rispettivamente in L. Battiferri, I sette salmi penitenziali, op. cit., p. 36, 68 e per «tradurre» pp. 34, 82, 93, 100. 60 Scrive «da me è pigliato, in questo luogo, sì come nella traduzione ancora ho fatto, l’anima per la vita, dicendo il versetto: et vim faciebant qui querebant animam meam, essendo stata avvisata che la frase ebraica piglia spesse volte l’anima per la vita, sì come si vede ancor’in quel versetto del VII Salmo: Quia persecutus est inimicus animam meam, intendendo in quel luogo Davit d’Absalone, il quale non solamente perseguitò la vita sua, ma lo privò ancora del regno» (ibid., 56). 61 Ibid., p. 34.
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meglio62». Sebbene non si abbiano notizie di accompagnamenti in musica, la metrica sempre variata ci restituisce un testo che plausibilmente può essere stato anche oggetto di canto. La destinazione dei salmi a suore come preghiere nella propria lingua ben può conciliarsi tra l’altro con il canto63. Ester Pietrobon, che ha studiato tutte le versioni italiane rinascimentali del salterio, rileva l’influenza di Bernardo Tasso sulla traduzione della Battiferri64. Le soluzioni metriche riprendono il paradigma della canzone in sequenze tetrastiche, esastiche o eptastiche, secondo soluzioni variate, in cui l’unica costante è la misura del congedo, sempre inferiore alla stanza65. Il primo salmo è reso con dieci strofe regolari di due settenari seguiti da due endecasillabi a rima baciata (aaBB), l’ultima è di tre versi (aBB), avendo un solo settenario66. Nell’insieme le undici strofe corrispondono agli undici versetti del salmo latino. La corrispondenza dei versetti alle strofe è un criterio mantenuto per quasi tutti i sette salmi, fatto che attesta la fedeltà all’originale. Il secondo è composto di quattordici strofe di sei versi, un settenario seguito da tre endecasillabi, ancora un settenario e un endecasillabo (aBABaB), anche qui l’ultima strofa è più corta (ABaB). Il terzo è composto di quindici strofe di sei versi (un settenario seguito da cinque endecasillabi, aBABCC), ma l’ultima strofa è diversa: quattro endecasillabi con al centro un settenario (ABbCC). Per questo lungo salmo (il 37) i versetti latini sono accorpati, ovvero ogni strofa traduce due versetti (con l’esclusione dei versetti 11, 12 e 15), con un evidente asciugamento dell’aggettivazione. Il quarto è tradotto in venti strofe di sei versi (due settenari, due endecasillabi, un settenario, un endecasillabo, abCAbC), ma l’ultima strofa è di soli tre versi: due endecasillabi con al centro un settenario (AbA). Il quinto è tradotto in ventitrè strofe di quattro versi endecasillabi a rima incrociata (ABBA), ma l’ultima è di soli due endecasillabi; qui in genere una strofa corrisponde a un verset62 Le citazioni rispettivamente da ibid., pp. 34, 36, 44, 57. 63 Enrico Maria Guidi, «I salmi penitenziali di David nella traduzione di Laura Battiferri», Accademia Raffaello. Atti e studi, I, 2004, pp. 83–92. 64 Cfr. E. Pietrobon, La penna interprete della cetra, op. cit., pp. 220–221. Sul rapporto del Tasso con la Battiferri: Cesare Cimegotto «Lettere di Cinquecentisti. Laura Battiferri e due lettere inedite di Bernardo Tasso», Giornale storico della letteratura italiana, XXIII, 1894, p. 467, e XXIV, 1894, pp. 388–398. Per i salmi del Tasso: Bernardo Tasso, Rime, Venezia, Gabrile Giolito de’ Ferrari, 1560, IV, cc. 4r–44v, e in moderna edizione si leggono in Bernardo Tasso, Rime, a cura di V. Martignoni, Torino, RES, 1995, II, pp. 187–243. Si tratta di 30 componimenti che sono però libere riscritture, includenti anche versetti dal salterio e con il timbro del salterio. Ma nessun componimento risulta la traduzione di un salmo preciso. 65 E. Pietrobon, La penna interprete della cetra, op. cit., p. 221. Si veda ancora per le soluzioni metriche: Ead., «Forma lirica ed espressione spirituale nelle riscritture rinascimentali dei Salmi», in Lirica e sacro tra Medioevo e Rinascimento (secoli xiii–xvi), a cura di L. Geri e E. Pietrobon, Roma, Aracne, 2020, pp. 75–90. 66 L’ultima strofa o congedo in realtà è traduzione dell’ultima parte del salmo in questione.
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to, ma talvolta a due, soprattutto all’inizio. Il sesto è tradotto in sette strofe di sei versi, tre settenari seguiti da tre endecasillabi (abbACC), fanno eccezione non solo l’ultima strofa di soli due endecasillabi, ma anche la prima, in cui, evidentemente per seguire il contenuto, abbiamo solo due settenari, seguiti da quattro endecasillabi (abBACC). Il settimo è reso con dodici strofe di sette versi, due endecasillabi, un settenario, quattro endecasillabi (ABcCABB), solo l’ultima strofa è di quattro endecasillabi (ABCC). Nessuno dei salmi pentitenziali tradotti in precedenza in area fiorentina può essere considerato una fonte per la traduzione della Battiferri: non quelli dello Pseudo-Dante67, in terzine, non quelli di Girolamo Benivieni68, pure in terzine, non quelli dell’Alamanni69, pure in terzine. Neppure con la contemporanea traduzione del Varchi si rilevano stringenti affinità. Può essere utile il confronto su un campione: l’avvio del salmo sei, primo dei penitenziali70. Vulgata
Pseudo-Dante
Benivieni
Alamanni
Domine, ne in furore tuo arguas me, neque in ira tua corripias me.
Signore non mi riprender con furore et non voler correggermi con ira, ma con dolcezza et con perfecto amore.
Non mi accusar, Signor, nel tuo furore né ti piaccia emendar nella tua ira el servo tuo del suo infelice errore.
Padre del ciel cui nulla ascoso giace, ma tutto dentro et fuor ti mostra aperto dammi oggi (prego) la tua santa pace.
Varchi
Battiferri
Non mi riprender, Signor mio, nel tuo furor, né gastigar mie colpe quando l’ira tua gran pietate ha posto in bando.
Non voler con furore riprendermi, Signore, ne’ miei commessi falli al fin punire nell’ira tua, con grave aspro martire.
Il criterio traduttivo della Battiferri è simile a quello impiegato per la Lamentazione quinta di Geremia. La traduzione è fedele al senso, sebbene espanda l’originale,
67 Pseudo-Dante, Li septe salmi penitentiali li quali fece Davit stando in pena, Firenze, Bartolomeo de’ Libri, 1490 ca. 68 Psalmi penitentiali di David tradocti in lingua fiorentina et commentati per Hieronymo Beniuieni, op. cit. 69 Opere toscane di Luigi Alamanni, op. cit., 1532. 70 L. Battiferri, I sette salmi penitenziali, op. cit., p. 39; Pseudo-Dante, Li septe salmi penitentiali, op. cit., c. *1r; G. Benivieni, Psalmi penitentiali, op. cit., c. A3v; Opere toscane di Luigi Alamanni, op. cit., p. 421; B. Varchi, De’ Salmi di Davitte, op. cit., in stampa. Non si include Tasso perché le sue libere riscritture non corrispondono a un preciso salmo.
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aggiungendo aggettivazioni e qualche espressione nuova. Di norma dilata il testo, come avviene per il versetto tre del primo penitenziale71: Et anima mea turbata est valde; sed tu, Domine, usquequo?
Afflitta è grandemente quest’anima dolente: ma tu, Signore, a por fine a’ miei guai e all’ira tua, fin quanto, oimé, starai?
Raramente riduce, come nel versetto 6, sempre del primo penitenziale72: Laboravi in gemitu meo; lavabo per singulas noctes lectum meum; lacrimis stratum meum rigabo.
Amaramente ho pianto, e sospirar vo tanto ciascuna notte, fin ch’un ampio rio di tiepid’onde irrighi il letto mio.
Se «Amaramente» è aggiunta, mancano però le traduzioni di «in gemitu meo» e di «lavabo», anche se il senso è rispettato. Anche qui vediamo in opera un meccanismo volto a crescere la natura buona di Dio e a peggiorare la negatività dei nemici, in modo da rendere più efficace la preghiera, proprio per mezzo di un linguaggio antitetico. Nel secondo salmo, per esempio, il versetto sesto mostra bene il procedere amplificante73: Pro hoc orabit ad te omnis sanctus in tempore opportuno.
Onde per questo effetto pietoso tuo, ciascun ch’have in te fede, a te verrà, Signor, degno e perfetto a tempo e loco di trovar mercede, dov’ogni grato affetto vedrà nel volto di chi tutto vede.
La brevità dell’originale latino richiede, per mantenere la consistenza della strofa, un’espansione notevole, ma non viene mutato il senso. Pur mantenendo sempre una stretta vicinanza di significato, il procedere è talora molto diverso. Si vedano due strofe prossime del terzo penitenziale74:
71 72 73 74
Ibid. Ps 6, 3. Ibid. Ps 6, 6. Ibid., p. 49. Ps 32, 6. Ibid., p. 63. Ps 37, 11–12.
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parte prima - firenze biblica 11. cor meum conturbatum est, dereliquit me virtus mea, et lumen oculorum meorum, et ipsum non est mecum.
Innanzi a te, Signore, è ogni mio desir palese e aperto, né ’l pianto è ascosto, ch’io spargo a tutt’ore. Trema il core del martir lungo sofferto, la virtude vital non è più meco, né di quest’occh’il lume, ond’io son cieco.
12. amici mei et proximi mei adversus me appropinquaverunt, et steterunt; et qui juxta me erant, de longe steterunt, et vim faciebant qui quaerebant animam meam.
I miei più fidi amici e propinqui per sangue m’han lasciato, e mi sono diventati aspri nimici. E quei m’hanno del tutto abbandonato, che più presso mi fur, di tormi insieme cercar la vita, oimè, con forze estreme.
Come si vede, la prima strofa è assai creativa, si inserisce un allocutivo che non esiste nel testo latino, offrendo una traduzione molto libera. Diversamente, la strofa successiva è assai fedele all’originale. È stato detto che il linguaggio di questa traduzione dei salmi è di impronta petrarchista-bembiana, e in effetti vi sono ripresi alcuni stilemi e persino parti di versi dai Rerum vulgarium fragmenta, come si vede per esempio nel primo versetto del salmo quinto, «Domine exaudi orationem meam et clamor meus ad te veniat», che è tradotto: La mia preghiera umile e ’l flebil suono de’ miei dolenti stridi, alto Signore, che porge e sparge a te la bocca e ’l core, trovino in te pietà, non che perdono75.
Dove non solo l’avvio, con «suono / de’ miei», ricorda l’incipit del canzoniere di Petrarca, ma soprattutto la chiusura del sonetto proemiale del canzoniere petrarchesco abbelliscono una strofa che suona un poco ‘stridente’, proprio per quegli «stridi» dal suono «flebil», quasi un ossimoro, ma anche per la ripresa di «porge e sparge», che appare piuttosto insistente. Molte altre sono le riprese petrarchesche: sempre dal sonetto proemiale dei Rerum vulgarium fragmenta è derivata la chiusura del salmo settimo, quindi di tutta la piccola raccolta: «Tu, ch’ascoltato in rime sparse hai ’l suono / de’ miei sospir76», che non traduce nulla, ma che bene anticipa la chiusura: «poiché tuo servo sono», che rende precisamente il «quoniam ego servus tuus» di Ps 142, 12. Oppure si veda ancora il «Signor cortese» nel versetto 21 del Miserere, che non ha un corrispondente latino («Tunc acceptabis
75 Ibid., p. 85. 76 Ibid., p. 107.
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sacrificium iustitiae, oblationes et holocausta», Ps 50, 21), ma riprende un’espressione di Rerum Vulgarium Fragmenta77. Ma Petrarca si riconosce anche in scelte lessicali che hanno però un valore semantico forte, come l’insistenza su ‘fallire’ o su ‘pianto’. Anche Dante è ripreso, almeno esplicitamente in due casi: nell’espressione «lei che di me s’incinse», che traduce «concepit me mater mea» di salmo L, 7 (ricorda Inferno VIII, 45); e ancor più per il versetto 18 del salmo quinto, dove si traduce «Ne revoces me in dimidium dierum meorum, in generationem et generationem anni tui» (Ps 150, 25): Nel mezzo del cammin della mia vita mentre io mi truovo in questa selva oscura, deh, non mi richiamar, ma rassicura negl’anni eterni tuoi, mia via smarrita78.
La Battiferri restituisce così alla sua fonte l’incipit della Commedia, mostrando notevole consapevolezza critica79. Ma se evidenti sono i prestiti dalle ‘due corone fiorentine’, in generale è la fedeltà alla fonte a determinare il linguaggio e il lessico, tanto che l’attribuzione alla linea petrarchesca di questi componimenti va mitigata con l’evidente ricerca di una coerenza con la fonte che viene tradotta. Pare piuttosto che la poetessa, pur ricca di un bagaglio elocutivo della tradizione poetica che con l’intervento del Bembo aveva però assorbito anche influssi dalla tradizione filosofica platonico-ficiniana, pur con la declinazione in senso spirituale suggerita dal Petrarca spirituale del Malipiero, cerchi una via più coerente per la trasmissione del dettato biblico attraverso un linguaggio melodioso ma non grave, uno stile umile più che ricercato, «che sublima la gravità della preghiera davidica nella levitas strutturale del tessuto strofico80». I salmi della Battiferri ebbero la fortuna di essere inclusi nella silloge preparata da Francesco Turchi dei Salmi di eccellenti autori, che contiene le traduzioni (non solo dei salmi, ma anche di altre preghiere), dei poeti che si erano cimentati nell’impresa nel Cinquecento, ovvero Luigi Alamanni, Bonaventura Gonzaga, Antonio Minturno, Pietro Orsilago (oltre al Turchi)81. 77 Ibid., p. 79. «Vedi, Segnor cortese» si legge in RVF CXXVIII, 10 (Francesco Petrarca, Canzoniere, a cura di S. Stroppa, Torino, Einaudi, 2011). 78 Ibid., p. 91. 79 Sull’impiego di Dante e Petrarca nella scrittura della Battiferri, vedi Victoria Kirkham, «Dante’s Fantom and Petrarch’s Specter: Bronzino’s Portrait of the Poet Laura Battiferra», in Visibile Parlare. Dante and the Art of the Italian Renaissance, a cura di D. Parker, Charlottesville, University of Virginia, 1998, pp. 63–139 (Lectura Dantis 22–23). 80 E. Pietrobon, La penna interprete della cetra, op. cit., p. 220. 81 Cfr. la moderna edizione: Salmi penitenziali di diversi eccellenti autori [Giolito 1568]. In appendice: la prima redazione delle Lagrime di San Pietro di Luigi Tansillo, a cura di R. Morace, Pisa, ETS,
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I poemetti veterotestamentari Nella terza raccolta di rime della Battiferri, rimasta manoscritta e incompleta, compaiono altre due opere bibliche, ambedue in forma narrativa: una è intitolata Stanze della fede et obedienza di Abramo, et amore verso Dio nell’offerire il suo figliuolo, e narra in quattordici ottave di come Abramo si prepara al sacrificio del figlio Isacco. In effetti non è una narrazione della vicenda di Gn 22, 1-19, ma la presentazione, come dice il titolo, «della fede et obedienza» del patriarca Abramo. L’elaborazione di Battiferri non presenta la prima parte che si legge in Gn 22, 1–11, ovvero la decisione di Dio di mettere alla prova Abramo, l’invio del messaggero, la richiesta che l’angelo rivolge ad Abramo, la perplessità di Abramo, il viaggio con i servitori, le domande di Isacco, ma presenta già Abramo con il coltello, pronto a recidere il collo del figliuolo, ed esplicita i suoi dubbi, le sue perplessità di padre devoto prima dell’atroce atto. Mentre d’Abram nell’infiammato core l’amor, la fede, la pietà s’annida, disse, «Convien, s’io voglio al mio Signore oggi aggradir, che il mio figliuol ancida, e no’l facendo, in me doglia maggiore nasce, che l’alma a crudel morte sfida. Che farò dunque? Io vuo’ patir tal noia, e spero nel mio duol ritrovar gioia82».
È già qui presentato il dramma del Patriarca e la sua condizione di uomo dalla ferma fede, che non dubita di dover ubbidire al suo Dio e al suo terribile comando. Le ottave che seguono continuano la riflessione di Abramo: Dio è «possente e forte», capace di donare la vita «doppo la morte», ha promesso di inviare il Messia, «che dee salvar ogn’uno», non è un Dio che «si pente». Sono tre ottave di dolorosa inquietudine, in cui si delinea la prova dell’uomo di fede, alla fine della quale Abramo prende la decisione di stendere «il ferro sopra il capo al figliuol pio». Seguono tre ottave di esultanza, un inno alla fede e ai suoi benefici effetti, in quanto scala a Dio, capace di dare la vita dopo la morte, di generare buone opere, principale fra le virtù. Proprio di questa ferma fede è dotato Abramo, fede che quindi giunge davanti a Dio e consente l’intervento successivo dell’angelo che ferma l’atto sacrificale, poiché Dio voleva solo misurare la fede di Abramo. Fermato il coltello, l’attenzione di Abramo si rivolge al capro impigliato nel cespuglio, come da fonte (Gn 22, 13). Solo a questo
2016, pp. 11–98. 82 Laura Battiferri, Stanze della fede, et obedienza di Abramo, et amore verso Dio nell’offerire il suo figliuolo, in Laura Battiferra and Her Literary Circle, op. cit., pp. 248–255: 248.
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punto, sciolta la souspence, il pensiero si può volgere alla madre Sara, che non compare nella narrazione biblica, ma a cui la Battiferri dedica un’ottava per considerare la gioia per la salvezza del figlio, ma anche il dolore per la prova dello sposo. Le ultime due ottave sono di insegnamento, in cui si esalta il valore della loro discendenza e il pregio di una ferma fede, per cui chi la possiede «vola al ciel quando ch’ei lascia il mondo». Anche il registro si adatta allo scopo, facendo intervenire la voce dell’autore, come succede spesso nei poemi canterini: Conchiudo dunque il mio parlare e dico, «Felice quel che ’l buon sentier procaccia, e con bel passo del gran Padre antico segue mentre è qua giù la bella traccia, con viva fede come fidele amico ei volge al suo Signor l’interna faccia, e crede e spera in lui, e tien per certo solo gli sia da Cristo il ciel aperto83».
L’avverbio «solo» dell’ultimo verso potrebbe apparire una conferma della tendenza valdesiana della spiritualità dell’autrice. Ma sottolineare che «solo» da Cristo è aperto il Cielo non necessariamente implica affermare l’inutilità delle opere, poiché in ogni confessione cristiana senza Cristo non è l’impegno del credente sufficiente alla salvezza. L’ultima scrittura biblica della Battiferri è l’avvio di un poema epico sul primo libro di Samuele, uno dei libri storici della Bibbia84. Sebbene lasciato in sospeso dopo solo diciotto ottave, l’avvio è dichiaratamente quello di un poema epico sacro, genere ormai grandemente in voga negli ultimi anni di vita della Battiferri (anni settanta o ottanta del xvi secolo) non solo dopo l’uscita della Gerusalemme liberata, ma già prima, per l’abbondanza della produzione su vicende sacre narrate in ottava rima (o raramente con altri metri)85. Non si può neppure congetturare una data di composizione, non avendo alcuna notizia a proposito; si può solo supporre che, non avendo il genere affinità con le due prime raccolte (una di rime d’occasione, una di rime-preghiere), possa appartenere a un periodo successivo alla loro pubblicazione, quindi dopo il 1564. Inoltre il fatto che la raccolta manoscritta si interrompa proprio su questo poema fa congetturare che questa fosse l’ultima
83 Ibid., p. 254. 84 Laura Battiferri, [Fragments of an Unfinished Epic on the Early Hebrew Kings], in Laura Battiferra and Her Literary Circle, op. cit., pp. 256–265. 85 Cfr. Erminia Ardissino, «Raccontare la Bibbia nell’Italia della prima età moderna. Cantari, poemi, romanzi», in Gli Italiani e la Bibbia. Leggere, interpretare, riscrivere, a cura di E. Ardissino e É. Boillet, Turnhout, Brepols, 2019, pp. 217–236.
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scrittura della poetessa, ma sappiamo anche che il marito si attivò molto per la continuazione della copiatura delle opere della moglie in questo codice che prelude alla stampa, quindi si può anche supporre che il poema fosse completato, ma non interamente copiato (pur restando valida l’ipotesi che questa fosse l’opera su cui si era arrestata alla morte). L’avvio è solenne e degno appunto del poema grande, con proposizione (la prima ottava), e triplice invocazione, al «Verace Apollo», alla «Sacra Minerva» e alle «Grazie Eterne», ovvero a Dio, alla Sapienza e alla grazia divina, che occupa rispettivamente la seconda, la terza e la quarta ottava. La quinta ottava colloca la vicenda in oriente e precisamente in Palestina, terra benedetta e favorita dal cielo: «una parte a cui gli eterni fati, / come pioggia dal ciel che ‘n terra scende, / sparsero grazie86». La sesta ottava inizia presentando Elcana/Helcana/Elkana, personaggio biblico che sarà poi padre di Samuele. Egli aveva due mogli, Anna e Fenenna. Se il testo biblico le presenta sinteticamente in rapporto alla loro prole: «Et habuit duas uxores: nomen uni Anna et nomen secundae Phenenna. Fueruntque Phenennae filii, Annae autem non erant liberi» (1 Sam 1, 2), Battiferri invece descrive ciascuna donna attentamente: bella, virtuosa e amata Anna, ma triste per la mancanza di prole; superba per i molti figli, e per questo provocante, Fenenna. Recatisi alla città di Silo, come ogni anno, per adorare e sacrificare a Dio, Elcana, dividendo le carni dopo il sacrificio, assegna ad Anna una sola parte, tutto il resto a Fenenna per i molti figli, per cui la donna «venne più superba in vista, / sì l’ira e l’odio in lei cresce e risorge87». Elcana riprende l’una e incoraggia l’altra, ma Anna ritorna allora al tempio per rivolgere a Dio una fervida preghiera per poter anche lei avere un figlio. Se la preghiera nel testo biblico occupa appena un versetto («Domine exercituum, si respiciens videris afflictionem famulae tuae et recordatus mei fueris nec oblitus ancillae tuae dederisque servae tuae sexum virilem, dabo eum Domino omnes dies vitae eius, et novacula non ascendet super caput eius», 1 Sam 1, 11), nella versione della Battiferri ha un’estensione di quattro ottave, in cui la preghiera invece di affondare nel dolore della donna si sviluppa soprattutto in una lode a Dio, creatore e generoso, a cui viene chiesta la grazia di un figlio. Le successive ottave, le ultime due, sono dedicate alla presentazione di Eli, sacerdote che sorveglia nel tempio e che ha accesso ai misteri divini. Egli dovrebbe poi, secondo il racconto biblico, rimproverare la donna, credendola ubriaca, ma la scrittura si ferma proprio 86 L. Battiferri, [Fragments of an Unfinished Epic on the Early Hebrew Kings], op. cit., p. 258. 87 Così si legge in 1 Sam 1, 6–7: «Affligebat quoque eam aemula eius et vehementer angebat, ut conturbaret eam, quod conclusisset Dominus vulvam eius. Sicque faciebat per singulos annos, cum, redeunte tempore, ascenderent templum Domini, et sic provocabat eam. Porro illa flebat et non capiebat cibum».
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indicando come Eli vede Anna «ch’umilmente orava, / intenta sì che d’ogni senso priva, / freddo marmo parea, non donna viva88». Come si vede la riscrittura rielabora profondamente la narrazione biblica indirizzando il poema verso una valorizzazione della preghiera come attitudine benefica del devoto. Non sarà tanto importante chiedersi quale Bibbia avesse davanti la Battiferri per queste due narrazioni, perché la rielaborazione è molto, troppo consistente. Anche in queste ottave dallo stile alto, grave, vediamo talvolta all’opera l’influsso di Petrarca e di Dante, l’ottava 14 così inizia: «A qualunque animal ch’alberga in terra», ripresa evidente della canzone XXII dei Rerum Vulgarium Fragmenta, mentre nella successiva troviamo: «Sì che la morta speme omai resurga», che è altrettanto evidentemente una ripresa dal primo canto del Purgatorio: «E qui la morta poesì resurga». L’opzione di raccontare le vicende di Samuele è alquanto originale, non si trova nelle riscritture bibliche dell’epoca nessun’altra invenzione che tratti letterariamente di questo personaggio. Fondatore del regno d’Israele, avendo lui scelto sia Saul sia Davide come re, si presenta come costruttore dell’identità del popolo eletto. Dunque ancora una volta Battiferri sembra coerente con l’interesse delle donne fiorentine per le sorti di un popolo della storia sacra.
88 L. Battiferri, [Fragments of an Unfinished Epic on the Early Hebrew Kings], op. cit., p. 264.
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Maddalena Salvetti Acciaioli tra Vecchio e Nuovo Testamento Il poema epico che Maddalena Salvetti Acciaioli scrive su David agli inzi del xvii secolo, per soli tre canti, lasciando l’opera incompiuta a causa della morte, attinge pure dal primo libro di Samuele. Si tratta di una narrazione che si pone quasi in ideale continuità con il tentativo epico di Laura Battiferri, che doveva certo trattare di Samuele, uomo di Dio, «profeta del Signore» (1 Sam 3, 20), di come aveva contribuito alla liberazione di Israele dalla minaccia dei Filistei, che erano persino riusciti a impossessarsi dell’arca dell’alleanza. Samuele aveva indotto gli Ebrei a liberarsi degli dei stranieri e li aveva incoraggiati tanto da renderli vittoriosi contro i Filistei (1 Sam 7, 3 e 10), quindi nella sua vecchiaia aveva scelto Saul come re di Israele e lo aveva unto e consacrato (1 Sam 10, 1), e aveva pure in seguito unto David giovinetto, indicandogli la via per succedere a Saul. Non possiamo ricostruire cosa volesse trattare e dove intendesse fermarsi la Battiferri, certo è che la narrazione su David della Salvetti, prende il via con l’episodio della fuga di David, che è raccontato nel primo libro di Samuele al capitolo 19, 8. Pochi capitoli biblici separano l’avvio della narrazione della Battiferri da quella della Salvetti. Si può congetturare, ma l’ipotesi può solo essere tale, che le due donne si conoscessero, e che la seconda abbia intenzionalmente continuato quello che era un proposito della prima. Altri sono gli elementi che accomunano le due poetesse: anzitutto la pratica della poesia encomiastica, infatti anche Maddalena Salvetti Acciaioli compose una raccolta di rime che pubblicò nel 1590 con il titolo Rime toscane1 (Primo libro dell’o1
Rime toscane della Maddalena Acciaioli gentildonna fiorentina in lode della sig. Cristina di Loreno gran duchessa di Toscana. Rime toscane della Maddalena Acciaioli Salvetti gentildonna fiorentina in lode del serenissimo don Ferdinando Medici terzo gran duca di Toscana, Firenze, Francesco Tosi, 1590. Rari sono gli studi sulla Salvetti Acciaioli: Virginia Cox, The Prodigious Muse. Women’s Writing in Counter-Reformation Italy, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 2011, pp. 157–163 per il David, passim per le rime; Paola Morongiu, «Salvetti, Maddalena», Dizionario Biografico degli Italiani, XC, 2017, pp. 6–7; della stessa Paola Marongiu, «Maddalena Salvetti
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pere toscane era il titolo della raccolta della Battiferri, in gran parte encomiastica) in onore di Cristina di Lorena e del granduca Ferdinando I, assegnando al loro governo un carattere salvifico in grado di portare la pace non solo in Toscana, ma in Italia e nell’Europa intera. Forte è la presenza dell’elemento religioso in questi elogi in rima, che si avvalgono dell’eredità sia della poesia di Dante sia di quella di Petrarca, più per la prospettiva concettuale la prima, più per l’offerta di metafore e stilemi la seconda. Inoltre ambedue le poetesse si sono misurate con la poesia spirituale, poiché anche Maddalena Salvetti Acciaioli ha composto una raccolta di poesie spirituali, pubblicate in calce ai tre canti del poema davidico2. Ambedue furono ripetutamente invitate a partecipare a delle sillogi encomiastiche3. L’arco temporale delle loro vite si interseca significativamente e non impedisce di supporre che le due donne si frequentassero, anche se l’una doveva essere ormai attempata, l’altra ancora giovanissima. Nata a Firenze il 25 marzo 1557, Maddalena Salvetti poté beneficiare (come Laura Battiferri) di un’ottima educazione, che poté approfondire anche dopo il matrimonio con Zanobi Acciaioli, celebrato nel 1582, tanto da raggiungere una cultura profonda sia in ambito letterario sia in ambito filosofico4. La ricorda così Cristoforo Bronzini, che nella sua raccolta di donne illustri scrive di lei: «Donna molto studiosa et intelligente, non pure della poesia e filosofia, ma della teologia; e tanto eloquente, che merita il primo luogo fra i più chiari oratori, nelle cui rime, versi e prose, scuopre a ciascheduno i più occulti et alti segreti del sommo Regitore de’ corsi del Cielo e della Natura, con felicità di parole e con tanta facilità, ch’ogn’uno conosce e liberamente confessa (a mal grado de’ maligni invidiosi) ella haverne intera cognizione, e come di acuto e sublime ingegno parlarne e scriverne eccellentissimamente5».
2 3
4 5
Acciaioli, poetessa al servizio del potere nella Firenze della Controriforma», Critica letteraria, CLXVII, 2015, pp. 322–342. Maddalena Salvetti Acciaioli, Poesie liriche spirituali, in Ead., Il David perseguitato o vero fuggitivo poema eroico della Maddalena Salvetti Acciaiuola gentildonna fiorentina, Firenze, Giovanni Antonio Caneo, 1611, cc. 52v–63v. Dodici i sonetti di Maddalena Salvetti Acciaioli in lode di Cinzio Aldobrandini pubblicati nella raccolta Tempio all’illustrissimo e reverendissimo signor Cinzio Aldobrandini, cardinale San Giorgio nipote del sommo pontefice Clemente VIII, Bologna, Eredi di Giovanni Rossi, 1600, pp. 249–260. Per le notizie biografiche si veda P. Marongiu, «Salvetti, Maddalena», art. cit. Cristoforo Bronzini, Della dignità, & nobiltà delle donne. Dialogo di Cristofano Bronzini d’Ancona. Diviso in quattro settimane; e ciascheduna di esse in sei giornate, 2: Settimana prima e giornata quarta, Firenze, Zanobi Pignoni, 1625, p. 119. Stranamente poi Bronzini parla dei libri di rime, ma non tratta del poema.
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Epica davidica Il poema David perseguitato o vero fuggitivo, poema eroico è dedicato a Maria Maddalena d’Austria, esaltata nella lettera dedicatoria come «Cattolica principessa», «non degenerante da quella gloriosissima imperiale stirpe onde discende, nella quale, com’in suo proprio nido è stata sempre la vera cattolica religione impressa6». Questi concetti sono ribaditi nella terza ottava, quella che dedica il poema, dopo la proposizione e l’invocazione. Moglie del duca Cosimo II, salito al potere nel 1609 dopo la morte del padre, qui è lodata per essere «gloria del Reno e del Danubio altero / a le corone italiche chiamata7». Anche se, per la precoce morte della moglie, il marito Zanobi Acciaioli si occupò della pubblicazione, attuandone la volontà nel dedicare l’opera alla granduchessa, una seconda dedica è composta e firmata dalla poetessa, pure alla stessa indirizzata. Queste pagine sono particolarmente significative, perché danno alcune indicazioni di poetica. Anzitutto collocano il poema nella grande stagione della poematica sacra, che aveva avuto uno sviluppo senza uguali dopo la pubblicazione del Goffredo (o Gerusalemme liberata)8. La dedica parla infatti di «un picciol saggio dell’epica poesia, che fra le veraci storie de gl’antichi eroi ho trasmessa», e pone l’opera sotto l’insegna aristotelica. L’autrice dichiara infatti di operare sulla scorta di Aristotele e l’esempio dei «buoni autori», «avendo per mira di aggiugnere al vero l’Arte Poetica, e sopra tutto, [di volere] che al verso la facilità dell’intelligenza non apporti bassezza, e l’altezza non lo renda inintelligibile9». In effetti il titolo «eroico» è giustificato dalle scelte elocutive e narrative, oltre che dalla dichiarazione di intenti. Per il contenuto si dice che, «prendendo per soggetto del poema la persecutione fatta da l’ingrato re Saul all’innocente servo del grande Dio, David», 6 7 8
9
M. Salvetti Acciaioli, Il David perseguitato o vero fuggitivo poema eroico della Maddalena Salvetti Acciaiuola gentildonna fiorentina, op. cit., c. n.n. Ibid., c. 1v. Uscì completo nel 1581, dopo alcune edizioni parziali. Per il successo del genere epico sacro si veda Dopo Tasso. Percorsi del poema eroico. Atti del Convegno di Studi di Urbino, 15–16 giugno 2004, a cura di G. Arbizzoni, M. Faini e T. Mattioli, Padova, Antenore, 2005; Marco Faini, «La poetica dell’epica sacra tra Cinque e Seicento in Italia», The Italianist, XXXV, 2015, pp. 27–60; Erminia Ardissino, «I poemi biblici dal Barocco all’Arcadia», in La Bibbia nella letteratura italiana. VI. Dalla Controriforma all’Età napoleonica, a cura di T. Piras e M. Belponer, Brescia, Morcelliana, 2017, pp. 261–290. Per un utile confronto con altra letteratura: Sarah C. E. Ross, «Epic, Meditation, or Sacred History? Women and Biblical Verse Paraphrase in SeventeenthCentury England», in The Oxford Handbook of the Bible in Early Modern England c. 1530–1700, a cura di K. Killeen, H. Smith e R. Willie, Oxford, Oxford University Press, 2015, pp. 482–497. M. Salvetti Acciaioli, Davide perseguitato, op. cit., p. n.n. Cfr. P. Marongiu, «Maddalena Salvetti Acciaioli poetessa al servizio del potere nella Firenze della Controriforma», art. cit. Sulle poetiche aristoteliche: Francesco Sberlati, Il genere e la disputa. La poetica tra Ariosto e Tasso, Roma, Bulzoni, 2001; Stefano Jossa, La fondazione di un genere: il poema eroico tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, 2002.
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il poema sarà di una sola azione, come insegnava Torquato Tasso nei suoi Discorsi di poetica10. E aggiunge: «L’altre sue guerriere, eroiche e pie azioni vengo parte narrando e parte accennando per via di digressione, intessendo nell’opera alcuni episodi, ma derivanti e aderenti (come membra e da capo) dalla primiera attione, e fondati su qualche verace storia […]11». In effetti la narrazione del poema riguarda appunto le vicende del giovane David, perseguitato e in fuga dalla gelosia e volontà omicida di Saul, come sono narrate in 1 Sam 19, 11–25 (ma riprodotte con molte lacune). La narrazione inoltre collega la vicenda biblica a personaggi ed eventi mitologici dell’antica storia d’Italia. Dei tre canti composti uno solo è veramente dedicato a David, gli altri due infatti si aprono sulle vicende di Pantasilea, regina delle Amazoni, e di Italo, figlio del re di Fiesole, basandosi sulla supposta contemporaneità di Enea e David, proposta già dal Villani, per cui la giovinezza dell’eroe biblico coinciderebbe con questa età pre-eneidica dell’Italia, che avrebbe anche avuto origini antiche da discendenze bibliche12. Vi è ovviamente una ragione encomiastica per mettere in campo personaggi così lontani: Italo, figlio del re di Fiesole, sarà infatti con Pantasilea, eroina ideale per il pubblico a cui si rivolgeva la Salvetti, all’origine dell’illustre casa Medici. Questi episodi estranei, sono detti nelle pagine prefatorie «derivanti, e aderenti» dell’azione principale, «fondati su qualche vera storia». Queste anacronistiche amplificazioni, veri e propri stravolgimenti sull’originale storia biblica (che però non intervengono a modificarla), fanno forse storcere il naso a noi moderni, per la loro ingenua inverosimiglianza, ma sono prassi comune per la trattazione delle vicende del Vecchio e Nuovo Testamento in forma eroica o epica all’epoca. Come è sviluppata la materia biblica? La figura di David è anzitutto collegata al suo ruolo nella storia della salvezza. Si legge infatti già nella dedica dell’autrice un’indicazione su David figura del Messia: «questo santo re, gran campion di Dio, profeta divino, cantor de’ sacri carmi, e figura del sig. nostro Iesù Christo, della stirpe del quale nacque la santissima Vergine, di cui il Redentor del mondo incarnar volse. Come dice l’apostolo Paulo, «Qui factus est ex semine David secundum carnem13». La prospettiva salvifica è dunque quella che supporta la narrazione, infatti
10 Si veda il discorso secondo dei Discorsi dell’arte poetica e il discorso terzo dei Discorsi del poema eroico, cfr. Torquato Tasso, Scritti sull’arte poetica, a cura di E. Mazzali, Milano-Torino, RicciardiEinaudi, 1977, vol. I, pp. 20–45 e vol. II, pp. 215–278. 11 M. Salvetti Acciaioli, Davide perseguitato, op. cit., c. n.n. 12 Giovanni Villani, Nuova cronica, ed. crit. a cura di G. Porta, Parma, Guanda, 2007, I, pp. 10–11. Sul mito Giovanni Cipriani, Il mito estrusco nel Rinascimento fiorentino, Firenze, Olschki, 1993. 13 M. Salvetti Acciaioli, Davide perseguitato, op. cit., c. n.n. Per le citazioni dal poema si userà solo David, seguito dal numero di carta.
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la persecuzione di Saul è motivata come reazione del re degli inferi contro il piano di salvezza destinato da Dio all’umanità dopo l’episodio edenico, per cui dalla discendenza di David sarebbe nato il Salvatore. È quindi necessario per il mondo infernale ostacolare questo piano, se non impedirlo, agire nella storia per disturbare il processo salvifico14. L’avvio del poema è assai articolato, i primi versi sono in forma d’invocazione rivolta a Dio, seguiti subito dalla proposizione: Disgombra, o Sommo Sol ch’al sol dai luce, dell’atre notti mie l’oscuro horrore, ond’io possa cantar di quel gran duce del tuo santo Israel gloria e splendore, qual cinta di bei rai fama riluce d’armi e d’imprese pie preggio maggiore, quando l’ira e ’l furor d’un rege altero fuggì, vinse, corona ottenne, e impero. (David 1r)
Lo splendore di David è contrapposto all’oscurità del presente, della poetessa come scrittrice, ma anche come credente, e forse pure della storia, ed è confermata dalla gradatio di chiusura che compatta in un verso le quattro azioni in cui si sarebbe sviluppato il poema. Questo verso rivela perciò che quanto abbiamo, che si riferisce solo al «fuggì», sarebbe poi stato completato con la restante storia di David, come narrato almeno fino ai capitolo 8 del libro secondo di Samuele, cioè fino all’ascesa al trono, come indicato nella dedica. Evidentemente Salvetti non contemplava di scrivere sul seguito, ovvero sul regno di David e sugli intrighi per la successione con la morte del re (2 Sam 9–23). L’invocazione incipitaria non è la sola. Segue un’ottava di invocazione a Maria, «figlia e sposa e madre», affinché possa ‘impetrare’ «concetti» «sopra humani», atti a cantare «del santo re l’opre celesti», ad onta di Stige e Acheronte. Memore del Tasso (si legge nella seconda strofa del David: «Forse ancor sia che la presaga penna», esattamente come nella prima ottava della Gerusalemme liberata), seguono alcune ottave che pronosticano grandi imprese e vittorie al duca Cosimo II, in forma debitrice anche dell’Ariosto («le cortesie, il valor, l’imprese, e l’armi»). In particolare si auspica chiaramente una crociata che possa portare alla liberazione della Terra Santa:
14 Marco Faini, «La figura di David nei poemi biblici italiani tra Cinque e Settecento», in Les figures de David à la Renaissance, a cura di É. Boillet e S. Cavicchioli, P.-A. Mellet, Genève, Droz, 2015, pp. 363–408.
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parte prima - firenze biblica Abbatta intanto il regal braccio invitto Vostro, fra quanto il sol gira la terra, renda del Nilo il verdeggiante Egitto soggetto al gran valor che ’n voi si serra. E dove l’alto Dio, per noi trafitto fu su ’l gran tronco che ’l rio mostro atterra, torni le sante mura e i regni al culto di lui ch’ivi fu morto, ivi sepulto. (David 2r)
Stesso auspicio si esprime nell’ottava successiva per i luoghi della vita e delle imprese di David: «Onde del grande eroe di cui ragiono / sottragga al giogo suo spietato e duro / l’antica reggia e l’alto regal trono / e dove viste pargolette furo / le sante membra […]» (David 2r; Gerusalemme liberata I, 23 recita «sottrarre al giogo indegno»). Prende il via quindi la narrazione, che anzitutto presenta il protagonista per quelle imprese che precedettero l’azione su cui si concentrerà il poema, ovvero sul suo aspetto, sul passato di pastore, sull’impresa contro Golia, sul matrimonio con Micol, figlia di Saul, sul suo suonare e placare il re con la cetra. Se questi sono gli antecedenti prossimi della persecuzione di Saul, gli antecedenti remoti sono individuati subito nella storia del mondo, dalla caduta di Lucifero. I sentimenti di Saul sono infatti interpretati come azione delle potenze infernali: Ma qual fu la cagion che l’empia e rea schiera infernale a tormentar venisse il duce altier de la nazione ebrea, e qual fatal decreto il ciel prefisse narrerò, […] (David 3r)
Dopo ulteriori parole di invocazione al «Sol, ch’illustra e crea / e muove in ciel le stelle erranti e fisse», vengono infatti presentate le vicende dalla cacciata di Lucifero alla creazione dell’uomo e della donna, alla caduta dei progenitori, all’uccisione di Abele, che fa comprendere ad Eva il significato della morte, che tragicamente non consente al momento il ritorno al cielo. La morte è vista con un tono umanamente nostalgico: Ecco che morte, inesorabil fera, v’ancide omai da gl’anni afflitti e stanchi. Alla gran madre antica lor primiera tornano i corpi fatti e curvi e bianchi, ma in tornar l’alme alla celeste sfera trovano i sentier chiusi, oscuri e manchi, che l’immenso splendor del sommo Dio l’error vostro sospende, ingrato e rio. (David 4r)
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Con un efficace verso, «Vennero i figli, e d’altri figli i figli», viene riassunto poi lo scorrere del tempo, nella storia dell’umanità, di cui si sottolinea solo l’abbandonarsi al paganesimo, mentre solo «un picciol drappel […] d’huomini circoncisi eletti» si mantengono fedeli al culto «verace e fido» del vero Dio, fin che la divina Sapienza intercede per l’umanità e Dio concede il perdono. «Senza mancar a te santa Giustizia», Dio promette di sanare la ferita per mezzo di Gesù: «nascerà in terra il domator d’Averno, / agno umil prima, e poi leon feroce / trionfator su l’alta eccelsa croce» (David 4r). Ma se alla divina promessa i cieli esultano, il grido di gioia giungendo agli inferi provoca la rabbia «giù ne’ profondi e tenebrosi seni, / onde sbiaccar la luce orrida e sozza, / e versar spuma dall’immonda strozza» (David 4v). Ne segue l’irata risposta del re degli inferi, che, ricordando la sua antica forza, promette di ostacolare in ogni modo l’impresa divina, rivolgendosi perciò contro David in quanto antenato del Salvatore: Tragge del popol circonciso ebreo l’origin questi, a cui vien dato in sorte. nascer di sua prosapia alto trofeo, Anna, e poi d’Anna a Giovachi consorte, quello di cui nel mondo (ahi, caso reo) verrà ’l fulgor delle tartaree porte, qual ardirà ne’ propri regni di Pluto ritor dell’alme il solito tributo. (David 7v)
Satana suggerisce quindi ai suoi di soffiare «ira e foco nel petto» al re d’Israele, affinché «fulmini contro il giovin fiero, l’offenda / infino al colpo rio, crudo, letale», poiché solo così potrà rendere sicuro il suo regno. Inizia quindi l’azione perturbante, poiché Saul, assalito da «mille Arpie / orride, e Sfinge, e pallide Gorgoni / […] mille Idre e Fitoni», abbandonato dal suo angelo custode, che si era indignato per il ricorso di Saul alla magia, «s’infuria e rode e di furor s’accende» (David 8v) contro David, dimentico che solo costui riusciva a placare la sua furia con la cetra e che solo lui sapeva quindi difenderlo «dagli assalti infernali». Anche se l’invenzione dell’intervento del re degli inferi è in linea con l’invenzione tassiana del concilio infernale del IV canto della Liberata, in realtà la Salvetti in questa splendida invenzione, che crea (con l’intervento angelico) il meraviglioso poematico, non si discosta dal dettato biblico, perché nel primo libro di Samuele si legge che Saul è preda dello spirito del male: «Et factus est spiritus Domini malus in Saul» (1 Sam 19, 9). Segue il primo tentativo di Saul di uccidere David con la lancia (1 Sam 19, 10), che David riesce a scansare, ma nel poema è Dio che «gl’è scudo». La poetessa interpreta quindi i fatti, aggiungendo la sua lettura, che va nella direzione di accentuare il favore divino verso il giovane unto da Samuele (1 Sam 16, 13, fatto non igno153
parte prima - firenze biblica
rato dalla Salvetti: «per man di Samuel, di Palestina / unto David avea»). David fugge quindi dalla moglie, che lo nasconde quando è cercato dai messaggeri del re. I fatti prendono qui un’accelerazione. La fuga dalla finestra della casa di Micol, che si risolve in un versetto, 1 Sam 19, 12, è articolata in diversi momenti: la proposta di Micol di fuggire, la fuga, gli sguardi d’addio, lo svenimento di Micol. La figura di Micol è ovviamente occasione di osservazioni sulla sua bellezza, sull’amore coniugale, sul suo dolore, ma il momento è opportuno anche per una lirica digressione sulla notte di decisa impronta tassiana: Sorgea la notte e ’l suo stellante velo spiegava a i rai dell’argentata luna e con mill’occhi vagheggiava il cielo l’amata terra avvolta in veste bruna. (David 10r)
La restante parte del canto è ripartita su quanto avviene ai due personaggi. La storia di Micol, che corrisponde ai versetti 13–17 del capitolo 19, dà luogo ad opportune digressioni: il rinvenimento di Micol dallo svenimento, l’arrivo delle guardie, un discorso di Micol che ricorda ai soldati le imprese di David, la descrizione dell’inganno di Micol, che non di stoffe e pelle di capra ma di gesso fa il simulacro di David da porre nel letto, l’ira di Saul beffato, i pensieri di Micol, prigioniera del padre. David è seguito nel suo fuggire attraverso le vie della città, ma invece di narrare ciò che è detto nel seguito di 1 Sam 19, 18, che avrebbe offerto molte possibilità diegetiche, Salvetti preferisce una versione più spirituale, immaginando una preghiera che egli rivolge a Dio, una volta in salvo, che occupa ben sette ottave, cui segue l’apparizione di un angelo, il discorso tra i due (l’angelo gli dice di essere la sua scorta; Davide gli si affida riverente), a conferma di quanto importasse la custodia angelica nella spiritualità di questa stagione cattolica. Lo spazio dedicato alla presenza dell’angelo è notevole nel canto, da una parte agisce accrescendo il meraviglioso, come già le schiere infernali, dall’altra però ubbidisce a istanze teologiche che davano valore al ruolo degli angeli custodi15. In effetti l’angelo non solo dichiara a David di essere inviato da Dio al fin di «scorg[erlo] a i chiari e meritati onori» (David 15r), ma gli si pone a lato: «Quindi al suo fianco invisibil soggiorno / l’angel facendo al gran cammin s’invia» (David 16r), formando con l’eroe una «coppia gloriosa e bella», che va «cantando al gran Dio lodi alme», occasione per un insegnamento morale: «o felice colui che Dio solo cole / che ’n terra oprar sopra natura puote / e ’n ciel fermar l’eccelse eterne rote» (David 16r), insegnamento su cui si chiude il primo canto. 15 Cfr. Gli angeli custodi. Storia e figure dell’‘amico vero’, a cura di C. Ossola et al., Torino, Einaudi, 2004.
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Il secondo canto è dedicato allo schieramento dell’esercito filisteo contro Israele, occasione per rappresentare i singoli combattenti con le loro truppe, tra cui vi è anche la regina delle Amazoni, Pantasilea, che, «sentendo il chiaro illustre grido […] / del gran Davitte e le stupende prove, / alto desio gl’accese il cor sì fido / a Palla a Marte al biondo Apollo a Giove / di far sopra di lui cruda vendetta» (David 22v). A lei è dedicata molta attenzione, dovendo poi rappresentare una figura centrale del poema, posta com’è all’origine della dinastia medicea. È presentata con epiteti petrarcheschi e con la mitologica connotazione delle amazoni, «Giovane donna e faretrata arciera, / con la sinistra solo intera mamma». «Succinta in gonna» è «incendio e fiamma» dei cuori; «ma se d’angelo ha il riso e ’l bel sembiante / ha ’l cor di tigre e ’l petto è di diamante» (David 22r). Si dice brevemente la sua storia, come fosse seguita da ben tremila compagne, di cui si presentano accuratamente gli abiti in ben sette ottave, segno indubbio dell’intento di valorizzare la presenza femminile sui campi di battaglia16. Nell’ultima parte del canto la narrazione ritorna su Saul, spaventato come i suoi per la notizia che un così grande esercito si schieri a fianco dei Filistei, egli perciò architetta come trovare nuovi alleati e pensa, ispirato dal «gran verme infernal», di sposare in seconde nozze la figlia Micol a Palti, figlio di Lais, come detto peraltro in 1 Sam 25, 44 («Saul autem dedit Michol filiam suam uxorem David Phalti filio Lais, qui erat de Gallim»). Questa vicenda è occasione per ulteriori sviluppi narrativi e sentimentali, infatti per la nostra poetessa costui è già innamorato, ma non corrisposto, di Micol, per cui ora ha il cuore colmo di dolcezza («In un mar di dolcezza ondeggia il core», David 27r), prepara con grande pompa il suo matrimonio, recandosi dalla sposa con la sua «nobile schiera». È questa l’occasione per un lacrimevole addio al padre Lais. Anche Saul, da parte sua, è impegnato a festeggiare degnamente con ludi l’evento nuziale nella città di Gerusalemme, ma le sue «furo opra d’Aragne incerta e frale, / ch’altro volgea nel ciel voler fatale» (David 28v), infatti a questa guerra contro i Filistei seguirà la sconfitta e la morte (suicida) di Saul a Gelboè (1 Sam 31). Saul intanto prepara anche la battaglia, convocando Gionata che dovrebbe sovrastare Abner nel comando, ma Gionata è fedele amico di David. Di lui non molto si dice, nulla degli accordi con David di cui si parla lungamente in 1 Sam 20; si dice solo che l’affetto fra i due è «dolce più che l’amor d’amata e bella / donna» (David 29v). Mosso da questo «puro e sommo ardore»:
16 Si veda a proposito della presenza di donne nell’epica contemporanea: Laura Benedetti, «Un eroismo diverso? La rappresentazione delle guerriere nella Scanderbeide di Margherita Sarrocchi (1623) e ne L’Enrico di Lucrezia Marinella (1635)», The Italianist, XXXIX, 2019, pp. 281–296.
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parte prima - firenze biblica Ben s’oppose più volte al padre irato Ionata, e la ragion mostrar gli volse. Ma più duro che selce e più gelato, o chiuse al ver l’orecchia o non l’accolse. E quando al dolce e caro albergo amato Davitte fuggitivo il tergo volse, seguito l’orme averia del fido amico, ma ’l tenne di natura obligo antico. (David 27v)
La Salvetti tace invece sugli amori di Davide con Abigail e dei suoi due matrimoni, peraltro ben indicati dalla fonte («et secuta est nuntios David et facta est illi uxor. Sed et Achinoam accepit David de Iezrahel, et fuit utraque uxor eius». 1 Sam 25, 42–43), forse per non macchiare la rappresentazione ideale di David o forse posticipando questi tasselli della storia. Infatti Salvetti si muove con libertà nel trattare la trama offerta dal libro di Samuele: se anticipa di molto il secondo matrimonio di Micol (che serve anche per passare dall’evento della fuga alla preparazione di Saul per la guerra), poi ritorna sugli eventi che nella narrazione biblica precedono, ovvero a Gionata e all’aiuto che offre a David a rischio della sua propria vita. Le conversazioni tra Gionata e David presentate in 1 Sam 20 sono quasi ignorate, come è del tutto ignorato l’incontro di David con Samuele (1 Sam 19, 18–24), ma molto si insiste sull’amicizia contrastata fra i due giovani e le difese che Gionata avanza per David al padre Saul. Nella conversazione fra Saul e Gionata la parola manca al re, perché gli viene tolta dalla voce stessa di Aletto, infatti irato Saul è preso da furore e maledice David («Mora, mora il fellon», David 30r) e, agitato dagli spiriti infernali («fatto de’ numi tartarei ricetto»), tenta di colpire Gionata con la lancia (1 Sam 20, 33: «Et arripuit Saul lanceam, ut percuteret eum; et intellexit Ionathan quod definitum esset patri suo, ut interficeret David»). Calmato da Gionata, Saul si volge a preparare l’esercito che deve fermare i Filistei e invocare altri aiuti, per cui persino «Europa bella, e la riva tirrena / spera al gran uopo pronta a l’alto invito» (David 31v). È questa l’occasione per lo sviluppo della parte encomiastica del poema, che vede in Italo, figlio di Tarracone, mitico re di Fiesole, il capostipite, con la regina delle Amazoni, Pantasilea, della dinastia medicea. Tarracone viene presentato con molte lodi, come il civilizzatore della penisola prima dei Romani: A quella prisca avventurosa etade reggeva il vago e ricco lido adorno e queste felicissime contrade, che parte l’Alpe e cinge il mar intorno, un re, di tal valor, di tal bontade, cui par non scorse il portator del giorno.
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5- maddalena salvetti acciaioli tra vecchio e nuovo testamento Tarracon, di tal nome allor secondo, ma primo di valor pregio del mondo. (David 31r)
Tarracone, desideroso di gloria, ma anche spronato dal desiderio di giustizia, decide di rispondere all’appello di Saul e di intervenire in aiuto di Israele contro i Filistei e i loro alleati. Prepara quindi un esercito di cavalieri e pedoni, dando loro per guida il secondogenito, Italo, e lo manda in «aiuto alle contrade sante» (David 33r). Se al primogenito, Tiberio, è riservata la successione del regno, al secondogenito è stato annunciato dalla Sibilla uno spledido futuro: Vide cantar in suoi veraci carmi la gran Sibilla un giorno il giovin forte, ch’etterni a lui d’honor s’ergesser marmi prescritto in ciel avea la sua fatal sorte. Ma che prima dovea tra imprese et armi d’amor ferito divenir consorte di bella e saggia alta Amazona altera e progenie produr chiara e guerriera. (David 33v)
Su questi fausti pronostici della Sibilla e sui pensieri di vittoria di Italo si chiude il canto secondo, che lascia indietro molti eventi del primo libro di Samuele che potevano essere oggetto di narrazione, perché di tutti è protagonista David: la sua sosta a Nob presso i sacerdoti, che poi vengono uccisi da Saul, la vittoria contro i Filistei a Keila, la visita di Gionata a Corsa, l’opportunità di uccidere Saul nella grotta, l’incontro con Abigail. Il terzo canto si apre con i preparativi di Italo per la partenza, occasione ancora di una ripresa del motivo encomiastico per la discendenza annunciata dalla Sibilla al giovane tosco, di cui sono rappresentate le future imprese in quadri collocati nella loggia reale, dove il re Tarracone può deliziarsi a ammirare «i pronipoti suoi, come presenti, / […] le rive d’Arno, e i bei liquidi argenti / de le serve provincie in guerra dome» (David 40r). Vengono nominati i grandi della famiglia Medici, «Lorenzo il Magno», «Cosmo e Giuliano», «Alessandro gentil», «l’invitto Giovanni», «il gran Leon», «Cosmo […] Leonora», «’l gran Francesco primo», «il gran Ferdinando», «Cristiana» (Cristina di Lorena), «il giovinetto Cosmo» (Cosimo II), la sua «eccelsa sposa» (Maria Maddalena d’Austria) (David 40r-v). Tra le glorie dei riquadri vi è anche «il giovin lauro all’Arno in riva», chiaro riferimento alla poesia fiorentina, ma l’unico nome fatto è quello di Poliziano17. Si passa poi all’elogio di Roma e al pronostico della translatio della sede di Pietro, dalla 17 Si parla anche di «chi d’Achille / darà l’ira a i Latini» (David 43r), che si può identificare con Petrarca, autore del poema epico Africa, sulle guerre puniche.
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Palestina a Roma appunto, occasione di elogio per papa Paolo V, allora sul soglio pontificio (1605–1621). L’ultima parte del canto è riservata agli elogi delle donne illustri, per mezzo di alcune di loro si possono lodare nobili famiglie italiane: gli Estensi (per cui si menzionano anche «Lodovico e Torquato alme beate», 48r) e i Gonzaga; si lodano ancora Maria e Caterina de’ Medici. Il terzo canto sviluppa dunque le abilità encomiastice dell’autrice, senza tornare sulla storia davidica e biblica. Il poema si chiude con la fine della contemplazione di questi visibili pronostici e con l’accenno a successive canore lodi: «andaro, / dove i musici allor con dotti carmi, / cantar de’ grandi eroi l’imprese e l’armi» (David 52r). Scrive Faini di questo poema un giudizio altamente positivo e condivisibile: «per la padronanza delle tecniche epiche (azione in scorcio, digressioni, dislocazione dell’azione in cielo e agli inferi, uso del meraviglioso cristiano, allocuzioni) la Acciaioli Salvetti avrebbe potuto dar vita ad un poema eroico di qualche rispetto18». C’è da rammaricarsi che non sia stato concluso. Rime spirituali Sulla materia biblica Maddalena Salvetti Acciaioli basò ancora alcuni componimenti (solo quattordici, di cui una lunga canzone con alcuni sonetti e madrigali) che fanno parte delle sue rime spirituali e che furono pubblicati in appendice al poema. In realtà non si tratta di riscritture bibliche, ma di poesia devozionale, che per lo più considera i momenti fondanti la fede cristiana per suscitare devozione. Così è della canzone d’apertura sul Venerdì santo, dove in dodici strofe di endecasillabi e settenari (ABCBACCddCEfE, non ha commiato) invita l’anima, sul modello della canzone tassiana Alma inferma e dolente (di cui riprende molti stilemi, incluso un intero verso: «Pianger ben merta ogn’or s’ora non piange»)19 a contemplare il crocifisso, da cui solo deriva la salvezza, a ‘mirare’ (in una sorta di sguardo fisso che porta al coinvolgimento, secondo il modello degli esercizi spirituali ignaziani) il valore dell’Incarnazione e la sofferenza che comportò, a considerare i momenti e gli oggetti della passione, corona di spine e chiodi, che meriterebbero i peccatori. Altri componimenti sono o d’invocazione o di meditazione, sul libero arbitrio (questione cruciale nel confronto fra cattolici e protestanti, ma che a quast’altezza non poteva che definirsi, per l’autrice, secondo le indicazioni della Chiesa Romana), sulla
18 M. Faini, «La figura di David nei poemi biblici italiani tra Cinque e Settecento», art. cit., p. 384. 19 M. Salvetti Acciaioli, Poesie liriche spirituali, op. cit., c. 54v. La canzone Alma inferma e dolente delle Rime sacre del Tasso si legge in moderna edizione in Torquato Tasso, Opere, a cura di B. Maier, Milano, Rizzoli, 1964, pp. 375-378, n. 1634.
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grandezza del creato, sulla vanità delle cose terrene, in spregio della bellezza. Due madrigali sono rivolti all’angelo custode, e uno, delizioso, all’Annunziata: Come candida rosa all’apparir del giorno solinga in sé nascosa, sedeva in atto umilmente adorno l’alma vergine pura in santo zelo, quando s’aperse il cielo, e lampeggiando un lucido sereno scese il Verbo di Dio nel suo bel seno20.
Sebbene il paragone tra la donna e la rosa abbia una lunghissima e ben fondata tradizione, qui il raffronto tra la Madonna e la rosa è proposto con una freschezza nuova e assai appropriata. Rilevante è la solitudine meditativa, ma serena, in cui viene rappresentata la Vergine, quando avviene l’improvviso inatteso evento, che non è descritto, perché tutta l’attenzione è posta sulla giovinetta sorpresa. Anche il quasi ossimoro «umilmente adorno» bene rende la qualità non negletta, ma neppure sovrabbondante del decoro della Vergine. Infine interessante è la resa dell’intervento dello Spirito senza parole, veloce e luminoso come un lampo. La descrizione rivela una notevole familiarità meditativa con l’episodio, o forse con le sue molte riscritture e rappresentazioni che venivano dalla storia artistica e poetica di Firenze. Questi componimenti dimostrano la frequentazione anche privata delle Sacre Scritture da parte della Salvetti Acciaioli, come si vede ancora nel ricorso abbastanza frequente alle figure e al ricordo di episodi del Vecchio Testamento. Nel madrigale in cui invoca assistenza nei giorno della prova, porta a suo favore proprio il soccorso dato agli antichi Padri: Alto Signor, ch’al popol tuo piovesti, in ermo clima, già dolci rugiade, quel popol tuo a cui sicure strade nel procelloso mar pria gli facesti, quello per cui sorgesti, d’un vivo sasso duro un fonte chiaro e puro, deh rinnovella omai, gran Padre, in questi miei giorni afflitti e stanchi l’istessi essempi pria che ’l crin s’imbianchi piovi pietose stille a me della tua grazia a mille, a mille, tal che questo mio core 20 M. Salvetti Acciaioli, Poesie liriche spirituali, op. cit., c. 63r.
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parte prima - firenze biblica più duro, oimé, ch’un duro sasso assai stilli per gli occhi un chiaro fonte omai onde in quest’aspro mar d’orrido gelo s’apra una strada di salire al Cielo21.
In questi versi la vicenda personale dell’io poetico risulta inscritta nella storia dell’alleanza del popolo d’Israele con il suo Dio, mostrando evidentemente che la preoccupazione di questa scrittrice è una visione ampia della storia della salvezza. Già nell’affrontare la storia di David ella evidenziava il suo ruolo di guida di un popolo nella cui storia Firenze provava a riflettersi da tempo. Oltre che figura Christi, perché perseguitato da Saul, e una sorta di metafora esistenziale che consente di parlare dei rapporti fra individuo e potere, come avverrà più tardi per la storia di Virgilio Malvezzi, David è qui la guida santa e custodita da Dio di un popolo in cammino verso la salvezza22.
21 Ibid., c. 58v. 22 Le due ipotesi sull’opzione di David come figura Christi e come metafora del rapporto con il potere sono avanzate da Marco Faini nel discutere il poema della Salvetti Acciaioli. Cfr. M. Faini, «La figura di David nei poemi biblici italiani tra Cinque e Settecento», op. cit., pp. 382 e 399; per Malvezzi: Virgilio Malvezzi, David perseguitato, a cura di D. Aricò, Roma, Salerno, 1997.
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Parte seconda
Venezia scritturale
Introduzione
La Bibbia in tipografia Se il catalogo dei manoscritti medievali contenenti traduzioni bibliche registra in area toscana centinaia di codici, per l’area veneta il numero si riduce drasticamente a qualche decina di casi1. Evidentemente il prestigio della lingua, che gioca un ruolo importante per l’area toscana, non ha altrettanto peso in Veneto, per cui la circolazione dei testi biblici privilegia qui il latino, sebbene proprio il Veneto avesse prodotto una copiosa letteratura franco-veneta, e sia poi proprio Venezia la città da cui parte la proposta linguistica di Bembo, che del toscano farà l’italiano. Ma se questa è la situazione per la circolazione manoscritta, la stampa pose immediatamente Venezia come il capoluogo di diffusione più importante della Bibbia volgare. La tipografia veneziana, che aveva avuto inizio nel 1469 quando Johann von Speyer ottenne dal governo della Repubblica il privilegio di stampa per cinque anni, subito seguito dal francese Nicholas Jenson, quindi anche da tipografi italiani e locali, mise sul mercato prestissimo, già nel 1471 ben due Bibbie in volgare2. Se la Germania ebbe il primato di produrre a stampa la prima Bibbia in tedesco, uscita a Strasburgo da Johann Mentelin nel 1466, a Venezia già il primo agosto del 1471 proprio l’officina tipografica del fratello di Johann, Wendelin
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Cfr. Le traduzioni italiane della Bibbia nel Medioevo. Catalogo dei manoscritti (secc. xiii–xv), a cura di L. Leonardi, C. Menichetti e S. Natale, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2018. Si veda l’«Inventario dei manoscritti biblici italiani», a cura di M. Chopin, M.T. Dinale e R. Pelosini, premessa di L. Leonardi, indici di J. Dalarun, in Bibles italiennes, Mélanges de l’École Française de Rome, Moyen Âge, CV, 2, 1993, pp. 863–886. Nella recente pubbicazione descrittiva di una parte dei manoscritti, mentre più di 150 provengono dalla Toscana, solo quindici hanno indicata la provenienza Veneto, tre Venezia, uno Padova, uno Verona. Cfr. Le traduzioni italiane della Bibbia nel Medioevo. Catalogo dei manoscritti (secc. xiii–xv), op. cit., pp. XLVIII–L. Cfr. Martin Lowry, Nicolas Jenson e le origini dell’editoria veneziana nell’Europa del Rinascimento, Roma, Il Veltro, 2002, p. 44; Bronwen Wilson, The World in Venice. Print, the City, and Early Modern Identity, Toronto, Toronto University Press, 2005.
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parte seconda - venezia scritturale
von Speyer, terminava l’impressione della prima Bibbia tradotta in volgare italiano dal camaldolese Nicolò Malerbi, indicata significativamente come Biblia vulgarizata, iniziando una tradizione che, come ha mostrato Edoardo Barbieri, porta la Bibbia volgare ad essere quasi un best-seller ante litteram3. Solo pochi mesi dopo, a ottobre, una seconda traduzione, di mano anonima, ma molto debitrice di quella di Malerbi, apparve, sempre a Venezia, presso Adam von Ammergau , indicata come Biblia in vulgare tradutta4. Nella Serenissima, che godeva sia di garanzie di libertà sia di un alto tasso di alfabetizzazione, come pure di capitali a disposizione e di una rete commerciale estesa, l’editoria ebbe un successo ineguagliato e fece della città il maggior centro editoriale europeo del Rinascimento. Non solo gli editori rivolsero la loro attenzione alla diffusione di testi classici latini (Cicerone e Plinio il Vecchio sono i primi testi che vanno a stampa a Venezia già nel 1469, cui seguono l’opera di Prisciano e Sallustio) e volgari (il primo che va a stampa è il Petrarca volgare, Rime e Trionfi, nel 1470), ma anche alla cultura cristiana (nel 1570 esce il De civitate Dei di sant’Agostino), fornendo infine il testo religioso di base, la Bibbia, in una lingua accessibile a un largo strato di popolazione. Venezia mantenne questo primato per tutta la prima età moderna, infatti è a Venezia e solo a Venezia che fu stampata ripetutamente la Bibbia del Malerbi per tutto il Cinquecento, fin che fu possibile5. Altrove si stamparono fino all’arrivo dell’Indice del 1558 solo estratti o compendi, mentre ancora Venezia è la sede della traduzione di Vecchio e Nuovo Testamento di 3
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[Biblia uulgarizata], tr. N. Malerbi, Venezia, Wendelin von Speyer, I.VIII.1471; [Biblia in lingua vvlgare tradutta], tr. anonimo, Venezia, Adam von Ammergau, I.X.1471. Sulla Bibbia del Malerbi o Malermi: cfr. Edoardo Barbieri, «La fortuna della Biblia vulgarizata di Nicolò Malerbi», Aevum. Rassegna di Scienze storiche, linguistiche e filologiche, LXIII, 1989, pp. 419–500; Id., Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento. Storia e bibliografia ragionata delle edizioni in lingua italiana dal 1471 al 1600, Milano, Editrice Bibliografica, 1991–1992, I, pp. 15–35; Franco Pierno, «Pregiudizi e canone letterario. La Bibbia in volgare di Niccolò Malerbi (Venezia, 1471)», Rassegna europea di letteratura italiana, XXXVI, 2011, pp. 143–157. Cfr. E. Barbieri, Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento, op. cit., I, pp. 191–196. Le edizioni quattro-cinquecentesche della Bibbia del Malerbi sono: Venezia, Gabriele di Pietro, 1477; Venezia, Antonio Miscomini, 1478; Venezia, Ottaviano Scoto, 1481; Venezia, Andreas de Paltasichis, 1484; Venezia, Giovanni Rosso per Tommaso Trevisano, 1484; Venezia, Giovanni Ragazzo per Lucantonio Giunta, 1490; Venezia, Giovanni Ragazzo per Lucantonio Giunta, 1492; Venezia, Guglielmo da Trino (Anima Mia) [e Antonio da Trino], 1493; Venezia, Giovanni Rosso per Lucantonio Giunta, 1494; Venezia, Bartolomeo Zani, 1502; Venezia, Bartolomeo Zani, a istanza di Lucantonio Giunta, 1507; Venezia, Giorgio Rusconi, 1517; Venezia, Lazzaro Soardi e Bernardino Benali, 1517; Venezia, Elisabetta Rusconi, 1525; Venezia, Lucantonio Giunti, 1532; Venezia, Guglielmo da Fontaneto e Melchiorre Sessa e eredi di Pietro Ravani, 1532; Venezia, Bernardino Bindoni, 1535 (con una seconda edizione lo stesso anno presso Ottaviano Scoto); Venezia, Bernardino Bindoni, 1541; Venezia, Bernardino Bindoni, 1546; Venezia, Aurelio Pinzi, 1553; Venezia, [Domenico Farri], 1558; Venezia, Andrea Muschio, 1566 e, stesso anno, Venezia, Girolamo Scoto, 1566; Venezia, Girolamo Scoto, 1567.
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introduzione
Antonio Brucioli6, quindi della versione di Sante Marmochino7, e ancora, dieci anni dopo, della traduzione del Nuovo Testamento che porta il nome della tipografia che vi intervenne, Al segno della Speranza (una versione basata sulla Bibbia brucioliana e rivista dai tipografi8). Solo nel 1562, quando ormai la Bibbia volgare era stata segnalata come problematica per il mondo cattolico dall’Indice del 1558, si stampa una Bibbia in italiano fuori Venezia, ovvero a Ginevra con la traduzione di Filippo Rustici9, poi quella poliglotta di Hutter10, infine quella del Diodati nel 160711. Dunque le Bibbie italiane fino al 1562 furono tutte veneziane, e, se si considera la quasi piena adesione al cattolicesimo della penisola, si può dire che Venezia fu il tramite attraverso cui tutti gli italiani illetterati, ovvero senza familiarità con il latino, si accostarono al testo fondativo della loro fede nel Rinascimento. Che la traduzione del Malerbi avesse un intento divulgativo rivolto a tutte le fasce della popolazione è esplicitato dalla lettera del traduttore a Lorenzo da Venezia, teologo francescano che aveva evidentemente collaborato con il Malerbi alla traduzione. Nella lettera, che accompagna le prime edizioni (fino a quella del Miscomini del 1478), si legge infatti la motivazione per il volgarizzamento: Il desiderio di soccorrere a li non dediti a le lectione de la Divina Scriptura per non averse dati da la tenera età a la doctrina litteral per el cui studio de essa Divina Scriptura li docti se ridriciano a la vera sapientia e li non docti a la vera religione. […] Ma noi, che abiamo rezevuto el sacramento de la cristiana religione e a’ quali essendo revelata la verità da Dio e seguitando el doctore de la sapientia e Dio duca de la virtù, convochiamo tutti universalmente senza alcuna differentia de maschio o de femina o de età a tale celestiale e utilissime vivande12.
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Le edizioni furono Venezia, Lucantonio Giunta, 1532; Venezia, Francesco Bindoni e Maffeo Pasini, 1538 riedita l’anno successivo: Venezia, [Federico Torresano], 1539, e ancora Venezia, Francesco Brucioli e fratelli, 1541; Venezia, Girolamo Scoto, 1547; Venezia, Domenico Giglio, 1551 con una seconda edizione l’anno successivo. 7 Venezia, Eredi di Lucantonio Giunta, 1538; poi Venezia, Eredi di Lucantonio Giunta, 1545 con una seconda edizione l’anno successivo. 8 Venezia, al segno della Speranza, 1548. Cfr. E. Barbieri, Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento, op. cit., I, pp. 295–297. 9 [Genève], François Duron, 1562. 10 Curata da Elias Hutter, usando la traduzione di Filippo Rustici, Nürenberg, [Alexander Philipp Dietrich], 1599. 11 Genève, [ Jean de Tournes], 1607, riedita Genève, Pierre Chouët, 1641. Su queste ultime traduzioni si veda il capitolo Franco Pierno, «La parola per tutti. Le traduzioni bibliche», in Id., La parola in fuga. Lingua italiana ed esilio religioso nel Cinquecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018, pp. 65–112. 12 E. Barbieri, Le Bibbie italiane del Quattrocento e del Cinquecento, op. cit., pp. 40–46.
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L’invito alla lettura e fruizione della sapienza biblica è dunque per Malerbi quanto mai ampio e coinvolge, oltre che tutte le classi sociali, anche le donne, secondo una linea che dal tardo Medioevo portava anche i laici a intervenire in materia religiosa a fianco delle gerarchie ecclesiastiche ed estendeva la possibilità di accedere ai testi fondanti la religione anche ai meno colti. Pure il Brucioli nelle premesse alle sue edizioni della Biblia ricordava come lo Spirito Santo, «volle a’ semplici et idioti manifestare quegli alti secreti, giudicando quegli più degni, non havendo le menti gonfiate di humana sapientia» e più tardi aggiungeva come fosse naturale che pure «una donna o uno calzolaio parli de le sacre lettere et quelle intenda leggendo13». Anche a Venezia era vivo l’interesse dei laici a partecipare alla vita della Chiesa. Le confraternite erano venute a costituire importanti reti cittadine che si occupavano di carità, dell’organizzazione di attività devozionali, di mecenatismo religioso artistico e musicale, in cui si riversavano i principi religiosi fondanti la società veneziana. Le attività delle Scuole grandi e Scuole piccole, ovvero delle locali confraternite nate dalle corporazioni, facevano attivamente interagire lo spirito mercantile veneziano con il principio della carità e misericordia cristiane14. 13 La prima citazione da La Biblia quale contiene i sacri libri del Vecchio Testamento, tradotti nuovamente da la hebraica verita in lingua toscana per Antonio Brucioli. Co divini libri del Nuouo Testamento di Christo Giesu Signore & salvatore nostro. Tradotti di greco in lingua toscana pel medesimo, Venezia, Lucantonio Giunta, 1532, c. n.n.; la seconda da I sacrosanti libri del Vecchio Testamento, tradotti dalla ebraica verita in lingua italiana, & con breve & catholico commento dichiarati. Per Antonio Brucioli. Tomo primo, Venezia, Bartolomeo Zanetti, 1540, p. n.n. Qui si legge infatti: «Esclameranno forse alcuni essere indegna cosa che una donna, o uno calzolaio, parli de le sacre lettere et quelle intenda leggendo, quando meglio è intendere in simplicità di cuore che in elevatione di scientia, et udire parlare a simili anime semplici idiote de la virtù de lo spirito che certi sommi maestri che con la loro non sana philosophia maculano la parola di Dio. Et non riprese il Signore i discepoli suoi che prohibivano andare i fanciugli a lui […]». Sul Brucioli: Humanisme et évangelisme entre réforme et contre-réforme. Actes du colloque de Tours. 20–21 mai 2005, a cura di É. Boillet, Paris, Champion, 2008. 14 Sulle confraternite nel contesto religioso veneziano della prima età moderna cfr. Richard S. Mackenney, «The Scuole piccole of Venice: Formations and Transformations», in The Politics of Ritual Kinship. Confraternities and Social Order in Early Modern Italy, a cura di N. Terpstra, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 172–189; Patricia Fortini Brown, «Honor and Necessity. The Dynamics of Patronage in the Confraternities of Renaissance Venice», Studi veneziani, n.s. XIV, 1987, pp. 179–212; Chiara Traverso, La Scuola di San Fantin o dei ‘Picai’. Carità e giustizia a Venezia, Venezia, Marsilio, 2000; Gastone Vio, Le Scuole Piccole nella Venezia dei Dogi. Note d’archivio per la storia delle confraternite veneziane, Costabissara (Vicenza), Angelo Colla Editore, 2004; Jonathan Glixon, «Statutes of the Confraternity of the Most Holy Sacrament in the Church of San Felice, Venice», Confraternitas, XXII, 2011, pp. 30–40; Richard Mackenney, «Continuity and Change in the Scuole Piccole of Venice, c. 1250–c. 1600», Renaissance Studies, VIII, 1994, pp. 388–403; Id., Venice as the Polity of Mercy. Guilds, Confraternities, and Social Order, c. 1250–1650, Toronto, University of Toronto Press, 2019. In generale Brotherhood and Boundaries. Fraternità e barriere, a cura di S. Pastore, A. Prosperi e N. Tepstra, Pisa, Edizioni della Normale, 2011; A Companion to Medieval and Early Modern Confraternities, a cura di K. Eisenbichler, Leiden-Boston, Brill, 2019.
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Tutta la vita civica a Venezia aveva una decisa impronta religiosa: sulla storia sacra la Serenissima basava i propri fondamenti, riconoscendo il momento fondatore della città in linea con i momenti chiave della storia della salvezza: nell’Annunciazione, nella morte di Cristo, oltre che nella creazione di Adamo. Nel mito delle origini di Venezia si intrecciano infatti questi motivi biblici. Si legge nel trattato su Venezia di Marin Sanudo: Venezia fo comenzata a edificar […] del 421, adì 25 Marzo in zorno di Venere cercha l’hora di nona ascendendo, come nella figura astrologica apar Gradi 25 del segno del Cancro. Nel qual zorno ut divinae testantur litterae fu formato il primo homo Adam nel principio del mondo per le mano de Dio. Ancora in ditto zorno la verzene Maria fo annonciata da l’angel Gabriel, et etiam el fiol de Dio, Christo Giesù nel suo immaculato ventre miraculose introe, et secondo l’opinione theologica fo in quel medesmo zorno da zudei crocefisso […]15.
Ma già nel Trecento Martin da Canal nelle sue storie venete aveva indicato queste coincidenze all’origine di Venezia16, per cui si può dire con Benzoni che la città «s’aggancia a una vertiginosa proiezione desunta dalla cronologia biblica, si situa in una dimensione che allude alla creazione e all’Incarnazione, si alona di redenzione. […] E poiché i significati si dilatano e trapassano, diventa città della Vergine, città della Madonna, protettrice del suo eccezionale destino che la vede costituirsi “divina potius quam humana ope”17». D’altra parte nell’insegna di San Marco campeggia la scritta: «Pax tibi Marce, evangelista meus», indicando bene non solo la protezione dell’Evangelista, ma anche l’appropriazione del suo messaggio da parte della città. Venezia inoltre era città vivace per la pluralità di presenze, di ogni provenienza e fede, essendo crocevia e passaggio obbligato per i territori del centro Europa, ma anche per il forte richiamo esercitato dall’Università di Padova, che da sempre attirava sia maestri sia studenti dall’Europa, dalla Germania soprattutto. La presenza e circolazione di molte fedi diverse era favorita oltretutto dai suoi commerci verso l’Oriente, dalle terre d’Oltremare, che costituivano un ponte per la circolazione non solo di merci, ma anche di idee. Infatti a fianco di questa produzione biblica,
15 Marin Sanudo, De origine, situ et magistratibus urbis Venetae, overo la città di Venetia (1493–1530), a cura di A. Caracciolo Aricò, Milano, Cisalpino-La goliardica, 1980, pp. 12–13. 16 Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di A. Limentani, Firenze, L. S. Olschki, 1972, p. 3–4. 17 Gino Benzoni, Da Palazzo Ducale. Studi sul Quattro-Settecento veneto, Venezia, Marsilio, 1999, p. 214.
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l’editoria offriva a Venezia anche i libri fondanti altri fedi18. Solo nel 1475 si stampò a Venezia la prima Bibbia latina, che però fu seguita da numerose altre edizioni, quasi una (se non due) ogni anno19; però già nel 1501 Aldo Manuzio preparò la prima Bibbia poliglotta (greca, latina, ebraica)20, e a Venezia uscirono ben tre edizioni della Bibbia rabbinica con parafrasi aramaica e commenti (nella tipografia del fiammingo Daniel Bomberg tra il 1516 e il 1548)21. Venezia arrivò al punto di vedere la preparazione di un’edizione araba del Corano nel 1537 (presso Alessandro Paganino), che però non ebbe fortuna, ma una traduzione del testo sacro islamico uscì dieci anni dopo presso Andrea Arrivabene22. Questo fervido clima culturale, dove si era insediato il toscano Aldo Manuzio e aveva avviato una produzione eccezionalmente qualificata di classici greci, latini e poi anche volgari (tra cui un salterio greco), attirò, come è ben noto, Erasmo, che vi giunse nel 1508, appena dopo aver pubblicato a Parigi le Adnotationes in Novum Testamentum di Lorenzo Valla (1505)23. Ospite appunto di Manuzio, restò a Venezia un anno, in cui collaborò ad edizioni di classici latini, ma dando anche alle stampe un’edizione ampliata degli Adagia. Anche se il suo passaggio avvenne senza lasciare segno duraturo, «L’Italia significò allora per Erasmo, e per la sua fama europea, assai più di quello che Erasmo significò per l’Italia24».
18 Cfr. Le civiltà del libro e la stampa a Venezia. Testi sacri ebraici, cristiani, islamici dal Quattrocento al Settecento, a cura di S. Pelusi, Padova, Il Poligrafo, 2000; «The Book of Venice. Il libro veneziano», a cura di L. Pon e C. Kallendorf, numero monografico di Miscellanea Marciana, XX, 2005–2007. 19 Presso Franciscus Renner de Heilbronn e Nicolaus de Frankfordia. Per le Bibbie in latino o in altre lingue nel Cinquecento si veda Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, La Bibbia. Edizioni del xvi secolo, a cura di A. Lumini, Firenze, Olschki, 2000. 20 Cfr. Piero Scapecchi, «Aldo alle origini della Bibbia poliglotta», in Le civiltà del libro e la stampa a Venezia, op. cit., pp. 77–82. 21 Ibid. 22 Cfr. Marino Zorzi, «Il libro religioso nella storia della stampa veneziana», in Le civiltà del libro e la stampa a Venezia, op. cit., pp. 17–28: 25; Edoardo Barbieri, «La tipografia araba a Venezia nel xvi secolo. Una testimonianza d’archivio dimenticata», Quaderno di studi arabi, IX, 1991, pp. 127–131. 23 Aldo Manuzio doveva essere interessato anche al rinnovamento della Chiesa, come si vede nella decisione di stampare le lettere di Caterina come prima opera della sua collana in volgare (Epistole deuotissime de sancta Catharina da Siena, Venezia, Aldo Manuzio, 1500). Erasmo, oltre a determinare la decadenza dell’esegesi scolastica per l’interesse al ritorno alle fonti di stampo umanistico, nell’introdurre la sua edizione del Nuovo Testamento del 1516 sottolineava l’urgenza di favorire l’incontro di ogni fedele con il Vangelo. 24 Silvana Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520–1580, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 33. Uno sguardo di sintesi in Carlo Carena, «Le Adnotationes in Novum Testamentum di Erasmo da Rotterdam e Lorenzo Valla», in La Bibbia nella letteratura italiana. V. Dal Medioevo al Rinascimento, a cura di G. Melli e M. Sipione, Brescia, Morcelliana, 2013, pp. 499–514.
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Venezia inoltre non mancava di studi biblici auctotoni miranti alla revisione, ricostruzione, esegesi del testo sacro, come mostra Francesco Zorzi (Francesco Giorgio Veneto) nel suo In Scripturam sacram problemata, che invitava a un’accurata revisione filologico-critica della Vulgata sul testo ebraico, per restituire il messaggio autentico della Sacra Scrittura25. Istanze di riforma Fu in questo clima di apertura e di consapevolezza biblica che maturò la vocazione di due aristocratici, Tommaso (poi Paolo) Giustiniani e Vincenzo (poi Pietro) Querini, che abbandonarono una vita patrizia, dedita alla cultura e alla politica, per votarsi allo studio della Sacra Scrittura, lasciando Aristotele e Cicerone per il Vangelo e san Paolo, ovvero, come scrissero, «per la viva e acuta parola di Dio26». Presi i voti nell’ordine camaldolese (che avevano frequentato nel monastero di San Michele in Murano), intrapresero un rapporto profondo con la Bibbia, che diventò la viva compagna della loro solitudine eremitica, l’alternativa alla cultura menzognera del mondo. Come si sa, il Giustiniani e il Querini furono autori di una coraggiosa proposta di riforma della Chiesa prima della Riforma. Nella loro lettera a Leone X papa, conosciuta come Libellus ad Leonem X, in cui lo si sollecitava a una riforma radicale della Chiesa nel segno della missione evangelica universale voluta da Cristo, era anche presente la richiesta di favorire la divulgazione del testo sacro. Nella quinta parte del Libellus infatti, dopo aver proposto un programma di conversione di Ebrei, Musulmani, e popoli del Nuovo Mondo, viene avanzato un
25 Uscito nel 1536, ebbe circolazione europea, con due ristampe a Parigi nel 1574 e nel 1622. Cfr. Saverio Campanini, «Francesco Giorgio’s Criticism of the Vulgata: Hebraica Veritas or Mendosa Traductio?», in Hebrew to Latin, Latin to Hebrew. The Mirroring of Two Cultures in the Age of Humanism, a cura di G. Busi, Torino, Nino Aragno Editore, 2006, pp. 206–231. 26 Paolo Giustiniani e Pietro Querini, Lettera al Papa. Libellus ad Leonem X [1513], a cura di G. Bianchini, presentazione di Franco Cardini, Modena, Artioli, 1995, p. 89. Per il testo originale cfr. Paulus Justiniani, Petrus Quirini, «Libellus ad Leonem X», in Annales Camaldulenses Ordinis Sancti Benedicti tomus nonus, a cura di G.B. Mittarelli e A. Costadoni, Venezia, Giovanni Battista Pasquali, 1773, coll. 612–719. Su cui si vedano: Adriano Prosperi, «Intellettuali e Chiesa all’inizio dell’età moderna», in Storia d’Italia, Annali 4. Intellettuali e Potere, dir. C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1981, pp. 159–252, in particolare 177–252; Stephen D. Bowd, Reform before the Reformation. Vincenzo Querini and the Religious Renaissance in Italy, Leiden-Boston, Brill, 2002; Giuseppe Alberigo, «Sul Libellus ad Leonem X degli eremiti camaldolesi Vincenzo Querini e Tommaso Giustiniani», in Humanisme et Église en Italie et en France méridionale: xve siècle-milieu du xvie siècle, a cura di P. Gilli, Roma, École Française de Rome, 2004, pp. 349–59; Eugenio Massa, Una cristianità nell’alba del Rinascimento: Paolo Giustiniani e il Libellus ad Leonem X (1513), Genova, Marietti1820, 2005, pp. 151–152; Umberto Mazzone, «Libellus ad Leonem X: note in margine all’edizione e alla storiografia. Le edizioni del testo», Franciscan Studies, LXXI, 2013, pp. 19–32. Il Querini è quello stesso che accusò Domenica da Paradiso di eresia. Cfr. supra il capitolo su Domenica.
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programma di riforma dell’educazione e del sapere pensato in prospettiva cristiana, dove il combattimento per debellare l’ignoranza è visto come via di salvezza, ovvero per l’eliminazione di quei vizi, come superstizione e avidità, che impediscono di progredire verso la felicità della beatitudine eterna. Abbiamo spesso pensato, infatti, che non c’è niente che più possa istruire tutti gli uomini sulle cose divine e umane della sacrosanta Scrittura dell’Antico e del Nuovo Testamento. Gli antichi padri stabilirono che venisse letta ogni giorno nelle chiese perché i cristiani – che in massima parte, a causa di altre occupazioni della vita o per l’incapacità di leggere o anche per la mancanza di libri (i cristiani di quel tempo, infatti, non ne avevano a disposizione – a differenza di quelli di adesso – una gran quantità) non potevano istruirsi su tali cose stando a casa propria –, radunandosi in chiesa, ascoltassero là la parola del Signore, grazie alla quale potessero fare grandi progressi nella conoscenza e nell’emancipazione del proprio modo di vivere27.
Dopo aver considerato come la lettura dei testi sacri fosse avvenuta a seconda della lingua dei popoli che ne fruivano, prima in ebraico, poi in greco, quindi in latino, perché «i santi padri capirono che non sarebbe servito a niente se, nelle chiese, le Scritture venissero, sì, lette, ma senza venir capite dal popolo28», indicavano l’urgenza di provvedere a traduzioni bibliche nelle lingue conosciute dai popoli a cui sarebbero state rivolte le letture: Sennò a che serve proclamare ogni giorno, nelle chiese, brevi sezioni dei santi Vangeli e delle lettere degli apostoli e i salmi, se né coloro che leggono né coloro che ascoltano capiscono le cose che dicono? Ora, nessuno che sia sano di mente ha il diritto di inorridire – come fanno certi tizi che sono convinti di essere quelli che hanno capito tutto loro – all’idea di questa traduzione; perché, se guardiamo alla cosa in sé e ci atteniamo alla ragionevolezza, piuttosto che a una vana opinione, è, né più né meno, sempre la medesima sapienza, sempre la medesima dottrina che è contenuta nel Vangelo e nelle altre Scritture – che siano scritte in ebraico o in latino o in greco o in volgare. […] Perciò, se per tua [del papa Leone X] iniziativa, si ordinerà che ciò che viene letto e salmeggiato nelle chiese venga letto e salmeggiato – o dappertutto o almeno in qualche regione – in lingua volgare, riteniamo che una cosa del genere gioverà in modo straordinario alla conoscenza dei divini precetti e all’emendazione dei costumi. Rifletta la saggezza della tua santità su quante siano le migliaia di sante monache – per non parlare dell’innumerevole moltitudine di religiosi maschi – che ogni giorno leggono dalla Scrittura salmi e letture senza capirci un accidente. Quanto profitto ne trarrebbero se capissero ciò che leggono! «Tutta la Scrittura», infatti (ne dà
27 Libellus ad Leonem decimum, tr. it. L. Barletta, in Un eremita al servizio della Chiesa. Scritti del beato Paolo Giustiniani, a cura degli Eremiti Camaldolesi di Montecorona, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2012, 31–222: 154. 28 Ibid., p. 155.
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introduzione testimonianza l’Apostolo), è «utile per insegnare» [2 Tm 3, 16] e per istruire – coloro che la capiscono, però, non certo quelli che non la capiscono29.
Le lunghe citazioni servono proprio per sottolineare la consapevolezza che Giustiniani e Querini avevano del problema, grazie alla frequentazione di una città in cui le Sacre Scritture circolavano in volgare e dove i molti monasteri femminili rendevano evidente la necessità di un accesso al testo sacro tradotto. Pare che Giustiniani stesso volesse cimentarsi in una traduzione del testo sacro30. Presentato a papa Leone X in occasione del V Concilio Lateranense del 1513, il libello non ebbe però seguito e rimase un’utopia (segno evidente della sua inefficacia è che rimase manoscritto). Non per questo esso manca di interesse, anzi è comunemente riconosciuto come il documento dell’attesa di riforma «più grandioso e, nello stesso tempo, il più radicale», segno dello zelo riformatore che pervadeva gli ambienti dell’umanesimo cristiano a Venezia, che «allargava acutamente lo sguardo sull’orizzonte di pace, di giustizia e di salvezza propri di un nuovo ordine politico, sociale ed ecclesiale31». Al fervore mistico, ma anche ecclesiale, di Paolo Giustiniani e Pietro Querini, si associa l’impegno politico del loro sodale in studi e primi passi verso una vita evangelica, Gaspare Contarini, che mostra un’altra modalità veneziana, ma di portata universale, di interazione con la Bibbia. All’invito di ritirarsi nella solitudine di Camaldoli, Contarini preferì l’impegno politico: fu vescovo e ambasciatore, seriamente impegnato alla riconciliazione delle Chiese e, come i compagni, dedito anche ad azioni ispirate dalla sapienza evangelica32. Nel suo De officio boni viri ac probi episcopi combinava l’azione politica e sociale, fondandole sulla Sacra Scrittura. Infatti egli applaudiva alle letture pubbliche rivolte ai laici che si facevano nel monastero benedettino di Santa Giustina di Padova, che vedevano infervorati pure gli studenti dell’università, in genere poco propensi agli studi sacri33. Egli ri29 Ibid., p. 155–157. 30 E. Massa, Una cristianità all’alba del Rinascimento. Paolo Giustiniani e il Libellus ad Leonem X (1513), op. cit., p. 141; cfr. Eugenio Massa, L’eremo, la Bibbia e il Medioevo in umanisti veneti del primo Conquecento, Napoli, Liguori 1992. 31 Le citazioni da Filippo Lovison, «Presentazione», in «Il Libellus ad Leonem X fra storia e cronaca», in Un eremita al servizio della Chiesa. Scritti del beato Paolo Giustiniani, op. cit., pp. 19–33: 22 e 21. 32 Sul Contarini cfr. Gigliola Fragnito, «Cultura umanistica e riforma religiosa: il De officio boni viri ac probi episcopi di Gasparo Contarini», Studi veneziani, XI, 1969, pp. 75–189; Ead., Gasparo Contarini un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze, Olschki, 1988; Elisabeth G. Gleason, Gasparo Contarini, Venice, Rome, and Reform, Berkeley, University of California Press, 1993; Enrica Benini Clementi, Riforma religiosa e poesia popolare a Venezia. Alessandro Caravia, Firenze, Olschki, 2000; Constance Furey, Erasmus, Contarini and the Religious Republic of Letters, Cambridge, Cambridge University Press, 2006. 33 Sulla insistenza posta sulle letture bibliche da parte del Contarini si veda Fabio Forner, «Gli erasmiani, gli antierasmiani e la Bibbia», in La Bibbia nella letteratura italiana. V. Dal Medioevo
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mase un fervido sostenitore dell’ecumenismo, ma dovette arrendersi alla ragione politica che abbatté a Ratisbona le istanze ireniche di riconciliazione delle Chiese. Quando le posizioni di Lutero divisero l’Europa cristiana, a Venezia iniziarono a circolare stampe che divulgavano le idee riformate e, nonostante i decreti del Senato che intervenne fin dal 1520, su sollecitazione del Patriarca, volti a confiscare e condannare la pubblicazione e circolazione di libri, si continuarono a stampare testi che riflettevano idee oltremontane e filoriformate34. Nel 1525 Nicolò Zoppino stampò una silloge di testi di Lutero tradotti in volgare, dando così ai «semplici cristiani» l’accesso ai testi fondanti la Riforma35. A Venezia si stamparono pure i testi di Juan de Valdès che ispirarono gli Spirituali o Valdesiani, la sola forma di eterodossia che si diffuse ampiamente in Italia. Nel 1543 uscì il Trattato utilissimo del beneficio di Cristo presso Bernardino Bindoni, che raggiunse una vendita altissima (si parlava di 40 000 copie) e un’amplissima circolazione nella penisola ed Europa, anche tra i ceti meno istruiti (ma messo all’Indice già nel 1549). Uno dei suoi autori, Benedetto da Mantova, che lo compose con Marcantonio Flaminio, era passato nel monastero benedettino veneziano di San Giorgio Maggiore, che negli anni ’30 era stato un faro di cultura umanistica e teologica, sotto la guida dell’abate Gregorio Cortese36. A Venezia uscirono poi ancora nel 1545 sia l’Alfabeto cristiano sia il catechismo valdesiano, Qual maniera si debba tenere a informare insino dalla fanciullezza i figliuoli de’ christiani delle cose della religione, tutti testi che proclamano la necessità della sola fede per essere giustificati, fede fondata sulla Sacra Scrittura, e che furono editi proprio quando si apriva a Trento il dibattito sulla giustificazione37. Su questa linea riformatrice e irenica dell’Umanesimo cristiano veneto si svilupparono per tutto il Cinquecento movimenti evangelici riformatori che animarono la vita religiosa ed ecclesiale della città e che videro continuare il fervore al Rinascimento, op. cit., pp. 415–435. 34 M. Zorzi, «Il libro religioso nella storia della stampa veneziana», art. cit., p. 21. 35 Cfr. Silvano Cavazza, «Libri in volgare e propaganda eterodossa a Venezia 1543–1547», in Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, Modena, Panini, 1987, pp. 9–28; John J. Martin, Venice’s Hidden Enemies. Italian Heretics in a Renaissance City, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2004 (1993); La Chiesa di Venezia tra Riforma protestante e Riforma cattolica, a cura di G. Gullino, Venezia, Edizioni Studium Cattolico Veneziano, 1990. Sulle donne di fronte alle novità religiose: Federica Ambrosini, «“El cervel entrigà nelle cose della fede”. Donne e Riforma a Venezia (secoli xvi–xvii)», in Spazi, poteri, diritti delle donne a Venezia in età moderna, a cura di A. Bellavitis, N.M. Filippini, T. Plebani, Bolzano, QuiEdit, 2012, pp. 163–180. 36 Cfr. Francesco C. Cesareo, Humanism and Catholic Reform. The Life of Gregorio Cortese (1483– 1548), New York-Berlin, Peter Lang, 1990; Salvatore Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana, 1997, p. 91. 37 Cfr. Massimo Firpo, «Il Beneficio di Christo e il Concilio di Trento (1542–1546)», Rivista di storia e letteratura religiosa, XXXI, 1995, pp. 45–72.
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verso una conoscenza biblica promossa per tutti e verso la riconciliazione delle Chiese. Per questa prospettiva, che si riteneva sostenuta dalle autorità veneziane, almeno fino al 1560 circa, lavorarono sia il francescano Bartolomeo Fonzio, sia il vescovo istriano Pietro Paolo Vergerio, sia il doge Francesco Donà, invitato proprio da Vergerio a farsi promotore di una riforma della Chiesa. Tutta la loro azione era ugualmente fondata sul Vangelo nella convinzione che fosse necessario propagare «il Verbo del Signiore» alle sue «povere pecorelle38». Tanto impegno riformatore aveva permesso a un osservatore estraneo, come il francese Guillaume Postel, di salutare Venezia come «la santa, reale e vera Gerusalemme». Già indicata nel Quattrocento come altra Bisanzio dal Bessarione («quasi alterum Byzantium»), essa si presenta nel Cinquecento come altra Gerusalemme per la centralità che aveva la venerazione di Cristo nella città (con la chiesa di San Salvador), ma anche per la stretta relazione che legava politica e religione, e per la profonda pietas che si incrociava con i valori civili39. Ma l’apertura tollerante di Venezia non resistette all’evoluzione politica: in seguito alla dieta di Ratisbona anche il Consiglio dei Dieci si armò contro i reati di stampa, su cui iniziò a esercitare un severo controllo40. Ne fece le spese anche il Brucioli, che oltre a essere traduttore della Bibbia era anche editore. La proibizione della Bibbia in volgare, emanata con il decreto del 1558, segnò un colpo terribile per l’editoria veneziana, che però seppe ripiegare sul libro devoto, soprattutto in volgare, la cui domanda era divenuta molto alta. La tipografia veneziana nel difficile periodo che attraversò nella seconda metà del Cinquecento, quando la Bibbia volgare venne proibita, si salvò proprio grazie al libro religioso, ovvero generando una ricchissima produzione di testi che dalla
38 Cfr. Aldo Stella, «L’orazione di Pietro Paolo Vergerio al doge Francesco Donà sulla riforma della Chiesa (1545)», Atti dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, CXXXII, 1969–1970, t. 128 Classe di scienze morali, pp. 1–39; su Bartolomeo Fonzio: Achille Olivieri, «Il Catechismo e la Fidei et doctrinae […] ratio di Bartolomeo Fonzio, eretico veneziano del Cinquecento», Studi veneziani, IX, 1967, pp. 339–452; su Vergerio: Anne Jacobson Shutte, The Making of an Italian Reformer, Genève, Droz, 1977; Robert A. Pierce, Pier Paolo Vergerio, the Propagandist, Roma, Edizioni di Storia e Letterarura, 2003. Su alcuni gruppi riformatori e sui rapporti con il potere a Venezia, si veda l’istruttivo saggio di Silvana Seidel Menchi, «Protestantesino a Venezia», in La Chiesa di Venezia tra Riforma protestante e Riforma cattolica, op. cit., pp. 131–154. Su casi particolari: Aldo Stella, Dall’anabattismo al socinianesimo nel Cinquecento veneto: ricerche storiche, Padova, Liviana, 1967. 39 Postello, Venezia e il suo mondo, a cura di M. Leathers Kuntz, Firenze, Olschki, 1988. 40 Sull’Inquisizione a Venezia e le conseguenze sulla tipografia: Conor Fahy, «The Index librorum prohibitorum and the Venetian Printing Industry in the Sixteenth Century», Italian Studies, XXV, 1980, pp. 52–61.
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Bibbia traevano origine, come salteri, leggendari, testi agiografici, libri di devozione o liturgici, messali e offici, sermonari41. La Bibbia dei poligrafi Questo interesse per la Bibbia si incontra fecondamente con la letteratura intorno agli anni trenta del secolo, quando nel 1527 approda a Venezia Pietro Aretino. Prolifico scrittore, oltre a dare vita a commedie e narrazioni mondane, si dedicò anche alle riscritture bibliche, forse per intercettare una domanda del mercato, forse per suo interesse42. Dal 1534 al 1543 pubblica infatti sei opere bibliche: La passione di Gesù (1534), I sette salmi della penitentia di David (1534), I tre libri dell’humanità di Christo (1535) poi divenuti I quattro libri dell’humanità di Christo (1538), Il Genesi (1538), La vita di Maria Vergine (1539), che ebbero notevole importanza sia per l’autore (come egli stesso dichiara spesso nelle sue lettere) sia come successo editoriale (nei soli dieci anni successivi ebbero in media sette riedizioni ciascuno)43. Egli fa scaturire queste opere bibliche da una visione e le destina al bene e all’utile della società. Fondamentalmente resta fedele al testo evangelico o biblico, come al dettato della Chiesa, seppure non manchino prese di posizione anticlericali e alcune invenzioni. La sua operazione però aveva un innegabile sentore di Riforma e si poneva alla difesa della purezza e semplicità evangelica, era in linea con lo sviluppo dell’Evangelismo nelle sue molteplici sfaccettature e favoriva l’accostarsi alla Bibbia da parte dei laici, per cui venne presto messo all’Indice44. In quegli anni a Venezia si trovava anche il benedettino Teofilo Folengo (salvo una breve parentesi eremitica tra il 1530 e il 1533 in Calabria), che fa uscire a Venezia nel 1533 il suo poema, Humanità del Figliuolo di Dio, ristampato poi nel 1567 e 41 M. Zorzi, «Il libro religioso nella storia della stampa veneziana», art. cit., p. 20; Il procedere del mercato editoriale del libro religioso è ben analizzato da Ugo Rozzo, «Introduzione», in Il libro religioso, a cura di U. Rozzo e R. Gorian, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2002, pp. 5–44. 42 Cfr. Élise Boillet, L’Arétin et la Bible, Genève, Droz, 2007. Si veda poi l’edizione moderna delle opere bibliche: Pietro Aretino, Genesi, Umanità di Cristo, Sette salmi, Passione di Gesù, a cura di É. Boillet, Roma, Salerno, 2017. 43 Ancora nel Seicento vennero ripubblicate sotto lo pseudonimo di Partenio Etiro, l’Humanità di Christo, la Vita di Maria, Venezia, Marco Ginammi, 1628, riediti nel 1633 (l’Humanità di Christo ancora nel 1645), l’anno successivo Il Genesi, Venezia, Marco Ginammi, 1629, riedito nel 1635, e anche i Salmi penitentiali, Venezia, Marco Ginammi, 1635. Cfr. Christopher Cairns, Pietro Aretino and the Republic of Venice. Researches on Aretino and his Circle in Venice, 1527–1556, Firenze, Olschki, 1985. 44 Aretino ebbe anche modo di ascoltare a Venezia Bernardino Ochino, che vi aveva ricevuto un’attenzione straordinaria; egli poté scrivere, oltre alle lodi per il predicatore che a suo dire dai tempi degli Apostoli nessuno pareggiava, che Ochino era «tromba e squilla del verbo di Dio». Pietro Aretino, Lettere, a cura di P. Procaccioli, Roma, Salerno, 2004, vol. II/2, p. 102. Cfr. Michele Camaioni, Il Vangelo e l’Anticristo. Bernardino Ochino tra evangelismo ed eresia (1487–1547), Bologna, Il Mulino, 2019, pp. 309–464.
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1578 (sempre a Venezia). L’opera pose le basi di una nuova forma di poema sacro, che intendeva proporre la materia evangelica in uno stile grave, all’altezza del soggetto, scegliendo l’ottava rima, secondo il grande modello dell’Orlando furioso di Ariosto, che ben armonizza le istanze popolareggianti della letteratura cavalleresca con un’ambizione letterariamente più compiuta, mostrando la strada per un’infinità di poemi sacri a seguire45. Folengo propose la materia evangelica in modo innovativo e fedele nello stesso tempo, in quanto la sua è soprattutto una rielaborazione relativa all’elocutio e alla dispositio. L’inventio non si scosta dal Nuovo Testamento, ma l’organizzazione del discorso e le soluzioni elocutive (figure retoriche, similitudini in particolare) sono frutto di un immaginario davvero rinnovato. Lo stile umile e basso corrisponde all’intento didascalico, ma il linguaggio della tradizione poetica non è assente. Anche se il poema è proposto come «pane» tra «nudi sassi raccolto», non mancano parole e stilemi della tradizione poetica alta46. Ma il discorso è piano e popolare, come risulta evidente dalle similitudini costruite spesso sul mondo rurale. L’obiettivo è anzitutto di divulgare la parola di Dio, infatti il poema del Folengo è prefato anche da un’ottava del fratello dell’autore che dichiara in modo schietto e diretto l’intento di porgere al «volgo» in «stil volgar» le verità di fede anche più nascoste, perché «morendo il Re del cielo / squarciollo [il velo del tempio] d’alto a basso acciò che sparte / sian or sue grazie al nobil, al plebeo47». Venezia pullulava di poligrafi impegnati sul fronte della divulgazione delle Scritture, che vivevano in stretta relazione con l’industria tipografica: oltre al Brucioli e all’Aretino, erano all’epoca a Venezia anche Remigio Nannini, Francesco Turchi, Tommaso Garzoni, per fare solo il nome dei più eminenti, tutti in qualche modo legati alla Bibbia e alla sua riscrittura. Remigio Nannini legò il suo nome alla più fortunata edizione delle pericopi liturgiche. Il suo Epistole, et Euangelii, che si leggono tutto l’anno alla messa, secondo l’uso della santa Romana Chiesa, edito per la prima volta nel 1567, restò in auge per tutto il secolo e anche per i primi decenni del successivo, unico testo delle pericopi in volgare autorizzato dal Santo Ufficio48. 45 Sul Folengo e la Bibbia si veda: Alberto Castaldini, «Giovanni Battista Folengo: un esegeta biblico nel dibattito teologico del Cinquecento», Lettere italiane, LXIII, 2011, pp. 448–458; Andrea Canova, «Folengo Teofilo», Dizionario biblico della letteratura italiana, dir. M. Ballarini, Milano, IPL, 2018, pp. 377–383. 46 Le citazioni da Teofilo Folengo, La humanità del Figliuolo di Dio, a cura di S. Gatti Ravedati, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2000, p. 134. Sull’intreccio degli interessi biblici di Aretino, Brucioli, Folengo, si veda Élise Boillet, «L’écriture, commentée, réécrite. Antonio Brucioli, Teofilo Folengo, l’Arétin», in Les années trente du xvie siècle italien. Actes du colloque, Paris 3–5 juin 2004, a cura di D. Boillet e M. Plaisance, Paris, CIRRI, 2007, pp. 163–181. 47 T. Folengo, L’Umanità del Figliuolo di Dio, op. cit., p. 135. 48 Su cui si vedano: Edoardo Barbieri, «L’edizione delle Epistole e vangeli di Remigio fiorentino: un long seller biblico» e Danilo Zardin, «Circolazione e usi delle Epistole e vangeli nell’Italia
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Il carmelitano Francesco Turchi organizzò una ricca raccolta delle versioni poetiche dei salmi penitenziali, che ebbe discreta fortuna, sebbene frenata dall’arrivo dell’Indice. I suoi Salmi penitentiali, di diuersi eccellenti autori (tre edizioni nel 1568, 1569, 1572), danno versioni poetiche del testo biblico che più coinvolse i letterati e che più incentivò la scrittura e la teorizzazione nell’Italia della prima età moderna49. La pubblicazione costituì un’eccezionale impresa, che unì le forze di un religioso-poligrafo e di un editore (Gabriele Giolito de Ferrari) che aveva appena inaugurato una collana editoriale che lascerà il segno nella storia del nostro Rinascimento, la «Ghirlanda spirituale», apertasi nel 1567 e chiusasi solo nel 159150. La raccolta del Turchi fu un’operazione ai limiti dell’età del permesso. Infatti anche sui Salmi, nonostante il grande interesse che vi era per questo libro di preghiere, molto usato dai Cattolici come dai Protestanti, si estese il divieto di volgarizzare e restò solo in commercio nel mondo cattolico la Dichiaratione dei Salmi del francescano Francesco Panigarola, edita dai Giunti sia a Venezia sia a Firenze dal 1585 ripetutamente51. Certo anche per soddisfare una domanda di modelli morali veniva proposta nel 1586 (con una ristampa due anni dopo) una raccolta al femminile di figure bibliche: Le vite delle donne illustri della Scrittura Sacra. Con l’aggionta delle vite delle donne oscure e laide dell’uno e l’altro Testamento di Tommaso Garzoni. Fedelissimo al testo biblico, «al punto che, in molti casi, il nucleo costitutivo della narrazione altro non è che una vera e propria traduzione del testo della Vulgata52», Garzoni risponde
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post-tridentina», in Gli Italiani e la Bibbia. Leggere, interpretare, riscrivere, a cura di E. Ardissino e É. Boillet, Turnhout, Brepols, 2018, pp. 43–72 e 97–124. Si veda la moderna edizione con l’accurata introduzione Salmi penitenziali di diversi eccellenti autori [Giolito 1568], a cura di R. Morace, Pisa, Edizioni ETS, 2016. In tutto furono 37 i volumi. Cfr. Angela Nuovo e Chris Coppens, I Giolito e la stampa nell’Italia del xvi sec., Genève, Droz, 2005; Johanna Pietrzack-Thébault, «I libri eleganti e pii di Gabriele Giolito de Ferrari: una novità pretesa, una continuità efficace», in Visibile teologia. Il libro sacro figurato in Italia tra Cinque e Seicento, a cura di E. Ardissino e E. Selmi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012, pp. 191–201. Le edizioni della Dichiarazione dei Salmi furono numerose e soprattutto veneziane: Venezia, Bernardo Giunta, 1586; Venezia, Altobello Salicato, 1586; Venezia, Andrea Muschio, 1586; Venezia, Fabio Zoppini e Agostino Zoppini, 1586; Venezia, Giovanni Alberti [Bernardo Basa], 1587; Venezia, Andrea Muschio, 1588; Venezia, Domenico Farri, 1588; Venezia, Marcantonio Zaltieri, 1590; Venezia, Domenico Farri, 1593; Venezia, Giovanni Battista Porta, 1596; Venezia, Eredi di Giovanni Maria Leni, 1599; Venezia, Lucio Spineda, 1602; Venezia, Evangelista Deuchino, 1608; Venezia, Giovanni Battista Bonfadino, 1613; Venezia, Comino Gallina, 1616; Venezia, Alessandro Polo, 1622; Venezia, Gerardo Imberti e Giuseppe Imberti, 1627; Venezia, Gerardo Imberti, 1640. Sulla Dichiarazione del Panigarola: Danilo Zardin, «Tra latino e volgare: la dichiarazione dei Salmi del Panigarola e i filtri alla materia biblica nell’editoria della Controriforma», Sincronie, IV, 2000, p. 125–165. Beatrice Collina, «Introduzione», in Tommaso Garzoni, Le vite delle donne illustri della Scrittura Sacra. Con l’aggionta delle vite delle donne oscure e laide dell’uno e l’altro Testamento, a cura di B.
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evidentemente a un intento divulgativo delle Sacre Scritture che le esponesse con fedeltà e semplicità, rispettando l’ortodossia e veicolando un testo già interpretativo. Infatti, se include anche le «donne laide», egli pone però un confine netto tra le degne di imitazione e le esecrande, con una demarcazione chiara senza possibilità di sfumature. Ogni figura è presentata per il ruolo che ha avuto nella storia della salvezza, in rapporto a una verità storica fondata sulla Bibbia, che era il libro della storia universale, supportata da precise indicazioni cronologiche con tanto di corrispettivo dei fatti coevi (desunti anche dalla mitologia, oltre che dalla storia antica), e tenendo da parte ogni interpretazione allegorica. L’ideale di donna veicolato è assai chiaro: è una donna casta, onesta e sottomessa moglie. Garzoni «ha il merito di rendere popolare e comprensibile un genere che fino allora non aveva varcato la soglia degli ambienti religiosi53». Quando venne a mancare la possibilità di stampare la Bibbia in volgare l’editoria veneziana fu così attiva da piegare verso altri orizzonti, come avvenne per Gabriel Giolito de Ferrari, che aveva in cantiere una Bibbia del Brucioli, per cui disponeva già delle illustrazioni, che riuscì a destinare a una Bibbia latina54. Si fece anche intraprendente traduttore nel proporre un testo di sicuro prestigio, come il De partu Virginis del Sannazaro, che tradusse in endecasillabi sciolti nel 1588, rispondendo a una diffusa domanda di letture devozionali, ma anche colte e piacevoli55. Uno sguardo verso l’Oriente L’interesse per la Sacre Scritture venne ad interferire a Venezia ovviamente anche con la pubblicistica contro i Turchi, alimentata dalle continue guerre, dalle molte sconfitte, dalla loro avanzata nel Mediterraneo, dalla diversità religiosa. Nonostante la fattiva presenza di mercanti turchi nella città, la convivenza si interseca con questa paura e con la rappresentazione che del mondo orientale veniva fatta nelle narrazioni e descrizioni dei viaggiatori56. Benché Venezia fosse una città di transito per chi andava in Oriente o dall’Oriente rientrava in Occidente, fin dal QuattroCinquecento si trovava in una posizione difficile in relazione al mondo orientale,
Collina, Ravenna, Longo, 1994, pp. 7–74: 36. 53 Ibid. 54 Johanna Pietrzack-Thébault, «Tra l’umano e il divino: una Bibbia volgare giolitina – storia dolorosa di un libro mai stampato», in Atti del XXII convegno internazionale di studi umanistici Francesco Petrarca, Firenze, Cesati, 2010, pp. 575–584. 55 Si veda la moderna edizione: Jacopo Sannazaro, De Partu Virginis. Il parto della Vergine, volgarizzamento di Giovanni Giolito de’ Ferrari (1588) a fronte, a cura di S. Prandi, Roma, Città Nuova, 2001. 56 Cfr. Venezia: centro di mediazione fra Oriente e Occidente (secoli xv–xvi), aspetti e problemi, a cura di P. Lanaro Sartori, Milano, Giuffrè, 1977.
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da quando Costantinopoli era stata occupata dalle truppe ottomane, cui era seguita l’emigrazione di molti intellettuali nell’Occidente. Il cardinal Bessarione tra l’altro proprio a Venezia aveva lasciato la sua biblioteca greca e latina, un gesto che poteva essere considerato un atto di consegna della missione antiturca e cristiana alla città lagunare, richiamata espressamente a non espandersi sulla terraferma, ma a orientarsi e ad indirizzarsi verso la riconquista di Costantinopoli57. Se l’idea di una crociata all’epoca svanì nonostante l’impegno dell’allora pontefice Pio II, essa riprese vita nel secolo successivo, anche a causa dei progressi dell’impero ottomano verso Occidente a danno di Venezia. Ancora a metà Cinquecento la letteratura veneta elaborò molte narrazioni delle guerre contro i Turchi. Poemi di lamento delle terre conquistate (Costantinopoli, Negroponte, Rodi) dall’espansione turca o di esortazione ai cristiani a prendere le armi o di celebrazione delle riconquiste (come Granata e Bonifacio) sono frequentissimi in area veneta ed esaltati dalla sua editoria, come dimostrano i poemi raccolti nel ricco quarto volume delle Guerre in ottava rima58. A volte l’antagonismo veneziano è associato alla parola scritturale come avviene per l’Esortatione fatta a tutti i sudditi de la maestà cesarea, contra francesi, e turchi, ne la qual si espone il salmo tertio, cioè Domine quid, edita intorno al 1539, o con il rendimento di grazie per la vittoria di Lepanto nel 1571 che Gabriele Fiamma accompagna con i salmi: Parafrasi poetica sopra alcuni Salmi di Dauid profeta, molto accommodate per render gratie della vittoria donata al Christianesimo contra turchi59. Lepanto infatti segnò una svolta, quando la Serenissima offrì alla cristianità le sue navi per fermare l’avanzata turca nel Mediterraneo e in città i morti nella battaglia venivano ricordati come eroi della patria e della cristianità60. Proprio in questa Venezia crebbe il giovane Torquato Tasso, che a quindici anni, tra la fine del 1559 e l’estate del 1560, iniziò a comporre il poema sulla prima crociata e la liberazione di Gerusalemme che lo impegnò per tutta la vita, o quasi. Anche se poi interruppe il primo incompiuto canto, intitolato Del Gierusalemme, le ottave
57 Cfr. Dena John Geanakoplos, Bizantine East and Latin West. Two Worlds of Christendom in Middle Ages and Renaissance, Hamden, Blackwell Publishers, 1976. 58 Guerre contro i Turchi, a cura di M. Beer e C. Ivaldi, quarto volume di Guerre in ottava rima, Modena, Panini, 1988. 59 Per il primo testo non vi sono indicazioni di luogo, data e tipografia, per il secondo: Venezia, Giorgio Angelieri, manca la data. 60 Paolo Paruta, Oratione per i nobili veneti morti in Lepanto, in Gino Benzoni, Venezia nell’età della Controriforma, Milano, Mursia, 1973, p. 109, su cui Marco Giani, «L’Oratione funebre per i patrizi veneziani caduti a Lepanto, di Paolo Paruta (1572): storia editoriale e discussione sull’eventuale esecuzione pubblica», Archivio Veneto, sesta serie XIV, 2017, pp. 13–30.
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scritte a Venezia furono riprese e mantenute tali e quali o di poco modificate nelle stesure successive, nella Gerusalemme liberata e poi ancora nella Conquistata61. Se verso l’Oriente vigeva un rapporto difficile per tutto il periodo che qui consideriamo, nella città invece convivevano diversi gruppi etnici e religiosi in un rapporto fondamentalmente pacifico e di proficua interazione62. In particolare specialmente numerosa era la comunità ebraica, talmente numerosa che a inizio Cinquecento la Repubblica aveva deliberato la segregazione degli Ebrei nel Ghetto per contenerne la diffusione nella città63. Nonostante questa emarginazione e le pesanti misure imposte sulla popolazione ebraica dalla Serenissima, alcune famiglie raggiunsero una notevole prosperità economica e all’inizio dei Seicento anche un livello culturale riguardevole, come dimostrano gli scritti del più eminente fra gli scrittori ebrei veneziani dell’epoca, Leon Modena, e come dimostra il circolo culturale animato dalla poetessa Sara Copio Sullam. Nella misura in cui gli Ebrei rispettavano le norme ad essi imposte e onoravano gli obblighi fiscali verso la Serenissima, potevano contare sulla protezione del governo e potevano praticare apertamente la loro religione, anzi risulta che furono costruite ben cinque o sei sinagoghe nel solo secolo xvi64. Tuttavia la residenza coatta era comunque un limite all’assimilazione e all’integrazione con la popolazione cristiana, e proprio la storia della eminente poetessa ebrea ne è la prova. Essendo stata educata dai migliori maestri che il padre le aveva messo a disposizione, Sara Copio (come data di nascita sono indicati sia il 1588, il 1590, il 1600; morì nel 1641) aveva raggiunto una tale fama per le sue conoscenze poetiche e scientifiche che anche da fuori Venezia venivano ad ascoltarla. Si era creato infatti intorno a lei un circolo di eruditi che lei poté coltivare nella casa paterna e poi in quella del marito, Giacobbe Sullam65. Ma furono proprio alcuni di questi intellettuali che ne frequentavano la casa a rivelarsi infide e pericolose relazioni: 61 Sui fondamenti biblici di molta della poesia tassiana si veda Ottavio Ghidini, Tasso tra Liberata e Conquistata. La Bibbia, i Padri, la liturgia, Bologna, I libri di Emil, 2019. 62 Cfr. Giuseppina Minchella, Frontiere aperte. Musulmani, ebrei e cristiani nella Repubblica di Venezia (xvii secolo), Roma, Viella, 2014; Brian Pullan, Gli Ebrei d’Europa e l’Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, Roma, Il Veltro, 1985. Questa interrelazione è ancora più valida, come mostra Minchella, per le terre della Serenissima in quello che era chiamato lo ‘Stato da Mar’. 63 Cfr. Riccardo Calimani, Storia del Ghetto di Venezia. Gli Ebrei e la Serenissima Repubblica, Milano, Mondadori, 2017 (1985); Dana E. Katz, The Jewish Ghetto and the Visual Imagination of Early Modern Venice, Cambridge, Cambridge University Press, 2017. 64 Cfr. B. Pullan, Gli Ebrei d’Europa e l’Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, op. cit., p. 241. 65 Cfr. Umberto Fortis, La «bella ebrea». Sara Copio Sullam, poetessa nel ghetto di Venezia del ‘600, Torino, Zamorani, 2003, specie il capitolo «Un salotto letterario nel ghetto vecchio», pp. 30–48 e la ricca bibliografia; Lynn L. Westwater, Sarra Copia Sulam. A Jewish Salonniere and the Press in Counter-reformation Venice, Toronto, University of Toronto Press, 2020. Non le dedichiamo qui un capitolo perché non opera riscritture e troviamo nelle sue opere pochi riferimenti biblici;
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infatti fu prima accusata di non credere nell’immortalità dell’anima da Baldassarre Bonificio e fu poi raggirata e messa in ridicolo da Numidio Paluzzi, in tristi vicende che sanno di prevaricazioni anche per la condizione di inferiorità religiosa in cui erano tenuti gli Ebrei nella città. La polemica sull’anima diede luogo alla scrittura e pubblicazione di un Manifesto di poche pagine in cui la Copio confuta l’accusa rivoltale dal Bonificio sulla scorta di autorità soprattutto filosofiche66. Si intravede anche qualche velato riferimento biblico, ma in relazione a quanto era detto dal Bonifacio nella sua accusa. Invece molto si interessò alla figura biblica di Ester, su cui nel 1615 il genovese Ansalo Cebà aveva pubblicato il poema eroico La reina Ester. La Copio fu tanto entusiasta di questa lettura che iniziò a corrispondere con il suo autore, e in una delle lettere gli inviò anche un sonetto in cui lo elogiava per il poema: La bella ebrea che con devoti accenti grazia impetrò da più sublimi cori, sì che fra stelle in ciel ne i sacri ardori felice gode le superne menti, al suon che l’alme da i maggior tormenti sottragge, Ansaldo, onde te stesso onori, spiegar sentendo i suoi più casti amori, i mondi tiene alle tue rime intenti67.
La vicenda di Ester era ovviamente di grande interesse per gli Ebrei, e su di essa pochi anni dopo Leon Modena pubblicò una sua tragedia, Ester, riformulando sostanzialmente il poema del Cebà, ma integrando anche la vicenda con motivi tratti dai commenti rabbinici68. Egli compose anche una Storia dei riti ebraici, con l’intento di presentare la sua religione ai Cristiani, realizzando un’apertura inconsueta,
sarebbe stata un’ottima opportunità per confrontare le prospettive femminili qui discusse con quelle di una scrittrice di altra religione. 66 Cfr. Manifesto di Sarra Copia Silam Hebrea. Nel quale è da lei riprovata, e detestata l’opinione negante l’immortalità dell’Anima, falsamente attribuitale dal Sig. Baldassare Bonifaccio, Venezia, Giovanni Alberti, 1621. Si legge in U. Fortis, La «bella ebrea». Sara Copio Sullam, poetessa nel ghetto di Venezia del ‘600, op. cit., pp. 150–156. 67 I quattordici sonetti che ci sono giunti della Copio Sullam si leggono in U. Fortis, La «bella ebrea». Sara Copio Sullam, poetessa nel ghetto di Venezia del ‘600, op. cit., pp. 97–141. Il sonetto citato a p. 101. 68 L’Ester tragedia tratta dalla Sacra Scrittura. Per Leon Modena hebreo da Venetia riformata, Venezia, Giacomo Sarzina, 1619. Su Leon Modena: Yaacob Dweck, The Scandal of Kabbalah. Leon Modena, Jewish Mysticism, Early Modern Venice, Princeton, Princeton University Press, 2011. Si veda sull’argomento: Marina Caravocchi Arbid, «Rivisitando la biblica Ester: implicazioni sottese all’immagine femminile nell’Italia del Seicento», in Le donne delle minoranze. Le ebree e le protestanti d’Italia, a cura di C.E. Honess e V.R. Jones, Torino, Claudiana, 1999, pp. 143–157.
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alla ricerca di un rapporto aperto, ma rispettoso della diversità, che andasse nella direzione opposta alla segregazione. Venezia ‘interdetta’ e ‘incognita’ La Bibbia resta una fonte importantissima della cultura veneziana ancora all’inizio del Seicento, quando le tensioni con Roma portarono all’Interdetto, e di conseguenza alla battaglia tra Sarpi e i Gesuiti69, e quando lo svilupparsi di un’accademia libertina come quella degli Incogniti iniziò ad interrogare le Sacre Scritture non come testo religioso, ma storico. Sarpi era un atttentissimo lettore e diuturno frequentatore del Nuovo e Vecchio Testamento. Nella Vita del suo maestro, Fulgenzio Micanzio scrive che leggeva «da capo a fine il Testamento Nuovo, senza alcun espositore, ma co’ soli testi greco e latino […] e lo ripeteva tante volte, che l’aveva tutto in memoria, et all’occasioni lo recitava70». La Bibbia appare infatti riferimento essenziale in tutte le sue opere, sia per sostenere la necessità di attenersi al «senso di Cristo e litterale dell’evangelio71», sia per rivendicare Cristo, capo «in perpetuo» della sua Chiesa, «dove il papa non ha alcun governo, ma solo il Salvatore che conosce li cuori72», sia per condannare l’attuale «dottrina nuovamente inventata con istorcere la Scrittura», che le gerarchie ecclesiastiche mettono in atto proibendo lo studio delle Sacre carte73. Ma anche più semplicemente la sua visione dell’essere umano miserrimo ha evidenti richiami ai libri sapienziali, così come la fiducia nel dono della Grazia, che sembra addirittura riecheggiare i motivi del Beneficio di Cristo, rimanda alla frequentazione assidua delle lettere paoline74. La Scrittura è a fondamento dell’argomentazione di Sarpi pure nei testi più politici, come nell’Historia dell’Interdetto, dove afferma la necessità di leggere tutta la Scrittura «e non a passaggi», interpretandola «dal solo
69 Cfr. Vittorio Frajese, Sarpi scettico, Stato e Chiesa a Venezia tra Cinque e Seicento, Bologna, Il Mulino, 1994; Lo stato marciano durante l’Interdetto (1606–1607), a cura di G. Benzoni, Rovigo, Minelliana, 2008. 70 Così scrive Micanzio nella Vita (Fulgenzio Micanzio, Vita del padre Paolo, in Paolo Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino, a cura di C. Vivanti, Torino, Einaudi, 1974, p. 1324). 71 Paolo Sarpi, Apologia, in Id., Istoria dell’Interdetto e altri scritti editi e inediti, a cura di G. Gambarin, Bari, Laterza, 1940, III, p. 132. 72 Ibid., p. 151. 73 Paolo Sarpi, Aggiunte, in Id., Opere, a cura di G. Cozzi e L. Cozzi, Napoli-Milano, Ricciardi, 1969, pp. 297–298 e 330. 74 Pasquale Guaragnella, «Paolo Sarpi teologo e l’“affissione alle divine Scritture”», in La Bibbia nella letteratura italiana. VI. Dalla Controriforma all’età napoleonica, a cura di T. Piras e M. Belponer, Brescia, Morcelliana, 2017, pp. 129–165. Sull’influenza di san Paolo in Sarpi cfr. Boris Ulianich, «Teologia paolina in Sarpi?», in Ripensando Paolo Sarpi. Atti del convegno internazionale di studi nel 450o della nascita di Paolo Sarpi, Venezia, Ateneo Veneto, 2006, pp. 73–101.
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senso letterale», che «non si deve torcere o traviare75». E sottolinea la necessità che debba essere resa accessibile a tutti. Così anche fittissima di citazioni è l’Historia del Concilio Tridentino, soprattutto di derivazione neotestamentaria e paolina76. Legato al Sarpi, che gli affidò il manoscritto della Historia del Concilio Tridentino perché lo pubblicasse fuori Italia, ma presto distanziatosi, il nobile Marc’Antonio De Dominis è forse l’ultimo rappresentante della linea riformatrice e irenica dell’umanesimo cristiano veneto. Divenuto gesuita, poi nominato vescovo di Spalato, De Dominis sperava ancora che le istanze ireniche di un accordo fra le Chiese potesse riportarne l’unione. A Venezia si era pronunciato in occasione dell’Interdetto a favore della Serenissima, esprimendo anche per scritto le proprie opinioni, in opuscoli così radicali che non furono allora pubblicati. Fu sempre molto critico verso la Chiesa Cattolica, anche relativamente alle ingerenze nella vita delle diocesi, e strinse amicizia con Paolo Sarpi. Non potendo realizzare il suo sogno irenico in terra cattolica, si affidò all’invito di Giacomo I Stuart, cui molto stava a cuore l’unione delle Chiese, fuggì a Londra e divenne anglicano77. A Londra tradusse anche alcuni salmi, in linea con la convinzione sul beneficio della lettura delle Sacre Scritture nella lingua dei fedeli78. De Dominis, che aveva avvertito l’importanza del suo «ruolo di pastore e di vescovo, di perno 75 Paolo Sarpi, Historia dell’interdetto, in Id., Istoria dell’Interdetto e altri scritti editi e inediti, op. cit., III, pp. 87 e 132–183. 76 Marie-Françoise Viallon-Schoneveld, «Le recours à l’Écriture dans l’Histoire du Concile de Trente de Paolo Sarpi», in Le recours à l’Écriture: polémique et conciliation du xve au xviie siècle, a cura di M.-J. Louison-Lassablière, Saint-Étienne, Publications de l’Université de Saint-Étienne, 2000, pp. 13–30. 77 Su Marco Antonio De Dominis si veda Eleonora Belligni, Auctoritas e potestas. Marcantonio De Dominis fra l’Inquisizione e Giacomo I, Milano, FrancoAngeli, 2003; Ead., «Marcantonio De Dominis e i latitudinari della prima generazione», in Ripensando Paolo Sarpi, op. cit., pp. 137– 153; Benjamin Slingo, «Civil Power and the Deconstruction of Scholasticism in the Thought of Marc’Antonio de Dominis», History of European Ideas, XLI, 2015, pp. 507–526; ancora utili: Enrico De Mas, Sovranità politica e unità Cristiana nel Seicento anglo-veneto, Ravenna, Longo, 1972; Noel Malcolm, De Dominis 1560–1624. Venetian, Anglican, Ecumenist and Relapsed Heretic, London, Strickland & Scott Academic Publ., 1984; Silvano Cavazza, De Dominis Marc’Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIII, 1987, pp. 642–650. 78 [Salmi de David]. Ridoti in rime alla [ma]niera Inghlese, et accommodati alli toni più communi della chiesa Anglicana, per uso della chiesa Italiana, London, T. S[nodham] per Ralph Rounthwaite, 1620. Ma di questa edizione ci resta solo il frontespizio. Abbiamo però l’edizione successiva: Salmi di David ridotti in rime alla maniera Inghlese, et accommodati alli toni più communi della chiesa Anglicana, per uso della chiesa Italiana, London, M.F. [Miles Flesher] per Ralph Rounthwait, 1644. L’attribuzione della traduzione al De Dominis, il cui nome non compare nel frontespizio né altrove, è basata sulla domanda presentata allo Stationers’ Register, registro che dal 1554 al 1924 era il risultato delle domande presentate dagli autori alla Stationers’ Company, per assicurarsi i diritti. Cfr. Erminia Ardissino, «I Salmi Di Marc’Antonio De Dominis, primo curatore dell’Istoria di Sarpi», in «E tutto ti serva di libro». Studi di letteratura italiana per Pasquale Guaragnella, Lecce, Argo, 2019, vol. I, pp. 328–353.
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fondamentale della Chiesa di Cristo, responsabile delle sorti morali dell’Istituzione79», e in questo ruolo si era impegnato fino alla morte, operò l’ultimo tentativo di sintesi e di riavvicinamento delle Chiese, quando il confessionalismo aveva già definito inequivocabilmente i confini religiosi dell’Europa, coltivando un’aspirazione all’ecumenismo, che forse era eredità proprio dall’apertura della sua città natale. Ma deluso dalla Chiesa anglicana, volle lasciare l’Inghilterra nel 1622 per raggiungere Roma, dove poteva giovarsi dell’amicizia di papa Gregorio XV. Ma alla morte del papa fu inquisito, processato e condannato. Morì prima della fine del processo, però fu impiccato e bruciato il suo cadavere nel 1624. Ma è l’incontro tra filosofia e mondo letterario a far emergere un modo nuovo di accostarsi alla Bibbia. A Venezia negli anni trenta del Seicento si diffonde il genere del romanzo biblico, una soluzione narrativa biblica meglio rispondente alle esigenze del tempo, che si affianca al sempre meno vivo poema biblico. Se il romanzo biblico ha origine a Bologna con l’opera di Luigi Manzini, Le turbolenze d’Israele (1632) seguito dal Davide perseguitato di Virgilio Malvezzi (1634), quindi in area pontificia e nel clima di austerità e religiosità tipico dell’età barberiniana, è l’editore veneziano Giacomo Sarzina che se ne fa il propagatore. Il nuovo genere trova poi in Ferrante Pallavicino, segretario degli Incogniti, un prolifico narratore (quattro sono i romanzi biblici prodotti nella sua breve vita: La Susanna del 1636, Il Giuseppe dell’anno successivo, Il Sansone ancora a distanza di un anno e La Bersabee del 1639). L’ispirazione sacra di queste opere si unisce non solo al vivace sperimentalismo che muove i narratori italiani del tempo verso nuove forme, ma anche a un’aperta sfida all’uso devozionale delle Sacre Scritture. Infatti i romanzi biblici di Pallavicino affondano le loro radici nella Bibbia per discutere piuttosto di problemi politici e culturali di pressante interesse per l’epoca. Lo afferma esplicitamente nell’introdurre Il Giuseppe: «I soggetti sacri s’abbracciano per trarne occasione di discorrere e osservar insegnamenti o morali o politici, non per descriverli80». Il romanzo biblico quindi risponde a un clima scettico, che si era diffuso nella Venezia di primo Seicento, un clima che originava dall’aristotelismo e scetticismo dell’Università di Padova, dove insegnava Cesare Cremonini, erede di Pomponazzi e Zabarella, che lo avevano preceduto sulla cattedra di Filosofia aristotelica. Anche se Venezia aveva tenuto rigorosamente separata da sé la sua università, la tradizione averroistica di Padova, che metteva in dubbio l’immortalità dell’anima, aveva profondamente incrinato l’accettazione dei dogmi 79 E. Belligni, Marcantonio De Dominis e i latitudinari, op. cit., p. 150. 80 Ferrante Pallavicino, Il Giuseppe, a cura di L. Piantoni, Lecce, Argo, 2015, p. 106. Si veda ancora Luca Piantoni, «“Per le sagre storie discorrendo”. Etica e politica nel romanzo religioso di Ferrante Pallavicino», Studi secenteschi, LII, 2011, pp. 43–67.
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e aveva aperto la strada allo sviluppo del pensiero libertino81. Lo scetticismo che ne derivava mise in dubbio ogni certezza e ogni testo di riferimento, Aristotele come le Sacre Scritture, che venivano quindi interrogati non alla ricerca di verità universali, ma di risposte storicamente determinate. Lo scetticismo si propagò nella capitale per merito di un gruppo di allievi di Cremonini che avevano costituito l’Accademia degli Incogniti, in cui si combinava scetticismo religioso e moralità libertina. Alla Bibbia gli Incogniti si rivolsero con un interesse nuovo, non per cercarvi sapienza e verità, insegnamenti morali o speranze di eternità, ma documentazione sulla storia dell’umanità e sui rapporti di potere instauratisi nei tempi, per ricostruire una storia spiegabile in termini puramente umani. Per gli Incogniti la storia biblica assume il carattere di un pretesto per discutere d’altro82. Tra le storie bibliche prodotte nel seno degli Incogniti vi furono tre romanzi sulla Genesi: L’Adamo di Giovan Francesco Loredan, Eva di Federico Malipiero, e L’Adamo di Francesco Pona, che mostrano l’uso della Bibbia in chiave storicistica83. In effetti il primo, L’Adamo del Loredan, è una storia civile, in cui il padre Adamo appare come il primo legislatore e costruttore di società84. Si tratta di una storia da cui il soprannaturale è estromesso, dando luogo a un procedere che caratterizza, come scrive Beniscelli, la scrittura libertina, in cui «è sufficiente allontanare Dio, farne a meno, assegnare uno spazio separato alla religione ‘rivelata’ e occuparsi di 81 Sull’Università di Padova cfr. Paul Grendler, «The University of Padua 1405–1600. A Success Story», History of Higher Education, X, 1990, pp. 7–17; Gino Benzoni, «La Repubblica di Venezia e l’Università di Padova», Studi veneziani, XXXIV, 1997, pp. 81–96; per le controversie religiose nell’Università si veda Maurizio Sangalli, Università accademie gesuiti: cultura e religione a Padova tra Cinque e Seicento, Trieste, LINT, 2001. 82 Sugli Incogniti: Edward Muir, Guerre culturali. Libertinismo e religione alla fine del Rinascimento, tr. it L. Falaschi, Bari-Roma, Laterza, 2008. Su Bibbia e libertinismo: Alberto Beniscelli, «La Bibbia nella letteratura libertina. Genesi 1, 18, tra riscritture, parodia, secolarizzazione del sacro», in La Bibbia nella letteratura italiana. VI. Dalla Controriforma all’età napoleonica, op. cit., pp. 357–400; Jean-Pierre Cavaillé, «Some Irreligious Uses of the Bible in the Early Modern Period», in Lay Readings of the Bible in Early Modern Europe, a cura di E. Ardissino e É. Boillet, Leiden-Boston, Brill, 2019, pp. 49–62. 83 Giovan Francesco Loredan, L’Adamo, Venezia, Sarzina, 1640; Federico Malipiero, Eva, Venezia e Macerata, Agostino Grisei, 1640; Francesco Pona, L’Adamo, Verona, Antonio Rossi e fratelli, 1654. Altri titoli di romanzi biblici sono: Il Saulo convertito di Federico Malipiero (1640), L’Isacco e ‘l Giacobbe di Giacomo Certani (1642), il Giacobbe ripatriante con aplicationi historiche, morali, e politiche di Giuseppe Rossotto (1646), L’empietà flagellata dal santo zelo di Elia di Andrea Alberti (1656). Per un’accurata bibliografia: Lucinda Spera, Il romanzo italiano del tardo Seicento, Firenze, La Nuova Italia, 2000. 84 Il Loredan, Principe degli Incogniti di Venezia, fu autore prolifico, tradusse anche i Salmi penitenziali (Sensi di devozione sovra i sette salmi della penitenza di Davide, 1657). Cfr. Maria A. Bartoletti, Loredano, Gian Francesco, in Dizionario critico della letteratura italiana, dir. V. Branca, Torino, UTET, 1999, II, pp. 634–636: 635.
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realtà terrene85». L’Adamo del Loredan ebbe una notevole fortuna, con una riedizione lo stesso anno e una decina di successive riedizioni nel secolo, coronate da una circolazione europea con traduzioni in inglese (1659, riedizioni nel 1748, 1779, 1811), in polacco (1651), in francese (1695)86. Loredan non considera neppure la storia di Adamo come un capitolo della storia della salvezza, ma accusa la donna come il principale responsabile di tutte le disgrazie umane, cui Adamo, come legislatore deve porre rimedio87. La sua lettura è emblematica del misoginismo che circolava nell’accademia di cui era principe. Dopo la creazione, Dio colloca Adamo nel paradiso terrestre, arricchito d’una perpetua primavera, e lo costituisce signore su tutti gli animali, vietandogli i frutti dell’albero della scienza, quindi crea Eva. Adamo trasmette alla donna il comandamento divino e in questo la rende immediatamente curiosa, perché «il proibire alle donne è un destar in loro maggiormente l’appetito88». Eva cerca la solitudine per godere di quei pomi senza rimproveri, così si pone di fronte alla pianta proibita, ne contempla i frutti, tanto che «persuade il demonio a tentarla89». Una serpe dotata di ogni astuzia, con faccia di donzella, una delle forme infinite di animali che abitavano l’Eden, secondo Loredan, ma icona di lunga tradizione del demonio, tenta Eva. Il demonio sceglie la donna perché «la conosceva più facile al credere e più debile al resistere90». Il racconto a questo proposito è originale: non è il demonio a prendere l’iniziativa, ma viene istigato da Eva. Non si poteva trovare forma più definitiva per colpevolizzare la donna. Loredan intercala alla storia avvertenze morali che ben chiariscono il suo pensiero: «Donna, rafferma la tua curiosa vanità […]. Tutti i frutti del paradiso ti sono permessi fuori che quelli dell’arbore della scienza del bene e del male. Se dunque tutti gli altri sono perfettissimi e fanno il bene, perché mangiar di queste poma che fanno sapere ancora il male? Non procurar di sapere ancora quello che non ti 85 Alberto Beniscelli, «Introduzione», in Libertini Italiani. Letteratura e idee tra xvii e xviii secolo, a cura di A. Beniscelli, Milano, BUR, 2012, p. XX. Si veda ancora Giorgio Spini, «Ignoto Deo», in Id., Ricerca dei libertini. La teoria dell’impostura delle religioni nel Seicento italiano, Firenze, La Nuova Italia, 1983, pp. 148–176. 86 Cfr. Jadwiga Miszalska, «La traduzione polacca dell’Adamo di Giovan Francesco Loredano», Studi secenteschi, XLII, 2001, pp. 165–86: 130; Lucinda Spera, «Permanenze secentesche. La narrativa barocca italiana del xviii secolo: un episodio francese», Studi secenteschi, XXXIX, 1998, pp. 79–95; Alberto Mancini, «Il romanzo italiano nel Seicento. Saggio di bibliografia delle traduzioni in lingua straniera (Francia, Germania, Inghilterra e Spagna)», Studi secenteschi, XVI, 1975, pp. 183–217. 87 Su questi aspetti mi permetto di rimandare a Erminia Ardissino, «Riscritture bibliche del ‘600: L’Adamo del Loredan», Modern Languages Notes, CXXVII, 2012, pp. 155–163. 88 Loredan, L’Adamo, op. cit., p. 27. 89 Ibid. 90 Ibid.
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si conviene91». Eva poi con vezzi e lusinghe convince Adamo, che cede, sebbene recalcitrante e saggio in un primo tempo. «L’interruppe Adamo e vestendo il volto di qualche severità le disse: “Amata donna, contentatevi d’aver voi sola contravvenuto ai comandi della Legge di Dio”. Nel male non vogliate aver compagni. Non guidate gli altri nei vostri precipizi92». Ma poi la donna coi suoi artifici amorosi piega Adamo, che trasgredisce. Se quella del Loredan è una storia della fondazione sociale, la storia di Eva del Malipiero gli corrisponde come fondazione della legge domestica. Non è raccontata all’insegna della colpevolezza di Eva, piuttosto l’autore ne valorizza la funzione provvidenziale, avendo con il suo peccato causato la misericordia divina e la nascita di Cristo. Eva è vista dunque come «la primitiva fonte da cui è felicitata l’umana generazione93». Anzi la colpa è fatta ricadere su Adamo, creato sapiente, ma incapace di fermare Eva: una valutazione che riconferma però il negativo giudizio sulla debolezza del genere femminile. Un terzo romanzo sul tema viene prodotto nello stesso ambiente degli Incogniti pochi anni dopo, nel 1651. L’Adamo del Pona costituisce, con i precedenti una trilogia veneziana del mito edenico94. Si tratta in questo caso di una rivisitazione romanzata, la più gradevole da leggere, ma anche la meno problematica. Ricca di descrizioni del trasformarsi del corpo umano dopo il peccato, riflette la professione medica del suo autore e le sue finalità didattico-scientifiche95. Adamo non è il fondatore di una società, ma un uomo distrutto dal peccato che egli stesso ha voluto, che usa l’osservazione per imparare dagli animali il modo e i mezzi per superare le difficoltà materiali. L’Adamo del Loredan si rivela allora uno degli esperimenti più interessanti sul tema nel Seicento, che viene ad intrecciarsi con l’interpretazione biblica di Arcangela Tarabotti. Nel romanzo emerge tutta la carica misogina degli Incogniti, di cui Loredan era principe96. Ma il romanzo indaga in un’origine dell’umanità che Ibid., p. 54. Ibid., p. 36. F. Malipiero, Eva, op. cit., p. 16. F. Pona, L’Adamo, op. cit. Sull’uso narrativo delle conoscenze mediche del Pona, mi permetto di rimandare a Erminia Ardissino, «Anatomia e letteratura nel primo Seicento», in Studi in onore di Gian Paolo Marchi, a cura di F. Forner e C. Viola, Milano, Vita e Pensiero, Pisa, ETS, 2011, pp. 93–108. 96 Sulla misoginia degli Incogniti si veda Monica Miato, L’Accademia degli Incogniti di Giovan Francesco Loredan, Venezia (1630–1661), Firenze, Olschki, 1998, pp. 107–120. Sebbene fosse lo spirito dei tempi, la misoginia di Loredan fu stigmatizzata, come vedremo, da suor Arcangela Tarabotti, La semplicità ingannata, a cura di S. Bortot, Padova, Il Poligrafo, 2007, p. 171. Si veda ancora: Lynn Lara Westwater, «Literary Culture and Women Writers in Seventeenth Century Venice», in Spazi, poteri, diritti delle donne a Venezia in età moderna, op. cit., pp. 241–256. Sugli Incogniti e le donne: Paola Cosentino, «Dee, imperatrici, cortigiane. La natura delle donne nei 91 92 93 94 95
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ormai sollecita moltissimo gli intellettuali a livello europeo. In queste pagine non si ricava un senso di stanca erudizione, bensì si avverte l’irrequietezza, l’ansia di indagare, ma anche la confusione di un’epoca di radicale rinnovamento e di crisi nel giudizio sull’essere umano e sulla trascendenza, un’epoca animata dalla volontà di razionalizzare, seguendo l’entusiasmo per i metodi empirici, fino a voler provare (ormai con altre prove da quelle medievali) l’esistenza di Dio. Come Descartes vorrebbe razionalizzare i miracoli e i miti biblici, così Loredan elimina con la storia ogni mistero dall’idea di Dio, senza negarlo. Trascurando la natura simbolica e metaforica del linguaggio della fede egli ne erode le fondamenta, non per un procedere filosofico, ma usando semplicemente il linguaggio letterario. In questo modo la letteratura rivela tutto il suo potenziale eversivo. Loredan sembra anticipare le ricerche del xviii secolo indirizzate a creare una filosofia non metafisica basata sulle apparenze, una religione senza mistero, una morale senza dogmi. È questo uno dei primi sintomi dunque di quella crisi della coscienza europea che ha segnato l’avvio della modernità, ed è questo il mondo con cui si confrontano le scrittrici veneziane che si sono misurate all’epoca con il testo sacro97.
romanzi degli Incogniti (Venezia)», in The Italian Academies 1525–1700. Networks of Culture, Innovation and Dissent, a cura di J.E. Everson, D. V. Reidy e L. Sampson, Cambridge, Legenda, 2016, pp. 292–305. 97 Cfr. Paul Hazard, La crisi della coscienza europea, a cura di G. Ricuperati, Torino, UTET, 2007; Louis Dupré, Passage to Modernity. An Essay in the Hermeneutics of Nature and Culture, New Haven, Yale University Press, 1993.
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Moderata Fonte: da Cristo ad Eva La passione Quando Moderata Fonte pubblica nel 1582 il suo poemetto, La passione di Cristo, è giovane, ma ha alle spalle una tradizione abbastanza consolidata di narrazioni della passione in rima1. Fin dal Trecento infatti l’ultimo atto della vicenda umana 1
Su Moderata Fonte, alias Modesta Pozzo de’ Giorgi: Bodo Guthmüller, «Non taceremo più a lungo. Sul dialogo Il merito delle donne di Moderata Fonte», Filologia e critica, XVII, 1992, pp. 258–279; Paola Malpezzi Price, «Moderata Fonte (1555-1592)», in Italian Women Writers. A Bio-bibliographical Sourcebook, a cura di R. Russel, Westport, Greenwood Press, 1994, pp. 128137; Adriana Chemello, «La donna, il modello, l’immaginario. Moderata Fonte e Lucrezia Marinella», in Nel cerchio della luna: figure di donna in alcuni testi del xvi secolo, a cura di M. Zancan, Venezia, Marsilio, 1995, pp. 95–170; Virginia Cox, «The Single Self: Feminist Thought and the Marriage Market in Early Modern Venice», Renaissance Quarterly, XLVIII, 1995, pp. 513–581; Stephen Kolsky, «Per la carriera poetica di Moderata Fonte», Esperienze letterarie, XXIV, 1999, pp. 3-17; Maryann Tebben, «A Transgressive ‘Female’ Space: Moderata Fonte’s Il merito delle donne», NEMLA, XXV-XXVI, 2001-2002, pp. 45-61; Suzanne Magnanini, «‘Una selva luminosa’. The Second Day of Moderata Fonte’s Il merito delle donne», Modern Phlology, CI, 2003, pp. 278-96; Eleonora Carinci, «Una lettera autografa inedita di Moderata Fonte (al granduca di Toscana Francesco I)», Critica del testo, V, 2002, pp. 671–681; Paola Malpezzi Price, Moderata Fonte: Women and Life in Sixteenth-Century Venice, Madison and Teaneck, Fairleigh Dickinson Press, 2003; Paola Malpezzi Price, «Venezia Figurata and Women in SixteenthCentury Venice: Moderata Fonte’s Writings», in Italian Women and the City. Essays, a cura di J. Levarie Smarr e D. Valentini, Cranbury NJ, Rosemont Publ., 2003, pp. 18–34; Naomi Yavneh, «Lying-in and Dying: Moderata Fonte’s Death in Childbirth and the Maternal Body in Renaissance Venice», Rinascimento, XLIII, 2003, pp. 177–203; Anna Fontes Baratto, «La fontaine et le puits. À propos du Merito delle donne de Moderata Fonte», Chroniques Italiennes, LXXIII–LXXIV, 2004, pp. 21–45; Eleonora Carinci, «Canone, ‘gender’, genere letterario: Il merito delle donne di Moderata Fonte», in Dentro/fuori, sopra/sotto. Critica femminista e canone letterario negli studi di italianistica, a cura di M.S. Sapegno e A. Ronchetti, Ravenna, Longo, 2007, pp. 63–101; Serena Pezzini, «Il merito delle donne, dialogo di Moderata Fonte. Prove generali per un futuro impossibile», in Futuro italiano. Scritture del tempo a venire, a cura di A. Benassi, F. Bondi e S. Pezzini, Pisa, Maria Pacini Fazzi Editore, 2012, pp. 144–159. Si vedano anche le introduzioni alle edizioni delle sue opere: Adriana Chemello, «Introduzione», in Moderata Fonte, Il merito delle donne. Ove chiaramente si scuopre quanto siano elle degne e più perfette de gli uomini,
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del Figlio di Dio era stata posta in ottave, il metro narrativo che si era affermato con Boccaccio e la tradizione cavalleresca, dal senese Niccolò Cicerchia nei due poemi, Passione e Resurrezione, molto noti, con una discreta circolazione anche a stampa2, come anche a stampa era andata la Passione di Bernardo Pulci, un poemetto in ottava rima che aveva avuto un’ininterrotta fortuna dal Quattrocento al Seicento3. Altri poemi poteva avere a modello, poiché, nonostante il tentativo classicheggiante della Christiade latina del Vida, nel Cinquecento la storia di Gesù aveva trovato esito in molti poemi in rima volgare, come la Umanità del Figliuolo di Dio di Teofilo Folengo, che infatti rielabora la materia evangelica e biblica in modo innovativo e fedele nello stesso tempo4. A metà del secolo era anche uscita la Vita del nostro salvatore Jesu Christo del cappuccino Lodovico da Filicaia (1548) in terzine dantesche5, e Sisto Poncelli aveva proposto un racconto poetico intitolato Canti devotissimi nella sacra historia della passione, sepoltura, resurrezione et ascensione del Salvator nostro Giesù Christo (1566), che mirava «più alla purità della cosa che ad ornamento poetico o ad armonia di verso e sceltezza di parole», come si legge nelle pagine prefatorie6. Vi erano poi le numerose narrazioni in prosa, in veste devozionale e soprattutto meditativa, come le Meditationes vitae Christi, allora attribuite a Bonaventura da Bagnoregio e proposte anche in volgare7, o le Meditationi pie, et diuote con la
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Padova, Eidos, 1988, pp. IX–XLI; Ead.,Tredici canti del Floridoro, a cura di V. Finucci, Modena, Ed. Mucchi, 1995, I–XLVI; Ead., The Worth of Women, tr. ing. di V. Cox, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1997, pp. 1–23. L’edizione moderna si trova in Cantari religiosi senesi del Trecento, a cura di G. Varanini, Bari, Laterza, 1965, il primo a p. 191–305, il secondo a p. 307–447. Editi per la prima volta a Firenze nel 1483, uscirono poi frequentemente negli anni successivi in diverse città d’Italia (Bologna, Gaeta, e anche Venezia, presso Bernardino Benali). Bernardo Pulci, De passione Domini, Firenze, Francesco Bonaccorsi, 1490. Marco Girolamo Vida, Christiados libri sex, Cremona, Ludovico Britannico, 1535; in moderna edizione Christiad, a cura di J. Gardner, Cambridge, The I Tatti Renaissance Library, 2009; Teofilo Folengo, La humanità del Figliuolo di Dio in ottava rima, Venezia, Aurelio Pinzi, 1533, in moderna edizione La humanità del Figliuolo di Dio a cura di S. Gatti Ravedati, Alessandria, Ed. dell’Orso, 2000. Lodovico da Filicaia, La vita del nostro salvatore Iesu Christo, overo sacra storia evangelica tradotta non solo di latino in volgare, ma etiam in verso per dare materia al lettore di piu suavemente corre el fructo necessario alla vita di ciascuno fedel christiano dallo evangelico arboro, Venezia, Nicolò da Bascarini, 1548. Sisto Poncelli, Canti devotissimi nella sacra historia della passione, sepoltura, resurrezione et ascensione del Salvator nostro Giesù Christo, Milano, Fratelli da Meda, 1566, pp. n.n. Il racconto, va dal consiglio di Caifa all’ascesa al Cielo di Gesù. Oggi attribuite a Giovanni da Cauli. Per la storia di questa fortunatissima opera si veda la recente edizione con traduzione inglese: Meditations on the Life of Christ. The Short Italian Text, a cura di S. McNamer, Notre Dame, Notre Dame University Press, 2018; inoltre Sarah McNamer, «The Author of the Italian Meditations on the Life of Christ», in New Directions in Medieval Manuscript Studies and Reading Practices. Essays in Honor of Derek Pearsall, a cura di K. Kerby-
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vita e passione di Gesù Cristo di Johannes Tauler, tradotte dal fiorentino Alessandro Strozzi8, o la Vita di Giesu Christo nostro Redentore di Ludolph von Sachsen, in quel torno di tempo proposta da Francesco Sansovino9. Vi erano poi le prose dell’Aretino, la Passione di Gesù e l’Umanità di Cristo, uscite rispettivamente nel 1534 e nel 153510. Infine, ancora sul modello dei Vangeli armonizzati, la narrazione di Natalino Amulio, sulla Vita, passione, et resurretione di Iesu Christo, derivata dall’accordo dei quattro Evangeli11. Moderata Fonte dà alle stampe il suo poemetto cristologico un anno dopo l’edizione del suo poema cavalleresco, Floridoro, una narrazione fortemente debitrice verso il poema dell’Ariosto. Di lei sappiamo solo quanto ci dice lo zio nel prefare l’opera postuma, Il merito delle donne, ovvero che, nata nel 1555, aveva mostrato presto il suo «vivace spirito», tanto che già «piccolina» si diede a comporre «mirabilmente» e, facendosi mostrare quello che il fratello studiava, lo memorizzava tanto che riuscì presto a impossessarsi del latino: «suonava l’arpicordo e il liuto e cantava; era più che mediocremente introdotta nell’aritmetica, ma nello scrivere bene, presto e con la vera regola dell’ortografia pochi, credo io, che le potessero eguagliare, non che anteporre12». L’anno precedente 1581 aveva pure recitato (anche cantato?) e dato alle stampe una rappresentazione filosofico-encomiastica, Le feste, rivolta al doge Niccolò Da Ponte per il giorno di Santo Stefano del 158113. Si
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Fulton, J. Thompson e S. Baechle, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 2014, pp. 119– 137; David Falvay e Peter Toth, «L’autore e la trasmisisone delle Meditationes vitae Chtisti in base a manoscritti volgari italiani», Archivum Franciscanum Historicum, CVIII, 2015, pp. 403–430. Meditationi pie, et diuote di m. Giouanni Taulero. Sopra la vita, et passione di Giesu Christo. Tradotte in volgar fiorentino dal r.m. Alessandro Strozzi, Firenze, Eredi di Bernardo Giunta, 1561, riproposte nel 1562, 1563, 1572. A Venezia nel 1592. Venezia, Giacomo Sansovino, 1570, riproposta nel 1573, 1575, 1576, sempre a Venezia anche dallo stampatore Giacomo Vidali nel 1575, da Altobello Salicato nel 1581, 1585, 1589. Fuori Venezia: Ferrara, Giulio Cesare Cagnacini e fratelli, 1586. Cfr. Si veda l’edizione moderna delle opere bibliche: Pietro Aretino, Genesi, Umanità di Cristo, Sette salmi, Passione di Gesù, a cura di É. Boillet, Roma, Salerno, 2017; su cui Élise Boillet, L’Arétin et la Bible, Genève, Droz, 2007. Natalino Amulio, Prima parte del nouo testamento, ne laqual si contengono i quattro euangelisti, in uno, cioè vita, passione, et resurretione di Iesu Christo Nostro Saluatore, Venezia, Al segno della Speranza, 1544, su cui Edoardo Barbieri, «Oltre la censura. Domande aperte su un compendio neotestamentario italiano del xvi secolo», Titivillus. Revista Internacional sobre Libro Antiguo. International Journal of Rare Books, I, 2015, pp. 185–210. Giovanni Nicolò Doglioni, Vita della Sig. Modesta Pozzi di Zorzi, nomata Moderata Fonte, in M. Fonte, Il merito delle donne, op. cit., p. 6. Per le edizioni: Moderata Fonte, Le feste, rappresentatione avanti il serenissimo doge Niccolò Da Ponte il giorno di S. Stefano 1581, Venezia, Domenico e Giovanni Battista Guerra, 1581; Courtney Quaintance, «Le feste, Written by Moderata Fonte», in Scenes from Italian Convent Life. An Anthology of Convent Theatrical Texts and Contexts, a cura di E. Weaver, Ravenna, Longo, 2009, pp. 193–231.
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tratta di 350 endecasillabi, in cui l’autrice mette a confronto, in occasione appunto delle feste di fine dell’anno, un epicureo, uno stoico e una sibilla. Quest’ultima rappresenta «a spiritualized sapientia capable of silencing the earthly scientia of classical philosophy», e porta alla finale vittoria della virtù, che consentirà la vera festa del paradiso14. Il poema cristologico matura quindi subito dopo questi diversi lavori poetici. Moderata Fonte resta fedele alla narrazione evangelica, sebbene la corredi di elementi aggiunti, che la rendono emotivamente più coinvolgente. Ella evidenzia così meglio l’interiorità dei personaggi, che ha molto spazio nei suoi versi, e aggiunge alcuni commenti che intendono sottolineare il significato salvifico delle vicende. Altri elementi aggiunti sono similitudini e paragoni, non molto frequenti, che non valgono però solo sul piano elocutivo, ma arricchiscono la narrazione di ulteriori tasselli, come pure è notevole l’inserimento di episodi delle storie veterotestamentarie, tratte da Genesi e dai Profeti15. Moderata Fonte per la sua narrazione non seguì un vangelo in particolare. Lei stessa nella dedica afferma di averla «estratta dai quattro evangelisti», infatti sembra che la poetessa attinga a tutti i sinottici riorganizzandoli, perché nessun vangelo corrisponde esattamente a quanto da lei ricostruito16. Per esempio manca l’episodio del Cireneo, che appare nei vangeli di Matteo, Marco e Luca, ma di Giovanni non ha la divisione delle vesti. L’insistenza sulla vicenda di Giuda si direbbe dipendente da Matteo, il solo evangelista che la racconta (Mt 27, 3–10), ma da Luca certamente prende le parole che Gesù rivolge alle donne sul Calvario, che sono precisamente trasportate in rima (Lc 26, 23–31). Il poema si sviluppa in 115 ottave e la prima e unica edizione è accompagnata da undici xilografie rappresentanti le scene della passione e collocate in corrispondenza del luogo proprio17. La narrazione prende il via dal bacio di Giuda nei Getzemani, che consegna Gesù, rimasto solo, nelle mani dei soldati. Gesù è indicato per le sue qualità divine, occasione per ricordare la creazione del mondo come opera delle sue mani:
14 V. Cox, The Prodigious Muse, op. cit., p. 90. 15 Davvero poca attenzione hanno suscitato i poemetti della Fonte: V. Cox, The Prodigious Muse, op. cit., pp. 131–138, P. Malpezzi Price, Moderata Fonte, Woman and Life in Sixteenth-Century Venice, op. cit.; Ead., «Venezia figurata and Women in Sixteenth-Century Venice: Moderata Fonte’s Writings», art. cit. 16 Vi sono anche aggiunte ormai acquisite dalla tradizione, come il pianto di Maria e varie azioni della Maddalena. 17 Sulla combinazione di figure e testi nel libro devoto all’epoca, si veda Visibile teologia. Il libro sacro figurato tra Cinque e Seicento, a cura di E. Ardissino e E. Selmi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012.
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1- moderata fonte: da cristo ad eva Poi che ’l bacio crudel del servo ingrato in man de gli empi il Redentor diè preso, lasciar gli altri seguaci il Duce amato per tema solo, e da nessun difeso. Quel gran Signor, per le cui man creato fu il cielo e ’l mondo, e quanto è in lor compreso, hora non ha chi lo soccorra in tanto duol, né chi per lui mova o prego o pianto18.
Le due ottave che seguono approfondiscono il significato del sacrificio di Cristo, considerando da una parte che né terra né cielo né angeli né creature celesti si oppongono all’ingiustizia subita da Gesù, ma restano insensibili all’affronto. Al contrario Dio ci ama di così «intenso amor, caldo e fervente» che per noi «soffre ogni dura sorte» (Passione, 8). Questo inserto evidentemente mira a far riflettere sul valore salvifico dell’Incarnazione e della Passione. Così procede infatti Moderata Fonte, abbinando sempre ad un evento una riflessione che ne illustra il significato nel disegno divino di salvezza, dando spessore e valore spirituale al fatto. Seguono i tradimenti di Pietro, che occupano quasi tredici ottave, narrando prima i ripetuti spergiuri (per cui Moderata Fonte conia anche il difficile verbo: «anathemizando», Passione, 10), quindi l’eco interiore del pentimento, con anche una similitudine (di un’ottava) che paragona il pianto di Pietro a due torrenti ingrossati dallo sciogliersi dei ghiacci (Passione, 11). Più che questo inserto, è efficace e toccante la riflessione di Pietro, che, senza specificare o menzionare il lettore, lo coinvolge per quei casi in cui anche questi ha tradito il Salvatore. Se i Vangeli si limitavano a una laconica frase: «E scoppiò in pianto» («Et coepit flere», Mc 14, 72) o «E uscito pianse amaramente» («et egressus foras ploravit amare», Lc 22, 62 e Mt 26,75, Giovanni non fa cenno al pentimento di Pietro), qui sei ottave contemplano sottilmente la profondità dei sentimenti di Pietro, anche con domande retoriche: «Questo è dunque l’amor che tu gli porti?» (Passione, 12). All’altro traditore, Giuda, son dedicate le ottave seguenti, con un’interessante considerazione che lega i due apostoli nel disegno redentivo, accettato da uno e rifiutato dall’altro: «Và, piangendo ancor tu [Giuda] nel cor ferito / d’aspro dolor con Pietro, ov’ei si giace; / ché quei che mor per salvar l’uman seme / ben salverà ancor te, se n’avrai speme» (ibid.). Queste riflessioni a margine del racconto servono all’autrice per sviluppare il suo insegnamento morale, che il lettore evidentemente deve trarre dalla narrazione.
18 Moderata Fonte, La passione di Christo descritta in ottava rima. Con una canzone nell’istesso soggetto della medesima, Venezia, Domenico e Giovan Battista Guerra, 1582, p. 7, d’ora in poi si indicherà semplicemente con Passione, seguito dal numero di pagina.
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Così si possono spiegare anche le tre ottave rivolte ai Giudei, che vogliono, ingiustamente, la condanna di Gesù, per cui vengono avvertiti delle conseguenze che deriveranno per «celest’ira». Con un tono minaccioso infatti è pronosticato, con un ripetuto «Tempo verrà» (Passione, 20–21), quanto succederà poi con l’occupazione e distruzione di Gerusalemme da parte dei Romani. Ma anche l’indecisione di Pilato, che invece di smorzare l’odio è stato compiacente, è stigmatizzata come stoltezza. Allo stesso fine possono essere ascritte anche le ottave dedicate ai pensieri di Gesù, che si rivolge al «Popol mio» per ricordargli il bene che da Dio ha ricevuto. È questa l’occasione per ripercorrere la storia del popolo eletto, dalla creazione, all’uscita dalla schiavitù d’Egitto, alla stessa Incarnazione che il popolo giudeo non riconosce. Dice Gesù alla sua gente: «Né pur non mi ricevi e mi ringratii, / ch’ancor mi scacci, scherni, affligi e stratii» (Passione, 25). Più avanti è l’autrice stessa che si rivolge a Gesù, quasi in forma di preghiera, per evidenziarne la sofferenza e sottolineare l’indicibilità dei dolori dell’Uomo di tutti i dolori: «O buon Giesù, qual lingua è che a dir basti / la crudel passion ch’allor provasti. // Tu sol sapesti il tuo dolor» (Passione, 29). Ovviamente particolare attenzione è dedicata alla Vergine Maria, di cui sono ampiamente rappresentati i pensieri di madre, che ricorda l’aspetto dolce del figlio che ha partorito, di cui «viveva altera», mentre ora è costretta a vederne la crocifissione (il suo discorso si sviluppa in otto strofe, Passione, 33–35). Alla Maddalena ai piedi della croce sono dedicate ben nove ottave, in cui alla rappresentazione della bella donna, con le «belle chiome innanellate e d’oro», il «viso più candido che latte», che «sembra un giglio in sul mattin reciso» (Passione, 40), si oppongono i rimpianti per i peccati commessi e il dolore per la visione del martoriato corpo del maestro, cui tanto deve, con la promessa di una vita di penitenza. La rappresentazione della donna è occasione di numerosi inserti del linguaggio poetico della tradizione, derivanti non solo da Petrarca, ma anche dall’Ariosto19. Il poema si chiude con la deposizione e la sepoltura, dando ancora spazio al lamento della madre, parole che aprono però anche una prospettiva di salvezza: O figlio per penar nel mondo nato, pur son finiti i tuoi travagli omai, e pur sì degna et innocente vita sul più bel fior de la sua età fornita.
19 Scrive Virginia Cox: «While the Petrarchan subtexts of this [str. 53–54] are perhaps to be expected, more surprising is the Ariostan echo introduced», perché si rifa sia alla rappresentazione di Olimpia abbandonata sia di Angelica legata alla roccia e in lagrime (Orlando furioso X, 34 e X, 96). V. Cox, The Propdigious Muse, op. cit., pp. 136–137.
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1- moderata fonte: da cristo ad eva Hor miri per li suoi peccati il mondo questo, ch’io miro (ohimè) spettacol novo, e torni a i primi error lieto e giocondo, e non senta il dolor ch’io sento e provo. Hor chi non piangerà di cor profondo quel perch’io piango e ’l cor per gli occhi piovo? Chi non compatirà con chi patendo scosse e riscosse il mondo al punto orrendo. O figlio, o figlio, il sol che per pietade di te vidi oscurar, pur luce ancora, ma ne la tua divina alma beltade raggio di vita alcun più non dimora. Manca il gran tuon che scosse le contrade, ma non il duol che l’anima m’accora. Quieta è la terra, ogn’alma è già sicura, e ’l terremoto mio più che mai dura. (Passione, 47–48)
L’attenzione della narratrice si appunta anche sugli aspetti esteriori, sul martirio a cui Gesù è sottosposto, che lo priva della sua «figura d’uom», del suo «bello aspetto» (Passione, 26). La rappresentazione della crudeltà rivolta verso Gesù impegna la scrittrice in alcune delle soluzioni formali più elaborate, come le riprese di ‘pietà’, una ridondanza che ammicca al concettismo barocco: «Ma non può ritrovar però pietade / la pietà stessa in sì spietata setta» (ibid.). Queste forme concettiste sono una caratteristica del suo procedere, come si vede anche in questi altri casi: «E a gli occhi che fan giorno oscura il giorno» (Passione, 27) o la rappresentazione degli scherni come intermezzi di una tragedia: «Scherni intanto de i rei posti a’ suoi piedi / son di tanta tragedia empi intermedi» (ibid.) o quando il crocefisso è innalzato, per cui si dice: «Travagliavan quel cor benigno e santo / d’amore il foco e de la morte il gelo» (Passione, 37). Così le opposizioni morte - vita entrano in gioco con la morte di Gesù: «Morta è la vita et ha col suo morire / la morte occisa, e non può far più offesa» (Passione, 44). Nonostante questa attenzione all’elocuzione, la lettura del poemetto si presenta coinvolgente, meditativa, capace di suggerire pensieri di conversione. Ne emerge un poema efficace, perché racconta la vicenda ben nota a ogni cristiano con pathos; l’invito a partecipare al dolore di Cristo è finalizzato a un’azione di conversione, di pentimento, perché agisca sulla vita del fedele lettore. La resurrezione Il successivo poemetto, La resurrezione di Giesù Christo Nostro Signiore racconta gli episodi seguiti alla morte di Gesù, dalla visita delle pie donne al sepolcro fino all’a-
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scensione20. Anche per questo secondo lavoro evangelico le fonti sono i Vangeli, soprattutto quello di Luca e quello di Giovanni (il vangelo di Matteo e quello di Marco sono assai scarni). La narrazione di Moderata Fonte sviluppa sia gli episodi delle donne al sepolcro, della visione dell’angelo e del suo annuncio, dell’incontro di Maria di Magdala con il Salvatore, scambiato per il giardiniere, l’incontro a Emmaus, che si trovano in Luca, sia le apparizioni successive, nel cenacolo due volte, una senza Tommaso, l’altra in sua presenza, quindi la pesca miracolosa con la preparazione del cibo e l’addio di Gesù, che si leggono tutte in Giovanni. Il poemetto ha molto in comune con il precedente, ma mentre La passione è improntato al dolore, questo, anche nella forma, mira a mostrare la gioia, l’esultanza, il trionfo di Cristo, attraverso scelte elocutive appropriate. Si sviluppa su 152 ottave (l’edizione non ha xilografie). Subito è proclamato il significato dell’evento, iniziando con un «Trionfante Giesù», cui seguono parole che ribadiscono il senso della resurrezione, che è «vittoria» sulla morte, «pompa gloriosa et alma», «virtù immortale». Ancora la seconda strofa inizia con una potente, isolata, affermazione: «Risorge Dio!», quasi un grido di esultanza. Il ritmo risulta più rapido, meno meditativo del precedente poema, caratterizzato da frequenti accumuli e anafore. Per esempio nella seconda strofa abbiamo la ripresa, in anafora, di «già sprezzato», «hor temuto», «già servo», «hor re», «già tutto sangue», «hor tutto luce»; oppure più avanti, quando l’angelo annuncia il risorto, si dice di lui: «Quel che morì, quel che piangeste assai, / è suscitato e non morrà più mai. // È suscitato eterno e glorioso21», dove la ripresa a inizio strofa sottolinea il valore della risurrezione. Ripetizioni si trovano ancora nella presentazione dei ricordi di Pietro: «Quivi orò, qui mangiò, qui parlò meco» (Resurrezione, 16); nelle parole di Gesù alla Maddalena quattro volte è ripetuto «Non mi toccar», cui seguono ancora «non tocchi», «Non levi» (ibid., 26). Anche qui si trovano giochi concettisti: a proposito della Maddalena si dice: «E prima amata, amò l’amante, e amato» (ibid., 11); e ancora per lei ci sono i chiasmi: «E mira il caro sasso e sasso sembra», (ibid., 19), che richiama il noto verso del Furioso per la pazzia di Orlando (Orlando furioso XXIII, 111); o a proposito del risorto, si riassume la sua azione, dicendo: «Dov’è quel morto che diè morte a Morte?» (Resurrezione, 20). Si trovano persino più numerose le similitudini, che offrono tratti del mondo naturale e aprono 20 Moderata Fonte, La resurrezione di Giesù Christo nostro signore che segue alla santissima passione. Descritta in ottava rima, Venezia, Giovan Domenico Imberti, 1592, d’ora in poi si indicherà semplicemente con Resurrezione, seguito dal numero di pagina. 21 Resurrezione, 12. Memoria forse di Gerusalemme liberata III, 5: «Dove morì, dove sepolto fue» (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Milano, Mondadori, 1976). Infatti l’influenza di Tasso sembra sostituire quella dell’Ariosto in questo poema. Cfr. V. Cox, The Prodigious Muse, op. cit., p. 132.
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squarci di serenità, che quindi anticipano la gioia dell’evento. Per esempio abbiamo la determinazione dell’ora, che apre il sereno giorno della Resurrezione con i colori dell’aurora: Era ne l’ora che le guancie asperse d’ambra e di minio in ciel scopre l’aurora e nel corpo solar l’ombre sommerse di raggi il suo bel vel ricama e indora. Né vago più la stagion bella aperse il manto che di smalti orna e colora quand’ei da sé sorse e voltò la dura pietra e confuse ogni ordin di natura. (Resurrezione, 2)
Non mancano momenti introspettivi, come nel precedente poema. Ai pensieri di Maria, «pietosa intanto in solitaria cella», sono infatti dedicate ben undici ottave, in cui però, oltre ai lamenti per la «strage» subita dal figlio e la perdita della sua amata «sembianza pia», si dice che è certa della sua resurrezione sia sulla base della promessa dopo la caduta originale (che viene ricordata in un’ottava, la undicesima, in cui si rinviene una reminiscenza dantesca: «non potea satisfar», come in Paradiso, VII, 95–96, cfr. Resurrezione, 4) sia per le parole del figlio: «E aspetta costante e si conforta / ch’ei suscitar promise il terzo giorno. / Et armata di fé, brama e sopporta / il successo e l’indugio del ritorno» (Resurrezione, 7). Per altri personaggi principali vi è simile sviluppo introspettivo, che consente di approfondire l’attesa e la loro personale condizione. Dando loro spessore psicologico, non solo li rende più credibili, ma meglio li propone come modelli per il lettore. Per esempio alla Maddalena sono dedicate sei ottave dopo le sei ottave dedicate alle pie donne davanti al sepolcro e all’apparizione dell’angelo, e ben altre quindici (Resurrezione, 17–21) per riportare le sue considerazioni sulla scomparsa del corpo di Gesù e preparare all’incontro con il maestro. Altre ottave ancora le sono dedicate, quando lei sola si inoltra nel sepolcro e vede Gesù (Resurrezione, 22–27). Qui i pensieri sono inframezzati alle azioni. La Maddalena è ovviamente modello di pentimento, di conversione e di redenzione, per cui, oltre a ricordare come lavò i piedi al maestro e fu perdonata, è anche occasione per invitare il peccatore a pentirsi: Felice peccator, quando converso, come costei spegne i vietati ardori, che sì bello compar del pianto asperso del pentimento de’ suoi andati errori, che fra tante opre e in tutto l’universo qui non è forma che più Dio innamori. L’huomo (o usanza del Ciel) ch’erra e gli spiace giustificato più che ’l giusto giace. (Resurrezione, 10)
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La donna è anche occasione per un quadro di bellezza femminile, descritto con una certa accuratezza: «sparso ha il tesor de la dorata testa, / che ondeggia vago su i nativi gigli» (Resurrezione, 18), «lo sventolar dell’increspate e bionde / treccie hor reti di caste alme pudiche, / ch’in sul bel collo e in sul bel petto, l’onde / vaganti imitan su le spiaggie apriche» (ibid., 19). Questi paragoni con i fiori o le fronde, accompagnati con note estetiche, non sono certo nuovi, ma se nelle descrizioni l’autrice riprende motivi abbastanza consolidati dalla tradizione poetica, più nuova è la rappresentazione dei sentimenti della donna, che dimostrano la volontà della poetessa di dare consistenza e verisimiglianza al personaggio e alla situazione. Per esempio la sua meraviglia alla scoperta del sepolcro vuoto è ripetutamente rappresentata: «Fissa in un sol pensier, ma da quel solo / forma mille pensier, ma tutti acerbi»; «Talhor pensa sognarsi, e spesso riede / anco a mirar nel marmo e nulla vede» (ibid.); «Deh, come incauta i miei tesor celesti /abbandonar potei?», «Ben presti / volsi i passi e i pensier: quanto mancai!» (ibid., 21). Si può dire che la Maddalena sia personaggio centrale delle narrazioni cristologiche di Moderata Fonte, infatti a lei è affidato, qui come nel precedente poemetto, un messaggio per la conversione, prima per il suo atto di pentimento, poi per la sua viva fede22. Con ciò risveglia in lei, l’alto, Signore novo, e divin pensier, cui ’l primo cede. E le infiamma, conferma, e illustra il core, ne l’amor, ne la gratia, e ne la fede. Inspirata costei, dal novo amore, in Lui tutto ama, e tutto spera, e crede. Già ’l confessa increata, vnica Essenza perpetuo Agente, eterna Onnipotenza. (Resurrezione, 26)
Pietro è ovviamente un altro personaggio di cui viene approfondita (nuovamente) l’interiorità (in otto ottave). Di lui si dicono i rimpianti per il suo errore, il dolore per la perdita del maestro con cui condivise tanti momenti, la resistenza della sua fede, l’accrescersi dell’amore e della fede («Di tanta fede inanimato, ardito, / del buon Giesù di doppio amor s’accende», Resurrezione, 15). In questo poemetto le narrazioni sono più consistenti che nel precedente e ne occupano una buona parte, in particolare ventun ottave sono dedicate all’episodio di Emmaus (Resurrezione, 27–34), che corrisponde a Lc 24, 13–35; diciassette alle 22 Scrive Cox: «there is an element of penitence at work here on a metapoetic level: rejected, implicitly, along with Magdalene beauty is the poetic culture of Renaissance Petrarchism, with its neoplatonically inspired deification of female beauty, now seen, despite its pretensions to ‘honesty’, as a lightly disguised incitement to lust». V. Cox, The Prodigious Muse, op. cit., pp. 134–135.
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apparizioni nel cenacolo e a Tommaso (Resurrezione, 34–40), che corrispondono a Gv 20, 19–29; venti ottave all’apparizione sul lago di Tiberiade (Resurrezione, 40–46), che corrisponde a Gv 21, 1–23. Queste narrazioni appaiono più sciolte nello stile, meno elaborate nell’elocuzione, che è assai più piana e meno concettosa, e risultano perciò più coinvolgenti, mostrando le qualità di Moderata Fonte come narratrice. Ovviamente i passi evangelici sono amplificati con descrizioni, considerazioni, introspezioni, particolarmente accresciuti sono i discorsi, come l’addio di Gesù prima dell’Ascensione, una accorata raccomandazione che occupa ben tre ottave e che non ha equivalente nelle fonti evangeliche. A volte la narrazione è arricchita anche solo con una più variata aggettivazione, o con similitudini, ma sempre nel rispetto della fonte. Si veda per esempio l’aggiunta, quando Gesù spiega le Scritture e le profezie ai discepoli di Emmaus: Non dubitate no, fate argomento dal passato al presente a l’avvenire e crediate che ’l Ciel rimarrà spento, pria ch’ei le sue promesse abbia a mentire. Non mai musica man, dolce instromento trattò meglio e s’udì l’aria ferire com’ogni essempio, ogni bella ragione il dotto peregrin tratta et espone. (Resurrezione, 31)
Lo stesso avviene per le apparizioni nel Cenacolo, quando Cristo dà la pace agli apostoli; Giovanni (da cui evidentemente prende, perché la pace è reiterata, come non lo è in Luca) dice «Gesù disse loro di nuovo: Pace a voi!» («Dixit eis iterum: “Pax vobis! Sicut misit me Pater et ego mitto vobis”», Gv 20, 21), ma Moderata Fonte così arricchisce il parlare di Gesù: Giesù da capo annontia lor la pace, indi soffiando in lor spira et infonde lo spirto suo, spirto d’amor verace, gaudio che rende nostre alme gioconde, fiamma ch’accende d’amorosa face, virtù che si dilata e si difonde per ogni parte, heredità che poi dura per tutti i secoli tra noi. (Resurrezione, 36)
Oppure quando sul lago di Tiberiade, Giovanni riconosce il maestro, si legge: «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore”» («Dominus est», Gv 21, 7), ma questa è per Moderata Fonte l’occasione per attribuire dei connotati poetici a Gesù:
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parte seconda - venezia scritturale Stupefatti del caso, essi a fatica trahean la rete e la barchetta a riva. Ma Giovanni, che senza ch’altri il dica, pensa onde uscir può l’opra altera e diva, s’accosta a Pietro e dice: «Ecco l’amica luce, ecco il sole ond’ogni ben deriva. Quest’è ’l Signor, che regge il tutto. Ei pose, Creator, legge a le create cose». (Resurrezione, 42)
Se il primo poemetto si focalizzava sul pentimento, il secondo è centrato sulla fede, di cui le donne appaiono superiori testimoni rispetto agli uomini. I due poemetti sviluppano momenti distinti della storia evangelica, ma rimandano l’uno all’altro, perché in ambedue il pathos è convogliato tramite le figure della Madre e della Maddalena, così come di Pietro, che nella Resurrezione ancora si pente del suo tradimento. In ambedue i poemi la narrazione acquista insieme una valenza teologica e una funzione devozionale. La difesa di Eva Dalle informazioni che abbiamo su Moderata Fonte non sappiamo se Il merito delle donne sia stato composto in contemporanea o prima o dopo il secondo poemetto cristologico. Sappiamo solo che era terminato al momento della morte e che fu lo zio a volerlo pubblicare (ben otto anni dopo) in memoria di lei. Scritto sul finire degli anni ‘80 del Cinquecento23, Il merito delle donne è una conversazione che si svolge in due giornate tra sette donne di diversa età e di diverso stato sociale (Adriana, vecchia e vedova; Virginia, sua figlia, in età da marito; Leonora, giovane vedova; Lucrezia, maritata «di assai tempo»; Cornelia, giovane maritata; Elena, sposata da poco, Corinna giovane «dimessa», ovvero terziaria di un ordine di recente istituzione24). Il dialogo, alla maniera dei grandi dialoghi umanistico-rinascimentali, sul modello del Cortegiano o dei Dialoghi d’amore, è debitore anche verso la costruzione novellistica di Boccaccio (per esempio la collocazione del dialogo in un «giardino bellissimo», in clima piacevole e scherzoso, con intervalli musicali).
23 La datazione è basata sull’introduzione di Giovanni Nicolò Doglioni, alla prima edizione del 1600, si veda inoltre Adriana Chemello, «Introduzione», art. cit., pp. IX–LVI. 24 Per «dimessa» si deve infatti intendere che apparteneva a un ordine terziario fondato a Vicenza nel 1579 dal francescano osservante Antonio Pagani, che prevedeva per le donne la vita in comune in gruppi di sei o otto affiliate. Potevano parteciparvi anche vedove, si dedicavano all’insegnamento della dottrina cristiana e all’assistenza dei poveri. Cfr. Gabriella Zarri, «’Il terzo stato’», in Tempi e spazi di vita femminile tra medioevo ed età moderna, a cura di A. Jacobson Schutte, T. Kuehn, S. Seidel Menchi, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 311–334: 332.
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Il soggetto delle discussioni delle sette donne protagoniste de Il merito delle donne è il rapporto tra i sessi, ma la conversazione varia ampiamente e incorpora una panoramica enciclopedica degli universi naturali e sociali25. Regge l’argomentazione l’opposizione verso il sesso maschile, ritenuto privo di ogni capacità, se non si illumina con la luce della donna, e ancor più pesantemente giudicato prevaricatore in tutti i suoi ruoli, di padre, marito, fratello, figlio. Fin dall’avvio l’inferiorità dell’uomo è ricondotta alla sua creazione dalla terra, mentre la donna, essendo stata creata dalla carne, quindi da materia più nobile, appare nobilitata. All’affermazione di Lucrezia, che gli uomini sono nati prima della donna e che si prodigano per lei, segue infatti un’esplicita chiarificazione da parte di Corinna: Sono nati inanzi di noi – rispose Corinna – non per dignità nostra; poiché essi nacquero dell’insensata terra perché noi poi nascessimo della viva carne e poi, che rileva quel nascer inanzi? Prima si gettano le fondamenta in terra di niun valore o vaghezza, e sopra vi s’ergono poi le sontuose fabriche, con gli adorni palagi; in terra si nutriscono prima vili semente, donde poi s’aprono i soavissimi fiori ed apparono le vaghe rose e gli odorati narcisi. E di più si sa che Adamo primo uomo fu creato nel mondo nei Campi Damasceni, dove la donna per maggior sua nobiltà, volse Dio crearla nel Paradiso terrestre; e noi siamo loro aiuto, onor, allegrezza e compagnia; ma essi conoscendo molto bene quanto vagliamo, invidendo al merito nostro, cercano distruggerci, non altramenti che si faccia il corvo che, essendogli nati i figliuoli bianchi, ne ha tanta invidia, veggendosi esso così negro, che per gran dispetto gli uccide26.
L’orizzonte in cui è collocata la connotazione maschio-femmina è dunque quello scritturale: il secondo capitolo di Genesi è usato evidentemente per ricavarne elementi di denigrazione del maschio. Tutta la prima parte della conversazione si appunta infatti sui difetti dell’uomo e sulle prepotenze che soprattutto i mariti praticano verso le mogli. Emblematica è la sottolineatura, ironica ma assai amara, del peccato di tradimento, specie quando i mariti si innamorano di donne dai cattivi costumi, per cui la moglie si trova «spoglia[ta] delle sue più care cose per darle alle meretrici; oltra che molte volte fanno divenir le fanti madonne, e si empiono di
25 Sul contesto accademico delle due opere si vedano: Stephen Kolsky, «Moderata Fonte, Lucrezia Marinella, Giuseppe Passi: An Early Seventeenth-Century Feminist Controversy», Modern Language Review, XCVI, 2001, pp. 973–989; Claire Lesage, «Femmes de lettres à Venise aux xvie et xviie siècles: Moderata Fonte, Lucrezia Marinella, Arcangela Tarabotti», CLIO: Histoire, Femmes et Sociétés, XIII, 2001, pp. 135–144; Lynn L. Westwater, «“Le false obiezioni de’ nostri calunniatori”: Lucrezia Marinella Responds to the Misogynist Tradition», Bruniana & Campanelliana, XII, 2006, pp. 95–109; sul dibattito sulla donna nel xvii secolo in Italia, incluse analisi sia dell’opera della Fonte sia della Marinella, ma anche di Arcangela Tarabotti, si veda Ginevra Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento, Roma, Bulzoni, 1979. 26 M. Fonte, Il merito delle donne, op. cit., pp. 26–27.
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bastardi, e vogliono che le mogli tacciano e gli allevino; e così di patrone di casa, s’avveggiono esser divenute priore dell’ospital della pietà27». Al contrario la donna non può essere accusata di aver mai prevaricato alcun uomo. Moderata Fonte mette persino in discussione le vicende storiche, che, dice, raccontano tanto bene di uomini e di donne, ma che in realtà sono opera di uomini, perché «son huomini quei che l’hanno scritte, i quali non dicon mai verità se non in fallo; ed anco per la invidia e mal volere loro verso di noi; pensate pur che rare volte ne dicon bene, ma laudano il lor sesso in generale e in particolare per laudar se medesimi28». Ne segue sia la lode delle donne sia la domanda sulla ragione dello stato femminile, così misero ai suoi tempi. Nel mezzo delle lodi tributate alle donne, la voce discordante di Lucrezia ricorda l’associazione donna/danno: «e perciò si chiamano donne quasi danno», portando come prova il male causato da Elena per Troia. Sebbene Corinna associ invece donna a «dono […] celeste, senza il quale non vi è cosa di bello, né di buono», porta in campo, come seconda causa di danno, il cedimento di Eva29. Alla domanda di Elena: «Chi fu cagion della nostra perdizione, salvo che Eva, che fu la prima donna?», Corinna risponde: Anzi fu Adam, poiché ella a buon fine desiderosa d’intender la scienza del ben e del mal si lasciò trasportar a gustar del vietato frutto. Ma Adam non per ciò mosso, ma per avidità e per gola, udendo dirle ch’era saporito, lo mangiò che fu peggior intenzione e più spiacque. E per ciò si trova che non subito, che Eva peccò, Iddio li scacciò del paradiso, ma dopo che Adam le ebbe disobedito, di modo che per Eva non si mosse e per Adam immediate dette ad ambe il meritato castigo, che fu ed è commune a tutti noi altri30.
È interessante che sia messa in bocca a Corinna, la «dimessa», questo ricorso alla Bibbia, segno che la condizione di terziaria laica era vista dalla Fonte come propria a una maggior dimestichezza con il libro sacro rispetto alle altre donne. Nel ricorso ai progenitori per la difesa della donna Moderata Fonte si inserisce in un capitolo tutto veneto e di lunga durata della querelle des femmes. Infatti in età rinascimentale il racconto di Genesi sulla caduta originale era stato oggetto di un peculiare dibattito che era iniziato a Verona a metà Quattrocento con Isotta Nogarola e si chiuse con le amare considerazioni di Arcangela Tarabotti due secoli
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Ibid., pp. 34. Ibid., p. 41 Tutte le citazioni del paragrafo ibid., pp. 55–58. Ivi, p. 56.
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dopo31. L’avvio è umanistico e carico di aperture e speranze per una nuova valorizzazione della donna, del suo ruolo, di una visione paritaria dei due poli che costituiscono la coppia per eccellenza; la chiusura sarà barocca, involuta, misogina, riportando la coppia a una relazione verticale di dominio da una parte e di corrispondente sudditanza dall’altra. Un antecedente veronese: Isotta Nogarola In una Verona pienamente immersa nelle nuove indicazioni pedagogiche di Guarino, a metà del xv secolo, infatti la giovane Isotta Nogarola, educata come la sorella Ginevra alla lettura dei classici, fu la prima donna a confrontarsi in un dialogo, che ebbe pubblica risonanza, sulla questione della responsabilità del peccato originale: chi dei progenitori fu più colpevole, Adamo o Eva32? L’interlocutore era l’umanista e uomo di stato Lodovico Foscarini, già magistrato e ambasciatore della Serenissima e al momento podestà di Verona, dedito, oltre che alla politica, agli studi letterari e alla lettura dei classici33. Proprio la natura aperta della discussione pose la questione al di fuori dei confini squisitamente teologici ed esegetici, sollecitando molti problemi. Anzitutto il dialogo rigetta una tradizione recepita, fondata sulla lettura dell’episodio di Genesi 31 Sulla querelle si vedano almeno i più recenti studi: Gisela Bock, Women in European History, Oxford, Blackwell, 2002; Margaret R. Sommerville, Sex and Subjection: Attitudes to Women in Early-Modern Society, London, Arnold, 1995; e per Venezia: Androniki Dialeti, «The Publisher Gabriel Giolito de’ Ferrari, Female Readers, and the Debate about Women in Sixteenth-Century Italy», Renaissance and Reformation, XXVIII, 2004, pp. 5–32. 32 Sulla Nogarola: Margareth L. King e Albert Rabil, Her Immaculate Hand, Binghamton, Center for Medieval and Early Renaissance Studies, 1983, pp. 11–13; Rino Avesani, «Isotta e Ginevra Nogarola e la loro società di letterati. Giorgio Bevilacqua e Francesco Aleardi», in Verona e il suo territorio, IV, 2, Il Quattrocento, Verona, Istituto per gli Studi Storici Veronesi, 1984, pp. 60–76; Lisa Jardine, «“O decus Italiae virgo”, or the Myth of the Learned Lady in the Renaissance», The Historical Journal, XXVIII, 1985, pp. 799–819; Margareth L. King, «Isotta Nogarola umanista e devota», in Rinascimento al femminile, a cura di O. Niccoli, Roma-Bari 1991, pp. 4–31; Ead., «Isotta Nogarola», in Italian Women Writers. A Bio-bibliographical Sourcebook, a cura di R. Russel, Westport, Greenwood Press, 1994, pp. 313–323; Prudence Allen, The Concept of Woman. 2. The Early Humanists Reformation, 1250–1500, Grand Rapids, Michigan, 2002, pp. 944–969; Giuseppina Gasparini De Sandre, «Isotta Nogarola umanista, monaca domestica e pellegrina al Giubileo (1450)», in Antonio Rigon, I percorsi della fede e l’esperienza della carità nel Veneto medievale, Padova, Il Poligrafo, 2002, pp. 133–154; Lorenzo Carpanè, «Nogarola, Isotta», in Dizionario Biografico degli Italiani, LXXVIII, 2013, pp. 680– 683. 33 Sul Foscarini: Giacomo Moro, «Foscarini, Ludovico», in Dizionario biografico degli Italiani, XLIX, 1997, pp. 383–388; Percy Gothein, «L’amicizia fra Ludovico Foscarini e l’umanista Isotta Nogarola», Rinascita, VI, 1943, pp. 394–413; Franco Gaeta, «Storiografia, coscienza nazionale e politica culturale nella Venezia del Rinascimento», in Storia della cultura veneta. 3. Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, a cura di G. Arnaldi e M. Pastore Stocchi, Vicenza, Neri Pozza, 1980, I, pp. 35–44.
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da parte di san Paolo e dei Padri, Agostino e Ambrogio in primis, che vedeva in Eva la maggior colpevole e gettava un’ombra negativa su tutto il genere femminile34. In secondo luogo mostra la forza di un nuovo pensiero critico, che approda a interpretazioni inedite del mito fondativo della civiltà cristiana. In terzo luogo apre il dibattito sul ruolo della donna, offrendole nuove possibilità e nuova dignità. Il mito biblico delle origini offre molta materia per riflettere sulla relazione uomo-donna. Isotta si trova a difendere Eva e la donna da una condizione di umiliazione che all’interno della Chiesa si fondava sulle indicazioni delle lettere di san Paolo e trovava concordi tutti gli esegeti35. Isotta Nogarola fu forse la prima donna ad avere avuto un’educazione pari a quella di un uomo, a fruire di una cultura classica di assoluto rispetto che le consentiva di leggere e annotare i classici latini, e di estendere queste sue competenze all’ambito della lettura delle Sacre Scritture36. La sua difesa di Eva è conosciuta con il titolo De pari aut impari Evae atque Adae peccato, in cui discute con molto acume e decisione con il giurista veneziano37. Si suppone, fondandosi su una lettera di Matteo Bosso, che il Dialogus fosse originato da una reale disputa pubblica, di cui non viene detto né il luogo in cui è avvenuta né le modalità38. Sarebbe la prima volta che una donna partecipa a un 34 Sull’argomento la bibliografia è ovviamente molto ampia, ci limitiamo a segnalare quella di sintesi: Elaine Pagels, Adamo, Eva e il serpente, Milano, Mondadori, 1990; Philip C. Almond, Adam and Eve in Seventeenth Century Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1999; Kurt Flasch, Eva e Adamo. Metamorfosi di un mito, Bologna, Il Mulino, 2004. 35 Nell’interpretazione dell’episodio edenico appare infatti fondamentale l’esegesi paolina, che statuisce la condanna della donna, determinando per lei una posizione subordinata all’uomo: 1 Cor 11, 7 e 14, 34, confermata dai più importanti esegeti: Agostino, De Genesi ad litteram e De civitate Dei XI–XIV; Ambrogio, De paradiso; Pietro Comestor; Historia scholastica, liber Genesis 17; Pietro Lombardo, Sententiae II; Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, I, II, 81 e II, II, q. 163, a. 4, arg. 1. 36 Sugli studi della Nogarola si vedano ancora Margareth King, «The Religious Retreat of Isotta Nogarola (1418–1466). Sexism and its Consequences in the Fifteenth Century», Signs, III, 1978, pp. 807–822; Paul O. Kristeller, «Learned Women of Early Modern Italy: Humanists and University Scholars», in Beyond Their Sex. Learned Women of the European Past, a cura di P.H. Labalme, New York-London, New York UP, 1980; Lisa Jardine, «Isotta Nogarola: Women Humanists. Education for What?», History of Education, XII, 1983, pp. 231–244. 37 Si legge in Isotae Nogarolae Veronensis opera quae supersunt omnia, a cura di E. Abel, ViennaBudapest, Gerold-Kilian, 1886, pp. 187–216. Tradutione italiana: Isotta Nogarola, Chi abbia maggiormente peccato Adamo od Eva dialogo, a cura di E. Venini Franco, Verona, Vicentini e Franchini, 1851; traduzione inglese: Isotta Nogarola, Complete Writings. Letters, Dialogue on Adam and Eve, Orations, a cura di M. King – D. Robin, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2004, pp. 138–158. 38 Su cui: Pamela J. Benson, The Invention of the Renaissance Woman. The Challange of Female Independence, University Park, The Pennsylvania State University, 1992; Thelma Fenster, «Simplèce et sagesse: Christine de Pizan et Isotta Nogarola sur la culpabilité d’Ève», in Une femme de lettres au Moyen Âge: études autour de Christine de Pizan, a cura di L. Dulac e B. Ribémont, Orléans, Paradigme, 1995, pp. 483–484; Maria Fubini Leuzzi, «Isotta Nogarola e Arcangela Tarabotti. Alcune considerazioni in margine ad una recente pubblicazione», Archivio storico italiano, CLVIII, 2005, pp. 595–601; Thelma Fenster, «Strong Voices, Weak Minds? The Defenses of
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dibattito pubblico con un uomo. Il rinnovamento degli studi classici rimette in onore la figura femminile, ridandole la possibilità di conoscenza, di accesso ai testi (non solo religiosi), di espressione, di parola, secondo i canoni oratori e letterari, non solo per ispirazione profetica o visionaria (come era successo con le sante e le mistiche). Isotta beneficia dell’apertura umanistica veronese e tenta una lettura laica del testo sacro in difesa della donna che è Eva. La Bibbia diventa così l’alleato per rivendicare una richiesta di dignità e parità da parte delle donne, o per difendere dalla parte opposta una cultura misogina volta a sostenere lo status quo e a scaricare sulle donne tutti i mali del mondo. Quasi negli stessi anni di Isotta, Cristina da Pizzano (meglio nota con il nome francese, Christine de Pizan, perché in francese sono tutte le sue opere), di famiglia veneziana, aveva sfidato l’interpretazione tradizionale presentando una difesa di Eva, considerandola meno colpevole per la sua ingenuità: «car simplece sans malice celee, / ne doit etre decevance appelee39». Eva dunque viene esonerata da colpe, perché è senza malizia nascosta, è buona e senza inganno, semplice come Cristo suggerisce di essere. Ma questa lettura non guarda alla complessità del problema, cui è invece attenta la veronese. La difesa della Nogarola infatti è condotta in modo assai più sistematico, è lei che apre nuove possibilità interpretative per togliere Eva dall’infamia in cui era posta. L’avvio del dialogo è dato da Lodovico Foscarini, che accusa Eva come maggior responsabile della caduta per la pretesa di essere simile a Dio e per la maggior pena ricevuta. Isotta tenta una peculiare interpretazione del complesso passo di Genesi 3, per dichiarare invece Adamo più responsabile di Eva. Sostiene che Eva mangiò il frutto dell’albero per una semplice fragilità (come sosteneva Christine) e che il suo errore sarebbe rimasto senza conseguenze, se Adamo non avesse mangiato. Dio riserva la condanna a dopo il peccato di Adamo, dunque forse non avrebbe mai dannato i progenitori, se l’uomo non fosse caduto. Anche san Paolo aveva scritto che, se Adamo non avesse mangiato, non ci sarebbe stato peccato (1 Cor 15, 22). La fragilità di Eva diviene la sua difesa: gli sforzi di Isotta per esaminare le vere ragioni dell’atto, e poi per difendere il comportamento della madre di tutta Eve by Isotta Nogarola and Christine de Pizan, Who Found Themselves in Simone de Beauvoir’s Situation», in Strong Voices, Weak history. Early Women Writers and Canons in England, France, and Italy, a cura di P.J. Benson e V. Kirkham, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2005, pp. 58–77; Erminia Ardissino, «La coppia e la colpa. Adamo ed Eva nella trattatistica rinascimentale veneziana», in 2: Ricerche e riflessioni sul tema della coppia, a cura di F. Bondi, P. Gervasi, S. Pezzini, M. Urbaniak, Pisa, Maria Pacini Fazzi, 2016, pp. 7–22. 39 Christine de Pizan, Epistre au dieu d’Amours, a cura di M. Roy, New York-London, Johnson Reprint, 1965, pp. 613–614, ma ne parla anche nel Livre de mutation de Fortune, a cura di S. Solente, Paris, Picard et C., 1959–1966, vv. 815–816.
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l’umanità, rappresenta una nuova interpretazione della Bibbia, che supera i metodi medievali e scolastici, senza esplorare quelli filologici, ma mettendo la naturale differenza fra i sessi in primo piano. Isotta evidenzia dunque un concorso in colpa, considerando i progenitori in parità nella colpa. Cita a suo sostegno autorità patristiche come Agostino, Ambrogio, Gregorio e allarga il discorso alla ribellione degli angeli, sostenendo la maggior gravità di questa40. Il peso della colpa è attribuito ad Adamo, perché Eva è debole, incostante, ignorante, e tutto questo la scusa, mentre accusa Adamo per essere stato spregiatore del comando divino e realizzatore della vera trasgressione. Soprattutto Eva ha agito per desiderio di conoscenza «scientiam appetere boni et mali41», che è molto meno grave della trasgressione di Adamo, secondo Nogarola. Chi più è dotato più è responsabile, quindi anche Adamo ha maggior responsabilità di Eva, infatti il peccato di Adamo richiede l’incarnazione di Cristo, il Dio fatto uomo, per essere rimediato. La difesa è una reductio che non umilia la donna, ma ne convalida tuttavia l’inferiorità; si tratta di una difesa paradossale, che infine sancisce l’imperfezione femminile42. È la stessa Isotta a dire: «Sed Adam et Eva non fuerunt pares, quia Adam animal perfectum et Eva imperfectum et ignorans43». La conclusione è un rispettoso riconoscimento delle modalità argomentative della Nogarola e, sebbene non assolva Eva, almeno non la rende più colpevole di Adamo, come era nelle interpretazioni correnti. Ma ciò che emerge di positivo è il desiderio di conoscenza di Eva, idea aristotelica, che finalmente viene estesa al sesso femminile; così, per Isotta, Eva non ne è priva, come non lo è ogni essere umano. Il dialogo tra Isotta e Lodovico ebbe la fortuna di essere pubblicato presso Paolo Manuzio nel 1563, in un’epoca di maggior agio per la difesa della donna, forse perché rispondeva al dibattito sulla sua figura, molto controversa oltre che apprezzata nel Rinascimento44. Ma l’edizione è interpolata: in essa non solo mutano gli argomenti, ma cambiano anche gli interlocutori45. Con la stampa poi erano usciti 40 Sulle fonti della Nogarola si vedano le osservazioni delle curatrici in I. Nogarola, Complete Writings, op. cit., pp. 142. 41 Isotae Nogarolae Veronensis opera quae supersunt omnia, op. cit., p. 201. Sul negativo giudizio riguardo alle capacità di apprendimento delle donne si può vedere: Monica Fintoni, «L’immaginario negato. L’ingegno antifemminile tra xvi e xvii secolo», in Donne, filosofia e cultura nel Seicento, a cura di P. Totaro, Roma, CNR, 1999, pp. 87–116. 42 Sottolineano la natura paradossale della difesa sia P.J. Benson, The Invention of the Renaissance Woman, op. cit., p. 57, sia E. King e A. Rabil, Her Immaculate Hand, op. cit., p. 59. 43 Isotae Nogarolae Veronensis opera quae supersunt omnia, op. cit., p. 209. 44 Isotae Nogarolae veronensis, Dialogus, quo utrum Adam vel Eva magis peccaverit, quaestio satis nota, sed non adeo explicata, continetur, Venezia, P. Manuzio, 1563. 45 Interlocutori sono, oltre a Isotta, il Protonotaro Apostolico Leonardo e Andrea Navagerio. Il dialogo Quo utrum Adam vel Eva magis peccaverit, si legge pure in Isotae Nogarolae Veronensis opera, op. cit., pp. 223–257.
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numerosi i trattati sulla condizione della donna, tra cui a Venezia nel 1525 (riedito l’anno successivo) un volumetto in volgare sull’Eccellenza e dignità delle donne, che in chiusura riprendeva il dibattito sull’attribuzione della maggior colpevolezza della colpa originale ad Adamo o Eva. L’autore, Galeazzo Flavio Capra (o Capella), storico e umanista milanese, chiudeva il suo elogio del sesso femminile proprio schierandosi contro «la maggior e ultima vituperazione de le donne, cioè il fallo di Eva nel divorare il vietato pomo e lasciarsi ingannare dal nemico de l’umana generazione46». Capra difende Eva, avendo ella ceduto al serpente per mancanza di prudenza, virtù che si acquista con l’esperienza. Ma essendo ella creata dopo Adamo poca poteva averne acquisita, dunque Adamo è maggior colpevole, infatti Cristo, venendo a riscattare gli esseri umani dalla prigionia del peccato, si fece uomo e non donna, perché scelse la forma più umile del più colpevole dei progenitori, Adamo47. Nel 1545 era uscita anche la traduzione italiana del trattato di Cornelio Agrippa, Della nobiltà et eccellenza delle donne, una pietra miliare nella difesa della dignità della donna, che molto contribuì al dibattito a favore della donna. Molti altri trattati erano seguiti in una stagione in cui la donna era posta al centro delle attenzioni letterarie, filosofiche e artistiche48. 46 Galezzo F. Capra, Dell’eccellenza e dignità delle donne, a cura di M.L. Doglio, Roma, Bulzoni, 1988, p. 110. 47 Ibid., pp. 110–112. 48 Un utilissimo regesto dei trattati sulla donna nella prima età della stampa dal 1528, anno di uscita del Cortegiano di Baldesar Castiglione, si trova negli Annali redatti da Maria Luisa Doglio in appendice all’edizione di G.F. Capra, Dell’eccellenza e dignità delle donne, op. cit., pp. 113–125, che annovera più di sessanta titoli. Successivamente al Capra escono: Alessandro Piccolomini, Dialogo de la bella creanza de le donne, Venezia, C. Navo e fratelli, 1539; Sperone Speroni, Dialogo della dignità delle donne, Venezia, Figli di Aldo, 1542; la traduzione italiana di Heinrich Cornelius Agrippa von Nettesheim, Della nobiltà et eccellenza delle donne, nuovamente dalla lingua francese nella italiana tradotto, Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1544; Vincenzo Maggi, Un brieve trattato dell’eccellenzia delle donne, composto dal prestantissimo filosofo et di latina lingua, in italiana tradotto, Brescia, Damiano de Turlini, 1545; Lodovico Dolce, Dialogo della instituzion delle donne. Secondo li tre stati, che cadono nella vita umana, Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1545; Lodovico Domenichi, La nobiltà delle donne, Venezia, Gabriel Giolito, 1551; Agnolo Firenzuola, Dialogo delle bellezze delle donne, Venezia, per Giovan Griffio, 1552; Bernardo Giambullari, La condizione e costume delle donne. Intitolato el Sonaglio, Firenze, per Bartomeo di Michelagnolo, 1553; Scipione Vasolo, La gloriosa eccellenza delle donne, e d’amore, Firenze, Giorgio Marescotti, 1573; Agostino Valier, Instituzione d’ogni stato lodevole delle donne cristiane, Venezia, Per Bolognino Zaltieri, 1575; Torquato Tasso, Discorso della virtù feminile, e donnesca, Venezia, Bernardo Giunti, e fratelli, 1582; Eleuterio Cesura, La difesa e discorso d’alcune donne, fatto da Eleuterio Cesura a guisa di filze di finissime perle, Sulmona, Marino d’Alessandri, 1583; Giacomo Guidoccio, Difesa delle donne. Contra la falsa narrazione di Onofrio Filiriaco intorno l’operazioni loro, Padova, Paolo Meietti, 1588; Cornelio Lanci, Esempi della virtù delle donne ne’ quali si vede la bellezza, prudenza, castità, e fortezza delle vergini, maritate e vedove, Firenze, Francesco Tosi, 1590; Giulio Cesare Croce, La gloria delle donne, Bologna, Alessandro Benacci, 1590; Francesco Caruso, Dialogo della nobiltà delle donne, Napoli, Gioseppe Cacchi, 1592; Cesare Barbabianca, L’assonto amoroso in difesa delle donne, Treviso, Domenico Amici, 1593.
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Il merito delle donne Moderata Fonte nel suo dialogo sembra riprendere le argomentazioni che sulla questione aveva portato Isotta Nogarola. La poetessa poteva aver avuto conoscenza del dialogo, edito da Manuzio, quindi riprendere la sostanza di quelle argomentazioni. Ma lei accentua le valutazioni positive sulle donne, difende Eva per aver avuto un interesse intellettuale nella mela proibita ovvero un forte desiderio di conoscenza, al contrario di Adamo che aveva solo un appetito sensuale. Infatti, scrive Moderata in linea con la precedente interpretazione di Nogarola, Dio punì gli antenati dopo la caduta di Adamo, non dopo la trasgressione di Eva. Inoltre Dio diede un indizio straordinario della superiorità della donna, incarnandosi in Maria: Or, che mi direte poi della donna eletta fra l’altre alla nostra riparazione? Iddio non ha già creato uomo alcuno semplicemente uomo di tal merito, come ha creato donna semplicemente donna. Trovatemi ne gli Annali e Croniche antiche uomo alcuno per savio, per santo che sia, che arrivi alla millesima parte delle rare eccellenze e divine qualità di nostra Signora e Regina de i cieli? Certo non ne trovate alcuno49.
Il trattato di Moderata prosegue poi sottolineando il pregio delle donne e continuando a denigrare l’operato degli uomini, tanto che per i loro falli «si fariano i volumi tanto alti e stancherebbonsi tutte le lingue e vi bisognarebbero gli anni di Matusalem o di Nestore a contarli50». La conclusione della prima giornata de il merito delle donne è dedicata ai casi storici che lodano le donne, facendo da contrappunto ai danni provocati dagli uomini. Infatti, riprendendo elementi del platonico mito dell’auriga, la donna è detta essere il corsiere buono che guida la carrozza verso il «dritto e buon viaggio» contro l’azione dell’altro corsiere «bizzarro, restio, terribile, capriccioso51». Ma allora perché «con tutto che gli uomini siano così malvagi, come in tanti modi avemo provato, molte donne ancor che buone e savie non ischivano di amarli teneramente52»? È questo il problema che dà il via alla conversazione della seconda giornata, che si articola su argomenti molto vari, cercando di indagare le affinità affettive nel mondo della natura, ricorrendo a motivazioni più mitiche e emblematiche che documentarie, sebbene si attinga alle scienze naturali,
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M. Fonte, Il merito delle donne, op. cit., p. 56. Ibid., pp. 58–59. Ibid., p. 70. Ibid.
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come all’alchimia, alla medicina, all’erboristeria, al diritto, alle arti53. Questo procedere dà modo di inserire molta varia erudizione, incluse alcune novellette. L’argomentazione biblica ricompare solo tra le righe quando, completato il quadro delle creature, prima di passare alla virtù di erbe e bevande, Leonora rammenta che la creazione ha dato il modello della collaborazione tra uomo e donna, perché questa è «nata dopo dell’uomo per suo aiuto54». Tutto sembra comprovare che l’uomo ha bisogno della donna, essendo inferiore, per cui da lei dovrebbe essere governato. Non vengono più introdotte riflessioni che implicano la Bibbia, ma essa è il testo di riferimento, che ricompare di quando in quando, per esempio, quando si dice che la donna deve governare l’uomo per amore, ricordando che i due sono una carne sola: «essendo essi una carne stessa con noi55». La conclusione è riservata all’elogio delle donne veneziane: Marina Pisana in Contarini, Cecilia Sanuto, Isabella Dolfin, e le sue nipoti, Chiara Dolfin in Corner e Gradimana in Nani, Chiara Loredan Querini, Laura Moresini, Elena Da Mula in Foscarini. Tali elogi sono accompagnati da numerosi inserti poetici. La conclusione della seconda giornata si estende alle arti, musica, pittura, persino alla moda in uso tra donne e uomini a Venezia all’epoca, e all’araldica, con qualche consiglio per la giovane Virginia che pensa ormai sia meglio «non voler altrimenti far[si] soggetta ad uomo veruno, potendo star liberamente in pace56». Ma si ammette infine che, considerati i casi del mondo, meglio sia per le donne essere accompagnate, anche se l’amore non è più così grande «come ab antico soleva essere». Per spiegare il cambiamento viene proposta da Corinna una novelletta in versi che racconta come il mondo fosse felice, quando gli strali di Cupido colpivano gli uomini e le donne, tanto che si creavano persino armonie di contrari (il ricco sposava la povera, l’avaro si faceva spendaccione per amore). Ma Giunone, gelosa dell’umana felicità, organizzò con l’aiuto di Superbia e Avarizia una trappola a Cupido, che venne così privato della punta dei suoi strali, per cui ora non feriscono più e non generano più quell’amore appassionato di prima:
53 Sulla cultura scientifica della poetessa si veda Meredith K. Ray, «Scientific Culture in the Renaissance Querelle des femmes: Moderata Fonte and Lucrezia Marinella», in Ead., Daughters of Alchemy. Women and Scientific Culture in Early Modern Italy, Cambridge, Harvard University Press, 2015, pp. 73–110. 54 M. Fonte, Il merito delle donne, op. cit., p. 114. 55 Ibid. 56 Ibid., p. 170.
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parte seconda - venezia scritturale Da questo avvien, ch’al mondo or non si puote né vera fé, né ver57 amor trovarsi, né un vero par di fide alme divote, che d’interno fervor possa vantarsi. Poi che Cupido in van fere e percuote e sono i colpi suoi deboli e scarsi; egli, che la cagion non può sapere, in van si duol che manca il suo potere58.
Ne segue un avvertimento alle donne di non aspettarsi molto dagli uomini, ma di indurire il cuore perché «sol riman d’Amor nel mondo il nome». Al contrario, per non doversi pentire, conviene non ridursi al servizio né ad aver pietà, per cui raccomanda «rivolgendo il vostro alto desire / a miglior opre e a più bei studi intorno / ornatevi d’un nome eterno e chiaro / a onta d’ogni cuor superbo e avaro59». Il trattato di Moderata Fonte non ebbe ristampe, ma fu usato come testo di riferimento da Arcangela Tarabotti. Lucrezia Marinella non lo menziona mai nel suo trattato sulle donne, non poteva infatti conoscerlo, visto che era in stampa mentre scriveva il suo. Segnò una direzione anche per altre donne che ebbero a misurarsi con la querelle des femmes, riportando in campo la lettura e l’interpretazione del testo scritturale, che verrà infatti ripreso e approfondito dalle altre veneziane che vollero misurarsi sulla questione decenni dopo, in un clima certamente meno favorevole per le donne.
57 La moderna edizione recita «vre», come l’antica. Ma riteniamo sia questo un refuso, la metrica funziona assai meglio con «ver», e anche il significato. 58 Ibid., p. 180. 59 Ibid., p. 181.
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Lucrezia Marinella, divulgatrice biblica Una delle figure più interessanti del primo Seicento veneziano e anche tra le più attive nel divulgare le storie bibliche sotto forma poetica o narrativa è Lucrezia Marinella, che usò, come da tradizione, l’episodio edenico per la sua difesa delle donne, per poi ritrattare, e compose una vita della Vergine sia in prosa sia in rima, unitamente alle vite dei dodici apostoli e dei quattro evangelisti (in prosa)1. Figlia di un medico, Giovanni Marinelli, autore di un trattato sulle parole (La copia delle parole, 1562), oltre che di raccolte di consigli per le donne (Gli ornamenti delle donne, 1562, e Le medicine partenenti alle infermità delle donne, 1563), Lucrezia Marinella ebbe probabilmente un’educazione eccezionale per la sua epoca e poté giovarsi di letture ampie, che includevano, accanto ai classici latini e italiani, anche
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La data di nascita è controversa. In genere è indicato il 1571, ma recentemente Virginia Cox ha proposto il 1579: cfr. Virginia Cox, The Prodigious Muse. Women’s Writing in Counter-Reformation Italy, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2011, p. 271. Morì nel 1653. Su Marinella: Paolo Zaja, «Marinelli, Lucrezia», in Dizionario biografico degli Italiani, LXX, 2008, pp. 399– 402; Letizia Panizza, «Polemical Prose Writing, 1500–1650», in A History of Women’s Writing in Italy, a cura di L. Panizza e S. Wood, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, pp. 65–78; Susan Haskins, «Vexatious Litigant, or the Case of Lucrezia Marinella? (Part I)», Nouvelles de la République des Lettres, I, 2006, pp. 80–128; Ead., «Vexatious Litigant, or the Case of Lucrezia Marinella? (Part II)», Nouvelles de la République des Lettres, II, 2007, pp. 203–250; Lucrezia Marinella and the Querelle des Femmes in Seventeenth-Century Italy, a cura di P. Malvezzi Price e C. Ristaino, Cranbury, Dickinson University Press, 2008; Laura Lazzari, «Forme di libertà nelle opere di Lucrezia Marinelli», in Spazi, poteri, diritti delle donne a Venezia in età moderna, a cura di A. Bellavitis, N.M. Filippini e T. Plebani, Bolzano, QuiEdit, 2012, pp. 205–212. Si vedano poi le introduzioni alle recenti edizioni: Marinella Lucrezia, L’Arcadia felice, a cura di F. Lavocat, Firenze, Olschki, 1998; Lucrezia Marinella, The Nobility and Excellence of Women, and the Defects and Vices of Men, a cura di A. Dunhill, Chicago, The University of Chicago Press, 1999; Ead., L’Enrico ovvero Bisanzio acquistato. Poema eroico, a cura di M. Galli Stampino, Modena, Mucchi, 2011; Ead., Dei gesti eroici e della vita maravigliosa della serafica santa Caterina da Siena, a cura di A. Maggi et al., Ravenna, Longo, 2011; Ead., Vita del serafico e glorioso san Francesco e le vittorie di Francesco il Serafico, a cura di A. Maggi et al., Ravenna, Longo, 2018.
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la filosofia e almeno alcuni aspetti della medicina (Cristoforo Bronzini scrive di lei che era «dottissima» e «molto perita nella filosofia morale e naturale2»). La Bibbia per la dignità delle donne Nello stesso anno in cui viene pubblicata postuma l’opera della Fonte, Lucrezia Marinella, che già aveva pubblicato nel 1595 un poema agiografico sulla vita di santa Colomba, martire paleocristiana, La Colomba sacra. Poema eroico, e un altro dello stesso genere, nel 1597, su san Francesco, Vita del serafico e glorioso san Francesco3, dà alle stampe nel 1600 il trattato Le nobiltà et l’eccellenze delle donne et i difetti, e mancamenti de gl’huomini, una pietra miliare nella storia del dibattito a sostegno della dignità della donna4. Fu lo stesso editore, Giovanni Battista Ciotti, che aveva pubblicato già il suo primo poema agiografico, ad invitarla a rispondere al trattato misogino di Giuseppe Passi di Ravenna, uscito l’anno prima, forse non solo per simpatia verso le donne, piuttosto per anticipare il concorrente Barezzo Barezzi, che stava lavorando all’edizione del Merito delle donne di Moderata Fonte5. Pare che la Marinelli abbia composto il suo trattato, un genere in cui le donne non si erano ancora misurate, in soli due mesi, nell’estate del 16006. Educata a una mentalità scientifica, Marinella difende la libertà, uguaglianza e potere delle donne, considerando il problema da una prospettiva ampia, filosofica 2
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Cristoforo Bronzini, Della dignità, & nobiltà delle donne. Dialogo di Cristofano Bronzini d’Ancona. Diuiso in quattro settimane; e ciascheduna di esse in sei giornate, 2: Settimana prima e giornata quarta, Firenze, Zanobi Pignoni, 1625, p. 82. Per la cultura scientifica della Marinella si veda Meredith Ray, «Scientific Culture in the Renaissance Querelle des femmes: Moderata Fonte and Lucrezia Marinella», in Ead., Daughters of Alchemy. Women and Scientific Culture in Early Modern Italy, Cambridge, Harvard University Press, 2015, pp. 73–110. Lucrezia Marinella, La Colomba sacra poema heroico, Venezia, Giovanni Battista Ciotti, 1595; Lucrezia Marinella, Vita del serafico e glorioso san Francesco, Venezia, Pietro Maria Bertano e fratelli, 1597, in moderna edizione op. cit. Lucrezia Marinella, Le nobiltà et eccellenze delle donne et i difetti e mancamenti de gli huomini. Discorso in due parti diviso, Venezia, Giovanni Battista Ciotti, 1600. Fu riedito nel 1601 con il titolo La nobiltà et eccellenza delle donne e con significative variazioni (come vedremo). La moderna edizione anastatica si legge in Nouvelles de la République des Lettres, I–II, 2006–2007, art. cit. La traduzione inglese, The Nobility and Excellence of Women, and the Defects and Vices of Men, op. cit., ambedue si basano sull’edizione del 1601. Cfr. Giuseppe Passi, I donneschi difetti, Venezia, Iacobo Antonio Somasco, 1599 (anche Milano, Pacifico da Ponte, 1599). Lo rivela la stessa Marinella, giustificandosi di non aver potuto raccogliere adeguato materiale: «in dui mesi, che tanti sono a punto come fa fede il Ciotti, non ho potuto andare a parte a parte osservando i detti de’ famosi historici», L. Marinella, Le nobiltà et eccellenze delle donne, op. cit., c. 12v. Cfr. Massimo Firpo, «Ciotti (Ciotto), Giovanni Battista», in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto Italiano dell’Enciclopedia, XXV, 1981, pp. 692–696. La critica ha rilevato posizioni femministe in tutte le opere della Marinella, sia l’Enrico, sia l’Arcadia felice. Si veda Androniki Dialeti, «A Woman Defending Women», e Maria Galli Stampino, «Fantasmi di genere ne l’Enrico overo la Bisanzio riacquistata», ambedue in A Portrait of a Renaissance Feminist. Lucrezia Marinella’s Life and Work, a cura di A. Cagnolati, Roma, Aracne, 2013, pp. 67–104 e 125–148.
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oltre che letteraria, individuando con lucidità nell’educazione ricevuta, diversa per maschi e femmine, la diversità dei generi nella società. La sua è una prosa polemica, che consapevolmente aderisce ai parametri stabiliti del dibattito accademico sul genere, per controbattere il trattato offensivo del Passi7. L’argomentazione della Marinella, che si basa sulla superiorità del corpo delle donne, da cui desume la loro superiorità morale, che porta a una superiorità intellettuale, è assai articolata, e sebbene anche lei usi abbondantemente la poesia e le fonti poetiche come strumento di argomentazione, il procedere è sistematico, come si addice a un trattato, senza divagazioni di intrattenimento, ma con riferimenti espliciti alle sue fonti, aristoteliche, neoplatoniche o storiche e letterarie. Dimostra una precisa conoscenza degli scritti platonici e aristotelici. In questi ultimi situa la radice della misoginia, pur cercando di comprendere le motivazioni che potevano aver indotto un tal filosofo a una posizione tanto irragionevole e ostile verso la donna. Perciò predilige sicuramente i testi platonici, soprattutto Republica e Leggi, dove trova indicazioni per una medesima educazione per fanciulle e fanciulli. L’opera è divisa in due parti, perché la prima è volta a lodare la natura e qualità delle donne, la seconda a denigrare gli uomini per i loro vizi. Se Moderata Fonte iniziava con una collocazione geografica del contesto e dello spazio in cui sviluppava la conversazione, procedendo con tono sollazzevole, di piacevole intrattenimento, Marinella pone subito in campo il fine del suo lavoro come contributo alla conquista della verità e alla sua difesa, in adesione anche al genere letterario scelto. Scrive all’avvio: «Io in questo mio discorso voglio seguire i primi [coloro che desiderano che la verità sia da tutti conosciuta], come quella che è desiderosa che questa verità risplenda appresso ad ogn’uno, la quale è che il sesso femminile sia più nobile et eccellente di quello de gli huomini8». Immediato è il ricorso alle due autorità filosofiche: Platone come sostenitore del valore e dell’ingegno delle donne, Aristotele come denigratore del sesso «donnesco». Come aveva fatto Passi, e prima di lui Cornelio Agrippa di Netthenstein, inizia con le etimologie dei vari nomi 7
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Sul contesto accademico delle due opere si vedano: Stephen Kolsky, «Moderata Fonte, Lucrezia Marinella, Giuseppe Passi: An Early Seventeenth-Century Feminist Controversy», Modern Language Review, XCVI, 2001, pp. 973–989; Claire Lesage, «Femmes de lettres à Venise aux xvie et xviie siècles: Moderata Fonte, Lucrezia Marinella, Arcangela Tarabotti», CLIO: Histoire, Femmes et Sociétés, XIII, 2001, pp. 135–144; Lynn L. Westwater, «“Le false obiezioni de’ nostri calunniatori”: Lucrezia Marinella Responds to the Misogynist Tradition», Bruniana & Campanelliana, XII, 2006, pp. 95–109; sul dibattito sulla donna nel xvii secolo in Italia, incluse analisi sia dell’opera della Fonte sia della Marinella, ma anche di Arcangela Tarabotti, si veda Ginevra Conti Odorisio, Donna e società nel Seicento, Roma, Bulzoni, 1979; sulla questione a Venezia: Erminia Ardissino, «La coppia e la colpa. Adamo ed Eva nella trattatistica rinascimentale veneziana», in 2: Ricerche e riflessioni sul tema della coppia, a cura di F. Bondi, P. Gervasi, S. Pezzini, M. Urbaniak, Pisa, Maria Pacini Fazzi, 2016, pp. 7–22. L. Marinella, Le nobiltà et eccellenze delle donne, op. cit., c. 1v.
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(donna, femina, Eva, Isciah, mulier) con cui è nominato il sesso femminile nelle lingue bibliche (latino ed ebraico), poiché i nomi dimostrano la natura delle cose9. Riconducendo la donna, come ogni altro essere, a creatura divina, per cui Dio deve avere avuto anzitutto l’idea della donna come più nobile dell’uomo (basandosi anche su citazioni poetiche da Petrarca e Tansillo)10, ne esalta il valore sulla base della bellezza, che è immagine della bellezza divina, per cui la sua natura è superiore a quella dell’uomo, quindi manifestazione della bontà, poiché «Omne enim puchrum est bonum». Dunque le donne sono anche più singolari ed eccellenti, capaci di mostrar la via del cielo11. Il seguito del trattato è una erudita collezione, costruita anzitutto secondo le virtù cardinali, di esempi di azioni virtuose e nobili di donne che hanno mostrato fortezza, temperanza, prudenza, giustizia, oppure magnificenza, tolleranza, o che sono state ornate di abilità nelle arti e nelle scienze, che hanno mostrato amore verso i congiunti o la patria, le cui testimonianze sono tratte tanto dalla storia, quanto dalla mitologia o dalla letteratura, in primis da Ariosto e da Tasso, ma anche da Dante, dal Floridoro di Moderata Fonte e da altri minori autori di poemi cavallereschi o epici (Trissino, ad esempio) o da Vittoria Colonna dei sonetti amorosi, e da molti poeti latini. La seconda parte è parallelamente e inversamente dedicata ai vizi e difetti degli uomini, giudicati secondo i peccati capitali, avari, invidiosi, golosi, iracondi, superbi, oziosi, tiranni, ambiziosi, ingannatori, spergiuri, ostinati, ingrati, maligni, ladri, bugiardi, vili, gelosi. Se le donne incarnano le virtù, gli uomini sono la personificazione dei vizi o peccati. Appaiono anche qualità negative, che esulano dai comuni elenchi dei vizi, come l’essere «heretici», «bellettati e biondati», oltre che «lagrimosi e giocatori», ma, ne conclude, è impossibile «scoprire i copiosi diffetti de gli huomini12». Nell’argomentazione Marinella fa variamente uso della Bibbia, sia perché menziona ripetutamente Salomone per il libro della Sapienza, ancora a lui attribuito, G. Passi, I donneschi difetti, op. cit., p. 15; Heinrich C. Agrippa von Nettesheim, Della nobiltà et eccellenza delle donne, nuovamente dalla lingua francese nella italiana tradotto, Venezia, Gabriel Giolito de Ferrari, 1549, c. 4v. 10 Per il poema del Tansillo Marinella scriverà poi gli argomenti e le allegorie per l’edizione del 1606 (Venezia, Barezzo Barezzi). 11 Sul platonismo di Lucrezia Marinella, anche se distorto sulle proprie convinzioni: Marco Piana, «“Divinae Pulchritudinis Imago”: The Neoplatonic Construction of Female Identity in Lucrezia Marinella’s La Nobiltà et l’Eccellenza delle donne (1601)», in Genealogias. Re-Writing the Canon: Women Writing in xvi–xvii Century Italy, a cura di S. Santosuosso, Sevilla, ArCiBel Editores, 2018, pp. 219–242. Si veda anche Valeria Ferrari Schiefer, «La teologia della bellezza di Lucrezia Marinella (1571–1653) in tre delle sue opere», Annali di studi religiosi, II, 2001, pp. 187–207. 12 L. Marinella, Le nobiltà et eccellenze delle donne, op. cit., c. 92r. 9
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per cui si trova per esempio l’autorità di Salomone per provare che la regina Nicaula era dottissima, avendo voluto recarsi da lui13, sia per dare prova della sapienza della donna, come appunto recita il versetto di Proverbi 14: «Mulier sapiens aedificat domum suam», o dall’Ecclesiastico, pure considerato di Salomone, da cui si legge: «Mulieris bonae beatus vir» (Sir 2, 6)14. Anche il libro del Genesi è ricordato per l’episodio di Nembroth, che sfidò Dio con la torre di Babele15, a prova della superbia maschile, e san Paolo, dove di Cristo dice che è superiore agli angeli (c. 1v, il riferimento è alla lettera ai Romani, ma il passo coincide con Ebrei 1, 4). Ma la prova chiave della superiorità della donna su base biblica, ovvero la prova della nobiltà di Eva, è collocata nel cuore del trattato (a p. 44v delle 92) nel capitolo che chiude la prima metà dell’opera sui pregi della donna, dove, prima di passare alla seconda parte, Marinella si propone di rispondere «alle leggierissime et vane ragioni addotte da gli huomini in suo [proprio] favore16». Dopo aver confutato le molte negative affermazioni di Aristotele, attribuendole all’invidia contro le donne per la loro superiorità, e aver provato che il biasimo cade sulle donne cattive (con molte prove poetiche da Petrarca all’Ariosto, da Guarino al Tasso, ma dovute al fatto che le storie sono scritte dagli uomini, che sono invidiosi), risponde alle ultime questioni, partendo dal peccato originale. Marinella riprende le affermazioni di Isotta Nogarola e di Moderata Fonte, che Eva non può essere considerata colpevole, non avendo ricevuto lei le istruzioni divine sulla proibizione di mangiare il frutto dell’albero. Onde s’ella non lo [il serpente come demonio] conobbe, né hebbe da Dio commandamento alcuno, che non ne dovesse mangiare, perché vorremo noi dire ch’ella peccasse? supponendo il peccato qualche cognitione antecedente. Ma ben peccò Adamo, che transgredì il commandamento di Dio, havendolo prima fatto avvertito che non ne dovesse mangiare, et che il peccato fosse d’Adamo lo dimostra chiaramente la pena et il castigo datoli [...]. Et però il peccato orginale più dipende da l’huomo, che dalla donna. Et anco lo mostrò l’istesso Dio, il quale disse: Adam, ubi es, et non chiamò Eva, et lo chiamò per riprenderlo del commesso errore; segno manifesto che egli fu quello che commise il peccato et non la donna, et se ella ne fu cagione, fu per ignoranza, non sapendo di peccare, ma l’huomo peccò per sicura et certa cognizione17.
L’uomo quindi non può considerare la donna colpevole. Il serpente si è diretto verso Eva per la sua superiorità e perfezione, sapendo che, se lei cedeva alla ten13 14 15 16 17
Ibid., c. 13v. Ibid., c. 41v. Ibid., c. 58v. Ibid., c. 41r. Ibid., c. 45 r-v.
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tazione, avrebbe coinvolto anche l’uomo. Quindi, non solo Eva non è colpevole, ma è anche superiore ad Adamo; infatti il demonio tentò Eva non per la sua facilità a credere, ma, «perché la conobbe più difficile a piegarsi et più nobile, volle prima tentar lei. Percioché chi vince il più potente et valoroso, non teme punto il minore et impotente18». A conclusione dell’argomentazione afferma che la supremazia della donna è confermata dalla Vergine Maria, che «ha cancellato in tutto et per tutto il peccato commesso19». Eva invece versò infinite lacrime per il peccato del ‘marito’, Adamo. Altre accuse, come quella contro Elena, di essere la rovina di Troia, o contro le Sabine per quella di Roma, o quella di Aristotele, che le donne sono meno calde o meno forti degli uomini, chiudono il capitolo. Le prime argomentazioni sono confutate responsabilizzando gli uomini per i due rapimenti, le seconde non avendo significato, essendo attribuite, a suo dire, a invidia e astio. In chiusura Marinella esprime l’auspicio di cambiare le sorti del sesso: «ma se le donne, come io spero, si sveglieranno dal lungo sonno, dal qual sono oppresse, diverranno mansueti et humili questi ingrati et superbi20». Marinella avanza con il suo trattato una richiesta di libertà, potere e uguaglianza per le donne, considerando la loro situazione in termini politici e sociali. Per la prima volta, l’esclusione delle donne dalla vita civica viene collegata agli scritti misogini e si sostiene fortemente il principio di un diritto della donna ad un’educazione pari a quella dell’uomo. Ritrattazione Come è ora noto, Marinella cambiò rapidamente opinione. Non solo produsse negli anni tardi della sua vita l’Essortationi alle donne et a gli altri, se loro saranno a grado21, che ribalta l’apertura giovanile, ma già nella seconda edizione de La nobiltà et l’eccellenza delle donne del 1601 (uscito sempre presso il Ciotti, ma significativamente con il titolo portato al singolare) elimina il riferimento al libro di Genesi che abbiamo visto e tutti i riferimenti biblici, indebolendo notevolmente la sua argomentazione. Solo un anno è passato dalla precedente edizione e dalla sua scrittura, qualcosa è successo che porta la scrittrice ad evitare la Bibbia e persino l’agiografia
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Ibid., c. 44v. Ibid., c. 45v. Ibid., c. 40r. Venezia, Francesco Valvasense, 1645. Si veda la traduzione inglese: Lucrezia Marinella, Exhortations to Women and to Others if They Please, a cura di L. Benedetti, Toronto, University of Toronto Press, 2012.
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come sua fonte (toglie infatti anche i riferimenti alle sante, come se non volesse più invadere il terreno sacro)22. La prima parte nella seconda edizione (e invariata sarà la terza del 1621, dell’editore Giovan Battista Combi) si chiude non con il capitolo in «risposta alle leggierissime et vane ragioni addotte da gli uomini in proprio favore», ma con nuovi capitoli aggiunti contro le opinioni di Ercole Tasso, autore di un’Esclamatione contro l’ammogliarsi23; Monsignor Arrigo o Enrico di Namur autore non identificato di un testo sulla malvagità delle donne24; Sperone Speroni per il Dialogo della dignità e nobiltà delle donne, in cui le biasima invece di lodarle25; Torquato Tasso, per il Discorso sulla virtù femminile e donnesca e Giovanni Boccaccio per il Laberinto d’amore26. Marinella ne ricostruisce le argomentazioni, ma invariabilmente le rifiuta. La parte sugli huomini nella nuova edizione ha pure significative aggiunte, ovvero ben dieci capitoli in cui il sesso maschile è accusato per altri vizi, essendo gli uomini ancora «maldicenti et falsi incolpatori», «loquaci et cicaloni», «smemorati, di poco ingegno et pazzerelli», «ucciditori delle madri, de’ padri, de’ fratelli, delle sorelle, et de’ nipoti», e persino dei «propri figliuoli», «hipocriti et santoni», «seditiosi et tumultuarii», «ignoranti et goffi», «adulatori27».
22 Lucrezia Marinella, La nobiltà et l’eccellenza delle donne co’ diffetti, et mancamenti de gli huomini. Discorso di Lucretia Marinella, in due parti diuiso. Nella prima si manifesta la nobilta delle donne co’ forti ragioni, & infiniti essempi, [...] Nella seconda si conferma co’ vere ragioni, [...] che i diffetti de gli huomini trapassano di gran lunga que’ delle donne, Venezia Giovan Battista Ciotti, 1601. Sulle correzioni della seconda edizione cfr. Annika Willer, «Silent Deletions: the Two Different Editions of Lucrezia Marinella’s La nobiltà et l’eccellenza delle donne», Bruniana & Campanelliana, XIX, 2013, pp. 207–219. Infatti vengono cassati anche tutti i riferimenti alle martiri, santa Pelagia, santa Felicita, santa Colomba, che con le citazioni da Lucillo Martinengo, Luigi Tansillo, e dalla stessa Marinella costituivano una buona parte dell’argomentazione sulle donne forti e intrepide (L. Marinella, Le nobiltà et eccellenze delle donne, op. cit., c. 23r-v, che corrisponde a p. 63 dell’edizione 1601). 23 L. Marinella, La nobiltà et l’eccellenza delle donne, op. cit., pp. 121–125. Ercole Tasso, Dell’ammogliarsi piacevole contesa fra i due moderni Tassi, Hercole, cioe, & Torquato, gentilhuomini bergamaschi, Bergamo, Comin Ventura, 1593. 24 L. Marinella, La nobiltà et l’eccellenza delle donne, op. cit., pp. 121–125 (le opinioni di Ercole Tasso e di Monsignor Arrigo di Namur sono trattate insieme). 25 L. Marinella, La nobiltà et l’eccellenza delle donne, op. cit., pp. 126–128. Una delle ultime edizioni dei Dialogi dello Speroni, prossima alla scrittura della Marinella è Sperone Speroni, Dialogi del sig. Speron Speroni nobile padovano, di nuovo ricorretti; a’ quali sono aggiunti molti altri non più stampati. E di più l’Apologia de i primi, Venezia, Roberto Meietti, 1596, il dialogo sulle donne è alle cc. 36–48. 26 L. Marinella, La nobiltà et l’eccellenza delle donne, op. cit., pp. 128–130 per Tasso, pp. 131–134 per Boccaccio. Torquato Tasso, Discorso della virtù feminile, e donnesca, Venezia, Bernardo Giunti, e fratelli, 1582. Il laberinto d’amore aveva avuto molte edizioni nel Cinquecento, la più prossima alla scrittura della Marinella è Venezia, Giovan Battista Bonfadino, 1597. 27 L. Marinella, La nobiltà et l’eccellenza delle donne, op. cit., pp. 279–326.
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Tutti i riferimenti biblici sono cassati dalla sua scrittura. Nel capitolo sulle donne prudenti, viene cassato il riferimento al libro dei Proverbi (è cassata tutta la frase «Il Savio Salomone considerando la sapienza della donna disse: Mulier sapiens aedificat domum suam28»). E ancora il riferimento all’Ecclesiastico, attribuito a Salomone, scompare del tutto nella nuova edizione, così il passo di san Paolo relativo a Cristo superiore agli angeli29. Non conosciamo la ragione di questa sistematica cassazione dei riferimenti biblici. Può essere dipesa da qualche suggerimento esterno, magari di qualche autorità ecclesiastica, di cui però non abbiamo notizia; o semplicemente essa risponde a una forma di autocensura, che a mente fredda può avere interferito con la revisione, mentre non era emersa nell’ideazione. La diffusione dell’Indice clementino nel 159630, che proibiva l’uso della Bibbia volgare, ha generato molte forme censorie e autocensorie, che giustificherebbero il ripensamento di un’autrice che vuole evidentemente essere fedele ai dettati della Chiesa romana31. Quindi ella stessa potrebbe aver deciso di eliminare queste riflessioni che entrano in materia biblica per un uso non devozionale e in forma volgare. Non si può escludere una terza causa, che non soppianta le altre, ovvero che l’autrice non condividesse più la convinzione della innocenza di Eva32. Nel trattato della vecchiaia (l’Essortationi sono pubblicate quando l’autrice ha 74 anni) si conferma però l’idea della donna come creatura superiore, ma proprio per questo vincolata a una vita ritirata. Qui Marinella ritratta esplicitamente quanto affermato in gioventù: 28 L. Marinella, Le nobiltà et eccellenze delle donne, op. cit., c. 25r edizione 1600, (l’omissione corrisponde a p. 66 nell’edizione del 1601). 29 Nella prima edizione scriveva che, sebbene nelle Sacre Scritture si trovino donne biasimate, «si legge ne’ scritti di Salomone, cioè nell’Ecclesiastico cap. 2 che Mulieris bonae beatus vir. Ancor che in altri luoghi egli oltre modo le biasmi, forse ancor egli mosso da sdegno, disse questo; o stimulato dalle pessime attioni, come ho detto, di qualche donna malvagia, delle quali credo che parli etiandio S. Antonino, S. Giovanni Chrisostomo, et altri sacri Padri; percioche è impossibile, che questi huomini giusti biasimassero le sacre vergini et vedove, dove per la fede di Christo morte sopportando atroce et crudo martiro. La medesima risposta si vede che è convenientissima a filosofi morali et a poeti […]». (L. Marinella, Le nobiltà et eccellenze delle donne, op. cit., cc. 41v-42r). Nella seconda uscita scompare tutto il passo, perché, dopo aver lodato le donne buone, si legge: «Et una sola risposta è convenientissima a’ filosofi morali et a’ poeti». 30 Per i decreti contro i volgarizzamenti biblici: Gigliola Fragnito, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471–1605), Bologna, Il Mulino, 1997. Sulle conseguenze della censura: Ead., Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 2005; Church, Censorship and Culture in Early Modern Italy, a cura di G. Fragnito, tr. ing. A. Belton, Cambridge, Cambridge University Press, 2001. 31 Cfr. Gigliola Fragnito, Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori (secoli xv e xvii), Bologna, Il Mulino, 2019. 32 Potrebbe anche essere intervenuta una mano esterna, le cassature sono infatti nette; ma questa ipotesi non spiegherebbe le aggiunte, che non risultano diverse nel procedere dal trattato della prima edizione.
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2- lucrezia marinella, divulgatrice biblica Credono alcuni che cagione siano di questa retiratezza gli huomini per tenerle [le donne] senza esperienza delle cose del mondo rinchiuse, accioché inesperte, di poco ardire, e poco valore riescano. Questo ancor io dissi nel mio libro intitolato La nobiltà et eccellenza delle donne. Ma ora più maturamente considerando, mi sono avveduta non essere invenzione né azione di animo appassionato, ma volere e providenza della natura e di Dio, e possiamo conoscere questa verità facilmente. Se questa fosse stata violenza non si sarebbe conservata per tanti secoli e migliaia di anni. Le cose violenti lungamente non durano33.
Che la vita ritirata fosse riconosciuta all’epoca dalla Marinella come l’opzione più felice per la donna è confermato anche dal sonetto che avrebbe dedicato alla Tarabotti in occasione della pubblicazione del suo Paradiso monacale, avvenuta nel 1643, quindi probabilmente al tempo della stesura delle Essortazioni, uscite nel 164534. Il sonetto loda suor Arcangela senza riserve, forse perché questa era la prima e unica opera della Tarabotti andata fino a quel momento a stampa. Il sonetto è anzitutto un invito alla monacazione: Correte, o figlie, o voi saggie donzelle, con cor placido e pio, con dolce viso, a goder novo in terra un paradiso, a farvi in man di Dio lucenti stelle. Né siate al vostro ben crude e rubelle. Là non tigre o leon rende conquiso virginal petto, ma perpetuo riso v’invita a farvi a Dio spose et ancelle35.
Questa esaltazione della vita monacale non era certamente in linea con il sentire della suora, che altrove offre ben altra versione della vita monacale, come si vedrà nel capitolo a lei dedicato. Anche se non si può conoscere la causa del mutamento di posizione di Lucrezia Marinella, si può però concordare che questo è ovviamente sintomatico del clima oppressivo e anticipatore di un ritorno sociale e politico, ma anche religioso e culturale, a posizioni meno favorevoli all’azione della donna nella società, sebbene proprio l’idea di una maggiore acculturazione della donna porti positivamente a dei cambiamenti per la sua condizione proprio nella società veneziana36. 33 Lucrezia Marinella, Essortationi alle donne e a gl’altri se a loro saranno a grado, Venezia, Francesco Valvasense, 1645, p. 12. Cito dall’introduzione di Laura Benedetti all’edizione inglese: «Introduction», in L. Marinella, Exhortations to Women, op. cit., pp. 1–34: 19. 34 Sul Paradiso monacale si veda ultra il capitolo sulla Tarabotti. 35 Arcangela Tarabotti, Il paradiso monacale, Venezia, Guglielmo Oddoni, 1643, pp. n.n. 36 Sulla posizione sulla donna nel secolo e sui cambiamenti: Federica Ambrosini, «Toward a Social History of Women in Venice: From the Renaissance to the Enlightenment», in Venice
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L’eliminazione dei passi biblici non è dunque una presa di posizione antiecclesiale, ma un allineamento, voluto o imposto, a un modo di concepire la religione senza un rapporto diretto con il suo libro fondante. Infatti a temi scritturali Marinella dedicò ancora molte energie, tanto che potrebbe ben essere considerata nel suo tempo una prolifica divulgatrice di religione, oltre che di vite di santi, ma la sua fonte, come vedremo, non sarà la Bibbia. Vita di Maria A solo un anno dalla revisione del trattato sulle donne, nel 1602, Marinella pubblica la sua opera mariana, ovvero una vita della Vergine sotto duplice forma: come poema in ottava rima e come prosa37. Le ragioni per questa duplice versione sono date da lei stessa nella prefazione ai lettori, in cui, rifacendosi principalmente all’autorità degli antichi e dei moderni, da Gorgia a Platone a Aristotele a Apuleio a Boccaccio a Giulio Camillo, motiva la superiorità della poesia sulla prosa, perché la prima «tiene il sommo dell’altezza dell’eloquenza38». Dovendo quindi tattare di «azioni che hanno del grande, del magnifico e del divino, e che trapassano le azioni humane» e di «persone che contengono in sé ciò che di maraviglioso vien participato da tutte le altre creature», ha perciò «eletto questo modo di parlare poetico, qual è più mirabile e più grande di quello delle prose», «usando il parlar poetico parole et ornamenti che rendono il ragionamento grande e maraviglioso39». In effetti questa premessa motiva bene un poema in cui evidentemente la cura degli aspetti elocutivi è preminente. Il poema della Marinella su Maria sorprende il lettore per la sua distanza dalle fonti bibliche ed evangeliche. Esso ebbe una seconda edizione, nel 1610 e una terza nel 1617, in cui la materia è molto cresciuta. Se le edizioni del 1602 e del 1610 constano di quattro canti, quella del 1617 è in sette canti di circa 50–60 ottave ciascuno40. Il poema, che segue la prosa in tutte
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Reconsidered. The History and Civilization of an Italian City-State, 1297–1797, a cura di J. Martin e D. Romano, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2000, pp. 420–453; Virginia Cox, Women’s Writing in Italy, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2008, p. 176. Lucrezia Marinella, La vita di Maria Vergine imperatrice dell’universo descritta in prosa e in ottava rima, Venezia, Barezzo Barezzi, 1602. Nemmeno nella Vita di Maria Vergine, sia il poema sia la prosa, si pone la figura della Vergine come antifrasi di Eva, come invece era evidentemente sostenuto nella prima edizione del trattato sulle donne, dove a proposito si impiegavano stilemi da Petrarca: «E fra tutti i terreni altri soggiorni / sola tu fosti eletta / Vergine benedetta / che ‘l pianto d’Eva in allegrezza torni» (L. Marinella, Le nobiltà et eccellenze delle donne, op. cit., 45r). L. Marinella, La vita di Maria Vergine imperatrice dell’universo, descritta in prosa e in ottava rima, op. cit., p. n.n. Ibid., p. n.n. Si prende qui in analisi l’edizione ultima in vita dell’autrice, ovvero quella del 1617 (La vita di Maria Vergine imperatrice dell’universo, descritta in prosa et in ottava rima dalla molto illustre sig. Lucretia Marinella, dalla stessa ampliata et aggiuntevi le Vite de’ dodeci heroi di Christo, et de’ quattro evange-
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le edizioni e porta il titolo La imperatrice dell’universo, poema heroico, in cui il nascimento, la vita, la morte et la ascensione di lei si contiene, si colloca inequivocabilmente nel genere eroico, nel senso definito da Tasso nei suoi discorsi, perché «il poema eroico è una imitazione d’azione illustre, grande e perfetta, fatta narrando con altissimo verso, a fine di giovar dilettando41». L’ottava proemiale presenta l’autrice, prima di tutto: «Quella son io ch’a l’aura in versi trasse / già di sacra Colomba i gran martiri; / quella io son che ’n rima pria cantasse / del serafico heroe gli alti desiri». Segue la proposizione: «Hor canto, ma con note rozze e basse, / de la Regina de’ stellanti giri / e la vita e la morte e mostro come / se n’andò al Ciel con le terrene some42». Può sorprendere l’aggettivazione «note rozze e basse» per lo stile, mentre al poema eroico si addice uno stile alto, ma sorprende soprattutto perché troviamo nei suoi versi in effetti una ricerca formale assai esibita. L’aggettivazione «basse» e «rozze» andrà intesa allora in contrasto con l’altezza divina del soggetto, in segno di umiltà dell’autrice, non tanto quindi per indicare lo stile, piuttosto l’atteggiamento di chi scrive e la sua distanza dalla sublimità del soggetto 43. Inizia poi subito con la nascita prodigiosa di Maria da Anna e Gioacchino («Nacque»), mettendola però in relazione con la creazione, perché presente nel disegno divino fin dalle origini: «Al Fabro eterno, mentre dividea / l’acque da l’acque era presente e accetta, / mentre librò la terra e destò in cielo / la luna, i minor lumi e ’l Dio di Delo44». Nessun accenno viene fatto né qui né altrove a Maria come antifrasi di Eva, come se si volesse evitare un argomento che era familiare, ma forse da lei ritenuto scomodo. L’invenzione poetica si mescola alle notizie sulla vita di Maria che dice di aver raccolto da svariate fonti. Se l’accenno alla creazione si rifà a Genesi, le notizie su Anna e Gioacchino e sull’infanzia della Vergine possono pro-
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listi, Venezia, Barezzo Barezzi, 1617). Questa terza edizione risulta allungata rispetto alla prima di tre ottave (7–9) nel primo canto, sui genitori di Maria; resta invariata nel secondo canto; è accresciuta di trentun ottave (17–46) nel canto terzo, riguardanti l’infanzia di Gesù, la strage degli Innocenti, la fuga in Egitto, il ritorno a Nazareth, il ritrovamento al tempio. Tutto il quarto canto è aggiunto (sulla Maddalena) così come quasi tutto il canto quinto (nell’edizione 1602 vi erano solo le prime sei ottave) e le prime 40 ottave del sesto, ovvero tutta la parte sulla Maddalena. La narrazione nell’edizione del 1602 proseguiva con la vita di Maria, dall’ottava 41 (che era la settima del quarto canto) senza la lunga parentesi sulla Maddalena, continuando con quello che nel 1617 è il settimo canto. Nel 1617 è aggiunta anche l’ottava che chiude con una preghiera alla Vergine. Torquato Tasso, Discorsi del poema eroico, in Id., Scritti sull’arte poetica, a cura di E. Mazzali, Napoli-Torino, Ricciardi-Einaudi, 1977, vol. II, p. 158. L. Marinella, L’imperatrice dell’universo, op. cit., p. 1. Queste ottave proemiali apparivano già nell’edizione del 1602. L. Marinella, L’imperatrice dell’universo, op. cit., p. 2.
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venire dai vangeli aprocrifi, che non erano stati inclusi nella Vulgata, ma che erano comunque considerati fonti attendibili per la Chiesa dell’epoca45. In realtà, come è stato recentemente dimostrato da Eleonora Carinci, Marinella si basa in gran parte, soprattutto per la versione in prosa, su La vita di Maria Vergine di Pietro Aretino, un testo uscito nel 1539 e messo all’Indice già nel 1557 (ma con molte riedizioni fino al 1552), come tutte le opere dell’Aretino46. Circolava ancora e nel 1628 l’editore veneziano Marco Ginammi ne avrebbe persino fatto una nuova edizione a nome di Partenio Etiro, anagramma di Pietro Aretino47. Marinella sceglie dunque come fonte e insistito riferimento un’opera per lo meno scomoda, benché avesse a dispozione molteplici altri testi, in prosa e in poesia, prossimi e lontani, per ricostruire una vita su cui le Sacre Scritture sono assai scarne. Ovviamente la figura della Madre del Salvatore aveva sempre suscitato interesse, che si può dire si era enormemente accresciuto dal Medioevo, anche in ambito letterario, oltre che devozionale e iconografico48. Oltre agli apocrifi, in particolare il De nativitate Mariae, oltre alle pagine su Maria della raccolta agiografica di Jacopo da Varazze, la Legenda aurea49, oltre alle notizie proposte nella devozione mariana del rosario, particolarmente sviluppata nel Cinquecento, vi erano opere volgari, in prosa e in poesia, che presto avevano avuto dignità di stampa, e che, pur essendo devozionali, proponevano versioni, più o meno ricche, della vita della Vergine. In poesia c’erano la Vita de la Madona di Antonio Cornazzano e l’anonima Vita della gloriosa vergine Maria, e di Jesu Christo, & di santo Giouanni Battista, con molti suoi miracoli, per il Quattrocento50; per il secolo successivo i Mariados libri tres del par-
45 Cfr. Gli apocrifi del Nuovo Testamento, a cura di M. Erbetta, Genova, Marietti, 2017. 46 Eleonora Carinci, «Una riscrittura di Pietro Aretino. La Vita di Maria Vergine di Lucrezia Marinella e le sue fonti», The Italianist, XXXIII, 2013, pp. 361–389. 47 Partenio Etiro [Pietro Aretino], Vita di Maria Vergine descritta in tre libri, Venezia, Marco Ginammi, 1628. Sulla fortuna dell’Aretino nel Seicento: Quinto Marini, «Pietro Aretino nel Seicento: una presenza inquietante», in Pietro Aretino nel Cinquecentenario della nascita. Atti del Convegno di Roma-Viterbo-Arezzo 28 settembre-1 ottobre 1992, Toronto 23–24 ottobre 1992, Los Angeles 27–29 ottobre 1992, a cura del Centro Pio Rajna, Roma, Salerno, 1995, pp. 479–499. 48 Cfr. Jaroslav Pelikan, Mary through the Centuries: her Place in the History of Culture, New Haven, Yale University Press, 1996; Storia della Mariologia. I. Dal modello biblico al modello letterario, a cura di E. Dal Covolo e A. Serra; II. Dal modello letterario europeo al modello manualistico, a cura di E. Boaga e L. Gambero, Roma, Città Nuova, Marianum, 2009 e 2012; Maria. Testi teologici e spirituali dal I al xx secolo, a cura della Comunità di Bose, Milano, Mondadori, 2000; Miri Rubin, Mother of God. A History of the Virgin Mary, Yale University Press, 2009. 49 Libri de nativitate Mariae, a cura di J. Gijsel e R. Beyers, Turnhout, Brepols, 1997; molte erano le edizioni della Legenda aurea, prossima alla scrittura della Marinella: Jacopo de Voragine, Legendario delle vite de’ santi, Venezia, Fioravante Prati, 1600. 50 L’opera del Cornazzano fu edita a Venezia da Giovanni Battista Sessa nel 1503, della vita di anonimo non si sa neppure il luogo di stampa né l’anno.
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mense Cesare Delfini, stampati a Venezia nel 1537 (e ancora nel 1548 e nel 1552, con una versione in prosa volgare, Mariade de la Madre Vergine) o il poema di Lucillo Martinengo Della vita di nostra santiss. signora, la gloriosa Vergine Maria o i molti versi sul lamento di Maria, come le Lagrime di Maria Vergine di Torquato Tasso51. In prosa erano uscite diverse opere che guidavano nella meditazione sulla vita della Vergine: La vita dell’immaculata et gloriosissima sempre vergine santa Maria madre di Dio del fiorentino Francesco Cattani da Diacceto, la Vita della gloriosa vergine Maria madre di Dio, regina de i Cieli, con l’humanità del redentor di Bartolomeo Meduna, La vita di Maria vergine, e di san Giovanni Batista, di Silvano Razzi52. Più prossime alla Marinella vi erano nuove pubblicazioni, che rispondevano alla domanda di libri devozionali e di conoscenza religiosa del periodo post-tridentino, anche ricevute da altre realtà, come Della vita et delle laudi della Vergine madre di Dio. Meditationi cinquanta di François Coster, tradotto da Camillo Camilli, il Nuouo leggendario della vita di Maria Vergine immacolata madre di Dio et delli santi di Alonso Villegas, tradotto da Giulio Cesare Valentino o la prosa di Chiara Matraini Breve discorso sopra la vita et laude della Beatissima Vergine e Madre del Figliuolo di Dio53. Marinella assume come suo ipotesto invece la Vita di Maria Vergine di Aretino, seguendola passo passo nella prosa e un po’ più liberamente nel poema. Scrive Carinci della prosa: La struttura, il contenuto e lo stile dei due testi sono fondamentalmente gli stessi, anche se in molti casi Marinella tende a tagliare episodi e descrizioni che sembrano inappropriati a una sensibilità post-tridentina, oppure 51 L’opera del Delfini uscì a Venezia presso Bernardino Vitali. La prosa è dell’anno successivo (1538) presso Andrea Arrivabene. Il poema del Martinengo ebbe una sola edione nella sua città (Brescia, Policreto Turlini, 1595). Le Stanze del s. Torquato Tasso per le lagrime di Maria Vergine beatissima, & di Giesu Christo, ebbero ben sette edizioni nel solo 1593, seguite da altre edizioni. 52 L’opera del Cattani da Diacceto era stata edita a Firenze da Bartolomeo Sermartelli nel 1570, riedita nel 1584 e nel 1608; quella del Meduna a Venezia da Gabriel Giolito de’ Ferrari nel 1574 con successive due altre edizioni nel 1580 e 1581; quella del Razzi fu edita dai Giunti di Firenze nel 1577. 53 L’opera del Coster era stata edita a Venezia da Francesco de’ Franceschi nel 1591; quella del Villegas a Venezia dal Ciotti nel 1596 e poi nel 1599, ebbe numerossime edizioni nel Seicento, fino a Settecento inoltrato. Il discorso della Matraini uscì a Lucca presso Busdragni nel 1590, ma ebbe ulteriori edizioni, per cui si rimanda ultra al capitolo sulla Matraini. Sulla produzione mariana all’epoca si veda Who is Mary? Three Early Modern Women on the Idea of the Virgin Mary, a cura di S. Haskins, Chicago, The University of Chicago Press, 2008, con testi di Chiara Matraini, Vittoria Colonna e appunto brani dal poema di Lucrezia Marinella; in particolare sulle raccolte poetiche in onore della Vergine: Maiko Favaro, «She Who “Aggrantised and Ennobled” Her Gender: the Virgin Mary and the Spiritual Temples of Poems», in Songs from the Spirit. The Tradition of Spiritual Verses in Renaissance Italy, a cura di S. Santosuosso, numero monografico degli Annali della Scuola Normale Superiore. Classe di Lettere e Filosofia, s. 5, X/1, 2018, pp. 53–66; Eleonora Carinci, Lives of the Virgin Mary by Women Writers in Post-Tridentine Italy, doctoral thesis, Cambridge, 2009. Ringrazio la studiosa per avermi consentito l’accesso al suo lavoro.
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parte seconda - venezia scritturale aggiunge dettagli e si sofferma più a lungo di Aretino su determinati episodi. La scrittrice a volte riprende intere frasi da Aretino […]54.
Ma perché Marinella ha scelto di attenersi alla Vita dell’Aretino? È già sorprendente che disponesse di quest’opera, ormai all’Indice da decenni, ma evidentemente le maglie della censura non si erano strette sulla sua (o del padre) biblioteca. Certamente doveva aver avuto un peso sulla scelta del modello proprio l’intento divulgativo della sua narrazione. L’Aretino era riuscito ad arricchire uno scarno bagaglio di notizie anche con vicende inventate del tutto, e il successo raggiunto attestava il favore di questa scelta da parte del pubblico. In questo modo egli era riuscito a creare anche una figura della Vergine inusuale, meno passiva, meno conforme al modello proposto in genere, più libera e determinata, che doveva certo piacere alla Marinella. La Maria aretiniana è una «donna eccezionale, bella, casta, umile, modesta, pia e istruita, ma non per questo particolarmente passiva e silenziosa55». Anche la Vergine di Marinella ha più del modello dell’Aretino che quello della Controriforma, perché «offre un’immagine della Vergine potente, divina, ma nello stesso tempo umana, dotata di tutte le virtù attribuitele dalla tradizione, ma senza essere presentata come modello imitabile di obbedienza e sottomissione56». Un ulteriore interesse poteva essere rappresentato dal suo stile: la Vita dell’Aretino si presentava come un modello di prosa alta, ricca, elaborata, che certamente doveva suscitare suggestione in una letterata cresciuta alla scuola paterna della «copia delle parole». La prosa dell’Aretino doveva costituire un bel modello di «parlar poetico», che lei in effetti segue abbastanza fedelmente, riservandosi «nello stesso tempo una sorta di gara di retorica volta a dimostrare la sua abilità a cimentarsi nell’arte della parola57». Infine, riguardo all’Indice forse si sentiva tranquilla che il suo furto, dopo mezzo secolo di censura, non sarebbe stato scoperto. Il poema è un po’ più libero da tutte le costrizioni dell’aemulatio aretiniana sia nel contenuto sia nello stile, anche perché in gran parte, come vedremo, si occupa della Maddalena. Fin dalle prime ottave risulta che la Marinella ha ben appreso la lezione del quarto canto della Gerusalemme Liberata del Tasso, perché al divino è associato il diabolico con la reazione oppositiva del dio degli inferi alla nascita della Vergine, che significa anche l’inizio della redenzione58:
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E. Carinci, «Una riscrittura di Pietro Aretino», art. cit., p. 368. Ibid., p. 363. Ibid., p. 378. Ibid., p. 376. Sottolinea l’influsso tassiano sul poema Luca Piantoni, «Mirabile cristiano ed eloquenza sacra in Lucrezia Marinelli», in Poesia e retorica del sacro tra Cinque e Seicento, a cura di E. Ardissino e E. Selmi, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2009, pp. 435–445.
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2- lucrezia marinella, divulgatrice biblica Diede mugghito alhor con suon crudele il fero re de’ sempiterni horrori. Tremò, rintuonò il centro, Etna s’aprìo, di cui de l’ira sue la fiamma uscìo. Furente e pazzo dal suo regal trono caddè, quasi dal ciel fulmine ardente: rimbombar gli antri a quel terribil tuono, l’acceso Fleggetton fè l’onda algente. Crebbe per lui Cocito e un vento e un suono fé co’ sospir la tempestosa mente maggior di Borea, quando irato ei svelle da’ monti i pini e i flutti erge a le stelle.59
Satana resta presente e ricompare nei momenti più significativi della narrazione, come quando Dio invia Gabriele per l’annunciazione, se «gaudio portò, nel limbo atro soggiorno, / oh, quanta rabbia e duolo affligge il core / del fero re de l’infernale horrore60». Una reminiscenza tassiana è anche la chiamata di Gabriele: «Volse l’eterno padre il guardo pio […] / Poi alzò gli occhi, anzi i gran soli, e vide / fra mille e mille in suo servigio pronti / Gabriel […]61». Se in questi passi si sente l’influsso tassiano, dominante è il linguaggio petrarchesco, che dà il timbro ai versi, soprattutto quando si tratta di presentare la fanciulla Maria, alla cui bellezza è dedicata un’attenzione che pare francamente molto, se non troppo, corporea: D’oro ha la chioma, ha il bel ciglio sereno, che d’amor santo puro lume scopre; di tal grazia e valor lo sguardo ha pieno, ch’altrui la via del ben mostra e discopre; fresche rose han le guancie e nel bel seno la neve ondeggia, ma rigor la copre, rigor che nasce di pudiche voglie tutto il thesor di sua beltà ricoglie. 62
Alla bellezza di Maria sono dedicate ben sette ottave, che contemplano sia gli occhi che le vesti, anche se sempre con opportuni rimandi alla natura spirituale di questa bellezza. L’impronta è evidentemente platonica e ficiniana: la divinità è splendore, è bellezza, è luce; e la bellezza corporea è segno della bellezza divina. Anche gli angeli sono rappresentati con la stessa attenzione e gli stessi effetti luministici: 59 L. Marinella, L’imperatrice dell’universo, op. cit., pp. 3–4. 60 Ibid., p. 35. 61 Ibid., p. 32–33. Cfr. Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, a cura di L. Caretti, Milano, Mondadori, 1997, si vedano le ottave 8–13 del primo canto. 62 L. Marinella, L’imperatrice dell’universo, op. cit., p. 20.
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parte seconda - venezia scritturale La neve e l’ostro a i gratiosi volti dan di lor vagheze i più bei pregi; gli occhi han vaghi e lucenti, in cui raccolti stan di gioia e d’amore i doni egregi; per lo candor del collo erranti e sciolti van de’ crini ondeggiando i biondi fregi. Par che ’n lor spiri l’aura e che dal loro ordin voglian cader l’annella d’oro. Mostrò co’ l’arte industre il fabbro eletto gli alti affetti dei cor ne’ lor sembianti, onde diresti ch’ardono al cospetto di Dio di sacro amor felici amanti; paion temprar nel gratioso aspetto d’incessabili note eterni canti, se gli occhi credi han senso, han alma, han vita in Dio felice immensa et infinita.63
Marinella appare assai attenta alle scelte e agli effetti elocutivi. Frequenti sono i chiasmi («Non so se’l gaudio o lo stupor prevaglia / pe ’l grande acquisto di sì nobile pegno, / o lo stupor sovra la gioia saglia»; «L’huomo in Dio, Dio ne l’huom per te discese / l’huom fai Dio, Dio fai homo»; «Amante essere del ciel dal cielo amata»; «Attende il fin, né al fin mai si conduce64»). Vi sono notazioni efficaci, che hanno un sentore personale, soprattutto per rappresentare la giovinezza di Maria: «Par che la nata diva i pianti e ’l riso / materno miri con ridente viso»; «con lunghi passi il suo vivace ingegno / precorrea quell’età tenera e molle65». Dov’è dunque la Bibbia? Quale ruolo gioca nell’inventio? Poco, si può con certezza affermare. Certe scelte, per esempio quella di ignorare il miracolo di Cana, per cui la Vergine ha avuto un ruolo decisivo, non si comprendono (l’Aretino ne parla). Marinella attinge non solo ad Aretino. Anche se, dichiarando le proprie fonti nelle pagine prefatorie, mette in campo molte autorità della mariologia tradizionale66, in realtà utilizza solo le autorità riportate già dalle sue fonti, in particolare da Silvano Razzi, di cui segue talora il discorso assai fedelmente67.
Ibid., III, 27–28. Rispettivamente ibid., I, 6; I, 31; I, 40; VI, 49. Ibid., I, 8 e 11. Così si legge nelle pagine dal titolo significativo: Si conferma in questo capo con l’autorità de’ sacri scrittori ciò che in questi miei libri si contiene: «Io ho seguito nel descrivere la vita della Serenissima Imperatrice dell’universo coloro che con lealtà ne hanno a pieno ragionato, percioché parte ho raccolto da veraci detti evangelici, parte da santi Padri, e parte da uomini religiosi e letterari, et ciò che sia verissimo, osservate». L. Marinella, L’imperatrice dell’universo, op. cit., p. n.n. 67 Cfr. le osservazioni di Eleonora Carinci, «Una riscrittura di Pietro Aretino», art. cit., p. 366, che nota come Marinella in alcuni passi «riproduce Razzi quasi parola per parola». 63 64 65 66
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Possiamo guardare nel dettaglio il procedere di Marinella nei confronti del testo sacro e/o della sua fonte, guardando all’episodio dell’Annunciazione, dove il rispetto del testo evangelico si accompagna all’invenzione di elementi irrelati che fanno la narrazione: Inchinò la gran diva: «Il mio Signore», disse, «è già teco, e del tuo amor s’accende». Timor ebbe ella a i detti, a quel fulgore, che per l’humil magione arde e risplende: stupida pensa qual salute e quale sta ’l divin messaggier sacro, e immortale. Fia che nasca di te l’alto Figliuolo di Dio, soggiunse, «O Vergine beata». La gran donna arrossò, ben degna solo amante esser del ciel, dal cielo amata. A cotai detti i sacri lumi al suolo fissò, si mostrò attonita e turbata. Ma il gran messo di Dio che sì lei vede, di nuovo a l’aura tai parole diede: «Maria, temer non dei, ch’al sommo Sole sì cara sei, che ’n Ciel madre t’elesse de l’unica sua luce, e’ per lei vuole sien l’alme sciolte da peccati oppresse». Qui con modi divini le parole ritenne, che soavi e care espresse. Ella fra bianche perle e pure rose destò spirto gentile e a lui rispose68.
Se il primo canto è dedicato a Maria nel tempio e all’Annunciazione, il secondo è sul censimento di Augusto (una nota storica a cui è prestata assai attenzione, sia nel poema sia nella prosa), la nascita di Gesù nella capanna di Betlemme, l’adorazione dei pastori e dei magi. Il terzo tratta della fuga in Egitto della strage degli Innocenti e della vita di Gesù. Questo canto sorprende il lettore, poiché dopo aver, con il ritmo determinato dai primi canti, trattato dettagliatamente del ritorno dall’Egitto, della crescita di Gesù e del ritrovamento nel tempio (fino all’ottava 45), di seguito, in meno di 16 ottave, è ripresa tutta la vita di Gesù, dalla resurrezione di Lazaro (il primo miracolo qui raccontato) alla morte, in un rapidissimo riassunto (un’ottava per i miracoli, la 47; una per la passione e morte, la 48)69. Nella narrazione la
68 L. Marinella, L’imperatrice dell’universo, op. cit., I, 39–41. 69 Lo squilibrio non è determinato dall’intervento della seconda redazione, perché già nella prima del 1602 si passava dalla persecuzione di Erode ai miracoli.
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Vergine non ha spazio, ma le ottave che seguono (da 49 a 61) sono dedicate al suo pianto, con note che sembrano, almeno al lettore di oggi, incongrue, tanto stridente è l’oggetto del pianto con le aggettivazioni prese dalla tradizione poetica amorosa: Onde di bruno l’alte e pellegrine bellezze cinse la celeste diva; tenne in continuo pianto le divine luci e continuo duolo il cor le apriva e qual sparso di perle cristalline candido giglio o pallidetta oliva tai si vedean di pianto rugiadose del viso suo le impallidite rose. E l’aureo crin, ch’a l’alme elette e sante e dolce laccio a l’aura è sparso incolto, e nube immense di sue doglie tante cela il seren del luminoso volto; […].70
Le ottave seguenti sono dedicate alla preghiera della Vergine al Figlio (51–58), in cui la madre esprime la sua consapevolezza (peraltro già indicata fin dall’infanzia di Maria: «E desiava che giungesse l’ora, / ch’uscissero del Limbo i Padri fora», I, 26) della necessità del sacrificio del Figlio per la salvezza dell’umanità caduta e del suo ruolo nel disegno divino. La tipologia del linguaggio petrarchesco però non cambia e troviamo persino dei versi che combinano in modo stridente i termini della passione con quelli della tradizione lirica amorosa71: Per lui [l’uomo] ti fur le spine molli rose, le ignominie e gli scherni onori e lodi, vezzi le battiture aspre e noiose dolce piacer non fero duolo i chiodi. Quieto il travaglio, il pianto riso, o ascose dolcezze amare, e non più intesi modi, mele l’amaro fel, ch’a te fu porto, la morte al fin dolce e tranquillo porto72.
Sembra quasi che Lucrezia Marinella si sia lasciata prender la mano dalla «copia delle parole» che aveva ricevuto dalla frequentazione assidua della tradizione li-
70 L. Marinella, L’imperatrice dell’universo, op. cit., III, 49–50. 71 Persino le lacrime di Francesco sono descritte con questo lessico petrarchista. Scrivono Malpezzi Price e Ristaino: «Francis’s tears for his past resemble the grief of the Petrarchan lover» (P. Malpezzi Price e C. Ristaino, Lucrezia Marinella and the Querelle des Femmes in SeventeenthCentury Italy, op. cit., p. 75). 72 L. Marinella, L’imperatrice dell’universo, op. cit., III, 55.
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rica italiana più che da quella con le Sacre Scritture e il loro linguaggio essenziale. Il confronto con i poemetti di Moderata Fonte, tutti volti all’interiorità, mostra esemplarmente il diverso modo di avvicinarsi alla storia della salvezza e al testo che la trasmette. Ambedue rielaborano, ma la prima per attualizzare e rendere partecipe il lettore, la seconda per veicolare e divulgare, secondo uno stile coerente con la tradizione poetica, la storia della salvezza. Nelle ultime ottave del canto terzo il ritratto della Mater dolorosa prende campo, non senza deviazioni elocutive che derivano dai modelli poetici più che dai testi biblici: Non tronco o sasso è su quegli aspri monti, non foglia o fronda in valli erbetta o fiore, né stilla d’acqua cade da que’ fonti, non ferma terra, non corrente umore, non empia fera, a cui non sieno conti i larghi pianti, il grave suo dolore, né sì ratto augelletto o presti venti, che non ferminsi al suo de’ mesti accenti73.
A questo punto, nel rifacimento della seconda redazione, entra in scena Maria Maddalena che diviene la protagonista di ben tre canti, mettendo a margine la Vergine. Infatti il canto quarto è dedicato alla visita della donna al sepolcro il mattino della Pasqua, all’incontro con Gesù e all’annuncio della Resurrezione che si propaga a Gerusalemme. Il quinto canto è dedicato sempre alla Maddalena e alla sua vita eremitica, e il sesto alla sua penitenza, al trasporto in Alessandria e alla morte della penitente, come se il poema sulla Vergine contemplasse una deviazione agiografica sulla Maddalena. Evidentemente la tipologia della narrazione agiografica, cui si era già dedicata la Marinella con la vita di santa Colomba e di san Francesco, attira la Marinella, che non si lascia sfuggire l’opportunità di narrare una vita tanto appropriata alle devozioni penitenziali. Anche in quei poemi (su Colomba e Francesco) la storia della Maddalena aveva uno spazio rilevante, in quanto era il personaggio centrale nel sogno-visione sulla morte e resurrezione di Cristo, che riguarda sia Colomba (inizio canto II) sia Francesco (fine canto II). Anche qui la Maddalena è rappresentata con le stesse parole della poesia petrarchista. Certamente la Maddalena era figura importante nella spiritualità penitenziale post-tridentina. Inoltre la sua storia bene si prestava a rielaborazioni letterarie, come mostrano i numerosissimi poemi e le numerose drammatizzazioni che furono
73 Ibid., III, 60.
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mandate alle stampe tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento74. Evidentemente gioca anche un ruolo il pubblico interessato a tale storia, che poteva essere soprattutto femminile75. La «giovin bella», «ricca e pomposa», è così anche occasione di molte descrizioni di bellezza femminile, (es. IV, 2, 15, 39, V, 21, 24–25, con molte rose e molti biondi crini, molti alabastri e molte gemme)76. Maria è solo presente alla fine del quarto canto in un’ottava (la 41), quando riceve la notizia della resurrezione, e poco più quando assiste all’ascensione (IV, 42–44); in alcune ottave del canto quinto, quando si tratta della Pentecoste (V, 1–6), per la benedizione che dà alla Maddalena, quando costei decide di ritirarsi a vita eremitica (V, 11–16); nel sesto canto, all’ottava 40, dopo la morte della Maddalena, c’è il ritorno (dichiarato: «Ma torno a la gran dea, che accolse in seno / di Dio lo spirto d’alte grazie pieno») alle vicende della Vergine, rappresentata nel suo dolore nostalgico, alla ricerca di una consolazione, visitando i luoghi della vita di Gesù e pregando per rivederlo.
74 Molte sono le opere dell’epoca che si occupano della vita della santa penitente, la maggior parte incentrate proprio sul pentimento, dalla Conversione di santa Maria Maddalena, opera devotissima di Marco Rosiglia (prima edizione datata 1535), a Le lagrime di santa Maria Maddalena di Camillo Camilli (Venezia, Giorgio Angelieri, 1582), al fortunatissimo poemetto di Erasmo da Valvason, Lagrime di s. Maria Maddalena, che dal 1586 ebbe moltissime ristampe attraverso il Cinque e Seicento, alla Vita, e laudi di santa Maria Maddalena, di san Lazzero, e di santa Marta di Serafino Razzi (Firenze, Bartolomeo Sermartelli, 1587), alle Lacrime di Maria Maddalena di Maurizio Moro (Vicenza, Agostino Dalla Noce, 1589), alle Lagrime di santa Maria Maddalena, di Antonio da Castello Arquato (Bologna, Eredi di Giovanni Rossi, 1599). E ancora Riccardo Rodiani, La Maddalena convertita (Napoli, Giovanni Giacomo Carlino, 1612), Scipione Francucci, Il pentimento di Maria Maddalena poema dramatico (Roma, Guglielmo Facciotti, 1615), Felice da Maida, La Maddalena penitente poemetto heroico (Firenze, Zanobi Pignoni, 1616). Si ebbe addirittura una Raccolta di Lagrime, cioè, di Maria Maddalena, di Maria Vergine, del penitente (Bergamo, Comino Ventura, 1593). Vi erano poi anche numerose sacre rappresentazioni: Giovanni Maria Benassai, Rappresentazione di santa Maria Maddalena (Aquila, Lepido Faci, 1595), l’anonima Rappresentatione della conversione di S. Maria Maddalena sino alla morte et resurretione di Lazaro (Orvieto, 1608), Riccardo Riccardi, Conversione di Santa Maria Maddalena ridotta in tragedia (Firenze, Giunta, 1609), Giovanni Battista Andreini, La Maddalena di Gio. Battista Andreini, fiorentino (Venezia, Giacomo Antonio Somasco, 1610) con molte riedizioni, e Benedetto Cinquanta La Maddalena convertita. Rappresentatione (Milano, Giacomo Como, 1616). 75 Ovviamente la Maddalena è figura centrale nella devozione e nell’indirizzo penitenziale suggerito dalla Chiesa dell’epoca. Cfr. le pagine dedicate alla Maddalena da Karen-Edis Barzman, («The Magdalen as Sign in Early Modern Italy») nel suo saggio «Gender, Religious Representation and Cultural Production», in Gender and Society in Renaissance Italy, a cura di J. Brown e R.C. Davis, London-New York, Longman, 1998, pp. 213–233: 224–230; Susan Haskins, Mary Magdalen. Myth and Metaphor, New York-London, Harcourt Brace, 1993. 76 Scrivono Malpezzi Price e Ristaino «Marinella’s portrayal of Mary Magdalene through the same images and terms that Petrarch used to define virtous Laura undermines, however, such linguistic register» (P. Malpezzi Price e C. Ristaino, Lucrezia Marinella and the Querelle des Femmes in Seventeenth-Century Italy, op. cit., p. 66).
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Nel settimo canto le vicende della Vergine, che prega, affranta dal dolore, riprendono il posto centrale, con qualche reminiscenza, si direbbe, delle Lagrime di Maria Vergine del Tasso: Piange e sì bello appar del pianto amaro bagnato il nobil volto e ’l casto seno, qual di pure rugiade al sol più chiaro humida rosa in vago prato ameno, celesti amor de l’humor dolce e caro, che cade in copia sopra il terreno si spruzzan l’ali e de’ begli occhi al lume s’ornano i crini e le dorate piume.77
L’assunzione al cielo di Maria, che non ha fondamento biblico, ma deriva dalla tradizione e dagli apocrifi, viene di nuovo presa da Aretino, ma ricreata sul modello epico tassiano: Maria muore in effetti come muore Clorinda. Dio chiama il suo messaggero e gli affida il compito di portare la palma a Maria, segno di una vita meritevole («celeste vita»), e di condurla in cielo («seco facci partita78»). L’angelo annuncia a Maria l’assunzione, che avverrà però dopo la morte, ovvero dopo aver attraversato tutte le vicende di una terrena vita. Maria muore assistita dagli Apostoli: Già fredda giace e nel suo morto viso di viola si vede un bel pallore, parea posar qual lassa, e un dolce riso avea ne gli occhi, in cui fu tanto amore. Et i gloriosi eroi ch’al paradiso volgon i passi con supremo onore, fan con sospiri, gemiti e lamenti lagrimevol susurro in sé dolente.79
La Vergine quindi è sepolta, ma la tromba del giudizio la risveglia dopo tre giorni alla vita eterna, e nella gloria del cielo è contemplata infine con gli angeli e i santi. Le ultime ottave sono una preghiera di protezione per Venezia e per il doge80. Se la versione poetica della vita della Vergine della Marinella è caratterizzata da un impiego eccezionale del linguaggio poetico della tradizione italiana, petrar77 L. Marinella, L’imperatrice dell’universo, op. cit., VII, 1. T. Tasso, Stanze per le lagrime di Maria Vergine beatissima, & di Giesu Christo, op. cit. In moderna edizione Torquato Tasso, Lagrime, a cura di M.P. Mussini Sacchi, Novara, Interlinea, 2001. 78 Ibid., VII, 6. 79 Ibid., VII, 29. Si confronti con l’ottava sulla morte di Clorinda, in Tasso, Gerusalemme liberata XII, 64. 80 L. Marinella, L’imperatrice dell’universo, op. cit., VII, 34.
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chista in primis (e non del petrarchismo spirituale), tanto da distaccarsi dallo stile umile scritturale, la versione in prosa non è più prossima alla Sacra Scrittura, infatti essa è anche stilisticamente più strettamente modellata sulla Vita di Maria Vergine di Pietro Aretino81. Sebbene il linguaggio sia meno elaborato, la narrazione si appoggia, anche qui, più a questa fonte che sulla schietta narrazione evangelica, tanto da elaborare una storia cui difficilmente si può attribuire l’aggettivo ‘biblica’. Dunque non possiamo cercare nei Vangeli l’origine della narrazione in prosa, come prova la lunghezza del capitolo dedicato all’infanzia di Maria, dagli eventi precedenti la nascita alla presentazione al tempio, che occupa tutto il primo libro. Il secondo libro della prosa è dedicato alla divina decisione di far incarnare il figlio, quindi l’invio di Gabriele a Maria, la visita a santa Elisabetta, il censimento, la nascita di Gesù, l’adorazione dei pastori e dei magi, la presentazione di Gesù al tempio con le profezie di Anna e Simeone, la fuga in Egitto, la strage degli Innocenti, tutti fatti di derivazione evangelica, tranne le decisioni divine. Il terzo libro è sul ritorno della sacra famiglia, sul ritrovamento di Gesù al tempio, il battesimo di Gesù, il miracolo di Cana, la conversione della Maddalena, la passione e morte di Cristo, la resurrezione e la sua ascensione al cielo, la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. Quindi anche nella prosa si ha un’accelerazione che ignora molti episodi della vita di Gesù. Il quarto e ultimo libro contempla il dolore di Maria dopo la morte del Figlio, la sua preghiera per rivederlo (con le visioni dei santi futuri, tra cui quelli cari all’autrice: Colomba e Francesco), quindi la promessa dell’angelo e la sua morte, assistita dagli apostoli, infine l’assunzione in Cielo. Anche nella prosa c’è spazio per il romanzo della Maddalena, ma qui è preferita la vicenda prima della conversione, cui è dedicata una cospicua parte del libro terzo, mentre sorvola sul ruolo della donna nella resurrezione e tace sulla sua vita successiva. Questi inserti sulla penitente non sono derivati dall’Aretino, quindi sono creazione della Marinella (o hanno altra fonte), che conferma così il suo interesse per la figura della Maddalena. Altre parti da ‘romanzo’ che hanno spazio nella prosa sono le vicende del Battista, pure indipendenti dalla prosa aretiniana, con il relativo ruolo di Erode e di Erodiade, che nel poema erano del tutto ignorati. Vite degli Apostoli Nella terza edizione della Vita di Maria Lucrezia Marinella aggiunse anche un’ulteriore opera biblica, cioè una scrittura agiografica sulla vita degli apostoli: Vite de’ dodeci heroi di Christo, et de’ quattro evangelisti, raggi fiammeggianti dell’eterno Sole 81 Eleonora Carinci in «Una riscrittura di Pietro Aretino» (art. cit.) mostra attraverso molteplici episodi la sistematica ripresa dell’ipotesto.
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di giustizia. Già nel sottotitolo indica che si descriveranno «gli avvenimenti miracolosi», i «martirii orrendi», le «morti gloriose» dei fondatori della Chiesa. Quindi si tratta ancora di una serie di agiografie. L’opera è in stretto legame con la Vita della Vergine, infatti inzia con un riferimento all’Assunzione: Poiché la gran Donna fu salita (voler del suo Signore, grazia dello ’nfinito delle sue virtù) sopra i giri celesti, e che fu coronata Regina sopra l’angeliche intelligenze, rimasero intorno alla sua sacra tomba gli apostoli gloriosi, stupidi nelle meraviglie della di lei resurrezione, ma poiché sono quivi tratti dalla volontà del Cielo da tanto lontane e diverse parti, non mi pare disdicevole, ch’io di ciascuno d’essi la vita brevemente descriva. Questi gloriosi apostoli sono chiamati da alcuni pietre fermissime sopra la cui stabilità aveva a posarsi la grandezza della nascente fede. Noi diremo che sono dodeci purissimi e fiammeggianti raggi che dovevano adornare la corona che cinge la fronte del Sole di Giustizia eterno, adunque incominciamo da colui ch’è primo fra gli altri82.
San Pietro apre la serie dei dodici, seguono sant’Andrea, san Giacomo figlio di Zebedeo, san Giovanni, san Tommaso, san Giacomo figlio di Alfeo, san Filippo, san Bartolomeo, san Matteo, san Simeone e san Taddeo (trattati insieme), san Mattia, quindi i due evangelisti che non erano tra gli apostoli, san Luca e san Marco. Per ognuno offre una breve sintesi introduttiva, poi una più dettagliata presentazione che ricostruisce la vita fondandosi sulle notizie offerte dai testi neotestamentari e dagli apocrifi. Anche se si tratta di una prosa, la narrazione è notevolmente elaborata con abbondanza di metafore, similitudini, paragoni, amplificazioni, discorsi che appaiono di invenzione (salvo qualche possibile fonte che non siamo riusciti a individuare). Per esempio di san Pietro, dopo alcune informazioni sulla famiglia, si dice che fosse «di natura forte, giusta e perseverante, desideroso in tutte le azioni di acquistare all’anima sua vita eterna» (Vite, c. 3r). Segue l’evento della chiamata di Gesù, che già mostra bene l’elaborazione della prosa: Avvenne mentre ch’egli un giorno col fratello Andrea tendeva le reti per li liquidi seni de’ salsi pelaghi, che Giesù andava sempre camminando sopra i liti del mare, accompagnato da una grande, anzi da una infinita moltitudine di genti, desiderose di udire i santi e sacri ragionamenti suoi, et astretto dalla quantità delle persone saliva nella navicella di Pietro, quivi stando predicava 82 Lucrezia Marinella, Vite de’ dodeci heroi di Christo, et de’ quattro evangelisti, raggi fiammeggianti dell’eterno sole di giustizia, in Ead., La vita di Maria Vergine imperatrice dell’universo, descritta in prosa et in ottava rima […] aggiuntevi le Vite de’ dodeci heroi di Christo, et de’ quattro evangelisti, op. cit., c. 2v. Le Vite hanno una loro impaginazione con proprio frontespizio. D’ora in poi si indicherà con Vite, seguito dal numero di pagina.
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parte seconda - venezia scritturale alle genti, che dal lito l’udivano; dopo che l’istessa Sapienza hebbe con le sue parole sante ammaestrato il popolo, rivolto verso Pietro disse: «Lascia andar li intricati lini per le liquide vie del periglioso mare […]». (Ibid.)
È evidente la propensione al linguaggio metaforico e poetico, che invade anche la parola del Messia. La risposta di Pietro è altrettanto elaborata, perché per dire che si è sempre dedicato alla pesca parla del «sole che tuffa la fronte nelle Mauritane onde», che «di nuovo lume adorna la terra», che, per seguire la chiamata di Cristo, intende lasciare «per lo sentiero dell’onde in libertà gli aggroppati lini». È pur vero che poi l’autrice aggiunge: «Così cred’io che dicesse, gittando con allegrezza per lo trasparente dell’acque le molli Aragne» (ovvero le reti, opera di Aracne, Vite, c. 3v), assumendosi la responsabilità delle scelte discorsive e di aver assegnato a Pietro delle competenze mitologiche che non solo non gli erano proprie, ma che fanno sentire eccessivamente l’incongruenza di un tale ricercato linguaggio in una narrazione che si attenderebbe come devozionale. Ma questo è l’andamento dominante di queste prose, che sono infiocchettate di «stille di lacrime», «pioggie di pianto», «stelle» per indicare le ferite di Cristo. Talvolta le opzioni amplificanti della Marinella sono anche efficaci, per esempio quando tratta del martirio di sant’Andrea. Quando gli si presenta la croce, su cui deve essere martirizzato, l’apostolo avrebbe salutato la croce benevolmente, ma il suo discorso è espanso dalla Marinella con ripeture riprese in anafora di «O croce»: O croce, da me colle fervenze dell’animo desiderata, in te sola i miei sensi, le mie cure, i miei pensieri, fermano i loro moti, le loro sollecitudini, e i loro discorsi. O croce, honor delle christiane insegne, tu portasti vita, gaudio, e tranquillità alle estinte, meste e travagliate anime nostre, preparando a loro celeste vita. O croce, venerabile segno, riverito da gli angeli, vittoria dei servi di Giesù, fa che per lo mezzo tuo trionfi hoggi in paradiso […]. O croce benedetta, segno ammirabile e grande per cui trionfò Cristo, col quale vinse e superò il serpente infernale, ricevi lieta il discepolo di lui, che viene a te pieno dell’illaritadi delle contentezze. (Vite, c. 14v–15r)
L’altra forma di amplificazione frequente sono i discorsi messi in bocca ai santi. In genere non sono impropri, ma l’autrice stessa avanza l’ipotesi che le parole da lei attribuite non corrispondano alla storia del santo. Per esempio, quando san Giovanni viene condannato a morte, egli innalza a Dio un canto che riprende la lode cosmica del salmo 148: Intanto quasi aquila volante, spiegate le ali dell’anima sua, fissò l’acuto suo sguardo in quel primo principio, che senza principio diede l’essere al principio, forsi diceva, parendoli di essere non fra l’accensivo delle fiamme, ma
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2- lucrezia marinella, divulgatrice biblica fra rose e gigli: «Benedichino te clementissi. Sig. mio i Cieli nello ’nfallibile de’ viaggi loro, e ne’ loro errori i lampi più luminosi, che signoreggiano i campi taciti de’ tranquilli silentii notturni, e le stagioni temperate e quelle che sono prive di tempre, laudino il nome tuo tutte le cose, che sono di anima dotate e quelle che inanimate sono; […]». (Vite, c. 22v)
Anche le coloriture della narrazione sono impiegate per creare narrazioni di sicura efficacia e presa sul lettore, anche se ricorrono a episodi e vicende in gran parte di invenzione. Per esempio per Mattia si dice: mentre andava di città in città passava per boschi oscurissimi, l’horridezza della cui vista agghiacciava il cuore se tutto di fuoco stato fosse; percioché spesso a lui si mostrava un leone ferocissimo, hora un lupo arrabbiato, quando un orso informe, et altre bestie nemiche dell’humana generatione, e come io credo, col segno della croce li poneva in fugga e spaventava. (Vite, c. 55v)
Più colorita ancora, ma anche più efficace, forse perché debitrice di qualche memoria tassiana, è la narrazione del contrasto che Pietro ebbe con Simon mago. Dopo aver raccontato il miracolo della resurrezione del figlio di una matrona compiuto da Pietro, si dice del mago: Confuso, stupido, et arrabbiato andava qua e là imperversando il perfido e fraudolente Mago, e salito in Campidoglio chiamò con voce interrotta dal furore e dall’ira la Deità de’ sotterranei regni, e tutta la potenza d’Averno, minacciando Roma, et comandò a gli spiriti infernali, ch’al suo chiamare venuti erano, come egli desiderava, che lo portassero al Cielo et lo trasferissero qua e là per l’aere, spaventando il popolo, ch’era presente, il quale stava pauroso, stupido e pieno di maraviglia. All’hora il Vicario di Christo comandò ai demoni, che si levassero dalla cura di Simone, li quali dando ubbidienza allo impero delle sue parole, nel mezzo dell’aria abbandonarono il peso, onde caddè lo venturato incantatore a terra, come cade la testudine terrestre dall’ugna dell’aquila altera. Restò rotto, storpiato e fracassato tutto il misero Mago, non era morto, ma morì in picciol hora. (Vite, c. 8r-v)
Le vite degli apostoli seguono tutte lo stesso pattern, ovvero si dice l’origine del personaggio (la famiglia), la chiamata di Gesù, che corrisponde a quanto raccontato nei Vangeli, i fatti salienti della vita, alcuni dedotti dai Vangeli, altri dagli Atti degli Apostoli, altri dagli apocrifi, infine la morte. Marinella ignora le lettere neotestamentarie, anche quelle degli apostoli, come di Pietro o Giovanni o Giacomo, di cui narra la vita, persino della scrittura dell’Apocalisse non si dice nulla, parlando di Giovanni. Solo per i due evangelisti accenna all’opera della scrittura. Di Marco dice «Lasciò poi Salamina et accostossi a san Pietro, e visse seco alquanto tempo e scrisse per comandamento suo il grand’Evangelio» (Vite, c. 62r). Alla scrittura di Luca dedica qualche riga in più: «Scrisse poi il perfetto apostolo il suo Evangelio in lingua greca; scrisse e compose molte opere degne di eterna vita; accrebbe molto 235
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e molto col dotto delle sue predicationi la travagliata et afflitta greggia di Pietro» (Vite, c. 59r). Si direbbe che è davvero poco per informare sulla vita di un evangelista come Luca, soprattutto se rapportato alla «copia di parole» dedicate alle metafore, figure retoriche e ai supposti discorsi. Rime sacre Instancabile versificatrice, nel 1603 Lucrezia Marinella dà alle stampe una raccolta di rime sacre, che contengono diversi motivi biblici. Le Rime sacre della molto illustre sig. Lucretia Marinella. Fra le quali è un poemetto, in cui si racconta l’historia della Madonna dipinta da San Luca, che è su’l monte della Guardia nel tenitorio di Bologna83 si compongono infatti, oltre che del poemetto sulla Madonna della Guardia, di sessantun componimenti, per la maggior parte madrigali, di cui alcuni sono vere e proprio riscritture di passi evangelici, che riguardano episodi della vita di Gesù (natività, passione, ascensione). Il tema dominante è la devozione dell’immagine del monte della Guardia di Bologna, cui infatti sono dedicati versi oltre alle ottantatré ottave, divise in tre canti, che compongono il poemetto in cui si racconta la storia del pellegrino greco (cui e assegnato il nome di Eutimio), che avrebbe portato da Costantinopoli l’icona della Vergine, attribuita a Luca evangelista, affinché fosse collocata, secondo un’iscrizione che faceva parte della stessa tavola, sul monte della Guardia. La vicenda era stata narrata dallo storico domenicano Leandro Alberti in una Cronichetta della gloriosa Madonna di S. Luca del Monte della Guardia di Bologna, uscita per la prima volta nel 1539 e poi, vicino al periodo di nostro interesse, ristampata nel 159884. Si suppone che Marinella si fosse recata in pellegrinaggio a Bologna, ma di certo fu il bolognese Ascanio Persio, curatore di un’antologia di rime, Componimenti poetici […] di diversi sopra la sacra imagine della beata Vergine dipinta da s. Luca), a chiedere alla Marinella di comporre il poemetto per un volume storico sulla santa icona85. Nella raccolta di Lucrezia Marinella anche altri componimenti sono dedicati alla immagine: un sonetto in lode dell’evangelista pittore (Rime, c. 9r), uno 83 Venezia, ad istanza del Colosini, 1603. Qui di seguito si indicherà come Rime seguito dal numero della carta. 84 Bologna, Vicenzo Bonardo, 1539; poi Venezia, Domenico e Giovan Battista Guerra, ma aveva avuto un’edizione anche nel 1579, sempre presso i Guerra. 85 Infatti le poesie (otto sonetti) della Marinella appaiono nell’edizione: Ascanio Persio, Historia della santa imagine della gloriosa Vergine, la qual si conserva sul monte de la Guardia vicino a Bologna, Bologna Vittorio Benacci, 1603, c. F1r-F4v. Cfr. Leonardo Giorgetti, «“Colei che ’l mondo e ’l cielo empie di luce”: Mary’s Glorification and Poetic Fame in Lucrezia Marinella’s Spiritual Poetry», in Genealogias. Re-Writing the Canon: Women Writing in xvi–xvii Century Italy, op. cit., pp. 193–217: 205. La richiesta di Persio si legge manoscritta: Venezia, Biblioteca Marciana, It. VII, 351 (8385), f. 221r. Ricavo l’informazione dal saggio di Giorgetti.
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sull’immagine stessa, due sul pellegrino che la portò da Costantinopoli, uno sul monte che la ospita, uno sulla contemplazione dell’immagine e suoi effetti, uno per le monache che la custodiscono, uno per la città di Bologna. In generale si può dire che oggetto privilegiato di questi componimenti è l’immagine sacra in genere, infatti diversi componimenti sono non su un santo, ma sulla sua immagine (di san Francesco, della Maddalena, di santa Colomba, di santa Eufemia, di santa Caterina d’Alessandria). Di conseguenza si è potuto dire che questi componimenti confermano «the distinctively ekphrastic nature of this collection», determinata dal soggetto principale86. In realtà nei componimenti non c’è un’attenzione particolare alla rappresentazione iconica, il santo o la santa sono rappresentati per le loro caratteristiche come da tradizione, ma tale attenzione non è priva di significato, come fa notare nella terzina di chiusura del sonetto sull’effige bolognese: Credi [colui che contempla l’immagine] mentre l’adori in atto umile tanto del vero l’arte industre accoglie che pietosa ti parli e spiri e viva. (Rime, c. 9v)
L’immagine comunica, come se vivesse e parlasse. Vi è dietro questa affermazione tutta una teologia delle immagini sacre che era stata valorizzata proprio nel confronto con l’iconosclastia protestante, di cui il trattato del vescovo bolognese Gabriele Paleotti era stata una teorizzazione fondamentale per il cattolicesimo87. La raccolta si può suddividere grosso modo in quattro parti: una prima di sonetti dedicati alla vita di Cristo e ai Vangeli, una seconda di sonetti sull’immagine della Guardia, una terza di sonetti agiografici (su santa Caterina da Siena, sant’Agnese, sant’Orsola, santa Caterina d’Alessandria, san Francesco, san Bonaventura, san Nicolò da Tolentino, e su figure neotestamentarie come san Giovanni Battista, la Maddalena, santo Stefano), infine una serie di madrigali per Gesù crocifisso, la Vergine, altri santi (san Francesco, san Girolamo, ancora santa Caterina d’Alessandria, santa Lucia, santa Colomba, san Marco come protettore di Venezia). Chiude i componimenti un Dialogo in cui si va investigando la cagione della aspra morte di Christo, due domande e due risposte in rima, che vanno al cuore della redenzione. Alla domanda perché «il gran Re» «versa in croce alfin l’anima e ’l sangue», la risposta evidenzia la responsabilità dell’interrogante, in un coinvolgimento totale dell’io nella colpa: More per annullar tuoi gravi errori; e mentre tu vagheggi 86 L. Giorgetti, «“Colei che ‘l mondo e ‘l cielo empie di luce”: Mary’s Glorification and Poetic Fame in Lucrezia Marinella’s Spiritual Poetry», art. cit, p. 196. 87 Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle imagini sacre et profane (Bologna, 1582), rist. anast. a cura di P. Prodi, Sala Bolognese, A. Forni, 1990.
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parte seconda - venezia scritturale il mondo empio e vaneggi, tessi corona a lui d’aspri dolori. (Rime, c. 27r).
I componimenti biblici sono dunque soprattutto i sonetti della prima parte, che hanno per oggetto Cristo, i Vangeli, la Vergine. Non sono organizzati in modo da ricostruire la storia di Gesù o da ripercorrere gli eventi principali dell’Incarnazione. Il primo è un sonetto sulla Natività, che celebra la notte santa in cui si realizzò l’evento decisivo per la felicità umana. Il solo elemento preso dalle Sacre Scritture è il canto che echeggia nella notte: «Pace a l’huom, fin che ’l mondo si distempre» (Rime, c. 3r), che include una parte fedele alla fonte e un’interpretazione della seconda parte del canto angelico. Più fedele alla sostanza della narrazione evangelica è il sonetto sulla passione, che riprende gli effetti della morte di Gesù, e gli elementi della sofferenza di Cristo, ma si ripiega poi nelle terzine conclusive sull’io, indegno di tanta sofferenza: Tremò la terra e ’l mar, pianse lo ’nferno, s’aprìo le tombe, e del gran tempio il velo, s’oscurò il sol, si mostrò irato ’l cielo, mugghiò il mar, mugghiò l’aria e ’l lago Averno. Mentre fra chiodi, spine e lancie e scherno e felle88, e di timore il crudo gelo, e d’amor fiamma e d’empia morte il telo languivi, o del gran Padre figlio eterno. Et io non piango? Et io pur spesso i marmi vidi l’acque stillar, far fonti e fiumi, nuda son di pietà, d’impietà imago? Ma s’io ti miro uscir, di veder parmi pianto e sangue dal corpo e dai bei lumi, come del mio rigor fatto presago. (Rime, c. 4r)
Fanno eco a questa conclusione alcuni sonetti che parlano della scarsa devozione dell’io lirico e della sua impazienza (Sotto puro accidenti, o spirto ingiusto; Non disdegnar Signor, quest’empia, questa), dove l’io si autoaccusa della scarsa pietà e invoca di poterla accrescere per godere infine «l’alta sembianza tua sopra le stelle». Un sonetto è dedicato all’Ascensione di Gesù, dove più che dell’evento evangelico si parla del suo significato, ovvero del ritorno del Signore morto al Cielo e dell’aprirsi di un nuovo tempo, come di primavera dopo l’inverno, per l’umanità; un altro ha per oggetto l’assunzione di Maria, di cui si danno anche qui gli effetti 88 Fiele.
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in terra, ovvero la gioia della natura, ma anche l’accoglienza che Gesù riserva alla madre: «dolce l’accoglie e di stellato velo / la cinge e ’l crin d’alta beltà celeste» (Rime, c. 7v). Ancora un sonetto è dedicato alla Vergine, in cui si celebra l’Annunciazione. Il titolo riporta le parole essenziali di Lc 1, 31–32 «Ecce concipies et paries et vocabitur Altissimi filius89»; la prima parte del sonetto è una descrizione della Vergine, come spesso l’abbiamo vista rappresentata secondo il linguaggio della tradizione poetica: Tosto del volto suo ne’ bei candori, puri più che la neve o avorio eletto sparge quel casto honor, che l’arde il petto con vegognosa man nuovi rossori. Simil è a lei ne’ più sereni albori ch’esce ridente da l’aurato tetto vermiglia aurora e sparge con diletto e dal seno e dal crin nettare e fiori. (Rime, c. 8r)
Anche la risposta della Vergine all’annuncio si allinea con tali modelli, per cui invece dell’umile «Ecce ancilla Domini; fiat mihi secundum verbum tuum» di Lc 1, 38, abbiamo la terzina: Ecco de le tue gratie, o gran Torrente d’ogni gratia celeste, humile e queta l’ancella, ch’ha in te ogn’hor le luci fisse. (Ibid.)
Del Magnificat viene conservato solo «ancella» e il senso fondamentale della risposta, ma alterato dalla metafora di Dio come «torrente». Anche se coerente con la fonte appare la rappresentazione dello sguardo fisso a Dio, la versione della Marinella ci pare lontanissima dalla preghiera che Luca assegna alla Vergine. Due sonetti sul vangelo riscrivono il miracolo della tempesta sedata (Mt 8, 23– 27) e l’episodio della Cananea (Mt 15, 21–28). Ambedue riportano nel titolo il versetto iniziale (Sopra l’evangelio di san Mateo, nel cap. 8 che incomincia: Ascendente Iesu in naviculam motus magnus factus est in mari; Sopra l’evangelio della Cananea descritto da san Mateo, il cui principio è tale: Egressius Iesus secessit in partes Tiri et Sydonii), quasi a indicare la fedeltà del componimento alla fonte, che però viene rispettato solo parzialmente. La rappresentazione del crescere della tempesta, nella prima quartina del sonetto sulla tempesta sedata, corrisponde nelle tonalità cupe a molte rappresentazioni 89 Lc 1, 31–32 recita: «Et ecce concipies in utero et paries filium et vocabis nomen eius Iesum. / Hic erit magnus et Filius Altissimi vocabitur, et dabit illi Dominus Deus sedem David patris eius».
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orride che si trovano nei versi della Marinella, dove la poetessa può impiegare le migliori risorse della tradizione poetica: «S’oscura intorno il Ciel, l’onda sonante / con formidabil moto abbatte il lido / stridon le selve, freme il vento infido, / e ’l flutto s’alza al ciel bianco e fumante» (Rime, c. 5v). I successivi versi (seconda quartina e prima terzina) sono dedicati all’appello degli apostoli, che invocano Gesù, «che posa», perché intervenga. Segue dunque la risposta di Gesù, che «a’ preghi nostri ogn’hor risponde», e che riporta «l’aere dolce, il mar queto, e ’l ciel sereno». La drammaticità del momento è resa con vivace linguaggio, ma manca l’elemento fondamentale di questo episodio: la risposta di Gesù che rimprovera gli apostoli per la mancanza di fede («Quid timidi estis, modicae fidei?», Mt 8, 26) e lo stupore finale dei presenti, che si interrogano sull’identità di colui che riesce a dominare i venti («Qualis est hic, quia et venti et mare oboediunt ei?», Mt 8, 27). La questione della fede è centrale anche nell’episodio della Cananea. Il sonetto riserva le due quartine all’invocazione della donna, che si attribuisce la colpa di quanto succede alla figlia tanto amata («pe ’l mio peccar lo spirto rio / tormenta senza fin, batte e sconforta / mia figlia, unico bene», Rime, c. 6r). Segue la risposta di Cristo, che non ritiene giusto che «’l cibo toglia, / per pascer cani, a’ figli eletti e cari», che riassume in uno i due momenti della risposta di Gesù nel vangelo («Ipse autem respondens ait: “Non sum missus nisi ad oves, quae perierunt domus Israel”. At illa venit et adoravit eum dicens: “Domine, adiuva me!”. Qui respondens ait: “Non est bonum sumere panem filiorum et mittere catellis”», Mt 15, 24–26). Nella versione della Marinella la donna risponde: «I can quel che da l’alte mense / cade, pascon humili, et di tua voglia / gran fede satii, e asciughi i pianti amari» (ibid.). Anche in questo caso il sonetto manca di sottolineare l’importanza della fede, ignorando la risposta finale di Gesù: «O mulier, magna est fides tua! Fiat tibi, sicut vis» (Mt 15, 28). Anche per i personaggi neotestamentari cui dedica attenzione, non vi è la rappresentazione fedele di qualche parola o evento, piuttosto essi sono delineati per quello che rappresentano nella storia della salvezza: il Battista come precursore di Cristo, capace di aspre penitenze nel deserto, ma anche conoscitore degli «arcani del Ciel» (Rime, c. 19v), la Maddalena come la bella penitente, di cui si contempla non la persona, ma il ritratto (confermando la natura ecfrastica di questa raccolta). Infine santo Stefano, forse il più fedele alla fonte, rappresentato nel momento del martirio. Di lui si ritengono le parole espresse in punto di morte: «Posso pur con questi occhi infermi e frali / mirar Christo fra lampi e raggi ardenti a la destra di Dio possente e forte», che ben corrispondono alle parole riportate dagli Atti: «et ait: “Ecce video caelos apertos et Filium hominis a dextris stantem Dei”» (At 7, 56).
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Arcangela Tarabotti: argomentare con la Bibbia Se Lucrezia Marinella pose la tradizione poetica al servizio della Bibbia, per elevare con uno stile ricercato l’esile fonte evangelica su cui costruisce il suo poema sulla Vergine, la sua contemporanea Arcangela Tarabotti pose le Sacre Scritture al servizio delle controversie in cui si confrontò ripetutamente per rifiutare le abitudini di una società patriarcale e misogina, quale quella veneziana di metà Seicento1. Ottima conoscitrice e frequentatrice dei testi sacri, che accompagnava con letture varie, corrobora le sue posizioni traendo proprio da Vecchio e Nuovo Testamento le argomentazioni più determinanti, dandone così un’interpretazione originale che si allontana dalla tradizione sia patristica sia scolastica, mostrando come la Bibbia potesse essere strumento di rivendicazione di dignità e sostegno contro abitudini inveterate che consentivano agli uomini posizioni dominanti sulle donne. Infatti i suoi scritti sono soprattutto un’aspra denuncia contro l’ipocrisia della Chiesa, dello Stato e delle famiglie, che condannavano le figlie a una vita monacale non scelta.
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Sul contesto in cui operò Arcangela Tarabotti e sulle scritture in difesa delle donne: Claire Lesage, «Femmes de lettres à Venise aux xvie et xviie siècles: Moderata Fonte, Lucrezia Marinella, Arcangela Tarabotti», CLIO: Histoire, Femmes et Sociétés, XIII, 2001, pp. 135–144; ma si veda soprattutto la raccolta di saggi: Arcangela Tarabotti: A Literary Nun in Baroque Venice, a cura di E. Weaver, Ravenna, Longo, 2006, in particolare sul contesto culturale, Beatrice Collina, «Women in the Gutenberg Galaxy», ibid., pp. 91–106. Inoltre in generale: Laura Benedetti, «Arcangela Tarabotti e Lucrezia Marinella: Appunti per un dialogo mancato», Modern Language Notes, CCXIX, 2014, pp. 87–97. Si vedano anche le introduzioni alle moderne edizioni dei suoi lavori: Arcangela Tarabotti, L’Inferno monacale, a cura di F. Medioli, Torino, Rosemberg&Sellier, 1990, pp. 9–24; Buoninsegni Francesco – Tarabotti Arcangela, Satira e Antisatira, a cura di E. Weaver, Roma, Salerno, 1998, pp. 7–28; Arcangela Tarabotti, Che le donne siano della spetie degli uomini, a cura di L. Panizza, London, Institute of Romance Studies, 1994, pp. VII–XXXVIII; Arcangela Tarabotti, Lettere familiari e di complemento, a cura di M. Ray e L.L. Westwater, Torino, Rosemberg&Sellier, 2005, pp. 7–39; Arcangela Tarabotti, La semplicità ingannata, edizione critica e commentata di S. Bortot, presentazione di Daria Perocco, Padova, Il Poligrafo, 2007, pp. 21–167; anche nella versione inglese Paternal Tiranny, a cura di L. Panizza, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2004, pp. I–XXIX.
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Le vicende della suora benedittina di Sant’Anna in Castello sono ben note per essere qui riprese. Ma non si può non ricordare che Elena Cassandra Tarabotti, nata nel 1604, entrata in convento da educanda a dodici anni, fu indotta dalla famiglia alla monacazione e prese i voti l’8 settembre del 1620 con il nome di suor Arcangela, rimanendovi poi fedele e trascorrendo in convento tutta la vita, fino alla morte avvenuta nel 16522. Ma in convento e dal convento poté tessere le fila di relazioni mondane e letterarie, che la videro protagonista di episodi non convenzionali per una suora del tempo, di cui lei stessa parla nelle sue lettere3. Soprattutto potè dedicarsi alla scrittura con risultati notevoli, tanto da suscitare l’interesse di letterati, veneziani e non. Riuscì a pubblicare a Venezia Il paradiso monacale nel 1643, in cui rappresentava l’ideale di vita di chi volontariamente voleva essere religiosa sposa di Cristo. Ma era questa un’opera che faceva da pendant con L’inferno monacale, che non le fu possibile pubblicare (il manoscritto è stato edito solo nel 1990)4. Se Il paradiso presentava quanto di positivo e beatificante si poteva trovare 2
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Per la biografia e le opere: Elissa Weaver, «Suor Arcangela Tarabotti (Galerana Baratotti, Galerana Barcitotti) (1604–1652)», in Italian Women Writers: A Bio-Bibliographical Sourcebook, a cura di R. Russel, Westport CT, Greenwood Publishing Group, 1994, pp. 414–422; Letizia Panizza, «Tarabotti, Arcangela (1604–1652)», in Encyclopedia of Women in the Renaissance. Italy, France, and England, a cura di D. Robin, A.L. Larsen e C. Levin, Santa Barbara, ABC CLIO, 2007, pp. 351–354; Francesca Medioli, «Tarabotti, Arcangela», in Women in World History. A Biographical Encyclopedia, a cura di A. Commire, Waterford, Yorkin Publications, 2002, pp. 237–246. Medioli ipotizza un’origine ebrea della Tarabotti, per questa ipotesi e per altre notizie biografiche: Francesca Medioli, «Tarabotti fra omissioni e femminismo: il mistero della sua formazione», in Spazi, poteri, diritti delle donne a Venezia in età moderna, a cura di A. Bellavitis, N.M. Filippini e T. Plebani, Bolzano, QuiEdit, 2012, pp. 221–240. Ancora utile: Emilio Zanette, Suor Arcangela Tarabotti, monaca del Seicento Veneziano, Roma, Istituto per la Collaborazione Culturale, 1960. Ne sono testimonianza le relazioni epistolari. Su alcune di queste: Emilia Biga, Una polemica antifemminista del ‘600: La Maschera scoperta di Angelico Aprosio, Ventimiglia, Civica Biblioteca Aprosiana, 1989; Stephanie Jed, «Arcangela Tarabotti and Gabriel Naudé. Libraries, Taxonomy and “Ragion di Stato”», in Arcangela Tarabotti. A Literary Nun, op. cit., pp. 129–140; Bartolomeo Durante, «Il dibattito tra Arcangela Tarabotti ed Angelico Aprosio», Aprosiana, XV, 2007, pp. 122–148; Lynn L. Westwater, «A Rediscovered Friendship in the Republic of Letters: The Unpublished Correspondence of Arcangela Tarabotti and Ismaёl Boulliau», Renaissance Quarterly, LXV, 2012, pp. 67–134; Emanuela Bufacchi, «“La mia semplicità è stata ingannata dalla sagacia del serpente”. Polemiche di Girolamo Brusoni con Arcangela Tarabotti», Esperienze letterarie, XL, 2015, pp. 55–77. Arcangela Tarabotti, Paradiso monacale libri tre. Con un soliloquio a Dio, Venezia, G. Oddoni, 1643; A. Tarabotti, L’Inferno monacale, op. cit. Aveva anche programmato, come si desume dalle lettere, una terza opera che a queste si lega: Purgatorio delle malmaritate, e altre opere: Contemplatione dell’anima amante, La via lastricata per andare al cielo, Luce monacale, di cui però non si sono trovati finora né edizioni né manoscritti. Cfr. la lettera prefatoria al Dandolo e all’editore della sua raccolta epistolare e la prima lettera a Betta Polani, in A. Tarabotti, Lettere familiari e di complemento, op. cit., pp. 45 e 82–83. Nella lettera alla Polani parla in realtà di La via lasciata del cielo, che potrebbe essere un refuso, come suppongono le curatrici, ma anche un titolo alternativo a La via lastricata per andare al cielo. Sulla rappresentazione del mondo monastico in queste opere: Amalia Bettini, «Il teatro e la memoria. Letteratura e filosofia
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nella vita conventuale, L’inferno invece mostrava le distorsioni derivate da una vita monastica non scelta autonomamente da chi doveva poi viverla. Inutile dire che si presentava come sovversivo nella realtà veneziana, essendo una condanna della prassi assai diffusa di monacare le figlie per salvaguardare l’interesse dell’erede per il nome e le dignità ad esso legate5. Contro questa pratica, che l’aveva costretta a una vita che non era di sua scelta, aveva già composto un trattato, Tirannia paterna, che però andò alle stampe solo dopo la sua morte e fuori Italia, dopo un’avventurosa peripezia, che rischiò di far naufragare l’opera nel nulla6. La sua prima opera uscì infatti presso gli Elzevier nel 1652, sotto il falso nome di Galerana Baratotti e con titolo variato: La semplicità ingannata, edizione che l’autrice non poté vedere, ma che coronava positivamente l’impegno profuso per quasi trent’anni contro la tirannia dei genitori. Forse pure all’estero (a Norinberga) era uscito nel 1651, Che le donne siano della stessa spetie degli uomini. Difesa delle donne, pure sotto il falso nome di Galerana Barcitotti, dura e argomentata risposta al trattato Che le donne non siano della spetie degli huomini, traduzione sotto il falso nome di Orazio Plata, della Disputatio nova contra mulieres qua probatur eas homines non esse, uscito a Francoforte nel 1595 e attribuito
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nell’Inferno monacale di Arcangela Tarabotti», in Donne, filosofia e cultura nel Seicento, a cura di P. Totaro, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1999, pp. 51–60; Elisa Modolo, «The Insider’s Voice, or “l’abito non fa la Monaca”: Arcangela Tarabotti’s Revised Representation of the Nun», Representations of Female Identity in Italy: From Neoclassism to the 21st Century, a cura di S. Giovanardi Byer e F. Cecchini, Cambridge, Scholars Publishing, 2017, pp. 51–75. Sulla realtà conventuale a Venezia ai tempi della Tarabotti, cfr. Nancy Canepa, «The Writing behind the Wall: Arcangela Tarabotti’s Inferno monacale and Cloistral Autobiography in the Seventeenth Century», Forum Italicum, XXX, 1996, pp. 1–23; Jutta G. Sperling, Convents and the Body Politic in Late Renaissance Venice, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1999; Francesca Medioli, «To Take or not to Take the Veil. Selected Italian Case History, the Renaissance and After», in Women in Italian Renaissance Culture and Society, a cura di L. Panizza, London, European Humanities Research Centre, 2000, pp. 122–137; Mary Laven, Virgins of Venice. Enclosed Lives and Broken Vows in the Renaissance Convent, London, Penguin, 2002; Mary Laven, «Cast Out and Shut In. The Experience of Nuns in Counter-Reformation Venice», in At the Margins: Minority Groups in Premodern Italy, a cura di S.J. Milner, University of Minnesota Press, 2005, pp. 93–110; Anne Jacobson Schutte, «The Permeable Cloister?», in Arcagela Tarabotti. A literary Nun, op. cit., pp. 19–36; Gabriella Zarri, «Venitian Convents and Civic Ritual», in ibid, pp. 37–56; Anne R. Larsen, «Letters and Lace: Arcangela Tarabotti and Convent Culture in Seicento Venice», in Early Modern Women and Transnational Communities of Letters, a cura di J.D. Campbell, Farnham, Ashgate, 2009, pp. 45–73. Ancora utile, per l’ampia sintesi il capitolo di Margaret L. King, «Daughters of Mary. Women and the Church», in Ead., Women of the Renaissance, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1991, pp. 81–156. Cfr. Simona Bortot, «Introduzione», in A. Tarabotti, La semplicità ingannata, op. cit., pp. 76– 79. In ogni caso l’opera fu poi posta presto all’indice nel 1660. Cfr. Natalia Costa-Zalessow, «La condanna all’Indice della Semplicità ingannata di Arcangela Tarabotti alla luce di manoscritti inediti», Nouvelles de la République des Lettres, I, 2000, pp. 97–113. Sulla censura a Venezia all’epoca cfr. Emanuela Bufacchi, «Alcune osservazioni sulla censura romana e gli accademici Incogniti», Esperienze letterarie, XL, 2015, pp. 42–55.
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all’erudito tedesco Valens Acidalius7. Già a difesa delle donne era uscita nel 1644 a Venezia la sua Antisatira, scritta per rispondere alla Satira contro ’l lusso donnesco di Francesco Buoninsegni, che condannava lo sfarzo delle vesti femminili8. Del 1650 è la silloge di Lettere familiari e di complemento, un’interessante raccolta epistolare che mostra l’ampiezza delle sue relazioni e dei suoi interessi9. Eva o del libero arbitrio Fin dalla sua prima opera, la Semplicità ingannata, si vede l’assidua presenza dell’intertesto biblico, come fonte di argomentazioni, ma soprattutto di difesa della dignità sua e delle donne vittime della tirannia genitoriale. Il libro è dedicato a Dio, come unico difensore di una verità di cui nessuno vuole tenere conto: non le gerarchie ecclesiastiche, non i prìncipi terreni, non i parenti. L’argomentazione (perché di trattato si tratta, diviso in tre libri) prende il via dalla considerazione che il libero arbitrio, concesso da Dio parimenti ai maschi e alle femmine, è pregiudicato da coloro che «chiudono forzatamente con inganno fra quattro mura d’un monastero le semplici donne10». Il primo capitolo di Genesi è attentamente interpretato e usato per sostenere appunto che Eva fu creata come Adamo «in istato d’innocenza», con «l’elezzione e volontà libera», e questo perché «fuggisse il mal evitabile e seguisse il ben eleggibile, non [per] timor servile, ma di proprio volontario moto11». Che le donne siano della spetie degli huomini. Difesa delle donne, di Galerana Barcitotti, contra Horatio Plata, il traduttore di quei fogli, che dicono: Le donne non essere della spetie degli huomini, Norimbergh, Iuvann Cherchenbergher, 1651, ma si ipotizza che la stampa avvenisse a Venezia. Due le moderne edizioni: Arcangela Tarabotti, Che le donne siano della spetie degli huomini, a cura di L. Panizza, op. cit.; e a cura di S. Mantioni, Capua, Artetetra, 2015. Userò questa seconda edizione per i riferimenti. 8 Del lusso donnesco satira menipea del sig. Fran[cesco] Buoninsegni con l’antisatira di A[rcangela] T[arabotti] in risposta, Venezia, Francesco Valvasense, 1644. Si legge in moderna edizione a cura di E. Weaver: Buoninsegni-Tarabotti, Satira e antisatira, op. cit. 9 Arcangela Tarabotti, Lettere familiari e di complemento, Venezia, Guerigli, 1650. In edizione moderna (op. cit.). Su alcuni aspetti delle lettere: Francesca Medioli, «Arcangela Tarabotti’s Reliability about Herself: Publication and Self-representation (Together with a Small Collection of Previously Unpublished Letters)», The Italianist, XXIII, 2003, pp. 54-101; Meredith K. Ray, «Letters from the Cloister: Defending the Literary Self in Arcangela Tarabotti’s Lettere familiari», Italica, LXXXI, 2004, pp. 24–42; Ead., «Letters and Lace: Arcangela Tarabotti and Convent Culture in Seicento Venice», art. cit.; Ead., «Making the Private Public: Arcangela Tarabotti’s Lettere familiari», in Arcangela Tarabotti. A Literary Nun, op. cit., pp. 173–190; Lynn L. Westwater, «The Trenchant Pen: Humour in the Lettere of Arcangela Tarabotti», ibid., pp. 159–172; la traduzione inglese: Arcangela Tarabotti: Letters Familiar and Formal, a cura di L.L. Westwater, Toronto, Centre for Reformation and Renaissance Studies, 2012. 10 A. Tarabotti Arcangela, La semplicità ingannata, op. cit., p. 159. Su cui in particolare: Natalia CostaZalessow, «Tarabotti’s La semplicità ingannata», Italica, LXXVIII, 2001, pp. 314–325. Sul suo modo di argomentare: Elissa B. Weaver, «“With Truthful Tongue and Faithful Pen”: Arcangela Tarabotti Against Paternal Tyranny», Annali d’italianistica, XXXIV, 2016, pp. 281–296. 11 A. Tarabotti Arcangela, La semplicità ingannata, op. cit., p. 181. 7
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Il dono del libero arbitrio è argomento cruciale nella sua argomentazione, per cui ricorda pure i versi di Paradiso V, 19–22, che parlano del libero volere come del più grande dono di Dio all’umanità12. La Tarabotti riprende il topos esegetico della perfezione del corpo della donna, creata per ultima, un compendio di tutte le perfezioni. È più esplicita della precedente letteratura protofemminista e sostiene che, dopo la creazione di Adamo, Dio non è soddisfatto e «prevede che senza la donna egli sarebbe stato l’epilogo di tutte le imperfezioni»; decide quindi di creargli un «adiutorium simile sibi13». La donna infatti è stata pensata dalla mente di Dio «abeterna e la primogenita di tutte le creature, generata dai fiati del medesimo Dio», grazie alla quale fu data la «perfezione all’uomo14». Infatti la Vergine ne è la prova, e «ciò volse inferire lo Spirito Santo, per bocca di Salomone nell’Ecclesiastico, introducendo la Vergine Sacratissima a cantar di se stessa: Ego ex ore altissimi prodivi, primogenita ante omne creatura15». Passando dunque da un testo biblico all’altro (più avanti userà anche Proverbi 8, 22–24, considerati sempre opera di Salomone), Tarabotti non teme di portare Maria come prova della perfezione di Eva e rafforza la sua argomentazione su basi indiscutibili per la sua epoca, in quanto coincidenti con la verità rivelata, e, aggiungendo citazioni dalla Sacra Scrittura, procede con supporti inoppugnabili verso la sua tesi. Non potendo non riconoscere la perfezione della donna, argomenta Tarabotti, gli uomini la incolpano per il primo peccato, causa della caduta dalla grazia. Inframezzando passi contro la forzata monacazione delle giovani, recupera tutti i versetti utili del capitolo sulla creazione e la caduta originale per discolpare Eva dalle accuse a lei rivolte dalla tradizione esegetica. Non solo la donna non è dichiarata subordinata all’uomo, essendo simile a lui, ma non è neppure considerata colpevole del peccato, come prova «la medesima Sacra Scrittura, che non può mentire16». Infatti quello di Eva «non fu che un semplice error, ch’ella fece come dodata d’alti pensieri, sentendosi dire: Eritis sicut Dii». Lo prova il fatto che Dio chiamò a rispondere del fallo per primo Adamo: «Adam ubi es? Non per altra cagione che per pubblicarlo origine principale del nostro danno17».
12 Sulla presenza di Dante nella scrittura della Tarabotti: Julie Robarts, «Dante’s Comedy in a Venetian Convent: Arcangela Tarabotti’s Inferno monacale», Italica, XC, 2013, pp. 378–397; Letizia Panizza, «Reader Over Arcangela’s Shoulder. Tarabotti at Work with Her Sources», in Arcangela Tarabotti. A Literary Nun, op. cit., pp. 107–128: in particolare le pp. 124–128. 13 A. Tarabotti, La semplicità ingannata, op. cit., p. 183. 14 Ibid., pp. 182–183. 15 Ibid. Il passo citato è da Sir 24, 5. 16 Ibid., p. 195. 17 Ibid.
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Ma il seguito della vicenda offre alla Tarabotti un ulteriore argomento contro la tirannia dell’uomo sulla donna, infatti ella sottolinea che, appena accusato, Adamo inveisce contro Eva, scaricando su di lei la colpa e iniziando a sottrarsi alle sue responsabilità con addossarle sulla moglie: Ma che fece il primo uomo, per non tralignar punto dal suo vero simolacro, ch’è il Diavolo, inventore della bugia? Portò per iscusa gl’impulsi avuti dalla moglie: sesso sempre spergiuro, sempre fallace e seduttor della donna18!
Dio stesso, secondo Tarabotti, si sarebbe stupito della menzogna di Adamo: Quando ebbe udito il menzognero Adamo che procurava sottrarsi dalla colpa commessa con accusar la moglie, quasi stupefatto (per così dire) di tal esecrabile inganno, chiama a sé la donna, e le dice […]19.
La falsità di Adamo, spergiuro per discolparsi, è un argomento spesso ripreso nel trattato e usato contro l’ipocrisia maschile (l’obiettivo è infatti stigmatizzare l’ipocrisia dei genitori). L’esegesi lascia quindi spazio all’invenzione per un discorso di Dio alla donna sul tema dell’igratitudine maschile, a cui non sempre la «semplicetta» donna sa opporsi con consapevolezza. Ma contro tale prevaricazione Dio fa la promessa di una reintegrazione nel suo ruolo «perché venirà una donna, che per vendetta e gloria universale del sesso tutto, schiacerà il capo al serpente20». Le parole di Dio riportate dal passo Gn 3, 14–19 sono tradotte, omesse in gran parte, quindi un poco stravolte, per tenere solo l’annuncio della vittoria della Donna sul serpente e delle punizioni riservate all’uomo (per cui cita Gn 3, 18). È all’uomo che viene rivolta da Tarabotti la più grave accusa per la caduta, ovvero di aver disobbedito per superbia, imitando la «pretensione di Lucifero» di farsi simile a Dio, atto che si ripete quando si toglie il libero arbitrio alle donne per «disponer a loro [degli uomini] talento di migliaia di cuori innocenti, per confinarli in una carcere21». Il capitolo di Genesi è lasciato quindi da parte per procedere nell’argomentazione contro la tirannia paterna, per cui sono ripresi molti tasselli biblici, che dimostrano come la Tarabotti si sappia muovere con facilità tra Vecchio e Nuovo Testamento. Cita variamente i libri sapienziali considerati di Salomone (come già era avvenuto per Marinella), le lettere paoline, i Vangeli. A volte le citazioni sono frequenti, ma il filo conduttore non è più la Bibbia, ma l’argomentazione a difesa della donna. Il primo argomento su cui si focalizza mira a contraddire la tesi 18 19 20 21
Ibid. Ibid., p. 197. Ibid., pp. 198–189. Ibid., p. 202.
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3- arcangela tarabotti: argomentare con la bibbia
che la donna sia fragile, debole, mutevole, instabile: forme di riduzione spesso usate a scusante della donna, che però portano inevitabilmente ad affermarne l’inferiorità e la necessaria sottomissione all’uomo, esattamente quello contro cui Tarabotti scrive. Porta a favore della donna molte autorità, anche letterarie (Dante e Ariosto in primis), filosofiche (Aristotele) ed esegetiche (Girolamo), oltre che bibliche ovviamente. Queste sono le più numerose, usate anche e contrario, per dimostrare l’instabilità e la fallacia degli uomini, come Salomone, che fu instabile negli affetti, benché condannasse di instabilità le donne22. L’obiettivo è condurre le autorità ecclesiastiche, statali e familiari a riflettere sul male che deriva dalla violazione della libertà delle giovani donne condotte alla monacazione forzata: Signori eminentissimi, serenissimi e illustrissimi, o quanto, o quanto l’anime vostre dovriano esser agitate dai mari delle lagrime di queste disperate prigioniere. Le vostre menti dovriano aver un poco di considerazione e provedere al loro miserabil stato: non sapete che quid est in mundo est concupiscentia carnis, concupiscentia oculorum et superbia vitae? Anche queste misere sono formate della medesima materia che sète voi: non avrete ragione valevole a vostra diffesa quando saravi detto: Redde rationem villicationis tuae. V’è notissimo che la moltitudine di religiose non può aver perfezione, perché sono astrette a tal vita dalla forza fatta loro dai genitori e congionti. Le infelici non dicono: Haec requies mea in seculum seculi. La maggior parte di loro non sono mosse, come Santo Antonio, dalla persuasione evangelica: Vende omnia, quae possides, et sequere me. Ma sempre col pensiero al mondo, sospirano quella parte de’ beni che, dovuta loro per ogni legge, vien loro tolta contro ogni raggione; e pur Iddio mostra d’aver in odio ogni azzione che non nasca da volontaria disposizione, mentre non dimanda che il cuore: Fili, praebe mihi cor tuum23.
Dall’epistola di Giovanni (2, 16) al Vangelo di Luca (16, 2) al salmo 131 (versetto 14) e di nuovo ai Vangeli (Mt 19, 21), quindi al libro dei Proverbi 23, 26, Tarabotti utilizza le citazioni bibliche in rapporto al suo procedere nell’accusa contro una scelta monacale che non viene dal cuore, ma è prevaricazione oltre che formalità, che non deriva da divina ispirazione, come dovrebbe. La prima parte del trattato si chiude con queste riflessioni sulla necessità di atti religiosi che esulino da ogni ipocrisia. Nella seconda parte il procedere è simile, ovvero Tarabotti cerca altre argomentazioni per supportare la sua tesi contro l’arbitrio dei padri verso le figlie, corroborandole con passi biblici frequenti, tratti da tutti i libri del Nuovo e Vecchio Testamento, in cui non si trovano elementi a sostegno del comportamento di questi padri, che pure dicono di agire per spirito religioso: 22 Ibid., pp. 206–207. 23 Ibid., pp. 215–216.
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parte seconda - venezia scritturale Verissimo è che da Adamo fino a Noè, da Noè al padre de’ credenti Abramo, da Abramo al diletto di Dio Mosè, da Mosè ai profeti, e da’ profeti a Cristo, non si trova legge, nella quale l’Onnipotente abbia ordinato alle donne che si ritirino sotto abito religioso a farsi simie de’ santi24.
Ben è vero piuttosto il contrario, che l’arbitrio dei padri ha portato a sacrificare le figlie con pessimi risultati, come dimostra il caso di Jepte, che dovette patire la perdita dell’amata figlia, causata dalla sua debolezza25. La tragica storia del re d’Israele, che, vittorioso contro gli Ammoniti, si vede costretto a uccidere l’amata figlia per mantener fede alla promessa fatta a Dio di sacrificare, se avesse vinto, la prima creatura che gli fosse venuta incontro al ritorno, è qui ripresa per sottolineare l’errore dei padri, che a insaputa delle figlie le sacrificano. Tarabotti rilegge e interpreta la vicenda narrata in Giudici 11, 1–40 in modo nuovo, non solo senza basarsi su precendenti interpretazioni, ma dando dei personaggi una penetrante lettura psicologica26. Per lei Jefte non è il santo che appare nei commenti di Gerolamo o di Ambrogio, ma non è neppure condannato senza riflettere sulla sua drammatica alternativa: avrebbe dovuto tradire Dio, non mantenendo la promessa, o sacrificare l’amata figlia? Diversamente dai precedenti interpreti, Tarabotti non si accontenta delle parole della Vulgata, per cui in qualche modo la figlia è detta colpevole (nella Vulgata le parole del padre sono: «Heu filia mi, decepisti me et ipsa decepta es», Idg 11, 34), ma approfondisce la psicologia paterna: Empio saria stato Jefte, se non avesse fatto stima di mancar di parola a quel Dio che gli avea dato l’essere, col non sacrificar colei, alla quale avea dato l’essere. Volle conformarsi con la divina volontà, ma non per questo l’affetto umano tralasciò d’esercitar le sue tenerezze, le quali gli resero sensibile il colpo prima che morisse la sua cara, e pur dovea servirgli di consolazione la brevità del tormento di lei che dovea tantosto esser rapita al Limbo […]27.
Le «tenerezze» di questo padre, come pure del menzionato Abramo, che però per intervento divino non dovette arrivare a tal punto, è modello per Tarabotti, che non manca di mostrare la differenza con il sentimento di quei padri che sacrificano 24 Ibid., p. 266. 25 Ibid., p. 267. 26 Sul passo si veda Joy A. Schroeder, «Envying Jepfthah’s Daughter: Judges 11 in the Thought of Arcangela Tarabotti (1604–1652)», in Strangely Familiar: Protofeminist Interpretations of Patriarchal Biblical Texts, a cura di N. Calvert-Koyzis e H.E. Weir, Atlanta, Society for Biblical Literature, 2009, pp. 75–91. Schroeder sottolinea come Tarabotti si distanzi dalle letture di Gerolamo e Ambrogio, che ritenevano santo il comportamento di Jefte ( J.A. Schroeder, «Envying Jepfthah’s Daughter», art. cit., p. 82). Sull’interpretazione del passo all’epoca cfr. John L. Thompson, Writing the Wrongs: Women of the Old Testament among Biblical Commentators from Philo through the Reformation, Oxford, Oxford University Press, 2001, pp. 100–178. 27 A. Tarabotti, La semplicità ingannata, op. cit., p. 267.
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le figlie con la monacazione forzata, perché sono mossi dalla sola cupidigia, «per satollar con più comodo gli appetiti loro28». Meglio sarebbe che cercassero di offrire a Dio un cuore, il loro, «vuoto di crudeltà, alieno dall’estorsioni, rapine, inganni, lascivie e mondo da ogni vizio29». Ma il confronto tra i padri non è l’unica forma di commento del passo. Ancora viene, più crudele, il confronto tra le figlie, perché, se la figlia di Jefte morì colpita da «un sol colpo» (osservazione della Tarabotti, che non si trova in Giudici, dove si ignora l’esecuzione), le giovani monache involontarie vivono in un «continuo morire fra patimenti d’una carcere odiata, e dopo aver penato qui in terra i cinquanta e sessant’anni30». Dalla sua lettura dell’episodio sembra rilevare che la figlia fosse in qualche modo consenziente, infatti chiede solo due mesi di tempo e non disapprova il padre, mentre per nulla consenzienti sono le figlie monacate, di cui lei ha esperienza. Tarabotti non si pronuncia contro la vita religiosa, ma precisamente contro i capricci dei padri, sordi alle preghiere delle figlie. L’esito di questo ragionamento, che richiede ai padri rispetto per le figlie, porta alla denuncia della privazione degli studi, che vengono concessi ai figli maschi, ma di cui sono private le figlie, che invece potrebbero giovarsi delle scienze per essere a pari con gli uomini. La denuncia è accorata, ma precisa: Come potrà mai svegliarsi l’ingegno a quelle che son private d’ingresso ne’ Senati e d’applicazione a’ maneggi e alle quali è tolta la luce universale, non che la libertà di riempir, come agli uomini è dato, gli Studii di Padoa, Bologna, Roma, Parigi, Salamanca, e d’altre Università famose? Non mai a noi è concesso ascoltar lezzioni in pubbliche scuole, e il sesso, non più forte ma più feroce, ci rimprovera di goffe […]31.
In effetti Tarabotti dimostra che le donne sono adeguate agli studi e che potrebbero dare eccellenti risultati, portando l’esempio di donne illustri nella filosofia o nelle lettere, da Diotima a Lucrezia Marinella. Il desiderio di sapere delle donne è motivo per ritornare alla questione edenica e al desiderio di conoscenza che animava Eva, causa della sua caduta. Poiché credeva che il frutto le consentisse di «apprendere la sapienza», quello di Eva fu un desiderio di quell’albero che le prometteva di «fruttar la scienza32». L’ultima parte del secondo libro è un’accusa altrettanto decisa contro le ingiustizie degli uomini, contro le prevaricazioni, e persino le crudeltà che gli uomini at28 29 30 31 32
Ibid. Ibid., p. 268. Ibid., p. 269. Ibid., p. 292. Ibid., p. 308.
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tuano contro le donne, soprattutto nel voler disporre di più donne. Arriva al punto di criticare anche san Paolo, che nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 7, 12–13) differenziava la donna dall’uomo nella raccomandazione di non ripudiare il congiunto: «O quanto l’Apostolo si lascia conoscere parziale e osservatore della cattolica mente delle donne33!». Le Sacre Scritture le forniscono molti esempi di donne modello e di donne che hanno deviato dalla giusta via, come Bersabea su cui torna spesso e che non accusa per l’adulterio di David34. Il libro si chiude ritornando alla monacazione forzata, cui neppure i decreti del Concilio di Trento riescono a porre rimedio, poiché, sottolinea, non vengono applicati. Difende la Chiesa per avere provveduto, ma inutilmente, perché, come a Venezia, i suoi decreti non sono osservati. In questo secondo libro de La semplicità ingannata, si trovano anche riflessioni sull’episodio edenico che possono essere considerate una risposta al romanzo del Loredan35, quando inveisce contro l’inganno di chi sotto pretesto di pietà riempie i chiostri di «gente violentata»: Attendete pure ad ingannar le femini innocenti e buone, con false invenzioni suggeritevi dal Diavolo, per non tralignar nello stile da lui tenuto nel deludere la nostra prima madre al principio del mondo. Sapeva l’inimico dell’umana natura che ’l sembiante d’uomo porta seco un’aria di bugiardo, e che le donne di qualche cognizione difficilmente prestano fede a quel mostro, che mai non porta in bocca altra verità, che quando confessa d’esser l’idea delle bugie, e perciò prese faccia di donzella per comprare una sicura fede a’ suoi detti; suppose forse anco ch’Eva, proveduta d’un’innata modestia e vereconda pudicizia, non si sarebbe data a discorrere con uomini per non offendere il marito, e perciò n’è chi disse che lo spirito perverso pigliò sembianza di verginella, che pura nell’animo e sincera nel cuore non sa che profferire semplicetti e veraci concetti, e così con le vostre solite aviluppate menzogne la indusse, sotto promesse di scienze e di divinità, a mangiare del proibito pomo36.
L’amara invettiva è costruita con termini presi in prestito dal romanzo di Loredan e contro di esso denuncia le deviazioni interpretative del passo di Genesi. Termina
33 Ibid., p. 317. 34 Cfr. Tommaso Garzoni, Le vite delle donne illustri della Scrittura Sacra. Con l’aggionta delle vite delle donne oscure e laide dell’uno e l’altro Testamento, a cura di B. Collina, Ravenna, Longo, 1994, pp. 314–319. 35 Giovan Francesco Loredan, L’Adamo, Venezia, Sarzina, 1640. Si veda supra il capitolo «Venezia scritturale». Sul confronto è in stampa il saggio di Elissa Weaver, «Arcangela Tarabotti’s Thoughts on Eve and her Response to Giovan Francesco Loredan’s Adamo», in La Querelle des Femmes. La Bibbia e le donne, a cura di A. Muñoz Fernàndez e X. Von Tippelskirch, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, in stampa. 36 A. Tarabotti, La semplicità ingannata, op. cit., pp. 330–331. Sul passo come risposta al Loredan si veda il commento di Simona Bortot in queste stesse pagine.
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ribadendo la colpevolezza del solo Adamo, citando ancora san Paolo, Rom 5, 12: «Per unum hominem peccatum intravit in mundum, et per foeminam gratia37». Il terzo e ultimo libro si apre con un elogio della donna perfetta, la Vergine Maria, creata per sollevare le donne dalla loro oppressione, essendo la più alta di tutte le creature, destinata a redimere l’umanità caduta, portando in grembo il Salvatore. La trattazione lascia il campo persino alla preghiera, per cui alla Vergine è chiesta la grazia di poter adeguatamente denunciare il male che opprime le donne38. Non è l’unica preghiera in questo libro, perché altra preghiera è rivolta a san Giovanni, che ha accolto la madre di Cristo, perché l’autrice possa seguire come lui perfettamente le orme del Maestro. Ma la maggior parte del terzo libro è dedicata alla grandezza delle donne, capaci di capire per prime il messaggio di Gesù e di essere a fondamento della fede39. Il libro, che è proiettato sul Nuovo Testamento, si chiude con un’ennesima accusa contro l’uomo, la più spietata delle belve, che danna la propria prole a tutte le infelicità. Una controversia biblica L’episodio edenico ritorna negli scritti di suor Arcangela anzitutto nell’Antisatira, scritta per difendere le donne dalle accuse di Francesco Buoninsegni, che nella sua Satira si era duramente pronunciato contro il lusso degli abiti femminili. Ma qui il ragionamento è circoscritto al suo contesto, una discussione sui vestiti e sulle abitudini, solo pochi cenni sono indirizzati all’episodio edenico: il primo nelle pagine al Lettore, per ricordare come le prime parole di Adamo fossero di accusa verso Eva; quindi, nel cuore del pamphlet, per sottolineare che le vesti sono conseguenza del peccato e che per prima Eva si coprì, essendo più pudica; infine per ricordare come la donna fosse formata di materia più nobile che la nuda terra usata per creare l’uomo40. Verso le Sacre Scritture, che frequentava evidentemente in latino e che in latino cita spesso, suor Arcangela non ha però solo l’interesse di trovare strumenti per suffragare le sue posizioni, ma avanza anche una domanda di rispetto e di seria considerazione, infatti sottolinea l’uso distorto e le false letture che se ne fanno da parte di chi ha interesse strumentale verso di esse. È questo il soggetto del pamphlet Che le donne siano della stessa spetie degli huomini. Difesa delle donne, scritto per rispondere contro l’opposta tesi sostenuta nel libello attribuito nella traduzione a Orazio Plata, Che le donne non siano della stessa spetie degli huomini. Discorso pia37 Sulla misoginia degli Incogniti si veda Monica Miato, L’Accademia degli Incogniti di Giovan Francesco Loredan, Venezia (1630-1661), Firenze, Olschki, 1998, pp. 107–120. 38 Ibid., p. 345. 39 Ibid., p. 371. 40 F. Buoninsegni – A. Tarabotti, Satira e Antisatira, op. cit., pp. 69 e 79.
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cevole, pubblicazione forse promossa dall’Accademia degli Incogniti41. Le tesi del libello erano così estreme da indurre di lì a poco anche la Congregazione dell’Indice a vietarlo42. La pubblicazione derivava da un libello anonimo contro le donne, pubblicato nel 1595 a Francoforte: Disputatio nova contra mulieres, qua probatur eas homines non esse. Lo stesso anno era uscito contro di esso una confutazione di un pastore luterano di Magdeburgo, Simon Gedik (Simon Gediccus), Defensio sexis muliebris opposita futilissimmae disputationis […] qua blaspheme contenditur mulieres homines non esse43. Le due opere erano poi uscite insieme ripetutamente nel secolo con il titolo Disputatio perjucunda44. La traduzione italiana considera solo la prima delle pubblicazioni, così Arcangela ignora la risposta del luterano45. Lo scritto della Tarabotti pone infatti subito la questione come un problema esegetico prima ancora che misogino, quindi accusa l’autore di «far travedere il Christianesimo» proprio «col testimonio della Sacra Scrittura46». Il libretto è di conseguenza tutto articolato sull’interpretazione del testo biblico e mostra appunto come la suora fosse ben consapevole che l’interpretazione può condurre 41 Lyon, Gasparo Ventura, 1647. 42 Cfr. Letizia Panizza, «Introductory Essay», in A. Tarabotti, Che le donne siano, op. cit., pp. IX– XXXVIII: XVII–XVIII. Cfr. Manfred P. Fleischer, «“Are Women Human?”. The Debate of 1595 between Valens Acidalius and Simon Gediccus», The Sixteenth-Century Journal, XII, 1981, pp. 107–120; Ian Maclean, The Renaissance Notion of Women. A Studies in the Fortune of Scholasticism and Medical Science in European Intellectual Life, Cambridge, Cambridge University Press, 1980; «Women Are Not Human»: An Anonymous Treatise and Responses, a cura di T. Kenney, New York, Crossroad Pub. Co., 1998. Sulla disuguaglianza nella società veneziana: Daniela Hacke, Women, Sex and Marriage in Early Modern Venice, Farnham, Ashgate, 2004. 43 Leipzig, 1595. Cfr. M. Fleischer, «“Are Women Human?”. The Debate of 1595 between Valens Acidalius and Simon Gediccus», art. cit. 44 Disputatio perjucunda qua anonymus probare nititur mulieres homines non esse cui opposita est Simonis Gedicci [...] Defensio sexus muliebris qua singula anonymi argumenta distinctis thesibus proposita, Hagæ-Comitis, I. Burchornius 1638, ebbe diverse altre edizioni nel secolo. 45 Difficile dire come Tarabotti sia arrivata alla conoscenza di questo testo. Di fatto ne parla nelle lettere, ma come di conoscenza già avvenuta, in una lettera all’ambasciatore francese presso la Serenissima, Nicolas Bretel de Grémonville, ove definisce l’opera «sparsa tutta di pensieri e concetti ereticali, ch’asseriscono le donne non esser della spezie de gl’uomini, che Dio non sia morto per loro, e che non si salvino», sia in una a Luigi di Matharel, residente di Francia presso la Serenissima, dicendo «Le invio questi sacrileghi fogli c’hanno per scopo loro finale di vilipendere e oltraggiar la deità femminile. Li riceva Ella come testimoni della mia osservanza e credami che i biasimi delle donne sono vendicati non meno dalla giustizia terrena che dalla celeste. Testimonio ne sia il libraro, il quale ha già veduto che dal spremere i loro disprezzi sotto il torchio per darli alla luce non ha cavato altra sostanza che la quintessenza delle miserie». A. Tarabotti, Lettere, op. cit., pp. 144 e 223. Sulla condanna all’Indice scrisse anche al Loredan: «Voglio però credere che i begli ingegni anderanno più cauti nel biasimare le femine ora che Santa Chiesa s’è dichiarata al mondo tutto ch’elle non solo siano della specie degli uomeni, ma che partecipano della divinità, mentre fulmina contro coloro che negano le donne non aver anima li medemi castighi ch’è solita di dare a quelli eretici che negano Dio». Ibid., p. 117. 46 A. Tarabotti, Che le donne siano, op. cit., p. 33.
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verso distorsioni contrarie allo spirito cristiano. In effetti l’autore anonimo ironizzava sulla credulità di alcune sette (Anabattisti e Sociniani), che riponevano totale fiducia nelle Sacre Scritture; ma dal modo di interpretare la parola di Dio, spostava poi l’argomentazione su posizioni misogine, negando alle donne il diritto alla salvezza, poiché, appunto, non sono uomini. Si potrebbe ritenere lo scritto ironico, ma Tarabotti lo prende molto seriamente e sottolinea perciò che l’autore è al di fuori dell’ortodossia, chiamandolo «moderno Eretico», ribadendo anche l’accusa che questi intende «uccider l’anime de’ semplici», «oscurare il candido della fede christiana47». Tarabotti si oppone a tale erroneo uso della Sacra Scrittura, accusando l’«Eretico» di falsità e, quindi, con il supporto del commento di Agostino al Vangelo di Giovanni, di essere emissario del demonio, di usare «sofistici argomenti» per ingannare e «uccider l’anime de’ semplici», in particolare delle donne, che per mancanza di studi non sono in grado di rispondere: Ma v’ingannate: o che non havete letta la Scrittura, o che non l’intendete, o che non la volete intendere, overo che vi pretendete essere il quinto evangelista; e perciò venite a tradurre gl’Evangelij a modo vostro, stimando forse d’esser comprobato per tale da gl’empi eretici ch’oggidì vivono48.
Ripetute sono le occasioni in cui Tarabotti denuncia l’autore come «interprete falso della Sacra Scrittura», lo apostrofa come «Signor Esploratore della Scrittura» che «profess[ate] di saperne più voi che i Settanta», lo accusa quindi come «ateista» e adepto all’«uso turchesco», che viene «in campo con l’armi della Sacra Scrittura», che lascia le cose tanto ambigue che «a pena sono capaci, chi leggono, di ciò che volete inferire», di «stiracchia[re] a vostro modo la Scrittura», di aver «trascorsa la Scrittura superficialmente, non osservato bene il senso mistico e reale», di «corrompere le Scritture», di «caminar a tentone nelle Scritture senza il bastone della prudenza e della fede49». Le accuse reiterate sono anche frutto del modo in cui è impostato il libretto, che si sviluppa in modo controversistico, discutendo i punti del trattato di ‘Plata’, esposti come «Ingann[i]», contro cui la suora elabora i relativi «Disingann[i]». Si tratta di 57 argomentazioni (le tesi del Discorso erano in realtà solo 50), che prendono tutte il via da passi biblici interpre47 Ibid., p. 36. 48 Ibid., p. 36. Per il passo di Agostino a cui si riferisce: Aurelio Agostino, Commento al Vangelo di San Giovanni, a cura di E. Gandolfo, Roma, Città Nuova, 1985, 42, 13. Il passo definisce il demonio padre della menzogna. 49 Le citazioni rispettivamente da A. Tarabotti, Che le donne siano, op. cit., pp. 35, 37, 42, 44, 51, 54, 59 (identica in 88), 93.
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tati già dall’autore in funzione della sua tesi, contro cui è opposta una diversa interpretazione da Tarabotti. L’«inganno» non riporta le parole esatte dell’«Eretico», ma una rielaborazione, che talora mostra già la lettura contraria. L’«Eretico» afferma di cercare il senso mistico e allegorico, in realtà secondo Tarabotti falsamente opera, per cui ripetutamente si scaglia contro il suo modo di interpretare: Voi, voi andate smembrando le Scritture. Che importa, di grazia, che tra voi altri dottissimi filosofi, teologhi, legisti, matematici, andate stiracchiando le parole d’Iddio per far apparir la Scrittura conforme a’ vostri sensi erronei e bestiali? Voi venite vestito col manto della Scrittura, per parer una pecorella, ma siete conosciuto per un ferissimo lupo e per un foriere dell’Antichristo. […] Eh, povero falsificatore della buona moneta! Perché cercate di corrompere le Scritture? Voi andate sempre con arcigogole e stiracchiature sopra la scorza delle parole di Christo, de i Vangelisti, delli Apostoli e lasciate sempre da parte il senso Scritturale50.
Lo invita perciò a meglio «ponderare» le parole di Dio a «osservar bene», e gli propone il «vero senso allegorico», sottolineando l’importanza di una corretta interpretazione51. Le argomentazioni a volte ritornano simili: inizia con la tesi che Gesù si sia incarnato solo per gli uomini e che quindi per le donne non vi sia salvezza, per il cui disinganno si riportano (dopo ripetute accuse all’«Eretico» di essere fuori dal cristianesimo) le parole di Genesi 2, 22: «Caro una vir, et uxor», che implica che le donne «sono fatte dalla mano d’Iddio, cavate dalla costa d’un huomo, generate come loro, dove ch’elle vengono ad esser come la forma e l’huomo come la matera52». Tarabotti ripercorre qui i punti già presentati nella Semplicità ingannata: che ambedue i progenitori sono fatti della stessa specie. Questa è l’occasione per menzionare la Vergine, e con lei altre donne ripiene di Spirito Santo (come Elisabetta, ma anche le Sibille). Poiché Dio intese fare per Adamo «adiutorium simile sibi», ne deriva che Eva «non fu di materia, o spetie differente», e in più, «se Eva non era un uomo, era una creatura ragionevole più nobile dell’uomo53». Qui fa entrare in campo alcune notizie che non derivano dalla Vulgata, ma probabilmente da un apocrifo del Vecchio Testamento o dalle scritture ebraiche: perché a proposito dei parti di Eva parla anche di Abellina, la figlia femmina dei progenitori per cui, secon50 51 52 53
Rispettivamente ibid., pp. 48, 59, 65. «Ponderare» in ibid., pp. 44–45, «osservar bene» p. 82, «senso allegorico» p. 61. Ibid., p. 38. Ibid., p. 45.
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do un Misdrash e lo Zohar, sarebbe nata la contesa fra Caino e Abele54. Tarabotti riprende quindi l’affermazione che la donna è persino più perfetta dell’uomo, avendo richiesto più tempo nel formarla, non essendo uno strumento a sua disposizione, come alcuni credono, male traducendo «adiutorium55». Poiché fu cavata dalla sua stessa costola, è della stessa natura, anzi, ella più che Adamo si avvicina a Dio per la sua bellezza, «che la fa conoscere quasi un vivo ritratto del suo Facitore56». E ancora afferma che la donna non fu nominata come colpevole nel peccato, come si rileva dal passo paolino, «Per unum hominem peccatum intravit in mundum», perché a lei non fu espressa la proibizione di mangiare il frutto. Molto spesso le sue confutazioni sono frutto anche di un’attenta analisi grammaticale, mostrando come l’autore per sostenere le sue tesi abbia cambiato il testo scritturale. Il riferimento della Tarabotti è ovviamente sempre la Vulgata57. Se i primi ventun inganni ruotano intorno all’episodio della creazione della donna, seguono poi alcune letture dei passi dei Vangeli dove protagoniste sono le donne. Il primo è quello della Cananea (Mt 15, 21–28; Mc 7, 24–30), cui sono dedicati ben sette «disinganni», poiché le parole a lei dette da Gesù: «Non sum missus per illam», erano state addotte dall’«Eretico» a sostegno della sua tesi, contro cui la Tarabotti porta invece le parole successive: «O mulier, magna est fides tua» (Mt 15, 28), per sostenere appunto che le donne sono capaci di molta fede58. Così mostrano anche l’emorroissa, la donna che asciugò il sudore di Gesù sul Calvario, e Marta, tanto che Gesù potè dire: «Non ho trovato tanta fede in Israel (cioè tra gli huomini) quanto in una donna, con la quale io non ho punto che fare59», a prova appunto che Gesù considerò le donne come destinatarie della sua salvezza. Non po-
54 L’apocrifo del Vecchio Testamento, Vita di Adamo e Eva (cfr. The Life of Adam and Eve, a cura di L.S.A. Wells e M. Whittaker, in The Apocryphal Old Testament, a cura di H.F.D. Sparks, Oxford, Clarendon Press, 1984, pp. 141–188) riportava che i progenitori ebbero trenta figli. Il nome Abellina potrebbe essere un’invenzione di Tarabotti. Cfr. il commento di Panizza, in A. Tarabotti, Che le donne siano, edizione a cura di L. Panizza, op. cit., p. 17. Questi riferimenti potrebbero confermare, ma il condizionale resta ovviamente d’obbligo, l’ipotesi di Medioli, di un’origine ebraica, ma a Venezia molte erano le possibilità di venire a contatto con la cultura ebraica e la sua esegesi. Cfr. F. Medioli, «Tarabotti fra omissioni e femminismo: il mistero della sua formazione», art. cit., pp. 231–240. 55 A questo proposito menziona l’interpretazione dei rabbini e la traduzione di Sébastien Castellion (La Bible nouvellement translatée, Basilea, Jehan Hervage, 1555), assai contrario agli abusi nell’esegesi scritturale. Cfr. A. Tarabotti, Che le donne siano, op. cit., p. 47–48. 56 Ibid., p. 51. 57 Ad esempio sottolinea come nel Discorso usi «dominaberis» sulle bestie al posto di «dominamini», il primo implicando che il solo dominatore è Adamo, quindi Eva è bestia, il secondo che il dominio è condiviso. «Inganno» 16, ibid., p. 53–54. 58 Ibid., pp. 60–67. 59 Ibid., p. 69, ripetuto a p. 72.
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tevano mancare osservazioni sulla Maddalena, in cui identifica la donna a cui Gesù cancella i peccati, come prova che anche le donne sono soggette alla redenzione. Altro passo evangelico cui è dedicata particolare attenzione è quello sull’invito di Gesù rivolto ai piccoli. «Lasciate che i fanciulli vengano a me, perché questi sono padroni del Regno dei Cieli60» (Mt 19, 13–15; Mc 10, 3–6; Lc 18, 15–17), interpretato in genere come se fosse rivolto solo ai fanciulli maschi e non alle femmine. La Tarabotti non risponde con delle prove, ma accusando di essere questa «una delle più empie bestemie ch’abbia saputo inventare il vostro [dell’«Eretico»] capo sventato e proferire la vostra lingua61». Anche le parole di Gesù alla madre, prima del miracolo di Cana, «Donna che cosa ho io a fare teco»? (Gv 2, 1–5), portate dall’«Eretico» a prova dell’estraneità delle donne, persino di Maria, alla salvezza, sono discusse e ovviamente contestate sulla base delle molte parole che invece Dio rivolse alla Vergine, proclamando la sua eccezionalità, come si vede nella salutatio angelica62. L’episodio della resurrezione della fanciulla, figlia di Giairo (Lc 8, 49– 56), per cui l’«Eretico» aveva preso alla lettera le parole di Gesù «Non è morta la fanciulla, ma dorme» (in italiano nel testo), per sostenere che Gesù non fece miracoli per la fanciulla, è smontato sulla base di una semplice comparazione con la resurrezione di Lazzaro, quando pure di lui Gesù disse: «Lazarus, amicus noster, dormit63». Tarabotti ricorre pure spesso alle donne dell’antico Testamento, come prova che Dio si servì delle donne, come Rachele, Ester, Giuditta, Thamar, Ruth, per il suo disegno salvifico. Come la Tarabotti stessa annuncia, l’ultima parte del suo libello non è più una risposta serrata per ciascun argomento portato dall’avversario: «il proseguir a rispondervi ad ogni membro di periodo sarebbe un nausear il Lettore64», ma discute variamente del sacramento del battesimo, avversato dagli Anabattisti, a cui a più riprese associa l’«Eretico». L’unico argomento forte di quest’ultima parte è l’apparizione del Risorto alle donne, che il Discorso sosteneva di nessun valore, sia perché Gesù alla sua nascita si fece vedere anzitutto dal bue e dall’asino (a cui le donne venivano perciò implicitamente comparate), sia perché scelse di apparire alle donne, sapendole «garrule», quindi buone portatrici di notizie. Tarabotti ribatte che Dio non mancava di mezzi per annunciare la resurrezione, e apparve ripetuta-
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Ibid., p. 86. In volgare nel testo. Ibid., p. 85. Ibid., pp. 90–91. Ibid., pp. 96–97. Ibid., p. 98.
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mente alle donne, perché «il sesso che avea compianto era stato anche il primo ad aver la nuova del miracoloso riscatto65». Il pamphlet si chiude con la ribadita affermazione della superiorità della donna, che riprende persino il testo di Moderata Fonte, ovvero i versi che chiudevano Il merito delle donne: Chi non conosce le prerogative, le gratie e le preeminenze delle femine è cieco. Chi non le confessa è ostinato, e chi le propala in contrario fa bene a dichiararsi Eretico, con l’aggiunta d’audace e sfacciato. S’ornano in Ciel le stelle ornan le donne il mondo, con quanto è in lui di bello, e di giocondo. E come alcun mortale viver senz’alma, e senza cor non vale, tal non pon senza d’elle gl’huomini haver per se medesimi aita ch’è la donna de l’huom, cor, alma, e vita66.
Come si vede, la Bibbia in quest’opera non è un pretesto, ma la ragione stessa della scrittura. Anche se la Tarabotti ne fa un uso apologetico per confutare le tesi del Discorso, riesce comunque a dimostrare «la strumentalizzazione del testo sacro, impiegato al suo tempo per giustificare illegittime quanto superficiali esclusioni e discriminazioni67». La prova per citazione La Bibbia è anche un intertesto essenziale per le opere sulla vita monastica che la Tarabotti compose, esponendo le condizioni opposte che risultano da una scelta conforme o contraria al proprio desiderio. La sua prima opera, andata a stampa nel 1643 e ristampata nel 1663, è infatti un trattato sulla felicità della vita monastica, Il paradiso monacale, a cui fa da corrispondente, per sua stessa dichiarazione in apertura del libro, L’inferno monacale, che doveva restare manoscritto per volontà stessa dell’autrice68. 65 Ibid., p. 106. Segue ancora l’argomentazione sulla questione se le donne abbiano anima razionale, cui risponde con prove dedotte da vari passi biblici, libri sapienziali, salmi, lettere paoline, ma anche prove storiche che dimostrano la grande saggezza delle donne che hanno accompagnato nel governo i loro mariti. 66 Ibid., p. 118. Corsivi nel testo. Moderata Fonte, Il merito delle donne, Padova, Eidos, 1988, p. 183. 67 Adriana Valerio, «La Bibbia nell’Umanesimo femminile (secoli xv–xvii)», in Donne e Bibbia. Storia ed esegesi, a cura di A. Valerio, Bologna, Edizioni Dehoniane, 2006, pp. 73–98:94. 68 Scrive infatti nelle pagine al lettore: «due altri libri, ciascheduno di loro diviso in tre, ho composto, ripieni di sensi reali e verdadieri, che subito mi furono trafugati dalle mani». A. Tarabotti, Paradiso monacale, op. cit., p. 39. E, come si è visto (cfr. supra nota 4), nelle lettere li menziona, dando anche i titoli. Del Purgatorio delle malmaritate non abbiamo più traccia, l’Inferno monacale ci è giunto invece, conservato nell’archivio privato Giustiniani, a cui sarebbe arrivato per un
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L’inferno monacale è diretto contro «quei padri e parenti che forzano le figlie a monacarsi». Essi vengono anche coinvolti alla fine, con una diretta accusa, chiamando ciascuno di loro «malvaggio hipocrita», «homo a Dio nemico», «indegno del nome di christiano et un vero ritratto del vantator fariseo69». Contro costoro l’autrice difende la sua denuncia, affermando di avere la certezza di operare per il bene, «con penna di candida colomba», «inspirata da Lui [Dio] con motivi di pura verità», e soprattutto dichiarando di non «trapass[are] i limiti, e in niente offend[ere] con i detti, Dio», operando con la sola intenzione di far «santamente veder la verità70». Il libello è indirizzato alla Serenissima Republica Veneta, perché, sebbene essa si vanti di «concede[re] a qual si sia natione [=nascita] della vostra bella metropoli libertà non circoscritta» e di sostenere che nei suoi «fortunati natali rinaque la libertà, che si credea morta con Catone» (Inferno, 27), essa stessa ha lasciato penetrare nelle sue lagune la «tirannia paterna», che, protetta dai Senatori, ha preso per sede il Palazzo Ducale. Questa difesa di una pratica ingiusta appare a lei particolarmente incongrua per una città che si gloria di una speciale protezione della Vergine. Il libro prende il via con un riferimento alle Lamentazioni di Geremia: Ben furno ragionevoli le profetiche lacrime e le dolorose lamentationi con le quali Geremia si dolse delle future rovine della misera Gerusalemme. Però con non meno lacrimosi gemiti merita d’esser compiante l’infilicità compatibili di quelle anime che, non solo imprigionate in un corpo provano gli infortuni comuni a tutta l’humanità, ma hanno, per tormento loro particolare, la carcere d’un monastero in cui sono forzatamente et innocentemente condannate a patir eterno martir di pene che, per esser tale, a raggione può chiamarsi un Inferno. (Inferno, 31)
Il ricorso a Geremia è applicato a una situazione diversa da quella storica per cui il Profeta scriveva, ma poco più avanti è giustificato con la supposizione che il lamento fosse stato espresso anche per la condizione universale dell’infelicità umana: «Chi sa, forse Geremia previdde, molti seculi anticipati, gli eminenti precipicij che sovrastano alla Gerusalemme di tante anime e s’aflisse de l’error universale» (ibid.). In questo pamphlet nessun episodio o passo biblico è preso in sé e interpretato per spiegare o giustificare qualcosa, ma sono usate citazioni perché si applicano
acquisto di codici manoscritti alla fine del secolo xviii. Cfr. Francesca Medioli, «Nota al testo», in A. Tarabotti, Inferno monacale, op. cit., pp. 15–24: 15. Sulla volontà dell’autrice di mantenerlo manoscritto, cfr. F. Medioli, «Introduzione», ibid., pp. 9–13: 11. 69 A. Tarabotti, Inferno monacale, op. cit., p. 101. 70 Ibid., p. 29 e ancora p. 101. D’ora in poi si citerà con il riferimento Inferno, seguito dal numero di pagina dell’edizione moderna.
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bene all’argomentazione. Di norma le citazioni scritturali sono inserite perché in qualche modo si addicono al contesto. Molto spesso sono versetti dei salmi, citati in latino, altre volte sono brevi citazioni dalle lettere paoline o dai Vangeli, dai libri sapienziali, anche da Genesi (ma più dalle sue storie che dall’episodio edenico), dai Profeti, e sono usati per suffragare il ragionamento avanzato. Sono anche ricordati personaggi o eventi utili alla rappresentazione del caso in discussione, come quando si riporta la storia di Giona, gettato in mare: il profeta ne fu avvisato, ma «Non così trattano i crudeli padri con loro innocentissime figliole!» (Inferno, 34). Sono menzionati Esaù e Zaran, per dire come al contrario ingiustamente le figlie primogenite a Venezia siano condannate dai padri al monastero per lasciare alle più giovani il privilegio della dote per il matrimonio (Inferno, 45). O si ricordano gli Ebrei deportati da Nabucodonosor, per mostrare come allo stesso modo le figlie sono ingannate e derise nella schiavitù del chiostro (ibid.). Le citazioni bibliche in sostanza non differiscono dall’impiego che si fa delle molte citazioni letterarie, da Dante, da Ariosto, da Boiardo, da Guarino, da Tasso, ma anche dai poeti latini come Ovidio o Virgilio, che vengono usate per suffragare le tesi del libello (queste sono considerate comunque prove inferiori all’autorità scritturale). Anche nel Paradiso monacale ricorrono frequentissime citazioni, bibliche e non, per spiegare o precisare o suffragare un pensiero, un sentimento, una tesi. L’opera si apre con un lungo Soliloquio a Dio, alla maniera di confessione, in cui l’autrice prega per la propria salvezza e si confessa colpevole. Il modello agostiniano può aver inciso sull’ideazione di questa parte, che ripercorre la sua vita in forma di esame di coscienza, in cui la suora si accusa per non aver compreso pienamente le parole espresse quando aveva preso i voti e per aver perciò con «adulteri mentali […] violato l’onore di quel sacrosanto matrimonio» (Paradiso, 9–10) 71. Nonostante ciò si sente chiamata da Dio e amata, per cui si impegna a corrispondere a questo amore (cita a proposito anche Dante «Amor ch’a nullo amato amar perdona») 72, e con un’alternanza di promesse, ritorni e recidive dice di essersi riavvicinata a Dio. Ella ripercorre le proprie colpe anche in relazione alla passione di Cristo, facendo corrispondere i propri mancamenti alle piaghe e ai dolori che martoriarono il corpo del Salvatore. Auspica infine di essere da Cristo perdonata, come il Messia perdonò l’adultera, di essere da Lui ferita, come furono feriti i santi Caterina e Ignazio, per poter «con molta miglior ragione dire: “Ch’è dolce uscir di vita / se Christo m’ha 71 Cita il ben noto passo di Confessionum I, i, 1: «Inquietum est cor nostrum donec requiescat in te». A. Tarabotti, Paradiso monacale, op. cit., p. 43, e si paragona al santo prima della conversione, citando lungamente dal capitolo I, xiii, 21, ibid. p. 24. Altri riferimenti si trovano a diverse opere di Agostino. D’ora in poi si userà per i riferimenti Paradiso, seguito dal solo numero di pagina. 72 A. Tarabotti, Paradiso monacale, op. cit., p. 19, il verso di Dante da Inferno V, 103.
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ferita», parodiando con un acrobatico salto dal sacro al profano i versi del Pastor fido poco prima citati73. La trattazione sulla felicità monacale prende il via dalla considerazione della chiamata di Dio ad Abramo, che per fare grande la sua discendenza lo invitò a lasciare la sua terra e «andare ramingo»; il Patriarca è detto perciò «esemplare delle volontarie religiose, quali alla vocazione dello Spirito Santo escono dalle case paterne e lasciano il Mondo per corrispondere all’interne chiamate […]. Postesi nella nave della religione solcano questo mare amaro e per mezo di fatiche e stenti approdano prosperamente alla riva d’eterna salute» (Paradiso, 42–43). L’esempio di Abramo non è però un puro paragone, ma sulla sua sorte l’autrice si interroga, confessando che si tratta di misteri difficili da penetrare (Paradiso, 46) e in lui, come in altri personaggi dell’Antico Testamento, vede in figura santi e sante dell’età cristiana, affermando che «Abraamo fu il Benedetto della legge antica e che Benedetto fu l’Abraamo della nuova» (Paradiso, 47). Su questa base sviluppa la trattazione, perché, essendo le monache «tenute ad imitare Benedetto quanto egli imitò Abraamo, caveremo documenti per caminar retta e sicuramente per la via della religione» (Paradiso, 51). A questo riguardo Tarabotti dichiara anche che le Sacre Scritture servono per figura agli ordini religiosi: Non v’è occhio così offuscato c’hora apertamente non conosca svelati quei sacramenti che stanno registrati come in abbozzatura su le Sacre carte, su le quali sono le vere Religioni [ordini religiosi] in ombra, e tutta la Chiesa moderna con sacrosanti velami ascosa e figurata si vede. (Paradiso, 47)
Abramo è presente attraverso tutto il primo capitolo della trattazione e proprio per questa sua ubbidienza alla chiamata divina. Frequente è pure il ricorso a Mosè, soprattutto per le ardenti preghiere rivolte a Dio perché gli concedesse di vedere il Suo volto, ma anche per le espressioni da Mosè usate per rappresentare Dio, per le difficoltà incontrate nel guidare il popolo d’Israele, un popolo ribelle, alla terra promessa74. Così come frequente è anche il paragonarsi a David penitente, di cui cita molti versetti, considerandolo ovviamente autore del salterio. Meno frequenti sono 73 Ibid., 31: «Ch’è dolce uscir di vita / se Silvio m’ha ferita». Giovan Battista Guarino, Il pastor fido, a cura di E. Selmi, Venezia, Marsilio, 1999, p. 223. 74 Dell’Esodo offre un’originale interpretazione, paragonando il passaggio del Mar Rosso al miracolo per cui Pietro cammina sulle acque: «Pur poteva l’Onnipotenza Sua fare ch’anche i figliuoli d’Israele, come Pietro, quasi sovra d’un lastricato pavimento camminassero, ma nol volse, perch’erano carichi di ricchezze e di vasi d’oro e d’argento, tolti a quei d’Egitto, dal che si deve argomentare che chi è aggravato di tesori e commodi non merita ch’Iddio esserciti in lui la grandezza dei suoi miracoli, perché l’esser carico d’oro non può andar disgiunto dall’esser agravato di peccati […]». Paradiso, 98.
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i richiami ad altre figure, come Isaia, citato per le anticipazioni cristologiche, Elia ed Ezechiele per le loro visioni. Frequenti sono le citazioni dalle lettere paoline e le memorie evangeliche della vita della Vergine, pregata come «scorta, madre, tutrice, padrona, liberatrice, medica, presidio e speranza» (Paradiso, 206), presa a modello delle virtù necessarie alle monache, ma anche pregata alla fine perché possa lei (l’autrice) tornare al suo servizio e infine godere la contemplazione del suo Diletto. Il fulcro di tutta la trattazione è però Cristo, in quanto come monaca si era dichiarata sua sposa, per cui ricorrono molto frequenti i richiami al dono della salvezza da lui concesso, al prezzo che gli è costato, quindi alla passione e ai suoi dolori, anche dettagliati, alle sofferenze impresse sul suo corpo, alla croce come segno a cui guardare per una vita santa. A lui si rivolge dunque come Sposo (a volte anche Dio padre è indicato come lo Sposo), il Diletto, di cui si gode la prossimità, con le stesse esultanze di un congiungimento coniugale: Io dico che il vero Dio d’amore non tralascia di stringersi fra le braccia ciascheduno ch’ami, onde le sue care amate religiose fra paradisi de’ chiostri ch’io descrivo, sono tenacemente strette dagli abbracciamenti del loro adorato et innamorato Sposo, sì che affidate a queste da lui amorose tenerezze non solo possano audacemente seco ragionare et abbracciarlo, ma anche arditamente invitarlo ai baci: Osculetur me osculo oris sui (Ct 1, 1). (Paradiso, 58)
Il libro più citato delle Scritture è di conseguenza il Cantico dei Cantici, richiamato ogni volta che si accenna al rapporto personale con lo Sposo, al desiderio, all’amore verso lo Sposo, ma anche per le parole dello Sposo alla sposa, che rivelano il Suo desiderio di lei, perché «sappiamo d’esser padrone del cuore del nostro divin sposo, che perciò diceva egli: Vulnerasti cor meum soror mea sponsa» (Ct 4, Paradiso, p. 93). Non c’è forse pagina del trattato in cui non compaia una citazione dal Cantico dei Cantici, a volte anche leggermente manipolato. Anche se non si nasconde che la vita monastica richiede patimenti, dalle vesti rozze alla semplicità del cibo, quando non scarsità, dalle penitenze frequenti all’isolamento, i chiostri risultano però «paradisi terrestri, anzi Cieli empirei mentre Iddio in loro assiste per grazia e sono abitati dagli angeli» (Paradiso, 49). Questi luoghi offrono la garanzia della felicità eterna, quindi sono di beatitudine. La trattazione segue quindi un filo logico serrato, affrontando gli impegni che la monaca deve avere nella sua scelta. Anzitutto le rinunce: la tonsura dei capelli. Sono poi trattati sistematicamente i voti espressi, di obbedienza, povertà e castità, sviluppati in questo ordine75. Quindi le virtù teologali, che sono ovviamente indispensabili alle monache: 75 Di obbedienza tratta da Paradiso p. 82 a p. 91; di povertà da p. 91 a p. 103, di castità da p. 105 a p. 114 e oltre, considerando i mezzi, come preghiera, astinenza, fuga dal mondo, per mantenerla.
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fede, speranza, carità, delineate con molti esempi e molti riferimenti scritturali76. Nel terzo e ultimo libro sono infine trattate le «molte dignissime virtù» necessarie per una vita monacale proficua: il silenzio, la preghiera, la meditazione, l’astinenza, l’impegno nelle opere manuali per fuggire l’ozio, il disprezzo di sé. All’inizio della trattazione ricorre spesso la differenziazione fra le monache che sono entrate in monastero per libera volontà e che quindi «sentono tutte le dolcezze del paradiso et la virtù dell’amore» (Paradiso, 45) da quelle invece «forzate» dalla volontà altrui «che provano in questa vita tutte le pene dell’inferno» (Paradiso, 45, 62, 89). Ma sempre meno frequentemente esse compaiono, come se l’autrice, che sappiamo bene quanto partecipasse a questa categoria, ne smarrisse gradualmente la memoria, immergendosi in una realtà diversa, che non le appartiene nella vita reale, ma di cui può costruire una immagine di finzione. Che questa full immersion in una condizione di fantasia, possibile ma non reale per lei, sia la condizione in cui si trova a scrivere gran parte del trattato è rivelato verso la chiusura, quando, terminata la lunga preghiera alla Vergine, scrive: Ma torniamo colà di dove m’ha trasportato il mio fervore, posciache trovandomi in un paradiso religioso m’ero quasi scordata d’esser fra mortali. E chi non perderebbe ogni senso, non che la sola memoria, mentre stasse absorto fra le delitie spirituali, non so s’io debba dir d’un ciel terreno o d’una habitatione di terra divenuta Cielo. (Paradiso, 203)
Citando poi l’Apocalisse77, altro testo di frequente ripreso nell’opera, si avvia alla chiusura con un’ultima descrizione dei chiostri come luogo da cui si innalzano sempre le lodi del Creatore: «risplendentissimi claustri di voci», «celeste Gerusalemme», dove vivono «innamoratissime del loro Sposo, s’amano anche a vicenda con santa carità, e la pace di Dio con una concordia inalterabile compone loro una felicità et un gaudio quasi glorioso» (Paradiso, 212). Anche nelle lettere Tarabotti usa la Bibbia con molta familiarità, mostrando come fosse un testo con cui aveva (ovviamente) grande dimestichezza, che perciò era divenuto per lei ispiratore di atteggiamenti e di risorse argomentative, perché ritenuto parola veritiera. La Bibbia è presa con molta libertà, tanto che arriva a paragonare le grazie dell’Incarnazione a quelle del conte Pietro Paolo Bisarri. O si
76 Tratta delle virtù teologali nelle modalità necessarie alle suore dettagliatamente da Paradiso, 139 a 155. 77 Tarabotti scrive: «audivi vocem magnam quasi turbarum multitudo in caelum dicentium alleluia salus et gloria et virtus Deo nostro est quoniam vera et iusta iudicia sunt eius», che è poco distante da «audivi quasi vocem magnam turbarum multarum in caelo dicentium alleluia salus et gloria et virtus Deo nostro est quia vera et iusta iudicia sunt eius» di Ap. 19, 1–2. (Paradiso, 208). Sul passo dunque costruisce la rappresentazione dei chiostri come luogo di canti e lodi a Dio, come è rappresentato il paradiso nella visione di Giovanni.
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scusa con l’Aprosio per mezzo di un riferimento a Genesi, oppure impiega la visione di Giacobbe per stigmatizzare l’eccessiva adulazione78. Di fatto la difesa della donna anche negli scritti epistolari è per lei un compito, un incarico divino, come rivela raccontando a Giovanni Dandolo un sogno avuto durante la malattia. Dopo essersi vista piombata nel mondo dei morti, era stata poi «circondata da una candidissima nube e […] presentata a Dio per mano degli angeli». Dio la riceve quindi con queste parole: Dilettissima mia, non è ancor tempo che tu venghi a godere quello che ti promissi, essendo d’uopo che tu ritorni al mondo per protestar agli uomini la loro dannazione. Ti do, come feci a Moisé, questa tavola dove potranno questi scelerati vedere che loro non hanno parte del Regno del Cielo. Tu per mio nome predica liberamente questa verità, né ti ritenga il farlo per saper che loro l’abborriscono. Vedi che nel Paradiso le donne m’accrescono la gloria accidentale e che dalle loro mani distillano le maggiori grazie della mia onnipotenza79.
Nella ricerca di uguaglianza e dignità la Bibbia fu una fonte di ispirazione che suggeriva argomenti sostanziali per la difesa della donna. Leggere e interpretare appare come non mai uno strumento per costruire una nuova visione della persona, una nuova autoconsapevolezza, specie per le donne ancora escluse dal mondo del sapere. Il grande codice, cui si attingeva per trovare verità trascendentali, in realtà era anche uno strumento per trascendere i ruoli tradizionali e per aspirare a una società più equa.
78 Si legge nella lettera al Bissari: «prego Iddio che, sì come la notte del santo Natale si viddero con prodigiose meraviglie rallegrarsi la terra e ‘l Cielo, così in Lei si veggano portenti di grazie celesti e rallegrarsene» (A. Tarabotti, Lettere, op. cit., p. 165). Ad Aprosio, che voleva dissuaderla dal pubblicare l’Antisatira: «Si raccordi che, s’Adamo, interrogato da Dio perché avesse mangiato il pomo, disse esserne stata in colpa Eva, e ch’ella per ciò rimase castigata, io con tal esempio se sarò addimandata da Dio giudicante perché rompessi il silenzio, dirò il P[adre] V[enti] M[iglia] ne fu cagione» (Ibid., p. 180). Oppure, difendendosi dalle eccessive (per lei) lodi attribuitele dal Signor N., scrive «Dice Ella che io son giunta alla metà di quella scala che vidde in sogno Giacobbe, e non s’accorge che, se quegli lottò tutta notte col’angelo del Signore ch’in fine lo benedì, io convengo sempre lottare con le male lingue di certi angeli infernali [suore dell’inferno monacale] ch’incessantemente mi maledicono» (Ibid., p. 219–220). 79 Ibid., p. 148–149. Sul femminismo della Tarabotti in una prospettiva europea: Ingrid de Smet, «“In the Name of the Father”: Feminist Voices in the Republic of Letters (A. Tarabotti, A. M. van Schurman, and M. de Gournay)», in La Femme lettrée à la Renaissance/De geleerde vrouw in de Renaissance/Lettered Women in the Renaissance, a cura di M. Bastiaensen, Bruxelles, Peeters Publishers, 1997, pp. 177–196; Stephanie H. Jed, Wings for Our Courage: Gender, Erudition, and Republican Thought, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 2011.
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Parte terza
Centro Italia spirituale
Introduzione Se le prime due comunità che abbiamo focalizzato come contesti in cui si sviluppa l’interpretazione e la riscrittura biblica di donne sono realtà urbane, dove la circolazione di idee, persone, libri avviene in uno spazio delineabile non solo storicamente e culturalmente ma anche geograficamente, diverso è il caso della terza comunità, altrettanto ben definibile, ma non sulle stesse basi. Questa terza comunità, a cui si possono riferire riscritture bibliche di donne, si crea infatti virtualmente, sulla base di una condivisione assai solida di idee, sulla facilità della loro comunicazione, sulla presa che esse hanno avuto e sulle risultanze che ci consentono di vederne l’unità e la coesione, nonostante la dispersione geografica e la diversità culturale. Si tratta del gruppo di Spirituali che si è formato in Italia (soprattutto centrale), seguendo l’impulso della sensibilità evangelica ispirata dallo spagnolo Juan de Valdès e dalla predicazione di Bernardino Ochino, a cui si possono riferire gli scritti di Vittoria Colonna, dalla Bibbia fortemente ispirati, e più latamente di Chiara Matraini, che visse nella Lucca segnata dall’attività di Pietro Martire Vermigli. È già stato messo ampiamente in rilievo quanto l’invenzione della stampa abbia inciso sulla diffusione della Riforma1. Lo stesso si può dire ovviamente per la circolazione delle idee religiose nell’Italia del Cinquecento: il libro stampato garantiva una tale facilità di circolazione e accesso che mutò radicalmente anche le possibilità di comunicazione delle idee religiose. Nonostante i limiti che potevano essere imposti alla diffusione dei libri, essi circolavano assai più di quanto potessero mai fare i 1
Non sarà qui il caso di riprendere i ben noti studi di Elizabeth Eisenstein, La rivoluzione inavvertita. La stampa come fattore di mutamento, tr. it. D. Panzieri, Bologna, Il Mulino, 1985; Le rivoluzioni del libro. L’invenzione della stampa e la nascita dell’eta moderna, tr. it. G. Arganese, Bologna, Il Mulino, 1995; basti dire che anche Salvatore Caponetto nelle prime pagine del suo libro sulla Riforma nell’Italia del Cinquecento riflette appunto sull’incisività e ampiezza della parola veicolata dalla stampa. Cfr. Salvatore Caponetto, «Dalla parola parlata alla parola scritta», in Id., La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana, 1992, pp. 29–52. Del valore della stampa per lo sviluppo della consapevolezza religiosa si era reso conto per esempio Girolamo Savonarola, che aveva dato alle stampe a fine Quattrocento già quasi tutte le sue opere.
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codici manoscritti, determinando condizioni del tutto nuove per la comunicazione delle idee, anche religiose. La grande diffusione del libro a stampa, «che allargava e democratizzava l’universo dei lettori, imponendo l’uso del volgare e insinuandolo anche nella roccaforte protetta degli studi biblici e teologici», mutò profondamente il quadro religioso alla soglia della modernità2. Non nuova, ma non meno efficace, sebbene con più limiti, come strumento di sollecitazione e divulgazione di nuove sensibilità e idee, era poi la predicazione. Gli ordini mendicanti avevano ridisegnato la geografia della predicazione, muovendosi anche su larghe distanze e favorendo lo sviluppo dei loro stessi ordini, così come delle devozioni e dei modelli di vita da loro ispirati. Basti pensare alla rapida divulgazione della devozione del rosario da parte dei domenicani o al modello di povertà radicale francescana, che interessarono tutta l’Europa e oltre, per comprendere l’ampiezza, la profondità e la rapidità dell’influenza della predicazione dei nuovi ordini su un universo religioso in cui i laici erano sempre più attivi e partecipi. Anche nel Cinquecento, anche nei tempi in cui la stampa già operava appieno, la circolazione dei predicatori continuò a essere uno strumento di divulgazione, a cui peraltro accedevano anche gli analfabeti, che determinò perciò alcuni degli indirizzi spirituali della prima età moderna. Per capire quanto l’attività omiletica incidesse nel quadro religioso basterà per l’Italia l’esempio di Bernardino Ochino, che predicò in tutte le città italiane, da Palermo a Messina, da Venezia a Napoli, da Ferrara a Lucca, diffondendo le sue idee evangeliche e facendo numerosi seguaci3. Se questi erano mezzi di divulgazione essenziali per creare un comune sentire, per la condivisione necessaria alla costituzione di una comunità di sentimenti e di pensieri fu determinante anche la comunicazione epistolare. Proprio a causa delle urgenze determinate dal Concilio di Trento si rinnovò il sistema di trasmissione delle lettere, facendosi più rapido, efficace, accessibile, costante. Ma non occorre aspettare la metà del secolo xvi per comprendere quanto la comunicazione epistolare fosse uno strumento di condivisione, di coesione, oltre che di informazione, essenziale per la formazione di un gruppo, una comunità, perché capace di stringere legami e di fomentare il senso di appartenenza. Attraverso la lettera si associa la propria soggettività all’altro, dalla cui relazione nascono o si rafforzano legami culturali, sociali, religiosi, morali, che determinano l’appartenenza a gruppi, anche a distanza.
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La citazione da Massimo Firpo, «Disputar di cose pertinenti alla fede». Studi sulla vita religiosa del Cinquecento italiano, Milano, Unicopli, 2003, p. 135. Cfr. per una recente disamina dei movimenti di Ochino per predicare in Italia: Michele Camaioni, Il Vangelo e l’Anticristo. Bernardino Ochino tra francescanesimo ed eresia (1487–1547), Bologna, Il Mulino, 2019. Cfr. anche Miguel Gotor, «Ochino, Bernardino», in Dizionario biografico degli Italiani, LXXIX, 2013, pp. 90–97.
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introduzione
Condividendo le rappresentazioni del mondo, si generano nuove interpretazioni delle singole esperienze in direzioni comuni, condivisibili, da cui si traggono motivi di unione. Tanto più forte sarà il legame creato dallo scambio epistolare, quando la lettera si fa proponitrice di azioni comuni, di interventi mirati, quando quindi mostra in atto l’efficacia della comunicazione e crea comunità di azione e intenti, oltre che di pensiero e sensibilità. Proprio la pubblicazione di una raccolta di lettere, quelle di santa Caterina da Siena, inaugura la collana dei classici volgari di Aldo Manuzio nel 1500, offrendo un efficace modello di scrittura religiosa femminile. E proprio la pubblicazione di raccolte di lettere, che a metà secolo si fece frequentissima, consente oggi di verificare l’evoluzione dell’Evangelismo italiano, oggetto di molte di queste epistole4. Le lettere, di uomini come di donne, funzionarono come veicolo di relazioni ispirate a comuni prospettive religiose e furono in grado di creare reti durature, che favorirono lo sviluppo dei circoli degli Spirituali5. Un’ulteriore possibilità di aggregazione a distanza all’epoca era offerto ancora dalla stampa di lavori collettivi, come antologie o raccolte varie6. Vere e proprie comunità culturali si possono dire le iniziative di questo genere avviate presto nel Cinquecento, coinvolgendo spesso anche le donne e persino solo le donne7. Così si può dire che la pubblicazione delle traduzioni dei salmi penitenziali, curata dal carmelitano Francesco Turchi per i Giolito nel 1568, costituisse una vera e propria comunità ermeneutica, che si esercitava nell’interpretazione, oltre che nella tradu4
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Si vedano: Anne Jacobson Shutte, «The Lettere Volgari and the Crisis of Evangelism in Italy», Renaissance Quarterly, XXVIII, 1975, pp. 639–688; Lodovica Braida: Libri di lettere: Le raccolte epistolari del Cinquecento tra inquietudini religiose e ‘buon volgare’, Bari Laterza, 2009. Scrive a proposito Claudio Scarpati: «Malgrado gli abbandoni, il gruppo degli ‘spirituali’ continua negli anni precedenti il Concilio a reggersi unitariamente grazie alla profondità delle relazioni personali di cui le lettere sopravvissute della Colonna sono testimonianza. Gli uni hanno bisogno degli altri in una circolazione di pensieri e di interrogativi che fa dello strumento epistolare un mezzo di nutrimento e di scambio vitale» (Claudio Scarpati, «Le rime spirituali di Vittoria Colonna nel codice Vaticano donato a Michelangelo», Aevum, LXXVIII, 2004, pp. 693–717: 712). Si veda per esempio il documentato studio sulla corrispondenza tra Giulia Gonzaga e Pietro Carnesecchi: Camilla Russell, «Women, Letters and Heresy in Sixteenth Century Italy. Giulia Gonzaga’s Heterodox Epistolary Network», in Early Modern Women and Transnational Communities of Letters, a cura di J. Campbell e A. Larsen, Farnham, Ashgate, 2009, pp. 75–95. Ne sono testimonianza le raccolte di lettere di cui parla Jacobson Shutte nel citato articolo, lettere che potevano raggiungere «an enormous audience located throughout Italy and a smaller one, native Italians and others who read the lingua volgare italiana, north of the Alps» (A. Jacobson Shutte, «The Lettere Volgari and the Crisis of Evangelism in Italy», art. cit., p. 674). Importante è per esempio ricordare la raccolta di Lettere di valorose donne, preparata da Ortensio Lando e uscita a Venezia presso il Giolito nel 1548, in cui si menzionano le donne del circolo valdesiano di Napoli. Cfr. Francine Daenens, «Donne valorose, eretiche, finte sante. Note sull’antologia giolitina del 1548», in Per lettera. La scrittura epistolare femminile tra archivio e tipografia. Secoli xv–xvii, Roma, Viella, 1999, pp. 181–207. Si vedano per le istanze di Riforma nelle antologie ibid., pp. 130–134.
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zione, perché tradurre il testo biblico, soprattutto in questa epoca, è molto più che un semplice passaggio da lingua a lingua8. Di altra natura, ma non meno importante per costituire legami intellettuali fu la raccolta di poesie di donne curata da Ludovico Domenichi, Rime diverse d’alcune eccellentissime, et virtuosissime donne, uscita a Lucca nel 1559, che raccoglieva poesie di ben cinquantatré donne e costituisce la prima antologia di poetesse nella storia dell’umanità9. Nell’insieme le molte iniziative di edizioni antologiche del Rinascimento italiano fornirono occasioni di aggregazione a distanza e di divulgazione di idee per un largo pubblico, che oltrepassava i confini cittadini o regionali. Gli Spirituali È il Centro Italia lo spazio che vede la diffusione di una spiritualità condivisa, capace di generare dei gruppi con comuni caratteristiche che segnano l’ingresso e la divulgazione di idee eterodosse in un mondo rimasto fondamentalmente fedele alla Chiesa di Roma. Tutto iniziò a Napoli, dove si era stabilito nel 1535 Juan de Valdès, venuto dalla Spagna come agente di Carlo V. A Napoli egli si diede a operare una «intensa seminagione», che in pochi anni, prima di morirvi nel 1541 giovane (sui trent’anni), creò fermenti religiosi vivissimi che determinarono letture, interpretazioni e scritture bibliche che riguardarono anche le donne in tutta Italia10. Già esegeta di fama, Valdès costituì infatti nella città partenopea un cenacolo di persone attirate dalla sua spiritualità e dalla sua interpretazione delle Sacre Scritture, che poi sparsero in tutta l’Italia centrale le nuove idee. Anche se alla sua morte non aveva lasciato opere stampate, ma testi già largamente circolanti in versione manoscritta, i suoi seguaci li portarono alle stampe e ne favorirono la divulgazione. Ad alcuni di loro infatti, come a Giulia Gonzaga e a Mario Galeota, egli aveva afCfr. la moderna edizione: Salmi penitenziali di diversi eccellenti autori [Giolito 1568]. In appendice: la prima redazione delle Lagrime di San Pietro di Luigi Tansillo, a cura di R. Morace, Pisa, ETS, 2016, pp. 11–98. 9 Lucca, Vincenzo Busdraghi, 1959. Sulla stamperia del Busdraghi: Vincenzo Busdraghi (1524?– 1601) Uno stampatore europeo a Lucca, a cura di D. Martini, T.M. Rossi, G.E. Unfer Verre, Lucca, Comune di Lucca, 2017. Bene sottolinea le novità di queste pubblicazionni Diana Robin, Publishing Women. Salons, the Presses, and the Counter-Reformation in Sixteenth Century Italy, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2007, in particolare pp. XVII–XXVI e 62– 78; si veda anche di Diana Robin, «The Lyric Voices of Vittoria Colonna and the Women of the Giolito Anthologies, 1545–1559», in A Companion to Vittoria Colonna, a cura di A. Brundin, T. Crivelli e M.S. Sapegno, Leiden-Boston, Brill, 2016, pp. 433–466, dove si mostra l’ampiezza delle iniziative del Giolito e il loro successo. 10 La citazione da Paolo Simoncelli, Evangelismo italiano del Cinquecento. Questione religiosa e nicodemismo politico, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 1979, p. 82. Su Juan de Valdès: Massimo Firpo, Juan de Valdès e la Riforma nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2016. 8
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fidato i suoi scritti, che in effetti videro la luce grazie al loro impegno11. L’Alfabeto cristiano, il dialogo in cui la Gonzaga è protagonista, uscì a Venezia nel 1545 e lo stesso anno uscì, sempre a Venezia, il catechismo (Qual maniera si devrebbe tenere a informare insino dalla fanciullezza i figliuoli de’ christiani delle cose della religione)12. In versione manoscritta è giunto a noi anche il commento al Vangelo di Matteo (Lo Evangelio di san Matteo), ma non ci sono giunti i commenti agli altri tre Vangeli, che pur sappiamo aveva composto, neppure ci sono giunti i commenti alle epistole paoline ai Corinzi e ai Romani, e nemmeno il commento ai Salmi13. I principi del Valdès erano semplici: la fede era concepita come esperienza personale «incorporata» in Cristo; l’essere umano è considerato in stato di miseria determinata dal peccato, solo la morte di Cristo lo redime; nulla è la conoscenza umana e nulla vale l’azione, solo la misericordia divina giustifica, e tale giustificazione di Cristo basta al riscatto. La salvezza dipende solo da Cristo e il cristiano deve in lui rifugiarsi, in questo consiste il «beneficio» di Cristo, su cui solamente si può fondare la sua Chiesa. Coloro che hanno posto la loro fiducia in Cristo sono incorporati in Lui e costituiscono la comunità invisibile degli eletti. Le opere sono conseguenza della fede e della giustificazione, non il contrario. Fondamentale per la spiritualità del cristiano è, secondo Valdès, la lettura delle Scritture, specie di san Paolo, le cui lettere vengono da lui costantemente citate per fondare la giustificazione per sola fede. A Napoli si riunirono intorno a Valdès i seguaci, principalmente per essere guidati nello studio delle Sacre Scritture. Frequentarono il circolo anche Vittoria Colonna e Bernardino Ochino, anzi pare che questi ricevesse da Valdès la sera prima i temi da trattare nelle sue prediche. Fu certo il più fecondo messaggero della spiritualità di Valdès, divulgatore dai pulpiti di tutta Italia del suo messaggio. A lui si aggiunse l’agostiniano Pietro Martiri Vermigli, che era a Napoli in quegli anni e che poi operò a Lucca, prima di fuggire in Svizzera14. Dalle frequentazioni del 11 Sulla Gonzaga e le sue relazioni si vedano: Camilla Russell, Giulia Gonzaga and the Religious Controversies of Sixteenth-Century Italy, Turnhout, Brepols, 2006; Ead., «Women, Letters and Heresy in Sixteenth Century Italy. Giulia Gonzaga’s Heterodox Epistolary Network», art. cit.; Susanna Peyronel Rambaldi, Una gentildonna irrequieta. Giulia Gonzaga fra reti familiari e relazioni eterodosse, Roma, Viella, 2012. 12 Juan de Valdès, Alphabeto christiano, che insegna la vera via d’acquistare il lume dello Spirito santo, Venezia, Nicolò Bascarini, 1545. L’edizione antica del Catechismo non ha indicazioni né di luogo, né di tipografia. Si leggono in moderna edizione Alfabeto cristiano. Domande e risposte. Della predestinazione. Catechismo, a cura di M. Firpo, Torino, Einaudi, 1994. 13 Juan de Valdès, Lo Evangelio di san Matteo, a cura di C. Ossola, testo crit. a cura di A.M. Cavallarin, Roma, Bulzoni, 1985. 14 Salvatore Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana, 1992, p. 93; M. Camaioni, Il Vangelo e l’Anticristo. Bernardino Ochino tra francescanesimo ed eresia, op. cit., pp. 210–258. Sul Vermigli: Pietro Martire Vermigli (1499–1562): umanista, riformatore,
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Valdès si costituirono altri poli di aggregazione, tra cui quello di Viterbo, animato dal cardinale Reginald Pole, che ne divenne «un nuovo leader carismatico15», il riferimento di quella che viene chiamata l’ecclesia viterbiensis, ovvero il primo nucleo di «spirituali» che dal magistero dell’esule spagnolo maturarono la visione di una Chiesa fatta di credenti illuminati16. In generale Juan de Valdès divenne presto «un punto di riferimento per quanti in Italia sentivano una profonda inquietudine, non riuscendo a trovare uno sbocco nella difficile ricerca della verità, dopo la scissione della Chiesa cristiana e lo svilupparsi dei contrasti nelle Chiese riformate […]17». Il pensiero di Valdès trovò inoltre nel volumetto intitolato Il beneficio di Cristo un efficace veicolo di trasmissione, che sconvolse l’Italia religiosa dell’epoca18. Ne è stata a lungo sconosciuta la paternità, ma ora si sa che fu composto dal monaco Benedetto da Mantova e dal poeta Marcantonio Flaminio, che così perpetuarono e allargarono l’eredità spirituale del Valdès. Stampato a Venezia nel 1543, con un titolo che recuperava un’espressione erasmiana a sintetizzare la spiritualità valdesiana, il libretto per la sua limpidità e fascino ebbe un enorme successo, anche tra i semplici, ma già nel 1549 fu messo all’Indice e poi fatto oggetto di severe indagini come propagatore di idee riformate. Anche se Valdès faceva derivare l’accesso ai misteri divini da una illuminazione dello spirito, la sua declinazione nel Benefico di Cristo si appoggia molto alle Sacre Scritture e insegnò un modo nuovo di accedere ad esse. Gli studiosi collocano la scrittura e la pubblicazione del Beneficio nel momento di crisi dell’Evangelismo italiano, quando le speranze di una riconciliazione tra le Chiese (cattolica e riformate) era crollata con il fallimento della dieta di Ratisbona nel 1541. In effetti la persecuzione già aveva raggiunto i maggiori rappresentanti (Ochino e Vermigli erano stati convocati a Roma nel 1542, quando decisero di fuggire in terre riformate). Ma ormai la circolazione degli scritti di Valdès e del
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pastore. Atti del Convegno per il V centenario, Padova, 28–29 ottobre 1999, a cura di A. Olivieri e P. Bolognesi, Roma, Herder, 2003; A Companion to Peter Martyr Vermigli, a cura di T. Kirby, E. Campi, F.A. James, Leiden-Boston, Brill, 2009. Massimo Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento, Bari, Laterza, 1993, p. 120. Cfr. Massimo Firpo, «Valdesianesimo ed evangelismo alle origini dell’ecclesia viterbiensis», in Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, Ferrara 3–5 aprile 1986, a cura di R. Bussi, Modena, Panini, 1987, pp. 53–71; Id., Tra ‘alumbrados’ e spirituali. Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ‘500 italiano, Firenze, Leo Olschki, 1990; cfr. anche il capitolo di Salvatore Caponetto, «Juan de Valdès e il movimento valdesiano», in Id., La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, op. cit., pp. 81–94. Ibid., p. 85. Trattato utilissimo del beneficio di Giesù Christo crocifisso verso i christiani, Venezia, Bernardo de’ Bindoni, 1543. In modenra edizione: Benedetto da Mantova e Marcantonio Flaminio, Il beneficio di Cristo, a cura di S. Caponetto, Torino, Claudiana, 1975. Come si è detto (vedi capitolo «Venezia scritturale») ebbe una straordinaria fortuna.
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Beneficio aveva raggiunto Firenze, Siena, Lucca, e tutta l’Italia centrale era in grande fermento. «Lungi dal bloccare ogni pur prudente impegno di propaganda e di proselitismo dei cosiddetti ‘spirituali’, infatti, le tumultuose vicende del 1542 ne inaugurarono la fase più attiva19». Tuttavia, con l’apertura del Concilio e il progressivo affermarsi dei principi controriformistici, con il rifugio dei maggiori esponenti del rinnovamento, il Pole in primis, nel nicodemismo, che non rinnegava la Chiesa romana, i valdesiani si adattarono alle indicazioni di essa, seguendo infine quanto ispirava il loro stesso maestro, che riteneva la Chiesa il solo ambito per ottenere la salvezza. Essi trovarono nel rifugio in una spiritualità interiore la possibilità di conciliare istanze spirituali con obbedienza al papa, segnando così la progressiva fine di una stagione di fervida ricerca religiosa e di aspre controversie. Le città dove si diffuse il valdesianesimo erano ovviamente anche quelle percorse da Bernardino Ochino, dove vi predicò l’Avvento o la Quaresima tra il 1537 e il 1540. Senese di origine, entrato nell’ordine Francescano Osservante prestissimo, si spostò già nel 1534 nel nuovo ordine francescano dei Cappuccini fondato da Matteo da Bascio, perché applicava più severamente la regola delle origini. Molto contrastato dalle gerarchie ecclesiastiche, l’ordine era riuscito a sopravvivere grazie anche all’appoggio di donne potenti, come Caterina Cibo e Vittoria Colonna, che non avevano esitato a sollecitare papa Paolo III per proteggerlo20. Consapevole del divario fra messaggio evangelico e struttura ecclesiastica, Ochino focalizzava le sue prediche su Cristo crocifisso ed era capace di infiammare le folle dal pulpito. Ammirato dal Bembo e dall’Aretino, era un predicatore richiestissimo, girò veramente tutta l’Italia. A Napoli aveva incontrato Valdès, di cui subì profondamente l’influenza, venendo a predicare i principi veicolati nei testi valdesiani, insistendo sulla giustificazione per sola fede e sollevando infine i dubbi delle autorità ecclesiastiche. La sua fuga lasciò perplessi coloro che vedevano in lui un riferimento spirituale, che quindi ripiegarono su posizioni nicodemitiche pur di non uscire dalla Chiesa. Pure l’agostiniano Pietro Martire Vermigli aveva frequentato a Napoli il circolo valdesiano. Grande teologo e predicatore, di origine fiorentina, arrivò a Lucca chiamato come priore di San Frediano, il convento del suo ordine, quando la città era idonea ad accogliere e dar vita a un movimento religioso radicale. Le idee filo-riformate erano infatti largamente penetrate in questa città di mercanti, che nei loro viaggi potevano acquisire e riportare in patria facilmente libri e idee della
19 M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento, op. cit., p. 125. 20 Cfr. Marianna Liguori, «Su Vittoria Colonna e la riforma cappuccina. Documenti epistolari e un’appendice inedita», Atti e memorie dell’Arcadia, VI, 2017, pp. 85–104, con relativa pregressa bibliografia.
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Riforma, atti alla propaganda del nuovo Credo21. Vermigli incise profondamente nella storia culturale e religiosa della città, formando nel suo convento «un vero e proprio istituto teologico destinato a costituire un’esperienza unica nell’Italia del tempo», facendosi così anche, nell’ottica protestante, «strumento d’elezione per diffondere in luoghi diversi la luce della verità22». Il suo insegnamento rafforzò indubbiamente quanti propendevano ad allontanarsi dalla Chiesa romana, così intorno a lui si formò a Lucca una comunità filo-riformata, che sopravvisse alla sua fuga nel 1542. Anche se questa comunità di fedeli lucchesi non è facilmente individuabile per documentazione storica né ben definibile per i suoi contorni dottrinalmente sfumati, le lettere che dall’esilio le indirizzò Pietro Martire Vermigli autorizzano a credere che fosse una vera e propria ecclesia. Erano sia i canonici del convento di San Frediano, rimasti fedeli alle idee spirituali, sia i laici che formavano un sodalizio religioso a tenere le redini del dissenso religioso lucchese, che ebbe la sua massima vitalità tra il 1545 e il 155523. Fu in questa Lucca che si formò Chiara Matraini, che può ben aver respirato la sensibilità religiosa spirituale e da qui aver maturato i suoi interessi biblici24. Spirito e lettere I molti fermenti di riforma maturati nelle città del Centro Italia lasciarono tracce durature nella letteratura e nel modo di approcciarsi alle Sacre Scritture, coinvolgendo le élites culturali, laiche ed ecclesiastiche. Anzi, proprio in questo coinvolgimento di figure di spicco all’epoca, da Michelangelo a Pontormo in ambito artistico, da Vittoria Colonna al Varchi in ambito letterario, da Benedetto da Mantova a Federico Fregoso a Pietro Martire Vermigli, in ambito ecclesiastico, Firpo vede la specificità della crisi religiosa che coinvolse l’Italia verso la metà del secolo25. Al di là della duplicità e ambiguità della posizione degli Spirituali, che non volevano trarre tutte le conseguenze dalle posizioni evangeliche che sostenevano, occorre rilevare però che fecero maturare una produzione letteraria fortemente impregnata di spiritualità, che teneva la Bibbia come testo di riferimento ineludibile, che seppe 21 Cfr. l’accurata ricostruzione di Simonetta Adorni-Braccesi, «Una città infetta». La Repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1994. 22 Ibid., p. 117. 23 Ibid., pp. 243–301. 24 Daniela Marcheschi nel suo saggio sulla poetessa rileva l’influenza delle correnti eterodosse lucchesi sulla Matraini. Cfr. Daniela Marcheschi, Chiara Matraini poetessa lucchese e la letteratura delle donne nei nuovi fermenti religiosi del ‘500, Lucca, Ed. Maria Pacini Fazzi Editore, 2008; così pure Eleonora Carinci, «“L’inquieta Lucchese”». Tracce di Evangelismo nelle opere religiose di Chiara Matraini», Bruniana & Campanelliana, XXIII, 2017, pp. 145–160: 159. Ma si veda ultra il capitolo a lei dedicato. 25 Cfr. M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento, op. cit., p. 130.
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creare quindi anche un linguaggio e generi nuovi, che rinnovarono il percorso letterario italiano. Se il Concilio di Trento e la Riforma cattolica con il suo disciplinamento generarono una letteratura che vi si modellava, si deve riconoscere anche l’esistenza di una produzione che matura all’interno di questa ecclesia valdesiensis e dei gruppi affini, di cui certamente Vittoria Colonna fu la più alta rappresentante, tra l’altro iniziatrice del genere della poesia spirituale. Ma essa ebbe anche nelle opere di Federico Fregoso, Pietro Bembo, Benedetto Varchi, un’eco che lasciò tracce significative nella storia letteraria26. Tramite forse il Varchi, il pensiero valdesiano aveva contagiato l’Accademia Fiorentina, l’istituzione voluta da Cosimo I per il suo programma politico-culturale, quindi consentì la circolazione di idee spirituali nella Firenze della metà del secolo. Questi circoli furono spesso animati da donne, come Giulia Gonzaga, che diede vita al circolo napoletano, cui parteciparono, oltre l’animatore degli Spirituali e il suo predicatore, oltre a donne animate dalla ricerca di una vera fede, come Giovanna d’Aragona e Maria d’Aragona, anche figure di spicco della vita letteraria, come Sannazzaro, Cariteo, Minturno, Bernardo Tasso, Luigi Tansillo. La stessa Vittoria Colonna, muovendosi tra Napoli, Roma, Viterbo, dove abitò lungamente, e Siena, Firenze, Ferrara, Lucca, stabilì relazioni anche letterarie che contribuirono non solo a creare le occasioni delle sue pubblicazioni, ma anche alla crescita del suo stile e dello stile spirituale, che declinava la lezione petrarchesca specchiandosi nella Bibbia. Infatti le relazioni di Vittoria Colonna vanno molto più in là dei circoli che si erano formati nei luoghi in cui si era stabilita, dal convento di Santa Caterina di Viterbo o di San Silvestro e Sant’Anna a Roma, o di San Paolo in Orvieto. Le sue relazioni si estesero anche per mezzo di stretti legami epistolari, di cui è testimonianza per esempio lo scambio che ebbe con Marguerite de Navarre, mai conosciuta, ma con cui condivideva valori religiosi e letterari27. Come ha indicato Diana Robin, nel difficile contesto dell’Italia di quegli anni, «a group of élite women worked at forging cultural hegemony on two fronts: they played leading roles in the new literary academies and salons in Italy as well in the religious reform movement that swept the peninsula». Erano «highly educated
26 Su Bembo: Paolo Simoncelli, «Pietro Bembo e l’Evangelismo italiano», Critica storica, XV, 1978, pp. 1–63; Gigliola Fragnito, «L’ultima visione. Il congedo di Pietro Bembo», in Ead., In museo e in villa. Saggi sul Rinascimento perduto, Venezia, Arsenale, 1988, pp. 29–64. Sul rapporto tra lettere e istanze riformistiche in Italia nel periodo si veda il capitolo Massimo Firpo, «Riforma religiosa e lingua volgare», in Id., «Disputar di cose pertinenti alla fede». Studi sulla vita religiosa del Cinquecento italiano, op. cit., pp. 121–140. Sul Fregoso, Guillaume Alonge, Condottiero, cardinale, eretico. Federico Fregoso nella crisi politica e religiosa del Cinquecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017. Sul Varchi: Salvatore Lo Re, Politica e cultura nella Firenze cosimiana. Studi su Benedetto Varchi, Manziana, Vecchiarelli, 2008. 27 Si rimanda alla bibliografia del successivo capitolo.
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women accustomed to working at the enigmas of the Scriptures on their own or guided by scholars as Flaminio and Pole. They were determined to seek God themselves through faith and contemplation28».
28 Cfr. D. Robin, Publishing Women, op. cit., p. 1 e 39.
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«Guardando spesso / le sacre carte». Vittoria Colonna e la Bibbia La Bibbia è un testo letto, meditato, assorbito, ma anzitutto presente sullo scrittoio di Vittoria Colonna, come e forse più che su quello di molti poeti del ’500 italiano. Sono gli stessi suoi contemporanei che ci attestano la sua diuturna frequentazione dei testi sacri, di cui aveva peraltro ampia disponibilità già nella biblioteca di Costanza d’Avalos a Ischia1. La Bibbia, liberata dalle letture allegorizzanti medievali o dall’erudizione filologica umanistica, avvicinata «con la fede, non con la ragione umana», come scrive Colonna in una lettera a Antonio Bernardi, è il libro fondante la sua poesia, a cui la poetessa fa riferimento costante, nelle rime spirituali, nelle prose, nelle lettere2. Di recente, Emidio Campi, che su Vittoria Colonna ha condotto importanti ricerche, ha potuto così sintetizzare: Colonna had a detailed firsthand knowledge of the text of the Bible. She had gained this knowledge through her own diligent reading, through private meditation, and through liturgical practice. Her poetry and correspondence alike are littered with quotations from Christian Scripture and with references to Biblical episodes, sometimes made explicit and sometimes concealed behind a construction or the weighting of a phrase. For Colonna the Bible was a vast canvas, an inexhaustible well of tales, themes, expressions and, above all, inspiration3.
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Giovio sottolinea, nel profilo della Marchesa che si ricava dal suo Dialogo, la sua costante dedizione a «le sacre letture dell’Antico e del Nuovo Testamento». Paolo Giovio, Dialogo sugli uomini e le donne illustri del nostro tempo, a cura di F. Minonzio, Torino, Aragno, 2011, p. 457. Cfr. Gigliola Fragnito, «“Per lungo e dubbioso sentero”. L’itinerario spirituale di Vittoria Colonna», in Al crocevia della storia. Poesia, religione e politica in Vittoria Colonna, a cura di M.S. Sapegno, Roma, Viella, 2016, pp. 177–216. Costanza d’Avalos era zia da parte del marito. Vittoria Colonna, Carteggio, a cura di E. Ferrero e G. Müller, Torino, Loescher, 1892, p. 281. Cfr. Concetta Ranieri, «Premesse umanistiche della religiosità di Vittoria Colonna», Rivista di storia e letteratura religiosa, XXXIII, 1997, pp. 531–548. Emidio Campi, «Vittoria Colonna and Bernardino Ochino», in A Companion to Vittoria Colonna, a cura di A. Brundin, T. Crivelli e M.S. Sapegno, Leiden-Boston, Brill, 2016, pp. 371–
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Alla Bibbia si accompagna, per importanza, solo l’altro libro, quello metaforico, non della natura, come una consolidata tradizione filosofica suggerisce, ancora ben viva nel primo Cinquecento e oltre, ma quello della croce, come indicato nella tradizione spirituale francescana4. Questo suo interesse per le Sacre Scritture è in linea con il ritorno alla parola di Dio promosso dal clima religioso della prima metà del ‘500, in particolare dalla cerchia degli Spirituali, cui Vittoria Colonna faceva riferimento5. Ma il timbro personale della sua lettura del testo biblico, come appare dai suoi scritti, e il modo di riferirsi con brevissime citazioni, o addirittura più spesso senza, non consentono di individuare di quale Bibbia si servisse6. La cura per la lettura del testo sacro, profondamente meditato e scavato con le armi dell’interiorità, è evidente anche nei consigli sul modo di commentare le pericopi rivolti, sempre nella lettera al prete Antonio Bernardi, in cui gli raccomandava, per preparare la predica domenicale, di lasciare la sapienza terrena per la parola che dà vita: «bisognerà pur studiare un poco la Epistola et l’Evangelio, et così Dio vi darà lume [e] gratia de intender con altra renovation la santa Parola, aderendo ad essa con la fede, non con la ragione humana7». Citando san Paolo, un riferimento costante per la Colonna, precisa: «bisogna sacrificare il vostro homo terreno [di filosofo] a Colui, che si fece humano per sacrificarsi per voi8». La frequenza della parola di Dio e la sua interpretazione erano al centro di quei cenacoli a cui Vittoria Colonna aveva partecipato. Appartenente alla più alta ari-
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398: 375–376. Sul rapporto della Colonna con la Bibbia si vedano: Giorgio Forni, «Letture bibliche in Vittoria Colonna», in Sotto il Cielo delle Scritture. Bibbia, retorica e letteratura religiosa (secc. xiii–xvi), Firenze, Olschki, 2009, pp. 215–236; Guido Laurenti, «Le poetesse e la Bibbia: Vittoria Colonna, Veronica Gambara e Gaspara Stampa», in La Bibbia nella letteratura italiana. V. Dal Medioevo al Rinascimento, a cura G. Melli e M. Sipione, Brescia, Morcellania, 2013, pp. 569–590; Maria Teresa Girardi, «Colonna Vittoria e altre petrarchiste», in Dizionario biblico della letteratura italiana, a cura di M. Ballarini, Milano, IPL, 2019, pp. 267–272. Cfr. G. Forni, «Letture bibliche in Vittoria Colonna», art. cit. Su Colonna e gli Spirituali si vedano Paolo Simoncelli, Evangelismo italiano del Cinquecento. Questione religiosa e nicodemismo politico, Roma, Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 1979, pp. 423–432; Massimo Firpo, «Vittoria Colonna e gli Spirituali», Rivista di storia e letteratura religiosa, XXIV, 1988, pp. 211–261; Id., Vittoria Colonna, «Giovanni Morone e gli Spirituali», in Id., Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul Cardinal Morone e il suo processo d’eresia, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 119–175; Gigliola Fragnito, «Vittoria Colonna e il dissenso religioso», in Vittoria Colonna e Michelangelo. Catalogo della mostra tenuta nel 2005, a cura di P. Ragionieri, Firenze, La Mandragora, 2005, pp. 97–144. Campi si interroga sulle Bibbie volgari eventualmente disponibili per la Colonna (Malerbi, Brucioli, Jenson?) cfr. E. Campi, «Vittoria Colonna and Bernardino Ochino», art. cit., p. 377–378. V. Colonna, Carteggio, op. cit., pp. 281. Sull’aristotelico Antonio Bernardi, cfr. Antonio Bernardi della Mirandola (1502–1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese. Atti del convegno «Antonio Bernardi nel V centenario della nascita (Mirandola, 30 novembre 2002)», a cura di M. Forlivesi, Firenze, Olschki, 2009. V. Colonna, Carteggio, op. cit., pp. 281–282.
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stocrazia italiana del tempo, fu figura di riferimento nel contesto politico, religioso e culturale dell’Italia della prima età moderna (scriveva non solo ai signori italiani, ai letterati, ai papi, ma anche all’imperatore Carlo V). Dopo aver frequentato i circoli intellettuali napoletani e romani, dove aveva conosciuto Sannazaro, Cariteo, Castiglione, Bembo, aveva iniziato a frequentare il cenacolo formatosi intorno a Juan Valdès, che includeva tra le figure più carismatiche Giulia Gonzaga9. Il vivo interesse religioso di Vittoria Colonna si vede già nelle sue prese di posizione, a fianco di Caterina Cibo, agli inizi degli anni ’30, a favore dei Cappuccini, che rappresentavano un’occasione di rinnovamento della Chiesa, di cui ella vedeva l’impegno evangelico al di là dei sospetti delle gerarchie. Nel 1534 a Roma aveva conosciuto Bernardino Ochino e da allora fino alla sua fuga in terre riformate (1542) l’aveva seguito per ascoltarne la predicazione, corrispondendo anche con lui10. In questo suo disegno di rinnovameno della Chiesa si trova a fianco di altri personaggi di rilievo coinvolti nel tentativo di riforma, come Gaspare Contarini, Pietro Morone, Reginald Pole. Prese parte dal 1541 alla Ecclesia viterbiensis, che metteva al centro della vita religiosa la lettura della parola di Dio e la sua frequentazione, ma non si allontanò mai definitivamente dal cattolicesimo11. Il «libro della croce» Vittoria Colonna vigorosamente fa entrare le Sacre Scritture nei suoi versi12. Si appropria della parola di Dio, fondendola con la tradizione poetica petrarchista, geCfr. Camilla Russel, Giulia Gonzaga and the Religious Controversies of Sixteenth Century Italy, Turnhout, Brepols, 2006; per la corrispondenza epistolare e poetica con Bembo si veda Veronica Copello, «I frutti di un’amicizia ‘de lonh’: Pietro Bembo e Vittoria Colonna», in Genealogias. Re-Writing the Canon: Women Writing in xvi–xvii century Italy, a cura di S. Santosuosso, Sevilla, ArCiBel Editores, 2018, pp. 15–32. 10 Su Colonna e Ochino: E. Campi, «Vittoria Colonna and Bernardino Ochino», art. cit.; Giovanni Bardazzi, «Le rime spirituali di Vittoria Colonna e Bernardino Ochino», Italique, 4, 2001, pp. 61–101; Michele Camaioni, Il Vangelo e l’Anticristo. Bernardino Ochino tra francescanesimo ed eresia (1487–1547), Bologna, Il Mulino, 2019, passim. 11 Sulle frequentazioni religiose che possono aver influito sulla Colonna: Massimo Firpo, «Valdesianesimo ed evangelismo: alle origini dell’Ecclesia Viterbiensis (1541)», in Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, a cura di R. Bussi, Ferrara, Istituto di Studi Rinascimentali, 1987, pp. 53–71; Sergio M. Pagano e Concetta Ranieri, Nuovi documenti su Vittoria Colonna e Reginald Pole, Città del Vaticano, Archivio Vaticano, 1989; Concetta Bianca, «Marcello Cervini e Vittoria Colonna», Lettere italiane, XLV, 1993, pp. 427–439; Barry Collett, A Long and Troubled Pilgrimage: The Correspondence of Marguerite D’Angoulême and Vittoria Colonna 1540–1545, Princeton, Princeton University Press, 2000; Stephen Bowd, «Prudential Friendship and Religious Reform: Vittoria Colonna and Gasparo Contarini», in A Companion to Vittoria Colonna, op. cit., pp. 349–370; Veronica Copello, «Nuovi elementi su Vittoria Colonna, i cappuccini e i gesuiti», Lettere italiane, LXIX, 2017, pp. 296–427. 12 Lasciamo da parte la raccolta di Rime amorose, consideriamo solo le Rime spirituali e le Rime spirituali disperse dell’edizione Vittoria Colonna, Rime, a cura di A. Bullock, Bari Laterza, 1982. 9
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nerando una poesia nuova che fonda nel Cinquecento italiano il nuovo genere della poesia spirituale, in cui si amalgamano meditazione, preghiera, osservazione teologica e poesia13. Soprattutto il Nuovo Testamento con le sue parabole, con la vita di Gesù, con la vicenda della passione, ispira molti suoi sonetti. Alla viva presenza di Cristo, al Dio umanato e incarnato, si volge tutta la sua devozione. I temi della sua poesia spirituale possono essere riassunti nel desiderio di elevarsi e di essere illuminata, nel senso del peccato, nella gratitudine per l’Incarnazione e la salvezza, nella proclamazione di questa come grazia e dono inestimabile, nel desiderio di partecipare al dolore della passione. Su questi temi si saldano ripetute riprese dagli episodi evangelici, con il tema dell’acqua viva, che ricorda la vicenda della Samaritana, della Citiamo da questa edizione, usando la sigla S1, seguita dal numero del componimento, per le rime edite nell’edizione Valgrisi 1546, S2 per le disperse. Sulla complessità della tradizione delle rime della Colonna, causata anche dalla disseminazione manoscritta favorita dalla stessa poetessa in vita, si vedano: Abigail Brundin, «Vittoria Colonna in Manuscript», in A Companion to Vittoria Colonna, op. cit., pp. 39–68; Tatiana Crivelli, «The Print Tradition of Vittoria Colonna’s Rime», in ibid., pp. 69–139; Tatiana Crivelli, «Godere di cattiva stampa: spunti per una rilettura della tradizione editoriale delle rime di Vittoria Colonna», in Al crocevia della storia, op. cit., pp. 137–160. Particolare attenzione ha ricevuto il codice manoscritto donato a Michelangelo, su cui: Claudio Scarpati, «Le rime spirituali di Vittoria Colonna nel codice Vaticano donato a Michelangelo», Aevum, LXXVIII, 2004, pp. 693–717; Abigail Brundin, «The Canzoniere Spirituale for Michelangelo Buonarroti», in Ead., Vittoria Colonna and the Spiritual Poetics of the Italian Reformation, Aldershot, Ashgate, 2008, pp. 67–100. 13 Sulla poesia della Colonna fondamentale è il citato studio di Abigail Brundin, Vittoria Colonna and the Spiritual Poetics of the Italian Reformation, op. cit.,; si vedano inoltre Ead., «Vittoria Colonna and the Poetic of Reform», Italian studies, LXXII, 2002, pp. 61–74; Maria Serena Sapegno, «La costruzione di un io lirico femminile nella poesia di Vittoria Colonna», Versants, XLVI, 2003, pp. 15–48; Giorgio Forni, «Vittoria Colonna, la Canzone alla Vergine e la poesia spirituale», in Rime sacre da Petrarca al Tasso, a cura di M.L. Doglio e C. Delcorno, Bologna, Il Mulino, 2005, pp. 63–95; Raffaella Martini, Vittoria Colonna. L’opera poetica e la spiritualità, Milano, Ed. Biblioteca Francescana, 2014; Veronica Copello, «“Con quel picciol mio sol, ch’ancor mi luce”. Il petrarchismo spirituale di Vittoria Colonna», Quaderni ginevrini d’Italianistica, II, 2014, pp. 89–112 (numero monog. dedicato a Lettura e edizione di testi italiani (secc. xiii-xx). Dieci progetti di dottorato di ricerca all’Università di Ginevra, a cura di M. Danzi); Ead., «La tradizione laudistica di Vittoria Colonna», Archivio Italiano per la Storia della Pietà, XXVIII, 2015, pp. 261–309; Erminia Ardissino, «Poesia in forma di preghiera nel Cinquecento. Sulle Rime di Vittoria Colonna», in La Bibbia in poesia. Volgarizzamenti dei Salmi e poesia religiosa, a cura di R. Alhaique Pettinelli, R. Morace, P. Petteruti Pellegrino e U. Vignuzzi, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 35–54. Sulla poesia spirituale sempre fondamentale Amedeo Quondam, «Note sulla tradizione della poesia spirituale e religiosa», in Paradigmi e tradizioni, a cura di A. Quondam, numero monografico di Studi (e testi) italiani, XVI, 2005, pp. 127–212; per l’incidenza della poesia della Colonna: Giovanna Rabitti, «Vittoria Colonna as Role Model for Cinquecento Women Poets», in Women in Italian Renaissance Culture and Society, a cura di L. Panizza, Oxford, European Humanities Research Centre, 2000, pp. 478–497; in particolare il capitolo di Abigail Brundin, «The Fate of the Canzoniere Spirituale», in Ead., Vittoria Colonna and the Spiritual Poetics, op. cit., pp. 171–190. Sono inoltre in uscita gli atti del Convegno svoltosi a Milano, Università Cattolica, 1 dicembre 2016: Ripartendo da Vittoria Colonna (e dintorni): il contributo femminile alla storia della lirica cinquecentesca, a cura di M.T. Girardi, a cura di V. Copello, M.T. Girardi, M.C. Tarsi, Pisa, Edizioni ETS, in stampa.
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parabola della vite e dei tralci, quella del seme e del buon pastore, o delle figure fondanti la fede. Vecchio e Nuovo Testamento sono presenti in coerenti letture, per cui il Vecchio è preso principalmente a figura del Nuovo, ma anche nel Nuovo sono individuate figure che anticipano le realtà ultime. Le riprese bibliche della Colonna rivelano «una lettura interiorizzata delle Scritture, tesa a ‘vedere’ e a ‘sentire’, in forza dell’illuminazione interiore, dentro e oltre la lettera, capaci di lampi esegetici orientati al vissuto morale e spirituale più che alla speculazione teologica14». La sua lettura implica un metodo «meditativo e verticale, che rompe la continuità del testo per riarticolarne i frammenti intorno al culmine della storia sacra», che per lei non è una serie di eventi, ma un disegno che occorre colorire con l’esercizio assiduo della metitazione15. In questo modo Vittoria Colonna non solo dà il via a una poesia spirituale, ma anche a una poesia biblica, che non è rifacimento o riscrittura, ma neppure generica devozione o travestimento spirituale. Il ritorno alla parola di Dio nutre una poesia assai consapevole degli strumenti della tradizione e le dà spessore, attivando processi di trasposizione e di imitazione. Frasario, immagini, figure, temi confermano l’assoluta preminenza dell’elemento biblico, riecheggiato nella disseminazione di segni che rimandano a quell’ipotesto. La poetessa si differenzia così dalla poesia italiana a lei precedente, ponendosi in contatto diretto con il testo sacro, con cui instaura un rapporto nuovo, personale e fecondo. Questa sua dedizione è programmaticamente dichiarata nel sonetto Doi modi abbiam da veder l’alte e care: Doi modi abbiam da veder l’alte e care grazie del Ciel: l’uno è guardando spesso le sacre carte ov’è quel lume expresso ch’a l’occhio vivo sì lucente appare; l’altro è alzando del cor le luci chiare al libro de la croce, ov’Egli stesso si mostra a noi sì vivo e sì da presso che l’alma allor non può per l’occhio errare. Con quella scorta ella se ’n va sospesa, sì che se giunge al desïato fine passa per lungo e dubbioso sentero; ma con questa sovente, da divine luci illustrata e di bel foco accesa, corre certa e veloce al segno vero. (S1, 165)
14 M.T. Girardi, Colonna Vittoria e altre petrarchiste, op. cit., p. 268. 15 La citazione da G. Forni, «Letture bibliche in Vittoria Colonna», art. cit., p. 230.
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La ricerca delle cose divine, che riempie la vita dell’io poetante, presentata con un linguaggio luministico, che non è solo derivato dal neoplatonismo-ficiniano, come avviene in molta della letteratura spirituale coeva, ma è anche memore del messaggio giovanneo; è suffragata in modo combinato, ma anche oppositivo, dalle Sacre Scritture e dalla croce, che appaiono come i fondamenti di ogni tensione dell’anima verso Dio, indicazioni certe per giungere «al segno vero». L’opzione di Vittoria Colonna è più che chiara: se le prime offrono un lume «lucente», la seconda (la croce) è prossima e viva tanto da mostrare un porto sicuro. Con le prime si percorre un «lungo e dubbioso sentero», con la seconda si va per via certa e veloce «al segno vero», essendo alimentata da chiare «luci» e «foco» vivo. L’opposizione tra la lettura delle sacre carte e il modellarsi su Cristo sorprende un poco il lettore di oggi, ma aiuta a capire le modalità della sua poesia, tutta tesa a sviluppare la dimensione interiore della devozione al Dio incarnato, dove lo studio e la meditazione della parola sacra sono guida a vivere la fede e l’amore per Cristo. Per Vittoria Colonna infatti non possiamo parlare di vere e proprie riscritture, piuttosto di una costante presenza del messaggio evangelico, che alimenta sia il pensiero, sia la sensibilità, sia il lessico. Fin dal primo sonetto delle rime spirituali tale influsso è esibito con precisi riferimenti alla passione di Cristo: i santi chiodi omai sieno mie penne, e puro inchiostro il prezïoso sangue, vergata carta il sacro corpo exangue, sì ch’io scriva per me quel ch’Ei sostenne. (S1, 1)
Nel momento in cui la poetessa lascia la poesia amorosa («’l mio casto amor») e opta per una poesia spirituale («volta al Signor, onde il rimedio venne»), la poesia è determinata da ciò che più qualifica la nuova vita: la passione di Cristo da cui venne la salvezza16. Ma se la passione è il tracciato della nuova poesia, si vede già nel linguaggio (con «altra acqua») in filigrana l’accenno a un episodio della vita di Gesù, e uno dei più significativi per l’evangelizzazione e la salvezza, quello della Samaritana a cui il Messia promette un’acqua viva che spegne ogni sete17. Non è 16 Sull’orientamento cristologico della poesia della Colonna si veda E. Campi, «Vittoria Colonna and Bernardino Ochino», art. cit., pp. 379–382. Si veda anche Una Roman d’Elia, «Drawing Christ’s Blood: Michelangelo, Vittoria Colonna, and the Aesthetics of Reform», Renaissance Quarterly, LXIX, 2006, pp. 90–129. 17 Non sarà fuori luogo ricordare a proposito di queste espressioni il disegno della Samaritana che Michelangelo donò a Vittoria Colonna, su cui Pina Ragionieri, Vittoria Colonna e Michelangelo, op. cit., p. 176; poco si parla di questo disegno che non ci è giunto, ma su cui sono state ricavate incisioni, cfr. Ambra Moroncini, «I disegni di Michelangelo per Vittoria Colonna e la poesia del Beneficio di Cristo», Italian Studies, LXVIII, 2009, pp. 38–55. L’artista e la poetessa erano avvicina-
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solo il richiamo alla fonte Castalia («chiamar qui non convien Parnaso o Delo»), quasi obbligato in un sonetto proemiale, che porta nel discorso l’«altra acqua», ma il ricordo dell’acqua viva che determina l’opposizione fonte delle Muse-pozzo dell’acqua viva sviluppata nelle terzine, un’opposizione ripresa ancora nel sonetto secondo, in cui «l’altro Signor» è invocato proprio per irrorare la poesia del «suo lucido fonte» (S1, 2). La poesia del modello petrarchesco rimane senz’altro in filigrana, ma l’opzione è ormai netta per una parola umile, che si modella sullo stile scritturale18. Quanto sia importante il riferimento all’acqua viva data da Cristo alla Samaritana è confermato da un sonetto Felice donna, a cui disse sul fonte (S2, 29), dove la donna cui Gesù destinò l’acqua viva è occasione per ricordare che a lei Gesù indirizzò parole su come pregare (l’episodio è raccontato in Gv 5–30, in 21–26 Gesù insegna come pregare e le rivela di essere il Messia). Tuttavia la donna è ancora esaltata nelle terzine di chiusura per aver saputo capire il messaggio del Messia: Ma alor fu sazio il tuo desire ardente quando ti aperse i vivi accesi raggi del Sol ch’avea a infiammar Sammaria e ’l mondo; onde in fretta n’andasti a quei più saggi che venisser col cor, l’alma e la mente ad onorar il dì festo e giocondo. (S2, 29)
Se si può dire che tutta la poesia spirituale della Colonna è improntata alla Bibbia, alcuni temi o figure sono indubbiamente prevalenti: Cristo crocifisso, Maria Vergine, le parabole evangeliche e alcune figure del Nuovo Testamento. Il Vecchio Testamento è senz’altro conosciuto e meditato, ma poco appare e, se appare, lo è proprio per spiegare la venuta di Cristo, il significato dell’Incarnazione, per trattare di figure anticipatrici. Diversi sono i riferimenti alla caduta originale, presupposto ineludibile per meditare sul dono gratuito della salvezza, dato con l’Incarnazione.
ti da una comune esperienza religiosa e le loro opere erano fortemente caratterizzate dalla predicazione dell’Ochino. Su Colonna e Michelangelo: Emidio Campi, Michelangelo e Vittoria Colonna. Un dialogo artistico-teologico ispirato da Bernardino Ochino, Torino, Cluadiana, 1994; Vittoria Colonna e Michelangelo, op. cit.; U. Roman D’Elia, «Drawing Christ’s Blood: Michelangelo, Vittoria Colonna, and the Aesthetics of Reform», art. cit.; Maria Forcellino, Michelangelo, Vittoria Colonna e gli ‘spirituali’. Religiosità e vita artistica a Roma negli anni Quaranta, Roma, Viella, 2009; Maria Forcellino, «Vittoria Colonna and Michelangelo: Drawings and Paintings», in A Companion to Vittoria Colonna, op. cit., pp. 270–312. 18 Un esempio: nel sonetto S1, 12 invoca «Padre eterno del ciel», non «Padre nostro» come nell’oratio dominica, ma neppure «Padre del Ciel» come in Rerum vulgarium fragmenta, 62). Scarpati sintetizza così: «La Colonna ritaglia nel codice petrarchesco lo spazio della meditazione religiosa che l’archetipo aveva previsto e in certo modo riservato entro i suoi registri». C. Scarpati, «Le rime spirituali di Vittoria Colonna nel codice Vaticano donato a Michelangelo», art. cit., p. 695.
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Ad Eva, più che ad Adamo, appare attribuita la responsabilità della colpa: «Piange l’antica madre il gusto ardito / ch’a’ figli suoi del Ciel chiuse le porte / e le due man piagate or sono scorte / da ridurne al camin per lei smarrito», si legge nel sonetto Gli angeli eletti al gran bene infinito (S1, 24). Quasi a chiasmo sono qui contrapposti il «gusto» disobbediente, che ha chiuso all’umanità le porte del paradiso, e le mani del crocifisso, che fanno da scorta al ritorno alla figliolanza divina. Eva e la caduta entrano in gioco per comprendere la portata della redenzione, avvenuta con la sofferenza di Cristo, per cui si ricorda poi nello stesso sonetto il terremoto, l’oscurità su tutta la terra, causa dunque di dolore per la natura, ma non per l’umanità, che anzi ne ha gioito («non piange l’uom, che pur piangendo nacque»). Allo stesso modo è richiamata Eva di nuovo in un altro sonetto che collega la colpa con la vita donata dal Salvatore: Quella che ’l bene e ’l male in sì poche ore contra il divin precetto intender volse, col pomo i lunghi affanni insieme colse, onde si piange ancor l’antico errore, ma l’alma sacra Vite al grand’odore del salutar suo frutto ne raccolse, e i secchi rami al verde tronco involse che serba eterno il bel vivo odore. (S1, 31)
Con molteplici riferimenti (la parola di Dio in Eden, l’atto di disubbidienza, la parabola della vite e dei tralci, il confronto paolino del vecchio Adamo rinnovato da Cristo) si puntualizza la colpa originale per esaltare il rimedio19. La sola figura del Vecchio Testamento considerata indipendentemente dal Nuovo è quella di Noè, cui sono dedicati ben tre sonetti (Padre Noè, del cui buon seme piacque; Il porvi Dio ne l’arca, e farvi poi; Potess’io in questa acerba atra tempesta, S1, 111, 112, 113), in cui il patriarca è celebrato per essere stato scelto da Dio per la salvezza. Se nel primo sonetto di questa trilogia Noè è esaltato, perché in lui è stato rinnovato il mondo (auspicio per un rinnovamento anche di «questo immondo» secolo) e pregato perché conceda all’io poetante di mantenere «dentro a l’arca / viva la fede» (S1, 111), nel secondo è ancora lodato per essere stato inondato non dal «furore» delle acque, ma «con l’onde della grazia». Nel terzo si prega per poter ricevere la salvezza come è stata concessa a Noè, agli Ebrei in fuga, a cui fu
19 Sulla presenza paolina in Vittoria Colonna, Maria Teresa Girardi, «“Viver tutta in colui che è ogni bene”. Il cammino di fede di Vittoria Colonna», in Letture paoline. L’apostolo Paolo e la tradizione letteraria, a cura di F. D’Alessandro, Bologna, ESD, 2010, pp. 148–161.
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aperto il mar Rosso, e, in splendido collegamento fra Vecchio e Nuovo Testamento, a Pietro che sul lago di Tiberiade si sentiva sommergere dalla tempesta, ma fu salvato. Questa riconosciuta continuità fra Vecchio e Nuovo Testamento, che non ne cancella le differenze, dimostra la conoscenza e familiarità della Colonna con i testi biblici e la sua lettura e interpretazione, che rivive la storia sacra con sentimento, scoprendo dettagli e legami convincenti20. Ma come nel resto del canzoniere di Vittoria Colonna, è la condizione dell’io lirico il vero assillo della poetessa. Infatti la preghiera rivolta a Noè è diretta ad ottenere la protezione all’interno dell’arca, affinché «viva la fede mia chiara e sicura / d’ogni nebbia mortal, d’ogni ombra scarca» (S1, 111). Non vi è memoria del significato allegorico dell’arca, che per la tradizione patristica e umanistica significava il corpo di Cristo o l’interiorità21, piuttosto l’importanza data a Noè e all’immagine dell’arca sembra corrispondere ad alcune indicazioni del Beneficio di Cristo, dove si interpreta l’arca come figura del Battesimo, e quindi dei battezzati ovvero della Chiesa22. Si legge nel testo fondamentale per gli Spirituali «Adunque sì come Noè, credendo alle promesse di Dio, si salvò nell’arca dal diluvio, così noi per la fede ci salviamo nel battesimo dall’ira di Dio, la qual fede è fondata nella parola di Cristo, il qual dice: “Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo23”». Questa corrispondenza con un testo del mondo riformato italiano è confermata dalla condanna sui suoi tempi espressa nei tre sonetti su Noè, che sottolineano infatti anche come la preferenza concessa da Dio a Noè fosse dovuta al fatto che «tanto il suo ben operar / gli piacque» (Il porvi Dio ne l’arca, e farvi poi, S1 112). Se ora invece il soccorso non corrisponde a quello dato a Noè, agli Israeliti nella traversata, a Pietro nel mare tempestoso, «non è favor del ciel scemato o spento, / né quei soccorsi fur mai lenti o scarsi», ma è responsabilità del mal fare dei suoi tempi (S1, 113)24. Del Nuovo Testamento ovviamente centrale è la figura di Cristo per la morte che ha salvato l’umanità dalla caduta. Lo dichiara precisamente in un sonetto che molto bene mostra la svolta e gli effetti della redenzione:
20 Cfr. E. Campi, «Vittoria Colonna and Bernardino Ochino», art. cit., p. 376. 21 Per l’arca come allegoria di Cristo: Agostino, De civitate Dei, XV, 24–26, De Genesi ad litteram VI, 15; cfr. per un esempio più prossimo: Giannozzo Manetti, De vita et gestis Niccolai Quinti Summi Pontificis, ed. crit. di A. Modigliani, Roma, Istituto Palazzo Borromini, 2005, II, 56. Per l’arca come interiorità: Ugo di San Vittore, De archa Noe (Ugo di San Vittore, De archa Noe Libellus de formatione arche, a cura di P. Sicard e D. Poirel, Turnhout, Brepols, 2001). 22 Pure in una lettera del 1542 Colonna usa l’arca come immagine della Chiesa «che salva et assicura». V. Colonna, Carteggio, op. cit., p. 257. 23 Benedetto da Mantova-Marcantonio Flaminio, Beneficio di Cristo, a cura di S. Caponetto, Torino, Claudiana, 1975, p. 88. 24 Già il sonetto S1, 91 è una preghiera, affinché la Chiesa ritorni alla tradizione di santità primitiva.
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parte terza - centro italia spirituale Le braccia aprendo in croce, e l’alme e pure piaghe, largo, Signor, apristi il Cielo, il Limbo, i sassi, i monumenti, e ’l velo del tempio antico, e l’ombre, e le figure. Le menti umane infin alora oscure illuminasti, e dileguando il gielo le riempiesti d’un ardente zelo ch’aperse poi le sacre Tue scritture. (S1, 94)
Ciò che era morto vive, ciò che era oscuro si illumina, «l’aspra e giusta legge del timore» è superata da «grazia, lume, amore» (ibid.). Il debito verso il Salvatore è il leit-motif di tutta la raccolta, proposto in varie forme: come dialogo dell’anima con Gesù crocifisso nel sonetto Dimmi, Lume del mondo e chiaro onore, dove Gesù, alla domanda su cosa lo sostenne in croce «pender da tre chiodi», risponde che fu il «sempre vèr voi sì dolce amore», causa del suo sdegno verso chi mantiene un cuore «freddo indurato» (S1, 89). Tale debito viene riproposto per la meditazione nel sonetto Vanno i pensier talor carchi di vera / fede, occasione per ribadire l’essenzialità della morte di Gesù per la salvezza, per cui «Cieco è ’l nostro voler, vane son l’opre, / cadono al primo vol le mortai piume / senza quel di Gesù fermo sostegno» (S1, 45). Sul valore del sacrificio di Cristo, che ha pareggiato la bilancia della giustizia, gravata dal peso del male, è anche il sonetto Quando con la bilancia eterna e vera (S2, 4), in cui proclama che «l’umil sua morte» ha aperto il «camin da gir dritti nel Cielo». Gesù è proclamato scudo che ci difende dall’ira del Padre, «nudo per Sé, per noi di gloria armato, / parco nel viver Suo, chiaro e beato, / ma ne l’aspro morir largo e cortese» (S2, 5). Cristo è ancora proposto come consapevolezza dell’impossibilità di capire il mistero «di morir Dio su l’aspra croce», che non è un attestato scritto in carte, ma impresso come stampa «nel cor purgato / col foco de l’amor» (S1, 78), o come dichiarazione per sottolineare la bontà di Dio con una sorta di ossimori, perché in Gesù è punita l’innocenza, perché in lui si vede «offender con odio il vero amore / e ferir l’umiltà con fiero sdegno», usar crudeltà contro la sua pietà, occasione per sottolineare che comprendere la causa di tanto amore, come compresero Paolo e Dionisio, significa darsi «prigion al vero» (S1, 59)25. Infine ancora come esaltazione delle virtù che Cristo ebbe: «pazienza, umiltà, vero obidire» (S1, 77) o per ribadire che la nostra salvezza («la chiave che aprì il Cielo», S1, 47) venne solo dall’aver accettato la croce.
25 L’episodio della conversione di Dionigi o Dionisio è in At 17, 32: «Quidam vero viri adhaerentes ei crediderunt; in quibus et Dionysius Aeropagita et mulier nomine Damaris et alii cum eis». Dagli Atti degli Apostoli si può anche dire dipenda il sonetto sulla Pentecoste S2, 21.
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Questa presenza costante, insistita del sacrificio di Cristo avvicina le rime della Colonna alla spiritualità del Beneficio di Cristo, come è stato da tempo evidenziato26. Infatti più che alla persona di Cristo, di cui peraltro sono ricordati alcuni momenti della vita (la natività, il battesimo, alcuni miracoli e incontri, l’ultima cena), l’attenzione di Vittoria Colonna è rivolta al suo sacrificio come condizione di salvezza, unica via di redenzione. L’interesse della poetessa, a dirla con Campi, è quindi più soteriologico che cristologico27. Anche il sonetto Quando in se stesso il pensier nostro riede, dove la meditazione, che «vivo ne l’aspra croce il Signor vede», si chiude con l’affermazione indiscutibile che lì è l’essenza della salvezza: «Son queste grazie sue, non nostre / […] / e s’alcun confida in fragil opra / mortal col primo padre indarno aspira / ad altro ch’a ricever novo inganno» (S1, 41). Il concetto è ribadito nel sonetto seguente, Quando di sangue tinte in cima al monte, che ritorna sullo spesso principio: «Ristorar non può il mio onore / altri» (S1, 42)28. L’insistenza sulla contemplazione del crocifisso non vale come la medievale contemplatio crucis, ma come la scoperta di una verità gioiosa, ovvero che Dio ha giustificato l’umanità, liberandola dalla condanna del peccato: «Egli giusta mi rende», esclama nel sonetto Divino spirto, il cui soave ardore (S1, 157). La croce è vista come il «glorioso legno / de la nostra salute» che garantisce la salvezza, purché l’anima sia «avolta, unita a quel sacro sostegno» (S2, 8). Scrive ancora Campi: Practically every pages conveys the conforming Valdesian and Ochinian concepts of «living faith» («viva fede»), which inspires a «divine love» («divino amore») [...] the notion that man is not saved by God through any inthrinsic righteousness, but thanks instead to the righteousness expressed to the wounds of Christ upon the cross. It is a constant characteristic of Colonna’s thought and is expressed throughout her Rime29.
Nonostante questa insistita consapevolezza che da Cristo si è tutto avuto, le dichiarazioni di Vittoria Colonna rimangono sempre troppo generiche per parlare di una adesione piena al valdesianesimo. L’auspicio di un ritorno alla morale evangelica, l’insistenza sulle Scritture e la piena fede nella salvezza di Cristo sono ripetutamente sostenute, ma senza entrare in conflitto con la Chiesa romana, a cui si mostra sempre devota. 26 Cfr. Carlo Ossola, «Introduzione», in Juan de Valdès, Lo Evangelio di san Matteo, a cura di C. Ossola, Roma, Bulzoni, 1985, p. 80; C. Scarpati, «Le rime spirituali di Vittoria Colonna nel codice Vaticano donato a Michelangelo», art. cit., pp. 714–716. 27 Cfr. E. Campi, «Vittoria Colonna and Bernardino Ochino», art. cit., p. 395. 28 Dopo un’attenta analisi della cristologia della Colonna, Campi propende per individuare l’affinità con gli Spirituali: «Such is the understanding of the historia salutis that the spirituali and reformers were so deeply committed to promoting». Ibid., p. 382. 29 Ibid., pp. 388–390.
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Dei Vangeli Colonna riprende ancora alcuni episodi, come avviene in una serie di sonetti dedicati alla Natività (S1, 21, 23 e 24)30, ma l’evento, di cui si danno pochi elementi, serve ancora per sottolineare il dono dell’Incarnazione e la natura umana-divina del Dio fatto uomo. Segue un sonetto (S1, 25) per i santi Innocenti, in cui con notevole sensibilità è mostrata la loro solitudine, lasciati «soli inermi» a fare da schermo per la salvezza di Gesù, «tolti dal latte, deste il pianto solo / per parole ai martiri» (S1, 25). In continuità con gli episodi della vita di Gesù, segue un sonetto sul battesimo nelle acque del Giordano (come se la poetessa seguisse la lettura del vangelo di Matteo, capitolo 2, seguendo un filo biografico di Cristo, usato per meditare)31. Questi episodi infatti non sono oggetto di riscrittura, ma occasione per riflettere sull’Incarnazione e trarne indicazioni morali; attraverso di essi la Scrittura si fa esperienza di vita, perché la parola rinnova lo spirito. Così avviene per l’episodio dell’incontro con Zaccheo, S’io piena con Zacheo d’intenso affetto, che le consente di esprimere il desiderio di più intensa fede (S1, 57); così per l’episodio della guarigione del cieco nato, «cui s’aperse / la luce al tempo del gran Lume vero», ma che inversamente «fe’ del Ciel nota la gloria» (S2, 28); così per una ripresa delle autodefinizioni di Gesù: «Sono il Principio e parlo a voi mortali» dice il Signore, «e son del mondo il Sole, la vera Vite, […] Sono il Pastor […]». S’Egli è Pastor, Principio, Lume e Vita, che guida o fine avrà, luce o salute, chi non ha seco l’alma in pace unita? Entrar devrian come saette acute le Sue parole in una mente ardita che viver può dentro la Sua virtude. (S2, 6)
Anche le parabole, che sono anzitutto fonte di un lessico evangelico molto diffuso, nelle Rime sono talvolta oggetto di un sonetto, poiché sono prese come occasio30 All’adorazione dei pastori è dedicato anche il sonetto S1, 133 e S1, 81 accenna alla visita dei Magi. Più aderente all’evento, con il cenno al luogo, detto «antro», e alla Sacra Famiglia è S2, 3. Sulla presenza dei Vangeli nella poesia della Colonna si veda A. Brundin, Vittoria Colonna and the Spiritual Poetics of the Italian Reformation, op. cit., passim; C. Scarpati, «Le rime spirituali di Vittoria Colonna nel codice Vaticano donato a Michelangelo», art. cit., pp. 705–713. 31 Inoltre due sonetti sono dedicati a Simeone (S1, 114 e 115), uno alla istituzione dell’Eucarestia nell’ultima cena (S1, 22), uno a san Giovanni (S1, 17), uno a san Pietro (S1, 116), uno a sant’Andrea (S1, 117), uno a san Tommaso (S1, 118), uno a santo Stefano (S1, 119).
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ne per l’io poetico di riflettere su di sé e sulla propria fede. Così la parabola delle vergini che attendono lo sposo (Mt 25, 1–13) diventa paradigma dell’attesa dello Sposo celeste da parte dell’io poetante, perché non la trovi impreparata (S1, 89); o la parabola della vite e dei tralci più o meno fruttuosi è assunta per esprimere il desiderio di essere «vivo ramo […] ne l’ampia e vera / Vite ch’abbraccia il mondo», per cui vorrebbe essere «frutto felice32». La parabola del buon pastore ispira due sonetti, uno in positivo, per sottolineare come la cura dell’umanità abbia portato Gesù in croce (il 56), l’altro per indicare come al presente il gregge sia senza pastore, «sparso per cibarsi e trova / i paschi amari», parole dure contro le gerarchie ecclesiastiche, non così frequenti nella scrittura di Vittoria Colonna, che era peraltro in corrispondenza con diversi papi, da Clemente VII a Paolo III. «Qualche meditation semplice» Se la figura del Cristo negli scritti di Vittoria Colonna ha attirato l’attenzione della critica, che su tale base ha discusso l’adesione all’evangelismo degli Spirituali da parte della poetessa, meno osservati sono i suoi interventi su pagine del Vangelo che si riferiscono solo lateralmente a Cristo. Sono questi i temi di lettere pubblicate nel 1544, dove la comunicazione epistolare è al servizio della meditazione33. Una lunghissima lettera, quasi un sermone, è dedicata al perdono dell’adultera, vicenda narrata in Gv 8, 1–11. La lettera, che si presume diretta a Ochino (perché indirizzata a un «Reverendo osservandissimo Padre mio», un modo che la Colonna usa proprio per il Cappuccino, così come il saluto finale: «Figlia obedientissima et discepola di Vostra Reverentia»), entra immediatamente in medias res, dichiarando esplicitamente che intende «scriver così umilmente sopra lo Evangelio della adultera qualche meditation semplice» e chiude senza altro aggiungere, come se l’urgenza di parlare dell’adultera e spiegare il Vangelo fosse l’unica ragione della corrispondenza34. La vicenda viene trattata proprio per mostrare la «singolar gratia, e forse delle maggiori, che Cristo concedesse in terra», ovvero il perdono dei peccati, perché Cristo non si presenta alla donna con il suo volto («advento» è il termine usato) severo di giudice, ma con atteggiamento dolce, «ove solo mostrò la sua gran bontà, clementia et misericordia», coerente con quello che rivelò in molti luoghi, «che veniva per li peccatori, per medico delli infermi, per ministrare, per
32 Altri due sonetti, S1, 39 e S1, 154, propongono la metafora della vite. 33 Si veda il capitolo Maria Luisa Doglio, «L’“occhio interiore” e la scrittura nelle lettere spirituali di Vittoria Colonna», in Ead., Lettera e donna. Scrittura epistolare al femminile tra Quattro e Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1993, pp. 17–32. 34 V. Colonna, Carteggio, op. cit., p. 241. Anzi dice subito che «lasserò star le difficultà tanto discusse et ventilate, cioè che li scrivesse il Signor e perché s’inclinasse etc.»
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dar la pace, la luce, la gratia, tutto infocato di carità, vestito d’umiltà, soavissimo et pietoso35». Infatti Gesù non si rivolse alla peccatrice come giudice, ma l’assolse e la rese giustificata: assolvendola adesso e facendola impeccabile d’alhora inanzi che disse: amplius noli peccare, et essendo come è immutabile, et le sue vere parole infallibili, bisogna dire che non fu necessario giudicarla più. Et benché di tutti quelli, ai quali Cristo concesse gratia particolare, si creda che sian salvi, pure a costei si vede chiaramente, anzi ch’è più, si deve tener per fermo che facesse vita beata in terra, assoluta del passato et certa di non essere più condannata, né poter peccare nel futuro36.
Il passo spiega a sufficienza la ragione dell’interesse di Vittoria per l’episodio: esso rappresenta in atto la giustificazione su cui tanto medita nelle rime e che rappresentava una questione cruciale per l’età e il contesto da lei frequentato. L’atteggiamento di Cristo decretò anche lo scorno per i calunniatori della donna, poiché, volendo dannarla, «la condussero al fonte vivo d’ogni bene». Molta parte della lettera, quasi due terzi, è dedicata a comprendere la reazione (la psicologia, in termini moderni) degli attori in scena: da una parte, la sconfitta dei calunniatori, sottolineando come essi dovessero sentirsi «udendo dire: chi è di voi senza peccato, getti in lei la prima pietra37», perché sentirono su di loro stessi la condanna e la «grandine» dei loro peccati, vedendo chiara la loro perfidia e la condanna di Gesù cadere su di loro. Dall’altra il sollievo della donna, lasciata sola («O che dolce solitudine», commenta), che deve essersi sentita libera da un grande peso, vedendosi assolta. Da ciò Colonna presume sia venuta alla donna una «grandissima fede»: Ed non hebbe ardir di pregarlo di cosa alcuna, anzi come veramente convertita, illuminata et perfetta si lassò tutta in Cristo, et non riguardò se stessa; conformò la sua volontà con quella del Signore. […] Et per la bontà di Dio non solo la volse assolvere et far di lei sì piatoso giuditio, ma la fece impeccabile. Alla qual gratia la sua fede ci conduca38.
Un’altra donna dei Vangeli è oggetto di due lettere, una alla cugina Costanza d’Avalos Piccolomini, l’altra a Giovanni Morone, ovvero Maria di Magdala39. La lette35 36 37 38 39
Ibid., p. 242. Ibid. Ibid., p. 243. Il passo è citato in volgare. Ibid., p. 245. Diversi gli studi sull’epistolografia della Colonna, oltre al citato saggio di Doglio, «L’“occhio interiore” e la scrittura delle lettere spirituali di Vittoria Colonna», si possono vedere: Adriana Chemello, «Vittoria Colonna’s Epistolary Works», in A Companion to Vittoria Colonna, op. cit., pp. 11–37; Concetta Ranieri, «“Delle cose de Dio se delettava”. Le lettere di Vittoria Colonna tra meditazione religiosa e riflessione letteraria», in Scrivere lettere nel Cinquecento. Corrispondenze
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ra alla cugina inizia anch’essa direttamente, dichiarando «Di due gloriose donne, sorella amantissima, vorrei ragionar teco, della nostra advocata e fedelissima scorta Maddalena e di quella che oggi si celebra la morte, ed anzi felice vita, Caterina40». Procede poi con il confronto delle due sante, che è anche un confronto fra vita attiva a vita contemplativa, fra il martirio per sangue e il martirio per lunga penitenza. La Maddalena, identificata con la sorella di Lazzaro («vedo alle lachrime dell’una resuscitare il quatriduano fratello»)41, sulla base di Lc 10, 38–42, è associata alla donna che gli lavò i piedi in casa di Simone (Lc 7, 36–50). Di lei sono ovviamente indicate anche la visita al sepolcro e la scoperta della resurrezione (Mt 28, 1; Mc 16, 1; Lc 24, 9). Ne deduce che Gesù volesse quasi «certificarla che era sua apostola, le comandò che fosse la prima annunciatrice de la aspettata novella et del mirabil mistero della sua resurrettione42». Il confronto fra le due forme di santità si chiude con un invito a specchiarsi nelle due donne, mostrando apertamente come molte occasioni di scrittura di Vittoria Colonna siano mirate a uno scopo esemplare, a trovare dei modelli di pietà43. Anche il breve cenno che fa nella lettera al Morone del 1544 (quella alla cugina non era datata, ma è ritenuta precedente il 1545, quindi si può dire coeva a questa) attesta la straordinaria missione affidata da Gesù (Gv 20, 17) alla donna che aveva tenuto ai suoi piedi. Riprendendo gli episodi dei Vangeli della resurrezione, li presenta per l’intenzione che assegna alla relazione fra Gesù e la donna: «la chiamò poi con più interna vocatione a magior opera, quando, cercandolo, resuscitato li apparve, et intendendo lei la voce amata dirgli “Maria”, conobbe col cuore il maestro in altra più divina cognitione, et più che mai desiderava trovarlo et consolarsi secco44». Il significato di questa insistenza di Vittoria Colonna su Maria di Magdala, figura che stava acquistando notevole rilievo nella spiritualità penitenziale dell’epoca, è rivelato in un sonetto, che non solo sottolinea il ruolo della donna nella rivelazione, ma rivendica anche il valore di tutte le donne nell’evangelizzazione.
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in prosa e in versi, a cura di L. Fortini, G. Izzi e C. Ranieri, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2016, pp. 155–171. V. Colonna, Carteggio, op. cit., p. 299. Ovviamente parla poi di santa Caterina martire d’Alessandria, ma anche in questo caso non si aggiungono informazioni. Ibid., p. 300. Ibid., p. 301. Virginia Cox, «Vittoria Colonna e l’esemplarità», in Al crocevia della storia, op. cit., pp. 17–54. Ead., «The exemplarity of Vittoria Colonna», in A Companion to Vittoria Colonna, op. cit., pp. 467–501. Va in questa direzione anche il saggio di Abigail Brundin, «Poesia come devozione, leggere le rime di Vittoria Colonna», in Al crocevia della storia, op. cit., pp. 161–176. V. Colonna, Carteggio, op. cit., 278.
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parte terza - centro italia spirituale La bella donna, a cui dolente preme quel gran desio che sgombra ogni paura, di notte, sola, inerme, umile e pura, armata sol di viva ardente speme, entra dentro ’l sepolcro, e piange e geme; gli angeli lascia e più di sé non cura, ma a’ piedi del Signor cade sicura, ché ’l cor, ch’arde d’amor, di nulla teme. Ed agli uomini, eletti a grazie tante, forti, insieme richiusi, il Lume vero per timor parve nudo spirto ed ombra; onde, se ’l ver dal falso non s’adombra, convien dar a le donne il preggio intero d’aver il cor più acceso e più costante. (S1, 155)45
Maria di Magdala (secondo Mt 28, 1–8; Mc 16, 1–8; Lc 24, 1–11; Gv 20, 1–5, che concordano) entra di buon mattino nel sepolcro, vincendo ogni paura e dimostrando più amore e maggior costanza dei discepoli paurosi, chiusi nel cenacolo. Ne conclude che alle donne va riconosciuta un’indubbia prova del loro valore nella storia della salvezza, per aver dimostrato verso Cristo più amore, maggior fedeltà, più costanza tra i discepoli. Scritture mariane in versi Anche per quanto riguarda Maria, diretta appare la derivazione dai Vangeli per la rappresentazione che ne fa Vittoria Colonna46. Studiando i due testi prettamente mariani, ovvero il Sermone sopra la Vergine addolorata (o Pianto della Marchesa di Pescara sopra la passione di Christo) e la Parafrasi dell’Ave Maria (o Oratione sopra l’Ave Maria)47, Emidio Campi sostiene che la Colonna si attiene strettamente alla rivelazione nel trattare della Vergine, lasciando da parte quegli elementi che la Chiesa 45 Della Maddalena, ma per la sua vita eremitica e santa nella spelonca dopo la morte di Gesù, tratta anche un altro sonetto, S1, 121, una preghiera alla santa per aver posto con lei accanto al Signore. Cfr. Barbara Agosti, «Vittoria Colonna e il culto della Maddalena», in Vittoria Colonna e Michelangelo, op. cit., pp. 71–81. 46 Abigail Brundin, «Vittoria Colonna and the Virgin Mary», Modern Languages Review, XCVI, 2001, pp. 61–81; Eleonora Carinci, «Religious Prose Writings», in A Companion to Vittoria Colonna, op. cit., pp. 399–430. 47 Vittoria Colonna, Pianto della Marchesa di Pescara sopra la passione di Christo con una Oratione della medesima, sopra l’Ave Maria, Venezia, Paolo Manuzio, 1556. I primi titoli sono quelli tratti dai manoscritti, quindi della Colonna, ma cito dall’edizione Vittoria Colonna, Meditazione sul Venerdì santo, a cura di P. Simoncelli, in P. Simoncelli, Evangelismo Italiano del Cinquecento, op. cit., pp. 423–429.
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e la devozione popolare avevano assegnato alla madre di Dio nel Medioevo48. In realtà, se si estende l’attenzione alle rime, si trovano sonetti mariani che accolgono aspetti della mariologia tradizionale, come ad esempio l’Assunzione, che diviene dogma solo nel Novecento, ma era creduta fin dai primi secoli del Cristianesimo. Nel sonetto 64, In forma di musaico in alto muro, Maria è detta «Quella, poi, che in velo uman per gloria / seconda onora il Ciel, più presso al vero / lume del Figlio ed a la luce prima», considerando quindi la Vergine come assunta col corpo («velo uman […] presso al […] Figlio»). Ma anche il sonetto 101 parla dell’unione di Gesù e di Maria risplendente con il corpo in cielo: «Veggio il Figliuol di Dio nudrirsi al seno / d’una vergine madre, ed ora inseme / risplender con la veste umana in Cielo» (S1, 101). E ancora si parla dell’Assunzione di Maria, «possente mano / la tirò in ciel», a chiusura di un sonetto sul significato di Maria, che ha suscitato l’amore di Dio (S2, 25). Anche volendo considerare le rime come un documento rivolto ai più semplici, perciò più coerente con l’ortodossia, non si potrà evitare di completare con esse il circolo ermeneutico relativo alle scritture su Maria di Vittoria Colonna. È pur vero però che la poetessa considera soprattutto Maria come Madre di Dio e sempre vergine, sottolineando il suo ruolo nella storia della salvezza in funzione appunto della venuta del Salvatore. Maria non è negli scritti della Colonna l’advocata nostra della mariologia popolare, ma è soprattutto la mediatrice della salvezza, perché ha consentito l’Incarnazione. In questa direzione va un nutrito gruppo di dieci sonetti delle rime spirituali, che mostrano proprio l’umanità di Gesù come valorizzazione dell’operato di Maria49. Ad esempio nel sonetto Vergine pura, che dai raggi ardenti, si legge: «Immortal Dio nascosto in mortal velo / L’adorasti Signor, Figlio Il nustristi, / L’amasti sposo, e L’onorasti padre» (S1, 100), dove le varie funzioni della Vergine nella salvezza sono riassunte negli epiteti rappresentanti il suo rapporto con l’uomo-Dio e con Dio-padre. La sua funzione soteriologica è oggetto dell’ultimo di questa serie di sonetti, il 110, che, presentando Maria con la metafora della luna, dimostra il suo essere tramite tra Dio e l’uomo per la venuta di Cristo: Eterna luna, alor che fra ’l Sol vero e gli occhi nostri il tuo mortal ponesti
48 «Colonna erases every Marian attribute not based upon Scripture or upon a thematic connection with Christ. It is significant, for example, that Colonna never makes reference to Mary’s immaculate nature […]. No less surprising is Colonna’s silence on the Madonna’s Assumption. […] That same maybe said of other recurrent titles used in the worship of Mary […]. Neither do we find in Colonna’s Sermone the well-known parallelism (particularly common in sacred oratory of the period) between Eve and Mary […]». E. Campi, «Vittoria Colonna and Bernardino Ochino», art. cit., pp. 393–394. 49 Si tratta dei sonetti dal 100 al 110 della sezione S1 dell’edizione Bullock: V. Colonna, Rime, op. cit., pp. 135–140.
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parte terza - centro italia spirituale Lui non macchiasti, e specchio a noi porgesti da mirar fiso nel suo lume altero. Non L’adombrasti, ma quel denso e nero velo del primo error coi santi onesti tuoi prieghi e i vivi Suoi raggi rendesti d’ombroso e grave candido e leggiero. Col chiaro che da Lui prendi l’oscuro de le notti ne togli, e la serena tua luce il calor Suo tempra sovente; ché sopra il mondo errante il latte puro che qui il nudrì, quasi rugiada, affrena de la giusta ira Sua l’affetto ardente. (S1, 110)
Proprio il latte, che qui è l’elemento più naturale che lega la madre al Figlio-Dio, è un motivo ricorrente per sottolinearne l’umanità. Nel sonetto Donna, dal Ciel gradita a tanto onore, l’io poetante domanda proprio alla Vergine come nell’allattare il Figliuol di Dio «non t’ardeva e non t’apriva / con la divina bocca il petto e ‘l core» (S1, 103), portando alle estreme conseguenze la coincidenza delle due nature del Dio fatto uomo. L’intimità del rapporto madre-figlio, che si estende anche ai divini misteri in una condivisione totale della vita e dello spirito, è oggetto del sonetto Con che pietosa carità sovente, dove dopo una deliziosa quartina in cui il Figlio è detto rivelare «con pietosa carità» alla madre «i bei secreti», l’amore che li unisce è collocato anzitutto nella mente di Dio, ristretto nella vita terrena, rinnovato «con maggior nodo» in Cielo: «S’Ei nacque, s’Ei morì, s’Ei salio al Cielo, / per compagna, rifugio, ancella e madre / seco vi scorgo con umile affetto» (S1, 105). Per la sua opera di mediazione è pregata, ma al fine di cercare la salvezza: «So ch’ella prega Te [Dio] per noi, ma o pio / Signor, prega Tu lei che preghi in modo / ch’io senta oprar in me sua vital forza» (S2, 22) oppure è lodata proprio per questa sua funzione in un bel sonetto Donna, che ‘n cima d’ogn’affetto umano, in cui si chiede alla Vergine, ormai nella «perpetua pace» di guardare «al basso mio desir, ch’in terra giace / e vorria alzarsi» seguendo il suo «exemplo» (S2, 26)50. Infatti Maria è pure per Vittoria Colonna, come da tradizione, figura esemplare che racchiude ogni virtù, ma la sua esemplarità è soprattutto prova del modo misterioso e potente con cui Dio opera verso l’umanità, quindi della grazia della redenzione. Maria non è modello solo per la pazienza e l’umiltà, ma perché cooperatrice del mistero della salvezza. 50 Anche nel sonetto S1, 100 tuttavia è invocata come mediatrice, sebbene la grazia richiesta sia la morte.
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Anche i due sonetti S1, 107-108, che ritraggono la Mater dolorosa, prongono questa visione di Maria in funzione della salvezza: se gli occhi del Figlio si chiusero alla morte, si aprirono all’umanità le porte del Cielo. La madre poté sopportare il «mortal colpo» grazie allo «scudo de la fede», per cui poté vedere «l’amore / sfavillar d’ogn’intorno ardente foco» (S1, 107)51. Questo fu per lei come morire, ma sopportandolo, «s’aperse / la strada a noi del Ciel, prima serrata / mille e più lustri da la colpa antica» (ibid.). Ancora più precisamente nel sonetto successivo, una considerazione sulla pietà della madre per il «Figlio diletto / morto», ne valorizza la funzione. Pur soffrendo di un «tormento acerbo e fero», lei avverte che questa è «la vittoria de l’eterno impero», da cui nasce «novo alto diletto» per l’umanità, anche se, «Perché vera madre il partorio, / certo è che infino a la sua sepoltura / sempre ebbe il cor d’ogni conforto privo» (S1, 108), parole che sottolineano il costo per la Vergine della perdita, pur benedetta. Opportunamente Scarpati scrive: «Queste composizioni dedicate alla Vergine poggiano sul colloquio sensibile e vibrante con lei, sull’interrogazione intorno alla sua vita col figlio, alle parole tra loro scambiate, alla maternità trepida, ai modi della sua umanità ora trasfigurata52». Scritture mariane in prosa Alla mater dolorosa Colonna dedica la prosa che conosciamo con il titolo Pianto [o Meditazione] della Marchesa di Pescara sopra la passione di Christo. Eccentrica rispetto alla sua produzione, sappiamo che fu scritta tra il 1539 e il 1542 in forma di lettera a un «Reverendo Padre», allocutivo che in genere la Colonna attribuisce a Bernardino Ochino, come si è visto53. L’occasione è un venerdì santo, non è chiaro se Colonna scriva per ubbidienza esterna o se sia un obbligo interiore quello che la costringe a considerare il «pietoso effetto di veder Christo morto in braccio a la madre54». Subito risulta evidente la natura emozionale ed empatica dello scritto 51 Si veda la fine lettura di G. Forni, «Vittoria Colonna, la Canzone alla Vergine e la poesia spirituale», op. cit., p. 75. 52 C. Scarpati, «Le rime spirituali di Vittoria Colonna nel codice Vaticano donato a Michelangelo», art. cit., pp. 701. 53 Definitivamente identificato in Ochino da Eva-Maria Jung-Inglessis, «Il Pianto della Marchesa di Pescara sulla passione di Cristo. Introduzione», Archivio italiano per la storia della pietà, X, 1997, pp. 149–164. 54 V. Colonna, Meditazione sul Venerdì santo, op. cit., p. 423. D’ora in poi indicherò le citazioni solo con Meditazione e il numero di pagina. Sullo scritto, oltre al citato saggio di Jung-Inglessis, cfr. Abigail Brundin, «Marian Prose Works», in Ead., Vittoria Colonna and the Spiritual Poetics, op. cit., pp. 133–154; G. Forni, «Vittoria Colonna, la Canzone alla Vergine e la poesia spirituale», art. cit.; Eleonora Carinci, «Religious Prose Writings», art. cit. Sulla tradizione mariana del pianto oltre alle pagine centrali del saggio di Carinci (pp. 402–407) si veda Sarah McNamer, Affective Meditation and the Invention of Medieval Compassion, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2010.
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e della devozione, il dolore della Vergine dà così modo di attuare una strategia di meditazione, il cui scopo è approfondire il costo della redenzione. Anche il pianto appare come inscritto nella spiritualità valdesiana e non allineato con la tradizione medievale del planctus Mariae, perché sottolinea il ruolo di Gesù (e di Maria) nella salvezza. Anche questa prosa non è una vera riscrittura del testo evangelico, poiché si tratta della voce della Vergine madre che piange sopra il corpo del Figlio deposto dalla croce. La Meditazione si può dividere in tre parti, una prima che ritrae il quadro della pietà, in cui la madre contempla lo spregio di quel corpo tanto amato e ne evidenzia i tormenti. Ma nonostante le pene patite e le ferite, Maria considera che il corpo di Cristo non ha perso la sua divinità ed è più bello ancora: «essendovi la divinità che nol lasciò mai», «la solita maestà et grande, anzi molto maggiore» (Meditazione, 423). Sono considerate come fonte di meditazione, quasi in un sistematico procedere, tutte le parti del corpo di Gesù, i capelli, il volto, le mani, i piedi55. In questa modalità meditativa ed espositiva Carinci individua una somiglianza con una predica di Ochino e con il pianto di Enselmino da Montebelluna56. Colonna però va oltre e combina la contemplazione del volto con le virtù del figlio: carità, ubbidienza, umiltà, pazienza, pace, riconoscendole nelle parole di Cristo in croce: carità = ignosce illis, quia nesciunt quid faciunt (Lc 23, 33) pazienza = Deus meus, Deus meus quia me dereliquisti? (Mc 15, 34; Mat 27, 46) ubbidienza = in manus tuas commendo spiritum meum (Lc 23, 45) pace = mulier ecce filius tuus (Gv 19, 26) umiltà=consummatum est (Gv 19, 30)57
Queste parole di Gesù in croce sono prese dai sinottici, ma in seguito Colonna attinge anche dagli apocrifi sulla discesa agli inferi. Infatti considera che l’anima di Cristo doveva, nel momento in cui Maria piange il Figlio, essere nel Limbo ad aprire le porte ai santi padri, secondo la narrazione degli apocrifi, ma accettata da Paolo e dalla Chiesa, e per questo «considerava che il pianto suo era cagion di allegreza a tante anime charissime a lei» (Meditazione, 424) e desiderava «che tutto il mondo fusse a veder quello che vedeva, perché godessero di così immensa gratia» (Meditazione, 425). 55 Sembra richiamare S1, 107 Quando vedeste, Madre, a poco a poco, che è una dolorosa contemplazione del corpo di Cristo morto. 56 E. Carinci, «Religious Prose Writings», art. cit., pp. 414–415. Enselmino da Montebelluna, Il deuotissimo pianto de la gloriosa Vergine Maria, Venezia, Luca di Domenico, 1481. 57 Per comporre il settenario delle parole di Cristo in croce, che già aveva una tradizione (Le septe parole che Christo disse in sulla croce, Firenze, Giovanni Stefano di Carlo, ca 1510), manca «sitio» Gv 19, 28.
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Inizia qui un discorso diretto in cui la Vergine si rivolge agli assenti dal Calvario, quella che si può dire una seconda parte, poiché differenziata per il discorso diretto rivolto a Pietro e agli apostoli, Giacomo, Filippo, Andrea, Matteo, Tommaso. Maria si rivolge a loro dando la motivazione (un episodio della vita di Gesù che li riguarda) per cui avrebbero dovuto essere presenti sotto la croce. Quindi si rivolge ai beneficiati da Gesù: Lazzaro, la Samaritana, la Cananea, il cieco nato, Nathanaele, Zaccheo, la vedova, l’adultera, Marta, i nove lebbrosi, le donne di Gerusalemme, passando in rassegna tutti i personaggi dei Vangeli che hanno ricevuto attenzione o miracoli da Gesù. Li invita accoratamente: «se non venite tutti adesso, non ne sarà mai più possibile vederlo, adorarlo e ringratiarlo58. Fornito è il tempo che s’è degnato habitar in terra» (Meditazione, p. 426). In questa parte c’è una forte partecipazione dell’io, che quasi si identifica con la Vergine, i cui pensieri sono infatti esposti in prima persona. Ricordare i personaggi e i miracoli ha pure l’effetto di accrescere la partecipazione empatica, favorire un processo meditativo stimolato da memorie evangeliche, di cui non è data narrazione. La terza parte è costituita dal pensiero di gratitudine espresso da Maria per essere stata «madre de sì obediente figliuolo», e per poter «dilettar in questa pena», diletto dovuto all’eccesso di amore dello Spirito Santo (Meditazione, 427). La Vergine ringrazia tutte le creature, benché «a lei sola appartenesse il grand’offitio de supplire a tanto debito», mostrando così grande consapevolezza del beneficio della redenzione. «Onde havria voluto liquefarsi, consumarsi, anzi farsi ultima nel fuoco del’amore, e ne le lagrime de la compassione, per toglier al mondo et a se stessa l’ingratitudine, et render a Dio lo ossequio et il colto che gli conveniva» (Meditazione, 427). Sono parole che sottolineano ancora il ruolo della madre nel processo redentivo e che assegnano alla Vergine una funzione attiva e non secondaria. Lo scritto riflette evidentemente lo spirito dell’Evangelismo, in quanto Maria è vista più per la sua funzione salvifica che come avvocata, mediatrice di grazie. La Maria immaginata dalla Colonna si mostra così consapevole del suo ruolo nella salvezza che il dolore è converso in gioia, «né da sì degna opera l’havrebbe voluta rivocare per nisciun suo contento» (Meditazione, 427), e se l’amore, l’umiltà, la pazienza, l’ubbidienza, le davano pena, proprio perché vedeva nel Figlio le stesse virtù in supremo grado, solo la fede «la sostenne in vita et lei sostenne viva la fede, per reinvestirne tutto il mondo, che n’era allora spogliato» (Meditazione, 428).
58 Conferma invece la presenza del Padre eterno, dello Spirito Santo, degli angeli, delle anime del Limbo, di Giuseppe e Nicodemo, che lo seppellirono, di Giovanni, della Maddalena, che erano con Maria sotto la croce.
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Il sermone si chiude con l’invito a ogni cristiano a mantenere viva la fede dalla Vergine Maria ricevuta nascendo. Anche L’oratione della Marchesa di Pescara sopra l’Ave Maria verte sulla salvezza59. Si tratta di un commento della salutatio angelica in forma di preghiera, rivolta direttamente alla Vergine dalla voce che dice io. È ripartita in sei parti, una per ciascuna delle particelle di cui si compone la preghiera mariana (manca l’ultima invocazione, Nunc et in hora mortis nostrae), e riafferma il ruolo della Vergine nel processo redentivo. Per commentare l’Ave Maria è messa a confronto l’indegnità dell’io rispetto all’angelo nobilissimo che salutò Maria, per cui l’ascolto dell’invocazione sarà per la Vergine un esercizio di umiltà: «hora te humilij ad una misera peccatrice; allhora salvasti la generatione humana, hora salvarai una sola vile creatura» (Orazione, 429). Sulle stesse modalità si muove per la parte relativa a Gratia plena, poiché è messa a confronto la ricchezza di Maria e la pochezza («vacuo vaso») dell’io, ma «quanto magior necessità discopri in me, tanto più so che la tua pietà si accende» (Orazione, 430). Di Dominus tecum ribalta il significato, poiché essendo il Signore sempre con lei, essendo lei e il Signore una «medesima cosa», allora invita Maria a dare a lei il Figlio, come lo offrì infinite volte nella vita di Gesù (sono qui ricordati tali eventi, dall’adorazione dei pastori e dei Magi, fino alla morte in croce). Chiede ora di ricevere non il Gesù trionfante, piuttosto il Gesù della passione e della morte, per «rompere la durezza del cuor [su]o», per renderla «viva subito», avendo pietà delle sue miserie (Orazione, 430). Per Benedicta tu in mulieribus et benedictus fructus ventris tui, Iesus, ricorda appunto che la salvezza è venuta da Maria, che lei ha «liberato il mondo dalla perpetua maledictione», ha dato il «vero uso del viver in divina libertà», ci «ha fatti degni del consorzio de gli Angeli» (Orazione, 431). Per Sancta Maria, mater Dei chiede di essere assistita nello spendere la vita in modo da non offendere la divina maestà, da non commettere errori che impediscano la misericordia divina di operare, di non impedire l’opera dell’autore di ogni bene. Infine chiede «gratia de honorarlo, amor da contemplarlo, ricchezza per goderlo» (Orazione, 431). Ora pro me peccatrice, l’ultima particella è modificata e formulata in latino, ma con l’ultimo lemma in volgare. Con cinque riprese di «Ora per me» in anafora, invoca per poter vivere con felicità, consumarsi per amore, di essere sempre con lei (Orazione, 432). Anche in questa orazione la figura della Vergine è strettamente connessa con quella del figlio, l’io poetico prega per partecipare a questa condivisione per poter beneficiare della salvezza, per averla ad esempio e condividere la fede. Dunque, 59 Pure edita da Paolo Simoncelli, Evangelismo italiano del Cinquecento, op. cit., pp. 429–432. Uso questa edizione per le citazioni, indicando solo Orazione seguito dal numero di pagina.
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1- «guardando spesso / le sacre carte». vittoria colonna e la bibbia
la Vergine è invocata per intensificare il rapporto con Cristo, per ottenere consapevolezza del sacrificio redentivo. L’importanza della funzione della Vergine nel disegno di salvezza, così sottolineato dalla Colonna, ha potuto far scrivere che Vittoria Colonna sta proponendo «a subtle yet radical transformation of traditional Mariology. […] Everything that Colonna writes about the mother of God is, in fact, systematically subordinated to Christology and soteriology60». Questa opzione porta a onorare Maria in quanto legata a Cristo, subordinandola al Figlio. Ne è conferma una lettera scritta ancora alla cugina Costanza, che tratta proprio della Vergine, una meditazione (dopo i saluti si legge «Questa mattina il mio più caro pensiero vedeva con l’occhio interno la Donna Nostra61») in cui vede la Vergine nella gloria dei Cieli, superiore alle gerarchie angeliche (passa in rassegna le nove gerarchie attribuendo a ciascuna la ragione per cui la Vergine è superiore ad esse) e «solo all’infinito figlio di poco inferiore». Di lei godono tutte le tre persone della Trinità, che si saziano in «questo candido e purissimo cristallo62». Segue la considerazione del rapporto terreno con il Figlio mostrando gli infiniti paradossi della sua condizione: «nutrendo l’Auttor d’ogni vita, era internamente nodrita da lui, come sostenendolo si sosteneva63». I gesti della quotidianità del rapporto madre-figlio sono ribaltati per dar luogo alla divinità di Cristo ed esposti con un linguaggio altamente mistico, che parla di dolcezze, ebrietudine, gustare, ardore, ardere. Dagli scritti mariani della Colonna emerge l’intima gioia, quasi un’allegrezza, che viene associata al sacrificio che Maria ha fatto per la salvezza dell’umanità, rendendola quindi coatrice, con Cristo, del percorso redentivo.
60 E. Campi, «Vittoria Colonna and Bernardino Ochino», art. cit., p. 395. E aggiunge: «Colonna subordinates Mary to Christ, relocating her to the place she feels she belongs». 61 V. Colonna, Carteggio, op. cit., p. 295. 62 Ibid., p. 297. 63 Ibid., p. 298.
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Chiara Matraini tra profano e sacro Non è facile documentare l’appartenenza della Matraini agli ambienti eterodossi che avevano interessato Lucca alla metà del secolo, ma la poetessa doveva aver respirato il clima innovatore della città, anche se, come si vede dal canzoniere giovanile, i suoi interessi vertevano in gioventù verso orizzonti genericamente filosofici e platonici1. L’amore per la conoscenza profonda che va alla radice dell’anima è tuttavia un comune denominatore della sua scrittura, dalle giovanili rime agli scritti spirituali dell’età matura; infatti riemerge a ispirare l’ultima opera, i Dialoghi spirituali, dopo prove più precisamente devozionali. 1
La bibliografia su Matraini si concentra quasi esclusivamente sulla sua produzione poetica: Alan Bullock e Gabriella Palange, «Per una edizione critica delle opere di Chiara Matraini», in Studi in onore di Raffaele Spongano, Bologna, Boni, 1980, pp. 236–262; Giovanna Rabitti, «La metafora e l’esistenza nella poesia di Chiara Matraini», Studi e problemi di critica testuale, XXVII, 1983, pp. 110–145; Giovanna Rabitti, «Chiara Matraini (1515–1604)», in Italian Women Writers: A Bio-Bibliographical Sourcebook, a cura di R. Russel, Westport, Greenwood Publishing Group, 1994, pp. 243–252; Rinaldina Russell, «Chiara Matraini nella tradizione lirica femminile», Forum Italicum, XXXIV, 2000, pp. 415–427; Paola Malpezzi Price, «Chiara Matraini: Petrarchist or Anti-Petrarchist? The Dilemma of a Woman Poet», in Donna: Women in Italian Culture, a cura di A. Testaferri, Ottawa, Dovehouse Editions, 1989, pp. 189–199; Maurice Javion, «Chiara Matraini: Un ‘Tombeau’ pour Pétrarque», in Les Femmes écrivains en Italie au Moyen Âge et à la Renaissance, a cura di G. Ulysse, Aix-en-Provence, Publications de l’Université de Provence, 1994, pp. 247–256. In generale Daniela Marcheschi, Chiara Matraini poetessa lucchese e la letteratura delle donne nei nuovi fermenti religiosi del ’500, Lucca, Maria Pacini Fazzi Editore, 2008. Sulle posizioni religiose della Matraini: Eleonora Carinci, «“L’inquieta Lucchese”. Tracce di Evangelismo nelle opere religiose di Chiara Matraini», Bruniana & Campanelliana, XXIII, 2017, pp. 145– 160. Si vedano poi le moderne edizioni delle sue opere: Chiara Matraini, Rime e lettere, ed. crit. a cura di G. Rabitti, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1989; Chiara Matraini, Selected Poetry and Prose: A Bilingual Edition, a cura di E. Maclachlan e G. Rabitti, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2008; Who is Mary? Three Early Modern Women on the Idea of the Virgin Mary: Vittoria Colonna, Chiara Matraini, and Lucrezia Marinella, a cura di S. Haskins, Chicago-London, The University of Chicago Press, 2008; Chiara Matraini, Le opere in prosa e altre poesie, a cura di A. Mario, Passignano, Aguaplano, 2017; Chiara Matraini, Lettere e rime, a cura di C. Acucella, Firenze, Firenze University Press, 2018.
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Nata nel 1515, doveva aver subito i forti contraccolpi della disgrazia della sua famiglia, causata dalla partecipazione al moto degli Straccioni, che nel 1531 tentò di allargare le maglie della rappresentanza al potere della Repubblica di Lucca anche ai membri della piccola borghesia2. Anche se all’epoca della congiura ella aveva già sposato Vincenzo Cantarini ed era passata alla sua famiglia, che per molti versi si rivelò nemica dei Matraini, Chiara perse nella congiura i due fratelli, uno decapitato l’altro morto in carcere. Anni dopo, già vedova, fu coinvolta in una passione amorosa che fece scandalo, ma che, intrecciata con la dimensione letteraria, forgia il tema del suo canzoniere3. Amica di Lodovico Domenichi e corrispondente di Benedetto Varchi, deve aver respirato le idee degli Spirituali, che erano molto diffusi a Lucca fino agli anni ’70, quando l’aggravarsi della repressione indusse molte famiglie a emigrare in Francia e Svizzera. Giovanna Rabitti intravede dietro il «petrarchismo ortodosso» della Matraini, «il radicamento di idee evangeliche e filoprotestanti» e «la conoscenza dell’opera erasmiana e valdesiana», ma i tratti di tali influssi sono decisamente tenui e non consentono una categorica attribuzione. Anche Eleonora Carinci individua nelle sue opere allusioni «a una spiritualità filo-riformata, simile a quella degli Spirituali4». Indubbia è invece l’ammirazione per Vittoria Colonna, assunta a modello poetico e spirituale5. Nel sonetto Quanto l’alta Colonna il suo gran Sole la poetessa mostra il suo apprezzamento per i «santi carmi» che lodano «l’opre» di Dio, riconoscendosi a lei poeticamente inferiore, «tanto l’alto suo stile avanzar suole / mio ingegno, onde non posso a tanto alzarmi», e assegnandole nella gloria celeste sia «la glorïosa palma» sia la «corona di lauro, edera, oliva6». Chiara Matraini si fa presto conoscere per la ricca produzione poetica e prosastica, che uscì a stampa con le Rime e prose nel 1555, una raccolta di versi, un vero e proprio canzoniere, fortemente caratterizzato da una matrice petrarchista, ac2 3 4 5
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Cfr. Augusto Mancini, Storia di Lucca, Lucca, Pacini Fazzi, 1975, pp. 218–228. Sulla Lucca cinquecentesca: Marino Berengo, Nobili e mercanti nella Lucca del Cinquecento, Torino, Einaudi, 1999. Chiara Matraini, Rime e prose, Lucca, Busdragni, 1555. E. Carinci, «“L’inquieta Lucchese”». Tracce di Evangelismo nelle opere religiose di Chiara Matraini», art. cit., p. 159. Matraini poteva aver conosciuto la Marchesa di Pescara, quando nel 1538 si era recata a Lucca. A lei dedica un sonetto in cui manifesta la sua ammirazione Quanto l’alta Colonna il suo gran Sole, riportato nel codice Vaticano 5225, cfr. Giovanna Rabitti, «Inediti vaticani di Chiara Matraini», in Studi di filologia e critica offerti dagli allievi a Lanfranco Caretti, Roma, Salerno, 1985, I, pp. 225–250: 241. Ibid. Nell’oliva si può riconoscere la sapienza, nell’edera la fede. Peraltro l’edera è richiamata in un sonetto della Colonna: Qual edera a cui sono rotti ed arsi, in cui dihiara appunto che l’anima è come l’edera, senza appoggi, «mentre non corre al glorïoso legno / de la nostra salute, ove erga e annodi / le sue radici infin a l’alta cima; / avolta, unita a quel sacro sostegno, / vuol rivederla il Padre, ove Egli in prima / l’aveva legata con sì dolci nodi». Vittoria Colonna, Rime, a cura di A. Bullock, Bari, Laterza, 1982, p. 181.
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compagnato da lettere, tra cui una missiva a M.D. in cui sostiene il valore del tema amoroso, platonicamente inteso, e un’orazione sull’arte della guerra, in cui esalta i valori civili a difesa della patria7. La raccolta poetica ha un forte carattere autobiografico, cui si sommano altri caratteri peculiari, «quali un generico platonismo e il riflesso delle relazioni intrattenute dalla M. nel biasimato salotto letterario degli anni Cinquanta, le quali, con il loro intrecciarsi danno alla raccolta una coloritura moderatamente sperimentale, presente anche sotto il profilo delle scelte metriche (varietà dei madrigali, frequenze di sestine e ottave)8». Nel canzoniere i motivi spirituali sono fusi con l’esperienza amorosa, ma emergono vive le aspirazioni alla conoscenza così come all’elevazione interiore. La raccolta le diede subito una rinomanza sovraregionale, tanto che tutte le sue rime furono accolte nelle Rime di diversi signori napolitani, e d’altri (Venezia, Gabriele Giolito de Ferrari e fratelli, 1556), pubblicazione curata da Lodovico Dolce, e alcuni suoi componimenti furono inclusi nella raccolta Delle rime di diversi eccellentissimi autori allestita da Lodovico Domenichi (Lucca, Busdraghi, 1556) e ne La fenice di Tito Giovanni Scandianese (Venezia, Gabriele Giolito de Ferrari e fratelli, 1557). Stranamente la Matraini non ha posto nella raccolta di Rime diverse d’alcune nobilissime, virtuosissime donne, curata dal Domenichi per il Busdraghi nel 1559, una raccolta che per la prima volta presenta solo poetesse (ben cinquantatré nomi, alcuni noti, come Vittoria Colonna, altri sconosciuti, come Alda Torella Lunata o suor Girolama Castellana). L’interesse verso una scrittura impegnata anche di valori morali che caratterizza i testi giovanili è confermata da un’eccentrica traduzione, l’orazione pseudoisocratea, A Demonico, che Matraini pubblicò nel 1556 sempre a Lucca presso Busdraghi, dedicandola al figlio. Questa orazione era un testo diffuso nel Rinascimento, dal forte carattere educativo, ed è usata dalla Matraini per instillare nel figlio amore per la virtù, interesse per la dimensione spirituale, avvertenze per una corretta valutazione delle esperienze del mondo9. Negli anni della maturità la poetessa conferma queste istanze filosofiche, dedicandosi alla scrittura di prose spirituali: le Meditazioni spirituali (1581), le Considerationi sopra i Salmi (1586), il Breve discorso sopra la vita et laude della Beatissima Vergine e Madre del Figliuolo di Dio (1590), i tardi Dialoghi spirituali (1602), in cui non manca di inserire componimenti poetici, tanto che possono considerarsi prosimetri tutte le opere della maturità. 7 8 9
Rime et prose di Chiara Matraini, gentildonna lucchese, Lucca, Busdraghi, 1555. Giovanna Rabitti, «Matraini, Chiara», in Dizionario biografico degli italiani, LXXII, 2008, pp. 595–600. Sull’orazione nel Rinascimento: Tommaso Kaeppeli, Le traduzioni umanistiche di Isocrate e una lettera dedicatoria di Carlo Marsuppini a Galeotto Roberto Malatesta (1430), Faenza, Lega, 1955. Questa preoccupazione educativa verso il figlio è confermata dalla lettera Al suo figliuolo Federigo Cantarini. Gli scrive molti degni e memorabili ricordi, si legge in Chiara Matraini, Lettere e Rime, a cura di C. Acucella, op. cit., pp. 147–155.
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Meditazioni spirituali Anche se le Meditationi spirituali non possono essere considerate una scrittura biblica tout court, esse sono ovviamente impregnate di cultura biblica, non solo per la loro tematica e la loro natura, ma anche perché frequenti sono i riferimenti biblici, che mostrano la pervasiva conoscenza scritturale della loro autrice. Le meditazioni sono una specie di visione in sogno; di primo acchito si direbbe di chiara impronta dantesca, ma si avverte invece un intrecciarsi di relazioni testuali di varia natura. Si individua infatti anche l’eco dei Trionfi petrarcheschi e soprattutto del Secretum, anche se i dialoganti della Matraini non assumono forme così definite come Agostino e la Verità del dialogo petrarchesco. La rappresentazione dei conflitti interiori mostra tuttavia un forte debito verso il linguaggio petrarchista e verso il procedere del Secretum. Ma soprattutto è l’ideazione del colloquio alla ricerca di una verità superiore a indicare che fondamentale per questa scrittura deve essere stato l’incontro con il testo di Petrarca. Ma l’ipotesto fondamentale e dichiarato è in realtà il De consolatione philosophiae di Severino Boezio, che Matraini aveva letto nella traduzione del Varchi, e ne parlava in una lettera per la forte impressione che aveva ricevuto10. Ringraziando l’amico Coccapani del dono di una copia della traduzione di Lodovico Domenichi, lo dichiara ispiratore di un suo dialogo: Io lo [Boezio] vidi già quand’era a Lucca tradutto dal Varchi, essendomi stato prestato, e mi piacque tanto che desideravo ancor poi che fui qua di rivederlo e lo procacciai latino, non lo possendo avere altrimenti, del quale mi servii assai in certo Dialogo che io feci, come potrà forse un giorno vedere. Ora lo vedrò di nuovo tradotto dal Domenichi, non manco amico mio del Varchi, e con esso simile piacere […]11.
Il fatto che menzioni la scrittura di un dialogo ispirato da Boezio non dovrà necessariamente indurci a credere che si tratti di uno dei Dialoghi spirituali, l’ultima sua 10 I debiti verso il testo di Boezio sono ben dettagliati nella «Introduzione» di Anna Mario, in Chiara Matraini, Meditazioni spirituali, in Ead., Le opere in prosa e altre poesie, a cura di A. Mario, op. cit., pp. 159–207: 176–192. La traduzione del Varchi aveva avuto in quegli anni ben due edizioni: Severino Boezio, Della consolazione della Filosofia. Tradotto di lingua latina in volgare fiorentino da Benedetto Varchi, Firenze, Lorenzo Torrentino, 1551 e 1555. Boezio era stato anche tradotto da Lodovico Domenichi: Severino Boezio de’ conforti filosofici, tradotto per messer Lodovico Domenichi, Venezia, Giolito de Ferrari, 1562. 11 Carteggio Matraini-Coccapani, in Chiara Matraini, Le opere in prosa e altre poesie, a cura di A. Mario, op. cit., pp. 87–156: 121. Sulla scrittura epistolare: Giovanna Rabitti, «Le lettere di Chiara Matraini tra pubblico e privato», in Per lettera. La scrittura epistolare femminile tra archivio e tipografia, a cura di G. Zarri, Roma, Viella, 1999, pp. 209–234; Cristina Acucella, «Ai margini della crisi di un genere le lettere di Chiara Matraini tra il ‘comporre’ e lo ‘scrivere’», in Epistolari dal Due al Seicento: modelli, questioni ecdotiche, edizioni, cantieri aperti, a cura di C. Berra, P. Borsa, M. Comelli e S. Martinelli Tempesta, Milano, Università degli Studi, 2018, pp. 743–768.
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opera, perché anche le Meditazioni spirituali sono un dialogo, sebbene presentate come narrazione, e sono assai prossime alla Consolazione boeziana. Non è facile comunque determinare l’epoca di composizione di quest’opera: se quanto dice nella lettera al Coccapani da Genova, dove era stata per qualche anno tra il 1562 e il 1565, si riferisce a queste meditazioni, possiamo immaginare un periodo di gestazione assai lungo, perché l’opera va alle stampe solo nel 158112. L’opera si apre con un ragionamento al lettore, in cui dichiara l’intento educativo, apostrofandolo contro il pericolo di una falsa ricerca del sapere, come successe ai progenitori nell’Eden. L’io narrante racconta di essersi vista naufragare in un mare tempestoso, dopo essere stata attirata su una navicella dove stanno tre gentili donne, che però si rivelano infide tentazioni del mondo. Presa coscienza della loro fallacia, la protagonista tenta perciò di analizzare la propria condizione, e viene aiutata in questo dall’Anima superiore, che la rimprovera di aver ceduto alla tentazione, considerando in particolare quanto lei fosse «essercitata nello studio delle divine Scritture13». Inizia così il cammino di conoscenza sotto la guida dell’Anima superiore, che spiega all’Anima inferiore i misteri del divino in un percorso di rivelazione «secondo un iter allegorico che va dalla tenebra della notte-peccato alla luce chiara del sole-Verità14». L’opera è divisa in dodici capitoli e si chiude con una canzone al Padre del Ciel per chiedere perdono, invocando la figliolanza divina. Si intreccia non numerose tessere bibliche che ricordano il pentimento di Pietro, il sacrificio di Abele, l’aiuto dato al popolo d’Israele nella liberazione dalla schiavitù d’Egitto. L’edizione originale comprendeva anche alcune xilografie, principalmente rappresentanti una donna orante, ma anche un’Annunciazione15. I riferimenti biblici sono ovviamente fondamentali, fin dall’avvio ovvero dallo smarrimento che è ricondotto proprio all’errore dei progenitori, che guardarono più «all’esteriore apparente bellezza dell’arbore della scienza che la bontà nascosta di quello della vita16». Nel suo quasi naufragio la protagonista si paragona a Giona in preda ai flutti, sperando che, come Dio ascoltò la voce del profeta, così possa ascoltare quella della protagonista smarrita. Il testo associa pentimento e preghiera, prendendo il salterio a modello sia per il suo ipotetico autore, Davide, ricordato proprio perché grazie al pentimento riguadagnò la grazia perduta, sia per le fre-
Chiara Matraini, Meditationi spirituali, Lucca, Vincenzo Busdraghi, 1981. Ead., Meditazioni spirituali, in Ead., Le opere in prosa e altre poesie, op. cit., pp. 209–286: 212. A. Mario, «Introduzione», art. cit., p. 164. Sulle dodici incisioni, per lo più la stessa ripetuta, si veda A. Mario, «Introduzione», art. cit., pp. 169–170. 16 C. Matraini, Meditazioni spirituali, op. cit., p. 210.
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quenti citazioni di un testo funzionale a un percorso di conoscenza nato da un errore. Sono frequenti le citazioni di isolati versetti dei Salmi, ma anche da altri testi, come dal Cantico dei Cantici, dall’Apocalisse, dai Proverbi, dalle lettere di san Paolo ai Romani e agli Ebrei17. Cristo è dichiarato ripetutamente il riferimento per la salvezza, a cui solo si può guardare come terraferma per i naviganti18. La prosa, dal forte carattere edificante, è spesso intersecata da rime, per lo più sonetti in forma di preghiera, rivolti al «Padre del Ciel», al «Padre», al «Signor», al «Re del Ciel», al «Del Cielo etterno alto motore», all’«Alto re delle Stelle», al «Re del Ciel benignissimo» (i sonetti chiudono i capitoli). Vi sono anche componimenti rivolti all’Anima, al suo volo, in forma di pentimento per gli errori commessi. Qui sono evidenti più che mai i prestiti petrarcheschi (un solo, chiaro, esempio: «Io piango, lassa, i miei perduti giorni / e le lacrime tante indarno spese19». Tre di questi sonetti (Padre del Ciel, dopo molt’anni e molti; Fra le dubbie speranze e ‘l van dolore; Io piango, lassa, i miei perduti giorni) erano parte già delle Rime e prose, e sono quelli che hanno solo tenui legami con lo sviluppo dell’opera, quasi una forma di recupero di un passato funzionale al discorso di pentimento20. Commentare i salmi penitenziali Quando Chiara Matraini si accinge a commentare i Salmi sono passati appena vent’anni dalla traduzione di Laura Battiferri, ma è radicalmente mutato l’atteggiamento del mondo cattolico verso le traduzioni bibliche21. Se nel 1564 era ancora possibile pubblicare una versione in volgare, negli anni Ottanta una tale opzione era impensabile. Nonostante la parziale apertura dell’Indice tridentino, che aveva riaperto le tipografie a ben due nuove edizioni della Bibbia del Malerbi, una a Venezia nel 1566 presso Andrea Muschio, l’altra presso Gerolamo Scoto nel 1567 sempre a Venezia e ad alcune traduzioni dei Salmi22, gli apparati censori si erano avviati verso un progressivo irrigidimento. Anche senza l’emanazione di altri Indici, l’irrigidimento era tale da rendere impensabile la traduzione di un testo biblico, anche prima della definitiva sanzione decretata dall’Indice clementino del 1596.
17 Ibid., pp. 233, 239 per i Salmi, p. 218 per il Cantico, p. 231 per l’Apocalisse e Proverbi, p. 237 per le lettere paoline, passim. 18 Ibid., 232. 19 Ibid., p. 253. Citazioni di Petrarca e Dante si trovano soprattutto nel capitolo primo e sono da Triumphus mortis II, 55–57 (Francesco Petrarca, I trionfi, a cura di G. Bezzola, Milano, Rizzoli, 2016) e Inferno I, 97–99. 20 C. Matraini, Meditazioni spirituali, op. cit., pp. 219, 235, 253. 21 Chiara Matraini, Considerationi sopra i sette Salmi Penitentiali del gran re, & profeta Dauit, Lucca, Vincenzo Busdraghi, 1586. 22 Si veda supra il capitolo sulla Battiferri traduttrice dei Penitenziali.
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Le Considerationi sopra i sette salmi penitentiali del gran re e profeta Davit perciò non tentano una traduzione, propongono invece un esteso commento per ogni salmo penitenziale, condotto per mostrare il vero atteggiamento del penitente per conquistare un radicale rinnovamento di vita. Al momento in cui si dedica a tale scrittura, la Matraini è sui settant’anni e ha a disposizione una consistente produzione di testi esplicativi della preghiera penitenziale per eccellenza del mondo cristiano. Espressamente dedicate ai penitenziali erano usciti infatti numerosi commenti, in un assieparsi di edizioni che seguivano l’interesse del mercato librario devoto, che conobbe nella seconda metà del secolo uno sviluppo ineguagliato23. L’operazione della Matraini è prossima a quella dei suoi predecessori, anche lei imposta le sue considerazioni commentando i singoli versetti, di cui offre una spiegazione che approfondisce soprattutto le ragioni, le modalità, i risultati del percorso penitenziale. Ma nessuno di questi testi sembra essere seguito dalla Matraini, che invece ricorre di frequente al commento di Gregorio Magno24. Nella dedica a Lucrezia d’Este e della Rovere, rivela di aver ricevuto insistenti inviti da «molte degne e devote persone» di comporre un’esposizione sopra i sette penitenziali, ma che, considerando la difficoltà dell’impresa aveva esitato per almeno cinque anni. Infine, considerando il bene che ne poteva derivare, ancorché da un «debole» ingegno fosse venuta l’opera, aveva deciso di intraprenderla. Le 23 Le opere a commento dei salmi penitenziali uscite in quel torno di tempo erano molte: Discorsi spirituali, sopra il giardino de’ peccatori: nella esposizione de sette salmi penitentiali, composti dal r.p. fra Teofilo Fedini fiorentino dell’ordine de Predicatori. Dove si tratta della vera penitenza christiana, e del modo del convertirsi a Dio, con due tavole, una de’ capi principali, l’altra delle cose piu notabili contenute nella presente opera, Venezia, Gabriele Giolito De Ferrari, 1567; Ragionamenti del reverendo padre frate Bonaventura Gonzaghi da Reggio convent. di s. Francesco sopra i sette peccati mortali, & sopra i sette salmi penitentiali del re Dauid ridotti in sette canzoni, & parafrasticati dal medesimo, Venezia, Gabriele Giolito De Ferrari, 1567; I sette salmi penitentiali tradotti et esposti per il r.p.f. Domenico Buelli, dell’Ordine de Predicatori general inquisitor di Novara, Novara, Francesco Sesalli, 1572; I sette salmi penitenziali del santissimo profeta Davitte in lingua volgare dichiarati da m. Bartolommeo Mariscotti. Con gli argomenti innanzi, & alcune annotazioni dopo la dichiarazione di ciascun salmo, Firenze, Giorgio Marescotti, 1573; I sette salmi penitentiali con una breve, et chiara spositione, secondo quel sentimento, che conviene ad un penitente, senza allontanarsi dal letterale. Del signor Flaminio Nobili, Venezia, Domenico Nicolini da Sabbio, 1583; Dichiaratione de i sacri salmi di David re e profeta del r.p.d. Angelico Buonriccio canonico regolare della congregazione di s. Salvatore. Opera pia & divota, & ad ogni fedel christiano utilissima. Nuovamente posta in luce, Venezia, Giovanni Battista Somasco, 1584. Nel 1585 era ancora uscita la Dichiaratione dei salmi di Francesco Panigarola, che si occupa però di tutto il salterio e non solo dei penitenziali. Matraini non sembra tener conto di nessuna di queste opere. 24 Cfr. Anna Mario, «Introduzione» in Chiara Matraini, Le opere in prosa e altre poesie, op. cit., pp. 289–342: 328–340. Eleonora Carinci individua alcune affinità con le considerazioni sui salmi di Lutero, ma sottolinea anche che l’importanza assegnata dalla Matraini alla confessione non consente di considerare i suoi commenti un testo riformato, nonostante il peso dato al sacrificio di Cristo. E. Carinci, «“L’inquieta Lucchese”». Tracce di Evangelismo nelle opere religiose di Chiara Matraini», art. cit., pp. 152–154.
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Considerazioni vanno a stampa nel 1586, quindi è possibile pensare che vi lavorasse da quando aveva dato alle stampe le Meditazioni. Apre la trattazione un sonetto, Prego a Dio, in cui il soggetto che dice io si pone nell’atteggiamento di penitente, consapevole del fallo commesso, e in supplice atteggiamento di attesa del perdono. Anche quest’opera è infatti sostanzialmente un prosimetro: ogni commento è chiuso da un sonetto, sempre come Prego a Dio. Solo alla fine, in chiusura dell’ultimo commento, si ha un sonetto, Rende grazie a Dio, in cui ringrazia non solo per aver portato a termine l’impresa, ma per aver rinunciato al «mondo errante» e capito «quanto sia breve e tragica la storia / de le cose terrene amate innante25». Il commento è infatti anche un percorso di conoscenza, condotto in prima persona, seguendo il modello del re David «uomo veramente raro e divino», che bene dimostra come «con umili preghi e calde lagrime» si debba cercare il perdono di Dio26. In apertura, nelle pagine proemiali, la scrittrice avanza le proprie scuse per l’altezza del compito e la sua modesta attitudine ad esso: E dovendo io esporre i sette salmi penitenziali, avanti a ciascun’altra cosa parmi di dover avvisare il lettore che non aspetti da me quell’alte e sottili esposizioni che da molti eccellenti e divini intelletti sono già state fatte; perché, non avemo preso simil fatica se non per giovare alle persone le quali o non hanno commodità di leggere quei gran teologi che i detti Salmi hanno commentato, o veramente leggendoli non l’intendono, ho voluto scrivere a quelli una facile e breve dichiarazione, acciò che sia per utilità e consolazione dell’anime loro27.
In effetti le considerazioni sono un’esposizione piana di ogni versetto dei sette penitenziali, dove si propone meditazione e esposizione insieme. A tratti compare anche la versione in volgare di qualche parola, quando necessario a esplicarne il valore. Per esempio per il primo versetto del salmo sesto, «Domine, ne in furore tuo arguas me, neque in ira tua corripias me», Matraini commenta: «Et ancorché il Profeta usi questa voce “furore” quando dice: “Signore, non mi arguire nel tuo furore”, tuttavia è da sapere che in Dio non si ritrova né ira, né furore, né alcun’altra perturbazione né alterazione che dir vogliamo, perché l’essere e natura di Dio è differentissima dalla natura nostra28». Come si vede la brevissima traduzione è
25 Chiara Matraini, Considerazioni sopra i sette salmi penitenziali del gran re e profeta Davit, in Ead., Le opere in prosa e altre poesie, op. cit., pp. 343–483: 483. 26 Ibid., p. 349. 27 Ibid. 28 Ibid, p. 351.
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finalizzata a perfettamente intendere il significato del testo biblico. Ma in alcuni casi, nonostante il divieto sulle traduzioni, Matraini mette in volgare anche lunghi passi, apparentemente solo per rendere meglio fuibile il testo29. La poetessa conduce le sue considerazioni cercando di dare senso alle parole del salterio, in funzione di quello che è il suo ipotetico lettore, rendendo comprensibili, pratici e applicabili i versetti dei Salmi. Nella sua interpretazione cita sovente Gregorio Magno per la sua Explanatio in septem Psalmos Poenitentiales, ma frequenti sono anche i riferimenti a Agostino, per le Enarrationes in Psalmos, e soprattutto alle Sacre Scritture, a cui attinge abbondantemente citando dai Profeti (Isaia, Ezechiele), dai libri storici (soprattutto i libri di Samuele per la storia di David), ma anche dalle lettere paoline e apostoliche, dai Vangeli, ovviamente, e dall’Apocalisse. Alcuni eventi sono ripresi, perché costituiscono antefatti essenziali per il discorso: la caduta originale, l’Esodo, le figure di Giobbe e di Giona, l’uno perché costante nelle prove, l’altro perché capace di ravvedersi, gli eventi della vita di Gesù, soprattutto della passione e morte. Risulta evidente la familiarità della Matraini con le Sacre Scritture, che le consente di muoversi agilmente, ricorrendo in modo opportuno a figure e episodi funzionali al suo discorso. Il filo conduttore è il peccato e la penitenza di David, cui sono ovviamente attribuiti i Salmi. David è il modello del penitente: «E che giovamento arrecherebbe a noi peccatori il ricordarsi dei peccati di Davit, se anco non pensiamo al modo che lui tenne per impetrar da Dio perdono di quegli30?». Così David serve per insegnare a tenere a freno i propri desideri, a impetrare il perdono dei propri peccati, a non perdersi d’animo e mai diffidare dell’infinita misericordia divina. L’esposizione è piana e mira a mostrare le modalità di un’efficace attitudine penitenziale, a guidare il lettore verso una piena attuazione di una vita di fede, per cui sono continuamente mostrati esempi, da san Pietro alla Maddalena, al ladro che, crocifisso con Cristo, ottenne il perdono. Sono esempi chiari e facili, reiterati a mostrare l’efficacia di un atteggiamente remissivo e pentitente. Nello stesso tempo Matraini sembra interessata a mostrare le modalità di pregare in modo efficace, essendo i Salmi usati per tale scopo. Il modo che lei propone è quello «caldo et affettuoso» tenuto da David, quello che egli ha imparato dalla storia sacra: da Mosé, «il quale sul monte fece orazione a Dio con tutta la sua mente e con tutto l’affetto del suo cuore», o da Anna, moglie di Elkanah, che «orò a Dio con tutta la purità 29 Sono tradotti tre versetti della lettera ai Romani (Rm 7, 22–25) e un passo di Daniele (Dn 3, 29 e 38–39) nel commento del salmo quarto (ibid, p. 415 e 427), un passo di Isaia, 40, 6 nel commento al salmo quinto (ibid, p. 434). 30 Ibid, p. 406.
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del suo cuore e con tutto l’affetto dello spirito, accompagnando la sua orazione con abbondanza di lagrime e di profondi sospiri31». L’atteggiamento didascalico sottende dunque questo commento, che più che un contributo all’esegesi potrebbe considerarsi un percorso educativo per il credente. Scritti mariani Nel 1590 Chiara Matraini dà alle stampe il Breve discorso sopra la vita et laude della beatissima Vergine Madre di Dio32, considerata la più fortunata delle sue opere, perché ebbe un’altra edizione nel 1599 (Venezia, Giacomo Vincenti 1599) e almeno sei edizioni nel Seicento (una uscì nel 1645 a Treviso presso Righettini e quattro nella seconda metà del secolo a Venezia presso Giovanni Antonio Remondini, tutte senza data33). Godette pure di annotazioni del canonico Giuseppe Mozzagrugno, «intervenuto a garantire l’ortodossia del testo di M[atraini] laddove esso poteva prestarsi a illecite interpretazioni, non tollerate o riconosciute dalla Chiesa», annotazioni che non appaiono però in tutte le edizioni34. L’opera è stata ricondotta a un miracolo che si era verificato a Lucca nel 1588, che aveva causato molta venerazione per la Madonna; in effetti nel proemio l’autrice ricorda «i molti et stupendi miracoli» della Vergine a Lucca, inoltre la figura venerata campeggia anche in un’incisione che apre il discorso35. In realtà Chiara Matraini mostra ripetutamente di interessarsi alla figura di Maria. Nella raccolta di Lettere con la prima e seconda parte delle rime del 1595, uno dei testi in prosa era uno scritto per la Vergine, sotto forma di lettera, in cui l’autrice si pone il proposito di elogiare la Madre di Dio e la invoca al proprio soccorso36. Ricorrendo all’espressione paolina, riferita alla carità, la lettera si apre con una confessione sull’impossibilità di dire adeguatamante tutte le lodi della Vergine, «sola eletta dal gran Re 31 Ibid., p. 351. 32 Chiara Matraini, Breue discorso sopra la vita e laude della beatiss. verg. e madre del figliuol di Dio. Di m. Chiara Matraini, gentidonna luchese, con alcune annotationi nel fine, del r. don Giuseppe Mozzagrugno Napoletano, Lucca, Vincenzo Busdraghi, 1590. 33 Una attenta disamina delle edizioni in Bullock e Palange, «Per una edizione critica delle opere di Chiara Matraini», art. cit.; Anna Mario, «Introduzione», in C. Matraini, Le opere in prosa e altre poesie, a cura di A. Mario, op. cit., pp. 487–542, e in Cristina Acucella, «Descrizione dei testimoni», in C. Matraini, Lettere e rime, a cura di C. Acucella, op. cit., pp. 80–88. 34 Sugli interventi di Mozzagrugno cfr. A. Mario, «Introduzione», art. cit., pp. 535–542, la citazione da p. 536. 35 A. Mario, «Introduzione», art. cit., p. 487. Sull’opera cfr. Maria Pia Paoli, «Nell’Italia delle Vergini belle. A proposito di Chiara Matraini e di pietà mariana nella Lucca di fine Cinquecento», in Religione cultura e politica nell’Europa dell’età moderna, a cura di C. Ossola, M. Verga e M.A. Visceglia, Firenze, Olschki, 2003, pp. 521–545. 36 La lettera si legge nelle moderne edizioni sia a cura di Giovanna Rabitti, C. Matraini, Rime e lettere, op. cit., pp. 190–195, sia in quella a cura di Cristina Acucella, C. Matraini, Lettere e rime, op. cit., pp. 182–190.
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dell’Universo ad esser mediatrice tra Dio e l’uomo, termine del nostro esilio, via dritta di consiglio, certa speranza del nostro premio, securo porto de’ nostri desideri, stella del cielo, porta del paradiso, camera del divino sposo, stirpe regia di Iesse, apportatrice del trionfante re della gloria, tribunal de l’etterno Giudice37». Le lodi della Vergine continuano accogliendo anche le formule della preghiera alla Vergine di Paradiso XXXIII («più umile e alta di tutte le creature») e attributi scritturali a lei spesso rivolti come figure della sua venuta: «scala di Giacob», «arca del Testamento», «Gloria del Libano», che qualificano la continuità tra la storia del Vecchio Testamento e l’età di Cristo. Nella lettera le lodi si risolvono in preghiera, per ottenere soccorso, aiuto, consiglio, ed infine perché assicuri la salvezza nell’alveo di Cristo. La prosa è seguita da un componimento dalla metrica variata (quartine di endecasillabi, terzine, due madrigali), che pure unisce lodi alla preghiera, in un linguaggio fortemente debitore della canzone alla Vergine di Petrarca (Rerum Vulgarium Fragmenta 366). La lettera riprende in sintesi i motivi del Breve discorso. Anche quest’opera è un prosimetro, in quanto alla prosa sono inframezzati brevi componimenti in genere in lode della Vergine o in forma di preghiera, ma ha ben altra consistenza rispetto alla lettera. Si tratta di una prosa dove la Vergine è lodata per essere il nesso che garantisce la salvezza dell’umanità dannata per la caduta dei progenitori e fonda le lodi su elementi del Vecchio Testamento che prefigurano la venuta e il ruolo di Maria nella storia della salvezza. Il discorso sviluppa però anche, come annunciato dal titolo, la vita di Maria, seguendo i pochi cenni che alla Vergine vengono fatti nei Vangeli. L’avvio è dato proprio dal Genesi e dall’annuncio dell’inimicizia che si instaurerà fra la donna e il Serpente, la sua stirpe e la stirpe di costui. Il passo di Genesi 3, 15 è riportato e persino tradotto: «Io [Dio] porrò inimicizia fra te e la Donna, et il tuo seme et il suo; con ciò sia che tu porrai le insidie e tenderai le reti de’ tuoi inganni d’intorno al piede suo, et ella con esso calpesterà e frangerà il tuo capo38». La narrazione segue i Vangeli, ma sono stati individuati prestiti anche dalla Legenda aurea di Jacopo da Varazze, dai Vangeli apocrifi, dalla Vita Christi di Ludolph von Saxen, un testo molto divulgato nella seconda metà del Cinquecento in Italia39. Matraini non tratta, come farà di lì a poco Lucrezia Marinella, dei natali di Maria, di cui dice appena che nacque «di sangue illustre e regale acciò che in lei 37 C. Matraini, Rime e lettere, op. cit., pp. 191; C. Matraini, Lettere e rime, op. cit., pp. 183. 38 Chiara Matraini, Breve discorso sulla vita e laude della beatiss. Verg. e madre del figliuol di Dio, in Ead., Le opere in prosa e altre poesie, op. cit., pp. 543–625: 553. 39 Sulle fonti impiegate dalla Matraini cfr. Anna Mario, «Introduzione», in C. Matraini, Le opere in prosa e altre poesie, op. cit., pp. 507–534. Per altre opere sulla vita della Vergine, possibili fonti per la Matraini, si veda supra il capitolo su Lucrezia Marinella, pp. 222–223.
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maggiormente apparisse la sua profonda umiltà, fusse più lodata et ammirata, e da Dio soblimata nella sua celeste gloria40». Matraini si limita ai fatti e alle lodi, dice che a tre anni la fanciulla venne condotta al tempio come vergine, «là dove dedicò tutta se stessa nel suo servigio, stando in orazioni, in digiuni e contemplazioni; contenendo sempre la mente fissa alle cose celesti41». All’età di tredici anni fu maritata a Giuseppe, uno «sponsalizio con perpetuo voto della loro verginità e d’inseparabile compagnia et amore spirituale42». Quindi, «venuto il tempo ordinato nel quale il fonte immenso dell’infinito amore dovea dal Cielo scendere e venire ad adacquare la terra sterile della umana generazione», il Signore inviò l’arcangelo Gabriele ad annunziare la sua venuta a Maria. All’Annunciazione è prestata evidentemente molta attenzione: sono commentate le parole dell’angelo, le risposte di Maria, riportate tutte in italiano. Altrettanta attenzione è riservata alla visita a Elisabetta, che è detta a conoscenza «in spirito di profezia» del mistero dell’Incarnazione. Il Discorso segue fedelmente a questo punto la narrazione che viene fatta dal Vangelo di Luca, e dedica particolare attenzione al canto del Magnificat, di cui sono riportati i versetti in latino e viene offerto il commento, versetto per versetto (ma senza traduzione). Questa attenzione alle parole di Maria mostra che più che una narrazione della vita, quello che interessa Matraini è la figura della Vergine, le cui parole sono attentamente pesate, perché mostrano la sua consapevolezza del mistero della salvezza. Matraini segue poi fedelmente la narrazione dei Vangeli sinottici, raccontando del sogno di Giuseppe, degli eventi relativi al censimento, della natività, della visita dei Magi, della presentazione al tempio, della profezia di Simeone e Anna, della persecuzione di Erode, della fuga in Egitto, del ritrovamente di Gesù che discute nel tempio con i dottori della Legge, del miracolo compiuto alle nozze di Cana, della dolorosa passione e morte, della resurrezione43. Più che di narrazioni, si tratta di interpretazioni sul significato di questi eventi, sul ruolo svolto dalla Vergine, sulle sue reazioni agli eventi della salvezza. Inframezzate vi sono costantemente suppliche per averne l’assistenza e lodi delle virtù dalla Vergine possedute. Il discorso si chiude con la morte di Maria, chiamata dal Figlio con i termini del Cantico dei Cantici: «Veni sponsa mea, veni de Libano, veni», e assistita dagli Apostoli, radunatisi miracolosamente intorno a lei.
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C. Matraini, Breve discorso sulla vita e laude della beatiss. Verg., op. cit., p. 555. Ibid. Ibid, p. 558. Secondo Carinci l’opera mostra affinità con il Pianto di Vittoria Colonna. Cfr. E. Carinci, «“L’inquieta Lucchese”». Tracce di Evangelismo nelle opere religiose di Chiara Matraini», art. cit., pp. 154–157. Sul Pianto della Colonna si veda il capitolo precedente, pp. 295–298.
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Dedicata alla cugina Giuditta Matraini, badessa del monastero di san Bernardo in Pisa, l’opera propone anzitutto la Vergine come modello da imitare, come dichiara anche nel componimento che chiude il proemio: Questo, donne, è lo speglio in cui dovete, co’ begl’occhi dell’alma, intento e fiso mirar, se voi volete veder sempre più bello il vostro viso. E s’a lui d’ora in or rivolgerete il chiaro sguardo interno, sempre, l’estate e ’l verno, più belle e grate al vostro vero amante sarete, e ’n terra e ’n Ciel lodate e sante44.
Nella stessa direzione, di proporre Maria come modello, va anche la chiusura dell’opera, dove rinnova l’invito ad imitarla: «Però con ogni studio cerchiamo d’imitarla et, come bisognevoli del suo aiuto, a lei con ogni devoto affetto e reverenza ricorriamo per grazia et misericordia, acciò da noi sia sempremai laudata et ringraziata col suo benedetto figliuolo in tutti i seculi45». Non si notano in questo scritto scostamenti dal culto mariano e della mariologia cattolica, anzi, la Vergine non è solo lo strumento divino per concedere la salvezza all’umanità caduta, ma anche la mediatrice delle grazie, ripetutamente invocata tra un episodio e l’altro della sua vita.
Dialoghi spirituali Due anni prima della morte, Matraini dà ancora alle stampe un’opera, i Dialoghi spirituali, che riprendono in modo originale alcune tematiche già sviluppate nelle Meditazioni spirituali46. La novità di quest’ultimo lavoro è data dalla forma dialogica, in cui due interlocutori dai nomi emblematici, Teofila e Filocalio, parlano per quattro giornate dell’aspirazione alla vera conoscenza, che è quella divina. I dialoghi sono collocati sullo sfondo di giardini. Il primo è quello dove Teofila attende un’amica, la madre di Filocalio, e nell’attesa inizia a istruire il giovane sul retto significato della vita e del sapere umano; per le successive giornate il giardino 44 Ibid., p. 550. 45 Ibid., p. 600–601. 46 Chiara Matraini, Dialoghi spirituali, Venezia, Fioravanti Prati, 1602; in moderna edizione in Ead., Le opere in prosa e altre poesie, a cura di A. Mario, op. cit., pp. 659–731. Sui Dialoghi spirituali si veda Janet Levarie Smarr, «Dialogue and Letter Writing. Laura Cerreta, Isotta Nogarola, Helisenne de Crenne, Chiara Matraini», in Ead., Joining Conversation. Dialogue by Renaissance Women, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2005, pp. 130–153; Anna Mario, «Sui Dialoghi spirituali (1602) di Chiara Matraini», in Poesia. Un dialogo fra letterature, a cura di A.-M. Lievens, Perugia, Morlacchi Editore, 2014, pp. 55–94.
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è quello di Teofila, dove il giovane l’ha raggiunta per continuare la conversazione, su suo invito. Le conversazioni iniziano al mattino e terminano la sera, ovvero si svolgono alla luce del Sole, che è metafora di Dio, luce della mente umana. La sua conoscenza attraverso la teologia è dichiarata infatti superiore a quella offerta da tutte le altre scienze umane. Se il primo dialogo presenta la lode della conoscenza nelle scienze umane, il secondo già esamina i rischi presentati dai vizi capitali, mentre il terzo esalta il valore della teologia e il quarto considera i gradi per salire a Dio: umiltà, preghiera, confessione. Sostanzialmente, come riassume Anna Mario, se «prima si dà voce alla passione intellettuale verso la conoscenza umana», «poi se ne svelano i limiti di fronte alla conoscenza di Dio, alla quale si invita il lettore47». I Dialoghi spirituali riprendono molti dei temi delle Meditazioni spirituali, ma in realtà sono prevalentemente improntati su un’opera di teologia scolastica, il Compendium theologicae veritatis di Ugo di Strasburgo, spesso ripreso e tradotto senza essere menzionato. I riferimenti biblici non sono molti, sono più frequenti le citazioni dai classici, come Cicerone, ma il disegno della salvezza dato da Cristo risulta costituire il paradigma essenziale anche di questo percorso di conoscenza, per cui si trovano diversi brevi cenni agli eventi evangelici e biblici, come il miracolo del fico sterile, cui è paragonato l’uomo che non «si esercita in qualche opera virtuosa48». Vi sono riferimenti ai personaggi evangelici, come Maria e Marta49, cui sono comparate la specolazione e l’azione, e a quelli veterotestamentari, come Mosè che innalzò il serpente nel deserto per liberare gli Israeliti da morte50. Di fatto, su un impianto filosofico, i richiami biblici sono usati sia per rafforzare il ragionamento con citazioni opportune dal libro della Sapienza, dai Salmi, dagli insegnamenti di Gesù, dalle lettere paoline, sia per indicare l’orizzonte cristologico all’interno del quale è inscritto il cammino di conoscenza proposto da Teofila al giovane. Che questo percorso sia strettamente correlato alla rivelazione è indicato anche dai componimenti poetici che accompagnano il testo, dedicati alla Vergine, alla Natività, all’Assunta, a Dio creatore. Si veda il bel sonetto a Dio, che ricorda il salmo 8: Quand’alzo gl’occhi in alto e miro intorno quest’ammirabil machina superna opra, Signor, della tua mente eterna, cielo di tanti e chiari lumi adorno, 47 A. Mario, «Sui Dialoghi spirituali (1602) di Chiara Matraini», art. cit., p. 63. 48 C. Matraini, Dialoghi spirituali, op. cit., p. 679. Il Compendium di Hugo Ripelinus era stato ripetutamente edito nel ’400 e nel ’500. Prossima alla scrittura della Matraini è l’edizione veneziana presso G.B.Somasco, 1590. 49 Ibid., p. 684. 50 Ibid., p. 685.
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dall’ombra di mia notte un sì bel giorno nasce da te, mio Sol, che dall’esterna grand’opra tua, cagion sua sempiterna, m’alzo a te col pensier vago d’intorno, e dico: – O incomprensibile e profonda divina mente, chi fia mai che intenda l’abisso della tua divina essenza?In quest’odo una voce alma e gioconda al cuor, che dice: – Chiara intelligenza avrà, chiunque al mio amor umil s’accenda51.
Anche in quest’opera infatti la prosa è ripetutamente inframezzata da componimenti poetici, che in genere chiudono i quattro dialoghi. Al testo principale poi sono aggiunti tre sermoni (non hanno titolo, sono solo numerati e rivolti a «Curiosi») e una narrazione (Narratione di alcune cose notabili). Quest’ultima consta in una visione di luoghi che, sia per le descrizioni, sia per le reminiscenze dantesche, possono essere i tre regni dei morti, inferno, purgatorio, paradiso. Il personaggio che dice io non ha un nome, è guidata e istruita da una donna, la Sapienza, le vengono così rivelati i misteri del mondo, l’origine del male, la grandezza di Dio, i premi e i castighi per mezzo di un viaggio che vede l’oltremondo. Infatti, sollecitata dalla domanda su quale fine faranno le anime che si lasciano soggiogare dalle bassezze del corpo, la donna la porta in alto in modo che possa vedere le conseguenze dell’ignoranza che infetta il mondo. Alzandosi al di sopra del mondo, l’io vede la «gran confusione di mente d’uomini […] causata da quell’antico ed invidioso Serpente, che con il suo maligno spirito avvelenò tutta la terra52». Prendendo atto della sofferenza umana determinata dal male, conosce allora «il mondano sapere esser simile alle farfalle che s’aggirano intorno al lume delle mondane lucerne53», e ancora apprende che il cattivo uso della ragione umana porta a peggiori mali. Tra le anime condotte a morte dalla barca di Caronte una sola è nominata, quella di Lutero, che «mentre fuggiva la luce, da lui fuggiva il Sole dell’eterna verità54». Tutti i mali sono ricondotti dalla guida all’oblio del primo comandamento dato da Dio ai progenitori. È questa l’occasione di una serie di riflessioni sul peccato originale, che non è particolarmente attribuito ad Eva, ma di cui si esplicitano chiaramente le conseguenze: «L’intellletto rimase cieco, la volontà inferma, il libero arbitrio 51 52 53 54
Ibid., p. 677. Ibid., p. 710. Ibid., p. 711. Ibid., p. 712.
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debole, la memoria sommersa e lontana dal suo Creatore55». Ma al suo sconcerto, la donna-Sapienza la rincuora, rivelandole il più profondo mistero, quello della Trinità, a cui possono accedere le anime che, «sospinte da viva fede e tirate da una gagliarda speranza d’acquistar il sommo bene, con una devota e cordiale orazione che realmente conteneva il pentimento di tutti i loro passati errori, si sforzavano quant’era a lor possibile, con i piedi dell’umiltà d’ascendere alla cima dell’ertissimo monte56». Sopra di esso poi potevano salire «insino al Ciel empireo, città mirabile dell’altissimo Iddio, piena di luce e di gloria inestimabile; dove essendo elleno quivi dalla Fede e dalla Speranza lasciate, contemplavano Iddio a faccia a faccia57». Sotto forma dunque di visione, viene ripoposta la stessa riflessione che nutre i dialoghi. Anche i tre brevi sermoni completano il percorso di conoscenza incitando alla conoscenza del bene sommo i «Curiosi» a cui sono rivolti. Non è precisata l’identità di questi «Curiosi», ma Carinci indica che si possono identificare con coloro che non si interessano a Dio, ma ad altro, secondo il messaggio valdesiano58. Queste ulteriori prose servono a precisare il messaggio dell’opera, indirizzando verso una più netta valorizzazione della dimensione spirituale della conoscenza, diversamente da quella mondana cui sembrano indirizzati i «curiosi», i cui limiti sono sottolineati nei tre sermoni59.
Ibid., p. 715. Ibid., p. 719 Ibid. E. Carinci, «“L’inquieta Lucchese”. Tracce di Evangelismo nelle opere religiose di Chiara Matraini», art. cit., pp. 158. 59 Mario, escludendo ogni possibilità che si riferisca a una reale accademia, ritiene che i Curiosi «vadano intesi come curiosi della fenomenologia naturale». Mario, «Sui Dialoghi spirituali (1602) di Chiara Matraini», art. cit., p. 83. 55 56 57 58
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Bibliografia La bibliografia qui raccolta è selettiva, ovvero serve a ricapitolare lo ‘stato dell’arte’ e a guidare il lettore sul tema oggetto della ricerca. Altra bibliografia su ricerche correlate, pure presente nelle note, non è stata qui indicata.
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362
Indice dei nomi Si danno i nomi degli autori e dei personaggi sia storici sia mitoligici. Non si danno i nomi dei tipografi (a meno che non se ne parli come persone), né i nomi delle figure di invenzione letteraria.
Abel, Eugenius 204n Abele 77, 152, 255, 305 Abigail 156, 157 Abner 155 Abramo 69, 77, 83, 99n, 128, 142, 248, 260 Absalonne 136n Accame, Maria 48n Acciaioli, Maddalena vedi Salvetti Acciaioli, Maddalena Acciaioli, Zanobi 148, 149 Achinoam 157 Acidalius, Ardens 244 Acquaviva, Claudio 123 Acucella, Cristina 301n, 303n, 310n Adamo 167, 184, 185, 186, 201, 202-208, 215, 216, 244, 245, 246, 251, 254, 255n, 263n, 284 Adimari, Dada 55 Adorni-Braccesi, Simonetta 274n Agnese (santa) 237 Agnese d’Assisi (santa) 55 Agosti, Barbara 292n Agostino, Aurelio (santo) 25n, 126 e n, 204 e n, 253 e n, 259n, 285n Agresti, Giuliano 56n Agrippa, Heinrich Cornelius von Nettesheim 207 e n, 213n, 214 Aguiar Andrade, Amélia 15n
Alamanni, Luigi 52, 128 e n, 138 e n, 141 Alberigo, Giuseppe 169n Alberti, Andrea 184n Alberti, Leandro 236 Alcini, Laura 133n Alessandri, Benedetto degli 56 e n Aletto 156 Alhaique Bettinelli, Rosanna 129n, 280n Alidori, Laura 20n, 64n Alighieri, Dante 18 e n, 68 e n, 87n, 129 e n, 141 e n, 214, 247, 259, 306n Allen, Michael J.B. 47n Allen, Prudence 203n Allocco-Castellino, Onorato 104n Almond, Philip C. 25n, 204n Alonge, Guillaume 275n Amam 66, 74, 75 Ambrosini, Federica 172n, 219n Ammannati, Laura degli vedi Battiferri degli Ammannati, Laura Ammannati, Bartolomeo 121 Amato, Lorenzo 48n Ambrogio (santo) 25n, 204 e n, 248 Amulio, Natalino 191 e n Andrea (apostolo) 233, 234, 297 Andreini, Giovanni Battista 32n, 230n Anna (madre di Maria) 221 Anna (profetessa) 312 Anna (madre di Samuele) 144, 145, 309
indice dei nomi Antignani, Gerardo 83n Antoniano, Silvio 123 Antonino (santo) 218n Antonio (santo) 102 Antonio da Castello Arquato 230n Antonio di Guido 44 Antonioli, Rosaria 18n Aprosio, Angelico 263 e n Apuleio, Lucio 220 Aracne 234 Aragona, Giovanna d’ 275 Aragona, Maria d’ 275 Arbizzoni, Guido 32n, 149n Ardissino, Erminia 18n, 29n, 31n, 32n, 49n, 60n, 64n, 65n, 68n, 85n, 143n, 149n, 176n, 182n, 184n, 185n, 186n, 205n, 213n, 224n, 280n Aresi, Paolo 119n Aretino, Pietro 174 e n, 175 e n, 191 e n, 222 e n, 224, 231, 232, 273 Arganese, Giovanni 16n, 267n Aricò, Denise 160n Ariosto, Lodovico 18 e n, 151, 158, 175, 191, 194, 214, 215, 247, 259 Aristotele 149, 169, 213, 215, 216, 220, 247 Arizaga Bolumburu, Beatriz 15n Arnaldi, Girolamo 203n Aronne 114 Arrigo di Namur (o Enrico) 217 e n Asmodeo 66 Asor Rosa, Alberto 49n Assuero 67, 72n, 75 Attanagi, Dionigi 123 Auerbach, Erich 32n Augusto, Caio Giulio Cesare 227 Auzzas, Ginetta 47n Avalos, Costanza d’ 277 e n, 290 Avesani, Rino 203n
Baldi, Andrea 101n Ballarini, Marco 12n, 50n, 175n, 278n Bamji, Alexandra 40n Bandini, Maddalena vedi Datini Bandini, Maddalena Banfi, Luigi 42n, 97n Baratotti, Galerana vedi Tarabotti, Arcangela Barbabianca, Cesare 208n Barbierato, F. 24n Barbieri, Edoardo 17n, 20n, 46n, 47n, 50n, 64n, 164n, 165n, 168n, 175n Barblan, Giovanni 129n Barbolovici, Vasile Alexandru 46n Barbone, Donato 39n Barcitotti, Galerana vedi Tarabotti, Arcangela Bardazzi, Giovanni 279n Bardi da Vernio, Vincenzia 135 Barezzi, Barezzo 212 Barletta, L. 170n Barone, Giulia 23n Barracalla, Fabio 44n Bartoletti, Maria A. 184n Bartolomei, Maria Cristina 25n Bartolomei Romagnoli, Alessandra 23n Bartolomeo (apostolo) 233 Barzman, Karen-Edis 25n, 230n Bastiaensen, Michel 263n Battaglia Ricci, Lucia 18n Battiferri, Cassandra 135 Battiferri degli Ammannati, Laura 12n, 13, 52, 121-145, 147, 148, 306 e n Bauer, Dieter R. 22n Bausi, Francesco 46n, 48n Beatrice 129 Beccadelli, Lodovico 123, 133, 134 Beer, Marina 178n Belcari, Feo 42, 65n, 100 e n, 104 Bellavitis, Anna 172n, 211n, 242n Belligni, Eleonora 182n Belloni, Gino 15n Belotti, Gianpietro 30n Belponer, Maria 12n, 149n, 181n Belton, Adrian 18n, 218n
Baarda, Tjitze 31n Baechle, Sarah 191n Baffetti, Giovanni 18n, 47n Baldassarre, Filippo Maria 95n Baldassarri, Guido 42n Baldassarri, Stefano Ugo 47n 364
indice dei nomi Bembo, Pietro 18 e n, 123 e n, 163, 273, 275 e n, 279 Benassai, Giovanni Maria 230n Benassi, Alessandro 189n Bendinelli Predelli, Maria 44n Benedetti, Laura 155n, 216n, 219n, 241n Benedetto da Mantova 172, 272, 274, 285n Benfell, Stanley V. 18n Benini Clementi, Enrica 171n Benivieni, Girolamo 52, 128 e n, 138 e n Beniscelli, Alberto 184 e n, 185n Benson, Pamela J. 122n, 204n, 205n Benzoni, Gino 167n, 178n, 184n Berengo, Marino 302n Bernard-Pradelle, Laurence 133n Bernardi, Antonio 277, 278 e n Bernardino da Siena (santo) 41 e n Berra, Claudia 304n Bersabea 250 Bertolini, Lucia 18n Besomi, Ottavio 55n Bessarione, Giovanni 46, 173, 178 Bethencourt, F. 28n Bettini, Amalia 242n Beyers, Rita 222n Bezzola, Guido 306n Bianca, Concetta 50n, 279n Bianchi, Maria Grazia 13n Biliotti, Vincenza 135 Biga, Emilia 242n Bissari, Pietro Paolo 263n Blake, William 39n Blemet (rabbino) 48n Boaga, Emanuele 222n Boccaccio, Giovanni 18 e n, 44, 190, 200, 217 e n, 220 Bock, Gisela 203n Boezio, Severino Anicio Manlio Torquato 304 e n Boiardo, Matteo Maria 259 Boillet, Élise 11n, 18n, 32n, 55n, 64n, 85n, 143n, 151n, 166n, 174n, 175n, 176n, 184n, 191n Boismards, Marie-Émile 31n
Bolognesi, Pietro 272n Bonaventura da Bagnoregio (santo) 190, 237 Bondi, Fabrizio 189n, 205n, 213n Bonifacio, Baldassarre 180 Bori, Pier Cesare 26n Borgia, Lucrezia 24 Bornstein, Daniel 30n Borsari, Michelina 25n Børresen, Karl Elisabeth 11n, 64n Borsa, Paolo 304n Borsetto, Luciana 62n Bortot, Simona 29n, 186n, 241n, 243n, 250n Bossier, Philiep 68n Bosso, Matteo 204n Bottari, Giovanni 64n Botley, Paul 47n Bowd, Stephen D. 169n, 279n Braida, Lodovica 269n Bramanti, Vanni 122n Brambilla, Simona 13n Branca, Vittore 44n, 90n, 184n Breschi, Giancarlo 67n Brétel de Gremonville, Nicolas 252n Bronzini, Cristoforo 148 e n, 212 e n Brown, Judith C. 25n, 230n Brucioli, Antonio 20, 166 e n, 175n Brundin, Abigail 277n, 280n, 288n, 291n, 292n Bruni, Roberto 73n Bryce, Judith 15n, 101n Bucchio, Geremia 129 e n, 130n Buelli, Domenico 307n Bufacchi, Emanuela 242n, 243n Bullen Presciutti, Diana 40n Bullock, Alan 279n, 293n, 301n, 302n, 310n Buonarroti Michelangelo 123, 274, 283 e n Buoninsegni, Francesco 241n, 244 e n, 251 e n Buonriccio, Angelico 307n Busi, Giulio 168n Bussi R., 279n
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indice dei nomi Cagnolati, Antonella 212n Caiani, Tommaso 84 Caifa 190n Cain, Andrew 21n Caino 255 Cairns, Christopher 174n Calimani, Riccardo 179n Calvert-Koyzis, Nancy 35n, 248n Camaioni, Michele 53n, 174n, 268n, 271n Camboni, Maria Clotilde 67n Cameron, Euan 18n Camillo, Camilli 223, 230n Camillo, Giulio 220 Campanini, Saverio 48n, 169n Campbell, Gordon 19n, 63n Campbell, Judy 26n, 27n, 243n, 269n Campi, Emidio 18n, 277 e n, 278n, 279n, 282n, 283n, 285n, 287 e n, 293n, 299n Canal, Martin da 167 e n Cananea 239, 240, 255, 297 Candeli, Laura di 115n Canepa, Nancy 243n Canova, Andrea 175n Cantarini, Vincenzo 302 Caponetto, Salvatore 172n, 267n, 271n, 272n Capra, Galeazzo Flavio 207 e n Caravale, Giorgio 19n Carena, Carlo 168n Cariteo (Benedetto Gareth) 275, 279 Carnesecchi, Pietro 53, 54, 269n Caravocchi Arbid, Marina 180n Caro, Annibale 123 Cardini, Franco 101n, 169n Caretti, Lanfranco 196n, 225n Carinci, Eleonora 189n, 222 e n, 223n, 226n, 232n, 274n, 292n, 295n, 296 e n, 301n, 302 e n, 307n, 312n, 316 e n Carlo V d’Asburgo 270n, 279 Caronte 315 Carpané, Lorenzo 15n, 203n Carrai, Stefano 108n Carrascòn, Guillermo 18n Caruso, Francesco 208n Casazza, Ornella 60n
Casella, Mario 49n Castellana, Girolama 303n Castaldini, Alberto 175n Castellani, Castellano 100 e n, 109n Castelli, Benedetto 54 Castellion, Sébastien 255n Castiglione, Baldesar 207n, 279n Caterina d’Alessandria (santa) 237, 291n Caterina da Siena (santa) 19n, 21, 22 e n, 23n, 41 e n, 44, 55, 168n, 237, 259, 269 Catone, Marcio Porcio (Censore) 258 Cattani da Diacceto, Francesco 57 e n, 223 e n Cattin, Giulio 43n Cavalca, Domenico 46 e nn Cavaillé, Jean-Pierre 32n, 184n Cavallo, Tomaso 25n Cavazza, Silvano 172n, 182n Cavicchioli, Sonia 151n Cebà, Ansaldo 180 e n Cecchini, Fabiana 243n Centelli, Maria Grazia 115 Centi, Timoteo 48n Certani, Giacomo 184n Cervelli, Innocenzo 51n Cesareo, Francesco C. 172n Cesura, Eleuterio 207n Chartier, Roger 14n Chemello, Adriana 189n, 200n, 290n Chiara d’Assisi (santa) 21, 22 e n, 55 Chiesa, Mario 72n Chines, Loredana 27n Choi, Agnes 24n Chopin, Myriam 17n, 39n, 163n Christine de Pizan (Pisan) (Cristina da Pizzano) 29, 204n, 205 e n Cibo (anche Cybo), Caterina 30, 53 e n, 79 e n, 80n, 86n, 124, 273, 279 Cibo, Eleonora 123 Cicerchia, Niccolò 44 e n, 190 Cicerone, Marco Tullio 164, 169, 314 Cimegotto, Cesare 137n Cinelli, Luca 23n, 41n Cinquanta, Benedetto 230n Cioni, Alfredo 43 e n, 99n 366
indice dei nomi Ciotti, Giovan Battista 212 e n Cipriani, Giovanni 150n Cireneo 192 Ciro di Persia 51 Cittadini, Celso 64n Clemente VII (papa) 93 Clubb, Louise G. 28n Clubb, William G. 28n Coakley, John 17n, 111n Coccapani, Cesare 304n, 305 Cole Ahl, Diane 109n Coleman, Joyce 14n Coles, Kimberly Anne 35n Colish, Marcia 51n Collet, Barry 279n Collier Cook, Barbara 101n Collina, Beatrice 176n, 177n, 241n, 250n Colomba (santa) 212, 217n, 221, 232, 237 Colonna, Vittoria 13, 28, 30, 53 e n, 92n, 214, 223n, 229, 267, 271, 273, 277-299, 302 e n, 312n Comelli, Michele 304n Commire, Anne 242n Confessore, Ornella 49n Contarini, Gaspare 171 e n, 279 Conti Odorisio, Ginevra 201n, 213n Contini, Alessandra 54n Cook, James Wyatt 101n, 102n Copello, Veronica 279n, 280n Copio Sullam, Sara 179 e n, 180 e n Coppens, Chris 176n Coppini, Donatella 18n Corbari, Eliana 19n Corbellini, Sabrina 14n, 15n, 20n, 23n, 31n, 55n, 68n Cornazzano, Antonio 73 e n, 222 e n Cornelison, Sally J. 30n Corry, Maia 35n Corsaro, Antonio 123n, 125n Cortassi, Guido 48n Cortese, Gregorio 172 Cosentino, Paola 62n, 186n Costa-Zalessow, Natalia 60n, 243n, 244 Costadoni, Anselmo 169n Coster, François 223 e n
Couchman, Jane 12n Cox, Virginia 12n, 14n, 34n, 60n, 123n, 147n, 149n, 189n, 190n, 192n, 194n, 196n, 198n, 211n, 291n Cozzi, Gaetano 181n Cozzi, Luisa 181n Crabb, Ann 15n Cremonini, Cesare 183 Cristina di Lorena 54n, 148, 157 Cristo vedi Gesù Crivelli, Tatiana 270n, 277n, 280n Croce, Giulio Cesare 208n Crossley, John N. 26n Cruse, Mark 14n Cullière, Alain 73n Cupido 209 Cupiti, Agostino de’ 123 Cusano, Nicola 82 Cusick, Suzanne 116n D’Accone, Frank A. 42n D’Addario, Arnaldo 41n Daenens, Francine 269n Dahan, Gilbert 31n Dalarun, Jacques 17n, 39n, 163n Dal Covolo, Enrico 222n D’Alessandro, Francesca 154n Dalmas, Davide 18n Damaris 286n Da Mula, Elena in Foscarini 209 Dandolo, Giovanni 242n, 263 Dante, Alighieri vedi Alighieri, Dante Danzi, Massimo 280n Da Ponte, Nicolò 191 Datini Bandini, Maddalena 15 e n David 34, 51, 134, 136, 145, 147, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 158, 160, 250, 260, 305, 309 Davis, Robert D. 25n, 230n Dawson, Peter 19n Debby, Nirit Ben-Aryeh 30n, 41n, 47n Decaria, Alessio 44n De Dominis, Marc’Angtonio 182 e n Degl’Innocenti, Luca 44n Delcorno, Carlo 18n, 40n, 47n, 280n 367
indice dei nomi Delcorno, Pietro 102n, 109n Delcorno Branca, Daniela 49n, 78n Delfini, Cesare 223 e n Delgado, Marian 18n Del Lungo, Isidoro 62n Del Nardo, Domenica vedi Narducci, Domenica De Luca, Giuseppe 64n De Mas, Enrico 182n Demers, Patricia 24n Descartes, René 187 Dialeti, Androniki 203n, 212n Di Maio, Romeo 55n Dina 117 Dinzelbacher, Peter 22n Dinale, Maria Teresa 17n, 39n, 163n Dinan, Susan E. 24n, 30 e n Diocleziano 99 Dionigi Aeropagita 47, 286n Dionisotti, Carlo 27n Diotima 249 Doglio, Maria Luisa 207n, 280n, 289n, 290n Doglioni, Giovanni Nicolò 191n, 200n Dolce, Lodovico 207n, 303 Dolciati, Antonio 102n Doležalová, Lucie 31n Dolfin, Chiara in Corner 209 Dolfin, Isabella 209 Domenica da Paradiso vedi Narducci, Domenica Domenichi, Lodovico 207n, 270n, 302n, 303, 304 e n Dominici, Giovanni 41n, 47 e n Domitilla (santa) 102 Domenico di Giovanni da Corella 48 e n Donà, Francesco 173 e n Dorotea da Lanciuola 84 Dovere, Ugo 80n Dow, Douglas N. 40n Drusi, Riccardo 15n Duke, James O. 26n, 47n Dunhill, Anne 211n Durante, Bartolomeo 242n Dupré, Louis 187n
Dweck, Yaacob 180n Edelheit, Amos 46n Edmond, F. 28n Einsenbichler, Konrad 23n, 40n, 102n, 108n, 121n, 166n Eisenstein, Elizabeth, 16n, 267n Elcana (anche Elkana, Helkana) 144, 309 Eleazaro, 115 e n Elia 261 Elisabetta (madre del Battista) 63, 66, 232, 254, 312 Elena (di Troia) 216 Eleonora di Toledo in Medici 123, 157 Enea 150 Enselmino da Montebelluna 296 Erasmo Desiderio da Rotterdam 168n Erode 65, 227, 232, 312 Erodiade 63, 65, 66, 232 Esaù 117, 259 Este, Lucrezia in della Rovere 307 Ester 34, 61, 66, 72, 74, 99n, 180 Eufemia (santa) 237 Eva 25, 152, 185, 186, 189, 202, 203-208, 215, 216, 220n, 221, 245, 249, 251, 254, 255n, 284 Evangelisti, Silvia, 24n Everson, Jane E. 187n Eyesteinsson, Astradur 133n Ezechiele 261 Fabbri, Mario 43n Fahy, Conor 173n Faini, Marco 32n, 35n, 73n, 149n, 151n, 157 e n, 160n Falaschi, L. 184n Farnese, Vittoria in della Rovere 116, 119, 123, 134, 136 e n Favaro, Maiko 223n Favay, David 191n Fedele, Cassandra 15 e n Fedini, Teofilo 307n Felice da Maida 230n Felici, Lucia 20n Felicita (santa) 217n 368
indice dei nomi Fenenna (anche Phenenna) 144 Fenster, Thelma 204n, 205n Ferrari Shiefer, Valeria 214n Ferrer, Véronique 20n, 31n, 32n, 33n Ferrero, Ermanno 277n Festa, Gianni 23n Fiamma, Gabriele 123, 134 e n, 178 Ficino, Marsilio 47 e n, 56 Filippini, Nadia Maria 172n, 211n, 242n Filippo (apostolo) 233, 297 Filippo II di Spagna 122, 123 Fintoni, Monica 206n Finucci, Valeria 190n Firpo, Massimo 52, 53 e n, 54n, 172n, 212n, 268n, 270n, 271n, 272n, 273n, 274 e n, 275n, 278n, 279n Flaminio, Marcantonio 53, 172, 272 e n, 276, 285n Flash, Kurt 25n, 204n Fleischer, Manfred P. 252n Folengo, Teofilo 174, 175 e n, 190 en Fonte, Moderata (Modesta Pozzo de’ Giorgi) 12n, 13, 29, 30, 189-210, 212, 213, 214, 215, 229, 257 e n Fontes Baratto, Anna 189n Fonzio, Bartolomeo 173 e n Forcellino, Maria 283n Forlivesi, Marco 278n Forner, Fabio 171n, 186n Forni, Giorgio 278n, 280n, 281n, 295n Fortini, Laura 291n Fortini Brown, Patricia 166n Fortis, Umberto 179n, 180n Foscarini, Lodovico 203 e n, 205206 Fragnito, Gigliola 18n, 19n, 133n, 171n, 218n, 275n, 277n, 278n Franchi, Giulia 135 François, Wim 23n, 48n Francucci, Scipione 230n Frajese, Vittorio 18n, 181n Francesco d’Assisi (santo) 18, 22, 102, 212, 229, 232, 237 Francesco da Monte Varchi 123, 124 Fregoso, Federico 274, 275 e n Fubini, Riccardso 50n, 66n
Fubini Leuzzi, Maria 204n Frye, Northop 33n, 39n Furey, Constance 171n Gabriele (arcangelo) 225, 232, 312 Gaeta, Franco 203n Gaffuri, Laura 40n Gagliardi, Isabella 79n, 80n, 83n, 84n, 85n, 87n, 95n Galeota, Mario 270n Galilei, Galileo 54, 55 e n, 121 Galli Stampino, Maria 211n, 212n Gallo, Alberto 42n Gambara, Veronica 13n Gambarin, Giovanni 181n Gambero, Luigi 222n Gambino, Francesca 31n, 72n Gandolfo, E. 253 Garavaglia, Giampaolo 17n Garfagnini, Gian Carlo 43n, 49n, 50n, 51n, 66n Gargiolli, C. 122n Gargiulo, Piero 43n Garzelli, Annarosa 20n, 64n Garzoni, Tommaso 175n, 176 e n, 250n Gasparini De Sandre, Giuseppina 203n Gatti Ravedati, Simona 190n Gazzano, Silvia 60n, 76n Gazzini, Marina 23n Geanakoplos, Dena John 178n Gedik, Simon 252 e n Geerken, John H. 51n Genette, Gérard 30, 31n Gensini, Sergio 50n Gentile, Sebastiano 46n Geri, Lorenzo 13n, 137n Geremia, 126, 128, 129 e n, 130, 258 Gerolamo (santo) 20, 134, 237, 247, 248 Gervasi, P. 205n, 213n Gesù Cristo 21, 22, 25, 40, 42, 45, 49, 50, 52, 56, 63, 65, 69, 76, 77, 80, 83, 88-91, 93, 94, 104, 114, 130, 142, 143, 150, 153, 160, 167, 173, 189, 190 e n, 192-197, 199, 206, 218 e n, 221n, 227, 228, 229, 230, 232, 234, 235, 237, 238, 239, 240, 369
indice dei nomi 242, 251, 255, 256, 259, 271, 280, 282299, 311, 312, 314 Ghidini, Ottavio 18n, 179n Ghislieri, Michele 133 Giacobbe 69, 99, 116, 117,118, 119, 263 Giacomo (apostolo, figlio di Alfeo) 233, 297 Giacomo (apostolo, figlio di Zebedeo) 233, 235, 297 Giairo 256 Giambullari, Bernardo 207n Giani, Marco 178n Gijsel, Ian 222n Gill, Kathrine 16n, 110n Gilli, Patrick 169n Gilson, Simon 49n, 101n Gioacchino 221 Giobbe 43, 99n, 309 Giolito de’ Ferrari, Gabriele 176 Giona 259, 305, 309 Gionata 155, 156, 157 Giordano, Maria Laura 11n, 116n Giorgetti, Leonardo 236n, 237n Giosuè 114 Giovanardi Byer, Silvia 243n Giovanna d’Austria 57 Giovanni Battista 43, 61, 64, 65, 73, 77, 99n, 232, 237 Giovanni Crisostomo 218n Giovanni (evangelista) 233, 234, 235, 262n, 288n, 297 e n Giovanni da Cauli 190n Giovanni da Dio da Venezia 21n Girardi, Enzo Noè 121n Girardi, Maria Teresa 12n, 278n, 280n, 281n, 284n Girolamo vedi Gerolamo Giuda 77, 88, 192, , 193 Giuditta 34, 61, 62, 66, 74 Giulio III (papa) 121 Giunone 209 Giuseppe (figlio di Giacobbe) 99n, 118 Giuseppe (sposo di Maria) 312 Giuseppe d’Arimatea 297n
Giustiniani Paolo (al secolo Tommaso) 169 e n, 171 Gleason, Elisabeth G. 171 Glixon, Jonathan 166n Goessman, Elisabeth 25n Golia 152 Gonnet, Giovanni 22n Gonzaga, Bonaventura 141, 307n Gonzaga, Giulia 13n, 30, 269n, 270n, 271 e n, 275, 279, 307n Gorgia 220 Gorian, Rudj 174n Gorni, Guglielmo 129n Gorris Camos, Rosanna 11n Gothein, Percy 203n Gotor, Miguel 268n Gow, Andrew 28n Gregori, Elisa 133n Gregorio Magno (papa) 206, 307 Gregorio XV (papa) 183 Grendler, Paul 184n Grotti, Vincenzo 123, 124 Guadagni, Margherita 56n Guaragnella, Pasquale 181n Guarino, Giovan Battista 117, 215, 259, 260n Guarino Veronese 203 Guglielma (santa) 102 Guidi, Enrico Maria 122n, 123n, 125n, 126n, 135n, 136 Guidi, Remo L. 46n, 47n Guidoccio, Giacomo 207n Gullino, Giuseppe 172n Guthmüller, Bodo 189n Haan, Annet den 48n Hacke, Daniela 252n Hamilton, Bernard 23n Harness, Kelley 110n Haskins, Susan 211n, 223n, 301n Hazard, Paul 187n Hedelheit, Amos 48n Heffernan, Thomas J. 23n Henderson, John 40n, 97n Hendrix, Harald 68n 370
indice dei nomi Herzig, Tamar 50n, 76n, 79n, 83n Hinterhaüser, H. 32n Hollander, August den 23n, 48n Honess, Claire E. 180n Hoogvliet, Margriet 23n Howard, Peter 30n, 41n Hunt, Edmond 47n Hutter, Elias 165 e n
Jones, Verina R. 180n Jossa, Stefano 149n Jung-Inglessis, Eva-Maria 295n Iacob vedi Giacobbe Iannucci, Amilcare 18n Iaria, Simona 73n Ignazio (santo) 259 Illich, Ivan 39n Isacco 69, 99, 142 Isaia 261 Ivaldi, Cristina 178n Izzi, Giuseppe 291n
Kaeppeli, Tommaso 303n Kallendorf, Craig 168n Katz, Dana E. 179n Keen, Catherine 101n Kenney, Theresa M. 252n Kent, Francis W 60n Kerby-Fulton, Kathrin 190n Kienzle, Beverly M. 40n Killeen, Kevin 149n King, Catherine E. 23n King, Maragareth L. 15n, 62n, 203n, 204n, 206n, 243n Kinkerdale, Warren 116n Kirby, Torrance 272n Kirkham, Victoria 121n, 122n, 123n, 124 e n, 125n, 126n, 127 e n, 141n, 205n Klapisch-Zuber, Christiane 15n, 75n Knox, Dilwyn 21n Kolsky, Stephen 189n, 201n, 213n Kreidler-Kos, Martina 21n Kristeller, Paul Oscar 47n, 56n, 204n Kuehn, Thomas 24n, 200n
Labalme, Patricia H. 204n Laban 117 Lackner, Dennis F. 47n Lais 155 Lanaro, Sartori Paola 177n Lanci, Cornelio 208n Landino, Cristoforo 49 Lando, Ortensio 269 Lanza, Antonio 44n Lapsley, Jacqueline E. 11n Larsen, Anne R. 27n, 101n, 242n, 243n, 269n Lastraioli, Chiara 49n Laurenti, Guido 12n, 278n Laven, Mary 24n, 40n, 243n Lavocat, Françoise 211n Lazzaro 99n, 256, 291, 297 Lazzerini, Luigi 51n Leathers Kunst, Marion 173n Le Blanc, Charles 133n Ledda, Giuseppe 18n, 129n Lechevalier, Claire 133n Lehfeldt, Elizabeth A. 24n Leonardi, Claudio 11n, 49n, 51n Leonardi, Lino 17n, 18n, 39n, 68n, 163n Leonardi, Matteo 18n, 104n Leonardo (protonotaro apostolico) 207n Leone X (papa) 171 Lerner, Gerda 24n Lesage, Claire 201n, 213n, 241n Lesnick, Daniel R. 40n
Jacob, Christian 28n Jacobson Shutte, Anne 24n, 173n, 200n, 243n, 269n Jacoff, Rachel 129n Jacopo da Varazze 222, 311 James, Frank A. 272n Janssen, Geert H. 40n Jardine, Lisa 203n, 204n Javion, Maurice 301n Jed, Stephanie 242n, 263n Jefte 248, 249 Jensen Nicholas, 163 Johnson, Ian 32n 371
indice dei nomi Levarie Smarr, Janet 189n, 313n Levin, Carole 101n, 242n Lia 117 Librandi, Rita 19n, 22n, 79n, 80n, 83n Lievens, Anne-Marie 313n Light, Laura 68n Liguori, Marianna 273n Lodovico da Filicaja 52 e n, 72, 190n Lo Re, Salvatore 122n, 275n Loredan, Giovan Francesco 184n, 185, 186 e n, 187, 250 e n, 252n Loredan Querini, Chiara 209 Lorini, Nicolò 54 Louison-Lassablière, Marie-Joelle 182n Lovison, Filippo 171n Lowe, Kate 45n Lowry, Martin 163n Luca (santo) 65, 233, 235, 236 Lucia (santa) 237 Lucifero 152 Ludolph von Sachsen 191 Lumini, Antonella 18n, 168n Lund-Mead, Carolynn 18n Lunetta, Loredana 50n Luongo, Gennaro 79n Luscombe, David 23n Lutero, Martin 80, 172 Luzzatto, Sergio 47n Lynch, Christopher 51n
Malerbi (anche Malermi), Niccolò 164 e n, 165 e n Malipiero, Federico 184 e n Malpezzi Price, Paola 189n, 192n, 211n, 228n, 230n, 301n Malvezzi, Virginio 160 e n, 183 Mambelli, Giuliano 45n Mancini, Alberto 185n Mancini, Augusto 302n Manetti, Giannozzo 47 e n, 48, 285n Mantioni, Susanna 244n Manuzio, Aldo 168 e n Manzini, Luigi 183 Marco (evangelista) 233, 235, 237 Marcheschi, Daniela 274n, 301n Mardocheo 72 Maria (sorella di Marta) 314 Maria Maddalena d’Austria 149, 157, 194 Maria Vergine 25, 34, 40, 45, 49, 56, 61 e n, 63, 69, 77, 83, 91, 99n, 150, 194, 197, 200, 211, 216, 220-232, 237, 238, 239, 245, 251, 256, 292-299, 310-314 Marchesi, Valentina 18n Marescotti, Bartolomeo 307n Marietti, Mirella 60n Marinella (anche Marinelli), Lucrezia 13, 19, 29, 30, 155n, 210, 211-240, 241, 249, 311 Marinelli, Giovanni 211 Marini, Quinto 222n Marino, Giovan Battista 18 e n Marino, Joseph 41n Mario, Anna 301n, 305n, 307n, 310n, 313n, 314 e n, 316n Marmochino, Sante 165 Marongiu, Paola 147n, 148n, 149n Marrone, Gaetana 60n, 101n Marsden, Richard 18n Marshall, Sherrin 24n Marta (sorella di Lazzaro) 99n, 255, 297, 314 Martelli, Francesco 54n Martelli, Mario 49n, 51n, 60n, 62n Martin, John 220n Martinelli Tempesta, Stefano 304n
Macey, Patrick 43n Machette, Ann 109n Maclachlan, Elaine 301n Machiavelli, Nicolò 51 e n Mackenney, Richard S. 166n Maddalena Maria (santa) 25 e n, 34, 44, 88, 196, 197, 198 e n, 200, 221, 224, 229, 230, 232, 237, 240, 290, 291 e n, 292 e n, 297n, 309 Maggi, Armando 115n, 211n Maggi, Vincenzo 207n Magnanini, Suzanne 189n Magnifico (il) vedi Medici, Lorenzo de’ Malato, Enrico 42n, 47n Malcolm, Noel 182n 372
indice dei nomi Martinengo, Lucillo 217n, 223 e n Martines, Lauro 50n, 101n Martini, Antonio 64n Martini, Davide 270n Martini, Raffaella 280n Maschi, Violante de’ 135 Massa, Eugenio 169n, 171n Massimiliano II d’Asburgo 122n Matharel, Luigi di 252n Matraini, Chiara 13, 30, 34, 223 e n, 267, 274 e n, 301-316 Matraini, Giuditta 313 Matter, E. Ann 17n, 18n, 111n Matteo (apostolo) 233, 297 Matteo da Bascio 273 Mattia (apostolo) 233, 235 Mattioli, Tiziana 32n, 149n Matusalem 208 Mayne Kienzle, Beverly 80n Mazzali, Ettore 150n Mazzone, Umberto 169n Mazzoni, Luca 13n Mazzotti, Lanfranco 124n McIver, Katherine A. 12n McLean, Ian 252n McLean, Paul D. 29n McNamer, Sarah 190n, 295n Medici, Alessandro de’ 157 Medici, Caterina de’ 158 Medici, Cosimo il Vecchio, de’ 59 Medici, Cosimo I, de’ 53, 121, 123, 125, 133, 157, 275 Medici, Cosimo II 149, 151, 157 Medici, Ferdinando I de’ 29, 148 Medici, Giovanni de’ 157 Medici, Giulia de’ 123 Medici, Giuliano de’ (fratello di Lorenzo) 66 Medici, Giuliano de’ (figlio di Lorenzo) 157 Medici, Leone de’ vedi Leone X (papa) Medici, Lorenzo de’ (il Magnifico) 29, 49, 56, 59, 66, 67, 79n, 99 e n, 157 Medici, Lucrezia de’ vedi Tornabuoni, Lucrezia
Medici, Lucrezia de’ (figlia di Lorenzo) 67n Medici, Maria de’ 158 Medici, Pier Francesco de’ 79n Medici, Piero de’ 48, 59, 66 Medioli, Francesca 242n, 243n, 244n, 258n Meduna, Bartolomeo 223 e n Meli, Antonio 24 Mellet, Paul-Alexis 151n Melli, Grazia 12n, 46n, 168n, 278n Meneghin, Alessia 35n Menichetti, Caterina 17n, 39n, 163n Mésoniat, Claudio 47n Messa, Pietro 22n Mews, Constant J. 26n Mezzadri, Luigi 30n Miato, Monica 186n, 251n Micanzio, Fulgenzio 181 e n Michon, Hélène 85n Micol 154, 155, 156 Miglio, Luisa 15n Milligan, Gerry 62n, 66n, 67n Milner, Stephen J. 15n, 243n Minchella, Giuseppina 179n Minonzio, Franco 277n Minturno, Antonio 134n, 141, 275 Miriam 114 Miriello, Rosanna 83n Miszalska, Jadwiga 185n Mita, Alessandra 49n Mittarelli, Giovan Benedetto 169n Modena, Leone 180 e n Modigliani, Anna 285n Modolo, Elisa 243n Molekamp, Fenke 11n Monfasani, John 46n, 48n Montanari, Luciana 121n, 123n Montford, Kimberly 23n Morace, Rosanna 52n, 129n, 141n, 176n, 270n, 280n Morata, Olimpia 13n Moreschini, Claudio 21n Moresini, Laura 209 Moriconi, Pierluigi 53n, 124n 373
indice dei nomi Moro, Giacomo 203n Moro, Maurizio 230n Moroncini, Ambra 282n Morone, Pietro 279n, 290 Mosè 77, 92, 99n, 112, 113, 114, 260, 309 Motta, Uberto 18n Mozzagrugno, Giuseppe 310 e n Muir, Edward 184n Müller, Giuseppe 277n Muñoz Fernàndez, Angela 11n, 250n Mussini Sacchi, Maria Pia 231n Muzi, Piero 109 e n Muzzarelli, Maria Giuseppina 40n
Ochino, Bernardino Tommassini detto 30, 53, 174 e n, 267, 268, 271, 272, 273, 279 e n, 289, 295, 296 Olivieri, Achille 173n, 272n Oloferne 66 Onesti, Francesco 79 e n, 83n, 95n Orsilago, Pietro 141 Orsini, Clarice 56, 59 Orsola (santa) 237 Orvieto, Paolo 47n, 60n Osherow, Michele 35n Ossola, Carlo 33n, 127n, 154n, 271n, 287n Ovidio, Publio Nasone 259
Nabucodonosor 74, 130, 259 Najemy, John M. 60n Nani, Gradimana 209 Nannini, Remigio Fiorentino 175 Narducci, Domenica 13, 19n, 29, 53, 79–95, 110n, 124n, 169n Narveson, Kate 17 e n, 64n Natale, Sara 17n, 39n, 163n Nathanaele 297 Navagerio, Andrea 207n Nente, Ignazio del 95n Neri, Filippo 43 Nestore 208 Newbegin, Nerida 42n, 97n, 101n, 109n Newsom, Carol A. 11n Niccoli, Niccolò 46, 48 Niccoli, Ottavia 203n Nicodemo 297 Nicolò da Tolentino (santo) 237 Nobili, Flaminio 307n Noemi 66 Noè 77, 92, 94, 284, 285 Nogarola, Ginevra 15n, 203 Nogarola, Isotta 15 e n, 29, 202, 203 e n, 204 e n, 206 e n, 207n, 208, 215 Norden, Eduard 83n Noss, Philip A. 133 Novità, Raffaele 31n Nuovo, Angela 176n
Pagani, Antonio 200n Pagano, Sergio M. 279n Pagels, Elaine 25n, 204n Pagnini, Sante 48 e n Palange, Gabriella 301n, 310n Paleario, Aonio 54 Paleotti, Gabriele 237 e n Pallavicino, Ferrante 183 e n Palmieri, Matteo 49 Palthi 155 Paluzzi, Numidio 180 Panigarola, Francesco 129n, 176, 307n Panizza, Letizia 211n, 241n, 243n, 244n, 245n, 280n Pantasilea 150, 155, 156 Panzieri, D. 16n, 267n Paoli, Maria Pia 41n, 55n, 310n Paolo (santo) 47 e n, 79, 81, 82, 150, 169, 181, 204, 215, 218, 250, 251, 278 Paolo III (papa) 53, 123, 136 Paolo IV (papa) 133 Parducci, Amos 44n, 60n Parker, Deborah 141n Parri, Maria Grazia 54n Parsons, Gerald 23n Partenio Etiro pseudonimo di Aretino Pietro (vedi) Paruta, Paolo 178n Passavanti, Jacopo 46 e n Passi, Giuseppe 201n, 212n, 213 e n, 214n Pastore, Stefania 23n, 68n, 166n 374
indice dei nomi Pastore Stocchi, Manlio 203n Pastori, Paola 46n Pazzi, Maria Maddalena de’ 13n Pebworth, Ted-Larry 27n Pedullà, Gabriele 47n Pelagia (santa) 217n Pelikan, Jaroslav 222n Pellizer, Ezio 75n Pellizzari, Patrizia 18n Pelosini, Raffaella 17n, 39n, 163n Pelusi, Simonetta 168n Pernis, Maria Grazia 59n Perocco, Daria 241n Persio, Ascanio 236 e n Petersen, William L. 31n Petrarca, Francesco 18 e n, 141 e n, 157n, 164n, 194, 214, 215, 220, 304, 306n Petrocchi, Giorgio 68n, 87n Petrus Comestor 25n, 204n Petrus Lombardus 25n, 204n Petteruti Pellegrino, Pietro 129n, 280n Peyronel Rambaldi, Susanna 271n Pezzarossa, Fulvio 59n, 60n, 65n, 68n, 75n Pezzini, Serena 189n, 205n, 213n Phillips, Kristin 101n Piantoni, Luca 183n, 224n Piatti, Pierantonio 23n Piccolomini, Alessandro 207n Pico della Mirandola, Giovanni 48 Picone, Michelangelo 44n Piéjus, Anne 43n, 54n Pierce, Robert A. 173n Pierno, Franco 19n, 27n, 164n Pietro (santo) 193, 233, 234, 235, 260, 288n, 297, 305, 309 Pietrobon, Ester 13n, 52n, 128n, 137 e n, 141n Pierozzi, Antonio 41 e n, 55, 56 e n, 61, 98, 99 Pietrzack-Thébault, Johanna 176n, 177n Pignatti, Franco 15n Pilato 194 Pio II (papa) 178 Piras, Tiziana 12n, 149n, 181n
Pirel, Dominique 285n Piro, Rosa 83n Pirotti, Umberto 122n Pirri, Pietro 127n Pisani, Marina in Contarini 209 Plaisance, Michel 121n, 175n Plata, Orazio 243, 251 Platone 46, 47, 213, 220 Plebani, Tiziana 15n, 16n, 20n, 26 e n, 172n, 211n, 242n Pletone, Gemisto 46n Plinio il Vecchio 164 Plotino 47 Poggi, Faustina 57 Pohl, Nicole 27n Poleg, Eyal 68n Polani, Betta 242n Pole, Reginald 272, 273, 276, 279 Poliziano, Angelo 47, 48, 62n, 67 e n, 157 Polizzotto, Lorenzo 40n, 49n, 50n, 51n, 79n, 83n, 109n Pomponazzi, Pietro 183 Pon, Lisa 168n Pona, Francesco 184 e n, 186 e n Poncelli, Sisto 190n Ponte, Giovanni 97n Pontormo, Jacopo 52, 53, 274 Pomata, Gianna 23n, 111n Poska, Allyson M. 12n Postel, Guillaume 173 Pozzi, Giovanni 18n Pozzo de’ Giorgi, Modesta vedi Fonte, Moderata Prandi, Stefano 177n Prisciano 157 Procaccioli, Paolo 68n, 174n Proclo, Lucio Diadoco 47 Prodi, Paolo 237n Prosperi, Adriano 23n, 68n, 166n, 169n Pseudo-Dante 52, 128, 138 e n Pulci, Antonia 13, 29, 76 e n, 101 e n Pucci, Antonio 45 Pulci, Bernardo 44, 45n, 56n, 102, 190 e n Pulci, Luigi 60 e n, 61 e n Pullan, Brian 179n 375
indice dei nomi Puppa, Paolo 60n, 101n Quaintance, Courtney 191n Querini, Pietro (al secolo Vincenzo) 84, 169 e n, 171 Quinto, Riccardo 40n Quondam, Amedeo 13 e n, 280n Rabboni, Renzo 43n Rabil, Albert 15n, 62n, 203n, 206n Rabitti, Giovanna 18n, 280n, 301n, 302 e n, 303n, 310n Rachele 117, 118, 256 Ragionieri, Pina 278n, 282n Raimondo da Capua 22n Ramakers, Gérard 23n Rangone, Ercole 134n Ranieri, Concetta 277n, 279n, 290n, 291n Ray, Meredith K. 28n, 209n, 212n, 244n Razzi, Serafino 43 e n, 54 e n, 56 e n, 77n, 110n, 114n, 122n, 124, 125, 130, 230n Razzi, Silvano 122, 123, 125, 130, 223 e n, 226 e n Rees, Valery 47n Reidy, Denis V. 187n Reventlow, Henning Graf 25n, 36n, 47n, 48n Rhodes, Dennis E. 45n Ribémont, Bernard 204n Riccardi, Riccardo 230n Ricci, Maria Teresa 11n, 55n, 64n Richardson, Brian 101n Riconesi, Anton Maria 95n Ricuperati, Giuseppe 187n Ridolfi, Roberto 80n Riga, Pietro Giulio 122n Rigon, Antonio 203n Riley-Smith, Jonathan 23n Ringe, Sharon H. 11n Ristaino, Christine 211n, 228n, 230n Rizzoni, G. 33n Robarts, Julie 245n Robin, Diana 15n, 27 e n, 53n, 101n, 204n, 242n, 270n, 275, 276n Rodiani, Riccardo 230n 376
Romagnoli, A. 32n Roman D’Elia, Una 282n, 283 Romano, Dennis 220n Romolo 51 Romualdo (santo) 73n Ronchetti, Alessia 189n Rosenthal, David 40n Rosiglia, Marco 230n Ross, Sarah C.E. 149n Rossana (santa) 102 Rossi, Tommaso Maria 270n Rossotto, Giuseppe 184n Rovere, Guidobaldo II della 121, 123 Rovere, Virginia della 123 Roy, Charles 205n Rozzo, Ugo 174n Ruben 117 Rubin, Mirin 222n Rubini, Luisa 44n Rummel, Erika 47n Rumscheidt, Barbara 11n Rumscheidt, Martin 11n Ruoti (anche Roti), suor Maria Clemente (al secolo Ottavia) 13, 29, 116-120 Rusconi, Roberto 22n Russel, Camilla 269n, 271n, 279n Russel, Rinaldina 60n, 116n, 189n, 203n, 242n, 301n Rustici, Filippo 165 e n Ruth 66, 256 Sallustio, Gaio Crispo 164 Salomé 65, 66 Salomone, 92, 214, 215, 218 e n, 245, 246 Salutati, Coluccio 47 Salvadori, Patrizia 59n Salvetti Acciaioli, Maddalena 13, 29, 147160 Samaritana 280, 282 e n, 283, 297 Samuele 128, 143, 147, 151, 153, 154, 156, 157 Sampson, Lisa 187n Sangalli, Maurizio 184n Sannazaro, Iacopo 72, 177 e n, 275, 279 Sansone 43n Sansovino, Francesco 191
indice dei nomi Santi, Francesco 11n, 22n Santosuosso, Stefano 223n, 279n Sanudo, Marin 167 e n Sapegno, Maria Serena 189n, 270n, 277n, 280n Sara 66, 75 Sarpi, Paolo 181 e n, 182 e n Satana 225 Saul 147, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157 Savonarola, Gerolamo 47, 48, 49 e n, 50 e n, 51 e n, 52, 53, 56 e n, 76, 77, 80n, 83, 99, 100, 102, 129, 130, 131 e n, 132 e n, 267n Sberlati, Francesco 149n Scandianese, Tito Giovanni 303 Scapecchi, Piero 168n Scaraffia, Lucetta 23n Scardella, Angela Emmanuela 22n Scarlatti, Giovambattista 95n Scarpati, Claudio 269n, 280n, 283n, 287n, 288n, 295n Scarsella, Alessandro 50n Scattigno, Anna 50n, 95n Schneider Adams, Laurie 59n Schlitt, Melinda W. 41n Schottroff, Luise 11n Schroeder, Joy A. 248n Schroer, Silvia 11n Sciarra, Mario 124n Scott, Karen 23n Secchi Tarugi, Luisa 48n Seidel Menchi, Silvana 24n, 136n, 168n, 172n, 200n Selmi, Elisabetta 129n, 176n, 192n, 224n, 260n Selvidge, Marla 24n Seriacopi, Massimo 45n Sernigi, Raffaella 13, 29, 110-115 Serra, Alessandro 39n Sertra, Aristide 222n Serracino-Inglot, Peter 47n Sharpe, Kevin 11n Sheils, W.J. 45n Sibilla Tiburtina 119 Sicard, Patrice 285n
Simeone (sacerdote) 232, 288n, 312 Simon (mago) 235 Simoncelli, Paolo 54n, 270n, 278n, 292n, 298n Simone (apostolo) 233 Simone (fariseo) 82, 88, 291 Simonutti, Luisa 133n Sipione, Marialuigia 12n, 46n, 168n, 278n Smet, Ingrid de 263n Smith, Graig Hugh 66n Smith, Helen 149n Smith, Kathryn A. 14n Solente, Suzanne 205n Solfaroli Camillocci, Daniela 49n Solorzano Telechea, Jesus Angel 15n Somigli, Luca 60n, 101n Spera, Lucinda 184n, 185n Spilimbergo, Irene di 123 e n Sperling, Jutta G. 243n Speroni, Sperone 207n, 217 e n Speyer, Johann von 163 Spini, Gherardo 125 Spini, Giorgio 185n Stallini, Sophie 62n, 66n, 97n Stati, Luzia 135 Stefano (santo) 288n Stella, Aldo 172n Stella, Francesco 31n Stroppa, Sabrina 12n, 141n Strozzi, Alessandro 191 Strozzi, Cornelia 57 Sullam, Giacobbe 179 Summers, Claude J. 27n Susanna 43n, 44, 61, 62, 64, 66, 71, 73, 92 Taddeo (apostolo) 233 Talenti, Raffaello 83n Tani, Irene 44n Tanini, Annalena 44, 55 e n Tansillo, Luigi 214 e n, 217n, 275 Tarabotti, Arcangela (al secolo Elena Cassandra) 12n, 13, 29 e n, 186 e n, 201n, 202, 210, 213n, 219 e n, 241-263 Tarracone 156, 157 Tasso, Bernardo 137 e n, 138n, 275 377
indice dei nomi Tasso, Ercole 217 e n Tasso, Torquato 18 e n, 117, 150 e n, 151, 158 e n, 178, 196, 207n, 214, 217 e n, 221 e n, 223 e n, 224, 225n, 231 e n, 259 Tauler, Johannes 191 Taylor, Marion A. 24n Taziano il Siro 31 Tebben, Maryann 189n Tedesco Venanzio 31n Tenneroni, Annibale 104n Terpstra, Nicholas 23n, 40n, 68n, 166n Teseo 51 Thamar 256 Thompson, John 191n, 248n Tippelskirch, Xenia von 11n, 14 e n, 16n, 19n, 21n, 250n Tobia (il giovane) 72 Tobia (il vecchio) 63, 64n, 66, 73, 74, 75 Tomas, Natalie R. 59n, 75n Tomassone, Letizia, 11n Tommasi Moreschini, Chiara Ombretta 83n Tommaso (apostolo) 196, 199, 233, 288n, 297 Tommaso d’Aquino (santo) 50n, 204n, 205n Tommassini, Bernardino vedi Ochino, Bernardino Torella Lunata, Alda 303 Tornabuoni, Diodora 41, 56 Tornabuoni, Lucrezia 13, 20, 29, 41, 44, 49, 56, 59-78, 101 Toscani, Bernard 43n, 49n Toscani, Xenio 30n Toschi, Paolo 42n Totaro, Pina 206n, 243n Toth, Peter 191n Toussaint, Stéphane 50n Traversari, Ambrogio 46n Traverso, Chiara 166n Tudor, Maria 123 Turchi, Francesco 141 e n, 175, 176, 269 Turrini, Miriam 16n Tylus, Jane 22n, 41n, 59n, 60n, 62n, 64n, 66n, 67n, 68n, 125n, 131n
Ubaldini, Cristina 134n Ubaldini, Maria Costanza degli 120 Ugo di San Vittore (Hugo de Sancto Victore) 285n Ugo di Strasgurgo (Hugo Ripelinus) 314 Ulianich, Boris 181n Ulysse, Georges 62n, 102n, 301n Unfer Verre, Gaia E. 270n Urbaniak, Martyna 205n, 213n Vaccaro, Alberto 31n Valdès Juan de 30, 52, 53, 134, 172, 267, 270 e n, 271 e n, 272, 273, 279 Valerio, Adriana 11n, 17n, 19n, 25n, 55n, 64n, 67n, 79n, 80n, 83n, 84n, 85n, 87n, 91n, 92n, 94n, 95n, 116n, 257n Valentini, Daria 189n Valette, Jean-René 20n, 21n, 31n, 32n, 33n Valier, Agostino 207n Valla, Lorenzo 168 Valvason, Erasmo da 230n Vannucci, Marcello 60n Vannuzzi, Anna 135 Varanini, Giorgio 44n, 69n Varano, Camilla Battista da 13n Varchi, Benedetto 52 e n, 53 e n, 54 e n, 122 e n, 123, 124, 125, 128 e n, 138 e n, 274, 275 e n, 303n e n Vasoli, Cesare 47n Vasolo, Scipione 207n Vasti 66, 68, 74 Vattasso, Marco 31n Vecchi Galli, Paola 27n Venini Franco, Elisabetta 204n Ventrone, Paola 41n, 42n, 65n, 97 e n, 98n, 99n, 100n, 102n, 108n, 109n Verdon, Timothy 40n, 97n Verga, Marcello 310n Vergerio, Pietro Paolo 173 e n Verino, Ugolino 48 e n Vermigli, Pietro Martire 267, 271 e n, 272, 273, 274 Vespasiano (imperatore) 44n
378
indice dei nomi Viallon-Schoneveld, Marie-Françoise 182n Vida, Marco Girolamo 72, 190 e n Vignuzzi, Ugo 129n, 280n Vigri, Caterina 13n Villani, Giovanni 150 e n Villegas, Alonso 223 e n Villoresi, Marco 45 e n Vio, Gastone 166n Viola, Corrado 186n Virgili, Angela de’ 135 Virgilio, Publio Marone 259 Visceglia, Maria Antonietta 310n Visi, Tamar 31n Vitelli, Chiappino 126n, 135 Vitelli, Faustina 135 Vitelli, Leonora 126n Viti, Paolo 46n, 47n Vivanti, Corrado 169n, 181n Vives, Luis 21 Yarkin, William 26n Yavneh, Naomi 189n
Wilson, Bronwen 163n Wisch, Barbara 109n Wood, Diana 45n Wood, Sharon 211n Zabarella, Giacono 183 Zancan, Marina 22n, 189n Zaccaria (padre del Battista) 63 Zaccheo 288, 297 Zaffini, Chiara 127n Zaja, Paolo 211n Zancani, Diego 73n Zaran 259 Zardin, Danilo 175n Zarri, Gabriella 12n, 17n, 23n, 24n, 28n, 41n, 53n, 55n, 84n, 111n, 122n, 200n, 243n, 304n Zippel, Giuseppe 45n, 56n Zorzi, Francesco (Francesco Giorgio Veneto) 169 e n Zorzi, Marino 168n, 172n, 174n Zwicker, Steven N. 11n
Wacker, Marie-Therese 11n Wainwright, Anne 101n Walker, Pamela 80n Walter, Karin 25n Watt, Diane 27n Weaver, Elissa 101n, 102n, 110 e n, 111n, 114n, 115n, 116n, 117, 119n, 120 e n, 241n, 242n, 244n, 250n Weir, Heather 35n, 248n Weinstein, Donald 51n Weissbort, Daniel 133n Weissman, Ronald F.E. 40n Wells, L.S.A. 255n Westwater, Lynn Lara 179n, 186n, 201n, 213n, 241n, 242n, 244n White, Micheline 35n White Sanguineti, Laura 101n Whittaker M. 255n Willie, Rachel 149n Willer, Annika 217n Wilson, Blake 42n 379
Indice
Ringraziamenti Avvertenze
7 9
Introduzione Accostarsi alla Bibbia Comunità ermeneutiche Riscritture Conclusioni
11 15 24 30 34
Parte prima - Firenze biblica Introduzione Forme di divulgazione biblica Umanesimo fiorentino e Bibbia Profezie e vita politica Questioni bibliche tra Cinque e Seicento Donne e Bibbia a Firenze
39
41
46 49 52 55
Le narrazioni bibliche di Lucrezia Tornabuoni Le fonti bibliche Storie per educare le donne Riscrivere la Bibbia L’interpretazione Le laudi
65 68 72 76
Interpretazione scritturale nei sermoni di Domenica da Paradiso Interpretare san Paolo Un approccio inusuale alla Bibbia Interpretare la Bibbia Il dovere dell’annuncio
79 79 82 88 91
381
59
61
Teatro biblico femminile in città e nei conventi: Antonia Pulci, Raffaella Sernigi e Maria Clemente Ruoti Una parabola per Antonia Pulci Un Mosè per suor Raffaella Sernigi Un Giacobbe per suor Maria Clemente Ruoti
97 101 110 116
Lamentazioni e salmi di Laura Battiferri Le rime Lamentazioni I salmi penitenziali I poemetti veterotestamentari
121 122 128 133 142
Maddalena Salvetti Acciaioli tra Vecchio e Nuovo Testamento Epica davidica Rime spirituali
147 149 158
Parte seconda - Venezia scritturale Introduzione La Bibbia in tipografia Istanze di riforma La Bibbia dei poligrafi Uno sguardo verso l’Oriente Venezia ‘interdetta’ e ‘incognita’
163 163 169 174 177 181
Moderata Fonte: da Cristo ad Eva La passione La resurrezione La difesa di Eva Un antecedente veronese: Isotta Nogarola Il merito delle donne
189 189 195 200 204 208
Lucrezia Marinella, divulgatrice biblica La Bibbia per la dignità delle donne Ritrattazione Vita di Maria Vite degli Apostoli Rime sacre
211 212 216 220 232 236
Arcangela Tarabotti: argomentare con la Bibbia Eva o del libero arbitrio Una controversia biblica La prova per citazione
241 244 251 257
382
Parte terza - Centro Italia spirituale Introduzione Gli Spirituali Spirito e lettere
267 270 274
«Guardando spesso / le sacre carte». Vittoria Colonna e la Bibbia Il «libro della croce» «Qualche meditation semplice» Scritture mariane in versi Scritture mariane in prosa
277 279 289 292 295
Chiara Matraini tra profano e sacro Meditazioni spirituali Commentare i salmi penitenziali Scritti mariani Dialoghi spirituali
301 304 306 310 313
Bibliografia
317
Indice dei nomi
363
383